Wilbur Smith
Il Dio Del Fiume Questo romanzo, come già molti altri, è dedicato a mia moglie, Danielle Antoinette. Il Ni...
545 downloads
3098 Views
3MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
Wilbur Smith
Il Dio Del Fiume Questo romanzo, come già molti altri, è dedicato a mia moglie, Danielle Antoinette. Il Nilo che scorre lungo tutta questa storia ci tiene entrambi in suo potere. Abbiamo trascorso giorni meravigliosi solcando le sue acque e oziando sulle sue rive. Il Nilo è una creatura dell'Africa, proprio come noi. Eppure questo possente fiume non scorrerà mai con la forza e la profondità dell'amore che provo per te, mia cara.
Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
1
Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
2
I
l fiume si snodava lento nel deserto, luminoso come una colata di metallo fuso appena sgorgato dalla fonderia. Il cielo era velato dalla foschia e il sole batteva con la violenza del maglio d'un ramaio. Nel miraggio, le colline spoglie che fiancheggiavano il Nilo parevano tremare sotto i colpi. La nostra barca procedeva veloce accanto ai papiri, abbastanza vicina perché giungesse fino a noi lo scricchiolio dei secchi pieni d'acqua degli altaleni, dai lunghi bracci controbilanciati, che irrigavano i campi. Quel suono si fondeva con il canto della ragazza seduta a prua. Lostris aveva quattordici anni. Il Nilo aveva iniziato l'ultima inondazione lo stesso giorno in cui era fiorita per la prima volta la sua luna rossa di donna, una coincidenza che i sacerdoti di Hapi avevano considerato molto propizia. Lostris era il nome da adulta che avevano scelto per sostituire il nome abbandonato di bambina, e significava: «Figlia delle Acque». La ricordo nitidamente, quel giorno. Sarebbe diventata ancora più bella con il trascorrere degli anni, sarebbe diventata più posata e regale, ma quello splendore di femminilità virginea non si sarebbe più irradiato da lei in modo così travolgente. Tutti gli uomini che erano a bordo, persino i guerrieri sulle panche dei rematori, ne erano consapevoli. Né io né loro riuscivamo a distogliere lo sguardo da lei. Lostris infondeva in me un senso d'inadeguatezza e, nel contempo, mi suscitava un desiderio profondo e sconvolgente perché, sebbene io sia eunuco, sono stato castrato soltanto dopo aver conosciuto la gioia del corpo d'una donna. «Taita», mi disse, «canta con me!» E quando obbedii sorrise di piacere. La mia voce era una delle tante ragioni per cui mi teneva vicino ogni volta che poteva; era una voce tenorile perfettamente complementare alla sua incantevole di soprano. Cantammo una delle vecchie canzoni d'amore dei contadini che le avevo insegnato e che era fra le sue predilette: Il mio cuore palpita come una quaglia ferita quando vedo il volto del mio amore e le mie guance si arrossano come il cielo dell'aurora nel sole del suo sorriso. Dalla poppa, un'altra voce si uni alla nostra. Era una voce d'uomo, potente e profonda, ma non aveva la limpida purezza della mia. Se la mia voce era quella di un tordo che saluta il sorgere del giorno, la sua era quella d'un giovane leone. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
3
Lostris girò la testa e il suo sorriso sfolgorò come i raggi del sole sulla superficie del Nilo. Sebbene l'uomo cui rivolgeva il sorriso fosse mio amico, forse il mio unico vero amico, sentivo l'amaro dell'invidia che bruciava in fondo alla gola. Tuttavia m'imposi di sorridere a Tanus con affetto, come faceva lei. Il padre di Tanus, il nobile Pianki Harrab, era stato uno dei grandi dell'aristocrazia egizia, ma la madre era figlia di una schiava di Tehenu. Come tanti altri del suo popolo, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. Era morta di febbre delle paludi quando Tanus era ancora piccolo, e perciò conservavo di lei solo un vago ricordo. Ma le vecchie dicevano che raramente s'era vista nei due regni una bellezza come la sua. D'altra parte avevo conosciuto e ammirato il padre di Tanus, prima che perdesse tutta la sua immensa ricchezza e le grandi proprietà terriere che quasi rivaleggiavano con quelle dello stesso Faraone. Aveva la carnagione scura, e gli occhi tipicamente egizi del colore dell'ossidiana levigata; era un uomo più forte che bello, ma dotato d'un cuore nobile e generoso. Qualcuno potrebbe sostenere che era troppo generoso e fiducioso, perché era morto povero con il cuore spezzato da coloro che aveva creduto amici, solo nell'oscurità ed escluso dalla luce del favore sovrano. Sembrava che Tanus avesse ereditato il meglio da entrambi i genitori, escluse le ricchezze terrene. Per carattere e forza somigliava al padre, e per bellezza alla madre. Quindi, perché avrei dovuto risentirmi se la mia padrona lo amava? Lo amavo anch'io e, dato che ero un povero castrato, sapevo che non avrei mai potuto averla per me, neppure se gli dei mi avessero innalzato a una condizione ben superiore a quella di schiavo. Tuttavia la natura umana è così contraddittoria che desideravo ciò che non avrei mai potuto avere e sognavo l'impossibile. Lostris era seduta sui cuscini, a prua, con le schiave adagiate ai suoi piedi, due ragazzine negre di Cush, agili come pantere e completamente nude a parte i collari d'oro che cingevano loro il collo. Quanto a lei, indossava soltanto una gonna di lino sbiancato, fresco e candido come l'ala d'una egretta. La pelle della parte superiore del corpo, accarezzata dal sole, aveva il colore del legno dei cedri che crescono sulle montagne al di là di Byblos. I seni avevano la forma e la grandezza di fichi maturi, pronti per essere colti, ed erano coronati da granati rosei. S'era tolta la parrucca e portava i capelli in una treccia laterale che le scendeva su un seno come una grossa corda scura. II taglio obliquo degli Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
4
occhi era sottolineato dalla polvere verde argentea di malachite che le ornava le palpebre superiori. Anche gli occhi erano verdi, ma del verde più scuro e limpido del Nilo, quando le sue acque si sono ritirate dopo aver depositato il prezioso carico di limo. Tra i seni, appesa a una catena d'oro, portava un'immagine di Hapi, la dea del Nilo, scolpita in oro e lapislazzuli: un oggetto splendido che avevo realizzato con le mie mani apposta per lei. All'improvviso Tanus alzò la destra chiusa a pugno. All'unisono, i rematori smisero di vogare tenendo sospese in aria le pale che scintillavano nella luce solare e grondavano acqua. Poi Tanus girò con forza il remo timoniere, e gli uomini sulla fiancata di tribordo affondarono i remi e vogarono all'incontrario, creando una serie di minuscoli vortici sulla superficie dell'acqua verde. Quelli di babordo ripresero a vogare in avanti. La barca girò con un movimento brusco e il ponte s'inclinò in un angolo allarmante. Poi entrambe le file remarono insieme e l'imbarcazione sfrecciò via. La prua affilata, ornata dai grandi occhi azzurri di Horus, fendette la massa folta dei papiri. La barca lasciò il corso del fiume e si addentrò nelle acque calde della laguna, Lostris smise di cantare e si schermò gli occhi con le mani per guardare avanti. «Eccoli!» esclamò e tese la mano graziosa per indicare. Le altre barche della squadra di Tanus erano sparse come una rete sul tratto meridionale delia laguna e bloccavano l'accesso principale al grande fiume, in modo da tagliare ogni possibilità di fuga in quella direzione. Naturalmente Tanus si era scelto la posizione a nord: sapeva che là la caccia sarebbe stata più animata. Avrei preferito che non fosse così. Non sono un vigliacco, ma dovevo tener conto della sicurezza della mia padrona. Era riuscita a imbarcarsi sul Soffio di Horus solo dopo molti intrighi in cui, come al solito, mi aveva coinvolto. Quando suo padre avesse saputo della sua presenza alla caccia, e l'avrebbe saputo di certo, sarebbero stati guai per me; ma se avesse scoperto che io le avevo anche permesso di restare per un'intera giornata in compagnia di Tanus, neppure la mia posizione privilegiata mi avrebbe protetto dalla sua collera. Mi aveva dato istruzioni molto precise, a proposito di quel giovane. Mi sembrava tuttavia di essere l'unico preoccupato, a bordo del Soffio ài Horus. Gli altri fremevano d'eccitazione. Tanus trattenne i rematori con un cenno imperioso della mano e la barca si arrestò e rimase a dondolarsi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
5
dolcemente sull'acqua verde, così immobile che quando mi sporsi e vidi la mia immagine riflessa fui colpito, come sempre, dal fatto che la mia bellezza si fosse conservata così bene negli anni. Mi sembrava che il mio viso fosse ancora più incantevole dei cerulei fiori di loto che l'incorniciavano. Ma ebbi poco tempo per ammirarlo perché l'equipaggio era preso dall'agitazione. Uno degli ufficiali innalzò sull'albero lo stendardo personale di Tanus. Era l'immagine di un coccodrillo azzurro, con la grande coda dentata tenuta eretta e le fauci spalancate. Soltanto un ufficiale appartenente al manipolo dei «Migliori di Diecimila» aveva diritto allo stendardo; e Tanus aveva conquistato quel diritto, nonché il comando della Divisione del Coccodrillo Azzurro della guardia del Faraone prima di compiere i vent'anni. L'apparizione dello stendardo era il segnale per l'inizio della caccia. All'orizzonte della laguna il resto della squadra appariva minuscolo, ma i remi cominciarono a battere l'acqua ritmicamente; si alzavano e si abbassavano come le ali delle oche selvatiche in volo e brillavano nella luce del sole. Le piccole increspature delle scie si prolungavano sulle acque placide e rimanevano a lungo sulla superficie come se fossero modellate nell'argilla compatta. Tanus calò a poppa il gong, un lungo tubo di bronzo, e lasciò che l'estremità affondasse sotto la superficie. Quando fosse stato colpito da una mazza dello stesso metallo, i toni striduli e riverberanti si sarebbero propagati nell'acqua e avrebbero gettato nella costernazione le nostre prede. Purtroppo, sapevo che questa costernazione poteva trasformarsi con facilità in una rabbia omicida. Tanus rideva di me. Anche nell'eccitazione, aveva intuito i miei dubbi: per essere un rude soldato, era dotato di capacità percettive insolite. «Vieni sulla torre di poppa, Taita!» ordinò. «Potrai suonare il gong, e per un po' smetterai di preoccuparti per la salvezza della tua pelle.» Quella spensieratezza mi feriva, ma l'invito era un sollievo, perché la torre di poppa era alta sull'acqua. Mi mossi per obbedire senza tradire una fretta indecorosa, e quando gli passai accanto mi soffermai per esortarlo in tono severo. «Abbi cura della sicurezza della mia padrona. Hai sentito, ragazzo? Non incoraggiarla a compiere gesti avventati, perché è pazza quanto te.» Potevo permettermi di parlare in quel tono a un illustre comandante dei Diecimila, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
6
perché un tempo era stato mio allievo e in più di un'occasione avevo usato il bastone su quelle natiche marziali. Tanus mi sorrise proprio come faceva a quei tempi, perché era baldanzoso e impudente come sempre. «Lascia la dama nelle mie mani, t'imploro, vecchio amico. Non c'è niente che mi sarebbe più gradito, credimi!» Non mi fermai a rimproverarlo per aver usato quel tono irrispettoso: avevo una certa fretta di prendere posto nella torre. E di lassù vidi Tanus afferrare il suo arco. Era un'arma già famosa nell'esercito, anzi lungo l'intero grande fiume, dalle cataratte al mare. L'avevo progettata per lui quando s'era dichiarato insoddisfatto delle misere armi disponibili fino a quel momento. Gli avevo proposto di tentare di foggiare un arco con un materiale nuovo, diverso dai legni deboli che crescono nella nostra stretta valle fluviale, magari con legni esotici come quello degli ulivi della terra degli ittiti, o dell'ebano di Cush, o magari con materiali ancora più robusti, come il corno del rinoceronte o le zanne d'avorio dell'elefante. Fin dall'inizio del tentativo ci imbattemmo in una serie di difficoltà: e la prima era la fragilità di quelle sostanze esotiche. Nello stato naturale, nessuna poteva piegarsi senza subire incrinature, e soltanto le zanne d'elefante più grandi, e quindi più dispendiose, mi avrebbero permesso di ricavare un arco completo. Risolsi entrambi i problemi spaccando in schegge l'avorio di una zanna più piccola e incollandole insieme in modo da formare un arco intero. Purtroppo era troppo rigido perché un uomo potesse incurvarlo. Tuttavia, partendo da quella fase più facile e naturale giunsi ben presto a laminare e usare insieme i quattro materiali prescelti: legno d'ulivo, ebano, corno e avorio. Naturalmente vi furono mesi e mesi di sperimentazioni con varie combinazioni e vari tipi di colle per tenerli insieme. Non riuscimmo mai a produrre una colla abbastanza forte. Alla fine risolsi il problema legando l'intero arco con un filo d'elettro per impedire che andasse in frantumi. C'erano due uomini robusti che aiutavano Tanus con tutte le loro forze ad attorcere il filo metallico mentre la colla era ancora calda. Quando si raffreddò, l'arco aveva ormai una combinazione quasi ideale di forza e di flessibilità. Poi tagliai vari pezzi di budella d'un grande leone dalla criniera nera che Tanus aveva cacciato e ucciso nel deserto con la lancia a punta bronzea. Li conciai e li attorsi per formare la corda. Il risultato fu un arco splendido, così potente che soltanto un uomo, fra le centinaia che avevano tentato, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
7
riusciva a tenderlo completamente. Il metodo regolamentare per l'uso dell'arco insegnato dagli istruttori dell'esercito consisteva nel porsi di fronte al bersaglio, attirare la freccia incoccata fino allo sterno, mantenere la mira per qualche attimo, e scagliarla a comando. Ma neppure Tanus aveva la forza per tendere l'arco e tenere la mira. Era stato costretto a inventare uno stile completamente nuovo. Si metteva di sbieco rispetto al bersaglio, volgendogli la spalla sinistra, alzava l'arco con il braccio sinistro proteso e poi con uno scatto convulso, tirava indietro la freccia sino a quando le piume gli toccavano le labbra e i muscoli delle braccia e del petto si gonfiavano nello sforzo. E nell'istante della massima estensione, scagliava la freccia come se non mirasse neppure. All'inizio i suoi dardi volavano a casaccio come api selvatiche uscite dall'alveare, ma Tanus si esercitò con costanza, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Le dita della mano destra si spellarono e sanguinarono per l'attrito con la corda; ma poi guarirono e s'indurirono. L'interno dell'avambraccio sinistro era livido ed escoriato nel punto in cui la corda rimbalzava dopo il lancio della freccia, ma io confezionai un parabraccio di cuoio per proteggerlo. E Tanus continuava a esercitarsi. Persino io avevo perso fiducia nella sua capacità di padroneggiare l'arma, ma lui non desisteva. Con lentezza tormentosa ne acquisi il controllo al punto che, finalmente, poté scagliare tre frecce con tanta rapidità da farle volare tutte in aria nello stesso istante. Almeno due su tre colpivano il bersaglio, un disco di rame grande come la testa di un uomo collocato alla distanza di cinquanta passi. La forza delle frecce era tale che riuscivano a trapassare nettamente il metallo, sebbene avesse lo spessore del mio mignolo. Tanus chiamò quest'arma potentissima Lanata, che era anche il nome infantile abbandonato dalla mia padrona. Ora Tanus stava a poppa con la giovane donna al fianco e l'arco nella mano sinistra. Erano una coppia magnifica, ma lo erano in modo troppo palese perché potessi sentirmi tranquillo. Gridai bruscamente: «Padrona! Torna subito qui! Lì è pericoloso». Non si degnò neppure di girar la testa, ma fece un segno con la mano. Tutto l'equipaggio lo vide, e i più audaci sghignazzarono. Doveva essere stata una delle volpette nere che la servivano a insegnare a Lostris quel gesto, più appropriato alle donne delle taverne in riva al fiume che alla nobile Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
8
figlia della Casa di Intef. Pensai di farle le mie rimostranze; ma rinunciai subito perché la mia padrona si lascia frenare soltanto in certi casi. Perciò mi applicai a battere sul gong bronzeo con vigore sufficiente a mascherare il mio dispiacere. I toni striduli e riverberanti si diffusero nelle acque vitree della laguna; subito l'aria si riempi di un frullo d'ali, e un'ombra passò davanti al sole quando dai papiri, dalle lanche nascoste e dalle acque scoperte si levò in volo un nugolo immenso di uccelli acquatici. Erano di cento varietà: ibis bianchi e neri dalle teste d'avvoltoio, sacri alla dea del fiume, stormi di oche starnazzanti dal piumaggio color ruggine, ognuna con una goccia di rubino al centro del petto, aironi verdi, blu o neri come la notte, con i becchi come spade e ali che battevano pesantemente; e anitre in tale profusione che il loro numero sembrava, ai nostri occhi, il frutto di un'illusione. La caccia agli uccelli selvatici è uno dei passatempi più amati dalla nobiltà egizia; ma quel giorno cercavamo una selvaggina ben diversa. In quel momento scorsi, molto più avanti, un movimento sulla superficie cristallina. Era un movimento pesante e massiccio, e mi sentii tremare perché sapevo quanto fosse terribile quella bestia. Anche Tanus l'aveva vista, ma la sua reazione fu del tutto diversa dalla mia. Gridò come un cane da caccia e i suoi uomini gridarono con lui e si piegarono sui remi. Il Soffio di Horus sfrecciò avanti come se fosse uno degli uccelli che oscuravano il cielo sopra di noi, e la mia padrona proruppe in esclamazioni eccitate e batté il pugno delicato sulla spalla muscolosa di Tanus. Le acque vorticarono ancora una volta e Tanus segnalò al timoniere di seguire il movimento, mentre io percuotevo il gong per rafforzare e sostenere il mio coraggio. Raggiungemmo il punto dove avevamo osservato l'agitarsi delle acque, e l'imbarcazione prima rallentò e poi si fermò mentre tutti, sul ponte, si guardavano attorno con ansia impaziente. Io solo sbirciai direttamente oltre la poppa. Sotto lo scafo l'acqua era poco profonda, e trasparente quasi quanto l'aria. Gettai un grido alto e stridulo come quello della padrona e indietreggiai con un balzo dal parapetto di poppa, perché il mostro era direttamente sotto di noi. L'ippopotamo è sacro ad Hapi, la dea del Nilo, e solo grazie a una sua speciale dispensa potevamo cacciarlo. Perciò Tanus aveva rivolto preghiere e sacrifici nel tempio della dea quella mattina, con la mia padrona al fianco. Naturalmente, Hapi è la dea sua patrona, ma dubitavo che quello fosse l'unico motivo della sua zelante partecipazione alla Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
9
cerimonia. La bestia che vedevo sotto di noi era un vecchio maschio enorme. Mi pareva grosso quanto la nostra barca, una sagoma gigantesca che procedeva sul fondo della laguna con movimenti rallentati dall'acqua, tanto da sembrare una creatura uscita da un incubo. Sollevava sbuffi di fango con gli zoccoli come un orice solleva la polvere quando corre sulla sabbia del deserto. Con il remo timoniere Tanus fece girare la barca, e inseguimmo l'ippopotamo. Ma anche con quel suo galoppo lento si allontanò rapidamente da noi e la sua sagoma scura si dileguò nelle profondità verdi della laguna. «Forza! Per l'alito immondo di Seth, forza!» urlò Tanus ai suoi uomini; ma quando uno degli ufficiali agitò la frusta a nodi, si oscurò e scosse la testa. Non ho mai visto Tanus usare la frusta senza un valido motivo. All'improvviso l'ippopotamo emerse davanti a noi ed esalò dai polmoni una grande nube di vapore fetido. Il lezzo ci avvolse sebbene l'animale fosse ancora molto lontano dalla portata dell'arco. Per un momento il suo dorso formò una lucida isola di granito nella laguna, poi trasse un respiro sibilante e, con un guizzo, spari di nuovo. «Inseguiamolo!» gridò Tanus. «Eccolo là!» esclamai, indicandolo. «Ora torna indietro.» «Bene, vecchio mio», rise Tanus. «Forse potremo ancora fare di te un guerriero.» Era un'idea ridicola, perché sono uno scriba, un saggio e un artista. I miei eroismi appartengono all'intelletto. Tuttavia provai un fremito di piacere, come sempre avviene quando Tanus mi elogia; dimenticai per un attimo la trepidazione nell'euforia della caccia. Più a sud, le altre imbarcazioni della squadra si erano unite all'inseguimento. I sacerdoti di Hapi tenevano un elenco meticoloso del numero delle grandi bestie che vivevano sul posto, e avevano concesso l'autorizzazione a ucciderne cinquanta per l'imminente festività di Osiride. Nella laguna del tempio, quindi, ne sarebbero rimaste quasi trecento, un numero che i sacerdoti consideravano ideale per tenere le vie d'acqua sgombre dalle erbe soffocanti, impedire ai papiri di invadere i terreni coltivabili e assicurare un regolare rifornimento di carne per il tempio. I sacerdoti sono gli unici cui sia permesso mangiare carne d'ippopotamo, a parte i dieci giorni della festività di Osiride. Perciò la caccia si svolgeva sulle acque come una danza complicata, con Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
10
le imbarcazioni della squadra che si muovevano serpeggiando e piroettando mentre gli ippopotami fuggivano affannosamente, s'immergevano, lanciavano sbuffi d'acqua e grugnivano riaffiorando per tuffarsi ancora. Ma ogni immersione era più breve della precedente, e le emersioni vorticose diventavano più frequenti via via che i polmoni vuoti non avevano il tempo di ricaricarsi completamente prima che gli inseguitori si avvicinassero e costringessero quei bestioni a scendere di nuovo sul fondo. Intanto i gong bronzei delle torri di poppa continuavano a lanciare suoni che si mescolavano alle grida eccitate dei rematori e alle esortazioni dei timonieri. Tutto era chiasso e confusione, e io gridavo e acclamavo come i più sanguinari dei cacciatori. Tanus aveva concentrato tutta l'attenzione sul primo maschio, il più grosso. Ignorava le femmine e i giovani che affioravano a portata dell'arco, e continuava a inseguire la bestia colossale in tutte le sue convoluzioni, avvicinandosi inesorabilmente a lei ogni volta che risaliva alla superficie. Nonostante la mia eccitazione, non potevo non ammirare l'abilità con cui comandava il Soffio di Horus e la prontezza con cui l'equipaggio rispondeva ai segnali. Ma del resto aveva sempre avuto il dono di ottenere il meglio dai suoi subordinati. Come avrebbe altrimenti potuto raggiungere tanto presto quel rango importante, senza ricchezze né protettori illustri? Ciò che aveva ottenuto l'aveva avuto per i propri meriti, nonostante l'influenza maligna di subdoli nemici che avevano messo sulla sua strada ostacoli di ogni genere. All'improvviso l'ippopotamo sbucò dall'acqua a meno di trenta passi da prua. Emerse luccicando nel sole, nero, terribile e mostruoso, mentre lanciava nubi di vapore dalle narici come l'essere dell'oltretomba che divora i cuori di quanti sono stati giudicati indegni dagli dei. Tanus aveva incoccato una freccia. Sollevò il grande arco e tirò nello stesso istante. Lanata, fremente e terribile, fece udire la sua musica e la freccia saettò così veloce da ingannare l'occhio. Mentre volava ancora sibilando, un'altra freccia la segui, e ancora un'altra. La corda dell'arma cantava come un liuto e le frecce colpivano il bersaglio una dopo l'altra. L'ippopotamo mugghiò quando gli si piantarono nell'ampio dorso, e s'immerse un'altra volta. Erano dardi che avevo realizzato appositamente per quell'occasione. Avevo rimosso le piume e le avevo sostituite con minuscoli galleggianti di legno di baobab, come quelli che i pescatori usano per sostenere le reti. Si Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
11
inserivano all'estremità dell'asta in modo tale che in volo erano ben fissi, ma si spostavano quando l'animale si tuffava trascinandoli attraverso l'acqua. Erano uniti alla punta bronzea da un filo sottile di lino avvolto intorno all'asta, che si srotolava appena il galleggiante si distaccava. Perciò, mentre il grosso maschio fuggiva sott'acqua, i tre piccoli galleggianti salirono a galla e seguirono il suo movimento. Li avevo dipinti di un giallo vivo, in modo che attirassero lo sguardo e rivelassero immediatamente la posizione dell'animale anche se questi era immerso nella laguna. Tanus era quindi in grado di anticipare ognuna delle corse folli del mostro e di accelerare l'andatura del Soffio di Horus per costringere l'animale a deviare e per piantare un'altra serie di frecce nel nero dorso lucente quando affiorava in superficie. Ormai il maschio rimorchiava una ghirlanda di galleggianti gialli e le acque si tingevano del rosso del suo sangue. Nonostante le emozioni del momento, non potevo fare a meno di provare pietà per l'animale ferito ogni volta che emergeva mugghiando e incontrava un'altra grandinata di letali frecce sibilanti. Quella compassione non era condivisa dalla mia padrona, che era coinvolta nella caccia e gridava in preda a un deliziato terrore. Ancora una volta il maschio risalì a galla davanti a noi; ma questa volta fronteggiò il Soffio di Horus che puntava verso di lui. Spalancò le fauci al punto che potei vedere il fondo della gola, una galleria di carne rossa che avrebbe potuto inghiottire facilmente un uomo intero. Le mascelle erano armate di zanne così possenti che mi sentii agghiacciare: il respiro mi mancò. Dalla mandibola inferiore spuntavano enormi falci d'avorio che servivano a tranciare gli steli durissimi del papiro, mentre in quella superiore emergevano lucenti lame bianche spesse come il mio polso, capaci di stritolare il fasciame del Soffio di Horus con la stessa facilità con cui io avrei addentato una focaccia di grano. Di recente avevo avuto l'occasione di esaminare il cadavere di una contadina che, mentre tagliava i papiri sulla riva del fiume, aveva disturbato una femmina appena sgravata. La donna era stata tranciata in due, come se fosse stata colpita dalla più affilata delle spade di bronzo. E adesso il mostro inferocito, con le fauci irte di zanne lucenti, puntava verso di noi, e sebbene fossi in alto sulla torre di poppa, lontano da lui per quanto era possibile, non riuscivo né a parlare né a muovermi: il terrore mi paralizzava ed ero immobile come la statua d'un tempio. Tanus scagliò un'altra freccia che penetrò nella gola spalancata: tuttavia la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
12
sofferenza dell'animale era già così terribile che esso non mostrò di aver sentito quella nuova ferita, sebbene, in realtà, avrebbe potuto rivelarsi fatale. Si avventò alla carica senza esitare verso la prua del Soffio di Horus. Dalla gola torturata eruppe un ruggito così spaventoso di furore e di angoscia mortale che un'arteria si spezzò e dalle fauci usci uno spruzzo di sangue, che si converti in una nube di vapore rossastro nella luce del sole, bellissimo e orribile nel contempo. Poi il maschio piombò a capofitto contro la prua dell'imbarcazione. Il Soffio di Horus stava fendendo l'acqua alla velocità d'una gazzella in corsa, ma l'ippopotamo era ancora più veloce, e la sua mole era così solida che mi sembrò che ci fossimo arenati su una spiaggia rocciosa. I rematori caddero dalle panche, e io fui scagliato contro il parapetto della torre di poppa con tanta forza che l'aria abbandonò i miei polmoni e fu sostituita da un forte dolore al petto, opprimente come un macigno. Eppure, nonostante tutto, ero preoccupato per la mia padrona. Con gli occhi offuscati dalle lacrime vidi che l'impatto la scagliava in avanti. Tanus tese il braccio per trattenerla, ma anche lui era sbilanciato e l'arco che teneva nella sinistra lo intralciava. Riuscì a frenarla appena per un momento, ma poi Lostris vacillò contro il parapetto, mulinò disperatamente le braccia e s'inarcò all'indietro, con la schiena nel vuoto. «Tanus!» urlò tendendogli una mano. Tanus riprese l'equilibrio con l'agilità di un acrobata e cercò di afferrarla. Per un istante le loro dita si toccarono: poi, come se qualcosa l'avesse strappata via, la mia padrona cadde dalla barca. Dalla mia posizione elevata a poppa potei seguire la caduta. Si girò in aria come un gatto, e la gonna bianca si sollevò e lasciò scoperte le cosce squisite. Mi parve che la caduta durasse per sempre e il mio grido si mescolò al suo gemito disperato. «Bambina mia!» urlai. «Piccola mia!» Ero certo che fosse perduta. Mi sembrò che tutta la sua vita, quale l'avevo conosciuta, mi scorresse davanti agli occhi. La rividi bambina e udii le affettuose parole infantili che mi rivolgeva. La vidi crescere e diventare donna, e ricordai ogni gioia e ogni dolore che mi aveva causato. Nel momento in cui stavo per perderla l'amavo ancor più di quanto l'avessi amata in quei quattordici lunghi anni. Cadde sul dorso immenso e sanguinante dell'ippopotamo infuriato, e per un istante vi giacque riversa come una vittima umana sull'altare d'una religione oscena. L'ippopotamo si voltò, si sollevò dall'acqua e girò Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
13
all'indietro la grossa testa deforme cercando di raggiungerla. Gli occhi porcini e iniettati di sangue brillavano d'una rabbia folle; le grandi fauci scattarono rumorosamente per azzannarla. Chissà come, Lostris riuscì a riprendersi e ad aggrapparsi alle aste di due frecce che spuntavano dall'ampia schiena del mostro. Stava con le braccia e le gambe larghe. Non urlava; s'impegnava con tutte le sue forze per restare viva. Le zanne ricurve d'avorio cozzavano l'una contro l'altra come le spade di due guerrieri impegnati in un duello. A ogni scatto parevano mancarla di pochissimo, e mi aspettavo che, da un momento all'altro, uno dei suoi arti venisse tranciato come il germoglio delicato di una liana e che il suo sangue giovane e dolce si mescolasse a quello che scorreva dalle ferite dell'animale. Tanus, a prua, si riprese prontamente. Per un istante vidi il suo volto: era terribile. Gettò via l'arco, ormai inutile, strinse l'impugnatura della spada ed estrasse la lama dal fodero di pelle di coccodrillo. Era di bronzo, lunga quanto il suo braccio, così affilata da poter recidere i peli dal dorso della mano. Balzò sulla frisata e per un istante si tenne in equilibrio a studiare i movimenti dell'ippopotamo mortalmente ferito; poi si lanciò e piombò come un falco in picchiata, con la spada stretta in entrambe le mani e con la punta rivolta in basso. Cadde sul collo dell'ippopotamo, a cavalcioni come se intendesse cavalcarlo sino nell'oltretomba. Il peso del suo corpo e la violenza del salto si trasfusero nel colpo di spada. Metà della lama affondò nel collo dell'animale alla base del cranio, e Tanus continuò a premere sempre più a fondo, usando tutta la forza delle braccia e delle ampie spalle. Quando si senti trafiggere dalla spada l'ippopotamo impazzi, e tutti i movimenti che aveva compiuto fino a quel momento sembravano fiacchi e deboli in confronto a quei nuovi scatti. S'impennò in tutta la sua mole enorme, scosse la testa da una parte all'altra, e lanciò spruzzi d'acqua così in alto che ricaddero sul ponte della barca e, come un tendaggio, nascosero quasi completamente la scena ai miei occhi atterriti. I due sul dorso del mostro venivano sbatacchiati furiosamente. L'asta d'una delle frecce cui si aggrappava Lostris si spezzò, e per poco lei non fu sbalzata via. Se fosse accaduto, sicuramente l'ippopotamo l'avrebbe sbranata con le zanne d'avorio. Tanus si tese all'indietro, e con un braccio la sostenne mentre con la mano destra non smetteva di spingere ancora di Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
14
più la lama bronzea nella nuca del mostro. Nell'impossibilità di raggiungerli, quello si azzannò i fianchi e apri squarci così terribili che per cinquanta passi intorno all'imbarcazione le acque si arrossarono, e Tanus e Lostris furono tinti di cremisi dalla testa ai piedi dai getti di sangue. I volti si trasformarono in maschere grottesche in cui brillava solo il bianco degli occhi. Le violente convulsioni del maschio li avevano portati lontano dalla fiancata dell'imbarcazione, e a bordo io fui il primo a ritrovare la presenza di spirito. Gridai ai rematori: «Seguiteli! Non lasciate che si allontanino». I rematori balzarono ai loro posti e lanciarono il Soffio di Horus all'inseguimento. In quell'istante sembrò che la punta della lama di Tanus avesse incontrato la giuntura delle vertebre del collo e l'avesse attraversata. L'enorme carcassa s'irrigidì e restò immobile. L'ippopotamo si rovesciò sul dorso con le quattro zampe protese e rigide, e sprofondò nelle acque della laguna trascinando con sé Lostris e Tanus. Repressi il gemito di disperazione che mi saliva alla gola e gridai un ordine ai rematori. «Indietro! Non travolgeteli! I nuotatori a prua!» Io stesso ero sbalordito nell'udire la potenza e l'autorità della mia voce. La barca frenò la corsa e, prima che potessi riflettere sull'opportunità di ciò che facevo, mi trovai alla testa di un gruppo di robusti guerrieri che correvano attraverso il ponte. Probabilmente avrebbero applaudito se avessero visto annegare un altro ufficiale: ma Tanus era Tanus. Io mi ero già spogliato. Neppure la minaccia di cento frustate mi avrebbe indotto a farlo in altre circostanze, perché ho permesso solo a un'altra persona di vedere le ferite che il carnefice di Stato mi aveva inflitto tanto tempo prima, e quella persona era la stessa che aveva ordinato di castrarmi. Adesso, per una volta, avevo dimenticato completamente la mutilazione della mia virilità. Sono un nuotatore resistente e, anche se ripensandoci ora la mia avventatezza mi fa rabbrividire, credo che mi sarei tuffato in quelle acque tinte di sangue per cercare di salvare la mia padrona. Ma mentre stavo per gettarmi dal parapetto della nave, l'acqua sotto di me si aprì e due teste grondanti affiorarono, vicine come due lontre in amore. Una era bruna, l'altra bionda, ma entrambe emettevano il suono più inverosimile che avessi mai udito. Ridevano. Ridevano fragorosamente mentre si avvicinavano alla fiancata dell'imbarcazione, abbracciati così Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
15
strettamente che, secondo me, rischiavano di annegarsi l'un l'altro. La mia preoccupazione si trasformò di colpo in collera per tanta leggerezza e al pensiero della follia che ero stato sul punto di commettere. Come una madre, il cui primo istinto quando ritrova il figlio sperduto è quello di picchiarlo, sentii la mia voce perdere l'autorità e diventare stridula e querula. Stavo ancora rimbrottando la mia padrona con tutta l'eloquenza per cui ero famoso, quando lei e Tanus furono issati a bordo da una dozzina di mani premurose, «Piccola selvaggia scapestrata!» gridai. «Piccola egoista indisciplinata! Mi avevi promesso! Avevi giurato sulla verginità della dea...» Lostris mi corse incontro e mi gettò le braccia al collo. «Oh, Taita!» gridò senza smettere di ridere. «L'hai visto? Hai visto Tanus lanciarsi ai salvataggio? Non è stata l'azione più nobile che abbia mai conosciuto? Come l'eroe di una delle tue storie più belle...» La mia padrona ignorava il fatto che anch'io ero stato sul punto di compiere lo stesso gesto eroico, e questo accrebbe la mia irritazione. Poi mi accorsi che Lostris aveva perso la gonna e che il suo corpo freddo e bagnato, stretto contro il mio, era interamente nudo. Mostrava agli sguardi degli ufficiali e degli uomini le natiche più sode e compatte di tutto l'Egitto. Presi uno scudo e lo usai per coprirci entrambi mentre gridavo alle sue schiavette di portarle un'altra gonna. Le loro risatine ingigantirono la mia furia; e non appena Lostris e io fummo ricoperti in modo decente, mi scagliai contro Tanus. «In quanto a te, disgraziato imprudente, riferirò ciò che hai fatto al mio signore Intef. Ti farà spellare la schiena a frustate.» «Non riferirai nulla.» Tanus rise di me, e mi passò un braccio intorno alle spalle, mi strinse e mi sollevò dal ponte. «Perché farebbe frustare allegramente anche te. Comunque ti ringrazio per il tuo interesse, vecchio mio.» Si guardò intorno continuando a tenermi un braccio intorno alle spalle e si oscurò. Il Soffio di Horus era separato dalle altre barche della squadra, ma ormai la caccia era conclusa. Ognuna, tranne la nostra, aveva preso la sua parte di selvaggina accordata dai sacerdoti. Tanus scosse la testa. «Non abbiamo approfittato dell'occasione, vero?» borbottò, e ordinò a uno dei suoi ufficiali di issare il segnale per richiamare Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
16
la squadra. Poi sorrise con uno sforzo. «Apriamo un'anfora di birra... perché ora dovremo attendere un po', e questo lavoro fa venire sete.» Andò a prua dove le schiavette stavano circondando Lostris di premure. All'inizio ero così incollerito che non volli saperne di partecipare allo spuntino improvvisato. Rimasi a poppa, chiuso in un'altera dignità. «Oh, lascia che il vecchio faccia il broncio per un po'.» Sentii Lostris sussurrare quelle parole a Tanus mentre gli riempiva la coppa di birra spumeggiante. «Si è spaventato terribilmente, ma gli passerà quando avrà fame. Mangiare gli piace troppo.» La mia padrona era ingiusta. Io non faccio mai il broncio, non sono un ghiottone e a quell'epoca avevo appena trent'anni. Tuttavia per un quattordicenne chiunque abbia più di vent'anni è vecchio, e ammetto che, in fatto di cibo, ho i gusti raffinati del vero intenditore. L'oca selvatica arrostita con i fichi che Lostris stava mettendo ostentatamente in mostra era uno dei miei piatti preferiti, e lei lo sapeva bene. Li lasciai soffrire ancora un po', e solo quando Tanus mi portò un orcio di birra e si prodigò con tutto il suo garbo mi degnai di rabbonirmi e lasciai che mi conducesse a prua. Ero ancora un po' impettito, ma Lostris mi baciò la guancia e disse a voce alta: «Le mie ragazze mi dicono che hai preso il comando della barca come un veterano e che stavi per buttarti in acqua per salvarmi. Oh, Taita, cosa farei senza di te?». Soltanto allora le sorrisi e accettai la porzione d'oca che mi stava porgendo. L'oca era deliziosa e la birra prodotta con tre tipi di palme; tuttavia mangiai con parsimonia perché devo tener conto della mia figura; senza contare che la precedente battuta di Lostris sul mio appetito mi bruciava ancora. La squadra di Tanus, sparsa nella laguna, adesso cominciava a raggrupparsi. Vidi che anche alcune delle altre barche avevano subito danni come la nostra. Due si erano scontrate nell'accanimento della caccia, e altre quattro erano state attaccate dagli ippopotami. Comunque si radunarono in fretta e assunsero le posizioni da combattimento. Poi ci passarono accanto, allineate e con file di vessilli colorati appese agli alberi per proclamare la grandezza delle rispettive prede. Gli equipaggi applaudivano quando si accostavano al Soffio di Horus. Tanus li salutava alzando il pugno e lo stendardo con il Coccodrillo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
17
Azzurro veniva inclinato, come se avessimo appena ottenuto una grandiosa vittoria a dispetto di ogni previsione. Era uno sfoggio puerile, forse, ma sono ancora abbastanza giovane per compiacermi delle cerimonie militari. Poi la squadra riprese le posizioni da combattimento e le mantenne, nonostante la brezza leggera, con un abile ricorso ai remi. Naturalmente, per il momento non c'erano ancora tracce degli ippopotami morti. Anche se ogni barca ne aveva ucciso almeno uno, e alcune addirittura due o tre, le carcasse erano affondate nelle acque verdi della laguna. Sapevo che Tanus si rammaricava in segreto perché il Soffio di Horus non aveva avuto maggior successo delle altre imbarcazioni e perché il prolungarsi dello scontro aveva limitato il nostro bottino a quell'unico esemplare. Era abituato a eccellere. Comunque non era vivace come al solito, e presto ci lasciò a prua per andare a dirigere le riparazioni allo scafo del Soffio di Horus. La carica del mostro aveva spostato il fasciame, e stavamo imbarcando tanta acqua che era necessario continuare a svuotare le sentine con i secchi di cuoio. Era una procedura inefficiente che distoglieva gli uomini dai loro doveri di rematori e guerrieri e senza dubbio si poteva migliorare, pensavo tra me. E perciò, mentre attendevamo che le carcasse degli animali morti salissero a galla, mandai una delle schiavette a prendere la cesta che conteneva i miei strumenti per scrivere. Dopo aver riflettuto ancora un po', incominciai ad abbozzare un'idea per rimuovere meccanicamente l'acqua dalle sentine di una nave da guerra in azione, un metodo che non richiedesse gli sforzi di metà equipaggio. Era basato sullo stesso principio dei secchi degli altaleni. Pensavo che avrebbero potuto farlo funzionare solo due uomini, anziché impegnarne una dozzina per usare i secchi, come avveniva ora. Quando ebbi completato lo schizzo, pensai alla collisione che aveva causato il danno. Storicamente, le tattiche usate nelle battaglie fluviali erano sempre state le stesse degli scontri sulla terraferma. Le navi si affiancavano con i grappini e, dopo l'abbordaggio, la contesa si risolveva a colpi di spada. I comandanti stavano sempre attenti a evitare le collisioni, al punto che, se avvenivano, erano considerate conseguenze dell'inettitudine. «Ma se...» pensai all'improvviso, e cominciai a disegnare una nave con la prua rinforzata. Mentre l'idea metteva saldamente radici, aggiunsi sulla linea di galleggiamento un corno simile a quello del rinoceronte. Si poteva realizzare con legno durissimo e rivestirlo con il bronzo. Angolato in avanti, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
18
un po' verso il basso, poteva piantarsi nello scafo di un vascello avversario e squarciarlo. Ero così assorto che non sentii Tanus avvicinarsi alle mie spalle. Mi tolse dalle mani il rotolo di papiro e lo studiò con grande attenzione. Naturalmente comprese subito che cosa intendevo fare. Quando suo padre aveva perduto ogni ricchezza, avevo subito cercato un ricco protettore che favorisse l'ingresso di Tanus in uno dei templi come scriba novizio, in modo che potesse continuare gli studi. Ero sinceramente convinto che, con il mio insegnamento, avesse ottime prospettive di diventare uno dei più grandi intelletti dell'Egitto. Forse con il tempo il suo nome avrebbe potuto essere famoso come quello di Imhotep che, mille anni prima, aveva progettato le prime, meravigliose piramidi di Saqqara. Non ero riuscito nell'intento, com'era comprensibile, perché lo stesso nemico che con l'astuzia e l'inganno aveva annientato il padre di Tanus era deciso a sbarrare la strada anche al figlio. Nessuno, in tutto il Paese, poteva vincere la sua influenza malefica. Perciò avevo aiutato Tanus a entrare nell'esercito. Nonostante la mia delusione e i miei tristi presentimenti, era la carriera che Tanus s'era scelto da quando aveva potuto reggersi per la prima volta sulle gambe e aveva impugnato una spada di legno per battersi con altri bambini. «Per i pedicelli sulle natiche di Seth!» esclamò mentre studiava i disegni. «Tu e il tuo pennello valete per me quanto dieci squadre.» La disinvoltura con cui Tanus bestemmia il nome del grande dio Seth mi allarma sempre. Infatti, anche se entrambi siamo devoti di Horus, credo che non sia prudente offendere una delle divinità dell'Egitto. In quanto a me, non passo mai davanti a un sacrario senza recitare una preghiera o fare una piccola offerta, anche se il dio che ospita è umile e privo d'importanza. Secondo me è una questione di buon senso e un'ottima assicurazione. Abbiamo già abbastanza nemici fra gli uomini senza cercarne volutamente altri fra gli dei. Io sono particolarmente ossequioso nei confronti di Seth, perché la sua reputazione formidabile mi terrorizza. Sospetto che Tanus lo sappia e si diverta a punzecchiarmi. Tuttavia dimenticai il disagio di fronte al calore dei suoi elogi. «Come fai?» mi chiese. «Io sono un soldato, e oggi ho visto tutto ciò che hai fatto. Perché le stesse idee non sono venute a me?» Incominciammo una vivace discussione sui miei disegni. Naturalmente, non era possibile escludere a lungo Lostris, che infatti venne a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
19
raggiungerci. Le schiavette le avevano asciugato e acconciato i capelli e ritoccato il trucco. La sua bellezza incantevole era una distrazione, soprattutto perché mi stava accanto e mi teneva con noncuranza un braccio sulla spalla. Non avrebbe mai toccato un uomo in pubblico nello stesso modo, perché sarebbe stata un'offesa alla consuetudine e alla modestia. Ma io non ero un uomo, e anche se si appoggiava a me i suoi occhi non si staccavano mai dal volto di Tanus. S'interessava a lui fin da quando aveva imparato a camminare. Aveva seguito traballando e con aria di adorazione il decenne e maestoso Tanus e aveva cercato di imitare ogni suo gesto e ogni sua parola. Quando Tanus sputava, lei sputava. Quando lui imprecava, Lostris balbettava le stesse parole. Alla fine Tanus s'era lamentato con me. «Non puoi convincerla a lasciarmi in pace, Taita? È solo una bambina!» Ma adesso non si lamentava più. Fummo interrotti da un grido della vedetta di prua, e corremmo tutti a scrutare ansiosamente la laguna. La prima carogna d'ippopotamo stava affiorando. Venne a galla con il ventre in alto, perché i gas contenuti negli intestini la gonfiavano come un pallone per bambini ricavato dalla vescica di una capra. Ondeggiava alla superficie con le zampe protese e irrigidite. Una delle barche si mosse in fretta per andare a recuperarla. Un marinaio balzò sulla carogna e legò una fune a una zampa. Subito dopo la barca incominciò a rimorchiarla verso la riva lontana. Ormai i corpi enormi affioravano tutto intorno a noi, e le barche li legavano e li trainavano via. Tanus ne assicurò due al nostro cavo di poppa e i vogatori si chinarono a remare per rimorchiarli sull'acqua. Quando ci avvicinammo a riva mi schermai gli occhi per ripararli dal sole obliquo e scrutai più avanti. Sembrava che tutti gli uomini, le donne e i bambini dell'Alto Egitto attendessero sull'argine. Erano una moltitudine sterminata: danzavano, cantavano e agitavano fronde di palma per accogliere la flotta. Il movimento irrequieto delle vesti bianche sembrava un'ondata incessante che si infrangesse intorno all'orlo della laguna tranquilla. Via via che ogni imbarcazione si accostava a terra, squadre di uomini abbigliati soltanto di perizomi avanzavano a guado fino alle ascelle per legare con le corde le carogne gonfie. Erano così euforici da dimenticare la minaccia costante dei coccodrilli in agguato nelle acque verdi e opache. Ogni stagione quei rettili feroci divorano centinaia dei nostri. A volte Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
20
diventano audaci al punto di avventarsi sulla riva per afferrare un bambino che gioca in riva al fiume o una contadina che lava i panni o attinge l'acqua per la famiglia. Ora, affamati di carne com'erano, gli uomini s'interessavano a una cosa soltanto. Afferrarono le funi e trascinarono a riva le carogne. Mentre i corpi degli ippopotami scivolavano sul fango, dozzine di pesciolini argentei che stavano banchettando nelle ferite aperte non furono abbastanza svelti da abbandonare la presa e vennero tirati in secca. Arenati nell'argilla molle, guizzavano e fremevano come stelle precipitate sulla terra. Uomini e donne armati di coltelli e di scuri sciamarono come formiche sui corpi. In preda a un delirio di avidità, urlavano e ringhiavano come avvoltoi e iene intorno a un capo di selvaggina ucciso da un leone e si disputavano i bocconi migliori mentre facevano a pezzi le carogne gigantesche. Il sangue e le schegge d'osso volavano tutto intorno a ogni colpo di lama. Quella sera vi sarebbe stata una lunga fila di feriti che si sarebbero presentati al tempio ad attendere che i sacerdoti curassero loro le dita mutilate e gli squarci profondi fino all'osso. Anch'io sarei stato al lavoro per metà della notte. In certi ambienti ho una reputazione di medico che supera persino quella dei sacerdoti di Osiride. In tutta modestia devo ammettere che la fama non è del tutto ingiustificata, e Horus sa che i miei onorari sono assai più ragionevoli di quelli di un sant'uomo. Il nobile Intef mi permette di tenere per me un terzo di quanto guadagno e quindi sono un uomo piuttosto ricco, nonostante la mia condizione di schiavo. Dalla torre di poppa del Soffio di Horus assistetti a quella pantomima della fragilità umana che aveva luogo sotto di me. Secondo la tradizione, il popolo è autorizzato a mangiare a sazietà la carne degli ippopotami finiti sulla riva, purché nessuna delle spoglie venga portata via. Siccome viviamo in una terra fertile e verdeggiante, fecondata e bagnata dal grande fiume, il nostro popolo è ben nutrito. Tuttavia il cibo base delle classi più povere è costituito da cereali, e possono trascorrere mesi fra un pasto a base di carne e un altro. Inoltre, durante le festività, tutte le normali restrizioni della vita quotidiana venivano messe in disparte. Era consentito eccedere in tutte le cose che riguardavano il corpo: il cibo, le bevande, la passione carnale. L'indomani vi sarebbero stati mali di pancia, teste doloranti e recriminazioni coniugali, ma quello era il primo giorno della festa, e gli appetiti non avevano freni. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
21
Sorrisi vedendo una madre, nuda fino alla cintola e incrostata di sangue e grasso dalla testa ai piedi, uscire dalla cavità ventrale di un ippopotamo stringendo fra le mani un pezzo di fegato e gettarlo a uno dei suoi figli in mezzo al gruppo urlante di bambini che circondavano la carcassa. La donna rientrò nella cavità mentre il figlio, stringendo il suo tesoro, correva verso uno dei cento falò accesi lungo la spiaggia. Un fratello maggiore gli strappò il pezzo di fegato e lo gettò sulle braci mentre un'orda di ragazzini più piccoli si affollava sbavando. Il più grande tolse dal fuoco con un fuscello verde il fegato appena scottato e i fratelli e le sorelle si avventarono e lo divorarono. Appena lo ebbero finito, ne reclamarono altro mentre il grasso e il sangue scorrevano sul loro viso, sgocciolando dal mento. Molti dei più giovani, probabilmente, non avevano mai assaggiato la carne deliziosa del bove di fiume, che è dolce, tenera e di grana fine, ma soprattutto grassa. È grassa più della carne di bue o dell'asino selvatico striato, e gli ossi ricchi di midollo sono una vera leccornia, degna del grande dio Osiride. Il nostro popolo è affamato di grasso animale, e il suo sapore li faceva impazzire tutti. S'ingozzavano come era loro diritto ingozzarsi quel giorno. Ero contento di non mescolarmi alla folla sfrenata, felice nella certezza che le guardie del nobile Intef avrebbero procurato i tagli migliori e gli ossi per le cucine del palazzo e che i cuochi avrebbero preparato con ogni cura il mio piatto personale. Nel seguito del visir ho la precedenza su tutto, persino sul maestro di palazzo e sul comandante della sua guardia del corpo, anche se entrambi sono nati liberi. Naturalmente non se ne parla mai, ma tutti riconoscono la mia posizione privilegiata e pochi oserebbero contestarla. Vedevo le guardie al lavoro: reclamavano la parte del mio signore, governatore e gran visir di tutti i ventidue nomi dell'Alto Egitto. Maneggiavano i lunghi bastoni con l'esperienza dovuta a una lunga pratica, e percuotevano le schiene e le natiche nude che si offrivano come bersagli, mentre urlavano le loro richieste. Le zanne d'avorio degli ippopotami spettavano ai visir, e le guardie le ritirarono tutte. Erano preziose quanto le zanne d'elefante che vengono portate dalle carovane fin dalla terra di Cush, oltre le cataratte. L'ultimo elefante è stato ucciso nel nostro Egitto quasi mille anni fa, durante il regno d'uno dei Faraoni della Quarta Dinastia, o almeno così affermano i geroglifici sulla stele del suo tempio. Naturalmente, il mio signore doveva riservare le decime dei frutti della caccia ai sacerdoti di Hapi, pastori Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
22
titolari della mandria di buoi del fiume. Tuttavia l'entità della decima era a discrezione del mio signore; e io - che avevo la responsabilità dei registri del palazzo - sapevo dove sarebbe finita la gran parte di quei tesori. Intef non si abbandonava a generosità superflue, neppure nei confronti di una dea. In quanto alle pelli degli ippopotami, spettavano all'esercito e sarebbero state trasformate in scudi per gli ufficiali dei reggimenti delle guardie. I quartiermastri dell'esercito sovrintendevano alle operazioni di asportazione delle pelli, ognuna delle quali era grande quasi quanto una tenda beduina. La carne che non era possibile consumare sulla riva sarebbe stata conservata in salamoia, oppure affumicata o seccata. Ufficialmente doveva servire per nutrire i soldati, i membri dei tribunali, i dipendenti dei templi e altri servitori dello Stato. In pratica una parte cospicua sarebbe stata venduta di nascosto e il ricavato sarebbe finito negli scrigni del mio signore. Come ho già detto, dopo il Faraone il mio signore era l'uomo più ricco dell'Alto Egitto... e ogni anno si arricchiva ancora di più. Ci fu un movimento dietro di me, e mi voltai. La squadra di Tanus era ancora in azione. Le barche erano schierate in linea di battaglia, prua contro poppa, parallele alla riva, ma a una cinquantina di passi, dove l'acqua diventa più profonda. A bordo di ognuna, i fiocinieri stavano ai parapetti con le armi levate e puntate verso la superficie della laguna. L'odore del sangue e delle interiora s'era sparso nell'acqua e aveva attirato i coccodrilli. Erano venuti al banchetto non solo da ogni parte della laguna, ma persino dal corso principale del Nilo. I fiocinieri li attendevano. Ogni arpione aveva una punta di bronzo relativamente piccola ma munita di uncini. A un occhiello in quella punta era fissata una robusta corda di lino. L'abilità dei fiocinieri era impressionante. Quando uno dei sauri squamosi avanzava silenzioso nell'acqua verde, simile a una lunga ombra scura e con la grande coda crestata che ondeggiava, gli uomini l'aspettavano. Lasciavano che il coccodrillo passasse sotto l'imbarcazione e appena emergeva dall'altro lato il fiociniere, i cui movimenti erano nascosti dallo scafo, si sporgeva e colpiva dall'alto in basso. Non era un colpo violento, ma uno scatto quasi delicato della lunga asta. La punta di bronzo era aguzza come l'ago d'un chirurgo, e penetrava in tutta la sua lunghezza sotto la pelle squamosa del rettile. Il fiociniere mirava alla nuca, e gli affondi erano così perfetti che molte volte trapassavano la colonna vertebrale e uccidevano all'istante la preda. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
23
Ma quando un colpo mancava il segno, l'acqua esplodeva mentre il coccodrillo ferito si abbandonava a convulsioni frenetiche. Con un movimento dell'asta la punta metallica si staccava e restava confitta nel collo loricato del rettile. Poi quattro uomini afferravano la corda di lino per controllare le contorsioni del coccodrillo. Se era grosso - e alcuni erano lunghi quattro volte un uomo steso a terra - la corda scorreva fumando sopra la frisata e ustionava i palmi degli uomini che cercavano di trattenerla. Allora persino la gente affamata sulla spiaggia si fermava per assistere alla lotta applaudendo e gridando incoraggiamenti; a volte il coccodrillo finiva legato, mentre in altri casi la fune si spezzava con una frustata e i marinai cadevano ruzzoloni sul ponte. Spesso, comunque, la robusta corda di lino resisteva. Non appena gli uomini riuscivano a girare verso di loro la testa del rettile, questi non poteva più allontanarsi a nuoto nell'acqua profonda. Allora potevano trainarlo, in un turbine di spuma e di spruzzi, sino alla fiancata dell'imbarcazione dove un'altra squadra armata di clave attendeva per fracassare il cranio duro come la roccia. Quando le carogne dei coccodrilli furono tirate in secco, andai a terra per esaminarle. Gli scuoiatori del reggimento di Tanus erano già al lavoro. Era stato il nonno dell'attuale re a concedere al reggimento il titolo onorifico di Guardie del Coccodrillo Azzurro e lo stendardo che raffigurava l'animale. Le loro armature da combattimento sono ricavate dalla pelle coriacea di quei sauri. Conciata nel modo giusto, diventa abbastanza solida per arrestare una freccia o deviare un colpo di spada. È molto più leggera del metallo e molto più fresca da portare sotto il sole del deserto. Tanus, con l'elmo di pelle di coccodrillo decorato di piume di struzzo e la corazza dello stesso cuoio tirato a lucido e ornato dalle spalline di bronzo, è uno spettacolo che incute terrore nel cuore dei nemici e suscita tumulto nei ventri di tutte le fanciulle che lo guardano. Mentre misuravo e annotavo la lunghezza e la circonferenza di ogni corpo e osservavo gli scuoiatori al lavoro, non provavo per quei mostri orrendi neppure la fuggevole compassione che avevo sentito per i buoi di fiume. Per me non esiste in natura una bestia più odiosa del coccodrillo, forse con l'eccezione dell'aspide. La mia ripugnanza si centuplicò quando uno scuoiatore apri il ventre d'uno dei coccodrilli più grossi, e i resti parzialmente digeriti d'una Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
24
ragazzina scivolarono nel fango. Il mostro aveva inghiottito la metà superiore del corpo, dalla cintola in su. Anche se la carne era sbiancata e ammollata dai succhi gastrici e si staccava dal cranio, la crocchia di capelli era ancora intatta e ben intrecciata. E c'era un altro tocco macabro, una collana intorno alla gola, mentre graziosi braccialetti di perle di ceramica rossa e azzurra cingevano i polsi scheletrici. Non appena la lugubre reliquia fu rivelata, risuonò un urlo così alto e straziante da dominare il brusio della folla. Una donna si fece largo a gomitate fra i soldati e corse a inginocchiarsi accanto ai resti pietosi. Si strappò le vesti e proruppe in spaventose grida di cordoglio. «Mia figlia! La mia bambina!» Era la donna che il giorno prima s'era presentata al palazzo per denunciare la scomparsa della figlia. I funzionari le avevano detto che con ogni probabilità la ragazzina era stata rapita e venduta come schiava da una delle bande di predoni che atterrivano la campagna. Erano diventate molto potenti, e compivano sfacciatamente le loro malefatte alla luce del giorno fino alle porte delle città. I funzionari del palazzo avevano detto alla donna che non potevano far nulla per recuperare sua figlia, dato che le bande sfuggivano a ogni possibilità di controllo da parte dello Stato. Per una volta la predizione era risultata priva di fondamento. La madre aveva riconosciuto gli ornamenti che decoravano ancora la povera creatura. Mi commossi e mandai uno schiavo a prendere una giara vuota. Anche se non conoscevo la donna, non riuscii a trattenere le lacrime mentre l'aiutavo a raccogliere quei resti e a riporli nella giara perché avessero una sepoltura decente. Mentre la donna si allontanava barcollando fra la moltitudine indifferente, con la giara stretta al cuore, pensai che, nonostante i riti e le preghiere che avrebbe dedicato alla figlia, persino nell'eventualità improbabile che potesse permettersi la spesa onerosa della mummificazione, l'ombra della ragazzina non avrebbe trovato l'immortalità nell'oltretomba. Perché ciò avvenga, la salma deve essere intera e intatta prima dell'imbalsamazione. Compiangevo la madre sventurata. È una mia debolezza: spesso mi addosso le preoccupazioni e i dolori degli infelici che incrocio sul mio cammino. Sarebbe più facile avere un cuore più duro e una mentalità più cinica. Come sempre quand'ero rattristato o angosciato, presi il pennello e un rotolo e cominciai ad annotare tutto ciò che avveniva intorno a me: i Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
25
fiocinieri, la madre disperata, le operazioni di scuoiatura e di macellazione dei coccodrilli e dei bovi di fiume e il comportamento scatenato della popolazione. Coloro che si erano saziati di carne e di birra russavano già dov'erano caduti, e non si accorgevano di venire urtati e calpestati dagli altri ancora capaci di rimanere in piedi. I più giovani e spudorati ballavano e si abbracciavano, approfittando dell'incipiente oscurità e della scarsa copertura dei cespugli radi e dei ciuffi di papiro per consumare i loro accoppiamenti. Quel contegno non era altro che un sintomo del malessere che affliggeva tutto il Paese. Non sarebbe accaduto se vi fossero stati un Faraone forte e un'amministrazione retta e onesta nel nomo della Grande Tebe. La gente comune prende esempio da chi la governa. Anche se disapprovavo tutto ciò, lo documentavo fedelmente. Trascorse così un'ora mentre stavo seduto a gambe incrociate a poppa del Soffio di Horus scrivendo e disegnando. Il sole tramontò e parve spegnersi nel grande fiume, lasciando una lucentezza cuprea sull'acqua e un chiarore fumoso nel cielo occidentale, come se avesse incendiato le distese dei papiri. La folla sulla spiaggia era diventata ancora più chiassosa e sfrenata; le prostitute facevano buoni affari. Vidi una sacerdotessa dell'amore grassa e matronale, con il tipico amuleto blu della professione sulla fronte, che conduceva nell'ombra, oltre la luce dei falò, un marinaio magrissimo che era metà di lei. Si liberò della gonna e si gettò in ginocchio nella polvere, presentandogli un paio di natiche monumentali e frementi. Con un grido di felicità, l'ometto la montò come fanno i cani e, dopo pochi secondi, anche la donna guaì come lui. Incominciai a disegnare la scena, ma la luce svaniva rapidamente, e fui quindi costretto a desistere. Mentre posavo il rotolo, mi accorsi con un sussulto che non avevo visto la mia padrona da prima della scoperta della ragazzina nel ventre del coccodrillo. Balzai in piedi in preda al panico. Come potevo essere stato tanto trascurato? La mia padrona era stata allevata con rigore: a questo avevo provveduto io. Era una ragazza buona e dai retti principi, consapevole dei doveri e degli obblighi che la legge e le consuetudini le imponevano. Era conscia dell'onore dell'illustre famiglia cui apparteneva e del suo posto nella società. E soprattutto, temeva quanto me l'autorità e la collera del padre. Naturalmente mi fidavo di lei. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
26
Mi fidavo di lei come mi sarei fidato di ogni altra giovane creatura ostinata nel primo slancio della femminilità appassionata in una notte come quella, sola nell'oscurità con il giovane soldato bello e altrettanto appassionato di cui era completamente infatuata. Avevo paura non tanto per la fragile verginità della mia padrona, quel talismano etereo che una volta perduto viene rimpianto di rado, ma per il rischio assai più concreto per la mia pelle. L'indomani saremmo tornati a Karnak e al palazzo del mio signore Intef, dove ci sarebbero state molte lingue pettegole pronte a riferirgli ogni nostro sbaglio o avventatezza. Le spie del mio signore erano presenti a ogni livello della società e in ogni angolo della nostra terra, dal porto ai campi, fino al palazzo del Faraone. Sono ancora più numerose delle mie, perché ha più denaro per pagare i suoi agenti, anche se molte servono imparzialmente entrambi e le nostre reti si sovrappongono in molti punti. Se Lostris aveva disonorato tutti - padre, famiglia e tutore - Intef l'avrebbe saputo l'indomani mattina, e l'avrei saputo anch'io. Corsi da un'estremità della barca all'altra e la cercai. Salii sulla torre di poppa e scrutai disperato la spiaggia. Non vidi né lei né Tanus e questo rinfocolò le mie paure. Non sapevo dove cercarli in quella notte di follia. Mi sorpresi a torcermi le mani per la frustrazione, e smisi immediatamente. Mi sforzo sempre di evitare ogni apparenza di effeminatezza. Aborro con tutte le mie forze gli esseri obesi, affettati e leziosi che hanno subito la mia stessa mutilazione, e cerco sempre di comportarmi come un uomo anziché come un eunuco. Mi dominai con uno sforzo e assunsi la stessa espressione fredda e decisa che avevo visto sul volto di Tanus nel divampare della battaglia. Ritornai lucido e razionale. Mi chiesi in quale modo, più probabilmente, poteva comportarsi la mia padrona. La conoscevo bene; dopotutto l'avevo studiata per quattordici anni. Sapevo che era troppo schizzinosa e consapevole del suo rango per mescolarsi sfacciatamente con la folla ebbra sulla spiaggia o per nascondersi fra i cespugli a giocare alla bestia con due schiene, come avevo visto fare al marinaio e alla prostituta grassa. Sapevo di non potermi rivolgere a nessuno perché mi aiutasse nella ricerca: altrimenti il mio signore Intef sarebbe stato informato. Dovevo arrangiarmi da solo. In quale luogo segreto s'era lasciata condurre Lostris? Come molte ragazze della sua età, era affascinata dall'idea dell'amore romantico. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
27
Dubitavo che avesse mai preso seriamente in considerazione gli aspetti più terreni dell'atto fisico, anche se quelle due sgualdrinelle nere facevano di tutto per illustrarglieli. Non aveva manifestato molto interesse per la meccanica della cosa quando, com'era mio dovere, avevo cercato di metterla in guardia quanto bastava per difenderla da se stessa. Poi mi resi conto che dovevo cercarla in un posto degno delle sue aspettative sentimentali. Se ci fosse stata una cabina sul Soffio di Horus, mi sarei precipitato là; ma le nostre navi fluviali sono molto piccole e pratiche, perché i loro pregi devono essere la velocità e la manovrabilità. L'equipaggio dorme sulla tolda e persino il comandante e gli ufficiali hanno come riparo per la notte una pensilina di canne: al momento non era neppure montata, quindi a bordo non c'era un solo posto dove i due giovani potessero nascondersi. Karnak e il palazzo erano lontani mezza giornata di viaggio. Solo adesso gli schiavi stavano rizzando le nostre tende su una delle isolette prescelte per permetterci di festeggiare Osiride separatamente dai comuni mortali. Gli schiavi erano in ritardo con il lavoro perché s'erano fatti coinvolgere dai festeggiamenti. Alla luce delle torce vedevo che alcuni si reggevano in piedi a stento mentre maneggiavano le corde. Non avevano ancora eretto la tenda personale di Lostris, quindi i due innamorati non avevano a disposizione la comodità lussuosa dei tappeti, dei tendaggi ricamati, dei materassi di piuma e delle lenzuola di lino. Dove potevano essere? In quel momento il tenue chiarore giallo di una torcia, fuori sulla laguna, attirò la mia attenzione. E compresi. Mi resi conto che, dati i legami fra la mia padrona e la dea Hapi, il tempio sulla pittoresca isoletta di granito ai centro della laguna era un luogo che l'avrebbe attratta in modo irresistibile. Cercai sulla spiaggia un mezzo per arrivare all'isola. Sebbene vi fossero innumerevoli imbarcazioni tirate a riva, i traghettatori erano quasi tutti ubriachi e addormentati. Poi scorsi Kratas. Le piume di struzzo dell'elmo spiccavano sopra le teste dei presenti, e il suo portamento fiero lo rendeva immediatamente riconoscibile. «Kratas!» gridai. Si voltò a guardarmi e agitò la mano. Kratas è il primo luogotenente di Tanus e, me escluso, è il più leale dei suoi molti amici. Potevo fidarmi di Kratas come di nessun altro. «Procurami una barca!» gli gridai. «Una qualunque!» Ero così angosciato e la mia voce era così stridula che gli giunse chiaramente. Non Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
28
perse tempo in domande e indecisioni. Si avviò verso la feluca più vicina tirata in secco. Il traghettatore dormiva come un masso nella sentina. Kratas lo prese per la collottola e lo sollevò di peso. Lo gettò sulla spiaggia e il traghettatore non si mosse; rimase immerso nell'intontimento causato dal vino scadente, immobile nella posa in cui l'aveva buttato Kratas. Kratas spinse in acqua l'imbarcazione e con pochi colpi di pertica si affiancò al Soffio di Horus. Nella fretta, caddi dalla torre e piombai a prua della piccola imbarcazione. «Al tempio, Kratas», lo supplicai mentre mi rialzavo. «E voglia la buona dea Hapi che non sia troppo tardi.» Con la brezza della sera che soffiava nella vela quadrata volammo sulle acque scure fino al molo di pietra ai piedi del tempio. Kratas legò la marra a un anello e fece per seguirmi a terra, ma lo fermai. «Te lo chiedo per Tanus, non per me», gli dissi. «Non seguirmi.» Esitò un momento, poi annui. «Aspetterò che mi chiami.» Sguainò la spada e me la offrì. «Ne avrai bisogno?» Scossi la testa. «Non è un pericolo di quel genere. E ho il mio pugnale. Ma grazie per la fiducia.» Lo lasciai sulla barca e salii in fretta gli scalini di granito che conducevano all'ingresso del tempio di Hapi. Le torce di canna appese alle colonne dell'ingresso gettavano una tremula luce rossastra che sembrava dar vita ai bassorilievi delle pareti e li faceva danzare. La dea Hapi è una delle mie preferite. A stretto rigore non è un dio né una dea, ma una strana creatura ermafrodita dotata sia di un grosso pene sia di un'enorme vagina, nonché di abbondanti mammelle che donano latte a tutti. È la personificazione divina del Nilo e la dea dei raccolti. I due regni dell'Egitto e tutti i loro abitanti dipendono da lei e dall'alluvione periodica del grande fiume. Hapi è in grado di passare da un sesso all'altro e, come molti altri dei egizi, può assumere a volontà la forma di qualunque animale: e predilige quella dell'ippopotamo. Per quanto la sessualità della dea sia ambigua, la mia padrona le ha sempre attribuito caratteristiche femminili. Sebbene io sia d'accordo con Lostris, penso che i sacerdoti di Hapi abbiano idee un po' diverse. Le sue immagini sui muri di pietra erano enormi e materne. Dipinta negli sgargianti colori primari, rosso, giallo e blu, sorrideva con la testa di una vacca di fiume e sembrava invitare tutti gli esseri della natura a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
29
crescere e moltiplicarsi. Quell'invito sottinteso era assai poco appropriato alla mia ansia. Temevo che la mia preziosa pupilla si stesse avvalendo in quel momento dell'indulgenza della dea. C'era una sacerdotessa inginocchiata all'altare laterale. Corsi a raggiungerla e le tirai l'orlo del mantello. «Sacra sorella, dimmi: hai visto la nobile Lostris, figlia del gran visir?» C'erano pochissimi abitanti nell'Alto Egitto che non conoscessero di vista la mia signora. Tutti l'amavano per la sua bellezza, lo spirito gaio e il carattere dolce, e l'acclamavano per le strade e nei mercati. La sacerdotessa, grinzosa e sdentata, mi sorrise e si accostò un dito ossuto al naso con un'espressione d'intesa che confermò le mie paure peggiori. La scossi di nuovo, meno gentilmente. «Dov'è, venerabile vecchia madre? Ti supplico, parla!» Invece la sacerdotessa scosse la testa e girò gli occhi verso il portale del sacrario interno. Corsi sul pavimento di granito mentre il mio cuore volava più in fretta dei miei piedi: ma nonostante l'angoscia, mi stupii dell'audacia della mia padrona. Sebbene avesse diritto di accesso al sacrario perché faceva parte dell'alta nobiltà, in tutto l'Egitto c'era solo un'altra persona che avrebbe avuto la sfrontatezza di scegliere quel luogo per un convegno amoroso. Mi soffermai all'entrata. L'istinto non mi aveva ingannato. C'erano tutti e due, come avevo temuto. Ero così ossessionato dalla certezza di quanto stava accadendo che per poco non urlai per interromperli. Poi mi dominai. La mia padrona era vestita, anzi lo era più del solito perché aveva il seno coperto, e portava sulla testa uno scialle di lana azzurra. Stava inginocchiata davanti alla gigantesca statua di Hapi, e la dea le sorrideva, ornata da ghirlande di loti azzurri. Tanus era inginocchiato accanto a lei. Aveva deposto le armi e la corazza, ammucchiate all'entrata del sacrario. Indossava soltanto un camice di lino e una corta tunica, e i sandali. Si tenevano per mano e i loro volti quasi si toccavano mentre bisbigliavano fra loro in tono solenne. I miei sospetti più vili venivano smentiti, e io provavo rimorso e vergogna. Come potevo aver dubitato della mia padrona? Feci per indietreggiare senza far rumore, anche se non sarei andato oltre l'altare laterale dove avrei ringraziato la dea per la sua protezione e avrei potuto Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
30
osservare con discrezione ciò che avveniva. Ma in quel momento Lostris si alzò e si avvicinò cautamente alla statua. Ero così affascinato dalla sua grazia fanciullesca che indugiai un momento di più per osservarla. Sganciò dalla catenella che portava al collo la figurina della dea che avevo realizzato per lei. Con una fitta al cuore compresi che stava per offrirla in dono. Avevo confezionato quel gioiello con tutto il mio amore e mi dispiaceva vederlo abbandonare il suo collo. Lostris si alzò in punta di piedi per appenderlo al collo della statua, poi s'inginocchiò e baciò i piedi di pietra mentre Tanus restava immobile dove l'aveva lasciato. Si rialzò e si voltò per tornare da lui, ma in quell'attimo mi scorse sulla soglia. Cercai di dileguarmi nell'ombra, perché ero imbarazzato all'idea di aver spiato un momento tanto intimo. Il suo viso, tuttavia, s'illuminò di gioia. Prima che potessi fuggire mi raggiunse correndo e mi prese le mani. «Oh, Taita, sono felice che tu sia qui... proprio tu! È giusto. Ora è tutto perfetto.» Mi condusse all'interno del sacrario e Tanus si alzò sorridendo e venne a stringermi la mano. «Ti ringrazio per essere venuto. So che possiamo contare su di te.» Avrei voluto che i miei moventi fossero stati puri come li credevano loro; perciò nascosì la mia colpa con un sorriso affettuoso. «Inginocchiati qui!» mi ordinò Lostris. «Qui, dove potrai ascoltare ogni parola che diremo. Sarai testimone davanti ad Hapi e a tutti gli dei dell'Egitto.» Mi fece inginocchiare; quindi lei e Tanus tornarono al loro posto davanti alla dea, si presero per mano e si guardarono negli occhi. Lostris parlò per prima. «Tu sei il mio sole», bisbigliò. «Il mio giorno è buio senza di te.» «Tu sei il Nilo del mio cuore», le disse sottovoce Tanus. «Le acque del tuo amore nutrono la mia anima.» «Tu sei il mio uomo, in questo mondo e in tutti i mondi futuri.» «Tu sei la mia donna e ti giuro il mio amore. Te lo giuro sul soffio e sul sangue di Horus», disse Tanus con voce chiara che echeggiò fra le pareti di pietra. «Accetto il tuo giuramento e lo ricambio cento volte», esclamò Lostris. «Nessuno potrà mai mettersi fra noi. Nulla potrà mai separarci. Siamo una cosa sola, per sempre.» Lostris sollevò il viso e Tanus la baciò a lungo. Per quanto ne sapevo, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
31
era il primo bacio che si scambiavano; e mi sentivo privilegiato di poter assistere a quel momento tanto intimo. Mentre si abbracciavano un improvviso vento freddo che soffiava dalla laguna si insinuò negli ambienti semibui del tempio e fece palpitare le fiamme delle torce. Per un istante i volti dei due innamorati si confusero ai miei occhi e mi parve che l'immagine della dea fremesse. Il vento passò rapidamente com'era venuto, ma il suo fruscio intorno alle grandi colonne era simile alla lontana risata sardonica degli dei, e io rabbrividii, sopraffatto da una paura superstiziosa. È sempre pericoloso irritare gli dei con richieste stravaganti, e Lostris aveva appena chiesto l'impossibile. Era il momento che avevo previsto da anni e che avevo temuto più del giorno della mia morte. Il giuramento che Tanus e Lostris s'erano scambiati non poteva durare. Per quanto fossero sinceri, non poteva essere. Sentii il mio cuore lacerarsi quando, finalmente, smisero di baciarsi e si girarono verso di me. «Perché sei così triste, Taita?» chiese Lostris con il viso soffuso di gioia. «Rallegrati, perché è il giorno più felice della mia vita.» Sorrisi con uno sforzo ma non riuscii a trovare parole di felicitazioni per i due, sebbene fossero le persone più care che avevo al mondo. Rimasi inginocchiato con un sorriso sciocco sulle labbra e la desolazione nell'anima. Tanus mi fece rialzare e mi abbracciò. «Parlerai in mio favore al nobile Intef, non è vero?» mi chiese. «Oh, sì, Taita», insistette Lostris. «Mio padre ti darà ascolto. Sei l'unico che possa fare questo per noi. Non ci abbandonerai, no, Taita? Non mi hai mai delusa in tutta la mia vita. Lo farai per me, vero?» Che potevo dire? Non potevo essere tanto crudele da rivelare la verità. Non potevo trovare le parole per rovinare quell'amore tenero e fresco. Attendevano che io rispondessi, esprimessi la mia gioia e promettessi aiuto e appoggio. Ma ero ammutolito, e avevo la bocca inaridita e bruciante come se avessi addentato una melagrana acerba. «Taita, che cos'hai?» Vidi la gioia svanire dal bel volto della mia padrona. «Perché non ti rallegri con noi?» «Sai quanto vi amo entrambi, ma...» Non riuscii a continuare. «Ma... ma che cosa, Taita?» chiese Lostris. «Perché rispondi così, perché fai quella faccia lunga in questo giorno felice?» Era irritata e sporgeva il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
32
mento, ma nel contempo i suoi occhi si riempivano di lacrime. «Non vuoi aiutarci? È questo il valore di tutte le promesse che mi hai fatto per anni?» Si avvicinò e alzò il viso con aria di sfida. «Ti prego, padrona, non parlare così. Non merito un simile trattamento. No, ascoltami!» Le posai le dita sulle labbra per prevenire un'altra protesta. «Non si tratta di me. Si tratta di tuo padre, il nobile Intef.» «Esattamente.» Spazientita, Lostris scostò la mia mano dalla bocca. «Mio padre! Ti recherai da lui e gli parlerai come fai sempre, e tutto andrà per il meglio.» «Lostris...» Era un sintomo del mio disagio il fatto che pronunciassi il suo nome in quel modo familiare. «Lostris, non sei più una bambina. Non devi illuderti con fantasie infantili. Sai che tuo padre non accetterebbe mai...» Non voleva ascoltarmi, non voleva sentire la verità che stavo per dirle. Perciò cominciò a parlare precipitosamente. «So che Tanus non ha ricchezze, si. Ma ha un avvenire meraviglioso. Un giorno comanderà tutte le armate dell'Egitto. Un giorno combatterà le battaglie che riuniranno i due regni, e io sarò al suo fianco...» «Padrona, ti prego, ascoltami. Non si tratta soltanto del fatto che Tanus non è ricco. C'è di più, molto di più.» «La sua famiglia e la sua educazione, dunque? È questo che ti preoccupa? Sai bene che la sua famiglia è nobile quanto la nostra. Pianki Harrab era eguale per rango a mio padre ed era il suo amico più caro...» Non mi ascoltava. Non capiva la profondità della tragedia in cui stava per avventurarsi. Non lo capivano né lei né Tanus; ma probabilmente io ero l'unica persona in tutto il regno che lo comprendeva pienamente. L'avevo protetta dalla verità per tutti quegli anni e, naturalmente, non avevo mai potuto dirla a Tanus. Come potevo spiegarlo proprio ora? Come potevo rivelarle l'odio profondo che suo padre nutriva per il suo giovane innamorato? Era un odio nato dalla colpa e dall'invidia, e perciò ancora più implacabile. Il mio signore Intef, tuttavia, era un uomo astuto e subdolo. Riusciva a nascondere i propri sentimenti a quanti lo attorniavano; sapeva dissimulare l'odio e il dispetto, baciava colui che desiderava annientare e lo colmava di doni e di adulazioni. Aveva la pazienza del coccodrillo che, sepolto nel fango all'abbeverata lungo il fiume, attende la gazzella ignara. Era disposto ad attendere anni, addirittura un decennio: ma quando si presentava Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
33
l'occasione attaccava la preda e la trascinava sott'acqua con la rapidità del rettile. Lostris ignorava la profondità del rancore di suo padre. Credeva persino che avesse provato affetto per il nobile Pianki Harrab, come il padre di Tanus ne aveva provato per lui. Ma come poteva conoscere la verità, se gliel'avevo sempre nascosta? Nella sua innocenza, Lostris credeva che l'unica obiezione di suo padre avrebbe riguardato il patrimonio e la famiglia dell'innamorato. «Sai che è vero, Taita. Tanus è un mio eguale nei canoni della nobiltà. È scritto nei documenti dei templi, e tutti possono vederlo. Come può negarlo mio padre? E tu, come puoi negarlo?» «Non spetta a me negare o ammettere, padrona...» «Allora parlerai per noi a mio padre, vero, caro Taita? Dimmi che lo farai, ti prego!» Non potei far altro che chinare la testa e nascondere l'espressione disperata dei miei occhi. Al ritorno a Karnak le imbarcazioni erano stracariche. Le navi galleggiavano basse sull'acqua sotto il peso delle pelli grezze e della carne salata. Perciò la nostra avanzata contro la corrente del Nilo era più lenta di quanto fosse stato il viaggio all'andata; ma era pur sempre troppo veloce per il mio cuore oppresso e i miei timori crescenti. I due innamorati erano euforici, felici del loro amore dichiarato e certi che avrei eliminato gli ostacoli sul loro cammino. Non mi sentivo capace di negargli quel giorno di felicità: sapevo che sarebbe stato uno degli ultimi. Penso che, se fossi riuscito a trovare le parole o il coraggio necessari, li avrei esortati ad attuare quella consumazione del loro amore cui ero stato così contrario la notte precedente. Non ne avrebbero più avuto la possibilità, dato che il nobile Intef sarebbe stato messo in allarme dal mio mutile tentativo di convincerlo. Appena ne avesse conosciuto le intenzioni, si sarebbe messo tra loro e li avrebbe separati per sempre. Perciò ridevo e sorridevo lietamente, sforzandomi di nascondere le mie paure. Erano così accecati dall'amore che riuscii nell'intento, mentre in qualunque altro momento la mia padrona avrebbe intuito subito la verità. Mi conosceva bene, quasi quanto io conoscevo lei. Mangiammo insieme a prua, noi tre, e parlammo della rappresentazione della passione di Osiride che doveva essere il culmine della festività. 11 nobile Intef mi aveva incaricato di organizzare lo spettacolo e io avevo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
34
assegnato ruoli importanti a Lostris e a Tanus. Le festività si celebrano ogni due anni, al sorgere della luna piena di Osiride. Un tempo la festa aveva luogo ogni anno ma in seguito, a causa delle ingenti spese e della divisione della corte (dovuta al forzato trasferimento della stessa da Elefantina a Tebe), il Faraone decretò che, tra un festeggiamento e il successivo, trascorresse più tempo: il nostro Faraone è sempre stato molto accorto con il denaro. I preparativi per la rappresentazione mi consentivano di non pensare al mio prossimo incontro con il nobile Intef, e perciò feci provare ai due innamorati le loro battute. Lostris doveva impersonare Iside, la sposa di Osiride, mentre Tanus sarebbe stato Horus. Entrambi erano divertiti all'idea che Tanus avrebbe interpretato la parte del figlio di Lostris; e io dovetti spiegare che gli dei non hanno età, ed è possibile che una dea possa apparire più giovane della sua creatura. Avevo riscritto la vicenda con l'intento di sostituire la versione precedente che era rimasta immutata per quasi mille anni. Il linguaggio di quella antica era arcaico e inadatto a un pubblico moderno. II Faraone sarebbe stato l'ospite d'onore quando la rappresentazione si sarebbe svolta nel tempio del dio, l'ultima notte della festività, e io desideravo moltissimo che avesse successo. Avevo già incontrato l'opposizione dei nobili e dei sacerdoti più tradizionalisti che non approvavano la mia nuova versione, e solo l'intervento del nobile Intef aveva avuto il potere di appianare il contrasto. Intef non era un uomo profondamente religioso e in circostanze normali non si sarebbe immischiato in una disputa teologica. Ma io avevo incluso nella rappresentazione alcune battute studiate per divertirlo e lusingarlo. Gliele avevo lette fuori del contesto, e avevo fatto osservare con delicatezza che la principale opposizione alla mia versione era quella del sommo sacerdote di Osiride, un vecchio intransigente che una volta aveva ostacolato l'interesse del mio signore per un accolito giovane e bello: era stato un affronto che Intef non aveva mai perdonato. Quindi la mia versione sarebbe stata eseguita per la prima volta. Era indispensabile che gli attori riuscissero a rendere al meglio lo splendore della poesia, altrimenti rischiavo che non venisse rappresentata mai più. Tanus e Lostris avevano voci meravigliose, ed erano decisi a compensarmi per la promessa di aiutarli. Fecero del loro meglio e la prova Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
35
fu così avvincente, la loro recitazione così notevole che per un po' dimenticai tutto il resto. Poi il grido della vedetta mi strappò alla passione del dio e mi ricondusse alle mie preoccupazioni terrene. La flotta stava aggirando l'ultima ansa del fiume, e là sorgevano le città gemelle di Luxor e Karnak: insieme formavano la Grande Tebe, sgranata lungo la riva davanti a noi, e splendente come una collana di perle nella cruda luce dell'Egitto. Il nostro interludio fantastico era finito, e dovevamo affrontare di nuovo la realtà. Il mio spirito vacillò mentre mi alzavo in piedi. «Tanus, devi trasbordare Lostris e me sulla nave di Kratas prima che ci avviciniamo alla città. I fedeli del mio signore ci spieranno dalla terraferma. Non devono vederci in tua compagnia.» «È un po' tardi, non ti pare?» Tanus sorrise. «Avresti dovuto pensarci qualche giorno fa.» «Mio padre verrà a sapere di noi molto presto», insistette Lostris. «Forse il tuo compito sarà più facile se lo preavvertiremo delle nostre intenzioni.» «Se ne sai più di me, devi fare a modo tuo, e io non parteciperò più a questa pazzia.» Assunsi l'aria più impettita e offesa, ma mi raddolcii subito. Tanus segnalò all'imbarcazione di Kratas di accostare e agli innamorati rimasero pochi istanti per salutarsi. Non osarono abbracciarsi sotto gli occhi di metà della flotta: ma le occhiate e le parole tenere che si scambiarono furono quasi altrettanto appaganti. Dalla torre di poppa della nave di Kratas salutammo il Soffio di Horus che si allontanava da noi e, con le pale dei remi che balenavano come le ali d'una libellula, puntava verso l'attracco di fronte alla città di Luxor, mentre noi continuavamo a risalire il fiume verso il palazzo del gran visir. Appena attraccammo al molo del palazzo, chiesi del mio padrone e respirai di sollievo nell'apprendere che aveva attraversato il fiume per effettuare un'ultima ispezione della tomba e del tempio funerario del Faraone sulla riva occidentale. I due edifici erano in costruzione da dodici anni, dal primo giorno in cui il sovrano aveva cinto la corona doppia dei due regni. Finalmente erano quasi completati, ed egli sarebbe stato ansioso di visitarli non appena si fossero concluse le festività. Il nobile Intef voleva che il re non restasse deluso. Uno dei molti titoli del mio padrone era «Custode delle Tombe Reali», ed era una responsabilità molto gravosa. La sua assenza mi lasciava un altro giorno per preparare le mie argomentazioni e pianificare una strategia. Tuttavia la promessa solenne Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
36
fatta ai due amanti mi vincolava a parlare in loro favore alla prima occasione, e sapevo che questa sarebbe venuta l'indomani quando il mio signore avesse tenuto l'assise settimanale. Non appena ebbi accompagnato la mia padrona nell'harem raggiunsi il mio alloggio nell'ala del palazzo riservata ai membri del seguito del gran visir. L'organizzazione domestica del nobile Intef era vaga e subdola come il resto della sua esistenza. Aveva otto mogli, e tutte gli avevano portato doti consistenti oppure influenti parentele politiche. Tre soltanto, però, gli avevano dato figli: a parte Lostris c'erano due maschi. A quanto ne sapevo, ed ero al corrente di tutto ciò che accadeva nel palazzo e di quasi tutto ciò che accadeva fuori, il mio padrone non aveva mai visitato l'harem negli ultimi quindici anni. Lostris era stata concepita nell'ultima occasione in cui Intef aveva compiuto i doveri coniugali. I suoi gusti sessuali avevano orientamenti ben diversi. Gli speciali compagni del gran visir che vivevano nella nostra ala erano la più bella collezione di giovanissimi schiavi che si potesse trovare nell'Alto Egitto, dove nell'ultimo secolo la pederastia aveva sostituito la caccia come passatempo prediletto dalla maggioranza dei nobili. E questo era uno dei tanti sintomi dei mali che assediavano la nostra splendida terra. Ero il più anziano di quell'eletta compagnia di schiavi. Diversamente da tanti altri che nel corso degli anni, quando la loro avvenenza aveva incominciato ad appassire, erano stati messi in vendita al mercato degli schiavi, io ero rimasto. Intef mi aveva apprezzato per virtù diverse dalla bellezza fisica. Certo, non l'avevo perduta, anzi essa era diventata più evidente con gli anni. Non dovete giudicarmi vanitoso se ne parlo: ho deciso di scrivere soltanto la verità nelle mie narrazioni, che sono già abbastanza straordinarie senza che debba ricorrere alla falsa modestia. No, in quei giorni il mio signore prendeva raramente il suo piacere con me, e di questa trascuratezza ero molto lieto. Quando lo faceva, di solito era soltanto per punirmi. Conosceva bene quale sofferenza fisica e quale umiliazione mi avevano sempre causato le sue attenzioni. Anche se ero ancora bambino quando avevo imparato a nascondere la ripugnanza e a simulare il piacere negli atti perversi che compiva su di me, non ero mai riuscito a ingannarlo. Stranamente i miei sentimenti di disgusto e di ribrezzo per quell'amplesso carnale contro natura non avevano mai diminuito la sua soddisfazione, anzi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
37
sembrava che l'accrescessero. Il mio signore Intef non era né gentile né compassionevole. Posso contare a centinaia gli schiavi giovanissimi che, nel corso degli anni, erano stati condotti via, piangenti e straziati, dopo la prima notte d'amore con il mio padrone. Li curavo e facevo il possibile per confortarli. Forse per questo nell'alloggio degli schiavi adolescenti mi chiamavano Akh-Ker, un nome che significa: «Fratello Maggiore». Anche se non ero più il giocattolo preferito del padrone, questi mi apprezzava molto di più. Per lui ero molte cose: medico e artista, musico e scriba, architetto e contabile, consigliere e confidente, ingegnere e balio di sua figlia. Non ero tanto ingenuo da credere che mi fosse affezionato o che si fidasse di me, ma pensavo che a volte vi arrivasse vicino, per quanto ne era capace. Forse per questo Lostris mi aveva convinto a perorare la sua causa. Il nobile Intef non s'interessava a Lostris se non per mantenere al livello massimo il valore matrimoniale di quell'unica figlia, e quello era un altro dovere che delegava interamente a me. A volte non le rivolgeva neppure una parola da un'inondazione del Nilo all'altra. Non mostrava il minimo interesse per i rapporti regolari che gli facevo sugli studi e l'educazione di Lostris. Naturalmente mi ero sempre preoccupato di nascondergli i miei veri sentimenti per lei; sapevo che sicuramente li avrebbe usati contro di me alla prima occasione. Avevo sempre cercato di fargli credere che per me aver cura di Lostris fosse un dovere tedioso di cui mi risentivo, e che condividevo il suo disprezzo per tutte le donne. Non credo si rendesse mai conto che, nonostante la castrazione, avevo conservato i sentimenti e i desideri di un uomo verso l'altro sesso. Il disinteresse del mio padrone per la figlia era la ragione per cui a volte ero tentato di correre rischi pazzeschi, come la recente fuga a bordo del Soffio di Horus: di solito c'era la possibilità che ce la cavassimo impunemente. Quella sera mi ritirai presto nel mio alloggio privato e per prima cosa mi preoccupai di dar da mangiare ai miei prediletti. Amo gli animali, e con loro ho un rapporto che sorprende persino me. Avevo un'amicizia intima con una dozzina di gatti, poiché nessuno può affermare d'essere il padrone d'un gatto. Ero invece padrone di una muta di magnifici cani. Io e Tanus ce ne servivamo per andare a caccia di orici e leoni nel deserto. Gli uccelli selvatici venivano ad affollarsi sul mio terrazzo per godere Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
38
dell'ospitalità che io offrivo loro. Si disputavano rumorosamente il diritto di posarsi sulla mia spalla o sulla mano. I più audaci venivano a prendere il cibo dalle mie labbra. Intanto la gazzella addomesticata si strusciava contro le mie gambe come i gatti, e i due falchi gridavano dai posatoi sul terrazzo. Erano rari Saker del deserto, belli e feroci. Quando potevamo, Tanus e io li portavamo nel deserto per lanciarli contro le grandi otarde. Mi dava un immenso piacere ammirare la loro velocità e agilità mentre piombavano sulle prede. Chiunque altro avesse tentato di accarezzarli avrebbe conosciuto i loro rostri taglienti: ma con me erano miti come passeri. Solo quando mi fui occupato del mio serraglio chiamai uno dei giovani schiavi perché mi portasse il pasto serale. Sulla terrazza che si affacciava sull'ampio nastro verde del Nilo gustai lo squisito piatto di quaglie selvatiche cucinate nel miele e nel latte di capra che il capocuoco aveva preparato apposta per il mio ritorno. Da lassù potevo attendere l'arrivo del mio signore dall'altra sponda. La barca apparve con il tramonto che splendeva sull'unica vela quadrata, e io mi sentii tremare. Poteva darsi che quella sera mi mandasse a chiamare, e non ero pronto ad affrontarlo. Poi sentii con sollievo che Rasfer, il comandante della guardia del palazzo, chiamava il favorito del momento, un beduino dagli occhi neri che aveva appena dieci anni. Poco dopo sentii la voce acuta di soprano del ragazzo che protestava atterrito mentre Rasfer lo trascinava oltre la mia porta in direzione delle stanze del gran visir. Anche se le avevo sentite tante volte non ero ancora riuscito a diventare insensibile alle grida dei bambini e provavo una fitta di pietà. Tuttavia, per me era un conforto sapere che non sarei stato chiamato per quella sera. Avevo bisogno d'una buona notte di sonno per poter avere il mio aspetto migliore l'indomani mattina. Mi svegliai prima dell'alba, ancora oppresso da un senso di timore. Anche l'abituale nuotata nelle acque fresche del Nilo non bastò ad alleviarlo. Mi affrettai a tornare nella mia camera, dove due schiavetti mi attendevano per ungermi e per pettinarmi i capelli. Detestavo la nuova moda di truccarsi, venuta in uso fra i nobili. La mia carnagione non ne aveva bisogno, ma al nobile Intef piaceva che i suoi lo facessero, e quel giorno tenevo particolarmente a compiacerlo. Anche se la mia immagine riflessa nello specchio di bronzo mi rassicurò, non avevo voglia di fare colazione. Ero il primo del seguito del mio signore ad attendere il suo arrivo nel giardino acquatico dove teneva le assise ogni mattina. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
39
Mentre aspettavo che il resto del seguito si radunasse, osservavo i martin pescatori. Avevo progettato e diretto la costruzione del giardino acquatico, un meraviglioso complesso di canali e laghetti che traboccavano dall'uno all'altro. Le piante fiorite provenivano da ogni parte del regno e anche da Paesi stranieri, ed erano un tripudio di colori. I laghetti erano popolati dalle centinaia di varietà di pesci che il Nilo cede alle reti dei pescatori; ma era necessario rifornirli ogni giorno a causa delle razzie dei martin pescatori. Il nobile Intef amava osservare gli uccelli che stavano librati nell'aria come lapislazzuli e quindi sfrecciavano, colpivano l'acqua in uno spruzzo di spuma e risalivano con un pesce argenteo stretto nel lungo becco. Credo che si considerasse un predatore come loro, un pescatore d'uomini, e che li ritenesse suoi simili. Non permetteva mai ai giardinieri di scoraggiare gli uccelli. A poco a poco fui raggiunto dal resto della corte. Molti erano spettinati e sbadigliavano. Il nobile Intef si svegliava presto e preferiva sbrigare la maggior parte degli affari di Stato prima che facesse troppo caldo. Noi attendevamo rispettosamente l'arrivo del signore sotto i primi raggi del sole. «Stamattina è di buon umore», mormorò il ciambellano mentre prendeva posto accanto a me, e io provai un guizzo di speranza. Forse sarei riuscito a sfuggire alle gravi conseguenze della promessa avventata che avevo fatto a Lostris. Ci furono un movimento e un brusio, come quando la brezza del fiume soffia fra i papiri, e il nobile Intef usci. Il suo passo era maestoso, i suoi modi solenni perché era al culmine degli onori e del potere. Portava al collo l'Oro del Valore, la collana d'oro rosso proveniente dalle miniere di Lot, che il Faraone gli aveva consegnato con le proprie mani. Era preceduto dal suo laudatore, un nano dalle gambe tozze, scelto per il corpo deforme e i toni squillanti della sua voce. Il mio signore si divertiva a circondarsi di curiosità, di cose belle o grottesche. Il nano piroettava e saltellava, cantilenando l'elenco dei titoli e degli onori di Intef. «Ecco il Sostegno dell'Egitto! Salutate il Guardiano delle Acque del Nilo! Inchinatevi al compagno del Faraone!» Erano titoli accordati dal re; e molti imponevano doveri e obblighi specifici. Quale Guardiano delle Acque, per esempio, doveva controllare i livelli e i flussi delle piene stagionali del Nilo, un dovere che ovviamente delegava a Taita, lo schiavo fedele e infaticabile. Avevo trascorso circa mezzo anno con una squadra di ingegneri e matematici che, ai miei ordini, avevano misurato e inciso le rupi di Assuan Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
40
in modo che il livello delle acque che salivano potesse venire valutato con precisione e si potesse calcolare il volume dell'inondazione. In base a quei dati riuscivo a stimare con mesi di anticipo l'entità dei raccolti: e ciò permetteva di prevedere la carestia o l'abbondanza, in modo che il governo potesse fare i piani. Il Faraone era stato soddisfatto della mia opera e aveva concesso altri onori e ricompense al mio signore Intef. «Piegate il ginocchio davanti al Nomarca di Karnak, governatore di tutti i ventidue nomi dell'Alto Egitto! Salutate il Signore della Necropoli, il Custode delle Tombe Reali!» Quei titoli davano al mio padrone la responsabilità di progettare, costruire e curare i monumenti dei Faraoni morti da molto tempo e di quello ancora vivente. Anche in questo caso, i relativi doveri erano scaricati sulle spalle di uno schiavo paziente. La visita che il mio signore aveva fatto il giorno precedente alla tomba del re era stata la prima che avesse compiuto dopo le precedenti festività di Osiride. Ero stato io, quello cui era toccato avventurarsi nella polvere e nel caldo per far lavorare i costruttori bugiardi e i muratori oziosi. Spesso mi pentivo di aver permesso che il mio padrone scoprisse la gamma dei miei talenti. In quel momento Intef mi guardò senza aver l'aria di farlo. Gli occhi gialli, implacabili come quelli di un leopardo, incontrarono i miei; inclinò leggermente la testa. Mi accodai a lui quando passò, e come sempre fui colpito dalla sua statura e dall'ampiezza delle sue spalle. Era un uomo straordinariamente bello, con le membra agili e il ventre piatto. La testa era leonina, i capelli folti e lucenti. A quell'epoca aveva quarant'anni, e da circa venti ero suo schiavo. Il nobile Intef ci condusse alla barrazza al centro del giardino, una costruzione dal tetto di paglia e priva di muri, aperta alla brezza fresca del fiume. Sedette a gambe incrociate sul pavimento, davanti al tavolo basso su cui stavano i rotoli, e io mi misi al solito posto dietro di lui. E così ebbe inizio la giornata. Per due volte, durante quella mattina, il mio signore s'inclinò leggermente all'indietro verso di me. Non girò la testa e non disse una parola: ma chiedeva il mio consiglio. Io muovevo appena le labbra e parlavo a voce bassa in modo che nessun altro mi udisse. Ben pochi se ne accorgevano. A mezzogiorno il mio signore congedò funzionari e postulanti e ordinò di portargli il pasto. Per la prima volta, in quel giorno, eravamo soli, se si escludeva Rasfer, che era il comandante della guardia del palazzo e il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
41
carnefice di Stato. Questi si piazzò alla porta del giardino, in vista della barrazza ma abbastanza lontano per non sentire le nostre parole. Con un gesto il mio signore mi invitò ad avvicinarmi e ad assaggiare le carni e i frutti deliziosi che gli stavano davanti. Mentre attendevamo che non si manifestassero in me gli effetti d'un eventuale avvelenamento, discutemmo nei minimi particolari gli affari di quella mattina. Poi m'interrogò sulla spedizione alla laguna di Hapi e sulla grande caccia agli ippopotami. Gli feci una descrizione completa e gli fornii le cifre dei profitti che poteva attendersi dalla carne, dalle pelli e dai denti dei bovi di fiume. Gonfiai un po' le previsioni dei profitti, e Intef sorrise. Aveva un sorriso aperto e affascinante. Se si aveva l'opportunità di vederlo, era più facile capire la sua abilità nel manovrare e dominare gli uomini. Persino io, che avrei dovuto sapere come stavano le cose, mi lasciai illudere ancora una volta. Mentre il mio signore addentava una fetta succulenta di filetto di bove di fiume, trassi un respiro, chiamai a raccolta il mio coraggio e incominciai la perorazione. «Il mio signore deve sapere che ho permesso a sua figlia di accompagnarmi nella spedizione...» Gli lessi negli occhi che lo sapeva già, e pensava che tentassi di nasconderglielo. «Non hai pensato di chiedere prima il mio permesso?» chiese in tono blando. Io evitai il suo sguardo e gli sbucciai un chicco d'uva mentre rispondevo. «Lo ha chiesto quando stavamo per partire. Come sai, la dea Hapi è la sua protettrice, e lei desiderava onorarla e fare un sacrificio nel tempio della laguna.» «Comunque non lo hai chiesto a me», ribadì. Gli offrii il chicco. Socchiuse le labbra e permise che glielo ponessi nella bocca. Poteva significare soltanto che era ben disposto verso di me, quindi non aveva scoperto tutta la verità su Tanus e Lostris. «Il mio signore era a colloquio con il nomarca di Assuan. Non ho osato disturbarti. E non c'era nulla di male, secondo me. Era una semplice decisione domestica che non meritava il tuo interessamento.» «Sei così eloquente, vero, mio caro?» Intef rise. «E oggi sei così bello. Mi piace come ti sei dipinto le palpebre. E che profumo porti?» «È distillato dai petali della violetta selvatica», risposi. «Sono lieto che ti Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
42
piaccia, perché ne ho una boccetta da offrirti in dono, mio signore.» Presi il piccolo recipiente dalla borsa e m'inginocchiai per porgerglielo. Intef mi mise l'indice sotto il mento e mi sollevò il viso per baciarmi sulle labbra. Risposi doverosamente al bacio fino a che si staccò e mi accarezzò la guancia. «Qualunque cosa tu stia perpetrando, sei ancora molto attraente, Taita. Anche dopo tutti questi anni riesci a farmi sorridere. Ma, dimmi, hai avuto buona cura della nobile Lostris? Non l'hai mai persa di vista per un momento, vero?» «Come sempre, mio signore», confermai con energia. «Quindi non devi riferirmi niente d'insolito che la riguarda, è così?» Ero ancora inginocchiato davanti a lui. Tentai di parlare ma non ci riuscii. La mia gola si inaridì. «Non squittire, mio caro.» Intef rise. «Parla da uomo, anche se non lo sei.» Era una frecciata crudele, ma mi diede forza. «In verità c'è qualcosa che desidero sottoporre alla tua attenzione», dissi. «E riguarda la nobile Lostris. Come ti ho già detto sei mesi fa, in occasione della piena del grande fiume, la luna rossa di tua figlia è sorta per la prima volta. Da allora i corsi della sua luna sono fluiti con forza ogni mese.» Il mio padrone fece una smorfia di disgusto: le funzioni del corpo femminile lo ripugnavano. Mi sembrava un'ironia, considerando il suo interesse per le parti meno gradevoli dell'anatomia maschile, Mi affrettai a continuare. «Ormai la nobile Lostris è in età da matrimonio. È una donna dall'indole ardente e affettuosa. Credo che sarebbe saggio trovarle un marito il più presto possibile.» «Senza dubbio ne avrai uno da proporre...» mi interruppe Intef in tono brusco. Annuii. «C'è un corteggiatore, mio signore.» «Non ce n'è solo uno, Taita. Ti riferisci a un altro; vero? Io ne conosco almeno sei, incluso il nomarca di Assuan e il governatore di Lot, che hanno già fatto offerte.» «Sì, mi riferivo a un altro, qualcuno che la nobile Lostris approva. Come ricorderai, ha definito il nomarca "un rospo grasso", e il governatore "un vecchio caprone libidinoso".» «L'approvazione o la disapprovazione di mia figlia non m'interessano affatto.» Scosse la testa, sorrise e mi accarezzò la guancia per incoraggiarmi. «Ma continua, Taita: dimmi il nome del corteggiatore Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
43
innamorato che mi farà l'onore di diventare mio genero in cambio della dote più ricca dell'Egitto.» Mi feci coraggio per rispondere, ma Intef mi trattenne. «No, aspetta! Lasciami indovinare.» Il sorriso divenne quel ghigno volpino e subdolo che conoscevo così bene. Mi resi conto che fino a quel momento aveva giocato con me. «Se Lostris lo gradisce, deve essere giovane e bello.» Intef finse di riflettere. «E se tu sostieni la sua causa deve essere un amico o un protetto. Questo gioiello deve avere avuto occasione di dichiarare il suo amore e di sollecitare il tuo appoggio. Quando e in quale luogo può essere accaduto? Forse a mezzanotte nel tempio di Hapi? Sono sulla strada giusta, Taita?» Impallidii. Come poteva sapere tante cose? Mi passò la mano dietro la testa e mi accarezzò la nuca. Spesso era il suo preludio all'atto d'amore, e mi baciò di nuovo. «Ti leggo in faccia che sono vicino alla verità.» Mi afferrò una ciocca di capelli e la torse leggermente. «Ora rimane solo da scoprire il nome dell'amante audace. Può essere Dakka? No, no, Dakka non è così stupido da sfidare la mia collera.» Torse i miei capelli un po' più forte e mi fece venire le lacrime agli occhi. «Kratas, allora? È bello e abbastanza avventato per correre il rischio.» Tirò più forte e io sentii che un ciuffo dei miei capelli si staccava e gli restava nella mano. Soffocai il lamento che mi saliva alia gola. «Rispondi, mio caro. Era Kratas?» Mi piegò a forza la testa sulle sue ginocchia. «No, no, mio signore», bisbigliai. Non mi sorprese scoprire che era eccitato. Mi spinse la testa più forte e mi tenne bloccato. «Non è Kratas? Sei sicuro?» Fingeva di essere perplesso. «Se non è Kratas, non so proprio chi altri potrebbe essere così insolente e stupido da avvicinare la figlia vergine del gran visir dell'Alto Egitto.» Alzò la voce bruscamente. «Rasfer!» chiamò. Mi girò la testa e, fra le lacrime, vidi Rasfer che si avvicinava. Nel serraglio del Faraone sull'isola Elefantina di fronte ad Assuan, c'era un colossale orso nero portato molti anni prima da una delle carovane di mercanti giunte dall'est. Quel mostro feroce mi ricordava il comandante delle guardie del corpo del mio signore. Entrambi avevano lo stesso corpo gigantesco e informe oltre a possedere la forza bruta necessaria per schiacciare un uomo. Ma in quanto a bellezza di lineamenti e a dolcezza d'animo, l'orso era assai preferibile a Rasfer. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
44
Guardai Rasfer che si avvicinava al trotto, con un passo sorprendentemente agile e svelto per le sue gambe simili a tronchi d'albero e per il suo ventre villoso, e mi parve di tornare indietro nel tempo, al giorno in cui mi era stata tolta la virilità. Sembrava tutto familiare, come se fossi costretto a rivivere quel giorno terribile. Ogni particolare era ancora così nitido nella mia mente che avrei voluto urlare. Gli attori di quella vecchia tragedia erano gli stessi: il nobile Intef, Rasfer il bruto e io. Mancava soltanto la ragazza. Si chiamava Alyda. Aveva la mia stessa età, sedici anni dolci e innocenti. Era schiava, come me. Ora la ricordo bella; ma è probabile che la memoria m'inganni, perché se lo fosse stata davvero sarebbe entrata nell'harem di una delle grandi case e non sarebbe stata relegata in cucina. So con certezza che aveva la pelle del colore e della lucentezza dell'ambra, calda e morbida. Non dimenticherò mai il contatto del corpo di Alyda perché non proverò mai più nulla di simile. Nella nostra infelicità avevamo trovato conforto e consolazione l'uno nell'altra. Non seppi mai chi ci avesse traditi. Di solito non sono vendicativo, ma sogno ancora di trovare chi, quella volta, fece la spia. A quell'epoca ero il favorito del nobile Intef, il suo prediletto. Quando scoprì che gli ero stato infedele, l'affronto per il suo amor proprio fu tale da spingerlo al limite della follia. Rasfer venne a prenderci e ci trascinò nella camera del mio signore. Ci teneva ognuno con una mano, come se fossimo due gattini. Ci spogliò mentre il mio signore Intef rimaneva immobile, seduto sul pavimento a gambe incrociate. Rasfer legò i polsi e le caviglie di Alyda con cinghioli di cuoio. Lei era pallida e tremante ma non piangeva. Il mio amore per lei e la mia ammirazione per il suo coraggio non erano mai stati più grandi che in quel momento. Intef mi indicò di inginocchiarmi davanti a lui. Mi prese per i capelli e bisbigliò parole affettuose. «Mi ami, Taita?» chiese, e poiché avevo paura, e pensavo che se avessi risposto avrei potuto risparmiare qualche sofferenza ad Alyda, dissi: «Sì, mio signore, ti amo». «Ami qualcun altro, Taita?» chiese Intef con voce di seta, e io, vile e traditore, risposi: «No, mio signore, amo soltanto te». Solo allora sentii che Alyda cominciava a piangere. Fu uno dei momenti più strazianti della mia vita. Allora Intef chiamò Rasfer. «Porta qui la puttana. Mettila in modo che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
45
possano vedersi chiaramente. Taita deve vedere ciò che le verrà fatto.» Mentre Rasfer spingeva la ragazza nei mio campo visivo, lo vidi sogghignare. Poi il mio signore alzò leggermente la voce. «Sta bene, Rasfer. Puoi procedere.». Rasfer fece scorrere un cappio di corda di pelle intrecciata intorno alla fronte di Alyda. La corda era a nodi, e sembrava del tipo usato dalle donne beduine per le loro acconciature. Rasfer, in piedi dietro di lei, inserì un solido bastone di legno d'ulivo nel cappio e l'attorse fino a quando i nodi del cuoio affondarono nella carne. Alyda fece una smorfia di sofferenza. «Adagio, Rasfer», ordinò il mio padrone. «Abbiamo ancora molto tempo.» Il bastone d'ulivo sembrava un giocattolo nelle enormi zampe pelose di Rasfer. Lo manovrò adagio, un quarto di giro alla volta. I nodi affondarono di più e la bocca di Alyda si aprì: i polmoni si svuotarono in un ansito. Tutto il colore defluì dalla pelle che diventò cinerea. Si sforzò di riempirsi i polmoni d'aria, poi l'esalò in un lungo urlo penetrante. Rasfer continuò a ghignare, girò di nuovo il bastone e la fila di nodi affondò nella fronte di Alyda. Il cranio cambiò forma. In un primo momento pensai che fosse uno scherzo della mia mente sconvolta, poi mi accorsi che in verità la sua testa si allungava via via che il cappio si stringeva. Adesso il suo urlo era ininterrotto, e mi trafiggeva il cuore come la lama d'una spada. Sembrava protrarsi per l'eternità. Poi il cranio scoppiò. Sentii l'osso schiantarsi con il suono di una noce di cocco schiacciata tra le fauci di un elefante. L'urlo terribile e acutissimo cessò e il corpo di Alyda si accasciò fra le mani di Rasfer. Dopo un'eternità il mio signore mi sollevò la testa e mi guardò negli occhi con un'espressione di mesto rammarico. «Se n'è andata, Taita. Era malvagia e ti aveva corrotto. Dobbiamo assicurarci che questo non accada mai più. Dobbiamo proteggerci da ogni futura tentazione.» Fece un altro cenno a Rasfer, che prese per i piedi il corpo nudo di Alyda e lo trascinò sulla terrazza. La parte posteriore della testa sfracellata batteva sui gradini e i capelli sembravano fluire sulla pietra. Con uno scatto delle spalle massicce, la gettò nel fiume. Le membra inerti parvero agitarsi quando il corpo cadde nell'acqua. Affondò rapidamente, mentre i capelli si allargavano intorno a lei come ciuffi d'erba fluviale. Rasfer andò in fondo alla terrazza, dove due dei suoi uomini attizzavano un braciere di carbonella. Accanto al braciere c'era un vassoio di legno Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
46
pieno di strumenti chirurgici. Li guardò e annui soddisfatto. Tornò indietro e s'inchinò al mio signore. «È tutto pronto.» Intef mi passò un dito sul viso striato di lacrime, e se lo portò alle labbra come se assaporasse il mio dolore. «Su, carino», mormorò. Mi fece alzare e mi condusse sulla terrazza. Ero così disperato e accecato dalle lacrime che non mi resi conto del pericolo fino a quando i soldati non mi afferrarono. Mi gettarono a terra e mi tennero inchiodato sulle piastrelle di terracotta, bloccandomi i polsi e le caviglie in modo che potessi muovere solo la testa. Il mio padrone s'inginocchiò accanto al mio viso mentre Rasfer s'accucciava fra le mie cosce. «Non farai mai più una cosa tanto malvagia, Taita.» E solo in quel momento notai il bisturi di bronzo che Rasfer aveva nascosto nella destra. Intef gli fece un cenno: Rasfer tese la mano libera, mi afferrò e tirò. Ebbi la sensazione che cercasse di strapparmi le viscere attraverso l'inguine. «Che bella coppia di uova.» Rasfer sogghignò e mi mostrò il bisturi. «Ma le darò in pasto ai coccodrilli, come ho fatto con la tua amichetta.» E baciò la lama. «Ti supplico, mio signore», implorai. «Abbi pietà...» Ma la mia preghiera si concluse con un grido stridulo quando Rasfer colpi con la lama. Fu come se uno spiedo arroventato mi trafiggesse il ventre. «Digli addio, bel ragazzo.» Rasfer sollevò il sacco di pelle grinzosa e il suo misero contenuto. Poi fece per alzarsi, ma il mio signore lo trattenne. «Non hai finito», disse con calma. «Io voglio tutto.» Rasfer lo fissò per un momento senza capire l'ordine, poi cominciò a ridere. «Per il sangue di Horus», sghignazzò. «D'ora in avanti il bel ragazzo dovrà accosciarsi come una femmina per pisciare!» Colpi di nuovo e rise ancora fragorosamente, mostrando il dito di carne che era stato la parte più intima del mio corpo. «Non preoccuparti, ragazzo. Camminerai più leggero senza quel peso.» Traballando per l'ilarità si avviò verso il bordo della terrazza per gettare tutto nel fiume, ma ancora una volta Intef lo richiamò bruscamente. «Dalli a me!» ordinò; e Rasfer, obbediente, gli mise nelle mani i frammenti sanguinanti della mia virilità. Per qualche istante il mio signore li esaminò incuriosito, poi si rivolse di nuovo a me. «Non sono tanto crudele da privarti per sempre di questi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
47
preziosi trofei, mio caro. Li manderò agli imbalsamatori e quando saranno pronti li farò montare su una collana, circondati da perle e lapislazzuli. Saranno il mio dono per la prossima festività di Osiride. Il giorno in cui verrai sepolto saranno posti nella tomba con te e, se gli dei saranno generosi, potrai usarli nell'aldilà.» I ricordi terribili avrebbero dovuto finire nel momento in cui Rasfer stagnò il sangue con un mestolo di lacca bollente da imbalsamatore, e io sprofondai nell'oblio, vinto dall'intensità insopportabile della sofferenza. Ma adesso ero di nuovo prigioniero dell'incubo. Tutto si ripeteva. Però questa volta la piccola Alyda non c'era e, invece del coltello, Rasfer stringeva nel pugno peloso la frusta di pelle d'ippopotamo. La frusta era lunga quanto l'apertura delle sue braccia e all'estremità era sottile come il suo mignolo. L'avevo visto affilarla, togliere lo strato esterno dalla lunga striscia di cuoio conciato fino a scoprire la pelle interna, e indugiare ogni tanto per controllarne l'equilibrio e il peso, agitarla nell'aria sino a farla sibilare come il vento del deserto nelle gole fra le colline di Lot. Aveva il colore dell'ambra e Rasfer l'aveva lucidata fino a renderla levigata e trasparente come il vetro, e così flessibile che poteva piegarla in un arco perfetto fra le zampe ursine. Aveva lasciato che il sangue di cento vittime vi si asciugasse e ne tingesse l'estremità di una patina lustra, esteticamente bellissima. Rasfer era un artista, con quello strumento terribile. Sapeva farlo guizzare lasciando soltanto un segno cremisi sulla coscia delicata d'una ragazzina, con un colpo che non lacerava la pelle ma pungeva dolorosamente come uno scorpione e lasciava la vittima a piangere e contorcersi per la sofferenza; oppure, con una dozzina di schiocchi sibilanti, sapeva strappare la pelle e la carne dalla schiena di un uomo lasciando scoperte le costole e la cresta della spina dorsale. Adesso stava in piedi accanto a me, sogghignava e fletteva la frusta tra le mani. Rasfer amava il suo lavoro e mi odiava con tutta la forza dell'invidia e dei sentimenti d'inferiorità che la mia intelligenza e il mio aspetto generavano in lui. Il mio signore Intef mi accarezzò la schiena nuda e sospirò. «A volte sei così cattivo, mio caro. Cerchi d'ingannarmi, sebbene mi debba la più grande lealtà... No, qualcosa di più. Mi devi la vita stessa.» Sospirò di nuovo. «Perché mi costringi a queste spiacevolezze? Dovresti sapere che non è il caso di perorare la causa di quel giovane sciagurato. È stato un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
48
tentativo ridicolo, ma credo di capire perché l'hai fatto. La compassione infantile è una delle tue tante debolezze e un giorno sarà probabilmente la causa delia tua rovina. A volte, però, mi sembra strana e commovente; ti avrei perdonato, ma non posso trascurare il fatto che hai messo in pericolo il valore della merce che avevo affidato alle tue cure.» Mi girò la testa in modo che avessi la bocca libera per rispondere. «Perciò devi essere punito. Mi capisci?» «Si, mio signore», mormorai, ma girai gli occhi per sorvegliare la frusta nelle mani di Rasfer. Ancora una volta il nobile Intef mi piegò la faccia contro il suo grembo e parlò a Rasfer. «Usa tutta la tua abilità, Rasfer. Non lacerargli la pelle. Non voglio che questa schiena liscia resti deturpata. Dieci basteranno per cominciare. Contali a voce alta.» Avevo visto cento o più sventurati subire la stessa punizione, e alcuni di loro erano guerrieri coraggiosi. Nessuno riusciva a restare in silenzio sotto la frusta di Rasfer. Comunque era meglio non farlo perché interpretava il silenzio come una sfida personale alla sua abilità. Lo sapevo bene perché avevo percorso altre volte quella strada dolorosa. Ero pronto a trangugiare l'orgoglio e a rendere omaggio a gran voce all'arte di Rasfer. Mi riempii i polmoni per prepararmi. «Uno!» grugni Rasfer, e la frusta sibilò. Come una donna dimentica i dolori del parto, io avevo dimenticato quel morso terribile, e gridai ancora più forte di quanto avessi intenzione di fare. «Sei fortunato, mio caro Taita», mi mormorò all'orecchio il nobile Intef. «Ho ordinato ai sacerdoti di Osiride di esaminare la merce, questa notte. È ancora intatta.» Mi contorsi, non solo per il dolore, ma anche al pensiero dei vecchi caproni lascivi del tempio che frugavano nell'intimità della mia bambina. Rasfer aveva un suo rituale per protrarre la punizione e fare in modo che lui e la sua vittima assaporassero in pieno il momento. Fra un colpo e l'altro correva in cerchio intorno alla barrazza, borbottando a se stesso esortazioni e incoraggiamenti e tenendo alta la frusta come una spada cerimoniale. Quando completò il cerchio fu in posizione per un altro colpo e alzò ancora di più la frusta. «Due!» gridò, e io urlai di nuovo. Una delle schiave di Lostris mi aspettava sulla terrazza del mio alloggio quando salii zoppicando i gradini. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
49
«La mia padrona ti comanda di andare da lei», mi disse. «Riferiscile che sono indisposto.» Cercai di evitare la convocazione. Chiamai uno dei giovani schiavi perché mi medicasse le ferite e attraversai in fretta la mia camera nel tentativo di liberarmi della ragazzina. Non potevo affrontare Lostris, perché non volevo confessare il mio insuccesso e costringerla ad affrontare la realtà e l'impossibilità del suo amore per Tanus. La negretta mi segui guardando con orrore deliziato i segni rossi sulla mia schiena. «Vai a dire alla tua padrona che sto male e non posso andare da lei», risposi bruscamente. «Mi ha detto che avresti tentato di evitarlo, ma mi ha comandato anche di restare con te perché non lo facessi.» «Sei insolente, per essere una schiava», la rimproverai mentre il ragazzo mi spalmava la schiena con un unguento di mia invenzione. «Sì», ribatté la ragazzina con un sogghigno malizioso. «Ma lo sei anche tu.» E schivò agilmente la sberla svogliata che le allungai. Lostris era troppo tollerante con le sue ancelle. «Vai a dire alla tua padrona che andrò da lei», dissi arrendendomi. «Ha detto che dovevo aspettare per essere sicura.» Perciò avevo una scorta mentre passavo davanti alle guardie dell'harem. Le guardie erano eunuchi come me, ma corpulenti e androgini. Nonostante l'obesità, o forse a causa di questa, erano poderosi e feroci. Tuttavia mi ero servito della mia influenza per assicurare a entrambi quella comoda sinecura, e perciò mi lasciarono entrare con un saluto rispettoso. L'harem non era affatto grandioso come gli alloggi degli schiavi, ed era facile capire quali erano i veri interessi del nobile Intef. Era un complesso di casette di mattoni d'argilla circondato da un alto muro. Gli unici giardini e le uniche decorazioni erano quelli creati da Lostris e dalle sue schiave con la mia assistenza. Le mogli del visir erano troppo grasse e pigre e troppo prese dagli scandali e dagli intrighi dell'harem per sforzarsi di fare altro. L'alloggio di Lostris era il più vicino all'ingresso, ed era circondato da un bel giardino con un laghetto e gli uccellini che cantavano nelle gabbie di bambù. I muri d'argilla erano decorati da vivaci affreschi con scene del Nilo, e pesci e uccelli e dee che io stesso l'avevo aiutata a dipingere. Le sue schiave erano raccolte in gruppo sulla soglia, e si vedeva che più d'una aveva pianto. Alcune avevano ancora il volto rigato di lacrime. Passai tra loro ed entrai, e subito sentii i singhiozzi della mia padrona che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
50
giungevano dalla camera interna. Mi affrettai a raggiungerla: mi vergognavo di aver cercato di sfuggire al mio dovere verso di lei. Giaceva bocconi sul letto basso e tremava per l'angoscia. Ma quando mi senti entrare, balzò dal letto e mi corse incontro. «Oh, Taita! Mandano lontano Tanus! Domani il Faraone arriverà a Karnak e mio padre lo convincerà a ordinare a Tanus di condurre la sua squadra a Elefantina e alle cataratte. Oh, Taita! Ci sono venti giorni di viaggio, da qui alla prima cataratta, e non lo rivedrò mai più. Vorrei essere morta. Mi butterò nel Nilo e lascerò che i coccodrilli mi divorino. Non voglio vivere senza Tanus...» gemette in preda alla disperazione. «Calmati, bambina mia», dissi cullandola fra le braccia. «Come fai a sapere tutte queste cose terribili? Forse non accadranno mai.» «Oh, accadranno, invece! Tanus mi ha mandato un messaggio. Kratas ha un fratello che fa parte della guardia del corpo di mio padre, e lo ha sentito discuterne con Rasfer. Chissà come, mio padre ha saputo di me e Tanus. Sa che siamo andati da soli nel tempio di Hapi. Oh, Taita, mio padre ha mandato i sacerdoti a esaminarmi. Quei vecchi sporcaccioni mi hanno fatto cose orribili. Mi hanno fatto male, Taita.» L'abbracciai dolcemente. Non mi capita spesso di averne l'occasione; ma questa volta ricambiò l'abbraccio con tutte le forze. Poi i suoi pensieri si volsero di nuovo all'innamorato. «Non rivedrò più Tanus», gridò, e io ricordai quanto era giovane, poco più di una bambina, vulnerabile e smarrita nel suo dolore. «Mio padre lo annienterà.» «Neppure tuo padre può toccare Tanus», replicai, cercando di tranquillizzarla. «Tanus è comandante di un reggimento della guardia del Faraone. È l'uomo del re, da lui solo prende ordini, e gode della piena protezione della corona doppia.» Non aggiunsi che probabilmente era l'unica ragione per cui suo padre non l'aveva già annientato. Continuai: «In quanto a non rivedere più Tanus... reciterai con lui nella rappresentazione. Farò in modo che abbiate la possibilità di parlarvi fra un atto e l'altro». «Ormai mio padre non permetterà che la rappresentazione si svolga.» «Non ha scelta, a meno che sia disposto a rovinare la mia messa in scena e a rischiare di cadere in disgrazia agli occhi del Faraone... e puoi star certa che non lo farà mai.» «Manderà via Tanus e assegnerà a un altro la parte di Horus», singhiozzò Lostris. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
51
«Non c'è tempo perché un altro impari la parte. Tanus interpreterà il dio Horus. Lo spiegherò al mio signore Intef. Tu e Tanus avrete la possibilità di parlarvi. Troveremo una via d'uscita per voi due.» Lostris represse le lacrime e mi guardò con fiducia assoluta. «Oh, Taita, lo so. Ci riesci sempre.» S'interruppe e cambiò espressione. Mi passò le mani sulla schiena, esplorando i segni lasciati dalla frusta di Rasfer. «Mi dispiace, padrona. Ho cercato di perorare la causa di Tanus come ti avevo promesso e questa è la conseguenza della mia stupidità.» Lostris mi girò alle spalle, sollevò la tunica di lino che avevo indossato per nascondere le ferite, e si lasciò sfuggire un'esclamazione. «Questa è opera di Rasfer! Oh, mio povero, caro Taita, perché non mi avevi avvertita che sarebbe successo questo, che mio padre era tanto ferocemente contrario a Tanus e a me?» Era difficile non tradire lo stupore di fronte a quell'ingenua sfrontatezza, poiché li avevo supplicati e messi in guardia, e come ricompensa ero stato accusato di slealtà. Ma rimasi in silenzio, anche se la schiena mi bruciava ancora orribilmente. Almeno Lostris dimenticò per un momento la sua infelicità, preoccupata com'era per le mie ferite. Mi ordinò di sedermi sul suo letto e di togliermi la tunica e mi curò rimediando con l'affetto e la compassione alla mancanza di conoscenze mediche. Quell'impegno la distrasse dalla profondità della sua disperazione, e poco dopo riprese a chiacchierare con l'abituale vivacità e a fare piani per frustrare la collera del padre e riunirsi a Tanus. Alcuni di quei piani testimoniavano il suo buon senso mentre altri, più assurdi, rivelavano piuttosto la sua giovinezza fiduciosa e la mancanza di esperienza riguardo alla malvagità del mondo. «Reciterò così bene la parte di Iside», dichiarò a un certo punto, «e mi renderò così gradita al Faraone che mi concederà la grazia che gli chiederò. Allora lo supplicherò di darmi Tanus per marito, e il Faraone dirà...» Imitò i toni pomposi del re con tanta bravura che fui costretto a sorridere. «Il Faraone dirà: "Proclamo il fidanzamento di Tanus Harrab, figlio di Pianki, con la nobile Lostris, figlia di Intef, e innalzo il mio fedele servitore Tanus al rango di Grande Leone d'Egitto e comandante di tutte le mie armate. Ordino inoltre che tutte le proprietà appartenute a suo padre, il nobile Pianki Harrab, siano rese a lui..."» S'interruppe, smise di curarmi le ferite e mi gettò le braccia al collo. «Potrebbe andare così, mio caro Taita, è vero? Ti prego, dimmi che è Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
52
possibile.» «Nessun uomo potrebbe resisterti, padrona», dissi sorridendo delle sue assurdità. «Neppure il grande Faraone.» Se avessi saputo fino a che punto quelle parole erano destinate a trovare una corrispondenza nella realtà, mi sarei bruciato la lingua con un carbone ardente prima di pronunciarle. Il viso di Lostris brillava nuovamente di speranza. Per me era una ricompensa sufficiente. Indossai la tunica per mettere fine alle sue cure troppo entusiastiche. «Ma ora, padrona, se vuoi essere un'Iside bellissima e irresistibile, devi riposare.» Avevo con me una pozione preparata con la polvere del fiore sonnifero chiamato shepenn rosso. I semi di questo fiore prezioso erano stati importati per la prima volta in Egitto dalle carovane provenienti da una terra montuosa situata a oriente. Ora coltivavo i fiori rossi nel mio giardino, e quando i petali cadevano raschiavo per tre volte con una forchetta d'oro l'involucro dei semi. Dai tagli sgorgava un lattice bianco che raccoglievo, facevo seccare e lavoravo secondo una formula da me ideata. La polvere induceva il sonno, evocava strani sogni e attenuava il dolore. «Rimani un poco con me, Taita!» mormorò Lostris mentre si raggomitolava sul letto come un gattino assonnato. «Cullami come facevi quand'ero bambina.» Ma era ancora una bambina pensai mentre la prendevo fra le braccia. «Andrà tutto bene, no?» bisbigliò. «Vivremo felici e contenti, come nelle storie che tu racconti. Vero, Taita?» Quando si fu addormentata le baciai dolcemente la fronte e l'avvolsi in una coperta prima di uscire dalla camera. Il quinto giorno delle festività di Osiride, il Faraone discese il fiume e venne a Karnak dal suo palazzo sull'isola Elefantina, che si trovava a dieci giorni di navigazione. Arrivò in pompa magna con tutto il seguito per presenziare alla festa del dio. La squadra di Tanus aveva lasciato Karnak tre giorni prima, e aveva risalito il Nilo per andare incontro alla grande flotta e scortarla nell'ultima tappa del viaggio; quindi Lostris e io non l'avevamo più visto da quando eravamo tornati dalla grande caccia ai bovi di fiume. Fu una grande gioia per entrambi, quindi, vedere la sua nave apparire improvvisamente oltre l'ansa, sospinta dalla corrente e dal vento del Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
53
deserto. Il Soffio di Horus precedeva la flotta e la guidava dal sud. Lostris era nel seguito del gran visir, e stava dietro i due fratelli, Menset e Sobek. Erano due bei ragazzi, ma somigliavano troppo al padre per i miei gusti. Diffidavo in particolare di Menset, il maggiore; e il più giovane lo imitava in tutto. Io stavo ancora più indietro, nella folla dei cortigiani e dei piccoli funzionari, e potevo tener d'occhio contemporaneamente Lostris e il nobile Intef. Vidi la nuca della mia padrona avvampare di piacere e di eccitazione quando scorse l'alta figura di Tanus sulla torre di poppa del Soffio di Horus. Le squame della corazza di coccodrillo brillavano nel sole e le piume di struzzo ondeggiavano sull'elmo, mosse dal vento sollevato dal passaggio della nave. Lostris fremeva e agitava le braccia, ma le sue grida si perdevano nel vociare della folla immensa schierata sulle due rive del Nilo per accogliere il Faraone. Tebe è la città più popolosa del mondo, e calcolavo che circa un quarto di milione di sudditi fosse accorso per acclamare il sovrano. Tanus non guardava a destra o a sinistra: teneva lo sguardo fisso davanti a sé e levava la spada sguainata in atto di saluto. Il resto della sua squadra seguiva il Soffio di Horus disposta nell'ampia formazione ad angolo acuto dell'egretta, così chiamata dal modo in cui si dispongono questi uccelli in volo quando, al tramonto, si posano per dormire. Tutti gli stendardi e le insegne di riconoscimento garrivano in un fulgore palpitante di colori: uno spettacolo grandioso che la gente accoglieva con grida e applausi agitando le fronde di palma. Trascorse qualche tempo prima che un vascello del convoglio principale apparisse intorno all'ansa, carico di dame e nobili della corte reale. Era seguito da un altro, e quindi da una quantità disordinata di imbarcazioni grandi e piccole. Scendevano la corrente come uno sciame: trasporti pieni di servitori e schiavi del palazzo e di tutte le loro attrezzature, chiatte cariche di bovini e capre e polli per le cucine, vascelli dorati e dipinti con gli arredi e i tesori della reggia, i nobili e gli inservienti ammassati insieme in modo del tutto irrazionale. Era nettissimo il contrasto con lo spettacolo offerto dalla squadra di Tanus, quando virò e rimase in una perfetta formazione geometrica nonostante la forte corrente del Nilo. Finalmente la nave reale del Faraone superò l'ansa e le acclamazioni della folla crebbero. Il vascello enorme, il più grande mai costruito da esseri Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
54
umani, avanzò pesantemente verso il luogo in cui era atteso: sul molo di pietra ai piedi del palazzo del gran visir. Ebbi molto tempo per studiarlo e per riflettere che le sue dimensioni, il disegno e il modo in cui veniva governato rispecchiavano lo stato attuale del nostro Egitto in quel dodicesimo anno di regno del Faraone Marnose, ottavo di quel nome e di quella stirpe, il più debole di una debole, vacillante dinastia. La nave reale era lunga quanto cinque imbarcazioni da battaglia messe in fila, ma l'altezza e l'ampiezza erano così sproporzionate da offendere il mio senso artistico. Lo scafo massiccio era dipinto nei colori sgargianti di gran moda in quel periodo, e la polena raffigurante Osiride era rivestita di foglie d'oro. Ma quando si avvicinò al molo, vidi che i colori brillanti erano a tratti sbiaditi e che le fiancate erano striate di scuro nei punti in cui i membri dell'equipaggio avevano defecato dal parapetto. Al centro sorgeva un'alta costruzione, l'alloggio privato del Faraone, costruito con robuste tavole di prezioso legno di cedro, e così stipato di mobili pesanti da ostacolare alquanto la capacità di navigazione del vascello. In cima al grottesco edificio, dietro un parapetto scolpito e inghirlandato di gigli freschi, sotto un baldacchino di pelli di gazzella finemente conciate, cucite insieme e dipinte con le immagini di tutte le divinità principali, stava assiso il Faraone in un maestoso isolamento. Calzava sandali di filigrana d'oro, e la veste era di un lino così puro che splendeva come le grandi nubi dell'estate. Portava sulla testa la corona doppia, quella bianca dell'Alto Egitto con la testa della dea-avvoltoio Nekhbet, e la corona rossa con la testa di cobra di Buto, la dea del Delta. Nonostante la corona, l'amara verità era che il nostro amato sovrano aveva perduto il Delta quasi dieci anni prima. In quei tempi turbolenti un altro Faraone regnava nel Basso Egitto; anche lui portava la corona doppia, seppure in una versione tutta sua; era il nemico mortale del nostro re e, con le continue guerre contro di noi, aveva privato entrambi i regni dell'oro e del sangue dei giovani. L'Egitto era diviso e dilaniato da lotte intestine. In tutti i mille anni della nostra storia era sempre stato così quando il manto di Faraone veniva portato da uomini deboli. Per tenere in pugno i due regni era necessario un uomo energico, audace e intelligente. Per girare il vascello ingombrante nella corrente e farlo ormeggiare al Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
55
molo del palazzo, il capitano avrebbe dovuto portarlo vicino alla riva opposta. Se l'avesse fatto, avrebbe avuto a disposizione l'intera ampiezza del Nilo per completare la virata. Ma evidentemente aveva sbagliato a calcolare la forza del vento e della corrente e aveva incominciato la manovra al centro del fiume. All'inizio la nave girò di traverso alla corrente, e sbandò quando la parte superiore del castello venne investita come una vela dal vento del deserto. Sei nostromi si aggiravano furibondi sul ponte inferiore maneggiando le fruste; gli schiocchi delle sferze sulle spalle nude giungevano chiaramente attraverso l'acqua. I vogatori manovravano i remi con una frenesia che faceva tu multuare le acque lungo lo scafo: cento pale si urtavano senza sincronizzare i colpi. Le grida e le imprecazioni si mescolavano agli ordini gridati dai quattro nocchieri che lottavano a poppa con il lungo remo timoniere. Intanto, sul ponte di poppa, Nembet, il vecchio ammiraglio che comandava la nave reale, si passava le dita nella lunga barba grigia o, alternativamente, agitava le mani in una frenesia impotente. E il Faraone restava immobile come una statua, distaccato da tutto. Oh, in verità quello era il nostro Egitto. Poi la velocità della virata si esaurì; la nave non sbandava più ma puntava verso la riva dove stavamo in attesa. Era incatenata dalla trazione della corrente e dalla spinta contraria del vento. Il comandante e l'equipaggio, nonostante gli sforzi convulsi, sembravano incapaci di completare la manovra e di avanzare controcorrente o di accostare per impedire che la nave andasse a sbattere contro i blocchi di granito del molo e fracassasse la grande prua dorata. Quando tutti compresero ciò che stava per accadere, le acclamazioni della folla si spensero e un silenzio angoscioso scese su entrambe le rive. Le grida e il chiasso sui ponti dell'enorme vascello giungevano ormai chiaramente. All'improvviso tutti gli occhi si volsero verso valle quando il Soffio di Horus abbandonò la sua posizione alla testa della squadra e risali velocissimo il fiume, sospinto dai remi. Le pale s'immergevano, premevano, si sollevavano e tornavano a immergersi perfettamente all'unisono. Passò così vicino alla prua della nave reale che la folla proruppe in esclamazioni più acute della voce del vento fra i papiri. La collisione sembrava inevitabile; eppure, all'ultimo momento, Tanus fece un segnale alzando il pugno sopra la testa, e i rematori vogarono all'indietro mentre il nocchiero Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
56
girava con forza il remo timoniere. Il Soffio di Horus rallentò e si allontanò di fronte all'avanzata poderosa della nave reale. I due vascelli si sfiorarono lievemente, come in un bacio virginale, e per un istante la torre di poppa del Soffio di Horus fu quasi affiancata al ponte principale dell'altro vascello. In quell'istante Tanus si piazzò sul parapetto della torre. S'era tolto i sandali e l'armatura e aveva deposto le armi. Legata intorno alla vita, aveva l'estremità di una leggera fune di lino e, mentre la fune pendeva dietro di lui, superò con un balzo il varco tra le due navi. Come se si destasse da un sogno, la folla si scosse. Se c'era ancora qualcuno che non sapeva chi fosse Tanus, l'avrebbe saputo prima della conclusione della giornata. Naturalmente s'era già conquistato grande fama nelle guerre sul fiume contro le legioni dell'Usurpatore del Basso Egitto. Ma solo i suoi soldati l'avevano visto in azione. E le imprese che vengono narrate non hanno mai lo stesso peso di quelle che l'occhio può vedere direttamente. E adesso, sotto lo sguardo del Faraone, della flottiglia reale e dell'intera popolazione di Karnak, Tanus balzò da un ponte all'altro e atterrò con l'agilità d'un leopardo. «Tanus!» Sono sicuro che a gridare per prima il nome fu la mia padrona, Lostris. Ma io fui il secondo. «Tanus!» urlai, e intorno a me anche tutti gli altri ripeterono il grido. «Tanus ! Tanus ! Tanus !» Sembrava che salmodiassero un'ode a un dio appena scoperto. Nell'attimo in cui balzò sul ponte della nave reale, Tanus girò su se stesso e corse a prua, tendendo dietro di sé la fune sottile. I suoi uomini avevano legato all'estremità di quella corda un canapo pesante che aveva lo spessore del braccio d'un uomo. Lo fecero scorrere mentre Tanus si tendeva all'indietro per reggerne il peso. Lo issò a bordo mentre il sudore gli copriva i muscoli delle braccia e della schiena. Alcuni uomini dell'equipaggio reale, intanto, avevano compreso le sue intenzioni e s'erano precipitati a prua per aiutarlo. Seguirono le sue istruzioni, e avvolsero per tre volte l'estremità della cima intorno al bompresso: nell'istante in cui vide che era fissata saldamente, Tanus segnalò alla sua nave di allontanarsi. Il Soffio di Horus balzò nella corrente e accelerò in pochi istanti. Poi si arrestò di colpo, trattenuto dalla cima e dal peso del grande vascello reale. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
57
Per un momento terribile ebbi paura che si capovolgesse e affondasse; ma Tanus aveva previsto lo strattone, e segnalò ai suoi di attenuarlo con un'abile contromanovra dei remi. Sebbene venisse trascinata così in basso da imbarcare acqua a poppa, la nave resistette, risalì e tese la cima. Per un lungo istante non accadde nulla. Il suo peso modesto non aveva influenza sul movimento della massiccia nave reale. I due vascelli erano bloccati, come se un coccodrillo avesse addentato il muso di un vecchio bufalo ma non riuscisse a trascinarlo via dalla riva. Poi Tanus, a prua della nave reale, si voltò a fronteggiare l'equipaggio disorganizzato. Fece un gesto autoritario che attirò l'attenzione di tutti. Di colpo, con un cambiamento straordinario, tutti attesero i suoi ordini. Nembet era il comandante dell'intera flotta del Faraone e aveva il titolo di Grande Leone d'Egitto. Anni prima era stato molto potente, ma ormai era vecchio e fiacco. Tanus si sostituì agevolmente a lui, quasi fosse una cosa naturale come la forza della corrente e del vento, e l'equipaggio della nave reale rispose con prontezza. «Avanti!» Fece un gesto ai rematori di tribordo, che piegarono la schiena e vogarono con impegno. «Indietro!» Tanus tese il pugno verso babordo, e i rematori su quel lato affondarono energicamente nell'acqua le pale appuntite. Tanus si accostò al parapetto e diede un. segnale al nocchiero del Soffio di Horus, coordinando in modo magistrale gli sforzi di entrambi gli equipaggi. La nave reale, tuttavia, avanzava ancora verso il molo: ormai solo una stretta fascia d'acqua aperta la separava dai blocchi di granito. Eppure alla fine, lentamente, troppo lentamente, incominciò a rispondere. La prua dipinta si girò verso la corrente mentre la nave più piccola la trainava. Ancora una volta le grida si spensero e ridiscese il silenzio mentre tutti attendevamo che la nave reale andasse a sbattere contro il molo e si sventrasse. E quando ciò fosse accaduto, non era difficile prevedere quali sarebbero state le conseguenze per Tanus. Aveva sottratto il comando all'ammiraglio e quindi doveva portare la piena responsabilità di tutti gli errori del vecchio. Quando il Faraone fosse stato sbalzato dal trono a causa della collisione, quando la corona doppia e la sua dignità fossero ruzzolate sul ponte e la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
58
nave reale fosse affondata, e lui stesso fosse stato tratto dal fiume come un cucciolo semiannegato davanti agli occhi dei sudditi, l'ammiraglio Nembet e il nobile Intef lo avrebbero incitato a far sentire il peso della sua collera su quel giovane presuntuoso. Tremavo per il caro amico quando avvenne il miracolo. La nave reale stava quasi per urtare la terraferma, e Tanus era così vicino al punto in cui mi trovavo che sentii chiaramente la sua voce. «Grande Horus, aiutami!» gridò. Sono assolutamente certo che spesso gli dei intervengono negli affari degli uomini. Tanus era devoto a Horus, e Horus è il dio del vento. Il vento del deserto aveva soffiato per tre giorni e tre notti dalla desolazione occidentale del Sahara. Aveva soffiato quasi con la forza di una bufera: ma ora cadde di colpo. Non si attenuò; cessò improvvisamente di spirare. Le onde minuscole che avevano increspato la superficie del fiume si spianarono, e le palme che avevano scosso vigorosamente le fronde sino a quel momento rimasero immobili, come colpite da una gelata inattesa. Libera dagli artigli del vento, la nave reale ritrovò l'assetto normale e cedette alla trazione del Soffio di Horus. La prua mastodontica si girò nella corrente, e si portò parallela al molo nel momento esatto in cui la fiancata toccava le pietre lavorate, e la corrente del Nilo la frenò e la tenne immobile. Un ultimo comando di Tanus e, prima che la nave potesse girarsi di poppa, le cime d'ormeggio furono lanciate sul molo e afferrate da mani premurose che le legarono alle bitte di pietra. Con la leggerezza di una piuma d'oca che galleggia sull'acqua, la grande nave reale era all'attracco, sicura e serena. Il trono su cui sedeva il Faraone e l'alta corona che gli cingeva il capo non erano stati minimamente disturbati dalla manovra. Tutti noi scoppiammo in grida di ammirazione per l'impresa ed era il nome di Tanus, più che quello del Faraone, a volare dalle nostre bocche. Con grande modestia e prudenza, Tanus non diede segno di rispondere alle acclamazioni. Se avesse attratto ancora più l'attenzione sottraendola all'accoglienza destinata al re, avrebbe commesso un'imprudenza, e questo avrebbe annullato il favore sovrano che l'impresa gli aveva meritato. Il Faraone era sempre molto geloso della sua dignità regale. Tanus, invece, segnalò di affiancare il Soffio di Horus. Quando la sua Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
59
nave fu nascosta alla nostra vista dalla mole di quella reale, balzò in fretta sul ponte e abbandonò quel palcoscenico su cui aveva appena conquistato un grande prestigio, lasciandolo al suo re. A me tuttavia non sfuggi l'espressione irata e astiosa sulla faccia di Nembet, il vecchio ammiraglio, il Grande Leone d'Egitto, quando scese a terra dietro al Faraone, e compresi che Tanus s'era fatto un altro nemico potente. Quella sera stessa, quando ebbe luogo la prova generale della rappresentazione, riuscii a mantenere la promessa fatta a Lostris. Prima dell'inizio, potei assicurare ai due innamorati quasi un'ora da trascorrere insieme. Nel recinto del tempio di Osiride, destinato a essere scena dello spettacolo, avevo fatto erigere le tende che dovevano servire come spogliatoi per ognuno degli interpreti principali. Avevo collocato volutamente la tenda di Lostris un po' lontana dalle altre, al riparo di una delle enormi colonne di pietra che sostengono il tetto del tempio. Mentre io montavo di sentinella all'ingresso della tenda, Tanus sollevò il telo di fronte ed entrò furtivamente. Mi sforzai di non ascoltare le loro grida di gioia quando si abbracciarono, i bisbigli e i mormorii, le risa soffocate e i gemiti e gli ansiti delle loro innocenti manifestazioni d'affetto. Sebbene a quel punto non avrei tentato di impedirlo, ero tuttavia convinto che non avrebbero spinto il loro amore fino alla consumazione. Molto tempo dopo sia Lostris sia Tanus me lo confermarono apertamente: la mia padrona era rimasta vergine fino al giorno delle sue nozze. Se almeno uno di noi avesse saputo quanto era vicino quel giorno... Mi chiedo se allora avremmo agito in modo diverso. Sebbene mi rendessi ben conto che ogni minuto da loro trascorso nella tenda accresceva il pericolo per tutti noi, non trovavo il coraggio di intervenire per separarli. Per quanto le ferite alla schiena mi bruciassero ancora e benché nella palude della mia anima - dove tento di nascondere tutti i pensieri e gli istinti indegni - bruciasse altrettanto dolorosamente l'invidia per i due innamorati, lasciai che restassero insieme assai più a lungo di quanto avrei dovuto tollerare. Non sentii avvicinarsi il nobile Intef. I suoi sandali avevano suole di morbidissima pelle di capretto per rendere silenziosi i suoi passi. Si muoveva in silenzio come uno spettro, e molti cortigiani e schiavi avevano Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
60
conosciuto la frusta o il cappio di Rasfer per una parola imprudente che il mio signore aveva ascoltato nelle peregrinazioni attraverso le sale e i corridoi del palazzo. Con il passar degli anni, tuttavia, avevo acquisito un istinto che quasi sempre mi consentiva di percepire la sua presenza prima che si materializzasse uscendo dall'ombra. Non era un istinto infallibile, ma quella sera mi fu utile. Quando mi voltai, vidi che mi aveva quasi raggiunto, snello, alto e letale come un cobra eretto. «Intef, mio signore!» gridai a gran voce. «È un onore che tu sia venuto ad assistere alle prove. Ti sarò profondamente grato per ogni consiglio e suggerimento...» Parlavo in fretta, per nascondere la mia confusione e mettere in guardia gli innamorati nella tenda. Riuscii nell'intento più di quanto avessi il diritto di aspettarmi. Sentii i movimenti improvvisi nella tenda dietro di me quando gli innamorati si separarono, quindi il fruscio del telo posteriore allorché Tanus uscì di nascosto come era entrato. In un altro momento non sarei riuscito a ingannare con tanta facilità il mio signore Intef. Avrebbe letto la colpa sul mio volto con la stessa facilità con cui io leggevo i geroglifici sulle pareti dei templi e i caratteri da me tracciati su questo rotolo: ma quella sera era accecato dall'ira, smanioso di sfogarsi con me per la mia ultima malefatta. Non fece sfuriate. Il mio signore era più pericoloso quando il suo tono era mite e il suo sorriso era aperto. «Caro Taita», sussurrò. «Ho saputo che hai cambiato alcune disposizioni per l'atto iniziale della rappresentazione, sebbene le avessi date io personalmente. Non posso credere che tu sia stato così presuntuoso. Sono venuto fin qui con questo caldo per scoprire la verità.» Sapevo che sarebbe stato inutile fingere innocenza o ignoranza, perciò chinai la testa e mi sforzai di assumere un'aria dispiaciuta. «Mio signore, non sono stato io a ordinare i cambiamenti; è stato il sommo sacerdote del tempio di Osiride.» Intef m'interruppe, spazientito. «Sì, è vero, ma solo dopo che tu l'hai istigato. Vi conosco bene, te e quel vecchio sacerdote noioso: lui non ha mai avuto un'idea originale, mentre tu non hai altro che quelle.» «Mio signore...» protestai. «Quale piccolo subdolo trucco hai inventato, questa volta? Uno di quei sogni tanto appropriati che t'inviano gli dei?» chiese il mio signore, con la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
61
voce sommessa quanto il fruscio d'uno dei cobra sacri che infestano il tempio e guizzano sulle pietre del pavimento. «Mio signore!» Feci del mio meglio per mostrarmi scandalizzato dall'accusa, sebbene avessi effettivamente raccontato al buon sacerdote una storia piuttosto fantasiosa, spiegando che Osiride, in forma di un corvo nero, mi aveva visitato nel sonno per deplorare lo spargimento di sangue nel suo tempio. Fino a quel momento il sacerdote non aveva fatto obiezioni alla rappresentazione realistica che il mio signore Intef aveva progettato per divertire il Faraone. In precedenza, avevo fatto ricorso ai sogni solo quando tutti gli sforzi per dissuadere il mio padrone erano falliti. Mi ripugnava profondamente essere partecipe di un abominio come quello che Intef aveva ordinato di compiere nella prima parte dello spettacolo. Certo, so che alcuni popoli selvaggi delle terre orientali offrono sacrifici umani ai loro dei. Ho sentito dire che i cassiti, i quali vivono oltre i fiumi gemelli Tigri ed Eufrate, gettano i neonati nelle fornaci. I capi delle carovane che hanno viaggiato in quelle terre lontane parlano di altre atrocità commesse in nome della religione, di giovani vergini massacrate per propiziare il raccolto, di prigionieri di guerra decapitati davanti alle statue di un dio tricefalo. Ma noi egizi siamo un popolo civile e adoriamo divinità sagge e giuste, non mostri sanguinari. Avevo cercato di convincere il mio padrone di questo fatto. Gli avevo ricordato che soltanto una volta un Faraone aveva compiuto sacrifici umani, quando Menotep aveva tagliato la gola ai sette principi ribelli nel tempio di Seth, ne aveva squartato i cadaveri e ne aveva mandato i frammenti imbalsamati ai governatori dei vari nomi a titolo di ammonimento. La storia ricordava con disgusto quell'azione, e Menotep era chiamato il re sanguinario. «Non è un sacrificio umano», aveva ribattuto il mio padrone. «È solo una giusta esecuzione da compiere in un modo nuovo. Non vorrai negare, caro Taita, che la pena di morte ha sempre avuto una parte importante nella nostra giustizia. Tod è un ladro. Ha derubato gli scrigni reali e deve morire... per dare un esempio agli altri.» Sembrava un'obiezione ragionevole, ma sapevo che a Intef la giustizia non interessava: mirava piuttosto a proteggere il suo tesoro e a far colpo sul Faraone, che amava tanto gli spettacoli. Perciò non mi era rimasto altro che inventare un sogno a beneficiò del Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
62
buon sacerdote. Il nobile Intef aggricciò il labbro in un sorriso che scopri i denti perfetti ma mi agghiacciò il sangue e mi fece rizzare i capelli. «Ecco un piccolo consiglio», mi sussurrò. «Questa notte dovrai fare un altro sogno, in modo che il dio apparso l'ultima volta abbia la possibilità di cambiare le sue disposizioni e di avallare quanto ho deciso. Se non andrà così, troverò qualcosa da fare per Rasfer. E questa è una promessa solenne.» Si voltò e si allontanò a grandi passi, lasciandomi sollevato al pensiero che non aveva scoperto gli innamorati e nel contempo angosciato perché sarei stato costretto a portare a compimento la scena abominevole da lui ordinata. Tuttavia, dopo che il mio padrone se ne fu andato, la prova fu un tale successo che mi rincuorò notevolmente. Lostris era così radiosa dopo l'incontro con Tanus che la sua bellezza sembrava davvero divina; e Tanus, giovane e forte, sembrava l'incarnazione di Horus. Naturalmente mi sentii turbato dall'entrata in scena del mio Osiride, poiché ora conoscevo la sorte che gli aveva destinato il mio padrone. La parte era interpretata da un bell'uomo di mezza età, un certo Tod, che era stato uno dei guardiani fino a che non era stato sorpreso ad attingere nelle casse del nobile Intef per mantenere una giovane ed esigente cortigiana di cui s'era innamorato. Non ero orgoglioso del fatto che fosse stato proprio il mio controllo dei conti a portare alla luce le discrepanze. Il mio signore lo aveva liberato dal carcere dove attendeva il processo e la condanna, perché interpretasse il ruolo del dio dell'oltretomba. Aveva promesso di non perseguirlo se avesse sostenuto in modo soddisfacente la sua parte. Lo sventurato Tod ignorava la minaccia celata dall'offerta, e si impegnava nella recita con entusiasmo patetico, nella convinzione di essere sul punto di conquistare la grazia. Non poteva sapere che nel frattempo il mio signore aveva firmato la sua condanna a morte e l'aveva consegnata a Rasfer, il quale non era soltanto il carnefice di Stato, ma anche l'individuo da me scelto per la parte di Seth. Intef voleva che unisse entrambi i ruoli durante la sera seguente, quando lo spettacolo si sarebbe svolto davanti al Faraone. Sebbene fosse logico scegliere Rasfer per il ruolo di Seth, mi dispiacque di averglielo assegnato mentre lo guardavo provare con Tod la scena iniziale; rabbrividii pensando a quanto sarebbe stata diversa la rappresentazione vera e propria. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
63
Dopo le prove ebbi il piacevole compito di riaccompagnare la mia padrona nell'harem. Non voile lasciarmi andare: mi trattenne fino a tardi per parlarmi degli avvenimenti straordinari di quel giorno e dello spazio che vi aveva avuto Tanus. «Hai visto come ha invocato il grande Horus e il dio è venuto subito in suo aiuto? Senza dubbio, Horus gli accorda il suo favore e la sua protezione. Non sei d'accordo? Horus non permetterà che ci accada qualcosa di male, ora ne sono certa.» Lostris continuò a lungo con queste piacevoli fantasie, e non parlò più di separazione e di suicidio. I venti dell'amore giovane mutano in fretta. «Dopo ciò che ha fatto oggi Tanus, salvando dal naufragio la nave reale, sicuramente deve aver guadagnato il favore del Faraone. Non io pensi anche tu, Taita? Con la benevolenza del dio e del sovrano, sarà impossibile che mio padre riesca a mandarlo lontano, vero?» Mi chiedeva di avallare tutti i pensieri lieti che le fiorivano nella mente; e non potei lasciare l'harem prima di aver imparato a memoria almeno una dozzina di messaggi d'amore imperituro che dovetti giurare di riferire personalmente a Tanus. Quando, esausto, tornai finalmente nel mio alloggio, non potei riposare. Quasi tutti i giovani schiavi mi aspettavano, eccitati e garruli quanto la mia padrona. Volevano conoscere la mia opinione sugli eventi della giornata e in particolare sul salvataggio della nave reale da parte di Tanus e sul significato di quel gesto. Si affollarono intorno a me sulla terrazza mentre davo da mangiare agli animali, e si disputarono la mia attenzione. «Fratello Maggiore, è vero che Tanus ha invocato l'aiuto del dio e Horus è subito intervenuto? L'hai visto? Alcuni sostengono addirittura che il dio è apparso nel suo aspetto di falco e si è librato sopra la testa di Tanus spiegando le ali in segno di protezione. È vero?» «È vero, Akh-Ker, che il Faraone ha promosso Tanus suo compagno e gli ha donato una tenuta di cinquecento feddan di terra fertile sulla riva del fiume?» «Fratello Maggiore, dicono che l'oracolo nel santuario di Thoth, il dio della saggezza, ha predetto che Tanus diventerà il più grande guerriero della storia del nostro Egitto e che un giorno il Faraone lo prediligerà su tutti gli altri.» Oggi è divertente ricordare quelle chiacchiere infantili e riconoscere le strane verità che adombravano: ma a quel tempo le respinsi con finta Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
64
severità. Mentre stavo per addormentarmi, il mio ultimo pensiero fu che la popolazione di Tebe e le città gemelle di Luxor e Karnak avevano accolto Tanus nei loro cuori: ma era una distinzione onerosa e discutibile. La fama e la popolarità generano invidia tra la gente altolocata e l'adulazione della folla è incostante. Spesso il popolo trae piacere nell'abbattere gli idoli di cui si è stancato, come lo aveva tratto nell'innalzarli. È molto meno pericoloso vivere invisibili e ignorati, come io ho sempre cercato di fare. Il pomeriggio del sesto giorno dei festeggiamenti il Faraone parti con una processione solenne dalla sua villa in mezzo alle proprietà reali in aperta campagna fra Karnak e Luxor, e percorse il viale cerimoniale fiancheggiato dai leoni di granito per raggiungere il tempio di Osiride sulla riva del Nilo. La grande slitta su cui viaggiava era così alta che quanti stavano schierati lungo il viale erano costretti a inclinare la testa all'indietro per vederlo sul trono dorato mentre transitava, trainato da venti torelli candidi con le robuste groppe gibbose e le ghirlande di fiori sulle teste cornute. I pattini della slitta stridevano sul lastricato e sfregiavano le pietre. Cento musici precedevano la processione: strimpellavano lire e arpe, battevano i cembali e i tamburi, scuotevano i sonagli e i sistri e soffiavano nei lunghi corni diritti degli orici e in quelli curvi degli arieti selvatici. Erano seguiti da un coro formato da cento delle più belle voci dell'Egitto che cantavano inni di lode al Faraone e al dio Osiride. Naturalmente io dirigevo il coro. Poi veniva una guardia d'onore della Divisione del Coccodrillo Azzurro, comandata personalmente da Tanus. La folla lo acclamò con grande slancio quando lo vide passare. Le fanciulle gridavano e più di una si accasciò svenuta nella polvere, sopraffatta dall'isteria che il nuovo eroe aveva conquistato. Dopo la guardia d'onore sfilarono il visir e gli alti funzionari, quindi i nobili con le mogli e i figli, un distaccamento del reggimento del Falco e infine la slitta del sovrano. In totale, erano presenti migliaia e migliaia di persone: le più ricche e influenti dell'Alto Egitto. Ci avvicinammo al tempio di Osiride. Il sommo sacerdote e gli altri ci attendevano sulla scalinata tra i grandi portali d'ingresso per porgere il benvenuto al Faraone Marnose. il tempio era stato ridipinto di recente e i bassorilievi sui muri esterni sfolgoravano di colori vivaci nel caldo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
65
splendore dorato del tramonto. Un nugolo di stendardi e di bandiere garriva sulle aste inserite nei recessi del muro di cinta. Alla base della scalinata il Faraone scese da! carro e, solennemente, incominciò a salire i cento gradini. Il coro si schierò sui due lati della rampa. Io ero sul cinquantesimo gradino e potei studiare minuziosamente il re nei pochi secondi che impiegò nel passarmi accanto. Lo conoscevo già bene, perché era stato mio paziente, ma avevo dimenticato quanto fosse piccolo... per essere un dio, intendo. Non mi arrivava neppure alla spalla, anche se l'alta corona doppia lo faceva sembrare più imponente. Teneva le braccia incrociate sul petto nella posa rituale e portava lo scettro uncinato e il flagello, simboli del suo rango reale e della sua divinità. Ancora una volta notai che aveva le mani glabre, lisce e quasi femminili e che anche i piedi erano piccoli ed eleganti. Portava anelli a tutte le dita delle mani e dei piedi, amuleti sulle braccia e monili ai polsi. Il massiccio pettorale d'oro rosso era intarsiato di smalti multicolori che raffiguravano il dio Thoth con la piuma della verità. Era un gioiello splendido che risaliva a quasi cinque secoli prima ed era stato portato prima di lui da settanta re. Sotto la corona doppia, la faccia era incipriata di bianco come quella di un morto. Gli occhi erano contornati di nero, le labbra tinte di cremisi. Sotto il trucco pesante l'espressione era arrogante e le labbra sottili erano lineari, prive di spirito. Gli occhi erano sfuggenti e nervosi, ed era logico che fosse così, pensai. Le fondamenta della Grande Casa dell'Egitto erano incrinate, il regno sconvolto e diviso. Anche un dio aveva le sue preoccupazioni. Un tempo il suo dominio si era esteso dal mare, attraverso le sette bocche del Delta, fino ad Assuan al sud e alla prima cataratta... l'impero più grande della terra. Il Faraone e i suoi antenati avevano lasciato che tutto ciò si disfacesse, e ora i nemici sciamavano ai confini e rumoreggiavano come iene e sciacalli e avvoltoi per banchettare con la carcassa del nostro Egitto. A sud c'erano Se orde nere dell'Africa; a nord, lungo la costa del grande mare c'erano i pirati, i popoli del mare, e lungo il tratto inferiore del Nilo le legioni dei falsi Faraoni, a occidente i beduini infidi e i subdoli libici, mentre a oriente nuove orde parevano levarsi ogni giorno, e i loro nomi ispiravano il terrore a una nazione diventata timorosa ed esitante nella sconfitta: assiri e medi, cassiti, mirriti e ittiti... Sembrava che le loro Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
66
moltitudini non finissero mai. Quali vantaggi restavano alla nostra antica civiltà se era diventata debole e pavida per la vecchiaia? Come potevamo resistere ai barbari pieni di vigore selvaggio, alla loro arroganza crudele, alla loro sete di rapina e di bottino? Ero certo che quel Faraone, come i suoi immediati predecessori, non fosse capace di ricondurre la nazione alle glorie di un tempo. Era incapace persino di generare un erede maschio. La mancanza di un erede per l'impero d'Egitto sembrava ossessionarlo ancor più della perdita del suo dominio. Finora aveva avuto venti mogli che gli avevano dato solo figlie, una vera tribù di femmine, ma neppure un figlio maschio. Non voleva accettare l'idea che la responsabilità fosse sua. Aveva consultato tutti i medici famosi dell'Alto Egitto e visitato tutti gli oracoli e tutti i santuari importanti. Lo sapevo perché ero uno dei dotti che il sovrano aveva chiamato a sé. Ammetto che a quel tempo avevo provato una certa trepidazione al pensiero di fare prescrizioni a un dio, e mi ero domandato perché mai sentiva il bisogno di consultare un umile mortale su una questione tanto delicata. Comunque avevo raccomandato una dieta di testicoli di toro fritti nel miele e gli avevo consigliato di trovare la più bella vergine dell'Egitto e di condurla al letto nuziale entro un anno dalla prima fioritura della sua luna. Non avevo molta fiducia nel rimedio proposto, ma i testicoli di toro cotti secondo la mia ricetta sono un piatto squisito, e calcolavo che la ricerca della vergine più bella avrebbe potuto distrarre il Faraone e risultare divertente e piacevole. Da un punto di vista pratico, se il re si fosse portato a letto un numero adeguato di giovani donne, sicuramente una di loro avrebbe finito per scodellare un cucciolo maschio. Comunque mi consolavo pensando che la mia cura non era drastica come alcune delle altre proposte dai colleghi, soprattutto gli intrugli disgustosi ideati dai ciarlatani del tempio di Osiride che si autoproclamavano medici. Anche se non fossero state efficaci, le mie raccomandazioni non sarebbero risultate dannose. O almeno lo credevo. Ma il destino doveva dimostrare che avevo torto; e se avessi conosciuto le conseguenze della mia follia avrei preso il posto di Tod nello spettacolo, piuttosto che dare al Faraone un consiglio tanto frivolo. Mi sentii divertito e lusingato quando seppi che il sovrano doveva aver preso seriamente il mio suggerimento, e aveva ordinato ai nomarchi e ai governatori di setacciare tutto il regno, da Tell el'Amarna alle cataratte per Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
67
trovare tori dai testicoli succulenti e vergini corrispondenti alle indicazioni che io avevo fornito per la futura madre del figlio maschio primogenito. I miei informatori a corte mi avevano riferito che aveva già respinto centinaia di aspiranti al titolo della più bella vergine dell'Egitto. Il re passò oltre ed entrò nel tempio fra i canti degli accoliti e gli inchini cerimoniosi del sommo sacerdote. Il gran visir e tutto il suo seguito gli andarono dietro; poi vi fu una corsa affannosa dei sudditi meno importanti che volevano accaparrarsi i posti per assistere alla rappresentazione. Lo spazio all'interno del tempio era limitato. Soltanto i potenti, i nobili e quanti erano abbastanza ricchi per corrompere i sacerdoti disonesti erano ammessi nel cortile interno: gli altri erano costretti ad assistere attraverso la porta della corte esterna. Molte migliaia di sudditi sarebbero rimasti delusi e avrebbero dovuto accontentarsi di un resoconto di seconda mano. Persino io, che ero l'organizzatore, faticai a farmi largo fra la ressa, e vi riuscii solo quando Tanus si accorse delia situazione e mandò due suoi uomini per aprirmi un passaggio e permettermi di raggiungere lo spazio riservato agli attori. Prima dell'inizio dello spettacolo dovemmo sopportare una serie di discorsi fioriti: innanzitutto quelli dei funzionari locali e dei ministri, poi quello del gran visir in persona. L'interludio mi offri la possibilità di assicurarmi che tutto fosse pronto. Passai da una tenda all'altra per controllare i costumi e il trucco di ogni interprete e placare le crisi di nervi e il panico. Lo sventurato Tod temeva che la sua interpretazione non sarebbe piaciuta al nobile Intef. Gli assicurai che lo sarebbe stata sicuramente, e gli somministrai una pozione di shepenn rosso per attutire le sofferenze che stavano per essergli inflitte. Quando entrai nella tenda di Rasfer, lo trovai a bere vino con due amici delia guardia del palazzo mentre affilava la corta spada di bronzo. Lo avevo truccato in modo da renderlo più ripugnante; e non era stato facile, data la sua bruttezza. Mi resi conto di essere riuscito nell'intento quando ghignò esibendo i denti anneriti e mi offri una coppa di vino. «Come va la tua schiena, bel ragazzo? Assaggia una bevanda da uomo. Forse ti farà ricrescere le palle.» Ero abituato alle sue provocazioni, e non persi la dignità quando gli dissi che il mio signore Intef aveva annullato gli ordini del sommo sacerdote e che la prima parte doveva svolgersi nella forma stabilita all'inizio. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
68
«Ho già parlato con il nobile Intef.» Rasfer mostrò la spada. «Tocca il filo, eunuco. Voglio essere certo che incontri la tua approvazione.» Me ne andai in preda alla nausea. Anche se Tanus non sarebbe apparso in scena fino alla seconda parte, era già in costume. Sereno e sorridente, mi posò una mano sulla spalla. «Bene, vecchio amico, questa è la tua grande occasione. Dopo questa sera la tua fama di drammaturgo si spargerà in tutto l'Egitto.» «Come si è già sparsa la tua. Il tuo nome è sulla bocca di tutti», gli dissi, ma Tanus rise con modestia mentre io proseguivo. «Hai preparato l'orazione conclusiva? Ti dispiacerebbe farmela ascoltare?» Secondo la tradizione l'attore che interpretava Horus chiudeva lo spettacolo con un messaggio al Faraone, un messaggio in apparenza proveniente dagli dei, in realtà dai sudditi. Anticamente quella era stata l'unica occasione dell'anno in cui il popolo, tramite l'attore, poteva sottoporre all'attenzione del sovrano questioni importanti che altrimenti non avrebbe potuto fargli presente. Ma durante l'ultima dinastia la tradizione era caduta in disuso, e il discorso conclusivo era diventato semplicemente un ennesimo elogio al divino Faraone. Negli ultimi giorni avevo chiesto a Tanus di provare il monologo; ma ogni volta s'era sottratto con pretesti così banali che adesso sospettavo delle sue intenzioni. «È l'ultima opportunità...» insistetti, ma Tanus rise. «Ho deciso: il mio discorso sarà una sorpresa anche per te, come spero lo sarà per il Faraone: così entrambi l'apprezzerete di più.» Non riuscii a convincerlo. A volte riusciva a essere l'individuo più testardo che avessi mai conosciuto. In preda a una certa inquietudine lo lasciai e andai in cerca di una compagnia più piacevole. Quando mi chinai per entrare nella tenda di Lostris, rimasi impietrito. Sebbene avessi ideato io stesso il costume e avessi spiegato alle sue ancelle come volevo che usassero la cipria, il belletto e il trucco per gli occhi, non ero preparato alla visione eterea che mi stava davanti. Per un momento fui certo che si fosse compiuto un altro miracolo e che la dea fosse veramente ascesa dall'oltretomba per prendere il posto della mia padrona. Repressi un grido. Stavo per cadere in ginocchio quando la giovane rise e mi strappò all'illusione. «Non è divertente? Sono ansiosa di vedere Tanus in costume. Deve sembrare il dio in persona.» Si girò adagio perché l'ammirassi e mi sorrise. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
69
«Non potrà essere più divino di te, mia signora», mormorai. «Quando incomincerà lo spettacolo?» chiese spazientita Lostris. «Sono così emozionata che non posso aspettare.» Accostai l'orecchio al telo della tenda e ascoltai per un momento il tono monotono d'un discorso nella grande sala. Mi accorsi che era l'ultimo e che da un momento all'altro il nobile Intef avrebbe chiamato gli attori. Presi la mano di Lostris e la strinsi: «Ricorda la lunga pausa e l'espressione altera, prima d'incominciare il tuo monologo iniziale», le rammentai, e lei mi batté scherzosamente la mano sulla spalla. «Oh, smettila e non preoccuparti. Andrà tutto alla perfezione, vedrai.» In quel momento sentii levarsi la voce di Intef. «Il divino Faraone Marnose, Grande Casa dell'Egitto, Sostegno del Reame, Giusto, Grande, Onniveggente, Misericordioso...» I titoli onorifici continuarono mentre io uscivo in fretta dalla tenda di Lostris e andavo a prendere posizione dietro la colonna centrale. Sbirciai e vidi che il cortile interno del tempio era affollato e che il Faraone e le regine principali sedevano in prima fila, su panche di cedro, e assaporavano sorbetti o mangiucchiavano datteri e dolciumi. Il mio signore Intef stava parlando dal palco rialzato sotto l'altare principale. La parte più ampia del palcoscenico era ancora nascosta al pubblico dalle tende di lino. L'esaminai per l'ultima volta, sebbene fosse troppo tardi per apportare qualche cambiamento. Dietro le tende la scena era ornata di palme e acacie trapiantate per mio ordine dai giardinieri del palazzo. I miei muratori avevano abbandonato temporaneamente il lavoro alla tomba del re per costruire una cisterna di pietra dietro il tempio, dalla quale si poteva fare scorrere l'acqua attraverso il palco per rappresentare il fiume Nilo. Sullo sfondo erano tesi grandi drappi di lino su cui gli artisti della necropoli avevano dipinto paesaggi meravigliosi. Nella mezza luce del crepuscolo e nel palpitare delle torce, l'effetto era così realistico da trasportare lo spettatore in un mondo diverso e in un tempo lontano. C'erano altre cose che avevo preparato per divertire il Faraone: gabbie di ammali, tra cui uccelli e farfalle, che sarebbero stati liberati per simulare la creazione del mondo a opera di Osiride, e torce che avevo manipolato con sostanze chimiche perché producessero brillanti fiamme cremisi e verdi inondando la scena di luci strane e di nubi di fumo come quelle Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
