IRA LEVIN I RAGAZZI VENUTI DAL BRASILE (The Boys From Brazil, 1976) A Jed Levin, Nicholas Levin, Adam Levin E in memoria...
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IRA LEVIN I RAGAZZI VENUTI DAL BRASILE (The Boys From Brazil, 1976) A Jed Levin, Nicholas Levin, Adam Levin E in memoria di Charles Levin L'autore ringrazia per le notizie fornitegli il dottor Maurice F. Goodboy Jr., Samuel Halperin e la signora Halperin, Anthony Koestler e Edmund C. Wall. 1 Nelle prime ore di una sera del settembre 1974 un piccolo bimotore nero e argenteo planò su una pista secondaria dell'aeroporto Congonhas di Sāo Paulo e, rallentando, rullò verso un hangar dove era in attesa un'automobile. Tre uomini, l'uno dei quali vestito di bianco, si trasferirono dall'aereo all'auto, che dal Congonhas s'avviò in direzione dei bianchi grattacieli del centro di Sāo Paulo. Una ventina di minuti più tardi, l'automobile s'arrestò sull'Avenida Ipiranga, di fronte al Sakai, un ristorante giapponese che pareva un tempio. I tre uomini entrarono fianco a fianco nell'ampio vestibolo laccato di rosso del Sakai. Due di loro, in completi scuri, erano tipi massicci e dall'aria aggressiva, l'uno biondo e l'altro con i capelli neri. Il terzo uomo, che avanzava a passo deciso tra i due, era più snello e più anziano, vestito di bianco dal cappello alle scarpe, a eccezione di una cravatta giallo limone. Faceva dondolare nella mano guantata di bianco una gonfia cartella scura e fischiettava una arietta, guardandosi attorno con visibile piacere. Una ragazza in chimono, addetta al guardaroba, s'inchinò profondamente e sorrise con grazia e, ricevuto il cappello dell'uomo in bianco, accenno a prendergli di mano anche la valigetta. Lui, però, la scansò e si rivolse a un giovane giapponese snello, in smoking, che gli si avvicinava sorridendo. «Mi chiamo Aspiazu» annunciò in un portoghese inasprito da un lieve accento tedesco. «Ho prenotato una saletta riservata.» L'uomo pareva aver passato da poco la sessantina e aveva capelli grigi tagliati a spazzola, occhi bruni vivaci e allegri e sottili baffetti grigi. «Ah, senhor Aspiazu!» esclamò il giapponese in un portoghese tutto suo. «È tutto pronto per il suo ricevimento! Vuole seguirmi per di qua, prego?
In cima a quella scala. Sono certo che sarà pienamente soddisfatto quando vedrà la sistemazione.» «Sono già soddisfatto» disse l'uomo in bianco, sorridendo. «È un piacere essere in città.» «Vive in campagna?» L'uomo in bianco, seguendo il biondo su per le scale, annuì e sospirò. «Sì,» disse asciutto «vivo in campagna.» Lo seguivano l'uomo dai capelli neri e, per ultimo, il giapponese. «La prima porta a destra» avvertì questi. «Vogliono togliersi le scarpe prima di entrare, prego?» Il biondo si chinò a sbirciare attraverso un'apertura ottagonale nella parete, poi appoggiò un mano allo stipite, sollevò il piede all'indietro e si sfilò la scarpa. L'uomo in bianco tese un piede calzato di bianco sul tappeto del corridoio e l'uomo dai capelli neri si accovacciò a sganciare una fibbia dorata sul fianco della scarpa. Il biondo, sistemate in disparte le scarpe, aprì una porta dai complicati intagli ed entrò in una stanza verde pallido. Il giapponese si liberò agilmente di un paio di scarpini scollati. «La nostra sala migliore, senhor Aspiazu» disse. «Molto bella.» «Ne sono certo.» L'uomo in bianco appoggiò la punta delle dita guantate di bianco contro uno stipite, mentre osservava l'uomo dai capelli neri togliergli l'altra scarpa. «E il nostro Pranzo Imperiale per sette, con birra, non sakè, e brandy e sigari dopo.» Il biondo si affacciò sulla soglia. Piccole cicatrici biancastre gli costellavano il viso come rammendi; un orecchio era privo di lobo. Annuì e fece un passo indietro. L'uomo in bianco, più piccolo ora, senza i tacchi un po' più alti del normale, entrò nella stanza. Il giapponese lo seguì. La stanza era fresca e vi aleggiava un dolce profumo, un placido rettangolo dalle pareti tappezzate di seta dello stesso verde sfumato dei tatami che coprivano il pavimento. Al centro, poggiaschiena di bambù coperti di cuscini a disegni bruni e bianchi fronteggiavano tre lati di una lunga tavola nera rettangolare, apparecchiata con piatti e ciotole bianchi; tre coperti e poggiaschiena su ciascuno dei lati più lunghi del tavolo e uno all'estremità destra. Sotto il tavolo, il pavimento formava un incavo poco profondo per appoggiarvi i piedi. In fondo alla sala, sulla destra, era appoggiata alla parete un'altra bassa tavola nera con due fornellini elettrici sul ripiano. La parete di fronte consisteva di paraventi shoji di carta bianca incorniciati di nero. «Moltissimo spazio per sette» disse il giapponese, accennando con la mano al tavolo centrale. «E i signori saranno serviti dalle nostre ragazze
migliori. E più belle.» Sorrise e inarcò le sopracciglia. L'uomo in bianco, additando i paraventi, domandò: «Che c'è là dietro?». «Un'altra saletta riservata, senhor.» «Ci sarà qualcuno stasera?» «Non è stata prenotata, ma potrebbe darsi che un gruppo di persone la chiedesse.» «La prenoto io.» L'uomo in bianco fece cenno al biondo di aprire i paraventi. Il giapponese tornò a guardare il biondo e l'uomo in bianco. «È una sala per sei» disse incerto. «A volte otto.» «Naturalmente.» L'uomo in bianco si allontanò in direzione del fondo della stanza. «Pagherò per altri otto pasti.» Si chinò a esaminare i fornellini sul tavolo. La valigetta gonfia gli batté contro i calzoni. Il biondo stava facendo scorrere i paraventi; il giapponese si precipitò ad aiutarlo, o forse a impedirgli di danneggiare i paraventi. La stanza al di là si rivelò l'immagine speculare della prima saletta, senonché il pannello d'illuminazione a soffitto era spento e il tavolo sottostante era apparecchiato per sei, due coperti su ciascun lato maggiore e uno a ciascuna estremità. L'uomo in bianco si era voltato a guardare; il giapponese gli sorrise a disagio dall'altro lato della stanza. «Le addebiterò l'importo solo se qualcuno la richiede,» disse «e in tal caso, soltanto la differenza tra quanto chiediamo da basso e quanto invece chiediamo qua di sopra.» L'uomo in bianco disse con aria sorpresa: «Molto gentile! Grazie». «Mi scusi, prego» disse l'uomo dai capelli neri al giapponese. Se ne stava ritto poco oltre la soglia, il completo scuro stazzonato, il tondo volto bruno luccicante di sudore. «C'è modo di chiudere qui?» Accennò in direzione dell'apertura ottagonale nella parete. Parlava portoghese con accento brasiliano. «È per le ragazze» spiegò speranzoso il giapponese. «Per vedere se i signori sono pronti per la portata successiva.» «Va bene così» disse l'uomo in bianco all'uomo dai capelli neri. «Tu resterai fuori.» L'uomo dai capelli neri disse: «Pensavo che forse poteva...» e si strinse nelle spalle come a scusarsi. «È tutto perfetto» disse l'uomo in bianco al giapponese. «I miei ospiti arriveranno alle otto e...» «Li farò salire.» «Non ce n'è bisogno; uno dei miei uomini aspetterà da basso. E dopo
mangiato terremo una riunione.» «Potranno trattenersi fino alle tre, se lo desiderano.» «Non ce ne sarà bisogno, spero! Un'ora dovrebbe essere sufficiente. E ora, la prego, mi porterebbe un bicchiere di Dubonnet, rosso, con ghiaccio e una scorza di limone?» «Sì, senhor.» Il giapponese s'inchinò. «Ed è possibile avere più luce? Ho intenzione di leggere, mentre aspetto.» «Mi spiace, senhor, questa è tutta quella che c'è.» «Mi arrangerò. Grazie.» «Grazie a lei, senhor Aspiazu.» Il giapponese tornò a inchinarsi, s'inchinò meno profondamente al biondo, non s'inchinò quasi per niente all'uomo dai capelli neri e uscì in fretta dalla stanza. L'uomo dai capelli neri chiuse la porta e, tenendovisi davanti, sollevò in alto le braccia, curvò le dita e ne fece scorrere le punte sulla sommità dello stipite, come se vi suonasse una tastiera. Spostò le mani lentamente di lato. L'uomo in bianco andò a porsi con le spalle rivolte all'apertura ottagonale, mentre il biondo si accostava al poggiaschiena a capotavola e vi si rannicchiava accanto. Ne premette i cuscini bianchi e bruni e li sollevò dall'intelaiatura di bambù, mettendoli da parte. Ispezionò l'intelaiatura, la rovesciò per osservarne il fondo e la mise da parte assieme ai cuscini. Tastò la stuoia tatami tutt'attorno all'estremità del tavolo; con le mani esplorò la paglia intrecciata, premendo dolcemente. Inginocchiandosi, infilò la testa bionda sotto il tavolo e scrutò nell'incavo per i piedi. S'abbassò ancora di più, girò la testa e rivolse lo sguardo degli occhi azzurri alla parte posteriore del tavolo, scrutandola lentamente da un capo all'altro. Arretrò dal tavolo, prese l'intelaiatura di bambù, vi rimise i due cuscini e sistemò il poggiaschiena in modo che fosse possibile sedersi. Levatosi in piedi, rimase ritto dietro il poggiaschiena. L'uomo in bianco si avvicinò, sbottonandosi la giacca. Posò la valigetta sul pavimento, si girò e si abbassò cautamente, tastando i braccioli del poggiaschiena. Incrociò le gambe sotto il tavolo, i piedi puntati verso l'incavo. Il biondo, chinandosi, sospinse il poggiaschiena in modo da allinearlo al tavolo. «Danke» disse l'uomo in bianco. «Bitte,» disse il biondo, e andò a porsi con le spalle rivolte all'apertura
ottagonale. L'uomo in bianco si sfilò con cura un guanto, osservando con aria d'approvazione il tavolo che gli stava di fronte. L'uomo dai capelli neri, le braccia sollevate, si spostò lentamente di lato attraverso l'apertura che metteva in comunicazione le due stanze, tastando con le dita la sommità di una mensola nera aggettante. Si udì bussare piano; il biondo si accostò alla porta e l'uomo dai capelli neri si voltò, abbassando le braccia. Il biondo rimase in ascolto, poi aprì la porta a una cameriera in chimono rosa che entrò a testa china, reggendo un vassoio con un bicchiere tintinnante. I piedi calzati di bianco frusciavano sul tatami. «Ah!» esclamò soddisfatto l'uomo in bianco, piegando i guanti. La sua espressione d'entusiasmo s'affievolì mentre la cameriera, una donna dal volto piatto, gli si accovacciava accanto e toglieva dal piatto il tovagliolo e le bacchette. «E come ti chiami, cara?» domandò con vivacità forzata. «Tsuruko, senhor.» La cameriera posò un sottobicchiere di carta. «Tsuruko!» L'uomo in bianco guardò con gli occhi spalancati e le labbra strette il biondo e l'uomo dai capelli neri, come se si stupisse con loro a una rivelazione impressionante. La cameriera, posato che ebbe il bicchiere, si levò e si allontanò arretrando. «Finché non arrivano i miei ospiti, Tsuruko, non voglio essere disturbato.» «Sì, senhor.» La donna si voltò e si affrettò a uscire dalla stanza a passettini rapidi. Il biondo chiuse la porta e tornò al suo posto di fronte all'apertura ottagonale. L'uomo dai capelli neri si girò e tastò con le mani la sommità della mensola. «Tsu, ru, ko» disse l'uomo in bianco, tirandosi vicino la valigetta. Disse in tedesco: «Se quella è carina, come saranno mai quelle non troppo belle?». Il biondo fece udire una risata simile a un brontolio. L'uomo in bianco fece scattare con le dita la cerniera della valigetta e l'aprì quel tanto che bastava perché rimanesse aperta. Vi infilò i guanti ripiegati e, sfogliando un fascio di fogli e buste commerciali, ne estrasse una sottile rivista. La posò — si trattava di "Lancet", la pubblicazione medica inglese — sul tavolo accanto al piatto. Scrutandone la copertina, cavò dal taschino della giacca una custodia per occhiali lisa e sbiadita, ricamata a
piccolo punto, dalla quale trasse un paio di occhiali dalla montatura nera. Li aprì, li inforcò, si rimise in tasca l'astuccio e si lisciò col dito gli ispidi baffetti. Aveva mani piccole, rosee, pulite, dall'aspetto giovane. Dalla tasca interna della giacca estrasse un portasigarette d'oro, sul quale era incisa una lunga iscrizione in corsivo manuale. Il biondo se ne stava ritto dinanzi all'apertura ottagonale. L'uomo dai capelli neri esaminava le pareti e il pavimento e il tavolo di servizio e i poggiaschiena. Spostò di lato uno dei coperti del tavolo, stese al suo posto un fazzoletto e, salitovi, aprì con un cacciavite il pannello d'illuminazione dai bordi cromati. L'uomo in bianco leggeva "Lancet", bevendo di tanto in tanto un sorso del suo Dubonnet, fumando una sigaretta. Nella concentrazione della lettura il respiro gli sibilava attraverso un'apertura nei denti superiori. Di tanto in tanto appariva sorpreso da ciò che leggeva. Una volta esclamò in inglese: «Completamente sbagliato, signore!». Gli ospiti giunsero nel giro di quattro minuti: il primo consegnò al guardaroba il cappello, ma non la valigetta, alle otto meno tre minuti, l'ultimo alle otto e un minuto. A mano a mano che ciascuno si faceva strada tra i gruppi e le coppiette in attesa verso il giapponese in smoking, veniva graziosamente indirizzato al biondo che si teneva ai piedi delle scale; dopo un breve scambio di parole, l'ospite era fatto salire dove l'uomo dai capelli neri gli additava la fila di scarpe accanto alla porta aperta. Sei eleganti uomini d'affari tra i cinquanta e i sessant'anni, di pelle chiara, dal tipo nordico; in calzini, si rivolgevano l'un l'altro compiti cenni col capo e s'inchinavano presentandosi in portoghese e in spagnolo all'uomo in bianco. «Ignacio Carreras, dottore. È un onore conoscerla.» «Salve! Come sta? Non posso alzarmi, sono intrappolato qua dentro. Le presento José de Lima di Rio. Ignacio Carreras di Buenos Aires.» «Dottore? Sono Jorge Ramos.» «Amico mio! Suo fratello era il mio braccio destro. Mi perdoni se resto seduto; sono intrappolato. Ignacio Carreras di Buenos Aires, José de Lima di Rio. Jorge Ramos, che è proprio di qui, di Paulo.» Due degli ospiti erano amici di vecchia data, felici di rivedersi. «A Santiago! Dove sei stato?» «A Rio!» Un altro si presentò tentando, senza riuscirci, di battere i tacchi: «Antonio Paz, di Pôrto Alegre». S'infilarono ai lati del tavolo, scherzando sulla loro goffaggine, gemendo; si accomodarono tenendosi accanto cartelle e valigette; spiegarono i
tovaglioli scuotendoli, specificarono quel che volevano bere a una cameriera giovane e carina che si teneva graziosamente accovacciata. Tsuruko dalla faccia piatta pose davanti a ciascuno un panno fumante arrotolato; l'uomo in bianco e i suoi ospiti si sfregarono le mani, si strofinarono la bocca. Strofinandone via, apparentemente, portoghese e spagnolo. Cominciò a farsi strada il tedesco; vi fu uno scambio di nomi tedeschi. «Ah, la conosco. Era agli ordini di Stangl, vero? A Treblinka?» «Ha detto "Farnbach"? Mia moglie è una Farnbach, di Langen presso Francoforte.» Furono serviti gli aperitivi, accompagnati da piccoli vassoi di stuzzichini: gamberetti e polpette di carne rosolata. L'uomo in bianco indicò come si usavano le bacchette. Quelli che ci erano abituati ne insegnarono l'uso ai non esperti. «Una forchetta, per amor di Dio!» «No, no!» disse ridendo l'uomo in bianco alla cameriera giovane e carina. «Lo costringeremo a imparare! Deve imparare!» La cameriera si chiamava Mori. La ragazza col chimono disadorno, che porgeva vassoi e ciotole coperte a Tsuruko presso la tavola di servizio, arrossì e disse: «Yoshiko, senhor». Gli uomini mangiarono e bevvero. Parlarono di un terremoto in Perù e del nuovo presidente americano, Ford. Furono servite ciotole di brodo e altre portate, cibi fritti e crudi; fu versato il tè. Gli uomini parlarono della situazione del petrolio e della conseguente, probabile attenuazione delle simpatie dell'Occidente per Israele. Venne servito dell'altro cibo, striscioline di carne cotta, tranci di aragosta, e poi ancora birra giapponese. Gli uomini parlarono delle donne giapponesi. Kleist-Carreras, un uomo smilzo con un occhio di vetro che si muoveva malamente, raccontò una storiella divertentissima riguardante le disavventure toccate a un amico in un bordello di Tokyo. Il giapponese in smoking venne a domandare come andavano le cose. «Tutto di prim'ordine!» gli assicurò l'uomo in bianco. «Eccellente!» Ne convennero anche gli altri, in un tedesco espano-portoghese. Fu servito melone. Dell'altro tè. Gli uomini parlarono di pesca e dei vari modi di cucinare il pesce. L'uomo in bianco propose a Mori di sposarlo; lei sorrise e parlò di un
marito e due bambini. Gli uomini si districarono dai poggiaschiena scricchiolanti, stirarono le braccia e si rizzarono sulla punta dei piedi, battendosi lo stomaco. Alcuni, e tra loro l'uomo in bianco, uscirono nel corridoio in cerca del gabinetto. Gli altri parlarono dell'uomo in bianco: quanto era affascinante, e pieno di vita e giovanile per i suoi... erano sessantatré? Sessantaquattro? Tornò il primo gruppo; uscirono gli altri. La tavola venne sparecchiata, poi rifornita di panciuti bicchieri da brandy, posacenere e una scatola di sigari in custodie di plastica trasparente. Mori fece il giro con una bottiglia, versando in ciascun bicchiere un dito di liquido color ambra scura. Tsuruko e Yoshiko bisbigliavano al tavolo di servizio, discutendo se sparecchiare o no. «Fuori, ragazze» disse l'uomo in bianco, tornando al suo posto. «Desideriamo parlare in privato.» Tsuruko sospinse davanti a sé Yoshiko; passando accanto all'uomo si scusò: «Sparecchieremo più tardi». Mori versò il brandy nell'ultimo bicchiere, posò la bottiglia all'estremità libera del tavolo e si affrettò verso la porta, facendosi di lato e chinando il capo mentre entrava il resto della compagnia. L'uomo in bianco si riabbassò sul poggiaschiena. Farnbach-Paz l'aiutò a sistemarsi. L'uomo dai capelli neri si affacciò a guardare dalla porta, contò gli uomini e chiuse l'uscio. Gli uomini si calarono ai loro posti, con aria grave questa volta, senza più scherzare. Venne fatta passare la scatola dei sigari. L'apertura ottagonale fu bloccata sull'altro lato da indumenti grigio scuro. L'uomo in bianco scelse una sigaretta dal suo astuccio d'oro, lo chiuse, lo guardò e lo porse a Farnbach alla sua destra, il quale scosse la testa rapata; poi, rendendosi conto che lo si invitava a leggere, non a fumare, prese l'astuccio e lo tenne in modo da metterlo a fuoco. Sgranò gli occhi azzurri, riconoscendo la grafia. «Oooh!» fece, succhiando l'aria attraverso le labbra spesse mentre leggeva. Sorridendo eccitato all'uomo in bianco, disse: «Meraviglioso! Persino meglio di una medaglia! Posso?». Accennò col portasigarette in direzione dì Kleist che gli sedeva accanto. L'uomo in bianco annuì, sorridendo, le guance rosee, e si girò ad accendere la sigaretta alla fiamma di un accendino pronto alla sua sinistra. Strizzando gli occhi per proteggersi dal fumo, si tirò accanto la valigetta e la spalancò di nuovo. «Magnifico!» disse Kleist. «Guarda, Schwimmer.»
L'uomo in bianco trovò ed estrasse dalla valigetta un fascio di fogli, che posò davanti a sé, spostando di lato il brandy. Sistemò la sigaretta nella scanalatura di un posacenere bianco. Osservando Schwimmer, un bell'uomo dall'aria giovanile, passare il portasigarette a Mundt, cavò l'astuccio degli occhiali dal taschino della giacca, poi gli occhiali dall'astuccio. Sorrise ai sorrisi d'ammirazione di Schwimmer e Kleist, si rimise in tasca l'astuccio, aprì gli occhiali e li inforcò. Un sibilo da parte di Mundt, basso e lungo. L'uomo in bianco prese la sigaretta, ne assaporò una lunga boccata, e tornò a sistemarla nel posacenere. Pareggiò i fogli che aveva davanti e ne studiò quello in cima, tendendo la mano a prendere il brandy. «Mmmh!»: era Traunsteiner. L'uomo in bianco sorseggiò il brandy, passò il pollice sulla parte inferiore del mucchio di fogli. Il portasigarette gli fu restituito da Hessen, capelli argentei, occhi azzurri accesi nel volto scarno. «Meraviglioso, possedere un oggetto del genere!» «Sì,» annuì l'uomo in bianco «ne sono enormemente fiero.» Posò il portasigarette accanto ai fogli. «E chi non lo sarebbe?» gli fece eco Farnbach. L'uomo in bianco spostò di lato il bicchiere di brandy e disse: «E ora, ragazzi, parliamo d'affari». Inclinando la testa dai capelli grigi a spazzola, si abbassò gli occhiali sul naso e guardò gli uomini di sopra le lenti. Lo fronteggiavano attenti, il sigaro tra le dita. Nella stanza scese il silenzio; a spezzarlo c'era soltanto il basso ronzio dell'aria condizionata. «Sapete quello che sarete chiamati a fare» disse l'uomo in bianco «e sapete anche che si tratta di un lungo compito. Ora vi fornirò tutti i particolari.» Chinò la testa in avanti, guardando versò il basso. «Novantaquattro uomini devono morire a, o attorno a, certe date nei prossimi due anni e mezzo» disse, leggendo. «Sedici si trovano nella Germania Occidentale, quattordici in Svezia, tredici in Inghilterra, dodici negli Stati Uniti, dieci in Norvegia, nove in Austria, otto in Olanda, sei in Danimarca e altrettanti in Canada. Totale, novantaquattro. Il primo deve morire il 16 ottobre o suppergiù; l'ultimo, il 23 aprile del 1977 o suppergiù.» Si appoggiò all'indietro e tornò a guardare gli uomini. «Perché questi uomini devono morire? E perché a, o attorno a, quelle particolari date?» Scosse il capo. «Non ora; in seguito potrete saperlo. Ma ora posso dirvi questo: la loro morte costituisce la fase finale di un'operazione alla quale io e i capi dell'Organizzazione abbiamo dedicato molti anni, enormi sforzi, gran parte dei fondi dell'Organizzazione. È l'operazione più importante che l'Organizzazione abbia mai intrapresa, e "importante" è un termine mille
volte troppo debole per descriverla. Sono in gioco la speranza e il destino della razza ariana. Nessuna esagerazione, amici miei; la pura verità: il destino del popolo ariano — avere il sopravvento sugli slavi e i semiti, i negri e i gialli — si adempirà se l'operazione avrà successo, non si adempirà se l'operazione fallisce. Così, "importante" non è un parola abbastanza forte, non vi pare? "Sacra", forse? Sì, è più esatto. È un'operazione sacra, quella a cui prenderete parte.» Prese la sigaretta, ne scrollò la cenere e si portò con cura alle labbra il mozzicone. Gli uomini si scambiarono un'occhiata in silenzio, soggiogati. Poi si ricordarono di aspirare una boccata dai sigari, di sorseggiare il brandy. Tornarono a guardare l'uomo in bianco, il quale schiacciò la sigaretta nel posacenere e li guardò a sua volta. «Lascerete il Brasile sotto nuova identità» disse, e sfiorò con la mano la valigetta al suo fianco. «Qui dentro c'è tutto. Roba autentica, non falsa. E avrete a disposizione ampi fondi per due anni e mezzo. In diamanti,» sorrise «che dovrete far passare, temo, in modo clandestino.» Gli uomini sorrisero e si strinsero nelle spalle. «Ciascuno di voi sarà responsabile degli uomini di uno o due paesi. Dovrete portare a termine da tredici a diciotto missioni ciascuno, ma alcuni uomini saranno già morti per cause naturali: hanno sessantacinque anni. Non ne saranno morti molti, però, dato che erano in ottime condizioni di salute al compimento del cinquantaduesimo anno, senza alcun sintomo di disturbi incipienti.» «Tutti gli uomini hanno sessantacinque anni?» domandò Hessen con aria perplessa. «Quasi tutti» disse l'uomo in bianco. «Ossia, li avranno quando scoccherà la loro ora. Alcuni avranno un anno o due di meno o di più.» Mise in disparte il foglio dal quale aveva letto i nomi dei paesi e i numeri, e sollevò gli altri nove o dieci fogli. «Gli indirizzi» disse agli uomini «sono quelli che avevano nel 1961 e '62, ma non dovreste avere difficoltà a localizzarli oggi. Con tutta probabilità, nella maggior parte dei casi abitano tutt'ora dove abitavano un tempo. Si tratta di gente tranquilla, stabile; funzionari statali, per lo più: ispettori delle tasse, direttori scolastici e così via; uomini che rivestono cariche di scarsa importanza.» «Hanno anche questo in comune?» domandò Schwimmer. L'uomo in bianco annuì. Disse Hessen: «Un gruppo notevolmente omogeneo. Membri di un'altra
organizzazione, ostile alla nostra?». «Non si conoscono neppure tra loro, né conoscono noi» disse l'uomo in bianco. «Almeno lo spero.» «Saranno in pensione ora, no?» domandò Kleist. «Se hanno sessantacinque anni?» L'occhio di vetro era fisso altrove. «Sì, nella maggior parte dei casi con tutta probabilità saranno in pensione. Ma se si sono trasferiti, potete star certi che si saranno presi la briga di lasciare il nuovo indirizzo esatto per l'inoltro della corrispondenza. Schwimmer, a lei è toccata l'Inghilterra. Tredici, il numero minore.» Tese a Kleist, perché lo passasse a Schwimmer, un foglio dattiloscritto. «Nessun rapporto con le sue capacità» e sorrise a Schwimmer. «Al contrario, un riconoscimento. Ho sentito dire che è in grado di trasformarsi in un inglese sul quale non nutrirebbe sospetti neppure la regina.» «Davvero lei sa come adulare, vecchio mio» cantilenò Schwimmer in un inglese dalla cadenza oxfordiana, passandosi il dito sui baffetti biondastri, mentre dava un'occhiata al foglio. «A dire il vero, la ragazza non è troppo sveglia, sa.» L'uomo in bianco sorrise. «Questa sua dote potrà rivelarsi utile,» disse «anche se la sua nuova identità, come per tutti gli altri, è quella di un cittadino tedesco. Siete viaggiatori di commercio, ragazzi; magari tra una missione e l'altra avrete il tempo di scoprire qualche figlia di contadino.» Guardò il foglio successivo. «Farnbach, lei viaggerà in Svezia.» Passò il foglio alla sua destra. «Con quattordici clienti per la sua bella merce d'importazione.» Farnbach prese il foglio, chinandosi in avanti, l'alta fronte stempiata corrugata per la perplessità. «Tutti anziani funzionari statali,» disse «e ammazzandoli noi adempiamo il destino della razza ariana?» L'uomo in bianco lo fissò per un attimo. «Era una domanda o una constatazione, Farnbach?» domandò. «Dall'inflessione finale suonava un tantino come una domanda, e se così, ne sono sorpreso. Perché lei, come tutti gli altri, è stato scelto per questa operazione in base alla sua obbedienza incondizionata, oltre che per gli altri suoi attributi e doti.» Farnbach si appoggiò all'indietro, le spesse labbra serrate e le narici vibranti, il volto arrossato. L'uomo in bianco guardò i fogli successivi, tenuti insieme da un fermaglio. «No, Farnbach, sono sicuro che si trattava di una constatazione,» disse «e in tal caso, devo apportarle una piccola correzione: ammazzandoli, preparate la strada all'adempimento del destino, eccetera eccetera. Acca-
drà; non nell'aprile del 1977, quando morirà il novantaquattresimo uomo, ma a tempo debito. Lei si limiti a obbedire agli ordini. Traunsteiner, a lei sono toccate la Norvegia e la Danimarca.» Tese i fogli. «Dieci in un paese, sei nell'altro.» Traunsteiner prese i fogli, il rosso volto quadrato atteggiato a inflessibile determinazione: Obbedienza Incondizionata. «L'Olanda e la Germania settentrionale» disse l'uomo in bianco «sono per il sergente Kleist. Sedici anche qui, otto e otto.» «Grazie, Herr Doktor.» «Gli otto della Germania meridionale e i nove dell'Austria, diciassette in tutto, sono per il sergente Mundt.» Mundt, faccia tonda, testa rasata, occhio di vetro, sogghignò in attesa di entrare in possesso dei fogli. «Quando sarò in Austria,» disse «già che ci sono mi occuperò di Yakov Liebermann.» Traunsteiner, passandogli i fogli, sorrise mettendo in mostra i denti d'oro. «Di Yakov Liebermann» disse l'uomo in bianco «si sono già occupati il tempo e le cattive condizioni di salute, e il fallimento della banca dove teneva il suo denaro ebraico. Adesso cerca conferenze, non noi. Lo lasci perdere.» «Naturalmente» disse Mundt. «Stavo solo scherzando.» «Io no, invece. Per la polizia e la stampa è solo un vecchio scocciatore noioso con uno schedario pieno di fantasmi; lo ammazzi e finirà col trasformarlo in un eroe negletto, con nemici vivi e vegeti ancora in circolazione.» «Di me non si è mai occupato quel bastardo di ebreo.» «Vorrei poter dire la stessa cosa.» Gli uomini risero. L'uomo in bianco porse il suo ultimo paio di fogli a Hessen. «E per lei, diciotto» disse, sorridendo. «Dodici negli Stati Uniti e sei in Canada. Conto sul fatto che lei è fratello di suo fratello.» «Lo sono» disse Hessen sollevando la testa argentata, un'espressione di fierezza sul volto dai tratti decisi. «Vedrà che lo sono.» L'uomo in bianco lasciò scorrere lo sguardo sugli uomini. «Vi ho detto» disse «che gli uomini devono essere uccisi alla data, o suppergiù, indicata accanto al nome di ciascuno. "Alla data esatta" è naturalmente meglio che "suppergiù", ma solo in misura microscopica. Una settimana in più o in meno non comporterà una vera e propria differenza, e persino un mese sarà accettabile, se avrete motivo di ritenere che la cosa renda l'incarico meno
rischioso. Quanto al metodo: qualunque decidiate, a patto solo che cambi e che non sussista mai un sospetto di premeditazione. In nessun paese le autorità locali dovranno sospettare che sia in atto un'operazione. Non dovrebbe risultare difficile per voi. Tenete presente che si tratta di uomini di sessantacinque anni: la vista gli si sta indebolendo; hanno riflessi lenti, non sono più in possesso di tutta la loro forza. È probabile che guidino male e che attraversino le strade con scarsa attenzione, che siano soggetti a cadute, che vengano accoltellati e rapinati da teppisti. Vi sono decine di modi in cui uomini del genere possono essere uccisi senza attirare l'attenzione delle alte sfere.» Sorrise. «Confido che saprete trovarli.» Disse Kleist: «Possiamo assumere qualcun altro per assolvere un incarico o dare una mano? Se ciò dovesse apparire il modo migliore per portarlo felicemente a compimento?». L'uomo in bianco spalancò le braccia in un gesto di sorpreso stupore. «Siete uomini di buon senso e capaci di giudicare da voi» rammentò a Kleist. «Per questo vi abbiamo scelti. Comunque riteniate che la missione debba essere assolta, quello sarà il modo di assolverla. Purché gli uomini muoiano al momento giusto e le autorità non sospettino che si tratta di un'operazione concordata, avete carta bianca.» Levò un dito. «No, non completamente; mi spiace. C'è una pregiudiziale, ed è importantissima. Non vogliamo che siano coinvolti i familiari, sia in qualità di vittime di un qualsiasi tipo di incidente, sia, nel caso, diciamo, di mogli più giovani che potrebbero essere inclini a avventure romantiche, in qualità di complici. Ripeto: i familiari non devono essere coinvolti in nessun modo, e si dovranno impiegare come complici solo estranei.» «Perché mai dovremmo aver bisogno di complici?» domandò Traunsteiner, e Kleist disse: «Non si sa mai a che cosa si rischia di andare incontro». «Ho girato tutta l'Austria,» disse Mundt, guardando uno dei suoi fogli «e qui ci sono posti di cui non ho mai sentito parlare.» «Sì,» borbottò Farnbach, osservando il suo unico foglio «conosco la Svezia, ma è certo che non ho mai sentito nominare "Rasbo".» «È una cittadina a una quindicina di chilometri a nord-est di Uppsala» disse l'uomo in bianco. «Si tratta di Bertil Hedin, non è vero? È il direttore dell'ufficio postale.» Farnbach lo guardò, inarcando le sopracciglia. L'uomo in bianco ricambiò lo sguardo e sorrise pazientemente. «E l'uccisione del direttore delle poste Hedin» disse «è proprio in tutto e per tutto importante — mi correggo, sacra — come le ho detto in precedenza. A-
vanti Farnbach, sia quel buon soldato che è sempre stato.» Farnbach si strinse nelle spalle e tornò a guardare il suo foglio. «Lei è... il dottore» disse. «Già» annuì l'uomo in bianco, continuando a sorridere mentre si girava verso la valigetta. Hessen, guardando i suoi fogli, disse: «Questo qui, per esempio: "Kankakee".» «Poco fuori Chicago» disse l'uomo in bianco, sollevando un pacco di buste tra le mani aperte. Le sciorinò sul tavolo; una mezza dozzina di grandi buste gonfie, ciascuna delle quali recava in un angolo un nome: Cabral, Carreras, de Lima; un bicchiere si rovesciò per l'impatto. «Scusate» disse l'uomo in bianco, appoggiandosi allo schienale. Fece cenno che le buste venissero distribuite e si levò gli occhiali. «Non apritele qui» disse, pizzicandosi il naso, massaggiandoselo. «Ho controllato ogni cosa personalmente stamane. Passaporti tedeschi con timbri d'entrata brasiliani e tutti i visti, i permessi di soggiorno, le patenti di guida, le tessere e i documenti che ci vogliono; c'è tutto. Quando tornerete nelle vostre stanze, esercitatevi a tracciare le vostre nuove firme e firmate tutto ciò che ha bisogno di essere firmato. Nelle buste ci sono anche i biglietti dell'aereo e un po' di denaro liquido dei paesi di destinazione, per il valore di alcune migliaia di cruzeiros.» «E i diamanti?» domandò Kleist, reggendo con entrambe le mani la busta con la scritta Carreras. «Sono nella cassaforte del quartier generale.» L'uomo in bianco ripose gli occhiali nell'astuccio ricamato a piccolo punto. «Li ritirerete quando vi recherete all'aeroporto — partite domani — e consegnerete il vostro attuale passaporto e i documenti personali a Ostreicher perché li conservi fino al vostro ritorno.» Disse Mundt: «E pensare che mi ero appena abituato a Gómez» e sogghignò. Gli altri risero. «Quanto riceveremo?» domandò Schwimmer chiudendo la lampo della sua cartella. «In diamanti, voglio dire.» «Circa quaranta carati ciascuno.» «Ohi,» disse Farnbach. «No, le custodie sono piuttosto piccole. Una dozzina o giù di lì di pietre da tre carati. Valgono ciascuna suppergiù settantamila cruzeiros al cambio odierno, e di più a quello futuro, con l'inflazione. Così, avrete a disposizione l'equivalente di almeno novecentomila cruzeiros e rotti per i due anni e
mezzo. Vivrete con agiatezza, come si addice a rappresentanti di grandi ditte tedesche, e avrete denaro più che sufficiente per qualsiasi attrezzatura di cui abbiate bisogno. Tra parentesi, badate a non portare armi con voi sull'aereo; perquisiscono proprio tutti di questi tempi. Lasciate qualsiasi cosa abbiate su di voi a Ostreicher. Non avrete difficoltà a vendere i diamanti. Al contrario, probabilmente dovrete sbarazzarvi degli aspiranti compratori. Non abbiamo dimenticato niente?» «Per fare rapporto?» domandò Hessen, posando accanto a sé la valigetta. «Non ve ne ho parlato? Il primo di ogni mese, per telefono, alla filiale brasiliana della vostra ditta, ossia, naturalmente, il quartier generale. Parlate in tono sbrigativo. Lei, in particolare, Hessen; sono sicuro che negli Stati Uniti nove telefoni su dieci sono intercettati.» Disse Traunsteiner: «Non parlo norvegese dai tempi della guerra». «Lo studi.» L'uomo in bianco sorrise. «Qualcos'altro? No? Bene, allora, beviamo un altro goccio di brandy e io penserò a un brindisi appropriato che vi accompagni nel vostro viaggio.» Sollevò il portasigarette, l'aprì e ne tolse una sigaretta. Chiuse l'astuccio e lo guardò e, avvicinandone la superficie incisa alla manica bianca, lo lustrò energicamente. Tsuruko si inchinò e ringraziò il senhor. Infilandosi le banconote ripiegate nella fascia del chimono, gli scivolò accanto e si affrettò al tavolo di servizio, dove Yoshiko impilava l'una dentro l'altra piccole ciotole di avanzi. «Mi ha dato venticinque!» bisbigliò Yoshiko in giapponese. «Tu quanto hai avuto?» «Non so» sussurrò Tsuruko, accovacciandosi, abbassando il coperchio su una ciotola di riso sotto il tavolo. «Non ho ancora guardato.» Con entrambe le mani estrasse la larga ciotola piatta laccata di rosso. «Cinquanta, scommetto!» «Lo spero.» Sollevatasi, Tsuruko si affrettò con la ciotola, passando accanto al senhor e a uno dei suoi ospiti che scherzavano con Mori, e poi uscendo in corridoio. Si fece strada zigzagando tra gli altri ospiti, che si passavano l'un l'altro i calzascarpe, si chinavano, si accoccolavano, e aprì con la spalla una porta. Portò la ciotola giù per un'angusta rampa di scale illuminata da lampadine nude che pendevano da un filo, e lungo un corridoio del pari angusto, con pareti di canniccio intonacato. Il corridoio si apriva su una cucina rumorosa e invasa dal vapore, dove antiquati ventilatori roteavano lentamente le loro pale su una confusione di
cameriere, cuochi e aiutanti. Tsuruko nel suo chimono rosa passò tra loro, portando la grossa ciotola rossa; passò accanto a un aiutante che affettava rapido delle verdure e a un altro che levò lo sguardo su di lei mentre sollevava un vassoio di piatti da una lavastoviglie sgocciolante dalle pareti di vetro. Posò la ciotola su un tavolo dove erano ammucchiate scatole di funghi e, girandosi, prese da un sacco per la biancheria un tovagliolo usato, che spiegò e stese sul piano metallico del tavolo. Sollevò il coperchio della ciotola e lo mise da parte. Nella ciotola rossa c'era un registratore nero con cromature, un Panasonic con i comandi in inglese, le cui bobine giravano ancora regolarmente. Tsuruko calò una mano sui pulsanti, aggrottò la fronte, indecisa, e sollevò il registratore dalla ciotola posandolo sul tovagliolo. Raccolse le cocche del tovagliolo attorno all'apparecchio. Stringendo al petto il registratore avvolto nel tovagliolo, andò a una porta a vetri e fece per aprirla. Un uomo che sedeva lì accanto cucendo un grembiule, levò lo sguardo su di lei. «Avanzi» disse Tsuruko, mostrandogli in fretta la forma avvolta nel tovagliolo. «C'è una vecchia che viene a ritirarli.» L'uomo la guardò con occhi stanchi in un volto giallo, tirato; riabbassò lo sguardo sulle mani intente a cucire. Tsuruko aprì la porta e uscì in un cortile. Un gatto spiccò un salto dai bidoni delle immondizie e fuggì in direzione di un androne, in fondo al quale s'intravedevano luci stradali e riflessi di insegne al neon. Tsuruko si chiuse la porta alle spalle e si protese nel buio. «Ehi, è lì?» chiamò piano in portoghese. «Senhor Hunter?» Una figura uscì a precipizio dall'androne, un uomo alto e magro con una borsa a tracolla. «Ce l'ha fatta?» «Sì» disse Tsuruko sfilando il registratore dal tovagliolo. «Sta ancora andando. Non sapevo bene quale pulsante premere.» «Bene, bene, non fa differenza.» Era un giovanotto; la luce proveniente dalla porta gli illuminava un volto dai lineamenti fini e dai capelli bruni quasi crespi. «Dove l'ha messo?» domandò. «In una ciotola di riso sotto il tavolo di servizio.» Gli diede il registratore. «Col coperchio in modo che non lo vedessero.» Il giovane inclinò il registratore verso la porta e premette uno dei pulsanti e poi un altro; risonò un blaterio stridente. Tsuruko, che lo osservava, si fece in disparte per consentirgli più luce. «Era vicino a dove sedevano?» le domandò il giovane. Si esprimeva in un pessimo portoghese.
«Come da qui a lì.» Tsuruko indicò lo spazio tra sé e il bidone della spazzatura più vicino. «Bene, bene.» Il giovanotto premette un pulsante, interrompendo il blaterio, poi ne premette un altro: la voce dell'uomo in bianco parlò in tedesco, da lontano, come circondata da un'eco. «Benissimo!» disse il giovanotto, e interruppe la voce premendo un altro pulsante. Indicò il registratore: «Quando l'ha messo in moto?». «Dopo che hanno finito di mangiare, appena prima che ci mandasse fuori. Hanno parlato per quasi un'ora.» «Sono andati?» «Se ne stavano andando quando sono scesa.» «Bene, bene.» Il giovanotto tirò la lampo della borsa bianca e azzurra di una compagnia aerea. Indossava un blusotto di tela azzurra e un paio di blue jeans; pareva sui ventitré anni, nordamericano. «Lei mi è stata di grande aiuto» disse a Tsuruko, infilando il registratore nella borsa. «La mia rivista è molto contenta quando riporto a casa una storia che riguarda il senhor Aspiazu. È un famosissimo regista cinematografico.» Portandosi una mano al fianco, estrasse un portafogli e l'aprì sotto la luce. Tsuruko se ne stette a guardare, tenendo in mano il tovagliolo appallottolato. «Una rivista nordamericana?» domandò. «Sì» disse il giovanotto separando le banconote. «"Movie Story". Un'importantissima rivista cinematografica.» Sorrise vivacemente a Tsuruko e le diede le banconote. «Centocinquanta cruzeiros. Molte grazie. Lei mi è stata di grande aiuto.» «Grazie.» Tsuruko adocchiò le banconote e gli sorrise, chinando il capo. «Dall'odore, si direbbe che è un buon ristorante» disse il giovanotto intascando il portafogli. «Mi è venuta una gran fame mentre aspettavo.» «Vuole che le porti qualcosa?» Tsuruko s'infilò le banconote nel chimono. «Potrei...» «No, no.» Le prese la mano. «Mangio al mio albergo. Grazie. Grazie tante.» Le strinse la mano, si girò e infilò a grandi passi l'androne. «Lei è sempre il benvenuto, senhor Hunter!» gli gridò dietro Tsuruko. Se ne stette a guardare per un momento, poi si girò, aprì la porta e entrò. Bevvero ancora un bicchiere al bar, offerto dalla direzione, lasciandosi persuadere a farlo non tanto dall'invito del giapponese in smoking, il quale si presentò come Hiroo Kuwayama, uno dei tre proprietari del Sakai, quanto dalla presenza di un nuovissimo biliardino elettronico; e il gioco si di-
mostrò così avvincente, che venne ordinato un altro giro, e poi ancora si discusse se era il caso di berne un terzo ma si decise di no. Verso le undici e mezza si recarono in massa al guardaroba a ritirare i cappelli. La ragazza in chimono, all'atto di consegnare il cappello a Hessen, sorrise e disse: «Dopo di lei è arrivato un suo amico, ma non ha voluto salire senza essere invitato». Hessen la fissò per un attimo. «Davvero?» fece. La ragazza annuì: «Un giovanotto. Nordamericano, credo». «Oh» fece Hessen. «Certo. Sì. So chi intende dire. È entrato dopo di me, ha detto.» «Sì, senhor. Mentre lei saliva le scale.» «Ha chiesto dove stavo andando, naturalmente.» La ragazza fece segno di sì. «E lei glielo ha detto?» «Una riunione privata. Lui credeva di sapere chi dava il ricevimento, ma si sbagliava. Gli ho detto che era il senhor Aspiazu. Conosce anche lui.» «Sì, lo so» disse Hessen. «Siamo tutti buoni amici. Avrebbe dovuto salire.» «Ha detto che probabilmente si trattava di una riunione d'affari e non voleva disturbare. E poi, non aveva il vestito adatto.» Accennò con le mani ai fianchi, quasi con rammarico. «Jeans.» Agitò le dita sottili all'altezza della gola. «Niente cravatta.» «Oh» fece Hessen. «Be', è un peccato comunque che non sia salito, almeno a salutare. Poi se n'è andato subito?» La ragazza annuì. «Oh, be'» fece Hessen e sorrise, dandole un cruzeiro. Poi andò a parlare all'uomo in bianco. Gli altri si raccolsero attorno a loro, reggendo in mano i cappelli e le valigette. Il biondo e l'uomo dai capelli neri si affrettarono verso le porte d'ingresso scolpite; Traunsteiner si precipitò al bar e ne tornò un attimo più tardi in compagnia di Hiroo Kuwayama. L'uomo in bianco posò una mano guantata di bianco sulla spalla coperta di nero di Kuwayama e gli si rivolse con tono ansioso. Kuwayama ascoltò, trattenne il respiro, si morse il labbro, scosse il capo. Parlò e gesticolò in modo rassicurante e si affrettò verso il retro del ristorante. L'uomo in bianco con un gesto allontanò seccamente gli altri. Si portò da un lato del vestibolo e posò il cappello e la valigetta, meno gonfia ora, su
un tavolino nero. Rimase con lo sguardo fisso verso il retro del ristorante, aggrottando la fronte e fregandosi le mani guantate di bianco. Abbassò lo sguardo a fissarsele, poi le lasciò ricadere lungo i fianchi. Dal retro del ristorante giunsero Tsuruko e Mori, in camicetta e calzoni colorati, e Yoshiko, ancora in chimono. Kuwayama le sospinse in avanti. Le ragazze apparivano confuse e preoccupate. I convitati le fissarono. L'uomo in bianco atteggiò le labbra a un sorriso amichevole. Kuwayama affidò le tre donne all'uomo in bianco, gli fece un cenno col capo e si mise in disparte a osservare la scena a braccia conserte. L'uomo in bianco sorrise e scosse malinconicamente il capo, si passò la mano guantata sui capelli grigi a spazzola. «Ragazze,» disse «è accaduta una cosa gravissima. Grave per me, voglio dire, non per voi. Per voi va tutto bene. Mi spiego.» Respirò a fondo. «Sono un fabbricante di macchinario agricolo,» disse «uno dei maggiori del Sudamerica. Gli uomini che sono in mia compagnia stasera» e accennò alle sue spalle «sono i miei rappresentanti. Ci siamo riuniti qui perché dovevo parlare loro di certe nuove macchine che stiamo per produrre, fornire tutti i particolari e le caratteristiche, sapete. Tutte cose segretissime. Ora ho scoperto che una spia per conto di un'industria concorrente nordamericana ha saputo della nostra riunione poco prima che avesse inizio e, conoscendo il modo in cui lavora quella gente, sono pronto a scommettere che quello è tornato in cucina e ha bloccato una di voi, o magari tutte e tre, e vi ha chiesto di ascoltare la nostra conversazione da qualche... nascondiglio segreto, o magari di scattarci fotografie.» Levò un dito. «Vedete,» spiegò «alcuni dei miei rappresentanti un tempo hanno lavorato per quella ditta concorrente, e loro non sanno, la ditta non sa, chi lavora per me ora, per cui anche una nostra fotografia gli sarebbe utile.» Annuì, sorridendo con aria di rammarico. «È un campo in cui c'è molta concorrenza» disse. «Cane mangia cane.» Tsuruko e Mori e Yoshiko lo fissarono con sguardo vacuo, scuotendo il capo leggermente, lentamente. Kuwayama, che si era avvicinato e si trovava ora dietro l'uomo in bianco, leggermente di fianco, disse con severità: «Se qualcuna di voi ha fatto quel che il senhor...». «Lasci fare a me!» L'uomo in bianco tese la mano verso Kuwayama, senza tuttavia voltarsi. «Per piacere.» Abbassò la mano, sorrise e mosse un mezzo passo avanti. «L'uomo in questione,» disse in tono gioviale «un giovane nordamericano, vi avrà certo offerto del denaro, e vi avrà raccontato una qualche storiella, che si trattava di un tiro birbone o qualcosa del
genere, di un innocuo scherzo che ci stava giocando. Ora, posso pienamente capire che ragazze le quali, ne sono certo, non ricevono uno stipendio troppo generoso... è così, vero? Il mio amico qua presente dà uno stipendio particolarmente generoso a qualcuna di voi?» I suoi occhi bruni ammiccarono alle ragazze, in attesa di una risposta. Yoshiko scosse il capo con veemenza, ridacchiando. L'uomo in bianco rise con lei e tese una mano verso la sua spalla, ritraendola però senza sfiorarla. «Non lo pensavo infatti!» disse. «No, ero maledettamente sicuro che non fosse così!» Sorrise a Mori e Tsuruko, e loro gli restituirono il sorriso, incerte. «Ora, posso pienamente capire» disse, ritornando serio «che ragazze nella vostra situazione, ragazze che sgobbano, oberate di responsabilità familiari... tu con i tuoi due bambini, Mori... posso pienamente capire che possiate essere tentate da un'offerta del genere. Anzi, non riesco a capire come potreste non esserne tentate; sareste sciocche, se così fosse! Un innocuo scherzetto, qualche cruzeiro extra. Tutto costa, di questi giorni, lo so. È per questo che vi ho dato una mancia generosa di sopra. Così, se avete ricevuto l'offerta, e l'avete accettata, credetemi, ragazze: non c'è collera da parte mia, né risentimento; c'è solo comprensione, e il bisogno di sapere.» «Senhor,» protestò Mori «vi do la mia parola che nessuno mi ha offerto niente né mi ha chiesto di fare qualcosa.» «Nessuno» disse Tsuruko, scuotendo il capo; e Yoshiko, anche lei scuotendo il capo: «Davvero, senhor». «Come prova della mia comprensione,» disse l'uomo in bianco scostandosi la giacca e infilando una mano all'interno «vi darò il doppio di quanto vi ha dato lui, o il doppio di quello che vi ha anche solo offerto.» Estrasse un gonfio portafogli di coccodrillo nero, lo aprì e fece intravedere due fasci di banconote. «Ecco quanto intendevo prima,» disse «dicendo che era una cosa grave per me, ma buona per voi.» Fece scorrere lo sguardo dall'una all'altra donna. «Il doppio di quanto vi ha dato lui» ripeté. «Per voi, e la stessa cifra per il senhor...» accennò col capo verso Kuwayama, il quale disse: «Kuwayama». «Così neppure lui sarà in collera con voi. Ragazze? Per favore?» L'uomo in bianco mostrò il denaro a Yoshiko. «Sono stati dedicati anni a questo... a queste nuove macchine,» le disse. «Milioni di cruzeiros!» Mostrò il denaro a Mori. «Se so quanto sa la ditta concorrente, allora posso prendere i provvedimenti necessari per difendermi.» Mostrò il denaro a Tsuruko. «Posso accelerare la produzione, o magari scovare quel giovanotto e... attirarlo dalla mia parte, dare denaro anche a lui, oltre che a
voi e al senhor...» «Kuwayama. Avanti, ragazze, non abbiate paura. Ditelo al senhor Aspiazu. Non sarò in collera con voi.» «Vedete?» Insistette l'uomo in bianco. «Ne può venire solo del bene. Per tutti!» «Non ho niente da dire» insistette Mori, e Yoshiko, fissando il portafogli aperto con i fasci di banconote, disse con tristezza: «Niente. Davvero». Levò lo sguardo. «Sarei ben lieta di dirlo, senhor. Ma non ho niente da dire, davvero.» Tsuruko fissava il portafogli. L'uomo in bianco la osservava. La donna levò lo sguardo su di lui ed esitante, con imbarazzo, annuì. L'uomo in bianco si lasciò sfuggire un sospiro, fissandola intento. «È andata proprio come ha detto lei» ammise Tsuruko. «Ero in cucina, ci preparavamo a servire i signori, e uno dei ragazzi è venuto a dirmi che fuori c'era un uomo che voleva parlare con qualcuna delle cameriere che avrebbero servito i signori. Importantissimo. Così sono uscita, e lui era là, il nordamericano. Mi ha dato duecento cruzeiros, cinquanta prima e centocinquanta dopo. Mi ha detto che era un giornalista, di una rivista, e che lei faceva i film e non concedeva mai interviste.» L'uomo in bianco, fissandola, disse: «Continua». «Ha detto che ne avrebbe ricavato un buon articolo, se riusciva a scoprire quali nuovi film lei aveva in programma. Io gli ho detto che lei avrebbe parlato con i suoi ospiti più tardi... ce l'aveva detto il senhor Kuwayama... e lui...» «Ti ha chiesto di nasconderti e di ascoltare.» «No, senhor, mi ha dato un registratore, e io l'ho portato nella saletta e poi gliel'ho riportato fuori quando avete finito di parlare.» «Un... registratore?» Tsuruko annuì. «Mi ha mostrato come farlo funzionare. Due pulsanti alla volta.» Con i due indici premette l'aria davanti a sé. L'uomo in bianco chiuse gli occhi e ristette immobile, tranne per un lieve ondeggiare. Aprì gli occhi e guardò Tsuruko e sorrise debolmente. «C'era un registratore in funzione per tutta la durata della riunione?» domandò. «Sì, senhor» disse Tsuruko. «In una ciotola di riso sotto il tavolo di servizio. Funzionava benissimo. L'uomo l'ha provato prima di pagarmi ed era molto contento.»
L'uomo in bianco aspirò a fondo con la bocca, si leccò il labbro superiore, espirò e chiuse la bocca e deglutì a vuoto. Si portò una mano guantata di bianco alla fronte e se la massaggiò lentamente. «Duecento cruzeiros in tutto» disse Tsuruko. L'uomo in bianco la guardò, le si accostò e tirò un lungo respiro. La guardò dall'alto sorridendo; la donna era di mezza testa più bassa di lui. «Cara,» disse piano «voglio che tu mi dica tutto ciò che riesci a ricordarti di quell'uomo. Era giovane... quanto? Che aspetto aveva?» Tsuruko, a disagio per la vicinanza, disse: «Aveva ventidue o ventitré anni, penso. Non ho potuto vederlo chiaramente. Molto alto. Con un'aria simpatica, amichevole. Aveva i capelli bruni a ricciolini fitti». «Così va bene,» disse l'uomo in bianco «è una buona descrizione. Portava jeans...» «Sì. E una giacca della stessa stoffa... sa, blu chiaro. E aveva una borsa di una compagnia aerea, a tracolla.» Accennò alla spalla. «Era lì dentro che teneva il registratore.» «Benissimo. Sei una buona osservatrice, Tsuruko. Quale compagnia aerea?» Tsuruko si mostrò dispiaciuta. «Non l'ho notato. Era bianca e azzurra.» «Una borsa di compagnia aerea bianca e azzurra. Può bastare. Che altro?» Tsuruko aggrottò la fronte e scosse il capo, e ricordò felice: «Si chiama Hunter, senhor!». «Hunter?» «Sì, senhor! Hunter. L'ha detto molto chiaramente.» L'uomo in bianco ebbe un sorriso forzato. «Ne sono certo. Continua. Che altro?» «Parlava molto male il portoghese. Ha fatto molti errori. E la pronuncia era sbagliata.» «Sicché non era qui da molto tempo, vero? Mi sei di grande aiuto, Tsuruko. Continua pure.» Tsuruko aggrottò la fronte e si strinse nelle spalle con un gesto d'impotenza: «È tutto, senhor». L'uomo disse: «Ti prego, cerca di pensare a qualcos'altro, Tsuruko. Non hai la più pallida idea di quanto sia importante per me». La donna si mordicchiò una nocca della mano serrata a pugno e, fissandolo, scosse il capo. «Non ti ha detto come fare per metterti in contatto con lui nel caso che io
dovessi organizzare un altro ricevimento?» «No, senhor! No! Niente del genere. Niente. Glielo direi.» «Continua a pensarci.» Il viso desolato della donna a un tratto s'illuminò. «È in un albergo. Questo le è di aiuto?» Gli occhi bruni la fissarono interrogativamente. «Ha detto che avrebbe mangiato al suo albergo. Gli ho chiesto se voleva qualcosa da mangiare, gli era venuta fame aspettando, ed è questo che mi ha detto, che avrebbe mangiato al suo albergo.» L'uomo in bianco fissò Tsuruko e disse: «Vedi? C'era qualcos'altro». Fece un passo indietro e, abbassando lo sguardo, aprì il portafogli. Ne estrasse quattro banconote da cento cruzeiros e gliele diede. «Grazie, senhor!» Kuwayama si accostò, sorridendo. L'uomo in bianco gli diede quattro banconote, e una ciascuna a Mori e a Yoshiko. Riponendo il portafogli nella tasca interna della giacca, sorrise a Tsuruko e la rimproverò: «Sei una brava ragazza, ma in futuro farai bene a pensare un po' di più agli interessi dei clienti». «Lo farò, senhor! Lo prometto!» A Kuwayama disse: «Non sia severo con lei. Sul serio». «Oh no, non ora!» Kuwayama sogghignò, ritirando la mano dalla tasca. L'uomo in bianco prese il cappello e la valigetta dal tavolino e, sorridendo a Kuwayama e alle donne che s'inchinavano, voltò loro le spalle e si diresse verso gli uomini che se ne stavano in attesa, osservandolo. Il suo sorriso si spense; gli occhi gli si ridussero a due fessure. Raggiunti gli uomini bisbigliò in tedesco: «Schifosa troia gialla, le strapperei le tette!». Raccontò loro del registratore. Il biondo disse: «Abbiamo controllato la strada e tutte le automobili; neanche l'ombra di giovani americani in jeans». «Lo scoveremo» disse l'uomo in bianco. «È un lupo solitario; i gruppi ancora in attività sono tutti composti di uomini di Rio e di Buenos Aires. Ed è un dilettante, non solo per via della sua età — ventidue o ventitré anni — ma anche perché si spaccia col nome di "Hunter", che in inglese sta per "Jager, cacciatore"; nessuno con un po' di esperienza si perderebbe in simili giochetti. Ed è stupido, altrimenti non avrebbe fatto sapere a quella troia che è sceso in un albergo.» «A meno che» disse Schwimmer «non ci sia sceso.»
«Nel qual caso è furbo,» disse l'uomo in bianco «e domani mattina mi impicco. Scopriamolo. Hessen, il nostro paulista che si permette il lusso di farsi seguire da un "cacciatore" dilettante, ora farà ammenda indicando a ciascuno di voi il nome di un albergo.» Guardò Hessen, il quale levò lo sguardo dal cappello che stava esaminando attentamente. «Un albergo tanto buono da servire i pasti a tarda ora,» gli disse l'uomo in bianco «ma non tanto buono da scoraggiare i blue jeans. Si metta nei suoi panni: lei è un ragazzo degli Stati Uniti che è venuto quaggiù a Paulo a dar la caccia a Horst Hessen o magari anche a Mengele; in quale albergo andrebbe? Possiede abbastanza denaro da pagare profumatamente le cameriere — non credo che quella troia abbia mentito sulla cifra — ma è un romantico; vuole sentirsi un nuovo Yakov Liebermann, non un turista in vacanza. Cinque alberghi, per favore, Hessen, in ordine di probabilità.» Guardò gli altri. «Quando Hessen indica il vostro albergo,» disse «prenderete una scatola di fiammiferi da quella ciotola là e uscirete a ripetere il nome a un tassista. Quando raggiungerete l'albergo, scoprirete se vi alloggia o no un giovane nordamericano alto con i capelli bruni a riccioli fitti, che è rientrato da poco con indosso blue jeans, un giubbotto di tela azzurra e una borsa a tracolla azzurra e bianca di una compagnia aerea. Allora telefonerete al numero riportato sulla scatola di fiammiferi. Io sarò qui. Se la risposta è sì, Rudi e Tin-tin e io verremo subito; se la risposta è no, Hessen vi darà il nome di un altro albergo. Tutto chiaro? Bene. Lo beccheremo nel giro di mezz'ora e non riuscirà neppure ad ascoltare per intero il suo maledetto nastro. Hessen?» Hessen disse a Mundt: «Il Nacional» e Mundt disse: «Il Nacional» e andò a prendere i fiammiferi. Hessen disse a Schwimmer: «Il Del Rey». E a Traunsteiner: «Il Marabà». A Farnbach: «Il Comodora». A Kleist: «Il Savoy». Ascoltò per cinque minuti, poi interruppe, riavvolse il nastro e ricominciò da capo, dal punto in cui finivano di ammirare quel che diavolo era che ammiravano, e "Aspiazu" diceva: «Lasst uns jetzt Geschäft reden, meine Jungens» e passava, e come, a parlare d'affari. Affari! Gesù! Questa volta ascoltò per intero il nastro, dicendo: «Gesù!» e: «Dio Onnipotente!» di tanto in tanto e «Oooh, cazzo!» e dopo il tonfo e il lungo silenzio che dovevano corrispondere al tempo impiegato dalla cameriera per
portare la ciotola da basso, interruppe e riavvolse in parte il nastro e ne riascoltò alcuni brani, tanto per essere sicuro che esisteva davvero e che non era la fame o qualcos'altro a giocargli un brutto scherzo. Poi prese a camminare su e giù nei limiti concessigli dalla stanza, scuotendo il capo e grattandosi la nuca, cercando di pensare che cazzo doveva fare, in quel letamaio dove chissà-chi-non-è-uno-di-loro-o-almeno-pagatoda-loro. C'era un'unica cosa da fare, decise finalmente, e più presto la faceva tanto meglio, senza preoccuparsi della differenza di fuso orario. Portò il registratore al tavolino da notte e lo posò accanto al telefono; cavò di tasca il portafogli e sedette sul letto. Trovò il biglietto da visita col nome e il numero, lo infilò sotto l'apparecchio telefonico e sollevò il ricevitore, intascando il portafogli. Chiese il numero del centralino delle interurbane. La centralinista aveva una voce intelligente e sexy: «La chiamo io quando avrò la comunicazione». «Resto in linea» disse lui, diffidando della ragazza per paura che se ne andasse a ballare il samba da qualche parte. «Presto, per favore.» «Ci vorranno cinque o dieci minuti, senhor.» La ascoltò dare il numero a una centralinista d'oltre oceano e ripeté mentalmente quanto avrebbe detto. Sempre che naturalmente Liebermann ci fosse e non fosse andato a parlare chissà dove o a seguire una pista. Sia a casa, per favore, signor Liebermann! Si udì bussare piano all'uscio. «Era ora» disse in inglese e, senza lasciare il ricevitore, si alzò, allungò una mano e riuscì a malapena a girare la maniglia quel tanto che bastava per aprire la porta. L'uscio si aprì e il cameriere con i baffi alla tartara entrò reggendo un vassoio coperto da un tovagliolo con la bottiglia di Brahma, ma senza un bicchiere. «Mi spiace d'averci messo tanto tempo» disse. «Alle undici scappano via tutti. Ho dovuto arrangiarmi da solo.» «Va benissimo» disse il giovanotto in portoghese. «Posi il vassoio sul letto, per favore.» «Ho dimenticato il bicchiere.» «Va benissimo. Non ho bisogno di bicchiere. Mi dia il conto e la matita, per favore.» Firmò il conto, appoggiandolo al muro e trattenendolo con la mano in cui stringeva il ricevitore; aggiunse una mancia oltre alla percentuale di servizio. Il cameriere uscì senza ringraziarlo e ruttò mentre chiudeva la porta.
