ANNE PERRY IL COMPLOTTO DI WHITECHAPEL (The Whitechapel Conspiracy, 2001) A Hugh e Anne Pinnock, in amicizia 1 L'aula de...
39 downloads
909 Views
896KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ANNE PERRY IL COMPLOTTO DI WHITECHAPEL (The Whitechapel Conspiracy, 2001) A Hugh e Anne Pinnock, in amicizia 1 L'aula del tribunale, all'Old Bailey, era affollatissima. Tutti i posti erano occupati e i commessi, sulla porta, mandavano indietro la gente. Era il 18 aprile 1892, il lunedì dopo Pasqua, l'apertura della Stagione londinese. Era anche il terzo giorno del processo di un ufficiale dalla brillante camera, John Adinett, imputato dell'assassinio di Martin Fetters, viaggiatore e studioso di antichità classica. Sul banco dei testimoni era stato chiamato a deporre Thomas Pitt, sovrintendente del commissariato di polizia di Bow Street. Dal centro dell'aula Ardal Juster, avvocato per l'accusa, gli stava di fronte, pronto ad affrontarlo. «Cominciamo dal principio, signor Pitt.» Juster era un uomo bruno sulla quarantina, alto e magro, con una faccia espressiva, dai lineamenti singolari. In certi momenti poteva apparire molto bello, in altri sembrava avere qualcosa di felino, e c'era una strana grazia nel suo modo di muoversi. Alzò gli occhi verso il testimone. «Si può sapere il vero motivo per cui vi trovavate in Great Coram Street? Chi vi aveva chiamato?» Pitt si raddrizzò lievemente. Anche lui era piuttosto alto, ma non somigliava in nessun modo a Juster. Aveva i capelli troppo lunghi, le tasche sporgenti perché rigonfie delle cose più disparate, e la cravatta sbilenca. Aveva fornito la sua testimonianza in tribunale fin dall'epoca in cui era un semplice poliziotto, vent'anni prima, ma non l'aveva mai trovata un'esperienza gradevole. Mai aveva potuto dimenticare che c'era in gioco, come minimo, la reputazione di una persona, a volte la sua libertà. In questo caso si trattava della sua vita. Non aveva paura d'incrociare lo sguardo freddo e diretto di Adinett dal banco degli imputati. Avrebbe detto soltanto la verità. «Mi aveva mandato a chiamare il dottor Ibbs» rispose a Juster. «Non lo convincevano le circostanze nelle quali si era verificata la morte del signor Fetters. Aveva già lavorato con me in altri casi e sapeva di poter contare sulla mia discrezione, casomai si fosse sbagliato.»
«Vedo. Volete raccontarci cos'è successo dopo che avete ricevuto la chiamata del dottor Ibbs?» John Adinett sedeva immobile sul banco degli imputati. Era un uomo magro, ma di corporatura robusta, e la sua faccia rivelava chiaramente fino a che punto fosse fiducioso nell'abilità altrui e nei propri privilegi di nascita. Nell'aula c'erano uomini che avevano simpatia per lui e lo ammiravano. Sedevano impietriti, increduli di sentirlo accusare d'un crimine di quel genere. Da un momento all'altro la difesa avrebbe fatto i passi necessari per ottenere un'assoluzione e gli sarebbero state rivolte le scuse più sincere. Pitt respirò a fondo. «Mi sono recato immediatamente a casa del signor Fetters, in Great Coram Street» cominciò. «Erano le diciassette appena passate. Il dottor Ibbs mi stava aspettando in anticamera e siamo saliti insieme in biblioteca, dove il corpo del signor Fetters era stato trovato.» Intanto che parlava la scena si ripresentò alla sua mente in modo talmente incisivo che gli parve di salire di nuovo le scale illuminate dal sole e d'incamminarsi lungo il pianerottolo con il grandioso vaso cinese pieno di decorativi steli di bambù, oltre i quadri di fiori e uccelli e le quattro porte di legno decorato con gli stipiti scolpiti, fino a raggiungere la biblioteca. La luce del tardo pomeriggio entrava a fiotti dalle alte finestre, accentuando il vivido colore scarlatto del tappeto turco, mettendo in risalto i titoli a caratteri dorati sulla costa dei volumi che si allineavano sugli scaffali e facendo risaltare i punti più logori e consunti delle capaci poltrone di cuoio. «Nell'angolo in fondo giaceva il corpo di un uomo» continuò Pitt. «Dalla porta la sua testa e le spalle rimanevano nascoste da una poltrona, benché il dottor Ibbs mi avesse avvertito che era stata leggermente rimossa per consentire al maggiordomo di raggiungere il corpo nella speranza di poter prestare qualche aiuto...» Reginald Gleave, l'avvocato difensore, balzò in piedi. «My lord, sono sicuro che il signor Pitt non ignori che non si può fornire un elemento di prova se non se ne possiede una conoscenza diretta. Ha visto con i suoi occhi la poltrona mentre veniva spostata?» Pitt si sentì arrossire di stizza. Certo che lo sapeva. E molto bene. Avrebbe dovuto stare più attento. Aveva giurato a se stesso di non commettere errori, ed ecco che ne aveva già fatto uno. Si sentiva nervoso. Juster aveva detto che dipendeva tutto da lui. Non potevano contare su nessun altro, nel modo più assoluto. Il giudice lo guardò. «Andiamo con ordine, so-
vrintendente, anche se sembra meno chiaro alla giuria.» «Sì, my lord.» Pitt sentì la tensione nella propria voce. E si rese conto che sembrava troppo vibrante. Riportò la memoria a quella stanza di cui aveva un ricordo tanto vivido. «L'ultimo ripiano dello scaffale era parecchio al di sopra del punto a cui si poteva arrivare allungando un braccio, ma c'era una scaletta su ruote allo scopo di renderne possibile l'accesso. La scaletta era sul pavimento, rovesciata su un fianco, a circa un metro dai piedi del cadavere, e c'erano tre libri per terra, uno chiuso, gli altri due spalancati, a faccia in giù, con parecchie pagine ripiegate. Sul ripiano più alto dello scaffale c'era uno spazio vuoto corrispondente ai tre volumi.» «E avete tratto da queste cose qualche conclusione che vi ha convinto ad approfondire le indagini?» gli domandò Juster in tono apparentemente distratto. «Si sarebbe detto che il signor Fetters avesse cercato di raggiungere un libro, perdendo l'equilibrio e cadendo sul pavimento» replicò Pitt. «Il dottor Ibbs mi ha spiegato che c'era un livido sulla testa, di lato, e aveva il collo rotto. Questa è stata la causa della sua morte.» «Precisamente. E lui ha rilasciato una deposizione in tal senso. L'avete trovata coerente con quanto vi è sembrato di vedere?» «Al primo momento è quello che ho pensato...» Tutto d'un tratto l'attenzione del pubblico in aula si ravvivò. «Poi, dopo un esame più approfondito, ho trovato alcune piccole contraddizioni che mi hanno fatto nascere qualche dubbio, convincendomi a indagini ulteriori.» Juster inarcò le sopracciglia scure. «E quali? Vi prego, spiegatele dettagliatamente in modo che possiamo capire anche noi le conclusioni alle quali siete arrivato, signor Pitt.» Lo stava mettendo in guardia. Tutto quel caso si reggeva solo su determinati elementi, che potevano costituire prove indiziarie, indirette. Settimane di indagini non avevano portato alla luce nessun movente che spiegasse per quale motivo Adinett avesse potuto volere la morte di Martin Fetters. Erano stati amici intimi, e pareva che avessero avuto molte affinità non solo per l'ambiente da cui provenivano, ma anche per i loro interessi e per quello in cui credevano. Entrambi erano facoltosi, avevano viaggiato molto, erano impegnati nelle riforme sociali. Godevano di un'ampia cerchia di amicizie comuni ed erano rispettati allo stesso modo da quanti li conoscevano. Pitt si era ripassato ben bene, molte volte, tutto quanto stava per raccontare più per se stesso che a beneficio del tribunale. Aveva preso minuziosamente in esame ogni dettaglio prima di entrare nell'ordine di i-
dee di procedere fino all'atto di accusa. «Per prima cosa i libri sul pavimento.» Ricordava di essersi chinato a raccoglierli, furioso perché erano stati danneggiati, vedendo la pelle della legatura ammaccata, e le pagine accartocciate. «Nel complesso, trattavano tutti lo stesso argomento. Il primo era una traduzione in inglese dell'Iliade, il secondo una storia dell'Impero ottomano, il terzo riguardava le vie commerciali del Medio Oriente.» Juster si finse meravigliato. «Non capisco perché questo dovesse farvi nascere qualche dubbio. Siate tanto cortese da spiegarlo anche a noi.» «Perché il resto dei libri che si trovavano sull'ultimo ripiano dello scaffale erano tutti di narrativa. I romanzi di Waverley di sir Walter Scott, un certo numero delle opere di Dickens e un romanzo di Thackeray.» «E a vostro giudizio l'Iliade non dovrebbe stare con quelli?» «Gli altri volumi sul ripiano di mezzo riguardavano argomenti relativi all'antica Grecia» spiegò Pitt. «In modo particolare a Troia, alle opere del signor Schliemann, a oggetti d'arte e d'interesse storico, tutti all'infuori di tre volumi di Jane Austen che avrebbero dovuto trovar posto, molto più correttamente, sul ripiano alto.» «Per quanto mi riguarda, io avrei tenuto i romanzi, e specialmente Jane Austen, in un posto più accessibile» obiettò Juster stringendosi nelle spalle, con un lieve sorriso. «Forse no, se li avevate già letti» obiettò Pitt, troppo teso per ricambiare quel sorriso. «E se foste uno studioso di antichità classica, con interesse particolare per la Grecia omerica, non conservereste la maggior parte dei vostri libri su tale argomento sui ripiani a metà dello scaffale con l'eccezione di tre di essi sistemati, invece, in quello più alto insieme ai romanzi.» «Già» convenne Juster. «Sembra una stramberia, a dir poco, e inutilmente scomodo. Dopo aver notato i libri, cosa avete fatto?» «Ho osservato più attentamente il corpo del signor Fetters e ho chiesto al maggiordomo, che l'aveva trovato, di raccontarmi con esattezza cos'era successo.» Pitt rivolse un'occhiata al giudice per vedere se gli permetteva di ripetere quanto aveva già detto. «Procedete, se è pertinente.» «Lui mi ha raccontato che il signor Adinett era già uscito dalla porta padronale e ormai se n'era andato da una decina di minuti circa quando il campanello della biblioteca aveva suonato. Mentre si stava avvicinando alla porta, aveva sentito un grido e un tonfo; spalancandola piuttosto allarmato, aveva visto le caviglie e i piedi del signor Fetters che sporgevano da dietro la grande poltrona di cuoio nell'angolo. Si è precipitato a vedere se il
padrone si fosse fatto male. Gli ho domandato se aveva mosso il corpo. Lui ha risposto di no, ma per andargli vicino aveva dovuto spostare leggermente la poltrona.» Juster esitò. Si accorse che l'attenzione della giuria gli stava sfuggendo. «Leggermente, signor Pitt?» La sua voce era secca, tagliente. «È stato molto accurato nelle sue spiegazioni. Ha detto appena fino al bordo del tappeto, che era a una ventina di centimetri. Il che voleva dire che sarebbe stata a un angolo sbagliato per la luce che anivava sia dalla finestra sia dal braccio della lampada a gas, e troppo accostata al muro per essere comoda. Impediva l'accesso a una parte considerevole degli scaffali dove venivano tenuti i libri di viaggi e arte, che, a quanto il maggiordomo mi ha assicurato, venivano consultati frequentemente dal signor Fetters. Ho tratto la conclusione che quello non fosse il posto abituale della poltrona e ho esaminato il tappeto per controllare se portasse qualche segno dove vi si appoggiavano abitualmente i piedi. Infatti c'erano. C'era anche qualche leggero solco sul pelo del tappeto come se qualcosa vi fosse stato trascinato sopra; esaminando di nuovo le scarpe del signor Fetters, ho trovato un po' di lanugine impigliata in una crepa nel tacco. Sembrava che provenisse dal tappeto.» Stavolta dall'aula si levò un mormorio. Reginald Gleave strinse le labbra. Di nuovo Pitt continuò senza che gli venisse richiesto. «Il dottor Ibbs mi aveva detto di essere partito dal presupposto che il signor Fetters, sporgendosi troppo per allungarsi verso un ripiano dello scaffale, avesse perduto l'equilibrio precipitando dalla scaletta e fratturandosi il cranio contro gli scaffali d'angolo. La forza del colpo non aveva provocato solamente un trauma di tale gravità da farlo svenire, ma gli aveva anche rotto il collo, e questa era stata la causa della morte. Io ho considerato la possibilità che avesse ricevuto un colpo tale da perdere la conoscenza; e che poi la stanza avesse subito qualche ritocco nella disposizione di mobili e oggetti per lasciar pensare che fosse precipitato dall'alto della scaletta.» Dalla prima fila della galleria giunse un improvviso fruscio di vesti, il sibilo del fiato trattenuto. Una donna trasalì, ansimando. Uno dei giurati aggrottò le sopracciglia sporgendosi in avanti. Pitt continuò senza cambiare espressione, ma poteva sentire la tensione che montava dentro di lui. «Libri che presumibilmente avrebbe voluto leggere erano stati tirati fuori e lasciati cadere dal ripiano dello scaffale, e gli spazi vuoti riempiti con volumi presi dal ripiano più alto per spiegare l'uso della scaletta. La poltrona era stata accostata
maggiormente all'angolo, e il suo corpo sistemato in modo che ne rimanesse a metà nascosto.» Sulla faccia di Gleave si disegnò un'espressione di incredulità comica. Prima fissò Pitt, poi Juster, infine la giuria. Recitò il suo stupore in modo superbo. Naturalmente sapeva già, e da molto tempo, ciò che Pitt avrebbe detto. Juster si strinse nelle spalle. «E da chi?» domandò. «Il signor Adinett se n'era già andato, e quando il maggiordomo è entrato nella stanza non ci ha trovato nessuno all'infuori del signor Fetters. Non avete creduto al maggiordomo?» Pitt scelse con cura le parole. «Credo che dicesse la verità come la capiva lui.» Gleave si alzò in piedi. Era un uomo corpulento, con le spalle massicce. «My lord, le riflessioni del sovrintendente Pitt sulla veridicità delle parole del maggiordomo non sono pertinenti. La giuria ha potuto ascoltare la testimonianza e giudicare se dicesse o no la verità e se fosse una persona onesta e competente.» Juster non perse la calma, anche se era chiaro che si dominava con difficoltà. Adesso aveva la faccia in fiamme. «Signor Pitt, senza raccontarcene il motivo, in quanto sembra che questo infastidisca in modo particolare il mio onorevole collega, volete riferirci, per favore, cos'avete fatto dopo esservi formato un'ipotesi tanto ardita?» «Mi sono guardato intorno per vedere se ci fosse qualcos'altro, nella stanza, che potesse essere di un certo rilievo» replicò Pitt, ricordando, e descrivendo con esattezza tutto quanto aveva fatto. «Ho visto un vassoio su un tavolino all'estremità più lontana della libreria; sopra c'era un bicchiere pieno a metà di vino di Porto. Ho chiesto al maggiordomo quando il signor Adinett aveva lasciato la casa e lui me l'ha detto. Poi gli ho chiesto di disporre di nuovo la poltrona dove si trovava quando lui è entrato, e di ripetere, con tutta la precisione possibile, i gesti che aveva fatto.» Poteva rivedere con gli occhi della mente l'espressione sconcertata dell'uomo e la sua scarsa voglia di ubbidire. «Mi sono messo dietro la porta» riprese. «Quando il maggiordomo è stato costretto ad andare dietro la poltrona per raggiungere la testa del signor Fetters, io sono uscito dalla porta, ho attraversato il corridoio e sono entrato nella stanza di fronte.» Qui si fermò per dare a Juster il tempo di reagire. Adesso tutti i giurati ascoltavano attentamente. «Il maggiordomo vi ha gridato qualcosa, vi ha chiamato?» Anche Juster
stava scegliendo con cura le sue parole. «Non subito. Sentivo la sua voce in biblioteca mentre parlava nel solito tono normale; poi è sembrato che si rendesse conto che io non ero lì, così è uscito sul pianerottolo e mi ha chiamato di nuovo.» «Quindi ne avete dedotto che lui non vi aveva visto uscire?» «Sì. Ho eseguito l'esperimento di nuovo, ma con i nostri ruoli cambiati. Inginocchiato dietro la poltrona, io non potevo vederlo lasciare la biblioteca.» «Capisco.» Adesso la voce di Juster vibrava di soddisfazione. «E per quale motivo siete entrato nella stanza di fronte, signor Pitt?» «Perché la distanza tra la porta della biblioteca e le scale è di circa sei metri Se il maggiordomo avesse suonato il campanello per chiedere aiuto, quasi sicuramente avrei incontrato qualcuno che saliva prima di poter lasciare quella casa.» «Partendo dal presupposto che non voleste farvi vedere?» Juster finì per lui. «Cosa che, invece, avevate fatto piuttosto ostentatamente all'incirca un quarto d'ora prima, mentre poi eravate tornato entrando dalla porta secondaria, eravate salito di sopra senza farvi notare e combinato le cose in modo che l'omicidio potesse passare per un incidente.» Nell'aula si levarono sommessi mormorii, fruscii di vesti. Gleave scattò in piedi, la faccia cianotica. «My lord, è vergognoso! Io...» «Certo!» Il giudice era spazientito. «Eppure dovreste saperlo, signor Juster. Se permettete cose simili al vostro testimone, sarò obbligato ad acconsentire che il signor Gleave le permetta anche lui, e non vi piacerà affatto!» Juster cercò di prendere un'aria colpevole e piena di umiltà, ma gli riuscì male. Pitt notò che non ci metteva molto impegno. «Non avete visto niente d'insolito intanto che eravate nella stanza di fronte? Che genere di stanza era, a proposito?» «Una sala da biliardo. Sì, ho visto che c'era una tacca recentissima sul bordo della porta, una specie di graffiatura sottile e incurvata all'insù, proprio sopra il chiavistello.» «Curioso, come posto, per graffiare una porta» rimarcò Juster. «Ci sarebbe da pensare che non fosse possibile mentre la porta era chiusa, dico bene?» «No, solo se fosse stata aperta» convenne Pitt. «Il che avrebbe reso molto scomodo giocare al tavolo da biliardo.» «Quindi la cosa più probabile è che sia stata fatta da qualcuno che entra-
va o usciva, vero?» Gleave scattò di nuovo in piedi. «Dal momento che, com'è stato notato, era scomodo giocare con la porta spalancata, si direbbe che la domanda si dia una risposta da sola, non è così, my lord? Qualcuno ha graffiato la porta spalancata con una stecca da biliardo, proprio perché era scomodo giocare con la porta aperta, né più né meno come il signor Pitt ci ha fatto notare tanto astutamente, anche se in modo del tutto inutile.» Rivolse all'aula un largo sorriso, esibendo una dentatura perfetta. Juster aveva preso un'espressione piena di un'ingenuità quasi infantile... salvo che la sua faccia, dai lineamenti tanto singolari, non era fatta per esprimere sentimenti simili. «Avete indagato su tale possibilità, sovrintendente?» Pitt lo guardò dritto negli occhi. «Sì, ho indagato. La cameriera che spolverava e puliva la stanza mi ha assicurato che, alla mattina, sulla porta non c'era nessun graffio del genere, e da allora nessuno aveva più usato la sala da biliardo. Il graffio aveva intaccato a fondo il legno mettendone a nudo l'interno, e non portava tracce né di cera per i mobili né di sporcizia. Era fresca.» «E voi le avete creduto?» Juster alzò una mano con il palmo rivolto verso Gleave. «Chiedo scusa. Vi prego, non rispondete, signor Pitt. Chiederemo alla cameriera a tempo debito e la giuria deciderà se è una persona onesta e competente... e se conosce il suo lavoro. Forse la signora Fetters, anche lei, povera donna, potrà dirci se era una brava cameriera o no.» Nell'aula si levò un brontolio che rivelava irritazione e imbarazzo, e anche qualche risata. La tensione di poco prima era scomparsa. «Allora cos'avete fatto, sovrintendente?» riprese Juster. «Ho chiesto al maggiordomo se il signor Adinett portava con sé un bastone di qualsiasi genere, e se poteva descrivermelo. Così ha fatto. E il domestico lo ha confermato.» Juster sorrise. «Capisco. Vi ringrazio. E ora, prima che lo faccia il mio onorevole collega, sarò io a chiedervelo. Avete trovato qualcuno a cui fosse capitato di sentire, per caso, e senza essere visto, un litigio, qualche parola aspra o una divergenza di opinioni fra il signor Adinett e il signor Fetters?» «Ho chiesto, ma tutti mi hanno risposto di no» ammise Pitt, ricordando amareggiato quanto impegno ci avesse messo per scoprirlo. Perfino la signora Fetters, la quale ormai si era rassegnata e si mostrava convinta che il marito fosse stato ucciso, non era riuscita a citare alcuna occasione in cui
avesse bisticciato con Adinett. «Nonostante questo, sulla base di tali esili elementi, la vostra opinione è stata che Martin Fetters fosse stato assassinato, e da John Adinett?» insistette Juster con voce suadente. «Una poltrona spostata in biblioteca, tre libri messi nel posto sbagliato sugli scaffali, un vistoso segno sul tappeto di qualcosa che vi era stato trascinato, un po' di lanugine infilata nella crepa di un tacco e un graffio di fresca data sul legno della porta della sala da biliardo... Sulla base di questo voi vorreste vedere un uomo dichiarato colpevole del più atroce dei delitti?» «Vorrei vederlo processato per questo» lo corresse Pitt, accorgendosi che stava arrossendo. «Perché io credo che il suo assassinio di Martin Fetters sia l'unica spiegazione che quadra con tutti i fatti. Credo che l'abbia ucciso durante un improvviso litigio e poi abbia ritoccato le cose in modo da dare l'impressione...» «Oh, my lord!» sbottò Gleave, balzando di nuovo in piedi. «No» ribatté il giudice in tono reciso. «Il sovrintendente Pitt è un esperto per quanto riguarda le prove di un delitto. Un'esperienza ampiamente confermata dai vent'anni trascorsi nelle forze di polizia. Sta alla giuria decidere se è persona onesta e competente.» Pitt diede un'occhiata alla giuria e vide che il suo portavoce faceva un lieve cenno di assenso con la testa. La sua faccia era calma e pacata, i suoi occhi privi di incertezze. La faccia di Gleave, invece, diventò color porpora. «Per dare l'impressione che fosse accaduta una disgrazia» concluse. «Credo che sia uscito dalla biblioteca chiudendo a chiave la porta dall'esterno. Poi è sceso al pianterreno, ha salutato la signora Fetters ed è stato accompagnato alla porta dal maggiordomo, mentre anche il domestico lo osservava andar via. Adinett è uscito, ha percorso un centinaio di metri sulla strada, poi è tornato indietro rientrando in giardino da un ingresso secondario. Un uomo, che rispondeva nelle linee generali al suo tipo, era stato visto esattamente in quel momento avviarsi in quella direzione. Adinett, passando dall'ingresso secondario, è salito di nuovo in biblioteca, ha riaperto la porta e ha suonato subito il campanello per chiamare il maggiordomo.» Nell'aula, adesso il silenzio era profondo. Gli occhi di tutti erano fissi su Pitt. Il pubblico sembrava quasi che fosse rimasto con il fiato sospeso. «Quando il maggiordomo è arrivato, Adinett si trovava nascosto dietro la porta spalancata. E quando è passato dietro la poltrona per raggiungere il signor Fetters, com'era suo dovere, Adinett sgusciò fuori e, attraversato il corridoio, è entrato nella sala da biliardo casomai il maggior-
domo pensasse di dare l'allarme e gli altri domestici accorressero, venendo su per le scale. Poi, quando ha visto che il pianerottolo era deserto, è tornato fuori e, nella fretta, ha strusciato il bastone contro la porta. Poi ha lasciato casa Fetters, non visto da nessuno, stavolta.» «Vi ringrazio, sovrintendente.» Juster gli rivolse un inchino appena accennato. «Prove indiziarie, ma come avete detto è l'unica risposta che quadri con tutti i fatti. E anche se per noi sarebbe conveniente dire alla Corte perché questa cosa terribile sia successa, non siamo obbligati a farlo... Ci basta dimostrare che è avvenuta. Io giudico ammirevole ciò che avete fatto. Vi siamo obbligati.» Con estrema lentezza si voltò per invitare Gleave a farsi avanti. Pitt si volse verso di lui, ma Gleave fece un sorriso, anche se la sua faccia carnosa era tesa e contratta. «Dopo il pranzo, penso, my lord. Avrò bisogno di ben di più del puro e semplice quarto d'ora che abbiamo adesso a nostra disposizione.» Pitt non se ne stupì. Juster aveva ripetuto più di una volta che la causa dipendeva dalla sua testimonianza, e doveva aspettarsi che Gleave facesse il possibile per smantellarla. Con tutto ciò, sapeva fin troppo bene cosa lo aspettasse, per riuscire a gustare il piatto di carne di montone e verdure che gli venne offerto nella locanda appena dietro l'angolo del tribunale, e lo lasciò a metà. «Cercherà di mettere in ridicolo o negare tutte le prove» disse Juster, fissando Pitt che gli sedeva di fronte. Sembrava che anche lui non fosse capace di apprezzare ciò che aveva nel piatto. «Non credo che la cameriera reggerà al suo interrogatorio. È già abbastanza terrorizzata per il solo fatto di trovarsi in tribunale senza che un signore metta in dubbio la sua intelligenza e onestà. Se Gleave insinuerà che ha confuso un giorno con l'altro, è molto probabile che si arrenda.» Pitt bevve un piccolo sorso del suo sidro. «Ma questo metodo non funzionerà con il maggiordomo.» «Lo so. E lo saprà anche Gleave. Quindi il suo approccio sarà totalmente diverso. Se fossi in lui, proverei ad adularlo, a farlo confidare in me... capire i caratteri e trovare il punto debole di un testimone è la sua professione.» Pitt avrebbe voluto obiettare qualcosa, pur sapendo che era la verità. E le grandi capacità di Gleave lo mandavano su tutte le furie. Era sicuro che Martin Fetters fosse stato assassinato, e se lui non riusciva a convincere la giuria di questo fatto, Adinett si sarebbe ritrovato non soltanto libero, ma ampiamente scagionato. Quindi tornò al banco dei testimoni aspettandosi
un attacco e ben deciso ad affrontarlo. «Oh, dunque, signor Pitt» cominciò Gleave, venendo a piantarsi di fronte a lui con le spalle erette, a gambe larghe. «Vediamo di esaminare queste vostre strane prove alle quali date tanto peso e sulle quali avete costruito una storia così infame. Siete stato convocato dal dottor Ibbs, un uomo che si direbbe un vero e proprio ammiratore delle vostre qualità.» Pitt fu lì lì per ribattere, poi si rese conto come fosse proprio quel che Gleave voleva. Una trappola troppo facile. «Un uomo che, a quanto pare, voleva essere ben sicuro di non essersi lasciato sfuggire nessun fatto significativo. Un uomo nervoso, insicuro delle proprie capacità. Oppure un uomo che desiderava fare un torto e insinuare che una tragedia fosse, in realtà, un crimine.» Juster si alzò. «My lord, il signor Pitt non è un esperto di moralità. Non è un esperto dei motivi per i quali il dottor Ibbs lo ha convocato. Lui sa solamente quanto il dottor Ibbs ha detto, e noi stessi abbiamo ascoltato. È persuaso che la spiegazione dell'incidente non quadri molto bene con i fatti come lui li ha osservati, e quindi è stato più che giusto che chiamasse la polizia.» «Obiezione accolta» confermò il giudice. «Signor Gleave, smettete di congetturare e fate le vostre domande.» Gleave annuì, poi rialzò di scatto la testa fissando Pitt. «Ibbs vi ha detto di sospettare un omicidio?» Pitt vide la trappola. Era clamorosa, di nuovo. «No. Ha detto di essere preoccupato e ha chiesto la mia opinione per un'interpretazione degli indizi, tutto qui» fu la sua risposta piena di cautela. Intuiva che davanti a lui si stava già spalancando un'ulteriore trappola. «Precisamente. Quindi, se il dottor Ibbs vi ha chiamato perché non era soddisfatto, voi avete di sicuro dedotto che gli fosse nato il sospetto che quella morte non era dovuta a una pura e semplice disgrazia, ma piuttosto poteva essere il risultato di un atto criminale... che avrebbe coinvolto la polizia?» «Sì.» «In tal caso quando avete detto che non vi ha riferito di sospettare un'azione delittuosa non siete stato sincero.» Pitt ebbe l'impressione di sentirsi salire il sangue alla faccia. Evitata una trappola, era precipitato subito in un'altra, e adesso dava l'impressione di essere evasivo, prevenuto... proprio come Gleave voleva. «Una differenza, un divario nei fatti non significa necessariamente un atto criminale» disse
soppesando ogni parola. «Sono molti i motivi per cui le persone spostano le cose, e non sempre con un'intenzione malvagia. A volte lo si fa nel tentativo di aiutare o dimostrare che una dìsgrazia è dovuta a minor trascuratezza di quanto non sembri a prima vista, per non far incolpare quelli che sono ancora vivi o anche per nascondere un'imprudenza o qualcosa di sconveniente. E perfino per mascherare un suicidio.» Gleave parve sorpreso. Non si era aspettato una risposta. Era una piccola vittoria. Ma Pitt non doveva abbassare la guardia. «I segni sul tappeto, come se ci fosse stato trascinato su qualcosa» riprese Gleave, tornando all'attacco. «Quando sono stati fatti?» «In un momento qualsiasi dopo l'ultima volta che il tappeto è stato spazzolato, cioè la mattina precedente, come mi ha riferito la cameriera.» Gleave prese un'aria ingenua. «E se a farli fosse stato qualcos'altro invece del cadavere di un uomo che qualcuno ci aveva trascinato sopra? È possibile?» «Certamente.» «E quel poco di lanugine attaccata alla scarpa del signor Fetters può aver anche quello qualche spiegazione alternativa? Per esempio, si può escludere che ci fosse qualche grinza sul tappeto e lui ci abbia inciampato? E se, seduto in poltrona, avesse allungato le gambe strusciando i tacchi? Quel tappeto aveva una frangia, signor Pitt?» Gleave sapeva perfettamente che la frangia c'era. «Sì.» «Precisamente. Un esile filo, e spero che mi perdonerete il gioco di parole, di cui servirsi per impiccare un uomo d'onore, un soldato coraggioso, un patriota e uno studioso come John Adinett, non vi sembra?» Nell'aula passò un mormorio, e qualcuno del pubblico si agitò al proprio posto voltandosi a guardare Adinett. Pitt lesse il rispetto sulle loro facce, la curiosità, ma nessuna ostilità. Si volse verso la giuria. Erano tutti più guardinghi, uomini seri che sembravano quasi intimoriti dalla responsabilità che avevano. Non li invidiava. Lui non aveva mai voluto essere il giudice finale di un altro uomo. Gleave stava sorridendo. «Vi meraviglierebbe sapere, signor Pitt, che la cameriera incaricata di spolverare e lucidare la sala da biliardo non è più sicura che quel graffio, da voi tanto provvidenzialmente notato, fosse stato appena fatto? Adesso sostiene che potrebbe benissimo esserci già stato e che lei potrebbe non averlo notato prima.» Pitt si accorse di non sapere come rispondere. La domanda era formulata
in modo imbarazzante. «Non la conosco abbastanza bene per essere meravigliato o no» disse guardingo. «A volte i testimoni alterano la loro deposizione... e per una varietà di motivi.» Gleave sembrò offeso. Ma non aspettò che il giudice intervenisse. «Vediamo cosa ci resta da esaminare di questo caso tanto straordinario. Il signor Adinett è andato in visita dal signor Fetters, un vecchio amico. Hanno passato insieme, piacevolmente, un'ora e mezzo in biblioteca. Poi il signor Adinett se n'è andato. Presumo di trovarvi d'accordo con tutto questo.» «Sì» concesse Pitt. «Bene. Per continuare, dodici o quindici minuti più tardi è suonato il campanello della biblioteca, il maggiordomo è andato a rispondere e mentre si avvicinava alla porta ha sentito un grido e un tonfo. Quando l'ha aperta, ha visto con sgomento il suo padrone lungo disteso sul pavimento e la scaletta rovesciata su un fianco. Molto logicamente, ha concluso che era successa una disgrazia. Non ha visto nessun altro nella stanza. Ha girato sui tacchi ed è uscito a cercare aiuto. Siete d'accordo fin qui?» Pitt si impose di sorridere. «Non so. Poiché non avevo ancora rilasciato la mia deposizione, non ero presente in aula, durante la testimonianza del maggiordomo.» «Ma quadra con i fatti, come li conoscete voi?» «Sì. Ma voi mi avete fatto una domanda impossibile, e io mi sono limitato a farvelo notare!» Gleave adesso era scuro in faccia. Non si era aspettato una risposta del genere, ma nascose in fretta la rabbia che provava. Se non altro, come attore era molto abile. «Poi abbiamo il dottor Ibbs ultra-zelante per motivi che non possiamo sapere» riprese. «Voi avete risposto alla sua chiamata e avete trovato questi piccoli segni enigmatici. La poltrona stava al posto dove l'avreste messa voi se quella bellissima stanza fosse stata vostra.» Il suo tono di voce era derisorio. «Il maggiordomo crede che si trovasse altrove. C'erano dei segni, dove il pelo era schiacciato, sul tappeto.» Sorridendo lanciò un'occhiata alla giuria. «I libri non erano nell'ordine in cui voi li avreste messi, se fossero stati vostri. Il bicchiere di Porto non era finito, eppure lui ha chiamato il maggiordomo. Non sapremo mai perché... ma è qualcosa che ci riguarda?» Fissò la giuria. «Noi accusiamo John Adinett di omicidio per quello?» Adesso la sua faccia rivelava lo stupore più profondo. «Lo accusiamo, forse? lo no! Signori, ecco una manciata di osservazioni non pertinenti, una miscellanea di fatterelli messa insieme da un medico pigro e da un poliziotto che vuole conquistare una certa rinomanza e
spera di riuscirci approfittando della morte di un uomo. Rifiutate questa farragine insulsa, giudicatela per l'immondezza che in realtà è!» «Questa è la vostra difesa?» esclamò Juster. «Date l'impressione di voler tirare le somme.» «No, niente affatto! Anche se mi sembra che non ci sia praticamente bisogno d'altro. Ma vi restituisco il vostro testimone.» «Non c'è molto da aggiungere» osservò Juster prendendo il suo posto. «Signor Pitt, la prima volta che avete interrogato la cameriera ha detto di essere sicura di quel graffio sulla porta della sala da biliardo?» «Assolutamente.» «Dunque, da allora in poi c'è stato qualcosa che le ha fatto cambiare idea.» Pitt si passò la lingua sulle labbra. «Sì.» «Mi domando che cos'è stato...» Juster si strinse nelle spalle, poi si affrettò a proseguire. «E il maggiordomo era sicuro che la poltrona della biblioteca fosse stata mossa?» «Sì.» «Da allora, ha cambiato idea?» Juster aprì le braccia allargando le mani. «Oh, già. Naturalmente voi non lo sapete. Bene, non l'ha cambiata. Quanto al ragazzino che fa anche da lustrascarpe in casa, è sicurissimo di aver pulito quelle del suo padrone con cura sufficiente per non lasciarvi ciuffi di peli o fili che provenissero dalla parte centrale del tappeto o dalle frange, incastrati nel tacco.» Poi sembrò che gli fosse balenato in mente qualcos'altro. «A proposito, quello che avete trovato voi era un filo della frangia o un po' di quella lanugine morbida che poteva provenire dal pelo?» «Lanugine morbida, del colore del centro.» «Per l'appunto. Noi abbiamo visto le scarpe, ma non il tappeto. E neanche possiamo vedere i ripiani degli scaffali con i loro libri mal assortiti. Per quale motivo un viaggiatore e studioso di antichità, interessato soprattutto a Troia, le sue leggende, la sua magia, le sue rovine, doveva sistemare tre dei suoi libri di più frequente consultazione su un ripiano dove, per raggiungerli, sarebbe stato costretto ad arrampicarsi sulla scaletta? Ed era chiaro che aveva bisogno di consultarli, altrimenti perché rischiare la morte salendoci per tirarli giù?» Si strinse nelle spalle con un gesto pieno di drammaticità. «Soltanto che, naturalmente, non è questo che ha fatto!» Alla sera Pitt scoprì di provare un'irrequietezza che non riusciva a placare. Si mise a passeggiare per il giardino, strappando un'erbaccia qua e là,
osservando i fiori ancora in boccio e le corolle già aperte, le foglie nuove sugli alberi. Ma niente tratteneva a lungo la sua attenzione. Charlotte venne fuori anche lei a raggiungerlo, con la faccia preoccupata, l'ultimo sole che le creava un alone dorato intorno alla testa, strappandole qualche guizzo di luce ramata dai capelli. I bambini erano a letto e la casa silenziosa. Lui si voltò e le sorrise. Non c'era bisogno di dare spiegazioni. Charlotte aveva seguito la causa fin dai primi giorni e sapeva fino a che punto suo marito fosse in ansia. Però non le aveva rivelato che la situazione avrebbe potuto diventare seria, se Adinett fosse stato trovato innocente perché la giuria aveva giudicato il testimone, Pitt, un incapace, spinto da sentimenti e motivi personali, al punto da creare un caso giudiziario dal nulla per soddisfare chissà quale ambizione o pregiudizio. Parlarono di altre cose, camminando lentamente avanti e indietro sul prato. Ciò che si dicevano non era importante; lo era invece il senso di calore che irradiava da Charlotte, e per lui era qualcosa di prezioso, come il fatto che lei fosse lì, e non lo assillasse con le domande o gli lasciasse capire i propri timori. Il giorno dopo Gleave diede inizio alla sua difesa. Aveva già fatto tutto il possibile per sminuire l'importanza della deposizione del dottor Ibbs come dei diversi domestici che avevano osservato i piccolissimi cambiamenti descritti da Pitt, nonché quella dell'uomo in strada il quale aveva osservato qualcuno, che rispondeva più o meno alla descrizione di Adinett, entrare dall'ingresso secondario in casa Fetters. Adesso chiamò i testimoni che deponessero a favore della personalità e del carattere di John Adinett. Ne fece sfilare, uno dopo l'altro, una vera e propria parata, scelti dai vari ambienti sociali: personaggi mondani, ufficiali, uomini politici, perfino un ecclesiastico. L'ultimo di loro, l'onorevole Lyall Birkett, ne fu un esempio tipico. Era snello, biondo, con una faccia da aristocratico, intelligente, i modi pacati. Non aveva assolutamente il minimo dubbio che Adinett fosse innocente, un brav'uomo impegolato in una ragnatela di intrighi e sfortuna. Poiché aveva già rilasciato la sua testimonianza, Pitt adesso ottenne il permesso di rimanere nell'aula e quindi decise di assistere al resto del processo prendendo posto fra il pubblico. «Dodici anni» Birkett disse per rispondere alla domanda di Gleave che voleva sapere da quanto tempo conoscesse Adinett. «Ci siamo conosciuti al Circolo militare, dove si può essere abbastanza sicuri di chi si incontra. È un mondo piccolo, e il campo di battaglia è un banco di prova per qual-
siasi uomo. Si può distinguere abbastanza in fretta chi si impegna a fondo e dà prova del proprio valore, e su chi possiamo contare quando tutto è perduto.» «Credo che sia chiaro a tutti noi» disse Gleave. «Niente è la miglior prova dell'autentico valore, del coraggio, la lealtà e l'onore in battaglia di un uomo, quanto il rischio di perdere la vita...» Si voltò lentamente verso la galleria con un'espressione dolente ma ne approfittò perché anche i giurati la vedessero. «E vi è mai capitato di sentir parlare male di John Adinett fra i vostri commilitoni del Circolo?» «Mai. Neanche una parola.» Birkett continuava a trattare la questione con superficialità come se non si trattasse che di uno stupido errore da chiarire nel giro di un paio di giorni. «Aveva servito distinguendosi particolarmente in Canada. Se ben ricordo, è stato qualcosa che aveva a che fare con la Hudson Bay Company e una sommossa di non so più quale genere nell'interno del paese. In effetti era stato Fraser a parlarmene. Mi aveva detto che Adinett vi era rimasto coinvolto per il suo coraggio e la sua buona conoscenza del territorio. Impervio, vasto e selvaggio, nella zona di Thunder Bay. E lì ci vuole qualcuno che abbia fantasia, capacità di sopportazione, la lealtà più totale, intelligenza e coraggio illimitati.» Gleave annuì. «E cosa mi dite dell'onestà?» Finalmente Birkett mostrò un certo stupore. «Quella è scontata, signore. Non c'è posto, nel modo più assoluto, per un uomo che non sia onesto.» «E la lealtà verso gli amici, i compagni d'arme?» Gleave cercò di dare l'impressione che quella domanda fosse casuale, ma nessuno fra il pubblico, all'infuori di Juster, Pitt e il giudice, era un conoscitore tanto sofisticato delle sceneggiate che si svolgevano in un'aula di tribunale per rendersi conto di quale fosse la sua tattica. «La lealtà è più preziosa della vita. Affiderei a John Adinett quanto possiedo, casa, proprietà terriere, mia moglie, il mio onore, senza pensare neanche per un attimo che potrei correre il rischio di perdere qualcosa di tutto ciò.» Gleave non nascose di essere soddisfatto. La giuria adesso considerava Birkett con ammirazione e furono parecchi, fra i giurati, a voltarsi verso Adinett e a squadrarlo con attenzione per la prima volta. «Conoscevate il signor Fetters, per caso?» «Superficialmente.» La faccia di Birkett s'incupì. «Una gran brava persona. Ed è una vera ironia della sorte che abbia viaggiato girando il mondo, in cerca delle bellezze dell'antichità per scoprire le glorie del passato, e
poi morire cadendo nella biblioteca di casa sua. Ho letto le sue comunicazioni e i suoi saggi su Troia. Confesso che mi hanno aperto un mondo nuovo. E credo di poter dire che i viaggi e un interesse appassionato per la ricchezza di altre culture siano stati quello che ha unito Fetters e Adinett.» «È possibile che sia sorto qualche conflitto fra di loro su tale argomento?» «Assolutamente no, buon Dio! Fetters era un esperto; Adinett soltanto un entusiasta, un ammiratore di chi aveva effettivamente fatto quelle scoperte. Parlava con grande considerazione di Fetters, ma non aveva nessuna ambizione di emularlo.» «Vi ringrazio, signor Birkett» disse Gleave abbozzando un inchino. «Avete confermato tutto quanto avevamo già sentito riferire da altre persone distinte e qualificate come voi. Nessuno ha parlato male del signor Adinett. Non so se il mio onorevole collega abbia qualcos'altro da chiedervi, ma io concludo qui.» Juster non esitò. La giuria gli stava sfuggendo di mano e Pitt capì che se n'era accorto. «Vi ringrazio» disse con garbo, poi si rivolse a Birkett. Pitt si accorse di avere il cuore stretto da una morsa per l'ansietà: Birkett era inattaccabile, come lo erano stati tutti gli altri testimoni che avevano descritto la personalità di Adinett. In quegli ultimi due giorni, considerati i suoi rapporti con uomini che lo ammiravano ed erano pronti a giurare sull'amicizia che li legava a lui, Adinett era venuto a trovarsi in una posizione che andava praticamente al di là di qualsiasi sospetto. Attaccare Birkett voleva dire alienarsi la giuria. Juster sorrise. «Signor Birkett, voi dite che John Adinett era di una lealtà assoluta verso i suoi amici. È una qualità che ammirate?» «Certamente.» «Prima della lealtà ai vostri principi?» «No.» Birkett sembrava un po' sconcertato. «Non è questo che intendevo, signore. Chiunque deve mettere i propri principi davanti a tutto, altrimenti è un uomo senza valore. E un amico dovrebbe aspettarselo. O perlomeno dovrebbero aspettarselo quelli che scegliessi di chiamare amici.» «Anch'io. Un uomo deve fare quello che crede giusto, anche se dovesse costargli qualcosa di terribile come la perdita di un amico o la stima delle persone alle quali vuole bene.» «My lord!» esclamò Gleave, alzandosi spazientito dal suo posto. «Tutto questo mi sembra molto morale, ma che domanda è? Se il mio onorevole collega ha uno scopo nell'insistere sul concetto, gli si potrebbe chiedere di arrivarci?»
Juster rimase imperturbabile. «Si tratta di un punto importantissimo, my lord. Il signor Adinett era un uomo pronto a mettere i suoi principi, cioè quello in cui credeva, perfino al di sopra dell'amicizia. Abbiamo stabilito che la vittima, Martin Fetters, era suo amico. Sono obbligato al signor Gleave per avere stabilito che l'amicizia non era la preoccupazione suprema per Adinett e che l'avrebbe sacrificata a uno dei suoi principi, nel caso in cui una scelta simile gli fosse stata imposta.» Dalla sala si levò un mormorio. Uno dei giurati non nascose la propria perplessità, ma poi d'un tratto la sua faccia s'illuminò: aveva capito. «Non abbiamo stabilito che ci fosse mai stato un simile conflitto!» protestò Gleave, avanzando di un passo verso il centro dell'aula. «Ma neppure che non ci fosse!» ribatté Juster, voltandosi di scatto verso di lui. Il giudice fece tacere entrambi con uno sguardo. Juster ringraziò Birkett e tornò al suo posto con un'andatura disinvolta, quasi spavalda. L'indomani Gleave partì per l'assalto finale a Pitt. Si volse ad affrontare la giuria. «Questo intero caso, fragile e fondato su prove indiziarie com'è, dipende interamente dalla deposizione di un uomo, il sovrintendente Thomas Pitt.» La sua voce trasudava disprezzo. «Non tenete conto di quello che dice... e cosa ci resta? È inutile che ve lo spieghi... Niente, niente del tutto!» E cominciò a elencare sulle dita. «Un uomo che ha visto un altro uomo, in strada, svoltare verso uno dei giardini. Quest'uomo potrebbe essere stato John Adinett, ma anche no.» Alzò un altro dito. «Un graffio sul legno di una porta che potrebbe esserci già stato da giorni e probabilmente è stato prodotto da una stecca da biliardo maneggiata in modo maldestro.» Un terzo dito. «Una poltrona della biblioteca spostata, per uno qualsiasi fra tanti motivi possibili.» Un quarto dito. «Libri fuori posto.» Alzò le spalle agitando le mani. «Forse erano stati lasciati fuori e la cameriera, che non è una lettrice di mitologia greca, li ha infilati in un punto qualsiasi dello scaffale dove pensava che sarebbero stati al posto giusto. Magari non sa neanche leggere! Un filo del tappeto impigliato in una scarpa.» Sbarrò gli occhi. «Come c'è finito? Chi lo sa? E la cosa più assurda di tutte, mezzo bicchiere di vino di Porto. Il signor Pitt vorrebbe farci credere che questo significa che il signor Fetters non aveva motivo di suonare per il maggiordomo. In realtà questo significa che il signor Pitt personalmente non è abituato ad avere domestici, cosa che chiunque di noi può aver già ragionevolmente pensato, in quanto è un poliziotto.» Questa ultima parola fu pronunciata nel tono del disprezzo più totale. Sull'aula era calato il silenzio.
«Mi propongo di chiamare parecchi testimoni che conoscono bene il signor Pitt, i quali ci diranno che tipo di uomo è. Così voi stessi potrete giudicare quale valore dare alla sua testimonianza.» Pitt provò un tuffo al cuore quando sentì chiamare Albert Donaldson e vide la sua figura familiare attraversare l'aula e salire sul banco dei testimoni. Donaldson sembrava più corpulento e più grigio di capelli di quand'era stato il suo superiore quindici anni prima, ma l'espressione della faccia era identica a come la ricordava. Si rese subito conto come il disprezzo di Donaldson ribollisse ancora sotto quell'apparenza imperturbabile. E infatti la sua deposizione si svolse né più né meno come lui se l'aspettava. «Ormai voi vi siete ritirato dalle forze della polizia metropolitana, vero, signor Donaldson?» gli domandò Gleave. «Precisamente.» «Quando eravate ispettore al commissariato di Bow Street, ci lavorava un agente di nome Thomas Pitt?» «Precisamente.» L'espressione di Donaldson rivelava già i suoi sentimenti. «Che tipo d'uomo era? Presumo che abbiate avuto occasione di lavorare spesso con lui... anzi, non era alle vostre dirette dipendenze?» «Non voleva essere alle dipendenze di nessuno, quello lì!» ribatté Donaldson, scoccando un'occhiata a Pitt, seduto fra il pubblico. «La legge se la faceva lui! Era sempre convinto di saperne di più degli altri, e non dava retta a nessuno.» Aveva aspettato anni che gli si presentasse quest'occasione di vendicarsi delle frustrazioni di allora e dell'insubordinazione del suo antico subordinato. «Arrogante sarebbe una parola corretta per descriverlo?» «Correttissima» Donaldson ribatté prontamente. «Presuntuoso, supponente?» Gleave continuò. «Ottima descrizione anche questa. Voleva sempre fare tutto a modo suo, mai secondo i regolamenti. Voleva tutta la gloria per sé, questo è stato chiaro fin dal principio.» Gleave invitò il testimone a fornire qualche esempio dell'arroganza, dell'ambizione, e del disprezzo dei regolamenti da parte di Pitt e Donaldson ubbidì con entusiasmo, fino a quando perfino Gleave decise che poteva bastare. Sembrò un po' riluttante di cedere il campo a Juster per l'interrogatorio, ma non aveva scelta. E Juster si accinse al suo compito con visibile soddisfazione. «Il poliziotto Pitt non vi è mai stato simpatico, vero, signor Donaldson?» «Non si può aver simpatia per un uomo che ti rende impossibile lavora-
re» rispose l'uomo, ma era già sulla difensiva e lo lasciava capire dal tono della voce. «Perché risolveva i suoi casi in modo poco ortodosso, almeno in qualche occasione?» domandò Juster. «Non teneva conto dei regolamenti» lo corresse Donaldson. «Commetteva errori?» Juster adesso lo guardava dritto negli occhi. Donaldson diventò un po' rosso in faccia. Sapeva che Juster avrebbe potuto frugare facilmente negli archivi e rintracciare le documentazioni necessarie, anzi, forse lo aveva già fatto. «Ecco... non più della maggioranza dei miei uomini.» «Anzi, meno della maggioranza» obiettò Juster. «Sapete se ci sia stato qualcuno, uomo o donna che fosse, condannato sulla base delle prove fornite dal signor Pitt e successivamente scoperto innocente?» «Io non ho seguito tutti i suoi casi. Avevo già da fare più che in abbondanza con il tempo a mia disposizione senza tener conto dei casi di cui si occupava ogni ambizioso poliziotto ai miei ordini.» «Allora ve lo dirò io. La risposta è no. Nessuno è mai stato condannato erroneamente sulla base delle prove fornite dal sovrintendente Pitt in tutta la sua carriera nelle forze di polizia.» «Perché abbiamo buoni avvocati difensori!» Donaldson guardò Gleave di sottecchi. «Grazie a Dio.» Juster accettò il commento con un sorrisetto. «Pitt era ambizioso.» Lo disse come se fosse un'ammissione, non una domanda. «L'ho già detto. Molto!» ribadì Donaldson in tono tagliente. «Presumo che dovesse esserlo. Ha raggiunto il grado di sovrintendente, al comando di un commissariato di estrema importanza, quello di Bow Street. Un grado un po' più alto di quello a cui voi non siate mai arrivato, dico bene?» Donaldson diventò cianotico. «Io non ho sposato una donna di famiglia altolocata, e con qualche conoscenza.» Juster sembrò meravigliato. «E così... vi era superiore anche dal punto di vista sociale? A quanto io ne so, non è soltanto di famiglia facoltosa, ma intelligente, molto bella e piena di fascino. Penso che tutti noi ci rendiamo conto molto bene dei vostri sentimenti, signor Donaldson.» Gli girò le spalle. «Vi ringrazio. Non ho altro da chiedervi.» Donaldson scese dal banco dei testimoni incupito, le spalle curve, e passandogli davanti mentre si avviava all'uscita non diede neanche un'occhiata a Pitt. Gleave chiamò il suo testimone successivo. Anche l'opinione di costui
nei confronti di Pitt non era migliore, ma provocata da cause differenti. La sua antipatia nasceva dal fatto che Pitt, molto tempo prima, si era occupato di un caso in cui i sospetti della pubblica opinione si erano concentrati su un suo amico e solamente quando la faccenda poteva ormai considerarsi risolta era stato dimostrato come non fosse minimamente colpevole. Un terzo testimone invece snocciolò una serie di esempi che potevano fornire un'interpretazione poco lusinghiera del carattere di Pitt, facendolo passare per un uomo arrogante e pieno di pregiudizi. Anche gli anni dell'infanzia e giovinezza vennero descritti con cattiveria. «Dite che era il figlio di un guardacaccia?» domandò Gleave con voce accuratamente neutrale. Pitt si sentì gelare. Ricordava Gerald Slaley e sapeva cosa stava per succedere, ma si trovava nell'impossibilità di impedirlo. «Precisamente. Suo padre è stato deportato per furto» confermò Slaley. «E lui ha sempre nutrito un grande rancore contro l'aristocrazia, se volete sapere come la penso. Ne ha fatto una crociata. Controllate i casi di cui si è occupato, e vedrete. Ecco perché è stato promosso dagli uomini che lo hanno scelto: sempre per perseguire legalmente, per accusare, quando c'erano di mezzo persone potenti e facoltose... quelli là quando pensavano che fosse buona politica farlo. E lui non li ha mai delusi.» Gleave annuì con aria saggia. «Anch'io ho esaminato il curriculum del signor Pitt. E ho notato come si sia specializzato in casi che riguardavano personaggi eminenti e di una certa notorietà. Se il mio onorevole collega vuole contestarmelo, non ho difficoltà a presentarne l'elenco.» Juster scrollò la testa. Sapeva fino a che punto fosse inopportuno concederglielo. Troppi di quei casi avevano fatto scalpore e potevano suscitare qualche risentimento da parte dei giurati. Gleave era soddisfatto. Aveva dipinto Pitt come un uomo ambizioso e irresponsabile, motivato non dall'onore, ma da un'amarezza e da una bramosia di vendetta di lunga data, perché suo padre era stato condannato per un crimine del quale lui continuava tuttora a crederlo innocente. Su tale questione Juster non poteva alzare un dito. L'accusa tirò le sue conclusioni. La difesa ebbe la parola finale, e di nuovo ricordò ai giurati che la causa dipendeva dalle prove fornite da Pitt. La giuria si ritirò per il verdetto. Ma non raggiunse una decisione in serata. E la mattina dopo si ripresentò solamente quattro minuti prima di mezzogiorno.
«Avete raggiunto un verdetto?» chiese il giudice in tono cupo. «L'abbiamo raggiunto, my lord» annunciò il portavoce dei giurati. Non alzò gli occhi verso il banco degli imputati. Però il suo portamento era disinvolto, e teneva la testa ben eretta, con fierezza. «Trovate il prigioniero, John Adinett, colpevole o non colpevole dell'assassinio di Martin Fetters?» «Colpevole, my lord.» Juster alzò la testa di scatto. Gleave si lasciò sfuggire un grido d'indignazione e fece per balzare in piedi. Adinett sembrava impietrito, come se non avesse capito. Dalla galleria proruppero grida di stupore, e i giornalisti fecero a gara per precipitarsi fuori a far rapporto ai loro giornali perché era successo l'incredibile. «Andremo in appello!» Al di sopra di tutto quel frastuono, la voce di Gleave si poté sentire chiaramente. Il giudice chiese che si facesse ordine. E, quando finalmente tornò la calma nell'aula e calò un silenzio che aveva qualcosa di terribile, mandò l'usciere a prendere la berretta nera che avrebbe messo sulla testa prima di pronunciare la sentenza di morte nei confronti di John Adinett. Pitt sedeva impietrito al suo posto. Per lui era una vittoria, ma anche una sconfitta. La sua reputazione era stata fatta pubblicamente a brani. Ma il verdetto era giusto. Non aveva dubbi che Adinett fosse colpevole, benché non riuscisse assolutamente a capacitarsi del motivo per cui poteva aver commesso un'azione simile. Non solo, ma fra tutti i crimini sui quali aveva investigato, non ce n'era mai stato uno solo per il quale avrebbe voluto spontaneamente vedere un uomo sulla forca. Credeva nella punizione, sapeva che era necessaria, ma non aveva mai creduto nella soppressione di un essere umano, di qualsiasi essere umano, neanche di John Adinett. Lasciò l'aula e uscì dal tribunale incamminandosi per Newgate Street senza provare nessun senso di vittoria. 2 «Lady Vespasia Cumming-Gould» annunciò il valletto senza chiedere che gli venisse mostrato l'invito. Nessun domestico che conoscesse bene il proprio lavoro, a Londra, ignorava chi fosse. La donna più bella della sua generazione, e la più temeraria. Forse lo era ancora. Entrò oltrepassando la porta a doppiò battente è soffermandosi in cima allo scalone che con u-
n'ampia curva elegante conduceva giù alla sala da ballo già affollata, per tre quarti. Ma il mormorio fitto della conversazione diminuì per un momento. Perfino ora poteva attirare l'interesse generale. Non era mai stata schiava della moda, sapendo benissimo che tutto quanto le stava bene era infinitamente meglio di ciò che era l'ultimo grido in fatto di eleganza. Indossava una toilette di satin color ostrica guarnita di pizzi di Bruxelles, nella tonalità dell'avorio, al corpetto e alle maniche, e naturalmente, le perle. L'acconciatura dei suoi capelli d'argento sembrava quasi una corona e i suoi limpidi occhi grigi scrutarono la sala per un istante, prima che cominciasse a scendere lo scalone per salutare ed essere salutata. Conosceva quasi tutti i presenti che avevano superato i quarant'anni, né più né meno come loro conoscevano lei, magari soltanto di fama. C'erano amici, fra loro, e anche nemici. Le cause alle quali si era dedicata sembravano cambiate in quel mezzo secolo. Tutta la vita era cambiata e, in quel cinquantennio, un'epoca di passaggio, erano state combattute guerre terribili con innumerevoli vittime e si contavano molti scontri di idee e di opinioni che, probabilmente, ne avevano fatte ancora di più. Continenti si erano aperti e sogni di riforma erano nati e morti. Il signor Darwin aveva sollevato dei dubbi sulle origini della specie umana. Vespasia salutò inclinando lievemente la testa un'anziana duchessa, ma non si fermò a parlarle. Già da molto tempo si erano dette tutto quanto avevano da dirsi e nessuna delle due aveva voglia di ripetersi. Anzi, Vespasia si domandò perché mai quella donna fosse presente a un ricevimento diplomatico dove gli invitati sembravano un gruppo singolarmente eclettico, tanto che dovette riflettere un attimo per capire cos'avessero in comune. Poi si rese conto che era lo spettacolo, l'intrattenimento. Il principe di Galles era facilmente riconoscibile. Oltre al suo aspetto, con il quale aveva la massima familiarità in quanto lo aveva incontrato molte volte, lo si notava subito perché le persone che gli facevano cerchia intorno si tenevano a un po' di distanza e avevano un atteggiamento rispettoso. Indipendentemente da quanto la battuta di spirito poteva esser spiritosa o il pettegolezzo godibile, nessuno avrebbe mai osato stare gomito a gomito con l'erede al trono o permettersi di approfittare del suo buonumore. Era Daisy Warwick quella che gli rivolgeva un sorriso da lontano? Un po' sfacciata, si disse Vespasia. O forse presumeva che quella sera tutti fossero già al corrente della loro relazione intima e che a nessuno importasse in modo particolare. In ogni caso era innegabile che Daisy fosse molto bella e avesse una certa aria di eleganza degna di ammirazione.
Vespasia non aveva mai provato il desiderio di essere l'amante di un re. Era persuasa che i pericoli di una posizione simile fossero molto superiori ai vantaggi, per non parlare dei piaceri. In questo caso, non aveva mai provato né simpatia né antipatia per il principe di Galles, mentre le era piuttosto simpatica la principessa, povera donna, che soffriva di sordità, imprigionata in un mondo tutto suo pur essendo pienamente al corrente dell'indulgenza del marito per ogni genere di piacere. Ma una tragedia ben più grande, quell'anno, era stata la morte del suo figlio maggiore. Il duca di Clarence, come la madre, aveva sofferto anche lui di una grave sordità, un legame speciale che li aveva uniti, facendoli sentire più vicini in quel loro mondo quasi completamente silenzioso. Lei ne piangeva da sola la scomparsa. A poca distanza da Vespasia, il principe di Galles stava ridendo di cuore per qualcosa che gli raccontava un uomo alto, dal naso forte, un po' storto e dalla faccia vigorosa. Vespasia non lo aveva mai conosciuto personalmente, tuttavia sapeva chi era: Charles Voisey, giudice di corte d'appello, uomo di profonda cultura, immensamente rispettato dai suoi pari, e forse anche un po' temuto. Il principe di Galles la vide e la sua faccia s'illuminò di piacere. Era di una generazione più vecchia della sua, Vespasia, ma la bellezza lo aveva sempre incantato e ricordava bene gli anni nei quali era stata una famosa, splendente, bella donna, quando lui era ancora giovane e pieno di speranza. Adesso era stanco di aspettare, stanco della responsabilità senza il rispetto e le compensazioni di chi è sul trono. Chiese scusa a Voisey e avanzò verso di lei. «Lady Vespasia, come sono lieto che siate potuta venire! La serata avrebbe mancato di una certa qualità senza di voi.» Lei incrociò il suo sguardo, prima di abbozzare un inchino. «Grazie, altezza reale. È una splendida occasione.» Per un momento pensò che, effettivamente, più splendido di così il ricevimento non avrebbe potuto essere, per quanto in quell'epoca ce ne fossero molti altri non meno eccentrici, dove numerosi camerieri servivano cibo in abbondanza e i vini migliori, e c'erano musica e lampadari scintillanti di luci e fiori freschi a centinaia. Eppure quante altre occasioni del passato erano state accompagnate da risate più liete, da una gioia maggiore, e a un costo infinitamente più basso. Lei le ricordava con nostalgia. Ma il principe di Galles viveva molto al di sopra dei suoi mezzi, e lo aveva fatto per anni. Nessuno si meravigliava più degli affollatissimi ricevimenti che dava, dei fine settimana di caccia, delle giornate alle corse dove, facendo scommesse, si perdevano o si gua-
dagnavano immense fortune, delle sue cene interminabili oppure dei regali ultra-generosi ai suoi favoriti. «Conoscete Charles Voisey?» domandò il principe. Voisey era al suo fianco, come la cortesia richiedeva. «Voisey, lady Vespasia CummingGould. Ci conosciamo da più tempo di quanto si preferisca ricordare. Potremmo condensarne le memorie allo stesso modo in cui si fa rientrare un telescopio. Toglierne tutte le parti noiose e conservare soltanto le risate e la musica, le buone cene, le conversazioni, forse qualche ballo.» Lei sorrise. «Erano anni che non sentivo un suggerimento migliore, altezza» disse con entusiasmo. «Non mi importerebbe nemmeno che ne facessero parte discussioni e bisticci... Basterebbe eliminare solamente le ore di noia, lo scambio di battute inutili e insignificanti, le menzogne cortesi... Ci riporterebbe indietro di anni e anni.» «Come avete ragione! Fino a questo momento non mi ero reso conto di quanto mi siete mancata. Mi rifiuto di farlo succedere di nuovo. Passo anni della mia vita a compiere il mio dovere. Facciamo osservazioni assolutamente prevedibili, aspettiamo che il nostro interlocutore risponda e poi procediamo oltre per avere, da quello successivo, una risposta altrettanto prevedibile.» «Temo che questo faccia parte dei doveri regali, altezza» interloquì Voisey. «Almeno finché abbiamo un trono e un monarca che lo occupa. Non riesco a pensare in che modo questo potrebbe venire cambiato.» «Voisey è giudice di corte d'appello» spiegò il principe a Vespasia. «Suppongo che questo faccia di lui un esperto sulle priorità e i precedenti. Se non è mai stato fatto prima, allora è meglio non farlo adesso.» «Al contrario. Io sono totalmente a favore delle nuove idee, se sono buone. Rinunciare a progredire equivale a morire.» Vespasia si volse a guardarlo con interesse. Era un punto di vista insolito per un uomo la cui professione era tanto legata al passato. Ma il principe stava già pensando a qualcos'altro. La sua ammirazione per le idee degli altri era limitata. «Ma, certo» ribadì, accantonando l'argomento con disinvoltura. «È incredibile il numero delle nuove invenzioni che ci sono in giro. Dieci anni fa non avremmo neanche potuto immaginare quello che adesso siamo in grado di fare con l'elettricità.» Voisey fece un lieve sorriso, fissando ancora per un momento Vespasia prima di rispondere. «Verissimo, altezza. Ci si domanda cosa vedremo arrivare ancora.» Era cortese, ma a lei non sfuggì la sfumatura di disprezzo che gli venava la voce. Era un uomo fatto per le idee, le concezioni gran-
diose, le rivoluzioni dello spirito. I particolari non si addicevano al suo interesse: erano per uomini di ben più modesta statura. Vennero raggiunti da un noto architetto e da sua moglie, e la conversazione diventò generale. Così Vespasia poté chiedere scusa e ritirarsi per andare a parlare con un uomo politico che conosceva da anni. In passato avevano combattuto fianco a fianco in molte crociate, affrontando il trionfo e la tragedia, e anche una buona dose di farsa. «Buonasera, Somerset» disse con sincero piacere. Aveva quasi dimenticato il profondo affetto provato nei suoi confronti. «Lady Vespasia!» Gli occhi di lui si illuminarono. «Finalmente un alito di sanità mentale.» Prese la mano che lei gli porgeva, sfiorandola appena con le labbra. «Vorrei che potessimo combattere una nuova crociata, ma credo che sia al di là del possibile anche per noi.» Girò gli occhi intorno a sé, al salone sontuoso e al numero crescente di uomini e donne che lo affollavano, ai brillanti che scintillavano, alla luce che metteva in risalto le pelli d'avorio, le ricche guarnizioni di pizzo, i broccati lucenti. I suoi occhi si indurirono. «Tutto questo si distruggerà da solo... se nel giro di un paio d'anni non si ritroverà il buonsenso.» C'era rimpianto nella sua voce, e anche confusione. «Come fanno a non accorgersene?» «Lo pensate davvero?» Lui si volse a guardarla. «Se Bertie non riduce energicamente le sue spese...» inclinò per un attimo la testa verso il principe di Galles a una decina di metri di distanza, che era scoppiato in risate scroscianti per una battuta detta da qualcuno. «E se la Regina non torna a partecipare alla vita pubblica e ricomincia a corteggiare il suo popolo.» Carlisle abbassò la voce. «Molti di noi soffrono per grandi dolori, Vespasia. Molti di noi hanno perduto qualcosa che amavano. Ma non possiamo arrenderci... né smettere il nostro lavoro per questo motivo. Uomini muoiono e donne si ritrovano con il cuore spezzato. Ma andiamo avanti.» All'estremità opposta della sala era cominciata la musica. Intorno a loro si udì un tintinnio di bicchieri. «Non si può guidare un popolo se ci si tiene a distanza. Lei non è più una di noi. Si è già lasciata diventare un'estranea. Mentre Bertie è fin troppo uno di noi, con i suoi appetiti... Solo che non se li concede spendendo del proprio, come noialtri siamo costretti a fare.» Vespasia sapeva fino a che punto fosse vero ciò che lui stava dicendo, ma non aveva mai sentito nessuno esprimerlo in modo tanto temerario. Somerset Carlisle diventava un irresponsabile, quando voleva essere spiritoso. Ma nello stesso tempo lei lo conosceva troppo bene per pensare che,
in quel momento, scherzasse o fosse un po' troppo portato all'esagerazione. «Vittoria sarà l'ultima sovrana» riprese lui quasi sottovoce, con una sfumatura di amaro rimpianto. «Nel Paese serpeggia un'inquietudine più profonda di quanta ne abbiamo mai avuto nei due secoli passati, se non prima ancora. In certi luoghi c'è una povertà quasi inconcepibile, per non parlare del sentimento anti-cattolico e della paura degli ebrei liberali, arrivati a Londra dopo le rivoluzioni del '48 in Europa. E poi ci sono sempre gli irlandesi, naturalmente.» «Proprio così» convenne lei. «Abbiamo sempre avuto gran parte di questi elementi. Perché proprio adesso, Somerset?» Lui rimase in silenzio per qualche attimo. «Di sicuro non lo so» si decise a rispondere poi. «Un miscuglio di cose. Il tempo. Sono passati quasi trent'anni dalla morte del principe Alberto. Ed è un periodo lungo da vivere senza un monarca effettivo. Abbiamo un'intera generazione che sta cominciando ad accorgersi come si possa tirare avanti abbastanza bene facendone a meno. Personalmente, non sono d'accordo. Credo che anche la pura e semplice esistenza di un sovrano, che faccia qualcosa o no, è una salvaguardia contro molti degli abusi di potere dei quali forse non ci accorgiamo semplicemente perché abbiamo avuto tanto a lungo quello scudo che ci riparava. Una monarchia costituzionale, naturalmente. Il primo ministro dovrebbe essere il cervello della nazione, e il sovrano il cuore. Considero molto saggio non averli uniti in una sola figura.» Abbozzò un sorrisetto amaro. «Significa che possiamo cambiare idea quando ci accorgiamo di aver sbagliato.» «Ma significa anche quello che noi siamo oggi» disse lei, parlando a bassa voce come il suo compagno. «Abbiamo avuto un trono per mille anni e il concetto di monarchia risale a molto prima ancora. Non credo che cambiare m'interessi.» «Neanche a me.» Tutto d'un tratto lui le rivolse un sorriso che gli illuminò la faccia di malizia sbarazzina. «Sono troppo vecchio per cose del genere!» disse, e aveva, come minimo, trentacinque anni meno di lei. Si unì a loro un uomo magro e snello, poco più alto di Vespasia, con un ciuffo di capelli scuri che stavano diventando brizzolati alle tempie. Aveva gli occhi scurissimi, il naso lungo e una bocca espressiva, segnata ai lati da rughe profonde. E un'aria intelligente, ironica, un po' distaccata e stanca, come se avesse visto fin troppo della vita e la sua capacità di compatire il prossimo si fosse ormai logorata. «Buonasera, Narraway.» Carlisle lo squadrò con interesse. «Lady Ve-
spasia, posso presentarvi Victor Narraway? È a capo del Reparto speciale. Non sono sicuro se debba essere considerato un segreto o no, ma voi conoscete almeno una ventina di persone a cui chiederlo, casomai lo giudicaste importante.» Narraway s'inchinò mormorando le frasi d'uso in una presentazione. «Vi credevo troppo impegnato a scovare anarchici per venir qui a perdere tempo fra chiacchiere e danze» aggiunse Carlisle in tono secco. «Per stanotte l'Inghilterra è al sicuro, o sbaglio?» Narraway sorrise. «Non tutti i pericoli sono in agguato nei vicoli bui di Limehouse» rispose. «Per essere un'autentica minaccia dovrebbero avere tentacoli ben più lunghi.» Vespasia si mise a osservarlo con attenzione, cercando di valutare se anche lui credesse in quello in cui Carlisle credeva, ma non riuscì a separare il divertimento dalla tristezza nei suoi occhi. Un minuto più tardi lui stava già facendo qualche commento sul ministro degli esteri, la conversazione passò ad altri argomenti e diventò banale. Un'ora più tardi, mentre si sentiva in sottofondo la dolce e ben cadenzata melodia di un valzer, Vespasia stava godendosi un eccellente champagne, seduta un po' in disparte da sola, quando si rese conto di avere il principe di Galles a pochi metri di distanza, assorto nella conversazione con un uomo di mezz'età dalla corporatura robusta, il viso simpatico e grave e una folta capigliatura che stava facendosi più rada in cima alla testa. Sembrava che parlassero di zucchero. «È così, vero, Sissons?» chiese il principe. L'espressione della sua faccia rivelava la cortesia ma uno scarsissimo interesse. «In massima parte attraverso il porto di Londra. Naturalmente è un'industria che richiede moltissima manodopera.» «Davvero? Non ne avevo idea, lo confesso. Suppongo che lo zucchero sia qualcosa la cui utilità è data per scontata. Un cucchiaio di zucchero per il tuo tè, e così via.» «Già; ma lo zucchero si adopera per una quantità di altre cose. Ed è soprattutto la manodopera che ne fa aumentare il costo, capite?» «Chiedo scusa, cosa state dicendo?» «La manodopera, altezza» ripeté Sissons. «Ecco perché la zona di Spitalfields è buona. Migliaia di uomini che hanno bisogno di lavoro... un autentico pozzo senza fondo al quale si può attingere quasi all'infinito. Volatile, naturalmente.» «Volatile?» A quanto pareva, il principe cominciava a non seguirlo più. Vespasia, intanto, si era accorta che altri, a portata d'orecchio di questo
scambio di parole apparentemente insulso, stavano ascoltandolo come lei. Fra questi, lord Randolph Churchill, del quale conosceva l'intelligenza e la dedizione al credo politico che professava. «Mutevole, incostante, un gran crogiolo di popoli» stava spiegando Sissons. «Ambienti da cui provengono, religioni è così via. Cattolici, ebrei e irlandesi, naturalmente. Una quantità di irlandesi. Il bisogno di lavorare è, praticamente, tutto ciò che hanno in comune.» «Già, capisco.» «Ma occorre che sia rimunerativo» continuò Sissons, e intanto la sua voce assumeva un tono incalzante e la sua faccia si era fatta più colorita. «Be', immagino che con un paio di stabilimenti voi siate nella miglior posizione per saperlo» disse il principe e sorrise amabilmente come se volesse chiudere l'argomento. «No!» ribatté l'uomo con asprezza, facendo un passo avanti mentre il principe, contemporaneamente, si spostava un po' indietro. «In effetti le mie fabbriche sono tre. Ma quel che intendevo dire non è tanto che il lavoro è rimunerativo, ma che per me costituisce un grande obbligo renderlo tale, altrimenti più di un migliaio di uomini rimarrebbero disoccupati e il caos sarebbe spaventoso.» Adesso le parole gli uscivano di bocca sempre più in fretta. «Non mi azzarderei neanche a immaginare come si andrebbe a finire. Non in quella parte della città. Vedete, per loro non c'è nessun altro posto dove andare.» «Andare?» Il principe corrugò la fronte. «E perché dovrebbero aver voglia di andarsene di lì?» Vespasia si sentì accapponare la pelle. Aveva un'idea molto chiara della povertà addirittura allucinante di certi quartieri di Londra, soprattutto nell'East End di cui Spitalfields e Whitechapel erano il cuore. «Voglio dire per lavorare.» Sissons stava cominciando a mostrarsi agitato. Lo rivelavano le gocce di sudore sulla sua fronte e sul labbro, che luccicavano sotto il fulgore dei lampadari. «Senza lavoro, moriranno di fame. E Dio solo sa se, già adesso, non ci sono abbastanza vicini.» Il principe non disse niente. Era visibilmente imbarazzato. L'argomento pareva assolutamente inadatto davanti a un'esibizione tanto stupenda e sontuosa di tutto quanto poteva dare piacere. Era di cattivo gusto ricordare a uomini con coppe di champagne in mano, e a donne coperte di brillanti, che a pochi chilometri da loro migliaia di persone non avevano niente da mangiare né un posto dove dormire. Li metteva a disagio. «È necessario che io, con le mie aziende, rimanga in attività!» La voce
di Sissons si alzò di un tono e cominciò a farsi sentire al di sopra del brusio della conversazione generale e al ritmo della musica lontana. «Devo avere la sicurezza che posso ricuperare tutti i miei crediti in modo da poter anche continuare a pagarli.» Il principe non nascondeva il proprio enorme stupore. «Naturale... Sì, così dev'essere. Molto coscienzioso, non ne dubito.» Sissons deglutì. «Tutti i miei crediti, altezza.» «Sì... senz'altro.» Il principe, adesso, sembrava decisamente a disagio e il suo desiderio di venir fuori in qualche modo da quell'assurda situazione era addirittura palpabile. Randolph Churchill si prese la libertà di intervenire. Vespasia non ne rimase sorpresa. Sapeva che i suoi rapporti con il principe di Galles erano di lunga data, anche se avevano avuto molti alti e bassi. Avevano toccato il massimo dell'odio reciproco nel 1876, all'epoca dell'affare Aylesford, con la sfida a un duello alla pistola da parte del principe. Poi il dramma si era sgonfiato, finendo a poco a poco in niente. E c'era di più: Jennie Churchill, la moglie di Randolph, aveva affascinato talmente il principe che lui aveva accettato di andare a cena spesso da loro in Connaught Place, e si era messo a farle doni generosi. Randolph aveva riacquistato il suo favore. Non solo, ma da quand'era stato nominato leader alla Camera dei Comuni e cancelliere dello Scacchiere, due delle cariche più alte del paese, era anche il più intimo confidente del principe con il quale partecipava ad avvenimenti sportivi e mondani e al quale dava consigli, ricevendone in cambio elogi e piena fiducia. Adesso si fece avanti per metter fine a una situazione fastidiosa. «Ma certo che dovete farlo... ehm... Sissons» disse giovialmente. «È l'unico modo di mandare avanti un'impresa, vero? Ma questo è il tempo dell'allegria e del piacere. Bevete un altro po' di champagne, è eccellente.» Si rivolse al principe. «Devo congratularmi con voi, altezza: una scelta squisita.» Il principe si rasserenò considerevolmente. «Sembra anche a me?» «Veramente superbo» ribadì Churchill, con un sorriso. Era vestito con raffinata eleganza, di statura media, fattezze regolari e un paio di folti baffi con le punte arricciate all'insù che gli davano un'aria particolarmente distinta. «A parer mio richiederebbe anche qualcosa di succulento da mangiare, per apprezzarlo meglio. Posso provvedere a farvi servire qualcosa, altezza?» «No... no, vengo io con voi.» Il principe approfittò della proposta per
squagliarsela. «Fra l'altro, dovrei andare a parlare con l'ambasciatore francese. Un'ottima persona. Vi prego di scusarci, Sissons» disse, e si allontanò con Churchill troppo in fretta perché Sissons potesse far qualcosa di più che mormorare una frase incomprensibile fra i denti e prendere congedo. «Pazzo» mormorò Somerset Carlisle, apparendo al fianco di Vespasia. «Chi? L'uomo dello zucchero?» «No, a quanto io sappia. Noioso da morire, ma se bastasse solo quello a far giudicare qualcuno un malato mentale, allora bisognerebbe rinchiudere una buona metà del paese.» «Oh, certo» disse lei con apparente indifferenza. «Ma non siete il primo a dirlo, sapete? Chi è quell'uomo con i capelli grigi e l'aria passionale di chi prende tutto troppo sul serio?» Girò la testa allungando un'occhiata in una certa direzione per indicare a Carlisle la persona a cui alludeva. «Non ricordo di averlo mai visto prima, ma trasuda una tale esaltazione che sembra quasi un predicatore protestante.» «È il proprietario di un quotidiano. Thorold Dismore. Dubito che approverebbe la vostra descrizione. È un ateo convinto. Non credo che abbiate mai letto il suo giornale. Di buona qualità, ma non è contrario a lasciar filtrare le sue opinioni personali un po' troppo chiaramente.» «Davvero?» Lei alzò le sopracciglia con aria interrogativa. «E perché questo dovrebbe impedirmi di leggerle? Ce n'è qualcuna più clamorosa di quanto ci si potrebbe aspettare?» «Direi di sì. E non è neanche contrario a sostenere la necessità di agire per difenderle.» «Oh.» A Vespasia parve di sentire quasi un brivido di gelo. Non avrebbe dovuto esserne meravigliata. Scrutò meglio quell'uomo. Aveva una faccia forte, intelligente, intensa, come se fosse animato da emozioni profonde. Lo giudicò d'istinto un tipo che non cedeva neanche un centimetro di terreno a nessuno e la cui bonomia superficiale poteva mascherare un temperamento che, una volta scatenato, rischiava di essere pericoloso. Ma le prime impressioni potevano anche essere sbagliate. «Avreste piacere di conoscerlo?» domandò Carlisle incuriosito. «Magari. Ma non voglio che lui lo capisca.» «State tranquilla, farò in modo che non se lo immagini neanche. Io ve lo presenterò, ma lui continuerà a essere convinto che l'idea è stata sua, e mi sarà infinitamente grato.»
