CARLOS RUIZ ZAFÓN IL GIOCO DELL'ANGELO (El Juego Del Ángel, 2008) A MariCarmen, "a nation of two" ATTO PRIMO La città de...
421 downloads
3476 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
CARLOS RUIZ ZAFÓN IL GIOCO DELL'ANGELO (El Juego Del Ángel, 2008) A MariCarmen, "a nation of two" ATTO PRIMO La città dei maledetti 1 Uno scrittore non dimentica mai la prima volta che accetta qualche moneta o un elogio in cambio di una storia. Non dimentica mai la prima volta che avverte nel sangue il dolce veleno della vanità e crede che, se riuscirà a nascondere a tutti la sua mancanza di talento, il sogno della letteratura potrà dargli un tetto sulla testa, un piatto caldo alla fine della giornata e soprattutto quanto più desidera: il suo nome stampato su un miserabile pezzo di carta che vivrà sicuramente più a lungo di lui. Uno scrittore è condannato a ricordare quell'istante, perché a quel punto è già perduto e la sua anima ha ormai un prezzo. La mia prima volta fu un lontano giorno di dicembre del 1917. Avevo diciassette anni e lavoravo a "La Voz de la Industria", un giornale in rovina che languiva in un cavernoso edificio che una volta aveva ospitato una fabbrica di acido solforico e le cui pareti trasudavano ancora quel vapore che corrodeva i mobili, i vestiti, l'anima e perfino le suole delle scarpe. La sede del giornale si ergeva oltre la foresta di angeli e croci del cimitero del Pueblo Nuevo, e da lontano il suo profilo si confondeva con quello delle tombe di famiglia ritagliate su un orizzonte accoltellato da centinaia di comignoli e di edifici che intessevano un perpetuo crepuscolo nero e scarlatto sopra Barcellona. La sera in cui sarebbe cambiato il corso della mia vita, il vicedirettore del giornale, don Basilio Moragas, volle convocarmi poco prima della chiusura nell'oscuro cubicolo incassato in fondo alla redazione che fungeva da fumoir di sigari e da ufficio per lui. Don Basilio era un uomo dall'aspetto feroce e dai baffi rigogliosi che andava per le spicce e sosteneva la teoria secondo la quale un uso liberale degli avverbi e l'aggettivazione eccessiva erano cose da pervertiti e da persone con carenze vitaminiche. Se
scopriva un redattore incline alla prosa fiorita, lo spediva tre settimane a stilare necrologi. Se, dopo la purga, il soggetto recidivava, don Basilio lo destinava alle pagine dei lavori domestici vita natural durante. Lo temevamo tutti, e lui lo sapeva. «Don Basilio, mi ha fatto chiamare?» mi affacciai timidamente. Il vicedirettore mi guardò di sottecchi. Entrai nell'ufficio che puzzava di sudore e di tabacco, in quest'ordine. Don Basilio ignorò la mia presenza e continuò a rivedere uno degli articoli che aveva sulla scrivania, matita rossa alla mano. Per un paio di minuti mitragliò il testo di correzioni, quando non si trattava di amputazioni, masticando improperi come se io non ci fossi. Non sapendo che fare, notai una sedia appoggiata al muro e feci per accomodarmi. «Chi le ha detto di sedersi?» mormorò don Basilio senza sollevare gli occhi dal testo. Mi alzai in fretta e furia e trattenni il respiro. Il vicedirettore sospirò, lasciò cadere la matita rossa e si adagiò sulla poltrona per esaminarmi come se fossi un arnese inservibile. «Mi hanno detto che lei scrive, Martín.» Deglutii e quando aprii la bocca ne uscì un ridicolo filo di voce. «Un po', insomma, non so, voglio dire che, be', sì, scrivo...» «Sono sicuro che lo farà meglio di come parla. E cosa scrive, se non sono indiscreto?» «Gialli. Mi riferisco a...» «Ho afferrato l'idea.» Lo sguardo che mi rivolse don Basilio fu impagabile. Se