Non avrebbe mai dovuto lasciare il Del Rey. Risedette sul letto, il ricevitore che gli sibilava a vuoto all'orecchio. Si voltò a raddrizzare il vassoio e guardò con un cattivo presentimento il tovagliolo giallo con la scritta "Miramar" stampata in un angolo a grossi caratteri neri, a prova di furto. L'afferrò e, accidenti, lo strappò via, letteralmente: il panino era imbottito con generosità, tutto pollo, senza lattuga o altre porcherie. Perdonando il cameriere, ne prese una metà, chinò la testa per addentarlo e ne staccò un grosso morso delizioso. Dio, moriva di fame! «Ich möchte Wien» disse una centralinista. «Wien!» Il giovanotto pensò al nastro e a cosa avrebbe detto a Yakov Liebermann ed ecco, si sentì la bocca piena di cartone; masticò e masticò e in qualche modo il boccone gli andò giù. Posò il panino e prese la birra. Era una birra di ottima qualità, eppure gli parve che avesse un pessimo sapore. «Non c'è più molto da aspettare» disse la Sexy Intelligente. «Lo spero. Grazie.» «Ecco, senhor.» Un telefono squillò. Bevve un altro sorso e posò la bottiglia, si asciugò la mano sul ginocchio, si girò un po' di più verso il telefono. L'altro telefono squillò, e squillò, e poi venne sollevato: «Jà?»... chiaro come da dietro l'angolo. «Signor Liebermann?» «Ja. Wer'st da?» «Sono Barry Koehler. Ricorda, signor Liebermann? Sono venuto da lei ai primi di agosto, volevo lavorare per lei. Barry Koehler di Evanston, Illinois?» Silenzio. «Signor Liebermann?» «Barry Koehler, non so che ora sia nell'Illinoise, ma a Vienna è così buio che non riesco neppure a vedere l'orologio.» «Non sono nell'Illinois, sono a Sāo Paulo, in Brasile.» «Non è che per questo a Vienna faccia più chiaro.» «Mi spiace, signor Liebermann, ma ho i miei buoni motivi per chiamarla. Aspetti di sapere.» «Non me lo dica, tiro a indovinare: ha visto Martin Bormann. A una fermata dell'autobus.» «No, non Bormann. Mengele. E non l'ho visto, ma ho un nastro con inci-
sa la sua voce. Mentre parla in un ristorante.» Silenzio. «Il dottor Mengele.» Insistette. «L'uomo che spadroneggiava ad Auschwitz. L'Angelo della Morte.» «Grazie. Pensavo che alludesse a tutt'altro Mengele. All'Angelo della Vita.» Disse Barry: «Mi spiace. Lei era così...». «L'ho fatto scappare nella giungla; lo conosco, Josef Mengele.» «Se ne stava così zitto, che ho dovuto pur dire qualcosa. È uscito dalla giungla, signor Liebermann. Stasera era in un ristorante giapponese. Non usa forse il nome Aspiazu?» «Usa un sacco di nomi: Gregory, Fischer, Breitenbach, Rindon...» «E anche Aspiazu, giusto?» Silenzio. «Ja. Ma penso che forse il nome sia usato anche da gente che si chiama davvero così.» «È lui, le dico» insistette Barry. «Aveva con sé metà SS. E li spedisce ad ammazzare novantaquattro uomini. C'era Hessen, e Kleist. Traunsteiner. Mundt.» «Senta, non sono sicuro di essere sveglio. E lei? Sa almeno di che sta parlando?» «Sì! Le faccio sentire il nastro! Ce l'ho proprio qui vicino!» «Un momento. Cominciamo da principio.» «D'accordo.» Barry prese la bottiglia e bevve un sorso di birra; che anche lui avvertisse il silenzio per una volta. «Barry?» Ha, ha! «Sono qui. Stavo solo bevendo un goccio di birra.» «Oh.» «Soltanto un sorso, signor Liebermann; muoio di sete. Non ho ancora cenato e il nastro mi ha messo una tale nausea, che non riesco a mangiare. Ho qui davanti a me un magnifico panino imbottito di pollo e non riesco neppure a mandarlo giù.» «Che sta facendo a Sāo Paulo?» «Lei non ha voluto saperne di me, e così ho pensato di venire quaggiù per conto mio. Ho motivi di farlo più validi di quanto lei creda.» «Si tratta delle mie finanze, non dei suoi motivi.» «Le ho detto che avrei lavorato gratis; chi mi paga ora? Senta, lasciamo perdere. Sono venuto quaggiù, e ho curiosato un po' attorno, e alla fine ho pensato che la cosa migliore da fare era tener d'occhio la fabbrica della
Volkswagen, quella dove lavorava Stangl. E così ho fatto. E un paio di giorni fa ho individuato Horst Hessen; o almeno così ho pensato, non ne ero certo. Adesso ha i capelli argentei, e deve essersi sottoposto a qualche intervento di chirurgia plastica. Comunque, ho pensato che fosse lui e mi sono messo a pedinarlo. Oggi è rientrato a casa presto: abita nella più graziosa casetta che si sia mai vista, con una moglie che è uno schianto e due figlie; e alle sette e mezza, eccolo che esce di nuovo e prende un autobus per il centro. Lo seguo in quell'elegante ristorante giapponese e lui sale di sopra per una riunione privata. C'è un nazista di guardia alle scale, e il pranzo è offerto dal "senhor Aspiazu". Degli Aspiazu di Auschwitz.» Silenzio. «Vada avanti.» «Così mi sono portato sul retro del ristorante e ho bloccato una delle cameriere. Duecento cruzeiros più tardi, la ragazza mi ha consegnato un'intera cassetta di Mengele-che-Arringa-le-Truppe. La voce di Mengele è chiarissima; le truppe vanno dall'abbastanza chiaro al vago borbottio. Signor Liebermann, partono domani... per la Germania, l'Inghilterra, gli Stati Uniti, la Scandinavia, dappertutto! È un'operazione della Kameradenwerk, ed è una cosa grossa e pazzesca e mi dispiace moltissimo di essere implicato in tutta questa faccenda, si tratterebbe di ...» «Barry.» «... adempiere il destino della razza ariana, per l'amor di Dio!» «Barry!» «Cosa?» «Si calmi.» «Sono calmo. No, non è vero. E va bene. Adesso sono calmo. Sul serio. Riavvolgo il nastro e glielo faccio sentire. Premo il pulsante. Va bene?» «Chi è che parte, Barry? Quanti?» «Sei. Hessen, Traunsteiner, Kleist, Mundt... e altri due, vediamo, Schwimmer e Farnbach. Ne ha sentito parlare?» «Non di Schwimmer né di Farnbach e Mundt.» «Mundt? Non ha sentito parlare di Mundt? Se c'è anche nel suo libro, signor Liebermann! È proprio là dentro che io ho letto il suo nome.» «Un Mundt nel mio libro? No.» «Sì, invece! Nel capitolo su Treblinka. L'ho in valigia; vuole che le dica il numero della pagina?» «Non ho mai sentito parlare di un Mundt, Barry: lei si sbaglia.» «Oh, Gesù. D'accordo, non importa. Comunque, sono in sei, e partono per due anni e mezzo, e hanno certe date fisse in cui dovrebbero ammazza-
re certi uomini, e qui viene la parte pazzesca. È pronto, signor Liebermann? Questi uomini che dovrebbero ammazzare sono novantaquattro, e sono tutti funzionari statali di sessantacinque anni. Che gliene pare, non è una bomba?» Silenzio. «Una bomba?» Barry sospirò: «È un modo di dire». «Barry, lasci che le domandi una cosa. Il nastro è in tedesco, sì? Lei sa...» «Lo capisco perfettamente! Non spreche troppo bene, ma lo comprendo perfettamente. Mia nonna non parla altra lingua, i miei genitori lo usano per i loro segreti, e la cosa non funzionava neppure quando ero piccolo.» «La Kameradenwerk e Josef Mengele spediscono uomini...» «Ad ammazzare funzionari statali di sessantacinque anni. Alcuni ne hanno sessantaquattro e sessantasei. Adesso il nastro è riavvolto e glielo faccio sentire, e poi mi dirà a chi devo portarlo, qualcuno in alto, e fidato. Lei gli telefona e gli dice che io arrivo, così mi riceve, e mi riceve in fretta. Bisogna fermarli prima che partano. La prima uccisione è fissata per il sedici ottobre. Adesso ascolti, devo trovare il punto giusto; prima si sentono un sacco di rumori e di frasi d'ammirazione per qualcosa.» «Barry, è ridicolo. Qualcosa non va nel suo registratore. Oppure... oppure non si tratta degli uomini che crede lei.» Si udì bussare tre volte alla porta. «Andatevene!» urlò Barry, coprendo con una mano il microfono; ricordò di dover parlare in portoghese: «Sto facendo un'interurbana!». «Si tratta di qualcun altro» disse la voce al telefono. «Le stanno facendo uno scherzo.» «Signor Liebermann, vuole almeno ascoltare il nastro?» Colpi più forti bussati all'uscio, un ininterrotto tambureggiare. «Merda. Resti in linea.» Posato il ricevitore sul letto, Barry si alzò e andò all'uscio tempestato di colpi, afferrò la maniglia. «Chi è?» Una raffica di parole in portoghese, una voce d'uomo. «Adagio! Adagio!» «Senhor, c'è qui una signora giapponese che cerca qualcuno che le somiglia. Dice che deve avvertirla a proposito di qualcosa che un uomo sta...» Barry girò la maniglia e dalla porta fece irruzione un omaccione bruno che lo scaraventò all'indietro; Barry si sentì afferrare e girare, tappare la bocca, torcere indietro un braccio fino a spezzarlo; il nazista che stava a guardia delle scale gli si precipitò addosso, armato di un coltello con una
lama affilatissima di una quindicina di centimetri. Gli fu piegata indietro violentemente la testa; il soffitto scivolò via, macchiato di chiazze d'umidità bruno pallido; gli faceva male il braccio, e dentro, in fondo allo stomaco. Entrò nella stanza l'uomo in bianco, col cappello in testa e la valigetta in mano. Chiuse la porta, e tenendovisi ritto davanti osservò il biondo trafiggere ripetutamente il giovane americano. Dentro, un mezzo giro, fuori; dentro, un mezzo giro, fuori; dall'alto ora, il coltello striato di rosso nelle costole bianche sotto la camicia. Il biondo, ansimante, smise di accoltellare, e l'uomo dai capelli neri lasciò scivolare dolcemente sul pavimento il giovane che aveva lo sguardo impietrito in un'espressione di stupore, ve lo distese per metà su un tappeto grigio e per metà sul legno lucido. Il biondo tenne sospesa sopra il giovanotto la mano insanguinata e disse a quello dai capelli neri: «Un asciugamano». L'uomo in bianco guardò in direzione del letto, vi si accostò e posò a terra la valigetta. «Barry?» chiamò dal letto la voce nel ricevitore. L'uomo in bianco guardò il registratore sul comodino; premette la punta di un dito sul pulsante terminale. La finestrella scattò, e la cassetta usci dalla sua sede. L'uomo in bianco la raccolse, la guardò e se la fece scivolare nella tasca della giacca. Diede un'occhiata al biglietto da visita infilato sotto il telefono, lo prese e guardò il ricevitore nero posato sul letto. «Barry!» chiamò la voce. «Pronto?» L'uomo in bianco tese lentamente la mano e afferrò il ricevitore; lo sollevò, se lo portò all'orecchio. Stette in ascolto, con gli occhi bruni ridotti a due fessure, le narici solcate da vene sottili, vibranti. Le labbra gli si aprirono davanti al microfono, rimasero aperte. E poi si chiusero e addirittura si serrarono, sotto i baffetti ispidi. Posò il ricevitore sulla forcella, ne staccò le dita, fissò il telefono. Si voltò e disse: «Per poco non gli parlavo. Ho avuto una gran voglia di farlo». Il biondo, intento a togliere dal coltello le macchie rosse con l'asciugamano, lo guardò incuriosito. L'uomo in bianco disse: «Ci odiamo a vicenda da tanto tempo. E l'ho avuto qui, in mano. Parlargli, finalmente!». Tornò a girarsi verso il telefono, scosse la testa con rammarico. Sottovoce, disse: «Liebermann, bastardo ebreo. Il tuo pupazzo è morto. Quanto ti ha raccontato? Non fa differenza; qui nessuno ti darà retta, senza prove. E la prova, ce l'ho io in tasca. Gli uomini partiranno in aereo domani. Si profila l'avvento del Quarto
Reich. Arrivederci, Liebermann. Ci vediamo sulla soglia della camera a gas». Scosse il capo, sorridendo, e si girò infilandosi in tasca il biglietto da visita. «Sarebbe stato stupido, però» disse. «Avrei magari corso il rischio di incidere la mia voce su un altro nastro.» L'uomo dai capelli neri, ritto accanto a un armadio aperto, indicò una valigia che vi si trovava e domandò in portoghese: «Devo raccogliere la sua roba, dottore?». «Lo farà Rudi. Tu scendi da basso da Traunsteiner. Trova una porta sul retro che riesci ad aprire e portaci davanti la macchina. Poi uno di voi salga a darci una mano a portarlo giù. E non dirgli che il ragazzo stava parlando al telefono. Di' che ascoltava il nastro.» L'uomo dai capelli neri annuì e uscì. Il biondo chiese in tedesco: «Non li prenderanno? Gli uomini, voglio dire». «La missione deve essere compiuta» disse l'uomo in bianco, cavando di tasca l'astuccio degli occhiali. «Quanto più completamente possibile, a ogni costo. Con un po' di fortuna ce la faranno tutti. Chi mai darà retta a Liebermann? Non ci credeva nemmeno lui, hai sentito con quanta foga discuteva il ragazzo. Dio ci aiuterà, dei novantaquattro ne moriranno abbastanza.» Inforcò gli occhiali, ed estraendo di tasca una scatola di fiammiferi si accostò al telefono. Sollevò il ricevitore e diede un numero alla centralinista. «Salve, amico mio» disse allegramente. «Il senhor Hessen, per favore.» Volse lo sguardo, coprendo il microfono con le dita guantate di bianco. «Svuotagli le tasche, Rudi. E là, sotto lo scrittoio, c'è un paio di scarpe da ginnastica. Hessen? Parla il dottor Mengele. Tutto in ordine, non c'è niente di che preoccuparsi. Proprio il dilettante che avevo previsto. Penso che non capisse neppure il tedesco. Spedisca a casa i ragazzi a esercitarsi nelle firme; si è trattato semplicemente di un'emozione in più per finire in bellezza la serata. No, non prima del 1977, temo; torno in volo alla tenuta non appena abbiamo fatto un po' di pulizia. Così, Dio l'accompagni, Horst. E lo dica a nome mio anche agli altri: "Dio vi accompagni".» Riagganciò e disse: «Heil Hitler». II Il Burggarten, con lo stagno e il monumento a Mozart e i prati e i viali e la statua equestre di Francesco Giuseppe, si trova abbastanza vicino agli
uffici viennesi della Reuter, l'agenzia di stampa internazionale: così corrispondenti e segretarie vi si recano a far colazione all'aperto nei mesi più miti dell'anno. Il quattordici ottobre, un lunedì, era una giornata fresca e col cielo coperto, ma quattro dipendenti della Reuter si recarono egualmente al Burggarten; si accomodarono su una panchina, scartarono i panini e versarono vino bianco nei bicchieri di carta. Uno dei quattro, quello che versava il vino, era Sydney Beynon, corrispondente anziano della Reuter da Vienna. Quarantaquattrenne, originario di Liverpool, con due ex mogli viennesi, Beynon somigliava moltissimo a un Edoardo VIII al momento dell'abdicazione con l'aggiunta di un paio di occhiali cerchiati di tartaruga. Mentre posava la bottiglia accanto a sé sulla panchina e sorseggiava il vino dal bicchiere per giudicarne la qualità, vide, con un improvviso senso di colpa, Yakov Liebermann arrancare verso di lui, con in testa un cappello marrone e indosso un impermeabile nero aperto. Nel corso della precedente settimana o giù di lì, Beynon era stato avvertito varie volte che Liebermann aveva telefonato e desiderava che lui lo richiamasse. Non l'aveva ancora fatto, anche se di regola non mancava mai di richiamare chi gli telefonava; e ora, costretto ad affrontare quel suo involontario tentativo di evitare l'uomo, si sentiva doppiamente colpevole: primo, perché Liebermann negli anni del suo splendore, al tempo della cattura di Eichmann e Stangl, era stato la fonte di alcuni dei suoi articoli migliori e più remunerativi; e, secondo, perché il cacciatore di nazisti faceva sentire colpevoli tutti, sempre. Qualcuno aveva detto di lui — era stato Stevie Dickens? —: «Si porta appresso l'intera maledetta scena del campo di concentramento appuntata alle falde della giacca. Tutti quegli ebrei levano gemiti a te dalla tomba, ogni volta che Liebermann entra nella stanza». Era triste, ma vero. E forse Liebermann ne era consapevole, perché si presentava sempre come faceva ora con Beynon, un gradino al di sotto della normale distanza sociale, con una lieve aria di scusa; anzi, pensò Beynon, come un orso ben educato affetto da qualche malattia contagiosa. «Salve, Sydney» disse Liebermann-Orso, portandosi le dita alla tesa del cappello. «Ti prego, stai comodo.» Il senso di colpa imbarazzava Beynon più dei panini che teneva sparsi sulle ginocchia, sicché fece comunque il tentativo, sollevandosi a metà. «Salve, Yakov! È un piacere vederti.» Tese la mano, e Liebermann si chinò e fece altrettanto e avvolse la mano di Beynon, senza stringerla, nel ca-
lore della sua. «Scusami se non ti ho ancora richiamato» si scusò Beynon. «Non ho fatto che andare e venire da Linz per tutta la settimana scorsa.» Si risedette e fece le presentazioni con la mano in cui stringeva il bicchiere: «Freya Neustadt, Paul Higbee, Dermot Brody. Questo è Yakov Liebermann». «Oh, cielo.» Freya si pulì la mano ossuta sulla gonna e la tese, sorridendo vivacemente. «Come sta? È un grande piacere.» Aveva l'aria colpevole. Osservando Liebermann mentre annuiva e stringeva le mani a tutti, Beynon fu costernato constatando quanto fosse invecchiato e rimpicciolito l'uomo dall'ultimo loro incontro un paio d'anni prima. Aveva ancora una sua imponenza, ma non aveva più quell'aria massiccia, forte come un orso che aveva avuto allora; le ampie spalle ora sembravano piegarsi sotto il lieve peso dell'impermeabile, e il volto un tempo possente era solcato da rughe e velato da una barba grigiastra, gli occhi stanchi sotto le palpebre cadenti. Il naso, quello no, non era cambiato, quello spavaldo uncino semitico, ma i baffi erano striati di grigio e avevano bisogno di una regolata. Il pover'uomo aveva perso la moglie e un rene o qualcosa del genere, oltre ai fondi del suo Centro di Informazione sui Crimini di Guerra; portava su di sé la documentazione di tali perdite — il vecchio cappello acciaccato e segnato dalle ditate, il nodo della cravatta annerito — e Beynon, osservando quella documentazione, si rese conto del perché il suo io interiore gli avesse impedito di richiamarlo. Il suo senso di colpa si accentuò, ma Beynon lo mise a tacere, dicendosi che quello di evitare gli sconfitti era un istinto naturale e sano, anche, o forse soprattutto, quando gli sconfitti un tempo erano stati vincitori. Ma naturalmente si desiderava essere gentili. «Siediti, Yakov» invitò cordialmente, accennando all'estremità della panchina accanto a sé e tirandosi vicina la bottiglia di vino. «Non voglio disturbare la vostra colazione» disse Liebermann nel suo inglese dal pesante accento tedesco. «Se ne parlassimo più tardi?» «Siediti» disse Beynon. «Ne ho già abbastanza in ufficio, di questi tizi.» Volse le spalle a Freya e spinse un tantino; lei cedette qualche centimetro di spazio e si girò dall'altra parte. Beynon concesse lo spazio supplementare all'estremità della panchina e, sorridendo a Liebermann, gliel'indicò. Liebermann sedette e sospirò. Tenendosi le ginocchia con le grosse mani, se le fissò con uno sguardo accigliato, dondolando appena i piedi. «Scarpe nuove» disse. «Mi fanno un male da morire.» «Come stai per il resto?» domandò Beynon. «E come sta tua figlia?»
«Io sto bene. Lei anche. Ha tre bambini ora, due femmine e un maschio.» «Oh, che bello.» Beynon sfiorò il collo della bottiglia di vino. «Temo di non avere un altro bicchiere.» «No, no. Non mi è permesso, comunque. Niente alcool.» «Ho saputo che sei stato in ospedale...» «Dentro e fuori, dentro e fuori.» Liebermann si strinse nelle spalle e volse su Beynon gli stanchi occhi bruni. «Ho ricevuto una telefonata pazzesca» disse. «Qualche settimana fa. Nel cuore della notte. Un ragazzo americano, dell'Illinois, mi chiama da Sāo Paulo. Ha un nastro di Mengele. Sai chi è Mengele, no?» «Uno dei tuoi nazisti ricercati, è così?» «Uno che è di tutti,» disse Liebermann «non solo mio. Il governo tedesco offre tutt'ora sessantamila marchi per la sua cattura. Era il medico capo di Auschwitz. L'Angelo della Morte, lo chiamavano. Due lauree, una in medicina e una in filosofia, e ha compiuto migliaia di esperimenti su bambini, gemelli, tentando di fabbricare puri ariani, di mutare occhi bruni in occhi azzurri con prodotti chimici, per mezzo dei geni. Un uomo con due lauree! Li uccideva: migliaia di gemelli provenienti da ogni parte d'Europa, ebrei e no. Sta tutto scritto nel mio libro.» Beynon sollevò metà del panino imbottito di uova sode e insalata e l'addentò con decisione. «Dopo la guerra è tornato a casa in Germania» proseguì Liebermann. «La sua famiglia è ricca, abitano a Günzburg: macchinari agricoli. Ma poi il suo nome ha cominciato a venire a galla nel corso dei processi, per cui l'ODESSA l'ha fatto scappare in Sudamerica. Noi l'abbiamo scovato e gli abbiamo dato la caccia da una città all'altra: Buenos Aires, Bariloche, Asunción. Dal 1959 vive nella giungla, in una tenuta su un fiume al confine tra il Brasile e il Paraguay. Possiede un vero e proprio esercito di guardie del corpo e ha la cittadinanza del Paraguay, per cui non può essere estradato. Ma deve starsene nascosto comunque, perché laggiù vi sono gruppi di giovani ebrei che tentano ancora di catturarlo. Ogni tanto se ne trova qualcuno che galleggia sul fiume, il Paraná, con la gola tagliata.» Liebermann fece una pausa. Freya batté un colpetto sul braccio di Beynon e chiese il vino; Beynon le passò la bottiglia. «Così, il ragazzo ha un nastro» disse Liebermann, fissando lo sguardo dinanzi a sé, le mani sulle ginocchia. «Mengele in un ristorante che spedisce ex membri delle SS in Germania, Inghilterra, Scandinavia e negli Stati
Uniti. Ad ammazzare un gruppo di uomini di sessantacinque anni.» Si volse e sorrise a Beynon. «Pazzesco, no? E si tratta di un'operazione importantissima. C'è coinvolta anche la Kameradenwerk, non solo Mengele. L'Organizzazione dei Camerati, che ne assicura l'incolumità e procura loro buoni posti di lavoro laggiù. Non è una bomba, come si dice?» Beynon ammiccò e sorrise. «No, temo di no» disse. «Hai davvero ascoltato quel nastro?» Liebermann scosse il capo. «No. Proprio quando è pronto a farmelo ascoltare qualcuno bussa alla porta, alla sua porta, e lui va ad aprire. Colpi e tonfi, e poco dopo qualcuno riaggancia il telefono.» «Con perfetto tempismo» disse Beynon. «Mi puzza di presa in giro, non ti pare? Chi è?» Liebermann si strinse nelle spalle: «Un ragazzo che mi ha sentito parlare due anni fa alla sua università, Princeton. È venuto da me in agosto dicendomi che voleva lavorare per me. Ma ho forse bisogno di nuovi collaboratori? Mi servo soltanto di un pugno dei vecchi. Certo saprai, suppongo, che tutto il mio denaro, tutto il denaro del Centro, era depositato presso la Allgemeine Wirtschaftsbank». Beynon accennò di sì. «Il Centro è nel mio appartamento, ora: tutti gli schedari, qualche scrivania, e me e il mio letto. Il soffitto del piano sottostante s'è incrinato. Il padrone di casa minaccia di farmi causa. Gli unici nuovi collaboratori di cui ho bisogno sono persone che raccolgano fondi, il che non rientra negli interessi del ragazzo. Così, se n'è andato a Sāo Paulo di sua iniziativa.» «Non è esattamente la persona sulla quale farei molto affidamento.» «È proprio quello che penso io mentre mi parla. E poi non ha neppure dati precisi. Uno delle SS si chiama Mundt, dice, e lui sa di questo Mundt dal mio libro. Ora, nel mio libro io so che non c'è nessun Mundt. Non ho mai sentito parlare di un Mundt. Sicché questo non accresce la mia fiducia. Eppure... dopo i colpi e i tonfi, mentre gli urlo di tornare al telefono, sento un certo rumore, non molto forte ma chiarissimo, e può trattarsi di un'unica cosa e nient'altro: è il rumore di una cassetta abbattuta da un registratore.» «Espulsa», disse Beynon. «Non abbattuta? Buttata fuori?» «Si dice espulsa. Abbattuta vuol dire triste, buttata giù.» «Ah!» Liebermann annuì. «Grazie. Espulsa da un registratore. E un'altra cosa. C'è stato silenzio poi, per un bel po'. E anch'io sono stato zitto, mettendo insieme i colpi e i tonfi e il rumore della cassetta espulsa; e in quel
lungo silenzio,» fissò Beynon con aria profetica «sul filo del telefono mi è giunto l'odio, Sydney.» Annuì. «Odio quale non avevo mai avvertito prima, neppure quando Stangl mi fissava in tribunale. Mi è giunto chiaro come la voce del ragazzo, e forse è stato per via di quello che aveva detto, ma sono stato assolutamente certo che l'odio proveniva da Mengele. E quando il telefono è stato riagganciato, sono stato assolutamente certo che l'aveva riagganciato Mengele.» Distolse lo sguardo e si chinò in avanti, i gomiti sulle ginocchia, una mano che serrava l'altra stretta a pugno. Beynon lo osservò, scettico ma commosso. «Che hai fatto?» domandò. Liebermann si raddrizzò, si fregò le mani, guardò Beynon e si strinse nelle spalle. «Che potevo fare, a Vienna alle quattro del mattino? Ho trascritto quel che mi aveva detto il ragazzo, tutto quello che sono riuscito a ricordare, e l'ho letto e mi sono detto che quello era pazzo ed ero pazzo anch'io. Solo, chi ha... espulso la cassetta e riagganciato il telefono? Forse non è stato Mengele, ma qualcuno è stato. Più tardi, quando laggiù era mattina, ho chiamato Martin McCarthy all'ambasciata degli Stati Uniti a Brasilia; Martin ha telefonato alla polizia di Sāo Paulo, e la polizia ha chiamato la compagnia dei telefoni e ha scoperto da dove era partita la chiamata per me. Un albergo. Il ragazzo è scomparso dall'albergo durante la notte. Ho chiamato Pacher qui e gli ho chiesto se poteva ottenere che le autorità brasiliane tenessero d'occhio i membri delle SS — il ragazzo ha detto che partivano quel giorno — e Pacher non mi ha proprio riso in faccia, ma mi ha detto no, non senza qualcosa di concreto. Un ragazzo che scompare da una stanza d'albergo senza pagare il conto non è una cosa concreta. E neppure lo sono io, quando dico che alcuni membri delle SS sono in procinto di partire solo perché il ragazzo me lo ha detto. Ho tentato di raggiungere il pubblico ministero tedesco incaricato del caso Mengele, ma non c'era. Se fosse stato ancora Fritz Bauer, per me ci sarebbe stato, ma il nuovo magistrato non c'era.» Tornò a stringersi nelle spalle, si grattò il lobo dell'orecchio. «Così, gli uomini hanno lasciato il Brasile, se il ragazzo aveva ragione, e il ragazzo non è stato ancora trovato. Suo padre è laggiù a tentare di smuovere la polizia; un uomo ricco, a quanto so. Ma ha un figlio morto.» Beynon disse in tono di scusa: «Non posso scrìvere un articolo a Vienna su un...». «No, no, no» lo interruppe Liebermann, posandogli una mano sul ginocchio. «Non voglio che tu scriva un articolo. Quel che voglio che tu faccia è questo, Sydney; sono sicuro che è possibile e spero che non sia un fastidio
troppo grosso. Il ragazzo ha detto che il primo omicidio avrà luogo posdomani, sedici ottobre. Ma non mi ha detto dove. Potresti farti spedire dalla sede di Londra i ritagli o i rapporti inviati dagli altri uffici? Relativi a uomini tra i sessantaquattro e i sessantasei anni, assassinati o periti in incidenti? Tutto tranne che decessi per cause naturali, da mercoledì in poi. Solo uomini tra i sessantaquattro e i sessantasei anni.» Beynon aggrottò la fronte, si diede un colpetto agli occhiali e fissò Liebermann con espressione dubbiosa. «Non era una presa in giro, Sydney. Non era un ragazzo che avrebbe fatto una cosa del genere. Manca da tre settimane, e scriveva a casa regolarmente, telefonava, persino, quando cambiava albergo.» «Ammettiamo che sia probabilmente morto. Ma non potrebbe essere stato ucciso semplicemente perché è andato a ficcare il naso dove non era bene accetto: un altro giovanotto a caccia di Mengele? O magari essere stato rapinato e fatto fuori da un volgare ladro? La sua morte non prova in alcun caso che... sia in atto un complotto nazista per ammazzare uomini di una certa età.» «L'aveva registrato su nastro. Perché mi avrebbe mentito?» «Forse non ti ha mentito. Può darsi che il nastro fosse uno scherzo fatto a lui. O forse ha capito male.» Liebermann aspirò a fondo, espirò e annuì. «Lo so» disse. «È possibile. È quello che ho pensato anch'io in un primo momento. E lo penso ancora a volte. Ma qualcuno deve pur fare un piccolo controllo, e se non lo faccio io, chi altri? Se si sbagliava, si sbagliava; spreco un po' di tempo e disturbo per niente Sydney Beynon. Ma se aveva ragione... allora è qualcosa di molto grosso, e Mengele ha un motivo per farlo. E devo trovare qualcosa di concreto, in modo che i pubblici ministeri siano in ufficio, non fuori, e ci mettano fine prima che la faccenda sia conclusa. Ti dirò una cosa, Sydney. Sai cosa?» «Cosa?» «C'è un Mundt nel mio libro.» Annuì con aria tetra. «Proprio dove diceva il ragazzo, in un elenco di guardie che hanno commesso atrocità a Treblinka. SS Hauptscharführer Alfried Mundt. Me n'ero dimenticato; chi può mai ricordarseli tutti? Ha un fascicolo sottilissimo: una donna di Riga l'ha visto spezzare il collo a una ragazza di quattordici anni; un uomo che abita in Florida è stato castrato da lui e vuole venire a testimoniare, se lo becco. Alfried Mundt. Sicché, il ragazzo un volta ha avuto ragione, può averla avuta due volte. Vuoi procurarmi i ritagli, per favore? Te ne sarei molto
grato.» Beynon sospirò e cedette: «Vedrò quel che posso fare». Posò il bicchiere accanto a sé e cavò di tasca il taccuino e la penna. «Quali paesi, hai detto?» «Be', il ragazzo ha accennato alla Germania e all'Inghilterra e alla Scandinavia — Norvegia, Svezia, Danimarca — e agli Stati Uniti. Ma da come l'ha detto, mi è parso che ci fossero altri posti oltre a questi, che lasciava fuori. Per cui dovresti chiedere anche per la Francia e l'Olanda.» Beynon scoccò un'occhiata a Liebermann e stenografò. «Grazie, Sydney» disse Liebermann. «Ti sono davvero riconoscente. Qualsiasi cosa scopra, sarai il primo a sapere. Non solo in questo caso, in ogni caso.» Disse Beynon: «Hai idea di quanti uomini sui sessantacinque anni muoiono ogni giorno?». «Assassinati? O in incidenti che potrebbero essere assassinii?» Liebermann scosse il capo. «No, non molti. Almeno lo spero. E alcuni sarò in grado di scartarli in base alla professione che esercitano.» «Che intendi dire?» Liebermann si passò una mano sui baffi e si strinse il mento, un dito di traverso sulle labbra. Dopo un momento abbassò la mano e si strinse nelle spalle. «Niente» disse. «Certi altri particolari che mi ha fornito il ragazzo. Senti,» additò il taccuino di Beynon «bada bene a precisare "tra i sessantaquattro e i sessantasei anni".» «L'ho già fatto» disse Beynon guardandolo. «Qualche altro particolare?» «Niente di importante.» Liebermann si frugò nella giacca. «Parto in aereo per Amburgo alle quattro e mezza» disse. «Faccio un giro di conferenze in Germania fino al tre novembre.» Cavò di tasca un portafogli marrone, gonfio e logoro. «Così, qualunque cosa ti mandino, spediscila per posta al mio appartamento, in modo che ce la trovi quando torno.» Diede a Beynon un biglietto da visita. «E se scopri qualcosa che sembra un omicidio nazista?» «Chissà?» Liebermann si rimise in tasca il portafogli. «Faccio solo un passo alla volta, io.» Sorrise a Beynon. «Soprattutto con queste scarpe.» Appoggiò le mani sulle cosce e si levò in piedi, si guardò attorno e scosse il capo con aria di disapprovazione. «Mmm. Che brutta giornata.» Si girò e li rimproverò collettivamente: «Perché mangiate all'aperto in una giornata simile?». «Siamo il Club Mozart del lunedì» disse Beynon sorridendo e indicando il monumento alle sue spalle.
Liebermann gli tese la mano; Beynon la strinse. Liebermann sorrise agli altri e disse: «Vi chiedo scusa per avervi rubato questo simpaticone». «Può tenerselo» disse Dermot Brody. Liebermann disse a Beynon: «Grazie, Sydney. Sapevo di poter contare su di te. Oh, senti». Si chinò e parlò sottovoce, trattenendo nella sua la mano di Beynon: «Per favore, chiedigli da mercoledì in poi. Di continuare, voglio dire. Perché il ragazzo ha detto che partivano in sei, e Mengele li avrebbe forse spediti tutti assieme, se qualcuno non avesse avuto niente da fare per un bel po'? Così, dovrebbero esserci altri due assassinii non molto tempo dopo il primo — questo se lavorano a due a due — o altri cinque, Dio ne guardi, se lavorano separatamente. E se, naturalmente, il ragazzo aveva ragione. Lo farai?». Beynon annuì «Quanti assassinii dovrebbero aver luogo complessivamente?» domandò. Liebermann lo guardò. «Una quantità» disse. Lasciò la mano di Beynon, si raddrizzò e salutò con un cenno del capo gli altri. Infilandosi le mani nelle tasche della giacca, si girò e si avviò in fretta verso il fragore e il traffico del Ring. I quattro sulla panchina lo seguirono con lo sguardo. «Oh, Signore» fece Beynon, e Freya Neustadt scosse il capo con tristezza. Dermot Brody si chinò in avanti e disse: «Cos'era l'ultima cosa che ha detto, Syd?». «Che devo chiedergli di continuare a mandarmi i ritagli.» Si rimise nella giacca il taccuino e la penna. «Ci saranno tre o sei assassinii, non uno soltanto. E poi ancora degli altri.» Paul Higbee si tolse la pipa di bocca e disse: «Mi è venuta una buffa idea: ha assolutamente ragione». «Oh, piantala» disse Freya. «Nazisti che lo odiano per telefono?» Beynon afferrò il bicchiere e si attaccò a un mezzo panino. «Gli ultimi due anni sono stati terribilmente duri per lui» disse. «Quanti anni ha?» domandò intenzionalmente Freya. «Non lo so di preciso» disse Beynon. «Oh, già, vedo. Sui sessantacinque, direi.» «Vedi?» disse Freya a Paul. «Così i nazisti ammazzano uomini di sessantacinque anni. È una fantasia da paranoico ben architettata. Tra un mese dirà che danno la caccia a lui in persona.» Dermot Brody, tornando a chinarsi in avanti, domandò a Beynon: «Hai
davvero intenzione di farti mandare i ritagli?». «Naturalmente, no» disse Freya e si girò verso Beynon. «Non lo farai, vero?» Beynon bevve un sorso di vino, tenne il panino sospeso a mezz'aria. «Be', gli ho detto che avrei tentato» ribatté. «E se non lo faccio, non farà che scocciarmi quando torna. E poi, quelli di Londra penseranno che sto lavorando a qualcosa.» Sorrise a Freya. «Non fa mai male dare questa impressione.» A differenza della maggior parte degli uomini della sua età, il sessantacinquenne Emil Döring, già secondo segretario amministrativo del capo della Commissione Trasporti Pubblici di Essen, non si era mai permesso di diventare una creatura abitudinaria. Ora che era in pensione e abitava a Gladbeck, una cittadina a nord della città, badava in modo particolare a variare la routine quotidiana. Andava a comprare i giornali del mattino in ore diverse, andava a trovare la sorella a Oberhausen in un pomeriggio qualsiasi, e passava le serate, quando non decideva all'ultimo momento di restare in casa, in questo o quel bar del vicinato, senza preferirne uno in particolare. O meglio, aveva tre bar preferiti e ne sceglieva uno solo quando usciva di casa. A volte tornava dopo un paio d'ore, a volte solo dopo mezzanotte. Per tutta la sua vita Döring aveva avvertito la presenza di nemici in agguato, e si era difeso non solo andandosene in giro armato, appena aveva avuto l'età per farlo, ma anche facendo sì che i suoi spostamenti fossero il più imprevedibili possibili. Prima c'erano stati i fratelli maggiori dei compagni di scuola che l'avevano ingiustamente accusato di tiranneggiare gli altri. Poi c'erano stati i suoi commilitoni, tutti idioti, che si erano risentiti della sua capacità di ingraziarsi gli ufficiali e di farsi assegnare missioni facili e non rischiose. Poi ancora, c'erano stati i suoi rivali alla Commissione Trasporti, alcuni dei quali avrebbero potuto dar lezioni di astuzia a Machiavelli. Ne avrebbe potute raccontare, Döring, di storie sulla Commissione Trasporti! E ora, in quelli che avrebbero dovuto essere i suoi anni d'oro, quando aveva creduto che finalmente avrebbe potuto abbassare la guardia e rilassarsi, riporre la vecchia Mauser nel cassetto del comodino... ora più che mai sapeva di essere in pericolo. La sua seconda moglie Klara, che, come non si stancava mai di ricordargli per vie traverse, aveva ventitré anni meno di lui, aveva una relazione, lo
sapeva per certo, con l'ex insegnante di clarinetto del loro figlio, una spregevole mezza checca a nome Wilhelm Springer che era persino più giovane di lei — trentotto anni! — e almeno per metà ebreo. Döring era certo che Klara e la sua checca ebrea sarebbero stati ben lieti di sbarazzarsi di lui; Klara sarebbe diventata non solo vedova, ma una vedova ricca. Döring possedeva più di trecentomila marchi (di cui lei era a conoscenza, oltre ad altri cinquecentomila di cui nessuno sapeva niente, sepolti in due cassette di acciaio nel cortile di sua sorella). Era proprio il denaro che tratteneva Klara dal divorziare. Aspettava, e aveva aspettato fin dal giorno in cui si erano sposati, quella troia. Be', poteva continuare ad aspettare; lui godeva di ottima salute ed era pronto a ricevere una dozzina di Springer che gli balzassero addosso da dietro l'angolo. Andava in palestra due volte la settimana — non sempre gli stessi pomeriggi — e, sessantacinque anni o no, se la cavava ancora maledettamente bene nella lotta corpo a corpo con gli uomini, anche se non era più un drago con le donne. Sì, lui se la cavava ancora maledettamente bene, e la sua Mauser se la cavava maledettamente bene; amava ripeterselo, sorridendo mentre si batteva sul duro rigonfio sotto l'ascella. L'aveva detto anche a Reichmeider, il rappresentante di strumenti chirurgici che aveva conosciuto la sera prima al Lorelei-Bar. Che tipo simpatico, quel Reichmeider! Si era mostrato davvero interessato ai racconti di Döring sulla Commissione Trasporti — per poco non cadeva dal suo sgabello, sghignazzando per come era andata a finire la faccenda dell'appropriazione indebita del 1958. Parlare con lui era stato un tantino imbarazzante lì per lì, per il modo bizzarro in cui si muoveva uno dei suoi occhi — era ovviamente artificiale — ma Döring ci aveva fatto subito l'abitudine e gli aveva raccontato non solo la faccenda dell'appropriazione indebita, ma anche quella dell'inchiesta statale del 1964 e dello scandalo Zellermann. Poi erano scesi su un piano più personale — avevano ingollato cinque o sei birre — e Döring si era confidato a proposito di Klara e Springer. Era stato allora che aveva tastato la Mauser e detto quel che aveva detto circa l'arma e se stesso. Reichmeider non voleva credere che avesse davvero sessantacinque anni. «Avrei giurato che non ne avesse più di cinquantasette, al massimo!» aveva insistito. Che tipo simpatico! Peccato che si trattenesse nella zona solo qualche giorno; per fortuna, però, stava a Gladbeck anziché a Essen. Era per incontrarsi di nuovo con Reichmeider e raccontargli dell'ascesa e caduta di Oskar Vowinckel lo Sputasentenze, che Döring quella sera era
tornato al Lorelei-Bar. Ma le nove erano passate da un pezzo e di Reichmeider neppure l'ombra, nonostante si fossero dati appuntamento la sera prima. C'era un sacco di giovanotti vocianti e di belle ragazze, una con le tette mezze fuori, e solo qualche cliente abituale, Fürst, Apfel, Vattelapesca, nessuno di loro capace di ascoltarlo. Sembrava più un venerdì o un sabato che un mercoledì. Sullo schermo del televisore scorreva a fasi alterne una partita di calcio; Döring la seguiva, beveva lentamente e osservava nello specchio quelle floride giovani tette. Di tanto in tanto si protendeva all'indietro sullo sgabello e si sforzava di cogliere con lo sguardo i nuovi venuti che varcavano la soglia, sperando ancora che Reichmeider facesse la sua comparsa. E la fece, infatti, ma nel modo più strano e repentino, afferrando con una mano la spalla di Döring, bisbigliando in tono pressante, con occhi strabici: «Döring, venga fuori, presto! Devo dirle qualcosa!». Ed era sparito un'altra volta. Confuso e perplesso, Döring attirò con un gesto l'attenzione di Franz, gettò sul banco una banconota da dieci marchi e si affrettò a uscire. Reichmeider gli fece cenno tutto teso, camminando giù per la Kirchengasse. Aveva un fazzoletto avvolto attorno alla mano sinistra come se si fosse fatto male; i calzoni e la giacca del completo grigio dall'aria costosa erano tutti impolverati. Affrettandosi verso di lui, Döring disse: «Che c'è? Che le è successo?». «È a lei che è probabile che accada qualcosa, non a me!» rispose Reichmeider in tono eccitato. «Sono incespicato là dove c'è quell'edificio che stanno demolendo, lungo la strada, all'altezza del prossimo isolato. Senta, quel tizio, quel tipo di cui mi ha parlato, quello che se la fa con sua moglie...» «Springer,» disse Döring, ancora perplesso, ma lasciandosi contagiare dall'eccitazione di Reichmeider «Wilhelm Springer!» «Lo sapevo che era lui!» esclamò Reichmeider. «Lo sapevo che non mi ero sbagliato! Per fortuna mi è capitato di... Senta, le spiegherò ogni cosa. Venivo lungo questa strada, andando in questa direzione, e ho dovuto spandere acqua, proprio non potevo più tenerla. Così, quando sono arrivato a quell'edificio, quello che stanno demolendo, mi sono infilato nel vicolo laterale; ma c'era troppa luce, per cui ho trovato un'apertura nel recinto con cui hanno circondato la casa e sono scivolato dentro. Ho fatto quel che avevo da fare, ed ecco che, mentre mi accingo a uscire due uomini vengono a fermarsi proprio nel punto in cui ero entrato. Uno chiama l'altro Sprin-
ger» annuì lentamente col capo, mentre Döring tirava il fiato «e questo dice al primo qualcosa come: "È al Lorelei adesso, quel vecchio bastardo". E: "Gli faremo sputare sangue, a quel ciccione". Lo sapevo che Springer era il nome che mi aveva detto! Per andare a casa sua va di là, no?» Döring, a occhi chiusi, aspirò a fondo e deglutì in parte il suo furore. «A volte» bisbigliò, e aprì gli occhi. «Non sempre faccio la stessa strada.» «Be', stasera si aspettano che faccia quella strada. L'attendono là, tutti e due armati di bastoni, il berretto tirato sugli occhi, il colletto sollevato; proprio come ha detto lei ieri sera, Springer si prepara a saltarle addosso da dietro un angolo. Ho attraversato la casa e ho trovato un'uscita su questo lato.» Döring tirò un altro profondo respiro e batté una mano con riconoscenza sulla spalla impolverata di Reichmeider. «Grazie» disse. «Grazie.» Sorridendo, Reichmeider replicò: «Sono sicuro che sarebbe in grado di farli fuori tutti e due con una mano legata dietro la schiena — l'altro è magro come uno stecco — ma la cosa più saggia da farsi, naturalmente, è quella di andarsene a casa per un'altra strada. L'accompagno, se vuole. A meno, cioè, che non preferisca sbarazzarsi di questo Springer una volta per tutte». Döring lo guardò con aria interrogativa. «È un'occasione d'oro, sul serio,» fece notare Reichmeider «e se non lo fa, quello finirà col saltarle addosso un'altra sera. È semplicissimo; lei passa per di là, loro l'attaccano,» lasciò cadere uno sguardo sulla giacca di Döring e gli sorrise «e lei gli dà il fatto loro. Io mi terrò qualche passo indietro, per farle da testimone, e nel caso improbabile che le procurino qualche difficoltà» si fece più vicino e scostò il bavero della giacca rivelando il calcio di una pistola nella fondina «mi prenderò cura io di loro, e lei farà da testimone a me. In un caso o nell'altro, si sarà sbarazzato di lui, e il peggio che le toccherà sarà un paio di bastonate.» Döring fissò Reichmeider. Si portò la mano alla giacca, la premette sul duro rigonfio. «Mio Dio,» disse meditabondo «usare davvero questo aggeggio!» Reichmeider srotolò il fazzoletto dalla mano e soffiò su un graffio insanguinato sul dorso. «Farebbe riflettere sua moglie» osservò. «Mio Dio,» esultò Döring «non ci avevo neppure pensato! Mi cascherà ai piedi svenuta. "Ohi, dico, Klara, ti ricordi di Wilhelm Springer, il maestro di clarinetto di Erich? Stasera mi è saltato addosso per strada, non riesco proprio a immaginarmi perché, e io l'ho ammazzato."» Con profonda
delizia emise un fischio. «Mio Dio, la faccenda farà crepare anche lei!» «Coraggio, facciamolo!» sollecitò Reichmeider. «Prima che si perdano di coraggio e scappino!» Si precipitarono per la buia discesa della Kirchengasse. Fari d'automobile spazzavano la strada e li oltrepassavano veloci. «Chi dice che non c'è giustizia, eh?» «"Ciccione"? Oh, piccola checca merdosa, ti beccherò proprio al cuore!» Attraversarono la Lindenstrasse deserta; camminavano lentamente e in silenzio ora, rasentando le vetrine sbarrate. Giunsero a un edificio in pietra di quattro piani che si stagliava contro il cielo illuminato dalla luna, buio e con la sommità diroccata, circondato di fronte e ai lati da uno steccato costruito rozzamente con travi e porte verniciate. Reichmeider trascinò Döring nelle tenebre del vicolo laterale. «Lei resti qui» bisbigliò. «Io vado dall'altra parte e mi assicuro che non si sia fatto raggiungere da altri dieci.» «Sì, sarà meglio!» Döring estrasse la pistola. «Conosco la strada ora e ho una pila tascabile; non ci metterò molto. Non si muova di qui.» «Attento che non la vedano!» Già lontano, Reichmeider bisbigliò: «Non si preoccupi». Nella luce debole apparve il passaggio, coperto d'assi e circondato da uno steccato di porte. La figura alta e sottile di Reichmeider vi si infilò e svoltò verso il muro interno, ed ecco scomparve, lasciandosi alle spalle le tenebre. Teso ed eccitato, e avvertendo il bisogno di pisciare, Döring stringeva in pugno la Mauser, splendidamente pesante, portata per tanti anni e ora sul punto di essere usata. L'accostò all'imbocco del passaggio e la ispezionò alla fievole luce che proveniva dalla Lindenstrasse; fece scorrere a mo' di carezza una mano lungo la canna liscia, cautamente abbassò la sicura in posizione di sparo. Tornò ad appoggiarsi al muro dove Reichmeider l'aveva sospinto. Un vero amico! Quello, sì, che era un uomo! L'avrebbe invitato a cena domani sera, al Kaiserhof, e gli avrebbe anche fatto un regalo, qualcosa d'oro. Gemelli da polso, magari. Ristette nel passaggio, che ora andava facendosi più visibile, con la grossa rivoltella in pugno; pensò al momento in cui avrebbe sparato le pallottole mortali nel corpo di Wilhelm Springer. E, sbrigate le formalità di polizia, al momento in cui sarebbe tornato a casa e l'avrebbe detto a Klara. Crepa, troia. Ci sarebbero stati perfino articoli nei giornali! "Amministratore in pen-
sione della Commissione Trasporti abbatte i suoi aggressori." Anche una sua fotografia. Interviste alla televisione forse? Aveva terribilmente bisogno di pisciare. La birra. Tornò a sollevare la sicura e rimise la pistola nella fondina. Giratosi verso il muro, fece scorrere la lampo dei calzoni e se lo tirò fuori; divaricò le gambe e lasciò andare. Che sollievo! «È lì, Döring?» chiamò sottovoce Reichmeider dall'alto. «Sì!» rispose, levando lo sguardo alle assi. «Che ci fa là sopra?» «È più facile procedere a questa altezza. Ci sono porcherie di tutti i generi lì in basso. Sono da lei tra un minuto. Resti lì. La luce si è spenta e non riuscirei a trovarla, se si sposta.» «Li ha visti?» Nessuna risposta. Continuò a pisciare, fissando una fessura tra le porte scrostate. Reichmeider sarebbe riuscito a scendere senza luce? E aveva visto Springer e l'altro, o doveva ancora scovarli? Presto, Reichmeider! Un picchiettio in alto; tornò a levare lo sguardo. Ghiaia o qualcosa del genere cadeva sulle assi. Che gli piombarono addosso seguite da un rombo; e meravigliandosi, avvertendo un dolore improvviso, morì quasi subito. L'ultima volta che aveva parlato a Heidelberg — nel 1970 — la sala era una splendida, antica cattedrale di quercia annerita, affollata persino oltre la sua capacità di mille posti a sedere. Questa volta era una valva d'ostrica color sabbia, nuova di zecca, per cinquecento persone, modernissima e ben progettata, e le ultime due file erano vuote. Parlare era molto più facile, naturalmente, come una chiacchierata in un grande soggiorno privato. Un vero contatto faccia a faccia con tutti quei ragazzini svegli. Eppure... Bene. Procedeva tutto senza intoppi, come era accaduto sempre fino ad allora. Il pubblico tedesco, quello composto di giovani, era sempre il migliore; interessati, intenti, preoccupati del passato. E lui stesso dava allora il meglio di sé. Gli facevano provare nuovamente sentimenti genuini, mentre il pubblico americano e inglese, meno coinvolto, gli consentiva di scivolare in una meccanica ripetizione di righe imparate a memoria. La differenza, naturalmente, stava anche nel fatto di parlare in tedesco: nella libertà di impiegare parole naturali, anziché districarsi con tutte quelle forme verbali (e "abbattuto" ed "espulso"; ti fai mandare i ritagli per me, Sydney?). Si riportò di scatto all'argomento della conferenza. «Da principio deside-
ravo soltanto la vendetta» disse a una giovane donna della seconda fila che lo osservava intenta. «Vendetta per la morte dei miei genitori e delle mie sorelle, vendetta per gli anni che avevo passato nei campi di concentramento,» rivolgendosi alle file più lontane «vendetta per tutte le morti, per gli anni di ognuno. Perché ero stato risparmiato, se non per ottenere vendetta?» Attese. «Vienna non aveva certo bisogno di un altro compositore.» Si levò il consueto piccolo scoppio di risate di sollievo; sorrise anche lui e fissò la sua attenzione su un giovane bruno all'estrema destra (somigliava un po' a Barry Koehler). «Ma il guaio, con la vendetta,» gli disse, sforzandosi di non pensare a Barry «è che, primo, non si riesce a ottenerla sul serio» distolse lo sguardo dal giovane che somigliava a Barry, per rivolgerlo a tutto il pubblico «e, secondo, anche se ci si riuscisse, servirebbe poi a molto?» Scosse il capo. «No. Così, ora voglio qualcosa di meglio della vendetta, e qualcosa forse altrettanto difficile da ottenere.» Lo disse alla giovane donna della seconda fila: «Voglio il ricordo». Lo disse a tutti: «Il ricordo. È difficile ottenerlo, perché la vita continua; ogni anno ci sono nuovi orrori: un Vietnam, attività terroristiche nel Medio Oriente e in Irlanda, assassinii» (novantaquattro uomini di sessantacinque anni?) «e ogni anno» si fece forza «l'orrore degli orrori, l'Olocausto, si allontana sempre più, si fa un tantino meno orribile. Ma i filosofi ci hanno ammoniti: se dimentichiamo il passato, siamo condannati a ripeterlo. Ed è per questo che è importante catturare un Eichmann e un Mengele; in modo che possano...» udì ciò che aveva detto, si confuse. «Uno Stangl, voglio dire» farfugliò. «Scusatemi, indulgevo in un'idea che è solo un pio desiderio». Ridacchiarono, ma non andava bene, la costruzione si era incrinata; tentò di rimetterla in piedi. «Ed è per questo che è importante catturare un Eichmann e uno Stangl» disse. «In modo che possano essere trascinati davanti a un tribunale, non necessariamente per essere condannati, no, ma perché possano essere rese testimonianze, per rammentare al mondo, e soprattutto rammentare a voi, che non eravate ancora nati quando queste cose accaddero, che uomini non diversi da voi e da me esteriormente possono, in determinate circostanze, commettere le più barbare e inumane atrocità. Affinché tu,» additò «e tu... e tu... e tu... badiate a far sì che non possano più ricrearsi circostanze del genere.» Fine. Chinò il capo; applausi salirono verso di lui ed egli si ritrasse di un passo dal leggio, senza perdere del tutto il contatto, con una mano che ne sfiorava un angolo arrotondato. Attese, ansimando, poi fece un passo avanti, afferrò il leggio con ambo le mani e affrontò l'applauso che si smorzò
quasi in un silenzio, punteggiato qua e là da isolati mormorii. «Grazie» disse. «Ora, se avete delle domande, farò del mio meglio per rispondere.» Si guardò attorno, fece la sua scelta e additò. Traunsteiner, chino sopra il volante stretto saldamente in pugno, piombò con l'auto lanciata a tutta velocità alle spalle di un uomo dai capelli grigi che camminava sul ciglio della strada. Ingigantendosi nel raggio esplosivo dei fari che si avvicinavano, l'uomo si voltò, levò una rivista ripiegata sopra gli occhi, fece un passo indietro. Il parafango dell'auto lo scaraventò lontano. Trattenendo a stento un sorriso, Traunsteiner riportò l'auto sulla carreggiata, evitando a malapena un cartello segnaletico bianco e azzurro che indicava un incrocio. Frenando, e poi frenando ancora, svoltò stridendo a sinistra in una strada più larga che recava l'indicazione: "Esbjerg-14 km". «Soprattutto grazie ai contributi» disse Liebermann «di ebrei e altre persone interessate di ogni parte del mondo. E anche con le entrate che mi assicurano gli articoli che scrivo e gli impegni come questo.» Indicò una mano alzata nell'ultima fila. Una giovane donna dal volto roseo e grassoccio si levò in piedi; e incominciò — egli lo comprese subito — a sollevare il problema Frieda Maloney. «Riesco a capire» disse la giovane donna «che è importante sottoporre a giudizio personaggi-chiave, quelli che detenevano alte cariche. Ma non è forse spirito di vendetta in un caso come quello di Frieda Maloney, una semplice guardiana che si vede trascinata qui dopo essere diventata cittadina americana da tanti anni? Qualunque cosa abbia fatto durante la guerra, non l'ha forse compensato con quello che ha fatto in seguito? Laggiù è stata una cittadina modello. Ha insegnato ecc.» La giovane donna sedette. Lui annuì e rimase in silenzio per un attimo, lisciandosi i baffi pensieroso, come se quella domanda non gli fosse mai stata posta prima. Poi disse: «Deduco dalla sua domanda che lei si rende conto che una donna la quale è stata un'insegnante di scuola materna, e una benefattrice che ha sistemato bambini abbandonati, e una buona massaia, gentile con i cani randagi, può anche essere stata, proprio la stessa donna! una "guardiana" di campo di concentramento, colpevole forse — ce lo dirà il processo, quando finalmente avrà luogo — di sterminio. Ora io le domando: se ne renderebbe conto, di questa possibilità in un certo senso sorprendente, se Frieda Altschul Maloney non fosse stata scovata ed estradata? Non lo penso e non
credo che sia di scarsa importanza il fatto che lei ora se ne renda conto. Né lo crede il suo governo». Si guardò attorno, guardò le mani che si levavano, compresa quella del giovane che assomigliava a Barry. Distolse lo sguardo da lui (non ora, Barry, ho da fare) e indicò un giovanotto biondo dall'aria furbetta, proprio al centro della sala. («Sono novantaquattro,» insisteva la voce di Barry al telefono «e sono tutti funzionari statali di sessantacinque anni. Che gliene pare, non è una bomba?») Gli veniva rivolta una nuova domanda. «Ma Frieda Maloney non è stata ancora incriminata» stava dicendo il giovane biondo. «Il nostro governo è davvero tanto interessato a perseguire i criminali nazisti? Lo è un qualsiasi governo oggigiorno, persino quello israeliano? Non si è forse determinato un calo di interesse, e non è questa una delle ragioni per cui lei non è stato in grado di riaprire il suo Centro di Informazione?» Ecco, chi ti dice di scegliere quelli con l'aria furbetta? «Per prima cosa,» disse «il Centro ha temporaneamente una sede più piccola, ma è tutt'ora aperto. C'è gente che lavora; arrivano lettere, partono consultivi; come ho detto prima, siamo finanziati da privati e in nessun modo dipendenti da un qualsiasi governo. In secondo luogo, anche se è vero che la magistratura tedesca e austriaca non è più così... sensibile come un tempo, e Israele deve affrontare altri problemi più urgenti, là causa della giustizia non è stata ancora abbandonata. So da fonte competente che Frieda Maloney sarà incriminata quanto prima, in gennaio o febbraio, e subito dopo portata in giudizio. Sono stati trovati testimoni, un compito difficile e lungo in cui il Centro ha avuto una parte di primo piano.» Tornò a guardare le mani alzate, le giovani facce sveglie — e a un tratto si rese conto che cosa esattamente guardava. Una miniera d'oro, che Dio ci conservi! Proprio di fronte a lui! Lì, in quella luminosa valva d'ostrica, c'erano quasi cinquecento tra i giovani più intelligenti di Germania, il fior fiore della loro generazione, e lui si sforzava di risolvere il problema da solo, un unico vecchio pazzo con un unico cervello stanco. Buon Dio! Chiedere proprio a loro? Follia! Doveva aver puntato il dito verso qualcuno; era stata posta la domanda del neo-nazismo. «Due fattori sono necessari per una rinascita del nazismo» recitò in fretta: «un peggioramento delle condizioni sociali tale da avvicinarle a quelle dei primi anni trenta e l'ascesa di un capo sul tipo di Hitler. Se entrambi questi fattori dovessero realizzarsi, i gruppi neo-nazisti
di ogni parte del mondo diventerebbero, naturalmente, un focolaio di pericolo, ma per il momento, no, non sono particolarmente allarmato.» Altre mani si levarono di scatto, ma lui alzò la sua per fermarle. «Un minuto solo, prego» disse. «Vorrei interrompere le domande per un momento, e farvene una io, anziché rispondere.» Le mani si riabbassarono. Le giovani facce sveglie lo guardarono ansiose. Follia! Ma come avrebbe potuto non tentare di utilizzare un simile potenziale intellettuale? Strinse il leggio con ambo le mani, respirò, pensò. «Desidero» disse alla valva d'ostrica colma di tali eccellenti perle «prendere in prestito i vostri cervelli per risolvere un problema. Un problema ipotetico, badate, postomi da un giovane amico. Sono molto ansioso di risolverlo, al punto che sono disposto a barare un po' e a farmi aiutare.» Risolini. «E chi mai potrebbe aiutarmi meglio degli studenti di questa grande università e dei loro amici?» Lasciò andare il leggio e rimase eretto, fissandoli con noncuranza: come chi ponga un problema ipotetico, non reale. «Vi ho parlato dell'Organizzazione dei Camerati in Sudamerica» disse «e del dottor Mengele. E qui sta il problema che mi è stato posto dal mio amico. L'Organizzazione e il dottor Mengele decidono che vogliono uccidere un gran numero di uomini in diversi paesi europei e nel Nordamerica. Novantaquattro uomini, per essere esatti, e tutti sono impiegati statali di sessantacinque anni. Gli omicidi devono aver luogo in un lasso di tempo di due anni e mezzo, ed esiste per loro una motivazione politica, una motivazione nazista. Qual è? Sapete trovare una risposta? Chi sono gli uomini? Perché la loro morte è auspicabile per l'Organizzazione dei Camerati e il dottor Mengele?» Il pubblico sedeva incerto. Si cominciò ad avvertire un mormorio sempre più intenso. Un colpo di tosse; un altro. Lui strinse il leggio — con noncuranza. «Non vi sto prendendo in giro» disse. «Questo problema è stato posto a me. Come esercizio di logica. Potete aiutarmi?» I giovani si chinarono l'uno verso l'altro, e il brusio si accentuò, divenne il ronzio delle idee messe alla prova. «Novantaquattro uomini» disse lentamente, come per guidarli. «Di sessantacinque anni. Statali. In vari paesi. Due anni e mezzo.» Si levò una mano, poi un'altra.
Speranzoso, fece cenno al primo, in una delle prime file sulla sinistra. «Sì?» Si alzò un giovanotto con un maglione blu. «Gli uomini ricoprono incarichi di grande responsabilità» disse con una voce inaspettatamente acuta. «La loro morte determinerà, direttamente o indirettamente, quel peggioramento delle condizioni sociali cui ha fatto cenno poco fa, creando un clima più adatto a una rinascita del nazismo.» Lui scosse il capo. «No, non credo» disse. «Come potrebbe l'uccisione di uomini in alto loco continuare per mesi, per non parlare di due anni e mezzo, senza attirare l'attenzione e provocare indagini? No, gli uomini devono essere funzionari statali di basso grado. E a sessantacinque anni è più che probabile che siano comunque in pensione, per cui il fatto di allontanarli dai loro incarichi non può essere lo scopo della loro uccisione.» «Perché ucciderli, del resto?» gridò una voce dal fondo a destra. «Moriranno presto di morte naturale!» Annuì. «Giusto» disse. «Moriranno presto di morte naturale. E allora perché ucciderli? È proprio quello che vi chiedo.» Indicò la seconda mano che si era levata, in fondo, al centro; ora altre mani erano alzate. Si alzò un giovanotto alto e disse: «Sono simpatizzanti nazisti senza famiglia, che hanno lasciato i loro risparmi a gruppi nazisti. Si tratta di un omicidio a scopo di lucro. Vi sono motivi particolari per cui hanno bisogno di fondi ora, anziché fra cinque o dieci anni». «È possibile,» disse «benché mi sembri improbabile. Come ho accennato in precedenza, l'Organizzazione dei Camerati possiede enormi ricchezze che ha trafugato dall'Europa prima della fine della guerra.» Si sfilò la penna dal taschino della giacca e fece scattare il cappuccio. «Tuttavia, è una possibilità.» Girò uno dei fogli con gli appunti posati sul leggio, e scrisse sul retro: "Denaro?". Sollevò la penna e indicò verso destra. Si alzò una giovane donna con gli occhiali e lunghi capelli bruni. «A me sembra molto più probabile» disse la ragazza «che gli uomini siano antinazisti, piuttosto che filonazisti, e ovviamente esiste tra loro un legame di qualche genere. Non potrebbero essere membri di un gruppo internazionale ebraico che in qualche modo minaccia l'Organizzazione dei Camerati?» «Credo che conoscerei l'esistenza di un gruppo del genere,» ribatté Liebermann «e non ho mai sentito parlare di un qualsiasi gruppo di qualsiasi genere, i cui membri abbiano tutti sessantacinque anni.» La giovane donna rimase in piedi. «Forse ciò che importa non è che abbiano sessantacinque anni ora» disse. «Il... legame potrebbe essere stato
stabilito quando erano più giovani, quando avevano tutti... trenta o vent'anni. Forse si sono trovati tutti coinvolti in una certa azione militare durante la guerra, e la loro uccisione è un gesto di vendetta.» «Alcuni sono tedeschi» disse lui «e alcuni sono inglesi, americani, e alcuni svedesi, che erano neutrali. Ma...» «Una pattuglia delle Nazioni Unite!» gridò qualcuno. «Sarebbero stati troppo vecchi» rispose lui, e tornò a guardare verso la giovane donna dai capelli lunghi, che si era seduta. «Ma è un'osservazione interessante,» disse «quella a proposito della scarsa importanza da attribuirsi alla loro età attuale, perché evidentemente hanno avuto tutti la stessa età per tutta la loro vita: e questo apre la porta ad altre possibilità. Grazie.» Scrisse: "Legame in età precedente?" — e qualcuno volle sapere: «Sono originari di quei paesi o soltanto ci abitano?». Lui alzò lo sguardo. «Altra osservazione interessante. Non lo so. Forse in origine erano tutti di una stessa nazionalità.» "Nati dove?" scrisse. «Così va bene, continuate!» Fece un cenno. Un giovanotto seduto a gambe incrociate in prima fila disse: «Sono persone che aiutano lei, i suoi più validi sostenitori». «Lei mi lusinga. Non sono così importante e poi non ho novantaquattro sostenitori principali. Di qualsiasi età.» Indicò altrove. Il giovane che assomigliava a Barry: «Quando deve avere inizio il periodo di due anni e mezzo, signore?». «Due giorni fa.» «Allora si conclude nella primavera del 1977. C'è qualche importante avvenimento politico in programma per quella data? Forse le uccisioni saranno annunciate quale prova di forza, o come monito.» «Ma perché proprio quegli uomini? Comunque, anche questa è un'osservazione interessante. C'è qualcuno che sappia di un importante avvenimento, politico o altro, in programma per la primavera del 1977?» Si guardò attorno. Silenzio, e teste che accennavano di no. «La mia laurea!» gridò qualcuno. Risa e applausi. "Primavera 1977?" scrisse lui e, sorridendo, indicò qualcun altro. Di nuovo il giovanotto col maglione blu e la voce acuta: «Gli uomini non ricoprono alte cariche, ma i loro figli, sulla quarantina, sì. E gli uomini devono essere uccisi in modo che i loro figli siano costretti a trascurare un lavoro importante per occuparsi dei loro funerali». Derisione. Urla e fischi di scherno.