«Somerset, state diventando impertinente» replicò lei, accorgendosi di come gli fosse affezionata. Era temerario, originale, e abbracciava le cause in cui credeva con il fervore più totale. Ma a lei i tipi eccentrici erano sempre piaciuti. Era mezzanotte ormai passata e Vespasia stava cominciando a chiedersi se avesse davvero voglia di rimanere ancora per molto quando sentì una voce che la fece tornare di colpo a un'estate indimenticabile di mezzo secolo prima, quella del 1848, anno delle rivoluzioni in tutta Europa, a Roma. Per un periodo pieno di scatenata euforia, anche se troppo breve, i sogni di libertà si erano diffusi, dilagando come fuoco attraverso Francia, Germania, Austria-Ungheria e Italia. Poi a uno a uno erano stati spenti e soffocati. Le riforme erano state negate, abbattute e calpestate sotto i piedi delle truppe. A Roma erano state quelle francesi, di Napoleone III. Quasi non si degnò di voltarsi. Di chiunque si trattasse, poteva essere soltanto un'eco, uno scherzo della memoria. Era persuasa di avere dimenticato non soltanto lui, ma quell'intero anno tumultuoso con la sua passione e la speranza, il coraggio e il dolore, e alla fine la perdita di ogni cosa. Da allora in poi era tornata in Italia, però mai a Roma. Aveva sempre trovato un modo per evitarlo senza spiegarne il perché. Quella era stata una parte separata della sua esistenza, del tutto diversa dalle realtà del matrimonio, dei figli, di Londra, perfino delle recenti avventure nelle quali l'aveva coinvolta quel poliziotto straordinario che si chiamava Thomas Pitt. Ma alla fine si voltò. E non tanto per convinzione, quanto per un istinto incontrollato. A pochi metri da lei c'era, in piedi, un uomo più o meno della sua età. Era sui vent'anni, quando lo aveva conosciuto, la figura slanciata, agile e snella come quella di un ballerino, bruno e con una voce che aveva colmato a lungo i suoi sogni. Adesso aveva i capelli grigi ed era un po' appesantito, ma la sua figura era sempre la stessa, come l'arco delle sopracciglia e il sorriso. Si volse verso di lei quasi come se avesse sentito il suo sguardo, trascurando per un momento l'uomo con cui chiacchierava. La riconobbe all'istante, senza nessuna esitazione. Poi si sentì intimorita. Poteva mai la realtà essere all'altezza dei ricordi? Poteva la donna della sua gioventù assomigliare, sia pure alla lontana, a quella che lei era oggi? Aveva proprio bisogno di rivederlo, animato da una passione della giovinezza, con il sole romano sul volto, un'arma da fuoco in mano, in piedi sulle barricate, pronto a morire per la repubblica?
Le stava venendo incontro. Si sentì travolgere da un panico violento come un'ondata, ma l'abitudine di una vita intera all'autodisciplina e un'assurda speranza le impedirono di andarsene. Le si fermò davanti. Si accorse di avere il cuore in gola. Aveva amato molte volte nella sua vita, ora con ardore, ora con allegria, di solito con tenerezza, però non aveva mai amato nessuno come Mario Corena. «Lady Vespasia.» Lui pronunciò quelle parole in tono formale, cerimonioso, come se fossero semplici conoscenti, ma la sua voce era morbida. Quello era il titolo che le spettava. Il titolo corretto. Doveva rispondere altrettanto correttamente? Dopo tutto quello che avevano condiviso, sembrava quasi come se avesse voluto rinnegarlo. Non c'era nessuno ad ascoltare. «Mario...» Era strano pronunciare di nuovo il suo nome. L'ultima volta lo aveva bisbigliato al buio, con la gola chiusa dal pianto, le guance bagnate di lacrime. Le truppe francesi stavano marciando in Roma. Mazzini si era arreso per salvare la popolazione. Garibaldi era partito verso il nord e Venezia, con la moglie incinta che combatteva al suo fianco, vestita da uomo, armata anche lei di un moschetto. Il Papa era ritornato e aveva respinto tutte le riforme. Ma tutto questo ormai faceva parte del passato. L'Italia, adesso, era unita. Lui la stava osservando. Vespasia si augurò che non dicesse che era ancora bellissima, Mario era l'unico uomo per il quale questo non avrebbe mai avuto importanza. «Ho immaginato spesso di incontrarti di nuovo» le disse infine. «Non ho mai pensato che succedesse... fino a oggi. Sono arrivato a Londra una settimana fa. Non avrei potuto rimanere qui senza pensare a te. Ho bisticciato con me stesso chiedendomi se dovessi cercare tue notizie o se non fosse meglio lasciare i sogni intatti. Poi qualcuno ha menzionato il tuo nome e il passato mi è tornato alla memoria come se fosse soltanto ieri, e non ho più avuto la forza di negarmelo. Pensavo che saresti stata qui.» Girò gli occhi intorno a sé contemplando lo splendido salone con le sue lisce colonne, i lampadari abbaglianti di luce, l'ebbrezza che davano la musica, le risate e il vino. Lei capì al volo. Questo era il suo mondo, un mondo di ricchezza e di privilegi, eredità degli antenati. Come sarebbe stato facile rievocare le antiche battaglie! Ma non voleva. Aveva creduto nel modo più totale e disperato, come lui, nella rivoluzione a Roma. E per la rivoluzione aveva anche lottato e discusso, aveva lavorato giorno e notte negli ospedali durante l'assedio, portato acqua e viveri ai soldati, e alla fine si era messa perfino a caricare i fucili al fianco degli ultimi difensori. E aveva capito perché, in ul-
tima analisi, dovendo scegliere tra lei e l'amore per la repubblica, lui avesse scelto i suoi ideali. Un dolore, questo, che non l'aveva mai abbandonata completamente, perfino dopo tanti anni; ma sarebbe stato peggio se la scelta di Mario fosse stata differente. Non avrebbe più potuto amarlo allo stesso modo. «Tu hai un vantaggio. Mai e poi mai, neanche nei miei sogni più folli, avrei pensato di trovarti qui, spalla a spalla con il principe di Galles.» Gli occhi di lui erano colmi di tenerezza. «Touché» ammise. «Ma il campo di battaglia, adesso, è ovunque.» «Lo è sempre stato, mio. È più complicato qui. Pochi problemi sono semplici come ci sembravano a quell'epoca.» Lo sguardo di lui non ebbe un palpito. «Erano semplici.» Vespasia pensò com'era cambiato poco. Solo le cose superficiali: il colore dei capelli, le rughe lievi sulla pelle. Interiormente poteva forse essere più saggio, ma ardeva appassionatamente della stessa speranza, continuava ad avere tutti gli antichi sogni. Aveva dimenticato come l'amore potesse essere tanto devastante. «Volevamo una repubblica» continuò. «Una voce per il popolo. È stato semplice da immaginare, semplice da fare quando abbiamo avuto il potere... per un breve periodo, prima che la tirannia ritornasse.» «Non ne avevate i mezzi» gli ricordò lei. Un lampo di dolore gli illuminò la faccia. «Lo so.» Girò gli occhi per il lussuoso salone in cui si trovavano. «Basterebbero soltanto i diamanti che ci sono qui dentro a garantircelo per mesi. Quanta roba pensi che venga servita agli invitati, in una settimana di banchetti come questo? Quanta se ne mangia, e quanta viene buttata via?» «Quanta basterebbe per dar da mangiare ai poveri di Roma.» «E ai poveri di Londra?» La voce di Vespasia, quando gli rispose, vibrava dell'amarezza della verità. «No, per quelli non sarebbe abbastanza.» Mario Corena rimase in silenzio a osservare la folla che li circondava, il volto stanco e deluso per la lunga battaglia contro la cecità del cuore. Vespasia rimase a osservarlo. Perché era a Londra? Voleva proprio saperlo? Forse no. Questo momento era dolce. Lì, fra il lusso e lo splendore del salone da ballo rumoroso e frivolo, le pareva di sentirsi il caldo sole romano sulla faccia, averne gli occhi abbacinati... e immaginare sotto i piedi quel lastricato di pietra che aveva risuonato del passo delle legioni andate alla conquista di ogni angolo della terra. No, non voleva che il passato venisse sopraffatto dal presente. No, non gliel'avrebbe domandato.
Poi quell'attimo passò e non furono più soli. Un certo Richmond si avvicinò a salutarli cortesemente, presentò sua moglie; dopo un minuto Charles Voisey e Thorold Dismore li raggiunsero e la conversazione diventò generale. Rimase banale e appena appena divertente fino a quando la signora Richmond fece qualche commento sull'antica Troia e l'emozione suscitata dalle scoperte di Heinrich Schliemann. «E le cose che hanno scoperto!» continuò con entusiasmo. «La maschera di Agamennone, la collana che forse aveva portato Elena... li fa sembrare tutti così vivi e reali... in un modo che non avevo mai immaginato, proprio di carne e ossa, come gente qualsiasi...» «È possibile» fu il commento di Voisey, un po' cauto. «Oh, secondo me rimangono ben pochi dubbi!» protestò lei. «Non vi è mai capitato di leggere qualcuno di quei saggi meravigliosi che ha scritto Martin Fetters? È brillante, sapete? Riesce a rendere tutto così vivo, immediato...» Ci fu un momento di silenzio. «Sì» commentò Dismore bruscamente. «È una grande perdita.» «Oh!» La signora Richmond arrossì violentemente, «Avevo dimenticato. Che cosa terribile. Mi dispiace. Lui è... caduto...» s'interruppe, perché era chiaro che non sapeva più come continuare. «Certo che è caduto! Dio solo sa come una giuria possa essere arrivata a quelle conclusioni. È assurdo, e nel modo più palese. Ma andranno in appello, e il verdetto sarà rovesciato.» Guardò Voisey. Anche Richmond si voltò a guardarlo. Voisey ricambiò il suo sguardo. Mario Corena sembrava sconcertato. «Spiacente, Corena, non posso esprimere la mia opinione» disse Voisey con voce squillante. Era pallido, le labbra strette. «Sarò quasi sicuramente uno dei giudici che dovranno occuparsene quando la causa arriverà in appello. Comunque, c'è una cosa che so di sicuro. Quel maledetto Pitt è un uomo ambizioso e irresponsabile, pieno di livore contro chiunque sia di una condizione sociale migliore della sua. L'arroganza degli ignoranti quando si vedono offrire una piccola responsabilità fa veramente spavento.» Vespasia ebbe l'impressione di essere stata schiaffeggiata. Per un attimo rimase ammutolita. Aveva sentito la rabbia nella voce di Voisey, aveva visto il lampo che illuminava i suoi occhi. Ma era furiosa quanto lui. «Non sapevo che lo conosceste» disse gelida. «D'altra parte, sono sicura che un
magistrato come voi giudichi ogni uomo indipendentemente dalla nascita o dalla sua condizione sociale, limitandosi alle prove più accuratamente confermate. La giustizia dev'essere uguale per tutti, altrimenti non è più giustizia.» La sua voce trasudava sarcasmo. «Quindi devo presumere che ne abbiate una conoscenza molto migliore della mia.» Sotto le lentiggini, la pelle di Voisey era diventata livida. Sussultò e aprì la bocca come se volesse rispondere, ma non disse una sola parola. «È mio parente per via di matrimonio» concluse Vespasia. Il suo pronipote, ora defunto, era stato cognato di Pitt. «Spiacevole» disse infine Dismore nel silenzio che seguì. «Probabilmente stava semplicemente facendo il suo dovere... come lo intende lui. Comunque, non c'è dubbio che in appello il verdetto sarà rovesciato.» «Ah... sì» mormorò Richmond. «Su questo non ci sono dubbi.» Voisey continuò a rimanere chiuso nel suo riserbo. 3 Erano passate poco più di tre settimane e Pitt, tornato a casa più presto del solito da Bow Street, stava lavorando qua e là per il giardino. Maggio era uno dei mesi più belli, con i suoi teneri boccioli, le foglie nuove, la fioritura dei tulipani dai colori brillanti e il profumo intenso dei rampicanti lungo il muro. Stava ammirando tutto quello splendore con la speranza che Charlotte mettesse fine alle faccende casalinghe e venisse a raggiungerlo. Così, quando sentì la porta-finestra che si spalancava, si voltò tutto allegro. Ma a venirgli incontro attraverso il prato c'era, invece, Ardal Juster, e la sua faccia olivastra era tetra e corrucciata. Il primo pensiero di Pitt fu che in appello i giudici avessero scoperto qualche irregolarità di procedura e il verdetto fosse cambiato radicalmente. Era convinto, comunque, che non fossero venute fuori nuove prove. Juster gli si fermò davanti. Rivolse un'occhiata alle aiuole fiorite e poi alle lame di luce del sole che filtravano fra il fogliame del castagno in fondo al prato. Inalò profondamente quella fragranza di terra umida e di boccioli in fiore. Pitt stava già per spezzare quella tensione e quel silenzio quando Juster parlò. «L'appello di Adinett è fallito» disse a voce bassa. «Domani lo pubblicheranno anche i giornali. Un verdetto di maggioranza, quattro a uno. Lo ha pronunciato Voisey, uno dei quattro. L'unica voce dissenziente è stata quella di Abercrombie.» Pitt non riusciva a capire. Sembrava che Juster gli avesse portato la noti-
zia di una sconfitta, non di una vittoria. Lui era convinto, e senza il minimo dubbio, che Adinett avesse commesso un omicidio però lo aveva sempre preoccupato il fatto di non riuscire a immaginare quale fosse stato il suo movente. Era logico che, se avessero saputo tutta la verità, le cose avrebbero avuto un altro aspetto. Sotto il sole della sera la faccia di Juster era pallida per l'ansia. Anche i suoi occhi apparivano spenti. «Lo manderanno sulla forca.» Fu Pitt a esprimere a parole la realtà dei fatti. «Non c'è dubbio» rispose Juster. Si cacciò le mani nelle tasche, sempre incupito. «Ma non è per questo che sono venuto. Leggerete tutto sui giornali domani, e comunque siete al corrente di tutto quanto è successo né più né meno come me. Sono venuto a mettervi in guardia.» Pitt trasalì. E benché l'aria della sera fosse tiepida, in cuor suo si sentì agghiacciare. Juster si morse un labbro. «Non c'era niente di sbagliato nel verdetto di colpevolezza, ma sono molte le persone che non riescono a capacitarsi come una persona dello stampo di John Adinett abbia davvero assassinato Fetters. Se avessimo potuto fornirgli un movente, forse lo avrebbero accettato. Non alludo all'uomo della strada, perfettamente soddisfatto che giustizia sia stata fatta. Alludo agli uomini della stessa classe sociale di Adinett, agli uomini di potere.» «Se non hanno cambiato radicalmente il verdetto, significa che la legge accetta non soltanto la sua colpa ma anche che il processo si sia svolto nella massima correttezza. Potranno piangere per la sua sorte, ma cos'altro gli resta da fare?» «Possono punirvi per la vostra temerarietà» rispose Juster con un sorriso amaro. «E forse puniranno anche me, ma dipenderà dal peso che possono dare alle scelte che ho fatto nella mia qualità di pubblico ministero.» Un venticello tiepido fece frusciare le foglie del castagno e una dozzina di storni si levarono vorticando nell'aria. «Credevo che mi avessero già scaraventato addosso tutti gli insulti possibili e immaginabili quando ero sul banco dei testimoni» replicò Pitt ricordando con una fitta di rabbia le accuse contro suo padre. Lo avevano colto tanto di sorpresa da farlo soffrire ancora adesso. Juster adesso aveva l'aria imbarazzata, le guance un po' arrossate. «Mi spiace, Pitt. Credevo di avervi messo in guardia già abbastanza, ma adesso non ne sono più così sicuro. La faccenda non è finita, tutt'altro.» «Cosa possono fare ancora?» «Non so, ma Adinett ha amici potenti... non potenti abbastanza per salvarlo, ma da prendere molto male questa sconfitta. Vorrei potervi prepara-
re a quello che vi aspetta, ma non lo so neanch'io.» «Non avrebbe cambiato niente» disse Pitt con franchezza. «Se non si esercita un'azione penale perché l'accusato gode di amicizie altolocate, la giustizia non ha più nessun valore, e neanche noi.» Juster sorrise con amarezza, gli angoli della bocca incurvati all'ingiù. Gli tese la mano. «Se posso essere d'aiuto, chiamatemi. So anche fare l'avvocato difensore né più né meno come il pubblico ministero.» «Grazie» rispose Pitt. Era un'ancora di salvezza della quale avrebbe potuto aver bisogno. Juster glielo confermò con un cenno del capo. «Mi piacciono i vostri fiori. Cosi bisogna coltivarli, con tanto colore a profusione, senza un ordine preciso. Non sopporto i fiori tutti ben dritti, in fila. Oltre al resto, se ne vedono troppo facilmente le pecche.» Pitt si costrinse a sorridere: «È quello che penso anch'io.» Insieme, rimasero a respirare con piacere l'aria della sera, a godersi i colori del giardino, il pigro ronzio degli insetti, il suono di risate infantili in lontananza e il cinguettio degli uccelli. I quotidiani del mattino si rivelarono né più né meno come Pitt temeva. Annunciavano a caratteri di fuoco che la richiesta di appello da parte di Adinett era stata respinta e che l'esecuzione capitale sarebbe avvenuta tre settimane dopo. Ma subito sotto il trafiletto che dava la notizia, dove a nessuno avrebbe potuto sfuggire, veniva pubblicato un lungo articolo di Reginald Gleave che aveva difeso Adinett e dichiarava con estrema chiarezza di credere tuttora nella sua innocenza; parlava del verdetto come di uno dei peggiori insuccessi della giustizia inglese dell'intero secolo, non criticava i magistrati della corte d'appello pur dedicando qualche parola scortese al giudice del processo originario, ma era più accomodante con la giuria che considerava composta di uomini che ignoravano le sottili pieghe della legge e che, senza accorgersene, erano stati indotti a sbagliare da quelli che lui riteneva i veri colpevoli. Uno di questi era Ardal Juster. L'altro, il maggior colpevole, era Pitt, "...un uomo di un fanatismo pericoloso che ha abusato dei poteri del suo ufficio per mettere in atto una vendetta privata contro le classi più alte in seguito a un'imputazione di furto fatta a suo padre quando lui aveva ancora un'età in cui non si poteva capire la necessità di cose simili. Da allora in poi, ha sempre sfidato l'autorità in tutti i modi possibili e immaginabili, e adesso è un ambizioso che deve mantenere una moglie dai gusti dispendiosi e aspira a comportarsi, lui stesso, da gentiluomo. Ma i funzionari che custodiscono la legge devono essere
imparziali e non devono né temere né favorire nessuno. Ecco l'essenza della giustizia, che è anche, in conclusione, l'unica libertà." L'articolo continuava più o meno sullo stesso tono, ma lui lo scorse rapidamente. Charlotte, che gli sedeva di fronte al tavolo della prima colazione, lo stava fissando con il cucchiaio della marmellata in mano. Cosa doveva dirle? «Thomas?» La voce di lei s'insinuò fra i suoi pensieri. «Reggie Gleave ha scritto un pezzo piuttosto maligno sul caso di Adinett. La corte d'appello ha confermato il verdetto precedente e Gleave ha preso la faccenda abbastanza male. Lo aveva difeso, come ricorderai. Forse è realmente persuaso che sia innocente.» Si sforzò di sorriderle. «C'è ancora un po' di tè?» Ripiegò il giornale esitando per un momento. Se l'avesse portato via con sé, Charlotte era capacissima di uscire a comprarne un altro. Lo posò di nuovo sul tavolo. Lei mise il cucchiaio nel vasetto della marmellata, e versò il tè. Non disse altro, ma lui aveva già capito che appena fosse uscito di casa si sarebbe precipitata a leggere l'articolo. A metà circa del pomeriggio il vicecapo della polizia Cornwallis mandò a chiamare Pitt. E lui, nel preciso momento in cui mise piede nell'ufficio del suo superiore, capì che doveva esserci in ballo qualcosa di molto grave. Cornwallis stava in piedi dietro la scrivania come se avesse continuato a camminare su e giù per la stanza e provasse una certa riluttanza a sedersi. Era un uomo di corporatura snella e slanciata, di altezza media. Aveva passato in Marina gran parte della sua vita e tuttora, a guardarlo, si capiva che comandare gli uomini di un equipaggio di una nave sarebbe stato molto più adatto al suo carattere perché era evidente che preferiva affrontare la violenza degli elementi piuttosto che le ambiguità della politica e della pubblica opinione. «Sì, signore? Si tratta di un nuovo caso?» provò a domandargli Pitt. «Sì... e no.» Cornwallis si mise a fissarlo dritto negli occhi. «Pitt, come odio tutto questo! Ho lottato contro una decisione del genere per l'intera mattinata, e ho perduto. E mai c'è stata battaglia che io sia stato costretto ad accettare più di malavoglia. Se avessi saputo che si poteva scegliere un'altra soluzione, lo avrei fatto subito.» Pitt adesso si sentiva confuso e l'evidente disagio e dispiacere di Cornwallis gli facevano provare un gelido fremito di apprensione. «Un nuovo caso? E chi riguarderebbe?» «Sì, nell'East End. E non so assolutamente chi ci possa essere coinvolto.
A quanto capisco, potrebbe trattarsi di una buona metà degli anarchici di Londra.» Pitt respirò a fondo, cercando di farsi coraggio. Come tutti i funzionari di polizia era al corrente delle attività degli anarchici in molti paesi d'Europa. Le autorità francesi avevano fatto circolare un dossier che conteneva le foto di cinquecento anarchici ricercati dalla giustizia. E parecchi erano in attesa del processo. «Chi è morto?» domandò. «E perché veniamo chiamati in causa anche noi? L'East End non fa parte della nostra zona.» «Non è morto nessuno. Si tratta di una faccenda che riguarda il Reparto speciale.» «Gli irlandesi?» domandò Pitt sbalordito. Era perfettamente al corrente, come chiunque altro, delle sommosse provocate dagli irlandesi, come della presenza dei feniani, l'associazione politica in lotta per l'indipendenza dell'Irlanda dal governo inglese, e di tutta quella storia di mito e violenza, tragedia e lotta che aveva dilaniato l'Irlanda negli ultimi trecento anni. Come non ignorava l'irrequietezza politica dominante in certi quartieri di Londra per i quali era stato creato quello che in origine avevano chiamato il Reparto speciale irlandese, una squadra della polizia cittadina. «No, non si tratta degli irlandesi in modo specifico, ma piuttosto di un certo subbuglio di colore politico... Farete meglio a sedervi.» Cornwallis fece un gesto vago verso la sedia di fronte alla sua scrivania, e Pitt ubbidì. «Non c'entriamo noi» riprese con franchezza. «Riguarda voi.» Non sfuggì gli occhi di Pitt mentre parlava; anzi, cercò di incrociarne lo sguardo. «Siete sollevato dall'incarico di sovrintendente al comando di Bow Street e passate, a partire da oggi stesso, al Reparto speciale.» Pitt rimase allibito. Era impossibile. Come potevano rimuoverlo da Bow Street senza che lui avesse commesso qualche sbaglio o si fosse rivelato un incompetente? La bocca di Cornwallis si era trasformata in una sottile linea dura; stringeva le labbra come se soffrisse fisicamente. «È un ordine che viene dall'alto» disse piano. «Da molto più in alto di me. Ho chiesto spiegazioni, poi ho lottato per farlo revocare, ma si tratta di qualcosa che va oltre i miei poteri. Gli uomini interessati a tutto questo si conoscono l'un l'altro. Io sono l'outsider, non faccio parte del loro gruppo.» Adesso frugava negli occhi di Pitt con lo sguardo cercando di giudicare fino a che punto avesse colto il significato di quanto gli stava dicendo. «Non siete uno di loro...» gli fece eco Pitt. Antichi ricordi gli si affollarono alla memoria come una nera ondata di marea. In passato aveva visto la più sottile delle corruzioni, uomini che erano impegnati in fedeltà se-
grete, pronti a coprire reciprocamente le proprie azioni criminali e a dare la preferenza agli alleati, a esclusione degli altri. Il gruppo era conosciuto come la Confraternita. E i suoi lunghi tentacoli lo avevano raggiunto e avvinghiato; però già da un paio d'anni non gli era quasi più capitato di pensarci. Ora il suo superiore gli stava dicendo che questo era il nemico. Forse non avrebbe dovuto meravigliarsi tanto. «Amici di Adinett?» Cornwallis gli rispose con un cenno appena percettibile del capo. «Non ho modo di saperlo, ma sarei pronto a scommetterci quello che volete.» Poi respirò a fondo. «Dovete presentarvi al signor Victor Narraway, all'indirizzo che vi darò. Lui è al comando del Reparto speciale nell'East End e vi spiegherà quali sono esattamente i vostri doveri.» S'interruppe di colpo. Stava forse per dire che Narraway faceva parte anche lui della Confraternita? In questo caso Pitt si sarebbe ritrovato infinitamente più solo di quanto già immaginava. «Vorrei potervi dire qualcosa di più su Narraway» riprese Cornwallis con aria desolata. «Ma l'intero Reparto speciale anche per noi è una specie di libro chiuso.» «Credevo che tutte le agitazioni dei feniani a poco a poco si fossero ridimensionate» disse Pitt con candore. «Che cosa posso fare io in un quartiere come Spitalfields quando i loro uomini potrebbero essere infinitamente più utili di me?» Cornwallis si sporse in avanti attraverso la scrivania. «Pitt, questo non ha niente a che vedere con i feniani o gli anarchici, e Spitalfields è irrilevante.» La sua voce era bassa, carica di urgenza. «Vi vogliono fuori da Bow Street. Sono determinati a distruggervi, se possono.» Pitt voleva alzarsi in piedi, ma si accorse che le gambe non lo reggevano. Fu lì lì per domandare per quanto tempo lo avrebbero esiliato a dare la caccia alle ombre nell'East End, spogliato della sua dignità, dei suoi poteri di sovrintendente, di tutto il modo di vivere a cui era abituato... e che si era guadagnato! «Devo vivere... nell'East End?» chiese. Poi si riscosse e riacquistò tutta la padronanza di sé. Nessuna delle persone alle quali voleva bene era ferita o morta. Aveva perduto la possibilità di vivere in casa propria, ma Charlotte, Daniel e Jemima avrebbero continuato ad abitarci. Lui soltanto sarebbe rimasto assente. Ma era ingiusto! Non aveva fatto niente di male, né commesso il più piccolo errore. Adinett era colpevole. Già, ma perché aveva ucciso Fetters? Perfino Juster non era riuscito a scoprire un valido movente. Tutti si erano sempre dichiarati convinti che fossero i migliori amici del mondo, due uomini che non condividevano soltanto la passione per i viaggi e gli oggetti rari e preziosi, che avevano
stretti legami con la storia e la leggenda, ma erano anche uniti da molti ideali e sogni di un cambiamento per il futuro perché aspiravano a una società più comprensiva e tollerante che offrisse a tutti la possibilità di una vita migliore. Juster si era anche chiesto se il movente potesse collegarsi a una questione di soldi, o a una donna. Erano state fatte indagini in questo senso, ma non si era trovato nessun indizio che portasse a pensare a qualche eventualità del genere. Fino a quel giorno nessuno aveva mai avuto notizia che fosse sorto, fra i due uomini, il più piccolo disaccordo. E quel giorno, quando il maggiordomo aveva servito il Porto, una mezz'ora prima, erano sembrati i migliori amici del mondo. «Pitt... farò quello che posso.» Cornwallis sembrava imbarazzato come se capisse che non era abbastanza. «Cercate... cercate soltanto di aspettare con calma. Non commettete imprudenze. E... e per l'amor di Dio, non fidatevi di nessuno.» Le sue mani si strinsero a pugno sulla lucida e liscia superficie di legno di quercia. «Dio solo sa come vorrei avere i poteri di fare qualcosa. Ma io stesso non so contro chi sto combattendo...» Pitt si alzò in piedi. «Non c'è niente da fare» disse con voce spenta. «Dove trovo questo Victor Narraway?» Cornwallis gli consegnò un foglietto sul quale c'era scritto un indirizzo: Lake Street 14, Mile End New Town. Era all'estremità della zona di Spitalfields. «Ma prima andate a casa, prendete i capi di vestiario di cui potrete aver bisogno, e altri oggetti personali. E state attento su quanto direte a Charlotte... Non...» Tacque bruscamente come se avesse cambiato idea e non volesse più aggiungere altro. Pitt si avviò alla porta. «So che avete fatto tutto il possibile.» disse. Gli riusciva difficile parlare. «La Confraternita è come una malattia segreta. Lo sapevo... solo che me n'ero dimenticato.» Scoprì di pensare con orrore al momento in cui avrebbe dovuto dirlo a Charlotte; quindi l'unico modo per riuscire a farlo era non aspettare troppo. «Cosa c'è?» gli domandò lei appena lo vide entrare in cucina. Era in piedi davanti alla grossa stufa nera, con i fornelli accesi. La stanza era piena di luce e del profumo del pane appena sfornato. Piatti di maiolica blu e bianca decoravano la credenza in stile gallese e al centro del tavolo di legno c'era un grande vassoio pieno di frutta. I bambini erano a scuola, e Gracie doveva essere di sopra o fuori per qualche commissione. Questa era la casa che lui amava, queste erano tutte le cose che rendevano piacevole la sua vita. Come se la sarebbe cavata, dovendoci rinunciare? Come sareb-
be riuscito a sopravvivere senza Charlotte? Per Un attimo fu travolto da una rabbia cieca contro gli uomini misteriosi che gli avevano fatto questo. Era mostruoso che, godendo della sicurezza dell'anonimato, potessero privarlo delle cose che aveva più care... «Thomas, cosa c'è?» La voce di Charlotte era stridula per la paura. Voltandosi di scatto dai fornelli, stringeva in mano lo straccio che usava per non scottarsi e lo stava fissando con gli occhi sbarrati. «Mi hanno trasferito nel Reparto speciale» rispose lui. «E perché è una cosa terribile?» «Non sarò più in Bow Street. E neanche con Cornwallis. Dovrò lavorare per un tale che si chiama Narraway... a Spitalfields.» Lei aggrottò le sopracciglia. «Spitalfields? Nell'East End? Questo significa che dovrai spostarti fino al commissariato di polizia di Spitalfields ogni giorno?» «No... Dovrò andare ad abitare a Spitalfields, come un comune mortale.» «Ma è... mostruoso!» esclamò lei, incredula. «Non possono fare una cosa del genere... è troppo ingiusto. Ma... di che cos'hanno paura? Credono sul serio che pochi anarchici possano gettare l'intera Londra nel terrore?» «Questo non ha niente a che vedere con la cattura degli anarchici» le spiegò lui. «Va piuttosto inteso come una punizione nei miei confronti perché John Adinett fa parte della Confraternita e io ho fornito le prove che lo manderanno sulla forca.» La faccia di Charlotte, adesso, era tesa, le sue labbra pallide. «Sì, lo so. Ascoltano quello che scrivono sui giornali le persone come Gleave? Adinett era colpevole... e tu non ne hai colpa!» Lui non rispose. «Va bene.» Charlotte gli voltò le spalle, la voce smorzata dal pianto. «So che tutto questo non c'entra affatto. Ma non c'è nessuno che possa aiutarti? È talmente ingiusto...» Tornò a voltarsi di scatto verso di lui. «Forse la zia Vespasia...» «No.» Lo strazio che lui provava era quasi intollerabile. Guardò la faccia di sua moglie, arrossata dalla collera e dalla disperazione, le ciocche di capelli che sfuggivano alle forcine, gli occhi colmi di lacrime. «Non sarà per sempre.» Lo disse non solamente per se stesso, ma anche per lei. Charlotte tirò su col naso. Aveva gli occhi lucidi e frugò nelle tasche del grembiule in cerca di un fazzoletto. Pitt si sentiva improvvisamente indeciso. Prima di entrare in cucina aveva pensato di raccogliere le poche cose che voleva portare con sé e poi an-
darsene subito. Adesso scoprì di avere una voglia struggente di rimanere il più a lungo possibile, di prenderla fra le braccia e, visto che in casa non c'era nessuno, magari di andare di sopra e fare l'amore per quella che, a quanto poteva prevedere, sarebbe stata l'ultima volta. Ma alla fine non pensò più a niente di tutto questo; si limitò a stringerla convulsamente fra le braccia, a baciarla, a tenerla contro di sé con tanta forza da farla gridare. E poi la portò di sopra. Quando lui fu andato via, Charlotte sedette di fronte allo specchio, in camera da letto, a spazzolarsi i capelli. Aveva un aspetto da far paura, e gli occhi rossi ancora pieni di lacrime. Sentì la porta di casa che si richiudeva e il passo di Gracie in corridoio. In fretta si raccolse i capelli, fissandone le ciocche a casaccio con le forcine, poi scese in cucina. Gracie era immobile in mezzo alla stanza. «Cos'è successo?» domandò sgomenta. «Il pane che avevate appena fatto è tutto rovinato. Guardatelo.» Poi si rese conto che si trattava di qualcosa di ben più serio. «C'è di mezzo il signor Pitt? È ferito? Sta male?» Di colpo era diventata pallidissima. «No!» si affrettò a rispondere Charlotte. «Sta bene. Voglio dire che non si è fatto male e non è ferito.» Poi, con una mossa deliberata, prese posto su una seggiola. Era qualcosa che non si poteva spiegare in poche parole. «Lo hanno mandato via da Bow Street per farlo lavorare nel Reparto speciale, nell'East End.» Mai e poi mai avrebbe rinunciato a confidarsi con Gracie. Era in casa sua da otto anni, da quando si era presentata a tredici anni, orfana, analfabeta e denutrita, ma con la lingua tagliente e una gran voglia di progredire. Per lei Pitt era l'uomo più bravo del mondo, e il migliore nel suo lavoro. «Cos'è il Reparto speciale? E perché lui?» «Una volta si occupava degli irlandesi che mettevano bombe dappertutto» disse Charlotte spiegandole quel poco che sapeva. «Adesso si occupano più che altro degli anarchici e dei nichilisti che vogliono abbattere tutti i governi e creare il caos...» «E allora tocca al signor Pitt andare a impedirglielo?» Gracie sembrava un po' più speranzosa. «Ci si proverà, ma prima deve trovarli. Ecco perché dovrà andare a vivere a Spitalfields.» «A viverci! Ma come si fa a vivere a Spitalfields? Non ci riusciranno mai. Lo sanno che razza di posto è quello? Caspita, ma è il peggio di tutto il peggio dell'East End... E la sporcizia, poi, il puzzo...» «Loro sanno benissimo com'è quel posto» disse Charlotte, di nuovo so-
praffatta dalla disperazione. «È per questo che ce lo mandano. Come una specie di punizione per aver trovato le prove contro John Adinett ed essere andato a spiegare quali sono, sotto giuramento, in tribunale. Adesso lui non comanda più la stazione di polizia di Bow Street.» Gracie si rattrappì su se stessa come se l'avessero picchiata. «Che cattiveria» disse piano. «È una gran brutta cosa quella che fanno. A ogni modo spero che almeno lo pagheranno nel reparto... come si chiama?» «Oh, sì. Non so quanto.» Ecco una cosa alla quale Charlotte non aveva neanche pensato fino a quel momento. Ma Gracie era un tipo pratico, con i piedi sulla terra... Troppo spesso era stata povera per potersene dimenticare. «Lo faremo bastare!» disse con la forza della disperazione. «Basta coi lussi. E poi, siamo quasi d'estate, così non avremo più bisogno di tutto quel carbone. E niente vestiti nuovi per un po', né libri, né giocattoli.» «E niente carne» soggiunse Gracie. «Anche le aringhe sono buone. E io conosco dei posti dove si possono comprare buone ossa per la zuppa e altro. Ce la caveremo.» Si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «Però è sempre un'ingiustizia!» Fu difficile spiegarlo anche ai bambini. Jemima, a dieci anni e mezzo, stava già diventando alta e snella, ed era possibile scorgere in lei i segni della donna che sarebbe diventata. Daniel, a otto, era di corporatura più robusta, ma aveva la pelle delicata e i capelli che gli si arricciavano sulla nuca esattamente come a Pitt. Charlotte aveva cercato di spiegare che papà non sarebbe più tornato a casa per molto tempo, ma lo aveva fatto nel modo migliore per far capire a tutti e due che non si trattava di qualcosa che avesse deciso di sua volontà e che anzi avrebbe sentito enormemente la loro mancanza. «Perché?» Jemima obiettò subito. «Se non vuole andare, perché deve andarci ugualmente?» Lottava contro qualcosa che capiva di dover accettare comunque, e il suo faccino esprimeva un gran dispetto. «Capita a tutti, a volte, di dover fare certe cose che non vogliamo.» «Ma perché deve farle proprio lui? Perché non può farlo qualcun altro? Io non voglio che vada via.» Charlotte le fece una carezza, dolcemente. «Neanch'io. Ma se facciamo tante storie, per lui sarà più difficile... e più triste.» Jemima rimase a pensarci un momento, senza sapere se accettare quella soluzione o no. «Deve inseguire degli uomini cattivi?» Daniel, adesso, apriva bocca per
la prima volta. «Sì. Bisogna fermarli prima che facciano qualcosa di male, e non c'è nessuno migliore di lui per riuscirci.» «Già. Allora credo che possiamo stare tranquilli... ma è pericoloso?» «Ma lui non deve lottare con quelle persone» ribatté Charlotte fingendosi più convinta di quanto non fosse in realtà. «Deve soltanto scoprire chi sono.» Daniel fece segno di sì, soddisfatto. «Però mi mancherà.» Lei si costrinse a sorridere come prima. «Mancherà anche a me.» Pitt prese la metropolitana per raggiungere direttamente l'indirizzo a nord di Spitalfields che Cornwallis gli aveva dato. Risultò quello di una casetta dietro un negozio. Victor Narraway lo stava aspettando. Era un uomo scarno con un ciuffo di capelli scuri, spruzzati di grigio, e una faccia illuminata da una intelligenza che metteva soggezione. E una volta che lo si fissava negli occhi, nessuno poteva giudicarlo un ordinario uomo della strada, tutt'altro. Squadrò Pitt con interesse. «Sedetevi» gli ordinò indicando la modesta seggiola di legno che aveva davanti. Pitt ubbidì. Aveva messo i vestiti più vecchi che possedeva, quelli che indossava quando non voleva farsi notare nei quartieri più miserabili della città. E già da molto tempo non lo aveva più trovato necessario, perché ormai mandava altri a sbrigare incombenze del genere. Si sentiva a disagio, sporco, in una condizione di assoluto svantaggio. «Non riesco a capire in che modo potreste essermi utile» riprese Narraway con aria tetra. «Ma mi siete stato imposto e dovrò rassegnarmi. Se non sbaglio, vi siete fatto un nome per il modo in cui avete affrontato e risolto certi scandali scoppiati fra la gente distinta, di una certa classe sociale. Non si direbbe che Spitalfields sia la vostra zona.» «Infatti. Non lo è proprio per niente» ribatté Pitt di malumore. «La mia era quella di Bow Street.» «E dove accidenti avete imparato a parlare con quel tono e con quell'accento?» Narraway inarcò le sopracciglia. «Mi è stato insegnato quando studiavo, con il figlio di casa, in una residenza signorile in campagna.» «Fortunato voi! Bene, se qui dovete rendervi utile, sarà il caso di dimenticarvene, e in fretta. Dovrete farvi passare per un venditore ambulante o un accattone...» «Quando voglio, so benissimo come farmi passare per un venditore ambulante. Non del quartiere, s'intende. Qui tutti conoscono quelli che batto-
no la zona.» A questo punto l'espressione di Narraway si fece meno tetra e per un attimo gli illuminò gli occhi un lampo di approvazione. Era già un primo passo, ma niente di più. Fece segno di sì. «Gran parte del resto di Londra non immagina neanche alla lontana come sia seria la situazione» disse. «Tutto quanto sanno è che abbiamo un certo fermento nel quartiere. In realtà si tratta di qualcosa di più.» Stava osservando Pitt con attenzione. «E non voglio parlare del solito pazzoide che è riuscito a mettere le mani su un candelotto di dinamite... anche se abbiamo anche quelli, figuriamoci!» «Se non si tratta del solito nichilista più o meno folle che vorrebbe vedere realizzate le sue ambizioni» domandò Pitt «si può sapere chi stiamo cercando realmente?» Narraway sorrise, rilassandosi un po'. Si accomodò meglio sulla seggiola e accavallò le gambe. «Abbiamo sempre avuto il problema irlandese e immagino che non ce ne libereremo tanto facilmente, ma al momento non è quella la nostra preoccupazione principale. Ci sono sempre in giro i feniani, ma qualche anno fa ne abbiamo arrestato un buon numero, così adesso si sono calmati. Però l'atmosfera è carica di forti sentimenti anticattolici.» «Pericolosi?» Lui osservò l'espressione dubbiosa di Pitt. «No, in sé e per sé» disse in tono acido. «Avete molto da imparare. Cominciate facendo il possibile per stare zitto. Ascoltate, piuttosto. Trovatevi qualcosa da fare per spiegare la vostra presenza da queste parti. Girate per le strade. Tenete gli occhi aperti e la bocca chiusa. Prestate ascolto a quelle che possono sembrare chiacchiere di perdigiorno, cercate di capire quello che viene detto e quello che rimane sottinteso. Ricordate la famosa domenica di sangue dell'88, e la serie di omicidi che abbiamo avuto a Whitechapel in quell'autunno? Sono passati quattro anni, ormai, e si è andati di male in peggio.» Naturalmente Pitt ricordava l'estate e l'autunno dell'88. Come tutti. Ma non si era reso conto che la situazione fosse ancora delicata. Con una parte del suo cervello adesso si stava chiedendo se Narraway non drammatizzasse un po', forse per dare maggiore importanza al proprio ruolo. E l'uomo gli lesse in faccia tutto questo come se lo avesse manifestato ad alta voce. «Non abbiate fretta di farvene un giudizio, Pitt. Dovete essere scettico; però eseguite gli ordini. Non so se Donaldson, quando ha detto quello che ha detto sul banco dei testimoni, avesse ragione o no sul vostro conto ma
fintantoché siete nel Reparto speciale ubbidirete a me o vi sbatterò fuori tanto in fretta che dovrete cercarvi un lavoro in permanenza qui a Spitalfields o in qualche altro posto del genere. Sono stato chiaro?» «Sissignore» rispose Pitt rendendosi conto, sempre più inorridito, di quanto fosse pericolosa la strada che aveva imboccato. Si ritrovava senza amici, e con nemici in abbondanza. Non poteva permettersi di offrire a Narraway neanche il più piccolo pretesto per licenziarlo sui due piedi, buttandolo in strada. «Bene. Allora, ascoltatemi e non dimenticate quello che dico. L'East End è poverissimo: una povertà disperata, oppressiva e dolorosa, di tale entità che il resto dei cittadini non può neanche immaginarla. Qui uomini, donne e bambini muoiono di fame e delle malattie provocate dalla fame.» Una collera sorda rendeva stridula la sua voce. «Sono più i bambini che muoiono di quelli che continuano a vivere. E questo toglie qualsiasi valore alla vita. Gli standard di giudizio sono differenti. Mettete un uomo in una situazione in cui ha ben poco da perdere e vi troverete nei guai. Mettete centomila uomini in quella stessa situazione e vi ritroverete con un barile di polvere che è facile far saltare, forse con una rivoluzione. Ecco dove i vostri cattolici, i vostri anarchici dinamitardi, i vostri nichilisti ed ebrei sono un pericolo.» «Ebrei?» domandò Pitt incuriosito. «Qual è il problema con gli ebrei?» «Non quello che ci aspettavamo» confessò Narraway. «Abbiamo un buon numero di ebrei dalle idee abbastanza liberali che sono arrivati qui da tutta Europa, dopo le rivoluzioni del '48, tutte duramente represse, in un modo o nell'altro. Ci aspettavamo che scaricassero qui il loro livore, ma finora non è successo.» Si strinse nelle spalle. «Questo non significa che non possa sempre succedere, anche perché c'è abbondanza di antisemitismo, qua in giro, per la maggior parte dovuto a paura e ignoranza.» «Vedo.» «Probabilmente no, ma ve ne accorgerete, se prestate attenzione. Vi ho trovato un alloggio in Heneagle Street, presso un certo Isaac Karansky, un ebreo polacco molto rispettato nella zona. Dovreste essere ragionevolmente al sicuro, e nella posizione adatta per osservare, ascoltare e imparare qualcosa.» Era una spiegazione di cui Pitt poteva cogliere solo le linee generali, e continuava ad avere un'idea molto vaga di quello che ci si aspettava da lui. Era abituato a trovarsi di fronte a un fatto chiaro e definitivo sul quale investigare, qualcosa che era già successo, una matassa che toccava a lui
sbrogliare per scoprire chi ne fosse il responsabile. Tentare di imparare qualcosa su azioni non meglio specificate che potevano succedere. Da dove cominciare? Ancora una volta si sentì travolgere da una sensazione di fallimento, per quello che riguardava il passato, ma anche il futuro. Non sarebbe stato di nessuna utilità, lui, in quel lavoro. D'altra parte non era stato mandato lì per essere utile, ma come punizione per aver accusato con successo John Adinett. Forse, per quanto riguardava Cornwallis, era stato fatto anche per metterlo al sicuro, e nello stesso tempo dargli un'occupazione retribuita. Comunque, doveva tentare ugualmente. Gli occorreva sapere qualcosa di più da Narraway, anche se chiederlo poteva significare che bisognava mettere l'orgoglio sotto i piedi. Una volta uscito da quella squallida stanzetta sarebbe stato troppo tardi, e lui si sarebbe ritrovato ancor più solo di quanto fosse mai stato, dal punto di vista professionale, in vita sua. «Siete convinto che ci sia qualcuno che sta cercando di fomentarla deliberatamente, oppure la violenza si scatenerà soltanto in seguito a una serie di imprudenze e di incidenti provocati dalla mancanza di cautela?» domandò. «Non escludo questa seconda possibilità» gli rispose Narraway. «Però stavolta credo che si tratterà della prima. Ma è probabile che possa sembrare spontanea, e lo sa Dio se qui non ci sono abbastanza povertà e ingiustizia per alimentarla! E odi razziali e religiosi sufficienti per ritrovarci con una guerra aperta nelle strade... Ecco cosa siamo incaricati di prevenire, Pitt. Tutto questo fa diventare un omicidio qualcosa di più semplice, se non addirittura irrilevante... salvo per gli interessati. E non ditemi che ogni tragedia o ingiustizia è preparata da singoli individui... lo so benissimo anch'io. Ma qui stiamo parlando di quella specie di follia in cui nessuno è più al sicuro e tutto quanto è utile o ha valore viene distrutto.» Pitt non disse niente. I suoi pensieri erano tetri, e lo spaventavano. «Mai letto niente sulla Rivoluzione francese? Parlo di quella grande, del 1789, non la più recente, che si è risolta in un fiasco.» «Sì.» Pitt fu scosso da un brivido. «Parlate del Terrore.» «Precisamente.» Narraway strinse le labbra. «Parigi è molto vicina. Non illudetevi che non possa succedere anche qui.» Sia pure di malavoglia, Pitt stava considerando la possibilità che ci fosse almeno qualcosa di vero in ciò che Narraway stava dicendo. «Che cosa volete esattamente che faccia? Datemi qualcosa a cui appigliarmi, qualcosa da cercare.»
«Io non ho nessun bisogno di voi!» sbottò Narraway, con improvvisa indignazione. «Mi siete stato imposto dall'alto. E non sono interamente sicuro del perché. Ma visto che siete qui, tanto vale che mi serva di voi come meglio posso. Oltre a potervi offrire un alloggio dove vivere ragionevolmente bene qui a Spitalfields, Isaac Karansky è un uomo che non manca di una certa influenza nella sua comunità. Osservatelo, ascoltatelo, imparate tutto quanto potete. Se scoprite qualcosa di utile, ditemelo. Io sono qui ogni settimana. Parlate con il ciabattino qua di fronte. Lui può farmi arrivare un messaggio.» «Sì, signore.» «Bene. Potete andare.» Pitt si alzò, avviandosi alla porta. «Pitt!» «Sì, signore?» Narraway lo stava scrutando. «State attento. Non avete un solo amico da quelle parti. Non dimenticatelo, neanche per un momento. E non fidatevi di nessuno.» «No, signore. Grazie.» Bastò fare un paio di domande qua e là per raggiungere, fra grigi vicoletti, Heneagle Street. Trovò la casa di Isaac Karansky sull'angolo di Brick Lane, una via piena di traffico e animazione che scendeva, oltre la massa imponente dello zuccherificio, fino a Whitechapel Road. Bussò alla porta. Non successe niente, e allora bussò di nuovo. Gli venne aperto da un uomo che si sarebbe detto sulla soglia dei sessant'anni, la faccia olivastra molto chiaramente di origine semita e i capelli neri abbondantemente spruzzati di grigio. C'erano gentilezza e intelligenza nei suoi occhi mentre lo studiava, ma le circostanze dovevano avergli insegnato a essere guardingo. «Il signor Karansky?» domandò Pitt. «Mi chiamo Thomas Pitt. Sono nuovo nel quartiere e sto cercando alloggio. Un amico mi ha fatto sperare che avrei trovato da voi una stanza in affitto.» «E quale sarebbe il nome del vostro amico?» «Narraway.» «Bene, bene. Abbiamo una camera infatti. Entrate e vedete se vi può andar bene, prego. È piccola ma pulita. Mia moglie è molto esigente in fatto di pulizia.» L'uomo si fece da parte. L'anticamera era stretta e le scale a poco più di un paio di metri dalla porta. C'era un gran buio e pensò che, d'inverno, la casa sarebbe anche stata umida e gelida; ma aveva odore di pulito e dava l'idea che là dentro facessero vita di famiglia, con una donna
che cucinava, spazzava e faceva il bucato. «È di sopra.» Karansky gli fece segno di precederlo. Pitt ubbidì, salendo lentamente i gradini che scricchiolavano a ogni passo. Quando furono in cima l'uomo indicò una porta e lui l'aprì: la stanza era piccola, con una finestra talmente incrostata di sudiciume che era difficile veder fuori. C'erano un letto di ferro, già preparato con lenzuola che sembravano pulite e ben stirate, e alcune coperte. Un cassettone di legno aveva una mezza dozzina di cassetti con le maniglie tutte diverse e, sopra, un catino con una brocca. Al muro era attaccato un piccolo specchio; niente armadio, ma due ganci dietro la porta, e una stuoia fatta di stracci intrecciati sull'impiantito vicino al letto. «Andrà benissimo» dichiarò Pitt. Gli pareva di essere tornato al giorno in cui suo padre era stato portato via dai poliziotti e, con la mamma, aveva dovuto lasciare la casetta del guardacaccia per andare ad abitare nei quartieri della servitù nella casa padronale dove sir Matthew Desmond li aveva ospitati. Anche l'odore, qui, aveva qualcosa di stranamente familiare: niente polvere sull'impiantito, che già sapeva lino a che punto sarebbe stato freddo, quando ci avesse posato i piedi nudi, il vetro della finestra coperto di brina, l'acqua ghiacciata nella brocca. Keppel Street sembrava qualcosa che appartenesse ai sogni, un frutto dell'immaginazione. Gli sarebbe mancata tutta quella serie di comodità a cui era abituato, e infinitamente di più, insopportabilmente di più, le risate, il calduccio, l'amore e la sicurezza. «Costa due scellini alla settimana» lo informò Karansky, rimasto dietro di lui. «Un altro scellino e sei pence in più col vitto. Se volete mangiare con noi, siete il benvenuto.» E Pitt, che adesso ricordava quello che Narraway aveva detto sulla posizione di Karansky nella sua comunità, non esitò ad accettare. «Grazie, sarebbe meglio.» Si frugò in tasca e gli contò in mano l'affitto della prima settimana. Come Narraway aveva detto, doveva trovarsi anche un lavoro, o avrebbe suscitato dei sospetti. «Sono nuovo nel quartiere. Dov'è il posto migliore per trovare un impiego?» Karansky alzò le spalle in un gesto espressivo, mentre la sua faccia registrava il rammarico. «Non c'è un posto migliore di un altro. Qui si lotta per la sopravvivenza. A guardarvi, si direbbe che abbiate un bel paio di spalle robuste. Cosa siete preparato a fare?» «Non sono esigente» rispose Pitt. Per fortuna non erano tanto vicini ai docks da sentirsi proporre di scaricare carbone o trasportare casse. «Cosa ne pensate dello zuccherificio? L'ho osservato proprio qui vicino, in Brick
Lane. Anzi, se ne sente perfino l'odore.» Karansky inarcò un sopracciglio scuro. «Siete interessato a quello, eh?» «Interessato? No. Pensavo soltanto di trovarci lavoro. Per lo zucchero ci vogliono una quantità di operai, penso.» «Oh, sì. Centinaia» confermò Karansky. «Una famiglia su due, qua intorno, campa almeno in parte con quello che si guadagna lavorando in uno degli zuccherifici. Il padrone è un certo Sissons. Ne ha tre, tutti nel circondario. Due su questo lato di Whitechapel Road, uno sull'altro.» C'era qualcosa nella sua espressione, una strana cautela, che suscitò l'interesse di Pitt. «È un buon lavoro?» chiese, cercando di dare alla sua voce un tono indifferente. «Qualsiasi lavoro è buono. Lui paga decentemente. Le ore sono lunghe, ma basta per vivere, a stare un po' attenti. Ma non dovete pensare soltanto allo zuccherificio, a meno di non conoscere qualcuno che vi possa far entrare.» «Non conosco nessuno. Dove potrei cercare, altrimenti?» Karansky sbatté le palpebre. «Non avete neanche intenzione di tentare?» «Certo che tenterò. Ma mi avete appena detto di non farci conto.» Si sentì un movimento sul pianerottolo oltre la porta, e Karansky si voltò. Pitt si accorse che una donna molto bella si era fermata un po' più indietro; era più o meno della stessa età del marito, ma con i capelli ancora folti e scuri, anche se la sua faccia era segnata dalla fatica e dall'ansietà e i suoi occhi avevano lo sguardo incupito di chi ha la paura come compagna costante. «La camera va bene per voi?» domandò, un po' incerta. «Sì, va bene, Leah» la rassicurò Karansky. «Il signor Pitt rimarrà con noi. E domani si cercherà un lavoro.» «Saul ha bisogno di aiuto» disse lei, fissando Pitt. «Non è faticoso. Potreste diventare il suo uomo tuttofare.» «Mi domandava dello zuccherificio» le spiegò Karansky. «Forse preferirebbe quello.» Lei sembrò stupita, forse preoccupata. «Saul non sarebbe meglio?» Dalla sua espressione si capiva che alludeva a qualcosa di più, che sotto le sue parole c'era un sottinteso, e si aspettava che il marito lo cogliesse a volo. Karansky si strinse nelle spalle. «Potete provare l'uno e l'altro, se volete.» «Mi avete detto che non troverei niente da fare, allo zuccherificio, senza conoscere qualcuno che c'è già dentro» gli ricordò Pitt. L'uomo lo fissò in silenzio per qualche istante, come se cercasse di deci-
dere tra sé e sé fino a che punto era stato onesto in quello che gli aveva detto. Fu la moglie a rompere il silenzio. «Lo zuccherificio non è un buon posto, signor Pitt. Saul non paga molto, però è meglio lavorare da lui, credetemi.» Pitt stava cercando di chiarirsi le idee e valutare se gli convenissero di più i vantaggi della sicurezza, come dettava il buonsenso, oppure se non ci fosse il rischio di perdere l'occasione di scoprire cosa c'era di tanfo pericoloso negli zuccherifici, che davano pane e lavoro a mezzo quartiere. «Cosa fa Saul?» chiese. «Il tessitore di seta» rispose Karansky. Pitt intuì che si aspettava da lui un maggior interesse nello zuccherificio, al punto da essere disposto a chiedere che lo assumessero lì, malgrado i suoi avvertimenti. Ricordò le parole di Narraway sulla necessità di fidarsi, o no, di qualcuno. «Allora penso che andrò a parlargli domani, e se ho fortuna, può darsi che mi dia qualcosa da fare. Sempre meglio di niente, anche soltanto per pochi giorni.» La signora Karansky sorrise. «Glielo dirò. È un buon amico. Troverà qualcosa da farvi fare. Ma adesso avrete fame. Ceniamo fra un'ora. Vi aspettiamo.» «Grazie. Verrò senz'altro.» 4 Non era la prima notte che Pitt rimaneva lontano da casa, ma Charlotte provò un senso di solitudine di cui altre volte non aveva sofferto. Rimase sveglia a lungo, troppo in collera per dormire, girandosi e rigirandosi fino a quando si ritrovò con il letto completamente in disordine, e lenzuola e coperte aggrovigliate tutt'intorno. Così, verso le due si alzò, e dopo aver disfatto completamente il letto, lo rifece con lenzuola pulite. Mezz'ora dopo si addormentava. Si svegliò che ormai era giorno fatto, con un gran mal di testa e ben decisa a fare qualcosa per risolvere la situazione. Si vestì e scese in cucina, dove trovò Gracie seduta al tavolo. I bambini erano già andati a scuola. «Buongiorno, signora.» Gracie si alzò per andare ai fornelli, dove il bricco dell'acqua stava già fischiando. «Ho qui pronto del tè.» Lo versò nella teiera mentre parlava, portandola al tavolo dove c'erano già due tazze pronte. «Mi sono messa a pensare. Dobbiamo fare qualcosa per quello che è successo. Non è giusto.»
«Sonò d'accordissimo» rispose Charlotte. «Anch'io ho continuato a pensarci per una buona metà della notte, ma non so in che direzione muovermi. Il signor Pitt mi ha spiegato che, secondo il comandante Cornwallis, il trasferimento era per la sua sicurezza, e per trovargli un lavoro di qualche genere. Quelli che lui ha messo in difficoltà sarebbero ben felici di vederlo disoccupato e in un posto dove raggiungerlo facilmente. Magari per farlo rimanere vittima di qualche incidente in strada.» Gracie non rimase scandalizzata; forse di morte ne aveva vista anche troppa, mentre cresceva nell'East End. «E tutto perché lui ha lavorato bene e ha mandato quell'Adinett sulla forca? Ma cosa volevano che facesse, ditemelo voi! Doveva comportarsi come uno stupido e far finta di credere che non era successo niente? E poi, si può sapere chi è questo Adinett? E perché c'è qualcuno che vuole che se la cavi anche se ha assassinato il signor Fetters?» «È un membro della Confraternita» rispose Charlotte con un brivido. «Vuole dire che possono cavarsela anche se sono degli assassini?» «Sì, a meno che qualcuno, coraggioso o imprudente, non riesca a mettersi di mezzo. E allora cercano di liquidare anche lui.» «Ma noi cosa possiamo fare?» Gracie adesso la fissava con quei suoi grandi occhi penetranti. «Dobbiamo provare che ha ragione. Non sappiamo chi fa parte di questo gruppo, però noi siamo più di loro.» Charlotte sorrise benché continuasse a sentirsi malissimo. La lealtà di quella ragazza le dava un conforto ben più grande di una tazza di tè. Non poteva deluderla mostrandosi meno coraggiosa e meno sicura. Così disse la prima cosa che le saltò in mente. «Quello che ha fatto diventare il processo così diverso dagli altri è che nessuno ha mai scoperto la ragione per la quale Adinett ha ucciso. I due uomini erano amici da anni. C'è qualcuno che si è rifiutato di credere che Adinett avesse un valido motivo.» «Così noi dobbiamo scoprire perché lui ha ucciso» ripeté Gracie con semplicità. «Deve pur avere avuto una ragione. Non può averlo fatto per niente.» Charlotte stava già cominciando a riflettere. Sui giornali era stato scritto molto poco sull'uno e sull'altro dei due uomini, e in genere ci si era limitati a insistere sul loro senso dell'onore, la dignità di comportamento e la posizione sociale insistendo sul fatto che l'intera faccenda aveva qualcosa d'incomprensibile. «Per quale motivo un uomo che sta per finire sulla forca non rivela a nessuno, a propria difesa, la ragione per cui ha ucciso un amico?» disse ad alta voce. «E del resto, perché la gente uccide gli amici o
persone che conosce, ma con cui non è legata da parentela, da cui non può ereditare niente e di cui non è neanche innamorata?» «Perdono il lume degli occhi perché odiano o hanno paura di qualcuno» obiettò Gracie in tono pieno di buonsenso. «Oppure hanno qualcosa che loro vogliono, e non gliela danno. O perché sono pazzi di gelosia.» «Loro due non si odiavano» rispose Charlotte allungandosi verso il pane e un coltello. «Erano amici da anni, e nessuno è al corrente di qualche bisticcio fra loro.» «Una donna? Magari Fetters lo ha sorpreso mentre lui stava facendo qualcosa con la sua signora?» «È possibile» disse Charlotte pensierosa, servendosi di burro e marmellata. «Adinett potrebbe aver detto che non era vero, che se lo era soltanto immaginato, e Fetters lo ha accusato. Allora ha perduto la testa e lo ha aggredito.» Respirò a fondo, e diede un morso alla fetta di pane, accorgendosi che era affamata. «Però mi sembra un po' difficile che l'abbia fatto mentre era inerpicato in cima alla scaletta della biblioteca, ti pare? Io non ci crederei, se fossi un giurato. E perché non pensare, invece, a una questione di soldi?» Gracie scosse la testa. «Non riesco a trovare nessun motivo, ma proprio nessuno, per mettermi a bisticciare mentre sono in cima a una scaletta; specialmente di quelle che hanno le rotelle.» «Veramente non ci riesco neanch'io» convenne Charlotte. «E questo significa che qualsiasi fosse il motivo, Adinett si è dato un sacco da fare per nasconderlo e fingere che non c'entrava per niente. Dunque era qualcosa di cui si vergognava.» Ma intanto con i loro ragionamenti si erano ritrovate a partire da capo. «Sto pensando di andare a far visita alla signora Fetters. Thomas dice che lei è stata molto amabile e simpatica, e anche convintissima che Adinett fosse colpevole. Deve aver voglia di sapere quasi come noi perché suo marito è morto.» «Ecco una buona idea.» Gracie cominciò a sparecchiare e andò a mettere il burro e la marmellata nella dispensa. «Lei deve sapere qualcosa sul conto di Adinett, e molto sul conto di suo marito, povera anima. Se avessi appena perduto una persona alla quale voglio bene, non sopporterei di dovermene stare seduta tutta sola in una casa con le finestre oscurate, in silenzio, gli specchi coperti e le pendole fermate perché non facciano più tic tac, come se fossi morta anch'io... È già abbastanza brutto vestirsi di nero. Io mi sono vestita di nero per il funerale del mio nonno, e ho dovuto darmi un bel po' di schiaffi fino a sentirmi tutta rintontita per avere un po' di co-
lore sulla faccia, sennò avevo paura che mettessero me in quella fossa, e non lui!» Charlotte sorrise a dispetto di se stessa e ritornò di sopra. Si cambiò dopo aver scelto con cura nel suo guardaroba un vestito di buon taglio, verde acqua. Le stava molto bene, oltre a non essere troppo sgargiante. Un colore del genere non andava mai fuori moda e lei l'aveva scelto perché avrebbe potuto metterlo per molte stagioni di seguito; in più, non sarebbe stato poco adatto per andare in visita in una casa in lutto. Prese l'omnibus e poi continuò a piedi. Inutile sprecare soldi, e la giornata era gradevolissima. Naturalmente, sapeva da Pitt dove Martin Fetters aveva abitato, e in ogni caso i giornali avevano fatto diventare famoso il suo indirizzo: Great Coram Street, fra Woburn Place e Brunswick Square, una casa bella ed elegante non molto diversa da quelle vicine, salvo per il fatto che tutte le tende erano tirate. Salì i gradini della porta senza esitare, e bussò. Non aveva la minima idea se la signora Fetters l'avrebbe accolta con piacere oppure, chiusa nel suo disperato dolore, avrebbe considerato impertinente e importuna la sua visita. D'altra parte, il suo era un caso di necessità. Le venne ad aprire un maggiordomo dall'aria lugubre che la squadrò dalla testa ai piedi con cortese disinteresse. «Sì, signora?» Lei aveva già meditato su quello che intendeva dire. «Buongiorno.» Gli consegnò il suo biglietto da visita. «Volete essere tanto cortese da consegnare questo alla signora Fetters chiedendole se può dedicarmi qualche minuto del suo tempo? Riguarda una questione della massima importanza per me, e credo possa esserlo anche per lei. Si tratta di mio marito, il sovrintendente Thomas Pitt, che ha compiuto le indagini sulla morte del signor Fetters. Lui purtroppo non può venire di persona.» Il maggiordomo trasecolò. «Oh, buon Dio. Ricordo bene il signor Pitt. È stato molto cortese con noi. Se volete aspettare nel salottino, chiederò alla signora Fetters se può ricevervi.» Charlotte venne accompagnata in una piccola stanza luminosa, ornata con stampe, porcellane e un paravento di seta, con un motivo di crisantemi dorati, tutti cinesi, uno stile particolarmente di moda. Cinque minuti dopo il maggiordomo ritornava per precederla in un'altra stanza, molto femminile, tutta nelle tonalità del rosa intenso e del verde, che si apriva sul giardino. Juno Fetters era una donna molto bella, dalla figura opulenta, che si teneva eretta con grande dignità. Aveva la pelle chiarissima, benché i suoi capelli fossero di un castano abbastanza anonimo. Naturalmente era vestita tutta in nero, ma il lutto le donava più che alla maggior parte delle donne.