70
dell'oltretomba dove dimora il dio. «Marnose, Figlio di Ra, a te vita eterna! Noi, tuoi fedeli sudditi, abitanti di Tebe, ti imploriamo di avvicinarti e di concedere la tua divina attenzione al modesto spettacolo che dedichiamo alla tua maestà.» Intef concluse il discorso di benvenuto e tornò a sedersi. Al suono di una fanfara di corni d'ariete, uscii e mi presentai agli spettatori. Stavano scomodi sulle pietre dure, si annoiavano, e ormai smaniavano di veder iniziare lo spettacolo. Un'acclamazione sarcastica salutò il mio ingresso e persino il Faraone sorrise. Alzai le mani per chiedere silenzio, e solo quando l'ottenni incominciai il mio monologo. «Mentre camminavo nella luce del sole, giovane e pieno di vigore, udii la musica fatale fra i canneti sulla riva del Nilo. Non riconobbi il suono di quest'arpa, e non ebbi paura perché ero nel pieno fiore della virilità, sicuro dell'affetto della mia amata. «La musica era straordinariamente bella. Andai con gioia in cerca del musico; non sapevo che era la Morte, e che suonava l'arpa per chiamarmi.» Noi egizi siamo affascinati dalla morte e le mie parole avevano toccato profondamente gli ascoltatori, che sospirarono e rabbrividirono. «La Morte mi afferrò e mi portò fra le braccia scheletriche verso AmmonRa, il dio del sole, e io divenni una sola cosa con la luce bianca del suo essere. Udivo da molto lontano il pianto della mia amata ma non potevo vederla, ed era come se tutti i giorni della mia vita non fossero mai esistiti.» Era la prima volta che recitavo in pubblico il mio testo; mi accorsi quasi subito di averli conquistati. Le facce avevano espressioni affascinate e intente. Nel tempio non si udiva il minimo suono. «Quindi la Morte mi depose in un luogo elevato dal quale potevo vedere il mondo come uno splendente scudo rotondo nel mare azzurro del cielo. Vidi tutti gli uomini e tutte le creature che mai siano vissuti. Come un fiume possente, il tempo scorreva a ritroso sotto i miei occhi. Per centomila anni assistetti alle loro lotte e alle loro morti. Vidi tutti gli uomini passare dalla morte e dalla vecchiaia all'infanzia e alla nascita. Il tempo divenne ancora più remoto, e tornò indietro fino alla nascita del primo uomo e della prima donna. Li vidi nel momento della loro nascita, e poi ancora prima. Alla fine non vi furono più uomini sulla terra, ed esistettero soltanto gli dei. «Tuttavia il fiume del tempo continuava a scorrere a ritroso, oltre l'era degli dei, fino al Nun, il tempo della tenebra e del caos primordiale. Il fiume Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
71
del tempo non poteva arretrare oltre e inverti il suo flusso. Incominciò a scorrere in avanti nel modo che mi era familiare dai giorni della vita sulla terra e io vidi la passione degli dei svolgersi davanti a me.» Tutti gli ascoltatori conoscevano bene la genesi dei nostri dei, ma nessuno aveva mai sentito presentare i misteri in modo tanto nuovo: ascoltavano in silenzio, affascinati. «Dal caos e dalla tenebra del Nun sorse il soie Ammon-Ra, Colui che Crea Se Stesso/Vidi Ammon-Ra accarezzarsi il membro, masturbarsi e gettare il seme in onde potenti che lasciarono nel vuoto buio la striatura argentea a noi nota come Via Lattea. Da questi semi nacquero Geb e Nut, la terra e il cielo.» «Bak-her!» Una voce spezzò il silenzio vibrante del tempio. «Bak-her! Cosi sia!» Il vecchio sommo sacerdote non era riuscito a trattenersi e aveva avallato la mia visione della creazione. Ero così sbalordito dal suo intervento che per poco non dimenticai la frase seguente. Dopotutto, fino a quel momento era stato il mio critico più severo. Ma ora lo avevo conquistato. Alzai trionfalmente la voce. «Geb e Nut si accoppiarono come fanno uomini e donne, e dalla loro unione nacquero gli dei Osiride e Seth e le dee Iside e Neftis.» Feci un ampio gesto, e le tende si schiusero lentamente per rivelare il mondo fantastico che avevo creato. In Egitto non s'era mai veduto nulla di simile, e gli spettatori si lasciarono sfuggire esclamazioni di stupore. Mi ritirai con passo misurato e il mio posto sulla scena fu preso dal dio Osiride. Gli spettatori lo riconobbero immediatamente dall'alta corona a forma di bottiglia, dalle braccia incrociate sul petto, dallo scettro e dal flagello che impugnava. Ogni famiglia teneva una sua statuetta nel sacrario di casa. Da ogni gola si levò un grido reverente; il sedativo che avevo somministrato a Tod gli faceva brillare gli occhi e gli conferiva una strana qualità ultraterrena, davvero quasi divina. Con lo scettro uncinato e il flagello, Osiride compi i gesti mistici della creazione e declamò con voce sonante: «Ecco Atur, il fiume!» Ancora una volta gli spettatori mormorarono, riconoscendo il momento della creazione del Nilo. Il Nilo era l'Egitto e il centro del mondo. «Bak-ker!» esclamò un'altra voce. Guardai dal nascondiglio fra le colonne e rimasi sbalordito e soddisfatto nel vedere che a parlare era stato il Faraone. Il mio dramma aveva l'approvazione divina e quella secolare. Ero Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
72
certo che da quel giorno la mia sarebbe divenuta la versione autorizzata e avrebbe sostituito quella millenaria e originale. Avevo trovato un posto nell'immortalità. Il mio nome sarebbe vissuto nei millenni. Segnalai di aprire la cisterna e l'acqua incominciò a scorrere attraverso la scena. In un primo momento gli spettatori non capirono: quindi si accorsero che stavano assistendo alla nascita del grande fiume e da mille gole si levò un grido: «Bak-her! Bak-her!» «Salgano le acque!» gridò Osiride, e il Nilo si gonfiò nell'inondazione. «Le acque discendano!» gridò il dio, e il Nilo si abbassò al suo comando. «E ora salgano di nuovo!» Avevo ordinato di aggiungere secchi di coloranti all'acqua che scorreva dalla cisterna dietro il tempio. Dapprima una tinta verde per simulare il periodo di magra, quindi una più scura, quando saliva, per emulare il colore del limo durante l'inondazione. «Ecco gli insetti e gli uccelli della terra!» esclamò Osiride; le gabbie sul fondo del palcoscenico vennero aperte, e un turbine chiassoso e svolazzante di uccelli selvatici e di splendide farfalle invase il tempio. Gli spettatori sembravano bambini incantati, tendevano le mani per afferrare le farfalle e quindi le lasciavano di nuovo libere di volar via fra le alte colonne del tempio. Uno degli uccelli selvatici, un'upupa dal lungo becco e dal meraviglioso piumaggio bianco e cannella, si posò intrepido sulla corona del Faraone. La folla si entusiasmò. «Un presagio!» gridarono tutti. «Una benedizione per il re, possa vivere in eterno!» Il Faraone sorrise. Fu un'idea maliziosa da parte mia, ma più tardi dissi al mio padrone Intef che avevo addestrato l'upupa a posarsi sul sovrano; e sebbene fosse impossibile, mi credette, poiché ho fama di saper addomesticare gli animali. Sulla scena, Osiride vagava nel paradiso da lui creato: era il clima più adatto per il momento drammatico in cui, con un urlo agghiacciante, apparve Seth. Sebbene se l'aspettassero, la presenza odiosa e temibile sconvolse gli spettatori. Le donne gridarono e si coprirono la faccia, e poi sbirciarono fra le dita tremanti. «Che cos'hai fatto, fratello?» muggì Seth con rabbia. «Ti poni al di sopra di me? Non sono io stesso un dio? Tieni per te l'intero creato, in modo che io, tuo fratello, non possa condividerlo?» Osiride rispose con la calma e la dignità ispirate dalla droga. «Nostro padre, Ammon-Ra, lo ha dato a entrambi. Tuttavia ci ha dato anche il diritto Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
73
di scegliere come usarlo: per il bene o per il male...» Le parole che avevo messo in bocca al dio riverberavano nel tempio. Erano le più belle che avessi scritto e il pubblico le beveva avidamente. Io solo, tuttavia, sapevo cosa stava per accadere, e la bellezza e la forza della mia composizione scemavano ai miei occhi mentre mi preparavo all'inevitabile. Osiride si avvicinò alla conclusione del discorso: «Questo è il mondo che io ho rivelato. Se vuoi esserne partecipe nella pace e nell'amore fraterno, sei il benvenuto. Ma se vieni animato dalla rabbia bellicosa, se il male e l'odio riempiono il tuo cuore, ti ordino di andare». Alzò il braccio destro drappeggiato nel lino diafano e lucente della tunica e indicò a Seth di abbandonare il paradiso in terra. Seth incurvò le enormi spalle pelose come un bufalo, e muggì così forte che la saliva gli volò dalle labbra in una nuvola resa fetida dai denti marci. Potevo sentire il lezzo anche se ero piuttosto distante. Brandi la spada bronzea e si avventò contro il fratello. Quella scena non era mai stata provata, e colse di sorpresa Osiride che restò immobile con il braccio destro ancora proteso. La lama sibilò in un colpo poderoso dall'alto in basso. La mano fu recisa al polso, nettamente, come io avrei potato un germoglio della vite che cresce sulla mia terrazza. Cadde ai piedi di Osiride, con le dita che fremevano debolmente. La sorpresa era così totale e la spada così affilata che, per un lungo momento, Osiride non si mosse: non fece altro che barcollare leggermente. Gli spettatori credettero senza dubbio che fosse un trucco teatrale e che la mano caduta fosse finta. Il sangue non sgorgò subito, e questo continuò a illuderli. Erano interessati ma non allarmati, fino a che all'improvviso Osiride arretrò barcollando e con un grido terribile si strinse il moncherino. Solo in quel momento il sangue eruttò fra le dita e spruzzò la veste bianca macchiandola come vino versato. Osiride continuò a stringersi il moncherino, vacillò e urlò. L'urlo altissimo di sofferenza mortale spezzò l'atmosfera. Gli spettatori compresero per la prima volta che quanto vedevano non era una finzione: ma rimasero prigionieri d'un silenzio inorridito. Prima che Osiride potesse raggiungere il bordo del palcoscenico, Seth lo inseguì a balzi. L'afferrò per il braccio mutilato e lo tirò indietro, facendolo cadere sul pavimento di pietra. La corona cadde dalla testa di Osiride e le trecce scure gli scesero sulle spalle, mentre giaceva nella pozza del suo sangue. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
74
«Ti prego, risparmiami!» urlò Osiride mentre Seth stava ritto davanti a lui. Seth rise. Era una risata cupa e soddisfatta. Rasfer era diventato Seth, e si divertiva immensamente. Quel riso selvaggio scosse gli spettatori. Tuttavia l'illusione era completa. Non credevano più di assistere a una rappresentazione: per tutti, la scena terribile era diventata realtà. Le donne strillavano e gli uomini gridavano d'indignazione nell'assistere all'assassinio del loro dio. «Risparmialo! Risparmia il grande dio Osiride!» urlavano. Ma nessuno si alzò, nessuno corse sul palcoscenico per impedire il compiersi della tragedia. Sapevano che le lotte e le passioni delle divinità trascendevano l'influenza dei mortali. Osiride tentò di afferrare le gambe di Seth con l'unica mano rimastagli. Seth continuò a ridere, gli strinse il polso e tirò il braccio in tutta la lunghezza, esaminandolo come un macellaio osserva una spalla di capretto prima di farla a pezzi. «Taglia!» gridò tra la folla una voce assetata di sangue. L'umore degli spettatori era cambiato di nuovo. «Uccidilo!» urlò un altro. Mi ha sempre turbato vedere che la vista del sangue e della morte violenta influisce anche sul più mite degli uomini. Persino io ero scosso dalla scena orribile; ero nauseato e inorridito, ma nonostante tutto provavo un'eccitazione rivoltante. Con un colpo di spada, Seth tranciò il braccio e Osiride cadde riverso, lasciando l'arto sussultante nel pugno rosso di Seth. Stava cercando di rialzarsi, ma non aveva più le mani per sostenersi. Scalciò spasmodicamente, girò la testa da una parte e dall'altra, e continuò a urlare. Cercai di distogliere gli occhi; ma sebbene la nausea mi salisse in gola, continuai a guardare. Seth tranciò il braccio in tre pezzi, alle giunture del polso e del gomito, e scagliò i frammenti, a uno a uno, verso il pubblico. Mentre volavano nell'aria spruzzavano tutti con gocce di rubino. Gli spettatori ruggirono come i leoni dello zoo del Faraone all'ora del pasto, e tesero le mani per afferrare le sacre reliquie del loro dio. Seth continuò a lavorare con impegno. Tranciò alle caviglie i piedi di Osiride. Poi i polpacci alle ginocchia e le cosce all'attaccatura dell'anca. E mentre lanciava le membra agli spettatori, questi invocavano che continuasse. «Il Talismano di Seth!» urlò una voce. «Donaci il Talismano di Seth!» Il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
75
grido venne ripetuto. Secondo il mito, il Talismano è il più potente di tutti gli amuleti magici. La persona che lo possiede domina tutte le forze oscure dell'oltretomba. È l'unica delle quattordici parti del corpo di Osiride che non fu mai recuperata da Iside e dalla sorella Neftis negli angoli remoti della terra in cui le aveva sparse Seth. Il Talismano di Seth è la stessa parte del corpo di cui mi aveva privato Rasfer, e che forma il centro della bella collana, il dono cinico del mio signore Intef. «Donaci il Talismano di Seth!» La folla urlava, e Seth si chinò, sollevò la tunica insanguinata dal tronco che giaceva ai suoi piedi. Continuava a ridere. Rabbrividii nel riconoscere il suono spietato che avevo udito tanto spesso durante le mie punizioni. Mi sembrò di rivivere il fuoco improvviso nell'inguine quando la corta spada balenò nella zampa villosa, già grondante del sangue della vittima, e Seth levò in alto la pietosa reliquia. Gli spettatori la invocarono. «Donalo a noi», gridavano. «Donaci il potere del Talismano !» Lo spettacolo li aveva trasformati in belve fameliche. Seth ignorò le implorazioni. «Un dono», gridò. «Un dono da un dio a un altro. Io, Seth, signore della Tenebra, dedico questo Talismano al dio Faraone, Marnose il divino.» Balzò dai gradini di pietra saltellando sulle poderose gambe storte e posò la reliquia ai piedi del Faraone. Con mio grande stupore, il re si chinò a raccoglierla. Sotto la maschera del trucco aveva un'espressione affascinata, come se fosse la vera reliquia del dio. La tenne stretta nella mano destra durante il resto della rappresentazione. Quando il suo dono fu accettato, Seth si precipitò di nuovo sul palcoscenico per completare l'opera. Il ricordo che ancora oggi mi ossessiona è che quel povero essere smembrato continuò a rimanere lucido sino alla fine. Mi resi conto che la droga somministrata a Tod non era riuscita a stordirlo. Vedevo la sofferenza terribile negli occhi mentre giaceva nel lago del suo sangue e girava convulsamente il capo, l'unica parte che poteva ancora muovere. Per me fu un sollievo quando finalmente Seth gli mozzò la testa e la sollevò stringendola per i capelli intrecciati per mostrarla alla folla. Persino allora gli occhi dello sventurato rotearono nelle orbite mentre guardavano questo mondo per l'ultima volta. Poi si offuscarono e divennero vitrei, e Seth lanciò la testa agli spettatori. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
76
Così il primo atto della nostra rappresentazione si concluse fra applausi entusiastici che minacciavano di far crollare le colonne di granito del tempio. Durante l'intervallo gli schiavi pulirono il palcoscenico dalle macabre tracce del massacro. Ero preoccupato soprattutto perché non volevo che Lostris, la mia padrona, scoprisse che cos'era accaduto veramente nella prima parte; desideravo credesse che tutto era andato come durante le prove. Perciò avevo fatto in modo che rimanesse nella tenda e che uno degli uomini di Tanus restasse a vegliare all'entrata perché non uscisse e perché nessuna delle sue schiavette cushite sbirciasse durante il primo atto e corresse a riferirle tutto. Sapevo che, se avesse intuito la verità, si sarebbe angosciata tanto da non riuscire a recitare. Mentre i miei aiutanti usavano i secchi d'acqua del finto Nilo per lavare il sangue, corsi alla tenda della mia padrona per rassicurarla e accertare che le mie precauzioni fossero state efficaci. «Oh, Taita, ho sentito le acclamazioni», disse allegramente. «Il tuo dramma piace. Sono così felice per te: meriti davvero questo successo.» Rise con aria d'intesa. «Sembrava credessero che l'uccisione di Osiride fosse vera e che il sangue di bue con cui hai innaffiato Tod fosse il sangue del dio.» «Si, mia signora, sono stati ingannati dai nostri trucchi», dichiarai, sebbene mi sentissi ancora debole e nauseato. Lostris non sospettava nulla; e quando la condussi sulla scena lanciò soltanto un'occhiata distratta alle macchie rimaste sulle pietre. La misi nella posa iniziale e regolai la luce delle torce in modo che la mettesse in evidenza. Sebbene vi fossi abituato, la sua bellezza mi chiudeva la gola e mi riempiva gli occhi di lacrime. La lasciai nascosta dalle tende di lino e uscii per fronteggiare il pubblico. Questa volta non fui accolto da applausi sarcastici. Tutti, dal Faraone all'ultimo vassallo, erano affascinati dalla mia voce mentre descrivevo con parole ardenti il dolore di Iside e di Neftis per la morte del fratello. Quando scesi dal palcoscenico e la tenda si apri rivelando la figura dolente di Iside, gli spettatori proruppero in esclamazioni di meraviglia per la sua bellezza. Dopo l'orrore e il sangue del primo atto, la sua presenza era ancora più commovente. Iside incominciò a cantare il lamento per il morto e la sua voce echeggiò Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
77
nelle sale buie del tempio. Mentre muoveva la testa alla cadenza della voce, la luce delle torce si rifletteva in raggi guizzanti sulla luna bronzea che sovrastava l'acconciatura ornata di corna. Mentre Lostris cantava, osservavo attentamente il Faraone. Non staccava gli occhi dal viso di lei e muoveva in silenzio le labbra, al ritmo delle parole che uscivano dalla gola della fanciulla. Il mio cuore è una gazzella ferita, dilaniata dagli artigli leonini del dolore... Lostris continuò il lamento e il re e tutto il seguito si rattristarono con lei. Non c'è dolcezza nel favo di miele, non resta alcun profumo nei fiori del deserto. La mia anima è un tempio vuoto, abbandonato dal dio dell'amore. Nella prima fila alcune delle consorti reali piagnucolavano, ma nessuno badava a loro. Guardo il volto tetro della morte con un sorriso. Lietamente la seguirei, se mi conducesse fra le braccia del mio amato signore. Ormai non soltanto le spose reali ma anche tutte le donne piangevano, e persino molti uomini. Le parole e la bellezza di Lostris erano irresistibili. Sembrava impossibile che un dio manifestasse le stesse emozioni dei mortali, ma le lacrime scavavano rivoli nella cipria bianca sulle guance del Faraone, che batteva le palpebre contornate dal kohl mentre fissava la mia padrona. Entrò Neftis, e cantò un duetto con la sorella. Poi le due dee, tenendosi per mano, andarono in cerca dei frammenti dispersi del corpo di Osiride. Naturalmente non avevo disposto sulla scena le parti smembrate del cadavere di Tod. Durante l'intervallo i miei assistenti le avevano ritrovate e portate agli imbalsamatori, secondo le mie istruzioni. Avrei pagato personalmente il funerale di Tod. Mi sembrava il minimo che potessi fare per compensare lo sventurato per la parte che avevo avuto nella sua uccisione. Sebbene mancasse la parte che il Faraone teneva ancora in mano, speravo che gli dei facessero un'eccezione nel suo caso e permettessero alla sua ombra di entrare nell'aldilà, e mi auguravo che non pensasse troppo male di me. È opportuno avere amici dovunque, in questo mondo e nel prossimo. Per rappresentare il corpo del dio avevo chiesto agli artisti della necropoli di costruire una magnifica bara di cartone che raffigurava Osiride con le braccia incrociate sul petto. Poi l'avevo ritagliata in tredici pezzi che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
78
s'incastravano insieme come le costruzioni per i bambini. Quando le sorelle ritrovavano una parte, cantavano un inno di lode: per le mani e i piedi, per gli arti e il tronco e infine per la testa divina. Gli occhi, come stelle del cielo, devono splendere per sempre. La morte non deve mai offuscare tanta bellezza, e le bende funebri non devono racchiudere tanta maestà. Quando finalmente le due sorelle ebbero ricomposto il corpo di Osiride, eccettuato il Talismano scomparso, si chiesero come potevano restituirlo alla vita. Quella era per me l'occasione di aggiungere allo spettacolo l'elemento essenziale che rende gradita al pubblico la rappresentazione. In molti di noi c'è una forte tendenza lasciva, e il drammaturgo e il poeta debbono tenerla presente se vogliono che la loro opera sia apprezzata dalla maggioranza degli spettatori. «Vi è un solo modo certo per restituire alla vita il nostro amato signore e fratello.» Avevo posto queste parole sulle labbra della dea Neftis. «Una di noi deve compiere con il suo corpo straziato l'atto della procreazione per risanarlo e riaccendervi la scintilla della vita.» Gli spettatori si tesero in avanti. La proposta conteneva gli elementi necessari per compiacere gli istinti più pruriginosi, inclusi l'incesto e la necrofilia. Mi ero stillato a lungo il cervello per trovare un modo di rappresentare l'episodio del mito della resurrezione di Osiride. La mia padrona mi aveva scandalizzato quando s'era dichiarata disposta a sostenere il ruolo sino alla fine. Aveva avuto persino la sfacciataggine di osservare, con quel suo sorriso impudente, che così facendo avrebbe potuto acquisire un'esperienza preziosa. Non sapevo con certezza se scherzava o se l'avrebbe fatto davvero; tuttavia non avevo voluto darle l'occasione di dimostrare la sua buona fede... o la mancanza di essa. La sua reputazione e l'onore della sua famiglia erano troppo importanti. Perciò al mio segnale le tende di lino si richiusero e la mia padrona lasciò la scena. Il suo posto fu preso da una delle cortigiane d'alto bordo che di solito praticano i loro traffici in un palazzo dell'amore vicino al porto. Avevo ingaggiato la donna, fra le tante che avevo interpellato, perché aveva una bella figura, molto simile a quella della mia padrona. Naturalmente la bellezza del suo viso non poteva avvicinarsi a quello della nobile Lostris: Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
79
ma questo era vero per tutte. Non appena la sua sostituta fu in posizione, le torce in fondo alla scena furono accese in modo da proiettare la sua ombra sulla tenda. Incominciò a spogliarsi con movenze provocanti. Gli spettatori maschi applaudivano ogni movimento, convinti di vedere la mia signora. La cortigiana reagì all'incoraggiamento con manifestazioni sempre più lubriche, che furono accolte quasi con lo stesso entusiasmo che aveva salutato nel primo atto l'uccisione di Osiride. Poi veniva la parte delia rappresentazione che aveva dato molto da pensare all'autore: come potevo rendere la fecondità senza un solido piolo cui appenderla? Avevamo appena visto Osiride privato del suo. Alla fine ero stato costretto a ricorrere al vecchio, abusato trucco teatrale che tanto disprezzavo nelle opere degli altri drammaturghi, e cioè l'intervento degli dei e dei loro poteri sovrannaturali. Mentre la mia padrona parlava dietro una colonna, la cortigiana dietro il tendaggio si accostò alla figura di Osiride e compi una serie di gesti mistici. «Mio caro fratello, per i poteri miracolosi accordatimi da Ammon-Ra, io ti rendo le parti virili che il crudele Seth ti ha brutalmente strappato», intonò la voce di Lostris. Avevo equipaggiato la cassa con un congegno che potevo alzare tirando un filo di lino avvolto intorno a una puleggia sul tetto del tempio, sopra il punto in cui giaceva Osiride. Alle parole di Iside, il fallo di legno incardinato all'inguine del dio si alzò in uno splendore maestoso, lungo come il mio braccio e pienamente eretto. Gli spettatori gettarono grida di ammirazione. Quando Iside l'accarezzò, strattonai la cordicella per farlo sussultare e fremere. Al pubblico piacque moltissimo; ma si entusiasmò ancora di più quando la dea montò la mummia supina del dio. A giudicare dalle convincenti acrobazie della sua estasi simulata, la cortigiana che avevo scelto per la parte doveva essere una grande esponente della sua arte. Gli spettatori tributarono un vivo riconoscimento alla sua prestazione e la incitarono con fischi e grida e consigli lascivi. Al culmine dell'esibizione le torce si spensero e il tempio piombò nell'oscurità. E nel buio avvenne la seconda sostituzione. Quando le torce furono riaccese, la mia padrona Lostris stava al centro della scena con un neonato fra le braccia. Una delle schiave delle cucine aveva avuto il buon senso di Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
80
partorire pochi giorni prima, e per l'occasione mi ero fatto prestare il piccolo. «Ecco il figlio di Osiride, dio dell'oltretomba, e di Iside, dea della luna e delle stelle.» Lostris sollevò il bambino che, sbalordito da quella folla di sconosciuti, contrasse il visino, diventò tutto rosso e strillò. Iside alzò la voce ed esclamò: «Grande è il giovane Horus, dio del vento e del cielo, falco del cielo!» Molti spettatori erano devoti particolarmente a Horus, e manifestarono un entusiasmo sconfinato per il loro patrono. Balzarono in piedi tumultuando, e il secondo atto si concluse con un altro trionfo per me e con la mortificazione del dio infante il quale, come risultò poco dopo, aveva sporcato incredibilmente i panni che lo fasciavano. Iniziai l'ultimo atto con un monologo in cui descrissi l'infanzia e l'adolescenza di Horus. Parlai della sacra missione affidatagli da Iside: e in quel momento le tende si schiusero e rivelarono la dea al centro della scena. Iside si bagnava nel Nilo, assistita dalle ancelle. La veste le aderiva ai corpo e lasciava trasparire lo splendore chiaro della pelle; i contorni indistinti dei seni erano coronati da minuscoli boccioli di rosa. Tanus, nella parte di Horus, entrò sul palcoscenico e lo dominò immediatamente. Nell'armatura levigata, portata con l'orgoglio del guerriero, era un contrappunto perfetto alla bellezza della dea. Il lungo elenco degli onori da lui conquistati in battaglia nelle guerre sul fiume e la recente impresa che aveva salvato la nave reale avevano concentrato su di lui l'attenzione del popolo. In quel momento Tanus era il beniamino degli spettatori. Prima che potesse parlare cominciarono ad applaudirlo, e le acclamazioni si protrassero così a lungo che gli attori furono costretti a restare immobili. Mentre gli applausi turbinavano intorno a Tanus, scrutai alcuni volti fra il pubblico e osservai le reazioni. Nembet, il Grande Leone d'Egitto, faceva smorfie e borbottava rabbiosamente: non cercava neppure di nascondere l'animosità. Il Faraone sorrideva benevolmente e annuiva, tanto che quanti gli stavano intomo, consci della sua approvazione, si sentivano incoraggiati a manifestare il loro entusiasmo. Il nobile Intef, che non contrastava mai i venti prevalenti, sfoggiava il suo sorriso più mellifluo e annuiva all'unisono con il re. Ma i suoi occhi avevano un'espressione esiziale. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
81
Finalmente gli applausi si smorzarono e Tanus poté recitare le sue battute, sia pure con una certa difficoltà, perché ogni volta che s'interrompeva per riprendere fiato scoppiavano nuovi applausi. Solo quando Iside incominciò a cantare scese di nuovo un silenzio assoluto. Le sofferenze di tuo padre, il destino terribile che incombe sulla nostra casa devono essere riscattati. Iside metteva in guardia il figlio divino e gli tendeva le braccia in un gesto di supplica e di comando. La maledizione di Seth grava su tutti noi, e soltanto mio figlio può spezzarla. Va' in cerca del mostro tuo zio. Lo riconoscerai per la sua arroganza e la sua ferocia. Quando lo troverai, abbattilo. Incatenalo, legalo alla tua volontà, perché gli dei e tutti gli uomini siano per sempre liberi dal suo dominio malefico. La dea si ritirò cantando e lasciò il figlio a compiere la sua cerca. Come bambini che seguono una filastrocca prediletta, gli spettatori sapevano che cosa dovevano aspettarsi e si tendevano fremendo nell'aspettativa. Quando finalmente Seth tornò con un balzo sulla scena per la tremenda battaglia, l'eterna lotta fra il bene e il male, la bellezza e la bruttura, il dovere e il disonore, il pubblico era pronto ad accoglierlo. Seth fu salutato da un coro d'odio spontaneo, non simulato. Rasfer ghignava e farfugliava con aria di sfida, si pavoneggiava sul palcoscenico, si stringeva i genitali con le mani e li mostrava in un gesto osceno e beffardo che faceva infuriare i presenti. «Uccidilo, Horus!» urlavano. «Fracassagli quel brutto muso!» E Seth continuava a pavoneggiarsi e a rinfocolare la loro furia. «Uccidi l'assassino del grande dio Osiride!» ruggirono in un parossismo di furore. «Fracassagli la faccia!» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
82
«Strappagli le budella!» La reazione non era per nulla mitigata dal fatto che sapevano trattarsi di Rasfer e non di Seth. «Mozzagli la testa!» urlavano. «Uccidilo! Uccidilo!» Finalmente Seth finse di vedere per la prima volta il nipote e gli andò incontro facendo spenzolare la lingua fra i denti anneriti, sbavando come un idiota mentre la saliva gli colava sul petto. Non avrei creduto possibile che Rasfer riuscisse a rendersi più ripugnante di quanto l'avesse fatto la natura: ma avevo torto. «Chi è questo bambino?» chiese ruttando in faccia a Horus. Tanus non era preparato e arretrò involontariamente con una sincera espressione di disgusto nel sentire l'alito di Rasfer e il contenuto del suo stomaco, il vino acido che ancora vi fermentava. Tuttavia si riprese subito e pronunciò la sua battuta. «Io sono Horus, figlio di Osiride.» Seth proruppe in una risata. «E che cosa cerchi, figlio bambino di un dio morto?» «Cerco vendetta per l'uccisione del mio nobile padre. Cerco l'assassino di Osiride.» «Non cercare oltre», gridò Seth. «Perché io sono Seth, vincitore degli dei inferiori. Io sono Seth, il divoratore delle stelle, il distruttore dei mondi.» I due dei sguainarono le spade e si avventarono l'uno contro l'altro, s'incontrarono al centro del palcoscenico con un sonante clangore di bronzo contro bronzo. Per ridurre il rischio di qualche ferita accidentale, avevo cercato di sostituire le spade di bronzo con altre di legno, ma i due attori non avevano voluto saperne. Il mio padrone Intef era intervenuto quando Rasfer s'era appellato a lui; aveva ordinato che impugnassero vere armi da combattimento, ed ero stato costretto a inchinarmi alla sua autorità. Se non altro, accresceva il realismo della scena, mentre i due stavano petto contro petto con le lame bloccate e si fissavano minacciosamente. Erano una coppia straordinaria e, diversi com'erano, simboleggiavano la morale della rappresentazione, l'eterno conflitto fra il bene e il male. Tanus era alto e bello. Seth era scuro e tozzo e orribile. Era un contrasto diretto, viscerale. L'umore del pubblico era ardente e partigiano come quello dei due protagonisti. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
83
Si spinsero reciprocamente indietro e si avventarono di nuovo, tra affondi e fendenti, finte e parate. Erano entrambi guerrieri esperti, fra i migliori in tutti gli eserciti del Faraone. Le lame vorticavano e scintillavano nella luce delle torce, e sembravano immateriali come la luce riflessa del sole sulla superficie del fiume increspata dal vento. Il suono della loro lotta era quello delle ali degli uccelli che volavano in cerchio intorno alla sommità buia del tempio: ma quando si scontravano, lo facevano con il pesante fragore dei magli sulle incudini. Quello che all'osservatore sembrava il caos di un vero duello era in realtà un balletto meticolosamente coreografato, provato e riprovato con ogni cura. Ognuno sapeva quale colpo doveva sferrare e come calcolare ogni parata. Erano due atleti superbi, impegnati nell'attività per cui erano stati addestrati in tutta la vita, e sembrava che agissero senza sforzo. Quando Seth tirò un affondo, Horus ritardò la parata, tanto che la punta della spada gli toccò la corazza e lasciò una piccola scalfittura lucida sul metallo. Poi, quando Horus si avventò per reagire, il filo della sua lama passò così vicino alla testa di Seth da recidergli una ciocca di capelli ruvidi con la precisione del rasoio di un barbiere. Il loro gioco di gambe era complesso ed elegante come quello dei danzatori del tempio: erano veloci come falchi e agili come ghepardi in caccia. La folla li osservava rapita, e anch'io ero assai coinvolto. Perciò dovette essere un istinto profondo a mettermi in guardia, o forse un suggerimento degli dei... chissà? Qualcosa mi indusse a distogliere lo sguardo dai duello e a fissare il nobile Intef, seduto nella prima fila. Anche in questo caso fu l'istinto o la conoscenza che avevo di lui, oppure l'intervento del dio protettore di Tanus, a ispirarmi quel pensiero. Forse fu un po' l'uno e un po' l'altro: ma compresi con certezza Immediata la ragione del sorriso di lupo apparso sul bel volto del mio padrone. Sapevo perché aveva scelto Rasfer per la parte di Seth. Sapevo perché non aveva cercato di escludere Tanus dal ruolo di Horus, anche dopo aver scoperto la relazione tra lui e la nobile Lostris. Sapevo perché aveva ordinato di usare spade vere e sapevo perché adesso sorrideva. Il massacro non era finito per quella sera. Intef attendeva il seguito. Prima del termine di quell'atto, Rasfer avrebbe usato ancora una volta il suo speciale talento. «Tanus!» gridai, avvicinandomi. «Stai in guardia! È una trappola! Vuole...» La mia voce fu sommersa dal clamore della folla. Non avevo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
84
ancora mosso il secondo passo quando mi sentii afferrare per le braccia. Cercai di liberarmi, ma due degli amici di Rasfer mi trattennero e fecero per trascinarmi via. Erano stati messi li in previsione di quel momento, per impedirmi di avvertire il mio amico. «Horus, dammi la forza!» supplicai in silenzio. E anziché resistere mi buttai all'indietro nella stessa direzione in cui mi tiravano. Per un istante rimasero sbilanciati, e mi liberai parzialmente dalla stretta. Riuscii a raggiungere il bordo del palcoscenico prima che potessero riprendermi. «Horus, dammi la voce», pregai, e urlai con tutte le mie forze: «Stai in guardia, Tanus! Ha intenzione di ucciderti!». Questa volta la mia voce dominò le grida della folla e Tanus mi udì. Lo vidi girare la testa di scatto e socchiudere leggermente le palpebre. Ma anche Rasfer mi udì: reagì istantaneamente e spezzò il ritmo adottato nelle prove. Anziché arretrare di fronte al vortice di affondi e fendenti che Tanus sferrava vicinissimi alla sua testa, avanzò e, con un colpo dall'alto in basso, costrinse Tanus ad alzare il braccio. Senza il beneficio della sorpresa non sarebbe riuscito a trovare il varco nel quale tirò un affondo con tutta la potenza delle spalle massicce e del tronco possente. La punta della lama mirava appena al di sotto dell'orlo dell'elmo di Tanus, direttamente all'occhio destro: gli avrebbe trapassato l'occhio e attraversato il cranio. Ma il mio grido aveva dato a Tanus il tempo necessario per reagire. Si rimise subito in guardia. Con il pomolo della spada riusci a colpire di sfuggita il polso di Rasfer, e gli bastò per deflettere d'un dito la punta dell'arma. Nello stesso attimo, abbassò il mento e girò la testa. Era troppo tardi per evitare completamente l'affondo: ma il colpo che gli avrebbe infilzato l'occhio e spaccato il cranio come un melone marcio non fece altro che squarciargli il sopracciglio fino all'osso, e gli passò oltre la spalla. Un fiotto di sangue sgorgò dalla ferita e inondò il viso di Tanus accecandogli l'occhio destro. Fu costretto a indietreggiare di fronte all'assalto feroce di Rasfer. Arretrò disperatamente e batté le palpebre per ripararsi dal sangue mentre cercava di asciugarlo con la mano libera. Sembrava impossibile che potesse difendersi; e se non fossi stato trattenuto dalle guardie del palazzo avrei sguainato il piccolo pugnale gemmato che portavo alla cintura e sarei accorso ad aiutarlo. Comunque, anche senza la mia collaborazione, Tanus riuscì a sopravvivere al primo attacco. Sebbene venisse ferito altre due volte, un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
85
taglio alla coscia sinistra e una scalfittura al bicipite del braccio che reggeva la spada, continuò a muoversi, a parare e schivare. Rasfer non smise di incalzarlo; non gli lasciava la possibilità di ritrovare l'equilibrio e la visuale. Dopo pochi minuti Rasfer soffiava e sbuffava come un cinghiale gigante e grondava di sudore, tanto che il torso deforme luccicava nei chiarore delle torce. Eppure la sveltezza e il furore dell'assalto non venivano meno. Sebbene non sia molto abile nel maneggiare la spada, sono uno studioso di quest'arte. Avevo visto Rasfer allenarsi nel cortile delle armi e conoscevo bene il suo stile. Sapevo che era un seguace del tipo di attacco chiamato khamsin perché è simile al vento del deserto. Era una manovra adatta alla sua forza bruta e al suo fisico. L'avevo visto praticarla in cento occasioni; e adesso intuivo dal suo gioco di gambe che si preparava a farla finita con un ultimo sforzo. Mentre mi dibattevo nella stretta dei catturatori, lanciai di nuovo un grido a Tanus. «Khamsin! Tieniti pronto...» Credetti che il mio avvertimento fosse stato sommerso dal fragore che riempiva il tempio perché Tanus non reagì. Più tardi mi disse che mi aveva sentito e che, siccome aveva la vista menomata, quel secondo monito gli aveva certamente salvato di nuovo la vita. Rasfer indietreggiò di mezzo passo nel classico preludio al khamsin. Allentò per un istante la pressione per mettere l'avversario nella posizione conveniente. Poi spostò il peso e avventò in avanti il piede sinistro. Sfruttò lo slancio e la forza della gamba destra per buttarsi all'attacco con tutto il corpo, come un grottesco avvoltoio che si leva in volo. Quando staccò da terra entrambi i piedi la punta della spada mirava alla gola di Tanus. Era un movimento inesorabile. Nulla al mondo poteva impedire alla lama di raggiungere il bersaglio, se non l'unica difesa classica: il colpo d'arresto. Nel preciso istante in cui Rasfer s'impegnava interamente per colpire, Tanus si scagliò con la stessa potenza e con un'agilità superiore. Come una freccia che scocca dall'arco, volò verso di lui. Quando s'incontrarono a mezz'aria, Tanus bloccò la lama di Rasfer con la sua e la fece scivolare fino al pomolo, dove si arrestò. La manovra era stata eseguita alla perfezione. La massa e la velocità dei due uomini si concentrarono sulla lama bronzea di Rasfer che non resistette all'urto e si spezzò, lasciandogli nella mano soltanto l'impugnatura tranciata. Ancora una volta erano petto contro petto. Sebbene la spada di Tanus fosse ancora indenne, Rasfer era penetrato sotto la sua guardia e gli Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
86
impediva di brandirla. Le mani di Tanus, con la spada ancora nella sinistra, erano strette dietro il dorso di Rasfer, mentre premevano l'uno contro l'altro. La lotta è una delle discipline militari in cui vengono addestrati tutti i guerrieri egizi. Avvinghiati l'uno all'altro, rotearono sul palcoscenico; ognuno cercava di sbilanciare l'avversario, gli faceva smorfie minacciose, tentava di fargli lo sgambetto, lo urtava con la visiera dell'elmo. Fino a quel momento, i due si equivalevano per forza e decisione. Gli spettatori avevano intuito che non era più uno scontro simulato bensì un combattimento a morte. Pensavo che il loro appetito fosse ormai placato da tutto ciò cui avevano assistito quella sera, ma non era così. Erano insaziabili e urlavano per chiedere sangue e ancora sangue. Finalmente Rasfer liberò il braccio dalla stretta di Tanus. Teneva ancora l'impugnatura della spada spezzata, e con il troncone acuminato gli sferrò un colpo al viso, mirando agli occhi e alla ferita alla fronte per renderla più grave. Tanus girò la testa per evitare i colpi e li ricevette sulla sommità dell'elmo bronzeo. Come un pitone che sposta le spire intorno alla preda, approfittò di quel momento per cambiare la stretta intorno al petto di Rasfer. La pressione era così grande che la faccia di questi incominciò a gonfiarsi e a diventare paonazza. L'aria gli sfuggiva dai polmoni e il guerriero lottava per non soffocare. Stava diventando visibilmente più debole. Tanus continuò a stringere fino a quando uno dei foruncoli maturi sul collo di Rasfer scoppiò e il pus giallastro eruttò in un rivolo fetido, colando nella cintura del gonnellino. Già semisoffocato, Rasfer fece una smorfia di sofferenza per lo scoppio dell'ascesso e si fermò. Tanus lo senti vacillare e attinse alle proprie riserve di forza. Cambiò angolazione, abbassò leggermente le spalle e spinse l'avversario all'indietro e verso l'alto. Rasfer perse l'equilibrio e Tanus lo costrinse ad arretrare d'un passo; e quando vi riuscì, continuò a sfruttare il proprio slancio. Tenendolo avvinghiato, lo spinse a ritroso attraverso il palcoscenico verso una delle gigantesche colonne di pietra. Per un momento nessuno comprese l'intento di Tanus: poi lo vedemmo abbassare la punta della spada in posizione orizzontale e premere con forza l'impugnatura contro la spina dorsale dell'avversario. La punta della spada di Tanus colpi la colonna. Il metallo stridette contro il granito e la scossa violenta si propagò nella lama. L'urto bloccò i due uomini e fece affondare l'impugnatura contro la colonna vertebrale di Rasfer. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
87
Un altro uomo ne sarebbe morto, e persino lui rimase paralizzato. Con l'ultimo soffio d'alito fetido esalò un grido di dolore, e spalancò le braccia. L'impugnatura spezzata della sua spada gli volò dalla mano e rotolò sul pavimento. Piegò le ginocchia e vacillò fra le braccia di Tanus. Questi lo colpi con il fianco e con un movimento della parte superiore del corpo lo spinse indietro. Rasfer atterrò così pesantemente che sentii le sue costole scricchiolare come fuscelli secchi fra le fiamme d'un bivacco. Batté la nuca sulle pietre con il suono d'un melone del deserto che cade dall'alto, e l'aria gli usci sibilando dalla gola. Gemette di dolore, con i polmoni svuotati. Ebbe appena la forza di alzare le braccia in atto di resa. Tanus era trascinato dalla furia, aizzato dalle grida della folla, e sembrava impazzito. Si piantò accanto a Rasfer e levò la spada stringendo l'impugnatura con entrambe le mani. Era uno spettacolo spaventoso. Il sangue che gli sgorgava dalla ferita alla fronte aveva colorato il suo viso come una maschera diabolica. Sudore e sangue gli incrostavano i peli del petto e gli macchiavano gli indumenti. «Uccidilo!» urlarono i presenti. «Uccidi il malvagio!» La punta della spada di Tanus mirava al centro del petto di Rasfer. Mi preparai ad assistere al colpo che avrebbe trafitto il mostro. Volevo che Tanus lo facesse perché odiavo Rasfer più di tutti i presenti. Gli dei sanno che ne avevo un valido motivo, perché mi aveva castrato e agognavo la vendetta. Ma fu inutile. Conoscevo abbastanza Tanus per sapere che non avrebbe trafitto un nemico arreso. Vidi i fuochi della follia che si spegnevano nei suoi occhi. Scosse leggermente la testa, come per ritrovare il dominio di sé. Invece di sferrare l'affondo abbassò lentamente la spada fino a scalfire il petto del nemico. La punta affilata fece spicciare una goccia di sangue vivida come un granato nel pelo ispido del petto. Poi Tanus riprese a recitare la sua parte. «Cosi ti vincolo alla mia volontà e ti bandisco dalla luce. Che tu possa vagare nei luoghi tenebrosi per tutta l'eternità. Che tu possa non avere mai più potere sugli uomini nobili e buoni. Regnerai sui ladri e i vigliacchi, i prepotenti e gli imbroglioni, i bugiardi e gli assassini, i profanatori di tombe e i violatori di donne virtuose, i bestemmiatori e gli spergiuri. D'ora in poi sarai il Dio di ogni male. Vattene, e porta con te la maledizione di Horus e di Osiride, il suo padre risorto.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
88
Tanus rialzò la punta della spada dal petto di Rasfer e gettò via l'arma. Si disarmava volutamente in presenza del nemico per dimostrare il suo disprezzo. La lama cadde rumorosamente sulle pietre; Tanus si avvicinò al Nilo e piegò un ginocchio, raccolse un po' d'acqua e se la gettò sul viso per lavare il sangue. Strappò una striscia di lino dall'orlo del gonnellino e fasciò in fretta la ferita alla fronte per stagnarla. I due scimmioni di Rasfer mi lasciarono libero e corsero sul palcoscenico in soccorso del loro comandante caduto. Lo rimisero in piedi e Rasfer barcollò, soffiando come una gigantesca, oscena rana-toro. Vidi che era ferito. Lo condussero via mentre la folla gli urlava frasi di derisione e d'odio. Osservai il mio padrone Intef: non mascherava la sua espressione ed io ebbi la conferma di tutti i miei sospetti. Era così che aveva deciso di vendicarsi su Tanus... facendolo uccidere sotto gli occhi dell'intera popolazione e sotto quelli di sua figlia. Lostris avrebbe dovuto assistere all'uccisione dell'amato come punizione per essersi opposta alla volontà paterna. La frustrazione e il disappunto di Intef erano tali da ispirarmi un'orgogliosa soddisfazione, mentre mi domandavo quale destino avrebbe riservato a Rasfer. Forse questi avrebbe preferito obbedire agli ordini impartitigli da Tanus, anziché affrontare la punizione che gli avrebbe inflitto il mio signore. Intef era sempre durissimo con chi lo deludeva. Tanus ansava ancora per lo sforzo del duello; ma quando si portò sul bordo del palcoscenico respirò profondamente una dozzina di volte per riprendere forza e iniziare il monologo che avrebbe concluso lo spettacolo. I presenti ammutolirono: insanguinato e adirato, era una visione che ispirava timore. Tanus levò entrambe le mani verso il tetto del tempio ed esclamò: «Ammon-Ra, dammi la voce! Osiride, donami l'eloquenza!» Era l'invocazione tradizionale dell'oratore. «Dagli la voce! Donagli l'eloquenza!» risposero gli spettatori, ancora estatici per tutto ciò che avevano visto, ma assetati d'altri svaghi. Tanus era un essere eccezionale, un uomo d'azione ricco di idee e col dono dell'eloquenza. Sono sicuro che sarebbe stato abbastanza generoso da ammettere che molte di quelle idee erano state seminate nella sua mente dall'umile schiavo Taita: o comunque, vi avevano trovato un terreno fertile. In fatto di oratoria, erano famose le esortazioni di Tanus alla sua squadra Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
89
nell'imminenza delle battaglie. Non ero stato presente in tutte le occasioni, ma me le aveva riferite fedelmente Kratas, suo amico e luogotenente. Avevo copiato molti di quei discorsi su rotoli di papiro, perché valeva la pena di conservarli. Tanus aveva il dono di parlare direttamente al cuore dell'uomo comune. Ero convinto che quel potere nascesse in gran parte dalla sincerità e dalla franchezza. Gli uomini si fidavano di lui e lo seguivano fino alla morte. Ero ancora sconvolto dallo scontro cui avevo appena assistito e dalla trappola che Intef aveva teso a Tanus. Ma ero ansioso di ascoltare l'orazione che Tanus aveva preparato senza il mio aiuto e ii mio consiglio. Per essere sincero, ero ancora un po' risentito perché aveva rifiutato ogni collaborazione, e piuttosto preoccupato da ciò che avrebbe potuto dire. Il tatto e la diplomazia non sono mai state le sue virtù maggiori. Il Faraone fece un gesto per invitarlo a parlare, incrociando e disincrociando lo scettro uncinato e il flagello e inclinando benevolmente la testa. Gli spettatori tacevano, attenti, e si tendevano per non farsi sfuggire neppure una parola. «Sono io che parlo, Horus dalla testa di falco», esordi Tanus, e tutti lo incoraggiarono. «È veramente il dio dalla testa di falco! Ascoltatelo!» «Ha-Ka-Ptah.» Tanus usò la forma arcaica dalla quale derivava il nome dell'Egitto. Pochi sapevano che il significato originale era: il tempio di Ptah. «Ti parlo di questa terra antica, donata a noi diecimila anni or sono, quando gli dei erano giovani. Ti parlo dei due regni che in natura sono uno e indivisibile.» Il Faraone annui. Era il dogma fondamentale, approvato dalle autorità religiose e temporali: nessuna delle due riconosceva l'impostore che regnava nel Basso Egitto o ammetteva la sua esistenza. «Oh, Kemit.» Tanus usò un altro nome antico dell'Egitto: la Terra Nera, dal colore apportato dal limo del Nilo nell'inondazione annuale. «Io ti parlo di questa terra dilaniata e divisa dalla guerra civile, sanguinante e privata dei suoi tesori.» Il mio orrore si specchiò sulle facce di tutti gli ascoltatori. Tanus aveva appena detto l'indicibile. Avrei voluto precipitarmi sulla scena e tappargli la bocca per impedirgli di proseguire, ma ero come paralizzato. «Oh, Ta-Meri.» Un altro nome antico: la Terra Amata. Tanus aveva imparato bene la storia che gli avevo insegnato. «Ti parlo di generali vecchi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
90
e fiacchi, di ammiragli troppo deboli e indecisi per strappare all'Usurpatore il regno rubato. Ti parlo di uomini ottusi che sprecano il tuo tesoro e spargono il sangue dei tuoi giovani migliori come se fosse la feccia di un vino amaro.» Vidi Nembet nella seconda fila: il Grande Leone d'Egitto, rosso di rabbia, si grattava furiosamente la barba. Gli altri vecchi comandanti che gli sedevano intorno aggrottavano la fronte e si agitavano, facevano risuonare le spade nei foderi in segno di disapprovazione. Fra tutti, soltanto il mio padrone Intef sorrideva nel vedere Tanus che, sfuggito a una trappola, stava precipitando in un'altra. «La nostra Ta-Meri è assediata da una schiera di nemici, eppure i figli dei nobili preferiscono tagliarsi i pollici per non portare la spada che dovrebbe proteggerla.» Tanus guardò intensamente Menset e Sobek, i fratelli maggiori di Lostris, seduti in prima fila accanto al padre. Il decreto reale esentava dal servizio militare soltanto coloro che avevano invalidità fisiche tali da renderli inidonei. I sacerdoti chirurghi del tempio di Osiride avevano perfezionato l'arte di asportare la falange superiore dei pollice causando poco dolore e pochi rischi d'infezione: in tal modo la mano non poteva stringere una spada o tendere un arco. I giovani ostentavano con orgoglio la mutilazione quando giocavano d'azzardo e sbevazzavano nelle taverne lungo il fiume. Consideravano la mancanza del pollice non già come un marchio di vigliaccheria ma come un segno di raffinatezza e di spirito indipendente. «La guerra è un gioco che i vecchi fanno con le vite dei giovani», dicevano i fratelli di Lostris. «Il patriottismo è un mito inventato da quei vecchi bricconi per coinvolgerci nel gioco infernale. Combattano pure, loro; ma noi non vogliamo saperne.» Invano avevo ribattuto che il privilegio d'essere egizi comportava doveri e responsabilità: non mi avevano dato ascolto, con l'arroganza tipica dei giovani ignoranti. Ma adesso, sotto lo sguardo fermo di Tanus, si agitavano e nascondevano la mano sinistra nelle pieghe delle tuniche. Entrambi erano destri, ma avevano convinto del contrario l'ufficiale reclutatore con la loro eloquenza e una manciata d'oro. La gente comune, in fondo alla grande sala, borbottava e pestava i piedi in segno di approvazione per ciò che aveva detto Tanus. Erano i loro figli che riempivano i banchi dei rematori delle navi da guerra o marciavano Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
91
armati sulle sabbie del deserto. Io, però, mi torcevo le mani per la disperazione. Con quei breve discorso Tanus si era inimicato cinquanta dei giovani nobili presenti, uomini che un giorno avrebbero ereditato il potere nell'Alto Egitto. La loro ostilità controbilanciava cento volte l'approvazione della gente comune e io pregavo che Tanus la smettesse. In pochi minuti aveva causato abbastanza guai per cent'anni, ma continuava tranquillamente. «Oh, Ta-Nutri.» Era un altro nome antico: la Terra degli Dei. «Io ti parlo del malfattore e del predone che tendono tranelli su ogni collina e in ogni boschetto. Il contadino è costretto ad arare con lo scudo al fianco, il viaggiatore deve procedere con la spada sguainata.» Anche questa volta gli spettatori comuni applaudirono. Le imprese delle bande dei predoni che si facevano chiamare Averle erano un flagello tremendo per tutti. Nessuno era al sicuro fuori delle mura d'argilla dei centri abitati, e i capi erano arroganti e intrepidi. Non rispettavano altra legge che la propria, e nessuno era al sicuro. Tanus aveva colpito nel segno, per quanto riguardava il popolo: e all'improvviso mi resi conto che quelle sue parole erano una sorta di segnale atteso da lungo tempo. Molte rivoluzioni si sono compiute e molte dinastie reali sono state rovesciate da simili appelli alle masse. Le frasi successive di Tanus rafforzarono il mio sospetto. «Mentre i poveri gridano sotto la frusta dell'esattore delle tasse, i nobili cospargono le natiche dei loro giovani amanti con i più preziosi oli d'Oriente...» Dal fondo della sala si levò un ruggito, e i miei timori furono sostituiti da una tremula eccitazione. Era stato tutto meticolosamente pianificato? Tanus era forse più abile e subdolo di quanto avessi immaginato? «Per Horus!» gridai in cuor mio. «La terra è matura per la rivoluzione, e chi potrebbe guidarla meglio di Tanus?» Ero soltanto deluso perché non si era confidato con me e non mi aveva messo a parte del suo progetto. Avrei potuto pianificare una rivoluzione nello stesso modo abile e astuto con cui sapevo progettare un giardino acquatico o scrivere un dramma. Allungai il collo per guardare al di sopra delle teste degli astanti. Mi aspettavo che, da un momento all'altro, Kratas e gli altri ufficiali facessero irruzione nel tempio alla testa di una compagnia di guerrieri della squadra navale. Mi sentivo rizzare i capelli in testa e immaginavo di vederli strappare la corona doppia dalla testa del Faraone per posarla sulla fronte Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
92
insanguinata di Tanus. Con quanta gioia mi sarei associato al grido di: «Viva il Faraone! Viva il re Tanus!». Le immagini più inebrianti mi turbinavano davanti agli occhi mentre Tanus continuava a parlare. Vedevo realizzarsi la profezia dell'oracolo del deserto. Sognavo Tanus, con la mia padrona Lostris al fianco, seduto sul trono bianco dell'Egitto, e vedevo me stesso dietro di loro, risplendente nelle vesti di gran visir. Ma perché, perché non mi aveva consultato prima d'imbarcarsi in quell'avventura pericolosa? Subito Tanus ne chiari la ragione. Avevo sbagliato nel giudicare il mio sincero, schietto Tanus, nobile e leale e privo di astuzia ingannatrice. Non era un complotto. Tanus diceva semplicemente ciò che pensava. Gli spettatori comuni, che pochi attimi prima avevano ascoltato estatici ogni sua parola, furono inaspettatamente attaccati a loro volta. «Ascoltami, o Egitto! Che ne sarà di una terra dove i meschini d'animo cercano di opprimere i potenti, dove il patriota è insultato, dove nessuno degli uomini di ieri è riverito per la sua saggezza, dove i mediocri e gli invidiosi cercano di ridurre al loro livello anche i più degni?» Non vi furono applausi, perché coloro che stavano in fondo alla sala si riconoscevano nella descrizione. Tanus era riuscito ad alienarsi tutti, grandi e umili, ricchi e poveri. Oh, perché non mi aveva consultato? mi chiesi. La risposta era evidente. Non mi aveva consultato perché sapeva che avrei cercato di dissuaderlo. «Che ordine c'è in una società dove lo schiavo parla liberamente e si considera pari ai nobili di nascita?» esclamò. «Il figlio deve disprezzare il padre e la saggezza pagata con i capelli grigi e le rughe? La prostituta del porto deve portare anelli di lapislazzuli e porsi al di sopra della moglie virtuosa?» Per Horus! pensai. Tanus non intendeva risparmiare proprio nessuno. Come sempre, era dimentico della propria sicurezza, troppo preso dall'ansia di indicare la retta via. Nel tempio una sola persona era incantata da ciò che Tanus diceva. Lostris apparve al mio fianco e mi strinse il braccio. «Non è meraviglioso, Taita?» mormorò. «Ogni sua parola è vera. Questa notte è veramente un giovane dio.» Non trovai le parole né il coraggio per dirmi d'accordo, e chinai mestamente la testa mentre Tanus continuava, inarrestabile. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
93
«Faraone, tu sei il padre del popolo. A te chiediamo protezione e soccorso. Affida gli affari dello Stato e della guerra nelle mani di uomini onesti e capaci. Manda gli stolti e i bricconi a marcire nelle loro proprietà. Scaccia i sacerdoti infedeli e gli avidi servitori dello Stato, parassiti della nostra Ta-Meri.» Horus sa che detesto i sacerdoti; ma soltanto un uomo molto sciocco o molto coraggioso attirerebbe sulla propria testa la collera di tutti i sedicenti portavoce degli dei, perché il loro potere è infinito, il loro odio implacabile. In quanto ai funzionari, le linee della loro influenza e della loro corruzione sono stabilite da secoli, e il mio signore Intef era il capo di tutti. Rabbrividii commiserando il mio amico che continuava a impartire al Faraone istruzioni sul modo di ristrutturare interamente la società egizia. «Ascolta le parole del saggio. O re, onora l'artista e lo scriba. Ricompensa il guerriero valoroso e il servitore fedele. Sradica i banditi e i predoni dalle loro fortezze nel deserto. Dai al popolo l'esempio, in modo che questo Egitto possa di nuovo fiorire e ritornare grande.» Tanus cadde in ginocchio al centro del palcoscenico e spalancò le braccia. «O Faraone, tu sei il nostro padre. Ti proclamiamo il nostro amore. In cambio, mostraci un amore paterno. Ascolta le nostre suppliche: te ne imploriamo.» Fino a quel momento ero rimasto allibito dalla follia di Tanus; ora, troppo tardi, ritrovai la presenza di spirito e segnalai freneticamente agli inservienti di calare il sipario prima che Tanus potesse procurare a se stesso altri danni. Mentre i lucidi drappeggi scendevano a nasconderlo, il pubblico rimase in silenzio, come se non riuscisse a credere a tutto ciò che aveva visto e udito quella notte. Fu il Faraone a spezzare l'incantesimo. Si alzò. Sotto il trucco bianco la sua faccia era impenetrabile. Mentre usciva dal tempio, gli spettatori si prostrarono davanti a lui. E vidi l'espressione del mio signore Intef. Era trionfante. Accompagnai Tanus dal tempio al suo modesto alloggio nei pressi del molo dov'era ormeggiata la squadra. Sebbene procedessi al suo fianco con la mano sull'impugnatura del pugnale pronto ad affrontare le conseguenze immediate della sua sconsiderata sincerità, Tanus non sembrava per nulla pentito. Anzi, appariva ignaro dell'immensità della sua follia e molto compiaciuto con se stesso. Ho spesso notato che un uomo liberato da poco da una tensione terribile e da un pericolo mortale diventa loquace ed Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
94
euforico. Tanus, il guerriero, non faceva eccezione alla regola. «Era tempo che qualcuno si levasse e dicesse ciò che andava detto, non sei d'accordo, amico mio?» La sua voce risuonava alta e chiara nel vicolo buio, come se fosse deciso ad attirare tutti i sicari in agguato. Io rimasi in silenzio. «Non ti aspettavi che lo facessi, no? Sii sincero, Taita. Ti ho colto di sorpresa, è così?» «Hai colto di sorpresa tutti.» Questa volta potevo essere d'accordo. «Anche il Faraone è rimasto sbalordito, e mi sembra comprensibile.» «Ha ascoltato, Taita. Ha ascoltato tutto, l'ho notato. Questa sera ho fatto un ottimo lavoro, non ti pare?» Quando cercai di parlare dell'attacco proditorio di Rasfer e della possibilità che fosse stato ispirato dal mio padrone Intef, Tanus non volle credermi. «È impossibile, Taita. L'hai sognato. Il nobile Intef era il più caro amico di mio padre. Come potrebbe farmi male? Inoltre, io diventerò suo genero, no?» E nonostante le ferite proruppe in una gaia risata che destò i dormienti nelle casupole buie, e quelli ci gridarono bruscamente di far silenzio. Tanus ignorò le proteste. «No, no, sono certo che sbagli», insistè. «Rasfer ha agito per dispetto. La prossima volta sarà più cauto.» Mi passò un braccio intorno alle spalle e mi strinse forte. «Questa sera mi hai salvato due volte. Senza i tuoi avvertimenti Rasfer mi avrebbe ucciso. Come riesci a fare certe cose, Taita? Lo giuro, sei un mago e hai il dono della doppia vista.» Tanus rise di nuovo. Come potevo soffocare la sua gioia? Era come un ragazzo, un ragazzo scatenato. Non potevo fare a meno di volergli ancora più bene. Non era il momento per fargli notare il pericolo in cui aveva posto se stesso e tutti i suoi amici. Decisi di lasciargli quell'ora di felicità: l'indomani gli avrei parlato con la voce della ragione e della prudenza. Perciò lo accompagnai a casa, gli suturai la ferita alla fronte, lavai le altre e le unsi con uno speciale miscuglio di miele e di erbe per impedire la necrosi. Poi gli feci bere un cospicua dose di shepenn rosso e lasciai il buon Kratas a vegliarlo. Quando tornai nel mio alloggio, dopo mezzanotte, scoprii che due persone avevano chiesto di me: la mia padrona Lostris e lo sconfitto Rasfer. Era chiaro che, se avessi potuto scegliere, avrei dato la precedenza alla prima, ma non potei. I due scimmioni di Rasfer quasi mi trascinarono da lui. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
95
Giaceva su un materasso intriso di sudore, imprecava e gemeva e invocava Seth e tutti gli dei perché fossero testimoni della sua sofferenza e della sua forza d'animo. «Buon Taita!» esclamò sollevandosi a fatica su un gomito. «Non puoi immaginare quanto soffro. Ho il petto in fiamme, come se tutte le ossa fossero spezzate, e la testa mi duole come se fosse legata da cinghie di cuoio non conciato.» Non faticai a dominare le lacrime di commiserazione: ma è risaputo che noi medici e guaritori non abbiamo mai il coraggio di negare le nostre cure anche alle creature più abominevoli. Sospirai rassegnato, aprii la borsa di pelle che conteneva la mia attrezzatura e presi gli strumenti e gli unguenti. Mi rallegrò scoprire che la diagnosi fatta da Rasfer era esatta e che, a parte le numerose contusioni e le ferite superficiali, aveva almeno tre costole rotte e un bernoccolo sulla nuca grosso quasi quanto il mio pugno. Perciò avevo una ragione perfettamente legittima per farlo soffrire ancora di più. Una delle costole fratturate non era allineata e c'era il pericolo che trapassasse il polmone. Mentre i due scimmioni lo tenevano fermo e Rasfer urlava e gemeva in un modo assai soddisfacente, rimisi a posto la costola e gli fasciai il petto con bende di lino intrise d'aceto che, asciugandosi, si sarebbero ristrette. Quindi mi occupai della lesione alla testa, nel punto in cui aveva battuto sul pavimento di pietra. Spesso gli dei sono generosi. Quando accostai una lampada agli occhi di Rasfer, le pupille non si dilatarono. Non avevo alcun dubbio sulla cura necessaria. Un liquido sanguinolento si andava raccogliendo in quel cranio sgraziato. Senza il mio aiuto, Rasfer sarebbe morto prima del tramonto seguente. Scacciai la tentazione e ricordai a me stesso quali erano i doveri del medico verso il paziente. Probabilmente c'erano tre soli chirurghi in tutto l'Egitto capaci di trapanare un cranio con buone probabilità di successo, e per quanto mi riguarda non avrei avuto molta fiducia negli altri due. Ancora una volta ordinai agli scimmioni di tenere fermo Rasfer, bloccandolo a faccia in giù sul giaciglio. A giudicare dal modo brusco con cui lo maneggiavano e dai pochi riguardi che dimostravano per le sue costole rotte, dedussi che non traboccavano di sentimenti affettuosi per il loro padrone. Ancora una volta una successione di urla e di strilli esplose nella notte e allietò le mie fatiche mentre praticavo un'incisione semicircolare intorno Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
96
alla protuberanza e scostavo dall'osso un ampio lembo di pelle. Adesso neppure i due robusti scagnozzi riuscivano a tenerlo immobilizzato. Si dibatteva spruzzando sangue fino al soffitto e addosso a noi, tanto che sembravamo tutti colpiti da un vaiolo rosso. Alla fine, esasperato, ordinai ai due di legarlo per le caviglie e i polsi alle colonne del letto con le cinghie di cuoio. «Oh, dolce e gentile Taita, è un dolore incredibile. Dammi una goccia del succo del fiore, ti supplico, caro amico», balbettò Rasfer. Adesso che era ben legato al letto, potevo permettermi d'esser franco con lui. «Capisco ciò che provi, mio buon Rasfer. Anch'io avrei voluto un po' di succo del fiore quando usasti il coltello su di me. Purtroppo, mio vecchio amico, ho finito la droga, e almeno per un mese non arriveranno carovane dall'oriente.» Era una menzogna: pochi erano al corrente del fatto che coltivavo io stesso lo shepenn rosso. Sapevo che il meglio doveva ancora venire, e presi il trapano. La testa umana è l'unica parte del corpo che mi sconcerta. Per ordine del mio signore Intef mi venivano consegnati i cadaveri di tutti i criminali giustiziati; inoltre Tanus mi aveva portato molti esemplari dal campo di battaglia, debitamente conservati in acqua salata. Li avevo sezionati e studiati tutti, e perciò conoscevo ogni osso e il suo posto nello scheletro. Avevo scoperto il percorso che compie il cibo quando entra nella bocca e passa attraverso il corpo. Avevo scoperto quell'organo meraviglioso che è il cuore, annidato fra i sacchi pallidi dei polmoni. Avevo studiato i fiumi interni in cui scorre il sangue, e avevo osservato i due tipi di sangue che determinano gli umori e i sentimenti dell'uomo. Naturalmente c'è il sangue gioioso e vivido che, quando viene liberato da un colpo di bisturi o dalla scure del carnefice, sprizza in impulsi regolari. È il sangue dei pensieri felici e delle belle emozioni, il sangue dell'amore e della bontà. Poi c'è il sangue più scuro e torpido che scorre senza il vigore e la gioia dell'altro. È il sangue della collera e del dolore, dei pensieri malinconici e delle azioni malvage. Avevo studiato tutte queste cose e riempito cento rotoli di papiro con le mie osservazioni. A quanto ne so, nessuno al mondo aveva fatto tanto; certamente non i ciarlatani dei tempio con i loro amuleti e gli incantesimi. Non credo che uno di loro sapesse distinguere il fegato dallo sfintere Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
97
dell'ano senza invocare Osiride, lanciare i dadi della divinazione e farsi pagare in anticipo un lauto onorario. In tutta modestia posso dire di non aver mai conosciuto un uomo che comprenda meglio di me il corpo umano: tuttavia la testa continua a essere un enigma. Naturalmente so che gli occhi vedono, il naso percepisce gli odori, la bocca i sapori, le orecchie i suoni... Ma che funzione ha la pappa grigiastra che riempie la zucca del cranio? Non sono mai riuscito a spiegarlo, e nessuno è mai riuscito a darmi un chiarimento soddisfacente: soltanto Tanus c'era andato vicino. Dopo che avevamo trascorso una serata insieme ad assaggiare il vino rosso dell'ultima vendemmia, s'era svegliato all'alba e aveva dichiarato con un gemito: «Seth ha messo questa roba nella nostra testa per vendicarsi dell'umanità». Una volta conobbi un uomo che era giunto con una carovana da oltre i leggendari fiumi gemelli, il Tigri e l'Eufrate, e che affermava di aver studiato lo stesso problema. Era un saggio, e discutemmo insieme di molti misteri per circa mezzo anno. A un certo punto egli suggerì che tutti i sentimenti e i pensieri umani non scaturissero dal cuore, bensì da quella massa molle e amorfa. Cito quest'affermazione ingenua solo allo scopo di dimostrare che anche un uomo dotto e intelligente può sbagliare. Chi abbia considerato il cuore, l'organo potente che palpita di vita nel centro del nostro corpo, alimentato da grandi fiumi di sangue e protetto da palizzate d'osso, non può dubitare che sia la fonte da cui scaturiscono i pensieri e le emozioni. Il cuore usa il sangue per diffondere tali emozioni in tutto il corpo. Non avete mai sentito il vostro cuore fremere e accelerare i battiti per una bella musica, un volto incantevole, le parole d'un discorso commovente? Avete mai provato simili sensazioni nell'interno della testa? Anche il saggio venuto da oriente aveva dovuto capitolare di fronte alla mia logica implacabile. Nessun uomo razionale può credere che una massa esangue di latte cagliato, inerte nella sua scatola d'osso, sappia evocare i versi di una poesia o il disegno di una piramide, e spingere un uomo ad amare o a combattere. Persino gli imbalsamatori lo estraggono e lo scartano quando preparano una salma per il lungo viaggio. C'è tuttavia un paradosso: se si interferisce con questa massa gelatinosa, sia pure con la pressione del liquido che vi resta intrappolato, il paziente è spacciato. Sono necessarie una conoscenza intima della struttura della testa Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
98
e una destrezza prodigiosa per penetrare nel cranio senza disturbare il sacco contenente questa pappa. Io possiedo entrambe le qualità. Mentre trapanavo lentamente l'osso, incoraggiato dalle urla di Rasfer, m'interrompevo regolarmente per rimuovere i frammenti e spruzzare aceto nella ferita. Il bruciore non contribuiva a far stare meglio il paziente, tuttavia dava nuova energia al volume della sua voce. All'improvviso il trapano di bronzo affilato attraversò il cranio, e un minuscolo, perfetto disco d'osso schizzò dalla ferita, spinto dalla pressione interna. Subito fu seguito da un fiotto di sangue scuro e raggrumato che mi colpi in faccia. Rasfer si rilassò e io compresi, non senza una fitta pungente di rammarico, che sarebbe sopravvissuto. Mentre ricucivo il pezzo di cuoio capelluto, mi domandavo se avevo veramente reso un grande servigio all'umanità. Quando lasciai Rasfer con la testa avvolta nelle bende, intento a lamentarsi e piagnucolare in preda a un'autocommiserazione porcina, mi accorsi d'essere completamente esausto. Gli eventi della giornata avevano consumato le mie riserve d'energia. Ma non potevo ancora riposare, perché la messaggera della mia padrona Lostris attendeva sulla terrazza del mio alloggio e mi corse incontro appena misi il piede sul primo gradino. Mi lasciò giusto il tempo di ripulirmi dal sangue di Rasfer e di cambiarmi. Quando entrai barcollando nella sua camera, Lostris mi ricevette lanciando fiamme dagli occhi e battendo minacciosamente un piedino. «Dove credi di poterti nascondere, mastro Taita?» esclamò. «Ti ho mandato a chiamare prima della seconda veglia, e adesso manca poco all'alba. Come osi farmi aspettare? A volte dimentichi la tua condizione. Conosci bene la punizione per gii schiavi impertinenti...» Era furente, perché per tutte quelle ore aveva continuato a fremere d'impazienza. Quando era in collera la sua bellezza era sorprendente, e quando batteva il piede in quei gesto adorabile e così tipico, avevo la sensazione che il mio cuore scoppiasse di tenerezza. «Non star li a sogghignare!» esclamò. «Sono così furiosa che potrei ordinare di farti frustare!» Batté di nuovo il piede, e io sentii la stanchezza cadermi dalle spaile come un carico pesante. Bastava la sua presenza per rianimarmi. «Mia signora, questa notte hai recitato in modo meraviglioso. A me e a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
99
quanti ti guardavano è sembrato che fossi veramente la dea.» «Non tentare i tuoi soliti trucchi!» Lostris batté il piede per la terza volta, ma con minore convinzione. «Non te la caverai tanto facilmente.» «In verità, mia signora, mentre tornavo dal tempio per le vie affollate, il tuo nome era sulle labbra di tutti. Dicevano che il tuo canto era il più bello che avessero mai udito, e aveva conquistato ogni cuore...» «Non credo una sola parola», dichiarò lei, ma si vedeva che la collera stava sbollendo. «Anzi, mi è parso che la mia voce fosse orrenda: atona almeno in un'occasione, e spesso stonata...» «Devo contraddirti, padrona. Non hai mai cantato meglio. E la tua bellezza illuminava il tempio.» La nobile Lostris non era vanitosa, ma era donna. «Mostro!» esclamò esasperata. «Questa volta volevo davvero farti frustare. Ma vieni a sedere sul letto accanto a me e dimmi tutto. Sono ancora molto emozionata e credo che non riuscirò a dormire per una settimana.» Mi prese per mano e mi condusse verso il letto, parlando allegramente di Tanus, che doveva aver conquistato i cuori di tutti, in particolare del Faraone, della sua interpretazione meravigliosa e del suo monologo intrepido, e dell'infante Horus che le aveva sporcato la veste, e... davvero pensavo che avesse cantato bene, non lo dicevo tanto per dire? Alla fine dovetti interromperla. «Mia signora, è quasi l'alba, e dobbiamo prepararci a partire con tutta la corte per accompagnare il re che attraverserà il fiume per ispezionare il suo tempio funerario e la tomba. Devi dormire un po', se vuoi avere il tuo aspetto migliore in un'occasione tanto importante.» «Non ho sonno, Taita», protestò Lostris, e continuò a chiacchierare; ma appena pochi minuti più tardi s'interruppe a metà di una frase e si addormentò sulla mia spalla. L'adagiai delicatamente con il capo sul poggiatesta scolpito e l'avvolsi con una coperta di pelli di colobo. Non seppi decidermi ad andarmene subito, e rimasi accanto al suo letto. Infine la baciai lievemente sulla guancia. Lostris non apri gli occhi ma mormorò con voce assonnata: «Credi che domani avrò la possibilità di parlare al re? Lui solo potrà impedire che mio padre mandi lontano Tanus». Non seppi che cosa rispondere; e mentre esitavo, Lostris piombò in un sonno profondo. Faticai ad alzarmi dal letto al levar del sole: mi sembrava di avere appena chiuso gli occhi quando dovetti riaprirli. La mia immagine riflessa nello Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
100
specchio di bronzo era stravolta, gli occhi cerchiati di violaceo. Mi affrettai a truccarmi per rimediare alla meglio, mettendo in risalto con il kohl gli incavi degli occhi, e i lineamenti pallidi con una spennellata di antimonio. Due dei giovanissimi schiavi mi pettinarono, e il risultato fu così apprezzabile che mi sentii quasi allegro mentre scendevo al molo privato del gran visir dove era ormeggiata la grande nave reale. Fui tra gli ultimi a raggiungere la folla sul molo, ma nessuno notò il mio ritardo, neppure la nobile Lostris che era già sul ponte della nave. L'osservai a lungo. Era stata invitata fra le dame reali, che includevano non soltanto le mogli del re, ma anche le numerose concubine e tutte le figlie. Queste ultime, naturalmente, erano la causa dell'infelicità del Faraone; erano un vero gregge, e andavano dalle bimbette alle giovani in età da marito. Eppure il loro numero era del tutto irrilevante: era impossibile mantenere l'immortalità del Faraone senza una discendenza maschile. Era difficile credere che, come me, Lostris non avesse dormito più di un'ora o due, perché sembrava fresca come una rosa del mio giardino. Anche in quella parata scintillante di bellezze femminili scelte dai fattori del Faraone o inviategli in omaggio dai governatori ai confini del suo impero, Lostris spiccava come una rondine in uno stormo di piccole, scialbe allodole dei deserto. Cercai Tanus, ma la sua squadra era più a monte, pronta a scortare il Faraone, e il riflesso del sole nascente trasformava la superficie del fiume in un'abbagliante lastra d'argento che accecava. Non potevo guardarla. In quel momento risuonò il rullo di un tamburo e tutti si voltarono per seguire la maestosa avanzata del sovrano dal palazzo alla nave reale. Quella mattina il Faraone portava il leggero nemes di lino inamidato, fissato intorno alla fronte dalla fascia d'oro con l'ureo. Il cobra con il cappuccio dilatato e gli scintillanti occhi di granato si ergeva sulla sua fronte. Il cobra era il simbolo del potere di vita e di morte che il sovrano aveva sui sudditi. Non portava lo scettro uncinato e il flagello, ma soltanto lo scettro d'oro. Dopo la corona doppia, era il tesoro più sacro e a quanto si diceva era antico di oltre mille anni. Nonostante gli ornamenti regali, non era truccato. Sotto i raggi del primo sole e senza il trucco che mascherava la verità, Mamose era piuttosto scialbo. Un dio piccolo e molle di mezza età, con la pancia che traboccava Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
101
dalla cintura del gonnellino e i lineamenti segnati dalle preoccupazioni. Quando mi passò davanti mostrò di riconoscermi, perché mi rivolse un cenno. Mi prostrai immediatamente, e Mamose si fermò e mi fece segno di avvicinarmi. Mi trascinai carponi davanti a lui e battei per tre volte la fronte a terra. «Tu non sei Taita il poeta?» mi chiese con quella sua voce esile e petulante. «Sono Taita lo schiavo, maestà», risposi. Ci sono momenti in cui l'umiltà è necessaria. «Ma sono anche un povero scribacchino.» «Ebbene, schiavo Taita, hai ben scribacchiato, ieri sera. Non avevo mai apprezzato tanto uno spettacolo. Emanerò un editto reale per proclamare che il tuo testo sarà d'ora in poi la versione ufficiale.» Lo annunciò a voce alta, e tutta la corte senti; il mio padrone Intef, che lo seguiva, sorrise soddisfatto. Dato che ero suo schiavo, l'onore spettava più a lui che a me. Il Faraone, tuttavia, non aveva ancora finito. «Dimmi, schiavo Taita, non sei anche il medico che di recente mi ha prescritto una cura?» «Maestà, sono lo stesso umile schiavo che ha l'ardire di praticare un po' la medicina.» «Allora, quando avrà effetto la tua cura?» Il Faraone abbassò la voce in modo che io solo sentissi la domanda. «Maestà, l'evento avrà luogo nove mesi dopo che avrai soddisfatto tutte le condizioni da me elencate.» E dato che ora stavamo parlando da medico a paziente, mi feci coraggio e soggiunsi: «Hai seguito la dieta che ti ho consigliato?». «Per il seno generoso di Iside!» esclamò con un brillio inatteso negli occhi. «Sono così pieno di testicoli di toro che è un miracolo se non muggisco quando una mandria di mucche passa davanti al palazzo.» Era di un umore così amabile che risposi con una battuta: «Il Faraone ha trovato la giovenca che gli ho consigliato?». «Ahimè, dottore, non è semplice come sembra. I fiori più belli vengono visitati per primi dalle api. Avevi detto che deve essere intatta, no?» «Vergine, intatta, e nel primo anno della sua prima luna rossa», mi affrettai a precisare, in modo che fosse il più possibile difficile mettere alla prova la mia ricetta. «Ne hai trovata una che corrisponda alla descrizione, maestà?» Il re cambiò di nuovo espressione e sorrise pensosamente. Il sorriso Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
102
sembrava fuori posto su quel volto malinconico. «Vedremo», mormorò. «Vedremo.» Si voltò e sali a bordo della nave reale. Quando il mio padrone Intef mi passò davanti, mi fece un cenno per ordinarmi di accodarmi a lui, e perciò lo seguii. Durante la notte il vento era caduto e le acque scure del fiume erano pesanti e tranquille come olio in una giara, disturbate soltanto dai vortici nei tratti dove l'eterna corrente era più rapida e profonda. Persino Nembet sarebbe riuscito a compiere la traversata in quelle condizioni, anche se la squadra di Tanus era piazzata in una posizione poco lusinghiera, come se si tenesse pronta a intervenire in caso di un altro errore. Il nobile Intef mi prese in disparte appena fummo sul ponte. «A volte riesci ancora a sorprendermi, mio caro», sussurrò stringendomi il braccio. «Proprio quando cominciavo a dubitare seriamente della tua devozione.» Rimasi sbigottito da quell'improvvisa manifestazione di benevolenza, dato che la schiena mi bruciava ancora per le frustate di Rasfer. Chinai la testa per nascondere io stupore e attesi che Intef si spiegasse meglio. Lo fece immediatamente. «Neppure io avrei potuto scrivere per Tanus un testo più appropriato da recitare davanti al Faraone. Lo stupido Rasfer ha fallito completamente, ma tu hai salvato la situazione con il solito stile.» Solo in quel momento compresi. Intef credeva che fossi io l'autore della pazzia di Tanus, e che avessi composto il discorso nel suo interesse. Probabilmente, nel chiasso dei tempio, non mi aveva sentito gridare gli avvertimenti a Tanus. «Sono lieto che tu sia soddisfatto», sussurrai con un immenso sollievo. La mia posizione influente non era compromessa. In quel momento non pensavo soltanto alla mia pelle: pensavo anche a Tanus e Lostris. Avrebbero avuto bisogno di tutto l'aiuto e la protezione possibili nei giorni tempestosi che li attendevano. Mi consideravo fortunato perché ero ancora in grado di esser loro utile. «Era mio dovere.» Mi sembrava di poter approfittare dell'occasione favorevole. «Vedrai, ti sarò grato», disse il mio padrone. «Ricordi quel pezzo di terra sul canale dietro il tempio di Thoth? Ne abbiamo parlato qualche tempo fa.» «Sì, mio signore.» Sapevamo entrambi che da dieci anni sognavo quel podere: sarebbe stato un rifugio ideale per uno scrittore, il luogo dove avrei potuto ritirarmi nella vecchiaia. «È tuo. Alla prossima assise, portami l'atto da firmare.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
103
Ero sbalordito e sgomento per il modo ignobile in cui il podere era diventato mio, come prezzo per un presunto tradimento. Per un attimo pensai di rifiutare il dono, ma solo per un attimo. Quando mi fui ripreso dallo stupore avevamo attraversato il fiume e stavamo imboccando il canale che conduceva verso il grande tempio funerario del Faraone Marnose. Avevo realizzato il canale con ben poco aiuto da parte degli architetti reali, come pure avevo pianificato, virtualmente da solo, il complicato trasporto del corpo del Faraone dal luogo della morte al tempio funerario dove avrebbe avuto luogo il processo di mummificazione. Avevo presunto che sarebbe morto nel suo palazzo, sulla bellissima isola Elefantina. Quindi il cadavere avrebbe dovuto scendere il fiume sulla nave reale. Avevo progettato il canale in modo che potesse accoglierla, e perciò adesso vi si inserì come una spada che scivola nel fodero. Diritto come la lama del mio pugnale, il canale tagliava la terra nera della piana alluvionale per duemila passi, fino ai piedi delle scabre colline del Sahara. Decine di migliaia di schiavi avevano lavorato anni e anni per costruirlo e per rivestirlo di blocchi di pietra. Quando la nave entrò nel canale, duecento schiavi nerboruti afferrarono le cime da rimorchio fissate a prua e cominciarono a trainarla, innalzando un canto mesto e melodioso mentre marciavano in fila lungo la strada alzaia. I contadini che lavoravano nei campi accorsero a salutarci. Si affollarono sulla riva, benedicendo il re e agitando fronde di palma mentre la grande nave passava maestosa. Quando finalmente ci fermammo al molo di pietra ai piedi dei muri esterni del tempio quasi finito, gli schiavi legarono agli anelli i cavi da traino. Il mio progetto era così preciso che l'entrata della paratia della nave reale corrispondeva esattamente al portale principale del tempio. Quando l'enorme vascello si fermò, il trombettiere a prua suonò il corno di gazzella, e la saracinesca si alzò lentamente, rivelando il catafalco reale circondato dalla schiera degli imbalsamatori vestiti di cremisi e cinquanta sacerdoti di Osiride allineati dietro di loro. I sacerdoti incominciarono a salmodiare mentre spingevano avanti il catafalco sui rulli di legno, fino al ponte della nave. Il Faraone batté le mani, ammirato, e si affrettò a esaminare il grottesco veicolo. Non avevo partecipato alla creazione di quel trionfo del cattivo gusto, che era interamente opera dei sacerdoti. Basti dire che sotto la luce del sole le Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
104
dorature sovrabbondanti brillavano al punto che l'occhio ne rimaneva ferito. Il peso dell'oro costringeva i sacerdoti ad ansare e a sudare mentre spingevano sul ponte l'arca ingombrante che fece addirittura sbandare la grande nave. Quell'oro sarebbe stato sufficiente per riempire i granai dell'Alto Egitto, o per costruire e armare cinquanta squadre di navi da guerra e per pagare per dieci anni i loro equipaggi. È così che l'artigiano inetto tenta di mascherare la pochezza dell'ispirazione: con il bagliore dei tesori. Se avessero affidato a me quel materiale, avrebbero visto qualcosa di ben diverso. La mostruosità era destinata a venire rinchiusa nella tomba con la salma del Faraone. Anche se la sua costruzione aveva contribuito largamente alla rovina finanziaria del regno, il sovrano ne era soddisfatto. Marnose aderì all'invito del nobile Intef, salì sul veicolo e sedette sulla piattaforma destinata a portare il sarcofago. Si guardò intorno sorridendo, dimentico della dignità e del riserbo reali. Con ogni probabilità si divertiva più di quanto gli fosse mai accaduto, pensai con una fitta di pietà. La morte doveva essere il vertice cui tendevano quasi tutte le sue energie e le sue attese. Con un gesto impulsivo indicò al mio padrone Intef di raggiungerlo sull'arca, quindi girò lo sguardo sul ponte affollato come se cercasse qualcun altro tra la folla. Sembrò che avesse trovato chi voleva perché si chinò e disse qualcosa al gran visir. Il nobile Intef sorrise e indicò Lostris. Con un gesto le ordinò di salire sull'arca. La mia padrona era agitata: arrossi sotto il trucco, un fatto raro per una giovane donna che difficilmente si lasciava cogliere alla sprovvista. Tuttavia si riprese subito e sali con quella sua grazia fanciullesca che come al solito attirò l'attenzione di tutti. S'inginocchiò davanti al re e toccò per tre volte con la fronte il pavimento della piattaforma. E allora, di fronte a tutti i sacerdoti e alla corte, il Faraone fece una cosa straordinaria. Si chinò, prese la mano di Lostris, risollevò la giovane e la fece sedere accanto a sé. Era un gesto inaudito, non previsto dal protocollo e senza precedenti. Vidi i ministri scambiarsi occhiate di stupore. Poi accadde qualcosa d'altro, e di questo non si avvidero. Quand'ero giovanissimo, viveva nell'alloggio dei ragazzi un vecchio schiavo sordo che aveva fatto amicizia con me. Mi aveva insegnato a capire i discorsi degli uomini non soltanto dai suoni, ma anche dal movimento delle labbra. Era un'arte utilissima che mi permetteva di seguire una conversazione da un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
105
capo all'altro di una sala affollata mentre i musici suonavano e cento uomini ridevano e gridavano fra loro. E ora, davanti ai miei occhi, il Faraone disse sommessamente alla mia padrona Lostris: «Anche sotto la luce del giorno sei divina come la dea Iside nel chiarore delle torce del tempio». Per me fu come un pugno allo stomaco. Ero stato cieco, mi rimproverai disperatamente, o forse ero stato soltanto stupido! Anche un imbecille avrebbe dovuto prevedere che le mie intromissioni capricciose avrebbero influenzato il modo in cui potevano cadere i dadi del destino. Il mio consiglio scherzoso al re doveva aver avuto l'inevitabile conseguenza di indirizzare la sua attenzione verso Lostris. Era come se un impulso maligno, sotto la superficie della mia mente, mi avesse spinto a descrivergliela esattamente come la madre del suo maschio primogenito. La vergine più bella della terra, da prendere in moglie entro la prima stagione dopo la sua prima luna rossa... era lei. E poi, ovviamente, assegnandole il principale ruolo femminile nello spettacolo, l'avevo mostrata al re nella luce migliore. Ciò che stava per accadere era colpa mia, come se avessi tramato di proposito. E purtroppo ormai non potevo far nulla. Stavo immobile sotto il sole, sconvolto e inorridito dal rimorso, e per un po' non riuscii a parlare o a ragionare. Quando i sacerdoti sudati spinsero giù dal ponte il catafalco, la folla intorno a me si mosse per seguirlo, e io mi lasciai trascinare controvoglia, come una foglia portata dal vento. Prima che riuscissi a ritrovare la presenza di spirito, giunsi nella corte anteriore del tempio funerario. Cominciai a farmi largo, spingendo quelli che mi precedevano per raggiungere il fianco del catafalco prima che varcasse l'entrata principale del sacrario reale. Mentre un gruppo di sacerdoti spingeva il pesante veicolo dorato, un altro afferrava i rulli di legno che restavano indietro e correva a piazzarli davanti a esso. Vi fu un breve indugio quando il catafalco arrivò nell'area del cortile che non era stata ancora lastricata. Mentre i sacerdoti spargevano la paglia davanti ai rulli per facilitare il transito sul terreno diseguale, girai intorno alla fila degli enormi leoni di pietra che fiancheggiavano la strada, e corsi ad affiancarmi all'arca. Uno dei sacerdoti cercò d'impedire che raggiungessi il veicolo: io allora gli lanciai un'occhiata che avrebbe fatto rabbrividire Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
106
persino i leoni di pietra e gli sibilai una parola che raramente si sentiva pronunciare entro i confini del tempio. Intimorito, si scostò in tutta fretta per cedermi il passo. Quando mi accostai, mi trovai direttamente sotto l'arca, abbastanza vicino a Lostris per poterle toccare il braccio allungando la mano e per ascoltare ogni parola che rivolgeva al re. Compresi subito che aveva ritrovato la compostezza turbata dall'inatteso interesse del sovrano, e che si sforzava di mostrarsi amabile. Ricordai mestamente che aveva progettato di comportarsi così e di sfruttare il favore del sovrano per strappargli il permesso di sposare Tanus. Ancora la sera precedente avevo pensato che fossero chiacchiere infantili: ma ora tutto si svolgeva senza che potessi metterla in guardia contro le acque pericolose in cui stava navigando. Se all'inizio della mia cronaca ho dato l'impressione che la mia signora Lostris fosse una ragazzina sventata, senza altri pensieri che le sciocchezze sentimentali e i frivoli piaceri della vita, mi sono dimostrato inetto nel mio compito di storico di quegli eventi straordinari. Sebbene fosse ancora giovanissima, era già matura. Le ragazze egizie fioriscono presto sotto la luce del Nilo. Inoltre era un'allieva diligente, con una mente vivace e un carattere riflessivo e indagatore, che io avevo fatto tutto il possibile per favorire e sviluppare. Grazie al mio insegnamento era in grado di discutere con i sacerdoti i dogmi religiosi più oscuri, di tener testa ai giuristi del palazzo su questioni quali le leggi sulle proprietà immobiliari e quella complicatissima sull'irrigazione che regolava l'uso delle acque del Nilo. Naturalmente aveva letto e assimilato tutti i rotoli della biblioteca del palazzo, incluse alcune centinaia di cui io ero l'autore, dai trattati di medicina agli importantissimi saggi sulla tattica della guerra navale, oltre alle mie opere astrologiche sui nomi e sulla natura dei corpi celesti, i miei manuali sull'uso dell'arco e della spada, sull'orticoltura e la falconeria. Sapeva persino dibattere con me i miei principi di architettura e compararli con quelli del grande Im-hotep. Quindi era perfettamente preparata per discutere d'ogni argomento, dall'astrologia alla guerra, dalla politica alla costruzione dei templi, fino alla misurazione e alla regolazione delle acque del Nilo, tutte cose che affascinavano il Faraone. Inoltre sapeva improvvisare poesie ed enigmi e divertenti giochi di parole, e il suo vocabolario era ampio quasi quanto il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
107
mio. Insomma, era una conversatrice perfetta e ricca di spirito, eloquente e dotata di una voce incantevole e di una risata lieve ed allegra. In verità nessun uomo poteva resisterle, soprattutto se poteva offrire la promessa di un erede maschio a qualcuno che aveva solo femmine. Dovevo metterla in guardia: ma come era possibile che uno schiavo si intromettesse nella conversazione di persone tanto altolocate? Salticchiavo nervosamente accanto al carro e ascoltavo la voce affascinante della mia signora, impegnata a conquistare l'approvazione del re. Gli stava descrivendo il modo in cui il tempio funerario era stato ideato per conformarsi agli aspetti astrologici più propizi, quelli della luna e dello zodiaco al tempo della nascita del Faraone. Naturalmente si limitava a ripetere nozioni che aveva appreso da me, perché ero stato io a far orientare il tempio secondo i corpi celesti. Tuttavia era così convincente che mi sorpresi a seguire le sue spiegazioni come se le ascoltassi per la prima volta. L'arca funeraria varcò la porta del cortile interno e percorse il lungo atrio a colonne, passò davanti ai battenti sbarrati delle sei tesorerie in cui venivano prodotte e conservate le offerte funebri destinate ad accompagnare il sovrano nella tomba. In fondo all'atrio i battenti di legno d'acacia, su cui erano scolpite le immagini di tutti gli dei egizi, si spalancarono. Entrammo così nella sala mortuaria in cui un giorno sarebbe stata imbalsamata la salma del Faraone. Il re smontò e andò a ispezionare il tavolo massiccio su cui sarebbe rimasto disteso per il rito della mummificazione. A differenza dei comuni mortali, l'imbalsamazione del corpo del Faraone si svolgeva in un arco di settanta giorni. Il tavolo era ricavato da un unico blocco di diorite lungo tre passi e largo due. Sulla superficie scura e screziata erano scolpiti l'incavo corrispondente all'occipite del re e i solchi in cui dovevano scorrere il sangue e gli altri fluidi corporei liberati dai bisturi e dagli strumenti degli imbalsamatori. Il gran maestro della corporazione degli imbalsamatori attendeva accanto al tavolo, pronto a spiegare l'intero procedimento. Il Faraone era attentissimo; sembrava affascinato da ogni macabro particolare. A un certo momento sembrò che fosse sul punto di dimenticare la sua dignità e di stendersi sulla lastra di diorite per provarne le dimensioni come se fosse un nuovo indumento presentato dal suo sarto. Tuttavia si trattenne con uno sforzo evidente, e ascoltò con interesse la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
108
descrizione del modo in cui la prima incisione sarebbe stata praticata dalla gola all'inguine e i visceri sarebbero stati estratti e divisi in quattro parti separate: il fegato, i polmoni, lo stomaco e gli intestini. Il cuore, focolare della scintilla divina, sarebbe stato lasciato al suo posto, come i reni che erano associati all'acqua e quindi al Nilo e alla fonte della vita. Dopo queste spiegazioni edificanti, il Faraone esaminò minuziosamente i quattro canopi che avrebbero accolto i suoi visceri. I vasi stavano su un altro tavolo di granito, più piccolo, ed erano ricavati dall'alabastro trasparente e latteo. I coperchi avevano la forma di divinità dalla testa di animale: Anubi lo sciacallo, Sobek il coccodrillo, Thoth l'ibis, Sekhmet la leonessa. Sarebbero stati i custodi delle sue parti divine fino a quando si fosse destato nella vita eterna. Sullo stesso tavolo di granito che conteneva i canopi gli imbalsamatori avevano disposto i loro strumenti e la serie completa dei recipienti e delle anfore contenenti i sali di natron, le lacche e le altre sostanze chimiche che sarebbero state usate nel processo. Il Faraone rimase affascinato dai lucidi bisturi di bronzo che l'avrebbero sventrato; e quando l'imbalsamatore gli mostrò il lungo cucchiaio appuntito che sarebbe stato inserito attraverso le narici per estrarre il contenuto del cranio, la sostanza molle su cui avevo meditato a lungo invano, il re si incuriosi e maneggiò lo strumento con timore reverenziale. Quando fu soddisfatto, la nobile Lostris attirò la sua attenzione sui bassorilievi dipinti che coprivano le pareti del tempio dal pavimento al soffitto. Le decorazioni non erano state ancora completate, ma erano già sbalorditive per il disegno e la realizzazione. Avevo tracciato di mia mano quasi tutti i cartoni originali, e avevo seguito con attenzione la preparazione degli altri, eseguiti dagli artisti del palazzo. Questi erano stati trasportati sulle pareti con il carboncino e poi, a mano libera, io li avevo corretti e perfezionati. Adesso una squadra di scultori li incideva nei blocchi di arenaria, mentre una seconda squadra di artisti provvedeva a dipingere i bassorilievi ultimati. Il colore che avevo scelto per i disegni era l'azzurro, in tutte le sue varianti: quello delle ali degli stornelli, l'azzurro del cielo e del Nilo sotto il soie, l'azzurro dei petali dell'orchidea del deserto e quello scintillante del persico che trema nella rete del pescatore. Ma c'erano anche altri colori, tutti i rossi e i gialli vibranti così cari agli egizi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
109
Il Faraone, scortato dal nobile Intef che era Custode delle Tombe Reali, fece lentamente il giro dei muri ed esaminò ogni particolare prodigandosi in commenti. Naturalmente il tema che avevo scelto era il Libro dei Morti, l'accurata descrizione del percorso nell'oltretomba che l'ombra del Faraone avrebbe seguito, e la raffigurazione delle prove e dei pericoli che avrebbe incontrato lungo la via. Si soffermò a lungo davanti all'immagine del dio Thoth, con la testa e il lungo becco d'ibis, che pesava il cuore del Faraone sul piatto d'una bilancia, mentre sull'altro piatto stava la piuma della verità. Se il cuore fosse stato impuro, il piatto che lo conteneva si sarebbe abbassato e il dio lo avrebbe gettato al mostro dalla testa di coccodrillo che attendeva di divorarlo. Il re recitò a voce bassa la formula protettiva contenuta nel libro per scongiurare tale calamità, e passò a un'altra scena. Era quasi mezzogiorno quando il Faraone, completata l'ispezione del tempio funerario, usci sulla corte anteriore, dove i cuochi del palazzo avevano preparato un sontuoso banchetto all'aperto. «Vieni a sedere qui, così potremo parlare ancora della questione delle stelle!» Anche questa volta il re ignorò l'etichetta e fece sedere la mia signora accanto a sé, dopo aver fatto spostare una delle sue consorti principali. Durante il pasto, rivolse quasi sempre la parola alla mia padrona che, ormai a suo agio, affascinava lui e tutti i presenti con il suo spirito garbato. Come schiavo, non avevo diritto di sedere a tavola, e non potevo neppure avvicinarmi a Lostris per raccomandarle di moderare il suo comportamento in presenza del re. Andai a sedere invece sul piedestallo di uno dei leoni di granito; di là potevo osservare il tavolo e ciò che stava accadendo. Ma non ero il solo osservatore: il nobile Intef, seduto accanto al re con aria assorta, sorvegliava la scena con occhi attentissimi, come un ragno velenoso al centro della ragnatela. A un certo punto un falco dal becco giallo volteggiò nel cielo e lanciò uno strido sardonico e beffardo. Mi affrettai a fare il segno per scongiurare il malocchio: infatti, chi poteva sapere quale dio aveva assunto la forma del rapace per confondere le nostre azioni? Dopo il pasto di mezzogiorno era consuetudine che la corte riposasse per circa un'ora, soprattutto in quella stagione che era la più calda dell'anno. Quel giorno, tuttavia, il Faraone era così eccitato che non volle saperne. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
110
«Ora ispezioneremo le tesorerie», annunciò. Le guardie alla porta della prima tesoreria si scostarono e presentarono le armi al corteo reale, dopodiché i battenti furono spalancati dall'interno. Avevo progettato le sei tesorerie non soltanto come magazzini per contenere l'immenso corredo funebre che il Faraone andava raccogliendo da sedici anni, da quando cioè era asceso al trono, ma anche come laboratori in cui un piccolo esercito di artigiani era sempre all'opera per arricchire quel tesoro. La sala in cui entrammo era l'arsenale che ospitava la collezione di armi per la battaglia e la caccia, quelle usate di solito e quelle cerimoniali: le armi che il Faraone avrebbe portato con sé nell'oltretomba. Con l'approvazione del mio padrone Intef avevo stabilito che gli artigiani fossero ai loro banchi, in modo che il re avesse la possibilità di vederli all'opera. Mentre il sovrano passava lentamente lungo la fila dei banchi, le sue domande erano così tecniche e ingegnose che i nobili e i sacerdoti cui le rivolgeva non erano in grado di rispondere e si guardavano in cerca di qualcuno che potesse toglierli d'impaccio. Venni chiamato in fretta a sostenere l'interrogatorio del re. «Ah, sì.» Il Faraone fece una smorfia nel vedermi. «Non è altro che l'umile schiavo il quale scrive drammi e cura gli infermi. Sembra che qui nessuno conosca la composizione del filo d'elettro usato da questo artigiano per legare il mio arco da guerra.» «Divino Faraone, è una lega composta da una decima parte di rame, cinque parti d'argento e quattro d'oro. L'oro è della varietà rossa che si trova soltanto nelle miniere di Lot, nel deserto occidentale. Nessun'altra sostanza può dare al filo metallico la stessa flessibilità ed elasticità.» «Naturalmente», confermò il re in tono ironico. «E come riesci a farne fili sottili quanto i miei capelli?» «Maestà, estrudiamo il metallo rovente facendolo oscillare in uno speciale pendolo da me progettato. Più tardi potrai osservare il procedimento nella fonderia dell'oro, se lo vorrai.» Durante il resto della visita potei quindi restare al fianco del re e distogliere un po' la sua attenzione da Lostris: ma non trovai l'occasione di parlare alla mia padrona da solo. Il Faraone percorse l'arsenale per ispezionare l'enorme quantità di armi e armature già immagazzinate. In parte erano appartenute ai suoi progenitori Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
111
ed erano state usate in celebri battaglie, altre erano nuovissime e non sarebbero mai state usate in guerra. Erano tutte magnifiche, capolavori dell'arte degli armaioli. C'erano elmi e corazze di bronzo, d'argento e d'oro, spade con impugnature d'avorio tempestate di pietre preziose, uniformi cerimoniali da comandante in capo d'ognuno dei reggimenti reali, scudi grandi e piccoli di pelle d'ippopotamo e di coccodrillo costellati di rosette d'oro. Era una vista splendida. Dall'armeria attraversammo l'atrio per entrare nel magazzino dei mobili, dove cento artigiani lavoravano legno di cedro, d'acacia e d'ebano per costruire gli arredi funebri per il lungo viaggio del re. Nella nostra valle riparia crescono pochi alberi consistenti e il legno è una merce rara e costosa che vale poco meno del suo peso in argento. È necessario importarlo quasi tutto da distanze enormi attraverso il deserto, o spedirlo lungo il fiume dalle misteriose terre del sud. Li era ammucchiato in cataste come se fosse abbondantissimo e l'aria calda era profumata dalla fragranza della segatura. Vedemmo gli artigiani intarsiare la testata del letto del Faraone con fregi di madreperla e legni dai colori contrastanti. Altri decoravano i braccioli delle sedie con falchi dorati, e gli schienali dei sofà con teste argentee di leone. Neppure le sale del palazzo reale di Elefantina contenevano oggetti delicati come quelli che avrebbero abbellito la tomba del sovrano. Dalla tesoreria degli arredi passammo alla sala degli scultori. Questi scolpivano il marmo, l'arenaria e il granito di cento sfumature diverse usando scalpelli e lime, cosìcché nell'aria aleggiava una finissima polvere chiara. Gli scultori si coprivano naso e bocca con strisce di lino su cui la polvere si posava, e i loro lineamenti erano come incipriati da quella sostanza insidiosa. Alcuni degli uomini tossivano dietro le maschere: era una tosse secca e persistente caratteristica della loro professione. Avevo sezionato i cadaveri di molti vecchi scultori che avevano lavorato per trent'anni ed erano morti quando erano ancora in attività. Avevo osservato che i polmoni s'erano come pietrificati e quindi trascorrevo il minor tempo possibile nei loro laboratori per timore di contrarre la stessa infermità. I loro prodotti, però, erano meravigliosi: statue degli dei e del Faraone che sembravano vibrare di vita. C'erano immagini del sovrano assiso in trono o nell'atto di camminare, vivo e morto, nella forma divina e in quella umana. Le statue avrebbero fiancheggiato la lunga strada soprelevata che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
112
portava dal tempio funerario nel fondovalle alle nere colline in cui si stava scavando la tomba. Un giorno il catafalco dorato, trainato da cento torelli bianchi, avrebbe portato il sarcofago massiccio lungo quella strada fino al luogo dell'ultimo riposo. Il sarcofago, completato solo parzialmente, stava al centro dell'aula degli scultori. In origine era stato un blocco di granito estratto dalle cave di Assuan e trasportato lungo il fiume su una chiatta appositamente costruita. C'erano voluti cinquecento schiavi per issarlo a riva e trainarlo su rulli di legno fino al luogo in cui si trovava: un parallelepipedo di pietra lungo cinque passi, largo tre e alto pure tre. Gli scultori avevano incominciato segando una grossa lastra nella parte superiore. Sul coperchio di granito un maestro stava modellando le sembianze mummiformi del Faraone, con le braccia incrociate, e lo scettro uncinato e il flagello stretti nelle mani. Un'altra squadra era impegnata a scavare l'interno del blocco più grande per creare il nido in cui si sarebbero inserite le bare. Incluso l'enorme sarcofago esterno, le bare sarebbero state in tutto sette, una dentro l'altra come un rompicapo per bambini. Naturalmente sette era uno dei numeri magici. La bara più interna sarebbe stata d'oro puro; e più tardi la vedemmo ricavare da una massa informe di metallo nella sala degli orafi. Il sarcofago multiplo, una montagna di pietra e d'oro che doveva racchiudere la mummia reale, sarebbe stato trasportato dal grande catafalco dorato fino alle colline, un viaggio lento che avrebbe richiesto sette giorni. Il catafalco avrebbe sostato ogni notte in una delle cappellette che sorgevano a intervalli lungo la strada soprelevata. Annesso alla sala delle statue c'era il laboratorio delle ushabti, in cui venivano ritratti i servitori che avrebbero scortato il re defunto. Le ushabti erano minuscole figurine di legno che rappresentavano ogni grado e ordine di servi della società edilizia, destinati a lavorare nell'oltretomba per il re, in modo che questi potesse mantenere il suo stile di vita anche dopo la morte. Ogni ushabti era una statuina di legno finemente intagliata, vestita secondo la professione del personaggio che raffigurava e munita degli attrezzi relativi. C'erano contadini e giardinieri, pescatori e fornai, birrai e ancelle, soldati ed esattori, scribi e barbieri, e centinaia e centinaia di comuni operai che dovevano svolgere ogni lavoro manuale e presentarsi al posto dei re nel caso che questi venisse chiamato a lavorare dagli altri dei. Alla testa della schiera di statuine c'era un gran visir i cui lineamenti Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
113
ricordavano quelli del mio padrone Intef. Il Faraone prese la statuina e l'esaminò attentamente, quindi la rigirò per leggere l'iscrizione sul dorso: «Il mio nome è Intef, gran visir dell'Alto Egitto, solo compagno del Faraone, per tre volte insignito dell'Oro del Valore. Sono pronto a rispondere per il re». Il Faraone passò la statuina a Intef. «Sei davvero così muscoloso, Intef?» chiese con un sorriso appena accennato sul viso severo, e il gran visir accennò un inchino. «Lo scultore non mi ha reso giustizia, maestà.» L'ultima tesoreria che il re visitò quel giorno fu la sala degli orafi. La luce infernale delle fornaci gettava strani riflessi sui volti degli uomini che lavoravano sui banchi con la massima concentrazione. Li avevo ben istruiti: all'entrata del corteo reale s'inginocchiarono all'unisono, toccarono per tre volte la terra con la fronte, quindi si rialzarono e ripresero a lavorare. Nella grande sala il caldo delle fiamme era tale da mozzare il respiro, e ci ritrovammo presto madidi di sudore. Il re, tuttavia, era così affascinato dal tesoro che sembrava non notare l'atmosfera opprimente. Si diresse subito verso il podio rialzato al centro della sala, dove gli orafi più abili ed esperti erano al lavoro sulla bara d'oro interna. Avevano reso perfettamente il volto del Faraone nel metallo lucente; e la maschera si sarebbe adattata esattamente alla testa avvolta nelle bende. Era un'immagine divina con gli occhi d'ossidiana e di cristallo di rocca, e con l'ureo che cingeva la fronte. Credo sinceramente che in tutti i mille anni della nostra civiltà non fosse mai stato realizzato un simile capolavoro dell'arte orafa. Era il culmine e un giorno le generazioni future si sarebbero meravigliate di tanto splendore. Dopo aver ammirato da ogni angolo la maschera d'oro, il Faraone sembrava incapace di distaccarsene. Trascorse il resto della giornata sul podio, seduto su uno sgabello mentre venivano deposti ai suoi piedi scrigni e scrigni di gioielli squisiti, poi catalogati in sua presenza. Non credo che un simile tesoro fosse mai stato accumulato in un unico luogo. Un semplice elenco degli oggetti non basterebbe a indicarne la ricchezza e la diversità. Mi sia comunque permesso dire subito che c'erano seimilaquattrocentocinquantacinque pezzi già contenuti negli scrigni di cedro, e che ogni giorno i gioiellieri, lavorando indefessamente, ne aggiungevano altri. C'erano anelli per le dita delle mani e dei piedi, amuleti e talismani, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
114
statuine dorate degli dei e delle dee, collane e bracciali e pettorali e cinture ornati di falchi e avvoltoi e di ogni altra creatura della terra, del cielo e del fiume. C'erano corone e diademi tempestati di lapislazzuli, granati, agate, corniole e diaspri e di ogni altra gemma cara agli uomini. L'arte con cui tutto ciò era stato ideato e prodotto eclissava quanto era stato creato nei mille anni precedenti. Spesso è nel suo declino che una nazione produce le sue opere d'arte più belle. Nel periodo iniziale di un impero si pensa alle conquiste e all'accumulazione delle ricchezze. Solo quando questi obiettivi sono stati realizzati, ci sono il tempo e il desiderio di sviluppare le arti, e soprattutto ci sono uomini ricchi e potenti che le finanziano. Il peso dell'oro e dell'argento già usati nella fabbricazione del catafalco, della maschera funebre e degli altri tesori superava i cinquecento takh, tanto che ci sarebbero voluti cinquecento uomini robusti per sollevare il tutto. Avevo calcolato che era quasi un decimo della quantità complessiva di quei metalli preziosi estratti in tutti i mille anni della nostra storia documentata. E il re intendeva portarsi tutto nella tomba. Ma chi ero io, umile schiavo, per discutere il prezzo che un re era disposto a pagare per la vita eterna? Basti dire che, per ammassare quel tesoro mentre conduceva nel contempo la guerra contro il sovrano del Basso Egitto, Marnose aveva fatto precipitare il nostro Paese nella miseria. Non c'era motivo di stupirsi, quindi, se nella sua perorazione Tanus aveva additato le depredazioni degli esattori del fisco come una delle afflizioni più terribili che colpivano la popolazione. Fra gli esattori e le bande di predoni che devastavano incontrollate la campagna, eravamo alla rovina, oppressi da un carico finanziario troppo pesante. Per sopravvivere dovevamo sfuggire alla rete degli esattori. E quindi, allorché ci riduceva in miseria per esaltare se stesso, il Faraone ci costringeva a commettere un crimine. Pochissimi, grandi e umili, ricchi e poveri, dormivano tranquilli la notte. Restavamo svegli nel timore che da un momento all'altro un esattore bussasse alla porta. Oh, terra triste e sfruttata, come gemevi sotto il giogo! Nella necropoli erano stati preparati alloggi sontuosi in cui il re avrebbe trascorso la notte sulla riva occidentale del Nilo, vicino al luogo del suo riposo finale tra le colline nere. La città dei morti era vasta quasi quanto la stessa Karnak, ed era abitata da coloro che avevano a che fare con la costruzione e la cura del tempio Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
115
funerario e della tomba reale. C'era un intero reggimento della guardia che proteggeva i luoghi sacri, perché l'Usurpatore del nord era avido di tesori quanto il nostro amato sovrano mentre i banditi del deserto diventavano ogni giorno più audaci e temerari. I tesori del tempio funerario dovevano rappresentare una tentazione fortissima per tutti i predatori dei due regni e di altre terre. Oltre alle guardie c'erano le schiere degli artigiani e tutti i loro apprendisti. Io tenevo la contabilità delle paghe e delle razioni, quindi sapevo esattamente quanti erano. In occasione dell'ultimo giorno di paga erano stati quattromilaottocentoundici. Oltre a questi c'erano più di diecimila schiavi impiegati in vari lavori. Non starò a elencare il numero dei bovi e delle pecore che era necessario macellare ogni giorno per nutrirli tutti, e dei carri carichi di pesce che giungevano dal Nilo, delle migliaia di giare di birra preparate ogni giorno per placare la sete estiva di tutti costoro che lavoravano sotto l'occhio vigile e la frusta dei sovrintendenti. La necropoli era una città: e nella città c'era un palazzo per il re. Fu con sollievo che vi entrammo per trascorrere la notte, perché era stata una giornata faticosa. Ma anche in quell'occasione non potei riposare molto. Cercai di raggiungere la mia padrona Lostris, ma sembrava che vi fosse una cospirazione per tenermi lontano. Secondo le sue ancelle negre, prima si stava togliendo il trucco, poi stava facendo il bagno, infine riposava e non voleva essere disturbata. Finalmente, mentre attendevo ancora nell'anticamera del suo alloggio, mi arrivò una chiamata di suo padre e non potei più indugiare. Dovetti accorrere dal mio padrone. Appena entrai nella sua camera congedò tutti i presenti e quando restammo soli mi baciò. Ancora una volta fui sorpreso dalla sua benevolenza e turbato dalla sua eccitazione. L'avevo visto raramente in quello stato d'animo: e in tutte le altre occasioni ciò era stato il preludio a eventi calamitosi. «Quante volte la porta del potere e della fortuna si trova nel luogo più inaspettato», disse ridendo e accarezzandomi il viso. «Questa volta sta fra le cosce d'una donna. No, mio caro, non fare l'innocente. So che sei intervenuto con astuzia. Il Faraone mi ha detto che gli hai promesso un erede maschio per la sua stirpe. Sei veramente furbo, per Seth! Non mi hai detto una parola del tuo disegno, ma hai tramato tutto da solo.» Rise di nuovo e rigirò fra le dita una ciocca dei miei capelli. «Devi aver Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
116
intuito la mia ambizione suprema, anche se non ne abbiamo mai discusso apertamente. E hai deciso di realizzarla per me. Dovrei farti punire per la tua presunzione...» Attorse la ciocca di capelli fino a quando i miei occhi si riempirono di lacrime. «Ma come posso essere in collera con te, quando hai posto alla mia portata la corona doppia?» Mi lasciò i capelli e tornò a baciarmi. «Sono appena tornato dalla presenza del re. Tra due giorni, al culmine della festività, annuncerà il suo fidanzamento con mia figlia Lostris.» La vista mi si oscurò di colpo, e un sudore freddo mi copri la pelle. «Le nozze avranno luogo lo stesso giorno, subito dopo la cerimonia conclusiva della festa. A questo ho provveduto io. Non è certo il caso di aspettare perché nel frattempo potrebbe accadere qualcosa, non ti pare?» Un matrimonio reale così rapido era insolito, ma non inaudito. Quando le spose venivano scelte per cementare un'alleanza politica o consolidare la conquista di un nuovo territorio, spesso le nozze avevano luogo il giorno stesso in cui venivano decise. Il Faraone Marnose I, antenato dell'attuale, aveva sposato addirittura sul campo di battaglia la figlia di un capo hurrita sconfitto. Quei precedenti storici, però, non mi erano di grande conforto mentre avevo una conferma delle mie peggiori paure. Il mio signore Intef non mostrava di notare la mia angoscia. Era troppo preso dai suoi interessi immediati. Continuò a parlare: «Prima di dare il mio consenso formale all'unione, ho convinto il re a promettere che se mia figlia gli darà un erede maschio la innalzerà al rango di moglie principale e regina consorte». E batté le mani in un gesto di trionfo. «Naturalmente tu capisci che cosa significa. Se il Faraone dovesse morire prima che mio nipote sia in età di regnare, io come suo nonno e suo parente maschio più prossimo diventerei reggente...» S'interruppe e mi fissò. Lo conoscevo così bene che compresi esattamente quali fossero i suoi pensieri. Era già pentito di quella confidenza: nessuno avrebbe mai dovuto sentirlo esprimere simili previsioni. Era un tradimento. Se Lostris avesse dato un figlio al Faraone, questi non sarebbe vissuto a lungo. Lo capivamo entrambi. Il mio signore Intef aveva parlato di regicidio e adesso stava meditando di eliminare l'unico che l'aveva sentito, l'umile schiavo Taita. Lo comprendevamo entrambi chiaramente. «Mio signore, sono felice che tutto sia andato secondo il mio piano. Riconosco di aver operato subdolamente per mettere tua figlia sulla strada del re, e di avergliela descritta come la madre del futuro erede. Mi sono Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
117
servito dello spettacolo per attirare la sua attenzione su di lei. Non osavo parlarti di queste cose prima che andassero a buon fine. Tuttavia ci rimane molto da fare, prima che possiamo considerarci vittoriosi...» E cominciai a improvvisare un elenco di tutte le cose che avrebbero potuto andar male prima che potesse impadronirsi della corona e delio scettro d'Egitto. Gli feci capire con molto tatto che aveva ancora bisogno di me, se voleva realizzare il suo disegno. Lo vidi rilassarsi mentre seguiva la mia argomentazione, e capii che ero salvo, almeno per l'immediato futuro. Passò qualche tempo prima che potessi congedarmi e correre ad avvertire la mia padrona della situazione terribile in cui l'avevo messa. Tuttavia, prima di arrivare alla sua porta, mi resi conto che avvertirla sarebbe stato inutile: sarebbe servito soltanto ad angosciarla fino a spingerla alla follia o al suicidio. Non potevo perdere altro tempo se volevo impedire che gli avvenimenti precipitassero verso una tragica conclusione. C'era una sola persona cui potevo rivolgermi. Lasciai la necropoli e mi avviai tutto solo lungo la strada alzaia per tornare sulla riva del fiume dove sapevo che era ormeggiata la squadra di Tanus. Mancavano tre giorni al plenilunio e la luna rischiarava a occidente, con un freddo chiarore giallo che gettava ombre nere sulla piana sottostante, le colline tormentate. Mentre camminavo, recitavo a me stesso un elenco di tutte le possibili sventure che potevano colpire Tanus, la mia padrona e me nei giorni seguenti. Mi spronavo come un leone del deserto aizza la propria collera con lo spuntone d'osso della coda prima di lanciarsi contro il cacciatore. Perciò ero furioso già molto tempo prima di raggiungere la riva del Nilo. Trovai senza difficoltà l'accampamento di Tanus, che era situato vicino all'imboccatura del canale. Le navi della squadra eran ammarrate sotto il campo. Le sentinelle mi fermarono e, quando mi riconobbero, mi con dussero alla tenda di Tanus. Tanus stava cenando in compagnia di Kratas e di altri quattro ufficiali. Si alzò con un sorriso e mi offri il suo boccale di birra. «È un piacere inaspettato, vecchio mio. Siedi accanto a me, e assaggia la mia birra mentre lo schiavo ti porta una coppa e un piatto. Mi sembri accaldato e stranito...» Troncai i convenevoli aggredendolo furiosamente. «Che Seth ti porti, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
118
grosso stupido! Non ti rendi conto del pericolo in cui ci hai messi? Tu e la tua lingua troppo lunga! Non pensi alla sicurezza e al bene della mia padrona...» Per la verità non avevo avuto intenzione d'essere così duro con lui: ma ormai avevo incominciato e non riuscivo più a controllarmi, e le mie paure e le mie ansie si trasformarono in un fiume d'invettive. Non tutte le accuse che gli rivolgevo erano giustificate, ma esporle mi faceva sentire meglio. Cambiò espressione e alzò una mano come per difendersi. «Ah! Mi cogli impreparato. Sono disarmato, impossibilitato a reagire al tuo attacco feroce...» Usava un tono scherzoso in presenza dei suoi ufficiali, ma sorrideva a denti stretti quando mi prese per il braccio e mi condusse prima fuori della tenda, e poi fuori del campo, nei prati illuminati dalla luna. Ero come un bambino nella stretta della destra possente abituata a brandire la spada e a piegare l'arco Lanata. «E adesso parla!» ordinò rabbiosamente. «Che cos'è successo per giustificare il tuo pessimo umore?» Ero ancora adirato, ma ancor più impaurito, e ricominciai a parlare. «Ho trascorso metà della mia vita tentando di proteggerti dalla tua stupidità, e sono stufo. Non capisci nulla della vita. Credevi davvero di poter uscire indenne dalla follia incredibile in cui ieri notte hai gettato tutti noi?» «Parli della mia orazione conclusiva?» Sembrava sconcertato. Mi lasciò il braccio. «Come puoi dire che è stata una follia? Tutti i miei ufficiali e tutti coloro con cui ho parlato da quel momento approvano quanto ho detto...» «Sciocco! Non capisci che le opinioni di tutti i tuoi ufficiali e di tutti i tuoi amici valgono quanto un pesce marcio? Se regnasse un altro sovrano saresti già morto, e persino questo vecchio vacillante non può permettere che tu sfugga alle conseguenze della tua impudenza. Ne va del suo trono. Dovrai pagare un conto, Tanus Har-rab, lo sa Horus, e sarà un conto pesante.» «Tu parli per enigmi», scattò Tanus. «Ho reso un grande servigio al re. È circondato da adulatori che gli raccontano menzogne, nella convinzione che siano quanto vuole udire. Era tempo che conoscesse la verità, e so che quando l'avrà considerata mi sarà grato.» La mia collera cominciò a svanire di fronte alla sua semplice, ferma fiducia nel trionfo del bene. «Tanus, mio carissimo amico, sei un ingenuo. Nessun uomo è mai grato a chi gli caccia in gola una verità sgradita. Ma, a parte questo, hai fatto il gioco del mio padrone Intef.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
119
«Intef?» Tanus mi fissò. «Che cosa c'entra Intef? Parli di lui come se fosse mio nemico. Il gran visir era il migliore amico di mio padre. So di poter contare sulla sua protezione. Lo giurò a mio padre quando questi era sul letto di morte...» Capivo che, nonostante il suo buon carattere e la nostra amicizia, era veramente irritato nei miei confronti, forse per la prima volta in vita sua. E sapevo che, sebbene non si accendesse facilmente, la collera di Tanus era temibile. «Oh, Tanus!» Mi calmai. «Sono stato ingiusto con te. C'erano tante cose che avrei dovuto dirti, ma non l'ho mai fatto. Le cose non stavano come credevi. Mi sono comportato da vigliacco, ma non potevo dirti che Intef era il peggior nemico di tuo padre.» «Come può essere vero?» Tanus scosse la testa. «Erano amici affezionati. Uno dei miei primi ricordi è l'immagine di loro due che ridono insieme. Mio padre diceva che avrei potuto affidare la mia vita al nobile Intef.» «Il nobile Pianki Harrab lo credeva, è vero. E questa fiducia gli costò la ricchezza, e alla fine anche la vita che aveva posto nelle mani di Intef.» «No, no, t'inganni. Mio padre fu vittima di una serie di sventure...» «E ognuna di quelle sventure era stata macchinata dal mio padrone Intef. Invidiava tuo padre per le virtù del suo carattere, la popolarità che lo circondava, per le ricchezze che possedeva e per la sua influenza sul Faraone. Capiva che il nobile Harrab sarebbe stato nominato gran visir prima di lui, e lo odiava per tutto questo.» «Non posso crederti. Non posso.» Tanus scosse la testa, e la mia collera si spense definitivamente. «Ti spiegherò tutto come avrei dovuto fare molto tempo fa. Ti darò tutte le prove che vorrai. Ma ora non c'è tempo. Devi fidarti di me. Il mio padrone Intef ti odia come odiava tuo padre. Tu e la nobile Lostris correte un grave pericolo: il pericolo di perdervi per sempre.» «Ma com'è possibile, Taita?» Tanus era confuso e sconvolto dalle mie parole. «Credevo che il nobile Intef avesse acconsentito alla nostra unione. Non gli hai parlato, dunque?» «Si, gli ho parlato», gridai. Gli afferrai la mano e la insinuai sotto la mia tunica, sulla schiena. «Ecco la sua risposta. Senti i segni lasciati dalla sferza? Mi ha fatto frustare perché avevo osato accennare a un matrimonio fra te e la mia padrona. Ecco quanto odia te e la tua famiglia.» Mi fissò ammutolito, ma compresi che finalmente mi credeva: quindi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
120
potevo affrontare l'argomento che dominava i miei pensieri assai più del suo discorso inopportuno o della vendetta che il gran visir aveva compiuto contro di lui in tanti anni. «Ora ascolta, mio caro amico, e preparati per la notizia peggiore.» Non c'era modo di dirglielo, se non usando la stessa franchezza che Tanus avrebbe usato con me. «Anziché acconsentire alle vostre nozze, proprio questa sera il nobile Intef ha promesso la mano della figlia a un altro. Lostris sposerà immediatamente il Faraone Marnose, e quando gli avrà dato il primo figlio maschio diventerà la regina principale. Il re darà l'annuncio alla conclusione della festività di Osiride. Le nozze avranno luogo subito dopo.» Tanus vacillò. Nel chiaro di luna il suo viso assunse un pallore spettrale. Per lunghi istanti non riuscimmo a parlare; quindi Tanus distolse lo sguardo da me e si addentrò nel campo di grano. Lo seguii senza perderlo di vista fino a che non trovò una roccia nera e vi sedette con l'aria stanca di un vecchio. Mi avvicinai in silenzio e anch'io mi sedetti, rimanendo in silenzio fino a quando lui non sospirò e chiese a voce bassa: «Lostris ha acconsentito alle nozze?». «No, naturalmente. È probabile che non ne sappia nulla. Ma credi davvero che le sue obiezioni abbiano qualche peso contro la volontà di suo padre e del re? Non avrà il diritto di decidere.» «Che cosa dobbiamo fare, amico mio?» Gli ero grato perché aveva usato il plurale, come per confermare il legame che ci univa. «C'è un'altra probabilità che dobbiamo affrontare», lo avvertii. «Può darsi che, nel discorso in cui il Faraone annuncerà il suo fidanzamento con Lostris, ordini il tuo arresto o peggio ancora la tua condanna a morte. Il nobile Intef è nelle grazie del re e certamente lo convincerà. Per la verità, avrebbe un buon motivo per farlo. Ti sei reso colpevole di sedizione.» «Non voglio vivere se Lostris non sarà mia sposa. Se il re me la toglie, può prendersi anche la mia testa come dono di nozze.» Lo disse con molta semplicità, e per me fu molto difficile fingermi in collera e usare un tono di disprezzo. «Parli come una donna vecchia e inerme: ti abbandoni al destino senza lottare. Il tuo amore è davvero grande e imperituro, se non vuoi neppure batterti per lei.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
121
«Come si può lottare contro un dio e un re?» chiese Tanus a bassa voce. «Un re al quale hai giurato fedeltà, un dio remoto e inattaccabile come il sole.» «Come re, non merita la tua devozione: l'hai detto chiaro nel tuo discorso. E un vecchio debole ed esitante che ha diviso i due regni e ha ridotto in ginocchio Ta-Meri.» «E come dio?» chiese Tanus a voce bassa, quasi che la mia risposta non lo interessasse, sebbene sapessi che era molto religioso, come lo sono tanti grandi guerrieri. «Un dio?» ribattei in tono irridente. «Tu hai più divinità nella tua spada di quanta lui ne abbia in quel piccolo corpo flaccido.» «Allora che cosa suggerisci?» chiese Tanus in tono ingannevolmente blando. «Che vorresti che facessi?» Trassi un respiro profondo, poi dissi: «I tuoi ufficiali e i tuoi uomini ti seguirebbero anche nell'oltretomba. Il popolo ti ama per il tuo coraggio e il tuo senso dell'onore...». M'interruppi perché la sua espressione non m'incoraggiava a continuare. Rimase in silenzio per venti battiti del cuore, quindi mi ordinò a voce bassa: «Continua! Di' ciò che hai da dire». «Tanus, tu saresti il Faraone più nobile che Ta-Meri, la nostra terra, abbia conosciuto in mille anni. Tu, con la mia padrona Lostris sul trono accanto a te, potresti ricondurre questa terra e questo popolo alla grandezza. Chiama la tua squadra, guida i tuoi uomini lungo la strada soprelevata, nel luogo dove l'indegno Faraone giace indifeso e vulnerabile. Prima dell'alba di domani potresti essere il sovrano dell'Alto Egitto. E fra un anno potresti aver sconfitto l'Usurpatore e riunito i due regni.» Balzai in piedi e lo fronteggiai. «Tanus, nobile Harrab, il tuo destino e quello della donna che ami ti attendono. Afferrali con le tue forti mani di guerriero.» «Mani di guerriero, si.» Le tese davanti al mio viso. «Mani che hanno combattuto per la mia patria e protetto il legittimo re. Tu mi rendi un pessimo servigio, vecchio mio. Queste non sono le mani di un traditore. E il mio non è il cuore d'un bestemmiatore pronto a cercare di distruggere un dio e di prenderne il posto.» Gemetti per la frustrazione. «Tu saresti il più grande Faraone degli ultimi cinquecento anni, e non saresti obbligato a proclamarti divino, se l'idea ti Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
122
offende. Decidi! Ti supplico, per il nostro Egitto e per la donna che amiamo entrambi.» «Lostris amerebbe un traditore come amava un soldato e un patriota? Io credo di no.» Tanus scosse la testa. «Ti amerebbe comunque», incominciai, ma mi interruppe. «Non riuscirai a convincermi. Lostris è virtuosa. Come traditore e ladro, perderei il diritto al suo rispetto. E soprattutto non potrei più avere rispetto per me stesso, o considerarmi degno del suo dolce amore se facessi ciò che mi esorti a fare. Non parlarne più, se tieni alla mia amicizia. Non posso rivendicare la corona doppia e non lo farò mai. Horus mi ascolti e distolga il suo volto da me se mai dovessi infrangere questo giuramento.» La questione era chiusa. Conoscevo bene quel grosso stupido che amavo con tutto il cuore. Credeva in ciò che aveva detto, e l'avrebbe mantenuto a ogni costo. «Allora che cosa farai, accidenti al tuo cuore ostinato?» scattai. «Tutto ciò che dico non conta nulla per te. Vuoi affrontare la situazione da solo? Sei diventato all'improvviso troppo saggio per ascoltare il mio consiglio?» «Sono disposto ad ascoltare il tuo consiglio, purché sia sensato.» Tanus mi fece sedere accanto a lui. «Suvvia, Taita, aiutaci. Lostris e io abbiamo bisogno di te più che mai. Non ci abbandonare. Aiutaci a trovare una soluzione onorevole.» «Temo che non esista», sospirai. Le mie emozioni erano come un frammento di legno trascinato dalla piena del Nilo. «Ma se non vuoi impadronirti della corona, non puoi rimanere qui. Devi rapire Lostris e condurla lontano.» Mi fissò nel chiaro di luna. «Abbandonare l'Egitto? Non puoi dire sul serio. Questo è il mio mondo, il mondo di Lostris.» «No!» esclamai. «Non è a questo che pensavo. In Egitto c'è un altro Faraone, e ha bisogno di guerrieri e di uomini onesti. Tu hai molto da offrirgli. La tua fama nel Basso Egitto è grande non meno che qui a Karnak. Conduci Lostris a bordo del Soffio di Horus e dirigiti verso il nord. Nessun'altra nave potrà raggiungervi. Con questo vento e questa corrente, fra dieci giorni potrai presentarti alla corte del Faraone a Menfi, e giurargli fedeltà.» «Per Horus, sei sempre deciso a fare di me un traditore!» m'interruppe Tanus. «Giura fedeltà all'Usurpatore, tu dici. E la fedeltà che ho giurato al vero Faraone Marnose? Per te non conta nulla? Chi sono io per fare lo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
123
stesso giuramento a ogni re o rinnegato che trovo sul mio cammino? Un giuramento non è qualcosa che si può barattare o riprendere, Taita: è per la vita. Io ho giurato al vero Faraone Marnose.» «Quel vero Faraone sposerà la donna che ami e ordinerà di strangolarti», gli feci osservare cupamente, e questa volta lo vidi esitare. «Hai ragione, certo. Non dovremmo restare a Karnak. Ma non diventerò un traditore e non infrangerò il mio giuramento solenne levando la spada contro il mio re.» «Il tuo senso dell'onore è troppo complicato per me.» Non riuscii a non dare alla mia voce un tono di sarcasmo. «So soltanto che causerà la morte di noi tutti. Mi hai detto ciò che non vuoi fare: ora dimmi quel che vuoi fare per salvare te stesso e la mia padrona Lostris da un destino terribile.» «Si, vecchio mio, hai il diritto di essere in collera con me. Ti ho chiesto aiuto e consiglio, e quando me li hai dati li ho respinti. Abbi pazienza. Abbi ancora pazienza con me.» Balzò in piedi e cominciò ad aggirarsi come il leopardo nel serraglio del Faraone, mormorando fra sé, scuotendo la testa e stringendo i pugni come se stesse per affrontare un avversario. Finalmente si fermò. «Non voglio diventare un traditore ma, con il cuore oppresso, mi rassegnerò a comportarmi da codardo. Se Lostris accetta di accompagnarmi, e soltanto allora, sarò disposto a fuggire. La condurrò lontano da questa terra che amiamo tanto.» «Dove andrete?» domandai. «So che Lostris non potrà mai lasciare il fiume. Non soltanto esso è la sua vita e la mia, ma è anche la sua divinità. Dobbiamo restare con Hapi, il fiume. Quindi ci resta aperta un'unica direzione.» Alzò il braccio muscoloso e indicò il sud. «Seguiremo il Nilo nell'interno dell'Africa, nella terra di Cush e oltre. Andremo oltre le cataratte, nei territori selvaggi e inesplorati dove non si è mai avventurato un uomo civile. Là, forse, se gli dei saranno generosi, creeremo per noi un'altra Ta-Meri.» «Chi saranno i vostri compagni?» «Kratas, naturalmente, e i miei ufficiali e i miei uomini disposti a seguirmi. Parlerò loro stanotte e gli proporrò di scegliere. Cinque navi, forse, e gli uomini per governarle. Dobbiamo essere pronti per partire all'alba. Tornerai alla necropoli e condurrai da me Lostris.» «E io?» chiesi a voce bassa. «Mi porterai con te?» «Tu?» Tanus rise. Ora che aveva preso la decisione, il suo stato d'animo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
124
aveva spiccato il volo come il falco lanciato dal pugno guantato. «Rinunceresti al tuo giardino e ai tuoi libri, agli spettacoli e alla costruzione dei templi? La nostra strada sarà pericolosa, la vita difficile. Lo vuoi davvero, Taita?» «Non posso lasciarti andare solo, senza tenerti la mano sulla spalla per frenarti. Verso quali follie e quali pericoli condurresti la mia padrona, se non ci fossi io a guidarti?» «Vieni!» ordinò Tanus e mi batté la mano sulla schiena. «Non ho mai dubitato che saresti venuto con noi. So che Lostris non partirebbe senza di te, comunque. Ora basta con le chiacchiere! Abbiamo molto da fare. Per prima cosa diremo a Kratas e agli altri le nostre intenzioni e gli chiederemo di scegliere. Poi dovrai tornare nella necropoli a prendere Lostris mentre io farò i preparativi per la partenza. Manderò con te una dozzina dei miei uomini migliori, ma dovremo affrettarci. È mezzanotte passata, e siamo nella terza veglia...» Ero uno sciocco sentimentale, ma mi sentivo emozionato quanto lui mentre tornavamo in fretta al campo del reggimento ai piedi del tempio e della strada soprelevata. Ero così euforico che la mia percezione del pericolo era attenuata. Fu Tanus a scorgere il movimento sinistro davanti a noi; mi afferrò il braccio e mi trascinò al riparo, sotto uno stento carrubo. «Un gruppo armato», mormorò. Vidi il luccichio delle punte bronzee delle lance. Era un gruppo numeroso: trenta o quaranta uomini, calcolai. «Forse sono banditi o scorridori venuti dal Basso Egitto», borbottò Tanus. Il comportamento furtivo degli armati mi allarmava. Non procedevano sull'alzaia del canale ma avanzavano nei campi aperti e si sparpagliavano per circondare l'accampamento di Tanus sulla riva del fiume. «Di qua!» Con l'occhio allenato del soldato, Tanus individuò un uadi poco profondo che scendeva verso il fiume e mi guidò in quella direzione. Saltammo giù e corremmo fino a raggiungere il perimetro dell'accampamento: poi Tanus balzò fuori dall'uadi e svegliò i suoi con un grido possente. «Alle armi! A me, Azzurri! Schieratevi intorno a me!» Era il grido delle Guardie del Coccodrillo Azzurro, e subito fu ripreso dai sottufficiali di ogni compagnia. Il campo si animò di colpo. Gli uomini addormentati intorno ai fuochi balzarono in piedi e presero le armi, mentre le tende degli ufficiali si aprivano come se gli uomini fossero rimasti in attesa del comando di Tanus. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
125
Con le spade in pugno corsero ai loro posti, e vidi Kratas in prima fila. Ero sorpreso dalla prontezza della loro reazione, sebbene sapessi che erano tutti esperti veterani. Prima che io riuscissi a trarre una dozzina di respiri si schierarono con gli scudi sovrapposti e le lunghe lance protese in avanti verso l'oscurità. Gli sconosciuti della banda dovettero restare sbalorditi quanto me perché, sebbene potessi ancora distinguere le sagome vaghe di molti uomini e il luccichio delle loro armi, la carica feroce che ci attendevamo non si realizzò. Nell'istante in cui Tanus vide schierate le sue formazioni, ordinò di avanzare. Spesso avevamo discusso i vantaggi dell'azione offensiva rispetto alla difesa: adesso le squadre si stavano muovendo, pronte a lanciarsi alla carica al comando di Tanus. Doveva essere uno spettacolo temibile per gli uomini che stavano nell'oscurità, perché la voce che ci chiamò aveva una sfumatura di panico. «Siamo uomini del Faraone in missione per il sovrano. Non attaccate.» «Fermi, Azzurri!» Tanus bloccò l'avanzata, poi gridò: «Quale Faraone servite, l'Usurpatore Rosso o il vero re?». «Noi serviamo il vero re, il divino Marnose, sovrano dell'Alto e Basso Egitto. Io sono il suo messaggero.» «Fatti avanti, messaggero del re che ti aggiri nella notte come un ladro. Fatti avanti e di' che cosa vuoi», ordinò Tanus. Ma aggiunse sottovoce rivolgendosi a Kratas: «Tieniti pronto a un'azione proditoria. Ne sento l'odore nell'aria. Fai attizzare i fuochi. Abbiamo bisogno di luce». Kratas diede l'ordine e fasci di canne secche furono gettati sui fuochi. Le fiamme si innalzarono e dispersero il buio. Nel chiarore rosso il capo della strana banda avanzò e gridò: «Il mio nome è Neter, Migliore dei Diecimila, e comando la guardia del corpo del Faraone. Porto il Sigillo del Falco per arrestare il nobile Tanus Harrab». «Per Horus, mente», ringhiò Kratas. «Tu non sei un criminale con un mandato sulla testa. Sta insultando te e il reggimento. Lascia fare a noi, e io gli infilerò fra le natiche il Sigillo del Falco.» «Fermo!» esclamò Tanus. «Sentiamo che cosa ha da dire.» Alzò di nuovo la voce. «Mostraci il Sigillo, capitano Neter.» Neter lo mostrò: era una statuetta di ceramica azzurra in forma di falco. Il Sigillo del Falco era il simbolo personale del re e chi lo portava agiva con tutta l'autorità del Faraone. Nessuno, pena la morte, poteva ostacolarlo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
126
nel corso della sua missione. Il portatore rispondeva soltanto al re. «Io sono il nobile Tanus Harrab», dichiarò Tanus. «E riconosco il Sigillo del Falco.» «Mio signore! Mio signore!» bisbigliò Kratas. «Non andare dal re: sarebbe la morte certa. Ho parlato con gli altri ufficiali. Il reggimento è con te; anzi, l'intero esercito è con te. Se ci dai l'ordine, ti faremo re prima dello spuntare del giorno.» «Il mio orecchio è sordo a queste parole», rispose sottovoce Tanus, ma c'era nel suo tono una sfumatura minacciosa, più significativa di un urlo. «Ma solo per questa volta, Kratas figlio di May-dum. La prossima volta che parlerai di tradimento ti consegnerò alla collera del re con le mie stesse mani.» Poi si girò verso di me e mi prese in disparte. «È troppo tardi, vecchio mio. Gli dei disapprovano la nostra decisione. Devo affidarmi al buon senso del re. Se è veramente un dio potrà leggere nel mio cuore e vedere che non contiene intenzioni malvage.» Mi toccò il braccio e quel gesto era più significativo di un caloroso abbraccio. «Vai da Lostris, dille che cos'è accaduto e spiegale il perché. Dille che l'amo, e che qualunque cosa accada continuerò ad amarla in questa vita e nella prossima. Dille che l'attenderò, se necessario sino alla fine dell'eternità.» Poi Tanus rinfoderò la spada e, a mani vuote, andò incontro al portatore del Sigillo del Falco. «Sono pronto a obbedire al comando del re», disse semplicemente. I suoi uomini sibilavano e ringhiavano e battevano le spade contro gli scudi, ma Tanus si voltò e li fece tacere con un gesto, quindi si avvicinò a Neter. Le guardie del re lo circondarono, e si allontanarono a passo svelto lungo l'alzaia, in direzione della necropoli. Il campo era pieno di giovani indignati quando lo lasciai per seguire Tanus e la sua scorta a una certa distanza. Arrivai nella necropoli e andai subito all'alloggio della mia padrona Lostris. Fui dolorosamente colpito di trovarlo deserto. C'erano soltanto tre delle schiavette negre che, con la solita indolenza, stavano finendo di riporre i suoi indumenti in una cassapanca di cedro. «Dov'è la vostra padrona?» chiesi. La più grandicella e insolente si mise le dita nel naso e rispose con fare altezzoso. «Dove non puoi raggiungerla, eunuco.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
127
Le altre risero delle sue parole. Erano tutte invidiose della preferenza accordatami dalla mia padrona. «Rispondi chiaramente, o ti frusterò, sfacciata.» Lo avevo già fatto, perciò la ragazzetta borbottò con aria imbronciata: «L'hanno condotta nell'harem del Faraone, e là tu non hai alcuna influenza. Anche se non hai le palle, le guardie non ti lasceranno mai entrare fra le donne reali». Aveva ragione: ma dovevo tentare comunque. La mia padrona aveva più che mai bisogno di me. Come temevo, le guardie alla porta dell'harem del re furono irriducibili. Sapevano chi ero, ma avevano l'ordine di non lasciare che nessuno, neppure i componenti del suo seguito, si avvicinasse a Lostris. Mi costò un anello d'oro ma, nonostante questo sacrificio, riuscii soltanto a ottenere la promessa che una delle guardie le avrebbe portato il mio messaggio. Lo scrissi su un pezzo di papiro, e in esso cercai di farle coraggio. Non osai riferire tutto ciò che era accaduto, né il pericolo che Tanus stava correndo. Non potevo neppure nominarlo: tuttavia dovevo assicurarle il suo amore e la sua protezione. Come investimento, non valeva il prezzo che avevo dovuto pagare. Peggio ancora, più tardi seppi che il mio oro era stato sprecato perché Lostris non aveva ricevuto il messaggio. Non ci si può fidare di nessuno, in questo mondo perfido. Non avrei rivisto Tanus e la mia padrona fino alla sera dell'ultimo giorno della festività di Osiride. La festa si concluse com'era iniziata, nel tempio del dio. Anche questa volta sembrava che tutta la popolazione della Grande Tebe fosse ammassata nei cortili. Eravamo così accalcati che stentavo a respirare. Ero assai triste e avevo dormito pochissimo per due notti consecutive a causa della preoccupazione e della tensione. A parte l'incertezza per la sorte di Tanus, avevo ricevuto dal mio padrone Intef l'incarico oneroso di organizzare la cerimonia nuziale, un incarico che contrastava con i miei desideri. Inoltre ero separato dalla mia padrona, e questo mi era insopportabile. Non so come, riuscii a resistere. Persino gli schiavetti erano preoccupati per me; dicevano che non avevano mai visto la mia bellezza così sciupata e il mio spirito tanto cupo. Per due volte, durante l'interminabile discorso del Faraone, mi sorpresi a vacillare, sul punto di svenire. Mi imposi di resistere mentre il re recitava le Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
128
banalità e le mezze verità con cui cercava di mascherare le vere condizioni del regno e di placare il popolo. Com'era prevedibile, non si riferì mai direttamente al Pretendente Rosso del nord o alla guerra civile che imperversava, se non in termini vaghi. «Questi tempi turbati...» diceva, oppure faceva riferimento ai concetti di defezione e insurrezione, rimanendo però sulle generali. Tuttavia, quando ebbe parlato per un po' mi accorsi che affrontava ognuna delle questioni sollevate da Tanus nella sua orazione e cercava di porvi rimedio. Era vero che lo stava facendo nel solito modo inetto e vacillante; ma il semplice fatto che avesse preso atto delle parole di Tanus attirò la mia attenzione. Mi feci avanti lentamente tra la folla sino a quando potei scorgere il trono. In quel momento il sovrano stava parlando dell'impudenza degli schiavi e del comportamento irrispettoso delle classi inferiori. Era un altro problema che Tanus aveva sollevato, e la soluzione del Faraone mi sembrò divertente. «D'ora in poi il padrone potrà infliggere cinquanta frustate allo schiavo insolente senza dover ricorrere al magistrato per esserne autorizzato», annunciò. Sorrisi ricordando che, dodici anni prima, lo stesso re aveva provocato una crisi nello Stato con un altro editto esattamente contrario all'ultima risoluzione. Idealista al tempo dell'ascesa al trono, il Faraone s'era addirittura proposto di abolire l'antica, onorevole istituzione delia schiavitù. Aveva voluto liberare tutti gli schiavi dell'Egitto. Ancora dopo tanto tempo quella follia mi riesce incomprensibile. Sebbene io stesso sia schiavo, penso che la schiavitù sia un'istituzione su cui si basa la grandezza delle nazioni. La canaglia non può governare se stessa. Il governo deve essere affidato solo a chi è nato ed educato per gestirlo. La libertà è un privilegio, non un diritto. Le masse hanno bisogno di un padrone forte, perché senza un controllo regnerebbe l'anarchia. Il monarca assoluto e la schiavitù sono le colonne di un sistema che ci ha permesso di diventare civili. Era stato istruttivo vedere che gli stessi schiavi si erano ribellati alla prospettiva di vedersi imporre la libertà. A quell'epoca ero giovanissimo, ma anch'io mi ero allarmato alla prospettiva di venire estromesso dalla nicchia calda e sicura nel quartiere dei ragazzi e di dover frugare tra i rifiuti con un'orda di altri schiavi liberati per conquistarmi una crosta di pane. Avere un cattivo padrone è meglio che non averne. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
129
Naturalmente questa follia aveva gettato il regno nel caos. L'esercito era giunto sull'orlo della rivolta. Se il Pretendente Rosso del settentrione avesse approfittato dell'occasione, forse la storia avrebbe potuto essere diversa. Alla fine, il nostro sovrano aveva ritirato in fretta lo sconsigliato decreto di emancipazione, e aveva potuto conservare il trono. Era trascorso poco più d'un decennio, e ora proclamava punizioni più severe per l'impudenza degli schiavi. Era tipico di quel sovrano esitante e pasticcione, tanto che finsi di tergermi la fronte per nascondere il primo sorriso apparso sul mio volto in quegli ultimi due giorni. «L'abitudine all'automutilazione allo scopo di evitare il servizio militare sarà severamente scoraggiata per il futuro», continuò il re. «I giovani idonei che chiederanno l'esenzione per questo motivo dovranno presentarsi davanti a un tribunale di tre ufficiali dell'esercito, dei quali almeno uno sarà di rango superiore.» Questa volta il mio sorriso fu di riluttante approvazione. Il Faraone era sulla strada giusta. Mi sarebbe piaciuto vedere Menset e Sobek mostrare i pollici mutilati a qualche veterano delle guerre fluviali: chissà quanta comprensione potevano attendersi. «... la multa per questa colpa sarà di mille anelli d'oro.» Per la pancia obesa di Seth, i due giovani avrebbero avuto di che pensare e il mio padrone Intef avrebbe dovuto pagare per loro. Nonostante le altre preoccupazioni cominciavo a sentirmi un po' più soddisfatto. Il Faraone continuò: «A partire da oggi commetterà un reato punibile con una multa di due anelli d'oro la prostituta che eserciterà il suo mestiere in un luogo pubblico diverso da quello stabilito a tale scopo dai magistrati...». Questa volta mi trattenni a stento dal ridere. Indirettamente, Tanus avrebbe fatto diventare onesti e costumati tutti gli uomini di Tebe. Mi chiesi in che modo i marinai e i soldati in libera uscita avrebbero accolto quell'interferenza nei loro spassi. Il periodo di lucidità del Faraone era durato poco: anche gli sciocchi sanno che è una follia cercare di legiferare in materia di sesso. Nonostante i miei dubbi circa la saggezza delle decisioni del re, mi sentivo pervaso da una tremula eccitazione. Era chiaro che aveva preso sul serio ogni questione esposta da Tanus. Com'era possibile che ora lo condannasse per sedizione? mi chiesi. Ma il Faraone non aveva ancora finito. «È stato portato alla mia attenzione il fatto che certi funzionari dello Stato hanno abusato della fiducia riposta in loro. Quanti sono incaricati di Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
130
riscuotere le tasse e maneggiare i fondi pubblici saranno chiamati a rendere conto delle ricchezze finite nelle loro mani, mentre i colpevoli di malversazione e corruzione saranno condannati a morte per strangolamento.» I presenti sospirarono increduli. Era possibile che il re cercasse davvero di frenare gli esattori? Poi, in fondo alla sala, si levò una voce. «Il Faraone è grande! Viva il Faraone!» Il grido fu ripreso da tutti, e il tempio echeggiò delle acclamazioni. Il re non doveva essere abituato a quelle acclamazioni spontanee. Sebbene fossi distante dal trono, capivo che gli faceva piacere. La faccia lugubre s'illuminò e la corona doppia parve pesare meno sulla sua testa. Ero certo che tutto ciò migliorava le probabilità che Tanus sfuggisse al cappio del carnefice. Quando le approvazioni si smorzarono, il re continuò secondo la sua abitudine a sminuire ciò che aveva appena realizzato. «Il mio fido gran visir, il nobile Intef, avrà in esclusiva il compito di questa indagine sul comportamento dei funzionari pubblici, e i pieni poteri di effettuare perquisizioni e arresti, e il diritto di vita e di morte.» La nomina fu salutata da applausi fiacchi, e ne approfittai per mascherare una risata sardonica. Il Faraone stava mandando un leopardo affamato a contare i suoi polli. Il mio padrone Intef si sarebbe divertito molto nella tesoreria reale, e avrebbe effettuato una ridistribuzione della ricchezza della nazione, ora che aveva l'incarico di tenere i conti: così avrebbe potuto mungere gli esattori dei loro cosìddetti risparmi. Il Faraone aveva una straordinaria capacità di mandare i sentimenti più nobili a infrangersi contro gli scogli, con la sua guida maldestra. Mi chiesi quale altra follia sarebbe riuscito a perpetrare prima di terminare il discorso, e non dovetti attendere a lungo. «Da qualche tempo ho gravi motivi di preoccupazione riguardo all'illegalità esistente nell'Alto Egitto, che pone in pericolo la vita e i beni degli onesti cittadini. Ho dato disposizioni a suo tempo per risolvere la situazione. Tuttavia la questione mi è stata sottoposta di nuovo di recente, in modo tanto intempestivo e sconsigliato da puzzare di sedizione, nel corso della festività di Osiride. Ciò, tuttavia, non scusa il tradimento e la bestemmia, l'attacco alla persona e alla divinità del re.» Il Faraone fece una pausa significativa. Era chiaro che alludeva a Tanus, e ancora una volta dubitai del suo giudizio. Un Faraone energico non avrebbe spiegato al popolo le sue motivazioni, e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
131
non ne avrebbe cercato l'approvazione. Avrebbe semplicemente pronunciato la sentenza e chiuso la questione. «Mi riferisco naturalmente a Tanus Harrab, che ha recitato il ruolo del grande dio Horus nella rappresentazione di Osiride. È stato arrestato per sedizione. I miei consiglieri sono divisi circa la sua colpa. Alcuni vogliono che paghi con la punizione suprema...» Vidi Intef, ai piedi del trono, distogliere per un momento lo sguardo, e questo confermò quanto già sapevo: era soprattutto lui a volere che Tanus venisse giustiziato. «E altri pensano che la sua orazione fosse realmente ispirata da forze divine, e che a parlare non fosse la voce di Tanus Harrab bensì quella del dio Horus. Se così fosse, evidentemente non vi sarebbe colpa da parte del mortale per la cui bocca ha deciso di esprimersi la divinità.» Era un ragionamento giusto, ma un Faraone degno della corona doppia non si sarebbe umiliato a spiegarlo a quell'orda di soldati semplici, marinai e contadini, mercanti, operai e schiavi, quasi tutti sotto gli effetti del vino e delle baldorie. Mentre riflettevo su questo, il re diede un ordine al capitano della sua guardia del corpo che stava ai piedi del trono. Lo riconobbi: era Neter, l'ufficiale inviato ad arrestare Tanus. Si allontanò e dopo un momento ricomparve precedendo Tanus dal sacrario in fondo alla sala. II cuore mi balzò nel petto alla vista del mio amico; con gioia e speranza mi accorsi che non era legato e non aveva catene alle caviglie. Sebbene non avesse armi né simboli del suo grado e indossasse solo un semplice gonnellino bianco, camminava con l'abituale passo elastico e scattante. A parte la ferita sulla fronte causatagli da Rasfer, era illeso. Non era stato percosso né torturato, e cominciai a sentirmi ottimista. Non lo trattavano come un condannato. Un attimo dopo, però, le mie speranze andarono in frantumi. Tanus si prosternò davanti al trono ma quando si rialzò il Faraone lo fissò severamente e parlò con voce squillante, «Nobile Tanus Harrab, sei accusato di tradimento e di sedizione. Io ti giudico colpevole di entrambi i delitti e ti condanno a morte per strangolamento, la punizione per i traditori.» Mentre Neter metteva al collo di Tanus la corda di lino, un gemito si levò dalla folla. Una donna gridò, e subito il tempio echeggiò di lamenti e ululati luttuosi. Non era mai avvenuto che simili manifestazioni accompagnassero una condanna a morte: nulla avrebbe potuto dimostrare più chiaramente Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
132
l'amore che il popolo nutriva per Tanus. Anch'io gemetti e le lacrime mi rigarono il viso e caddero sul petto. Le guardie reali avanzarono verso la folla, usando le impugnature delle lance per costringerla al silenzio, ma invano. Io urlai con tutte le mie forze: «Pietà, misericordioso Faraone! Pietà per il nobile Tanus!». Una delle guardie mi colpi alla testa e io caddi a terra stordito, ma altri ripresero la mia implorazione: «Pietà, pietà, divino Marnose!». Le guardie dovettero impegnarsi per ristabilire una parvenza d'ordine, ma le donne continuarono a singhiozzare. Solo quando il Faraone riprese a parlare tornò il silenzio, e tutti poterono sentire la sua decisione. «Il condannato si è lamentato dell'illegalità che imperversa nel regno. Ha chiesto al trono di sterminare le bande dei predoni che devastano la terra. Il condannato è stato proclamato eroe, e molti dicono che è un possente guerriero. Se ciò è vero, allora sarebbe il più adatto di ogni altro a mettere in atto le misure che invoca.» I presenti tacevano, confusi. Mi asciugai le lacrime con l'avambraccio e tesi l'orecchio per cogliere le frasi successive. «Perciò la condanna a morte è sospesa per due anni. Se il condannato era davvero ispirato dal dio Horus quando ha tenuto il suo discorso sedizioso, lo stesso dio lo assisterà nel compito che ora gli affido.» C'era un grande silenzio. Nessuno sembrava comprendere ciò che udiva: la speranza e la disperazione colmavano in egual misura la mia anima. A un segnale del re, uno dei ministri della corona si avvicinò e gli presentò un vassoio su cui stava una minuscola statuina azzurra. Il Faraone la prese e annunciò: «Consegno al nobile Harrab il reale Sigillo del Falco. Sotto il suo auspicio potrà reclutare tutti gli uomini e i materiali di guerra che riterrà necessari al compito. Potrà impiegare i mezzi che vorrà e nessuno potrà impedirglielo. Per due anni interi sarà il rappresentante del re, e al re soltanto dovrà rispondere. Allo scadere di questo periodo, l'ultimo giorno della festività di Osiride, si ripresenterà davanti al trono con il cappio di morte al collo. Se avrà fallito il suo compito, il cappio si stringerà ed egli morirà strangolato nel punto in cui sta ora. Se avrà completato la missione, io, il Faraone Marnose, gli toglierò il cappio con le mie mani e lo sostituirò con una catena d'oro». Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
133
Nessuno parlava, nessuno si muoveva. Affascinati, guardavamo tutti il Faraone che fece un gesto con lo scettro uncinato e il flagello. «Nobile Tanus Harrab, ti affido il compito di sradicare dall'Alto Egitto i fuorilegge e le bande di predoni che atterriscono questa terra. Entro due anni ristabilirai l'ordine e la pace: se fallirai, sarà a tuo rischio.» Si levò un grande urlo, selvaggio come il fragore di una tempesta che si abbatte sulla costa rocciosa. Anche se tutti acclamavano, io ero rattristato. Il compito assegnato dal Faraone era troppo grande perché un mortale potesse realizzarlo. La nube di morte s'era soltanto allontanata da Tanus. Sapevo che entro due anni sarebbe morto nel punto in cui stava ora, così giovane e fiero. Desolata come un'anima smarrita, stava sola nella moltitudine, con il fiume protettore alle spalle e un mare di volti davanti a lei. La lunga tunica di lino le scendeva sino alle caviglie, tinta con il succo del murice nel colore del vino migliore, un colore che la proclamava vergine sposa. I capelli sciolti le fluivano sulle spalle in un'onda morbida che brillava nel sole come accesa da un fuoco interno. Sulla chioma portava la ghirlanda nuziale intrecciata con i lunghi steli del loto. I fiori erano di un azzurro ceruleo ultraterreno, con i cuori d'oro puro. Il viso era bianco come la farina appena macinata. Gli occhi grandi e scuri mi ricordavano dolorosamente la bambina che, negli anni trascorsi, avevo destato tante volte dall'incubo quando avevo acceso una lampada ed ero rimasto seduto accanto a lei sino a che si fosse riaddormentata. Questa volta tuttavia non potevo aiutarla, perché l'incubo era una realtà. Non potevo avvicinarmi a lei, perché i sacerdoti e le guardie del Faraone la circondavano come nei giorni passati, e non mi avrebbero permesso di accostarmi. Era perduta per sempre, la mia bambina, e quel pensiero mi era insopportabile. I sacerdoti avevano eretto il baldacchino nuziale di canne sulla riva del Nilo e la mia padrona Lostris attendeva che lo sposo venisse a prenderla. Al suo fianco stava il padre, con l'Oro del Valore che gli brillava al collo, e il sorriso del cobra sulle labbra. Infine giunse lo sposo reale, al suono del rullo solenne del tamburo e degli squilli delle trombe. Per me, quella marcia nuziale era il suono più triste della terra. Il Faraone portava il nemes e aveva in mano lo scettro, ma nonostante lo sfarzo reale era pur sempre un vecchio piccolo, grasso e triste in viso. Non Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
134
potei fare a meno di pensare all'altro sposo che avrebbe potuto stare sotto il baldacchino a fianco della mia padrona, se gli dei fossero stati più benevoli. I ministri del Faraone e i dignitari lo circondavano, tanto da nascondere la mia padrona. Nonostante il fatto che ero stato costretto a organizzare ogni particolare, ero escluso dalla cerimonia nuziale, e riuscivo appena a intravedere Lostris. Il sommo sacerdote di Osiride lavò le mani e i piedi degli sposi con acqua appena attinta dal Nilo per simboleggiare la purezza dell'unione. Poi il re spezzò un boccone dal rituale pane di grano e l'offri come pegno alla giovane sposa. Vidi la faccia della mia padrona mentre il re le metteva il pezzo di pane fra le labbra. Non riuscì a masticare e a deglutire, e lo tenne nella bocca come se fosse una pietra. Poi fu nascosta di nuovo alla mia vista: e solo quando sentii lo spicinio della giara vuota che aveva contenuto il vino nuziale e che lo sposo aveva spezzato con un colpo di spada, compresi che ormai era finita e che, per Tanus, Lostris era diventata irraggiungibile per sempre. La folla si schiuse e il Faraone condusse la novella sposa al bordo della piattaforma per presentarla al popolo. Tutti manifestarono il loro amore per Lostris con un coro di grida che continuarono fino a intronarmi gli orecchi. Volevo sfuggire alla folla per andare in cerca di Tanus. Sebbene fosse di nuovo libero, non aveva assistito alla cerimonia. Era forse l'unico uomo, in tutta Tebe, che non fosse venuto sulla riva del fiume. Sapevo che, dovunque si trovasse, aveva un disperato bisogno di me, come io lo avevo di lui. L'unica consolazione, in quel giorno tragico, potevamo trovarla l'uno nell'altro. Ma non riuscivo ad allontanarmi. Dovevo restare fino all'ultimo momento. Finalmente il mio padrone Intef si fece avanti per accomiatarsi dalla figlia. L'abbracciò mentre sulla folla calava un improvviso silenzio. Stretta in quell'abbraccio, Lostris sembrava del tutto inerte. Teneva le mani abbandonate lungo i fianchi, e il suo viso era pallido come la morte. Il padre la lasciò, ma le tenne la mano mentre si voltava verso i presenti per offrire il dono rituale alla figlia. Secondo la tradizione era un dono che esulava dalla dote, destinata direttamente allo sposo. Solo i nobili, tuttavia, seguivano l'usanza che mirava ad assicurare alla sposa una rendita indipendente. «Ora che lasci la mia casa e la mia protezione per andare alla casa del tuo consorte, ti offro il dono del commiato, affinché mi ricordi sempre come il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
135
padre che ti amava.» Erano parole assai poco appropriate alla circostanza, pensai amaramente. Il nobile Intef non aveva mai amato nessuno al mondo. Tuttavia continuò a recitare l'antica formula come se esprimesse i suoi sentimenti. «Chiedimi qualunque cosa, mia diletta figlia. Non ti rifiuterò nulla in questo giorno fausto.» Era consuetudine che l'entità del dono fosse concordata fra padre e figlia prima della cerimonia. Ma in quel caso il mio padrone Intef aveva detto chiaramente a Lostris che cosa aveva il diritto di chiedere. Il mio padrone mi aveva fatto l'onore di discutere la cosa con me il giorno precedente, prima d'informarla della sua decisione. «Non voglio essere troppo prodigo, ma d'altra parte non voglio sembrare parsimonioso agli occhi del Faraone», aveva detto. «Didamo duemila anelli d'oro e cinquanta feddan di terra, ma non lungo il fiume, sia chiaro.» Alla fine, in seguito ai miei suggerimenti, aveva deciso per cinquemila anelli d'oro e cento feddan di ottima terra irrigabile, quale dono degno di un matrimonio reale. Secondo i suoi ordini avevo già preparato l'atto di cessione della terra e messo da parte l'oro prelevato da un magazzino segreto che il mio padrone teneva nascosto agli esattori delle tasse. La questione era risolta: ora Lostris doveva formulare la richiesta davanti allo sposo e agli invitati. Ma la giovane era pallida, taciturna e chiusa in se stessa, come se non vedesse e non udisse ciò che avveniva intorno a lei. «Parla, figlia mia. Che cosa desideri?» I toni d'affetto paterno erano ormai forzati. Scosse la mano della figlia per attirare la sua attenzione. «Suvvia, di' a tuo padre che cosa può fare per completare questo giorno felice.» La mia padrona Lostris si scosse come se si destasse da un sogno terribile. Si guardò intorno e le lacrime minacciarono di traboccarle dalle palpebre. Apri la bocca per parlare, ma dalle labbra le usci il lamento esile di un uccello ferito. Richiuse le labbra e scosse la testa in silenzio. «Suvvia, figlia, parla.» Il nobile Intef stentava a conservare l'espressione d'affetto paterno. «Dimmi che cosa vuoi come dono nuziale, e io te lo darò, qualunque cosa sia.» Lo sforzo che Lostris dovette compiere era evidente ai miei occhi anche se stavo molto lontano da lei. Ma questa volta, quando apri le labbra, la sua richiesta echeggiò sopra le nostre teste, chiara come la musica della lira. Non poteva esserci nessuno tra la folla che non ne udisse ogni parola. «Donami lo schiavo Taita!» Il nobile Intef indietreggiò d'un passo come se Lostris gli avesse piantato Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
136
un pugnale nel ventre. La fissò, sbigottito, e apri e chiuse la bocca senza emettere alcun suono. Soltanto lui e io conoscevamo il valore del dono chiesto da Lostris. Nonostante le ricchezze accumulate in tutta la vita, non poteva permettersi di pagare un simile prezzo. Ma si riprese in fretta. La sua espressione ritornò calma e benevola, sebbene le labbra tirate fossero un chiaro segnale della sua irritazione. «Sei troppo modesta, mia cara figlia. Un unico schiavo non è un dono degno della sposa del Faraone. Tanta avarizia non è nella mia natura. Preferirei che accettassi un dono di valore autentico, duemila anelli d'oro e...» «Padre, sei già stato troppo generoso con me. Io voglio soltanto Taita.» Il sorriso di Intef era tutto bianco: denti bianchi, labbra bianche, rabbia bianca. Continuava a fissare Lostris e sentiva che la sua mente era in subbuglio. Io ero la cosa più preziosa che possedeva. Non era soltanto la gamma vastissima dei miei talenti ad avere valore per lui. Conoscevo intimamente ogni aspetto dei suoi affari, loschi e no. Conoscevo ogni informatore e ogni spia della sua rete, ogni persona che aveva corrotto e che lo aveva corrotto. Sapevo quali favori avevano un ruolo importante, quali dovevano ancora essere concessi, quali rancori dovevano essere pagati. Conoscevo tutti i suoi nemici, ed erano molti; e conoscevo coloro che considerava amici e alleati, ed erano assai meno numerosi. Sapevo dov'erano nascosti i suoi immensi tesori, quali erano i suoi banchieri, i suoi agenti e prestanome, sapevo come celava il possesso di grandi estensioni di terra e di nascondigli di metalli preziosi e di gemme nei labirinti legali di atti di proprietà, titoli e servitù. Erano tutte informazioni che avrebbero reso felici gli esattori delle tasse e avrebbero indotto il Faraone a cambiare idea sul suo gran visir. Dubitavo che lo stesso nobile Intef potesse ricordare e rintracciare tutte le sue ricchezze senza la mia assistenza. Non poteva tenere in ordine e controllare il suo vastissimo impero senza di me, perché aveva mantenuto il distacco dai suoi aspetti più turpi. Aveva sempre preferito mandare me a occuparmi dei particolari che, se fossero stati scoperti, avrebbero potuto incriminarlo. Perciò io conoscevo mille segreti tenebrosi, mille azioni terribili, appropriazioni ed estorsioni, ruberie e omicidi che, messi insieme, potevano annientare anche un uomo potentissimo come il gran visir. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
137
Gli ero indispensabile. Non poteva perdermi: ma davanti al Faraone e al popolo di Tebe non poteva respingere la richiesta di Lostris. Il nobile Intef era un uomo pieno di rabbia e di odio. Avevo visto certe sue esplosioni di furore che avrebbero sgomentato persino il dio Seth. Ma non l'avevo mai visto tanto inferocito come in quel momento, ora che la figlia lo aveva messo con le spalle al muro. «Lo schiavo Taita si faccia avanti», chiamò. Compresi che era un'astuzia per guadagnare tempo. Avanzai in fretta ai piedi del podio nuziale, per non lasciargli la possibilità di inventare qualcosa. «Eccomi, mio signore», gridai. Mi fissò con gli occhi terribili. Eravamo insieme da tanto tempo che poteva parlarmi con un semplice sguardo. Mi scrutò in silenzio fino a quando il mio cuore non batté forte e le mie dita non tremarono per la paura. Alla fine disse con voce quasi affettuosa: «Taita, sei con me fin da quando eri bambino. Ti considero un fratello, più che uno schiavo. Tuttavia hai udito la richiesta di mia figlia. Sono un uomo giusto e generoso: dopo tanti anni sarebbe inumano da parte mia allontanarti contro il tuo desiderio. So che è insolito permettere a uno schiavo di dire la sua per quanto riguarda la sua destinazione, ma anche la tua posizione è insolita. Scegli, Taita: se vuoi restare nella tua casa, l'unica che hai conosciuta, io non avrò il coraggio di mandarti via, neppure se lo chiede mia figlia». Non staccava da me quei suoi tremendi occhi gialli. Non sono un vigliacco, ma tengo alla mia sicurezza. Mi rendevo conto che guardavo negli occhi la morte e non riuscivo a trovare la voce. Distolsi lo sguardo e lo volsi verso la mia padrona Lostris: vi lessi una supplica, una solitudine e un terrore così grandi da dimenticare la mia sicurezza. Non potevo abbandonarla, a nessun costo. «Come può un umile schiavo contrastare la volontà della sposa del Faraone? Sono pronto a obbedire alla mia nuova padrona», gridai con tutte le mie forze, e mi augurai che la mia voce avesse un tono virile e deciso e non fosse stridula come mi sembrava. «Vieni, schiavo», ordinò la mia padrona. «Prendi il tuo posto dietro di me.» Mentre salivo sul podio, fui costretto a passare vicino al nobile Intef. Mosse appena le labbra sbiancate e bisbigliò: «Addio, mio caro. Tu sei morto». Rabbrividii come se un cobra velenoso avesse attraversato il mio cammino e mi affrettai a prendere posto nel seguito della mia padrona, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
138
come se fossi davvero convinto di poter trovare la sicurezza nella sua protezione. Rimasi vicino a Lostris durante il resto della cerimonia e la servii personalmente al banchetto nuziale, cercando di farle mangiare un po' delle vivande squisite apparecchiate davanti a lei. Era così pallida e sofferente da farmi sospettare che non avesse mangiato nulla durante gli ultimi due giorni, dopo il suo fidanzamento e la condanna di Tanus. Alla fine la convinsi ad assaggiare un po' di vino annacquato ma fu tutto. Il Faraone la vide bere e pensò che brindasse in suo onore; alzò il calice dorato e le sorrise nel ricambiare il brindisi, e tutti gli invitati applaudirono felici. «Taita», mormorò la mia padrona non appena il re rivolse l'attenzione al gran visir che sedeva dall'altra parte, «sto per vomitare. Non posso rimanere qui. Ti prego, conducimi nella mia camera.» Erano un'impudenza e uno scandalo, e se non avessi potuto adottare il ruolo di medico non sarei riuscito nell'intento; ma potei trascinarmi sulle ginocchia a fianco del re e parlargli sottovoce senza suscitare commenti tra gli invitati, molti dei quali erano ormai piuttosto ebbri. Quando imparai a conoscerlo meglio, scoprii che il Faraone era un uomo mite e gentile, e quel giorno me ne diede la prima dimostrazione. Mi ascoltò, poi batté le mani e parlò agli ospiti. «Ora la mia sposa andrà nella sua camera a prepararsi per la notte», disse, e quelli risero e accolsero l'annuncio con commenti piccanti e applausi lascivi. Aiutai la mia padrona ad alzarsi, ma riuscì a inchinarsi al re e a lasciare la sala dei banchetti senza il mio sostegno. Quando arrivò nella sua camera, vomitò il vino nel bacile che reggevo, poi si accasciò sul letto. Non aveva altro che il vino nello stomaco: come avevo sospettato, non aveva mangiato nulla. «Non voglio vivere senza Tanus.» La voce era debole, ma la conoscevo abbastanza per capire che la sua volontà era salda come sempre. «Tanus è vivo», risposi per cercare di consolarla. «È forte e giovane e vivrà altri cinquant'anni. Ti ama e ha promesso di aspettarti sino alla fine del tempo. Il re è vecchio, non può vivere in eterno.» Lostris si sollevò a sedere, e la sua voce divenne severa, decisa. «Sono la donna di Tanus e nessun altro mi avrà. Preferirei morire.» «Alla fine dobbiamo morire tutti, padrona.» Se fossi riuscito a distrarla durante i primi giorni di matrimonio, sapevo che avrebbe resistito. Ma lei Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