«È un po' tirato per i capelli; tuttavia contiene il germe di qualcosa su cui pensare. Gli uomini in questione sono imparentati con persone importanti, o in qualche modo connessi con loro?» Scrisse: "Parentele? Amicizie?". E indicò nuovamente. Si alzò il giovane biondo dall'aria furbetta. Sorridendo, disse: «Herr Liebermann, si tratta davvero soltanto di un problema ipotetico?». Non fare mai più cenno a quel ragazzo. Nella sala si diffuse il silenzio. «Naturalmente» disse lui. «Allora deve chiedere al suo amico di fornirle qualche altra informazione» disse il giovane dall'aria furbetta. «Neppure i cervelloni di Heidelberg sono in grado di risolvere il suo problema senza almeno un dato di fatto più rilevante in merito ai novantaquattro uomini. Date le informazioni in nostro possesso, possiamo soltanto ipotizzare alla cieca.» «Ha ragione» disse lui. «Sono necessarie altre informazioni. Ma le ipotesi sono utili; suggeriscono possibilità.» Si guardò attorno. «C'è qualcuno che abbia altre illazioni da fare?» Una manò si levò in fondo alla sala, a sinistra; lui puntò il dito in quella direzione. Si levò in piedi un uomo anziano, i capelli bianchi e l'aria fragile: un membro del corpo insegnante o, forse, il nonno di uno studente. Appoggiandosi alla spalliera della sedia di fronte, disse con voce ferma e sprezzante: «Nessuno dei suggerimenti avanzati fin qui ha riconosciuto la presenza nel problema del dottor Mengele. Perché c'entra Mengele, se si tratta unicamente di assassinii politici di tipo convenzionale che l'Organizzazione dei Camerati potrebbe attuare senza di lui? Mengele c'entra, ovviamente, a causa della sua specializzazione medica, e perciò io suggerisco che vi sia un aspetto medico negli assassinii. Potrebbero, per esempio, costituire la sperimentazione segreta di un nuovo modo di uccidere, e di conseguenza, quegli uomini sarebbero stati scelti proprio perché sono vecchi, privi d'importanza, e non rappresentano una minaccia per il nazismo. Un programma di sperimentazione spiegherebbe altresì il lasso di tempo prolungato. Nella primavera del 1977 avrebbero inizio gli assassinii veri e propri». Si sedette. Liebermann se ne stette a guardarlo per un momento, poi disse: «Grazie, signore». Rivolto al pubblico aggiunse: «Spero per il vostro bene che questo signore sia uno dei vostri professori». «Lo è» gli assicurarono varie voci con rabbia, e venne pronunciato il nome Geirasch.
"PERCHÉ M.???" scrisse, e tornò a levare lo sguardo in direzione dell'uomo anziano. «Non credo che un programma di sperimentazione si limiterebbe agli impiegati statali,» disse «né credo che verrebbe attuato in questa parte del mondo anziché in Sudamerica, ma lei ha sicuramente ragione sul fatto che deve esistere un motivo specifico per la presenza del dottor Mengele. C'è qualcuno che riesce a vederne uno?» Si guardò attorno. I giovani sedevano in silenzio. «Un aspetto medico nei novantaquattro assassinii?» Guardò la giovane donna dai capelli lunghi; lei scosse il capo. Il giovanotto che somigliava a Barry scosse anche lui la testa, e lo stesso fece il giovane col maglione blu. Esitò, poi guardò il giovane biondo dall'aria furbetta, che gli sorrise e scosse il capo. Abbassò lo sguardo al foglio sul leggio: Denaro? Legame in età precedente? Nati dove? Primavera 1977? Parentele? Amicizie? PERCHÉ M.??? Fissò il pubblico. «Grazie» disse. «Non avete risolto il problema, ma mi avete fornito suggerimenti che potrebbero portare alla soluzione, per cui vi sono grato. Ora torniamo alle vostre domande.» Mani si levarono. Ne additò una. Si alzò una giovane donna seduta accanto al giovanotto che somigliava a Barry e disse: «Herr Liebermann, qual è il suo parere su Moshe Gorin e i Difensori Ebrei?». «Non conosco Rabbi Gorin, per cui non ho un'opinione di lui, dal punto di vista personale» disse automaticamente. «Quanto ai suoi Giovani Difensori Ebrei: se difendono, bene. Ma se, come a volte viene annunciato, attaccano, allora non tanto bene. Le camicie scure non vanno mai bene, indipendentemente da chi le porta.» E Horst Hessen dai capelli argentei, sudando sotto il sole acceso, si portò un grosso cannocchiale agli occhi azzurri e osservò un uomo a torso nudo con in testa un cappello di paglia bianca che manovrava lentamente una tosatrice elettrica su un prato di un verde brillante. In cima a un'asta sventolava una bandiera americana! la casa sullo sfondo era una bella scatola di
vetro e legno a un piano. Una nuvola nera orlata d'arancione rimpiazzò l'uomo e la tosatrice, e da lontano giunse attutito il fragore di uno scoppio. III Mengele aveva spostato il ritratto del Führer e tutti gli altri cimeli e le fotografie più piccole sulla parete ovest, sopra il divano, costringendosi di conseguenza a spostare i suoi diplomi di laurea e d'onore e le foto di famiglia in tutti gli spazi che era riuscito a trovare sulla parete sud, tra le due finestre che davano all'esterno, e sulla parete est, tutt'attorno allo spioncino del laboratorio e alla porta. Dopodiché, aveva fissato alla parete nord completamente sgombra, a circa novanta centimetri d'altezza, una mensola di legno larga sette o otto centimetri, al di sopra della quale era stata strappata la carta da parati grigio pallido. Sul muro erano state stese due mani di pittura bianca, la prima opaca e la seconda semilucida. La mensola era stata verniciata di grigio chiaro. Quando la vernice si era asciugata Mengele aveva fatto venire in volo da Rio un pittore d'insegne. Il pittore d'insegne tracciò tante linee nere sottili, perfettamente diritte, e tante lettere eleganti, ma nel primo tentativo di scrivere i nomi a matita mostrò la tendenza a ricopiare in modo erroneo e/o a collocare fuori posto i segni diacritici con cui non aveva familiarità, e a seguire l'andazzo brasiliano in fatto di ortografia. Di conseguenza, per quattro giorni Mengele se n'era stato seduto dietro la scrivania a osservare, impartire istruzioni, ammonire. Aveva finito col detestare il pittore d'insegne, e il secondo giorno giunse a rallegrarsi all'idea che quello stupido sarebbe stato gettato dall'aereo. Quando il lavoro fu terminato e il lungo tavolo con le pile ordinate di riviste sistemato contro il muro, Mengele poté appoggiarsi allo schienale della sua poltrona di pelle e acciaio ad ammirare il grafico che aveva ideato. I novantaquattro nomi, ciascuno accompagnato dall'indicazione della nazione, dalla data e da una casella quadrata, come in un pannello elettorale, erano disposti su tre colonne, quella di centro, di necessità, più lunga di un nome delle due esterne (un piccolo fastidio, ma ormai che si poteva fare?). C'erano tutti, dall'"l. Döring - Deutschland - 16.10.74 □" al "94. Ahearn - Kanada - 23.4.77 □". Non vedeva l'ora di riempire a una a una quelle caselle! Lo avrebbe fatto lui, naturalmente, con vernice rossa o nera, non aveva ancora deciso. Magari avrebbe tentato di tracciare una crocetta e se le prime non gli riuscivano in maniera uniforme, soltanto allora avrebbe
riempito le caselle. Si girò nella poltrona e sorrise al Führer. "Non le importa di essere spostato lateralmente per questo, vero, mio Führer? Certo che no; come potrebbe?" Poi, ahimè, non c'era stato altro da fare che attendere, fino al primo di novembre, quando sarebbero giunte le telefonate al quartier generale. Si era dato da fare nel laboratorio, dove stava tentando, con scarso entusiasmo, di trapiantare cromosomi in nuclei di cellule di rane. Un giorno si recò in volo ad Asunción; fece un salto dal suo barbiere e da una prostituta, acquistò un orologio, mangiò una buona bistecca a La Calandria in compagnia di Franz Schiff. E ora, finalmente, il giorno era venuto — una bella giornata, con un sole così accecante che aveva tirato le tende dello studio. La radio era accesa e sintonizzata sulla frequenza del quartier generale, con gli auricolari posati accanto a un taccuino e a una penna. Su un angolo del ripiano di vetro della scrivania era steso un tovagliolo bianco, sul quale, chirurgicamente allineati, si trovavano una lattina chiusa di smalto rosso, un cacciavite, un pennello nuovo, sottile, a setole corte, una bacinella, e una latta di trementina. Il lato sinistro del lungo tavolo era stato scostato dalla parete; una scaletta a pioli attendeva davanti alla prima colonna di nomi e paesi. Aveva deciso di tentare le crocette. Poco prima di mezzogiorno, quando già cominciava a spazientirsi, giunse con crescente fragore, attraverso le tende, il rombo di un aereo. Il rombo dell'aereo del quartier generale, il che significava notizie ottime o pessime. Uscì di corsa dallo studio, attraversò il vestibolo e si precipitò sotto il portico, dove alcuni bambini dei domestici sedevano intenti a spezzare una specie di focaccia piatta. Li scavalcò e aggirò il lato della casa portandosi sul retro e scendendo i pochi gradini. L'aereo stava proprio in quel momento planando dietro le cime degli alberi. Riparandosi gli occhi con la mano, attraversò a precipizio il cortile — un domestico si staccò dal muro, si mise a zappettare — e oltrepassò le case dei domestici, le rimesse e il capanno del generatore. Imboccò quasi di corsa il sentiero verdeggiante che s'inoltrava tra la densa vegetazione della giungla. Udì l'aereo atterrare. Rallentò, s'infilò la camicia nei calzoni, cavò di tasca il fazzoletto e si asciugò la fronte e le guance. Perché l'aereo, perché non la radio? Qualcosa era andato di traverso; ne era certo. Liebermann? Che quella merda fosse riuscito in qualche modo a bloccare ogni cosa? Se era così, si sarebbe recato personalmente a Vienna a scovarlo e ucciderlo. Che altra ragione gli restava
per vivere? Sbucò sul ciglio della pista erbosa in tempo per vedere il bimotore rosso e bianco rullare lentamente verso il suo aereo, più piccolo, nero e argento. Due delle guardie vi oziavano in compagnia del pilota, che lo salutò con un cenno della mano. Mengele fece segno col capo. Un'altra guardia si trovava sul lato opposto della pista presso la rete di recinzione, intento a farvi passare attraverso qualcosa, nel tentativo di adescare un animale. Contro il regolamento, ma Mengele non glielo fece notare; osservò il portello dell'aereo bianco e rosso, fermo ora, le eliche che stavano arrestandosi. Pregò in silenzio. Il portello si spalancò, e una delle guardie accorse per aiutare un uomo alto, in completo azzurro chiaro, a scendere la scaletta. Il colonnello Seibert! Doveva davvero trattarsi di brutte notizie. Si avviò lentamente. Il colonnello lo vide, agitò una mano — allegramente — e gli venne incontro. Reggeva una sporta rossa. Mengele accelerò il passo. «Notizie?» gridò. Il colonnello annuì, sorridendo: «Sì, buone notizie!». Grazie a Dio! Si affrettò. «Ero preoccupato!» Si strinsero la mano. Il colonnello, bello con la sua forte faccia nordica e i capelli di un biondo quasi bianco, sorrise e disse: «Tutti i "venditori" hanno fatto rapporto. I "clienti" di ottobre sono stati tutti visitati; quattro alla data esatta, due un giorno prima e uno un giorno dopo». Mengele si portò una mano al petto e respirò. «Dio sia lodato! Ero preoccupato, l'arrivo dell'aereo.» «Avevo voglia di fare un giro in aereo» disse il colonnello. «È una così bella giornata.» Si avviarono assieme verso il sentiero. «Tutti e sette?» «Tutti e sette. Senza il minimo intoppo.» Il colonnello gli tese la borsa. «Questa è per lei. Un pacco misterioso da parte di Ostreicher.» «Oh» fece Mengele, prendendola. «Grazie. Niente di misterioso. Gli ho chiesto di procurarmi qualche metro di seta; una delle cameriere mi confezionerà qualche camicia. Si ferma a pranzo?» «Non posso» disse il colonnello. «Alle tre devo presenziare a una prova del matrimonio di mia nipote. Lo sapeva che sposa il nipote di Ernst Roebling? Domani. Però berrò una tazza di caffè e faremo quattro chiacchiere.»
«Aspetti di vedere il mio grafico.» «Grafico?» «Vedrà.» Il colonnello vide e ne fu entusiasta. «Bellissimo! Una vera e propria opera d'arte! Non l'ha mica fatto lei, no?» Posando la borsa accanto alla scrivania, Mengele disse felice: «Dio mio, no, non sono neppure sicuro di saper tracciare le crocette in modo decente! Ho fatto venire in volo un tale da Rio». Il colonnello si voltò a fissarlo, sorpreso e indagatore. «Non si preoccupi,» disse Mengele, levando una mano a rassicurarlo «ha avuto un incidente sulla via del ritorno,» «Grave, spero» disse il colonnello. «Gravissimo.» Venne portato il caffè. Il colonnello esaminò alcune delle fotografie del Führer, e poi sedettero sul divano e sorseggiarono il nero caffè fumante da tazzine bianche e oro. «Si sono tutti sistemati in appartamenti,» disse il colonnello «a eccezione di Hessen, che ha comprato una roulotte. Gli ho detto di telefonare una volta alla settimana, nel caso succeda qualcosa. Ha intenzione di usarla finché non arriverà la brutta stagione.» Disse Mengele: «Ho bisogno di sapere le date in cui gli uomini sono stati uccisi. Per la mia documentazione». «Certo.» Il colonnello posò sul tavolino tazza e piattino. «Ho tutto qui, dattiloscritto.» Infilò una mano all'interno della giacca. Mengele posò tazza e piattino e prese la velina ripiegata che gli tendeva il colonnello. Lo spiegò, lo tenne a una certa distanza, strizzando gli occhi ai caratteri dattiloscritti. Sorridendo, scosse il capo. «Quattro su sette alle date esatte!» disse con ammirazione. «Non è splendido?» «Sono uomini validi» disse il colonnello. «Schwimmer e Mundt hanno già tutto predisposto per i prossimi. Farnbach ha avuto bisogno di una strigliatina; fa un po' troppe domande.» «Lo so» annuì Mengele. «Mi ha dato qualche fastidio quando li ho arringati.» «Non credo che ce ne darà altri. L'ho strigliato a dovere.» «Meglio così.» Mengele ripiegò il foglio che frusciava piacevolmente e lo posò sull'angolo del tavolino, perfettamente allineato ai bordi. Fissò il grafico e immaginò le sette crocette rosse che avrebbe dipinto quando il colonnello se ne fosse andato. Sollevò la tazzina, sperando di dare l'esempio.
«Ieri mattina mi ha telefonato il colonnello Rudel» disse il colonnello. «È sulla Costa Brava.» «Oh!» Mengele si rese conto all'improvviso che il piacere di volare non era la ragione della venuta del colonnello. Qual era dunque? «Come sta?» domandò, e bevve un sorso di caffè. «Benissimo. Ma è preoccupato. Ha ricevuto una lettera da Günter Wenzler in cui lo si avverte che Yakov Liebermann potrebbe essere al corrente di una nostra operazione. Liebermann ha parlato a Heidelberg due settimane fa. Ha posto al pubblico un "problema ipotetico" molto insolito. Un amico di Wenzler, la cui figlia era presente, gli ha detto di passare parola, tanto per precauzione.» «Che cosa ha chiesto esattamente Liebermann?» Il colonnello fissò Mengele per un attimo, poi disse: «Perché mai noi, lei e noi, vorremmo uccidere novantaquattro impiegati statali di sessantacinque anni. Un "problema ipotetico"». Mengele si strinse nelle spalle: «Dunque non sa. Sono sicuro che nessuno ha fornito la risposta esatta». «Ne è sicuro anche Rudel,» disse il colonnello «ma vorrebbe sapere come mai Liebermann se n'è uscito con la domanda esatta. Sembra che la cosa non la sorprenda molto, dottore.» Mengele bevve un sorso di caffè e parlò in tono noncurante. «L'americano non stava ascoltando il nastro quando l'abbiamo beccato. Parlava con Liebermann.» Posò la tazzina e sorrise al colonnello. «Come certo lei avrà scoperto alla compagnia dei telefoni ieri pomeriggio.» Il colonnello sospirò e si protese verso Mengele: «Perché non ce l'ha detto?». «Francamente,» disse Mengele «temevo che avreste voluto rimandare, nel timore che Liebermann avviasse un'indagine.» «Aveva ragione, sarebbe stato esattamente quel che avremmo voluto fare. Tre o quattro mesi... sarebbe poi stato così grave?» «Avrebbe potuto cambiare completamente i risultati. Mi creda, è così, colonnello. Domandi a qualsiasi psicologo,» «Allora avremmo potuto scartare quegli uomini e dedicarci agli altri, secondo i programmi prestabiliti!» «Riducendo le possibilità di successo del venti per cento? Si tratta di diciotto uomini nei primi quattro mesi.» «E non crede di aver ridotto maggiormente le possibilità di successo in questo modo?» insistette il colonnello. «Liebermann parla soltanto con gli
studenti? Gli uomini, i nostri uomini, potrebbero essere arrestati anche domani! E le possibilità di successo ridotte del novantacinque, e non del venti, per cento!» «Colonnello, la prego» cercò di calmarlo Mengele. «Sempre che, naturalmente, ci siano davvero possibilità di successo. Finora abbiamo soltanto la sua parola, lo sa bene!» Mengele sedette in silenzio, respirando a fondo. Il colonnello sollevò la tazzina, la fulminò con lo sguardo, tornò a posarla. Mengele trasse un respiro profondo. «L'operazione avrà esattamente l'esito che ho promesso. Colonnello, ci pensi un attimo. Liebermann si sarebbe dato la briga di interrogare un gruppo di studenti, se qualcun altro gli avesse dato retta? Gli uomini sono sul posto, no? Assolvono i loro incarichi? Certamente Liebermann avrà parlato con altre persone, magari con tutti i magistrati e i poliziotti d'Europa! Ma ovviamente l'hanno ignorato. Che altro dovrebbero fare? Un vecchio nazifobo come lui che viene a raccontargli una storia che deve sembrare pazzesca, se lui non è in grado di fornire la ragione che le sta dietro. Su questo ho contato quando ho preso la decisione.» «Non spettava a lei prendere una decisione» ribatté il colonnello. «Lei ha messo sei dei nostri uomini in un pericolo molto maggiore di quello che s'era deciso.» «E così facendo ho difeso i vostri larghissimi investimenti, per non parlare del destino della razza.» Mengele si alzò e andò alla scrivania, scelse una sigaretta tra quelle contenute in una ciotola di ottone. «Comunque, è inutile piangere sul latte versato» disse. Il colonnello bevve un sorso di caffè, lo sguardo fisso alla schiena di Mengele. Posò la tazza e disse: «Rudel voleva che richiamassi gli uomini oggi stesso». Mengele si girò, si tolse la sigaretta accesa dalle labbra. «Non ci credo» disse. Il colonnello annuì. «Lui prende molto sul serio le sue responsabilità di ufficiale.» «E le sue responsabilità di ariano?» «Vero, ma non è mai stato sicuro, come noi tutti, che il progetto funzionerà; lo sa, Josef. Buon Dio, la fatica che abbiamo dovuto fare per convincerlo!» Mengele rimase in silenzio, ostile, in attesa. «Gli ho detto suppergiù quel che lei ha appena detto a me» proseguì il
colonnello. «Se gli uomini fanno rapporto e ogni cosa è in ordine, allora vuol dire che Liebermann non è stato in grado di creare complicazioni, così perché non lasciarli dove sono? Alla fine ha accettato. Ma d'ora in poi Liebermann sarà tenuto d'occhio — se ne incarica Mundt — e se ci saranno segni che sta creando complicazioni, allora bisognerà prendere una decisione: o uccidere lui, e questo potrebbe soltanto complicare ulteriormente la situazione, o richiamare tutti gli uomini.» Disse Mengele: «Fatelo e manderete tutto a catafascio. Tutto quel che io ho ottenuto. Tutto il denaro che avete investito in uomini e mezzi e nelle varie sistemazioni. Come può pensare una cosa del genere? Spedirei altri sei uomini, se questi fossero presi. E poi altri sei. E ancora altri sei!». «D'accordo, Josef, d'accordo» fece il colonnello nel tentativo di placarlo. «E vorrei proprio che lei avesse voce in capitolo, qualora si dovesse davvero prendere una decisione. Una voce autorevole. Ma se ora Rudel viene a sapere che lei ha lasciato partire gli uomini, sapendo che Liebermann era sull'avviso... la escluderà di netto dall'operazione. Non riceverà neppure i rapporti mensili. Sicché, preferirei non dirglielo. Ma prima che possa farlo, devo avere da lei l'assicurazione che non... prenderà più decisioni unilaterali.» «Su cosa? Non ci sono più decisioni da prendere, fuorché lasciare gli uomini dove sono a compiere l'opera.» Il colonnello sorrise: «Non mi stupirei se saltasse su un aereo e andasse a dare personalmente la caccia a Liebermann». Mengele tirò una boccata dalla sigaretta. «Non sia ridicolo» disse. «Lo sa bene che non oserei andare in Europa.» Si voltò verso la scrivania e fece cadere la cenere in un posacenere. «Ho la sua assicurazione» domandò il colonnello «che non farà nulla che possa influire sull'operazione senza consultarsi con l'Organizzazione?» «Naturalmente» disse Mengele. «Nel modo più assoluto.» «Allora dirò a Rudel che è un mistero come Liebermann abbia avuto sentore della cosa.» Mengele scosse il capo incredulo. «Non posso credere» osservò «che quel vecchio sciocco — Rudel, voglio dire, non Liebermann — tirerebbe un frego su tanto denaro, e contemporaneamente sul destino della razza ariana, soltanto perché si preoccupa dell'incolumità di sei uomini qualsiasi.» «Il denaro rappresentava solo una minima frazione di quel che possediamo» disse il colonnello. «Ne abbiamo esagerato l'importanza perché lei contenesse la spesa. Quanto al destino della razza ariana, be', come ho det-
to, non ha mai creduto del tutto che il progetto funzionerà. Secondo me, gli puzza un po' di magia o stregoneria; non è certo un uomo dalla mentalità scientifica.» «Sareste pazzi a lasciare che abbia lui l'ultima parola.» «A questo penseremo quando sarà il momento. Se verrà mai quel momento. Speriamo che Liebermann la smetta di parlare, anche soltanto agli studenti, e lei riesca a riempire le novantaquattro caselle di questo bel grafico.» Si levò in piedi. «Mi accompagni all'aereo.» Fece un passo rigido da automa, e s'avviò lentamente, cantando: «Ecco giunge la sposa — passo! — Tutta vestita di bianco — passo! Che barba! Io sono per i matrimoni alla buona, e lei? Ma provi un po' a dirlo a una donna». Mengele lo accompagnò all'aereo, lo seguì con lo sguardo salutandolo fin quando l'aereo si levò in cielo, e tornò in casa. In sala lo aspettava il pranzo: mangiò e poi si lavò le mani nell'acquaio del laboratorio e andò nello studio. Agitò energicamente la lattina di smalto e si servì del cacciavite per perforarne il coperchio. Inforcò gli occhiali e, reggendo la latta di vernice rosso acceso e il pennellino nuovo, salì sulla scala. Tuffò le setole nello smalto, le asciugò sul bordo della lattina, bilanciò il peso del corpo tirando un profondo respiro, e accostò il pennello con la punta intrisa di rosso alla casella accanto a "Döring - Deutschland 16.10.74". Il segno gli riuscì proprio bene: d'un rosso brillante sul fondo bianco, senza sbavature e di linea elegante. Lo ritoccò un tantino e ne tracciò uno simile nella casella di "Horve Dänemark - 18.10.74". E poi «Guthrie - V.St.A. - 19.10.74". Scese dalla scaletta, indietreggiò e esaminò le tre caselle da sopra gli occhiali. Sì, potevano andare. Risalì sulla scala e tracciò le crocette nelle caselle di "Runsten - Schweden - 22.10.74" e "Rausenberger - Deutschland - 22.10.74" e "Lyman England - 24.10.74" e "Oste - Holland - 27.10.74". Ridiscese e diede un'altra occhiata. Benissimo. Sette crocette rosse. Ma non provava nessun piacere. Accidenti a Rudel! Accidenti a Seiberg! Accidenti a Liebermann! Accidenti a tutti!
Un vero pandemonio, ecco quello che trovò al suo ritorno. Glanzer, il padrone di casa, che sarebbe stato un perfetto antisemita non fosse stato per il fatto che era ebreo, urlava accuse a una tremante piccola Esther, mentre Max e una ragazza goffa che Liebermann non aveva mai visto prima spingevano la scrivania di Lili, sforzandosi di spostarla nell'angolo accanto all'uscio della camera da letto. Una sorta di concerto saliva da pentole e ciotole sistemate un po' dappertutto ad accogliere le gocce d'acqua che cadevano dalle macchie scure di umidità di cui era costellato il soffitto. Un oggetto di terraglia si fracassò in cucina — «Oh, maledizione!» (era Lili) — e il telefono squillò. «Ah!» esclamò Glanzer, voltandosi e puntando un dito. «Ecco che arriva la grande personalità mondiale, quello che se ne frega della proprietà dell'uomo medio. Non posi quella valigia, il pavimento non la reggerebbe!» «Benvenuto a casa» disse Max, tirando un'estremità della scrivania. Liebermann posò la valigia e la cartella. Si era aspettato, dato che era domenica mattina, di trovare l'appartamento silenzioso, deserto. «Che è successo?» domandò. «Che è successo?» Glanzer gli si avvicinò, strizzandosi tra due scrivanie, il viso a pera d'un rosso fuoco. «Glielo dico io, che è successo! Abbiamo avuto un'inondazione di sopra, ecco cos'è successo! Lei ha sovraccaricato il pavimento, ha messo sotto sforzo le tubature! E così sono saltate! Crede che possano sopportare il carico che c'è qui dentro?» «Sono saltate le tubature di sopra, e la colpa è mia?» «Tutto è collegato!» urlò Glanzer. «La tensione si trasmette! L'intera casa crollerà per il sovraccarico che c'è qui dentro!» «Yakov?» Esther gli porgeva il telefono, tenendo una mano sul microfono. «Un certo von Palmen, di Mannheim. Ha chiamato la settimana scorsa.» Un ciuffo di capelli grigi le sfuggiva di lato da sotto la parrucca di un bruno rossiccio. «Segnati il numero, lo richiamo io.» «Ho rotto la ciotola rosa» disse Lili, ritta con aria lugubre sulla soglia della cucina. «Quella preferita di Hannah.» «Fuori!» urlò Glanzer, torreggiando su Liebermann, soffiandogli in faccia il suo alito cattivo. «Fuori di qui tutte queste scrivanie! Questa è una casa d'appartamenti, non un palazzo per uffici! E anche gli schedari, fuori!» «Se ne vada lei!» urlò di rimando Liebermann con lo stesso tono di voce: il modo migliore per trattare con Glanzer, aveva scoperto. «Vada a si-
stemare le sue tubazioni marce! Questi sono i miei mobili, scrivanie e schedari! Forse che nel contratto sta scritto solo tavoli e sedie?» «Lo scoprirò in tribunale, quel che c'è scritto nel contratto!» «E lei scoprirà cosa le toccherà pagare per i danni prodotti dall'acqua! Fuori di qui!» Liebermann puntò un dito verso la porta. Glanzer ammiccò. Guardò il pavimento accanto a sé come se udisse qualcosa, guardò Liebermann con aria preoccupata, annuì. «Può scommetterci, che me ne vado» bisbigliò infine. «Prima che succeda.» Trascinò in punta di piedi il corpo massiccio verso la porta aperta. «La mia vita è più preziosa delle mie proprietà.» Uscì, sempre in punta di piedi, e si chiuse cautamente la porta alle spalle. Liebermann batté con furia un piede sul pavimento e gridò: «Batto il piede sul pavimento, Glanzer!». Da lontano si udì: «Caschi di sotto!». «Yakov, non farlo» disse Max, sfiorando il braccio di Liebermann. «Rischiamo davvero di finir di sotto.» Liebermann si girò. Si guardò attorno e poi levò lo sguardo ed emise un lamentoso: «Ohi, ohi, ohi» e si mordicchiò il labbro inferiore. Esther, tendendosi a passare uno straccio su uno schedario, disse: «L'abbiamo preso in tempo, non va poi tanto male. Grazie a Dio, questa mattina ho messo roba in forno. Ho portato una torta di noci. Quando ho visto quel che succedeva, ho chiamato Max e Lili. È soltanto qui dentro e in cucina, nelle altre stanze, no». Max presentò la ragazza sgraziata, che però aveva grandi occhi grigi, molto belli; era una nipote sua e di Lili, si chiamava Alix ed era venuta da Brighton, in Inghilterra, per passare con loro le vacanze. Liebermann le strinse la mano e la ringraziò per l'aiuto, poi si tolse la giacca e si mise anche lui al lavoro. Asciugarono scrivanie e mobili, sostituirono pentole e ciotole piene con altre vuote, tamponarono con scope avvolte in stracci le macchie umide sul soffitto. Poi, seduti alle scrivanie e sulla metà accessibile del divano, bevvero caffè e mangiarono la torta. Lo stillicidio si era ora ridotto a una mezza dozzina di lenti sgocciolii. Liebermann parlò del suo viaggio, dei vecchi amici che era andato a trovare, dei cambiamenti che aveva constatato. Alix, in un tedesco stentato, rispose alle domande di Esther circa il suo lavoro di disegnatrice tessile. «Un sacco di contributi, Yakov» riferì Max, annuendo solennemente con
la testa grigia. Lili disse: «Sempre dopo i Giorni Santi». «Ma quest'anno più dell'anno scorso, cara» disse Max e, rivolto a Liebermann: «La gente ha saputo della banca». Liebermann annuì e guardò Esther: «Non è arrivato niente per me dalla Reuter? Articoli? Ritagli?». «C'è una busta della Reuter, grossa. Ma c'è scritto: "Personale".» «Articoli?» domandò Max. «Ho parlato con Sydney Beynon prima di partire. In merito alla storia del giovane Koehler. Non avete avuto sue notizie, no?» Scossero il capo. Esther, levandosi in piedi con in mano il piatto sul quale aveva posato la tazzina, disse: «Non può essere vero, è troppo folle». Si accostò alla scrivania di Max. Lili si alzò, raccogliendo i piatti, ma Esther disse: «Lascia stare, pulisco io. Tu va a fare un giro con Alix». Liebermann ringraziò Max e Lili e Alix mentre s'infilavano i soprabiti. Diede un bacio a Lili, strinse la mano ad Alix e le augurò una lieta vacanza, batté sulla spalla di Max. Quando ebbe chiuso la porta dietro di loro, raccolse la valigia e la portò in camera da letto. Andò in bagno, prese le pillole di mezzogiorno, appese il vestito di ricambio nell'armadio e sostituì la giacca con un maglione e le scarpe con un paio di ciabatte. Con gli occhiali in mano tornò nel soggiorno, prese la cartella e passando tra le scrivanie si avviò alla porta-finestra che dava sulla sala da pranzo. Esther disse dalla soglia della cucina: «Resterò qui a tener d'occhio il gocciolio. Vuoi che ti chiami quel tale di Mannheim?». «Più tardi» disse Liebermann e andò in sala da pranzo, che ora era il suo ufficio. La scrivania era carica di riviste e pile di lettere aperte. Posò la cartella, accese la lampada, inforcò gli occhiali; prese un fascio di lettere e trovò la busta grigia della Reuter, con l'indirizzo scritto a mano, gonfia e voluminosa. Tanti? Sedutosi, spazzò tutto ciò che gli era d'ingombro, spinse mucchi di corrispondenza verso i lati e il fondo della scrivania. La fotografia di Hannah si rovesciò; alcune riviste caddero a terra. Slegò lo spago che avvolgeva la busta e strappò il lembo incollato. Inclinando la busta la scosse, ne tirò fuori una massa di ritagli di giornale e di frammenti di messaggi per telescrivente. Venti, trenta, di più, alcune e-
rano fotocopie, ma, nella maggior parte dei casi, brani a stampa ritagliati affrettatamente con le forbici. Mann getötet in Autounfall; Priest Slain by Robbers; Eldsvåda dödar man, 64. Etichette azzurre e gialle con le date e i nomi dei giornali erano incollate su alcuni ritagli. Nel complesso, una quarantina di esemplari. Guardò nella busta e vi trovò altri due piccoli ritagli e un foglio di carta bianco che era stato avvolto attorno al malloppo. "Tienimi aggiornato" c'era scritto in una minuscola grafia chiara, al centro. "S.B." La data era: "30 ottobre". Lo mise da parte assieme alla busta e, sciorinando i ritagli e i messaggi per telescrivente, li sparpagliò per averne una visuale migliore: un mosaico stratificato di francese, tedesco, inglese — e svedese, olandese, altre lingue ancora, indecifrabili a eccezione di una parola qua e là. Död voleva sicuramente dire "morto". «Esther!» chiamò. «Sì?» «I dizionari per tradurre, svedese e olandese. E danese e norvegese.» Prese un ritaglio tedesco: un'esplosione in uno stabilimento chimico di Solingen aveva ucciso un guardiano notturno, August Mohr, di sessantacinque anni. No. Lo mise da parte. Poi lo riprese. Non avrebbe potuto uno statale, di grado inferiore, fare di notte un secondo lavoro? Improbabile per un uomo di sessantacinque anni, ma possibile. L'esplosione aveva avuto luogo all'una del mattino del giorno precedente la pubblicazione dell'articolo, vale a dire il 20 ottobre. Si accese la lampada centrale e Esther, attraversando la stanza, disse: «Devono essere qui dentro». Andò al tavolo da pranzo accostato alla parete e lesse ciò che era scritto sul fianco degli schedari che vi si trovavano. «Non abbiamo un dizionario danese» disse. «Max usa quello norvegese.» Liebermann estrasse dal cassetto un taccuino. «Sarà meglio che mi dia anche quello francese.» «Prima lascia che lo trovi.» Tese la mano alla penna che spuntava tra la corrispondenza. Dando un'altra occhiata al ritaglio, scrisse sul grosso taccuino giallo, dopo aver tracciato uno scarabocchio in cima al foglio per provare la penna: "20; Mohr, August; Solingen" e vi aggiunse un punto interrogativo. «Dizionari» annunciò Esther e sollevò il coperchio di una scatola. «Norvegese, svedese, francese?» «E olandese, per favore.» Posò il ritaglio a sinistra, dove avrebbe collocato i casi possibili. Cercò quello in inglese riguardante il sacerdote, lo
trovò, lo scorse e lo posò a destra. Si avvicinò Esther, reggendo a malapena quattro grossi volumi rilegati in blu. Liebermann spostò la corrispondenza sulla scrivania per far posto ai dizionari. «Era tutto in ordine» si lagnò Esther, posandoli. «Rimetterò in ordine io. Grazie.» Si sistemò le ciocche di capelli che le sfuggivano di sotto la parrucca. «Avresti dovuto trattenere Max, se volevi delle traduzioni.» «Non ci ho pensato.» «Devo cercare di rintracciarlo?» Lui scosse il capo, prese un altro ritaglio inglese: "Litigio si conclude con una coltellata mortale". Esther, osservando con aria turbata quel mare di ritagli, disse: «Tanti uomini assassinati?». «Non tutti» ribatté lui posando il ritaglio alla sua destra. «In alcuni casi si tratta di incidenti.» «Come farai a sapere quali sono quelli ammazzati dai nazisti?» «Non lo so proprio. Dovrò cercare.» Prese un ritaglio tedesco. «Cercare?» «E vedere se riesco a trovare un motivo.» Lo fissò accigliata: «Tutto perché un ragazzo telefona e scompare?». «Arrivederci, Esther cara.» Lei si allontanò dalla scrivania: «Io scriverei articoli e guadagnerei un po' di soldi». «Scrivili, te li firmo io.» «Vuoi qualcosa da mangiare?» Liebermann scosse il capo. Alcuni articoli riferivano gli stessi decessi annunciati in altri; alcuni dei morti non rientravano nell'età prevista. Molti erano commercianti, contadini, lavoratori dell'industria in pensione, vagabondi; molti erano stati uccisi da vicini, parenti, bande di giovani teppisti. Scorse i dizionari bilingui con la lente d'ingrandimento; un makelaar in onroerende goederen era un agente immobiliare, un tulltjänsteman, un doganiere. Sistemava alla sua destra i casi impossibili, a sinistra quelli possibili. Gran parte delle parole dei ritagli in danese si poteva trovare nel dizionario norvegese-tedesco. Nel tardo pomeriggio sistemò l'ultimo ritaglio nella fila dei casi impossibili. Quelli possibili erano undici. Ne strappò l'elenco dal blocco e compilò un'altra lista, trascrivendoli or-
dinatamente, secondo la data del decesso. Il 16 ottobre erano morti in tre: Chambon, Hilaire, a Bordeaux; Döring, Emil, a Gladbeck, una cittadina nella zona di Essen; e Persson, Lars, a Fagersta, in Svezia. Suonò il telefono; lasciò che rispondesse Esther. Due il 18: Guthrie, Malcolm, a Tucson... «Yakov? È di nuovo da Mannheim.» Sollevò il ricevitore: «Parla Liebermann». «Salve, Herr Liebermann» disse una voce d'uomo. «Com'è andato il suo viaggio? E ha poi scoperto il movente per i novantaquattro assassinii?» Rimase seduto immobile, fissando la penna che stringeva in mano. Aveva già udito quella voce, ma non riusciva a localizzarla. «Chi parla, prego?» domandò. «Mi chiamo Klaus von Palmen. L'ho sentita parlare a Heidelberg. Forse si ricorda di me. Le ho domandato se il problema era davvero ipotetico.» Ma certo. Il giovanotto biondo dall'aria furbetta. «Sì, mi ricordo di lei.» «Qualche altro suo pubblico è riuscito meglio di noi?» «Non ho più posto la domanda.» «E non era ipotetico, vero?» Avrebbe voluto dire che lo era o riagganciare, ma un impulso più forte s'impadronì di lui: parlare apertamente con qualcuno disposto a credere, persino con quel giovane antagonista tedesco. «Non lo so» ammise. «La persona che me ne ha parlato... è scomparsa. Forse aveva ragione e forse aveva torto.» «Lo sospettavo. Le interesserebbe sapere che a Pforzheim, il 24 ottobre, un uomo è caduto da un ponte ed è annegato? Aveva sessantacinque anni, era impiegato alle poste e stava per andare in pensione.» «Müller, Adolf» annuì Liebermann, scorrendo l'elenco dei casi possibili. «Lo so già, e oltre a lui so di un'altra decina; a Solingen, Gladbeck, Birmingham, Tucson, Bordeaux, Fagersta...» «Oh.» Liebermann sorrise alla penna e spiegò: «Ho una fonte di informazioni alla Reuter». «Ottimo! E ha preso provvedimenti per scoprire se è statisticamente normale che undici funzionari statali, di sessantacinque anni, muoiano di morte violenta in — vediamo — tre settimane?» «C'è n'erano altri» continuò Liebermann «che sono stati uccisi da parenti. E altri ancora, ne sono certo, che sono sfuggiti alla Reuter. E fra tutti lo-
ro, credo che sei al massimo potrebbero essere... quelli che temo. Sei oltre la norma proverebbe qualcosa? E inoltre, chi tiene statistiche del genere? Morti violente avvenute in due continenti, in base all'età e alla professione. Dio solo, forse, saprebbe quel che è "statisticamente normale". Oppure una dozzina di compagnie d'assicurazione messe insieme. Non sprecherei il tempo a scrivere a tutte.» «Si è rivolto alle autorità?» «È stato lei, no, a farmi notare che non sono troppo interessate a dar la caccia ai nazisti di questi tempi? Gli ho parlato, sì, ma non mi hanno dato retta. Si può dar loro torto, mi dica, quando tutto ciò che potevo dire era: "Forse saranno uccisi degli uomini, non so perché"?» «Allora dobbiamo scoprire perché, e il modo per scoprirlo è indagare in merito ad alcuni di questi casi. Dobbiamo investigare le circostanze dei decessi e, soprattutto, il carattere e i precedenti degli uomini.» «Grazie» disse Liebermann. «Ci ho già pensato da solo, quando ancora ero "io", non "noi".» «Pforzheim è a meno di un'ora di macchina da qui, Herr Liebermann, e io studio legge e sono al terzo posto nella graduatoria dei voti del mio corso, sono perfettamente in grado di fare osservazioni e domande pertinenti.» «Quanto alle domande pertinenti, lo so, ma questo non è affar suo, giovanotto.» «Oh! E perché? Si è forse garantito in esclusiva il diritto di oppositore al nazismo? Nel mio paese?» «Herr von Palmen...» «Lei ha posto il problema in pubblico; avrebbe dovuto informarci che era di sua esclusiva proprietà.» «Mi ascolti.» Liebermann scosse il capo: un vero tedesco, quello. «Herr von Palmen,» ripeté «la persona che ha posto il problema a me era un giovane come lei. Più simpatico e rispettoso, ma per il resto non molto diverso. E quasi certamente è stato assassinato. Ecco perché non è affar suo; perché è una faccenda per professionisti, non per dilettanti. E anche perché lei potrebbe scombinare le cose al punto che, quando a Pforzheim ci andrò io, il mio compito sarà ancora più difficile.» «Non scombinerò le cose e tenterò di non farmi assassinare. Vuole che le telefoni e le dica che cosa scopro o dovrò tenere le informazioni per me?» Liebermann avrebbe voluto fulminarlo e si sforzò di escogitare un modo per fermarlo; ma, naturalmente, non ce n'erano. «Sa almeno quali informa-
zioni cercare?» chiese. «Certo che lo so. A chi Müller ha lasciato il suo denaro, con chi era imparentato, quali erano le sue attività politiche e militari...» «Dov'era nato...» «Lo so bene. Tutti i suggerimenti che sono stati avanzati quella sera.» «E se può aver avuto contatti di qualsiasi genere con Mengele, durante la guerra o subito dopo. Dove ha prestato servizio militare. Se è mai stato a Günzburg.» «Günzburg?» «Dove abitava Mengele. E cerchi di non comportarsi come durante un interrogatorio; è più facile catturare le mosche col miele che con l'aceto.» «Posso essere simpatico quando voglio, Herr Liebermann.» «Non vedo l'ora di averne la prova. Mi dia il suo indirizzo, per favore; le manderò le fotografie di tre degli uomini che presumibilmente compiono gli omicidi. Sono vecchie fotografie di trent'anni fa, e almeno uno degli uomini ha subito un intervento di chirurgia plastica, ma potrebbero tornarle comunque utili, nel caso che qualcuno abbia visto dei forestieri in giro. Le spedirò anche una lettera in cui si dice che lavora per conto mio. Oppure preferirebbe spedirne lei una a me, dicendo che lavoro per conto suo?» «Herr Liebermann, nutro la più profonda ammirazione e il più profondo rispetto per lei. Mi creda, sono davvero fiero di poterle essere in qualche modo di aiuto.» «Va bene, va bene.» «Non sono stato carino? Vede?» Liebermann trascrisse l'indirizzo e il numero di telefono di von Palmen, gli fornì qualche altra indicazione e riagganciò. "Noi". Ma forse il ragazzo ce l'avrebbe fatta; di sicuro era abbastanza sveglio. Finì di compilare il secondo elenco, lo studiò per qualche minuto, poi aprì l'ultimo cassetto a sinistra della scrivania e ne trasse la cartellina delle fotografie che aveva tolto dagli schedari. Ne prese una per ciascuno di Hessen, Kleist e Traunsteiner: giovanotti nell'uniforme delle SS, sorridenti o marziali in istantanee ingrandite a grana grossa; quasi inutili, ma le migliori che esistessero. «Esther!» chiamò, posandole sulla scrivania. Hessen gli sorrideva, bruno, l'aria feroce da lupo, nell'atto di abbracciare i genitori raggianti. Liebermann girò la fotografia e, sotto la breve biografia ciclostilata incollata sul retro, scrisse: "Capelli argentei ora. Ha subito un intervento di chirurgia plastica".
«Esther?» Raccolse le fotografie, si alzò dalla sedia e andò all'uscio. Esther sedeva alla scrivania e dormiva con la testa posata sulle braccia incrociate. Accanto al gomito aveva una ciotola piena d'acqua. Liebermann si avvicinò in punta di piedi, posò le fotografie sull'angolo della scrivania, e, sempre in punta di piedi, attraversò il soggiorno ed entrò in camera da letto. «E allora, dove vai?» chiamò Esther. Sorpreso che si fosse svegliata e gli facesse una domanda del genere, le rispose: «In bagno». «Voglio dire dove vai: a cercare.» «Oh» disse. «In un posto vicino a Hessen, Gladbeck. E a Solingen. Sei soddisfatta?» Farnbach sostò fuori dell'albergo. Mentre ammirava il luminoso crepuscolo azzurro-viola che, stando alle assicurazioni dell'impiegato, sarebbe durato per ore, s'infilò i guanti, rialzò il colletto di pelliccia e rincalzò ben bene il berretto a coprirsi le orecchie e la nuca. A Storlien non faceva freddo come aveva temuto, ma faceva comunque freddo. Grazie a Dio, quello era l'incarico più settentrionale; il Brasile aveva fatto di lui un'orchidea. «Signore?» si sentì battere sulla spalla. Si voltò, e un uomo più alto di lui, con un cappello nero, gli mostrò un documento di identità sul palmo della mano. «Ispettore Löfquist della polizia investigativa. Posso scambiare due parole con lei?» Farnbach prese il documento racchiuso in una busta di cuoio e plastica. Finse di avere più difficoltà di quanta in realtà ne avesse per leggerlo alla luce incerta del crepuscolo, in modo da concedersi almeno qualche istante per pensare. Restituì la tessera all'ispettore Lars Lennart Löfquist e, inalberando un sorriso cordiale, almeno così sperava, per nascondere l'ansia e la confusione che lo invadevano, disse: «Certo, ispettore. Sono arrivato qui solo a mezzogiorno; non credo di aver ancora infranto alcuna legge». Sorridendo a sua volta, Löfquist replicò: «Non lo credo neppure io», e tornò a infilarsi la busta col documento nella tasca interna del cappotto di pelle nera. «Possiamo camminare mentre parliamo, se le va.» «Benissimo. Vorrei vedere la cascata. Sembra sia tutto quello che c'è da fare da queste parti.» «Sì, in questa stagione.» S'avviarono attraverso il cortile acciottolato dell'albergo. «La vita è un po' più animata in giugno e luglio» continuò Lö-
fquist. «Allora c'è il sole tutta la notte e vengono i turisti. Alla fine di agosto, però, persino il centro della città è morto dopo le sette o le otto, e qua fuori è praticamente un cimitero. Lei è tedesco, vero?» «Sì» disse Farnbach. «Mi chiamo Busch. Wilhelm Busch. Sono un viaggiatore di commercio. C'è qualcosa che non va, ispettore?» «No, affatto.» Passarono sotto un portico. «Si tranquillizzi» aggiunse Löfquist. «Non c'è assolutamente niente di ufficiale.» Girarono a destra e camminarono affiancati lungo il ciglio di una strada col fondo di pietrisco. Farnbach sorrise e disse: «Anche un innocente si sente colpevole quando gli batte sulla spalla un ispettore della polizia investigativa». «Suppongo che sia così» ammise Löfquist. «Mi dispiace di averla preoccupata. No, semplicemente mi piace scoprire la presenza di stranieri. Tedeschi, in particolare. Li trovo... è illuminante parlare con loro. Che cosa vende, Herr Busch?» «Attrezzature minerarie.» «Oh?» «Sono il rappresentante per la Svezia della Orenstein e Koppel di Lubecca.» «Non posso dire di averla mai sentita nominare.» «È una grossa ditta nel suo campo. Lavoro per loro da quattordici anni.» Adocchiò il poliziotto che camminava alla sua sinistra. Il naso all'insù e il mento appuntito dell'uomo gli ricordavano un capitano delle SS ai cui ordini aveva prestato servizio, un tale che iniziava i suoi interrogatori esattamente con quella disarmante manfrina del "non c'è da preoccuparsi, non è assolutamente niente di ufficiale". Poi venivano le accuse, le domande, la tortura. «Ed è di là che viene?» domandò Löfquist. «Da Lubecca?» «No, sono originario di Dortmund, e attualmente vivo a Reinfeld, che è vicino a Lubecca. Quando non sono in Svezia, naturalmente. Ho un appartamento a Stoccolma.» Che cosa sapeva, si chiese Farnbach, quel figlio di puttana, e come lo aveva scoperto, in nome di Dio? L'intera operazione era andata a catafascio? Hessen e Kleist e gli altri si trovavano nella stessa situazione in quel momento, oppure era lui che aveva fatto fiasco? «Giriamo qui» disse Löfquist, additando un sentiero che si inoltrava nel bosco alla loro destra. «Porta in un posto da dove si gode una vista migliore.» Imboccarono l'angusto sentiero e lo seguirono in salita in un buio quasi
notturno. Farnbach si sbottonò il cappotto, preoccupato di estrarre rapidamente la pistola se le cose si fossero messe al peggio. «Ho vissuto anch'io per un po' in Germania» osservò Löfquist. «Una volta ho addirittura preso la nave da Lubecca.» Era passato a parlare in tedesco, un ottimo tedesco. Farnbach, sconcertato, si chiese se era davvero possibile che non ci fosse niente di cui preoccuparsi; possibile che Lars Lennart Löfquist desiderasse solo un'occasione per sfoggiare il suo tedesco? Sembrava eccessivo sperarlo. Disse, anche lui in tedesco: «Parla molto bene il tedesco. È per questo che le piace parlare con noi, per avere l'occasione di sfoggiarlo?». «Non parlo con tutti i tedeschi» sottolineò Löfquist, la voce carica di divertimento represso. «Soltanto con gli ex caporali che sono ingrassati e si fanno chiamare Busch anziché Farnstein!» Farnbach si fermò e lo fissò. Sorridendo, Löfquist si tolse il cappello; alzò la testa e si spostò di lato per essere più in luce; e, ridendo apertamente, si mise di fronte a Farnbach e si portò un dito teso sopra il labbro superiore a fingere un paio di baffi. Farnbach era attonito. «Oh, mio Dio!» boccheggiò. «Ho pensato a lei proprio un attimo fa! Suppongo... mio Dio! Capitano Hartung!» I due si strinsero la mano entusiasticamente, e il capitano, ridendo, abbracciò Farnbach e gli batté sulla spalla; poi tornò a infilarsi il cappello, strinse Farnbach alle spalle con ambo le mani e gli indirizzò un gran sorriso. «Che gioia rivedere una delle vecchie facce!» esclamò. «Mi vien voglia di piangere, per Dio!» «Ma... come può essere?» chiese Farnbach, al colmo della confusione. «Sono... di stucco!» Il capitano rise: «Se lei può essere Busch, perché io non posso essere Löfquist? Mio Dio, che accento ho preso! Stia a sentire; sono proprio diventato un dannato svedese!». «Ed è davvero poliziotto?» «Proprio così.» «Cristo, che paura mi ha fatto prendere, capitano.» Lui annuì con aria di rammarico, battendo un colpetto sulla spalla di Farnbach. «Sì, ci preoccupiamo ancora che la scure ci possa cadere sul collo, eh, Farnstein? Anche dopo tanti anni. È per questo che tengo d'occhio gli stranieri. Di tanto in tanto sogno ancora di essere trascinato in tribunale!» «Non posso credere che sia lei!» disse Farnbach, ancora scombussolato.
«Credo di non essere mai stato così sorpreso!» Ripresero a salire il sentiero. «Non dimentico mai una faccia, non dimentico mai un nome, io.» Il capitano passò un braccio intorno alle spalle di Farnbach. «L'ho individuata in piedi accanto alla sua automobile, al distributore di benzina della Krondikesvägen. "Quello con quell'elegante cappotto è il caporale Farnstein" mi sono detto. "Ci scommetterei cento corone."» «Farnbach, capitano, non "stein".» «Oh? Be', "stein" è molto simile, no, dopo trent'anni? Con tutti gli uomini che comandavo! Naturalmente, dovevo esserne assolutamente certo prima di poter parlare. È stata la sua voce che me l'ha confermato; non è cambiata per niente. E lasci perdere il "capitano", eh? Anche se devo ammettere che fa piacere riudirlo.» «Come diavolo è finito quassù?» domandò Farnbach. «E a fare il poliziotto, come se non bastasse!» «Non c'è molto da raccontare» disse il capitano togliendo il braccio dalla spalla di Farnbach. «Avevo una sorella sposata a uno svedese, in una fattoria giù a Skane. Quando mi hanno catturato sono scappato, sono venuto quassù con la nave — da Lubecca a Trelleborg; è quello il viaggio di cui le ho parlato prima — e mi sono nascosto in casa loro. Lui non ne era troppo entusiasta. Lars Löfquist. Un vero figlio di puttana; maltrattava la povera Eri in maniera spaventosa. Dopo un anno o giù di lì lui e io abbiamo avuto una grossa lite e l'ho fatto fuori accidentalmente. Be', mi sono limitato a seppellirlo ben profondo e ho preso il suo posto! Fisicamente eravamo lo stesso tipo, cosicché i suoi documenti mi si adattavano, ed Eri è stata ben contenta di essersene sbarazzata. Quando arrivava qualcuno che lo conosceva, mi bendavo la faccia e Eri diceva che era esploso un lume e non potevo parlare troppo. Dopo un paio di mesi abbiamo venduto la fattoria e siamo venuti qui a nord. Prima a Sundsvall, dove abbiamo lavorato in una fabbrica di conserve alimentari, una cosa orribile; e tre anni dopo, qui a Storlien, dove c'era la possibilità di entrare nella polizia e, per Eri, di trovare un posto di commessa in un negozio. Ed ecco tutto. Il lavoro di poliziotto mi piaceva, e poi c'era forse un modo migliore per venire a sapere se qualcuno mi cercava? Quel rombo che sente è la cascata; è proprio dietro la curva. Ora mi dica di lei, Farnstein. Farnbach! Come ha fatto a diventare Herr Busch, agiato rappresentante? Quel cappotto dev'esserle costato più di quanto io guadagno in un anno!» «Non sono Herr Busch» disse Farnbach acido. «Sono il senhor Paz di
Pôrto Alegre, in Brasile. Busch è una copertura. Sono qui in missione per conto dell'Organizzazione dei Camerati, una missione a dir poco pazzesca.» Fu la volta del capitano di fermarsi e fissarlo attonito. «Intende dire... è proprio vero? L'Organizzazione esiste? Non è semplicemente... un'invenzione dei giornalisti?» «Esiste, esiste» disse Farnbach. «Mi hanno aiutato a sistemarmi laggiù, mi hanno trovato un buon posto...» «E adesso sono qui? in Svezia?» «Sono io a essere qui, ora; loro sono ancora là, a lavorare col dottor Mengele per "adempiere il destino della razza ariana". O almeno questo è quanto hanno detto a me.» «Ma... è meraviglioso, Farnstein! Mio Dio, è la notizia più entusiasmante che abbia... Non siamo finiti! Non saremo battuti! Che succede? Può dirmelo? Significherebbe violare gli ordini, dirlo a un ufficiale delle SS?» «Al diavolo gli ordini, sono stufo marcio di ricevere ordini.» Farnbach fissò per un attimo lo stupefatto capitano, poi aggiunse: «Sono qui a Storlien per uccidere un maestro di scuola. Un vecchio che non è nostro nemico e che non potrebbe di certo influire minimamente sul corso della storia. Ma la sua uccisione, e quella di un sacco di altri, è un'"operazione sacra" che ci riporterà in qualche modo al potere. Così dice il dottor Mengele». Si voltò e si allontanò su per il sentiero. Il capitano, confuso, lo seguì con lo sguardo, poi gli corse dietro rabbioso. «Dannazione, cosa c'è sotto?» domandò. «Se non può raccontarmelo, lo dica! Non mi dia a bere... Erano tutte balle? Bello scherzo mi ha fatto, FarnBACH!» Farnbach, ansimando, sbucò su un terrazzino di roccia sporgente e, afferrandosi con ambo le mani alla ringhiera di ferro, fissò infuriato la larga distesa d'acqua scintillante che precipitava torrenzialmente a valle alla sua sinistra. Seguì con lo sguardo la baluginante valanga d'acqua giù, giù, fin nel rombante bacino spumeggiante e sputò. Il capitano lo costrinse a voltarsi con uno strattone. «Bello scherzo davvero» gridò, vicino all'orecchio dell'altro e a voce altissima, per farsi sentire nonostante il tuono della cascata. «E io che le ho creduto!» «Non era uno scherzo» insistette Farnbach. «Era la verità, dalla prima parola all'ultima! Ho ucciso un uomo a Göteborg due settimane fa, un insegnante anche lui, Anders Runsten. Ne ha mai sentito parlare? Neppure io. Né chiunque altro. Una nullità fatta e finita, in pensione, sessantacinque
anni. Collezionista di bottiglie di birra, pensi un po'! Si è vantato con me delle sue ottocentotrenta bottiglie di birra! Gli ho... sparato alla testa e svuotato il portafogli.» «Göteborg» disse il capitano. «Sì, ricordo il rapporto!» Farnbach si girò verso la ringhiera, vi si afferrò e fissò la parete di roccia oltre il tonante baratro, illuminata dagli ultimi raggi del giorno. «E sabato, devo farne fuori un altro» disse. «È insensato! Pazzesco! Come potrebbe... servire a qualcosa?» «C'è una data stabilita?» «Tutto è stabilito con estrema precisione.» Il capitano si affiancò a Farnbach. «E gli ordini sono stati impartiti da un ufficiale di grado superiore?» «Da Mengele, con l'avallo dell'Organizzazione. Il colonnello Seibert ci ha stretto la mano, la mattina che siamo partiti dal Brasile.» «Non è solo lei, dunque?» «Vi sono altri uomini, in altri paesi.» Afferrando il braccio di Farnbach, il capitano disse rabbioso: «Allora, che non la senta più dire: "Al diavolo gli ordini!". Lei è un caporale cui è stato assegnato un incarico, e se i suoi superiori hanno deciso di non rivelargliene la ragione, vuol dire che hanno una ragione anche per questo. Cristo, lei è una SS; si comporti come tale. "La fedeltà è il mio onore." Queste parole dovrebbero esserle incise nell'anima!». Girandosi, faccia a faccia con il capitano, Farnbach esclamò: «Ma la guerra è finita, signore». «No!» gridò il capitano. «No, se l'Organizzazione esiste e opera. Non pensa che il suo colonnello sappia quello che fa? Mio Dio, amico, se esiste una probabilità su cento che il Reich sia restaurato, com'è possibile non fare tutto ciò che è in nostro potere per contribuire alla sua rinascita? Ci pensi, Farnbach! La restaurazione del Reich! Potremmo tornare in patria! Da eroi! In una Germania ordinata e disciplinata in questo schifoso mondo caotico!» «Ma in che modo l'uccisione di vecchi innocui potrebbe...» «Chi è il maestro? Scommetto che non è poi innocuo come pensa lei! Chi è? Lundberg? Olafsson? Chi?» «Lundberg.» Il capitano se ne stette zitto un momento. «Be', ammetto che sembra innocuo,» disse «ma come facciamo a sapere cosa davvero trama, eh? E come facciamo a sapere che cosa sa il suo colonnello? E il dottore? Avanti,
amico; animo, e faccia il suo dovere! "Un ordine è un ordine."» «Anche quando non ha senso?» Il capitano chiuse gli occhi, aspirò a fondo; aprì gli occhi, fulminò Farnbach con lo sguardo. «Sì» disse. «Anche quando non ha senso. Ha un senso per i suoi superiori, altrimenti non glielo avrebbero impartito. Mio Dio, c'è ancora speranza, Farnbach; e vogliamo distruggerla a causa della sua debolezza?» Aggrottando la fronte a disagio, Farnbach si accostò al capitano. Il capitano si voltò a fronteggiarlo. «Non passerà alcun guaio» disse. «Glielo indico io, Lundberg. Posso persino dirle quali sono le sue abitudini. Mio figlio è stato suo allievo per due anni; lo conosco benissimo.» Farnbach si calcò il berretto in testa. Sorrise ironicamente e disse: «I Löfquist... hanno un figlio?». «Sì, perché no?» Il capitano lo guardò e arrossì. «Oh» disse; poi, freddamente: «Mia sorella è morta nel '57. E allora mi sono sposato. Lei ha una mente depravata». «Mi perdoni» disse Farnbach. «Le chiedo scusa.» Il capitano s'infilò le mani in tasca. «Bene!» disse, ancora rosso in viso. «Spero di essere riuscito a rimetterle in corpo un po' d'energia.» Farnbach fece segno di sì. «La restaurazione del Reich» ripeté. «È questo che devo aver sempre presente.» «E i suoi ufficiali e commilitoni» aggiunse il capitano. «Confidano che lei assolva il suo compito; non ha certo intenzione di piantarli in asso, vero? Le darò una mano con Lundberg. Sabato sono di servizio, ma vedrò di farmi sostituire da un altro; non c'è problema.» Farnbach scosse il capo. «Non si tratta di Lundberg» disse. Si protese di scatto in avanti; mani guantate spinsero un petto rivestito di pelle nera. Il capitano, un occhio che faceva capolino da sotto il cappello, cadde all'indietro oltre la ringhiera, sfilò le mani dalle tasche del cappotto e strinse bracciate d'aria. Rovesciandosi a testa in giù, piombò a precipizio verso il bacino spumeggiante, laggiù in basso. Farnbach si sporse oltre la ringhiera e guardò in giù, con aria infelice. «E non deve essere di sabato» disse. Sbarcando dall'aereo Francoforte-Essen all'aeroporto di Essen-Mülheim, Liebermann fu sorpreso constatando che si sentiva piuttosto bene. Non benissimo, no, ma neppure a pezzi, e a pezzi era il modo in cui si era sentito le altre due volte che aveva messo piede nella Ruhr. Era da lì che era venu-
to tutto: i cannoni, i carri armati, gli aerei, i sommergibili. L'arsenale di Hitler, era stato quel posto, e la sua coltre di smog era parsa a Liebermann, nel '59 e poi ancora nel '66, come il marchio, non di un'industria di pace, ma di una colpa di guerra; un sudario che oscurava il sole calava dall'alto anziché levarsi dal basso. Entrandovi, si era sentito scoraggiato e depresso, stretto tra le mani del passato. A pezzi, appunto. Si era preparato ad affrontare la stessa reazione questa volta, ma no, si sentiva abbastanza bene; lo smog era solo smog, non diverso da quello di Manchester o di Pittsburgh, e non c'era niente che, tentasse di stringerlo. Al contrario, era lui, a bordo di un nuovissimo tassi Mercedes che procedeva veloce, senza sobbalzi, a rincorrere qualcun altro. Ed era ora. Circa due mesi prima aveva ascoltato la storia pazzesca di Barry Koehler da Sāo Paulo e avvertito l'odio di Mengele che lo assaliva; e ora, finalmente, entrava in azione, si recava a Gladbeck a far domande su Emil Döring, sessantacinque anni, "fino a poco tempo fa membro della Commissione per i Trasporti Pubblici di Essen". Era stato assassinato? Era collegato in qualche modo con uomini di altri paesi? C'era un motivo per cui Mengele e l'Organizzazione dei Camerati avrebbero dovuto volerlo morto? Se davvero dovevano morire novantaquattro uomini, c'era una probabilità su tre che Döring fosse stato il primo. Prima di sera avrebbe potuto sapere. Ma, ohi ohi... E se la Reuter si fosse lasciata sfuggire qualcuno dei casi possibili del 16 ottobre? Le probabilità potevano scendere a una su quattro o cinque. O sei. O dieci. Non pensarci; continua a sentirti bene. «Ha imboccato un vicolo per soddisfare un bisogno fisico» disse l'ispettore capo Haas nel suo gutturale accento della Germania Settentrionale. «Ha avuto scalogna: il posto sbagliato nel momento sbagliato.» Haas era un uomo dall'aria dura, prossimo alla cinquantina, il volto rubicondo e butterato, gli occhi azzurri ravvicinati, i capelli biondastri quasi del tutto spariti. Il suo abbigliamento era impeccabile, la scrivania impeccabile, l'ufficio impeccabile. I suoi modi verso Liebermann erano cortesi. «Gli è piombata addosso una parte del muro del terzo piano. Il capomastro addetto ai lavori in seguito ha detto che qualcuno doveva averci trafficato con un piede di porco, ma naturalmente doveva pur dirlo, no? Non si è potuto provarlo, perché la prima cosa che abbiamo fatto, logicamente, una volta estratto Döring da sotto le macerie, è stata usare le leve a nostra volta per abbattere tutto ciò che ancora minacciava di crollare. Abbiamo avuto l'impressione di trovarci di fronte a un banale incidente, ed era così; è quanto è stato dichiarato. L'assicurazione della compagnia di demolizio-
ne ha già raggiunto un accordo con la vedova; se ci fosse stato un qualsiasi sospetto di omicidio, può star sicuro che non avrebbero avuto tanta fretta.» «Però,» obiettò Liebermann «potrebbe teoricamente essersi trattato di assassinio.» «Dipende dal tipo di assassinio cui allude» osservò Haas. «Può darsi che qualche vagabondo o teppista fosse intento a frugare tra le rovine dell'edificio, questo sì. Vedono un tale che infila il vicoletto e decidono di procurarsi un po' di morboso divertimento. Sì, è concepibile. Entro certi limiti. Ma un omicidio con una motivazione più normale, diretto specificamente contro Herr Döring? No, questo non è davvero concepibile. Chiunque lo seguisse, come avrebbe potuto issarsi fino al terzo piano e scardinare un'intera parte del muro nel breve lasso di tempo in cui Döring si è trattenuto nel vicolo? Stava orinando quando è morto, e aveva bevuto due birre, non duecento.» Haas sorrise. Liebermann disse: «L'opera di scardinamento potrebbe essere stata compiuta in precedenza. Un uomo aspetta, pronto a impartire la spinta finale, e un altro, in compagnia di Döring, lo induce chissà come a... recarsi nel posto giusto». «E come? "Perché non ti fermi a pisciare, amico mio? Proprio là dove c'è quella X che qualcuno ha dipinto sul muro"? E poi, è uscito da solo dal bar. No, Herr Liebermann» Haas parlava con tono definitivo «ne ho già discusso con qualcun altro; può star sicuro che si è trattato di un incidente. Gli assassini non si spingono a tal punto. Scelgono metodi semplici: sparano, pugnalano, colpiscono. Lo sa.» Pensieroso, Liebermann disse: «A meno che non abbiano molti delitti da compiere, e vogliano che... non siano tutti eguali...». Haas lo fissò di traverso con gli occhi ravvicinati. «Molti delitti?» domandò. Liebermann disse: «Cosa ha voluto dire, proprio ora, che ne ha "già discusso con qualcun altro"?». «Il giorno dopo è venuta da me la sorella di Döring, strillandomi di arrestare Frau Döring e un tale a nome Springer. È... qualcuno che le interessa? Wilhelm Springer?» «Forse» disse Liebermann. «Chi è?» «Un musicista. L'amante di Frau Döring, secondo la sorella. La signora è molto più giovane di quanto fosse Döring. Carina, anche.» «Quanti anni ha Springer?» «Trentotto, trentanove. La sera dell'incidente si esibiva con l'orchestra
all'opera di Essen. Credo che questo lo escluda, no?» «Può dirmi qualcosa su Döring?» domandò Liebermann. «Chi erano i suoi amici? A quali organizzazioni apparteneva?» Haas scosse il capo: «Posseggo soltanto i dati anagrafici». Girò un foglio contenuto nella cartella che teneva aperta dinanzi a sé. «L'ho visto qualche volta, ma non lo conoscevo personalmente; si sono trasferiti qui solo un anno fa. Ecco qua: sessantacinque anni, altezza un metro e settanta, peso ottantasei chili...» Guardò Liebermann. «Oh, una cosa che potrebbe interessarle: portava una pistola.» «Davvero?» Haas sorrise. «Un pezzo da museo, una Mauser "Bolo". Non era stata usata, né pulita e oliata, Dio sa da quanti anni.» «Era carica?» «Sì, ma probabilmente se avesse sparato si sarebbe fatto saltar via la mano.» Disse Liebermann: «Potrebbe darmi l'indirizzo e il numero di telefono di Frau Döring? E della sorella? E l'indirizzo del bar? Poi me ne vado». Si protese in avanti e mise una mano sulla valigetta. Haas scrisse su un taccuino, ricopiando da un modulo dattiloscritto contenuto nella cartellina. «Potrei domandarle» osservò «come mai si interessa di questa faccenda? Döring non era un "criminale di guerra", o sì?» Liebermann osservò Haas tutto intento a scrivere, e dopo un momento disse: «No, a quanto mi consta non era un criminale di guerra. Potrebbe essere stato in contatto con uno. Sto controllando una voce. Probabilmente non ne caverò nulla». Al barista del Lorelei-Bar disse: «Indago per conto di un suo amico, il quale pensa che il crollo possa anche non essere stato accidentale». Il barista sbarrò gli occhi: «Non mi dica! Intende dire che qualcuno volutamente...? Oh, santo cielo». Era un ometto calvo con baffi dalle punte imbrillantinate. All'occhiello del bavero rosso portava una sorta di distintivo, un bottone giallo con una faccina sorridente. Non volle sapere il nome di Liebermann e Liebermann non glielo disse. «Era un cliente abituale?» Il barista aggrottò la fronte e si lisciò i baffi. «Mmm, così e così. Non tutte le sere, ma una o due volte la settimana. A volte un pomeriggio.» «A quanto so, se n'è andato di qui da solo quella sera.» «Proprio così.» «Era in compagnia di qualcuno, prima di andarsene?»