«Signora Pitt? Prego, entrate e accomodatevi. Ho lasciato aperto perché mi fa piacere l'aria. Ma se trovate che fa un po'freddo...» «No, grazie» Charlotte prese posto nella poltrona di fronte a lei. «È molto piacevole. L'erba ha un profumo dolcissimo, come quella dei fiori.» Juno la guardò con aria preoccupata. «Buckland mi ha detto che il signor Pitt non ha potuto venire di persona. Mi auguro che non sia malato.» «No, affatto» si affrettò ad assicurarle Charlotte. Poi, scrutando quella faccia intelligente, dall'espressione singolare, decise di dirle la verità. «È stato rimosso da Bow Street e mandato in tutt'altro posto per una missione segreta. Si tratta di una specie di punizione per aver testimoniato contro Adinett.» «Ma... è mostruoso!» Inconsciamente aveva scelto la stessa parola che Charlotte continuava a ripetersi. «Con chi possiamo parlare per ottenere che qualcosa cambi nella sua situazione?» «A nessuno.» Charlotte scrollò la testa. «Occupandosi a fondo di quel caso, si è fatto nemici potenti. Quindi, probabilmente è meglio se, almeno per un po', non si fa vedere in giro. Sono venuta perché Thomas mi ha sempre parlato di voi con moltissima considerazione, e vi riteneva sicura che vostro marito fosse rimasto vittima di un omicidio, non di una disgrazia.» «Effettivamente è quello che credo» disse Juno con voce sommessa. «Al primo momento no. Mi sentivo semplicemente inebetita. Non riuscivo a cogliere fino in fondo il significato di ciò che era successo. Martin non è... non era goffo, maldestro. E io so benissimo che non avrebbe mai messo i suoi libri su Troia e la Grecia sul ripiano più alto dello scaffale. Perché non aveva senso. Come non lo avevano altre cose, quando il signor Pitt le ha fatte rilevare: la poltrona spostata dalla sua posizione abituale e quel po' di lanugine proveniente dal pelo del tappeto sulla sua scarpa.» «Se aveste saputo il motivo per cui Adinett lo ha fatto, non c'è dubbio che lo avreste detto al processo, o prima. Ma da allora in poi avete avuto altro tempo per rifletterci?» «Ho ben poco da fare» rispose Juno sforzandosi di sorriderle. «Ma non riesco a trovare niente.» «Io ho bisogno di saperlo.» A Charlotte non sfuggì il fremito di insistenza pressante nella propria voce. «È l'unico modo con cui posso provare a quella gente che il verdetto è stato giusto e Thomas non si è comportato né da arrogante né da irresponsabile, e non era neanche stato influenzato negativamente. Non ha fatto che seguire, punto per punto, le prove raccolte
per un caso sul quale indagava, e ha avuto ragione.» «E come avreste intenzione di riuscirci?» «Cercando di scoprire tutto quanto è possibile sul conto di John Adinett, e se vorrete aiutarmi, anche di vostro marito, in modo da sapere cos'è veramente accaduto, e fornire le prove del perché è accaduto.» Juno respirò a fondo e si impose con uno sforzo di dominarsi, mentre fissava Charlotte con aria grave. «Anch'io voglio saperlo. Niente mi impedirà di sentire la mancanza di Martin, niente potrà darmi un po' di conforto, ma se almeno mi facessi una ragione di quello che è successo, mi sentirei meno arrabbiata, meno confusa... e forse finirei per rassegnarmi. È tutto talmente... incompiuto. Trovate che sia una definizione assurda? Mia sorella continua a ripetermi che dovrei partire, andar via per un po', cercare di dimenticare... Ma io non voglio. Ho bisogno di sapere perché!» In giardino, gli uccelli cinguettavano e un vento leggero portava nella stanza il profumo dell'erba. «Conoscevate bene il signor Adinett? Veniva spesso a trovarvi?» «Sì, molto spesso. Almeno una o due volte al mese; in qualche caso anche di più.» «Vi era simpatico?» Charlotte aveva bisogno di capire il gioco dei sentimenti che quel rapporto poteva nascondere. Era possibile che Juno si sentisse tradita da un amico oppure una persona a lei cara le era stata strappata da quello che, a conti fatti, era uno sconosciuto? Juno rifletté per qualche istante prima di rispondere, come se quella domanda le creasse qualche difficoltà. «Non sono del tutto sicura. In principio sì, mi piaceva. Era molto interessante. All'infuori di Martin, non aveva mai sentito nessuno parlare con tanto entusiasmo dei propri viaggi. Erano un'autentica passione, per lui, e sapeva descrivere le vaste regioni incontaminate del Canada in un modo tale che la loro bellezza, e il terrore che incutevano, diventava qualcosa di vivo e autentico perfino qui, in piena Londra. Non si poteva non ammirare una cosa del genere. Avrei voluto ascoltarlo senza mai stancarmi, anche se non sempre mi piaceva incrociare il suo sguardo.» Era una strana scelta di parole, e Charlotte la trovò molto significativa. Non aveva assistito al processo e quindi aveva soltanto i quotidiani per ricostruirsi l'immagine di Adinett nella mente, ma perfino le fotografie facevano risaltare l'austerità del suo viso e lo straordinario autocontrollo, utile a mascherare sentimenti ed emozioni che avrebbero anche potuto imbarazzarlo. Che tipo di uomo era stato? Ricordava di aver letto che aveva cin-
quantadue anni, ma dalle fotografie non sapeva farsi un'idea se fosse alto o basso di statura, di carnagione olivastra o no. «Se io dovessi cercare di distinguerlo in mezzo a una folla, come credete di potermelo descrivere?» chiese. Juno ci pensò un momento. «Un soldato» rispose, e la sua voce vibrava di sicurezza. «Trasudava quello che avrei definito il senso del potere, come se avesse potuto mettersi alla prova di fronte ai più gravi pericoli sapendo di poterli affrontare. Credo che non avesse paura di nessuno. Non amava mettersi in mostra, se mi capite. Ecco una delle cose che Martin ammirava maggiormente in lui.» Di nuovo i suoi occhi si colmarono di lacrime. «Anch'io lo rispettavo per questo» soggiunse subito. «Perché si trattava di quella forza di carattere che appare terrificante e affascinante nello stesso momento.» «Credo di capire» disse Charlotte con aria pensosa. «Le giudichiamo persone invulnerabili, un po' diverse da noi... Be', da me, se non altro. Era alto di statura?» Charlotte si accorse improvvisamente che parlava al passato, come se Adinett fosse già morto. Quando se ne rese conto provò un vago malessere. E se avessero sbagliato tutti e fosse innocente? «Sì, parecchio più alto di Martin. Però Martin non era molto alto... cinque o sei centimetri più di me.» Charlotte rimase sconcertata. Si stava accorgendo di essersi creata un'immagine di lui totalmente diversa. Se avevano pubblicato la sua fotografia sui giornali, lei non l'aveva vista. Forse Juno notò il suo stupore. «Vi piacerebbe vedere com'era?» domandò, un po' incerta. «Sì, la prego.» Juno si alzò e andò a un piccolo scrittoio con l'alzata a saracinesca. Ne tirò fuori una fotografia in una cornice d'argento. Quando gliela porse, le tremava la mano. Charlotte la prese e la guardò. C'era da pensare che l'avesse riposta nello scrittoio per evitare di guarnirla con un fiocco nero, come se per lei Martin fosse stato ancora vivo? Poi osservò il volto racchiuso nella cornice. Aveva l'ossatura massiccia, il naso grosso e grandi occhi scuri. Sembrava pieno d'intelligenza e senso dell'umorismo, e quasi sicuramente rivelava un temperamento facile alla collera. Un volto vulnerabile, il volto di un uomo capace di sentimenti profondi e intensi. Era possibile che avesse avuto molti interessi in comune con Adinett, ma i loro caratteri, almeno a quanto giudicava dal ritratto, erano profondamente diversi. Anche Martin Fetters avrebbe messo a disagio parecchie persone, ma
soltanto perché era completamente onesto, e Charlotte credette di capire che doveva anche essere un uomo capace di ispirare un'amicizia sincera, intensa. Lo restituì con un sorriso. Juno andò a mettere il ritratto là dove l'aveva preso. «Volete vedere la biblioteca?» Era una domanda dai molti significati. Quello era il luogo dove lui aveva lavorato, dove si trovavano i suoi libri, la chiave alla sua mente. E anche quello dov'era stato ucciso. Charlotte si alzò e la seguì in anticamera e su per le scale. Juno s'irrigidì mentre si avvicinava a quella porta, raddrizzò le spalle facendosi forza, ma poi, con un gesto deciso, afferrò la maniglia. Era una stanza prettamente maschile, con poltrone e divano di cuoio, i colori decisi, le pareti per tre lati ricoperte di scaffalature piene di libri. Il camino aveva un parafuoco in ottone imbottito di cuoio verde. Un armadietto-bar era sistemato su un tavolo vicino alla finestra, insieme a tre bicchieri puliti. Gli occhi di Charlotte corsero subito verso la comoda poltrona situata nell'angolo opposto, un po' sulla sinistra, e alla scaletta di legno lucido accostata agli scaffali, Era formata da tre soli gradini e fornita di un lungo pilastrino centrale a cui appoggiarsi. Sarebbe stata indispensabile per raggiungere i ripiani più alti delle librerie anche per uomo di statura superiore alla media. Se Martin Fetters non era stato molto più alto della moglie, avrebbe dovuto sicuramente salire sull'ultimo gradino della scaletta per leggere i titoli dei volumi disposti sul ripiano più alto. E questo faceva sembrare ancora più improbabile che avesse sistemato proprio lassù i libri che, per lui, erano di consultazione più frequente. Charlotte poi si voltò verso la grande poltrona che in quel momento si trovava a poco meno di due metri dall'angolo, rivolta verso il centro della stanza. Considerata la posizione della finestra e delle lampade a gas appese al muro, era il posto più logico per godere una comoda lettura. Juno seguì il filo dei suoi pensieri. «Si trovava laggiù» disse appoggiandovisi contro con tutto il suo peso e spingendola fino a poco meno di un metro dagli scaffali e dalla parete. «Lui era disteso sul pavimento con la testa qua dietro. La scaletta era là.» E indicò il lato opposto della poltrona. Charlotte cercò di allungarsi fin dove si era trovata la testa di Fetters. Di lì si volse in direzione della porta, ma di quell'intera parete non riuscì a vedere niente. Tornò ad alzarsi. Juno la stava osservando con aria grave. Era inutile confermarsi reciprocamente che tutto si era svolto come suo marito aveva spiegato... e la giuria accettato. Si mise a osservare la stanza con maggior attenzione, leggendo i titoli
dei libri. Tutti quelli sui ripiani più accessibili della libreria riguardavano argomenti che avevano in comune uno stesso filone di studio e di pensiero. Più lontane dalla logora poltrona, e quindi anche adoperata più spesso, c'erano le opere di consultazione di ingegneria, fabbricazione dell'acciaio, marina mercantile; lingua e costumi e topografia della Turchia in particolare e del Medio Oriente in genere. Poi venivano i libri che avevano come soggetto alcune delle grandi città antiche, Efeso, Pergamo, Smirne e Bisanzio. E c'erano altri volumi sulla storia e la cultura dell'Islam turco, le sue credenze religiose, la letteratura e l'architettura, nonché l'arte, a cominciare dal Saladino, passando per le Crociate e i regni dei grandi sultani fino alla sua corrente condizione politica tanto precaria. Juno non aveva smesso di osservarla. «Martin aveva cominciato a viaggiare quando costruiva linee ferroviarie in Turchia» disse con voce sommessa. «Lì ha conosciuto John Turtle Wood, che lo ha introdotto allo studio dell'archeologia, e ha scoperto di essere particolarmente dotato in quel campo.» Adesso la sua voce vibrava di orgoglio e i suoi occhi si erano inteneriti. «Ha trovato alcuni oggetti stupendi. Quando li portava a casa, me li mostrava. In piedi, in questa stanza, tenendoli fra le mani... mani bellissime, forti, delicate. Li girava e rigirava lentamente, spiegandomi da dove provenivano e quale popolo li aveva adoperati. E così, mi descriveva tutto quanto sapeva della loro vita quotidiana. Ricordo uno di questi oggetti in terracotta: un vaso per unguenti. Forse era bizzarro, creato con estro e genialità, ma intanto che guardavo Martin, la faccia illuminata dall'emozione, scoprivo che potevo anch'io vedere, viva e vera, quell'Elena di Troia che aveva acceso l'immaginazione degli uomini di una tale passione che due popoli erano entrati in guerra per lei e uno di essi era stato annientato.» «Dove aveva conosciuto Adinett?» «È successo molto tempo dopo. Martin aveva imparato tantissimo da Wood, ma poi aveva proseguito per conto proprio. Conosciuto Heinrich Schliemann, aveva lavorato con lui e imparato ogni genere di nuovi metodi dai tedeschi.» Adesso la faccia di Juno rivelava l'entusiasmo. «Erano i migliori nel campo dell'archeologia. Facevano i rilievi di un sito archeologico e lo disegnavano in pianta, integralmente, non solo a pezzi. Così, in seguito, chiunque avrebbe potuto avere un quadro di un intero modo di vivere, non solamente di qualche suo singolo aspetto.» La sua voce tornò fievole. «A Martin piaceva infinitamente.» «E questo quand'è successo?» domandò Charlotte, prendendo posto su una delle poltrone.
Juno venne a sedersi di fronte a lei. «Non so con esattezza quando Martin fece la conoscenza del signor Wood, ma so che cominciarono a lavorare al sito di Efeso nel '63. Credo che fosse il '69, quando il British Museum comprò il sito, e dev'essere stato l'anno seguente che Martin fece la conoscenza di Schliemann. Fu a quell'epoca che s'innamorò perdutamente di Troia e dell'idea di scoprirla. Era capace di recitare pagine e pagine di Omero, sapete?» «E Adinett era uno studioso degli stessi argomenti?» «Oh, no! Affatto. Credo che non sia mai neanche andato nel Medio Oriente e, che io sappia, non aveva il minimo interesse per l'archeologia, altrimenti Martin ne avrebbe sicuramente parlato.» Charlotte non nascose di essere confusa. «Credevo che fossero buoni amici, e se trascorrevano molto tempo insieme...» «Certamente. Ma erano gli ideali a unirli, e l'ammirazione per altri popoli e altre culture. Adinett si era sempre interessato al Giappone fin da quando il suo fratello maggiore era stato mandato nella capitale come parte della legazione inglese.» «Ed è andato anche lui in Estremo Oriente?» «Non mi pare. Era semplicemente affascinato dalla loro cultura. Aveva vissuto in Canada per moltissimo tempo e si era fatto un amico giapponese alla Hudson Bay Trading Company. Non so il suo nome. Adinett alludeva sempre a lui chiamandolo Shogun.» «E raccontava molte cose di lui?» L'espressione di Juno era spenta, triste. «Tutto quanto diceva aveva grande interesse. Perfino io ascoltavo ogni sua parola. Me lo vedo ancora seduto dall'altra parte della tavola, a cena, mentre ci descriveva i suoi viaggi su quelle distese sterminate di neve, e com'erano la luce e il vasto cielo polare e il freddo e gli animali, e soprattutto quella grande bellezza. A quanto ricordo, nel 1869 c'era stata una breve sommossa nel Manitoba, capitanata da un franco-canadese di nome Louis Riel. Non volevano che gli inglesi occupassero la zona, e invece loro mandarono una spedizione militare agli ordini del colonnello Wolseley. Adinett e Shogun si offrirono come volontari per condurli nell'interno del Paese e andarono incontro alle truppe fino a Thunder Bay, seicentocinquanta chilometri a nord-ovest di Toronto, e le guidarono per altri quasi mille chilometri all'interno della regione.» Charlotte continuava a non vedere niente di utile in tutto questo. Cos'aveva portato a una disputa, tanto violenta da concludersi con un assassi-
nio? «E la ribellione venne domata?» «Con successo, a quanto sembra.» Juno si accorse che Charlotte appariva confusa. «Adinett si era poi legato di vivissima simpatia ai francocanadesi» le spiegò. «Parlava di loro, e con grande calore. Ammirava i concetti repubblicani della Francia, la passione per la libertà e l'uguaglianza. Andava in Francia molto spesso, fino a pochi mesi fa. Ecco quello che lui e Martin avevano realmente in comune: l'entusiasmo per le riforme sociali. Ne parlavano per ore, e discutevano dei modi in cui avrebbero potuto essere realizzate. Martin aveva tratto i primi insegnamenti in materia dalla democrazia dell'antica Grecia, e Adinett dall'idealismo rivoluzionario dei francesi, ma i loro scopi erano molto simili.» Di nuovo si ritrovò con gli occhi colmi di lacrime. «Ecco perché non riesco a capire che cosa possa averli portati a una disputa.» La sua voce ebbe un tremito. «E se ci sbagliassimo? È possibile?» Charlotte non era preparata a prendere in considerazione quell'eventualità. «Non lo so. Vi prego, provate a ripensarci, a ricordare se il signor Fetters avesse mai manifestato qualche differenza di opinione o fosse andato in collera per qualche cosa.» «Che fosse in collera, no» rispose Juno con sicurezza, fissando Charlotte con gli occhi sbarrati. «Ma era preoccupato per qualcosa. Avrei detto che si trattava di ansietà... niente di più. Ma quando si assorbiva nel suo lavoro era sempre un po' distratto. Era molto brillante nel suo campo. Riusciva sempre a trovare pezzi rari di antiquariato. Capiva il valore degli oggetti. Ultimamente si era messo a scrivere più di prima su tutto questo, per svariate riviste, frequentava dibattiti, riunioni e così via. Come oratore era molto dotato. Al pubblico piaceva moltissimo ascoltarlo.» Soffocò un singhiozzo e ci volle qualche attimo prima che riacquistasse il completo dominio di sé. «Chiedo... chiedo scusa» mormorò. «Era preoccupato per qualche cosa, ma non ne avrebbe mai discusso con me e io non avevo il coraggio di insistere perché si stizziva. Non ho idea del motivo. Immaginavo che riguardasse una delle tante associazioni di appassionati di antiquariato di cui era socio. Molto spesso nascono dei contrasti fra di loro; c'è una rivalità tremenda.» Charlotte era sempre più confusa. Tutto questo sembrava banale. «Ma Adinett non s'interessava alle antichità?» provò a insistere. «Proprio per niente. Prestava ascolto a Martin soltanto perché era un amico, e mi accorgevo che a volte quei discorsi lo annoiavano.» Guardò Charlotte con occhi pieni di tristezza. «Tutto questo non è di nessun aiuto,
proprio no.» Non era una domanda, la sua. «Non riesco a vedere come possa esserlo. Eppure dev'esserci qualche motivo. Forse noi non sappiamo ancora dove cominciare a guardare.» Si alzò in piedi. Capiva che al momento non sarebbe venuta a sapere niente di più e aveva già approfittato del tempo di Juno Fetters. La padrona di casa si alzò lentamente in piedi, imitandola, ma con movimenti che rivelavano un'infinita stanchezza. Charlotte colse a volo la sensazione di quanto potesse essere schiacciante la solitudine di chi è in lutto, ma scoprì di non avere idea di come aiutare Juno che, in fondo, aveva conosciuto meno di due ore prima. «Posso tornare a farvi visita?» domandò, anche se sapeva di rischiare una risposta scortese, ma a questo modo lasciava a lei la decisione. La faccia di Juno s'illuminò di speranza. «Certo, vi prego... io... io voglio sapere cosa c'è veramente sotto... oltre la realtà dei fatti. E voglio fare qualcosa di più, non accontentarmi di rimanere qui con le mani in mano!» Charlotte ricambiò il suo sorriso. «Grazie. Appena troverò il più piccolo indizio che possa essere seguito e approfondito con qualche speranza, verrò a trovarvi.» Gracie aveva i suoi piani anche lei. Appena Charlotte fu uscita di casa, piantò in asso il resto delle faccende casalinghe, scelse il suo scialle più bello, il cappellino, e prendendo i quattrini necessari per pagarsi l'omnibus, scappò fuori. Ci mise poco più di venti minuti per raggiungere la stazione di polizia di Bow Street dove, fino al giorno prima, Pitt era stato sovrintendente. Marciò su per i gradini e ne varcò la porta come se andasse alla guerra si piantò davanti al sergente, seduto al banco dell'ingresso, che la scrutò con scarsissimo interesse. «Ebbene, signorina? Posso esservi utile?» Ma non si era neanche preso la briga di smettere di mangiucchiare la matita. «Sì, prego» rispose lei disinvolta. «Voglio parlare con il sergente Tellman. È della massima urgenza e riguarda un caso al quale sta lavorando. Ho delle informazioni per lui.» Il sergente non ne rimase particolarmente impressionato. «Oh, davvero? E quali sarebbero queste informazioni?» «Sarebbero molto importanti. E il sergente Tellman non sarà per niente soddisfatto se non gli direte che io sono qui. Mi chiamo Gracie Phipps. Andate ad avvertirlo e lasciate che sia lui a decidere se vuole venir fuori o no.»
Il sergente rimase per un momento, che parve interminabile, a fissare la sua faccia e quei suoi occhi penetranti, senza un palpito d'incertezza, e finì per concludere che, malgrado la statura quasi da nanerottola, la ragazza sembrava un tipo abbastanza deciso e poteva diventare una scocciatrice formidabile. In aggiunta, sapeva molto poco della vita privata o della famiglia di Tellman, un uomo singolarmente taciturno che poteva anche diventare molto antipatico se non lo si prendeva per il verso giusto. «Voi aspettate qui, signorina. Vado a riferire e vediamo cosa dice.» Tellman ci mise molto meno di cinque minuti a presentarsi. Aveva, come sempre, l'aspetto riservato, l'aria acida e la figura segaligna, ed era vestito con tale accuratezza che doveva sentirsi a disagio, tanto il colletto della camicia gli andava stretto. I capelli erano accuratamente pettinati e lisciati all'indietro e le guance incavate apparivano coperte di un vago rossore. Ignorando totalmente il sergente dietro il banco, marciò dritto su Gracie, ferma in piedi ad aspettare. «Cos'è questa storia?» domandò a mezza voce. «Si può sapere cosa stai facendo qui?» «Diciamo che sono venuta, piuttosto, a vedere cosa stai facendo tu.» «Cosa sto facendo io? Mi occupo delle indagini relative a una serie di furti con scasso.» Le sopracciglia di Gracie si alzarono di scatto. «Ti stai occupando di pochi furterelli quando il signor Pitt è stato sbattuto fuori, non ha più il suo posto, l'hanno mandato chissà dove, la signora Pitt sragiona quasi per l'angoscia e i bambini non hanno più il loro papà a casa?» «Niente furterelli e niente ladruncoli!» esclamò Tellman su tutte le furie, riuscendo ugualmente a tenere la voce bassa. «Quello che stiamo cercando è uno scassinatore d'alta classe. E purtroppo io non posso farci niente per quello che è successo al signor Pitt» continuò indignato. «Cosa credi, che ascoltino me? Hanno già messo qui un altro, con la sua seggiola ancora calda. Un tizio di nome Wetron, e mi ha detto subito di lasciar perdere, di non pensarci neanche.» «E naturalmente tu sei l'ubbidienza in persona, e fai quello che ti ordinano!» gli rispose Gracie in tono di sfida, con gli occhi lampeggianti. «Contavo su di te per esserci di aiuto perché anche se non fai che lamentarti e brontolare per buona metà del tempo, non manchi di una certa lealtà, e sai essere giusto e corretto. Mentre invece questa è una cosa né giusta né corretta.» «Certo che non è corretta! È una cattiveria, ma chi la fa ha i poteri per farla. Non immagini neanche chi sono, quelli lì, e cosa fanno... altrimenti
non parleresti come parli. Ti ripeto che il signor Wetron mi ha detto di mollare tutto e so che mi tiene d'occhio per vedere se gli do ascolto. A quanto ne so, probabilmente è uno di loro.» Gracie lo stava fissando, stralunata. C'era un'autentica paura negli occhi di Tellman, che la spaventò. Sapeva che il sergente le era affezionato e forse provava anche qualcosa di più per lei, per quanto si rifiutasse di ammetterlo perfino con se stesso. Quindi decise di essere un po' più gentile. «Be', dobbiamo fare qualcosa. Non possiamo lasciare che succeda quel che deve succedere. E poi, lui non sta neanche più a casa.» La sua voce ebbe un tremito. «Lo hanno mandato a Spitalfields non solo a lavorare, ma anche a viverci.» La faccia di Tellman s'indurì. Fu come se gli avessero dato uno schiaffo. «Questo non lo sapevo.» «Be', adesso lo sai. E noi cos'abbiamo intenzione di fare?» Lei lo fissava supplichevole. Era molto difficile chiedergli un favore, considerate tutte le differenze di opinione che c'erano fra loro, eppure non aveva neanche considerato la possibilità di non venire a cercarlo. Tellman era il suo alleato naturale. Sembrava profondamente turbato. Girando appena la testa sulla spalla incrociò lo sguardo incuriosito del sergente, seduto al banco. «Vieni fuori!» disse brusco, afferrando Gracie per un braccio e trascinandola oltre la porta e giù per i gradini, fino in strada. «Non so cosa possiamo fare. È la Confraternita! In caso tu non lo sappia, una società segreta di uomini potenti che si favoriscono reciprocamente in tutto e per tutto, proteggendosi perfino dalla legge, se possono. Avrebbero salvato Adinett, ma il signor Pitt si è messo di mezzo, e questo non glielo perdoneranno. E poi, non è la prima volta che lui gli mette i bastoni fra le ruote, a quelli lì!» «Be', e chi sono?» Lei non voleva lasciargli capire fino a che punto quel pensiero la spaventasse. «È proprio quello il nocciolo della faccenda. Ma non mi hai sentito, prima, ragazza mia? Nessuno sa chi sono» riprese Tellman disperato. «Pensa a qualcuno che è capo di qualcosa di importante, un uomo potente... può essere della Confraternita, o magari no. Nessun altro lo sa.» Gracie si accorse di rabbrividire. «Potrebbe essere addirittura il giudice?» «Eccome! Soltanto che stavolta non lo era, altrimenti avrebbe trovato qualche modo per cavare Adinett dai guai.» Gracie si mise più impettita, a spalle erette. «Be', comunque dobbiamo fare qualcosa. Stai forse dicendo che Adinett non ha ammazzato quel ti-
po... come diavolo si chiama?» «Fetters. No, tutt'altro. È stato lui. Solo che non sappiamo perché.» «Allora sarà meglio cercare di saperlo, e vediamo di andare per le spicce, dico bene? Tu sei un detective. Da dove cominciamo?» Sulla faccia di Tellman si delineò un miscuglio di espressioni: riluttanza, rabbia, orgoglio, paura. Con un fremito di vergogna Gracie si accorse di quanto gli stava chiedendo. Lei aveva ben poco da perdere a confronto di quello che poteva costare a Tellman, se avesse fallito. Se il nuovo sovrintendente gli aveva ordinato di non occuparsi più della questione e dimenticare Pitt e lui disubbidiva, avrebbe perduto il posto. E sapeva come avesse lavorato sodo per guadagnarselo. Non aveva domandato né ricevuto favori. Non aveva più nessuno che fosse ancora vivo della sua famiglia, e pochi amici. Era un uomo orgoglioso, un solitario. Si era risentito quando Pitt aveva ricevuto la promozione, arrivando al comando del commissariato. Pitt non era un gentiluomo. Era un uomo qualsiasi, il figlio di un guardacaccia. Poi, man mano che lavoravano insieme, nei suoi confronti gli era nata una tacita lealtà, e tradirlo sarebbe stato contrario al suo senso del decoro e dell'onestà. Non avrebbe più potuto vivere in pace con se stesso, e Gracie lo sapeva. «Dove cominciamo?» ripeté. «Se è stato lui, deve averlo fatto per una ragione.» «Lo so.» Tellman si era fermato in mezzo alla strada assorto nei suoi pensieri, mentre carrozze e carri passavano avanti e indietro per Bow Street e la gente era obbligata a scendere nel rigagnolo che correva lungo il marciapiede per girare intorno a loro due. «A suo tempo abbiamo fatto tutto quanto si doveva per scoprirne il movente. Nessuno ha mai saputo che ci fosse stato qualcosa a provocare anche soltanto un semplice bisticcio ira loro.» Scrollò la testa. «Né soldi, né donne, né una rivalità negli affari o altro. Andavano d'accordo perfino in politica.» «Be', non si è guardato abbastanza a fondo!» Adesso lei gli si era piantata davanti e non si muoveva. «Cosa farebbe il signor Pitt se fosse qui?» «Quello che faceva sempre. Ha esaminato tutto quanto avevano in comune per capire se era stato possibile che litigassero per qualche motivo. Abbiamo parlato con tutti i loro amici, con i conoscenti, perquisito la casa da cima a fondò, letto tutte le carte... Non c'era niente di niente!» Gracie stava immobile sotto un bel sole splendente, e lo fissava mordendosi un labbro. Sembrava una bambina stanca e arrabbiata, lì lì per scoppiare in lacrime. «Non si ammazza nessuno per niente» ribatté incaponita.
«E lui l'ha fatto così, di colpo; dunque dev'essere stato qualcosa che è successo poco prima. Devi scoprire cos'è accaduto in tutta la settimana prima, fino a quel giorno.» Tellman rimase esitante; non per cattiva volontà, ma semplicemente perché non riusciva a pensare che si potesse fare qualcosa di utile. Gracie continuava a fissarlo. Doveva darle una risposta e non aveva il coraggio di dirle di no. Lei non capiva. Non aveva idea delle difficoltà né di quanto lui e Pitt, avessero fatto a suo tempo. Aprì la bocca e si scoprì a risponderle proprio quello che Gracie voleva sentire. «Scoprirò tutto il possibile su quegli ultimi giorni, prima che Adinett ammazzasse Fetters.» Che ridicolaggine! E che razza di poliziotto è quello che permette a un pezzettino di ragazza alta come un soldo di cacio a costringerlo a comportarsi da imbecille? «Non so quando» continuò mettendosi sulla difensiva. «Nel mio tempo libero. Non sarà utile a nessuno se Wetron mi sbatte fuori dalla polizia.» «Naturale che non servirà a niente» disse Gracie con un cenno affermativo che gli facesse capire fino a che punto era ragionevole. E poi, d'un tratto, gli rivolse un sorriso tanto abbagliante da fargli provare un tuffo al cuore. «Dovessi scoprire qualcosa, verrò a dirtelo» le rispose secco. «E adesso vattene, e lasciami lavorare!» Gracie sbuffò, piena di sussiego, e mentre nel suo cuore nasceva un briciolo di speranza, andò a prendere un omnibus per tornare in Keppel Street. Tellman cominciò quella sera stessa, appena uscito da Bow Street, dopo aver comprato una focaccia calda da un venditore ambulante come faceva quasi sempre. Qualsiasi cosa avesse deciso di fare, doveva farla senza lasciare tracce. Chi poteva conoscere tutte le mosse di Adinett? Chi aveva visto dov'era andato durante il periodo di tempo immediatamente precedente alla morte di Fetters? Lui aveva giurato di aver sempre fatto le solite cose. Dal punto di vista finanziario, era indipendente e aveva un reddito che gli consentiva di non essere costretto a guadagnarsi da vivere. Poteva passare il tempo come preferiva. E a quanto sembrava, l'occupava frequentando una serie di club, molti dei quali avevano a che fare con i servizi dell'esercito e le esplorazioni oltre alla National Geographic Society, Era l'abitudine di chi aveva ereditato un bel patrimonio e poteva permettersi di non fare niente. Tellman disprezzava tutto questo con il livore di chi ha vi-
sto molti, troppi altri sgobbare a tutte le ore del giorno e della notte, e poi andarsene a letto infreddoliti e affamati. Affrettò il passo rimuginando sul problema. Sarebbe stato motivo di grande soddisfazione per lui scoprire perché Adinett aveva commesso il delitto, e provarlo a tutta Londra. Era ben addestrato a seguire le tracce di qualsiasi persona, ma l'aveva sempre fatto godendo dell'autorità del suo rango nelle forze di polizia. Farlo con molta discrezione, e nel tempo libero, sarebbe stato del tutto diverso. Quindi decise di cominciare dal posto più ovvio, cioè dai posteggi delle carrozze a nolo, con i vetturini che conosceva. Di solito frequentavano sempre le stesse zone e c'era la possibilità che se Adinett si fosse servito di una di quelle gli sarebbe sicuramente capitato di essere portato di qua o di là dallo stesso vetturino. Invece se avesse usato l'omnibus o magari perfino la metropolitana, seguire i suoi movimenti sarebbe stato pressoché impossibile. Dai primi due ai quali si rivolse non venne a sapere niente di utile. Il terzo si limitò a indicargli la fila degli altri suoi colleghi. Erano le nove e mezzo passate. Era stanco, aveva i piedi che gli facevano male e si sentiva furioso con se stesso per aver ceduto a un impulso tanto stupido quando attaccò discorso col settimo vetturino, un ometto rugoso, con i capelli brizzolati, che tossiva di continuo. Gli fece venire in mente suo padre, che lavorava come facchino al mercato del pesce di Billingsgate tutto il giorno e guidava un hansom per metà della notte, con qualsiasi tempo, per dar da mangiare alla famiglia. Forse fu quel ricordo che lo indusse a parlare gentilmente con il vecchio. «Avete un po' di tempo?» gli chiese. «Volete andare da qualche parte?» «In nessun posto di particolare» rispose Tellman. «Mi servono certe informazioni per aiutare un amico nei guai. E ho fame.» Ma era un semplice pretesto per salvare la faccia. «Potete dedicarmi dieci minuti e venire a mangiare una focaccia calda innaffiata da un bicchiere di birra?» «Brutta giornata. Niente focacce per me, non posso permettermele» rispose il vecchio. «Ho bisogno di aiuto, non di soldi» gli rispose Tellman. Aveva scarsissime speranze di venire a sapere qualcosa di utile, ma sempre con la faccia estenuata di suo padre davanti agli occhi, gli pareva di ripagare un debito del passato. Adinett gli sembrava di scarsa importanza, adesso, ma voleva offrire qualcosa da mangiare a quel poveretto. «Come volete. Ma cosa vorreste sapere?»
«Prendete a bordo spesso dei clienti in Marchmont Street?» «Sì. Perché?» Tellman aveva portato con sé un ritratto di Adinett. Lo tirò fuori e glielo mostrò. «Vi ricordate di aver mai fatto salire quest'uomo sulla vostra vettura?» Il vecchio strizzò gli occhi per osservarlo bene. «Ma non è quello che ha ammazzato il tipo che faceva gli scavi e tirava fuori pentole antiche e roba simile, o sbaglio? Siete della polizia?» «Sì... ma non in servizio. Faccio questo per aiutare un amico. Non si tratta di un'indagine, e se sapessero che vi sto interrogando probabilmente mi butterebbero fuori... Sono stato chiaro?» Il vetturino lo squadrò di sottecchi alzando le sopracciglia. «E così, se io aiuto voi, voi aiutate me quando siete in servizio, giusto?» «Non lo escludo.» «L'ho preso a bordo tre o quattro volte. Un signore distinto, ex ufficiale o qualcosa del genere. Camminava sempre impettito, a testa alta. Dava buone mance.» «Dove lo portavate?» «In un mucchio di posti. In genere su nei quartieri alti, ai club per i gentiluomini e cose simili.» «Che tipo di club? Non ricordate qualche indirizzo?» Tellman si stava domandando se valeva la pena di seguire quel filone perché lui non aveva nessuna autorità per entrare in quei posti e chiedere chi fossero le persone che Adinett frequentava. Ma, se non altro, avrebbe potuto dire a Gracie che ci aveva provato. «Non proprio. Uno era un posto dove non mi era mai capitato di andare, qualcosa che aveva a che fare con la Francia. Con Parigi, per essere esatti. Ricordo che era un anno.» Il vetturino si grattò la testa, spingendo il cappello di sghembo. «1789... Eccolo!» «E in nessun altro posto?» «Non mi dispiacerebbe un'altra focaccia.» Tellman lo accontentò, più perché gli faceva pietà che per ingraziarselo. L'informazione era totalmente inutile. «E poi a un giornale» continuò il vetturino dopo aver divorato una buona metà della seconda focaccia. «Quello che parla sempre di riforme. Poco dopo è venuto fuori con il signor Dismore, il proprietario.» Niente che lo meravigliasse. Tellman già sapeva che Adinett aveva anche Dismore fra i suoi conoscenti.
Il vetturino stava cercando di ricordare, la fronte aggrottata. «Ecco perché ho pensato che era molto strano... un signore come quello chiedermi di portarlo addirittura fino a Spitalfields, in Cleveland Street, che è ancora più fuori di Mile End Road. Era tutto gongolante, come se avesse scoperto chissà cosa.» Tellman trasalì. «Cosa? Lo avete portato in Cleveland Street?» «L'ho appena detto. Due volte!» «Quando?» «Appena prima che andasse a trovare quel Dismore. Gongolante, era. Non stava più nella pelle. E un paio di giorni dopo è andato a far fuori quel poveraccio. Strano, vero?» «Grazie» disse Tellman con una voce improvvisamente piena di entusiasmo. «Grazie mille. Permettete che vi offra ancora un bicchiere di birra, lungo la strada.» «Non mi spiacerebbe. Accetto, grazie.» 5 Pitt trovava difficile e penoso vivere in Heneagle Street, e non perché Isaac o Leah Karansky non gli offrissero il massimo delle comodità consentite dai loro mezzi oppure non fossero cordiali nei suoi confronti quando si ritrovavano insieme ai pasti. Leah era una cuoca eccellente, ma il cibo era diverso da quello solito, semplice e abbondante. Tutto, insomma, non gli era familiare, e se si addormentava di schianto per la stanchezza alla fine della giornata non era mai un sonno sereno e riposante, il suo. Gli mancavano Charlotte, i bambini, perfino Gracie, più di quanto avrebbe pensato possibile. Se non altro ricavava una certa consolazione dal fatto di sapere che Charlotte poteva andare a ritirare in Bow Street ogni settimana il denaro lì pronto per lei. Ma poi gli bastava osservare Isaac e Leah insieme, le occhiate che si rivolgevano e parlavano di anni e anni di vita comune e di totale comprensione, e la gentilezza con cui lui allungava una mano ad accarezzarla, per ricordargli ancora più crudelmente la propria solitudine. Aveva accettato l'offerta di Isaac che si era detto disposto a trovargli un impiego presso Saul, il tessitore di seta. Si trattava di sbrigare le incombenze di un uomo tuttofare: spostare qua e là casse, ceste e balle, spazzare il pavimento, e fare le commissioni quand'era necessario. Era il lavoro più modesto possibile, ma sempre meglio di niente. E poi offriva maggiori occasioni di girare per le strade, osservare e ascoltare senza richiamare l'at-
tenzione su di sé. In realtà si accorgeva anche lui di come questo suo impegno avesse scopi molto modesti; la cattura di anarchici come Nicoll e Mowbray era la prova lampante che gli investigatori del Reparto speciale avevano un ottimo addestramento e non avevano bisogno di qualcuno come lui che, nella zona, era un estraneo. Mentre rientrava in Heneagle Street sentì un gran chiasso poco più oltre, voci acute e rozze, il tonfo di una bottiglia scaraventata sul lastricato che andava in mille pezzi, un grido di dolore e un profluvio d'insulti. Una donna cominciò a strillare. Si mise a correre e, girato l'angolo, si trovò davanti una ventina di persone in parte nascoste da un carro la cui sponda posteriore era ribaltata. Botti rotolavano sulla strada bloccando il traffico nelle due direzioni; uomini stavano già picchiandosi con foga, altra gente era uscita dai negozi e dai posti di lavoro e una buona metà si era unita a quelli che menavano le mani mentre le donne, tenendosi un po' in disparte, sbraitavano parole d'incoraggiamento. Una di loro si chinò e, afferrato un sasso, lo scagliò in direzione dei litiganti con un ampio gesto del braccio. «Tornatevene a casa vostra, porci papisti!» strillava. «Tornate in Irlanda! È quello il vostro posto!» «Io non sono più irlandese di te, stramaledetta pagana!» le gridò un'altra di rimando. «Baldracca!» Si levò, acuto e stridulo, il suono di un fischietto. Nell'attimo di relativo silenzio che seguì giunse alle orecchie di Pitt un sordo scalpiccio di gente in arrivo. Si voltò di scatto. Non era compito suo impedire una rissa del genere. Scorse un agente di polizia che arrivava correndo verso di loro e si tirò indietro infilandosi sotto l'arcata di un portone che dava su un cortile, il laboratorio di uno scalpellino. Narraway si sarebbe aspettato che lui facesse da osservatore a tutto quel pandemonio. Arrivarono altri poliziotti i quali cercarono di separare i contendenti e si videro ricompensare di tanto impegno diventando loro stessi vittime delle due fazioni avverse. «Maledetti piedipiatti! Non servite a niente!» sbraitò un uomo, agitando i pugni in aria pronto a picchiare chiunque gli fosse arrivato a tiro. «Stupidi bastardi! Maiali!» Un poliziotto tentò di assestargli una botta con il manganello, e mancò il bersaglio. Pitt rimase nascosto nell'ombra. Girò gli occhi intorno a sé esaminando i casamenti squallidi, decrepiti, anneriti dal fumo di migliaia di comignoli, le finestre rappezzate alle bell'e meglio, l'acciottolato sconnesso delle strade, i rigagnoli ai lati della strada rigurgitanti di spazzatura e fatiscenti. Il tanfo di escrementi e marciume dominava su tutto. Quella rissa in
mezzo alla strada aveva avuto qualcosa di perverso, non era più il risultato di un improvviso scoppio di rabbia, ma il lento e sordo livore di anni di odio e di collera rivelato per pochi momenti, prima che la polizia mettesse paura ai contendenti o li riducesse di nuovo al silenzio... fino alla volta successiva. Pitt riprese il cammino avviandosi dalla parte opposta prima di essere notato e controllato. A testa bassa, si calò ben bene il cappello sulla fronte cacciò le mani in tasca. Svoltò al primo angolo, anche se stava andando in direzione opposta rispetto a Heneagle Street. Fin dal principio, appena arrivato nel quartiere, si era accorto del risentimento che ribolliva, del tono fremente e stizzoso della voce delle persone, della facilità con cui si poteva offendere e venire offesi. Stavolta aveva visto con i suoi occhi come la rabbia fermentasse, a fior di pelle. E se la polizia era arrivata in fretta e si era ritornati a una parvenza di ordine, niente pareva risolto. Era rimasto stupito dal modo in cui i sentimenti anticattolici si erano manifestati con violenza nel giro di pochi secondi. E gli tornarono in mente anche qualche brano di discorso a proposito di affari a cui si era rinunciato per motivi religiosi, dell'ospitalità negata, perfino del rifiuto di aiutare chi si fosse trovato nei guai, come sarebbe stato logico fare, non tanto per grettezza, ma perché la persona bisognosa apparteneva a un'altra fede religiosa. Lo scherno o gli insulti antisemitici lo stupivano meno semplicemente perché li aveva già sentiti anche prima, come il risentimento, le critiche e la condanna. Entrò nel primo pub al quale passò davanti e prese posto a un tavolo vicino al banco, sorseggiando lentamente un boccale di sidro. Dieci minuti più tardi entrò un giovanotto dalle spalle ossute con un dito avvolto in uno straccio insanguinato. «Ehi, Charlie» domandò incuriosito l'uomo che serviva al banco. «Cosa ti sei fatto?» «Mi ha morso uno stramaledetto topo, ecco che cosa mi sono fatto» replicò Charlie, infuriato. «Dammi una pinta. Se fossi pagato anche solo per la metà di quello che faccio mi farei servire un bicchierino di whisky. Ma quando mai i poveracci di Spitalfields vengono pagati per quello che valgono?» «Però hai un lavoro, e stai meglio di altri» obiettò con amarezza un cliente dalla faccia pallida e smunta. Charlie gli si rivoltò contro, sempre più infuriato. «Il mio guaio è che ci sono certi tipi che mi fanno lavorare giorno e notte, si prendono quello che faccio e lo vendono, diventando belli grassi e pasciuti, mentre a noialtri di-
sgraziati ci tengono buoni pagandoci una miseria.» Respirò a fondo e riprese con voce rauca. «E ci sono tanti stramaledetti vigliacchi che se la fanno sotto per la paura, ma non se la sentono di mettersi dalla mia parte a combattere per la giustizia... ecco la mia disgrazia!» «Finirai per farci ritrovare tutti sbattuti sul marciapiede, stupido imbecille che non sei altro!» ribatté quell'altro, aggrappandosi al suo boccale di birra come se potesse proteggerlo. Un uomo con i capelli biondi passò con gli occhi dall'uno all'altro senza neanche accorgersi, almeno in apparenza, della presenza di Pitt. «Ma si può sapere cosa vuoi, Charlie? Se anche prendessimo tutti le tue parti... e con questo?» «Allora sì, Wally, che si vedrebbe cambiare qualcosa. Vedremmo arrivare il giorno che un uomo viene pagato per quello che vale...» Wally tossì nella sua birra. «Continua a sognare, va'!» rispose nel tono di chi vuole tagliar corto perché aveva sentito fin troppe volte parole inutili come quelle. Charlie sbatté il suo boccale vuoto sul piano del bar con tanta violenza che il peltro lasciò una tacca nel legno. «Davvero?» disse in tono bellicoso. «Be', se avessimo più uomini con tanto fegato da potersi chiamare uomini, invece di ritrovarci con tutti questi branchi di papisti piagnucolosi e di viscidi ebrei qua intorno, ci potremmo ribellare e combattere per quello che è giusto. Come quegli stramaledetti mangiarane dei francesi hanno fatto a Parigi! Basterebbe tagliare un po' di gole e vedresti...» Un uomo bruno fu colto da un brivido. «Fai meglio a non dire cose del genere. Non sai neanche chi ti può ascoltare. E riesci soltanto a peggiorare le cose.» «Peggiorare!» esplose Charlie. «Cosa c'è di peggio di questo? Me lo vuoi dire! Siamo a centinaia di migliaia messi sotto i piedi da pochi fannulloni, avidi bastardi che se ne vanno in giro tutti tirati a lucido nei quartieri alti, e s'ingozzano in un modo tale che non riescono neanche a tener su i calzoni, tanto hanno la pancia straripante! E lo fanno perché sono sicuri di avere in tasca i piedipiatti, che non alzano un dito» soggiunse, voltandosi di qua e di là come se volesse sfidare chiunque a rimbeccarlo. «Ecco perché non hanno mai acchiappato, nell'88, quell'assassino di Whitechapel che ha fatto fuori tante poveracce che battevano la strada. Aprite le orecchie e ascoltatemi bene: lui è uno di quelli... come è vero Dio!» Sulla stanza calò improvvisamente il gelo. Al tavolo vicino a quello di Pitt tre uomini smisero di parlare. Perfino adesso, quasi quattro anni dopo,
era meglio non aprir bocca sull'assassino di Whitechapel. «Attento a come parli!» Un uomo con i capelli grigi fu il primo a rispondergli, la voce roca, la faccia pallida come un cencio. «Io dico quello che voglio!» ribatté Charlie, mentre il sangue gli saliva alla faccia. Qualcun altro cominciò a ridere, ma poi si fermò di colpo. Un uomo con le spalle curve si alzò impugnando il suo boccale di vetro. «Brindiamo al niente!» Disse con un ghigno. «Brindiamo all'oggi, perché domani potresti essere morto.» «Chiudi il becco, idiota!» sibilò il suo vicino. L'uomo si lasciò cadere sulla sua seggiola, di nuovo incupito. «Io non ho detto niente di niente!» ringhiò. «Il nostro giorno deve venire, e presto.» «Allora sì che vedremo quanto zucchero sono capaci di mangiare» borbottò fra i denti il suo compagno. «Se dici ancora zucchero ti riempio di tanti di quei pugni che non riesci più ad aprire gli occhi!» Fu la minaccia del primo che aveva parlato, gli occhi neri scintillanti, d'un tratto talmente sobrio da mettere paura. «Farò pratica su di te, così mi tengo pronto per tutti quegli stranieri che vogliono avvelenare questa città e prendere quello che dovrebbe essere nostro.» Stavolta non ci fu risposta. Di quel pub Pitt detestava ogni cosa: l'odore, gli improvvisi scoppi di rabbia, il senso di sconfitta, il riverbero della luce a gas sui boccali di peltro ammaccato, la segatura vecchia e putrida, ma sapeva che il suo lavoro era quello di origliare. Si fece ancora più piccolo e continuò a sorseggiare il suo sidro. Una mezz'ora più tardi entrarono un paio di donne di strada in cerca di clienti. Gli apparvero stanche, sporche, visibilmente ansiose di combinare qualcosa, e per qualche attimo si scoprì rabbioso come Charlie per la povertà e la disperazione che spingeva le donne a girare sole per le strade, i pub e le locande cercando di vendersi agli estranei. Si levò uno scoppio di risate, volgari, stridule, esageratamente rumorose. Al tavolo vicino a quello di Pitt un uomo stava annegando i suoi dolori nell'alcol, terrorizzato all'idea di tornare a casa a dire alla moglie che aveva perduto il posto. Un giovanotto di nome Joe stava spiegando all'amico Percy il suo progetto di mettere da parte abbastanza soldi per comprarsi una carriola e andare a vendere spazzole e scope più a est del quartiere, dove c'erano meno rischi e si poteva ricavare di più. Pitt si alzò per andarsene. Più di tanto non avrebbe potuto imparare, e di
sicuro non c'era niente che Narraway già non sapesse. L'East End era una zona di livore e miseria dove anche un solo incidente poteva bastare a far scoppiare una sommossa. Si avviò strascicando i piedi verso Heneagle Street, con le spalle curve e la testa china. Le osservazioni sullo zucchero non erano sembrate pertinenti al resto dei discorsi, almeno in apparenza, eppure erano state fatte con una tale amarezza che gli rimasero impresse nella memoria per i giorni successivi. Da qualche brano ascoltato di soppiatto nei vari posti dove era dovuto andare per motivi inerenti ai suoi incarichi di fattorino si era reso conto di quante fossero le persone che in un modo o nell'altro dipendevano, per campare, dai tre zuccherifici di Spitalfields. C'era da pensare che quelle battute non fossero nient'altro che frutto del livore di chi si sentiva sfruttato e che la paura fosse quella di vedersi improvvisamente mancare l'unica fonte di guadagno? O si trattava di qualcosa di più specifico? E il riferimento a un giorno di un futuro ormai prossimo in cui sarebbe stata fatta giustizia era frutto di rabbia e spavalderia, oppure aveva un fondamento nei fatti? Gli tornarono in mente le parole di Narraway: che il pericolo c'era e stava aumentando, e non si trattava più soltanto del solito malcontento. Ma cosa poteva dirgli? Che aveva ragione? Forse sarebbe stato suo dovere perlomeno osservare più attentamente quello che si faceva nello zuccherificio di Brick Lane, conoscere un po' meglio non solo il posto, ma anche gli uomini che ci lavoravano, e tastare il terreno cercando di capire quali fossero, in genere, le loro opinioni. Il modo migliore sembrava quello di fingersi interessato a trovarci lavoro. Così, la mattina dopo, s'incamminò presto verso Brick Lane e la costruzione di sette piani con le sue larghe finestre che guardavano sull'intero quartiere. L'aria era impregnata dall'odore dello zucchero di canna. Fu abbastanza facile entrare nel cortile dove proprio in quel momento si scaricavano i carri, appena arrivati dai docks, ed enormi fusti venivano ammucchiati l'uno sull'altro, «E tu chi sei?» gli domandò bruscamente un uomo dal torace muscoloso venendo a piantarsi a gambe larghe di fronte a lui per bloccargli la strada. «Thomas Pitt. Sto cercando un po' di lavoro extra, se c'è» disse. Era quasi la verità. «Ah, sì? E che cosa sei capace di fare?» L'uomo lo scrutò dalla testa ai piedi con aria sdegnosa. «Sei mica uno di qui, però.» Non era tanto una domanda, quanto un'accusa. «Abbiamo tutti quelli che ci servono» concluse. Pitt, intanto, girava gli occhi intorno, osservando le alte e lisce facciate
del casamento, il cortile a ciottoli, i portoni spalancati che davano accesso al pianterreno, l'andirivieni degli operai. «Lavorate tutta la notte?» domandò incuriosito. «Quelli delle caldaie, sì. Bisogna tenerle sempre accese. Perché? Vuoi lavorare di notte?» Pitt sapeva benìssimo di non averne la minima voglia, ma la curiosità lo spinse ad approfondire la questione. «Perché? Sarebbe possibile?» L'uomo lo fissò socchiudendo gli occhi. «Magari. Sei pronto a prendere il suo posto, se uno dei guardiani notturni si ammala?» «Sì.» «Be', e dove abiti?» «Heneagle Street, all'angolo di Brick Lane.» «Bene, magari ti mandiamo a chiamare... e magari no. Lascia le generalità in quell'ufficio.» Gli indicò una porticina sulla facciata laterale dello zuccherificio. «Va bene. Grazie.» Per parecchi giorni non ricevette notizie dallo zuccherificio, ma il lavoro nel laboratorio di Saul, dove si tesseva la seta, risultò più interessante di quanto si aspettasse. Si scoprì ad ammirare la fibra delicata, lucida, e senza averne mai avuta la minima intenzione si mise a guardare quando poteva come venisse trasformata in broccati e come i colori, nei loro raffinati accostamenti, vi creassero uno schema di disegno sempre ripetuto, eppure l'uno diverso dall'altro. Saul lo osservava divertito, con la faccia scarna e olivastra che appariva più serena e distesa. «Tu non sei di queste parti, dico bene? E allora perché fai quello che stai facendo? Non è il tuo mestiere.» «È un modo come un altro di guadagnarsi da vivere» replicò Pitt girando la faccia dall'altra parte. Saul, nei suoi confronti più che cortese, gli era simpatico, ma non poteva dimenticare come Narraway lo avesse avvertito di non fidarsi di nessuno. «Isaac ha detto che era difficile entrare negli zuccherifici senza conoscere qualcuno.» «Proprio così» confermò Saul. «Tutti vogliono lavorare, e fare il venditore ambulante è duro. Tutti hanno la loro zona fissa e se provi a metterci piede anche tu, ti ritrovi sgozzato.» Pitt non poté fare a meno di chiedersi quali pressioni Narraway avesse esercitato per persuadere Saul ad assumerlo. Si era accorto che, in gran parte, gli altri ebrei facevano lavorare i correligionari, e la stessa cosa si poteva dire per tutti gli altri gruppi etnici identificabili. «Credi a me!» riprese Saul con un tono che si era fatto im-
provvisamente acceso. «Spitalfields può essere sozzo e miserabile ed emanare un fetore da abisso dell'inferno... ma è meno pericoloso di altri posti dove sono stato... almeno per il momento. Qui puoi dire quello che pensi, leggere quello che vuoi, girare per le strade senza essere arrestato, derubato o preso di mira da qualche teppista o dai bigotti di qualche religione... Ma forse succede quasi dappertutto. Ci sono poliziotti corrotti, e per la maggior parte incompetenti, ma non sono viziosi o depravati.» «Corrotti?» Pitt non riuscì a trattenersi dal domandare. Saul scrollò là testa. «Ma da che mondo vieni? Il quartiere non lo conosci proprio, vero!» Pitt non disse niente. «Succedono cose di ogni genere» continuò il padrone di casa con aria grave. «Bisogna andare in giro a testa bassa, occuparsi degli affari propri e pensare alla famiglia. Se arrivano qui signoroni dai quartieri alti, non li vedi e non sai chi sono. Ci siamo capiti?» «Intendete, forse, in cerca di certe donne?» Pitt era stupito. Da Haymarket fino al parco c'era abbondanza di prostitute di un livello migliore, e non soltanto lì. Nessuno aveva bisogno di spingersi fino a questo quartiere dove tra buio e sporcizia si correvano anche molti rischi. «E altre cose.» Saul si morse un labbro, gli occhi ansiosi. «Come ho detto, meglio che tu non sappia.» «Se si tratta di qualcosa che tocca anche me, eccome se sono affari miei!» obiettò Pitt. «Proprio per niente, se giri gli occhi dall'altra parte.» La faccia di Saul adesso era grave; e l'urgenza ansiosa del suo avvertimento fin troppo evidente. «I dinamitardi colpiscono la vita di tutti» disse Pitt, con la paura di essersi spinto troppo oltre. Saul rimase sbalordito. «Dinamitardi? Io sto parlando di gentiluomini che vengono dai quartieri alti e girano per Spitalfields di notte a bordo di grandi carrozze nere, e si lasciano dietro certe diavolerie...» La sua voce ebbe un tremito. «Tu pensa al tuo lavoro, sbriga gli affari tuoi, occupati della tua famiglia e tutto andrà bene. Se la polizia dovesse domandarti qualcosa, non sai. Non hai sentito. Meglio ancora, non eri neanche lì.» Pitt non volle prolungare quel discorso, ma quella sera mentre stava finendo di cenare, la sua attenzione fu attratta da un amico di Isaac che si presentò alla sua porta sanguinante, coperto di lividi, con i vestiti a brandelli. «Samuel, che cosa ti è successo?» esclamò Leah sgomenta, alzandosi
dalla seggiola mentre Isaac lo faceva entrare. «Sembra che una carrozza ti abbia messo sotto!» «Ho avuto qualcosa da ridire con un branco di uomini del quartiere» rispose Samuel, tamponandosi un labbro con un fazzoletto macchiato di sangue. «Lascia stare!» gli ordinò Leah. «Adesso ci guardo io. Isaac, vai a prendere un po' d'acqua e la pomata.» «Ti hanno derubato?» domandò Isaac senza muoversi. Samuel si strinse nelle spalle. «Sono vivo. Poteva andare peggio.» «Lascia perdere» disse Leah, inasprita. «A quello penseremo dopo. Vammi a prendere l'acqua e la pomata.» Pitt sapeva dov'era la pompa. Uscì dalla porta sul retro e tornò poco dopo con una brocca piena d'acqua. Trovò Leah e Isaac insieme, che parlavano a bassa voce, le teste accostate. Samuel, con gli occhi chiusi, stava semisdraiato su una seggiola. Quando rientrò, venne accolto da un improvviso silenzio. «Ah, bene» disse subito Isaac, prendendogli la brocca. «Molte, molte grazie.» «È troppo» sbottò Leah con voce bassa e fremente. «Se gli dai tanto stavolta, cosa succederà la prossima?» «Ci penseremo quando verrà quel momento. Dio provvederà.» «Ti ha già provvisto di un cervello. Adoperalo. Diventa sempre peggio... lo capisci anche tu. Con cattolici e protestanti che si vedono come il fumo negli occhi e dinamitardi dappertutto, che adesso parlano anche di far saltare in aria lo zuccherificio...» Samuel continuava a rimanere immobile fra loro, paziente e silenzioso. Pitt era andato ad appoggiarsi alla credenza. «Nessuno farà saltare in aria lo zuccherificio» disse Isaac fremente, scoccandole un'occhiata di avvertimento. «Perché dovrebbero fare una cosa del genere?» «Credi che abbiano bisogno di una ragione? Sono anarchici. Odiano il mondo intero. E se fanno saltare in aria lo zuccherificio è qualcosa che riguarda tutti. Anche noi!» «Leah, basta! Occupati di Samuel. Io troverò un po' di soldi per riaggiustare le cose. Tutti gli altri aiuteranno. Quanto a te, fai la tua parte.» Un'ora dopo, a quattr'occhi nella stanza dove Isaac lavorava alla sua contabilità, Pitt gli offrì un contributo di pochi scellini da versare nel fondo a favore di Samuel. Scoprì di essere inspiegabilmente felice quando l'altro accettò. Era il segno che non lo consideravano un estraneo.
Tellman non aveva parlato a nessuno del suo interesse per John Adinett né di quello che si era detto con il vetturino. Passarono tre giorni prima che fosse in grado di approfondire le indagini. Wetron l'aveva convocato di nuovo, interrogandolo con maggior rigore sul caso del quale si occupava ed esigendo un resoconto dettagliato di come impiegava il suo tempo. E Tellman gli aveva risposto con esattezza, ubbidiente e tetro. Wetron aveva assunto il posto di Pitt senza averne il diritto. E gli aveva proibito di prendere contatto con Pitt o di interessarsi ulteriormente al caso Adinett. Ma verso la fine del pomeriggio di martedì si ritrovò di nuovo con un po' di tempo libero e ne approfittò per lasciare Bovv Street, comprare un panino al prosciutto e una bibita alla menta e incamminarsi lentamente verso Oxford Street, riflettendo a fondo. Aveva dato un'altra occhiata agli appunti presi durante le indagini e si era accorto che c'erano parecchi periodi di tempo, a volte perfino di quattro o cinque ore consecutive, in cui non sapevano dove Adinett fosse stato. A quel punto non era sembrato importante. Adesso, invece, lo era diventato. Rallentò il passo. Non aveva affatto le idee chiare, ma capiva che doveva seguire qualche traccia ben definita sia per amore di Pitt, sia perché non aveva intenzione di tornare da Gracie a mani vuote. Per quale motivo un uomo come John Adinett avrebbe dovuto recarsi per ben tre volte in un posto come Cleveland Street? Chi ci abitava? Che avesse qualche vizio segreto, oppure certi gusti un po' particolari che Fetters, chissà come, poteva avere scoperto? Ma già mentre si diceva tutto questo, sapeva di non crederci. E poi, per quale motivo avrebbe dovuto importare a Fetters? O forse Fetters aveva scoperto qualcosa che lui non poteva permettersi che venisse risaputo, e quindi contrario alla legge. Ma cosa? Affrettò un poco il passo. Forse la risposta era in Cleveland Street. Si trattava dell'unico elemento che, fino a quel punto, non era stato spiegato. A Oxford Street salì un omnibus diretto verso est, cambiò a Holborn e proseguì verso Spitalfields e Whitechapel, sempre rimuginando su quell'interrogativo. Cleveland Street era anonima: soltanto case e botteghe, vecchiotte, modeste, ma ragionevolmente rispettabili. Chi ci viveva che Adinett era venuto a trovare tre volte? Entrò nel primo negozio che vendeva ferramenta e articoli per la casa. «Sì, signore?» Un uomo sciupato e con l'aria stanca, i capelli radi, alzò
gli occhi dal bricco che stava riparando. Tellman comprò un cucchiaio, più per ingraziarselo che per una reale necessità. «Mia sorella sta pensando di trovar casa qua intorno» mentì con disinvoltura. «Le ho detto che ci sarei venuto prima io, a dare un'occhiata. Com'è? Tranquilla?» Il negoziante sospirò, rattristato. «Una volta sì che lo era. Cinque o sei anni fa è diventata un po' strana. Ha bambini sua sorella?» «Sì» Tellman si affrettò a rispondere. «Meglio un paio di strade più in su.» L'uomo gli indicò dove, piegando la testa da quella parte. «Provate un po' a nord, oppure a est. State alla larga dalla fabbrica di birra e da Mile End Road. Troppo traffico, ecco.» «Lei pensava a Cleveland Street. Le case le sembravano le più adatte per quello di cui ha bisogno. Anche il prezzo. E sono abbastanza ben tenute.» «Come preferite.» Il negoziante si strinse nelle spalle. «Io non ci vivrei, sé non fosse perché ci abito già.» Tellman si sporse attraverso il banco e abbassò la voce. «Non ce ne sarà, per caso, qualcuna che ha una cattiva reputazione, eh?» L'uomo si mise a ridere. «Una volta sì. Adesso sono sparite. Perché?» «Così... me lo chiedevo, semplicemente.» Tellman si affrettò a battere in ritirata. «E allora qual è il motivo del traffico? Dicevate che da un po' di tempo in qua c'è un po' troppo movimento.» «Non lo so.» Evidentemente l'uomo si era già pentito della sua sincerità. «Solamente gente che viene in visita, suppongo.» «Carrozze e via dicendo?» Tellman tentò di assumere un'aria un po' tonta. Ma il negoziante adesso non ci teneva più a chiacchierare come prima. «Come in molti altri posti. C'è più tranquillità, ora. Il traffico c'è stato, ma un po' di tempo fa. Dimenticate quello che vi ho detto. Non ho sentito che ci sia niente in vendita, però se il prezzo è quello giusto non perdete l'occasione.» «Grazie» disse Tellman cortesemente. Lasciò il negozio e riprese il cammino, lentamente, lungo la strada, osservandone prima un lato e poi l'altro e continuando a domandarsi cos'avesse attirato l'attenzione di Adinett, e perché. C'erano parecchie case d'abitazione, qualche altra bottega, uno studio d'artista, un cortiletto dove si vendevano botti, un fabbricante di pipe d'argilla e un ciabattino. Avrebbe potuto essere una qualsiasi di mille strade dei quartieri più poveri di Londra. Nell'aria si sentiva l'odore dolciastro che arrivava dalla fabbrica di birra poco distante.
Si fermò a comprare un panino imbottito da un venditore ambulante in fondo all'incrocio con Devonshire Street. «Sono contento di avervi trovato» disse con il tono di chi vuole fare quattro chiacchiere. «Si fanno buoni affari da queste parti? Io non ho visto in giro neanche un'anima!» «Di solito mi fermo sulla Mile End Road» rispose l'ambulante. «Adesso me ne stavo tornando a casa. Avete comprato l'ultimo panino che mi era rimasto.» «Sono stato sfortunato» riprese Tellman in tono agro. «È tutta la sera che sono qua in giro a fare una commissione per un amico del mio padrone che è venuto da queste parti qualche settimana fa e ha lasciato cadere una catena da orologio. E me lo ha scritto, anche, ma non trovo più quel pezzo di carta.» «Il nome?» gli domandò l'ambulante, fissandolo con i grandi occhi azzurri. «Non lo so. Ho perduto il foglietto prima di fare in tempo a leggerlo.» «Catena da orologio?» «Già, infatti. Perché? Sapete dove potrebbe essere?» L'uomo si strinse nelle spalle, ridacchiando. «Non ne ho idea. Che tipo è il vostro padrone, piuttosto?» Tellman gli descrisse Adinett. «Alto, l'aria dell'ufficiale, molto ben vestito, baffetti. Cammina a testa alta, spalle dritte, impettito.» «L'ho visto.» L'ambulante sembrava molto soddisfatto di sé. «Ma da qualche settimana, non più» soggiunse. «Però è stato qui?» Tellman cercò di non tradire il suo interesse, ma si accorse che non riusciva a parlare in tono distaccato. «Dunque lo avete visto. E se lo avete visto, forse sapete in che casa è entrato. È un uomo duro. Se torno senza una buona spiegazione, è capace di dire che l'ho trovata e me la sono tenuta io.» L'ambulante scrollò la testa, comprensivo. «Certe volte sono contento di non lavorare sotto padrone.» Gli indicò il fondo della strada. «È andato giù di là, da quella parte, al numero sei. Tabaccaio e confettiere. C'è un sacco di gente che entra ed esce da quella bottega. È là che c'è stato anche tutto quel pandemonio, quattro o cinque anni addietro.» «Che genere di pandemonio?» «Carrozze che andavano e venivano a tutte le ore, e si picchiavano, anche. Niente di grave, però. Ma le cose sono andate peggio, dà allora, a Spitalfields e nei dintorni. Quella volta, però, è stata brutta, la faccenda. Urlavano, imprecavano... Strano, però, tutta gente di fuori. Neanche uno era di
qui.» Scrutò Tellman. «Ecco, ditemi un po' voi perché un branco di gente mai vista nel quartiere viene a pestarsi proprio da queste parti? Poi, se la sono squagliata in fretta e furia com'erano venuti.» Tellman si accorse di avere il cuore in gola. «Dal tabaccaio?» Gli tremava la voce. Era assurdo. Probabilmente non voleva dire niente. «Così mi pare. Be', c'è andato anche quel tizio che dite. Ha chiesto a me la stessa cosa e poi è corso via.» «Capisco. Grazie molte. Qua, tenete.» Tellman si frugò in tasca e tirò fuori una moneta da sei pence. Gli tremavano le dita e si sentiva pieno di ottimismo e gratitudine. «Fatevi una pinta alla mia salute. Forse mi avete risparmiato un mucchio di seccature.» «Grazie.» L'ambulante, accettata la moneta, si dileguò. Tellman riprese il cammino, affrettando il passo in direzione della bottega che l'uomo gli aveva indicato. Sembrava una delle solite, almeno a giudicare dall'esterno: un piccolo locale per la vendita di dolciumi e tabacchi e, sopra, le stanze d'abitazione. Cosa diavolo poteva aver trovato di tanto eccitante John Adinett lì dentro? Bisognava tornare durante le ore di apertura. Avrebbe cercato di farlo l'indomani, all'insaputa di Wetron. Ripiegò verso Mile End Road con un passo più scattante. Ma quando ritornò in Cleveland Street verso la metà del pomeriggio seguente la bottega gli sembrò esattamente come mille altre. Comprò tre pence di pasticche di menta e cercò di chiacchierare con il proprietario, ma c'era ben poco di che parlare, all'infuori del tempo. Cominciava già a non sapere più a che santo votarsi, quando gli capitò di accennare, per caso, al gran caldo e alle febbri, e al povero principe Alberto che era morto di tifo. «Quindi se lo possono beccare anche loro» concluse, sentendosi un po' sciocco. «E perché no?» fece il tabaccaio con aria malinconica, mangiucchiandosi un labbro. «Quando capitano certe cose, anche i personaggi di casa reale non se la cavano meglio di voi o di me. Mangiano meglio, credo, e di sicuro vestono meglio.» Palpeggiò il tessuto logoro della giacca. «Ma si ammalano come noi, e muoiono, poveracci.» C'era un'intonazione di pietà talmente commossa nella sua voce che Tellman ne rimase colpito, giudicandola un po' strana da parte di un uomo che viveva in un quartiere del genere. «Voi siete libero di andare e venire come vi piace, giusto? E di credere quello che volete, di essere cattolico, protestante, ebreo o niente del tutto, se vi pare, vero? E sposare una donna che crede anche lei in quello che vuole, dico bene?»
Subito davanti agli occhi della mente di Tellman apparve il visetto aguzzo di Gracie con quegli occhi luminosi e il mento deciso. Poi se la prese con se stesso. Che ridicolaggine! E rispose in tono più acido di quanto intendesse fare. «Come no! Però non me la sentirei di sposare una donna che non fosse disposta a credere nelle stesse cose in cui credo io. Più importante della religione è quello che è giusto o non lo è, e il modo corretto o sbagliato in cui la gente si comporta. E neanche sposerei una donna per i suoi soldi! A me pare che l'onestà e la correttezza siano quello che conta in una persona. Se devi passare il resto della tua vita con lei, e avere dei figli, bisogna essere d'accordo su quello che è buono e decoroso e quello che non lo è.» Il tabaccaio si lasciò sfuggire un profondo sospiro, e smise di sorridere. «Magari avete ragione voi. Dio solo sa quanti dolori possono capitare a chi s'innamora di una persona di una religione e di una condizione sociale diverse dalla sua.» Tellman si cacciò in bocca una pasticca di menta; in quello stesso momento, la porta della bottega si aprì dietro di lui. Si voltò istintivamente e riconobbe l'uomo che era entrato, ma senza riuscire a ricordarsi come si chiamasse. «Buongiorno, signore.» Il tabaccaio si dimenticò completamente di lui per dedicarsi al nuovo cliente. «In che cosa posso servirvi?» L'uomo esitò, allungò un'occhiata a Tellman, poi riportò lo sguardo sul bottegaio. «C'è il signore prima di me» disse educatamente. «È già stato servito. E voi... di cos'avete bisogno?» «Be', se siete proprio sicuro... Mezza libbra di tabacco...» «Mezza libbra? Benissimo, signore. E quale preferite? Ne ho di tutti i generi... Virginia, turco...» «Virginia» tagliò corto l'uomo, frugandosi in tasca per cercare i soldi. Fu la voce che Tellman riconobbe. Ci vollero uno o due minuti, ma poi capi dove l'aveva già sentita. Era un giornalista, e si chiamava Lyndon Remus. All'epoca in cui Pitt aveva fatto le indagini sull'assassinio di Bedford Square gli era stato dietro a interrogarlo, a cercar di sapere il più possibile. E poi aveva scritto quell'articolo provocando un mucchio di guai con le sue insinuazioni. Cosa veniva a fare li a Mile End? Non a comprare tabacco, di sicuro... a colpi di mezza libbra alla volta! Non sapeva distinguere il tabacco Virginia da quello turco, né tanto meno gliene importava. Era venuto per qualcos'altro e aveva cambiato idea vedendolo. «Vi ringrazio» disse Tellman al tabaccaio. «Buongiorno.» Uscì in strada
e percorse una quarantina di metri fino all'ampia arcata di un portone dove poteva rimanere senza essere visto e aspettare che Remus venisse fuori dalla bottega. Dopo dieci minuti cominciò a chiedersi se la tabaccheria non avesse un'altra uscita su una strada secondaria. Cosa poteva fare il giornalista lì dentro per tanto tempo? C'era un'unica risposta che avesse un minimo di logica: Remus era lì per gli stessi motivi che ci avevano portato lui, dopo aver sentito puzzo di scandalo, annusato la possibilità di una buona storia da scrivere, e forse perfino cercando la soluzione di un omicidio. Ma doveva avere a che fare con John Adinett. I minuti continuarono a passare. Finalmente, dopo altri dieci minuti, Remus venne fuori dalla bottega, guardò à sinistra e poi a destra, attraversò la strada e s'incamminò verso sud passando a poco meno di un metro da lui. Quando lo riconobbe, si fermò sui due piedi. Tellman sorrise. «Sulle tracce di una buona storia, signor Remus?» gli domandò. La faccia aguzza e lentigginosa del giornalista prese un'espressione totalmente atona per qualche istante. Poi riprese l'abituale compostezza. «Proprio bene non lo so. Ho un mucchio d'idee, ma tutte sconnesse, al momento. Visto che siete qui anche voi, magari c'è qualcosa sotto. Questa non è la vostra solita zona, vero? Ancora al lavoro sul caso Adinett, o sbaglio? Un uomo interessante.» Socchiuse gli occhi. «Ma perché dannarsi a indagare? Avete ottenuto il vostro verdetto di colpevolezza. Cos'altro andate cercando?» «Chi, io?» domandò Tellman, fingendosi sorpreso. «Niente. Perché? Invece voi cosa pensate che ci sia ancora da cercare?» «Il movente» disse Remus in tono pieno di buonsenso. «Veniva mai da queste parti, Fetters?» «Cosa ve lo fa pensare? Ve l'ha forse detto il tabaccaio?» «Non gliel'ho neanche domandato.» «Quindi non è di Fetters che vi state occupando.» Per un attimo Remus rimase sconcertato. Si era lasciato sfuggire più di quanto intendesse. Riprese il suo autocontrollo e un sorriso da furbo. «Fetters e Adinett... È sempre la stessa cosa, vero?» «Non avete detto che era Adinett a interessarvi» gli fece rilevare Tellman. Remus si cacciò le mani in tasca e s'incamminò lentamente in direzione di Mile End Road, permettendogli di mettersi al passo con lui. «Non si può dire che faccia notizia, ormai, vero?» disse pensoso. «Per me o per voi.