gli avessi detto che modellavo statuette del presepe con lo sterco fresco, gli avrei strappato il triplo dell'entusiasmo. Sospirò di nuovo e si strinse nelle spalle. «Vidal dice che lei non se la cava male. Che si fa notare. Certo, con la concorrenza che c'è da queste parti, non bisogna nemmeno correre troppo. Ma se lo dice Vidal.» Pedro Vidal era la firma più prestigiosa di "La Voz de la Industria". Aveva una rubrica settimanale di cronaca che costituiva l'unico pezzo meritevole di essere letto in tutto il giornale, ed era autore di una dozzina di romanzi d'avventura che avevano ottenuto una modesta popolarità, incentrati su gangster del Raval coinvolti in intrighi d'alcova con signore dell'alta società. Sempre infilato in impeccabili completi di seta e lustri mocassini italiani, Vidal aveva l'aria e l'atteggiamento da attore d'avanspettacolo, con i capelli biondi sempre ben pettinati, i baffetti a matita e il sorriso faci-
le e generoso di chi si sente a suo agio nella propria pelle e nel mondo. Proveniva da una famiglia di "indiani" che avevano fatto fortuna nelle Americhe con il commercio di zucchero e che al ritorno avevano affondato i denti nella succulenta torta dell'elettrificazione della città. Suo padre, il patriarca del clan, era uno degli azionisti di maggioranza del giornale, e don Pedro utilizzava la redazione come un parco giochi per ammazzare la noia di non aver dovuto lavorare un solo giorno per necessità in tutta la vita. Poco importava che il quotidiano perdesse soldi allo stesso modo in cui perdevano olio le nuove automobili che cominciavano a scorrazzare per Barcellona: carica di titoli nobiliari, la dinastia dei Vidal adesso si dedicava a collezionare nell'Ensanche banche e terreni estesi come piccoli principati. Pedro Vidal era stato il primo a cui avevo mostrato gli abbozzi che scrivevo quando ero appena un bambino e lavoravo portando caffè e sigarette in redazione. Aveva sempre trovato tempo per me, per leggere i miei scritti e darmi buoni consigli. A poco a poco mi aveva trasformato nel suo aiutante e mi aveva permesso di battere a macchina i suoi testi. Era stato lui a dirmi che, se volevo giocarmi il destino alla roulette russa della letteratura, era disposto ad aiutarmi e a guidare i miei primi passi. Fedele alla parola, mi gettava adesso tra gli artigli di don Basilio, il cerbero del giornale. «Vidal è un sentimentale che crede ancora a leggende profondamente antispagnole come la meritocrazia o il concedere opportunità a chi le merita e non al raccomandato di turno. Ricco sfondato com'è, può permettersi di fare il poeta in giro per il mondo. Se io avessi la centesima parte dei soldi che a lui avanzano, mi sarei messo a scrivere sonetti e gli uccellini verrebbero a mangiare dalle mie mani, incantati dalla mia bontà e dal mio fascino.» «Il signor Vidal è un grand'uomo» protestai. «Di più. È un santo perché, nonostante la faccia da morto di fame che lei si ritrova, da settimane mi tormenta dicendomi quanto è lavoratore e pieno di talento il beniamino della redazione. Lui sa che in fondo sono un mollaccione, e poi mi ha assicurato che se le concedo questa opportunità mi regala una scatola di Cohiba. E se lo dice Vidal, per me è come se Mosè scendesse dalla montagna con il suo pezzo di pietra in mano e la verità rivelata che gli aleggia sulla testa. Perciò, per concludere, perché è Natale, e per zittire il suo amico una volta per tutte, le offro di debuttare come gli eroi: contro ogni ostacolo, a dispetto del mondo.» «Grazie infinite, don Basilio. Le garantisco che non si pentirà di...»