«Era solo, proprio lì dov'è lei. Un posto più in là, forse. E se n'è andato in fretta e furia.» «Ah, sì?» «Gli toccava un resto di otto marchi e mezzo su un conto di uno e cinquanta, e non ha neppure aspettato. Lasciava sempre una buona mancia, ma non tanto. Avevo intenzione di dargli il denaro la prossima volta che sarebbe venuto qui.» «Le ha detto qualcosa mentre beveva?» Il barista scosse il capo. «Non era una serata in cui potessi fermarmi a parlare. Avevano organizzato un ballo alla scuola commerciale» accennò oltre le spalle di Liebermann «e qui era pieno di gente, dalle otto in poi.» «Aspettava qualcuno» disse un uomo all'estremità del bar, un vecchio dal volto tondo con un cappello a bombetta e un cappotto logoro abbottonato fino al collo. «Continuava a fissare la porta, come a spiare l'entrata di qualcuno.» Liebermann disse: «Conosceva Herr Döring?». «Benissimo» disse il vecchio. «Sono andato al funerale. C'era così poca gente! Sono rimasto sorpreso.» Rivolto al barista, aggiunse: «Sa chi non c'era? Ochsenwalder. La cosa mi ha sorpreso. Che aveva di così importante da fare?». Afferrò il boccale di ceramica con ambo le mani e ne bevette un sorso. «Mi scusi» disse il barista a Liebermann, e si diresse all'altra estremità del bar, dove sedevano alcuni uomini. Liebermann si alzò e, portandosi appresso il succo di pomodoro e la cartella, andò a sedersi vicino al vecchio, oltre l'angolo del bar dalla sua parte. «Di solito si sedeva qui con noi», disse il vecchio, asciugandosi la bocca sul dorso della mano «ma quella sera si è seduto da solo, là nel mezzo, e ha continuato a guardare la porta. Aspettava qualcuno, controllava l'ora. Apfel ha detto che probabilmente aspettava il viaggiatore di commercio della sera prima. Era un chiacchierone, Döring. Se devo essere onesto, non ci dispiaceva troppo che si fosse seduto là, anziché qui. Però avrebbe potuto venire a salutarci, no? Ora, non mi fraintenda; ci era simpatico, e non solo perché a volte ci pagava le consumazioni. Però continuava a ripetere le stesse storie. Storie divertenti, ma quante volte si può ascoltarle? Sempre le stesse storie; di come era stato più furbo di altri.» «Le raccontava a un viaggiatore di commercio la sera prima?» domandò Liebermann. Il vecchio annuì: «In articoli sanitari. Prima aveva parlato con tutti noi,
informandosi sulla città, e poi, eccolo là da solo con Döring, Döring che parla e lui che ride. La prima volta che si sentivano erano storie divertenti.» «È vero, me n'ero dimenticato» disse il barista, tornato accanto a loro. «Döring è venuto qui anche la sera prima dell'incidente. Era insolito per lui, due sere di fila.» «Sa quanti anni ha sua moglie?» domandò il vecchio. «Credevo che fosse sua figlia, invece era sua moglie, la vedova.» Liebermann chiese al barista: «Si ricorda del viaggiatore di commercio col quale ha parlato?». «Non so se era un viaggiatore», disse il barista «ma lo ricordo. Un occhio di vetro e un modo di far schioccare le dita che mi dava un fastidio d'inferno; come se avessi dovuto accorrere da lui dieci minuti prima.» «Quanti anni aveva?» Il barista si accarezzò i baffi e ne arricciò una punta. «Tra i cinquanta e i sessanta, direi. Cinquantacinque forse». Guardò il vecchio: «Non direbbe anche lei?». Il vecchio fece segno di sì. «Pressappoco.» Liebermann, aprendo la cartella che teneva sulle ginocchia, disse: «Ho qui qualche fotografia. Sono state scattate molto tempo fa, ma ci dareste un'occhiata e mi direste se uno degli uomini ritratti potrebbe essere stato il viaggiatore di commercio?» «Volentieri» disse il barista, avvicinandosi. Il vecchio si girò sulla sedia. Estraendo le fotografie, Liebermann disse al vecchio: «Ha detto come si chiamava?». «Non mi pare. Se l'ha fatto non me ne ricordo. Ma so riconoscere una faccia.» Liebermann scostò il succo di pomodoro e, girando le fotografie, le posò sul banco e le separò luna dall'altra. Le spinse più vicine al vecchio e al barista. I due si chinarono sulle fotografie lucide, il vecchio portandosi una mano al cappello a bombetta. «Aggiungeteci trent'anni» disse Liebermann osservandoli. «Trentacinque.» Sollevarono le teste, fissandolo con aria stanca, risentita. Il vecchio distolse lo sguardo. «Non so» disse. Sollevò il boccale di ceramica. Il barista, fissando Liebermann, osservò: «Non può mostrarci fotografie di... giovani militari e aspettarsi che riconosciamo un uomo di cinquanta-
cinque anni che abbiamo visto più di un mese fa.» Liebermann disse: «Tre settimane fa». «Anche così.» Il vecchio bevve. Liebermann disse: «Questi uomini sono criminali. Sono ricercati dal vostro governo». «Il nostro governo» sottolineò il vecchio posando il boccale di ceramica in corrispondenza dell'impronta umida. «Non il suo.» «È vero» disse Liebermann. «Io sono austriaco.» Il barista si allontanò. Il vecchio dal volto tondo lo seguì con lo sguardo. Liebermann, posando le mani spalancate sulle fotografie, si protese in avanti e disse: «Quel viaggiatore di commercio potrebbe aver ucciso il suo amico Döring». Il vecchio fissò il boccale, le labbra arricciate. Girò il manico del boccale verso di sé. Liebermann lo fissò infuriato, poi raccolse le fotografie e le rimise nella cartella. Chiuse la valigetta, affibbiò le cinghie e si alzò in piedi. Il barista tornò e disse: «Due marchi». Liebermann posò sul banco una banconata da cinque marchi e disse: «Monetine per il telefono, per favore». Entrò nella cabina e compose il numero di Frau Döring. La linea era occupata. Tentò il numero della sorella di Döring, a Oberhausen. Nessuna risposta. Rimase incastrato nella cabina telefonica con la valigetta tra i piedi, tirandosi il lobo dell'orecchio e pensando a quel che poteva dire a Frau Döring. Poteva darsi che si mostrasse ostile nei confronti di Yakov Liebermann, cacciatore di nazisti; e anche se non lo era, dopo le accuse lanciatele dalla cognata probabilmente non sarebbe stata disposta a discutere con un estraneo di Döring e della sua morte. Ma cosa poteva dirle, se non la verità? Come ottenere altrimenti un appuntamento con lei? Gli venne fatto di pensare che magari Klaus von Palmen, a Pforzheim, stava ottenendo risultati migliori dei suoi. Sarebbe proprio stato quel che ci voleva, essere superati da von Palmen. Tentò di nuovo il numero di Frau Döring, seguendo i numeri tracciati chiaramente a penna dall'ispettore capo Haas. Il telefono all'altro capo del filo, squillò. «Sì?» Una donna; frettolosa, infastidita. «Parlo con Frau Klara Döring?»
«Sì, chi parla?» «Mi chiamo Yakov Liebermann. Di Vienna.» Silenzio. «Yakov Liebermann? Quello che... scova i nazisti?» sorpresa e perplessa, ma non ostile. «Che li cerca» corresse Liebermann «e solo qualche volta li scova. Sono qui a Gladbeck, Frau Döring, e mi chiedo se sarebbe così gentile da dedicarmi un po' del suo tempo, solo una mezz'oretta o poco più. Vorrei parlare con lei del suo defunto marito. Credo che potrebbe essere stato implicato in maniera del tutto innocente e senza neppure esserne a conoscenza nelle faccende di certe persone alle quali sono interessato. Potrei venire a parlare con lei? In qualsiasi momento le sia comodo?» Un clarinetto gemette debolmente. Mozart? «Emil era implicato...?» «Forse. Senza saperlo. Sono nei pressi di casa sua, ora. Posso venire da lei? O preferisce uscire e che ci incontriamo da qualche parte?» «No. Non posso vederla.» «Frau Döring, la prego, è molto importante.» «Non posso. Non ora. È il peggior giorno possibile.» «Domani, allora? Sono venuto a Gladbeck all'unico scopo di parlare con lei.» Il clarinetto tacque, poi riprese a gemere, ripetendo l'ultima frase musicale, senza dubbio Mozart. Suonato dall'amante Springer? Per questo era una giornata tanto sbagliata per ricevere lui? «Frau Döring?» «D'accordo. Lavoro fino alle tre. Può venire domani alle quattro.» «L'indirizzo è Frankenstrasse 12?» «Sì. Interno 33» «Grazie. Domani alle quattro. Grazie, Frau Döring.» Si districò dalla cabina telefonica e chiese al barista la strada per raggiungere l'edificio dov'era morto Döring. «Non c'è più.» «Da che parte si trovava, allora?» Il barista, chino a lavar bicchieri, puntò un dito sgocciolante: «Laggiù». Liebermann discese una stradicciola e ne attraversò un'altra, più ampia e affollata. Gladbeck, o almeno quella zona, era urbana, grigia, squallida. Lo smog non contribuiva certo a migliorarla. Ristette a fissare una distesa di macerie fiancheggiata da muri in mattoni di vecchi edifici di fabbriche. Tre bambini mettevano una sull'altra pietre scheggiate, erigendo una barriera angolata. Uno portava uno zaino militare. Liebermann proseguì per la sua strada. All'incrocio successivo c'era
Frankenstrasse; la percorse fino al numero 12, una casa color crema, striata di fuliggine, convenzionalmente moderna, in fondo a un praticello ben curato. Dal tetto si levava un dito di fumo nero puntato verso la coltre di smog. Osservò una donna sospingere a fatica una carrozzina attraverso la porta d'ingresso a vetri, poi proseguì in direzione del suo albergo, il Schultenhof. Nella linda, severa camera tedesca tentò di nuovo di mettersi in comunicazione con la sorella di Döring. «Dio la benedica, chiunque lei sia!» lo salutò una voce di donna. «Siamo entrati proprio in questo istante! Lei è la prima persona che chiama.» Benone. Intuì subito. «C'è Frau Toppat?» «Oh, no! No, mi dispiace, è partita. È in California, o in viaggio. Abbiamo comprato la casa da lei avantieri. È per Frau Toppat! È andata a vivere con sua figlia. Vuole l'indirizzo? Devo avercelo, da qualche parte.» «No, grazie» disse Liebermann. «Non si disturbi.» «È tutto nostro, ora: il mobilio, il pesce rosso; abbiamo persino la verdura che cresce nell'orto. Conosce la casa?» «No.» «È orribile, ma per noi è perfetta. Be', il saluto augurale è ancora valido. È sicuro che non vuole l'indirizzo? Posso trovarglielo.» «Sicurissimo. Grazie. Buona fortuna.» «Ne abbiamo già avuta, ma, grazie, un po' di più non potrà farci male.» Liebermann riagganciò, sospirò. Neppure a me, signora. Dopo che si fu lavato ed ebbe preso le pillole del tardo pomeriggio, sedette al minuscolo scrittoio, aprì la valigetta e ne tolse la bozza di un articolo che stava scrivendo in merito all'estradizione di Frieda Maloney. La porta si aprì quel tanto che permetteva la breve catenella e vi si affacciò un ragazzo, scostandosi dalla fronte i capelli scuri. Era sui tredici anni, magrissimo e col naso affilato. Liebermann, chiedendosi se aveva sbagliato numero, chiese: «È l'appartamento di Frau Döring?». «E lei è Herr Liebermann?» «Sì.» La porta si chiuse in parte; vi fu uno stridore metallico. Il ragazzo era un nipote, suppose Liebermann, o forse, dal momento che Frau Döring era molto più giovane di quanto fosse stato Döring, un figlio. O, magari, soltanto un vicino invitato perché la signora non si trovasse da
sola con un visitatore sconosciuto di sesso maschile. Chiunque fosse, il ragazzo spalancò la porta, e Liebermann entrò, in una sorta di alcova dalle pareti di specchio, affollata di due o tre lui nell'atto di entrare, sorprendentemente sciatti ("Vatti a far tagliare i capelli!" diceva Hannah. "Datti una regolata ai baffi! Raddrizza le spalle!"), e di vari ragazzi in camicia bianca e calzoni scuri che chiudevano porte e bloccavano chiavistelli muniti di catena. Tenendosi eretto, si rivolse al ragazzo in carne e ossa. «C'è Frau Döring?» «Sta parlando al telefono.» Il ragazzo tese una mano a ricevere il cappello di Liebermann. Mentre glielo consegnava, Liebermann sorrise e domandò: «Sei suo nipote?». «Suo figlio.» Dal tono di voce del ragazzo s'intuiva lo scherno per quella domanda idiota. Aprì un armadio dall'anta a vetri. Liebermann posò la valigetta e si tolse il cappotto, sbirciando in un soggiorno dove imperavano il color arancio e i vetri e le cromature, ogni cosa perfettamente intonata all'altra come in un negozio d'arredamento: disumana. Consegnò il cappotto al ragazzo, sorridendo, e il ragazzo lo sistemò su una gruccia, con aria annoiata e rispettosa. Arrivava all'altezza del petto di Liebermann. Nell'armadio erano appesi alcuni soprabiti, anche una pelliccia di leopardo. Da dietro cappelli e scatole sullo scaffale faceva capolino un uccello impagliato, un corvo o qualcosa del genere. «C'è un uccello là dietro?» domandò Liebermann. «Sì» disse il ragazzo. «Era di mio padre.» Chiuse l'anta e ristette a guardare Liebermann con occhi d'un azzurro slavato. Liebermann sollevò la valigetta. «Li ammazza, i nazisti, quando li prende?», domandò il ragazzo. «No» disse Liebermann. «Perché no?» «È contro la legge. E poi, meglio processarli. Così, più gente impara cose su di loro.» «Cosa impara?» Il ragazzo appariva scettico. «Chi erano, che cosa hanno fatto.» Il ragazzo si voltò verso il soggiorno. Là era ritta una donna, piccola e bionda, in giacca e gonna nera e maglioncino a collo alto beige; una donna graziosa sulla quarantina. Piegò la testa e sorrise, le mani serrate nervosamente dinanzi a sé.
«Frau Döring?» Liebermann le andò incontro. Lei tese una mano e lui gliela strinse, sentendola piccola e fredda. «Grazie per avermi ricevuto» disse. La pelle della donna era ben curata dai cosmetici, con qualche piccola ruga sottile agli angoli degli occhi verde-azzurri. Emanava da lei un profumo gradevole. «Prego,» disse un po' imbarazzata «potrei chiederle di mostrarmi un documento d'identità?» «Ma certo» fece Liebermann. «Fa bene a chiedermelo.» Spostò la valigetta nell'altra mano e si frugò nella tasca interna della giacca. «Sono sicura che lei è... chi dice di essere», dichiarò Frau Döring «ma...» «Nel cappello ci sono le sue iniziali» disse il ragazzo alle spalle di Liebermann. «Y.S.L.» Liebermann sorrise a Frau Döring, porgendole il passaporto. «Suo figlio è un investigatore nato» disse; e, rivolto al ragazzo: «Te la sei cavata benissimo. Non ho neppure notato che guardavi». Il ragazzo, scostandosi dalla fronte il ciuffo bruno, sorrise compiaciuto. Frau Döring restituì il passaporto. «Sì, è intelligente» disse indirizzando un sorriso al ragazzo. «Solo un tantino pigro. In questo momento, per esempio, dovrebbe fare gli esercizi.» «Non posso andare ad aprire la porta e restare in camera mia contemporaneamente» borbottò il ragazzo, attraversando il soggiorno. Frau Döring gli carezzò i capelli scarmigliati mentre le passava accanto. «Lo so, tesoro; volevo solo stuzzicarti.» Il ragazzo uscì in un corridoio. Frau Döring sorrise a Liebermann, strofinandosi le mani come per riscaldarle. «Venga, si sieda, Herr Liebermann» disse, e indietreggiò verso la finestra in fondo alla stanza. Si sentì sbattere una porta. «Le andrebbe una tazza di caffè?» Liebermann disse: «No, grazie, ho appena bevuto una tazza di tè dall'altra parte della strada». «Al Bittner? È là che lavoro. Accolgo i clienti dalle otto alle tre.» «È un'occupazione interessante, e per lei è anche comodo.» «Sì, e sono a casa quando rientra Erich. Ho cominciato lunedì e finora è perfetto. Mi piace molto!» Liebermann sedette su un divano rigido e Frau Döring su una sedia vicina. Sedeva eretta, le mani intrecciate sulla gonna nera, la testa piegata in atteggiamento attento.
«Per prima cosa,» disse Liebermann «vorrei esprimerle tutta la mia simpatia. La situazione dev'essere molto difficile per lei, ora.» Fissandosi le mani intrecciate, Frau Döring disse soltanto: «Grazie». Un clarinetto eseguì rapidamente le scale, preparandosi a suonare; Liebermann guardò in direzione del corridoio dal quale fluivano le note legnose, e poi riportò lo sguardo su Frau Döring. Lei gli sorrise. «È molto bravo» disse. «Lo so» annuì Liebermann. «L'ho sentito al telefono ieri. Ho creduto che fosse un adulto. È il suo unico figlio?» «Sì» disse lei, poi, orgogliosa: «Ha intenzione di seguire la carriera musicale». «Spero che suo padre abbia provveduto a lasciargli il necessario.» Liebermann sorrise. «L'ha fatto?» domandò. «Suo marito ha lasciato il suo denaro a Erich e a lei?» Frau Döring annuì, sorpresa. «E a una sua sorella. Un terzo ciascuno. La parte di Erich è vincolata. Perché me lo domanda?» «Sto cercando» disse Liebermann «una ragione per cui certi nazisti che stanno in Sudamerica potrebbero aver voluto ucciderlo.» «Uccidere Emil?» Liebermann annuì, osservando Frau Döring. «E anche gli altri.» Lei aggrottò la fronte, fissandolo. «Quali altri?» «Il gruppo al quale apparteneva. In vari paesi.» L'espressione della donna si fece ancor più accigliata e perplessa. «Emil non apparteneva ad alcun gruppo. Che sta dicendo, che era comunista? Non potrebbe essere più fuori strada, Herr Liebermann.» «Non riceveva posta o telefonate dall'estero?» «Mai. Non qui, comunque. Domandi all'ufficio; forse loro sanno di un gruppo; io no, di certo.» «Ho già domandato stamane, non ne sanno niente neppure loro.» «Una volta,» disse Frau Döring «tre o quattro anni fa, forse anche più, gli ha telefonato sua sorella dall'America, dove si trovava in visita. È l'unica telefonata dall'estero che ricordi. Oh, una volta, ancora più lontano negli anni, ha telefonato il fratello della sua prima moglie da qualche parte in Italia, per tentare di convincerlo a investire denaro in... non ricordo, qualcosa che aveva a che fare con l'argento. O il platino.» «L'ha fatto?» «No. Era molto cauto in fatto di denaro.» Il clarinetto attrasse l'attenzione di Liebermann, intessendo il Mozart del giorno prima. Il minuetto dal Quintetto per archi e clarinetto, eseguito con
molta grazia. Pensò a se stesso all'età del ragazzo, quando passava due o tre ore al giorno al vecchio Pleyel. Sua madre, pace all'anima sua, aveva detto anche lei: «Ha intenzione di seguire la carriera musicale», proprio con lo stesso orgoglio. Chi poteva sapere che cosa sarebbe accaduto? E quando aveva sfiorato per l'ultima volta i tasti di un pianoforte? «Non capisco» disse Frau Döring. «Emil non è stato assassinato.» «Potrebbe esserlo stato» ribatté Liebermann. «Un viaggiatore di commercio ha fatto amicizia con lui la sera prima. Potrebbero essersi messi d'accordo per incontrarsi presso l'edificio in demolizione, se il viaggiatore non si fosse fatto vivo al bar entro le dieci. Questo l'avrebbe indotto a recarsi là proprio al momento giusto.» Frau Döring scosse il capo. «Non si sarebbe mai incontrato con qualcuno presso un edificio come quello» disse. «Neppure qualcuno che conosceva bene. Era troppo sospettoso. E perché mai proprio i nazisti dovevano interessarsi a lui?» «Perché portava una pistola quella sera?» «L'ha sempre fatto.» «Sempre?» «Sempre, da quando l'ho conosciuto. Me l'ha mostrata la prima volta che siamo usciti insieme. S'immagina, portare una pistola a un appuntamento? E mostrarla? E, quel che è peggio, io sono rimasta colpita!» Scosse il capo e sospirò, stupita. «Di chi aveva paura?» domandò Liebermann. «Di tutti. Dei colleghi d'ufficio, della gente che semplicemente lo guardava...» Frau Döring si protese in avanti con aria confidenziale. «Era un po'... be', non proprio matto, ma non del tutto normale. Una volta ho tentato di convincerlo a farsi vedere da qualcuno; sa, un medico. C'era un programma alla televisione sulla gente come lui, gente che crede di essere... vittima di un complotto, e quando il programma è finito gli ho suggerito, prendendolo molto alla larga... Be'! Complottavo anch'io contro di lui, va bene? Farlo dichiarare malato di mente? Per poco non mi ha sparato, quella sera!» Si appoggiò allo schienale e respirò a fondo, rabbrividendo; e aggrottò la fronte, fissando incuriosita Liebermann. «Cosa ha fatto, le ha scritto che i nazisti lo perseguitavano?» «No, no.» «E allora cosa le fa pensare che lo facessero?» «Una voce che mi è giunta all'orecchio.» «Era infondata. Mi creda, ai nazisti Emil sarebbe piaciuto. Era antisemi-
ta, anticattolico, era contro la libertà, contro qualsiasi cosa e chiunque, tranne Emil Döring.» «Ed è stato nazista?» «È possibile. Diceva di no, ma io l'ho conosciuto soltanto nel 1952, per cui non potrei giurarci. Probabilmente non lo era; non aderiva mai a niente, se poteva evitarlo.» «Cosa ha fatto durante la guerra?» «Era nell'esercito; caporale, credo. Si vantava dei facili incarichi che era riuscito a farsi assegnare. Il più importante è stato un magazzino di vettovaglie o qualcosa del genere. Imboscato, insomma.» «Non è mai stato al fronte?» «Era "troppo furbo", lui. Ci andavano gli "stupidi".» «Dov'era nato?» «A Laupendahl, oltre Essen.» «Ed è vissuto nella zona per tutta la vita?» «Sì.» «Non è mai stato a Günzburg, a quanto ne sa?» «Dove?» «Günzburg. Vicino a Ulm.» «Non gliel'ho mai sentito nominare.» «E il nome Mengele? Non l'ha mai pronunciato?» Lei lo fissò, le sopracciglia inarcate, e scosse il capo. «Solo qualche domanda ancora» disse Liebermann. «Lei è molto gentile. Temo di essere su una pista sbagliata.» «Ne sono sicura» disse lei, e sorrise. «Era imparentato con qualche personalità importante? Del governo, diciamo?» La donna ci pensò un attimo. «No.» «In rapporti di amicizia con qualche personalità importante?» Lei si strinse nelle spalle. «Qualche funzionario di Essen, se questa è l'idea che lei ha dell'importanza. Una volta ha stretto la mano a Krupp; quello è stato il suo grande momento.» «Quanto tempo siete stati sposati?» «Ventidue anni. Dal 4 agosto 1952.» «E in tutti questi anni lei non ha mai visto o sentito qualcosa a proposito di un gruppo internazionale al quale appartenesse, di uomini della sua stessa età con una posizione sociale simile alla sua?» Scuotendo il capo, la donna disse: «Mai, neppure una parola».
«Nessuna attività antinazista di alcun genere?» «Assolutamente no. Era più filonazista che anti. Votava nazionaldemocratico, ma non si è mai iscritto. Non era tipo da iscriversi.» Liebermann appoggiò le spalle al duro schienale del divano e si massaggiò la nuca. Frau Döring disse: «Vuole che le dica chi davvero l'ha ucciso?». Lui la guardò. La donna si protese in avanti e disse: «Dio. Per liberare una stupida ragazzina di campagna dopo ventidue anni di infelicità. E per dare a Erich un padre che lo aiuterà e amerà, anziché uno che lo insultava, proprio così, lo chiamava "checca" e "imbecille" perché voleva diventare musicista e non un grasso impiegato statale con un posto sicuro. I nazisti esaudiscono le preghiere, Herr Liebermann?». Scosse il capo: «No, Dio lo fa, e io l'ho ringraziato ogni sera da quando ha fatto crollare quel muro addosso a Emil. Avrebbe anche potuto farlo prima, ma lo ringrazio ugualmente. "Meglio tardi che mai"». Si appoggiò allo schienale e accavallò le gambe — belle gambe — e sorrise con grazia. «Be'» fece. «Non suona bene? Ricordi questo nome: Erich Döring. Un giorno lo vedrà sulle locandine appese alla porta delle sale da concerto!» Quando Liebermann lasciò il numero 12 di Frankenstrasse, cominciava a far buio. Automobili e tram intasavano la strada; pedoni frettolosi affollavano il marciapiede. Liebermann camminava lentamente in mezzo a loro, stringendosi al fianco la valigetta. Döring era stato una nullità: vanitoso, acquiescente, privo d'importanza per tutti, tranne che per se stesso. Non c'era un motivo concepibile perché dovesse rappresentare il bersaglio di congiurati nazisti all'altro capo del mondo, neppure nelle sue sospettose immaginazioni. Il viaggiatore di commercio del bar? Semplicemente un viaggiatore di commercio senza compagnia. L'uscita frettolosa, la sera dell'incidente? C'erano decine di motivi che potevano spingere un uomo a uscire in fretta e furia da un bar. Il che significava che la vittima del 16 ottobre era stata o Chambon in Francia o Persson in Svezia. O qualcun altro, che la Reuter s'era lasciato sfuggire. O, possibilissimo, proprio nessuno. Ohi, ohi, Barry, Barry! Perché dovevi chiamare proprio me? Affrettò il passo, sul lato sud dell'affollata Frankenstrasse. Sul lato nord affrettò il passo anche Mundt, un sigaro spento tra le labbra, un giornale ripiegato sotto il braccio.
Benché la notte fosse asciutta e chiara, la ricezione era pessima, e ciò che Mengele udì fu: «Liebermann è andato crac-crac-fiiii dove abitava Döring, il nostro primo uomo. Lieber-crac-crac su di lui, e ha mostrato fotografie di militari a crac-crac-FIII-crac Solingen, facendo la stessa cosa riguardo a un crac-crac morto in un'esplosione qualche settimana fa. Passo». Cercando di rimandare indietro l'acidità che gli ribolliva in gola, Mengele premette il pulsante del microfono e disse: «Vorrebbe ripetere, per favore, colonnello? Non ho captato tutto. Passo». Questa volta captò. «Non fingerò di non essere preoccupato,» disse, tamponandosi la fronte gelata col fazzoletto «ma se ha continuato a indagare su qualcuno con cui noi non abbiamo niente a che fare, è segno che brancola nel buio. Passo.» «Crac l'appartamento di Döring, e là non era al buio. Erano le quattro del pomeriggio e ci si è fermato per quasi un'ora. Passo.» «Oh, Dio» disse Mengele e premette il pulsante. «Allora sarà meglio che ci occupiamo di lui subito, tanto per non correre rischi. Lei è d'accordo, vero?» «Stiamo crac la possibilità molto attentamente. Le farò sapere non appena avremo deciso. Ho anche qualche buona notizia. Mundt crac-crac condo cliente alla data esatta. Lo stesso vale per Hessen. E Farnbach ha fatto rapporto, senza far domande, grazie a Dio, solo con una sorprendente infor crac-fiii sembra che il suo secondo cliente fosse il suo ex comandante, un capitano che si è procurato un'identità svedese dopo la guerra. Buffa faccenda, no? Farnbach non era sicuro se noi lo sapevamo o no. Passo.» «Questo non gli ha impedito di compiere la missione, no? Passo.» «Oh, no, crac-crac giorni in anticipo. Così può tracciare sul suo grafico altri tre visti. Passo.» «Secondo me, è indispensabile che ci occupiamo immediatamente di Liebermann» disse Mengele. «E se non si fermasse dopo l'uomo di Solingen? Se Mundt agisce come si deve, sono sicuro che non ci saranno conseguenze, almeno non più gravi di quelle che già affrontiamo. Passo.» «Se accade mentre lui è in Germania, lo sconsiglio. Quelli crac-fiii-crac al paese per dimostrare che sono coscienziosi; dovranno farlo. Passo.» «Allora non appena lascerà la Germania. Passo.» «Terremo certamente in considerazione il suo parere, Josef. Senza di lei, niente; sappiamo quanto crac-crac-fiiii-crac ora. Passo e chiudo.»
Mengele guardò il microfono e lo posò. Si tolse la cuffia, la posò e spense la radio. Passò dallo studio in bagno, vomitò l'intero pranzo digerito a mezzo, si lavò e si sciacquò la bocca col collutorio. Poi uscì sulla veranda, sorrise e disse: «Scusatemi», e sedette a giocare a bridge col generale Fariña e Franz e Margot Schiff. Quando i tre se ne andarono, prese una torcia elettrica e scese al fiume a pensare. Rivolse qualche parola all'uomo di guardia e proseguì per un tratto lungo la corrente, an dando a sedersi su un bidone arrugginito di carburante — al diavolo i calzoni — e si accese una sigaretta. Pensò a Yakov Liebermann che entrava nelle case degli uomini; e a Seibert e al resto dell'Organizzazione che affrontavano sfacciatamente una necessità e la chiamavano possibilità; e alla propria decennale dedizione ai più nobili ideali — il perseguimento della conoscenza e l'elevazione del fior fiore della razza umana — che rischiava di essere defraudata del suo esito definitivo da quell'unico ficcanaso di un ebreo e da quel pugno di ambigui ariani. I quali erano peggio dell'ebreo, perché Liebermann, a voler essere onesti, faceva il suo dovere dal suo punto di vista, mentre quelli tradivano il loro. O si accingevano a tradirlo. Gettò nel buio baluginante del fiume la seconda sigaretta, e con un «In guardia» alla sentinella, tornò verso la casa. Per un improvviso impulso svoltò e imboccò il sentiero ormai invaso dalle erbacce che portava alla "fabbrica", quel sentiero lungo il quale lui e gli altri — il giovane Reiter von Sweringen, Tina Zygorny, tutti morti ormai, ahimè — avevano marciato così allegramente in quelle mattine di tanto tempo fa. Curvo sopra la torcia elettrica che esplorava il terreno, scansò rami dalle grandi foglie, inciampò in radici sporgenti dal terreno. Ed eccolo lì, il lungo edificio basso, con gli alberi che lo sfioravano. L'intonaco si era scrostato dalle pareti, tutti i vetri delle finestre erano rotti (i figli dei domestici, maledetti loro), e un'intera parte del tetto in lamiera ondulata era caduta, o era stata strappata, dall'ala che serviva da dormitorio. La porta d'ingresso era aperta, trattenuta soltanto dal cardine inferiore. Tina Zygorny fece udire la sua risata mascolina; von Sweringen tuonò: «Alzati e risplendi! È finito il tuo sonno ristoratore!». Solo silenzio. Insetti ronzanti, sibilanti. Puntando il fascio di luce dinanzi a sé, Mengele salì i gradini e varcò la soglia. Cinque anni almeno da che vi aveva messo piede l'ultima volta...
"Splendida Baviera." Il manifesto era ancora appeso alla parete, impolverato e cincischiato: cielo, montagne, prati in fiore. Gli rivolse un sorriso e spostò il raggio di luce. Scoprendo pareti di legno scheggiate nei punti in cui ne erano stati strappati scaffali e armadietti. Pezzi di tubature ritti sull'attenti. La parete con le macchie brune che Reiter vi aveva tracciato a fuoco, iniziando una svastica col suo microscopio. Avrebbe potuto mandare a fuoco tutto, quell'idiota. Si mosse cautamente tra frammenti di vetro. Una scorza di melone fradicia, formiche a banchetto. Si affacciò a guardare nelle stanze nude e ricordò la vita e le attività, le attrezzature scintillanti. Lo sterilizzatore gemeva, le provette tintinnavano. Più di dieci anni fa. Ogni cosa era stata asportata, gettata o forse donata a una clinica, chissà dove, affinché se le bande di ebrei vi avessero fatta irruzione — erano forti in quei giorni, il "Commando Isaac" e gli altri — non trovassero tracce, neppure un indizio. Percorse il corridoio centrale. Inservienti indigeni pronunciavano in dialetti primitivi parole atte a blandire, sforzandosi di farsi capire. Entrò nel dormitorio, dove faceva fresco e non regnavano cattivi odori, grazie al tetto aperto. Le stuoie di paglia erano ancora lì, sparse in disordine. Fate quel che volete con qualche dozzina di stuoie di paglia, giovanotti ebrei. Vi si aggirò, ricordando, sorridendo. Qualcosa di bianco baluginava contro la parete. Vi si avvicinò, abbassò lo sguardo sull'oggetto che giaceva a terra, illuminato dal fascio di luce della torcia elettrica; lo raccolse, ne soffiò via la polvere, lo esaminò sulla mano. Denti di animale, tutta una fila: uno dei braccialetti delle donne. Un portafortuna? Il potere degli animali si trasmetteva al braccio di chi portava l'amuleto? Strano che i bambini non l'avessero trovato; certo venivano a giocare lì dentro, si rotolavano su quelle stuoie, le avevano messe fuori posto. Sì, era un segno della fortuna che quel braccialetto fosse rimasto lì tutti quegli anni, perché lui potesse trovarlo in quella notte di paura e d'incertezza, di possibile tradimento. Vi infilò le dita, lo scosse per farlo scendere, lo spinse in su col polso della mano che stringeva la torcia elettrica; il braccialetto di zanne d'animale gli scivolò attorno al bracciale d'oro dell'o-
rologio. Agitò il pugno; le zanne danzarono. Lasciò vagare lo sguardo per il dormitorio, e su, attraverso il tetto sbrecciato, verso le cime degli alberi e le stelle che andavano e venivano tra i rami. E, forse sì, forse no, verso il suo Führer che lo osservava. "Non ti tradirò" promise. Si guardò attorno, guardò il luogo dove tante cose, tante cose gloriose, erano già state compiute e, facendo lampeggiare lo sguardo, disse ad alta voce: «No, non tradirò». IV «Abbiamo eliminato soltanto quattro degli undici» disse Klaus von Palmen, affondando il coltello in una grossa salsiccia che aveva davanti. «Non le pare che sia troppo presto per parlare di smettere?» «Chi parla di smettere?» Liebermann spalmò col coltello il purè di patate sul dorso della forchetta. «Ho detto soltanto che non ho intenzione di andare fino a Fagersta. Non ho detto che non ho intenzione di andare in altri posti, e non ho neppure detto che non ho intenzione di chiedere a qualcun altro di andare a Fagersta, qualcuno che non abbia bisogno di interprete.» Si cacciò in bocca la forchettata di salsiccia e patate. Erano ai Cinque Continenti, il ristorante dell'aeroporto di Francoforte. Sabato sera, 9 novembre. Liebermann aveva combinato una sosta di due ore sulla via del ritorno a Vienna, e Klaus era venuto in macchina da Mannheim a incontrarlo. Il ristorante era costoso — Liebermann accettò il rimprovero di invisibili finanziatori — ma il ragazzo meritava un pasto come si deve. Non solo aveva indagato sull'uomo di Pforzheim, al cui salto, non caduta, da un ponte avevano assistito cinque persone, ma dopo che Liebermann gli aveva parlato da Gladbeck giovedì sera, era andato anche a Friburgo, mentre Liebermann si recava a Solingen. Inoltre, quella sua aria furbetta — i lineamenti piccoli, come strizzati, e gli occhietti brillanti — da vicino sembrava forse solo in parte frutto di scaltrezza e per l'altra parte di denutrizione. Mangiavano abbastanza, quei ragazzini? E così, Cinque Continenti. Non avrebbero potuto parlare in una tavola calda, no? August Mohr, il guardiano notturno dello stabilimento chimico di Solingen, era risultato, come aveva pensato Liebermann, un dipendente statale durante il giorno, e precisamente guardiano dell'ospedale dove era morto. Ma il comando dei vigili del fuoco aveva investigato a fondo in merito all'esplosione che l'aveva ucciso, e l'aveva collegata con tutta una serie di in-
cidenti che, ne erano certi, non potevano essere stati predisposti in anticipo. E quanto a Mohr, era una vittima di un complotto nazista improbabile quanto Emil Döring. Povero e semianalfabeta, vedovo da sei anni, viveva con la madre inferma in due stanze di una squallida pensione. Per la maggior parte della sua vita, compresi gli anni di guerra, aveva lavorato in un'acciaieria di Solingen. Corrispondenza o telefonate dall'estero? La sua padrona di casa aveva riso. «Neppure dall'interno, signore.» Klaus, a Friburgo, sulle prime aveva creduto di aver scovato qualcosa. L'uomo in questione, un impiegato dell'Acquedotto municipale a nome Josef Rausenberger, era stato accoltellato e derubato nei pressi di casa, e una vicina aveva visto qualcuno tener d'occhio la casa la sera prima. «Un uomo con un occhio di vetro?» «Non sarebbe stata in grado di notarlo, era troppo lontana. Un uomo grande e grosso su una piccola automobile, intento a fumare, è stato quanto ha riferito alla polizia. Non ha saputo nemmeno dire la marca dell'automobile. Perché, c'era un uomo con un occhio di vetro a Solingen?» «A Gladbeck. Continui.» Ma Rausenberger non aveva fatto parte di alcuna organizzazione internazionale. Aveva perso le gambe dal ginocchio in giù in un incidente ferroviario quand'era ragazzo; di conseguenza, non aveva fatto il servizio militare né messo piede — piede artificiale, s'intende — fuori dei confini della Germania. («Per favore» rimproverò Liebermann.) Era stato un lavoratore efficiente e meticoloso, un marito e padre devoto. Aveva lasciato i suoi risparmi alla vedova. Aveva disapprovato i nazisti e votato contro di loro, ma niente di più. Nato a Schwenningen. Mai stato a Günzburg. Un solo parente degno di nota: un cugino, direttore editoriale del "Berliner Morgen post". Döring, Müller, Mohr, Rausenberger: nessuno di loro neppure lontanamente immaginabile nei panni di una vittima dei nazisti. Quattro su undici. «Conosco un tale a Stoccolma,» disse Liebermann «un incisore, originario di Varsavia. Molto intelligente. Sarà ben lieto di andare a Fagersta. L'uomo di là, Persson, e quello di Bordeaux sono i due casi principali su cui indagare. Il 16 ottobre è l'unica data cui abbia fatto cenno Barry. Se nessuno di questi due era qualcuno che i nazisti avrebbero potuto e voluto uccidere, allora vuol dire che si è sbagliato.» «A meno che lei non abbia ricevuto notizie sull'uomo giusto. Oppure che sia stato ucciso il giorno sbagliato.» «A meno che» ripeté Liebermann tagliando un pezzo di salsiccia. «Tutta
la faccenda è fatta di "a meno che" questo, "se" quello, "forse" quest'altro. Vorrei proprio che non mi avesse telefonato.» «Cosa le ha detto esattamente? In che modo tutto è accaduto?» Liebermann rifece la storia da capo. Il cameriere ritirò i piatti vuoti e prese l'ordinazione del dessert. Quando se ne fu andato, Klaus disse: «Si è reso conto che alla lista potrebbe essere stato aggiunto anche il suo nome? Anche se non si trattava di Mengele, che l'ha riconosciuto per telepatia — cosa che non credo neppure per un attimo, Herr Liebermann, e sono sorpreso che ci creda lei — ma se ad agganciare il telefono è stato un qualsiasi altro nazista, certamente si sarà preso la briga di scoprire con chi stava parlando Barry. La centralinista dell'albergo l'avrà saputo di sicuro». Liebermann sorrise. «Ho soltanto sessantadue anni,» disse «e non sono uno statale.» «Non ci scherzi su. Se sono stati spediti dei sicari, perché non affidar loro un incarico in più? Con assoluta priorità.» «Allora il fatto che sono ancora vivo lascerebbe pensare che in realtà non siano stati mandati dei sicari.» «Forse hanno deciso di aspettare un po', Mengele e l'Organizzazione dei Camerati, perché lei sapeva. O magari hanno addirittura annullato l'intera operazione.» «Vede cosa intendo dire a proposito dei "se" e "forse"?» «Si è davvero reso conto che può essere in pericolo?» Il cameriere mise davanti a Klaus crostata di ciliege e a Liebermann torta di Linz. Versò nelle tazze il caffè di Klaus e il tè di Libermann. Quando se ne fu andato, Liebermann, lacerando la carta che avvolgeva le zollette di zucchero, disse: «Sono in pericolo da molto tempo, Klaus. Ho smesso di pensarci; altrimenti avrei dovuto chiudere il Centro e dedicare la mia vita a qualcos'altro. Lei ha ragione; "se" dei sicari esistono, probabilmente sono sulla lista. Dunque, scoprire la verità è ancora l'unica cosa da farsi. Andrò a Bordeaux e dirò a Piwowar, il mio amico di Stoccolma, di andare a Fagersta. E se neppure questi uomini possono essere stati probabili vittime, ne controllerò ancora qualcun altro, tanto per essere sicuro». Klaus, mescolando il caffè, disse: «Potrei andarci io, a Fagersta; parlo un po' lo svedese». «Ma per lei dovrei pagare il biglietto, giusto? Mentre per Piwowar, no. Purtroppo, è un fattore importante. E poi, lei non dovrebbe perdere con tanta disinvoltura le lezioni.»
«Potrei saltare tutte le lezioni per un mese e riuscire lo stesso a laurearmi con lode.» «Oh, cielo. Che cervellone. Mi parli di lei; come ha fatto a diventare così intelligente?» «Potrei dirle qualcosa di me che forse la sorprenderebbe, Herr Liebermann.» Liebermann ascoltò con aria grave e comprensiva. I genitori di Klaus erano ex nazisti. Sua madre era stata intima di Himmler; suo padre era stato colonnello della Luftwaffe. Quasi tutti i giovani tedeschi che si offrivano di aiutare Liebermann erano figli di ex nazisti. Era una delle poche cose che gli facevano pensare che forse Dio esisteva davvero e agiva, anche se lentamente. «Siamo tremendi.» «No, che non lo siamo, siamo uno schianto. Dovrebbero girarci un film.» «Sai benissimo cosa voglio dire. Guardaci; uno, due e sotto le lenzuola. Scommetto due pence che ti sei dimenticato persino come mi chiamo.» «Meg, diminutivo di Margaret.» «Cognome.» «Reynolds. Due pence per favore, infermiera Reynolds.» «Troppo buio per trovare il borsellino. Ti accontenti di questo?» «Mmm, ma certo. Mmm, che bello.» «"Arrossendo timidamente, lei disse: Non sarà soltanto quest'unica notte, signore, vero?"» «È questo che hai in mente?» «No, sto pensando al prezzo dei sottaceti. Ma certo, che è questo che ho in mente! Non è il mio modus vivendi solito, sai.» «Dico! "Modus vivendi"!» «Parla chiaro!» «Non stavo cercando di essere evasivo, Meg. Temo che potrebbe essere solo stanotte, ma non perché io voglia così. Non ho scelta. Mi hanno mandato quassù a... combinare un certo affare con qualcuno, e quello è ricoverato nel tuo maledetto ospedale, sotto la tenda a ossigeno, e non può ricevere visite, a eccezione dei parenti stretti.» «Harrington?» «Proprio luì. Quando telefonerò per riferire che non posso mettermi in contatto con lui, probabilmente mi richiameranno giù a Londra. Siamo ter-
ribilmente a corto di personale attualmente.» «Tornerai quando si riprende?» «Non è probabile. Allora mi avranno già affidato un altro caso; il mio posto lo prenderà qualcun altro. Supposto che davvero si riprenda. È dubbio, a quanto ho capito.» «Sì, ha sessantasei anni, sai, e ha subito un attacco piuttosto grave. È di costituzione forte, però. Faceva una corsa in giardino tutte le mattine alle otto in punto; ci potevi regolare l'orologio. Dicono che fa bene al cuore, ma io dico che fa male, a quell'età.» «È un peccato che non possa mettermi in contatto con lui; avrei potuto fermarmi qui una quindicina di giorni, al minimo. Credi che potremmo passare insieme il Natale? Chiudiamo bottega allora; potresti essere libera?» «Potrei...» «Splendido! E vorresti? Ho un appartamentino a Kensington, con un letto un tantino più morbido di questo.» «Alan, che affari tratti esattamente?» «Te l'ho detto.» «Di certo non hai l'aria di occuparti di vendite. I viaggiatori di commercio non hanno "casi" da trattare. Se mai trattano "casse", ma qui non ne ho notata neppure una. Non che ne abbia avuto il tempo. Cosa vendi, eh? Non sei un viaggiatore di commercio, vero?» «Furba, la mia Meg. Sai tenere un segreto?» «Certo.» «Davvero?» «Sì, davvero. Puoi fidarti di me, Alan.» «Be'... Lavoro per il fisco. Ci è giunta voce che Harrington ci ha truffati per qualcosa come trentamila sterline negli ultimi dieci o dodici anni.» «Non ci credo! È un magistrato!» «Sono proprio loro, più spesso di quanto tu possa credere.» «Buon Dio, è un monumento alla virtù civica.» «Potrebbe anche essere. Sono stato mandato a scoprirlo. Vedi, dovevo installare una trasmittente in casa sua, quella che noi chiamiamo una "cimice", e captarla dalla mia stanza, qui, vedere quel che potevo raccogliere.» «Ah, è così che lavorate?» «È la prassi normale in casi come questo. Ho il mandato di comparizione in valigia. La sua stanza d'ospedale sarebbe stata persino meglio di casa
sua. La gente diventa un tantino nervosa, in ospedale; dice alla moglie dov'è nascosto il bottino, sussurra un paio di paroline al suo avvocato... Ma non posso entrare a installare quel maledetto aggeggio. Potrei mostrare il mandato al tuo direttore, ma scommetterei che è amico di Harrington; direbbe qualcosa e buona notte al secchio.» «Bastardo. Schifoso vecchio bastardo!» «Meg! Che stai...» «Credi che non capisca qual è il tuo gioco? Vorresti che fossi io a installare quel tuo come si chiama. Per questo ci siamo "accidentalmente" incontrati. E mi hai dato a bere un sacco di... Oh, Cristo, avrei dovuto immaginarlo che miravi a qualcosa, Don Giovanni che perde la testa per una vecchia grassona come me.» «Meg! Non dire una cosa del genere, amore!» «Toglimi le mani di dosso. E non chiamarmi "amore". Oh, Cristo, quanto sono scema!» «Meg cara, ti prego, stenditi e...» «Stai lontano! Sono proprio contenta che vi abbia fregati. Voi, cimiciosi che siete, ci spremete già anche troppo. Oh, ma che bel giochetto di parole. Ricordami di ridere.» «Meg! Sì, hai ragione, è vero; speravo che mi avresti dato una mano, ed è per questo che ci siamo incontrati. Ma non è per questo che siamo qui ora. Credi che sia così leale nei confronti del maledetto fisco, da andare a letto con una che non mi piace solo per incastrare un piccolo manigoldo ridotto a malpartito come Harrington? E che vorrei continuare a farlo per quindici giorni e anche più? Lui non è niente, in confronto alla maggior parte di quelli a cui diamo la caccia. Pensavo davvero ogni parola che ti ho detto, Meg, sul fatto che preferisco le donne floride, e mature, e che voglio che tu venga a stare con me a Natale.» «Non credo neppure una parola.» «Oh, Meg, vorrei... strapparmi la lingua! Tu sei la cosa più bella che mi sia capitata da quindici anni a questa parte. E adesso ho rovinato tutto con la mia stupidità! Non vuoi distenderti, amore? Non parlerò mai più di Harrington. Adesso non ti permetterei di aiutarmi, neppure se mi pregassi di farlo.» «Non lo farò, non aver paura.» «Distenditi, amore... così, brava... e lascia che ti abbracci e che baci queste belle e grosse... Mmm! Ah Meg, sei davvero il paradiso! Mmm!» «Bastardo...»
«Sai cosa faccio? Domani telefono e dico al mio capo che Harrington si sta rimettendo e credo che sarò in grado di installare la cimice tra un paio di giorni. Forse riesco a trattenerlo fino a giovedì o venerdì prima che mi richiami. Mmm! Vado pazzo per le infermiere, lo sapevi? La mia mamma era un'infermiera, e lo era anche Mary, mia moglie. Mmm!» «Aah...» «Può darsi che io non piaccia a te, ma ai tuoi capezzoli, sì.» «Parlavi sul serio a proposito di Natale, bastardo?» «Te lo giuro, amore, e qualsiasi altro momento riusciamo a trovare. Forse potresti trasferirti definitivamente a Londra; hai mai pensato di farlo? Ci sono sempre posti di infermiera, no? Lo so per esperienza, per via di Mary.» «Oh, non potrei. Così su due piedi far fagotto e traslocare. Alan? Potresti... davvero fermarti quindici giorni?» «Potrei combinare di fermarmi anche di più, se riuscissi a installare la cimice; dovrei aspettare finché esce dalla tenda a ossigeno ed è in grado di parlare con la gente... Ma non te lo lascerò fare, Meg; parlo sul serio.» «So già...» «No. Non rischierò di rovinare i nostri rapporti.» «Oh, accidenti. So già che sei un bastardo, così che differenza ci sarebbe? Voglio dare una mano al governo, non a te.» «Be'... suppongo che non dovrei mettere i bastoni tra le ruote al mio lavoro.» «Quasi quasi me l'immaginavo che avresti ceduto. Cosa devo fare? Non so collegare cavi, ecc.» «Non ce n'è bisogno. Dovrai semplicemente portare un pacchetto nella sua stanza. Delle dimensioni di una scatola di cioccolatini. E di una scatola di cioccolatini si tratta, avvolta come si deve in carta fiorata. Non dovrai far altro che svolgere la carta, posare la scatola vicino al letto — su uno scaffale o un comodino o qualcosa del genere: più vicino alla testa è meglio è — e aprirla.» «Tutto qui? Semplicemente aprirla?» «Funziona automaticamente.» «Credevo che questi aggeggi fossero piccolissimi.» «Quelli da applicare al telefono. Non questo tipo.» «Non provocherà scintille, no? Per l'ossigeno, sai.» «Oh no, non è possibile. Contiene solo un microfono e una trasmittente sotto uno strato di cioccolatini. Non devi aprirla finché non l'avrai messa al
posto giusto; non bisogna scuoterla troppo, una volta che si mette a trasmettere.» «Ce l'hai pronta? La sistemerò domani. Oggi, dovrei dire.» «Brava.» «Quel bravo vecchio Harrington, un evasore fiscale! Farà sensazione, se l'arresteranno!» «Non devi fiatare con nessuno finché non avremo le prove.» «Oh, no, non dirò niente; lo so. Dobbiamo supporre che sia innocente. Che cosa eccitante! Sai cosa farò, una volta aperta la scatola, Alan?» «Non riesco a immaginarlo.» «Ci sussurrerò dentro qualcosa, qualcosa che mi piacerebbe che mi facessi domani sera. In cambio dell'aiuto che ti do. Riuscirai a sentirlo, no?» «Nel momento preciso in cui la apri. Ascolterò col fiato sospeso. Cosa mai riuscirai a escogitare, cattiva Meg? Oh, sì, ooh, così è bellissimo, amore.» Liebermann andò a Bordeaux e a Orléans, e il suo amico Gabriel Piwowar si recò a Fagersta e a Gòteborg. Nessuno dei quattro impiegati statali di sessantacinque anni che erano morti in quelle città mostrava più probabilità di essere una vittima dei nazisti dei quattro che erano già stati passati al setaccio. Arrivò un altro fascio di ritagli e frammenti di telescrivente, ventisei questa volta, dei quali sei possibili. Ora ce n'erano diciassette, dei quali otto, ivi compresi i tre del 16 ottobre, erano stati eliminati. Liebermann era certo che Barry si fosse sbagliato, ma ricordando a se stesso la gravità della situazione "se", decise di vagliarne altri cinque, quelli di più facile verifica. Ne delegò due in Danimarca a un suo finanziatore locale, un esattore a nome Goldschmidt, e uno di Trittau, presso Amburgo, a Klaus. Due in Inghilterra li controllò di persona, unendo l'utile al dilettevole: una visita a sua figlia Dena e ai suoi familiari, a Reading. I cinque casi in questione non si scostavano dagli altri otto. Diversi, ma analoghi. Klaus riferì soltanto che la vedova Schreiber era incline a fare con lui qualcosa di più che chiacchierare. Arrivarono altri ritagli, accompagnati da un biglietto di Beynon: "Temo di non poter più giustificare la faccenda a Londra. Ne è uscito qualcosa?". Liebermann lo chiamò; Beynon era fuori. Ma lo richiamò un'ora più tardi. «No, Sydney,» disse Liebermann «era una pista sbagliata. Ne ho con-
trollati tredici, su diciassette possibili. Nessuno di loro era un uomo che i nazisti avrebbero motivo di uccidere. Ma è bene che abbia controllato, e mi dispiace soltanto di averti procurato un simile fastidio.» «Nessun fastidio. Il ragazzo non si è ancora fatto vivo?» «No. Ho ricevuto una lettera da suo padre. È andato laggiù due volte, in Brasile, e due volte a Washington; non sa rassegnarsi.» «Peccato. Fammi sapere se scopre qualcosa.» «Lo farò. E grazie ancora, Sydney.» Nessuno degli ultimi ritagli era un caso possibile. Ed era in fondo meglio così. Liebermann rivolse la sua attenzione a una campagna epistolare, intesa a ottenere che il governo della Germania Occidentale rinnovasse i tentativi per estradare Walter Rauff, responsabile di aver gassato novantasettemila donne e bambini, e che allora viveva, come vive ora sotto il suo vero nome, a Punta Arenas, in Cile. Nel gennaio 1975 Liebermann si recò negli Stati Uniti per quello che doveva essere un giro di conferenze di due mesi, un circuito in senso antiorario della metà orientale del paese con partenza e arrivo a New York City. Il suo ufficio gli aveva fissato settanta impegni e rotti. Alcuni presso college e università e la maggioranza in sinagoghe e in occasione di riunioni conviviali di gruppi ebraici. Prima di iniziare il giro di conferenze venne scortato a Filadelfia e apparve in un programma televisivo (in compagnia di un esperto in cibi genuini, di un attore e di una donna che aveva scritto un romanzo erotico; ma, gli assicurò il signor Goldwasser dell'agenzia, era una pubblicità preziosa e molto difficile da ottenere). La sera del 14 gennaio, un giovedì, Liebermann parlò alla Congregation Knesses Israel di Pittsfield, nel Massachusetts. Una donna che s'era portata appresso una copia in edizione economica del suo libro perché ci scrivesse l'autografo gli disse, mentre lui scriveva, che era di Lenox, non di Pittsfield. «Lenox?» domandò Liebermann. «È vicino?» «Una decina di chilometri» disse la donna, sorridendo. «Ma sarei venuta anche se ne distasse cento.» Lui sorrise e la ringraziò. 16 novembre; Curry, Jack; Lenox, Massachusetts. Non aveva portato con sé l'elenco, ma ce l'aveva tutto impresso nella testa. Quella sera, nella stanza per gli ospiti del presidente della congregazione, rimase sveglio ad ascoltare i fiocchi di neve che battevano contro i vetri della finestra. Curry. Qualcosa che aveva a che fare con le tasse, con
l'intendenza di finanza. Ucciso in un incidente di caccia, qualcuno che aveva sparato a casaccio. Oppure aveva preso la mira? Aveva indagato. Tredici su diciassette. Compresi i tre del 16 ottobre. Però c'era solo una decina di chilometri... Il percorso in autobus fino a Worcester non avrebbe richiesto più di due ore, e lui non doveva trovarcisi prima dell'ora di cena. Anche dopo cena, nella peggiore delle ipotesi... Il mattino dopo di buon'ora si fece prestare l'auto della sua ospite, una vecchia Oldsmobile, e andò a Lenox. Era caduta una dozzina di centimetri di neve e ne stava scendendo dell'altra, ma le strade erano coperte solo da un velo sottile. Bulldozer spazzavano la neve; altre macchine la scagliavano lontano in archi turbinosi. Incredibile; in Austria tutto si sarebbe fermato, come morto. A Lenox scoprì che nessuno aveva ammesso d'aver sparato a Jack Curry. E no, per una volta, il comandante della polizia De Gregorio non era affatto sicuro che si fosse trattato di un incidente. Il colpo era stranamente netto; in pieno alla nuca, attraverso il berretto rosso da caccia. Sembrava un colpo sparato con mira esatta più che una disgrazia. Ma Curry era morto da cinque o sei ore quando era stato rinvenuto, e la zona dell'incidente era stata ormai calpestata da almeno una dozzina di persone, per cui la polizia cosa poteva mai aspettarsi di trovare? Neppure il bossolo era saltato fuori. Avevano indagato in cerca di qualcuno che nutrisse rancore nei confronti di Curry, ma non avevano trovato nessuno. Curry era stato un funzionario onesto e moderato, un cittadino rispettato e benvoluto. Era appartenuto a un qualsiasi gruppo o organizzazione internazionale? Al Rotary; per il resto Liebermann avrebbe dovuto chiedere alla signora Curry. Ma De Gregorio pensava che non avrebbe avuto molta voglia di parlare; aveva sentito dire che era ancora sconvolta dall'accaduto. A mattino inoltrato, Liebermann sedeva in una cucinetta disordinata, a bere un debole tè da un boccale sbreccato, sentendosi quasi in colpa perché la signora Curry minacciava di scoppiare a piangere da un momento all'altro. Al pari della vedova di Emil Döring aveva passato da poco la quarantina, ma era questa l'unica somiglianza: la signora Curry era scarna e casalinga, con capelli bruni tagliuzzati alla bell'e meglio come un ragazzino; aveva spalle ossute e neanche l'ombra di seno, in un vestito da casa a fiori, sbiadito. Ed era addolorata. «Nessuno può aver voluto ucciderlo» ripeté più volte, passandosi la punta delle dita arrossate, con le unghie scheggiate, sotto gli occhi gonfi di lacrime. «Era... l'uomo migliore che ci fosse sulla verde terra di Dio. Forte e buono e paziente, sempre pronto a perdonare;
era una... roccia e ora... oh Dio! Io... io sono...» e pianse; prese un fazzoletto di carta cincischiato e se lo premette su un occhio inondato di lacrime, poi sull'altro, appoggiò la fronte sulla mano, il gomito aguzzo sul ripiano del tavolo; singhiozzò, facendo sobbalzare le spalle. Liebermann posò il tè sul tavolo e si protese in avanti senza sapere che fare. Lei si scusò, senza smettere di piangere. «Non si preoccupi,» disse lui «non si preoccupi.» Bell'aiuto. Dieci chilometri nella neve aveva percorso, per far piangere quella donna. Tredici su diciassette non bastavano? Si appoggiò allo schienale, sospirò e attese; lasciò vagare lo sguardo sconsolato nella cucinetta gialla con i piatti sporchi e il vecchio frigorifero, una scatola piena di bottiglie vuote accanto alla porta di servizio. Falsa Pista Numero Quattordici. Una felce in un vaso di vetro rosso sul davanzale dietro l'acquaio, un fustino di Ajax. Un disegno di un aereo, un 747, incollato all'antina di un armadietto; un bel disegno, a osservarlo da dove sedeva lui. Una scatola di cereali sulla mensola, Cheerios. «Mi spiace» disse la signora Curry, soffiandosi il naso. I suoi umidi occhi color nocciola si fissarono su Liebermann. «Le farò solo qualche domanda, signora Curry» disse. «Apparteneva a qualche gruppo o organizzazione internazionale di uomini della sua età?» Lei scosse il capo, abbassò il fazzoletto. «Gruppi americani» disse. «L'American Legion, gli ex combattenti, il Rotary... no, questo è internazionale. Il Rotary Club. È l'unico.» «Era un ex combattente della seconda guerra mondiale?» Lei annuì. «Aviazione. S'era guadagnato la croce al merito dell'aeronautica.» «In Europa?» «In Estremo Oriente.» «Questa è una domanda personale, ma spero che non me ne vorrà. Ha lasciato a lei il suo denaro?» La donna fece cautamente segno di sì. «Non ce n'è molto...» «Dov'era nato?» «A Berea, nell'Ohio.» Poi, guardando oltre Liebermann, disse con un sorriso forzato: «Che ci fai tu, fuori dal letto?». Liebermann si voltò a guardare. Sulla soglia era ritto il ragazzino Döring. Emil, no, Erich Döring, magro e col naso affilato, i capelli bruni scarmigliati; in pigiama a righe bianche e azzurre, a piedi nudi. Il ragazzi-
no si grattò il petto, fissando incuriosito Liebermann. Liebermann si alzò sorpreso; disse: «Guten Morgen» e si rese conto, già mentre lo diceva e il ragazzo faceva un cenno con la testa ed entrava nella stanza, che Emil Döring e Jack Curry si erano conosciuti. Dovevano essersi conosciuti; altrimenti, come mai il ragazzo si trovava lì in visita? Con crescente eccitazione si rivolse alla signora Curry, domandando: «Come mai questo ragazzo si trova qui?». «Ha l'influenza» disse lei. «E comunque non fanno lezione per via della neve. Questo è Jack junior. No, non venire troppo vicino, tesoro. Questo è il signor Liebermann di Vienna, in Europa. È un uomo famoso. Oh, dove sono le tue ciabatte, Jack? Che cosa vuoi?» «Un bicchiere di succo di pompelmo» disse il ragazzo. In perfetto inglese. Un accento simile a quello di Kennedy. La signora Curry si alzò. «Parola d'onore,» disse «finirà che ti cresceranno i piedi prima che ti decida a infilartele! E con l'influenza!» Si accostò al frigorifero. Il ragazzo fissò Liebermann con gli occhi di un azzurro slavato di Erich Döring. «Per che cosa è famoso?» «Dà la caccia ai nazisti. La settimana scorsa era nel programma di Mike Douglas.» «Es ist dock ganz phantastisch!» esclamò Liebermann. «Lo sai che hai un gemello? Un ragazzo esattamente simile a te che vive in Germania, in una città che si chiama Gladbeck.» «Esattamente come me?» Il ragazzo appariva scettico. «Esattamente! Non ho mai visto prima d'ora una simile... somiglianza. Solo due gemelli possono essere somiglianti a questo punto!» «Jack, adesso torna a letto» disse la signora Curry, ritta accanto al frigorifero con un cartone di succo di frutta in mano, sorridente. «Te lo porto io.» «Aspetta un momento» disse il ragazzo. «Neppure un secondo!» disse la donna con severità. «Peggiorerai invece di migliorare, andandotene in giro a questo modo, senza vestaglia, senza pantofole; avanti.» Sorrise di nuovo. «Saluta e vattene.» «Gesù Cristo Santo» disse il ragazzo. «Arrivederci!» Uscì a lunghi passi dalla stanza. «Tieni la lingua a posto!» La signora Curry lo seguì con uno sguardo adirato, che rivolse anche a Liebermann, e si girò verso un armadietto spalancandone l'antina con uno strattone. «Vorrei vedere se fosse lui a pagare
il conto del dottore» disse. «Allora ci penserebbe su due volte.» Prese un bicchiere. Liebermann disse: «È stupefacente! Credevo che fosse il ragazzo tedesco venuto qui in visita! Persino la voce è la stessa, l'espressione degli occhi, i movimenti...». «Ognuno di noi ha un sosia» disse la signora Curry, versando cautamente il succo di pompelmo nel bicchiere di vetro verde. «Il mio sosia sta nell'Ohio, è una ragazza che Big Jack conosceva prima che c'incontrassimo.» Posò il cartone e si girò, con in mano il bicchiere pieno. «Be',» disse sorridendo «non vorrei sembrarle inospitale, ma può vedere da sé che qui c'è una tremenda quantità di cose da fare. Per di più Jack a casa da scuola. Sono sicura che nessuno ha sparato a Big Jack di proposito. È stata una disgrazia. Non aveva un nemico al mondo.» Liebermann ammiccò, annuì e prese il suo cappotto sullo schienale della sedia. Sbalorditiva, una somiglianza del genere. Due gocce d'acqua. E ancora più sbalorditiva se alla somiglianza dei due volti sparuti e dell'atteggiamento scettico si aggiungeva la somiglianza dei due padri di sessantacinque anni, che erano stati entrambi funzionari statali, morti di morte violenta a distanza di un mese l'uno dall'altro. E in più, la somiglianza dell'età delle madri, quarantuno o quarantadue anni. Come poteva darsi una tale identità? Il volante tirava a destra; lo raddrizzò, sbirciando attraverso il rapido schioccare del tergicristallo. Concentrarsi sulla guida... Non poteva trattarsi solo di concidenze, erano troppe. Ma che altro poteva mai essere? Possibile che la signora Curry di Lenox, la quale lodava la tolleranza del marito defunto, e Frau Döring di Gladbeck, a quanto pareva non un modello di fedeltà, avessero avuto entrambe una relazione con lo stesso individuo magro dal naso affilato nove mesi prima della nascita dei loro figli? Anche in quel caso improbabile (un pilota della Lufthansa che faceva il pendolare tra Essen e Boston!), i ragazzi non sarebbero stati gemelli e invece era quello che erano, assolutamente identici. Gemelli... L'interesse preminente di Mengele. Il soggetto dei suoi esperimenti a Auschwitz. E allora? Il professore con i capelli bianchi di Heidelberg: "Nessuno dei suggerimenti avanzati fin qui ha preso in esame la presenza del dottor Mengele
nel problema". Sì, ma quei ragazzi non erano gemelli; sembravano soltanto gemelli. Dibatté il problema sull'autobus per Worcester. Doveva assolutamente trattarsi di una coincidenza. Ognuno di noi ha un sosia, come aveva detto con tanta noncuranza la signora Curry; e benché dubitasse della verità di questa affermazione, dovette ammettere di aver visto una quantità di persone somiglianti in vita sua: un Bormann, due Eichmann, una mezza dozzina di altri. (Ma somiglianti, non identiche; e perché mai la signora Curry aveva versato il succo di pompelmo con tanta precauzione? Forse era molto, molto preoccupata e temeva che il tremito della mano potesse tradirla? E poi, quel suo cacciarlo via, quel suo sentirsi improvvisamente affaccendata. Buon Dio, possibile che fossero implicate le mogli? Ma come? Perché?) La neve aveva cessato di cadere, splendeva il sole. Gli scorreva accanto il Massachusetts, colline e case di un bianco abbacinante. L'idea fissa di Mengele riguardo i gemelli. Se ne parlava in ogni resoconto di quella feccia subumana: le autopsie eseguite su gemelli macellati allo scopo di scoprire le ragioni genetiche delle loro lievissime differenze, i tentativi di operare mutazioni su gemelli viventi... Senti un po', Liebermann, stai uscendo dal seminato. Hai visto Erich Döring più di due mesi fa. Per meno di cinque minuti. E adesso vedi un ragazzo che è dello stesso tipo — con una forte somiglianza, d'accordo — e nella tua testa mescoli e raffronti, e oplà, ecco il risultato: gemelli identici, e Mengele a Auschwitz. Tutto si riduce al fatto che due uomini su diciassette per puro caso avevano figli che si somigliavano. Che c'è di tanto sbalorditivo? Già, ma se ce ne sono più di due? Se sono tre? Vedi? Fuori dal seminato. Perché non immagini un parto quadrigemino, già che ci sei? La vedova di Trittau aveva fatto l'occhiolino a Klaus, disposta a offrirgli qualcosa di più. A sessant'anni passati? Forse. Ma probabilmente più giovane. Quarantuno? Quarantadue? A Worcester chiese alla sua ospite, una certa signora Labowitz, se poteva fare una telefonata intercontinentale. «La rimborso, naturalmente.» «Signor Liebermann, la prego! Lei è ospite in casa nostra; il telefono è suo!» Non discusse. Quel posto era lussuoso. Erano le cinque e un quarto. Le undici e un quarto in Europa.