Avrebbe dovuto avere un movente molto serio per ammazzare Fetters, perché io mi prenda la briga di scriverci su. E mi pare logico che ci sia un legame con qualche altro crimine di proporzioni notevoli, se continuate a occuparvene... non vi sembra?» Camminarono in silenzio per qualche secondo, attraversando un vicolo che portava alla fabbrica di birra. «Ma state attento, ci sono persone molto importanti che cercheranno di mettervi i bastoni fra le ruote. Suppongo che sia stato il signor Pitt a mandarvi qui, vero?» «E voi, invece, siete stato mandato dal signor Dismore?» ribatté Tellman, ricordando che il vetturino gli aveva detto come, l'ultima volta, dopo aver lasciato Cleveland Street, Adinett si fosse recato direttamente negli uffici del giornale di Dismore. Per un attimo Remus rimase sconcertato, ma si riprese in fretta e parlò in tono affabile. «Io sono indipendente. Non devo rispondere di niente a nessuno. Pensavo che l'aveste capito... un investigatore abile e intuitivo come voi!» Intanto avevano raggiunto Mile End Road, e Remus lo salutò infilandosi nella fiumana di gente che andava in direzione ovest. Lì per lì, Tellman decise di seguirlo, ma scoprì che era più difficile di quanto si aspettasse sia per il traffico composto soprattutto di carri e carretti, sia soprattutto perché Remus lasciava capire chiaramente di non voler essere pedinato e sapeva di averlo alle calcagna. Così fu necessaria una serie di brevi corse molto veloci, parecchie informazioni pagate a suon di contante e un pizzico di fortuna per non lasciarselo sfuggire. A ogni modo mezz'ora più tardi Tellman, a bordo di un hansom, stava attraversando il London Bridge. Appena al di là della stazione ferroviaria, Remus fermò la sua vettura, scese, pagò la corsa e salì a passo lesto la scalinata del Guy's Hospital scomparendo oltre il portone. Tellman scese anche lui ed entrò nell'ospedale. Avvicinatosi al portiere, gli descrisse Remus chiedendogli da che parte fosse andato. «Ha chiesto degli uffici» rispose il portiere. «Sono da quella parte, signore.» Tellman, dopo averlo ringraziato, si avviò nella stessa direzione, ma per quante ricerche facesse non trovò traccia di Remus e alla fine, dopo aver vagato per quasi mezz'ora nei corridoi, tornò fuori e prese un treno della metropolitana che lo riportasse a nord, oltre il fiume. E si ritrovò in Keppel Street poco prima delle sei di sera. Rimase per qualche minuto davanti alla porta di servizio prima di trovare il coraggio necessario per bussare. Avrebbe preferito vedere Gracie senza incontrare Charlotte, perché si sentiva imbarazzato al pensiero di non
aver fatto niente per aiutare Pitt, ma sapeva che, prima o poi, avrebbe dovuto trovarsi faccia a faccia con lei. Rimandarlo gli rendeva tutto ancor più difficile. Respirò a fondo e buttò fuori il fiato, sempre senza bussare. Forse, prima di parlarle, sarebbe stato meglio scoprire qualcosa di più. La porta si aprì e Gracie, che stava per finirgli addosso, si lasciò sfuggire uno strillo. La padella che teneva fra le mani le sfuggì, cadendo con tonfo assordante sul gradino. «Stupidone che non sei altro!» sbottò furiosa. «Si può sapere cosa ti prende? E perché te ne stai qui, davanti alla porta, con una faccia che sembra quella di uno di quei pupazzi del tiro a segno?» Lui si chinò a raccogliere la padella e gliela consegnò. «Venivo a raccontarti che cos'ho scoperto» disse acido. «E tu non dovresti far cadere le padelle buone come questa.» «Non l'avrei fatta cadere se tu non mi avessi fatto prendere uno spavento Perché non hai bussato, come fanno tutti?» «Stavo per farlo!» Gracie lo squadrò dalla testa ai piedi. «Be', sarà meglio se entri. Ma tieni la voce bassa. La signora Pitt è di sopra, e sta leggendo a Daniel e Jemima.» «Jemima sa già leggere da sola.» «Naturale, che sa leggere!» rispose Gracie cercando di non perdere la pazienza. «Ma il suo papà non è più a casa e non abbiamo sue notizie. E allora fa bene sentirsi leggere qualcosa.» Tirò su col naso e gli girò le spalle, decisa a non fargli vedere le lacrime che le rigavano la faccia. «Allora, cos'hai scoperto? Immagino che vorrai una tazza di tè e un po' di torta.» «Sì, per favore» disse lui e sedette al tavolo della cucina mentre lei si affaccendava con il bricco dell'acqua, la teiera, due tazze e un buon numero di fette di una torta di ribes appena sfornata, sempre voltandogli le spalle. Tellman, intanto, osservava i suoi gesti rapidi, le spalle scarne sotto il vestito di cotonina, la vita sottile che avrebbe potuto stringere fra le sue mani. Moriva dalla voglia di consolarla un po', ma lei era permalosa, troppo fiera, e non gliel'avrebbe permesso. D'altra parte, qualcosa doveva pur dire. L'orologio della cucina ticchettava e i minuti passavano. Il bricco cominciò a fischiare. Era la stessa stanza calda, accogliente, con l'aria che profumava di buono: la stanza di sempre. Con un tonfo Gracie posò la teiera sul tavolo, rischiando di farne saltar via qualche scheggia. «Be', hai intenzione di raccontarmelo o no?» «Sì... certo che ho intenzione di raccontartelo» ribatté lui con asprezza, furioso con se stesso per la voglia che provava di toccarla, di essere genti-
le, di prenderla fra le braccia e stringersela contro. «Adinett è andato in Cleveland Street, a Mile End, almeno tre volte. Di lì, è andato dritto dritto a cercare Thorold Dismore, il proprietario di quel giornale che ce l'ha sempre con la regina e dice che il principe di Galles spende troppo.» Lei rimase immobile, la fronte corrugata, la confusione negli occhi. «E che cosa ci va a fare un gentiluomo come il signor Adinett a Mile End? Se cerca una prostituta, ne trova in abbondanza più vicino... e più pulite, anche!» «Lo so. Ma non è tutto. Il posto dov'è andato non era un bordello, ma una bottega di tabaccaio. C'è andato per qualche motivo, ma io ancora non lo so. Però quando ci sono tornato oggi, e ci sono addirittura entrato, guarda un po' chi arriva... proprio quel Lyndon Remus che fa il giornalista e che ha cercato di scoprire tutti i retroscena dell'omicidio al quale il signor Pitt ha lavorato, quello di Bedford Square. Fintantoché sono rimasto dentro anch'io, lui non ha voluto dire niente; però si è trattenuto ancora venti minuti dopo che io sono uscito. Lo so perché l'ho aspettato. E quand'è venuto via, gli ho parlato.» Lei sembrava impietrita, con gli occhi sbarrati, la teiera dimenticata. Tirò giù dal fornello il bricco dell'acqua, ma poi lo ignorò. «E così?» chiese. «Cosa voleva? Cosa c'è di tanto speciale in Cleveland Street?» «Ancora non lo so» ammise lui. «Ma sta cercando lo scandalo, ed è persuaso di aver messo le mani su qualcosa di grosso. Ha tentato di farmi dire cosa stavo facendo da quelle parti. E quando mi ha visto era tutto agitato. Quando se n'è andato per i fatti suoi, l'ho seguito. Lui ha provato a seminarmi, però io non ho mollato l'osso.» «Dov'è andato?» «A sud del fiume, al Guy's Hospital... negli uffici. Ma a quel punto l'ho perduto.» «Il Guy's Hospital» ripeté lei lentamente. Alla fine si decise ad alzarsi dalla seggiola e a versare il tè nella teiera, lasciandolo in infusione. «Vediamo un po'... Cos'è andato a fare da quelle parti che voleva che tu non scoprissi?» «Dev'essere qualcosa che riguarda Adinett... e Cleveland Street. Ma che mi venga un accidente se lo so!» «Be', devi scoprirlo» replicò lei senza esitazione. «Perché dobbiamo dimostrare che il signor Pitt ha ragione e Adinett era colpevole come lui ha detto, e che l'ha fatto per un brutto motivo... Vuoi una fetta di torta?» «Sì, per favore.» Tellman prese il pezzo più grosso dal piatto che lei gli
offriva. Ormai da molto tempo aveva smesso di fingere di essere beneducato. Gracie faceva le torte migliori che lui avesse mai mangiato. E avrebbe voluto che manifestasse verso di lui anche solo un briciolo dell'ammirazione che aveva per Pitt. Eppure la sua espressione adesso gli rivelava che credeva in lui, e anche se lo faceva perché non sapeva più a che santo votarsi ed era disperata, gli sembrò ugualmente qualcosa di meraviglioso e terrificante insieme. Sì, Gracie credeva in lui. Ma lui sarebbe stato all'altezza di tante speranze? «Certo, lo scoprirò» disse a bocca piena. «Hai intenzione di pedinare questo Remus?» insistette Gracie. «Perché lui ci sta lavorando su... di qualsiasi cosa si tratti. Anche la signora Pitt vuole scoprire qualcos'altro sul conto del signor Fetters, ma finora non ha niente in mano. Se ci riesce, te lo dico.» Sembrava stanca e impaurita. «Tu, però, non lasci perdere, vero? Non c'è nessuno disposto a farlo, all'infuori di noi.» «Te l'ho già detto» rispose lui, fissandola negli occhi con fermezza. «Lo scoprirò! E adesso, mangia un po' della tua torta. E versa il tè.» 6 Charlotte aprì il giornale del mattino più per distrarsi e scrollarsi di dosso il senso di solitudine in cui era piombata che per gli eventi politici di cui erano piene le pagine man mano che i vari partiti si preparavano alle elezioni ormai vicine. Erano tutti molto critici con Gladstone che, a loro giudizio, ignorava qualsiasi altro problema all'infuori di quello del governo autonomo irlandese e sembrava che avesse abbandonato ogni tentativo di ottenere la giornata lavorativa di otto ore. C'era la tragica notizia di un incidente ferroviario a Guisley, nel nord. La New Orientai Bank Corporation era stata costretta a ritirare dei fondi e a sospendere certi pagamenti. Il prezzo dell'argento si era abbassato in modo inaudito. Non lesse il resto. I suoi occhi si spostarono verso il fondo della pagina e vennero attirati da un trafiletto a caratteri più vistosi in cui si annunciava che, alle otto di quella mattina, John Adinett sarebbe stato giustiziato. D'istinto guardò l'orologio della cucina. Mancava un quarto d'ora. Scoprì che avrebbe preferito rimandare l'apertura del giornale a più tardi; perfino mezz'ora sarebbe bastata. Adinett aveva assassinato Martin Fetters, e quanto più Charlotte veniva a sapere sul conto di quest'ultimo, tanto più si convinceva che lo avrebbe trovato molto simpatico. Era stato un entusiasta, un uomo che affrontava la
vita con coraggio e con gioia, che ne amava la sua colorita varietà e aveva una vera passione di conoscere gli altri popoli e uomini. La sua morte era stata una perdita non soltanto per la moglie e l'archeologia e gli studiosi di antichi oggetti e manufatti, ma per chiunque lo conoscesse. Con tutto questo, mettere fine alla vita di Adinett non portava nessun vantaggio e lei era molto poco convinta che potesse servire come deterrente per crimini e delitti futuri. Gracie rientrò dalla porta di servizio. Era andata a ritirare le aringhe portate dal garzone del pescivendolo. «Le faremo a cena» disse bruscamente, portando il piatto in dispensa. Intanto continuava a borbottare, decidendo cosa preparare per gli altri pasti, quanta farina o patate c'erano ancora e se le cipolle potevano bastare. Negli ultimi tempi sembrava preoccupata. Charlotte pensò che c'entrasse, in qualche modo, il sergente Tellman. Sapeva che un paio di sere prima era stato lì da loro. E la sola idea di avere Tellman seduto in cucina, né più né meno come se il suo capo fosse ancora lì in casa, rese più opprimente il senso di solitudine che provava. Era contenta per Gracie, anche perché sapeva benissimo, molto più di quanto Gracie immaginasse, che Tellman stava combattendo una battaglia, perduta in partenza, contro i propri sentimenti per lei. Eppure in quel momento le riusciva difficile perfino rallegrarsi per un motivo come questo. La mancanza di suo marito era già dura abbastanza da sopportare. Le serate sembravano interminabili quando non poteva tendere l'orecchio al rumore del suo passo e non c'era nessuno a cui raccontare come aveva passato la giornata perfino quand'era stata di una banalità totale. Ma peggio del senso di solitudine, la vera sofferenza era per la sua sicurezza, perché fosse salvo non solo dal pericolo di anarchici, dinamitardi o chi altri fossero quelli sulle cui tracce lo avevano mandato, ma dai suoi nemici segreti e molto più potenti della Confraternita. L'orologio levò i suoi rintocchi e lei quasi non se ne accorse. Gracie attizzò il fuoco nella stufa e ci buttò altro carbone. Charlotte cercava di non riflettere, di non fantasticare, e durante il giorno ci riusciva benissimo. Ma era di notte, quando non aveva il cervello affollato da troppi pensieri, che tutte le sue paure le piombavano addosso. Si svegliava spesso, sussultava a ogni scricchiolio, trasaliva toccando quel posto vuoto vicino a lei nel letto, domandandosi dove lui fosse, se soffriva d'insonnia e di solitudine. A volte il fatto di dover fingere che tutto andasse bene per amore dei bambini le sembrava un compito impossibile; in altri momenti, era una disciplina di cui si sentiva grata.
Chiuse il giornale e scostò la seggiola dalla tavola proprio mentre Daniel e Jemima entravano nella stanza, pronti a far colazione prima di andare a scuola. Avrebbe avuto molto da fare quel giorno, e se non trovava niente che potesse occuparle le mani e il cervello, se lo sarebbe inventato. L'orologio della cucina fece sentire un solo rintocco. Le otto e un quarto. Aveva suonato le otto senza che lei lo sentisse. John Adinett, ormai, doveva essere morto. Sorrise ai bambini e incominciò a preparare la colazione. Erano passate da poco le dieci e stava riordinando l'armadio della biancheria per la seconda volta in quella settimana quando Gracie salì a dirle che la signora Radley era venuta a trovarla... cosa assolutamente inutile in quanto Emily Radley, sua sorella, era salita anche lei alle calcagna di Gracie. Era di un'eleganza squisita in un completo da amazzone verde bottiglia con un cappellino scuro dalla cupola alta e l'ala piccola e rigida, e una giacca dal taglio talmente superbo da mettere in evidenza ogni linea della sua figura snella e slanciata. «Si può sapere cosa stai facendo?» le domandò. «Sto controllando fra la biancheria di casa quella che va rammendata» rispose Charlotte. «Ti sei dimenticata come si fa?» «Non sono neanche sicura di averlo mai saputo» ribatté Emily con noncuranza. Mentre Charlotte aveva fatto un matrimonio che la metteva in una condizione sociale e finanziaria più modesta di quella di prima, Emily invece aveva sposato un nobiluomo fornito di una cospicua fortuna. Ma il marito era stato ucciso qualche anno prima, e dopo un periodo di lutto e di solitudine Emily si era risposata, stavolta con un uomo molto bello e pieno di fascino ma quasi nullatenente. Era stata l'ambizione di Emily a spingerlo a presentare la sua candidatura a un posto in Parlamento e, alla fine, a ottenerlo. Gracie si era dileguata, tornando di nuovo al pianterreno. «Thomas è sempre via?» le chiese Emily abbassando la voce. «Naturale che è via» replicò Charlotte, un po' aspra. «Te l'ho già detto: sarà una faccenda lunga. Io stessa non so quanto.» «A dir la verità mi hai detto molto poco. Sei stata piuttosto misteriosa, e sembravi sconvolta. Così sono venuta a vedere come stavi.» «Io sto bene» rispose Charlotte più gentilmente. «È per Thomas che mi preoccupo.» Con Emily, in passato, avevano lavorato a molti dei casi di Pitt. Quindi sua sorella sapeva che cosa fosse la paura ed era già al corrente dell'esistenza della Confraternita. Charlotte non poteva raccontarle dove
fosse suo marito, ma il perché sì. «Di che si tratta?» Emily intuiva che c'era sotto più di quanto lei le avesse lasciato credere, e la sua voce diventò quasi stridula per l'ansia. «Della Confraternita» disse Charlotte con un filo di voce. «Credo che Adinett ne facesse parte... anzi, ne sono sicura. Non perdoneranno a Thomas di averlo fatto condannare.» Le sfuggì un tremulo sospiro. «L'hanno impiccato stamattina.» Emily si fece seria. «Sì, lo so. Su certi giornali si è ancora parlato del fatto che fosse, o no, veramente colpevole. Sembra che nessuno sappia spiegarsi perché abbia commesso un'azione simile. Ma Thomas non ha una prova, un indizio? Non sta cercando di scoprire qualcosa?» «Non può. È stato sospeso dal suo incarico a Bow Street e mandato... nell'East End... a scovare gli anarchici.» «Cosa?» Emily era allibita. «Ma è mostruoso! Non hai provato a rivolgerti a qualcuno?» «Nessuno ci può far niente. Cornwallis ha già tentato tutto il possibile. Se Thomas si trova in qualche posto dell'East End, sotto l'anonimato più completo, almeno lì non possono toccarlo. Almeno questo... Ma potrebbe succedergli di tutto e passare giorni e giorni prima che io lo sappia.» «Non gli succederà niente. E posso capire che là sia più al sicuro di qualsiasi altro posto.» Ma la voce di Emily rivelava più coraggio che convinzione. Continuò in fretta. «Cosa possiamo fare per essere di aiuto?» «Sono stata in visita dalla signora Fetters, ma non sa niente. Sto cercando di pensare a cos'altro si può fare. Deve pur esserci qualcosa che quei due uomini avevano in comune, e su cui hanno litigato, ma più vengo a sapere sul conto di Martin Fetters, più mi sembra un uomo corretto e perbene, che non ha mai fatto del male a nessuno.» «Forse non stai cercando nei posti giusti» osservò Emily. «Immagino che tu abbia già tentato tutte le cose più ovvie: soldi, ricatto, una donna, rivalità...» Sembrava sconcertata. «A proposito, perché erano amici?» «S'interessavano di viaggi e riforme politiche, a quanto ne sa la moglie di Fetters.» Charlotte finì di ripiegare l'ultimo lenzuolo. «Gradisci una tazza di tè?» «Preferirei star seduta in cucina che rimanere qui in piedi davanti all'armadio della biancheria. È possibile che qualcuno litighi seriamente per una questione di viaggi?» «Ne dubito. E poi, non viaggiavano neanche negli stessi posti. Il signor Fetters andava nel Medio Oriente; Adinett è stato in Francia e in Canada.»
«Allora è la politica.» Emily la seguì giù per le scale e lungo il corridoio che portava in cucina. Charlotte mise il bricco sul fuoco. «Tutti e due volevano delle riforme» continuò. Emily sedette, sistemando la gonna con mano esperta in modo che non si stazzonasse. «E chi non le vuole? Jack dice che la situazione sta diventando quasi disperata.» Abbassò gli occhi sulle proprie mani appoggiate sulla tavola. «Sotto sotto c'è sempre stato un certo subbuglio, ma adesso è molto peggiorato rispetto a dieci anni fa. A Londra arrivano troppi stranieri e non c'è abbastanza lavoro. Suppongo che gli anarchici siano qui da anni, ma adesso sono molti di più, ed estremamente violenti.» Charlotte questo lo sapeva. I giornali ne parlavano abbastanza spesso, e avevano dato grande rilievo al processo all'anarchico francese per l'assassinio di Carnot. Quella era stata la scusa ufficiale per mandare Pitt nell'East End. «Ma sono realmente un pericolo, secondo te? Si tratta di qualcosa di più del solito pazzo che agisce per conto proprio?» Emily rifletté per un momento prima di rispondere e Charlotte si chiese se lo facesse perché cercava le parole giuste o soltanto per una questione di tatto. «In effetti» disse piano dopo che Gracie ebbe servito il tè «credo che Jack sia seriamente preoccupato, e non tanto per gli anarchici, ma piuttosto per la sensazione di irrequietezza generale. La monarchia è molto impopolare, e non soltanto fra quella parte della popolazione da cui sarebbe logico aspettarselo, ma anche fra persone che stanno in alto e hanno posti importanti... quelle a cui tu non penseresti affatto.» «Impopolare?» Charlotte era sconcertata. «In che senso? Secondo l'opinione pubblica, so che la regina dovrebbe fare di più, ma lo dicono da trent'anni. Jack pensa che adesso ci sia qualcosa di diverso?» «Questo non lo so.» Emily era diventata molto seria. «Ma lui dice che è tutto molto più grave. Il principe di Galles spende enormi quantità di denaro, in massima parte preso a prestito. È indebitato dappertutto, e con ogni genere di persone. Sembra che non sia capace di dominarsi, e se capisce il male che fa, non gliene importa.» «Male... dal punto di vista politico?» domandò Charlotte. «Alla fin fine, sì.» Emily abbassò la voce. «C'è chi è convinto che quando la vecchia regina morirà, sarà la fine della monarchia.» «Davvero?» Charlotte lo trovò un concetto incredibilmente sgradevole. Non riusciva a capire perché le importasse tanto. Certo, avrebbe tolto colore e fascino alla vita. La gente avrebbe sempre voluto avere degli eroi, veri
o falsi che fossero. Non c'era niente di sostanzialmente nobile nell'aristocrazia. Ma gli eroi messi al loro posto potevano non essere necessariamente scelti per la loro virtù o le opere realizzate; anzi, li avrebbero più facilmente scelti perché erano ricchi o belli. E allora tanta magia e tanto fascino sarebbero scomparsi senza un motivo, senza un vantaggio. Quello che realmente importava era il cambiamento, e un cambiamento nato dall'odio metteva paura. «Così dice Jack.» Emily la stava fissando con attenzione, e il tè era stato dimenticato. «Più di tutto il resto lo preoccupa che ci siano fedeli monarchici con enormi interessi, disposti a fare qualsiasi cosa purché la situazione rimanga quella che è... e intendo qualsiasi cosa. Quando me l'ha detto, ho insistito perché si spiegasse meglio, ma non ha voluto rispondermi. Si è come chiuso in se stesso. Fa sempre così, quando non si sente bene. Mi sembra una cosa strana da dire, ma penso che avesse paura.» «Qualche piccolo cambiamento non mi importa, ma non ne voglio troppi. Credi che sia possibile cambiare soltanto un po' oppure la soluzione è radicale, tutto o niente? Devono mandar tutto in rovina per ottenere qualcosa di diverso?» «Dipende dal popolo» rispose Emily con un sorrisetto triste. «Se ti pieghi, no. Se ti rifiuti, se fai la Maria Antonietta, allora forse è la corona o la ghigliottina. Ma nessuno taglierà la testa alla nostra regina. Non siamo francesi, noi.» Adesso la sua voce era ferma, addirittura irata. «Vai a raccontarlo a Carlo I» replicò Charlotte mentre ripensava al triste, splendido ritratto fatto da Van Dyck allo sfortunato sovrano tanto attaccato alle proprie idee da salire sul patibolo. «Quella non è stata una rivoluzione.» «È stata una guerra civile.» «Sono soltanto chiacchiere! Uomini politici che soffrono di incubi. Se non fosse per quello, se la prenderebbero per qualcos'altro, l'Irlanda, le tasse, la giornata lavorativa di otto ore, le fognature.» Si strinse nelle spalle con un gesto pieno di eleganza. «Hai voglia di venire con noi alla National Gallery a vedere l'esposizione?» «No, grazie. Penso di andare di nuovo dalla signora Fetters. Credo che tu possa avere ragione: probabilmente è tutta una questione di politica.» Charlotte arrivò in Great Coram Street alle undici passate. Non si poteva scegliere ora meno adatta, ma la sua non era una visita mondana, e Juno si mostrò felice di vederla. La sua faccia esprimeva un autentico sollievo al-
l'idea di avere un po' di compagnia. «Accomodatevi» disse con entusiasmo. «Avete notizie?» «No, mi dispiace.» Charlotte si sentì colpevole di essere rimasta al punto di partenza. «Ho riflettuto molto, ma senza il minimo vantaggio. Mi sono soltanto venute altre idee.» «Posso essere utile?» «Forse.» Charlotte accettò di accomodarsi nella poltrona che le veniva offerta nello stesso delizioso salotto che dava sul giardino. Quel giorno faceva più fresco e la porta-finestra era chiusa. «Sembra che l'ambizione per le riforme politiche fosse la cosa più ovvia che il signor Fetters e John Adinett avessero in comune e nelle quali entrambi si sentissero impegnati a fondo.» «Sì, Martin ci teneva enormemente» confermò Juno. «Ne discuteva e ha scritto molti articoli in merito. Sapeva che molte persone la pensavano come lui, ed era pienamente convinto che sarebbero state realizzate.» «Avete qualcuno di quegli articoli?» «Saranno fra le sue carte.» Juno si alzò in piedi. «La polizia li ha esaminati, naturalmente, ma sono sempre nella sua scrivania dello studio. Io... io non ho avuto il cuore di rileggerli.» Aveva parlato a voce bassa voltando le spalle a Charlotte. Si affrettò a uscire dal salotto entrando nello studio, una stanza di dimensioni più modeste della biblioteca, senza le grandi finestre e la luce del sole, ma sempre accogliente. C'era una sola libreria piena zeppa, e un paio di altri volumi sul piano della scrivania, rivestito di cuoio. Gli scaffali, dietro, erano rigurgitanti di carte, documenti e fogli sciolti. Juno si fermò sui due piedi, la faccia incupita. «Non so cosa possiamo scoprire, qui» disse, come se non si facesse illusioni. «La polizia non ha trovato niente di più di qualche breve messaggio che riguardava certe riunioni, e due o tre letterine scritte quando mio marito una volta è andato in Francia. Niente di personale, assolutamente; soltanto descrizioni molto vivaci di certe località di Parigi connesse, in gran parte, con la rivoluzione. Martin aveva scritto qualche articolo su quegli stessi posti, e Adinett diceva che adesso, visti attraverso gli occhi di Martin, avevano per lui un nuovo significato rispetto a prima.» Si avvicinò agli scaffali dietro la scrivania e ne tirò fuori un certo numero di periodici e riviste, sfogliandone le pagine. «Qui ci sono articoli di ogni genere. Avreste piacere di leggerli?» «Sì, per favore.» Juno glieli passò. Charlotte si accorse che sulle copertine di quei perio-
dici appariva anche l'indicazione della casa editrice: a pubblicarli era Thorold Dismore. Aprì il primo e cominciò a leggere. Era stato scritto da Vienna e descriveva le impressioni di Martin Fetters man mano che camminava per la città e si fermava nei luoghi in cui i rivoluzionari del '48 avevano lottato per costringere il governo dell'inetto e fiacco imperatore Ferdinando a realizzare qualche riforma delle leggi oppressive, del gravame delle tasse e delle diseguaglianze sociali. L'intenzione di Charlotte era stata soltanto di scorrerli rapidamente, ma le parole assumevano un diverso risalto quando erano venate di tanta passione e dolore, e ne rimase affascinata al punto di dimenticare totalmente lo studio di Great Coram Street e Juno seduta a pochi passi da lei. Le pareva di sentire nella mente la voce di Martin Fetters come di vedere la sua faccia piena di entusiasmo per il coraggio degli uomini e delle donne che ci avevano combattuto. Passò a quello successivo. Stavolta era stato scritto da Berlino. Ma la sostanza era la stessa, perché vibrava di amore per la bellezza della città e lo spiccato individualismo dei suoi abitanti mentre narrava lucidamente la storia dei loro tentativi di fiaccare il potere militare della Prussia e, alla fine, il loro fallimento. Scriveva anche da Parigi. Forse quello era l'articolo a cui Adinett faceva allusione nelle lettere ritrovate da Pitt. Fetters era andato a cercare l'abitazione di Danton, e di lì aveva seguito il suo ultimo viaggio sulla carretta che lo portava alla ghigliottina dove aveva vissuto il suo momento di grandezza e anche in Rue St. Honoré a vedere la casa del carpentiere presso il quale aveva alloggiato Robespierre, che aveva condannato molte migliaia di persone a una morte atroce, eppure non aveva mai visto la macchina della loro distruzione fino a quando non ci avevano portato anche lui. Scriveva anche da Venezia, che aveva trovato la città più bella del mondo perfino sotto il giogo austriaco, e da quell'Atene, repubblicana un tempo, culla del concetto di democrazia e adesso soltanto il guscio dell'antico splendore. E infine scriveva da Roma, sempre sulla rivoluzione del '48, descrivendo la breve gloria di un'altra Repubblica Romana, soffocata e repressa dagli eserciti di Napoleone III, e il ritorno del papa, che aveva annientato ogni libertà e giustizia e la voce del popolo. Scriveva di Mazzini, delle gesta di Garibaldi e della sua appassionata e indomita consorte, morta dopo la fine dell'assedio, e di Mario Corena, il soldato e il repubblicano disposto a donare tutto quanto possedeva per il bene comune: il suo denaro, le sue terre, la sua stessa vita, se necessario.
Posò l'ultimo articolo sulla scrivania col cervello in tumulto per l'eroismo e la tragedia, il passato e il presente che rivivevano insieme, e soprattutto per la potenza della voce di Martin Fetters che le pareva di sentir vibrare di tutto ciò in cui credeva, fino all'ultimo sacrificio per la libertà dell'individuo inserita in un tutto che fosse simbolo di civiltà. Difficile da pensare che, se John Adinett lo aveva conosciuto bene come tutti dicevano che lo conoscesse, poteva aver avuto un movente valido per uccidere un uomo simile. Poi le affiorò alla mente un sospetto. E se, dopotutto, si fossero sbagliati a definirlo un assassinio? E se Adinett avesse detto la verità fin dal principio? Tenne gli occhi bassi perché Juno non vi potesse leggere il dubbio che stava nascendo in lei. «Scriveva in modo brillante» disse ad alta voce. «Non soltanto mi sento come se fossi stata anch'io in quei posti, ma come se provassi la stessa pena e lo stesso tormento... come li provava lui.» Juno ebbe un pallido sorriso. «Martin era così... così vivo che non sarei stata mai capace di immaginare che un giorno potesse morire... davvero!» La sua voce era dolce, piena di distacco. Sembrava quasi meravigliata. Charlotte alzò la testa e quando la guardò vide il tumulto dei sentimenti nella sua espressione. Com'era facile capirla! Lo stesso senso di solitudine che lei stessa provava, non era che una minima parte, una frazione di questo. Suo marito stava bene; era a Spitalfieds, solo a pochi chilometri di distanza. Se si fosse dimesso dalle forze di polizia avrebbe potuto tornare a casa da un giorno all'altro. Ma non sarebbe stata la soluzione giusta. Lei doveva capire che Thomas non aveva sbagliato sul conto di Adinett. Doveva provarlo a tutti. Forse anche Juno sentiva il bisogno di saperlo con la stessa urgenza e l'ombra che le incupiva la faccia era nata dalla paura che lei potesse scoprire chissà cosa sul conto di suo marito. Doveva trattarsi di qualcosa di vaste proporzioni... e, almeno per Adinett, di intollerabile... e segreto! Era salito sul patibolo, piuttosto che parlarne. «Faremo meglio ad approfondire le ricerche» si decise a dire alla fine. «Quello che vogliamo può anche non essere in questa stanza; ma è il posto migliore per cominciare» Juno, ubbidiente, si chinò ad aprire i cassetti della scrivania. Per uno di essi mandò a prendere un coltello in cucina e poi lo forzò, scheggiando il legno. «Peccato» disse mordendosi un labbro. «Non credo che si possa riparare, ma non ne avevo la chiave.» Cominciarono proprio di lì, visto che era l'unico protetto. Charlotte cominciò a vedere uno schema più preciso dopo aver letto tre lettere. Erano
formulate con somma cura e un occhio distratto non ci avrebbe trovato niente di rimarchevole. L'argomento era la riforma politica di uno stato che non aveva un nome. Non ci vibravano né il dramma né la passione; si parlava soltanto di ideali, come se si trattasse di un puro e semplice esercizio intellettuale. La prima lettera era stata mandata da Charles Voisey, il giudice di corte d'appello. Mio caro Fetters, ho letto il vostro saggio con estremo interesse. Sollevate molte questioni nelle quali mi trovo d'accordo con voi e anche qualcuna che io non avevo considerato, ma valutando ciò che avete da dire, credo che sia pienamente corretta l'opinione che esprimete. Ci sono altri campi in cui non posso andare a fondo come voi, tuttavia capisco sotto quali influenze abbiate lavorato, e al vostro posto potrei condividere il giudizio, anche se non fino al suo limite estremo. Vi ringrazio per la ceramica, che è arrivata sana è salva e adesso adorna il mio studio privato. È un pezzo assolutamente squisito, e per me una memoria costante delle glorie del passato e degli spiriti dei grandi uomini ai quali dobbiamo tanto... come voi stesso avete detto, un debito di cui alla storia dovremo rendere conto... Pregusto il piacere di altri colloqui con voi. Vostro alleato nella causa, Charles Voisey La successiva era di un tono più o meno simile; l'aveva scritta Thorold Dismore, il proprietario del quotidiano. Anch'essa esprimeva insistentemente l'ammirazione per l'opera di Fetters e gli chiedeva di scrivere un'altra serie di articoli. La data, recentissima, lasciava presumere che gli articoli non fossero stati ancora consegnati. Juno tirò fuori una lettera dal mucchietto, che aveva preso da esaminare, con occhi colmi di sgomento. Era di Adinett. Mio caro Martin, che pezzo stupendo hai scritto. Non so elogiarti abbastanza per la passione che dimostri. Ci vorrebbe un uomo privo di tutto ciò che distingue quello civilizzato dal barbaro a non sentirsi infiammare da quanto hai detto, a non mostrarsi deciso a ogni costo a dedicare tutta la sua forza e il suo patrimonio alla creazione di un mondo migliore. L'ho mostrata a diverse persone, che non nomi-
nerò per motivi che capirai, e anche loro hanno manifestato la mia stessa, profonda, ammirazione. Sento che c'è realmente una speranza. Non è più il tempo di sognare soltanto. Ti vedrò sabato. John Juno la stava fissando con occhi grandissimi e colmi di dolore. Poi le passò un fascio di appunti per altri articoli. Charlotte li lesse con crescente apprensione, e poi con allarme. La menzione delle riforme diventava sempre più specifica. Si faceva riferimento alla rivoluzione romana del '48 con elogi appassionati. L'antica Repubblica Romana veniva considerata come un ideale, e i re il simbolo della tirannia. La proposta di una moderna repubblica, dopo avere rovesciato la monarchia, era inequivocabile. E non mancavano allusioni indirette a una società segreta i cui membri mostravano là più completa dedizione al proseguimento della monarchia con la sua ricchezza e il suo potere, usando qualsiasi mezzo a disposizione, e quindi era implicito che nessuno di loro si sarebbe tirato indietro neanche di fronte a uno spargimento di sangue, se la minaccia si fosse rivelata grave a sufficienza. Charlotte posò l'ultimo foglio e alzò gli occhi verso Juno che le sedeva davanti, livida, accasciata, con le spalle curve. «È possibile qualcosa del genere?» domandò Juno con voce rauca. «Pensate che il loro piano fosse realmente quello di creare una repubblica proprio qui, in Inghilterra?» «Sì...» Juno adesso sedeva immobile, lievemente appoggiata alla scrivania, come se avesse bisogno della sua solidità per sentirsi sorretta. «Dopo... dopo che la regina muore?» «Forse.» «È troppo presto. Potrebbe accadere da un giorno all'altro. Ha passato la settantina da un bel po'. E il principe di Galles, allora? Cosa intendono fare di lui?» «Qui non si dice niente» rispose Charlotte a bassa voce. «Credo che siano troppo attenti per affidare un progetto del genere a uno scritto, se si tratta già di un piano ben preciso e non soltanto di fantasticherie. Soprattutto se c'è una società segreta, come dicono.» «Io capisco le riforme.» Juno, adesso, cercava le parole. «Le voglio anch'io. Esistono povertà e ingiustizia, e sono atroci. Ma non voglio questo. So che Martin ammirava il concetto di repubblica, con i suoi ideali e la sua uguaglianza, ma non ho mai avuto la più lontana idea che ne volesse una
qui, da noi. Io non... io non voglio un cambiamento così grande.» Deglutì. «E non provocato con tanta violenza. Mi piace troppo di quello che abbiamo adesso...» Guardò Charlotte con aria supplichevole, come per costringerla a capire. «Ma noi siamo i fortunati. E siamo una minoranza molto piccola.» «È per questo che è stato ucciso?» Juno formulò a parole la domanda che sembrava sospesa fra loro. «Adinett era davvero un membro di quest'altra società, la società segreta, e ha assassinato Martin per questo progetto di una repubblica?» «Potrebbe spiegare perché non ha detto niente, neanche in sua difesa.» Charlotte aveva il cervello in subbuglio. C'era da pensare che la Confraternita avesse simpatie monarchiche? Era questo il nocciolo della questione? Adinett aveva scoperto quel che il suo amico progettava, e che il suo idealismo non riguardava soltanto le glorie del passato o le tragedie del '48, ma significava qualcosa di più urgente e immediato per il futuro? Juno era rimasta immobile al suo posto con gli occhi fissi davanti a sé. Qualcosa in lei era crollato. L'uomo amato per tanti anni stava improvvisamente rivelando un'altra dimensione che alterava ogni cosa, facendola diventare pericolosa... forse irrimediabilmente brutta. Charlotte era profondamente addolorata. «Avete una cassaforte?» chiese. «Pensate che dentro ci sia dell'altro?» «Non so, ma credo che dovreste conservare queste lettere, i documenti e gli articoli nella cassaforte, visto che questo cassetto non si chiude più. Non dovreste ancora distruggerli perché al momento stiamo soltanto cercando di indovinare quale sia il loro significato.» Gli occhi di Juno erano sempre spenti. «Voi non ci credete... e neanch'io. Per Martin le riforme erano qualcosa a cui teneva moltissimo. Perfino ora posso tornare indietro col pensiero e ricordare quel che diceva sulle repubbliche in opposizione alle monarchie. Ricordo di avergli sentito criticare il principe di Galles, e la regina.» Raccolse, mettendolo in ordine, quel fascio di fogli. «In tutto questo non c'è una sola prova» disse piano come se anche solo pronunciare quelle parole le facesse male e dovesse imporselo a forza. «Ci sono altre carte in qualche posto, e più accurate e precise. Devo trovarle. Devo capire cos'avesse intenzione di fare... anche se era soltanto un suo sogno, un desiderio non ancora realizzato.» Charlotte si sentì il cuore stretto. «Siete sicura? C'è davvero qualcos'altro da trovare?» «Oh, sì.» Non c'era nessun dubbio nella voce di Juno. «Questi sono sol-
tanto degli appunti, delle annotazioni. Posso sbagliarmi nel modo più totale su quello a cui Martin stava lavorando, ma conosco il suo modo di lavorare. Era meticoloso. Non si affidava mai solamente alla memoria.» «E dove sarebbe tutto questo?» «Io non...» Furono interrotte dalla cameriera che veniva ad avvertire dell'arrivo di un certo signor Reginald Gleave, il quale chiedeva scusa per l'ora, ma sarebbe stato felicissimo di poterle parlare anche perché, purtroppo, impegni irrinunciabili gli rendevano impossibile venire a trovarla all'ora tradizionale per le visite. Juno parve sconcertata. Si rivolse a Charlotte che fu pronta a rassicurarla. «Io aspetterò dove vorrete.» «Lo riceverò in salotto» disse Juno alla cameriera. «Aspetta ancora cinque minuti e poi fallo entrare.» Guardò Charlotte. «Che cosa può volere? Ha difeso Adinett!» «Non siete obbligata a riceverlo» disse Charlotte, più che altro perché quella poveretta le faceva compassione, ma capiva che sarebbe stato come rifiutare l'opportunità di sapere qualcosa di più. Juno era esausta, impaurita al pensiero di quello che avrebbe potuto scoprire, e disperatamente sola. «Se volete, vado a dirgli che non vi sentite bene.» «No... no. Ma vi sarei grata se voleste rimanere con me. Mi pare che sarebbe più corretto, cosa ne dite?» Charlotte sorrise. «Naturalmente.» Gleave non nascose di essere perplesso quando venne fatto entrare e si trovò di fronte a due signore. Si capì subito che non aveva mai visto la padrona di casa e per un attimo rimase incerto. Non sapeva a chi rivolgersi. «Io sono la signora Fetters» disse Juno in tono glaciale. «Questa è la mia amica, signora Pitt.» La sua voce aveva un tono di sfida, come il movimento con cui rialzò la testa. Lui non poteva non ricordare quel nome, e gli sarebbe stato impossibile non collegare i due fatti. Charlotte glielo lesse negli occhi, che si accesero di collera. «Piacere, signora Fetters. Signora Pitt. Non avevo idea che voi vi conosceste.» Charlotte l'osservò con interesse. Non era particolarmente alto, ma dava un'impressione di imponenza, con le spalle possenti e il collo taurino. Non era una faccia che potesse piacerle, ma ne apprezzava l'espressione intelligente, e la presenza di un'enorme forza di volontà. C'era da pensare che non fosse niente di più di un avvocato abile ed entusiasta che aveva perduto una causa ed era convinto di averla perduta ingiustamente? Oppure fa-
ceva parte di una società segreta pronta a commettere degli omicidi privati e a scatenare sommosse popolari per vedere realizzati i suoi ideali? «Cosa posso fare per voi, signor Gleave?» domandò Juno. «Prima di tutto, posso presentarvi le mie condoglianze per la perdita che avete subito, signora Fetters? Vostro marito era un uomo degno sotto ogni rispetto. Non c'è dolore paragonabile al vostro, naturalmente; ma la sua scomparsa ci ha lasciati tutti più poveri. Era un uomo di alta moralità e grandi doti intellettuali.» «Grazie» rispose Juno educatamente, anche se la sua espressione lasciava capire che era spazientita. Sapevano tutti e due che non era questo lo scopo della visita. Gleave chinò gli occhi come se si sentisse a disagio. «Signora Fetters, per me è molto importante che sappiate che ho difeso John Adinett perché lo credevo innocente, e se fosse stato colpevole, non sarei stato disposto a inventare qualche scusa per quello che ha commesso.» Alzò di scatto la testa. «Ancora adesso trovo quasi impossibile immaginare che possa aver fatto una cosa simile. Non poteva essercene nessuna ragione!» Charlotte sì accorse con un brivido che Gleave stava scrutando attentamente Juno, fissandola in modo da poterne cogliere il più impercettibile fremito, l'incertezza di un attimo nello sguardo. La osservava come fa un animale con la sua preda. Era venuto a scoprire quanto lei sapesse, o se aveva trovato, intuito o sospettato qualcosa. Con uno sforzo di volontà provò a imporre tacitamente a Juno di non dirgli niente, di essere mite, ingenua, perfino stupida, fosse stato necessario. Era il caso d'intervenire, di prendere in mano la situazione? «No» rispose Juno lentamente. «Ammetto di non capirlo neanch'io.» S'impose di calmarsi, riuscì perfino a sorridere lievemente. «Li avevo sempre considerati i migliori degli amici.» Non aggiunse altro lasciando che fosse lui, adesso, a riprendere il filo della conversazione. Non era ciò che Gleave si aspettava. Per un attimo l'incertezza gli balenò sulla faccia, ma fu un lampo. E scomparve. Sembrò sollevato. Ricambiò il suo sorriso, evitando di guardare Charlotte. «Mi ero domandato se, per caso, non aveste sospettato qualcosa che poteva aver preso una direzione tanto tragicamente sbagliata... Niente prove» si affrettò a soggiungere. «Altrimenti ne avreste parlato con le autorità incaricate del caso. Solamente pensieri, magari intuizioni, se si tiene conto che dovevate conoscere bene vostro marito.» Juno non disse niente.
La voce di Gleave era untuosa, ma Charlotte gli lesse di nuovo in faccia quel lampo di dubbio. Non si era aspettato che il discorso prendesse quella piega. Non lo stava più controllando come avrebbe voluto. Adesso che Juno lo obbligava a dire di più con il suo maggiore riserbo, si vedeva costretto a fornire delle spiegazioni. «Chiedo scusa se devo insistere sull'argomento, signora Fetters. È stata una causa che mi angoscia tuttora perché sembrava così... irrisolta. Io...» Scrollò lievemente la testa. «Mi sento come se avessi fallito.» «Credo che tutti abbiamo fallito, perché non siamo stati capaci di capire, signor Gleave. Vorrei potervi dare qualche chiarimento, ma purtroppo non ne sotto in grado.» Sulla faccia di Gleave apparve di colpo un barlume d'interesse, talmente fievole che poteva quasi sfuggire, ma Charlotte capì che Juno aveva commesso uno sbaglio. Era stata guardinga invece che franca. Era il caso di intervenire? Oppure avrebbe soltanto peggiorato le cose? E chi era Gleave, in fondo? Semplicemente un avvocato difensore il quale aveva perduto un cliente che giudicava innocente, oppure il membro di una potente e terribile società segreta venuta a giudicare quanto la vedova sapesse, e se ci fossero carte, documenti, prove che dovevano venire distrutte? «Confesso» riprese Juno d'un tratto «che vorrei sapere perché... cosa...» Scrollò il capo e le vennero gli occhi lucidi. «Perché Martin è morto. E non lo so. Non ha nessun senso, ma proprio nessuno!» Gleave le diede l'unica risposta possibile. «Come mi dispiace, signora Fetters. Non immaginavo di addolorarvi tanto. Sono stato maldestro a sollevare l'argomento. Perdonatemi, vi prego.» Lei scrollò la testa. «Capisco, signor Gleave. Avevate fiducia nel vostro cliente. Anche voi dovete essere angosciato. Non c'è niente da perdonare. Certo, lo confesso, mi sarebbe piaciuto chiedervi se ne sapevate la ragione, ma naturalmente anche sapendola, non sareste libero di confidarmela. Adesso, almeno, avete chiarito che non ne sapete più di quanto ne sappia io. Forse riuscirò a rassegnarmi e a pensare ad altre cose.» «Sì... sì, sarebbe meglio» confermò lui e per la prima volta guardò dritto in faccia Charlotte. I suoi occhi erano scuri, intelligenti, inquisitori; forse volevano anche lanciarle un avvertimento. «Felice di avervi conosciuto, signora Pitt.» disse. Non aggiunse altro, ma l'aria vibrò di sottintesi significativi. «La stessa cosa vale per me, signor Gleave.» Appena l'uomo se ne fu andato richiudendosi la porta alle spalle, Juno si
volse a guardarla. Era pallida e tremava dalla testa ai piedi. «Voleva sapere cos'abbiamo scoperto» disse con voce rauca. «È per questo che è venuto... vero?» «Sì, credo di sì» confermò Charlotte. «E significa che avete ragione quando sostenete che c'è dell'altro. Neanche lui sa dove sia questo materiale... però ha importanza.» Juno rabbrividì. «Allora dobbiamo trovarlo. Volete aiutarmi?» «Certamente.» «Grazie. Rifletterò su dove guardare. E adesso gradite una tazza di tè? Io sì!» Charlotte non aveva raccontato a Vespasia quello che era successo a Pitt. In principio si era sentita in imbarazzo, anche se non c'era da pensare che fosse stata colpa di qualche suo errore di giudizio nell'ambito delle indagini. Comunque per lei era un duro colpo e preferiva che nessuno ne fosse al corrente. Adesso, però, l'intera faccenda aveva assunto proporzioni tali che non si sentiva più in grado di accollarsi quel fardello da sola e non c'era nessun altro di cui potesse fidarsi quanto a lealtà, capacità di capire cosa c'era in gioco e saggezza nel consigliarla sul da farsi. Quando si presentò alla porta di Vespasia, la mattina seguente, venne fatta passare dalla cameriera nella stanzetta arredata nei toni giallo e oro in cui la padrona di casa consumava abitualmente la prima colazione e subito invitata a farle compagnia. «Hai l'aria un po' preoccupata, mia cara» osservò gentilmente Vespasia mentre spalmava un po' di burro e una cucchiaiata di confettura di albicocche su una fettina di pane tostato sottile come un'ostia. «Devo pensare che sei venuta a parlarmi di quello che ti rende così inquieta?» Charlotte fu ben contenta di non dover più fingere. «Sì. Veramente è successo tre settimane fa, ma soltanto ieri ho capito fino a che punto la situazione possa essere seria. Thomas è stato rimosso da Bow Street e inserito fra i funzionari del Reparto speciale per lavorare a Spitalfields. La cosa peggiore è che deve anche abitare in quel quartiere. Io non l'ho più visto. E non posso neanche scrivergli perché non conosco il suo indirizzo. Lui mi scrive... ma non ho modo di rispondergli! In parte, questo è successo a causa della sua testimonianza contro John Adinett. E in parte per proteggerlo... dalla Confraternita.» «Vedo.» Vespasia staccò delicatamente un morso dal toast. La cameriera portò altro tè e lo versò per Charlotte.
Quando se ne fu andata, Charlotte riprese il suo racconto. Spiegò a Vespasia come fosse determinata a scoprire il movente dell'assassinio di Martin Fetters, e si fosse recata a tale scopo a far visita a Juno. Le riferì il più esattamente possibile ciò che aveva letto nelle carte e negli articoli trovati nella scrivania di Fetters, e poi parlò della visita di Gleave. Vespasia rimase in silenzio per un po'. «È estremamente antipatico, tutto questo» commentò poi. «Hai pienamente ragione ad aver paura. Non solo, ma è anche molto pericoloso. Credo di condividere la tua opinione sullo scopo della visita di Regìnald Gleave alla signora Fetters. Dobbiamo presumere che abbia un profondo interesse nella questione e sia preparato a raggiungere i suoi scopi senza badare ai mezzi.» «Inclusa la violenza?» Vespasia non aggirò la domanda. «Senz'altro, se non gli si apre nessun'altra strada. Tu vedi di comportarti con la massima discrezione.» Charlotte sorrise a dispetto di se stessa. «Chiunque altro mi avrebbe detto di lasciar perdere e non occuparmene più.» «E tu l'avresti fatto?» «No.» «Bene. Guarda che sto parlando sul serio, molto sul serio, con il mio avvertimento. Non sono sicura di quanto ci sia in gioco, ma credo che sia molto, moltissimo. Il principe di Galles è mal consigliato, a dir poco. Se vogliamo vedere le cose dal lato peggiore, ha le mani bucate e non gli interessa se la sua reputazione non è quella di un uomo onesto, dal punto di vista finanziario. Vittoria ha perduto già da molto tempo il suo senso del dovere. Fra l'uno e l'altra hanno permesso al sentimento repubblicano di prender piede, e così è stato. Non avevo capito che si fosse già andati tanto vicini alla violenza e che questo avesse coinvolto uomini come Martin Fetters. Ma quello che tu hai scoperto spiegherebbe la sua morte.» «È la Confraternita che sostiene la monarchia a ogni costo?» chiese Charlotte abbassando la voce, anche se non c'era nessuno che potesse sorprendere la loro conversazione. «Non lo so» ammise Vespasia. «Non so quali siano i loro scopi, ma non ho dubbi che siano disposti a ottenerli senza badare al resto di noialtri. E credo che sia meglio tacere su tutto questo. Sono convinta che Cornwallis sia un uomo d'onore, ma non lo so al di là di ogni possibile dubbio. Se quello che hai insinuato è vero, bisogna dire che siamo incappate in qualcosa di enorme, di un potere grandissimo, e un omicidio in più o in meno non avrà la minima importanza, salvo per la vittima e per chi l'amava. Spe-
ro che la signora Fetters si comporterà allo stesso modo.» A Charlotte pareva di essere inebetita. «E adesso cosa facciamo?» chiese Charlotte, fissando Vespasia con gli occhi sgranati. «Non ne ho nessuna idea. Non ancora, perlomeno.» Dopo che Charlotte se ne fu andata con aria confusa, e profondamente infelice, Vespasia rimase seduta a lungo nella piccola stanza dalle tonalità dorate con gli occhi fissi sul prato del giardino oltre la finestra. Lei aveva vissuto per intero il regno di Vittoria. Quarant'anni prima l'Inghilterra era sembrata il luogo più stabile e sicuro del mondo, l'unico paese dove tutti i valori fossero certi, e il futuro pareva che si allungasse davanti a lei senza fine. Quel mondo se n'era andato, come i fiori dell'estate che appassiscono. Adesso era meravigliata della collera sorda che provava per il fatto che Pitt fosse stato privato della sua posizione e della sua vita familiare, e mandato a lavorare a Spitalfields, quasi certamente senza un vero scopo. Ma se Cornwallis era l'uomo che lei credeva, poteva almeno sperare che Pitt fosse relativamente al riparo dalla vendetta della Confraternita, e questa era già una buona cosa. Lei non riceveva più il gran numero di inviti di un tempo, ma erano sempre abbastanza per poter scegliere ciò che preferiva. Dunque, quel giorno avrebbe partecipato a un garden party ad Astbury House. La sua prima intenzione era stata di rifiutare, e lo aveva perfino detto a lady Weston, il giorno prima. Ma sapeva che sarebbero state presenti varie persone, e fra gli altri Randolph Churchill e Ardal Juster. Sì, lo avrebbe accettato. E forse ci avrebbe anche trovato Somerset Carlisle. L'unico di cui sapeva di potersi fidare. Il pomeriggio era caldo e bello, i giardini nella piena fioritura. Non sarebbe stato possibile scegliere un giorno migliore per un ricevimento all'aperto. Vespasia ci arrivò tardi com'era sua abitudine, adesso. Aveva scelto un abito in due sfumature di grigio e lavanda, e un cappello dalla tesa rialzata come un'ala di un uccello, inclinato sulla tempia con aria sbarazzina. Soltanto una donna alla quale non interessasse minimamente il giudizio altrui avrebbe osato scegliere un'acconciatura del genere. «Meraviglioso, mia cara» disse lady Weston in tono glaciale. «Assolutamente unico, ne sono sicura.» Voleva dire che ormai non era più di moda e nessuna altra dama avrebbe voluto essere sorpresa mentre lo inalberava a un ricevimento mondano. «Grazie» rispose Vespasia con un sorriso abbagliante. «Molto generoso da parte vostra.» Scrutò attentamente il vestito blu, banalissimo e assolu-
tamente privo di fantasia di lady Weston, prima di lasciar capire cosa ne pensasse con una sola occhiata. «Che dono splendido.» «Scusate... non vi capisco.» «La modestia di saper ammirare gli altri» le spiegò Vespasia con un altro sorriso; poi con un lieve fruscio della gonna, volse le spalle a una lady Weston furiosa. Passò di fianco all'editore Thorold Dismore, la cui faccia attenta e interessata rivelava una vibrante eccitazione. Stava discorrendo con Sissons, il padrone degli zuccherifici. Stavolta anche Sissons sembrava pieno di energia e di entusiasmo, quasi irriconoscibile, se lo confrontava con l'uomo che si era comportato da terribile scocciatore con il principe di Galles. Vespasia osservò, con interesse quel cambiamento, domandandosi quale fosse il soggetto che stavano discutendo con tanto impegno. Dismore era un uomo passionale, bizzarro, pronto ad abbracciare crociate per molte cause, benché fosse nato ricco e avesse un'ottima posizione. Sissons si era fatto da sé, e di fronte a un'altezza reale come il principe di Galles era sembrato tardo e fastidioso dal punto di vista intellettuale, oltre che un inetto, mondanamente parlando. Per questo era curiosa di capire cosa potessero avere in comune di tanto interessante. Non era destino che lo sapesse. Si ritrovò faccia a faccia con Charles Voisey, che teneva gli occhi socchiusi per non rimanere abbacinato dal sole. Così non poté leggervi cosa pensasse di lei, se la trovava simpatica o no, se l'ammirava o la disprezzava. Scoprì che si sentiva a disagio. «Buon pomeriggio, lady Vespasia» disse l'uomo cortesemente. «Un giardino bellissimo.» E girò gli occhi intorno contemplando quella profusione di forme e colori, le siepi scure, ben potate, le bordure erbose, il prato falciato di fresco e un ciuffo di luminosi iris violacei in piena fioritura. «Più inglese di così non sarebbe possibile» soggiunse. Verissimo. Eppure in quel preciso momento a Vespasia tornarono alla memoria la calura di Roma, gli scuri cipressi, il gorgoglio dell'acqua delle fontane, simile a una musica di pietra. Ma a essi si univa quello di Mario Corena. Niente a che vedere con l'uomo di fronte a lei. Erano stati una battaglia differente, ideali differenti. Adesso lei doveva pensare a Pitt e alla mostruosa congiura della quale era una delle vittime. «Verissimo» gli rispose con la stessa cortesia piena di distacco. «C'è qualcosa di particolarmente smagliante e intenso nei colori in queste poche settimane al culmine dell'estate. Forse perché sono così brevi e così incerte. Domani potrebbe piovere.» «Mi sembrate molto meditabonda, lady Vespasia... e un pochino triste.»
Lei lo scrutò di nuovo in faccia, sotto quella luce impietosa che ne rivelava ogni imperfezione, ogni segno lasciato dalla passione, dal malumore o dal dolore. Quanto lo aveva fatto soffrire la morte di Adinett sul patibolo? Non le era sfuggita un'aspra intonazione di collera quando ne aveva parlato al ricevimento reale, prima che la causa andasse in appello, eppure lui era stato uno dei giudici della maggioranza, uno di quelli che avevano optato per la condanna. Era stato spinto da un'amicizia personale o dalla passione politica a esprimersi con tanto calore, quella volta? O semplicemente dalla persuasione che John Adinett fosse innocente? La pubblica accusa non era mai riuscita neanche a suggerire un movente per l'omicidio, e tantomeno a provarlo. «Certo» rispose lei in tono vago. «In parte, il godimento che proviamo per la bellezza effimera dell'estate sta nel sapere che finirà troppo presto e nella certezza che non tutti noi la rivedremo.» Adesso lui stava osservandola con attenzione e ogni pretesa di una banale cortesia era scomparsa. «Anche adesso non tutti noi la vediamo, lady Vespasia.» Lei pensò a Pitt a Spitalfields, ad Adinett nella sua tomba... Non era più il momento di scherzare. «Anzi, molto pochi di noi, signor Voisey» ammise. «Ma se non altro esiste; e già questo rappresenta una speranza. Meglio che i fiori sboccino solo per pochi, piuttosto che per nessuno del tutto.» «Purché noi siamo tra quei pochi!» ribatté lui subito, e stavolta non era possibile non leggergli in faccia l'amarezza. Gli rivolse un sorriso. Non provava nessuna stizza nei suoi confronti per quel tono rozzo e scortese. La sua era stata chiaramente un'accusa. Il dubbio gli balenò negli occhi: forse aveva commesso un errore. Lei aveva fatto capire che avrebbe gradito vedere le carte, e Voisey le aveva mostrato la sua mano. Ma gli era costato uno sforzo. «Naturalmente. Ma io so che voi avete lavorato per le riforme, come ho fatto io, e anche per certe, gravi offese alla giustizia.» Adesso fu Vespasia a mostrarsi insicura. Voisey non era uomo facile, ma forse a renderlo così era un'integrità morale molto rara, e non impossibile. C'era da pensare che Adinett avesse ucciso Martin Fetters per impedire una rivoluzione repubblicana in Inghilterra? Questo era molto diverso da una riforma per cambiare una legge. Un minuto più tardi vennero raggiunti da lord Randolph Churchill e la conversazione diventò generale. Con le elezioni tanto vicine, era logico che si parlasse di politica, di Gladstone e del governo autonomo in Irlanda, dell'anarchia sempre più forte in Europa e dei dinamitardi acquattati nel-
l'ombra. «L'intero East End è una polveriera» disse Churchill sottovoce a Voisey, dimenticandosi che Vespasia era a portata di orecchio. «Ci vorrà soltanto la scintilla giusta, e salterà in aria.» «Cosa state facendo?» Voisey domandò, la voce carica di preoccupazione, la fronte aggrottata. «Mi occorre sapere di chi posso fidarmi e di chi no» rispose Churchill con amarezza. Sulla faccia di Voisey si disegnò un'espressione guardinga. «Vi occorre che la regina esca dal suo isolamento e ricominci a rendersi simpatica al pubblico, che il principe di Galles paghi i suoi debiti e la smetta di vivere come se non ci fosse un domani...» «Considerato tutto questo, non dovrei avere problemi» ribatté Churchill. «Ho conosciuto Warren e Abberline, almeno fino a un certo punto, ma non sono sicuro di Narraway. Abile e intelligente, senz'altro, ma non so a chi sia devoto, a conti fatti.» Voisey sorrise. Vespasia non riuscì a trovare Somerset Carlisle e si accorse di essere rimasta un po' delusa. Stava per andarsene quando le giunse alle orecchie, di nuovo, la voce di Churchill, appena al di là di un roseto. Parlava rapidamente e lei riuscì a malapena a distinguere le parole. «...fare di nuovo riferimento a quello! Ormai la questione è stata risolta. Non succederà più.» «E sarà meglio che non succeda più, accidenti!» disse un'altra voce in un tono che era poco più di un bisbiglio, vibrante di una commozione talmente intensa da renderla irriconoscibile. «Un'altra congiura come quella significherebbe la fine... e non lo dico tanto per dire.» «Sono tutti morti, che Dio ci aiuti» replicò Churchill. «Ma cosa pensavate che volessimo fare... pagare chi ci ricattava? E dove immaginate che la faccenda sarebbe finita?» «Nella tomba» fu la risposta. «È quello il suo posto.» Finalmente Vespasia si decise ad allontanarsi. Ma non aveva assolutamente idea di cosa significasse quello che aveva sentito. 7 Tellman ormai era arrivato ai limiti della pazienza, anche se cercava di concentrare la sua attenzione sulla sfilza di furti che gli era stata assegnata. Pur facendo domande e osservando fotografie e disegni di gioielli, conti-
nuava a pensare a Pitt, laggiù a Spitalfields, e a cosa Adinett fosse andato a fare in Cleveland Street che poteva avere un interesse tanto profondo per Lyndon Remus. La sua intelligenza gli ripeteva che se non si fosse applicato con rigore al problema dei furti, non li avrebbe mai risolti. Eppure la sua immaginazione vagava, rivolta a tutt'altro e, cosa assolutamente insolita in lui, appena arrivava l'ora in cui sapeva di poter concludere il lavoro della giornata per occuparsi dei fatti suoi, ne approfittava. Fu così che lasciò Bow Street e cominciò a fare una serie di indagini approfondite sulle abitudini di Remus: dove abitava, dove consumava i pasti, quali erano i pub che frequentava e a chi vendeva i suoi articoli. In quest'ultimo caso, era cambiato qualcosa nell'ultimo anno perché aveva cominciato ad aumentare regolarmente il numero di quelli che vendeva a Thorold Dismore, tanto che nei mesi di maggio e giugno gliene aveva praticamente dato l'esclusiva. Ci mise fin quasi a mezzanotte, dopo che pub e locande ormai erano chiusi, per raccogliere informazioni sufficienti a convincersi di poter rintracciare Remus quando e come avesse voluto. Si disse che la mattina dopo avrebbe raccontato qualche fandonia al suo diretto superiore per approfondire questo mistero. Dormì male, si svegliò presto, bevve in fretta una tazza di tè in cucina e comprò un panino imbottito dal primo venditore ambulante che incontrò mentre si affrettava a raggiungere l'angolo della strada, di fronte all'alloggio di Remus. Fu costretto ad aspettare quasi due ore ed era ormai furioso quando Remus uscì con l'aspetto di chi si è rasato di fresco, i capelli ancora un po' umidi, spazzolati all'indietro, e l'espressione vivace e attenta. Passò, camminando a passo lesto, a pochi metri di distanza da Tellman che se ne stava a testa bassa nel vano di un portone. E Tellman lo seguì, tenendosi a una quindicina di metri alle sue spalle, ma all'incirca ottocento metri più oltre fu costretto a scattare di corsa per salire sul suo stesso omnibus dove si lasciò cadere sul sedile a fianco di un grassone in giacca a righe che lo fissò con aria divertita. Ansante, Tellman si maledì per le sue eccessive cautele. Mai, neanche una volta, Remus si era voltato a guardarsi indietro. Evidentemente doveva avere uno scopo ben preciso che richiedeva tutta la sua concentrazione. Il giornalista scese dall'omnibus e Tellman lo seguì badando a non stargli troppo alle calcagna, ma quello, senza neanche un'occhiata alle proprie spalle, attraversò la strada e, affrettato il passo, dopo un minuto cominciò a salire la gradinata della St. Pancras Infirmary. Un secondo ospedale! Tellman non aveva ancora nessuna idea del moti-
vo per il quale Remus era andato al Guy's, dall'altra parte del fiume. Gli corse dietro, tutto contento di aver portato con sé un berretto di panno scuro che avrebbe potuto tirarsi sulla fronte per nascondere la faccia. Anche stavolta Remus domandò rapidamente qualcosa al portiere nell'atrio, poi girò sui tacchi e si avviò verso gli uffici dell'amministrazione camminando a passo lesto. Che continuasse a cercare informazioni sulla stessa questione che lo aveva portato al Guy's? Forse era venuto qui perché, la prima volta, non era riuscito a scoprire niente? Oppure voleva fare un confronto fra le notizie ottenute? I passi di Remus riecheggiavano poco più avanti. Svoltò a destra, salì una breve rampa di gradini e bussò a una porta. Gli venne aperto e lui entrò. Una targhetta indicava che quello era l'archivio dell'ospedale. Tellman si affrettò a seguirlo. A rimanere fuori non avrebbe imparato niente. Si trovò in una specie di sala d'aspetto dove un uomo calvo era curvo su un banco. Dietro di lui scaffali pieni di schedari e cartellette di documenti. Altre tre persone erano lì per chiedere informazioni di vario genere. Remus prese il suo posto in coda, ora appoggiandosi su un piede ora sull'altro, spazientito. Tellman rimase vicino alla porta, cercando di non farsi notare. Chinò gli occhi a terra, tenendo la testa bassa in modo che la visiera gli oscurasse la faccia. Però riuscì ugualmente a vedere Remus di schiena, le spalle contratte, le mani contratte per il nervosismo. Cosa stava cercando di tanto importante per essere così assorto da non accorgersi neanche di essere seguito? Passarono parecchi minuti prima che venisse il suo turno. «Buongiorno, signore» esclamò, in tono gioviale. «Mi dicono che siete la persona giusta a cui rivolgersi se si vogliono delle notizie sui pazienti dell'ospedale. Non c'è nessuno che conosca questo posto meglio di voi.» Ci voleva ben altro per rendere l'impiegato più amabile. «Bene, e allora? Si può sapere cosa vi interessa? Devo pensare che non riguardi la vostra famiglia, altrimenti me lo avreste detto subito. E poi avete l'aria di un signore troppo intelligente per venire a chiedere il mio aiuto per qualcosa di facile.» Remus rimase un po' sconcertato, ma si riprese subito. «È vero» ammise. «Sto cercando di rintracciare un uomo che potrebbe essere bigamo, o almeno così mi ha raccontato una certa signora. Ma io non ne sono tanto sicuro.» «E pensate che potrebbe essere qui, adesso? In archivio ci sono le registrazioni sui ricoverati precedenti, non su quelli attuali.»
«No, non adesso. Penso che possa essere morto qui, e questo basterebbe a chiudere la faccenda.» «E quale sarebbe il suo nome?» «Crook. William Crook» rispose Remus con la voce venata da un tremito. «È morto qui verso la fine dell'anno scorso?» «E se anche fosse?» «Allora è morto qui?» Remus si appoggiò al banco, alzando la voce. «Io... ho bisogno di saperlo!» «Quello che è successo a lui succede ogni anno a dozzine di altre persone. Per scoprirlo vi basterà dare un'occhiata negli archivi pubblici.» «Lo so!» Remus non si lasciò scoraggiare. «Che giorno è morto?» L'uomo rimase immobile. Il giornalista posò mezza corona sul banco. «Guardate negli archivi per me e ditemi di quale religione era.» «Di quale religione?» «Sì... non sono stato abbastanza chiaro? E a quale famiglia apparteneva: chi veniva a trovarlo, chi gli è sopravvissuto...» L'uomo abbassò gli occhi sulla mezza corona e arrivò alla decisione che poteva guadagnarsela abbastanza facilmente. Girò su se stesso, guardò gli scaffali che aveva alle spalle, tirò giù un grosso libro mastro rilegato di blu e lo spalancò. Adesso gli occhi di Remus non lo mollavano. Continuava a mostrare la più totale indifferenza per Tellman, immobile vicino alla porta, così come per l'ometto scarno con i capelli rossicci che era entrato un momento dopo di lui. Tellman cominciò a lambiccarsi il cervello. Chi era William Crook e per quale motivo la sua morte in un ospedale poteva avere importanza? Oppure la sua religione? Poiché era morto l'anno prima, cosa poteva avere a che vedere con Adinett o Martin Fetters? Era possibile che fosse stato assassinato da Adinett, e Fetters lo sapesse? Ecco un movente per ucciderlo. L'impiegato alzò la testa. «Deceduto il quattro dicembre. Cattolico romano, secondo la moglie, Sarah che è venuta a farlo registrare.» Remus si sporse lievemente verso di lui, e parlò con una voce che si era fatta un po' più stridula. «Cattolico romano. Siete sicuro? È così che c'è scritto?» «Ve l'ho appena detto, sì o no?» «E il suo indirizzo prima di venire qui?» L'impiegato chinò gli occhi sulla pagina ed esitò. Remus capì al volo e tirò fuori un altro scellino che depose sul banco facendolo tintinnare lie-
vemente. «Abitava al 9, St. Pancras Street.» «St. Pancras Street!» Remus era stupefatto, la sua voce tremula per l'incredulità. «Ne siete sicuro? Non abitava in Cleveland Street?» «St. Pancras Street» ripeté l'impiegato. «Da quanto tempo?» «E come posso saperlo io?» «Al numero 9?» «Precisamente.» «Vi ringrazio.» Remus gli voltò le spalle e se ne andò a testa china, come se fosse assorto in chissà quali pensieri, al punto che non si accorse neanche di Tellman che uscì anche lui per andargli subito dietro. Lo seguì tenendosi a poca distanza da lui man mano che Remus rifaceva il percorso di prima e usciva di nuovo in strada, ancora indispettito e confuso. Comunque non esitò a incamminarsi a passo lesto verso St. Pancras Street, imboccandola per cercare il numero 9. Bussò, e fece un passo indietro, disponendosi ad aspettare. La porta venne spalancata da un donnone alto e imponente, con l'espressione truce e sdegnosa, ma Remus si mostrò pieno di deferenza come se volesse dimostrarle che aveva per lei il più grande rispetto, e questo bastò a renderla di umore migliore. Parlarono per parecchi minuti, poi il giornalista abbozzò un inchino, si scappellò e girò sui tacchi allontanandosi in fretta. Tellman dovette mettersi a correre per stargli dietro. Remus si diresse verso la stazione ferroviaria di St. Pancras e vi entrò dall'ingresso principale. Tellman si frugò in tasca e, tastando le monete, contò tre mezze corone, un paio di scellini e qualche penny. Probabilmente Remus avrebbe preso un biglietto soltanto per una o due fermate. Sarebbe stato abbastanza facile seguirlo... ma ne valeva la pena? Era logico pensare che il donnone sulla porta del numero 9 fosse la vedova di William Crook, Sarah. Cos'aveva detto a Remus per far scomparire di colpo la sua confusione e lo scoraggiamento? Probabilmente che il defunto marito era quello stesso William Crook che un tempo aveva abitato in Cleveland Street, oppure aveva qualche altro stretto legame con quell'indirizzo. Avevano chiacchierato per parecchi minuti. Lei doveva avergli detto molte cose. Anche sul conto di Adinett? Remus si presentò allo sportello della biglietteria. «Andata e ritorno a Northampton, per favore» domandò con voce vibrante e piena di eccitazione. «A che ora parte il prossimo treno?»