«Non parta in quarta, ragazzino. Vediamo: cosa ne pensa dell'uso generoso e indiscriminato di avverbi e aggettivi?» «Che è una vergogna e che dovrebbe essere contemplato dal codice penale» risposi con la convinzione del convertito militante. Don Basilio annuì con approvazione. «Va bene, Martín. Ha chiare le priorità. A sopravvivere in questo mestiere sono quelli che hanno priorità e non princìpi. Ecco il piano. Si sieda e si beva tutto perché non lo ripeterò due volte.» Il piano era questo: per ragioni che don Basilio non ritenne opportuno approfondire, la controcopertina dell'edizione domenicale, tradizionalmente riservata a un racconto o a un reportage di viaggio, era venuta a mancare all'ultimo momento. Era prevista una narrazione dalla vena patriottica e dall'acceso lirismo sulle gesta degli almogaveri, in cui questi ultimi, tra una cosa e l'altra, salvavano la cristianità e tutto quanto c'era di degno sotto il cielo, a cominciare dalla Terra Santa per finire al delta del Llobregat. Purtroppo, il testo non era arrivato in tempo oppure, sospettavo io, a don Basilio non andava di pubblicarlo. E così, a sei ore dalla chiusura non c'erano candidati a sostituire il racconto, se non una pubblicità a pagina intera di un busto di stecche di balena che prometteva fianchi da sogno e immunità ai cannelloni. Di fronte al dilemma, l'ufficio centrale aveva deliberato che bisognava fare di necessità virtù e individuare i talenti letterari nascosti in redazione, al fine di riempire il buco e uscire a quattro colonne con un articolo di taglio umanistico per lo svago del nostro affezionato pubblico familiare. La lista di comprovati talenti a cui fare ricorso era composta da dieci nomi, nessuno dei quali, naturalmente, era il mio. «Martín, amico mio, le circostanze hanno cospirato per far sì che nemmeno uno dei paladini che abbiamo in organico risulti presente o sia localizzabile entro un margine di tempo prudenziale. Di fronte all'imminente disastro, ho deciso di concedere a lei l'onore.» «Conti su di me.» «Conto su cinque cartelle a spazio doppio entro sei ore, signor Edgar Allan Poe. Mi porti una storia, non un discorso. Se voglio sermoni, vado alla messa di mezzanotte. Mi porti una storia che non ho mai letto prima e, se l'ho già letta, me la porti scritta e raccontata così bene che non me ne accorga neanche.» Mi preparavo a uscire di corsa quando don Basilio si alzò, fece il giro della scrivania e mi posò sulla spalla una manona del volume e del peso di un'incudine. Solo allora, vedendolo da vicino, mi accorsi che gli sorride-
vano gli occhi. «Se la storia è decente, gliela pagherò dieci pesetas. E se è più che decente e piace ai lettori, gliene pubblicherò altre.» «Qualche indicazione particolare, don Basilio?» domandai. «Sì: non mi deluda.» Le sei ore successive le passai in trance. Mi sistemai al tavolo al centro della redazione, che era riservato a Vidal nei giorni in cui gli girava di venire in ufficio a perdere un po' di tempo. La sala era deserta e immersa in una tenebra intessuta del fumo di diecimila sigarette. Chiusi gli occhi un istante ed evocai un'immagine, un manto di nubi nere che si rovesciavano in forma di pioggia sulla città, un uomo che camminava in cerca di ombre con le mani insanguinate e un segreto nello sguardo. Non sapevo chi era né da che cosa fuggiva, ma nelle successive sei ore sarebbe diventato il mio miglior amico. Infilai un foglio nel rullo e, senza concedermi un attimo di tregua, cominciai a spremere quanto avevo dentro. Lottai con ogni parola, ogni frase, ogni espressione, ogni immagine e ogni lettera come se fossero le ultime che avrei scritto. Scrissi e riscrissi ogni rigo come se ne andasse della mia vita e poi lo riscrissi di nuovo. La mia unica compagnia furono l'eco del ticchettio incessante della tastiera che si perdeva nella sala in penombra e il grande orologio a muro che esauriva i minuti che mancavano all'alba. Poco prima delle sei del mattino strappai l'ultima cartella dal rullo e sospirai sopraffatto, con la sensazione di avere un vespaio in testa. Sentii i passi lenti e pesanti di don Basilio, che era emerso da uno dei suoi sonnellini controllati e si