139
mi capiva fin troppo bene. «So che cosa intendi fare, ma le tue belle parole non servirannoa nulla. Mi ucciderò. Ti ordino di prepararmi una pozione avvelenata.» «Padrona, non conosco la scienza dei veleni.» Era un tentativo vano, e lei lo sventò subito. «Molte volte ti ho visto dare il veleno a un animale sofferente. Non ricordi il tuo vecchio cane con gli ascessi nelle orecchie, e la tua gazzella che era stata gravemente ferita da un leopardo? Mi dicesti che il veleno era indolore, che faceva addormentare. Ebbene, io voglio addormentarmi, essere imbalsamata e andare nell'oltretomba ad attendere Tanus.» Dovevo tentare di convincerla in un altro modo. «Ma che ne sarà di me, padrona? Sono diventato tua proprietà soltanto oggi. Come puoi abbandonarmi? Che ne sarà di me? Abbi pietà...» La vidi esitare e pensai di essere riuscito nell'intento, ma poi alzò la testa con un gesto ostinato. «Non ti succederà nulla, Taita. Nulla. Mio padre sarà felice di riprenderti dopo la mia morte.» «Ti prego, piccola mia.» Usai l'espressione affettuosa di quando era bambina, nell'ultimo tentativo di persuaderla. «Ne riparleremo domattina. Tutto sarà diverso alla luce del sole.» «Non cambierà nulla», mi contraddisse la mia padrona. «Sarò separata da Tanus, e quel vecchio grinzoso mi vorrà nel suo letto per farmi cose orribili.» Aveva alzato tanto la voce che tutti, nell'harem reale, potevano sentirla. Per fortuna quasi tutti erano ancora al banchetto; ma tremavo al pensiero che qualcuno riferisse al Faraone il modo in cui l'aveva descritto. La sua voce divenne più stridula, isterica. «Preparami subito il veleno, ora, sotto i miei occhi. Te lo ordino! Non osare disobbedirmi!» Il comando era così sonante che persino le guardie in servizio alla porta dovettero sentirla. Non osai contraddirla nuovamente. «Sta bene, mia signora. Lo farò. Devo andare a prendere la cassa dei medicinali nelle mie stanze...» Quando tornai con la cassetta sotto il braccio, Lostris si era alzata e camminava avanti e indietro con gli occhi che brillavano febbrilmente nel volto pallido. «Ti sto osservando. Non tentare qualche trucco!» mi ammoni mentre preparavo la pozione versandola dalla bottiglia di vetro scarlatto. Sapeva che quel colore indicava il contenuto letale. Quando le porsi la ciotola non diede segno di paura. Indugiò solo per Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
140
baciarmi la guancia. «Per me sei stato un padre e un fratello affettuoso. Ti ringrazio per quest'ultimo gesto di bontà. Ti voglio bene, Taita, e sentirò la tua mancanza.» Alzò la ciotola con entrambe le mani come se contenesse una bevanda prelibata anziché un veleno fatale. «Tanus, mio caro», disse. «Non mi toglieranno mai a te. Ci ritroveremo nell'aldilà.» Vuotò la ciotola in un sorso e la lasciò cadere sul pavimento. Poi, con un sospiro, si abbandonò di nuovo sul letto. «Vieni a sedere accanto a me. Non voglio essere sola quando morirò.» L'effetto della pozione, bevuta a stomaco vuoto, fu rapidissimo. Ebbe appena il tempo di girare il viso verso di me e di bisbigliare: «Di' a Tanus quanto l'ho amato. Fino alla soglia delia morte e oltre». Poi chiuse gli occhi. Era così pallida e immobile che per un momento mi allarmai, temendo di aver mal giudicato la potenza della polvere dello shepenn rosso che avevo sostituito all'essenza mortale della datura. Solo quando le accostai alla bocca uno specchio di bronzo e lo vidi appannarsi ebbi la certezza che respirava ancora. Le drappeggiai addosso una coperta e cercai di convincermi che l'indomani mattina si sarebbe rassegnata all'idea d'essere ancora viva e mi avrebbe perdonato. In quel momento sentii bussare perentoriamente alla porta dell'anticamera e riconobbi la voce di Aton, il ciambellano reale, che chiedeva di entrare. Era un altro eunuco, quindi potevo considerarlo un amico. Gli andai subito incontro. «Sono venuto a prendere la tua padroncina per condurla al re, Taita», mi disse con la voce acuta che stonava con la figura imponente. Era stato castrato prima di raggiungere la pubertà. «È pronta?» «C'è stato un piccolo inconveniente», spiegai, e lo condussi da Lostris. Quando la vide, gonfiò le guance imbellettate in segno di costernazione. «Che dirò al Faraone?» gridò. «Mi farà percuotere. Non gli dirò nulla. Tu sei responsabile per questa donna; tu dovrai risponderne al re e affrontare la sua collera.» Non era una prospettiva gradevole, ma l'angoscia di Aton era sincera, e la mia posizione di medico poteva assicurarmi una certa protezione. Controvoglia, acconsentii ad accompagnarlo nella camera del re. Mi assicurai comunque che una delle schiave più anziane e fidate restasse ad assistere la mia padrona. Il Faraone s'era tolto la corona e la parrucca, e la testa rasata era bianca Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
141
come un uovo di struzzo. Quella vista mi sbigottì, e mi chiesi come avrebbe reagito la mia padrona. Non credo che le avrebbe ispirato ardore o ammirazione. Il re parve sbalordito nel vedermi quanto io lo ero nel vedere lui. Ci fissammo per un momento prima che mi gettassi in ginocchio e mi prosternassi. «Che significa, schiavo Taita? Io avevo mandato a chiamare un'altra...» «Misericordioso Faraone, a nome della nobile Lostris vengo a implorare la tua comprensione e la tua indulgenza...» Incominciai una descrizione agghiacciante delle condizioni di Lostris, infarcendola di termini medici e di spiegazioni che avevano lo scopo di distogliere il suo regale appetito. Aton mi stava accanto e annuiva per confermare le mie parole. Sono sicuro che il trucco non avrebbe funzionato con uno sposo più giovane e vigoroso, deciso a darsi da fare; ma Marnose era un toro vecchio. Sarebbe stato impossibile elencare tutte le belle donne che negli ultimi trent'anni avevano goduto dei suoi favori. Se si fossero messe in cerchio probabilmente avrebbero circondato Tebe dalle cento porte, forse più di una volta. «Maestà», intervenne finalmente Aton, «con il tuo permesso andrò a prendere un'altra compagna per questa notte. Forse quella piccola hurrita che ha uno straordinario controllo del...» «No, no», protestò il re. «Ci sarà tutto il tempo quando la sposa si sarà ripresa dall'indisposizione. Ora lasciaci soli, ciambellano. Vi sono altre cose che intendo discutere con il medico... voglio dire, con questo schiavo.» Non appena restammo soli, il re sollevò la tunica e mi mostrò il ventre. «Quale pensi ne sia la causa, dottore?» Esaminai il rossore che dilagava sulla pancia sporgente, e scoprii che era un'infestazione di comuni tricofizie. Alcune delle donne reali si lavavano un po' meno di quanto fosse auspicabile nel nostro clima caldo: avevo notato che fra la sporcizia e il prurito contagioso c'era un legame. Con ogni probabilità il re aveva contratto l'infezione da una di loro. «È pericoloso? Puoi guarirmi, dottore?» Di fronte alla paura siamo tutti eguali. Mi ascoltava come avrebbe fatto ogni altro paziente. Con il suo permesso andai nel mio alloggio a prendere la cassetta delle medicine; quando tornai, gli ordinai di stendersi sul letto ornato d'oro e d'avorio e applicai un unguento sulla pelle infiammata del ventre. Era un unguento di mia invenzione, e gli assicurai che avrebbe agito in soli tre Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
142
giorni. «In grande misura tu sei responsabile del fatto che ho sposato la tua nuova padrona», mi disse mentre lavoravo. «Forse il tuo unguento può guarirmi da questa malattia, ma l'altra tua cura mi darà un figlio maschio?» chiese. «Questi sono tempi turbati. Devo avere un erede entro un anno. La dinastia è in pericolo.» Noi medici esitiamo sempre a garantire un rimedio, ma altrettanto fanno gli avvocati e gli astrologi. Mentre indugiavo, il re mi offri la scappatoia che cercavo. «Non sono più giovane, Taita. Sei un medico e puoi vederlo. La mia spada ha partecipato a molte battaglie ardenti, e la lama non è più affilata come un tempo. Di recente mi ha tradito quando più ne avevo bisogno. Hai qualcosa, in quella tua cassetta, che possa irrigidire lo stelo avvizzito del giglio?» «Faraone, sono lieto che tu me ne abbia parlato. A volte gli dei operano in modi misteriosi...» Facemmo entrambi il segno dello scongiuro, e continuai: «Il tuo primo accoppiamento con la vergine mia padrona deve compiersi perfettamente. Ogni manchevolezza, ogni deviazione dallo scopo, l'incapacità di levare in alto lo scettro regale della tua virilità renderebbero vani i nostri sforzi. Vi sarà un'unica opportunità, e la prima unione deve riuscire. Se dovremo ritentare, ci sarà il rischio che tu generi un'altra femmina». Le basi mediche della mia prognosi erano piuttosto inconsistenti. Tuttavia avevamo entrambi un'aria grave e solenne, il re ancora più di me. Alzai l'indice. «Se avessi fatto il tentativo questa notte e...» Non dissi altro, ma riabbassai l'indice in modo allusivo e scossi la testa. «No, è una fortuna che gli dei ci abbiano concesso un'altra possibilità.» «Che cosa dobbiamo fare?» chiese ansiosamente il Faraone. Rimasi a lungo in silenzio, a riflettere. Era difficile nascondere il sollievo e la soddisfazione. Già il primo giorno delle nozze della mia padrona mi stavo conquistando una posizione influente presso il re, e adesso avevo il pretesto ideale perché Lostris conservasse la verginità ancora per un poco, forse il tempo sufficiente per prepararla al trauma brutale del primo atto della procreazione con un uomo che non amava e che anzi le ispirava ripugnanza. Mi dissi che, se avessi gestito abilmente la situazione, avrei potuto protrarre all'infinito quel periodo di grazia. «Sì, maestà, io posso aiutarti, ma ci vorrà qualche tempo. Non sarà Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
143
semplice come guarire questo rossore...» Riflettevo in tutta fretta, deciso a spremere ogni goccia da quella spugna. «Dovremo adottare una dieta molto rigorosa...» «Niente più testicoli di toro, ti prego.» «Credo che ormai tu ne abbia mangiati abbastanza. Tuttavia dovremo scaldarti il sangue e addolcire i fluidi generativi, prima del tentativo fatidico. Latte di capra caldo e miele tre volte al giorno, e naturalmente le pozioni speciali che ti preparerò con il corno di rinoceronte e la radice di mandragola.» Il re sembrava sollevato. «Sei certo che funzionerà?» «Finora questo metodo non ha mai fallito, ma c'è un'altra misura indispensabile.» «Quale?» Si oscurò e si sollevò a sedere sul letto scrutandomi ansiosamente. «L'astinenza completa. Dobbiamo lasciare che il membro regale riposi e recuperi in pieno la sua forza. Per qualche tempo dovrai rinunciare ai piaceri dell'harem.» Lo dissi con l'aria dogmatica del medico che non può essere contraddetto: era l'unico modo sicuro per far sì che la mia padrona restasse intatta. Comunque, mi preoccupava la possibile reazione del re. Avrebbe potuto infuriarsi al pensiero di vedersi negare i piaceri coniugali. Avrebbe potuto scacciarmi, e io avrei perso tutti i vantaggi acquisiti di recente. Ma dovevo correre il rischio per il bene della mia padrona. Dovevo proteggerla il più a lungo possibile. La reazione del re mi stupì. Posò il capo sul poggiatesta e sorrise compiaciuto. «Per quanto tempo?» chiese allegramente, e mi resi conto che le restrizioni gli giungevano gradite. Io, per il quale l'atto d'amore con una bella donna sarebbe stato sempre un sogno irraggiungibile, dovetti compiere uno sforzo immane per capire che il Faraone era lieto di venir sollevato da un dovere un tempo piacevole ma diventato oneroso perché ripetuto troppe volte. Dovevano esserci almeno trecento donne nel suo harem, fra mogli e concubine, e alcune di loro erano asiatiche, famose per gli appetiti insaziabili. Cercai di capire lo sforzo che doveva costargli comportarsi come un dio notte dopo notte, anno dopo anno. Era una prospettiva che non atterriva me, mentre la realtà sembrava aver fiaccato il sovrano. «Novanta giorni», dissi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
144
«Novanta giorni?» ripeté pensoso il re. «Nove periodi di dieci giorni ciascuno?» «Come minimo», insistetti con fermezza. «Molto bene.» Il re annui senza rancore e cambiò argomento. «Il mio ciambellano mi ha detto che, oltre a conoscere la scienza medica, sei anche uno dei tre astrologi più eminenti del nostro Egitto.» Mi chiesi perché il mio amico ciambellano avesse formulato un'affermazione tanto limitata. Non avrei saputo immaginare quali potevano essere gli altri due. Comunque, chinai modestamente il capo. «Il tuo ciambellano è troppo buono, maestà, ma ho qualche conoscenza dei corpi celesti.» «Allora fammi un oroscopo», ordinò il re, sollevandosi a sedere. «Ora?» domandai, sorpreso. «Ora! Perché no, dato che per tuo ordine non c'è null'altro che potrei fare ai momento?» Il suo sorriso inaspettato era davvero accattivante, e nonostante ciò che significava per Tanus e la mia padrona, mi accorsi che era un uomo amabile. «Dovrò mandare a prendere diversi rotoli dalla biblioteca del palazzo.» «Abbiamo a disposizione tutta la notte», rispose il re. «Va' a prendere tutto il necessario.» La data e l'ora esatta della nascita del re erano ben documentate, e avevo sui rotoli tutte le osservazioni dei moti dei corpi celesti fatte da cinquanta generazioni di astrologi venuti prima di me. Mentre il re assisteva attentissimo, feci la prima stesura dell'oroscopo; e prima di aver finito scoprii che il suo carattere, così come mi era sembrato, trovava conferma nelle stelle. La grande stella rossa vagabonda, che noi conosciamo come l'occhio di Seth, dominava il suo destino. Era la stella del conflitto e dell'incertezza, della follia e della sfortuna e della morte violenta. Ma come potevo dirgli tutto questo? Improvvisai e misi insieme un riassunto appena velato dei fatti noti della sua vita, vi aggiunsi alcuni particolari meno conosciuti che avevo appreso dalle mie spie, una delle quali era appunto il ciambellano reale. Proseguii con le solite previsioni di buona salute e di lunga vita che ogni cliente desidera ascoltare. Il re era molto impressionato. «Hai davvero tutti i talenti che la tua reputazione mi aveva indotto a immaginare.» «Grazie, maestà. Sono felice di aver potuto rendermi utile.» Cominciai a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
145
raccogliere i rotoli e gli strumenti per scrivere e mi preparai a congedarmi. Ormai s'era fatto tardi. Avevo sentito il primo canto d'un gallo giungere dall'oscurità che avvolgeva il palazzo. «Aspetta, Taita. Non ti ho dato il permesso di andare. Non mi hai detto ciò che più desidero sapere. Avrò un figlio maschio? La mia dinastia sopravvivrà?» «Ahimè, grande Faraone, queste sono cose che non si possono predire studiando le stelle: queste possono dare soltanto l'inclinazione generale del tuo destino, e la direzione complessiva della tua vita, senza precisare i particolari...» «Ah, si», m'interruppe il re. «Ma vi sono altri mezzi per vedere nel futuro, no?» Io ero allarmato dall'indirizzo delle sue domande. Cercai di tirarmi indietro, ma il re era ben deciso. «Tu m'interessi, Taita, e mi sono informato su di te. Sei un adepto dei Labirinti di Ammon-Ra.» Per me fu un vero colpo. Non sapevo come l'avesse scoperto: pochissimi sapevano del mio dono esoterico e volevo che le cose continuassero così. Ma non potevo negare spudoratamente, perciò tacqui. «Ho visto i Labirinti nascosti sul fondo della tua cassetta dei medicinali», spiegò il Faraone. Avevo fatto bene a non tentare di negare il mio dono, perché sarei stato smentito. Scrollai le spalle rassegnato: sapevo che cosa stava per accadere. «Percorri i Labirinti per me, e dimmi se avrò un erede e se la mia dinastia sopravvivrà», ordinò. Un oroscopo è una cosa: richiede soltanto la conoscenza delle configurazioni stellari e delle loro proprietà. Un po' di pazienza e una procedura corretta danno sempre un risultato piuttosto convincente. Una divinazione mediante i Labirinti di Ammon-Ra è una cosa del tutto diversa. Comporta un consumo delle forze vitali, brucia un'energia nel profondo del veggente, e lo lascia svuotato ed esausto. Oggi farei di tutto per evitare di mettere in pratica questo dono. È vero che in rare occasioni mi sono lasciato ancora convincere a percorrere i Labirinti: ma poi, per giorni e giorni, rimanevo sfinito spiritualmente e fisicamente. La mia padrona Lostris, che conosceva questo mio strano potere, conosceva anche l'effetto che ha su di me, e mi aveva proibito, per il mio bene, di metterlo in atto se non eccezionalmente e su sua richiesta. Ma uno schiavo non può rifiutarsi di obbedire a un re. Con un sospiro Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
146
presi il sacchetto di pelle sul fondo della cassetta che conteneva i Labirinti. Misi da parte il sacchetto e preparai un miscuglio delle erbe necessarie per aprire gli occhi dell'anima e per permettere di guardare nel futuro. Bevvi la pozione e attesi fino a quando fui assalito dalla sensazione, familiare ma temuta, di uscire dal mio corpo. Ero stordito, lontano dalla realtà, quando presi il sacchetto di pelle. I Labirinti di Ammon-Ra consistono di dieci dischi d'avorio. Dieci è il numero mistico della massima potenza. Ogni disco rappresenta un aspetto dell'esistenza umana, dalla nascita alla morte e all'aldilà. Avevo intagliato con le mie mani i simboli sulle facce dei Labirinti. Ognuno era un piccolo capolavoro e, maneggiandoli e alitandovi sopra continuamente nel corso degli anni, vi avevo trasfuso una parte della mia energia vitale. Li estrassi dal sacchetto e incominciai ad accarezzarli, concentrando su di essi tutti i miei poteri. Poco dopo li sentii diventare tiepidi come la carne viva, e provai la consueta sensazione di stanchezza mentre la mia forza fluiva da me ai dischi d'avorio. Disposi i Labirinti coperti in due mucchietti e invitai il Faraone a prendere a turno ogni mucchietto, strofinarlo fra le dita e concentrare su di essi tutta l'attenzione mentre ripeteva a voce alta i suoi interrogativi. «Avrò un figlio maschio? La mia dinastia sopravvivrà?» Mi rilassai completamente e schiusi l'anima per lasciar entrare gli spiriti della profezia. Le sue parole cominciarono a penetrare nella mia anima, sempre più profondamente a ogni ripetizione, come sassi scagliati da una fionda che colpiscano lo stesso punto. Incominciai a vacillare leggermente, come il cobra danza al suono del liuto dell'incantatore. La droga faceva effetto. Avevo l'impressione che il mio corpo non avesse più peso, e che stessi fluttuando nell'aria. Parlavo come da una grande distanza e la mia voce mi echeggiava stranamente nella testa, come se sedessi in una caverna sotterranea. Ordinai al re di alitare su ognuno dei mucchietti e di dividerli in due metà, mettendone una da parte e tenendo l'altra. Gli feci dividere più volte ogni mucchietto e combinare ciò che restava, fino a che gli rimasero soltanto due Labirinti. Vi alitò sopra per l'ultima volta e quindi, secondo le mie istruzioni, me li mise nelle mani. Li strinsi e li premetti al petto. Sentivo il mio cuore che martellava contro i pugni mentre assorbiva l'influsso dei Labirinti. Chiusi gli occhi. Nell'oscurità incominciarono a emergere vaghe forme, e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
147
suoni strani mi riempirono gli orecchi. Non avevano forma o coerenza: tutto era confusione. Ero stordito, e i miei sensi vacillavano. Mi sentii diventare ancora più leggero, fino ad avere la sensazione di fluttuare nello spazio. Mi lasciai trasportare verso l'alto come un filo d'erba secca preso da un turbine di vento, uno dei piccoli vortici dell'estate sahariana. I suoni nella mia mente divennero più chiari, le immagini più nitide. «Sento il vagito d'un neonato.» La mia voce era distorta, come se avessi il palato fesso. «È un maschio?» La domanda del Faraone mi martellava nella testa: la sentivo più di quanto non la udissi. Lentamente la visione si consolidò. Vidi una lunga galleria nell'oscurità e scorsi in fondo una luce. I dischi d'avorio nelle mie mani erano caldi come braci tolte dal focolare, e mi scottavano i palmi. Nel nimbo di luce in fondo alla galleria scorsi un bambino che giaceva nella pozza sanguinosa delle acque del parto, con il grosso pitone della placenta ancora avvolto sul ventre. «Vedo un neonato», gracchiai. «È un maschio?» chiese il Faraone dalla tenebra circostante. L'infante pianse e scalciò, e io vidi ergersi fra le cosce paffute un dito pallido di carne, sormontato da un cappuccio di pelle grinzosa. «Un maschio», confermai, e provai una tenerezza inaspettata per quel fantasma della mia mente, come se fosse davvero di carne e di sangue. Il mio cuore si commosse: ma l'immagine svanì e il vagito si perse nel buio. «La dinastia? Che sarà della mia discendenza? Durerà?» La voce del re mi raggiunse e si perse nella cacofonia degli altri suoni che mi invadevano la testa: il suono delle trombe da battaglia, le grida degli uomini impegnati in un conflitto mortale e il clangore del bronzo contro il bronzo. Vidi il cielo sopra di me; l'aria era oscurata da nugoli di frecce. «Guerra! Vedo una grande battaglia che cambierà l'aspetto del mondo.» Gridai per farmi udire nel frastuono del combattimento. «La mia stirpe sopravvivrà?» La voce del re era frenetica: ma non l'ascoltavo perché c'era nelle mie orecchie un ruggito possente come il suono del vento khamsin, o delle acque del Nilo che ribollono nelle grandi cataratte. Vidi una strana nube gialla che oscurava l'orizzonte, trapassata da lampi di luce: sapevo che erano i riflessi del sole sulle armi da guerra. «La mia dinastia?» La voce del Faraone era insistente, e la visione svanì. Nella mia mente sopravvenne il silenzio e io vidi un albero sulla riva del Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
148
fiume. Era una grande acacia fronzuta, con i rami carichi di baccelli. Sul ramo più alto era posato un falco, il falco reale, ma mentre lo guardavo cambiò forma e colore. Si trasformò nella corona doppia dell'Egitto, rossa e bianca, il papiro e il loto dei due regni uniti. Poi davanti ai miei occhi le acque del Nilo salirono e ridiscesero, e ancora salirono e ridiscesero. Per cinque volte in tutto vidi la piena. Mentre continuavo a guardare con gli occhi che bruciavano, il cielo sopra l'albero fu invaso da insetti volanti, una fitta nube di locuste. Discesero sull'acacia e la coprirono completamente. Quando ripresero il volo essa era devastata e spoglia, priva di ogni traccia di verde. Sui rami secchi non era rimasta neppure una fogliolina. Poi l'albero morto s'inclinò e crollò pesantemente a terra. Il tonfo frantumò il tronco e la corona andò a pezzi. I frammenti si trasformarono in polvere che il vento portò via. Non rimase nulla, tranne il vento e le sabbie del deserto. «Che cosa vedi?» chiese il Faraone. Ma tutto svanì, e io mi ritrovai seduto sul pavimento della sua camera da letto. Ansavo come se avessi corso per una grande distanza, e il sudore salato mi bruciava gli occhi e mi scorreva in rivoli sul corpo fino a intridere il gonnellino e a formare una pozza sulle piastrelle. Tremavo per la febbre, e provavo la solita sensazione di nausea alla bocca dello stomaco che sarebbe durata per diversi giorni. Il Faraone mi fissava. Mi rendevo conto di presentare uno spettacolo spaventoso. «Che cosa hai visto?» sussurrò. «La mia stirpe sopravvivrà?» Non potevo rivelargli la verità della mia visione; quindi ne inventai un'altra per soddisfarlo. «Ho visto una foresta di grandi alberi che si estendeva fino all'orizzonte del mio sogno. Erano in numero infinito, e ognuno era sovrastato da una corona, la corona doppia dei due regni.» Il Faraone sospirò e per un momento si copri gli occhi con le mani. Restammo in silenzio: lui immerso nella serenità donata dalla mia menzogna, io per rispettosa simpatia. Poi continuai a mentire. «La foresta che ho visto era formata dai tuoi discendenti», sussurrai. «Giungevano ai confini del tempo, e ognuno portava la corona.» Si scopri gli occhi: la sua gratitudine e la sua gioia erano patetiche. «Grazie, Taita. Mi accorgo che la divinazione ha fiaccato le tue forze. Vai a riposare. Domani la corte partirà per il palazzo sull'isola Elefantina. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
149
Assegnerò una nave a te e alla tua padrona. Proteggi la mia sposa a costo della vita, perché è il vaso che contiene i semi della mia immortalità.» Ero così debole che dovetti aggrapparmi al letto per rialzarmi. Mi avviai barcollando alia porta e mi appoggiai allo stipite. Ma non ero indebolito al punto di dimenticare i miei doveri verso la mia padrona. «C'è la questione del lenzuolo nuziale. Il popolo si aspetta che venga mostrato», rammentai al re. «Sono in gioco la tua reputazione e quella della mia padrona.» «Che cosa suggerisci, Taita?» Già contava su di me. Gli dissi quel che si doveva fare, e annui. Piegai con cura il lenzuolo che copriva il letto reale. Era di lino finissimo, bianco come le nuvolette estive, ricamato con i preziosi fili della seta che ogni tanto le carovane portavano dall'Oriente. Lo presi quando lasciai la camera del re e tornai nell'harem attraverso il palazzo ancora buio e silenzioso. La mia padrona dormiva come una morta; sapevo che sotto l'effetto dello shepenn rosso avrebbe dormito per tutto il giorno, e probabilmente si sarebbe svegliata soltanto a sera. Per un po' sedetti accanto al suo letto. Ero esausto e depresso perché i Labirinti avevano svuotato la mia anima. Le immagini che avevano evocato mi turbavano ancora. Ero certo che il neonato fosse figlio della mia padrona: ma come si poteva spiegare il resto della visione? L'enigma non aveva soluzioni, e perciò accantonai quel pensiero perché avevo ancora molto da fare. Mi accosciai accanto a Lostris e stesi sul pavimento il lenzuolo ricamato. La lama del mio pugnale era abbastanza affilata da radere i peli sul mio avambraccio. Individuai uno degli azzurri fiumi di sangue sotto la pelle levigata all'interno del mio polso, lo punsi con la lama e lasciai che il sangue scuro sgocciolasse sulla tela. Quando fui soddisfatto dell'ampiezza della macchia, mi fasciai il polso con una striscia di lino per arrestare il sangue, e raccolsi il lenzuolo arrossato. La schiava era ancora in attesa nell'anticamera. Le ordinai di lasciar dormire Lostris. Sapevo che sarebbe stata assistita scrupolosamente, perciò la lasciai e salii la scaletta fino alla sommità del muro esterno dell'harem. Stava spuntando l'alba, ma già una folla di vecchie e di sfaccendati s'era raccolta ai piedi del muro. Tutti alzarono gli occhi incuriositi quando mi videro. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
150
Scossi vistosamente il lenzuolo prima di drappeggiarlo sul muro. La macchia di sangue al centro della distesa candida aveva la forma d'un fiore, e la folla mormorò di fronte a quella prova della verginità della mia padrona e della virilità dello sposo. In fondo alla folla c'era qualcuno che dominava gli altri per l'alta statura. Aveva la testa coperta da uno scialle di lana a righe. Solo quando lo ributtò all'indietro, scoprendo la faccia e la testa dai capelli d'oro rosso, lo riconobbi. «Tanus!» gridai. «Devo parlarti.» Mi guardò. I suoi occhi erano colmi di un dolore che non vorrei dover vedere mai più. La macchia sul lenzuolo aveva distrutto la sua vita. Anch'io avevo conosciuto il tormento dell'amore perduto e ne ricordavo ogni particolare, anche dopo tanti anni. La ferita al cuore di Tanus sanguinava ancora, più atroce di quelle ricevute sul campo di battaglia. Aveva bisogno del mio aiuto per sopravvivere. «Tanus! Aspettami!» Si copri di nuovo la testa con lo scialle per nascondere il volto, e si girò. Si allontanò barcollando come un ubriaco. «Tanus!» gridai. «Torna indietro! Ti devo parlare!» Non si voltò, anzi affrettò il passo. Quando scesi dal muro e uscii dalla porta principale era già sparito nel meandro dei vicoli e delle casupole della città interna. Lo cercai per metà della mattina, ma il suo alloggio era deserto e nessuno l'aveva visto nei luoghi che frequentava abitualmente. Alla fine dovetti abbandonare la ricerca e tornai alle mie stanze nel quartiere dei giovani schiavi. La flottiglia reale si accingeva a salpare per il sud. Dovevo ancora preparare la mia roba per partire con Lostris. Scacciai la sensazione di tristezza che i Labirinti e l'apparizione di Tanus mi avevano ispirato, e cominciai a raccogliere i miei effetti personali e a lasciare l'unica casa che avessi mai conosciuto. I miei animali sembravano intuire che stava accadendo qualcosa di strano. Si giravano, trillavano e si lamentavano, e ognuno cercava a suo modo di attirare la mia attenzione. Gli uccelli selvatici saltellavano e svolazzavano sulla terrazza, mentre nell'angolo vicino al mio letto i miei amati falchi Saker tendevano le ali, rizzavano le piume del dorso e stridevano dall'alto dei posatoi. I cani, i gatti e la gazzella addomesticata si stringevano intorno a me e ostacolavano il mio lavoro. Esasperato, notai la brocca di latte di capra inacidito accanto al mio letto. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
151
Era una delle mie bevande preferite, e gli schiavetti provvedevano a riempirla sempre. Anche ai miei animali piaceva molto quel latte cagliato: quindi, per distrarli, portai fuori la brocca e riempii le loro ciotole. Si affollarono spintonandosi e io li lasciai e ritornai al mio lavoro, dopo aver abbassato le tende di canne per tenerli fuori. È strano quante cose finisce per accumulare anche uno schiavo nel corso della sua vita. Quando ebbi terminato, le cassette e i fagotti erano ammucchiati in una catasta contro una parete. La depressione e la stanchezza erano diventate quasi prostranti; ma ero ancora abbastanza vigile per accorgermi del silenzio. Per un po' indugiai al centro della stanza e ascoltai, a disagio. L'unico suono era il tintinnio dei sonagli di bronzo dei geti del falco femmina, che mi fissava con lo sguardo intento e implacabile del rapace. Il maschio, più piccolo ma più bello, dormiva sul posatoio nell'altro angolo, con il morbido cappuccio di pelle che gli copriva gli occhi. Gli altri animali non facevano rumore. Nessuno dei gatti miagolava o soffiava contro i cani, gli uccelli selvatici non trillavano e non cantavano, e i cagnetti non ringhiavano e non giocavano tra loro. Andai a scostare la tenda di canne. La luce irruppe nella stanza e per un momento mi accecò. Poi tornai a guardare e gettai un grido d'orrore. I miei animali erano tutti sparsi sulla terrazza e in giardino. Giacevano nelle pose abbandonate della morte, ognuno nel posto dov'era caduto. Accorsi chiamandoli per nome, mi inginocchiai per raccoglierne uno fra le braccia, in cerca d'un segno di vita. Ma non ce n'era traccia, sebbene passassi dall'uno all'altro. Gli uccelli erano piccoli e leggeri nella mia mano, e il piumaggio meraviglioso non era ancora offuscato dalla morte. Credetti che il mio cuore già pesante fosse sul punto di scoppiare per l'angoscia. Mi inginocchiai sulla terrazza con la mia famiglia sparsa intorno a me, e piansi. Trascorse qualche tempo prima che trovassi la forza di pensare alla causa della tragedia. Poi mi alzai, mi avvicinai a una delle ciotole vuote. L'avevano ripulita, ma la fiutai per cercare di scoprire il veleno che era stato destinato a me. L'odore del latte inacidito mascherava tutti gli altri: sapevo soltanto che era un veleno rapido e letale. Mi chiesi chi aveva messo la brocca accanto al mio letto. Ma non aveva importanza chi l'aveva portata: sapevo con certezza assoluta chi aveva dato Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
152
l'ordine. «Addio, mio caro. Tu sei morto», mi aveva detto il nobile Intef. Non aveva atteso a lungo per mettere in atto le sue parole. La collera che s'impadronì di me era una forma di follia, aggravata dalle mie condizioni instabili e dalla tristezza. Tremavo di una rabbia che non avevo mai conosciuto. Estrassi il pugnale dalla cintura e, prima di rendermi conto di ciò che facevo, scesi correndo i gradini della terrazza. Sapevo che a quell'ora del mattino Intef andava nel giardino acquatico. Non sopportavo più di pensare a lui come al mio signore. Il ricordo di tutti gli oltraggi che mi aveva inflitto, di tutte le sofferenze e le umiliazioni, era vivo nella mia mente. Ero deciso a ucciderlo, a trafiggere cento volte il suo cuore crudele e malvagio. Ero arrivato in vista del cancello del giardino acquatico quando ritrovai la ragione. C'era una mezza dozzina di guardie e altrettante si trovavano all'interno. Non sarei mai arrivato abbastanza vicino al gran visir per colpirlo, prima che mi abbattessero. Mi fermai e tornai indietro. Riposi il pugnale nel fodero di cuoio ingemmato, e dominai il respiro. Tornai a passo lento alla terrazza e raccolsi i corpi dei miei animali. Avevo pensato di piantare una fila di sicomori lungo il bordo del mio giardino. Le buche erano state già scavate. Gli alberi non sarebbero stati mai piantati, ora che lasciavo Karnak; e le buche sarebbero servite come tombe per i miei piccoli amici. Era metà pomeriggio quando finii di colmare l'ultima tomba, ma la mia rabbia era immutata. Se non potevo ottenere una vendetta piena, almeno potevo pregustarla. Nella brocca accanto al mio letto era rimasto un po' di latte acido. Presi la brocca e cercai di pensare come avrei potuto farla arrivare alle cucine del gran visir. Sarebbe stato giusto ripagarlo con la stessa malvagità, sebbene sapessi in cuor mio che era un'idea vana. Il nobile Intef era troppo astuto per cadere nella trappola. Io stesso l'avevo aiutato a ideare il sistema che usava per proteggersi da veleni e attentati; non era possibile raggiungerlo senza una pianificazione attenta. E adesso sarebbe stato in guardia più che mai. Dovevo essere paziente, ma questo era impossibile. Anche se non potevo ucciderlo subito, potevo prendermi un piccolo anticipo di ciò che sarebbe venuto poi. Uscii da una porta laterale dell'alloggio dei ragazzi e, sempre reggendo la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
153
brocca, mi avviai per la strada. Non dovetti andare lontano prima di incontrare un lattaio circondato da un gregge di capre. Mentre attendevo, ne munse una e riempì la brocca fino all'orlo. Chiunque avesse preparato il veleno, ne aveva usato a sufficienza da uccidere metà degli abitanti di Karnak. Sapevo che nella brocca ne rimaneva abbastanza per il mio scopo. Una delle guardie del gran visir oziava sulla soglia della camera di Rasfer. Il fatto che lo facesse sorvegliare dimostrava che il nobile Intef lo considerava ancora utile; e la perdita del luogotenente personale lo avrebbe infastidito, anche se non gli avrebbe causato un grave danno. La guardia mi riconobbe e mi accennò di entrare nella camera del malato che puzzava come un porcile. Rasfer giaceva sul letto sudicio e macerava nel proprio sudore. Compresi subito, tuttavia, che il mio intervento chirurgico era riuscito perché aprì gli occhi e imprecò fiaccamente. Doveva essere così certo di guarire che non mi adulava neppure. «Dove sei stato, senzapalle?» ringhiò. Le sue parole rafforzarono la mia risoluzione e mi liberarono delle ultime tracce di pietà che avrei potuto provare per lui. «Soffro orribilmente da quando mi hai trapanato il cranio. Che razza di medico sei?» Continuò sullo stesso tono e io finsi di ignorarlo mentre gli toglievo la benda sporca dalla testa. Il mio interesse era puramente accademico mentre esaminavo la piccola ferita che il trapano aveva lasciato nello scalpo. Era stata un'altra operazione eseguita perfettamente, e provai un certo rammarico professionale al pensiero che sarebbe stata sprecata. «Dammi qualcosa contro il dolore, eunuco!» Rasfer cercò di afferrarmi per la tunica, ma io indietreggiai prontamente. Versai da una boccetta di vetro alcuni cristalli di sale innocuo nella sua ciotola, e la colmai fino all'orlo con il latte della brocca. «Se il dolore diventa troppo forte, questo l'allevierà», gli dissi, e posai la ciotola accanto alla sua mano. Non trovavo il coraggio di porgergliela direttamente. Rasfer si sollevò su un gomito e prese la ciotola per vuotarla. Ma prima che la toccasse, la spinsi lontana con il piede. Sul momento pensai che fosse soltanto il desiderio di prolungare l'attesa, e provai soddisfazione per la sua angoscia quando gemette: «Buon Taita, dammi la pozione. Lasciami bere. Il dolore alla testa mi fa impazzire». «Prima parliamo un poco, buon Rasfer. Hai saputo che la nobile Lostris Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
154
ha chiesto me al padre come dono di commiato?» Rasfer sogghignò nonostante il dolore. «Sei pazzo se credi che ti lascerà andare. Sei morto.» «Sono le stesse parole che ha detto il mio signore Intef. Ti rattristerai per me, Rasfer? Piangerai per me quando non ci sarò più?» chiesi a voce bassa. Cominciò a ridacchiare, poi smise e lanciò un'occhiata alla ciotola. «A modo mio ti sono sempre stato affezionato», borbottò. «Ora dammi da bere.» «Quanto mi eri affezionato quando mi castrasti?» chiesi, e lui mi fissò. «Non vorrai serbarmi rancore per quello. È passato tanto tempo e non potevo disobbedire agli ordini del nobile Intef. Sii ragionevole, Taita. Dammi la ciotola.» «Ridevi mentre tagliavi. Perché ridevi? Ti divertivi tanto?» Rasfer alzò le spalle, poi trasalì per il dolore causato da quel movimento. «Sono un uomo gioviale e rido sempre. Suvvia, mio caro amico, dimmi che mi perdoni e dammi da bere.» Spinsi con il piede la ciotola verso di lui. Allungò la mano e la prese con movimenti ancora maldestri. Alcune gocce traboccarono mentre se la portava avidamente alla bocca. Non mi resi conto di ciò che stavo per fare fino a che non mi slanciai e gli sbalzai la ciotola dalle mani. Fini sul pavimento senza spezzarsi e rotolò nell'angolo, spruzzando il latte sulla parete. Rasfer e io ci fissammo. Ero sbalordito della mia stupidità e della mia debolezza. Se mai c'era un uomo che meritava di morire avvelenato, era lui. Ma rivedevo i corpi contorti dei miei animali sulla terrazza, e compresi perché non avevo potuto permettere che Rasfer bevesse. Solo un mostro poteva commettere un simile atto: ho una considerazione troppo grande di me stesso per abbassarmi a diventare un avvelenatore. Vidi la comprensione spuntare negli occhi arrossati di Rasfer. «Veleno», mormorò. «La ciotola era avvelenata.» «Il veleno me l'ha mandato il nobile Intef.» Non so perché lo dissi. Forse cercavo di giustificarmi per l'atrocità che ero stato sul punto di commettere. Non so perché mi comportassi in modo tanto strano. Forse ero ancora sotto l'effetto dei Labirinti. Barcollando, mi avviai verso la porta. Rasfer cominciò a ridere, dapprima sommessamente e poi più forte, sino a far tremare i muri. «Sei sciocco, eunuco», gridò mentre fuggivo. «Avresti dovuto farlo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
155
Avresti dovuto uccidermi perché adesso, com'è vero che ho un buco fra le natiche, ti ucciderò.» Come prevedevo, quando tornai nella sua camera la mia padrona Lostris era ancora addormentata. Sedetti ai piedi del suo letto per attendere che si svegliasse da sola. Ma le fatiche e le tensioni del giorno e della notte precedenti erano state troppo grandi per me. Mi accasciai e mi addormentai sul pavimento, raggomitolato come un cucciolo. Quando mi svegliai, qualcuno mi stava aggredendo. Qualcosa mi colpi alla testa con tanta forza che balzai in piedi prima ancora d'essere completamente desto. Un altro colpo mi arrivò alla spalla, come la puntura d'un calabrone. «Mi hai ingannata!» gridò Lostris. «Non mi hai lasciata morire!» Brandi di nuovo il ventaglio. Era un'arma formidabile. Il manico di bambù era lungo il doppio delle mie braccia, e il pettine che reggeva le piume di struzzo era d'argento massiccio. Per fortuna era ancora stordita dalla droga e dal lungo sonno, e la sua mira era imprecisa. Schivai il colpo, e lo slancio le fece perdere l'equilibrio. Cadde sul letto. Abbandonò il ventaglio e scoppiò in pianto. «Volevo morire! Perché non me lo hai permesso?» Ci volle un po' prima che potessi avvicinarmi a lei e cingerla con un braccio per confortarla. «Ti ho fatto male, Taita?» mi chiese. «Non ti avevo mai picchiato prima d'ora.» «Il primo tentativo è stato veramente riuscito», le dissi. «Sei così abile, anzi, che non credo tu abbia bisogno di esercizio.» Mi massaggiai teatralmente la testa e Lostris sorrise fra le lacrime. «Povero Taita, ti ho trattato male. Ma lo meritavi. Mi hai ingannata. Volevo morire e tu mi hai disobbedito.» Mi accorsi che era meglio cambiare argomento. «Padrona, ho per te una notizia straordinaria. Ma devi promettere che non ne parlerai con nessuno, neppure con le tue ancelle.» Da quando aveva imparato a parlare non aveva mai saputo resistere a un segreto... Ma quale donna ne è capace? La promessa d'un segreto era sempre stata sufficiente per distrarla: e il sistema funzionò anche quella volta. Sebbene avesse il cuore spezzato e meditasse ancora il suicidio, trattenne le lacrime e ordinò: «Dimmi!». Avevo accumulato una riserva abbondante di segreti fra cui scegliere; indugiai un attimo per riflettere. Non volevo parlarle dell'avvelenamento dei Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
156
miei animali, naturalmente, né del fatto che avevo visto fuggevolmente Tanus. Aveva bisogno di qualcosa che la rallegrasse, anziché deprimerla ancora di più. «Questa notte sono andato nella camera del Faraone e ho parlato con lui molto a lungo.» Gli occhi di Lostris si riempirono nuovamente di lacrime. «Oh, Taita, lo odio! È vecchio e brutto. Non voglio essere costretta...» Fra un attimo avrebbe ricominciato a piangere, quindi mi affrettai a proseguire. «Ho percorso i Labirinti per lui.» Lostris mi dedicò subito la massima attenzione. Era affascinata dai miei poteri divinatori. Se non fosse stato per gli effetti deleteri che i Labirinti avevano sulla mia salute, mi avrebbe chiesto di percorrerli ogni giorno. «Parla! Che cosa hai visto?» Era attentissima. Non pensava più al suicidio, aveva dimenticato la tristezza. Era ancora tanto giovane e ingenua che mi vergognavo del mio trucco, anche se lo facevo per il suo bene. «Ho avuto visioni straordinarie, padrona. Non ho mai visto immagini tanto nitide, tanto profonde...» «Parla! Ti giuro, morirò d'impazienza se non me lo dirai immediatamente!» «Prima devi giurare di mantenere il segreto. Nessun altro dovrà mai sapere ciò che ho visto. Si tratta di affari di Stato dalle conseguenze terribili.» «Lo giuro! Lo giuro!» «Non possiamo prendere queste cose alla leggera...» «Avanti, Taita! Non tenermi sulle spine. Ti ordino di dirmi tutto subito, altrimenti... altrimenti...» Lostris cercò una minaccia per convincermi. «Altrimenti ti picchierò ancora.» «Come vuoi. Ascolta la mia visione. Ho visto un grande albero sulla riva del Nilo, e sulla cima dell'albero stava la corona dell'Egitto...» «Il Faraone! L'albero era il re.» Lostris lo comprese subito e io annuii. «Continua, Taita. Dimmi il resto.» «Ho visto il Nilo alzarsi e abbassarsi cinque volte.» «Cinque anni. Passeranno cinque anni.» Batté le mani, emozionata. Amava molto sciogliere gli enigmi dei miei sogni. «Quindi l'albero è stato divorato dalle locuste, è caduto e si è trasformato in polvere.» Lostris mi fissò, incapace di pronunciare le parole, perciò le dissi: «Fra Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
157
cinque anni il Faraone sarà morto, e tu sarai libera. Libera dal dominio di tuo padre, libera di unirti a Tanus. Nessuno potrà impedirtelo». «Se mi stai mentendo, sarebbe una crudeltà insopportabile. Ti supplico, dimmi che è vero.» «È vero, mia signora. Ma c'è dell'altro. Nella visione ho visto un neonato. Un maschietto. Ho provato affetto per quell'infante e ho compreso che la madre eri tu.» «E il padre? Chi era il padre del mio bambino? Oh, Taita, ti prego di dirmelo.» «Nel sogno sapevo con certezza assoluta che il padre era Tanus.» Era la prima deviazione dalla verità che mi concedevo; ma anche questa volta avevo la consolazione di credere che fosse per il suo bene. Lostris rimase in silenzio a lungo, ma il suo viso era illuminato da una radiosità che per me era la ricompensa più preziosa. Alla fine mormorò: «Posso attendere cinque anni. Ero disposta ad aspettarlo per tutta l'eternità. Sarà doloroso, ma posso attendere Tanus per cinque anni. Hai avuto ragione di non lasciarmi morire, Taita. Sarebbe stato un affronto agli dei». Il sollievo mi consolò: adesso ero più sicuro che sarei riuscito a farla procedere senza pericoli nel futuro che ci attendeva. All'alba del giorno seguente la flottiglia reale salpò da Karnak, diretta al sud. Come il re aveva promesso, la nobile Lostris e tutto il suo seguito erano a bordo di una delle navi piccole e veloci della squadra meridionale. Ero seduto accanto alla mia padrona sui cuscini sotto il tendone di poppa predisposto dal comandante. Guardavamo gli edifici imbiancati della città che splendevano nei primi raggi color arancio del sole. «Non riesco a immaginare dove sia andato.» Lostris esprimeva la sua ansia per Tanus come aveva già fatto venti volte da quando eravamo partiti. «L'hai cercato dovunque?» «Dovunque», confermai. «Ho trascorso metà della mattina girando per la città interna e i moli. È scomparso. Ma ho lasciato il tuo messaggio a Kratas. Puoi star certa che Kratas glielo darà.» «Cinque anni senza di lui... Passeranno mai?» Il viaggio lungo il fiume si svolse piuttosto piacevolmente. Passavo lunghe giornate seduto a poppa a conversare con la mia padrona. Discutevamo in modo approfondito ogni aspetto delia nostra nuova situazione, ed esaminavamo tutto ciò che potevamo attenderci e sperare per Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
158
il futuro. Le spiegai tutta la complessità della vita di corte, le priorità e il protocollo. Le esposi le linee segrete del potere e dell'influenza, ed elencai coloro che avremmo avuto interesse a ingraziarci, e coloro che potevamo ignorare tranquillamente. Le spiegai le varie incombenze della giornata, e il posto che vi aveva il Faraone. Poi passai a discutere con lei i sentimenti e gli umori dei sudditi. Avevo un grosso debito con il mio amico Aton, il ciambellano reale, che mi aveva fornito tutte quelle informazioni. Durante gli ultimi dodici anni ogni nave che aveva disceso il fiume da Elefantina a Karnak mi aveva portato una sua lettera piena di particolari affascinanti, e al ritorno a Elefantina la stessa nave gli aveva portato un oggetto d'oro in pegno della mia riconoscenza. Avevo deciso che molto presto saremmo stati al centro della corte e del giro del potere. Non avevo istruito per anni la mia padrona al solo scopo di vedere arrugginire le sue armi. Il patrimonio dei suoi talenti era già formidabile, ma ogni giorno continuavo con pazienza ad arricchirlo. Lostris aveva una mente acuta e irrequieta. Quando l'ebbi aiutata a liberarsi dalla tristezza che aveva rischiato di ucciderla, si dimostrò come sempre aperta ai suggerimenti. A ogni occasione attizzavo le sue ambizioni e la sua impazienza di assumere il ruolo che avevo pianificato per lei. Scoprii ben presto che uno dei modi più efficaci per destare la sua attenzione stava nell'insinuare che tutto ciò sarebbe tornato a vantaggio di Tanus. «Se avrai influenza a corte, riuscirai meglio a proteggerlo», le dissi. «Il re gli ha assegnato un compito quasi impossibile. Tanus avrà bisogno di noi per riuscire, e se fallirà tu sola potrai salvarlo dalla condanna inflittagli dal re.» «Che cosa possiamo fare per aiutarlo a svolgere la sua missione?» Nel sentir nominare Tanus, Lostris era diventata attentissima. «Dimmi sinceramente: credi che qualcuno potrà eliminare le Averle? Non è una missione troppo difficile, anche per un uomo come Tanus?» I banditi che atterrivano l'Alto Egitto si facevano chiamare Averle, come quegli uccelli temibili. L'averla del Nilo è più piccola di una colomba, ed è molto bella, con il petto e la gola bianchi, il dorso e la testa neri. Saccheggia i nidi degli altri uccelli e mette in mostra le carcasse delle vittime infilzandole sugli spini delle acacie. Il suo nome comune è uccello Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
159
macellaio. All'inizio i banditi l'avevano usato come un nome enigmatico per celare la loro identità e la loro esistenza, ma in seguito erano diventati così forti e audaci che l'avevano adottato apertamente e spesso usavano come emblema le piume bianche e nere dell'uccello macellaio. All'inizio lasciavano la piuma sulla soglia della casa che avevano derubato o sul cadavere di una delle vittime. Ma ormai erano così intrepidi e organizzati che a volte inviavano addirittura una piuma alla vittima predestinata, come avvertimento. Quasi sempre bastava perché la vittima desse spontaneamente metà di tutto ciò che possedeva. Era meglio che essere derubato completamente, mentre le mogli e le figlie venivano rapite e violentate e lo stesso malcapitato e i suoi figli venivano gettati fra le rovine incendiate della casa. «Credi possibile che, seppure con il potere del Sigillo del Falco, Tanus riesca a compiere la missione ordinata dal re?» ripeté Lostris. «Ho sentito dire che tutte le bande delle Averle, nell'Alto Egitto, obbediscono a un uomo che chiamano Akh-Seth, il fratello di Seth. È vero, Taita?» Riflettei un momento prima di rispondere. Non potevo ancora dirle tutto ciò che sapevo delle Averle. Se l'avessi fatto, sarei stato costretto a rivelare anche il modo in cui quelle notizie erano venute in mio possesso. In quel momento non sarebbe tornato a suo vantaggio o a mio onore. Più tardi, forse, sarebbe venuto il tempo per simili rivelazioni. «Anch'io l'ho sentito dire», ammisi prudentemente. «Mi sembra che, se Tanus dovesse scoprire e schiacciare quell'Akh-Seth, le Averle si disperderanno. Ma avrà bisogno di un aiuto che io solo posso dargli.» Lostris mi fissò: «Come puoi aiutarlo?» chiese. «E che ne sai di questa faccenda?» Era molto sveglia, e ingannarla era difficile. Intuì subito che le nascondevo qualcosa. Dovevo fare marcia indietro e puntare sul suo amore per Tanus e sulla sua fiducia in me. «Per il bene di Tanus non chiedermi altro; ma permettimi di fare ciò che potrò per aiutarlo a completare la missione che gli ha assegnato il Faraone.» «Si, naturalmente dobbiamo fare quanto è in nostro potere. Dimmi come posso essere utile.» «Resterò con te a corte sull'isola Elefantina per novanta giorni: ma poi dovrai autorizzarmi ad andare da lui...» «No, no», mi interruppe. «Se puoi essere d'aiuto a Tanus, devi partire Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
160
subito.» «Novanta giorni», insistetti. Era il periodo di grazia che le avevo ottenuto. Sebbene fossi diviso fra due persone care, il mio primo dovere era nei confronti della mia padrona. Sapevo che non potevo lasciarla sola a corte senza un amico o una guida. E sapevo che dovevo essere con lei quando il re l'avesse fatta chiamare una notte. «Per ora non posso lasciarti, ma non temere. Ho consegnato a Kratas un messaggio per Tanus. Mi aspetteranno: e ho spiegato a Kratas tutto ciò che dovrà essere fatto prima del mio ritorno a Karnak.» Non volli dirle altro: e ben pochi riescono a essere ottusi o evasivi come lo sono io quando voglio esserlo. La flottiglia navigava soltanto di giorno. L'abilità dell'ammiraglio Nembet e il benessere del re e della corte non consentivano di viaggiare durante la notte, perciò ogni sera ormeggiavamo e sulla riva del fiume sorgeva una foresta di centinaia di tende. I maestri di palazzo sceglievano sempre i posti più ameni, di solito un palmeto o una collinetta riparata, con un tempio o un villaggio nelle vicinanze che potevano fornire provviste. A corte regnava ancora un clima festoso. Ogni volta che ci si accampava era come se facessimo una gita. C'erano danze e banchetti alla luce dei falò, mentre nell'ombra i cortigiani intrigavano e amoreggiavano. Molte alleanze politiche e carnali venivano strette in quelle notti dolcissime, profumate dagli odori delle terre irrigate lungo il fiume e dall'aria aromatica del deserto. Approfittavo di quei momenti nell'interesse mio e della mia padrona. Adesso era una delle dame reali; ma erano centinaia, e lei era ancora una consorte secondaria. La lungimiranza del nobile Intef avrebbe potuto cambiare la sua posizione, ma solo se avesse dato un figlio maschio al Faraone. Nel frattempo, toccava a me agire. Quasi tutte le sere, dopo che eravamo scesi a terra, il Faraone mi faceva chiamare. Ufficialmente lo faceva perché lo curassi dalla tricofizia, ma in realtà studiavamo i preparativi che dovevano portare alla generazione di un erede della corona doppia. Osservava con interesse mentre gli preparavo il tonico della virilità con la polvere di corno di rinoceronte e di radice di mandragola, che mescolavo con latte caldo di capra e miele. Dopo che l'aveva bevuto, esaminavo il membro reale e mi rallegravo per la mia padrona nel constatare che non Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
161
aveva né la lunghezza né la circonferenza degne di un dio. Pensavo che la mia padrona, sebbene fosse vergine, avrebbe potuto affrontarne senza troppo disagio le dimensioni modeste. Naturalmente, avrei fatto quanto era in mio potere per evitare il momento temuto; ma se non fossi riuscito a scongiurarlo, avevo deciso che almeno le avrei reso più facile il passaggio alla condizione di donna. Dopo aver constatato che il re in quelle regioni era sano, anche se di proporzioni modeste, raccomandai l'applicazione di un impiastro di farina di grano, olio d'oliva e miele durante la notte. Quindi proseguii la cura contro la tricofizia. Con grande soddisfazione del re, il mio unguento lo guarì in tre giorni come avevo promesso, e la mia reputazione di medico, già considerevole, crebbe ancora. Il re lodò il mio successo durante il consiglio dei ministri, e in pochi giorni diventai richiestissimo in tutta la corte. Quando poi si seppe che non ero soltanto un guaritore ma anche un astrologo consultato persino dal sovrano, la mia popolarità divenne sconfinata. Ogni sera veniva alle nostre tende una processione di messaggeri per portare alla mia padrona ricchi doni da parte di dame e nobili che le chiedevano il permesso di consultarmi. Accoglievamo soltanto le richieste di coloro con cui desideravamo stabilire stretti rapporti. Quando mi trovavo nella tenda di un nobile potente e gli esaminavo le emorroidi, mi era facile esaltare la mia padrona e indicare le sue tante virtù all'attenzione del paziente. Le altre dame dell'harem scoprirono presto che la nobile Lostris e io cantavamo bellissimi duetti, e sapevamo inventare indovinelli ingegnosi e raccontare storielle divertenti. Eravamo molto ricercati a corte, soprattutto da parte dei bambini dell'harem. Questo mi dava un grande piacere, perché amo i bambini piccoli ancor più degli animali. Il Faraone, che era il primo responsabile della nostra popolarità, fu presto informato di queste simpatie generali, e ciò accrebbe il suo interesse per la mia padrona, che già era molto intenso. Spesso la mattina, all'ora della partenza, veniva chiamata a bordo della nave reale, e trascorreva la giornata in compagnia del re. La sera cenava di frequente alla tavola del sovrano, e allietava lui e tutti i presenti con il suo spirito vivace e la sua grazia. Naturalmente io ero sempre presente con molta discrezione. Quando Lostris vide che il re non la mandava a chiamare di notte per sottoporla alle cose orribili ma molto nebulose da lei immaginate, i suoi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
162
sentimenti incominciarono a cambiare. Nonostante l'aspetto poco allegro, il Faraone Marnose era un uomo mite e gentile. La mia padrona se ne accorse e, come me, firn per affezionarglisi. Prima ancora che arrivassimo a Elefantina aveva preso a trattarlo come uno zio prediletto, e con molta spontaneità gli sedeva sulle ginocchia per raccontargli una storia o giocava con lui a lanciare fuscelli sul ponte della nave reale: tutti e due ridevano come bambini. Aton mi confidava che non aveva mai visto il re tanto felice. La corte riconobbe ben presto in Lostris la favorita reale, e la sera si presentarono alle nostre tende altri visitatori che avevano una petizione da consegnare e desideravano che la mia padrona la sottoponesse all'attenzione del Faraone. I doni che offrivano erano ancora più preziosi di quelli che portavano per ottenere i miei servigi. La mia padrona aveva rifiutato i doni nuziali del padre in cambio di un solo schiavo, e perciò aveva iniziato il viaggio poverissima, tanto da dover contare sui miei modesti risparmi. Tuttavia prima dell'arrivo aveva accumulato non soltanto un notevole patrimonio ma anche un lungo elenco di favori dovutile dai nuovi amici ricchi e potenti. Io tenevo scrupolosamente la contabilità. Non sono presuntuoso al punto di credere che la mia padrona non avrebbe ottenuto tanti riconoscimenti senza il mio aiuto. La sua bellezza, l'intelligenza e il carattere dolce le avrebbero attirato le simpatie in ogni circostanza. Voglio dire soltanto che riuscii a fare in modo che questo accadesse un po' prima e con maggiore certezza. Il nostro successo comportava qualche svantaggio. Come sempre c'era la gelosia di coloro che si sentivano spodestati nel favore del Faraone, e c'era il crescente interesse carnale del sovrano per la mia padrona, intensificato dal periodo di astinenza che gli avevo imposto. Una sera, nella sua tenda, dopo che gli ebbi somministrato la bevanda a base di corno di rinoceronte, si confidò con me. «Taita, la tua cura è davvero efficace. Non mi sentivo così virile da quando ero giovane, prima dell'incoronazione. Questa mattina, quando mi sono svegliato, ho constatato un irrigidimento del membro così notevole che ho fatto chiamare Aton perché vedesse. È rimasto molto colpito: avrebbe voluto condurmi subito la tua padrona.» L'annuncio mi allarmò. Assunsi un'espressione severa, scossi la testa, aspirai l'aria a denti stretti e schioccai la lingua per dimostrare la mia Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
163
disapprovazione. «Ti sono grato perché hai avuto il buon senso di non ascoltare il suggerimento di Aton, maestà. Avrebbe potuto facilmente annullare tutti i nostri sforzi. Se vuoi un figlio maschio, devi seguire scrupolosamente il mio regime.» L'episodio mi rammentò che il tempo passava in fretta e che presto i novanta giorni di grazia sarebbero terminati. Cominciai a preparare la mia padrona per la notte che il Faraone avrebbe presto preteso. «Allora dovrai spiegarmi esattamente che cosa si aspetta da me, Taita», sospirò Lostris. Non ero la guida migliore in questo campo dato che la mia esperienza personale era stata effimera. Ma potei accennarle i fatti fondamentali facendoli apparire comuni e banali, in modo da non allarmarla troppo. «Mi farà male?» chiese, e io mi affrettai a rassicurarla. «Il re è un uomo mite. Ha molta esperienza con le donne giovanissime. Sono sicuro che sarà gentile con te. Preparerò un unguento che ti renderà la cosa molto più facile. L'applicherò ogni notte, prima che tu vada a dormire. Servirà a schiudere la porta. Pensa che un giorno Tanus varcherà la stessa soglia e che tu lo fai per accogliere lui e nessun altro.» Mi sforzavo di continuare a essere un medico distaccato e di non trovare un piacere sensuale in ciò che dovevo fare per aiutarla. Gli dei mi perdonino, ma non riuscii a mantenere la mia risoluzione. Era così perfetta nelle parti femminili da mettere in ombra i fiori più belli che avessi mai coltivato nel mio giardino. Nessuna rosa del deserto aveva petali più squisiti. Quando poi vi spalmavo l'unguento esalavano una dolce rugiada, più serica al tocco di qualunque pomata. Lostris arrossi e la sua voce divenne roca quando mormorò: «Fino a ora pensavo che quella parte del corpo fosse destinata a un unico scopo. Perché quando fai così desidero irrefrenabilmente Tanus?». Si fidava tanto di me e comprendeva così poco quelle sensazioni sconosciute che dovevo ricorrere a tutta la mia etica professionale per continuare il trattamento solo per il tempo necessario. Tuttavia quella notte dormii male, ossessionato da sogni impossibili. A mano a mano che ci addentravamo nelle terre meridionali, le fasce di terreno verde lungo le rive del fiume si restringevano. Il deserto incominciò ad assediarci. In certi tratti le rupi minacciose di granito nero calpestavano i campi verdeggianti e si affacciavano sulle acque turgide del Nilo. La più pericolosa di queste strettoie era conosciuta come le Porte di Hapi: Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
164
un passaggio in cui le acque parevano trasformarsi in una furiosa tempesta, che sferzava le alte creste di granito prospicienti il fiume. Riuscimmo a superare le Porte di Hapi, seppure con qualche difficoltà e giungemmo finalmente a Elefantina, la più grande di un buon numero di isole sgranate lungo quel tratto del Nilo. Elefantina aveva la forma di uno squalo mostruoso che insegue il branco delle isole minori. Sulle due rive del fiume, i deserti erano diversi per colore e per carattere. Sulla sponda occidentale le dune sahariane erano di un arancio acceso, selvagge come i beduini, gli unici mortali capaci di sopravvivere in quei luoghi. A oriente il deserto arabo era bruno e grigio-sporco, costellato di colline nere che danzavano come sogni nei miraggi provocati dal calore. I due deserti avevano una sola cosa in comune: erano entrambi uccisori di uomini. Era un delizioso contrasto, l'isola Elefantina, posata come una verde gemma splendente nella corona argentea del fiume. Prendeva il nome dai macigni di granito grigio che si ammassavano lungo la riva come un branco degli enormi pachidermi, e dal fatto che per mille anni quel luogo era stato un centro del commercio dell'avorio proveniente dalla terra selvaggia di Cush. Il palazzo del Faraone si estendeva per gran parte dell'isola e i pettegoli insinuavano che egli avesse deciso di costruirlo all'estremità meridionale del suo regno per stare il più lontano possibile dal Pretendente Rosso che regnava al nord. L'ampia distesa d'acqua che circondava l'isola la metteva al riparo dall'attacco d'un eventuale nemico, ma il resto della città era straripato sulle due rive. Dopo la Grande Tebe, le due metà di Elefantina formavano la città più grande e popolosa dell'Alto Egitto, degna rivale di Menfi, sede del Pretendente Rosso dell'altro regno. L'isola Elefantina era ammantata d'alberi più di ogni altro luogo dell'intero Egitto. I semi erano stati trasportati dal fiume nel corso di mille piene annue, e avevano messo radici nell'humus fertile trascinato insieme con loro dalle acque inquiete. Nel corso della mia ultima visita, quando avevo risalito il fiume per osservare i segnali dei livelli del fiume per conto del nobile Intef, Guardiano delle Acque, avevo passato molti mesi sull'isola. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
165
Con la collaborazione del capo giardiniere avevo catalogato i nomi e la storia naturale di tutte le piante dei giardini della reggia; quindi adesso potevo indicarli alla mia padrona. C'erano fichi come non se ne erano mai visti nel resto dell'Egitto. I frutti non crescevano sui rami bensì sul tronco, e le radici si attorcevano come pitoni in accoppiamento. C'erano alberi di sangue di drago la cui corteccia, quando veniva incisa, lasciava scorrere una linfa rossoviva. C'erano sicomori di Cush e cento altre varietà che allargavano le verdi ombrelle sulla piccola isola incantevole. Il palazzo reale era costruito sul granito compatto che si trovava sotto il terreno fertile e formava lo scheletro dell'isola. Spesso mi ero chiesto perché i nostri re, i Faraoni delle cinquanta dinastie che risalivano fino a mille anni prima, avevano dedicato gran parte del loro tempo e del loro tesoro alla costruzione di enormi tombe di granito e marmo, mentre in vita s'erano accontentati di vivere in palazzi dai muri d'argilla e dai tetti di paglia. In confronto al magnifico tempio funerario che stavo costruendo a Karnak per il Faraone Marnose, il palazzo era modesto, e la scarsità di linee rette e di simmetria offendeva il mio istinto di matematico e di architetto. Penso che il caos dei muri di argilla rossa e dei tetti bizzarramente inclinati avesse un suo fascino, per quanto rozzo: tuttavia smaniavo dal desiderio di usare la riga e il filo a piombo. Dopo essere sbarcati e avere raggiunto l'alloggio che ci era stato assegnato, l'incanto di Elefantina apparve più evidente. Eravamo installati nell'harem cintato all'estremità settentrionale dell'isola, ma la grandezza e l'arredamento dell'alloggio confermavano la nostra posizione privilegiata non soltanto agli occhi del re, ma anche a quelli del ciambellano. Era stato Aton a fare l'assegnazione; e come tanti altri non aveva avuto difese contro la grazia naturale della mia padrona. Adesso era uno dei suoi ammiratori più ferventi. Mise a nostra disposizione una dozzina di camere ampie e ariose, con un cortile e una cucina. Una porta laterale conduceva direttamente al fiume e a un molo di pietra. Già il primo giorno acquistai una barchetta a fondo piatto che avremmo potuto usare per la pesca e la caccia agli uccelli acquatici, e la ormeggiai al molo. In quanto al resto della nuova residenza, per quanto fosse comoda, non era tale da soddisfare la mia padrona e me, e quindi ci mettemmo subito all'opera per abbellirla. Con la collaborazione del mio vecchio amico, il capo giardiniere, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
166
arricchii di piante il giardino privato, con una barrazza dalla tettoia di paglia sotto la quale potevamo sederci durante le ore più calde della giornata e dove tenevo i miei falchi Saker legati ai loro trespoli. Al molo installai un altaleno per portare dal fiume un flusso costante d'acqua, che scorreva attraverso tubi di ceramica fino al nostro giardino acquatico, dove c'erano stagni con le ninfee e vasche per i pesci. L'acqua che traboccava dai laghetti scorreva in un canaletto che avevo fatto passare oltre il muro della camera della mia padrona, attraverso un angolo schermato, fino a uscire dalla parte opposta per riaffluire nel Nilo. Intagliai uno sgabello di profumato legno di cedro con un foro al centro e lo sistemai sopra il canaletto, in modo che quanto cadeva attraverso il sedile venisse portato via dall'incessante flusso dell'acqua. La mia padrona fu entusiasta dell'innovazione; trascorreva sullo sgabello più tempo di quanto fosse necessario per le funzioni cui era destinato. Le pareti dell'alloggio erano di argilla rossa e spoglia. Progettammo una serie di affreschi per ogni camera: io disegnai i cartoni e li trasferii sulle pareti, quindi la mia padrona e le ancelle li dipinsero. Gli affreschi mostravano scene della vita degli dei, paesaggi fantastici popolati di animali terrestri e di uccelli. Naturalmente avevo usato la mia padrona come modella per la figura di Iside, ma non c'era da stupirsi che Horus avesse una posizione centrale in ogni dipinto e che, come voleva Lostris, venisse raffigurato con i capelli d'oro rosso e avesse un aspetto sorprendentemente familiare. Gli affreschi fecero sensazione nell'harem e tutte le consorti reali vennero a visitarci a turno per gustare i sorbetti e ammirare i dipinti. Avevamo lanciato una moda, e fui chiamato a dare consigli sulla decorazione di quasi tutti gli appartamenti dell'harem, cosa che feci dietro adeguato compenso. In questo modo stringemmo nuove amicizie fra le dame reali e migliorammo considerevolmente il nostro patrimonio. Il re senti parlare delle decorazioni e venne a vederle. Lostris gli fece visitare le sue camere. Il Faraone notò il nuovo sgabello sull'acqua; la mia padrona ne era così orgogliosa che quando le chiese di mostrargliene l'uso lo fece senza esitare: sedette ridendo e lasciò cadere nel canaletto un getto tintinnante. Era ancora così ingenua da non capire l'effetto che quella dimostrazione aveva sul regale sposo. Compresi dalla sua espressione che ogni mio tentativo di farlo indugiare oltre i novanta giorni promessi avrebbe Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
167
incontrato gravi difficoltà. Dopo la visita il Faraone sedette sotto la barrazza e bevve una coppa di vino, ridendo gaiamente delle frasi scherzose della mia padrona. Alla fine si rivolse a me: «Taita, devi costruirmi un giardino e una barrazza come questi, ma molto più grandi. E dacché ci sei, fai uno sgabello sull'acqua anche per me». Quando infine se ne andò, mi ordinò di accompagnarlo per un tratto, apparentemente per parlare del nuovo giardino... Ma io intuivo come stavano le cose. Appena lasciammo l'harem cominciò a parlare. «Stanotte ho sognato la tua padrona», disse. «E quando mi sono svegliato mi sono accorto che il mio seme era sparso sulle lenzuola. Non mi era più accaduto da quando ero ragazzo. La piccola volpe ha incominciato a invadere i miei pensieri nel sonno e nella veglia. Non dubito di poter fare un figlio con lei, e sento che non dobbiamo più indugiare. Che ne pensi, dottore? Non sono ancora pronto per il tentativo?» «Ti raccomando di osservare i novanta giorni di astinenza, maestà. Tentare prima sarebbe una follia.» Era pericoloso definire follia il desiderio del re, ma era necessario frenarlo. «Sarebbe una grave imprudenza rovinare tutte le possibilità di successo per un periodo di tempo tanto breve...» Finii per convincerlo; ma quando lo lasciai era ancora più mesto del solito. Quando tornai nell'harem avvertii la mia padrona delle intenzioni del re; l'avevo condizionata così bene ad accettare l'inevitabile che non si mostrò troppo angosciata. Ormai era rassegnata al ruolo di favorita del re, e la predizione che la sua prigionia sull'isola Elefantina avrebbe avuto termine glielo rendeva più sopportabile. In tutta sincerità, il nostro soggiorno sull'isola non era certo una prigionia. Noi egizi siamo il popolo più civile della terra, e trattiamo bene le nostre donne. Ho sentito che altri, gli hurriti, i cushiti e i libici, per esempio, sono molto crudeli nei confronti delle mogli e delle figlie. I libici fanno dell'harem una vera prigione in cui le donne passano l'intera vita senza vedere maschi se non gli eunuchi e i figli. Dicono che persino i cani e i gatti maschi non possano entrare, tanto grande è la smania possessiva degli uomini. Gli hurriti sono anche peggio. Non soltanto confinano le loro donne e le costringono a coprirsi dalle caviglie ai polsi, ma le obbligano a restare Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
168
mascherate persino entro i confini dell'harem, in modo che soltanto il marito possa vederle in faccia. Le tribù primitive di Cush sono le più biasimevoli di tutte. Quando le donne raggiungono l'età della pubertà le circoncidono nel modo più feroce: tagliano loro la clitoride e le piccole labbra per rimuovere la sede del piacere sessuale, perché non siano mai tentate di tradire i mariti. Ciò può sembrare incredibile, ma ho visto con i miei occhi i risultati di questo brutale intervento chirurgico. Tre delle ancelle della mia padrona erano state catturate dai negrieri poco dopo che erano maturate ed avevano dovuto subire il coltello dei loro padri. Quando avevo esaminato le cicatrici, ero rimasto nauseato e i miei istinti di guaritore erano stati offesi profondamente dalla mutilazione di quel capolavoro degli dei che è il corpo umano. Ho osservato che questa circoncisione non raggiunge lo scopo prefisso perché sembra privi la vittima dei tratti femminili più amabili e la faccia diventare fredda, calcolatrice e crudele: insomma, ne fa un mostro asessuato. Noi egizi, invece, onoriamo le nostre donne e le trattiamo, se non proprio da eguali, almeno con riguardo. Nessun uomo può picchiare la moglie senza il permesso del magistrato e ha il dovere legale di vestirla, nutrirla e mantenerla secondo la propria posizione nella società. Una moglie del re o di un nobile non è affatto confinata nell'harem; scortata dal suo seguito, può passeggiare in città o in campagna. Non è costretta a nascondere la sua bellezza ma, secondo la moda del momento e il proprio capriccio, può sedere alla tavola del marito con il volto e il seno scoperti e intrattenere gli ospiti con la conversazione e il canto. Può possedere schiavi, terre e ricchezze separatamente dal patrimonio del coniuge, anche se i figli appartengono a lui solo. Può andare a pesca, a caccia con i falchi, e persino tirare con l'arco; le sono vietate soltanto attività mascoline come la lotta e l'uso della spada. Vi sono, logicamente, certe cose da cui è esclusa, come l'esercizio della legge e dell'architettura, tuttavia una moglie d'alta nascita è un personaggio importante, che ha diritti e dignità: non è la stessa cosa, ovviamente, per la concubina o per la moglie di un uomo comune, che hanno gli stessi diritti di un bue o di un asino. La mia padrona e io, perciò, eravamo liberi di vagare dove volevamo e di esplorare le città gemelle sulle due rive del Nilo e le campagne circostanti. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
169
La mia padrona divenne popolarissima a Elefantina: la gente comune si assiepava intorno a lei per chiedere la sua benedizione e i suoi doni. Applaudiva la sua grazia e la sua bellezza, come era avvenuto a Tebe. Lostris mi aveva ordinato di portare sempre un grosso sacco di dolciumi che distribuiva a tutti i ragazzini dall'aria patita. Dovunque andassimo, eravamo circondati da una schiera di bambini che saltellavano e gridavano. Spesso sedeva sulla soglia di un'umile casupola in compagnia delle donne, oppure sotto un albero nel campo di un contadino, e ascoltava le loro lagnanze; alla prima occasione, le riferiva al re, che quasi sempre sorrideva con indulgenza e accettava di riparare ai torti come lei gli suggeriva. Lostris acquistò così la reputazione di patrona della gente comune. Anche quando passava per i quartieri più poveri, lasciava dietro di sé sorrisi e serenità. Altre volte andavamo a pescare con la barchetta nelle lagune create dalla piena del Nilo, oppure mettevamo richiami per le anitre selvatiche. Le avevo costruito un arco speciale, adatto alle sue forze. Naturalmente non era paragonabile a Lanata che avevo ideato per Tanus: tuttavia era adatto per la selvaggina acquatica. La nobile Lostris era una tiratrice più abile di tanti uomini, e raramente scagliava una freccia senza che io dovessi avventurarmi a nuoto per recuperare un'anitra o un'oca. Quando il re usciva a caccia con i falchi, la mia padrona era invitata ad accompagnarlo. Io la seguivo con i miei Saker sul braccio mentre ci aggiravamo fra i papiri. Appena un airone s'innalzava da una lanca nascosta fra le canne, Lostris prendeva uno dei falchi e gli baciava la testa incappucciata. «Vola veloce e non fallire, bellezza mia!» sussurrava; poi toglieva il cappuccio che mascherava i fieri occhi gialli e lanciava nell'aria il piccolo, splendido uccisore. Poi restavamo a guardare affascinati mentre il falco torreggiava alto sopra la preda, ripiegava le ali e piombava con una velocità che faceva cantare il vento sul suo piumaggio screziato. Il rumore dell'urto giungeva fino a noi, anche a una distanza di duecento passi. Un turbine di piume celesti s'innalzava verso l'azzurro del cielo e veniva disperso come fumo portato dalla brezza del fiume. Il falco stringeva la preda con gli artigli per sbatterla a terra. La mia padrona gridava trionfante e correva a recuperare il falco, lo coccolava e lo lodava, e gli dava in pasto la testa dell'airone. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
170
Io amo tutte le creature dell'acqua e della terra e dell'aria. Anche la mia padrona provava gli stessi sentimenti. Allora perché, mi sono chiesto spesso, amavamo tanto la caccia? Non ho mai trovato una risposta. Forse è così perché l'uomo, e anche la donna, è il più temibile predatore della terra. Ci sentiamo affini al falco, così bello e veloce. L'airone e l'oca sono stati assegnati al falco dagli dei come preda legittima. Nello stesso modo, l'uomo ha il dominio su tutte le altre creature della terra. Non possiamo soffocare gli istinti di cui ci hanno dotati le divinità. Fin da quando era giovanissima e aveva appena acquisito la forza e la resistenza necessarie, avevo sempre permesso a Lostris di accompagnare me e Tanus a caccia e a pesca. Anni prima Tanus e io avevamo preso possesso di una baracca di pescatori abbandonata ai margini della palude a valle di Karnak, e ne avevamo fatto il nostro capanno da caccia. C'era poca distanza da quel luogo al margine del deserto, e dalla comoda base avevamo la possibilità di pescare nella laguna, di cacciare gli uccelli selvatici o di lanciare i falchi contro la nobile ottarda gigante in mezzo al deserto. All'inizio Tanus s'era risentito per l'intrusione di quella ragazzina di nove anni, magra e piatta come un bambino. Ma s'era abituato alla sua presenza, e aveva addirittura trovato comodo avere a disposizione qualcuno che facesse le commissioni e sbrigasse i fastidiosi lavoretti domestici. A poco a poco Lostris aveva imparato i segreti della vita all'aria aperta, fino a conoscere per nome ogni pesce e ogni uccello; sapeva usare un arpione o un arco da caccia con eguale abilità. Alla fine Tanus era orgoglioso di lei, come se fosse stata sua l'idea di invitarla ad accompagnarci. Lostris era con noi fra le nere colline rocciose sopra la valle del fiume il giorno in cui Tanus aveva cacciato l'uccisore del bestiame. Il leone era un vecchio maschio sfregiato, dalla criniera nera che ondeggiava nel vento come un campo di grano, e aveva una voce simile al tuono del cielo. Lanciammo la muta dei cani e la seguimmo mentre costringeva latrando il leone a fuggire dal pascolo in riva al Nilo dove aveva ucciso l'ultimo torello. I cani lo bloccarono in fondo a una gola. Il leone puntò su di noi quando ci avvicinammo e si avventò alla carica passando in mezzo ai cani. Mentre si scagliava ruggendo, la mia padrona rimase impavida un passo dietro a Tanus, con il piccolo arco teso. Naturalmente fu Tanus a uccidere la belva, trafiggendole la gola con una freccia scoccata da Lanata; ma Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
171
entrambi avemmo modo di ammirare il coraggio di Lostris. Fu quel giorno, probabilmente, che Tanus scoprì per la prima volta i suoi veri sentimenti per lei, mentre per la mia padrona la caccia rimase per sempre legata alle immagini e ai ricordi del suo innamorato. Da allora aveva continuato a essere una cacciatrice appassionata. Aveva imparato da Tanus e da me a rispettare e amare la selvaggina, ma anche a non tormentarsi con sensi di colpa quando esercitava il suo diritto sulle altre creature della terra, per usarle come bestie da soma, consumarle come cibo o inseguirle come prede. Noi possiamo avere il dominio sugli animali, ma nello stesso modo siamo tutti il bestiame del Faraone, e nessuno può rifiutarsi di obbedirgli. La novantesima notte, il re mandò Aton a chiamare la mia padrona. Poiché mi era amico e venerava la mia padrona, Aton mi aveva preavvertito, e io potei fare i preparativi finali con molto anticipo. Per l'ultima volta spiegai alla giovane che cosa doveva dire al re e come doveva comportarsi. Poi le applicai l'unguento che avevo tenuto in serbo per l'occasione. Non era solo un lubrificante, ma conteneva l'essenza di un'erba che somministravo ad altri pazienti per placare il mal di denti e altri doloretti e che aveva la proprietà di attenuare la sensibilità delle mucose. Lostris si comportò con coraggio fino al momento in cui Aton apparve sulla soglia della sua camera: poi si rivolse a me con gli occhi pieni di lacrime. «Non posso andare sola. Ho paura. Ti prego, Taita, vieni con me.» Era pallida sotto il trucco che avevo applicato con cura, e tremava tanto da battere i denti. «Padrona, sai che non è possibile. Il Faraone ti ha mandato a chiamare. Questa volta non posso aiutarti.» Aton venne in suo aiuto. «Forse Taita potrà attendere nell'anticamera della stanza del re, in mia compagnia. Dopotutto è il medico reale, e ci potrebbe essere bisogno dei suoi servigi», suggerì con voce flautata, e la mia padrona si alzò in punta di piedi per baciargli la guancia florida. «Sei così buono, Aton», bisbigliò, facendolo arrossire. Lostris mi tenne per mano mentre seguivamo Aton nel labirinto dei corridoi che conducevano all'appartamento reale. Quando fummo in anticamera mi strinse la mano più forte, poi la lasciò e si avviò verso la soglia. Indugiò e si voltò a guardarmi. Non mi era mai apparsa tanto incantevole, tanto giovane e vulnerabile. Mi sentivo spezzare il cuore, ma le Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
172
sorrisi per farle coraggio. Si voltò e passò oltre i tendaggi. Sentii il mormorio delia voce del re che l'accoglieva, e la risposta sussurrata. Aton mi fece sedere su uno sgabello davanti a un tavolo e, senza una parola, mise fra noi la tavola del bao. Giocai distrattamente, muovendo le pietre levigate negli incavi, e Aton vinse tre partite una dietro l'altra. In passato mi aveva battuto di rado; ma ero distratto dalle voci che giungevano dalla stanza accanto, sebbene fossero troppo basse perché potessi comprendere le parole. Poi sentii la mia padrona dire chiaramente, come le avevo raccomandato: «Ti prego, maestà, sii gentile con me. Ti supplico, non farmi male». L'invocazione era così commovente che persino Aton tossì e si asciugò il naso sulla manica, mentre io mi trattenevo a stento dal balzare in piedi per precipitarmi nella stanza reale e portar via Lostris. Per un po' vi fu silenzio, poi un grido singhiozzante che mi straziò l'anima. E tornò il silenzio. Aton e io stavamo curvi sulla tavola del bao, e io non fingevo più di giocare. Non so per quanto attendemmo; ma doveva essere l'ultima veglia della notte quando sentii finalmente il russare di un vecchio giungere da oltre la tenda. Aton mi guardò, annui, quindi si alzò in piedi. Prima ancora che raggiungesse le tende, queste si schiusero, e la mia padrona apparve e venne da me. «Conducimi a casa, Taita», sussurrò. Senza riflettere la sollevai, e lei mi passò le braccia intorno al collo e mi posò la testa sulla spalla, come faceva da bambina. Aton prese la lampada a olio e ci rischiarò la strada per tornare nell'harem: ci lasciò sulla soglia della camera da letto della mia padrona. L'adagiai sul letto e, mentre sonnecchiava, l'esaminai delicatamente. C'era un po' di sangue sulle cosce seriche, ma si era già stagnato. «Hai sentito dolore, piccola mia?» chiesi sottovoce. Lostris apri gli occhi e scosse la testa. Inaspettatamente mi sorrise. «Non so perché se ne parla tanto», mormorò. «Alla fine non è stato molto peggio che usare il tuo sgabello sull'acqua, e non c'è voluto molto più tempo.» Si raggomitolò e si addormentò senza aggiungere altro. Per poco non piansi di sollievo. I miei preparativi e le erbe l'avevano aiutata a superare la prova senza danni per il suo corpo e per il suo spirito. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
173
L'indomani mattina andammo a caccia con i falchi come se non fosse accaduto nulla di strano. Lostris parlò dell'argomento una sola volta nel corso della giornata. Mentre stavamo mangiando sulla riva del fiume, mi chiese pensosamente. «Credi che sarà così anche con Tanus, Taita?» «No, padrona. Tu e Tanus vi amate. Sarà molto diverso. Sarà il momento più meraviglioso della tua vita», le assicurai. «Si, so nel profondo del cuore che deve essere così», mormorò. Involontariamente guardammo tutti e due verso nord, lungo il Nilo, verso Karnak che stava oltre l'orizzonte. Sebbene sapessi quale era il mio dovere nei confronti di Tanus, la vita sull'isola era così idillica e così amabile era la compagnia della mia padrona che continuavo a rimandare la partenza con la scusa che aveva ancora bisogno di me. Per la verità, anche se il Faraone la faceva chiamare ogni notte, la mia padrona era tenace e resistente e aveva un forte istinto di sopravvivenza. Imparò presto a compiacere il re restando nel contempo emotivamente indenne. Non aveva bisogno di me quanto ne aveva bisogno Tanus. Anzi, fu lei che cominciò a insistere perché la lasciassi a Elefantina e scendessi il fiume. Procrastinai fino a quando una sera, dopo una giornata trascorsa all'aperto con il re, rientrammo tardi nel palazzo. Mi assicurai che alla mia padrona venissero preparati il bagno e la cena, prima di andare nella mia stanza. Entrai, e il profumo delizioso dei manghi e delle melagrane riempi l'aria. Al centro c'era un grande cesto coperto che doveva essere pieno dei miei frutti preferiti. Non mi stupii, perché non passava mai giorno senza che qualcuno inviasse doni a me e alla mia padrona. Mi chiesi chi poteva essere, e mi venne l'acquolina in bocca quando un altro soffio di fragranza mi arrivò alle narici. Non avevo mangiato da mezzogiorno. Alzai il coperchio e afferrai la melagrana più rossa e matura: essa però mi sfuggi dalle mani e cadde sul pavimento. Sentii allora un sibilo rabbioso, e una grossa sfera nera di spire frementi e di squame lucide guizzò dal cesto e si avventò contro le mie gambe. Balzai indietro, ma non fui abbastanza svelto. Le fauci aperte colpirono il calcagno di cuoio del sandalo con tanta forza che per poco non persi l'equilibrio. Una nuvola di veleno sprizzò dalle zanne curve, e il liquido trasparente e letale mi bagnò la caviglia, ma con un altro balzo riuscii a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
174
evitare il secondo attacco che segui immediatamente il primo. Mi buttai contro la parete nell'angolo della stanza. Io e il cobra ci fronteggiammo. Per metà il serpente era avvolto in spire, ma la parte anteriore era eretta fino all'altezza della mia spalla. Il cappuccio dilatato mostrava le ampie fasce nere e bianche che l'ornavano. Come un terribile giglio nero di morte che oscillava sullo stelo, mi fissava con gli occhi vitrei, e mi rendevo conto che stava fra me e l'unica porta della camera. È vero che certi cobra vengono tenuti come animali domestici. Girano liberi per casa e danno la caccia ai topi e ai ratti; bevono il latte nelle brocche e diventano domestici come gattini. Altri invece vengono addestrati con tormenti e provocazioni e diventano strumenti mortali dei sicari. Non avevo dubbi circa la natura del cobra che mi stava davanti. Mi spostai rasente al muro per cercare di passare oltre e di mettermi in salvo. Il cobra si lanciò verso di me; le fauci spalancate erano d'un giallo pallido e le gocce del veleno colavano dalle punte delle zanne. Gridai di terrore mentre arretravo con un balzo e mi rifugiavo di nuovo nell'angolo. Il serpente si riprese subito e si sollevò, continuando a restare fra me e la porta. Sapevo che le sue sacche velenifere erano abbastanza piene per uccidere cento uomini robusti. Mentre lo guardavo, incominciò a snodarsi lentamente e a strisciare sul pavimento verso di me, con la testa alta e gli occhietti terribili fissi sulla mia persona. Ho visto uno di questi serpenti ipnotizzare un uccello acquatico al punto che quest'ultimo non tentava neppure di fuggire e restava ad attenderlo con aria rassegnata. Anch'io ero paralizzato. Non riuscivo a muovermi né a gridare mentre la morte strisciava verso di me. All'improvviso scorsi un movimento dietro il cobra ondeggiante. La mia padrona Lostris era apparsa sulla soglia, richiamata dal mio primo urlo di terrore. Ritrovai la voce e le gridai: «Attenta! Non ti avvicinare!». Non mi ascoltò. Con un'occhiata si rese conto della situazione. Un attimo d'indugio o di esitazione da parte sua, e il serpente mi avrebbe attaccato per la terza e ultima volta. La mia padrona stava cenando quando mi aveva sentito gridare aiuto. Adesso era li, con un melone per metà sbucciato in una mano e un coltello d'argento nell'altra; e reagì con l'istinto e la prontezza di una vera Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
175
cacciatrice. Tanus le aveva insegnato ad abbandonare il goffo modo di lanciare che è naturale per le femmine: e così Lostris scagliò il melone con la forza e la precisione di chi è abituato a scagliare il giavellotto. Il frutto colpi il cobra dietro il cappuccio e per un istante lo fece piombare sul pavimento di piastrelle. Poi, con la rapidità con cui scatta un arco, si rimise eretto, girò la testa terribile verso di lei, e guizzò fulmineo per attaccarla. Finalmente mi strappai allo stordimento e mi mossi per aiutarla: ma fui troppo lento. Usando la coda come fulcro, il cobra si avventò con le fauci spalancate e il veleno che sprizzava dalle zanne erette in una nebbia finissima. La mia padrona balzò indietro, agile come una gazzella inseguita da un ghepardo. Il cobra la mancò, e per un momento lo slancio lo fece piombare ai suoi piedi, esteso in tutta la sua lunghezza squamosa. Non so quale forza la dominasse, ma alla mia padrona non era mai mancato il coraggio. Prima che il cobra potesse riprendersi, spiccò un balzo e gli atterrò sulla nuca con entrambi i piedini calzati di sandali, inchiodandolo sulle piastrelle con tutto il suo peso. Forse aveva sperato di schiacciargli la spina dorsale, ma il cobra aveva lo spessore del suo polso e l'elasticità della frusta di Rasfer. Anche se la testa era bloccata, il resto del lungo corpo le si avvolse con un guizzo intorno alle gambe. Una donna meno sensata e coraggiosa avrebbe tentato di sottrarsi all'abbraccio disgustoso. Ma, se l'avesse fatto, la mia padrona sarebbe morta, perché il cobra, non appena avesse avuto la testa libera, avrebbe sferrato l'attacco mortale. Lostris, invece, tenne i piedi saldamente piantati, allargò le braccia per mantenere l'equilibrio e urlò: «Aiutami, Taita!». Ero già accorso al centro della stanza: mi tuffai e affondai le mani nelle spire del serpente che le avvinghiavano le gambe, poi le feci scorrere lungo il corpo sinuoso fino al punto in cui questo si restringeva nel collo. L'afferrai con entrambe le mani e strinsi la gola con le dita intrecciate. «L'ho preso!» gridai, quasi fuori di me per l'orrore e il ribrezzo mentre l'essere freddo e squamoso si dibatteva nella mia stretta. «L'ho preso. Allontanati! Presto!» La mia padrona balzò subito all'indietro e io mi rialzai stringendo il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
176
serpente con forza frenetica, tentando di tener lontane le fauci spalancate dalla mia faccia. La coda sferzante si avvolse intorno alle mie spalle e al collo minacciando di strangolarmi mentre tenevo ferma la testa. Ora il serpente aveva una presa e la sua forza era terrificante. Mi accorsi che non riuscivo a trattenerlo, neppure con entrambi i pugni stretti intorno alla gola. A poco a poco stava liberando la testa, ritirandola inesorabilmente tra le mie dita. Sapevo che non appena fosse sfuggito alla stretta si sarebbe avventato contro la mia faccia indifesa. «Non lo tengo più!» urlai, più a me stesso che a Lostris. Lo tenevo a braccia tese; ma si avvicinava alla mia faccia, accostandosi ai miei occhi mentre ondate di forza lo inondavano e contraevano le spire intorno alla mia gola intanto che la testa sfuggiva alla presa. Sebbene avessi le nocche sbiancate per la violenza della stretta, l'animale era così vicino alla mia faccia che vedevo le zanne vibrare nelle fauci. Il cobra poteva erigerle o appiattirle a volontà: erano bianchi aghi ossuti, e pallidi getti di veleno si irradiavano dalle punte. Sapevo che se una sola goccia di quel liquido mi fosse entrata negli occhi mi avrebbe accecato, e il dolore bruciante mi avrebbe fatto impazzire. Allontanai la testa del serpente dalla mia faccia, e lo spruzzo di veleno si disperse nell'aria. Urlai di nuovo, disperato: «Chiama uno degli schiavi perché mi aiuti!». «Sul tavolo...» La mia padrona si era avvicinata. «Tieni ferma la testa sul tavolo.» Trasalii. Credevo che avesse obbedito alla mia richiesta e fosse corsa in cerca di aiuto: invece era al mio fianco, e brandiva ancora il coltello d'argento. Portai con me il cobra e, barcollando, andai a inginocchiarmi accanto al tavolo basso. Con uno sforzo supremo riuscii a premere la testa sull'orlo e a tenerla ferma. La mia padrona, così, aveva a disposizione un ceppo per usare il coltello. Colpi alla base del collo, dietro la testa terribile. Il serpente senti il dolore e raddoppiò gli sforzi. Le spire elastiche si avvolgevano intorno alla mia testa, e dalle fauci uscivano sbuffi sibilanti che quasi ci assordavano. Il chiasso si mescolava agli spruzzi di veleno scaturiti dalle fauci. La lama, per quanto piccola, era affilata, e la carne squamosa si apri. Il sangue viscido mi inondò le dita, ma la lama affondò fino all'osso della spina dorsale. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
177
Con tutte le sue forze e il viso contratto per lo sforzo, la mia padrona segò l'osso; ma le mie dita erano rese scivolose dal sangue. Sentii la testa guizzare via. Il serpente si liberò, ma nello stesso attimo la lama trovò la giuntura fra le vertebre e affondò. La testa, appesa a un filo di pelle, venne sbatacchiata di qua e di là dalle convulsioni del cobra. Sebbene fosse ormai separata dal corpo, le zanne continuavano a muoversi e a stillare veleno, e il minimo tocco sarebbe bastato a piantarle nella mia carne. Mi avventai sul corpo con le dita insanguinate e all'ultimo istante riuscii a staccarlo dalla mia gola e a gettarlo sul pavimento. Mentre indietreggiavamo verso la porta, l'animale continuò a contorcersi grottescamente, ad annodarsi come una sfera, con le spire che scivolavano l'una sull'altra. «Tutto bene, mia signora?» chiesi, senza osare staccare gli occhi dalla massa sussultante. «Qualche goccia di veleno ti è finita negli occhi o sulla pelle?» «No, tutto bene», sussurrò. «E tu, Taita?» Il tono della sua voce mi allarmò al punto di farmi dimenticare il pericolo che avevo corso. La guardai in faccia. La reazione s'era già impadronita di lei; incominciava a tremare. Gli occhi scuri erano sgranati nel viso bianchissimo. Dovevo trovare il modo di liberarla dalla paura che ancora la paralizzava. «Bene», dichiarai. «Cosi abbiamo risolto il problema della cena di domani sera. Il cobra arrosto mi piace moltissimo.» Per un momento mi fissò, poi proruppe in una risata isterica e squillante. Anche la mia risata fu irrefrenabile. Ci abbracciammo e continuammo a ridere fino a quando le lacrime ci scorsero sulle guance. Non volli affidarlo al cuoco, e quindi preparai personalmente il cobra. Lo scuoiai e lo sbuzzai, poi lo farcii con aglio selvatico, varie erbe e un po' di grasso di coda di montone. Dopo l'avvolsi a palla nelle foglie di banano, e coprii il tutto con uno strato d'argilla bagnata. Quindi accesi sopra l'argilla un fuoco che feci ardere per tutto il giorno. La sera, quando aprii l'involucro indurito, il profumo esalato dalla tenera carne bianca mi fece venire l'acquolina in bocca. Chi ha pranzato alla mia tavola afferma di non aver mai mangiato piatti più gustosi di quelli preparati da me: e come potrei contraddire i miei amici? Servii i filetti alla mia padrona con un vino di cinque qualità di palme che Aton aveva trovato in un magazzino del Faraone. La nobile Lostris volle Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
178
che sedessi con lei sotto la barrazza e partecipassi alla cena. Riconoscemmo che era più squisito della coda di coccodrillo e persino della carne del miglior persico del Nilo. Solo quando avemmo finito di mangiare e inviato quanto restava alle sue ancelle, cominciammo a discutere su chi poteva avermi mandato in dono il cesto di frutta. Cercai di non allarmarla, e scherzai. «Deve essere stato qualcuno che non ama il canto.» Ma Lostris non si lasciò fuorviare tanto facilmente. «Non fare il buffone, Taita. È una delle poche cose che non sai far bene. Credo che tu sappia chi è stato, e credo di saperlo anch'io.» La fissavo. Non sapevo come comportarmi. L'avevo sempre protetta dalla verità. Mi chiedevo che cosa avesse intuito. «È stato mio padre.» Lo disse in tono così sicuro che non potei negarlo. «Parlami di lui, Taita. Dimmi tutto ciò che dovrei sapere sul suo conto, ma che non hai mai osato rivelarmi.» All'inizio mi fu difficile. Una vita intera di reticenza non si può superare in un momento. Non riuscivo ancora a rendermi conto che non ero più in potere del nobile Intef. Per quanto l'avessi sempre odiato profondamente, aveva dominato il mio corpo e la mia anima fin da quando ero bambino, e sentivo una specie di strana lealtà che mi rendeva difficile parlare liberamente contro di lui. Tentai fiaccamente di tenere a bada Lostris accennando nel modo più vago alle attività clandestine di suo padre, ma lei m'interruppe spazientita. «Suvvia! Non scambiarmi per una sciocca. Sul conto di mio padre so molto più di quanto tu immagini. È tempo che io scopra il resto. Ti ordino di dirmi tutto.» Obbedii. C'erano tante cose da dire che la luna piena sali alta nel cielo prima che avessi terminato. Poi restammo a lungo in silenzio. Non avevo nascosto nulla, e non avevo tentato di negare o di giustificare la parte che avevo avuto io stesso. «Non mi sorprende che ti voglia morto», bisbigliò alla fine Lostris. «Ne sai abbastanza per annientarlo.» Tacque ancora un poco, quindi continuò: «Mio padre è un mostro. Com'è possibile che io sia diversa da lui? Perché, essendo sua figlia, non sono dominata anch'io dagli stessi istinti innaturali?». «Dobbiamo ringraziare tutti gli dei. Ma, padrona, non disprezzi anche me per quanto ho fatto?» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
179
Mi toccò la mano. «Dimentichi che ti conosco da sempre, da quando mia madre mori nel darmi alla luce. So come sei veramente. Sei stato costretto a fare tutto ciò che mio padre ti ha ordinato. Quindi ti perdono volentieri.» Si alzò e incominciò a camminare irrequieta intorno al laghetto delle ninfee. Finalmente tornò da me. «Tanus corre un pericolo terribile a causa di mio padre. Non l'avevo compreso pienamente fino a questa sera. È necessario avvertirlo perché possa proteggersi. Devi andare subito da lui, Taita, senza indugiare un altro giorno.» «Padrona...» cominciai, ma lei m'interruppe. «No, Taita, non intendo ascoltare le tue abili giustificazioni. Domani partirai per Karnak.» E così l'indomani mattina, prima del levar del sole, uscii da solo a pesca con il barchino, facendo in modo che almeno una dozzina di schiavi e di sentinelle mi vedesse lasciare l'isola. In una lanca della laguna aprii il sacco di cuoio in cui avevo nascosto un gatto che aveva fatto amicizia con me. Era un vecchio animale malato, tormentato dalla rogna e dagli ascessi alle orecchie, e da qualche tempo avevo deciso di non farlo più soffrire. Gli porsi un pezzo di carne cruda intrisa nell'essenza della datura. Lo tenni sulle ginocchia e lo accarezzai mentre mangiava e faceva le fusa. Non appena scivolò nella morte senza accorgersene, gli tagliai la gola. Sparsi il sangue sul barchino e gettai la carogna in acqua: sapevo che i coccodrilli l'avrebbero divorata. Poi lasciai le fiocine, le lenze e gli altri attrezzi a bordo, spinsi la piccola imbarcazione nella corrente lenta e, passando a guado fra i papiri, raggiunsi la terraferma. Avevamo stabilito che la mia padrona avrebbe atteso fino a notte prima di dare l'allarme. Soltanto l'indomani a mezzogiorno avrebbero trovato il barchino macchiato di sangue e avrebbero concluso che ero stato divorato da un coccodrillo o assassinato da una banda di Averle. Quando arrivai a riva indossai l'abito che avevo portato con me. Avevo pensato di impersonare un sacerdote di Osiride: spesso avevo imitato la loro andatura rigida e i loro modi pomposi per far ridere la mia padrona. Mi bastavano una parrucca, un po' di trucco e il costume adatto per compiere la trasformazione. I sacerdoti sono sempre in movimento avanti e indietro lungo il fiume; viaggiano da un tempio all'altro, e mendicano o piuttosto esigono le Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
180
elemosine lungo il cammino. Non avrei destato la curiosità di nessuno, e il travestimento poteva servire a evitare un'aggressione da parte delle Averle che, per superstizione, spesso preferiscono non infastidire i sacerdoti. Aggirai la laguna ed entrai nella città occidentale passando dal quartiere più povero. Al porto, mi rivolsi al comandante di una chiatta che stava caricando sacchi di grano e giare d'olio. Con la dovuta arroganza chiesi un passaggio gratuito fino a Karnak in nome del dio; il capitano alzò le spalle e sputò sul ponte, ma mi permise di salire a bordo. Tutti gli uomini sono rassegnati alle estorsioni dei religiosi: disprezzano i sacerdoti ma temono i loro poteri spirituali e secolari. Alcuni pensano che il clero abbia un potere paragonabile a quello dello stesso Faraone. C'era la luna piena e il capitano della chiatta era un navigatore più intrepido dell'ammiraglio Nembet. Non ci ancorammo per passare la notte. Sospinti dalla brezza e dalla piena del Nilo, viaggiammo velocemente e il quinto giorno doppiammo l'ansa del fiume e vedemmo di fronte a noi la città di Karnak. Avevo lo stomaco in subbuglio quando scesi a terra, perché era la mia città, e tutti i mendicanti e gli sfaccendati mi conoscevano bene. Se fossi stato riconosciuto, il nobile Intef sarebbe venuto a saperlo prima ancora che arrivassi alle porte della città. Ma il travestimento mi protesse, e io scelsi le viuzze secondarie per recarmi alla casa di Tanus presso la base della squadra. La porta non era sbarrata ed entrai come se ne avessi il diritto, quindi la richiusi dietro di me. Le stanze modestamente arredate erano deserte, e non vi trovai nulla che potesse aiutarmi a rintracciarlo. Evidentemente Tanus se n'era andato da molto tempo, forse da quando la mia padrona e io eravamo partiti da Karnak. Il latte in una brocca accanto alla finestra s'era addensato e seccato come un formaggio duro, e una crosta di pane di sorgo su un piatto era coperta da una muffa bluastra. A quanto potevo vedere non mancava nulla: anche l'arco Lanata era appeso a una panoplia sopra il letto. Era stranissimo che Tanus l'avesse abbandonato, poiché lo considerava come un'estensione del suo corpo. Lo nascosì in uno scomparto segreto sotto il letto che avevo costruito apposta quando Tanus si era trasferito in quell'alloggio. Non volevo aggirarmi in pieno giorno per la città, quindi rimasi nella casa per il resto del pomeriggio e passai il tempo rimuovendo la polvere e il sudiciume che si erano accumulati. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
181
Al cader della notte uscii furtivamente e scesi al fiume. Vidi subito che il Soffio di Horus era ormeggiato: era evidente che aveva partecipato a combattimenti dall'ultima volta che l'avevo visto e che aveva subito danni nella battaglia. La prua era fracassata, e al centro il fasciame era semicarbonizzato. Notai con un fremito d'orgoglio che Tanus aveva apportato allo scafo le modifiche progettate da me. Il corno di metallo dorato sporgeva da prua, appena sopra la linea di galleggiamento. Dalle condizioni in cui era ridotto dedussi che doveva aver fatto strage della flotta del Pretendente Rosso. Vidi però che Tanus e Kratas non erano sul ponte. Era di turno un ufficiale inferiore che riconobbi; ma scartai l'idea di chiamarlo. Mi avviai invece per fare il giro dei locali frequentati dai marinai intorno al porto. È molto indicativo per quanto riguarda la morale e la santità dei sacerdoti di Osiride il fatto che fossi accolto come un cliente abituale nelle bettole e nei postriboli. In una delle taverne più rispettabili riconobbi la figura imponente di Kratas. Beveva e giocava a dadi con un gruppo di altri ufficiali. Non mi avvicinai, e l'osservai dall'angolo opposto del locale affollato. Nel frattempo dovetti respingere le profferte di molte creature del piacere di entrambi i sessi, che abbassavano sempre più le richieste per indurmi a uscire nel vicolo buio a godere delle loro grazie. Nessuno sembrava provare soggezione per la collana sacerdotale di perle di vetro blu. Quando finalmente Kratas augurò la buonanotte ai compagni e usci nel vicolo, lo seguii con sollievo. «Che vuoi da me, amato dagli dei?» ringhiò Kratas in tono sprezzante mentre lo affiancavo. «Il mio oro o il mio arnese?» Molti sacerdoti avevano abbracciato con entusiasmo la nuova moda della pederastia. «Prenderò l'oro», risposi. «Hai più di quello che dell'altro, Kratas.» Si fermò di colpo e mi fissò insospettito. Il suo viso era leggermente arrossato dall'alcool. «Come conosci il mio nome?» Mi prese per la spalla e mi trascinò verso una porta illuminata per scrutarmi il viso. Poi mi strappò la parrucca. «Per i foruncoli fra le natiche di Seth, sei tu, Taita!» «Ti sarei grato se ti astenessi dal gridare il mio nome al mondo intero», dissi, e Kratas divenne serio di colpo. «Vieni. Andiamo a casa mia!» Appena fummo soli riempi di birra due boccali. «Non hai già bevuto Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
182
abbastanza?» chiesi, e Kratas sorrise. «Conosceremo la risposta domattina. Suvvia, Taita, non essere tanto severo con me. Siamo stati a valle ad attaccare la flotta dell'Usurpatore Rosso durante le ultime tre settimane. Per la bontà di Hapi, il corno che hai inventato fa prodigi. Abbiamo sventrato quasi venti galee del nemico e decapitato duecento bricconi. Anche se era un lavoro che faceva venir sete, in tutto quel periodo non ho bevuto nulla di più forte dell'acqua. Non puoi negarmi un po' di birra. Bevi con me!» Alzò il boccale. Anch'io avevo sete. Brindai, ma quando ebbi bevuto gli chiesi: «Dov'è Tanus?». Ridivenne serio immediatamente. «Tanus è scomparso», rispose. Lo fissai. «Scomparso? Come, scomparso? Non ha guidato l'attacco a valle del Nilo?» Kratas scosse la testa. «No. È sparito. Ho ordinato ai miei uomini di battere ogni casa e ogni via di Tebe, e non c'è segno di lui. Ti assicuro, Taita: sono preoccupato, veramente preoccupato.» «Quando l'hai visto l'ultima volta?» «Due giorni dopo le nozze reali, quando la nobile Lostris ha sposato il re, la sera del giorno in cui siete partiti per Elefantina. Ho cercato di far entrare un po' di buon senso nella sua testaccia dura, ma non ha voluto ascoltare.» «Che cosa ti ha detto?» «Mi ha affidato il comando del Soffio di Horus e dell'intera squadra.» «Ma non poteva...» «Si, lo poteva. Si è servito dell'autorità del reale Sigillo del Falco.» Annuii. «E poi? Che cos'ha fatto?» «Te l'ho appena detto. È scomparso.» Bevvi un sorso di birra mentre cercavo di riflettere. Kratas, intanto, andò alla finestra a urinare. Il getto piovve rumorosamente sulla strada sottostante e sentii il grido indignato di un passante: «Attento a dove spruzzi, lurido porco!». Kratas si affacciò e minacciò di spaccargli il cranio. Il borbottio dell'uomo si allontanò rapidamente. Ridendo della piccola vittoria, Kratas tornò da me e io gli chiesi: «In che stato d'animo era Tanus quando ti ha lasciato?». Kratas ridivenne di nuovo serio. «Era dell'umore più nero e minaccioso che abbia mai visto. Malediceva gli dei e il Faraone. Ha maledetto persino la nobile Lostris e ha detto che era una puttana reale.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
183
Rabbrividii. Tuttavia sapevo che non era stato il mio Tanus a parlare così: quella era la voce della disperazione e dell'amore deluso. «Ha detto che il Faraone poteva farlo strangolare per sedizione, e che avrebbe preferito così. No, era in condizioni terribili, e non ho potuto dire o fare qualcosa per confortarlo.» «Tutto qui? Non ti ha lasciato capire che cosa intendeva fare?» Kratas scosse la testa e si versò altra birra. «Dov'è finito il Sigillo del Falco?» chiesi. «L'ha lasciato a me. Ha detto che non sapeva che farsene. È al sicuro, a bordo del Soffio di Horus.» «E tutti gli altri accordi che avevo discusso con te? Hai fatto quanto ti ho chiesto?» Kratas fissò il boccale con aria colpevole e mormorò: «Avevo cominciato a dare disposizioni, ma dopo la scomparsa di Tanus mi è sembrato inutile... E poi, da allora ho avuto troppo da fare a valle del fiume». «Non è da te, Kratas, dimostrarti tanto inaffidabile.» Avevo scoperto che con lui un atteggiamento di disappunto doloroso era più efficace della collera. «La mia padrona contava su di te. Mi ha detto che si fidava nel modo più completo: Kratas è una torre di forza... Queste sono state le sue precise parole.» Mi accorsi che il sistema funzionava come al solito, perché anche Kratas era uno dei più fervidi ammiratori della mia signora. Bastava l'idea di averla fatta irritare per smuoverlo. «Accidenti a te, Taita, mi fai sembrare un idiota...» Continuai a tacere, ma il mio silenzio può essere più utile delle parole. «In nome di Horus, che cosa vuole da me la nobile Lostris?» «Nulla di più di quanto ti avevo chiesto di fare prima della partenza per Elefantina», dissi, e Kratas sbatté il boccale sul tavolo. «Sono un soldato, non posso abbandonare i miei doveri e condurre metà della squadra in una folle avventura. Era diverso quando Tanus aveva il Sigillo del Falco...» «Ora quel sigillo l'hai tu», gli ricordai abbassando la voce. Mi fissò. «Non posso servirmene senza Tanus...» «Sei il suo luogotenente. Tanus ti ha dato il Sigillo perché lo usassi. Sai che cosa farne. E allora devi farlo! Io cercherò Tanus e lo riporterò indietro, ma tu dovrai essere pronto. Ci attende un compito disperato e sanguinoso, e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
184
Tanus ha bisogno di te. Non dobbiamo deluderlo ancora una volta.» Kratas arrossi per la collera. «Ti farò ringoiare queste parole», promise. «Sarà il pasto migliore che potrai offrirmi», gli dissi. Mi piacciono gli uomini coraggiosi e onesti. È così facile manovrarli. Non sapevo come avrei potuto mantenere la promessa di trovare Tanus: ma lasciai Kratas a smaltire la bevuta e mi avventurai di nuovo in città per tentare. Feci di nuovo il giro di tutti i posti che un tempo frequentava e interrogai tutti coloro che potevano averlo visto. Sapevo bene i rischi che correvo chiedendo di Tanus e non mi illudevo sull'utilità del mio travestimento, nell'eventualità che avessi incontrato qualcuno che mi conosceva bene: ma dovevo trovarlo. Continuai a girare per tutta la notte, quando anche le bettole e i bordelli lungo il fiume avevano buttato fuori gli ultimi clienti ubriachi e spento le lampade. Quando spuntò l'alba, mi ritrovai stanco e sconsolato sulla riva del Nilo cercando d'individuare qualche possibilità che mi era sfuggita. Un grido roco mi fece alzare lo sguardo. Sopra di me passava in volo uno stormo di oche, profilate contro i toni d'oro pallido e di rame del cielo orientale. Quella vista mi ricordò i giorni felici in cui Tanus, la mia padrona e io andavamo a caccia di uccelli selvatici nelle paludi. «Sciocco!» mi rimproverai. «Ma certo...» Ormai i vicoli del mercato erano invasi da una folla vociante. Tebe è la città più indaffarata del mondo, e nessuno vi sta in ozio. Là soffiano il vetro, lavorano l'oro e l'argento, tessono il lino e fabbricano vasi. Il mercante contratta, l'avvocato discute, il sacerdote canta e la prostituta si offre. È una città animata ed eccitante, e io l'amo molto. Mi feci largo tra la folla e le discussioni mentre mercanti e contadini esponevano le merci agii occhi delle massaie e degli intendenti delle case più ricche. C'era un odore fortissimo di spezie, frutta, verdure, pesce e carne, a volte tutt'altro che freschi. I bovini muggivano, le capre belavano e aggiungevano il loro letame al contributo di escrementi umani che scorrevano lungo le fogne scoperte verso il Nilo. Pensai di comprare un asino, perché sarebbe stata una lunga camminata nella stagione più calda dell'anno, e c'erano in vendita alcune bestie robuste. Alla fine decisi di non farlo, non solo per motivi di economia, ma perché sapevo che in aperta campagna un animale pregiato avrebbe attratto le Averle, che per un simile bottino avrebbero potuto dimenticare gli scrupoli religiosi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
185
Comprai soltanto poche manciate di datteri e una pagnotta, un sacco per riporvi le provviste e una zucca per l'acqua. Poi mi incamminai verso la porta principale della città. Non l'avevo ancora raggiunta quando vi fu un movimento più avanti: un gruppo di guardie del palazzo veniva verso di noi e usava i bastoni per aprirsi un varco. Dietro di loro sei schiavi trasportavano al trotto una lettiga elegante, chiusa da tende. Io ero bloccato contro un muro e, sebbene riconoscessi la lettiga e il comandante delle guardie del corpo, non avevo la possibilità di evitare l'incontro. Il panico mi assali. Avrei potuto superare un esame superficiale da parte di Rasfer, ma ero certo che Intef mi avrebbe riconosciuto nonostante il travestimento. Accanto a me c'era una vecchia schiava con le mammelle che sembravano grandi anfore d'olio d'oliva e un didietro degno di un ippopotamo. Mi spostai in modo da nascondermi dietro di lei. Mi calcai la parrucca sugli occhi e sbirciai cautamente. Nonostante la paura, provai un fremito di orgoglio professionale nel vedere che Rasfer era già in piedi, poco tempo dopo il mio intervento. Stava guidando il suo drappello verso di me, ma solo quando mi fu vicino notai che una metà del viso s'era come afflosciato. Sembrava che la faccia odiosa fosse stata modellata in cera e poi accostata a una fiamma nuda. Spesso questa è la conseguenza di una trapanazione del cranio, anche se eseguita a regola d'arte. L'altra metà del volto era atteggiato nella solita smorfia. Se Rasfer era stato orrendo già prima, adesso doveva far piangere i bambini e indurre gli adulti a fare gli scongiuri contro il malocchio quando l'incontravano. Mi passò accanto, seguito dalla lettiga. Attraverso un varco nelle tende ricamate intravidi il nobile Intef, adagiato su cuscini di seta pura importati dall'oriente che dovevano costare almeno cinque anelli d'oro ciascuno. Aveva le guance ben rasate e i capelli pettinati in riccioletti: sull'acconciatura stava un cono di cera profumata che si sarebbe sciolta con il calore scorrendo sul cuoio capelluto e sul collo per rinfrescare la pelle. Una mano, con le dita cariche di anelli ingemmati, era posata languidamente sulla coscia bruna di un grazioso schiavetto che doveva essere un'aggiunta recente alla sua collezione, perché non lo conoscevo. Fui colto alla sprovvista dalla forza del mio odio mentre guardavo il vecchio padrone. Ricordai tutte le sofferenze e le umiliazioni che avevo subito per colpa sua, aggravate dalla mostruosità più recente. Quando mi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
186
aveva mandato il cobra aveva messo in pericolo la vita della mia padrona. Se anche avessi potuto perdonare tutto il resto, quello non l'avrei mai perdonato. Fece per girare la testa verso di me; ma prima che i nostri occhi s'incontrassero mi chinai dietro la schiava grassa. La lettiga passò oltre e, mentre la seguivo con lo sguardo, mi accorsi che tremavo come mi era accaduto subito dopo la lotta con il cobra. «Divino Horus, ascolta la mia supplica. Non concedermi riposo fino a che Intef non sarà morto e ritornato al suo padrone Seth», mormorai, e m'incamminai verso la porta della città. L'inondazione era al massimo e i terreni lungo il fiume erano avvolti nell'abbraccio fecondo del Nilo. Come aveva fatto a ogni stagione fin dal tempo dei tempi, il fiume deponeva sui nostri campi un altro ricco strato di limo nero. Quando si fosse ritirato, quelle distese sarebbero fiorite nuovamente del verde caratteristico dell'Egitto. Il ricco limo e il sole avrebbero dato tre raccolti prima che il fiume straripasse di nuovo per dispensare la sua abbondanza. I margini dei campi allagati erano cinti da argini rialzati che controllavano il flusso e servivano anche come strade. Percorsi verso oriente uno di questi sentieri fino a quando non raggiunsi la zona rocciosa ai piedi delle colline, quindi svoltai verso il sud. Ogni tanto mi soffermavo per rigirare un sasso lungo il percorso, fino a quando non trovai ciò che cercavo. Poi ripresi il cammino con maggiore determinazione. Tenevo prudentemente d'occhio il terreno accidentato sulla destra, perché poteva nascondere l'imboscata d'una banda di Averle. Stavo attraversando una delle gole che tagliavano il sentiero quando mi sentii chiamare da breve distanza. «Prega per me, amato dagli dei!» Avevo i nervi così tesi che mi lasciai sfuggire un grido e sussultai prima di riuscire a trattenermi. Un pastorello era seduto sul ciglio della gola, sopra di me. Non aveva più di dieci anni, ma sembrava vecchio quanto il primo peccato dell'uomo. Sapevo che spesso le Averle si servivano di ragazzi come esploratori e sentinelle, e quel folletto sudicio sembrava ideale per il ruolo. Aveva i capelli incrostati di sporcizia e indossava una pelle di capra mal conciata e puzzolente. Gli occhi erano brillanti e avidi come quelli di un corvo mentre mi scrutava per valutare il mio abbigliamento e il mio bagaglio. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
187
«Dove sei diretto e che cosa vai a fare, buon padre?» mi chiese, e soffiò nel flauto di canna una lunga nota tremula che poteva essere un segnale per qualcuno nascosto più lontano sul fianco della collina. Trascorse qualche momento prima che il mio cuore si calmasse; poi dissi, con voce un po' ansimante: «Sei impertinente, bambino. Perché ti interessa sapere chi sono e dove vado?». Cambiò subito atteggiamento. «Ho molta fame, buon sacerdote. Sono un orfano costretto ad arrangiarsi. Hai una crosta di pane per me nel tuo sacco?» «Mi sembri ben nutrito.» Gli voltai le spalle, ma il ragazzetto scese di corsa dall'argine e mi saltellò al fianco. «Lasciami guardare nel sacco, buon padre», insistette. «Ti prego, fammi l'elemosina.» «Sta bene, giovane briccone.» Presi dal sacco un dattero maturo. Tese la mano per prenderlo ma, prima che potesse toccarlo, io chiusi le dita e quando le riaprii il dattero s'era trasformato in uno scorpione rossiccio. L'insetto velenoso alzò minacciosamente la coda e il ragazzo fuggi urlando correndo sull'argine. Quando arrivò in cima indugiò solo il tempo necessario per gridare: «Non sei un sacerdote! Sei un genio del deserto, un demone, non un uomo!». Fece freneticamente il segno contro il malocchio, sputò tre volte a terra e fuggi. Avevo catturato lo scorpione sotto una pietra durante il cammino. Naturalmente gli avevo strappato l'aculeo prima di nasconderlo nel sacco, in previsione di un'eventualità del genere. Il vecchio schiavo che mi aveva insegnato a leggere i movimenti delle labbra mi aveva mostrato anche altre abilità, e una di queste era la prestidigitazione. Sul dosso della prima collina mi soffermai per guardarmi indietro. Il pastorello era sulla cresta, molto più in alto di me, ma non era solo. Con lui c'erano due uomini che mi guardavano mentre il ragazzo gesticolava freneticamente. Appena si accorsero che li avevo visti, sparirono tutti e tre. Immaginai che preferissero non aver a che fare con un sacerdote demoniaco. Non avevo percorso molta strada quando scorsi un movimento più avanti. Mi fermai e mi riparai gli occhi dal bagliore del sole meridiano. Con sollievo vidi che stava venendo nella mia direzione un gruppo dall'apparenza innocua. Avanzai guardingo e, fatti pochi passi, il mio cuore diede un balzo perché credetti di riconoscere Tanus. Stava conducendo un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
188
asino. L'animale era carico. Sulla groppa portava una donna e un bambino, ma continuava a trotterellare bravamente. Vidi che anche la donna era carica: aveva il ventre deformato dalla gravidanza, e la creatura in equilibrio dietro di lei era una ragazzina sull'orlo della pubertà. Stavo per gridare il nome di Tanus e corrergli incontro quando mi accorsi che mi ero ingannato e che l'uomo era uno sconosciuto. La figura alta, le spalle ampie, l'agilità con cui si muoveva e i capelli dorati mi avevano ingannato. Mi guardava con aria insospettita e aveva sfoderato la spada. Allontanò l'asino dal sentiero e si piazzò fra me e il suo carico prezioso. «Le benedizioni degli dei ti accompagnino, brav'uomo.» Recitai il mio ruolo di sacerdote e l'uomo borbottò tenendo la spada puntata verso il mio ventre. Nel nostro Egitto nessuno si fidava di uno sconosciuto. «Su questa strada rischi la vita della tua famiglia, amico mio. Avresti dovuto cercare la protezione di una carovana. Ci sono i briganti fra le colline.» Ero sinceramente preoccupato per loro; la donna era d'aspetto onesto e gentile, e la bambina sembrava sul punto di piangere. «Passa oltre, sacerdote!» ordinò l'uomo. «Riserva il tuo consiglio a chi l'apprezza.» «Sei gentile, buon signore», mormorò la donna. «Abbiamo atteso la carovana a Qena per una settimana intera, ma poi non abbiamo più potuto aspettare. Mia madre vive a Luxor, e mi aiuterà a partorire il bambino.» «Silenzio, donna!» ringhiò il marito. «Non vogliamo aver nulla a che fare con gli sconosciuti, anche se portano vesti sacerdotali.» Esitai, cercando di capire se potevo fare qualcosa per loro. La bambina era graziosa e aveva due occhi d'ossidiana scura: la sua vista mi commuoveva. In quel momento, però, l'uomo tirò l'asino e mi passò davanti. Li guardai allontanarsi e scrollai rassegnato le spalle. «Non puoi preoccuparti per tutta l'umanità», mi dissi. «Né puoi imporre i tuoi consigli a chi li respinge.» Non mi voltai più indietro e continuai a camminare verso nord. Era pomeriggio inoltrato quando guardai lo sperone roccioso che si protendeva nella palude verde. Anche da lassù era impossibile scorgere la baracca: era nascosta fra i papiri, e siccome il tetto era di steli di papiro secchi, la mimetizzazione era perfetta. Scesi correndo il sentiero, saltando di roccia in roccia, fino a quando non raggiunsi l'acqua. A quella distanza dal corso principale del Nilo, la piena non era molto notevole. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
189
Trovai la nostra vecchia barca malconcia legata all'imbarcadero: era quasi allagata, e dovetti sgottare prima di affidarla all'acqua. Poi la spinsi cautamente con la pertica in mezzo ai papiri. Quando il Nilo era in secca la baracca si trovava sulla terraferma; ma sotto le palafitte che la sostenevano adesso c'era abbastanza acqua per annegare un uomo. A uno dei pali era legata una barca vuota in condizioni migliori della mia. Ormeggiai, salii la traballante scaletta a pioli e sbirciai all'interno. C'era un'unica stanza, e la luce del sole entrava attraverso i buchi del tetto di paglia, ma non aveva importanza perché nell'Alto Egitto non pioveva mai. La capanna non era mai stata così in disordine dal giorno in cui l'avevamo scoperta Tanus e io. Indumenti, armi e utensili per cucinare erano sparsi come i resti su un campo di battaglia. Il puzzo d'alcool era ancora più forte di quello del cibo muffito e dei corpi non lavati. I corpi non lavati erano distesi su un giaciglio altrettanto sudicio, in un angolo. Avanzai con prudenza sul pavimento ingombro in cerca di un segno di vita e in quel momento la donna borbottò e si girò. Era giovane, nuda e provocante, con i seni grossi e un cespuglio di riccioli alla base del ventre. Ma anche nel riposo la faccia era dura e volgare. Ero certo che Tanus l'avesse incontrata sul lungofiume. Avevo sempre saputo che era schizzinoso e che non tendeva a bere troppo. Quella femmina e gli orci vuoti di vino ammonticchiati contro ogni parete indicavano quanto era caduto in basso. Lo guardai mentre dormiva, e lo riconobbi a stento. Aveva la faccia chiazzata e gonfia, coperta dalla barba lunga. Era evidente che non si era più rasato dall'ultima volta che l'avevo visto davanti alle mura dell'harem. In quel momento la donna si svegliò. Fissò gii occhi su di me e con un movimento felino scivolò dal giaciglio e tese la mano verso il pugnale appeso a una parete. Le sottrassi l'arma prima che potesse prenderla e le mostrai la punta affilata. «Vattene», ordinai senza alzare Sa voce. «Prima che ti pianti nel ventre qualcosa che neppure tu hai mai conosciuto.» La donna raccolse gli indumenti e si rivesti in fretta senza smettere di fissarmi con aria velenosa. «Non mi ha pagata», disse quando si fu vestita. «Sono sicuro che ti sei già servita generosamente.» Indicai la porta con il pugnale. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
190
«Mi aveva promesso cinque anelli d'oro.» La donna cambiò tono e cominciò a piagnucolare. «Ho lavorato per lui in questi ultimi venti giorni e più. Ho fatto di tutto: ho cucinato e gli ho tenuto in ordine la casa, l'ho servito e ho asciugato il suo vomito quando era ubriaco. Voglio essere pagata. Non me ne andrò se non mi pagherai.» L'afferrai per una ciocca dei lunghi capelli neri, la spinsi verso la soglia e la gettai nella più malridotta delie due barche. Quando si fu allontanata a sufficienza, si voltò e mi rivolse un torrente di insulti che spaventò le egrette e gli altri uccelli acquatici, facendoli involare dai canneti circostanti. Tornai da Tanus. Non si era mosso. Controllai gii orci di vino. Erano quasi tutti vuoti, ma ce n'erano ancora due o tre pieni. Mi chiesi come aveva accumulato quella scorta e immaginai che avesse mandato la donna a Karnak in cerca di un barcaiolo che gliel'aveva portata. Quei quantitativo sarebbe stato sufficiente a far ubriacare tutte le Guardie del Coccodrillo Azzurro per una stagione. Non mi sorprendeva che Tanus fosse in quelle condizioni. Sedetti accanto al suo giaciglio e per un po' rimasi a commiserarlo. Aveva cercato di distruggere se stesso. Lo capivo, ma non lo disprezzavo per questo. Il suo amore per la mia padrona era così grande che senza di lei non voleva continuare a vivere. Naturalmente ero in collera perché s'era ridotto in quelle condizioni e aveva ceduto a tanta follia. Ma per quanto fosse ubriaco, dovevo riconoscere che in lui c'erano anche molte caratteristiche nobili e ammirevoli. Dopotutto, non era il solo colpevole. La mia padrona aveva cercato di avvelenarsi per la stessa ragione per cui Tanus tentava di guastare il suo corpo e il suo spirito. Avevo capito e perdonato Lostris. Potevo non fare altrettanto con Tanus? Sospirai per quei due giovani: erano tutto ciò che contava per me. Quindi mi alzai e mi diedi da fare. Rimasi per un po' accanto a Tanus, fomentando la collera per poter essere veramente duro con lui. Quindi lo presi per i piedi e lo trascinai su! pavimento della baracca. Si scosse vagamente e imprecò con voce fiacca. Io però non badai alle proteste e lo spinsi fuori della porta. Piombò a capofitto nella palude con un grande spruzzo e affondò. Attesi che risalisse in superficie, ancora stordito. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
191
Mi tuffai accanto a lui, lo afferrai per i capelli e gli spinsi la testa sott'acqua. Per un momento si dibatté debolmente e riuscii a trattenerlo senza difficoltà. Poi l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio, e lottò con tutte le sue forze. Mi sentii sollevare e scagliare da parte come un fuscello nella tempesta. Tanus emerse urlando per riprendere fiato e cercò di colpire l'avversario invisibile. Uno solo di quei colpi avrebbe stordito un ippopotamo, e mi affrettai a scostarmi per osservarlo da una certa distanza. Raggiunse la scaletta tossendo e sputando e vi si aggrappò mentre i capelli gli grondavano sugli occhi. Aveva inghiottito molta acqua e forse ne aveva persino assorbita nei polmoni. Mi sentivo un po' allarmato: forse la mia cura era stata troppo vigorosa. Stavo per andare ad aiutarlo quando spalancò la bocca e vomitò un miscuglio fetido di acqua palustre e di vino marcio. Rimasi sorpreso nel vederne la quantità. Restò appeso alla scaletta, ansimando. Raggiunsi a nuoto uno dei pali e attesi che avesse vomitato di nuovo, poi lo fissai con tutto il disprezzo di cui ero capace: «La nobile Lostris sarebbe davvero orgogliosa se ti vedesse». Si guardò intorno e finalmente mi vide. «Taita! Maledetto! Sei stato tu che hai cercato di annegarmi. Idiota, avrei potuto ucciderti.» «In quelle condizioni potresti far danni solo a un orcio di vino. Sei uno spettacolo ripugnante.» Salii la scaletta e lo lasciai in acqua a scuotere la testa e a borbottare fra sé. Incominciai a ripulire la baracca. Passò un po' di tempo prima che Tanus mi seguisse: sedette sulla soglia con aria vergognosa. Non gli badai e continuai a lavorare fino a che fu costretto a rompere il silenzio. «Come stai, vecchio mio? Mi sei mancato.» «Altri, invece, hanno sentito la tua mancanza. Kratas, tanto per cominciare. La squadra ha combattuto a valle del fiume. Un'altra spada avrebbe potuto essergli utile. Sei mancato anche alla nobile Lostris: parla di te ogni giorno e continua ad amarti. Chissà che cosa penserebbe della puttana che ho scacciato dal tuo letto.» Tanus gemette e si strinse la testa fra le mani. «Oh, Taita, non pronunciare il nome della tua padrona. È insopportabile sentirla ricordare...» «Allora stappa un altro orcio di vino, sguazza nel sudiciume e nell'autocommiserazione», gli suggerii in tono rabbioso. «L'ho perduta per sempre. Che vorresti che facessi?» «Vorrei che avessi fede e forza d'animo, come lei.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
192
Mi guardò con aria penosa. «Parlami di Lostris, Taita. Come sta? Pensa ancora a me?» «Purtroppo», borbottai. «Non pensa ad altro. Si prepara al giorno in cui voi due sarete di nuovo insieme.» «Non avverrà mai. L'ho perduta per sempre e non voglio più vivere.» «Bene!» esclamai. «Allora non sprecherò altro tempo qui. Dirò alla mia padrona che non hai voluto ascoltare il suo messaggio.» Gli passai accanto, scesi la scaletta e mi calai nella barca. «Aspetta, Taita», mi chiamò Tanus. «Torna indietro!» «Perché? Tu vuoi morire. E allora muori. Più tardi manderò gli imbalsamatori a prendere il tuo cadavere.» Sorrise imbarazzato. «D'accordo, sono uno sciocco. Il vino mi ha stordito. Torna, ti prego. Riferiscimi il messaggio di Lostris.» Risalii con ostentata riluttanza e Tanus mi segui, barcollando un po'. «La mia padrona mi ha comandato di dirti che il suo amore per te è immutato, nonostante quanto è accaduto. È ancora la tua donna e lo sarà sempre.» «Per Horus, lei mi fa vergognare», mormorò Tanus. «No», lo corressi. «Devi vergognarti per conto tuo.» Tanus sguainò la spada appesa sopra il letto e colpi la fila degli orci allineati contro la parete. Scoppiarono uno dopo l'altro e il vino scorse attraverso il graticcio del pavimento. Tornò da me ansimando, e io lo derisi. «Guardati! Ti sei lasciato andare, e sei diventato flaccido e sfiatato come un vecchio sacerdote.» «Basta, Taita! Hai detto quello che dovevi. Non farti più beffe di me o te ne pentirai.» Vedevo che si stava infuriando proprio come volevo. I miei insulti lo scuotevano. «La mia padrona avrebbe voluto che accettassi la sfida del Faraone: così saresti ancora vivo e onorato fra cinque anni, quando sarà libera di venire con te.» Tanus era attentissimo. «Cinque anni? Che significa, Taita? Le nostre sofferenze avranno una fine?» «Ho percorso i Labirinti per il Faraone. Fra cinque anni sarà morto», risposi semplicemente. Tanus mi fissò e io vidi cento emozioni diverse scorrergli sul viso. Era facile leggere il suo animo, come il rotolo su cui scrivo. «I Labirinti!» mormorò. Una volta, molto tempo prima, aveva dubitato. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
193
Ma poi era cambiato, e aveva finito per credere nei miei poteri ancor più della mia padrona. Aveva visto troppo spesso le mie visioni trasformarsi in realtà. «Puoi attendere cinque anni il tuo amore?» gli chiesi. «La mia padrona giura che saprà aspettarti per tutta l'eternità. Tu puoi attenderla per pochi anni?» «Ha promesso di aspettarmi?» «Per tutta l'eternità», ripetei, e pensai che il giovane stesse per piangere. Non avrei potuto resistere: non potevo vedere in lacrime un uomo come Tanus, perciò mi affrettai a proseguire. «Non vuoi sentire la visione che mi hanno dato i Labirinti?» Tanus dominò il pianto. «Si! Si!» esclamò. Parlammo per tutta la notte, rimanendo seduti a fianco a fianco nell'oscurità. Gli dissi tutto ciò che avevo già raccontato alla nobile Lostris, tutti i particolari che avevo tenuto loro nascosti per tanti anni. Quando spiegai in che modo suo padre, il nobile Pianki Harrab, era stato rovinato e annientato dal suo nemico segreto, la collera di Tanus divampò al punto di cancellare gli ultimi effetti dell'ubriachezza; e quando l'alba spuntò sulla palude la sua volontà era di nuovo chiara e forte. «Allora procediamo con l'impresa che suggerisci, perché mi sembra giusto.» Si alzò di scatto e cinse la spada. Sebbene ritenessi opportuno riposare un po' e lasciare che si riprendesse completamente dagli effetti del vino, non volle darmi ascolto. «Torniamo subito a Karnak», insistette. «Kratas sta aspettando, e l'ansia di vendicare la memoria di mio padre e di rivedere il mio dolce amore mi brucia nel sangue come un incendio.» Quando lasciammo la palude, Tanus mi precedette sul sentiero e io lo seguii correndo. Appena il sole si levò sopra l'orizzonte il sudore gli scorse sulla schiena fino a intridere la cintura del gonnellino. Sembrava che il suo organismo si stesse liberando del vino rancido. Anche se lo sentivo ansimare, non si fermava né rallentava il passo: continuava a correre nel caldo crescente del deserto. Fui io a bloccarlo con un grido. Ci fermammo a fianco a fianco e guardammo davanti a noi. Erano stati gli uccelli a colpire la mia attenzione: avevo sentito da lontano il battito delle loro ali. «Avvoltoi», borbottò Tanus. «C'è qualcosa di morto fra le rocce.» Sguainò la spada e avanzammo cautamente. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
194
Trovammo prima l'uomo, e scacciammo gli avvoltoi che l'assediavano. Lo riconobbi dai capelli biondi: era l'uomo che avevo incontrato per la strada il giorno prima. Del suo viso non era rimasto nulla perché giaceva riverso e gli avvoltoi gli avevano spolpato il cranio. Gli avevano strappato gli occhi e le orbite vuote parevano fissare il cielo sereno. Le labbra erano scomparse: con i denti insanguinati sembrava irridere alla nostra breve esistenza terrena. Tanus lo girò e vide subito le ferite alla schiena che l'avevano ucciso. Era stato colpito da una dozzina di affondi fra le costole. «Chi l'ha fatto ha voluto essere sicuro del proprio lavoro», commentò Tanus che, da soldato veterano, era abituato a spettacoli di morte. Mi addentrai fra le rocce, e un nugolo ronzante di mosche si alzò dal cadavere della donna. Non ho mai capito da dove vengano le mosche, e come si materializzino in tanta fretta nel caldo secco del deserto. Immaginai che la moglie avesse partorito mentre se la spassavano con lei: dovevano averla lasciata in vita dopo essersi sfogati. Con le ultime forze aveva preso il piccino fra le braccia. Era morta così, rannicchiata contro il macigno, mentre proteggeva dagli avvoltoi il bimbo nato morto. Proseguii; le mosche mi guidarono al punto dove i banditi avevano trascinato la bambina. Uno di loro aveva avuto pietà e le aveva tagliato la gola dopo che avevano finito di violentarla, anziché lasciare che morisse lentamente dissanguata. Una delle mosche si posò sulle mie labbra. La scacciai. Poi scoppiai a piangere. Tanus mi trovò così. «Li conoscevi?» chiese. Annuii e mi schiarii la gola per rispondere. «Li ho incontrati ieri. Avevo cercato di metterli in guardia...» M'interruppi: non era facile continuare. Trassi un respiro profondo. «Avevano un asino. Le Averle l'avranno rubato.» Tanus annuì. Si voltò con aria cupa e fece un rapido giro fra i macigni. «Da questa parte!» gridò, e si mise a correre nel deserto. «Tanus!» lo chiamai. «Kratas ti sta aspettando!» Ma non mi diede ascolto, e non mi restò che seguirlo. Lo raggiunsi quando perse le tracce dell'asino in un tratto accidentato e fu costretto a cercare di nuovo. «La fine di quella famigliola mi rattrista anche più di quanto rattristi te», insistetti. «Ma questa è una pazzia. Kratas ci aspetta. Non abbiamo tempo da perdere.» M'interruppe senza neppure guardarmi. «Quanti anni aveva quella Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
195
bambina? Non più di nove. Io trovo sempre il tempo per far giustizia.» Aveva un'espressione fredda e vendicativa. Non era difficile capire che era ritornato quello di un tempo e sapevo che non era il caso di discutere. L'immagine della bambina era impressa nella mia mente. Raggiunsi Tanus e proseguimmo lungo il sentiero. Tanus e io avevamo inseguito gazzelle e orici e persino leoni, ed eravamo esperti. Lavoravamo insieme, correndo sui lati delle tracce lasciate dalla selvaggina, e ci segnalavamo ogni cambiamento. In tal modo potevamo avanzare molto rapidamente. Ben presto le orme arrivarono a una pista che conduceva verso est, lontano dal fiume, sempre più all'interno del deserto. I banditi s'erano incamminati su di essa e ci avevano reso più facile il compito di raggiungerli. Era quasi mezzogiorno e le nostre borracce erano vuote quando finalmente li avvistammo in lontananza. Erano cinque, più l'asino. Non si aspettavano di essere seguiti nel deserto che era il loro rifugio e si muovevano senza precauzioni. Non si erano neppure preoccupati di coprire le tracce. Tanus mi fece acquattare al riparo d'una roccia mentre riprendevamo fiato, e sibilò: «Dobbiamo aggirarli e precederli. Voglio vederli in faccia». Si alzò e mi condusse in un'ampia deviazione su un lato della pista. Superammo la banda delle Averle, ma in modo che non ci vedessero. Poi deviammo di nuovo per tornare sulla pista davanti a loro. Tanus aveva l'occhio del soldato, quando si trattava di scegliere il terreno, e preparò l'imboscata in modo infallibile. Sentimmo da lontano lo scalpiccio dell'asino e il cantilenare delle voci. Mentre li attendevamo ebbi la prima possibilità di chiedermi se avevo fatto bene a seguire Tanus senza discutere. Quando finalmente apparvero le Averle ero convinto d'essere stato troppo precipitoso. Erano la banda dall'aspetto più feroce che avessi mai visto, e io ero armato soltanto del pugnaletto ingemmato. Poco prima di arrivare al punto dov'eravamo in agguato, un beduino alto e barbuto - evidentemente il capo - si fermò e ordinò a uno dei seguaci di scaricare l'otre dell'acqua dal dorso dell'asino. Bevve per primo, poi lo passò agli altri. La mia gola si chiuse nel vederli tracannare il liquido prezioso. «Per Horus, guarda: le loro vesti sono macchiate del sangue della donna. Vorrei avere qui Lanata», bisbigliò Tanus mentre stavamo acquattati fra le rocce. «Potrei trapassargli il ventre con una freccia e farne uscire l'acqua.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
196
Mi posò la mano sui braccio. «Non muoverti fino a che non lo farò io. Capito? Non voglio eroismi.» Annuii con forza: non avevo intenzione di contestare quelle istruzioni ragionevoli. Le Averle proseguirono verso di noi. Erano tutti armati. Il beduino procedeva in testa. Portava la spada legata fra le scapole, ma con l'impugnatura che sporgeva sopra la spaila sinistra, a portata di mano. Il cappuccio del mantello di lana gli proteggeva la testa dal sole, ma gli limitava anche la vista. Quindi non ci notò quando ci passò vicino. Gli altri lo seguivano: uno conduceva l'asino. Gli ultimi due passarono dietro l'animale, litigando per un gioiello d'oro che avevano rubato alla donna assassinata. Tutte le armi erano nei foderi, eccettuate le corte lance dalle punte di bronzo portate dagli ultimi due. Tanus li lasciò passare, quindi si alzò in silenzio e andò alle spalle degli ultimi due uomini della colonna. Pareva muoversi con la noncuranza del leopardo, ma in realtà trascorse soltanto il tempo d'un respiro prima che vibrasse la spada contro il collo dell'uomo sulla destra. Per quanto avessi avuto intenzione di aiutarlo, i miei buoni propositi non s'erano tradotti in atto, e stavo ancora acquattato al riparo della roccia. Mi giustificai pensando che con ogni probabilità lo avrei intralciato se l'avessi seguito troppo da vicino. Non avevo mai visto Tanus uccidere un uomo. Sebbene sapessi che era la sua vocazione e che da anni aveva modo di perfezionarsi in quell'arte, rimasi sbalordito dal suo virtuosismo. Quando colpi, la testa della vittima schizzò dalle spalle come una lepre del deserto dalla tana, e il corpo decapitato mosse un altro passo prima che le gambe si piegassero. Poi, quando il colpo raggiunse il limite dell'arco, Tanus ne inverti la direzione, e con lo stesso movimento centrò l'altro bandito, tranciando il collo anche a lui. La testa cadde e rotolò mentre il resto del corpo stramazzava con il sangue che zampillava nell'aria. Lo scroscio del sangue e i tonfi delle teste che colpivano il terreno pietroso misero in guardia le altre Averle. Si voltarono, allarmati, e per un momento rimasero immobili, sgomenti nel vedere quella carneficina. Poi, con un grido selvaggio, impugnarono le spade e si avventarono su Tanus; ma questi, anziché ritirarsi, li caricò ferocemente, costringendoli a dividersi. Si girò fulmineamente verso l'uomo che aveva isolato dai Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
197
compagni e il suo affondo gli apri una ferita sanguinante su un lato del petto. L'uomo urlò e vacillò. Ma prima che Tanus potesse finirlo, gli altri due lo attaccarono alle spalle e lo costrinsero a voltarsi per fronteggiarlo. Arrestai la loro carica con un fragore di bronzo contro bronzo. Li tenne a distanza con la spada, impegnando prima l'uno e poi l'altro, fino a che l'uomo ferito leggermente si riprese e si avventò da tergo. «Dietro di te!» gli gridai, e Tanus roteò su se stesso appena in tempo per parare l'affondo. Immediatamente gli altri due gli piombarono addosso, e fu costretto a indietreggiare per difendersi. Era impressionante vederlo all'opera. La sua lama era così svelta che sembrava avesse eretto attorno a sé uno scintillante muro di bronzo contro cui i colpi dei nemici si abbattevano vanamente. Mi accorsi che si stava stancando. Il sudore gli grondava addosso, il viso era contratto per lo sforzo. Le settimane di ubriacature e di gozzoviglie avevano sminuito la sua illimitata energia di un tempo. Arretrò di fronte al nuovo assalto del beduino barbuto fino a che si trovò con le spalle contro uno dei macigni, sul lato opposto della pista rispetto al punto in cui stavo ancora acquattato. Ora aveva la schiena protetta dalla roccia e gli altri erano costretti ad attaccarlo di fronte. Ma non era un grande vantaggio; l'attacco guidato dal beduino era implacabile: ululavano come cani selvatici, e il braccio destro di Tanus si muoveva sempre più lentamente. La lancia del primo uomo che Tanus aveva decapitato era caduta in mezzo alla pista. Compresi che dovevo fare subito qualcosa, se non volevo vedere il mio amico fatto a pezzi. Con uno sforzo immane chiamai a raccolta tutta la mia audacia e mi trascinai fuori del nascondiglio. Le Averle s'erano dimenticate di me, nell'ansia di uccidere Tanus. Raggiunsi la lancia senza che nessuno mi notasse, e la raccolsi. Con il peso solido dell'arma fra le mani, sentii ritornare il coraggio perduto. Il beduino era il più pericoloso dei tre avversari di Tanus, ed era anche il più vicino a me. Mi voltava la schiena, e vidi che la sua attenzione era concentrata sullo scontro impari. Puntai la lancia e mi avventai. I reni sono il bersaglio più vulnerabile del dorso umano. Grazie alla mia conoscenza dell'anatomia potei prendere la mira esattamente. La punta penetrò a un dito di distanza dalla colonna vertebrale, apri un'ampia ferita e infilzò il rene destro con precisione chirurgica. Il beduino s'irrigidì come una statua, paralizzato dall'affondo. Poi, mentre rigiravo rabbiosamente la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
198
lama per ridurre il rene in poltiglia, come mi aveva insegnato Tanus, la spada gli cadde dalla mano; stramazzò con un grido così terribile che i suoi compagni si distrassero e offrirono a Tanus un'occasione propizia. Il suo affondo colpi uno dei due al centro del petto: nonostante la stanchezza era ancora abbastanza forte perché la lama attraversasse il torace dell'uomo e la punta insanguinata spuntasse di una spanna fra le scapole. Prima che Tanus riuscisse a liberare la spada dall'abbraccio della carne viva e a uccidere l'ultima Averla, il superstite girò su se stesso e fuggi. Tanus lo inseguì per pochi passi, poi ansimò: «Sono esausto. Inseguilo, Taita. Non lasciare che lo sciacallo ci sfugga». Vi sono pochissimi uomini capaci di distanziarmi nella corsa. Tanus è l'unico che conosca, ma deve essere in piena forma per riuscirci. Piantai il piede sulla schiena del beduino, divelsi la punta della lancia, quindi inseguii l'ultima Averla. Lo raggiunsi dopo meno di duecento passi. Correvo così leggero che non mi senti avvicinare. Con il filo della punta della lancia gli tranciai il tendine della caviglia, e lo feci cadere. La spada gli volò dalla mano. Mentre giaceva a terra urlando, gli saltellai intorno e lo punzecchiai con la lancia, perché si mettesse nella posizione più adatta per l'affondo decisivo. «Quale delle donne ti è piaciuta di più?» gli chiesi mentre lo colpivo alla coscia. «La madre, con quel ventre grosso? O la bambina? Era abbastanza stretta per te?» «Ti prego, risparmiami», urlò. «Non ho fatto niente. Sono stati gli altri. Non uccidermi.» «Il tuo gonnellino è sporco di sangue», dissi, e lo colpii allo stomaco, non troppo profondamente. «La bambina urlava forte come urli tu adesso?» chiesi. Mentre si raggomitolava per proteggersi lo stomaco, lo colpii alla spina dorsale. Per un caso fortunato trovai il varco fra le vertebre. Rimase paralizzato dalla vita in giù, e io mi scostai. «Sta bene», dissi. «Mi hai implorato di non ucciderti e non ti ucciderò. Sarebbe una grazia che non meriti.» Mi voltai per tornare da Tanus. L'uomo strisciò dietro di me per un breve tratto, trascinando le gambe paralizzate come un pescatore trascina una coppia di carpe morte. Poi non resse più e si accasciò piagnucolando. Sebbene fosse mezzogiorno passato, il sole era ancora abbastanza caldo per Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
199
ucciderlo prima del tramonto. Tanus mi guardò incuriosito quando lo raggiunsi. «Hai un istinto selvaggio che non avevo mai sospettato», disse scuotendo la testa. «Non finisci mai di sorprendermi.» Prese l'otre dal dorso dell'asino e me l'offri, ma io scossi la testa. «Prima tu. Ne hai più bisogno.» Bevve con gli occhi chiusi per il piacere, poi ansimò: «Per il dolce respiro di Iside, hai ragione. Sono fiacco come una vecchia. Per poco questo scontro non mi ha finito». Poi girò lo sguardo sui cadaveri e sorrise soddisfatto. «Tutto sommato, comunque, non è un cattivo inizio per il compito assegnatomi dal Faraone.» «È stato un inizio pessimo», lo contraddissi. Quando mi fissò inarcando un sopracciglio, proseguii: «Avresti dovuto tenerne in vita almeno uno, perché ci guidasse al nido delle Averle. Persino quello», dissi, indicando il morente fra le rocce, «è troppo andato per esserci utile. È stata colpa mia. Mi sono lasciato vincere dalla collera. Non dovremo più commettere lo stesso errore». Eravamo quasi ritornati al punto dove avevamo lasciato la famigliola sterminata quando la mia vera natura si riaffermò, e cominciai a rammaricarmi per il modo brutale con cui avevo infierito sul bandito menomato. «Dopotutto era un essere umano come noi», dissi a Tanus, ma quello sbuffò. «Era una belva, uno sciacallo rabbioso, e hai fatto un ottimo lavoro. Lo hai già pianto anche troppo: dimenticalo. Dimmi, invece, perché dobbiamo compiere questa deviazione invece di dirigerci subito al campo di Kratas.» «Mi occorre il corpo del marito.» Non volli dire altro fino a quando raggiungemmo il cadavere mutilato che già cominciava a puzzare. Gli avvoltoi avevano lasciato pochissima carne sulle ossa. «Guarda i capelli», dissi a Tanus. «Chi altri conosci che abbia una chioma simile?» Per un attimo rimase perplesso, poi sorrise e si passò le dita fra i riccioli. «Aiutami a caricarlo sull'asino», ordinai. «Kratas lo porterà a Karnak per farlo imbalsamare. Gli pagheremo un bel funerale e una tomba decente con il tuo nome sulle pareti. Prima di domani sera al tramonto tutta Tebe saprà che il nobile Tanus Harrab è morto nel deserto ed è stato divorato quasi completamente dagli avvoltoi.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
200
«Se Lostris verrà a saperlo...» Tanus era preoccupato. «Le manderò una lettera per avvertirla. Il vantaggio che acquisiremo facendo credere al mondo che sei morto compenserà di gran lunga il rischio di allarmare la mia padrona.» Kratas era accampato alla prima oasi sulla strada carovaniera del mar Rosso, a meno d'un giorno di marcia da Karnak. Con lui c'erano cento uomini delle Guardie del Coccodrillo Azzurro, tutte scelte accuratamente come avevo raccomandato. Tanus e io arrivammo a metà della notte. Avevamo viaggiato in fretta ed eravamo prossimi allo sfinimento. Ci buttammo sulle stuoie accanto al fuoco e dormimmo fino all'alba. Alle prime luci Tanus si alzò e si presentò ai suoi uomini, che lo accolsero con gioia evidente. Gli ufficiali lo abbracciavano, gli uomini applaudivano e sorridevano con orgoglio quando li chiamava per nome. Durante la colazione, Tanus ordinò a Kratas di portare a Karnak il corpo putrefatto per farlo seppellire e di assicurarsi che la notizia della sua morte si spargesse in tutta Tebe. Io diedi una lettera per Lostris a Kratas e gli chiesi di farla giungere a Elefantina per tramite di un messaggero fidato. Kratas scelse una scorta di dieci uomini che si accinsero a partire con l'asino e il suo carico puzzolente per tornare a Tebe. «Cercate di raggiungerci sulla strada per il mare. Se non ci riuscirete, ci troverete accampati nell'oasi di Gebel Nagara: vi aspetteremo li», gridò Tanus mentre il drappello si metteva in marcia. «E al ritorno, ricorda di portarmi Lanata, il mio arco!» Non appena Kratas spari oltre la prima altura sulla strada per l'ovest, Tanus fece schierare il resto del reggimento e ci condusse nella direzione opposta, lungo la carovaniera che portava al mare. La carovaniera che andava dalle rive del Nilo alla costa del mar Rosso era lunga e disagevole; di solito una grossa carovana impiegava venti giorni per compiere il viaggio. Noi coprimmo la distanza in quattro giorni, perché Tanus aveva optato per una serie di marce forzate. All'inizio, lui e io eravamo probabilmente gli unici a non essere in condizioni fisiche eccellenti. Ma quando arrivammo a Gebel Nagara, Tanus s'era liberato del grasso in eccesso e degli ultimi veleni del vino. Era ridiventato magro e solido. In quanto a me, era la prima volta che facevo una marcia forzata con una compagnia delle guardie. Durante i primi giorni soffrii tutti i tormenti della Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
201
sete e dei muscoli doloranti, delle piaghe ai piedi e dello sfinimento che il Ka di un morto deve essere costretto a sopportare sulla strada dell'oltretomba. L'orgoglio, però, non mi permetteva di restare indietro, a parte il fatto che in quel territorio desolato e selvaggio sarebbe stata la morte certa. Con mia sorpresa e piacere, mi accorsi che dopo i primi giorni diventava più facile tenere il passo dei guerrieri. Lungo il percorso incontrammo due grandi carovane dirette verso il Nilo, con gli asini carichi di merci e scorte di uomini armati assai più numerosi dei mercanti e dei servitori. Nessuna carovana era al riparo dalle predazioni delle Averle, se non era protetta da mercenari come quelli o se i mercanti non erano disposti a pagare il prezzo esoso che le Averle pretendevano per lasciarli passare. Quando incontravamo le carovane, Tanus si copriva la testa con lo scialle per mascherarsi il viso e nascondere i capelli dorati. Era troppo riconoscibile per correre il rischio che a Karnak si venisse a sapere che era ancora vivo. Non rispondevamo ai saluti e alle domande che ci rivolgevano gli altri viaggiatori: passavamo oltre correndo in un silenzio altero senza neppure degnarli di un'occhiata. Eravamo ancora a un giorno di marcia dalla costa quando lasciammo la carovaniera e deviammo verso sud, seguendo un'antica pista in disuso che mi era stata mostrata diversi anni prima da un beduino con cui avevo fatto amicizia. I pozzi di Gebel Nagara si trovavano sul vecchio percorso verso il mare, e in quei tempi venivano visitati raramente dagli esseri umani, eccettuati i beduini e i banditi del deserto... ammesso che questi si possano considerare esseri umani. Quando arrivammo ai pozzi ero snello e in forma come non ero mai stato in vita mia, ma rimpiangevo di non avere uno specchio perché ero convinto che quella nuova energia interiore dovesse riflettersi nei miei lineamenti esaltandone la bellezza. Sarei stato lieto di avere la possibilità di ammirarla. Non mancavano, tuttavia, altri che l'ammiravano al mio posto. La sera, intorno ai fuochi del bivacco, molte occhiate bramose volavano nella mia direzione, e ricevevo proposte furtive dai miei compagni, perché persino un corpo di combattenti scelti era contaminato dalla nuova licenza sessuale che permeava la nostra società. Durante la notte tenevo il pugnale accanto a me; e quando punzecchiai il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
202
primo visitatore non invitato, le sue grida suscitarono fra gli altri la più grande ilarità: da allora le attenzioni sgradite mi furono risparmiate. Anche quando raggiungemmo i pozzi, Tanus non ci concesse molto riposo. Mentre attendevamo che Kratas arrivasse, continuava a far esercitare gli uomini con le armi e con gare di tiro con l'arco, di lotta e di corsa. Mi faceva piacere constatare che Kratas aveva scelto quegli uomini secondo le mie istruzioni. Non c'erano soldati alti e massicci, a parte Tanus: erano tutti piccoli, agili e adatti al ruolo che avevo pensato per loro. Kratas arrivò appena due giorni dopo di noi. Tenendo conto del ritorno a Karnak e del tempo impiegato nei compiti assegnatigli da Tanus, doveva aver viaggiato ancora più in fretta di noi. «Che cosa ti ha trattenuto?» gli chiese Tanus quando lo vide. «Hai trovato sulla strada una ragazza ben disposta?» «Avevo due oggetti pesanti da portare», rispose Kratas abbracciandolo. «Il tuo arco e il Sigillo del Falco. Sono felice di liberarmene.» Consegnò l'arma e la statuetta con un gran sorriso, felice d'essere di nuovo a fianco di Tanus. Tanus prese subito Lanata e si avventurò nel deserto. Lo accompagnai e lo aiutai a seguire un branco di gazzelle. Con quelle creature piccole e agili che correvano e balzavano sulla pianura, era uno spettacolo straordinario vedere Tanus abbatterne una dozzina con altrettante frecce. Quella notte, mentre mangiavamo fegato e filetti di gazzella, discutemmo la fase successiva del mio piano. Al mattino lasciammo Kratas al comando delle guardie e Tanus e io partimmo soli per la costa. C'era appena mezza giornata di cammino fino ai piccolo villaggio di pescatori che era la nostra destinazione, e a mezzogiorno salimmo sull'ultima altura e guardammo la distesa scintillante del mare sotto di noi. Da lassù vedevamo chiaramente i contorni scuri delle scogliere coralline sotto le acque color turchese. Appena entrammo nel villaggio Tanus convocò il capo: dal portamento del mio amico era così evidente che si trattava d'un personaggio autorevole che il vecchio accorse subito. Quando Tanus gli mostrò il Sigillo del Falco il capo si prosternò come se fosse in presenza del Faraone e batté la testa a terra con tanta energia da indurmi a temere che si facesse male. Quando lo risollevai, ci condusse all'alloggio migliore del villaggio, la sua casupola, e scacciò la propria famiglia per farci posto. Dopo aver mangiato una ciotola di zuppa di pesce accompagnata da una Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
203
coppa di ottimo vino di palma, Tanus e io scendemmo alla spiaggia di sabbia candida e ci liberammo del sudore e della polvere del deserto nelle acque tiepide della laguna circondata dalla barriera di corallo. Dietro di noi i monti senza tracce di vegetazione si ergevano nel cielo azzurro del deserto. Mare, montagne e cielo formavano uno spettacolo grandioso che stordiva i sensi. Io, però, avevo poco tempo per ammirarli, perché i pescherecci stavano rientrando. Erano cinque, malconci, con vele di fronde di palma intessute, e stavano passando dal varco nella scogliera. Erano così carichi di pesce che sembravano correre il rischio di affondare. Sono affascinato dall'abbondanza naturale che gli dei ci donano; perciò esaminai con attenzione il pescato quando fu scaricato sulla spiaggia, e interrogai i pescatori sulle cento specie diverse. Il mucchio di pesci era un tesoro luccicante e iridescente, e rimpiangevo di non avere con me i rotoli e i colori per documentare tutto. L'interludio fu troppo breve. Appena i pesci furono scaricati, mi imbarcai su uno dei piccoli vascelli puzzolenti e salutai Tanus, che era rimasto sulla spiaggia, mentre passavamo nel varco della barriera. Tanus doveva rimanere fino a quando fossi tornato con l'equipaggiamento necessario per la parte successiva del mio piano. Anche in quell'occasione non volevo che venisse riconosciuto nel luogo dove stavo andando. Adesso il mio compito era impedire che i pescatori o i loro familiari andassero a incontrarsi segretamente con le Averle nel deserto per segnalare la presenza nel villaggio di un nobile con i capelli dorati e il Sigillo del Falco. L'imbarcazione sollevò la prua alla prima, forte ondata del mare, e il timoniere la guidò nel vento e la fece puntare verso nord, parallelamente alla costa squallida. Dovemmo percorrere un breve tratto. Prima di notte il timoniere indicò con il braccio le costruzioni in pietra del porto di Safaga, sulla riva lontana. Per mille anni Safaga era stata il porto di tutti i commerci fra l'Alto Egitto e l'oriente. Ancora adesso, mentre stavo a prua del piccolo peschereccio, scorgevo le sagome di altri vascelli molto più grandi sull'orizzonte settentrionale: andavano e venivano fra Safaga e i porti arabi sulla costa orientale dello stretto mare. Era buio quando scesi sulla spiaggia, e nessuno parve notare il mio arrivo. Sapevo esattamente dove dovevo andare, perché avevo visitato regolarmente il porto per ordine del mio padrone Intef. A quell'ora le vie erano quasi deserte, ma le taverne erano affollate. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
204
Raggiunsi in fretta la casa di Tiamat, il mercante. Era un uomo ricco e la sua residenza era la più grande della città vecchia. Uno schiavo armato si parò davanti a me. «Di' al tuo padrone che il chirurgo di Karnak che gli ha salvato la gamba vuole vederlo», ordinai, e poco dopo Tiamat mi venne incontro zoppicando. Rimase sbalordito nel vedermi travestito da sacerdote, ma ebbe il buon senso di non fare commenti e di non pronunciare il mio nome di fronte allo schiavo. Mi condusse nel giardino cintato e appena restammo soli esclamò: «Sei davvero tu, Taita? Avevo sentito dire che eri stato assassinato dalie Averle a Elefantina». Era un uomo corpulento, di mezza età, con la faccia aperta e la mente acuta. Qualche anno prima me l'avevano portato in lettiga. Un gruppo di viaggiatori l'aveva trovato sul bordo della strada dove era stato lasciato per morto dopo che la sua carovana era stata assaltata e saccheggiata dalle Averle. L'avevo ricucito ed ero riuscito persino a salvargli la gamba già quasi incancrenita. Tuttavia, adesso camminava claudicando. «Sono felice di vedere che la notizia della tua morte era prematura.» Rise e batté le mani perché gli schiavi mi portassero una coppa di sorbetto e un piatto di fichi e datteri al miele. Dopo che avemmo conversato per un po', Tiamat mi chiese: «Posso fare qualcosa per te? Ti devo la vita. Non hai altro da fare che chiedere. La mia casa è la tua casa. Tutto ciò che possiedo è tuo». «Sono qui per ordine del re», dissi, ed estrassi il Sigillo del Falco dalla tunica. Tiamat assunse un'espressione grave. «Riconosco il Sigillo del Faraone. Ma non era necessario che me lo mostrassi. Chiedi ciò che vuoi. Non posso rifiutarti nulla.» Mi ascoltò senza fiatare, e quando ebbi finito fece chiamare il suo intendente e gli impartì gli ordini. Prima di mandarlo via si rivolse a me: «Ho dimenticato qualcosa? C'è qualcosa d'altro di cui hai bisogno?». «La tua generosità non ha limiti», risposi. «Tuttavia c'è un'altra cosa. Mi manca il necessario per scrivere.» Tiamat si rivolse di nuovo all'intendente. «Provvedi a fornire rotoli, pennelli e calamai.» Quando l'intendente uscì, continuammo a parlare per metà della notte. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
205
Tiamat stava al centro della rete commerciale più trafficata dell'Alto Egitto, e veniva a conoscenza di tutte le voci che giungevano dagli angoli più lontani dell'impero, e da oltre il mare. In quelle poche ore trascorse nel suo giardino venni a sapere assai più di quanto avrei appreso in un mese nella reggia di Elefantina. «Paghi ancora il riscatto alle Averle perché lascino passare le tue carovane?» chiesi. Tiamat alzò le spalle, rassegnato. «Che scelta ho, dopo quel che hanno fatto alla mia gamba? Ogni stagione le loro pretese diventano più esorbitanti. Devo pagare più d'un quarto del valore delle mie merci non appena la carovana lascia Safaga, e metà dei miei profitti quando la roba viene venduta a Tebe. Presto ci ridurranno tutti in miseria, e sulle strade carovaniere crescerà l'erba. Il commercio finirà per cessare.» «Come effettui i pagamenti?» gli chiesi. «Chi determina l'ammontare e chi li incassa?» «Hanno le loro spie qui nel porto. Sorvegliano ciò che viene scaricato e sanno che cosa trasporta ogni carovana quando lascia Safaga. Prima ancora che raggiunga il passo sulla montagna, viene fermata dai capi dei banditi che esigono la taglia prestabilita.» Era passata da molto la mezzanotte prima che Tiamat chiamasse uno schiavo perché mi facesse luce e mi accompagnasse alla stanza assegnatami. «So che ripartirai prima che io mi alzi, domattina.» Tiamat mi abbracciò. «Addio, buon amico. Il mio debito non è ancora saldato. Rivolgiti a me quando ne hai bisogno.» Lo stesso schiavo mi svegliò prima dell'alba e mi condusse al porto. All'interno della scogliera era ormeggiato un solido mercantile di Tiamat. Il comandante levò l'ancora non appena salii a bordo. A metà mattina varcammo la breccia nei coralli e gettammo l'ancora davanti al piccolo villaggio di pescatori dove Tanus era sulla spiaggia ad attendermi. Durante la mia assenza era riuscito a trovare sei asini decrepiti; i marinai di Tiamat scesero a terra trasportando le balle caricate a Safaga e le issarono sulle groppe di quelle povere bestie. Tanus e io ordinammo al capitano del mercantile di attendere il nostro ritorno e poi, guidando gli asini, ci incamminammo verso l'entroterra e i pozzi di Gebel Nagara. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
206
Gli uomini di Kratas avevano mal sopportato il caldo, le mosche della sabbia e la noia, e ci accolsero con un entusiasmo sproporzionato alla durata della nostra assenza. Tanus ordinò a Kratas di farli schierare. I guerrieri assistettero mentre aprivo la prima balla trasportata a dorso d'asino. Quasi subito la loro curiosità lasciò il posto al divertimento quando mostrai un abito da schiava; poi venne un brusio di stupore quando dalle balle uscirono altri settantanove costumi femminili completi. Kratas e due ufficiali mi aiutarono a stenderne uno sulla sabbia davanti a ogni guardia, e poi Tanus diede l'ordine. «Spogliatevi e indossate l'abito!» Vi furono proteste e risate incredule, e solo quando Kratas e gli ufficiali passarono davanti a loro con espressione severa, incominciarono a obbedire. Diversamente dalle nostre donne che indossano capi leggeri e spesso tengono il seno scoperto e le gambe nude, le assire portano gonne che spazzano il suolo e maniche che coprono le braccia fino al polso. Per eccesso di pudore si velano persino la faccia quando escono, anche se forse queste restrizioni sono imposte dalla gelosia possessiva dei loro uomini. Del resto, c'è una grande differenza fra la terra assolata dell'Egitto e quei climi più inclementi, dove l'acqua cade dal cielo e diventa solida e bianca sulle cime dei monti e i venti agghiacciano fino alle ossa. Quando ebbero superato il primo trauma di vedersi abbigliati in quel modo strano, gli uomini entrarono nello spirito del momento. Ben presto vi furono ottanta schiave velate che ancheggiavano avvolte nelle lunghe gonne, dimenavano il didietro e lanciavano occhiate seducenti a Tanus e ai suoi ufficiali. Gli ufficiali non riuscirono più a stare seri. Forse a causa della mia situazione particolare ho sempre trovato un po' ripugnante lo spettacolo degli uomini vestiti da donna; ma pochi altri uomini condividono i miei sentimenti, e basta che un bravaccio villoso indossi una gonna perché quanti lo vedono ridano a crepapelle. In mezzo a quel chiasso mi congratulai con me stesso perché avevo chiesto a Kratas di scegliere soltanto gli uomini più piccoli e snelli della squadra. Mentre li guardavo ero certo che avrebbero potuto portare l'inganno sino in fondo: avevano soltanto bisogno di imparare ad assumere un portamento femminile. L'indomani mattina la nostra strana carovana attraversò il villaggio dei Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
207
pescatori e scese alla spiaggia dove era in attesa il vascello mercantile. Kratas e otto dei suoi ufficiali formavano la scorta. L'assenza d'una scorta armata per una merce così preziosa avrebbe destato sospetti. Nove uomini armati vestiti come mercenari sarebbero stati sufficienti, anche se non avrebbero scoraggiato una grossa banda di Averle. Tanus marciava in testa alla carovana, abbigliato con la sontuosa veste e l'acconciatura ricamata di un ricco mercante giunto da oltre l'Eufrate. Gli era cresciuta la barba, e l'aveva arricciata secondo l'usanza assira. Molti di quegli asiatici, in particolare delle regioni montuose a nord, hanno la stessa carnagione di Tanus, che aveva quindi un aspetto adatto alla parte. Io lo seguivo. Avevo vinto la mia avversione a portare vesti femminili e avevo indossato la lunga gonna e il velo, oltre ai gioielli di una donna assira. Ero deciso a fare in modo che nessuno mi riconoscesse al mio ritorno a Safaga. Il viaggio fu ravvivato dal mal di mare di molte schiave e di non pochi ufficiali, abituati a navigare sulle acque placide del Nilo. A un certo momento erano allineati in così gran numero lungo il parapetto per fare le loro offerte agli dei marini che la nave s'inclinò visibilmente. Fu un sollievo per tutti scendere sulla spiaggia di Safaga, dove destammo una grande curiosità. Le donne assire erano famose per la loro abilità nelle arti dell'amore. Si diceva che alcune conoscessero trucchi capaci di riportare in vita una mummia millenaria. Coloro che ci guardavano scendere a terra pensavano che, dietro i veli, le schiave fossero incantevolmente femminili. Un astuto mercante asiatico non avrebbe trasportato la sua merce tanto lontano e con una simile spesa se non fosse stato certo di spuntare un ottimo prezzo nei mercati lungo il Nilo. Uno dei mercanti di Safaga abbordò subito Tanus e si offrì di comprare tutte le donne sul posto, facendogli risparmiare l'oneroso viaggio attraverso il deserto, ma Tanus rifiutò con una risata sprezzante. «Ti hanno avvertito dei pericoli del viaggio che intendi affrontare?» insistette il mercante. «Prima di raggiungere il Nilo sarai costretto a pagare una taglia per poter transitare liberamente, e questo divorerà gran parte del tuo guadagno.» «Chi mi costringerà a farlo?» chiese Tanus. «Io pago soltanto ciò che devo.» «Vi sono uomini che sorvegliano la strada», l'avverti il mercante. «E anche se paghi quanto chiedono, non è certo che ti lasceranno passare Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
208
indenne, dato soprattutto che porti con te merce così allettante. Gli avvoltoi lungo il percorso che conduce al Nilo sono ingrassati perché si nutrono delle carogne dei mercanti ostinati, e quasi non riescono a volare. Vendimi subito tutto con un buon utile...» «Ho le mie guardie armate.» Tanus indicò Kratas e il suo drappello. «Penseranno loro a tener testa ai predoni.» Gli astanti che avevano assistito al dialogo risero e si scambiarono gomitate a quella vanteria. Il mercante scrollò le spalle. «Sta bene, mio coraggioso amico. In occasione del mio prossimo viaggio nel deserto cercherò il tuo scheletro sul bordo della strada. Ti riconoscerò dalla barba rossa.» Come mi aveva promesso, Tiamat aveva messo a nostra disposizione quaranta asini. Venti erano carichi di otri pieni, gli altri avevano i basti per trasportare le balie e i fardelli scaricati dal mercantile. Volevo che trascorressimo il minor tempo possibile nel porto, sotto tanti occhi curiosi. Sarebbe stato sufficiente un mimmo errore da parte d'una schiava per rivelarne il vero genere, e sarebbe stata la rovina. Kratas e le sue guardie le fecero avviare per le vie strette, tennero a distanza i curiosi e si assicurarono che le schiave avessero il viso velato e gli occhi bassi, e non rispondessero burberamente con voci mascoline ai commenti maliziosi che ci accompagnarono fino a quando uscimmo dalla città e proseguimmo in aperta campagna. Quella prima notte ci accampammo ancora in vista del porto. Sebbene non prevedessi che ci avrebbero attaccati se non oltre il primo passo montano, ero certo che fossimo già osservati dalle spie delle Averle. Finché c'era luce mi assicurai che le nostre schiave si comportassero da donne, restassero ben coperte e, quando si recavano nel vicino uadi per soddisfare ai bisogni naturali, si accovacciassero decorosamente e non spandessero acqua restando in piedi. Soltanto dopo l'imbrunire Tanus ordinò di aprire i fardelli trasportati dagli asini e di distribuire alle schiave le armi che contenevano. Ognuno andò a dormire con l'arco e la spada nascosti sotto la stuoia. Tanus piazzò le sentinelle intorno al campo. Dopo un giro d'ispezione, quando fummo certi che erano ben piazzate e attente, ci allontanammo con il favore dell'oscurità e ritornammo a Safaga. Lo guidai per le strade buie fino alla casa di Tiamat, che ci stava aspettando e aveva fatto preparare un pranzo. Vidi che l'idea di conoscere Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
209