La centralinista riferì che il numero di Klaus non rispondeva. Liebermann le chiese di ritentare fra mezz'ora; riagganciò; ci pensò su un momento; e richiamò. Sfogliando la sua agenda, diede alla centralinista, il numero di Gabriel Piwowar a Stoccolma e quello di Abe Goldschmidt a Odense. Arrivò una telefonata per lui proprio mentre si stava sedendo a cena con quattro Labowitz e cinque ospiti. Si scusò e andò a rispondere in biblioteca. Goldschmidt. Parlarono in tedesco. «Che c'è? Devo indagare su altri uomini?» «No, sempre gli stessi due. Avevano figli sui tredici anni?» «Quello di Bramminge, sì. Horve. Okking di Copenhagen aveva due figlie che hanno passato la trentina.» «Quanti anni ha la vedova di Horve?» «È giovane. Sono rimasto sorpreso. Vediamo un po'. Un po' più giovane di Natalie. Quarantadue, direi.» «Hai visto il ragazzo?» «Era a scuola. Era con lui che dovevo parlare?» «No, volevo soltanto sapere com'è.» «Un bambino, magro come un chiodo. La madre aveva una sua fotografia sul pianoforte, che lo ritrae mentre suona il violino. Io ho detto qualcosa, e lei ha detto che era una vecchia fotografia, di quando aveva nove anni. Adesso ne ha quasi quattordici.» «Capelli bruni, occhi azzurri, naso affilato?» «E come posso ricordarmi? Capelli scuri, sì. Gli occhi non potrei dirlo comunque; la fotografia era in bianco e nero. Un ragazzo magro che suona il violino, bruno. Credevo che fossi soddisfatto.» «Anch'io. Grazie, Abe. Arrivederci.» Riagganciò; il telefono squillò, mentre ancora teneva in mano il ricevitore. Piwowar. Parlarono yiddish. «I due uomini su cui hai indagato, avevano figli di quasi quattordici anni?» «Anders Runsten, sì. Persson no.» «L'hai visto?» «Il figlio di Runsten? Mi ha fatto il ritratto mentre aspettavo sua madre. L'ho preso in giro, dicendogli che potevo assumerlo nel mio negozio.» «Com'è?»
«Pallido, sottile, capelli scuri, naso affilato.» «Occhi azzurri?» «Celesti.» «E la madre ha passato da poco la quarantina?» «Te l'ho detto io?» «No.» «E allora, come fai a saperlo?» «Non posso parlare ora. C'è gente che mi aspetta. Arrivederci, Gabriel. Stammi bene.» Il telefono squillò di nuovo; la centralinista riferì che il numero di Klaus non rispondeva ancora. Liebermann le disse che avrebbe richiamato più tardi. Andò in sala da pranzo, sentendosi vuoto dentro e con la testa rintronata, come se le sue componenti attive fossero altrove (a Auschwitz?) e soltanto i suoi indumenti, la pelle e i capelli, lì a Worcester, seduti con quella gente che invece era lì tutta intera. Fece e rispose alle solite domande, raccontò le solite storie; mangiò quel che bastava per non mettere in agitazione Dolly Labowitz. Raggiunsero la sinagoga con due automobili. Tenne la conferenza, rispose alle domande, firmò i libri. Quando tornarono a casa, riprovò a chiamare Klaus. «Sono le cinque di mattina in Germania» gli ricordò la centralinista. «Lo so» disse. Klaus rispose, vago e insonnolito. «Cosa? Sì? Buona sera! Dov'è?» «Nel Massachusetts, in America. Quanti anni aveva la vedova di Trittau?» «Cosa?» «Quanti anni aveva la vedova di Trittau? Frau Schreiber.» «Mio Dio! Non lo so, difficile dirlo; era truccatissima. Molto più giovane di lui, però. Poco meno o poco più di quaranta.» «Con un figlio di quasi quattordici?» «Suppergiù. Ostile nei miei confronti, ma non si può dargli torto; lei lo ha spedito dalla sorella perché potessimo "parlare a quattr'occhi".» «Me lo descriva.» Passò un momento. «Sottile, mi arrivava al mento, occhi azzurri, capelli scuri, naso affilato. Pallido. Che succede?» Liebermann passò le dita sui pulsanti quadrati del telefono. Rotondi starebbero meglio, pensò. Quadrati non avevano senso.
«Herr Liebermann?» «Non è una pista falsa» disse. «Ho trovato il legame.» «Mio Dio! E qual è?» Respirò a fondo: «Hanno lo stesso figlio». «Lo stesso cosa?» «Figlio! Lo stesso figlio! Lo stesso identico ragazzino! L'ho visto qui e a Gladbeck; lei l'ha visto là. Ed esiste a Göteborg, in Svezia; e a Bramminge, in Danimarca. Lo stesso identico ragazzo! Suona uno strumento musicale, oppure disegna. E sua madre ha sempre quarantuno o quarantadue anni. Cinque diverse madri, cinque diversi figli; ma il figlio è lo stesso, in diversi posti.» «Non... capisco.» «Neppure io! Il legame dovrebbe fornirci il motivo, giusto? E invece è più pazzesco di quello con cui abbiamo cominciato! Cinque ragazzi identici!» «Herr Liebermann... Credo che potrebbero essere sei. Frau Rausenberger di Friburgo ha quarantuno o quarantadue anni, e ha un ragazzino. Non l'ho visto né le ho chiesto quanti anni aveva — non immaginavo che fosse in qualche modo rilevante — ma lei mi ha detto che forse sarebbe andato anche lui a Heidelberg; ma non per studiare legge, per studiare letteratura.» «Sei» ripeté Liebermann. Tra loro calò il silenzio; si protrasse per un po'. «Ma novantaquattro?» «Sei è già una cosa impossibile,» disse Liebermann «sicché, perché no? Ma anche se fosse possibile, e non lo è, perché ucciderebbero i padri? Onestamente, credo che stasera andrò a dormire e mi sveglierò a Vienna la notte in cui tutto è cominciato. Sa qual era l'interesse principale di Mengele a Auschwitz? Gemelli. Ne ha uccisi a migliaia, "studiandoli", per imparare a riprodurre perfetti ariani. Mi farebbe un favore?» «Naturalmente!» «Torni a Friburgo e dia un'occhiata al ragazzo; veda se è lo stesso di quello di Trittau. Poi mi dica se sono pazzo o no.» «Ci andrò oggi. Dove posso trovarla?» «La chiamo io. Buona notte, Klaus.» «Buon giorno. Comunque, buona notte.» Liebermann posò il ricevitore. «Signor Liebermann?» Dolly Labowitz gli sorrideva dalla soglia. «Le andrebbe di guardare il telegiornale con noi? E di fare uno spuntino? Una
fetta di torta o un frutto?» Il seno di Hannah era asciutto e Dena piangeva, sicché, logicamente, Hannah era sconvolta. Era comprensibile. Ma era forse un motivo valido per cambiar nome a Dena? Hannah insisteva. "Non discutere" diceva. "D'ora in avanti la chiameremo Frieda. È un nome ideale per un neonato, e a me tornerà il latte." "Non ha senso, Hannah" diceva lui paziente, trascinandosi accanto a lei nella neve. "Una cosa non ha niente a che fare con l'altra." "Il suo nome è Frieda" diceva Hannah. "Glielo cambieremo legalmente." La neve si spalancava davanti a lei in un profondo baratro e Hannah vi scivolava dentro, con Dena che vagiva tra le sue braccia. Oh, Dio! Guardava la neve, ora intatta, e giaceva supino nel buio, su un letto, in una stanza. Worcester. Labowitz. Sei ragazzi. Dena cresciuta, Hannah morta. Che sogno. Da dove l'aveva tirato fuori? Frieda, poi! E Hannah e Dena che scivolavano in quel baratro... Giacque immobile per un momento, strizzando gli occhi per scacciare l'orribile visione, poi si alzò — una fievole luce metteva festoni al bordo inferiore delle imposte — e andò in bagno. Non si era alzato neppure una volta durante la notte; davvero una bella dormita. Non fosse stato per quel sogno. Tornò in camera da letto, portò l'orologio accanto a una finestra, lo guardò in tralice. Le sette meno venti. Tornò a infilarsi nel letto caldo, si tirò su le coperte e rimase disteso a pensare, la mente sgombra del mattino. Sei ragazzini identici — no, sei ragazzini molto somiglianti, forse identici — vivevano in sei posti diversi, con sei madri diverse, tutte della stessa età, e sei padri diversi, morti di morte violenta, tutti della stessa età, con occupazioni similari. Non era impossibile; era una realtà, un dato di fatto. Così andava studiato, dipanato, compreso. Giacendo immobile e a suo agio, lasciò libero sfogo alla mente. Ragazzi. Madri. Il seno di Hannah. Latte. Il nome ideale per un neonato... Buon Dio, ma certo. Doveva essere così. Lasciò che tutto si combinasse assieme... In parte, se non altro. Così si spiegava il succo di pompelmo e il modo in cui l'aveva sbattuto fuori. Il modo in cui aveva sbattuto fuori anche il ragazzo. Prendendo in
fretta una decisione, fingendo che a preoccuparla fossero i piedi scalzi e la mancanza di una vestaglia. Rimase lì disteso, sperando che gli si chiarisse anche il resto. La parte principale, la parte di Mengele. Ma non fu così. Eppure, un passo alla volta... Si alzò, fece la doccia e si rasò, si regolò i baffi, si pettinò; prese le pillole, si lavò i denti, si infilò in bocca il ponte. Si vestì e fece la valigia. Alle sette e venti entrò in cucina. C'era la cameriera Frances, e anche Bert Labowitz in maniche di camicia, che mangiava e leggeva. Dopo lo scambio dei saluti sedette al tavolo di fronte a Labowitz e disse: «Devo andare a Boston più presto di quanto pensassi. Posso venire con lei?». «Sicuro. Parto alle otto meno cinque.» «Perfetto. Devo fare una telefonata. Soltanto a Lenox.» «Scommetto che qualcuno l'ha messa in guardia contro Dolly, il modo con cui guida.» «No, c'è qualcosa di nuovo.» «Con me si godrà di più il viaggio.» Alle otto meno un quarto, dalla biblioteca, telefonò alla signora Curry. «Pronto?» «Buon giorno, sono ancora Yakov Liebermann. Spero di non averla svegliata.» Silenzio. «Ero in piedi.» «Come sta suo figlio stamane?» «Non lo so, sta ancora dormendo.» «Gli farà bene. È la cosa migliore, una bella dormita. Non sa che è adottato, vero? È per questo che si è innervosita, quando gli ho detto che aveva un gemello.» Silenzio. «Non s'innervosisca ora, signora Curry. A lui non lo dirò. Finché vorrà tenere il segreto, non dirò una parola. Mi dica solo una cosa, per favore. È molto importante. L'ha avuto da una donna che si chiamava Frieda Maloney?» Silenzio. «È così, ja?» «No! Un momento.» Il tonfo del ricevitore posato, passi che si allontanavano. Silenzio. Passi che tornavano. Sottovoce: «Pronto?». «Sì?» «L'abbiamo avuto tramite un'agenzia. Di New York. È stata un'adozione
perfettamente legale.» «L'agenzia Rush-Gaddis?» «Sì!» «Ci ha lavorato dal 1960 al 1963. Frieda Maloney.» «Non ho mai sentito questo nome prima d'ora! Perché si intromette in questo modo? Che differenza fa, se anche ha un gemello?» «Non ne sono sicuro.» «Allora non mi secchi più! E non si avvicini a Jack!» Si udì il clic del ricevitore che veniva riabbassato. Silenzio. Bert Labowitz lo accompagnò all'aeroporto Logan, e Liebermann prese l'aereo-navetta delle nove per New York. Alle dieci e quaranta era nell'ufficio della vicedirettrice dell'agenzia Rush-Gaddis, una bella donna sottile dai capelli grigi, la signora Teague. «Neppure uno» gli disse. «Neppure uno?» «No. Non era un'assistente sociale, non era qualificata per un lavoro del genere. Era una semplice impiegata addetta all'archivio. Naturalmente il suo avvocato, quando tentava di opporsi all'estradizione, ha fatto di tutto per presentarla sotto la luce più favorevole, per cui ha lasciato intendere che svolgeva un ruolo più importante di quello che effettivamente aveva; ma era semplicemente un'impiegata dell'archivio. L'abbiamo notificato agli avvocati del governo — eravamo molto ansiosi, com'è logico, di porre nell'esatta prospettiva i nostri rapporti con lei — e la nostra direttrice del personale ha ricevuto un mandato di comparizione in qualità di teste. Però non è mai stata chiamata a deporre. Abbiamo preso in considerazione l'idea di diramare una sorta di dichiarazione o comunicato stampa, in seguito, ma abbiamo deciso che a quel punto era meglio semplicemente lasciare che la cosa sbollisse da sé.» «Sicché non era vero che trovasse una casa ai piccoli.» Liebermann si tirò il lobo dell'orecchio. «Neppure una» disse la signora Teague. Gli sorrise. «E poi lei parte col piede sbagliato: la questione è quella di trovare i bambini per le case: la domanda eccede di gran lunga l'offerta. Soprattutto da quando sono cambiate le leggi sull'aborto. Siamo in grado di aiutare solo una piccola percentuale della gente che si rivolge a noi.» «Anche allora? Tra il 1960 e il '63?» «Allora e sempre, ma ora è peggio che mai.»
«Molte richieste?» «Più di trentamila, l'anno scorso. Da ogni parte del paese. Del continente.» «Mi consenta di domandarle una cosa. Una coppia viene da voi, o vi scrive, in quel periodo, 1961, '62. Brava gente, in condizioni economiche discrete. Lui è un funzionario statale, un posto sicuro. Lei è — mi lasci pensare un attimo — lei... è sui ventotto, ventinove anni, e lui ne ha cinquantadue. Che probabilità ci sono, per loro, di ottenere un bambino da voi?» «Nessuna. Non affidiamo bambini quando il marito è così vecchio. Il nostro limite massimo è quarantacinque, e arriviamo a quell'età solo se entrano in ballo fattori speciali. Per lo più affidiamo i bambini a coppie che abbiano passato da poco la trentina — abbastanza maturi da avere un matrimonio stabile e ancora abbastanza giovani per garantire al bambino una presenza continuata dei genitori. O le migliori probabilità, dovrei dire.» «E allora una coppia del genere dove può trovarlo, un bambino.» «Non alla Rush-Gaddis. Vi sono altre agenzie più elastiche. E, naturalmente, c'è il mercato illegale. Il loro avvocato o medico può essere a conoscenza di una ragazzina incinta che non vuole abortire. O che può essere indotta a non farlo per denaro.» «Ma se fossero venuti da voi li avreste respinti?» «Sì. Non abbiamo mai affidato un bambino a qualcuno che avesse superato i quarantacinque anni. Vi sono migliaia di coppie più adeguate che aspettano e pregano.» «E le domande respinte,» chiese Liebermann «magari sono state archiviate da Frieda Maloney.» «Da lei o da una delle altre impiegate» disse la signora Teague. «Conserviamo tutte le domande e la relativa corrispondenza per tre anni. Allora erano cinque, ma adesso abbiamo abbreviato il periodo; siamo a corto di spazio.» «Grazie.» Liebermann si alzò in piedi con la sua valigetta. «Mi è stata di grande aiuto. Le sono grato.» Da una cabina telefonica stradale di fronte al Guggenheim Museum, con valigia e cartella sul marciapiede accanto a sé, chiamò il signor Goldwasser all'agenzia che gli fissava le conferenze. «Ho una bruttissima notizia da darle. Devo tornare in Germania.» «Oh, mio Dio. Quando?» «Ora.»
«Non può! Stasera è alla Boston University! Dov'è ora?» «A New York. E stasera devo essere su un aereo.» «Ma ripeto che non può! Ha dato il suo benestare. Hanno già venduto i biglietti! E domani...» «Lo so, lo so! Crede che mi diverta ad annullare le conferenze a questo modo? Crede che non sappia che per lei è un grattacapo, e anche per loro, e che potrebbe persino farmi causa? È...» «Nessuno parla di...» «È questione di vita o di morte, signor Goldwasser. Di vita o di morte. Forse qualcosa di più.» «Dannazione. Quando sarà di ritorno?» «Non lo so. Può darsi che debba trattenermi in Europa per un bel po', e poi andare da qualche altra parte.» «Intende dire che annulla tutto il giro?» «Mi creda, se non dovessi...» «Questo mi è capitato soltanto una volta in diciotto anni, e in quel caso si trattava di un cantante, non di una persona responsabile come lei. Senta, Yakov, io l'ammiro e le voglio bene, non parlo semplicemente come suo agente ora, ma come essere umano, suo correligionario. Le chiedo di pensarci su molto bene: se annulla un intero giro di conferenze a questo modo, senza alcun preavviso... come possiamo continuare a rappresentarla? Nessuno la rappresenterà. Nessun gruppo sottoscriverà un contratto con lei. Così facendo, lei è finito come conferenziere negli Stati Uniti d'America. La imploro, per favore, ci pensi.» «Ci ho pensato mentre lei parlava» disse. «Devo andare. Vorrei proprio non doverlo fare.» Prese un tassi per l'aeroporto Kennedy e cambiò il biglietto di ritorno a Vienna con uno per Düsseldorf via Francoforte: il primo volo in partenza, quello delle sei. Comprò una copia del libro di Farago su Bormann e passò il pomeriggio seduto a leggere accanto a una finestra. V Si aspettava da un momento all'altro che venisse emesso un atto d'imputazione per sterminio nel campo di concentramento di Ravensbrück contro Frieda Altschul Maloney e altre otto persone; cosi, quando il 17 gennaio, un venerdì, Yakov Liebermann si presentò negli uffici dei legali di Frau
Maloney, Zweibel & Fassler di Düsseldorf, non gli venne riservata un'accoglienza particolarmente calda e neppure a temperatura ambiente. Ma l'avvocato Joachim Fassler era tanto esperto da sapere che Liebermann non era venuto lì per trionfare o per ammazzare il tempo; c'era qualcosa che voleva e, di conseguenza, qualcosa che avrebbe offerto o gli si sarebbe potuto chiedere in cambio. Così, acceso che ebbe il registratore, Fassler ricevette Liebermann nel suo ufficio. Aveva ragione. L'ebreo voleva incontrarsi con Frieda e interrogarla in merito a certe faccende in nessun modo collegate con le sue attività del tempo di guerra e prive di alcun rapporto con l'imminente processo — faccende americane, relative al periodo compreso tra il 1960 e il 1963. Quali faccende americane? Adozioni che Frieda o qualcun altro aveva combinato sulla scorta delle informazioni che aveva ricavato dagli archivi della RushGaddis. «Non sono al corrente di adozioni del genere» disse Fassler. Liebermann ribatté: «Lo è Frau Maloney». Se Frieda avesse acconsentito a vederlo e a rispondere in maniera esauriente e senza reticenze alle sue domande, lui avrebbe parlato a Fassler di certe testimonianze che sarebbero state presentate contro di lei da testi che lui stesso aveva scovato. «Quali?» «Niente nomi, solo qualche dato sulle loro deposizioni.» «Suvvia, Herr Liebermann, lei sa che non sono disposto a comprare la pelle dell'orso prima di averla nel sacco.» «Il prezzo è basso, no? Un'ora o giù di lì del tempo di Frieda. Non può essere molto occupata, chiusa in cella.» «Può darsi che non voglia parlare di queste presunte adozioni.» «Perché non glielo domanda? Vi sono tre testi di cui conosco la deposizione. Lei può ascoltarla per la prima volta in tribunale oppure averne un'anticipazione domani.» «Sinceramente e onestamente, non sono poi tanto interessato.» «Allora suppongo che non possiamo trattare.» Ci vollero quattro giorni per combinare la faccenda. Frau Maloney avrebbe parlato con Liebermann per mezz'ora delle faccende che gli interessavano, a patto che: a) Fassler fosse presente; b) non fosse presente una quarta persona; e) non fossero presi appunti; e d) Liebermann consentisse a Fassler di perquisirlo, per vedere se portava addosso un registratore, immediatamente prima dell'intervista. In cambio, Liebermann avrebbe detto a
Fassler tutto quel che sapeva in merito alle probabili deposizioni dei tre testi e fornito indicazioni relative all'età, al sesso, all'occupazione e alle presenti condizioni mentali e fisiche di ciascuno di loro, con particolare riguardo a ogni cicatrice, deformità o invalidità derivante da esperienze subite a Ravensbrück. La testimonianza e la descrizione di uno dei testi sarebbero state fornite prima dell'intervista; quelle degli altri due, subito dopo. Letto, approvato e sottoscritto. Il mattino del 22, mercoledì, Liebermann e Fassler raggiunsero insieme, a bordo dell'automobile sportiva grigio-argento di Fassler, la prigione federale di Düsseldorf dove Frieda Maloney era stata confinata dopo la sua estradizione dagli Stati Uniti nel 1973. Fassler, un uomo robusto e ben conservato tra i cinquanta e i sessant'anni, aveva suppergiù il colorito roseo di sempre ma, quando diedero i loro nomi e firmarono il registro, non aveva ancora riacquistato la consueta spavalda sicurezza. Liebermann gli aveva parlato del teste più pericoloso, sperando che il timore del peggio incombente l'avrebbe reso, e attraverso di lui anche Frieda Maloney, ansioso di non barare durante l'incontro. Una guardia li accompagnò di sopra in ascensore e li guidò lungo un corridoio coperto dalla moquette dove alcune guardie e sorveglianti sedevano in silenzio su panche tra porte di noce recanti lettere cromate. La guardia aprì una porta che recava la lettera G e fece entrare Fassler e Liebermann in una stanza quadrata dalle pareti beige, arredata con un tavolo rotondo da riunione e parecchie sedie. Due finestre schermate da tende di rete lasciavano entrare la luce del giorno dai muri adiacenti, una finestra sbarrata e l'altra no, il che parve strano a Liebermann. La guardia accese un lume a soffitto, che non causò quasi alcun mutamento nella stanza già illuminata. Si ritrasse, chiudendo la porta. Posarono cappelli e valigette sulla mensola di un attaccapanni d'angolo e si sfilarono i cappotti, appendendoli ai pioli. Liebermann rimase con le braccia spalancate e Fassler lo perquisì, mostrandosi battagliero e deciso. Tastò le tasche del cappotto appeso di Liebermann e gli chiese di aprire la valigetta. Liebermann sospirò, ma slacciò le cinghiette e l'aprì; mostrò documenti e il libro di Farago, la chiuse e riaffibbiò le cinghiette. Soddisfece la sua curiosità in merito alle finestre — quella non sbarrata dava su un cortile molto più in basso, chiuso da un altro muraglione; quella sbarrata si affacciava su un tetto nero poco sotto — poi sedette al tavolo dando le spalle alla finestra non sbarrata; ma subito tornò ad alzarsi, in modo da non doversi levare in piedi o non levare in piedi quando fosse en-
trata Frieda Maloney. Fassler socchiuse la finestra sbarrata e rimase a guardare fuori, scostando la tenda di rete beige. Liebermann incrociò le braccia e guardò una caraffa e alcuni bicchieri avvolti nella carta, posati su un vassoio sul tavolo. Aveva informato le autorità tedesche e americane in merito alla carriera e al domicilio di Frieda Altschul già nel 1967. I dati relativi a Frieda erano contenuti negli schedari del Centro, distillati da conversazioni e corrispondenza con dozzine di superstiti di Ravensbrück (tra cui i tre futuri testi); il domicilio gli era stato fornito da due altre superstiti, sorelle, che avevano intravisto la loro ex guardiana all'ippodromo di New York e l'avevano pedinata fino a casa. Personalmente, non aveva mai incontrato la donna. Non aveva nessuna voglia di sedere allo stesso tavolo con lei. A parte tutto il resto, la sua sorella di mezzo, Ida, era morta a Ravensbrück; era possibilissimo che Frieda Altschult Maloney avesse avuto un ruolo nella sua morte. Scacciò Ida dalla mente; ne scacciò ogni altra cosa a eccezione dell'agenzia Rush-Gaddis e di sei o più ragazzi che si somigliavano. Sta per entrare una ex impiegata dell'archivio della Rush-Gaddis, si disse. Siederemo a questo tavolo e parleremo un po', e forse scoprirò che diavolo sta succedendo. Fassler si voltò, scostò il polsino della camicia e diede un'occhiata all'orologio, aggrottando la fronte. L'uscio si aprì e entrò Frieda Maloney in uniforme azzurra, le mani in tasca. Una sorvegliante sorrise e disse: «Buon giorno, Herr Fassler». «Buon giorno» disse Fassler andandole incontro. «Come sta?» «Benissimo, grazie.» Quindi rivolse un sorriso a Liebermann e uscì richiudendo la porta. Fassler passò un braccio attorno alle spalle di Frieda Maloney, la baciò sulla guancia e la sospinse in un angolo, parlando sottovoce. Lei scomparve dietro la sua mole. Liebermann si schiarì la gola e sedette, accostando la sedia al tavolo. Aveva visto ciò che aveva già visto nelle fotografie: una donna di mezza età dall'aria qualsiasi. Piuttosto piccola, capelli quasi grigi rialzati ai lati del capo, ricci sulla sommità. Pelle malsana di un bianco grigiastro, mascella pesante, bocca delusa. Occhi stanchi ma risoluti. Nell'uniforme da carcerata, Frieda Maloney avrebbe potuto essere una cameriera o una sguattera oberata di lavoro. Un giorno, pensò, mi piacerebbe incontrare un mostro che abbia l'aspetto di un mostro.
Si afferrò al bordo di legno spesso del tavolo e si sforzò di udire ciò che Fassler stava dicendo. Si avvicinavano al tavolo. Fissò Frieda Maloney e lei, mentre Fassler scostava all'indietro la sedia di fronte, fissò lui, occhi azzurri che lo valutavano, bocca dalle labbra sottili piegata all'ingiù. Sedendosi, fece un cenno col capo. Lui le restituì il cenno di saluto. Frieda scoccò un sorriso di ringraziamento in direzione di Fassler e, appoggiati i gomiti ai braccioli della sedia, tamburellò coi polpastrelli delle dita sul bordo del tavolo, prima le dita di una mano, poi quelle dell'altra, con rapidità; poi smise e li lasciò lì fermi, fissandoli. Li fissò anche Liebermann. «Ora sono esattamente» Fassler, seduto alla destra di Liebermann, esaminò l'orologio che portava al polso «le dodici meno venticinque.» Guardò Liebermann. Liebermann guardò Frieda Maloney. Lei gli restituì lo sguardo. Le sopracciglia sottili si inarcarono. Liebermann constatò che non riusciva a parlare. In lui non c'era fiato — solo il pensiero di Ida. Gli batteva il cuore all'impazzata. Frieda Maloney si succhiò il labbro inferiore, lanciò un'occhiata a Fassler, tornò a guardare Liebermann; disse: «Non ho niente in contrario a parlare della faccenda dei bambini. Ho reso felice un sacco di gente. Non è cosa di cui mi vergogni». Aveva un morbido accento della Germania meridionale; di più facile ascolto che quello aspro di Fassler. «E per quanto riguarda l'Organizzazione dei Camerati,» disse sprezzante «non sono più miei camerati. Se lo fossero, non sarei qui, le pare? Sarei laggiù in Sowze Amayrica» sbarrò gli occhi «living zee good life.» Levò una mano sopra la testa e fece schioccare le dita, ondulando il torso in una parodia delle danze latino-americane. «La cosa migliore, credo,» le disse Fassler «sarebbe che lei dicesse tutto come lo ha detto a me.» Fissò Liebermann. «E poi lei potrà farle tutte le domande che vuole. Nei limiti di tempo consentiti. È d'accordo?» Il respiro tornò. «Sì» disse Liebermann. «Se ci sarà il tempo.» «Non avrà davvero intenzione di contare i minuti, vero?» chiese Frieda Maloney a Fassler. «Certo che sì» ribatté lui. «I patti sono patti.» E, rivolto a Liebermann: «Ci sarà tempo sufficiente, non si preoccupi». Guardò Frieda Maloney e le fece cenno col capo.
Lei incrociò le mani sul tavolo, fissò Liebermann. «Un uomo dell'Organizzazione si è messo in contatto con me» disse. «Nel 1960, in primavera. Un mio zio che vive in Argentina aveva parlato loro di me. Ora è morto. Volevano che mi trovassi un posto presso un'agenzia di adozioni. Alois, l'uomo in questione, aveva una lista di tre o quattro agenzie. Una qualsiasi sarebbe andata benissimo, purché ottenessi un incarico che mi consentisse di ficcare il naso negli schedari. "Alois" è stato il solo nome che mi ha dato, niente cognome. Oltre la settantina, capelli bianchi; il tipo vecchio soldato, con un atteggiamento molto rigido.» Interrogò con lo sguardo Liebermann. Lui non reagì e Frieda appoggiò le spalle allo schienale della sedia e si esaminò le unghie. «Sono andata in tutte le agenzie» continuò. «Non c'erano posti liberi, ma, passata l'estate, la Rush-Gaddis mi ha mandata a chiamare e poi mi hanno assunta. Come impiegata all'archivio.» Sorrise con aria meditabonda. «Mio marito pensava che fossi pazza a prendere un posto a Manhattan. Allora lavoravo presso una scuola superiore ad appena undici isolati da casa. Gli ho detto che alla Rush-Gaddis mi promettevano che in un anno o giù di lì sarei...» «Solo i fatti essenziali, d'accordo?» disse Fassler. Frieda Maloney aggrottò la fronte, annuì. «Sì. Rush-Gaddis.» Fissò Liebermann. «Il mio compito consisteva nello scorrere la corrispondenza e gli schedari in cerca di domande di adozione in cui il marito fosse nato tra il 1908 e il 1912 e la moglie tra il 1931 e il 1935. Il marito doveva avere un incarico in un servizio statale, ed entrambi dovevano essere bianchi, di religione cristiana, con ascendenze nordiche. Questo è quanto mi ha detto Alois. Ogniqualvolta ne trovavo una, e la cosa accadeva soltanto una o due volte al mese, la trascrivevo con la macchina per scrivere dell'ufficio assieme a tutte le lettere che s'erano scambiate la coppia e la Rush-Gaddis. Ne facevo due copie, una per Alois e una per me. Quelle per lui le indirizzavo a una casella di cui mi aveva dato il numero.» «Dove?» domandò Liebermann. «Proprio a Manhattan. Alla Planetarium Station, sulla West Side. Ho continuato a farlo, cercando il giusto tipo di domande e spedendole per posta, per tutto il tempo che sono rimasta là. Dopo un anno o giù di lì la cosa mi riusciva ancora più difficile, perché ormai avevo dato fondo agli schedari e dovevo cercare soltanto tra le nuove domande. A questo punto la parte riguardante l'impiego statale era mutata; purché l'occupazione fosse simile a un impiego statale, tutto andava bene. Un posto in cui l'uomo in
questione dipendeva da un grosso organismo e godeva di una certa autorità; il perito di una compagnia di assicurazioni, per esempio. Così ho dovuto ripassare da cima a fondo l'archivio. Complessivamente, devo aver impostato quaranta o quarantacinque domande di adozione nel giro di tre anni. Copie delle domande.» Si protese in avanti e prese dal vassoio uno dei bicchieri avvolti nella carta, se lo rigirò tra le mani. «Tra... oh, il Natale del 1960 e la fine dell'estate del 1963, cioè quando la cosa è finita e io me ne sono andata, questo è quanto accadeva. Mi chiamava Alois o un altro, Willi. Di solito Willi. Mi diceva: "Vedi un pò se... gli Smith della California ne vogliono uno in marzo". O un qualsiasi altro mese, di solito a due mesi di distanza. "Chiedi anche ai Brown del New Jersey." Magari mi indicava anche tre nomi.» Fissò Liebermann, spiegò: «Gente di cui avevo spedito in precedenza le domande di adozione». Lui annuì. «Ecco. Chiamavo gli Smith e i Brown.» Sollevò dalla bocca del bicchiere il lembo superiore della carta. «Un loro ex vicino di casa mi aveva detto che desideravano un bambino, dicevo. Erano ancora interessati? Lo erano quasi sempre.» Fissò con aria di sfida Liebermann. «Non semplicemente interessati. Esultanti. Soprattutto le donne.» Appallottolò la carta nella mano, spingendo fuori lentamente il bicchiere. «Dicevo loro che potevo procurargliene uno, un neonato bianco sano di qualche settimana, in marzo o quando che fosse. Corredato di tutti i documenti di adozione dello Stato di New York. Ma prima dovevano farmi avere al più presto possibile una completa documentazione medica — davo loro il numero della casella di Alois — e inoltre dovevano promettere di non dire mai al bambino che era adottato. Era la madre naturale a pretenderlo, dicevo. E, naturalmente, avrebbero dovuto versarmi un compenso quando fossero venuti a prendere il piccolo, se l'avessero ottenuto. Un migliaio di dollari, di solito, qualcosa di più, se potevano permetterselo. Potevo dedurlo dalla domanda di adozione. Una cifra sufficiente a far sembrare che si trattava di una qualsiasi operazione di mercato nero.» Posò la pallottola di carta sul vassoio e tolse il tappo alla caraffa. «Qualche settimana dopo ricevevo un'altra telefonata. "Smith non va bene. I Brown possono venire a prenderlo il 15 marzo." O magari...» Inclinò la caraffa sopra il bicchiere, l'inclinò ancora di più: non ne uscì niente. «Tipico» disse, capovolgendo la caraffa nera. «Tipico della disorganizzazione di questo maledetto posto! Bicchieri avvolti nella carta, ma neppure una goc-
cia d'acqua nella dannata bottiglia! Dio!» Sbatté la caraffa sul vassoio; i bicchieri incartati sobbalzarono. Fassler si alzò in piedi. «Vado a prenderla io» disse, afferrando la caraffa. «Lei continui.» Si allontanò in direzione della porta. Frieda Maloney disse a Liebermann: «Potrei dirgliene, di cose, circa l'inefficienza di questo posto... Dio! Ecco. Sì. Quello mi dice chi avrà il bambino e quando. O magari vanno bene tutte e due le coppie, così mi dice di chiamare la seconda e dir loro che per questa volta è troppo tardi, ma che conosco un'altra ragazza che ne aspetta uno per giugno». Si fece rotolare il bicchiere tra le palme, stringendo le labbra. «La sera della consegna del bambino,» proseguì «ogni cosa veniva combinata con molta cura in anticipo. Da Alois o Willi e me, e da me e la coppia. Io fissavo una stanza al Howard Johnson Motel dell'aeroporto, Kennedy ora, allora si chiamava Idlewild, a nome di Elizabeth Gregory. Il bambino mi veniva portato da una giovane coppia o da una donna sola o, a volte, da una hostess. Alcune di loro me ne portarono più di uno, in diverse occasioni, voglio dire, ma di solito era una persona nuova ogni volta. Mi portavano anche i documenti. Esattamente eguali a quelli veri, già compilati con i nomi della coppia. Una o due ore dopo arrivava la coppia e si portava via il bambino. Tutti felici. Riconoscenti.» Fissò Liebermann. «Brave persone che sarebbero state degli ottimi genitori. Mi versavano un compenso e mi promettevano — io li facevo giurare sulla Bibbia — di non rivelare mai al bambino che era adottato. Erano sempre maschietti. Tesorini. E quelli li prendevano e se ne andavano.» Liebermann disse: «Non sa da dove venivano? In origine, voglio dire?». «I bambini? Dal Brasile.» Frieda Maloney distolse lo sguardo. «Le persone che li portavano erano brasiliane,» disse, tendendo la mano «e le hostess lavoravano per la compagnia di bandiera brasiliana, la Varig.» Prese di mano la caraffa a Fassler, l'accostò al bicchiere, versò l'acqua. Fassler aggirò il tavolo e sedette. «Dal Brasile...» disse Liebermann. Frieda Maloney bevve, posando la caraffa sul vassoio. Bevve, abbassò il bicchiere, si leccò le labbra. «Tutto andava quasi sempre alla perfezione» disse. «Una volta la coppia non si è fatta viva. Ho telefonato e mi hanno detto che avevano cambiato idea. Così mi sono portata il bambino a casa e ho fatto venire la coppia successiva. E anche nuovi documenti. Ho detto a mio marito che c'era stata un po' di confusione alla Rush-Gaddis e nessun altro aveva posto per tenere il bambino. Lui non sapeva niente di niente.
Non lo sa neppure ora. Tutto qui. Complessivamente, devono essere stati una ventina di bambini; alcuni a breve distanza uno dall'altro al principio, e dopo, uno ogni due o tre mesi.» Sollevò il bicchiere e bevve un sorso. «Dodici minuti a mezzogiorno» disse Fassler, guardando l'orologio. Sorrise a Liebermann. «Vede? Le restano ancora diciassette minuti.» Liebermann rivolse lo sguardo a Frieda Maloney. «Com'erano i bambini?» le domandò. «Belli. Occhi azzurri, capelli scuri. Erano tutti eguali. Molto più di quanto lo siano in genere i neonati. Sembravano europei, non brasiliani; avevano la pelle chiara e gli occhi azzurri.» «Gliel'hanno detto, che venivano dal Brasile, oppure l'ha dedotto semplicemente dal...?» «Non mi dicevano niente di loro. Solo la data in cui sarebbero stati portati al motel, e l'ora.» «Secondo lei, di chi erano figli?» «La sua opinione» intervenne Fassler «non ha di certo alcun peso rilevante.» Frieda Maloney fece un gesto con la mano. «Che differenza fa?» domandò, e disse a Liebermann: «Ho pensato che fossero figli di tedeschi stabilitisi in Sudamerica. I figli illegittimi, magari, di ragazze tedesche e ragazzi sudamericani. Quanto al motivo per cui l'Organizzazione li spediva nel Nordamerica e sceglieva le famiglie d'adozione con tanta cura... questo non sono riuscita proprio a immaginarmelo». «Non ha chiesto?» «Nei primissimi tempi,» disse Frieda «quando Alois mi ha detto per la prima volta quale tipo di richieste di adozione dovevo cercare, gli ho domandato cosa c'era sotto. Lui mi ha detto di non fare domande, ma di eseguire semplicemente gli ordini che mi venivano dati. Per la Patria.» «E sono sicuro che lei si rendeva conto» le ricordò Fassler «che se non collaborava, lui avrebbe potuto farle passare quei guai che in definitiva le sono capitati anni più tardi.» «Sì, naturalmente» disse Frieda Maloney. «Me ne rendevo conto. Logico.» Disse Liebermann: «Le venti coppie alle quali ha affidato i neonati...». «Circa venti» precisò Frieda Maloney. «Forse un po' meno. Non più di venti.» «Erano tutte americane?» «Intende dire degli Stati Uniti? No, qualcuna era canadese. Cinque o sei.
Il resto era degli Stati Uniti.» «Nessuna europea.» «No.» Liebermann sedette in silenzio, massaggiandosi il lobo dell'orecchio. Fassler diede un'occhiata all'orologio. Liebermann disse: «Ricorda i loro nomi?». Frieda Maloney sorrise. «Sono cose di tredici, quattordici anni fa» disse. «Ne ricordo uno, Wheelock, perché mi hanno dato il mio cane e gli ho telefonato qualche volta per chiedere consigli. Li allevavano, doberman. Henry Wheelock e signora, di New Providence, in Pennsylvania. Avevo accennato loro che pensavamo di prenderne uno, così loro mi hanno portato Sally, che allora aveva appena dieci settimane, quando sono venuti a prendere il piccolo. Una bella cagna. Ce l'abbiamo ancora. Mio marito ce l'ha.» Liebermann disse: «Guthrie?». Frieda Maloney lo fissò e annuì. «Sì» disse. «Il primo è stato Guthrie; giusto.» «Di Tucson.» «No. Dell'Ohio. No, Iowa. Sì, Ames, nello Iowa.» «Si sono trasferiti a Tucson» disse Liebermann. «Lui è morto in un incidente l'ottobre scorso.» «Oh?» «Chi c'è stato poi, dopo i Guthrie?» Frieda Maloney scosse il capo. «Risale al periodo in cui ce ne sono stati alcuni a breve distanza l'uno dall'altro, solo due settimane.» «Curry?» Frieda guardò Liebermann. «Sì» disse. «Del Massachusetts. Ma non subito dopo i Guthrie. Aspetti un po'. I Guthrie sono venuti alla fine di febbraio; e poi un'altra coppia, da una località del sud... Macon, credo; e poi i Curry. E poi i Wheelock.» «Due settimane dopo i Curry?» «No, due o tre mesi. Dopo i primi tre bambini le consegne sono rallentate.» Liebermann domandò a Fassler: «Le darebbe un gran fastidio se questo lo scrivessi? Non la danneggerà, in America, tanto tempo fa». Fassler lo fissò accigliato e sospirò: «D'accordo» disse. «Perché è importante?» domandò Frieda Maloney. Liebermann estrasse la penna e scovò un pezzo di carta nella tasca.
«Come si scrive Wheelock?» domandò. Lei glielo sillabò. «New Providence, Pennsylvania?» «Sì.» «Si sforzi di ricordare: esattamente, quanto tempo dopo i Curry hanno ottenuto il loro bambino?» «Non riesco a ricordarlo con esattezza. Due o tre mesi; le consegne non erano regolari.» «Più vicino a due mesi o a tre?» «Non ricorda,» disse Fassler. «Va bene» disse Liebermann. «Chi c'è stato dopo i Wheelock?» Frieda Maloney sospirò. «Non riesco a ricordare chi c'è stato e in quale data» disse. «Ce ne sono stati venti, in un periodo di due anni e mezzo. C'è stato un Truman, nessun legame di parentela con il presidente. Credo che fosse una delle coppie canadesi. E c'è stato... "Corwin" o "Corbin", qualcosa del genere. Corbett.» Ricordò altri tre nomi, e sei località. Liebermann li trascrisse. «È ora» disse Fassler. «Le spiacerebbe aspettarmi fuori?» Liebermann mise via penna e carta. Rivolse uno sguardo a Frieda Maloney, fece un cenno col capo. Lei gli restituì il saluto. Liebermann si alzò e andò all'attaccapanni; si mise il cappotto sul braccio e prese il cappello e la valigetta dalla mensola. Andò all'uscio e s'arrestò e rimase immobile; si voltò: «Vorrei fare un'altra domanda» disse. Lo guardarono. Fassler annuì. Liebermann fissò Frieda Maloney e disse: «Quando compie gli anni il suo cane?». Lei lo fissò con sguardo vacuo. «Lo sa?» «Sì» disse Frieda. «Il 26 aprile.» «Grazie» e, rivolto a Fassler: «La prego, non si attardi troppo; voglio finire in fretta». Si girò e aprì l'uscio e uscì nel corridoio. Sedette su una panca, facendo qualche calcolo con la penna e un calendario tascabile. La sorvegliante che sedeva dall'altra parte del suo cappotto ripiegato chiese: «Crede che riuscirà a salvarla?». «Non sono un avvocato» disse lui. Fassler, guidando nervosamente la macchina nel traffico intenso, osservò: «Sono completamente disorientato. Le spiacerebbe dirmi, per favore,
che ci faceva l'Organizzazione con tutta quella storia dei bambini?». «Mi spiace,» disse Liebermann «ma questo non rientra nel nostro patto.» Come se poi lo sapesse. Tornò a Vienna. Dove, in seguito a un'ordinanza del tribunale, le scrivanie e gli schedari venivano trasferiti in un ufficio che aveva trovato Max, due stanzette in un edificio cadente del Quindicesimo Distretto. E dove anche lui, perciò, doveva traslocare immediatamente — Lili stava già cercandolo — in un appartamento più piccolo e più a buon mercato (addio, Glanzer, bastardo). E dove, tra una cosa e l'altra — due mesi d'affitto anticipato dell'ufficio, spese legali, spese per il trasloco, bollette del telefono — in cassa non era rimasto denaro sufficiente neppure a comprare un biglietto per Salisburgo, figurarsi Washington. Dove lui doveva andare fra un paio di settimane, il 4 o il 5 febbraio. Spiegò la situazione a Max e Esther mentre cercavano di far sembrare l'ufficio un po' più simile al Centro di Informazione sui Crimini di Guerra e un po' meno alla sede di H. Haupt & Figli, Articoli Pubblicitari. «I Guthrie e i Curry» disse, grattando via la seconda H dal vetro della porta con una lametta da rasoio tenuta tra le dita in un pezzo di carta «hanno ottenuto i loro bambini a distanza di circa quattro settimane gli uni dagli altri, alla fine di febbraio e alla fine di marzo del 1961. E Guthrie e Curry sono stati uccisi a quattro settimane di distanza, giorno più giorno meno, nello stesso ordine cronologico. I Wheelock hanno ritirato il bambino attorno al 5 luglio — lo so perché hanno dato a Frieda Maloney un cucciolo di dieci settimane che era nato il 26 aprile...» «Cosa?» Esther si voltò a guardarlo. Reggeva una carta geografica contro la parete mentre Max la fissava con puntine da disegno. «... e tra la fine di marzo e il 5 luglio» proseguì Liebermann, continuando a grattare il vetro «ci sono circa quattordici settimane. Così, è molto probabile che Wheelock debba essere ucciso attorno al 22 febbraio, quattordici settimane dopo Curry. Io voglio essere a Washington due o tre settimane prima.» Disse Esther: «Credo di seguirti» e Max fece: «Cosa c'è da non seguire? I padri vengono uccisi nello stesso ordine cronologico con cui hanno ottenuto i bambini, e con lo stesso intervallo di tempo. Il problema è: perché?». Il problema, pensava Liebermann, avrebbe dovuto aspettare. Quel che importava era impedire gli assassini, quale ne fosse la ragione, e la miglio-
re probabilità passava attraverso l'F.B.I. L'F.B.I. avrebbe potuto confermare facilmente che due uomini morti in seguito a "incidenti" erano i padri di bambini molto somiglianti tra loro, adottati illegalmente, e che Henry Wheelock era un terzo (o quarto, se riuscivano a scoprire quello di Macon — credo). Il 22 febbraio, giorno più giorno meno, avrebbero potuto catturare l'aspirante assassino di Wheelock e apprendere da lui l'identità, e forse persino i tempi prestabiliti, degli altri cinque sicari. (Liebermann riteneva ora che i sei sicari lavorassero indipendentemente, non in coppia, a causa dei tempi ravvicinati degli assassini di Döring, Guthrie, Horve e Runsten, tutti in paesi diversi.) Avrebbe potuto anche andare, più agevolmente, all'Ufficio Federale d'Investigazione Criminale di Bonn, dal momento che era sicuro che anche un'agenzia d'adozione tedesca (e una inglese e tre scandinave) aveva visto all'opera una Frieda Maloney che frugava nei suoi archivi e distribuiva neonati. Klaus aveva trovato il ragazzino di Friburgo identico a quello di Trittau, e Liebermann, a sua volta, mentre si trovava a Düsseldorf, aveva telefonato alle Frauen Döring, Rausenberger e Schreiber, ottenendo in risposta al suo: «Mi dica, la prego, suo figlio è adottato?» due sì sorpresi e stanchi, un no furioso e tre imposizioni di farsi gli affari suoi. Ma a Bonn non avrebbe avuto una prossima vittima da offrire, e la spiegazione del modo in cui era riuscito a far parlare Frieda Maloney non sarebbe stata ben accolta. Neppure lui sarebbe stato ben accolto, come invece sperava di esserlo a Washington. Inoltre, nel profondo del suo cuore ebraico, non si fidava delle autorità tedesche come di quelle americane, per quanto atteneva alle faccende naziste. Dunque, Washington e l'F.B.I. Sedette al telefono nel nuovo ufficio a chiamare vecchi finanziatori. «Non mi va di disturbarla in questo modo, ma, mi creda, è importante. Proprio ora sta accadendo qualcosa in cui sono implicati sei membri delle SS e Mengele.» L'inflazione, gli dicevano. Recessione. Gli affari andavano male. Lui cominciò ad appellarsi ai genitori morti, ai Sei Milioni, e detestava farlo, servirsi del senso di colpa come di un mezzo per ottenere denaro. Ottenne qualche promessa. «Per favore, subito» disse. «È importante.» «Ma non è possibile» disse Lili, servendosi col cucchiaio una seconda enorme porzione di gnocchi di patate. «Come possono esistere tanti ragazzini identici?» «Cara,» le fece osservare Max dall'altra parte del tavolo «non dire che non è possibile. Yakov li ha visti. Il suo amico di Heidelberg anche.»
«Frieda Maloney li ha visti» aggiunse Liebermann. «I piccoli erano tutti eguali, più di quanto lo siano di regola i neonati.» Lili fece l'atto di sputare sul pavimento accanto a sé. «Quella dovrebbe morire.» «Il nome di cui si serviva» disse Liebermann «era Elizabeth Gregory. Avevo intenzione di domandarle se le era stato imposto o se se l'era scelto da sola, ma me ne sono dimenticato.» «Che differenza c'è?» domandò Max, a bocca piena. Lili disse: «Gregory. Il nome che Mengele usava in Argentina». «Ah, già.» «Deve essere stata una sua idea» concluse Liebermann. «Ogni cosa deve essere venuta da lui, l'intera operazione. L'ha firmata anche senza rendersene conto.» Arrivò un po' di denaro, dalla Svezia e dagli Stati Uniti, e Liebermann prenotò un biglietto per Washington via Francoforte e New York per martedì, 4 febbraio. La sera del venerdì 31 gennaio, Mengele usava il nome Mengele. Si era recato in volo in compagnia delle sue guardie del corpo a Florianópolis sull'isola di Santa Catarina, più o meno a mezza strada tra Sāo Paulo e Pôrto Alegre, dove nella sala da ballo dell'Hotel Novo Hamburgo, decorato per l'occasione con svastiche e festoni rossi e neri, i Figli del Nazionalsocialismo avevano organizzato una cena danzante da cento cruzeiros a testa. Che animazione serpeggiò quando Mengele fece la sua comparsa! I grossi nazisti, quelli che avevano avuto una parte di primo piano nel Terzo Reich ed erano noti in tutto il mondo, tendevano a snobbare i Figli, declinando i loro inviti col pretesto delle cattive condizioni di salute e facendo commenti risentiti sul loro capo, Hans Stroop (di cui a volte persino i Figli ammettevano che esagerava nello scimmiottare Hitler). Ma, ecco Herr Doktor Mengele in persona, in carne e marsina bianca, che stringeva mani, baciava guance, sorrideva raggiante, rideva, ripeteva nomi nuovi. Che gentile a venire! E come sembrava felice e in ottima salute! E lo era. E perché no? Era il 31. Domani avrebbe spuntato altre quattro caselle sul grafico e avrebbe passato la metà della prima colonna — diciotto. In quei giorni partecipava a ogni ballo e ricevimento che si tenevano; una reazione, naturalmente, all'angoscia e alla depressione che aveva sperimentato nel mese di. novembre e ai primi di dicembre, quando per un po' era sembrato che quel bastardo ebreo di Liebermann stesse per rovinare
ogni cosa. Mentre sorseggiava champagne in quella festosa sala da ballo affollata di ariani ammirati — alcuni degli uomini indossavano uniformi naziste (chiudendo appena gli occhi pareva di essere a Berlino negli anni Trenta) — ricordava quasi stupefatto lo stato in cui si era venuto a trovare appena due mesi prima. Davvero dostojevskiano! Progetti, piani, propositi di assumere su di sé l'impresa se l'Organizzazione l'avesse tradito (ed erano stati sul punto di farlo, su questo non c'era dubbio). Ma poi Liebermann aveva lasciato via libera a Mundt, andandosene a fare un giro in Francia, e a Schwimmer, visitando città sbagliate in Inghilterra; e finalmente, grazie a Dio, aveva rinunciato ed era rimasto a casa, supponendo, senza dubbio, che il suo giovane pupazzo americano si fosse sbagliato. (Grazie a Dio, anche, loro l'avevano beccato prima che facesse ascoltare il nastro a Liebermann.) Così, noi sorseggiamo champagne e mangiamo queste deliziose piccole chissà-come-si-chiamano («È un piacere trovarmi qui! Grazie!»), mentre il povero Liebermann, stando al "New York Times", vaga sperduto per le lande americane per quello che, per chi sa leggere tra le righe della campagna di stampa orchestrata dagli ebrei, è sicuramente un giro di conferenze molto poco remunerative. E là è inverno! Neve, ti prego, Dio; moltissima neve! Sedette sul podio con Stroop alla sua sinistra; e Stroop gli indirizzò un brindisi assai eloquente — l'uomo non era poi quell'idiota che si era aspettato — e Mengele rivolse la sua attenzione all'affascinante bionda che aveva alla sua destra. Scoprì che era la Miss Nazionalsocialismo dell'anno precedente, e non c'era da meravigliarsi. Benché ora portasse la fede al dito e — non si lasciava ingannare, lui — fosse incinta, di quattro mesi. Marito a Rio per affari; elettrizzata all'idea di sedere accanto a un così illustre... Chissà? Avrebbe sempre potuto trattenersi; tornare in aereo con la luce, di buon'ora. Mentre ballava con la Miss Nazionalsocialismo incinta, facendo scendere un po' alla volta la mano ad accarezzarle lo splendido culo, Farnbach gli passò accanto ballando e disse: «Buona sera! Come sta? Abbiamo saputo che era qui e siamo venuti anche senza essere stati invitati. Posso presentarle mia moglie Ilse? Tesoro, Herr Doktor Mengele». Continuò a ballare senza spostarsi e sorrise, dicendosi che aveva bevuto troppo, ma Farnbach non scomparve né si tramutò in qualche altro; rimase Farnbach — anzi, divenne sempre di più Farnbach; testa rapata, labbra spesse, nell'atto di presentarsi con occhi golosi a Miss Nazionalsocialismo, mentre la brutta donnetta tra le sue braccia pigolava di «onore» e «piacere»
e «anche se mi ha portato via Bruno!». Smise di ballare, si allontanò dalla sua ballerina. Farnbach gli spiegò allegramente: «Siamo scesi all'Excelsior. Una piccola seconda luna di miele». Lo fissò e disse: «Lei dovrebbe trovarsi a Kristianstad. Pronto a uccidere Oscarsson». La donnetta brutta boccheggiò. Farnbach sbiancò in viso, lo fissò di rimando. «Traditore!» strillò. «Porco di un...» Le parole non bastavano; si scagliò contro Farnbach e l'afferrò per il collo taurino; lo sospinse all'indietro tra i ballerini, strangolandolo, mentre le mani di Farnbach gli si aggrappavano alle braccia. Rosso in viso, ora, quel non-c'erano-parole-per-definirlo, gli occhi azzurri fuori dalle orbite. Lo strillo di una donna; gente che si voltava a guardare: «Oh, mio Dio!». Un tavolo fermò Farnbach, si sollevò di lato; la gente indietreggiò. Lui spinse all'ingiù Farnbach, strangolandolo; il tavolo si levò verso l'alto, facendo cadere rovinosamente piatti, bicchieri, posate, mentre loro due crollavano a terra, rovesciando brodo e vino sulla testa rapata di Farnbach, inondandone il volto cianotico. Mani tirarono indietro Mengele; donne strillarono; la musica s'interruppe e si spense. Rudi afferrò i polsi di Mengele, guardandolo con aria implorante. Lui mollò la presa, si lasciò sollevare e allontanare, rimettere in piedi. «Quest'uomo è un traditore!» urlò, rivolto a tutti i presenti. «Ha tradito me, ha tradito voi! Ha tradito la razza! Ha tradito la razza ariana!» Uno strillo da parte della donna brutta inginocchiata accanto a Farnbach che, rosso in viso e tutto bagnato, si massaggiava la gola, boccheggiando. «Ci sono schegge di vetro nella sua testa!» gridò la donna. «Oh, mio Dio! Chiamate un dottore! Oh Bruno, Bruno!» «Quest'uomo dovrebbe essere ucciso» spiegò Mengele ansando agli uomini che lo attorniavano. «Ha tradito la razza ariana. Gli è stato affidato un incarico, una missione da soldato. Ha deciso di non assolverla.» Gli uomini apparivano confusi e preoccupati. Rudi massaggiava i polsi chiazzati di rosso di Mengele. Farnbach tossì, tentando di dire qualcosa. Si scostò dal viso la mano armata di tovagliolo della moglie e si sollevò su un braccio, levando lo sguardo su Mengele. Tossì e si fregò la gola. Sua moglie gli passò un braccio attorno alle spalle bagnate. «Non muoverti!» gli disse. «Oh Dio! Non c'è un dottore?»
«Loro!» abbaiò Farnbach. «Richiamato! Indietro!» Una goccia di sangue gli scivolò lungo l'orecchio destro e si trasformò in un piccolo orecchino di rubini dondolante, che s'ingrossava. Mengele scostò gli uomini, abbassò lo sguardo. «Lunedì!» gli disse Farnbach. «Ero a Kristianstad! A combinare le cose per» guardò gli altri, guardò Mengele «per quel che dovevo fare!» L'orecchino di sangue cadde; al suo posto cominciò a formarsene un altro. «Mi hanno telefonato a Stoccolma dicendo» diede un'occhiata alla moglie, guardò Mengele «a qualcuno che conoscevo là che dovevo rientrare. All'ufficio della mia ditta. Immediatamente.» «Lei mente» disse Mengele. «No!» gridò Farnbach; l'orecchino di sangue cadde. «Sono tornati tutti! Uno era al... all'ufficio quando ci sono andato. Due ci erano già stati. Gli altri due erano in arrivo.» Mengele lo fissò a occhi sbarrati, deglutì a vuoto. «Perché?» chiese. «Non lo so» ribatté sdegnoso Farnbach. «Non faccio più domande. Faccio quel che mi si dice.» «Non c'è un dottore?» strillò sua moglie. «Sta arrivando!» annunciò qualcuno dalla porta. Mengele disse: «Io... sono medico». «Non gli si avvicini!» Mengele guardò la moglie di Farnbach. «Chiuda il becco» disse. Si guardò attorno. «Non c'è nessuno che abbia un paio di pinzette?» Nell'ufficio dell'organizzatore del banchetto estrasse schegge di vetro dalla nuca di Farnbach con un paio di pinzette e una lente d'ingrandimento, mentre Rudi teneva accostata una lampada. «Ancora qualcuna» disse, lasciando cadere una scheggia in un posacenere. Farnbach, seduto a testa china, non disse nulla. Mengele tamponò i tagli con disinfettante e li incerottò con un quadrato di garza. «Mi dispiace molto» disse. Farnbach si raddrizzò, si accomodò la giacca umida. «E quando» domandò «sapremo perché siamo stati chiamati?» Mengele lo fissò per un attimo, poi disse: «Credevo che avesse smesso di fare domande». Farnbach girò sui tacchi e uscì. Mengele porse le pinzette a Rudi e spedì via anche lui. «Scova Tin-tin» disse. «Ce ne andiamo subito. Mandalo avanti ad avvertire Erico. E chiudi la porta.»