avvicinava con circospezione. Presi i fogli e glieli consegnai, senza osare sostenere il suo sguardo. Don Basilio si sedette al tavolo accanto e accese la lampada. I suoi occhi scivolarono su e giù per il testo senza tradire alcuna espressione. Poi lasciò per un istante la sigaretta sul bordo del tavolo e, guardandomi, lesse ad alta voce il primo rigo. «"Cade la notte sulla città e le strade odorano di polvere da sparo come il respiro di una maledizione."» Don Basilio mi guardò di sottecchi e io mi feci scudo di un sorriso che non lasciò al riparo nemmeno un dente. Senza dire altro, si alzò e partì con il mio racconto tra le mani. Lo vidi allontanarsi verso il suo ufficio e chiudersi la porta alle spalle. Rimasi pietrificato, senza sapere se mettermi a correre o aspettare la sentenza di morte. Dopo dieci minuti che mi sembrarono dieci anni, la porta dell'ufficio si aprì e la voce tonante di don Basilio
si fece sentire in tutta la redazione. «Martín. Mi faccia il favore di venire.» Mi trascinai il più lentamente possibile, accorciando ogni volta il passo di qualche centimetro, finché non ebbi altra scelta che affacciarmi nell'ufficio e sollevare lo sguardo. Don Basilio, con la temibile matita rossa in mano, mi guardava freddamente. Cercai di deglutire, ma avevo la bocca secca. Don Basilio raccolse i fogli e me li restituì. Li presi e mi girai verso la porta più in fretta che potei, dicendo a me stesso che ci sarebbe sempre stato posto per un altro lustrascarpe nella hall dell'hotel Colón. «Lo porti in tipografia e lo faccia andare in macchina» disse la voce alle mie spalle. Mi voltai, credendo di essere oggetto di uno scherzo crudele. Don Basilio aprì il cassetto della scrivania, contò dieci pesetas e le mise sul tavolo. «Queste sono sue. Le suggerisco di comprarcisi un altro modellino perché sono quattro anni che la vedo sempre con lo stesso completo, e le sta sempre sei taglie più grande. Se vuole, vada a trovare il signor Pantaloni nella sua sartoria in calle Escudellers e gli dica che la mando io. La tratterà bene.» «Molte grazie, don Basilio. Farò così.» «E intanto mi prepari un altro di quei racconti. Stavolta le do una settimana. Ma non mi si addormenti. E vediamo se in questo ci sono meno morti, perché al lettore di oggi piace il finale sdolcinato in cui trionfa la grandezza dello spirito umano e tutte quelle stupidaggini.» «Sì, don Basilio.» Il vicedirettore annuì, poi mi tese la mano. Gliela strinsi. «Buon lavoro, Martín. Lunedì voglio vederla alla scrivania che era di Junceda, che adesso è sua. La metto in cronaca.» «Non la deluderò, don Basilio.» «No, non mi deluderà. Mi mollerà, prima o poi. E farà bene, perché lei non è un giornalista e non lo sarà mai. Ma non è nemmeno ancora uno scrittore di gialli, anche se crede di esserlo. Resti qui per un po' e le insegneremo un paio di cose che non guastano mai.» In quel momento, con la guardia bassa, mi invase un tale senso di gratitudine che mi venne voglia di abbracciare quell'omaccione. Don Basilio, la maschera feroce di nuovo al suo posto, mi inchiodò con uno sguardo d'acciaio e mi indicò la porta. «Niente scene, per favore. Chiuda quando esce. E buon Natale.» «Buon Natale.»
Il lunedì successivo, quando arrivai in redazione pronto a occupare per la prima volta la mia scrivania personale, trovai una busta di carta da pacchi con un fiocco e il mio nome scritto con i caratteri che per anni avevo battuto a macchina. La aprii. All'interno trovai la controcopertina della domenica con la mia storia incorniciata e un messaggio che diceva: "Questo è solo l'inizio. Fra dieci anni io sarò l'apprendista e tu il maestro. Il tuo amico e collega, Pedro Vidal." 