Tanus lo emozionava. «La tua fama ti ha preceduto, nobile Harrab. Conoscevo tuo padre, ed era un vero uomo», disse. «Anche se ho sentito ripetere con insistenza che eri morto una settimana fa nel deserto e che in questo momento il tuo corpo è affidato alle cure degli imbalsamatori sulla riva occidentale del Nilo per i quaranta giorni della mummificazione, sei il benvenuto nella mia umile dimora.» Mentre facevamo onore al banchetto che Tiamat ci aveva offerto, Tanus gli chiese tutto ciò che sapeva delle Averle, e il mercante rispose con franchezza. Alla fine Tanus mi lanciò un'occhiata e io annuii; allora si rivolse di nuovo a Tiamat e disse: «Ti sei dimostrato un amico generoso, eppure non siamo stati del tutto sinceri con te. Lo abbiamo fatto per necessità, perché era indispensabile che nessuno conoscesse il nostro vero scopo. Ora ti rivelerò che mi propongo di annientare le Averle e di consegnare i loro capi alla giustizia e alla collera del Faraone». Tiamat sorrise e si accarezzò la barba. «Non è una grande sorpresa», ribatté. «Ho saputo della missione che il sovrano ti ha affidato durante la festività di Osiride. Questo e il tuo evidente interesse per i feroci banditi hanno lasciato pochi dubbi nella mia mente. Posso soltanto dire che farò un sacrificio agli dei perché ti assistano.» «Per riuscire nell'intento avrò di nuovo bisogno del tuo aiuto», disse Tanus. «Non hai che da chiedere.» «Pensi che le Averle siano già state informate della nostra carovana?» «Tutta Safaga parla di voi», rispose Tiamat. «Il tuo è il carico più ricco arrivato in questa stagione. Ottanta schiave avvenenti varranno almeno mille anelli d'oro ciascuna al mercato di Karnak.» Rise e scosse la testa. «Puoi star certo che le Averle sanno già tutto di te. Ho visto almeno tre loro spie in mezzo alla folla del porto. Puoi prevedere che ti fermino e ti rivolgano le loro richieste prima che raggiungiate il primo valico.» Quando ci alzammo per accommiatarci, ci accompagnò fino alla porta. «Che tutti gli dei favoriscano la vostra impresa. Non soltanto il Faraone ma tutti gli esseri viventi del regno vi saranno debitori se riuscirete a estirpare questo flagello terribile che minaccia la nostra civiltà e rischia di farci precipitare di nuovo nell'era della barbarie.» L'indomani mattina era ancora fresco e buio quando la colonna si mise in Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
210
cammino. Tanus, con Lanata appeso alla spalla, procedeva alla testa della carovana, mentre io lo seguivo da vicino in tutta la mia grazia muliebre. Dietro di noi gli asini venivano in fila, al centro della pista battuta. Le schiave erano disposte in una doppia colonna ai lati degli asini. Le armi erano nascoste sulle some: ognuno dei guerrieri non doveva far altro che tendere la mano per afferrare la propria spada. Kratas aveva diviso la scorta in tre squadre di sei uomini ognuna, comandate da Astes, Remrem e lui stesso. Astes e Remrem erano noti guerrieri e meritavano il comando: tuttavia, in diverse occasioni, entrambi avevano rifiutato la promozione pur di rimanere con Tanus, tanto grande era lo spirito di lealtà che egli ispirava a tutti i suoi subordinati. Non potei fare a meno di pensare ancora una volta che sarebbe stato un grande Faraone. Gli uomini di scorta procedevano a fianco della colonna e cercavano di nascondere il loro portamento marziale. Le spie che sicuramente ci scrutavano dalle colline avrebbero pensato che avessero l'unica funzione d'impedire la fuga di qualche schiava. In realtà si preoccupavano soprattutto di evitare che le schiave avanzassero a passo di marcia o prorompessero in uno dei ribaldi canti reggimentali. «Ehilà, Kernit!» gridò Remrem. «Non fare passi così lunghi e dimena un po' il didietro. Cerca di sembrare seducente.» «Dammi un bacio, capitano», rispose Kernit. «E farò tutto ciò che vuoi.» Il caldo stava crescendo e i miraggi cominciavano a far danzare le rocce. Tanus si rivolse a me. «Fra poco ordinerò la prima sosta per riposare. Una coppa d'acqua per ciascuno.» «Mio buon marito», lo interruppi. «I tuoi amici sono arrivati. Guarda là avanti!» Tanus si voltò e strinse istintivamente l'arco che gli pendeva al fianco. «E sono individui davvero poco raccomandabili.» In quel momento la colonna si snodava fra le prime colline ai piedi dell'altopiano deserto, ed eravamo bloccati su entrambi i lati dai pendii ripidi. Tre uomini stavano sulla pista davanti a noi. Il capo era alto e minaccioso, avvolto nella veste di lana dei nomadi del deserto, ma aveva la testa scoperta. La pelle era molto scura, butterata dalle cicatrici del vaiolo. Il naso era adunco come il becco di un avvoltoio e l'occhio destro era una gelatina resa opaca dal verme della cecità che si insinua nelle orbite della vittima. «Conosco quello con un occhio solo», dissi a voce bassa, in modo che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
211
potesse udirmi solo Tanus. «Si chiama Shufti, ed è il più malfamato fra i capi delle Averle. Guardati da lui: al suo confronto il leone è una bestia d'animo mite.» Tanus non diede segno di avermi sentito, ma alzò la destra per mostrare che non stringeva un'arma e salutò gaiamente: «Che tutti i tuoi giorni siano profumati di gelsomino, gentile viaggiatore, e che una moglie affettuosa ti attenda al termine del tuo cammino». «Che tutti i tuoi otri rimangano pieni e che le brezze fresche ti accarezzino la fronte mentre attraversi le Sabbie Assetate», rispose Shufti, e sorrise. Il suo sorriso era più feroce del ringhio d'un leopardo e l'unico occhio lanciava lampi terribili. «Sei cortese, nobile signore», lo ringraziò Tanus. «Mi piacerebbe offrirti un pasto e l'ospitalità del mio campo, ma ti prego d'essere indulgente. La strada che ci attende è molto lunga e dobbiamo procedere.» «Concedimi ancora un po' del tuo tempo, illustre assiro.» Shufti si avvicinò per bloccargli il passo. «Ho una cosa che ti è necessaria, se vuoi che tu e la tua carovana raggiungiate sani e salvi il Nilo.» E mostrò un piccolo oggetto. «Ah, un talismano!» esclamò Tanus. «Sei forse un mago? Che talismano mi offri?» «Una piuma.» Shufti continuava a sorridere. «Una piuma d'averla.» Tanus sorrise come per assecondare un bambino. «Sta bene: dammi la piuma e non ti tratterrò pili.» «Un dono per un dono. Tu devi darmi qualcosa in cambio», disse Shufti. «Dammi venti delle tue schiave. Poi, quando ritornerai dall'Egitto, ti attenderò di nuovo sulla strada e mi darai la metà dei profitti ottenuti dalla vendita delle altre sessanta.» «Mi sembra un pessimo affare, per una piuma», ribatté Tanus in tono irridente. «Non è una piuma qualunque. È una piuma di averla», gli fece notare Shufti. «Sei male informato al punto di non aver mai sentito parlare di quell'uccello?» «Mostrami la piuma magica.» Tanus si avvicinò con la mano destra protesa, e Shufti gli andò incontro. Nello stesso istante anche Kratas, Remrem e Astes si avvicinarono come se fossero curiosi di esaminare la piuma. Anziché prendere il dono, Tanus afferrò il polso di Shufti e gli girò il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
212
braccio contro le scapole. Con un grido, Shufti cadde in ginocchio, e il mio amico lo tenne fermo. Intanto Kratas e i suoi si avventarono e colsero due banditi di sorpresa, come il loro capo. Gli strapparono le armi dalle mani e li trascinarono da Tanus. «Dunque voi, minuscoli uccelletti, credete di poter spaventare Kaarik l'assiro con le vostre minacce? Si, caro venditore di piume, ho sentito parlare delle Averle. Ho sentito dire che sono uno stormo di pennuti vocianti e vigliacchi e che fanno più chiasso d'un branco di passeri.» Torse ancora di più il braccio di Shufti, e il bandito gridò per il dolore e cadde bocconi. «Si, ho sentito parlare delle Averle, ma voi avete sentito parlare di Kaarik il Terribile?» Fece un cenno a Kratas e agli altri, che si affrettarono a spogliare i tre briganti e li tennero bloccati sul suolo sassoso. «Voglio che tu ricordi il mio nome e che voli via come un'averla la prossima volta che lo sentirai», disse Tanus, e fece un altro cenno a Kratas. Kratas fletté la frusta tra le dita. Era simile a quella di Rasfer, ricavata dalia pelle di un ippopotamo. Tanus tese la mano e Kratas gliela consegnò con riluttanza. «Non rattristarti», disse Tanus. «Più tardi lascerò fare a te. Ma Kaarik l'assiro prende sempre la prima cucchiaiata dalla pentola.» Schioccò la frusta nell'aria e la fece fischiare come l'ala di un'oca in volo. Shufti si dibatté e girò la testa per sibilare: «Sei impazzito, bue assiro. Non sai che sono un uomo potente del clan delle Averle. Non oserai farmi questo...». La schiena nuda e le natiche erano butterate dal vaiolo. Tanus alzò la frusta e l'abbatté con tutto il suo peso, lasciando sul dorso di Shufti un segno violaceo largo quanto il mio dito indice. Il dolore fu così intenso che il bandito sussultò. L'aria gli sfuggi dai polmoni e gli impedì di urlare. Tanus rialzò la frusta e sferrò un colpo parallelo al primo, così vicino che i segni quasi si toccavano. Questa volta Shufti gettò un muggito rauco, come un bufalo caduto in trappola. Tanus ignorò i suoi sussulti e le sue urla indignate e continuò a lavorare, lasciando segni come se tessesse un tappeto. Quando ebbe finito, le gambe, le natiche e la schiena della sua vittima erano coperte di segni rossi. Nessuno dei colpi si sovrapponeva all'altro; la pelle era intatta e non ne usciva una goccia di sangue, ma Shufti non urlava e non si agitava più. Stava immobile con la faccia a terra e a ogni respiro Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
213
sollevava uno sbuffo di polvere. Quando Remrem e Kratas lo lasciarono non tentò di sollevarsi a sedere. Non si mosse. Tanus lanciò la frusta a Kratas. «Il prossimo è tuo, capo degli schiavi. Vediamo se sai tatuargli sulla schiena un motivo elegante.» I colpi di Kratas erano potenti ma non avevano la perfezione di quelli di Tanus. La schiena del bandito si ridusse come un orcio incrinato pieno di vino rosso. Le gocce di sangue caddero nella polvere e formarono minuscole sfere di fango. Alla fine Kratas fu soddisfatto e passò la frusta ad Astes, indicandogli l'ultimo bandito. «Dagli una lezione che gli ricordi le buone maniere.» Astes aveva un tocco ancora più rustico di Kratas. Quando ebbe finito, la schiena dell'ultimo bandito sembrava un pezzo di carne tagliato da un macellaio impazzito. Tanus diede il segnale di proseguire verso il valico, oltre i monti di rocce rosse, e noi indugiammo ancora qualche istante accanto ai tre banditi. Finalmente Shufti si scosse e alzò la testa; e Tanus gli rivolse la parola in tono cortese. «Dunque, amico mio, mi accommiato da te. Ricorda la mia faccia, e sii prudente quando la rivedrai.» Prese la piuma d'averla caduta a terra e l'infilò nella fascia che gli cingeva la fronte. «Ti ringrazio per il tuo dono e ti auguro di passare ogni notte fra le braccia di una bella donna.» Si portò la mano al cuore e alle labbra nel saluto assiro e io lo seguii lungo la strada. Mi voltai a guardare, prima che superassimo il dosso. I tre erano in piedi, e si sostenevano a vicenda. Anche a quella distanza riuscivo a scorgere l'espressione di Shufti: era la quintessenza dell'odio. «Bene, avete fatto in modo che tutte le Averle al di qua del Nilo ci piombino addosso non appena avremo passato il valico», dissi a Kratas e ai suoi compagni: e non avrei potuto rallegrarli di più se gli avessi promesso una nave carica di birra e di belle ragazze. Dal valico ci voltammo a guardare per l'ultima volta l'azzurro del mare, quindi scendemmo nella desolazione rovente di rocce e sabbia che si estendeva fra noi e il Nilo. Il caldo ci assali come un nemico mortale. Sembrava penetrare dalla bocca e dalle narici quando ansimavamo per respirare, e sottraeva l'umidità dai nostri corpi, come un ladro. Ci seccava la pelle e la screpolava sino a farci scoppiare le labbra come fichi maturi. Le pietre sotto i nostri piedi sembravano appena tolte dal forno del vasaio, e scottavano attraverso le Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
214
suole di cuoio dei sandali. Era impossibile continuare la marcia durante le ore più calde della giornata. Ci sdraiammo all'ombra delle tende fornite da Tiamat, ansimando come cani da caccia dopo l'inseguimento. Quando il sole scese verso l'orizzonte roccioso, proseguimmo. Il deserto intorno a noi era carico di minaccia e persino le Guardie del Coccodrillo Azzurro sembravano depresse. La lunga colonna si snodava come una vipera ferita fra i neri affioramenti di roccia e le dune seguendo l'antica strada su cui erano passati prima di noi innumerevoli viaggiatori. Quando scese la notte, il cielo si popolò di stelle e il deserto si illuminò al punto che, dal mio posto alla testa della carovana, riuscivo a riconoscere la sagoma di Kratas che veniva in coda, sebbene fossimo separati da duecento passi. Continuammo a marciare per metà della notte prima che Tanus desse l'ordine di fermarci. Poi ci fece muovere prima dell'alba, e proseguimmo la marcia fino a quando i miraggi dissolsero le sporgenze di roccia intorno a noi e fecero tremolare l'orizzonte come se fosse di pece fusa. Non vedemmo altri segni di vita, anche se a un certo punto un branco di babbuini latrò contro di noi dall'alto di un tavoliere. Gli avvoltoi veleggiavano così in alto nel caldo cielo azzurro da sembrare granelli di polvere che giravano lentamente in cerchio sopra di noi. Quando riposammo a metà della giornata, i mulinelli di polvere piroettavano e ondeggiavano sulla pianura con la grazia di danzatrici. La tazza d'acqua della razione sembrava trasformarsi in vapore nella mia bocca. «Dove sono?» ringhiò rabbiosamente Kratas. «Per lo scroto sudaticcio di Seth, spero che presto quegli uccellini si facciano coraggio e si presentino.» Sebbene fossero tutti veterani, abituati ai disagi, i nervi cominciavano a logorarsi. Amici e commilitoni presero a beccarsi fra loro senza ragione e a litigare per le razioni d'acqua. «Shufti è furbo», dissi a Tanus. «Radunerà le sue forze e attenderà che andiamo da lui, anziché affrettarsi a venirci incontro. Lascerà che il viaggio ci stanchi fino a renderci imprudenti, prima di attaccare.» Il quinto giorno mi accorsi che ci stavamo avvicinando all'oasi di Gallala quando vidi che le rupi scure davanti a noi erano crivellate dalle grotte delle antiche tombe. Secoli prima l'oasi aveva dato vita a una città prospera; poi un terremoto aveva sconvolto le colline e danneggiato i pozzi. L'acqua s'era ridotta di quantità, e anche se i pozzi erano stati scavati più profondamente per raggiungerla e i gradini scendevano fin dove la superficie dell'acqua era Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
215
sempre all'ombra, la città era morta. I muri scoperchiati si ergevano desolati nel silenzio, e le lucertole stavano al sole nei cortili dove un tempo i ricchi mercanti s'erano dilettati con il loro harem. La nostra prima preoccupazione fu quella di riempire gli otri. Le voci degli uomini che attingevano l'acqua in fondo al pozzo erano distorte dagli echi. Intanto Tanus e io facemmo il giro della città in rovina. Era un luogo solitario e malinconico. Al centro c'era un tempio in rovina dedicato alla divinità protettrice di Gallala. Il tetto era caduto e in certi tratti i muri crollavano. C'era un unico ingresso, attraverso il portale a ovest. «Andrà benissimo», borbottò Tanus mentre si aggirava e lo misurava con l'occhio del soldato, esperto nel valutare le fortificazioni e le imboscate. Quando lo interrogai sulle sue intenzioni, sorrise e scosse la testa. «Lascia fare a me, caro amico. Il combattimento è affar mio.» Mentre stavamo al centro del tempio notai nella polvere le tracce d'un branco di babbuini e le indicai a Tanus. «Credo che vengano qui a bere», dissi. Quella sera, mentre stavamo intorno ai piccoli fuochi fumosi di sterco d'asino nel tempio antico, sentimmo di nuovo i babbuini; i vecchi maschi lanciavano grida di sfida dalle colline che circondavano la città morta. Le loro voci echeggiavano fra le rupi. Feci un cenno a Tanus. «Il tuo amico Shufti è finalmente arrivato. Le sue avanguardie sono sulle colline e ci stanno spiando. Sono stati loro a mettere in allarme i babbuini.» «Spero che tu abbia ragione. I miei stanno per ammutinarsi. Sanno che è stata una tua idea; e se hai torto, può darsi che per placarli sia costretto a offrirgli la tua testa o il tuo didietro», borbottò Tanus, poi andò a parlare con Astes. Un nuovo stato d'animo si diffuse nel campo quando gli uomini capirono che il nemico era vicino. Le smorfie sparirono; si scambiavano invece sogghigni nella luce del fuoco mentre controllavano furtivamente il filo delle spade nascoste sotto le stuoie. Comunque, erano veterani esperti e continuarono a fingere e a compiere i movimenti abituali della vita normale d'una carovana, per non insospettire coloro che ci spiavano dalle colline. Infine ci stendemmo tutti sulle stuoie e i fuochi si spensero. Ma nessuno dormiva. Li sentivo tossire e agitarsi irrequieti nel buio tutto intorno a noi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
216
Le ore passavano. Attraverso il tetto sfondato vedevo le grandi costellazioni girare nel loro splendore maestoso, ma l'attacco non veniva. Poco prima dell'alba Tanus fece per l'ultima volta il giro delle sentinelle e mentre tornava indietro si soffermò per un momento accanto alla mia stuoia e bisbigliò: «Tu e i tuoi amici babbuini siete della stessa stoffa. Abbaiate alle ombre». «Le Averle sono qui. Ne sento l'odore. Le colline ne sono piene», protestai. «Senti soltanto l'odore della colazione», borbottò Tanus: sa che detesto le insinuazioni sulla mia presunta golosità. Non risposi alla sua spiritosaggine e uscii nell'oscurità per fare i miei bisogni dietro un mucchio di rovine. Mentre stavo accovacciato un babbuino latrò di nuovo, e il grido infranse il silenzio innaturale dell'ultima veglia della notte. Girai la testa in quella direzione e sentii, in lontananza, il suono del metallo che urtava la roccia, come se una mano nervosa avesse lasciato cadere un pugnale o uno scudo avesse toccato il granito, o un uomo armato fosse corso a mettersi in posizione prima di venire sorpreso dall'alba. Sorrisi compiaciuto. C'erano poche gioie nella vita, per me, che fossero paragonabili alla soddisfazione di costringere Tanus a rimangiarsi le sue parole. Mentre tornavo alla mia stuoia sussurrai agli uomini: «Tenetevi pronti. Sono qui». Il mio avvertimento passò subito di bocca in bocca. In cielo le stelle cominciarono a impallidire e l'alba si avvicinò furtiva come una leonessa che segue una mandria di orici. All'improvviso sentii il fischio della sentinella sul muro occidentale del tempio, un suono liquido che sarebbe sembrato il richiamo d'un uccello notturno se non avessimo conosciuto la verità. Subito un fremito corse attraverso il campo, frenato dai bisbigli imperiosi di Kratas e dei suoi ufficiali. «Calma, Azzurri! Ricordate gli ordini. Mantenete le posizioni!» Nessun si mosse dalle stuoie. Senza alzarmi e con la faccia nascosta dallo scialle, girai adagio la testa e guardai le alture che dominavano i muri del tempio. Il profilo dentellato delle colline di granito cominciò a cambiare lievemente, e dovetti battere le palpebre per essere certo di ciò che vedevo. Guardai meglio. Era sempre lo stesso, in qualunque direzione guardassi. Tutto intorno a noi spiccavano contro il cielo le sagome scure e minacciose degli uomini armati. Formavano una palizzata ininterrotta che inibiva ogni speranza di fuga. Capivo perché Shufti aveva atteso tanto a lungo. Doveva aver impiegato tutto quel tempo per radunare un simile esercito di predoni. Dovevano Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
217
essere mille o più, anche se nella luce debole era impossibile contarli. Eravamo in inferiorità numerica almeno di uno a dieci, e io mi sentivo tremare. Non c'erano molte speranze, anche per una compagnia di Azzurri. Le Averle stavano immobili come le rocce circostanti, e quella manifestazione di disciplina mi preoccupava. Avevo immaginato che ci sarebbero piombati addosso in un'orda caotica, invece si comportavano come guerrieri ben addestrati. La loro immobilità era più minacciosa di quanto avrebbero potuto esserlo le grida selvagge e lo sventolio delle armi. La luce diventò più intensa, e riuscimmo a distinguerli. I primi raggi del sole battevano sul bronzo degli scudi e sulle spade nude, e gettavano barbagli nei nostri occhi. Ognuno aveva la testa avvolta in una sciarpa di lana nera: spuntavano soltanto gli occhi, malevoli come quelli dei feroci squali azzurri che popolavano le acque del mare alle nostre spalle. Il silenzio si protrasse fino a quando temetti che i miei nervi si spezzassero e il mio cuore scoppiasse per la pressione del sangue. Poi una voce echeggiò frantumando il silenzio dell'aurora. «Kaarik! Sei sveglio?» Riconobbi Shufti nonostante la sciarpa che lo mascherava. Era al centro della rupe più a ovest, quella tagliata dalla strada. «Kaarik!» gridò di nuovo. «È tempo che tu paghi ciò che mi devi, ma il prezzo è salito. Ora voglio tutto. Tutto!» ripeté. Gettò via la sciarpa scoprendo il viso butterato. «Voglio tutto ciò che hai, compresa la tua testa stupida e arrogante.» Tanus si alzò dalla stuoia e gettò via la coperta di pelle di pecora. «Allora dovrai venire a prenderla», gridò sguainando la spada. Shufti alzò il braccio destro, mentre un raggio di luce faceva brillare l'occhio cieco come un disco d'argento: poi abbassò bruscamente la mano. Al segnale, un grido si levò dalle file degli uomini schierati sulle rocce. Brandirono le armi e le squassarono nel cielo giallo dell'aurora. Shufti fece un altro segnale, e i banditi scesero a torrenti dalle rupi verso la stretta valle di Gallala. Tanus corse al centro del cortile del tempio, dove gli antichi abitanti avevano eretto un altare di pietra a Bes, il dio nano della musica e dell'ebbrezza. Kratas e gli ufficiali lo raggiunsero mentre le schiave e io, rannicchiati sulle stuoie, ci coprivamo le teste e gemevamo per il terrore. Tanus balzò sull'altare, piegò un ginocchio e fletté il grande arco Lanata. Dovette usare tutte le sue forze per fissare la corda; ma quando si rialzò, Lanata splendeva nelle sue spire di filo d'elettro come se fosse una creatura Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
218
viva. Tanus prese una freccia dalla faretra e si voltò verso il portale da cui doveva entrare l'orda delle Averle. Ai piedi dell'altare Kratas aveva schierato in fila i suoi uomini: anche loro avevano preparato gli archi e fronteggiavano l'ingresso. Erano un gruppo patetico e mentre li guardavo un nodo mi strinse la gola: erano cos^ eroici, così intrepidi... Decisi impulsivamente di comporre una poesia in loro onore; ma prima che potessi inventare il primo verso, i banditi fecero irruzione. Attraverso il varco potevano passare soltanto cinque uomini affiancati, e la distanza che li separava dall'altare e da Tanus era inferiore ai quaranta passi. Tanus tese l'arco e scagliò la prima freccia. Uccise tre uomini. Il primo era alto, vestito d'un corto gonnellino e con i lunghi capelli unti che gli scendevano sulla schiena. La freccia lo colpi al centro del petto nudo e lo trapassò come se fosse un bersaglio ritagliato da un foglio di papiro. Lubrificata dal sangue della prima vittima, la freccia colpi alla gola l'uomo che le stava dietro. Anche se ormai stava perdendo la forza, gli attraversò il collo e sbucò dalla nuca, ma senza fuoriuscire completamente. Le penne dell'asta si incastrarono nella carne, ma la punta uncinata di bronzo si piantò nell'occhio del terzo uomo che stava vicinissimo alle sue spalle. Inchiodati insieme dalla freccia, i due barcollarono e si dibatterono al centro del varco, e bloccarono il passaggio a coloro che stavano cercando di entrare nel cortile. Finalmente la freccia si svelse dal cranio del terzo uomo, con l'occhio infilzato sulla punta. I due caddero e una folla di banditi urlanti li scavalcò e li calpestò per avventarsi nel cortile. Il piccolo gruppo di difensori intorno all'altare li accolse con raffiche di frecce, e ne falciò tanti che i cadaveri quasi bloccavano l'apertura e quelli che stavano arrivando erano costretti ad arrampicarsi sui mucchi dei morti e dei feriti. Non poteva continuare a lungo. La pressione dei banditi alle loro spalle era troppo grande, il loro numero troppo soverchiante. Come crolla una diga di terra che non riesce ad arginare la piena crescente del Nilo, l'apertura venne forzata e una massa di combattenti piombò nel cortile e circondò l'altare del dio Bes. Ormai era impossibile usare gli archi, e Tanus e i suoi uomini li gettarono e sfoderarono le spade. «Horus, armami tu!» Tanus gettò il suo grido di battaglia e gli uomini che l'attorniavano lo ripeterono ed entrarono in azione. Il bronzo squillava contro il bronzo mentre le Averle tentavano di colpirli: ma avevano formato un cerchio intorno all'altare. Da qualunque parte arrivassero i banditi, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
219
venivano accolti dalle spade delle guardie. Le Averle non erano prive di coraggio: si affollavano in ranghi serrati intorno all'altare. Quando uno veniva abbattuto, un altro ne prendeva il posto. Vidi Shufti sulla soglia. Non partecipava al combattimento: inveiva contro i suoi uomini e dava ordini urlando di rabbia. Roteava l'occhio cieco e gridava: «Prendete vivo l'assiro! Voglio ucciderlo lentamente e sentirlo strillare». I banditi non facevano attenzione alle donne che stavano ancora rannicchiate sulle stuoie con le teste coperte e gemevano e urlavano per il terrore. Io gridavo ancora più forte, ma il combattimento in corso al centro del cortile mi preoccupava. Ormai c'erano più di mille uomini affollati in quello spazio ristretto. Ero soffocato dalla polvere e calpestato dai piedi dei combattenti. Alla fine riuscii a trascinarmi in un angolo. Uno dei banditi abbandonò la battaglia e si chinò su di me. Mi strappò lo scialle dal viso e mi guardò negli occhi. «Madre di Iside!» mormorò. «Come sei bella!» Era un uomo orrendo, cui mancavano molti denti, e con una cicatrice su una guancia. Il suo alito puzzava come una fogna mentre mi respirava in faccia. «Aspetta che lo scontro sia finito, e ti darò qualcosa che ti farà gridare di gioia», promise. Mi sollevò il viso e mi baciò. Il mio istinto mi suggeriva di tirarmi indietro: ma resistetti e ricambiai il bacio. Ero un esperto raffinato delle arti d'amore, perché avevo imparato nell'alloggio dei giovanissimi schiavi del nobile Intef, e i miei baci potevano sciogliere il cuore di un uomo. Lo baciai con tutta la mia abilità, e l'uomo rimase immobile. Mentre era ancora fermo, sguainai il pugnale che tenevo sotto la veste e gli piantai la lama fra la quinta e la sesta costola. Urlò, ma io smorzai il suono con le labbra e lo strinsi teneramente al petto rigirandogli la lama nel cuore fino a che, con un brivido, si rilasciò contro di me, e lo lasciai cadere. Mi guardai intorno. Nei pochi istanti che avevo impiegato per liberarmi dell'ammiratore, la situazione dei difensori intorno all'altare era peggiorata. C'erano alcuni vuoti nello schieramento: due erano caduti e Amseth era ferito. Maneggiava la spada con la sinistra, mentre la destra sanguinante era abbandonata lungo il fianco. Vidi con sollievo che Tanus era ancora illeso e rideva con gioia selvaggia mentre faceva mulinare la spada. Ma aveva indugiato troppo prima di far Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
220
scattare la trappola, pensai. Tutte le Averle s'erano accalcate nel cortile e abbaiavano intorno a lui come cani intorno a un leopardo rifugiato su un albero. Ancora pochi istanti e lui e i suoi valorosi sarebbero caduti. Tanus uccise un altro avversario con un affondo alla gola, poi liberò la lama e indietreggiò. Rovesciò la testa e proruppe in un ruggito che echeggiò fra i muri diroccati. «A me, Azzurri!» In quell'istante tutte le schiave tremanti balzarono in piedi e gettarono via le lunghe vesti. Con le spade sguainate si avventarono alle spalle dei banditi. La sorpresa fu totale e travolgente. Li vidi uccidere cento o più nemici prima che quelli si rendessero conto dell'accaduto e potessero reagire. Ma quando si voltarono per fronteggiare l'attacco inaspettato, esposero le spalle a Tanus e ai suoi compagni. Si battevano bene, devo ammetterlo, anche se penso che ad animarli fosse più il terrore del coraggio. Comunque, erano troppo ammassati per poter usare liberamente la spada, e gli uomini che avevano di fronte erano fra i migliori guerrieri d'Egitto, vale a dire del mondo intero. Resistettero per un po'. Quindi Tanus gridò di nuovo in mezzo al tumulto. Per un momento pensai che fosse un altro comando, poi mi accorsi che era la battuta iniziale dell'inno di battaglia delle guardie. Anche se avevo sentito dire spesso che gli Azzurri lo cantavano nel culmine del combattimento, non avevo creduto che fosse davvero possibile. Intorno a me il canto fu ripreso da cento voci. Noi siamo il soffio di Horus, rovente come il vento del deserto, noi siamo mietitori di uomini... Le spade ritmavano l'accompagnamento delle parole, come il clangore dei magli sulle incudini dell'oltretomba. Di fronte a tanta ferocia arrogante i superstiti delle Averle esitarono. E all'improvviso non fu più una battaglia, bensì un massacro. Ho visto un branco di cani selvatici circondare e dilaniare un gregge di pecore. Ma questo era anche peggio. Alcuni banditi gettarono le spade e s'inginocchiarono per chiedere pietà. Nessuno fu risparmiato. Altri tentarono di raggiungere la porta, ma trovarono ad attenderli un gruppo di guerrieri con le spade in mano. Io avanzai fino al margine dei combattimenti e gridai a Tanus, cercando di farmi sentire nel frastuono: «Fermali! Abbiamo bisogno di prigionieri». Tanus non poteva sentirmi, o forse ignorava di proposito la mia richiesta. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
221
Rideva e cantava e continuava a colpire, con Kratas alla sua sinistra e Remrem a destra. La sua barba era macchiata dal sangue degli uccisi, e nella maschera del suo volto gli occhi brillavano d'una luce di follia che non avevo mai visto. Clemente Hapi, era ubriaco della bevanda inebriante della battaglia! «Smetti, Tanus! Non ucciderli tutti!» Questa volta mi senti. Vidi la follia svanire. Ritrovò la padronanza di sé. «Date quartiere a quelli che lo chiedono!» gridò, e le guardie lo obbedirono. Ma, alia fine, soltanto duecento Averle su mille si prostrarono disarmate sul pavimento insanguinato e implorarono pietà. Per qualche tempo rimasi, stordito e incerto, ai margini della carneficina. Poi, con la coda dell'occhio, notai un movimento furtivo. Shufti aveva capito che non poteva fuggire. Gettò la spada e corse al muro orientale del cortile, vicino al punto in cui mi trovavo. Era il tratto più rovinato, dove il muro era ridotto a meno di metà dell'altezza. I mattoni d'argilla caduti formavano una rampa scoscesa e Shufti vi si inerpicò. Scivolò, cadde, ma si avvicinò alla sommità del muro. A quanto sembrava, ero l'unico che aveva notato la sua fuga. Le guardie erano occupate con gli altri prigionieri e Tanus mi voltava le spalle mentre ordinava di rastrellare gli ultimi nemici. Quasi senza pensare, mi chinai e raccattai un mezzo mattone. Nel momento in cui Shufti arrivò in cima al muro glielo scagliai con tutte le mie forze e lo colpii all'occipite con tanta forza da farlo cadere in ginocchio. Poi il mucchio di macerie cedette e Shufti scivolò all'indietro in una nube di polvere. Fini semisvenuto ai miei piedi. Gli balzai sul petto e gli premetti contro la gola la punta del pugnale. Mi fissò con l'unico occhio, ancora velato dalla botta. «Stai fermo», ordinai. «O ti sventro come un pesce.» Avevo perso lo scialle e l'acconciatura e i miei capelli s'erano sciolti sulla schiena. Shufti mi riconobbe: non fu una sorpresa. Ci eravamo incontrati spesso, ma in circostanze diverse. «Taita l'eunuco!» mormorò. «Il nobile Intef sa che cosa stai facendo?» «Lo scoprirà molto presto», gli assicurai, e lo punzecchiai fino a farlo gemere. «Ma non sarai certo tu a informarlo.» Senza allontanargli la lama dalla gola gridai a due guardie di occuparsi di lui. Lo girarono sul dorso e gli legarono i polsi con una corda prima di trascinarlo via. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
222
Tanus, che mi aveva visto catturare Shufti, mi venne accanto scavalcando i morti e i feriti. «Ottimo lancio, Taita. Non hai dimenticato i miei insegnamenti.» Mi batté la mano sulla spalla, così forte da farmi barcollare. «C'è ancora molto lavoro per te. Quattro dei nostri sono stati uccisi, e ci sono almeno dodici feriti.» «E il loro campo?» chiesi. Tanus mi fissò. «Quale campo?» «Mille Averle non spuntano dalla sabbia come fiori del deserto. Devono avere con loro animali da soma e schiavi, non lontano da qui. Non devi lasciarli fuggire. Nessuno deve raccontare quanto è accaduto oggi, nessuno deve portare a Karnak la notizia che sei ancora vivo.» «Hai ragione, per la dolce Iside. Ma come li troveremo?» Era ancora stordito dal fervore della battaglia. A volte mi domandavo come avrebbe fatto senza di me. «Segui a ritroso le loro tracce», risposi spazientito. «Mille paia di piedi avranno lasciato una pista che ci permetterà di arrivare al luogo da cui erano partiti.» Tanus s'illuminò e chiamò Kratas. «Prendi con te cinquanta uomini e vai con Taita. Ti guiderà al campo.» «I feriti...» protestai. Ne avevo avuto abbastanza di combattimenti, per quel giorno, ma Tanus respinse le mie obiezioni. «Sei il miglior cercatore di tracce che io conosca. I feriti possono attendere le tue cure: sono tutti duri come bistecche di bufalo e ben pochi di loro moriranno prima del tuo ritorno.» Trovare l'accampamento fu semplice come avevo previsto. Seguito da Kratas e da cinquanta uomini, girai intorno alla città morta e dietro la prima fila di colline trovai la pista che avevano lasciato quando erano venuti ad accerchiarci. La seguimmo a ritroso, procedendo al trotto; avevamo coperto una distanza piuttosto breve quando giungemmo in cima a un'altura e vedemmo il campo delle Averle nella valle poco profonda sotto di noi. Li cogliemmo di sorpresa. Avevano lasciato meno di venti uomini a guardia degli asini e delle donne. I guerrieri di Kratas li travolsero al primo assalto, e questa volta non potei salvare i prigionieri. Risparmiarono soltanto le donne; e quando si furono impadroniti del campo, Kratas lasciò che i suoi le prendessero, secondo la tradizionale ricompensa per i vincitori. Le donne sembravano molto più graziose di quanto mi sarei aspettato in simile compagnia. Molte avevano bei visetti. Accettarono con eccezionale buona grazia di sottomettersi ai rituali della conquista; alcune ridevano e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
223
scherzavano mentre le guardie se le giocavano ai dadi. La vocazione che le aveva portate a vivere con una banda di Averle non poteva essere considerata la più pura, e non credo che fra loro ci fosse qualche vergine pudibonda. A una a una, furono accompagnate dai nuovi padroni dietro le rocce, dove alzarono le gonne senz'altro cerimonie. La luna nuova spunta dopo la morte delia vecchia, la primavera segue l'inverno, e nessuna delle donne mostrava di piangere per i consorti defunti. Anzi, sembrava probabile che li, sulle sabbie del deserto, spuntassero relazioni nuove forse destinate a durare. In quanto a me, mi interessavano soprattutto gli asini e le loro some. Erano più di centocinquanta, e quasi tutti erano animali robusti e in ottime condizioni, che avrebbero spuntato un buon prezzo nei mercati di Karnak e di Safaga. Calcolai che avrei avuto diritto almeno alla parte spettante a un centurione, quando avessimo diviso l'incasso. Dopotutto il buon esito dell'impresa era dovuto in gran parte alle indicazioni da me fornite e avevo ben diritto a un compenso. Ne avrei parlato con Tanus e avrei di certo ottenuto il suo appoggio. È un uomo di animo generoso. Quando tornammo alla città morta di Gallala conducendo gli asini carichi di bottino e seguiti dalle donne che avevano accettato di buon grado i nuovi padroni, il sole era tramontato. Una delle costruzioni più piccole vicino ai pozzi era stata trasformata in ospedale da campo. Lavorai per tutta la notte alla luce delle torce e delle lampade a olio per curare le guardie. Come sempre, ero impressionato dal loro stoicismo, perché molte ferite erano gravi e dolorose. Tuttavia persi un solo paziente prima che spuntasse l'alba. Asmeth mori per il sangue perduto dalle arterie recise del braccio. Se l'avessi curato subito dopo la battaglia, invece di avventurarmi nel deserto, forse sarei riuscito a salvarlo. Anche se la responsabilità era di Tanus, provavo il solito senso di colpa di fronte a una morte che avrei potuto scongiurare. Tuttavia ero sicuro che gli altri pazienti sarebbero guariti in fretta e in modo completo. Erano tutti giovani, forti e in condizioni perfette. Non c'erano briganti feriti da curare. Gli avevano tagliato la testa mentre giacevano sul campo di battaglia. Per la mia sensibilità di medico, l'antica usanza di eliminare i nemici feriti era sconvolgente, tuttavia suppongo che avesse una logica. Perché mai i vincitori dovrebbero sprecare le loro risorse per gli sconfitti, quando difficilmente avrebbero avuto qualche valore come schiavi e, se fossero rimasti in vita, un giorno avrebbero potuto combatterli Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
224
di nuovo? Lavorai dunque tutta la notte sostenendomi soltanto con un sorso di vino e pochi bocconi di cibo. Ero esausto, ma non potei riposare. Tanus mi mandò a chiamare non appena venne giorno. I prigionieri illesi erano nel tempio di Bes, con i polsi legati dietro la schiena, accovacciati in lunghe file contro il muro settentrionale e sorvegliati dalle guardie. Appena entrai nel tempio, Tanus mi chiamò. Era con un gruppo di ufficiali. Io indossavo ancora la veste di una donna assira: sollevai le gonne e mi avviai attraverso il cortile cosparso dei resti della battaglia. «Ci sono tredici clan di Averle. Non mi hai detto così, Taita?» chiese Tanus. Annuii. «Ogni clan ha il suo caporione. Noi abbiamo preso Shufti. Vediamo se ne riconosci qualcun altro in questo consesso di gente per bene.» Indicò ridendo i prigionieri e mi prese un braccio per condurmi verso di loro. Non mi tolsi il velo, perché nessuno dei prigionieri potesse riconoscermi. Scrutavo ogni faccia mentre passavo. Ne riconobbi due. Akheku era il capo del clan meridionale che saccheggiava le terre intorno ad Assuan, Elefantina e la prima cataratta, mentre Setek veniva da una zona più a nord ed era il capo di Kom-Ombo. Era evidente che Shufti aveva riunito tutti gli uomini che aveva potuto trovare con un preavviso così breve. Fra i prigionieri c'erano membri di tutti i clan. Dopo che ebbi identificato i capi toccandoli sulla spalla, questi vennero trascinati via. Arrivammo in fondo alla fila e Tanus chiese: «Sei sicuro che non te ne sia sfuggito nessuno?». «Come posso esserne sicuro? Te l'ho detto, non ho conosciuto tutti i caporioni.» Tanus scrollò le spalle. «Non potevamo sperare di prendere tutti gli uccellini con un unico lancio di rete. Dobbiamo considerarci fortunati perché ne abbiamo catturati ben tre tanto in fretta. Ma controlliamo le teste. Potremmo trovarne qualcun altro.» Era un compito macabro che avrebbe disturbato uno stomaco più delicato del mio: ma la carne umana, viva o morta, fa parte del mio mestiere. Mentre stavamo comodamente seduti sui gradini del tempio a fare colazione, le teste mozzate ci venivano mostrate a una a una, sostenute per i capelli intrisi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
225
di sangue, con le lingue penzolanti dalle labbra aperte e gli occhi spenti, come velati di polvere, che sembravano guardare l'altro mondo. Il mio appetito era vivace come sempre perché avevo mangiato pochissimo negli ultimi due giorni. Divorai le focacce e la frutta deliziosa che Tiamat ci aveva fornito, e nel frattempo indicai le teste che riconoscevo. C'era una ventina di comuni ladri che avevo incontrato quando lavoravo per il nobile Intef, ma c'era solo un altro caporione, Nefer-Temu di Qena, membro di secondo piano della temibile confraternita. «Con questo sono quattro», borbottò soddisfatto Tanus. Ordinò che la testa di Nefer-Temu venisse posta in cima alla piramide di crani che stava facendo erigere davanti al pozzo di Gallala. «Ne abbiamo contati quattro, quindi dobbiamo trovare gli altri nove. Incominciamo a chiederlo ai prigionieri.» Si alzò, e io mi affrettai a trangugiare il resto della colazione e lo seguii nel tempio di Bes. Sebbene fossi stato io a spiegare a Tanus la necessità di procurarsi informatori e gli avessi suggerito il modo di reclutarli, adesso che era venuto il momento di mettere in pratica il mio consiglio ero assalito dal rimorso: una cosa era suggerire un'azione spietata, un'altra era vederla mettere in pratica. Cercai di scusarmi dicendo che i feriti potevano aver bisogno di me, ma Tanus m'interruppe. «Basta con gli scrupoli, Taita. Resterai con me durante gli interrogatori per assicurarti di non aver trascurato qualcuno dei vecchi amici durante la. prima ispezione.» L'interrogatorio fu rapido e spietato, e immagino che fosse appropriato al carattere degli uomini con cui avevamo a che fare. Tanus balzò sull'altare di pietra e, stringendo il Sigillo del Falco, guardò i prigionieri accovacciati con un sorriso che dovette agghiacciarli, anche se su di loro batteva il sole del deserto. «Sono il portatore del Sigillo del Falco del Faraone Marnose e parlo con la sua voce», disse mostrando la statuetta. «Sono il vostro giudice e il vostro carnefice.» Tacque e li scrutò a uno a uno. Quando incontrava i loro occhi, abbassavano lo sguardo. Nessuno riusciva a restare imperturbato. «Siete stati catturati nell'atto di saccheggiare e uccidere. Se c'è qualcuno di voi che vuole negarlo, si alzi di fronte a me e si proclami innocente.» Attese mentre le ombre impazienti degli avvoltoi che volavano nel cielo passavano sulla polvere del cortile. «Su! Parlate, innocenti!» Tanus levò lo sguardo verso i rapaci dalle Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
226
grottesche teste calve. «I vostri fratelli attendono con impazienza il banchetto. Non facciamoli aspettare.» Nessuno parlò, nessuno si mosse, e Tanus abbassò il Sigillo del Falco. «Le vostre azioni, che tutti noi abbiamo visto, vi condannano. Il vostro silenzio conferma il verdetto. In nome del divino Faraone, pronuncio la sentenza. Vi condanno alla decapitazione. Le vostre teste mozze saranno messe in mostra lungo i percorsi delle carovane. Tutti gli uomini ligi alle leggi che passeranno vedranno i vostri teschi ghignanti e sapranno che le Averle hanno incontrato l'Aquila. Sapranno che l'era dell'illegalità è finita e che la pace è tornata nel nostro Egitto. Ho parlato. Il Faraone Marnose ha parlato.» Tanus fece un cenno e il primo prigioniero fu trascinato davanti all'altare e costretto a inginocchiarsi. «Se risponderai sinceramente a tre domande, ti risparmierò la vita e ti arruolerò nel mio reggimento delle guardie, con la stessa paga e gli stessi privilegi. Se rifiuterai, la condanna sarà eseguita immediatamente.» Guardò con aria severa il prigioniero inginocchiato. «Ecco la prima domanda. A quale clan appartieni?» Il condannato non rispose. Il patto di sangue delle Averle era inviolabile. «Ecco la seconda domanda: chi è il capo che ti dà gli ordini?» L'uomo continuò a tacere. «Ecco la terza e ultima domanda. Mi condurrai nei luoghi segreti dove si nasconde il tuo clan?» chiese Tanus. L'uomo alzò gli occhi, si raschiò la gola e sputò. Il catarro giallo cadde sulle pietre. Tanus fece un cenno alla guardia che gli stava accanto con la spada in pugno. Con un colpo netto, la testa rotolò sui gradini dell'altare. «Un'altra testa per la piramide», disse Tanus con calma, e indicò di condurgli davanti un altro prigioniero. Ripeté le stesse domande e quando il bandito rispose con un'oscenità, fece un altro cenno. Questa volta la guardia sbagliò in parte il colpo e il cadavere sussultò con il collo reciso a metà. Ci vollero altri tre colpi prima che la testa rimbalzasse sui gradini. Tanus fece mozzare ventitré teste. Le contavo per dimenticare le ondate di compassione che mi assalivano. Poi, finalmente, uno dei condannati cedette. Era giovane, poco più d'un ragazzo. Rispose con voce stridula ancora prima che Tanus potesse rivolgergli le tre domande. «Mi chiamo Hui, sono fratello di sangue del clan di Basti il Crudele. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
227
Conosco i suoi nascondigli segreti e ti condurrò là.» Tanus sorrise con cupa soddisfazione e accennò di portar via il ragazzo. «Trattatelo bene», ordinò. «Ora fa parte degli Azzurri, è un vostro commilitone.» Dopo la prima defezione tutto diventò più facile, anche se molti continuarono a sfidare Tanus. Alcuni lo maledicevano, altri lo irridevano mentre calava la lama, e la loro spavalderia finiva con l'ultimo respiro che erompeva in un fiotto cremisi dalla trachea recisa. Provavo ammirazione per coloro che, dopo una vita vile e spregevole, sceglievano di morire con una parvenza d'onore. Ridevano della morte. Sapevo che non sarei stato capace di fare altrettanto. Se mi fosse stata proposta la stessa scelta, sono sicuro che avrei risposto come alcuni dei prigionieri più deboli. «Faccio parte del clan di Ur...» confessò uno. «Io sono del clan di Maa-En-Tef, capo della riva occidentale fino a El Kharga», disse un altro. Alla fine avemmo un numero sufficiente di informatori pronti a condurci alle roccaforti di tutti i capi dei banditi, e un mucchio di teste da aggiungere alla piramide accanto al pozzo. Uno dei problemi cui Tanus e io avevamo pensato molto era la sorte dei tre capi che avevamo già catturato e la dozzina di informatori che avevamo racimolato nelle file dei condannati. Sapevamo che l'influenza delle Averle era assai grande e quindi non osavamo tenere in Egitto i prigionieri. Non c'era un carcere abbastanza sicuro perché Akh-Seth e i suoi scagnozzi non potessero raggiungerli per liberarli con la corruzione o la forza o per ridurli per sempre a! silenzio con il veleno o altri mezzi. Sapevamo che Akh-Seth era come una piovra che teneva la. testa nascosta ma protendeva i tentacoli in ogni ramo del nostro governo e nella struttura stessa della nostra esistenza. A questo punto pensai al mio amico Tiamat, il mercante di Safaga. Marciando come unità delle Guardie del Coccodrillo Azzurro, e non più come una carovana di schiave, tornammo al porto sul mar Rosso in metà del tempo che avevamo impiegato per raggiungere Gallala. I prigionieri furono caricati a bordo d'uno dei mercantili di Tiamat che ci attendeva in porto, e il comandante fece subito vela per la costa araba; là Tiamat aveva un deposito di schiavi sull'isoletta di Jez Baquan, dove comandavano i suoi. Le acque intorno all'isola erano pattugliate da branchi di feroci squali Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
228
azzurri. Tiamat ci assicurò che nessuno, tra quanti avevano tentato la fuga, era riuscito a sfuggire alla vigilanza dei guardiani o all'appetito degli squali. Uno solo dei prigionieri non fu inviato all'isola: Hui, del clan di Basti il Crudele, il giovane che per primo aveva capitolato di fronte alla minaccia d'esecuzione. Durante la marcia fino al mare Tanus l'aveva tenuto vicino e aveva esercitato su di lui la forza irresistibile della sua personalità. Hui, ormai, era diventato il suo devoto schiavo. Non finivo mai di stupirmi dello straordinario dono di Tanus, che gli permetteva di assicurarsi la lealtà dei personaggi più incredibili. Sono sicuro che Hui, il quale aveva ceduto in fretta davanti alla minaccia di morte, adesso sarebbe stato pronto a dare la vita per Tanus. Confidò tutti i particolari che conosceva del clan al quale un tempo s'era legato con un giuramento di sangue. Io ascoltavo in silenzio, tenendo pronto il pennello per scrivere, mentre Tanus lo interrogava. Annotai tutto ciò che aveva da dirci. Venimmo a sapere che la roccaforte di Basti il Crudele si trovava nel terribile deserto di Gebel-Umm-Bahasi, in cima a una delle montagne dalla sommità piatta, protetta su ogni lato dai precipizi. Era nascosta e inespugnabile, ma si trovava a meno di due giorni di marcia dalla riva orientale del Nilo e dalle trafficate strade carovaniere che lo fiancheggiavano: era il nido ideale per un predatore. «C'è un unico sentiero per arrivare lassù, ed è intagliato nella roccia come una scalinata. È molto stretto, e può salirvi soltanto un uomo alla volta...» spiegò Hui. «Non c'è altro modo per raggiungere la cima?» insistè Tanus, e Hui sorrise e si appoggiò l'indice al naso in un gesto da cospiratore. «C'è un'altra via. L'ho usata spesso per risalire sulla montagna quando abbandonavo il mio posto per andare a far visita alla mia famiglia. Basti mi avrebbe fatto uccidere se si fosse accorto che mi ero assentato. È una scalata pericolosa, ma una dozzina di uomini validi potrebbe farcela e tenere la sommità del dirupo mentre il grosso li raggiunge. Ti guiderò lassù, AkhHorus.» Era la prima volta che sentivo quel nome. Akh-Horus, cioè fratello del grande dio Horus. Era un nome adatto a Tanus. Naturalmente Hui e gli altri prigionieri non conoscevano la sua vera identità: con la loro mentalità semplice sapevano soltanto che Tanus doveva essere una specie di dio; ne aveva l'aspetto e il coraggio e invocava il nome di Horus durante i Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
229
combattimenti. Perciò, pensavano, doveva essere il fratello di Horus. Akh-Horus! Era un nome che tutto l'Egitto avrebbe conosciuto bene nei mesi seguenti. Sarebbe stato gridato da un'altura all'altra, sarebbe stato ripetuto lungo le piste carovaniere, lungo il fiume dalle labbra dei barcaioli, da una città all'altra e da un regno all'altro. Intorno al nome sarebbe cresciuta la leggenda, via via che i resoconti delle sue imprese venivano riferiti ed esagerati. Akh-Horus era il guerriero possente apparso all'improvviso inviato dal dio suo fratello per continuare l'eterna lotta contro il male, contro Akh-Seth, il signore delle Averle. Akh-Horus! Ogni volta che il popolo egizio pronunciava questo nome il suo cuore si colmava d'una nuova speranza. Tutto ciò apparteneva al futuro mentre noi stavamo nel giardino del mercante Tiamat. Soltanto io sapevo che Tanus smaniava di raggiungere Basti ed era impaziente di guidare i suoi uomini nel Gebel-Umm-Bahasi per dargli la caccia. Non era soltanto perché Basti era il più rapace e spietato dei caporioni. C'era molto di più. Tanus aveva un conto personale da regolare con il bandito. Aveva appreso da me che Basti era stato lo strumento usato da Akh-Seth per annientare la ricchezza del nobile Pianki Harrab, suo padre. «Io posso condurti nel Gebel-Umm-Bahasi», promise Hui. «Posso mettere Basti nelle tue mani.» Tanus taceva nell'oscurità e assaporava quella promessa mentre ascoltavamo un usignolo che cantava in fondo al giardino di Tiamat. Era un suono lontano dalle realtà malefiche e disperate di cui discutevamo. Dopo un po', Tanus sospirò e congedò Hui. «Ti sei comportato bene, ragazzo», gli disse. «Mantieni la promessa, e avrai la mia gratitudine.» Hui si prosternò come se fosse in presenza di un dio, ma Tanus lo scostò con il piede. «Basta con queste sciocchezze. Vattene, ora.» Quella recente elevazione indesiderata alla divinità lo metteva in imbarazzo. Nessuno avrebbe potuto accusare Tanus d'essere modesto o umile; ma era un uomo pratico, non si faceva illusioni sulla sua posizione, non aspirava a diventare un Faraone o un essere divino, e si spazientiva di fronte alle manifestazioni di servilismo e di ossequio. Non appena il ragazzo si fu allontanato, Tanus si rivolse a me. «Molto spesso rimango sveglio durante la notte e penso a tutto ciò che mi hai detto Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
230
di mio padre. Ogni fibra del mio corpo e della mia anima invoca vendetta contro colui che l'ha ridotto in miseria e in disgrazia e l'ha perseguitato fino alla morte. Riesco a trattenermi a stento, e vorrei abbandonare la via tortuosa che hai ideato per prendere in trappola Akh-Seth: vorrei andarlo a cercare e strappargli il cuore immondo con queste mani.» «Se lo farai, perderai tutto. Lo sai. Comportati come ti dico, e riscatterai non soltanto la tua reputazione ma anche quella del tuo nobile padre. Se farai a modo mio recupererai le proprietà e le ricchezze che ti sono state rubate; non soltanto avrai la tua vendetta, ma potrai tornare da Lostris e realizzare la visione che ho visto per voi due nei Labirinti di Ammon-Ra. Fidati di me, Tanus. Fidati di me, per il tuo bene e per il bene della mia padrona.» «Se non mi fidassi di te, di chi potrei fidarmi?» chiese toccandomi il braccio. «So che hai ragione, ma sono sempre stato impaziente. Ho sempre preferito la via più rapida e diretta.» «Per il momento non pensare ad Akh-Seth. Pensa soltanto al prossimo passo sulla via tortuosa che dovremo percorrere insieme. Pensa a Basti il Crudele. Fu Basti ad annientare le carovane di tuo padre che tornavano dall'oriente. Per cinque stagioni neppure una delle carovane del nobile Harrab arrivò a Karnak. Furono tutte attaccate e depredate lungo il cammino. Fu Basti a distruggere le miniere di rame che tuo padre possedeva a Sestra e ad assassinare i tecnici e gli schiavi. Era Basti che saccheggiava sistematicamente le tenute di tuo padre lungo il Nilo, uccideva i suoi schiavi nei campi e incendiava i raccolti, fino a che nelle sue terre crebbero soltanto erbacce e fu costretto a venderle per una minima frazione del vero valore.» «Tutto ciò può essere vero, ma fu Akh-Seth a impartire gli ordini a Basti.» «Nessuno lo crederà. Non lo crederà il Faraone, a meno che non lo senta confessare dallo stesso Basti», gli spiegai spazientito. «Perché sei sempre così ostinato? Ne abbiamo discusso cento volte. Prima i caporioni, e alla fine la testa del serpente, Akh-Seth.» «La tua è la voce della saggezza, lo so. Ma è difficile sopportare l'attesa. Agogno la vendetta, aspiro a cancellare dal mio onore la macchia della sedizione e del tradimento e... oh, desidero soprattutto Lostris.» Si tese e mi strinse la spalla con tanta forza da farmi trasalire. «Oggi hai già fatto abbastanza, mio caro amico. Non avrei mai potuto realizzare tante cose senza di te. Se non fossi venuto a stanarmi, sarei ancora ubriaco fra le Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
231
braccia di una puttana puzzolente. Ti devo più di quanto potrò mai ripagarti, ma ora devo mandarti via. C'è bisogno di te altrove. Basti è la mia preda e non ho bisogno che tu partecipi al banchetto. Non verrai con me nel GebelUmm-Bahasi. Ti rimando dove devi stare... dove anch'io dovrei essere, ma non posso: a fianco della nobile Lostris. T'invidio, vecchio mio. Darei la mia speranza d'immortalità per poter andare da lei al tuo posto.» Protestai con molto garbo, naturalmente. Giurai che sognavo di poter combattere ancora contro i banditi, che ero il suo compagno e che mi sarei rattristato grandemente se non mi avesse assegnato un posto al suo fianco nella prossima campagna. Ma intanto ero sicuro che quando Tanus prendeva una decisione era inflessibile e non si lasciava dissuadere se non in casi eccezionali dal suo amico e consigliere, lo schiavo Taita. Per la verità, ne avevo avuto abbastanza di avventure eroiche e di individui che cercavano di uccidermi. Non ero un soldato, non ero un fante zotico e insensibile. Detestavo le fatiche e i disagi delle campagne nel deserto e non avrei sopportato un'altra settimana di caldo, di sudore e di mosche senza la vista delle dolci acque verdi del Nilo. Desideravo il contatto dei lino pulito sulla mia pelle lavata e spalmata d'unguento. Sentivo la mancanza della mia padrona assai più di quanto sapessi esprimerlo con le parole. La nostra vita raffinata nelle stanze dipinte sull'isola Elefantina, la nostra musica, le lunghe, piacevoli conversazioni, i miei ammali da compagnia e i miei papiri... tutte queste cose esercitavano su di me un'attrazione irresistibile. Tanus aveva ragione: non aveva più bisogno di me e il mio posto era a fianco della mia padrona. Ma se mi fossi piegato troppo sollecitamente al suo ordine, forse avrebbe avuto di me un'opinione inferiore, e non volevo neppure questo. Alla fine lasciai che mi convincesse e, nascondendo la fretta, incominciai a prepararmi per il viaggio di ritorno a Elefantina. Tanus aveva ordinato a Kratas di tornare a Karnak per radunare i rinforzi destinati a partecipare alla spedizione nel deserto di Gebel-Umm-Bahasi. Dovevo arrivare fino a Karnak sotto la sua protezione, ma non era tanto semplice prendere congedo da Tanus. Per due volte, quando già avevo lasciato la casa di Tiamat per raggiungere Kratas che mi attendeva in periferia, Tanus mi richiamò per darmi un altro messaggio da riferire alla mia padrona. «Dille che penso a lei ogni ora del giorno.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
232
«È un messaggio che mi hai già affidato», protestai. «Dille che i miei sogni sono pieni delle immagini del suo viso.» «Mi hai affidato anche questo. Li conosco tutti a memoria. Dimmi qualcosa di nuovo», lo pregai. «Dille che credo nella visione dei Labirinti, credo che fra pochi anni staremo insieme...» «Kratas mi aspetta. Se mi tieni qui, come potrò recapitare il tuo messaggio?» «Dille che, quanto faccio, lo faccio per lei. Ogni mio respiro le appartiene...» Tanus s'interruppe e mi abbracciò. «Per essere sincero, Taita, dubito di poter vivere un altro giorno senza di lei.» «Cinque anni passeranno come quel giorno. Quando la rivedrai, il tuo onore sarà riscattato e sarai di nuovo un personaggio importante in questa terra egizia. Lei ti amerà ancora di più.» Tanus mi lasciò. «Abbi cura di lei fino a quando non potrò assumere io quel dolce dovere. Ora vai! Affrettati a raggiungerla.» «È ciò che intendo fare da più di un'ora», ribattei ironicamente, e mi allontanai. Con Kratas alla testa del piccolo distaccamento, compimmo il viaggio fino a Karnak in meno d'una settimana. Poiché temevo di essere scoperto da Rasfer o dal nobile Intef, trascorsi nella mia amata città appena il tempo necessario per trovare un passaggio a bordo d'una delle chiatte dirette verso il sud. Lasciai Kratas occupato a reclutare nei reggimenti scelti delle guardie del Faraone i mille uomini validi richiesti da Tanus, e mi imbarcai. Il vento del nord soffiò di continuo nelle nostre vele, e attraccammo al molo orientale di Elefantina dodici giorni dopo la partenza da Tebe. Io portavo ancora la veste e la parrucca di sacerdote, e quando scesi a terra nessuno mi riconobbe. Pagai un piccolo anello di rame e noleggiai una feluca per attraversare il fiume e recarmi all'isola reale. Scesi ai piedi della gradinata che conduceva al nostro giardino acquatico nell'harem. Il mio cuore batteva forte mentre salivo a balzi i gradini. Ero rimasto lontano da lei troppo a lungo. In momenti come quello mi rendevo conto della forza dei miei sentimenti per Lostris. Ero certo che l'amore di Tanus non era altro che una leggera brezza fluviale in confronto al khamsin delle mie emozioni. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
233
Una delle ancelle cushite mi accolse al cancello e cercò d'impedirmi di entrare. «La mia padrona non sta bene, sacerdote. In questo momento c'è con lei un altro medico. Non vorrà riceverti.» «Mi riceverà», risposi, e mi tolsi la parrucca. «Taita!» strillò la ragazzina e s'inginocchiò facendo segni di scongiuro contro il malocchio. «Tu sei morto. Non sei tu, ma un'apparizione malefica venuta dall'aldilà.» La scostai e proseguii per l'appartamento privato della mia padrona. Sulla soglia fui accolto da uno dei sacerdoti di Osiride che si spacciano per medici. «Che cosa fai qui?» gli chiesi, inorridito all'idea che un simile ciarlatano si fosse avvicinato alla mia padrona. Prima che potesse rispondere, urlai: «Fuori! Vattene! Prendi i tuoi incantesimi, i talismani e le pozioni immonde e non tornare». Sembrava deciso a discutere, ma io gli diedi un tale spintone fra le scapole che quasi volò fuori, quindi mi precipitai al capezzale della mia padrona. L'odore della malattia pervadeva la camera: e quando la vidi fui afferrato dalla disperazione. La mia padrona sembrava rattrappita, ed era pallida come le ceneri d'un vecchio fuoco da campo. Dormiva o sembrava in coma, e c'erano ombre scure sotto le palpebre. Le labbra avevano un aspetto arido e screpolato che mi colmò di paura. Scostai il lenzuolo di lino che la copriva. Era nuda, e io la fissai con orrore. Era magrissima. Gli arti erano secchi come fuscelli; le costole e le ossa del bacino sporgevano dalla pelle malsana. Le posai delicatamente la mano sotto l'ascella per controllare la febbre, ma era fresca. Che razza di malattia era? mi chiesi. Non avevo mai visto nulla di simile. Senza lasciarla, gridai per chiamare le schiave; ma nessuna aveva il coraggio di affrontare il fantasma di Taita. Alla fine dovetti piombare nel loro alloggio e abbrancarne una che, piagnucolando, s'era nascosta sotto il letto. «Che cosa avete fatto alla vostra padrona per ridurla così?» Le sferrai un calcio nel didietro per destare la sua attenzione. Gemette e si copri la faccia per non dovermi guardare. «Non vuol mangiare. In tutte queste settimane ha mandato giù pochi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
234
bocconi, da quando la mummia del nobile Tanus Harrab è stata deposta nella tomba della Valle dei Nobili. Ha perduto persino il figlio del Faraone che portava in grembo. Risparmiami, buon fantasma. Non ho fatto nulla di male.» Per un momento la fissai, sbalordito, poi mi resi conto dell'accaduto. Il messaggio che avevo inviato a Lostris non era stato recapitato. Immaginai che l'uomo inviato da Kratas per portare la lettera alla mia padrona non fosse arrivato a Elefantina. Con ogni probabilità era stato vittima delle Averle ed era finito nel fiume come tanti altri, con la borsa vuota e la gola squarciata. Speravo che la mia lettera fosse finita nelle mani d'un ladro illetterato e non fosse stata consegnata ad Akh-Seth. Ma al momento non avevo tempo per preoccuparmene. Tornai al fianco della mia padrona e mi gettai in ginocchio accanto al letto. «Cara», mormorai, accarezzandole la fronte. «Sono io, lo schiavo Taita.» Si scosse un po' e mormorò qualcosa che non afferrai. Mi resi conto che non c'era tempo da perdere. Era passato più d'un mese dalla presunta morte di Tanus. Se la schiava aveva detto la verità, e se Lostris non s'era nutrita per tutto quel tempo, era un miracolo che fosse ancora viva. Mi rialzai e corsi nelle mie stanze. Niente era stato toccato, e la cassa delle medicine era nell'alcova dove l'avevo lasciata. La presi e accorsi dalla mia padrona. Con mani tremanti accesi un ramoscello del cespuglio-scorpione alla fiamma della lampada a olio e le accostai alle narici l'estremità incendiata. Quasi subito Lostris sternutì e si dibatté per evitare il fumo pungente. «Padrona, sono io, Taita. Parlami.» Apri gli occhi e io vidi un barlume di gioia che subito si spense al ricordo della perdita subita. Mi tese le braccia scarne, e io la strinsi al petto. «Taita», singhiozzò. «È morto. Tanus è morto. Non posso vivere senza di lui.» «No! No! È vivo! L'ho lasciato da pochi giorni, e ti porto i suoi messaggi d'amore e di devozione.» «Sei crudele a ingannarmi così. So che è morto. È stato sepolto.» «È stato un sotterfugio per fuorviare i suoi nemici», esclamai. «Tanus è vivo. Lo giuro. Ti ama. Ti attende.» «Oh, come vorrei crederlo! Ma ti conosco troppo bene. Sei pronto a mentire per proteggermi. Come puoi tormentarmi con false promesse? Ti Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
235
odio...» E cercò di liberarsi dall'abbraccio. «Te lo giuro. Tanus è vivo.» «Giuralo sull'onore della madre che non hai mai conosciuto. Giuralo sulla collera di tutti gli dei.» Lostris non aveva quasi la forza di sfidarmi. «Giuro su tutto ciò che vuoi, e sull'amore che porto alla mia padrona.» «È possibile?» Vidi la speranza riaffluire in lei. Un lieve rossore le colorò le guance. «Oh, Taita, è possibile?» «Sarei così sorridente se non fosse vero? Sai che lo amo quasi quanto te. Potrei sorridere se Tanus fosse morto?» Mentre mi guardava negli occhi, le raccontai quanto era accaduto dopo che l'avevo lasciata, molte settimane prima. Omisi soltanto di descrivere le condizioni in cui avevo trovato Tanus nella vecchia baracca e la donna che era con lui. Lostris non pronunciò una parola, ma non staccò gli occhi da me mentre divorava le mie parole. Il viso pallido e quasi trasparente per la denutrizione splendeva come una perla mentre le raccontavo le nostre avventure a Gallala, le prodezze di Tanus in battaglia, il suo canto trionfale. «... e quindi, vedi, è vero. Tanus è vivo», conclusi, e finalmente Lostris parlò. «Se è vivo, conducilo a me. Non mangerò un sol boccone fino a che non rivedrò il suo viso.» «Lo chiamerò al tuo fianco non appena potrò mandargli un messaggero, se è questo che vuoi», promisi, e presi dalla cassa lo specchio di bronzo. Le misi lo specchio davanti agli occhi e chiesi a bassa voce: «Vuoi che ti veda come sei ora?». Lostris si guardò. «Lo manderò a chiamare oggi stesso, se lo comandi. Potrebbe arrivare qui entro una settimana, se lo vuoi davvero.» La vidi lottare con le sue emozioni. «Sono brutta», bisbigliò. «Sembro una vecchia.» «La tua bellezza c'è ancora. È sotto la superficie.» «Non posso permettere che Tanus mi veda così.» La vanità femminile aveva trionfato. «Allora devi mangiare.» «Mi assicuri...» Esitò. «Mi assicuri che è ancora vivo e che lo porterai da me non appena starò bene? Metti la mano su! mio cuore e giura.» Sentii sotto le dita le costole e il suo cuore che palpitava come un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
236
uccellino in trappola. «Te lo assicuro.» «Questa volta mi fiderò di te: ma se menti non mi fiderò mai più. Portami qualcosa da mangiare!» Mentre mi precipitavo in cucina, ero molto fiero di me. Taita l'astuto l'aveva spuntata ancora una volta. Preparai una ciotola di latte caldo e miele. Dovevamo cominciare lentamente perché Lostris s'era ridotta sull'orlo della morte per inedia. Vomitò il contenuto della prima ciotola ma non quello della seconda. Se avessi tardato ancora un giorno a ritornare, forse sarebbe stato troppo tardi. La notizia del mio ritorno miracoloso dalla tomba, sparsa dalle schiave pettegole, si diffuse sull'isola con la rapidità del vaiolo. Prima di notte il Faraone mandò Aton a chiamarmi. Persino il mio vecchio amico ciambellano era teso e riservato in mia presenza. Si scostò agilmente quando cercai di toccarlo, come se temesse che la mia mano potesse attraversare il suo corpo. Mentre mi guidava attraverso il palazzo, nobili e schiavi si allontanavano da me, e facce curiose mi spiavano dalle porte e dalle finestre. Il Faraone mi accolse con uno strano miscuglio di rispetto e di nervosismo poco adatto a un re e a un dio. «Dove sei stato, Taita?» chiese come se in realtà preferisse non conoscere la mia risposta. Mi prosternai ai suoi piedi. «Divino Faraone, poiché tu sei un dio, comprendo che mi rivolgi questa domanda per mettermi alla prova. Sai che le mie labbra sono sigillate. Sarebbe un sacrilegio da parte mia parlare di questi misteri, persino con te. Ti prego di assicurare agli dei tuoi pari, e soprattutto ad Anubi, signore delle necropoli, che ho obbedito al loro comando. Ho rispettato il voto di silenzio che mi hanno imposto. Di' loro che ho superato la prova.» Il Faraone rifletté e si agitò nervosamente. Vedevo che formulava una domanda dopo l'altra, e poi le scartava. Non gli avevo lasciato alcuna possibilità. Alla fine disse in tono incerto: «In verità, Taita, hai superato la prova che ti ho imposto. Bentornato. Ci sei mancato». Ma capivo che i suoi sospetti avevano trovato conferma. Mi trattava con il rispetto dovuto a chi ha risolto il mistero supremo. Mi avvicinai e abbassai la voce. «Grande Egitto, tu conosci la ragione per cui sono stato rimandato qui.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
237
Il Faraone sembrava sconcertato, ma annuì. Mi rialzai e mi guardai intorno con aria sospettosa, come se mi aspettassi di essere osservato da forze sovrannaturali e feci uno scongiuro prima di proseguire. «La nobile Lostris... La sua infermità è stata causata dall'influenza diretta di...» Non potevo dire il nome ma feci il segno delle corna con due dita, il segno del dio tenebroso, Seth. L'espressione del sovrano passò dalla confusione alla paura. Rabbrividì e si accostò a me come per cercare protezione mentre proseguivo: «Prima che me ne andassi, la mia padrona portava in grembo il tesoro della casa di Marnose. Poi è intervenuto il Tenebroso, e a causa dell'infermità il figlio che doveva darti non è potuto nascere». Il Faraone era angosciato. «È per questa ragione che ha abortito...» incominciò, quindi s'interruppe. Proseguii con calma. «Non temere, Grande Egitto: io sono stato rimandato qui da forze assai più potenti di quelle del Tenebroso, con il compito di salvarla, in modo che il destino previsto nei Labirinti di Ammon-Ra segua il suo corso. Vi sarà un altro figlio per sostituire quello perduto. La tua dinastia sarà comunque garantita.» «Non dovrai lasciare la nobile Lostris fino a che non sarà guarita.» La voce del Faraone tremava. «Se la salverai e se presto mi darà un figlia, potrai chiedermi qualunque cosa, ma se morirà...» S'interruppe, chiedendosi quale minaccia potesse impressionare chi era già tornato dall'oltretomba. Non fini la frase. «Con il tuo permesso, maestà, andrò subito da lei.» «Subito», confermò il re. «Vai! Vai!» La guarigione della mia padrona fu così rapida da indurmi a sospettare di aver involontariamente evocato qualche forza misteriosa. Provavo un timore superstizioso per i miei poteri. Si rimise in carne quasi a vista d'occhio, e i due sacchi vuoti ridivennero seni sodi e torniti, così dolci da far ardere d'invidia l'immagine di pietra della dea Hapi che vegliava sulla soglia della sua camera. Il sangue giovane soffuse la pelle cerea sino a farla risplendere di nuovo; e la sua risata tornò argentina come le fontane del nostro giardino acquatico. Ben presto fu impossibile tenerla a letto. Tre settimane dopo il mio ritorno a Elefantina giocava con le ancelle, correndo nel giardino e spiccando salti per colpire la palla al di sopra della testa delle altre. Alla fine, temendo che si affaticasse troppo, le confiscai la palla e le ordinai di Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
238
tornare nella sua camera. Mi obbedì soltanto dopo che avemmo concluso un altro patto: dovetti prometterle di cantare con lei e di insegnarle le formule più arcane del bao, che le avrebbero permesso di conquistare la prima vittoria contro Aton, grande appassionato di quel gioco. Aton veniva quasi tutte le sere a informarsi sulla salute della mia padrona per incarico del sovrano e si tratteneva a giocare con me. Sembrava finalmente convinto che non ero un fantasma pericoloso e, anche se mi trattava con un rispetto nuovo, la nostra amicizia sopravvisse alla mia dipartita. Ogni mattina la nobile Lostris mi faceva ripetere la promessa. Poi prendeva lo specchio e osservava la propria immagine senza la minima vanità. Esaminava ogni particolare della sua bellezza, per accertare se poteva mostrarsi a Tanus. «I miei capelli sembrano paglia, e mi sta spuntando un altro brufolo sul mento. Fammi ridiventare bella, Taita. Fammi ridiventare bella per Tanus.» «Ti sei ridotta male da sola, e adesso vuoi che Taita rimedi», borbottai. Rise e mi gettò le braccia al collo. «Sei qui proprio per questo, vecchio briccone. Per aver cura di me.» Ogni sera le preparavo un tonico e le portavo la ciotola fumante quando stava per addormentarsi. Allora mi faceva ripetere la promessa. «Giura che mi porterai Tanus non appena sarò pronta a riceverlo.» Mi sforzavo di ignorare le difficoltà e i pericoli che la promessa avrebbe causato a tutti noi. «Te lo giuro», ripetevo mentre lei si adagiava e si addormentava con un sorriso sul volto. Mi sarei preoccupato di mantenere l'impegno quando fosse venuto il momento. Il Faraone fu informato da Aton che Lostris era guarita, e venne a farle visita. Le portò in dono una collana d'oro e lapislazzuli ornata da un'aquila e rimase fino a sera, giocando con lei agli indovinelli. Quando decise di andarsene, mi chiamò perché lo accompagnassi al suo appartamento. «La trasformazione è straordinaria. È un miracolo, Taita. Quando potrò portarla di nuovo a letto? Mi sembra che stia abbastanza bene per darmi un figlio ed erede.» «È ancora presto, Grande Egitto», gli assicurai con fermezza. «Il minimo sforzo da parte della mia padrona potrebbe causare una ricaduta.» Il re non discuteva più le mie affermazioni, perché adesso parlavo con tutta l'autorità di chi è tornato dall'aldilà, anche se la soggezione iniziale Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
239
verso di me si era un po' attenuata con la familiarità. Anche le schiave si andavano abituando alla mia resurrezione e riuscivano a guardarmi in faccia senza fare scongiuri. Anzi, il mio ritorno dall'oltretomba non era più l'argomento principale per i pettegoli di corte, che avevano altro di cui occuparsi. Tutti parlavano dell'avvento di Akh-Horus nella vita e nella coscienza di quanti popolavano la terra lungo il grande fiume. La prima volta che sentii bisbigliare il nome di Akh-Horus nei corridoi del palazzo non lo focalizzai immediatamente. Il giardino di Tiamat in riva al mar Rosso sembrava tanto lontano dal piccolo mondo di Elefantina, e io avevo dimenticato il nome che Hui aveva dato a Tanus. Ma quando sentii parlare delle gesta straordinarie attribuite al semidio, capii a chi alludevano. Tornai correndo all'harem e trovai la mia padrona nel giardino, assediata da una dozzina di visitatoci, nobili dame e consorti reali, perché ormai stava abbastanza bene per riprendere il suo ruolo di beniamina della corte. Ero così emozionato che dimenticai la mia posizione di schiavo: volevo sbarazzarmi delle auguste signore e mi comportai in modo scortese. Le donne lasciarono il giardino starnazzando come un branco di oche offese, e la mia padrona mi rimproverò. «Questo non è da te. Che cosa ti ha preso, Taita?» «Tanus!» Pronunciai il nome come fosse un incantesimo, e Lostris dimenticò lo sdegno e mi prese le mani. «Hai notizie di Tanus? Dimmi, dimmi, prima che muoia per l'impazienza.» «Notizie? Si, ho notizie di lui, e che notizie! Straordinarie. Incredibili.» Lostris mi lasciò le mani e afferrò il ventaglio d'argento. «Smettila di dire sciocchezze», disse minacciandomi. «Non lo sopporto. Dimmi tutto, o giuro che ti ritroverai con più bozze sulla testa di quante pulci abbia addosso un nubiano.» «Vieni! Andiamo dove nessuno può sentirci.» La condussi al molo e l'aiutai a scendere nel barchino. In mezzo al fiume eravamo al sicuro dalle orecchie indiscrete che stavano in agguato a ogni angolo del palazzo. «C'è un vento nuovo che soffia sulla nostra terra», le dissi. «Lo chiamano Akh-Horus.» «Il fratello di Horus...» mormorò Lostris con reverenza. «È così che ora chiamano Tanus?» «Nessuno sa che è Tanus. Lo credono un dio.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
240
«Lo è», insistette Lostris. «Per me lo è.» «Ora lo è anche per tutti gli altri. Se non fosse un dio, come potrebbe sapere dove si nascondono le Averle, come piomberebbe infallibilmente sulle loro roccaforti, come conoscerebbe i luoghi dove tendono agguati alle carovane e come potrebbe coglierle di sorpresa?» «Ha fatto tutto questo?» chiese meravigliata Lostris, «Tutto questo e anche di più, se credi alle voci che circolano nel palazzo. Dicono che tutti i ladri e i banditi fuggono atterriti, che i clan delle Averle vengono annientati a uno a uno. Dicono che Akh-Horus ha messo le ali come un'aquila ed è volato sulle rupi inaccessibili del Gebel-Umm-Bahasi per apparire miracolosamente in mezzo al clan di Basti il Crudele. Con le sue mani ha scagliato nell'abisso cinquecento banditi...» «Continua!» Lostris batté le mani con tanto entusiasmo che rischiò di capovolgere il barchino. «Dicono che a ogni crocevia e lungo ogni strada carovaniera ha eretto grandi monumenti al suo passaggio.» «Quali monumenti?» «Mucchi di teschi umani, piramidi di crani. Le teste dei banditi che ha ucciso, perché siano di monito agli altri.» La mia padrona rabbrividì, scossa da un orrore delizioso, ma il suo viso continuò a splendere. «Ne ha uccisi davvero tanti?» chiese. «Alcuni dicono che ne ha uccisi cinquemila, altri cinquantamila. C'è persino chi dice che sono centomila, ma credo che sia un'esagerazione.» «Continua! Continua!» «Dicono che ha già catturato almeno sei dei caporioni...» «E li ha decapitati!» esclamò Lostris. «No. Dicono che non li ha uccisi, ma li ha trasformati in babbuini e li tiene in gabbia per suo divertimento.» «È possibile?» rise Lostris. «Per un dio, tutto è possibile.» «È il mio dio. Oh, Taita, quando me lo farai rivedere?» «Presto», promisi. «La tua bellezza diviene più fulgida di giorno in giorno, e presto tornerà quella d'un tempo.» «E intanto dovrai raccogliere e riferirmi tutto ciò che sentirai dire di AkhHorus.» Ogni giorno mi mandava al porto a interrogare gli equipaggi delle imbarcazioni che venivano dal nord, per chiedere notizie di Akh-Horus. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
241
«Ora raccontano che nessuno ha mai visto la sua faccia, perché porta un elmo con la visiera che lascia scoperti soltanto gli occhi. E dicono che nell'ardore della battaglia la testa di Akh-Horus è circondata da una fiamma così intensa da accecare i nemici», le riferii dopo una visita al porto. «Io stessa ho visto che, al sole, i capelli di Tanus sembrano ardere di una luce celestiale», confermò la mia padrona. Un'altra mattina potei dirle: «Affermano che è capace di moltiplicare il proprio corpo come le immagini in uno specchio, e che può essere in molti luoghi diversi nello stesso istante. Nel medesimo giorno lo hanno visto a Qena e a Kom-Ombo, che si trovano a grandissima distanza tra loro». «È possibile?» chiese Lostris. «Alcuni dicono che non è vero, e che riesce a coprire simili distanze solo perché non dorme mai. Dicono che la notte galoppa nelle tenebre sul dorso di un leone e di giorno vola nel cielo su un'enorme aquila bianca per piombare sui nemici quando meno se l'aspettano.» «Questo potrebbe essere vero.» Lostris annui, molto seria. «Non credo alle immagini moltiplicate, ma il leone e l'aquila potrebbero essere veri. Penso che Tanus potrebbe fare qualcosa del genere.» «Secondo me, è più probabile che tutti, in Egitto, desiderino vedere AkhHorus, e che il desiderio sia il padre dei fatti. Lo scorgono dietro ogni cespuglio. In quanto alla rapidità dei suoi spostamenti, ebbene, ho marciato con le sue guardie e posso assicurarti che...» La mia padrona non mi lasciò finire. «Non hai spirito romantico, Taita. Tu dubiteresti che le nubi siano i velli delle greggi di Osiride e che il sole sia il volto di Ra, solo perché non puoi toccarli. In quanto a me, credo che Tanus sia capace di tutte queste cose.» Le sue parole misero fine alla discussione, e io chinai umilmente la testa. Riprendemmo l'abitudine di uscire nel pomeriggio per aggirarci nelle vie e nei mercati. Come era accaduto prima della malattia, la mia padrona era circondata dall'affetto della popolazione, e si fermava a parlare con tutti, indipendentemente dalla loro posizione sociale. Dai sacerdoti alle prostitute, nessuno era immune alla sua grazia spontanea. Lostris riusciva sempre a portare la conversazione su Akh-Horus, e tutti erano ansiosi quanto lei di parlare del nuovo dio. Ormai la fantasia popolare l'aveva promosso da semidio a divinità autentica. Gli abitanti di Elefantina avevano già iniziato una colletta per costruirgli un tempio, e la mia padrona Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
242
aveva contribuito con una donazione generosa. Era stata scelta anche la località, sulla riva del fiume di fronte al tempio di suo fratello Horus, e il Faraone aveva annunciato l'intenzione di consacrarlo personalmente. Il sovrano aveva ogni motivo di essere riconoscente. Ovunque regnava una fiducia nuova. Via via che i percorsi delle carovane venivano resi sicuri, il volume dei commerci fra l'Alto Egitto e il resto del mondo aumentava in proporzione. Se prima arrivava dall'oriente una carovana, adesso erano quattro ad attraversare il deserto senza problemi, e altrettante partivano per il viaggio di ritorno. Le carovane avevano bisogno di migliaia di asini, e gli allevatori e i contadini li portavano nelle città, attratti dalla prospettiva di un buon guadagno. Ormai si poteva lavorare nei campi anche lontano dalla protezione delie città, e si seminava là dove per decenni erano cresciute soltanto erbacce e i contadini ridotti in miseria tornavano a prosperare. I buoi trainavano le slitte cariche di prodotti agricoli sulle strade difese dalle legioni di Akh-Horus, e i mercati erano pieni di frutta e di verdura. Una parte dei profitti dei mercanti e dei proprietari terrieri veniva spesa nella costruzione di nuove residenze in campagna, dove le famiglie potevano tornare a vivere. Gli artigiani che s'erano aggirati in cerca di lavoro per le vie di Tebe e di Elefantina erano richiestissimi, e spendevano le loro paghe per comprare non soltanto le cose necessarie ma anche oggetti di lusso. I mercati erano sempre affollati. Il volume del traffico sul Nilo era cresciuto in modo sensazionale; c'era bisogno di altre imbarcazioni che venivano costruite in tutti i cantieri. I capitani e gli equipaggi dei battelli fluviali e gli operai dei cantieri spendevano le loro nuove ricchezze nelle taverne e nelle case di piacere, e le prostitute e le cortigiane acquistavano abiti eleganti e gingilli preziosi, e i sarti e i gioiellieri prosperavano e si facevano costruire nuove abitazioni, mentre le loro mogli andavano al mercato con le borse piene d'oro e d'argento per comprare di tutto, dagli schiavi alle pentole. L'Egitto tornava alla vita dopo essere stato strangolato per tanti anni dalle depredazioni di Akh-Seth e delle Averle. Come conseguenza gli introiti fiscali crescevano e gli esattori del Faraone volteggiavano con la soddisfazione con cui gli avvoltoi scendevano sui cadaveri dei banditi che Akh-Horus e le sue legioni spargevano per tutta la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
243
campagna. Era comprensibile che il Faraone fosse riconoscente. Lo eravamo anch'io e la mia padrona: facemmo un investimento in una spedizione commerciale in partenza per la Siria e quando la spedizione tornò, dopo sei mesi, constatammo che avevamo ottenuto un profitto cinquanta volte maggiore dell'investimento. La mia padrona si comprò una collana di perle e cinque nuove schiave che mi complicarono la vita. Prudente come al solito, usai la mia parte per acquistare cinque appezzamenti d'ottimo terreno sulla riva orientale del fiume. Uno scriba preparò l'atto e lo fece registrare nei libri del tempio. Poi venne il giorno che tanto temevo. Una mattina la mia padrona studiò la propria immagine allo specchio con maggior attenzione del solito e dichiarò che era finalmente pronta. Per la verità dovetti ammettere che non era mai stata più incantevole, come se quanto aveva sofferto di recente le avesse dato una resistenza nuova. Le ultime tracce dell'incertezza e della goffaggine infantile erano svanite e la mia padrona era diventata una donna, matura e consapevole. «Mi sono fidata di te, Taita. Ora dimostrami che non sono stata sciocca a farlo. Portami Tanus.» Quando Tanus e io ci eravamo separati a Safaga, non eravamo riusciti a concordare un sistema sicuro per scambiarci messaggi. «Sarò in marcia ogni giorno, e chi può sapere dove mi condurrà questa campagna? Non lasciare che la nobile Lostris si preoccupi se non avrà mie notizie. Dille che le manderò un messaggio quando avrò ultimato il mio compito. Ma dille anche che sarò presente quando i frutti del nostro amore saranno maturi sull'albero, pronti per essere colti.» Perciò non avevamo saputo nulla da lui in tutti quei mesi, a parte le voci che correvano al porto e nei mercati. Sembrava che ancora una volta gli dei fossero intervenuti per salvarmi, questa volta dalla collera della mia padrona. Quel giorno, al mercato, circolava una nuova diceria. Una carovana che aveva percorso la strada dal nord aveva incontrato una piramide di teste umane eretta di recente a poca distanza dalle mura della città. Le teste erano così fresche che puzzavano poco, e non erano state ancora spolpate dai corvi e dagli avvoltoi. «Questo può significare una sola cosa», diceva la gente. «Akh-Horus è nel nomo di Assuan, probabilmente in vista delle mura di Elefantina. È piombato sui resti del clan di Akheku, che si nascondeva nel deserto da quando il suo capo era stato decapitato a Gallala. Akh-Horus ha massacrato Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
244
il resto dei banditi e ha ammucchiato le teste sul bordo della strada. Grazie al nuovo dio, il sud è stato liberato dalle terribili Averle!» Era una grande notizia, la migliore che avessi udito in molte settimane, e smaniavo di riferirla alla mia padrona. Mi feci largo tra la folla di marinai, mercanti e pescatori in cerca di un barcaiolo che mi riportasse all'isola. Qualcuno mi tirò per il braccio e io mi svincolai con uno scatto irritato. Nonostante la prosperità generale, o forse a causa di essa, i mendicanti erano più importuni che mai. Quello non intendeva lasciarsi scoraggiare; mi voltai di scatto e alzai irosamente il bastone per scacciarlo. «Non colpire un vecchio amico! Ho un messaggio per te da parte di uno degli dei», piagnucolò il mendicante. Mi trattenni e lo fissai sbalordito. «Hui!» Il cuore mi batté più forte quando riconobbi il sorriso furbo dell'ex bandito. «Che cosa fai qui?» Non attesi una risposta alla domanda superflua e continuai: «Seguimi a distanza». Lo condussi in una delle case di piacere, in un vicoletto dietro il porto, dove affittavano stanze alle coppie, anche dello stesso sesso. Le affittavano per un breve periodo misurato da un orologio ad acqua fissato alla porta, e per quel servizio pretendevano un grosso anello di rame. Pagai il compenso esorbitante e, non appena restammo soli, afferrai Hui per il mantello lacero. «Che notizie del tuo padrone?» chiesi, e il giovane rise con esasperante insolenza. «Ho la gola così secca che non riesco a parlare.» Aveva adottato la baldanza di un Azzurro: le scimmie imparano facilmente i nuovi trucchi. Gridai all'inserviente di portare un orcio di birra. Hui beveva come un asino assetato, poi abbassò l'orcio e ruttò, soddisfatto. «Il dio Akh-Horus invia un saluto a te e a qualcun altro di cui non è lecito pronunciare il nome. Mi ha comandato di dirti che la missione è compiuta e che tutti gli uccelli sono in gabbia. Ti rammenta che mancano pochi mesi alla prossima festività di Osiride ed è tempo di scrivere un nuovo testo per lo spettacolo della passione che dovrà intrattenere il re.» «Dov'è? Quanto tempo impiegherai per tornare da lui?» chiesi con impazienza. «Potrò essere con lui prima che Ammon-Ra, il dio sole, cali dietro i colli a occidente», dichiarò Hui, e lo guardai dalla finestra: il sole stava già scendendo nel cielo. Quanto desideravo sentire il rude abbraccio di Tanus e udire la sua risata scrosciante! Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
245
Sorridendo fra me, cominciai a camminare avanti e indietro mentre decidevo il messaggio che gli avrei fatto riferire da Hui. Era quasi buio quando sbarcai al nostro piccolo molo e salii in fretta i gradini. Una delle schiave era alla porta: piangeva e si massaggiava l'orecchio gonfio. «Quella m'ha picchiata», gemette. Vidi che la sua dignità aveva sofferto assai più dell'orecchio. «Non chiamare "quella" la nobile Lostris», la rimproverai. «Comunque, di che ti lamenti? Gii schiavi esistono per essere picchiati.» Tuttavia era molto insolito che la mia padrona alzasse le mani su qualcuno. Doveva essere davvero di pessimo umore, pensai, e rallentai il passo. Mi avvicinai cautamente e arrivai mentre un'altra ancella fuggiva piangendo dalla camera di Lostris. La mia padrona apparve sulla soglia, rossa in viso per la collera. «Hai trasformato i miei capelli in un pagliaio...» Mi vide, e subito s'interruppe per inveire contro di me con tanta energia da farmi comprendere che ero il vero oggetto della sua collera. «Dove sei stato?» chiese. «Ti ho mandato al porto prima di mezzogiorno. Come osi farmi aspettare tanto a lungo...» Venne verso di me con un'espressione tale da indurmi a indietreggiare nervosamente. «Lui è qui», dissi in fretta, e abbassai la voce perché le schiave non mi udissero. «Tanus è qui», sussurrai. «Dopodomani manterrò la mia promessa.» Cambiò umore di colpo e mi gettò le braccia al collo, quindi corse a cercare le ancelle offese per consolarle. Fra i tributi annuali che il re vassallo di Ammor aveva inviato al Faraone dal suo regno al di là del mar Rosso, vi era una coppia di ghepardi addestrati per la caccia. Il re era impaziente di lanciare quelle creature magnifiche contro i branchi di gazzelle che abbondavano fra le dune della riva occidentale, e tutta la corte, inclusa la mia padrona, aveva avuto l'ordine di partecipare alla battuta. Attraversammo il fiume con una flotta di piccole imbarcazioni con le vele bianche e i vessilli colorati che garrivano al vento. C'era una grande allegria e ci accompagnava la musica dei liuti e dei sistri. Tra pochi giorni avrebbe avuto inizio la piena annuale del grande fiume, e l'attesa e il nuovo clima di prosperità accentuavano la gaiezza delia corte. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
246
La mia padrona era la più lieta di tutti, e lanciava saluti alle amiche a bordo delle altre barche, mentre la nostra feluca fendeva velocemente le acque verdi dell'estate, una ghirlanda di spuma candida ornava la prua e una scia lucente si estendeva dietro di noi. A quanto pareva, io ero l'unico che non fosse felice e spensierato. Il vento era tagliente e soffiava dalla direzione sbagliata. Continuavo a scrutare con ansia il cielo occidentale. Era luminoso e sereno, ma aveva una lucentezza bronzea del tutto innaturale. Sembrava quasi che un altro sole stesse spuntando nella direzione opposta. Scacciai i tristi presentimenti e cercai di adeguarmi allo spirito di generale gaiezza. Ma non ci riuscii, perché non ero preoccupato soltanto per il tempo. Se una parte del mio piano fosse andata male, la mia vita sarebbe stata in pericolo, e forse anche la vita di persone assai più importanti di me. Tutto ciò doveva essere leggibile sulla mia faccia perché la mia padrona mi toccò con il piedino e mi disse: «Come sei cupo, Taita. Chi ti guarda capisce subito che hai in mente qualcosa. Sorridi! Ti ordino di sorridere». Quando sbarcammo sulla riva occidentale c'era ad attenderci un esercito di schiavi. Gli stallieri tenevano per le briglie gli splendidi asini bianchi con le gualdrappe di seta. Gli asini da soma erano carichi di tende, tappeti e cesti con viveri e vino e tutto il necessario per la reale scampagnata. C'era una quantità di schiavi: alcuni con i parasoli per proteggere le dame, altri servivano i nobili ospiti. C'erano buffoni e acrobati e musici per divertirli e cento cacciatori. La gabbia dei ghepardi era caricata su una slitta trainata da buoi candidi, e la corte si radunò intorno al veicolo per ammirare quelle bestie rare che non si trovavano nel nostro paese perché erano creature delle praterie erbose, inesistenti lungo il fiume. Erano i primi che vedevo, ed ero così incuriosito che per un po' dimenticai le mie preoccupazioni e mi avvicinai alla gabbia per quanto mi era possibile senza il rischio di urtare qualche suscettibile aristocratico. Erano i felini più belli che potessi immaginare, più alti e snelli dei nostri leopardi, con le zampe agili e i ventri concavi. Le code sinuose sembravano esprimere il loro umore. I manti dorati erano costellati di macchie nere, mentre una riga nera andava dall'angolo interno dell'occhio lungo il muso come un rivolo di lacrime; e questo, unito al portamento regale, conferiva loro un'aria tragica e patetica che m'incantava. Desideravo avere uno di quegli animali, e decisi che avrei instillato quell'idea nella mente della mia Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
247
padrona. Il Faraone non aveva mai rifiutato di accontentare i suoi capricci. In un tempo anche troppo breve l'imbarcazione che aveva trasportato il re attraverso il fiume raggiunse la riva occidentale, e con il resto della corte ci affrettammo ad accoglierlo all'imbarcadero. Il Faraone era abbigliato per la caccia: per una volta sembrava sereno e felice. Si fermò accanto alla mia padrona e, mentre lei s'inchinava, s'informò garbatamente della sua salute. Temetti che decidesse di tenerla al suo fianco per tutto il giorno: questo avrebbe sconvolto i miei piani. Ma i ghepardi attrassero la sua attenzione, e passò oltre senza ordinarle di seguirlo. Ci mescolammo alla folla e ci avviammo verso l'asino destinato a Lostris. Mentre l'aiutavo a montare, parlai sottovoce allo stalliere; e quando mi rispose come mi attendevo, gli misi nella mano un anello d'argento che spari come per magia. Mentre uno schiavo conduceva l'asino e un altro le reggeva sulla testa il parasole, la mia padrona e io seguimmo nel deserto il re e la slitta. Vi furono varie soste per i rinfreschi, e perciò impiegammo metà mattina per raggiungere la Valle delle Gazzelle. Lungo il percorso superammo a una certa distanza l'antica necropoli di Tras, che risaliva ai tempi dei primi Faraoni. Alcuni sapienti dicevano che le tombe erano state scavate nelle rupi nere tremila anni prima, anche se non saprei dire come fossero giunti a tale conclusione. Senza parere, studiai attentamente le entrate delle tombe. Da quella distanza, però, non riuscii a scorgere traccia di una recente presenza umana, e rimasi irragionevolmente deluso. Mentre proseguivamo, continuavo a guardarmi indietro. La Valle delle Gazzelle era una riserva reale di caccia, protetta dai decreti di moltissimi Faraoni. Una compagnia di guardacaccia reali era di stanza sulle colline sovrastanti la valle per fare rispettare l'editto del sovrano, che riservava a se stesso tutta la selvaggina. La pena per chi vi cacciava senza l'autorizzazione reale era la morte per strangolamento. I nobili smontarono sulla cresta di una delle colline affacciate sull'ampia valle bruna. Le tende furono erette in fretta per assicurare un po' d'ombra, e le giare di sorbetto e di birra furono aperte per scacciare la sete. Mi assicurai che la mia padrona e io avessimo una posizione favorevole per assistere alla caccia, ma tale che ci permettesse di allontanarci senza attirare l'attenzione. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
248
Scorsi in lontananza i branchi di gazzelle attraverso il miraggio tremulo sul fondovalle. Le indicai alla mia padrona. «Che cosa trovano da mangiare, laggiù?» chiese Lostris. «Non c'è traccia di verde. Mangeranno le pietre: quelle sono abbondanti.» «Molte di quelle che vedi non sono pietre, bensì piante», le spiegai. Quando rise, incredula, girai lo sguardo sul terreno sassoso e raccolsi una manciata di quelle piante miracolose. «Sono sassi», insistette Lostris, fino a quando ne prese in mano una e la strinse. La linfa densa le scorse fra le dita. La mia padrona si meravigliò dell'ingegnosità con cui gli dei avevano ideato quell'inganno. «Si nutrono di queste? Non sembra possibile.» Non potemmo continuare la conversazione perché stava iniziando la caccia. Due cacciatori reali aprirono la gabbia e i ghepardi balzarono a terra. Mi aspettavo che tentassero la fuga; invece erano domestici come i gatti dei templi e si strusciavano affettuosamente contro le gambe degli addestratori emettendo strani suoni cinguettanti, più simili alle voci degli uccelli che a quelle dei predatori feroci. Sull'altro lato della valle vidi la fila dei battitori, minuscoli e deformati dalla distanza e dai miraggi. Si muovevano lentamente nella nostra direzione, e i branchi di gazzelle incominciavano a spostarsi per precederli. Mentre il re e i suoi cacciatori, con i ghepardi al guinzaglio, scendevano verso il fondovalle, noi restammo sull'altura con il resto della corte. I nobili stavano già facendo scommesse e io ero ansioso quanto loro di assistere all'esito della caccia, ma la mia padrona pensava ad altro. «Quando possiamo andare?» mormorò. «Quando possiamo fuggire nel deserto?» «Appena inizierà la caccia, tutti gli occhi la seguiranno, e quello sarà il nostro momento.» Mentre parlavo, il vento che ci aveva sospinti attraverso il fiume e ci aveva rinfrescati durante la marcia cadde all'improvviso. Fu come se un ramaio avesse aperto lo sportello della forgia. L'aria divenne così calda da essere quasi irrespirabile. Guardai di nuovo l'orizzonte occidentale. Il cielo era diventato d'un giallo sulfureo. Mentre l'osservavo, la macchia parve dilatarsi nel cielo. Mi metteva a disagio. Tuttavia ero l'unico tra i presenti che sembrava notare lo strano fenomeno. Anche se il re era arrivato nel fondovalle, era ancora abbastanza vicino perché potessi osservare i grandi felini. Avevano visto i branchi di gazzelle Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
249
che venivano spinti lentamente verso di loro, e questo aveva trasformato gli affettuosi animali domestici in cacciatori selvaggi. Tenevano la testa alta, le orecchie puntate in avanti, e strattonavano i guinzagli. I ventri concavi erano rientrati, e ogni muscolo era teso come la corda di un arco tirata al massimo. La mia padrona mi tirò per il gonnellino e bisbigliò imperiosamente: «Andiamo, Taita». Controvoglia, cominciai ad avviarmi verso un ammasso di rocce che avrebbe coperto la nostra ritirata e ci avrebbe nascosti alla vista degli altri. L'argento che avevo dato allo stalliere ci aveva procurato un asino che ci attendeva legato fra le rocce. Appena lo raggiungemmo, mi assicurai che trasportasse ciò che avevo ordinato, l'otre d'acqua e il sacco di provviste. Era tutto in ordine. Non seppi trattenermi dall'implorare la mia padrona: «Ancora un momento». Prima che potesse proibirmelo, mi arrampicai sull'affioramento roccioso e sbirciai nella valle sottostante. La gazzella più vicina stava a poche centinaia di passi dal punto in cui il Faraone teneva a guinzaglio i ghepardi. Arrivai giusto in tempo per vedere il sovrano che li liberava e li lanciava. Si avviarono ad andatura agile e svelta, con le teste alte come se studiassero i branchi delle gazzelle eleganti per scegliere la preda. All'improvviso gii erbivori si accorsero della loro presenza e fuggirono. Come uno stormo di rondini, volarono attraverso la pianura polverosa. I felini allungarono la corsa protendendo le zampe anteriori, facendo scattare quelle posteriori e piegandosi quasi in due prima di tornare a distendersi. Raggiunsero in fretta la velocità massima: non avevo mai visto animali tanto svelti. In confronto a loro le gazzelle si muovevano come se fossero incappate in un terreno acquitrinoso che rallentava la fuga. Con sciolta eleganza i due felini raggiunsero il branco e superarono un paio di ritardatari prima di avvicinarsi alle vittime prescelte. Le gazzelle, in preda al panico, cercarono di sfuggire alla carica mortale. Spiccavano grandi balzi e cambiavano direzione a mezz'aria, torcendosi e tornando indietro nel momento in cui toccavano con gli zoccoli la terra riarsa. I felini seguivano le loro evoluzioni con agilità, e la fine era inevitabile. Ognuno dei due inchiodò al suolo la sua gazzella in una nube di polvere. Poi si acquattò con le zanne affondate nella trachea mentre le zampe Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
250
posteriori della vittima scalciavano convulsamente e si irrigidivano nella morte. Ero scosso da quello spettacolo straordinario. Poi la voce della mia padrona mi richiamò al dovere. «Taita! Scendi immediatamente. Ti vedranno, appollaiato lassù.» Scesi e la raggiunsi. Anche se ero ancora eccitato, la issai sulla sella e condussi l'asino giù per il pendio, dove gli spettatori in cima alla collina non avrebbero potuto vederci. La mia padrona non era capace di fare a lungo il broncio e quando io, astutamente, pronunciai di nuovo il nome di Tanus, dimenticò tutto il resto e si affrettò a procedere verso il luogo dell'incontro. Solo quando ci lasciammo alle spalle un'altra cresta e fui certo che eravamo lontani dalla Valle delle Gazzelle, mi diressi alla necropoli di Tras. Nell'aria calda e immota lo scalpitio degli zoccoli dell'asino risuonava sulle pietre come se l'animale camminasse su una distesa di vetri rotti. Ben presto sentii il sudore che mi grondava addosso perché l'aria era opprimente, appesantita da un presagio di tuoni. Molto prima che raggiungessimo le tombe chiesi alla mia padrona: «L'aria è asciutta come un vecchio osso. Non vuoi bere un po' d'acqua?». «Andiamo avanti! Più tardi avrai tutto il tempo di bere a sazietà.» «Pensavo a te, padrona», protestai. «Non dobbiamo arrivare in ritardo. Ogni istante che sprechi sarà un istante di meno che passerò con Tanus.» Aveva ragione, naturalmente, perché avremmo avuto pochissimo tempo prima che gli altri notassero la nostra assenza. La mia padrona era così benvoluta che molti l'avrebbero cercata per stare in sua compagnia quando, alla conclusione della caccia, fossero ritornati al fiume. Ci avvicinammo alle rupi e la sua impazienza crebbe al punto che non riuscì più a tollerare l'andatura piuttosto lenta dell'asino. Balzò a terra e corse verso la vicina altura. «Ecco! Ecco dove mi starà aspettando!» esclamò, tendendo il braccio per indicare. Mentre avanzava profilata contro il cielo, il vento ci assali come un lupo famelico ululando fra le colline e le gole. Afferrò i capelli della mia padrona e Si fece sventolare come un vessillo aggrovigliandoli intorno alla testa; le sollevò la gonna sopra le cosce snelle, e Lostris rise e piroettò, civettando con il vento come se fosse un innamorato. Io non condividevo la sua gioia. Mi voltai indietro e vidi la tempesta che veniva dal Sahara. Torreggiava Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
251
nel torvo cielo giallo, scura e spaventosa, e turbinava su se stessa come un'ondata rabbiosa che s'infrange su una scogliera corallina. La sabbia portata dal vento mi sferzò le gambe. Mi misi a correre, trascinandomi dietro l'asino. Le raffiche mi spingevano alle spalle e minacciavano di farmi cadere, ma riuscii a raggiungere la mia padrona. «Dobbiamo affrettarci», le gridai. «Dobbiamo ripararci nelle tombe prima che la tempesta ci travolga.» Le grandi nubi di sabbia passavano sul sole e lo velavano, tanto che potevo guardarlo a occhio nudo. Tutto il mondo era inondato da quella cupa sfumatura d'ocra, e il sole era una sfera color arancio opaco. La sabbia ci graffiava gli arti e il collo, e dovetti avvolgere il mio scialle intorno alla testa della mia padrona per ripararla. Poi le presi una mano, per guidarla. I turbini ci avviluppavano e nascondevano quanto ci stava intorno, tanto da farmi temere che avessi perso l'orientamento: ma all'improvviso si apri un varco e vidi davanti a noi l'imboccatura buia d'una tomba. Trascinai dietro di me la mia padrona con una mano e l'asino con l'altra, ed entrai barcollando nella grotta. La galleria d'accesso era scavata nella roccia e si addentrava nelle viscere della collina, poi svoltava bruscamente prima di giungere alla camera sepolcrale dove un tempo aveva riposato un'antica mummia. Già secoli prima i ladri avevano portato via il corpo imbalsamato e tutti i suoi tesori. Restavano soltanto gli affreschi sbiaditi alle pareti di pietra, immagini indistinte e minacciose di divinità e di mostri. La mia padrona si lasciò cadere contro la parete, ma il suo primo pensiero fu per l'amato. «Tanus non ci troverà mai» esclamò disperata. E io, che l'avevo condotta in salvo, mi sentii offeso da tanta ingratitudine. Dissellai l'asino e ammucchiai il carico in un angolo della tomba. Riempii una coppa d'acqua e feci bere Lostris. «Che ne sarà degli altri, il re e tutti i nostri amici?» chiese fra un sorso e l'altro. Era tipico del suo carattere preoccuparsi per gli altri, anche in quella situazione per lei disagevole. «I cacciatori si prenderanno cura di loro», risposi. «Sono esperti e conoscono il deserto.» Ma non lo conoscevano abbastanza bene per prevedere la tempesta, pensai cupamente. Per quanto cercassi di tranquillizzare Lostris, sapevo che sarebbe stata una brutta avventura per le donne e i bambini. «E Tanus?» mi chiese. «Che cosa gli succederà?» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
252
«Tanus sa bene che cosa fare. È come un beduino. Puoi star certa: avrà visto arrivare la tempesta.» «Riusciremo a tornare al fiume? Ci ritroveranno mai?» Finalmente pensava a se stessa. «Qui staremo al sicuro. Abbiamo acqua a sufficienza per molti giorni. Quando la tempesta cesserà, torneremo al fiume.» Per precauzione, portai l'otre pieno all'interno della tomba, dove l'asino non avrebbe potuto calpestarlo. Ormai era quasi completamente buio. Accesi la lampada che ci aveva procurato lo stalliere e soffiai sullo stoppino. La fiamma si ravvivò e rischiarò la tomba con un'allegra luce gialla. Mentre ero ancora occupato e voltavo le spalle all'entrata, la mia padrona urlò. Fu un suono così acuto, così colmo di terrore da ispirarmi un'eguale paura; il mio sangue si addensò come miele, sebbene il cuore mi battesse come gli zoccoli di una gazzella in fuga. Mi voltai di scatto e feci per sguainare il pugnale, ma, quando vidi il mostro sulla soglia, rimasi immobile, senza toccare l'arma. Sentivo istintivamente che quella lama fragile non sarebbe servita a nulla. Nella luce fioca della lampada, la forma appariva indistinta e distorta. Vedevo che aveva una sagoma umana ma era troppo grande, e la testa grottesca mi convinse che era veramente il temibile essere dalla testa di coccodrillo che, nell'oltretomba, divora i cuori di quanti vengono condannati dalla bilancia di Thoth, il mostro raffigurato sulle pareti della tomba. La testa era coperta di squame e il becco era quello di un'aquila o di una tartaruga gigantesca. Gli occhi profondi ci fissavano con espressione implacabile. Dalle spalle spuntavano grandi ali semipiegate che sbattevano intorno al corpo torreggiante come quelle di un falco. Mi aspettavo che il mostro si lanciasse in volo e dilaniasse la mia padrona con gli artigli bronzei. Anche lei doveva temerlo, perché urlò di nuovo e si curvò ai piedi dell'essere. All'improvviso mi accorsi che non era alato: portava un lungo mantello di lana come quello dei beduini. Mentre eravamo ancora agghiacciati dalla sua orribile presenza, alzò le mani e si tolse l'elmo dorato con la visiera modellata come la testa di un'aquila. Poi scosse la testa e una massa di riccioli d'oro rosso gli cadde sulle spalle ampie. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
253
«Dall'alto del dirupo vi ho visti arrivare attraverso la tempesta», disse una cara voce familiare. La mia padrona gridò di nuovo, ma questa volta per la felicità. «Tanus!» Corse a lui, e Tanus la sollevò come una bambina, così in alto da farle sfiorare con la testa la volta di roccia. Poi la posò e la strinse al petto. Lostris gli cercò la bocca e mi parve che intendessero divorarsi a vicenda con la forza del desiderio. Io me ne stavo dimenticato nell'ombra. Sebbene avessi cospirato e rischiato tanto per farli incontrare, non mi sento capace di descrivere l'emozione che mi assalì mentre ero testimone riluttante della loro felicità. Penso che la gelosia sia il sentimento più ignobile; tuttavia amavo Lostris quanto l'amava Tanus, e non già con l'affetto d'un padre o di un fratello. Ero un eunuco, ma il mio era l'amore di un uomo normale: senza speranze, naturalmente, ma appunto per questo ancora più amaro. Non potevo rimanere a guardarli, e mi mossi per uscire come un cane bastonato. Ma Tanus mi vide e interruppe il bacio che rischiava di distruggere la mia anima. «Taita, non lasciarmi solo con la moglie del re. Resta con noi per proteggerci da questa tentazione terribile. Il nostro onore è in pericolo. Non mi fido di me stesso: devi restare e far in modo che io non causi vergogna alla consorte del Faraone.» «Vattene!» mi gridò invece la nobile Lostris. «Lasciaci soli. Non voglio sentir parlare di vergogna o d'onore. Il nostro amore è stato frustrato troppo a lungo. Non posso attendere che la profezia dei Labirinti compia il suo corso. Lasciaci soli, gentile Taita.» Fuggii dalla camera sepolcrale come se ne andasse della mia vita. Avrei voluto uscire nella tempesta e perire: così avrei trovato pace. Ma ero troppo codardo e lasciai che il vento mi respingesse. Barcollando, raggiunsi l'angolo della galleria dove il vento non poteva più tormentarmi e mi lasciai cadere sul pavimento. Mi coprii la testa con lo scialle per tapparmi gli occhi e gli orecchi; ma anche se la tempesta infuriava lungo la rupe, non bastava a sommergere i suoni che giungevano dalla camera sepolcrale. La tempesta infuriò per due giorni con violenza immutata. Dormii per parte di quel tempo, cercando l'oblio: ma quando mi svegliavo li sentivo, sentivo i suoni del loro amore che mi torturavano. Stranamente, non avevo provato la stessa angoscia quando la mia padrona Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
254
era con il re; ma d'altra parte non era molto strano, dato che per lei il vecchio non significava nulla. Per me era un altro mondo di tormento. Le grida, i gemiti, i sussurri mi straziavano il cuore. I singhiozzi ritmici d'una giovane donna che non erano singhiozzi di sofferenza minacciavano di distruggermi. Le sue grida d'estasi erano per me più dolorose del morso del coltello castratore. Finalmente il vento si placò e cadde gemendo ai piedi delle rupi. La luce s'intensificò e io ricordai che da tre giorni ero imprigionato nella tomba. Mi scossi e li chiamai, senza avere l'ardire di entrare nella camera sepolcrale per timore di ciò che avrei potuto vedere. Per un po' non ebbi risposta: poi la mia padrona parlò con una voce roca e assorta che echeggiava stranamente nel pozzo. «Taita, sei tu? Credevo di essere morta nella tempesta e di essere stata trasportata nelle terre occidentali del paradiso.» Dopo la fine della tempesta ci restava pochissimo tempo. I cacciatori reali dovevano essere già in giro a cercarci. La tempesta ci aveva offerto la giustificazione migliore per la nostra assenza. Ero certo che i superstiti del seguito reale erano sparsi tra quelle colline terribili. Ma i soccorritori non dovevano trovarci in compagnia di Tanus. D'altra parte, Tanus e io avevamo scambiato poche parole in quegli ultimi giorni, e avevamo tante cose da discutere. Facemmo frettolosamente i nostri piani all'imboccatura della galleria. La mia padrona era taciturna e composta come l'avevo vista raramente. Non era più loquace come al solito. Stava a fianco di Tanus e lo guardava con una serenità nuova. Mi rammentava una sacerdotessa davanti all'immagine del dio. Non staccava mai gli occhi dal suo viso e ogni tanto tendeva la mano per toccarlo, come per assicurarsi che fosse veramente lui. Quando lo faceva, Tanus s'interrompeva e concentrava su di lei tutta l'attenzione. Ero costretto a richiamarlo all'argomento che non avevamo ancora finito di trattare. In presenza di un'adorazione così manifesta, i miei sentimenti erano meschini. M'imposi di rallegrarmi per loro. Impiegammo più tempo di quanto ritenessi prudente, ma alla fine abbracciai Tanus e condussi l'asino fuori, sotto il sole filtrato dalla finissima polvere gialla che riempiva ancora l'aria. La mia padrona indugiò e io l'attesi nella valle. Mi voltai e finalmente li vidi uscire dalla caverna. Si soffermarono a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
255
guardarsi per un lungo istante, senza toccarsi: poi Tanus si voltò e si allontanò a grandi passi. La mia padrona lo seguì con gli occhi fino a quando spari, quindi scese dove la stavo aspettando. Camminava come se fosse sperduta in un sogno. L'aiutai a montare sull'asino e, mentre regolavo il sottopancia della sella, mi prese la mano. «Grazie», disse semplicemente. «Non merito la tua riconoscenza», risposi. «Sono l'essere più felice del mondo. Tutto ciò che mi avevi detto dell'amore è vero. Ti prego, rallegrati per me, anche se...» Non finì, e compresi che aveva letto nei miei sentimenti. Anche nella sua grande gioia, era rattristata per avermi causato dolore. Credo che l'amassi in quel momento più di quanto avessi fatto in precedenza. Mi voltai, presi le redini dell'asino, e la ricondussi verso il Nilo. Uno dei cacciatori reali ci scorse dall'alto di una collina e ci chiamò a gran voce. «Vi stavamo cercando per ordine del re», ci disse mentre ci raggiungeva. «Il re sta bene?» chiesi. «È al sicuro nel palazzo sull'isola Elefantina, e ha ordinato di condurre subito a lui la nobile Lostris non appena fosse stata ritrovata.» Quando mettemmo piede sul molo del palazzo, Aton accorse, sbuffando per il sollievo, a circondare di premure la mia padrona. «Hanno trovato i corpi di ventitré sventurati morti nella tempesta», ci disse con macabra soddisfazione. «Tutti erano certi che fossi perita anche tu. Ma io ho pregato nel tempio di Hapi perché tornassi sana e salva.» Sembrava molto soddisfatto: ma m'irritava che cercasse di arrogarsi il merito di quella sopravvivenza. Ci lasciò appena il tempo di lavarci in fretta e di ungerci d'olio profumato, prima di condurci alla presenza reale. Il Faraone era sinceramente commosso nel rivedere la mia padrona. Sono sicuro che avesse finito per amarla, e non solo per la promessa d'immortalità che vedeva in lei. Una lacrima gli s'impigliò nelle ciglia e gli sbavò il trucco della guancia quando Lostris s'inginocchiò davanti a lui. «Temevo di averti perduta», le disse. Se l'etichetta l'avesse permesso, l'avrebbe abbracciata. «Invece, ti vedo più graziosa e vivace che mai.» Era vero, perché l'amore l'aveva circonfusa di una speciale magia. «Mi ha salvata Taita», disse la mia padrona. «Mi ha guidata fino a un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
256
rifugio e mi ha protetta in quei giorni terribili. Senza di lui sarei morta come gli altri sfortunati.» «È vero, Taita?» mi chiese il Faraone. Io assunsi l'espressione più modesta che potei e mormorai: «Non sono altro che un umile strumento degli dei». Il re sorrise; sapevo che si era affezionato anche a me. «Tu ci hai reso molti servigi, umile strumento degli dei, ma questo è il più apprezzabile di tutti. Avvicinati!» comandò. M'inginocchiai davanti a lui. Aton gli stava a fianco con un piccolo scrigno di legno di cedro. Dopo averne sollevato il coperchio lo porse al re. Questi ne trasse una catena d'oro purissimo, con il marchio dei gioiellieri reali che attestava il peso di venti deben. Il re tenne la catena sopra la mia testa ed esclamò: «Ti insignisco dell'Oro del Valore». Poi me la mise sulle spalle, e il peso opprimente era meraviglioso. La decorazione era il massimo segno del favore reale, solitamente riservata a generali e ambasciatori o ad alti funzionari come il nobile Intef. Non credo che mai, nella storia dell'Egitto, fosse stata posta al collo di un semplice schiavo. Non fu il solo premio che ricevetti perché la mia padrona non volle essere da meno. Quella sera, mentre assistevo al suo bagno, congedò le schiave e, nuda davanti a me, mi disse: «Puoi aiutarmi a vestirmi, Taita». Mi accordava questo privilegio quando era particolarmente contenta del mio operato. Sapeva quanto mi piaceva averla per me in quelle circostanze. La sua figura incantevole era coperta solo dai capelli nerissimi. Sembrava che i giorni trascorsi con Tanus le avessero donato una bellezza nuova che si irradiava dal profondo del suo essere. Sembrava rifulgere così come una lampada posta in un recipiente di alabastro risplende attraverso le pareti traslucide. «Non avevo immaginato che questo corpo potesse contenere tanta gioia.» Si accarezzò i fianchi e si guardò, invitandomi a fare altrettanto. «Tutto ciò che avevi promesso si è realizzato mentre ero con Tanus. Il Faraone ti ha concesso l'Oro del Valore: è giusto che anch'io ti dimostri la mia riconoscenza. Voglio farti partecipe della mia felicità.» «Servirti è la ricompensa più grande che potrei desiderare.» «Aiutami a vestirmi», ordinò, e alzò le mani sopra la testa. Nel Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
257
movimento, i suoi seni cambiarono forma. Nel corso degli anni li avevo visti trasformarsi, da minuscoli fichi acerbi, in melagrane dal colore della panna, più belle dei gioielli e delle sculture di marmo. Sollevai il diafano abito da notte e glielo calai sul corpo. La copriva ma non nascondeva la sua bellezza come la nebbia del mattino vela le acque del Nilo. «Ho ordinato un banchetto e ho invitato le dame reali.» «Sta bene, mia signora. Provvederò.» «No. No, Taita, il banchetto è in tuo onore. Sarai seduto accanto a me come mio ospite.» Era un annuncio bizzarro quanto i piani folli che aveva escogitato di recente. «Non è giusto, padrona. Offenderesti la consuetudine.» «Sono una consorte del Faraone, e sono io a stabilire le consuetudini. Durante il banchetto ci sarà un dono per te, e te lo offrirò in presenza di tutti.» «Vuoi dirmi di che dono si tratta?» chiesi trepidante. Non sapevo mai che cosa avesse in mente. «Certo, ti dirò che cos'è.» Sorrise con aria misteriosa. «È un segreto.» Sebbene fossi l'ospite d'onore, non potevo lasciare l'organizzazione del banchetto ai cuochi e alle schiave. Era in gioco la reputazione della mia padrona. Andai al mercato prima dell'alba per procurarmi i prodotti migliori e più freschi dei campi e del fiume. Promisi ad Aton che l'avrei invitato, ed egli in cambio mi apri la cantina dei vini reali e mi lasciò libero di scegliere. Ingaggiai i musici e gli acrobati più abili. Mandai gli schiavi a raccogliere giacinti, ninfee e loti sulle rive del fiume per arricchire la massa dei fiori che già abbellivano il nostro giardino. Incaricai i tessitori di intrecciare piccole arche di canne, su cui collocai lampade di vetro colorato per farle galleggiare sui laghetti. Disposi cuscini di cuoio e ghirlande di fiori per ogni ospite, e recipienti di olio profumato per rinfrescare ciascuna delle invitate nella notte calda e tener lontane le zanzare. Al cader delia notte le dame reali incominciarono ad arrivare in tutta la loro eleganza. Alcune s'erano rasate la testa e avevano sostituito i capelli naturali con parrucche elaborate, confezionate con i capelli naturali che le donne povere erano costrette a vendere per sfamare i figli. Era una moda che detestavo; avrei fatto tutto il possibile per evitare che la mia padrona Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
258
cedesse a una simile follia. I suoi capelli splendenti erano una delle mie gioie più grandi: ma quando c'è di mezzo la moda non ci si può fidare neppure delle donne più sensate. Quando, in seguito alle insistenze della mia padrona, sedetti sul cuscino accanto al suo anziché prendere posto alle sue spalle come al solito, vidi che molte invitate erano scandalizzate da quel comportamento indecoroso e si scambiavano bisbigli dietro i ventagli. Mi sentivo a disagio quanto loro e, per nascondere l'imbarazzo, feci segno alle schiave di riempire le coppe di vino, ai musici di suonare e ai danzatori di ballare. Il vino era forte, la musica eccitante, e i danzatori erano tutti maschi, e tutti mettevano in mostra il loro sesso, perché avevo comandato loro di esibirsi allo stato naturale. Le dame erano così incantate da quello spettacolo che ben presto dimenticarono l'indignazione e fecero onore al vino. Ero certo che molti danzatori non avrebbero lasciato l'harem prima dell'alba, poiché alcune delle dame avevano appetiti voraci, e molte non ricevevano da anni la visita del re. In quell'atmosfera conviviale, la mia padrona si alzò e invitò le ospiti a prestarle attenzione. Poi mi elogiò in termini così lusinghieri da farmi arrossire. Raccontò episodi divertenti e toccanti della nostra esistenza in comune. Sembrava che il vino avesse addolcito le dame nei miei confronti: ridevano e applaudivano. Alcune versavano qualche lacrima, un po' per la commozione e un po' per l'ebbrezza. Alla fine Lostris mi comandò d'inginocchiarmi davanti a lei e quando lo feci si levò un brusio. Avevo indossato un semplice gonnellino di lino finissimo, e le schiave mi avevano acconciato i capelli nello stile che più mi si addiceva. A parte l'Oro del Valore, non portavo altro ornamento e, in mezzo all'ostentazione generale, la mia semplicità colpiva lo sguardo. Con il nuoto e la ginnastica avevo conservato la figura atletica che aveva attratto il nobile Intef. A quel tempo ero nel fiore dell'età. Sentii una delle mogli principali mormorare alla vicina: «È un peccato che abbia perduto i suoi gioielli. Sarebbe un piacevole giocattolo». Quella sera ero disposto a ignorare le parole che in altre occasioni mi avrebbero causato un'intensa sofferenza. La mia padrona sembrava molto soddisfatta di sé. Era riuscita a tenermi all'oscuro del dono. Di solito non era così astuta da riuscire a ingannarmi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
259
Abbassò lo sguardo sulla mia testa china e parlò con voce chiara, lentamente, assaporando quel momento. «Schiavo Taita, da quando sono nata tu sei stato per me uno scudo. Sei stato il mio mentore e il mio guardiano. Mi hai insegnato a leggere e a scrivere, mi hai spiegato i misteri delle stelle e le arti arcane. Mi hai insegnato a cantare e danzare. Mi hai mostrato come trovare felicità e contentezza in molte cose. Ti sono grata.» Le dame reali incominciavano a dar segni d'irrequietezza. Non avevano mai sentito elogiare uno schiavo in termini tanto espansivi. «Il giorno del khamsin mi hai reso un servigio che devo ricompensare. Il Faraone ti ha accordato l'Oro del Valore. Anch'io ho un dono per te.» Tolse dalla veste un rotolo di papiro legato con filo colorato. «Sei stato in ginocchio davanti a me come schiavo: ora rialzati come uomo libero.» Mostrò il papiro. «Questo è il tuo atto di emancipazione, preparato dagli scribi di corte. Da oggi sei libero.» Alzai la testa per la prima volta e la fissai, incredulo. Lostris mi mise il rotolo fra le dita e mi sorrise con affetto. «Non te l'aspettavi, vero? Sei così sorpreso da restare senza parole. Dimmi qualcosa, Taita. Dimmi che mi sei grato per questo dono.» Ogni sua parola mi feriva come un dardo avvelenato. La mia lingua era diventata un sasso mentre pensavo alla vita senza di lei. Come uomo libero sarei stato escluso per sempre dalla sua presenza. Non le avrei più preparato il cibo, non avrei più assistito al suo bagno. Non avrei più drappeggiato le coperte su di lei mentre stava per addormentarsi, non l'avrei destata all'alba e non le sarei stato accanto quando riapriva gli splendidi occhi verde scuro. Non avrei più cantato con lei, non avrei più tenuto la sua coppa, non l'avrei più aiutata a vestirsi e non avrei avuto il piacere di ammirarla in tutta la sua bellezza. Ero ammutolito. La fissavo disperato, come se la mia vita fosse giunta alla fine. «Sii felice, Taita», mi ordinò. «Sii felice nella libertà che ti dono.» «Non sarò mai più felice», esclamai. «Mi hai scacciato. Come potrò essere felice?» Il suo sorriso si spense. Mi fissò, turbata. «Ti offro il dono più prezioso che è in mio potere accordarti. Ti offro la libertà.» Scossi la testa. «No, mi infliggi la punizione più terribile. Mi allontani da te. Non conoscerò mai più la felicità.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
260
«Non è una punizione, Taita. È una ricompensa. Ti prego. Non capisci?» «L'unica ricompensa che desidero è restare al tuo fianco per il resto della mia vita.» Sentivo le lacrime che mi salivano agli occhi e cercavo di dominarle. «Ti prego, padrona, ti supplico, non mandarmi via. Se provi qualche sentimento per me, permettimi di restarti al fianco.» «Non piangere», ordinò Lostris. «Altrimenti piangerò con te, davanti alle mie ospiti.» Credo che fino a quel momento non avesse riflettuto sulle conseguenze della sua malintesa generosità. Le lacrime mi sgorgarono dalle palpebre e mi scorsero sulle guance. «Basta! Non è questo che volevo.» Anche Lostris piangeva. «Pensavo di onorarti, come ha fatto il re.» Mostrai il rotolo. «Ti prego, permettimi di farlo a pezzi. Riprendimi al tuo servizio. Concedimi di stare in piedi dietro di te: quello è il mio posto.» «Basta, Taita! Mi spezzi il cuore.» Ma io insistetti. «L'unico dono che voglio da te è il diritto di servirti per tutti i giorni della mia vita. Ti prego, padrona, annulla questo atto. Dammi il permesso di strapparlo.» Annuì energicamente, piagnucolando come quando da bambina cadeva e si sbucciava le ginocchia. Strappai il foglio di papiro in quattro pezzi, poi, non contento, li accostai alla fiamma della lampada e li lasciai bruciare. «Prometti che non cercherai mai più di scacciarmi. Giura che non tenterai più d'impormi la libertà.» Lostris annuì fra le lacrime. Ma non mi bastava. «Devi dirlo», insistetti. «Devi dirlo in modo che tutti sentano.» «Prometto che ti terrò come mio schiavo, non ti venderò e non ti libererò mai», mormorò fra le lacrime. Poi un lampo malizioso le passò negli occhi scuri. «A meno che, naturalmente, tu mi faccia irritare in modo inammissibile: allora chiamerò subito gli scribi.» Mi tese la mano per farmi rialzare. «In piedi, sciocco, e fai il tuo dovere. La mia coppa è vuota.» Ripresi il mio posto dietro di lei e le riempii la coppa. Le ospiti, piuttosto brille, pensarono che fosse una scenetta preparata per divertirle, e applaudirono e ci gettarono petali di fiori per dimostrare il loro apprezzamento. Molte, lo vedevo, erano sollevate nel constatare che non avevamo veramente oltraggiato il decoro e che lo schiavo era ancora schiavo. La mia padrona si portò alle labbra la coppa, ma prima di bere mi sorrise. Anche se aveva gli occhi ancora umidi di lacrime, quel sorriso risollevò il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
261
mio spirito e mi rese la felicità. Mi sentivo più vicino a lei di quanto fosse accaduto in tutti quegli anni. La mattina dopo il banchetto e i miei pochi istanti di libertà, scoprimmo al risveglio che durante la notte il fiume si era gonfiato, all'inizio della piena annuale. Non ci fu preavviso fino a che le grida gioiose dei guardiani del porto non ci destarono. Ancora appesantito dal vino, mi alzai e corsi a vedere. Le due rive erano affollate di gente che salutava la piena con preghiere e canti e sventolii di fronde di palma. In precedenza, le acque basse avevano lo stesso colore verde brillante della patina che spunta sui lingotti di rame. Ora le acque dell'inondazione avevano cancellato quel colore e il fiume, gonfiandosi, era diventato d'un grigio minaccioso. Durante la notte era salito fino a metà dei pilastri di pietra del porto, e fra poco avrebbe raggiunto la banchina: in seguito si sarebbe insinuato nell'imboccatura dei canali d'irrigazione che da mesi erano asciutti e screpolati. Allora l'acqua avrebbe inondato i campi, sommerso le casupole dei contadini e spazzato via i cippi di confine. Il controllo e la ricollocazione di quei cippi dopo ogni inondazione rientravano nelle responsabilità del Guardiano delle Acque. Il nobile Intef aveva accresciuto il suo patrimonio favorendo le rivendicazioni dei ricchi quando ogni anno veniva il momento di accertare i confini tra le proprietà. Da monte giungeva il rombo lontano della cataratta. Le acque, crescendo, traboccavano dallo sbarramento naturale di granito e mentre ruggivano nelle gole gli spruzzi si levavano verso il cielo azzurro in una colonna argentea visibile in tutto il nomo di Assuan. Quando la nebbiolina si spargeva sull'isola era fresca e gradevole, e noi ci rallegravamo di quella benedizione poiché era l'unica pioggia conosciuta nella nostra valle. Le spiagge intorno all'isola venivano divorate dalla piena sotto i nostri occhi. Fra poco il nostro molo sarebbe stato sommerso e il fiume sarebbe salito a lambire l'ingresso del giardino. Il punto dove si sarebbe fermato poteva essere calcolato solo mediante lo studio dei livelli del nilometro. Da quei livelli dipendeva la prosperità o la carestia di tutto l'Egitto e dei suoi abitanti. Mi affrettai a chiamare la mia padrona e a fare i preparativi per la cerimonia delie acque, nella quale avrei avuto un ruolo di rilievo. Ci vestimmo con gli indumenti più belli, e io misi al collo la catena d'oro. Poi, con la nostra servitù e le dame dell'harem, uscimmo per unirci alla processione che si stava avviando verso il tempio di Hapi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
262
Il Faraone e i grandi nobili dell'Egitto ci precedevano. I sacerdoti attendevano sui gradini del tempio. Erano tutti grassi, perché vivevano tra gli agi. Avevano le teste rasate e lucide d'olio, e gli occhi accesi dall'avidità, perché quel giorno il re avrebbe fatto ricchi sacrifici. La statua del dio fu portata fuori del santuario e ornata di fiori e drappi di lino cremisi. Quindi la statua fu irrorata di oli e profumi mentre cantavamo inni di lode e di gratitudine. Lontano, a sud, in una terra che nessun uomo aveva mai visitato, Hapi sedeva in cima alla sua montagna e, da due recipienti dalla capacità infinita, versava le acque sacre del suo Nilo. L'acqua dei due recipienti aveva colore e sapore diversi: una era verde e dolce, l'altra grigia e carica del limo che inondava i nostri campi a ogni stagione e gli donava vita e fertilità. Mentre cantavamo, il re fece offerte di grano, carne, vino, argento e oro. Quindi chiamò i suoi sapienti, i tecnici e i matematici e ordinò loro di entrare nel nilometro per incominciare le osservazioni e i calcoli. Al tempo in cui appartenevo al nobile Intef ero diventato uno dei custodi delle acque. Ero l'unico schiavo dell'illustre compagnia, ma mi consolavo pensando che pochissimi altri portavano l'Oro del Valore, e che tutti mi trattavano con rispetto. Avevano già lavorato con me e conoscevano i miei meriti. Avevo contribuito a progettare i nilometri che misuravano il flusso del fiume, e avevo diretto la loro costruzione. Ero stato io a elaborare la formula complessa per determinare l'altezza e il volume prevedibili in base alle osservazioni. Alla luce delle torce di canna intrise di pesce, seguii il gran sacerdote nel nilometro, un'apertura buia nel muro posteriore del santuario. Scendemmo la galleria inclinata, e i gradini di pietra resi viscidi dal limo. Davanti a noi uno dei letali cobra acquatici guizzò via e con un sibilo rabbioso si gettò nell'acqua scura che era già salita fino a metà della galleria. Ci fermammo sull'ultimo gradino scoperto e alla luce delle torce studiammo i segni che i miei muratori avevano scalpellato sulle pareti. Ognuno dei simboli aveva un suo valore, empirico e magico a un tempo. Effettuammo con estrema attenzione la prima, importantissima lettura. Durante i cinque giorni seguenti avremmo fatto a turno nell'osservare e annotare il livello del fiume e avremmo calcolato i tempi con un orologio ad acqua. In base ai campioni attinti avremmo stimato la quantità del limo presente, e tutti questi fattori avrebbero influenzato le nostre conclusioni Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
263
finali. Al termine dei cinque giorni d'osservazione, iniziarono tre giorni di calcoli, durante i quali riempimmo molti rotoli di papiro. E finalmente fummo pronti per presentare i risultati al re. Quel giorno il Faraone tornò al tempio in tutta solennità, accompagnato dai nobili e da metà della popolazione di Elefantina per ricevere le stime. Quando il gran sacerdote le lesse a voce alta il re cominciò a sorridere. Avevamo previsto un'inondazione dalle proporzioni pressoché ideali. Non sarebbe stata così bassa da lasciar scoperti i campi a cuocere sotto il sole, privi dei ricco strato di limo nero indispensabile per la loro fertilità. Non sarebbe stata neppure tanto alta da travolgere i canali e i terrapieni e da sommergere i villaggi e le città lungo le rive. La piena avrebbe portato raccolti abbondanti e avrebbe ingrassato le mandrie e i greggi. Il Faraone sorrideva non tanto per la fortuna dei sudditi, ma per la ricchezza che i suoi esattori avrebbero incassato. Le tasse annuali erano calcolate in base all'inondazione, e quell'anno nuovi, immensi tesori sarebbero andati ad aggiungersi agli altri nei magazzini del suo tempio funerario. Per concludere la cerimonia della benedizione delle acque nel tempio di Hapi, il Faraone annunciò la data del pellegrinaggio a Tebe per partecipare alla festività di Osiride. Sembrava impossibile, eppure erano già trascorsi due anni da quando la mia padrona aveva interpretato il ruolo della dea nello spettacolo che io avevo scritto. Quella notte non potei dormire più di quanto avessi fatto quando avevo vegliato nel nilometro, perché Lostris era troppo emozionata per riposare. Volle che le tenessi compagnia fino all'alba, a cantare e a ridere e a raccontare le avventure di Tanus che non si stancava mai di ascoltare. Dopo otto giorni la flotta reale sarebbe partita alla volta del nord, sulle acque gonfie del Nilo. Il nobile Tanus Harrab ci avrebbe attesi a Tebe. La mia padrona era fuori di sé per la felicità. La flotta radunata nel porto di Elefantina era così numerosa che sembrava coprire le acque da una riva all'altra. La mia padrona commentò scherzosamente che un uomo avrebbe potuto attraversare il Nilo saltando da una imbarcazione all'altra senza bagnarsi i piedi. Con le bandiere che garrivano su ogni albero, era uno spettacolo straordinario. Come il resto della corte, ci eravamo già imbarcati sui vascelli che c'erano stati assegnati, e dal ponte applaudimmo il re quando scese la gradinata Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
264
marmorea del palazzo e sali a bordo della grande nave reale. Subito cento corni suonarono il segnale della partenza. Le imbarcazioni puntarono la prua verso nord, sospinte dalla corrente e dai remi. Ora regnava uno spirito diverso, da quando Akh-Horus aveva annientato le Averle. Gli abitanti di tutti i villaggi accorrevano sulle rive per acclamare il re che sedeva a poppa con la corona doppia perché ognuno potesse vederlo. Tutti agitavano fronde di palma e gridavano: «Che gli dei sorridano al Faraone!». Il fiume portava loro non soltanto il sovrano ma anche la promessa della prosperità, e perciò erano felici. Per due volte, nei giorni che seguirono, il Faraone e tutto il seguito sbarcarono per ispezionare i monumenti eretti da Akh-Horus ai crocevia delle strade carovaniere. I contadini conservavano i macabri mucchi di crani come reliquie sacre al nuovo dio. Avevano lustrato i teschi che splendevano come avorio, e cementato le piramidi con l'argilla in modo che durassero per anni; quindi vi avevano eretto tempietti e avevano scelto sacerdoti per quei luoghi sacri. In entrambi i santuari la mia padrona donò un anello d'oro; le offerte furono accolte con gioia dai custodi. Non mi servi a nulla protestare per quella prodigalità. Spesso non aveva il dovuto rispetto per la ricchezza che accumulavo faticosamente per lei. Se non l'avessi trattenuta, con ogni probabilità avrebbe dato tutto agli avidi sacerdoti e ai poveri, e l'avrebbe fatto con un sorriso. La decima notte dopo la partenza da Elefantina il convoglio reale si accampò su un ameno promontorio sopra un'ansa del fiume. Tra gli svaghi di quella sera era inclusa l'esibizione d'uno dei più famosi cantastorie del regno, e di solito la mia padrona apprezzava più d'ogni altro quel tipo d'intrattenimento. Lei e io avevamo atteso quell'occasione e ne avevamo discusso più volte dopo la partenza. Perciò rimasi sorpreso e deluso quando la nobile Lostris annunciò che era troppo stanca per assistervi. Anche se insistette perché andassi con il resto della servitù, non potevo lasciarla sola, dato che non stava bene. Le preparai una bevanda calda e dormii sul pavimento ai piedi del suo letto per essere a sua disposizione, nel caso che avesse avuto bisogno di me durante la notte. L'indomani mi preoccupai, quando cercai di svegliarla. Di solito balzava dal letto con un sorriso, pronta a godere del nuovo giorno. Quella mattina, invece, si tirò le coperte sulla testa e mormorò: «Lasciami Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
265
dormire ancora un po'. Mi sento pesante e intontita come una vecchia». «Il re ha ordinato di partire presto. Dobbiamo essere a bordo prima del levar del sole. Ti porterò un infuso caldo che ti rianimerà.» Versai acqua bollente su una ciotola d'erbe che avevo colto durante la fase più propizia dell'ultima luna. «Non agitarti tanto», borbottò, ma non lasciai che si riaddormentasse. La scossi e le feci bere il tonico. Fece una smorfia. «Stai cercando di avvelenarmi», protestò. Poi, all'improvviso prima che potessi impedirlo, vomitò copiosamente. Sembrava sconvolta quanto me. Guardammo costernati la pozza fumante accanto al letto. «Che cos'ho, Taita?» mormorò. «Non mi era mai accaduto nulla di simile.» Solo in quel momento compresi la verità. «Il khamsin!» esclamai. «La necropoli di Tras! Tanus!» Per un momento mi fissò senza capire, poi il suo sorriso illuminò la tenda come una lampada. «Avrò un bambino!» gridò. «Abbassa la voce, padrona», la supplicai. «Il figlio di Tanus! Porto in grembo il figlio di Tanus.» Non poteva essere figlio del re, perché ero riuscito a tenerlo lontano dal letto di Lostris dopo il mio ritorno. «Oh, Taita!» mormorò mentre si sollevava la veste e si guardava con stupore il ventre piatto. «Pensaci! Un piccolo folletto come Tanus che cresce dentro di me.» Si toccò lo stomaco. «Sapevo che le gioie della tomba di Tras non potevano essere ignorate dagli dei. Mi hanno donato un ricordo che durerà per tutta la mia vita.» «Corri troppo», dissi. «Potrebbe essere una semplice colica. Devo fare qualche controllo prima che possiamo averne la certezza.» «Non ho bisogno di controlli. Lo so con il mio cuore e con il profondo del mio essere.» «Comunque faremo i controlli», le dissi, e andai a prendere il vaso. Lostris si accoccolò sul vaso per fornirmi la prima acqua della giornata, e io la divisi in parti eguali. Mescolai la prima parte dell'urina con una parte eguale di acqua del Nilo. Quindi riempii due recipienti di terra nera e in ciascuno piantai cinque chicchi di dhurra. Innaffiai uno con acqua pura, e l'altro con il miscuglio. Quello fu il primo controllo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
266
Quindi andai a caccia tra i canneti della laguna presso il campo e catturai dieci rane. Non erano delia varietà verde e gialla con le zampe poderose, ma esseri neri e viscidi: le teste non sono separate dal collo e gli occhi sono situati sulla sommità della testa piatta, tanto che i bambini le chiamano «guardacielo». Misi cinque rane in ognuno dei due recipienti pieni d'acqua di fiume: uno lo lasciai com'era, ma aggiunsi all'altro l'urina della mia padrona. L'indomani mattina, nella cabina a bordo della nave, togliemmo il drappo con cui avevo coperto i recipienti ed esaminammo i risultati. Il grano innaffiato da Lostris aveva emesso minuscoli germogli verdi, mentre gli altri semi erano ancora inerti. Le cinque rane che non avevano ricevuto la benedizione della mia padrona erano sterili, ma le altre cinque, più fortunate, avevano deposto lunghi filamenti argentei costellati di uova nere. «Te l'avevo detto!» trillò felice la mia padrona prima ancora che le comunicassi la diagnosi. «Oh, siano ringraziati tutti gli dei! Non mi era accaduto nulla di più bello in tutta la mia vita!» «Parlerò subito ad Aton, e questa notte stessa dividerai il letto del re», le dissi con fare deciso, e lei mi fissò sbalordita. «Anche se il Faraone crede a molte cose che gli dico, non crederà che sei stata fecondata dai semi trasportati dal khamsin. Il nostro piccolo bastardo deve avere un padre putativo.» Consideravo già il piccino come se fosse nostro, non soltanto suo. Anche se cercavo di nasconderlo, ero felice quanto Lostris. «Non chiamarlo bastardo!» scattò lei. «Sarà un principe.» «Sarà un principe soltanto se gli troverò un padre regale. Preparati. Vado a trovare il re.» «Questa notte ho fatto un sogno, Grande Egitto», dissi al Faraone. «Era così sorprendente che per trovare conferma ho percorso i Labirinti di Ammon-Ra.» Il Faraone si tese ansioso verso di me, perché ormai credeva ai miei sogni e ai Labirinti come tutti gli altri miei pazienti. «Questa volta il messaggio è chiaro, maestà. Nel sogno la dea Iside è apparsa e ha promesso di contrastare l'influenza malefica del fratello Seth, che ti ha privato crudelmente del primo figlio maschio quando ha colpito la nobile Lostris con la consunzione. Porta la mia padrona nel tuo letto il primo giorno della festività di Osiride e avrai la benedizione di un altro figlio. La dea lo ha promesso.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
267
«Questa sera è la vigilia della festività.» Il re sembrava lietissimo. «In verità, Taita, in tutti questi mesi ero pronto a compiere tale dovere piacevole, se me lo avessi permesso. Ma non mi hai detto che cosa hai veduto nei Labirinti di Ammon-Ra.» Io avevo la risposta già pronta. «È stata la stessa visione dell'altra volta, ma era più forte e nitida. Ho visto la stessa foresta di alberi sulle rive del fiume, e tutti gli alberi portavano la corona. La tua dinastia si estenderà forte e ininterrotta nei secoli.» Il Faraone sospirò soddisfatto. «Mandami la fanciulla.» Quando tornai alla tenda, la mia padrona mi attendeva. «Chiuderò gli occhi e immaginerò di essere nella tomba di Tras con Tanus», mi confidò, e poi rise. «Anche se immaginare che il re sia Tanus sarebbe come immaginare che la coda di un topo sia diventata la proboscide di un elefante.» Poco dopo la cena, Aton venne per accompagnarla dal re. Lostris andò con un'espressione calma e il passo deciso. Forse pensava al suo principe e al vero padre che ci aspettava a Tebe. Amata Tebe, bellissima Tebe dalle cento porte, come ci rallegrammo nel vederla apparire davanti a noi sull'ampia ansa del fiume con i suoi templi e le sue mura splendenti! La mia padrona prorompeva in esclamazioni di gioia ogni volta che riconoscevamo qualche luogo. Poi, quando la nave reale attraccò al molo ai piedi del palazzo del gran visir, entrambi dimenticammo la gioia del ritorno e ammutolimmo. Lostris mi strinse la mano come una bambina spaventata da storie di mostri, perché aveva visto il padre. Il nobile Intef e i suoi due figli, Menset e Sobek, gli eroi senza pollici, stavano alla testa della grande schiera di nobili e di maggiorenti che attendevano il re. Il nobile Intef era bello e subdolo come l'avevo immaginato nei miei incubi, e mi sentii tremare. «Devi stare in guardia», mi sussurrò la nobile Lostris. «Cercheranno di eliminarti. Ricorda il cobra...» Dietro al gran visir c'era Rasfer. Durante la nostra assenza era stato evidentemente promosso, perché ora portava il copricapo dei comandanti dei Diecimila e una frusta d'oro. I muscoli facciali non erano migliorati: una metà del volto era orrendamente flaccida e la saliva gli sgocciolava dall'angolo delia bocca. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
268
In quel momento mi riconobbe, sogghignò con metà della faccia e alzò la frusta d'oro in segno di ironico saluto. «Ti prometto, mia signora, che terrò la mano sul pugnale e non mangerò altro che frutta sbucciata con le mie mani finché Rasfer e io saremo insieme a Tebe», mormorai mentre sorridevo a Rasfer, e ricambiavo il suo sorriso con un cenno cordiale. «Non devi accettare doni sospetti», insistette la mia padrona. «E dormirai ai piedi del mio letto, dove potrò proteggerti la notte. Di giorno resterai al mio fianco e non andrai in giro a vagabondare.» «Non mi dispiacerà certamente», le assicurai. Nei giorni che seguirono mantenni la promessa e rimasi sotto la sua protezione, poiché ero sicuro che il nobile Intef non avrebbe corso il rischio di rovinare i suoi rapporti con il trono mettendo in pericolo la figlia. Naturalmente avevamo spesso la compagnia del gran visir, perché aveva il dovere di scortare il re in tutte le cerimonie della festività. In quel periodo recitò il ruolo di padre affettuoso nei confronti di Lostris. La trattava con la deferenza e la premura dovute a una consorte reale. Ogni mattina le inviava doni, oro e gioielli e squisiti scarabei intagliati e statuine di divinità in avorio e legni preziosi. Nonostante gli ordini della mia padrona, non li restituivo. Non volevo mettere in guardia il nemico, e inoltre i doni erano preziosi. Li vendevo di nascosto e investivo il ricavato in quantitativi di grano che venivano custoditi per noi nei magazzini di alcuni mercanti cittadini, miei amici fidati. In previsione di un raccolto abbondante, il prezzo del grano era il più basso che si fosse registrato negli ultimi dieci anni. Ormai poteva soltanto aumentare, anche se forse avremmo dovuto attendere qualche tempo prima di vedere un profitto. I mercanti mi consegnavano le ricevute intestate alla mia padrona, e io le depositavo negli archivi dei tribunali. Tenevo per me soltanto una quinta parte, poiché pensavo che fosse una percentuale molto moderata. Tutto questo mi dava un piacere segreto ogni volta che sorprendevo il nobile Intef a fissarmi con quegli occhi chiari da leopardo. La sua espressione confermava che i suoi sentimenti nei miei confronti non erano cambiati. Ricordavo la pazienza e la perseveranza di cui era capace quando aveva a che fare con un nemico. Stava in agguato al centro della tela come un bel ragno, e gli occhi gli brillavano mentre mi spiava. Io rammentavo la brocca di latte avvelenato e il cobra e mi sentivo a disagio Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
269
nonostante tutte le mie precauzioni. La festività, intanto, si svolgeva secondo la tradizione, come nei secoli passati. Questa volta, tuttavia, non furono gli Azzurri di Tanus bensì i soldati di un'altra squadra a dare la caccia agli ippopotami nella laguna di Hapi, mentre altri attori interpretavano la passione nel tempio di Osiride. Poiché il decreto del Faraone era stato rispettato e la versione rappresentata era la mia, le parole erano sempre potenti e commoventi. Ma la nuova Iside non era incantevole come la mia padrona, e Horus non era nobile e imponente come Tanus. D'altra parte, Seth era amabile in confronto al modo in cui l'aveva impersonato Rasfer. Il giorno dopo la rappresentazione, il Faraone attraversò il fiume per ispezionare il suo tempio funerario, e mi tenne tutto il giorno al fianco. Più volte mi consultò apertamente su vari aspetti dei lavori. Naturalmente io portavo la catena d'oro ogni volta che mi era possibile. La cosa non sfuggi al nobile Intef; vedevo che sembrava colpito dal favore manifestatomi dai sovrano. Mi auguravo che questo servisse a proteggermi dalla sua vendetta. Da quando avevo lasciato Tebe, un altro architetto era stato incaricato di seguire il progetto del tempio. Forse era ingiusto che il Faraone si aspettasse che seguisse i criteri elevati fissati da me o che facesse procedere i lavori con lo stesso ritmo. «Per la benedetta madre di Horus, vorrei che fossi ancora tu a dirigere queste attività, Taita», mormorò il Faraone. «Se fosse disposta a separarsi da te, chiederei alla tua padrona di venderti, e ti terrei qui nella città dei morti per sovrintendere i lavori. Sembra che i costi siano raddoppiati da quando quell'idiota ha preso il tuo posto.» «È giovane e ingenuo», ammisi. «I muratori e gli appaltatori potrebbero rubargli anche i testicoli, e neppure se ne accorgerebbe.» «Ma stanno rubando i miei testicoli», disse il re con una smorfia. «Voglio che tu controlli i conti e gli indichi in che cosa lo frodano.» Naturalmente ero lusingato da tanta fiducia, e non era per dispetto che gli indicavo le cadute di gusto perpetrate dal nuovo architetto quando aveva ridisegnato in parte la facciata del tempio o la trascuratezza che i bricconi della corporazione dei muratori erano riusciti a fargli accettare. I lavori erano caratterizzati dal decadente stile siriano che furoreggiava nel Basso Egitto, dove i gusti volgari del plebeo Pretendente Rosso andavano corrompendo le tradizioni classiche della nostra arte. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
270
In quanto all'esecuzione, mostrai al re che era possibile infilare un frammento di papiro fra i blocchi di pietra del muro laterale del tempio. Il Faraone ordinò di abbattere tutto e multò la corporazione dei muratori di cinquecento deben d'oro da versare nelle casse reali. Il sovrano trascorse il resto di quella giornata e tutto il giorno seguente passando in rassegna i tesori dei magazzini del tempio funerario. Lì, finalmente, trovò pochi motivi per lamentarsi. In tutta la storia del mondo non c'era mai stata una simile ricchezza ammassata in un unico luogo. Persino io, che amo le cose belle, presto fui colpito negativamente dall'eccessiva abbondanza; e i miei occhi erano abbagliati dal troppo oro. Il re volle che la nobile Lostris rimanesse sempre al suo fianco. Credo che la sua infatuazione per lei si andasse trasformando a poco a poco in un amore vero, almeno nella misura in cui il re era capace di amare. Il risultato di questa dimostrazione d'affetto fu che quando riattraversammo il fiume e tornammo a Tebe la mia padrona era esausta e io ero preoccupato per la creatura che portava in grembo. Era troppo presto per rivelare al re le sue condizioni e pregarlo di avere maggior riguardo. Era trascorsa meno d'una settimana da quando Lostris era tornata nel suo letto, e una diagnosi tanto precoce di gravidanza, anche se effettuata da me, lo avrebbe insospettito. Per lui era ancora una giovane donna sana e robusta e come tale la trattava. La festività terminò come accadeva da secoli, con l'assemblea del popolo nel tempio di Osiride per ascoltare i proclami del sovrano. Sul podio di pietra di fronte al santuario, il Faraone sedeva sull'alto trono, in modo che tutti i presenti potessero vederlo. Aveva la corona doppia e portava lo scettro uncinato e il flagello. Quel giorno c'era stata una variazione rispetto al solito, perché avevo rivolto al re un suggerimento che s'era compiaciuto di accogliere. Contro tre muri del cortile interno aveva ordinato di erigere una tribuna di legno, che saliva fino a metà dell'altezza dei muri e assicurava posti a sedere per migliaia dei notabili di Tebe; di lassù potevano assistere meglio alla scena. Avevo anche suggerito di decorare le tribune con festoni colorati e fronde di palma per mascherarne la bruttezza. Era la prima volta che simili strutture venivano costruite nella nostra terra. Da quel giorno divennero comuni, e furono erette in occasione delle manifestazioni pubbliche, lungo i percorsi delle processioni reali e intorno ai campi dei giochi atletici: ancora oggi sono chiamate tribune di Taita. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
271
I posti in tribuna erano stati oggetto di molte dispute ma io, nella mia qualità di inventore, avevo riservato i migliori a me stesso e alla mia padrona. Eravamo di fronte al trono, un po' al di sopra dell'altezza della testa del re, e quindi avevamo un'ottima vista del cortile. Avevo portato un cuscino di pelle imbottito di lana d'agnello per la nobile Lostris e un cesto di frutta e focacce, orci di sorbetto e birra, per ristorarci durante l'interminabile cerimonia. Intorno a noi erano radunati i nobili sontuosamente abbigliati. I generali e gii ammiragli portavano le fruste d'oro e ostentavano con orgoglio le onorificenze e gli stendardi dei loro reggimenti; e c'erano i maestri delle corporazioni e i ricchi mercanti, i sacerdoti e gli ambasciatori dei regni vassalli. Davanti al re si estendevano i cortili del tempio che si aprivano l'uno nell'altro come le scatole dei rompicapi per bambini ma la disposizione delle massicce mura di pietre era tale che tutte le porte erano allineate perfettamente. Un fedele che avesse sostato nel Viale dei Sacri Arieti, fuori dell'ingresso principale, poteva guardare attraverso le porte interne e vedere il re assiso in trono a quasi quattrocento passi di distanza. Tutti i cortili erano affollati di gente comune, che traboccava nel viale sacro e nei giardini esterni. Sebbene avessi vissuto quasi tutta la vita a Tebe, non avevo mai visto tanta gente. Non era possibile contarle, ma calcolavo che dovevano essere almeno duecentomila persone. Il brusio delle voci era così intenso che avevo la sensazione d'essere un'ape in un grande alveare. Intorno al trono era raccolto un piccolo gruppo di altissimi dignitari, con le teste al livello dei piedi del Faraone. Uno di loro era il sommo sacerdote di Osiride. Durante l'ultimo anno il suo vecchio predecessore aveva lasciato questo mondo per intraprendere il viaggio verso i campi occidentali del paradiso eterno. Il nuovo sommo sacerdote era più giovane e autoritario, e sapevo che non si sarebbe lasciato manovrare tanto facilmente dal nobile Intef. Anzi, aveva collaborato con me in certe disposizioni inconsuete per la cerimonia di quel giorno, di cui mi ero occupato mentre dirigevo la costruzione delle tribune. Ma la figura più imponente del gruppo, al punto di rivaleggiare con il Faraone, era il gran visir. Il nobile Intef attirava tutti gli sguardi. Era alto e maestoso, e bello come un eroe leggendario. Con le catene dell'Oro del Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
272
Valore sul petto, era una figura che sembrava uscita dal mito. Dietro di lui incombeva la sagoma odiosa di Rasfer. Il nobile Intef diede inizio alla cerimonia nei modo tradizionale, avanzando davanti al trono e indirizzando un saluto di benvenuto al re da parte delle città gemelle di Tebe. Mentre parlava, lanciai un'occhiata alla mia padrona; e sebbene condividessi i suoi sentimenti, rimasi scosso dall'espressione di collera e di livore che non tentava nemmeno di nascondere. Avrei voluto raccomandarle di renderla meno evidente, ma sapevo che se l'avessi fatto avrei attirato ancor più l'attenzione sui suoi sentimenti di odio bruciante. Il gran visir parlò a lungo dei propri meriti e dei servigi che aveva reso al Faraone durante l'ultimo anno. La folla mormorava e borbottava, annoiata e a disagio. Il calore che emanava da tante persone stipate e la vampa del sole che batteva sui cortili restavano imprigionati fra le mura. Vidi più di una donna accasciarsi svenuta. Quando il nobile Intef fini di parlare, il sommo sacerdote prese il suo posto. Mentre il sole toccava lo zenith, riferì al re sugli affari religiosi di Tebe. Mentre parlava, il caldo e il lezzo aumentavano. I profumi e gli oli fragranti non bastavano più a mascherare l'odore dei corpi accaldati e del sudore. Nessuno poteva allontanarsi per soddisfare i bisogni corporali, e uomini e donne si accosciavano nel luogo in cui si trovavano. Il tempio cominciò a puzzare come un porcile o una latrina. Porsi alla mia padrona un fazzoletto di seta intriso di profumo perché lo tenesse sotto il naso. Vi fu un generale sospiro di sollievo quando alla fine il sommo sacerdote concluse il discorso benedicendo il re in nome del dio Osiride e, con un grande inchino, ritornò al suo posto dietro il gran visir. Per la prima volta da quando aveva incominciato ad affluire prima dell'alba, la folla divenne silenziosa. Tutti dimenticarono la noia e i disagi e attesero che il Faraone parlasse. Si alzò. Ero meravigliato dalla forza d'animo del vecchio, che fino a quel momento era riuscito a restare immobile come una statua. Allargò le braccia in un gesto benedicente e in quell'istante la prassi consacrata dalla tradizione fu spezzata da un evento che fece precipitare nella costernazione tutti i presenti. Io fui uno dei pochi che non si sorprese di quanto avvenne, perché avevo fatto la mia parte per organizzarlo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
273
Dietro il trono, i grandi battenti di rame brunito del santuario si spalancarono. Sembrava che non fossero mossi da un atto umano, ma che si aprissero di loro volontà. Un'esclamazione soffocata passò come un colpo di vento nei cortili, tra le file serrate, come se fossero le foglie d'un tamarindo. Poi una donna urlò e subito un gemito di orrore superstizioso scosse tutti. Alcuni caddero in ginocchio, altri levarono le braccia in segno di terrore, altri ancora si coprirono il viso con gli scialli per non essere accecati dalla vista di qualcosa che gli occhi umani non dovevano vedere. Un dio uscì dal santuario, alto e terrificante, con il mantello che ondeggiava intorno alle spalle. L'elmo, sovrastato da un pennacchio di piume di egretta, aveva un aspetto grottesco, per metà aquila e per metà umano, con il rostro acuminato e feritoie scure per gli occhi. «Akh-Horus!» gridò una donna, e stramazzò svenuta sulle pietre del cortile. «Akh-Horus!» Il grido si ripeté. «È il dio!» I presenti caddero in ginocchio, fila dopo fila, in atto di venerazione. Coloro che stavano sui gradini più alti delle tribune si prostrarono, molti fecero segni di scongiuro. Persino i nobili intorno al trono s'inginocchiarono. In tutto il tempio, due soli rimasero in piedi: il Faraone, ritto sui gradini del trono come una statua dipinta, e il gran visir di Tebe che stava immobile, alto e arrogante. Akh-Horus si fermò di fronte al re e lo guardò attraverso le feritoie della visiera bronzea. Neppure in quel momento il Faraone trasalì. Aveva le guance dipinte di bianco, e quindi non potevo capire se era impallidito, ma nei suoi occhi c'era una luce strana che poteva essere estasi religiosa... oppure terrore. «Chi sei?» chiese in tono di sfida. «Sei uno spettro o un uomo? Perché vieni a turbare la nostra solenne cerimonia?» La voce era forte e chiara, senza tremiti, e io provai ammirazione per il Faraone. Anche se era vecchio e debole, non mancava di coraggio. Sapeva fronteggiare un uomo o un dio da vero sovrano. Akh-Horus rispose con la voce che aveva comandato i reggimenti nel fragore disperato delle battaglie, una voce che echeggiava fra le colonne di pietra. «Grande Faraone, sono un uomo, non uno spettro. Sono un tuo fedele e mi presento in risposta al tuo comando. Vengo a renderti conto della Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
274
missione che mi assegnasti in questo luogo, in questo stesso giorno di due anni fa.» Si tolse l'elmo e i riccioli fiammeggianti gli scesero sulle spalle. I presenti lo riconobbero, e si alzò un grido che parve scuotere le fondamenta del tempio. «Il nobile Tanus! Tanus! Tanus!» La mia padrona gridava più forte di tutti, tanto da assordarmi. «Tanus! Akh-Horus! Akh-Horus!» I due nomi si mescolavano e scrosciavano contro i muri del tempio come ondate spinte a riva dalla tempesta. «È risorto dalla tomba! È divenuto un dio tra noi!» Il chiasso non si placò fino a che Tanus non sguainò la spada e la levò in alto per intimare silenzio. Tutti obbedirono, e solo allora Tanus riprese. «Grande Egitto, mi permetti di parlare?» Credo che ormai il re non avesse più voce, perché fece un cenno con lo scettro uncinato e il flagello. Poi sembrò che le gambe gli mancassero, perché tornò a sedere sul trono. Tanus si rivolse a lui in toni sonanti che giungevano fino al cortile esterno. «Due anni fa mi ordinasti di annientare i nidi degli assassini e predoni che minacciavano la vita dello Stato. E mi affidasti il reale Sigillo del Falco.» Tanus estrasse dal mantello la statuetta azzurra e la posò sui gradini del trono. Indietreggiò e prosegui. «Per meglio realizzare gli ordini del sovrano, ho finto di essere morto e ho fatto chiudere nella mia tomba la mummia di uno sconosciuto.» «Bak-Her!» gridò una voce, e tutti ripeterono il grido fino a che Tanus non intimò di nuovo il silenzio. «Ho guidato mille valorosi Azzurri nei deserti e nei luoghi selvaggi e ho stanato le Averle nelle loro roccaforti segrete. Ne abbiamo uccisi a migliaia e abbiamo ammucchiato le loro teste mozze ai crocevia delle strade.» «Bak-Her!» urlò la folla. «È vero! Akh-Horus ha fatto tutto questo!» Ancora una volta Tanus li azzitti. «Ho spezzato la potenza dei capi. Ho massacrato senza pietà i loro seguaci. Nel nostro Egitto rimane ormai soltanto una sola Averla.» Ora tutti tacevano, e bevevano ogni sua parola, affascinati e attenti. Persino il Faraone non riusciva a frenare l'impazienza. «Parla, nobile Tanus, che ora gli uomini conoscono come Akh-Horus. Di' Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
275
chi è quest'uomo. Dimmi il suo nome, affinché subisca la collera del Faraone.» «Si nasconde dietro il nome di Akh-Seth», ruggì Tanus. «Le sue azioni infami sono degne di quelle del fratello, il dio tenebroso.» «Dimmi il suo vero nome», ordinò il Faraone, e tornò ad alzarsi. «Dimmi il nome dell'ultima Averla!» Tanus prolungò il momento di attesa. Girò lentamente lo sguardo nel tempio. Quando i nostri occhi s'incontrarono, annuii così lievemente che lui solo se ne accorse, ma il suo sguardo non si fermò su di me e si rivolse invece verso le porte spalancate del santuario. L'attenzione di tutti i presenti era così fissa su Tanus che in un primo momento nessuno notò la fila di uomini armati che usciva in silenzio. Sebbene portassero l'armatura e gli scudi, li riconobbi quasi tutti. Erano Remrem e Astes e altri cinquanta guerrieri Azzurri. Si schierarono intorno al trono come una guardia reale; ma con discrezione Remrem e Astes si portarono alle spalle del nobile Intef. Appena li vide in posizione, Tanus riprese a parlare. «Ti dirò il nome di Akh-Seth, divino Faraone. Ora sta senza vergogna all'ombra del tuo trono.» Tanus indicò con la spada. «Eccolo! Porta l'Oro del Valore intorno al suo collo di traditore. Eccolo: è il Solo Compagno del sovrano, ma ha trasformato il tuo regno in un campo di giochi per gli assassini e i banditi. Ecco Akh-Seth, governatore del nomo di Tebe, gran visir dell'Alto Egitto.» Un silenzio terribile scese sul tempio. Dovevano esserci, fra i presenti, più di diecimila che avevano molto sofferto per causa sua e avevano tutti i motivi per odiarlo, ma neppure una voce si levò in un grido di giubilo o di trionfo. Tutti sapevano quanto fosse tremenda la sua collera. Sentivo nell'aria il puzzo della loro paura, denso come il fumo dell'incenso. Tutti si rendevano conto che neppure la reputazione e le imprese di Tanus erano sufficienti perché le sue accuse incriminassero un personaggio tanto potente. Sarebbe stata una follia mortale manifestare gioia o consenso in quel momento. Nel silenzio, il nobile Intef rise. Era un suono carico di disprezzo. Con un cenno noncurante voltò le spalle a Tanus e si rivolse al re. «Il sole del deserto gli ha bruciato il cervello e il povero giovane è impazzito. Non c'è una sola parola di verità nel suo delirio. Dovrei essere adirato; invece mi rattrista che un guerriero della sua fama sia caduto tanto Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
276
in basso.» Tese entrambe le mani verso il Faraone in un dignitoso gesto di lealtà. «Per tutta la vita ho servito il re e il popolo. Il mio onore è così inattaccabile che non vedo il motivo di difendermi da queste folli insinuazioni. Ripongo tutta la fiducia nella saggezza e nella giustizia del divino sovrano, e lascio che siano le mie azioni e il mio amore per il Faraone a parlare per me.» Vidi l'incertezza e la confusione sul viso dipinto del re. Le labbra gli tremavano; e aggrottava la fronte perché non possedeva una mente svelta e incisiva. Dopo un momento aprì la bocca, ma, prima che potesse pronunciare un giudizio inappellabile, Tanus levò di nuovo la spada e indicò la porta spalancata del santuario alle spalle del trono. E dalla porta usci un altro corteo, formato da uomini talmente strani da lasciare il Faraone con la bocca ancora aperta. Kratas veniva per primo, con la visiera alzata e una spada nella destra. Coloro che lo seguivano indossavano soltanto un perizoma e avevano le teste e i piedi nudi, e le braccia legate dietro la schiena. Camminavano lentamente come schiavi avviati al mercato. Io fissavo Intef, e vidi il turbamento assalirlo e farlo trasalire come se avesse ricevuto un pugno in faccia. Aveva riconosciuto i prigionieri; evidentemente fino a quel momento aveva creduto che fossero morti da tempo e che i loro teschi fossero esposti nei crocevia. Lanciò un'occhiata a una porticina seminascosta dai drappi di lino: era l'unica via di fuga nel cortile affollato. Ma Remrem si spostò di un passo sulla destra e alzò il mento in segno di sfida. I sei prigionieri si allinearono davanti al trono e all'ordine di Kratas si gettarono in ginocchio e piegarono la testa. «Chi sono costoro?» chiese il Faraone, e Tanus si avvicinò al primo, l'afferrò per i polsi legati e lo rimise in piedi. La pelle del prigioniero era butterata dalle cicatrici del vaiolo e l'occhio cieco rifletteva la luce come un piccolo disco d'argento. «Il Faraone ha chiesto chi sei», intimò Tanus a voce bassa. «Rispondi.» «Grande Egitto, io sono Shufti. Un tempo ero un capo delle Averle, prima che Akh-Horus annientasse il mio clan nella città di Gallala.» «Di' al re chi era il tuo capo supremo», continuò Tanus. «Il mio capo supremo era Akh-Seth», rispose Shufti. «Avevo pronunciato un giuramento di fedeltà e gli pagavo un quarto del mio bottino. In cambio Akh-Seth mi garantiva l'immunità dalle forze della legge e mi forniva Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
277
informazioni sulle mie vittime predestinate.» «Indica al re l'uomo che conosci come Akh-Seth», ordinò Tanus, e Shufti si mosse scalpicciando e si fermò davanti a Intef. Si riempì la bocca di saliva e sputò sulla splendida uniforme del gran visir. «Questo è Akh-Seth», gridò. «E che i vermi possano banchettare tra i suoi visceri.» Kratas trascinò in disparte Shufti e Tanus fece alzare un altro prigioniero. «Di' al re chi sei», ordinò. «Io sono Akheku, ed ero uno dei capi delle Averle, ma tutti i miei uomini sono stati uccisi.» «Chi era il tuo capo supremo? A chi pagavi una percentuale del bottino?» chiese Tanus. «Il mio capo supremo era il nobile Intef. Versavo una parte del bottino nelle casse del gran visir.» Il nobile Intef aveva mantenuto un atteggiamento sfrontato e impassibile di fronte alle accuse che gli venivano scagliate. Non disse nulla mentre uno dopo l'altro i capi furono trascinati davanti a lui e ripeterono la stessa dichiarazione. «Il nobile Intef era il capo supremo. Il nobile Intef è Akh-Seth.» Il silenzio della moltitudine era opprimente quanto il caldo. Tutti osservavano la scena con orrore, con odio, o con incredulità. Ma nessuno osava parlare con Intef, o manifestare una reazione prima che il Faraone decidesse. L'ultimo capo fu messo a confronto con il gran visir. Era alto e magro, con i muscoli scarni e la pelle bruciata dal sole. Nelle sue vene scorreva sangue beduino perché aveva gli occhi neri e il naso adunco. La barba era folta e ricciuta, l'espressione arrogante. «Il mio nome è Basti.» Parlava in modo più chiaro degli altri. «Mi chiamano Basti il Crudele, anche se non so perché.» Sogghignò con aria ribalda. «Ero un capo delle Averle fino a quando Akh-Horus ha annientato il mio clan. Il mio capo supremo era il nobile Intef.» Basti non fu trascinato via come gli altri. Tanus continuò a parlargli. «Di' al re se conoscevi il nobile Pianki Harrab, che apparteneva all'aristocrazia tebana.» «Lo conoscevo bene. Avevo a che fare con lui.» «In che senso?» chiese Tanus con voce terribile. «Saccheggiavo le sue carovane. Bruciavo le sue messi nei campi. Assalii le sue miniere di Sestra e massacrai i suoi minatori in modo così efferato Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
278
che nessun altro vi tornò più per estrarre il rame. Incendiavo le sue ville. Mandavo i miei uomini nelle città a parlar male di lui, in modo da infangare la sua onestà e la sua fedeltà allo Stato. Aiutai altri ad annientarlo, tanto che alla fine si avvelenò con i semi di datura.» Vedevo la mano del Faraone che tremava nello stringere il flagello. Una palpebra fremeva nel modo che avevo notato altre volte, quand'era profondamente angosciato. «Chi fu a ordinarti di fare tutto questo?» «Me l'ordinò il nobile Intef, e mi ricompensò con un takh d'oro puro.» «Che cosa sperava di guadagnare dalla persecuzione contro il nobile Harrab?» Basti sogghignò e alzò le spalle. «Il nobile Intef è gran visir mentre il nobile Pianki Harrab è morto. Mi sembra che Intef abbia raggiunto il suo scopo.» «Riconosci che non ti ho offerto clemenza in cambio di questa confessione? Capisci che ti attende la morte?» «La morte?» Basti rise. «Non mi ha mai fatto paura. È la farina del mio pane. L'ho fatta mangiare a tanti altri, quindi perché dovrei temerla?» Mi chiesi se era pazzo o coraggioso mentre ascoltavo le sue vanterie. In ogni caso, non provavo per lui pietà o ammirazione. Ricordavo che il nobile Pianki Harrab era stato un uomo valoroso come suo figlio, e a lui andavano tutta la mia ammirazione e la mia pietà. Vedevo l'espressione spietata negli occhi di Tanus. Sapevo che condivideva i miei sentimenti. Stringeva la spada con tanta forza che le sue dita erano bianche come quelle di un annegato. «Ho fatto tutto ciò che mi hai chiesto, divino Marnose, signore di Kernit. Attendo che tu mi dia altri comandi.» Ero così commosso che non riuscivo a deglutire. Dovetti fare uno sforzo per ricompormi. Il silenzio nel tempio perdurava. Sentivo il respiro affannoso della mia padrona. Poi mi prese la mano e la strinse con tanta forza da rischiare di spezzarmi le dita. Alla fine il Faraone parlò, ma purtroppo sentii il dubbio nella sua voce, e intuii che avrebbe preferito che tutto ciò non fosse vero. S'era fidato di Intef per tanto tempo che la rivelazione scuoteva le fondamenta della sua fede. «Nobile Intef, hai udito le accuse contro di te. Che cosa rispondi?» «Divino Faraone, ti sembrano accuse? Penso che siano soltanto le fantasie Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
279
d'un giovane impazzito per l'invidia e la gelosia. È figlio di un criminale traditore. I moventi di Tanus sono chiari. Si è convinto che il traditore Pianki avrebbe potuto diventare gran visir al mio posto e, inspiegabilmente, mi considera responsabile della caduta del padre.» Fece un gesto noncurante, così abile che vidi il re vacillare, in preda a dubbi sempre più forti. Si era fidato in ogni circostanza del nobile Intef, e adesso gli era difficile cambiare idea. Voleva credere nella sua innocenza. «E le accuse dei capi delle Averle?» chiese alla fine. «Che cosa rispondi?» «Capi delle Averle?» ripetè il nobile Intef. «Dobbiamo onorarli con un simile titolo? Per loro ammissione sono criminali della specie peggiore... assassini, ladri, stupratori di donne e bambini. Se cercassimo la verità in loro, sarebbe come cercare onore e coscienza nelle bestie che lavorano nei campi.» Intef li indicò: in effetti erano davvero seminudi e legati come animali. «Guardali, divina maestà. Non sono uomini che si possono corrompere o percuotere per indurli a dire qualunque cosa? Accetterai la parola d'uno di loro contro quella di chi ti ha servito fedelmente per tutta la vita?» Vidi il re annuire istintivamente come se accettasse il ragionamento dell'uomo che aveva considerato un amico e premiato con riconoscimenti e fiducia. «Tutto ciò che dici è vero. Mi hai sempre servito in modo irreprensibile. Questi furfanti non conoscono la verità e l'onore. È possibile che siano stati costretti a testimoniare.» Esitava; e il nobile Intef approfittò di quel vantaggio. «Finora ho sentito soltanto parole. Dovrebbero esserci ben altre prove per suffragare le loro affermazioni. C'è una sola persona in tutto l'Egitto che possa portare prove contro di me, vere prove e non semplici parole? Se c'è, si faccia avanti. Allora risponderò all'accusa. Se non c'è nessuno che abbia le prove, allora non avrò nulla di cui rispondere.» Quelle parole turbarono profondamente il Faraone. Lo vidi guardarsi intorno come se cercasse la prova richiesta dal gran visir. Quindi prese una decisione. «Nobile Tanus, che prova hai di tutto questo, a parte la parola di assassini e criminali?» «La belva ha coperto abilmente le sue tracce», ammise Tanus. «E si è rifugiata nella macchia più fitta, dove è difficile colpirla. Io non ho altre Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