Ripose il tutto nell'astuccio di pronto soccorso, sedette alla consunta scrivania, si tolse gli occhiali, si asciugò la fronte col palmo della mano. Cavò di tasca il portasigarette; si accese una sigaretta e tirò una boccata di fumo, lasciò cadere il fiammifero sulle schegge di vetro. Tornò a inforcare gli occhiali ed estrasse l'agenda degli indirizzi. Chiamò il numero privato di Seibert. Una cameriera brasiliana gli disse ridacchiando che il senhor e la senhora erano usciti, non sapeva dov'erano andati. Provò al quartier generale, già prevedendo di non ottenere risposta; infatti. Il figlio di Ostreicher, Siegfried, gli diede un altro numero, al quale rispose Ostreicher in persona. «Parla Mengele. Sono a Florianópolis. Ho appena visto Farnbach.» Silenzio. Poi: «Dannazione. Il colonnello si proponeva di dirglielo domattina; ha continuato a rimandare. È molto dispiaciuto per la cosa. Si è battuto come un leone». «Posso immaginarlo» disse Mengele. «Cosa è successo?» «Quel figlio di puttana di Liebermann. Ha visto Frieda Maloney un giorno della settimana scorsa.» «Ma è in America!» esclamò Mengele. «No, a meno che non abbiano portato l'America a Düsseldorf. Frieda deve avergli raccontato l'intera storia, almeno tutto quel che sapeva. Il suo avvocato ha domandato ad alcuni nostri amici laggiù come mai spacciavamo neonati al mercato nero negli anni sessanta. Li ha persuasi che era vero, e loro hanno chiesto a noi. Rudel è rientrato in volo domenica, c'è stata una riunione di tre ore — Seibert voleva a tutti i costi che presenziasse anche lei; Rudel e qualcun altro si sono opposti — ed ecco tutto. Gli uomini sono rientrati martedì e mercoledì.» Mengele si spinse gli occhiali sulla fronte e gemette, coprendosi gli occhi con una mano. «Perché non potevano semplicemente ammazzare Liebermann? Sono pazzi, o ebrei anche loro, o che altro? Mundt avrebbe sbavato per l'occasione che gli si presentava. Voleva già farlo di sua spontanea iniziativa, all'inizio. Lui, da solo, è più sveglio di tutti i suoi colonnelli messi assieme.» «Le piacerebbe sapere qual è stato il loro ragionamento?» «Avanti. Se vomito mentre parla, la prego di scusarmi.» «Diciassette degli uomini sono morti. Ciò significa, secondo i suoi calcoli, che possiamo essere sicuri di uno o anche due successi. E magari an-
cora uno o due tra gli altri, dal momento che alcuni degli uomini moriranno di morte naturale a sessantacinque anni. Liebermann ancora non sa tutto, perché la Maloney non lo sa. Ma può darsi che Frieda abbia ricordato alcuni nomi, e se è così, il prossimo passo logico di Liebermann sarà di tentare di intrappolare Hessen.» «E allora bastava richiamare lui! Perché tutti e sei?» «È quello che ha detto Seibert.» «E allora?» «È qui che vomiterà. L'intera faccenda si è fatta troppo rischiosa. Questo è il punto di vista di Rudel. Finirà col portare alla ribalta l'Organizzazione, e lo stesso vale per l'assassinio di Liebermann. Meglio accontentarsi di uno o due successi o anche qualcuno di più — che sono sufficienti, no? — e troncare tutto. Che Liebermann passi il resto della sua vita a dar la caccia a Hessen.» «Ma non lo farà. A un certo punto capirà e si concentrerà sui ragazzini.» «Forse sì, forse no.» «La verità è» disse Mengele, togliendosi gli occhiali «che sono un branco di vecchi stanchi che hanno perso i coglioni. Desiderano soltanto morire di vecchiaia nelle loro ville al mare. Se i loro nipoti diventano gli ultimi ariani in un mondo di uomini di merda, non potrebbe importargliene meno. Li spedirei tutti davanti al plotone d'esecuzione.» «Via, su, hanno contribuito a portarci fino a questo punto.» «E se i miei calcoli fossero errati? E se le probabilità non fossero di una su dieci, ma una su venti? O trenta? O novantaquattro? Dove siamo, allora?» «Senta, se dipendesse da me, ammazzerei Liebermann senza curarmi delle conseguenze e continuerei con gli altri. Sono dalla sua parte, io. Anche Seibert. Lo so che non ci crede, ma ha davvero ingaggiato battaglia. La decisione sarebbe stata presa nel giro di cinque minuti, non fosse stato per lui.» «Davvero consolante. Devo andare ora. Buona notte.» Riagganciò. Sedette con i gomiti sulla scrivania, il mento appoggiato ai pollici delle mani serrate, le labbra che sfioravano le nocche. È sempre così, pensò, quando si dipende dagli altri. C'è mai stato un uomo di vaste prospettive, di genio (sì, genio, maledizione!) che sia stato servito a dovere dai Rudel e dai Seibert di questo mondo? Oltre l'uscio chiuso dell'ufficio erano in attesa Rudi e Hans Stroop e i suoi luogotenenti; e l'organizzatore del banchetto e il direttore dell'albergo;
e, a discreta distanza, Miss Nazionalsocialismo, che non ascoltava il giovanotto in uniforme che le stava parlando. Quando Mengele uscì, Stroop gli si fece incontro a braccia aperte e con un sorriso ingraziante. «Quel poveraccio è scappato nella notte» disse. «Venga, le abbiamo conservato la portata principale.» «Non avreste dovuto» disse Mengele. «Devo andare.» Con un cenno a Rudi, si affrettò verso l'uscita. Klaus chiamò e disse che sapeva tutto; come mai novantaquattro ragazzi potevano essere identici come gemelli e perché Mengele voleva che i loro padri adottivi fossero uccisi a una data precisa. Liebermann, che aveva trascorso la notte prima in bianco, tormentato dai reumatismi e dalla diarrea, passava la giornata a letto, e la prima cosa che lo colpì fu la simmetria del tutto: un problema postogli da un giovanotto, per telefono, mentre era a letto, sarebbe stato risolto per lui da un altro giovanotto, per telefono, mentre era a letto. Era certo che Klaus avrebbe avuto ragione. «Avanti» disse, sistemandosi i cuscini dietro la schiena. «Herr Liebermann,» Klaus pareva a disagio «non è il genere di cosa che posso sbrigare in quattro e quattr'otto per telefono; è complicato, e non lo comprendo a fondo neppure io. Mi è stato passato di seconda mano, da Lena, quella ragazza con cui vivo. È stata una sua idea, e ne ha parlato a un suo professore. È lui che sa tutto. Non potrebbe venire qui, che io combino un incontro? Le giuro che deve essere la spiegazione giusta.» «Parto per Washington martedì mattina.» «Allora venga domani. O, meglio ancora, venga lunedì, rimanga a dormire e riparta da qui martedì. Deve passare comunque per Francoforte, no? Vengo a prenderla all'aeroporto e poi la riporto indietro. Possiamo incontrarci col professore lunedì sera. Lei resterà qui con Lena e me; le lasciamo il letto, noi dormiamo nei sacchi a pelo.» Liebermann disse: «Mi dia almeno il succo, ora». «No. Davvero, deve essere spiegato da qualcuno che sa di che cosa sta parlando. È per questa faccenda che va a Washington?» «Sì.» «Allora di certo desidera quante più informazioni è possibile, no? Le giuro che non sprecherà il suo tempo.» «E va bene, mi fido di lei. Le farò sapere a che ora arrivo. Sarà meglio che lei si metta in contatto con questo professore e si assicuri che sia libero.»
«Lo farò, ma sono sicuro che sarà libero. Lena dice che è ansioso di incontrarsi con lei e aiutarla. Anche Lena lo è. È svedese, per cui è parte in causa. Per via di quello di Göteborg.» «Che cosa insegna, il suo professore — scienze politiche?» «Biologia.» «Biologia?» «Proprio così. Adesso devo uscire, ma domani sarò in casa tutto il giorno.» «La chiamerò. Grazie, Klaus. Arrivederci.» Riagganciò. Ed ecco servita la simmetria. Un professore di biologia? Seibert fu sollevato di non dover essere lui a dare la notizia a Mengele, ma si rese conto anche di essersela cavata forse troppo facilmente; la lunga amicizia con Mengele, e l'ammirazione che nutriva per il suo talento davvero notevole, suggerivano che gli esprimesse in qualche modo la sua comprensione e pronunciasse qualche frase di conforto, e per una forma di lealtà verso se stesso desiderava anche fargli una descrizione più completa, di quella che sosteneva di avergli fatta Ostreicher, della animata battaglia che aveva combattuto contro Rudel, Schwartzkopf e gli altri. Tentò di raggiungere Mengele via radio durante il fine settimana e, non essendoci riuscito, si recò in volo alla tenuta nelle prime ore del pomeriggio di lunedì, portandosi appresso il nipotino Ferdi di sei anni e recando in dono nuove registrazioni di Die Walküre e del Götterdämmerung. La pista d'atterraggio era deserta. Seibert dubitava che Mengele si fosse trattenuto a Florianópolis, ma era possibile che passasse la giornata a Asunción o a Curitiba. O poteva semplicemente aver spedito il suo pilota a far rifornimento a Asunción. Camminarono lungo il sentiero in direzione della casa, Seibert e Ferdi che saltellava, in compagnia del secondo pilota, che aveva bisogno di andare in bagno e li seguiva da presso. Non c'era nessuno in giro, né guardie, né domestici. Il laboratorio, la cui porta il secondo pilota tentò, era sbarrato, e la casa dei domestici era chiusa e con le imposte abbassate. Seibert cominciò a sentirsi a disagio. La porta di servizio della casa era chiusa a chiave e anche la porta d'ingresso. Seibert bussò e attese. Sull'assito c'era un piccolo carro armato giocattolo; Ferdi si chinò a raccoglierlo, ma Seibert disse seccamente: «Non
toccare!» come se potesse esserci in agguato un'infezione. Il secondo pilota sfondò con un calcio una delle finestre, ne fece cadere col gomito le restanti schegge di vetro e, cautamente, vi si intrufolò. Un attimo dopo faceva scattare il chiavistello e apriva la porta. La casa era deserta ma in ordine, senza alcun segno di una partenza affrettata. Nello studio, la scrivania dal ripiano di vetro era come Seibert l'aveva vista l'ultima volta, gli oggetti per dipingere allineati su un panno in un angolo. Si volse al grafico. Era tutto sgorbiato di rosso. Strisce che parevano di sangue solcavano le caselle della terza e seconda colonna. Le caselle della prima colonna recavano precisi segni rossi fino oltre la metà, poi segni più grandi e disordinati, che fuoruscivano dai bordi. Ferdi, con aria preoccupata, disse: «È uscito dalle righe». Seibert fissò il grafico devastato. «Sì» disse. «Uscito dalle righe. Sì.» Annuì. «Che cos'è?» domandò Ferdi. «Una lista di nomi.» Seibert si girò e posò il pacco di dischi sulla scrivania. Al centro era posato un braccialetto di zanne di animale. «Hecht!» chiamò; e, più forte: «Hecht!». «Signore?» La risposta del secondo pilota giunse flebile. «Finisci quel che hai da fare e torna all'aereo!» Seibert raccolse il braccialetto. «Portami una latta di carburante!» «Signorsì!» «Tornando, porta con te anche Schumann!» «Signorsì!» Seibert esaminò il braccialetto e lo rigettò sulla scrivania. Sospirò. «Cosa farai?» domandò Ferdi. Seibert accennò col capo al grafico: «Lo brucerò». «Perché?» «Così nessuno lo vedrà.» «Prenderà fuoco anche la casa?» «Sì, ma il padrone non tornerà.» «Come fai a saperlo? Se torna si arrabbierà.» «Vai a giocare con quel piccolo carro armato là fuori.» «Voglio guardare.» «Fa' come dico!» «Signorsì.» Ferdi uscì a precipizio dalla stanza.
«Rimani sotto il portico!» gli gridò Seibert. Spinse contro il muro il lungo tavolo con le pile di riviste. Poi si accostò agli schedari posti sotto la finestrella del laboratorio, si rannicchiò e ne aprì un cassetto, e ne estrasse un grosso plico di cartelline e poi un altro grosso plico. Li portò al tavolo e li sistemò tra le pile di riviste. Guardò quasi con pietà il grafico solcato di rosso, scosse il capo. Portò al tavolo parecchi plichi di cartelline, e quando non ci fu più posto, aprì i rimanenti cassetti. Aprì e spalancò le finestre dietro la scrivania. Osservò i cimeli hitleriani sopra il divano, staccò tre o quattro oggetti dalla parete, fissò meditabondo il grande ritratto centrale. Entrò il secondo pilota reggendo una latta rossa di carburante; il pilota si tenne sulla soglia. Seibert posò sul pacco di dischi gli oggetti che aveva staccato dalla parete. «Porta fuori il ritratto» disse al secondo pilota. Spedì il pilota ad assicurarsi che in casa non ci fosse nessuno e ad aprire tutte le finestre. «Posso salire sul divano?» domandò il secondo pilota. Seibert disse: «Mio Dio, e perché no?». Versò la benzina sui fascicoli e le riviste, tenendosi a rispettosa distanza, e ne lanciò qualche spruzzo anche sul grafico. Nomi baluginarono umidi: "Hesketh", "Eisenbud", "Arlen", "Looft". Il secondo pilota portò fuori il ritratto. Seibert depose la latta fuori dall'uscio e si accostò ai cassetti aperti dello schedario. Estrasse da un cassetto alcuni fogli di carta e li attorcigliò a formare una torcia bianca mentre andava verso la scrivania. Prese l'accendino che vi era posato, un grosso cilindro nero, e ne fece scaturire la fiamma alcune volte. Il pilota tornò a riferire che in casa non c'era nessuno e che le finestre erano aperte. Seibert gli ordinò di portar via i dischi e i cimeli e la latta di carburante. «Assicurati che ci sia mio nipote» gli disse. Aspettò un momento, accendino in una mano, torcia di carta bianca nell'altra; chiamò: «È con te, Schumann?». «Signorsì!» Accese la punta della torcia e si portò l'accendino dietro la schiena; inclinò la torcia per avvivare la fiamma e, fatto un passo avanti, la gettò sui fascicoli e le riviste che presero immediatamente fuoco. Le fiamme serpeggiarono su per la parete. Seibert arretrò e osservò la colonna centrale solcata di rosso del grafico gonfiarsi e annerirsi. Nomi, date e linee, avvolti dalle fiamme, svanirono a
mano a mano che il nero si allargava attorno a loro. Uscì a precipizio. Dietro la casa si soffermarono a osservare per un po' la scena, al riparo dalle ondate di calore e dagli scricchiolii: Seibert stringendo per mano Ferdi, il secondo pilota con un avambraccio posato sulla cornice del ritratto di Hitler, il pilota con le braccia cariche e il bidone rosso ai piedi. Esther aveva già indosso cappello e cappotto e aveva, letteralmente, un piede fuori dall'uscio, quando squillò il telefono. Non era proprio la sua giornata. Sarebbe mai riuscita ad andare a casa? Sospirando, ritrasse il piede, chiuse l'uscio e andò a rispondere al telefono trillante nella debole luce riflessa dal vetro della porta. Una centralinista con una chiamata per Yakov da Sāo Paulo; Esther le disse che Herr Liebermann era fuori città. L'interlocutore, in buon tedesco, disse che avrebbe parlato con la signora. «Sì?» chiese Esther. «Mi chiamo Kurt Koehler. Mio figlio Barry era...» «Oh, sì, lo so, Herr Koehler! Sono la segretaria di Herr Liebermann, Esther Zimmer. Ci sono novità?» «Sì, ce ne sono, e pessime. Il corpo di Barry è stato rinvenuto la settimana scorsa.» Esther gemette. «Be', ce lo aspettavamo... nessuna notizia in tutto questo tempo. Rientro a casa ora. Con... lui.» «Oh! Mi dispiace tanto, Herr Koehler!» «Grazie. L'hanno pugnalato, e poi scaricato nella giungla. Da un aereo, a quanto pare.» «Oh, mio Dio...» «Ho pensato che Herr Liebermann desiderasse sapere...» «Ma certo, certo! Glielo dirò.» «... e ho anche qualche informazione per lui. Hanno preso il portafogli e il passaporto di Barry, naturalmente... quei sudici maiali nazisti... ma nei jeans aveva un pezzo di carta che hanno trascurato. A mio modo di vedere, è come se avesse buttato giù qualche appunto mentre ascoltava quel nastro registrato, e ci sono molte cose che, ne sono certo, potrebbero risultare utili a Herr Liebermann. Potrebbe dirmi dove posso mettermi in contatto con lui?» «Sì, stasera è a Heidelberg.» Esther accese la lampada e sfogliò l'agenda. «No, a Mannheim. Ho qui il numero.»
«Domani sarà di ritorno a Vienna?» «No, va direttamente a Washington.» «Oh? Be', forse dovrei chiamarlo a Washington. Sono un tantino... scosso in questo momento, come può immaginare, ma domani sarò a casa e in grado di parlare con più facilità. Dove scende?» «Al Benjamin Franklin Hotel.» Sfogliò l'agenda. «Ho anche quel numero.» Lo trovò e lo lesse lentamente e chiaramente. «Grazie. E arriverà...?» «Il suo aereo atterra alle sei e mezza, a Dio piacendo; dovrebbe essere all'albergo entro le sette, le sette e mezza, domani sera.» «Spero che ci vada in relazione a quella faccenda su cui stava investigando Barry.» «Sì» disse Esther. «Barry aveva ragione, Herr Koehler. Sono stati assassinati parecchi uomini, ma Yakov farà cessare la faccenda. Può star sicuro che suo figlio non è morto invano.» «È bello saperlo, Fräulein Zimmer. Grazie.» «Di nulla. Arrivederci.» Esther riagganciò, sospirò e scosse lentamente il capo. Riagganciò anche Mengele, raccolse la valigia di tela marrone e si accodò alla più breve delle due file di persone al banco della Pan Am. Aveva i capelli bruni con la scriminatura di lato e un paio di grossi baffi scuri, e portava una sorta di alto collare di sostegno imbottito: fino a quel momento pareva che assolvesse al suo compito, di distrarre la gente dai suoi occhi. Stando ai dati riportati sul suo passaporto paraguaiano, era Ramón Aschheim y Negrín, un commerciante en antigüedades, un antiquario; per questo teneva una pistola nella valigia, una Browning automatica ad alto potenziale da 9 mm. Aveva il regolare porto d'armi, nonché la patente di guida, un intero assortimento di credenziali sociali e di commercio, e nel suo passaporto, pagine e pagine di visti. Il señor Aschheim y Negrín si accingeva a compiere un viaggio d'acquisti in molte nazioni: Stati Uniti, Canada, Inghilterra, Olanda, Norvegia, Svezia, Danimarca, Germania e Austria. Era ben rifornito di denaro (e diamanti). I suoi visti, al pari del passaporto, erano stati rilasciati in dicembre, ma erano ancora validi. Acquistò un biglietto per New York per il prossimo volo in partenza alle 7,45 che, in coincidenza con un volo delle American Airlines, l'avrebbe fatto giungere a Washington alle 10,35 del mattino successivo. Tutto il tempo necessario per insediarsi al Benjamin Franklin.
VI Il professore di biologia, che si chiamava Nürnberger e che dietro la barbetta bruna e gli occhiali cerchiati d'oro non dimostrava più di trentadue o trentatré anni, piegò all'indietro il mignolo come se volesse spezzarlo e porgerlo. «Aspetto identico» disse, e piegò all'indietro il dito successivo. «Similarità di interessi e atteggiamenti, probabilmente in misura maggiore di quanto lei si renda conto attualmente.» Piegò all'indietro il dito successivo. «L'adozione da parte di famiglie similari: questo è il nocciolo. Metta assieme tutti gli elementi, e c'è solo una spiegazione possibile.» Intrecciò le mani sulle gambe accavallate e si protese in avanti con aria confidenziale. «Riproduzione mononucleare» disse a Liebermann. «A quanto pare, il dottor Mengele in questo campo era avanti di una decina d'anni.» «Non è sorprendente,» disse Lena, agitando una bottiglietta sulla soglia della cucina, «dal momento che compiva ricerche a Auschwitz, negli anni quaranta.» «Sì» convenne Nürnberger (mentre Liebermann si sforzava di superare lo shock della presenza delle parole "ricerche" e "Auschwitz" in un'unica frase; perdonala, è giovane e svedese, che può mai sapere, lei?). «Gli altri,» stava dicendo Nürnberger «inglesi e americani per lo più, hanno cominciato soltanto negli anni cinquanta, e ancora non hanno lavorato su ovuli umani. O almeno così dicono; si può scommettere che hanno fatto più di quanto ammettono. Ecco perché dico che Mengele era avanti solo di dieci anni, anziché quindici o venti.» Liebermann guardò Klaus, seduto alla sua sinistra, per vedere se almeno lui sapeva di cosa stava parlando Nürnberger. Klaus masticava, esaminando quanto restava di un bastoncino di carota. I suoi occhi incontrarono quelli di Liebermann e gli espressero un: "vede?". Liebermann scosse il capo. «E i russi, naturalmente,» proseguì Nürnberger dondolandosi a suo agio sul seggiolino da campo, afferrandosi un ginocchio con le dita intrecciate «sono con ogni probabilità ancora più avanti, non avendo la Chiesa o la pubblica opinione a sollevare obiezioni. Probabilmente hanno un'intera scuola di perfetti piccoli Vania da qualche parte in Siberia; magari anche più grandi di questi ragazzini di Mengele.» «Mi scusi,» disse Liebermann «ma non capisco di che sta parlando.» Nürnberger parve sorpreso. Pazientemente spiegò: «Riproduzione mo-
nonucleare. La procreazione di copie geneticamente identiche di un organismo singolo. Ha mai studiato biologia?». «Un po'» disse, Liebermann. «Suppergiù quarantacinque anni fa.» Nürnberger abbozzò un sorriso da ragazzo. «È stato proprio allora che se n'è riconosciuta per la prima volta la possibilità» disse. «Da parte del biologo inglese Haldane. Haldane l'ha chiamata cloning, da una parola greca che significa "incisione", "taglio", ossia "talea", come nelle piante. "Riproduzione mononucleare" è un'espressione di gran lunga più esplicita. Perché coniare nuove parole, quando quelle vecchie rendono meglio l'idea?» «Cloning è più breve» osservò Klaus. «Sì,» ammise Nürnberger «ma non è meglio usare qualche sillaba in più e dire esattamente ciò che si intende?» Liebermann disse: «Mi parli della "riproduzione mononucleare". Ma tenga presente, la prego, che ho studiato biologia solo perché dovevo; ciò che mi interessava realmente era la musica». «Tenti di cantarlo» suggerì Klaus. «Se anche potessi, non ne uscirebbe una gran bella canzone, non certo una bella canzone d'amore come per la riproduzione normale. Dunque, abbiamo un ovulo, ovvero cellula uovo, e una cellula spermatozoo, ciascuna provvista di un nucleo contenente ventitré cromosomi, i filamenti sui quali sono infilati come perline i geni, a centinaia di migliaia. I due nuclei si fondono e ne otteniamo una cellula uovo fecondata, ossia quarantasei cromosomi. Ora sto parlando di cellule umane; il numero varia col variare della specie. I cromosomi si raddoppiano, raddoppiando ciascuno dei loro geni — non è davvero miracoloso? — e la cellula si divide, e in ciascuna cellula che ne risulta va una serie di cromosomi identici. Questa duplicazione e suddivisione si ripete più e più volte...» «Mitosi» disse Liebermann. «Sì.» «Le cose che rimangono nella mente!» «E nel giro di nove mesi,» proseguì Nürnberger «abbiamo i miliardi di cellule dell'organismo completo. Si sono evolute in modo da assolvere a diverse funzioni — da diventare osso o carne o sangue o capelli; da reagire alla luce o al calore o al dolce, e così via — ma ciascuna di queste cellule, ciascuna dei miliardi di cellule che costituiscono il corpo, contiene nel suo nucleo gli esatti duplicati di una serie originale di quarantasei cromosomi, metà della madre e metà del padre: una composizione che, escluso il caso di gemelli identici, è assolutamente unica: la copia carbone, chiamiamola
così, di un individuo assolutamente unico. Le uniche eccezioni alla regola dei quarantasei cromosomi sono costituite dalle cellule sessuali, spermatozoi e ovuli, che ne posseggono ventitré, in modo da potersi fondere, completare a vicenda e dare origine a un nuovo organismo.» Liebermann disse: «Fin qui è chiaro». Nürnberger si chinò in avanti. «Questa» spiegò «è la riproduzione normale, come avviene in natura. Adesso entriamo in laboratorio. Nella riproduzione mononucleare, il nucleo di una cellula uovo viene distrutto, lasciando intatto il corpo della cellula. Questo si ottiene mediante radiazioni e rappresenta, naturalmente, un'opera di microchirurgia del tipo più complesso. Nella cellula uovo enucleata si introduce il nucleo di una cellula corporea dell'organismo da riprodurre — il nucleo di una cellula corporea, non di una cellula sessuale. Ora abbiamo ottenuto esattamente ciò che a questo punto avevamo nella riproduzione naturale: una cellula uovo provvista di quarantasei cromosomi nel suo nucleo; una cellula uovo fecondata che, immersa in una soluzione nutritizia, comincia a duplicarsi e suddividersi. Quando raggiunge la fase di sedici o trentadue cellule — ci vogliono quattro o cinque giorni — può essere innestata nell'utero della "madre"; che, biologicamente parlando, non è sua madre per niente. Ha fornito una cellula uovo e ora fornisce l'ambiente adeguato per la crescita dell'embrione, ma non ha dato nulla del suo patrimonio genetico. Il bambino, quando nasce, non ha né padre né madre, soltanto un donatore — ossia chi ha fornito il nucleo — del quale è un esatto duplicato genetico. I suoi cromosomi e geni sono identici a quelli del donatore. Anziché un nuovo e unico individuo, otteniamo la ripetizione di un individuo già esistente.» Liebermann disse: «Questo... è fattibile?». Nürnberger annuì. «È stato fatto» osservò Klaus. «Con le rane» disse Nürnberger. «Una procedura di gran lunga più semplice. Questo è l'unico esempio di cui si sia avuta conoscenza, e ha sollevato un tale scalpore, a Oxford negli anni sessanta, che da quel momento in poi tutto il lavoro è stato compiuto nel più assoluto segreto. Ho saputo, come ogni biologo, di esperimenti condotti su conigli, cani e scimmie; in Inghilterra, in America, qui in Germania, dovunque. E, come ho detto in precedenza, sono sicuro che in Russia l'hanno già fatto con esseri umani. O almeno tentato. Quale società programmata potrebbe resistere alla tentazione? Moltiplicare i cittadini migliori e vietare la riproduzione di quelli peggiori. Pensi ai risparmi in fatto di cure mediche e istruzione! E alla mi-
gliore qualità della popolazione nel giro di due o tre generazioni.» «Mengele potrebbe averlo fatto con esseri umani all'inizio degli anni sessanta?» chiese Liebermann. Nürnberger si strinse nelle spalle. «La teoria era già nota» disse. «Tutto quello di cui aveva bisogno era l'attrezzatura adeguata, alcune giovani donne sane e volonterose e un alto grado di abilità microchirurgica. Altri lo hanno avuto: Gurdon, Shettles, Steptoe, Chang... E, naturalmente, un posto dove potesse lavorare senza interferenze o pubblicità.» «A quel tempo era nella giungla» disse Liebermann. «Ci è andato nel '59. Ce l'ho costretto io...» Klaus disse: «Forse non ce l'ha costretto lei. Ha deciso di andarci lui, magari». Liebermann lo fissò, a disagio. «Ma è inutile» intervenne Nürnberger «stare a domandarsi se potrebbe averlo fatto o meno. Se ciò che Lena mi ha detto è vero, ovviamente l'ha fatto. Ne è una prova che i ragazzini siano stati affidati a famiglie similari.» Sorrise. «Vede, i geni non sono l'unico fattore che concorre al nostro sviluppo definitivo; sono sicuro che lo sa anche lei. Il bambino concepito mediante riproduzione mononucleare crescerà somigliante al suo donatore, di cui condividerà certe caratteristiche inclinazioni, ma se viene allevato in un ambiente diverso, soggetto a influenze domestiche e culturali diverse — come è fatale che sia, se non altro semplicemente per il fatto di essere nato anni dopo — be', può finire col risultare alquanto diverso psicologicamente dal donatore, a dispetto della loro identità genetica. Mengele, ovviamente, non era interessato a riprodurre un particolare tipo biologico, come a mio modo di vedere potrebbero esserlo i russi, bensì a ricreare se stesso, un particolare individuo. Le famiglie similari rappresentano un tentativo per esaltare al massimo le probabilità, per i ragazzi, di crescere nell'ambiente giusto.» Alle spalle di Nürnberger, Lena si affacciò sulla soglia della cucina. «I ragazzi» chiese Liebermann «sono... duplicati di Mengele?» «Esatti duplicati, geneticamente» disse Nürnberger. «Se cresceranno o meno in modo da risultare duplicati in toto, è, come ho detto, un altro paio di maniche.» «Scusatemi» intervenne Lena. «Adesso possiamo mangiare.» Sorrise con aria di scusa; la sua faccia insignificante per un attimo diventò bella. «Anzi, dobbiamo,» disse «altrimenti si rovina tutto. Se già non si è rovinato.» Si alzarono e passarono dalla stanzetta arredata con mobili recuperati
chissà dove, poster di animali, libri in edizione economica, in una cucina che aveva suppergiù le stesse dimensioni ed era provvista di altri poster di animali, di una finestra con una grata d'acciaio e di un tavolo con una tovaglia rossa: pane, insalata, vino rosso in bicchieri scompagnati. Liebermann, seduto scomodamente su una seggiolina dallo schienale di metallo, guardò di fronte a sé Nürnberger che si imburrava il pane. «Che intendeva dire,» domandò «parlando della possibilità, per i ragazzini, di crescere nell'ambiente giusto?» «Un ambiente il più simile possibile a quello di Mengele» spiegò Nürnberger, fissandolo. Sorrise dietro la barba scura. «Senta,» disse «se volessi creare un altro Eduard Nürnberger, non basterebbe semplicemente grattarmi via un lembo di pelle dall'alluce, estrarre un nucleo da una cellula e affrontare tutta la procedura che ho descritto — ammesso che ne abbia le capacità e l'attrezzatura...» «E la donna» disse Klaus mettendogli davanti un piatto. «Grazie» disse Nürnberger sorridendo. «La donna riuscirei a trovarla.» «Per quel tipo di riproduzione?» «Be', ammettiamolo. La cosa comporta unicamente due minuscole incisioni, una per estrarre l'ovulo e un'altra per innestare l'embrione.» Nürnberger guardò Liebermann. «Ma questo sarebbe soltanto una parte dell'operazione. Poi dovrei trovare una casa adeguata per il piccolo Eduard. Gli ci vorrebbe una madre che sia molto religiosa — quasi maniaca, anzi — e un padre che beva troppo, in modo che ci siano continui litigi tra loro. E in casa ci dovrebbe anche essere un meraviglioso zio, insegnante di matematica, che sottrae il ragazzino a quell'ambiente più spesso che può, per portarlo a visitare musei, a passeggiare in campagna... Le persone di cui sopra dovrebbero trattare il ragazzino come se fosse davvero loro figlio, non come un essere concepito in laboratorio, e inoltre, lo "zio" dovrebbe morire quando il ragazzino ha nove anni e i "genitori" dovrebbero separarsi due anni più tardi. Il ragazzino dovrebbe passare l'adolescenza sballottato dall'uno all'altro, assieme alla sorella più piccola.» Klaus si stava sedendo con un piatto in mano alla destra di Liebermann. Davanti a Liebermann c'era già un piatto: polpettone di carne dall'aria secca, carote fumanti che profumavano di menta. «E anche in tal caso,» disse Nürnberger «il bambino potrebbe risultare molto diverso da questo Eduard Nürnberger. Il suo insegnante di biologia potrebbe non prenderlo in particolare simpatia, come invece ha fatto il mio. Una ragazza potrebbe concedergli di andare a letto con lei prima di
quanto sia accaduto a me. Leggerebbe libri diversi, guarderebbe la televisione mentre io ascoltavo la radio, sarebbe soggetto a migliaia di incontri casuali che potrebbero renderlo più o meno aggressivo di quanto sia io, più o meno affettuoso, intelligente, eccetera eccetera.» Lena sedette alla sinistra di Liebermann, guardando Klaus che le stava di fronte. Nürnberger disse, tagliando il polpettone con la forchetta: «Mengele era consapevole della precarietà dell'intera operazione, per cui ha prodotto e trovato casa a molti bambini. Sarà ben felice, suppongo, se alcuni di loro, o anche uno solo, risulterà esattamente come dev'essere». «Vede ora» domandò Klaus a Liebermann «perché quegli uomini vengono uccisi?» Liebermann annuì. «Per... non so quale parola usare... formare i ragazzi.» «Esatto» disse Nürnberger. «Per formarli, per tentare di farne dei Mengele psicologici, oltre che genetici.» Klaus disse: «Mengele ha perso il padre quando aveva una certa età, così anche i ragazzi devono perdere il loro. O almeno perdere gli uomini che credono loro padri». «L'avvenimento» osservò Nürnberger «ha avuto certamente un'importanza fondamentale nella formazione della sua psiche.» «È come aprire una cassaforte» disse Lena. «Se si riesce a girare la manopola componendo tutti i numeri esatti, nell'esatto ordine, lo sportello si apre.» «A meno che» obiettò Klaus «la manopola nel frattempo non sia stata girata in modo da comporre un numero sbagliato. Queste carote sono fantastiche.» «Grazie.» «Sì» disse Nürnberger. «È tutto delizioso.» «Mengele ha gli occhi scuri.» Nürnberger fissò Liebermann: «Ne è certo?». «Ho avuto in mano la sua carta d'identità argentina. "Occhi, castani." E suo padre era un ricco industriale, non un impiegato statale. Macchinari agricoli.» «È imparentato con quei Mengele?» domandò Klaus. Liebermann fece segno di sì. Nürnberger disse, servendosi l'insalata: «Non c'è da meravigliarsi che possa permettersi l'attrezzatura. Be', non può essere stato lui il donatore, se
il colore degli occhi non corrisponde». Lena chiese a Liebermann: «Sa chi è il capo dell'Organizzazione dei Camerati?». «Un colonnello a nome Rudel, Hans Ulrich Rudel.» «Occhi azzurri?» domandò Klaus. «Non lo so. Dovrò controllare. E anche la sua estrazione familiare.» Liebermann fissò la forchetta che teneva in mano, ne infilò i rebbi in una fettina di carota, la sollevò, se la mise in bocca. «Comunque,» disse Nürnberger «ora sa perché quegli uomini vengono uccisi. Che cosa si propone di fare adesso?» Liebermann sedette in silenzio per un momento. Posò la forchetta, si tolse il tovagliolo dalle ginocchia e lo posò sul tavolo. «Scusatemi» disse e si alzò e uscì dalla cucina. Lena lo seguì con lo sguardo, guardò il suo piatto, fissò Klaus. «Non è quello» disse Klaus. «Spero di no» annuì lei, e saggiò con la forchetta il polpettone di carne. Klaus guardò oltre le spalle della ragazza; osservò Liebermann accostarsi allo scaffale dei libri nell'altra stanza. «Non che questa carne non sia eccellente,» disse Nürnberger «ma tutti noi mangeremo carne molto migliore un giorno, e molto più a buon mercato, grazie alla riproduzione mononucleare. Rivoluzionerà l'allevamento del bestiame. E proteggerà anche le specie in pericolo di estinzione, come quello splendido leopardo là.» «La difende?» domandò Klaus. «Non ha bisogno di essere difesa» ribatté Nürnberger. «È una tecnica, e al pari di qualsiasi altra tecnica può essere impiegata per il bene o per il male.» «Riesco a pensare soltanto a due usi positivi,» disse Klaus «e lei li ha appena citati. Mi dia carta e matita e cinque minuti di tempo e gliene darò cinquanta negativi.» «Perché devi sempre fare il bastian contrario?» chiese Lena. «Se il professore avesse detto che è una cosa terribile, adesso tu staresti parlando dell'allevamento del bestiame.» «Non è per niente vero.» «È così, invece. Metterebbe in discussione persino le sue affermazioni.» Klaus guardò alle spalle di Lena; vide Liebermann ritto di profilo, la testa china su un libro aperto, che si dondolava lievemente sui tacchi: un ebreo in preghiera. Non una Bibbia, però; non la possedevano. Il libro scrit-
to dallo stesso Liebermann? Era ritto suppergiù in corrispondenza della posizione in cui si trovava il libro. Controllava il colore degli occhi del colonnello? «Klaus?» Lena gli porgeva la ciotola dell'insalata. Klaus la prese. Lena si voltò a guardare, tornò a girarsi verso il tavolo. Nürnberger disse: «Dovrò fare una bella fatica per tenere la bocca chiusa su questa faccenda». «Ma deve farlo» disse Klaus. «Lo so, lo so, ma non sarà facile. Due dei membri della nostra facoltà l'hanno tentata anche loro, con ovuli di coniglia.» Liebermann era ritto sulla soglia, terreo in volto e con l'aria distrutta, gli occhiali penzolanti dalla mano che teneva lungo il fianco. «Che c'è?» Klaus posò la ciotola. Nürnberger guardò; Lena si girò sulla sedia. Liebermann disse a Nürnberger: «Mi consenta di farle una domanda stupida». Nürnberger annuì. «L'individuo che fornisce il nucleo. Il donatore. Deve essere vivo, sì?» «No, non necessariamente. Le singole cellule non sono né vive né morte, solo intatte o non intatte. Con una ciocca di capelli di Mozart — neppure una ciocca, con un solo capello strappato alla testa di Mozart — qualcuno con le capacità e l'attrezzatura» sorrise a Klaus «e le donne» tornò a fissare Liebermann «potrebbe riprodurre alcune centinaia di piccoli Mozart. Troviamogli l'ambiente familiare giusto e ci ritroveremo con cinque o dieci Mozart adulti, e un sacco di splendida musica in più in questo mondo.» Liebermann strizzò gli occhi, mosse un passo in avanti un po' vacillante, scosse il capo. «Niente musica» disse. «Niente Mozart.» Tese la mano che teneva dietro alla schiena e mostrò loro Hitler; il libro in edizione economica recava in copertina tre pennellate nere: baffi, naso appuntito, ciuffo sulla fronte. Liebermann disse: «Suo padre era uno statale, un doganiere. Aveva cinquantadue anni quando... il ragazzo è nato. La madre ne aveva ventinove». Si guardò attorno in cerca di un posto dove posare il libro, non lo trovò, lo posò su uno dei bruciatori del fornello. Tornò a guardarli, si strofinò la mano sul fianco. «Il padre è morto a sessantacinque anni» disse. «Quando il ragazzo ne aveva tredici, quasi quattordici.» Lasciarono tutto sul tavolo e andarono a sedersi nell'altra stanza, Lie-
bermann e Klaus di nuovo sul divano, Nürnberger sul seggiolino da campo, Lena sul pavimento. Guardarono i bicchieri vuoti sul baule davanti a loro, le ciotole di bastoncini di carote e mandorle. Si guardarono l'un l'altro. Klaus prese alcune mandorle, se le fece saltellare sul palmo della mano. Liebermann disse: «Novantaquattro Hitler» e scosse il capo. «No» disse. «No. Non è possibile.» «Certo che non lo è» annuì Nürnberger. «Ci sono novantaquattro ragazzini dotati della stessa eredità genetica di Hitler. Potrebbero risultare diversissimi. Con tutta probabilità è quello che accadrà alla maggior parte.» «Alla maggior parte» disse Liebermann. Accennò col capo in direzione di Klaus e Lena. «Alla maggior parte.» Guardò Nürnberger. «Ne resta sempre qualcuno» disse. «Quanti?» domandò Klaus. «Non lo so» disse Nürnberger. «Lei ha detto cinque o dieci Mozart su alcune centinaia. Quanti Hitler su novantaquattro? Uno? Due? Tre?» «Non posso saperlo. Stavo solo parlando. Nessuno lo sa veramente.» Sorrise un po' forzatamente. «Le rane non sono state sottoposte a test della personalità.» «Facciamo un'ipotesi» suggerì Liebermann. «Se i genitori adottivi corrispondevano soltanto per quanto riguarda l'età, la razza e la professione del padre, direi che le prospettive sono alquanto scarse. Dal punto di vista di Mengele, voglio dire; ottime dal nostro.» «Ma non perfette» disse Liebermann. «No, naturalmente, no.» «Anche se ce ne fosse solo uno,» disse Lena «sussisterebbe comunque la possibilità che... venga influenzato nel modo giusto. Sbagliato, cioè.» Klaus disse a Liebermann: «Ricorda quel che ha detto alla conferenza? Qualcuno le ha domandato se i gruppi neo-nazisti erano pericolosi, e lei ha detto di no, non ora, solo se le condizioni sociali peggioravano — e Dio sa se non peggiorano di giorno in giorno — e appariva un altro capo sul tipo di Hitler». Liebermann annuì. «In grado di parlare al mondo intero contemporaneamente,» disse «via satellite. Dio del cielo!» Chiuse gli occhi, si portò le mani al viso e si massaggiò con le dita le palpebre, premendo forte. «Quanti dei padri sono già stati uccisi?» domandò Nürnberger. «Giusto!» esclamò Klaus. «Solo sei! Non è poi grave come sembra!»
«Otto» disse Liebermann, abbassando le mani, ammiccando con gli occhi arrossati. «Dimentica Guthrie a Tucson, e quello tra lui e Curry. E anche altri, di cui non sappiamo, in altri paesi. In numero maggiore all'inizio che in seguito; così è andata negli Stati Uniti.» Nürnberger disse: «L'infornata iniziale deve aver avuto una percentuale di successi maggiore di quanto si aspettasse». «Non posso fare a meno di pensare» osservò Klaus «che lei è un tantino compiaciuto dei risultati dell'esperimento.» «Be', bisogna ammettere che da un punto di vista rigorosamente scientifico è un passo avanti.» «Gesù Cristo! Intende dire che può starsene lì seduto e...» «Klaus» disse Lena. «Oh... merda.» Klaus scagliò lontano le mandorle. Liebermann disse a Nürnberger: «Domani vado a Washington a parlare con quelli dell'F.B.I. So chi sarà il prossimo padre americano; potrebbero catturare il sicario, devono assolutamente catturarlo. Vuole venire con me per aiutarmi a convincerli?». «Domani?» fece Nürnberger. «Non posso proprio.» «Per impedire l'avvento di un nuovo Hitler?» «Dio!» Nürnberger si massaggiò la fronte. «Sì, naturalmente,» disse «se ha assolutamente bisogno di me. Ma, senta, laggiù ci sono uomini, a Harvard, alla Cornell, al Cal Tech, le cui credenziali sono molto più autorevoli delle mie e che in ogni caso eserciterebbero ben più peso sulle autorità americane semplicemente in virtù del fatto che sonp americani. Posso fornirle i loro nomi e quelli degli istituti, se vuole...» «Lo voglio, sì.» «... e se per un qualsiasi motivo vorrà me, la raggiungerò.» «Bene» disse Liebermann. «Grazie.» Nürnberger cavò dalla tasca interna della giacca una penna e un taccuino rilegato in pelle nera: «Con tutta probabilità lo stesso Shettless sarà disposto a darle una mano». «Scriva anche il suo nome. E dove posso trovarlo. Scriva il nome di tutti quelli che le vengono in mente.» A Klaus disse: «Ha ragione, un americano è meglio. Due stranieri, ci butteranno fuori a pedate nel sedere». «Non ha contatti laggiù?» domandò Klaus. «Contatti inutili. Che non hanno più alcun legame con il ministero della Giustizia. Ma ce la farò. Butterò giù le porte, se necessario. Dio del cielo! Ci pensate! Novantaquattro giovani Hitler!»
«Novantaquattro ragazzini» precisò Nürnberger scrivendo «con la stessa eredità genetica di Hitler.» Il Benjamin Franklin, come albergo, come posto dove alloggiare, si meritava più o meno un decimo di una stelletta, a giudizio di Mengele, e soltanto perché il lavabo del bagno aveva un certo fascino antico. Come posto per sbarazzarsi di un nemico teso a distruggere l'operato di tutta una vita e l'ultima speranza (meglio, certezza) della supremazia ariana, tuttavia, si meritava tre stellette e mezzo, forse addirittura quattro. Per prima cosa, la clientela che indugiava nel vestibolo era in parte di razza negra, il che significava, naturalmente, che nella zona il delitto non era cosa rara. A riprova, se di una prova c'era bisogno, la porta della sua stanza, il 404, recava i segni di un'effrazione, e un'etichetta a lettere rosse, incollata all'interno, consigliava: "Per precauzione si prega la clientela di tenere la porta sempre chiusa a chiave". Mengele obbedì. In secondo luogo, il servizio era scadente; alle 11,40 del mattino, i vassoi della colazione erano ancora posati fuori dall'uscio di alcune camere. Non appena si fu sfilato il maledetto collare (solo per attraversare la frontiera e forse in Germania) sgattaiolò fuori e s'impadronì di un vassoio e di un cestino per il pane e di un cartello con la scritta: "Si prega di non disturbare". Nascose il vassoio tra il materasso e la rete del letto, il cestino del pane in un sacchetto di carta per la biancheria su uno scaffale dell'armadio; infilò il cartello con la scritta: "Si prega di non disturbare" nel cassetto dello scrittoio, a far compagnia all'altro che già vi si trovava. Studiò la pianta del piano appesa alla porta; c'erano tre scale, una proprio dietro l'angolo vicino al 404, indicata con una freccia. Tornò a uscire e la trovò; aprì la porta, uscì sul pianerottolo, lasciò scorrere lo sguardo su e giù per le rampe intonacate di grigio. Il servizio in camera era abominevole. Quando finalmente arrivò il pranzo, Mengele aveva estratto e ripulito il tubetto di diamanti, s'era lavato, cosparso di talco il collo irritato, aveva tolto dalla valigia quanto intendeva toglierne, provato la televisione e compilato una lista di tutto ciò che doveva acquistare e fare. Ma il cameriere che portò il pranzo — e qui bisognava segnare una stelletta — era un bianco suppergiù della sua età, sulla sessantina, che indossava una semplice marsina di tela bianca, com'era possibile acquistarne, certamente, in qualsiasi negozio d'abbigliamento specializzato in uniformi di servizio. L'aggiunse alla lista; più facile che sottrarne una.
Il cibo, sogliola à la bonne femme... meglio non parlarne. Uscì dall'albergo poco dopo l'una, da una porta laterale. Occhiali scuri, niente baffi, cappello, parrucca, cappotto col colletto rialzato. Pistola nella fondina sotto l'ascella. Non si fidava a lasciare nessun oggetto di valore in quella stanza vulnerabile e inoltre, negli Stati Uniti, era cosa saggia andarsene in giro armati; non solo per lui, per chiunque. Washington era più pulita di quanto si fosse aspettato e piuttosto bella, ma le ampie strade erano umide per la neve caduta il giorno prima. La prima cosa che fece fu di fermarsi in un negozio di calzature a comprare un paio di soprascarpe di gomma. Era passato improvvisamente dall'estate all'inverno, ed era sempre stato facile ai raffreddori; nella sua lista erano elencate anche le vitamine. Camminò finché giunse a una libreria, vi entrò e si mise a curiosare, cambiando gli occhiali scuri con un paio normali. Trovò una copia in edizione economica del libro di Liebermann; studiò la fotografia formato tessera che c'era sul retro. Non ci sarebbe stato pericolo di sbagliarsi, con quel naso ebraico a uncino. Sfogliò le foto fuori testo al centro del libro e trovò anche la sua; Liebermann, quanto a lui, avrebbe dovuto faticare un bel po' per riconoscerlo. Era la fotografia del '59 di Buenos Aires, ovviamente la migliore su cui Liebermann fosse riuscito a mettere le mani; né con la parrucca e i baffi scuri né con i capelli grigi tagliati a spazzola e il labbro superiore rasato per l'occasione somigliava molto, ahimè, a quel bell'uomo più giovane di sedici anni. E poi Liebermann, naturalmente, non si sarebbe neppure guardato in giro in cerca di lui. Rimise a posto sullo scaffale il libro e trovò un reparto di libri di viaggio. Scelse atlanti stradali degli Stati Uniti e del Canada, pagò con un biglietto da venti dollari e prese il resto, in banconote e monetine, con un'occhiata distratta e un cenno del capo. Inforcati nuovamente gli occhiali da sole, percorse strade meno spaziose, fiancheggiate da vetrine più vivaci e vistose. Non riusciva a trovare quel che voleva, e alla fine lo chiese a un giovane negro — chi mai poteva saperlo meglio? Continuò per la sua strada, seguendo le indicazioni fornitegli con sorprendente chiarezza. «Che tipo di coltello?» gli domandò un negro da dietro il banco. «Da caccia» disse. Scelse il migliore. Di fabbricazione tedesca, maneggevole, davvero bello. E così affilato che affettava nastri da un foglio di carta tenuto mollemente a mezz'aria. Altre due banconote da venti dollari e una da dieci.
Proprio accanto si apriva un drugstore. Comprò le sue vitamine. E all'isolato successivo: "Uniformi & Abiti da Lavoro". «Direi che per lei andrebbe bene un 36?» «Sì.» «Desidera provarlo?» «No.» Per via della pistola. Acquistò anche un paio di guanti di cotone bianco. Impossibile trovare un negozio di alimentari. Nessuno sapeva niente; a quanto pareva, non mangiavano. Ne trovò uno, alla fine, un traboccante supermercato, affollato di negri. Comprò tre mele, due arance, due banane e, a suo uso e consumo, uno splendido grappolo d'uva bianca. Prese un tassi per tornare al Benjamin Franklin — l'ingresso laterale, per favore — e alle 3,22 era di ritorno in quella squallida stanza da un decimo di stelletta. Fece un riposino, mangiando l'uva e studiando gli atlanti nella comoda (figurarsi!) poltrona, consultando di tanto in tanto i fogli dattiloscritti con i nomi e gli indirizzi e le date. Poteva beccare Wheelock — ammesso che abitasse ancora a New Provindence, in Pennsylvania — rispettando quasi esattamente la tabella di marcia; ma in seguito avrebbe dovuto accontentarsi di fare le cose alla bell'e meglio. Avrebbe cercato di mantenersi nei limiti di sei mesi, rispetto alle date ottimali. Davis a Kankakee, poi su in Canada, per Stroheim e Morgan. Poi in Svezia. Avrebbe dovuto rinnovare il visto? Dopo essersi riposato, fece le prove. Si tolse la parrucca e indossò giacca e guanti bianchi; si esercitò a reggere il cestello di frutta sul vassoio; disse: «Con i complimenti della direzione, signore» — ripetendolo più e più volte finché non riuscì a pronunciarlo esattamente. Ristette con le spalle appoggiate alla porta chiusa a chiave, tenne sospeso a mezz'aria il cartello con la scritta: "Si prega di non disturbare" e lo lasciò cadere, fece il gesto di bussare. «Con i complimenti della direzione, signore.» Attraversò la stanza reggendo il vassoio, lo posò sul cassettone, estrasse il coltello dal fodero che teneva infilato nella cintura; si girò, tenendo il coltello dietro la schiena; camminò, si fermò, tese la mano sinistra. «Grazie, signore.» Afferrò con la sinistra, pugnalò con la destra. «Grazie, signore.» Afferrare con la sinistra, pugnalare con la destra. Gli ebrei davano la mancia? Pensò a qualche movimento alternativo.
La distesa di nubi inondata di sole cessò improvvisamente; sotto, si stendeva l'oceano nero-blu, increspato e infiocchettato di bianco, immobile. Liebermann vi lasciò calare lo sguardo, il mento sostenuto dalla mano. Ohi, ohi. Era rimasto sveglio tutta la notte, disteso, e tutto il giorno, seduto, a pensare a un Hitler adulto che lanciava i suoi discorsi diabolici a folle troppo scontente per curarsi della storia. Due o tre Hitler magari, manovranti per giungere al potere in luoghi diversi, riconosciuti dai loro seguaci e da se stessi come i primi esseri umani generati per mezzo di quella che nel 1990 o giù di lì sarebbe stata una prassi largamente nota, magari largamente attuata. Più simili di fratelli, lo stesso uomo moltiplicato, non avrebbero unito le forze e intrapreso di nuovo (con le armi del 1990!) la guerra razziale che era stata scatenata dal primo di loro? Certamente era quella, la speranza di Mengele; Barry l'aveva detto: "Dovrebbe portare al trionfo della razza ariana, si immagini!". O una frase del genere. Bel fardello da addossare a un F.B.I. che dalla morte di Hoover, nel 72, si era rinnovato quasi al cento per cento. Poteva quasi udire la domanda perplessa: "Yakóv, chi?". Era stato abbastanza facile la sera prima dire a Klaus che se la sarebbe cavata, avrebbe buttato giù le porte; e, a dire il vero, non gli mancavano del tutto i contatti. C'erano senatori di sua conoscenza tutt'ora in carica; uno di loro gli avrebbe di certo aperto le porte chiuse. Ma ora, avendo soppesato l'orrore, temeva che persino con le porte aperte potesse andar perso troppo tempo. Si sarebbe indagato sulla morte di Guthrie e di Curry, le loro vedove sarebbero state interrogate, e sarebbero stati interrogati anche i Wheelock... Ora era indispensabile catturare il presunto sicario dei Wheelock e scovare, tramite lui, gli altri cinque. Il resto dei novantaquattro uomini doveva rimanere in vita; le manopole delle casseforti, per usare il paragone di Lena (un buon paragone, da ricordare e usare in futuro), non dovevano essere girate in modo da formare quello che era forse il numero definitivo e più cruciale della combinazione. E, a peggiorare ancora di più la faccenda, il 22 era soltanto un'approssimazione della data fissata per la morte di Wheelock. E se la data vera fosse stata più imminente? E se — ridicolo, il fattore insignificante sul quale poteva innestarsi la storia futura — Frieda Maloney si fosse sbagliata, ritenendo che il cucciolo aveva dieci settimane di vita? E se avesse avuto solo nove settimane, o magari otto, quando i Wheelock erano venuti a ritirare il bambino? Il sicario avrebbe potuto uccidere e sparire dalla circolazione già
di lì a qualche giorno. Diede un'occhiata all'orologio: le 10,28. Era sbagliato; non l'aveva ancora rimesso indietro. Lo fece ora — fece arretrare le lancette e si concesse sei ore supplementari, almeno per quanto riguardava gli orologi: le 4,28. Tra mezz'ora, New York, la dogana e il breve salto a Washington. Sarebbe riuscito a dormire un po' quella sera, sperava — era già un po' sonnacchioso — e all'indomani mattina avrebbe chiamato gli uffici dei senatori; chiamato anche Shettles, e qualche altro della lista di Nürnberger. Se solo fosse riuscito ora a fare in modo che il sicario di Wheelock fosse ricercato e tenuto sotto controllo, senza attese, spiegazioni, verifiche, interrogazioni. Avrebbe dovuto venire prima; l'avrebbe fatto, naturalmente, se avesse conosciuto in tutta la sua portata l'enormità... Ohi, ohi. Ciò di cui aveva bisogno era un F.B.I. ebraico. O una branca statunitense del Mossad israeliano. Un posto dove l'indomani potesse entrare e dire: "Un nazista sta venendo ad ammazzare un uomo di New Providence, in Pennsylvania, che si chiama Wheelock. Montategli la guardia; catturate il nazista. Non fatemi domande, vi spiegherò più tardi. Sono Yakov Liebermann: vi darei informazioni sbagliate?". E quelli si sarebbero messi in moto e avrebbero agito. Sogni! Se solo un'organizzazione del genere fosse esistita! I passeggeri dell'aereo si allacciarono le cinture e si scambiarono commenti; si erano accese le scritte. Liebermann sedeva fissando accigliato il finestrino. Dopo un sonnellino ristoratore di un'ora, Mengele si lavò e fece la barba, si mise la parrucca e i baffi e s'infilò il completo scuro. Distese ogni cosa sul letto — giacca bianca, guanti, coltello nel fodero, vassoio col cestello di frutta e cartello con la scritta: "Si prega di non disturbare". Non appena avesse visto Liebermann presentarsi al banco del portiere e avesse appreso il numero della sua stanza, si sarebbe riprecipitato di sopra ad assumere senza indugio la sua parte di cameriere. Quando uscì dalla stanza, provò la maniglia e vi appese l'altro cartello con la scritta: "Si prega di non disturbare". Alle 6,45 era seduto nell'atrio, intento a sfogliare una copia del "Time" e a tener d'occhio la porta rotante. I nuovi arrivi che di tanto in tanto, reggendo la valigia, si accostavano al banco del portiere dall'altra parte del vestibolo erano quasi tutti uomini soli, veri e propri esemplari da manuale
di inferiorità razziale; non solo negri e semiti, ma anche un paio di orientali. Entrò anche un giovane ariano di bell'aspetto, ma qualche minuto dopo, quasi a compensare un errore, fece la sua comparsa un nano nero che arrancava accanto a una valigia infilata in un carrello di metallo. Alle 7,20 entrò Liebermann: alto, le spalle un po' curve, i baffi scuri, in testa un berretto marrone e indosso un cappotto marrone con cintura. O non era Liebermann? Un ebreo, sì, ma pareva troppo giovane e non aveva il naso a becco di Liebermann. Mengele si alzò e attraversò di buon passo l'atrio, prese una copia di "Questa settimana a Washington" da una pila posata sul banco di marmo incrinato. «Si ferma fino a venerdì sera?» domandò il portiere al presunto Liebermann. «Sì.» Trillò un campanello. «Vuole accompagnare il signor Morris al 717?» «Sì, signore.» Mengele riattraversò l'atrio. Un libanese o qualcosa del genere aveva preso il suo posto: grasso e untuoso, le dita inanellate. Si trovò un altro posto dove sedere. Entrò il naso a becco più naso a becco di tutti, ma apparteneva alla faccia di un giovanotto che sorreggeva per il gomito una donna dai capelli grigi. Alle otto Mengele entrò in una cabina telefonica e compose il numero dell'albergo. Domandò, badando a non sfiorare con le labbra il microfono, carico Dio sa di quali germi, se il signor Yakov Liebermann era atteso. «Un momento.» Un clic e poi un trillo. Il portiere dall'altro lato dell'atrio sollevò un ricevitore. «Portineria centrale.» «Avete una stanza prenotata per il signor Yakov Liebermann?» «Per questa sera?» «Sì.» Il portiere abbassò lo sguardo come leggendo. «Sì, c'è. Parla il signor Liebermann?» «No.» «Desidera lasciare un messaggio?» «No, grazie. Richiamerò più tardi.» Poteva tener d'occhio l'ingresso anche dall'interno della cabina telefonica, per cui infilò un'altra monetina da dieci centesimi nell'apparecchio e chiese alla centralinista come fare per sapere il numero di qualcuno di New
Providence, in Pennsylvania. Lei gli diede un lungo numero da chiamare; lo trascrisse sul bordo rosso del "Times", prese la monetina dal ricettacolo sotto l'apparecchio, l'infilò in alto nuovamente, compose il numero. A New Providence c'era un Henry Wheelock. Mengele trascrisse il numero sotto l'altro. La donna gli fornì anche l'indirizzo, Old Buck Road, niente numero civico. Un individuo dall'aria latina, con una valigia e un barboncino al guinzaglio, si accostò al banco del portiere. Mengele rimase a pensare un momento, poi chiamò il centralino e disse quanto desiderava. Esaminò lo spiegamento di monetine sulla piccola mensola della cabina, scelse quelle giuste. Soltanto quando l'apparecchio all'altro capo del filo fece udire il primo trillo, si rese conto che, se quello era l'Henry Wheelock giusto, avrebbe potuto anche rispondere il ragazzino. Tra un attimo avrebbe potuto parlare col suo Führer rinato! Una gioia da capogiro gli mozzò il fiato, lo costrinse ad appoggiarsi alla parete della cabina, mentre il telefono tornava a squillare. Oh, ti prego, Ragazzo caro, vieni a rispondere al telefono! «Pronto.» Una donna. Trasse un lungo respiro, poi sospirò. «Pronto?» «Pronto.» Si fece forza. «C'è il signor Henry Wheelock?» «C'è, ma è fuori, dietro casa.» «Parlo con la signora Wheelock?» «Sì, sono io.» «Mi chiamo Franklin, signora. Credo che abbiate un figlio di quasi quattordici anni, vero?» «Infatti...» Dio sia lodato. «Organizzo viaggi per ragazzi della sua età. V'interesserebbe mandarlo in Europa quest'estate?» Una risata. «Oh, no, non penso proprio.» «Potrei spedirvi un opuscolo?» «Può, ma non cambierà molto le cose.» «L'indirizzo è Old Buck Road?» «Davvero, sta benissimo qui.» «Buona sera, allora. Mi spiace di averla disturbata.» Prese un opuscolo dal chiosco del noleggio automobili, in quel momento deserto, e sedette a esaminarlo, levando lo sguardo ogniqualvolta avvertiva un movimento della porta rotante.
Domani avrebbe noleggiato un'automobile e sarebbe andato a New Providence. Una volta sistemato Wheelock, avrebbe continuato il viaggio fino a New York, restituito l'automobile, venduto un diamante e preso un aereo per Chicago. Ammesso che Robert K. Davis abitasse ancora a Kankakee. Ma dove diavolo era Liebermann? Alle nove andò al bar e si accomodò su uno sgabello al banco, dal quale poteva tener d'occhio la porta rotante attraverso la porta a vetri del locale. Mangiò uova strapazzate e pane tostato, bevve il peggior caffè del mondo. Al momento di andarsene, cambiò un dollaro in monetine, tornò nella cabina telefonica e chiamò l'albergo. Forse Liebermann era entrato dall'ingresso laterale. Non era così. Lo stavano ancora aspettando. Chiamò i due aeroporti, sperando — era possibile, no? — che ci fosse stato un incidente. Niente casi fortunati del genere. E tutti i voli in arrivo erano in perfetto orario. Quel figlio di puttana doveva essersi trattenuto a Mannheim. Ma per quanto? Era troppo tardi per telefonare a Vienna e farselo dire da quella Fräulein Zimmer. Troppo presto, anzi; là non erano ancora le quattro del mattino. Cominciò a preoccuparsi del fatto che qualcuno si ricordasse di averlo visto seduto nell'atrio per tutta la serata a tener d'occhio la porta. Dove sei, maledetto bastardo ebreo? Vieni a farti ammazzare! Il mercoledì pomeriggio, qualche minuto dopo le due, Liebermann smontò da un tassi bloccato dal traffico nel bel mezzo di Manhattan e s'avviò lungo il marciapiede, nonostante la pioggia gelida. L'ombrello, che s'era fatto prestare dagli ospiti presso i quali aveva trascorso la notte, Marvin e Rita Farb, aveva gli spicchi tutti di vivaci colori diversi (è un ombrello, si disse; sii contento d'averne uno). Percorse di buon passo il lato ovest di Broadway, zigzagando tra altri ombrelli (neri), e uomini che spingevano rastrelliere cariche di abiti, protetti da fogli di plastica. Osservava i numeri dei palazzi per uffici che sorpassava; affrettò il passo. Camminò per sette o otto isolati, attraversò una strada, guardò l'edificio che gli si parava di fronte — una sala corse, un'esposizione di lampade, venti piani o giù di lì di pietra sudicia e anguste finestre — s'avviò all'ingresso sormontato da un arco e spinse una pesante porta di vetro, chiudendo l'ombrello multicolore.