2 Il mio debutto letterario sopravvisse al battesimo del fuoco e don Basilio, fedele alla parola data, mi offrì l'opportunità di pubblicare un altro paio di racconti più o meno dello stesso tenore. Ben presto la direzione decise che la mia folgorante carriera avrebbe avuto periodicità settimanale, sempreché continuassi a svolgere puntualmente i miei compiti in redazione allo stesso prezzo. Avvelenato dalla vanità e dalla stanchezza, passavo le giornate a rivedere i testi dei miei colleghi e a redigere di corsa articoli di cronaca nera con orrori indescrivibili, per poter poi dedicare le notti a scrivere da solo nella sala della redazione un racconto a puntate bizantino e operistico che accarezzavo da tempo nella mia immaginazione e che, sotto il titolo I misteri di Barcellona, mescolava senza pudore Dumas e Bram Stoker, passando per Sue e Féval. Dormivo più o meno tre ore al giorno e sfoggiavo l'aspetto che avrei avuto se le avessi trascorse in una bara. Vidal, che non aveva mai conosciuto quella fame che non ha niente a che vedere con lo stomaco e che ti mangia dal di dentro, era dell'opinione che mi stessi bruciando il cervello e che di quel passo avrei celebrato il mio funerale prima dei vent'anni. Don Basilio, che non si scandalizzava per la mia laboriosità, aveva altre riserve. Mi pubblicava ogni capitolo malvolentieri, infastidito da quello che riteneva un eccesso di morbosità e un malaugurato sperpero del mio talento al servizio di soggetti e trame di dubbio gusto. Ben presto I misteri di Barcellona portarono alla luce una piccola star dei romanzi d'appendice, un'eroina che avevo immaginato come soltanto a diciassette anni si può immaginare una femme fatale. Chloé Permanyer era la dark lady delle vampire. Troppo intelligente e ancor più contorta e ambigua, Chloé Permanyer indossava sempre le più incendiarie novità di lingerie raffinata e officiava da amante e braccio destro dell'enigmatico Baltasar Morel, cervello dell'inframondo, che viveva in una dimora sotterra-
nea popolata da automi e macabre reliquie la cui entrata segreta si trovava nelle gallerie scavate sotto le catacombe del Barrio Gótico. Il metodo prediletto da Chloé per far fuori le sue vittime era sedurle con una danza ipnotica in cui si liberava degli indumenti per poi baciarle con un rossetto avvelenato che paralizzava tutti i muscoli del corpo e le faceva morire asfissiate in silenzio mentre lei le guardava negli occhi, dopo essersi bevuta un antidoto sciolto nel Dom Perignon riserva imperiale. Chloé e Baltasar avevano il loro codice d'onore: eliminavano solo la feccia e ripulivano il mondo da bulli, vermi, baciapile, fanatici, sciocchi dogmatici e ogni tipo di cretini che ne facevano un luogo più miserabile del dovuto per gli altri, in nome di bandiere, dèi, lingue, razze o schifezze di ogni specie dietro cui mascherare la loro avidità e la loro grettezza. Per me erano eroi eterodossi, come tutti i veri eroi. Per don Basilio, i cui gusti letterari si erano fermati all'epoca d'oro del verso spagnolo, quelle erano assurdità di dimensioni colossali, ma considerando la buona accoglienza ricevuta dalle storie e l'affetto che, suo malgrado, provava nei miei confronti, tollerava le mie stravaganze e le attribuiva a un eccesso di eccitazione giovanile. «Lei ha più mestiere che buon gusto, Martín. La patologia che l'affligge ha un nome e quel nome è Grand Guignol, che sta al dramma come la sifilide alle vergogne. Il suo raggiungimento forse è piacevole, ma da lì in poi si precipita a rotta di collo. Dovrebbe leggere i classici, o almeno don Benito Pérez Galdós, per elevare le sue aspirazioni letterarie.» «Ma ai lettori i racconti piacciono» argomentavo io. «Il merito non è suo. È della concorrenza, così inetta e pedante da far precipitare un asino in stato catatonico in meno di un paragrafo. Vediamo se riesce a maturare, una buona volta, e a cadere dall'albero del frutto proibito.» Io annuivo fingendo contrizione, ma segretamente accarezzavo quelle parole proibite, Grand Guignol, e mi dicevo che ogni causa, per quanto frivola, aveva bisogno di un campione che ne difendesse l'onore. Cominciavo a sentirmi il più fortunato dei mortali quando scoprii che ad alcuni colleghi del giornale dava fastidio che il beniamino e mascotte ufficiale della redazione avesse mosso i primi passi nel mondo delle lettere, mentre le loro aspirazioni e ambizioni letterarie languivano da anni in un grigio limbo di miserie. Il fatto che i lettori del quotidiano leggessero con avidità e apprezzassero quei modesti racconti più di qualunque altro testo pubblicato negli ultimi vent'anni peggiorava solo le cose. In pochissime