«Non ce ne sono più per un'altra ora, signore» rispose l'impiegato. «Sono quattro scellini e otto pence. Si cambia a Bedford.» Tellman girò rapidamente sui tacchi e uscì dalla stazione, scese i gradini e si ritrovò in strada. Northampton? Ma era a molti chilometri di distanza! Come poteva esserci una connessione fra le due cose? Non soltanto, ma seguire Remus sarebbe stato rischioso. Così, senza prendere una decisione definitiva, cominciò a rifare la strada dell'ospedale. Aveva un'ora prima della partenza del treno; poteva concedersi almeno quaranta minuti e avrebbe avuto ugualmente con il tempo necessario per tornare indietro, comprare un biglietto e partire anche lui. Chi era William Crook? E perché la sua religione aveva importanza? Si scoprì furioso con se stesso perché stava facendo quest'indagine, e con il resto del mondo perché Pitt era nei guai e nessuno alzava un dito per aiutarlo. Pensò come gli sarebbe piaciuto raccontare a Gracie che tutto questo aveva poco senso; anzi, si poteva perfino escludere che Adinett c'entrasse in qualche modo. In quel momento si accorse di avere tanto chiara l'immagine della faccia di Gracie davanti agli occhi della mente da rimanerne sconcertato: il colore degli occhi, la luminosità della pelle, l'ombra delle ciglia, la curva della bocca, che gli era familiare come la propria quando si guardava nello specchio mentre si radeva. Lei non avrebbe accettato una sconfitta. Lo avrebbe disprezzato per questo. Gli parve addirittura di leggerglielo negli occhi, e gli fece troppo male. No, non doveva permettere che succedesse una cosa del genere. Cambiò direzione e procedette verso St. Pancras Street e il numero 9. Se si fosse fermato a riflettere su ciò che stava facendo, gliene sarebbe mancato il coraggio. Preferì evitarlo. Marciò dritto dritto sulla porta e bussò, già pronto in mano il documento che lo identificava come un poliziotto. Ad aprire venne la stessa gigantessa di prima. « Sì?» «Buongiorno, signora» disse lui, e le mostrò il documento. Lei lo guardò con attenzione, la faccia inespressiva. «Bene, sergente Tellman, cosa desiderate?» «Sto facendo le indagini su un crimine gravissimo, signora. Circa mezz'ora fa ho seguito fin qui un uomo, altezza media, capelli rossicci, aria vivace. Ho ragione di credere che vi abbia fatto qualche domanda sul defunto signor William Crook. Mi occorre sapere quali sono state e cosa gli avete risposto.» «Mi ha chiesto se c'è stata un'epoca in cui abitavamo in Cleveland Street. Aveva una gran fretta, è stato insistente. Mi era quasi venuta una
mezza idea di non dirglielo. Ma a cosa poteva servire? Mia figlia Annie lavorava in quel negozio di tabaccaio.» «Cos'altro vi ha chiesto, signora Crook?» «Se eravamo imparentati con J.K. Stephen» rispose lei. Adesso la sua voce era venata di stanchezza, come se non avesse più la forza di lottare contro l'inevitabile. «Io no, ma mio marito sì. Sua madre era la cugina di J.K. Stephen.» Tellman era perplesso. Di J.K. Stephen non aveva mai sentito parlare. «Già, capisco.» In realtà capiva solamente che per Remus quell'informazione aveva avuto una tale importanza da mandarlo dritto dritto alla stazione a comprarsi un biglietto per Northampton. «Grazie, signora Crook. Tutto qui, quello che vi ha domandato?» «Sì.» «Vi ha spiegato il motivo per cui voleva saperlo?» «Ha detto che era per correggere una grande ingiustizia. Non gli ho domandato quale. Ce n'è a milioni.» «Sì, è vero. In quello aveva ragione... se è il vero motivo per cui se ne interessava. Buongiorno, signora.» «Buongiorno.» Il viaggio a Northampton fu una gran noia, e Tellman dedicò tutto il tempo a rimuginare sulle varie possibilità che gli venivano in mente. L'ingiustizia poteva anche essere un pretesto per accattivarsi le simpatie della signora Crook. E se invece si fosse trattato soltanto di qualche scandalo che voleva sbattere in prima pagina? Non gli pareva possibile che fosse quello il motivo per cui Adinett, dopo essere stato in Cleveland Street, ne era venuto via tutto eccitato ed era corso da Dismore? Quando arrivarono a Northampton, Remus scese dal treno e Tellman lo seguì fuori della stazione. L'altro prese un hansom, lui salì su quello subito dietro e ordinò al vetturino di seguirlo, rimanendo poi seduto in punta di sedile, ansioso e a disagio, mentre viaggiavano ad andatura sostenuta per le strade di provincia fino a quando si fermarono finalmente davanti al tetro caseggiato di un manicomio. Rimase fuori, vicino al cancello dove nessuno lo avrebbe notato. Quando Remus ricomparve quasi un'ora dopo, aveva la faccia arrossata per l'eccitazione, gli occhi scintillanti e camminava talmente lesto che avrebbe potuto andare a sbattere addosso a Tellman senza accorgersene. Doveva seguire di nuovo il giornalista oppure entrare anche lui nel manicomio e scoprire cosa fosse venuto a sapere? Quest'ultima scelta, sicuramente. A parte qualsiasi altra considerazione,
gli rimaneva un tempo limitato per tornare alla stazione e prendere l'ultimo treno per Londra. Anche così sarebbe stato abbastanza difficile spiegare a Wetron la sua assenza. Entrò negli uffici e presentò il documento d'identità che lo qualificava come poliziotto. Aveva già la bugia pronta. «Sto indagando su un omicidio. Ho seguito un uomo da Londra, altezza più o meno come la mia, sui trent'anni, capelli rossicci, occhi nocciola, faccia espressiva. Mi occorre sapere cosa vi ha domandato e quello che gli avete risposto.» L'uomo sbatté le palpebre, stupito, gli slavati occhi celesti fissi sulla faccia di Tellman. «Non ha domandato di nessun delitto. Quella povera creatura è morta di morte naturale, e più di così non si potrebbe chiamarla, sempre che si possa definire naturale quella di chi si è lasciato morire di fame.» «Morire di fame?» Tellman non sapeva assolutamente cosa aspettarsi, ma non un suicidio. «Chi?» «Il signor Stephen, naturalmente. Era di lui che chiedeva.» «Il signor J.K. Stephen?» «Precisamente. Pover'anima. Pazzo da legare. Del resto, se avesse avuto il cervello a posto non sarebbe stato qui.» «E si è lasciato morire di fame?» ripeté Tellman. «Ha smesso di mangiare» gli Confermò l'uomo, con aria smarrita. «Non ha più voluto prendere niente, neanche un boccone.» «Era malato? Forse non poteva mangiare?» «Poteva mangiare. Ha smesso tutto d'un tratto.» L'uomo tirò su col naso. «Il quattordici gennaio. Me ne ricordo perché è stato lo stesso giorno in cui abbiamo sentito che il povero duca di Clarence era morto. Secondo me è stato quello. Una volta conosceva il duca, e molto bene, anche. Parlava di lui. Gli aveva insegnato a dipingere, o almeno così raccontava.» «Davvero?» Tellman era nella confusione più totale. Più veniva a sapere di quella storia, meno sensata gli pareva. Trovava molto poco probabile che l'uomo morto di fame lì, in quel manicomio, conoscesse il figlio maggiore del principe di Galles. «Siete sicuro?» «Naturale che sono sicuro! Ma perché volete saperlo?» Nella sua voce si era insinuata una nota di sospetto. Intanto si frugava in tasca in cerca del fazzoletto, e quando lo trovò si soffiò il naso con energia. «Era stato insegnante del principe, proprio così» spiegò ancora. «Secondo me, quando ha sentito che quel poveretto era morto, ha avuto un tal colpo che...» «Quando è morto?»
«Il tre febbraio. Ma è stato un modo orribile di andarsene.» Adesso l'uomo sembrava commosso. «Mi pare che la notizia sia importante per quel tizio che state pedinando, ma vi giuro che non capisco perché. Un povero diavolo, un matto, decide di morire... di dolore, a quanto ne so, e quello là prende e se la squaglia subito come un cane che corre dietro a un coniglio. E tremava anche, eccitato come non so che. Ecco la verità.» «Vi ringrazio. Mi siete stato molto utile» disse, e se ne andò facendo il corridoio di corsa. Fuori si mise in cerca di una carrozza che lo portasse di nuovo alla stazione. Prese il treno per un pelo e si lasciò cadere sul sedile con il fiato corto. Dedicò la prima ora di viaggio a mettere per iscritto tutto quello che aveva saputo; poi passò la seconda a inventare una storia abbastanza convincente in modo da giustificare il proprio operato nei confronti di Wetron, il giorno dopo. E non ci riuscì. Per quale motivo il povero Stephen aveva deciso di lasciarsi morire di fame, appena saputa la notizia che il giovane duca di Clarence era morto? E quale poteva essere l'interesse di Remus in proposito? Non solo, ma cos'aveva a che fare con William Crook, morto nel dicembre dell'anno prima all'ospedale di St. Pancras per cause che più naturali di così non potevano essere? E qual era la connessione con la bottega del tabaccaio in Cleveland Street? Ma soprattutto, perché John Adinett avrebbe dovuto trovare tutto questo tanto interessante? Arrivati a Londra, scese d'un balzo sul marciapiede e cominciò a guardare di qua e di là in cerca di Remus. Si era quasi rassegnato ad averlo perduto, e invece lo vide scendere lentamente due carrozze più avanti. Lo seguì di nuovo, preferendo correre il rischio di essere visto piuttosto che farselo scappare. Remus si fermò in un pub e vi consumò un pasto. Sembrava che non avesse fretta. Tellman stava per lasciarlo lì, e andarsene, perché era arrivato alla conclusione che ormai doveva aver fatto tutto quello che intendeva fare nella giornata e presto sarebbe rientrato al suo domicilio, e invece il giornalista diede un'occhiata all'orologio e ordinò un'altra pinta di birra chiara. Dunque aveva importanza sapere che ora fosse. Doveva andare in qualche posto oppure aspettava qualcuno. Decise di aspettare anche lui. Un quarto d'ora più tardi Remus si alzò e uscì in strada. Chiamò un hansom che stava passando e Tellman rischiò quasi di lasciarselo scappare, perché faticò a trovarne un altro. Al vetturino diede ordine di seguirlo. Guai se gli fosse scappato! Ebbe l'impressione che prendessero la strada di
Regent's Park. In ogni caso, Remus non stava rientrando a casa. Quindi era chiaro che doveva trovarsi con qualcuno. Tellman tirò fuori dal taschino l'orologio e lo alzò alla luce del primo lampione davanti al quale passarono per vedere che ora fosse. Quasi le nove e mezzo. Poi, senza preavviso, la vettura si arrestò. Tellman scese. «Cos'è successo?» domandò brusco, con gli occhi fissi davanti a sé. Lungo la strada che fiancheggiava il parco c'erano parecchie carrozze. «È quella là. Fa uno scellino e tre pence, signore» disse il vetturino e gliene indicò una. Stava diventando un divertimento troppo costoso. Tellman imprecò tra sé, ma pagò senza fiatare, avviandosi all'inseguimento della figura che poteva distinguere vagamente un po' più avanti. Si trovavano in Albany Street, appena prima dell'entrata di Regent's Park sulla sinistra. Remus si stava avviando a passo deciso verso il parco. A un certo momento si voltò a guardare dietro di sé e Tellman inciampò perché non era preparato a quella mossa; infatti era la prima volta che Remus dava l'impressione di chiedersi dove si trovava e chi aveva intorno. Poi riprese il cammino, ma adesso girava gli occhi di qua e di là. Stava aspettando qualcuno oppure aveva paura di essere osservato? Tellman si accostò all'ombra degli alberi e rimase un po' più indietro. C'era parecchia altra gente in giro, qualche coppia, e, non molto distante, anche un uomo solo. Remus esitò un attimo, allungò il collo a scrutare davanti a sé, poi sembrò soddisfatto e riprese a marciare più speditamente. Tellman gli andò dietro, avvicinandosi quanto poteva. Remus si fermò vicino all'uomo solo. Tellman avrebbe dato chissà cosa per sapere quel che si dicevano, ma parlavano con una voce che era poco più di un bisbiglio. Anche continuando ad avanzare, il cappello calcato fin sugli occhi e rimanendo a meno di tre metri da loro, non riuscì a cogliere distintamente le parole, ma poté notare l'espressione delle loro facce. Remus non nascondeva di essere molto eccitato, anche se ascoltava con tutta la concentrazione possibile quel che l'altro stava dicendo. Il suo interlocutore, vestito con molta eleganza, era di statura poco superiore alla media, ma con la bombetta talmente abbassata sugli occhi e il collo della giacca alzato a tal punto che la sua faccia rimaneva praticamente invisibile. Lui continuò a procedere verso l'Outer Circle, dove svoltò per tornare in Albany Street. Qui raggiunse la più vicina fermata dell'omnibus per tornare a casa. Aveva il cervello in tumulto. Niente di tutto quanto aveva scoperto quel giorno gli pareva far parte di
uno schema ben definito, anche se adesso era sicuro che quello schema esistesse e ci fosse un filo logico che collegava tutte le notizie raccolte. Si trattava semplicemente di trovarlo. La mattina seguente dormì più del solito e quando arrivò in Bow Street c'era un messaggio per lui: doveva presentarsi nell'ufficio di Wetron. Vi salì con un peso sul cuore. Quello era stato l'ufficio di Pitt, anche se ormai i libri e gli altri oggetti di sua proprietà erano stati tolti e sostituiti con i volumi rilegati in pelle del suo nuovo occupante. Wetron si lasciò andare contro la spalliera della sua poltrona, inarcando le pallide sopracciglia. «Vi spiacerebbe dirmi dove siete stato ieri, sergente? A quanto pare non avete considerato necessario informare l'ispettore Cullen...» Tellman aveva già deciso cosa rispondere, ma sentiva di trovarsi ugualmente in difficoltà. Deglutì a fatica, come se avesse la gola chiusa. «Mi è mancata l'occasione di avvertire l'ispettore Cullen, signore. Stavo seguendo una persona sospetta. Se mi fossi fermato mi sarebbe sfuggita.» «E il nome di costui?» Tellman si frugò nella memoria per tirarne fuori uno. «Vaughan, signore. È un noto ricettatore di merce rubata.» «So chi è Vaughan» replicò Wetron, acido. «E aveva, per caso, i gioielli Bratby?» La sua voce trasudava scetticismo. «Nossignore.» Tellman aveva preso in considerazione la possibilità di ricamare un po' sul resoconto di quel pedinamento, ma poi pensò che avrebbe prestato troppo il fianco a essere preso in fallo. Una vera sfortuna che il superiore fosse al corrente delle imprese di Vaughan. La bocca di Wetron si era trasformata in una sottile linea dura. «Mi lasciate sorpreso. E quand'è stata l'ultima volta che avete visto il sovrintendente Pitt, sergente Tellman? Sarà meglio che la vostra risposta corrisponda all'esatta verità.» «L'ultimo giorno che è stato qui a Bow Street, signore» ribatté Tellman, in tono brusco, per fargli capire che era offeso. «E prima di sentirmelo domandare, non ho neanche ricevuto una qualsiasi comunicazione da lui, scritta o di altro genere.» «Spero che sia la verità, sergente.» La voce di Wetron era glaciale. «Le vostre istruzioni erano molto chiare. Forse sarete tanto cortese da spiegarmi come mai siete stato visto dal poliziotto di ronda mentre vi presentavate alla porta della casa del sovrintendente Pitt nel tardo pomeriggio di due
giorni fa?» Tellman si sentì correre per la schiena un brivido gelido. «Certamente, signore» rispose senza batter ciglio, augurandosi di non arrossire. «Sto corteggiando la cameriera dei Pitt, Gracie Phipps. Sono andato a trovarla. Il poliziotto avrà sicuramente riferito che sono entrato dalla porta di servizio. Lì ho preso una tazza di tè, poi sono venuto via. Non ho visto la signora Pitt. Credo che fosse di sopra con i bambini.» «Nessuno vi sta sorvegliando, Tellman!» disse Wetron mentre le sue guance diventavano un po' più colorite del solito. «Siete stato osservato per un puro caso.» «Sì, signore.» «Bene, sarà meglio che andiate a far rapporto a Cullen. Una rapina è importante. La gente si aspetta che noi offriamo sicurezza agli oggetti di loro proprietà. È quello per cui siamo pagati.» «Naturalmente, signore.» «Questo è il vostro modo di essere sarcastico, per caso?» Tellman lo guardò con gli occhi sgranati. «No, assolutamente. Non dubito che sia quello per cui i gentiluomini del Parlamento ci pagano» rispose. Poi, molto saggiamente, chiese il permesso di poter andare in cerca di Cullen, nella speranza di spiegargli in modo soddisfacente per quale motivo non avesse un rapporto da fargli. Era stata una giornata lunga, calda ed estremamente difficile, trascorsa per la massima parte trascinandosi da un interrogatorio improduttivo all'altro. Così fu soltanto verso le sette di sera che Tellman, con i piedi dolenti, riuscì a liberarsi dagli impegni di servizio e a prendere finalmente un omnibus che lo portasse in Keppel Street. Fin dalla sera prima stava aspettando di riferire a Gracie quello che aveva saputo. Per fortuna Charlotte, anche stavolta, si trovava di sopra con i bambini. Gracie stava piegando la biancheria dalla quale esalava un piacevole profumo di pulito. «E allora?» gli domandò appena lui fu entrato, prima ancora che facesse in tempo a sedersi vicino al tavolo. «Ho seguito Remus.» Tellman si mise più comodo, allentando le stringhe delle scarpe, con la speranza che lei mettesse presto il bricco dell'acqua sul fuoco. Aveva anche fame. Cullen non gli aveva lasciato il tempo di mangiare neanche un boccone. «Dove sei andato?» Adesso Gracie lo fissava dedicandogli tutta la sua attenzione, dimenticando anche gli ultimi capi di biancheria da ripiegare.
«A St. Pancras Infirmary, a fare un controllo sulla morte di un uomo che si chiamava William Crook.» «E chi è?» «Di sicuro non lo so» confessò Tellman. «Ma è deceduto lì per cause naturali alla fine dell'anno scorso. Sembrava che Remus fosse molto interessato a sapere se era cattolico. L'unica cosa che, a quanto posso capire, aveva importanza per lui è che una figlia del defunto lavorava nel negozio del tabaccaio di Cleveland Street... e la madre di lui era cugina di quel signor Stephen che si è lasciato morire di fame nel manicomio di Northampton.» La ragazza era allibita. «Ma di che cosa stai parlando?» Lui le descrisse in succinto il suo viaggio in treno e quello che aveva saputo negli uffici del manicomio. Gracie si era seduta e lo fissava, ammutolita. «Era l'insegnante del povero principe Eddy che è appena morto?» chiese infine. «Così mi hanno spiegato» confermò Tellman. Gracie aggrottò la fronte. «In Cleveland Street è successo qualcosa, di lì è cominciato tutto questo» disse meditabonda. «Oppure è cominciato in seguito, ma sempre per via di quello che era successo in Cleveland Street. E Adinett e Fetters ne sapevano qualcosa.» «Sembra proprio così. E io ho tutte le intenzioni di scoprire di che cosa si tratta.» «Stai attento» gli raccomandò Gracie, pallidissima, con gli occhi spaventati. Istintivamente gli allungò le mani attraverso il tavolo. «Non preoccuparti. Remus non ha la minima idea che io lo sto pedinando.» Posò una mano su quelle di lei, che non si tirò indietro... Per un momento Tellman non riuscì a pensare ad altro. «Non parlo di Remus, stupidone» mormorò lei con voce rauca. «Parlo del tuo nuovo capo che ha preso il posto di Pitt. Ti sbatterà fuori se si accorge che non stai in riga, e allora? Ti ritroverai in strada con un pugno di mosche.» «Starò attento» promise lui, ma si sentì agghiacciare. Non poteva permettere a Cullen di presentare nuove lagnanze contro di lui o di essere visto da qualcuno dove non avrebbe dovuto trovarsi. Da quando aveva quattordici anni, lavorava per raggiungere la posizione che aveva adesso, e se lo licenziavano dalla polizia si sarebbe ritrovato senza un soldo e forse neanche un certificato di buona condotta che potesse servirgli come referenza per un altro posto. E senza un lavoro, senza un alloggio, come sarebbe mai riuscito a diventare l'uomo che aspirava di essere, simile a Pitt, con una ca-
sa e una moglie? Come poteva diventare l'uomo che Gracie voleva? Continuò a parlare per cancellare quei pensieri dal cervello. «Tornato da Northampton, Remus non è andato a casa. Ha mangiato in un pub, poi ha raggiunto Regent's Park e si è trovato con un tizio. Di sicuro avevano fissato un appuntamento perché lui continuava a guardare l'orologio.» «Un tizio? Di che genere?» Gracie domandò piano, senza tirare indietro le mani che Tellman stringeva. «Molto ben vestito» replicò lui, con il piacere di sentire quegli ossicini fragili sotto le proprie dita e con una gran voglia di stringerli più forte. «Un po' più alto della media, giacca con il colletto rialzato e il cappello basso sulla fronte. Così non sono riuscito a vederlo in faccia. E anche se mi trovavo soltanto a pochi metri da loro, non ho potuto sentire neanche una parola di quello che dicevano. Poi Remus se ne è andato di nuovo, in fretta, l'aria smaniosa, eccitata. Sta lavorando su qualcosa di talmente grosso che fa fatica a controllarsi... o perlomeno crede di avere per le mani qualcosa che farà colpo. Se c'entra Adinett, potrebbe essere la prova che il signor Pitt ha ragione.» «Adesso comincio a seguirlo io. Non c'è piedipiatti che possa notarmi.» «Tu non puoi...» cominciò Tellman. Gracie gli tirò via le mani. «Certo che posso. Almeno ci provo. Lui non mi conosce, e anche se mi vedesse non gliene importerebbe niente. A ogni modo non puoi impedirmelo.» «Potrei dire alla signora Pitt di non lasciarti andare fuori.» «Tu fare una cosa simile?» L'espressione di sgomento sulla sua faccia per un attimo fu quasi comica. «Non pensi al signor Pitt che non può muoversi da Spitalfields e a tutte le frottole che stanno raccontando sul suo conto?» «Be', stai in guardia» insistette teliman. «Non rimanere troppo alle sue calcagna, quando lo segui. Basta vedere dove va. E torna a casa appena fa buio. E non entrare nei pub o nelle osterie.» Si frugò nelle tasche e tirò fuori tutti gli spiccioli che aveva. Li mise sulla tavola. «Avrai bisogno di soldi per carrozze e omnibus.» Era chiaro, dall'espressione di Gracie che non ci aveva pensato. «Prendili! Non puoi seguirlo a piedi. E dovesse andar fuori città di nuovo, lascia perdere. Tu su un treno non ci sali, d'accordo? Se dovesse succederti qualcosa, da dove cominceremmo a cercarti?» Lei deglutì come se avesse un nodo alla gola. «Va bene, farò come vuoi.» Tellman non era del tutto convinto di poterle credere. Ma rimase sbalor-
dito, tanto forte era, adesso, la sua paura che potesse capitarle qualcosa. Però l'ammirava per essersi offerta di sostituirlo a pedinare Remus. «Stai attenta!» fu tutto quanto riuscì a dire ad alta voce. «Come, no!» Lei tentò di mostrarsi indignata, ma continuò a fissarlo e rimase così per qualche istante prima di alzarsi e prendere qualcosa da mangiare per tutti e due. La mattina successiva chiese una giornata di libertà a Charlotte dicendo di avere un affare urgente da sbrigare. Aveva soltanto un'idea molto vaga di dove trovare Lyndon Remus a quell'ora. Erano già quasi le dieci. A ogni modo sapeva come raggiungere Cleveland Street in omnibus e pensò che fosse un buon posto da dove cominciare. Il tragitto si rivelò lungo e lei si scoprì contenta di avere i soldi di Teliman, anche se aveva provato un po' di vergogna ad accettarli. Quando l'omnibus fece l'ultima fermata in Mile End Road, scese. Erano le undici e cinque. Si mise a camminare fino a Cleveland Street e quando ci arrivò la imboccò, svoltando a sinistra. Da dove cominciare? Meglio l'approccio diretto al tabaccaio oppure quello indiretto, chiedendo informazioni a qualcun altro? Sì, l'approccio indiretto era il migliore. Si guardò intorno, osservò i marciapiedi sbreccati, l'acciottolato diseguale, i casamenti dalla facciata in mattoni, incrostata di sudiciume, qualcuno perfino con le finestre con i vetri rotti o coperte da tavole di legno. Un po' di fumo saliva in lente volute da qualche camino. Cortiletti o stretti vicoli si aprivano qua e là, bui e sinistri. E i negozi? Un fabbricante di pipe d'argilla e uno studio da artista. Lei non sapeva niente di arte e non molto di pipe, ma sulle pipe poteva tirare a indovinare. Si avviò alla porta ed entrò. «Buongiorno, signorina. In che cosa posso servirvi?» Dietro il banco c'era un giovanotto che poteva avere uno o due anni più di lei. «Salve» rispose lei in tono gioviale. «Mi dicono che avete le pipe migliori a est di St. Paul's. Questioni di gusti, certo, ma io voglio qualcosa di speciale per il mio papà. Cos'avete da farmi vedere?» Il ragazzo rise. «Ah, sì? Be', chi ve lo ha detto aveva tutte le ragioni, sapete?» «È già passato un po' di tempo. Adesso è morto, poveretto. William Crook. Ve ne ricordate?» «Non posso dire di sì. D'altra parte dal nostro negozio passano clienti a
centinaia. Che tipo di pipa vi piacerebbe?» «Magari era la figlia a comprargliele» provò a insinuare Gracie. «Lavorava dal tabaccaio.» E con un gesto gli indicò l'estremità più lontana della strada. «La conoscevate?» La sua faccia s'irrigidì. «Annie? Certo che la conoscevo. Era una brava ragazza. L'avete vista da poco?» Adesso la stava guardando con enorme interesse. «E voi non l'avete vista?» «Sono più di cinque anni che nessuno l'ha più vista» rispose lui rattristato. «Un giorno si sono picchiati a sangue. È stato un gran parapiglia. Un branco di gente mai vista, forestieri, veri e propri ruffiani, hanno cominciato a picchiarsi come se avessero perduto il lume degli occhi. Menavano le mani come pazzi. Sono arrivate due carrozze, una si è fermata al numero quindici, dove stava l'artista, e l'altra al numero sei. Me ne ricordo perché ero fuori in strada anch'io. Due uomini sono entrati nello studio dell'artista e dopo pochi minuti sono tornati fuori trascinando un giovanotto che urlava e si divincolava. Era tutto agitato, ma non è servito a niente. L'hanno scaraventato dentro la carrozza e poi sono partiti come se avessero il diavolo alle calcagna.» «E gli altri?» domandò Gracie con il fiato mozzo. Lui si protese un po' sopra il banco. «Sono andati al numero sei, come dicevo, e sono venuti fuori portando via la povera Annie, l'hanno infilata dentro nella carrozza, e da quel giorno in poi non l'ho più vista. A quanto ne so, non l'ha più vista nessun altro.» «E chi era l'uomo che hanno preso?» Lui si strinse nelle spalle. «Non lo so. Un signore, di sicuro. Un sacco di soldi e l'aria del gentiluomo. Quasi sempre zitto, tranquillo. Un aspetto simpatico, alto con begli occhi.» «Era l'amante di Annie?» azzardò Gracie. «Credo di sì. Veniva qui abbastanza spesso.» Il ragazzo si fece cupo e il suo tono diventò cauto. «Anche se lei era una brava ragazza, cattolica. Così non dovete pensare che ci fosse sotto qualcosa di scandaloso perché non la vedreste giusta.» «Magari era un amore tragico?» insinuò Gracie, perché non le era sfuggita la compassione che esprimeva la faccia del giovanotto. «Se lui non era cattolico, magari le loro famiglie volevano dividerli?» «È una vergogna... Che genere di pipa volete per vostro padre?» A dire la verità, Gracie non poteva permettersi una pipa di nessun gene-
re. «Credo che farò meglio a domandarlo a lui» disse con aria piena di rimpianto. «Perché è una cosa che, se non va bene, non posso tornare a farmela cambiare. Grazie per i vostri consigli.» E uscì in fretta. In strada ritornò sui propri passi verso Mile End Road semplicemente perché già la conosceva ed era piena di traffico, e poi non aveva idea di cosa si trovasse nella direzione opposta. Dove andare adesso? Remus poteva trovarsi chissà dove. Quanto di tutta questa storia aveva saputo? Probabilmente, tutto. Sembrava una vicenda molto nota nel circondario, e facile da farsi raccontare. Non soltanto, ma evidentemente Remus sapeva anche spiegarsi cosa significasse. Da Cleveland Street era andato per prima cosa a domandare informazioni al Guy's Hospital. Quali? C'era da pensare che fosse anche lui sulle tracce di William Crook? L'unico modo per scoprirlo era di andarci. Avrebbe dovuto inventare una storia convincente per spiegare il proprio interesse. Ci volle una corsa sull'omnibus quasi fino al capolinea opposto e poi dovette procedere a sud, oltre il London Bridge in direzione di Bermondsey e l'ospedale, e ci mise tutto questo tempo a inventarla e a renderla plausibile. Comprò un tortino alla frutta e un bicchiere di limonata da un venditore ambulante e li consumò in piedi, contemplando il fiume. Era una bella giornata, ventosa, e fuori c'era un mucchio di gente in giro a divertirsi, e battelli di gitanti sull'acqua, con le bandierine svolazzanti e qualcuno che si teneva il cappello per non farselo portar via dal vento. Finì di mangiare il suo dolce, raddrizzò le spalle e si avviò verso Borough High Street e l'ospedale. Una volta entrata, si diresse subito verso gli uffici, assumendo un'espressione grave. «In che cosa posso esservi utile?» le domandò il vecchio dietro il banco, scrutandola al di sopra degli occhiali. «Prego, signore, sto cercando di sapere cos'è successo a mio nonno» rispose lei. Immaginava che l'età di William Crook rendesse più credibile un legame di parentela di quel genere. «L'hanno ricoverato perché stava male?» le domandò l'uomo gentilmente. «Credo che dev'essere stato così. Ho sentito che è morto, ma non lo so di sicuro.» «Come si chiamava?» «William Crook. Ma è già un po' di tempo. Io l'ho saputo appena adesso.» «William Crook» ripeté lui, perplesso, aggiustandosi gli occhiali sul na-
so. «Ecco, veramente, così di primo acchito, non me lo ricordo. Siete sicura che l'abbiano portato qui?» Lei cercò di prendere un'aria smarrita. «Così mi hanno detto. Non avete qui nessuno di nome Crook? E neanche prima? Proprio mai?» «Quanto a prima, non lo so. C'è stata qui, e per un sacco di tempo, una Annie Crook. Ce l'ha ricoverata sir William, personalmente. Pazza era, poverina. Ha fatto tutto il possibile per lei, ma è stato inutile.» «Annie?» mormorò Gracie, e poi deglutì in fretta sperando che non la tradisse un fremito di eccitazione nella voce. «È venuta qui?» «La conoscete?» «Certo.» Lei fece un rapido calcolo. «Era mia zia. Non che l'abbia mai conosciuta, di persona, come dire. Lei... è scomparsa anni fa, intorno all'87 o all'88. Nessuno aveva mai detto che fosse pazza, pover'anima. Suppongo che hanno preferito non farlo... Non sono cose da dire, vero?» «Mi dispiace.» Il vecchio scrollò lentamente la testa. «Può capitare a chiunque. Così ho detto anche all'altro giovanotto che è venuto a chiedere. Però non era un parente.» Le sorrise. «Ma qui lei ha ricevuto le cure migliori, questo sì, ve lo posso garantire. Volete ancora che guardi per vostro nonno?» «No, grazie. Credo di aver capito tutto sbagliato.» «Mi spiace.» «Certo. Anche a me.» Grace gli voltò le spalle e uscì dall'ufficio chiudendosi piano la porta alle spalle, e scappando via in fretta prima che lui potesse accorgersi fino a che punto era emozionata. Adesso bisognava tornare a casa. Con un po' di fortuna, forse Tellman sarebbe venuto, quella sera, e lei avrebbe potuto raccontargli ciò che aveva scoperto. Lui ne sarebbe rimasto colpito... molto colpito. Cominciò a canterellare tra sé e sé una canzoncina, mentre si metteva in coda. «E tu sei andata... dove?» domandò Tellman, la faccia scarna che era diventata pallida, la mascella contratta. «In Cleveland Street» replicò Gracie, versando il tè. «Domani penserò a pedinare Remus.» «Niente affatto! Te ne rimarrai qui a fare il tuo lavoro come tutti si aspettano, al sicuro!» ribatté lui con asprezza, protendendosi attraverso la tavola. Aveva le occhiaie segnate e un baffo di sporco su una guancia. Gracie non lo aveva mai visto così stanco. Veramente non toccava a lui dirle cosa poteva fare o no... ma d'altra parte le dava una sensazione piace-
vole, e quasi di conforto, che si preoccupasse di saperla in pericolo. «Non vuoi neanche sentire cos'ho scoperto?» gli domandò, smaniosa di raccontarglielo. «Cosa?» chiese lui di malumore, bevendo un sorso di tè. «C'era una ragazza di nome Annie Crook, la figlia di quel William Crook che è morto a St. Pancras.» Adesso le parole le uscivano di bocca sempre più in fretta. «È stata rapita dalla bottega del tabaccaio in Cleveland Street più o meno cinque anni fa e l'hanno portata al Guy's Hospital, dove dicevano che quella povera creatura era pazza, e da allora in poi nessuno l'ha più vista.» Aveva tirato fuori la torta, ma eccitata com'era, si stava dimenticando di tagliarne una fetta per Tellman. «È stato un certo sir William a dire che lei era pazza, e che più di così non poteva fare per aiutarla. E c'è stato anche qualcun altro a chiedere di lei. Credo che si tratti di Remus. E non è tutto! Nello stesso momento c'è stato anche un giovanotto che hanno rapito da quello studio di artista in Cleveland Street, un tipo bello e simpatico, bei vestiti, un gran signore. Lo hanno trascinato fuori che scalciava e si divincolava.» «Sai chi era?» Era troppo emozionato per quelle informazioni per ricordare la propria collera... o la torta. «Non hai nessuna idea?» «Il giovanotto nel negozio del fabbricante di pipe pensa che era l'amante di Annie. Ma non lo sapeva con certezza. Però ha detto che lei era una gran brava ragazza, cattolica, e io non avrei dovuto andare in giro a raccontare brutte cose sul suo conto perché non era giusto, e neanche vero.» Tirò un sospirone. «Magari sono state le loro famiglie a farlo perché lei era cattolica e lui no.» «E questo cosa poteva aver a che fare con Adinett?» Tellman aggrottò la fronte, arricciando le labbra. «Ancora non lo so. Lasciami il tempo di scoprirlo!» protestò Gracie. «D'altra parte c'è un mucchio di gente che ammattisce. E poi c'è quel tipo che è morto a Northampton. Magari il signor Fetters era al corrente che esisteva anche lui...» Tellman rimase in silenzio per un po'. «Magari» alla fine si decise a dire, ma la sua voce era fiacca, priva di entusiasmo. «Hai paura, vero?» mormorò Gracie. «Forse quella storia non ha niente a che vedere con il signor Pitt e noi non lo stiamo aiutando, vero?» Lui era sul punto di negarlo; Gracie glielo lesse in faccia quando socchiuse le labbra per risponderle. Poi cambiò idea. «Sì» ammise. «Remus è persuaso di avere per le mani qualcosa di gros-
so e io vorrei poter credere che sia stato il motivo per cui Adinett ha ammazzato Fetters. Ma non riesco assolutamente a vedere come Fetters possa aver avuto una parte in tutto questo.» «Lo vedremo» disse lei in tono deciso. «Perché quello lì deve averlo fatto per qualche ragione, e noi andremo avanti fino a quando non lo scopriremo.» Tellman sorrise. «Gracie, non sai di che cosa parli» mormorò, ma la luce nei suoi occhi diceva esattamente il contrario. «E invece sì che lo so» obiettò lei, e si allungò a dargli un bacio a fior di labbra. Poi si tirò indietro in fretta a prendere il coltello per tagliargli la torta, con la testa girata dall'altra parte. Così non si accorse che Tellman era diventato rosso e la mano gli tremava tanto forte che pensò bene di lasciare la tazza sul tavolo perché aviebbe versato il tè, se l'avesse sollevata. 8 Pitt continuò a lavorare dal tessitore di seta girando per il quartiere a fare più commissioni che poteva, a osservare e ascoltare. Di notte, adesso, di tanto in tanto faceva un turno di guardia allo zuccherificio, immobile all'ombra dell'enorme caseggiato, tendendo l'orecchio al sibilo continuo del vapore che usciva dalle caldaie e al rumore occasionale di un passo sull'acciottolato. Di tanto in tanto faceva un giro di controllo all'interno, reggendo una lanterna quando passava per i corridoi bui, a caccia di ombre, attento a una miriade di piccoli movimenti. Scambiava qualche battuta, qualche pettegolezzo, ma rimaneva sempre un estraneo. Eppure sentiva il livore crescente, nato dalla rabbia, sotto la banalità di quelle che potevano passare soltanto per quattro chiacchiere casuali nello stabilimento, per le strade, le botteghe, pub e locande. Quello che lo spaventava di più erano il lampo di speranza che balenava qua e là fra quegli uomini seduti a riflettere con aria cupa davanti a una pinta di birra, e poi quei commenti, sommessi e ripetuti, che le cose presto sarebbero cambiate. Questi non erano vittime del destino, ma protagonisti che guidavano la propria vita. E intanto aveva cominciato ad accorgersi dei molti generi di persone che vivevano a Spitalfields, profughi arrivati da tutta Europa, in fuga in seguito a una persecuzione finanziaria, razziale, religiosa o politica. Sentiva parlare dozzine di lingue, vedeva facce di ogni colore. Il quindici giugno, il giorno successivo a quello in cui una serie di avve-
lenamenti a Lambeth aveva occupato con titoli a caratteri cubitali le prime pagine dei giornali, rientrò stanco e più tardi del solito in Heneagle Street, dove trovò Isaac che lo aspettava. Aveva la faccia segnata dalla tensione e gli occhi infossati come se non dormisse da molte notti. Pitt si era accorto che a poco a poco gli si era affezionato, indipendentemente dal fatto che Narraway gli avesse affidato la sua sicurezza personale. Era un uomo intelligente, colto, e gli piaceva parlare. Così, anche quella sera si rese subito conto che aveva voglia di chiacchierare, ma non di cose banali o scontate. «Leah è fuori» disse l'uomo mentre i suoi occhi scuri lo scrutavano. «Sarah Levin è malata e lei ha voluto andare a farle compagnia. Ci ha lasciato la cena pronta, ma è fredda.» Pitt gli sorrise, seguendolo nella stanzetta dove la tavola era già apparecchiata. Si erano appena seduti quando Isaac cominciò a parlare. «Mi fa piacere che siate andato a lavorare per Saul» commentò, mentre tagliava una fetta di pane per Pitt e una per sé. «Voi, però, non dovreste stare in quello zuccherificio di notte. Non è un buon posto.» Pitt ormai lo conosceva abbastanza bene per rendersi conto che quella era soltanto una frase d'attacco e ci sarebbe stato dell'altro. «Saul è un brav'uomo. E a me piace andare in giro per il quartiere. Ma allo zuccherificio io vedo un'altra faccia delle cose.» Isaac mangiò in silenzio per un po'. «Ci saranno guai» disse infine, tenendo gli occhi fissi sul proprio piatto. «Un sacco di guai.» «Allo zuccherificio?» Pitt ricordò cos'aveva sentito dire nelle osterie. Isaac fece segno di sì, poi alzò di scatto a guardarlo due occhi sgranati, penetranti. «Brutta faccenda, Pitt. Non so di che si tratti, ma ho paura. Potrebbero dire che è colpa nostra.» Pitt non aveva bisogno di domandare a che cosa alludesse. Isaac stava parlando degli immigrati ebrei, facilmente riconoscibili, i capri espiatori naturali. Era già stato messo al corrente da Narraway dei sospetti che il Reparto speciale aveva su di loro, però aveva potuto osservare, che anzi, la loro influenza nel East End era stabilizzante. Badavano ai correligionari, aprivano botteghe e aziende commerciali e davano alla gente qualcosa per cui lavorare. E lo aveva anche riferito a Narraway. «Si tratta soltanto di voci» continuò Isaac. «Non di pettegolezzi. Ecco cosa mi fa pensare che ci sia sotto qualcosa di vero.» Intanto osservava Pitt con attenzione, ansioso. «Si sta preparando qualcosa; non so di che si tratta, ma non sono quei soliti matti degli anarchici.» «Cattolici?» domandò Pitt dubbioso. Isaac scrollò la testa.
«No. Sono pieni di livore, ma ci troviamo di fronte a gente qualsiasi, come noi. Che vantaggio volete che gli venga, a quelli lì, a far saltare in aria gli zuccherifici?» «Allora si tratta di... dinamite?» «Non lo so. Non so di che cosa si tratta o di quando avverrà; soltanto che si sta pianificando qualcosa di ben definito e nello stesso tempo ci sarà un avvenimento clamoroso anche altrove. Però riguarda Spitalfields. Queste due cose saranno contemporanee.» «Nessuna idea di chi si tratti?» insistette Pitt. «Nemmeno un nome?» Isaac scrollò la testa. «Uno solo, e non sono sicuro della connessione... Remus.» «Remus?» Pitt rimase sconcertato. L'unico Remus di sua conoscenza era un giornalista con un debole per gli scandali e le fantasiose teorie personali. Non c'erano scandali che potessero interessarlo fra gli abitanti di Spitalfields. Forse aveva mal giudicato quell'uomo che invece, evidentemente, si occupava di politica. «Vi ringrazio per questo che mi dite.» «Non è granché.» Isaac accantonò i ringraziamenti con un gesto. «L'Inghilterra è stata buona con me. E qui mi sento a casa mia, ormai. E poi parlo perfino un buon inglese, vero?» «Certo.» Isaac si lasciò andare contro la spalliera della seggiola. «E adesso parlatemi di questo posto dove siete cresciuto, in campagna, con boschi e campi e un grande cielo aperto. Descrivetelo per me. Qual è il suo primo sapore, il suo primo profumo del mattino? Gli uccelli, l'aria, tutto! Così posso sognare tutto questo e illudermi di esserci.» Nelle prime ore della mattina seguente, mentre s'incamminava verso la tessitura di seta, Pitt sentì un passo alle proprie spalle. Voltandosi di scatto vide Tellman a meno di due metri di distanza. Provò un tuffo al cuore, pensando che fosse successo qualcosa a Charlotte oppure ai bambini. Poi, osservandola meglio, vide che la faccia di Tellman era stanca, ma impavida e capì che, se non altro, la notizia non era sconvolgente. «Cosa c'è?» domandò sottovoce. «Cosa state facendo qui?» Tellman lo raggiunse e lo fece voltare perché continuasse per la strada che lui stava già facendo. «Mi sono messo a seguire Lyndon Remus» disse a voce bassa. Pitt trasalì a quel nome, ma Tellman non se ne accorse. «Si sta occupando di qualcosa che deve avere a che fare con Adinett. Non so ancora di che si tratta, ma è tutto eccitato. Adinett veniva in questo quartie-
re, anzi un po' più oltre, a est: Cleveland Street.» «Adinett?» Pitt si fermò sui due piedi. «E perché?» «Si direbbe che seguisse le vicende di una storia di cinque o sei anni fa. Riguarda una ragazza rapita da un negozio di tabaccaio che c'è in quella strada, portata al Guy's Hospital e poi dichiarata pazza. A quanto sembra è andato dritto da Thorold Dismore con questa storia.» «Il proprietario di giornali?» chiese Pitt riprendendo il cammino. «Sì. Ma lui prende ordini da qualcuno con cui si trova su appuntamento in Regent's Park. Un tizio molto ben vestito. Un mucchio di soldi.» «Nessuna idea di chi può essere?» «No.» Pitt procedette in silenzio per altri venti metri, il cervello in tumulto. Aveva stabilito di non pensare più al caso Adinett anche se, naturalmente, ci ruminava sempre sopra. Voleva capire, ma più ancora, voleva provare di aver avuto ragione. «Siete stato in Keppel Street?» domandò ad alta voce. «Certamente» rispose Tellman senza mollarlo di un passo. «Stanno tutti bene. Gli mancate.» Poi girò la testa dall'altra parte. «Gracie ha scoperto qualcosa sul conto di questa ragazza di Cleveland Street. Era cattolica e aveva un amante che sembrava un gentiluomo. È scomparso anche lui. Verrò a riferirvelo se dovessi scoprire qualcos'altro. Ora devo rientrare. Abbiamo un nuovo sovrintendente... Wetron, così si chiama.» La sua voce trasudava disgusto. «Non so cosa sia tutta questa faccenda, ma non mi fido di nessuno e farete bene a non fidarvi neanche voi. Fate questa strada ogni mattina?» «Di solito sì.» «Verrò a raccontarvi tutto quello che riesco a scoprire.» Tellman si fermò di botto voltandosi per mettersi di fronte a Pitt, la faccia scarna e incavata sotto quella luce grigia, gli occhi cupi. «E voi state attento.» Poi, come se si vergognasse di aver mostrato che si preoccupava, si allontanò a passo lesto dalla stessa parte da cui era venuto. Gracie era sempre decisa a mettersi a pedinare Lyndon Remus, ma non aveva la minima intenzione di farlo sapere a Charlotte o a Tellman. Il che significava che era necessario trovare qualche altro pretesto per uscire di casa tanto presto e rimanere assente forse anche tutta la giornata. Si alzò all'alba per accendere la stufa, mettere l'acqua sul fuoco e pulire, raschiare, sfregare la cucina fino a renderla immacolata prima che qualcun altro scendesse. E quando Charlotte comparve alle sette e mezzo, aveva la
sua storia bell'e pronta. «Buongiorno, signora» disse, tutta allegra. «Tazza di tè?» «Buongiorno» replicò Charlotte girando gli occhi intorno a sé, stupita. «Ti sei alzata che era ancora buio?» «Sì, un po' prima del solito.» Gracie continuò a dare un tono disinvolto alla propria voce, spostando il bricco sul fornello perché l'acqua si mettesse a bollire più presto. «Volevo chiedere un favore... ecco, se è possibile.» Respirò a fondo. Questa era la bugia. Rimase con le spalle rivolte a Charlotte; capiva di non avere il coraggio di guardarla in faccia. «Il signor Tellman mi ha invitato ad andare a una fiera con lui, se potevo ottenere una giornata di libertà. E ho anche una piccola commissione da fare, qualcosina da comprare. Ma se posso andare, finita la biancheria, vi sarei così grata...» Non suonava buona come aveva sperato. Sapeva che Charlotte trovava sempre più difficile sopportare la solitudine e la preoccupazione, specialmente perché c'era così poco da fare. Era tornata almeno un paio di volte dalla vedova di Martin Fetters, ma si erano accorte di non saper più dove guardare per trovare quei documenti mancanti. E le aveva raccontato dei viaggi di John Adinett, delle sue qualità militari e delle avventure durante l'esplorazione del Canada. Ma nessuna di loro aveva saputo scoprire in qualcosa di tutto questo un movente, ma soltanto idee terrificanti e pericolose. Adesso toccava a Gracie scoprire l'elemento successivo, l'anello della catena che poteva unire John Adinett e le forze dell'anarchia, dell'oppressione... o di quello che era stato a fare in Cleveland Street e per cui Remus si mostrava così emozionato. A dir la verità, lei ne aveva un'idea molto vaga, mentre Tellman era sicuro che si trattasse di qualcosa di brutto e pericoloso, e molto grosso. «Sì, certo» replicò Charlotte. C'era riluttanza nella sua voce, forse perfino invidia, ma non fece obiezioni. «Grazie» Gracie ne approfittò subito, pentita di non poterle raccontare la verità. Ce l'aveva sulla punta della lingua, ma se avesse parlato Charlotte l'avrebbe trattenuta in casa, e lei, questo, non poteva permetterlo. Aveva ancora un po' dei soldi di Tellman e anche i propri risparmi, eventualmente. Era pronta a seguire Remus ovunque fosse andato, e infatti, si ritrovò ad aspettarlo fuori dal suo alloggio, verso le otto. Era una splendida mattinata, già calda. Le fioraie erano in giro con i primi fiori freschi, colti quand'era ancora molto presto. Garzoni incaricati di consegnare pesce, carne, verdura, passavano per andare a bussare alle porte di servizio. Uno strillone di giornali si mise sull'angolo più lontano, gridando ogni tanto gli ultimi titoli
di testa, i più recenti sulle prossime elezioni e su un tornado in America, nel Minnesota, che aveva fatto trentatré vittime. Adinett era già dimenticato. Lyndon Remus uscì dalla porta padronale della casa in cui abitava e s'incamminò a passo sostenuto verso la vicina strada piena di animazione e di traffico. Procedeva con la testa un po' protesa in avanti, a lunghi passi, facendo ondeggiare le braccia. Sembrava che avesse una meta ben precisa. Lei lo seguì facendo, di tanto in tanto, una corsettina. Non poteva lasciarselo scappare. Sapeva di poterlo seguire anche molto da vicino perché lui non la conosceva! L'uomo andò alla fermata dell'omnibus. Ma non c'era nessun altro e fu obbligata a rimanergli vicino ad aspettare. A ogni modo Remus non badava a chi aveva intorno e aguzzava lo sguardo per vedere se l'omnibus arrivava in mezzo al traffico. Gracie viaggiò con lui fino a Holborn e lo seguì quando lui lo cambiò prendendone un altro che andava verso est. Venne colta di sorpresa quando scese in fondo a Whitechapel High Street davanti alla stazione della metropolitana e s'incamminò per Court Street, diretto verso Buck's Row. Qui si fermò, guardandosi in giro. Gracie provò a imitarlo, ma non riuscì a trovare niente che potesse avere qualche interesse. La stazione era lì di fronte, un pensionato scolastico a destra e, a sinistra, la distilleria Smith & Co. Più oltre, un cimitero. Remus aveva ricominciato a camminare guardandosi intorno come se avesse in mente qualcosa di preciso, ma non sembrava che leggesse i numeri delle case, quindi non doveva essere un determinato indirizzo a interessarlo. Lei lo seguì lentamente. Casomai si fosse voltato, finse di curiosare davanti alle porte, come se fosse in cerca di qualcosa. Remus fermò un uomo col grembiule di cuoio e gli parlò. Quello scrollò la testa e si allontanò allungando il passo. Svoltò in Thomas Street e in fondo alla strada Gracie riuscì a intravedere un cartello con la scritta Ospizio di Mendicità di Spitalfields, un gruppo di caseggiati enormi, grigi, che fungevano da ricovero e contemporaneamente da prigione. Remus rivolse la parola a una vecchia carica di un fagotto di biancheria. Gracie gli andò abbastanza vicino per ascoltare quello che diceva, fermandosi un po' di lato e voltandosi a guardare dall'altra parte della strada come se aspettasse qualcuno. «Scusate...» «Sì?» La donna si mostrò appena appena cortese. «Abitate qua intorno?»
«In White's Road» rispose lei indicandogliela, pochi metri più a est. «Allora forse potete aiutarmi» disse Remus in tono concitato. «Ci abitavate anche quattro o cinque anni fa?» «Già. Perché?» «Vedete molte carrozze qua intorno... grandi carrozze di proprietà, non vetture a nolo?» L'espressione di lei diventò sprezzante. «E vi sembra che da queste parti siamo tipi da tenere la carrozza? Potete essere fortunato se trovate almeno un hansom. Altrimenti farete meglio ad adoperare le gambe, come noialtri.» «Non ne sto cercando una adesso!» Remus afferrò la vecchia per un braccio. «Mi interessa qualcuno che ne abbia vista una quattro anni fa, in giro per queste strade.» Lei sgranò gli occhi. «Non lo so e non voglio saperlo. Via, andatevene via di qua, per tutti i diavoli dell'inferno, e lasciateci in pace! Via!» Liberò il braccio dalla sua stretta e scappò. Il giornaliste non nascose la sua delusione, e alla luce del mattino la sua faccia aguzza, dall'espressione intensa, sembrò stranamente giovane. Attraversò la strada svoltando a sinistra, in Hanbury Street, e continuò a fare le stesse domande su carrozze grandi, chiuse, del genere di quelle che si potevano vedere quando giravano avanti e indietro per le strade in cerca di prostitute. Gracie lo seguì tenendosi un po' distante mentre lui procedeva fino in fondo alla strada arrivando alla Free Methodist Church. A un certo punto trovò qualcuno che gli diede una risposta che lo rese felice. Aveva rialzato la testa e teneva le spalle erette, muovendo le mani in gesti eloquenti. Gracie era. troppo lontano per poter ascoltare. Ma anche se una carrozza del genere fosse passata da quelle parti, cosa poteva farle capire? Un bel niente. Qualcuno ben fornito di soldi, ma non di buonsenso, era venuto a girare nel quartiere in cerca di una puttana di quelle che si facevano pagare poco. E allora? Aveva gusti volgari. O forse lo eccitava il pericolo che comportava un divertimento del genere. Ma a ben pensarci, era proprio sicura che Remus fosse in cerca del movente dell'omicidio di Fetters? Forse stava solo sprecando tempo in quel posto, o a voler essere più onesta, il tempo di Charlotte. Prese una decisione. Uscì dal vano della porta dove si teneva nascosta e, tutta impettita, venne avanti a passo deciso verso Remus, cercando di dare l'impressione di abitare nei dintorni e di sapere benissimo cosa stava facendo e dove stava
andando. Lo aveva quasi oltrepassato quando lui si decise a chiamarla. «Scusate!» Lei si fermò. «Sì?» «Permettete una domanda: è già da qualche tempo che abitate qui? Sto cercando qualcuno che sappia con precisione una certa cosa.» «Sono stata via.» Gracie deglutì come se avesse la gola chiusa da un nodo. «Qualche anno fa abitavo qui.» «Per esempio, quattro anni fa?» disse lui interessato, arrossendo un po'. «Già» Gracie rispose un po' guardinga, fissandolo negli occhi nocciola, perspicaci. «Allora stavo qui. Chi cercate?» «Vi ricordate di aver visto qualche carrozza qua in giro? Voglio dire carrozze veramente di buona qualità, non quelle a nolo.» Lei corrugò la fronte, facendo una smorfia nello sforzo di concentrarsi. «Volete dire carrozze private? Quattro anni fa?» ripeté. «Sì!» Gracie provò a pensare seriamente alla bugia da raccontare. Doveva assolutamente dirgli quello che lui si aspettava, né più né meno. «Sì, ricordo una carrozza grande e molto bella. Ma non posso dire di più salvo che era scura... e credo che sia stato più o meno a quel tempo.» Assunse un'aria ingenua. «Gente che conoscete, per caso?» Lui adesso la stava fissando come ipnotizzato. «Non ne sono sicuro.» Aveva il fiato corto. «Forse. Avete visto qualcuno?» «Era una carrozza grande, nera, e non faceva rumore... ecco. Il cocchiere era su, a cassetta.» «Bell'uomo, con la barba?» La voce del giornalista era rotta dall'emozione. Gracie provò un tuffo al cuore. Adesso doveva stare molto attenta. «Bello, non so. Ma la barba sì, l'aveva.» «E dentro, chi c'era? Si sono fermati? Hanno parlato con qualcuno?» Gracie fu pronta a inventare. «Già. Si sono fermati là in fondo e hanno parlato con una mia amica.» Intanto gli indicava il posto con la mano. «Lei poi ha detto che domandavano di certe persone.» «E di chi?» La voce di Remus era stridula, rauca. «Di una persona in particolare? Una donna?» Era quello che lui voleva sentirsi dire. «Sì» mormorò Gracie. «Proprio così.» «Chi? Lo sapete? Non ve l'ha detto la vostra amica?» Lei scelse l'unico nome che, a quanto sapeva, avesse un legame con quella storia. «Annie qualcosa.»
«Annie? Siete sicura? Annie chi? Cercate di ricordare!» Era il caso di rischiare? No. Meglio non esagerare. «Comincia con una C, mi pare, ma non sono sicura.» Calò un profondo silenzio. Remus sembrava paralizzato. Gracie sentì qualcuno che rideva in lontananza. La voce di lui era diventata un mormorio. «Annie Chapman?» Rimase delusa. Improvvisamente non si ritrovò più in quella storia. Adesso le pareva che non avesse più senso. Si sentì agghiacciare. «Non lo so» rispose, come se si sentisse svuotata, e senza riuscire a nasconderlo. «Perché? Chi era? Un tizio che cercava di passare la notte con una donna senza spendere molto?» «Non importa» disse subito Remus, cercando di non farle capire che importanza avesse per lui la notizia. «Mi siete stata enormemente utile. Vi ringrazio molto, davvero.» Si frugò in tasca e le offrì una moneta da tre pence. Lei la prese. Così, almeno, poteva restituire a Tellman qualcosa di quello che aveva speso. Fra l'altro, poteva anche averne bisogno. Dipendeva da dove Remus aveva intenzione di andare. Lui la lasciò avviandosi a lunghi passi senza più voltarsi indietro, evitando un carretto pieno di carbone. Non pensava neanche lontanamente alla possibilità che qualcuno lo stesse seguendo. Tornò fino a Whitechapel High Street prendendo Commercial Street. Gracie fu costretta a correre, di tanto in tanto, per stargli dietro. Arrivato in fondo, svoltò a ovest e si diresse verso la più vicina fermata di un omnibus. Ma invece di rifare tutto il percorso fino alla City, come lei si era aspettata, l'uomo cambiò di nuovo a Holborn e si diresse a sud procedendo per l'Embankment, fino agli uffici della polizia del Tamigi. Gracie lo seguì dentro, come se avesse anche lei qualcosa da sbrigare al commissariato. Aspettò alle sue spalle, a testa china. Aveva preso la precauzione di togliersi le forcine dai capelli, lasciandoli sciolti sulle spalle, e di sfregarsi un po' di polvere della strada sulla faccia. Così adesso sembrava abbastanza diversa dalla giovane donna che Remus aveva fermato in Hanbury Street. Ma anche lui non mancava di inventiva. Quando il sergente volle sapere il motivo per cui si trovava lì, rispose con una storia che doveva aver inventato di sana pianta. «Sono in cerca di mio cugino che è scomparso» disse in un tono ansioso e sporgendosi attraverso il banco. «Ho sentito che qualcuno che rispondeva alla sua descrizione ha rischiato di annegare nei
pressi del Westminster Bridge, il sette febbraio di quest'anno. Quel povero disgraziato è rimasto coinvolto in un incidente con la carrozza che per poco non ha ammazzato una bambina, e ha tentato di suicidarsi per il rimorso. È vero?» «Abbastanza vero» rispose il sergente. «C'era sui giornali. Un tizio di nome Nickley, ma non posso dire che abbia tentato sul serio di suicidarsi.» Fece un sorrisetto agro. «Si è tolto giacca e stivali prima di buttarsi in acqua, e chi fa così vuol dire che non pensa sul serio di farlo.» La sua voce trasudava disprezzo. «E nuotava, anche. Dopo un po' è finito contro una banchina, com'era logico. Lo hanno tirato su e portato all'ospedale di Westminster, ma se l'è cavata senza problemi.» Improvvisamente Remus prese un'aria casuale, come se quello che stava per domandare gli fosse balenato solo in quel momento e non avesse una particolare importanza. «E la bambina? Come si chiamava? Se l'è cavata anche lei?» «Sì.» La faccia brusca del sergente si fece compassionevole. «Se l'è vista brutta, poverina, ma non è rimasta ferita. Solo che si è presa un grosso spavento. E ha detto che non era neanche la prima volta. Aveva già rischiato di finire sotto una carrozza.» Scrollò la testa, stringendo le labbra. «Diceva che era la stessa, figuriamoci! Come faceva a distinguere l'una dall'altra?» Il sergente rise. «No, per carità! Una bambinetta come quella... avrà avuto sette o otto anni. Cosa volete che ne sappia di carrozze?» Remus non riusciva più a dominarsi. Si allungò àncora di più oltre il banco, «Come si chiamava?» «Alice» rispose il sergente. «Mi pare.» «Alice, e poi?» Il sergente lo guardò con maggiore attenzione. «Cos'è questa storia, amico? Sapete qualcosa che dovreste raccontare a noi?» «No!» Il giornalista si affrettò a negarlo un po' troppo in fretta. «È solo una faccenda di famiglia. Diciamo... una pecora nera, mi capite? Vorremmo che non si risapesse in giro, se possibile. Ma ci aiuterebbe molto conoscere il nome della bambina.» Il sergente era scettico. Scrutò Remus mentre cominciava a nascergli qualche dubbio. «Cugino, dicevate?» «Precisamente. Per noi è diventato imbarazzante. Aveva una fissazione su questa bambina, Alice Crook. Io speravo soltanto che non fosse lei.» Il sergente ridiventò più mite. «Be', purtroppo era proprio lei. Mi spia-
ce.» Remus si coprì in fretta la faccia con le mani. E Gracie, alle sue spalle, capì che non stava nascondendo il dispiacere, ma l'esultanza. Ci volle qualche attimo perché riacquistasse il controllo di sé. Poi guardò di nuovo in faccia il sergente. «Grazie» disse soltanto. «Grazie del tempo che mi avete dedicato.» Girò sui tacchi e uscì rapidamente, costringendo Gracie a corrergli dietro. E se il sergente l'aveva notata, avrebbe potuto pensare che era in compagnia di Remus. Lui si allontanò dal fiume guardando a destra e a sinistra come se cercasse qualcosa. Poi Gracie, che era rimasta volutamente indietro, si accorse che cambiava direzione e si avviava verso l'ufficio postale, dove entrò. Lo vide tirar fuori una matita e scarabocchiare in fretta qualcosa su un foglio di carta con le mani che gli tremavano. Lo ripiegò, lo infilò nella busta, comprò un francobollo e lo imbucò subito. Poi si rimise in marcia a passo lesto e di nuovo Gracie, di tanto in tanto, dovette fare una corsettina per non perderlo. Così fu ben felice quando Remus, che doveva sentirsi affamato, si fermò in un pub a consumare un pasto decente. Gracie aveva i piedi che le facevano male, e le gambe dolenti. Quindi si sentiva prontissima a mettersi seduta per un po', mangiare qualcosa e sorvegliarlo più comodamente. Lui ordinò un pasticcio di anguille, che non le era mai piaciuto. Preferì scegliere un pasticcio di maiale. Mezz'ora più tardi, però, lui si rimise in marcia, e aveva l'aria di sapere benissimo dove voleva andare. Lo seguì, decisa a non lasciarselo sfuggire. Ormai calava la sera e le strade erano affollate. Dopo due viaggi sull'omnibus e un breve tratto a piedi, Remus si fermò vicino a una panchina di Hyde Park, in attesa di qualcuno. Rimase lì fermo cinque minuti, e Gracie cominciò a lambiccarsi il cervello pensando a come spiegare la sua presenza in quel posto. Il giornalista continuava a guardarsi in giro come se non sapesse da che direzione arrivava la persona che stava aspettando. Impossibile che non si accorgesse di lei. A un certo momento avrebbe cominciato a domandarsi perché era lì e cosa stava facendo. Al suo posto, Tellman come si sarebbe comportato? Era un investigatore, lui. Non c'era niente per nascondersi. Fingere di aspettare qualcuno? Ma Remus ci avrebbe creduto? Oppure fingere di aver perduto qualcosa? Buona idea. Tornò sui propri passi molto lentamente, gli occhi fissi al suolo come se cercasse qualcosa di piccolo e prezioso. Dopo una ventina di metri si voltò per tornare indietro. Aveva quasi raggiunto la sua posizione primitiva quando finalmente un uomo di mezz'età venne avanti sul vialetto e
Remus andò a piantarsi proprio di fronte a lui. L'uomo si fermò di botto, poi abbozzò un movimento come se volesse girargli intorno e continuare per la sua strada. Remus, invece, rimase dov'era, e a giudicare dall'atteggiamento dell'altro uomo, evidentemente gli rivolse la parola, ma talmente piano che Gracie, a una decina di metri di distanza, poté sentire soltanto il fievole suono della sua voce. L'uomo sembrava sconcertato. Scrutò Remus più attentamente come se si aspettasse di riconoscerlo. Forse il giornalista l'aveva chiamato per nome. Gracie vide che doveva essere sui cinquant'anni, piuttosto bello d'aspetto, di buona statura, ma un po' appesantito per l'età. Era vestito in modo normale, senza niente di eccentrico, e i suoi capi di vestiario, benché di ottimo taglio, non sembravano particolarmente costosi. Avrebbe potuto essere il funzionario di qualche ministero, oppure un direttore di banca a riposo. Remus si stava accalorando, mentre gli parlava, e l'uomo adesso gli rispondeva in tono piuttosto adirato anche lui. Sembrava che Remus lo accusasse di qualcosa; stava alzando la voce, che era diventata stridula e aspra. E Gracie riuscì a cogliere di tanto in tanto qualche parola. «...ne sapeva qualcosa! Eravate in combutta anche voi...» Di qualsiasi cosa si trattasse, l'altro respinse quell'idea con un rapido gesto della mano, ma aveva la faccia cianotica e appariva chiaramente turbato. Nel suo tono di voce, quando ribatté, si sentiva un'indignazione che però suonava falsa. «Di quello, non avete nessuna prova! E se voi...» Abbassò di colpo la voce, e a Gracie sfuggirono un paio delle frasi successive. «Un strada molto pericolosa!» concluse. «Allora voi siete altrettanto colpevole!» Remus era su tutte le furie, ma nella sua voce adesso era chiaramente percepibile una sfumatura di timore. Il suo interlocutore sembrava impaurito anche lui. Adesso agitava le mani con movimenti scattanti, stizzosi, di secco diniego. Scrollò la testa. «No! È un avvertimento, il mio!» «Lo scoprirò» replicò Remus in tono di rappresaglia. «Ne scoprirò ogni stramaledetto elemento, tutti i pezzi del mosaico dal primo all'ultimo, e il mondo saprà. Non ci potrete più raccontare un mucchio di bugie... non potrete più farlo, né voi né chiunque altro. Ora basta!» L'altro uomo fece un violento gesto di fastidio, poi girò sui tacchi e si allontanò tornando nella direzione da cui era venuto. Remus accennò a inseguirlo, ma cambiò idea e si avviò in fretta, oltre Gracie, verso la strada. La sua faccia era tesa, furiosa, piena di determinazione.
Gracie gli corse dietro. E continuò a correre, tanto lui marciava a passo rapido. Attraversò Hyde Park Terrace, continuando a nord oltre Grand Junction Road e risalì fino a Praed Street entrando nella stazione della metropolitana. Gracie provò un tuffo al cuore. Dove stava andando? Molto lontano? E cos'era tutta quella storia? Chi era l'uomo che aveva incontrato nel parco e accusato... di che cosa poi? Lo seguì giù per la ripida scala fino alla biglietteria dove comperò un biglietto e lo seguì. Era già stata su un treno della metropolitana, ma c'era voluto tutto il suo coraggio per salire in quella specie di carrozza chiusa e sbarrata e ritrovarsi poi scaraventata di qua e di là in mezzo a un rumore assordante lungo una serie di tenebrose gallerie. D'altra parte, non intendeva lasciarsi sfuggire Remus. Il treno sbucò fuori da una nera caverna e si fermò. Remus vi salì. Gracie salì dietro di lui. Con uno scossone il treno ripartì e si rimise a correre rombando. Gracie strinse convulsamente i pugni e le labbra. Sostarono nella stazione di Edgware Road. Qualcuno salì, qualcuno scese. Remus non si degnò neanche di guardare dove si trovava. Il treno ripartì. Passarono le stazioni di Baker Street, Portland Road e Gower Street allo stesso modo. Poi ci fu un percorso più lungo per giungere a King's Cross, e con uno scossone e una curva a destra il convoglio ripartì ruggendo e guadagnando velocità. Dove stava andando Remus, adesso? Qual era la connessione fra le visite di Adinett in Cleveland Street e la ragazza che ci abitava ed era stata portata via di lì a viva forza, come il suo amante? Lei era finita al Guy's Hospital, curata e assistita addirittura dal chirurgo reale, il quale aveva dichiarato che era pazza. Cos'era successo al giovane uomo? Sembrava che nessuno avesse più sentito parlare di lui. E quelle carrozze che giravano per Spitalfields? Erano guidate dallo stesso uomo che aveva investito la piccola Alice Crook, e poi si era buttato nel fiume... dopo essersi tolto giacca e stivali? Il treno si fermò a Farringdon Street e poi nella stazione di Aldergate Street. Remus scattò in piedi. Gracie rischiò di cadere per la sorpresa e si affrettò ad andargli dietro. Ma l'uomo, arrivato alla porta, cambiò idea e tornò a sedersi. Lei crollò di schianto sul sedile più vicino con il cuore in gola. Il treno continuò per Moorgate, e poi Bishopsgate. Si fermò ad Aldgate e Remus si avviò alla porta. Anche Gracie scese dalla carrozza e si avviò su per la scala, in fretta, sbucando fuori, nel buio, dove Aldgate Street diventava Whitechapel High Street.
Da che parte stava andando il giornalista? Adesso poteva pedinarlo da vicino. I lampioni erano accesi, ma la loro luce fioca tracciava appena un cono giallastro sul lastricato. Possibile che tornasse di nuovo a Whitechapel, dov'era già stato? Adesso si trovava a quasi un chilometro mezzo da Buck's Row, all'estremità opposta di Whitechapel Road, al di là di High Street. Invece lui tornò in Aldgate Street, di nuovo verso la City. Aspettava di trovarsi ancora con qualcuno? Le tornò in mente la sua faccia quando si era allontanato da quell'uomo in Hyde Park. Era furioso eppure le era sembrato anche impaurito ed emozionato. Doveva trattarsi di qualcosa di proporzioni mostruose... o almeno ne era convinto. Fu presa alla sprovvista quando l'uomo svoltò in Duke Street. Era più stretta, più cupa. Nel buio si sentiva lo sgocciolio delle grondaie. Nell'aria aleggiava un tanfo di marciume e di fogna. Si accorse di essere scossa da un tremito. Appena poco più in là s'intravedeva l'enorme sagoma della chiesa di St. Botolph's. Era sul limitare di Whitechapel. Remus stava camminando come se sapesse con precisione dove andava. Ma adesso esitò, guardando a sinistra. La tenue luce dei lampioni illuminò per un attimo la sua faccia pallida. Cosa si aspettava di vedere? Lei pensò alle grandi carrozze nere di cui aveva chiesto notizie, al rotolio sordo delle ruote sui ciottoli che si faceva sempre più forte, ai cavalli neri che apparivano all'improvviso sbucando dalla notte, alla sagoma enorme della carrozza, alta, quadrata, uno sportello che si apriva e un uomo che chiedeva... cosa? Cercava una donna, una donna in particolare. Perché? Quale gentiluomo, padrone di una carrozza, avrebbe potuto venire in una zona simile alla notte, quando se ne poteva stare nei quartieri alti e trovare una prostituta che fosse più pulita, più divertente, con una camera e un letto, invece di accontentarsi del vano di un portone? Remus stava attraversando la strada per imboccare un vicolo di fianco alla chiesa. Il buio era totale. Capiva di averlo ancora davanti perché poteva sentire il rumore dei suoi passi. Poi lo vide stagliato contro una lama di luce un po' più avanti. C'era un varco, un'apertura. Forse quella era la luce di un lampione, appena al di là dell'angolo. Lo raggiunse e si ritrovò in una piazzetta. Lui era rimasto immobile, a guardarsi intorno; per un attimo aveva alzato la faccia verso il riverbero giallastro di un lampione. Aveva gli occhi spalancati, le labbra socchiuse che abbozzavano un orrendo sorriso, un misto di terrore e di esultanza. Tremava dalla testa ai piedi.