Attraversò l'atrio col pavimento rivestito di nero — piccolo, un chiosco per la vendita di riviste e dolciumi ne occupava la maggior parte — e si unì alla mezza dozzina di persone in attesa degli ascensori; pestò i piedi fradici, batté il puntale dell'ombrello contro il rivestimento di gomma umida per farne scolare l'acqua. Al dodicesimo piano — squallido, con l'intonaco scrostato — seguì i numeri scritti sulle porte a vetri smerigliati: "1202, Aaron Goldman, Fiori artificiali; 1203, C. & M. Roth, Vetri d'importazione; 1204, Bambole, B. Rosenzweig". Sul vetro della stanza 1205 si leggeva la scritta "YJD" in lettere metalliche incollate, la D un tantino più alta della Y e dell'J. Bussò al vetro. Dietro il vetro si profilò una vaga ombra bianca e carnicina. «Sì?» La voce di una giovane donna. «Sono Yakov Liebermann.» La buca per le lettere sotto il vetro tintinnò e lasciò passare la luce. «Le spiace infilare qui un documento di identità?» Cavò di tasca il passaporto e lo infilò nella fessura; gli fu sfilato dalle dita. Attese. La porta aveva due chiavistelli, uno che pareva quello originale e, più sotto, un altro di ottone lucido, apparentemente nuovo. Scattò un chiavistello e la porta si aprì. Liebermann entrò. Una ragazza grassa sui sedici anni, con i capelli rossi tirati all'indietro, gli sorrise e disse: «Shalom» tendendogli il passaporto. Lui lo prese e rispose: «Shalom». «Dobbiamo stare in guardia» si scusò la ragazza. Chiuse la porta e tirò il chiavistello. Indossava un'argentina bianca e blue jeans attillatissimi; i capelli le ricadevano sulle spalle in una lucente coda di cavallo d'un rosso aranciato. Si trovavano in una minuscola anticamera ingombra: una scrivania, una macchina per ciclostilare su un tavolo carico di pile di carta bianca e rosa; scaffali di legno grezzo, colmi di volantini e copie di giornali; nella parete di fronte si apriva un uscio in quel momento socchiuso, sul quale era incollato un manifesto dei Giovani Difensori Ebrei, raffigurante una mano che brandiva una spada davanti a una stella di Davide azzurra. La ragazza tese la mano verso l'ombrello; Liebermann glielo diede e lei l'infilò in un cestino di metallo per la carta straccia, in compagnia di altri due, neri, bagnati. Liebermann, mentre si toglieva cappello e cappotto, disse: «È lei la si-
gnorina che ha risposto al telefono?». La ragazza fece cenno di sì. «Sbriga le cose con molta efficienza. C'è il Rabbi?» «È appena arrivato.» Prese il cappello e il cappotto dalle mani di Liebermann. «Grazie. Come sta suo figlio?» «Non lo sanno. Le sue condizioni sono stazionarie.» «Mmm.» Liebermann scosse il capo con simpatia. La ragazza trovò un posto per il cappello e il cappotto sull'attaccapanni sovraccarico. Liebermann, rassettandosi la giacca, lisciandosi i capelli, lanciò un'occhiata alle pile di volantini su uno scaffale accanto a lui: "Il Nuovo Ebreo"; "KISSinger DI MORTE"; "Niente compromessi - Mai!". La ragazza passò accanto a Liebermann, scusandosi, e bussò alla porta coperta dal manifesto; l'aprì e guardò dentro. «Reb? C'è il signor Liebermann.» Spalancò completamente la porta e, sorridendo a Liebermann, si fece da parte. Un uomo tarchiato dalla barba bionda squadrò arcigno Liebermann quando questi mise piede in un ufficio surriscaldato e affollato di uomini e scrivanie e oggetti ingombranti; da dietro la scrivania d'angolo uscì Rabbi Moshe Gorin, un bell'uomo dai capelli scuri, robusto, sorridente, le guance nere di barba; con una giacca di tweed e una camicia gialla a collo aperto. Afferrò la mano di Liebermann, la serrò tra le sue e lo guardò con magnetici occhi nocciola carichi d'ombre. «È da quando ero ragazzo che desideravo conoscerla» disse a voce bassa, intensa. «Lei è uno dei pochi uomini di questo mondo che veramente ammiri, non solo a causa di ciò che ha fatto, ma perché l'ha fatto senza l'aiuto delle autorità costituite. Parlo delle autorità costituite ebree.» Liebermann, imbarazzato ma compiaciuto, disse: «Grazie. Anch'io desideravo conoscerla, Rabbi. Apprezzo la sua iniziativa». Gorin presentò gli altri uomini. Quello con la barba bionda, il naso a becco, una stretta di mano stritolante, era il suo braccio destro, Phil Greenspan. Uno alto e stempiato con gli occhiali era Elliott Bachrach. Un altro, grande e grosso, la barba nera, Paul Stern. Il più giovane, venticinque anni o giù di lì, grossi baffi neri, occhi verdi, altra stretta di mano stritolante, Jay Rabinowitz. Erano tutti in maniche di camicia e, come Gorin, con la papalina in testa. Portarono sedie dalle altre scrivanie e le disposero attorno a un capo del-
la scrivania di Gorin; si sedettero. Quello alto con gli occhiali, Bachrach, sedette contro un davanzale alle spalle di Gorin, a braccia conserte, l'imposta completamente abbassata dietro di lui. Liebermann, seduto di fronte a Gorin, osservò quegli uomini sobri, dall'aria forte, e l'ufficio disordinato e ingombro, con le mappe della città e del mondo appese alle pareti, una lavagna a cavalietto, pile di libri e giornali, scatole di cartone. «Non badi a questo posto.» Gorin liquidò l'argomento con un gesto. «Non è poi così diverso dal mio stesso ufficio» disse Liebermann, sorridendo. «Un po' più grande, forse.» «Mi spiace per lei.» «Come sta suo figlio?» «Penso che si rimetterà perfettamente» disse Gorin. «Le sue condizioni sono stazionarie.» «Apprezzo il fatto che lei sia venuto.» Gorin si strinse nelle spalle. «C'è sua madre con lui. Io ho detto le mie preghiere.» Sorrise. Liebermann cercò di mettersi comodo sulla sedia senza braccioli. «Ogniqualvolta parlo,» disse «in pubblico, voglio dire... mi chiedono che ne penso di lei. Dico sempre: "Non lo conosco di persona, per cui non ho un'opinione in merito".» Sorrise a Gorin. «Adesso dovrò dare una risposta diversa.» «Favorevole, spero.» Trillò il telefono sulla scrivania. «Non c'è nessuno, Sandy!» urlò Gorin in direzione della porta. «A meno che non sia mia moglie!» Rivolto a Liebermann, chiese: «Lei non aspetta telefonate, vero?» Liebermann scosse il capo. «Nessuno sa che sonò qui. Dovrei essere a Washington.» Si schiarì la gola, sedette con le mani sulle ginocchia. «Vi ero diretto ieri pomeriggio» disse. «Per consultare l'F.B.I. in merito a certi assassinii su cui sto investigando. Qui e in Europa. Da parte di ex membri delle SS.» «Assassinii recenti?» Gorin appariva preoccupato. «Tutt'ora in atto» precisò Liebermann. «Programmati dalla Kameradenwerk in Sudamerica e dal dottor Mengele.» Disse Gorin: «Quel figlio di puttana...». Gli altri uomini si agitarono. Quello con la barba bionda, Greenspan, disse a Liebermann: «Abbiamo aperto una nuova filiale a Rio de Janeiro. Non appena sarà abbastanza grossa, abbiamo intenzione di organizzare un commando e beccarlo». «Vi auguro buona fortuna» disse Liebermann. «È ancora vivo e vegeto, alla testa di questa impresa. Ha ucciso un giovane laggiù, un ragazzo ebreo
di Evanston, nell'Illinois, in settembre. Il ragazzo parlava per telefono con me, informandomi della faccenda, quando è accaduto. Il mio problema ora è che mi ci vorrà un bel po' di tempo per convincere l'F.B.I. che so quel che mi dico.» «Perché ha aspettato così a lungo?» domandò Gorin. «Se lo sapeva in settembre?» «Non lo sapevo» disse Liebermann. «Era tutto una questione di... se e forse, tutto incerto. Solo ora ho ricostruito l'intera faccenda.» Scosse il capo e sospirò. «Così, sull'aereo mi è venuto in mente» disse a Gorin «che forse voi, gli YJD» li passò in rassegna tutti con lo sguardo «potreste darmi una mano in questa faccenda, mentre io proseguo per Washington.» «Qualsiasi cosa possiamo fare,» disse Gorin «le basterà chiedere, e l'otterrà.» Gli altri annuirono. «Grazie» disse Liebermann. «Era quel che speravo. Si tratta di far la guardia a qualcuno, un uomo che vive in Pennsylvania. In una cittadina che si chiama New Providence, un puntolino sulla cartina, non lontano dalla città di Lancaster.» «Pennsylvania — zona olandese» disse l'uomo con la barba nera. «La conosco.» «L'uomo in questione è il prossimo che dovrebbe essere ucciso negli Stati Uniti» disse Liebermann. «Il 22 di questo mese, ma forse anche prima. Forse solo di qui a qualche giorno. Così, dev'essere sorvegliato. Ma l'uomo che verrà a ucciderlo non dovrà essere spaventato e fatto fuggire o ucciso a sua volta; dev'essere catturato, in modo che possa essere interrogato.» Fissò Gorin. «Ha uomini in grado di assolvere a un incarico del genere? Sorvegliare qualcuno, catturare qualcuno?» Gorin annuì. Greenspan disse: «Li ha sotto gli occhi» e, rivolto a Gorin: «Alle lezioni pratiche, ci penserà Jay. Io mi occuperò di questa faccenda». Gorin sorrise, chinò la testa verso Greenspan e disse a Liebermann: «Il grande rammarico di questo tipo è di non aver partecipato alla seconda guerra mondiale. Tiene i nostri corsi di addestramento militare». «Sarà soltanto per una settimana o giù di lì, spero» spiegò Liebermann. «Solo finché interverrà l'F.B.I.» «Per quale motivo vuol fare intervenire loro?» domandò il giovane con i baffi, e Greenspan disse a Liebermann: «Glielo cattureremo noi, e gli spremeremo più informazioni, e più in fretta, di quanto potrebbero fare loro. Glielo garantisco». Squillò il telefono. Liebermann scosse il capo. «Devo servirmi di loro,» disse «perché da lo-
ro la cosa deve arrivare all'Interpol. Sono coinvolti altri paesi. Oltre a questo, ci sono altri cinque uomini.» Gorin guardava verso la porta; fissò Liebermann. «Quanti assassinii sono stati perpetrati?» domandò. «Che io sappia, otto.» Gorin parve dolorosamente colpito. Qualcuno fece udire un fischio. «Sette, di sicuro» si corresse Liebermann. «Uno, probabilmente. Forse altri.» «Ebrei?» domandò Gorin. Liebermann scosse il capo. «Goyim.» «Perché» domandò Bachrach dalla finestra. «A che scopo?» «Sì» disse Gorin. «Chi erano? Chi è questo della Pennsylvania?» Liebermann respirò a fondo, espirò. Si protese in avanti. «Se vi dico che è molto, molto importante,» disse «più importante, a lungo andare, dell'antisemitismo russo e delle pressioni esercitate contro Israele... vi basterà per il momento? Vi giuro che non esagero.» In silenzio, Gorin fissò accigliato la scrivania davanti a sé. Levò lo sguardo su Liebermann, scosse il capo e sorrise come per scusarsi. «No» disse. «Lei chiede a Moshe Gorin di prestarle tre o quattro dei suoi uomini migliori, forse anche di più. Uomini, non ragazzi. In un momento in cui le nostre file già si sono assottigliate e in cui sento il fiato del governo sul collo perché sto mandando a catafascio la loro preziosa distensione. No, Yakov,» scosse il capo «le darò tutto l'aiuto che posso, ma che razza di capo sarei se impegnassi i miei uomini alla cieca, fosse pure affidandoli a Yakov Liebermann?» Liebermann annuì. «Immaginavo che almeno avrebbe voluto sapere» disse. «Ma non mi chieda le prove, Rabbi. Ascolti soltanto e si fidi di me. Altrimenti ho sprecato tempo.» Li passò in rassegna con lo sguardo, fissò Gorin, si schiarì la gola. «Per caso,» disse «ha mai studiato un po' di biologia?» «Dio!» disse quello con i baffi. Disse Bachrach: «Il termine inglese è cloning. C'è stato un articolo in proposito nel "Times", qualche anno fa». Gorin sorrise debolmente, attorcigliando un filo allentato attorno a un bottone del polsino. «Stamane,» disse «al capezzale di mio figlio, ho detto: "Che accadrà ancora, o Signore?".» Fece un gesto in direzione di Liebermann, annuendo, sorridendo con amarezza. «Novantaquattro Hitler.»
«Novantaquattro ragazzi con i geni di Hitler» precisò Liebermann. «Per me» disse Gorin «sono novantaquattro Hitler.» Greenspan disse a Liebermann: «È sicuro che quel Wheelock sia ancora vivo?». «Sì.» «E che non si sia trasferito altrove?» A parlare era l'uomo dalla barba nera. «Ho il suo numero di telefono» disse Liebermann. «Non ho voluto parlare con lui personalmente finora, finché non sapevo se voi avreste fatto quel che desideravo.» Fissò Gorin: «Ma questa mattina l'ho fatto chiamare dalla signora presso la quale abito. Ha detto che voleva comprare un cane e che aveva saputo che lui li allevava. È lui. Si è fatta spiegare come arrivarci». Gorin disse a Greenspan: «Dovremo combinare la cosa da Filadelfia». E a Liebermann: «L'unica cosa che non faremo sarà di trasportare armi oltre il confine dello stato. L'F.B.I. avrebbe un ottimo pretesto per arrestare noi oltre al nazista». Liebermann disse: «Devo chiamare Wheelock ora?». Gorin annuì. Greenspan disse: «Ho tutta l'intenzione di installare in casa sua uno dei miei uomini». Il giovanotto con i baffi spinse il telefono verso Liebermann. Liebermann inforcò gli occhiali e cavò dalla tasca della giacca una busta. Bachrach disse dalla finestra: «Salve, signor Wheelock, suo figlio è Hitler». Liebermann disse: «Non ho alcuna intenzione di accennare al ragazzo. Potrebbe indurlo a sbattere giù il telefono, per il modo in cui è avvenuta l'adozione. Mi limito a fare il numero, d'accordo?». «Se ha il prefisso.» Liebermann compose il numero, leggendolo sulla busta. «Probabilmente a quest'ora le lezioni sono terminate» disse Gorin. «È possibile che risponda il ragazzo.» «Siamo amici» disse asciutto Liebermann. «Ci siamo già incontrati due volte.» Il telefono all'altro capo del filo squillò. Un altro squillo. Liebennann fissò Gorin che lo fissava. «Prooonto» disse un uomo dalla voce profonda. «Il signor Henry Wheelock?» «Sono io.» «Signor Wheelock, mi chiamo Yakov Liebermann. Chiamo da New York. Dirigo il Centro di Informazioni sui Crimini di Guerra di Vienna...
Forse ne ha sentito parlare? Raccogliamo informazioni sui criminali di guerra nazisti, contribuiamo a scovarli e a raccogliere le prove d'accusa.» «L'ho sentito. Quell'Eichmann.» «Giusto, e altri. Signor Wheelock, ora sto dando la caccia a qualcuno, qualcuno che si trova in questo paese. Sto recandomi a Washington per interpellare in proposito l'F.B.I. Quest'uomo ha ucciso due o tre uomini qui, non tanto tempo fa, e si propone di ucciderne altri.» «Vuole un cane da guardia?» «No» disse Liebermann. «Il prossimo che quell'uomo si propone di uccidere, signor Wheelock» fissò Gorin «è lei.» «D'accordo, chi parla? Ted? L'accento tedesco ti riesce proprio bene, sai, imbecille?» Liebermann disse: «Non è uno scherzo. So che pensa che un nazista non avrebbe alcun motivo di ucciderla...». «E chi lo dice? Ne ho ammazzato una quantità; scommetto che sarebbero maledettamente felici di pareggiare il conto. Ammesso che ce ne siano ancora in circolazione.» «Uno è in circolazione...» «Avanti, ora, chi parla?» «Sono Yakov Liebermann, signor Wheelock.» «Cavolo!» disse Gorin; gli altri parlavano, borbottavano. Liebermann s'infilò un dito nell'orecchio. «Le giuro» disse «che un uomo sta venendo a New Providence a ucciderla, un ex membro delle SS, forse solo fra qualche giorno. Sto tentando di salvarle la vita.» Silenzio. Liebermann disse: «Mi trovo nell'ufficio di Rabbi Moshe Gorin dei Giovani Difensori Ebrei. Finché non riuscirò a farla proteggere dall'F.B.I., e ci vorrà per questo una settimana o giù di lì, il Rabbi ha intenzione di mandarle alcuni dei suoi uomini. Potrebbero essere da lei...». Guardò con aria interrogativa Gorin, il quale disse: «Domattina». «Domattina» disse Liebermann. «È disposto a collaborare con loro fino all'arrivo degli uomini dell'F.B.I.?» Silenzio. «Signor Wheelock?» «Senta, signor Liebermann, se davvero lei è il signor Liebermann. D'accordo, forse lo è. Lasci che le dica una cosa. Si dà il caso che lei stia parlando con uno degli uomini più al sicuro degli Stati Uniti d'America. In primo luogo, sono una ex guardia carceraria di un penitenziario di Stato,
per cui so abbastanza bene come badare a me stesso. E, secondariamente, ho la casa piena di doberman addestrati; pronuncio la parola adatta e quelli squarciano la gola a chiunque mi guardi anche solo di traverso.» «Sono lieto di sentirlo,» disse Liebermann «ma i doberman possono impedire a un muro di crollarle addosso? O a qualcuno di spararle da lontano? È quanto è accaduto a due degli altri uomini.» «Di che diavolo si tratta? Nessun nazista mi dà la caccia. Ha sbagliato Henry Wheelock.» «Ce n'è un altro, a New Providence, che alleva doberman? Sessantacinque anni, una moglie molto più giovane, un figlio che ne ha quasi quattordici?» Silenzio. «Ha bisogno di protezione» disse Liebermann. «E il nazista deve essere catturato, non ammazzato dai cani.» «Ci crederò quando me lo dirà l'F.B.I. Non ho intenzione di avere tra i piedi ragazzini ebrei armati di mazze da baseball.» Liebermann rimase in silenzio per un momento. «Signor Wheelock,» disse «potrei venire a trovarla mentre mi reco a Washington? Le fornirò qualche altra spiegazione.» Gorin lo fissò con aria interrogativa; Liebermann distolse lo sguardo. «Venga pure, se vuole; sono sempre qui.» «Quand'è che non c'è sua moglie?» «È via la maggior parte della giornata. Insegna.» «E anche il ragazzo è a scuola?» «Quando non la marina per girare filmini. Diventerà il prossimo Alfred Hitchcock, crede lui.» «Sarò lì verso mezzogiorno, domani.» «Si accomodi. Ma solo lei. Se vedo in circolazione uno dei "Difensori Ebrei", sciolgo i cani. Ha una matita? Le dò le indicazioni per arrivare fin qui.» «Le ho già» disse Liebermann. «Ci vediamo domani. E spero che stasera resterà in casa.» «Era già in programma.» Liebermann riagganciò. «Devo dirgli che la cosa riguarda l'adozione del ragazzo,» disse a Gorin «ed è meglio se non potrà sbattere giù il telefono.» Sorrise. «Dovrò anche convincerlo che gli YJD non sono "ragazzini ebrei armati di mazze da baseball".» Rivolto a Greenspan, aggiunse: «Do-
vrete aspettare da qualche parte che vi chiami io». «Prima devo andare a Filadelfia» ribatté Greenspan. «A radunare i miei uomini e ritirare l'equipaggiamento.» A Gorin disse: «Voglio portare con me Paul». Architettarono tutta la faccenda. Greenspan e Paul Stern si sarebbero recati a Filadelfia con l'auto di Stern, appena fatta la valigia, e Liebermann sarebbe andato a New Providence l'indomani mattina al volante dell'auto di Greenspan. Una volta che avesse persuaso Wheelock ad accettare la protezione degli YJD, avrebbe telefonato a Filadelfia e il gruppo sarebbe venuto a incontrarlo a casa di Wheelock. Una volta sistemate le cose, avrebbe proseguito in macchina per Washington, tenendo l'auto di Greenspan, finché l'F.B.I. non avesse dato il cambio al gruppo. «Dovrei chiamare il mio ufficio» disse, girando il cucchiaino nella tazza del tè. «Credono che sia già là.» Gorin accennò al telefono. Liebermann scosse il capo. «No, non ora, è troppo tardi là. Chiamerò nelle prime ore del mattino.» Sorrise. «Non voglio pesare sugli YJD.» Gorin si strinse nelle spalle. «Telefono di continuo in Europa» disse. «Le nostre filiali locali.» Liebermann annuì pensieroso e disse: «I finanziatori sono passati da me a lei». «Suppongo che qualcuno l'abbia fatto» ammise Gorin. «Ma il fatto che siamo seduti qui tutti assieme, che lavoriamo di comune accordo, dimostra che continuano ad aiutare la stessa causa, no?» «Penso di sì» disse Liebermann. «Sì. Sicuro.» Più tardi disse: «Il ragazzo di Wheelock non dipinge. Siamo nel 1975: gira filmini». Sorrise. «Ma s'è scelto le iniziali giuste, vuole diventare un altro Alfred Hitchcock. E il padre, lo statale, non crede che sia una buona idea. Hitler e suo padre litigavano ferocemente per il fatto che lui voleva fare l'artista.» Mengele aveva attraversato la strada, il mercoledì mattina di buon'ora, e aveva preso una stanza presso un altro albergo, il Kenilworth, registrandosi come signor Kurt Koehler, abitante in Sheridan Road, numero 18, a Evanston, nell'Illinois. Gli era stato chiesto, abbastanza logicamente, il pagamento anticipato, dal momento che tutto ciò che portava con sé era una sottile cartella di cuoio (carte, coltello, proiettili per la Browning, diamanti) e un sacchetto di carta (uva).
Non avrebbe potuto chiamare l'ufficio di Liebermann dalla stanza del señor Ramón Aschheim y Negrín, perché dopo la morte di Liebermann avrebbero anche potuto essere controllate le telefonate fatte da Koehler, né gli andava a genio di raggranellare monetine per 7 dollari e sprecare un'ora a indolenzirsi il pollice infilandole in un telefono a gettone. E poi, nei panni di Koehler avrebbe potuto ricevere telefonate, se fosse stato necessario. Dalla sua seconda stanza (niente decimi di stelletta in questo caso) aveva chiamato Fräulein Zimmer, spiegandole che era venuto in aereo da New York a Washington, facendo proseguire senza scorta il cadavere di Barry, soltanto per la preminente necessità di affidare gli appunti del povero ragazzo — ancora più significativi di quanto si fosse reso conto sulle prime — alle mani di Herr Liebermann, al più presto possibile. Ma dove, dica, prego, era Herr Liebermann? Non era al Benjamin Franklin? Fräulein Zimmer era parsa sorpresa, ma non allarmata. Avrebbe chiamato Mannheim per vedere che cosa riusciva a scoprire. Forse Herr Koehler poteva provare presso qualche altro albergo, anche se non riusciva proprio a immaginarsi perché Herr Liebermann avesse dovuto scendere altrove. Senza dubbio avrebbe chiamato quanto prima; di solito lo faceva, quando cambiava i suoi piani. (Di solito!) Sì, avrebbe chiamato Herr Koehler non appena avesse avuto notizie. Al Kenilworth, gentile Fräulein; il Benjamin Franklin era al completo quando era arrivato lui. Ma avevano riservato una stanza a Herr Liebermann, naturalmente. Quando la Zimmer lo richiamò, Mengele aveva telefonato a più di trenta alberghi, e sei volte al Benjamin Franklin. Liebermann aveva lasciato Francoforte martedì mattina col volo fissato; così o si trovava a Washington o si era fermato a New York. «A New York dove va?» «A volte all'Hotel Edison, ma di solito in casa di amici, finanziatori. Ne ha molti. È una grossa città ebrea, sa?» «Lo so.» «Non si preoccupi, Herr Koehler; sono sicura che si farà vivo quanto prima e gli dirò che lei aspetta. Mi tratterrò in ufficio fino a tardi, nel caso chiamasse.» Telefonò all'Edison di New York, ad altri alberghi di Washington, al Benjamin Franklin ogni mezz'ora; vi fece una capatina sotto la pioggia gelida per accertarsi che i suoi indumenti e la valigia si trovassero ancora nella stanza col cartello: "Si prega di non disturbare" appeso alla porta.
Mercoledì notte dormì al Kenilworth. O meglio, tentò di dormire. Fu preso da un senso di depressione. Pensò alla pistola posata sul comodino accanto al letto... Si aspettava davvero di beccare Liebermann e gli altri uomini che dovevano essere uccisi (settantasette!) prima di essere ucciso a sua volta? O, peggio ancora, catturato e costretto a sottostare a quella specie di orrendo processo-beffa che era toccato in sorte ai poveri Stangl e Eichmann? Perché non porre fine a tutte le lotte, i piani, i crucci? Trovò, all'una del mattino alla televisione americana — e di sicuro era opera di Dio, un segno inviatogli per trarlo dalla disperazione — uno splendido film del Führer e del generale von Blomberg che osservavano una parata aerea della Luftwaffe; fece tacere il disgustoso commento in inglese e osservò le vecchie immagini granulose mute, così dolciamare da straziare il cuore, così capaci di infondere nuovamente speranza... Dormì. Qualche minuto dopo le otto del giovedì mattina, proprio mentre era sul punto di fare un'altra telefonata a Vienna, il telefono squillò. «Pronto?» «Parlo col signor Kurt Koehler?» Una donna, americana, non Fräulein Zimmer. «Sì...» «Pronto, sono Rita Farb. Sono un'amica di Yakov Liebermann. Ha alloggiato da noi, a New York. Mi ha pregata di telefonarle. Ha chiamato il suo ufficio di Vienna poco fa e ha saputo che lei lo sta aspettando. Sarà a Washington stasera, verso le sei. Vorrebbe che cenasse con lui. La chiamerà non appena arriva.» Sollevato, felice, Mengele disse: «Benone!». «E potrebbe fargli un piacere? Vorrebbe chiamare l'Hotel Benjamin Franklin avvertendo che questa volta sta arrivando davvero?» «Sì, sarò ben lieto di farlo! Sa con quale volo arriva?» «Viene in macchina, non in aereo. È appena partito. È per questo che ho chiamato io. Andava di fretta.» Mengele aggrottò la fronte. «Non arriverà qui prima delle sei?» domandò. «Se è già partito?» «No, deve fare una deviazione in Pennsylvania. Può persino darsi che arrivi un po' più tardi delle sei, comunque arriverà di certo e per prima cosa le telefonerà .» Mengele tacque; poi disse: «Va a parlare con Henry Wheelock? A New Providence?».
«Sì, sono stata io a indicargli come si fa ad arrivarci. È indubbiamente interessante avere Yakov per casa. Ho l'impressione che stia succedendo qualcosa di veramente grosso.» «Sì» disse Mengele. «Grazie per aver chiamato. Oh, sa a che ora s'incontreranno Yakov e Henry?» «A mezzogiorno.» «Grazie. Arrivederci.» Premette il pulsante dell'apparecchio, lo tenne premuto, diede un'occhiata all'orologio, chiuse gli occhi e rimase immobile; aprì gli occhi, lasciò andare il pulsante, vi batté sopra. Parlò con la cassiera e le disse di preparargli il conto dei pasti e del telefono. Si mise i baffi finti, la parrucca. La pistola. Giacca, cappotto, cappello; afferrò la valigetta. Attraversò di corsa la strada ed entrò al Benjamin Franklin; fece una sosta allo sportello della cassa per impartire le istruzioni del caso e si precipitò al chiosco del noleggio automobili. Una bella ragazza in un'uniforme gialla e nera gli rivolse un sorriso radioso. E solo un tantino meno radioso, quando apprese che era paraguayano e non possedeva carte di credito. Il costo approssimativo del noleggio avrebbe dovuto essere pagato in contanti in anticipo; circa sessanta dollari, pensava la ragazza; avrebbe fatto i conti più accuratamente. Mengele gettò le banconate sul banco, lasciò la patente di guida, le disse di far preparare la macchina entro dieci minuti, al massimo; si precipitò agli ascensori. Alle nove era sulla statale per Baltimora, al volante di una Ford Pinto bianca sotto un cielo di un azzurro smagliante. Pistola sotto l'ascella, coltello nella tasca del cappotto, Dio al suo fianco. Rispettando il limite di velocità di ottanta chilometri all'ora, avrebbe raggiunto New Providence quasi un'ora prima di Liebermann. Altre macchine lo sorpassavano lentamente. Americani! Il limite è di ottanta e loro vanno a cento. Scosse il capo e si permise di correre un po' di più. Paese che vai, usanze che trovi. Giunse a New Providence — una manciata di case piuttosto squallide, un negozio, l'ufficio postale in mattoni a un piano — alle undici meno dieci, ma a questo punto doveva trovare Old Buck Road senza chiedere a qualcuno che più tardi avrebbe potuto fornire la sua descrizione e/o quella della sua macchina alla polizia. La carta stradale che aveva preso a un distributore di benzina nel Maryland, più particolareggiata dell'atlante, indicava una cittadina chiamata Buck a sud-ovest di New Providence; esplorò
in quella direzione, seguendo una strada a due corsie, tutta gobbe e buche, che serpeggiava attraverso i campi spogli per l'inverno; rallentò a ogni incrocio e scrutò segnali e indicazioni stradali pressoché illeggibili. Di tanto in tanto lo superavano auto e camion. Trovò Old Buck Road che si diramava dalla strada principale sia verso destra sia verso sinistra; optò per la destra e tornò indietro verso New Providence, tenendo d'occhio le cassette per le lettere. Passò un "Grubel" e un "C. Johnson". Alberi spogli intrecciavano i rami sopra l'angusta carreggiata. Gli venne incontro un calessino nero trainato da un cavallo. Ne aveva visti di simili sui tabelloni che fiancheggiavano la strada principale; a quanto pareva, quei mennoniti costituivano un'attrazione turistica locale. Sotto il baldacchino nero sedevano un uomo barbuto con in testa un cappello nero e una donna con un berretto nero, lo sguardo fisso dinanzi a sé. La cassette per le lettere, nei pressi di viottoli che s'inoltravano tra gli alberi, erano scarse e molto distanziate l'una dall'altra. Era una buona cosa: avrebbe potuto usare la pistola. "H. Wheelock." La bandiera rossa che segnalava pericolo era abbassata accanto alla cassetta. "CANI DA GUARDIA", avvertiva (o reclamizzava?) un cartello più sotto, in rozze lettere nere tracciate con la vernice. Questa era una brutta cosa. Anche se non proprio del tutto, dal momento che gli forniva un motivo per trovarsi lì più plausibile della storia dei viaggi estivi per ragazzi che s'era ripromesso di ripetere. Svoltò a destra, guidando le ruote della macchina nei profondi solchi di un viottolo in terra battuta a schiena d'asino che s'inerpicava tra gli alberi. Il fondo dell'auto grattava sulla gobba della strada: affari di Herr Hertz. Ma anche suoi, se la macchina fosse diventata inutilizzabile. Guidava lentamente. Guardò l'orologio: le 11,18. Sì, ricordava vagamente che una delle coppie americane aveva elencato tra i suoi interessi l'allevamento dei cani. Senza dubbio s'era trattato dei Wheelock; e la guardia carceraria, ormai certamente in pensione, aveva forse trasformato in un'occupazione a tempo pieno il passatempo di una volta. «Buon giorno!» disse ad alta voce Mengele. «Il cartello laggiù dice "cani da guardia", e quel che cerco è proprio un cane da guardia.» Si premette i grossi baffi per farli aderire meglio, si diede un colpetto alla parrucca di lato e sulla nuca, inclinò lo specchio e si rimirò; rimise a posto lo specchio e seguì lentamente il viottolo sconnesso; infilò una mano sotto il cappotto e la giacca, slacciò la fondina, in modo da poterne estrarre rapidamente la pistola.
Un latrato di cani, un vero e proprio tumulto, lo sfidò da una radura inondata di sole dove si ergeva, d'angolo rispetto a lui, una casa a due piani — imposte bianche, pareti di legno bruno; e sul retro della casa, una dozzina di cani che si slanciavano contro un alto recinto di rete metallica, abbaiando, guaendo. Alle loro spalle stava un uomo dai capelli bianchi che guardava verso di lui. Mengele arrivò con la macchina fino ai piedi del vialetto lastricato della casa e si fermò; tolse la marcia. Un solo cane guaiva, ora, un cucciolo, a giudicare dalla voce. Accanto alla casa, in fondo, si vedeva un furgone rosso in un garage col posto per due auto, di cui uno deserto. Aprì la portiera della macchina, la spalancò, scese; si stirò e massaggiò la schiena, mentre l'auto ronzava accanto a lui come a dirgli di togliere la chiave dal cruscotto. La pistola gli si mosse sotto l'ascella. Sbatté la portiera e ristette a guardare il portico profilato di bianco in cima al vialetto. È qui che vive uno di loro! Forse da qualche parte ci sarebbe stata una fotografia del ragazzo. Che cosa meravigliosa, poter vedere quel volto di quasi quattordici anni! Dio del cielo, e se oggi non è a scuola? Pensiero sconvolgente, ma elettrizzante! L'uomo dai capelli bianchi avanzò di buon passo lungo il fianco della casa, un cane accanto a sé, un grosso cane nero dal pelo lucido. L'uomo indossava una voluminosa giacca marrone, guanti neri, calzoni marrone; era alto e largo, il volto rosso astioso, tutt'altro che amichevole. Mengele sorrise. «Buon giorno!» salutò. «Il...» «Lei è Liebermann?» domandò l'uomo con profonda voce di gola, avvicinandosi a grandi passi. Mengele accentuò il sorriso. «Ja, sì!» disse. «Sì! Il signor Wheelock?» L'uomo si fermò accanto a Mengele e fece di sì con la testa dai bianchi capelli ondulati. Il cane, un bellissimo esemplare di doberman nero-blu, ringhiò contro Mengele, mettendo in mostra i bianchi denti affilati. Il collare a catena era trattenuto da un dito ricoperto di pelle nera. Strappi e lacerazioni solcavano le maniche della rozza giacca marrone, dai quali spuntava a ciuffi l'imbottitura bianca. «Sono un po' in anticipo» si scusò Mengele. Wheelock guardò in direzione dell'auto, poi guardò lui, strizzando gli occhi azzurri sotto le bianche sopracciglia cespugliose. Rughe gli striavano le guance ricoperte di un'ispida barba bianca. «Entri» disse, indicando la casa con un cenno della testa bianca. «Non ho niente in contrario ad ammettere che mi ha maledettamente incuriosito.» Si girò e fece strada su per
il vialetto, sempre trattenendo col dito la catena del doberman nero-blu. «È uno splendido cane» disse Mengele, seguendolo. Wheelock salì sotto il portico. La porta bianca aveva un batacchio a forma di testa di cane. «Suo figlio è a casa?» domandò Mengele. «Non c'è nessuno» disse Wheelock aprendo la porta. «Li aspetto.» Altri doberman, due, tre, vennero a leccargli il guanto, ringhiando a Mengele. «A cuccia» disse Wheelock. «È un amico.» Allontanò con un gesto i cani, che si ritrassero docili, ed entrò con l'altro cane, facendo cenno col capo a Mengele. «Chiuda la porta.» Mengele entrò e chiuse la porta; rimase a guardare Wheelock che si accovacciava tra una folla di doberman neri, accarezzandone le teste e battendone i fianchi sodi mentre gli animali gli davano colpetti di lingua e di muso. Mengele disse: «Splendidi». «Questi giovanotti» disse felice Wheelock «sono Harpo e Zeppo — li ha battezzati così mio figlio; l'unica cucciolata che gli abbia mai lasciato — e questo vecchione è Samson — buono, Sam — e quest'altro è Major. Questo il signor Liebermann, ragazzi. Un amico.» Si alzò e sorrise a Mengele, tirando le punte dei guanti per sfilarseli. «Può constatare, ora, perché non me la faccio addosso se mi dice che qualcuno mi sta dando la caccia.» Mengele annuì. «Sì» disse. Abbassò lo sguardo su due doberman che fiutavano il suo cappotto. «Una magnifica difesa,» aggiunse «cani come questi.» «Squarciano la gola a chiunque mi guardi di traverso.» Wheelock si aprì la cerniera lampo della giacca; sotto portava una camicia rossa. «Si tolga il cappotto» disse. «Lo appenda là.» Alla destra di Mengele si trovava un alto attaccapanni con grossi ganci neri; nello specchio ovale si riflettevano una sedia e l'estremità di un tavolo da pranzo nella stanza di fronte. Mengele appese il cappello a un gancio, si sbottonò il cappotto; lasciò calare un sorriso sui doberman, sorrise a Wheelock che si toglieva la giacca. Alle spalle di Wheelock saliva ripida un'angusta scala. «Sicché lei è quel tale che ha preso quell'Eichmann.» Wheelock appese la giacca dalle maniche squarciate. «L'hanno preso gli israeliani» disse Mengele, togliendosi il cappotto. «Ma io li ho aiutati, naturalmente. Ho scoperto dove si nascondeva, laggiù in Argentina.» «Ha avuto una ricompensa?»
«No.» Mengele appese il cappotto. «Faccio queste cose per pura soddisfazione» disse. «Odio tutti i nazisti. Dovrebbero essere perseguitati e distrutti come bestie nocive.» «È dei negri che dobbiamo preoccuparci ora, non dei nazisti. Entri, per di qua.» Mengele, aggiustandosi la giacca, seguì Wheelock in una stanza sulla destra. Due dei doberman lo scortarono annusandogli le gambe; gli altri due andarono con Wheelock. La stanza era un piacevole salotto, con le tendine bianche alle finestre, un caminetto in pietra e, sulla sinistra, un'intera parete di medaglie appese a nastri multicolori, trofei dorati, fotografie incorniciate di nero. «Oh, è davvero un'esibizione imponente» disse Mengele e andò a guardarla. Le fotografie erano tutte di doberman, neppure una del ragazzo. «Ora, perché mai un nazista ce l'ha con me?» Mengele si voltò. Wheelock sedeva su un divano vittoriano tra le due finestre che si aprivano nella facciata della casa, intento a estrarre prese di tabacco da un vaso di vetro intagliato, posato su un tavolino basso davanti a lui, e a premerle in una tozza pipa nera. Un doberman se ne stava con le zampe anteriori sul tavolino, a guardare. Un altro doberman, il più grosso, giaceva su un tappeto rotondo tra Wheelock e Mengele, e teneva lo sguardo levato su Mengele, placidamente ma con interesse. Gli altri due doberman annusavano le gambe di Mengele, la punta delle sue dita. Wheelock lanciò un'occhiata a Mengele e disse: «Be'?». Sorridendo, Mengele disse: «Sa, mi riesce molto difficile parlare con...» accennò ai doberman che gli stavano accanto. «Non si preoccupi» disse Wheelock mentre trafficava con la pipa. «Non le daranno noia, se lei non darà noia a me. Si sieda e parli. Si abitueranno a lei.» Mengele sedette su un divano di pelle dal quale sfuggì una specie di basso gemito sibilante. Uno dei doberman gli saltò accanto e girò più e più volte su se stesso, cercando il punto giusto dove distendersi. Il doberman steso sul tappeto si alzò e venne a infilare lo snello muso tra le ginocchia di Mengele, fiutandone l'inguine. «Samson» ammonì Wheelock, aspirando la fiamma dello zolfanello nel fornello della pipa. Il doberman ritirò la testa e sedette sul pavimento guardando Mengele.
Un altro doberman, seduto ai piedi di Mengele, si grattò con una zampa posteriore il collare a catena. Il doberman sul divano accanto a Mengele se ne stava disteso a guardare il doberman seduto davanti a Mengele. Mengele si schiarì la gola e disse: .«Il nazista che verrà qui è il dottor Mengele in persona. Sarà qui probabilmente...». «Un medico?» Wheelock, reggendo la pipa, scosse il fiammifero. «Sì» disse Mengele. «Il dottor Mengele. Signor Wheelock, sono sicuro che questi cani sono addestrati perfettamente — posso giudicarlo da tutti quegli splendidi premi» puntò un dito verso la parete alle sue spalle «ma il fatto è che, a otto anni, sono stato aggredito da un cane; non un doberman, un pastore tedesco.» Si sfiorò la coscia sinistra. «Tutta questa coscia» disse «è ancora oggi un ammasso di cicatrici. E mi sono rimaste anche delle cicatrici mentali. Sono molto a disagio quando c'è un cane nella stanza con me, e il fatto che ce ne siano quattro... be', per me è un incubo!» Wheelock posò la pipa. «Avrebbe dovuto dirmelo subito» disse e si alzò e fece schioccare le dita. I doberman balzarono, si slanciarono, accorsero al suo fianco. «Avanti, ragazzi» disse guidando la muta attraverso la stanza verso una porta accanto al divano. «Ci è capitato un altro Wally Montague. Entrate qua.» Indicò ai doberman la porta, spinse con la punta del piede qualcosa che la bloccava e la chiuse, controllando la maniglia. «Non possono entrare da un'altra parte?» domandò Mengele. «Macché.» Wheelock riattraversò la stanza. Mengele trasse un sospiro e disse: «Grazie. Mi sento molto meglio ora». Sedette proteso in avanti sul sofà e si sbottonò la giacca. «Racconti in fretta la sua storia» disse Wheelock, sedendosi sul divanetto, sollevando la pipa. «Non mi va di tenerli confinati là dentro troppo a lungo.» «Vengo subito al punto» disse Mengele «ma prima» alzò il dito «mi piacerebbe prestarle una pistola, in modo che possa difendersi in momenti come questo, quando non ha con sé i cani.» «Ce l'ho, una pistola» ribatté Wheelock appoggiandosi allo schienale del divano con la pipa tra i denti, le braccia sull'intelaiatura della spalliera, le gambe accavallate. «Una Luger.» Si tolse la pipa di bocca, soffiò il fumo. «E due fucili da caccia e una carabina.» «Questa è una Browning» disse Mengele, estraendo la pistola dalla fondina. «Preferibile alla Luger, perché il caricatore contiene tredici cartucce.» Abbassò col pollice la sicura e, tenendo la pistola in posizione di tiro, la puntò contro Wheelock. «Alzi le mani» disse. «Prima posi la pipa, len-
tamente.» Wheelock lo fissò aggrottando le bianche sopracciglia cespugliose. «Via» disse Mengele. «Non voglio farle del male. Perché dovrei? Lei è un completo estraneo per me. L'uomo che mi interessa è Liebermann.» Wheelock si protese lentamente in avanti fulminando Mengele con lo sguardo, il volto arrossato per la collera. Posò la pipa e alzò le mani aperte sopra la testa. «Sulla testa» suggerì Mengele. «Ha dei bei capelli; la invidio. Questa è una parrucca, purtroppo.» Si alzò dal divano, accennò verso l'alto con la canna della pistola. Wheelock si alzò, le mani incrociate sulla sommità del capo. «Me ne frego, io, di tutte le cazzate a proposito di ebrei e nazisti» disse. «Bene» disse Mengele, tenendo la pistola puntata contro il petto di Wheelock coperto dalla camicia rossa. «Ciononostante, vorrei chiuderla da qualche parte dove non possa fare segnali a Liebermann. C'è una cantina?» «Sicuro» disse Wheelock. «Ci vada. Camminando normalmente. Ci sono altri cani nella casa, oltre a quei quattro?» «No.» Wheelock camminò lentamente verso il vestibolo, le mani sulla testa. «Per sua fortuna.» Mengele lo seguì con la pistola. «Dov'è sua moglie?» domandò. «A scuola. Insegna. A Lancaster.» Wheelock uscì nel vestibolo. «Ha delle fotografie di suo figlio?» Wheelock si arrestò per un attimo, puntò verso destra. «Perché le vuole?» «Per guardarle» disse Mengele, seguendolo con la pistola. «Non ho intenzione di fargli del male. Sono il medico che l'ha fatto venire al mondo.» «Ma che diavolo è questa storia?» Wheelock si arrestò accanto a una porta dal lato delle scale. «Ha le fotografie?» domandò Mengele. «C'è un album là dentro. Dov'eravamo prima. Sul ripiano inferiore del tavolino, dove c'è il telefono.» «È quella la porta?» «Sì.» «Abbassi una mano e l'apra, senza spalancarla.» Wheelock si girò verso la porta, abbassò una mano, socchiuse la porta; riportò la mano sulla testa. «Per fare il resto si serva del piede.»
Wheelock spalancò completamente la porta con la punta del piede. Mengele si spostò sulla parete di fronte e vi rimase appoggiato, la canna della pistola puntata contro la schiena di Wheelock. «Entri.» «Devo accendere la luce.» «Lo faccia.» Wheelock tese una mano, tirò un cordone; oltre la soglia si accese una luce cruda. Riportando la mano sulla testa, Wheelock chinò il capo e scese su un pianerottolo dalle pareti di assi, ricoperte di utensili domestici appesi a ganci. «Scenda» disse Mengele. «Lentamente.» Wheelock svoltò a sinistra e prese a scendere lentamente le scale. Mengele si accostò alla porta, scese sul pianerottolo; si girò verso Wheelock, chiuse la porta. Wheelock scese lentamente la scala che portava in cantina, le mani sul capo. Mengele puntò la pistola contro la schiena ricoperta dalla camicia rossa. Fece fuoco più volte; scoppi assordanti. I proiettili volarono e rimbalzarono. Le mani abbandonarono la testa dai capelli bianchi, annasparono, incontrarono un corrimano di legno. Wheelock barcollò. Mengele sparò un altro colpo assordante contro la schiena rivestita di rosso. Le mani scivolarono dalla ringhiera e Wheelock precipitò in avanti. Con la fronte sbatté contro il pavimento sottostante; i piedi infilati nelle scarpe si divaricarono, e gambe e tronco scivolarono giù per le scale. Mengele stette a guardare, stuzzicandosi un orecchio con un indice. Aprì la porta e uscì nel vestibolo. I cani abbaiavano selvaggiamente. «Zitti!» urlò Mengele, stuzzicandosi con l'indice l'altro orecchio. I cani continuarono ad abbaiare. Mengele tirò la sicura e rimise la pistola nella fondina; cavò di tasca il fazzoletto, strofinò la maniglia interna della porta, tirò il cordone della luce, chiuse la porta col gomito. «Zitti!» urlò. I cani continuarono ad abbaiare. Graffiavano e urtavano la porta in fondo al vestibolo. Mengele si precipitò all'ingresso, guardò fuori attraverso una finestrella accanto all'uscio; aprì la porta e corse fuori. Salì sulla macchina, la mise in moto e la portò oltre la casa, infilandosi nella metà deserta del garage. Tornò di corsa in casa, chiuse la porta. I cani abbaiavano e guaivano,
grattando, urtando la porta. Mengele si guardò nello specchio dell'attaccapanni; staccò la parrucca e se la sfilò, si scollò i baffi dal labbro superiore; infilò baffi e parrucca in una tasca del cappotto appeso all'attaccapanni, tirò all'infuori la patta della tasca e la fece ricadere al di sopra. Tornò a guardarsi allo specchio, sistemandosi i capelli grigi a spazzola con ambo le mani. Aggrottò la fronte. Si tolse la giacca, l'appese a una gancio; trasferì il cappotto sullo stesso gancio, coprendo la giacca. Si allentò la cravatta a righe nere e oro, se la sfilò, l'arrotolò e la infilò nella tasca del cappotto. Si sbottonò il colletto della camicia azzurra, e anche il bottone successivo; si allargò il colletto, ne premette le punte. I cani abbaiavano e guaivano da dietro l'uscio. Mengele trafficò con la cinghietta della fondina. Si guardò allo specchio e domandò: «Lei è Liebermann?». Lo domandò di nuovo, con tono più americano, meno tedesco: «Lei è Liebermann?». Si sforzò di rendere la propria voce più simile a quella di Wheelock, più profonda: «Su, entri. Devo ammettere che sono maledettamente curioso. Li ignori, qvelli abbaiano sempve a qvesto modo. Quelli. Quelli, qu, qu, qu. Questo, questo. Li ignori, quelli abbaiano sempre a questo modo. Lei è Liebermann? Su, entri». I cani abbaiarono. «Zitti!» urlò Mengele. VII Liebermann teneva d'occhio le centinaia che scattavano lentamente sul contachilometri della piccola Saab stroncaschiena. La casa di Wheelock si trovava esattamente a seicentocinquanta metri di distanza dalla curva a sinistra che immetteva sulla Old Buck Road — ammesso sempre che egli leggesse correttamente la grafia barocca di Rita, il che finora non sempre era accaduto. Tra la grafia di Rita e le soste per andare al gabinetto, rese necessarie dai sobbalzi della Saab, erano già le 12,20. Ciononostante, gli pareva che le cose si collocassero al posto giusto e procedessero a dovere. Era rimasto rattristato, naturalmente, nell'apprendere la notizia che era stato rinvenuto il cadavere di Barry, ma almeno la notizia era giunta al momento opportuno ed era qualcosa di cui essere grato:
ora aveva un punto di partenza solido e dimostrabile cui far ricorso a Washington. E laggiù c'era Kurt Koehler, non soltanto con gli appunti presi da Barry — appunti importanti e utili, a quanto pareva — ma anche con l'influenza di un cittadino agiato. Avrebbe voluto di sicuro trattenersi a dargli una mano in qualunque modo poteva; il fatto che si trovasse laggiù stava a indicare il suo interesse. E Greenspan e Stern si trovavano a Filadelfia, pronti, presumibilmente, a balzar fuori con un efficiente commando di YJD non appena Wheelock si fosse lasciato convincere che era in pericolo. «È cosa che riguarda suo figlio, signor Wheelock. La sua adozione. La quale è stata combinata per lei e per sua moglie da una donna a nome Elizabeth Gregory, no? Ora, la prego, mi creda, nessuno...» Giunse finalmente agli ultimi metri, e davanti a lui, sulla sinistra, si avvicinava una cassetta per le lettere. "CANI DA GUARDIA" in lettere nere dipinte su una assicella più sotto; "H. Wheelock" lungo il bordo superiore della cassetta. Liebermann rallentò, si arrestò, attese che fosse passato un camion che procedeva in direzione contraria alla sua, e attraversò la strada. Guidò le ruote della macchina nei profondi solchi di un viottolo in terra battuta a schiena d'asino che s'inerpicava tra gli alberi. Il fondo della macchina grattava contro la gobba. Liebermann cambiò marcia, guidò lentamente. Diede un'occhiata all'orologio: quasi le 12,25. Mezz'ora, diciamo, per convincere Wheelock (senza entrare nel merito della riproduzione mononucleare: "Non so perché uccidano i padri dei ragazzi; li uccidono, tutto qui"), e poi un'ora o giù di lì per far arrivare gli YJD. Sarebbero state le due, poco più. Con tutta probabilità avrebbe potuto riprendere la strada alle tre, ed essere a Washington per le cinque, cinque e mezza. Telefonare a Koehler. Non vedeva l'ora di conoscerlo e di dare un'occhiata agli appunti di Barry. Sorprendente che Mengele se li fosse lasciati sfuggire. Ma forse Koehler ne sopravvalutava l'importanza... Un latrato di cani, un vero e proprio tumulto, lo sfidò da una radura inondata di sole dove si ergeva, d'angolo rispetto a lui, una casa a due piani — imposte bianche, pareti di legno bruno; e sul retro della casa, una dozzina di cani che si slanciavano contro un alto recinto di rete metallica, abbaiando, guaendo. Liebermann arrivò con la macchina fino ai bordi del vialetto lastricato della casa e si fermò; mise in folle, girò la chiavetta dell'accensione, tirò il freno a mano. I cani sul retro continuavano ad abbaiare. Accanto alla casa, in fondo, in un garage si scorgevano un furgone rosso e una berlina bianca.
Scese dalla macchina, chiuse la portiera, e con la valigetta in mano rimase a guardare la casa bruna decorata di bianco. Sarebbe stato abbastanza facile proteggere Weelock, lì; i cani, che continuavano ad abbaiare, costituivano un sistema di allarme incorporato. E un deterrente. Con tutta probabilità il sicario avrebbe posto in atto il suo piano altrove, in città o lungo la strada. Wheelock avrebbe dovuto seguire la normale routine e offrire al sicario l'occasione di mettersi in mostra. Problema: spaventarlo quel che bastava perché accettasse la protezione degli YJD, ma non tanto da indurlo a rimanere in casa e a chiudersi in un armadio. Tirò un respiro e s'incamminò per il viale e salì sotto il portico. Sulla porta c'era un batacchio, una testa di cane in ferro, e di lato un campanello a pulsante, nero. Optò per il batacchio; lo sollevò due volte. Era vecchio e arrugginito; i colpi non furono molto forti. Attese un momento — cani abbaiavano all'interno della casa — e mosse un dito verso il campanello; ma la porta si aprì e un uomo più piccolo di quanto si fosse aspettato, con i capelli grigi a spazzola e occhi nocciola vivaci e allegri, lo guardò dicendo con bassa voce di gola: «Lei è Liebermann?». «Sì» disse. «Il signor Wheelock?» Un cenno della testa grigia dai capelli a spazzola, e la porta si aprì un po' di più. «Su, entri.» Entrò, in un vestibolo in cui aleggiava odore di cani, con una scala che saliva. Si tolse il cappello. Cani — cinque o sei, si sarebbe detto — abbaiavano, guaivano, grattavano la porta in fondo al vestibolo. Si girò verso Wheelock, che aveva chiuso la porta e se ne stava lì, sorridendogli. «Lieto di conoscerla» disse Wheelock, elegante e azzimato in una camicia azzurra dal colletto aperto e i polsini rovesciati all'insù, calzoni grigioscuri di ottimo taglio, scarpe nere di buona qualità. Il campo dei cani da guardia non risentiva della recessione. «Cominciavo a pensare che non sarebbe più venuto.» «Ho letto male le indicazioni» disse Liebermann. «La signora che le ha telefonato da New York?» Scosse il capo, sorridendo come per scusarsi. «Telefonava a nome mio.» «Oh» disse Wheelock, e sorrise. «Si tolga il cappotto.» Additò un attaccapanni, dal quale pendevano un cappello e un cappotto neri, e una giacca marrone imbottita, le maniche solcate di strappi e lacerazioni. Liebermann appese il cappello, posò a terra la valigetta, si sbottonò il cappotto. Wheelock appariva più cordiale di quanto fosse stato al telefono — anzi sembrava sinceramente felice di vederlo — ma qualcosa nel modo
con cui parlava contraddiceva la sua giovialità; Liebermann l'avvertì, ma non riuscì esattamente a metterlo a fuoco. Dando un'occhiata alla porta dietro la quale abbaiavano e guaivano i cani, disse: «Alludeva a quello, quando ha parlato di avere "la casa piena di cani"». «Sì» disse Wheelock, passandogli accanto sorridendo. «Li ignori. Quelli abbaiano sempre a questo modo. Li ho chiusi là dentro perché non le dessero fastidio. C'è gente che s'innervosisce. Entri, venga per di qua.» Andò verso una porta sulla destra. Liebermann appese il cappotto, raccolse da terra la valigetta e con uno sguardo pensieroso alla schiena di Wheelock, lo seguì in un piacevole salotto. I cani presero a battere colpi e abbaiare dietro una porta sulla sinistra, accanto a un divano di pelle nera, sopra il quale erano appese medaglie penzolanti da nastri multicolori su una parete rivestita di legno, frammezzo a trofei e a fotografie incorniciate di nero. In fondo alla stanza c'era un caminetto di pietra, sulla mensola altri trofei, un orologio. Tendine bianche alle finestre che si aprivano nella parete di destra, tra le finestre un antiquato divanetto; nell'angolo accanto alla porta, una sedia e un tavolino, il telefono, registri, pipe in una rastrelliera. «Si sieda» disse Weelock, accennando al sofà mentre si avviava al divanetto. «E mi dica perché mai un nazista sta venendo a beccarmi.» Sedette. «Devo ammettere che sono maledettamente curioso.» Currrioso — la r lievemente arrotata. Ecco cosa l'aveva colpito; il cordiale Henry Wheelock gli faceva il verso, adombrando la sua pronuncia americana con un tocco di "accento tedesco"; niente di eccessivo, solo una sfumatura di rotacismo nelle r, un lievissimo balenio di v dentro le w. Liebermann sedette sul divano — i cuscini emisero un sospiro — e fissò Wheelock, che gli sedeva di fronte proteso in avanti sul divanetto, i gomiti sulle ginocchia divaricate, la punta delle dita che andava su e giù lungo il taglio di un album o quaderno verde posato su un basso tavolino davanti a lui; sorridendogli, in attesa. Possibile che la parodia fosse non voluta? Anche lui a volte aveva riecheggiato il ritmo e le inflessioni del tedesco goffo di uno straniero; si era sorpreso a farlo e ne era rimasto imbarazzato. Ma no, questo era intenzionale, ne era certo. Dal sorridente Wheelock gli veniva ostilità. E che ci si poteva aspettare da una ex guardia di penitenziario antisemita, che alleva cani capaci di squarciare la gola alla gente? Affettuosa gentilezza? Buone maniere? Be', non era venuto lì per farsi un nuovo amico. Posò la valigetta accanto
ai piedi, allungò le mani sulle ginocchia. «Per spiegarglielo, signor Wheelock» disse «devo entrare nei suoi casi personali. Personali, in quanto riguardano lei e la sua famiglia. Suo figlio e la sua adozione.» Wheelock inarcò le sopracciglia con aria interrogativa. «So» disse Liebermann «che lei e la signora Wheelock l'hanno ottenuto a New York City da una certa Elizabeth Gregory. Ora, la prego, mi creda,» si protese in avanti «nessuno ha intenzione di creare complicazioni in merito. Nessuno ha intenzione di tentare di strapparle suo figlio né di accusarla di aver infranto la legge. È passato molto tempo e non ha più importanza, importanza diretta intendo. Su questo, le do la mia parola.» «Le credo» disse Wheelock con aria grave. Un tipo molto placido, quel momzer, che la prendeva così calma; seduto lì a far scorrere la punta degli indici, allontanandoli e ravvicinandoli di continuo, lungo il taglio della copertina verde dell'album. La costa dell'album era rivolta verso Liebermann; la copertina restava un po' sollevata, appoggiata, a quanto pareva, su qualcosa all'interno. «Elizabeth Gregory» proseguì Liebermann «non era il suo vero nome. Il suo vero nome era Frieda Maloney, Frieda Altschul Maloney. Ne ha sentito parlare?» Wheelock aggrottò la fronte, pensieroso. «Intende dire quella nazi?» domandò. «Quella che hanno rispedita in Germania?» «Sì.» Liebermann sollevò la valigetta. «Ho qui dentro qualche sua fotografia. Vedrà che...» «Non si disturbi» disse Wheelock. Liebermann lo fissò. «Ho visto la sua fotografia sul giornale» spiegò Wheelock. «Mi è parso che avesse qualcosa di familiare. Adesso capisco perché.» Sorrise. Le r erano particolarmente arrotate. Liebermann annuì. (Era davvero intenzionale? Non fosse stato per quella specie di imitazione, Wheelock si comportava in modo gradevole.) Spinse indietro la cinghia allentata della cartella; guardò Wheelock. «Lei e sua moglie» disse, sforzandosi di nascondere il suo accento tedesco «non siete stati l'unica coppia che abbia ottenuto un bambino da lei. Ne hanno avuto uno anche certi Guthrie, e il signor Guthrie è stato assassinato lo scorso ottobre. Ne hanno avuto uno certi Curry; il signor Curry è stato assassinato in novembre.» Wheelock appariva preoccupato, ora. Le sue dita erano immobili sul bordo della copertina dell'album.
«C'è un nazista in circolazione in questo paese,» disse Liebermann, reggendo la cartella sulle ginocchia «un ex membro delle SS, che uccide i padri dei ragazzi adottati tramite Frieda Maloney. Li uccide nello stesso ordine in cui sono avvenute le adozioni, e con lo stesso intervallo di tempo. La prossima volta toccherà a lei, signor Wheelock.» Annuì. «Quanto prima. E ce ne sono molti altri dopo. È per questo che vado a consultare l'F.B.I., ed è per questo che, mentre ci vado, lei dovrebbe essere protetto. E i suoi cani non bastano.» Accennò con la mano alla porta, oltre l'estremità del divano; ora i cani uggiolavano, un paio abbaiava, senza troppa convinzione. Wheelock scosse il capo con aria stupefatta. «Hmm!» disse. «Ma è così strano!» Fissò Liebermann con aria interrogativa. «Vengono uccisi i padri dei ragazzi?» «Sì.» «Ma perché?» Questa volta la pronuncia era perfetta; si sforzava anche lui. Buon Dio, ma certo! Macché imitazione, voluta o non voluta. Si trattava di un vero e proprio accento come il suo, che l'altro tentava di eliminare! Disse: «Non lo so...». E le scarpe e i calzoni, da cittadino, non da uomo di campagna; l'ostilità che emanava da lui; i cani tenuti prigionieri, in modo che non «dessero noia»... «Non lo sa?» gli domandò il nazista-non-Wheelock. «Vengono perpetrati tutti questi omicidi e lei non ne conosce la rragione?» I sicari, però, erano tra i cinquanta e i sessant'anni, e quest'uomo ne aveva sessantacinque, forse qualcuno di meno. Mengele? Impossibile. Si trovava in Brasile o in Paraguay e certo non avrebbe osato venire quassù al nord, non poteva assolutamente starsene lì seduto a New Providence, in Pennsylvania. Scosse il capo al no-non-Mengele. Ma Koehler era stato in Brasile, ed era venuto a Washington. Il suo nome era certo riportato nel passaporto di Barry o nel suo portafogli come parente più prossimo... Una pistola sbucò da dietro la copertina dell'album, la canna puntata contro di lui. «Allora devo dirglielo io» disse l'uomo che impugnava la pistola. Liebermann lo fissò; scuriscigli e allungagli i capelli, mettigli un paio di sottili baffetti, fallo un po' più grasso e più giovane... Sì, Mengele. Menge-
le! Il detestato, il braccato per tanto tempo: Angelo della Morte, uccisore di bambini! Seduto lì. Sorridente. Con una pistola puntata contro di lui. «Il cielo non voglia» disse Mengele in tedesco «che lei debba morire ignorando i fatti. Voglio che lei sappia esattamente ciò che accadrà tra una ventina d'anni. Quello sguardo pietrificato è solo per la pistola oppure mi ha riconosciuto?» Liebermann strizzò gli occhi, respirò a fondo. «La riconosco» disse. Mengele sorrise. «Rudel e Seibert e gli altri» disse «sono una manica di vecchie signore stanche. Hanno richiamato gli uomini perché Frieda Maloney le ha parlato dei bambini. Così, devo portare a termine la missione di persona.» Si strinse nelle spalle. «In realtà, non mi dispiace; l'attività mi manterrà giovane. Ascolti, posi a terra la cartella molto lentamente e si appoggi allo schienale con le mani sulla testa e si rilassi; le resta un buon minuto o giù di lì prima che l'uccida.» Liebermann posò a terra la cartella lentamente, alla sua sinistra, pensando che se coglieva un'occasione per precipitarsi verso destra e aprire quella porta — ammesso che non fosse chiusa a chiave — forse i cani che uggiolavano dall'altra parte avrebbero visto Mengele che impugnava la pistola e gli sarebbero balzati addosso, prima che lui riuscisse a sparare molti colpi. I cani, naturalmente, sarebbero forse saltati addosso anche a lui; e forse non sarebbero saltati addosso a nessuno dei due, se Wheelock (morto là dentro) non impartiva loro un comando. Ma non riusciva a pensare di poter tentare qualcos'altro. «Vorrei che la cosa potesse durare più a lungo» disse Mengele. «Davvero lo vorrei. Questo è uno dei momenti più soddisfacenti della mia vita, come, ne sono certo, lei potrà comprendere, e se fosse fattibile, me ne starei volentieri seduto a parlare con lei a questo modo per un paio d'ore. Per confutare qualcuna delle grottesche esagerazioni contenute in quel suo libro, per esempio. Ma, ahimè...» Si strinse nelle spalle con gesto di rammarico. Liebermann intrecciò le mani sulla sommità del capo, sedendo eretto sull'orlo del divano. Prese ad allontanare i piedi uno dall'altro, molto lentamente. Il divano era basso, e balzarne su in fretta non sarebbe stato facile. «Wheelock è morto?» domandò. «No» disse Mengele. «È in cucina a prepararci il pranzo. Mi stia bene a sentire ora, caro Liebermann; adesso le dirò qualcosa che le parrà del tutto incredibile, ma le giuro sulla tomba di mia madre che è la pura verità. Mi disturberei a mentire a un ebreo? E già morto, per di più?»