280
prove contro il nobile Intef, ma forse c'è chi le ha, qualcuno che potrebbe sentirsi ispirato da ciò che ha udito oggi. Ti prego, divino Faraone, chiedi al tuo popolo se c'è qualcuno che possa fornirci un aiuto.» «Faraone, questa è una provocazione. I miei nemici si sentiranno imbaldanziti e usciranno dall'ombra dove stanno in agguato per attaccarmi», protestò con veemenza il nobile Intef; ma il Faraone lo fece tacere con un gesto brusco. «Se renderanno falsa testimonianza contro di te, lo faranno a loro rischio», promise, quindi si rivolse a tutti i presenti. «Popolo mio, abitanti di Tebe! Avete ascoltato le accuse contro il mio fido e amato gran visir. C'è qualcuno tra voi in grado di fornire la prova che manca al nobile Tanus? Qualcuno che possa incriminare il nobile Intef? Se è così, vi ingiungo di parlare.» Mi alzai in piedi senza rendermene conto. La mia voce era così forte da sbalordirmi. «Io sono Taita, e un tempo ero schiavo del nobile Intef», gridai. Il Faraone mi guardò aggrottando la fronte. «C'è qualcosa che vorrei esporre alla tua maestà.» «Ti conosco, Taita il medico. Puoi avvicinarti.» Mentre lasciavo il posto sulla tribuna e scendevo per accostarmi al re, lanciai un'occhiata al nobile Intef, e sbagliai un passo. Era come se avessi urtato contro una muraglia, tanto il suo odio era tangibile. «Divino Egitto, quell'essere è uno schiavo.» La voce del nobile Intef era fredda e tesa. «La parola d'uno schiavo contro un aristocratico tebano, un alto dignitario dello Stato... Che beffa è mai questa?» Ero ancora condizionato a reagire alla sua voce e a soccombere alle sue parole, e la mia risoluzione vacillò. Poi sentii la mano di Tanus posarsi sul mio braccio. Fu un tocco fuggevole, ma mi sostenne e mi diede coraggio. Intef, però, aveva notato il gesto e lo fece osservare al re. «Come vedi, questo schiavo è asservito al mio accusatore. È un altro degli scimmiotti ammaestrati di Tanus.» La sua voce era ridiventata dolce come il miele. «La sua insolenza non ha limiti. La legge punisce...» Il Faraone lo fece tacere con un cenno del flagello. «Tu conti troppo sulla buona opinione che ho di te, nobile Intef. Sta a me interpretare o modificare i codici, che prevedono pene per gli aristocratici e non soltanto per gli uomini comuni. Farai bene a rammentarlo.» Il nobile Intef s'inchinò e tacque, ma la sua faccia era diventata Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
281
improvvisamente tirata e cupa. Si era reso conto della situazione. Il re mi guardò. «Sono circostanze insolite, e consentono rimedi senza precedenti. Tuttavia, schiavo Taita, ti avverto che se le tue parole risultassero infondate, se non avessero consistenza, moriresti strangolato.» La minaccia e gli sguardi velenosi del nobile Intef mi fecero balbettare. «Quando ero schiavo del gran visir, ero il tramite fra lui e i capi dei banditi. Conoscevo questi uomini.» Indicai i prigionieri che Kratas aveva trattenuto accanto al trono. «Ero io a portar loro gli ordini del nobile Intef...» «Menzogna! Altre parole senza prove...» gridò Intef, ma la sua voce aveva un tono disperato. «Dove sono le prove?» «Silenzio!» tuonò il re. «Voglio ascoltare la testimonianza dello schiavo Taita.» Mi guardava in faccia, e io trassi un respiro profondo per continuare. «Fui io a portare a Basti il Crudele l'ordine del nobile Intef, l'ordine di distruggere le proprietà e le ricchezze del nobile Pianki Harrab. A quei tempo ero il confidente di Intef. Sapevo che voleva per sé la carica di gran visir. Tutti i suoi comandi furono portati a compimento. Il nobile Harrab fu annientato, privato dell'affetto e del favore del Faraone, e perciò bevve la datura. Io, Taita, attesto tutto ciò.» «È così», intervenne Basti 0 Crudele. «Taita dice la verità.» «Bak-Her!» gridarono i capi prigionieri. «È la verità. Taita dice la verità.» «Tuttavia sono soltanto parole», osservò il re. «Il nobile Intef esige le prove. Io, il Faraone, esigo le prove.» «Per metà della mia vita sono stato lo scriba e il tesoriere del gran visir. Tenevo la contabilità della sua ricchezza. Annotavo i profitti e le spese. Incassavo il bottino che i capi delle Averle gli pagavano, e provvedevo a disporre di tutto il suo patrimonio.» «Puoi mostrarmi i documenti, Taita?» La faccia del Faraone brillava come la luna piena nel sentir parlare di tesori. Era diventato attentissimo. «No, maestà, non posso. I rotoli sono sempre rimasti in possesso del nobile Intef.» Il Faraone non cercò di nascondere il rammarico. Si oscurò, ma io proseguii ostinatamente. «Non posso mostrarti i documenti, ma forse posso condurti al tesoro che il gran visir ha rubato a te e al popolo del tuo regno. Fui io a costruire le sue tesorerie segrete e a nascondervi il bottino consegnato dai capi dei banditi. In quei magazzini riponevo la ricchezza che i tuoi esattori delle tasse non hanno mai visto.» L'interesse del re si riaccese come le braci nella forgia di un ramaio. Si Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
282
tese verso di me. Anche se tutti, nel tempio, mi fissavano e i nobili si avvicinavano per ascoltare meglio ogni parola, io cercavo di spiare i movimenti del nobile Intef. I battenti di rame brunito del santuario erano come specchi che ingrandivano la sua immagine. Ogni sfumatura della sua espressione e ogni minimo gesto mi apparivano chiari. Avevo corso un grande rischio supponendo che i suoi tesori fossero rimasti nei nascondigli segreti dove li avevo chiusi. Durante l'ultimo anno avrebbe potuto averli trasferiti altrove. Tuttavia lo spostamento di simili ricchezze sarebbe stato impegnativo e anche pericoloso. Sarebbe stato costretto a confidarsi con altri, e questo non gli piaceva. Era troppo sospettoso. Inoltre, fino a pochi giorni prima, aveva creduto che fossi morto portando con me il mio segreto. Calcolavo di avere pari possibilità, e avevo messo in gioco la mia vita. Trattenni il respiro mentre osservavo l'immagine del nobile Intef nei battenti di rame. Poi il mio cuore prese a battere forte, e il mio spirito volò in alto come un'aquila. Dal panico impresso sul suo viso compresi che la freccia scagliata da me aveva colpito il bersaglio. Avevo vinto. Il tesoro era dove l'avevo lasciato. Sapevo di poter condurre il Faraone sino al bottino che Intef aveva ammassato nel corso della vita. Ma Intef non era ancora sconfitto. Era un'avventatezza presumere che sarebbe stato facile piegarlo. Lo vidi fare un gesto con la mano destra e, mentre indugiavo sorpreso, mi accorsi che era forse troppo tardi. Nel mio trionfo avevo dimenticato Rasfer. Il nobile Intef gli fece un segnale, un lievo guizzo della mano destra, e Rasfer reagì come un cane ben ammaestrato che riceve dal cacciatore l'ordine di attaccare. Si avventò con uno scatto che colse tutti di sorpresa. Doveva percorrere appena dieci passi per raggiungermi, e mentre avanzava sfoderò la spada. Fra noi c'erano due uomini di Kratas, ma gli voltavano le spalle. Rasfer li caricò, e ne fece cadere uno davanti a Tanus, bloccandolo nel momento in cui cercava di accorrere per aiutarmi. Ero solo e indifeso, e Rasfer levò la spada con entrambe le mani per fendermi il cranio. Alzai le mani per arrestare il colpo, ma avevo le gambe paralizzate dal terrore e non riuscii a muovermi né a chinarmi per sfuggire alla lama sibilante. Non vidi Tanus lanciare la sua spada. Non vedevo altro che la faccia di Rasfer. Ma all'improvviso la spada volò nell'aria. Il terrore aveva acuito i miei sensi al punto che il tempo pareva scorrere Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
283
lentamente, come l'olio che trabocca da una giara. Vidi la spada di Tanus ruotare sul proprio asse, balenando come un fulmine estivo. Ma non aveva completato un giro quando colpi, e fu l'impugnatura, non la punta, a centrare la testa di Rasfer. Non lo uccise, ma gli ributtò la testa all'indietro, piegandogli il collo come un ramo di salice al vento. Gli occhi rotearono ciecamente nelle orbite. Rasfer non riuscì a colpirmi. Le gambe gli mancarono, e stramazzò ai miei piedi. La spada balzò via dalle dita snervate e roteò nell'aria prima di ricadere, andando a piantarsi sul fianco del trono reale. Il re fissò l'arma che vibrava, incredulo e inorridito. Il filo tagliente gli aveva toccato il braccio e lacerato la pelle. Sotto gli occhi di tutti, una fila di goccioline color rubino sprizzò dalla ferita superficiale e cadde sul candido gonnellino del Faraone. Fu Tanus a spezzare il silenzio. «Grande Egitto, hai visto il segnale d'attacco che è stato dato a questa belva. Sai chi ha ordinato di mettere in pericolo la tua regale persona.» Scavalcò la guardia caduta, afferrò il braccio del nobile Intef e glielo torse fino a che quello cadde in ginocchio con un grido di dolore. «Non volevo credere alle accuse contro di te.» Il Faraone aveva un'espressione dolente mentre guardava il gran visir. «Mi sono sempre fidato, e tu hai tramato contro di me.» «Grande Egitto, ascoltami!» implorò Intef, ma il Faraone distolse lo sguardo. «Ti ho ascoltato abbastanza.» Fece un cenno a Tanus. «Ordina ai tuoi uomini di sorvegliarlo; ma trattalo con cortesia, perché la sua colpevolezza non è ancora provata completamente.» Poi si rivolse ai presenti. «Quanto è accaduto è strano e inaudito. Aggiorno l'udienza per prendere in considerazione le prove che mi presenterà lo schiavo Taita. Il popolo di Tebe si radunerà domani a mezzogiorno in questo luogo per ascoltare il mio giudizio. Ho parlato.» Varcammo l'ingresso principale della sala delle udienze nel palazzo del gran visir. Il Faraone si soffermò sulla soglia. Sebbene la ferita causata dalla spada di Rasfer fosse lieve, avevo fasciato e appeso il braccio al collo con una benda. Il sovrano si guardò intorno. In fondo alla sala stava il trono di Intef, ricavato da un blocco di alabastro e poco meno imponente di quello reale che si trovava nella reggia di Elefantina. Le pareti erano intonacate d'argilla levigata, e ornate di alcuni degli affreschi più splendidi che io avessi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
284
disegnato e che trasformavano l'ambiente enorme in uno sfolgorante giardino di delizie. Li avevo dipinti quando ero ancora schiavo del nobile Intef, e, sebbene fossero mie creazioni, guardarli mi dava ancora un profondo brivido di piacere. Sono certo che basterebbero quelle opere, senza considerare le altre, a guadagnarmi la fama di artista più significativo vissuto nella nostra terra. Era molto doloroso pensare che proprio io, il loro creatore, dovessi distruggerli: e ciò gettava un'ombra sul trionfo di quella giornata tumultuosa. Precedetti il sovrano. Per l'occasione avevamo rinunciato al protocollo e il re era smanioso come un bimbo. Mi seguiva da vicino, quasi mi calpestava i calcagni, e il corteo che l'accompagnava gli stava dietro con altrettanta ansia. Li condussi alla parete dietro il trono. Ci fermammo sotto il grande affresco che raffigurava il dio sole, Ammon-Ra, nel viaggio quotidiano attraverso i cieli. Non mi sfuggì l'espressione reverente negli occhi del re mentre lo guardava. Dietro di noi la grande sala era piena per metà del seguito reale formato da cortigiani, guerrieri e nobili, oltre alle consorti e alle concubine del sovrano che avrebbero dato tutti i loro cosmetici pur di non perdere il momento eccitante da me promesso. Naturalmente la mia padrona era in prima fila. Tanus seguiva il re a un passo di distanza. I suoi Azzurri avevano assunto i compiti di guardie del corpo del sovrano. Marnose si girò verso di lui. «Ordina ai tuoi uomini di condurre qui il nobile Intef!» Kratas, con gelida cortesia, condusse il nobile Intef davanti al muro, quindi si interpose fra lui e il re con la spada sguainata. «Taita, puoi procedere», mi disse il re. Misurai il muro, calcolando esattamente trenta passi dall'angolo più lontano, e segnai la distanza con un pezzo di gesso. «Dietro questo muro c'è l'appartamento privato del gran visir», spiegai. «Quando il palazzo fu rimodernato l'ultima volta furono apportate certe modifiche. Il nobile Intef ama tenere le sue ricchezze a portata di mano.» «A volte sei molto loquace, Taita.» Il Faraone non era entusiasta delle mie spiegazioni architettoniche. «Sbrigati: sono ansioso di vedere che cosa c'è nascosto.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
285
«Vengano i muratori!» gridai, e un drappello di robusti operai dai grembiuli di cuoio si avvicinò e gettò ai piedi del muro i sacchi con gli utensili. Li avevo fatti venire da oltre il fiume, dove lavoravano nella tomba del Faraone. La polvere bianca che gli velava i capelli conferiva loro un'aria di vecchiaia e di saggezza che in realtà non meritavano. Mi feci consegnare una squadra di legno dal capomastro e tracciai un rettangolo sul muro, quindi indietreggiai e gli dissi: «Adagio! Cerca di danneggiare il meno possibile gli affreschi. Sono grandi opere d'arte». Con i mazzuoli di legno e gli scalpelli di selce, gli operai attaccarono il muro senza fare molto caso alla mia raccomandazione. L'intonaco dipinto volava in nuvole mentre interi tratti del muro si staccavano e piombavano sul pavimento marmoreo. La polvere infastidiva le dame che si coprivano la bocca e il naso con gli scialli. Sotto lo strato d'intonaco emerse a poco a poco il contorno dei blocchi di pietra. Il Faraone proruppe in un'esclamazione e senza preoccuparsi della polvere, si avvicinò e scrutò ciò che appariva ormai evidente. I corsi regolari dei blocchi erano interrotti da una fila di altri di colore diverso, una fila che seguiva quasi esattamente il contorno da me tracciato con il gesso sullo strato esterno d'intonaco. «C'è una porta nascosta!» esclamò. «Apritela immediatamente.» All'ordine del re, i muratori attaccarono con impegno la porta murata; quando ebbero tolto la chiave di volta, gli altri blocchi furono rimossi agevolmente. Apparve un'apertura buia e il Faraone, che aveva assunto la direzione dei lavori, comandò di accendere le torce. «Lo spazio dietro il muro è un compartimento segreto», gli spiegai mentre attendevamo che le torce ci venissero consegnate. «Lo feci costruire per volere del nobile Intef.» Tanus prese una torcia e illuminò la strada al re, che lo segui prontamente. Io fui il terzo a entrare. Era trascorso tanto tempo da quando ero stato li per l'ultima volta che mi guardai intorno, incuriosito come gli altri. Non era cambiato nulla. Gli scrigni e i forzieri di cedro e d'acacia erano ammonticchiati esattamente come li avevo lasciati. Quando indicai le casse cui doveva dedicare subito l'attenzione, il re ordinò: «Falle trasportare nella sala delle udienze». «Ci vorranno uomini forti per portarle», commentai in tono asciutto. «Sono piuttosto pesanti.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
286
Furono necessari tre degli Azzurri più robusti per sollevare ogni cassa e portarla al di là del varco nel muro. «Non ho mai visto queste casse prima d'ora», protestò il nobile Intef quando vennero deposte sulla base del trono. «Non sapevo nulla della camera segreta dietro il muro. Dev'essere stata costruita dal mio predecessore, che vi fece nascondere i forzieri.» «Maestà, osserva il sigillo su questo coperchio», dissi io, e il re scrutò la tavoletta d'argilla. «Di chi è?» chiese. «Guarda l'anello all'indice sinistro del gran visir, maestà», mormorai. «Posso suggerirti rispettosamente di confrontarlo con il sigillo di questa cassa?» «Nobile Intef, porgimi il tuo anello, se non ti dispiace», chiese il re con esagerata cortesia, e il gran visir nascose la sinistra dietro la schiena. «Grande Egitto, porto questo anello da vent'anni. Il dito si è ingrossato tanto che non posso sfilarlo.» «Nobile Tanus», ordinò il re, «sfodera la spada, taglia il dito del nobile Intef e portamelo con l'anello.» Tanus sorrise ferocemente e si mosse per obbedire, accennando a sguainare la spada. «Forse mi sbaglio», ammise prontamente il nobile Intef. «Lasciami vedere se riesco a toglierlo.» L'anello si sfilò facilmente, e Tanus s'inginocchiò per consegnarlo al re. Questi si chinò sul forziere e accostò l'anello al sigillo. Quando si raddrizzò, il suo volto era scuro per l'ira. «Corrisponde alla perfezione. Il sigillo è stato impresso con il tuo anello, nobile Intef.» Il gran visir non rispose. Stava immobile, con le braccia conserte e un'espressione impietrita. «Spezza il sigillo e apri il forziere», ordinò il Faraone. Tanus staccò la tavoletta d'argilla e sollevò il coperchio con la punta della spada. Il re proruppe in un grido nel vedere il contenuto. «Per tutti gli dei!» I cortigiani si accalcarono senza troppe cerimonie per guardare nel forziere, spintonandosi e prorompendo in esclamazioni. «Oro!» Il re sollevò le mani colme di scintillanti anelli d'oro e li lasciò ricadere fra le dita. Ne tenne uno solo e lo accostò agli occhi per esaminare il marchio della zecca. «Due deben d'oro fino. Quanti ne conterrà questa cassa, e quante casse ci sono nel ripostiglio segreto?» Era una domanda Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
287
retorica; non si aspettava una risposta, ma io gliela diedi comunque. «Questa cassa...» Lessi l'elenco che avevo scritto sul coperchio molti anni prima. «Questa cassa contiene un takh e trecento deben d'oro puro. In quanto al numero delle casse, se la memoria non mi tradisce, dovrebbero essercene cinquantatré piene d'oro e ventitré d'argento in questo nascondiglio. Però ho dimenticato il numero degli scrigni di gioielli.» «Non posso fidarmi di nessuno, dunque? Nobile Intef, ti ho trattato come un fratello, e non c'è stato beneficio che tu non abbia ricevuto dalle mie mani. Ed ecco come mi hai ripagato.» A mezzanotte il cancelliere e l'ispettore capo delle tasse si presentarono nella camera del re mentre gli cambiavo la fasciatura al braccio. Consegnarono il conto finale del tesoro, e il Faraone lo lesse sbalordito. Ancora una volta i suoi sentimenti erano in tumulto, e l'indignazione si alternava all'euforia per quella messe inaspettata di ricchezze. «Il briccone era più ricco del suo re. Non esiste una punizione abbastanza dura per una simile colpa. Ha ingannato e derubato me e i miei esattori.» «E ha assassinato e derubato il nobile Harrab e decine di migliaia dei tuoi sudditi», gli rammentai mentre annodavo la benda. Forse era un'impudenza da parte mia, ma ormai aveva nei miei confronti un tale debito di riconoscenza che potevo rischiare. «Sì, anche», confermò prontamente. Non aveva compreso il mio sarcasmo. «La sua colpa è profonda come il mare e alta come il cielo. Dovrò ideare una punizione adeguata. La corda dello strangolatore sarebbe troppo dolce per lui.» «Maestà, nella mia qualità di medico devo insistere perché ora ti riposi. Questa giornata ha intaccato persino la tua forza e la tua resistenza.» «Dov'è Intef? Non potrò riposare se prima non mi sarò assicurato che sia in buone mani.» «È piantonato nel suo appartamento, maestà. Un capitano e un distaccamento di Azzurri hanno il compito di sorvegliarlo.» Poi esitai per un attimo. «Anche Rasfer è ben custodito.» «Rasfer, quell'orribile animale sbavante? Quello che ha cercato di ucciderti nel tempio di Osiride? È sopravvissuto alla botta del nobile Tanus?» «Sta bene anche se non è felice, grande Faraone», risposi. «Sapevi che fu Rasfer, molto tempo fa, a usare su di me il coltello castratore?» Vidi un barlume di pietà negli occhi del re. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
288
«Tratterò lui come tratterò il suo padrone», promise. «Avrà la stessa punizione del nobile Intef. Ti basta, Taita?» «Maestà, tu sei giusto e onnisciente.» Lasciai la sua presenza camminando a ritroso e andai in cerca della mia padrona. Mi stava aspettando e, sebbene fosse mezzanotte passata e io fossi esausto, non volle lasciarmi dormire. Era troppo eccitata; volle che per il resto della notte restassi seduto accanto al suo letto ad ascoltarla mentre non finiva mai di parlare di Tanus e di altri argomenti meno importanti. Sebbene non avessi dormito, ero perfettamente lucido quando presi il mio posto nel tempio di Osiride l'indomani mattina. I presenti erano addirittura più numerosi del giorno precedente. In tutta Tebe non c'era nessuno che non avesse saputo della caduta del gran visir e non desiderasse assistere alla sua umiliazione suprema. Persino i suoi subordinati che avevano tratto i maggiori benefici dalla sua amministrazione corrotta s'erano rivoltati contro di lui, come le iene che divorano il capobranco quando è malato o ferito. I capi delle Averle furono condotti davanti al trono, laceri e legati; ma quando il nobile Intef entrò nel tempio indossava una splendida veste di lino e sandali d'argento. I capelli erano arricciati, il volto dipinto e portava al collo le catene dell'Oro del Valore. I capi dei banditi s'inginocchiarono davanti al re, ma il nobile Intef rifiutò di fare altrettanto, anche quando una delle guardie lo punzecchiò con la spada. Il re accennò di lasciar perdere. «Lascia che stia in piedi!» ordinò. «Giacerà abbastanza a lungo nella tomba.» Poi si alzò in tutta la sua maestà e in tutta la sua collera. In quell'occasione sembrava un vero re, come lo era stato il fondatore della dinastia, un uomo forte e potente. Io, che avevo imparato a conoscerlo in tutte le sue debolezze, mi sentii sopraffare dalla soggezione. «Nobile Intef, sei accusato di tradimento e d'omicidio, di brigantaggio e di pirateria e di cento altri delitti non meno meritevoli di punizione. Ho ascoltato le testimonianze di cinquanta dei miei sudditi d'ogni posizione sociale, dignitari, uomini liberi e schiavi. Ho visto il contenuto della tua tesoreria segreta dove hai nascosto la ricchezza sottratta agli esattori. Ho visto il tuo sigillo personale sulle casse dell'oro. Tutto ciò prova mille volte la tua colpa. Io, Marnose, ottavo di questo nome, Faraone e sovrano dell'Egitto, ti giudico colpevole di tutti i crimini di cui sei accusato, e indegno di clemenza e di misericordia.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
289
«Viva il Faraone!» gridò Tanus, e l'acclamazione fu ripetuta dieci volte dal popolo di Tebe. «Possa vivere in eterno!» Quando ritornò il silenzio, il Faraone riprese a parlare. «Nobile Intef, tu porti l'Oro del Valore. La vista di tale decorazione sul petto di un traditore mi offende.» Guardò Tanus. «Toglila al prigioniero.» Tanus sfilò le catene dal collo di Intef e le portò al re, che le prese con entrambe le mani e trattenne il giovane quando questi stava per indietreggiare. «Il nome del nobile Harrab è stato macchiato con l'ingiusta taccia di tradimento. Tuo padre è stato spinto a una morte da traditore. Tu hai dimostrato la sua innocenza. Annullo tutte le sentenze pronunciate contro il nobile Pianki Harrab e a titolo postumo lo reintegro in tutti gli onori e i titoli che gli furono tolti. Gli onori e i titoli ora spettano a te, suo figlio.» «Bak-Her!» gridarono i presenti. «Viva in eterno il Faraone! Salute al nobile Tanus Harrab!» «Oltre ai titoli che ti spettano per eredità, ti accordo una nuova distinzione. Hai compiuto la missione che ti avevo affidato. Hai annientato le Averle e hai consegnato alla giustizia il loro capo. Come riconoscimento per questo servigio reso alla corona, ti accordo l'Oro del Valore. Inginocchiati, nobile Harrab, e ricevi il favore del re.» «Bak-Her!» gridarono tutti mentre il Faraone metteva al collo di Tanus le tintinnanti catene d'oro che fino a pochi istanti prima avevano ornato il nobile Intef. «Salute al nobile Harrab!» Quando Tanus si ritirò, il Faraone rivolse di nuovo l'attenzione ai prigionieri. «Intef, io ti privo del titolo di nobile tebano. Il tuo nome e il tuo rango saranno cancellati da tutti i monumenti pubblici e dalla tomba che ti sei fatto preparare nella Valle dei Nobili. Le tue proprietà e tutti i tuoi averi, incluso l'illecito tesoro, passano alla corona, eccettuate le proprietà che appartenevano al nobile Pianki Harrab, e che con mezzi criminosi erano cadute nelle tue mani. Da questo istante, tali beni tornano al suo erede, il mio prode Tanus Harrab.» «Bak-Her! Il Faraone è saggio! Possa vivere in eterno!» Il popolo applaudiva freneticamente, e accanto a me la mia padrona piangeva senza ritegno, come molte dame reali. Ben poche, tra loro, sapevano resistere al fascino della figura eroica i cui capelli sembravano offuscare lo splendore delle catene d'oro. Poi il re mi colse di sorpresa. Girò lo sguardo verso di me. «C'è qualcun Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
290
altro che ha reso un leale servigio alla corona, rivelando il nascondiglio del tesoro rubato. Lo schiavo Taita si faccia avanti.» Scesi e mi presentai di fronte al trono. Il re mi parlò con voce gentile. «Hai sofferto mali indicibili a opera del traditore Intef e del suo scherano Rasfer. Essi ti hanno costretto a commettere atti nefandi e crimini capitali contro lo Stato, a entrare in connivenza con banditi e predoni e a nascondere il tesoro del tuo padrone agli esattori reali. Tuttavia questi crimini non erano da te voluti. Come schiavo eri costretto a obbedire al tuo padrone. Perciò ti assolvo da ogni responsabilità, ti giudico innocente di ogni colpa, e ti ricompenso con due takh d'oro fino, da pagarsi con parte del tesoro confiscato al traditore Intef.» Un mormorio di stupore accolse l'annuncio e io mi lasciai sfuggire un'esclamazione. Era un patrimonio grandioso, tale da rivaleggiare con quello di molti grandi signori e sufficiente per comprare grandi tratti della terra più fertile e arredare ville magnifiche, acquistare trecento schiavi robusti per lavorare i campi e attrezzare una flotta di mercantili in capo al mondo perché portassero nuovi tesori. Era una somma tanto enorme da sconvolgere persino la mia immaginazione. Ma il re non aveva ancora finito. «Poiché sei uno schiavo, la ricompensa non verrà assegnata a te, bensì alla tua padrona, la nobile Lostris, che è una delle spose secondarie del Faraone.» Avrei dovuto prevederlo: il re voleva che il premio restasse in famiglia. Io, che per un momento ero stato uno degli uomini più ricchi dell'Egitto, m'inchinai e tornai al mio posto. Lostris mi strinse forte la mano per consolarmi, ma per la verità non ero dispiaciuto. I nostri destini erano intrecciati strettamente, e sapevo che non ci sarebbe mai mancato nulla. Cominciai subito a fare progetti per investire il patrimonio della mia padrona. Infine il re pronunciò la condanna dei prigionieri, anche se mentre parlava i suoi occhi erano fissi su Intef. «I vostri crimini non hanno confronti. Nessuna punizione inflitta finora è abbastanza severa. Ecco quindi la mia sentenza. All'alba del giorno dopo la conclusione della festività di Osiride verrete condotti, nudi e legati, per le vie della città. Ancora vivi, sarete inchiodati per i piedi alla porta principale, a testa in giù, e così resterete fino a quando i corvi avranno spolpato le vostre ossa, che poi saranno ridotte in polvere e gettate nelle acque del Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
291
Nilo.» Persino Intef impallidì e vacillò nell'ascoltare la condanna. Il Faraone, ordinando di disperdere le ceneri in modo che non potessero essere conservate, condannava i prigionieri all'oblio. Per un egizio non poteva esistere una punizione più dura: per tutta l'eternità sarebbe stato loro negato l'accesso ai giardini del paradiso. Quando la mia padrona espresse l'intenzione di assistere alle esecuzioni per vedere il padre inchiodato a testa in giù alla porta della città, immagino che non si rendesse veramente conto dell'orrore di quello spettacolo. Ero deciso a fare in modo che non fosse presente. Non aveva mai avuto tendenze crudeli: credo che la sua decisione fosse influenzata dal fatto che quasi tutte le altre dame reali si proponevano di andare a vedere, e che Tanus avrebbe comandato l'esecuzione. Lostris non si sarebbe mai lasciata sfuggire l'occasione di vederlo, sia pure da lontano. Alla fine riuscii a convincerla facendo ricorso agli argomenti più persuasivi del mio repertorio. «Mia signora, una scena tanto terribile influirebbe senza dubbio su tuo figlio. Non vorrai che la sua mente ne risenta.» «Non è possibile.» Lostris esitò per la prima volta durante quella discussione. «Mio figlio non ne saprebbe nulla.» «Vedrà con i tuoi occhi, e le urla del nonno morente passeranno attraverso le pareti del tuo grembo e giungeranno alle sue orecchie minuscole.» Avevo scelto di proposito quelle parole, e ottenni il risultato che desideravo. Rifletté a lungo e alla fine sospirò. «Sta bene. Ma voglio che tu mi riferisca tutto, senza omettere un solo particolare. Voglio sapere, in modo specifico, com'erano vestite le altre consorti del re.» Poi mi sorrise maliziosamente per dimostrarmi che non aveva creduto del tutto alle mie affermazioni. «Potrai fare il racconto bisbigliando, in modo che il bimbo addormentato nel mio grembo non possa sentire.» All'alba del giorno dell'esecuzione i giardini del palazzo erano ancora immersi nell'oscurità quando lasciai l'harem. Attraversai i giardini acquatici, dove le stelle si specchiavano nelle superfici nere delle vasche. Quando mi avvicinai all'ala in cui il nobile Intef era tenuto prigioniero nel suo appartamento, vidi la luce delle torce e delle lampade che illuminava le finestre e sentii provenire dall'interno grida frenetiche, ordini e invettive. Compresi immediatamente che era successo qualcosa di grave, e accorsi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
292
Per poco non venni trafitto dalla guardia che stava alla porta dell'alloggio del nobile Intef, e che mi riconobbe solo all'ultimo istante, rialzò l'arma e mi lasciò passare. Tanus era al centro dell'anticamera: ruggiva come un leone in trappola e sferrava pugni a chiunque gli capitasse a tiro. Anche se aveva un carattere tempestoso non l'avevo mai visto in preda a una simile rabbia. Sembrava che avesse perso la ragione e la capacità di esprimersi in modo articolato. I suoi valorosi Azzurri si tenevano alla larga da lui, e nell'intera ala del palazzo regnava il caos. Mi avvicinai, schivai un pugno e gli gridai in faccia: «Tanus! Sono io! Calmati! In nome di tutti gii dei, sei impazzito?» Si trattenne a stento dal colpirmi. Lo vidi lottare con il furore e riuscire finalmente a dominarlo. «Vedi che cosa puoi fare per loro.» Mi indicò i corpi sparsi nell'anticamera. Sembrava che vi fosse stata una battaglia. Mi accorsi con grande orrore che uno dei caduti era Khetkhet, capitano del reggimento e uomo degno di stima. Era raggomitolato in un angolo e si stringeva lo stomaco con un'indicibile espressione di sofferenza dipinta sul viso. Gli toccai la guancia. Era ormai freddo. Scossi la testa. «Non posso più far nulla per lui.» Gli alzai una palpebra con il pollice, scrutai l'occhio vitreo, mi chinai a fiutargli la bocca. L'odore un po' muffito dei funghi era spaventosamente familiare. «Veleno», dissi e mi rialzai. «Gli altri saranno nelle stesse condizioni.» Erano cinque, tutti raggomitolati sul pavimento. «Ma come?» chiese Tanus in tono di calma forzata. Presi una delle ciotole dal tavolo sul quale avevano evidentemente cenato, e fiutai. L'odore dei funghi era più forte. «Interroga i cuochi», suggerii. Poi, in uno scatto di collera, scagliai la ciotola contro il muro. Quei cadaveri mi ricordavano i miei animali domestici, morti nello stesso modo. E Khetkhet era stato un amico. Trassi un respiro profondo per calmarmi, poi chiesi: «Il prigioniero è fuggito, vero?» Tanus non rispose, ma mi condusse nella camera da letto del gran visir. Vidi che nella parete di fondo era stato rimosso un pannello dipinto, lasciando scoperto un varco. «Sapevi che c'era un passaggio?» chiese freddamente Tanus. Scossi la testa. «Credevo di conoscere tutti i segreti, ma m'ingannavo», risposi in tono rassegnato. In cuor mio, penso, avevo sempre saputo che non Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
293
sarebbe mai stata fatta giustizia su Intef. Era favorito dagli dei delle tenebre e godeva della loro protezione. «Rasfer è fuggito con lui?» chiesi, e Tanus scosse il capo. «L'avevo fatto chiudere nell'arsenale con i capi delle Averle. Ma i due figli di Intef, Menset e Sobek, sono scomparsi. Quasi sicuramente sono stati loro a organizzare l'avvelenamento dei miei uomini e l'evasione del padre.» Tanus, adesso, si controllava perfettamente, ma la sua collera non s'era attenuata. «Tu conosci così bene Intef, Taita. Che cosa farà? Dove andrà? Come potrò catturarlo?» «So con certezza una cosa: avrà preparato un piano anche per questa eventualità. So che ha nascosto un tesoro nel Basso Egitto, presso mercanti e avvocati. Aveva persino rapporti con il falso Faraone: credo che vendesse segreti militari a lui e ai suoi generali. Al nord dovrebbe ricevere un'accoglienza amichevole.» «Ho già fatto partire cinque navi veloci, con l'ordine di perquisire tutti i vascelli che raggiungeranno», mi disse Tanus. «Intef ha amici al di là del mar Rosso», spiegai. «E aveva inviato tesori a certi mercanti di Gaza, sulle rive del mare settentrionale, perché glieli custodissero. Aveva rapporti con i beduini, e molti di loro sono al suo servizio. Lo aiuteranno ad attraversare il deserto.» «Per Horus, è come un ratto con una dozzina di uscite di sicurezza dalla tana», imprecò Tanus. «Come posso scoprirle tutte?» «Non puoi», risposi. «E in questo momento il Faraone attende di assistere alle esecuzioni. Dovrai riferirgli l'accaduto.» «Il re si infurierà, e a ragione. Lasciando fuggire Intef ho mancato al mio dovere.» Ma Tanus sbagliava. Il Faraone accettò l'annuncio della fuga di Intef con eccezionale equanimità. Non saprei dire quale fosse il motivo: forse l'immenso tesoro che aveva acquisito inaspettatamente lo aveva addolcito. Forse nutriva ancora un certo affetto per il gran visir. D'altra parte era un uomo mite, e forse non lo entusiasmava la prospettiva di vedere il nobile Intef inchiodato alla porta della città. Manifestò una certa irritazione, è vero, e affermò che la giustizia era stata defraudata, ma mentre eravamo in sua presenza continuò a esaminare l'elenco del tesoro. Persino quando Tanus ammise la propria responsabilità per l'evasione, il re fece un cenno noncurante. «La colpa è del capitano della guardia, ed è già stato punito dal veleno di Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
294
Intef. Hai inviato navi e truppe all'inseguimento dell'evaso. Hai fatto tutto ciò che ci si può attendere da te, nobile Harrab. Non ti resta altro che mettere in atto la condanna a carico degli altri criminali.» «Il Faraone è pronto ad assistere all'esecuzione?» chiese Tanus, e il re si guardò intorno, in cerca di una scusa per restare con gli elenchi e i rapporti degli esattori. «Ho molto da fare, nobile Tanus. Procedi pure senza di me, e vieni a riferire quando le condanne saranno state eseguite.» La curiosità della popolazione per le esecuzioni era così grande che i maggiorenti avevano fatto erigere una tribuna davanti alla porta principale, e facevano pagare un anello d'argento per ogni posto. I clienti non mancavano, e la tribuna era strapiena. Coloro che non riuscivano ad accedervi s'erano riversati nei campi oltre le mura. Molti avevano portato birra e vino per festeggiare e brindare. Ben pochi fra gli spettatori non avevano sofferto per i crimini delle Averle; molti avevano perduto per causa loro una persona cara. Nudi e legati insieme come aveva ordinato il Faraone, i prigionieri furono condotti per le vie di Karnak. La folla li bersagliava con letame e sozzure, urlava insulti e agitava i pugni. I bambini precedevano saltellando il corteo e cantavano filastrocche inventate per l'occasione. Sono inchiodato col sedere al cielo, sono un barone ed ecco come muoio. Obbedendo alla volontà della mia padrona, avevo preso un posto in tribuna per veder eseguire la sentenza. In verità non badai agli abiti e ai gioielli delle dame di corte intorno a me quando finalmente i prigionieri furono condotti oltre la porta. Guardai Rasfer e cercai di rinfocolare il mio odio per lui. M'imposi di rammentare tutte le crudeltà che aveva commesso contro di me, di rivivere i tormenti che mi aveva inflitto con la frusta e il coltello. Eppure, mentre lo guardavo con il ventre bianco e cascante, i capelli sporchi di escrementi e le sozzure che gli colavano dalla faccia, mi era difficile odiarlo quanto meritava. Mi vide sulla tribuna e sogghignò. I muscoli paralizzati di metà faccia facevano sì che fosse soltanto un mezzo sogghigno, una smorfia sardonica. Mi chiamò. «Ti ringrazio per essere venuto ad augurarmi buon viaggio, eunuco. Forse ci rivedremo nei prati del paradiso, dove spero di avere il piacere di tagliarti di nuovo le palle.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
295
Quella provocazione avrebbe dovuto rendermi più facile odiarlo; ma non fu così, anche se gli gridai a mia volta: «Non andrai oltre il fango sul fondo del fiume, vecchio amico. Chiamerò Rasfer il primo pescegatto che arrostirò allo spiedo». Fu il primo prigioniero che venne issato sulla porta. Tre uomini, sull'alto del muro, tiravano con le corde, mentre quattro spingevano dal basso. Lo tennero così mentre uno degli armaioli del reggimento saliva la scaletta impugnando un martello di pietra. Rasfer non scherzò più quando il primo dei grossi chiodi di rame gli penetrò nella carne e nell'osso degli enormi piedi callosi. Ruggì e bestemmiò e si contorse nella stretta degli uomini che lo trattenevano, e la folla applaudi e rise, gridando incitamenti. Solo quando i chiodi furono piantati e l'armaiolo scese ad ammirare il risultato della sua opera apparvero evidenti i difetti di quella nuova forma di punizione. Rasfer ululava e muggiva, appeso a testa in giù, con il sangue che gii scorreva lentamente sulle gambe. La pancia flaccida pendeva all'incontrario, e gli enormi genitali pelosi battevano contro l'ombelico. Mentre si torceva e si dibatteva, i chiodi lacerarono lentamente la carne fra le dita e Rasfer piombò a terra sussultando come un pesce tirato in secco. Gii spettatori apprezzarono la scena e risero e acclamarono. Allora i giustizieri risollevarono Rasfer e l'armaiolo risali la scaletta per piantare altri chiodi. Per fissare più saldamente Rasfer e impedire che si divincolasse, Tanus ordinò di inchiodare alla porta anche le mani. Questa volta l'esito fu diverso. Rasfer rimase appeso a testa in giù, con gli arti aperti come una mostruosa stella marina. Non urlava più perché la massa degli intestini premeva contro i polmoni. Si sforzava per respirare, e non aveva fiato per gridare. Uno alla volta gli altri condannati furono issati sulla porta e inchiodati, tra i fischi e gli applausi della folla. Soltanto Basti il Crudele non emise un lamento e questo causò una certa insoddisfazione. Con il trascorrere del tempo, il sole continuava a battere sui crocifissi mentre il caldo diventava più forte. A mezzogiorno i condannati erano così indeboliti dalla sofferenza, dalla sete e dalla perdita di sangue che pendevano immobili e silenziosi come quarti di carne appesi ai ganci del macellaio. Gli spettatori cominciarono ad annoiarsi e a disperdersi. Alcuni dei banditi resistettero più degli altri. Basti continuò a respirare per tutto il giorno: ma, quando il sole tramontò, trasalì e rimase inerte. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
296
Rasfer era il più resistente. Continuò a vivere molto tempo dopo la fine di Basti. La faccia rossa e gonfia di sangue era il doppio del normale. La lingua sporgeva fra le labbra come una fetta di fegato. Ogni tanto prorompeva in un gemito e apriva gli occhi, e ogni volta mi sentivo partecipe della sua sofferenza. Il mio odio per lui era ormai svanito, ed ero attanagliato dalla stessa pietà che avrei provato per ogni altro animale torturato. La folla s'era dispersa, e io ero solo sulla tribuna deserta. Tanus, che non cercava di nascondere il disgusto per il dovere brutale impostogli dall'ordine del re, era rimasto al suo posto fino al tramonto. Poi si era fatto sostituire da un capitano ed era tornato in città, lasciando a noi l'incarico di continuare la veglia. C'erano appena dieci guardie ai piedi della porta; io ero sulla tribuna e alcuni mendicanti stavano stesi come fagotti di stracci ai piedi del muro. Le torce ai due lati della porta fiammeggiavano nella brezza notturna che giungeva dal fiume e gettavano una luce strana sulla macabra scena. Rasfer gemette di nuovo, e io non resistetti più. Presi un orcio di birra dal mio cesto e scesi per parlare al capitano. Ci conoscevamo dal tempo dell'avventura nel deserto: rise e scosse il capo quando senti la mia richiesta. «Sei troppo tenero di cuore, Taita. Quel bastardo ormai è andato e non è il caso di preoccuparsi», mi disse. «Ma per un po' fingerò di guardare dall'altra parte. Sbrigati.» Andai alla porta. La testa di Rasfer era all'altezza della mia. Lo chiamai sottovoce e lui apri gli occhi. Non avevo modo di sapere se mi avrebbe compreso o no, ma bisbigliai: «Ti ho portato un po' di birra per bagnarti la lingua». Emise un singulto gutturale. Mi guardava. Se era ancora capace di provare sensazioni, la sete doveva essere per lui un tormento infernale. Gli versai sulla lingua qualche goccia di birra e stetti attento a non fargliela scorrere nel naso. Tentò invano di deglutire. Sarebbe stato impossibile anche se fosse stato più forte. Il liquido gli colò agli angoli della bocca e sulle guance e fini tra i capelli incrostati di letame. Chiuse gli occhi. Era il momento che aspettavo. Estrassi il pugnale dalle pieghe dello scialle. Appoggiai la punta dietro l'orecchio e con un movimento brusco l'affondai fino all'impugnatura. Inarcò la schiena in un ultimo spasimo, quindi si abbandonò nella morte. Estrassi la lama. C'era pochissimo sangue. La nascosì nello scialle e mi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
297
allontanai. «Che i sogni del paradiso ti accompagnino durante la notte, Taita», mi gridò il capitano delle guardie, ma io avevo perduto la voce e non risposi. Non avevo mai immaginato che avrei pianto per Rasfer. E forse non lo feci. Forse piansi soltanto per me stesso. Per ordine del Faraone il ritorno a Elefantina fu inizialmente rinviato d'un mese. Il sovrano doveva sistemare il nuovo tesoro ed era molto euforico. Da quando lo conoscevo non l'avevo mai visto tanto felice, ed ero contento per lui. Ormai provavo un affetto sincero per il vecchio. Molte volte restavo fino a notte alta con lui e gli scribi a esaminare i rendiconti della tesoreria reale, che adesso si prospettavano molto rosei. Altre volte il Faraone mi chiamava per consultarmi sulle modifiche del tempio funerario e della tomba reale, che adesso poteva veramente permettersi. Calcolavo che almeno metà del tesoro scoperto di recente sarebbe finito nella tomba con lui. Scelse tutti i gioielli più splendidi di Intef e mandò quasi quindici takh di lingotti agli orafi del suo tempio perché li trasformassero in arredi funebri. Tuttavia trovava il tempo di convocare Tanus e chiedergli consiglio sulle questioni militari: ora lo considerava uno dei più importanti generali del suo esercito. Fui presente ad alcuni di quegli incontri. La minaccia costituita dal falso Faraone del Basso Egitto continuava a incombere e ci assillava. Tanus godeva del favore del re, e perciò riuscì a convincerlo a stanziare una piccola parte del tesoro di Intef per la costruzione di cinque nuove squadre di navi da guerra e per la fornitura di armi nuove e sandali a tutti i reggimenti delle guardie, anche se non poté persuaderlo a saldare gli arretrati delle paghe. Molti reggimenti non erano stati retribuiti durante l'ultimo mezzo anno. Il morale dell'esercito migliorò grazie a queste concessioni; e tutti i soldati sapevano chi ne aveva il merito. Ruggivano come leoni e salutavano con il pugno alzato ogni volta che Tanus passava in rassegna le loro formazioni. Molte volte, quando Tanus veniva convocato dal re, la mia padrona trovava un pretesto per essere presente. Sebbene, in quelle occasioni, avesse il buon senso di tenersi sullo sfondo, lei e Tanus si scambiavano tali occhiate da far temere che incendiassero la finta barba del Faraone. Per fortuna sembrava che nessuno, a parte me, notasse quei messaggi appassionati. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
298
Ogni volta che la mia padrona sapeva che avrei visto Tanus in privato, mi affidava lunghi, ardenti messaggi per lui. Al mio ritorno portavo la risposta altrettanto fervida. Per fortuna quegli scambi erano molto ripetitivi, e non mi costava fatica impararli a memoria. Lostris non si stancava mai di esortarmi a trovare un sotterfugio che le permettesse d'incontrarsi nuovamente da sola con Tanus. Lo ammetto: ero preoccupato per la mia pelle e per la sicurezza della mia padrona e del bimbo, al punto che non mi impegnavo con tutta la mia ingegnosità per soddisfare la sua richiesta. Una volta, quando provai a riferire a Tanus l'invito a un incontro con la mia padrona, sospirò e rifiutò anche se ribadì il suo amore per lei. «L'episodio nella tomba di Tras è stato una follia, Taita. Non intendevo compromettere l'onore di Lostris, e se non ci fosse stato il khamsin non sarebbe mai accaduto. Non possiamo più correre un simile rischio. Dille che l'amo più della vita, dille che verrà il nostro momento poiché ci è stato promesso dai Labirinti di Ammon-Ra. Dille che l'aspetterò per tutta la mia esistenza.» Quando ricevette il messaggio, la mia padrona pestò i piedi e dichiarò che il suo amato era uno sciocco ostinato e non provava nulla per lei. Ruppe una coppa e due ciotole di vetro colorato, gettò nel fiume uno specchio ingemmato donatole dal re, e alla fine si buttò sul letto e pianse fino all'ora di cena. A parte i doveri militari che includevano la supervisione dei lavori di costruzione della nuova flotta, in quei giorni Tanus era impegnato a riorganizzare le proprietà entrate finalmente in suo possesso. Mi consultava quasi tutti i giorni. Com'era prevedibile, le proprietà non erano state saccheggiate dalle Averle nel periodo in cui erano appartenute al nobile Intef, quindi erano prospere e in buone condizioni. Tanus, perciò, era diventato da un giorno all'altro uno degli uomini più ricchi dell'Alto Egitto. Per quanto facessi il possibile per dissuaderlo, spendeva una parte cospicua del suo patrimonio personale per pagare gli arretrati ai suoi uomini e riequipaggiarli. Naturalmente gli Azzurri lo amavano ancora di più per la sua generosità. Non contento di questo, Tanus mandò i suoi capitani, Kratas, Remrem e Astes, a radunare i veterani invalidi e ciechi delle guerre fluviali che sopravvivevano mendicando per le strade di Tebe. Li installò in una delle grandi ville di campagna che facevano parte della Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
299
sua eredità e, anche se quelli si sarebbero accontentati di sbobba e avanzi, li nutrì con carne, focacce e birra. I soldati semplici lo acclamavano per le vie e brindavano alla sua salute nelle taverne. Quando le parlai della prodigalità di Tanus, la mia padrona decise di imitarlo, e spese centinaia di deben d'oro guadagnati da me per acquistare e attrezzare una dozzina di costruzioni che trasformò in ospedali e ostelli per i poveri di Tebe. Io avevo già destinato quell'oro a un investimento nel mercato dei cereali, ma per quanto mi torcessi le mani e la implorassi non riuscii a smuoverla. Naturalmente era il paziente schiavo Taita a occuparsi della gestione quotidiana dell'ultima follia delia mia padrona, anche se lei visitava ogni giorno quelle istituzioni. Perciò era diventato possibile per tutti gli sfaccendati e gli ubriaconi delle città gemelle scroccare un pasto gratuito e un comodo letto. Come se non bastasse, poteva capitare che a servir loro la ciotola di zuppa fossero le belle mani della mia padrona; e le loro piaghe e i loro disturbi intestinali venivano curati da uno dei medici più rinomati del nostro Egitto. Per fortuna, riuscii a trovare alcuni giovani scribi disoccupati e sacerdoti di buon cuore che amavano gli esseri umani più degli dei e del denaro. La mia padrona li assunse al suo servizio; e io li guidavo di notte nei vicoli e nei quartieri più miseri della città. Ogni volta raccoglievamo gli orfani vagabondi. Erano un branco lurido e verminoso di piccoli selvaggi, e pochissimi ci seguivano volentieri. Dovevamo rincorrerli e catturarli come se fossero gatti selvatici, e io ricevevo morsi e graffi quando li lavavo e rasavo i loro capelli, così pieni di parassiti che era impossibile pettinarli. Li alloggiavamo poi in uno dei nuovi ostelli della mia padrona, dove i sacerdoti si incaricavano di addomesticarli mentre gli scribi si occupavano della loro educazione. Molti piccoli ospiti fuggivano dopo pochi giorni e tornavano a vivere per la strada. Alcuni, tuttavia, rimanevano nell'ostello; la loro lenta trasformazione in esseri umani rallegrava la mia padrona e procurava anche a me soddisfazioni che non avrei creduto possibili. Protestavo invano per il modo in cui la mia padrona sprecava le nostre ricchezze, ed ero certo che, se fossi finito nella tomba prima del previsto, la colpa sarebbe stata interamente dei due giovani idioti che avevo preso sotto la mia protezione e che per tutta gratitudine ignoravano sempre i miei migliori consigli. È superfluo aggiungere che era alla mia padrona, non a me, che le vedove Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
300
e gli invalidi offrivano benedizioni e mazzolini di fiori selvatici, monili da poco prezzo e brandelli di papiro con testi malscritti tratti dal Libro dei Morti. Quando la giovane girava per le strade, la gente le presentava i bambini perché li benedicesse e le sfiorava Torlo della veste come se fosse un talismano. Lostris baciava i bambini luridi, sebbene l'avvertissi che così facendo poteva mettere in pericolo la sua salute, e distribuiva anelli di rame agli sfaccendati con la stessa prodigalità con cui un albero lascia cadere le foglie in autunno. «Questa è la mia città», mi disse una volta. «L'amo, e amo tutti coloro che vi abitano. Oh, Taita, non voglio tornare a Elefantina. Detesto l'idea di lasciare la mia bella Tebe.» «Detesti l'idea di lasciare la città?» le chiesi. «Oppure un certo giovane, rozzo soldato che vive qui?» Lei mi diede uno schiaffetto. «Per te non c'è nulla di sacro, neppure l'amore più puro e sincero? Nonostante i tuoi papiri e il tuo linguaggio grandioso, non sei altro che un barbaro.» I giorni passavano veloci, e una mattina consultai il mio calendario e scoprii che erano trascorsi oltre due mesi da quando la nobile Lostris era tornata nel letto del Faraone. Sebbene non si vedesse ancora traccia delle sue condizioni, era tempo di dare al re il grande annuncio dell'imminente paternità. Quando dissi alla mia padrona che cosa intendevo fare, si preoccupò d'una cosa sola. Mi fece promettere che, prima di parlarne con il re, avrei dovuto dire a Tanus che il vero padre del piccino era lui. Quel pomeriggio uscii per compiere la missione. Trovai Tanus nel cantiere sulla riva occidentale del fiume, dove stava imprecando contro gli operai e minacciava di gettarli in pasto ai coccodrilli. Quando mi vide dimenticò la collera, e mi fece salire a bordo della nave che avevano varato quella mattina. Mi mostrò con orgoglio la nuova pompa che sarebbe stata usata per estrarre l'acqua dalle sentine, se la nave fosse stata danneggiata in battaglia. Sembrava aver dimenticato che ero stato io a progettare l'apparecchio, e dovetti rammentarglielo con garbo. «Fra poco pretenderai che ti paghi per le tue idee, vecchio briccone. Sei avido come un mercante siriano.» Mi diede una pacca sulle spalle e mi condusse all'estremità del ponte, dove nessuno dei marinai poteva sentirci. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
301
Abbassò la voce. «Come sta la tua padrona? Stanotte l'ho sognata. Dimmi, sta bene? E come stanno i suoi orfanelli? Ha un cuore tanto generoso, ed è così bella! Tutta Tebe l'adora. Sento pronunciare il suo nome ovunque vado, e ogni volta provo una fitta al cuore.» «Presto avrai qualcun altro da amare», gli dissi, e Tanus mi guardò a bocca aperta, stordito. «Quella notte, nella tomba di Tras, non è stato soltanto il khamsin a colpire.» Mi strinse in un abbraccio così forte da togliermi il fiato. «Che significa questo enigma? Parla in modo chiaro o ti butterò nel fiume. Che vuoi dire, vecchio briccone? Non giocare con le parole.» «La nobile Lostris porta in grembo tuo figlio. Mi ha mandato a dirtelo perché tu sia il primo a saperlo, ancora prima del re», risposi. «Ora lasciami, o mi storpierai.» Tanus mi lasciò così bruscamente che per poco non caddi in acqua. «Mio figlio! Mio figlio!» gridò. Era sorprendente che tutti e due avessero pensato immediatamente che sarebbe stato un maschio. «È un miracolo! È un dono di Horus.» In quel momento, Tanus sembrava certo che nessun altro uomo, nel corso della storia, avesse generato un figlio. «Mio figlio!» Scosse la testa, meravigliato, sorridendo come un idiota. «La mia donna e mio figlio! Devo andare subito da loro.» Si incamminò per scendere dalla nave e dovetti rincorrerlo per trattenerlo. Usai tutte le mie doti di persuasore e riuscii a impedirgli di accorrere al palazzo e fare irruzione nell'harem reale. Alla fine lo condussi nella taverna più vicina per brindare al nascituro. Per fortuna c'era già un gruppo di Azzurri in libera uscita. Pagai per tutti il vino migliore e li lasciai. Nella taverna c'erano anche uomini di altri reggimenti, quindi era probabile che più tardi sarebbe scoppiata una rissa, perché Tanus era eccitatissimo e gli Azzurri non avevano mai bisogno di grandi incoraggiamenti per azzuffarsi. Mi recai subito al palazzo, e il Faraone fu felice di vedermi. «Stavo per farti chiamare, Taita. Penso che siamo stati troppo tirchi, per quanto riguarda la porta del mio tempio. Ne voglio una più grandiosa...» «Faraone», esclamai. «Grande e divino Egitto! Ti porto notizie meravigliose. La dea Iside ha mantenuto la promessa. La tua dinastia sarà eterna. La profezia dei Labirinti di Ammon-Ra sta per compiersi. La luna della mia padrona è stata calpestata dagli zoccoli del potente toro Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
302
dell'Egitto! La nobile Lostris porta in grembo tuo figlio!» Per una volta il Faraone dimenticò i progetti per i funerali e la costruzione del tempio: come Tanus, pensò subito di correre da lei. Attraversammo in fretta il palazzo, seguiti da un codazzo di aristocratici e dignitari turbolenti quanto il Nilo in piena. La mia padrona attendeva nel giardino dell'harem. Con l'astuzia naturale delle donne, aveva ben scelto lo sfondo per mettere in risalto la sua bellezza. Sedeva su una panchina in mezzo alle aiuole fiorite, con il grande fiume alle spalle. Per un momento pensai che il re si gettasse in ginocchio davanti a lei; ma neppure la prospettiva dell'immortalità bastava a fargli dimenticare la dignità fino a tal punto. Tuttavia la tempestò di complimenti e congratulazioni e s'informò della sua salute senza distogliere lo sguardo dal ventre di Lostris, dal quale a suo tempo sarebbe uscito il miracolo. Alla fine le chiese: «Mia cara, c'è qualcosa che manca alla tua felicità? Posso fare qualcosa per allietarti in questo momento così impegnativo della tua vita?» Ancora una volta provai una grande ammirazione per la mia padrona. Possedeva un tempismo degno di un grande generale o di un mercante di grano. «Maestà, io sono nata a Tebe e non posso essere veramente felice in un altro luogo dell'Egitto. Ti supplico di comprendermi e di permettere che tuo figlio nasca qui. Ti prego, non farmi ritornare a Elefantina.» Io trattenni il respiro. La sede della corte era un affare di Stato. Il trasferimento da una città all'altra era una decisione che influiva sulla vita di migliaia di sudditi, e non poteva essere presa in base al capriccio di una ragazzina che non aveva ancora sedici anni. Il Faraone sembrò sbalordito dalla richiesta e si grattò la barba finta. «Vuoi vivere a Tebe? Benissimo, allora: la corte si stabilirà a Tebe!» Si girò verso di me. «Taita, progetta un nuovo palazzo.» Poi tornò a guardare la mia padrona. «Lo costruiremo sulla riva occidentale, mia cara?» E indicò l'altra sponda del fiume. «Si, sulla riva occidentale fa più fresco», disse la mia padrona. «Là sarò molto felice.» «Sulla riva occidentale, Taita. Non lesinare. Deve essere una residenza degna del figlio del Faraone, il cui nome sarà Memnone, il Sovrano dell'Aurora. Lo chiameremo il palazzo di Memnone.» E così, con la massima facilità, la mia padrona mi addossò una montagna di lavoro e abituò il re alle prime delle tante richieste che avrebbe fatto in Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
303
nome del figlio nascituro. Da quel momento il Faraone non le negò più nulla: titoli onorifici per chi godeva del suo affetto o della sua simpatia, elemosine per i suoi protetti, piatti rari ed esotici portati apposta per lei dagli angoli più remoti dell'impero. Credo che, come una bambina viziata, Lostris si divertisse a mettere alla prova i limiti del suo nuovo potere sul re. Non aveva mai visto la neve, sebbene io gliene avessi parlato; e chiese che gliene portassero un po' per rinfrescarsi la fronte nel caldo della valle del Nilo. Il Faraone ordinò subito che si svolgessero giochi atletici nei quali furono scelti i cento corridori più veloci dell'Alto Egitto che vennero inviati in Siria per portare la neve alla mia padrona in una speciale cassa che avevo progettato e che avrebbe dovuto impedirle di sciogliersi. Probabilmente fu l'unico dei suoi capricci che rimase insoddisfatto. Dai monti lontani ci arrivò soltanto un po' d'acqua sul fondo della cassa. Per quanto riguarda tutto il resto, fu sempre accontentata. Una volta era presente mentre Tanus faceva al re un rapporto sull'ordine di battaglia della flotta egizia. La mia padrona rimase tranquilla sullo sfondo fino a che Tanus ebbe terminato e si fu congedato. Poi commentò: «Ho sentito dire che il nobile Tanus è il migliore dei nostri generali. Non pensi che potrebbe essere opportuno, o divino consorte, promuoverlo Grande Leone d'Egitto e affidargli il comando delle forze settentrionali?» Ancora una volta la sua sfrontatezza mi lasciò senza fiato, ma il Faraone annui con aria assorta. «L'avevo pensato anch'io, mia cara, anche se è ancora molto giovane per il comando supremo.» L'indomani Tanus fu convocato dal re e fu nominato Grande Leone d'Egitto e comandante dell'ala settentrionale dell'esercito. Il suo vecchio predecessore fu messo in disparte con una ricca pensione e un incarico onorifico nella casa reale. Adesso Tanus aveva ai suoi ordini trecento navi e quasi trentamila uomini. Grazie alla promozione, era al quarto posto nella gerarchia militare; sopra di lui c'erano soltanto Nembet e un altro paio di vecchi rimbecilliti. «Il nobile Tanus è molto orgoglioso», mi disse Lostris come se non lo sapessi. «Se gli dirai che ho contribuito a fargli ottenere la promozione, ti venderò al primo mercante siriano», minacciò. Nel frattempo il suo ventre si andava ingrossando a poco a poco. Nonostante tutto ciò che avevo da fare, dovevo dare notizie quotidiane di Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
304
questo progresso non soltanto alla reggia ma anche al quartier generale del comando del nord. Incominciai i lavori per la costruzione del palazzo di Memnone cinque settimane dopo che il Faraone mi aveva impartito l'ordine. Avevo impiegato quel tempo per disegnare ii progetto definitivo. La mia padrona e il re dichiararono che superava le loro aspettative e che sarebbe stato di gran lunga la costruzione più bella dell'Egitto. Il giorno dell'inizio dei lavori una nave che aveva forzato il blocco, pagandosi il passaggio in mezzo alle flotte del Pretendente Rosso, attraccò a Tebe con un carico di legno di cedro proveniente da Byblos. Il comandante era un mio vecchio amico, e mi portò notizie interessanti. Per prima cosa mi disse che il nobile Intef era stato visto nella città siriana di Gaza. A quanto pareva, viaggiava in grande stile con un seguito numeroso di guardie del corpo e si dirigeva verso levante. Perciò doveva essere riuscito ad attraversare il deserto del Sinai, o forse aveva trovato un vascello che l'aveva portato fuori della foce del Nilo e quindi a est, lungo la costa del grande mare. Il comandante mi riferì altre cose che al momento mi parvero insignificanti ma che avrebbero cambiato il destino dell'Egitto e di tutti noi che vivevamo lungo il fiume. A quanto pareva, una nuova tribù bellicosa era giunta da una terra sconosciuta a oriente della Siria, travolgendo tutto ciò che trovava sul suo cammino. Nessuno sapeva molto di quel popolo guerriero; ma pareva che avesse realizzato una nuova forma di guerra mai vista in precedenza. Era in grado di coprire molto in fretta grandi distanze, e nessun esercito riusciva a tenergli testa. C'erano sempre state voci incontrollate a proposito di nuovi nemici che stavano per assalire l'Egitto, e ne avevo sentite a decine. Perciò anche questa volta vi attribuii scarso peso. Il comandante, tuttavia, era una fonte attendibile e io riferii il suo racconto a Tanus la prima volta che ci rivedemmo. «Nessuno può contrastare questi nemici misteriosi?» ribatté lui con un sorriso. «Mi piacerebbe vederli impegnati contro i miei uomini: gli farei vedere io che cosa significa veramente la parola invincibile. Come hai detto che si chiamano, i potenti guerrieri veloci come il vento?» «Sembra che si facciano chiamare Re Pastori», risposi. «Hyk-sos.» Il nome non mi sarebbe uscito dalle labbra con tanta levità se avessi saputo che cosa era destinato a significare per il nostro mondo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
305
«I pastori, eh? Bene, i miei bricconi non saranno un gregge facile da addomesticare.» Tanus non pensò più a loro. Era molto più interessato alle notizie sul nobile Intef. «Se potessimo sapere con certezza dove si trova, manderei un distaccamento ad arrestarlo per condurlo qui a render conto alla giustizia. Ogni volta che visito le proprietà appartenute alla mia famiglia, sento lo spirito di mio padre accanto a me. So che non potrò avere pace fino a che non l'avrò vendicato.» «Vorrei che fosse così semplice.» Scossi la testa. «Intef è astuto come la volpe del deserto. Non credo che lo rivedremo più in Egitto.» Mentre pronunciavo quelle parole, gli dei tenebrosi certamente risero di me. Con l'avanzare della gravidanza della mia padrona, potei insistere perché ponesse un limite alle sue attività. Le proibii di visitare gli ospedali e l'orfanotrofio per timore che infettasse se stessa e il nascituro con i parassiti e le malattie dei poveri. Nelle ore più calde del giorno la facevo riposare sotto la barrazza che avevo costruito per il gran visir nel giardino acquatico. Quando Lostris protestò per la noia che le causava l'inattività forzata, il Faraone le mandò i suoi musici per svagarla, e io lasciai i lavori del palazzo di Memnone per tenerle compagnia, raccontarle storie e leggende e discutere con lei le ultime imprese di Tanus. Le avevo fissato una dieta rigorosa e non le permettevo di bere vino o birra; ogni giorno le facevo portare dai giardinieri del palazzo frutta e verdura fresche, e quando le servivo la carne toglievo il grasso che avrebbe reso torpido il bimbo. Preparavo personalmente i suoi pasti e la notte, quando l'accompagnavo nella sua camera, le facevo bere una pozione di erbe e succhi che avrebbero reso più forte il bambino. Naturalmente, quando annunciava che voleva un bollito di fegato e rognoni di gazzella, o un'insalata di lingue d'allodola o un arrosto di petto di otarda, il re mandava cento cacciatori nel deserto per procurarle ciò che voleva. Mi astenevo dal riferire a Tanus le strane voglie della mia padrona, perché temevo che, anziché proseguire la guerra contro il falso Faraone, l'esercito del nord venisse spedito nel deserto a caccia di gazzelle, otarde e allodole. Con l'avvicinarsi del parto, la notte restavo sveglio a tormentarmi. Avevo promesso un principe al Faraone; ma non si aspettava che l'erede arrivasse tanto in fretta. Anche un dio è capace di contare i giorni trascorsi dall'inizio della festività di Osiride. Non avrei potuto far nulla se anziché un principe fosse nata una principessa: ma almeno potevo preparare il Faraone a una Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
306
nascita prematura. Il sovrano, adesso, s'interessava molto ai problemi della gravidanza e del parto, tanto da dimenticare per un po' l'ossessione per i templi e le tombe. Dovevo ripetergli quasi tutti i giorni che i fianchi piuttosto stretti della nobile Lostris non sarebbero stati un ostacolo a un parto normale e che la sua giovane età era favorevole a una felice conclusione. Approfittai dell'occasione per rivelargli un fatto interessante ma poco noto: molti dei più grandi atleti, guerrieri e saggi della storia erano venuti alla luce prima del tempo. «Credo, maestà, che sia un po' come il caso del pigro che giace troppo a lungo nel letto e spreca le energie, mentre i grandi uomini si alzano presto. Ho notato che tu, divino Faraone, sei sempre sveglio prima del levar del sole. Non mi sorprenderebbe scoprire che sei nato da un parto prematuro.» Sapevo che non era vero, ma ovviamente non poteva contraddirmi. «Sarebbe una circostanza molto propizia se il principe imitasse il genitore e uscisse presto dal grembo materno.» Mi auguravo di non aver esagerato; ma il re sembrava convinto dalla mia eloquenza. Alla fine il piccino collaborò benevolmente perché ritardò di circa due settimane, e io non cercai di mettergli fretta. La scadenza era così prossima a quella normale che nessuno poteva spettegolare; ma il Faraone ebbe la benedizione di una nascita prematura, che ormai considerava assai desiderabile. Non fui sorpreso quando la mia padrona entrò in travaglio nell'ora più scomoda; durante la terza veglia della notte, infatti, le sue acque cominciarono a uscire. Non aveva certo l'abitudine di facilitarmi le cose. Comunque, questo mi offri il pretesto per fare a meno dei servigi d'una levatrice, perché avevo ben poca fiducia in quelle megere con le unghie lunghe e incrostate di sangue. La nobile Lostris si comportò con l'abituale rapidità e con la solita eleganza. Ebbi appena il tempo di svegliarmi, lavarmi le mani con il vino caldo e benedire gli strumenti nella fiamma della lampada prima che mi dicesse allegramente: «È meglio che tu dia un'altra occhiata, Taita. Credo che stia succedendo qualcosa». L'assecondai, sebbene sapessi che era troppo presto. Mi bastò uno sguardo: chiamai a gran voce le sue schiave. «Sbrigatevi, fannullone! Chiamate le consorti reali.» «Quali?» La prima ancella che rispose al mio richiamo entrò nella stanza seminuda e intontita dal sonno. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
307
«Tutte, se è possibile.» Nessun principe poteva ereditare la corona doppia se la sua nascita non aveva avuto testimoni e se non veniva proclamato formalmente che non c'erano state sostituzioni. Le dame reali incominciarono ad arrivare proprio mentre il bimbo stava per nascere. Dopo un'ennesima fitta di dolore, apparve la sommità della testa. Avevo temuto che avesse un ciuffo di riccioli dorati, invece scorsi un vello folto e scuro come quello delle lontre del fiume. Solo molto più tardi il colore sarebbe cambiato e il rosso avrebbe incominciato a risplendere nelle ciocche nere, come schegge di granato, quando vi batteva il sole. «Spingi!» gridai alla mia padrona. «Spingi con forza!» Obbedì prontamente. Le ossa delia pelvi, non ancora irrigidite dagli anni, lasciarono passare il piccolo: il percorso era ben lubrificato. Il neonato mi colse di sorpresa: usci come un sasso scagliato da una fionda, e per poco non mi sfuggi dalle mani. Prima ancora che riuscissi a tenerlo saldamente, la mia padrona si sollevò sui gomiti. Aveva i capelli incollati dal sudore, e un'espressione ansiosa e disperata. «È un maschio? Su, dimmelo! Dimmelo!» Le dame reali che si affollavano intorno al letto furono testimoni del primo atto che il bimbo compi entrando nel nostro mondo. Dal pene lungo quanto il mio mignolo, il principe Memnone, primo di questo nome, emise un getto che quasi sfiorò il soffitto. Io ero sulla traiettoria, e m'infradiciò fino alla pelle. «È un maschio?» gridò di nuovo la mia padrona. Le rispose una dozzina di voci. «Un maschio! Salute a Memnone, principe ereditario dell'Egitto!» Non riuscivo a parlare. Gli occhi mi bruciavano non solo a causa dello spruzzo della reale urina, ma anche per le lacrime di gioia e di sollievo, mentre il piccolo prorompeva in uno strillo iroso e prepotente. Agitò le braccia e scalciò con tanta energia che per poco non mi sfuggi di nuovo dalle mani. Quando la mia vista si schiari, riuscii a scorgere il corpicino snello e forte e la piccola testa orgogliosa dalla folta capigliatura nera. Avrei difficoltà a dire quanti bambini ho aiutato a venire al mondo, ma nella mia esperienza non c'era mai stato nulla che mi avesse preparato a questo. Tutto l'amore e la devozione di cui ero capace s'erano cristallizzati, ed era iniziato qualcosa che era destinato a durare tutta la vita e che sarebbe diventato più forte con il trascorrere dei giorni. Sapevo che la mia vita era Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
308
giunta a una nuova svolta, e che tutto sarebbe stato diverso. Mentre tagliavo il cordone ombelicale e lavavo il piccino, ero pervaso da un senso di reverenza religiosa quale non avevo mai provato neppure in uno solo dei templi dedicati agli innumerevoli dei egizi. I miei occhi e la mia anima si rallegravano alla vista di quel corpicino perfetto, dalla faccetta rossa e grinzosa in cui i segni della fermezza e del coraggio erano impressi chiaramente come sui lineamenti del vero padre. Lo misi fra le braccia della madre e, quando si attaccò al capezzolo come un leopardo che balza alla gola d'una gazzella, la mia padrona mi guardò. Non riuscivo a parlare: ma non c'erano parole per esprimere la nostra intesa. Entrambi sapevamo: era iniziato qualcosa di meraviglioso che per il momento nessuno dei due poteva comprendere chiaramente. La lasciai con il figlio e andai a dare l'annuncio al re. Non avevo fretta: sapevo che la notizia gli era stata portata. Le dame reali non erano certo famose per la loro reticenza, e con ogni probabilità già in quel momento il Faraone si stava recando nell'harem. Indugiai nel giardino acquatico, abbandonandomi a un senso sognante d'irrealtà. Spuntava l'alba e il dio sole, Ammon-Ra, mostrava l'orlo del disco fiammeggiante sopra le colline a oriente. Gli rivolsi una preghiera di gratitudine. Mentre stavo li, con gli occhi rivolti al cielo, uno stormo di piccioni del palazzo volteggiò sopra i giardini. I raggi del sole investivano le loro ali e le facevano risplendere come gemme. Poi vidi un puntolino scuro, più in alto dello stormo, e nonostante la distanza lo riconobbi immediatamente. Era un falco selvatico giunto dal deserto. Piegò le ali e scese in picchiata. Aveva scelto il primo piccione dello stormo, e il suo tuffo fu preciso e inesorabile. Colpi la preda in un vortice di piume, come un soffio di fumo pallido, uccidendola a mezz'aria. I falchi si avvinghiano sempre alla vittima e scendono precipitosamente al suolo stringendola fra gli artigli. Ma questa volta non fu così. Il falco uccise il piccione, aprì gli artigli e lo lasciò cadere. La carcassa piombò verso terra e con un grido aspro il falco volteggiò sopra la mia testa. Volò in cerchio per tre volte e per tre volte lanciò quello strido bellicoso. Tre è uno dei numeri magici più potenti. Dedussi da tutto ciò che non era un evento naturale. Il falco era un messaggero, o forse era lo stesso dio Horus nell'altra sua forma. Il piccolo corpo cadde ai miei piedi e le gocce di sangue caldo mi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
309
spruzzarono i sandali. Sapevo che era un pegno del dio, un segno della protezione che accordava al principe neonato. E compresi che era anche un ordine per me. Il dio l'affidava alle mie cure. Raccolsi il piccione morto e lo sollevai verso il cielo. «Accetto con gioia il compito che mi hai affidato, o grande Horus, e gli sarò devoto per tutti i giorni della mia vita.» Il falco stridette di nuovo, un ultimo strido altissimo, quindi virò e con rapidi battiti d'ali s'involò sopra le acque del Nilo e scomparve nel deserto per ritornare ai prati occidentali del paradiso dove vivono gli dei. Strappai una penna da un'ala del piccione. Più tardi la misi sotto il giaciglio del principe perché gli portasse fortuna. La gioia e l'orgoglio del Faraone per l'erede non avevano confini. Proclamò una festa in suo onore, e per una notte intera gli abitanti dell'Alto Egitto cantarono e ballarono per le strade e s'ingozzarono della carne e del vino offerti dal sovrano, e benedissero il principe Memnone a ogni brindisi. Il fatto che fosse figlio della mia padrona, tanto amata da tutti, faceva della sua nascita un'occasione ancora più gioiosa. Lostris era così giovane e piena di vita che pochi giorni dopo poté presentarsi a corte con il figlio al seno. Seduta sul trono più piccolo accanto a quello del re, era un'incantevole immagine materna. Quando, aprendo la veste, scopri un seno turgido e allattò il piccino alla presenza di tutti, gli applausi furono così scroscianti da scuotere Memnone, che risputò il capezzolo e urlò, indignato e rosso in viso. Tutta la nazione s'innamorò di lui. «È un leone», dicevano tutti. «Nel suo cuore pulsa il sangue dei re e dei guerrieri.» Quando il principe si calmò e riprese a poppare, il Faraone si alzò per rivolgerci la parola. «Riconosco questo bambino come mio figlio, discendente diretto della mia stirpe e mio successore. È il maschio primogenito, e sarà Faraone dopo di me. Raccomando il principe Memnone a tutti voi nobili e a tutti i sudditi.» Le acclamazioni si protrassero: nessuno voleva essere il primo a tacere per timore di mettere in discussione la propria fedeltà. Io, intanto, stavo con altri servitori e schiavi della casa reale in una delle gallerie affacciate sulla sala. Allungai il collo e scorsi l'alta figura del nobile Tanus, che stava nella terza fila sotto il trono con Nembet e gli altri Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
310
comandanti militari. Sebbene applaudisse come tutti, leggevo sul suo volto aperto un'espressione che si sforzava invano di mascherare. Suo figlio era ufficialmente di un altro, e non poteva impedirlo. Persino io, che lo conoscevo e lo capivo così bene, potevo solo immaginare la sua sofferenza. Finalmente il re ordinò di fare silenzio e poté proseguire. «Vi raccomando altresì la madre del principe, la nobile Lostris. Tutti sappiamo che ora siede più vicina al mio trono. Da oggi è elevata al rango di consorte principale del Faraone. Da oggi sarà conosciuta come la regina Lostris, e avrà la precedenza su tutti, subito dopo il re e il principe ereditario. Inoltre, fino a che il principe non avrà raggiunto la maggiore età, la regina Lostris fungerà da reggente e, quando io non sarò in grado di farlo, guiderà la nazione al mio posto.» Non credo che in tutto l'Alto Egitto vi fosse qualcuno che non amasse la mia padrona, eccettuata forse qualcuna delle consorti reali che non erano state capaci di mettere al mondo un erede maschio e che ora si vedevano superate da lei nell'ordine di precedenza. Tutti gli altri manifestarono il loro affetto con un'acclamazione entusiastica. Dopo la cerimonia la famiglia reale lasciò la sala e, nel grande cortile del palazzo, il Faraone sali sulla slitta e, con a fianco la regina che teneva fra le braccia il principe, si fece portare dai torelli bianchi lungo il Viale dei Sacri Aneti fino al tempio di Osiride per offrire un sacrificio al dio. Lungo il viale sacro si affollavano gli abitanti di Tebe che, a gran voce, esprimevano devozione al re e affetto per la regina e il principino. Quella notte, mentre servivo lei e il piccolo, Lostris mi bisbigliò: «Oh, Taita, hai visto Tanus tra la folla? Per me è stato un giorno di gioia e di mestizia. Avrei voluto piangere per il mio amore. Era così imponente e audace... e ha dovuto assistere mentre gli veniva sottratto il figlio. Avrei voluto balzare in piedi in presenza di tutti e gridare: "Questo è il figlio del nobile Tanus Harrab, e io li amo entrambi"». «Sono lieto per il bene di tutti noi, maestà, che per una volta tu abbia saputo tenere a freno la lingua.» Lostris rise: «È così strano, sentire che mi chiami così... maestà. Mi fa sentire un'impostora». Passò il principino da un seno all'altro, e nel movimento il piccolo emise da entrambe le estremità un soffio d'aria veramente imperiale per volume e risonanza. «Si capisce subito che è stato concepito durante una tempesta», Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
311
commentai e Lostris rise di nuovo, ma subito dopo sospirò dolorosamente. «Il mio carissimo Tanus non potrà mai essere partecipe di questi momenti intimi. Ti rendi conto che non ha ancora tenuto Meninone fra le braccia, e forse non lo terrà mai? Oh, sto per piangere di nuovo.» «Non farlo, padrona. Il pianto potrebbe inacidire il latte.» Non era un avvertimento veritiero, ma servi a convincerla. Dominò le lacrime. «Non c'è un modo per permettere che Tanus goda come noi della presenza del nostro bambino?» Riflettei per un po', quindi avanzai un suggerimento che le strappò un grido di gioia. Come per avallare ciò che avevo detto, il principe emise di nuovo un vento sonante. L'indomani, quando il Faraone venne a vedere il figlio, la regina mise in atto il mio consiglio. «Amato e divino consorte, hai pensato alla scelta degli istruttori ufficiali per il principe Memnone?» Il Faraone rise con indulgenza. «È ancora così piccolo. Dovrà imparare a camminare e a parlare, prima che sia possibile insegnargli altre cose.» «Io credo che sia meglio nominare subito i precettori, in modo che possa abituarsi a loro.» «Sta bene.» Il re sorrise e prese il bimbo sulle ginocchia. «Tu chi suggerisci?» «Per il sapere, avremo bisogno di un grande erudito che comprenda le scienze e i misteri.» Gli occhi del re brillarono. «Non mi viene in mente nessuno che corrisponda a questa descrizione», disse sorridendomi. La nascita del bambino aveva cambiato il suo carattere; era diventato quasi gioviale, e per un momento pensai che stesse per strizzare l'occhio; ma il suo nuovo atteggiamento verso la vita non arrivava a tanto. La regina prosegui imperturbata. «Poi abbiamo bisogno di un soldato che conosca bene le arti della guerra e l'uso delle armi, per fare di lui un guerriero. Penso che dovrebbe essere giovane e di nobile nascita. E naturalmente devoto alla corona e degno di fiducia.» «Chi suggerisci, mia cara? Ben pochi soldati hanno tutte queste virtù.» Non credo che la domanda del Faraone fosse ispirata dalla malizia. Ma la mia padrona non era una sciocca. Chinò graziosamente la testa e disse: «Il re è saggio e sa quale, fra i suoi generali, è più adatto a questo compito». In occasione della prima assise il re annunciò i nomi dei precettori del Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
312
principe. Lo schiavo Taita sarebbe stato responsabile degli studi e del comportamento dell'erede. Questo non stupì quasi nessuno, ma vi furono molti commenti sommessi quando il re prosegui. «Per l'addestramento nelle armi, nelle tattiche e nelle strategie militari, sarà responsabile il Gran Leone d'Egitto, il nobile Harrab.» Da quel momento fu dovere di Tanus, quando non era impegnato in una campagna, assistere il principe all'inizio di ogni settimana. Mentre attendeva che fosse pronto il suo alloggio nel palazzo nuovo che si stava costruendo sull'altra riva del fiume, la mia padrona aveva lasciato l'harem e si era installata in un'ala del palazzo del gran visir, affacciata sul giardino acquatico da me creato per suo padre, in armonia con la sua nuova posizione di consorte principale del Faraone. L'udienza settimanale che il principe Memnone concedeva ai suoi precettori si svolgeva sotto la barrazza e in presenza della regina Lostris. Spesso c'era anche una ventina di altri funzionari e cortigiani, e a volte il Faraone veniva con il seguito; perciò eravamo sottoposti a notevoli costrizioni. Ogni tanto, però, eravamo solo noi quattro. La prima volta che potemmo godere di tanta intimità, la regina mise per la prima volta il principe fra le braccia del vero genitore e io potei vedere la gioia assoluta con cui Tanus guardò il viso del figlioletto. Memnone si dimostrò all'altezza dell'occasione vomitando sull'uniforme del padre, ma nonostante questo Tanus non volle posarlo. Da quel giorno tenemmo in serbo tutti gli avvenimenti speciali nella vita del bimbo per quando Tanus era con noi. Fu Tanus a fargli mangiare la prima cucchiaiata di pappa, e il principino rimase tanto sorpreso da quel cibo inconsueto che lo risputò, urlando poi a gran voce per chiedere il latte della madre. La regina lo prese in braccio e, mentre Tanus assisteva affascinato, gli porse il seno. All'improvviso Tanus tese la mano e gli tolse il capezzolo dalla boccuccia, con un gesto che non diverti per nulla il principe e me. Memnone s'indignò per il trattamento e lo fece capire chiaramente, ma io ero sgomento. Immaginavo che cosa sarebbe accaduto se il re fosse arrivato e avesse trovato il Gran Leone d'Egitto con la mano dove non poteva tenerla. Quando protestai, la mia padrona disse: «Non fare la vecchia pudibonda, Taita. Ci stiamo divertendo nel modo più innocente». Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
313
«È chiaro che vi divertite, ma dubito che sia uno svago innocente», borbottai. Avevo visto le loro facce illuminarsi a quel contatto intimo e percepivo la loro passione come un tuono che faceva vibrare l'aria. Sapevo che non sarebbero riusciti a trattenersi per molto tempo e che persino il senso del dovere e dell'onore di Tanus avrebbe finito per soccombere di fronte all'amore. Quella sera mi recai al tempio di Horus, offrii un sacrificio generoso, poi pregai. «Fai che la profezia dei Labirinti non tardi molto a realizzarsi, perché quei due non possono trattenersi, e questo porterà morte e disonore a tutti noi.» A volte è meglio che gli uomini non tentino di interferire con il destino. Le nostre preghiere possono venire esaudite in un modo che non ci attendiamo e che non ci rende felici. Ero il medico del principe, ma in verità il bimbo aveva ben poco bisogno delle mie cure. Aveva la salute e la robustezza del padre. L'appetito e la digestione erano esemplari. Qualunque cosa gli si mettesse in bocca era divorata con voracità leonina e usciva puntualmente dall'estremità opposta con la forma e la consistenza desiderabili. Dormiva senza interruzioni e si svegliava gridando per reclamare il cibo. Se gli mostravo un dito ne seguiva il movimento con i grandi occhi scuri, e quando arrivava alla sua portata lo afferrava e cercava di alzarsi a sedere. Ci riuscì prima di ogni altro bambino che mi fosse capitato di osservare. Imparò a sollevarsi e a gattonare a un'età in cui gli altri cominciavano appena a stare seduti. Mosse il primo passo vacillante quando gli altri cominciavano a gironzolare carponi. Quel giorno Tanus era presente. Aveva comandato una campagna durante gli ultimi due mesi perché le forze dell'Usurpatore Rosso avevano catturato Asyut; questa città era il perno delle nostre difese settentrionali, perciò il Faraone aveva ordinato a Tanus di risalire il fiume con la flotta per riprenderla. Molto più tardi Kratas mi raccontò che i combattimenti erano stati terribili, ma alla fine Tanus aveva sfondato le mura e aveva guidato la carica dei suoi Azzurri. Avevano cacciato il Pretendente dalla città infliggendogli perdite gravissime e costringendolo a ritirarsi oltre i suoi confini. Tanus ritornò a Tebe e fu accolto con gratitudine da tutti. Il Faraone gli mise al collo un'altra decorazione e saldò le paghe arretrate dei soldati che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
314
avevano contribuito alla vittoria. Subito dopo aver lasciato il re, Tanus venne nella barrazza del giardino acquatico, dove lo attendevamo. Mentre stavo di guardia alla porta, lui e la mia padrona si abbracciarono con tutto l'ardore, che era cresciuto durante la lontananza. Alla fine dovetti separarli perché quell'abbraccio poteva portare a un'unica conclusione. «Nobile Tanus», esclamai. «Il principe Memnone si spazientisce.» Si staccarono controvoglia, e Tanus andò dal bimbo che stava disteso nudo all'ombra, su un manto di pelli di sciacallo. Tanus piegò un ginocchio davanti a lui. «Salve a te, principe. Ti porto notizie del trionfo delle nostre armi...» disse scherzosamente, e Memnone gridò di gioia nel vedere il padre; poi notò la catena d'oro. Si alzò in piedi, avanzò barcollando di quattro passi, afferrò la catena e vi si tenne aggrappato con entrambe le mani. Applaudimmo quella prodezza. Reggendosi alla catena, Meninone sorrise felice, accettando la lode come dovuta. «Per le ali di Horus, ha l'occhio attento al metallo giallo non meno di te, Taita», rise Tanus. «Non è l'oro che lo attrae, ma la conquista», dichiarò la mia padrona. «Un giorno anche lui porterà sul petto l'Oro del Valore.» «Non c'è dubbio!» Tanus lo sollevò in alto e Memnone strillò di gioia e scalciò il padre perché continuasse a farlo giocare. Per me e per Tanus i progressi del bimbo sembravano segnare il cambiamento delle stagioni, come l'alzarsi e l'abbassarsi delle acque del fiume. D'altra parte, la vita della mia padrona era imperniata sulle ore che poteva trascorrere con il bimbo e l'uomo amato. Gli intervalli fra le visite di Tanus le sembravano troppo lunghi, ogni visita troppo breve. L'inondazione di quell'estate fu più propizia di quelle che avevamo previsto nella cerimonia delle acque a Elefantina. Quando le acque si ritirarono i campi splendevano sotto uno strato di limo nero, cancellato ben presto dal verde intenso dei cereali e dai colori dei frutti. Quando il principe mosse i primi passi i granai d'Egitto erano colmi, e persino le dispense dei sudditi più poveri traboccavano. Sulla riva occidentale stava prendendo forma il palazzo di Memnone, e la guerra al nord volgeva in nostro favore. Gli dei sorridevano al Faraone e al suo regno. L'unico motivo di scontento era che i due innamorati, sebbene fossero Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
315
tanto vicini, erano separati da un abisso più ampio della valle in cui vivevamo. In diverse occasioni mi assillavano a proposito della profezia dei Labirinti di Ammon-Ra, come se fossi personalmente responsabile della realizzazione delle visioni. Invano protestavo d'essere soltanto lo specchio in cui si rifletteva il futuro, e non già colui che muoveva le pedine sulla scacchiera del destino. L'anno firn e il fiume incominciò di nuovo a gonfiarsi completando il ciclo infinito. Era la quarta inondazione dopo la predizione dei Labirinti. Anch'io attendevo di vedere compiersi la mia visione prima del termine della stagione. Quando ciò non avvenne, la mia padrona e Tanus non mi diedero pace. «Quando sarò libera di stare con Tanus?» sospirò la regina Lostris. «Devi fare qualcosa, Taita.» «Non è me che devi interpellare, bensì gli dei. Io posso pregarli, ma è il massimo che posso fare.» Trascorse un altro anno senza che la situazione cambiasse, e persino Tanus era irritato. «Ho riposto in te tanta fiducia da basare la mia felicità futura sulla tua parola. Ti giuro, Taita, che se non farai qualcosa in fretta...» S'interruppe e mi fissò. La minaccia era ancora più forte appunto perché inespressa. Tuttavia passò un altro anno ancora, e anch'io incominciai a perdere la fede nella mia profezia. Mi convinsi che gli dei avevano cambiato idea, o che ciò che avevo visto era soltanto una fantasia ispirata dal mio desiderio. Il principe Memnone aveva quasi cinque anni e sua madre venti, quando arrivò dal nord un messaggero stralunato, a bordo di una delle nostre navi da ricognizione. «Il Delta è caduto. Il Pretendente Rosso è morto. Il Basso Egitto è in fiamme. Le città di Menfi e Avaris sono state distrutte. I templi sono bruciati, le statue degli dei abbattute», gridò al re, e questi ribatté: «Non è possibile. Vorrei credere a questo messaggio, ma non posso. Tutto ciò non può essere accaduto a nostra insaputa. L'Usurpatore possedeva grandi forze: per quindici anni non siamo riusciti a rovesciarlo. Come può essere avvenuto in un sol giorno? E a opera di chi?» Il messaggero tremava per la paura e la stanchezza. Il viaggio era stato disagevole; e sapeva come venivano trattati a Tebe i latori di notizie disastrose. «Il Pretendente Rosso è stato ucciso senza avere il tempo di sguainare la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
316
spada. Le sue forze sono state disperse prima che le trombe squillassero l'allarme.» «Com'è accaduto?» «Non lo so, Grande Egitto. Dicono che dall'oriente è giunto un nemico nuovo e terribile, veloce come il vento, e che nessuna nazione può opporsi alla sua ira. Anche se non l'ha mai visto il nostro esercito è in ritirata dai confini settentrionali. Neppure i più audaci osano restare ad affrontarlo.» «Chi è questo nemico?» chiese il Faraone. Per la prima volta sentii la paura nella sua voce. «Lo chiamano il Re Pastore. Hyksos.» Tanus e io avevamo riso di quel nome. Non l'avremmo fatto mai più. Il Faraone convocò il consiglio di guerra in una riunione segreta. Solo molto tempo dopo seppi da Kratas che cosa era accaduto. Tanus, naturalmente, non sarebbe mai venuto meno alla promessa di tacere, neppure con me o con la mia padrona. Ma riuscii a far parlare Kratas, che non era immune alle mie astuzie. Tanus l'aveva promosso al grado di Migliore di Diecimila, e gli aveva assegnato il comando delle Guardie del Coccodrillo Azzurro. Il legame d'amicizia fra loro era ancora saldo come il granito. Nella sua qualità di comandante d'un reggimento, Kratas aveva diritto a un seggio nel consiglio di guerra e, anche se non veniva interpellato, poteva riferire fedelmente a me e alla mia padrona quanto vi veniva detto. Il consiglio era diviso fra i vecchi, capeggiati da Nembet, e i giovani che facevano riferimento a Tanus. Purtroppo l'autorità decisiva spettava ai vecchi, che imponevano agli altri i loro punti di vista piuttosto antiquati. Tanus voleva richiamare dalla frontiera le nostre forze e creare una serie di difese lungo il fiume. Nel contempo intendeva mandare esploratori per valutare e studiare il nemico misterioso. Avevamo spie in tutte le città settentrionali ma, per qualche sconosciuta ragione, i loro rapporti non ci erano ancora arrivati. Tanus voleva raccoglierli ed esaminarli prima di provvedere allo spiegamento del grosso delle sue forze. «Fino a che non sapremo chi abbiamo di fronte, non potremo ideare la strategia adatta», dichiarò in consiglio. Nembet e i suoi sostenitori contrastarono tutti i suggerimenti di Tanus. Il vecchio ammiraglio non gli aveva perdonato di averlo umiliato il giorno in cui aveva salvato dalla distruzione la nave reale. La sua opposizione a Tanus era basata su motivi di principio anziché sulla ragione o sulla logica. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
317
«Non cederemo un solo cubito del nostro sacro suolo: sarebbe da vili. Affronteremo il nemico e l'annienteremo dovunque lo troveremo. Non danzeremo e non civetteremo con lui come ragazze di paese.» «Mio signore!» ruggì Tanus, infuriato da quell'accusa di vigliaccheria. «Soltanto uno sciocco, un vecchio sciocco, può prendere una decisione prima di conoscere i fatti. Non abbiamo informazioni che ci permettano di agire.» Tutto fu inutile. Alla fine l'ebbe vinta la supremazia gerarchica dei tre generali. Tanus fu inviato immediatamente al nord, per rincuorare e schierare l'esercito in ritirata. Doveva tenere la frontiera, e resistere sui cippi di confine. Non doveva compiere una ritirata strategica fino alle colline davanti ad Asyut, la linea difensiva naturale, dove le mura della città costituivano una seconda barriera. Avrebbe avuto al suo comando la flotta e l'esercito del nord con trecento navi da guerra che sarebbero servite come mezzi di trasporto e nel contempo avrebbero dominato il fiume. Nembet intanto avrebbe richiamato il resto dell'esercito, inclusi i reggimenti stanziati ai confini con Cush, al sud. Era necessario ignorare la minaccia che incombeva dall'interno dell'Africa, di fronte al pericolo più pressante. Non appena fossero stati radunati, Nembet avrebbe portato i rinforzi al nord, per raggiungere Tanus. Nel giro d'un mese vi sarebbe stata un'armata invincibile di sessantamila uomini e quattrocento galee davanti ad Asyut. Tanus doveva tenere il fronte a tutti i costi fino a quel momento. Nembet concluse con un'ingiunzione: «Il nobile Harrab ha inoltre l'ordine di trattenere tutte le sue forze sul confine. Non dovrà dedicarsi a scorrerie o a sortite esplorative verso il nord». «Nobile Nembet, questi ordini mi bendano gli occhi e mi legano il braccio destro. Mi neghi i mezzi per condurre questa campagna in modo cauto ed efficace», protestò inutilmente Tanus. Nembet ghignò, soddisfatto di aver fatto valere la propria autorità contro il giovane rivale e di essersi vendicato in parte contro di lui. Il destino delle nazioni dipende spesso da sentimenti assai meschini. Il Faraone annunciò che avrebbe preso posto alla testa dell'esercito. Da mille anni i sovrani erano presenti sul campo ogni volta che si combatteva una battaglia decisiva. Anche se dovevo ammirare il coraggio del re, avrei preferito che non Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
318
scegliesse quel momento per dimostrarlo. Marnose non era un guerriero, e la sua presenza non sarebbe servita ad accrescere le nostre possibilità di vittoria. Forse le truppe si sarebbero sentite incoraggiate nei vederlo all'avanguardia, ma nel complesso lui e il suo seguito sarebbero stati per Tanus più un intralcio che un aiuto. Il re non poteva recarsi al fronte tutto solo. L'intera corte l'avrebbe seguito, compresi la consorte principale e il figlio. La regina doveva avere la sua corte e il principe Meninone doveva essere assistito dai precettori... quindi anch'io sarei andato al nord, verso Asyut e il campo di battaglia. Più salivamo verso il nord e più si facevano frequenti e inquietanti le voci e le notizie che giungevano dal fronte devastando le nostre speranze come sciami di locuste che piombano sulle messi. Spesso, durante il viaggio, Tanus venne a bordo del nostro vascello, ufficialmente per discutere con me la situazione. Durante ogni visita, comunque, trascorreva un po' di tempo con il principe e sua madre. Non ho mai approvato la consuetudine secondo la quale le donne seguono l'esercito in battaglia. Anche in tempo di pace sono un motivo di distrazione, e persino un guerriero come Tanus poteva lasciarsi distogliere dai suoi propositi. Avrebbe dovuto concentrare ogni pensiero sul compito che l'attendeva; ma quando glielo dissi rise e mi batté la mano sulla spalla. «Mi danno una ragione per combattere. Non temere, vecchio amico, mi comporterò come un leone che difende il suo cucciolo.» Incontrammo ben presto i primi soldati in ritirata: gruppi sparsi di disertori che saccheggiavano i villaggi mentre fuggivano verso il sud lungo le rive del fiume. Senza alcuna esitazione, Tanus ne fece decapitare diverse centinaia e ordinò di infilzare le teste sulle lance piantate sugli argini, a titolo d'esempio e di monito. Poi radunò gli altri e li raggruppò agli ordini di ufficiali fidati. Non vi furono altre diserzioni e i soldati diedero prova di un rinnovato spirito di fedeltà. La nostra flotta raggiunse la città murata di Asyut, affacciata sul fiume. Contrariamente agli ordini di Nembet, Tanus vi lasciò una piccola riserva strategica di cinquemila uomini al comando di Remrem. Poi proseguimmo verso nord per prendere posizione al confine, dove avremmo atteso il misterioso Re Pastore. La flotta era ancorata attraverso il fiume in formazione da combattimento, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
319
ma a bordo dei vascelli c'erano equipaggi ridotti al minimo indispensabile. I guerrieri erano stati sbarcati insieme coi fanti e schierati sulla riva orientale. Convinsi il Faraone a permettere che la mia padrona e il principe restassero a bordo della nave grande e comoda che li aveva portati fin li. Sull'acqua c'era più fresco; e se il nostro esercito avesse subito un rovescio, avrebbero potuto mettersi in salvo pili rapidamente. Il re scese a terra con l'esercito e fece piantare le tende in un tratto elevato, a! di sopra dei campi allagati. C'era un villaggio abbandonato: i contadini erano fuggiti anni prima da quel confine, motivo di contestazione tra lui e il falso Faraone. Nella zona c'erano sempre scaramucce sanguinose, e i coltivatori avevano rinunciato a quei terreni fertili ma troppo pericolosi. Il villaggio si chiamava Abnub. La piena del Nilo aveva incominciato a recedere poche settimane prima del nostro arrivo e, anche se i canali per l'irrigazione erano ancora pieni e i campi erano acquitrini di fango nero, il fiume era rientrato nell'alveo. Pur rispettando le restrizioni imposte da Nembet, Tanus incominciò i preparativi per fronteggiare la minaccia. I reggimenti si accamparono nell'ordine di battaglia. Astes comandava la flotta sul fiume, Tanus teneva il centro, con il fianco sinistro ancorato nel Nilo, mentre Kratas comandava l'ala destra. Il deserto, bruniccio e tetro, si estendeva fino all'orizzonte orientale. Nessun esercito poteva sopravvivere in tale desolazione arroventata e priva d'acqua. Quello era il nostro fianco destro, sicuro e inespugnabile. Degli hyksos sapevamo soltanto che erano arrivati per via di terra e non avevano una flotta. Tanus prevedeva di incontrarli sulla terraferma e di combattere una battaglia di fanteria. Sapeva di potergli impedire d'attraversare il fiume: quindi li avrebbe costretti a battersi sul terreno di sua scelta. Abnub non sarebbe stata la località ideale, ma Nembet aveva deciso così. Il villaggio sorgeva su un dosso ed era circondato da campi incolti. Se non altro offriva una buona visuale e avremmo potuto osservare i nemici prima che potessero attaccarci. Tanus aveva ai suoi ordini trentamila dei migliori soldati egizi. Non avevo mai visto un esercito così sterminato: anzi, dubito che nella valle del Nilo se ne fosse mai radunato uno di simili proporzioni. Tra breve sarebbe arrivato Nembet con altri trentamila uomini, e allora sarebbe stato il più grande esercito della storia. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
320
Andai con Tanus a ispezionare i soldati: il loro morale era altissimo da quando lui aveva preso personalmente il comando. Forse anche la presenza del Faraone contribuiva a incoraggiarli. Acclamarono Tanus quando passò tra le loro file, e mi sentii tranquillizzato nel vederli tanto numerosi e decisi. Non riuscivo a immaginare un nemico abbastanza potente da sopraffarci. C'erano dodicimila arcieri con i lucidi elmi di cuoio e le corazze di pelle imbottite, capaci di bloccare una freccia, a meno che venisse tirata da breve distanza. C'erano ottomila lancieri con i lunghi scudi di pelle d'ippopotamo, duri come il bronzo. I diecimila uomini armati di spada, con i berretti di pelle di leopardo, erano muniti anche di fionde che potevano spaccare un cranio a cinquanta passi. Mi sentivo sempre più rassicurato con il passare dei giorni, mentre guardavo Tanus che faceva esercitare i suoi uomini. Tuttavia ero preoccupato perché sapevamo troppo poco degli hyksos e delle loro forze. Feci notare a Tanus che il consiglio di guerra gli aveva vietato di mandare in ricognizione contingenti per via di terra, ma non aveva detto che non poteva usare i vascelli per lo stesso scopo. «Avresti dovuto diventare uno scriba della legge», commentò Tanus con una risata. «Riesci a far ballare le parole come vuoi tu.» Comunque ordinò a Hui di condurre a nord una squadra di navi veloci fino a Minich o fino a quando avesse incontrato i nemici. Era l'Hui che avevamo catturato a Gallala e che era stato uno delle Averle di Basti. Con la protezione di Tanus aveva fatto una rapida carriera, e ora comandava una squadra di navi. Hui aveva l'ordine di non combattere e di tornare a far rapporto entro quattro giorni. Fu puntuale. Aveva raggiunto Minich senza vedere altre navi e senza incontrare resistenza. I villaggi lungo il fiume erano deserti; e, in quanto a Minich, era stata saccheggiata e data alle fiamme. Hui, comunque, aveva catturato alcuni disertori dell'esercito in sfacelo del falso Faraone. Erano le prime persone da noi interrogate che avessero assistito all'invasione degli hyksos: ma nessuno aveva combattuto contro le forze del Re Pastore. Erano tutti fuggiti al suo avvicinarsi, e perciò le loro notizie erano così assurde e confuse da risultare del tutto incredibili. Come potevamo credere all'esistenza d'un esercito che veleggiava nel deserto a bordo di navi veloci come il vento? Secondo gli informatori, le nubi di polvere che aleggiavano sopra la strana flotta erano così alte da oscurarla completamente e da incutere terrore in chi la vedeva avanzare. «Non sono uomini», affermavano i prigionieri. «Sono demoni Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
321
dell'inferno, sospinti dai venti malefici del deserto.» Dopo che li ebbe interrogati meticolosamente ed ebbe constatato che neppure mettendogli braci ardenti sulla testa riusciva a fargli cambiare versione, Tanus ordinò di giustiziarli. Non voleva che quelle dicerie pazzesche circolassero e diffondessero lo scoramento tra i nostri, che solo da poco avevano ritrovato il coraggio. Dopo aver atteso ad Abnub per dieci giorni fummo informati che Nembet era finalmente partito con i rinforzi e che il suo arrivo ad Asyut era previsto entro due settimane. L'effetto dell'annuncio sugli uomini fu prodigioso: li trasformò da passeri in aquile. Tanus distribuì una razione straordinaria di birra e carne per festeggiare la notizia, e i fuochi del bivacco brillarono come stelle sulla piana davanti ad Abnub. L'odore del grasso di montone sfrigolante riempi la notte, e le risa e i canti si spensero solo nelle ultime veglie. Avevo lasciato la mia padrona e suo figlio a bordo della nave, ed ero sceso a terra perché Tanus mi aveva fatto chiamare. Voleva che assistessi al consiglio di guerra con i comandanti dei reggimenti. «Sei sempre stato un pozzo di idee sagge, vecchio briccone. Forse puoi dirci come affondare una flotta di navi che veleggiano sulla terraferma.» La discussione continuò fin dopo la mezzanotte e per una volta non potei dare altro che un contributo molto modesto. Era troppo tardi per tornare alla nave, perciò Tanus mi fece sistemare un pagliericcio nella sua tenda. Mi svegliai prima dell'alba, com'era mia abitudine, ma Tanus s'era già alzato e il campo era in movimento. Mi vergognai della mia indolenza e mi affrettai a uscire per vedere il sole che spuntava sul deserto. Salii sulla collina dietro il campo e guardai dapprima verso il fiume. Il fumo azzurrognolo dei fuochi dilagava e si mescolava alle spire di nebbia. Le lampade a bordo delle navi si specchiavano nelle acque scure. Era ancora troppo buio per poter scorgere il vascello della mia padrona. Mi girai verso levante e vidi la luce fiorire sul deserto con lo splendore madreperlaceo dei gusci d'ostrica. La luce divenne più netta: il deserto era bellissimo, e le collinette e le dune erano sfumate di malva e porpora. Nell'aria limpida gli orizzonti sembravano tanto vicini da poterli toccare allungando una mano. Poi vidi la nube sospesa sull'orizzonte, sotto il fulgore d'acquamarina del cielo. Non era più grande del mio pollice; il mio sguardo la superò, poi vi tornò. Non ero allarmato, all'inizio. Dovetti osservarla per qualche tempo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
322
prima di accorgermi che si muoveva. «Che strano», mormorai. «Forse è l'inizio del khamsin.» Ma non era la stagione, e l'aria non era carica delle energie malefiche che annunciano le tempeste di sabbia. Era un mattino fresco e tranquillo. Mentre riflettevo, la nube lontana si espanse in ampiezza e in altezza. La base della nube era a terra, non sospesa nell'aria: tuttavia era troppo veloce e vasta per avere un'origine terrena. Uno stormo d'uccelli poteva muoversi con tanta rapidità, le locuste potevano levarsi altrettanto fitte nel cielo, ma non si trattava di questo. La nube era d'un giallo ocra, ma in un primo momento non riuscii a credere che fosse polvere. Avevo visto i branchi di orici che galoppavano a centinaia fra le dune nelle migrazioni annuali, ma non avevano mai sollevato nubi come quella. Avrebbe potuto essere il fumo d'un incendio, ma là nel deserto non c'era nulla da bruciare. Doveva essere polvere: tuttavia non riuscivo ancora a crederlo. Ingigantiva rapidamente e si avvicinava mentre io continuavo a osservare sbalordito. All'improvviso vidi i riflessi luminosi alla base della nube, e mi sentii trasportare nella visione dei Labirinti di Ammon-Ra. Era la stessa scena: allora era stata una fantasia, adesso era realtà. Sapevo che i barbagli erano irradiati dalle armature e dalle lame di bronzo levigato. Mi alzai e, dall'alto della collina, gridai nel vento un monito che nessuno udì. Poi sentii le trombe squillare nel campo sotto di me. Le sentinelle appostate sulle alture avevano visto finalmente la nube di polvere che si avvicinava e suonavano l'allarme. Lo squillo delle trombe faceva parte della mia visione: il loro appello assillante mi martellava negli orecchi, minacciava di spaccarmi il cranio, faceva ribollire il sangue e agghiacciava il cuore. Sapevo dalla visione che in quel giorno fatidico sarebbe caduta una dinastia e che le locuste venute dall'est avrebbero divorato la sostanza dell'Egitto. Ero pieno di terrore per la mia padrona e per il bambino che faceva parte della dinastia. Nel campo, gli uomini correvano tumultuosamente a prendere le armi. Le corazze brillavano, le punte delle lance sprizzavano scintille quando le brandivano in alto. Sembravano api uscite da un alveare capovolto che si ammassano e sciamano in disordine. Le grida dei sergenti e i comandi dei capitani erano quasi sommersi dal frastuono dei corni. Vidi il Faraone che veniva portato fuori della sua tenda al centro d'una schiera di armati: questi salirono con lui sulla collina dove il trono del re Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
323
stava fra le rocce che dominavano la pianura e l'ampia curva del fiume. Misero il sovrano sul trono, gli posero nelle mani lo scettro uncinato e il flagello e gli cinsero la fronte con la corona doppia. Il Faraone sembrava una statua marmorea, mentre sotto di lui i reggimenti si disponevano in formazioni da combattimento. Tanus li aveva bene addestrati, e molto presto la confusione iniziale lasciò il posto all'ordine. Scesi correndo la collina e salii sull'altra per stare vicino al re. La reazione delle divisioni di Tanus era così pronta che quando arrivai ai piedi del trono l'esercito stava sulla piana come un serpente acciambellato e pronto a rintuzzare la minaccia della nube ribollente di polvere gialla. Kratas e la sua divisione erano sul fianco sinistro. Riconobbi l'alta figura sul primo pendio della collina. Intorno a lui stavano gli ufficiali, con i pennacchi ondeggianti nella leggera brezza che spirava dal fiume. Tanus e il suo stato maggiore erano proprio sotto di me, abbastanza vicini perché potessi sentire ciò che dicevano. Discutevano l'avanzata del nemico in calmi toni accademici, come se si trattasse di un normale problema d'un corso di addestramento per ufficiali. Tanus aveva disposto le sue forze nelle formazioni classiche. I lancieri costituivano le prime file: tenevano gli scudi bordo contro bordo e le lance piantate a terra. Le punte di bronzo brillavano nella prima luce del sole, e gli uomini avevano un'aria calma e solenne. Dietro di loro stavano gli arcieri, con gli archi pronti; alle spalle di ognuno di questi stava un porta faretra con i fasci di frecce. Durante la battaglia avrebbero provveduto a raccogliere i dardi lanciati dai nemici per ricostituire la scorta. Gli uomini armati di spada stavano di riserva; erano truppe leggere e veloci che potevano intervenire per chiudere una breccia o sfruttare i punti deboli delle formazioni nemiche. I movimenti delle battaglie erano come quelli del gioco del bao. C'erano aperture classiche, con difese prestabilite messe a punto nel corso dei secoli. Le avevo studiate e avevo scritto tre papiri fondamentali sulla tattica militare che erano una lettura d'obbligo alla scuola degli ufficiali a Tebe. Riconsiderai le disposizioni decise da Tanus e riconobbi che erano impeccabili. La mia fiducia crebbe. Com'era possibile che un nemico avesse la meglio contro quell'esercito di veterani esperti e ben addestrati e contro il loro giovane generale che non aveva mai perso una battaglia? Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
324
Poi guardai di nuovo la minacciosa nube gialla e la mia sicurezza vacillò. Era qualcosa che esorbitava dalla tradizione militare, dall'esperienza di ogni generale della nostra storia. Erano davvero mortali, coloro che avevamo di fronte? Oppure, come insinuavano le dicerie, erano demoni? Quando guardai la nube turbinante, ormai era così vicina che riuscii a scorgere sagome scure nella polvere giallastra. Rabbrividii per l'orrore quando riconobbi le forme simili a navi descritte dai prigionieri: tuttavia erano più piccole e veloci di qualunque imbarcazione che mai fosse stata messa in acqua, più veloci di qualunque essere che potesse muoversi sulla superficie della terra. Era difficile seguire con l'occhio una di quelle sagome, che apparivano svelte ed eteree come falene nella luce di una lanterna. Si muovevano e sparivano nelle nubi mobili, e quando riapparivano era impossibile dire se erano le stesse o altre. Non c'era modo di contarle e neppure di indovinare che cosa seguisse i primi ranghi dell'avanzata. Dietro di loro la polvere si estendeva fino all'orizzonte da cui erano venuti. Sebbene i nostri uomini restassero impassibili sotto il sole, intuivo che erano in preda allo stupore e alla trepidazione. Gli ufficiali di Tanus erano ammutoliti e guardavano i nemici che proseguivano lo spiegamento davanti a noi. Mi accorsi che la nube di polvere non avanzava più. Aleggiava nel cielo. A poco a poco incominciò a ricadere, e io riuscii a distinguere i veicoli immobili all'avanguardia. Per quanto fossi confuso e allarmato, mi rendevo conto che dovevano essere mille o più. Più tardi avremmo scoperto che quella pausa faceva sempre parte del piano d'attacco del Re Pastore. Allora non lo sapevamo: ma durante quell'intervallo si raggruppavano, si dissetavano e si preparavano per l'avanzata finale. Sulle nostre file era disceso un silenzio terribile, così profondo che il fruscio della brezza risuonava fra le rocce e gli uadi della collina su cui stavamo. L'unico movimento era l'agitarsi dei vessilli da combattimento alla testa di ogni divisione. Vedevo lo stendardo del Coccodrillo Azzurro che ondeggiava al centro del nostro schieramento e mi sentii più rassicurato. A poco a poco le nubi di polvere ricaddero e ai nostri occhi apparvero nitide le file delle navi degli hyksos. Erano ancora troppo lontane perché potessimo distinguere i particolari, ma vedevo che quelle alla retroguardia erano più grandi di quelle delle prime file. Mi sembrava che fossero coperte Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
325
da vele di tessuto o di pelle, e vedevo che da queste ultime gli uomini scaricavano grosse giare e le portavano avanti. Mi chiedevo quali uomini potevano consumare simili quantità d'acqua. Tutto ciò che facevano gli stranieri era un enigma privo di senso. Il silenzio e l'attesa si protrassero fino a quando ogni muscolo e ogni nervo del mio corpo urlarono per la tensione. Poi il movimento riprese. Gli strani veicoli delle prime file si avviarono verso di noi. Dalle nostre schiere si levarono mormorii di stupore quando vedemmo con quanta rapidità si spostavano. Dopo il breve periodo di riposo sembravano aver raddoppiato di velocità. La distanza si ridusse: si levò di nuovo il grido dei nostri quando ci rendemmo conto che ognuno dei veicoli era trainato da un paio di animali straordinari. Erano alti come gli orici selvatici, e avevano la stessa criniera rigida sui colli arcuati. Non avevano le corna, tuttavia, e le loro teste erano modellate con maggiore eleganza. Gli occhi erano grandi, le nari dilatate. Le zampe erano lunghe e dotate di zoccoli. Si muovevano con una grazia straordinaria e sembravano appena sfiorare la superficie del deserto. Persino adesso, dopo tanti anni, riesco a riscoprire l'emozione del giorno in cui vidi per la prima volta un cavallo. Persino la bellezza dei ghepardi da caccia impallidiva al confronto di quelle bestie meravigliose. Ma nello stesso tempo ispiravano paura a tutti noi. Sentii uno degli ufficiali che mi stavano vicini prorompere in un grido. «Senza dubbio quei mostri uccidono e divorano gli uomini. Quale terribile abominio ci ha colpiti?» Un fremito d'orrore scosse le nostre formazioni: ci aspettavamo che le bestie si avventassero come leoni famelici per divorarci. Ma il primo veicolo deviò e corse parallelo alla nostra prima linea. Si muoveva su dischi rotanti, e io lo guardavo sbalordito. Nei primi istanti fui così sorpreso che la mia mente rifiutò di assimilare ciò che vedeva. Quella prima visione di un carro da guerra, se mai, mi meravigliava quasi quanto i cavalli che lo trascinavano. C'era una lunga asta fra i due animali, collegata al centro di quello che seppi in seguito chiamarsi asse. L'alto parapetto era rivestito di foglie d'oro; i pannelli laterali, invece, erano bassi per permettere all'arciere di scagliare frecce ai due lati. Notai tutto questo con un'unica occhiata; poi concentrai l'attenzione sui dischi rotanti che permettevano al carro di volare veloce sul terreno accidentato. Da mille anni noi egizi eravamo il popolo più colto e civile Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
326
della terra, e avevamo superato di molto tutte le altre nazioni in fatto di religione e di scienze. Eppure, nonostante il nostro sapere, non avevamo mai concepito nulla di simile. Le nostre slitte strisciavano sul terreno muovendosi su pattini di legno che disperdevano l'energia dei buoi; oppure rimorchiavamo grandi blocchi di pietra sui rulli di legno. Ma non eravamo andati oltre. Guardai la prima ruota che avessi mai visto, e venni fulmineamente colpito dalla sua semplicità e dalla sua bellezza. La compresi subito e mi rimproverai perché non ero stato io a inventarla. Era una creazione geniale e mi rendevo conto che stavamo per essere annientati da quel prodigio, come doveva essere stato annientato l'Usurpatore Rosso del Basso Egitto. Il carro dorato corse lungo la prima linea appena al di fuori della portata dei nostri archi. Quando arrivò di fronte a noi distolsi lo sguardo dalle ruote girevoli e dagli esseri terrificanti che le trainavano, e studiai i due uomini a bordo del carro. Uno era chiaramente l'auriga. Stava proteso in avanti e sembrava controllare gli animali galoppanti per mezzo di lunghe corde di pelle intrecciate e legate alle loro teste. L'altro era più alto; stava sulla pedana dietro di lui, ed era un re. Il suo portamento imperiale non lasciava dubbi. Notai subito che era asiatico, con la pelle ambrata e il naso aquilino. La barba era nera e folta, squadrata, arricciata e intrecciata con nastri colorati. La corazza era uno scintillio di squame bronzee, la corona era alta e massiccia, ornata dall'immagine di un dio sconosciuto e tempestata di pietre preziose. Le armi erano appese al pannello laterale del carro, a portata di mano. La spada a lama larga, chiusa in un fodero di cuoio e d'oro, aveva l'impugnatura d'avorio e d'argento. C'erano due faretre di cuoio piene di frecce, con asticelle munite di penne colorate. Più tardi avrei scoperto che gli invasori amavano le tinte sgargianti. L'arco del re aveva una forma strana che non avevo mai visto. Non era l'arco semplice di noi egizi: le estremità infatti erano incurvate. Mentre il carro correva parallelo alla nostra prima linea, il re si sporse e piantò in terra una lancia che terminava in un gagliardetto cremisi. Gli uomini intorno a me borbottavano, turbati. «Che cosa fa? Che scopo ha la lancia? È un simbolo religioso o una sfida?» Osservai il piccolo vessillo sventolante; ma ero frastornato da tutto ciò che avevo visto e non ne immaginavo il significato. Il carro prosegui la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
327
corsa, sempre tenendosi fuori tiro, e l'asiatico coronato piantò un'altra lancia. Poi girò il carro e tornò indietro. Aveva visto il Faraone sui trono, e venne a fermarsi davanti a lui. I cavalli erano coperti dal sudore che avvolgeva i loro fianchi come una trina. Gli occhi roteavano minacciosi, le narici dilatate mostravano la mucosa rosata. Scrollavano la testa e le criniere ondeggiavano come i capelli di una bella donna nella luce del sole. L'hyksos salutò con disprezzo il Faraone Marnose, Figlio di Ra e Divino Sovrano dei Due Regni. Agitò ironicamente la mano e rise. Era una sfida inequivocabile, come se avesse parlato nella nostra lingua. La risata ironica giunse fino a noi, e i nostri soldati ringhiarono di collera... un suono simile a un lontano tuono estivo. Un movimento sotto di me attirò la mia attenzione. Vidi Tanus avanzare d'un passo e alzare il grande arco Lanata. Scagliò una freccia che volò in un'ampia traiettoria arcuata contro il cielo azzurro lattiginoso. L'hyksos era fuori della portata di ogni altro arco, ma non di Lanata. La freccia raggiunse lo zenith, quindi ricadde come un falco in picchiata verso il petto del re asiatico. La moltitudine proruppe in esclamazioni di stupore per la potenza e la precisione del tiro. Volò per trecento passi e all'ultimo momento l'hyksos alzò lo scudo di bronzo e la freccia si piantò al centro. La manovra venne compiuta con tanta sprezzante disinvoltura da lasciarci sbalorditi e confusi. Poi l'hyksos prese il suo strano arco dalla rastrelliera. Con un unico movimento incoccò una freccia e la scagliò. Essa sali ancora più in alto della freccia di Tanus, e gli passò sopra la testa. Frusciando come l'ala di un'oca piombò verso di me. Non riuscivo a muovermi: avrebbe potuto trafiggermi senza che tentassi di evitarla; ma passò sopra la mia testa alla distanza d'un braccio e andò a colpire la base del trono del Faraone. Si piantò nel legno di cedro e rimase a vibrare come un insulto. Il re hyksos rise di nuovo e il carro si allontanò velocemente per permettere all'occupante di raggiungere il suo esercito. In quel momento compresi che eravamo spacciati. Come potevamo opporci ai carri e agli archi ricurvi che superavano facilmente la portata del miglior arciere del nostro esercito? Non ero il solo a prevedere il peggio. Mentre gli squadroni dei carri iniziavano le ultime evoluzioni sulla piana e si lanciavano a ondate verso di noi, dalle file egizie si levò un gemito di disperazione. Adesso capivo come mai le forze del Pretendente Rosso erano state Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
328
disperse senza resistenza e lo stesso Usurpatore era morto senza avere il tempo di sguainare la spada. I carri formarono colonne, in fila per quattro, e continuarono l'avanzata. Solo in quell'attimo la mia mente si schiari, e cominciai a scendere di corsa il pendio. Raggiunsi ansimando Tanus e gli gridai: «Le lance con i gagliardetti indicano i punti deboli della nostra linea. Gli attacchi principali avverranno proprio là». Chissà come l'hyksos era venuto a conoscenza del nostro ordine di battaglia e aveva identificato le lacune nella nostra formazione. Il re aveva piantato i vessilli fra le nostre divisioni. Già in quel momento pensai a una spia o a un traditore ma, data la situazione, lo dimenticai subito. Tanus reagì con prontezza al mio avvertimento e gridò alle nostre vedette di correre a togliere le lance. Avrei preferito che le facesse spostare, in modo che l'affondo del nemico andasse a spezzarsi contro i nostri capisaldi: ma non c'era tempo. Prima che le vedette potessero raggiungere le lance e abbatterle, i primi carri volanti piombarono su di loro. Alcuni furono trafitti dalle frecce. Gli arcieri nemici avevano una mira straordinariamente precisa. I superstiti fuggirono, cercando di raggiungere la sicurezza illusoria delle nostre linee. I carri li raggiunsero senza fatica. I guidatori controllavano le pariglie dei cavalli con tocchi delicati. Non travolgevano direttamente le vittime: deviavano per superarle a una distanza inferiore a un cubito. Soltanto allora notai le lame curve che sporgevano dai mozzi delle ruote come le zanne di coccodrilli mostruosi. Vidi uno dei nostri uomini falciato in pieno dalle lame rotanti: sembrò dissolversi in una nube di sangue. Un braccio mozzo volò nell'aria, e i frammenti sanguinanti del torso mutilato caddero sul terreno roccioso mentre il veicolo proseguiva la sua corsa. La schiera dei carri puntava ancora verso il varco nella nostra prima linea e, anche se sentivo Kratas che urlava ordini per rafforzarla, ormai era troppo tardi. La colonna dei carri piombò sulla muraglia difensiva di scudi e lance e la sfondò come se fosse inconsistente quanto la nebbia del fiume. In un istante la nostra formazione, che aveva resistito agli assalti dei più valenti guerrieri siriani e hurriti, andò in frantumi. I cavalli calpestavano sotto gli zoccoli i nostri uomini più forti e robusti. Le lame rotanti tranciavano le corazze, recidendo teste e arti come se fossero viticci. Dai carri piovevano frecce e giavellotti sulle nostre file Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
329
serrate. Poi avanzarono nella breccia e passarono attraverso il nostro schieramento, si allargarono a ventaglio dietro di noi avventandosi quindi al galoppo lungo le nostre retroguardie e continuando a grandinare frecce e lance. Quando i nostri si girarono per fronteggiare l'attacco da tergo, un'altra schiera di carri si avventò su di loro dalla direzione della pianura. Il primo assalto spezzò in due il nostro esercito, e divise Tanus da Kratas sull'ala destra. Poi gli altri carri sminuzzarono le due metà delle nostre forze in gruppi più piccoli e isolati. Non eravamo più una massa compatta. Piccole schiere di cinquanta o cento uomini, schiena contro schiena, si battevano con il coraggio della disperazione. I nemici continuavano ad arrivare attraverso la pianura, volando su ali di polvere. I leggeri carri a due ruote erano seguiti da quelli a quattro ruote, ognuno dei quali portava dieci uomini e aveva i fianchi protetti da velli di pecora. Le nostre frecce si piantavano nella lana folta, senza fare danni, e le nostre spade non potevano raggiungere gli uomini a bordo che scagliavano le frecce dall'alto e disperdevano le masse confuse dei nostri guerrieri in manipoli sparsi di superstiti atterriti. Quando uno dei nostri capitani radunò alcuni uomini per un contrattacco, i carri da guerra si allontanarono e si fermarono fuori tiro. I terribili archi ricurvi stroncarono le cariche dei coraggiosi: e non appena ci videro vacillare piombarono di nuovo contro di noi. Fui nettamente consapevole dell'attimo in cui lo scontro smise d'essere una battaglia e divenne un massacro. I superstiti della divisione di Kratas, sul nostro fianco destro, avevano ormai scagliato le ultime frecce. I nemici avevano riconosciuto i capitani dagli elmi piumati e li andavano abbattendo. Gli uomini, rimasti disarmati e senza capi, si diedero alla fuga. Gettarono le armi e corsero verso il fiume. Ma non era possibile distanziare un carro degli hyksos. Gli uomini in fuga piombarono sulla divisione di Tanus, ai piedi della collinetta, e con i loro movimenti inconsulti dettati dal panico intralciarono e soffocarono quel minimo di resistenza che Tanus riusciva ancora a offrire. Il terrore era contagioso: gli uomini al centro della linea cedettero e tentarono la fuga, ma i carri nemici li accerchiarono come lupi che attorniano un gregge. In tutto quel disordine sanguinoso e nel tumulto della disfatta, soltanto gli Azzurri mantenevano saldamente la loro posizione intorno a Tanus e allo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
330
stendardo del Coccodrillo. Erano un'isola minuscola nel torrente della devastazione: neppure i carri riuscivano a disperderli, perché con il suo istinto geniale Tanus aveva richiamato i suoi fidi e li aveva fatti schierare nel tratto di rocce e di gole dove i nemici non potevano spingersi. Gli Azzurri formavano una muraglia, un baluardo intorno al trono del Faraone. Ero rimasto al fianco del sovrano e quindi ero al centro di quella cerchia di eroi. Stentavo a reggermi in piedi perché tutto intorno gli uomini si battevano, si spostavano avanti e indietro secondo l'andamento delia battaglia, come alghe aggrappate a uno scoglio battuto dalla risacca. Vidi Kratas aprirsi la strada combattendo per raggiungerci. L'elmo piumato attirava le frecce degli hyksos che volavano intorno alla sua testa, fitte come locuste. Tuttavia riuscì a passare indenne, e la nostra cerchia difensiva si apri davanti a lui. Mi vide e rise. «Per lo sterco fumante di Seth, Taita, è più divertente che costruire palazzi per i principini, no?» Kratas non aveva mai avuto uno spirito raffinato, e comunque ero troppo indaffarato a restare in piedi per degnarmi di rispondere. S'incontrò con Tanus accanto al trono e sorrise come un idiota. «Non avrei voluto perdere questa occasione per tutto il tesoro reale. Voglio una delle slitte degli hyksos.» Kratas non era neppure un tecnico: credeva ancora che i carri fossero una specie di slitte. La sua immaginazione non andava oltre. Tanus si toccò l'elmo con la spada in segno di saluto; anche se aveva un tono leggero, la sua espressione era tetra. Era un generale che aveva appena perduto una battaglia, un esercito e un impero. «Per oggi il nostro lavoro qui è terminato», disse a Kratas. «Vediamo se i mostri degli hyksos sanno nuotare come sanno correre. Torniamo al fiume!» A spalla a spalla, si fecero largo tra le file dei soldati in direzione del trono. Potevo spaziare con lo sguardo al di sopra delle loro teste, oltre la fascia esterna del nostro piccolo cerchio difensivo, oltre la pianura dove il nostro esercito in rotta fuggiva verso il Nilo, inseguito dagli squadroni di carri. Vidi il carro dorato del re hyksos staccarsi dalla formazione e tornare verso di noi, travolgendo i nostri uomini e falciandoli con le lame fissate alle ruote. Il guidatore fece arrestare bruscamente i cavalli prima di Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
331
raggiungere la barriera di rocce che ci proteggeva. L'hyksos, in equilibrio sulla pedana, tese l'arco ricurvo e mirò a me. O almeno così mi parve. Ma già nell'istante in cui mi chinavo compresi che non ero il bersaglio. La freccia passò sibilando sopra la mia testa, e mi voltai per seguirne il volo. Colpi al petto il Faraone e affondò per metà della lunghezza. Il Faraone gettò un grido rauco e barcollò sul trono. Non perdeva sangue, perché l'asta della freccia aveva tappato la ferita, ma le penne spiccavano, rosse e verdi. Scivolò di traverso e in avanti, e io spalancai le braccia per sostenerlo. Il peso mi fece cadere in ginocchio. Non vidi il carro del re hyksos che si allontanava, ma sentii la risata beffarda dell'uomo, mentre si lanciava attraverso la piana per dirigere la carneficina. Tanus si chinò verso di me che sostenevo il Faraone. «È ferito gravemente?» chiese. La risposta mi sali alle labbra. «È spacciato.» L'angolo d'entrata e la profondità della ferita lasciavano prevedere un unico, possibile esito. Ma mi trattenni in tempo prima di formularla a bassa voce. Sapevo che i nostri uomini si sarebbero perduti d'animo se il Faraone fosse morto. Perciò risposi: «È grave. Ma se lo portiamo a bordo della nave reale, potrebbe guarire», «Portatemi uno scudo!» ruggì Tanus. Vi adagiammo con delicatezza il Faraone. Non perdeva sangue, ma sapevo che il suo torace si andava riempiendo come un otre di vino. Tastai per cercare la punta della freccia, ma non era fuoriuscita dalla schiena. Era rimasta all'interno della gabbia toracica. Spezzai l'asta che sporgeva, e coprii il re con lo scialle di lino. «Taita», mormorò. «Rivedrò mio figlio?» «Si, Grande Egitto, te lo giuro.» «E la mia dinastia sopravvivrà?» «Come hanno predetto i Labirinti di Ammon-Ra.» «Voglio dieci uomini robusti!» gridò Tanus. Quelli accorsero intorno alla barella improvvisata e la sollevarono. «Formate la testuggine! A me, Azzurri!» Scudo contro scudo, gli Azzurri formarono una muraglia intorno al Faraone. Tanus corse al simbolo del Coccodrillo che sventolava ancora in mezzo a noi e lo strappò dall'asta. Si avvolse la bandiera intorno alla vita e l'annodò. «Se gli hyksos vogliono questo straccio, dovranno venire a prenderlo», gridò. Gli uomini acclamarono la sua manifestazione di spavalderia. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
332
«Via, tutti insieme! Torniamo alle navi! Presto!» Nell'attimo in cui lasciammo il riparo della piccola ridotta fra le rocce, i carri piombarono su di noi. «Non mirate agli uomini!» Tanus aveva trovato la soluzione. «Uccidete le bestie!» Mentre il primo carro si avvicinava, Tanus fletté Lanata. I suoi arcieri lo imitarono. Metà delie frecce mancò il bersaglio, perché correvamo su un terreno accidentato e gli arcieri ansimavano. Altri dardi colpirono la struttura del primo carro, e si spezzarono o si piantarono nel legno: altri rimbalzarono sulle piastre bronzee che proteggevano il petto dei cavalli. Una sola freccia arrivò a segno. Scattò dal grande Lanata con il vento nelle penne e colpi il cavallo alla fronte. L'animale stramazzò, aggrovigliando le redini, e trascinò con sé il compagno in una nube di polvere e di zoccoli scalcianti. I due uomini furono sbalzati via, il carro si capovolse, e gli altri veicoli deviarono per evitarli. Dalle nostre file si levarono grida di giubilo, e accelerammo l'andatura. Era il primo successo in quella giornata terribile, e diede coraggio alla piccola schiera di Azzurri. «Azzurri, a me!» ruggì Tanus. E poi, incredibilmente, cominciò a cantare. Gli uomini che gli stavano attorno intonarono il ritornello dell'inno del reggimento. Le loro voci erano stonate e alterate dalla sete e dalla fatica, ma era un canto che innalzava il cuore e scaldava il sangue. Rovesciai all'indietro la testa e cantai con loro. La mia voce si levò al cielo, chiara e dolce. «Horus ti benedica, mio piccolo canarino», rise Tanus, e continuammo la corsa verso il fiume. I carri ci giravano intorno: per la prima volta le loro manovre dimostravano una certa cautela. Avevano visto che cosa era accaduto ai loro compagni. Poi tre carri si portarono davanti alla nostra testuggine e caricarono in formazione ad angolo acuto. «Mirate alla testa degli animali!» gridò Tanus, e diede l'esempio con una freccia che fece crollare sulle ginocchia un altro cavallo. Il carro si rovesciò e si schiantò sul terreno sassoso. Gli altri due veicoli deviarono. Mentre la nostra formazione passava accanto al carro sfasciato, alcuni dei nostri uomini corsero a trafiggere i cavalli imprigionati. Provavano già per quegli animali un odio e una paura quasi superstiziosi che si riflettevano nella loro crudeltà vendicativa. Uccisero anche gli uomini caduti, ma non Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
333
con lo stesso rancore. Ora che due dei loro carri erano stati distrutti, gli hyksos sembravano riluttanti ad attaccare di nuovo la nostra formazione. Ci stavamo avvicinando in fretta ai campi fangosi e ai canali d'irrigazione lungo le rive del Nilo. Credo che in quel momento fossi l'unico a capire che i veicoli nemici non potevano seguirci nella palude. Sebbene corressi a fianco della barella del re, riuscivo a scorgere attraverso i varchi nelle nostre file gli ultimi atti della battaglia che si svolgeva tutto intorno. Il nostro era l'unico distaccamento superstite che mostrasse ancora una certa coesione. Il resto dell'esercito egizio era una massa disorganizzata e atterrita che fuggiva sulla piana. Quasi tutti avevano gettato le armi. Quando uno dei carri si avvicinava, si gettavano in ginocchio e alzavano le mani in atto di supplica, ma gli hyksos non avevano pietà. Non sprecavano neppure le frecce: si avventavano per farli a pezzi con le ruote falcate, o si sporgevano per trafiggerli con le lance o per spaccargli il cranio con le mazze di pietra. Si trascinavano dietro la vittima ancora infilzata dalle lance fino a che la punta si disincagliava: solo allora lasciavano il cadavere abbandonato nella polvere. Non avevo mai visto una simile strage. Non avevo mai letto nulla di simile nelle cronache delle antiche battaglie. Gli hyksos massacrarono i nostri a migliaia, anzi a decine di migliaia. La piana di Abnub sembrava un campo di durra dopo il passaggio dei mietitori e delle loro falci. I nostri morti erano ammucchiati come covoni. Per mille anni le nostre armate erano state invincibili, le nostre spade avevano trionfato in tutto il mondo. Sul campo di Abnub era finita un'epoca. In mezzo a quella carneficina gli Azzurri cantavano, e io cantavo con loro, anche se avevo gli occhi che bruciavano di lacrime di vergogna. Il primo canale era ormai vicino quando un'altra formazione di carri ci aggirò sul fianco e si avventò in fila per tre. Le nostre frecce incominciarono a piovere su di essa, ma la formazione continuò ad avanzare con i cavalli che sbuffavano e i guidatori che li incoraggiavano a gran voce. Vidi Tanus tirare due volte; ma le sue frecce furono deviate o non colpirono nel segno a causa dei movimenti e dei sobbalzi dei carri. La formazione piombò su di noi e sfondò la testuggine di scudi. Due degli uomini che portavano la barella del Faraone vennero dilaniati dalle lame fissate alle ruote, e il re cadde a terra. Mi gettai in ginocchio e lo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
334
coprii con il mio corpo per proteggerlo dalle lance degli hyksos, ma i carri non indugiarono: non volevano farsi circondare. Proseguirono la corsa prima che i nostri potessero usare le spade. Poi si girarono, si raggrupparono e ritornarono all'assalto. Tanus mi rimise in piedi. «Se ti fai uccidere, chi resterà per comporre un'ode eroica in nostro nome?» mi rimproverò, poi gridò per chiamare altri uomini. Sollevarono la barella del re e ripresero la corsa verso il canale più vicino. Sentii stridere le ruote dei carri che venivano verso di noi, ma non mi voltai. In circostanze normali sono un buon corridore: ma quella volta distanziai i portatori del re come se fossero incatenati a terra. Cercai di scavalcare il fossato, ma era troppo largo per saltarlo con un balzo, e atterrai nel fango nero. Il carro che m'inseguiva urtò l'argine. Una ruota si schiantò, il veicolo precipitò nel canale e per poco non mi schiacciò. Riuscii a scostarmi appena in tempo. Gli Azzurri finirono rapidamente gli uomini e i cavalli imprigionati nel limo, ma io approfittai di quel momento per tornare verso il carro. La ruota sospesa in aria stava ancora girando. La toccai e lasciai che continuasse a muoversi sotto le mie dita. Mi trattenni solo il tempo necessario per trarre tre respiri profondi: ma imparai sulla costruzione delle ruote tutto ciò che sapevano gli hyksos, ed ebbi le prime idee delle migliorie che avrei potuto introdurre. «Per le scorregge melodiose di Seth, Taita! Ci farai ammazzare tutti se ti metti a fantasticare», mi gridò Kratas. Mi scossi, e afferrai uno degli archi ricurvi dalla rastrelliera del carro, e una freccia dalla faretra: volevo esaminarli con calma. Poi attraversai a guado il fosso tenendoli in mano mentre lo squadrone dei carri tornava fragorosamente indietro e correva parallelo al canale. Gli hyksos ci bersagliavano con le frecce. Gli uomini che trasportavano il re mi precedevano di cento passi e io ero l'ultimo del drappello. Dietro di me i nemici urlavano di rabbia perché non potevano seguirci, e facevano piovere nugoli di frecce tutto intorno. Una mi colpi alla spalla, ma la punta non penetrò, e schizzò via lasciando soltanto un livido violaceo che scoprii molto più tardi. Sebbene mi fossi mosso in ritardo, raggiunsi gli uomini con la barella prima che arrivassimo sulla riva del Nilo. La sponda del fiume era affollata di superstiti della battaglia. Quasi tutti erano disarmati, e pochissimi non Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
335
erano feriti. Erano animati da un unico desiderio: tornare al più presto alle navi che li avevano portati da Tebe. Tanus mi chiamò mentre gli uomini con la barella si avvicinavano. «Ti affido il Faraone, Taita. Portalo a bordo della nave reale e fai il possibile per salvarlo.» «Tu quando verrai?» gli chiesi. «Ho il dovere di restare qui con i miei uomini. Devo salvarne il più possibile e farli imbarcare.» Mi voltò le spalle e si allontanò; cominciò a scegliere i capitani e i comandanti in quell'orda sconfitta e a gridare gli ordini. Tornai dal re e m'inginocchiai accanto a lui. Era ancora vivo. Lo esaminai rapidamente e mi accorsi che vacillava sull'orlo dell'incoscienza. La pelle era fredda e viscida come quella di un rettile, il respiro si sentiva appena. C'era solo un filo di sangue intorno all'asta della freccia: ma quando gli appoggiai l'orecchio al petto sentii il sangue che gli gorgogliava nei polmoni. Un sottile rivolo rosso gli colava dalla bocca al mento. Sapevo che se volevo tentare di salvarlo dovevo agire subito. Gridai per chiamare una barca che lo trasportasse alla nave reale. I barellieri lo caricarono sull'imbarcazione; sedetti accanto a lui e ci dirigemmo verso la grande nave reale, ancorata al centro del fiume. Il seguito del re accorse a guardarci. C'erano numerose dame reali e tutti i cortigiani e i sacerdoti che non avevano partecipato al combattimento. Quando ci avvicinammo riconobbi in mezzo a loro la mia padrona. Era pallida e ansiosa e teneva per mano il figlioletto. Quando i passeggeri della nave videro il re disteso sulla barella e con il viso macchiato di sangue, proruppero in grida di allarme e di angoscia. Le donne gemettero e gli uomini ulularono come cani disperati. La mia padrona era la più vicina fra tutte le donne quando il re fu issato a bordo e la barella fu posata sul ponte. Era la regina principale e aveva il dovere di assisterlo per prima. Le altre la lasciarono passare; s'inginocchiò e gli pulì il viso dal sangue e dal fango. Il re la riconobbe, perché sentii che sussurrava il suo nome e chiedeva del figlio. Lostris gli accostò il principino: con un lieve sorriso, il sovrano tentò di sollevare la mano per toccarlo, ma le forze gli mancarono e il braccio ricadde lungo il fianco. Ordinai all'equipaggio di portare il Faraone nel suo alloggio. La mia padrona mi venne al fianco e bisbigliò, affannata: «Dov'è Tanus? È salvo? Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
336
Oh, Taita, dimmi che non è stato ucciso dai nemici». «È salvo. Nulla può fargli male. Ti ho rivelato la visione dei Labirinti. Tutto era previsto. Ma ora devo andare dal re e avrò bisogno del tuo aiuto. Lascia Memnone con le governanti e vieni con me.» Ero ancora incrostato di fango e lo era anche il Faraone, che era caduto nel canale come me. Chiesi alla regina Lostris e ad altre due dame reali di spogliarlo, lavarlo e adagiarlo su lenzuola di lino candido mentre risalivo sul ponte per pulirmi con l'acqua del fiume che i marinai attingevano con i secchi. Non opero mai nella sporcizia perché ho scoperto che, per qualche ragione sconosciuta, influisce sul paziente in modo negativo e favorisce l'accumularsi degli umori morbosi. Intanto scrutavo la riva orientale dove il nostro esercito era ammassato dietro la protezione offerta dai canali e dalla palude. Quella marmaglia era stata un tempo un esercito potente, e mi sentivo soffocare per la vergogna e la paura. Poi vidi Tanus che si aggirava fra loro; al suo passaggio gli uomini si alzavano dal limo e tornavano ad assumere una parvenza di disciplina militare. A un certo momento il vento mi portò addirittura un suono di acclamazioni, per la verità piuttosto fiacche. Se il nemico avesse mandato la fanteria attraverso gli acquitrini, il massacro e la rotta sarebbero stati completi, e neppure uno dei nostri sarebbe sopravvissuto, perché perfino Tanus avrebbe potuto opporre, al massimo, una debole resistenza. Tuttavia, per quanto scrutassi ansiosamente a est, non scorgevo traccia degli scudi allineati dei fanti o dello scintillio delle punte di lancia. Sulla piana di Abnub incombeva ancora la terribile nube di polvere, perciò i carri dovevano essere in attività: ma se la fanteria nemica non gli fosse piombata addosso, Tanus avrebbe potuto strappare qualche modesto risultato alla giornata tremenda. Era una lezione che avrei ricordato e che in futuro ci sarebbe stata utile. I carri possono vincere le battaglie, ma solo i fanti possono consolidare la vittoria. Lo scontro sulla riva del fiume era ormai nelle mani di Tanus, mentre io avevo da combattere un'altra battaglia con la morte nella cabina della nave reale. «Non abbiamo perduto tutte le speranze», mormorai alla mia padrona quando tornai a fianco del re. «Tanus sta radunando le truppe, e se c'è al mondo qualcuno capace di salvare l'Egitto dagli hyk-sos, è lui.» Mi rivolsi al re e per il momento dimenticai tutto, tranne il mio paziente. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
337
Come mi accade spesso, mormorai a voce udibile i miei pensieri mentre esaminavo la ferita. Era trascorsa meno di un'ora da quando la freccia era arrivata a segno, ma la carne intorno all'asta spezzata era gonfia e violacea. «È necessario estrarre la freccia. Se lascio la punta dov'è, il re morirà prima dell'alba di domani.» Credevo che il Faraone non mi udisse, ma mentre parlavo apri gli occhi e mi fissò. «C'è qualche possibilità che io viva?» chiese. «C'è sempre una possibilità», risposi con falsa disinvoltura. La sentivo nella mia voce, e la captò anche il re. «Grazie, Taita. So che farai tutto il possibile, e ti assolvo fin d'ora da ogni responsabilità se dovessi fallire.» Era molto generoso da parte sua perché molti medici prima di me erano stati strangolati per non essere riusciti a salvare la vita a un sovrano. «La punta della freccia è penetrata profondamente. Soffrirai molto, ma ti darò la polvere dello shepenn rosso, il fiore del sonno, che attenuerà il dolore.» «Dov'è la mia consorte principale, la regina Lostris?» chiese il re. La mia padrona rispose prontamente. «Eccomi, mio signore.» «C'è qualcosa che vorrei dire. Convoca tutti i miei ministri e i miei scribi, perché attestino e documentino la mia volontà.» Scribi e ministri si affollarono nella cabina soffocante e attesero in silenzio. Il Faraone tese il braccio alla mia padrona. «Prendimi la mano e ascolta», ordinò. Lostris si lasciò cadere in ginocchio e obbedì. Il re continuò a sussurrare: «Se dovessi morire, la regina Lostris sarà reggente per mio figlio. Ho avuto modo di conoscerla, ed è una donna dotata di grande forza d'animo e di buon senso. Se non lo fosse, non le affiderei questo compito». «Ti ringrazio per la tua fiducia, Grande Egitto», mormorò la regina. Il Faraone si rivolse direttamente a lei, anche se tutti i presenti potevano udire le sue parole. «Circondati di uomini saggi e onesti, istruisci mio figlio in tutte le virtù della regalità di cui abbiamo discusso. Sai che cosa penso in proposito.» «Sarai obbedito, maestà.» «Quando sarà cresciuto abbastanza per assumere il flagello e lo scettro uncinato, non tentare di impedirglielo. È il mio discendente, il continuatore della mia dinastia.» «Farò volentieri ciò che comandi, perché non è soltanto il figlio di suo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
338
padre ma anche mio figlio.» «Finché governerai, fallo con saggezza e abbi cura del mio popolo. Molti cercheranno di strapparti gli emblemi della regalità: non soltanto questi nuovi e crudeli nemici, gli hyksos, ma altri che stanno vicini al tuo trono. Dovrai opporti a tutti. Conserva intatta per mio figlio la corona doppia.» «Come tu desideri, divino Faraone.» «C'è un'ultima missione che ti affido. La mia tomba e il mio tempio sono incompiuti, e ora sono minacciati come tutto il mio regno dalla terribile sconfitta che abbiamo subito oggi. Se i miei generali non riusciranno a fermarli, gli hyksos arriveranno fino a Tebe.» «Preghiamo gli dei perché questo non avvenga mai», mormorò la mia padrona. «Ti ingiungo di provvedere a che io sia imbalsamato e sepolto con tutto il mio tesoro, secondo il protocollo più rigoroso stabilito dal Libro dei Morti.» La mia padrona tacque. Credo si rendesse conto della onerosità dell'incarico datole dal Faraone. Questi le strinse con forza la mano sino a farla trasalire. «Giuramelo sulla tua vita e sulla speranza dell'immortalità. Giuralo davanti ai miei ministri e al seguito reale. Giuralo nel nome di Hapi, la dea tua protettrice, e nel nome della trinità benedetta, Horus, Iside e Osiride.» La regina mi guardò con un'espressione supplichevole negli occhi. Sapevo che, se avesse promesso, avrebbe mantenuto la parola a qualunque costo. In questo somigliava al suo amante: lei e Tanus erano vincolati dallo stesso codice d'onore. E sapevo anche che quanti le stavano vicino avrebbero dovuto pagare lo stesso prezzo. Un giuramento fatto al re poteva un giorno ricadere sulle spalle di tutti, inclusi il principe Memnone e lo schiavo Taita. Eppure Lostris non poteva assolutamente respingere la richiesta del re che giaceva sul letto di morte. Le rivolsi un cenno quasi impercettibile. Più tardi avrei esaminato le sottigliezze del giuramento e, come uno scriba della legge, sarei riuscito ad avvicinarlo a un'interpretazione ragionevole. «Lo giuro su Hapi e su tutti gli dei», disse la regina Lostris con voce bassa ma chiara. Negli anni futuri avrebbe desiderato cento volte di non averlo mai fatto. Il re sospirò soddisfatto e le lasciò la mano. «Allora sono pronto, Taita, per il destino decretato dagli dei. Lasciami solo il tempo di baciare mio figlio per l'ultima volta.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
339
Mentre gli portavano il nostro bel principino, feci uscire dalla cabina la folla dei nobili senza tante cerimonie. Quindi preparai una pozione di shepenn rosso, molto forte perché sapevo che il dolore poteva frustrare i miei sforzi e uccidere il paziente con la rapidità di un colpo di bisturi sbagliato. Quando il re ebbe finito di bere, attesi che le pupille si contraessero, e che le palpebre si abbassassero. Poi ordinai alle governanti di portar via il principe. Alla partenza da Tebe avevo previsto di dover curare ferite da freccia e perciò avevo portato i miei cucchiai. Erano strumenti che avevo ideato io, sebbene vi fossero un ciarlatano a Gaza e un altro a Menfi che li vantavano come loro invenzione. Benedissi i cucchiai e i bisturi nella fiamma della lampada, quindi mi lavai le mani con il vino caldo. «Non credo che sia opportuno usare un cucchiaio quando la punta della freccia è penetrata tanto profondamente e tanto vicino al cuore», disse la mia padrona mentre assisteva ai preparativi. A volte parlava come se l'allieva avesse superato il maestro. «Se lasciassi la freccia dov'è, causerebbe la necrosi. Ucciderei il re come se gli staccassi la testa dalle spalle. Questa è l'unica possibilità di salvarlo.» Per un momento ci guardammo negli occhi e ci parlammo senza bisogno di parole. Quella era la visione dei Labirinti di Ammon-Ra. Desideravamo evitare le conseguenze benigne che avrebbe avuto per noi? «È il mio consorte. È il Faraone.» La regina mi prese la mano per sottolineare le sue parole. «Salvalo, Taita. Salvalo, se puoi.» «Sai che cercherò di farlo», risposi. «Hai bisogno del mio aiuto?» Mi aveva assistito molto spesso, in passato. Annuii e mi chinai sul re. C'erano tre modi in cui potevo tentare di estrarre la freccia. Il primo era strapparla. Ho sentito parlare d'un chirurgo di Damasco che piega un flessibile ramo d'albero e lo fissa all'asta. Quando lascia andare il ramo, questo scatta e con la sua forza svelle il dardo dalla carne viva. Non ho mai tentato un trattamento del genere perché sono convinto che pochissimi riescano a sopravvivere. Il secondo metodo consiste nello spingere la freccia attraverso l'arto o il torso fino a che la punta uncinata non fuoriesce dall'altra parte. Per riuscirvi è necessario battere con un mazzuolo, come si farebbe con un chiodo piantato in un'asse. Poi si sega la punta e si sfila l'asticciola. È un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
340
trattamento brutale quasi quanto il primo. Il mio metodo consiste nell'uso del cucchiaio di Taita: gli ho dato il nome in tutta modestia perché le rivendicazioni degli altri sono infondate e i posteri devono essere informati del mio genio. Per prima cosa esaminai la freccia degli hyksos che avevo prelevato assieme all'arco dal carro rovesciato. Mi stupii nel vedere che la punta non era di bronzo, bensì di selce lavorata. Certo, la selce è meno dispendiosa e più facile da reperire in grandi quantità; ma raramente ho conosciuto un generale che cercasse di risparmiare quando si accingeva a impadronirsi di un regno. La punta di selce indicava con eloquenza che gli hyksos disponevano di risorse limitate e suggeriva una ragione per il loro attacco contro l'Egitto. Le guerre si combattono per conquistare la terra o la ricchezza, e avevo l'impressione che gli hyksos fossero a corto dell'una e dell'altra. Dovevo augurarmi che la punta di freccia penetrata nel petto del Faraone fosse della stessa forma e dello stesso tipo. Confrontai due dei miei cucchiai con il pezzetto di pietra affilatissimo: i cucchiai erano di varie grandezze, e ne scelsi un paio che potevano racchiudere con decisione la punta, e coprire con il metallo liscio gli uncini acuminati. Nel frattempo la droga aveva operato la sua magia e il Faraone giaceva privo di sensi sui lenzuoli di lino candido. L'asta spezzata sporgeva per la lunghezza del mio indice dalla pelle grinzosa e coperta di peli bianchi. Appoggiai ancora una volta l'orecchio al petto e sentii il respiro che sibilava e gorgogliava nei polmoni. Quando ebbi la certezza che era ancora vivo, unsi i cucchiai prescelti con grasso di montone per facilitarne la penetrazione nella ferita. Li tenni a portata di mano e presi uno dei bisturi più affilati. Feci un cenno alle quattro guardie nerborute che la regina Lostris aveva chiamato mentre concludevo i preparativi: afferrarono il Faraone per i polsi e le caviglie e lo tennero fermo. La regina sedette accanto alla testa del re e gli inserì fra le labbra, sino alia gola, il tubo di legno che faceva parte del mio corredo di medico e che serviva a tenere libera e aperta la trachea e a impedire che il paziente si mordesse la lingua o la inghiottisse, o stringesse i denti fino a spezzarli sotto l'effetto del dolore. «Per prima cosa dovrò allargare la ferita intorno all'asta per raggiungere la punta della freccia», mormorai, e premetti il bisturi lungo la linea Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
341
dell'asta, il Faraone s'irrigidì ma i quattro lo tennero bloccato. Lavoravo in fretta perché avevo scoperto che la rapidità è decisiva nelle operazioni del genere, se si vuole che il paziente sopravviva. Incisi ai due lati dell'asta: la pelle, elastica e resistente, avrebbe impedito l'accesso ai cucchiai, e dovevo evitare che questo avvenisse. Posai il bisturi e presi i cucchiai lubrificati. Usai l'asta della freccia come guida e li feci penetrare nella ferita fino a quando ne rimasero fuori soltanto i lunghi manici. Il Faraone si contorceva nella stretta dei quattro. Il sudore gli sgorgava da ogni poro e scorreva sulla testa rasata, appena velata da una stoppia di sottili capelli grigi. Le urla uscivano attraverso il tubo che aveva in bocca e riverberavano in tutta la nave. Avevo imparato a ignorare le sofferenze dei pazienti, perciò inserii ancora più profondamente i cucchiai nella ferita, fino a che li sentii toccare la selce della punta. Era la parte più delicata dell'operazione. Usai i manici come un paio di pinzette: scostai i cucchiai e li feci scivolare sulla punta della freccia. Quando li sentii richiudersi, mi augurai che avessero coperto completamente la selce e gli uncini. Strinsi con prudenza i manici e l'asta di canna e tirai all'indietro. Se gli uncini fossero stati ancora liberi, si sarebbero piantati immediatamente nella carne e avrebbero resistito. Provai l'impulso di gridare di sollievo quando sentii che la freccia cominciava a cedere; la suzione dei tessuti, comunque, era considerevole e dovetti usare tutte le mie forze. La sofferenza del Faraone era terribile mentre la massa di canna, selce e metallo veniva trascinata attraverso il suo torace. Lo she-penn rosso aveva cessato di fare effetto, e il dolore era atroce. Sapevo di causare lesioni spaventose, e sentivo i tessuti che si laceravano. Il sudore mi scorreva negli occhi e quasi mi accecava, ma non smisi di tirare fino a quando la freccia sporca di sangue non mi restò nelle mani. Arretrai barcollando e urtai contro la paratia. Vi rimasi appoggiato per un momento, esausto. Guardai il sangue scuro e semiraggrumato sgorgare dalla ferita per un lungo momento, poi mi scossi e andai a stagnarlo. Spalmai la ferita con mirra e miele cristallizzato, quindi la fasciai strettamente con bende di lino candido. Mentre lavoravo, recitavo l'incantesimo in uso quando si fasciano le ferite. Io ti lego, creatura di Seth, io ti chiudo la bocca. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
342
Indietreggia davanti a me, marea rossa, ritirati di fronte a me, rosso fiore di morte, io ti bandisco, cane rosso di Seth. Era la formula per le emorragie causate da spade o frecce. Esistono versetti specifici per ogni tipo di lesione, dalle ustioni ai morsi e alle unghiate di un leone. Un medico deve impararle tutte, per esercitare la sua professione. Non ho mai capito in che modo funzionino gli incantesimi; tuttavia ritengo che sia doveroso nei confronti dei pazienti usare tutti i mezzi a mia disposizione per poterli guarire. Il Faraone sembrava soffrire molto meno dopo la fasciatura. Si addormentò; lo affidai alle cure delle sue donne e tornai sul ponte. Sentivo il bisogno dell'aria fresca del fiume per riprendermi perché l'operazione mi aveva sfinito quasi quanto aveva sfinito il sovrano. Orinai era sera e il sole calava stancamente sulle spoglie colline occidentali e gettava l'ultima luce rossa sul campo di battaglia. Non c'era stato un assalto della fanteria degli hyksos, e Tanus stava ancora trasferendo dalla riva del fiume alle navi i resti dell'esercito sconfitto. Guardavo le barche cariche di uomini esausti e feriti che passavano davanti a noi e provavo una profonda compassione per loro e per tutto il nostro popolo. Quello sarebbe rimasto per sempre il giorno più funesto della nostra storia. Poi vidi che la nube di polvere sollevata dai carri degli hyksos cominciava a muovere verso il sud e Tebe. Il tramonto dava alla nube il colore del sangue. L'interpretai come un presagio, e la mia compassione si trasformò in paura. Era buio quando Tanus salì a bordo della nave reale. Nella luce delle torce sembrava un cadavere. Era pallido per la stanchezza e coperto di polvere. Il suo mantello era incrostato di sangue e di fango, e gli occhi erano cerchiati di scuro. Appena mi vide mi chiese del Faraone. «Ho estratto la freccia», gli dissi. «Ma la ferita è profonda e vicina al cuore. È debolissimo: tuttavia, se sopravvivrà per tre giorni, potrò salvarlo.» «E la tua padrona e il figlioletto?» Era la domanda che mi rivolgeva ogni volta che ci incontravamo. «La regina Lostris è stanca perché mi ha aiutato nell'operazione. Ora è con il re. Il principe è adorabile come sempre, e dorme con le governanti.» Vidi Tanus barcollare, e compresi che era allo stremo delle forze. «Devi riposare...» dissi, ma Tanus si svincolò. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
343
«Portate le lampade», ordinò. «Taita, vai a prendere i pennelli, i calamai e i papiri. Devo inviare un avvertimento a Nembet, perché non cada come me nella trappola degli hyksos.» Restammo sul ponte per metà delia notte, e questo fu il messaggio che mi dettò per Nembet. Salute a te, nobile Nembet, Grande Leone d'Egitto, comandante della Divisione Ra dell'esercito del Faraone. Possa tu vivere in eterno. Sappi che abbiamo incontrato i nemici hyksos sulla piana di Abnub. Gli hyksos sono nemici forti, feroci e terribili, è possiedono strani carri velocissimi cui non possiamo resistere. Sappi inoltre che abbiamo subito una sconfitta e che il nostro esercito è stato annientato. Non siamo più in grado di opporci agli hyksos. Sappi che il Faraone è stato ferito gravemente ed è in pericolo di vita. Ti scongiuriamo di non incontrare gli hyksos in campo aperto perché i loro carri sono veloci come il vento. Rifugiatevi quindi dietro le mura o attendete a bordo delle navi per poterli mettere in fuga. Gli hyksos non hanno navi, ed è solo grazie alle nostre navi che potremo prevalere. Ti scongiuriamo di attendere il nostro arrivo prima di impegnare le tue forze in battaglia. Invoco su di te la protezione di Horus e di tutti gli dei. Cosi parla il nobile Tanus Harrab, comandante della Divisione Ptah dell'esercito del Faraone. Feci quattro copie del messaggio e via via che ne completavo una, Tanus chiamava un messaggero perché la portasse a Nembet, Grande Leone d'Egitto, che stava marciando dal sud con i rinforzi. Tanus mandò verso monte due navi veloci, ognuna con una copia del dispaccio; quindi fece scendere i suoi corrieri migliori sulla riva occidentale, opposta a quella lungo la quale avanzava l'esercito degli hyksos, e inviò anche loro in cerca di Nembet. «Sicuramente uno dei tuoi rotoli arriverà nelle sue mani. Fino a domattina non potrai fare altro», gli dissi. «Ora devi dormire: se crollassi, tutto l'Egitto crollerebbe con te.» Non volle ritirarsi in una cabina. Si raggomitolò sul ponte come un cane per essere pronto in caso d'emergenza. Ma io andai sottocoperta per stare vicino al re e confortare la mia padrona. Tornai sul ponte prima dell'alba, e sentii Tanus che ordinava di bruciare la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
344
flotta. Non spettava a me discutere la decisione; tuttavia vide che lo guardavo sbalordito. Quando i messaggeri si allontanarono, mi disse bruscamente: «Ho appena ricevuto il resoconto dei comandanti dei miei reggimenti. Dei trentamila uomini che ieri stavano sulla piana di Abnub per incontrare i carri degli hyksos ne rimangono appena settemila. Cinquemila sono feriti e molti di loro moriranno. Pochi di quelli illesi sono marinai. Mi restano appena gli uomini necessari per far funzionare metà della flotta: devo abbandonare il resto delle navi, ma non posso permettere che cadano nelle mani degli hyksos». Usarono fasci di canne per appiccare il fuoco, e le navi bruciarono. Era uno spettacolo terribile e tristissimo, anche per me e per la mia padrona che pure non eravamo marinai. Per Tanus era anche peggio. Era solo, a prua del vascello reale, con la disperazione e l'angoscia dipinte sul viso mentre guardava ardere le sue navi che per lui erano creature vive e bellissime. Sotto gli occhi di tutta la corte la mia padrona non poteva stargli al fianco come avrebbe desiderato. Mi prese la mano, e piangemmo per Tanus e per tutto l'Egitto mentre davanti a noi le navi si consumavano come torce. Le colonne di fiamme ruggenti erano avvolte nel fumo nero, ma la loro luce rossastra rivaleggiava con l'avvicinarsi dell'aurora. Finalmente Tanus ordinò ai cento vascelli rimasti di salpare l'ancora. La nostra piccola flotta, carica di morti e moribondi, si diresse verso sud. Dietro di noi il fumo del rogo funebre della nostra flotta saliva nel cielo mattutino, mentre davanti a noi la nube di polvere gialla si estendeva ancora più alta e più ampia lungo la riva orientale del Nilo dove i carri degli hyksos penetravano nell'Alto Egitto, verso l'indifesa Tebe e tutti i suoi tesori. Sembrava che gli dei avessero voltato le spalle all'Egitto e ci avessero abbandonati completamente, perché il vento - che di solito in quella stagione soffiava con forza dal nord - cadde completamente, quindi riprese a spirare da sud con vigore rinnovato. Eravamo costretti a lottare con la corrente e con il vento, e le nostre navi erano appesantite dal carico dei feriti. Ci muovevamo lentamente, e gli equipaggi sfiniti faticavano ai remi come schiavi. Non riuscivamo a reggere l'andatura dell'esercito degli hyksos che ci distanziava inesorabilmente. Io ero preso dai miei doveri di medico del re. Ma su tutti gli altri vascelli morivano a dozzine uomini che avrei potuto salvare. Ogni volta che salivo sul ponte per respirare un po' d'aria pura e riposare, vedevo che dalle altre Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
345
navi veniva gettato qualche cadavere. A ogni spruzzo si vedeva un movimento frenetico dei coccodrilli sotto la superficie. I rettili seguivano la flotta come avvoltoi. Il Faraone si andava riprendendo. Il secondo giorno riuscii a fargli bere una ciotola di brodo. Quella sera chiese di vedere il principe, e glielo portarono. Memnone era irrequieto come una cavalletta e chiassoso come un branco di storni. Il Faraone era sempre stato buono con lui, addirittura troppo indulgente, e Memnone fu felice di vederlo. Era già un bel bambino, snello e robusto, con la carnagione e i grandi occhi scuri della madre. I capelli erano ricciuti come il manto di un agnellino nero ma, nella luce del sole, brillavano delle fiamme della chioma rossa di Tanus. La felicità del Faraone, nel vederlo, era ancora più commovente del solito. Quel bambino e la promessa che aveva strappato alla mia padrona erano le sue speranze d'immortalità. Nonostante le mie insistenze, tenne Memnone con sé fin dopo il tramonto. Sapevo che l'energia inesauribile e le pretese d'attenzione del piccolo lo stancavano, ma non potei intervenire fino a quando, all'ora di cena, le governanti vennero a portar via il principe. Rimasi con la mia padrona al capezzale del re che sprofondò quasi subito in un sonno profondo. Era bianco come le lenzuola di lino su cui giaceva. Il giorno seguente era il terzo dopo il ferimento, e quindi il più pericoloso. Se fosse sopravvissuto avrei potuto salvarlo, lo sapevo. Ma quando mi svegliai all'alba, nella cabina regnava il lezzo della putrefazione. Toccai il Faraone, e la sua pelle mi scottò le dita come un bricco appena tolto dal fuoco. Chiamai la mia padrona, che uscì vacillando dall'alcova dietro la tenda, dove aveva dormito. «Che c'è, Taita?» Non aggiunse altro perché la risposta era scritta sulla mia faccia. Mi stette accanto quando sfasciai la ferita. La fasciatura è una grande arte medica, e io avevo cucito le bende di lino per tenerle salde. Tagliai i fili che le univano e le tolsi. «Hapi clemente, prega per lui!» La regina Lostris stava per vomitare per il fetore. La crosta nera che chiudeva la ferita si aprì e il pus verde incominciò a scorrere lentamente. «La necrosi!» sussurrai. Era l'incubo dei chirurghi, l'umore malefico che colpiva il terzo giorno e si diffondeva in tutto il corpo come un incendio invernale nei canneti secchi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
346
«Che possiamo fare?» chiese Lostris. Scossi il capo. «Morirà prima di notte», risposi. Restammo accanto al letto del re in attesa dell'inevitabile. Quando si sparse per tutta la nave la notizia che il Faraone stava morendo, la cabina si riempi di sacerdoti, dame e cortigiani. Aspettammo in silenzio. Tanus arrivò per ultimo e rimase in un angolo, con l'elmo sotto il braccio, in atteggiamento di rispetto e di dolore. Il suo sguardo non era fisso sul re, ma sulla regina Lostris. Lei non ricambiava quello sguardo, tuttavia sentivo che era consapevole della sua presenza con ogni fibra del proprio essere. S'era coperta la testa con lo scialle di lino ricamato, ma era nuda dalla cintola in su. Da quando il principe era stato svezzato, i seni avevano perduto la pesantezza. Era snella come una vergine e la gravidanza non le aveva rovinato il seno e il ventre con smagliature argentee. La pelle era liscia e perfetta come se fosse stata appena unta con olio profumato. Coprii il corpo del Faraone con pezze bagnate per abbassare la febbre, ma il calore faceva evaporare l'acqua e io ero costretto a cambiarle di continuo. Il re si agitava e gridava nel delirio, perseguitato da tutti i terrori e i mostri dell'oltretomba che lo attendeva. A volte recitava brani del Libro dei Morti. Fin dall'infanzia i sacerdoti gli avevano fatto imparare a memoria il testo che costituiva una guida attraverso le ombre per giungere ai lontani prati del paradiso. La via di cristallo ha ventuno svolte. La via stretta è sottile come una lama di bronzo. La dea che sorveglia la seconda porta è infida e subdola e sfuggente. Signora della fiamma, cortigiana dell'universo, dalle fauci di leonessa, la tua vagina inghiotte gli uomini che si smarriscono nel tuo seno latteo. A poco a poco la voce e i movimenti s'indebolirono. Poco dopo mezzogiorno emise un ultimo sospiro tremulo e rimase immobile. Mi chinai su di lui e gli toccai la gola per sentire il pulsare della vita: ma non sentii nulla, e la pelle stava diventando fredda sotto la mia mano. «Il Faraone è morto», dissi a voce bassa, e gli chiusi le palpebre. «Possa vivere in eterno!» Tutti i presenti proruppero in grida luttuose, e la mia padrona guidò le donne reali nelle lamentazioni. Era un ululato che mi agghiacciava: Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
347
sembrava che una moltitudine d'insetti invisibili mi strisciasse sulla pelle. Lasciai la cabina non appena potei. Tanus mi segui sul ponte e mi prese per il braccio. «Hai fatto quanto era in tuo potere per salvarlo?» chiese bruscamente. «Non è stato un altro dei tuoi trucchi?» Sapevo che quel modo di trattarmi era un'espressione delle sue paure e dei suoi rimorsi; perciò risposi con gentilezza. «Lo ha ucciso la freccia degli hyksos. Ho fatto quanto era in mio potere per salvarlo. È stato il destino dei Labirinti di Ammon-Ra, e nessuno di noi ne è responsabile.» Sospirò e mi passò un braccio intorno alle spalle. «Non l'avevo previsto. Pensavo soltanto al mio amore per la regina e per nostro figlio. Dovrei rallegrarmi perché ora è libera, ma non posso. Abbiamo subito perdite e distruzioni troppo gravi. Non siamo altro che chicchi di durra sotto la macina dei Labirinti.» «Ci sarà in futuro un tempo di felicità per noi tutti», gli assicurai, anche se la mia affermazione non aveva una base. «Ma c'è ancora un sacro dovere che grava sulla mia padrona, e quindi anche su me e te.» Gli rammentai il giuramento fatto dalla regina al re, la promessa di seppellirlo con tutti gli onori nella tomba prescelta affinché il suo Ka potesse raggiungere i prati del paradiso. «Dimmi come posso rendermi utile», rispose semplicemente Tanus. «Ma ricorda che gli hyksos ci precedono e stanno invadendo l'Alto Egitto, e non posso garantire che la tomba del Faraone non sarà violata.» «Se sarà necessario gli troveremo un'altra tomba. Il nostro primo pensiero deve essere conservare il suo corpo. Con questo caldo, comincerà a imputridire e a brulicare di vermi prima del tramonto. Non sono esperto nell'arte dell'imbalsamazione, ma conosco un modo per mantenere la promessa.» Tanus mandò i suoi marinai nella stiva a prendere un'enorme giara di olive in salamoia. Poi, seguendo le mie istruzioni, vuotò la giara e la riempi d'acqua bollente. Prima che si raffreddasse aggiunse tre sacchi del sale marino più fine. Quindi riempi con la stessa salamoia quattro orci da vino e mise il tutto sul ponte a raffreddare. Intanto, cominciai a lavorare da solo nella cabina reale. La mia padrona avrebbe voluto aiutarmi poiché pensava che facesse parte del suo dovere nei confronti del marito defunto, ma io la mandai a tener compagnia al principe. Aprii il corpo del Faraone lungo il fianco sinistro, dalle costole all'anca, e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
348
attraverso l'apertura estrassi il contenuto del torace e del ventre, staccandolo dal diaframma con il coltello. Naturalmente lasciai il cuore al suo posto, perché è l'organo della vita e dell'intelligenza. Lasciai anche i reni, perché sono i ricettacoli dell'acqua e rappresentano il sacro Nilo. Riempii di sale la cavità e la suturai. Non avevo il cucchiaio da imbalsamatore che andava inserito attraverso le narici per rimuovere la poltiglia giallognola dal cranio, e quindi la lasciai dov'era. Comunque, non aveva importanza. Divisi poi i visceri: fegato, polmoni, stomaco e intestino. Lavai con la salamoia lo stomaco e gli intestini, un compito quanto mai sgradevole. Quando ebbi finito, approfittai dell'occasione per esaminare minuziosamente i polmoni del re. Quello destro era sano e rosso, ma il sinistro era stato trapassato dalla freccia e s'era afflosciato come una vescica trafitta. Era pieno di sangue nero e di pus. Mi chiedevo come fosse possibile che il vecchio fosse vissuto tanto a lungo con una ferita simile. Mi sentii sollevato: nessun medico avrebbe potuto salvarlo, e le mie cure erano state irreprensibili. Ordinai ai marinai di portare i recipienti pieni di salamoia. Tanus mi aiutò a piegare la salma in modo da poterla immergere nella giara delle olive. Mi assicurai che fosse sommersa completamente, quindi riponemmo i visceri negli orci da vino, sigillammo con la pece tutti i recipienti e li legammo nel compartimento rinforzato dove il re teneva il suo tesoro. Credo che sarebbe stato contento di riposare così, circondato dall'oro e dai lingotti d'argento. Avevo fatto il possibile per aiutare la mia padrona a mantenere la promessa. A Tebe avrei consegnato il corpo del re agli imbalsamatori, se gli hyksos non fossero arrivati prima di noi e se la città e i suoi abitanti fossero esistiti ancora. Quando raggiungemmo la città murata di Asyut, ci rendemmo conto che gli hyksos avevano lasciato un contingente limitato per tenerla sotto assedio e avevano proseguito verso il sud con il grosso dell'esercito. Sebbene non fosse altro che un distaccamento con meno di cento carri, gli assedianti erano troppo forti perché potessimo attaccarli con il nostro esercito decimato. Lo scopo principale di Tanus era liberare Remrem e i suoi cinquemila uomini asserragliati entro le mura, quindi proseguire verso monte per raggiungere il nobile Nembet e i suoi trentamila soldati. Tanus fece ancorare le navi al centro del fiume, al riparo dagli attacchi dei carri, e riuscì a comunicare con Remrem per mezzo di segnali. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