Gracie alzò gli occhi verso il sudicio cartello stradale sul muro di mattoni al di sopra del lampione. Mitre Square. Di colpo si sentì gelare, come se fosse stata toccata da un alito dell'inferno. E finalmente capì per quale motivo lui era venuto a Whitechapel, in Buck's Row, in Hanbury Street, e adesso in Mitre Square. Capiva chi stava cercando di individuare. Ricordò i nomi: Annie Chapman, conosciuta come Dark Annie; e Long Liz; e Kate, e Polly, e Black Mary. Remus seguiva le tracce di Jack lo Squartatore. Era ancora vivo, e Remus credeva di sapere chi fosse. Ecco il servizio che intendeva pubblicare sui giornali, suscitando grande scalpore e facendosi un nome. Si voltò e cominciò a correre, ansimando per il vicolo buio. Le ginocchia non la reggevano, i polmoni le facevano male come se ci fossero dei coltelli a trafiggerla, ma non sarebbe rimasta un secondo di più in quel posto demoniaco. Andò a sbattere contro qualcuno e si lasciò sfuggire un grido, dibattendosi, colpendo selvaggiamente a pugno chiuso quella che era soltanto morbida carne, e se ne accorse subito perché sentì un grugnito e un'imprecazione. Si divincolò, liberandosi, e riprese la corsa accompagnata dai tonfi sordi dei propri passi, fino in Duke Street e, sempre a gran velocità, verso Aldgate Road. Non sapeva, né tantomeno le importava, chi avesse coperto di pugni, oppure se Remus la seguisse... Le bastava arrivare a prendere un omnibus o la metropolitana per andar via di lì, il più lontano possibile, da Whitechapel con i suoi fantasmi e i suoi demoni. Un omnibus stava muovendosi verso ovest. Si mise a gridare e sbucò di corsa sulla strada, facendo spaventare i cavalli, mentre il vetturino la copriva di imprecazioni. Ignorando le sue proteste, salì affannosamente a bordo e crollò di schianto sul primo sedile libero. «Avevate il diavolo alle calcagna?» le chiese bonariamente un uomo, mentre un sorriso divertito si disegnava sulla sua faccia larga e tonda. Era troppo vicino alla verità perché lei avesse il coraggio di scherzarci su. «Sì» disse con voce rauca. «Sì... proprio il diavolo!» Quando finalmente arrivò a casa erano le undici passate. Trovò Charlotte che passeggiava su e giù per la cucina, pallidissima. «Dove sei stata?» le domandò furiosa. «Ero talmente in ansia per te che mi sono quasi sentita male! Hai un aspetto da far spavento... cosa è successo?» Gracie provò un tale sollievo per il fatto di essere tornata sana e salva che scoppiò in lacrime, e singhiozzando mormorò parole incoerenti, mentre Charlotte la stringeva fra le braccia. L'indomani le avrebbe fornito una versione della verità accuratamente
riveduta e corretta, chiedendole scusa per le bugie che le aveva detto. 9 Tellman cercò di scacciare Gracìe dai propri pensieri. Era difficile. Il suo faccino smanioso e pieno di ansia si insinuava in ogni momento del suo riposo e lo distraeva in continuazione da ciò che stava facendo. Ma sapendo di essere sorvegliato da Wetron, il quale stava soltanto aspettando che commettesse anche solo il più piccolo errore, era costretto a impegnarsi fino allo spasimo nelle indagini per quelle sciagurate rapine. Non poteva permettersi di sbagliare qualcosa. Tanta diligenza fu ricompensata con un autentico colpo di fortuna che affrettò in modo insperato la conclusione del caso di cui si stava occupando. Non solo, ma si stava accorgendo di pensare sempre più spesso a Pitt, che viveva e lavorava a Spitalfields. Era fin troppo chiaro il motivo per il quale ce l'avevano mandato. Dal punto di vista di Cornwallis era un tentativo di salvarlo da ulteriori pericoli; per chi aveva dato l'ordine di quel cambiamento rappresentava una punizione per aver convinto la giuria che Adinett era colpevole. In più, Pitt continuava a essere vulnerabile perché non poteva neanche fornire il movente del delitto. Ecco perché si sentiva colpevole. Lui, invece, faceva ancora parte delle forze di polizia, era libero di scoprire la verità, ma non aveva combinato niente. Era venuto soltanto a sapere che Adinett si era emozionato per qualcosa che era accaduto in Cleveland Street, che sembrava avesse una serie infinita di ramificazioni delle quali capiva pochissimo. Era fermo, in piedi, vicino al mercato dei fiori, un paio di isolati più giù del commissariato di polizia di Bow Street, quando si rese conto che qualcuno si era fermato vicino a lui e lo stava osservando. Gracie! La sua prima reazione fu di puro e autentico piacere. Poi si accorse che lei aveva un'aria affaticata, era pallida e stava lì a guardarlo in silenzio. Le si avvicinò. «Cosa c'è? Cosa stai facendo qui? La signora Pitt sta bene? Ha ricevuto notizie di lui?» Non aveva quasi più visto Charlotte da quando Pitt se n'era andato, e ormai era passato più di un mese. Forse aveva sbagliato a non cercarla, a non parlarle. Un carretto traboccante di fiori passò lentamente di fianco a loro e si fermò una dozzina di metri più oltre. «Cosa c'è?» domandò di nuovo, in tono più aspro. «Gracie!» Lei deglutì come se avesse un nodo alla gola. E allora Tellman si spa-
ventò sul serio. Troppa parte della sua vita, ormai, era legata a quello che stava succedendo in Keppel Street. «Ho seguito Remus, come avevi detto.» Lei lo guardò con aria di sfida. Ma era spaventata. Tellman glielo leggeva in faccia e nel modo in cui appariva rigida dalla testa ai piedi. Bastò a farlo andare su tutte le furie, a fargli provare una gran voglia di proteggerla. «Be', non dovevi farlo! Basta che tu rimanga in casa, perché quello è il tuo posto, a occuparti della signora Pitt e della famiglia!» Gli occhi di Gracie erano grandissimi e cupi, le sue labbra scosse da un tremito. Stava rovinando tutto. Le faceva del male e la lasciava sola ad affrontare ciò che aveva visto. «Insomma, dove sei andata?» le domandò più gentilmente. Non sapeva come comportarsi. Aveva quattordici anni meno di lui. Era giovane, fiera e coraggiosa! «Dunque?» Gli occhi di Gracie continuavano a fissarlo senza un tremito. «Ho speso tutti i tuoi soldi» disse. «E anche quel po' che mi è stato offerto.» «Non dovevi andare fuori Londra. Ti avevo detto...» «No, non ci sono andata» si affrettò a interromperlo la ragazza. «Ma guarda che io non sono obbligata a fare quello che mi dici tu, sai? Lui è andato a Whitechapel, e ha passato una per una le strade interne, da una parte verso Spitalfields, dall'altra verso Limehouse. Chiedeva a tutti se avevano visto una grande carrozza circa quattro anni fa, la carrozza di qualcuno che non stava lì nel quartiere. Li trattava come se fossero idioti. Da quelle parti nessuno è il padrone di una carrozza.» Tellman rimase sconcertato. Ma fin qui non era niente di sinistro. «Cercava una carrozza? E tu sai se ha scoperto qualcosa?» Per un attimo gli parve che lei fosse lì lì per sorridere, ma il sorriso le morì sulle labbra. «Certo! Lui non mi conosceva, così io ho lasciato che chiedesse anche a me come chiedeva a tutti gli altri» rispose. «E gli ho detto che quattro anni fa avevo visto una grande carrozza nera. Lui mi ha domandato chi c'era dentro, e se sembrava che cercasse qualcuno in modo particolare. Così gli ho detto che sì... la cercavano.» «Chi?» La voce di Tellman era rauca per la tensione. «Il primo nome che mi è venuto in mente. Stavo pensando a quella ragazza che è stata portata via a viva forza da Cleveland Street, così ho detto Annie.» Fu scossa da un violento brivido. «Annie?» Lui le andò più vicino di un passo. «Annie Crook?» Adesso Gracie era diventata livida. Scrollò la testa. «No... Io l'ho capito più tardi, quando l'ho seguito mentre tornava di nuovo in Whitechapel, do-
po che era stato giù, dalla Polizia del fiume; aveva scritto una lettera a qualcuno e si era trovato con un signore in Hyde Park, un signore che ha accusato di qualcosa di terribile; addirittura, hanno litigato, e poi è tornato di nuovo fino a Whitechapel...» S'interruppe, perché il fiato le mancava. «Chi?» domandò lui fremente. «Se non si trattava di Annie Crook, che importanza vuoi che abbia?» Per quanto fosse irragionevole, si sentiva deluso. E fu solo l'orrore che esprimeva la faccia di Gracie a costringerlo a fissarla ancora. Lei deglutì di nuovo. «Si trattava di Dark Annie.» «Dark Annie?» Lentamente tutto l'orrore di quel che stava ascoltando filtrò nel cervello di Tellman, che rimase agghiacciato. Lei fece segno di sì. «Annie Chapman... quella che Jack ha fatto a pezzi!» «Lo... Squartatore?» Tellman scoprì di non riuscire quasi a pronunciare quella parola. «Già. Gli altri posti dove lui era andato a domandare se avevano visto quelle carrozze sono Buck's Row, dove hanno trovato Polly Mitchell, Hanbury Street, dove stava Dark Annie, poi è finito su, in Mitre Square, dove hanno beccato Kate Eddowes, quella che è stata conciata peggio di tutte.» Lui si sentì travolgere dall'orrore. «Ma se a quel punto l'avevi capito, non dovevi andargli dietro fino al commissariato della Polizia fluviale e...» «Ma non gli sono andata dietro!» protestò lei. «Prima è entrato alla polizia a chiedere di un cocchiere di nome Nikley che aveva cercato di investire una bambinetta e lo aveva fatto due volte, senza mai riuscirci.» Riprese fiato. «E dopo la seconda volta è andato a buttarsi nel fiume, ma prima si è tolto gli stivali, segno che non ci pensava sul serio ad ammazzarsi, ma soltanto farlo credere alla gente.» «E questo cosa c'entra con il resto?» domandò lui. La prese per un braccio tirandola da parte, sul marciapiede, per lasciar passare due uomini. E poi non la mollò più. «Non lo so!» rispose lei. Tellman stava lambiccandosi il cervello per trovare una spiegazione a quella storia, per capire se c'era qualche legame con Annie Crook, e cosa poteva aver a che fare con Adinett e Pitt. «Ma lui lo sa» riprese guardandolo. «Remus lo sa. Ho visto la sua faccia sotto il lampione in Mitre Square. È stato lì che Jack ha fatto fuori Kate Eddowes... e lui lo sapeva! Remus lo sapeva! Ecco perché c'è andato.» Tutto d'un tratto Tellman si rese conto di quello che lei stava dicendo.
«E tu l'hai seguito fin là, di notte?» Era allibito. «Tutta sola... in Mitre Square?» Sentì la propria voce che tremava, incontrollata. «Ma ti è rimasto un briciolo di cervello... o cosa? Pensa a quello che ti poteva succedere!» Chiuse gli occhi, cercando di scacciare le visioni che gli si affollavano al cervello. Ricordava le immagini di quei corpi, quattro anni prima, orrende deformazioni della figura umana, il disprezzo per il decoro della morte. E Gracie era andata proprio là, di notte, seguendo un tale che poteva essere... chiunque. «Stupida... stupida che non sei altro... Sei una stupida!» Gridò di nuovo. «Ma non pensi a quello che fai?» Adesso anche Gracie era furiosa. Prima era stata piena di paura, ma Tellman l'aveva insultata, e questo non poteva sopportarlo. «Bene, ho scoperto cosa voleva sapere Remus!» sbraitò di rimando. «E così, se io sono una stupida, tu cosa sei, eh? E se sei troppo arrabbiato per capire quello che ti ho appena detto, e usarlo per aiutare il signor Pitt, benissimo... vuol dire che dovrò fare tutto da sola. Andrò a cercare Remus di nuovo per dirgli che so quello che sta facendo, e se non me lo racconta...» «Oh, no, non farai niente del genere!» lui l'afferrò per un polso. «Lasciami!» Gracie cercò di liberare la mano, divincolandosi, ma Tellman era troppo forte per lei. Allora abbassò la testa e lo morsicò. Lui urlò di dolore e la lasciò andare. «Bestiolina che non sei altro!» «E tu... tieni le mani a posto! E guai a te se ti azzardi a dirmi cosa devo fare o non fare! Io non sono la schiava di nessuno, e faccio quello che mi pare. Quanto a te, puoi aiutare la signora Pitt, oppure star lì a coprirmi d'insulti. Non fa nessuna differenza. Noi troveremo la verità, e lo faremo tornare a casa... vedrai!» Gracie si voltò di scatto, allontanandosi a passi concitati. Tellman fece per andarle dietro, poi si fermò. La mano gli faceva un gran male. E comunque non aveva idea di cosa dire. Si sentiva annichilito. Ma era terrorizzato per lei: quello che provava era qualcosa di nuovo, di spaventoso, una paura diversa da tutte le altre, come una morsa gelida che gli chiudesse lo stomaco. Gracie si era fermata a una decina di metri. Si voltò di scatto per affrontarlo. «Ma hai proprio intenzione di rimanere lì come uno stramaledetto palo?» A lunghi passi lui la raggiunse. «Ho intenzione di cercare Remus» disse Con voce grave. «Quanto a te, torni subito in Keppel Street prima che la signora Pitt ti licenzi perché non fai il tuo lavoro. Magari è stata alzata metà della notte a pensare che potevano capitarti le cose più terribili. È sola, non sa cosa sia meglio fare o dire, e tu dovresti essere là ad aiutarla.»
Lei lo squadrò, soppesando le parole prima di rispondergli. «Allora, vai a cercare Remus?» domandò in tono di sfida. «Sei sorda? Te l'ho appena detto.» Lei tirò su col naso. «Visto che mi pare di averti raccontato tutto quello che ho scoperto, me ne torno a casa e preparo qualcosa per cena... magari faccio anche una torta.» Alzò le spalle e riprese a camminare. «Gracie!» «Be'?» «Hai lavorato molto bene... Anzi, sei stata brillante. Ma se ti azzardi a rifarlo, ti sculaccio in un modo che poi, per una settimana, dovrai mangiare in piedi, con il piatto sulla mensola del camino. Mi hai sentito?» Lei rise e continuò a camminare. Tellman non aveva nessuna voglia di sorridere, ma non riuscì a trattenersi. E di colpo provò, insieme alla paura, una gioia fortissima. Non pensò neanche per un momento di rimanere lì, al mercato dei fiori, per continuare le indagini sulla famosa merce rubata. Era ancora presto. Se ci andava subito poteva trovare Remus, affrontarlo e scoprire con le minacce o i modi gentili quello che sapeva. Ma dove poteva essere il giornalista a quell'ora? Erano le nove appena passate. Prese un hansom per guadagnare tempo e diede al vetturino l'indirizzo. Ciò che sapeva Remus doveva aver a che fare con un cocchiere di nome Nickley, il quale, a quanto sembrava, aveva guidato la carrozza del suo padrone in giro per Whitechapel in cerca di quelle cinque donne, poi, quando le aveva trovate, qualcuno le aveva macellate nel modo più orribile. Ma perché proprio loro e non altre? Perché aveva smesso dopo quelle cinque? Erano state prostitute, non diverse dalle altre. Come loro ce n'erano a migliaia. Eppure, secondo Gracie, chiunque fosse stato aveva chiesto almeno di una chiamandola per nome. La vettura lo faceva sobbalzare di qua e di là, correndo sulla strada, senza interrompere la sua concentrazione. Quindi non si trattava di un maniaco che andava in giro semplicemente per il gusto di uccidere. C'era uno scopo. Per quale motivo Annie Crook era stata portata via dal negozio di tabaccaio in Cleveland Street e, a quanto pareva, era finita al Guy's Hospital, curata dal chirurgo della Regina? Chi aveva pagato per il suo ricovero? E se lei era pazza, non si poteva certo pensare che potesse occuparsene un chirurgo. E chi era il giovane uomo portato via da Cleveland Street contemporaneamente a lei mentre si dibatteva e protestava?
Al suo arrivo pagò il vetturino, ma gli chiese di fermarsi cinque minuti mentre andava a bussare alla porta. La padrona di casa lo informò che Remus era uscito dieci minuti prima, ma non aveva idea di dove fosse diretto. Tellman la ringraziò e tornò verso la carrozza, per dare istruzioni al vetturino di accompagnarlo alla più vicina stazione della metropolitana. L'avrebbe presa fino a Whitechapel e poi percorso a piedi i trecentoquattrocento metri per raggiungere Cleveland Street. Durante il viaggio continuò a rimuginare sul problema che lo assillava. Si sarebbe detto che tutto cominciasse con Annie Crook. C'erano alcuni altri pezzi del gioco che non avevano ancora una connessione con gli altri; per esempio, perché era così importante che Annie Crook fosse cattolica? Presumibilmente il giovanotto non lo era, e la sua famiglia o quella di lei avevano sollevato qualche obiezione. Poi il padre di Annie, William Crook, era finito al St. Pancras Infirmary, e lì era morto. E chi era Alice, che il cocchiere aveva tentato di uccidere investendola con la carrozza non una, ma due volte? Perché? Che razza di uomo è quello che vuole assassinare una creatura di sette anni? E chi era il personaggio con cui Remus si era incontrato in Regent's Park e che gli aveva dato, a quanto pareva, consigli e istruzioni? E quello con cui aveva avuto un litigio nei pressi del cancello di Hyde Park? Dalla descrizione di Gracie, si sarebbe detto un tipo del tutto differente. Scese a Whitechapel e s'incamminò di buon passo verso Cleveland Street. Svoltò rapidamente e stavolta la sorte gli fu favorevole. Scorse la figura di Remus a meno di cento metri, incerto come se non sapesse che strada prendere. Accelerò il passo e lo raggiunse mentre stava per avviarsi verso il negozio del tabaccaio. Allungò una mano e lo afferrò per un braccio. «Prima di andar via, signor Remus, vorrei dirvi una parola.» L'altro sobbalzò come per un terribile spavento. «Sergente Tellman! Cosa accidenti state...» S'interruppe bruscamente. «Stavo cercando voi.» Remus finse di non capire. «Perché?» «Oh, per un mucchio di cose» rispose Tellman con finta noncuranza, senza mollargli il braccio. «Possiamo partire da Annie Crook, procedere col suo rapimento e relativo ricovero al Guy's Hospital e con quello che le è successo in seguito; con la morte di suo padre, con l'uomo con cui vi siete trovato in Regent's Park e con quell'altro con il quale avete bisticciato in Hyde Park...» Remus era troppo sconvolto per riuscire a dominarsi. La sua faccia era
diventata livida, aveva la fronte e il labbro superiore imperlati di sudore, ma continuò a tacere. «E potremmo andare avanti con il cocchiere che ha cercato di investire e uccidere la bambina, Alice Crook, e poi si è buttato nel fiume ma solo per venirne di nuovo fuori a nuoto» continuò Tellman. «Ma soprattutto voglio sapere qualcosa dell'uomo a bordo della carrozza che girava per Hanbury Street e Buck's Row nell'autunno dell'88 e che ha sgozzato cinque donne prima di finire con lo squartare Catherine Eddowes in Mitre Square, dove eravate ieri sera...» S'interruppe perché stava cominciando a pensare che Remus fosse sul punto di svenire. Tremava violentemente. «Voi sapete chi è Jack.» Tellman pronunciò queste parole non come se domandasse, ma come se affermasse qualcosa. «È ancora vivo... dico bene?» Il giornalista rispose con un colpetto secco in avanti della testa, per confermarglielo. Grondava di sudore. «È la storia del secolo» disse passandosi la lingua sulle labbra, nervosamente. «Cambierà il mondo...» Tellman aveva i suoi dubbi in proposito, ma poteva capire che Remus ci credesse. «Se mettiamo le mani addosso a Jack, a me basta» disse piano. «Quanto a voi, invece, farete meglio a darmi qualche spiegazione.» L'espressione di sfida riapparve negli occhi di Remus. «Non riuscirete a provarlo senza di me.» «Magari non è vero.» «Oh, sì che è vero!» gli assicurò Remus, e la sua voce vibrava di sicurezza. «Mi manca soltanto qualche pedina da mettere a posto. Gull è morto, ma ce n'è sempre abbastanza, in un modo o nell'altro. E anche Stephen è morto, povero diavolo... come Eddy, ma lo proverò ugualmente.» «Noi» Tellman lo corresse in tono truce. «Noi lo proveremo.» «Non ho bisogno di voi.» «Eccome se ne avete bisogno, altrimenti ci penso io a far scoppiare uno scandalo» lo minacciò Tellman. «Che ne venga fuori un bel servizio giornalistico a me non interessa, ma io voglio la verità per altre ragioni, e la otterrò, che vi faccia scrivere questo servizio o vi mandi tutto a monte.» «Allora allontaniamoci dal negozio» disse Remus, allungando un'occhiata alle proprie spalle e poi tornando a fissarlo. «Non possiamo fermarci qua intorno, e farci notare.» Intanto aveva ripreso il cammino tornando indietro verso Mile End Road. Tellman gli corse dietro. «Datemi tutte le spiegazioni» gli ordinò. «E niente fandonie. So già molte cose. Solo che non ho fatto ancora in tempo a metterci ordine e a trovare tutti i collegamenti... Chi è Annie Crook?» gli
chiese mettendosi al passo con lui. «E, cosa più importante, dove si trova adesso?» «Non so dove sia. Ormai al manicomio di Bedlam, direi. È stata dichiarata non sana di mente e rinchiusa per questo. Non so se sia ancora viva. In archivio, al Guy's, manca la registrazione relativa, ma io so che c'è stata e l'hanno tenuta lì per mesi.» «E chi era il suo amante?» Remus si fermò sui due piedi tanto bruscamente che Tellman fece ancora un passo o due prima di fermarsi anche lui. Poi cominciò a ridere: un suono acuto, stridulo, isterico. Qualche passante si voltò a guardarlo. «Volete smetterla?» Tellman provava una gran voglia di prenderlo a schiaffi, ma rischiava di attirare ancora di più l'attenzione. «Silenzio!» Remus si controllò con uno sforzo. «Non sapete un accidenti di niente, dico bene? Tirate soltanto a indovinare. Andate via. Non ho bisogno di voi.» «E invece avete bisogno di me» lo contraddisse Tellman, tagliando corto. «Non avete ancora tutte le risposte e non siete in grado di ottenerle, altrimenti lo avreste già fatto. Ma sapete abbastanza per essere impaurito. Cos'altro vi occorre? Forse io posso aiutarvi. Sono la polizia; posso fare domande quando e dove voi non potete.» «La polizia!» Remus sbottò in una risata di derisione. «La polizia? Abberline era la polizia... e Warren! Con una posizione più importante.» «So chi sono» ribatté Tellman, aspro. «Certo che lo sapete. Ma sapete cos'hanno fatto? Perché se lo sapete io so un'altra cosa: che mi ritroverò in una di queste viuzze con la gola tagliata.» «State forse dicendo che Abberline e Warren ci sono coinvolti anche loro? Ma è ridicolo! Per quale motivo una persona come Abberline dovrebbe dare la copertura a un delitto? Risolvendo quel caso si sarebbe fatto un nome. Poteva diventare celebre. Chiunque avesse catturato l'omicida di Whitechapel avrebbe potuto chiedere un prezzo altissimo, esigere tutto quello che voleva!» «Ci sono cose ancora più grosse» rispose Remus in tono oscuro. Aveva cominciato a piovere fitto e l'acqua scrosciante gli scendeva a rivoli sulla faccia, appiccicandogli i capelli al cranio. «Qui c'è in ballo qualcosa di ben più grande della celebrità, o dei soldi, credete a me. Se ho ragione, e posso fornire le prove, questo cambierà l'Inghilterra per sempre.» «Frottole!» replicò Tellman ferocemente. Voleva che fosse falso. Remus
gli girò le spalle facendo la mossa di riprendere il cammino. Lui lo afferrò di nuovo per un braccio, costringendolo a fermarsi. «E perché Abberline avrebbe dovuto nascondere i peggiori crimini che siano mai avvenuti a Londra? È un uomo onesto, perbene.» «Lealtà.» Remus pronunciò questa parola con voce stridula. «Ci sono lealtà che vanno oltre la vita o la morte, lealtà profonde, enormi come l'inferno stesso.» Si portò una mano alla gola. «Cose per le quali un uomo... alcuni uomini... venderebbero l'anima. Abberline è uno, Warren un altro, e il cocchiere Netley...» «Quale Netley? Alludete a Nickley?» «No, si chiama Netley. Quando ha detto Nickley al Westminster Hospital, mentiva.» «Ma lui cosa c'entra? Guidava la carrozza in giro per Whitechapel. Sapeva chi era Jack. Sapeva perché ha fatto quello che ha fatto.» «Certo che lo sapeva... e lo sa ancora adesso. Ma secondo me è un segreto che si porterà nella tomba.» «Ma perché ha tentato di ammazzare la bambina... due volte?» Remus sorrise. «Come ho già detto, voi non sapete niente.» Tellman si accorse di essere alla disperazione. «Io so dove trovare un buon numero di funzionari di polizia che occupano posizioni di spicco. Non solamente Abberline oppure il capo della polizia Warren, ma anche parecchi altri, fino a quelli che stanno nelle posizioni più eminenti, se devo metterli di mezzo. Quei due ormai si sono ritirati a vita privata, ma altri no.» Remus era diventato di un pallore impressionante, gli occhi stralunati. «Voi... non vi azzardereste! Me li mettereste alle calcagna sapendo cos'hanno fatto? Sapendo cosa nascondono?» «Ma io non lo so!» rispose Tellman. «A meno che non siate voi a raccontarmelo.» Remus deglutì e si passò il dorso della mano sulla bocca. Nei suoi occhi apparve un guizzo di paura. «Venite con me. Ripariamoci dalla pioggia. Andiamo in quel pub là di fronte.» Dieci minuti più tardi erano seduti in un angolo tranquillo davanti ai loro bicchieri di birra, e tutt'intorno l'odore di segatura e di abiti fradici di pioggia. «Bene» attaccò Tellman. «Con chi vi siete incontrato in Regent's Park? E se scopro che mentite, siete nei guai.» «Non lo so. Che Dio mi aiuti, è la verità. Era l'uomo che mi ha messo su
questa pista perché me ne occupassi. Ammetto che non ve lo direi se lo sapessi... ma non lo so!» «Non state partendo con il piede sbagliato, signor Remus?» lo mise in guardia Tellman. «E cosa mi dite dell'uomo in Hyde Park con il quale avete bisticciato, accusandolo di nascondere una congiura? Un altro informatore misterioso?» «No. Quello era Abberline.» Tellman sapeva che Abberline era stato incaricato delle indagini sugli omicidi di Whitechapel. Possibile che avesse nascosto delle prove, perfino conosciuto l'identità di Jack lo Squartatore... e non l'avesse rivelata? In tal caso, il suo era un crimine mostruoso. «Perché Abberline avrebbe voluto nasconderlo?» domandò di nuovo. Poi formulò a parole la domanda che lo assillava. «Cosa c'entra Adinett in tutto questo? Lo sapeva anche lui?» «Penso di sì. Certo, che doveva aver fiutato qualcosa. È stato in Cleveland Street a far domande dal tabaccaio, e anche da Sickert.» Adesso Tellman era confuso. «Chi è Sickert?» «Walter Sickert, l'artista. Era nel suo studio che si incontravano. A quell'epoca lo aveva in Cleveland Street.» «E gli amanti? Annie Crook, che era cattolica, e il giovanotto?» Remus fece una smorfia. «Lo mettete in un modo curioso... Be', certo, era lì che s'incontravano, se volete spiegarla così.» Da come parlava, Tellman capì che c'era sotto dell'altro. «Quello che state dicendo sembra privo di senso.» Si sporse lievemente attraverso il tavolo. «Chiunque Jack fosse... oppure è... voleva determinate donne. Chiedeva di loro chiamandole per nome, o perlomeno è quello che ha fatto nel caso di Annie Chapman. Perché? Perché siete andato a informarvi della morte di William Crook a St. Pancras e di quella del pazzo Stephen a Northampton? Cos'aveva a che vedere Stephen con Jack?» «A quanto posso dire...» Le mani scarne di Remus erano strette convulsamente sul suo boccale di birra, tanto che lo faceva tremare appena appena, e il liquido vi ondeggiava. «Stephen era l'insegnante del duca di Clarence, e anche amico di Walter Sickert. Era stato lui a farli conoscere.» «Il duca di Clarence e... Walter Sickert?» disse Tellman lentamente. «Il duca di Clarence e Annie Crook, imbecille che siete!» A Tellman sembrò di sentirsi roteare intorno la stanza, come se si trovasse su un mare in tempesta. Il futuro erede al trono e una ragazza cattolica dell'East End. Remus lo fissò in faccia. «A quanto ne so adesso, Clarence, Eddy, come
lo chiamavano, era un tipo piuttosto impacciato e malaccorto. I suoi amici sospettavano che avesse certe inclinazioni... diciamo simpatie, anche verso gli uomini.» «Stephen...» «Precisamente. Stephen, il suo insegnante di pitture, gli offrì la possibilità di certi tipi d'intrattenimento, molto più accettabili, con Annie. Era sordo, poveretto, come sua madre, e trovava un po' difficile la conversazione mondana. Ma le cose non andarono secondo i loro intendimenti. S'innamorarono... s'innamorarono sul serio. Il succo di tutta questa faccenda è... che erano sposati...» Tellman scostò il boccale che aveva davanti con un gesto talmente brusco che la birra ne schizzò fuori bagnando il tavolo. «Cosa?» Remus fece segno di sì. La sua voce si ridusse a un bisbiglio. «Ecco perché Netley, il cocchiere del povero Eddy, che lo portava sempre qui a far visita ad Annie in Cleveland Street, aveva cercato per ben due volte di ammazzare la bambina... povera creatura...» «Bambina?» Ora tutto era chiaro. «Alice Crook...» Tellman si sentì mancare il fiato. «Alice Crook era figlia del duca di Clarence?» «Probabilmente... e magari anche legittima, nata dal loro matrimonio. E Annie era cattolica.» Adesso Remus parlava con un filo di voce. «Ricordate la Legge sulla successione al trono?» «Cosa?» «La Legge sulla successione al trono» ripeté Remus. Tellman, adesso, doveva sporgersi attraverso il tavolo per sentirlo. «Risale al 1701, ma è ancora effettiva. Esclude dalla possibilità di ereditare la Corona chiunque sposi una persona di religione cattolica romana. La Legge sui Diritti del cittadino inglese, che risale al 1689, dice la stessa cosa.» Tellman stava cominciando a intuire l'enormità della questione. Era terrificante. Metteva a repentaglio il trono, la stabilità del governo e l'intero Paese. «Così li hanno separati a viva forza?» chiese. Era l'unica conclusione possibile. «Hanno rapito Annie per rinchiuderla in un manicomio... E cos'è successo a Eddy? È morto? Oppure loro... Possibile che...» Remus lo stava osservando con un'espressione di profonda pietà. «Dio solo lo sa... perché quella povera creatura riusciva a capire soltanto metà di quello che stava succedendo; o magari era anche uno sprovveduto, e neanche molto intelligente. Sembra che volesse un bene dell'anima ad Annie e alla bambina. Forse ha protestato, ha suscitato un certo scalpore... Era sordo, solo, confuso...»
Tellman, con gli occhi fissi di fronte a sé, osservava i manifesti scoloriti e coperti di macchie, e quello che qualche cliente aveva scarabocchiato sulla parete del pub, sentendosi infinitamente grato di trovarsi lì e non in qualche palazzo, sorvegliato da cortigiani spietati e pronti anche all'omicidio, servo del trono e padrone di un bel niente. «Perché le cinque donne?» domandò infine. «Deve pur esserci stata una ragione.» «Oh, certamente. Erano quelle al corrente di tutto. Erano amiche di Annie. Se avessero capito cos'avevano contro sarebbero scomparse, non si sarebbero più fatte trovare. Ma non lo sapevano. Corre voce che fossero avide, perlomeno una di loro, e che sia stata lei a convincere anche le altre. Chiesero a Sickert dei soldi in cambio del silenzio. Lui lo riferì ai suoi padroni, e quelle donne il silenzio lo conservarono... eccome se lo conservarono!...» Tellman si nascose la faccia fra le mani e rimase impietrito, con il caos nel cervello. E se il vero malato di mente, in tutta quella storia, fosse stato Lyndon Remus? Come se gli avesse letto nel pensiero, il giornalista riprese a parlare. «Mi credete pazzo?» Tellman annuì. «Non posso provare niente di tutto questo... per ora. Ma ci riuscirò. È la verità. Osservate i fatti.» «È quello che sto facendo. E non provano niente di niente. Perché Stephen si è suicidato? In che modo era coinvolto in tutto questo?» «Li aveva fatti conoscere lui. Il povero Eddy era un buon pittore, sul serio! Stephen gli voleva molto bene. Era innamorato di lui, forse. Comunque, quando ha sentito che era morto, Dio solo sa cos'ha pensato, ma è stata la fine per lui. Senso di colpa, magari, o soltanto il dolore. Ma è ininfluente in questa storia.» «Allora, chi ha ammazzato le donne?» Remus scrollò leggermente la testa. «Non lo so. Il mio sospetto è che sia stato sir William Gull. Era il medico di casa reale.» «E Netley guidava la carrozza girando per Whitechapel, cercandole, perché Gull potesse farle a pezzi?» Tellman era scosso da un gelo che il bel calduccio della taverna non riusciva a togliergli di dosso. L'incubo era dentro di lui. «Nella carrozza. Ecco perché non c'è mai stato molto sangue e perché lui non è mai stato sorpreso mentre uccideva.» Tellman scostò da sé il boccale con quel po' che avanzava della birra. Il pensiero di mangiare o bere gli dava la nausea. «Ci mancano soltanto gli ultimi frammenti per completare il quadro»
continuò Remus, e adesso anche il suo boccale rimase intatto. «Mi occorre sapere di più su Gull.» «È morto» gli fece rilevare Tellman. «Lo so.» Il giornalista si allungò verso di lui. Il frastuono intorno a loro stava aumentando e diventava più difficile sentirsi. «Ma comunque non altera la verità. E io ho bisogno di avere in mano ogni fatto possibile. Voi potreste avere accesso a certe cose, io no. Sanno chi sono, e non mi racconteranno più niente. Potreste dire che quelle notizie hanno a che fare con un caso di cui vi state occupando, e con voi parlerebbero.» «Cosa pensate di fare? Cos'altro vi occorre? E perché? Cosa farete di tutto questo quando avrete in mano l'intera storia, se mai ci riuscirete? Andare alla polizia non serve. Gull è morto, Abberline e Warren si sono ritirati tutti e due a vita privata. State seguendo la pista del cocchiere?» «Io seguo la verità ovunque mi porti. Quello che voglio, in realtà, è l'uomo che sta dietro le quinte, e li ha mandati fuori a commettere certe azioni. Magari non si è mai avvicinato più di sette-otto chilometri a Whitechapel, però il cuore e la mente dello Squartatore è lui. Gli altri ne sono semplicemente le mani.» Tellman capì che doveva chiederglielo. «E voi sapete chi è?» Aveva la voce rauca; sentiva il bisogno di bere perché aveva la gola asciutta, ma quel solo pensiero gliela faceva sentire chiusa da un nodo. «Penso di sì» rispose Remus. «Però non ve lo dico. Quindi non ha senso domandarmelo. Ecco la pista che sto seguendo. Voi cercate di scoprire qualcosa di più sul conto di Gull e di Netley. State lontano da Sickert.» Era un avvertimento chiaro, questo: glielo si leggeva in faccia. «Vi posso dare due giorni. Poi mi ritroverete qui.» Tellman accettò. Non aveva scelta, indipendentemente da quello che Wetron o chiunque altro poteva fare. Remus aveva ragione; se quello che supponeva era vero, si trattava di una questione di proporzioni ben più vaste a confronto di qualsiasi crimine singolo e perfino della possibilità di trovare una soluzione agli omicidi più orribile che Londra avesse mai visto. Ma non poteva dimenticare Pitt, e il motivo originario delle sue domande. «E Adinett? Di quanto era al corrente?» Remus scrollò la testa. «Di sicuro non lo so. Di qualcosa, senz'altro. Sapeva del rapimento di Annie Crook da Cleveland Street, che l'avevano ricoverata al Guy's e che Eddy era stato portato via anche lui.» «E Martin Fetters? In che modo c'entra anche lui? Cosa sapeva?» «Chi è Martin Fetters?»
«L'uomo che Adinett ha assassinato!» ribatté Tellman, tagliente. «Oh!» La faccia del giornalista si rischiarò. «Non ne ho nessuna idea. Se fosse stato l'inverso, e Fetters avesse ucciso Adinett, direi che Fetters era uno di loro.» Tellman si alzò in piedi. Qualsiasi cosa avesse intenzione di fare, doveva essere fatta in fretta. Se Wetron avesse scoperto di nuovo di cosa si stava occupando, lo avrebbe licenziato. Ma se voleva fidarsi di Wetron, o di chiunque altro che non fosse Pitt, avrebbe dovuto riferire ciò che sapeva, e si sarebbe visto concedere tempo e, quasi sicuramente, anche aiuto. Però non immaginava fin dove la Confraternita fosse estesa e da che parte fossero schierati i suoi membri. O a chi fossero fedeli. Doveva agire da solo. Uscì dal pub incamminandosi sotto la pioggia sottile. Se sir William Gull era stato colui che aveva realizzato atti tanto orrendi, era opportuno sapere sul suo conto tutto il possibile. Se il duca di Clarence aveva effettivamente sposato Annie Crook, sotto qualsiasi forma la cerimonia nuziale si fosse svolta, e se c'era una figlia, non ci si poteva certo meravigliare che qualcuno, preso dal panico, avesse voluto conservare il segreto. A parte le leggi per la successione al trono, l'anticattolicesimo era abbastanza diffuso nel Paese perché la notizia di una simile unione facesse vacillare la monarchia, fragile com'era, al momento. Ma se fosse venuto fuori che gli omicidi più orridi e ripugnanti del secolo erano stati commessi da simpatizzanti della casa reale, e la casa reale ne era a conoscenza, ci sarebbe stata la rivoluzione per le strade, e il trono sarebbe stato spazzato via da un'ondata di rabbia tale da far rischiare perfino la caduta del governo. Cosa poteva nascere, dopo, da tutto questo sarebbe stato strano, ignoto, e forse neanche migliore. Ma di qualsiasi cosa potesse trattarsi, Tellman era sconvolto al pensiero della violenza, della forza stessa del furore popolare. La rivoluzione poteva portare un cambiamento in alto, fra chi stava al potere, ma non avrebbe certo creato più lavoro, non avrebbe dato più cibo, case o vestiti, niente che facesse la vita più ricca o più sicura. Chi avrebbe formato un nuovo governo, una volta che fosse caduto quello vecchio? E sarebbe stato necessariamente più giusto e saggio? Scese dall'omnibus e s'incamminò su per la salita verso il Guy's Hospital. Non c'era più tempo. Non poteva andare troppo per il sottile. Una volta che Remus avesse raccolto prove sufficienti, avrebbe denunciato pubblicamente quanto sapeva. A ottenerlo avrebbe pensato l'uomo di Regent's Park, il suo istigatore. Chi poteva essere? Remus medesimo aveva detto di non saperlo. Adesso
non c'era più neanche tempo per scoprirlo, ma il suo movente appariva abbastanza chiaro: la rivoluzione in Inghilterra, la fine della sicurezza e della pace. Tellman salì la scalinata ed entrò dal grande portone dell'ospedale. Gli occorse il resto della giornata, pàrlando con una mezza dozzina di persone e chiedendo cosa ricordassero del defunto sir William Gull, per mettere insieme, su di lui, qualcosa di più di qualche vaga impressione. Quella che lentamente cominciò a prendere forma nel suo cervello fu l'immagine di un uomo totalmente dedito allo studio della medicina, in particolare alle funzioni e alla struttura del corpo umano. Era spinto da una grande ambizione personale e, almeno apparentemente, sembrava possedesse poca compassione o ansia di alleviare le sofferenze dei malati. Comunque Gull era un buon dottore e aveva servito non solamente la famiglia reale, ma anche quella di Randolph Churchill. Non riuscì a trovare nessuna registrazione, nessuna traccia scritta del ricovero di Annie Crook, ma tre degli impiegati dissero di ricordarsela molto bene. Gli raccontarono che sir William l'aveva operata al cervello e dopo di allora era rimasta quasi completamente priva della memoria. Secondo loro, aveva dovuto sicuramente soffrire di qualche forma di malattia mentale, almeno durante il periodo del suo ricovero lì al Guy's, dov'era rimasta per centocinquantasei giorni. Quale poi fosse stata la sua sorte, non lo sapevano. Tellman lasciò l'ospedale poco prima che facesse buio. Non poteva aspettare oltre. Anche se veniva messa a rischio la missione di Pitt a Spitalfields, che lui in ogni caso aveva sempre giudicato destinata a concludersi senza risultati, doveva rintracciarlo e riferirgli quanto sapeva. Era molto più orribile di qualsiasi congiura anarchica per far saltare con la dinamite qualche edificio cittadino. Prese la metropolitana fino ad Aldgate Street, poi s'incamminò a passo lesto per Whitechapel High Street e risalì per Brick Lane fino all'angolo di Heneagle Street. Qui bussò alla porta della casa di Karansky e aspettò. Ci volle qualche minuto prima che la porta venisse aperta appena di qualche centimetro da un uomo che poteva vedere solo a una fievole luce. Era un po' curvo, con folti capelli scuri. «Signor Karansky?» disse Tellman a bassa voce. «Chi siete?» replicò una voce sospettosa. Tellman aveva già deciso cosa rispondere. «Il sergente Tellman. Devo parlare al vostro pensionante. Sono venuto a sapere qualcosa che occorre
dirgli subito. Spero di non disturbarvi.» Karansky aprì un poco di più la porta. «Entrate» lo invitò. «Entrate. La sua camera è in cima alle scale. Se è urgente come dite, farete meglio ad andare subito di sopra a cercarlo. È rientrato mezz'ora fa. Qualche volta giochiamo un po' a scacchi, chiacchieriamo, ma stasera è tornato più tardi del solito.» Sembrò che volesse aggiungere qualcosa, poi cambiò idea. C'era uno strano disagio nell'aria, come se ci si aspettasse qualcosa di brutto e di pericoloso. Tellman lo ringraziò e imboccò la ripida scala per andare a bussare alla porta che Karansky gli aveva indicato. Gli rispose subito una voce che sembrava svogliata, distratta, come se Pitt sapesse già chi poteva essere. Tellman aprì la porta. Lo vide seduto sul letto, accasciato, assorto nei suoi pensieri. Quando Tellman la richiuse senza dire una sola parola, Pitt, rendendosi conto che non poteva essere Karansky, si guardò intorno. Rimase a bocca aperta per la meraviglia, poi si allarmò. «Tutto bene!» si affrettò a dire Tellman. «Ma sono venuto a sapere qualcosa che dovevo riferirvi stasera stessa. È... è un fatto che più di così... un fatto di proporzioni enormi... il più orrendo e spaventoso che io abbia mai sentito raccontare, se è vero.» 10 Era quasi mezzanotte quando Tellman arrivò in Keppel Street ma, la mattina seguente non avrebbe avuto la possibilità di raccontare a Gracie quello che aveva scopetto, e neanche a Charlotte. E invece dovevano saperlo. Una congiura terrificante come quella era qualcosa che andava al di là della carriera di un singolo individuo, e perfino della loro sicurezza personale. Niente di quello che lui o Pitt potevano dire avrebbe impedito che le due donne continuassero nella loro ricerca della verità. Sollevò il batacchio di ottone e lo lasciò cadere. Il suo tonfo risuonò sonoro nel silenzio. Sulla strada non un movimento né una voce. Bussò di nuovo, tre volte, e poi ancora. Una luce apparve al piano di sopra e pochi minuti più tardi Charlotte venne ad aprire la porta, gli occhi sbarrati e colmi di paura, i capelli un'ombra scura sulle spalle. «Tutto bene» si affrettò a dire Tellman. Sapeva quali erano i suoi timori. «Ma ho certe cose che devo raccontarvi.» Lei spalancò la porta e lo fece entrare. Poi chiamò Gracie e lo precedette
in cucina. Quando Gracie si presentò, con i capelli arruffati dal sonno e con l'aspetto di una ragazzina di quattordici anni, presero posto intorno alla tavola, con una tazza di tè davanti, e lui riferì quello che aveva saputo da Lyndon Remus e cosa potesse significare. Quando Charlotte si svegliò era giorno fatto. In un primo momento ricordò soltanto che suo marito non era lì, vicino a lei. Poi le tornò in mente la visita di Tellman e tutto quanto aveva raccontato sui delitti di Whitechapel, il principe Eddy e Annie Crook e l'inquietante e paurosa congiura per nascondere tutto. Si mise seduta sul letto, di scatto, e scostò le coperte. Poi cominciò a lavarsi e vestirsi meccanicamente. Strano come fosse molto minore il piacere che provava in qualcosa di tanto semplice come spazzolarsi e arricciarsi i capelli, adesso che Thomas Pitt non era lì a guardarla. Le mancavano il tocco delle sue mani, le sue carezze, perfino più del suono della sua voce. Ma adesso doveva concentrarsi su quel problema. Non era il momento dell'autocommiserazione. Possibile che John Adinett avesse ucciso Fetters perché era uno dei congiurati che volevano nascondere l'assassino di Whitechapel, e la parte che la casa reale aveva avuto in tutta quella storia? Non aveva alcun senso logico. Fetters era repubblicano. Lui sarebbe stato la prima persona a denunciare pubblicamente l'accaduto. La risposta doveva essere l'inverso. Fetters aveva scoperto la verità e voleva rivelarla e Adinett lo aveva ammazzato per impedirlo. Questo avrebbe spiegato il motivo per cui non aveva potuto dirlo a nessuno neanche per salvarsi la vita. In Cleveland Street non era andato per cercare di scoprire qualcosa dei crimini originari, quelli del 1888, ma dopo le indagini che Fetters aveva eseguito in materia quello stesso anno. Doveva essersi reso conto che l'amico sapeva tutto, e lo avrebbe inevitabilmente svelato all'opinione pubblica per i propri scopi. E oltre al desiderio di proteggere gli uomini che avevano commesso quegli orrendi delitti non voleva una rivoluzione e tutta la violenza e la rovina che avrebbe inevitabilmente portato. Scese lentamente al pianterreno. Gracie si voltò di scatto quando sentì il suo passo. Aveva l'aria stanca e i capelli pettinati alla meglio, ma sorrise quando lei entrò. Nei suoi occhi brillava qualcosa di coraggioso e risoluto che diede a Charlotte un impeto di speranza. Le preparò il tè e poi sedettero in silenzio, il silenzio di chi si sente a proprio agio, sorseggiandolo mentre era ancora troppo caldo, e ne esalava un aroma aspro e pungente. Poi Charlotte salì a svegliare prima Jemima, e poi Daniel.
«E papà? Quando torna a casa?» le chiese Jemima mentre le lavava la faccia. «Avevi detto presto.» Il suo tono era di accusa. Charlotte le allungò la salvietta. Cosa doveva dirle? «Spero che sarà presto» le rispose, prendendo tempo. «È un caso difficile, peggio di quel che pensasse.» «Ma perché papà lo ha accettato, se è così difficile?» Daniel entrò nella stanza infilandosi la camicia, i capelli bagnati sulla fronte e sulle orecchie. «Cosa?» Guardò sua madre, poi sua sorella. «Lo ha accettato perché era giusto» replicò Charlotte «Era la cosa giusta da fare.» Non poteva dire ai suoi tìgli che Thomas era in pericolo e la Confraternita gli aveva rovinato la carriera per vendicarsi della sua testimonianza sfavorevole a John Adinett. Come non poteva certo dire a nessuno dei due che lui aveva scoperto qualcosa di tanto terribile che minacciava di distruggere tutto quanto conosceva e in cui aveva fiducia. Jemima la fissò aggrottando la fronte. «Ma vuole tornare a casa...» Charlotte sentì in lei la paura che se ne fosse andato perché così gli faceva comodo. Forse temeva di non essere stata all'altezza delle sue aspettative, che il papà fosse deluso di lei. «Certo che vuole tornare!» esclamò Daniel arrabbiato, la faccia arrossata, gli occhi scintillanti. «Che stupidaggine stai dicendo!» La voce gli tremava per l'emozione. Sua sorella aveva osato mettere in dubbio tutto quello che lui amava. Charlotte si voltò verso sua figlia. «Certo che vuole tornare a casa» confermò con la massima calma, come se qualsiasi altra idea non fosse soltanto terrificante, ma anche sciocca. «Odia stare lontano da noi, ma qualche volta fare quel che è giusto, può essere molto sgradevole e significa rinunciare per un po', non per sempre, a qualcosa che a te importa moltissimo. Immagino che senta la nostra mancanza più di quanto la sentiamo noi perché almeno siamo insieme, nella nostra casa. Lui deve essere dove c'è bisogno di lui.» Jemima sembrò molto più tranquilla di prima, o almeno quanto bastava per ricominciare a discutere. «Perché papà? Perché non qualcun altro?» «Perché è difficile, e lui è il migliore» replicò Charlotte. Stavolta era facile. «Se tu sei il migliore vuol dire che devi sempre fare il tuo dovere perché non c'è nessuno che può farlo per te.» Jemima sorrise. Ecco una risposta che le piaceva. «Qual è la gente alla quale dà la caccia?» Daniel, invece, non sembrava disposto a mollare. «Cos'hanno fatto?» Questo era già meno facile da spiegare. «Non hanno ancora fatto niente.
E lui vuol essere sicuro che non lo facciano.» «Ma cos'è che stanno per fare?» insistette lui. «Vogliono far saltare in aria certi posti con la dinamite.» «Cos'è la dinamite?» «È roba che fa scoppiare le cose» lo informò Jemima prima che Charlotte avesse il tempo di trovare una risposta. «Uccide la gente. Me lo ha detto Mary Ann.» «Perché?» Daniel non aveva una grande opinione di Mary Ann. E non aveva neanche una grande opinione di quello che dicevano le femmine, specialmente su argomenti come quello di far saltare in aria la gente. «Muoiono perché sono andati in pezzi, stupido» ribatté sua sorella, tutta contenta di metterlo in condizione di inferiorità. «Non puoi rimanere vivo senza le braccia o le gambe o la testa!» Sembrò che questo bastasse a concludere il discorso, almeno per il momento; e scesero tutti a far colazione. Ormai erano le nove passate; Daniel stava costruendo una barca con colla e cartone e Jemima si era messa a cucire, quando Emily arrivò. Trovò Charlotte che pelava le patate. Emily la guardò preoccupata, corrugando lievemente le sopracciglia chiare, gli occhi pieni d'ansia. «Come sta Thomas?» domandò a mezza voce. «Non lo so» rispose Charlotte. «Scrive spesso, ma non racconta mai molto e, non potendo vedere la sua faccia, non so se dice la verità. Gradisci una limonata?» «Sì, grazie.» Charlotte andò in dispensa e ne tornò con la limonata. Ne riempì due bicchieri e gliene passò uno. Poi sedette anche lei e le raccontò tutto quanto era successo, dalla spedizione di Gracie in Mitre Square alla visita di Tellman la sera precedente. Emily non la interruppe mai. Rimase immobile, pallidissima, fino a quando lei non concluse la sua storia. «Tutto questo è molto più orrendo di quanto avrei mai immaginato. Chi ce dietro?» domandò con voce tremante. «Non lo so. Potrebbe trattarsi di chiunque.» «La signora Fetters non ne ha nessuna idea?» «No... o almeno sono quasi sicura di no. L'ultima volta che sono stata da lei abbiamo trovato certe carte di Martin Fetters da cui risultava che era un repubblicano accanito. Se Adinett era un sostenitore della monarchia, conosceva anche lui quest'altra orribile cosa, e Fetters lo sapeva. Potrebbe es-
sere la spiegazione del motivo per cui Adinett lo ha ucciso.» Emily si sporse attraverso il tavolo verso di lei. «Per amor di Dio, Charlotte, stai attenta! Pensa a quello che hanno già fatto. Adinett è morto, ma chissà quanti altri ce ne sono, vìvi e vegeti, e tu non hai nessun modo di identificarli.» Aveva ragione. Charlotte si ritrovò priva di argomenti per negarlo. «Comunque, dobbiamo fare qualcosa. Se non proviamo almeno noi, chi lo farà? E poi devo sapere se è proprio la verità. Juno ha il diritto di sapere perché suo marito è stato assassinato. Devono esserci persone a cui importa. Zia Vespasia lo saprà.» Emily rilletté un momento. «Hai mai pensato a quello che potrà succedere se fosse vero? Farà cadere il governo...» «Se si sono accordati per conservare il segreto, cadrà solo per un voto di sfiducia in Parlamento, non con una rivoluzione.» «Oh, può essere un governo indegno, e non voglio discuterlo, ma prima di farlo cadere devi pensare se non c'è il rischio che quello che avrai al suo posto non potrebbe essere perfino peggiore.» Charlotte scrollò la testa. «Che cosa ci può essere di peggio di una società segreta in un governo connivente con delitti come quelli? Significa che non c'è legge e non c'è giustizia. Devono essere impazziti. Hanno perduto completamente il senso della realtà. Prova un po' a chiedere a chiunque sappia qualcosa degli omicidi di Whitechapel.» Emily era pallidissima. Nei suoi occhi affiorò il ricordo di ciò che aveva sentito raccontare quattro anni prima. «Hai ragione» bisbigliò. Charlotte si protese verso di lei. «Se anche noi gli diamo una copertura, ne diventiamo complici.» «Cosa pensi di fare?» «Andare da Juno Fetters e riferirle tutto.» «Sei sicura?» Charlotte esitò. «Credo di sì. Preferirebbe credere che suo marito è stato ucciso perché era al corrente di tutto, e non perché stava facendo i piani per una rivoluzione repubblicana... come pensa adesso.» Emily la guardò con gli occhi sbarrati. «Una rivoluzione repubblicana? Per questo motivo?» Le sfuggì un tremulo sospiro. «Potrebbe aver avuto successo... non mi sento di escluderlo.» A Charlotte tornò in mente la faccia di Martin Fetters nella fotografia che Juno le aveva mostrato, con quei grandi occhi schietti, intelligenti, pieni di audacia. Era la faccia di un uomo pronto a seguire le sue passioni a
qualsiasi costo. Le era subito piaciuto come le era piaciuto il modo in cui aveva scritto dei paesi e dei popoli delle rivoluzioni del '48. Che avesse il progetto di altrettanta violenza anche in Inghilterra era qualcosa che l'amareggiava profondamente, come il tradimento di una persona amica. Se ne accorse con stupore. La voce di Emily s'insinuò nelle sue riflessioni. «E Adinett era contrario? Ma allora perché non smascherarlo pubblicamente? Era più semplice» disse in tono pieno di buonsenso. «Così lo avrebbero fermato.» «Lo so» ammise Charlotte. «Ecco perché sembra molto più logico che sia stato questo il movente della sua uccisione. Sapeva degli omicidi di Whitechapel, e avrebbe svelato tutto non appena ottenute le prove.» «È quello che sta cercando di fare questo giornalista... Remus?» Charlotte annui. «Così penso. Non mi pare possibile che sia tanto stupido da tentare di ricattarli.» Intanto si era alzata in piedi. «Voglio saperlo. Credo che sia un dovere.» Respirò a fondo. «Vorresti occuparti dei bambini, intanto che vado a far visita a Juno Fetters?» «Senz'altro. Andremo al parco» acconsentì Emily. Poi, mentre la sorella le passava di fianco, si allungò a prenderla per un braccio. «Stai attenta!» disse con la paura nella voce, le dita che la stringevano forte. «Certamente. Te lo prometto» disse Charlotte. E parlava sul serio. A Juno fece molto piacere rivederla. Le sue giornate erano ancora lunghe e noiose, ma il lutto lo richiedeva. Pochissime persone venivano a trovarla, e non era decoroso che lei partecipasse a qualsiasi tipo d'intrattenimento di carattere mondano. A dir la verità, non ne aveva neanche voglia. E le ore non passavano mai. Non si affrettò a domandarle subito se avesse notizie o se avesse riflettuto ulteriormente sulla situazione; quindi fu Charlotte ad affrontare l'argomento non appena si trovarono nel solito salotto sul giardino. «Ho scoperto qualcosa che devo raccontarvi» disse, un po' guardinga. Si accorse che la faccia di Juno s'illuminava d'interesse. «Non sono affatto sicura che sia vero, ma se lo fosse spiegherebbe molte cose.» «Voglio saperlo per me stessa. Ho bisogno di capire.» Charlotte notò le occhiaie profonde che le segnavano il viso e le sottili rughe di tensione. Quella donna stava vivendo in un incubo. Tutto quel passato che le era tanto caro e che adesso avrebbe potuto darle un po' di forza era guastato dall'ombra del dubbio. «Penso che suo marito avesse scoperto la verità sui delitti più terribili che siano mai stati commessi a
Londra... o altrove» disse a voce bassa. «Cosa?» esclamò Juno con veemenza. «Quali delitti?» «Gli assassinii di Whitechapel.» «No... come... Cioè..., se Martin avesse saputo qualcosa, allora...» «Avrebbe parlato. Ecco perché Adinett ha dovuto ucciderlo. Per impedirglielo.» «Perché?» Juno adesso la fissava inorridita, stupefatta. «Non capisco.» A voce bassa, con parole semplici e un tono che l'emozione rendeva quasi brusco, Charlotte le disse tutto quello che sapeva. L'altra l'ascoltò senza interromperla fino in fondo. E soltanto allora parlò. Era pallidissima. «Come faceva Martin a sapere tutto questo? Lo ha raccontato ad Adinett perché era convinto di potersi fidare di lui? E soltanto negli ultimi momenti della sua vita ha scoperto che Adinett era uno di loro?» Charlotte fece segno di sì. «È quello che penso.» «Ma, allora, chi c'è adesso dietro Remus?» «Non so. Altri repubblicani, forse...» «Dunque era una rivoluzione quella che... E poi ci sono altre carte, documenti...» Juno riprese a parlare con la voce ferma, come se facesse uno sforzo enorme. «Ho riletto di nuovo i diari di Martin e ho capito che si riferisce a qualcos'altro che lì non c'è. Ho guardato in tutti i posti che mi sono venuti in mente, ma non li ho trovati.» «Di chi altri avrebbe potuto fidarsi? Chi potrebbe averli conservati per lui?» «Il suo editore!» esclamò Juno, eccitata. «Thorold Dismore. È un repubblicano convinto e lo sbandiera al punto che sono in molti a considerarlo troppo schietto per essere pericoloso. Martin si fidava di lui perché sapeva che avevano gli stessi ideali e Dismore aveva il coraggio di esprimere apertamente le proprie idee.» Charlotte sembrava incerta. «Potete andare a chiedergli le carte di Martin o invece, come suo editore, gli appartengono?» «Non lo so. Ma sono pronta a tentare ogni mezzo pur di riaverle. Pregherò, supplicherò, minaccerò o farò qualsiasi altra cosa mi venga in mente. Volete accompagnarmi?» Charlotte colse quella occasione al volo. «Sì, certamente.» Non risultò così semplice vedere Thorold Dismore, e furono costrette ad aspettare tre quarti d'ora in un'elegante ma poco confortevole anticamera.
Comunque ne approfittarono per pensare a quel che Juno doveva dire. Così, quando vennero finalmente introdotte nel suo ufficio di una semplicità talmente spartana da lasciarle sorprese, lei era pronta. Si presentò bellissima e vestita rigorosamente di nero, con qualcosa nell'aspetto di ben più drammatico di Charlotte, che non avendo previsto una visita del genere portava invece un abito verde chiaro, sobrio. Dismore si fece avanti, disinvolto e cortese. «Buongiorno, signora Fetters. Prego, entrate e accomodatevi.» Le indicò una poltrona e poi si rivolse a Charlotte. «La signora Pitt» Juno la presentò. «È venuta ad accompagnarmi.» «Piacere di conoscervi» disse Dismore con evidente interesse. «Il piacere è mio, signor Dismore» rispose lei in tono pieno di modestia, e accettò la poltrona che lui le indicava. Poi, dopo che venne offerto e rifiutato qualcosa di fresco da bere, giunse il momento di affrontare lo scopo della visita. «Signor Dismore, mi sono messa a rileggere lettere, annotazioni e appunti di mio marito.» Juno sorrise, la voce addolcita dai ricordi. Lui annuì. Era una cosa più che naturale. «Mi accorgo che stava già preparando parecchi articoli da farvi pubblicare su argomenti molto cari al suo cuore: problemi di riforma sociale che desiderava vivamente vedere risolti.» Un lampo di pena illuminò gli occhi di Dismore; era qualcosa di più della pura e semplice simpatia, e certo molto di più di quanto la buona educazione richiedesse. Charlotte avrebbe giurato che fosse sincera. Ma quelle che stavano affrontando erano cause molto più appassionate e travolgenti dell'amicizia, e per uomini come lui potevano diventare addirittura una forma di guerra, nella quale, per la vittoria finale, si sacrificavano perfino i camerati. Lo osservò attentamente mentre ascoltava la descrizione che Juno gli faceva degli appunti ritrovati. Fece segno di sì con la testa una o due volte, ma non la interruppe. Sembrava enormemente interessato. «Avete tutti questi appunti, e queste annotazioni, signora Fetters?» domandò quando lei ebbe finito. «Ecco perché sono venuta. Si direbbe che manchino alcune parti d'importanza fondamentale, riferimenti ad altri lavori e specialmente...» Respirò a fondo e i suoi occhi ebbero un lampo d'incertezza, come se volesse voltarsi verso Charlotte, ma seppe dominarsi. «Specialmente a persone, idee sociali e politiche che credo essenziali per dare un senso a quanto scriveva. Quindi mi domandavo se non sia possibile che abbia lasciato carte, documenti o magari minute più complete presso di voi.» Fece un sorriso
incerto. «Insieme, potrebbero essere sufficienti per mettere insieme un articolo.» La faccia di Dismore adesso era attenta, e rivelava l'impazienza. Quando parlò, la sua voce vibrava di eccitazione. «Io ho molto poco, ma potete esaminarlo, naturalmente. Se però ci fosse dell'altro, signora Fetters, allora bisogna cercare in ogni posto possibile e immaginabile fino a quando non troviamo tutto, fino all'ultima pagina. Sono disposto ad accollarmi il lavoro, le ricerche, le spese necessarie per rintracciare quel materiale...» Charlotte provò uno strano fremito d'inquietudine. Che quella fosse una minaccia, sia pure fatta con molta discrezione? «Era un grand'uomo. Aveva un'autentica passione per la giustizia che illuminava ognuno dei suoi scritti.» Di nuovo la faccia dell'uomo si velò di dispiacere. «Un uomo come lui può avere dei seguaci, ma è insostituibile.» «Grazie» disse piano Juno. Intanto Charlotte si stava domandando se nel suo cervello passassero le sue stesse riflessioni. Quest'uomo era un imbecille, un ingenuo entusiasta o il più superbo degli attori? Più lo osservava, meno lo capiva. In lui non trovava niente delle deliberate minacce che aveva intuito nei discorsi di Gleave, ma piuttosto una passione e un'intelligenza totali e piene di dedizione. Ma Juno non intendeva arrendersi con tanta facilità. «Signor Dismore, non so dirvi quanto vi sarei grata se potessi vedere ciò che avete di Martin, e portarlo a casa con me. Soprattutto vorrei poter mettere in ordine quel che ha lasciato e poi offrirvi un ultimo lavoro a suo ricordo. Sempre che, naturalmente, vogliate pubblicarlo. Forse sono presuntuosa a...» «Oh no!» la interruppe lui. «Certo che pubblicherò qualsiasi scritto, e nella miglior forma possibile.» Si allungò a suonare il campanello che aveva sulla scrivania, e all'impiegato che si presentò diede istruzioni di portargli tutte le lettere e i documenti di Martin Fetters. Non appena l'impiegato si ritirò, Dismore, appoggiandosi più comodamente alla spalliera della poltrona, guardò Juno con simpatia. «Sono veramente lieto della vostra visita, signora Fetters. Credo e spero di poter dire, senza mostrarmi impertinente, che ammiro profondamente il vostro spirito e il vostro coraggio, visto che intendete raccogliere il materiale necessario a offrire un tributo alla memoria di Martin. Parlava di voi con un tale rispetto e una tale ammirazione che è un piacere per me vedere come la sua non fosse soltanto la voce di un marito affettuoso, ma anche quella di uno squisito giudice di caratteri.» Le guance di Juno si colorirono lievemente e i suoi occhi si colmarono
di lacrime. Charlotte spasimava dalla voglia di consolarla, ma capiva che non c'era consolazione possibile. Dismore era innocente oppure parlava con la crudeltà più sottile e raffinata, e più lo osservava, meno sicura si sentiva di quale fosse la spiegazione più plausibile. Adesso era seduto quasi sull'orlo della poltrona, gli occhi accesi di entusiasmo, ogni parola che pareva vibrare di una dedizione quasi fanatica. C'era davvero da pensare che il suo ardore per una riforma repubblicana fosse una finzione per nascondere le idee di un monarchico capace di arrivare fino all'assassinio per tenere occultata la congiura di Whitechapel? E la sua passione per una riforma della legge nascondeva realmente un'ossessione tanto spietata da renderlo capace di smascherare quella stessa congiura per scatenare una rivoluzione con tutta la sua violenza e il suo dolore? Il materiale richiesto venne portato in una busta e Dismore lo passò senza esitazione a Juno. Era onestà, la sua, oppure aveva già letto accuratamente quelle carte dalla prima all'ultima? Juno le accettò con un sorriso forzato, tanto le riusciva difficile conservale tutto il suo autocontrollo. Le guardò appena. «Vi ringrazio, signor Dismore. Naturalmente vi restituirò tutto quello che potrebbe meritare di essere dato alle stampe.» «Sì, ve ne prego. Anzi, mi piacerebbe moltissimo vedere tutto quanto avete d'altro, e quello che eventualmente potreste scoprire ancora. Magari potrebbe esserci qualcosa di prezioso che a prima vista può non sembrare tale. A ogni modo grazie di essere venuta, signora Fetters. Sono sicuro che riusciremo a mettere insieme un articolo che possa diventare il miglior ricordo di vostro marito. Era un grand'uomo, possedeva intuito e genialità, e aveva il coraggio di usarli. È stato un privilegio conoscerlo e aver anche fatto parte di quanto ha realizzato. Piango la sua scomparsa con voi.» Juno era rimasta immobile, gli occhi sbarrati. «Grazie, signor Dismore» disse piano. Quando furono fuori, a bordo del primo hansom di passaggio, si volse verso Charlotte stringendo quella busta fra le mani. «Le ha lette, e non c'è niente. Secondo voi sono incomplete? E lui si è tenuto il resto? È repubblicano, sono pronta a giurarlo.» «Non so» Charlotte ammise. Sostanzialmente, il vero carattere di Dismore continuava a sfuggirle. Si sentiva meno sicura di lui adesso. Percorsero l'intero tragitto fino a casa di Juno in silenzio, poi esaminarono tutto quanto Dismore le aveva consegnato: vivace, intenso, scritto magnificamente, pieno di passione e di ansia di giustizia. Ma niente, in quel nuovo
materiale, lasciava pensare che fosse stato al corrente dei delitti di Whitechapel, del loro motivo o di un qualsiasi piano in cui coinvolgere Remus per rivelarli. Charlotte lasciò Juno assorta a leggerlo e rileggerlo, estenuata per la commozione ma nello stesso tempo incapace di smettere. Si avviò alla fermata dell'omnibus con una gran confusione nel cervello. Non poteva parlare con Pitt, mentre sarebbe stato quello che voleva più di tutto il resto. Tellman conosceva molto poco il mondo in cui vivevano persone come Dismore, Gleave o gli altri che potevano occupare una posizione importante ai vertici della Confraternita. L'unica persona di cui sapeva di potersi fidare era la zia Vespasia. Ebbe fortuna perché la trovò in casa, e senza compagnia. Vespasia accolse Charlotte con affettuoso calore, poi la scrutò in faccia e si dispose ad ascoltarla in silenzio mentre tutta la storia le veniva svelata. Sedeva immobile, e la luce che entrava dalle finestre metteva in risalto le rughe sottili della sua pelle, accentuando la forza che c'era in lei, ma anche il passare degli anni. L'età aveva temperato il suo coraggio, ma l'aveva anche fatta soffrire rivelandole troppo delle debolezze e dei fallimenti altrui, come anche delle loro vittorie. «Gli omicidi di Whitechapel» disse piano con la voce resa rauca da un orrore che non avrebbe mai immaginato di poter provare. «E questo Remus troverà le prove e venderà il suo articolo ai giornali?» «Sì... Così, almeno, dice Tellman. Sarà la storia più clamorosa del secolo. Probabilmente cadrà il governo, e quasi di sicuro la monarchia vena abbattuta. Non c'è niente che noi possiamo fare?» «Non so. Ci occorre sapere chi è la persona che sta dietro Remus e lo guida in questa ricerca, e qual è la parte che Dismore e Gleave vi giocano. Cos'andava a fare Adinett in Cleveland Street? Cercava informazioni per Remus oppure voleva impedirgli di trovarle?» «Voleva impedirglielo» replicò Charlotte. «Credo che...» Ma poi si rese conto di quanto poco sapesse. In gran parte erano supposizioni e paure, le sue. Che ci fossero coinvolti Fetters e Adinett era assodato; ma lei continuava ancora a non sapere fino a che punto. Parlò a Vespasia della visita di Gleave e della sua smania di trovare le carte di Martin Fetters. Le descrisse il senso di minaccia che aveva provato in sua presenza, ma Vespasia non aprì bocca e si limitò ad ascoltarla attentamente. Poi le raccontò che Juno era persuasa che ci fossero nuovi documenti e accennò alla visita a Thorold Dismore il quale doveva essere un repubblicano convinto, decisissimo
a usare tutto quel che poteva trovare, o creare, pur di vedere realizzati i suoi scopi. «È possibile» confermò Vespasia. Le rivolse un pallido sorriso, ma in fondo ai suoi occhi si poteva leggere un'infinita tristezza. «Non è una causa indegna. Io non sono d'accordo, ma posso capire molto di quel che vorrebbe vedere realizzato, e ammiro chi l'ha abbracciata.» C'era qualcosa nel suo tono che impedì a Charlotte di mettersi a discutere; si sentì improvvisamente sola e dispiaciuta perché Vespasia era più vecchia di lei, perché tanta parte della sua vita le era sconosciuta, e nel modo più totale. «Lascia che ci pensi. Intanto, mia cara, stai molto, molto attenta. Cerca di sapere tutto quanto puoi senza correre rischi. Quelle sono persone che non ci mettono niente a uccidere pur di realizzare i loro scopi. Credono che il fine giustifichi i mezzi.» Charlotte ebbe la sensazione che quella stanza così luminosa fosse improvvisamente diventata buia, che fosse scesa la notte con il suo gelo sottile. Si alzò in piedi. «Senz'altro. Ma devo dirlo a Thomas. Ho... ho bisogno di vederlo.» Vespasia sorrise. «Certamente. Vorrei poterlo vedere anch'io, ma capisco che è un'idea irrealizzabile. Salutalo per me, ti prego.» D'impulso, Charlotte si chinò ad abbracciarla e la strinse forte a sé. La baciò su una guancia. Si lasciarono così, senza dirsi più una sola parola. Charlotte tornò a casa passando dall'alloggio di Tellman, e con grande costernazione della sua padrona aspettò per una buona mezz'ora che tornasse da Bow Street. Senza tanti preliminari lo pregò di accompagnarla, la mattina dopo, a un incontro con Pitt lungo la strada che lui faceva per andare al laboratorio del setaiolo. Tellman protestò, sostenendo che era pericoloso, ma anche perché Pitt non avrebbe sicuramente voluto vederla andare in un quartiere come Spitalfields. Lei gli rispose che stava perdendo il suo tempo, con tutte quelle obiezioni senza significato. Ci sarebbe andata con lui, o senza di lui. «Sarò davanti alla porta, in Keppel Street, domattina alle sei. Prenderemo un hansom fino alla stazione della metropolitana» le disse allora lui in tono grave. «E di lì raggiungeremo Whitechapel. Mettete abiti vecchi e scarpe comode per camminare. E fatevi prestare uno scialle, magari, per nascondervi i capelli; così vi noteranno meno e assomiglierete di più alle donne del quartiere.» Tornata a casa, salì di corsa al piano di sopra e si lavò i capelli, anche se sapeva di doverli nascondere sotto uno scialle; poi li spazzolò fino a farli
diventare lucenti. Andò a letto presto, ma si accorse di essere troppo eccitata per aver sonno, e riuscì ad addormentarsi soltanto quando mezzanotte era già passata da un pezzo. Al mattino si svegliò tardi e dovette fare tutto in fretta e furia. Ci fu appena il tempo per una tazza di tè, che bevve bollente, perché Tellman stava già bussando alla porta. Dietro di lui s'intravedeva la sagoma scura di una vettura a nolo. Le sembrò sciupato, con la faccia scarna e tirata. Per la prima volta si rese conto che doveva essere stato duramente colpito dal fatto che il suo capo fosse caduto in disgrazia. «Grazie» gli disse a bassa voce quando lui l'accompagnò attraverso il marciapiede umido e le diede la mano per aiutarla a salire in vettura. Il percorso fu compiuto in silenzio per le strade illuminate dalla luce limpida e grigia del mattino, che strappava qualche tenue riflesso dalle finestre delle case e dalle vetrine dei negozi. C'era già molta gente in giro: domestiche, garzoni che consegnavano la merce, carrettieri che portavano ortaggi freschi ai mercati. Il treno della metropolitana, con il suo rombo che assordava sotto le buie gallerie, non consentiva di fare un po' di conversazione, ma Charlotte era soprattutto assorta, e piena di aspettativa, al pensiero di rivedere il marito. Erano passate appena poche settimane, eppure si allungavano dietro di lei come un vuoto, un deserto. Cercava d'immaginare che aspetto avrebbe avuto la sua faccia, se sarebbe stato stanco, sano o malato, e felice di vederla. Il treno, con un sobbalzo, si arrestò nella stazione. Erano ad Aldgate Street. Bisognava fare a piedi il resto del percorso. Qui le strade erano più sporche, più congestionate di carretti e carri e gruppi di operai che andavano al lavoro, qualcuno che marciava a testa bassa, qualche altro che chiacchierava ad alta voce. C'era davvero una strana tensione nell'aria oppure era lei a immaginarla perché conosceva la storia del quartiere e si sentiva impaurita? Si tenne ben vicina a Tellman quando lasciarono la High Street svoltando a nord. Lui le aveva detto che dovevano raggiungere Brick Lane, perché Pitt sarebbe passato di lì mentre andava al setificio. Questa era Whitechapel. Tellman camminava a passo rapido per non sembrare diverso dagli uomini che si affrettavano a raggiungere gli zuccherifici, i magazzini e laboratori. Lei si vide costretta a trotterellargli dietro. Si udì uno scoppio di rauche risate. Qualcuno mandò in pezzi una bottiglia e il tintinnio dei vetri la fece trasalire, perché pensò subito all'arma che sarebbe diventato, con quelle punte aguzze. Ecco, adesso erano in Brick Lane. Tellman si fermò e lei se ne chiese il motivo. Poi, con un tuffo al cuore, vide il marito. Camminava sull'altro la-
to della strada a passo regolare, ma diversamente dagli altri uomini si voltava a guardarsi in giro, tendeva l'orecchio, osservava. Era male in arnese, trasandato; la giacca, che gli penzolava addosso sbilenca, aveva uno strappo sul dorso. E invece delle bellissime scarpe che Emily gli aveva regalato, indossava quelle vecchie con la suola sinistra staccata dalla tomaia e uno spago al posto delle stringhe. Fu solamente perché il suo modo di camminare le era familiare che lo riconobbe prima che, voltandosi, lui la vedesse. Esitò. Non si aspettava sicuramente di vederla lì, ma forse qualcosa nel suo atteggiamento lo aveva incuriosito. Charlotte si fece avanti e Tellman l'afferrò per un braccio. Per un attimo le diede fastidio e si sarebbe liberata dalla sua stretta se non avesse capito che, attraversando la strada di corsa, avrebbe richiamato l'attenzione dei passanti non soltanto su di sé, ma anche su Thomas. Allora si lasciò tirare indietro. Rimase con un piede sul bordo del marciapiede, rossa in faccia per l'imbarazzo. Ma anche quel piccolo movimento era bastato. Lui la riconobbe. Li raggiunse e, limitandosi a un cenno della testa come saluto verso di lei, si rivolse a Tellman. «Cosa state facendo qui?» mormorò con voce tremante di emozione. «Cos'è successo?» Charlotte lo fissava con gli occhi sgranati, cercando di imprimersi ben bene in mente ogni linea del suo viso. Sembrava stanco. Per quanto rasato di fresco, aveva la pelle grigia e gli occhi infossati. Si sentì il cuore stretto, si accorse di spasimare per la smania di consolarlo, riportarselo a casa, al calduccio di una cucina pulita... ma soprattutto di poterlo stringere fra le braccia. Ma più urgente di quello era la necessità di dimostrare alla gente che lui aveva avuto ragione, di provarlo in modo tale che tutti fossero costretti a riconoscerlo. «Sono successe molte cose» stava dicendo Tellman a bassa voce. «Io non so tutto, così è meglio che sia la signora Pitt a raccontarvelo. Ma sono cose che dovete sapere.» Pitt colse un fremito di paura nella voce di Tellman, e la sua rabbia svanì. Si volse a guardare Charlotte. Lei avrebbe voluto domandargli come stava, ma soprattutto fargli capire che lo amava, soffriva per la sua lontananza e sentiva profondamente la solitudine. Invece cominciò con quello che aveva ripassato mentalmente, e fu molto succinta, molto pratica. «Sono stata a trovare la vedova di Martin Fetters...» E senza badare all'espressione sbalordita che era apparsa sulla faccia di suo marito, si affrettò a continuare prima che lui potesse interromperla. «Volevo scoprire perché è stato ucciso. Dev'esserci una ragione...»