Liebermann diede un'occhiata alla finestra a destra del divanetto e tornò a fissare Mengele attentamente. Mengele sospirò e scosse il capo. «Se volessi guardare dalla finestra,» disse «prima la ucciderei e poi guarderei. Ma non voglio guardare dalla finestra. Se stesse venendo qualcuno, i cani là fuori abbaierebbero, no? No?» «Già» disse Liebermann, seduto con le mani sulla testa. Mengele sorrise. «Vede? Tutto va secondo i miei piani. Dio è con me. Sa che cosa ho visto alla televisione all'una della notte scorsa? Un documentario su Hitler.» Annuì. «In un momento in cui ero terribilmente depresso, in pratica sull'orlo del suicidio. Se quello non era un segno inviato dal cielo, allora non c'è n'è mai stato uno. Così non sprechi tempo a guardare le finestre; guardi me, e ascolti. Lui è vivo. Questo album» additò con la mano libera, senza staccare gli occhi né abbassare la pistola da Liebermann «è pieno di sue fotografie, dall'età di un anno ai tredici anni. I ragazzi sono esatti duplicati genetici di lui. Non perderò tempo a spiegarle come ci sono riuscito — dubito che lei avrebbe la capacità di comprenderlo, se anche lo facessi — ma mi prenda in parola, ci sono riuscito. Esatti duplicati genetici. Sono stati concepiti nel mio laboratorio e portati a termine da donne della tribù Auiti; creature sane, docili, con un capo che sapeva il fatto suo. I ragazzi non ne hanno ereditato niente; sono puri Hitler, procreati interamente dalle sue cellule. Lui mi aveva concesso di salassargli mezzo litro di sangue e asportargli un lembo di pelle dal costato — eravamo in una disposizione mentale biblica — il 6 gennaio 1943, alla Tana del Lupo. Lui si era negato il piacere dei figli» trillò il telefono; Mengele tenne gli occhi fissi e la pistola puntata su Lieberman «perché sapeva che un figlio non avrebbe potuto sbocciare all'ombra di un così» il telefono trillò «divino padre; così, quando è venuto a sapere che era teoricamente possibile, che io avrei potuto» il telefono trillò «creare un giorno non un suo figlio ma un altro se stesso, neppure una copia carbone, ma» il telefono trillò «un altro originale, è rimasto elettrizzato dall'idea al pari di me. È stato allora che mi ha concesso la posizione e le attrezzature di cui avevo bisogno per iniziare il perseguimento di quella meta. Lei ha davvero pensato che l'opera da me svolta ad Auschwitz fosse una follia priva di scopo? Che poveri di spirito siete mai, voi! Lui ha commemorato l'occasione, il dono del suo sangue e della sua pelle, con un portasigarette che reca una splendida iscrizione. "Al mio amico di molti anni, Josef Mengele, che mi ha servito meglio della maggior parte degli uomini e che un giorno potrà servirmi me-
glio di tutti. Adolf Hitler." La mia più preziosa proprietà, logicamente; troppo rischioso fargli passare la dogana. Per cui sta chiuso nella cassaforte del mio avvocato ad Asunción, in attesa che torni a casa dai miei viaggi. Vede? Le sto concedendo più di un minuto» guardò l'orologio... Liebermann si levò in piedi e — echeggiò il fragore di uno sparo — aggirò l'estremità del divano, tendendo il braccio. Echeggiò il fragore di uno sparo, echeggiò il fragore di uno sparo; il dolore lo scaraventò contro la dura parete, dolore nel petto, dolore più in basso. Cani abbaiarono fortissimo nell'orecchio premuto contro la parete. La porta di legno scuro rimbombava e vibrava; Liebermann tese il braccio ad afferrare la maniglia di vetro intagliato. Echeggiò il fragore di uno sparo; la maniglia si fracassò proprio mentre l'afferrava, sul dorso della mano gli si formò un piccolo foro che si riempiva di sangue. Si aggrappò a un troncone di maniglia — echeggiò il fragore di uno sparo; i cani abbaiarono selvaggiamente — e trasalendo per il male, con gli occhi serrati, girò il troncone di maniglia, tirò. La porta si spalancò contro il suo braccio e la sua spalla, ululato di cani; echeggiò il fragore di più spari, una salva tonante. Latrati, un grido, i clic di una pistola scarica; un tonfo sordo, un fragore, ringhi, un grido. Liebermann lasciò andare il tagliente troncone di maniglia, si girò ansimando, appoggiato alla parete; si lasciò scivolare a terra, aprì gli occhi... Cani neri sospinsero Mengele sul divanetto a gambe aperte, abbandonato su un fianco; grossi doberman, denti scoperti, occhi selvaggi, orecchie affilate, tese. Mengele sbatté con la guancia contro il bracciolo del divanetto. Con un occhio fissò un doberman che gli stava di fronte, che si agitava tra le gambe del tavolo rovesciato, che gli bloccava il polso tra le zanne; la pistola gli cadde dalle dita. Il suo occhio si volse a fissare i doberman che gli ringhiavano da presso contro la guancia e la mandibola. Il doberman che puntava alla sua guancia si trovava tra la sua schiena e lo schienale del divanetto, le zampe anteriori che gli trepestavano sulla spalla, nel tentativo di affondargli i denti nella carne. Il doberman che puntava alla sua mandibola se ne stava con le zampe posteriori sul pavimento, tra le sue gambe divaricate, proteso sopra la sua coscia ritratta, il corpo steso contro il suo petto. Mengele sollevò la guancia più in alto contro il bracciolo del divano, l'occhio fisso verso il basso, le labbra tremanti. Un quarto doberman giaceva quant'era lungo sul pavimento tra il divanetto e Liebermann, disteso su un fianco, il costato nero ansante, il naso sul tappeto rotondo. Qualcosa di piatto, che rifletteva la luce, gli usciva da sotto allargandosi; una pozza di urina.
Liebermann si lasciò scivolare completamente lungo la parete e sussultò, sedette sul pavimento. Allungò lentamente le gambe dinanzi a sé, osservando i doberman che minacciavano Mengele. Minacciavano, non uccidevano. Il polso di Mengele era stato mollato; il doberman che l'aveva agguantato se ne stava lì a ringhiargli contro, naso contro naso. «Uccidi!» ordinò Liebermann, ma gli uscì soltanto un bisbiglio. Il dolore che gli trafiggeva il petto si accentuò e si acutizzò. «Uccidi!» urlò ancora, nonostante il dolore. Gli uscì un rauco comando. I doberman ringhiarono, senza muoversi. Mengele chiuse un occhio; si morse con i denti il labbro inferiore. «Uccidi!» ruggì Liebermann — e il dolore gli squarciò il petto, lo lacerò. I doberman ringhiarono, senza muoversi. Uno strillo acuto uscì dalla bocca serrata di Mengele. Liebermann appoggiò la testa contro la parete e chiuse gli occhi, ansimando. Si aggrappò tirando al nodo della cravatta, si sbottonò il colletto della camicia. Allentò un altro bottone sotto la cravatta e si portò le dita al punto dove gli doleva; scoprì qualcosa di umido sul petto, in corrispondenza dell'orlo della canottiera. Estrasse le dita, aprì gli occhi; fissò il sangue sulla punta delle dita. Il proiettile l'aveva trapassato. Colpendo cosa? Il polmone sinistro? Qualsiasi cosa avesse colpito, a ogni respiro il dolore si dilatava. Liebermann abbassò una mano in cerca del fazzoletto nella tasca dei calzoni, si rotolò sul fianco sinistro per arrivarci; un dolore ancor più acuto gli esplose più in basso, in corrispondenza del fianco. Trasalì, mentre il dolore lo trafiggeva. Ohi, ohi! Estrasse il fazzoletto, lo sollevò, lo premette contro la ferita al petto e ve lo tenne premuto. Sollevò la mano sinistra. Sangue gocciolò da ambo i lati della mano, più dal foro slabbrato nel palmo che dalla ferita più piccola sul dorso, il proiettile gli era entrato tra il primo e il secondo dito. Se li sentiva intorpiditi e non riusciva a muoverli. Il palmo era solcato da due graffi che sanguinavano. Avrebbe voluto tener la mano sollevata per rallentare l'emorragia, ma non ci riuscì; la lasciò ricadere. In lui non c'era più forza. Solo dolore. E stanchezza... La porta accanto a lui accennò lentamente a chiudersi. Fissò Mengele bloccato dai doberman. L'occhio di Mengele l'osservò. Liebermann chiuse gli occhi, respirando appena per alleviare il dolore
che gli ardeva nel petto. «Via...» Aprì gli occhi e guardò dall'altra parte della stanza, a Mengele che giaceva abbandonato su un fianco sul divanetto, tra i doberman che gli ringhiavano contro da presso. «Via» disse Mengele, a voce bassa e stanca. Lo sguardo si spostava dal dobermann che aveva di fronte al doberman che puntava alla sua mandibola, al doberman che gli ringhiava contro la guancia. «Andatevene. Niente pistola. Niente pistola. Via. Andatevene. Buoni.» I doberman nero-blu ringhiarono, senza muoversi. «Buoni buoni» disse Mengele. «Samson? Bravo Samson. Vattene. Va' via.» Girò la testa lentamente contro il bracciolo del divano; i doberman ritrassero un tantino le teste, ringhiando. Mengele rivolse loro un tremulo sorriso. «Major?» domandò. «Sei Major, tu? Bravo Major, bravo Samson. Buoni, buoni. Amico. Niente più pistola.» Con la mano dal polso cerchiato di rosso si aggrappava alla parte anteriore del bracciolo del divanetto; con l'altra si teneva avvinghiato all'intelaiatura del sedile. Prese a girarsi lentamente sollevandosi dal fianco. «Buoni. Andatevene. Via.» Il doberman nel mezzo della stanza giaceva immobile, il costato nero non più ansante. La pozza di urina attorno a lui si era frammentata in tutta una serie di piccole pozzanghere che luccicavano sulle larghe assi del pavimento. «Buoni, buoni...» Disteso sul dorso, Mengele prese a sollevarsi lentamente nell'angolo del divanetto. I doberman ringhiarono, ma rimasero dove si trovavano, cercando nuovi punti di appoggio, mentre Mengele si tirava su, tentando di sottrarsi alle loro zanne. «Via» disse. «Sono vostro amico. Vi faccio del male adesso? No, no, vi voglio bene, io.» Liebermann chiuse gli occhi, respirando piano. Era seduto in un lago di sangue che gli colava dietro le spalle. «Buono Samson, buono Major. Beppo? Zarko? Buoni, buoni. Via.» Dena e Gary stavano in qualche modo attraversando un momento critico. Lui aveva tenuto la bocca chiusa quando era andato a trovarli in novembre, ma forse non avrebbe dovuto; forse.... «Sei vivo, bastardo di un ebreo?» Aprì gli occhi.
Mengele lo stava fissando, eretto nell'angolo del divano, una gamba sollevata, un piede a terra. Aggrappato al bracciolo e allo schienale del divanetto; sprezzante, autoritario. Non fosse stato per i tre doberman protesi verso di lui, che ringhiavano piano. «Peccato» disse Mengele. «Ma non per molto ancora. Lo vedo da qui. Sei grigio come la cenere. Questi cani perderanno tutto l'interesse per me, me ne sto seduto calmo e gli parlo gentilmente. A un certo punto vorranno andare a pisciare o a bere un goccio d'acqua.» Rivolto ai doberman, disse in inglese: «Acqua? Bere? Non volete acqua? Buoni, buoni. Andate a bere un po' d'acqua». I doberman ringhiarono, senza muoversi. «Figli di puttana» disse quasi divertito Mengele in tedesco, e, rivolto a Liebermann: «Così non hai proprio ottenuto un bel niente, bastardo ebreo, se non di morire lentamente, anziché in fretta, e di procurarmi un graffio al polso. Tra un quarto d'ora uscirò di qui. Ogni uomo della lista morirà quando verrà il momento. Si profila l'avvento del Quarto Reich, e non solo di un Reich tedesco, ma panariano. Vivrò abbastanza per vederlo, e trovarmi accanto ai suoi capi. Riesci a immaginarti il timor sacro che ispireranno? La mistica autorità che eserciteranno? Il terrore dei russi e dei cinesi? Per non parlare degli ebrei». Trillò il telefono. Liebermann tentò di scostarsi dal muro, per trascinarsi, se solo avesse potuto, al cordone che pendeva dal tavolino accanto all'uscio, ma il dolore al fianco lo trafisse e lo bloccò; impossibile fare anche solo un movimento. Si riaccucciò nella pozza viscosa del suo sangue. Chiuse gli occhi, ansando. «Bene. Muori un attimo prima. E mentre muori, pensa ai tuoi nipoti che entrano nel forno crematorio.» Il telefono continuava a trillare. Greenspan e Stern, forse. Che chiamavano per sapere che cos'era successo, perché Liebermann non aveva chiamato. Non ottenendo risposta, si sarebbero preoccupati e sarebbero venuti, chiedendo informazioni in città? Se solo i doberman avessero trattenuto Mengele... Aprì gli occhi. Mengele sedeva sorridendo ai doberman: un sorriso rilassato, continuo, amichevole. I cani non ringhiavano, ora. Lasciò ricadere le palpebre. Si sforzò di non pensare a forni crematori e eserciti, a masse inneggianti. Si chiese se Max e Lili e Esther sarebbero riusciti a mandare avanti il Cen-
tro. I fondi di contributo magari sarebbero arrivati. In sua memoria. Latrati, ringhi. Aprì gli occhi. «No, no!» disse Mengele, ritraendosi nell'angolo del divano, tenendosi aggrappato al bracciolo e allo schienale, mentre i doberman lo premevano e gli ringhiavano contro. «No, no! Buoni! Buoni! No, no, non me ne vado! No, no. Vedete che sto fermo? Buoni. Buoni.» Liebermann sorrise, chiuse gli occhi. Bravi cani. Greenspan? Stern? Venite... «Bastardo ebreo?» Il fazzoletto aderiva alla ferita da solo, per cui tenne gli occhi chiusi, senza respirare — lasciandolo credere — poi sollevò la mano destra e gli mostrò il medio in segno di scherno. Latrati in lontananza. I cani sul retro della casa. Aprì gli occhi. Mengele lo fulminò con lo sguardo. Lo stesso odio che gli era giunto per telefono quella notte, tanto tempo fa. «Qualsiasi cosa accada,» disse Mengele «ho vinto io. Wheelock era il diciottesimo che doveva morire. Diciotto di loro hanno perso il padre, quando lui ha perso il suo, e almeno uno su diciotto diventerà uomo come lo è diventato lui, sarà quel che lui è stato. Tu non uscirai da questa stanza vivo per poterlo fermare. Forse neppure io ne uscirò, ma tu, no di certo; lo giuro.» Passi sotto il portico. I doberman ringhiarono, protendendosi verso Mengele. Liebermann e Mengele si fissarono a vicenda dai due lati della stanza. La porta d'ingresso si aprì. Si chiuse. Guardarono la porta. Qualcosa di pesante cadde nel vestibolo. Un tinnire di metallo. Passi. Il ragazzo venne e rimase sulla soglia, magrissimo e col naso affilato, i capelli scuri. Una larga striscia rossa gli attraversava il petto del giubbotto azzurro chiuso da una cerniera lampo. Guardò Liebermann. Guardò Mengele e i doberman.
Guardò il doberman morto. Lasciò vagare lo sguardo avanti e indietro, gli occhi di un azzurro slavato, sbarrati. Si scostò il ciuffo dalla fronte con una mano guantata di plastica azzurra. «Accipicchia!» disse. «Mein... caro ragazzo,» disse Mengele, guardandolo con espressione adorante «mio caro, caro, caro, caro ragazzo, non puoi neppure immaginare quanto sia felice, quanto sia beato, di vederti lì, così sano e forte e bello! Vuoi richiamare questi cani? Questi fedelissimi e meravigliosi cani? Mi hanno tenuto qui immobile per ore, con l'impressione sbagliata che io, e non quel malvagio ebreo là, sia quello che è venuto qui per farti del male. Vuoi richiamarli, per favore? Ti spiegherò ogni cosa.» Sorrise con espressione d'affetto, seduto tra i doberman ringhianti. Il ragazzo lo fissò e voltò la testa lentamente verso Liebermann. Liebermann scosse il capo. «Non lasciarti ingannare da lui» ammonì Mengele. «È un criminale, un assassino, un uomo terribile che è venuto per fare del male a te e alla tua famiglia; richiama questi cani, Bobby. Vedi, so come ti chiami. So tutto di te — che l'estate scorsa sei andato in gita a Cape Cod, che possiedi una cinepresa, che hai due belle cuginette che si chiamano... Sono un vecchio amico dei tuoi genitori. Anzi, sono il dottore che ti ha fatto venire al mondo, appena tornato dall'estero! Il dottor Breitenbach. Non ti hanno mai parlato di me? Sono partito tanto tempo fa.» Il ragazzo lo guardò incerto. «Dov'è mio padre?» domandò. «Non lo so» disse Mengele. «Sospetto, dato che quella persona aveva una pistola che sono riuscito a strappargli di mano — e i cani ci hanno visto lottare e ne hanno tratto una conclusione sbagliata — sospetto che possa avere» annuì con aria grave «fatto fuori tuo padre. Io sono venuto in visita, essendo appena rientrato dall'estero, come ho detto, e lui mi ha fatto entrare, fingendo di essere un amico. Quando ha estratto la rivoltella sono riuscito a sopraffarlo e a strappargliela di mano, ma poi ha aperto quella porta e ha fatto uscire i cani. Richiamali e cercheremo tuo padre. Forse è soltanto legato. Povero Henry! Speriamo per il meglio. È bene che tua madre non ci sia. Insegna ancora alla scuola di Lancaster?» Il ragazzo guardò il doberman morto. Liebermann mosse un dito, sforzandosi di attrarre lo sguardo del ragazzo.
Il ragazzo guardò Mengele. «Salsa» disse; i doberman si girarono e si precipitarono a balzi verso di lui. Si allinearono due da un lato, uno dall'altro. Il ragazzo ne accarezzò le teste nero-blu con le mani guantate. «Salsa» esclamò allegramente Mengele, abbassando la gamba dal divanetto, protendendosi in avanti e massaggiandosi le braccia. «Neppure in mille anni avrei mai pensato di dire salsa!» Mosse i piedi sul pavimento, massaggiandosi le cosce, sorridendo. «Ho detto andatevene, ho detto via, ho detto vattene, ho detto amico; neppure una volta mi è passato per la testa di dire salsa!» Il ragazzo, aggrottando la fronte, si sfilò i guanti da neve. «Noi... sarà meglio chiamare la polizia» disse. Il ciuffo bruno gli cadde di sghimbescio sulla fronte. Mengele sedeva fissandolo. «Che splendido, sei!» disse. «Sono così...» Ammiccò, deglutì a vuoto, sorrise. «Sì,» disse «certo che dobbiamo chiamare la polizia. Fammi un favore, mein... Bobby caro. Porta via i cani e vai in cucina a prendermi un bicchiere d'acqua. Potresti anche trovarmi qualcosa da mangiare.» Si alzò in piedi. «Io chiamerò la polizia e poi andrò in cerca di tuo padre.» Il ragazzo s'infilò i guantoni nelle tasche del giubbotto. «È sua, quella macchina di fronte alla casa?» domandò. «Sì» disse Mengele. «E quella nel garage è la sua. O così suppongo. Oppure è vostra? Della famiglia?» Il ragazzo lo guardò con aria scettica. «Quella davanti a casa» disse «ha un autoadesivo in cui si dice che gli ebrei non devono rinunciare neppure a un pezzettino di Israele. Lei ha chiamato ebreo lui.» «E lo è» disse Mengele. «Almeno ne ha tutta l'aria.» Sorrise. «Ma questo non è il momento per parlare delle parole che ho usato. Va' a prendermi l'acqua, per favore, che io chiamo la polizia.» Il ragazzo si schiarì la gola. «Le spiace tornare a sedersi?» disse. «La chiamo io.» «Bobby caro...» «Sottaceti» disse il ragazzo; i doberman si precipitarono ringhiando verso Mengele. Questi arretrò sul divanetto, gli avambracci incrociati davanti al viso. «Salsa!» gridò. «Salsa! Salsa!» I doberman si protesero verso di lui, ringhiando. Il ragazzo entrò nella stanza, aprendo la cerniera del giubbotto. «A lei non daranno retta» disse. Si girò verso Liebermann, si scostò dalla fronte il ciuffo bruno.
Liebermann lo guardò. «Ha capovolto la situazione, vero?» gli disse il ragazzo. «La pistola l'aveva lui, e ha fatto entrare lei.» «No!» disse Mengele. Liebermann annuì. «Non riesce a parlare?» Liebermann scosse il capo, indicò il telefono. Il ragazzo fece segno di sì e si voltò. «Quell'uomo è tuo nemico!» gridò Mengele. «Lo giuro di fronte a Dio!» «Mi prende per un ritardato mentale?» Il ragazzo si accostò al tavolo, sollevò il ricevitore. «Non farlo!» Mengele si protese verso il ragazzo. I doberman balzarono verso di lui ringhiando, ma lui rimase proteso in avanti. «Ti prego! Ti scongiuro! Per il tuo bene, non il mio! Sono tuo amico! Sono venuto qui per aiutarti! Ascoltami, Bobby! Per un attimo soltanto!» Il ragazzo lo fronteggiò, il ricevitore in mano. «Ti prego! Ti spiegherò! La verità! Ti ho mentito, sì! Io avevo la pistola. Per aiutare te! Ti prego! Ascoltami solo un istante! Mi ringrazierai, te lo giuro! Un minuto soltanto!» Il ragazzo ristette a guardarlo e abbassò il ricevitore, lo riagganciò. Liebermann scosse il capo con gesto di disperazione. «Chiama!» disse. Un bisbiglio, che neppure gli uscì di bocca. «Grazie» disse Mengele al ragazzo. «Grazie.» Si appoggiò allo schienale, sorridendo come per scusarsi. «Avrei dovuto saperlo che eri troppo intelligente per mentirti. Ti prego» diede un'occhiata ai doberman, guardò il ragazzo «richiamali. Resterò qui seduto.» Il ragazzo era fermo accanto al tavolo a guardarlo. «Salsa» disse; i doberman si girarono e accorsero da lui. Gli si allinearono accanto, tutti e tre da un lato, dalla parte di Liebermann, di fronte a Mengele. Mengele scosse il capo, si fece scorrere una mano sui capelli grigi a spazzola. «È... così difficile.» Abbassò la mano, guardò ansioso il ragazzo. «Be'?» disse il ragazzo. Mengele disse: «Tu sei intelligente, no?». Il ragazzo se ne stette a guardarlo, sfiorando con le dita la testa del doberman più vicino. «Non vai molto bene a scuola» disse Mengele. «Eri bravo da piccolo, ma non ora. Questo, perché sei troppo intelligente, troppo» levò una mano, si batté un dito sulla tempia «preso dai tuoi pensieri. Ma il fatto è che sei
più sveglio degli insegnanti, sì?» Il ragazzo guardò verso il doberman morto, aggrottando la fronte, arricciando le labbra. Guardò Liebermann. Liebermann accennò col dito al telefono. Mengele si protese verso il ragazzo. «Se io devo essere sincero con te» disse «tu devi essere sincero con me! Non è vero che sei più sveglio degli insegnanti?» Il ragazzo lo guardò, alzando le spalle. «Eccetto uno» disse. «E nutri grandi ambizioni, sì?» Il ragazzo annuì. «Di diventare un grande pittore o un architetto.» Il ragazzo scosse il capo. «Di fare film.» «Oh sì, certo.» Mengele sorrise. «Di diventare un grande regista cinematografico.» Guardò il ragazzo; il suo sorriso si spense. «Tu e tuo padre avete bisticciato in proposito» disse. «Un vecchio testardo dalla mentalità ristretta. Ce l'hai con lui, e hai i tuoi buoni motivi.» Il ragazzo lo guardò. «Vedi» disse Mengele «che ti conosco. Meglio di chiunque altro al mondo.» Il ragazzo, l'aria stupefatta, disse: «Chi è lei?». «Il dottore che ti ha fatto venire al mondo. Questo era vero. Ma non sono un vecchio amico dei tuoi genitori. Anzi, non li ho mai conosciuti. Siamo estranei.» Il ragazzo chinò la testa, come per udire meglio. «Capisci quel che intendo dire?» gli domandò Mengele. «L'uomo che credi sia tuo padre» scosse il capo «non è tuo padre. E tua madre, anche se le vuoi bene e lei vuol bene a te, ne sono certo, non è tua madre. Ti hanno adottato. Sono stato io a combinare l'adozione. Attraverso intermediari. Aiutanti.» Il ragazzo lo fissò. Liebermann osservava il ragazzo, a disagio. «È penoso ricevere una notizia del genere così, di punto in bianco,» disse Mengele «ma forse... è una notizia non del tutto sgradevole? Non hai mai avuto l'impressione di essere superiore a chi ti stava intorno? Come un principe in mezzo ai plebei?» Il ragazzo raddrizzò le spalle, le scrollò. «A volte mi sento... diverso da tutti gli altri.» «E lo sei, diverso» disse Mengele. «Infinitamente diverso, e infinitamen-
te superiore. Hai...» «Chi sono i miei veri genitori?» domandò il ragazzo. Mengele si guardò pensieroso le mani, le serrò, guardò il ragazzo. «Per te sarebbe meglio» disse «non saperlo ancora. Quando sarai più grande, più maturo, lo scoprirai. Ma ora poso dirti questo, Bobby: sei nato dal sangue più nobile del mondo. La tua eredità, e parlo non di denaro ma di carattere e capacità, è incomparabile. Hai in te la possibilità di soddisfare ambizioni mille volte più grandi di quelle che ora sogni. E ci riuscirai! Ma solo — e devi tener presente quanto bene io ti conosco, e fidarti di me quando dico questo — solo se ora uscirai di qui con i cani, e mi lascerai... fare quel che devo e andare via.» Il ragazzo ristette a guardarlo. «Per il tuo bene» disse Mengele. «Il tuo benessere è tutto ciò che mi preme. Devi credermi. Ho consacrato la mia vita a te e al tuo bene.» Il ragazzo disse: «Chi sono i miei veri genitori?». Mengele scosse il capo. «Voglio saperlo.» «In questo caso devi sottostare al mio giudizio; a tempo debito...» «Sottaceti.» I doberman si precipitarono ringhiando contro Mengele. Il quale arretrò nascondendosi dietro gli avambracci incrociati. I doberman si protesero verso di lui, ringhiando. «Me lo dica» disse il ragazzo. «Subito. Altrimenti... dirò loro qualcos'altro. Faccio sul serio. Posso farla uccidere, se voglio.» Mengele fissò il ragazzo da sopra i polsi incrociati. «Chi sono i miei genitori?» domandò il ragazzo. «Conto fino a tre. Uno...» «Non ne hai!» disse Mengele. «Due...» «È la verità! Sei nato da una cellula del più grande uomo che sia mai vissuto! Rinato! Tu sei lui, rivivi la sua vita! E quell'ebreo là è il suo nemico giurato! E il tuo!» Il ragazzo si voltò verso Liebermann, gli occhi azzurri velati dalla confusione. Liebermann sollevò una mano, si portò un dito alla tempia, indicò Mengele. «No!» gridò Mengele mentre il ragazzo si girava verso di lui. I doberman ringhiarono. «Non sono pazzo! Per quanto sveglio tu sia, ci sono cose che non sai, di scienza e microbiologia! Tu sei il duplicato vivente del più
grande uomo di tutta la storia! E lui» i suoi occhi saettarono in direzione di Liebermann «è venuto qui per ucciderti! Io, per difenderti!» «Chi?» lo sfidò il ragazzo. «Chi sono io? Che grand'uomo?» Mengele lo fissò da sopra le teste dei doberman ringhianti. Il ragazzo disse: «Uno...» «Adolf Hitler; ti hanno detto che era il male impersonificato,» disse Mengele «ma quando crescerai e vedrai il mondo travolto da negri e semiti, slavi, orientali, latini, e il tuo stesso popolo ariano minacciato di estinzione, dalla quale tu lo salverai, allora finirai col capire che è stato il migliore e il più grande e il più saggio di tutti gli uomini! Ti rallegrerai della tua eredità, e mi benedirai per averti creato! Come lui in persona mi ha benedetto per averlo tentato!» «Sai una cosa?» disse il ragazzo. «Sei il più grosso svitato che abbia mai conosciuto. Sei il più balordo, il più pazzo...» «Ti sto dicendo la verità!» disse Mengele. «Guarda nel tuo cuore! C'è la forza per comandare eserciti, Bobby! Per piegare alla tua volontà intere nazioni! Per distruggere senza pietà tutti quelli che ti si oppongono!» Il ragazzo disse: «Tu sei... matto». «Guarda nel tuo cuore,» disse Mengele «tutto il suo potere è in te, o ci sarà quando verrà il momento. Ora fa' come ti dico. Consentimi di proteggerti. Hai un destino da adempiere. Il più alto destino di tutti.» Il ragazzo abbassò lo sguardo, si passò una mano sulla fronte. Levò lo sguardo su Mengele. «Senape» disse. I doberman balzarono; Mengele agitò le braccia, urlò. Liebermann guardò. Trasalì. Guardò. Guardò il ragazzo. Il ragazzo s'infilò le mani nelle tasche del giubbotto azzurro solcato dalla striscia rossa. Si scostò dal tavolo, si accostò lentamente al fianco del divanetto; ristette a guardare verso il basso. Arricciò il naso. Disse: «Accipicchia...». Liebermann guardò il ragazzo e i doberman, che a zampate spingevano Mengele sul pavimento. Si guardò la mano sinistra, da cui stillava lento un filo di sangue, sopra e sotto. Si udì ringhiare piano. Umido rumore di carne lacerata. Straziata. Dopo un po' il ragazzo si allontanò dal divano, le mani ancora infilate nelle tasche. Abbassò lo sguardo sul doberman morto. Ne toccò i fianchi con la punta del piede calzato di gomma. Diede un'occhiata a Liebermann,
poi si girò a guardare indietro. «Basta» disse. Due dei doberman sollevarono le teste e s'incamminarono verso di lui, leccandosi con la lingua la bocca insanguinata. «Basta!» ripeté il ragazzo. Il terzo doberman sollevò la testa. Uno dei doberman annusò il doberman morto. L'altro doberman passò accanto a Liebermann, aprì col muso la porta accanto a lui e uscì. Il ragazzo si avvicinò e ristette tra i piedi di Liebermann, guardandolo dall'alto, la ciocca di sghimbescio sulla fronte. Liebermann levò lo sguardo su di lui. Indicò il telefono. Il ragazzo tolse le mani di tasca e si accovacciò, i gomiti puntati sulle cosce infilate nei calzoni di velluto a coste, le mani ciondoloni. Unghie sporche. Liebermann guardò il giovane volto magro: il naso affilato, il ciuffo, gli occhi d'un azzurro slavato che lo fissavano. «Credo che tra poco lei morirà,» disse il ragazzo «se non viene qualcuno ad aiutarla, a portarla all'ospedale.» Il suo alito odorava di gomma da masticare. Liebermann fece segno di sì. «Potrei uscire di nuovo» disse il ragazzo. «Con i miei libri. E tornare più tardi. Dire che ero andato... Così, a spasso da qualche parte. A volte lo faccio. E mia madre non torna a casa prima delle cinque meno venti. Scommetto che per allora sarebbe morto.» Liebermann lo guardò. Un altro doberman uscì. «Se rimango, e chiamo la polizia,» disse il ragazzo «gli dirà che cosa ho fatto?» Liebermann ci pensò su. Scosse il capo. «Mai?» Liebermann scosse il capo. «Promesso?» Liebermann annuì. Il ragazzo tese la mano. Liebermann la guardò. Guardò il ragazzo; il ragazzo guardò lui. «Se può indicare, può anche stringere una mano» disse il ragazzo. Liebermann guardò la mano del ragazzo. No, si disse. In ogni caso morirai. Che razza di dottori possono mai esserci in un buco come questo?
«Allora?» E forse c'è un al di là. Forse Hannah aspetta. Mamma, papà, le ragazze... Non illuderti. Sollevò a stento la mano. Strinse la mano del ragazzo. Il più in fretta possibile. «Era davvero balordo» disse il ragazzo, e si alzò. Liebermann si guardò la mano. «Togliti dai piedi» urlò il ragazzo a un doberman che si dava da fare su Mengele. Il doberman corse fuori nel vestibolo; poi tornò dentro come impazzito, la bocca gocciante sangue, e passò accanto a Liebermann e poi fuori. Il ragazzo andò al telefono. Liebermann chiuse gli occhi. Ricordò. Li riaprì. Quando il ragazzo ebbe terminato di parlare al telefono, gli fece cenno di avvicinarsi. Il ragazzo gli si accostò. «Acqua?» domandò. Liebermann scosse il capo, gli fece cenno di avvicinarsi ancor di più. Il ragazzo gli si accovacciò al fianco. «C'è una lista» disse Liebermann. «Cosa?» Il ragazzo accostò l'orecchio. «C'è una lista» disse Liebermann più forte che poté. «Una lista?» «Vedi se riesci a trovarla. Nel suo cappotto, magari. Un elenco di nomi.» Osservò il ragazzo uscire nel vestibolo. Il mio aiutante Hitler. Tenne gli occhi chiusi. Guardò Mengele davanti al divanetto. Un ammasso bianco e rosso dove un tempo era il suo viso. Ossa e sangue. Bene. Dopo un po' il ragazzo tornò, guardando certe carte. Liebermann tese la mano. «C'è anche il nome di mio padre» disse il ragazzo. Liebermann allungò ancora di più la mano. Il ragazzo lo guardò a disagio, gli infilò le carte nella mano. «Dimenticavo. Sarà meglio che vada a cercarlo.» Cinque o sei fogli dattiloscritti. Nomi, indirizzi, date. Difficile leggere senza occhiali. "Döring", cancellato con una croce. "Horve", cancellato
con una croce. Altre pagine, senza cancellature. Ripiegò i fogli premendoli contro il pavimento, se li infilò nella tasca della giacca. Chiuse gli occhi. Resta vivo. Non è ancora finita. Latrati in lontananza. «L'ho trovato.» Greenspan dalla barba bionda lo fissava con gli occhi sbarrati. Bisbigliava: «È morto! Non possiamo interrogarlo!». «È tutto a posto. Ho la lista.» «Cosa?» Capelli biondi ricciuti, papalina ricamata appuntata sui capelli. Più forte che poté: «È tutto a posto. Ho la lista. Tutti i padri». Fu sollevato — ohi ohi! — e adagiato. Su una barella. Trasportato via. Batacchio a forma di testa di cane, luce del sole, cielo azzurro. Un obiettivo scintillante puntato su di lui lo seguiva, ronzando. Accanto all'obiettivo, un naso affilato. VIII Risultò che c'erano degli ottimi medici; abbastanza buoni, comunque, perché si ritrovasse con una mano ingessata, una cannula infilata nel braccio e fasciature da capo a piedi, davanti e dietro, sopra e sotto. Nel reparto d'emergenza dell'Ospedale Generale di Lancaster. Sabato. Il venerdì era andato perso. Si sarebbe rimesso, gli disse un medico indiano, grasso e tozzo. Un proiettile gli aveva trapassato il "mediastino" — il medico si toccò il petto coperto dal camice bianco. Gli aveva fratturato una costola, ferito il polmone sinistro e qualcosa che si chiamava il "nervo ricorrente laringeo", e mancato l'aorta solo per un pelo. Un altro proiettile gli aveva fratturato la cintura pelvica ed era penetrato nel muscolo. Un altro gli aveva spappolato le ossa e i muscoli della mano sinistra. Un altro ancora gli aveva scalfito una costola sul lato destro. Il proiettile era stato rimosso dal muscolo e tutti i danni erano stati riparati. Sarebbe stato in grado di parlare tra una settimana o dieci giorni, di camminare con le stampelle entro due settimane. La notizia era stata co-
municata all'ambasciata austriaca, anche se — il dottore sorrise — probabilmente non sarebbe stato necessario. Per via dei giornali e della televisione. Un poliziotto voleva parlare con lui, ma avrebbe dovuto aspettare, naturalmente. Dena si chinò a dargli un bacio; rimase ferma, stringendogli la mano destra e sorridendo. Che giorno era? Dena aveva gli occhi cerchiati, ma era bella. «Non avresti potuto combinare di farlo in Inghilterra?» gli domandò. Fu trasferito in un altro reparto e gli fu concesso di sollevarsi a sedere e prendere appunti. Dov'è la mia roba? «Le daranno tutto quando sarà trasferito nella sua stanza» disse l'infermiere con un sorriso. Quando? «Giovedì o venerdì, con tutta probabilità.» Dena gli lesse i resoconti dei giornali. Mengele era stato identificato come Ramón Aschheim y Negrín, cittadino paraguayano. Aveva ucciso Wheelock, ferito Liebermann ed era a sua volta stato ucciso dai cani di Wheelock. Il figlio di Wheelock, Robert, tredici anni, aveva chiamato la polizia al ritorno da scuola. Cinque uomini che erano giunti subito dopo la polizia si erano qualificati come membri dei Giovani Difensori Ebrei e amici di Liebermann; dovevano incontrarsi con lui lì, dissero, e accompagnarlo nel suo viaggio a Washington. Espressero la opinione che Aschheim y Negrín fosse un nazista, ma non erano stati in grado di fornire una spiegazione in merito alla presenza sua o di Liebermann in casa di Wheelock, né in merito all'assassinio di Wheelock. La polizia sperava che Liebermann, se e quando si fosse rimesso, sarebbe stato in grado di far luce sulla faccenda. «Puoi?» domandò Dena. Lui inclinò la testa, atteggiò la bocca a un "forse". «Quand'è che sei diventato amico degli YJD?» La settimana scorsa. Un'infermiera disse a Dena che qualcuno desiderava vederla. Arrivò il dottor Chavan, esaminò la cartella clinica di Liebermann, gli sollevò il mento e lo studiò da vicino, e gli disse che la cosa più grave era che aveva bisogno di farsi la barba. Tornò Dena, curva sotto il peso della valigia di Liebermann. «Lupus in fabula» disse, posandola accanto alla tramezza. L'aveva portata Greenspan. Era venuto a ritirare la sua auto, che la polizia non gli aveva permesso di prendersi giovedì. Aveva consegnato a Dena un messaggio per Lieber-
mann: "Primo, si rimetta; secondo, Rabbi Gorin la chiamerà non appena può. Ha le sue gatte da pelare. Guardi i giornali". Gli faceva male dappertutto. Dormì moltissimo. Fu trasferito in una bella camera con le tende a righe e un televisore fissato alla parete, la valigetta su una sedia. Non appena fu sistemato nel letto, aprì il cassetto del comodino. La lista era lì, assieme alle altre sue cose. Inforcò gli occhiali e scorse i nomi dattiloscritti. Quelli dal numero uno al diciassette, cancellati con una croce. Cancella anche Wheelock. La data di Wheelock era stata il 19 febbraio. Venne un barbiere a raderlo. Poteva parlare, con voce roca, ma non avrebbe dovuto farlo. Tanto meglio; gli concedeva tempo per pensare. Dena scrisse alcune lettere. Lui lesse il "Philadelphia Inquirer" e "The New York Times", guardò il telegiornale, manovrando l'apparecchio con un pulsante. Niente su Gorin. Kissinger a Gerusalemme, per incontrarsi con Rabin. Delinquenza, disoccupazione. «C'è qualcosa che non va, papà?» «Niente.» «Non parlare.» «Mi hai fatto una domanda.» «Non parlare! Scrivi! Ti hanno dato un taccuino apposta per questo!» NIENTE! A volte Dena diventava una peste. Arrivarono biglietti e fiori: da amici, sostenitori, dall'agenzia che gli organizzava le conferenze, dall'associazione femminile della sinagoga locale. Una lettera di Klaus, che aveva ottenuto l'indirizzo dell'ospedale da Max: "La prego di scrivere non appena sarà in grado di farlo. Superfluo dire che Lena e io, e anche Nürnberger, siamo ansiosissimi di sapere più di quanto è stato scritto nei giornali". Il giorno successivo a quello in cui gli fu permesso di parlare, venne a visitarlo un poliziotto a nome Barnhart, un giovanottone dai capelli rossi, compito e dalla voce cortese. Liebermann non aveva gran che da aggiungere; non aveva mai incontrato Ramón Aschheim y Negrín prima del giorno in cui quel tale gli aveva sparato. Non l'aveva mai neppure sentito nominare. Sì, la signora Wheelock aveva ragione; aveva telefonato a Wheelock il giorno prima per dirgli che forse un nazista sarebbe venuto a ucciderlo. Ciò, a seguito di una informazione che aveva ottenuto da una fonte non troppo degna di fede del Sudamerica. Era venuto a trovare Wheelock
per cercare di scoprire se la cosa poteva avere un fondamento di verità; Aschheim l'aveva fatto entrare, gli aveva sparato. Lui aveva fatto entrare i cani. I cani avevano ucciso Aschheim. «Il governo del Paraguay dice che il suo passaporto è falsificato. Non sanno neanche loro chi sia.» «Non hanno le sue impronte digitali?» «No, signore, no Ma chiunque sia, si direbbe che stesse dando la caccia a lei, non a Wheelock. Vede, è morto solo poco prima che noi arrivassimo. Lei deve essere arrivato verso le due e mezza, giusto?» Liebermann ci stette a pensare, annuì. «Sì» disse. «Ma Wheelock è morto tra le undici e mezzogiorno. Sicché "Aschheim" ha aspettato lei per più di due ore. Quella sua informazione mi puzza molto di trappola, signore. Wheelock non aveva assolutamente niente a che fare col tipo di persona cui dà la caccia lei, di questo siamo sicuri. Sarà meglio che sia più furbo la prossima volta che le passano un'informazione, se mi consente di dirlo.» «Glielo consento. Un ottimo consiglio. Grazie. Sarò "un po' più furbo". Sì.» Quella sera il telegiornale parlò di Gorin. Era in libertà vigilata dal 1973, quando era stato condannato a tre anni con la condizionale sotto l'accusa di cospirazione e attentato, di cui si era dichiarato colpevole. Ora il governo federale tentava di fargli revocare la libertà vigilata con la motivazione che aveva nuovamente cospirato, questa volta allo scopo di rapire un diplomatico russo. Un giudice aveva fissato l'udienza per il 26 febbraio. La revoca della libertà vigilata avrebbe significato che Gorin avrebbe dovuto andare in carcere per trascorrervi il resto della condanna, vale a dire un anno. Sì, ne aveva, di gatte da pelare, d'accordo. Ne aveva anche Liebermann. Esaminò la lista, quando si ritrovò da solo. Cinque pagine sottili, dattiloscritte con ordine. Novantaquattro nomi. Sedette a fissare il muro; scosse il capo e sospirò; ripiegò la lista e l'infilò nella custodia del passaporto. Scrisse lettere a Max e a Klaus, senza dire gran che. Cominciò a ricevere e a fare telefonate, anche se era ancora rauco e non poteva parlare con voce normale. Dena doveva tornare a casa. Aveva sistemato la faccenda del conto dell'ospedale. Se ne sarebbero occupati Marvin Farb e alcuni altri, e quando Liebermann fosse tornato in Austria e avesse ricevuto i soldi dall'assicurazione, li avrebbe rifusi «Non dimenticarti la copia della fattura» lo ammonì
Dena. «E non cercare di camminare troppo presto. E non andartene finché non ti dicono loro che puoi andartene.» «Lo farò, lo farò, lo farò.» Dopo che se ne fu andata, Liebermann si rese conto che non aveva sollevato la questione di lei e Gary; gliene dispiacque. Che padre. Si trascinò con le stampelle su e giù per il corridoio, impresa non da poco, con la mano ancora ingessata. Fece la conoscenza di alcuni altri pazienti, fece le sue rimostranze in merito al cibo. Telefonò Gorin. «Yakov? Come sta?» «Bene. Grazie. Uscirò tra una settimana. E lei come sta?» «Non proprio a meraviglia. Ha visto che mi stanno facendo?» «Sì. È una vergogna.» «Stiamo tentando di ottenere un rinvio, ma sembra che le cose non si mettano troppo bene. Sono davvero decisi a incastrarmi. E secondo loro sono io a cospirare. Oh, poveri noi. Senta, come va? Può parlare? Io sono in una cabina, per cui qui è tutto a posto.» In yiddish Liebermann disse: «Sarà meglio parlare in yiddish. Non ci saranno più altre uccisioni. Gli uomini sono stati richiamati». «Davvero?» «E quello che ha sparato a me, quello fatto fuori dai cani era... l'Angelo. Comprende chi voglio dire?» Silenzio. «Ne è sicuro?» «Sicurissimo. Abbiamo parlato.» «Oh, mio Dio! Dio sia ringraziato! Dio sia ringraziato! I cani sono stati troppo poco per lui! E lei lo dice così tranquillamente? Io convocherei la più grande conferenza stampa della storia!» «E che dico poi, quando mi domandano cosa ci faceva là? Uno sconosciuto del Paraguay non crea difficoltà, ma lui? E se non fornisco spiegazioni, interviene l'F.B.I. a trovarle. Sarebbe un bene? Ancora non lo so.» «No, no, naturalmente lei ha ragione. Però, sapere e non poterlo dire! Viene a New York?» «Sì.» «Dove alloggerà? Mi farò vivo.» Liebermann gli diede il numero di telefono dei Farb. «Phil dice che ha una lista.» Liebermann ammiccò. «Come fa a saperlo?» «Gliel'ha detto lei.» «Io? E quando?»
«Là, nella casa. Non ce l'ha?» «Sì. La guardo e poi continuo a guardarla. È un problema, Rabbi.» «A me, lo dice. Per il momento non decida niente. Ci vediamo. Shalom.» «Shalom.» Parlò con qualche giornalista e alcuni ragazzi del liceo. Si trascinò con le stampelle su e giù per il corridoio, cominciando ad abituarsi. Un pomeriggio venne da lui una donna bruna, robusta, con un cappotto rosso, una valigetta, e gli disse: «Il signor Liebermann?» «Sì.» La donna gli sorrise: fossette, bei denti bianchi. «Posso parlarle un minuto, per favore? Sono la signora Wheelock, la vedova di Hank Wheelock.» Liebermann la guardò. «Sì» disse. «Certo.» Andarono nella sua stanza. La donna si accomodò su una delle sedie con la valigetta in grembo, e Liebermann appoggiò le stampelle al letto e si lasciò scivolare sull'altra sedia. «Mi dispiace» disse. La donna annuì, guardando la valigetta, passandoci avanti e indietro un pollice dall'unghia laccata di rosso. Lo fissò. «La polizia mi ha detto» disse la donna «che quell'uomo era venuto per intrappolare lei, non per uccidere Hank. Non aveva alcun interesse per Hank, o per noi; s'interessava soltanto a lei.» Liebermann annuì. «Ma mentre aspettava» disse la signora Wheelock «ha guardato il nostro album delle fotografie. Era là sul pavimento, dove lui...» La donna scrollò una spalla, guardò Liebermann. «Forse» disse «lo stava guardando suo marito. Prima che arrivasse quel tale.» Lei scosse il capo; piegò all'ingiù gli angoli della bocca. «Non lo guardava mai» disse. «Le ho scattate io, quelle fotografie. E sono stata io a montarle nell'album e a compilare le didascalie. È l'uomo, che l'ha guardato.» Liebermann disse: «Forse voleva soltanto ammazzare il tempo». La signora Wheelock sedeva in silenzio, lasciando vagare lo sguardo per la stanza, le mani intrecciate sulla valigetta. «Nostro figlio è stato adottato» disse. «Mio figlio. Lui non lo sa. Era nei patti che non dovevamo dirglielo. L'altro ieri sera me lo ha domandato. È stata la prima volta che ha
accennato alla faccenda.» La donna guardò Liebermann. «Gli ha detto qualcosa quel giorno, che possa avergli messo in testa un'idea del genere?» «Io?» Liebermann scosse il capo. «No. E come avrei potuto saperlo?» «Pensavo che potrebbe esserci un nesso» disse la signora Wheelock. «La donna che ha combinato l'adozione è una tedesca. Aschheim è un nome tedesco. Un uomo con l'accento tedesco ha telefonato informandosi su Bobby. E io so che lei è... contro i tedeschi.» «Contro i nazisti» corresse Liebermann. «No, signora Wheelock, non avevo la più pallida idea che fosse adottato, e quando è entrato non potevo certo parlare. Neanche ora riesco a parlare molto bene; lo sente anche lei. Forse la pensa così, perché ha perso il padre.» La donna sospirò e annuì. «Forse» disse. Gli indirizzò un sorriso. «Mi spiace averla disturbata. Mi preoccupava l'idea che... Bobby potesse venir coinvolto nella faccenda.» «Non si preoccupi» disse Liebermann. «Sono lieto che ci siamo conosciuti. Avevo comunque intenzione di telefonarle prima di partire, per esprimerle la mia comprensione.» «Ha visto il film?» domandò lei. «No. Suppongo che non abbia potuto. È buffo come si risolvono le faccende, no? Non tutto il male viene per nuocere, si dice. Tutte quelle disgrazie: Hank morto, lei ferito così gravemente, quell'uomo... e anche i cani. Abbiamo dovuto fargli l'iniezione, sa. E per Bobby è la grande occasione della sua vita.» Liebermann disse: «La grande occasione della sua vita?». La signora Wheelock fece segno di sì: «La WGAL gli ha comprato il filmino che ha girato quel giorno, e ne ha proiettato una parte — lei che viene caricato sull'ambulanza, i cani tutti sporchi di sangue, quell'uomo e Hank, quando sono stati portati fuori — e la CBS, sa, la grande rete televisiva, tutte le varie stazioni da un capo all'altro del paese, l'hanno preso e proiettato nel "Telegiornale del mattino con Hughes Rudd" il giorno dopo. Solo lei che viene caricato sull'ambulanza. Un'occasione del genere può essere enormemente importante per un ragazzo dell'età di Bobby. Non solo per i contatti, ma anche per infondergli fiducia in se stesso. Vorrebbe fare il regista cinematografico». Liebermann la guardò e disse: «Spero che ci riesca». «Credo che abbia buone probabilità» disse la donna, levandosi in piedi con un debole sorriso di fierezza. «È molto dotato.» Il 28 febbraio, un venerdì, vennero i Farb e caricarono Liebermann e le
stampelle e la valigia e la cartella sulla loro abbagliante Lincoln nuova. Marvin Farb gli consegnò una copia del conto dell'ospedale. Liebermann gli diede un'occhiata, fissò Farb. «E questo è a buon mercato» disse Farb. «A New York sarebbe costato il doppio.» «Gott im Himmel!» Sandy, la ragazza dell'ufficio degli YJD, gli telefonò per invitarlo a un pranzo, martedì 11, a mezzogiorno. «È un pranzo d'addio.» Liebermann partiva il 13. Per lui? «Per chi?» domandò. «Per il Rabbi. Non ha sentito?» «L'appello è stato respinto?» «Ci ha rinunciato lui. Vuole farla finita.» «Oh, santo cielo! Mi spiace di saperlo. Sì, naturalmente ci sarò.» Sandy gli diede l'indirizzo: da Smilkstein, un ristorante di Canal Street. Il "Times" riportava la notizia su un'unica colonna, che Liebermann s'era lasciato sfuggire, nelle ultimissime. Anziché fare opposizione alla nuova accusa di cospirazione, Gorin aveva deciso di accettare la decisione del giudice che revocava la libertà vigilata. Sarebbe entrato in un penitenziario federale della Pennsylvania il 16 marzo. «Mmm.» Liebermann scosse il capo. Il martedì 11, poco dopo mezzogiorno, saliva lentamente le scale dello Smilkstein, aiutandosi con un bastone. Un gradino alla volta, aggrappandosi con la destra al corrimano. Un martirio. In cima alle scale, ansante e sudato, trovò un'unica grande stanza, un salone, con un baldacchino nuziale di fronde su un palco per l'orchestra, una quantità di tavoli non apparecchiati e di sedie pieghevoli dorate, e al centro, sulla pista da ballo, un gruppo di uomini intenti a leggere il menu seduti al tavolo, mentre un cameriere dalla schiena curva scriveva le ordinazioni. Gorin, seduto a capotavola, lo vide, posò il menu e il tovagliolo, si alzò e si precipitò verso di lui. Con l'aria allegra come se si fosse battuto contro la decisione e avesse vinto. «Yakov! Che bello vederla!» Strinse la mano di Liebermann, l'afferrò per il braccio. «Che bella cera ha! Accidenti, m'ero dimenticato delle scale.» «Tutto a posto» disse Liebermann, riprendendo fiato. «Non è tutto a posto; è stato sciocco da parte mia. Avrei dovuto scegliere qualche altro posto.» S'avviarono al tavolo, Gorin in testa, Liebermann appoggiandosi al bastone. «I capi dell'associazione» disse Gorin. «E Phil e
Paul. Quando parte, Yakov?» «Posdomani. Mi spiace che lei...» «Lasci perdere, lasci perdere, sarò in buona compagnia laggiù — il trust dei cervelli di Nixon al completo. È il posto alla moda per i cospiratori. Signori, vi presento Yakov. Questo è Dan, Stig, Arnie...» Erano in cinque o sei, più Phil Greenspan e Paul Stern. «Sta cento volte meglio di quando l'ho visto l'ultima volta» disse Greenspan spezzando un panino, sorridendo. Liebermann, sedendosi proprio di fronte a lui, disse: «Lo sa, che non ricordo neppure d'averla vista, quel giorno?». «Lo credo. Era pallido come un morto.» «Hanno dei medici meravigliosi laggiù» disse Liebermann. «Sono rimasto davvero sorpreso.» Accostò la sedia al tavolo, aiutato dall'uomo che sedeva alla sua destra; appoggiò il bastone all'orlo del tavolo, prese il suo menu. Gorin, seduto alla sua sinistra, disse: «Il cameriere sconsiglia l'arrosto. Le piace l'anitra? Qui la fanno splendidamente». Fu un tetro pranzo d'addio. Mentre mangiavano, Gorin parlò di linee di comando e delle misure che lui e Greenspan stavano prendendo per tenersi in contatto mentre lui era in prigione. Furono proposte azioni di rappresaglia, pronunciate battute amare. Liebermann si sforzò di ravvivare l'atmosfera con una storiella su Kissinger, che si pretendeva addirittura vera, raccontatagli da Marvin Farb. Non servì a molto. Quando il cameriere ebbe sparecchiato il tavolo e fu sceso da basso, lasciandoli al dolce e al tè, Gorin appoggiò gli avambracci sul tavolo, intrecciò le mani e guardò tutti con aria grave. «I nostri problemi attuali sono i meno gravi dei nostri problemi» disse, e fissò Liebermann. «Vero, Yakov?» Liebermann, restituendogli lo sguardo, annuì. Gorin guardò Greenspan e Stern, e a uno a uno i cinque capi. «Ci sono novantaquattro ragazzini,» disse «di tredici anni, alcuni di dodici e undici, che devono essere uccisi prima che diventino grandi. No,» disse «non sto scherzando. Giuro su Dio che lo vorrei. Alcuni di essi si trovano in Inghilterra, Rafe; alcuni in Scandinavia, Stig; alcuni vivono qui da noi e in Canada, alcuni in Germania. Non so come li scoveremo, ma lo faremo, dobbiamo farlo. Yakov vi spiegherà chi sono e come... sono nati.» Si appoggiò allo schienale e fece un gesto in direzione di Liebermann. «A grandi linee» disse. «Non c'è bisogno che esponga tutti i particolari.» E, rivolto agli altri:
«Sono garante io di ogni parola che lui dirà, e ne saranno garanti anche Phil e Paul; loro ne hanno visto uno. Avanti, Yakov». Liebermann rimase a guardare il cucchiaino nella tazza del tè. «Tocca a lei» disse Gorin. Liebermann lo guardò e disse rauco: «Non potremmo parlare a quattr'occhi un istante?». Si schiarì la gola. Gorin lo fissò con aria interrogativa, e poi non più interrogativa. Tirò su col naso, sorrise. «Sicuro» disse, e si alzò in piedi. Liebermann prese il bastone, si aggrappò all'orlo del tavolo e si sollevò dalla sedia. Fece un passo appoggiato al bastone, e Gorin gli mise una mano sulla spalla e si avviò con lui, dicendo sottovoce: «So che cosa mi dirà». Si allontanarono assieme, in direzione del palco dell'orchestra sovrastato dal baldacchino di nozze. «So che cosa mi dirà, Yakov.» «Io, ancora no; sono lieto che lo sappia lei.» «E va bene, lo dirò io per lei. "Non dovremmo farlo. Dovremmo conceder loro una possibilità. Persino quelli che hanno perso i padri potrebbero diventare persone comuni."» «Non comuni, non lo credo, no. Ma neppure altrettanti Hitler.» «Così, dovremmo comportarci da bravi ebrei all'antica, dal cuore caldo, rispettosi dei loro diritti civili. E quando qualcuno di loro diventerà davvero un Hitler, be', lasciamo che siano i nostri figli a preoccuparsene. Mentre si avvieranno alle camere a gas.» Liebermann si fermò accanto al palco per l'orchestra, si girò verso Gorin. «Rabbi» disse «nessuno sa quali sono le probabilità. Mengele riteneva che fossero buone, ma si trattava del suo progetto, della sua ambizione. Potrebbe darsi che nessuno di loro diventi un Hitler, neppure se ce ne fossero un migliaio. Sono ragazzini. Indipendentemente da quali sono i loro geni. Bambini. Come possiamo ucciderli? Era affare di Mengele, ammazzare bambini. Dovrebbe essere anche il nostro? Io non...» «Lei mi lascia di stucco.» «Mi lasci finire, per favore. Io non credo neppure che dovremmo farli sorvegliare dai rispettivi governi, perché la cosa si risaprebbe, può scommetterci la vita su questo, e attirerebbe su di loro l'attenzione, gli procurerebbe esattamente il seguito di meshuganah che farebbe di loro altrettanti Hitler, li incoraggerebbe. O magari i meshuganah potrebbero addirittura venire dall'interno di un governo. Meno persone sanno, meglio è.» «Yakov, se uno di loro diventa Hitler, uno soltanto... mio Dio, lei sa co-
sa accadrà!» «No» disse Liebermann. «No. Ci ho pensato per settimane. Nelle mie conferenze dico che perché accada un'altra volta ci vogliono due cose, un nuovo Hitler e condizioni sociali come quelle degli anni trenta. Ma non è vero. Ci vogliono tre cose: Hitler, le condizioni sociali... e la gente disposta a seguire Hitler.» «E non crede che la troverebbe?» «No, non in numero sufficiente. Penso veramente che oggi la gente sia migliore e più sveglia, che non pensi più tanto che i suoi capi sono Dio. La televisione ha cambiato molte cose. E la storia, il fatto di sapere... Qualcuno, lo troverebbe, sì; ma non di più, credo, spero, degli aspiranti Hitler che abbiamo attualmente, in Germania e in Sud-america.» «Be', lei ha un'enorme quantità di fiducia nella natura umana, più di quanta ne abbia io» disse Gorin. «Senta, Yakov, lei può continuare a parlare fino a farsi scoppiare le vene del collo, ma non riuscirà a farmi cambiare idea in proposito. Noi, non solo abbiamo il diritto di ucciderli, ne abbiamo il dovere. Non è stato Dio a crearli, ma Mengele.» Liebermann ristette a guardarlo e annuì. «E va bene» disse. «Pensavo di dover sollevare il problema.» «E lo ha sollevato» disse Gorin, e accennò al tavolo. «Adesso glielo spiegherà? Abbiamo un sacco di cose di cui occuparci, prima di andarcene.» «Ho esaurito la voce per oggi» disse Liebermann. «Sarà meglio che glielo spieghi lei.» Tornarono insieme al tavolo. «Visto che sono in piedi,» disse Liebermann «c'è una toilette?» «Da quella parte.» Liebermann si allontanò, appoggiandosi al bastone, in direzione delle scale. Gorin andò al tavolo e sedette. Sempre appoggiandosi al bastone, Liebermann entrò nella toilette, che era molto piccola, e s'infilò nel gabinetto vero e proprio; chiuse la porta col chiavistello. Si appese il bastone al polso destro, cavò di tasca la custodia del passaporto e ne sfilò la lista ridotta a un piccolo involtino. Si rimise nella tasca della giacca la custodia del passaporto, spiegò a metà la lista, e la stracciò; rimise i frammenti assieme e li stracciò di nuovo; rimise i frammenti insieme e... stracciò di nuovo. Lasciò cadere il pacchettino di pezzetti di carta nel gabinetto e, quando i frammenti di carta dattiloscritti si furono separati e posati sull'acqua, abbassò la manopola nera dello sciac-
quone. La carta e l'acqua vorticarono e furono inghiottiti, gorgogliando. Pezzi di carta rimasero appiccicati all'interno della tazza, altri pezzi tornarono su con l'acqua che si riformava. Attese che lo sciacquone si riempisse. Già che c'era, si aprì la lampo dei calzoni. Quando uscì, colse lo sguardo di uno degli uomini alla estremità del tavolo e indicò Gorin. L'uomo parlò a Gorin e Gorin si voltò a guardare Liebermann. Il quale gli fece cenno di avvicinarsi. Gorin rimase seduto ancora un istante, poi si alzò e venne verso di lui, l'aria infastidita. «Che c'è, ora?» «Dovrebbe farsi forza.» «Per che cosa?» «Ho gettato la lista nel gabinetto.» Gorin lo guardò. Liebermann annuì. «Era la cosa giusta» disse. «Mi creda.» Gorin lo fissò con gli occhi sbarrati, sbiancato in volto. «Mi sento un po' strano a dire a un Rabbi cos'è...» «Quella lista non le apparteneva» disse Gorin. «Apparteneva... a tutti! Al popolo ebraico!» Liebermann disse: «Potevo metterlo ai voti? C'ero solo io là dentro». Scosse il capo. «Uccidere bambini, bambini quali che siano... è sbagliato.» Gorin arrossì violentemente; dilatò le narici, gli occhi bruni gli si accesero, gli si cerchiarono di scuro. «Non venga a dirmi quel che è giusto e quel che è sbagliato. Idiota. Stupido ignorante vecchio puzzone!» Liebermann lo fissò. «Dovrei scaraventarla giù per le scale!» «Mi tocchi soltanto, e le rompo l'osso del collo» disse Liebermann. Gorin trasse un respiro profondo; serrò i pugni contro i fianchi. «Sono gli ebrei come lei» disse «che l'hanno lasciato accadere l'altra volta.» Liebermann lo guardò. «Non sono stati gli ebrei a "lasciarlo" accadere» disse. «Sono stati i nazisti a "far sì" che accadesse. Gente che è arrivata persino a uccidere i bambini, per ottenere ciò che voleva.» Gorin serrò le mascelle arrossate. «Se ne vada di qui» disse. E, fatto dietro-front, si allontanò a grandi passi. Liebermann lo seguì con lo sguardo, trasse un sospiro e si avviò alle scale. Si aggrappò al corrimano e prese a scendere lentamente, appoggiandosi al bastone, un gradino alla volta.
Dal finestrino del tassi che entrava all'aeroporto Kennedy, scorse lo Howard Johnson's Motor Lodge. Dove Frieda Maloney aveva consegnato i neonati alle coppie statunitensi e canadesi. Lo guardò scorrergli accanto, con i suoi dieci o dodici piani illuminati a giorno nella luce del crepuscolo... Dopo che ebbe sbrigato le formalità al banco della Pan Am, chiamò il signor Goldwasser all'agenzia che gli organizzava le conferenze. «Salve! Come sta? Dov'è?» «Al Kennedy, torno a casa. E non sto troppo male. Dovrò solo prendermela calma per qualche mese. Ha ricevuto il mio biglietto?» «Sì.» «Grazie ancora. Splendidi fiori. È servito da pubblicità, no? Prima pagina del "New York Times"; CBS, l'intera rete televisiva...» «Spero che non si procuri mai più una pubblicità del genere.» «Tuttavia, è stata pur sempre pubblicità. Ascolti, se le do la mia solenne parola d'onore che non annullerò il giro, accetterebbe di tentare di organizzarmi delle conferenze nella tarda primavera o agli inizi dell'autunno? La voce mi sarà tornata normale; il dottore ci giura.» «Be'...» «Su, tutti quei fiori, lei è interessato.» «D'accordo, sonderò qualche gruppo.» «Bene. E ascolti, signor Goldwasser...» «Mi chiami Ben, per l'amor di Dio! Da quanti anni ci conosciamo, ormai?» «Ben... non le sinagoghe e le Hadassah. Le università e i ragazzi. Magari i licei.» «Non pagano per conferenze.» «Le università, allora. Le sedi dell'Y.M.C.A. Dovunque ci siano giovani.» «Cercherò di organizzare un giro equilibrato, va bene?» «Va bene. E riempia i buchi con i licei. Mi faccia sapere. Stia bene.» Riagganciò e infilò il dito nella scanalatura per le monetine non consumate; raccolse la cartella e si avviò, appoggiandosi al bastone, verso il cancello d'imbarco. IX L'oscurità avvolgeva la stanza. La maniglia di una porta scintillava, uno
specchio, i puntali di un paio di bastoni da sci. La forma scura di un letto, la forma scura di una sedia. Il profilo metallico di una gabbia; all'interno, un cilindro che girava, si arrestava, tornava a girare. Modellini di missili. Ali di un piccolo aereo argenteo che roteava. Al centro della stanza, un grande foglio bianco si stendeva su un tavolo sotto una lampada inclinata verso il basso. Una mano intingeva un pennello, ne toglieva l'eccesso d'inchiostro, ripassava le linee già tracciate a matita. Disegnando uno stadio: vasto, con una cupola trasparente, circolare. Il ragazzo lavorava con attenta cura, chinando il naso affilato sul foglio. Cominciò a inserire nel disegno un po' di gente, file di minuscole curve, le teste, rivolte verso il podio nel mezzo. Intinse il pennello, ne tolse l'eccesso d'inchiostro, si scostò il ciuffo dalla fronte col dorso della mano, tracciò col pennello altre teste, altra gente. Un pianoforte suonava: un valzer di Strauss. Il ragazzo sollevò il capo e rimase in ascolto. Sorrise. Si chinò sul disegno e tracciò altre teste, canticchiando la melodia suonata al piano. Fantastico, dopo la morte di papà. Solo lui e la mamma. Niente più liti; né la porta che si spalancava e: «Metti via quella roba e fa' i compiti, altrimenti, te lo garantisco...». Be', non proprio fantastico, non aveva voluto dire fantastico; solo... più facile, più piacevole. Persino la nonna diceva che papà era un vero dittatore. Autoritario, sempre pronto ad alzare la voce, pieno di pregiudizi; si comportava sempre come se fosse l'uomo più importante del mondo... Così, adesso era tutto più facile. Ma questo non voleva dire che l'avesse odiato, che avesse davvero desiderato che morisse. Aveva voluto un sacco di bene a papà. Non aveva forse pianto ai funerali? Si concentrò sul disegno, dove tutto era più bello. Si dedicò al podio, e all'uomo che vi si teneva ritto. Piccolo, visto così da lontano. Una pennellata dopo l'altra. Facciamolo con le braccia tese verso l'alto: qualche altra pennellata. Chi poteva mai essere, quell'uomo sul podio? Qualche grande personaggio, questo era certo, con tutta quella gente venuta a vederlo. Non semplicemente un cantante o un attore; qualcuno di fantastico, una persona davvero buona, che la gente amava e rispettava. La gente pagava somme enormi per entrare allo stadio, e se non poteva pagare, lui la lasciava entrare gratis. Una persona così simpatica... Disegnò una piccola telecamera in alto, in cima alla cupola; puntò sul-
l'uomo qualche altro riflettore. Assottigliò al massimo il pennello e attribuì una bocca, sotto forma di minuscoli puntini, alle persone più vicine, disegnate più grandi, in modo che lo acclamassero, gli dicessero quant'era buono, quanto lo amavano. Chinò ancora di più sul foglio il naso affilato e disegnò le minuscole bocche delle persone più piccole. Il ciuffo gli cadde sulla fronte. Si morse il labbro, aguzzò gli occhi di un azzurro slavato. Un puntolino dopo l'altro. Gli pareva di udire la folla che acclamava, mugghiava; uno splendido, crescente tuono di affetto che saliva e saliva, e poi pulsava, pulsava, pulsava, pulsava. Un po' come in quei vecchi documentari su Hitler. FINE