349
Anni prima avevo aiutato Tanus a ideare un sistema di segnali usando due bandierine colorate che permettevano di trasmettere messaggi a vista attraverso una valle, da una vetta all'altra, dalle mura di una città alla pianura e al fiume. Per mezzo delle bandierine, Tanus avverti Remrem, che si tenne pronto per quella notte. Con il favore delle tenebre, infatti, venti delle nostre navi toccarono la spiaggia ai piedi delle mura. Nello stesso momento Remrem fece spalancare la porta laterale e, alla testa del reggimento, si apri la strada in mezzo agli hyksos. Prima che i nemici potessero attaccare i cavalli ai carri, Remrem e i suoi uomini s'erano già imbarcati. Tanus trasmise immediatamente l'ordine di salpare. Abbandonò la città di Asyut al saccheggio e prosegui verso monte. Per il resto di quella notte, ogni volta che guardavamo verso valle vedevamo le fiamme della città incendiata che illuminavano l'orizzonte settentrionale. «Spero che quegli sventurati mi perdonino», mormorò Tanus. «Non potevo far altro che sacrificarli. Il mio dovere è salvare Tebe.» Era un soldato e quindi aveva preso senza esitazioni la difficile decisione, ma era anche un essere umano sensibile e ne soffriva. La mia ammirazione per lui era grande quanto il mio affetto. Remrem ci riferì che le nostre navi veloci inviate a portare i messaggi erano passate da Asyut il giorno precedente, e che ormai i messaggi di Tanus dovevano essere giunti nelle mani del nobile Nembet. Remrem poté darci anche diverse informazioni sugli hyksos e sulla loro avanzata verso il sud. Aveva catturato due disertori egizi passati al nemico, che erano entrati ad Asyut per spiare i difensori. Messi alla tortura, avevano urlato da quegli sciacalli che erano e prima di morire avevano rivelato a Remrem molte cose utili e interessanti sugli hyksos. Il re che avevamo incontrato sulla piana di Abnub con esito tanto disastroso si chiamava Salitis. La sua tribù, di sangue semitico, era stata in origine un popolo di pastori nomadi stanziato fra i monti Zagros, presso il lago Van. La prima impressione che avevo avuto dei terribili asiatici trovava quindi una conferma: ma mi chiedevo com'era possibile che un popolo di pastori avesse perfezionato un veicolo straordinario come il carro a ruote, e dove aveva trovato quegli animali meravigliosi, quei cavalli che noi egizi temevamo come se fossero creature dell'oltretomba. Sembrava che in altri campi fossero molto arretrati. Non sapevano leggere né scrivere, e il loro governo era una spietata tirannia del re Salitis. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
350
Noi egizi lo odiavamo e lo temevamo ancora più di quanto temessimo e odiassimo gli esseri che trainavano il suo carro. La divinità principale degli hyksos era chiamata Sutekh, ed era il dio delle tempeste. Non era necessaria una profonda istruzione religiosa per riconoscere in lui il temuto Seth. Avevano scelto un dio ben adatto e gli facevano onore con il loro comportamento. Un popolo civile non avrebbe mai saccheggiato, incendiato e massacrato come gli hyksos. Il fatto che anche noi torturiamo i traditori non ci può mettere sullo stesso piano di quei barbari, con le loro atrocità. Spesso ho osservato che una nazione sceglie gli dei secondo la propria natura. I filistei adorano Baal, e gettano i neonati vivi nella fornace ardente della sua bocca. Le tribù nere dei cushiti venerano con i riti più bizzarri mostri ed esseri infernali. Noi egizi adoriamo divinità giuste e benevole che non pretendono certamente sacrifici umani. E gli hyksos hanno Sutekh. A quanto pareva, i prigionieri di Remrem non erano i soli egizi traditori che si spostavano con l'esercito nemico. Uno dei disertori, messo alla tortura, aveva parlato di un grande nobile dell'Alto Egitto che faceva parte del consiglio di guerra del re Salitis. Quando lo seppi, rammentai quanto mi aveva sorpreso constatare che gli hyksos avevano dimostrato di conoscere bene il nostro ordine di battaglia nella piana di Abnub. In quell'occasione avevo intuito che fra loro doveva esserci una spia ben informata dei nostri segreti. Se ciò era vero, dovevamo aspettarci che il nemico conoscesse tutte le nostre debolezze e i nostri punti di forza. Doveva conoscere i piani e le difese delle nostre città, e soprattutto doveva sapere dei ricchissimi tesori accumulati dal Faraone nel suo tempio funerario. «Forse questo spiega la fretta con cui il re Salitis si spinge verso Tebe», dissi a Tanus. «Possiamo prevedere che tenteranno di attraversare il Nilo alla prima occasione.» Tanus imprecò con rabbia. «Se Horus è generoso, metterà nelle mie mani il nobile traditore.» Si batté il pugno sul palmo dell'altra mano. «Dobbiamo impedire a Salitis di attraversare il fiume. Le nostre navi costituiscono l'unico vantaggio che abbiamo su di lui. Devo sfruttarlo al massimo.» Si aggirò sul ponte e alzò gli occhi al cielo. «Quando tornerà a soffiare il vento dal nord? A ogni sera che passa, i carri nemici ci distanziano sempre di più. Dov'è la flotta di Nembet? Dobbiamo unire le nostre forze e tenere la linea del fiume.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
351
Quel pomeriggio il consiglio di Stato dell'Alto Egitto si riunì davanti al trono sulla poppa della nave reale. Il sommo sacerdote di Osiride rappresentava il potere spirituale, il cancelliere Merseket quello temporale, e il nobile Tanus Harrab l'autorità militare. I tre dignitari innalzarono la regina Lostris sul trono dell'Egitto e le misero il figlio sulle ginocchia. Mentre tutti, a bordo, levavano la voce nel saluto reale, le altre navi della flotta ci passarono accanto; i soldati feriti si trascinarono ai parapetti per acclamare la nuova reggente e il giovane erede al trono del grande Egitto. Il sommo sacerdote di Osiride legò la barba finta della regalità al mento della mia padrona, anche se questo non sminuì affatto la sua bellezza e la sua femminilità. Il nobile Merseket le legò intorno alla vita la coda di leone e le posò sulla testa la corona doppia, rossa e bianca. Finalmente Tanus sali sui gradini del trono per metterle nelle mani lo scettro uncinato e il flagello d'oro. In quel momento Memnone vide i giocattoli splendenti che Tanus stava portando e tese le manine per afferrarli. «È un vero re! Sa che lo scettro gli spetta di diritto!» esclamò con orgoglio Tanus, e tutti applaudirono lietamente. Credo che fosse la prima volta che qualcuno di noi rideva dopo la terribile giornata sul campo di Abnub. Mi sembrò che fosse una liberazione e che segnasse un nuovo inizio per noi tutti. Fino a quel momento eravamo sopraffatti dal trauma della sconfitta e dalla morte del Faraone. Ma ora, mentre i grandi potentati egizi andavano a inginocchiarsi a uno a uno davanti al trono su cui sedeva l'incantevole regina con il figlio in braccio, uno spirito nuovo ci pervase tutti, ci riscattò dall'apatia della disperazione e fece rinascere la nostra volontà di resistere e di combattere. Tanus fu l'ultimo a inginocchiarsi davanti al trono e a giurare fedeltà. La regina lo guardava con un'espressione adorante che le illuminava il volto e le faceva brillare gli occhi verdi come due soli. Mi sorprendeva che nessuno dei presenti se ne accorgesse. Quella sera, dopo il tramonto, la mia padrona mi mandò sul ponte della nave reale con un messaggio per il comandante delle sue armate, e lo convocò per un consiglio di guerra nella sua cabina. Questa volta Tanus non rifiutò, perché aveva appena giurato di obbedirle. Lo straordinario consiglio di guerra del quale fui l'unico testimone era appena iniziato quando la nuova reggente dell'Egitto mi bandi dalla cabina e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
352
mi mandò a sorvegliare la porta e a respingere tutti gli altri visitatori. L'ultima volta che li vidi mentre tiravo la pesante tenda si stavano abbracciando con slancio. Il loro desiderio era così grande ed era stato frustrato per tanto tempo che si gettarono l'uno verso l'altra, più che come amanti, come nemici irriducibili che si affrontano in un duello mortale. I suoni felici della battaglia continuarono per quasi tutta la notte. Per me era un sollievo che non fossimo all'ancora e risalissimo il fiume per raggiungere il nobile Nembet. Il tonfo dei remi, il rullo del tamburo che dava il ritmo alle vogate e i canti dei rematori riuscivano quasi a sommergere il tumulto nella cabina reale. Quando venne sul ponte di poppa al cambio della guardia, Tanus aveva l'aria sorridente di un generale che ha appena conquistato una grande vittoria. La mia padrona lo seguì poco più tardi: splendeva di una nuova, eterea bellezza che mi sbalordì sebbene fossi abituato al suo incanto. Per il resto della giornata si mostrò amabile e gentile con quanti le stavano intorno, e trovò numerose occasioni per consultare il comandante. Il principe Memnone e io trascorremmo così insieme gran parte del tempo, una situazione gradita a entrambi. Con la discutibile collaborazione del principino avevo già cominciato a intagliare una serie di modellini di legno: e uno di questi era un carro a cavalli. Un altro era una ruota montata su un asse, che usavo per fare esperimenti. Memnone si alzò in punta di piedi per guardare la ruota che girava sul minuscolo mozzo. «Un disco pieno è troppo pesante, non sei d'accordo? Guarda con quanta rapidità perde velocità e rallenta.» «Dammela!» ordinò, e cercò di afferrare il disco che volò via dalla sua manina, cadde e si spezzò in quattro segmenti quasi eguali. «Sei un cattivo hyksos», gli dissi in tono severo, anche se parve interpretarlo come un complimento. M'inginocchiai per raccattare il mio povero modellino. I segmenti erano ancora disposti in una sagoma circolare, e prima che li toccassi la vista mi giocò uno strano scherzo. Agli occhi della mente i pezzi di legno diventarono spazi vuoti, gli intervalli apparvero solidi. «Dolce soffio di Horus! Ci sei riuscito!» Lo abbracciai. «Un cerchione sostenuto da raggi che partono dal mozzo. Quando sarai Faraone, quali altri miracoli farai per noi?» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
353
E così il principe Memnone, primo di questo nome, Sovrano dell'Aurora, con un piccolo aiuto da parte di un amico inventò la ruota a raggi. Non immaginavo, allora, che un giorno noi due saremmo andati insieme incontro alla gloria su ruote come quella. Prima di mezzogiorno trovammo il primo egizio morto. Galleggiava sul fiume, sostenuto dal ventre gonfio, e la sua faccia guardava in cielo con occhi ciechi. Un corvo nero gli stava appollaiato sul petto: gli strappò gli occhi e rovesciò all'indietro la testa per inghiottirli uno dopo l'altro. In silenzio ci affacciammo al parapetto e guardammo il morto che ci passava accanto. «Porta il gonnellino delle Guardie del Leone», disse Tanus a voce bassa. «I Leoni sono l'avanguardia dell'esercito di Nembet. Prego Horus di non vederne altri discendere il fiume.» Ma li vedemmo. Altri dieci, e poi cento. Erano sempre di più. Alla fine la superficie del fiume era coperta di cadaveri da una sponda all'altra. Erano numerosi come le foglie dei giacinti d'acqua che durante l'estate intasano i canali per l'irrigazione. Finalmente ne trovai uno ancora vivo. Era un capitano delle Guardie del Leone, facente parte degli ufficiali superiori di Nembet. Era aggrappato a una stuoia di papiro che galleggiava nella corrente. Lo ripescammo e io gli curai le ferite. Una mazza di pietra gli aveva fracassato le ossa della spalla, e non avrebbe più potuto usare il braccio. Quando si fu ripreso quanto bastava per parlare, Tanus si accosciò accanto al suo giaciglio. «Che è accaduto al nobile Nembet?» «Il nobile Nembet è stato ucciso con tutti i suoi ufficiali», rispose il capitano con voce rauca. «Non aveva ricevuto il dispaccio che lo avvertiva dell'arrivo degli hyksos?» «L'ha ricevuto alla vigilia della battaglia e ne ha riso.» «Ha riso?» chiese Tanus. «Com'è possibile?» «Ha detto che il Cucciolo... Perdonami, nobile Tanus, ma ti ha chiamato così. Ha detto che il Cucciolo era stato annientato e che cercava di mascherare la sua stupidità e la sua vigliaccheria con messaggi menzogneri. Ha detto che avrebbe combattuto la battaglia nel modo classico.» «Vecchio pazzo arrogante!» commentò Tanus. «Ma racconta il resto.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
354
«Il nobile Nembet ha spiegato le sue forze sulla riva orientale, con il fiume alle spalle. I nemici sono piombati su di noi come il vento e ci hanno buttati in acqua.» «Quanti dei nostri si sono salvati?» chiese Tanus. «Credo di essere l'unico sopravvissuto fra coloro che erano scesi a terra con il nobile Nembet. Non ho visto altri superstiti. Il massacro sulla riva del fiume è stato tale che non saprei neppure descriverlo.» «Tutti i nostri reggimenti più famosi sono stati decimati», mormorò mestamente Tanus. «Siamo rimasti senza altre difese che le navi. Che fine ha fatto la flotta di Nembet? Era ancora al centro del fiume?» «Il nobile Nembet aveva lasciato all'ancora la maggior parte delle navi, ma ne aveva fatte tirare in secco cinquanta sulla riva alle nostre spalle.» «Ma perché?» esclamò Tanus. «La sicurezza delle navi è il principio fondamentale di tutti i nostri piani di battaglia!» «Non so che cosa pensasse il nobile Nembet. Forse voleva averle a portata di mano per far reimbarcare in fretta le truppe nell'eventualità che il tuo avvertimento risultasse vero.» «Che è accaduto alla flotta? Nembet ha perduto l'esercito ma ha salvato almeno le navi?» La voce di Tanus fremeva di collera e d'angoscia. «Molte che erano all'ancora al centro del fiume sono state affondate e incendiate dagli equipaggi. Ho visto le fiamme e il fumo mentre la corrente mi trasportava. Altre hanno tagliato i cavi delle ancore e sono fuggite a sud, verso Tebe. Chiamavo a gran voce i marinai quando mi passavano accanto, ma erano così atterriti che non si fermavano per raccogliermi.» «E le cinquanta navi...?» Tanus s'interruppe e trasse un respiro profondo prima di concludere la domanda. «Che fine ha fatto la squadra tirata in secco sulla spiaggia?» «È caduta nelle mani degli hyksos.» Il capitano rispose tremando, poiché aveva paura della collera di Tanus. «Mi sono voltato a guardare e ho visto i nemici sciamare a bordo delle navi.» Tanus si alzò e andò a prua. Guardò verso monte, dove i cadaveri e il fasciame bruciato delle navi di Nembet galleggiavano sull'acqua verde. Gli andai accanto, pronto a placare la sua furia. «Quel vecchio orgoglioso ha sacrificato la sua vita e quella di tutti i suoi uomini, solo per dimostrarmi il suo disprezzo. Dovrebbero erigere una piramide a ricordo della sua follia, perché l'Egitto non ne ha mai vista una simile.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
355
«Non è stata interamente colpa della sua follia», mormorai, e Tanus annui. «No. Ha dato agli hyksos i mezzi per attraversare il fiume. Per il dolce latte del seno di Iside, quando avranno passato il Nilo noi saremo veramente finiti.» Forse la dea senti pronunciare il suo nome, perché in quell'attimo il vento che da tanto tempo ci soffiava in faccia cambiò direzione all'improvviso. Anche Tanus se ne accorse. Si voltò e ruggì un ordine ai suoi ufficiali sul ponte di poppa. «Ora abbiamo il vento in favore. Date il segnale alla flotta: alzare tutte le vele. Alternare i rematori ogni ora. Aumentare il ritmo della vogata. Procedere verso sud alla massima velocità.» Il vento continuò a spirare energicamente dal nord. Le nostre vele si gonfiarono come ventri di donne gravide. I tamburi davano il ritmo ai rematori, e la nostra flotta avanzava verso il sud. «Ringraziamo tutti la dea che ci ha mandato questo vento», gridò Tanus. «Divina Iside, fai che arriviamo in tempo per sorprenderli sull'acqua.» La nave reale era lenta e poco manovrabile, e cominciò a restare nella retrovia della flotta. Sembrava che il fato fosse intervenuto ancora una volta perché la vecchia nave di Tanus cui era tanto affezionato, il Soffio di Horus, stava navigando in formazione vicino a noi. Aveva un nuovo comandante, ma era ancora un vascello temibile, costruito per la velocità e per l'attacco. Dalla prua spuntava lo sperone di bronzo, appena al di sopra della linea di galleggiamento. Tanus ordinò di accostare alla nave reale, trasferì sul Soffio di Horus lo stendardo dei suoi e prese personalmente il comando. Il mio posto sarebbe stato a fianco della mia padrona e del principe. Non so come mi trovai a bordo del Soffio di Horus accanto a Tanus, mentre risalivamo il fiume alla massima velocità. A volte commetto follie quasi incredibili come quella di cui aveva dato prova il nobile Nembet. Ricordo soltanto che non appena la nave reale rimase indietro rispetto a noi incominciai a pentirmi amaramente della mia impetuosità. Pensai di dire a Tanus che avevo cambiato idea e di chiedergli di fermarsi per farmi tornare a bordo della nave reale. Ma diedi un'occhiata alla sua espressione e conclusi che avrei preferito incontrare di nuovo gli hyksos. Tanus dava gli ordini dal ponte del Soffio di Horus; e a voce e per mezzo delle bandiere questi ordini venivano trasmessi da un vascello all'altro. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
356
Senza rallentare mai, Tanus spiegò la fiotta. Raccolse le navi più grandi intorno alla sua mentre si portava alla testa della formazione. I feriti e quelli che non erano in condizioni di combattere furono trasbordati sui vascelli più lenti, che rimasero indietro con la nave reale. Quelli più veloci all'avanguardia erano stati sgombrati e potevano entrare in azione. Portavano quasi tutti a bordo le truppe fresche di Remrem che avevamo liberato dall'assedio ad Asyut e che smaniavano di vendicarsi degli hyksos. Tanus issò lo stendardo del Coccodrillo Azzurro sull'albero maestro del Soffio di Horus, e tutti lanciarono grida di battaglia: era riuscito a infondere in loro uno spirito nuovo dopo la sanguinosa sconfitta. I segni della catastrofe subita da Nembet diventavano sempre più evidenti via via che avanzavamo. I cadaveri, i relitti e il ciarpame erano sparsi fra i papiri sulle sponde del fiume. Finalmente vedemmo la polvere dei carri mescolarsi al fumo dei fuochi da campo e salire al cielo davanti a noi. «È come avevo sperato!» esultò Tanus. «Hanno interrotto l'avanzata verso Tebe, ora che Nembet gli ha regalato i mezzi per attraversare il Nilo. Ma non sono marinai e avranno difficoltà a imbarcare uomini e carri. Se Horus sarà generoso, arriveremo in tempo per aiutarli.» In ordine di battaglia sgranato superammo l'ultima, ampia ansa del fiume e trovammo gli hyksos. Per una felice coincidenza eravamo arrivati esattamente nel momento in cui erano impegnati nella traversata del fiume. Attraverso il Nilo erano sparse le cinquanta navi catturate. Le vele e il sartiame erano aggrovigliati e ogni rematore vogava a modo suo, le pale dei remi sollevavano spruzzi e s'impigliavano. Ogni vascello si muoveva in modo caotico, non in armonia con gli altri. Vedemmo che quasi tutti gli hyksos sui ponti portavano le armature bronzee. Evidentemente non avevano capito quanto fosse difficile nuotare in quelle condizioni. Ci guardavano costernati mentre ci avvicinavamo: finalmente i ruoli s'erano invertiti. Noi eravamo nel nostro elemento, e loro erano in preda ai capricci del vento come una vela lacera. Ebbi a disposizione qualche momento per studiare i nemici. Il grosso dell'esercito era ancora sulla riva orientale. Stavano bivaccando ed erano così numerosi che l'accampamento si estendeva fino ai piedi delle colline, fin dove potevo giungere con lo sguardo dal ponte del Soffio di Horus. Il re Salitis stava mandando oltre il fiume un contingente limitato, che aveva senza dubbio l'ordine di scendere velocemente lungo la riva Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
357
occidentale e di impadronirsi del tempio funerario del Faraone Marnose prima che noi potessimo portar via il tesoro. Ci avvicinammo rapidamente al convoglio delle navi degli hyksos, e io gridai a Tanus, fra il rullo dei tamburi e le urla feroci dei nostri: «Hanno già portato i cavalli sull'altra sponda. Guarda!» Protetta soltanto da poche guardie armate, c'era un'enorme mandria di animali sulla riva occidentale. Calcolai che fossero centinaia: e anche da quella distanza riuscivamo a scorgere le lunghe criniere fluenti e le code agitate dal forte vento settentrionale. Era uno spettacolo inquietante. Alcuni degli uomini che mi stavano intorno rabbrividivano e imprecavano con odio e ribrezzo. Ne sentii uno borbottare: «Gli hyksos nutrono i loro mostri di carne umana, come se fossero leoni o sciacalli. È la vera ragione del massacro: hanno bisogno di cibo per sfamarli. Chissà quanti nostri commilitoni sono già finiti nei loro ventri?» Non potevo contraddirlo, anzi avevo la sgradevole sensazione che dicesse la verità. Distolsi l'attenzione dai magnifici mostri sanguinari e la rivolsi alle navi davanti a noi. «Li abbiamo sorpresi mentre trasportano carri e uomini sull'altra riva», dissi a Tanus. I ponti dei vascelli tolti a Nembet erano carichi di carri e materiali, e affollati di guerrieri. Quando si resero conto della difficoltà della loro situazione, alcuni tentarono di tornare indietro per rifugiarsi sulla riva orientale, si scontrarono con le navi che li seguivano, rimasero incastrati e furono trascinati via dalla corrente. Tanus rise nel vedere quella confusione e gridò nel vento: «Segnale generale: aumentare il ritmo alla velocità d'attacco. Accendere le frecce incendiarie». Gli hyksos non avevano mai subito un attacco di quel tipo, e al pensiero di quanto stava per accadere risi anch'io, sebbene nervosamente. Poi m'irrigidii e la mia risata si spezzò. «Tanus!» Gli strinsi il braccio. «Guarda! Guarda la nave davanti a noi. Là, a poppa! Ecco il traditore.» Per un momento Tanus non riconobbe l'alta figura maestosa che stava accanto al parapetto, perché portava la corazza a squame e l'elmo degli hyksos. Poi proruppe in un urlo di collera e d'indignazione. «Intef! Perché non avevamo intuito che era lui?» «Ora capisco tutto. Ha guidato Salitis in Egitto. È andato in oriente e ha Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
358
tentato gli hyksos con le descrizioni dei nostri tesori.» Anch'io ero indignato quanto Tanus. Tanus tese l'arco Lanata e scagliò una freccia: la distanza però era troppo grande e la punta rimbalzò contro la corazza di Intef. Lo vidi girare di scatto la testa e guardare verso di noi. Ci riconobbe entrambi e per un momento credetti di vedere la paura nei suoi occhi. Poi si chinò e scomparve dietro il parapetto. La nostra squadra all'avanguardia si avventò in mezzo alla confusione delle navi avversarie. Con un suono lacerante lo sperone di bronzo colpi la parte centrale del vascello di Intef. La violenza dell'urto fu tale che caddi. Quando mi rialzai, i rematori stavano già vogando all'indietro, e con un altro schianto del fasciame ci disincagliammo. Nel contempo i nostri arcieri facevano piovere sulla nave nemica una grandinata di frecce incendiarie. Intorno alle punte erano legati ciuffi di steli di papiro intrisi di pece, che ardevano come comete, lasciando una scia di scintille e di fumo mentre volavano nelle vele. Il vento dei nord alimentava le fiamme che salivano guizzando sul sartiame con esuberanza diabolica. L'acqua continuò a penetrare nello squarcio, e la nave s'inclinò nettamente. Le vele presero fuoco e bruciarono con incredibile rapidità. Nonostante la distanza, il calore era così intenso che mi bruciacchiò le ciglia. La grande vela maestra incendiata piombò sul ponte, imprigionando gli uomini dell'equipaggio e i guidatori dei carri. Le urla ci trapassarono gli orecchi quando il fuoco avvolse i capelli e gli indumenti. Io ricordavo la piana di Abnub e non provavo alcuna pietà per loro mentre si gettavano in acqua e venivano trascinati a fondo dal peso delle corazze. Soltanto un gorgo increspato e qualche sbuffo di vapore segnavano il punto dove erano scomparsi. Lungo l'intera linea le navi degli hyksos bruciavano e colavano a picco. I nostri nemici non avevano l'esperienza e l'abilità necessarie per controbattere il nostro attacco, ed erano impotenti quanto lo eravamo stati noi di fronte all'assalto dei carri. Le nostre navi indietreggiarono e caricarono di nuovo, fracassando lo scafo delle loro e bersagliandole con torrenti di frecce incendiarie. Osservavo la prima nave che avevamo attaccato, nella speranza di rivedere il nobile Intef. Era quasi affondata quand'egli ricomparve all'improvviso. S'era liberato dell'elmo e della corazza di bronzo, e portava Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
359
un perizoma di lino. Si tenne agevolmente in equilibrio sul parapetto e poi, quando le fiamme si tesero per avvilupparlo, giunse le mani sopra la testa e si tuffò. Era un figlio del Nilo e si trovava a suo agio in quelle acque. Risali in superficie dopo un minuto, a cinquanta passi di distanza dal punto in cui s'era immerso, con i lunghi capelli bagnati e incollati alla testa che lo facevano somigliare a una lontra. «Eccolo!» gridai a Tanus. «Travolgi quel maiale!» Tanus diede subito l'ordine di far virare il Soffio di Horus, ma anche se il timoniere obbedì con prontezza, la nave si girò lentamente. Intanto il nobile Intef guizzava nell'acqua come un pesce, e si dirigeva verso la riva orientale e la protezione dei suoi alleati. «Forza!» Tanus diede un segnale ai rematori di babordo, che girarono la prua. Appena fummo in linea con il fuggiasco, Tanus ordinò di remare tutti insieme, e ci lanciammo all'inseguimento. Ma ormai Intef ci aveva distanziati ed era vicino alla riva dove cinquemila arcieri hyksos attendevano con gli archi tesi, pronti ad assicurargli una copertura. «Che Seth pisci su di loro!» urlò Tanus in tono di sfida. «Gli porteremo via Intef da sotto il naso!» Fece puntare il Soffio di Horus verso di loro per inseguire il nuotatore solitario. Quando giungemmo a tiro, gli hyksos lanciarono una raffica di frecce che oscurò il cielo. I dardi caddero intorno a noi in una nube sibilante. Erano così fitti che si piantarono sul ponte, numerosi come le penne sull'ala di un'oca. Alcuni rematori furono colpiti e caddero dai banchi contorcendosi e perdendo sangue. Ma eravamo ormai vicini a Intef. Girò la testa. Lessi sul suo volto il terrore quando si rese conto di non poter sfuggire alla nostra prua appuntita. Ignorai le frecce che cadevano e corsi a urlargli: «Ti ho odiato dal primo giorno che ci siamo incontrati. Ho odiato ogni contatto con te. Voglio vederti morire. Sei malvagio! Malvagio!» Mi senti. Glielo lessi negli occhi. Poi le divinità tenebrose vennero di nuovo in suo aiuto. Una delle navi degli hyksos che stavano affondando si avvicinò a noi sprizzando fumo e fiamme. Se ci avesse toccati saremmo andati a picco con lei in una torre di fuoco. Tanus fu costretto a girare il timone e a segnalare con urgenza ai rematori di indietreggiare. La nave incendiata passò fra noi e la riva e ci nascose Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
360
Intef; ma quando passò oltre, lo rividi. Tre robusti hyksos lo stavano trascinando fuori dell'acqua, sulla riva scoscesa. Si fermò sull'argine, si voltò a guardarci e quindi spari, mentre io tremavo per la rabbia e la delusione. Molti dei nostri uomini cadevano sotto le frecce, e perciò Tanus ordinò di virare. Ci affrettammo quindi a partecipare alla distruzione dei pochi vascelli nemici che erano ancora a galla. Quando l'ultimo s'inclinò e si capovolse, le acque verdi del Nilo l'invasero e spensero le fiamme in una nube sibilante di vapore. I nostri arcieri si sporsero dalle fiancate e colpirono i pochi hyksos superstiti che si dibattevano fiaccamente in acqua. Appena si rese conto che erano tutti annegati, Tanus rivolse l'attenzione alla riva occidentale dove stavano un piccolo gruppo di nemici e la mandria di cavalli. Mentre la nostra nave si avvicinava rapidamente alla riva, i mandriani hyksos si diedero alla fuga, ma i nostri balzarono a terra con le spade in pugno e li rincorsero. Gli hyksos erano abituati ad andare in battaglia sui carri: i nostri erano fanti, allenati alla corsa, e isolarono e circondarono i nemici come un branco di cani a caccia d'uno sciacallo. Li fecero a pezzi e lasciarono cento cadaveri insanguinati sparsi sui campi verdi di durra. Ero balzato a terra dietro la prima ondata delle nostre truppe. Avevo un piano ben preciso. Non aveva senso realizzare modelli e progettare carri se non c'era un modo per trainare le ruote a raggi che avevo visto con l'immaginazione. Era necessario un enorme atto di coraggio da parte mia per avviarmi verso la mandria degli esseri terribili che gli hyksos avevano abbandonato sulla riva. Ogni passo mi costava uno sforzo di volontà, perché erano centinaia, chiaramente irrequieti e allarmati dalle grida e dal clangore delle armi. Ero certo che da un momento all'altro si sarebbero avventati contro di noi come leoni feriti. L'idea che avrebbero ingurgitato brani ancora caldi del mio corpo mi impedì di andare oltre. Mi fermai a una distanza di cento passi e, impaurito e affascinato, guardai quei predatori selvaggi tenendomi pronto a correre via e a mettermi al sicuro sulla nave al primo segno d'attacco. Era la mia prima occasione per studiare quegli animali. Erano quasi tutti bruni ma con sfumature diverse. Un paio erano neri come Seth. Erano alti come uomini, con il petto poderoso e colli lunghi, arcuati ed eleganti. Le Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
361
criniere sembravano le chiome di una bella donna, e i manti brillavano al sole come se fossero bruniti. Uno dei più vicini a me rovesciò la testa all'indietro e aggricciò il labbro superiore. Arretrai di scatto quando vidi i grossi denti quadrati. Scalciò con le zampe posteriori ed emise un nitrito così terribile che girai su me stesso e mi avviai velocemente verso la nave. Il grido rauco d'uno dei nostri soldati arrestò la mia pavida ritirata: «Uccidete i mostri degli hyksos!» «Uccidete i mostri!» Gli altri ripresero il grido. «No!» urlai, dimenticando i timori per la mia sicurezza. «No! Salvate i cavalli! Ne abbiamo bisogno.» La mia voce si perse nel rabbioso grido di guerra dei nostri soldati che si avventarono verso la mandria di cavalli con gli scudi levati e le spade ancora gocciolanti del sangue dei mandriani. Alcuni si fermarono per incoccare le frecce agli archi e per tirare contro gli animali. «No!» urlai, mentre uno stallone nero s'impennava e nitriva disperatamente, colpito da una freccia. «No! Vi prego, no!» urlai di nuovo mentre un marinaio accorreva con una scure da combattimento e recideva la giuntura della zampa d'una giovane femmina che, storpiata dal colpo, non poté fuggire quando la scure la centrò fra le orecchie e la fece stramazzare nella polvere. «Lasciateli stare! Lasciateli stare!» implorai, ma le frecce abbatterono una dozzina di quegli animali splendidi, e le spade e le scuri ne uccisero un'altra dozzina prima che la mandria cedesse all'assalto e trecento cavalli si lanciassero in massa al galoppo in direzione del deserto. Mi schermai gli occhi per seguire la fuga, e mi sembrò che una parte del mio cuore andasse con loro. Quando sparirono, accorsi per proteggere e assistere gli animali che erano rimasti feriti e storpiati in mezzo ai papiri. Ma i soldati mi avevano preceduto. Spinti dalla furia, si raccoglievano intorno alle carogne e, in preda alla frenesia, affondavano le lame nella carne inerte e facevano a pezzi le teste sfracellate. Un po' in disparte c'era un gruppo isolato di papiri, dietro il quale, nascosto alla vista dei soldati, stava lo stallone nero colpito per primo. Avanzò barcollando, con la freccia piantata profondamente nel petto. Senza pensare alla mia sicurezza, gli corsi incontro e mi fermai quando si voltò verso di me. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
362
Solo allora mi resi conto del pericolo. Era un animale ferito e, come un leone nelle stesse condizioni, mi avrebbe senza dubbio caricato. Ci guardammo, e io sentii la paura abbandonarmi. Gli occhi erano grandi e pieni di sofferenza. Erano occhi miti e bellissimi, e il mio cuore si gonfiò di pietà. Emise un suono debole e fremente e si avvicinò zoppicando. Tesi la mano, gli toccai il muso, morbido come la seta araba. Venne direttamente verso di me, e mi appoggiò la fronte al petto in un gesto di fiducia e d'implorazione quasi umano. Capii che mi chiedeva aiuto. Istintivamente gli cinsi il collo con le braccia. In quel momento desideravo soltanto salvarlo, ma dalle sue narici un filo di sangue mi colava sul petto. Compresi che era stato colpito ai polmoni e stava per morire. Non potevo aiutarlo. «Povero caro, che cosa ti hanno fatto quegli stupidi ignoranti!» mormorai. Vagamente, in quel momento d'angoscia, mi resi conto che la mia vita era cambiata di nuovo, e che a cambiarla era stata quella creatura morente. Mi sembrava di intuire che, negli anni futuri, dovunque avessi lasciato le mie impronte in terra africana, accanto vi sarebbero state le orme degli zoccoli d'un cavallo. Avevo trovato un altro grande amore destinato a riempire i miei giorni. Lo stallone emise di nuovo quel suono palpitante, e il suo respiro era caldo contro la mia pelle. Poi gli si piegarono le gambe. Cadde pesantemente sul fianco e giacque ansimando. Dalla ferita al petto usciva una schiuma rossa. Mi inginocchiai accanto a lui, sollevai la nobile testa e attesi fino a quando mori. Poi mi alzai e tornai al Soffio di Horus. Era difficile vedere la strada perché ero accecato dalle lacrime roventi. Mi rimproveravo d'essere uno sciocco sentimentale ma questo non serviva a rianimarmi. Ero sempre vulnerabile di fronte alla sofferenza di un'altra creatura, umana o no, specialmente quando era nobile e bella. «Accidenti a te, Taita! Dov'eri finito?» inveì Tanus quando salii a bordo. «C'è una battaglia in corso. L'esercito non può stare ad aspettare che finisca con le tue fantasticherie.» Comunque, non mi aveva abbandonato. Tanus non volle neppure ascoltarmi. M'interruppe con fare brusco quando chiesi il permesso di inseguire la mandria di cavalli nel deserto e di portare con me diversi uomini. «Non voglio aver a che fare con quegli esseri immondi», gridò. «Rimpiango che i miei li abbiano lasciati scappare invece di sterminarli Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
363
tutti. Speriamo che i leoni e gli sciacalli rimedino.» In quel momento compresi che li odiava non meno di quanto facessero i bricconi più ignoranti del suo reggimento. «C'eri, tu, sulla piana di Abnub?» Di solito non mi impegolo in discussioni accanite, ma la sua intransigenza mi fece infuriare. «Oppure accanto a me c'era uno stupido? Non hai visto il futuro che ti caricava su zoccoli e ruote e faceva a pezzi i tuoi uomini? Non capisci che senza carri e cavalli tu e l'Egitto che conosciamo siete spacciati?» Questa discussione amichevole si svolgeva sul ponte di poppa del Soffio di Horus. I suoi ufficiali tacevano inorriditi nel sentire uno schiavo che trattava il Grande Leone d'Egitto, comandante di tutte le armate, come se fosse un imbecille. Ma io avevo perso la pazienza, e continuai di slancio. «Gli dei ti hanno fatto questo dono meraviglioso. Trecento cavalli nelle tue mani! Ti costruirò i carri. Sei cieco al punto di non capire?» «Ho le mie navi!» ruggì Tanus. «Non ho bisogno di quelle immonde bestie antropofaghe. Sono un'abominazione agli occhi degli uomini onesti e degli dei benigni. Sono creature di Seth e Sutekh, e non voglio saperne.» Mi resi conto troppo tardi di aver spinto Tanus in una posizione dalia quale non poteva ritirarsi. Era un uomo intelligente... fino a che il suo orgoglio non imbavagliava la ragione. Moderai i toni e continuai con voce melliflua. «Ti prego, Tanus, ascoltami. Ho tenuto fra le mani la testa d'uno di quegli animali. Sono forti, ma stranamente gentili. Nei loro occhi brilla l'intelligenza d'un cane fedele. E non sono carnivori.» «E come hai potuto capirlo da un contatto così breve?» ringhiò Tanus, ancora indignato. «I denti», risposi. «Non hanno le zanne e neppure gli artigli dei carnivori. I maiali sono gli unici animali con gli zoccoli che mangino la carne, e quelli non sono maiali.» Lo vidi esitare e lo incalzai. «Se questo non ti basta, guarda le provviste che gli hyksos hanno trasportato oltre il fiume. Avrebbero bisogno di quella montagna di foraggio per nutrire un branco di leoni carnivori?» «Carne o foraggio, non voglio stare a discutere. Hai sentito la mia decisione. Lasceremo che quei maledetti cavalli periscano nel deserto. È la mia ultima parola.» Si allontanò rabbiosamente, ma io mormorai: «L'ultima parola, eh? Vedremo». C'erano ben poche occasioni in cui non potevo spuntarla con la mia Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
364
padrona, e adesso lei era la massima autorità dell'Egitto. Andai a trovarla quella sera stessa non appena la nave reale tornò sotto la protezione dei vascelli da guerra. All'insaputa di Tanus le mostrai il modellino funzionante del carro trainato dai minuscoli cavalli. La regina Lostris ne fu incantata. Naturalmente non aveva visto gli squadroni dei carri da guerra alla carica, e non provava per loro lo stesso odio del grosso dell'esercito. Quando ebbi conquistato la sua attenzione con il modellino, le descrissi la morte dello stallone con tale partecipazione che entrambi piangemmo. La regina non riusciva a resistere alle mie lacrime, come io non resistevo alle sue. «Devi andare immediatamente nel deserto a salvare quegli animali meravigliosi. E quando avrai tempo, ti ordino di creare uno squadrone di carri per le mie armate», esclamò. Se Tanus le avesse parlato prima che avessi la possibilità di convincerla, non credo che avrebbe dato quell'ordine, e la storia del nostro mondo sarebbe stata molto diversa. Cosi, Tanus s'infuriò per il mio raggiro, e per la prima volta in tutti quegli anni arrivammo sull'orlo della rottura della nostra amicizia. Per fortuna la regina Lostris mi aveva ordinato di scendere a terra, e potei sfuggire alla collera di Tanus. Avevo a disposizione poche ore per radunare alcuni aiutanti, e il primo tra tutti era anche il più inverosimile. Non avevo mai preso in simpatia Hui, l'Averla che avevamo catturato a Gallala e che aveva comandato una delle navi affondate ad Abnub per ordine di Tanus. Adesso era un capitano senza nave, e cercava una ragione per tirare avanti. Venne a cercarmi appena si sparse la notizia della mia missione. «Che cosa sai dei cavalli?» mi chiese in tono di sfida. In quel momento non ero preparato a rispondere alla domanda. «Evidentemente ne so meno di te», ribattei per prudenza. «Una volta ero mozzo di scuderia», si vantò Hui con la baldanza abituale. «Sarebbe a dire?» «Uno che cura i cavalli», rispose. Lo fissai sbalordito. «E dove mai avevi visto i cavalli prima della sanguinosa giornata di Abnub?» chiesi. «Quand'ero piccolo i miei genitori furono uccisi e io fui catturato da una tribù di barbari che vagavano nelle pianure orientali, un anno di viaggio al Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
365
di là del fiume Eufrate. Avevano i cavalli, e da bambino vivevo con quegli ammali. Il latte delle giumente era il mio cibo, e dormivo sotto la pancia dei cavalli per ripararmi, la notte, perché gli schiavi non potevano entrare nelle tende. Quando fuggii, lo feci in groppa al mio stallone preferito. Mi portò molto lontano, ma morì prima di arrivare all'Eufrate.» Hui era con me quando una nave trasbordò sulla riva occidentale un piccolo gruppo riluttante di cacciatori di cavalli. Ero riuscito a reclutare appena sedici uomini, ed erano la feccia dell'esercito. Tanus aveva fatto in modo che nessuno dei migliori mi accompagnasse. Non poteva contrastare la volontà della reggente, ma mi rese difficile per quanto era possibile l'esecuzione dell'ordine. Seguendo il consiglio di Hui avevo equipaggiato i miei con leggere corde di lino e sacchi di grano di durra macinato. Tutti, tranne me e Hui, erano atterriti al solo pensiero degli animali che dovevamo inseguire. Quando mi svegliai, la mattina dopo la prima notte di ricerche, mi accorsi che erano spariti tutti. Non li rividi mai più. «Dobbiamo tornare indietro!» esclamai disperato. «Da soli non possiamo far nulla. Il nobile Tanus sarà soddisfatto: sapeva che sarebbe andata così.» «Non sei solo», rispose allegramente Hui. «Ci sono io.» Per la prima volta incominciai a provare un po' di simpatia per quel giovane vanaglorioso. Ci dividemmo il carico di corde e di sacchi e proseguimmo. Le tracce dei cavalli risalivano a tre giorni prima; ma erano rimasti uniti e avevano aperto una specie di pista facile da seguire. Hui mi assicurò che avevano un forte istinto di branco, e che con quei ricchi pascoli lungo il fiume non potevano essersi allontanati molto. Era certo che non si fossero addentrati nel deserto, contrariamente ai miei timori. «Perché dovrebbero? Là non troverebbero né cibo né acqua.» Risultò che aveva ragione. Con l'arrivo degli hyksos, i contadini avevano abbandonato le fattorie e si erano rifugiati nelle città murate. I campi erano incolti, e il grano cresciuto a metà. Trovammo la mandria prima del mezzodì del secondo giorno. Era sparsa in uno dei campi e pascolava pacificamente. Nonostante la mia esperienza con lo stallone ferito, quelle creature misteriose mi incutevano un certo nervosismo. «Sarà difficile e pericoloso catturarne qualcuno», confidai a Hui per chiedergli consiglio. Non avevo neppure pensato di poterli prendere tutti. Mi sarei accontentato di venti, e sarei stato felice se fossero stati cinquanta. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
366
Immaginavo che avremmo dovuto stenderli a terra a uno a uno e legarli con le corde. «Ho sentito dire che hai fama di essere uno schiavo molto intelligente.» Hui sogghignò, fiero di saperne più di me. «Ma senza dubbio è una reputazione infondata.» Mi mostrò come dovevo usare le corde per intrecciare una cavezza. Ne preparammo una dozzina prima che fosse soddisfatto. Poi ci armammo con una cavezza e un sacco di grano macinato per ciascuno e ci avviammo verso i cavalli al pascolo. Non ci muovemmo direttamente verso di loro, ma procedemmo obliquamente a passo tranquillo accanto agli animali ai margini del branco. «Vai piano, ora», mi raccomandò Hui quando le bestie alzarono la testa e ci scrutarono con quegli occhi stranamente franchi e quasi infantili che avrei imparato a conoscere così bene. «Siedi.» Ci lasciammo cadere fra il grano e restammo immobili fino a quando i cavalli ripresero a pascolare. Poi avanzammo fino a che li vedemmo diventare irrequieti. «Giù!» ordinò Hui. E quando fummo accovacciati fra il grano continuò: «Amano il suono d'una voce gentile. Quand'ero bambino cantavo per calmare i miei cavalli. Stai a vedere!» Incominciò a cantare un ritornello in una lingua che non conoscevo e che doveva essere quella dei suoi catturatori. La sua voce era melodiosa quanto il gracchiare dei corvi che si disputano la carogna putrefatta d'un cane. I cavalli più vicini ci fissarono incuriositi. Posai la mano sul braccio di Hui per farlo tacere. Ero certo che la mandria, come me, giudicava sgradevoli i suoi tentativi canori. «Lasciami provare», mormorai. E cantai la ninnananna che avevo composto per il mio principe: Dormi, Memnone, Sovrano dell'Aurora, dormi, principino, tu dominerai il mondo. Riposa la testolina ricciuta piena di sogni meravigliosi, riposa le braccia che diventeranno forti per reggere arco e spada. Una delle cavalle più vicine si accostò di qualche passo, e quando si fermò emise dalle labbra quel suono sommesso e palpitante. Era incuriosita, e io continuai a cantare dolcemente. Era seguita da un puledro, un'incantevole bestiola baia con la testa graziosa e gli orecchi diritti. Grazie al dono particolare che mi permette di comprendere gli animali, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
367
incominciavo già a capire perché sarebbe stato utile allevare quegli esseri. Imparavo in fretta e istintivamente a trattare con loro e non dovevo più affidarmi del tutto alle istruzioni di Hui. Continuai a cantare; presi una manciata di farina e la porsi alla cavalla. Mi accorsi subito che era abituata a quei trattamenti e capiva la mia offerta. Soffiò dalle narici e si accostò di qualche altro passo. Ancora oggi ricordo il brivido che per poco non arrestò il battito del mio cuore quando mosse l'ultimo passo e abbassò delicatamente la testa nella mia mano per assaggiare la farina che le incipriò il muso. Risi per la gioia e l'emozione nel vederla mangiare. Non cercò di scostarsi quando le passai l'altro braccio intorno al collo al quale appoggiai la guancia, per respirare l'odore strano e caldo della sua pelle. «La cavezza», mi rammentò sottovoce Hui. La infilai sopra la testa della giumenta come lui mi aveva insegnato. «È tua», disse Hui. «E io sono suo», risposi senza riflettere. Ma era vero: c'eravamo conquistati a vicenda. Il resto della mandria aveva osservato la scena. Appena videro che avevo messo la cavezza alla giumenta gli animali si acquietarono e lasciarono che Hui e io ci aggirassimo fra loro. Venivano a mangiare nelle nostre mani, lasciavano che gli esaminassi gli zoccoli e gli accarezzassi il collo e le spalle. Al momento mi sembrò un miracolo; ma dopo una certa riflessione compresi che era del tutto naturale. Erano abituati fin dalla nascita a essere curati e accarezzati, nutriti e imbrigliati. Erano sempre vissuti a stretto contatto con gli uomini. Il vero miracolo venne più tardi, quando mi accorsi che sapevano riconoscere l'affetto ed erano capaci di ricambiarlo. Hui aveva messo la cavezza a un'altra giumenta e nel frattempo non aveva smesso di darmi spiegazioni e di dimostrarmi la sua conoscenza degli equini. Io ero così euforico che per una volta la sua presunzione non m'irritava. «Bene», disse finalmente Hui. «Adesso gli monteremo in groppa!» Con il mio più grande stupore appoggiò le mani sul dorso della sua cavalla, si sollevò, le passò una gamba sopra la schiena e sedette a cavalcioni. Lo fissai incredulo. Mi aspettavo che la cavalla reagisse con violenza, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
368
s'impennasse e lo scagliasse a terra o almeno gli azzannasse la gamba con i denti poderosi e lo buttasse giù. Ma non lo fece: rimase tranquilla, dolcissima. «Ehilà, bellezza mia!» esclamò il giovane, e le premette i calcagni contro i fianchi. La giumenta si avviò e quando Hui la spronò di nuovo procedette prima al trotto e poi al galoppo. Hui la guidava agevolmente, in un modo che non riuscivo a capire. Animale e cavaliere compirono eleganti evoluzioni sul prato, quindi tornarono verso di me. «Su, Taita, prova a galoppare!» Capivo che si aspettava un rifiuto: e questo mi indusse a vincere la riluttanza. Non potevo permettere che il giovane insolente avesse la meglio. Il mio primo tentativo di montare fallì, ma la giumenta restò tranquilla e Hui rise. «Ha davvero molte cose da insegnarti. Dovresti chiamarla Pazienza.» Non mi sembrò molto spiritoso, ma il nome rimase: da quel giorno la cavalla divenne Pazienza. «Sollevati più in alto prima di girare la gamba, e stai attento a non strizzarti le palle quando siedi», consigliò Hui, poi rise fragorosamente. «Ah, di questo non devi preoccuparti. Credo che saresti felice di averne ancora un paio, a costo di schiacciarle.» Tutta la simpatia che cominciavo a provare per lui si dileguò dopo quella battuta; mi buttai sulla groppa della cavalla e mi aggrappai al collo con entrambe le mani per paura di finire sfracellato. «Stai seduto eretto!» Hui incominciò a istruirmi e Pazienza collaborò con la sua tollerante mitezza. Mi sorprendevo a pensare a quegli animali in termini umani; ma nei giorni seguenti, mentre procedevamo verso Tebe, scoprii che potevano essere stupidi o intelligenti, sospettosi o fiduciosi, austeri o maliziosi, amichevoli o scostanti, coraggiosi o pavidi, nervosi o flemmatici, tolleranti o impazienti, prevedibili o bizzarri... insomma, più simili all'uomo per temperamento di qualunque 'altro quadrupede. Più passavo il tempo a lavorare con loro e più li amavo. Procedevo in testa, in groppa a Pazienza, con il puledrino alle calcagna. La mandria ci seguiva docilmente... tutti i trecentosedici cavalli. Hui veniva alla retroguardia per raccogliere i ritardatari. Via via che avanzavamo mi sentivo sempre più sicuro, e il rapporto fra me e Pazienza si consolidò. La cavalla divenne un'estensione del mio corpo, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
369
assai più veloce e più forte delle mie membra. Mi sembrava giusto e naturale trovarmi su quella groppa robusta e mi sbalordivo perché pochissimi altri erano disposti a dividere quell'esperienza. Forse non era soltanto il terrore che aveva colpito i nostri soldati sulla piana di Abnub, ma anche le parole e l'atteggiamento del nobile Tanus Harrab li avevano influenzati. In ogni caso, non riuscii a trovare un egizio disposto a montare in groppa a un cavallo, eccettuati Hui e, molto più tardi, il principe Memnone. Naturalmente gli altri impararono a curare e allevare i cavalli. Sotto la mia guida diventarono abili conduttori di carri, ma non vidi mai uno di loro a cavallo. Quando i carri ideati da me, con le ruote a raggi, travolsero ogni resistenza e fecero dell'Egitto il trionfatore del creato, Tanus non segui il nostro esempio, e non lo sentii mai esprimere un sentimento affettuoso per gli ammali docili e coraggiosi che lo portavano in battaglia. Anche molti anni dopo, quando i cavalli erano comunissimi in tutto il regno, era considerato osceno e indecoroso montarli. Quando noi tre passavamo a cavallo, molta gente comune sputava tre volte per terra e faceva gli scongiuri contro il malocchio. Tutto questo comunque apparteneva al futuro quando guidai la mia mandria lungo la riva destra del fiume in direzione di Tebe. Fummo accolti con gratitudine dalla mia padrona e con scarso entusiasmo dal comandante in capo delle armate egizie. Devo ammettere che il suo malumore aveva valide giustificazione. La salvezza dello Stato era in pericolo. In tutta la storia egizia non c'era mai stato un momento in cui la nostra civiltà fosse stata minacciata così gravemente dai barbari. Tebe era perduta, come tutta la riva orientale del fiume sino a Dendera. Per nulla spaventato dalla sconfitta navale subìta a opera di Tanus, il re Salitis aveva continuato con i carri e aveva circondato la grande città murata. Le mura avrebbero potuto resistere a un assedio decennale, ma purtroppo in campo nemico c'era il nobile Intef. Venimmo a sapere che quando era ancora gran visir dell'Alto Egitto aveva ordinato in segreto la costruzione di un passaggio nascosto sotto la cinta muraria. Persino io, che conoscevo quasi tutti gli altri suoi segreti, non ne avevo mai avuto il sospetto e, poiché Intef aveva sterminato gli operai che avevano effettuato il lavoro, era rimasto il solo a conoscerne l'esistenza. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
370
Non so perché avesse fatto costruire la galleria: ma la sua mente tortuosa era portata a quei sotterfugi. Il palazzo era pieno di botole e corridoi nascosti, come la tana di una lepre o di una volpe del deserto. Quando il nobile Intef gliene rivelò l'esistenza, il re Salitis mandò un drappello dei suoi uomini migliori nel passaggio segreto; una volta all'interno delle mura assalirono le ignare guardie egizie che sorvegliavano le porte, le massacrarono e spalancarono i battenti. L'orda degli hyksos si riversò nella città: così pochi giorni dopo l'inizio dell'assedio, Tebe fu perduta e metà dei suoi abitanti vennero uccisi. Dalla riva occidentale, dove Tanus aveva stabilito il suo quartier generale nel palazzo incompiuto di Memnone, vedevamo bruciare i tetti degli edifici oltre il fiume che gli hyksos avevano incendiato. Ogni giorno scorgevamo le nubi di polvere sollevate dai loro carri mentre correvano avanti e indietro sulla sponda opposta e lo scintillare delle lance sul pendio dove ci preparavamo per la battaglia che sapevamo inevitabile. Con la sua flotta decimata, Tanus era riuscito fino a quel momento a tenere la linea del fiume, e durante la mia assenza aveva respinto un altro tentativo che gli hyksos avevano compiuto per attraversare il Nilo in forze. Le nostre difese erano piuttosto fragili perché dovevamo proteggere un vasto tratto del fiume, mentre gli hyksos potevano attraversare dove preferivano. Le nostre spie sulla sponda orientale ci comunicarono che avevano requisito tutte le imbarcazioni, dalle chiatte ai barchini. Avevano fatto prigionieri molti operai dei nostri cantieri e li avevano costretti a lavorare. Potevamo essere certi che il nobile Intef li consigliava in tutto, perché doveva essere ansioso quanto Salitis di mettere le mani sui tesori del Faraone. Gli equipaggi delle nostre navi erano sempre in armi, di giorno e di notte, e Tanus dormiva quando poteva, cioè non molto spesso. La mia padrona e io lo vedevamo poco; e quando lo vedevamo era sempre esausto e impaziente. Ogni notte arrivavano sulla riva occidentale molte centinaia di profughi di tutte le età che attraversavano il Nilo con ogni tipo di zattere e di piccole imbarcazioni. Molti dei più robusti passavano il fiume a nuoto. E tutti desideravano disperatamente sfuggire agli hyksos. Riferivano episodi atroci di rapine e saccheggi, ma ci davano anche notizie aggiornate sui movimenti dei nemici. Naturalmente li accoglievamo tutti, perché erano compatrioti: ma erano Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
371
così numerosi da intaccare le nostre risorse. I nostri granai più grandi erano tutti a Tebe, e quasi tutte le mandrie di bovini e i greggi di pecore erano caduti nelle mani degli hyksos. La regina Lostris mi affidò il compito di raccogliere tutte le scorte di cereali e tutte le mandrie sulla riva occidentale. Preparai gli elenchi per razionare carne e grano. Per fortuna era la stagione dei datteri, e il fiume forniva pesce in abbondanza. Gli hyksos non sarebbero riusciti a prenderci per fame. La mia padrona mi aveva anche nominato comandante della reale cavalleria. Non c'era concorrenza per quell'incarico, tanto più che non comportava paga o privilegi. Nominai Hui mio vice; e per mezzo di minacce, ricatti e corruzione riuscì a reclutare cento inservienti per aiutarlo a curare i nostri cavalli. Avevamo deciso che più tardi li avremmo addestrati come guidatori di carri. Per me era difficile trovare ogni giorno il tempo di visitare le nostre scuderie improvvisate nella necropoli. Pazienza mi correva sempre incontro per salutarmi e io portavo focacce per lei e per il puledrino. Spesso riuscivo a sottrarre il principe Memnone alla madre e alle governanti; lo issavo sulle spalle e lo portavo nelle scuderie. Memnone strillava emozionatissimo appena vedeva i cavalli. Lo tenevo seduto davanti a me in groppa a Pazienza che galoppava lungo la riva del fiume, e lui schioccava la lingua e muoveva il sederino per imitare il modo in cui incitavo la giumenta. Facevo di tutto perché il nostro percorso non incrociasse mai quello di Tanus. Non mi aveva ancora perdonato e, se avesse visto il figlio in groppa a un odiato cavallo, sapevo che se la sarebbe presa con me. Passavo anche molto tempo nell'officina degli armaioli del tempio funerario di Marnose, dove alcuni dei migliori artigiani del mondo mi aiutarono a costruire il primo carro. Mentre progettavo i veicoli, mi vennero in mente certi congegni destinati a diventare la nostra prima linea difensiva contro i carri degli hyksos. Erano semplici, lunghe aste di legno affilate alle due estremità e con le punte indurite con il fuoco. Ognuno dei nostri fanti poteva portarne una decina sulle spalle. Quando si avvicinava uno squadrone di cavalleria, le aste venivano piantate obliquamente in terra, con le punte al livello del petto dei cavalli. I nostri uomini si piazzavano dietro la barriera di lance e scagliavano le frecce. Quando diedi una dimostrazione a Tanus della mia invenzione, mi passò Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
372
un braccio intorno alle spalle per la prima volta da quando avevamo litigato a causa dei cavalli. «Bene», disse, «almeno non sei rimbambito.» Capii che mi aveva perdonato almeno in parte. Ma il terreno che avevo riguadagnato lo persi quasi completamente per la questione del carro di Taita. I miei artigiani e io avevamo ultimato il primo carro. Il parapetto e le fiancate erano di bambù tagliato e lavorato come un cesto. L'asse era di legno d'acacia, i mozzi di bronzo forgiato a mano e lubrificato con grasso di montone, e le ruote a raggi erano cerchiate egualmente di bronzo. Il carro era così leggero che due uomini potevano sollevarlo e portarlo sul terreno accidentato dove i cavalli non avrebbero potuto trainarlo. Persino io mi rendevo conto che era un capolavoro; e gli artigiani Io chiamarono carro di Taita, un nome che accettai senza fare obiezioni. Hui e io attaccammo due dei nostri cavalli migliori, Pazienza e Lama, e andammo a fare una prima galoppata. Impiegammo un po' per imparare a controllare il veicolo, ma ci riuscimmo piuttosto in fretta. I cavalli, che erano abituati, ci mostravano come si doveva fare. Alla fine volavamo sul terreno e compivamo curve molto strette senza rallentare. Quando tornammo alle scuderie, emozionati e trionfanti, eravamo convinti che il nostro carro fosse più veloce e maneggevole di quelli che gli hyksos avrebbero inviato contro di noi. Per dieci giorni continuammo a collaudare e a modificare la mia invenzione e lavorammo alla luce delle lampade nell'armeria fino ai turni di notte più avanzati; finalmente decisi che potevo mostrare a Tanus il risultato. Tanus arrivò imbronciato e riluttante, ed esitò a salire dietro di me sul carro. «Mi fido di questa tua trappola quanto mi fido dei mostri maledetti che la trascinano», borbottò. Ma io insistetti, e alla fine sali sulla pedana e partimmo. Feci procedere i cavalli a un trotto tranquillo fino a quando sentii che Tanus si rilassava e, suo malgrado, cominciava ad apprezzare quella corsa; allora li lanciai al piccolo galoppo. «Vedi com'è veloce? Puoi piombare sui nemici prima che se ne accorgano», esclamai. Rise per la prima volta, e mi sentii incoraggiato. «Con le tue navi domini Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
373
il fiume. Con questo carro dominerai la terraferma. Dominerai il mondo. Nulla potrà opporsi a te.» Mi guardai dal criticare le sue amatissime navi e dal fare paragoni poco lusinghieri «È questa la velocità massima?» gridò Tanus, fra lo scalpitio degli zoccoli. «Con un buon vento, il Soffio di Horus è più veloce.» Era una menzogna e una sfida. «Aggrappati alla fiancata e respira profondamente», gli dissi. «Ti porterò dove volano le aquile.» E lanciai Pazienza e Lama. Nessun uomo aveva mai viaggiato a una simile velocità. Il vento ci bruciava gli occhi e le lacrime che ne sgorgavano venivano ributtate nei capelli. «Per il dolce respiro di Iside!» gridò emozionato Tanus. «È...» Non seppi mai che cosa intendeva dire, perché non terminò la frase. In quell'istante una delle ruote urtò contro una pietra, e il cerchione esplose. Il carro si capovolse e Tanus e io fummo scagliati in aria. Ricaddi a terra con una violenza che avrebbe potuto storpiarmi; ma non sentivo dolore perché ero troppo preoccupato dal modo in cui Tanus avrebbe preso l'incidente e avrebbe distrutto i miei sogni e i miei piani. Mi rialzai e lo vidi strisciare sulle ginocchia sanguinanti venti passi più in là. Era coperto di polvere e aveva metà faccia spellata. Cercò di conservare la dignità mentre si rimetteva in piedi e tornava barcollando verso il carro sfasciato, ma zoppicava vistosamente. Per un lungo istante restò a fissare il rottame della mia creazione, quindi proruppe in un muggito degno d'un toro ferito e gli sferrò un calcio così potente da capovolgerlo di nuovo come se fosse un giocattolo. Poi si voltò senza degnarmi di un'occhiata e si allontanò claudicando. Non lo rividi per una settimana, e quando ci incontrammo nessuno dei due parlò del carro. Credo che l'incidente avrebbe potuto segnare la fine del progetto e che non avremmo mai costituito il nostro primo squadrone, se in fatto di ostinazione l'orgoglio della mia padrona non avesse superato persino quello del suo amante. Mi aveva dato un ordine e non intendeva ritirarlo. Quando Tanus cercò di convincerla, riuscì soltanto a rafforzare la mia posizione. In tre giorni Hui e io ricostruimmo il carro e ne fabbricammo un altro identico. Prima che gli imbalsamatori della cappella funeraria avessero completato i settanta giorni rituali per la mummificazione del re, noi avevamo a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
374
disposizione il primo squadrone di cinquanta carri e avevamo addestrato i guidatori. Da quando eravamo tornati nel palazzo di Memnone, dopo la sconfitta nella battaglia di Abnub, la mia padrona era stata molto occupata con gli affari di Stato impostile dalla reggenza. Trascorreva molte ore con i ministri e i consiglieri. L'insegnamento che le avevo impartito nel palazzo di Elefantina cominciava a dare i suoi frutti. Le avevo insegnato a destreggiarsi in modo infallibile nei meandri del potere e dell'influenza. Aveva solo ventun anni; ma era regina, e come tale governava. Ogni tanto s'imbatteva in un problema che la angustiava o la sconcertava in modo particolare, e mi convocava. Abbandonavo il lavoro nell'armeria o alle scuderie o al piccolo scrittoio che mi aveva assegnato poco lontano dalla sala delle udienze, e correvo da lei. A volte passavo intere giornate seduto ai piedi del suo trono e la guidavo nelle decisioni difficili. Ancora una volta la mia capacità di leggere le labbra degli uomini senza udire le parole ci fu molto utile. Certi nobili, in fondo alla sala, mentre tramavano o complottavano fra loro, non si accorgevano che io stavo riferendo alla mia padrona le loro esatte parole. La regina acquisi ben presto la fama di essere dotata di sagacia e prescienza. Né lei né io avemmo grandi possibilità di riposarci in quei giorni bui e preoccupanti. Sebbene le giornate fossero molto piene, le notti erano lunghe. Gli interminabili consigli di Stato e di guerra si protraevano fin dopo mezzanotte. Appena veniva scongiurata una crisi, un'altra incombeva davanti a noi. Ogni giorno gli hyksos ci minacciavano più direttamente, e si indeboliva la tenuta della linea del fiume. A poco a poco un senso di disperazione ci invase. Gii uomini sorridevano poco e non ridevano mai. Persino i giochi dei bambini erano privi di allegria. Bastava guardare oltre il fiume: il nemico era là e si preparava, e ogni giorno diventava più forte. Dopo settanta giorni, la mummificazione del Faraone venne completata. I miei sforzi per conservare il corpo avevano avuto buon esito, e il gran maestro della corporazione degli imbalsamatori mi aveva elogiato in presenza della mia padrona. Non aveva trovato tracce di putrefazione quando aveva tolto il cadavere dalla giara per le olive; persino il fegato, la parte più soggetta alla Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
375
corruzione, s'era ben conservato. Quando il re era stato deposto sulla lastra di diorite nella cappella funeraria, il gran maestro aveva inserito il cucchiaio nelle narici e aveva estratto il contenuto del cranio cui la salamoia aveva conferito la consistenza del formaggio. Poi il re era stato immerso nel bagno di sali di natron, dal quale emergeva soltanto la testa. Quando era stato estratto dal bagno dopo trenta giorni tutti i tessuti grassi si erano disciolti e gli strati esterni della pelle si erano staccati, eccettuati quelli della testa. L'avevano deposto di nuovo sulla lastra di pietra screziata e avevano raddrizzato lo scheletro in posizione distesa, l'avevano pulito e asciugato. La cavità dello stomaco era stata riempita con tamponi di lino intrisi di resina e cera, e poi suturata. I visceri, intanto, erano stati asciugati, collocati nei canopi d'alabastro, e sigillati. Durante i quaranta giorni successivi il corpo del re era rimasto a prosciugarsi completamente. Le porte della cappella erano allineate nella direzione dei venti caldi prevalenti che soffiava no sulla lastra funeraria. Al termine del periodo rituale di settanta giorni, il corpo del Faraone era asciutto come un fuscello di legna da ardere. Le unghie, che erano state asportate prima d'immergere il corpo nel bagno di natron, furono fissate alle dita delle mani e dei piedi con sottili fili d'oro. Il primo strato di bende di puro lino bianco fu avvolto intorno al corpo in modo che restassero scoperti soltanto la testa e il collo. La fasciatura era meticolosa e complessa, con le bende che si sovrapponevano e si incrociavano in motivi elaborati. Sui nodi furono collocati amuleti e talismani d'oro e pietre preziose. Le bende furono quindi intrise di lacche e resine che, asciugandosi, assunsero la consistenza della pietra. Era venuto il momento della cerimonia dell'Apertura della Bocca che, secondo la tradizione veniva compiuta dal parente più stretto del Faraone. Memnone era troppo piccolo, quindi toccò alla reggente. La mia padrona e io ci recammo nella cappella prima dello spuntar del sole. Il lenzuolo che copriva il re fu rimosso. La testa era meravigliosamente conservata. Gli occhi erano chiusi, l'espressione serena. Gli imbalsamatori gli avevano imbellettato e dipinto il viso: morto, aveva un aspetto migliore di quanto avesse avuto in vita. Mentre il sommo sacerdote di Ammon-Ra e il gran maestro della corporazione degli imbalsamatori preparavano gli strumenti per la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
376
cerimonia, salmodiammo l'Incantesimo per non morire per la seconda volta. Egli è l'immagine riflessa e non lo specchio, è la musica e non la lira, è la pietra e non lo scalpello che le dà forma, egli vivrà per sempre, non morirà per la seconda volta. Il sommo sacerdote porse alla mia padrona il cucchiaio d'oro, la prese per mano e la condusse alla lastra funeraria. La regina Lostris si chinò sul Faraone e gli posò il cucchiaio della vita sulle labbra dipinte. Io apro le tue labbra perché tu possa di nuovo parlare, apro le tue narici perché tu possa respirare. Quindi toccò le palpebre del re con il cucchiaio. Io apro i tuoi occhi perché possa vedere di nuovo lo splendore di questo mondo e l'aldilà degli dei dove dimorerai da questo giorno. Accostò il cucchiaio al petto bendato. Io risveglio il tuo cuore perché tu possa vivere in eterno. Non morirai una seconda volta. Tu vivrai per sempre! Poi attendemmo mentre gli imbalsamatori avvolgevano le bende intorno alla testa della mummia e la spennellavano di resina. Modellarono le bende bagnate in modo che aderissero al volto e finalmente posero sulla faccia fasciata la prima delie quattro maschere funerarie. Era la maschera funeraria che avevo visto forgiare in oro puro. Da vivo, il Faraone aveva posato per lo scultore e la maschera gli somigliava in modo sorprendente. Gli occhi di cristallo di rocca e di ossidiana parevano guardarmi con la vivacità e l'intelligenza possedute un tempo dal re. La testa di cobra si ergeva regale e mistica dalla fronte aristocratica. La mummia fu collocata nella bara interna d'oro; questa, una volta sigillata, fu deposta nella seconda bara dorata con una maschera scolpita sul coperchio. Metà del tesoro recuperato nel nascondiglio segreto del nobile Intef era stata usata per realizzare quel peso enorme di metallo prezioso e di gemme. Le bare erano sette in tutto, incluso il massiccio sarcofago di pietra che attendeva sulla slitta dorata, pronto per trasportare il Faraone lungo la strada cerimoniale soprelevata fino alla tomba fra le colline. Ma la mia padrona rifiutò di concedere la sua approvazione. «Ho giurato. Non posso deporre mio marito in una tomba che potrebbe essere saccheggiata dai barbari hyksos. Il Faraone giacerà qui fino a quando Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
377
non potrò mantenere la parola. Troverò una tomba sicura in cui potrà giacere per l'eternità. Gli ho promesso che nessuno disturberà il suo riposo.» Tre notti più tardi capimmo che la decisione della regina Lostris di rimandare la sepoltura era molto saggia. Gli hyksos tentarono di attraversare il fiume e Tanus riuscì a respingerli a stento. Compirono il tentativo in un tratto non sorvegliato del fiume, un po' a nord di Esna. Fecero attraversare i cavalli a nuoto, quindi li seguirono con una flotta di piccole imbarcazioni che avevano trasportato da Tebe per via di terra per nasconderci la loro intenzione. Riuscirono a creare una testa di ponte sulla sponda occidentale ma Tanus arrivò prima che potessero scaricare i carri e attaccare i cavalli. Distrusse le barche con i carri ancora a bordo, e lasciò quasi tremila hyksos arenati sulla nostra sponda. I loro cavalli si dispersero e fuggirono nella notte quando le truppe di Tanus effettuarono la prima carica. I nostri erano in condizioni di parità, ora che gli hyksos non avevano i carri: ma i nemici, che non potevano fuggire, si batterono con estremo accanimento. La consistenza numerica era quasi pari, perché Tanus era riuscito a portare sul posto soltanto un reggimento: il resto del suo esercito era sgranato lungo la riva occidentale. Il combattimento fu feroce e sanguinoso e si svolse nell'oscurità, rischiarata soltanto dai vascelli che Tanus aveva incendiato sulla spiaggia. Per una strana coincidenza o forse per volontà degli dei, Hui e io avevamo portato il nostro squadrone di cinquanta carri a Esna per un addestramento. Per la verità ci eravamo allontanati tanto da Tebe soprattutto per sottrarci alla disapprovazione e all'interferenza di Tanus. Eravamo accampati nel bosco sacro di tamarindi accanto al tempio di Horus a Esna. Ero esausto dopo una giornata trascorsa a galoppare e a manovrare il carro a grande velocità. Al ritorno all'accampamento, Hui aveva aperto un orcio di ottimo vino, e io avevo bevuto un po' troppo. Dormivo come un macigno quando Hui entrò barcollando nella mia tenda e mi svegliò. «Si vedono i fuochi sulla riva del fiume, verso valle», mi disse. «E quando gira il vento, si sentono le grida. Poco fa mi è parso di sentire l'inno di battaglia degli Azzurri. Credo che sia in corso un combattimento.» Mi reggevo anch'io a stento: reso temerario dal vino, gli gridai di svegliare tutti e di attaccare i cavalli. Eravamo ancora inesperti, e perciò era quasi l'alba prima che avessimo terminato. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
378
Nel freddo della nebbia dell'alba, ci avviammo al trotto lungo la strada del nord, affiancati a due a due. Io guidavo il primo carro, mentre Hui comandava la retroguardia. I nostri cinquanta carri erano stati ridotti a trenta dall'esercitazione del giorno prima, perché non ero ancora riuscito a perfezionare le ruote a raggi, che avevano l'allarmante tendenza a volare in pezzi alle velocità elevate, e quasi metà del mio squadrone era fuori uso. Il contatto del vento sul petto nudo mi faceva rabbrividire e attenuava la spavalderia ispirata dal vino. Cominciavo ad augurarmi che Hui avesse sbagliato, quando sentii all'improvviso il coro inconfondibile di grida e di acclamazioni e il clangore del bronzo sul bronzo. Questo poteva significare una cosa sola. Quando si odono una volta, non è facile dimenticare i rumori di una battaglia. La pista che stavamo seguendo lungo la riva del fiume svoltò verso sinistra. Allo sbocco della curva vedemmo il campo di battaglia. Il sole era appena spuntato all'orizzonte e aveva trasformato la superficie del fiume in una brillante lamina di rame battuto che feriva gli occhi. Le navi di Tanus erano a poca distanza dalla riva, per permettere agli arcieri di tirare contro gli hyksos e per tagliare ogni tentativo di ritirata attraverso il fiume. Il reggimento nemico resisteva al centro d'un campo di grano verde che arrivava al ginocchio. Gli uomini erano disposti in cerchio, spalla contro spalla, con gli scudi accostati e le lance protese in avanti. Quando li scorgemmo avevano appena respinto un altro tentativo di sfondamento. Il reggimento egizio si stava ritirando per riorganizzarsi e aveva lasciato morti e feriti sparsi intorno alla formazione difensiva nemica. Non sono un soldato, anche se ho scritto diversi testi sul modo di condurre la guerra. Il titolo di comandante della cavalleria reale mi era stato imposto dalla regina nonostante la mia profonda riluttanza. Io avrei voluto limitarmi a perfezionare il carro, addestrare il primo squadrone e affidarlo a Hui o a qualcun altro più adatto a una professione tanto bellicosa. Avevo freddo ed ero ancora ubriaco per metà quando sentii la mia voce gridare l'ordine di schierarsi nella formazione a punta di freccia. Era un'evoluzione che avevamo messo in pratica il giorno prima e i carri che seguivano il mio si piazzarono, con ragionevole efficienza, nelle posizioni volute. Sentivo lo scalpitio degli zoccoli sulla terra soffice e il cigolio dei Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
379
finimenti, lo scricchiolio delle ruote che giravano sui mozzi bronzei e il tintinnio delle frecce che gli uomini prendevano dalle faretre. Mi guardai intorno e vidi il nostro squadrone disposto a punta di freccia, con il mio carro all'apice. Era una formazione che avevo copiato dagli hyksos. Trassi un respiro profondo. «Squadrone, al galoppo!» gridai con la voce resa stridula dalla paura. «Avanti!» Mi bastò sollevare la mano sinistra che teneva le briglie, e Pazienza e Lama si lanciarono. Per poco non venni sbalzato all'indietro, ma mi aggrappai al parapetto con l'altra mano mentre puntavamo verso il cerchio degli hyksos. Il carro sobbalzava sulla terra smossa. Guardavo al di là dei quarti posteriori dei miei cavalli e vidi la muraglia degli scudi scintillare impenetrabile nel primo sole e farsi sempre più vicina. Ai lati, i miei uomini gridavano per nascondere il terrore e io gridavo con loro, come un cane al plenilunio. I cavalli sbuffavano e nitrivano. All'improvviso Pazienza sollevò il lungo pennacchio della coda e cominciò a scorreggiare al ritmo della corsa. Mi sembrò incredibilmente buffo. Le mie urla di terrore si trasformarono in risate. L'elmo che mi aveva prestato Hui era troppo grande per me: volò via e il vento mi agitò i capelli. Pazienza e Lama erano la pariglia più veloce dello squadrone e il nostro carro stava distanziando il resto della formazione. Tentai di rallentare la carica tirando le redini, ma Pazienza non volle saperne. Evidentemente era eccitata e si divertiva. Raddrizzò il collo e continuò la corsa. Passammo come folgori tra le linee dei fanti egizi che si ritiravano dopo l'assalto fallito contro gli hyksos e che si disperdevano davanti a noi guardandoci con il più grande sbalordimento. «Avanti!» urlai ridendo. «Vi mostreremo la strada!» I fanti si fermarono, poi ci seguirono in direzione dei nemico. Sentii i trombettieri suonare la carica, e la voce dei corni sembrò spronare i nostri cavalli. A una certa distanza, sulla destra, vidi lo stendardo di Tanus che sventolava e riconobbi il suo elmo crestato che spiccava in mezzo alla folla dei suoi soldati. «Che ne pensi adesso, dei miei mostri maledetti?» gli gridai mentre lo superavamo, e Pazienza scorreggiò di nuovo strappandomi altre risate nervose. Il carro alla mia sinistra era quasi affiancato al mio. Poi una delle ruote Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
380
cedette e lo fece volare via. Gli uomini furono scagliati a terra, i cavalli caddero nitrendo come disperati. Noi continuammo la corsa. La prima fila dei nemici era ormai così vicina che potevo vederne gli occhi al di sopra degli scudi. Le frecce mi fischiavano intorno agli orecchi. Distinguevo chiaramente le figure dei mostri e dei demoni scolpiti sugli alti elmi di metallo, vedevo le gocce di sudore brillare nelle barbe intrecciate e ornate di nastri, sentivo il loro grido di guerra... E poi li investimmo. I miei cavalli balzarono contro la barriera di scudi che s'infranse sotto la furia della nostra carica. Vidi un uomo scagliato in aria, e sentii le sue ossa scricchiolare come legna da ardere gettata nel fuoco. Dietro di me, il mio compagno stava dando un'ottima prova. L'avevo scelto perché era il migliore fra le reclute, e adesso stava ben saldo e scagliava un dardo dopo l'altro. I carri che ci seguivano si avventarono nella breccia aperta da noi. Non frenammo ma continuammo la corsa, sfondando il cerchio degli hyksos dalla parte opposta. Quindi invertimmo la direzione in gruppi di tre e tornammo all'attacco. Tanus approfittò del momento e scagliò la fanteria nel varco. La formazione nemica si frantumò in gruppetti disorganizzati che a loro volta si disgregarono. In preda al panico, gli hyksos fuggirono verso il fiume. Nel momento in cui arrivarono a tiro, gli arcieri schierati sui ponti delle nostre navi cominciarono a scagliare nugoli di frecce. Davanti a me c'era un gruppo isolato di guerrieri hyksos che continuavano a battersi schiena contro schiena e riuscivano a tenere i nostri a distanza. Feci girare il carro e mi avventai al gran galoppo. Ma prima che li raggiungessi la ruota destra si spaccò, il guscio leggero del carro si capovolse e io volai nell'aria, poi piombai a terra con un tonfo che mi squassò le viscere. Battei la testa. I miei occhi si riempirono di stelle e meteore luminose. Poi vi fu solo l'oscurità. Rinvenni sotto un tendone, a bordo dell'ammiraglia di Tanus. Giacevo su un giaciglio di pelle di pecora e Tanus stava chino su di me. Quando si accorse che avevo ripreso i sensi nascose l'espressione preoccupata che gli contraeva il viso. «Vecchio pazzo», disse con un gran sorriso. «In nome di Horus, perché ridevi tanto?» Cercai di sollevarmi a sedere, ma la testa mi doleva orribilmente. Gemetti e gli strinsi il braccio quando ricordai l'accaduto. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
381
«Tanus. I cavalli che i nemici hanno fatto attraversare a nuoto questa notte. Mi servono.» «Non preoccuparti. Ho già mandato Hui a prenderli», mi assicurò Tanus. «Se voglio avere cento dei tuoi trabiccoli per la mia divisione di carri, avrò bisogno di mille mostri maledetti che li tirino. Comunque, le tue ruote nuove sono più pericolose d'un reggimento di hyksos. Non salirò più su un carro con te fino a che non avrai trovato una soluzione.» Per un momento non compresi: poi mi resi conto di quanto era successo. Tanus aveva represso l'orgoglio e aveva ceduto. Finalmente il mio squadrone avrebbe fatto parte dell'esercito regolare, e Tanus mi avrebbe dato gli uomini e l'oro necessari per costruire altri cinquecento veicoli. E sarebbe salito ancora su un carro assieme a me, se fossi riuscito a risolvere il problema delle ruote. Ma ciò che mi colmava maggiormente di gioia era il fatto che mi aveva perdonato e che eravamo di nuovo amici. Il successo dei miei carri a Esna e il senso di fiducia che ispirò a noi tutti ebbero breve durata. In segreto, avevo temuto ciò che stava per accadere. Era la mossa più logica da parte dei nemici: Salitis e il nobile Intef avrebbero dovuto compierla molto prima. Sapevamo che, mentre attraversava il Basso Egitto, Salitis aveva catturato quasi tutta la flotta del Pretendente Rosso. Le navi erano abbandonate nei porti di Menfi e di Tanis, nel Delta. Comunque dovevano esserci molti egizi rinnegati della marina dell'Usurpatore a disposizione di Salitis; e anche se non fosse stato così, avrebbe avuto la possibilità di reclutare marinai siriani mercenari a Gaza e loppa e negli altri porti della costa orientale del grande mare, in numero sufficiente per formare gli equipaggi di centinaia di vascelli. Avevo immaginato che potesse accadere, ma mi ero astenuto dall'avvertire Tanus e la regina perché non volevo aggravare l'atmosfera opprimente e accentuare l'avvilimento dei nostri. Avevo frugato nel mio cuore in cerca d'un sistema per contrastare tale mossa quando Salitis e Intef l'avrebbero compiuta, ma non avevo trovato nulla. Quindi, dato che ero nell'impossibilità di scongiurarli, avevo pensato fosse meglio tenere per me quei timori. Quando alla fine l'evento temuto si verificò e le nostre spie sulla riva orientale del fiume di fronte ad Asyut ci segnalarono che stava per arrivare la flotta del Delta, Tanus prese il comando delle sue navi e si diresse verso Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
382
nord per incontrarla. La sua era superiore in tutto a quella messa insieme da Salitis e Intef; ma la battaglia durò quasi una settimana prima che Tanus riuscisse a distruggere le forze nemiche o a costringerle a ritornare nel Delta. Salitis, tuttavia, aveva portato i suoi vascelli da trasporto dietro l'avanguardia delle navi da guerra, e mentre infuriava ancora la battaglia sul fiume riuscì a imbarcare quasi due reggimenti completi con carri e cavalli e a traghettarli sulla nostra sponda del fiume senza che i nostri potessero raggiungerli. reggimenti comprendevano quasi trecento carri da guerra veloci, i contingenti scelti che il re hyksos comandava personalmente. Era finalmente riuscito ad aggirarci, e nulla poteva fermarlo mentre i carri sfrecciavano verso il sud. massimo che potevano fare le nostre navi da guerra era tentare di reggere l'andatura della nube di polvere che le sue truppe sollevavano mentre correvano verso il tempio funerario di Marnose e i relativi tesori. La regina Lostris convocò il consiglio di guerra quando la notizia che gli hyksos avevano attraversato il fiume arrivò al palazzo di Memnone. Rivolse la prima domanda a Tanus: «Ora che ha passato il fiume, puoi fermare il barbaro?» «Forse potrò rallentare la sua avanzata», rispose con franchezza Tanus. «Abbiamo imparato molte cose; possiamo attenderlo dietro mura di pietra o dietro le barriere di pali appuntiti che ci ha fornito Taita. Ma Salitis non ha bisogno di dare battaglia. I suoi carri sono così veloci che può aggirare le nostre posizioni come ha fatto ad Asyut. No, non posso fermarlo.» La regina mi guardò. «Taita, e i tuoi carri? Non possono combattere gli hyksos?» «Maestà, ho quaranta carri e posso lanciarli contro i nemici. Gli hyksos ne hanno trecento. I miei sono più veloci, ma gli uomini non sono abbastanza addestrati. Poi c'è il problema delle ruote. Non le ho perfezionate. Salitis ci annienterà molto facilmente. Se avrò a disposizione tempo e materiale, potrò costruire carri nuovi e più efficienti, con ruote che non vadano in pezzi. Ma non posso rimpiazzare i cavalli. Non possiamo metterli in pericolo. Sono la nostra unica speranza per una vittoria finale.» Mentre stavamo discutendo arrivò un altro messaggero, questa volta dal sud. S'era lasciato trasportare dalla corrente e dal vento, e le notizie che recava risalivano appena a un giorno prima. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
383
Tanus ordinò di farlo entrare, e il messaggero si gettò in ginocchio davanti alla regina Lostris. «Parla», lo invitò Tanus. «Che cos'hai da dirci?» Il messaggero balbettò, spaventato. «Divina maestà, mentre la nostra flotta era impegnata ad Asyut, i barbari hanno compiuto un'altra traversata a Esna. Hanno fatto passare i cavalli a nuoto, come la volta precedente: ma non c'erano le nostre navi a bloccare le loro imbarcazioni. I reggimenti hyksos sono passati. Ora vengono verso di noi in una nube di polvere, veloci come rondini in volo. Saranno qui entro tre giorni.» Nessuno di noi parlò fino a che Tanus non ebbe mandato via l'uomo con l'ordine di sfamarlo e assisterlo. Il messaggero, che si era aspettato di venire ucciso, baciò i sandali della regina Lostris. Quando rimanemmo soli, Tanus disse a voce bassa: «Salitis ha quattro reggimenti al di là del fiume. Seicento carri. È finita». «No!» La voce della mia padrona vibrava. «Gli dei non possono abbandonare l'Egitto in questo momento. La nostra civiltà non può perire. Abbiamo troppo da dare al mondo.» «Posso continuare a combattere, naturalmente», dichiarò Tanus. «Ma non cambierà nulla. Non possiamo vincere contro i carri.» La mia padrona si rivolse a me. «Taita, prima non te l'avevo chiesto perché so quanto ti costa. Ma ora devo farlo prima di prendere la decisione finale. Ti prego di percorrere i Labirinti di Ammon-Ra. Devo sapere che cosa vogliono da noi gli dei.» Chinai la testa e bisbigliai: «Vado a prendere la cassetta». Per la divinazione scelsi il santuario interno di Horus nel palazzo incompiuto di Memnone. Il sacrario non era stato ancora dedicato al dio, la sua statua non era ancora stata eretta: ma ero certo che Horus aveva già avvolto quel luogo della sua influenza benevola. La mia padrona sedette davanti a me con Tanus al fianco e assistette, affascinata, mentre bevevo la pozione stregata che doveva aprire gli occhi della mia anima, il mio Ka, la piccola creatura simile a un uccello che vive nel cuore di ognuno di noi. Misi davanti a loro i Labirinti d'avorio e chiesi alla regina e a Tanus di accarezzarli e maneggiarli per trasfondervi il loro spirito e lo spirito della nazione che rappresentavano, il nostro Egitto. Mentre li guardavo dividere i mucchietti dei dischi d'avorio sentivo la droga diventare più forte nel mio sangue: e il mio cuore rallentò quando la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
384
piccola morte s'impadronì di me. Presi i due Labirinti rimasti dall'ultimo mucchietto e li strinsi al petto. Li sentii scaldarsi contro la mia pelle. L'istinto mi suggeriva di allontanarmi dalla tenebra che sentivo avvicinarsi; invece mi abbandonai e lasciai che mi trascinasse via. Sentii la voce della mia padrona come se giungesse da molto lontano. «Che ne sarà della corona doppia? Come potremo resistere ai barbari?» Davanti ai miei occhi incominciarono a prendere forma le visioni: fui trasportato nei giorni che dovevano ancora venire, e vidi avvenimenti che non erano ancora accaduti. La luce del mattino entrava dall'apertura nel tetto e investiva l'altare di Horus quando tornai finalmente dal viaggio nei Labirinti. Ero scosso e nauseato dalla droga allucinogena, stordito e tremante per il ricordo delle strane cose che avevo visto. La mia padrona e Tanus erano rimasti con me durante la lunga notte. I loro volti ansiosi furono la prima cosa che vidi al ritorno, ma erano così distorti e tremuli che li credetti parte della visione. «Taita, ti senti bene? Parla. Devi dirci che cosa hai visto.» La regina era ansiosa. Non riusciva a nascondere il rimorso che provava per avermi costretto ad addentrarmi ancora una volta nei Labirinti di Ammon-Ra. «C'era un serpente.» La mia voce aveva un'eco strana, come se fossi distaccato dal mio corpo. «Un grande serpente verde che strisciava nel deserto.» Vidi la loro espressione perplessa, ma non avevo ancora considerato il significato della visione, e perciò non ero in grado di fornire indicazioni. «Ho sete», mormorai. «Ho la gola secca, e la mia lingua sembra una pietra coperta di muschio.» Tanus andò a prendere un orcio di vino; riempi una ciotola, e io bevvi con avidità. «Parlaci del serpente», ordinò la mia padrona non appena posai la ciotola. «Il suo corpo sinuoso non finiva mai e splendeva verde sotto la luce del sole. Strisciava attraverso una terra sconosciuta dove vivevano uomini nudi e altissimi e bestie strane e meravigliose.» «Sei riuscito a vedere la testa o la coda del serpente?» chiese la regina. Scossi la testa. «Tu dov'eri? Dove ti trovavi?» insistette lei. Avevo dimenticato che amava le mie visioni e trovava un grande piacere nell'interpretarle. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
385
«Ero sul dorso del serpente», risposi. «Ma non ero solo.» «Chi c'era con te?» «Al mio fianco c'eri tu, padrona, e anche Memnone. Tanus era dall'altra parte, e il serpente ci trasportava.» «Il Nilo! Il serpente è il fiume!» esclamò trionfante la regina Lostris. «Hai previsto un viaggio che faremo sul Nilo.» «In quale direzione?» chiese Tanus, che era assorto quanto la mia padrona. «Dove scorreva il fiume?» Mi sforzai di ricordare ogni particolare. «Ho visto il sole sorgere alla mia sinistra.» «A sud!» esclamò Tanus. «Nell'interno dell'Africa», disse la mia padrona. «Alla fine ho visto davanti a noi le teste del serpente. Il suo corpo si biforcava, e a ogni biforcazione c'era una testa.» «Il Nilo ha due rami?» chiese a voce alta la mia padrona. «Oppure la visione ha un significato più profondo?» «Ascoltiamo ciò che deve dirci Taita», l'interruppe Tanus. «Continua, vecchio mio.» «Poi ho visto la dea», proseguii. «Era seduta su un'alta montagna, ed entrambe le teste del serpente l'adoravano.» La regina non seppe trattenersi. «Quale delle dee hai visto? Oh, presto, dimmi chi era.» «Aveva la testa barbuta di un uomo, ma i seni e le parti intime di una donna. Dalla vagina scaturivano due grandi getti d'acqua che finivano nelle fauci aperte del serpente bicipite.» «È la dea Hapi. Il dio del fiume», mormorò la regina Lostris. «Genera il fiume e lo fa scorrere nel mondo.» «Che altro ti ha mostrato la visione?» chiese Tanus. «La dea ci sorrideva e il suo viso splendeva d'amore e di benevolenza. Parlava con una voce che era il suono del vento e dei mare, del tuono sulle vette dei monti lontani,» «E che cosa diceva?» chiese la regina Lostris. «Ha detto: "Lascia che mia figlia venga a me. Io la renderò forte, affinché possa vincere e affinché il mio popolo non perisca di fronte ai barbari".» Ripetei le parole che martellavano ancora nella mia testa. «Io sono la figlia della dea del fiume», disse semplicemente la mia padrona. «Alla nascita le sono stata consacrata. Ora mi chiama e devo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
386
recarmi nel luogo in cui dimora, alla sorgente del Nilo.» «È il viaggio cui avevamo pensato Taita e io», disse Tanus con aria assorta. «Ora la dea lo comanda. Non possiamo disobbedirle.» «Sì, dobbiamo andare, ma ritorneremo», dichiarò la mia padrona. «Questa è la mia terra, il mio Egitto. E questa è la mia città, la bella Tebe dalle cento porte. Non posso abbandonarli per sempre. Tornerò a Tebe. Lo giuro e chiamo la dea Hapi a testimone del giuramento. Ritorneremo.» La decisione di fuggire a sud oltre le cataratte, nella terra selvaggia e inesplorata, Tanus e io l'avevamo già presa in passato. La prima volta era stato per sfuggire alia collera e alla vendetta del Faraone. Ora fuggivamo da un nemico ancora più implacabile. Sembrava che gli dei avessero deciso d'imporci quel viaggio e non ammettessero un rifiuto. Avevamo poco tempo per prepararci alla partenza. Gli hyksos stavano piombando su di noi da due direzioni, e i nostri informatori riferivano che al più tardi entro tre giorni le loro coorti sarebbero state visibili dal tetto del palazzo di Memnone. Tanus mise Kratas al comando di una metà delie forze disponibili e lo mandò incontro al re Salitis che era partito da Asyut e probabilmente, con la sua colonna, sarebbe stato il primo a raggiungere la necropoli e il palazzo. Kratas aveva l'ordine di usare i pali appuntiti e di difendere tutte le posizioni fortificate per ritardare il più possibile l'avanzata di Salitis senza correre il rischio di restare tagliato fuori o di venire sopraffatto. Quando non fosse più stato in grado di resistere, avrebbe dovuto evacuare i suoi uomini con le navi. In quanto a Tanus, prese personalmente il comando dell'altra metà del nostro esercito e si diresse a sud, per combattere un'altra battaglia dilatoria contro la divisione hyksos che stava arrivando da Esna. Nei frattempo, la regina avrebbe fatto imbarcare i nostri e tutto ciò che possedevano a bordo delle altre navi della flotta. Lostris delegò l'incarico al nobile Merseket, ma naturalmente mi nominò suo aiutante. Il nobile Merseket era molto avanti negli anni, e da poco tempo aveva preso in moglie una sedicenne, quindi non era di molta utilità per se stesso e per me. La pianificazione e l'attuazione del piano ricaddero interamente sulle mie spalle. Ma prima che potessi preoccuparmi di queste cose, dovevo provvedere ai miei cavalli. Già in quella fase iniziale capivo con estrema chiarezza che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
387
erano la chiave della nostra sopravvivenza come nazione e come popolo civile. Con i capi che avevamo catturato a Esna, ormai ne avevamo diverse migliaia. Divisi la mandria in quattro parti, perché trovassero più facilmente da pascolare durante la marcia. Inoltre i branchi più piccoli avrebbero sollevato meno polvere ed eluso più facilmente gli esploratori degli hyksos. Mandai Hui, i guidatori e gli stallieri a sud con queste mandrie, verso Elefantina, con l'ordine di evitare la riva del fiume lungo la quale stavano avanzando gli hyksos, e di procedere nell'entroterra, al margine del deserto. Dopo la partenza dei cavalli, potei dedicare la mia attenzione agli uomini. Sapevo che il numero limitato delle navi a disposizione avrebbe determinato la consistenza del seguito che ci avrebbe accompagnati nel lungo viaggio. Ero certo che quasi tutti gli egizi avrebbero voluto partecipare all'esodo. La crudeltà feroce degli hyksos era evidente in ogni città che incendiavano, in ogni atrocità che infliggevano al nostro popolo. Tutti i pericoli dell'Africa selvaggia erano preferibili ai mostri sanguinari che correvano verso di noi a bordo dei loro carri. Alla fine calcolai che avremmo potuto ospitare appena dodicimila persone a bordo delle navi, e lo riferii alla regina. «Dovremo scegliere senza pietà coloro che verranno con noi e coloro che resteranno», dissi. Ma Lostris non volle ascoltare il mio consiglio. «Questa è la mia gente. Preferirei cedere il mio posto, pur di non lasciare uno solo di loro in balia degli hyksos.» «E i vecchi decrepiti, maestà? I malati e i bambini?» «A ognuno dei sudditi sarà offerta la possibilità di scegliere. Non abbandonerò un vecchio o un mendicante, un neonato o un lebbroso. Sono il mio popolo: e se non potranno partire, resteremo anch'io e il principe Memnone.» Naturalmente parlò del principe per avere la certezza di spuntarla nei miei confronti. Le navi sarebbero rimaste a galla a stento sotto il peso degli esseri umani, ma non avevo possibilità di scelta. Comunque, imbarcai per primi i sudditi più utili, e li scelsi in tutte le arti e professioni, muratori e tessitori, ramai e vasai, conciatori e fabbricanti di vele, scribi e artisti, costruttori di navi e carpentieri, tutti i migliori nelle rispettive discipline. Li sistemai nel migliore dei modi. Quindi mi concessi la soddisfazione di assegnare le sistemazioni più scomode a bordo dei vascelli più squallidi ai sacerdoti e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
388
agli scribi della legge, le pulci che succhiano il sangue dello Stato. Quando furono tutti a bordo, permisi alla marmaglia di invadere il molo ai piedi del tempio. Come risultato dell'intransigenza della mia padrona dovetti prestare la massima attenzione alla scelta del carico. Non c'era posto per gli oggetti inutili. Feci stivare le armi, gli utensili e le materie prime che sarebbero stati necessari per costruire un'altra civiltà in una terra sconosciuta. In quanto al resto, cercai in tutti i modi di ridurre il peso e il volume. Per esempio, anziché cereali e frutta, caricai i semi di tutte le piante utili in vasi d'argilla sigillati con cera e pece. Ogni deben di peso che mettevamo nelle stive ci imponeva di lasciare a terra qualcos'altro. Il viaggio poteva durare dieci anni o tutta la vita. Il percorso sarebbe stato difficile. Sapevamo che davanti a noi stavano le grandi cataratte. Non potevamo portare nulla che non fosse indispensabile: ma restava da rispettare la promessa fatta dalla regina al Faraone. C'era spazio a malapena per i vivi... quanto potevamo accordarne a un morto? «Ho dato la mia parola al re mentre stava per morire», insistette Lostris. «Non posso lasciarlo qui.» «Maestà, scoverò un nascondiglio sicuro per la salma del re, una tomba senza contrassegni tra le colline, dove non lo troverà nessuno. Quando torneremo a Tebe lo esumeremo e l'onoreremo con la sepoltura regale che gli hai promesso.» «Se verrò meno al voto, gli dei ci abbandoneranno e il nostro viaggio sarà un disastro. Il corpo del re deve venire con noi.» Mi bastò guardarla in faccia per capire che sarebbe stato inutile continuare a discutere. Aprimmo il massiccio sarcofago di granito ed estraemmo le sei bare interne: anche quelle erano così ingombranti che sarebbe stata necessaria una nave apposta. Presi una decisione senza consultare la regina Lostris. Ordinai agli operai di rimuovere solo le due bare dorate più interne e di coprirle con un telo pesante che venne cucito per proteggerle. In questo modo le dimensioni e il peso si ridussero a proporzioni accettabili, e caricammo le due bare nella stiva del Soffio di Horus. La maggior parte del tesoro del Faraone fu chiusa in casse di cedro: tutto l'oro, l'argento e le pietre preziose. Ordinai agli orafi di rimuovere l'oro dalle bare scartate e dall'intelaiatura lignea della grande slitta funeraria e di Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
389
ricavarne lingotti. In segreto, ero ben lieto di distruggere quella mostruosità di pessimo gusto. I forzieri del tesoro e i lingotti furono trasportati al molo e caricati sulle navi: li distribuii in modo che ogni vascello portasse almeno una cassa o un mucchio di lingotti. In questo modo si riduceva al massimo il rischio che l'intero tesoro venisse distrutto da un colpo di sfortuna. C'era una gran parte del corredo funerario che non potevamo portare con noi: i mobili e le statue, la corazza cerimoniale e le casse degli ushabti, e naturalmente la struttura sgraziata della slitta funebre che avevo spogliato dell'oro. Per evitare che cadessero nelle mani degli hyksos, ammucchiammo tutto nel cortile del tempio. Gettai con le mie mani una torcia accesa su quella montagna di oggetti preziosi e li guardai ridursi in cenere. Facemmo tutto in gran fretta e prima che l'ultima nave venisse caricata, le vedette sul tetto del palazzo gridarono che le nubi di polvere sollevate dai carri degli hyksos erano in vista. Meno di un'ora dopo le nostre truppe esauste, che al comando di Tanus e Kratas avevano combattuto azioni di retroguardia, incominciarono ad arrivare nella necropoli e a imbarcarsi sui vascelli in attesa. Andai incontro a Tanus che saliva la via cerimoniale soprelevata alla testa d'una squadra di guardie. Con il loro coraggio e il loro spirito di sacrificio erano riusciti a guadagnarci qualche giorno in più per completare l'evacuazione. Non potevano fare altro, e i nemici li incalzavano. Quando mi sbracciai e gridai il suo nome, Tanus mi vide e chiese a gran voce: «La regina Lostris e il principe sono a bordo del Soffio di Horus?» Mi feci largo tra la folla e lo raggiunsi. «La mia padrona non vuole partire fino a che tutti i suoi sudditi non saranno a bordo delle navi. Mi ha ordinato di accompagnarti subito da lei. Ti aspetta nel suo appartamento a palazzo.» Tanus mi fissò, inorridito. «Il nemico incalza. La regina Lostris e il principe sono più preziosi di questa marmaglia. Perché non l'hai costretta...» Risi. «Non è facile costringerla a fare ciò che non vuole, dovresti saperlo anche tu. Non intende abbandonare nessuno dei suoi agli hyksos.» «Che Seth folgori l'orgoglio di quella donna! Ci farà uccidere tutti.» Ma le parole dure erano smentite da un'espressione di ammirazione che gli rischiarava il viso sudato e coperto di polvere. Mi sorrise. «Bene. Se non vuole venire andremo a prenderla.» Ci facemmo largo tra le file dei profughi carichi di fagotti e di bambini Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
390
che accorrevano al molo per imbarcarsi. Mentre procedevamo a passo svelto lungo la via soprelevata, Tanus indicò le nubi minacciose di polvere ocra che si avvicinavano da entrambe le direzioni. «Si muovono più velocemente di quanto credessi possibile. Non si sono fermati neppure per abbeverare i cavalli. Se non affrettiamo l'imbarco, ci piomberanno addosso mentre metà dei nostri sono ancora a terra», disse rabbiosamente indicando il molo sottostante. Il molo era largo quanto bastava perché si accostassero due vascelli alla volta. I profughi intasavano la via soprelevata e congestionavano l'ingresso. Con pianti e lamenti accrescevano la confusione; e in quel momento qualcuno, in coda alla colonna, gettò un urlo. «Gli hyksos sono qui! Fuggite! Salvatevi! Gli hyksos sono qui!» Il panico dilagò tra la folla che si mise a correre alla cieca. Molte donne vennero schiacciate contro i pilastri, molti bambini furono calpestati. Ogni parvenza d'ordine era sparita, i sudditi dignitosi e i soldati disciplinati erano ridotti a un'orda disperata in lotta per sopravvivere. Dovetti usare il bastone appuntito per aprirmi un varco e procedere. Finalmente Tanus e io ci liberammo dalla folla e corremmo verso il palazzo. Le sale e i corridoi erano deserti. C'erano soltanto alcuni saccheggiatori intenti a rubare: fuggirono appena videro Tanus. Era un'apparizione spaventosa, coperto di polvere e con una rossa stoppia di barba che gli cresceva sul mento. Mi precedette e irruppe nell'alloggio privato della regina. La sua camera non aveva sentinelle e la porta era spalancata. Ci precipitammo all'interno. La mia padrona era sulla terrazza sotto il pergolato con il principe Memnone sulle ginocchia e gli additava le navi. Sembravano entrambi entusiasti dello spettacolo. «Guarda che belle navi.» La regina si alzò sorridendo quando ci vide e Memnone si lasciò scivolare a terra e corse incontro a Tanus che se lo issò sulle spalle e strinse a sé la regina con la mano libera. «Dove sono le tue schiave, dove sono Aton e il nobile Merseket?» le chiese. «Li ho mandati alle navi.» «Taita mi ha detto che hai rifiutato d'imbarcarti. È molto arrabbiato con te, e a ragione.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
391
«Perdonami, caro Taita.» Il sorriso di Lostris aveva il potere d'illuminare la mia vita o di spezzarmi il cuore. «Chiedi perdono al re Salitis», ribattei. «Sarà qui fra poco.» Le presi il braccio. «Ora che il tuo rude soldato è finalmente arrivato, possiamo salire sulle navi?» Lasciammo la terrazza e riattraversammo i corridoi del palazzo. Eravamo soli: persino i ladri erano spariti come ratti nelle loro tane. L'unico che non sembrava preoccupato era il principe Memnone: per lui era solo un altro gioco. Stava a cavalcioni delle spalle di Tanus: premette con i calcagni e gridò: «Ehilà!» come aveva imparato da me quando montavamo Pazienza. Attraversammo di corsa i giardini del palazzo e raggiungemmo la scala che portava alla via soprelevata. Era il percorso più breve per raggiungere il molo del tempio. Mi accorsi che la situazione era cambiata radicalmente da quando eravamo andati a prendere la regina e il principe. Davanti a noi la via soprelevata era deserta. Gli ultimi profughi s'erano imbarcati. Al di là dei parapetti di pietra vedevo gli alberi delle navi che si spostavano lentamente verso il centro del fiume. Con un senso di vuoto alla bocca dello stomaco, mi resi conto che eravamo gli ultimi rimasti a terra e avevamo ancora una distanza considerevole da coprire prima di arrivare al molo deserto. Ci fermammo e guardammo le ultime navi che si allontanavano. «Avevo ordinato al capitano di attendere», gemetti. «Ma gli hyksos sono troppo vicini e hanno pensato soltanto a mettersi in salvo.» «Che cosa possiamo fare?» mormorò la mia padrona. Persino le grida allegre di Memnone si spensero. «Se possiamo raggiungere la riva del fiume, Remrem o Kratas ci vedranno e manderanno una barca a prenderci», suggerii. Tanus annui. «Di qua! Seguitemi!» gridò. «Taita, pensa alla tua padrona.» Presi il braccio della regina per aiutarla: ma era forte e agile come un giovane pastore e correva veloce al mio fianco. Poi all'improvviso sentii lo scalpitio dei cavalli e lo scricchiolio delle ruote dei carri. Erano suoni inconfondibili e purtroppo molto vicini. I nostri cavalli erano partiti tre giorni prima e si stavano avvicinando a Elefantina; i nostri carri smontati erano nelle stive delle navi appena salpate. Quelli che sentivo erano ancora invisibili sotto il muro della via soprelevata, ma sapevo a chi appartenevano. «Gli hyksos!» mormorai. Ci fermammo di nuovo. «Deve essere un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
392
gruppo inviato in ricognizione.» «Mi pare che siano appena due o tre carri», confermò Tanus. «Ma sono anche troppi. Siamo tagliati fuori.» «Ci siamo mossi tardi», ammise la mia padrona con calma forzata, e guardò con fiducia me e Tanus. «Che cosa proponete?» La sua sfacciataggine mi lasciò sbalordito. Se eravamo in quella situazione era colpa della sua testardaggine. Se avesse ascoltato le mie esortazioni in quel momento saremmo stati tutti a bordo del Soffio di Horus, in viaggio verso Elefantina. Tanus alzò la mano per imporre silenzio. Ascoltammo il suono dei carri nemici che procedevano ai piedi del muro. Più si avvicinavano e più appariva evidente che era un gruppo poco numeroso. All'improvviso il rumore delle ruote cessò. Sentimmo i cavalli sbuffare e scalpitare. Poi voci di uomini che parlavano una lingua aspra e gutturale. Erano proprio sotto di noi e Tanus diede un altro segnale perché non facessimo rumore. I! principe Memnone non era abituato a tacere se non ne aveva voglia. E aveva sentito e riconosciuto quei suoni. «I cavalli!» gridò con voce squillante. «Voglio vedere i cavalli.» Subito si levò un urlo. Gli hyksos lanciarono ordini e fecero tintinnare le armi. Poi passi pesanti salirono precipitosamente la scala di pietra, e un gruppo di nemici piombò sulla via soprelevata. Gli elmi apparvero al di sopra della balaustrata di pietra proprio davanti a noi. Erano cinque: si avventarono verso di noi con le spade sguainate. Erano uomini imponenti, con le corazze a squame e nastri colorati intrecciati alla barba. Ma uno era più alto degli altri. In un primo momento non lo riconobbi perché s'era fatto crescere la barba e l'aveva ornata di nastri secondo l'usanza degli hyksos, e la visiera dell'elmo nascondeva per metà il viso. Poi gridò con quella voce che non avrei mai dimenticato. «Dunque sei tu, giovane Harrab! Ho ucciso il vecchio cane e ora ucciderò il cucciolo.» Avrei dovuto prevedere che il nobile Intef sarebbe stato il primo ad accorrere come una iena affamata in cerca del tesoro del Faraone. Doveva aver preceduto di molto la divisione degli hyksos per precipitarsi nel tempio funerario. Nonostante quella vanteria non corse ad affrontare Tanus. Fece un gesto per ordinare agli hyksos di procedere. Tanus si tolse dalle spalle il principe Memnone e me lo lanciò come se Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
393
fosse un giocattolo. «Fuggi!» ordinò. «Ti farò guadagnare un po' di tempo.» Caricò gli hyksos, che erano ancora ammassati sulla scala e non avevano lo spazio necessario per brandire le spade, e uccise il primo con quell'affondo alla gola che sapeva compiere infallibilmente. «Non stare li a bocca aperta!» mi gridò. «Fuggi!» Non stavo a bocca aperta ma, mentre tenevo il bambino stretto a me, mi rendevo conto dell'inutilità del suo ordine. Appesantito in quel modo, non avrei mai raggiunto la riva del fiume. Mi accostai al parapetto delia via soprelevata e guardai giù. C'erano due carri proprio sotto di me, con i cavalli che sbuffavano, e un uomo solo che era rimasto a custodirli mentre i suoi compagni erano saliti. Stava accanto alle teste degli animali e concentrava tutta l'attenzione su di loro. Non mi aveva visto. Strinsi Memnone a me, scavalcai il parapetto e mi lanciai. Il principe gridò, allarmato. Dalla via soprelevata al punto dove si trovava l'hyksos con i carri c'era un'altezza quattro volte superiore a quella di un uomo. Avrei potuto spezzarmi una gamba, ma per fortuna piombai sulla testa dell'ignaro nemico. L'urto gli spezzò il collo: sentii le vertebre rompersi. Si accasciò sotto di me, interrompendo la nostra caduta. Mi rialzai mentre Memnone urlava indignato per quel trattamento, ma il più doveva ancora venire. Lo gettai a bordo del carro più vicino e alzai gli occhi verso la mia padrona che sbirciava dal parapetto. «Salta!» le gridai. «Ti prenderò io!» Non esitò. Si lanciò nel vuoto con prontezza quando non ero ancora ben puntellato. Mi piombò addosso, con la gonna che sventolava e lasciava scoperte le cosce tornite. Mi investi in pieno e mi lasciò senza fiato. Cademmo insieme a terra. Mi rialzai ansimando e la rimisi in piedi. La spinsi bruscamente sul carro e gridai: «Attenta a Memnone!» Lo afferrò appena in tempo mentre cercava di balzare a terra, urlando per la collera e lo spavento. Dovetti passare praticamente addosso a entrambi per afferrare le redini e prendere il controllo dei cavalli. «Tenetevi forte!» I due cavalli risposero immediatamente al mio tocco. Feci girare il carro ai piedi del muro. Una ruota passò sul corpo dell'uomo che avevo ucciso Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
394
cadendo. «Tanus!» urlai. «Da questa parte!» Tanus balzò sul parapetto e si tenne in equilibrio, scambiando affondi e parate con gli hyksos che latravano come cani intorno a un leopardo arrampicato su un albero. «Salta, Tanus, salta!» gridai. Tanus si lanciò nel vuoto. Con il mantello che gli svolazzava intorno alla testa e alle spalle, piombò a cavalcioni su uno dei cavalli. La spada gli volò dalla mano e fini rumorosamente sulla terra compatta, mentre Tanus cingeva con le braccia il collo dell'animale. «Via!» ordinai, e feci schioccare le redini sui quarti posteriori dei cavalli che si lanciarono al galoppo. Li guidai attraverso il sentiero e i campi che digradavano verso la riva del fiume. Vedevo le vele delle nostre navi al centro del Nilo, e potevo persino riconoscere il vessillo del Soffio di Horus che sventolava nella foresta di alberi. Avevamo ancora un buon tratto da percorrere per raggiungere la riva, e mi guardai alle spalle. Il nobile Intef e i suoi s'erano precipitati giù per la scala e in quel momento stavano salendo sull'altro carro. Purtroppo non avevo pensato a renderlo inutilizzabile. Sarebbe bastato un momento per tagliare i finimenti e far fuggire i cavalli, ma mi ero preoccupato soltanto di portare in salvo la regina e il principe. Ora il nobile Intef ci inseguiva. Il suo carro non aveva coperto cento passi quando mi resi conto che era più veloce del mio. Il peso di Tanus sulla groppa d'uno dei cavalli ne intralciava il galoppo: era pesante e continuava a stringere le braccia intorno al collo dell'animale, come se fosse paralizzato dal terrore. Era la prima volta, credo, che lo vedevo veramente spaventato. L'avevo visto attendere con fermezza un leone e ucciderlo con l'arco: ma il cavallo lo atterriva. Cercai di ignorare il carro che ci inseguiva e di usare tutta la mia abilità di guidatore per attraversare i campi coltivati e il labirinto dei canali per l'irrigazione e raggiungere la riva del Nilo. Il carro hyksos era pesante e poco maneggevole in confronto al mio. Le ruote di legno massiccio con le lame falcate intorno all'orlo affondavano profondamente nel terreno, e le piastre e gli ornamenti di bronzo ci appesantivano. I cavalli dovevano aver corso parecchio prima che me ne impadronissi: erano coperti di sudore, e dai musi sgocciolava la bava bianca. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
395
Non avevamo ancora coperto metà della distanza che ci separava dal fiume quando sentii le grida degli hyksos che si avvicinavano e il trepestio di zoccoli. Girai la testa e vidi che erano a non più di tre lunghezze da noi. Il guidatore sferzava i cavalli con una frusta a nodi e urlava in quella sua lingua odiosa. Accanto a lui, il nobile Intef stava proteso in avanti con impazienza. La barba ornata da nastri sventolava e il bel volto era illuminato dall'estasi della caccia. Gridò, e la sua voce mi giunse fra gli ansiti dei cavalli. «Taita, mio caro, mi ami ancora? Voglio che me lo provi ancora prima di morire.» Rise. «T'inginocchierai davanti a me e morirai con la bocca piena.» Mi sentii accapponare la pelle per l'orrore all'immagine evocata dalle sue parole. Davanti a noi c'era un canale per l'irrigazione, e io deviai per fiancheggiarlo, perché era profondo e ripido. Il carro che ci seguiva guadagnava terreno. «In quanto a te, mia bella figlia, ti darò ai soldati hyksos perché si divertano. Ti insegneranno qualche trucco che Harrab ha dimenticato di mostrarti. Non ho più bisogno di te, adesso, perché ho il tuo marmocchio.» La regina Lostris strinse a sé il figlioletto. Era pallidissima. Compresi subito il disegno di Intef. Un figlio che aveva nelle vene il sangue reale dell'Egitto, anche come semplice satrapo degli hyksos, avrebbe garantito la fedeltà del nostro popolo. Il principe Memnone era la marionetta grazie alla quale il re Salitis e il nobile Intef intendevano dominare i due regni. Era un metodo antico ed efficace usato dai vincitori. Spinsi al massimo i cavalli, ma erano stanchi e stavano rallentando. Il nobile Intef era ormai così vicino che non aveva più bisogno di urlare per farsi sentire. «Nobile Harrab, è un piacere che ho atteso a lungo. Che ne farò di te? Prima tu e io assisteremo mentre i soldati faranno divertire mia figlia...» Tentai di non ascoltare ma la sua voce era penetrante. Continuavo a guardare davanti a me, concentrando l'attenzione sul terreno accidentato e pericoloso; tuttavia con la coda dell'occhio vidi le teste dei cavalli dell'altro carro affiancarsi al nostro. Le criniere sventolavano, gli occhi parevano lanciare lampi mentre procedevano al galoppo. Li guardai. Il robusto arciere hyksos che stava dietro Intef incoccò una freccia al corto arco ricurvo. A quella breve distanza, nonostante i sobbalzi, non poteva evitare di colpire uno di noi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
396
Tanus non poteva battersi. Aveva lasciato cadere la spada. Era ancora aggrappato al collo del cavallo, sul lato opposto a quello del carro sopravanzante. Io avevo soltanto il mio pugnale, e la regina Lostris era inginocchiata e faceva scudo al principe con il suo corpo. In quel momento mi accorsi dell'errore commesso dal guidatore hyksos. Aveva spinto la sua pariglia nella fascia fra noi e il canale per l'irrigazione, e non aveva spazio per manovrare. L'arciere alzò l'arco e si accostò alle labbra le piume della freccia. Mirò contro di me e io lo guardai negli occhi al di sopra della punta di selce. Aveva le sopracciglia nere e irsute, gii occhi scuri e gelidi come quelli d'una lucertola. I cavalli degli hyksos correvano all'altezza del mozzo della mia ruota. Raccolsi le redini e deviai verso di loro. Le lame di bronzo fissate all'orlo della ruota ronzavano sempre più vicine alle zampe degli animali. Il guidatore hyksos gettò un grido costernato quando si accorse del suo errore. I suoi cavalli erano intrappolati tra il fosso e le lame, che ormai erano a meno di una spanna dalle ginocchia del grande stallone baio più vicino a me. In quell'istante l'arciere scagliò la freccia, ma la mia brusca deviazione disorientò anche lui. La freccia parve volare lentamente verso la mia testa, ma era soltanto un'illusione creata dal terrore. In realtà saettò come un raggio di luce sopra la mia spalla, il filo di selce mi scalfì l'orecchio e una goccia di sangue mi piovve sul petto. L'altro guidatore aveva cercato di controbattere la mia sterzata allontanandosi, ma ora la ruota più lontana girava lungo il bordo del fosso che si sgretolava sotto il cerchio di bronzo. Il carro sobbalzò e barcollò. Feci deviare di nuovo i miei cavalli verso l'altro carro. Le lame affondarono nelle zampe dell'animale più vicino, che gridò per la sofferenza. Vidi brandelli di pelle e ciuffi di pelo che volavano in aria. Mi feci coraggio e colpii di nuovo. Questa volta frammenti di carne e d'osso schizzarono dalle zampe mutilate: il cavallo cadde, scalciando e nitrendo, e trascinò a terra il compagno. Il carro piombò nel canale. Vidi i due passeggeri che venivano sbalzati via, ma il guidatore fini schiacciato sotto il veicolo rovesciato e le ruote pesanti. Anche il nostro carro sfiorava pericolosamente l'orlo del fossato; ma riuscii a dominare i cavalli e a riprenderne il controllo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
397
«Ua!» Li feci rallentare e mi voltai indietro. Una nube di polvere aleggiava sopra il fosso dov'era scomparso il carro degli hyksos. Misi la mia pariglia al trotto. La riva era a duecento passi, e nulla stava fra noi e la salvezza. Mi voltai un'ultima volta. L'arciere kyksos che aveva scagliato la freccia contro di me giaceva a terra. Il nobile Intef era steso un po' più lontano dal fossato. Sono convinto che lo avrei lasciato lì se non si fosse mosso: ma in quei momento si sollevò a sedere e poi si rimise in piedi barcollando. All'improvviso l'odio per lui mi riassalì con tutte le sue forze. Era come se una vena fosse scoppiata dietro i miei occhi perché la mia vista si oscurò e si velò di sangue. Con un grido incoerente, girai i cavalli e li lanciai verso la via soprelevata. Il nobile Intef stava sul mio percorso. Nella caduta aveva perso l'elmo e le armi e sembrava semistordito, perché vacillava. Lanciai i cavalli al galoppo e le ruote rombarono sul terreno. Puntai verso di lui. La barba era in disordine, con i nastri impolverati. I suoi occhi erano opachi ma, quando guidai i cavalli verso di lui, li vidi schiarirsi. Alzò la testa. «No!» gridò e cominciò a indietreggiare, tendendo le mani verso di me come per scacciare il carro e i cavalli. Continuai a puntare verso di lui, ma all'ultimo istante i suoi dei tenebrosi lo difesero ancora una volta. Mentre gli piombavo addosso si lanciò di lato. L'avevo visto traballare e avevo immaginato che fosse debole e impotente. Invece si mosse con l'agilità d'uno sciacallo inseguito dai cani. Il carro era pesante e poco maneggevole, e non riuscii a girarlo abbastanza rapidamente per seguire le sue schivate. Lo mancai e passai oltre. Lottai con le redini ma i cavalli mi portarono oltre per cento passi prima che riuscissi a controllarli e a girare di nuovo il veicolo. Intef, intanto, correva verso il fossato. Se l'avesse raggiunto sarebbe stato salvo, e me ne rendevo conto. Imprecai rabbiosamente e continuai a inseguirlo. E finalmente i suoi dei lo abbandonarono. Era quasi arrivato al canale, ma s'era voltato a guardarmi e non badava a dove metteva i piedi. Urtò un tratto di zolle argillose dure come pietre, e una caviglia gli si piegò. Cadde, rotolò e si rimise in piedi come un acrobata. Cercò di riprendere a correre, ma il dolore lo costrinse a fermarsi. Mosse ancora un passo o due, zoppicando, quindi cercò di saltellare verso il fosso su una gamba sola. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
398
«Finalmente sei mio», gli urlai. Si voltò di scatto tenendosi in equilibrio su un piede. Era pallido, ma gli occhi di leopardo brillavano di tutta la rabbia e l'odio della sua anima crudele. «È mio padre!» gridò la regina, stringendo contro il seno il viso del principe perché non vedesse. «Lascialo, Taita. È mio padre.» Non le avevo mai disobbedito in tutta la mia vita: ma quella fu la prima volta. Non tentai neppure di trattenere i cavalli. Per una volta senza paura, guardai negli occhi di Intef. Alla fine, per poco non riuscì a sfuggirmi ancora. Si gettò di lato, con tanta agilità e tanta forza da sottrarsi alle ruote del carro, ma non poté sottrarsi alle lame. Una di esse si agganciò alle squame della corazza: la punta lacerò il metallo e affondò nel ventre. La lama continuò a girare, e gli intestini di Intef vi si avvolsero e fuoriuscirono, come quelli dei grossi persici azzurri che le pescivendole sventravano al mercato. Intef era trascinato dietro di noi dalle funi viscide dei suoi intestini: tuttavia restava sempre più indietro via via che altri avvolgimenti di visceri venivano strappati dal ventre squarciato. Li stringeva con entrambe le mani, ma gli scivolavano fra le dita come un grottesco cordone ombelicale che lo legava alla ruota del mio carro. Le sue urla erano un suono che mi auguro di non dovere udire mai più. A volte le sento ancora oggi nei miei incubi: quindi alla fine fu lui a infliggermi la sua ultima crudeltà. Non sono mai riuscito a dimenticarlo, anche se l'avrei desiderato. Quando finalmente la macabra corda che lo trascinava sulla terra nera si spezzò, rimase a giacere al centro del campo. D'un tratto le grida si smorzarono e rimase immobile. Fermai i cavalli. Tanus smontò e ci raggiunse. Posò a terra la mia padrona e il principe e li strinse al petto. La regina piangeva. «Oh, è stato terribile. Qualunque cosa ci avesse fatto era pur sempre mio padre.» «Ora è finita.» Tanus l'abbracciò. «È finita.» Il principe Memnone sbirciava al di sopra della spalla della madre la figura stesa a terra: come tutti i bambini, era affascinato dagli spettacoli macabri. All'improvviso pigolò con quella vocina squillante: «Era un uomo cattivo». «Si», affermai sottovoce. «Molto cattivo.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
399
«Adesso è morto?» «Si, è morto. Adesso potremo dormire più tranquilli.» Dovetti far correre i cavalli lungo la riva del fiume per raggiungere la nostra flotta, ma finalmente arrivai all'altezza della nave di Kratas che ci notò a bordo dello strano veicolo e ci riconobbe. Il suo sbalordimento era visibile anche attraverso la distanza che ci separava. Più tardi mi disse che ci aveva creduti a bordo di una delle prime navi della flotta. Lasciai liberi i cavalli prima di abbandonare il carro. Poi avanzai a guado nel fiume per raggiungere la barca che Kratas aveva mandato a prenderci. Gli hyksos non erano disposti a lasciarci andare tanto facilmente. Giorno dopo giorno i loro carri inseguirono la nostra flotta su entrambe le rive del Nilo, mentre fuggivamo verso sud. Ogni volta che guardavamo dalla poppa del Soffio di Horus vedevamo la polvere delle colonne nemiche che ci seguivano. Spesso la polvere si mescolava alle nubi di fumo che salivano dalle città e dai villaggi rivieraschi saccheggiati e incendiati. Quando passavamo davanti a un centro abitato, una quantità di piccole imbarcazioni veniva a unirsi alla nostra flotta, che diventava più numerosa con il passare dei giorni. A volte, quando il vento era sfavorevole, le colonne dei carri ci raggiungevano. Li vedevamo sulle rive, sentivamo le loro sfide irridenti e inutili echeggiare sull'acqua. Ma il Nilo eterno ci offriva la sua protezione come aveva sempre fatto, e i nemici non potevano raggiungerci. Poi il vento riprendeva a spirare verso nord e noi li distanziavamo di nuovo. Le nubi di polvere restavano indietro, all'orizzonte settentrionale. «I loro cavalli non potranno continuare ancora per molto l'inseguimento», dissi a Tanus la mattina del dodicesimo giorno. «Non contarci. Salitis è attratto dal tesoro del Faraone Marnose e dal legittimo erede della corona doppia», rispose Tanus. «L'oro e il potere rafforzano meravigliosamente la volontà di un uomo. Rivedremo ancora i barbari.» L'indomani mattina il vento era cambiato di nuovo e i carri guadagnarono lentamente terreno e raggiunsero le prime navi della nostra flotta mentre ci avvicinavamo alle Porte di Hapi, le prime muraglie di granito che restringevano il fiume a valle di Elefantina. In quel tratto il Nilo si riduceva a un'ampiezza inferiore ai quattrocento passi, e le rupi di granito nero si ergevano quasi a perpendicolo. La forza della corrente ci respingeva; la velocità della nostra avanzata si ridusse. Tanus ordinò di mettere ai remi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
400
uomini riposati. «Credo che abbia ragione tu, Taita. È qui che ci aspetteranno», disse in tono cupo e pochi attimi più tardi tese il braccio per indicare. «Eccoli.» Il Soffio di Horus, che viaggiava in testa alla flotta, stava appena entrando nelle porte, quindi dovemmo girare la testa per guardare i dirupi. Le figure degli arcieri hyksos piazzati sui cornicioni rocciosi erano scorciate dalla prospettiva, e ci apparivano come gnomi grotteschi. «Da quell'altezza potrebbero scagliare le frecce da riva a riva», borbottò Tanus. «Resteremo a tiro per gran parte della giornata. Sarà terribile per tutti, ma specie per le donne e i bambini.» Fu anche peggio di quanto avesse previsto Tanus. La prima freccia tirata contro la nostra nave dalle rupi sovrastanti lasciò una scia di fumo contro la volta azzurra del cielo mentre scendeva in un arco e piombava nell'acqua a un solo cubito di distanza dalla nostra prua. «Frecce incendiarie», disse Tanus. «Avevi ragione anche in questo, Taita. I barbari imparano in fretta.» «È abbastanza facile insegnare trucchi nuovi a una scimmia.» Odiavo gli hyksos quanto tutti gli uomini della flotta. «Vediamo se i tuoi mantici riescono a pompare l'acqua all'interno di una nave e non soltanto a estrarla», disse Tanus. Avevo previsto l'attacco con le frecce incendiarie e negli ultimi quattro giorni avevamo lavorato a bordo delle navi attrezzate con le pompe ad acqua ideate da me. Ora, via via che uno dei nostri vascelli si avvicinava, Tanus ordinava al comandante di abbassare le vele, pompare acqua sui ponti e bagnare il sartiame. I secchi di cuoio furono riempiti e tenuti pronti: quindi una delle navi da guerra incominciò a scortare un vascello nella gola di granito, sotto la pioggia dei dardi fiammeggianti. Furono necessari due giorni per far passare l'intera flotta perché le rupi bloccavano il vento. Nel varco c'era calma, e ogni nave doveva navigare a remi contro la corrente. Le frecce cadevano su di noi in parabole scintillanti, martellavano gli alberi e i ponti. Ognuna appiccava un incendio che doveva essere domato con i secchi o con i tubi di cuoio delle pompe della nave di scorta. Non potevamo reagire all'attacco perché gli arcieri erano piazzati troppo in alto, al di fuori della portata dei nostri archi meno potenti. Quando Remrem scese a terra con un contingente per stanarli, gli hyksos Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
401
bersagliarono i suoi uomini e li costrinsero a risalire sulle barche infliggendogli pesanti perdite. I vascelli che riuscivano a passare erano tutti sfregiati da profonde bruciature. Molti altri furono meno fortunati: le fiamme sconfissero i secchi e le pompe e li avvilupparono. Fu necessario sganciarli e lasciarli andare alla deriva sulla corrente, causando un pandemonio nel resto della flotta che avanzava nella strettoia. In molti casi riuscimmo a trarre in salvo equipaggi e passeggeri prima che le fiamme diventassero indomabili, ma in qualche caso arrivammo troppo tardi. Le urla delle donne e dei bambini assediati dal fuoco mi gelavano il sangue nelle vene. Mi rimarrà impressa per sempre un'immagine di quel giorno terribile: una giovane donna che si tuffava dal ponte d'una chiatta incendiata con i lunghi capelli inghirlandati dalle fiamme come da una corona nuziale. Alle Porte di Hapi perdemmo cinquanta navi. C'erano bandiere a lutto che sventolavano su tutti gli alberi mentre proseguivamo verso Elefantina, ma sembrava che gli hyksos si fossero sfiniti in quel lungo inseguimento verso sud. Le nubi di polvere non deturpavano più il nostro orizzonte settentrionale: avevamo una tregua per poter piangere i nostri morti e riparare i vascelli. Nessuno di noi, però, pensava che avessero rinunciato completamente. Il fascino del tesoro del Faraone doveva essere irresistibile. Il principe Memnone e io, confinati sul ponte della nave, passavamo molto tempo sotto il tendone di poppa. Il bambino ascoltava avidamente le mie storie e mi guardava disegnare e intagliare il primo modello di un nuovo arco per il nostro esercito, ispirato al tipo ricurvo degli hyksos. Memnone aveva ormai imparato il vecchio trucco di fare domande per tenere concentrata su di lui la mia attenzione. «Che cosa fai, Tata?» «Un arco nuovo.» «Si, ma perché?» «Va bene, te lo dirò. Il nostro arco a curva unica, oltre ad avere meno potenza, è troppo lungo perché sia possibile usarlo dai carri.» Memnone mi ascoltava con aria molto seria. Fin da quando era piccolo non gli avevo parlato come si fa con i bambini, e l'avevo sempre trattato come un adulto. A volte non capiva, ma apprezzava comunque il suono della mia voce. «Sono convinto che il nostro futuro stia nei cavalli e nei carri, e sono Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
402
sicuro che la tua altezza reale sia d'accordo con me.» Lo guardai. «Anche tu ami i cavalli, no, Memnone?» Questo lo capiva benissimo. «Si, soprattutto Pazienza e Lama», rispose annuendo con energia. Avevo già riempito tre rotoli con le osservazioni e i diagrammi per l'utilizzazione di questi mezzi militari. Mi sarebbe piaciuto poterne discutere con Tanus in modo approfondito, ma l'interesse del Grande Leone d'Egitto per gli equini era rancoroso e superficiale. «Fabbrica quelle cose maledette, se proprio devi, ma non continuare a parlarne», mi diceva. Il principe era un ascoltatore molto più attento, e mentre lavoravo, sostenevamo lunghe discussioni che solo molto più tardi avrebbero dato il loro frutto. Quale compagno, Memnone aveva sempre dato la preferenza a Tanus, ma anch'io avevo un posto importante nel suo cuore, e trascorrevamo insieme molte ore felici. Era sempre stato un bambino eccezionalmente precoce e intelligente, e sotto la mia influenza sviluppò quei doni assai più rapidamente di chiunque altro avessi mai istruito, inclusa la mia padrona che alla stessa età non era stata altrettanto pronta nell'apprendere. Avevo fabbricato per Memnone un arco giocattolo del modello che stavo studiando. Imparò a usarlo quasi perfettamente e riuscì ben presto a scagliare le minuscole frecce attraverso la lunghezza del ponte, con grande agitazione delle schiave e delle governanti che erano i suoi bersagli preferiti. Nessuna di loro osava chinarsi quando il principe era armato d'arco, e difficilmente egli mancava di colpire un paio di invitanti natiche femminili a meno di venti passi. Dopo l'arco il suo giocattolo preferito era il carro in miniatura che avevo intagliato per lui. Avevo scolpito i cavalli e persino la figurina di un guidatore che teneva le redini. Il principe chiamò Mem l'ometto, e Pazienza e Lama i cavalli. Si muoveva instancabilmente carponi sul ponte, spingeva il carro davanti a sé, simulava i nitriti e gridava: «Avanti!» e «Ua!». Anche se era piccolo, prestava sempre attenzione a quanto lo circondava. I fulgidi occhi scuri si lasciavano sfuggire ben poco. Non rimasi sorpreso quando fu il primo, a bordo del Soffio di Horus, a scorgere la strana figura che stava sulla riva destra del fiume. «Cavalli!» gridò. Poi, dopo un momento: «Guarda! Guarda! È Hui!». Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
403
Lo raggiunsi a prua e il mio cuore diede un balzo quando vidi che aveva ragione. Hui, in groppa a Lama, scendeva sulla riva del fiume per venirci incontro al galoppo. «Hui è riuscito a portare i cavalli a Elefantina! Gli perdono tutti i peccati e le stupidaggini. Ha salvato i miei cavalli.» «Sono molto fiero di Hui», disse il principe solennemente, imitando le mie parole e la mia intonazione con tanta esattezza che la regina e gli altri presenti scoppiarono a ridere. Quando arrivammo a Elefantina avemmo un po' di respiro. Non si vedevano tracce dei carri degli inseguitori da tanti giorni che un ottimismo nuovo si diffuse nella flotta e nella città. Molti uomini cominciarono a parlare di rinunciare alla fuga verso sud e di rimanere lì, a valle delle cataratte, per creare un esercito in grado di opporsi agli invasori. Non permisi alla mia padrona di lasciarsi sedurre da tale spirito di fiducia che aveva fondamenta tanto fragili. La convinsi invece che la visione dei Labirinti ci aveva rivelato la strada giusta e che il nostro destino ci spingeva ancora verso il sud. Nel frattempo continuavo senza sosta i preparativi per il viaggio. Ormai, credo, il fascino dell'avventura mi aveva conquistato ancora più della necessità di sottrarci agli hyksos. Volevo vedere che cosa c'era al di là delle cataratte: e la notte, dopo aver passato la giornata a lavorare nel porto, sedevo fino a tardi nella biblioteca del palazzo, a leggere i resoconti degli uomini che prima di me si erano spinti nell'ignoto. Scrivevano che il fiume non aveva fine e che scorreva fino all'estremità della terra. Scrivevano che dopo la prima cataratta ve n'era un'altra ancora più temibile, che uomini e navi non potevano superare. Affermavano che il viaggio dalla prima cataratta alla seconda richiedeva un anno intero e che il fiume continuava comunque il suo corso. Io desideravo vederlo. Più d'ogni altra cosa al mondo volevo vedere l'origine del grande fiume che era la nostra vita. Una volta, quando mi addormentai sui rotoli alla luce della lampada, sognai di nuovo la dea generosa seduta in vetta a una montagna, con i getti d'acqua gemelli che le scaturivano dalla vagina. Sebbene avessi dormito pochissimo mi svegliai all'alba riposato ed emozionato, e tornai subito al porto a continuare i preparativi per il viaggio. Era una fortuna che quasi tutte le corde usate nelle nostre navi venissero Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
404
intrecciate nelle fabbriche di vele d'Elefantina. Potevo quindi scegliere i migliori cavi di lino. Alcuni avevano lo spessore di un dito, altri della mia coscia. Ne riempii tutti gli spazi delle stive che non erano già colmi di provviste. Sapevo che sarebbero stati indispensabili quando fossimo arrivati alle cataratte. Non fu sorprendente che lì a Elefantina si facessero conoscere quanti di noi avevano cuore pavido e volontà vacillante. Le sofferenze della fuga da Tebe avevano convinto molti di loro che gii hyksos fossero preferibili al proseguimento del viaggio fra i roventi deserti meridionali dove li attendevano uomini e belve ancora più feroci. Quando Tanus seppe che tante migliaia di persone intendevano abbandonare la flotta, ruggì indignato. «Maledetti traditori e rinnegati! So io come trattarli!» Ed espresse l'intenzione di lanciare contro di loro i suoi armati per costringerli a imbarcarsi. All'inizio poté contare sull'appoggio della mia padrona, che era spinta da motivazioni diverse dalle sue. Si preoccupava solo del bene dei suoi sudditi e della sua promessa di non abbandonarli alla ferocia degli hyksos. Dovetti trascorrere metà della notte a discutere con entrambi prima di riuscire a convincerli che per noi sarebbe stato meglio liberarci dei passeggeri restii. Alla fine la regina Lostris emise un decreto: chiunque desiderava restare a Elefantina poteva farlo. Tuttavia aggiunse un bel tocco personale al proclama che venne letto dai banditori in ogni via della città e nel porto dove stavano le nostre navi. Io, la regina Lostris, reggente dell'Egitto e madre del principe Memnone erede della corona doppia, faccio al popolo di questa terra una promessa solenne. Giuro di fronte agli dei e li chiamo a testimoni. Vi giuro che alla maggiore età del principe tornerò con lui nella città di Elefantina, lo innalzerò sul trono d'Egitto e gli cingerò la fronte con la corona doppia affinché possa scacciare gli oppressori e regnare su di voi con giustizia e misericordia per tutti i giorni della sua vita. Cosi ha parlato la regina Lostris, reggente dell'Egitto. L'annuncio centuplicò l'affetto e la devozione della gente comune per la mia padrona e il principe. Non credo che in tutta la nostra storia vi fosse mai stato un regnante benvoluto quanto lei. Quando furono pronti gli elenchi di coloro che sarebbero venuti con noi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
405
oltre le cataratte, non mi sorpresi nel vedere che includevano quasi tutti coloro che più apprezzavamo per la fedeltà e le capacità. Fummo ben lieti di liberarci di quanti preferivano restare a Elefantina, tra i quali c'erano quasi tutti i sacerdoti. Il tempo, però, avrebbe dimostrato che quelli rimasti a Elefantina ci sarebbero stati molto utili. Durante gli anni solitari dell'esodo, infatti, ci inviarono regolarmente notizie della situazione. Cosa ancora più importante, costoro tennero accesa la fiamma nel cuore del popolo con il ricordo del principe Memnone e della promessa della regina Lostris. Gradualmente, durante i lunghi anni dolorosi della tirannia degli hyksos, la leggenda del ritorno del principe si diffuse nei due regni. Alla fine tutto il popolo egizio, dalla prima cataratta alle sette foci del Nilo nel grande Delta, credette nel suo ritorno e l'invocò nelle preghiere. Hui teneva i miei cavalli nei campi della riva occidentale, ai piedi delle dune color arancio in riva al fiume. Il principe e io vi andavamo ogni giorno; e sebbene diventasse sempre più pesante, Memnone voleva salirmi sulle spalle per vedere meglio la mandria. Ormai conosceva per nome tutti i suoi prediletti e Pazienza e Lama venivano a mangiare le focacce di grano nella sua mano quando li chiamava. La prima volta che la cavalcò senza che io lo sostenessi, Pazienza fu docile con lui quanto lo era con il suo puledro, e il principe gridò per la gioia di poter galoppare tutto solo intorno al campo. Hui aveva imparato molte cose sulla gestione della mandria durante la marcia; e sfruttammo queste conoscenze per pianificare nei minimi particolari la tappa successiva del viaggio. Spiegai a Hui, inoltre, il ruolo che volevo venisse svolto dai cavalli nel superamento delle cataratte, e affidai a lui, ai cavalieri e agli stallieri il compito di preparare i finimenti adatti. Alla prima occasione Tanus e io risalimmo un tratto del fiume per una ricognizione della cataratta. L'acqua era così bassa che tutte le isole erano scoperte, e i canali erano così poco profondi che in certi punti un uomo poteva passare a guado senza che l'acqua gli coprisse la testa. Le cataratte si estendevano per un tratto molto lungo, in un'immensa confusione di lucidi massi di granito levigati dall'acqua e di correnti serpentine che li aggiravano. Persino io mi sentivo scoraggiato di fronte al compito che ci attendeva mentre Tanus ne parlava con la solita, brutale franchezza. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
406
«Non riuscirai a far passare neppure un barchino senza sventrarlo. Come farai con una nave a pieno carico? La trasporterai sulla groppa d'uno dei tuoi maledetti cavalli?» Rideva, ma senza allegria. Ripartimmo per Elefantina; ancora prima di arrivare alla città avevo concluso che l'unico modo per proseguire consisteva nell'abbandonare le navi e procedere per via di terra. Era difficile immaginare i disagi e i problemi che questa decisione ci avrebbe causato. Prevedevo tuttavia che avremmo potuto ricostruire la flotta sulle rive del fiume al di là delle cataratte. Quando tornammo al palazzo sull'isola Elefantina, Tanus e io andammo subito nella sala delle udienze per fare il nostro rapporto alla regina. Lostris ci ascoltò con attenzione, e alla fine scrollò la testa. «Non credo che la dea ci abbia abbandonato così presto.» Poi ci condusse con tutta la corte al tempio di Hapi, all'estremità meridionale dell'isola. Fece un sacrificio generoso, e noi pregammo per tutta la notte chiedendo ad Hapi di guidarci. Non penso che il favore degli dei si possa acquistare tagliando la gola a qualche capra o posando grappoli d'uva su un altare di pietra; comunque pregai con tutto il fervore di un sommo sacerdote anche se all'alba avevo le natiche intormentite dalla lunga veglia sulla panca di pietra. Appena i primi raggi del sole penetrarono nel sacrario e illuminarono l'altare, la mia padrona mi mandò nella galleria del nilometro. Prima di arrivare in fondo mi trovai l'acqua alle caviglie. Hapi aveva ascoltato le nostre preghiere. Il livello del Nilo stava cominciando a crescere con diverse settimane di anticipo. Il giorno dopo che le acque incominciarono a salire, una delle nostre navi veloci che Tanus aveva lasciato a spiare i movimenti degli hyksos arrivò da valle sulle ali del vento. Gli hyksos s'erano rimessi in marcia. Entro una settimana sarebbero arrivati a Elefantina. Tanus parti immediatamente con il grosso delle sue forze per preparare la difesa delle cataratte, e lasciò a me e al nobile Merseket il compito di far imbarcare i nostri. Riuscii a staccare il nobile Merseket dalla giovanissima moglie il tempo sufficiente per fargli firmare gli ordini che avevo preparato. Questa volta riuscimmo a evitare il panico e la confusione che ci avevano ostacolato a Tebe, e la flotta si preparò a salpare in buon ordine per le cataratte. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
407
Cinquantamila egizi si schierarono sulle due rive del fiume, e piansero e cantarono inni ad Hapi e sventolarono fronde di palma per salutarci. La regina Lostris era a prua del Soffio di Horus con il principino al fianco, e tutti e due risposero al saluto della folla mentre procedevamo lentamente verso monte. A ventun anni la mia padrona era al culmine della sua bellezza, e quanti la guardavano erano colpiti da una reverenza religiosa. E la stessa bellezza si rispecchiava nel volto del bambino che, al suo fianco, stringeva con decisione lo scettro uncinato e il flagello dei re egizi. «Ritorneremo», gridava la mia padrona, e il principe le faceva eco. «Torneremo. Aspettateci. Torneremo.» La leggenda che avrebbe sostenuto nei tempi più bui la nostra terra martoriata e oppressa nacque quel giorno sulle rive del fiume. Quando arrivammo alla cataratta, a mezzogiorno dell'indomani, la gola costellata di macigni s'era trasformata in una verde discesa d'acqua precipitosa che in certi punti ribolliva e rombava e spumeggiava ma non aveva ancora scatenato tutta la sua forza terribile. Era il momento più favorevole alla nostra impresa nel ciclo vitale del fiume. Le acque erano abbastanza alte per permettere che le navi passassero senza arenarsi nelle secche, e nel contempo la piena non era ancora così rabbiosa da scagliarle a sfracellarsi sui gradini di granito. Tanus comandava personalmente le navi, mentre Hui e io, ufficialmente al comando del nobile Merseket, dirigevamo le forze a terra. Sistemai il bravo vecchio, con una grossa anfora di vino squisito da una parte e la graziosa mogliettina sedicenne dall'altra, sotto una tettoia di paglia in un punto soprelevato. Ignorai gli ordini confusi e contraddittori che il dignitario ci mandò di tanto in tanto durante i giorni seguenti. E così ci accingemmo a superare la prima cataratta. Sulla riva furono disposti i cavi di lino più robusti, e i cavalli furono imbragati a gruppi di dieci. Scoprimmo ben presto che potevamo far avanzare dieci squadre per volta, cento cavalli in tutto, e agganciarli alle corde da traino. Sarebbe stato impossibile usarne di più. Oltre ai cavalli avevamo quasi duemila uomini che manovravano i cavi secondari e quelli guida. Uomini e cavalli venivano sostituiti ogni ora, in modo da poter disporre di squadre sempre fresche. A ogni svolta pericolosa del fiume piazzammo altre squadre sulla riva e sulle isole di granito. Tutti erano armati di lunghe pertiche per allontanare Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
408
gli scafi dalle rocce. I nostri uomini erano nati sulle rive del fiume e conoscevano le imbarcazioni e gli umori del Nilo meglio di quanto conoscessero le loro mogli. Tanus e io studiammo un sistema di segnali per mezzo di corni fra le navi e le squadre a terra, e le cose funzionarono addirittura meglio di quanto avessi sperato. A bordo dei vascelli, anche i marinai erano armati di pertiche per spingere ed evitare urti. Cantavano le antiche canzoni del fiume mentre lavoravano. Il Soffio di Horus fu la prima nave che compi il tentativo. I canti dei marmai e le grida degli uomini che manovravano i cavalli si mescolavano al rombo sordo delle acque mentre rimorchiavamo la nave, spingendo la prua nella prima rapida relativamente tranquilla. L'acqua verde si ammassò contro la prua, ma la pressione non bastò a vincere la nostra decisione e la forza di duemila uomini e cento cavalli. Trascinammo il Soffio di Horus su per la prima rapida e prorompemmo in acclamazioni quando finalmente scivolò in un tratto profondo. Ma eravamo soltanto agli inizi. Cambiammo gli uomini e i cavalli e trascinammo la nave in un altro tratto d'acqua turbinoso dove le rocce spuntavano come teste di ippopotami giganteschi pronti a dilaniare il suo fragile fasciame con zanne di granito. Dovevamo superare migliaia e migliaia di passi di rapide infernali, dove la morte e il disastro erano in agguato dietro ogni macigno; ma le corde reggevano e gli uomini e i cavalli continuavano ad avanzare alternandosi. La mia padrona procedeva a piedi lungo la riva a fianco delle squadre. Era fresca come un fiore nonostante il sole rovente, e la sua risata e le sue parole amabili incoraggiavano gli uomini. Cantava con loro, e io mi associavo nei ritornelli. Inventavamo via via parole nuove. Gli uomini ridevano dei versi maliziosi e tiravano le funi con rinnovata energia. Il principe Memnone era in groppa a Lama, nella prima squadra dei cavalli. Hui aveva legato una corda intorno al petto del cavallo in modo che il bambino potesse aggrapparsi, perché Memnone aveva le gambe ancora troppo corte per tenersi ben saldo: sporgevano ai lati della groppa dell'animale, mentre il principe salutava con orgoglio il padre che stava sul ponte della nave. Quando finalmente giungemmo nel corso imperturbato del grande fiume a monte delle rapide, il canto dei marinai si trasformò in un inno di lode ad Hapi che ci aveva aiutati. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
409
La mia padrona ritornò a bordo e chiamò il capomastro per ordinargli di ricavare un obelisco dal granito della gola. Mentre noi ci adoperavamo per far passare il resto della fiotta, gli scalpellini si misero all'opera per ricavare una lunga colonna di pietra screziata dalle rupi scoscese. Quando l'ebbero liberata dalla matrice vi scolpirono le parole dettate dalla mia padrona, con il suo nome e quello del principe racchiusi nei cartigli reali. Mentre procedevamo e superavamo le cataratte diventavamo via via sempre più esperti. C'era voluto un giorno intero per portare il Soffio di Horus oltre le rapide. Entro la fine della settimana successiva riuscimmo a compiere la traversata in metà tempo; avevamo contemporaneamente cinque o sei vascelli nella gola. Sembrava quasi una processione reale, con una nave che saliva dietro l'altra. In ogni dato momento erano all'opera diecimila uomini e quasi mille cavalli. C'erano più di cento navi ormeggiate lungo la riva di un tratto tranquillo e profondo del Nilo a monte delle rapide quando gli hyksos piombarono nuovamente su di noi. Il re Salitis s'era attardato a saccheggiare Elefantina e non si era accorto immediatamente che avevamo continuato a risalire il fiume portando nella stiva delle navi la parte più consistente del tesoro del Faraone. Tutto ciò che sapeva del fiume, tutto ciò che le sue spie e il nobile Intef avevano potuto dirgli sull'argomento, lo aveva convinto che le cataratte fossero una barriera insuperabile: perciò aveva sprecato tutto quel tempo nella città di Elefantina prima di riprendere l'inseguimento. Aveva saccheggiato la città e il palazzo sull'isola, aveva pagato gli informatori e torturato i prigionieri per sapere dove erano finiti il tesoro e il principe. I cittadini di Elefantina avevano servito onorevolmente il principe Memnone. Avevano resistito agli hyksos per lasciare alla nostra flotta la possibilità di superare la cataratta. Naturalmente questo non poteva durare all'infinito: alla fine qualche sventurato aveva ceduto alle torture. Allora il re Salitis aveva fatto aggiogare di nuovo i suoi cavalli e ci aveva inseguiti nella gola delle cataratte. Tanus, però, era pronto a riceverlo. Secondo i suoi ordini, Kratas, Remrem e Astes avevano provveduto a tutto. Ognuno degli uomini che non era impegnato a rimorchiare le navi nella gola veniva mandato a difenderla. Il nostro migliore alleato era il terreno. La gola era profonda e rocciosa, il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
410
sentiero lungo la riva stretto e tortuoso. A ogni svolta del fiume s'innalzavano strapiombi e rupi crivellate di grotte, ognuno dei quali era per noi un'utile fortezza naturale. I carri erano nell'impossibilità di manovrare entro i confini della gola: non potevano allontanarsi dal fiume e aggirarla passando dal deserto, dove non c'era acqua né foraggio per i cavalli, e il suolo era infido. I carri pesanti sarebbero sprofondati in modo irrecuperabile prima di poter raggiungere di nuovo il fiume. Non avevano alternative: erano costretti a muovere contro di noi in fila per uno lungo la riva. Kratas, intanto, aveva avuto il tempo di migliorare le difese naturali del terreno costruendo barriere di pietre nei punti più propizi. Piazzò gii arcieri sulle rupi sopra questi ostacoli, e preparò frane artificiali al di sopra del sentiero. Quando l'avanguardia degli hyksos avanzò nella gola, fu accolta da una grandinata di frecce che piovevano dalle ridotte fortificate. Poi, quando smontarono dai carri e avanzarono a piedi per smantellare le barriere di pietre erette attraverso il percorso, Kratas gridò un ordine e i suoi tolsero i cunei che bloccavano le frane sul ciglio del precipizio. Le pietre rotolarono addosso agli hyksos e trascinarono uomini, cavalli e carri nelle acque verdi e turbinose del Nilo. Io, che ero sulla rupe con Kratas, vidi le teste che roteavano nelle rapide e sentivo echeggiare fra le pareti di roccia le fievoli grida disperate: poi il peso delle corazze li faceva sprofondare e il fiume li sommergeva. Il re Salitis era tenace. Mandò altri uomini a sgombrare il sentiero, e altri ancora ad arrampicarsi sulle rupi per scacciare i nostri. Subirono perdite tremende, diversamente da noi. Quando scalarono i precipizi, appesantiti dalle corazze bronzee, li bersagliammo con le frecce; quindi, prima che potessero raggiungere le nostre posizioni, Kratas ordinò ai nostri di ripiegare nelle fortificazioni già predisposte. Questo scontro poteva avere un solo esito. Prima di giungere a metà della gola, il re Salitis fu costretto a rinunciare all'inseguimento. Tanus e Lostris erano con noi sull'alto di una rupe quando gli hyksos incominciarono la ritirata. Lasciarono il sentiero ingombro dei rottami dei carri, gli equipaggiamenti che non potevano portare con sé e le testimonianze della loro sconfitta. «Suonate le trombe!» ordinò Tanus. Nella gola riverberò una fanfara irridente che salutò la ritirata dei nemici. L'ultimo carro fu quello dorato e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
411
scolpito del re. Anche da quella distanza potevamo riconoscere l'alta figura selvaggia di Salitis, con l'elmo bronzeo e la capigliatura nera che sventolava dietro le spalle. Alzò l'arco che stringeva nella destra e l'agitò minacciosamente. La sua espressione era stravolta dalla frustrazione e dalia rabbia. Lo seguimmo con lo sguardo fino a quando non scomparve. Poi Tanus mandò i nostri esploratori a spiare gli hyksos lungo il percorso fino a Elefantina, nell'eventualità che si trattasse di un tranello, una falsa ritirata. In cuor mio, però, sapevo che non sarebbero tornati a perseguitarci. Hapi aveva mantenuto la promessa e ci aveva offerto ancora una volta la sua protezione. Poi tornammo indietro, percorremmo la pista aperta dalle capre selvatiche lungo il precipizio, e raggiungemmo la flotta. Gli scalpellini avevano terminato l'obelisco, un ago massiccio di granito alto tre volte un uomo. Io avevo disegnato le proporzioni e la forma sulla roccia prima che i tagliatori incominciassero a lavorare. Di conseguenza, le linee del monumento erano così eleganti e piacevoli che sembrò assai più alto di quanto fosse in realtà, quando fu collocato in cima alla rupe, sopra l'ultimo tratto della cataratta che era stata la scena del nostro trionfo. Tutti i nostri accorsero ad assistere quando la regina Lostris lo consacrò alla dea del fiume. Lesse l'iscrizione che gli scalpellini avevano inciso sulla pietra levigata. Io, la regina Lostris, reggente dell'Egitto e vedova del Faraone Marnose, ottavo di questo nome, madre del principe ereditario Memnone che governerà i due regni dopo di me, ho ordinato d'innalzare questo monumento. Questo è il segno e il patto della mia promessa al popolo dell'Egitto: ritornerò dal deserto nel quale i barbari mi hanno costretta a rifugiarmi. Questo monumento è stato collocato qui nel primo anno del mio regno, milietrecentoquarantasei anni dopo la costruzione della grande piramide del Faraone Cheope. Che questa pietra rimanga inamovibile come la piramide, fino a quando non manterrò la promessa di ritornare. Poi, alia presenza di tutti, mise S'Oro del Valore al collo di Tanus, Kratas, Remrem e Astes, gli eroi che avevano reso possibile il superamento della cataratta. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
412
Infine mi chiamò e quando m'inginocchiai ai suoi piedi mormorò in modo che io solo potessi sentire: «Come potrei dimenticarti, mio caro e fedele Taita? Non saremmo arrivati fin qui senza il tuo aiuto». Mi accarezzò lievemente la guancia. «So che ami questi graziosi monili.» Mi mise al collo l'Oro del Valore: quando più tardi lo pesai vidi che era trenta deben, cinque deben in più della catena accordatami dal Faraone. Quando ridiscendemmo nella gola, mi avviai al suo fianco per reggerle il parasole di piume di struzzo, e Lostris mi sorrise di nuovo. Ogni suo sorriso era per me più prezioso della decorazione. L'indomani mattina risalimmo a bordo del Soffio di Horus e puntammo la prua verso il sud. Era incominciato il lungo viaggio. Scoprimmo che il fiume aveva cambiato aspetto e carattere. Non era più la presenza ampia e serena che ci aveva confortati e sostentati per tutta la nostra vita. Era più severo e selvaggio, e nel suo spirito c'era poca gentilezza. Era anche più stretto e profondo. Il terreno era più scosceso e accidentato, e le gole e i canaloni erano scavati in modo crudo nel suolo aspro. Le rupi scure e minacciose sembravano osservarci con un fiero cipiglio. In alcuni tratti la fascia di bassopiano lungo le rive si restringeva al punto che cavalli, bovini e pecore dovevano passare a uno a uno lungo la pista aperta dalle capre selvatiche fra i dirupi e l'acqua. In altri tratti anche la pista scompariva: là dove le alture si spingevano audacemente sin nel flusso del Nilo, i nostri animali non potevano più avanzare. Allora Hui era costretto a farli immergere nel fiume perché lo attraversassero a nuoto e raggiungessero la sponda opposta, dove i precipizi erano più lontani e permettevano il passaggio. Le settimane trascorrevano e noi vedevamo ben pochi segni della presenza umana. Una volta i nostri esploratori trovarono lo scafo roso dai vermi di una canoa rudimentale, arenato su un banco di sabbia, e lungo la riva un gruppo abbandonato di capanne. I tetti traballanti erano di canne, i lati aperti. C'erano i resti di tralicci usati per affumicare i pesci e le ceneri dei fuochi, ma era tutto. Non c'era un coccio o una perlina che potessero aiutarci a capire chi fosse quella gente. Eravamo ansiosi di stabilire un primo contatto con le tribù di Cush, perché avevamo bisogno di schiavi. La nostra civiltà era fondata sugli schiavi, e avevamo potuto portarne pochissimi dall'Egitto. Tanus mandò gli Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
413
esploratori a precedere la flotta, in modo che fossimo preavvertiti della presenza di abitati umani per poter organizzare la cattura. Non vedevo alcuna contraddizione nel fatto che io, pur essendo schiavo, dedicassi tanto tempo e tanto ingegno a predisporre tale attività. La ricchezza si può contare in quattro categorie: terra e oro, schiavi e avorio. Pensavamo che il Paese davanti a noi fosse ricco di tutto questo. Se volevamo diventare abbastanza forti per ritornare e scacciare gli hyksos dall'Egitto, dovevamo scoprire questa ricchezza nel territorio inesplorato che stavamo attraversando. La regina Lostris mandò i cercatori d'oro fra le colline lungo il fiume, e quelli si arrampicavano nelle gole e nei canaloni prosciugati, e scavavano in tutti i punti più promettenti, scalpellando frammenti dalle vene scoperte di quarzo e scisto. Quindi li riducevano in polvere e li lavoravano in piatti di coccio, sempre nella speranza di vedere sul fondo il brillio delle particelle di metallo prezioso. I cacciatori reali andavano con loro in cerca di selvaggina per sfamare le nostre moltitudini, e dei primi segni della presenza delle enormi bestie grigie dalle zanne d'avorio. Chiesi ai marinai se qualcuno di loro avesse visto un elefante vivo o anche morto. Sebbene le zanne fossero oggetto di regolare commercio in tutto il mondo civile, non c'era un solo uomo in grado di aiutarmi. Provavo un'emozione strana e inspiegabile al pensiero del futuro primo incontro con quelle bestie favolose. C'era una quantità di altri esseri che abitavano il territorio selvaggio: alcuni ci erano familiari, altri completamente sconosciuti. In ogni luogo in cui c'erano canneti lungo le rive trovavamo branchi di ippopotami che stavano nell'acqua poco profonda come macigni di granito. Dopo un lungo e dotto dibattito teologico non era stato possibile stabilire se le bestie che vivevano a monte della cataratta appartenessero alla dea come quelle che stavano a valle, o se si trattava di selvaggina reale, come tale spettante alla corona. I sacerdoti di Hapi sostenevano la prima tesi, mentre tutti noi, che apprezzavamo molto la carne grassa e tenera degli ippopotami, eravamo dell'opinione opposta. Per puro caso la dea Hapi decise di apparirmi in uno dei miei famosi sogni. La vidi sorgere dalle acque verdi, sorridere benevolmente e porre nella mano della mia padrona un ippopotamo non più grande d'una pernice. Appena mi svegliai, mi affrettai a riferire alla reggente quella strana visione. Ormai i miei sogni e le mie divinazioni erano accettati dalla regina e quindi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
414
da tutti quali manifestazioni della volontà divina. Quella sera banchettammo con le deliziose bistecche dei bovi di fiume cucinate alla brace sulla riva sabbiosa dove erano ormeggiate le nostre navi. La popolarità di cui già godevo fu ingigantita dal sogno. Soltanto i sacerdoti di Hapi non si lasciarono coinvolgere nel generale sentimento d'affetto nei miei confronti. Il fiume brulicava di pesci. A valle della cataratta il nostro popolo aveva pescato per mille anni o più, ma queste acque non erano mai state toccate dall'uomo e dalle sue reti. Prendevamo lucenti persici azzurri che pesavano quanto un uomo grasso; e c'erano pescigatti enormi dai lunghi baffi, troppo forti perché fosse possibile catturarli con le reti. Con un guizzo delle code potenti laceravano i fili di lino come se fossero ragnatele fragili. I nostri li cacciavano nelle secche con le lance, come se fossero bovi acquatici. Uno di quei giganti poteva sfamare cinquanta uomini con la ricca carne gialla che faceva sgocciolare il grasso sul fuoco. Fra le rupi che sovrastavano il fiume c'erano i nidi delle aquile e degli avvoltoi: visti dal basso sembravano masse di fuscelli gettati a riva dalla corrente, e lo sterco dei grandi uccelli colorava le rocce sottostanti con striature bianche. I rapaci volteggiavano sopra di noi sulle ali spiegate, planando sull'aria calda che saliva dalle rocce nere della gola. Dall'alto, i branchi di capre selvatiche ci guardavano passare con aria di maestà sdegnosa. Tanus andava a cacciarle lassù, ma passarono molte settimane prima che riuscisse a prenderne una. Avevano la vista acuta degli avvoltoi e l'agilità delle lucertole a testa azzurra, ed erano capaci di arrampicarsi senza sforzo su una parete verticale di granito. Un vecchio maschio era alto quanto la spalla d'un uomo, e la barba scendeva dal mento sino a sfiorare la roccia su cui era posato. Le corna erano poderose e avvolte su se stesse. Tanus riuscì finalmente ad abbatterlo con una freccia scagliata attraverso una gola profonda cento passi, da una vetta all'altra. Il capro precipitò roteando nell'abisso e fini sulle rocce sottostanti. Dato il mio interesse appassionato per la fauna selvatica, dopo aver scuoiato la carcassa Tanus mi portò la testa e le corna. Dovette usare tutta la sua forza per portar giù quel carico scendendo dalie cime. Pulii e sbiancai il cranio e io piazzai come polena sulla prua della nostra nave. E proseguimmo verso l'ignoto. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
415
I mesi passarono e il fiume incominciò ad abbassarsi alla fine dell'inondazione. Quando transitavamo fra i promontori rocciosi, vedevamo l'altezza del fiume misurata sulle pareti sopra cui tutte le piene precedenti avevano lasciato il segno. La notte Memnone e io restavamo sul ponte fino a quando lo permetteva la mia padrona, e studiavamo insieme le stelle che illuminavano il cielo d'un chiarore latteo. Gli insegnavo i nomi e la natura di quei punti luminosi e gli spiegavo come influivano sui destino di ogni uomo. Con l'osservazione dei corpi celesti potei accertare che il fiume non ci portava più direttamente verso sud, e che stavamo deviando verso ponente. «Il Nilo ci guida ai prati del paradiso», sostenevano i sacerdoti di Osiride e Ammon-Ra. «È un'astuzia di Seth, che mira a confonderci», dichiaravano i sacerdoti di Hapi che fino a quel momento avevano esercitato un'influenza fin troppo grande nei nostri consigli. La regina Lostris era figlia della loro dea, e tutti o quasi riconoscevano in Hapi la protettrice della nostra spedizione. I sacerdoti erano irritati nel vedere la loro posizione indebolita da quelle capricciose evoluzioni del fiume. «Presto volgerà di nuovo a sud», promettevano. Mi scandalizza sempre vedere in qual modo uomini privi di scrupoli manipolano il volere degli dei per farlo coincidere con il proprio. Comunque, prima che la questione venisse risolta, arrivammo alla seconda cataratta. Nessun uomo civile si era mai avventurato oltre. Quando esplorammo la cataratta ne scoprimmo la ragione. Le rapide erano assai più vaste e temibili di quelle che avevamo superato. Per un'area enorme il corso del Nilo era diviso da numerose isole grandi e da centinaia di altre più piccole. L'acqua era bassa, e in molti punti il letto del fiume era scoperto. Un labirinto di canali costellati di rocce si estendeva per migliaia e migliaia di passi davanti a noi. Eravamo alquanto intimoriti da quella grandiosità minacciosa. «Come possiamo sapere che non vi sia tutta una successione di cataratte?» si chiedevano coloro che si lasciavano scoraggiare facilmente. «Esauriremo le nostre forze e finiremo per trovarci intrappolati fra le rapide senza poter più avanzare né ritirarci... Dovremmo tornare indietro adesso, prima che sia troppo tardi», concludevano. «Andremo avanti», decise la mia padrona. «Coloro che vogliono tornare Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
416
indietro sono liberi di farlo. Ma non avranno vascelli per viaggiare, né cavalli per trainarli. Torneranno da soli, e sono certa che gli hyksos li accoglieranno a braccia aperte.» Nessuno accettò la proposta. Scesero invece a terra sulle isole fertili che strozzavano il corso del fiume. Gli spruzzi delle rapide durante le inondazioni e l'acqua che filtrava nel terreno durante il periodo di magra avevano trasformato quelle isole in foreste verdeggianti che contrastavano nettamente con i terribili deserti sulle due sponde. Nati dai semi che le acque avevano portato dai confini del mondo, alberi altissimi che nessuno di noi aveva mai visto crescevano nel limo deposto dal Nilo sulla base di granito. Non potevamo tentare di superare quelle rapide prima della prossima inondazione che ci avrebbe dato il necessario livello d'acqua. E dovevamo attendere ancora molti mesi. I nostri contadini scesero a terra e diboscarono per piantare le sementi che avevamo portato con noi. In pochi giorni spuntarono i germogli, che nella luce calda del sole crebbero in fretta. Qualche mese più tardi la durra fu pronta per il raccolto; e noi mangiavamo di gusto la frutta e le verdure di cui avevamo sentito la mancanza dopo la partenza dall'Egitto. I nostri smisero di lamentarsi. Per la verità quelle isole erano così belle e fertili che alcuni cominciarono a parlare di stabilirvisi definitivamente. Una delegazione di sacerdoti di Ammon-Ra si presentò alla regina e chiese il permesso di costruire un tempio del loro dio su una delle isole. La mia padrona rispose: «Noi siamo viaggiatori, e un giorno ritorneremo in Egitto. L'ho promesso al mio popolo. Non costruiamo templi o altri insediamenti. Fino a quando non torneremo in Egitto vivremo come i beduini, nelle tende e nelle capanne». Avevo a disposizione il legname degli alberi che avevamo abbattuto sulle isole. Potei usarlo per fare esperimenti e studiarne le proprietà. Presi dunque un'acacia dal legno forte ed elastico, il materiale migliore per le ruote dei miei carri, e misi al lavoro i carpentieri e i tessitori perché rimontassero i carri che avevamo portato con noi e ne costruissero di nuovi con il legname e i bambù forniti dalle isole. I bassipiani erano ampi per migliaia e migliaia di passi sulla riva destra, a valle della cataratta, e ben presto gli squadroni dei nostri carri cominciarono a manovrare su quelle pianure. I raggi delle ruote si rompevano ancora nelle Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
417
condizioni difficili, ma con minore frequenza di prima. Riuscii a convincere Tanus a risalire su un carro, anche se mi impose di mettermi alia guida. Nel contempo riuscii a completare il primo arco curvo sul quale avevo lavorato fin dalla partenza da Elefantina. Era di materiali compositi come Lanata: legno, avorio e corno. Ma la forma era diversa. Quando la corda non era fissata, la parte superiore e quella inferiore s'incurvavano verso l'esterno. Solo quando si fissava la corda, le due estremità si piegavano all'indietro nella forma consueta; ma la tensione si moltiplicava in misura sproporzionata rispetto alla lunghezza ridotta. Tanus cedette alle mie insistenze e acconsenti a tirar con l'arco contro una serie di bersagli che avevo eretto sulla riva orientale. Scagliò venti frecce e non fece molti commenti; ma vedevo che era sbalordito dalla precisione e dalla gittata. Conoscevo molto bene Tanus, che era conservatore fino al midollo delle ossa. Lanata era il suo primo amore... l'arco come la donna. Sapevo che per lui sarebbe stato uno strazio riconoscere un amore nuovo, perciò non mi ostinai a chiedere il suo parere e gli lasciai il tempo di decidere. I nostri esploratori vennero a segnalare una migrazione di orici che provenivano dal deserto. Avevamo visto diversi piccoli branchi di questi animali magnifici dopo aver superato la prima cataratta. Di solito pascolavano sulla riva del fiume, ma fuggivano all'avvicinarsi delle navi. Quello segnalato dagli esploratori era un movimento che si verificava raramente: io l'avevo visto una sola volta. Quando nel deserto scoppiava un temporale, in media ogni vent'anni, l'erba verde che spuntava dal suolo bagnato attirava i branchi da distanze enormi. Cosi, mentre avanzavano verso i nuovi pascoli, i branchi si amalgamavano in un unico movimento massiccio attraverso il deserto. Era ciò che stava accadendo ora, e ci offriva la possibilità di cambiare dieta e di collaudare i nostri carri. Per la prima volta Tanus manifestò un interesse autentico per i carri, perché poteva usarli per inseguire la selvaggina. Quando salì sulla pedana vidi che aveva appeso alla rastrelliera il nuovo arco ricurvo anziché il fedele Lanata. Non dissi una parola ma incitai i cavalli e li diressi verso il varco fra le colline che ci permetteva di uscire dalla stretta valle del Nilo e di avventurarci nel deserto. Lo squadrone era formato da cinquanta carri, seguiti da una dozzina di veicoli più pesanti con le ruote piene che trasportavano foraggio e acqua sufficienti per cinque giorni. Procedevamo in colonna con i carri affiancati a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
418
due a due a una distanza di tre lunghezze: una formazione che avevamo messo a punto per i viaggi. Per ridurre al minimo il peso indossavamo soltanto i perizomi, e tutti gli uomini erano in condizioni fisiche superbe per i lunghi mesi passati ai remi. Le loro figure muscolose e unte d'olio splendevano nel sole come quelle di giovani dei. Ogni carro portava un gagliardetto colorato che permetteva di riconoscerlo, fissato a una canna di bambù. Offrivamo uno spettacolo magnifico mentre salivamo la pista aperta dalle capre fra le colline. Quando mi voltavo a guardare la colonna mi sentivo impressionato, sebbene non fossi mai stato un soldato. A quel tempo non mi rendevo conto della verità, ma gli hyksos e l'esodo avevano imposto alla nazione un nuovo spirito militare. Eravamo stati una razza di eruditi, di commercianti e sacerdoti: ma ora che la regina Lostris era decisa a cacciare il tiranno e che Tanus ci guidava stavamo diventando in fretta un popolo bellicoso. Quando superammo la cresta delle colline e ci trovammo di fronte al deserto, una figura minuscola usci dall'ultimo mucchio di rocce dov'era rimasta in agguato. «Ua!» gridai, trattenendo i cavalli. «Che cosa ci fai qui, tanto lontano dalle navi?» Non avevo visto il principe dalla sera prima, e avevo pensato che fosse al sicuro con le governanti. Era una vera sorpresa trovarlo al margine del deserto, e avevo un tono indignato. A quel tempo non aveva ancora sei anni, ma portava in spalla l'arco giocattolo e aveva un'espressione decisa simile a quella del padre quando era dell'umore più intrattabile. «Vengo a caccia con voi», annunciò Memnone. «No», ribattei. «Ti rimando subito da tua madre. Lei sa cosa fare con i bambini che scappano dal campo senza dir niente ai loro istitutori.» «Sono il principe ereditario dell'Egitto», disse Memnone, ma nonostante quell'affermazione baldanzosa gli tremavano le labbra. «Nessuno può proibirmi nulla. Ho il diritto e il dovere di guidare il mio popolo nel momento del bisogno.» Ci eravamo spinti su un terreno pericoloso. Il principe conosceva i suoi diritti e le sue responsabilità, ed ero stato io a insegnarglieli. Ma per la verità non mi aspettavo che li esercitasse tanto presto. Ne aveva fatto una questione di protocollo, ed era difficile o addirittura impossibile discutere con lui. Cercai disperatamente una via d'uscita. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
419