Tellman, impacciato, cominciò a dondolare, passando col peso del corpo dall'uno all'altro piede. Pitt si tirò un po' indietro come se volesse far credere che Charlotte era in compagnia di Tellman. Ma non potevano rimanere lì ancora molto, altrimenti i passanti li avrebbero notati e lui avrebbe corso rischi ancora più grossi di prima. «Ho letto gran parte dei suoi articoli, dei suoi documenti» riprese lei, sempre più asciutta. «Era un repubblicano fervente, pronto perfino ad aiutare chi voleva la rivoluzione. Credo che questo sia stato il motivo per cui Adinett lo ha ucciso, quando ha scoperto quali erano le sue intenzioni. Immagino che non osasse fidarsi della polizia. Potevano anche non credergli... o peggio, avere una parte nei preparativi della rivoluzione.» Pitt era allibito. «Fetters sarebbe stato...» Respirò a fondo mentre gli si faceva sempre più chiaro nella mente quel che Charlotte stava dicendo. «Vedo.» Rimase in silenzio per qualche secondo, fissandola bene in faccia come se volesse ricordarne ogni particolare, e magari arrivare a leggerle nel pensiero. Charlotte si scoprì ad arrossire, ma fu un'ondata di piacevole calore che la toccò fin nel suo io più segreto. «In questo caso, abbiamo due congiure» disse lui alla fine. «Una che riguarda l'assassino di Whitechapel, per proteggere il trono a ogni costo, e l'altra dei repubblicani per rovesciarlo, anche loro a qualsiasi costo. E forse questa è ancora più terrificante. E noi non siamo sicuri di chi sia schierato nell'uno o nell'altro campo.» «Ho raccontato tutto a zia Vespasia.» «E lei cos'ha detto?» «Di non correre rischi» rispose Charlotte amareggiata. «D'altra parte, io non posso far altro che continuare a cercare il resto delle carte di Fetters. Juno è convinta che ce ne siano ancora.» «Non chiederlo a nessun altro! Non parlarne!» «Non lo farò» promise lei. «Non parlerò con nessun altro. Mi limiterò ad andare a farle visita e continuerò a cercare là, in casa sua.» Lui si lasciò sfuggire un lento respiro. «Devo andare.» Charlotte rimase immobile, con una gran voglia di toccarlo, ma la strada era piena di gente. Già qualcuno li stava osservando. Anche se era uno sbaglio, fece un passo avanti. Tellman la prese per un braccio e la tirò indietro. Le sue dita le fecero male. Pitt sospirò. «Per favore, stai attenta, e di' a Daniel e Jemima che gli voglio bene.» Lei fece segno di sì con la testa. «Lo sanno.» Pitt esitò per un attimo, poi girò le spalle attraversando la strada e allontanandosi da loro, senza più
voltarsi. «Venite» disse Tellman, su tutte le furie. «Scusatemi» mormorò Charlotte e lo seguì buona buona verso Whitechapel High Street. Ma il suo passo era più leggero, e le pareva di sentirsi circondata da un piacevole calore. Thomas non l'aveva neanche toccata con la punta di un dito, e neanche lei, ma l'espressione dei suoi occhi era già stata quella, di per sé, una carezza. Vespasia non amava Wagner in modo particolare, ma l'opera, qualsiasi opera, era una splendida occasione e aveva sempre un certo fascino. Dal momento che l'invito le era stato fatto da Mario Corena, lo avrebbe accettato anche se si fosse trattato di fare tutta High Street a piedi sotto la pioggia. Lui era venuto a prenderla alle sette e avevano fatto il tragitto comodamente e senza fretta, con la carrozza che aveva noleggiato per la serata. Adesso stava sorridendo e i raggi del sole del tramonto, filtrando dal finestrino, gli illuminavano a tratti la faccia. Vespasia pensò che il tempo era stato gentile con lui. La sua pelle era ancora liscia, le rughe non la segnavano di amarezza, a dispetto di quanto era stato perduto. Forse non aveva mai rinunciato a sperare, e se una causa sembrava finita in nulla, aveva riversato le sue speranze su un'altra. Ricordava le lunghe sere dorate a Roma mentre il sole tramontava sulle antiche rovine della città. Ricordava come avessero camminato sulle strade di quello che, un tempo, era stato il centro del mondo, calpestate dai piedi di ogni popolo della terra venuto a rendere omaggio. Ma quella era stata l'epoca dell'Impero. Mario, che si era fermato su uno dei più antichi ponti sul Tevere, guardando la luce che giocava sull'acqua le aveva parlato dell'antica repubblica con una voce che la passione rendeva rauca. Ecco quel che lui aveva amato, la semplicità e l'onore con cui i Romani avevano cominciato la vita politica, prima che l'ambizione li dominasse e il potere li corrompesse. Col pensiero del potere e della corruzione, le tornarono in mente le viuzze buie di Whitechapel, le donne sole, lì ad aspettare, che udivano il rumore sordo delle ruote di una carrozza dietro di loro, si voltavano a scrutarne la sagoma di un nero più intenso nelle tenebre qua e là smorzate da un po' di luce, poi lo sportello che si apriva, la vista di una faccia per un attimo e il dolore. Pensò al povero Eddy, una pedina spostata di qua e di là, i suoi sentimenti sfruttati e calpestati in un mondo di cui udiva soltanto qualcosa, e forse capiva appena una metà.
Si stavano avvicinando al Covent Garden. Una ragazzina sull'angolo offriva ai passanti un mazzolino di? fiori già un po' appassiti. Mario fece fermare la carrozza, scese, si avvicinò alla ragazzina. Comprò i fiori e tornò tenendoli in pugno, con un sorriso. Erano polverosi, gli steli penzoloni, i petali accartocciati. «Sono già un po' sfioriti» disse ironico. «E li ho pagati anche troppo!» I suoi occhi ridevano, ma erano anche velati di tristezza. Lei li accettò. «Non potrebbero essere più adatti» rispose ricambiando il suo sorriso, ma con la gola chiusa. La carrozza ripartì. «Mi spiace che sia Wagner» commentò lui, prendendo posto di nuovo sul sedile. «Non riesco mai a prenderlo seriamente come dovrei. Gli uomini che non sanno ridere di se stessi mi spaventano più di quelli che ridono di tutto.» Vespasia lo guardò e capì fino a che punto le sue parole fossero sincere. La sua voce era vibrante come lei la ricordava all'epoca di quelle torride e terribili giornate dell'assedio, prima della fine. Soltanto in quelle notti, quando tutto quello che si poteva fare era stato fatto e non restava che aspettare, si erano resi conto che alla fine non avrebbero potuto vincere. «Ridono e sbeffeggiano perché non capiscono.» Lui la guardò come faceva sempre, come se al mondo non ci fosse che lei: «A volte, sì, è vero» ammise. «Ma è molto peggio quando lo fanno perché capiscono, ma odiano quel che non possono avere.» Sorrise. «Non c'è odio sulla terra simile a quello che si prova per qualcuno che possiede una virtù o un pregio che non hai, o che vorresti avere. È lo specchio che ti mostra quel che sei, e ti obbliga a osservarlo.» D'impulso Vespasia allungò una mano posandola su quella di lui. Le sue dita la strinsero subito, calde e forti. «A chi stai pensando?» gli domandò. «Non a un uomo, mia cara, quanto piuttosto a un'epoca. Tutto questo non può durare: lo sperpero, l'ineguaglianza, la prodigalità. Guarda tutte queste cose belle e ricordale, perché hanno un grande valore e molte di esse scompariranno. Appena un po' di saggezza e di moderazione, e avrebbero potuto conservare tutto. Ecco il guaio...» Prima che lei potesse insistere per saperne di più, la carrozza si arrestò e Mario scese, porgendole la mano per aiutarla. Videro Charles Voisey fermo, in piedi, impegnato in una discussione con James Sissons, che aveva l'aria concitata, e appena Voisey esitava un po', lo interrompeva. «Oh, povero Voisey» disse Vespasia ironicamente.
«Credi che sarebbe un dovere morale, per noi, andare a salvarlo?» «Salvarlo?» «Dall'uomo degli zuccherifici. È un seccatore formidabile.» Sulla faccia di Mario si disegnò una compassione dolente, un rammarico che fece sentire acuto a Vespasia il desiderio di cose che non avrebbero più potuto essere, come quegli anni lontani a Roma, salvo nei sogni. «Non sai niente di lui, mia cara, niente dell'uomo che c'è sotto quelle apparenze impacciate e goffe. Merita di essere giudicato per il suo cuore, non per il garbo del suo comportamento... o la sua mancanza.» Vespasia osservò che Voisey aveva un posto quasi di fronte a loro; ma non vide più Sissons. Avrebbe voluto godersi la musica, lasciare che la mente e il cuore fossero in una totale comunione con Mario almeno per quelle poche ore, ma non riusciva a dimenticare tutto ciò che Charlotte le aveva riferito. Aveva piena fiducia nel cuore di Mario. Perfino dopo tutti quegli anni non riusciva a convincersi che fosse cambiato così tanto. I sogni di cui viveva erano strettamente intessuti nella trama del suo spirito. Della sua testa, invece, non si fidava. Era un idealista, e aveva troppo l'abitudine di vedere il mondo a grandi linee sommarie, come avrebbe desiderato che fosse, senza lasciare che l'esperienza gli offuscasse la speranza o gli insegnasse qual era la realtà. Scrutò la sua faccia ancora piena di passione e di illusioni e seguì il suo sguardo rivolto al palco reale, che quella sera era vuoto. Probabilmente il principe di Galles aveva preferito, per divertirsi, qualcosa di un po' meno serio di una meditazione sulla sorte, già segnata, degli dei del Valhalla. «Hai scelto di proposito il Crepuscolo degli dei?» Qualcosa nella sua voce attirò l'attenzione di Mario, forse la gravità del tono. Non c'era l'ombra di un sorriso nei suoi occhi quando le rispose. «No... ma potrebbe esserlo. È il crepuscolo, Vespasia, per quegli dei dai molti difetti che hanno sprecato le loro opportunità, sperperato troppo denaro, che non era loro, e buttato prodigalmente ai quattro venti, oltre ad averne preso a prestito altro che non è stato restituito. Uomini buoni moriranno di fame per questo. Ecco quello che fa rovesciare il trono dei re.» «Ne dubito.» Vespasia scoprì che contraddirlo non le dava nessuna gioia. «Il principe di Galles deve talmente tanti soldi a tutti e da così tanto tempo che ormai quella che rimane è soltanto una rabbia infiacchita, non abbastanza violenta per ciò di cui stai parlando.» «Dipende da chi lo ha preso a prestito» disse lui in tono grave. «Da persone ricche, banchieri, speculatori o cortigiani; in un certo senso hanno
corso rischi che conoscono e potremmo pensare che si meritano la loro sorte. Ma è diverso se chi li ha prestati rischia il fallimento e trascina altri nella propria rovina.» Le luci stavano diventando più fievoli e un silenzio calò nel teatro. Vespasia quasi non se ne accorse. «Ed è quel che potrebbe succedere, Mario?» L'orchestra suonò le prime note, piene di sinistri presagi. Lei sentì la mano di lui che la sfiorava dolcemente nel buio. Quanta forza c'era ancora in lui. Eppure, per tante volte che l'aveva toccata, non le aveva mai fatto male, le aveva solo spezzato il cuore. «Naturale che succederà» le rispose. «Il principe è avviato alla distruzione come uno degli eroi di Wagner, e trascinerà tutto il Valhalla con sé nella rovina.» Il sipario si alzò e apparve sul palcoscenico un elaborato scenario. Alla sua luce Vespasia guardò Mario, e vide la speranza rivelarsi sulla sua faccia, il coraggio di riprovare a dispetto di tutte le battaglie perdute, e ancora la mancanza di generosità di un tempo che lo rendeva incapace di augurare la vittoria ad altri. Per amor suo, Vespasia avrebbe quasi voluto augurargli il successo. Uria corruzione d'antico stampo ormai era radicata e, in molti casi, faceva parte della vita come l'ignoranza, non la cattiveria deliberata e la crudeltà, ma la cecità soltanto. Poteva capire le argomentazioni di Charles Voisey contro i privilegi ereditari, ma conosceva la natura umana abbastanza bene per essere convinta che l'abuso di potere non rispettava nessuno, e toccava un sovrano come l'uomo della strada. «Tiranni non si nasce, mio caro» disse piano. «Sono le opportunità a crearli, qualsiasi titolo o diritto legittimo vogliano dare a se stessi.» Mario le sorrise. «Hai un giudizio troppo meschino dell'uomo. Devi avere fede.» Lei inghiottì le lacrime che le facevano groppo alla gola e non ribatté. 11 Dopo aver lasciato Charlotte, Pitt proseguì verso lo zuccherificio. L'odore greve, un po' nauseante, lo prese alla gola, ma neanche il pensiero di dover affrontare un turno di guardia riuscì a cancellare la felicità prorompente che gli aveva procurato la vista di sua moglie. Oltrepassò il cancello sentendosi incombere addosso l'enorme caseggiato. Ma gli bastava solo sapere se avrebbero avuto bisogno dei suoi servizi, per quella notte.
«Come no, di sicuro!» disse il guardiano più anziano in tono gioviale. Aveva l'aria stanca, gli occhi celesti offuscati. «D'accordo» disse Pitt senza entusiasmo. «Come sta tua moglie?» «Male.» «Mi dispiace.» Pitt era sincero. Glielo chiedeva sempre, e la risposta poteva variare da un giorno all'altro, ma si stava spegnendo, e lo sapevano tutti e due. Si fermò a chiacchierare ancora qualche minuto. Wally era sempre solo, e aveva bisogno di qualcuno che lo ascoltasse per sfogarsi un po'. Quella sera rientrò in Heneagle Street più presto del solito. Isaac non era in casa e Leah trafficava in cucina. «Siete voi, Thomas?» gli chiese. Lui poteva sentire un profumo intenso delle erbe con le quali insaporiva le pietanze. Adesso si era abituato e a poco a poco cominciavano a piacergli. «Avete fame? Dovreste mangiare di più» continuò lei «E non lavorare sempre fin tardi allo stabilimento non vi fa bene alla salute.» Le sorrise. «Sì, ho fame, e stasera mi tocca il primo turno di guardia.» «Allora venite a mangiare.» Dopo cena, Pitt raggiunse lo zuccherificio ed entrò nel cortile contemporaneamente a Wally. «Ah, eccoti qui di nuovo!» disse Wally tutto allegro. «Ma cosa te ne fai di tanti soldi, eh? Seta di giorno e zucchero di notte. Sai cosa ti dico? Ci dev'essere qualcuno che se la passa bene con il tuo lavoro, eh?» «Sì, io... un giorno» rispose Pitt strizzandogli l'occhio. Wally rise. «Senti un po', mi hanno raccontato una storiella niente male di un fabbricante di candele e una vecchia.» E senza metter tempo in mezzo, cominciò a raccontarla con visibile piacere. Un'ora più tardi Pitt fece il primo giro di ronda della zona che gli avevano destinato e Wally si avviò nella direzione opposta. C'era ancora al lavoro una parte del personale, ma in formazione ridotta. Le caldaie andavano giorno e notte, e lui eseguì un controllo in ogni locale arrampicandosi per le ripide e strette rampe di scale, da un piano all'altro. I locali erano piccoli, i soffitti bassi, le finestre di proporzioni ridotte, e ovunque si vedevano tini e vasche, storte, enormi bollitori a conca e bacinelle larghe più di un metro. I pochi uomini ancora al lavoro si voltarono a guardarlo e lui, scambiata qualche parola con qualcuno di loro, continuò il suo giro d'ispezione. Mezz'ora dopo tornò da Wally a fargli rapporto. Misero a bollire un bricco pieno d'acqua sul braciere, in cortile all'aperto, e sedettero sui vecchi fusti in cui lo zucchero grezzo arrivava dalle Indie Occidentali a sor-
seggiare tè e a scambiarsi battute e storielle. Un paio di volte notarono qualche movimento nell'ombra. La prima volta Wally andò a indagare e ritornò a riferire che doveva essere stato un gatto. La seconda volta fu Pitt che andò a dare un'occhiata e trovò uno degli addetti alle caldaie addormentato dietro un mucchio di barili. Poi fecero ognuno il proprio giro di ronda e dopo un po' un altro ancora. A un certo momento Pitt vide, mentre stava andandosene, un individuo che non seppe riconoscere. Gli sembrava più vecchio della maggioranza degli operai, ma vivere a Spitalfields faceva invecchiare presto. Fu piuttosto il viso dai lineamenti forti, l'ossatura elegante, la carnagione scura, a richiamare la sua attenzione. Lo sconosciuto evitò di guardarlo girando la testa dall'altra parte e limitandosi ad alzare una mano in un rapido gesto di saluto. Per un attimo la luce strappò un bagliore dall'anello che portava, adorno di una pietra scura. Quando Pitt tornò nel cortile e trovò Wally che aveva messo di nuovo il bricco sul braciere. «Sono molti quelli che finiscono il turno a quest'ora, e se ne vanno?» gli domandò. Wally alzò le spalle. «Qualcuno. È un po' presto, ma... poveracci... Tanto, anche se si fermano di più, nessuno li ringrazia, sai? Vanno a casa e si ficcano a letto, secondo me. Anche a me non dispiacerebbe un bel letto caldo. Ehi, a proposito, ti ho mai raccontato di quando ho risalito il canale fino a Manchester?» E senza aspettare risposta gli snocciolò la sua storia. Due ore più tardi Pitt si trovava a metà circa del giro di ronda successivo e stava perlustrando, a uno a uno, i locali del piano superiore quando arrivò in fondo al corridoio e vide, socchiusa, la porta dell'ufficio di Sissons. Ebbe l'impressione che non lo fosse stata, al momento del suo passaggio precedente. Che qualche operaio ci fosse entrato? La spalancò, sollevando la lanterna. Era una stanza più ampia delle altre e di lassù, al sesto piano del caseggiato, nella tenue luce che precede l'alba, ne poteva scorgere oltre le cime dei tetti, il riflesso argenteo sulla superficie luccicante del fiume. Tenendo sempre alta la lanterna, si girò lentamente, guardandosi intorno. Sissons sedeva semi-rovesciato sul ripiano lucido della sua scrivania. Stringeva una rivoltella nella mano destra e sotto di lui, sul legno e il cuoio, si allargava un lago di sangue. Ma quello che si notava subito, e di un candore abbagliante quando il cono di luce della lanterna vi si posò, era un foglio di carta intatto, senza una sola macchia. Il calamaio si trovava a destra, sulla scrivania, la penna d'oca appoggiata nell'apposita scanalatura e, vicino, il raschietto. Agghiacciato, provando un vago senso di nausea, Pitt con due passi si accostò, badando bene di non spostare niente, ma non
riuscì a vedere né impronte di piedi sul pavimento nudo, né gocce di sangue. Toccò una guancia di Sissons. Era quasi fredda. Doveva essere morto da due o tre ore. Girò intorno alla scrivania e lesse il messaggio. Era scritto con caratteri nitidi, che rivelavano una certa pedanteria: Ho fatto tutto quello che potevo, e ho fallito. Ero stato messo in guardia, e non ho voluto ascoltare. Nella mia idiozia credevo che un principe del sangue, erede al trono d'Inghilterra, non avrebbe mai mancato alla sua parola d'onore. Gli ho prestato del denaro, tutto quanto sono riuscito a mettere insieme a un interesse minimo, e a un termine fisso. Credevo, così facendo, di poter alleviare l'imbarazzo finanziario di un uomo e, nello stesso tempo, guadagnare quel po' d'interesse che avrei potuto investire di nuovo nella mia impresa, a vantaggio dei miei operai. Sono stato cieco. Lui ha negato addirittura l'esistenza del debito, e io sono finito. Perderò gli stabilimenti. Un migliaio di uomini si ritroveranno disoccupati; periranno tutti insieme, anche quelli che dipendono da loro per il mantenimento. La colpa è mia per aver avuto fiducia in un uomo senza onore. Non posso vivere per assistere a quello che succederà; non posso sopportarlo, e neanche mi sento di affrontare gli uomini che ho rovinato. Non posso che prendere l'unica via che mi rimanga aperta. E che Dio mi perdoni. James Sissons. Vicino a questo messaggio c'era un impegno scritto per la restituzione di ventimila sterline, di pugno del principe di Galles. Pitt fissò i due pezzi di carta e provò un senso di vertigine. Appoggiò le mani sulla scrivania per non cadere. Per Sissons ormai un aiuto non serviva più. Quando fosse entrato il primo impiegato, quando Sissons fosse stato trovato morto e, con lui, fossero stati trovati la lettera e quella specie di cambiale, il danno sarebbe stato ben maggiore di mezza dozzina di candelotti di dinamite. Un prestito non restituito al principe di Galles per scommettere alle corse, bere vino e fare regali alle sue amanti, intanto che a Spitalfields millecinquecento famiglie si ritrovavano nella povertà più nera! Ci sarebbero stati chissà quanti tumulti e tutto l'East End di Londra sarebbe esploso. Quando, poi, a Remus fosse stata fornita l'ultima prova necessaria a svelare che l'assassino di Whitechapel aveva fatto, in realtà, un servizio al trono, a nessu-
no sarebbe interessato che la regina o il principe o chiunque altro ne fosse stato al corrente, o l'avesse voluto; sarebbe scoppiata una rivoluzione. Si allungò a prendere il foglio. Se l'avesse fatto a pezzi nessun altro all'infuori di lui lo avrebbe mai saputo. Poi notò, vicino alla lettera, una serie di macchioline d'inchiostro con uno spazio più largo e pulito al centro. Ci volle un momento prima che si rendesse conto di cosa si trattava; poi afferrò il calamaio e ve lo posò accuratamente sopra. Copriva a perfezione quella parte della scrivania che non era macchiata d'inchiostro. Dunque, d'abitudine, il calamaio stava alla sinistra di Sissons. Che fosse stato spostato per dar l'impressione che era destrorso? Con cautela sollevò, rigirandola, la mano sinistra del morto e ne sfiorò delicatamente l'indice e il medio nella parte interna. Sentì subito la cresta callosa che si era creata nel punto dove l'uomo stringeva normalmente la penna. Perché? Il colpo che lo aveva ucciso era stato sparato sul lato destro della sua testa, poi qualcuno si era accorto troppo tardi che lui era mancino. Un assassinio eseguito in modo da farlo apparire come un suicidio... Ma chi era stato? Per quello che lo riguardava, doveva provvedere che ci si accorgesse subito che li dentro era stato commesso un omicidio. Se avesse fatto scomparire la rivoltella, buttandola in una delle vasche di zucchero, sarebbe diventato impossibile negarlo. Questa metà della congiura, in tal modo, poteva essere messa a tacere. E allora, se anche Remus avesse svelato l'altra storia, lì a Spitalfields il furore popolare non sarebbe esploso. Certo, la rabbia e il livore ci sarebbero stati, ma contro Sissons, non contro la monarchia. Pitt si chiese cosa voleva in realtà? Rimase con la mano a mezz'aria sopra la lettera. Se il principe di Galles si era fatto prestare del denaro per le sue prodigalità, senza poi restituirlo, meritava certamente che il trono venisse rovesciato, che gli togliessero tutti i suoi privilegi... Esisteva davvero una giustizia se lui avesse nascosto un egoismo così mostruoso, una mancanza di responsabilità così criminale, perché il colpevole era il principe di Galles? Si sarebbe reso complice delle sue colpe. Aveva il cervello in tumulto, eppure, mentre le idee più contrastanti ci passavano e ripassavano, lasciandolo nella confusione più totale, la sua mano si chiuse sul foglio di carta. Lo appallottolò, poi lo allargò di nuovo e lo stracciò, riducendolo in minutissimi pezzi. Quindi, senza sapere bene perché lo facesse, si infilò sotto la camicia l'altro foglio di carta con la dichiarazione con cui ci si impegnava a saldare il debito. Tremava dalla testa ai piedi, era coperto da un
sudore gelido. Adesso non c'era modo di tornare indietro. Se questo doveva risultare apertamente un assassinio, bisognava farlo apparire tale con ogni mezzo. Aveva un'esperienza abbastanza vasta in merito per sapere come la polizia avrebbe agito. C'era del denaro nel suo ufficio? Bisognava dare l'impressione che qualcuno avesse frugato dappertutto. In fretta, tirò fuori i cassetti della scrivania e ne rovesciò il contenuto sul pavimento, poi passò agli armadi dell'archivio. C'era solo la piccola cassa. Scoprì di non avere il coraggio di portarsi via anche una somma tanto modesta. Così la nascose nell'incavo sotto uno dei cassetti, che poi si affrettò a mettere di nuovo a posto. Sfogliò un fascio di altre carte e documenti per vedere se ci fosse qualcosa d'altro riguardo al prestito fatto al principe. Gli parve che interessassero solamente lo stabilimento e il ritmo di lavoro giornaliero, ordini e ricevute... Poi gliene passò fra le mani uno che attirò i suoi occhi perché ne riconosceva la grafia. Leggendolo, si sentì agghiacciare. Mio caro amico, è nobilissimo il sacrificio che state facendo per la causa. Non mi stancherò mai di ripetere quanta sia l'ammirazione che avete suscitato fra i vostri compagni. La vostra rovina per mani di una certa persona appiccherà un fuoco che non potrà mai venire estinto. La sua luce rifulgerò su tutta l'Europa e il vostro nome verrà ricordato con venerazione come eroe del popolo. Molto tempo dopo che la violenza e la morte saranno dimenticate, a vostra memoria rimarranno la pace e la prosperità di quegli uomini e donne che verranno dopo di voi. Vostro, con il più profondo rispetto. Era firmato con un ghirigoro della penna che avrebbe potuto essere interpretato in mille modi diversi. Quello che balenò nel cervello di Pitt come la vampata di un'esplosione fu il fatto che colui che scriveva era al corrente della rovina di Sissons e molto probabilmente perfino della sua morte. Anche questa lettera andava distrutta, e subito. La fece a pezzi. Non c'era tempo di liberarsene, ma almeno così sarebbe stata illeggibile. E adesso doveva trovare l'occasione adatta per buttare le due lettere ridotte in minuti frammenti, e la rivoltella in una delle vasche dello zucchero. Ma già mentre si stava avviando alla porta, ricordò dove avesse visto quella grafia. Durante le indagini sulla morte di Martin Fetters... era la scrittura di John
Adinett! Rimase impietrito, e per un attimo lo colse un senso di vertìgine. Udì un rumore di passì, quelli di Wally, quasi alla porta. Adinett era informato del piano per rovinare Sissons e gli aveva fatto i suoi elogi in proposito. Non era un monarchico, come avevano creduto tutti. Tutt'altro! Ma allora perché aveva ucciso Martin Fetters? La porta si aprì e Wally mise dentro al testa. La lanterna che teneva in mano diede qualcosa di spettrale alla sua faccia, illuminandola dal sotto in su. «Tutto bene, Tom?» «Sissons è morto» rispose Pitt. «Sembra che qualcuno gli abbia sparato. Adesso chiamo la polizia. Tu resta qui e assicurati che non entri nessuno.» Ma era sulle spine, con la rivoltella e le due lettere fatte a pezzi, nascoste in tasca. «Daranno la colpa a noi!» disse Wally, impaurito. «Niente affatto!» replicò Pitt, anche se quello stesso pensiero gli dava la sensazione di avere un macigno al posto dello stomaco. «E comunque, non abbiamo scelta.» Passò davanti a Wally e uscì dalla porta, con la lanterna alta in mano, per guardarsi meglio intorno. Doveva trovare una vasca piena di zucchero per liberarsi della rivoltella. La prima stanza in cui provò ad entrare era occupata da un operaio del turno di notte che alzò gli occhi a guardarlo con la massima indifferenza; la stessa cosa capitò nella seconda. La terza era vuota. Allora alzò il coperchio della vasca e sentì salire, intenso, alle narici l'odore del liquido vischioso. Quei pezzi di carta non ci sarebbero mai affondati senza mescolarlo energicamente, ma pensò che sarebbe stato un rischio troppo alto farsi trovare con quelle lettere strappate addosso. Ce le buttò e si servì della rivoltella per farle girare tino a quando scomparvero; poi buttò anche l'arma e rimase a osservarla mentre affondava lentamente. Appena non la vide più, ritornò nel corridoio e fece di corsa il resto delle scale. Sbucò in cortile, e sempre correndo uscì in Brick Lane avviandosi verso Whitechapel High Street. Trovò l'agente di ronda subito dietro l'angolo. «Ehi! Si può sapere cosa ti prende?» domandò l'uomo, piantandosi di fronte a lui. «Hanno sparato al signor Sissons» disse Pitt con il fiato mozzo. «Nel suo ufficio, nello stabilimento in fondo a Brick Lane. È morto.» Il poliziotto rimase allibito per un momento, poi si riprese. «Allora sarà
meglio mandare a chiamare l'ispettore Harper. Tu chi sei, e come va che hai trovato il signor Sissons? Sei il guardiano notturno?» «Sì. Thomas Pitt. Adesso, là di sopra con lui, c'è Wally Edward. È l'altro guardiano.» «Ho capito. Sai dov'è la stazione di polizia di Whitechapel?» «Sì. Volete che vada io ad avvertirli?» «Sì. Vai e di' che ti manda l'agente Jenkins. Riferisci cos'hai trovato allo stabilimento. Adesso ci vado subito.» Pitt girò sui tacchi e si mise a correre. Era passata quasi un'ora quando si ritrovò nello zuccherificio, non più nell'ufficio di Sissons ma in uno dei locali più spaziosi dell'ultimo piano. L'ispettore Harper era un tipo molto diverso dall'agente Jenkins: piccoletto, con la faccia rincagnata e il mento tozzo. Ormai faceva quasi giorno; fra il fumo dei docks filtrava una luce grigia e il sole era d'argento su quelle curve del fiume che si vedevano sotto di loro, in lontananza. «Bene, e adesso... come vi chiamate? Pitt!» Harper attaccò. «Ditemi con esattezza cos'avete visto e cos'avete fatto. E a ogni modo, cosa facevate nell'ufficio del signor Sissons? Non rientra nei vostri doveri entrare lì dentro, o sbaglio?» «La porta era aperta e non avrebbe dovuto esserlo. Ho pensato che ci fosse qualcosa che non andava. Il signor Sissons era alla scrivania in un lago di sangue. Così ho capito immediatamente che non era soltanto addormentato. Qualche cassetto era semiaperto. Nella stanza non c'era nessuno e le finestre erano chiuse.» «Avete toccato niente?» «No.» «E poi?» Harper lo stava osservando con attenzione. «È stato ammazzato con un colpo di rivoltella, un'arma di qualche genere... E allora dov'è?» Pitt provò un tuffo al cuore perché si stava rendendo conto che Harper voleva insinuare che se l'era presa lui. Si sentì colpevole, in un certo senso, e arrossì. «Non so» rispose, cercando di rendere ferma la propria voce come meglio poteva. «Suppongo che l'avrà portata via con sé, andandosene, quello che gli ha sparato.» «Già. E chi poteva essere? Non siete voi il guardiano notturno? Chi è venuto e poi se n'è andato, dunque? Oppure state dicendo che il colpevole è uno degli operai?» «No!» Wally aprì bocca per la prima volta. «Perché uno qualsiasi di noi
dovrebbe fare roba del genere?» «Non c'è nessun motivo, se avete un po' di buon senso» replicò Harper. «Più probabile che sia stato lui a spararsi e il signor Pitt qui presente si sia preso un ricordino. Magari vuole venderlo per pochi scellini. Era una buona rivoltella?» Pitt alzò a guardarlo occhi pieni di stupore e incrociò uno sguardo che più deciso di così non poteva essere. Gli bastò per rendersi conto, inorridito, che Harper sapeva già cosa avrebbe trovato lì, in quella stanza. Harper era della Confraternita, e aveva tutte le intenzioni di far passare la morte di Sissons per un suicidio. Pitt si ritrovò con la gola chiusa da un nodo, la bocca arida. Harper sorrise. Aveva in mano la situazione e lo sapeva. Jenkins strusciò i piedi per terra, a disagio. «Di questo, non abbiamo nessuna prova, signore.» «Non abbiamo neanche una prova del contrario» disse Harper seccamente, continuando a fissare Pitt. «Vedremo un po' cosa salta fuori dopo aver esaminato lo stato degli affari del signor Sissons.» Wally scrollò la testa. «Non avete nessuna ragione per dire che Tom ha preso la rivoltella... su questo non ci piove!» Gli tremava la voce per la paura, ma aveva l'aria incaponita. «E a ogni modo il signor Sissons non si è sparato perché io ho visto il corpo. Gli hanno sparato da destra, come se fosse abituato ad adoperare quella mano lì. Salvo che si era rotto le dita, e tagliati i... come si chiamano... i legamenti, così non poteva incurvarle... e neanche schiacciare il grilletto di una rivoltella. I dottori, dopo averlo guardato, ve lo potranno dire.» Harper parve confuso e indispettito. Si volse a Jenkins che lo stava fissando con occhi pieni di insolenza. Ma senza aprir bocca. «Bene, allora suppongo che faremo meglio a scoprire chi si è infilato qua dentro zitto zitto, passando sotto il naso di due diligenti guardiani notturni... e ha assassinato il loro padrone. Dico bene?» «Signorsì.» Harper dedicò il resto della mattinata a interrogare non solamente Wally e Pitt su ogni minimo particolare della loro sorveglianza, ma anche tutto il personale del turno di notte e molti degli impiegati che stavano arrivando. Pitt non parlò dell'uomo che aveva visto andar via. Preferì tacere più per istinto che per una ragione dettata dal buonsenso. Non avrebbe mai immaginato di fare qualcosa del genere anche solo ventiquattr'ore prima, ma adesso capiva di ritrovarsi n un mondo tutto nuovo e si rendeva conto, in-
credulo, che da settimane, ormai, aveva cominciato a sentirsi più vicino alla gente comune di Spitalfields che non avevano fiducia nella legge sia perché li proteggeva raramente sia perché non era mai stato catturato l'assassino di Whitechapel. Credeva in tutto quanto Tellman gli aveva detto sulle indagini, su Abberline, perfino sul capo della polizia Warren. I tentacoli di quella congiura si allungavano fino a toccare il trono stesso. Ma non era la stessa congiura che aveva assassinato James Sissons e fatto passare la sua morte come suicidio, oppure forniva a Lyndon Remus informazioni che, una volta completate, avrebbero svelato lo scandalo più grande nella storia della famiglia reale, fatto cadere il governo e crollare la monarchia. Harper faceva parte di questa seconda congiura. Pitt ne era sicuro. Quindi non poteva dirgli niente, all'infuori dello stretto necessario. Secondariamente, la descrizione che poteva fornirgli si adattava con facilità a molte delle persone che conosceva: Saul, oppure Isaac o almeno una dozzina di altri uomini più anziani. E forse avrebbe fatto molto comodo ad Harper servirsene come pretesto per rinfocolare l'antisemitismo. Ai suoi scopi sarebbe stato molto utile gettare sugli ebrei la colpa del fallimento dello zuccherificio. Non era utile come incolpare il principe di Galles, ma sempre meglio di niente. E andò a finire proprio così. Verso mezzogiorno, quando a Pitt venne concesso di andarsene, Harper, suggerendo le risposte più opportune, era finalmente riuscito a ottenere da tre diversi operai del turno di notte la descrizione di un intruso, entrato nello stabilimento, il cui aspetto ormai appariva chiaro e definito: un uomo magro, bruno, con l'aria da ebreo, che portava in mano qualcosa da cui la luna traeva un lieve luccichio... come la canna di una rivoltella, per esempio. Aveva salito le scale a passi furtivi e poco dopo le aveva ridiscese, scomparendo nella notte. Pitt se ne andò nauseato, afflitto e più impotente che mai. Camminando per Brick Lane verso Heneagle Street si accorse di essere anche molto impaurito, una sensazione di cui aveva dimenticato tutto l'orrore. Cambiò strada, e affrettando il passo si diresse verso Lake Street. Se Narraway non c'era, avrebbe chiesto al ciabattino di mandarlo a chiamare. Almeno così avrebbe scoperto da che parte stava schierato. Quando raggiunse Lake Street, incrociò uno strillone che portava in spalla un cartello sul quale c'era scritto che James Sissons era stato ammazzato in una congiura per rovinare Spitalfields; la polizia aveva alcuni testimoni che avevano osservato un uomo bruno e dall'aria forestiera all'interno dello stabilimento, e adesso stava cercando di identificarlo. La parola ebreo non veniva utilizzata, ma
era come se lo fosse. Pitt raggiunse la bottega del ciabattino e lasciò un messaggio dicendo di aver bisogno di parlare a Narraway al più presto. Si sentì rispondere di ripresentarsi di lì a una mezz'ora. Quando tornò indietro, Narraway lo stava aspettando. «Be'?» domandò appena la porta venne richiusa. Ma adesso che era venuto il momento di farlo, Pitt si scoprì indeciso, le mani madide di sudore, il cuore in gola. «Volevate qualcosa? Di che si tratta?» La voce di Narraway era vibrante. Che avesse paura anche lui? Doveva aver saputo dell'omicidio di Sissons e intuito tutto quello che poteva esserci sotto. Anche se avesse fatto parte della Confraternita, una sommossa popolare non doveva essere la sua massima aspirazione. Ma non c'era nessun altro a cui rivolgersi. «Per amor di Dio, figliolo!» esplose l'uomo, gli occhi incupiti, scintillanti, la faccia livida per la stanchezza. «Se avete qualcosa da dire, parlate. Non fatemi perdere tempo!» «Sissons non è stato ucciso nel modo in cui la polizia suppone» disse allora Pitt, senza più sfuggire alle proprie responsabilità. Ormai il dado era tratto. «Sono stato io quello che l'ha trovato, e al primo momento sembrava un suicidio. La rivoltella era lì, nella sua mano destra, e c'era anche una lettera in cui diceva di essersi ucciso perché rovinato da un prestito del quale ora veniva negata l'esistenza.» «Vedo. E cos'è successo di questa lettera?» Pitt provò un tuffo al cuore. «L'ho distrutta. E mi sono anche liberato della rivoltella.» Quanto alla lettera di Adinett, o alla nota con cui il debitore s'impegnava alla restituzione del denaro, non intendeva parlarne. «Perché?» disse Narraway con un filo di voce. «Perché il prestito era stato fatto al principe di Galles.» «Sì... capisco.» Narraway si passò le mani sulla fronte e bastò quel gesto di enorme stanchezza a far scomparire buona parte delle paure di Pitt. Poi gli fece segno di accomodarsi sull'altra seggiola. «Allora, cos'è questa storia di un ebreo che sarebbe stato visto mentre lasciava lo stabilimento?» «Un tentativo dell'ispettore Harper di trovare un capro espiatorio accettabile... anche se non altrettanto buono come il principe di Galles.» Narraway alzò la testa di scatto a guardarlo. «Non altrettanto buono?» Ormai non era più possibile rimangiarsi quel che aveva detto. «Per i suoi scopi» replicò Pitt. «Harper è della Confraternita. Si aspettava la morte di Sissons. Era vestito di tutto punto, in attesa di essere chiamato. Ha cercato di sostenere che si trattava di un suicidio e mi ha accusa-
to di avere rubato la rivoltella. Sarebbe riuscito nel suo intento se Wally Edwards non si fosse opposto... e anche l'agente Jenkins. È stato Wally a dire che Sissons non poteva essersi sparato per via di un'antica ferita che non gli consentiva l'uso delle dita della mano destra.» «Vedo.» La voce di Narraway era amara. «E con questo devo presumere che adesso vi fidate di me? Oppure siete talmente disperato da non avere altra scelta?» Pitt non volle aggiungere altro alle fandonie già raccontate. «Credo che non sia la vostra aspirazione, come non è la mia, vedere l'East End in fiamme. E sì, sono alla disperazione.» «Dovrei ringraziarvi almeno per questo?» Pitt avrebbe voluto parlargli degli omicidi di Whitechapel e di quello che Remus sapeva. Invece tacque, stringendosi nelle spalle. «Potete fare in modo che la polizia non dia la colpa a qualche persona innocente?» disse poi. «No... non posso! Non posso impedire a questa gente di accollare la morte di Sissons a qualche disgraziato ebreo, se credono che possa servire a cavarli dai guai. Comunque, ci proverò. Adesso andatevene fuori di qui e fate quello che potete anche voi... A proposito, non andate a raccontare a nessuno cosa avete fatto... indipendentemente dagli arresti che verranno eseguiti. In ogni caso, non vi crederebbero. Vi servirebbe soltanto a peggiorare la situazione. Questo non ha niente a che vedere con la verità.» «Lo so» ammise Pitt. Ma c'entravano anche il potere è l'ambizione politica. Evitò di aggiungerlo. Se Narraway non lo sapeva, non era il momento di raccontarglielo. 12 Pitt non si era mai sentito tanto disperatamente solo. Per la prima volta nella sua vita di adulto si era messo deliberatamente fuori, e contro la legge. Si svegliò infreddolito, le lenzuola aggrovigliate e in disordine, nella grigia luce del mattino. Sentì Leah muoversi. Era spaventata. Glielo aveva letto negli occhi, nella tensione delle mani più impacciate del solito, nella faccia contratta per l'ansia... Dopotutto, Sissons era stato ucciso. Qualcuno aveva voluto dare l'impressione che il suo fosse un suicidio e lui aveva alterato le prove per farlo tornare a essere di nuovo un omicidio. Oltre a prendere la decisione di nascondere la verità. Era così assurdo? No. Sentiva la violenza nell'aria, la paura, la rabbia, quella disperazione torbida che
poche parole potevano bastare a far scoppiare, pronunciate dalla persona giusta al momento e al posto giusto. E quando Dismore, e poi gli altri editori, avessero pubblicato il servizio giornalistico di Lyndon Remus sul duca di Clarence e gli assassinii di Whitechapel, tutta Londra sarebbe dilaniata dal furore. Eppure, alterando la verità, aveva tradito l'uomo nella casa del quale adesso era ospite e alla cui tavola avrebbe consumato la colazione. Il dolore gli stringeva lo stomaco come una morsa. Ma a chi rivolgersi per cercare aiuto? I contatti con Conrwallis erano stati troncati di netto e si sentiva sicuro che ormai anche lui avesse le mani legate. Forse perfino Tellman, da quel conservatore, da quel rigido esecutore dei regolamenti che era, lo avrebbe disprezzato per questo. Si era fidato di Narraway quel tanto sufficiente a dirgli parte della verità, ma bastò questo pensiero a farlo cogliere da un fremito di paura. E Charlotte, allora? Quante volte le aveva parlato dell'importanza dell'integrità morale! Cosa gli avrebbe detto Charlotte riguardo a Sissons? O meglio, cos'avrebbe pensato? Possibile che potesse provare, nei suoi confronti, una tale delusione da distruggere qualcosa dell'amore che aveva letto nei suoi occhi appena pochi giorni prima? Cos'avrebbe fatto, se fosse stata lei a trovare Sissons e la lettera? Mentre affilava il rasoio si guardò in quel quadratino di specchio che aveva in camera. D'altra parte rimuginare su tutti quegli avvenimenti non aveva la minima utilità. Quello che doveva succedere non avrebbe aspettato lui, e la sua decisione era già stata presa, nell'ufficio di Sissons. Adesso non gli rimaneva che salvare il salvabile. Si rese conto che l'unica persona di cui fidarsi, e che avesse qualche potere di aiutarlo, era Vespasia. Aveva la certezza più totale del suo coraggio, delle persone a cui andava la sua lealtà e forse, cosa non meno importante, della sua collera. Anche lei sarebbe stata nauseata e avrebbe considerato come un'indegnità atroce il solo pensiero di quel che poteva succedere se una sommossa popolare fosse scoppiata nell'East End, allargandosi a macchia d'olio. Si lavò e si vestì. Non ebbe cuore di affrontare Isaac e Leah a colazione. Augurò in fretta il buongiorno e uscì senza dare spiegazioni. A passo lesto percorse Brick Lane raggiungendo Whitechapel High Street, Aldgate e la stazione della metropolitana. Malgrado l'ora insolita, doveva vedere Vespasia. I giornali non parlavano che dell'uccisione di Sissons. Portavano perfino l'immagine, un disegno a inchiostro, del presunto omicida, sulla base delle descrizioni che Harper aveva strappato agli operai dello stabili-
mento, quelli del turno di notte, chiaramente riluttanti, e a un vagabondo che, mentre girovagava per Brick Lane, aveva visto passare qualcuno. Con un po' di fantasia la faccia avrebbe potuto essere quella di Saul, oppure di Isaac, o di un'altra dozzina di uomini che Pitt conosceva. Si scoprì furioso e disperato, ma sapeva che la paura della povertà era troppa perché gli operai fossero disposti ad ascoltare la voce della ragione. Quando arrivò a casa di Vespasia, lei non si era ancora alzata. «Devo parlare urgentemente con lady Vespasia appena sarà disposta a ricevermi» disse alla cameriera che venne ad aprirgli. La sua voce fremeva di commozione e di ansietà. «Sì, signore» rispose lei, dopo un attimo d'incertezza. «Se volete accomodarvi, vado a informare sua signoria che siete qui.» «Grazie» lui accettò rimanendo in piedi nel piccolo salotto che si affacciava sul giardino, dove la cameriera lo aveva lasciato ad aspettare. Vespasia comparve dopo meno di un quarto d'ora, non ancora vestita per la giornata, ma chiusa in una lunga vestaglia di seta color avorio, i capelli frettolosamente raccolti in una crocchia, l'espressione preoccupata. «È successo qualcosa, Thomas?» domandò senza preamboli. «Molte cose sono successe» rispose lui, tirando fuori una sedia da sotto il tavolo e offrendogliela. «E più brutte e pericolose di quanto io possa mai aver immaginato prima.» Lei gli indicò l'altra seggiola sul lato opposto dell'elegante tavolo ottagonale, prima apparecchiato per una sola persona, ma al quale adesso era stato aggiunto dalla cameriera, anticipando il desiderio della padrona, un secondo posto. «Farai meglio a raccontarmelo» disse. Poi lo scrutò con aria critica. «Potresti parlare anche durante la colazione. Però forse sarebbe prudente interromperci quando ci saranno i domestici nella stanza.» «Grazie» accettò lui. Stava già cominciando a sentirsi un po' meno disperato di prima. E intanto si accorgeva, stupito, del profondo affetto che provava per quella donna straordinaria la cui nascita, la ricchezza e l'intera vita erano tanto differenti dalle sue. «Avete letto della morte di Sissons, l'industriale dello zucchero?» «Sì. A quanto pare è stato assassinato» rispose lei. «I giornali alludono a certi usurai ebrei. Mi sorprenderebbe molto se fosse la verità. Presumo che non lo sia. E tu sai sicuramente la verità.» «Sì. Sono stato io a trovarlo. Si voleva far passare la sua morte per un suicidio. C'era anche un messaggio» disse Pitt e glielo riferì. Poi, senza
aggiungere una sola parola, le passò la nota del creditore che s'impegnava alla restituzione del denaro avuto in prestito. Vespasia la esaminò, andò al suo scrittoio per tirarne fuori un biglietto scritto a mano, confrontò i fogli, e sorrise. «Una buona somiglianza» disse. «Ma non è perfetta. La vuoi indietro?» «Secondo me, sarebbe più al sicuro presso di voi.» Pitt le raccontò della lettera di Adinett e delle deduzioni che ne aveva ricavato. Osservandola intanto che parlava, notò la tristezza sul suo viso, e anche la collera, ma non lo stupore. Poi fu ancora più difficile descriverle quel che aveva fatto. «Ho distrutto le due lettere, ho portato via la rivoltella, uscendo dalla stanza, e ho buttato tutto in una delle grandi vasche dello zucchero. L'ho fatto sembrare un omicidio.» Lei fece un lieve cenno di assenso. «Vedo.» Pitt aspettò che dicesse altro, che mostrasse meraviglia, e il desiderio di prendere le distanze da un'azione del genere. Invece, niente. Possibile che fosse così brava a nascondere i propri pensieri? Forse, lungo gli anni, aveva visto doppiezza e tradimento a sufficienza perché niente la scandalizzasse, ormai. «No, non vedete neanche voi» le disse con la voce resa acuta dal dolore e dalla rabbia. «Sono venuto a sapere da Wally Edwards, l'altro guardiano notturno, che Sissons aveva la mano destra menomata. Non avrebbe potuto premere il grilletto di una rivoltella. Io ho fatto in modo che un omicidio, camuffato come suicidio, tornasse ad apparire come tale. Non solo, ma credo di aver visto l'uomo che l'ha commesso, anche se non ho idea di chi possa essere, salvo che non ho mai posato gli occhi su di lui, prima di quella notte.» Lei aspettò che continuasse. «Era piuttosto anziano, i capelli scuri qua e là spruzzati di grigio, la carnagione olivastra, là faccia dall'ossatura elegante. Alla mano portava un anello a sigillo, con una pietra scura. Se era un ebreo del quartiere, non è di quelli che conosco.» Vespasia rimase immobile e in silenzio tanto a lungo che Pitt cominciò ad aver paura che non lo avesse ascoltato, oppure non avesse capito. La fissò. Nei suoi occhi c'era un'immensa tristezza. Pareva assorta in qualche pensiero segreto. Rimase esitante, non sapendo se interrompere quelle riflessioni. «Zia Vespasia...» cominciò. Poi si rese conto, vergognandosi un po', di comportarsi con troppa familiarità. In fondo non era proprio una zia, ma soltanto zia della sorella di sua moglie, e per via di matrimonio. «Io...» «Sì, ti ho sentito, Thomas» disse lei piano, e la sua voce non rivelava né la collera né l'offesa, solamente la confusione. «Mi stavo chiedendo se è
stato fatto deliberatamente, oppure per puro e semplice opportunismo. Dev'essere stato preparato per mettere in imbarazzo la Corona, o peggio, magari per far scoppiare sommosse e tumulti da sfruttare abilmente... Ma che spietatezza! Io...» Alzò appena appena una spalla. Pitt si accorse quanto fosse esile sotto la vestaglia di seta e misurò di nuovo sia la sua fragilità sia la sua forza. «C'è dell'altro» soggiunse piano. «Dev'esserci» convenne lei. «Un fatto come questo, da solo, non ha senso.» Improvvisamente lui sentì che erano di nuovo alleati. E si vergognò di aver dubitato della sua generosità. Inciampando un po' nella ricerca delle parole più adatte, le riferì tutto quanto Tellman gli aveva raccontato del duca di Clarence e di Annie Crook: l'intera, tragica storia. La limpida luce del mattino adesso metteva in risalto la bellezza di Vespasia, ma anche la sua età, e la passione con cui aveva vissuto l'intera esistenza. Gli occhi e le labbra esprimevano l'intensità dei suoi sentimenti, e fino a che punto fosse sempre capace di affrontare e comprendere ogni cosa. «Vedo» ripeté lei alla conclusione della storia. «E dov'è, adesso, questo Remus?» «Non lo so» ammise Pitt. «Immagino che stia cercando anche l'ultimo straccio di prova. Se l'avesse già trovata, ormai Dismore l'avrebbe già pubblicata interamente, la storia!» «A quanto mi dici, l'intenzione doveva essere di rivelarla pubblicamente nello stesso momento del suicidio di Sissons, e tu l'hai impedito. Possiamo avere uno o due giorni di respiro.» «Per far che?» domandò Pitt, mentre la disperazione si faceva sentire nella sua voce. «Non so più di chi fidarmi. Chiunque può essere della Confraternita.» «Se la Confraternita è al centro di questa congiura» disse Vespasia come se parlasse quasi a se stessa, più che a lui «significa che vogliono rovesciare il governo e il trono, e sostituirli con il proprio dominio, presumibilmente di stampo repubblicano.» «Sì. Ma il fatto di saperlo non ci aiuta a scoprire i membri della Confraternita, e tantomeno a impedirlo.» «Non è questo il punto, Thomas, almeno per me. Se l'intenzione della Confraternita è di creare una repubblica, non sono sicuramente stati loro a voler nascondere il tragico matrimonio del duca di Clarence oppure a trucidare quelle disgraziate donne per avere la sicurezza che la cosa non venisse risaputa.»
«Due congiure... E allora chi altri? Non... non la casa reale stessa?» «Dio non voglia!» ripose Vespasia. «Non posso giurarlo, ma penserei ai massoni. Hanno il potere e la volontà di proteggere la Corona e il governo.» Abbozzò un sorriso. «Gli uomini fanno qualsiasi cosa se credono abbastanza in una causa e hanno prestato un giuramento che non si azzardano a rompere. Naturalmente, è sempre possibile che non abbia niente a che vedere con loro. Forse non lo sapremo mai. A ogni modo c'è stato un giuramento non mantenuto oppure qualcuno è stato più furbo del previsto, perché adesso la Confraternita non soltanto ha il potere di distruggere ogni cosa, ma sembra anche disposta a farlo. Tu gli hai messo i bastoni fra le ruote, Thomas, ma non penso che accetteranno la sconfitta.» «E intanto sono riuscito a mettere in pericolo una buona metà degli ebrei di Spitalfields e, quasi sicuramente, ne manderò uno sulla forca per un delitto che non ha commesso. Ma non esiste un modo per scoprire se questa storia del duca di Clarence è vera?» «Secondo me non ha più importanza. Potrebbe essere vera, ma non credo che qualcuno riesca a dimostrare il contrario, ed è quanto basta alla Confraternita. Anch'io, come te, non so di chi posso avere fiducia. Di nessuno, credo. Ci sono momenti in cui ci si trova soli, e forse è il nostro caso. Però ci sono persone che hanno determinati interessi, e credo di poter giudicare abbastanza bene il modo in cui entreranno in azione, se dovessero trovarsi alle strette.» «State attenta!» Pitt si scoprì terrorizzato per lei. Non avrebbe dovuto parlare, se ne rese conto. Vespasia non si degnò di rispondere alla sua preghiera. «Forse faresti meglio a vedere se puoi far qualcosa per aiutare i tuoi amici ebrei. Mi sembra che sia poco utile cercare di scoprire chi abbia ucciso il povero Sissons. Credo che non avesse previsto la propria morte. Non doveva avere nessuna idea dei poteri o della malvagità delle congiure in cui si era lasciato coinvolgere. Quanti sono gli idealisti per i quali il fine giustifica qualsiasi mezzo, uomini che hanno cominciato nobilmente...» Non completò il suo pensiero. «Cos'avete intenzione di fare?» insistette Pitt, sempre più spaventato, sentendosi in colpa perché era venuto a conlidarsi con lei. «Una sola cosa» rispose Vespasia con gli occhi che non erano rivolti a lui, ma a chissà quale sua lontana visione. «Ci sono due alleanze mostruose. Dobbiamo scatenarle l'una contro l'altra e pregare che i risultati siano più devastanti per loro che per noi.» Lui cominciò a protestare. Vespasia si volse ad affrontarlo, inarcando appena le sopracciglia. «Hai qualche idea
migliore, Thomas?» «No.» «Allora torna a Spitalfields e fai quello che puoi perché persone innocenti non paghino lo scotto per le nostre tragedie. Vale la pena di tentare, credi.» Quando Pitt se ne fu andato, Vespasia suonò il campanello e la cameriera si presentò con altro tè e toast. Mentre mangiava, Vespasia rifletté, cercando di esaminare in fretta tutte le possibilità che si offrivano. Ma continuava a tornare su un certo pensiero che non voleva ancora prendere in considerazione. Prima di tutto bisognava affrontare il problema più urgente. Era di ben poca importanza che Sissons non avesse affatto prestato del denaro al principe di Galles, se la Confraternita riusciva a dare l'impressione che fosse realmente avvenuto il contrario. Gli zuccherifici sarebbero stati chiusi. Ecco lo scopo del delitto. Gli uomini di Spitalfields non avrebbero alzato un dito, e quindi niente sommosse, a meno di non sapere che sarebbero rimasti senza lavoro. Quindi lei doveva fare qualcosa per impedirlo. Poi si sarebbe trovata qualche altra soluzione... E perché non pensare a un atto magnanimo dello stesso principe? Salì a vestirsi. Scelse un completo grigio ferro con un'ampia gonna morbida, collo e maniche squisitamente ricamate. Prese un parasole in tinta e fece chiamare la carrozza. Arrivò a Connaught Place alle undici e mezzo. Non era certo l'ora più adatta per una visita, ma si trattava di un'emergenza, come aveva detto al telefono a lady Churchill. Randolph Churchill la stava aspettando nel suo studio. Si alzò da dietro la scrivania quando lei entrò. Il volto severo, liscio e senza rughe, rivelava soltanto un vago senso di fastidio, tenuto a bada dalla buona educazione, e forse un po' di curiosità. «Buongiorno, lady Vespasia. È sempre un piacere vedervi, ma devo ammettere che il vostro messaggio ha provocato un certo allarme. Prego...» «Non c'è tempo da perdere in convenevoli» disse lei brusca. «Probabilmente siete al corrente che James Sissons, l'industriale dello zucchero con gli stabilimenti a Spitalfields, è stato assassinato ieri.» Non aspettò che lui glielo confermasse. «Anzi, l'intenzione era di farlo apparire un suicidio, aggiungendo alla scena perfino il tocco in più di una lettera in cui Sissons dava la colpa della propria rovina finanziaria al fatto di aver prestato del denaro al principe di Galles, che si era rifiutato di restituirlo. Come conseguenza, tutti e tre i suoi stabilimenti sarebbero costretti a chiudere e almeno millecinquecento famiglie di Spitalfields si ritroverebbero nella più to-
tale indigenza.» La faccia di Churchill era diventata livida. «Vedo che comprendete. Sarebbe estremamente sgradevole se la chiusura degli stabilimenti si verificasse. Non solo, ma in aggiunta ad altre disgrazie che forse non siamo in grado di impedire, potrebbe portare addirittura alla caduta del governo e della monarchia...» «Oh...» cominciò a protestare lui. «Sono abbastanza vecchia per aver conosciuto chi è stato testimone della Rivoluzione francese, Randolph. Anche loro non credevano che potesse succedere...» Lui si accasciò nella poltrona, con le spalle curve, come se tutta la sua energia fosse stata spazzata via dalla paura. Aveva gli occhi sbarrati, il respiro affannoso. «Fortunatamente» continuò Vespasia «abbiamo degli amici e il caso vuole che uno di essi sia la persona che ha scoperto il corpo di Sissons. Ha avuto la prontezza di portar via la rivoltella e la dichiarazione del debitore, nonché di distruggere la lettera in modo che la sua morte sembrasse un omicidio. Ma questa è soltanto una soluzione temporanea. Occorre provvedere a non far interrompere il lavoro negli stabilimenti e a pagare gli operai. Immagino che abbiate amici che la pensano come voi, disposti a contribuire in qualche modo perché questo si realizzi. Non sarebbe soltanto lodevole come gesto morale, ma se venisse fatto in modo da poterne informare ampiamente l'opinione pubblica, credo che la gratitudine nei vostri confronti sarebbe considerevole. Il principe di Galles, per esempio, potrebbe ritrovarsi a essere l'eroe di questa storia...» Lui respirò a fondo e buttò fuori il fiato in un lungo e lento sospiro. Era sollevato; adesso la sua faccia appariva raggiante, benché tentasse con ogni mezzo di mascherarlo. «Una soluzione eccellente, lady Vespasia» disse con una voce ancora un po' tremula. «Provvederò che si faccia subito... prima che il danno venga registrato. È... è una vera fortuna che abbiamo un... amico... in una posizione-chiave del genere.» Fece un pallido sorriso. «E ora devo occuparmi di questa faccenda degli zuccherifici.» Vespasia si alzò in piedi. «Sì, certamente. Non c'è tempo da perdere. Buongiorno. Vi auguro di avere successo.» «Buongiorno, lady Vespasia» rispose lui. C'era un'altra questione, molto più triste e sinistra, e ben più penosa. Ma quella non si sentiva ancora preparata ad affrontarla. Pitt dedicò tutto il tempo del ritorno dalla casa di lady Vespasia a Spitalfields a riflettere sul modo in cui impedire a un innocente di diventare il capro espiatorio per l'omicidio di Sissons. Aveva prestato orecchio a tutte
le voci che correvano sulle persone sospettate dalla polizia. Gli ultimi disegni sui giornali assomigliavano sempre di più a Isaac. Ormai era questione di giorni, forse solo di ore, prima che il suo nome venisse menzionato. A questo avrebbe provveduto Harper, che doveva arrestare qualcuno per far scatenare la rabbia popolare. Isaac Karansky poteva servire molto bene ai suoi scopi: era un ebreo, una persona diversa dalla massa della popolazione, il capo indiscusso di una comunità chiaramente identificabile, molto attiva nel prestare aiuto ai correligionari. La morte di Sissons era soltanto un pretesto. Pitt però aveva un vantaggio: era stato il primo ad arrivare sulla scena del delitto, e quindi andava considerato un testimone. Poteva trovare un motivo per andare in cerca di Harper e parlargli. Sceso dalla metropolitana alla stazione di Aldgate, si mise in cammino a passo lesto. Qualcuno doveva aver ucciso Sissons, ma come aveva detto Vespasia, non poteva che essere un membro della Confraternita. Per quello che lo riguardava, era sicuro che non sarebbe mai riuscito a scoprire la sua identità. A impedirglielo ci avrebbe pensato Harper. Nel pomeriggio le strade, dove imperversava la calura, erano afose e puzzolenti, i rigagnoli lungo il bordo dei marciapiedi quasi asciutti e i mucchi d'immondizie e di rifiuti in aumento. L'umore della gente era stizzoso, e nell'aria si sentiva la paura. Pitt continuava a non capire se doveva fidarsi di Narraway, ma non escludeva di poter sapere qualcosa da lui senza scoprirsi troppo. Forse quell'uomo faceva parte della Confraternita, oppure poteva essere un massone, e quindi disposto a fare qualsiasi cosa, pur di salvare l'ordine costituito, il legittimo potere, il trono. O anche né l'uno né l'altro, ma semplicemente quello che proclamava di essere: un poliziotto che tentava di controllare gli anarchici e impedire tumulti in città. Pitt lo trovò nella stessa stanza di sempre. Gli parve stanco, inquieto e a disagio. «Cosa volete?» Pitt aveva già cambiato idea una dozzina di volte su quello che voleva dirgli, ma continuava a sentirsi incerto perché considerava rischioso sottovalutare un personaggio della sua portata. «Karansky non ha ammazzato James Sissons» disse andando per le spicce. «È il mezzo di cui si serve Harper per trovare un capro espiatorio.» «Oh! E ne sareste sicuro?» domandò Narraway. «Voi no?» Pitt gli rispose con un'altra domanda. «Conoscete Spital-
fields, mi avete messo come pensionante in casa di Karansky. Lo giudicavate capace di commettere un omicidio? Pensavate che preparasse un'insurrezione? O che fosse disposto a punire chi prende soldi a prestito da un usuraio e poi non lo paga?» «No. Tanto per cominciare non ho mai pensato che fosse lui un usuraio. È a capo di un gruppo di ebrei che provvedono ai correligionari. È carità, la sua, non un lavoro a scopo di lucro.» Pitt trasalì. Non aveva immaginato che Narraway sapesse tante cose. Un po' della tensione che provava scomparve. «Harper è convinto di poter dare la colpa a lui. Di ora in ora gli fa sentire sempre di più il fiato sul collo. Lo arresteranno.» Narraway sembrava affaticato e la sua voce rivelava un po' di amarezza. «Perché mi state dicendo questo? Immaginate che non lo sappia?» Pitt aprì la bocca pronto a sfidarlo, ad accusarlo d'indifferenza, di trascurare il proprio dovere e perfino il proprio onore. Poi osservò più attentamente i suoi occhi e vi lesse la delusione, la stanchezza e il logorio interiore per una serie di sconfitte. «Non rimanete qui a ingombrarmi l'ufficio» riprese Narraway spazientito. «So che la polizia sta cercando un capro espiatorio, e Karansky può servire molto bene. A quelli lì brucia ancora la faccenda degli omicidi a Whitechapel, quattro anni fa. Se potessi salvare Karansky, lo farei. È un brav'uomo. Il consiglio migliore che posso darvi è di farlo andar via da Londra. Che salga su una nave per Rotterdam, o Brema o qualsiasi altro posto. Basta che sia la prima in partenza.» Nella mente di Pitt adesso si affollavano argomentazioni di ogni genere sull'onore: perché credere nella giustizia... se questi ne erano i frutti? Svanirono prima che ne parlasse ad alta voce. Narraway doveva averle già discusse con se stesso. Ma per lui erano nuove. Alzò le spalle cacciandosi con forza le mani in tasca. «Loro sapevano chi era l'assassino di Whitechapel, e perché uccideva» disse facendo appello a tutto il suo coraggio. «Lo hanno tenuto nascosto per proteggere la monarchia.» Narraway rimase immobile. «È questo che hanno fatto?» mormorò poi. «E come mai credete che catturarlo potesse influire in qualche modo sulla Corona?» Pitt si sentì agghiacciare. Aveva fatto uno sbaglio. In quell'istante lo capì. Narraway era uno di loro. Non faceva parte della Confraternita, ma dei massoni, come Abberline e il capo della polizia Warren e Dio solo sapeva chi altri... sicuramente il defunto medico della regina, sir William Gull.
Ebbe un momento di panico, poi perse il lume degli occhi. «Perché gli omicidi sono stati commessi per tener nascosto un matrimonio del duca di Clarence con una donna cattolica di nome Annie Crook, e il fatto che avevano avuto una figlia.» Narraway lo guardò sgranando gli occhi. «E voi lo avete scoperto da quando siete venuto a Spitalfields?» gli chiese passandosi la lingua sulle labbra, come se avesse la bocca arida. «No, mi è stato riferito. C'è un giornalista che ha in mano tutti i pezzi dell'enigma, salvo uno o due. Perlomeno, li aveva. Può darsi che adesso li abbia anche tutti, anche se i giornali non hanno ancora stampato niente.» «Capisco. E non avete giudicato opportuno informarmi di tutto questo?» «I responsabili sono i massoni... ecco com'è successo. La Confraternita passa le notizie a poco a poco al giornalista, per rivelare lo scandalo in un momento di sua scelta. L'assassinio di Sissons va fatto risalire alla Confraternita. Anche voi potreste farne parte. Io non ho modo di saperlo.» «Allora, raccontandolo a me, avete corso un grosso rischio. O forse state per avvertirmi che avete una rivoltella in saccoccia e se faccio la scelta sbagliata mi ammazzerete?» «No, non ce l'ho. Non ne vale la pena. Se siete un massone, fermerete la Confraternita, o almeno ci proverete. Se siete della Confraternita, toccherà a voi smascherare i massoni, ma oso dire che in questo caso farete cadere la monarchia. Però sarete costretto a far passare di nuovo la morte di Sissons per un suicidio, e questo, se non altro, basterà a salvare Karansky.» Narraway si mise più dritto sulla seggiola. La sua voce aveva qualcosa di tagliente quando parlò, «Suppongo che dovrei esservi grato perché vi siete finalmente deciso a dirmelo.» Il suo sarcasmo era bruciante. Per un attimo sembrò che volesse soggiungere qualcosa, poi cambiò idea. «Andate a fare quello che potete per Karansky, e casomai aveste ancora qualche dubbio in proposito, il mio è un ordine.» A Pitt venne quasi voglia di sorridere. Fece segno di sì con la testa; poi si alzò e uscì, tornando in Heneagle Street a mettere in guardia un uomo innocente e ad aiutarlo a diventare un fuggiasco perché la legge non gli offriva né sicurezza né protezione. Ci avrebbe pensato lui a farlo, anche se fosse stato costretto a preparare con le sue mani il bagaglio e ad accompagnarli fino alla banchina, a comprare i biglietti a proprio nome e poi a costringere, o corrompere il capitano di qualche nave mercantile perché li prendesse a bordo.
Fuori la strada era polverosa, il caldo toglieva il fiato. Pitt raggiunse Heneagle Street, entrò e si diresse subito in cucina. Leah, in piedi davanti al fornello, mescolava qualcosa che cuoceva a fuoco basso in una pentola, l'aroma di erbe aromatiche era dolce nell'aria. Isaac sedeva all'estremità opposta del tavolo e sul pavimento, vicino a lui, c'erano due sacche di tela sudicia. Si voltò di scatto verso di lui. «Dovete andarvene!» Pitt sentì che la propria voce, senza che ne avesse l'intenzione, era diventata secca e vibrava di paura e di rabbia. «Stiamo per andar via» rispose Isaac infilandosi la sua vecchia giacca. «Aspettavamo soltanto voi.» «La vostra cena è sul fuoco» gli disse Leah. «C'è pane in dispensa. E le camicie pulite sul cassettone...» Qualcuno tempestò di colpi sonori la porta di strada. «Vi daremo notizie tramite Saul» disse Isaac, mentre apriva una grande finestra sul retro. «Dio sia con voi.» E un po' sollevandola, un po' spingendola, indusse Leah a uscire di lì. «E anche con voi» replicò Pitt. I tonfi sulla porta di strada erano tanto violenti che rischiavano di far saltare i cardini. Senza controllare se si fossero allontanati abbastanza, Pitt imboccò il breve corridoio e fece scattare il paletto. Dall'altra parte c'era Harper, con l'agente Jenkins al suo fianco, che sembrava molto a disagio. «Oh, di nuovo voi!» disse Harper con un sorriso. «Che strano!» Lo spinse da parte e si avviò verso la cucina a lunghi passi. «Allora, dove sono? Dov'è Isaac Karansky?» «Non so» rispose Pitt, fingendosi un po' sorpreso. «La signora Karansky è appena uscita a comprare qualcosa che aveva dimenticato per la cena.» E gli mostrò la pentola sul fornello acceso. Harper girò sui tacchi, frustrato, ma non ancora insospettito. Ispezionò il contenuto della pentola, il pasto preparato a metà, la cucina che non sembrava abbandonata, poi si decise a tirar fuori una seggiola da sotto il tavolo e si sedette. «Allora li aspetteremo.» Pitt si avvicinò al fornello e mescolò delicatamente quello che bolliva nella pentola. Jenkins era rimasto in piedi, in silenzio, spostando il peso del proprio corpo da un piede all'altro, inquieto. I minuti passavano. «Dov'è Karansky?» domandò Harper, tutto d'un tratto. «Non so. Anch'io sono appena rientrato.» «Fareste bene a non raccontare frottole.» Pitt continuò a voltargli la schiena. «Perché dovrei farlo?»
«Per proteggerli. Forse vi ha pagato?» «Per raccontare che la signora Karansky è uscita a comprare delle erbe aromatiche? Non sapeva che voi stavate arrivando, vero?» Harper sbottò in un'imprecazione. Passarono altri dieci minuti. «Le vostre sono bugie!» esplose Harper, alzandosi in piedi e allungando un pugno sul tavolo. «Li avete avvertiti e loro sono scappati. Vi accuserò di connivenza con chi ha tentato di sottrarsi alla giustizia.» Jenkins si schiarì la voce. «Non potete, signore; non avete prove.» «Ho tutte le prove che mi occorrono» ribatté Harper con un'occhiata malevola al suo sottoposto. «E fate a meno di parlare, voi. Arrestatelo, piuttosto!» Jenkins rimase dov'era. «Per Karansky abbiamo un mandato, signore. Per Pitt niente.» «Avete la mia parola, Jenkins! E se non volete finire nella cella vicina alla sua, ubbidite all'ordine che vi do!» Scrollando il capo Jenkins, dopo aver informato Pitt che era agli arresti, gli mise le manette ai polsi. Fuori c'erano ad aspettarli una dozzina di uomini e donne rabbiosi e impauriti. Occhieggiarono la polizia con odio malcelato, ma non si azzardarono a intervenire. Poi, lungo la strada, ne incrociarono altri con l'aria bieca, videro altri giornali che riportavano un'immagine che era chiaramente quella di Isaac. Intanto correva voce che gli zuccherifici sarebbero stati chiusi. Alla stazione di polizia, Pitt venne cacciato in una cella. E lì rimase. Un paio d'ore più tardi Jenkins ricomparve con un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro. «A conti fatti, nessuno degli zuccherifici dovrà chiudere» lo informò. «Lord Randolph Churchill e altri dei suoi amici hanno raccolto i soldi per farli andare avanti. Non è una svolta felice?» Pitt si sentì travolgere da un'ondata di stupore e di sollievo. Doveva essere stata Vespasia! «Quanto a voi, farete bene ad andare a casa» soggiunse l'agente, mentre il suo sorriso si trasformava in una larga risata. «Se i Karansky tornassero...» Pitt si alzò in piedi. «Non sono più ricercati?» Non riusciva a crederci. «Eccome! Ma chi lo sa dove sono adesso? Magari in alto mare!» «E l'ispettore Harper è disposto a lasciarmi andare?» «No, per niente.» Jenkins era gongolante. «Ma non ha scelta, perché dall'alto hanno passato parola che voi dovete esser trattato con giustizia e lasciato libero. Avete amici importanti! Buon per voi.»
«Grazie» disse Pitt, enormemente sconcertato. Di nuovo merito di Vespasia? Un po' difficile... altrimenti lei lo avrebbe protetto fin dal primo momento. Narraway? No, non solo non sapeva tutto, ma non aveva i poteri necessari. I massoni... l'altra faccia delle congiure di Whitechapel. D'un tratto la libertà ebbe un gusto dolce-amaro. Adesso la sua intenzione era di tornare in Heneagle Street e mangiare la cena preparata da Leah; poi, quando avesse potuto farlo inosservato, sarebbe andato da Saul a vedere come raggranellare il denaro per dare a Isaac e Leah tutto l'aiuto possibile. Charlotte era tuttora decisissima a trovare quei documenti. Lei e Juno sapevano con sicurezza che Martin Fetters doveva averli nascosti da qualche parte. Esauriti tutti i posti possibili in casa, erano tornate in biblioteca girando gli occhi tutt'intorno nella speranza di essere folgorate da qualche nuova idea. Charlotte sapeva bene, e ne sentiva tutto il raccapriccio, che a meno di un metro da dove lei si trovava, Martin Fetters era stato ucciso da un uomo di cui si fidava e che considerava un amico. «Devono essere qui» disse Juno disperata. «Perché esistono. Martin non sapeva come fosse necessario distruggerli, e Adinett non ne ha avuto il tempo. Quand'è uscito da questa casa non portava niente con sé, perché l'ho visto andar via con i miei occhi. E quando ci è rientrato, Martin... è stato scoperto. Suppongo che avrebbe potuto portarli via allora...» «Quando può aver avuto il tempo di cercarli?» ragionò Charlotte. «Se suo marito li aveva tirati fuori e li aveva davanti a sé, Adinett può averli messi via di nuovo per riprenderli al ritorno. Ma dicevate che non aveva una cartella o una valigetta, soltanto un bastone da passeggio.» Juno stava osservando le pareti. «A dir la verità, non so neanche cosa stiamo cercando, salvo che intendevano fare qualcosa di positivo. Non erano solamente sognatori che si incontravano per discutere sulle loro idee. Eppure qui non c'è niente che sembri fuori posto. Con l'eccezione dei tre libri che erano sul pavimento, naturalmente. Ma noi abbiamo sempre pensato che fossero lì per dare l'impressione che Martin li stesse tirando fuori, quand'è caduto dalla scaletta.» «Immagino che la polizia abbia comunque fatto una perquisizione a fondo.» Charlotte si accorse che la sua speranza si spegneva di nuovo. «Se c'era qualcosa sugli scaffali dietro i libri, avrebbe dovuto scoprirlo abbastanza facilmente.» «Possiamo sempre tirar giù i libri» propose Juno. «Non abbiamo niente
di meglio da fare... Be', io no.» «Neanch'io» dichiarò Charlotte con prontezza, voltandosi di qua e di là a osservare tutti quei ripiani colmi. «Impossibile che fosse dietro qualcuno dei libri che tirava fuori regolarmente» osservò. «Altrimenti si sarebbe notato troppo facilmente. E dentro un libro lo avrebbe fatto diventare troppo voluminoso, e si sarebbe visto subito. Non mi pare che stiamo cercando soltanto uno o due fogli di carta, vero?» «E se fosse veramente dentro un libro... dove sono state tagliate le pagine al centro per creare un nascondiglio? So che sembra un vandalismo, ma più al sicuro di così non potrebbero essere. Chi mai volete che vada a cercare dentro uno di quelli?» E Juno le indicò il ripiano più alto dello scaffale vicino alla finestra dove una fila di libri di memorie di pressoché sconosciuti uomini politici del diciottesimo secolo si accompagnavano a una mezza dozzina di opere di statistica sulle esportazioni e le spedizioni commerciali. Charlotte andò a prendere la scaletta. Poi, afferrato saldamente con una mano il pilastrino centrale, e sollevandosi appena un po' la gonna con l'altra, cominciò a salire. «Attenta!» la mise in guardia Juno, facendosi avanti. La scaletta sembrava molto solida, ma Charlotte non poté fare a meno di pensare a Martin Fetters e al modo in cui avevano creduto in un primo tempo che fosse rimasto ucciso, cadendo esattamente da quella posizione. Si allungò a tirar fuori il primo, un grosso tomo ingiallito sulle rotte delle navi mercantili, ormai enormemente invecchiato e quindi inutilizzabile. Era pesante. Lo passò a Juno, che lo sfogliò. «È proprio quello che dice il titolo» osservò sforzandosi di nascondere il disappunto. «Martin deve averlo comprato vent'anni fa.» Lo posò sul pavimento e aspettò quello successivo. Charlotte glieli passò tutti a uno a uno. Erano passate più di tre ore, e tutt'e due erano coperte di polvere e con le braccia dolenti quando Juno finalmente si arrese. «Sono proprio quello che dovrebbero essere.» La sua voce era tanto dolente che Charlotte provò compassione per lei. Ma doveva provare al mondo intero che suo marito aveva avuto ragione sul conto di John Adinett. Scese dalla scaletta e Juno allungò una mano per aiutarla. Le sue dita erano forti e fredde, ma il braccio le tremava e aveva la faccia pallida e tesa. «Forse dovremmo smettere» disse impulsivamente, anche se era il contrario di quello che voleva. «Forse, a ben pensarci, non c'è niente da trova-
re. Magari erano soltanto sogni.» «No» disse Juno, evitando di guardarla. «Martin non era così. Lo conoscevo bene. O, se non altro, conoscevo certe cose di lui. Ci sono caratteristiche che non si possono nascondere. E Martin si dava sempre da fare perché i suoi sogni diventassero realtà. Era un romantico, e perfino per una cosa tanto banale come quella di regalarmi delle rose per il mio compleanno s'impegnava a fondo. Io sono nata il ventinove febbraio. E bisogna essere molto ingegnosi per trovare delle rose alla fine di febbraio. Lui insisteva perché festeggiassi il mio compleanno solamente negli anni bisestili, e dava un grande ricevimento che durava quattro giorni, e mi viziava vergognosamente. Era molto generoso.» Deglutì a fatica, sorridendo fra le lacrime. «Aveva trovato un giardiniere in Spagna che riusciva a forzarne la fioritura e se le faceva mandare ancora in boccio, per nave. Duravano soltanto due giorni, ma non le ho mai dimenticate. Comunque questa ricerca era un'idea sciocca. Avrei dovuto saperlo. Martin amava i libri e non ne avrebbe mai vandalizzato uno, sia pure per nascondere qualcosa. Avrebbe trovato qualche altro modo. Era abituato a ripararli, sapete? Se si rovinavano era molto bravo a rimetterli a nuovo. A volte li rilegava, anche.» «Li rilegava?» ripeté Charlotte. «Sì. Perché?» «Non abbiamo pensato a guardare i libri che aveva rilegato.» Juno capì al volo e non ebbe un attimo di esitazione. «Proviamo a cercarli. Sarebbe il posto perfetto.» Ci volle quasi mezz'ora, ma alla fine l'ebbe fra le mani: un volumetto sull'economia troiana rilegato a mano in pelle scura, con il titolo a caratteri dorati. Fianco a fianco ne lessero una pagina a caso: "Naturalmente la prova del prestito è stata accuratamente predisposta. E tutto sarà anche scritto nella sua lettera, che troveranno dopo la sua morte. Non appena la notizia verrà risaputa, al giornalista sarà fornita la prova finale, ancora mancante, sulla storia di Whitechapel. Le due cose insieme serviranno a realizzare tutto quanto è necessario". Juno guardò Charlotte con aria interrogativa. E Charlotte si accorse di avere il cervello in tumulto. Arrivava a capire solamente una parte di quanto aveva letto, ma il riferimento a Remus balzava subito agli occhi. E la mano di Juno, che reggeva il libro, tremava un po'. «Lui sapeva in anticipo qualcosa della morte di qualcuno» disse piano. «Questo fa parte del progetto per far cadere il governo, vero?» «Così sembrerebbe» confermò Charlotte. «Io so in che senso sta lavo-
rando il giornalista; avete visto giusto. È parte della congiura per la rivoluzione.» Juno non disse niente. Con mani sempre tremanti, alzò il libro perché anche lei potesse leggere e girò la pagina. Era un elenco che riportava il numero delle vittime e dei feriti nelle rivoluzioni scoppiate per tutta Europa nel 1848. Da queste venivano ricavati nuovi gruppi di cifre per le eventuali vittime a Londra e nelle maggiori città inglesi in cui la rivoluzione fosse scoppiata. Il significato di tutto questo non lasciava dubbi. Juno era letteralmente livida, gli occhi incupiti nelle occhiaie sempre più segnate. Esaminarono rapidamente le pagine seguenti. Anch'esse contenevano progetti di una nuova distribuzione del ricchezza e delle proprietà, confiscate a chi le aveva godute come privilegio ereditario. Il documento era composto da almeno una dozzina di pagine. L'ultima era la costituzione proposta per un nuovo stato, a capo del quale ci doveva essere un presidente che avrebbe dovuto render conto delle proprie azioni a un senato non molto dissimile da quello della Roma repubblicana, prima dei Cesari. Chi scriveva faceva allusione ad alcuni dei grandi idealisti del passato, in modo speciale a Mazzini e a Mario Corena, che era stato sconfitto in modo tanto clamoroso a Roma. Charlotte non ebbe bisogno di domandare se la grafia fosse quella di Martin Fetters; sapeva che non vi somigliava affatto. Dunque non era la sua. Si volse verso Juno. Cercò d'immaginare cosa avrebbe provato lei trovando qualcosa di simile nella stanza di Thomas. Lesse l'orrore sulla faccia di lei, uno sbalordimento e una disperazione che eclissavano tutta la pena degli ultimi, pochi, giorni. «Ho sbagliato» mormorò Juno. «Non lo conoscevo affatto. Quello che progettava era mostruoso. Lui... lui ha abbandonato del tutto il suo vero idealismo. Credeva che fosse per il bene del popolo. Detestava ogni forma di tirannia... però non ha mai domandato se volessero una repubblica o se fossero preparati a morire per averla. Ha deciso lui per loro. E questa non è libertà, ma solamente un'altra forma di tirannia.» Ora fissava il vuoto sbattendo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. «Vi ringrazio perché non mi rispondete dicendo qualcosa di banale.» Charlotte prese l'unica decisione che, secondo lei, avesse un minimo di buonsenso. «Perché non prendiamo una tazza di tè, invece? Mi sento come se avessi mangiato della carta!» Juno abbozzò un sorriso e accettò. Scesero insieme al pianterreno e nel
giro di cinque minuti Dora, la cameriera, arrivò con il vassoio del tè. Nessuna delle due cercò di fare un po' di conversazione. Avevano finito e Juno, dopo aver posato sul tavolo la sua tazza, andò alla finestra, dove rimase a fissare il sole che illuminava il piccolo prato. «Mi sentivo a disagio con John Adinett. E l'ho odiato perché ha ucciso Martin. Sono stata perfino contenta, che Dio mi perdoni, quando l'hanno impiccato. Ma adesso capisco perché lui abbia sentito il dovere di farlo. Io... odio tutto questo... ma credo che dovrei dire la verità... Non restituirà la vita ad Adinett, ma l'onore e il suo buon nome sì!» Charlotte non era altrettanto sicura di quel che stava provando. Un'enorme pietà, e sicuramente ammirazione. E Thomas? In un certo senso Adinett era giustificato se aveva ucciso Fetters; se non altro, il suo atto poteva apparire comprensibile. Se la gente, il pubblico presente al processo, avesse saputo perché lo aveva fatto, non avrebbe mai voluto che finisse sulla forca. Anzi, avrebbero perfino potuto rimproverare a Pitt di averlo accusato e costretto a subire un processo. Eppure Adinett si era rifiutato di fornire persino la più piccola spiegazione. Come avrebbe fatto qualcuno a saperlo? Gleave non aveva detto niente. Poi ricordò la sua faccia quando aveva insistito con Juno per sapere se ci fossero altre carte o documenti di Martin Fetters. Durante quel colloquio non le aveva minacciate apertamente, però la minaccia era stata nell'aria. E tutte due, lei e Juno, si erano sentite agghiacciare. Dunque lui sapeva! Solo che stava dalla parte di Fetters. Povero Adinett... Non c'era stato nessuno a cui rivolgersi, nessuno di cui fidarsi. Aveva agito per salvare il suo paese dalla rivoluzione, sapendo che gli sarebbe costata la vita. Come minimo, adesso meritava che si sapesse la verità, per sentirsi vendicato. «Sì» dichiarò, pienamente d'accordo. «Avete tutte le ragioni. Come consorte dell'ispettore Pitt vorrei venire con voi, se posso. A chi volete andare a dirlo?» «Ho pensato anche a quello. A Charles Voisey. È giudice di corte d'appello, e la causa di Adinett è arrivata davanti a lui. Lo conosco un po'. Vedrò se posso andare stasera stessa. Voglio farlo direttamente. Trovo... trovo molto difficile aspettare. Passerò a prendervi in carrozza alle sette e mezzo, a meno che lui non possa riceverci. Ve lo farò sapere.» Charlotte si alzò in piedi. «In tal caso sarò pronta.» Arrivarono a casa di Charles Voisey in Cavendish Square poco dopo le otto e vennero subito fatte passare nel suo sontuoso salotto arredato secon-
do lo stile più tradizionale, in colori scuri e caldi, rosso e oro pallido, ma con l'aggiunta sorprendente di raffinati oggetti in ottone di stile arabo: vassoi, vasi e caraffe. Sulle superfici lavorate e sulle sagome di linea semplice la luce giocava con i suoi screziati riflessi. Voisey le ricevette con cortesia, nascondendo abilmente la curiosità per la visita, ma non volle perdere tempo nei soliti convenevoli. Quando si furono seduti, si voltò verso Juno con aria interrogativa. «In che cosa posso esservi utile, signora Fetters?» Juno aveva già affrontato il peggio quando aveva ammesso con se stessa, rassegnata, che Martin non era l'uomo da lei amato in tanti anni di matrimonio. Confessarlo a qualcun altro poteva essere difficile, ma era anche un sollievo. «Come vi ho accennato al telefono» cominciò «ho fatto una scoperta fra le carte di mio marito, che la polizia non ha trovato perché erano nascoste con molta abilità.» Voisey si irrigidì impercettibilmente. «Davvero? Credevo che avessero fatto una perquisizione approfondita.» I suoi occhi ebbero un guizzo in direzione di Charlotte, e poi girarono subito dall'altra parte. Lei provò la sensazione che il fallimento di Thomas gli facesse piacere e fu costretta a imporsi con uno sforzo di non difenderlo. Ci pensò Juno per lei. «Erano raccolte e rilegate in un libro. Sapevate che mio marito era capace di rilegare libri? Era molto abile. E a meno di non aver letto ogni volume della sua biblioteca non ci sarebbe stato nessun mezzo di essere sicuri di trovare quello giusto.» «E voi, ci siete riuscita?» chiese l'uomo. La sua voce rivelava un vago stupore. Lei gli rivolse un pallido sorriso. «Non ho niente di meglio da fare e volevo capire per quale motivo John Adinett, che ho sempre considerato un suo amico, avesse dovuto ucciderlo. Adesso lo so, e considero necessario, da un punto di vista morale, farlo sapere anche ad altri. Voi mi sembrate la persona più giusta.» Lui era rimasto immobile, seduto al suo posto. «Vedo. E cosa dicevano queste carte, signora Fetters? Presumo che non ci siano dubbi sul fatto che gli appartengono...» «Non sono scritte di sua mano, però Martin le aveva rilegate in un libro e nascoste nella sua biblioteca. Si tratta di lettere, comunicazioni e appunti relativi a una causa nella quale era molto evidente che lui credeva. Penso che, quando John Adinett l'ha scoperto, abbia deciso di ucciderlo. Ecco il movente.»
«Sembrerebbe... una soluzione un po' eccessiva, un rimedio un po' estremo» fece lui con aria meditabonda. «Se si trattava di qualcosa che Adinett disapprovava tanto, perché non si è accontentato di denunciarlo pubblicamente? Devo presumere che fosse qualcosa d'illegale? O, come minimo, qualcosa che altri avrebbero potuto impedire?» «Rivelarla pubblicamente avrebbe potuto provocare il panico. Avrebbe certo dato grande soddisfazione ai nemici dell'Inghilterra e, forse, suggerito i mezzi con cui danneggiarci.» Voisey la stava fissando con tensione crescente. Quando parlò, la sua voce era più dura, ma rivelava un velo di ansietà. «E la ragione per la quale lui non lo ha riferito alle autorità più appropriate sarebbe stata...» «Non poteva sapere chi altri ci fosse coinvolto. Vedete, è una congiura di grandi proporzioni...» «Una congiura? E per fare che, signora Fetters?» «Per far cadere il governo, signor Voisey» rispose lei. «E con la violenza. In breve, per provocare una rivotazione che potesse abbattere la monarchia e sostituirla con una repubblica.» Lui rimase ammutolito per qualche istante prima di risponderle, come se fosse letteralmente allibito da quello che lei aveva detto e non riuscisse quasi a crederci. «Ne siete... proprio sicura, signora Fetters? Non è possibile che abbiate interpretato erroneamente qualcosa che lui scriveva su un'altra nazione e abbiate pensato che si riferisse all'Inghilterra?» «Vorrei che fosse stato possibile, credetemi.» La sua commozione era palpabile; impossibile dubitarne. Voisey si rivolse a Charlotte. E lei, incrociando il suo sguardo, si accorse che rivelava un'intelligenza straordinaria e un'incredibile antipatia, quasi incontrollabile, nei suoi confronti. La lasciò stupita, al punto che si accorse di aver paura. Intanto lui le stava rivolgendo la parola con voce tagliente. «Avete visto queste carte, signora Pitt?» «Sì.» «E siete d'accordo che rivelano i piani per una rivoluzione?» «Sì, temo che sia proprio così.» «Non è incredibile che vostro marito non le abbia trovate?» Adesso il disprezzo che la sua voce rivelava era inconfondibile. Charlotte ne rimase ferita. «Non riesco a immaginare che cercasse i piani per abbattere la monarchia e instaurare una nuova costituzione» gli rispose, gelida. «Certo, il caso di cui si occupava sarebbe stato concluso in modo più perfetto se fosse riuscito a trovarne il movente, ma non era ne-
cessario. Poi Adinett ha preferito salire sulla forca piuttosto di svelarlo... e questo basta a indicare quanto dovesse essere diffusa la congiura, almeno a suo giudizio. Sapeva di non potersi azzardare ad aver fiducia in qualcuno, neanche per salvarsi la vita.» La faccia di Voisey era incupita e gli scintillavano gli occhi. «E si sbagliava, signora Pitt?» disse piano, a denti stretti. «Se Adinett avesse spiegato all'ispettore qual era il suo movente per l'assassinio di Fetters, avrebbe ottenuto di essere creduto e aiutato?» «Se mi state domandando se mio marito era un rivoluzionario oppure se poteva aver cospirato con quelle persone...» Charlotte s'interruppe, notando il suo sorriso. Sapeva benissimo quello che Voisey stava pensando: anche Juno Fetters aveva creduto nell'innocenza del marito... e si era sbagliata. «Sono sicura che lui avrebbe fatto il possibile per denunciare la congiura. Ma sono d'accordo con voi: non avrebbe saputo, come Adinett, di chi fidarsi realmente. Quella gente avrebbe distrutto le prove, molto semplicemente. E dopo anche lui. Ma non l'ha scoperta, quindi il problema non esiste.» Lui tornò a rivolgersi a Juno, e adesso la sua espressione era cambiata. Appariva di nuovo compassionevole. «Cos'avete fatto di questo libro, signora Fetters?» «L'ho qui» rispose lei porgendoglielo. «Credo che dovremmo... che per me sia un dovere fare in modo che il buon nome del signor Adinett sia salvo e lui non passi alla storia come un uomo che ha assassinato un amico senza motivo.» «Siete proprio sicura?» disse Voisey gentilmente. «Una volta che mettete la prova nelle mie mani, io non posso più restituirvela. Devo servirmene per agire. Pensate proprio che non sia preferibile distruggerla e fare in modo che il nome di vostro marito rimanga quello che è, cioè quello di un uomo che, a modo suo, ha combattuto per la libertà di tutti gli uomini?» Juno sembrò esitante. «Sarà veramente un bene per l'opinione pubblica sapere che ci sono, fra noi, uomini simili?» continuò Voisey. «Uomini di cui non si può fare il nome, disposti a rovesciare la Camera dei Lord e quella dei Comuni, la nostra monarchia, e mettere al loro posto un presidente e un senato che, eseguite le debite riforme, possano offrire un altro genere di giustizia o di uguaglianza sociale? Può darsi che John Adinett abbia conservato il silenzio perché non sapeva di chi fidarsi, ma forse anche perché si rendeva conto dello scalpore che la rivelazione di una simile congiura poteva suscitare.
Questo lo avete considerato?» «No» Juno mormorò con un filo di voce. «A questo non avevo pensato. Forse avete ragione. Forse se ha avuto paura di parlare allora, oggi preferirebbe passare tutto sotto silenzio. Era un uomo superiore, di sentimenti elevati... un grand'uomo. Capisco perché vi addolori tanto che sia morto. Me ne duole, signor Voisey... e mi vergogno.» «No, non dovete vergognarvi» disse lui con un sorriso pieno di tristezza. «Non è colpa vostra.» Juno si alzò in piedi e si avvicinò al camino. Con un gesto deliberato, scagliò il volumetto fra le fiamme. «Vi ringrazio dal profondo del cuore per il vostro consiglio, signor Voisey» disse. Anche Charlotte si alzò, provando un senso di vertigine. Aveva il cervello in fiamme e il caos più completo nella mente, eppure in mezzo a tutto questo c'era qualcosa che più luminoso e chiaro di così non avrebbe potuto essere, una certezza unica e assoluta: Charles Voisey era il fulcro, il punto focale della congiura! Lui conosceva a menadito quei documenti, molto meglio di quanto non li conoscessero loro. Juno aveva accennato a una presidenza, ma di un senato non aveva detto niente. Come di un'eventuale eliminazione della Camera dei Lord e di quella dei Comuni. «Signora Pitt...» la voce di Voisey s'insinuò in queste sue riflessioni. «Signor Voisey» rispose lei accorgendosi che sembrava imbarazzato o preoccupato senza un vero motivo. Forse sospettava che avesse capito? «Forse avete ragione.» Pronunciò queste parole con uno sforzo. Pensasse pure che era delusa perché questo non avrebbe giustificato Thomas. A ogni modo dovevano andar subito via di lì, lontano da lui. Tornare a casa sane e salve. Sane e salve? Martin Fetters era stato assassinato nella sua stessa biblioteca. Doveva dirlo a Juno, persuaderla a lasciare Londra per nascondersi in qualche posto sconosciuto in campagna, sotto il più completo anonimato. In modo che nessuno più potesse rintracciarla fino a quando non si fosse trovato il modo di proteggerla, o il pericolo non esistesse più. «È quello che credo anch'io» disse lui con un sorrisetto ambiguo. «Farebbe più male che bene se si cercasse di riabilitare Adinett e restituirgli il suo buon nome...» «Sì, lo capisco.» Charlotte si avviò alla porta, ma si impose di camminare lentamente. Voisey non doveva sospettare che aveva capito. Che sapeva. Non doveva sentire la sua paura. Ebbe l'impressione di non arrivare mai. Poi, finalmente, si ritrovarono fuori, e a bordo della carrozza che cominciava ad allontanarsi. «Dio sia ringraziato!» mormorò con un filo di voce.
«Dio sia ringraziato?» Juno domandò, e la sua voce era stanca, delusa. «Lui sapeva che nel progetto di cui si parlava c'era anche un senato. Voi non ne avevate neanche parlato!» Juno si protese verso di lei e le si aggrappò nel buio; le sue dita si affondarono nella carne del braccio di Charlotte, facendole male, strette convulsamente per il terrore. «Dovete lasciare Londra» disse Charlotte in tono risoluto. «Stasera stessa. Lui sa che avete letto il libro. Non dite a nessuno dove andate. Mandate un messaggio a lady Vespasia Cumming-Gould... non a me!» «Sì... sì, lo farò. Dio, dove siamo precipitate?» 13 Vespasia, in piedi nel salottino dove faceva la prima colazione, stava guardando fuori della finestra la piena fioritura delle rose gialle in fondo al prato. Ecco arrivato il momento in cui non era più possibile evitare di affrontare la questione che la feriva intimamente, nel profondo del cuore. Aveva paura di quella che poteva essere la risposta, ma d'altra parte era sempre stata convinta che il coraggio fosse la pietra angolare di tutte le virtù. Senza il coraggio, l'integrità si annullava; perfino l'amore non poteva sopravvivere. Lei aveva amato Mario per mezzo secolo. Quell'amore le aveva portato la gioia più profonda e completa e il dolore più grande che avesse mai conosciuto. Mai, tuttavia, la disillusione. Cercò di convìncere se stessa che, neppure ora gliel'avrebbe portata. Era ancora assorta in queste riflessioni quando la cameriera venne ad annunciarle che la signora Pitt domandava di essere ricevuta. Caso raro, stavolta Vespasia avrebbe preferito non essere interrotta. Ma non avrebbe certo rifiutato di vedere Charlotte! «Pregala di entrare» le rispose, voltando le spalle alle rose. Doveva trattarsi di qualcosa di urgente perché venisse a cercarla tanto presto. Appena la vide, e la guardò in faccia, capì che le sue supposizioni erano giuste. Pallidissima, all'infuori di due chiazze di un rosso acceso sulle guance, come se avesse la febbre, la giovane donna entrò in fretta richiudendo la porta dietro di sé. E si lanciò subito in un lungo discorso. «Buongiorno. Chiedo scusa di presentarmi a quest'ora, ma ieri Juno Fetters e io abbiamo ritrovato le carte di Martin, quelle che aveva nascosto. Stava preparando i piani per una rivoluzione in Inghilterra, talmente violenta non solo da far cadere la monarchia, ma da rovesciare l'intero governo... il Par-
lamento, tutto... per mettere al loro posto un senato e un presidente. Si aspettava uno scoppio di violenza. Sono citate le cifre per le vittime che prevedevano, e, nelle sue linee generali, una nuova costituzione, ricca di riforme.» «Davvero?» mormorò Vespasia. «Non mi meraviglia che documenti simili esistessero. Non mi ero resa conto che Martin Fetters si sarebbe lasciato coinvolgere in un piano del genere, se fosse stato messo al corrente dello scoppio di violenza che comportava. Lo avevo creduto un riformatore, non un rivoluzionario.» Charlotte le era rimasta vicina, in piedi, gli occhi incupiti dall'angoscia. «Anch'io.» disse con un sorrisetto triste. «Ed è straziante per Juno. L'uomo che ha amato in realtà non esisteva.» «Accomodati.» Vespasia le indicò una delle poltrone e ne scelse un'altra per sé. «Presumo che tu voglia fare qualcosa in proposito.» «L'ho già fatto» rispose Charlotte con voce strozzata. «Juno ha capito subito che questa informazione rivelava il motivo per cui John Adinett ha ucciso. Quell'uomo non ha potuto riferirlo a nessuno, neanche per salvare se stesso. In fondo, di chi poteva fidarsi? Così Juno ha deciso che, per un senso di onore, doveva svelare tutto.» «A chi?» domandò Vespasia, mentre la paura la trafiggeva, spietata e crudele, come una lama di coltello che la colpisse al cuore. La disperazione era riflessa anche nella faccia di Charlotte. «A Charles Voisey» rispose. «Siamo andate ieri sera da lui, e Juno gli ha raccontato gran parte di ciò che quelle carte contenevano, ma non tutto.» «Vedo.» «No!» Charlotte era livida, adesso, con gli occhi sbarrati. «No, non potete... perché appena prima che lo lasciassimo, lui ha persuaso Juno a distruggere il libro per non allarmare l'opinione pubblica rivelando l'esistenza della congiura quando non possiamo fare i nomi delle persone che ci sono coinvolte. E questo ha un senso. Ma accalorandosi nell'argomento, ha menzionato cose che non gli avevamo detto! Zia Vespasia, lui è della Confraternita... e penso che possa perfino esserne il capo, la mente.» Vespasia stava riflettendo febbrilmente. Ciò che Charlotte aveva detto aveva un senso logico, ed era terribile. Charles Voisey era l'uomo giusto per emergere come capo dello Stato in una nuova Inghilterra rivoluzionaria. Da molti anni era giudice di corte d'appello, aveva una vasta cerchia di amici e colleghi, eppure si era sempre tenuto lontano da ogni controversia politica. E molte altre cose adesso assumevano un senso ben chiaro, brani
di conversazione che aveva ascoltato casualmente, notizie che Pitt le aveva riferito, perfino il suo stesso incontro con Randolph Churchill. E ancora altre le affiorarono alla memoria, e quella esile, lucida, scheggia di dubbio alla quale era rimasta aggrappata si dileguò definitivamente. «Zia Vespasia...» disse piano Charlotte, sporgendosi dalla sua poltrona verso di lei. «Sì... Molto di quello che dici è vero. A me però sembra che ci sia un fatto che hai interpretato in modo scorretto, e se potrai dirlo alla signora Fetters, per lei sarà un grande conforto. Ma la sua sicurezza è della massima importanza e se ha quel libro con sé, ho paura che non la lasceranno tranquilla.» «No, non l'ha più con sé. Lo ha bruciato, lì subito, buttandolo nel fuoco del camino in casa di Voisey. Ma cosa ho capito male? Dove ho sbagliato?» Vespasia sospirò, aggrottando le sopracciglia. «Se Adinett è venuto a sapere tutto d'un tratto dell'esistenza del libro, e della parte che aveva Martin Fetters in una congiura per far scoppiare una rivoluzione, ed è successo proprio quel giorno nella biblioteca di Fetters, perché non ha preso il libro, portandolo via con sé?» «Non sapeva dove fosse, e non aveva il tempo di cercarlo» replicò Charlotte. «Era nascosto straordinariamente bene. Fetters aveva rilegato quelle carte in modo che assomigliassero esattamente a... Oh... sì, capisco. Ma se lo ha visto in quell'occasione, sapeva dov'era. Perché non l'ha preso e portato via?» «Di chi era la grafia delle carte rilegate in quel volumetto?» «Non ne ho idea. Veramente, di due o tre mani diverse. Volete forse dire che non era di Martin il libro?» «Secondo me non dovrebbe essere difficile scoprire che una di quelle grafie era proprio di Adinett» rispose Vespasia. «E, possibilmente, una di Voisey e magari una perfino di Reginald Gleave. Penso che quella che tu non ci avresti mai trovato doveva essere proprio la grafia di Fetters.» «Eppure le aveva rilegate quelle carte!» protestò Charlotte. «State parlando di prove... ma lui era repubblicano. Non ha mai avuto la pretesa di non esserlo!» «Molte persone sono repubblicane» mormorò Vespasia, cercando di controllare la disperazione che la straziava. «Ma per la maggior parte, non intendono far scoppiare una rivoluzione per mezzo della violenza e dell'inganno. Si accontentano di discuterne, cercano di persuadere con l'entusia-
smo o il ragionamento... o tutt'e due le cose. Se Martin Fetters era uno di questi, e aveva scoperto che l'intenzione dei suoi compagni era molto più radicale della propria, loro sarebbero stati costretti a ridurlo immediatamente al silenzio...» «Cioè, quello che Adinett ha fatto» concluse Charlotte. I suoi occhi rivelavano la paura. «Non ci si meraviglia che Voisey odiasse Thomas per l'insistenza con cui ha esibito le prove a sfavore di Adinett, anche perché, in questo modo, ha messo lui stesso nella posizione di essere costretto al voto contrario durante il processo in appello.» La sua bocca prese una piega più dolce. «Ma sono contenta che Martin Fetters non volesse la violenza. Leggendo le sue parole non ho potuto fare a meno di provare simpatia per lui. Chissà che sollievo per Juno quando glielo potrò raccontare... Zia Vespasia, c'è qualcosa che possiamo fare per metterla al sicuro, o perlomeno per essere di aiuto?» «Ci rifletterò» rispose Vespasia, ma benché questa fosse importante, altre cose erano più urgenti e le si affollavano nel cervello. Charlotte la stava osservando con attenzione, e l'ansia le offuscava gli occhi. Ma lei non era preparata a confidarle i propri pensieri; forse non lo sarebbe stata mai. Si alzò in piedi. Charlotte la imitò subito, accorgendosi che era venuto il momento di andar via. «Ieri Thomas è venuto a trovarmi» disse Vespasia. «Stava bene...» Vide che il sollievo inondava la faccia di Charlotte. «Penso che abbiano una certa cura per lui a Spitalfields, che se ne occupino. I suoi vestiti erano puliti e rammendati. Grazie della tua visita, mia cara. Prenderò in considerazione molto attentamente quel che tu mi hai detto. Finalmente molte cose stanno diventando più chiare. Se Charles Voisey è a capo della Confraternita e John Adinett era il suo secondo in comando, ecco che possiamo capire cos'è successo a Martin Fetters, e perché. E sappiamo che Thomas aveva ragione. Vedrò cosa mi può venire in mente per essere di aiuto alla signora Fetters.» Charlotte le sfiorò una guancia con un bacio e la salutò, andando via. Adesso Vespasia doveva agire. I pezzi del mosaico erano già più che abbastanza perché le rimanessero pochissimi dubbi su quanto che era successo. Il debito del principe di Galles non era vero; lo aveva capito da quella dichiarazione che Pitt le aveva portato e con cui, come debitore, garantiva una futura restituzione. Era un falso, ma non avrebbe passato l'esame rigoroso di un tribunale. Il suo scopo era stato quello di convincere gli abitanti di Spitalfields, impauriti, affamati, magari sfrattati, che il loro lavoro era stato spazzato via di colpo e non esisteva più per colpa degli sperperi di
casa reale. E una volta che tumulti e sommosse fossero cominciati, né la verità né le bugie avrebbero più avuto importanza. In aggiunta, Lyndon Remus avrebbe pubblicato il suo servizio giornalistico sul duca di Clarence e i delitti di Whitechapel, e le sommosse sarebbero diventate rivoluzione. La Confraternita avrebbe soffiato sul fuoco fino a quando fosse venuto il momento, per i suoi affiliati, di farsi avanti e prendere il potere. Ricordò Mario Corena al teatro dell'opera. Quando lei aveva detto che Sissons era un tipo noioso da morire, le aveva risposto che si sbagliava e che se l'avesse conosciuto di più avrebbe ammirato il suo coraggio, perfino la sua abnegazione. Come se avesse saputo che Sissons doveva morire. E ricordò la descrizione che Pitt le aveva fatto dell'uomo che aveva visto uscire dallo zuccherificio: anziano, capelli scuri spruzzati di grigio, carnagione olivastra, volto dall'ossatura elegante, altezza media, un anello a sigillo con una pietra scura. La polizia aveva pensato che fosse un ebreo. Si sbagliava: era un romano, un repubblicano appassionato che forse aveva creduto Sissons un compagno pieno di buona volontà. Erano passati cinquant'anni da quando lo aveva conosciuto a Roma. Allora lui non avrebbe assassinato un uomo. Le persone cambiano. Delusione e disappunto possono fiaccare anche il cuore più forte. E la speranza di veder realizzato qualcosa può diventare amarezza, quando dev'essere tenuta a freno. Si vestì di grigio-argento, una stupenda seta marezzata, e scelse uno dei cappelli che preferiva. Il suo viso aveva sempre avuto un aspetto affascinante, sotto una grande ala un po' rialzata da un lato. Poi ordinò che la carrozza venisse alla porta e al cocchiere diede l'indirizzo di Mario Corena. La ricevette con piacere e stupore. Secondo gli accordi presi, non avrebbero dovuto rivedersi fino al giorno seguente. «Vespasia!» Le divorò il volto con gli occhi, osservò la morbida gonna dell'abito dalle pieghe fluenti. Il cappello lo fece sorridere. Fino a che punto l'ammirasse lo diceva il suo sguardo. Ma quando la osservò più attentamente, la gioia scomparve dalla sua espressione. «Cosa c'è?» domandò a bassa voce. «Non dirmi che non c'è niente; posso vedere che non è così.» Ormai non era più il momento di fingere. Una parte di lei avrebbe voluto rimanere lì in quella bella stanza con la vista su una piazza tranquilla, gli alberi fronzuti con il loro lieve fruscio, qua e là qualche striscia di prato. Avrebbe potuto rimanergli vicino, lasciarsi invadere da quel senso di serenità e soddisfazione che aveva sempre provato in sua compagnia. Invece
bisognava affrontare il momento inevitabile. Si volse a guardarlo negli occhi. Per un attimo la sua decisione vacillò. Mario non era cambiato. Quella loro estate a Roma avrebbe potuto essere ieri. Gli anni avevano logorato i corpi, segnato le facce, ma i loro cuori provavano ancora la stessa passione, la speranza, la volontà di combattere e di sacrificarsi, di amare e affrontare il dolore. Le sue palpebre ebbero un battito. «Mario, la polizia sta per arrestare Isaac Karansky o qualche altro ebreo per l'assassinio di James Sissons. Non ho intenzione di permetterlo. Ti prego, non dirmi che è per il bene di un popolo sacrificare una persona perché tutti ne possano trarre vantaggio. Quando usiamo le nostre armi per qualcosa di male, la loro potenza rimane annullata per sempre. Siamo passati al nemico. Pensavo tu sapessi che...» Lui la guardava in silenzio, gli occhi pieni d'ombra. Vespasia aspettò che rispondesse, e lo strazio dentro di lei continuava a crescere, come se fosse lì lì per esplodere. «Lo so, mia cara. Forse ho dimenticato per un momento chi esattamente fosse il nemico. Sissons doveva togliersi la vita per la causa di una più grande libertà. Sapeva, prestando quel denaro al principe di Galles, che non gli sarebbe stato restituito. Sapeva che sarebbe costato il lavoro a molti uomini, ma era preparato a pagare con la sua stessa vita. Poi, all'ultimo momento, il coraggio gli è mancato. Non era l'eroe che voleva essere. E sì... io l'ho ucciso. È stato qualcosa di netto, rapido, senza dolore e paura. Ma ho lasciato la lettera di sua mano in cui diceva di essersi suicidato, e l'impegno scritto del principe a saldare il suo debito. La polizia deve aver nascosto l'una e l'altro. Non riesco a capire come sia successo. Avevamo uno dei nostri uomini di servizio sul posto, e lui avrebbe dovuto provvedere a far confermare apertamente il suicidio in modo che nessun innocente venisse incolpato.» Vespasia non aveva il coraggio di guardarlo. «È quello che ha tentato di fare» ammise. «Ma è arrivato troppo tardi. Qualcun altro aveva già trovato Sissons e, rendendosi conto che un fatto del genere avrebbe scatenato una sommossa, ha distrutto il suo messaggio. Solo che era comunque impossibile che si trattasse di un suicidio perché James Sissons, in seguito a un infortunio, aveva perduto l'uso delle prime dita della mano destra. E il guardiano notturno lo sapeva.» Adesso cercò d'incrociare il suo sguardo. «E io ho visto quella dichiarazione con l'impegno di restituire i soldi. Non era la firma del principe. Un ottimo falso, preparato appositamente per lo scopo.»
Lui fece per parlare, ma poi tacque. A poco a poco tutto gli fu chiaro e sulla sua faccia si disegnarono prima il dolore, e infine la rabbia. Non fu necessario che protestasse di essere stato ingannato; Vespasia non aveva nessun motivo di dubitarne: le bastava fissarlo negli occhi, guardare la sua bocca. Si accorse che le faceva male la gola per la fatica di controllarsi. Lo amava con una tale intensità da sentirsene totalmente consumata, salvo per una piccola parte, fulgida e luminosa, al centro del suo cuore. Se avesse ceduto adesso, dicendo che non aveva importanza, lo avrebbe perduto, e, per di più, avrebbe perduto se stessa. Batté le palpebre, con gli occhi che le bruciavano. «C'è qualcosa che devo cambiare radicalmente» mormorò Mario. «Addio, Vespasia... dico addio, ma ti porterò con me nel mio cuore ovunque io vada.» Le prese una mano e se la portò alle labbra. Poi le girò le spalle e uscì dalla stanza senza più guardarsi indietro. Tutta la storia del principe Eddy e Annie Crook continuava a rimanere impressa nella mente di Gracie. Immaginava la ragazza, una delle solite, di una condizione sociale non molto migliore di quella di tante altre che avrebbe potuto incontrare per le strade, nella sua infanzia... Poi un giorno un bel giovanotto, un po' timido, le era stato presentato. Annie doveva aver capito presto che era un gentiluomo, anche se non immaginava che potesse essere un principe. Ma era diverso dagli altri, isolato dalla sordità e da tutto quanto gli avevano fatto lungo gli anni. Si erano innamorati. E il loro era stato un amore impossibile. Eppure niente di quanto potevano aver immaginato avrebbe mai toccato l'orrore di quel che era successo in seguito. E intanto continuava a non riuscire a liberarsi anche del ricordo di Remus, in Mitre Square, e dell'espressione della sua faccia sotto la luce del lampione a gas quando si era reso conto chi fossero quelli di cui stava seguendo le tracce. Era ancora lì, immobile, con gli occhi fissi sulle file di piatti di ceramica bianca e blu sulla credenza quando qualcuno bussò alla porta di servizio e la fece trasalire, riportandola alla realtà. Era Tellman. Entrò richiudendosi accuratamente la porta alle spalle. Aveva l'aria ansiosa e stanca. Gracie non pensò neanche a domandargli se voleva un tè. Andò a prendere una tazza e gliela riempì. Lui sedette al tavolo e bevve. «Ci ho pensato su» occhieggiandola al di sopra del bordo della tazza. «Conosci il padrone di questo stabilimento, quello che hanno ammazzato a Spitalfields?»
«Sì, ho sentito. Dicevano che forse chiudevano tutti i suoi zuccherifici, poi il principe di Galles, lord Randolph Churchill e altri amici loro hanno tirato su abbastanza soldi per farli lavorare ancora, almeno per qualche settimana.» «Sì. Ripetono che è stato un ebreo... Lo ha fatto fuori perché Sissons aveva chiesto soldi in prestito da tutta una serie di loro usurai, e non poteva ripagarli.» Lei fece segno di sì con la testa. Ma di quello non sapeva niente. «Bene, secondo me, è stato calcolato perché succedesse pressappoco nello stesso tempo in cui si supponeva che Remus doveva trovare gli elementi mancanti a completare l'intera storia dell'assassino di Whitechapel. Solo che non gliel'hanno ancora forniti, questi elementi mancanti, perché la faccenda dello zuccherificio è finita male.» Tellman continuava a fissarla, aspettando di vedere cosa ne pensava. Ma Gracie era confusa, le pareva una storia senza senso. «Sono tornato a cercare il signor Pitt» riprese lui. «Ma non c'era. Stanno cercando di sostenere che è stato Isaac Karansky, l'uomo dove lui sta a pensione, a far fuori Sissons.» «Ed è vero, secondo te?» «Non lo so» confessò Tellman. Aveva l'aria confusa e c'era qualcosa d'altro nei suoi occhi preoccupati. Gracie pensò che forse aveva paura. E aspettò, di nuovo. «Non si tratta di quello.» Lui mise giù la tazza vuota e la fissò negli occhi con aria decisa. «Si tratta di Remus. Ho paura per lui, Gracie. Ma ci pensi? Se ha ragione, quella gente non ci ha pensato due volte a macellare cinque donne a Whitechapel; e non parliamo di quello che hanno fatto ad Annie Crook e alla sua bambina.» «E al povero principe Eddy» bisbigliò Gracie. «Secondo te, è stata una morte naturale, la sua?» Tellman sgranò gli occhi e la sua faccia diventò ancora più pallida. «Non dire cose simili, Gracie! E non pensarle neanche. Mi hai sentito?» «Sì, ti ho sentito. Allora, hai paura per Remus?» «Quelli non ci penserebbero due volte ad ammazzarlo.» «Se ha ragione» Gracie obiettò. «E se sbaglia? E se il principe Eddy non c'entra per niente e la Confraternita si è inventata tutto?» «Ho ugualmente paura per lui» rispose Tellman. «Sono capaci di usarlo, e poi liberarsene.» «E allora, noi cosa facciamo?» si limitò a domandargli Gracie. «Tu non fai un bel niente. Te ne rimani qui a casa e tieni la porta sbarrata. Quella porta di servizio, lì dietro, dovresti tenerla chiusa.» «Alle quattro e mezzo del pomeriggio? Se la tenessi chiusa a chiave, al-
lora sì che la gente penserebbe che sto combinando chissà cosa!» Lui diventò rosso ed evitò di guardarla. Gracie si scoprì a sorridere, cercando di non farlo vedere, ma senza riuscirci. Tellman aveva paura per lei e diventava esageratamente protettivo. E adesso si vergognava perché lei l'aveva capito. «E allora, cosa vogliamo fare?» ripeté. «Dobbiamo avvertirlo. Se lui non ci dà retta, non possiamo farci niente. Però almeno provare bisogna, non ti pare?» «Figurarsi, se mi dà retta!» disse Tellman in tono stanco. «Pensa di aver per le mani il servizio giornalistico più clamoroso del secolo. Non rinuncerà, e non gliene importa dove questo può condurlo. È un fanatico. Gliel'ho letto in faccia.» Gracie, ricordando l'espressione degli occhi di Remus, quella sera, capì che aveva ragione. «Ma è anche impaurito. Lasciami venire con te. Proviamo a dirglielo insieme.» Tellman sembrava incerto. La sua faccia rivelava l'inquietudine. Non aveva nessuno con cui dividere i suoi terrori o il senso di colpa che avrebbe provato se al giornalista fosse successo qualcosa senza che lui tentasse almeno di metterlo in guardia. «Allora noi andiamo a cercarlo e gli spieghiamo che si tratta di una cosa grossa, casomai volesse pubblicare a ogni costo la sua storia senza aver capito chi può mettersi contro.» «Io vado a cercarlo. Tu no. Non se ne parla neanche! E non discutere. Ho detto no e basta.» Lei sospirò e non disse niente. Tellman rimase ancora altri dieci minuti e poi se ne andò dalla porta di cucina. Gracie aveva seguito Remus con successo per tutta la strada fino a Whitechapel e ritorno, ed era convinta di saperci fare. Così andò a prendere cappotto e cappello dal gancio dietro la porta e seguì Tellman. Naturalmente, in questo caso, tutto sarebbe stato più difficile perché lui la conosceva. D'altra parte, non si aspettava che lo seguisse, e lei sapeva dove stava andando. Tellman stava marciando per Keppel Street a passo deciso verso Tottenham Court Road. Voleva prendere l'omnibus. E questo avrebbe complicato un po' le cose. Però lei sapeva dove Remus abitava. E che esisteva una buona possibilità di arrivarci più o meno contemporaneamente a lui, se prendeva la metropolitana. Era un rischio da correre. Girò sui tacchi e si avviò correndo nella direzione opposta. Quando il treno arrivò, prese posto su un sedile controllando sempre più innervosita le stazioni man mano che il treno ci arrivava. Appena individuò quella giusta, si pre-
cipitò fuori e imboccò correndo le scale. La strada era affollata, e dovette chiedere indicazioni prima di ricominciare a correre. Quando finalmente arrivò dove voleva, svoltando l'ultimo angolo, finì dritta addosso a Tellman facendogli quasi perdere l'equilibrio. Lui scoppiò in una serie di bestemmie colorite di cui Gracie non lo avrebbe mai creduto capace. Poi arrossì violentemente. Lei si riaggiustò il cappellino e lo guardò fisso. «E così, lui non è ancora rientrato?» «No...» Tellman si schiarì la gola. «Non ancora.» «Allora sarà meglio aspettare.» Rimasero fianco a fianco all'angolo della strada di fronte alla casa dove Remus abitava. Dopo cinque minuti di silenzio e dopo aver sopportato gli sguardi incuriositi di uno o due passanti, Gracie si fece coraggio e volle dire la sua. «Se non vogliamo farci notare, forse è meglio se parliamo un po'. Così, invece, sembra che aspettiamo chissà che. E a non dire niente non sembra neanche che abbiamo litigato. Perché nessuno tiene il broncio in eterno.» «Ma io non ho il broncio.» «Allora parlami un po'.» «Di che cosa?» chiese lui. Poi l'afferrò per un braccio. «Ecco Remus!» Disse concitato. «Su, vieni!» Le diede uno strattone e si affrettò ad attraversare la strada raggiungendo il marciapiede opposto proprio nel preciso momento in cui il loro uomo apriva la porta ed entrava. Lo chiamò, fermandosi di botto alle sue spalle. Lui sì voltò, trasalendo. Ma s'incupì subito, appena riconobbe Tellman. «Non ho tempo di parlare con voi» disse brusco. «Scusate.» Fece un altro passo e tentò di chiudere la porta. Tellman infilò il piede fra stipite e battente. Remus adesso aveva l'aria furiosa. «Mi avete sentito? Non ho nient'altro da dire e me ne manca anche il tempo. E adesso fuori dai piedi!» Tellman si irrigidì preparandosi a resistere, se l'altro lo avesse aggredito, e non si spostò di un millimetro. «Se continuate ancora a cercare l'assassino di Whitechapel e intendete sapere la vera storia di Annie Crook, meglio lasciar perdere. È troppo pericoloso far qualcosa da solo...» «Ed è maledettamente più pericoloso, accidentaccio, parlarne con qualcuno finché non ne ho la prova. E se c'è chi dovrebbe saperlo, quello siete voi!» Poi il giornalista si rivolse a Gracie. «E anche voi, per quanto non vi conosca.» «Io so di chi potete fidarvi» disse Tellman in fretta. «Informateli di tutto
quanto sapete. È l'unica tutela per voi!» A Remus scintillavano gli occhi e le sue labbra adesso sogghignavano. «Certo che a voi piacerebbe se lo raccontassi alla polizia, vero? Magari cominciando con voi. Ma non mi fido.» Tellman stava lottando con se stesso in cerca di una valida obiezione, ma non la trovò. E neanche Gracie. Al posto di Remus, non si sarebbe fidata di nessuno. «Be', state in guardia» disse. «Lo sapete cos'hanno fatto a quelle donne.» «Eccome, se lo so. Figuriamoci se non sto in guardia.» «No, non è vero!» lo sfidò lei, e le parole le uscirono di bocca convulsamente. «Vi ho seguito per tutta Whitechapel, vi ho perfino parlato, e non ve ne siete accorto neanche. Vi sono anche venuta dietro fino a Mitre Square, ma eravate talmente preso dalle vostre idee...» Remus impallidì e la guardò con gli occhi sbarrati. «Chi siete? E perché mi avreste seguito... se l'avete veramente fatto?» Ma adesso c'era la paura nella sua voce. Forse quell'accenno a Mitre Square gli aveva fatto capire che Gracie diceva la verità. «E va bene, starò in guardia. Ma adesso andatevene» disse indietreggiando e cominciando a chiudere la porta. Tellman si rassegnò; avevano fatto quello che potevano. Batté in ritirata tirandosi dietro Gracie. Quando si ritrovarono sul marciapiede di fronte, si fermò di nuovo e la guardò con aria interrogativa. «Lui ha qualcosa in mente, sta seguendo una pista» disse con sicurezza. «È impaurito, ma non vuole arrendersi.» «Sono d'accordo» disse Tellman a bassa voce. «Voglio andargli dietro, vedere se riesco a proteggerlo in qualche modo. Tu te ne torni a casa, però.» «Io vengo con te.» «Gracie...» Ma in quel momento la porta si aprì di nuovo, il giornalista venne fuori, guardò prima a destra e poi a sinistra, e avendo evidentemente concluso che se n'erano andati, s'incamminò. Non c'era più tempo per discutere. Gli si misero dietro. Lo seguirono con successo per quasi due ore, prima a Belgravia, dove rimase per circa venticinque minuti, poi verso il fiume e lungo l'Embankment. Alla fine lo persero di vista mentre stava tornando di nuovo verso est. Cominciava a farsi buio. Tellman imprecò, frustrato. «Lo ha fatto apposta» disse, su tutte le furie. «Sapeva che gli eravamo alle spalle. Forse ci
siamo fatti notare, gli siamo stati troppo alle calcagna. Che stupidi!» «Magari lo sapeva» obiettò Gracie senza perdere la calma. «Ma forse non eravamo noi quelli ai quali voleva far perdere le sue tracce, non credi?» Tellman si fermò con gli occhi fissi sulla strada dove gli era sembrato di vedere Remus per l'ultima volta. «Sia come sia, ce lo siamo fatti scappare. E stava andando di nuovo verso Whitechapel! Non lo troveremo mai in mezzo a tutto questo traffico.» Fra il buio che stava scendendo e la folla di passanti, carri e carrozze che andavano e venivano, era impossibile individuare qualcosa a più di cinquanta metri, in qualsiasi direzione. Gracie era delusa. Le facevano male i piedi e aveva fame, ma non riusciva a scrollarsi di dosso la paura che Remus non avesse realmente capito il pericolo che stava correndo. «Vieni» disse Tellman gentilmente. «Lo abbiamo perduto. Si va a mangiare un boccone, adesso. E a sedersi.» Le indicò una locanda in fondo alla strada. Il cibo risultò squisito, e riposarsi fu un autentico piacere. Chiacchierarono delle cose più disparate e Tellman le parlò dei primi anni che aveva passato nella polizia. «Come ti chiami?» domandò improvvisamente Gracie quando lui finì di raccontarle una delle sue tante avventure. «Eh?» «Come ti chiami?» ripeté lei, un po' imbarazzata. Non voleva continuare a pensare a lui come a Tellman; voleva un nome di battesimo, quello che usava la sua famiglia. Intanto lui era diventato ancora più rosso di prima, e teneva gli occhi fissi sul piatto che aveva davanti. «Samuel» rispose in fretta. A lei piacque. Sì, le piacque molto. «Troppo buono per te. È un nome vero.» Lui alzò gli occhi di scatto. «Ti piace? Non pensi che è...» «Quello che penso è soltanto che volevo saperlo. Nient'altro. E adesso è ora di tornare a casa...» disse lei. Ma non fece il gesto di alzarsi. «Quel Remus crede di averla, la risposta. Sa la verità, glielo ho letto in faccia. Ha cercato di nasconderla per non farsi accorgere, ma ormai ha tutto in mano, e domani racconterà la sua storia. Sai cosa ti dico? Ci scommetto che è tornato di nuovo a Whitechapel, magari prima di scrivere quel che ancora manca per i giornali. E scommetto che è tornato a visitare quei posti... Hanbury Street, Bucks Row e il resto.»
Capì dal lampo apparso negli occhi di Tellman che a quel punto ci credeva anche lui. Spinse indietro la seggiola e si alzò. «Adesso ci vado. Tu prendi un hansom e torni a casa. Ti darò i soldi» le disse e cominciò a frugarsi in tasca. «Figuriamoci! Non sognartelo, sai?» Intanto Gracie si era alzata anche lei. «Io non ti lascio andare in quel posto da solo. E non perdere il fiato a cercare di convincermi.» Poi, senza aspettarlo, si avviò verso la porta. Tellman la seguì. Fuori, si sbracciò a chiamare la prima vettura di piazza che passava e diede ordine al conducente di portarli in Whitechapel High Street. Lo fece fermare quando vide un poliziotto dall'alta figura fra la nebbia e la fioca luce dei lampioni a gas. Scese d'un balzo e gli corse incontro. Gracie si buttò giù in fretta per stargli dietro, e lo raggiunse proprio mentre gli spiegava che temevano che un informatore fosse in pericolo e avevano immediato bisogno del suo aiuto. «E dove sarebbe questo vostro informatore?» chiese il poliziotto, guardandosi intorno. «In Mitre Square» disse subito Gracie. «Ehi!» li chiamò il vetturino. «Con me avete finito, sì o no?» Tellman tornò sui suoi passi a pagarlo, poi raggiunse Gracie e il poliziotto. Insieme si avviarono lungo High Street, proseguirono per Aldgate Street e svoltarono in Duke Street. Tacevano, e il suono dei loro passi riecheggiava nella nebbia. Qui il silenzio era profondo, i lampioni più distanziati, l'acciottolato viscido. L'umidità prendeva alla gola. Gracie si sentiva le guance umide. Deglutì a fatica. Le sembrava di non riuscire quasi a respirare. Pensò alla grande carrozza nera che passava con sordo rumore di ruote per quelle strade mentre qualcosa di incredibilmente violento e perverso avveniva nel suo interno, un'enorme carrozza nera che, poi, rimaneva ferma ad aspettare. Si aggrappò al braccio di Tellman e lo strinse forte quando un ratto attraversò la strada e qualcuno si mosse strisciando lungo il muro. Lasciarono Duke Street infilando il vicolo lungo la chiesa di St. Botolph. Procedevano a tentoni, aiutati adesso nella marcia dalla lanterna del poliziotto, verso l'estremità opposta e Mitre Square. Sbucarono in quell'ampio spazio vuoto, illuminato fiocamente da un unico lampione in alto, fissato a un muro. Non c'era nessuno. Gracie si sentì quasi girare la testa per il sollievo. Poi sentì Tellman che trasaliva, con il fiato mozzo, e si lasciava
sfuggire una specie di singhiozzo. Allora lo vide anche lei, accasciató scompostamente, a braccia larghe; sul lastricato di pietra nell'angolo più lontano. Il poliziotto andò avanti, il respiro corto, trascinando i piedi. «No!» disse Tellman, trattenendo Gracie e respingendola indietro. Ma lei vide ugualmente, al chiarore della lanterna. Lyndon Remus giaceva esattamente come Catherine Eddowes era stata trovata, la gola tagliata, le viscere tirate fuori dal corpo e disposte lungo le sue spalle secondo chissà quale orrido rito. Rimase a fissare il cadavere con gli occhi sgranati per un altro terribile momento ancora, un momento che s'impresse a fuoco, per sempre, nel suo cervello, poi si voltò nascondendo la testa contro la spalla di Tellman. Sentì le sue braccia che la stringevano forte. Remus aveva conosciuto la verità, e ne era morto. Ma di quale verità si trattava? Ecco la domanda che continuava ripetersi. L'autore dei delitti di Whitechapel lo aveva ammazzato perché lui aveva scoperto che c'era stata una congiura per nascondere l'imprudente amore segreto del principe Eddy? Oppure era stata la Confraternita, perché aveva scoperto che niente di tutto ciò era vero, e Jack lo Squartatore, Grembiule-di-Cuoio, era un pazzo che agiva da solo, né più né meno come tutti avevano sempre creduto? Morendo in quel modo orribile, aveva portato con sé il suo segreto. Quale che fosse la storia che aveva scoperto, nessuno l'avrebbe più raccontata. Gracie si liberò dalla stretta di Tellman quel tanto che bastava per buttargli le braccia al collo, poi gli si fece più vicina e sentì la sua guancia e le sue labbra sui capelli. La casa di Isaac e Leah era silenziosa. Senza di loro sembrava quasi che non avesse più vita. Pitt ascoltò il suono del proprio passo nel corridoio. Teneva sempre la stufa accesa per poter cucinare qualcosa e avere almeno un po' d'acqua calda, ma si accorgeva che a dare un vero calore lì dentro era la presenza di Leah. Cenò solo soletto e andò presto a letto, senza sapere cos'altro fare. Era ancora sveglio, al buio sotto le coperte, quando sentì dei colpi secchi alla porta. Il suo primo pensiero fu che questo volesse dire ulteriori guai fra la comunità ebrea, che qualcuno venisse in cerca di Isaac. Ma lui non poteva far niente, soltanto andare ad aprire. Raggiunse l'ultimo gradino della scala, con tre passi percorse il corridoio e tirò il paletto. Victor Narraway entrò subito e la richiuse alle spalle. La sua faccia appariva esangue e sconvolta, al lume a gas dell'anticamera, i suoi folti capel-
li arruffati e inumiditi dalla nebbia. Pitt provò un tuffo al cuore. «Cosa c'è?» La fantasia gli faceva affollare alla mente tante immagini, una più atroce dell'altra. «La polizia mi ha appena avvertito» rispose Narraway con voce rauca. «Voisey ha sparato a Mario Corena.» Pitt rimase strabiliato, e per un momento la notizia non significò niente per lui. Non riusciva a localizzare Corena, e Voisey era soltanto un nome. «Mario Corena è stato uno dei più grandi eroi delle rivoluzioni scoppiate in Europa nel '48» disse piano Narraway, come se fosse sconvolto e un'enorme tristezza gli pesasse sul cuore. «È stato uno dei più coraggiosi, dei più generosi di tutti...» «Cosa stava facendo a Londra?» Pitt continuava a essere sconcertato. «E per quale motivo Voisey avrebbe dovuto sparargli?» Gli tornarono in mente certe allusioni di Charlotte e Vespasia. «Voisey non è un simpatizzante di tutto quanto è repubblicano? A ogni modo, Corena è italiano. Perché Voisey dovrebbe occuparsi di lui?» «Corena era al di sopra di ogni singola nazione, Pitt. Soprattutto era un grand'uomo, disposto a sacrificare quanto possedeva per lottare e ottenere una vita decorosa per tutte le popolazioni e un alto livello di giustizia e umanità ovunque.» «Allora perché Voisey lo avrebbe ucciso?» «Per legittima difesa, dice. Vestitevi e venite con me. Andremo a vedere di che si tratta. Fate presto!» Pitt ubbidì senza fare altre domande. Mezz'ora più tardi erano a bordo di una vettura che andò a fermarsi davanti all'elegante palazzina di Charles Voisey in Cavendish Square. Narraway scese, pagò e si avviò alla porta padronale, che gli venne subito aperta da un poliziotto in uniforme. C'erano due uomini nel vestibolo. Uno, il medico della polizia, e Pitt lo riconobbe subito; quanto all'altro, non sapeva chi fosse. Fu proprio quest'ultimo a rivolgersi a Narraway, accennando a una delle porte che davano sul vestibolo. Narraway rivolse un'occhiata a Pitt per fargli capire che doveva seguirlo, poi si avviò da quella parte. La stanza era chiaramente usata come studio, con una grande scrivania, alcune librerie e due poltrone di cuoio. Il gas era acceso e anche la luce. Sul pavimento, come se entrando dalla porta si fosse diretto subito verso la scrivania, giaceva un uomo magro con la carnagione olivastra, i capelli scuri abbondantemente spruzzati di grigio. A una delle sue belle mani affusolate portava un anello a sigillo, adorno di una pietra scura. Il suo volto era bellissimo, le labbra incurvate appena in un sorriso. La morte lo aveva
colto senza orrore e senza paura, quasi come un'amica a lungo attesa. Narraway era rimasto impietrito. Lottava per dominare la commozione. Pitt conosceva quell'uomo. S'inginocchiò e lo toccò. Era ancora caldo, ma giaceva in un lago di sangue. Sulla sua morte non potevano esserci dubbi. Si rialzò e si volse a Narraway, il quale deglutì a fatica girando gli occhi dall'altra parte. «Andiamo a parlare con Voisey. Vediamo come può... spiegare questo!» Aveva la voce strozzata, vibrante di collera. Narraway chiuse la porta con delicatezza, come se quello studio adesso fosse una specie di sacrario. Attraversò il vestibolo, verso il secondo uomo che era rimasto ad aspettarlo. Si scambiarono un'occhiata che diceva tutto, poi l'uomo aprì un'altra porta e Narraway entrò, subito seguito da Pitt. Era il salotto. Charles Voisey sedeva sul bordo di un ampio divano, la testa fra le mani. Alzò gli occhi quando Narraway gli si parò di fronte. Era livido in faccia. «Mi si è avventato addosso!» disse con voce stridula, rotta dall'emozione. «Sembrava un pazzo. Aveva una rivoltella. Ho tentato di ragionare, ma non mi ha voluto prestare ascolto. Non... non sembrava neanche che ascoltasse una sola parola di quanto stavo dicendo. Sembrava... sembrava un fanatico!» «Perché avrebbe voluto ammazzarvi?» domandò Narraway, gelido. Voisey deglutì a fatica. «Era... era un amico di John Adinett, e sapeva che lo ero stato anch'io. Pensava che io... chissà come, chissà perché... lo avessi tradito perché non ero stato capace di salvarlo dalla forca. Non aveva capito.» Diede un'occhiata a Pitt, poi fissò di nuovo Narraway. «Ci sono lealtà più grandi e più alte dell'amicizia, e non ha importanza quanta sia la stima che si può avere per una persona.» «Era un grande repubblicano» disse Narraway con una strana intonazione nella voce, un miscuglio di passione e sarcasmo che Pitt non seppe interpretare. «Sì...» Voisey adesso esitava. «Sì, certo. Ma...» S'interruppe di nuovo. I suoi occhi esprimevano l'incertezza. Guardò Pitt e per un momento l'odio si disegnò apertamente sulla sua faccia. Poi, altrettanto rapidamente, lo mascherò di nuovo, abbassando lo sguardo. «Lui credeva in molte riforme e lottava per ottenerle con tutto il suo coraggio e la sua intelligenza. Ma io non potevo rinnegare la legge. E Corena questo non riusciva a capirlo. C'era qualcosa del... del selvaggio in lui. Non ho avuto scelta. Mi si è buttato addosso come un pazzo, giurando di uccidermi. Ho lottato con lui, ma non sono riuscito a strappargli la rivoltella. Per essere un vecchio, aveva una
forza straordinaria. Dalla rivoltella è partito un colpo.» Non aggiunse altro; non sarebbe stato necessario. «Vedo» disse Narraway con voce cupa. «Quindi sostenete che sia stata legittima difesa?» Le sopracciglia di Voisey si alzarono di scatto. «Certamente! Buon Dio... come fate a pensare che gli abbia sparato di proposito?» Lo stupore e l'incredulità erano evidenti in modo tale dal suo atteggiamento che Pitt, a dispetto dei propri sentimenti, non poté fare a meno di credergli. Narraway girò sui tacchi e uscì a lunghi passi concitati, lasciando che la porta oscillasse sui cardini. Pitt rivolse ancora un'occhiata a Voisey, poi seguì Narraway che si fermò subito e gli parlò a bassa voce. «Voi conoscete lady Vespasia Cumming-Gould, vero?» Non era una domanda e infatti non aspettò una risposta. «Forse non sapevate che Corena è stato l'amore più grande della sua vita. Non domandatemi come lo so. Lo so e basta. Dovreste essere voi a dirglielo. Non lasciate che lo legga sui giornali o se lo senta riferire da qualcuno che non sa cosa voglia dire per lei.» Vespasia! C'era una sola risposta possibile. Pitt fece segno di sì perché non si fidava della propria voce, poi si avviò alla porta e uscì sulla strada silenziosa. Prese il primo hansom di passaggio e diede l'indirizzo. Quando suonò alla porta, con sua grande sorpresa, gli vennero ad aprire nel giro di pochi istanti. «Buonasera, signore» disse il maggiordomo a mezza voce. «Sua signoria è ancora alzata. Se volete entrare, andrò ad avvertirla che siete qui.» «Grazie...» Pitt era confuso, gli pareva di vivere un incubo. Seguì il maggiordomo nel salottino giallo e rimase in piedi, ad aspettare. Non avrebbe saputo dire se fossero passati due o tre o dieci minuti quando la porta si aprì e Vespasia entrò. Indossava una lunga vestaglia di seta color bianco-avorio, i capelli ancora raccolti in una morbida crocchia sulla testa. Appariva fragile, vecchia, di una bellezza quasi eterea. Pitt si accorse di avere la gola chiusa da un nodo, gli occhi lucidi. «È tutto a posto, Thomas» disse lei tanto piano che quasi non riuscì a sentirla. «So che è morto. Mi ha scritto spiegandomi cosa intendeva fare. È stato lui a uccidere James Sissons, perché credeva che quella fosse la vera intenzione di Sissons stesso, e che all'ultimo momento avesse perduto il coraggio di diventare un eroe. Sei libero di usare tutto questo che ti dico, di fare in modo che Isaac Karansky non sia accusato di un delitto che non ha commesso... e magari ne sia invece accusato Charles Voisey, anche se non
so come potresti riuscirci.» Pitt si odiò per doverglielo dire, ma capiva di non poter rimanere per sempre con quella menzogna sul cuore. «Voisey sostiene di avergli sparato per difesa. Non so se potremo provare il contrario.» Vespasia sembrò quasi che abbozzasse un sorriso. «Sono sicura che è stato così» ammise. «Charles Voisey è il capo della Confraternita. Se la loro congiura per far scoppiare una rivoluzione fosse riuscita, lui sarebbe diventato il primo presidente d'Inghilterra.» Per un attimo Pitt rimase stupefatto. Poi si calmò e ogni cosa gli apparve di una logica perfetta: Martin Fetters aveva scoperto la congiura, affrontato Adinett, che probabilmente era l'amico e il vice di Voisey, e si era fatto uccidere perché lui voleva certe riforme, ma una rivoluzione no. Poi, malgrado tutto il suo potere e la sua lealtà, Voisey non aveva potuto salvare Adinett. Non c'era da meravigliarsi che l'odiasse, pensò Pitt, e che avesse usato tutta la sua influenza per distruggerlo. E Mario Corena, un uomo spinto da un ardore più semplice e puro, era stato usato e ingannato per distruggere Sissons. E quando finalmente se n'era reso conto, aveva cercato di vendicarsi su Voisey. «Non capisci, vero?» mormorò Vespasia. «Voisey aveva intenzione di esser l'eroe supremo di tutte le riforme, il leader per una nuova era. Forse, in origine, i suoi scopi erano buoni. E sicuramente aveva qualche brava persona con sé. Ma la sua arroganza lo ha convinto che aveva il diritto di decidere per noi quale fosse il nostro bene, e di imporlo, con o senza il nostro consenso.» «Sì... capisco...» Vespasia scrollò la testa, e i suoi occhi erano pieni di lacrime. «Ma adesso non può più fare niente del genere. Ha ucciso il più grande eroe repubblicano del secolo.» «Ma è stata autodifesa.» Lei sorrise e le lacrime le scesero sulle guance. «Perché aveva scoperto la congiura per rovesciare la monarchia, inventare il falso debito del principe di Galles, assassinare Sissons e preparare tutto per far scoppiare sommosse e tumulti... e quando Mario se n'è reso conto, lo ha aggredito; Voisey, naturalmente, ha dovuto sparare. Un uomo di grande coraggio! Ha scoperto praticamente da solo una spaventosa congiura e ha potuto dare un nome agli uomini che l'avevano organizzata... Come minimo cadranno in disgrazia, forse saranno perfino arrestati. Non è escluso che la regina lo possa addirittura nominare baronetto... Cosa ne pensi? Devo parlare con
Somerset Carlisle per vedere se si può ottenerlo.» Poi gli voltò le spalle e uscì dal salotto senza aggiungere una sola parola. Quasi un mese esatto più tardi, Pitt, tornato a essere sovrintendente di Bow Street, era in piedi vicino a Charlotte nella sala del trono di Buckingham Palace. Si sentiva terribilmente a disagio così vestito a nuovo, la camicia immacolata, il colletto dritto e inamidato, le scarpe perfette. Aveva perfino i capelli ben tagliati e pettinati. Charlotte indossava un abito nuovo, e lui non l'aveva mai vista tanto incantevole. Ma era Vespasia, a pochi metri di distanza, che attirava la sua attenzione, vestita in grigio tortora con perle al collo e alle orecchie, i capelli argentei, lucenti, la testa alta, il volto delicato, dalle fattezze eleganti, pallidissimo. Si rifiutò di appoggiarsi al braccio di Somerset Carlisle benché lui fosse pronto a esserle di aiuto. Poco più avanti di loro, Charles Voisey posò un ginocchio a terra mentre un'altra donna anziana, piccola di statura, grassoccia, gli occhi vivacissimi, si muoveva un po' goffamente per toccarlo sulla spalla con la spada. Poi gli ordinò di alzarsi. «Siamo sensibili al grande servizio che ci avete reso per il trono e la continuazione della sicurezza e prosperità del vostro paese, sir Charles» disse con voce netta e distinta. «È nostro piacere rendervi di fronte al mondo il riconoscimento per gli atti di coraggio e la generosa lealtà di cui avete dato dimostrazione in privato.» Il principe di Galles, poco distante, lo guardò raggiante per dimostrargli il suo compiacimento e una sincera gratitudine. «Il trono non ha più leale servitore e amico» disse in tono pieno di ammirazione. Voisey cercò di parlare, ma gli morì la voce in gola, come gli sarebbe sempre morta in gola da quel momento in poi, se avesse mai dovuto manifestare ad alta voce il proprio apprezzamento per una forma di governo repubblicana. S'inchinò e si avviò all'uscita. Intanto ebbe il tempo di scoccare a Pitt un'occhiata piena di un odio tanto violento che lo faceva tremare dalla testa ai piedi, e gli imperlava la faccia di sudore. Charlotte afferrò il marito per un braccio e glielo strinse fino ad affondargli le dita nella carne, sotto la manica della giacca. Voisey si girò verso Vespasia. Lei incrociò il suo sguardo senza batter ciglio, tenendo alta la testa, e sorrise con la stessa calma, forte e intensa, con cui Mario Corena aveva affrontato la morte. Poi si voltò e si allontanò perché lui non vedesse le sue lacrime.
FINE