«Perché non me l'hai chiesto prima?» Volevo solo guadagnare tempo. «Perché l'avresti raccontato a mia madre», rispose con molta schiettezza. «E lei ti avrebbe dato ragione come al solito.» «Posso andare comunque dalla regina», dissi in tono minaccioso, ma Memnone si voltò a guardare la valle dove le navi sembravano piccole come giocattoli, poi sorrise. Sapevamo entrambi che non potevo ordinare all'intero squadrone di tornare indietro. «Ti prego, lascia che venga con voi, Tata.» Aveva cambiato tono e attaccava su tutti i fronti. Mi era impossibile resistere quando sfoderava tutto il suo garbo. Poi mi venne un'idea. «Il comandante della spedizione è il nobile Harrab. Devi chiederlo a lui.» I rapporti tra loro erano strani. Solo noi tre, i genitori e io, sapevamo chi era il vero padre di Memnone; persino il principe credeva che Tanus fosse il suo precettore e il comandante del suo esercito. Anche se gli voleva bene, aveva molta soggezione di lui. Tanus non era il tipo con cui un bambino poteva scherzare, anche se era un principe. Si guardarono in faccia. Capivo che Memnone stava studiando un piano d'attacco e che Tanus tremava per lo sforzo di trattenere l'ilarità. «Nobile Harrab.» Memnone aveva optato per l'approccio formale. «Vorrei venire con voi. Credo che per me sarà una lezione utile. Dopotutto, un giorno dovrò comandare l'esercito.» Gli avevo insegnato logica e dialettica, ed era un allievo di cui potevo andare orgoglioso. «Principe Memnone, il tuo è un ordine?» Tanus riuscì a nascondere il divertimento con una smorfia tremenda e io vidi spuntare le lacrime negli occhi del principe. Memnone scosse la testa, avvilito. «No, mio signore.» Era ridiventato un bambino. «Ma mi piacerebbe molto venire a caccia con voi. Ti prego.» «La regina mi farà strangolare», disse Tanus. «Ma salta su, piccolo briccone.» Al principe piaceva che Tanus lo chiamasse briccone: era un termine che di solito riservava agli uomini del suo vecchio reggimento degli Azzurri, e dava a Memnone la sensazione d'essere uno di loro. Proruppe in un grido di gioia e per poco non inciampò, nella fretta di obbedire. Tanus si chinò e io prese per un braccio, lo issò a bordo e lo piazzò sulla pedana tra di noi. «Avanti!» gridò Memnone a Pazienza e Lama, e avanzammo nel deserto. Prima, però, mandai un messaggero alla flotta per informare la regina che il principe era sano e salvo. Quando si trattava di proteggerlo, la mia padrona Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
420
diventava una leonessa. Trovammo le tracce della mandria migrante, un tratto di sabbia smossa immensamente ampio. Gli zoccoli degli orici sono larghi per facilitargli i movimenti sulla sabbia soffice, e lasciano orme riconoscibili che hanno la forma di una punta di lancia degli hyksos. Di li erano passate migliaia di grandi antilopi. «Quando?» chiese Tanus, e io smontai per esaminare la pista. Feci scendere anche Memnone perché non mi lasciavo mai sfuggire un'occasione per istruirlo. Gli mostrai che la brezza notturna aveva eroso le tracce e che lucertole e insetti avevano sovrapposto le loro orme a quelle della mandria. «Sono passati di qui ieri al tramonto», dissi, e il principino confermò. «Però procedono lentamente. Con un po' di fortuna potremo raggiungerli prima di mezzogiorno.» Attendemmo che arrivassero i carri da trasporto. Facemmo bere i cavalli e proseguimmo, seguendo l'ampia pista attraverso le dune. Trovammo ben presto le carcasse degli animali più deboli che non ce l'avevano fatta: i più giovani e i più vecchi. Adesso corvi e avvoltoi si disputavano i loro resti mentre i piccoli sciacalli rossi si aggiravano a una certa distanza nella speranza di poter rubare qualche boccone. Seguimmo la pista fino a che scorgemmo un velo di polvere sull'orizzonte meridionale. Accelerammo l'andatura. Quando giungemmo in cima a una catena di colline accidentate le cui creste tremolavano nel miraggio, vedemmo la mandria sparsa sotto di noi. Eravamo arrivati nell'area dove era scoppiato il temporale qualche settimana prima. Fin dove giungeva il nostro sguardo, il deserto si era trasformato in un giardino fiorito. Forse le ultime piogge erano cadute in quella zona cent'anni addietro. Sembrava impossibile, ma i semi erano rimasti a dormire per tutto quel tempo. Il sole e il vento del deserto li avevano disseccati mentre attendevano che piovesse di nuovo. Se qualcuno dubitava dell'esistenza degli dei, quel miracolo ne era la prova. Se qualcuno dubitava che la vita fosse eterna, quella era la promessa dell'immortalità. Se i fiori potevano sopravvivere così, sicuramente l'anima dell'uomo, tanto più meravigliosa e preziosa, doveva vivere anch'essa per sempre. Il paesaggio sotto di noi era dipinto di verdi teneri, i contorni delle colline spiccavano d'un verde più carico, e questo era lo sfondo del prodigioso arcobaleno di colori che illuminava la terra. I fiori crescevano a gruppi, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
421
raccolti a seconda della varietà, come i branchi di antilopi e gli stormi d'uccelli. Le margherite arancione spuntavano in laghi e laghetti, quelle con i petali bianchi ammantavano i pendii. C'erano campi di gladioli azzurri, gigli scarlatti ed eriche gialle. Persino gli arbusti nelle gole e nei canaloni che erano apparsi aridi come mummie di uomini morti da mille anni adesso erano ornati di verde, e ghirlande di fiori gialli li incoronavano. Per quanto fosse uno spettacolo incantevole, sapevo che era effimero. Entro un mese il deserto avrebbe trionfato di nuovo. I fiori sarebbero appassiti, l'erba si sarebbe trasformata in polvere e i venti caldissimi l'avrebbero dispersa. Di quello splendore non sarebbe rimasto nulla, eccettuati i semi minuscoli come granelli di sabbia che avrebbero atteso per anni con immane pazienza. «Una simile bellezza dovrebbe essere condivisa con la persona amata», mormorò Tanus. «Vorrei che la regina fosse qui con me.» La commozione di Tanus dimostrava la bellezza di quello spettacolo. Era un soldato e un cacciatore; ma, per una volta, anziché pensare alla selvaggina, contemplava la scena con aria religiosamente assorta. Un grido di Kratas, da uno dei carri che ci seguivano, ci strappò ai nostri pensieri. «Per l'alito puzzolente di Seth, saranno diecimila!» Gli orici erano sparpagliati sino ai profili verdi delle colline più lontane. Alcuni dei vecchi maschi stavano in disparte e tenevano lontani tutti gli altri, ma il resto era raccolto in gruppi di dieci o venti capi, e alcuni dei branchi non si potevano neppure contare, tanto che apparivano come enormi chiazze brune, come ombre di nubi sulla pianura. Sembrava che tutti gli orici dell'Africa si fossero radunati li. Abbeverammo di nuovo i cavalli prima di incominciare la caccia, e questo mi offri l'occasione di spingermi un po' avanti per scrutare quella massa di esseri viventi. Condussi con me il principe; ma quando cercai di guidarlo per mano, si liberò dalla stretta delle mie dita. «Non tenermi per mano davanti agli uomini, Tata», mi disse in tono solenne. «Crederanno che sia ancora un bambino.» Mentre stavamo sulla cresta della collina, alcuni degli erbivori più vicini alzarono la testa e ci guardarono con blanda curiosità. Mi resi conto che con ogni probabilità non avevano mai visto un essere umano e non interpretavano la nostra presenza come un pericolo. L'orice è una creatura magnifica, alta come un cavallo, con la stessa coda Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
422
scura e fluente che sfiora il terreno. Il muso è ornato da fregi neri su una maschera color sabbia. L'irta criniera scura scende lungo il collo e sottolinea l'aspetto equino, ma le corna non somigliano a quelle di alcun altro animale creato dagli dei. Sono corna sottili e diritte, con una punta simile a quella del mio pugnale; sono lunghe quasi quanto è alto l'animale, e costituiscono armi formidabili. Mentre tutte le altre antilopi sono miti e inoffensive e preferiscono la fuga all'aggressione, l'orice è pronto a difendersi persino dall'attacco del leone. Parlai a Memnone del loro coraggio e della loro robustezza, e spiegai come potevano vivere per l'intera esistenza senza bere acqua da stagni o fiumi. Gli orici prendono l'acqua dalla rugiada e dalle radici e dai tuberi del deserto che estraggono dalla terra con gli zoccoli. Memnone ascoltava avidamente, perché aveva ereditato dal padre la passione per la caccia mentre io gli avevo insegnato a riverire tutte le cose viventi. «Il vero cacciatore comprende e rispetta gli animali che caccia», gli dissi, ed egli annuì con aria seria. «Voglio diventare un vero cacciatore e un soldato come il nobile Tanus.» «Un uomo non nasce con queste doti. Deve apprenderle, come tu devi imparare a diventare un sovrano grande e giusto.» Provai una fitta di rammarico quando Tanus mi gridò che i cavalli avevano bevuto, e mi voltai e vidi gli uomini rimontare sui carri. Avrei preferito passare il resto della giornata con il mio principino, ad assistere allo splendido spettacolo sulla pianura. Tornai indietro con riluttanza per prendere le redini e riportare il nostro carro alla testa della colonna. A bordo degli altri carri gli arcieri avevano gli archi pronti, e la febbre della caccia s'era impadronita di tutti. Erano come segugi che venivano tenuti al guinzaglio corto quando avevano nelle narici l'usta della selvaggina. «Salve, nobile Tanus!» gridò Kratas. «Sei disposto a scommettere sul risultato?» Prima che Tanus potesse rispondere, mormorai: «Scommetti per me. Quel vecchio presuntuoso non ha mai usato l'arco a bordo di un carro in corsa». «Valgono soltanto le prede effettive», gli gridò Tanus. «Non contano gli animali colpiti da un altro.» Ogni arciere incideva sull'asta delle sue frecce un proprio simbolo per riconoscere e rivendicare la preda. Quello di Tanus Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
423
era Vudjat, l'Occhio di Horus. «Un deben d'oro per ogni orice con la tua freccia.» «Fai due», suggerii. «Uno anche per me.» Non amo scommettere, ma quello non era un rischio. Tanus aveva l'arco nuovo, e io ero il miglior guidatore di carri dell'intero esercito. Eravamo ancora principianti, ma avevo studiato il modo in cui gli hyksos usavano i carri. Ogni evoluzione compiuta dai loro squadroni quel giorno terribile sulla piana di Abnub era impressa nella mia memoria. Per me quella non era soltanto una caccia per svagarci e procurarci carne fresca, ma un'esercitazione e un addestramento per il grande gioco della guerra. Dovevamo infatti imparare a gestire le nostre formazioni per sfruttare al meglio i vantaggi e controllarle nella confusione della battaglia, quando le circostanze cambiavano a ogni movimento del nemico e secondo il caso. Mentre scendevamo ai trotto nella pianura diedi il primo segnale, e la colonna si divise in tre file, aprendosi come i petali d'un giglio. I carri che stavano sui fianchi si allargarono a corna di toro per circondare la selvaggina mentre i miei, al centro, si schieravano affiancati con tre lunghezze da ruota a ruota. Noi eravamo il petto del toro: le corna avrebbero trattenuto il nemico mentre ci avvicinavamo per stritolarlo in un abbraccio tremendo. Davanti a noi le antilopi alzarono le teste e ci guardarono, manifestando i primi segni d'allarme. Incominciarono ad allontanarsi seguite dai compagni. I piccoli branchi si fondevano in altri più numerosi, come un masso che rotola da un pendio a causa di una frana. Ben presto l'intera pianura divenne un brulichio di orici in movimento che galoppavano in uno strano modo ondulante. La polvere saliva come una nebbia pallida e restava sospesa intorno alle groppe. Le lunghe code nere sferzavano l'aria. Feci procedere al trotto il mio squadrone. Non volevo stancare troppo presto i cavalli con un inseguimento prolungato e impegnativo. Osservavo le nubi di polvere più aite e dense sollevate dalle altre due colonne, ai lati della mandria. Finalmente le due colonne di polvere si congiunsero molto più avanti e il cerchio si chiuse. I branchi di orici rallentarono quando si accorsero che la via di fuga era bloccata, e cominciarono ad aggirarsi in preda alla confusione quando i capi che procedevano in testa tornarono indietro e si imbatterono negli altri che li seguivano. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
424
In ossequio ai miei ordini, quando le colonne laterali ebbero completato la manovra di accerchiamento, rallentarono a loro volta, si misero al passo e avanzarono verso il centro del cerchio. Avevamo in pugno l'immensa mandria di orici, e la serrammo a poco a poco in una morsa. Quasi tutti gli animali, frastornati, si fermarono senza sapere in quale direzione dovevano correre. Dovunque guardassero vedevano le linee dei carri che si avvicinavano. Continuammo a procedere al passo. I nostri cavalli erano ancora freschi e smaniosi di correre. Sentivano l'eccitazione degli umani e scrollavano la testa, lottavano con i finimenti, sbuffavano e roteavano gli occhi. La mandria di orici tornò a muoversi ma senza una meta precisa. Si aggiravano, tentavano brevi corse, si fermavano di colpo, si voltavano e tornavano indietro al galoppo. Ero compiaciuto della disciplina e dell'efficienza dei nostri squadroni: mantenevano benissimo le formazioni, senza ammassarsi e senza lasciare vuoti. I miei segnali venivano ripetuti lungo la linea e messi prontamente in atto: finalmente stavamo diventando un vero esercito. Presto saremmo stati in grado di incontrare qualunque nemico in condizioni di vantaggio, inclusi i veterani hyksos che avevano trascorso sui carri gran parte della loro esistenza. Tesi la mano e presi il principe Memnone per il braccio; lo tirai avanti facendolo appoggiare al parapetto. Lo tenni incuneato con il mio corpo mentre stava aggrappato. Ora Tanus aveva entrambe le mani libere per tirare con l'arco, e il principe era al sicuro. «Lasciami prendere le redini, Tata. Voglio guidare», implorò Memnone. Gli avevo permesso di guidare altre volte, quindi parlava sul serio, anche se era alto appena quanto bastava per vedere qualcosa al di sopra del parapetto. Non osai ridergli in faccia per non ferirlo. «La prossima volta, principe. Per ora guarda e impara.» Finalmente giungemmo a meno di cento passi dall'orice più vicino. Per gli animali la pressione diventò insopportabile. Guidato da una vecchia femmina sfregiata, un centinaio di capi si lanciò contro la nostra linea. Al mio segnale ci accostammo mozzo contro mozzo, in una muraglia compatta di carri e di cavalli. I trombettieri suonarono la carica. Lanciai la mia pariglia al galoppo. Tanus scagliava le frecce al di sopra della mia spalla destra, e le vedevo volare attraverso il varco che si andava riducendo. Era la prima volta che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
425
tirava da un carro in corsa, e i primi tre dardi mancarono di molto i bersagli mentre il carro piombava in mezzo alla mandria. Tuttavia era un grande arciere, e non impiegò molto per regolare la mira. La freccia successiva colpi al petto la vecchia femmina che guidava ancora la carica; probabilmente le trafisse il cuore perché stramazzò con il muso nella sabbia e ruzzolò su se stessa. Gli animali che la seguivano si affrettarono a deviare sui due lati, offrendo a Tanus bersagli laterali. Vidi le due frecce successive cadere dietro gli orici in corsa. Si è sempre tentati di tirare direttamente a un bersaglio in movimento anziché nello spazio vuoto che lo precede e dove verrà a trovarsi quando la freccia arriverà a segno. Il calcolo, in questo caso, è ulteriormente complicato dal movimento del carro in relazione all'obiettivo. Io cercavo di offrire a Tanus le migliori possibilità di far centro guidando il carro più o meno alla stessa andatura della selvaggina. Tuttavia non rimasi sorpreso quando altre due frecce scagliate da lui non colpirono nel segno. Poi, da vero maestro dell'arco, adattò la mira, e quella freccia penetrò profondamente nel petto di un orice. Ne uccise altri tre con altri tre dardi, mentre tutto intorno a noi la caccia degenerava nella confusione folle della battaglia, e la polvere nascondeva ogni cosa e lasciava appena intravedere i carri e gli animali. Stavo seguendo due orici e andavo riducendo le distanze a poco a poco quando lo zoccolo d'uno di essi sollevò un frammento acuminato grosso come l'ultima falange del mio pollice. Memnone non ebbe il tempo di schivarlo. Fu colpito alla fronte e quando alzò il viso verso di me vidi il sangue che usciva da un taglio poco profondo sopra l'occhio. «Sei ferito, Memnone!» gridai, e feci per trattenere i cavalli. «Non è niente», rispose il principino mentre si asciugava il sangue con un lembo dello scialle. «Non fermarti, Tata! Continua l'inseguimento, altrimenti Kratas ci batterà.» E così avanzai nel polverone. Accanto a me, l'arco di Tanus cantava il suo canto terribile e il principe gridava per l'eccitazione, come un cagnolino che insegue un coniglio per la prima volta. Alcuni orici sfuggirono all'accerchiamento e si lanciarono nel deserto, altri furono ricacciati nella trappola. Gli uomini gettavano grida di trionfo, i cavalli nitrivano, gli orici sbuffavano e muggivano quando le frecce li colpivano e li facevano crollare in grovigli di zoccoli scalcianti e di corna. Tutto intorno echeggiava il rombo degli zoccoli e delle ruote: eravamo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
426
letteralmente immersi nella polvere gialla. C'è un limite oltre il quale neppure la miglior pariglia di cavalli può continuare al galoppo. Quando misi finalmente al passo Pazienza e Lama, la polvere s'era incrostata come fango nel sudore che copriva i loro fianchi. Entrambe tenevano la testa abbassata per lo sfinimento. A poco a poco le nubi di polvere che avevano nascosto il campo si dissiparono. Vedemmo uno spettacolo terribile. Il nostro squadrone s'era sparso in tutta la pianura. Contai cinque carri le cui ruote s'erano sfasciate durante l'inseguimento: erano rovesciati e sembravano i giocattoli rotti di un gigante dispettoso. Gli uomini feriti giacevano a terra accanto ai veicoli, e i loro compagni gli stavano inginocchiati accanto per assisterli. Anche i carri rimasti indenni erano fermi, con i cavalli sfiatati e ansimanti che grondavano bava candida dal muso. Erano tutti lucidi di sudore come se avessero attraversato il fiume a nuoto. Gli orici erano sparpagliati sul prato nello stesso disordine caotico. Parecchi giacevano al suolo morti, molti altri erano feriti e storpiati. Alcuni erano fermi, a testa bassa, altri ancora si allontanavano fra le dune a passo lento e incerto. Ogni freccia lasciava una chiazza scura di sangue sui manti color roano chiaro. Era la conclusione dolorosa di ogni caccia, quando l'eccitazione si raffreddava e si rendeva necessario finire la selvaggina ferita. Vidi vicino a noi un vecchio maschio che sedeva sulle zampe posteriori paralizzate e teneva quelle anteriori allungate. La freccia che l'aveva colpito sporgeva dal dorso: la punta doveva aver tranciato la spina dorsale. Presi il secondo arco dalla rastrelliera del carro e balzai a terra. Mentre mi avviavo verso l'orice ferito, girò la testa e mi guardò. Poi fece un ultimo tentativo coraggioso e, trascinando le zampe posteriori, cercò di avventarsi contro di me e di colpirmi con le lunghe corna nere: ma i suoi occhi erano colmi di lacrime di sofferenza atroce. Fui costretto a tirargli due frecce nel petto prima che emettesse un ultimo gemito e si rotolasse sul fianco, scalciasse convulsamente e restasse immobile. Quando rimontai sul carro lanciai un'occhiata al principe. Aveva gli occhi umidi, e il viso sporco di sangue era contratto in un'espressione di pietà. Girò il viso dall'altra parte, timoroso che vedessi le sue lacrime, ma io, al contrario, ne ero orgoglioso. Chi non prova compassione per l'animale Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
427
abbattuto non è un vero cacciatore. Gli presi la testa fra le mani e lo feci voltare verso di me. Pulii delicatamente la ferita alla fronte e la fasciai con una benda di lino. Quella notte ci accampammo sulla piana. Il profumo dolce dei fiori pervadeva l'oscurità e soverchiava l'odore del sangue. Non c'era la luna ma le stelle riempivano il cielo e inondavano le colline d'una luce argentea. Restammo seduti fino a tardi intorno ai fuochi e banchettammo con i fegati e i cuori delle antilopi arrostiti sulla brace. All'inizio il bambino prese posto fra me e Tanus; ma gli ufficiali e gli uomini si disputavano la sua attenzione. Li aveva conquistati tutti e, ai loro invito, passava da un posto all'altro. Tutti moderavano il linguaggio in segno di rispetto e Memnone si trovava bene in loro compagnia. Facevano un gran parlare della sua ferita. «Ora sei un vero soldato», gii dicevano. «Proprio come noi.» E gli mostravano le loro cicatrici. «Hai fatto bene a permettergli di venire con noi», dissi a Tanus mentre lo guardavamo con orgoglio. «È l'addestramento migliore che possa ricevere.» «Gli uomini gli sono già affezionati», riconobbe Tanus. «Un generale ha bisogno di due cose: la fortuna e la devozione delle sue truppe.» «Bisogna permettere al principe di partecipare a ogni spedizione, purché non sia troppo pericolosa», conclusi, e Tanus rise. «Lascerò a te il compito di convincere sua madre. Vi sono cose che trascendono la mia capacità di persuasione.» Al di là del fuoco, Kratas stava insegnando a Memnone una versione purgata dei canti del reggimento. Il principe aveva una voce chiara e dolce e gli uomini battevano il tempo con le mani e si associavano nel ritornello. Protestarono energicamente quando alla fine cercai di mandare Memnone a dormire nel giaciglio che gli avevo preparato sotto il carro, e persino Tanus diede loro ragione. «Lascia che resti ancora un po' con noi», ordinò. Era mezzanotte passata quando finalmente riuscii ad avvolgere il principino nella coperta di pelli di pecora. «Tata, riuscirò mai a tirare con l'arco come il nobile Tanus?» mi chiese con voce assonnata. «Diventerai uno dei più grandi generali del nostro Egitto, e un giorno scolpirò la cronaca delle tue vittorie sugli obelischi di pietra per farle conoscere a tutto il mondo.» Memnone rifletté qualche istante e sospirò. «Quando mi farai un arco Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
428
vero, non un giocattolo per bambini?» «Appena sarai in grado di tenderlo», promisi. «Grazie, Tata. Mi piacerebbe.» E si addormentò all'improvviso, come si spegne la fiamma d'una candela. Tornammo in trionfo alla flotta, con i carri da trasporto carichi della carne salata e seccata di orice. Immaginavo che la mia padrona intendesse rimproverarmi duramente perché avevo portato via il principe. Mi ero preparato a difendermi ed ero deciso a scaricare la responsabilità sulle spalle di Tanus. I rimbrotti, invece, furono più blandi de! previsto. Disse a Memnone che era un bambino cattivo perché l'aveva fatta stare in pensiero, poi l'abbracciò fin quasi a soffocarlo. Quando si rivolse a me, mi lanciai in una lunga spiegazione circa il ruolo che Tanus aveva avuto nella faccenda, e sulla preziosa esperienza fatta dai principe: ma sembrava che la regina avesse ormai deciso di non insistere sull'episodio. «Quando siamo andati insieme a pesca per l'ultima volta?» mi chiese. «Vai a prendere le fiocine, Taita. Prenderemo uno dei barchini. Andremo noi due soli sul fiume, come una volta.» Sapevo che avremmo pescato poco. La mia padrona voleva parlarmi sull'acqua, dove nessuno avrebbe potuto ascoltarci. C'era qualcosa di grave che la preoccupava. Remai verso valle sull'acqua verde bassa e lenta, fino a che l'ansa del fiume e un'altura rocciosa ci nascosero alla vista della flotta. Tutti i tentativi di conversazione erano stati inutili: deposi il remo e presi il liuto. Cominciai a suonare e a cantare le melodie che più le piacevano e attesi che si decidesse a parlare. Finalmente mi guardò con una strana espressione, mista di gioia e di ansia. «Taita, credo che avrò un altro bambino.» Non so perché quella rivelazione mi stupisse tanto. Dopotutto, da quando eravamo partiti da Elefantina, lei e il comandante dell'esercito si erano incontrati ogni notte segretamente, mentre io montavo di guardia alla porta della cabina. Comunque mi allarmai tanto che la mia mano restò immobile sulle corde del liuto e il canto mori sulle mie labbra. Ritrovai la voce solo dopo qualche istante. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
429
«Mia signora, non hai usato l'infuso d'erbe che ho preparato per te?» chiesi in tono diffidente. «A volte si, ma altre volte l'ho dimenticato.» Mi sorrise timidamente. «Il nobile Tanus è molto focoso. E poi, è così poco romantico pasticciare con barattoli e vasetti quando ci sono cose più urgenti e piacevoli da fare.» «Per esempio, fare figli che non hanno un padre regale.» «È davvero molto grave, Taita?» Suonai un accordo mentre mi preparavo a rispondere. «Grave? Credo che sia la parola sbagliata. Se darai alla luce un bastardo o se ti risposerai dovrai abbandonare la reggenza. La consuetudine e la legge vogliono così. Il nobile Merseket diventerebbe reggente, ma fra tutti i nobili scoppierebbe una guerra segreta per occupare il suo posto. Senza la tua protezione, il principe correrebbe un gravissimo pericolo. Saremmo preda di una lotta intestina...» M'interruppi con un brivido. «Tanus potrebbe diventare reggente al mio posto, e allora potrei sposarlo», suggerì Lostris animandosi. «Non credere che non ci abbia già pensato», le dissi cupamente. «Sarebbe la soluzione di tutte le nostre difficoltà. Ma l'ostacolo è Tanus...» «Se glielo chiederò, accetterà con piacere. Ne sono sicura.» La regina sorrise, sollevata. «E io diventerò sua moglie. Non dovremo più ricorrere a sotterfugi per stare insieme.» «Vorrei che fosse tanto facile. Ma Tanus non acconsentirà mai. Non può...» «Non dire sciocchezze!» Nei suoi occhi passò un lampo di collera e mi affrettai a continuare. «Quella notte a Tebe, quando il Faraone fece arrestare Tanus con l'accusa di tradimento, cercammo di indurlo a impadronirsi della corona. Kratas e tutti i suoi ufficiali giurarono di sostenerlo, e anche l'esercito. Erano pronti a marciare sul palazzo e a metterlo sul trono.» «Perché Tanus non volle? Sarebbe stato un grande re, e avrebbe risparmiato grandi dolori a tutti.» «E invece rifiutò. Dichiarò che non era un traditore e che non sarebbe mai salito sul trono dell'Egitto.» «È trascorso molto tempo. Tutto è cambiato!» esclamò esasperata la mia padrona. «No. Tanus pronunciò un giuramento, quel giorno, e chiamò a testimoni tutti gli dei. Giurò che non avrebbe mai preso la corona.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
430
«Ma ormai il giuramento non conta più. Può ritirarlo.» «Tu ritireresti un giuramento fatto di fronte agli dei?» insistetti. Lostris distolse lo sguardo e abbassò la testa. «Lo faresti?» ripetei. Lei scosse il capo. «No», mormorò. «Non potrei.» «Lo stesso codice d'onore vincola Tanus. Non puoi chiedergli di fare ciò che tu non oseresti», spiegai gentilmente. «Certo, possiamo proporglielo, ma sappiamo già quale sarà la sua risposta.» «Deve pure esserci qualcosa che tu possa fare.» La regina mi guardò con una fiducia cieca che m'incollerì. Ogni volta che si era messa in una situazione pericolosa s'era sempre rivolta a me e aveva detto: «Deve pure esserci qualcosa che tu possa fare». «C'è qualcosa: ma non accetterai, come Tanus non accetterà la corona.» «Se mi vuoi bene, non devi neppure proporlo.» Aveva compreso. Si scostò come se l'avessi schiaffeggiata. «Preferirei morire, piuttosto che uccidere questo miracolo d'amore. Questo bambino è me, lui e il nostro amore, e non potrei mai ucciderlo.» «Allora, maestà, non so proprio che altro suggerirti.» Mi sorrise con quella fiducia sublime che mi toglieva il respiro. «So che troverai qualcosa, mio caro Taita. È sempre così.» Perciò io feci un sogno. Riferii il sogno alla presenza del consiglio di Stato, convocato dalla reggente dell'Egitto. La regina Lostris e il principe Memnone erano seduti in trono sul ponte di poppa del Soffio di Horus. La nave era ormeggiata sulla riva occidentale del Nilo e i membri del consiglio erano seduti sulla spiaggia. I nobili rappresentavano il braccio secolare dello Stato. I sommi sacerdoti di Ammon-Ra, di Osiride e di Hapi rappresentavano il potere religioso. Il nobile Harrab e cinquanta dei suoi comandanti erano il potere militare. Io stavo sul ponte ai piedi del trono, di fronte a quell'illustre consesso. Avevo curato il mio aspetto più del solito, e mi ero truccato con abilità e discrezione, mi ero unti i capelli di oli fragranti e li avevo acconciati secondo lo stile che avevo reso popolare. Portavo le due catene dell'Oro del Valore, e i muscoli del petto e delle braccia erano modellati e irrobustiti dalla fatica di guidare il carro. Dovevo apparire ai loro occhi come una figura dalla bellezza straordinaria perché molti mi guardavano sbalorditi e vedevo il desiderio negli occhi di coloro che avevano certe inclinazioni. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
431
«Maestà.» M'inchinai ai due personaggi in trono e il principe Memnone mi sorrise sfacciatamente. Aveva ancora la testa fasciata, sebbene non fosse necessario. Era così fiero della ferita che avevo dovuto permettergli di tenere la benda. Aggrottai la fronte, e subito assunse un'espressione più confacente alle circostanze. «Maestà, questa notte ho fatto un sogno strano e meraviglioso e sento il dovere di riferirlo. Chiedo licenza di parlare.» La regina Lostris rispose benevolmente: «Tutti i presenti conoscono le tue doti sacre. Il principe e io sappiamo che puoi vedere nel futuro e divinare la volontà degli dei con sogni e visioni. Ti comando di parlare di questi misteri». M'inchinai ancora e mi rivolsi al consiglio. «Questa notte ho dormito davanti alla porta della cabina reale, com'è mio dovere. La regina Lostris giaceva sola nel suo letto, e il principe dormiva nell'alcova accanto.» Persino il nobile Merseket si tese in avanti e si portò una mano dietro l'orecchio dal quale poteva sentire, dato che dall'altro era sordo. Tutti erano smaniosi di ascoltare. «Mi sono svegliato durante la terza veglia e ho visto una strana luce che splendeva nella nave. Ho sentito un vento freddo sfiorarmi la guancia, anche se ogni porta era chiusa.» Gli ascoltatori fremevano per la curiosità. Avevo trovato il tono giusto. «Poi ho udito un suono di passi lenti e maestosi che non erano i passi di un mortale.» Feci una pausa drammatica. «Lo strano rumore giungeva dalla stiva.» Tacqui di nuovo, per far colpo sugli ascoltatori. «Si, miei signori, dalla stiva dove si trova in attesa della sepoltura la bara d'oro del Faraone Marnose, ottavo di questo nome.» Alcuni dei presenti rabbrividirono, altri fecero lo scongiuro contro il malocchio. «I passi si sono avvicinati. La luce divina è diventata più forte e, mentre io tremavo, davanti a me è apparsa una figura. Aveva forma d'uomo, ma non era umana perché splendeva come la luna piena e il volto era la reincarnazione divina di quello del re, ma colmo della sua temibile divinità.» Tutti tacevano, estatici e immobili. Scrutai i loro volti, ma non vidi ombra d'incredulità. All'improvviso una voce infantile spezzò il silenzio. «Bak-Her!» gridò il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
432
principe. «Era mio padre. Bak-Her! Era il Faraone.» I presenti ripeterono il grido. «Bak-Her! Era il Faraone, possa egli vivere eternamente.» Attesi che si ristabilisse il silenzio e lasciai che si protraesse fino a quando tutti fremettero per l'attesa. «Il Faraone veniva verso di me e io non potevo muovermi. Mi ha superato ed è entrato nella cabina della regina Lostris. Sebbene non potessi muovermi né proferire parola, ho visto quanto è accaduto. Mentre la regina continuava a dormire, il divino Faraone si è accostato e ha preso con lei il suo piacere. I loro corpi erano congiunti come quelli di un uomo e di una donna.» Non c'era traccia di diffidenza sui volti degli ascoltatori. Attesi che le mie parole facessero effetto, quindi proseguii. «Il Faraone si è staccato dalla regina addormentata, mi ha guardato e ha parlato così.» Sono abilissimo nel riprodurre le voci al punto che gli altri spesso credono di ascoltare colui che sto imitando. Perciò parlai con la voce del Faraone Marnose. «Ho conferito alla regina la mia divinità, ed è divenuta una cosa sola con me e con gli dei. L'ho fecondata con il mio seme divino e lei, che non ha conosciuto altro uomo che me, partorirà una creatura del mio sangue reale. Per tutti sarà il segno che gode della mia protezione e che continuerò a vegliare su di lei.» M'inchinai di nuovo a madre e figlio. «Quindi il re ha riattraversato la nave ed è rientrato nella bara d'oro dove riposa. Questa è stata la mia visione.» «Che il Faraone viva in eterno!» gridò Tanus, come gli avevo raccomandato, e tatti gli fecero eco. «Viva la regina Lostris! Possa vivere in eterno! Viva la creatura divina che porta in grembo! Che tutti i suoi figli vivano in eterno!» Quella notte, mentre stavo per ritirarmi, la mia padrona mi chiamò e mi disse sottovoce: «La tua visione era così vivida e tu l'hai raccontata così bene che stanotte non riuscirò a dormire per il timore che il Faraone ritorni. Sorveglia bene la porta». «Oso dire che può esserci qualcuno tanto audace e importuno da disturbare il tuo regale sonno, ma dubito che sia il Faraone Marnose. Se qualche briccone venisse per approfittare del tuo carattere gentile e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
433
affettuoso, che cosa dovrò fare?» «Dormi profondamente, caro Taita, e tappati le orecchie.» Le guance della regina si colorarono di rosa nella luce della lampada. Ancora una volta la mia premonizione del futuro si rivelò esatta. Quella notte un visitatore segreto entrò nella cabina della mia padrona, e non fu lo spettro del Faraone. E io feci ciò che aveva ordinato la regina: mi tappai le orecchie. Il Nilo ebbe un'altra piena, e questo ci ricordò che era passato un altro anno. Avevamo mietuto il grano seminato sulle isole, e radunato le nostre mandrie. Smontammo i carri e li caricammo sui ponti delle navi. Arrotolammo le tende e le riponemmo nelle stive. Quando tutto fu pronto per la partenza, disponemmo le funi sulla riva e mettemmo al lavoro tutti gii uomini e i cavalli in grado di sopportare la fatica. Ci volle quasi un mese per superare la terribile cataratta. Sedici uomini affogarono e cinque navi furono disintegrate dalle zanne di granito nero. Ma finalmente passammo, e facemmo vela sulla distesa calma del fiume, a monte delle rapide. Le settimane lasciarono il posto ai mesi, e il Nilo descrisse una lenta curva maestosa sotto le nostre navi, fino a quando ci accorgemmo che stavamo tornando verso oriente. Da quando avevamo lasciato Elefantina io avevo tracciato una mappa del corso del fiume. Avevo usato il sole e le stelle per orientarmi, ma avevo incontrato grandi difficoltà nel misurare le distanze percorse. All'inizio avevo ordinato a uno degli schiavi di camminare lungo la riva e di contare ogni passo, ma sapevo che era un metodo troppo impreciso, che avrebbe rovinato tutti i miei calcoli. Trovai la soluzione una mattina mentre eravamo andati a fare le manovre con i carri. Guardai la ruota di destra che girava, e mi accorsi che a ogni giro completo il cerchione dava la misura esatta del terreno che aveva coperto. Da quel giorno un carro segui sempre la riva del fiume. Una ruota aveva una bandierina fissata al cerchione, e un uomo fidato stava seduto sulla pedana e tracciava un segno su un papiro ogni volta che la bandierina compiva un giro. Ogni sera prendevo nota della direzione e calcolavo la distanza percorsa durante la giornata; quindi trascrivevo questi dati sul diagramma. A poco a poco la forma del fiume mi apparve chiara. Vidi che avevamo compiuto un'ampia curva verso occidente; ma ora il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
434
fiume scorreva di nuovo verso est, e sembrava che fossimo nuovamente diretti verso Elefantina e la prima cataratta. Mostrai i risultati a Tanus e alla regina. Molte volte restavamo fino a tardi nella cabina reale a discutere circa il corso del fiume e il modo in cui questo poteva influire sui nostri piani per ritornare in Egitto. A quanto pareva, il viaggio lungo il fiume, anziché diminuire la decisione della mia padrona, contribuiva a rafforzare il suo voto di ritornare. «Non costruiremo templi o palazzi di pietra nel deserto», ordinò. «Non innalzeremo monumenti od obelischi. La nostra permanenza è transitoria. Non costruiremo città, ma vivremo sulle navi, o nelle tende e nelle capanne d'erba e di canne. Siamo una carovana impegnata in un viaggio che ci riporterà alla mia città natale, la bella Tebe dalle cento porte.» «Anche il fiume torna indietro», le feci notare. «Questa grande curva ci permetterà di ritornare più rapidamente. Potrebbe esserci un modo per tagliare attraverso questa curva, dimezzando così la distanza da percorrere.» «Abbi cura dei tuoi carri, Taita», ordinò la regina. «Confido che troverai la via più facile per ricondurci in patria.» E così la nostra carovana fluviale continuò a procedere; intorno a noi il deserto cambiava faccia di continuo ma alla fine restava immutato. Eravamo diventati una comunità molto unita, quasi una città itinerante senza mura o edifici permanenti. La vita fioriva e svaniva. Diventavamo più numerosi perché molti di coloro che erano partiti con noi da Elefantina erano nel fiore della vita, e le donne erano feconde. Molti giovani si sposavano sulla riva dei fiume e spezzavano insieme l'orcio di acqua del Nilo. Nascevano i bambini, e li guardavamo crescere. Alcuni vecchi morirono, e vi furono incidenti che uccisero diversi giovani. Li imbalsamavamo e scavavamo le tombe nelle colline, li lasciavamo al loro riposo e proseguivamo. Osservavamo le festività e pregavamo gli dei. Banchettavamo e digiunavamo nella stagione appropriata, danzavamo e cantavamo e studiavamo le scienze. Io tenevo lezioni ai bambini più grandi sul ponte della nave, e il migliore dei miei allievi era Memnone. Prima che l'anno terminasse incontrammo la terza cataratta del Nilo. Ancora una volta andammo a riva, diboscammo il terreno e lo seminammo, in attesa che il livello delle acque si alzasse e ci aiutasse a passare. Li, alla terza cataratta, un'altra gioia venne a colmare la mia vita. In una tenda di lino sulla riva del fiume assistetti al travaglio della mia Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
435
padrona e feci venire al mondo la principessa Tehuti, riconosciuta come figlia del defunto Faraone Marnose. Ai miei occhi, Tehuti era bella come può esserlo soltanto un miracolo. Ogni volta che ne avevo la possibilità sedevo accanto alla sua culla e osservavo con meraviglia e ammirazione i suoi piedini e le sue manine. Quando aveva fame e attendeva che la madre l'allattasse, a volte le mettevo in bocca il mignolo per il piacere di sentirmelo stringere tra le sue gengive. Finalmente il livello del fiume sali e ci permise di superare la terza cataratta. Proseguimmo il viaggio e prima che finisse l'anno fui di nuovo costretto a fare un altro sogno perché la mia padrona aveva di nuovo una gravidanza che poteva essere spiegata soltanto con mezzi sovrannaturali. Lo spettro del Faraone morto s'era dato di nuovo da fare. La mia padrona era molto ingrossata quando arrivammo alla quarta cataratta. Le rapide in cui l'acqua turbinava fra rocce aguzze come denti di coccodrillo erano ancora più temibili delle altre, e fra i nostri regnava la depressione. Quando pensavano che nessuno potesse sentirli, si lamentavano fra loro. «Siamo circondati da queste infernali barriere di roccia. Gli dei le hanno poste attraverso il fiume per impedirci di proseguire.» Leggevo le loro labbra mentre si confidavano sulla riva del fiume. Nessuno di loro sapeva che riuscivo a capire ciò che dicevano anche se non udivo le parole. «Resteremo intrappolati dietro le rapide e non potremo più ridiscendere il fiume. Dovremmo tornare indietro ora, prima che sia troppo tardi.» Anche nei consigli di Stato leggevo le parole sulle labbra di alcuni dei grandi nobili che sedevano sullo sfondo e si scambiavano bisbigli. «Se andremo avanti moriremo tutti nel deserto e le nostre anime vi vagheranno senza riposo per l'eternità.» Fra i giovani aristocratici c'era un gruppo testardo e arrogante. Fomentava il malcontento e predicava l'insurrezione. Capii che dovevamo agire in fretta e con fermezza quando vidi il nobile Aqer dire a uno dei suoi fidi: «Siamo nelle mani di questa donna, la concubina di un re morto, mentre abbiamo bisogno di un uomo forte che ci guidi. Dev'esserci un modo per liberarci di lei». Per prima cosa, con l'aiuto del mio vecchio amico Aton, mi procurai i nomi degli scontenti e dei potenziali traditori. Non mi stupii nel vedere che alla testa dell'elenco c'era appunto il nobile Aqer, sulle cui labbra avevo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
436
letto le parole pericolose. Aqer era il figlio maggiore di Merseket, ed era un giovane arrabbiato che si credeva molto importante. Sospettavo che avesse l'audacia di immaginarsi sul trono con la corona doppia sulla testa. Quando spiegai a Tanus e alla mia padrona ciò che ritenevo giusto fare, i due convocarono il consiglio di Stato sulla riva del fiume. La regina Lostris prese la parola. «So bene che vi struggete per la nostalgia della vostra terra e siete stanchi di questo lungo viaggio. Anch'io, come voi, sogno Tebe.» Vidi Aqer scambiare occhiate con i suoi alleati, e i miei sospetti si rafforzarono. «Tuttavia, sudditi egizi, la situazione non è grave come sembra. Hapi ha vegliato sulla nostra spedizione come aveva promesso. Siamo molto più vicini a Tebe di quanto immaginiate. Quando ritorneremo nella nostra amata città non dovremo rifare lo stesso percorso, non dovremo affrontare di nuovo i pericoli e i disagi delle terribili cataratte che bloccano il corso del fiume.» Vi furono mormorii di dubbio e d'incredulità tra la folla. Aqer rise, anche se non così forte da travalicare i limiti del rispetto e della cortesia; però la mia padrona lo notò. «Nobile Aqer, vedo che metti in dubbio la mia parola.» «No, maestà: me ne guardo bene.» Aqer fece prontamente marcia indietro. Non si sentiva ancora abbastanza forte e abbastanza sicuro per arrivare a un confronto. Ero intervenuto prima che fosse preparato. «Il mio schiavo Taita ha tracciato il corso del fiume che abbiamo seguito in questi ultimi anni», continuò la regina. «Tutti voi avete visto il carro con la bandierina legata alla ruota che misura il terreno, e Taita ha studiato i corpi celesti per scoprire la direzione del nostro viaggio. Ora gli ordino di alzarsi e di rivelare i suoi calcoli.» Il principe Memnone mi aveva aiutato a riprodurre la mappa su venti rotoli. A nove anni sapeva già usare il pennello con grande abilità. Distribuii le mappe ai consiglieri più importanti perché potessero seguire meglio la mia lezione. Attirai la loro attenzione sul corso quasi circolare che avevamo seguito dopo aver lasciato Elefantina. Il loro stupore era evidente: soltanto i sacerdoti sapevano già ciò che era accaduto. Anche loro studiavano le stelle e avevano una certa esperienza in fatto di navigazione. Ma anch'essi rimasero sbalorditi nel vedere l'ampiezza della curva Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
437
descritta dal fiume. Non era sorprendente, perché le copie delle mappe che avevo mostrato non erano del tutto esatte. Mi ero preso qualche libertà con i fatti, a beneficio di Aqer e della sua fazione, in modo che la distanza attraverso la curva apparisse più breve di quanto suggerissero i miei calcoli. «Miei signori, come potete vedere, da quando abbiamo lasciato la seconda cataratta abbiamo percorso quasi mille migliaia di passi, e ora ci troviamo a circa centomila passi dal punto di partenza.» Kratas si alzò e mi rivolse la domanda che gli avevo suggerito prima dell'inizio dell'assemblea. «Questo significa che dovrebbe essere possibile prendere una scorciatoia attraverso il deserto e raggiungere la seconda cataratta nello stesso tempo che occorre per andare da Tebe al mar Rosso? È un viaggio che io ho fatto diverse volte.» Mi girai verso di lui. «In uno di quei viaggi c'ero anch'io. Impiegammo dieci giorni, anche se a quel tempo non avevamo i cavalli. La traversata di questa stretta fascia di deserto non sarebbe più onerosa. Perciò, da qui si potrebbe ritornare a Elefantina in meno d'un mese, e sarebbe necessario superare soltanto la prima cataratta ad Assuan.» Vi furono molti mormorii di stupore. Le mappe passarono di mano in mano e furono osservate con attenzione. L'atmosfera cambiò: tutti erano pateticamente ansiosi di accettare la mia teoria. La vicinanza inaspettata alla loro terra li rincuorava tutti. Soltanto Aqer e i suoi amici erano d'umore diverso. Il giovane si era ritrovato privo della sua arma migliore. Come avevo sperato che facesse, si alzò rabbiosamente per fare una domanda alla regina. «Gli scarabocchi di questo schiavo sono attendibili?» Aveva un tono insultante e un'espressione altezzosa. «È molto facile tracciare qualche pennellata su un rotolo: ma quando si trasformano in migliaia di passi le cose cambiano. In che modo questo schiavo può dimostrare che le sue teorie assurde sono fondate?» «Il nobile Aqer ha indicato il nocciolo della questione», intervenne garbatamente la mia padrona. «E così facendo ha dimostrato di comprendere il nostro problema. Intendo mandare una spedizione di uomini valorosi attraverso il deserto per aprirci la strada del ritorno al nord, la strada che ci riporterà alla bella Tebe.» Vidi Aqer cambiare espressione quando afferrò il significato del discorso della regina e si rese conto della trappola. Tornò a sedersi e cercò di assumere un'aria distaccata e remota. Ma la mia padrona continuò, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
438
implacabile. «Non sapevo chi fosse più adatto a comandare la spedizione, ma ora il nobile Aqer, con la sua acuta osservazione, si è candidato a questo compito di vitale importanza. Non è forse così?» chiese dolcemente, e prosegui, prima che il giovane potesse rifiutare: «Ti siamo grati, nobile Aqer. Avrai tutti gli uomini e l'equipaggiamento necessari. Ti comando di partire prima del prossimo plenilunio. La luna vi renderà più facile viaggiare di notte per evitare il caldo del giorno. Manderò con te uomini capaci di orientarsi con le stelle. Potreste giungere alla seconda cataratta e tornare qui prima della fine del mese; e se riuscirai in questa missione, ti porrò al collo l'Oro del Valore». Il nobile Aqer la fissò a bocca aperta. Rimase seduto, irrigidito, dopo che gli altri si furono allontanati. Mi aspettavo che trovasse un pretesto per liberarsi dal compito assegnatogli. Ma alla fine mi sorprese, perché venne a chiedermi aiuto e consiglio per organizzare la spedizione. Pensai che forse l'avevo giudicato male e che, siccome aveva una missione importante da compiere, poteva diventare un membro utile della nostra comunità. Scelsi alcuni degli uomini e dei cavalli migliori e gli assegnai cinque dei nostri carri da trasporto più robusti per caricarsi gli otri pieni d'acqua sufficienti per trenta giorni. Al plenilunio, Aqer era allegro e ottimista, e io mi sentivo in colpa per aver minimizzato la distanza e i rischi del viaggio. Quando la spedizione parti, l'accompagnai per un tratto per indicarle il giusto percorso; quindi rimasi solo e la guardai sparire nel deserto inargentato dalla luna, diretta verso il gruppo di stelle che noi chiamiamo Liuto e che segna l'orizzonte settentrionale. Pensai ogni giorno ad Aqer durante le settimane seguenti, mentre attendevamo a valle della quarta cataratta, e mi augurai che la mia mappa non fosse inesatta come temevo. Se non altro, adesso che era partito per il nord, non c'era più il rischio imminente d'un colpo di Stato. Durante l'attesa seminammo le isole diboscate e le rive del fiume; ma le rive erano più scoscese, quindi era più difficile sollevare l'acqua per irrigare i campi, e mi rendevo conto che la qualità e la quantità dei raccolti ne avrebbero risentito. Naturalmente avevamo costruito i tradizionali altaleni con i lunghi bracci Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
439
per prendere l'acqua dal fiume. Li faceva funzionare uno schiavo che immergeva nell'acqua il recipiente di coccio all'estremità del braccio, lo rialzava e lo versava nel canaletto per l'irrigazione. Era un compito massacrante e, quando la riva era alta come in quel caso, era anche un metodo che comportava gravi sprechi. Ogni sera Memnone e io andavamo con il carro lungo la riva del Nilo e io ero turbato nel vedere la miseria delle nostre colture. Avevamo migliaia di bocche da sfamare, e la farina di grano costituiva ancora il nostro nutrimento principale. Prevedevo che ci sarebbe stata una carestia se non fossimo riusciti a portare più acqua nei campi. Non so che cosa mi fece venire l'idea: forse il fatto che lo studio della ruota era ormai diventata una delle mie passioni e delle mie ossessioni. Ero ancora perseguitato dal problema delle ruote dei carri che si spaccavano facilmente. I miei sogni erano pieni di ruote che giravano, giravano e si rompevano, ruote con lame di bronzo fissate ai cerchioni o con le bandierine per misurare le distanze, ruote grandi e piccole. Erano immagini che turbavano il mio sonno. Avevo sentito dire da uno dei sacerdoti di Hapi che certe varietà di legno si potevano rendere più robuste ed elastiche immergendole nell'acqua per un lungo periodo, e quindi pensai di fare esperimenti in questo senso. Mentre calavamo una ruota di carro nel fiume per controllare, la corrente incominciò a farla girare sul mozzo. L'osservai distrattamente; ma quando la ruota affondò di più nell'acqua il movimento cessò, e io cominciai a riflettere. Qualche giorno dopo una delle barche che facevano la spola fra le isole si capovolse, e i due uomini a bordo furono trascinati nelle rapide e annegarono. Memnone e io assistemmo alla tragedia dalla riva, e ne fummo addolorati. Approfittai dell'occasione per mettere in guardia ancora una volta il ragazzino contro i pericoli e la potenza del fiume. «È così forte che fa girare persino la ruota d'un carro.» «Non ti credo, Tata. Lo dici per farmi paura. Sai che mi piace nuotare.» Perciò organizzai una dimostrazione, e restammo entrambi impressionati nel vedere la ruota che sembrava girare di sua iniziativa quando era immersa nell'acqua corrente. «Sarebbe più veloce, Tata, se ci fossero pale fissate tutto intorno.» Quando Memnone espresse quest'idea, io lo guardai meravigliato. A quel Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
440
tempo aveva poco più di dieci anni, eppure vedeva ogni cosa con occhio fresco e indagatore. Quando tornò il plenilunio avevamo finito di costruire una ruota che veniva mossa dal fiume, innalzava l'acqua dentro una serie di piccoli recipienti di coccio e la versava in un canale rivestito di mattonelle d'argilla. Nonostante la pancia, la mia padrona verme a riva per osservare il congegno prodigioso e ne fu molto soddisfatta. «Sai fare tante cose interessanti con l'acqua, Taita», mi disse. «Ricordi lo sgabello che avevi fabbricato per me a Elefantina?» «Potrei fartene un altro, se ci permettessi di vivere in case decenti come si conviene alla gente civile.» Anche Tanus fu molto colpito dalla ruota ad acqua, sebbene naturalmente non volesse darlo a vedere. Sorrise. «È molto ingegnoso: ma quando scoppierà come una ruota dei tuoi carri?» mi chiese, e Kratas e gli altri militari trovarono molto divertente la sua battuta. Da allora, ogni volta che si rompeva la ruota d'un carro, dissero che «faceva Tata», dal nomignolo affettuoso con cui mi chiamava il principe. Nonostante le loro spiritosaggini, molto presto i campi di durra diventarono verdi nel suolo fertile delle rive; poi le spighe cariche s'incurvarono sotto il sole del Nilo. Non fu l'unica messe che raccogliemmo alla quarta cataratta. La regina Lostris partorì un'altra principessina che era, se mai, ancora più adorabile della sorella maggiore. Era molto strano che la principessa Bakatha avesse una quantità di riccioli d'oro rosso. Il padre divino e spettrale, il Faraone Marnose, aveva avuto la carnagione olivastra e la madre aveva i capelli scuri come l'ala dell'aquila nera. Nessuno riusciva a spiegare quel colore insolito, ma tutti dicevano che le stava benissimo. La principessa Bakatha aveva due mesi quando il Nilo incominciò di nuovo a salire, e ci preparammo a superare la quarta cataratta. Ormai eravamo esperti in quella che era diventata una fatica annuale e avevamo imparato tutti gli artifici per battere il fiume rapace. Non avevamo ancora iniziato la traversata quando nel campo esplose una grande eccitazione. Sentii gridare e applaudire dall'altra riva del fiume, dove il principe Memnone e io stavamo ispezionando i cavalli per accertarci che fosse tutto pronto. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
441
Tornammo alle barche e raggiungemmo la riva orientale, dove scoprimmo che il campo era in subbuglio. Ci facemmo largo tra la folla che agitava fronde di palma e cantava inni di benvenuto. Al centro di quell'agitazione trovammo una piccola carovana di carri malconci e di cavalli scheletriti, e un gruppetto di veterani viaggiatori anneriti dal sole e temprati dal deserto. «Che Seth maledica te e la tua mappa, Taita!» mi gridò il nobile Aqer dal primo dei carri. «Non so quale delle tue menzogne sia la peggiore. Era lontano il doppio di quanto ci avevi promesso.» «Siete veramente arrivati all'estremità settentrionale della curva del fiume?» domandai. Ero emozionatissimo mentre cercavo di farmi largo tra la folla. «Si, e siamo anche tornati!» Aqer rise, felice della sua impresa. «Ci siamo accampati alla seconda cataratta e abbiamo mangiato pesce fresco del Nilo. La strada per il ritorno a Tebe è aperta.» La mia padrona ordinò di preparare un banchetto per festeggiare i viaggiatori. Il nobile Aqer era l'uomo del giorno. La regina Lostris gli mise al collo l'Oro del Valore, e lo promosse al rango di Migliore di Diecimila. Mi veniva voglia di vomitare mentre guardavo come si pavoneggiava quell'individuo. Come se questo non bastasse, gli assegnò il comando della quarta divisione dei carri e firmò un atto con il quale gli donava cento feddan di terreno eccellente sulla riva del fiume, quando fossimo tornati a Tebe. A me sembrava un po' eccessivo, soprattutto perché le terre in questione appartenevano al patrimonio della mia padrona. Dopotutto Aqer era arrivato sull'orlo della rivolta e, per quanto la sua impresa fosse lodevole, in fin dei conti ero stato io a proporre e pianificare la spedizione. Date le circostanze, pensavo che sarebbe stato giusto assegnare una terza catena d'oro al povero schiavo Taita. Dovevo tuttavia applaudire l'abilità della mia padrona. Era riuscita a trasformare il nobile Aqer, da nemico potenziale e pericoloso, in un ardente e fedele servitore che negli anni futuri avrebbe dato molte prove di valore. La regina Lostris ci sapeva fare con gli uomini, e di giorno in giorno acquisiva una maggiore levatura come statista. La conversione di Aqer e la scoperta del percorso attraverso l'immensa ansa del fiume ci avevano coperto le spalle: ora potevamo spingerci oltre la quarta cataratta con coraggio e ottimismo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
442
Ci eravamo rimessi in viaggio da meno di un mese quando ci accorgemmo che le nostre fortune erano cambiate e che la dea aveva tenuto fede alla promessa. Ogni giorno diventava sempre più evidente che avevamo superato il peggio. Il deserto era finalmente dietro di noi, e il corso tranquillo del fiume puntava di nuovo verso sud e ci portava in una terra quale nessuno di noi aveva mai visto. Fu là che per la prima volta noi egizi assistemmo al miracolo della pioggia. Non avevamo mai visto cadere l'acqua dal cielo. La pioggia batteva sui nostri volti stupiti, mentre il tuono rombava nel cielo come una valanga e i fulmini ci abbagliavano con il loro fuoco bianco. Le piogge copiose e regolari producevano un paesaggio nuovo e affascinante che destava in noi la più grande meraviglia. Sulle due rive del Nilo, fin dove giungeva il nostro sguardo dal ponte della prima nave, si estendeva un'immensa prateria. La magnifica pianura, ricca di pascoli per i cavalli, non poneva confini ai movimenti dei nostri carri. Potevamo andare dove volevamo, e non c'erano dune né rocce a bloccarci. Non era l'unica benedizione accordata dalla dea. C'erano anche gli alberi. Nella stretta valle che era la nostra patria forse un tempo erano esistite le foreste, ma nessuno era in grado di dirlo: e comunque dovevano essere state abbattute secoli prima dalle scuri dell'uomo. Per noi egizi il legno è una merce rara e preziosa. Doveva essere trasportato per nave o per carovana dalle lontane terre straniere. Ora, dovunque guardassimo, vedevamo grandi alberi. Non crescevano in fitte foreste come quelle che avevamo trovato sulle isole delle cataratte, ma in boscaglie intervallate da ampi spazi erbosi. Su quelle pianure c'era legname sufficiente per ricostruire tutte le flotte di tutte le nazioni su tutti i mari del mondo, per ricostruire tutte le città dei paesi civili, e dotare di un tetto e di mobili ogni stanza. E sarebbe avanzata ancora legna da ardere per secoli e secoli. Noi, che per tutta la vita avevamo cucinato usando il letame degli animali, sgranavamo gli occhi per la meraviglia. E non era neppure l'unico tesoro della leggendaria terra di Cush che avevamo finalmente raggiunto. Fui il primo che li vide da lontano, e pensai che fossero monumenti di granito grigio. Spiccavano nella pianura d'erba gialla e all'ombra delle acacie. E poi, mentre le guardavamo sconcertati, le grandi rocce si mossero. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
443
«Gli elefanti!» Non ne avevo mai visti, ma non potevano essere altro. Il grido fu ripetuto da quanti stavano sul ponte della nave intorno a me. «Elefanti! Avorio!» Erano ricchezze che il Faraone Marnose, nonostante il suo tesoro funerario, non avrebbe neppure sognato. Dovunque guardassimo c'erano branchi sterminati. «Sono migliaia.» Tanus si guardava intorno mentre la passione della caccia incominciava a spuntargli negli occhi. «Guardali, Taita. Sono innumerevoli.» Le pianure erano affollate di esseri viventi, non solo di elefanti. C'erano antilopi e gazzelle: alcune varietà ci erano note, altre non le avevamo mai viste né sentite nominare. In futuro le avremmo conosciute bene, e avremmo trovato nomi per le diverse specie. Gli orici si mescolavano ai kobo con le corna ricurve come l'arco che avevo costruito per Tanus. C'erano giraffe maculate con i colli che arrivavano ai rami più alti delle acacie. I corni che spuntavano sui musi dei rinoceronti erano alti come un uomo e acuminati come lance. I bufali sguazzavano nel fango in riva al fiume. Erano enormi, neri come la barba di Seth e altrettanto brutti. Molto presto avremmo scoperto la malevolenza che si nascondeva dietro i loro sguardi malinconici, e la pericolosità delle corna nere. «Scaricate i carri», gridò impaziente Tanus. «Attaccate i cavalli. Si va a caccia!» Se avessi conosciuto il pericolo cui stavamo andando incontro non avrei mai permesso al principe Memnone di salire dietro di me nella prima caccia agli elefanti. Non li conoscevamo, e ci sembravano bestie docili, lente, goffe e stupide, destinate a diventare prede facili. Tanus fremeva d'impazienza, e non volle attendere che fossero pronte tutte le quattro formazioni di carri. Appena fu pronta la prima, formata da cinquanta veicoli, diede l'ordine di partire. Scambiammo sfide con gli altri guidatori e facemmo scommesse sull'esito della caccia mentre le lunghe colonne dei carri si snodavano fra i boschi lungo la riva del fiume. «Lasciami guidare, Tata», mi pregò il principe. «Sai che sono bravo quanto te.» Anche se era abile con i cavalli e aveva mani delicate e un'intesa istintiva con la sua pariglia, e anche se si allenava quasi tutti i giorni, la vanteria del principe era infondata. Non era certo abile come me: nessuno, in tutto l'esercito, poteva avanzare una simile pretesa, tanto meno un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
444
ragazzetto di undici anni. «Guardami e impara», gli risposi in tono severo; e quando Memnone si rivolse a Tanus, questi mi diede ragione. «Ciò che dice Taita è vero. Si tratta di qualcosa che nessuno di noi ha mai fatto prima d'ora. Tieni la bocca chiusa e gli occhi aperti, figliolo.» Davanti a noi un piccolo branco delle strane bestie grigie banchettava con i baccelli caduti dai rami degli alberi. Li studiai con avida curiosità mentre ci avvicinavamo al trotto. Gli orecchi erano enormi: li sventolarono, quindi i bestioni si girarono verso di noi. Alzarono le proboscidi e immaginai che fiutassero il nostro odore. Con ogni probabilità non avevano mai avuto a che fare con uomini e cavalli. C'erano diversi piccoli; e le madri li raccolsero al centro del branco per proteggerli. Quella premura materna mi colpi, ed ebbi per la prima volta il sospetto che gli animali non fossero lenti e stupidi come sembravano. «Sono tutte femmine», gridai a Tanus. «Hanno i piccoli, e le zanne sono poco voluminose e di scarso valore.» «Hai ragione.» Tanus tese il braccio. «Ma guarda là. Quei due devono essere maschi. Vedi come sono alti e massicci, e come brillano al sole le loro zanne?» Diedi il segnale ai carri che ci seguivano e ci allontanammo dal branco delle madri e dei piccoli. Proseguimmo in colonna attraverso le acacie verso i due grossi maschi. Eravamo costretti ad aggirare i rami strappati dagli alberi e i tronchi delle acacie gigantesche che erano state sradicate. Non conoscevamo ancora la forza incredibile di quegli animali, e perciò gridai a Tanus: «Dev'esserci stata una tempesta terribile che ha causato tanta distruzione». Non pensavo che la responsabilità potesse essere dei branchi degli elefanti, che sembravano tanto miti e indifesi. I due vecchi maschi ci avevano sentito: si girarono verso di noi. Solo in quel momento mi resi conto delle loro dimensioni. Quando allargarono le orecchie parvero oscurare il cielo come un enorme nembo temporalesco. «Guarda quanto avorio!» gridò Tanus. Era impassibile, e pensava soltanto ai trofei della caccia, ma i cavalli erano ombrosi e innervositi. Avevano sentito l'odore della strana selvaggina e scrollavano la testa e s'impuntavano. Era difficile tenerli sotto controllo e continuare a farli correre. «Quello a destra è il più grosso», gridò Memnone con voce acuta e un po' stridula, perché la stava cambiando. «Dobbiamo prenderlo per primo.» Il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
445
cucciolo era impaziente quanto 0 padre. «Hai sentito il comando reale?» rise Tanus. «Prendiamo quello a destra, e lasciamo l'altro a Kratas. Può accontentarsi.» Alzai il pugno per segnalare alla colonna di dividersi in due file. Kratas si allontanò sulla nostra sinistra con venticinque carri che lo seguivano, mentre noi proseguivamo la corsa verso l'enorme bestia grigia che ci fronteggiava con le zanne d'avorio giallo sporgenti dalla testa e grosse come le colonne del tempio di Horus. «Addosso!» gridò Tanus. «Prima che scappi!» «Avanti!» gridai a Pazienza e Lama, che si lanciarono al galoppo. Ci aspettavamo che il colosso fuggisse non appena si fosse accorto che rappresentavamo un pericolo. Nessun'altra varietà di selvaggina che avevamo cacciato era rimasta ferma a sostenere la nostra prima carica. Persino il leone fugge davanti al cacciatore fino a quando non viene ferito o bloccato. Com'era possibile che quegli animali si comportassero in modo diverso? «Ha la testa enorme, sarà un ottimo bersaglio», esultò Tanus mentre incoccava una freccia. «Lo ucciderò al primo tiro, prima che possa darsi alla fuga. Passagli vicino, sotto quel lungo naso ridicolo.» Dietro di noi il resto della colonna era sgranato in fila per uno. Il nostro piano stava nell'avvicinarci e dividerci ai lati del maschio, tempestarlo di frecce mentre passavamo, quindi tornare indietro secondo la tattica classica dei carri. Eravamo ormai vicinissimi all'elefante, ma quello non fuggiva. Pensai che forse quegli animali erano stupidi come sembravano. Sarebbe stato una preda facile, e intuivo che Tanus era deluso alla prospettiva. «Muoviti, vecchio stupido!» gridò infatti in tono sprezzante. «Non stare li immobile! Difenditi!» Fu come se il maschio avesse compreso la sfida. Alzò la proboscide ed emise un suono che ci stordì. I cavalli scartarono e io finii contro il parapetto con tanta violenza da ammaccarmi le costole. Per un momento persi il controllo della pariglia, e deviammo. Poi l'elefante barri di nuovo e si mise a correre. «Per Horus, guardalo!» gridò Tanus sbalordito, perché l'animale non fuggiva: veniva verso di noi in una carica furiosa. Era più veloce di un cavallo e agile come un leopardo inferocito e assediato dai cani. A ogni passo sollevava nuvole di polvere. Ci piombò addosso prima che potessi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
446
riprendere il controllo della pariglia. Alzai gli occhi per guardarlo, perché torreggiava sopra di noi e tendeva la proboscide per strapparci dal carro. Non riuscivo a credere alle sue dimensioni enormi né alla furia che gli brillava negli occhi. Non erano gli occhi di un animale: sembravano appartenere a un essere umano intelligente. Quello non era un essere torpido e porcino ma un avversario coraggioso e terribile che avevamo sfidato per troppa arroganza. Tanus scagliò una freccia che colpi il maschio al centro della fronte. Mi aspettavo che crollasse con il cervello trafitto dalla punta bronzea. Non sapevamo che il cervello dell'elefante non è situato dove può sembrare, ma più indietro nel cranio enorme, protetto da una massa d'osso spugnoso che nessuna freccia può penetrare. L'elefante non rallentò e non deviò. Alzò la proboscide, afferrò l'asta della freccia come avrebbe potuto fare un uomo con la mano, si strappò il dardo dalla carne, lo gettò via e continuò ad avanzare, protendendo l'appendice insanguinata. Ci salvò Hui, che era sul secondo carro della nostra fila. Noi eravamo indifesi contro la furia del vecchio maschio. Hui arrivò sferzando i cavalli e urlando come un demone. Il suo arciere scagliò una freccia nella guancia dell'elefante, una spanna sotto l'occhio, e il colpo lo distrasse. L'elefante si girò per inseguire Hui, ma questi aveva lanciato il carro al galoppo e si allontanò senza difficoltà. Il carro che lo seguiva non ebbe altrettanta fortuna. Il guidatore non aveva l'abilità di Hui, e deviò con scarsa efficienza. Il grosso maschio alzò la proboscide e l'abbatté come la scure d'un carnefice. Colpì il dorso di uno dei cavalli, dietro il garrese, e gli spezzò la spina dorsale così nettamente che sentii le vertebre infrangersi come cocci. Il cavallo stramazzò trascinando con sé il compagno. Il carro rotolò a terra e gli uomini furono sbalzati via. L'elefante appoggiò una zampa anteriore sul corpo del guidatore caduto: gli strappò la testa con la proboscide e la lanciò in alto. La testa roteò in aria eruttando sangue rosso dal collo tranciato. Poi sopraggiunse a corsa un altro carro e distolse l'attenzione del colosso dalla sua vittima. Feci fermare i miei cavalli al limitare degli alberi, e ci voltammo a guardare, inorriditi, la carneficina del nostro squadrone. C'erano carri sfasciati sparsi tutto intorno perché a Kratas, sulla sinistra, non era andata meglio che a noi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
447
I due grossi maschi erano stati colpiti da numerose frecce, e il sangue scorreva in rivoli sulla pelle grigia e impolverata. Ma le ferite non li avevano indeboliti: avevano soltanto ingigantito la loro furia. Si avventarono fra gli alberi e fracassarono i carri capovolti, calpestarono i corpi dei cavalli, scagliarono in aria gli uomini urlanti e li schiacciarono quando ricaddero a terra. Kratas si affiancò a noi e gridò: «Per il prurito nell'inguine di Seth, è una brutta faccenda. Abbiamo perso otto carri nella prima carica». «È più interessante di quanto ti aspettavi, capitano Kratas», gli gridò il principe Memnone. Avrebbe fatto meglio a tenere per sé la sua ironia; fino a quei momento, a causa della confusione, ci eravamo dimenticati di lui. Tanus e io ci voltammo di scatto. «In quanto a te, ragazzo mio, per oggi ti sei divertito abbastanza», gli dissi con molta fermezza. «Torna immediatamente alla flotta», confermò Tanus. In quel mentre passò un carro vuoto. Non sapevo che fine avessero fatto gli uomini dell'equipaggio: probabilmente erano stati sbalzati al suolo o afferrati dagli elefanti infuriati. «Prendete quei cavalli!» ordinò Tanus. Quando ci portarono il carro vuoto si rivolse al principe. «Vattene. Ritorna con il carro alla spiaggia e aspetta il nostro ritorno.» «Nobile Tanus!» Il principe Memnone si erse in tutta la sua statura. Arrivava appena alle costole del padre. «Io protesto!» «Non darti tante arie con me, giovanotto. Se credi, va' a protestare con tua madre.» Tanus sollevò il principe con una mano e lo caricò a bordo dell'altro carro. «Nobile Tanus, ho il diritto...» Memnone fece un ultimo, disperato tentativo per non farsi allontanare dalla caccia. «E io ho il diritto di prenderti a sculaccioni se ti vedrò ancora qui quando mi girerò di nuovo», disse Tanus, e gli voltò le spalle. Non pensammo più al ragazzetto. «Raccogliere l'avorio non è facile come raccoglier funghi», commentai. «Dovremo escogitare un sistema migliore.» «Non è possibile uccidere quei giganti colpendoli alla testa», ringhiò Tanus. «Ritentiamo, e proviamo a mirare fra le costole. Se non hanno un cervello, avranno almeno cuore e polmoni.» Presi le redini e feci rialzare la testa ai cavalli; ma sentivo che Pazienza e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
448
Lama erano nervose quanto me alla prospettiva di tornare in azione. Nessuno di noi era entusiasta del primo approccio con la caccia all'elefante. «Avanzerò verso di lui», dissi a Tanus. «Poi devierò in modo che tu possa mirare alle costole.» Misi i cavalli al trotto e poi li feci accelerare quando entrammo nel bosco di acacie. Davanti a noi il grosso maschio impazzava sul terreno cosparso dei rottami dei carri rovesciati e dei corpi degli uomini e dei cavalli. Ci vide arrivare e lanciò un altro barrito agghiacciante. I cavalli agitarono le orecchie e scartarono di nuovo. Strinsi le redini e li incitai a proseguire. L'elefante ci caricò come una frana di pietre che cade da un pendio ripido. Era uno spettacolo terribile, dominato dalla rabbia e dalla sofferenza; ma continuai a tenere ben salda la pariglia, senza lanciarla ancora alla massima velocità. All'ultimo momento li frustai e gridai per farli avventare al galoppo, e contemporaneamente deviai verso sinistra, scoprendo il fianco dell'elefante. A una distanza inferiore ai venti passi Tanus scagliò tre frecce in rapida successione: tutte e tre penetrarono dietro la spalla, infilandosi fra le costole, e si piantarono in tutta la loro lunghezza. L'elefante barri ancora, questa volta per il dolore. Cercò di afferrarci, ma proseguimmo la corsa fuori della sua portata. Mi voltai e lo vidi in una nuvola di polvere. Ma quando barri di nuovo, il sangue sprizzò dall'estremità della proboscide come vapore da un paiolo. «I polmoni!» gridai. «Ottimo lavoro, Tanus. L'hai colpito ai polmoni.» Feci girare il carro. I cavalli erano sempre pieni di forza e pronti a obbedire. «Venite, belli!» gridai. «Ancora una volta! Via!» Sebbene fosse ferito mortalmente, il vecchio maschio non era alla fine. Dovevo imparare quanto sono attaccate alla vita, quelle bestie magnifiche. Comunque, ci caricò con un coraggio che mi colmò di rispetto. Anche nel fervore della caccia e nel timore per la mia salvezza, mi vergognavo per la tortura che gli stavamo infliggendo. Forse fu per questo che lasciai avvicinare tanto i cavalli. In segno di rispetto. Volevo confrontare il mio coraggio con il suo. Quando era quasi troppo tardi, feci deviare i cavalli per passargli accanto appena fuori delia portata della terribile proboscide. E in quel momento una ruota del carro si spaccò. Vi fu un momento di vertigine mentre caprioleggiavo nell'aria come un acrobata; ma non era la prima volta che venivo sbalzato via e avevo imparato a ricadere come un Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
449
gatto. Rotolai per due volte su me stesso: la terra era soffice e l'erba aveva lo spessore di un giaciglio. Mi rialzai illeso e ancora lucido. Mi bastò un'occhiata per vedere che Tanus non se l'era cavata altrettanto bene. Giaceva a terra immobile. I cavalli erano rimasti in piedi, ma erano ancorati dal peso morto del carro. L'elefante lo attaccò. Lama era la più vicina, e il colosso grigio le spezzò la schiena con un colpo di proboscide. Lama crollò sulle ginocchia, urlando. Pazienza era ancora aggiogata a lei. L'elefante trapassò con una zanna il petto di Lama e rialzò la testa di scatto, sollevando in aria la povera bestia che scalciava e si dibatteva disperatamente. Avrei dovuto fuggire in quel momento, mentre l'elefante era distratto. Ma Pazienza era ancora illesa e non potevo abbandonarla. L'elefante s'era girato per metà, e l'orecchio ampio come una vela mi nascondeva alla sua vista. Non mi vide mentre mi avvicinavo correndo. Presi la spada di Tanus dalla rastrelliera del carro rovesciato e mi precipitai a fianco di Pazienza. Anche se il vecchio maschio la trascinava per i finimenti che l'univano a Lama, e il sangue dell'altra cavalla le macchiava il collo e le spalle, era ancora indenne. Naturalmente era impazzita per il terrore e nitriva e scalciava, e per poco non mi spaccò il cranio quando accorsi dietro di lei. Mi chinai appena in tempo quando sferrò un colpo con gli zoccoli e mi sfiorò la guancia. Tagliai allora la cinghia che la legava al timone del carro. La spada era abbastanza affilata per rasarmi i capelli, e il cuoio cedette subito. Tre fendenti decisi e Pazienza fu libera. Tesi le mani verso la criniera per salirle in groppa, ma era così atterrita che balzò via prima che potessi afferrarla. Mi urtò con la spalla e mi fece cadere. Piombai a terra sotto la fiancata del carro sfasciato. Quando mi rialzai, vidi Pazienza che fuggiva fra le acacie, a passi così leggeri da darmi la conferma che non era ferita. Cercai Tanus con lo sguardo. Giaceva a dieci passi dal carro, con la faccia a terra. Pensai che fosse morto, ma in quel momento alzò la testa e mi guardò con aria stralunata e intontita. Sapevo che un movimento improvviso avrebbe potuto attirare su di lui l'attenzione dell'elefante e mi augurai che restasse immobile. Non osavo parlare perché il colosso infuriato torreggiava ancora sopra di me. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
450
Alzai gli occhi. La povera Lama era infilzata sulla zanna, e i finimenti di cuoio s'erano attorcigliati alla proboscide. Il vecchio maschio si mosse per allontanarsi, trascinando con sé il carro sfasciato. Cercava di liberarsi della carogna di Lama; la punta della zanna aveva squarciato il ventre della cavalla e il lezzo del contenuto dello stomaco si mescolava all'odore del sangue e a quello caratteristico dell'elefante. Ma più forte di tutti era il puzzo del sudore della mia paura. Vidi che l'elefante teneva la testa girata dall'altra parte: mi alzai, e piegato in due, corsi verso Tanus. «Su! In piedi!» sibilai. Cercai di sollevarlo, ma era molto pesante e semisvenuto. Mi voltai disperatamente a guardare il grosso maschio. Si allontanava da noi e continuava a trascinarsi dietro il carro e la cavalla morta. Mi feci passare il braccio di Tanus intorno al collo, gli appoggiai la spalla contro l'ascella. Usai tutte le mie forze e riuscii a rimetterlo in piedi, barcollando sotto il peso. «Forza», mormorai. «Il maschio può vederci da un momento all'altro.» Cercai di condurre via Tanus, ma dopo un passo proruppe in un gemito e si abbandonò contro di me. «La gamba», gemette. «Non posso muovermi. Il ginocchio si è storto.» In quel momento mi resi veramente conto della gravità della situazione. La vigliaccheria mi riassalì, e le forze mi abbandonarono. «Vattene, stupido!» mi gracchiò Tanus all'orecchio. «Lasciami qui. Scappa!» L'elefante alzò la testa e la scrollò come un cane che vuole liberarsi dell'acqua dopo essere tornato a riva. Le enormi orecchie coriacee sbatterono contro le spalle, e il corpo straziato di Lama scivolò dalla zanna e fu gettato a lato come se non pesasse più d'un coniglio morto. La forza dell'elefante era incredibile. Se poteva liberarsi con tanta facilità del peso del cavallo e del carro, che cosa avrebbe fatto del mio corpo? «Scappa, per amore di Horus, scappa, stupido!» mi ordinò Tanus, e cercò di spingermi via. Ma una strana ostinazione mi impediva di abbandonarlo. Continuai a stringergli la spalla. Per quanto fossi spaventato, non potevo lasciarlo. L'elefante aveva sentito la voce di Tanus. Si girò di scatto con le orecchie spiegate come le vele maestre di un vascello da guerra. Ci fissò. Eravamo a meno di cinquanta passi di distanza. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
451
Allora non sapevo ciò che avrei appreso più tardi, e cioè che la vista dell'elefante è pessima. Si affida quasi completamente all'udito e all'olfatto. Solo il movimento lo attrae; e se fossimo rimasti immobili non ci avrebbe scorti. «Ci ha visti», ansimai. Trascinai Tanus con me, costringendolo a saltellare sulla gamba illesa. Il vecchio maschio notò il movimento e barri. Non dimenticherò mai quel suono. Mi assordò e mi stordì. Barcollai, e per poco non caddi trascinando Tanus con me. Poi l'elefante caricò. Avanzò a grandi passi e con le orecchie allargate. Le frecce gli spuntavano dalla fronte grinzosa, il sangue gli scorreva sul muso come una pioggia di lacrime. Ogni volta che barriva, il sangue fuoriuscito dal polmone sprizzava dalla proboscide in una nuvola. Alto come una rupe, nero come la morte, veniva verso di noi a passo di carica. Vedevo ogni ruga della pelle intorno agli occhi. Le ciglia erano folte come quelle di una bella donna, ma il suo sguardo era così feroce che il mio cuore s'impietri e non riuscii più a muovermi. Il tempo parve rallentare. Ero sopraffatto da un senso d'irrealtà, come in un sogno. Stavo immobile e vedevo la morte avanzare maestosamente verso di noi ma non potevo far nulla per evitarlo. «Tata!» Una voce infantile mi echeggiò nella mente. Pensai che fosse un'illusione ispirata dal terrore. «Eccomi, Tata!» Incredulo, girai la testa distogliendo lo sguardo dalla visione di morte. Un carro stava arrivando al galoppo attraverso il bosco. I cavalli erano lanciati e muovevano le teste come magli sull'incudine d'un ramaio. Tenevano le orecchie all'indietro e le narici spalancate. Non vedevo il guidatore. «Preparati, Tata!» Solo in quel momento scorsi la testa che spuntava dietro il parapetto. Le redini erano strette in due piccoli pugni dalle nocche sbiancate per la tensione. «Ehi!» urlai. «Torna indietro! Torna indietro!» Il vento gli agitava i capelli intorno alla testa, il sole faceva sprizzare lampi di rubino dai folti riccioli scuri. Continuò la corsa senza rallentare. «Picchierò quel piccolo briccone che mi ha disobbedito», ringhiò Tanus mentre si teneva in bilico su una gamba. Tutti e due avevamo dimenticato il pericolo che stavamo correndo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
452
«Ua!» gridò Memnone e fece rallentare la pariglia, guidando il carro in una virata così brusca che la ruota interna si arrestò e girò sul cerchione. S'era fermato davanti a noi due, riparandoci per un momento dalia carica dell'elefante. Nell'attimo in cui si girò, il carro restò immobile. Era una manovra magnifica. Spinsi con la spalla sotto l'ascella di Tanus e lo buttai sulla pedana. Dopo un attimo, mi lanciai a capofitto addosso a lui. Subito Memnone lasciò liberi i cavalli. Balzarono via così veloci che per poco non fui scagliato a terra. Mi afferrai alla fiancata per non cadere. «Vai, Memnone», urlai. «Vai, presto!» «Via!» gridò Memnone. «Ia-aaa!» Il carro frecciò via, trainato dai cavalli atterriti dai barriti dell'elefante. Ci voltammo tutti e tre a guardare. La testa del vecchio maschio torreggiava sopra di noi e sembrava riempire la visuale. La proboscide si protese, così vicina che a ogni barrito la nube di sangue ci spruzzava in faccia e ci faceva apparire vittime di un morbo terribile. Non riuscivamo a distanziarlo, e a sua volta non riusciva a raggiungerci. Continuammo la corsa attraverso la radura, con la grande testa insanguinata che ci minacciava mentre stavamo acquattati sul carro sobbalzante. Sarebbe bastato il minimo errore del nostro guidatore per farci finire in una buca o per spezzare una ruota contro il tronco di un albero caduto, e l'elefante ci sarebbe piombato addosso. Ma il principe teneva le redini come un veterano e sceglieva il percorso con mani esperte e occhi sicuri. Lanciava il carro nelle curve su una ruota sola ed evitava a stento che si capovolgesse mentre sfuggiva alla carica rabbiosa. Non esitò neppure una volta. E all'improvviso tutto finì. Una delle frecce affondate nel petto del colosso era penetrata ancora di più durante la corsa, e gli aveva trafitto il cuore. L'elefante spalancò la bocca e da essa sgorgò un getto di sangue rosso. Mori di colpo. Le gambe cedettero. Stramazzò con uno schianto che fece tremare il suolo e si rovesciò sul fianco, con una lunga zanna curva protesa nell'aria come in un ultimo, regale gesto di sfida. Memnone trattenne i cavalli. Tanus e io smontammo barcollando e ci fermammo a guardare il corpo enorme. Tanus si aggrappò alla fiancata per non gravare sulla gamba ferita, e si girò lentamente a guardare il ragazzo che ignorava d'essere suo figlio. «Per Horus, ho conosciuto molti uomini coraggiosi, ma nessuno più di te, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
453
figliolo», disse semplicemente. Per la prima volta sollevò Memnone fra le braccia e lo strinse al cuore. Non vidi altro, perché avevo la vista appannata dalle lacrime. Sapevo d'essere uno sciocco sentimentale, ma non riuscivo a trattenerle. Avevo atteso per troppo tempo di vedere il padre abbracciare il figlio. Riuscii a riprendere il controllo delle mie emozioni quando sentii giungere un suono di acclamazioni. Nessuno di noi s'era reso conto che la caccia si era svolta in piena vista della flotta. Il Soffio di Horus era accostato alla riva, e potevo scorgere la figura della regina sull'alta poppa. Anche a quella distanza, il suo volto era pallido e chiuso. L'Oro del Valore è il riconoscimento dei guerrieri, il massimo che esista. Soltanto gli eroi lo portano al collo. Ci radunammo sul ponte della nave, gli intimi della regina e i comandanti di tutte le divisioni del suo esercito. Le zanne degli elefanti erano ammucchiate intorno all'albero come spoglie di guerra, e gli ufficiali erano in alta uniforme. I portastendardi stavano sull'attenti dietro il trono. I trombettieri suonarono i loro strumenti quando il principe s'inginocchiò davanti alla regina. «Miei amati sudditi!» disse Lostris con voce chiara. «Nobili dignitari del mio consiglio, generali e ufficiali del mio esercito, addito alla vostra ammirazione il principe Memnone, che ha trovato favore ai miei occhi e agii occhi di tutti voi.» E sorrise al ragazzo undicenne che veniva trattato come un generale vittorioso. «Per la sua condotta coraggiosa sul campo comando che sia accolto nel reggimento delle Guardie del Coccodrillo Azzurro con il grado di subalterno di seconda classe, e lo insignisco dell'Oro del Valore, affinché lo porti con orgoglio e distinzione.» La catena era stata forgiata appositamente dagli orafi reali per adattarsi al collo d'un ragazzo: ma ero stato io a scolpire il piccolo elefante d'oro. Era perfetto in ogni particolare, un capolavoro in miniatura con granati per occhi e vere zanne d'avorio. Aveva un aspetto magnifico e spiccava sul petto del principe. Le lacrime mi salirono di nuovo agli occhi mentre gli uomini acclamavano, e le dominai con uno sforzo. Non ero l'unico che sguazzava nel sentimento come un facocero nel fango. Anche Kratas, Remrem e Astes, nonostante il loro modo di fare rude e sprezzante, sorridevano come idioti, e giuro che fra i loro uomini molti avevano gli occhi umidi. Come i suoi genitori, anche il ragazzo s'era conquistato l'affetto e la fedeltà di tutti. Alla Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
454
fine gli ufficiali degli Azzurri si presentarono per salutare il principe e abbracciarlo solennemente come compagno d'armi. Quella sera, mentre facevamo una corsa lungo la riva del fiume, Memnone trattenne i cavalli e si girò verso di me. «Ora faccio parte del mio reggimento. Sono un soldato, quindi devi fabbricarmi un arco, Tata.» «Ti fabbricherò l'arco più bello che un arciere abbia mai usato», promisi. Mi osservò con aria seria, quindi sospirò. «Grazie, Tata. Credo che sia il giorno più felice della mia vita.» Lo disse come se fosse un vecchio canuto, non un ragazzo di undici anni. L'indomani, quando la flotta ormeggiò per la notte, andai a cercarlo e lo trovai tutto solo in un punto nascosto agli occhi d'un osservatore casuale. Non mi aveva visto, e rimasi a guardarlo per un po'. Era nudo. Nonostante i miei avvertimenti a proposito delle correnti e dei coccodrilli, era chiaro che aveva nuotato nel fiume perché aveva i capelli bagnati. Il suo comportamento mi stupiva. Aveva preso dalla riva due grosse pietre rotonde. Ne teneva una per ogni mano, e le alzava e le riabbassava come in uno strano rito. «Tata, mi stai spiando!» disse all'improvviso senza girare la testa. «Vuoi qualcosa?» «Voglio sapere che cosa fai con quelle pietre. Stai adorando un dio cushita?» «Cerco di rafforzare le braccia per poter tirare con l'arco nuovo: voglio che abbia un peso normale. Non vorrai affibbiarmi un altro giocattolo, vero?» C'era un'altra cataratta, la quinta, che sarebbe risultata anche l'ultima da noi incontrata nel nostro viaggio. Ma non era una barriera come le altre. Ora che il territorio circostante era cambiato, non eravamo più costretti a seguire il corso del fiume. Mentre attendevamo una nuova piena del Nilo seminammo come al solito; tuttavia potevamo mandare i nostri carri a spaziare nella savana. La mia padrona inviava spedizioni al sud per inseguire i branchi di elefanti e procurarsi l'avorio. Le mandrie dei magnifici animali grigi che ci avevano accolti con fiducia quando eravamo entrati nella terra di Cush adesso erano molto disperse. Le avevamo cacciate senza pietà dovunque le avessimo trovate, ma quelle Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
455
sagge creature avevano imparato subito la lezione. Quando arrivammo alla quinta cataratta trovammo i branchi che pascolavano nella boscaglia sulle due rive. Erano migliaia, e Tanus ordinò ai carri di entrare subito in azione. Avevamo perfezionato la tattica di caccia e imparato a evitare le perdite che ci avevano inflitto i primi due maschi. Alla quinta cataratta, quel primo giorno, uccidemmo centosette elefanti e perdemmo tre soli carri. L'indomani dai ponti delle navi non si scorgeva un solo elefante. Anche se i carri inseguivano i branchi lungo le piste che avevano lasciato fuggendo, trascorsero cinque giorni prima che li raggiungessero. Le nostre spedizioni tornavano spesso all'accampamento ai piedi della cataratta dopo essere rimaste lontane per settimane intere senza vedere un solo elefante e senza portare una sola zanna. Quella che all'inizio ci era sembrata una riserva infinita di avorio s'era rivelata un'illusione. Come aveva commentato il principe il primo giorno, la caccia agli elefanti non era semplice come ci era sembrato. I carri che si spingevano verso sud, tuttavia, non facevano viaggi a vuoto. Avevano trovato qualcosa che per noi era ancora più prezioso dell'avorio: gli uomini. Non avevo lasciato l'accampamento per diversi mesi perché ero troppo preso dagli esperimenti con le ruote. In quel periodo trovai finalmente la soluzione del problema che mi aveva assillato dall'inizio e che aveva suscitato l'ilarità di Tanus e degli altri militari quando ogni tanto qualcuno dei miei progetti s'era rivelato un fallimento. In effetti non si trattò di una soluzione, ma di una combinazione di fattori, a partire dal materiale con cui erano fatti i raggi delle ruote. Avevo a disposizione una varietà quasi illimitata di tipi di legno, e le corna degli orici e dei rinoceronti cui davamo la caccia nei pressi dell'accampamento e che, diversamente dagli elefanti, non si allontanavano dopo i nostri attacchi. Scoprii che, se bagnavo il legno rosso dell'acacia delle giraffe, esso diventava così duro da deviare i colpi della scure di bronzo più affilata. Aggiunsi a questo legno strati di corno e fasciai il tutto con fili di bronzo, più o meno nel modo in cui avevo realizzato l'arco Lanata. Alla fine ebbi una ruota che poteva girare alla massima velocità su qualunque tipo di terreno senza spaccarsi. Quando Hui e io avemmo completato i primi dieci carri con le ruote nuove, sfidai Kratas e Remrem, che erano i guidatori più disastrosi dell'esercito, a tentare di sfasciarle. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
456
La scommessa fu dieci deben d'oro. Kratas e Remrem furono entusiasti dell'idea e accettarono con spirito fanciullesco. Per settimane e settimane le loro grida rauche e lo scalpitio degli zoccoli echeggiarono nelle boscaglie lungo le rive del Nilo. Quando terminò il loro tempo limite, Hui venne da me a lamentare che avevano sfinito venti pariglie di cavalli; tuttavia, gli era di consolazione il fatto che noi avessimo vinto la scommessa. Le nostre ruote nuove avevano superato la prova più severa. «Se ci avessi lasciato qualche giorno in più», borbottò Kratas mentre mi consegnava il suo oro con molta malagrazia, «so che sarei riuscito a fare un altro Tata». E inscenò una pantomima che riteneva divertente e che doveva rappresentare una ruota che si spezzava e un guidatore che veniva sbalzato a terra. «Sei un gran buffone, mio coraggioso Kratas, ma io ho il tuo oro.» Glielo feci tintinnare sotto il naso. «E tu hai soltanto uno scherzo ormai trito.» Fu allora che la spedizione comandata dal nobile Aqer, che era stata inviata a sud per cercare gli elefanti, ritornò con la notizia che erano stati trovati insediamenti umani. Avevamo immaginato di incontrare qualche tribù subito dopo aver superato la prima cataratta. Per secoli la terra di Cush aveva fornito schiavi che venivano catturati dai conterranei, probabilmente nel corso di guerre tribali, e quindi trasportati agli avamposti del nostro impero insieme con altre merci, avorio, penne di struzzo, corni di rinoceronte e polvere d'oro. Le maliziose ancelle negre della regina Lostris erano nate in quella terra ed erano state vendute nel mercato di Elefantina. Ancora oggi non so spiegarmi perché non avevamo trovato esseri umani prima di quel giorno. Forse erano stati messi in fuga dalle guerre e dalle scorrerie, proprio come noi avevamo disperso i branchi di elefanti. Forse erano stati decimati dalla carestia o da una pestilenza. Era impossibile capirlo. Fino ad allora avevamo incontrato scarse testimonianze della presenza umana. Ma finalmente li avevamo trovati e la nostra comunità si lasciò travolgere dall'eccitazione. Avevamo bisogno di schiavi ancor più che d'avorio o di oro. La nostra civiltà e il nostro modo di vivere erano fondati sulla schiavitù, un sistema che era tollerato dagli dei e consacrato dall'antica tradizione. Avevamo potuto portare con noi dall'Egitto pochissimi schiavi; e adesso Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
457
era indispensabile, per sopravvivere e crescere come nazione, catturarne altri per rimpiazzare quelli che eravamo stati costretti ad abbandonare. Tanus ordinò di preparare un corpo di spedizione che intendeva guidare personalmente, perché non sapevamo con certezza che cosa avremmo incontrato a monte. A parte i prigionieri di guerra, gli schiavi erano sempre stati venduti agli egizi dai mercanti stranieri; e a quanto ne sapevo era la prima volta dopo molti secoli che eravamo costretti a catturarli da noi. Era uno svago nuovo quanto la caccia agli elefanti; ma questa volta, almeno, non ci illudevamo che la selvaggina fosse docile o stupida. Tanus continuava a rifiutarsi di viaggiare con un guidatore che non fossi io, e neppure i tentativi compiuti inutilmente da Kratas e Remrem per sfasciarli erano bastati a convincerlo dei pregi dei nuovi carri. Ci avviammo in testa alla colonna, ma il secondo carro era guidato dal più giovane ufficiale subalterno degli Azzurri, il principe Memnone. Avevo scelto due degli uomini migliori perché andassero con lui. Pesava così poco che il suo carro poteva portare un uomo in più; e non era ancora abbastanza robusto per poter sollevare il veicolo a una estremità quando era necessario smontare e trasportarlo oltre gli ostacoli che era impossibile superare altrimenti. Aveva bisogno dell'uomo in più che lo aiutasse. I primi villaggi che incontrammo sorgevano sulla riva del fiume, tre giorni di viaggio a monte della cataratta. Erano gruppi di miseri ripari di fronde, troppo rudimentali per meritare il nome di capanne. Tanus inviò alcuni esploratori in avanscoperta; poi, all'alba, circondammo l'abitato con una manovra rapidissima. Coloro che uscirono dai rozzi rifugi erano troppo storditi e sconvolti per opporre resistenza o per tentare di fuggire. Stavano intruppati a farfugliare e guardavano il cerchio di carri e di scudi che gli stava intorno. «Molto bene.» Tanus si dichiarò soddisfatto quando li osservammo. Gli uomini erano snelli e forti, più alti della maggior parte dei nostri. Persino Tanus sembrava basso in confronto a loro mentre ci aggiravamo per dividerli in gruppi come un allevatore che separa le varie mandrie. «Ci sono diversi esemplari notevoli», commentò Tanus. «Guarda che meraviglia», disse indicando un giovane dai fisico eccezionale. «Potrebbe valere dieci anelli d'oro al mercato degli schiavi di Elefantina.» Le donne erano forti e sane, con la schiena diritta e i denti candidi e regolari. Quelle in età di procreare avevano un bambino in braccio e ne tenevano un altro per mano. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
458
Ma erano anche la popolazione più primitiva che avessi mai incontrato. Uomini e donne non portavano uno straccio d'indumento e non nascondevano le parti intime, anche se le ragazze più giovani si cingevano la vita con fili di perline ricavate da gusci di uova di struzzo. Notai subito che le donne erano state circoncise nel modo più brutale. In seguito venni a sapere che per l'operazione veniva usato un coltello di selce o una scheggia di bambù. Le vagine erano sfregiate e deformate, e infibulate con pezzetti d'osso o d'avorio. Le più giovani non avevano ancora subito la mutilazione. Decisi che per il futuro quell'usanza doveva essere messa al bando; ero certo di poter contare sull'approvazione della regina. Avevano la pelle così scura che sembrava violacea nella luce del primo sole, il colore dell'uva nera troppo matura. Alcuni si erano cosparsi d'una pasta fatta di cenere e argilla bianca, sulla quale avevano tracciato rozzi fregi con le dita. I capelli erano acconciati con una mistura di sangue di bue e di creta, e disposti in alti caschi lucenti che esageravano la statura già impressionante. Un fatto mi colpi subito: fra loro non c'erano vecchi. Più tardi appresi che avevano l'abitudine di spezzare le gambe agli anziani con le clave e di abbandonarli sulla riva del fiume in preda ai coccodrilli. Credevano che questi rettili fossero reincarnazioni degli antenati morti, e che nutrendoli le vittime si unissero a loro. Non avevano oggetti metanici: le armi erano clave di legno e bastoni appuntiti. Ignoravano l'arte del vasaio e come recipienti usavano le zucche. Non seminavano; vivevano dei pesci che catturavano con le nasse e dei bovini dalle lunghe corna che consideravano come il loro bene più prezioso. Li salassavano estraendo il sangue da una vena del collo, lo mescolavano al latte appena munto e bevevano l'intruglio con il massimo gusto. Quando li studiai, durante i mesi seguenti, constatai che non sapevano leggere né scrivere. Il loro unico strumento musicale era un tamburo ricavato da un tronco, e i loro canti erano i grugniti e i ragli degli animali selvatici. Le danze erano aperte parodie dell'atto sessuale in cui le schiere di uomini e di donne nudi si avvicinavano pestando i piedi e ancheggiando fino a incontrarsi. Quando ciò avveniva l'imitazione si trasformava in realtà, e avevano inizio le azioni più licenziose. Quando il principe Memnone mi chiese che diritto avevamo di impadronirci di quegli esseri come se fossero bestiame, gli risposi: «Sono selvaggi, e noi siamo un popolo civile. Come un padre ha un dovere verso il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
459
figlio, noi abbiamo il dovere di trarli dallo stato bestiale e di fargli conoscere i veri dei. In cambio devono ripagarci con il loro lavoro». Memnone era molto intelligente e, dopo la mia spiegazione, non ne mise più in dubbio la logica e la moralità. La mia padrona accolse una mia richiesta e permise a due delle sue ancelle negre di accompagnare la spedizione. I miei rapporti personali con le sgualdrinelle non erano mai stati idilliaci, ma questa volta ci furono utilissime. Entrambe ricordavano i tempi anteriori alla loro cattura e avevano conservato una conoscenza rudimentale della lingua delle tribù di Cush. Questo ci bastò per incominciare ad addomesticare i prigionieri. Sono un musico e ho l'orecchio sintonizzato ai suoni della voce umana; inoltre ho un'abilità linguistica naturale. In poche settimane imparai a parlare la lingua degli shilluk, come si chiamava quella gente. Era una lingua primitiva quanto le loro usanze e il loro modo di vivere. Il vocabolario non superava le cinquecento parole, e io le annotai sui miei papiri e le insegnai agii intendenti e agli istruttori militari ai quali Tanus affidava gli schiavi appena catturati. Infatti fu tra costoro che Tanus trovò i reggimenti di fanteria per integrare gli squadroni dei carri. La prima scorreria non ci diede un'idea chiara dell'indole bellicosa degli shilluk. Era andata troppo agevolmente, e non eravamo preparati a quello che accadde quando piombammo su un altro gruppo di villaggi. Questa volta gli shilluk erano stati avvertiti ed erano pronti a riceverci. Avevano allontanato le mandrie e nascosto le donne e i bambini. Nudi e armati soltanto di clave, avanzarono in massa contro i nostri carri, gli archi e le spade, con un coraggio e una tenacia da non credere. «Per il cerume putrido degli orecchi di Seth!» imprecò soddisfatto Kratas dopo che avemmo respinto un'altra carica. «Ognuno di quei diavoli neri è un soldato.» «Addestrati e armati di bronzo, gli shilluk saranno in grado di tener testa a tutti i fanti del mondo», ammise Tanus. «Lasciate gli archi nelle rastrelliere. Voglio prenderli vivi, per quanto è possibile.» Alla fine li inseguì con i carri fino a sfinirli e solo quando crollarono in ginocchio, esausti, gli intendenti degli schiavi riuscirono a legarli. Tanus scelse i migliori per i suoi reggimenti di fanteria, e imparò la loro lingua con la mia stessa rapidità. Molto presto gli shilluk presero a considerarlo come un dio al posto dei loro coccodrilli, e Tanus fini per Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
460
affezionarsi a loro quasi quanto io ero affezionato ai miei cavalli. Dopo qualche tempo non fu più necessario catturare gli shilluk come se fossero animali. Uscivano spontaneamente dai nascondigli fra i canneti e i burroni cespugliosi e si presentavano a Tanus per chiedere di essere arruolati nei suoi reggimenti. Tanus li armava di lunghe lance dalia punta di bronzo e di scudi di pelle d'elefante, e faceva loro indossare gonnellini confezionati con le code di felini selvatici e acconciature di penne di struzzo. I sergenti li addestravano nelle consuete tattiche della guerra; e noi cominciammo rapidamente a integrare queste tattiche insegnando loro a guidare i carri. Non tutti gli shilluk venivano scelti per l'esercito. Altri si dimostrarono rematori infaticabili, o mandriani e stallieri abilissimi, poiché erano abituati a occuparsi dei loro animali. Venimmo a sapere che i loro nemici ereditari erano i membri delle tribù che vivevano più a sud, i dinka e i mandari. Questi erano ancora più primitivi e non avevano gli istinti bellicosì dei nostri shilluk. I nuovi reggimenti di Tanus erano felici di venire mandati al sud con gli ufficiali egizi e l'appoggio dei carri per attaccare gli antichi rivali. Rastrellavano migliaia di dinka e di mandari, che utilizzavano per i lavori pesanti non specializzati. Nessuno di costoro si presentò mai spontaneamente come avevano fatto invece moltissimi shilluk. Quando portammo la flotta oltre la quinta e ultima cataratta, l'intera terra di Cush si spalancò davanti a noi. Guidata dagli shilluk, la nostra flotta risaliva il fiume, mentre le divisioni dei carri spaziavano su entrambe le rive e tornavano portando altro avorio e altri contingenti di schiavi. Poco tempo dopo raggiungemmo un ampio corso d'acqua che si gettava nel Nilo da oriente. In quel periodo era ridotto a un rigagnolo che scorreva da una pozza all'altra, ma gli shilluk ci assicurarono che, nella stagione appropriata, quel fiume, da loro chiamato Atbara, diventava un torrente tumultuoso e contribuiva alla piena annuale del Nilo. La regina Lostris inviò una spedizione di cercatori d'oro e di guide shilluk perché seguissero l'Atbara fin dove era possibile. La flotta, intanto, continuò a navigare verso sud e a cacciare selvaggina e schiavi. Io mi preoccupavo e cercavo d'impedirlo, ma molto spesso il carro del principe Memnone era alla testa di una di quelle colonne. Naturalmente era accompagnato dagli uomini migliori: questo almeno Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
461
potevo assicurarglielo. Ma nella boscaglia africana c'erano sempre pericoli in agguato e, dopotutto, era soltanto un ragazzo. Pensavo che avrebbe dovuto passare più tempo con me e i suoi papiri, a studiare sul ponte del Soffio di Horus, anziché andare in giro con tipi come Kratas e Remrem. Quei due bricconi non si preoccupavano della sicurezza del principe, come non si preoccupavano della propria. Lo spronavano con sfide e scommesse ed elogi sperticati per le sue imprese più audaci. Molto presto divenne un temerario come loro; e quando tornava dalle scorribande si divertiva a farmi rabbrividire con i racconti delle sue avventure. Quando protestavo con Tanus, questi si limitava a ridere. «Se un giorno dovrà portare la corona doppia, è bene che impari a sprezzare il pericolo e a comandare gli uomini.» La mia padrona era d'accordo con lui per quanto riguardava l'addestramento di Memnone e io dovevo accontentarmi di approfittare del poco tempo che potevo trascorrere con il principe. Ma almeno avevo le mie due principessine. Erano una consolazione meravigliosa. Tehuti e Bakatha diventavano ogni giorno più incantevoli e io ero il loro schiavo in tutti i sensi. Data la situazione, ero più vicino a loro di quanto poteva essere il vero padre. La prima parola che Bakatha pronunciò fu «Tata». Tehuti rifiutava di dormire se prima non le raccontavo una favola, e si struggeva quando ero costretto a lasciare la flotta per qualche missione. Credo che quello fosse il periodo più felice della mia vita. Sentivo di essere al centro della mia famiglia e di avere un posto sicuro nell'affetto di tutti. Le fortune della nostra nazione erano fulgide quasi quanto la mia. Molto presto uno dei cercatori d'oro tornò dalla spedizione lungo il fiume Atbara. S'inginocchiò davanti alla regina Lostris e depose ai suoi piedi un sacchetto di pelle. Lo aprì al suo comando e ne estrasse una quantità di sassolini lucenti. Alcuni erano piccoli come granelli di sabbia, altri grossi come l'estremità del mio pollice, e tutti brillavano di uno splendore inconfondibile. Gli orafi, subito chiamati, lavorarono con forni e crogioli e dichiararono che si trattava d'oro di purezza straordinaria. Tanus e io risalimmo con i cavalli l'Atbara fino al punto dov'era stato scoperto l'oro. Contribuii a pianificare i metodi usati per sfruttare la ghiaia del corso d'acqua in cui era imprigionato il prezioso metallo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
462
Usammo migliaia di schiavi mandari e dinka per estrarre i canestri di ghiaia e portarli nei bacini di lavaggio che gli scalpellini avevano scavato nei pendii granitici sopra il fiume. Feci numerosi disegni da portare alla mia padrona: lunghe file di schiavi negri con la pelle bagnata che luccicava nel sole, mentre salivano la collina reggendo sulla testa le ceste pesanti. Quando lasciammo i minatori e tornammo a raggiungere la flotta, portammo con noi cinquecento deben di anelli d'oro appena fusi. Senza incontrare altre cataratte od ostacoli di varia natura, proseguimmo fino a raggiungere la mistica confluenza dei due grandi fiumi che, unendosi, diventavano il Nilo da noi conosciuto ed amato. «Ecco il luogo che Taita ha scorto nella visione dei Labirinti di AmmonRa. Qui Hapi mescola le due acque: questo è il sito sacro alla dea», dichiarò la regina Lostris. «Abbiamo completato il nostro viaggio. Qui la dea ci renderà forti per il ritorno in Egitto. Io gli assegno il nome di Qebui, il Luogo del Vento del Nord, perché è stato quel vento a portarci qui.» «È un luogo propizio. La dea ci ha già mostrato il suo favore fornendoci schiavi e oro», confermarono i potentati del consiglio di Stato. «Non dobbiamo spingerci oltre.» «Ci resta soltanto da trovare un sito per la tomba di mio marito, il Faraone Marnose», disse la regina. «Quando la tomba sarà stata costruita e il Faraone vi sarà sepolto, il mio voto si sarà compiuto e sarà tempo di tornare trionfalmente nel nostro Egitto. Soltanto allora potremo muovere contro il tiranno hyksos e cacciarlo dalla nostra madrepatria.» Fui uno dei pochi, credo, che non fosse felice e sollevato della decisione. Gli altri erano divorati dalla nostalgia e stanchi dei lunghi anni di viaggio. Io, invece, ero stato colpito da una malattia più perniciosa, la smania di viaggiare. Volevo vedere che cosa c'era oltre la prossima ansa del fiume, oltre la cresta della prossima collina. Volevo continuare ad andare avanti, fino in capo al mondo. Perciò fui felice quando la mia padrona mi affidò l'incarico di cercare un sito adatto per la tomba reale, e ordinò al principe Memnone di scortarmi nella spedizione con il suo squadrone di carri. Non soltanto avrei potuto soddisfare la mia nuova passione per i viaggi, ma avrei avuto ancora una volta il piacere della compagnia del principe. A quattordici anni, Memnone fu posto al comando della spedizione. Non era un fatto eccezionale. Nella nostra storia ci sono stati Faraoni che a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
463
quell'età hanno comandato grandi eserciti in battaglia. Il principe prese molto sul serio le responsabilità di quel primo comando indipendente. I carri furono preparati e Memnone ispezionò personalmente ogni cavallo e ogni veicolo. Avevamo due pariglie di scorta per ogni carro, in modo che fosse possibile alternarle regolarmente. Discutemmo a lungo e in ogni particolare la direzione che avremmo seguito nella ricerca della località ideale per la tomba del re. Doveva essere situata in un'area accidentata e disabitata, difficilmente accessibile ai predatori di tombe, e doveva esserci una parete di roccia per scavarvi il sepolcro con tutte le gallerie sussidiarie. Da quando eravamo entrati nella terra di Cush non avevamo incontrato un'area che corrispondesse a questi requisiti. Riconsiderammo ciò che sapevamo del territorio dietro di noi e cercammo di immaginare ciò che ci stava davanti. Qebui, il luogo d'incontro dei due fiumi dove ci trovavamo, era il più bello che avessimo visto in tutto il lungo viaggio. Sembrava che li si fossero radunati tutti gli uccelli dell'aria. Dai minuscoli martin pescatori fino alle maestose gru azzurre, dagli stormi delle anitre che oscuravano il cielo ai pivieri e alle pavoncelle che correvano lungo il bordo dell'acqua e si soffermavano solo per lanciare il loro richiamo lamentoso. Nelle boscaglie argentee di acacie e nella savana scoperta i branchi di antilopi pascolavano innumerevoli. Sembrava che quella sede della dea fosse sacra a ogni aspetto della vita. A valle della confluenza dei fiumi le acque brulicavano di pesci, mentre le aquile pescatrici a testa bianca volteggiavano lentamente contro lo sfondo azzurro del cielo e lanciavano il loro richiamo bizzarro. Ognuno dei due fiumi gemelli esprimeva un carattere diverso, come due figli nati dallo stesso grembo possono essere diversi in ogni particolare. Il ramo di destra era lento e giallo; aveva una portata maggiore dell'altro ma era meno importante. Il ramo orientale era di un blu-grigio torbido, un corso d'acqua rabbioso che spingeva da parte il gemello e rifiutava di mescolarsi con le sue acque, lo pressava contro la riva e conservava la torbidezza per un lungo tratto prima di lasciarsi assorbire controvoglia dal più gentile fiume giallo. «Quale dobbiamo seguire, Tata?» mi chiese Memnone, e io feci chiamare le guide shilluk. «Il fiume giallo proviene da una palude immensa e pestilenziale. Nessun uomo vi può entrare: è popolata da coccodrilli, ippopotami e insetti Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
464
pericolosi. È un luogo pieno di febbri, dove un uomo può perdere l'orientamento per sempre», risposero le guide. «E l'altro fiume?» chiedemmo. «Il fiume sacro viene dal cielo: discende da rupi che salgono fino alle nubi. Nessun uomo può arrampicarsi in quelle gole terribili.» «Seguiremo il fiume di sinistra», decise il principe. «In quella zona rocciosa troveremo il luogo per seppellire mio padre. Procedemmo verso oriente fino a quando vedemmo le montagne ergersi all'orizzonte. Erano un bastione azzurro, così alto e formidabile da superare tutto ciò che avevamo visto o creduto possibile. In confronto a quei monti grandissimi le colline che avevamo conosciuto nella valle del Nilo erano come mucchietti di sabbia sulle rive del fiume. Le contemplavamo con rispettosa meraviglia mentre ci avvicinavamo, e ogni giorno si ergevano più alte nel cielo e facevano apparire più piccolo il mondo sottostante. «Nessun uomo può salire lassù», esclamò Memnone. «Quella deve essere la dimora degli dei.» Vedevamo i fulmini che guizzavano sopra le montagne, lampeggiando nelle masse turbinose di nubi che ci nascondevano le vette. Ascoltavamo il tuono che ringhiava come un leone in caccia fra le gole e le valli a strapiombo, e ci sentivamo pervadere dalla reverenza. Non ci spingemmo oltre le colline ai piedi della catena terribile, perché precipizi e gole ci sbarrarono la strada e costrinsero i carri a fermarsi. Fra quei colli trovammo una valle nascosta, con le pareti a picco. Per venti giorni il principe e io esplorammo quel luogo selvaggio, fino a che non ci trovammo di fronte a un dirupo nero e Memnone mi parlò a voce bassa. «È qui che il corpo terreno di mio padre riposerà per tutta l'eternità.» Alzò gli occhi verso il precipizio con un'espressione sognante e mistica. «Mi sembra di udire la sua voce che parla nella mia mente. Qui sarà felice.» Effettuai un'attenta ricognizione e segnai la parete, piantando pioli di bronzo nelle crepe della roccia, poi stabilii la direzione e l'angolo della galleria d'ingresso per gli scalpellini che sarebbero venuti a iniziare il lavoro. Quando ebbi terminato, uscimmo dal labirinto di valli e gole e ridiscendemmo il Nilo fino al punto d'incontro dei due fiumi dove stava la flotta. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
465
Eravamo accampati nella grande pianura, a pochi giorni di viaggio da Qebui, quando una notte fui svegliato da strani grugniti e dal movimento di una massa immane di animali; i suoni giungevano dall'oscurità circostante. Memnone ordinò ai trombettieri di suonare l'allarme, e ci piazzammo all'interno del cerchio dei carri. Aggiungemmo legna nei fuochi e scrutammo la notte. Nel guizzare delle fiamme vedemmo una fiumana scura, simile alla piena del Nilo, che ci passava accanto. Le strane grida e gli sbuffi erano quasi assordanti, e gli animali erano così ammassati che andavano a urtare contro il cerchio esterno dei carri e ne rovesciavano parecchi. Non era possibile riposare, con quel frastuono; restammo in allarme per il resto della notte, e il passaggio degli esseri non diminuì in tutto quel tempo. Quando l'aurora illuminò la scena vedemmo uno spettacolo straordinario. In ogni direzione, a perdita d'occhio, la pianura era coperta da un tappeto di animali in movimento. Andavano tutti nella stessa direzione, con una strana, fatalistica determinazione, a testa bassa, avvolti nella polvere sollevata dal loro passaggio, e lanciavano quelle strane grida lamentose. Ogni tanto una parte della mandria sterminata si spaventava senza una ragione e gli ammali cominciavano a scalciare. Piroettavano, sbuffavano e si rincorrevano senza meta, come vortici sulla superficie di un fiume. Poi riprendevano l'andatura normale e seguivano gli altri che si perdevano in lontananza. Li guardavamo sbalorditi. Erano tutti della stessa specie, e tutti identici fra loro. Erano tutti di un colore scuro e rossastro, con la barba irsuta e le corna falcate. Le teste erano deformi, con nasi orribili, e la groppa digradava dalle spalle alte agli esili arti posteriori. Quando alla fine attaccammo i carri e riprendemmo il viaggio, passammo come una flotta in mezzo a quel mare vivente di animali. Si aprivano per lasciarci transitare e continuavano a correre intorno a noi, così vicini che avremmo potuto toccarli tendendo la mano. Non avevano paura e ci guardavano con occhi opachi e privi di curiosità. Quando fu l'ora del pasto di mezzogiorno, Memnone prese l'arco e uccise cinque antilopi con altrettante frecce. Scuoiammo e facemmo a pezzi le carcasse mentre i loro compagni continuavano a correrci accanto. Nonostante l'aspetto bizzarro, la carne cotta sulle braci era fra le migliori che avessi mai assaggiato. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
466
«È un altro dono degli dei», dichiarò Memnone. «Appena raggiungeremo il grosso dell'esercito, manderemo una spedizione perché segua la mandria. Potremo affumicare carne a sufficienza per sfamare i soldati e gli schiavi fino a quando queste bestie passeranno di nuovo il prossimo anno.» Le guide shilluk ci avevano spiegato che l'incredibile migrazione si ripeteva ogni anno, quando le mandrie si trasferivano da un pascolo a un altro molto lontano. Gli shilluk chiamavano «gnu» quelle bestie, un nome che imitava il loro grido bizzarro. «Avremo una scorta di carne che non si esaurirà mai, e si rinnoverà ogni anno.» Nessuno di noi poteva prevedere gli eventi catastrofici che sarebbero derivati dal passaggio degli sgraziati gnu. Avrebbero dovuto mettermi in guardia il modo in cui scuotevano la testa e sbuffavano, e il muco che usciva dalle narici di alcuni animali. Non feci molto caso a questo comportamento, e giudicai che gli gnu fossero creature miti e innocue e che ci avrebbero portato soltanto benefici. Non appena arrivammo alla congiunzione dei fiumi riferimmo alla regina Lostris circa la migrazione degli gnu, e lei si dichiarò d'accordo con il suggerimento del principe Memnone. Gli assegnò come assistenti Kratas e Remrem e gli affidò il comando di una colonna di duecento carri, più quelli per il trasporto e alcune migliaia di shilluk. Gli ordinò di uccidere tutti gli gnu che fosse possibile fare a pezzi e affumicare per provvedere razioni di carne per l'esercito. Non accompagnai la spedizione, perché il ruolo di assistente macellaio non era di mio gradimento. Comunque, molto presto incominciammo a vedere all'orizzonte il fumo dei fuochi accesi per preparare la carne. Non trascorsero molti giorni prima che tornassero i carri usati per il trasporto, carichi di grossi pezzi di carne affumicata. Dopo venti giorni esatti dal primo incontro con la mandria di gnu io ero seduto all'ombra di un albero sulla riva del Nilo e giocavo a bao con il vecchio, caro amico Aton. Per deferenza nei confronti di Aton avevo stappato uno dei preziosi orci di vino ricavato da tre tipi di palme della scorta portata dall'Egitto. Giocammo e chiacchierammo come si conviene a due vecchi amici, e bevemmo di gusto l'ottimo vino. Non potevamo sapere che la catastrofe stava per travolgerci. Al contrario, avevo ogni motivo per essere soddisfatto di me. Il giorno prima avevo completato i progetti per la tomba del Faraone, che includevano diversi accorgimenti per scoraggiare e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
467
frustrare i violatori di tombe. La regina Lostris aveva approvato i piani e aveva nominato sovrintendente uno dei capimastri. Mi aveva detto che potevo requisire tutti gli schiavi e il materiale che mi serviva. Era decisa a non lesinare per mantenere la promessa fatta al marito morto: intendeva seppellirlo nella tomba più bella che il mio genio poteva creare. Avevo appena vinto la terza partita consecutiva di bao e stavo aprendo un altro orcio di quel vino eccellente quando sentii uno scalpitare di zoccoli. Alzai la testa e vidi un cavaliere che arrivava al galoppo dalla direzione della linea dei carri. Era ancora lontano quando lo riconobbi: era Hui. Pochi altri montavano a cavalcioni, e non certo a quell'andatura folle. Mentre si avvicinava scorsi la sua espressione e mi allarmai al punto che mi alzai di colpo, rovesciando il vino e la scacchiera del bao. «Taita!» mi urlò. «I cavalli! Dolce Iside, abbi pietà di noi! I cavalli!» Fermò la sua cavalcatura. Balzai in groppa dietro di lui e gli passai le braccia intorno alla vita. «Non perdere tempo a parlare», gli gridai all'orecchio. «Vai, amico, vai!» Andai subito da Pazienza. Metà del branco era a terra, ma lei era il mio primo amore. Giaceva sul fianco e ansimava. Ormai era vecchia e aveva il muso un po' grigio. Non l'avevo più aggiogata a un carro da quando Lama era stata uccisa dall'elefante. Anche se non trainava più i carri, era la migliore fattrice dei nostri branchi. Tutti i suoi puledri avevano ereditato da lei il coraggio e l'intelligenza. Aveva appena svezzato un bellissimo puledro che le stava accanto e la guardava ansioso. M'inginocchiai accanto a lei. «Che cosa c'è, mia cara?» chiesi a voce bassa. Riconobbe la mia voce e apri gli occhi. Aveva le palpebre incrostate di muco. Rimasi inorridito nel vedere le sue condizioni. Il collo e la gola erano spaventosamente gonfi e dalla bocca e dalle narici usciva un rivolo di fetido pus giallo. La febbre la bruciava, e sentivo il calore che s'irradiava da lei come da un fuoco. Tentò di alzarsi quando le accarezzai il collo, ma era troppo debole. Ricadde, con il respiro che le gorgogliava in gola. Il pus denso le usciva dalle narici, e sentivo che la stava soffocando. La gola si chiudeva, e doveva Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
468
lottare per ogni respiro. Mi guardava con un'espressione quasi umana di fiducia e di supplica e io mi sentivo sopraffatto dall'impotenza. Non sapevo nulla di quella nuova malattia. Mi tolsi dalle spalle il candido scialle di lino e lo usai per pulirle le narici. Fu un tentativo inadeguato perché, con la stessa rapidità con cui toglievo il pus, altri rivoli ne fuoriuscivano. «Taita!» mi gridò Hui. «Tutti i nostri animali sono stati colpiti.» Lasciai Pazienza e andai a vedere il resto del branco. Metà dei cavalli erano a terra, e quelli che si reggevano ancora barcollavano e cominciavano a perdere il pus giallo dalla bocca. «Che cosa dobbiamo fare?» Hui e gli altri guidatori di carri mi guardavano ansiosamente, e sentivo la loro fiducia come un peso. Si aspettavano che scongiurassi il terribile disastro, ma sapevo di non poter far nulla. Non conoscevo un rimedio e non mi veniva in mente neppure la più inverosimile delle cure. Tornai barcollando da Pazienza e le pulii di nuovo il muso. Vedevo che stava declinando rapidamente. Ormai lottava per ogni respiro. L'angoscia mi fiaccava; sapevo che nella mia impotenza ben presto mi sarei sciolto in lacrime e non sarei più stato utile a nessuno, uomini e cavalli. Qualcuno s'inginocchiò accanto a me. Alzai gli occhi e vidi che era uno degli stallieri shilluk, un tipo volenteroso che si era affezionato a me e mi considerava il suo maestro. «È la malattia dello gnu», mi disse nel suo linguaggio semplice. «Molti moriranno.» Lo fissai. Le sue parole cominciavano a chiarirmi le idee. Ricordavo i branchi sbavanti degli animali color ardesia che oscuravano le pianure. Li avevamo creduti un dono degli dei benevoli. «È una malattia che uccide il nostro bestiame quando arrivano gli gnu. Quelli che sopravvivono non si ammalano più.» «Che cosa possiamo fare per salvarli, Habani?» chiesi, ma lo shilluk scosse la testa. «Non si può fare niente.» Tenevo la testa di Pazienza fra le braccia quando morì. Il respiro si smorzò nella sua gola. Rabbrividì e le zampe si irrigidirono, poi si rilasciarono. Proruppi in un gemito di angoscia. Ero sull'orlo della disperazione. Alzai gli occhi e, fra le lacrime, vidi che il puledro di Pazienza era crollato, e che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
469
anche dalla sua bocca usciva il muco giallo. In quel momento la disperazione lasciò il posto alla collera. «No!» gridai. «Non lascerò che muoia anche tu!» Gli corsi a fianco e gridai a Habani di portare secchi di cuoio pieni d'acqua calda. Con una pezza di lino bagnai la gola del puledro per ridurre il gonfiore, ma fu inutile. Il pus continuava a uscire dalle narici e il collo si gonfiava come una vescica piena d'aria. «Sta morendo.» Habani scosse la testa. «Molti moriranno.» «Non lo permetterò», dissi, deciso. E mandai Hui alla nave a prendere la cassetta dei medicinali. Quando tornò era quasi troppo tardi. Il puledro era allo stremo. Soffocava e sentivo la sua forza dileguarsi sotto le mie mani convulse. Cercai a tentoni gli anelli della trachea alla giuntura tra la gola e il petto. Con un'incisione misi allo scoperto il tubo cartilaginoso: vi appoggiai la punta del bisturi e trapassai l'involucro resistente. Subito l'aria sibilò dall'apertura. Vidi il petto del puledro gonfiarsi mentre i polmoni si riempivano. Ricominciò a respirare a ritmo regolare, ma quasi subito mi accorsi che la ferita alla gola stava per venire richiusa dal sangue e dal muco. Tagliai in fretta un pezzo di bambù dall'intelaiatura del carro più vicino, ne ricavai un tubo e l'inserii nella ferita. Il tubo tenne aperto il varco, e il puledro smise di dibattersi mentre l'aria entrava e usciva senza impedimenti. «Hui!» chiamai a gran voce. «Vieni! Ti mostro come possiamo salvarli.» Prima di notte avevo insegnato a cento o più guidatori e stallieri come praticare l'intervento chirurgico, rudimentale ma efficace. Lavorammo tutta la notte nella luce incerta delle lampade a olio. A quel tempo c'erano più di tredicimila cavalli nelle mandrie reali. Non potemmo salvarli tutti, ma tentammo. Continuammo a lavorare con il sangue che ci incrostava le braccia fino al gomito. Quando lo sfinimento ci vinceva, ci buttavamo sulla paglia, dormivamo per un'ora, poi ci alzavamo e riprendevamo il lavoro. Alcuni cavalli erano colpiti meno duramente dal morbo che avevo chiamato «lo strangolatore giallo». Sembrava che avessero una resistenza innata: il muco che usciva dalle loro narici non era più abbondante di quello che avevo notato fra gli gnu; molti restavano in piedi e in pochi giorni guarivano. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
470
Molti altri, invece, morirono prima che potessimo aprir loro la trachea, e persino alcuni di quelli che avevamo operato furono uccisi più tardi dalla cancrena e dalle complicazioni causate dall'intervento. Naturalmente, molti dei nostri cavalli erano impegnati nelle spedizioni e non potevamo aiutarli. Il principe Memnone perse due terzi dei suoi ammali e dovette abbandonare i carri e tornare a Qebui a piedi. Alla fine risultò che avevamo perso oltre metà dei nostri cavalli, ben settemila; e quelli che sopravvissero erano così deboli che trascorsero mesi prima che riacquistassero le forze necessarie per trainare i carri. Il puledro di Pazienza se la cavò e prese nel mio cuore il posto della madre. Diventò il cavallo di destra del mio carro: ed era così robusto e affidabile che lo chiamai Roccia. «In quale misura questa pestilenza ha influito sulle nostre speranze di tornare rapidamente in Egitto?» mi domandò la mia padrona. «È come se fossimo tornati indietro di molti anni», risposi, e lessi l'angoscia nei suoi occhi. «Abbiamo perduto la maggior parte dei vecchi cavalli addestrati, come Pazienza. Dovremo attendere che i superstiti si riproducano, e addestrare i cavalli giovani a prendere il loro posto per trainare i carri.» Attesi con grande timore la migrazione degli gnu dell'anno seguente: ma quando vennero e oscurarono di nuovo le pianure, la previsione di Habani si rivelò esatta. Pochi cavalli furono colpiti dai sintomi dello «strangolatore giallo», in una forma comunque così lieve che dopo poche settimane erano di nuovo in grado di lavorare. La cosa che mi sembrava strana era che i puledri nati nel periodo dopo la prima infezione, e che non erano mai stati esposti alla malattia, erano immuni quanto le madri che l'avevano superata. Sembrava che l'immunità si fosse trasferita a loro con il latte materno. Ero certo che non saremmo più stati colpiti dal morbo con altrettanta violenza. Il compito principale assegnatomi dalla regina era la costruzione della tomba del Faraone fra le montagne. Ero costretto a trascorrere gran parte del mio tempo in quel luogo selvaggio, e mi lasciavo affascinare dai monti e dalle loro stranezze. Erano imprevedibili come una bella donna: a volte remoti e nascosti nei fitti veli di nuvole screziate dai fulmini e squarciate dai tuoni. Altre volte erano incantevoli e seducenti e sembravano chiamarmi, sfidarmi a scoprire tutti i loro segreti e le loro pericolose meraviglie. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
471
Sebbene avessi ai miei ordini ottomila schiavi per svolgere i lavori e la collaborazione degli artigiani e degli artisti migliori, la costruzione della tomba procedeva lentamente. Sapevo che sarebbero occorsi molti anni per completare il sepolcro complesso voluto dalla mia padrona, e per decorarlo in un modo degno del signore dei Due Regni. Per la verità non aveva senso affrettarci, perché ci sarebbe voluto lo stesso tempo per ricostituire le mandrie dei cavalli e addestrare i reggimenti dei fanti shilluk in modo che diventassero avversari capaci di tener testa agli squadroni degli hyksos. Quando non ero fra i monti a costruire la tomba, passavo il tempo a Qebui, dove mi attendeva una miriade di attività e di piaceri, dall'educazione delle mie due principessine allo studio di nuove tattiche militari con il nobile Tanus e il principe. Ormai era evidente che, mentre un giorno Memnone avrebbe comandato gli squadroni dei carri, Tanus non aveva mai superato la sua diffidenza istintiva per i cavalli. Era un marinaio e un fante, e via via che invecchiava diventava sempre più tradizionalista e conservatore nel modo di utilizzare i nuovi reggimenti degli shilluk. Il principe, invece, era audace e innovativo nell'uso dei carri. Ogni giorno mi esponeva una dozzina di idee nuove, alcune assurde, altre geniali. Le mettevamo tutte alla prova, persino quelle che sapevo impossibili. Aveva sedici anni quando la regina Lostris lo promosse al rango di Migliore di Diecimila. Adesso che Tanus veniva molto di rado con me, assunsi a poco a poco il ruolo di guidatore del principe e fra noi si stabili un rapporto quasi istintivo, che si estese fino a includere la nostra pariglia preferita, Roccia e Catena, Quando eravamo in marcia, Memnone amava ancora guidare, e io stavo dietro di lui. Ma non appena entravamo in azione, mi gettava le redini e afferrava l'arco o la lancia. Io guidavo il carro nella mischia, secondo le evoluzioni che avevamo elaborato insieme. Memnone maturò, divenne più forte, e cominciammo a vincere i premi dei giochi militari che erano una caratteristica della nostra vita a Qebui. Prima trionfammo nelle corse in linea dove Roccia e Catena potevano sfruttare al massimo la loro velocità; poi incominciammo a vincere le gare di tiro con l'arco e la lancia. Il nostro divenne il carro che bisognava battere prima di poter ricevere il nastro della vittoria dalle mani della regina Lostris. Ricordo le acclamazioni mentre il nostro carro volava oltre la porta finale Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
472
della corsa; io tenevo le redini e Memnone scagliava giavellotti a destra e a sinistra colpendo i due manichini di paglia. E ricordo la volata folle nella dirittura finale, con il principe che urlava come un demone, e la lunga treccia che gli sventolava dietro la testa come la coda di un leone alla carica. Ben presto vi furono altri incontri in cui cominciò a distinguersi senza la mia collaborazione. Ogni volta che passava con l'Oro del Valore che gli splendeva sul petto e il nastro di campione annodato alla treccia, le ragazze ridevano, arrossivano e lo guardavano di sottecchi. Una volta, quando entrai in fretta nella sua tenda per portargli una notizia urgente, mi fermai di colpo nel vederlo molto occupato, dimentico di tutto tranne che della giovinetta che stava sotto di lui. Mi ritirai in silenzio, un po' rattristato al pensiero che fosse conclusa per lui l'età dell'innocenza. Fra tutti questi piaceri nessuno poteva essere paragonabile, per me, alle ore preziose che riuscivo ancora a trascorrere con la mia padrona. A trentatré anni era al culmine del suo fulgore e il suo fascino era accresciuto dalla compostezza e dall'aria raffinata. Era diventata una vera regina, una donna incomparabile. Tutti l'amavano, ma nessuno l'amava quanto me. Neppure Tanus poteva superarmi nella devozione per lei. Ero orgoglioso perché aveva ancora tanto bisogno di me e contava con tanta fiducia sul mio giudizio e sul mio consiglio. Nonostante le altre benedizioni che arricchivano la mia esistenza, sarebbe stata sempre il più grande amore della mia vita. Avrei dovuto essere contento e soddisfatto, ma la mia indole irrequieta era esacerbata dalla nuova smania di vagabondare che si era impadronita di me. Quando facevo una pausa nel lavoro alla tomba del Faraone e alzavo lo sguardo, le montagne sembravano chiamarmi. Incominciai a fare brevi escursioni nelle gole solitarie, spesso solo, a volte con Hui o qualche altro compagno. Hui era con me quando vidi per la prima volta i branchi di stambecchi sulle vette maestose della montagna. Erano una specie che non avevamo mai visto. Erano alti il doppio delle capre selvatiche della valle del Nilo, e alcuni vecchi maschi avevano corna ricurve così enormi da apparire mostruosi come certi animali mitologici. Fu Hui a portare la notizia della presenza degli stambecchi fino a Qebui; e dopo meno d'un mese Tanus giunse nella valle della tomba regale con l'arco in spalla e il principe Memnone a fianco. Il principe stava diventando un cacciatore appassionato come il padre. In quanto a me, accolsi con gioia la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
473
possibilità di esplorare le montagne affascinanti in simile compagnia. Avevamo avuto intenzione di avventurarci soltanto fino alla prima linea di vette: ma quando salimmo sulla cresta ci trovammo di fronte a uno spettacolo da togliere il fiato. Vedemmo spiccare contro il cielo altri monti che avevano forma d'incudine e il colore dei leoni. Facevano sfigurare, al confronto, i picchi su cui stavamo e ci invitavano a proseguire. Il Nilo saliva insieme con noi attraverso valli scoscese e gole scure dove l'acqua turbinava candida. Non sempre potevamo seguirne il corso e in certi tratti eravamo costretti ad arrampicarci più in alto e a seguire vertiginose piste aperte dagli stambecchi sulle pareti minacciose. Poi, quando ci ebbe attirato nelle sue fauci, la montagna si scatenò. Eravamo cento uomini, con dieci cavalli da soma che portavano le provviste. Ci eravamo accampati in una di quelle gole, con i trofei di caccia di Tanus e Memnone esposti sulle rocce alla nostra ammirazione. Erano due teste di stambecco, le più grosse che avessimo visto in tutti i nostri viaggi, e così pesanti che occorrevano due schiavi per sollevarne una. All'improvviso incominciò a piovere. Nella nostra valle del Nilo, in Egitto, piove si e no una volta ogni vent'anni. Nessuno di noi aveva mai immaginato qualcosa che somigliasse anche lontanamente alla pioggia che cadde su di noi. Dapprima le nubi nere e dense coprirono la stretta fascia di cielo visibile fra le pareti che ci fiancheggiavano: e passammo dal meriggio assolato al crepuscolo. Un vento freddo spazzò la valle e agghiacciò i nostri corpi e i nostri spiriti. Ci intruppammo, sgomenti. Poi il fulmine scaturì dal ventre tenebroso delle nubi e spaccò le rocce intorno a noi, riempiendo l'aria dell'odore di zolfo e di scintille scaturite dalla selce. Il tuono rombava, ingigantito dagli echi mentre rimbalzava da uno strapiombo all'altro, e il suolo sobbalzava e tremava sotto i nostri piedi. Infine venne la pioggia, ma non in forma di gocce. Era come se stessimo sotto una delle cataratte del Nilo quando il fiume era in piena. Non c'era più aria respirabile: l'acqua ci riempiva la bocca e le narici e ci sembrava di annegare. Riuscivamo appena a scorgere la sagoma indistinta dell'uomo che stava lontano da noi non più d'un braccio. Era così violenta che finimmo a terra e ci riparammo sotto le rocce più vicine; ma continuò ad assaltare i nostri sensi e ad aggredire la pelle scoperta come uno sciame di calabroni inferociti. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
474
Era freddo. Non avevo mai provato tanto gelo, e noi eravamo coperti solo dei sottili scialli di lino. Il freddo ci toglieva le forze. Rabbrividimmo fino a quando cominciammo a battere i denti e non riuscimmo a evitarlo neppure stringendo le mascelle con tutte le nostre forze. Poi, più forte del suono della pioggia, ne udii un altro: era la voce della pioggia trasformata in un mostro famelico. Nella stretta valle aveva fatto irruzione una muraglia d'acqua grigia, che si estendeva da uno strapiombo all'altro e trascinava tutto. Mi investi e mi portò via, mi sbatacchiò contro le rocce, mentre l'acqua gelida mi riempiva la gola. La tenebra mi sopraffece e credetti di morire. Ricordo vagamente che qualcuno mi afferrò e mi tirò su una riva buia. La voce del mio principe mi fece riprendere i sensi. Prima di aprire gli occhi sentii l'odore del fumo di legna e il calore delle fiamme. «Taita, svegliati. Parla.» La voce insisteva. Aprii gli occhi. La faccia di Memnone aleggiava sopra di me. Sorrideva. Poi si voltò e chiamò: «È sveglio, nobile Tanus». Mi accorsi che eravamo in una grotta e che fuori era scesa la notte. Tanus lasciò il fuoco e si accosciò accanto al principe. «Come va, vecchio mio? Non credo che tu abbia qualche osso rotto.» Mi sollevai a sedere e mi tastai dappertutto prima di rispondere. «Ho la testa a pezzi e tutti gli arti doloranti, e a parte questo ho freddo e fame.» «Allora sopravvivrai», rise Tanus. «Anche se fino a poco fa dubitavo che qualcuno di noi ci riuscisse. Dobbiamo uscire da queste montagne maledette prima che accada qualcosa di peggio. È stata una pazzia avventurarci in un posto dove i fiumi scendono dal cielo.» «E gli altri?» chiesi. Tanus scosse la testa. «Sono tutti annegati. Tu sei l'unico che siamo riusciti a salvare.» «E i cavalli?» «Perduti», borbottò Tanus. «Tutti perduti.» «Abbiamo viveri?» «No», rispose Tanus. «Ho perso anche il mio arco. Ho soltanto la spada che cingo e gli indumenti che porto addosso.» Allo spuntar del giorno lasciammo il nostro rifugio e cominciammo a ridiscendere la valle. Ai piedi della gola trovammo i corpi di alcuni degli uomini e dei cavalli, arenati fra le rocce dopo che la piena era finita. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
475
Frugammo fra le pietre e la ghiaia e riuscimmo a recuperare una parte delle provviste e dell'equipaggiamento. Con mia grande gioia, la mia cassetta dei medicinali era intatta anche se piena d'acqua. Misi il contenuto ad asciugare su una roccia e con i finimenti di un cavallo morto improvvisai un'imbracatura per poterla portare sulle spaile. Memnone, intanto, aveva tagliato qualche fetta di carne dal corpo d'un cavallo e l'aveva messa a cuocere su un fuoco. Mangiammo a sazietà, riponemmo il resto e ci mettemmo in marcia per ritornare a Qebui. Il viaggio si trasformò lentamente in un incubo, via via che scalavamo i ripidi pendii rocciosi e scendevamo nelle gole. Sembrava che quel territorio terribile non avesse fine, e i nostri piedi piagati protestavano a ogni passo. La notte tremavamo intorno al fuocherello fumoso, acceso con la legna gettata a riva dall'acqua. Già il secondo giorno ci rendemmo conto di esserci smarriti. Stavamo vagando senza una meta. Ero certo che fossimo condannati a morire fra quelle montagne: ma poi udimmo il suono del fiume e, quando giungemmo a una sella fra due vette, scorgemmo il Nilo neonato che si snodava nel profondo della gola sottostante. E non era tutto. Sulle rive vedemmo una quantità di tende colorate, fra le quali si aggiravano figure umane. «Uomini civili», dissi. «Le tende devono essere di tessuto.» «E quelli sono cavalli», confermò Memnone, additando gli animali legati presso l'accampamento. «Là!» esclamò Tanus. «Quello è il riflesso del sole sulla lama di una spada o sulla punta d'una lancia. Lavorano i metalli.» «Dobbiamo scoprire chi sono.» Ero curioso di sapere quale tribù poteva vivere in una terra tanto inospitale. «Ci taglieranno la gola», borbottò Tanus. «Che cosa ti fa credere che questi montanari non siano selvaggi quanto la terra dove vivono?» «I cavalli sono magnifici», bisbigliò Memnone. «I nostri non sono così alti e robusti. Dobbiamo scendere a studiarli.» Il principe era un vero appassionato di cavalli. «Ha ragione il nobile Tanus.» L'avvertimento aveva messo in guardia la mia indole cauta, ed ero pronto a consigliare prudenza. «Potrebbero essere selvaggi pericolosi, nonostante l'aspetto di uomini civili.» Sedemmo sulle rocce e discutemmo ancora un po'; ma alla fine la curiosità ebbe la meglio e scendemmo in uno dei burroni per spiare gli sconosciuti. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
476
Quando ci avvicinammo, vedemmo che erano alti e ben fatti, probabilmente più robusti di noi egizi. I capelli erano folti, scuri e ricciuti. Gli uomini avevano la barba, mentre noi ci radiamo il viso. Indossavano lunghe vesti forse di lana dai colori vivaci, mentre noi stiamo a torso nudo e i nostri gonnellini sono quasi sempre candidi. Calzavano stivali di pelle morbida, mentre noi usiamo i sandali, e avevano la testa avvolta in drappi colorati. Le donne che vedevamo al lavoro fra le tende non portavano il velo e sembravano allegre: cantavano e si scambiavano richiami in una lingua che non avevo mai udito, ma avevano voci melodiose. Attingevano l'acqua, stavano chine a cucinare o macinavano il grano. Alcuni uomini erano intenti a un gioco che somigliava molto al bao, e scommettevano e discutevano sulle mosse. A un certo punto due di loro balzarono in piedi, sguainarono i pugnali ricurvi, e si affrontarono ringhiando come gatti infuriati. Un terzo uomo si alzò e si stirò con la pigrizia d'un leopardo. Si avvicinò e bloccò i pugnali con la spada, e subito i due antagonisti si calmarono e si allontanarono. Il paciere era evidentemente il capo: un uomo alto e solido come una capra di montagna. Aveva anche altre caratteristiche caprine: la barba lunga come quella d'uno stambecco, i lineamenti rozzi con un gran naso a becco e la bocca larga dalla piega crudele. Pensai che probabilmente doveva puzzare come uno dei vecchi maschi uccisi da Tanus. All'improvviso sentii Tanus che mi stringeva forte il braccio e mi bisbigliava all'orecchio. «Guarda!» Il capo era abbigliato più riccamente degli altri. La veste era a righe scarlatte e azzurre, e portava orecchini con pietre che brillavano come la luna piena. Ma non riuscivo a capire che cosa avesse colpito Tanus. «La spada», sibilò lui. «Guarda la spada.» L'osservai per la prima volta. Era più lunga delle nostre, e il pomello era di filigrana d'oro, lavorato con una delicatezza che non avevo mai visto. La guardia era costellata di pietre preziose. Era un capolavoro che evidentemente aveva richiesto anni d'impegno da parte di un maestro artigiano. Ma non era questo che aveva attirato l'attenzione di Tanus bensì la lama. Era lunga quanto il braccio del capo, di un metallo che non era né il bronzo giallastro né il rame rosso. Era di uno strano azzurro argenteo, come le Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
477
squame di un pesce persico del Nilo appena pescato, ed era intarsiata d'oro, come per metterne in risalto il valore unico. «Che cos'è?» mormorò Tanus. «Che metallo è?» «Non lo so.» Il capo tornò a sedere davanti alia sua tenda, ma si appoggiò la spada sulle ginocchia e con un pezzo di roccia vulcanica a forma di fallo incominciò ad accarezzare il filo delia lama. Il metallo emetteva un suono trillante a ogni tocco della pietra: e il bronzo non suonava così. Sembrava un leone in riposo che facesse le fusa. «La voglio», mormorò Tanus. «Non avrò pace fino a che non avrò quella spada.» Gli lanciai un'occhiata sgomenta, perché non l'avevo mai sentito usare quel tono. Mi accorsi che parlava sul serio: era stato colpito da un'improvvisa travolgente passione. «Non possiamo più restare qui», gli dissi sottovoce. «Ci scopriranno.» Lo tirai per il braccio, ma resistette. Teneva lo sguardo fisso sull'arma. «Andiamo a vedere i loro cavalli», insistetti. Alla fine lasciò che lo trascinassi via. Con la mano libera, presi il braccio di Memnone. Girammo intorno all'accampamento ad una distanza di sicurezza e ci avvicinammo furtivamente ai cavalli. Quando li vidi da vicino, fui colpito da una passione altrettanto travolgente di quella che Tanus aveva concepito per la spada azzurra. Erano diversi dai cavalli degli hyksos: più alti ed eleganti. Le teste erano più nobili, le narici più larghe. Sapevo che quelle narici erano un segno d'energia e di resistenza. Gli occhi erano situati più avanti, ed erano più sporgenti di quelli dei nostri animali: erano grandi occhi miti e pieni d'intelligenza. «Sono bellissimi», mormorò Memnone. «Guarda come tengono la testa e come inarcano il collo.» Tanus agognava la spada, e noi volevamo i cavalli con un'intensità paragonabile alla sua. «Basterebbe uno stallone come quello per le nostre giumente», mormorai rivolgendomi agli dei. «Darei la mia speranza d'una vita eterna, pur di averne uno.» Uno degli stallieri lanciò un'occhiata nella nostra direzione poi disse qualcosa al compagno che gli stava al fianco e si mosse. Questa volta non ebbi bisogno d'insistere. Tutti e tre ci acquattammo dietro il macigno che ci nascondeva e ci allontanammo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
478
Trovammo un riparo sicuro verso valle, in un ammasso caotico di macigni, e incominciammo una di quelle discussioni in cui tutti parlano contemporaneamente e nessuno ascolta. «Andrò da lui e gli offrirò mille deben d'oro», dichiarò Tanus. «Devo avere quella spada.» «Piuttosto ti ucciderebbe. Non hai visto che l'accarezzava come se fosse il figlio primogenito?» «Quei cavalli», mormorò meravigliato Memnone. «Non avevo mai sognato tanta bellezza. Horus deve avere bestie come quelle aggiogate al suo carro.» «Avete visto quei due che stavano per scannarsi?» chiesi. «Sono selvaggi sanguinari. Vi strapperebbero le budella prima che poteste aprire la bocca per dire una parola. E poi, che cosa avreste da offrire? Ci vedranno come miserabili mendicanti.» «Stanotte potremmo rubare tre stalloni e raggiungere la pianura», propose Memnone. Sebbene l'idea fosse piuttosto allettante, la mia risposta fu severa. «Sei il principe ereditario dell'Egitto, non un comune ladro.» Memnone sorrise maliziosamente. «Per uno di quei cavalli sarei pronto a fare il tagliagole come il peggior delinquente di Tebe.» Mentre stavamo discutendo, ci accorgemmo all'improvviso d'un suono di voci che si avvicinava lungo la riva del fiume dalla direzione dell'accampamento. Ci guardammo intorno per cercare un riparo migliore e ci nascondemmo. Le voci si avvicinarono. Apparve un gruppetto di donne che si fermarono sotto di noi, in riva al fiume. Tre erano abbastanza anziane, la quarta era una ragazza. Le tre donne indossavano vesti scure e portavano i capelli avvolti in bende nere: sembravano serve o bambinaie. Non pensai che fossero carceriere perché trattavano la ragazza con grande deferenza. La ragazza era alta e snella, e quando camminava sembrava uno stelo di papiro nella brezza del Nilo. Aveva addosso una veste corta di ottima lana a strisce gialle e azzurre che le lasciava scoperte le ginocchia. Sebbene calzasse stivali di pelle morbida vedevo che le gambe erano snelle e levigate. Le donne si fermarono proprio sotto il nostro nascondiglio, e una delle anziane incominciò a spogliare la ragazza. Le altre due riempirono con Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
479
l'acqua del fiume le anfore che avevano portato sulla testa. Il fiume era ancora gonfio per la piena e nessuno poteva immergersi in quelle acque gelide senza correre rischi. Era evidente che intendevano lavare la ragazza servendosi delle anfore. Una delle donne le sfilò la veste e la ragazza rimase nuda. Sentii Memnone soffocare un'esclamazione. Lo guardai e vidi che non pensava più a rubare i cavalli. Mentre due donne versavano sulla ragazza l'acqua delle anfore, la terza la massaggiava con un telo piegato. La ragazza tenne le mani sopra la testa e si girò lentamente perché potessero bagnarla meglio. Rideva e strillava per il freddo, e vidi che la pelle intorno ai capezzoli si stava accapponando. I capezzoli avevano il colore dei rubini o dei granati e parevano gemme montate sui seni torniti. I capelli erano scuri e ricciuti, la pelle aveva il colore del legno dell'acacia lucidato e patinato, un bruno rossastro che splendeva sotto il sole delle montagne. I lineamenti erano delicati, il naso sottile e cesellato, le labbra morbide e piene ma senza lo spessore negroide. Gli occhi grandi, scuri e obliqui, spiccavano sopra gli zigomi alti. Le ciglia erano così folte da incrociarsi. Era bellissima. Ho conosciuto soltanto un'altra donna che fosse più bella di lei. All'improvviso disse qualcosa alle accompagnatrici che subito si scostarono, poi si arrampicò verso di noi. Ma prima di raggiungere il nostro nascondiglio, passò dietro un macigno che la nascondeva alle compagne, ma non ai nostri sguardi. Si guardò intorno in fretta, ma non ci vide. L'acqua diaccia doveva aver fatto effetto perché si accosciò e lasciò cadere un getto zampillante. Memnone gemette sottovoce. Fu una reazione istintiva, non intenzionale, un'espressione di desiderio così intenso da diventare sofferenza. La ragazza balzò in piedi e lo guardò. Memnone era a una certa distanza da me e da Tanus. Mentre noi eravamo nascosti, lui appariva ben visibile. Si guardarono. La ragazza tremava. I suoi occhi scuri sembravano enormi. Mi aspettavo che fuggisse o si mettesse a urlare, invece si guardò alle spalle con aria da cospiratrice, come per assicurarsi che le donne non l'avessero seguita. Poi si rivolse di nuovo a Memnone e con voce dolce e sommessa fece una domanda, tendendogli la mano in un gesto Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
480
supplichevole. «Non capisco», bisbigliò Memnone, e allargò le braccia. La ragazza si avvicinò e ripeté con impazienza la domanda. Quando Memnone scosse la testa, gli afferrò la mano e la strinse, poi alzò la voce, agitata, e gli chiese qualcosa. «Masara!» Una delle accompagnatrici l'aveva sentita. «Masara!» Evidentemente era il nome della ragazza, perché lei fece un gesto per invitare Memnone a tacere, e si voltò per tornare indietro. Le tre donne, però, avevano incominciato a salire per seguirla. Erano agitate e allarmate. Girarono insieme intorno al macigno e si fermarono nei vedere Memnone. Per un momento nessuno si mosse. Poi le tre donne urlarono all'unisono. La ragazza nuda sembrava sul punto di correre a fianco di Memnone. Ma quando fece per muoversi, due delle donne l'afferrarono. Adesso urlavano tutte e quattro, mentre la ragazza si dibatteva per liberarsi. «È ora di tornare.» Tanus mi tirò per il braccio, e io lo seguii con un balzo. Dalla direzione del campo giunsero le grida di molti uomini, messi in allarme dagli strilli delle donne. Quando indugiai per guardare indietro, li vidi arrivare in massa. E vidi che Memnone non ci aveva seguiti: era accorso in aiuto della ragazza. Le donne erano robuste e trattenevano Masara strillando ancora più forte. Sebbene la ragazza cercasse disperatamente di svincolarsi, Memnone non riuscì a liberarla. «Tanus!» gridai. «Memnone è in difficoltà!» Tornammo indietro precipitosamente, lo afferrammo e lo trascinammo via. Ci segui con la massima riluttanza. «Tornerò a prenderti!» urlò a Masara, girandosi a guardarla. «Fatti coraggio! Tornerò a prenderti!» Quando oggi qualcuno mi dice che l'amore a prima vista non esiste, io sorrido fra me e penso al giorno in cui Memnone vide Masara per la prima volta. Avevamo perso tempo per trascinare via Memnone e gli inseguitori ci stavano incalzando quando prendemmo una delle piste degli stambecchi e corremmo verso la cresta del pendio. Una freccia volò sopra la spalla di Meninone e cadde contro le rocce. Corremmo più in fretta. Procedevamo in fila per una lunga, stretta pista. Memnone era in testa e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
481
Tanus lo seguiva. Io ero l'ultimo e, siccome ero appesantito dalla cassetta dei medicinali che portavo sulla schiena, stavo perdendo terreno. Un'altra freccia passò sopra le nostre teste, una terza centrò la cassetta con tanta forza da farmi barcollare: la cassetta, comunque, bloccò il colpo che altrimenti mi avrebbe trapassato. «Vieni, Taita!» mi gridò Tanus. «Gettala via o ti prenderanno!» Tanus e Memnone erano cinquanta passi più avanti e le distanze aumentavano: ma io non potevo abbandonare i miei preziosi rimedi. In quel momento arrivò un'altra freccia, e stavolta non fui molto fortunato. Mi colpi nella parte carnosa della coscia. Ruzzolai attraverso la pista e caddi con violenza. Mi rimisi a sedere e guardai con orrore l'asta della freccia che spuntava dalla mia gamba, poi mi girai verso gli inseguitori. Il capotribù barbuto dalla veste a strisce li guidava e li precedeva di cento passi. Saliva a grandi balzi e divorava il terreno con la velocità di uno degli stambecchi ai quali somigliava sotto molti aspetti. «Taita!» mi chiamò Tanus. «Tutto bene?» S'era fermato sul ciglio del declivio e s'era voltato a guardarmi ansiosamente. Memnone era già sparito. «Sono stato colpito da una freccia», gridai. «Vattene. Non posso seguirvi.» Tornò indietro senza la minima esitazione e corse verso di me. Il capo lo vide e muggì in tono di sfida. Sguainò la scintillante spada azzurra, la brandì e continuò a salire alla mia volta. Tanus mi raggiunse e cercò di rimettermi in piedi. «È inutile. Sono ferito gravemente. Salvati!» gii dissi. Ma l'uomo stava ormai per piombare su di noi. Tanus mi lasciò il braccio e sguainò la spada. I due si scontrarono furiosamente. Non avevo dubbi sull'esito del duello, perché Tanus era il più forte e il più abile di tutti gli egizi nel maneggiare la spada. E quando avesse ucciso il capotribù, saremmo stati spacciati perché non potevamo aspettarci misericordia dai suoi fedelissimi. L'uomo sferrò un fendente alla testa di Tanus, una mossa poco astuta contro un avversario di quel livello. Sapevo che Tanus avrebbe reagito con una parata all'altezza della testa e con una risposta naturale, carica di tutta la forza della sua spalla, che avrebbe spinto la punta delia lama attraverso la barba e la gola del capotribù. Era uno dei colpi preferiti di Tanus. Le due lame si scontrarono, ma non vi fu il clangore che mi aspettavo. La Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
482
lama azzurra tranciò quella di bronzo come se fosse un ramo verde di salice. Tanus rimase con l'impugnatura stretta nella mano e un frammento lungo un dito di quella che era stata un'arma mortale. Stordito dalla facilità con cui il capotribù l'aveva disarmato Tanus tardò a difendersi dal secondo colpo che seguì il primo come una folgore. Balzò indietro appena in tempo, ma la punta azzurra gli apri un lungo taglio poco profondo attraverso i muscoli del torace, e il sangue sgorgò a fiotti. «Fuggi, Tanus!» urlai. «O ci ucciderà tutti e due!» L'uomo si avventò di nuovo, ma io ero steso a terra attraverso la stretta pista, e fu costretto a scavalcarmi per arrivare a Tanus. Gli cinsi le ginocchia con entrambe le braccia e me lo feci crollare addosso mentre ringhiava e si dibatteva furiosamente. Cercò di affondarmi nel ventre la punta delia spada azzurra mentre ero steso a terra sotto di lui, e io mi scostai con tanta violenza che entrambi ruzzolammo dalla pista e cominciammo a scivolare lungo il ripido pendio di ghiaia. Mentre rotolavamo sempre più veloci, vidi per l'ultima volta Tanus che si sporgeva dall'alto. Gli urlai, disperatamente: «Scappa! Pensa a Memnone!» La ghiaia era infida quanto le sabbie mobili delle paludi, e non offriva il minimo appiglio. Io e il capotribù ruzzolammo separati fino al bordo del torrente. Io ero malconcio e semistordito. Rimasi a terra gemendo fino a quando sentii le mani che mi sollevavano e le percosse e le maledizioni che mi grandinavano sulla testa. Il capotribù impedì ai suoi di uccidermi e di gettarmi nel fiume. Era coperto di polvere come me, e la sua veste era sporca e lacera per la caduta; ma continuava a stringere nella destra la spada azzurra mentre inveiva contro i suoi. Cominciarono a trascinarmi verso l'accampamento; ma mi guardai intorno, disperato, e vidi la cassetta dei medicinali in mezzo alle rocce. Le cinghie di cuoio s'erano spezzate, e mi era caduta dalle spalle. «Portatemela», ordinai ai miei catturatori con tutta l'energia e la dignità di cui ero capace, e indicai la cassetta. Risero della mia insolenza, ma il capo mandò uno dei suoi a recuperarla. Due uomini furono costretti a sorreggermi perché la freccia cominciava a causarmi dolori lancinanti alla coscia. Ogni passo per tornare all'accampamento fu una tortura, e quando vi arrivammo mi buttarono a terra bruscamente nello spazio al centro del cerchio di tende. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
483
Discussero a lungo, rabbiosamente. Era chiaro che non riuscivano a immaginare la mia provenienza e i miei moventi e cercavano di decidere che cosa fare con me. Ogni tanto uno di loro si avvicinava, mi sferrava calci alle costole e gridava qualche domanda. Io cercavo di restare immobile per non provocare altre violenze. Vi furono attimi di distrazione quando il gruppo che aveva inseguito Tanus e Memnone tornò a mani vuote: altre grida, altri gesti convulsi, e scambi di recriminazioni e insulti, mentre mi consolavo al pensiero che i miei due compagni erano riusciti ad allontanarsi. Dopo un po' i catturatori si ricordarono di me, e tornarono a sfogarsi con pugni e calci. Alla fine il capo li fece smettere e gli ordinò di non tormentarmi più. Da quel momento, quasi tutti si disinteressarono a me e si dispersero. Io rimasi disteso al suolo, coperto di lividi e di terriccio e con la freccia ancora piantata nella carne. Il capotribù tornò a sedere davanti alla tenda più grande, che evidentemente era la sua; e mentre affilava la spada continuava a guardarmi con un'espressione imperscrutabile. Ogni tanto scambiava qualche parola a bassa voce con uno dei suoi uomini, ma sembrava che per me il pericolo immediato fosse superato. Valutai con cura la situazione, quindi mi rivolsi direttamente a lui. Indicai la cassetta dei medicinali che era stata buttata contro una tenda, e adottai un tono blando e accattivante: «Ho bisogno della cassetta. Devo curarmi la ferita». Sebbene non capisse le parole, il capo comprese i miei gesti. Ordinò a uno dei suoi di portargli la cassetta, la fece posare vicino a sé e apri il coperchio. La voltò metodicamente ed esaminò il contenuto. Mi mostrava tutto ciò che attirava in particolare la sua attenzione e mi rivolgeva domande alle quali cercavo di rispondere a segni. Parve convincersi che, a parte i bisturi, la cassetta non conteneva armi pericolose. Non so se si rendesse conto che erano strumenti medici. Ma gli mostrai a segni ciò che dovevo fare: indicai la mia gamba e mimai il gesto di estrarre la freccia. Mi venne vicino con la spada in mano e mi fece capire che mi avrebbe tagliato la testa al primo segno di tradimento: tuttavia mi permise di usare gli strumenti. La freccia era penetrata in una posizione difficile da raggiungere; e il dolore che ero costretto a infliggere a me stesso mentre usavo i cucchiai di mia invenzione per afferrare gli uncini affondati profondamente mi portò Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
484
più d'una volta sull'orlo di uno svenimento. Ansimante e fradicio di sudore, alla fine fui pronto a estrarre la punta della freccia. Avevo intorno metà degli uomini del campo, che erano tornati ad affollarsi per assistere all'intervento con interesse loquace. Afferrai con forza i manici dei cucchiai, strinsi fra i denti un cuneo di legno, lo addentai, quindi estrassi la punta di freccia dalla ferita. I presenti proruppero in grida di stupore. Evidentemente nessuno di loro aveva mai visto estrarre una punta di freccia con tanta facilità e con così pochi danni per la vittima. E rimasero ancora più impressionati quando videro la destrezza con cui avvolsi le bende di lino. In tutte le nazioni e in tutte le culture, anche le più primitive, il guaritore e il medico godono di stima e onori. Io avevo mostrato le mie credenziali nel modo più convincente, e la mia posizione nel campo di quella tribù era cambiata in modo radicale. Per ordine del capo fui portato in una delle tende e adagiato su un pagliericcio. La mia cassetta fu deposta accanto a me, e una delle donne mi offrì pane, pollo e latte cagliato. L'indomani mattina, quando tolsero le tende, mi sistemarono su una specie di lettiga aggiogata a uno dei cavalli della carovana, e così fui trainato lungo le piste accidentate e scoscese. Con grande sgomento mi accorsi dall'angolo del sole che stavamo tornando in mezzo alle montagne, e temetti di essere perduto per sempre per i miei. Il fatto che fossi medico mi aveva salvato probabilmente la vita, ma mi aveva anche attribuito un tale valore per cui non mi avrebbero mai liberato. Sapevo di essere diventato schiavo non soltanto di nome. Nonostante i sobbalzi della lettiga, la gamba cominciò a guarire perfettamente. La cosa impressionò ancora di più i miei catturatori, che incominciarono a portarmi i loro compagni ammalati o feriti. Guarii una tricofizia e incisi un giradito sotto l'unghia di un pollice. Ricucii un uomo che aveva vinto troppo giocando con gli amici rissosi. Quegli uomini - solo più tardi seppi che erano etiopi - avevano la tendenza a regolare le discussioni a pugnalate. Quando un cavallo gettò il cavaliere in un burroncello, gli curai il braccio rotto che si saldò perfettamente, e anche questo contribuì ad accrescere la mia reputazione. Il capo etiope mi guardava con un rispetto nuovo. La ciotola del cibo mi veniva offerta subito dopo che aveva fatto la sua scelta, prima che gli altri potessero cominciare a mangiare. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
485
Quando la gamba guari quanto bastava perché riprendessi a camminare, potei muovermi liberamente per il campo. Ma non mi perdevano di vista. Un uomo armato mi seguiva e mi sorvegliava anche quando ero occupato nelle attività più intime e riservate in mezzo alle rocce. Non mi permettevano di avvicinarmi a Masara, e la vedevo da lontano solo all'inizio delle marce e poi di nuovo la sera quando ci accampavamo. Durante le lunghe tappe attraverso i monti eravamo separati; io ero in testa alla carovana mentre lei veniva in retroguardia. Era sempre accompagnata dalle carceriere e di solito era circondata da guardie armate. Ogni volta che ci vedevamo, Masara mi lanciava occhiate supplichevoli e disperate come se, in qualche modo, potessi aiutarla. Era evidente che si trattava di una prigioniera importante. Era così giovane e incantevole che pensavo spesso a lei durante la giornata e cercavo di spiegarmi la ragione di quella cattività. Conclusi che doveva essere una sposa restia, condotta al futuro sposo, oppure una pedina in qualche intrigo politico. Poiché non conoscevo la loro lingua non potevo sperare di comprendere ciò che stava accadendo o di scoprire qualcosa sul conto degli etiopi. Decisi di imparare la lingua gheez. Ho l'orecchio del musico, e me ne approfittai. Ascoltavo con attenzione tutto ciò che veniva detto intorno a me, e afferrai la cadenza e il ritmo dei loro discorsi. Riuscii molto presto a dedurre che il capo si chiamava Arkoun. Una mattina, prima della partenza, Ar-koun diede alla sua banda gli ordini per la marcia di quel giorno. Attesi fino a quando ebbe terminato un'arringa animata, e la ripetei con gli stessi toni e le stesse cadenze. Mi ascoltarono in silenzio, sbalorditi, e poi cominciarono a rumoreggiare. Ridevano fragorosamente e si scambiavano pacche sulle spalle e piangevano per l'ilarità, perché avevano uno spirito molto semplice, privo di complicazioni. Non sapevo che cosa avessi detto, ma era evidente che l'avevo ripetuto nel modo esatto. Gli etiopi gridavano brani del mio discorso e scuotevano la testa imitando i modi solenni di Arkoun. Ci volle un po' prima che venisse ristabilito l'ordine, ma alia fine Arkoun mi si avvicinò e mi gridò una domanda in tono d'accusa. Non capii nulla, ma gridai a mia volta la stessa domanda, parola per parola. Questa volta scoppiò il pandemonio. Era uno scherzo troppo divertente. Gli uomini si aggrappavano S'uno all'altro per sostenersi, urlavano e si Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
486
asciugavano gli occhi. Uno cadde addirittura nel fuoco e si strinò la barba. Anche se sghignazzavano alle sue spalle, Arkoun rise come gli altri e mi batté la mano sulla schiena. Da quei giorno gli uomini e le donne del campo divennero i miei insegnanti. Mi bastava indicare un oggetto perché mi gridassero il suo nome in gheez. Quando cominciai a formare le prime frasi, mi corressero premurosamente e si mostrarono molto fieri dei miei progressi. Impiegai qualche tempo per apprendere la grammatica. I verbi si coniugavano in un modo diverso dall'egizio, e i generi e i plurali dei sostantivi erano stranissimi. Ma in dieci giorni imparai a parlare il gheez in modo comprensibile e acquisii anche una bella collezione di imprecazioni e invettive. Mentre imparavo la lingua e curavo i loro disturbi, studiavo le loro abitudini. Scoprii che erano giocatori accaniti, e che avevano una passione per il passatempo cui si dedicavano continuamente. Lo chiamavano dom, ma era una forma rudimentale di bao. Il numero delle fossette nella scacchiera e la quantità dei segnalini erano diversi da quelli del bao, ma i principi e gli scopi erano simili. Il campione di dom della banda era lo stesso Arkoun; ma quando studiai il suo modo di giocare vidi che non aveva un'idea della regola classica dei sette segnalini. E non capiva la funzione dei quattro tori. Senza una conoscenza approfondita, nessun giocatore di bao poteva aspirare neppure all'umile rango di maestro di terza categoria. Considerai il rischio che avrei corso umiliando un tiranno vanitoso come Arkoun, ma alla fine decisi che era l'unico modo per acquisire un ascendente su di lui. La prima volta che sedette davanti alla tenda e preparò la scacchiera sogghignando e arricciandosi i baffi in attesa di uno sfidante, mi feci avanti e sedetti a gambe incrociate davanti a lui. «Non ho argento da puntare», gli dissi nel mio gheez ancora rudimentale. «Gioco per amore del gioco.» Arkoun annui. Era un appassionato, e capiva. La notizia che avevo sfidato il capo si diffuse nel campo, e tutti accorsero ridendo per assistere. Quando lasciai che Arkoun posasse tre pedine nel castello orientale, gli spettatori si scambiarono gomitate e ridacchiarono, delusi dalia prospettiva che la partita sarebbe finita presto. Sarebbe bastata un'altra pedina a est, e la vittoria sarebbe stata sua. Non capivano l'importanza dei quattro tori che io avevo allineato a sud. Quando li scatenai, avanzarono irresistibilmente sulla Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
487
scacchiera, divisero la sue pedine prive d'appoggio e isolarono il castello orientale. Arkoun non poté impedirlo. Quattro mosse, e la vittoria fu mia. Non avevo nemmeno dovuto dare una dimostrazione della regola delle sette pedine. Per qualche istante rimasero tutti immobili, in silenzio. Credo che per un po' Arkoun non si rendesse conto della portata della sua sconfitta. Poi, quando capi, si alzò e sguainò la terribile spada azzurra. Temetti di aver sbagliato i miei calcoli e pensai che stesse per tagliarmi la testa o almeno un braccio. Arkoun levò in alto la spada e l'abbatté con un urlo furibondo. Con una dozzina di colpi fece a pezzi la scacchiera e fece volare tutto intorno le pedine. Poi si allontanò fra le rocce, strappandosi la barba e urlando minacce di morte in direzione delle vette e delle valli, in una serie di echi sempre più fievoli. Passarono tre giorni prima che Arkoun piazzasse di nuovo la scacchiera e mi indicasse di sedermi di fronte a lui. Il poveraccio non immaginava che cosa lo aspettasse. Ogni giorno la mia conoscenza della lingua gheez migliorava; finalmente riuscii a raccogliere qualche informazione sui miei catturatori e sulla ragione di quel lungo viaggio fra gole e canaloni. Avevo sottovalutato Arkoun. Non era un capotribù, bensì un re. Il suo nome completo era Arkoun Gannouchi Maryam, Negusa Naghast, re dei re e sovrano dello stato etiopico di Aksum. Solo più tardi scoprii che in quella terra ogni brigante di montagna con cento cavalli e cinquanta mogli si proclamava re, e che a ogni dato momento potevano esserci anche venti re dei re, impegnati a disputarsi terre e bottino. Il vicino di Arkoun era un certo re sacerdote Beni-Jon, che a sua volta si autoproclamava re dei re e sovrano dello stato etiope di Aksum. Sembrava che fra i due corresse cattivo sangue, anzi avevano già combattuto diverse battaglie per nulla decisive. Masara era la figlia prediletta del re sacerdote Beni-Jon. Era stata rapita da un altro capo bandito che non si era ancora autoincoronato e non aveva assunto il titolo obbligatorio di re dei re. Con un normalissimo accordo commerciale, Masara era stata venduta ad Arkoun per un carico di lingotti d'argento, quanti poteva portarne un cavallo. Arkoun intendeva servirsi di lei per strappare concessioni al padre: a quanto pareva la cattura di ostaggi e la richiesta di riscatto che ne conseguiva facevano parte della politica Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
488
etiope. Poiché non si fidava di lasciare in mano ai suoi uomini una merce tanto preziosa, Arkoun era andato personalmente a prendere in consegna la principessa Masara, e adesso la carovana la stava portando nella sua roccaforte. Ebbi queste e altre informazioni dalle schiave pettegole che mi portavano i pasti, o durante conversazioni casuali davanti alla scacchiera del dom. Quando arrivammo all'Amba Kamara, la fortezza montana del re Arkoun Gannouchi Maryam, ero ormai diventato un esperto della complicata, sfuggente politica dei vari stati etiopi di Aksum e dei numerosi pretendenti al trono imperiale. Mi accorsi dell'eccitazione crescente che animava la carovana mentre ci avvicinavamo alla fine del viaggio e salivamo lo stretto sentiero, non molto diverso dalle piste delle capre selvatiche, che conduceva alla cima di un'altra amba. Le ambe erano i massicci che formavano le catene montuose dell'Etiopia centrale. Avevano cime piatte e pareti a strapiombo che scendevano nella valle. Dall'alto del precipizio mi fu facile vedere perché il territorio era diviso in tanti regni e principati. Ogni amba era una fortezza naturale inespugnabile. Chi stava lassù era invincibile e poteva proclamarsi re senza timore d'essere sfidato. Arkoun, che cavalcava accanto a me, mi indicò le montagne meridionali. «È il nascondiglio del ladro di cavalli, il re sacerdote Beni-Jon. È un traditore infido.» Si schiari la gola e sputò nell'abisso in direzione del rivale. Ormai conoscevo Arkoun e sapevo che anche lui era un uomo infido e crudele: se riconosceva nel re sacerdote Beni-Jon un maestro in questo campo, il padre di Masara doveva essere un individuo veramente temibile. Attraversammo il tavoliere dell'Amba Kamara passando per alcuni villaggi di casupole di pietra e campi di sorgo e di durra. I contadini erano alti, con i capelli folti, armati di spade e di scudi rotondi di rame. Sembravano feroci e bellicosì quanto gli uomini della nostra carovana. In fondo all'amba, il sentiero ci condusse alla fortezza naturale più straordinaria che avessi mai visto. Un baluardo dominava il tavoliere eroso, una guglia di roccia con le pareti a picco, separata dal resto da uno spaventoso abisso. L'abisso era attraversato da uno stretto ponte, un arco naturale di pietra. Era così stretto che due cavalli non potevano incrociarsi; e quando uno si avviava per varcare il ponte, non poteva tornare indietro e doveva Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
489
proseguire fino a giungere dall'altra parte. Sotto quel ponte l'abisso era di trecento braccia e scendeva fino alla gola del fiume. La traversata innervosiva i cavalli al punto che i cavalieri erano costretti a smontare e a bendarli per condurli per le briglie. Ero arrivato a metà del ponte quando cominciai a tremare per la vertigine, e non osai sbirciare nel vuoto. Dovetti fare appello a tutto il mio autocontrollo per continuare a camminare e non gettarmi lungo disteso sulla roccia. In vetta alla guglia sorgeva uno sgraziato castello di blocchi di pietra con i tetti di canne. Le finestre erano coperte da tende di pelle non conciata e i rifiuti di ogni genere che scorrevano dalla fortezza costellavano lo strapiombo. muri e i bastioni erano festonati dai corpi di uomini e donne, come decorazioni per una macabra celebrazione. Alcuni erano appesi da tanto tempo che le ossa erano state spolpate dai corvi che volteggiavano sopra l'abisso o stavano appollaiati a crocidare sui tetti. Altre vittime erano ancora vive: con orrore assistetti ai loro ultimi, deboli movimenti. Quasi tutte, comunque, erano già morte e in vari stati di decomposizione. Il lezzo dei cadaveri putrefatti era così forte che neppure il vento onnipresente riusciva a disperderlo. re Arkoun diceva che i corvi erano i suoi polli. A volte li nutriva sulle mura, oppure gettava loro il cibo nella gola dall'alto del ponte. L'urlo di un'altra vittima sventurata che precipitava era un fattore normale della nostra vita sulla guglia di Adbar Seged, la Casa del Canto del Vento. Le esecuzioni, le fustigazioni quotidiane, il taglio di mani e piedi e l'estirpazione delle lingue con tenaglie roventi erano lo svago principale del re Arkoun quando non giocava a dom o non preparava un'incursione contro uno degli altri re dei re. Molto spesso impugnava personalmente la scure o la frusta, e le sue risate echeggiavano non meno forti delle urla delle vittime. Appena la carovana ebbe attraversato il ponte e si fu fermata nel cortile centrale di Adbar Seged, Masara fu condotta dalle carceriere nel labirinto dei corridoi, mentre io fui accompagnato nel mio nuovo alloggio, adiacente a quello di Arkoun. Era una cella di pietra, buia e piena di spifferi. Il focolare copriva i muri di fuliggine e irradiava poco calore. Anche se portavo le vesti di lana in uso in quella terra, ad Adbar Seged non riuscivo mai a scaldarmi. Come rimpiangevo il sole del Nilo e l'oasi luminosa del mio Egitto! Seduto sui Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
490
bastioni spazzati dal vento, mi struggevo al pensiero delia mia famiglia, Memnone e Tanus, le mie principessine, ma soprattutto la mia padrona. A volte mi svegliavo nel cuore della notte con le lacrime che mi agghiacciavano la faccia, e dovevo ripararmi la testa con la coperta di pelli di pecora perché Arkoun non udisse i miei singhiozzi attraverso il muro. Spesso lo supplicavo di lasciarmi libero. «Ma perché vuoi abbandonarmi, Taita?» «Voglio tornare dalla mia famiglia.» «Ora la tua famiglia sono io», rispose ridendo. «Sono tuo padre.» Facemmo una scommessa. Se avessi vinto contro di lui cento partite consecutive di dom, promise che mi avrebbe lasciato libero e mi avrebbe dato una scorta per ritornare lungo il Nilo fino alle grandi pianure. Quando vinsi la centesima partita, scosse la testa e rise della mia ingenuità. «Ho detto cento? Non mi pare. Sarà stato mille.» Si rivolse ai suoi fidi. «Non avevo detto mille?» «Mille», esclamarono quelli in coro. «Mille!» Tutti lo giudicarono uno scherzo divertente. Quando, per dispetto, rifiutai di giocare con Arkoun, mi appese nudo al muro della cittadella, a testa in giù, fino a quando non gli gridai di preparare la scacchiera. Quando Arkoun mi vide nudo, rise e commentò: «Ci sai fare con il dom, ma mi sembra che abbia perso le tue pedine, egizio!» Era la prima volta, da quando mi avevano catturato, che Sa mia mutilazione veniva scoperta. Gli uomini cominciarono a chiamarmi «eunuco», con mia grande vergogna. Alla fine, però, le conseguenze furono benefiche. Se fossi stato un uomo intero, non mi avrebbero permesso di avvicinare Masara. Vennero a chiamarmi di notte e mi condussero alla cella di Masara. La camera era illuminata da una fioca lampada a olio e puzzava di vomito. La ragazza era raggomitolata sul pagliericcio, con una pozza di vomito sul pavimento di pietra. Soffriva terribilmente: piangeva, gemeva e si stringeva lo stomaco. Mi misi subito all'opera e l'esaminai scrupolosamente. Temevo di trovare lo stomaco duro come un sasso, il sintomo del gonfiore e della lacerazione che avrebbe sparso negli organi vicini il contenuto dell'intestino, una malattia che non aveva rimedio. Se si trattava di questo, neppure io avrei potuto salvarla nonostante la mia abilità. Con grande sollievo constatai che lo stomaco era caldo e morbido. E la ragazza non aveva febbre. Continuai a visitarla; sebbene gemesse e urlasse Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
491
appena la toccavo, non riuscii a trovare la causa di quelle sofferenze. Sconcertato, cominciai a riflettere. Poi mi accorsi che, sebbene il suo viso fosse stravolto dalla sofferenza, mi guardava con aria candida. «È peggio di quanto temessi.» Mi rivolsi alle due schiave, parlando in gheez. «Per salvarla ho bisogno della mia cassetta. Portatela immediatamente.» Le donne corsero fuori e io mi chinai a bisbigliare: «Sei astuta e reciti molto bene. Hai usato una penna per solleticarti la gola e vomitare?» Mi sorrise e sussurrò: «Non sapevo come incontrarti. Quando le donne mi hanno detto che avevi imparato a parlare il gheez, ho capito che avremmo potuto aiutarci scambievolmente». «Me lo auguro.» «Mi sento così sola. Poter parlare con un amico è una gioia.» La sua fiducia era così spontanea che mi sentii commosso. «Forse troveremo il modo di fuggire da questo luogo orribile.» Sentimmo le donne che tornavano. Le loro voci echeggiavano nei corridoio. Masara mi afferrò la mano. «Mi sei amico, vero? Tornerai da me?» «Si.» «Dimmi, presto, prima di andar via. Come si chiama?» «Chi?» «Quello che era con te il primo giorno, vicino al fiume. Quello che sembra un giovane dio.» «Si chiama Memnone.» «Memnone!» Masara ripeté il nome con reverenza. «È bellissimo. Gli sta bene.» Le donne entrarono, e Masara si strinse le mani sul ventre e gemette come se fosse in punto di morte. Mentre schioccavo la lingua e scuotevo la testa preoccupato a tutta edificazione delle schiave, preparai un tonico d'erbe che avrebbe fatto comunque bene a Masara, e annunciai che sarei ritornato l'indomani mattina. La mattina Masara era migliorata e potei passare con lei un po' più di tempo. Era presente solo una delie donne, che ben presto si annoiò e andò a rincantucciarsi nell'angolo opposto della stanza. Masara e io ci scambiammo poche frasi a voce bassa. «Memnone mi ha detto qualcosa che non ho compreso. Che cos'era?» «Ha detto: "Tornerò a prenderti. Fatti coraggio. Tornerò a prenderti".» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
492
«Non poteva parlare sul serio. Non mi conosce. Mi aveva vista per pochi attimi.» Masara scosse la testa e i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Credi che lo pensasse davvero, Taita?» Aveva un tono così supplichevole che mi commossi. Non potevo permettere che soffrisse ancora di più. «È il principe ereditario dell'Egitto, e un uomo d'onore. Memnone non l'avrebbe detto se non l'avesse pensato.» Non potemmo dirci altro; ma il giorno seguente ritornai. La prima cosa che Masara mi chiese fu: «Ripeti ciò che mi ha detto Memnone». E dovetti ripetere la promessa. Dissi ad Arkoun che la salute di Masara migliorava, ma che doveva permetterle di uscire ogni giorno a passeggiare sui bastioni. «Altrimenti non potrò rispondere della sua salute.» Arkoun rifletté per un giorno intero. Masara, comunque, era una merce preziosa che aveva pagato con un carico d'argento perciò firn per dare il suo consenso. Le nostre ore d'aria quotidiane si prolungarono a poco a poco via via che le guardie si abituarono a vederci insieme. Alia fine Masara e io potemmo passeggiare per gran parte della mattinata sulle mura di Adbar Seged, parlando senza smettere mai. Masara voleva sapere tutto di Memnone, e io frugavo nella memoria in cerca di aneddoti sul suo conto. C'erano alcuni episodi che preferiva, e mi obbligava a ripeterli fino a quando li imparava a memoria, e allora mi correggeva se sbagliavo nel riferirli. Amava soprattutto il racconto della prodezza con cui aveva salvato me e Tanus dall'elefante ferito ricevendo come riconoscimento l'Oro del Valore. «Parlami della regina sua madre», chiedeva. E poi: «Parlami dell'Egitto, dei vostri dei. Parlami di quando Memnone era bambino». Tornava sempre a lui, e io ero lieto di accontentarla, perché avevo nostalgia della mia famiglia, e parlarne me la faceva sentire più vicina. Una mattina venne a cercarmi con aria angosciata. «Stanotte ho fatto un sogno spaventoso. Ho sognato che Memnone era tornato da me, ma non capivo le sue parole. Devi insegnarmi l'egizio, Taita. Cominceremo subito!» Era ansiosa d'imparare, ed era intelligente. Non ci volle molto tempo. Ben presto parlammo tra noi esclusivamente in egizio: era molto utile perché le guardie non ci capivano. Quando non parlavamo di Memnone, discutevamo i nostri piani di fuga. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
493
Naturalmente, ci avevo pensato spesso da quando eravamo arrivati ad Adbar Seged; ma era utile poter comparare le sue idee in proposito. «Anche se tu fuggissi dalla fortezza, non riusciresti mai ad attraversare le montagne senza un aiuto», mi avverti Masara. «I sentieri sono come una matassa di lana aggrovigliata. Non riusciresti a districarli. Ogni clan è in guerra con un altro. Non si Fidano degli stranieri. Ti crederebbero una spia e ti taglierebbero la gola.» «E allora che cosa dobbiamo fare?» chiesi. «Se riuscirai a fuggire, devi andare da mio padre. Ti proteggerà e ti aiuterà a tornare fra la tua gente. Dirai a Memnone dove sono, e lui verrà a salvarmi.» Lo disse con tanta fiduciosa sicurezza che non osai guardarla negli occhi. Mi resi conto che aveva costruito nella propria mente un'immagine di Memnone che non era fondata sulla realtà. Era innamorata di un dio, non di un giovane inesperto quanto lei. E il responsabile ero io, per tutto ciò che le avevo raccontato del principe. Ora non potevo ferirla e distruggere le sue speranze dicendole che quelle immagini erano infondate. «Se mi presenterò a tuo padre, il sacerdote Beni-Jon, mi crederà una spia di Arkoun e mi farà tagliare la testa», protestai, cercando di liberarmi dalla missione che Masara intendeva affidarmi. «Ti insegnerò quel che dovrai dirgli: cose che conosciamo lui e io soltanto. Ciò gli dimostrerà che sono io a mandarti.» Mi aveva messo con le spaile al muro; perciò tentai un'altra tattica. «Come potrei trovare la strada per la fortezza di tuo padre? Mi hai detto che i sentieri sono matasse aggrovigliate.» «Te lo spiegherò. Sei così intelligente: ricorderai tutto ciò che dico.» Ormai le ero affezionato quasi quanto lo ero alle mie principessine. Avrei corso qualunque rischio per proteggerla. Mi ricordava tanto la mia padrona a quell'età che non potevo negarle nulla. «Sta bene. Dimmi tutto.» E cominciammo a pianificare la fuga. Per me era un gioco al quale mi prestavo soprattutto per tener vive le sue speranze. Non contavo di trovare un modo per uscire da quella rocca. Discutemmo la possibilità di fabbricare una corda per calarci nell'abisso, anche se ogni volta che guardavo il ponte dalla terrazza della cella di Masara rabbrividivo nel vedere il vuoto. Masara incominciò a raccogliere pezzi di lana e di tela, e a nasconderli sotto il pagliericcio con l'intenzione di ricavarne una fune. Non potevo dirle che una fune abbastanza lunga e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
494
robusta per sostenere il nostro peso e portarci al fondovalle avrebbe riempito la sua cella sino al soffitto. Languimmo per due lunghi anni ad Adbar Seged e non riuscimmo a escogitare un piano di fuga; Masara, però, non si perse mai d'animo. Ogni giorno mi chiedeva: «Che cosa mi ha detto Memnone? Ripetimi la sua promessa». «Ha detto: "Tornerò a prenderti. Fatti coraggio".» «Si. Sono coraggiosa, no, Taita?» «Sei la ragazza più coraggiosa che conosca.» «Dimmi che cosa riferirai a mio padre quando lo vedrai.» Ripetevo le sue istruzioni; allora mi rivelava il suo più recente piano di fuga. «Prenderò i passerotti che vengono a mangiare sulla terrazza. Tu scriverai una lettera a mio padre per dirgli dove sono. La legheremo alle zampe dei passeri e quelli gliela porteranno.» «È più probabile che finisca nelle mani di Arkoun, che ci farà frustare e non ci permetterà di vederci.» Alla fine fuggii da Adbar Seged in groppa a un ottimo cavallo. Arkoun stava per partire per un'altra scorreria contro il re sacerdote Beni-Jon, e mi ordinò di accompagnarlo come medico personale e giocatore di dom. Mentre guidavo al passo il cavallo bendato attraverso il ponte, mi voltai e vidi Masara che mi guardava dalla terrazza. Era una figura incantevole e solitaria. Mi chiamò in egizio, e riuscii a stento ad afferrare le sue parole tra gii ululati dei vento. «Digli che lo attendo. Digli che sono stata coraggiosa.» Poi, a voce più bassa, tanto che non fui certo di aver compreso bene le sue parole: «Digli che lo amo». Il vento fece diventare fredde come ghiaccio le lacrime sulle mie guance, e mi avviai attraverso l'Amba Kamara. La notte prima della battaglia, Arkoun mi tenne alzato fino a tardi nella sua tenda. Mentre impartiva gli ultimi ordini ai comandanti, affilava la spada azzurra. Ogni tanto si radeva qualche pelo del polso con la lama lucente per provarne il filo, e annuiva soddisfatto. Alla fine la strofinò con grasso di montone chiarificato. Lo strano metallo azzurro-argenteo doveva essere ingrassato; altrimenti vi si formava sopra una polvere rossa, come se sanguinasse. La spada azzurra aveva finito per esercitare su di me lo stesso fascino che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
495
aveva su Tanus. Ogni tanto, quando era d'umore particolarmente benevolo, Arkoun mi permetteva di maneggiarla. Il peso del metallo era notevole e il filo tagliente in modo incredibile. Immaginavo quali stragi poteva compiere nelle mani di un guerriero come Tanus. Sapevo che, se mai ci fossimo incontrati di nuovo, Tanus avrebbe voluto conoscerne ogni particolare; perciò interrogavo Arkoun che non si stancava mai di vantarsene. Mi disse che la spada era stata forgiata nel cuore di un vulcano da uno degli dei d'Etiopia. Il bisnonno di Arkoun l'aveva vinta battendo il dio in una partita di dom che era durata venti giorni e venti notti. Mi sembrava tutto plausibile, a parte la vittoria nella partita. Se il bisnonno di Arkoun aveva giocato al livello del suo discendente, solo un dio molto stupido avrebbe potuto perdere contro di lui. Arkoun mi chiese che cosa pensavo del suo piano di battaglia per l'indomani. Aveva saputo che ero uno studioso di tattiche militari. Gli dissi che il suo piano era geniale. Gli etiopi avevano di tali tattiche la stessa conoscenza che avevano del dom. Naturalmente il terreno non permetteva di utilizzare al meglio i cavalli, e non avevano i carri. Però combattevano ugualmente in modo caotico. La grande strategia di Arkoun per l'indomani consisteva nel dividere le sue forze in quattro contingenti. Si sarebbero nascosti fra le rocce, sarebbero balzati fuori, avrebbero catturato qualche ostaggio, tagliato qualche gola e poi sarebbero fuggiti. «Sei uno dei più grandi generali della storia», gli dissi. «Mi piacerebbe scrivere un papiro per esaltare il tuo genio.» L'idea gli piacque e promise di fornirmi il materiale necessario non appena fossimo tornati ad Adbar Seged. Sembrava che il re sacerdote Beni-Jon fosse un comandante più o meno dello stesso livello. Incontrammo le sue forze il giorno seguente in un'ampia valle dalle pareti scoscese. Il campo di battaglia era stato scelto di comune accordo qualche mese prima, e il re Beni-Jon aveva preso posizione nella parte alta della valle prima del nostro arrivo. Ora avanzò per gridare ad Arkoun insulti e sfide da una distanza di sicurezza. Il re sacerdote Beni-Jon era un uomo magro come un bastone, con la lunga barba bianca e capelli argentei che gli arrivavano fino alla cintura. Ero troppo lontano per distinguere le sue fattezze, ma le donne mi avevano detto che da giovane era stato il più bell'uomo d'Etiopia e che aveva duecento mogli. Certe donne s'erano uccise per amor suo. Mi sembrava Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
496
evidente che fosse assai più dotato per un harem che per un campo di battaglia. Quando il re sacerdote Beni-Jon ebbe detto la sua, Arkoun si fece avanti e rispose per le rime con insulti fioriti e poetici che echeggiarono fra i dirupi e nella gola. Mi impressi nella memoria alcuni dei più pittoreschi, perché meritavano di essere tramandati. Quando finalmente Arkoun tacque, immaginai che incominciasse la battaglia; ma m'ingannavo. C'erano molti altri guerrieri di entrambe le parti che volevano parlare. Mi addormentai contro una roccia sotto il sole caldo e sorrisi fra me immaginando quanto si sarebbero divertiti Tanus e i suoi Azzurri contro quei campioni di retorica. Era già pomeriggio quando mi svegliò il clangore delle armi. Arkoun aveva scatenato il primo assalto. Uno dei suoi contingenti si lanciò all'attacco delle posizioni di Beni-Jon. I guerrieri battevano le spade contro gli scudi di rame. Poco dopo tornarono di corsa al punto di partenza senza aver inflitto o subito perdite. Segui un altro scambio d'insulti; poi toccò al re sacerdote Beni-Jon il compito di attaccare. Caricò e si ritirò con egual slancio e con risultati assai simili. Così la giornata passò, insulto contro insulto, carica contro carica e, al cader della notte, i due eserciti si ritirarono. Ci accampammo all'imboccatura della valle e Arkoun mi fece chiamare. «Che battaglia!» esclamò trionfante, quando entrai nella sua tenda. «Passeranno molti mesi prima che il re sacerdote Beni-Jon osi ripresentarsi sul campo.» «Domani non ci sarà un'altra battaglia?» chiesi. «Domani torneremo ad Adbar Seged», fu la risposta. «E tu scriverai sui tuoi rotoli un resoconto completo della mia vittoria. Prevedo che dopo questa sconfitta decisiva il re sacerdote Beni-Jon chiederà la pace.» Sette uomini di Arkoun erano stati feriti nello scontro, tutti da frecce scagliate da lontano. Estrassi le punte e li bendai. L'indomani li feci caricare sulle lettighe e mi avviai al loro fianco sulla via del ritorno. Uno era stato colpito alio stomaco e soffriva molto. Sapevo che entro una settimana sarebbe morto di cancrena, ma feci tutto il possibile per alleviargli le sofferenze e attenuare i sobbalzi della lettiga sui tratti più disagevoli del percorso. Quel pomeriggio sul tardi arrivammo a un guado che avevamo attraversato all'andata. L'avevo riconosciuto dalla descrizione che Masara mi aveva fatto della zona e del percorso che conduceva alla roccaforte del Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
497
padre. Il fiume era uno dei numerosi affluenti del Nilo che scendevano dai monti. Nei giorni precedenti era piovuto, e il livello dell'acqua s'era alzato. Incominciai la traversata a fianco della lettiga del ferito allo stomaco, che era già in delirio. A metà del guado mi resi conto che avevamo sottovalutato la potenza e l'altezza dell'acqua. La corrente investi lateralmente la lettiga e la fece deviare, costringendo anche il cavallo a girarsi, poi lo trascinò dove il fondo era più alto. Stavo aggrappato ai finimenti; e un attimo dopo io e il cavallo ci ritrovammo a nuotare, trascinati verso valle dalla verde acqua gelata. Il ferito era caduto dalla lettiga, e quando cercai di afferrarlo dovetti lasciare la presa sui finimenti. Io e il cavallo restammo separati. La testa del ferito spari sotto la superficie: ma questa volta nuotai per salvare me stesso. Mi girai sul dorso e puntai i piedi verso valle: così potevo schivare le rocce quando la corrente minacciava di mandarmi a sbattere contro di esse. Per un po' alcuni uomini di Ar-koun mi rincorsero lungo la riva; poi il fiume mi trascinò oltre un'ansa e non riuscirono a trovare un passaggio intorno alla base della rupe. Io e il cavallo restammo soli. Oltre l'ansa la forza della corrente diminuì'; potei tornare a nuoto verso il cavallo e cingergli il collo con un braccio. Per il momento ero salvo. Pensai per la prima volta alla fuga, e mi resi conto che gli dei mi avevano offerto una buona occasione. Mormorai una preghiera di ringraziamento e stringendo la criniera del cavallo lo guidai verso il centro del fiume. Eravamo discesi verso valle per una notevole distanza ed era già buio quando lo guidai a riva. Salimmo su una barena di sabbia. Calcolai che fino all'indomani mattina potevo ritenermi al sicuro dall'inseguimento. Nessuno degli uomini di Arkoun si sarebbe avventurato nella gola con quell'oscurità. Ma ero così infreddolito che tremavo irrefrenabilmente. Condussi il cavallo in un angolo riparato dal vento e mi strinsi a lui. La sua pelle bagnata fumava nella luce delia luna. A poco a poco 0 suo calore mi pervase e smisi di tremare. Quando mi fui riscaldato un po', raccolsi qualche bracciata di legna gettata a riva e, usando il metodo degli shilluk, con molta difficoltà riuscii ad accendere il fuoco. Stesi i miei indumenti ad asciugare e rimasi accovacciato accanto alle fiamme per il resto della notte. Appena fece giorno mi rivestii e montai in groppa al cavallo. Mi allontanai dal fiume perché sapevo che gli uomini di Arkoun mi avrebbero cercato lungo le rive. Due giorni dopo, seguendo le indicazioni che mi aveva dato Masara,, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
498
arrivai a uno dei villaggi montani fortificati del dominio del re sacerdote Beni-Jon. Il capo del villaggio espresse l'intenzione di tagliarmi la gola e di prendere il mio cavallo. Sfoderai tutte le mie doti di persuasore; alla fine tenne il cavallo ma promise di condurmi alla fortezza del re. Le guide che mi scortavano dal re sacerdote Beni-Jon parlavano di lui con calore affettuoso. I villaggi che attraversavamo lungo il percorso erano più puliti e più prosperi di quelli di Arkoun, le mandrie erano più grasse, i campi ben coltivati, la gente ben nutrita. E i cavalli erano magnifici. Erano così belli da farmi venire le lacrime agli occhi. Quando arrivammo finalmente in vista del castello su un'altra amba, vidi che era in condizioni migliori di quello di Arkoun, e che non era decorato da macabri trofei. Il re sacerdote Beni-Jon era veramente un uomo molto bello. I capelli e la barba d'argento gli conferivano un'aria di eccezionale dignità. La carnagione era chiara, gli occhi scuri e intelligenti. All'inizio si mostrò molto scettico nei miei confronti, ma a poco a poco cambiò atteggiamento quando gli riferii i particolari che Masara mi aveva confidato. Fu molto colpito dai messaggi d'affetto della figlia, e m'interrogò ansiosamente sulla sua salute e sulle sue condizioni. Poi i servitori mi condussero in un alloggio che, secondo i criteri degli etiopi, era sontuoso, e mi fornirono indumenti di lana nuovi per sostituire i miei stracci. Quando ebbi mangiato e mi fui riposato, i servitori mi riaccompagnarono nella cella umida e fumosa che era la sala delle udienze dei re sacerdote Beni-Jon. «Maestà, Masara è prigioniera di Arkoun da due anni», gli rammentai immediatamente. «È così giovane e tenera, e si strugge in una fetida segreta.» Ricamai un po' sui fatti, per fargli capire che era il caso di intervenire d'urgenza. «Ho cercato di raccogliere il riscatto che Arkoun chiede per mia figlia», si giustificò Beni-Jon. «Ma dovrei fondere tutti i piatti e le coppe di Aksum per mettere insieme una quantità d'argento tale da saziare la sua avidità. Inoltre, pretende grandi tratti della mia terra e dozzine dei miei villaggi più importanti. Se glieli cedessi indebolirei il mio reame e condannerei decine di migliaia di miei sudditi a vivere sotto la tirannia.» «Posso condurre il tuo esercito alla roccaforte di Adbar Seged: tu assedierai il castello e costringerai Arkoun a riconsegnarti tua figlia.» Il re sacerdote Beni-Jon sembrava sbalordito dalla mia proposta. Non Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
499
credo che avesse mai pensato a una simile possibilità: non era il modo etiope di combattere le guerre. «Conosco bene Adbar Seged, ma è inespugnabile», rispose. «Arkoun ha un esercito potentissimo. Abbiamo combattuto contro di lui molte battaglie terribili. I miei uomini sono leoni, ma non siamo mai riusciti a sconfiggerlo.» Io avevo visto all'opera i leoni di Beni-Jon, e capivo che la sua valutazione dei fatti era esatta. L'esercito che comandava non aveva speranze di assediare Adbar Seged e di liberare Masara con la forza delle armi. L'indomani mi ripresentai con una nuova proposta: «Grande imperatore di Aksum, re dei re, come tu sai, io sono egizio. La regina Lostris, reggente dell'Egitto, si trova con le sue armate alla confluenza tra i due fiumi, dove il Nilo incontra il suo gemello». Beni-Jon annui. «Lo so. Gli egizi sono entrati nel mio territorio senza il mio permesso, e ora scavano miniere nelle mie valli. Presto piomberò su di loro e li annienterò.» Questa volta fui io a restare sbalordito. Il re sacerdote Beni-Jon era informato degli scavi per la tomba del Faraone, e i nostri che vi lavoravano correvano il rischio di essere attaccati. Perciò modificai il suggerimento che intendevo rivolgergli. «La mia gente è esperta nell'arte dell'assedio e della guerra», spiegai. «E io ho una certa influenza sulla regina Lostris. Se mi rimanderai da lei sano e salvo, la convincerò ad accordarti la sua amicizia, e le sue truppe espugneranno la fortezza di Adbar Seged e libereranno tua figlia.» Anche se il re sacerdote cercò di nascondermelo, mi accorsi che la prospettiva gli era molto gradita. «E che cosa pretenderebbe la tua regina in cambio della sua amicizia?» chiese in tono diffidente. Mercanteggiammo per cinque giorni, ma alla fine raggiungemmo un accordo. «Tu permetterai alla regina Lostris di continuare le attività minerarie nella tua valle, che proclamerai area proibita. La tua gente non potrà entrarvi, pena la morte», dissi. Questo lo chiesi per la mia padrona: la tomba del Faraone sarebbe stata al sicuro dalle profanazioni. «Accetto», disse il re sacerdote. «Consegnerai alla regina Lostris duemila cavalli che sceglierò nelle tue mandrie.» I cavalli erano per me. «Mille», rispose il re. «Duemila», insistetti. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
500
«Accetto.» «Quando sarà stata liberata, la principessa Masara potrà sposare l'uomo che vorrà, e tu non glielo vieterai.» Questa richiesta era per Memnone. «È contrario alle nostre usanze», sospirò il re. «Ma accetto.» «Quando li cattureremo, Arkoun e la roccaforte di Adbar Seged verranno consegnati a te.» Il re s'illuminò e annuì vigorosamente. «Infine, noi egizi potremo tenere tutte le spoglie che toglieremo ad Arkoun, inclusa la leggendaria spada azzurra.» Questo era per Tanus. «Accetto», disse Beni-Jon. Compresi, nel vedere la sua espressione, che era certo di aver fatto un ottimo affare. Mi assegnò una scorta di cinquanta uomini, e l'indomani mi misi in viaggio per tornare a Qebui in groppa a uno splendido stallone che il re mi aveva offerto come dono di commiato. Eravamo ancora a cinque giorni di viaggio da Qebui quando vidi davanti a noi la rivelatrice nube di polvere che avanzava veloce attraverso la pianura. Poi scorsi i carri che sembravano danzare nel miraggio. Quando si avvicinarono, le colonne si disposero in formazione d'attacco al galoppo. Era uno spettacolo magnifico. Tutto era perfetto e gli spazi fra i veicoli erano esatti, come se questi ultimi fossero una collana di perle. Mi chiesi chi li comandava. Mi schermai gli occhi per vedere meglio e il cuore mi balzò nel petto quando riconobbi i cavalli del primo carro. Erano Roccia e Catena, i miei prediletti. Non riconobbi invece a prima vista il loro guidatore. Erano trascorsi quasi tre anni dall'ultima volta che avevo visto Memnone. La differenza fra diciassette e vent'anni è quella esistente fra un ragazzo e un uomo. Mi ero abituato a cavalcare con sella e staffe, alla maniera degli etiopi: perciò mi alzai sulle staffe e mi sbracciai per salutare. Vidi il carro deviare: Memnone mi aveva riconosciuto e stava lanciando la pariglia verso di me. «Memnone!» gridai. «Memnone!» La sua risposta mi fu portata dai vento. «Tata! Per il dolce latte di Iside, sei tu!» Fermò il carro, balzò dalla pedana e mi trascinò giù dal cavallo. Mi abbracciò, poi mi scostò per guardarmi. «Sei pallido e magro, Tata, e hai le ossa che sporgono. E questi, questi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
501
sono capelli grigi!» Mi tirò leggermente i capelli alle tempie. Era diventato più alto di me, snello di fianchi e ampio di spalle. La carnagione era abbronzata e lucida come l'ambra brunita, e quando rideva i muscoli spiccavano sulla gola. Portava parapolsi d'oro e l'Oro del Valore sul petto nudo. Per quanto sembrasse impossibile, era ancora più bello dell'ultima volta che l'avevo visto. Mi ricordava un leopardo agile e snello. Mi sollevò di peso sulla pedana del carro. «Prendi le redini», ordinò. «Voglio vedere se hai perso l'abilità di un tempo.» «Da che parte dobbiamo andare?» chiesi. «Verso occidente e Qebui, naturalmente. Mia madre andrà in collera se non ti porto subito da lei.» Quella notte sedemmo insieme davanti al fuoco, lontano dagli ufficiali, per poter parlare in pace. Per un po' restammo in silenzio a guardare lo sfolgorio argenteo delle stelle, poi Memnone disse: «Quando credevo di averti perduto, era come se avessi smarrito una parte di me stesso. Sei legato inestricabilmente ai primi ricordi della mia vita». Io, che sono esperto nell'uso delle parole, non riuscii a trovarne di adatte per rispondere. Restammo di nuovo in silenzio, fino a che mi posò la mano sulla spalla. «Hai rivisto la ragazza?» chiese, e, sebbene il tono fosse casuale, la sua stretta non lo era. «Quale ragazza?» chiesi per punzecchiarlo. «Quella che vedemmo al fiume, il giorno in cui restammo separati.» «C'era una ragazza?» Aggrottai la fronte come se mi sforzassi di ricordare. «Com'era?» «Il viso era un giglio scuro, la pelle aveva il colore del miele selvatico. Ho sentito che la chiamavano Masara, e il suo ricordo turba ancora oggi i miei sonni.» «Si chiama Masara Beni-Jon», dissi. «E ho passato due anni imprigionato con lei nella fortezza di Adbar Seged, dove ho imparato a volerle bene perché il suo carattere è ancora più dolce del suo viso.» Memnone mi afferrò con entrambe le mani e mi scrollò. «Parlami di lei, Tata! Dimmi tutto, senza omettere il minimo particolare.» Perciò passammo il resto della notte accanto al fuoco e parlammo di Masara. Gli dissi che per amor suo la giovane aveva imparato l'egizio, e che la promessa fatta da lui l'aveva sostenuta durante i giorni di tetra solitudine; e alla fine gli riferii il messaggio che gli aveva inviato, il messaggio che mi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
502
aveva gridato dai bastioni di Adbar Seged quando ero partito. «"Digli che sono stata coraggiosa. Digli che lo amo."» Memnone tacque a lungo e non staccò lo sguardo dalle fiamme, poi disse a voce bassa: «Com'è possibile che mi ami? Non mi conosce!» «E tu, la conosci meglio di quanto lei conosca te?» chiesi, e Memnone scosse la testa. «L'ami?» «Sì», rispose semplicemente. «E lei ti ama nello stesso modo.» «Le avevo fatto una promessa. Mi aiuterai a mantenerla, Tata?» In tutta la mia vita non ho provato una gioia paragonabile a quella che provai al mio ritorno a Qebui, quando salii a bordo del Soffio di Horus. Memnone aveva inviato un messaggero per annunciare il nostro ritorno, e tutti mi stavano aspettando. «Per le croste puzzolenti fra le dita dei piedi di Seth!» gridò Kratas. «Credevo di essermi finalmente liberato di te, vecchio briccone!» E mi strinse al petto così forte da farmi scricchiolare le costole. Tanus mi afferrò per le spalle e mi guardò per un momento negli occhi, poi sorrise. «Se non fosse stato per te, quell'etiope barbuto mi avrebbe ucciso. Gli è andata bene, comunque, perché ti ha catturato. Grazie, vecchio amico.» Mi accorsi che Tanus era invecchiato. Anche lui aveva i capelli grigi, e il volto segnato dalle intemperie cominciava a erodersi come una rupe di granito. Le mie principessine non erano più tanto piccole, ma erano sempre adorabili. Si comportavano con timidezza perché non mi ricordavano. Sgranarono gli occhi quando mi inchinai. I capelli di Bakatha erano diventati più scuri, color rame. Ero ansioso di riconquistare il suo affetto. Finalmente Tehuti mi riconobbe. «Tata!» esclamò. «Mi hai portato un regalo?» «Si, altezza», risposi. «Ti ho portato il mio cuore.» La regina mi sorrise quando mi avvicinai. Portava la corona detta nemes, con la testa aurea del cobra sulla fronte. Quando sorrise vidi che aveva perso un dente, e che quel vuoto deturpava il suo sorriso. Era un po' ingrassata, e gli affari di Stato le avevano segnato la fronte e gli angoli degli occhi con rughe sottili. Ma per me era ancora la donna più incantevole del mondo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
503
Si alzò dal trono quando m'inginocchiai davanti a lei; quella era la più grande dimostrazione del suo favore. Mi posò la mano sulla testa con un gesto carezzevole. «Sei stato lontano da noi troppo a lungo, Taita», disse a voce così bassa che la sentii appena. «Questa notte dormirai di nuovo ai piedi del mio letto.» Quella notte, quando ebbe bevuto la tazza d'infuso d'erbe che le avevo preparato e io l'ebbi avvolta in una coperta di pelliccia, mormorò mentre chiudeva gli occhi: «Posso star certa che non mi bacerai mentre dormo?» «No, maestà», risposi, e mi chinai verso di lei. Sorrise quando le sfiorai le labbra con le labbra. «Non devi abbandonarci più per tanto tempo, Taita», disse. Memnone e io avevamo studiato meticolosamente la tattica da seguire, e la mettemmo in atto con la stessa precisione che avremmo usato per una manovra con i carri. Non fu difficile convincere Tanus. Gli bruciava ancora la sconfitta subìta per mano di Arkoun. Discutemmo in sua presenza la facilità con cui la spada azzurra aveva tranciato quella di bronzo e il fatto che sicuramente l'etiope l'avrebbe ucciso se non fossi intervenuto. Tanus fremeva per l'umiliazione. Poi Memnone m'interrogò sulle origini magiche e sulle proprietà dell'arma leggendaria; e a questo punto Tanus dimenticò l'irritazione e cominciò a tempestarmi di domande. «Il re sacerdote Beni-Jon ha dichiarato che la spada azzurra sarà preda di guerra: chi riuscirà a prenderla potrà tenerla», spiegai. «Se muovessimo contro Arkoun non potremmo usare i carri in quelle valli», mormorò Memnone. «Dovremmo usare la fanteria. Credi che gli shilluk saprebbero cavarsela contro gli etiopi, nobile Tanus?» Memnone continuava a rivolgersi a Tanus in toni formali. Evidentemente durante la mia assenza non era venuto a sapere che era il suo vero padre. Quando avemmo finito di lavorarcelo, Tanus smaniava come noi di lanciarsi nell'impresa. Era dalla nostra parte quando incominciammo a far pressioni sulla regina Lostris. Fin dall'inizio, diversamente da Tanus, la mia padrona aveva compreso quanto sarebbero stati preziosi i cavalli e i carri per realizzare il sogno di tornare nel nostro Egitto. Le mostrai lo stallone che avevo avuto in dono da Beni-Jon, e indicai i suoi pregi. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
504
«Guarda le narici, maestà, guarda l'ampiezza del petto e il rapporto equilibrato fra muscoli e ossa. Gii hyksos non hanno nulla che possa reggere il confronto con i cavalli degli etiopi.» Poi le rammentai la sua promessa al Faraone morto e dissi: «Il re sacerdote Beni-Jon ti cederà la valle della tomba, e i suoi guerrieri la proteggeranno dai ladri sacrileghi. Getterà un tabù sulla valle, e gli etiopi sono molto superstiziosi. Rispetteranno la proibizione molto tempo dopo che avremo fatto ritorno a Tebe». Avevo avvertito Memnone di non parlare alla regina Lostris dei suoi interessi sentimentali per la spedizione contro Arkoun, perché così facendo non avrebbe favorito la nostra causa. Ogni madre è anche un'innamorata, e raramente si compiace di vedersi sottrarre il figlio da una donna più giovane. Nessuna donna, neppure una regina, poteva resistere al garbo e all'astuzia di noi tre, Tanus, Memnone e me. La regina Lostris diede il consenso alla spedizione contro Adbar Seged. Lasciammo i carri da guerra e da trasporto nella valle della tomba del Faraone e ci avventurammo fra le montagne. Il re sacerdote Beni-Jon aveva mandato ad attenderci una compagnia di guide, cento dei suoi uomini migliori e più fidati. Tanus aveva selezionato un'intera divisione di shilluk assetati di sangue e gli aveva promesso tutto il bestiame che sarebbero riusciti a catturare. Ognuno di loro portava arrotolato sul dorso un manto di pelli di sciacallo: non avevamo dimenticato il terribile freddo delle montagne. Come supporto avevamo tre squadre di arcieri egizi, comandate dal nobile Kratas. Il vecchio briccone, che era stato elevato al rango di aristocratico mentre io ero prigioniero ad Adbar Seged, smaniava per la voglia di combattere. Lui e i suoi uomini erano armati dei nuovi archi ricurvi, in grado di scagliare frecce a una distanza superiore di duecento passi alla gittata degli archi lunghi degli etiopi. Memnone aveva scelto un piccolo contingente dei migliori spadaccini; naturalmente tra loro figurava Remrem, come pure il nobile Aqer e Astes. Io facevo parte di questo distaccamento speciale, non per le mie doti guerresche ma semplicemente perché ero l'unico che fosse entrato nella fortezza di Adbar Seged. Hui voleva venire con noi a ogni costo; e fece di tutto per convincermi. Alla fine acconsentii, soprattutto perché avevo bisogno d'un esperto che mi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
505
aiutasse a scegliere i cavalli promessi dal re sacerdote Beni-Jon. Spiegai a Tanus e al principe quanto fosse importante muoverci rapidamente, non solo per sfruttare il fattore sorpresa ma anche perché presto sarebbe incominciato sulle montagne il periodo delle piogge. Durante il soggiorno ad Adbar Seged avevo studiato le caratteristiche del clima e delle stagioni. Se le piogge ci avessero sorpresi nelle valli sarebbero state un nemico più pericoloso dell'esercito etiope. Portammo a termine in meno d'un mese la marcia di avvicinamento all'Amba Kamara. La nostra colonna si snodava fra i passi come un cobra. Le punte bronzee delle lance degli shilluk scintillavano nel sole come le scaglie del serpente. Non incontrammo resistenza. I villaggi che attraversammo erano deserti. Gli abitanti erano fuggiti con le loro donne e le mandrie. Sebbene ogni giorno le nubi si ammassassero nere e minacciose sulle vette e la notte il tuono brontolasse, le piogge non venivano e ai guadi le acque dei fiumi erano basse. Venticinque giorni dopo la partenza giungemmo nella valle ai piedi del massiccio dell'Amba Kamara e alzammo lo sguardo verso la pista tortuosa che portava in cima. Durante i miei viaggi precedenti su e giù per la montagna avevo studiato le difese che Arkoun aveva eretto lungo quella via e che comprendevano frane artificiali e ridotte dai muri di pietra. Le indicai a Tanus, e riuscimmo a distinguere le teste lanose dei difensori che sporgevano al di sopra dei bastioni. «Il punto debole di una frana artificiale sta nel fatto che la si può sfruttare una volta sola; e i miei shilluk sono abbastanza svelti per schivare la carica di un bufalo», commentò pensosamente Tanus. Li fece salire lungo il sentiero in piccoli gruppi; e quando i difensori rimossero i cunei e fecero precipitare le pietre della frana artificiale, gli agili lancieri le evitarono con la destrezza delle capre di montagna. Quando i massi furono rotolati via, gli uomini cominciarono a salire il fianco della montagna. Balzavano di roccia in roccia e ululavano in modo tanto orribile da farmi rizzare i capelli. Costrinsero i difensori a ritirarsi fin oltre la cresta. Furono bloccati soltanto dagli arcieri di Arkoun, appostati dietro i muri delle ridotte. A questo punto Kratas condusse i suoi tiratori su per la montagna; e gli egizi, grazie alla maggiore gittata degli archi, poterono scagliare da lontano raffiche di frecce puntandole verso il cielo. Era affascinante vedere i dardi che salivano nell'aria come uno stormo di Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
506
uccelli neri e ricadevano quasi a picco sulla ridotta, in modo che il muro non offriva protezione. Udimmo le grida dei difensori, poi li vedemmo fuggire disperatamente su per il ripido pendio. Gli shilluk li inseguirono immediatamente latrando come una muta di cani da caccia. Persino dal fondovalle sentivo il loro grido di battaglia: «Kajan! Kajan! Uccidi! Uccidi!» Anche se avevo le gambe robuste e una buona riserva di fiato, stentavo a star dietro a Memnone e al resto del nostro contingente. Gli anni cominciavano a far sentire il loro peso. Indossavamo tutti lunghe vesti etiopi di lana, e portavamo i tradizionali scudi rotondi dei nostri nemici. Ma non avevamo messo sulla testa le parrucche di crini di cavallo. Sarebbe stato imprudente somigliare troppo agli etiopi quando gli shilluk erano di quell'umore. Quando finalmente arrivai sul tavoliere dell'amba, mi accorsi che Tanus stava radunando i suoi fanti. L'unico difetto degli shilluk come combattenti è che quando hanno bagnato di sangue le lance perdono la testa ed è quasi impossibile tenerli a freno. Tanus mugghiava come un elefante e agitava la frusta dorata del comando. Quando li ebbe nuovamente in pugno, gli shilluk si schierarono e avanzarono verso il primo villaggio, dove gli etiopi attendevano dietro i muri di pietra. L'ondata delle figure nere coronate dai candidi pennacchi di piume di struzzo avanzò; i difensori scagliarono una pioggia di frecce, ma gli shilluk si ripararono con i grandi scudi. Gli shilluk caricarono e alcuni etiopi gli corsero incontro brandendo le spade. Non erano privi di coraggio, ma quel modo di fare la guerra per loro era una novità. Non erano mai stati costretti ad affrontare una carica a morte. Mi soffermai abbastanza a lungo per vedere che erano impegnati a battersi, poi gridai a Memnone e ai suoi: «Le parrucche!» Ognuno di loro si calcò sulla testa la parrucca di crini neri. Le avevo confezionate con le mie mani ispirandomi al modello di bellezza degli etiopi. Con le lunghe vesti a righe e le parrucche in testa, potevamo passare per una schiera dei sudditi di Arkoun. «Di qua! Seguitemi!» gridai, e lanciai un grido di guerra etiope. Gli shilluk imitarono il mio ululato mentre aggiravamo il villaggio dove infuriavano ancora i combattimenti e corremmo disordinatamente attraverso i campi di grano. Dovevamo raggiungere la fortezza per essere a fianco di Masara e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
507
proteggerla quando Arkoun si fosse reso conto finalmente di aver perduto lo scontro. Sapevo che non avrebbe esitato a ucciderla appena avesse capito che per lui non aveva più alcun valore. Pensavo che probabilmente l'avrebbe trafitta con la spada azzurra o l'avrebbe gettata nella gola: erano i sistemi che preferiva per sbarazzarsi delle sue vittime. Mentre attraversavamo l'amba vedemmo un grande tumulto. C'erano bande di guerrieri che si aggiravano in preda alla confusione, donne che si trascinavano dietro i figli e reggevano sulla testa i loro averi, mentre urlavano di terrore e correvano qua e là come polli che sentono l'odore della volpe. Le capre belavano, i bovini muggivano e scalpitavano sollevando nubi di polvere. I mandriani erano fuggiti. Nessuno ci prestò attenzione mentre attraversavamo correndo i campi tenendoci lontani dai villaggi. Seguimmo il movimento generale in direzione di Adbar Seged, e quando ci avvicinammo al ponte naturale la folla s'infitti al punto che fummo costretti ad aprirci un varco a forza. Al ponte c'erano guardie che scacciavano i fuggiaschi con le spade e i bastoni. Le donne gridavano, imploravano di entrare e sollevavano fra le braccia i figlioletti per chiedere misericordia. Alcune cadevano nella calca e finivano calpestate. «Formate la testuggine!» Memnone diede l'ordine con calma, e il nostro contingente serrò le file e accostò gli scudi l'uno all'altro. Passammo tra la folla come uno squalo passa in mezzo a un banco di sardine. Alcuni dei fuggiaschi più deboli, sospinti in avanti, caddero nel precipizio e le loro urla accrebbero il panico. Quando arrivammo al ponte, le guardie cercarono di fermarci; ma erano assediate a tal punto dalla folla che non riuscivano a usare le armi e correvano il rischio d'essere sopraffatte e gettate nell'abisso. «Per ordine del re Arkoun, fatevi da parte!» gridai in gheez. «Parola d'ordine?» urlò il capitano delle guardie mentre lottava per restare in piedi. La folla si spostava avanti e indietro in preda al terrore. «Dovete dare la parola d'ordine.» Il capitano mi puntò contro la spada, ma Memnone la deviò bruscamente. Durante la prigionia avevo sentito ripetere mille volte la parola d'ordine perché la mia cella si affacciava sopra l'entrata. Era possibile che nel frattempo fosse cambiata, ed ero pronto a uccidere il capitano mentre gridavo: «La montagna è alta!» «Passate!» Si scostò, e noi ci districammo dalla folla, prendendo a calci e spintoni coloro che cercavano di seguirci. Corremmo sul ponte. Ero così ansioso di raggiungere Masara che notai appena il precipizio e, senza Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
508
esitare, guidai gli altri nella traversata. «Dov'è il re Arkoun?» chiesi alle guardie che bloccavano la porta. Quando esitarono, dissi: «La montagna è alta! Ho dispacci urgenti per il re. Scostatevi! Fateci passare!» Varcammo la porta aperta prima che decidessero di opporre resistenza. Seguito da dodici coraggiosi, corsi verso la scalinata esterna che portava alla terrazza superiore. C'erano due uomini armati davanti alla porta della camera di Masara, e mi rallegrai nel vederli. Avevo temuto che la ragazza fosse stata trasferita in un'altra parte del forte, ma la presenza delle guardie mi rassicurò. «Chi siete?» gridò uno di loro, e sguainò la spada. «Con quale autorità...» Non fini la frase. Io mi scostai e lasciai che Memnone e Remrem mi superassero. Si avventarono sulle guardie e le abbatterono senza lasciar loro il tempo di difendersi. La porta della camera di Masara era sbarrata dall'interno; e quando cercammo di sfondarla, sentimmo un coro di urla e di gemiti. Al terzo tentativo la porta cedette e io piombai nella stanza. Era immersa nell'oscurità, e riuscii appena a scorgere le donne raccolte in un angolo. «Masara!» la chiamai mentre mi strappavo la parrucca e lasciavo che i capelli mi ricadessero sulle spalle. Masara mi riconobbe. «Taita!» Addentò il polso della donna che cercava di trattenerla e mi corse incontro. Mi gettò le braccia al collo, poi guardò alle mie spalle e mi lasciò mentre gli occhi scuri si spalancavano e il rossore le mondava le guance. Memnone s'era tolto la parrucca; era inequivocabilmente un principe. Mi feci da parte e lasciai Masara. I due si guardarono. Non si mossero e non parlarono per un istante che mi sembrò eterno. Poi Masara disse timidamente in egizio: «Sei venuto. Hai mantenuto la promessa. Lo sapevo». Fu l'unica volta, credo, che vidi Memnone completamente smarrito. Si limitò ad annuire. Poi fui testimone di un fenomeno sorprendente; il rossore gli salì dal collo al viso, luminoso persino nel buio della stanza. Il principe ereditario dell'Egitto, figlio del Faraone, comandante della prima divisione dei carri, Migliore di Diecimila, insignito dell'Oro del Valore, era rosso in volto e impacciato come un contadino. Dietro di me una delle donne starnazzò come una gallina spaventata. Prima che potessi trattenerla, mi passò sotto il braccio e si lanciò correndo giù per la scala interna. Le sue urla riverberavano fra le pietre. «Guardie! Il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
509
nemico è entrato nell'ala orientale! Presto, venite!» Subito un suono di passi precipitosi risuonò sui gradini. Memnone si trasformò di colpo. Il giovane innamorato timido diventò un guerriero implacabile. «Abbi cura di lei, Taita. Non deve accaderle niente di male», mi gridò, e andò a piazzarsi in cima alla scala. Uccise il primo etiope con l'affondo alla gola che gli aveva insegnato Tanus, poi gli piantò il piede sul petto e, nell'attimo in cui liberava la spada, ributtò il morto all'indietro. Il cadavere piombò sugli altri uomini che stavano salendo e liberò la scala. Memnone mi guardò. «Credi che riusciremo a raggiungere la porta prima che la chiudano?» «Dobbiamo riuscirci», risposi. «È meglio ridiscendere la scala esterna.» «Remrem, precedici. Taita e la principessa, al centro. Io starò alla retroguardia», ordinò Memnone, mentre trafiggeva l'occhio di un etiope che aveva ripreso a salire. L'uomo lasciò cadere l'arma e si copri il volto con le mani. Memnone gli trapassò il petto e lo spinse indietro, sgombrando la scala per la seconda volta. «Segui Remrem!» mi gridò. «Muoviti! Via, presto!» Presi il braccio di Masara, ma non dovetti trascinarla. Si mosse prontamente e con agilità, anzi fu lei a guidarmi. La luce del soie mi investi quando uscimmo sulla terrazza e, dopo il buio della camera, mi abbagliò. Battei le palpebre e guardai al di là del ponte naturale, in direzione del ciglio dello strapiombo. Là c'erano gli shilluk di Tanus. Vedevo le piume ondeggianti, gli scudi tenuti alti. «Kajan! Uccidi!» cantavano, e le punte delle loro lance grondavano sangue. I contadini atterriti si disperdevano davanti a loro. Arrivarono rapidamente al ponte. E là c'erano due o trecento soldati di Arkoun. Avevano l'abisso alle spalle e la necessità li trasformava in eroi. Erano diventati veri leoni. Anche se molti di loro vennero spinti all'indietro e piombarono nell'abisso sottostante, gli altri respinsero la prima carica degli shilluk. In quel momento vidi Tanus esattamente dove mi aspettavo di vederlo, al centro della formazione. Il suo elmo splendeva come un faro nel mare scuro dei guerrieri shilluk. Lo vidi piegare la testa all'indietro e incominciare a cantare. Le parole selvagge volarono oltre l'abisso e giunsero fino a me, sulla terrazza. Gli uomini che gli stavano intorno si unirono al canto e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
510
avanzarono. Questa volta nulla poté resistergli. Si fecero largo fra i difensori, e Tanus fu il primo a mettere piede sul ponte naturale. Correva agilmente nonostante la mole e continuava a cantare. Gli shilluk lo seguirono sull'arco di pietra; ma era così stretto che dovevano procedere in fila per uno. Tanus era arrivato a metà del ponte quando il canto gli mori sulle labbra. Si fermò. Dalla porta di Adbar Seged, sotto di me, un uomo usci sul ponte per affrontare Tanus. Lo guardavo dall'alto e non potevo vederlo in faccia. Ma era impossibile non riconoscere l'arma che stringeva nella destra. La spada azzurra rifletteva il sole e lampeggiava come una folgore estiva. «Arkoun!» gridò Tanus. «Ti stavo cercando!» Arkoun non poteva comprendere quelle parole, ma il significato era inequivocabile. Rise nel vento mentre la barba si agitava come fumo intorno alla faccia caprina. «Ti conosco!» Fece roteare la lama azzurro-argento intorno alla testa con un sibilo intenso. «Questa volta ti ucciderò.» Avanzò sullo stretto arco di pietra correndo incontro a Tanus con passi lunghi e scattanti. Tanus cambiò la presa sull'impugnatura dello scudo di bronzo e abbassò la testa. Conosceva la potenza della lama luccicante: e capivo che non intendeva affrontarla con la sua, che era di bronzo assai meno resistente. Anche Arkoun aveva imparato a essere cauto dopo il loro precedente incontro. Dal modo in cui teneva la spada azzurra, intuii che non avrebbe tentato un altro colpo avventato di rovescio. Quando si scontrarono, Arkoun raccolse tutte le sue forze. Lo vidi tendere le spalle e scagliare in avanti il proprio peso, sfruttando l'impeto della carica per sferrare un affondo alla testa di Tanus. Tanus sollevò lo scudo, e la lama azzurra colpì al centro. L'urto avrebbe spezzato una spada di metallo inferiore, ma quella lo fendette come se fosse di pelle di capra e affondò nel bronzo giallo per metà della lunghezza. In quel momento compresi l'intenzione di Tanus. Girò lo scudo in modo che la lama restasse intrappolata. Arkoun si sforzò di liberarla, lottò e strattonò ributtandosi all'indietro: ma Tanus aveva bloccato la spada azzurra in una morsa di bronzo. Arkoun chiamò a raccolta tutte le sue forze e tirò di nuovo. Questa volta Tanus non resistette. Balzò avanti, nella direzione in cui strattonava Arkoun, e quella mossa inaspettata sbilanciò il capo etiope. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
511
Arretrò barcollando, incespicò sull'orlo dell'abisso. Per mantenere l'equilibrio fu costretto a lasciare l'impugnatura della spada, ancora piantata nello scudo. Mulinò le braccia e vacillò sul ciglio del precipizio. Tanus si spostò, appoggiò la spalla contro lo scudo e si avventò. Lo scudo urtò il petto di Arkoun e il pomello della spada azzurra lo colpi al ventre con tutta la forza di cui disponeva Tanus. Arkoun fu spinto all'indietro, nel vuoto. Roteò lentamente nell'aria e quindi precipitò con la veste che si allargava intorno a lui e la barba che sventolava come il gagliardetto di un carro nel vento della caduta. Dal punto in cui mi trovavo, lo vidi compiere l'ultimo viaggio cui aveva condannato tanti sventurati. Dal ponte fino a quando piombò sulle rocce trecento braccia più in basso, continuò a urlare, un urlo acuto sempre più lontano che si spezzò bruscamente. Tanus era rimasto solo al centro del ponte. Teneva ancora alto lo scudo con la spada affondata nel metallo. A poco a poco, il tumulto e gli scontri si smorzarono. Gli etiopi avevano visto il loro re sconfitto che precipitava nel vuoto, e si persero d'animo. Gettarono a terra le armi e invocarono pietà. Gli ufficiali egizi riuscirono a salvarne alcuni dagli shilluk, e li fecero condurre dagli intendenti degli schiavi. Ma io non badavo a tutto questo. Guardavo Tanus che era sul ponte. Si avviò verso la porta della fortezza, e gli uomini lo acclamarono e levarono le armi in segno di saluto. «Il vecchio toro è ancora temibile», rise Memnone, ammirato. Ma io non risi. Sentivo la premonizione gelida di una tragedia, come l'aria smossa dalle ali degli avvoltoi quando si posano per i loro macabri banchetti. «Tanus», mormorai. Camminava a passo lento e stentato. Abbassò lo scudo, e soltanto allora vidi la macchia che si allargava sulla sua corazza. Spinsi Masara fra le braccia di Memnone e scesi correndo la scala esterna. Le guardie etiopi alla porta cercarono di consegnarmi le loro armi, ma io passai oltre e corsi sul ponte. Tanus mi vide e sorrise. Ma era un sorriso forzato. Si fermò e le gambe gli si piegarono. Sedette pesantemente al centro del ponte. Mi lasciai cadere in ginocchio accanto a lui, e vidi lo squarcio nella corazza di pelle di coccodrillo. Sanguinava, e compresi che la spada azzurra era affondata più di quanto avessi creduto possibile. La punta era penetrata attraverso lo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
512
scudo bronzeo e la corazza di cuoio resistente e s'era piantata nel petto di Tanus. Slacciai con delicatezza le cinghie della corazza e la rimossi. Tanus e io guardammo la ferita. Aveva la stessa larghezza della lama, come una piccola bocca dalle labbra umide e rosse. A ogni respiro, una spuma scarlatta fuoriusciva dall'orrida piaga. Era una ferita al polmone, ma non avevo il coraggio di dirglielo. Nessuno può sopravvivere a un affondo del genere. «Sei ferito.» Era un commento stupido, e non osavo guardarlo in faccia. «No, vecchio mio», rispose Tanus a voce bassa. «Sono morto.» Gli shilluk formarono una barella con le lance e la coprirono con un tappeto di pelli di pecora. Vi adagiarono Tanus e lo portarono nella fortezza di Adbar Seged. Lo stendemmo sul letto del re Arkoun. Poi mandai via tutti. Misi la spada azzurra accanto a lui, e Tanus sorrise e posò la mano sull'impugnatura d'oro e di gemme. «Ho pagato a caro prezzo questo tesoro», mormorò. «Mi sarebbe piaciuto impugnarla almeno una volta sul campo di battaglia.» Non potevo offrirgli parole di speranza o di conforto. Era un veterano e aveva visto troppe ferite ai polmoni. Non potevo illuderlo. Fasciai la ferita con un tampone di lana e una benda di lino, e recitai l'incantesimo per stagnare il sangue: «Ritirati da me, creatura di Seth...» Ma Tanus se ne stava andando. Respirava a fatica, e sentivo il sangue agitarsi nei suoi polmoni come un animale nascosto nelle paludi. Preparai una pozione con il fiore del sonno, ma Tanus non la volle. «Intendo vivere ogni minuto che mi rimane», disse. «Fino all'ultimo.» «C'è qualcosa che posso fare per te?» «Hai già fatto tanto», rispose. «Ma non c'è mai fine alle richieste che tutti noi ti facciamo.» Scossi la testa. «Non c'è mai fine a ciò che vorrei darvi.» «Ecco, allora, le ultime cose che ti chiedo. Innanzi tutto, non dire mai a Memnone che sono suo padre. Dovrà credere di avere nelle vene il sangue del Faraone. Avrà bisogno di tutte le sue forze per affrontare il destino che l'attende.» «Sarebbe fiero di essere figlio tuo, più che di qualunque re.» «Giura che non glielo dirai.» «Lo giuro», risposi. Per un po', Tanus rimase in silenzio, per chiamare a Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
513
raccolta le sue forze. «C'è un'altra cosa che ti chiedo.» «Non hai che da dirlo», risposi. «Abbi cura della donna che non è mai stata mia moglie. Proteggila e aiutala come hai fatto in tutti questi anni.» «Sai bene che lo farò.» «Sì, lo so, perché l'hai sempre amata quanto me. Abbi cura di Lostris e dei nostri figli. Li affido nelle tue mani.» Chiuse gli occhi e io pensai che fosse alla fine, ma la sua forza era più grande di quella di ogni altro uomo. Dopo un po' riapri le palpebre. «Voglio vedere il principe», disse. «Ti stava aspettando sulla terrazza», risposi, e andai alla porta. Memnone era con Masara in fondo alla terrazza. Stavano vicini ma non si toccavano. Avevano espressioni gravi e parlavano a voce bassa. Alzarono gli occhi quando chiamai. Memnone venne immediatamente, e lasciò sola Masara. Andò subito da Tanus e si fermò accanto al letto. Tanus gli sorrise, ma era un sorriso incerto. Sapevo quale sforzo gli costava. «Principe, ti ho insegnato tutto ciò che so della guerra, ma non posso insegnarti nulla della vita: questo, ognuno deve impararlo da sé. Non ho altro da dirti prima di partire per questo nuovo viaggio, ma voglio ringraziarti perché ho avuto il privilegio di conoscerti e servirti.» «Per me sei stato ben più di un istruttore», rispose Memnone con voce sommessa. «Sei stato il padre che non ho conosciuto.» Tanus chiuse gli occhi e strinse le labbra. Memnone si chinò e gli strinse il braccio. «La sofferenza è un altro nemico da sconfiggere. Tu me l'hai insegnato, nobile Tanus.» Il principe credeva che fosse il dolore della ferita, ma io sapevo che a colpire il morente era stata la parola «padre». Tanus riapri gli occhi. «Ti ringrazio, principe. È bello avere il tuo aiuto in questi ultimi momenti.» «Chiamami amico, non principe.» Memnone si inginocchiò accanto al letto e continuò a stringergli il braccio. «Ho un dono per te, amico.» Il sangue nei polmoni gli soffocava la voce. Cercò a tentoni l'impugnatura della spada azzurra che stava sul materasso accanto a lui, ma non ebbe la forza di sollevarla. Prese la mano di Memnone e la posò sull'impugnatura ingemmata. «Ora è Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
514
tua», mormorò. «Penserò a te ogni volta che la sguainerò. Invocherò il tuo nome ogni volta che l'impugnerò sul campo di battaglia.» Memnone prese la spada. «Mi fai un grande onore.» Memnone si alzò e, con la spada nella destra, si piazzò nella posa classica iniziale al centro della stanza. Si portò la lama alle labbra e salutò il morente. «È così che mi hai insegnato.» E incominciò l'esercizio che Tanus gli aveva fatto apprendere quand'era ancora un bambino. Esegui le dodici parate, quindi i fendenti e gii affondi, in modo perfetto e senza fretta. La lama argentea volteggiava e saettava come un'aquila splendente, sibilava nell'aria e illuminava la camera semibuia con raggi balenanti di luce. Memnone terminò con l'affondo diritto, puntato alla gola di un nemico immaginario, poi posò la punta fra i piedi e appoggiò le mani sul pomello. «Hai imparato bene.» Tanus annui. «Non c'è altro che io possa insegnarti. Non è troppo presto per andarmene.» «Attenderò con te», disse Memnone. «No.» Tanus fece un gesto stanco. «Il tuo destino ti aspetta oltre i muri di questa stanza squallida. Devi andargli incontro senza voltarti indietro. Taita rimarrà con me. Porta via la ragazza. Torna dalla regina Lostris e preparala per l'annuncio della mia morte.» «Va' in pace, nobile Tanus.» Memnone non volle incrinare quel momento solenne con discussioni inutili. Si avvicinò al letto e baciò il padre sulle labbra. Quindi si voltò e usci dalla camera tenendo nella mano la spada azzurra. «Vai incontro alla gloria, figlio mio», mormorò Tanus, e girò il viso verso il muro di pietra. Sedetti ai piedi del letto e guardai il pavimento lurido. Non volevo veder piangere un uomo come Tanus. Mi svegliò nel cuore della notte un rullo di tamburi, i rozzi tamburi lignei degli shilluk che battevano nell'oscurità. Il suono lamentoso delle voci che cantilenavano una nenia funebre mi fece rabbrividire. La lampada accanto al letto stava per spegnersi. Gettava ombre grottesche sul soffitto, come il guizzo delle ali degli avvoltoi. Mi avvicinai lentamente, con riluttanza, al giaciglio di Tanus. Sapevo che gli shilluk non sbagliavano. Possiedono la strana capacità di intuire queste cose. Tanus era ancora con la faccia contro il muro; ma quando gli toccai la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
515
spalla sentii che era freddo. Il suo spirito indomabile se ne era andato. Restai seduto accanto a lui per il resto della notte, e lo piansi come facevano i suoi shilluk. All'alba mandai a chiamare gli imbalsamatori. Non potevo permettere che quei rozzi macellai sventrassero il mio amico. Praticai l'incisione sul fianco sinistro: non fu un lungo taglio sgraziato, come quello che usano fare i seppellitori, ma l'opera di un chirurgo. Estrassi le viscere. Quando ebbi fra le mani il grande cuore di Tanus, tremai. Mi sembrò di sentire tutta la sua forza che aveva palpitato in quel ricettacolo di carne. Con affetto e reverenza lo rimisi tra le costole e con tutta la mia arte ricucii lo squarcio nel fianco e la ferita al petto aperta dalla spada azzurra. Presi il cucchiaio di bronzo e lo inserii nella narice fino a quando lo sentii toccare la sottile parete d'osso: la trapassai con una spinta brusca ed estrassi la materia molle dalla cavità del cranio. Soltanto allora affidai Tanus agli imbalsamatori. Sebbene non ci fosse più niente che potessi fare, attesi con Tanus durante i quaranta giorni della mummificazione nel freddo, tetro castello di Adbar Seged. Quando ci ripenso ora, mi rendo conto che fu una debolezza da parte mia. Non avrei potuto sopportare il dolore della mia padrona nel momento in cui avesse appreso la notizia della morte di Tanus. Avevo lasciato che Memnone si assumesse quel compito, anche se sarebbe spettato a me. Rimasi nascosto in compagnia del morto, quando avrei dovuto essere con chi era vivo e aveva più bisogno della mia presenza. Ma sono sempre stato un vigliacco. Non c'era una bara disponibile per chiudervi il corpo mummificato di Tanus. Ne avrei fabbricata una quando, finalmente, avessimo raggiunto la flotta a Qebui. Incaricai le donne etiopi di intessere una cesta abbastanza grande. La tessitura era così fine che sembrava lino, e avrebbe resistito all'acqua come un vaso di argilla cotta. Lo portammo giù dalle montagne. I suoi shilluk reggevano senza difficoltà il peso del corpo disseccato, e si disputavano quell'onore. A volte cantavano nenie funebri mentre passavamo fra le gole e i valichi spazzati dal vento. In altri momenti intonavano gli inni di battaglia che Tanus gli aveva insegnato. Per tutto il percorso camminai a fianco della sua bara. Le piogge incominciarono sulle vette e ci infradiciarono. Inondarono i guadi che Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
516
dovemmo attraversare a nuoto, reggendoci alle corde. La notte, il feretro di canne stava nella mia tenda accanto a me. Parlavo a Tanus nell'oscurità come se potesse sentirmi e rispondere, come un tempo. Finalmente scendemmo dall'ultimo passo, e le grandi pianure si offrirono al nostro sguardo. Quando ci avvicinammo a Qebui, la mia padrona venne incontro alla mesta carovana. Era sul carro dietro al principe Memnone. Quando li vidi avvicinarsi nella prateria, ordinai ai portatori shilluk di deporre la bara di Tanus all'ombra di una gigantesca acacia delle giraffe. La regina smontò e si accostò al feretro. Vi posò la mano e chinò la testa in silenzio. Ero sconvolto nel vedere quanto era devastata dal dolore. C'erano fili grigi nei suoi capelli, e gli occhi erano spenti come se avessero perduto ogni vivacità. Compresi che il tempo della gioventù e della bellezza era finito per Lostris. Era una figura tragica e solitaria. Il suo dolore era così evidente che nessuno, guardandola, poteva dubitare che fosse una vedova. Le andai al fianco per avvertirla. «Padrona, non devi mostrare a tutti il tuo dolore. Non devono sapere che era per te qualcosa di più di un amico e del comandante del tuo esercito. Per rispetto alla sua memoria e all'onore che gli era tanto caro, ti prego di frenare le lacrime.» «Non mi restano più lacrime da piangere», mi rispose a voce bassa. «Le ho sparse tutte, ormai. Solo tu e io conosciamo la verità.» Portammo l'umile bara di canne nella stiva del Soffio di Horus, accanto al magnifico sarcofago dorato del Faraone. Rimasi a fianco della mia padrona come avevo promesso a Tanus, fino a quando le sue sofferenze si attutirono nel sordo dolore eterno che non l'avrebbe mai abbandonata. Poi, secondo i suoi ordini, tornai nella valle della tomba per dirigere il completamento del sepolcro del Faraone. In obbedienza al volere della mia padrona, scelsi un altro sito nella valle per la tomba di Tanus. Sebbene facessi del mio meglio con gli artigiani e i materiali a mia disposizione, il luogo dove avrebbe riposato Tanus avrebbe fatto la figura della casupola d'un contadino in confronto al palazzo funerario del Faraone Marnose. Un esercito di artigiani aveva lavorato tutti quegli anni per ultimare gli affreschi magnifici che decoravano i corridoi e le camere sotterranee della tomba reale. I magazzini traboccavano dei tesori che avevamo portato da Tebe. La tomba di Tanus era stata costruita in fretta. Il mio amico non aveva Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
517
accumulato tesori durante la vita dedicata al servizio dello Stato e delia corona. Avevo dipinto sulle pareti varie scene degli eventi della sua esistenza terrena, le cacce alle belve, le battaglie contro il Pretendente Rosso e gli hyksos, e l'ultimo assalto contro la fortezza di Adbar Seged. Ma non osavo mostrare le sue imprese più nobili, il suo amore per la mia padrona, la sua amicizia per me. L'amore per una regina è tradimento, l'amicizia verso uno schiavo è degradante. Quando l'ebbi completata, girai lo sguardo sulla modesta tomba dove Tanus avrebbe trascorso tutta l'eternità. E all'improvviso la collera mi assali al pensiero che non potessi far altro per lui. Ai miei occhi era più degno di qualunque Faraone che mai avesse portato la corona doppia. Quella corona avrebbe potuto essere sua, avrebbe dovuto essere sua; ma l'aveva rifiutata. Per me era un re più di quanto lo fosse mai stato il Faraone. Fu allora che mi venne l'idea. Era così oltraggiosa che la respinsi. Il solo fatto di prenderla in considerazione era un tradimento terribile, un'offesa agli uomini e agli dei. Ma durante le settimane che seguirono il pensiero continuò a riaffacciarsi nella mia mente. Dovevo molto a Tanus e ben poco al Faraone. Anche se mi fosse costato la dannazione, ero disposto a pagare il prezzo. Tanus mi aveva dato ben di più. Ma non potevo riuscirci da solo. Avevo bisogno d'aiuto. Ma a chi potevo rivolgermi? Non certo alla regina Lostris o al principe. La mia padrona era vincolata dal giuramento fatto al Faraone, e Memnone non sapeva chi era il suo vero padre: né potevo dirglielo senza venir meno alla parola che avevo dato a Tanus. C'era una sola persona che era affezionata a Tanus quasi quanto me, non temeva né gli dei né gli uomini e possedeva la forza fisica di cui io ero privo. «Per il didietro lurido di Seth!» Il nobile Kratas rise fragorosamente quando gli rivelai il mio piano. «Tu solo potevi avere un'idea simile. Sei il più grande briccone che esista al mondo Taita, ma ti sono grato perché mi offri quest'ultima occasione di rendere onore a Tanus.» Facemmo i nostri piani meticolosamente. Arrivai al punto di mandare alle guardie della stiva del Soffio di Horus un orcio di vino abbondantemente condito con la polvere dei fiore del sonno. Quando finalmente Kratas e io entrammo nella stiva dove c'erano le due bare, l'incertezza mi assali. Sentivo che il Ka del Faraone Marnose mi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
518
spiava dall'ombra e che il suo spirito malevolo mi avrebbe seguito per ogni giorno della mia vita, in cerca di vendetta per il sacrilegio. Kratas non aveva gli stessi scrupoli; si mise al lavoro con tanto impegno che più volte, durante la notte, dovetti raccomandargli di non fare tanto rumore mentre apriva i coperchi d'oro delle bare reali ed estraeva la mummia del sovrano. Tanus era stato più alto e imponente, ma per fortuna coloro che avevano fabbricato la bara avevano lasciato un po' di spazio, e il corpo del mio amico s'era rattrappito durante l'imbalsamazione. Comunque fummo costretti a togliere diversi strati di bende prima di poterlo sistemare nel grande feretro d'oro. Chiesi perdono al Faraone Marnose mentre lo calavamo nell'umile bara di legno sul cui esterno era dipinta l'effigie del Grande Leone d'Egitto. C'era spazio in abbondanza e, prima di chiudere il coperchio, vi riponemmo le bende che avevamo tolto a Tanus. Quando finirono le piogge e tornò la stagione fresca, la mia padrona ordinò che la processione funebre lasciasse Qebui per la valle della tomba. In testa procedeva la prima divisione dei carri comandata dal principe Memnone. Poi venivano cinquanta carri da trasporto carichi del tesoro funerario del Faraone Marnose. La regina vedova, Lostris, era sul carro che trasportava il feretro d'oro. Mi compiacqui nel vederla compiere quell'ultimo viaggio in compagnia dell'unico uomo che aveva amato, anche se lei credeva fosse un altro. La vidi girarsi più di una volta verso la fine della carovana che avanzava lentamente sulla pianura ed era lunga almeno cinquemila passi. Il carro in fondo alla colonna che portava la bara di legno era seguito da un gruppo di shilluk. Le loro voci splendide giungevano fino a noi, mentre cantavano l'ultimo addio. Sapevo che Tanus li avrebbe uditi e avrebbe compreso per chi era quel canto. Quando giungemmo finalmente nella valle della tomba, la bara d'oro fu collocata sotto un tabernacolo accanto all'entrata. La tenda di lino era dipinta con testi e illustrazioni del Libro dei Morti. Erano previsti due funerali separati. Il primo era il meno importante, quello del Grande Leone d'Egitto. Il secondo sarebbe stato il solenne funerale reale. Dopo tre giorni dal nostro arrivo nella valle, la bara lignea fu collocata nella tomba che avevo preparato per Tanus, e il sepolcro fu consacrato dai Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
519
sacerdoti di Horus, il dio suo protettore: quindi venne sigillato. Durante il rito la mia padrona riuscì a dominare l'angoscia e a mostrare soltanto il doveroso cordoglio di una regina per la scomparsa di un servitore fedele, sebbene sapessi che dentro di lei stava morendo qualcosa che non sarebbe mai rinato. Per tutta la notte la valle risuonò dei canti degli shilluk che piangevano un uomo diventato ormai uno dei loro dei. Ancora oggi, infatti, gridano il suo nome in battaglia. Dieci giorni dopo il primo funerale, la bara d'oro fu trasferita sulla slitta di legno e trainata nell'immensa tomba reale. Ci vollero gli sforzi di trecento schiavi per manovrare il feretro nei corridoi. Avevo progettato la tomba con tanta precisione che c'era appena una spanna tra i fianchi e il coperchio della bara e le pareti e la volta di pietra. Per frustrare i futuri ladri di tombe e quanti avessero voluto profanare il sepolcro reale, avevo costruito un labirinto di gallerie sotto la montagna. Dall'entrata, un ampio passaggio portava a una imponente cripta decorata con affreschi meravigliosi: e al centro stava un sarcofago di granito vuoto, con il coperchio gettato da una parte. I primi ladri che fossero riusciti a entrare avrebbero creduto di essere arrivati tardi e che qualcun altro avesse già saccheggiato la tomba. In realtà c'era un'altra galleria che conduceva ad angolo retto rispetto al corridoio d'entrata. L'imboccatura era camuffata come magazzino per il tesoro funerario. Fu necessario girare la bara per farla passare in una serie di falsi corridoi e di false camere sepolcrali, ognuno più ingannatore del precedente. Le camere sepolcrali erano in tutto quattro: ma tre erano destinate a restare vuote per sempre. C'erano tre porte nascoste e due pozzi verticali: in uno di questi la bara dovette essere sollevata, nell'altra calata. Ci vollero quindici giorni perché venisse trasportata attraverso il labirinto e finalmente deposta. Le pareti e il soffitto delia camera erano dipinti con tutta la genialità di cui mi hanno dotato gli dei. Non c'era uno spazio più grande dell'unghia del mio pollice che non sfolgorasse di colore e di movimento. Intorno c'erano cinque magazzini, pieni dei tesori che il Faraone Marnose aveva accumulato nel corso della vita rischiando di ridurre in miseria l'Egitto. Avevo detto alla mia padrona che anziché venire sepolto, il tesoro avrebbe dovuto essere usato per pagare le spese dell'esercito e della guerra Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
520
che avremmo dovuto combattere per cacciare il tiranno hyksos e liberare il nostro popolo e Sa nostra patria. «Il tesoro appartiene al Faraone», mi aveva risposto. «Qui a Cush abbiamo raccolto un altro tesoro in oro, avorio e schiavi, e basterà. È giusto che il divino Marnose abbia ciò che è suo. L'ho giurato.» E così il quindicesimo giorno la bara d'oro fu collocata dentro il sarcofago di pietra ricavato dalla roccia nativa. Con un sistema di funi e leve, il coperchio pesantissimo venne sollevato e calato al suo posto. La famiglia reale, i sacerdoti e i nobili entrarono nella tomba per gli ultimi riti. La mia padrona e il principe presero posto accanto al sarcofago e i sacerdoti continuarono a salmodiare incantesimi e brani del Libro dei Morti. Il fumo fuligginoso delle lampade e l'alito dei presenti viziavano l'aria in quello spazio limitato, tanto che molto presto divenne difficile respirare. Nella fioca luce gialla vidi che la mia padrona impallidiva e che gocce di sudore le imperlavano la fronte. Mi feci largo fra la gente e la raggiunsi un attimo prima che si accasciasse. La sostenni appena in tempo per evitare che battesse la testa contro il sarcofago di granito. La portammo fuori su una barella. L'aria pura delle montagne la fece rinvenire rapidamente, ma la convinsi a restare a letto nella sua tenda per il resto della giornata. Quella notte, mentre le preparavo il tonico a base di erbe, rimase distesa in silenzio; e dopo che ebbe bevuto l'infuso, mi sussurrò: «Ho avuto una sensazione straordinaria mentre ero nella tomba del Faraone. Mi è sembrato all'improvviso che Tanus mi fosse vicino. Ho sentito la sua mano sfiorarmi il viso, la sua voce sussurrarmi all'orecchio. E sono svenuta». «Ti sarà sempre vicino», dissi io. «Ne sono certa.» Oggi mi rendo conto, anche se allora non lo compresi, che Lostris incominciò a declinare dal giorno in cui seppellimmo Tanus. Aveva perduto la gioia di essere al mondo e la volontà di vivere. L'indomani ritornai nella tomba reale con i muratori e gli schiavi per sigillare le porte e i pozzi e mettere in funzione i congegni destinati a proteggere la camera sepolcrale. Mentre tornavamo indietro nel meandro dei corridoi, bloccammo le porte segrete con pietre e intonaco su cui dipingemmo affreschi. Chiudemmo le imboccature dei pozzi verticali in modo che sembrassero pavimenti e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
521
soffitti. Preparai le frane artificiali che sarebbero scattate se qualcuno avesse posto il piede su una lastra bilanciata, e riempii i pozzi verticali con una quantità di legname. Con il passare dei secoli sarebbe marcito, sarebbe stato divorato da funghi ed avrebbe emesso vapori nocivi abbastanza potenti da soffocare gli intrusi che fossero riusciti a varcare le porte segrete. Prima di procedere a queste operazioni, però, entrai nella camera sepolcrale per accommiatarmi da Tanus. Portavo un lungo fagotto avvolto in un drappo di lino. Quando mi accostai per l'ultima volta al sarcofago reale, mandai via tutti gli operai. Volevo essere l'ultimo a lasciare la tomba: poi l'ingresso sarebbe stato sigillato. Quando rimasi solo aprii il fardello ed estrassi l'arco Lanata. Tanus gli aveva dato lo stesso nome della mia padrona quando l'avevo fabbricato apposta per lui. Era l'ultimo dono da parte di noi due: lo posai sul coperchio del sarcofago. Nell'involto c'era un altro oggetto. Era una ushabti lignea che avevo intagliato con le mie mani. La posai ai piedi della bara. Quando l'avevo scolpita, avevo montato tre specchi di rame per studiare da ogni angolo i miei lineamenti e riprodurli fedelmente. La statuetta era un Taita in miniatura. Sulla base avevo inciso queste parole: «Il mio nome è Taita. Sono medico e poeta, architetto e filosofo. Sono tuo amico. Risponderò per te». Prima di lasciare la tomba, mi voltai a guardarla per l'ultima volta. «Addio, vecchio mio», dissi. «Sono più ricco perché ti ho conosciuto. Aspettaci nell'aldilà.» Impiegai molti mesi per completare i lavori della tomba reale. Via via che ci ritiravamo attraverso il labirinto, ispezionavo personalmente ogni porta sigillata e ogni congegno segreto che ci lasciavamo alle spalle. Ero solo, perché la mia padrona e il principe erano fra le montagne, in viaggio per la fortezza del re sacerdote Beni-Jon. Erano partiti con tutta la corte, per preparare le nozze tra Memnone e Masara. Hui li aveva accompagnati per scegliere i cavalli delle mandrie etiopiche che facevano parte del nostro compenso per l'espugnazione di Adbar Seged e la liberazione di Masara. Quando completai finalmente il lavoro nella tomba e i miei operai ebbero chiuso l'entrata esterna, partii anch'io per le montagne e affrontai i valichi freddi e ventosi. Non volevo perdere la festa nuziale: ma ero partito tardi. Il Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
522
completamento della tomba aveva portato via più tempo del previsto, e perciò viaggiavo alla massima velocità tollerata dai cavalli. Arrivai al palazzo del re sacerdote Beni-Jon cinque giorni prima delle nozze, e mi recai subito nella parte della fortezza dove erano ospitati la mia padrona e il suo seguito. «Non ho più sorriso dall'ultima volta che ti ho visto, Taita», mi disse nell'accogliermi. «Canta per me. Raccontami qualcuna delle tue storie. Fammi ridere.» Non era un compito facile, perché la malinconia s'era impadronita delia sua anima; e per la verità neppure io ero allegro e spensierato. Intuivo che era afflitta da qualcosa di più grave della tristezza. Molto presto rinunciammo ai tentativi di stare allegri e cominciammo a discutere di affari di Stato. Era un matrimonio d'amore, l'incontro di due anime gemelle benedetto dagli dei, per quanto riguardava i due promessi sposi: ma per tutti gli altri l'unione tra Memnone e Masara rappresentava un contratto fra due nazioni. C'erano accordi e trattati da negoziare, donazioni da decidere, accordi commerciali da stipulare fra il re dei re, sovrano di Aksum, e la reggente dell'Egitto. Come avevo previsto, all'inizio la mia padrona non era stata entusiasta all'idea che il suo unico figlio maschio sposasse una donna d'un'altra razza. «Sono diversi in tutto. Gli dei che adorano, la lingua che parlano, il colore della pelle. Vorrei che Memnone avesse scelto una ragazza della nostra gente.» «La sceglierà», le assicurai. «Sposerà cinquanta, forse cento egizie. E sposerà anche donne libiche, hurrite e hyksos. Tutte le razze e le nazioni che sottometterà negli anni futuri gli forniranno altre mogli, cushite, ittite e assire...» «Smettila, Taita!» La regina pestò un piede con un riflesso della veemenza d'un tempo. «Sai bene che cosa intendo. Gli altri saranno matrimoni di Stato. Ma questo, il primo, è l'unione di due cuori.» Era vero. La promessa d'amore che Memnone e Masara si erano scambiati nei momenti fuggevoli in riva al fiume era sbocciata come un fiore. Io avevo il privilegio di star vicino a loro in quei giorni inebrianti. Entrambi mi erano grati di ciò che avevo fatto per loro, e mi consideravano un vecchio amico, degno di fiducia indiscussa. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
523
Non condividevo i presentimenti della mia padrona. Sebbene fossero davvero diversi, i loro cuori erano dello stesso stampo. Entrambi possedevano dedizione, ardore e quel tocco di spietatezza e di crudeltà che deve avere un sovrano. Erano ben accoppiati, come due falchi. Sapevo che Masara non avrebbe distolto Memnone dal suo destino, anzi lo avrebbe incoraggiato e incitato a imprese più grandi. Ero felice del risultato dei miei sforzi di pronubo. In una giornata luminosa, sotto gli sguardi di ventimila fra uomini e donne etiopi ed egizi affollati sui pendii delle colline circostanti, Memnone e Masara, sulla riva del fiume, spezzarono l'anfora d'acqua che il sommo sacerdote di Osiride aveva attinto dal Nilo neonato. Gli sposi procedevano alla testa della nostra carovana che scendeva dai monti con la dote della principessa e i trattati e i protocolli d'amicizia stipulati fra le due nazioni. Hui e i suoi stallieri ci seguivano con una mandria di cinquemila cavalli: in parte erano il pagamento per i nostri servigi di mercenari, in parte erano la dote di Masara. Prima che raggiungessimo la confluenza dei due fiumi a Qebui, vedemmo sulle pianure davanti a noi una macchia scura come se una nube avesse gettato la sua ombra sulla savana. Ma il sole continuava a splendere nel cielo sereno. I branchi di gnu erano ritornati nella loro migrazione annuale. Qualche settimana dopo il contatto con gli gnu, lo «strangolatore giallo» si abbatté sui nostri cavalli etiopi come un'alluvione sulle valli d'alta montagna. Naturalmente Hui e io prevedevamo che la pestilenza avrebbe colpito con il ritorno degli gnu, e perciò avevamo fatto scrupolosi preparativi. Avevamo addestrato tutti gli stallieri e i guidatori dei carri perché praticassero la tracheotomia e cauterizzassero le ferite con la pece calda per impedire che sopravvenisse la cancrena mentre l'animale guariva dal morbo. Per molte settimane non potemmo dormire molto; tuttavia il contagio uccise meno di duemila dei nuovi cavalli. E prima della piena del Nilo, quelli sopravvissuti erano abbastanza forti perché potessimo addestrarli a trainare i carri. Quando venne l'inondazione i sacerdoti fecero sacrifici ai loro dei sulle rive del fiume e consultarono i presagi per l'anno che si prospettava. Alcuni leggevano nei visceri delle pecore sacrificate, altri osservavano il volo degli uccelli selvatici, altri ancora scrutavano nei recipienti pieni d'acqua del Nilo. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
524
I loro metodi di divinazione erano diversi. La regina Lostris sacrificò a Hapi. Anche se assistetti al rito e partecipai alla liturgia e ai cori dei fedeli, il mio cuore era altrove. Sono devoto a Horus, e come me lo sono il nobile Kratas e il principe Memnone. Perciò offrimmo al nostro dio oro e avorio e lo pregammo di guidarci. Non accade spesso che gli dei siano concordi tra loro più di quanto lo siano gli uomini. Ma quell'anno fu diverso. A eccezione degli dei Anubi e Thoth e della dea Nut, le schiere celesti erano unanimi. E Anubi, Thoth e Nut sono divinità minori; perciò si potevano trascurare senza pericolo i loro pareri. Tutti gli dei principali, Ammon-Ra, Osiride e Horus, Hapi e Iside e altri duecento fra grandi e piccoli, diedero lo stesso responso: «È venuto il tempo di ritornare alla sacra terra nera di Kernit». Il nobile Kratas, miscredente e cinico, insinuò che tutto il clero si fosse accordato per mettere quelle parole sulle labbra degli dei. Anche se mi dichiarai scandalizzato da tanta empietà, in segreto tendevo a condividere il sospetto di Kratas. I sacerdoti sono uomini che amano le comodità e i lussi, e da quasi due decenni erano costretti a vivere come guerrieri e vagabondi nella terra selvaggia di Cush. Credo che sognassero la bella Tebe ancor più di quanto la sognasse la mia padrona. Forse non erano stati gli dei ma gli uomini a suggerire di tornare verso il nord. La regina Lostris convocò il gran consiglio di Stato, e quando fece la proclamazione che avallava la decisione degli dei, i nobili e i sacerdoti si alzarono e l'acclamarono all'unanimità. Io gridai quanto gli altri: quella notte i miei sogni si popolarono delle visioni di Tebe e dei tempi lontani in cui Tanus, Lostris e io eravamo giovani e felici. Da quando era morto Tanus le nostre armate non avevano più un comandante supremo, e il consiglio di guerra si riunì in segreto. Naturalmente io fui escluso dall'assemblea, ma la mia padrona mi riferì tutto ciò che era stato detto. Dopo una lunga discussione, il comando fu offerto a Kratas, che si alzò, grigio e pieno di cicatrici come un vecchio leone, rise fragorosamente e disse: «Io sono un soldato, non un capo. Datemi il comando degli shilluk, e seguirò un uomo fino ai confini della morte e anche oltre». Sguainò la spada e la tese verso il principe. «Ecco l'uomo che voglio seguire! Salute a Memnone! Possa vivere in eterno!» «Possa vivere in eterno!» gridarono tutti, e la mia padrona sorrise. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
525
Avevamo pianificato esattamente quell'esito. A ventidue anni il principe Memnone fu innalzato al rango di Grande Leone d'Egitto, comandante di tutte le armate, e subito cominciò a preparare il Ritorno. Sebbene avessi soltanto il grado di comandante della cavalleria reale, facevo parte del grappo degli alti ufficiali dei principe Memnone. Spesso questi si rivolgeva a me per risolvere i problemi logistici che incontravamo. Durante il giorno io guidavo il suo carro con il gagliardetto azzurro che sventolava sopra le nostre teste mentre passavamo in rassegna i reggimenti e li guidavamo nelle esercitazioni. Molte notti, il principe, Kratas e io restavamo alzati fino a tardi a dividerci un orcio di vino e a discutere il Ritorno. In quelle occasioni la principessa Masara ci serviva personalmente e riempiva le coppe con le sue mani graziose, poi sedeva su un cuscino ai piedi di Memnone e ascoltava ogni parola. Quando i nostri sguardi s'incontravano, mi sorrideva. La nostra preoccupazione principale stava nell'evitare il pericoloso, difficile superamento delle cataratte. Erano navigabili soltanto con le inondazioni, e questo avrebbe limitato per noi i periodi di viaggio. Proposi di costruire una flotta a valle della quinta cataratta: con quella avremmo potuto trasportare il nostro esercito fino al punto di partenza per la traversata del deserto nella grande ansa. Poi, raggiunto di nuovo il fiume a monte della prima cataratta, avremmo costruito una nuova squadra di navi da battaglia e di chiatte per arrivare fino a Elefantina. Ero sicuro che se avessimo calcolato esattamente i tempi e sorpreso la flotta degli hyksos ancorata davanti a Elefantina, saremmo riusciti a infliggere un durissimo colpo ai nemici e a impadronirci delle navi che ci servivano per potenziare la nostra flotta. Dopo aver conquistato una base sicura, avremmo potuto far scendere la fanteria e i carri dalla gola della prima cataratta e attaccare gli hyksos sulle pianure alluvionali. Iniziammo la prima fase del Ritorno nella successiva stagione della piena. A Qebui, che era stata la nostra capitale per tanti anni, lasciammo soltanto una guarnigione: sarebbe diventata un semplice posto di scambio dell'impero. Le ricchezze di Cush e dell'Etiopia sarebbero affluite a Tebe tramite quel deposito. Quando il grosso della flotta parti per il nord, Hui e io, con cinquecento stallieri e uno squadrone di carri, restammo ad attendere il ritorno della migrazione degli gnu. Arrivarono all'improvviso come sempre: un'immensa Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
526
chiazza nera che si spandeva sui pascoli dorati della savana. Andammo a incontrarli con i carri. Non fu difficile catturare quegli animali sgraziati. Li inseguivamo con i carri e li prendevamo al laccio mentre gli correvamo al fianco. Gli gnu non avevano la vivacità e lo spirito dei nostri cavalli. Lottavano per pochi minuti, quindi si rassegnavano. In dieci giorni ne rinchiudemmo seimila nei recinti che avevamo costruito apposta sulla riva del Nilo. In quei recinti risultò più evidente la loro mancanza di energia e di forza. Morirono a centinaia, senza una ragione. Noi li trattavamo bene, gli davamo da mangiare e da bere come facevamo con i nostri cavalli. Ma sembrava che il loro spirito vagabondo non resistesse alla prigionia e si struggessero fino alla morte. Perdemmo più della metà degli gnu che avevamo catturato e molti altri morirono nel lungo viaggio verso nord. Due anni dopo che la regina Lostris aveva ordinato il Ritorno, la nostra gente si radunò sulla riva orientale del Nilo, a monte della quarta cataratta. Davanti a noi si stendeva la strada nel deserto che tagliava la grande ansa del fiume. Per tutto l'anno precedente le carovane dei carri da trasporto erano partite di là. Ognuna era carica di grandi giare piene d'acqua dei fiume e sigillate con tappi di legno e pece bollente. Ogni diecimila passi, lungo la strada polverosa, avevamo creato posti per l'abbeverata: in ognuno trentamila giare d'acqua erano state sepolte per impedire che scoppiassero sotto i raggi rabbiosi del sole. Eravamo quasi cinquantamila umani e altrettanti animali, inclusa la mandria di gnu. Ogni sera i carri con l'acqua partivano dal fiume per svolgere un compito che non finiva mai. Attendemmo in riva al fiume il sorgere della nuova luna che ci avrebbe illuminato la marcia nel deserto. Sebbene avessimo deciso di partire nella stagione più fresca dell'anno, il caldo e il sole sarebbero stati fatali per uomini e bestie. Perciò viaggiavamo soltanto di notte. Due giorni prima della partenza, la mia padrona disse: «Taita, da quanto tempo io e te non abbiamo trascorso una giornata a pescare sul fiume? Prepara la fiocina e un barchino». Sapevo che voleva discutere con me qualcosa d'importante. Andammo per un po' alla deriva sull'acqua verde; poi ormeggiai il barchino a un salice sulla riva opposta dove nessun indiscreto poteva ascoltarci. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
527
All'inizio parlammo dell'imminente traversata del deserto e delle prospettive del ritorno a Tebe. «Quando rivedrò le sue mura splendenti, Taita?» sospirò la regina, e io dovetti rispondere che non lo sapevo. «Se gli dei saranno generosi, potremmo arrivare a Elefantina la prossima stagione, quando la piena del Nilo porterà le nostre navi oltre la prima cataratta. Poi le nostre fortune seguiranno il ritmo del fiume, con i rischi e i trionfi della guerra.» Tuttavia non aveva voluto che l'accompagnassi sul fiume per discutere di questo. Con gli occhi pieni di lacrime, la mia padrona chiese: «Da quanto tempo Tanus ci ha lasciati, Taita?» Risposi con voce soffocata: «È partito per i prati del paradiso più di tre anni fa, padrona». «Quindi è trascorso ancora più tempo dall'ultima volta che mi sono giaciuta fra le sue braccia», mormorò la regina, e io annuii. Non capivo dove volesse andare a parare con quelle domande. «L'ho sognato quasi tutte le notti, Taita. È possibile che sia ritornato a lasciarmi nel grembo il suo seme mentre dormivo?» «Tutto è possibile», risposi prudentemente. «Abbiamo detto al popolo che Tehuti e Bakatha sono state concepite in questo modo. Ma per la verità non ho mai sentito che fosse accaduto qualcosa di simile.» Per un po' restammo in silenzio. La regina immerse la mano nell'acqua, la sollevò e guardò le gocce che le cadevano dalle dita. Alla fine parlò senza guardarmi. «Credo che avrò un altro figlio», mormorò. «La mia luna rossa è tramontata.» «Padrona», le risposi a voce bassa, «ti stai avvicinando al momento della vita in cui i fiumi del grembo incominciano a inaridirsi. Le donne egizie sono come fiori del deserto che sbocciano presto ma presto appassiscono.» La regina scosse la testa. «No, Taita, non è così. Sento la creatura che cresce dentro di me.» La fissai in silenzio. Sentii ancora una volta l'ala della tragedia che mi sfiorava e mi faceva accapponare la pelle. «Non devi chiedermi se ho conosciuto un altro uomo.» Questa volta mi guardò negli occhi con fermezza. «Sai che non è così.» «Lo so bene. Tuttavia non posso credere che tu sia stata fecondata da un fantasma, per quanto amatissimo e gradito. Forse il tuo desiderio di un altro figlio ha acceso la tua immaginazione.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
528
«Toccami il grembo, Taita», ordinò la regina. «C'è qualcosa di vivo dentro di me, e cresce di giorno in giorno.» «Lo farò questa notte, nell'intimità della tua cabina, non qui sul fiume dove qualche occhio curioso potrebbe spiarci.» La mia padrona giaceva nuda sulle lenzuola di lino. Dapprima le osservai il viso, quindi il corpo. Quando la guardavo con occhi d'uomo, mi appariva ancora incantevole; ma come medico mi accorgevo che gli anni e le fatiche di quell'esistenza in territori selvaggi avevano apportato cambiamenti crudeli. I capelli erano più argentei che neri, e il dolore e le preoccupazioni della reggenza avevano inciso il loro triste messaggio sulla sua fronte. Stava invecchiando. Il suo corpo aveva dato vita a tre creature. Ma ora il seno era vuoto, non era gonfio del latte di una nuova gravidanza. Era magra, e avrei dovuto accorgermene prima. Era una magrezza innaturale. Ma il ventre sporgeva come una sfera d'avorio, sproporzionato in confronto alle braccia e alle gambe. Le posai delicatamente le mani sul ventre, sulle striature argentee dove un tempo la pelle s'era stirata per accogliere un peso felice. Sentii la cosa dentro di lei e compresi subito che sotto le mie dita non c'era la vita, bensì la morte. Non trovavo le parole. La lasciai, uscii sul ponte e alzai lo sguardo verso le stelle. Erano fredde e remote. Indifferenti come gli dei. Era inutile invocare gli dei e le stelle. Conoscevo la cosa che stava crescendo nella mia padrona. L'avevo sentita nel corpo di altre donne. Quando erano morte, avevo aperto il loro grembo e avevo visto ciò che le aveva uccise. Era orribile e deforme, e non somigliava a una creatura umana o animale: era una sfera informe di carne rossa. Una creatura di Seth. Trascorse un lungo tempo prima che trovassi il coraggio di rientrare nella cabina. La mia padrona s'era avvolta in una veste. Era seduta sul letto e mi guardava con i grandi occhi scuri che non invecchiavano. Sembrava la bambina che avevo conosciuto un tempo. «Padrona, perché non mi hai parlato dei dolori?» le chiesi gentilmente. «Come sai che sento dolori?» mormorò. «Ho cercato di nascondertelo.» La carovana parti e si avventurò nel deserto, viaggiando al chiaro di luna sulle sabbie argentee. A volte la regina camminava al mio fianco e le due Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
529
principesse ci correvano intorno allegramente. Nei momenti in cui il dolore la tormentava, la mia padrona viaggiava sul carro che avevo attrezzato per lei. Le sedevo accanto e le tenevo la mano fino a quando la polvere del fiore del sonno operava la sua magia e la calmava. Ogni notte ci spostavamo fino a raggiungere il successivo deposito d'acqua lungo la strada tracciata dalle migliaia di veicoli che ci avevano preceduti. Durante il giorno stavamo distesi sotto il telone del carro e ci assopivamo nel caldo soffocante. Eravamo in viaggio da trenta giorni e trenta notti quando, allo spuntar del giorno, vedemmo uno spettacolo straordinario: una vela che, in mezzo al deserto, si spostava sulle sabbie verso sud. Dopo molte migliaia di passi scoprimmo come s'era creata quell'illusione. Lo scafo della nave era stato nascosto dalla riva del Nilo, e al di sotto delle dune il fiume continuava a scorrere per l'eternità. Avevamo superato la grande ansa. Il principe Memnone e i suoi alti ufficiali erano ad attenderci. La squadra delle navi nuove era ormai quasi pronta e noi avevamo visto la vela d'una di esse quando ci eravamo avvicinati al fiume. Il fasciame e gli alberi erano stati tagliati e segati nelle grandi pianure di Cush, e trasportati attraverso il deserto. C'erano tutti i carri. Hui aveva condotto i cavalli per via di terra, e i carri da trasporto li avevano provvisti di foraggio. Anche i miei gnu attendevano nei recinti sulla riva. Anche se le carovane dei grandi carri con le donne e i bambini dovevano ancora arrivare, il grosso della nostra nazione aveva compiuto la traversata. Era stata un'impresa quasi incredibile, una fatica di proporzioni divine. Soltanto uomini come Kratas, Remrem e Memnone avrebbero potuto compierla in un tempo tanto breve. Ormai soltanto la prima cataratta stava fra noi e la sacra terra d'Egitto. Proseguimmo verso il nord. La mia padrona s'imbarcò sulla nave costruita per lei e le principesse. Aveva a disposizione una cabina grande e ariosa, che avevo dotata di tutti i lussi possibili. I tendaggi erano di lana etiope ricamata, i mobili di legno d'acacia scuro intarsiato d'avorio e d'oro. Avevo decorato le paratie con immagini di fiori, uccelli e altri motivi graziosi. Come sempre, dormivo ai piedi del letto della regina. Tre notti dopo la partenza, mi svegliai nel cuore della notte. Piangeva in silenzio. Sebbene soffocasse i singhiozzi con un cuscino, mi aveva svegliato il tremito delle Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
530
sue spalle. Mi accostai immediatamente. «È tornato il dolore?» le chiesi. «Non volevo svegliarti, ma è come se avessi una spada nel ventre.» Le preparai una pozione del fiore del sonno, più carica del solito: i dolori cominciavano a trionfare anche sul potere del fiore. La regina bevve e per un po' rimase in silenzio. Poi chiese: «Non puoi togliere questa cosa dal mio corpo, Taita?» «No, padrona. Non posso.» «Allora abbracciami, Taita. Abbracciami come facevi quand'ero piccola.» Sedetti sul letto e la presi fra le braccia. La cullai. Era esile e leggera come una bambina. La cullai teneramente, e dopo un poco si addormentò. La flotta arrivò alla prima cataratta a monte di Elefantina, e attraccammo a riva in un tratto tranquillo, prima che il Nilo sentisse l'attrazione delle cascate e si precipitasse nella gola. Attendemmo che il resto dell'esercito ci raggiungesse: tutti i cavalli e i carri e le divisioni shilluk del nobile Kratas. Attendemmo che il livello del fiume salisse e ci aprisse la cataratta per permetterci di entrare in Egitto. Durante l'attesa mandammo le spie oltre la gola. Erano vestiti da contadini, sacerdoti e mercanti, e recavano merci da scambiare. Scesi con Kratas nella gola per ispezionare il passaggio. L'acqua era bassa e tutti i punti pericolosi erano scoperti. Dipingemmo sulle rocce, al di sopra della linea della massima piena, segni che indicavano i canali navigabili: in quel modo, anche quando l'acqua li avesse coperti, avremmo saputo dove stavano gli ostacoli. Il lavoro durò molte settimane; e quando ritornammo alla flotta l'esercito si era radunato. Mandammo gruppi di esploratori a cercare un percorso per i carri e i cavalli nel deserto roccioso. Non potevamo affidare un carico tanto prezioso alle acque furibonde della cataratta. Le nostre spie incominciavano a tornare da Elefantina. Arrivavano in segreto, di solito durante la notte, e ci portavano le prime notizie della nostra patria che avessimo ricevuto in tutti gli anni dell'esilio. Il re Salitis regnava ancora, ma ormai era vecchio e la sua barba era canuta. I suoi due figli erano i comandanti delie legioni hyksos. Il principe Beon comandava la fanteria, il principe Apachan i carri. Le forze degli hyksos superavano le nostre previsioni. Le spie riferirono che Apachan disponeva di dodicimila carri. Noi ne avevamo portati da Cush appena quattromila. Beon aveva quarantamila arcieri e fanti: anche Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
531
contando gli shilluk di Kratas, ne avevamo appena quindicimila. Eravamo in condizioni di forte inferiorità numerica. Ma c'erano anche notizie incoraggianti. Il grosso delle forze degli hyksos era bloccato nel Delta, e Salitis aveva fatto di Menfi la sua capitale. Avrebbe impiegato mesi per trasferire le armate a sud, fino a Tebe ed Elefantina. Non avrebbe potuto far risalire il fiume ai suoi carri fino a che la piena non fosse passata e il terreno non si fosse asciugato. C'era un solo squadrone di carri a difesa di Elefantina: cento carri in tutto, del vecchio tipo a ruote piene. A quanto pareva, gli hyksos non avevano ancora realizzato la ruota a raggi. Il principe Memnone ci espose il suo piano di battaglia. Avrebbe superato la cataratta con la piena e avrebbe conquistato Elefantina. Poi, mentre Salitis avanzava verso il sud per fermarci, avremmo marciato su Tebe e avremmo fatto insorgere la popolazione. Potevamo prevedere che Salitis ci avrebbe dato battaglia con tutto il suo esercito nelle pianure alluvionali davanti a Tebe, quando le acque dei Nilo si fossero ritirate. Potevamo sperare che nel frattempo la disparità numerica fra i due eserciti venisse ridotta in parte dalle truppe egizie che avremmo arruolato sotto i nostri stendardi. Le spie ci rivelarono che gli hyksos non sospettavano la presenza del nostro esercito liberatore tanto vicino al loro confine, e che per il primo assalto potevamo contare sul fattore sorpresa. Venimmo a sapere inoltre che Salitis aveva adottato le usanze egizie. Viveva nei nostri palazzi e adorava i nostri dei; aveva persino cambiato il nome di Sutekh in Seth e quello era, molto appropriatamente, il suo dio principale. Sebbene tutti i comandanti fossero hyksos, molti capitani e sergenti di Salitis erano stati reclutati fra gli egizi, e metà dei soldati semplici apparteneva alla nostra nazione. In gran parte dovevano essere piccini o non ancora nati al tempo del nostro esodo, e ci chiedevamo con chi si sarebbero schierati quando il principe Memnone avesse condotto il suo esercito in Egitto. Tutto era pronto. Gli esploratori avevano tracciato un percorso attraverso il deserto sulla riva occidentale, e i grossi carri per il rifornimento avevano depositato scorte di foraggio e d'acqua sufficienti per permettere ai nostri carri di raggiungere le pianure fertili della nostra patria. Le navi erano pronte per la battaglia. Saremmo partiti con la piena del Nilo; ma nel frattempo c'era un altro rituale da compiere. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
532
Salimmo sull'altura dove sorgeva ancora l'obelisco che la mia padrona aveva fatto erigere oltre due decenni prima, come un elegante indice di pietra che puntava verso l'azzurro sereno del cielo africano. La regina era troppo debole per salire il sentiero accidentato. Dieci schiavi reggevano la sua portantina; la posarono ai piedi del monumento. Lentamente, a fatica, la mia padrona si avvicinò, al braccio del principe Memnone, e alzò gli occhi verso l'iscrizione incisa nei granito. Tutta la nostra nazione la guardava... tutti coloro che erano ritornati al punto da cui eravamo partiti tanto tempo prima. La mia padrona lesse l'iscrizione. La voce era sommessa, ma ancora musicale, e giungeva fino a me, che stavo dietro le file dei potentati e dei generali. Io, la regina Lostris, reggente dell'Egitto e vedova del Faraone Marnose, ottavo di questo nome, madre del principe ereditario Memnone che regnerà sull'Alto e Basso Egitto dopo di me, ho ordinato d'innalzare questo monumento... Quando ebbe terminato di leggere, si voltò verso il suo popolo e spalancò le braccia. «Ho fatto ciò che mi era stato chiesto», disse con una voce che aveva ritrovato un po' della potenza d'un tempo. «Vi ho ricondotti al confine della vostra terra. Il mio compito è terminato, e rinuncio alla reggenza.» Tacque a lungo e per un momento il suo sguardo incontrò il mio sopra le teste dei nobili. Annuii per incoraggiarla, e la regina prosegui. «Sudditi dell'Egitto, è giusto che abbiate un vero Faraone che vi guidi negli ultimi passi del ritorno. Vi presento il divino Faraone Tamose, che un tempo era il principe ereditario Memnone. Possa egli vivere in eterno!» «Possa egli vivere in eterno!» gridarono tutti. «Possa egli vivere in eterno!» Il Faraone Tamose avanzò di fronte al suo popolo. «Possa egli vivere in eterno!» gridarono per la terza volta i presenti, e il nuovo Faraone sguainò la spada azzurra dal fodero ingemmato e salutò. Nel silenzio che segui, la sua voce echeggiò fra le cime rosse e brulle delle colline. «Accetto questo pegno sacro. Giuro sulla mia speranza di vita eterna di servire il mio popolo e la mia terra per tutta la mia esistenza. Non mi ritrarrò da questo dovere, e invoco tutti gli dei perché siano testimoni del mio giuramento.» Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
533
Venne la piena. Le acque salirono fra le rupi che sorvegliavano l'imboccatura delia gola, e il loro colore passò dal verde al grigio. La cataratta incominciò a ringhiare come una belva nella tana e la nube di spruzzi salì nel cielo, alta come le colline che fiancheggiavano il Nilo. Salii a bordo della prima nave con il nobile Kratas e il Faraone. Togliemmo gli ormeggi e ci avventurammo nella corrente. I rematori seminudi guardavano Kratas che stava a poppa e stringeva il remo timoniere nei pugni enormi. A prua, due squadre di marinai agli ordini del re stavano pronti con i remi più massicci per spingere la nave lontano dagli scogli. Io ero accanto a Kratas, con la mappa delle rapide aperta, pronto a indicare via via le giravolte del canale navigabile. Per la verità non avevo bisogno della mappa, perché l'avevo imparata a memoria e avevo piazzato uomini fidati sui lati della gola e sulle isole, che ci segnalavano con le bandiere il percorso da seguire. Quando la corrente divenne più veloce sotto il nostro scafo, lanciai un'ultima occhiata alle mie spalle e vidi il resto della squadra pronto a seguirci. Poi guardai di nuovo davanti a me, e sentii la morsa della paura attanagliarmi le viscere, tanto che fui costretto a stringere le natiche. La gola sembrava la porta dell'oltretomba. La velocità aumentò subdolamente. I rematori toccavano appena la superficie con le pale, quanto bastava per mantenere la prua puntata verso valle. Procedevamo con tanta leggerezza che ci sembrava di andare alla deriva. Solo quando guardai le rive e le vidi sfrecciare intorno a noi, mi resi conto della nostra andatura. Le porte rocciose della gola ci volavano incontro: tuttavia solo quando vidi il ghigno sul volto rude di Kratas compresi quanto fosse pericolosa la nostra impresa. Kratas sogghignava in quel modo quando vedeva la mano ossuta della morte fargli un cenno di richiamo. «Forza, bricconi!» gridò ai suoi. «Oggi farò in modo che le vostre madri siano fiere di voi, o darò molto lavoro agli imbalsamatori.» Il fiume era diviso da tre isole, e il canale navigabile si restringeva. «Puntate a tribordo verso la croce azzurra.» Cercavo di apparire disinvolto, ma in quel momento sentii il ponte inclinarsi sotto i miei piedi e mi aggrappai al parapetto. Volammo precipitosamente in una cascata d'acqua verde, e la prua della nave oscillò come impazzita. Pensai che avessimo già perso il controllo e attesi l'urto contro la roccia che avrebbe schiantato il ponte sotto i miei Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
534
piedi. Poi vidi la prua assestarsi; la croce azzurra dipinta sulla rupe era proprio davanti a noi. «A babordo, fino a quando arriveremo alla bandiera!» La mia voce era stridula. Vidi l'uomo sull'isola centrale che ci segnalava di virare, e Kratas girò il remo timoniere e gridò ai vogatori: «A destra, tutti indietro, a sinistra avanti insieme!» Il ponte s'inclinò bruscamente mentre la nave cambiava direzione. La parete rocciosa ci passò accanto in un lampo. Andavamo alla velocità di un cavallo al galoppo. Un'altra virata, e davanti a noi vedemmo le prime rapide. La roccia nera si ergeva sul nostro percorso, e le acque vi si ammucchiavano, modellandosi sulla forma dello sbarramento. Si gonfiavano in alte onde statiche, si aprivano in canali verdi, si increspavano ed esplodevano in veli bianchi attraverso i quali le rocce ringhiavano contro di noi con le zanne nere. Una morsa mi strinse lo stomaco quando balzammo oltre l'orlo e piombammo lungo la discesa. Arrivati in fondo, girammo su noi stessi come uno stelo d'erba secca in un gorgo. «Forza a sinistra!» urlò Kratas. «Tirate sino a farvi saltare le palle!» La nave si raddrizzò e puntò verso un altro varco fra le rocce. L'acqua bianca si avventò sul ponte e mi piovve negli occhi, sibilò lungo le fiancate, e le onde si levarono più alte del nostro ponte di poppa. «Per il prepuzio sbrindellato di Seth, non mi divertivo tanto da quando ho montato la mia prima agnellina!» rise Kratas, mentre la roccia si avventava su di noi come un elefante alla carica. Toccammo la roccia una volta, e la sentimmo raspare lungo il ventre della nostra nave. Il ponte sussultò sotto i nostri piedi. Avevo tanta paura che non riuscivo a urlare. Poi la squadra di Memnone usò i pali e ci liberò. Riprendemmo la discesa. Sentii dietro di noi uno schianto immane quando una delle altre navi andò a sbattere con violenza. Non osai voltarmi: dovevo studiare la prossima virata. Ma ben presto vidi i rottami e le teste degli uomini semiannegati che turbinavano nella corrente intorno a noi. Li sentivamo urlare mentre l'acqua li trascinava via e li mandava a sfracellarsi contro gli speroni rocciosi, ma non potevamo soccorrerli. La morte ci incalzava e continuavamo a correre mentre il suo lezzo ci intasava le narici. In quell'ora vissi cento vite e cento volte morii. Ma alla fine venimmo lanciati dal fondo della cataratta al corso principale del fiume. Delle ventitré navi che erano entrate nella gola, diciotto uscirono dietro di noi. Le altre Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
535
s'erano schiantate e i cadaveri dei marinai annegati scendevano sull'acqua grigia del Nilo. Non ci fu il tempo per rallegrarci di avercela fatta. La morte era in agguato sull'isola Elefantina; sulle due rive sorgevano le ben note mura e costruzioni della città. «Arcieri, preparate gli archi!» gridò da prua il re Tamose. «Issate il gagliardetto degli Azzurri! Tamburino, aumenta il ritmo alla velocità d'attacco.» La nostra squadra volò in mezzo alla massa delle navi davanti a Elefantina, quasi tutte chiatte e mercantili. Passammo oltre e andammo in cerca delie navi degli hyksos. Gli hyksos avevano selezionato marinai egizi per i loro vascelli da combattimento, perché non c'era nessuno che conoscesse meglio il fiume. Soltanto gli ufficiali erano hyksos, e in maggioranza erano a riva, a gozzovigliare nei palazzi dei piaceri. Le spie ci avevano riferito qual era il vessillo dell'ammiraglio della fiotta meridionale, una coda di rondine scarlatta e oro, così lunga che l'estremità toccava l'acqua. Puntammo verso la nave che la issava, e Memnone l'abbordò, seguito da venti uomini. «Libertà dal tiranno hyksos!» urlarono tutti. «Difendete l'Egitto!» I marinai li guardarono sbalorditi. Erano stati colti di sorpresa e quasi tutti erano inermi; le loro armi erano chiuse sottocoperta, perché gli ufficiali hyksos non si fidavano di loro. Le altre navi della nostra squadra avevano scelto un vascello nemico per ciascuna come bersaglio, e l'abbordarono con la stessa rapidità. Le reazioni degli equipaggi furono sempre le stesse. Dopo il primo momento di stupore, gridarono la domanda: «Chi siete?» E la risposta fu: «Siamo egizi, l'esercito del vero Faraone Ta-mose. Unitevi a noi, compatrioti! Cacciamo il tiranno!» I marinai si avventarono contro gli ufficiali hyksos e li sterminarono prima che potessimo raggiungerli, quindi abbracciarono i nostri e gridarono frasi di benvenuto. «Per l'Egitto!» esclamavano. «Per Tamose! Per l'Egitto e Ta-mose!» Le acclamazioni dilagarono da una nave all'altra. Gli uomini danzavano sui parapetti e si arrampicavano sugli alberi per rimuovere le bandiere degli hyksos. Forzarono le porte delle armerie e distribuirono spade e archi. Poi scesero a terra, trascinarono fuori gli hyksos dalle taverne e li fecero a pezzi fino a quando il sangue scorse per le strade e fluì nelle acque del Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
536
porto. Poi corsero alla caserma della guarnigione e attaccarono le guardie. «Per l'Egitto e Tamose!» gridavano. Alcuni ufficiali hyksos riuscirono a radunare i loro uomini e resistettero per qualche tempo. Poi Kratas e Memnone scesero a riva con i loro veterani e in meno di due ore la città fu nostra. Quasi tutti i carri degli hyksos erano rimasti abbandonati, ma mezzo squadrone stava fuggendo dalla porta orientale, lungo la strada soprelevata che attraversava i campi inondati fino a raggiungere il terreno asciutto. Avevo lasciato la nave e correvo per le viuzze che conoscevo bene verso la torre settentrionale delle mura. Sapevo che da lassù avrei potuto vedere meglio la città e la campagna circostante. Vidi con grande amarezza la fila di carri che si allontanava. Avremmo dovuto combattere più tardi contro ognuno di quelli che adesso erano in fuga. E volevo quei cavalli. Stavo per voltarmi a vedere che cosa succedeva in città sotto di me quando notai un piccolo pennacchio di polvere che saliva dalla base delle aspre colline meridionali. Mi schermai gli occhi per guardare meglio, e il mio cuore batté più forte. La nube di polvere si avvicinava rapidamente, e riuscivo a scorgere le sagome scure. «Per Horus, è Remrem!» mormorai felice. Il vecchio guerriero aveva guidato la prima divisione di carri attraverso le colline più in fretta di quanto avessi creduto possibile. Ci eravamo separati appena due giorni prima. Rimasi a osservare con orgoglio professionale mentre la prima divisione, schierata in colonne di quattro carri affiancati, si apriva in singole file. Hui e io li avevamo addestrati bene. La manovra fu eseguita alla perfezione e Remrem prese gli hyksos d'infilata. Metà dei loro veicoli era ancora sulla strada e avevo l'impressione che il comandante nemico non si fosse neppure accorto delle divisioni che stavano per piombargli sul fianco. Credo che continuasse ancora a guardarsi alle spalle. All'ultimo momento cercò di cambiare formazione per reggere la carica di Remrem, ma era troppo tardi. Avrebbe fatto meglio a fuggire. I carri di Remrem lo investirono come un'ondata e lo travolsero. Rimasi a guardare fino a quando fui certo che Remrem avesse catturato la maggior parte dei cavalli: solo allora, con un sospiro di sollievo, mi voltai e guardai la città. La popolazione liberata era impazzita per la gioia. Tutti ballavano per le Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
537
strade e sventolavano i drappi azzurri che riuscivano a trovare. L'azzurro era il colore del Faraone Tamose. Le donne si intrecciavano nastri azzurri nei capelli, gli uomini si avvolgevano in vita fusciacche azzurre e sfoggiavano bracciali dello stesso colore. C'erano ancora combattimenti isolati, ma a poco a poco gli hyksos superstiti furono uccisi o trascinati fuori degli edifici che tentavano di difendere. Fu incendiata una caserma dentro la quale c'erano ancora cento uomini. Sentii le loro urla e poco dopo mi giunse l'odore della carne umana bruciata. Era simile a quella del maiale arrosto. Vi furono molti casi di saccheggio, e alcuni cittadini fecero irruzione nelle taverne e nelle botteghe dei vinai per portar via anfore e orci. Quando un'anfora si rompeva, si gettavano carponi e bevevano il vino sparso al suolo. Vidi tre uomini inseguire una ragazza nel vicolo sotto di me. La raggiunsero, la bloccarono e le strapparono la gonna. Due la tennero ferma mentre il terzo la violentava. Non rimasi a guardare il resto della scena. Appena Memnone e Kratas ebbero stroncato l'ultima resistenza sugli hyksos si accinsero a ristabilire l'ordine in città. Squadre di soldati girarono per le strade e usarono come bastoni le aste delle lance per incutere un po' di buon senso nella folla ebbra e delirante. Memnone ordinò di strangolare sul posto coloro che venivano sorpresi a rubare e violentare, e i cadaveri furono appesi per i piedi alle porte della città. Prima di notte nella città s'era ristabilita la calma e gli uomini e le donne per bene poterono riprendere a girare per le vie senza pericolo. Memnone stabili il suo quartier generale nel palazzo del Faraone Marnose sull'isola Elefantina, che era stato la nostra residenza. Appena sbarcai, corsi al nostro vecchio alloggio nell'harem. Le stanze erano ancora arredate lussuosamente e si erano salvate dai saccheggiatori. Chi le aveva occupate aveva trattato i miei affreschi con il rispetto che meritavano. Il giardino acquatico era una profusione di piante bellissime, e i laghetti erano pieni di loti e di pesci. Il giardiniere egizio mi disse che il comandante della guarnigione hyksos, insediato in quell'alloggio, aveva ammirato molto il nostro modo di vivere e aveva cercato di imitarlo. Ringraziai gli dei. In pochi giorni restaurai le stanze e il giardino in modo che potessero accogliere di nuovo la mia padrona. Poi andai da Memnone e gli chiesi il permesso di riportare a casa la regina. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
538
Il Faraone era molto occupato a prendere saldamente in pugno il suo regno. C'erano diecimila problemi che reclamavano la sua attenzione, ma per il momento li accantonò e venne ad abbracciarmi. «Va tutto per il meglio, Tata.» «È un felice ritorno, maestà», risposi. «Ma c'è ancora molto da fare.» «Comando che, quando siamo soli, tu continui a chiamarmi Memnone.» Mi sorrise. «Ma hai ragione, c'è tanto da fare e ci resta poco tempo prima che Salitis e tutto il suo esercito marcino dal Delta per fermarci. Abbiamo vinto la scaramuccia iniziale, e le grandi battaglie ci attendono.» «C'è un dovere che mi darà grande gioia, Memnone. Ho preparato l'alloggio per la regina madre. Posso risalire il fiume e condurla a Elefantina? Ha atteso anche troppo a lungo di rimettere piede sul suolo egizio.» «Parti immediatamente, Tata», ordinò il Faraone. «E porta con te anche la regina Masara.» Il fiume era troppo in piena e la strada del deserto troppo accidentata. Cento schiavi portarono le lettighe delle due regine lungo la riva del Nilo, attraverso la gola e poi nella nostra vaile verdeggiante. Non fu un caso se il primo edificio che incontrammo dopo aver varcato il confine fu un tempietto. Avevo studiato il percorso in modo da passare di li. «Che tempio è, Taita?» chiese la mia padrona, scostando la tenda della lettiga. «È il tempio del dio Akh-Horus, mia signora. Vuoi pregare qui?» «Ti ringrazio», mormorò. Sapeva che cosa avevo fatto. L'aiutai a smontare e la sostenni mentre entravamo nell'oscurità fresca della costruzione. Pregammo insieme. Ero certo che Tanus ascoltasse le voci delle due persone che più l'avevano amato al mondo. Prima di procedere, la mia padrona mi ordinò di consegnare ai sacerdoti tutto l'oro che avevamo con noi, e promise di inviarne altro per la manutenzione e gli abbellimenti del santuario. Era esausta quando arrivammo al palazzo di Elefantina. Ogni giorno la cosa nel suo grembo ingrossava e si nutriva del suo corpo sempre più macilento. La feci adagiare su un divano sotto la barrazza del giardino acquatico, e la regina chiuse gli occhi e riposò un poco. Quando li riapri, mi sorrise dolcemente. «Un tempo eravamo felici, qui. Ma potrò rivedere Tebe prima Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
539
di morire?» Non seppi rispondere. Era inutile farle promesse che non stava a me mantenere. «Se dovessi morire prima, prometti che mi porterai là e mi costruirai una tomba sulle colline, in modo che di lassù possa vedere la mia bella città?» «Te lo prometto con tutto il cuore», risposi. Nei giorni che seguirono Aton e io ricostruimmo la nostra ragnatela di spie e d'informatori in tutto l'Alto Egitto. Molti di coloro che avevano lavorato per noi erano morti da tempo; tanti altri, però, erano ancora vivi. Con le lusinghe dell'oro e del patriottismo, reclutarono altre spie molto più giovani in ogni villaggio e in ogni città. Ben presto ci trovammo ad avere informatori persino nel palazzo del satrapo hyksos a Tebe, e altri a nord, addirittura nel Delta. Grazie a loro, venimmo a sapere quali reggimenti hyksos erano acquartierati in ogni insediamento e quali erano in marcia. Venimmo a conoscenza delle loro forze e dei nomi e delle abitudini dei rispettivi comandanti. Sapevamo con precisione il numero delle loro navi e dei loro carri; e quando la piena del Nilo cessò, potemmo seguire i movimenti verso sud di questa enorme massa di uomini e di macchine da combattimento mentre il re Salitis avanzava verso Tebe. Inviai messaggi segreti a nome del Faraone Tamose agli egizi arruolati nei reggimenti nemici per esortarli a ribellarsi. Incominciarono a filtrare attraverso le nostre linee e a portarci informazioni preziose. Molto presto il rivolo dei disertori divenne un fiume. Due reggimenti di arcieri si presentarono in armi sventolando il vessillo azzurro e cantando: «Egitto e Tamose!» Gli equipaggi di cento navi da guerra si ammutinarono e uccisero gli ufficiali hyksos. Quando risalirono il fiume per raggiungerci, spingevano davanti a loro una flotta di chiatte che avevano catturato nel porto di Tebe, cariche di grano e olio, sale, lino e legname, tutti prodotti indispensabili per la guerra. Nel frattempo le nostre forze avevano finito di superare la cataratta e s'erano attestate intorno alla città. Restava solo la piccola mandria di gnu domestici, che avevo tenuto per ultima. Dal mio posto di vedetta nella torre settentrionale potevo scorgere i cavalli schierati per migliaia di passi lungo le due rive, e il fumo dei fuochi da bivacco degli accampamenti colorava l'aria d'azzurro. Diventavamo ogni giorno più forti e tutto l'Egitto era in preda al fermento dell'attesa. L'aroma inebriante della liberazione profumava ogni respiro. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
540
Kernit era una nazione sul punto di rinascere. Tutti cantavano inni patriottici nelle strade e nelle taverne, e le prostitute e i mercanti di vino facevano ottimi affari. Aton e io, sempre alle prese con le mappe e i dispacci segreti, vedevamo affiorare un quadro diverso. Vedevamo il gigante hyksos che si svegliava e tendeva verso di noi il pugno armato. Da Menfi e da tutte le città del Delta erano in marcia i reggimenti del re Salitis. Ogni strada era affollata dei suoi carri, il fiume era popolato dalle sue navi, e tutti affluivano verso Tebe. Attesi fino a quando seppi che il principe Apachan, comandante dei carri hyksos, aveva raggiunto Tebe e si era accampato davanti alle mura della città con tutti i suoi veicoli e i suoi cavalli. Allora mi presentai al consiglio di guerra del Faraone Tamose. «Maestà, sono venuto a riferire che ora il nemico ha centoventimila cavalli e dodicimila carri ammassati a Tebe. Entro due mesi, il Nilo scenderà tanto da permettere ad Apachan d'incominciare l'avanzata decisiva.» Persino Kratas aveva un'aria grave. «Ci siamo trovati a combattere in condizioni ancora più sfavorevoli», esordi, ma il re l'interruppe. «Mi accorgo dalla sua espressione che il comandante della cavalleria reale ha altro da dirci. È così, Taita?» «Il Faraone ha sempre ragione», risposi. «Ti chiedo il permesso di far scendere i miei gnu dalla cataratta.» Kratas rise. «Per la testa pelata di Seth! Taita, hai intenzione di muovere contro gli hyksos in groppa a una di quelle bestie ridicole?» Risi con lui. Il suo umorismo aveva la stessa sottigliezza di quello dei selvaggi shilluk al suo comando. L'indomani mattina Hui e io risalimmo il fiume per andare a prendere gli gnu. Ne erano rimasti in vita appena trecento, su seimila che erano all'inizio, ma erano miti e ci venivano a mangiare in mano. Li facemmo partire ad andatura tranquilla per non indebolirli ulteriormente. I cavalli che Remrem aveva catturato nella prima, breve battaglia con i carri degli hyksos in fuga erano stati tenuti separati per mio ordine dai nostri cavalli che avevamo condotto con noi da Cush. Hui e io portammo gli gnu nello stesso pascolo, e dopo l'inquietudine iniziale tutti gli animali presero a brucare tranquillamente insieme. Quella notte chiudemmo gli gnu e i cavalli degli hyksos nello stesso recinto. Lasciai Hui a vegliare su di loro e tornai al palazzo sull'isola Elefantina. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
541
Devo confessare che durante i giorni che seguirono vi furono grandi incertezze e preoccupazioni. Avevo una grande fiducia nell'esito della mia astuzia che, dopotutto, dipendeva da un evento naturale non molto comprensibile. In caso di fallimento, ci saremmo trovati di fronte alla furia del nemico che era almeno quattro volte più numeroso di noi. Avevo lavorato con Aton fino a tardi e mi ero addormentato sui miei papiri nella biblioteca del palazzo quando mi sentii scuotere bruscamente mentre Hui mi gridava all'orecchio: «Sbrigati, vecchio fannullone! Svegliati! Ho qualcosa da mostrarti!» Avevo portato i cavalli all'imbarcadero. Li raggiungemmo appena il traghetto ci portò a terra, e montammo. Galoppammo sotto il chiaro di luna lungo la riva del fiume, e arrivammo alle postazioni dei cavalli con i nostri animali coperti di sudore. Gli stallieri avevano acceso le lampade e in quella fioca luce gialla lavoravano nel recinto. Sette dei cavalli degli hyksos erano già ammalati, e il pus giallo gli colava dalla bocca e dalle narici. Gli stallieri gli praticavano la tracheotomia e inserivano le canne cave per impedire che soffocassero. «Ha funzionato!» gridò Hui. Mi abbracciò e mi trascinò in un passo di danza. «Lo "strangolatore giallo"! Ha funzionato! Ha funzionato!» «L'idea è stata mia, no?» ribattei con tutta la dignità che mi consentiva la sua frenesia. «Era logico che funzionasse.» Da settimane le chiatte erano ormeggiate a riva, in attesa di quel giorno. Caricammo tutti i cavalli che ancora si reggevano. Lasciammo gli gnu nei recinto. Sarebbe stato troppo difficile spiegare la loro presenza, là dove eravamo diretti. Con ognuna delle navi catturate agli hyksos che trainava ognuna delle chiatte, ci affidammo alla corrente e procedemmo verso il nord. Con cinquanta remi per lato e il vento e la corrente in favore, ci avviammo a velocità sostenuta verso Tebe per consegnare il nostro dono al principe Apachan. Subito dopo aver superato Kom-Ombo ammainammo la bandiera azzurra e issammo quelle che avevamo preso agli hyksos. Quasi tutti i membri degli equipaggi delle navi erano nati sotto il dominio degli hyksos; alcuni erano di discendenza mista e parlavano alla perfezione la lingua degli invasori. La seconda notte dopo essere passati da Kom-Ombo fummo fermati da una nave degli hyksos, che si affiancò a noi e mandò un gruppo a ispezionare il nostro carico. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
542
«Cavalli per i carri del principe Apachan», spiegò il capitano. Suo padre era hyksos, sua madre una nobile egizia. Aveva un comportamento naturale e credenziali convincenti. Dopo un'ispezione frettolosa ci lasciarono passare. Fummo fermati altre due volte prima di arrivare a Tebe, e ogni volta il capitano riuscì a ingannare gli ufficiali hyksos. La mia preoccupazione più grande, adesso, era causata dalle condizioni dei cavalli. Nonostante i nostri sforzi, incominciavano a morire e metà di quelli ancora vivi erano in uno stato pietoso. Gettammo nel fiume i cadaveri e continuammo il viaggio verso il nord. Il mio piano iniziale era vendere i cavalli ai quartiermastri hyksos nel porto di Tebe; ma nessuno avrebbe degnato di un'occhiata quegli animali, se fosse stato un intenditore. Hui e io optammo per un'altra soluzione. Calcolammo l'ultima tappa del viaggio in modo da arrivare a Tebe al tramonto. Mi si strinse il cuore quando riconobbi tutti i luoghi dei miei ricordi. Le mura della cittadella splendevano rosee negli ultimi raggi del sole. Le tre torri eleganti che avevo costruito per il nobile Intef puntavano ancora verso il cielo e venivano chiamate le Dita di Horus. Il palazzo di Memnone, che avevo lasciato incompiuto sulla riva occidentale, era stato ricostruito dagli hyksos, e persino io dovetti ammettere che l'influenza asiatica era abbastanza gradevole. In quella luce le torri avevano un aspetto esotico e misterioso. Avrei desiderato che la mia padrona fosse con me a condividere quei momento, sognato da entrambi per più di metà della nostra vita. Nella luce morente riuscivamo a distinguere l'immensa quantità di uomini, cavalli, carri da trasporto che stavano davanti alle mura. Sebbene avessi ricevuto segnalazioni precise, non ero riuscito a immaginare una simile moltitudine. Mi sentii scoraggiato quando li guardai e ricordai il piccolo, valoroso esercito che avevo lasciato a Elefantina. Avremmo avuto bisogno della benevolenza degli dei e di molta fortuna per trionfare contro una simile potenza. Mentre l'ultima luce svaniva nella notte, i fuochi si accesero e brillarono sulla pianura come una distesa di stelle. Erano innumerevoli e si estendevano a perdita d'occhio. Quando ci avvicinammo, sentimmo l'odore. Un esercito ha un odore particolare, un miscuglio di molti sentori, il letame che brucia, il cibo che cuoce, il profumo del fieno appena tagliato, il pungente odore dei cavalli, il puzzo degli escrementi umani nelle latrine, del cuoio e della pece e del sudore equino, della segatura e della birra acida. Ma soprattutto è l'odore Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
543
degli uomini, decine di migliaia di uomini che vivono insieme nelle tende e nelle casupole. Proseguimmo. I suoni giungevano fino alla nostra nave attraverso le acque illuminate dalle stelle: gli sbuffi e i nitriti dei cavalli, il suono dei magli dei fabbri che battevano sulle incudini per forgiare lame e punte di lancia, i richiami delle sentinelle, i canti, le discussioni e le risate degli uomini. Stavo a fianco del capitano sul ponte della prima nave e lo guidavo verso la riva orientale. Ricordavo il molo dei mercanti di legname, fuori delle mura. Se c'era ancora, sarebbe stato il posto migliore per far sbarcare la nostra mandria. Individuai l'entrata del molo, e avanzammo a remi. Il molo era come lo ricordavo. Quando accostammo, il comandante del porto sali a bordo e chiese di vedere i nostri documenti e il permesso di commerciare. M'inchinai e sorrisi ossequiosamente. «Nobilissimo signore, c'è stato un incidente terribile. Il vento mi ha strappato di mano le licenze. Senza dubbio è stato uno scherzo di Seth.» Il funzionario si gonfiò come una rana-toro arrabbiata, poi si calmò quando gli misi nella mano grassa un pesante anello d'oro. Addentò il metallo per controllarlo e se ne andò sorridendo. Mandai a terra uno degli stallieri a spegnere le torce che illuminavano il molo. Non volevo che occhi curiosi vedessero le condizioni dei cavalli che portavamo a riva. Alcuni erano troppo deboli per alzarsi, altri barcollavano e ansimavano e perdevano muco dalla bocca e dalle narici. Fummo costretti a mettergli la cavezza per farli scendere sul molo. Alla fine erano soltanto cento, quelli abbastanza forti per camminare. Li conducemmo lungo la pista dei carri da trasporto in direzione del luogo dove le spie ci avevano comunicato che si trovavano i cavalli. Ci avevano fornito anche la parola d'ordine della prima divisione dei carri degli hyksos, e quelli di noi che conoscevano la lingua risposero alle richieste delle sentinelle. Conducemmo al passo i nostri cavalli attraverso l'accampamento nemico, e incominciammo a lasciarli liberi di vagare fra le linee di tutto il campo degli hyksos. Ci muovevamo con tanta naturalezza che nessuno si mise in allarme. Parlavamo e scherzavamo con gli stallieri e gli addestratori nemici che incontravamo lungo il percorso. Quando a oriente apparvero i primi segni dell'alba, tornammo al molo dei Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
544
mercanti di legname dove eravamo sbarcati. Una delle nostre navi era rimasta ad attenderci mentre il resto della flottiglia era tornato verso sud subito dopo aver scaricato i cavalli ammalati. Salimmo a bordo e, anche se Hui e gli stallieri si gettarono esausti sul ponte, io mi misi al parapetto di poppa per guardare le mura della mia bella Tebe che si allontanavano dietro di noi, inondate dalla luce pura dell'alba. Dieci giorni dopo entrammo nel porto di Elefantina; e dopo aver fatto rapporto al Faraone Tamose, mi recai subito al giardino acquatico dell'harem. La mia padrona era sdraiata all'ombra della barrazza. Era pallida e così magra che mi tremavano le mani quando m'inchinai. Pianse nel vedermi. «Mi sei mancato, Taita. Ci resta così poco tempo da trascorrere insieme.» Le acque del Nilo incominciarono ad abbassarsi e i campi riaffiorarono, lucidi e neri sotto uno spesso strato di fango. Le strade si asciugarono e aprirono il passaggio verso nord. Presto sarebbe venuto il tempo per l'aratro e il tempo per la guerra. Aton e io attendevamo con ansia e studiavamo tutti i rapporti che le spie ci inviavano dal nord. Finalmente giunse l'informazione che attendevamo. La notizia fu portata da una feluca che era giunta volando sulle ali del vento del nord. Attraccò durante il terzo turno di guardia della notte, ma il messaggero trovò Aton e me ancora intenti al lavoro nella luce di una lampada. Presi il foglio strappato di papiro e corsi negli appartamenti reali. Le guardie avevano l'ordine di lasciarmi passare a qualunque ora, ma la regina Masara mi fermò sulla soglia della camera da letto del re. «Non posso permetterti di svegliarlo, Taita. È esausto. È la prima notte che riesce a dormire ininterrottamente in un mese.» «Devo vederlo, maestà. È un suo ordine preciso.» Stavamo ancora discutendo quando una voce profonda chiamò dall'interno. «Sei tu, Tata?» La tenda si scostò e il re apparve davanti a me, nudo in tutto il suo splendore. Era un uomo come ne avevo visto pochi altri, snello e solido come la lama della spada azzurra, maestoso in tutte le parti virili, tanto che quando lo guardavo mi sentivo ancora più consapevole della mia mutilazione. «Che cos'è successo, Tata?» «Dispacci dal nord, dal campo degli hyksos. Una pestilenza terribile ha Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
545
colpito i cavalli. Metà sono ammalati, e altre migliaia vengono colpiti dal morbo ogni giorno.» «Sei un mago, Tata. E noi che ridevamo di te e dei tuoi gnu!» Mi strinse le mani sulle spalle e mi guardò negli occhi. «Sei pronto a correre con me incontro alla gloria?» «Sono pronto, Faraone.» «Allora aggioga Roccia e Catena, e innalza il vessillo azzurro sul mio carro. Torniamo a Tebe.» Finalmente eravamo davanti alla città dalle cento porte con quattro divisioni di carri e trentamila fanti. L'esercito del re Salitis stava davanti a noi: ma al di là di quella moltitudine le Dita di Horus ci chiamavano e le mura di Tebe splendevano d'un fulgore madreperlaceo nella luce dell'alba. L'esercito degli hyksos era spiegato davanti a noi, come un gigantesco pitone, colonna dopo colonna, fila dopo fila. Le punte di lancia scintillavano e gli elmi dorati degli ufficiali riflettevano la luce del sole. «Dove sono Apachan e i suoi carri?» chiese il re. Guardai il Dito di Horus più vicino al fiume. Dovetti aguzzare gii occhi per distinguere i piccoli vessilli colorati che sventolavano in cima alla torre. «Apachan ha cinque divisioni al centro e altre sei di riserva. Sono nascoste oltre le mura.» Stavo leggendo i segnali fatti con le bandiere dalla spia che avevo appostato sulla più alta delle tre torri. Sapevo che da lassù poteva vedere bene il campo di battaglia. «Sono appena undici divisioni, Tata», sbuffò il re. «Sappiamo che ne ha venti. Dove sono le altre?» «Lo "strangolatore giallo"», risposi. «Apachan ha messo in campo tutti i cavalli ancora in grado di reggersi.» «Per Horus, spero che tu abbia ragione. Spero che Apachan non ci prepari una sorpresa.» Mi toccò la spalla. «I dadi sono nel bussolotto, Tata. Ormai è troppo tardi per cambiarli. Dobbiamo giocare con ciò che ci hanno dato gli dei. Avanti, passiamo in rassegna i nostri.» Presi le redini e feci uscire il carro davanti al nostro esercito. Il re si mostrava alle sue truppe per incoraggiarle e rafforzare la loro volontà. Guidai i cavalli lungo lo schieramento. Roccia e Catena erano così lucidi che i loro manti brillavano sotto il sole come rame levigato. Il carro era rivestito d'una sottile foglia d'oro, l'unica concessione che avevo fatto perché volevo che fosse leggero il più possibile. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
546
L'oro era stato battuto fino a renderlo più sottile d'un foglio di papiro, e aggiungeva meno di cento deben al peso complessivo del veicolo ma offriva uno spettacolo abbagliante. Gli amici e i nemici che l'avessero visto avrebbero compreso che era il carro del Faraone e si sarebbero sentiti rincuorati o atterriti. In cima all'asta di bambù il gagliardetto azzurro ondeggiava nella brezza sopra le nostre teste, e gli uomini acclamavano mentre li passavamo in rassegna. Il giorno che avevamo lasciato Qebui per iniziare il Ritorno avevo giurato di non tagliarmi i capelli fino a quando avessi sacrificato nel tempio di Horus, nel centro di Tebe. Ora i capelli mi arrivavano alla cintura, e per nascondere le ciocche grigie le avevo tinte con l'henné importato dalle terre al di là del fiume Indo: era una criniera d'oro rosso che faceva spiccare la mia bellezza. Indossavo un semplice gonnellino inamidato di lino candido e portavo sul petto l'Oro del Valore. Non volevo mettere in ombra lo splendore del giovane Faraone, e perciò non portavo il trucco né altri ornamenti. Passammo davanti ai lancieri shilluk: i magnifici, sanguinari selvaggi erano la roccia che ancorava le nostre linee. Ci acclamarono: «Kajan! Tanus! Kajan! Tamose!» I pennacchi di struzzo ondeggiavano bianchi come la spuma del Nilo nelle cataratte mentre alzavano le lance in segno di saluto. Vidi il nobile Kratas in mezzo a loro. Mi gridò qualcosa, e le sue parole si persero nel ruggito di diecimila voci, ma lessi le sue labbra. «Stasera tu e io ci ubriacheremo a Tebe, vecchio briccone!» Gli shilluk erano schierati in profondità, reggimento dietro reggimento. Kratas li aveva addestrati senza sosta nelle tattiche che l'avevo aiutato a perfezionare per affrontare i carri. Oltre alle lunghe lance, ognuno di loro portava un fascio di giavellotti e una fionda di legno e cuoio per lanciarli con maggiore potenza. Avevano piantato in terra i pali appuntiti per formare uno sbarramento. I carri degli hyksos avrebbero dovuto sfondarlo per raggiungerli. Gli arcieri egizi s'erano schierati dietro di loro, pronti ad avanzare e a ritirarsi, secondo la tattica dettata dall'andamento della battaglia. Levarono in alto gli archi ricurvi e salutarono il Faraone. «Tamose! Egitto e Tamose!» Il Faraone portava la corona azzurra con il cerchio d'oro dell'ureo sulla fronte, le teste affiancate dell'avvoltoio e del cobra, i simboli dei due regni, con gli occhi di gemme scintillanti. Il Faraone ricambiò il saluto levando in aito la spada azzurra. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
547
Girammo intorno al fianco sinistro dello schieramento e, prima che tornassimo indietro, Memnone mi fermò posandomi una mano sulla spalla. Per qualche istante ci voltammo a guardare in direzione del campo. Gli hyksos si stavano muovendo. La loro prima linea era lunga il doppio della nostra. «Cito da un tuo trattato, Tata», disse il re. «Una difesa circospetta fino a quando il nemico s'impegna, quindi l'attacco rapido e audace.» «Hai ricordato bene la lezione, sire.» «È certo che verremo aggirati sui fianchi e che Apachan metterà subito in azione le sue prime divisioni di carri.» «Sono d'accordo, Mem.» «Ma noi sappiamo che cosa dobbiamo fare, no, Tata?» Mi batté la mano sulla spalla e tornammo indietro per raggiungere i nostri carri che stavano alla retroguardia. Remrem comandava la prima divisione, Astes la seconda, il nobile Aqer la terza. Promosso da poco al rango di Migliore di Diecimila, Hui comandava la quarta divisione. Due reggimenti di shilluk proteggevano le salmerie e i cavalli di riserva. «Guarda il vecchio cane da caccia», disse Memnone indicando Remrem. «Smania di muoversi. Per Horus, gli insegnerò ad avere pazienza prima che si concluda questa giornata.» Sentimmo i corni suonare al centro. «Si comincia.» Memnone tese la mano e vedemmo i carri degli hyksos fra le nubi di polvere. «Sì, Apachan la lanciato i suoi carri.» Si voltò a guardare le nostre divisioni, e Remrem levò in alto la spada. «La prima divisione è pronta, maestà!» gridò. Ma Memnone non gli badò e fece un segnale al nobile Aqer. La terza divisione avanzò dietro di noi, in file di quattro, e il Faraone la guidò. I carri degli hyksos, pesanti e maestosi, puntavano al centro della nostra linea. Memnone si parò trasversalmente, interponendo la nostra colonna tra i nemici e la fanteria. Poi, al suo segnale, ci girammo e, schierati in fila, gli corremmo incontro. Sembrava una mossa suicida, vana come lanciare una fragile nave di legno contro le rocce delle cataratte. Al momento dello scontro, i nostri arcieri tirarono contro gli hyksos e mirarono ai cavalli. Nella linea nemica si aprirono ampi squarci quando gli animali furono abbattuti dalle frecce. Poi, all'ultimo istante, la nostra linea si disperse come fumo portato dal vento. I nostri guidatori sfruttarono la Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
548
velocità e la manovrabilità. Anziché arrivare alia collisione con la linea degli hyksos e venire schiacciati, ci insinuammo nei varchi e attraversammo il loro schieramento. Non tutti i nostri carri ci riuscirono, e alcuni furono travolti e si rovesciarono, ma il nobile Aqer ne fece passare ben quattro su cinque. Emergemmo alle spalle degli hyksos, girammo i carri e riformammo lo schieramento al galoppo, sfruttando di nuovo la velocità per raggiungere i nemici. Piombammo alle loro spalle e li tempestammo di frecce a distanze sempre più ridotte. I carri degli hyksos erano fatti per proteggere l'equipaggio sul davanti, e i loro arcieri si tenevano pronti a tirare in quella direzione. La confusione dilagò nelle loro linee quando tentarono di sostenere il nostro attacco da tergo. Alcuni guidatori cercarono di tornare indietro, ma si scontrarono con i carri vicini. Le terribili ruote falcate colpirono le zampe dei cavalli e li abbatterono. La confusione ingigantì quando la prima raffica di frecce scagliate dagli arcieri egizi sorvolò le schiere degli shilluk e piombò sugli hyksos. Subito Memnone diede l'ordine; deviammo, ci allontanammo e lasciammo che i carri nemici si avventassero contro la barriera di pali appuntiti. Metà dei cavalli furono uccisi o storpiati dalle punte acuminate. Quelli che riuscirono a passare si trovarono di fronte agli shilluk e a un nugolo di giavellotti. I cavalli cedettero al panico e incominciarono a scalciare e a impennarsi. I carri che erano ancora sotto il controllo dei guidatori si avventarono contro la falange degli shilluk e non incontrarono resistenza. Le file si aprirono davanti a loro e lasciarono passare i cavalli; ma poi si richiusero. Ognuno di quei diavoli neri, agili e altissimi, era un atleta e un acrobata. Balzarono sulle pedane dei carri in corsa e fecero a pezzi gli equipaggi con lance e pugnali. Inghiottirono la prima carica di carri come una medusa avvolge una sardina argentea nei tentacoli e nel corpo amorfo. I lancieri hyksos stavano avanzando per sfruttare la carica dei carri: ma si trovavano allo scoperto. I cavalli staccati e i carri superstiti tornarono indietro, si avventarono in mezzo a loro e li costrinsero a disperdersi per lasciarli passare. Per il momento erano bloccati nel disordine al centro del campo di battaglia, e Memnone approfittò dell'occasione. I cavalli del nobile Aqer erano stanchi, e Memnone li condusse nelle riserve. Anche noi cambiammo pariglia. Per gli stallieri fu questione d'un momento staccare Roccia e Catena e portare altri due cavalli. Ne avevamo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
549
seimila nella retroguardia. Mi chiedevo quanti di quelli degli hyksos erano scampati allo «strangolatore giallo» e quante pariglie fresche avevano a disposizione. Mentre rientravamo nello schieramento, Remrem gridò in tono disperato: «Maestà! La prima! Lascia che vada la prima divisione!» Il Faraone lo ignorò e diede un segnale ad Astes. La seconda di visione avanzò dietro di noi e si mise in formazione al trotto. La fanteria egizia era ancora bloccata al centro del campo. Si era estesa per coprire il nostro schieramento più corto, ma la linea era scomposta e irregolare. Con occhio esperto, Memnone individuò il punto più debole, un saliente nel fianco sinistro. «Avanti la seconda divisione! Al trotto! Avanti! A gruppi di otto! Carica!» Piombammo sul saliente della linea, a otto carri affiancati. Uno dopo l'altro, i gruppi si avventarono e si aprirono un varco. Il fianco sinistro degli hyksos cedette, mentre quello destro continuava a premere. Il centro si andava sgretolando, e Memnone riformò al galoppo la terza divisione e la lanciò a squarciare il centro del nemico. Un attimo prima d'iniziare la carica, lanciai un'occhiata alla città. La polvere nascondeva quasi tutto; ma scorsi le due bandiere bianche in cima al Dito di Horus. Era l'avvertimento della mia vedetta appostata lassù. Mi voltai di scatto a guardare il forte orientale di Tebe. «Sire!» gridai, e tesi il braccio. Il re segui il mio segnale e vide il primo squadrone di carri hyksos che usciva al trotto dal nascondiglio dietro la curva delle mura. Gli altri lo seguivano come una colonna di formiche guerriere in marcia. «Apachan sta mandando in campo le riserve per salvare la fanteria», gridò il re nel fragore della battaglia. «Ancora un attimo e ci avrebbe presi d'infilata. Ben fatto, Tata.» Dovevamo lasciar fuggire la fanteria, mentre ci giravamo e ci schieravamo per fronteggiare i carri di Apachan. Ci avventammo alla carica attraverso un campo costellato di carri rovesciati e sfasciati, frecce e giavellotti, cavalli morti e feriti e uomini moribondi. Mi sollevai in punta di piedi sulla pedana e scrutai davanti a me. C'era qualcosa di insolito nella corsa dei carri nemici. Poi compresi. «Sire», gridai. «Guarda i cavalli! Sono ammalati!» Il petto degli animali era ricoperto da uno strato lucido di muco giallo che colava dalla bocca Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
550
semiaperta. Mentre stavo guardando, uno dei cavalli che venivano verso di noi barcollò e stramazzò trascinando a terra il compagno. «Hai ragione, per la dolce Iside! I loro cavalli sono spacciati prima di cominciare», rispose Memnone. Aveva compreso subito ciò che doveva fare. Fu una dimostrazione del suo controllo superbo, il fatto che riuscisse a deviare una carica dei suoi carri dopo averla lanciata. All'ultimo momento rifiutò lo scontro diretto. La nostra formazione si apri come un fiore davanti alla carica, si allargò sui lati, quindi si girò e tornò correndo verso le nostre linee trascinandosi dietro i nemici che erano costretti a forzare al massimo i loro cavalli sofferenti e ansimanti. Corremmo davanti a loro in formazione serrata e compatta. La loro linea cominciò a deviare e ad aprirsi via via che i cavalli più deboli crollavano. Alcuni caddero come se fossero colpiti alla testa da una freccia. Altri rallentarono e si fermarono a testa bassa, con il muco che colava dalle bocche in lucidi filamenti gialli. I cavalli del nobile Aqer erano quasi esausti dopo aver compiuto due cariche furiose senza un attimo di riposo. Ancora inseguito dai resti della divisione di Apachan, Memnone li riportò dove la quarta divisione di Hui era schierata a fianco della prima, la divisione di Remrem. «Faraone! La prima è pronta! Lasciami andare! In nome di tutti gli dei, lasciami andare!» urlò esasperato Remrem. Memnone lo degnò appena di uno sguardo. Girai il carro e mi affiancai a quello di Hui. Una squadra di stallieri staccò i nostri cavalli coperti di sudore e portò una pariglia fresca. Mentre quella del nobile Aqer ci passava a fianco, sfinita, fronteggiammo gli hyksos avanzanti. «Sei pronto, capitano Hui?» gridò Memnone, e Hui alzò l'arco in segno di saluto. «Per l'Egitto e per Tamose!» gridò. «Allora avanti! Alla carica!» Memnone rise, e i nostri cavalli si avventarono d'un balzo. C'erano sei divisioni dei carri di Apachan sparse sul campo davanti a noi. Metà erano semidistrutte, con i cavalli caduti o barcollanti, soffocati e morenti a causa dello «strangolatore giallo». Quasi tutti gli altri si muovevano al passo, ansimando. Ma gli altri carri procedevano in ordine. Muovemmo loro incontro. Al centro avanzava un carro rivestito di bronzo lucente, e sulla pedana stava un uomo, così alto che torreggiava Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
551
sopra il guidatore. Portava l'elmo dorato della casa reale degli hyksos, e la barba scura era intrecciata con nastri colorati che palpitavano nel vento come farfalle librate sopra un cespuglio fiorito. «Apachan!» lo sfidò Memnone. «Sei morto!» Apachan lo senti e vide il carro dorato. Deviò per venirci incontro, e Memnone mi batté la mano sulla spalla. «Portami a fianco di quel porco barbuto. Finalmente è venuto il momento di usare la spada.» Apachan scagliò due frecce contro di noi. Memnone ne ricevette una sullo scudo, io mi chinai per schivare l'altra, ma senza perdere la concentrazione. Continuavo a osservare le terribili falci fissate alle ruote del carro nemico, che avrebbero potuto tranciare le zampe dei miei cavalli. Sentii dietro di me lo stridore del metallo quando Memnone estrasse la spada azzurra dal fodero fissato alla rastrelliera e con la coda dell'occhio scorsi il lampo della lama protesa. Feci deviare i cavalli con una finta sulla destra per confondere il guidatore del carro hyksos: ma nell'istante in cui cominciammo a girare, cambiai di nuovo direzione. Evitai le lame falcate e gli passai vicino, quindi voltai bruscamente dietro di lui. Con la mano libera raccolsi il grappino e lo lanciai oltre il pannello laterale dell'altro carro. Adesso eravamo agganciati, ma io ero in vantaggio, perché eravamo di traverso rispetto alla parte posteriore del carro nemico. Apachan si voltò e vibrò un fendente, ma io mi lasciai cadere in ginocchio per evitarlo. Memnone parò il colpo con lo scudo e alzò la spada azzurra. Una scheggia di bronzo si staccò dal filo dell'arma di Apachan, tranciata dal ferro, e il principe hyksos proruppe in un urlo di rabbia incredula e alzò di scatto lo scudo di rame. Era un guerriero superbo, ma non poteva reggere il confronto con il mio re e la spada azzurra. Memnone gli ridusse a brandelli lo scudo, quindi mirò con forza alla spada bronzea mentre Apachan cercava di ripararsi la testa. La lama azzurra tranciò nettamente l'altra, e Apachan si ritrovò con la sola impugnatura stretta fra le dita. Spalancò la bocca e urlò. I molari erano neri e marci, e la sua saliva mi volò in faccia come una nube. Memnone ricorse al classico affondo diritto per farla finita. Avventò la punta della lama azzurra nella bocca aperta di Apachan, poi in fondo alla gola. L'urlo di rabbia fu soffocato dai torrente di sangue che eruttò dalle labbra barbute. Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
552
Tagliai la corda del grappino e lasciai che il carro hyksos proseguisse la corsa. I cavalli erano ormai incontrollabili. Deviarono e corsero lungo la linea del combattimento. Apachan si aggrappò al parapetto, restando eretto sebbene fosse agonizzante, e il sangue continuò a sgorgale dalla bocca e a colare sulla corazza. Quella vista incusse sgomento nei cuori dei suoi uomini che cercarono di disimpegnare i cavalli malati e vacillanti. Ma noi continuammo a correre al loro fianco e a tempestarli con i giavellotti. Li seguimmo fino a quando arrivammo a tiro dei loro arcieri. Una pioggia di frecce cadde intorno a noi e ci costrinse a desistere. «Non è ancora finita», dissi a Memnone mentre tornavamo indietro con i cavalli al passo. «Hai distrutto i carri di Apachan, ma devi ancora affrontare la fanteria di Beon.» «Portami da Kratas», ordinò il Faraone. Fermai il carro davanti ai reggimenti degli shilluk e Memnone chiamò Kratas. «Come vanno le cose?» «Temo, sire, che i miei uomini si addormenteranno se non ci troverai qualcosa da fare.» «Allora ascolteremo il loro canto mentre li condurrai all'avanzata.» Gli shilluk si mossero. Procedevano con una bizzarra andatura strisciante, e a ogni terzo passo battevano i piedi all'unisono con tanta forza da far tremare il suolo sotto i piedi callosi. Cantavano con voci profonde, un suono simile al ronzio di uno sciame di api nere infuriate, e battevano le lance contro gli scudi di pelle non conciata. Gli hyksos erano disciplinati e coraggiosi, altrimenti non sarebbero riusciti a conquistare mezzo mondo. Avevamo annientato i loro carri, ma stavano pronti a sostenere l'avanzata di Kratas dietro una muraglia di scudi bronzei. I due eserciti si scontrarono come tori sacri da combattimento. Il toro bianco e il toro nero incrociarono le corna e si batterono petto contro petto, lancia contro lancia. Mentre le armate dei fanti si scontravano, il Faraone tenne indietro i carri, usandoli con abilità e audacia solo quando scorgeva una debolezza o un'apertura nelle posizioni nemiche. Quando un contingente di fanti rimase isolato sulla sinistra, mandò la formazione di Aqer ad annientarlo con due rapide cariche. Quando il principe Beon tentò di mandare rinforzi in aiuto della sua avanguardia, Memnone inviò Astes con cinquecento carri per Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
553
impedirglielo. Gli hyksos radunarono tutti i carri rimasti e tutti i cavalli che ancora si reggevano, e li scagliarono contro la nostra ala destra. Memnone mandò Hui e Astes a incontrarli e a spezzare l'attacco. Lasciò Remrem a imprecare e implorare e a battere i piedi a terra accanto al suo carro, e ignorò le sue suppliche. Il Faraone e io girammo intorno alla mischia sul carro dorato, osservando ogni fase del conflitto. Memnone fece intervenire le sue riserve esattamente nei punti dove erano più necessarie e con quel tempismo che non si può insegnare o imparare. Era come se il ritmo della battaglia battesse nel suo cuore, e lo sentisse nel sangue. Io continuavo a cercare con gli occhi Kratas nel folto della mischia. Lo persi di vista più volte e temetti che fosse caduto; ma poi rividi il suo elmo con il pennacchio tranciato, e il bronzo spruzzato di sangue. E proprio là al centro, dove combatteva Kratas, le file degli hyksos incominciarono a cedere. Fu come il primo rivoletto attraverso la muraglia di terra di una diga; la loro schiera si deformò e si tese fino al punto di rottura. Le ultime file cominciarono a ripiegare sotto la pressione implacabile. «Per l'amore di Horus e la compassione di tutti gli dei, Tata, questo è il momento della nostra vittoria.» Memnone se ne accorse anche prima di me. Raggiungemmo al galoppo Remrem che era ancora in attesa, e il Faraone gli gridò: «Sei pronto, nobile Remrem?» «Sono pronto fin dall'alba, sire, ma non sono nobile.» «Vorresti contraddire il tuo re? Ora sei nobile. Il centro dei nemici sta cedendo. Prendi i tuoi carri e ricacciali fino a Menfi!» «Possa tu vivere in eterno, Faraone!» urlò il nobile Remrem. Balzò sul carro e si mosse alla testa della prima divisione. Avevano cavalli freschi e forti, e la lunga attesa aveva scatenato il loro spirito combattivo. Si avventarono contro il fianco destro degli hyksos, lo sfondarono quasi senza rallentare, poi si girarono e piombarono da tergo sul centro del nemico. In quel momento perfetto si decise l'esito della battaglia. Il centro degli hyksos cedette. Nel tempo necessario per trarre e trattenere un lungo respiro, si abbandonarono alla rotta. Tornarono correndo verso le porte della città e persino gli shilluk di Kratas erano troppo stanchi per inseguirli: fermi tra i mucchi di morti e Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
554
morenti, si appoggiavano alle lance e lasciavano che gli hyksos si allontanassero. E in quel momento si rivelò la genialità di Memnone. Aveva tenuto di riserva la prima divisione per quello scopo. I carri si misero a inseguire gli hyksos, e io vidi la spada di Remrem levarsi e abbattersi con un ritmo terribile. I primi nemici in fuga arrivarono alla porta della città, ma la trovarono chiusa. Le mie spie e i miei agenti avevano fatto un ottimo lavoro. La popolazione di Tebe era in rivolta e la città era nostra. Aveva sbarrato l'accesso alle legioni sconfitte degli hyksos. Remrem inseguì i nemici fino a quando scese la notte e i suoi cavalli non si ressero più. Ricacciò indietro gli hyksos per trentamila passi, e ogni braccio della strada per il nord era costellato di armi abbandonate e di cadaveri. Guidai il carro dorato del Faraone alla porta principale della città. Dalla pedana, il re gridò alle sentinelle sul bastione: «Aprite! Fatemi passare!» «Chi chiede di entrare a Tebe?» replicarono le sentinelle. «Io sono Tamose, sovrano dell'Alto e del Basso Egitto.» «Viva il Faraone! Possa tu vivere in eterno.» I battenti si spalancarono e Memnone mi toccò la spalla. «Entra, Tata.» Mi girai verso di lui. «Perdonami, maestà. Ho giurato che non entrerò in Tebe se non a fianco della mia padrona, la regina Lostris. Devo cederti le redini.» «Allora smonta», mi disse gentilmente il re. «Vai a prendere la tua padrona in modo da poter mantenere la promessa.» Prese le redini e io smontai. Lo guardai guidare il carro dorato oltre la porta, e gli applausi e le acclamazioni erano come il tuono delle acque nelle cataratte al culmine della piena. Il popolo di Tebe stava festeggiando il suo re. Mi fermai sul bordo della strada mentre il nostro esercito, duramente provato, seguiva il Faraone nella città. Mi rendevo conto che avevamo pagato la vittoria a caro prezzo. Non avremmo potuto inseguire gli hyksos se prima non avessimo ricostituito le nostre armate. E allora il re Salitis sarebbe stato di nuovo forte, e i suoi cavalli si sarebbero ripresi dallo «strangolatore giallo». Avevamo vinto la prima battaglia, ma sapevo che molte ci attendevano prima che il tiranno potesse venire scacciato dall'Egitto. Cercai con gli occhi Kratas quando passarono i reggimenti degli shilluk, Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
555
ma non lo vidi. Hui teneva pronto a mia disposizione un carro con due cavalli freschi. «Verrò con te, Taita», propose, ma io scossi la testa. «Viaggerò più velocemente da solo», risposi. «Vai in città a goderti il trionfo. Mille belle fanciulle sono ansiose di darti il bentornato.» Prima di avviarmi sulla strada per il sud tornai sul campo di battaglia. Gli sciacalli e le iene stavano già banchettando e i loro ringhi si mescolavano ai gemiti dei morenti. I morti erano ammucchiati come i detriti sulla riva del fiume quando le acque della piena si ritirano. Mi diressi verso il punto dove avevo visto Kratas per l'ultima volta, ed era l'angolo più macabro del terribile campo di battaglia. I cadaveri erano ammassati all'altezza delle ruote del carro. Vidi il suo elmo nella polvere che il sangue aveva trasformato in fango denso. Smontai e lo raccolsi. Il pennacchio non c'era più, il metallo era ammaccato dai colpi. Lo gettai via e cominciai a cercare Kratas. Vidi una gamba spuntare come il ramo di un'acacia gigante sotto una catasta di corpi shilluk e hyksos che giacevano insieme nella tregua della morte. Li scostai e trovai Kratas disteso riverso. Era coperto di sangue che gli incrostava anche i capelli e il volto. M'inginocchiai accanto a lui e mormorai: «Devono morire tutti? Tutti coloro che mi sono cari?» Mi tesi e gli baciai le labbra insanguinate. Kratas si sollevò a sedere e mi guardò, poi sfoggiò quel suo sogghigno fanciullesco. «Per le caccole nella narice sinistra di Seth, è stata una vera battaglia», disse. «Kratas!» Lo fissai, felice. «Tu vivrai davvero in eterno.» «Non dubitarne, vecchio mio. Ma in questo momento ho bisogno di un tonico.» Corsi al carro e gli portai la borraccia; lui la stappò e lasciò che il vino rosso gli colasse nella gola senza mai deglutire. Quando la borraccia fu vuota, la gettò via e ruttò. «Come inizio può andare», disse ammiccando. «E adesso, vecchio mascalzone, indicami la strada per la taverna più vicina.» Portai la grande notizia a Elefantina, più velocemente di quanto avrebbe potuto farlo una nave che procedesse contro corrente. C'ero io solo sul carro e i cavalli correvano agilmente. Cambiavo la pariglia a ogni stazione lungo la strada del sud, e procedevo al galoppo. Gli stallieri mi davano una borraccia o un po' di pane e formaggio mentre cambiavano i cavalli. Non Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
556
dormivo e non riposavo mai. Durante la notte, la luna e le stelle mi mostravano la strada e Horus guidava le mie mani stanche, perché, sebbene fossi indolenzito e vacillassi per la stanchezza, non ebbi alcuna disavventura. A ogni stazione di cambio, a ogni villaggio, gridavo l'annuncio gioioso: «Una vittoria! Una grande vittoria! Il Faraone ha trionfato a Tebe. Gli hyksos sono sconfitti!» «Lode a tutti gli dei!» gridavano tutti. «Egitto e Tamose.» Continuavamo a galoppare. Ancora oggi parlano della mia corsa sulla strada del sud: parlano del cavaliere con gli occhi arrossati, la veste impolverata e macchiata di sangue, i capelli lunghi agitati dal vento. Il messaggero della vittoria che portava a Elefantina l'annuncio della battaglia che aveva avviato l'Egitto sulla via della libertà. Andai da Tebe a Elefantina in due giorni e due notti e quando arrivai al palazzo ebbi appena la forza di presentarmi barcollando nel giardino acquatico dove stava adagiata la regina e di gettarmi accanto al suo divano. «Padrona», mormorai con le labbra screpolate e la gola incrostata di polvere, «il Faraone ha ottenuto una grande vittoria. Sono venuto per ricondurti a casa.» Navigammo sul fiume per tornare a Tebe. Le principesse erano con me per tener compagnia alla madre. Le sedevano accanto sul ponte e cantavano, componevano poesie e indovinelli e ridevano, ma la loro gaiezza aveva un riflesso mesto e nei loro occhi c'era una profonda preoccupazione. La regina Lostris era fragile come un uccellino ferito. Non pesava più nulla, e la sua pelle era trasparente come la madreperla. Potevo sollevarla agevolmente come quando aveva dieci anni. La polvere del fiore del sonno non aveva più il potere di calmare il dolore che le rodeva le viscere come un granchio terribile. La portai a prua della nave quando finalmente le mura di Tebe si offrirono alla nostra vista dopo l'ultima ansa del fiume. La sostenni con un braccio intorno alle spalle esili, e insieme ci rallegrammo di quelle scene conservate nella nostra memoria e rivivemmo mille episodi felici della nostra giovinezza. Ma lo sforzo la stancò. Attraccammo ai piedi del palazzo di Memnone; metà della popolazione di Tebe l'attendeva per porgerle il benvenuto e il Faraone Tamose era alla testa dell'immensa folla. Quando i lettighieri la portarono a terra, tutti l'acclamarono. Anche se Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
557
molti dei presenti non l'avevano mai vista, la leggenda della regina generosa era rimasta viva durante il lungo esilio. Le madri sollevavano i figlioletti perché li benedicesse e cercavano di sfiorarle la mano che pendeva dal bordo della lettiga. «Prega Hapi per noi!» l'imploravano. «Prega per noi, madre dell'Egitto!» Il Faraone Tamose camminava accanto alla lettiga come un comune mortale, e Tehuti e Bakatha lo seguivano. Le principesse sorridevano, anche se avevano le ciglia ingemmate di lacrime. Aton aveva preparato l'appartamento per la regina. Mandai via tutti, compreso il re. La feci adagiare sul divano sotto la pergola della terrazza. Da li poteva guardare, oltre il fiume, le mura splendide della sua amatissima città. Al discendere dell'oscurità, la portai nella sua camera da letto. Si adagiò sui lenzuoli di lino e mi guardò. «Taita», mormorò, «vuoi percorrere per me i Labirinti di Ammon-Ra un'ultima volta?» «Padrona, non posso rifiutarti nulla.» Chinai la testa e andai a prendere la cassetta dei medicinali. Le sedetti accanto a gambe incrociate sul pavimento di pietra, e preparai le erbe sotto il suo sguardo. Le schiacciai con il pestello nel mortaio di alabastro e scaldai l'acqua nel recipiente di rame. Poi alzai la coppa fumante in un gesto simile a un brindisi. «Grazie», mormorò la regina e io vuotai la coppa. Chiusi gli occhi e attesi di scivolare oltre l'orlo della realtà, nel mondo dei sogni e delle visioni. Quando tornai alla realtà, le lampade fumavano sul punto di spegnersi e nel palazzo regnava il silenzio. Dal fiume e dalla città addormentata sull'altra riva non giungeva alcun suono. C'erano solo il trillo dolcissimo di un usignolo nel giardino e il respiro lieve della mia padrona che giaceva sui cuscini di seta. Credetti che dormisse ma quando alzai la mano tremante per tergermi il viso dal sudore freddo, apri gli occhi. «Povero Taita, è stato così terribile?» Era stato peggio delle altre volte. Mi doleva la testa e la vista era confusa. Sapevo che non avrei più percorso i Labirinti. Era stata l'ultima volta, e l'avevo fatto per lei. «Ho visto l'avvoltoio e il cobra sulle due rive del fiume, divisi dalle acque. Ho visto le acque salire e abbassarsi per cento stagioni. Ho visto cento covoni di grano, e cento uccelli sorvolare il Nilo. Sotto di loro ho visto la polvere della battaglia e il lampeggiare delle spade. Ho visto il fumo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
558
delle città incendiate mescolarsi alla polvere. «Infine ho visto il cobra e l'avvoltoio accostarsi, li ho visti accoppiarsi su un lenzuolo di purissima seta azzurra. C'erano vessilli azzurri sulle mura della città e bandiere azzurre sopra le porte del tempio. «Ho visto i gagliardetti azzurri sui carri che percorrevano le vie del mondo. Ho visto monumenti alti e possenti, destinati a durare diecimila anni. Ho visto i popoli di cinquanta nazioni inchinarsi davanti a essi.» Sospirai, mi premetti le dita sulle tempie per attutire la pressione, e dissi: «Questa è stata la mia visione». Rimanemmo a lungo immobili in silenzio, quindi la mia padrona disse a voce bassa: «Dovranno trascorrere cento stagioni prima che i due regni siano uniti. Cent'anni di guerre e di lotte prima che gli hyksos vengano cacciati finalmente dal suolo sacro del nostro Egitto. Sarà difficile e doloroso per il mio popolo». «Ma alla fine saranno tutti uniti sotto la bandiera azzurra e i re della tua stirpe conquisteranno il mondo. Tutte le nazioni gli renderanno omaggio», dissi, interpretando il resto della mia visione. «Ne sono contenta.» La regina si addormentò con un sospiro. Io non dormii perché sapevo che aveva bisogno di avermi vicino. Si svegliò nell'ora che precede l'alba e che è la più buia della notte, e gridò: «Il dolore! Dolce Iside, il dolore!» Le preparai lo shepenn rosso. Dopo un poco mi disse: «Il dolore è passato, ma ho freddo. Abbracciami, Taita, riscaldami con il tuo corpo». La presi fra le braccia e la tenni così mentre dormiva. Si svegliò di nuovo ai primi, timidi raggi del sole che entravano dalla porta della terrazza. «Ho amato due soli uomini nella mia vita», mormorò. «E uno sei stato tu. Forse, nella prossima vita, gli dei saranno più generosi con il nostro amore.» Non sapevo che rispondere. La regina chiuse gli occhi per l'ultima volta. Si allontanò in silenzio e mi abbandonò. Il suo ultimo respiro non fu più forte di quello che l'aveva preceduto ma sentii il freddo sulle sue labbra quando le baciai. «Addio, padrona», sussurrai. «Addio, cuore mio.» Ho scritto questi papiri durante i settanta giorni e le settanta notti destinati all'imbalsamazione reale. Sono il mio ultimo omaggio alla mia padrona. Prima che la portassero via, praticai un'incisione nel suo fianco sinistro, come avevo fatto con Tanus. Le aprii il grembo ed estrassi l'orrendo incubo Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
559
che l'aveva uccisa. Era una cosa di carne e di sangue, ma non era umana. Quando la gettai nel fuoco la maledissi, e maledissi l'immondo dio Seth che l'aveva fatta crescere dentro di lei. Ho preparato dieci vasi d'alabastro per contenere questi rotoli. Li lascerò con lei. Sto dipingendo con le mie mani tutti gli affreschi della sua tomba. Sono i più belli che abbia creato. Ogni pennellata è un'espressione del mio amore. Vorrei poter riposare con lei in questa tomba, perché sono sofferente e oppresso dall'angoscia. Ma devo ancora aver cura delle mie due principesse e del mio sovrano. Hanno bisogno di me. NOTA DELL'AUTORE Il 5 dicembre 1988 il dottor Duraid Al Simma del Dipartimento Antichità Egiziane penetrò in una tomba sulla riva occidentale del Nilo nella Valle dei Nobili. La tomba non era stata scavata in precedenza perché su quel luogo era stata costruita nel VII secolo d.C. una moschea islamica. Solo dopo lunghi e difficili negoziati con le autorità religiose gli scavi furono autorizzati. Appena entrò nel corridoio che conduceva alla camera sepolcrale, il dottor Al Simma si trovò davanti a una serie di affreschi magnifici che coprivano le pareti e il soffitto. Erano i più complessi e vivaci che avesse incontrato in tutta una vita trascorsa nello studio dei monumenti. Mi confidò di aver compreso subito che si trattava di un ritrovamento significativo, perché fra i geroglifici spiccava il cartiglio di una regina egizia in precedenza sconosciuta. La sua emozione crebbe quando si avvicinò alla camera sepolcrale; ma rimase sconvolto nel vedere che i sigilli sulla porta erano stati danneggiati e l'entrata era stata forzata. Anticamente la tomba era stata saccheggiata e spogliata del sarcofago e di tutti i suoi tesori. Il dottor Al Simma, tuttavia, poté datare la tomba con ragionevole accuratezza al periodo oscuro di lotte e di disastri che travolse l'Egitto intorno al 1780 a.C. Durante il secolo seguente i due regni vissero in uno stato d'incertezza. Abbiamo scarsi documenti degli avvenimenti del periodo, ma si sa che dal caos emerse una stirpe di principi che finalmente cacciò gli invasori hyksos e portò l'Egitto al suo periodo di massimo splendore. Mi Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
560
rallegra sapere che nelle loro vene scorreva il sangue di Lostris, di Tanus e di Memnone. Quasi un anno dopo l'apertura della tomba, mentre gli assistenti del dottor Al Simma copiavano e fotografavano le decorazioni delle pareti, una sezione dell'intonaco cadde e rivelò una nicchia in cui stavano dieci vasi d'alabastro sigillati. Quando il dottor Al Simma mi chiese di collaborare alla trascrizione dei rotoli contenuti nei vasi, mi sentii onorato e nel contempo pieno di trepidazione. Non ero qualificato per tradurre gli originali, scritti in caratteri ieratici: questo lavoro fu svolto nel museo del Cairo da un gruppo di egittologi di diversi Paesi. Il dottor Al Simma mi pregò di riscrivere il testo originale in uno stile che lo rendesse più accettabile al lettore moderno. Perciò ho incluso alcuni anacronismi nel testo, e ho usato parole come «genio», «hurriti» che Taita non usò ma che, ne sono certo, avrebbe adoperato se avessero fatto parte del suo vocabolario. Poco dopo l'inizio del lavoro tutte le mie riserve svanirono e mi lasciai coinvolgere completamente dai tempi e dal carattere dell'antico autore. Nonostante la sua pomposità vanagloriosa cominciai a provare per lo schiavo Taita una simpatia affettuosa che travalicava i secoli. Mi rendo conto che i sentimenti e le aspirazioni dell'uomo sono cambiati ben poco in tutto questo tempo, e mi rimane l'emozione di pensare che ancora oggi tra le montagne abissine presso la sorgente del Nilo vi sia, intatta, la tomba di un Faraone egizio. W.S.
Wilbur Smith - Il Dio Del Fiume
561