settimane vidi come l'orgoglio ferito di coloro che fino a poco tempo prima avevo considerato la mia unica famiglia li trasformava in un tribunale ostile che iniziava a togliermi il saluto e la parola e che si compiaceva nell'affinare il proprio risentito talento rivolgendomi alle spalle espressioni di sarcasmo e disprezzo. La mia incomprensibile buona sorte veniva attribuita all'aiuto di Pedro Vidal, all'ignoranza e alla stupidità dei nostri abbonati, nonché al diffuso e comodo paradigma nazionale secondo il quale ottenere qualche successo in qualsiasi ambito professionale costituiva, senza eccezioni, una prova inconfutabile di incapacità e mancanza di meriti. Davanti a quell'inattesa e infausta piega degli avvenimenti, Vidal cercava di farmi coraggio; ma io iniziavo a sospettare che i miei giorni in redazione fossero contati. «L'invidia è la religione dei mediocri. Li consola, risponde alle inquietudini che li divorano e, in ultima istanza, imputridisce le loro anime e consente di giustificare la loro grettezza e la loro avidità fino a credere che siano virtù e che le porte del cielo si spalancheranno solo per gli infelici come loro, che attraversano la vita senza lasciare altra traccia se non i loro sleali tentativi di sminuire gli altri e di escludere, e se possibile distruggere, chi, per il semplice fatto di esistere e di essere ciò che è, mette in risalto la loro povertà di spirito, di mente e di fegato. Fortunato colui al quale latrano i cretini, perché la sua anima non apparterrà mai a loro.» «Amen» conveniva don Basilio. «Se lei non fosse nato ricco, avrebbe dovuto fare il prete. O il rivoluzionario. Con sermoni così, crolla contrito perfino un vescovo.» «Sì, ridete pure» protestavo io. «Intanto, quello che non possono vedere nemmeno dipinto sono io.» A parte il ventaglio di inimicizie e diffidenze che i miei sforzi mi stavano procurando, la triste realtà era che, nonostante le mie arie da autore popolare, lo stipendio mi bastava a stento per sopravvivere, comprare più libri di quelli che avevo il tempo di leggere e affittare una stanzetta in una pensione sepolta in un vicolo vicino a calle Princesa e diretta da una galiziana devota che rispondeva al nome di donna Carmen. Donna Carmen pretendeva discrezione e cambiava le lenzuola una volta al mese, motivo per cui si consigliava ai residenti di astenersi dal soccombere alle tentazioni dell'onanismo o dal mettersi a letto con i vestiti sporchi. Non era necessario limitare la presenza di femmine nelle stanze perché non c'era una sola
donna in tutta Barcellona che avrebbe acconsentito a entrare in quel buco, nemmeno sotto minaccia di morte. Lì imparai che nella vita quasi tutto si dimentica, a cominciare dagli odori, e che se aspiravo a qualcosa nel mondo era a non morire in un posto come quello. Nei momenti tristi, che erano la maggioranza, mi dicevo che, se qualcosa mi avrebbe tirato fuori di lì prima che lo facesse un attacco di tubercolosi, era la letteratura, e che se a qualcuno prudevano l'anima o le vergogne, per me poteva grattarsele con un mattone. Le domeniche all'ora della messa, quando donna Carmen partiva per il suo appuntamento settimanale con l'Altissimo, gli ospiti approfittavano per riunirsi nella stanza del più veterano di tutti noi, un infelice chiamato Heliodoro che da giovane aspirava a diventare matador, ma si era poi accontentato di fare le cronache delle corride e il responsabile degli orinatoi della zona dei posti al sole della plaza de toros Monumental. «L'arte del toreo è morta» proclamava. «Ora è tutto in mano ad allevatori avidi e toreri senz'anima. Il pubblico non sa distinguere il toreo per la massa ignorante dall'arte che solo gli intenditori sanno apprezzare.» «Ah, se le avessero dato la possibilità, don Heliodoro, sarebbe un altro paio di maniche.» «È che in questo paese hanno successo solo i buoni a nulla.» «Non me lo dica...» Dopo il sermone settimanale di don Heliodoro arrivavano i festeggiamenti. Ammucchiati come salsicce davanti alla finestrella della stanza, i residenti potevano vedere e sentire attraverso il lucernario i rantoli di una vicina dell'immobile attiguo, Marujita, soprannominata Peperoncino per la parlata piccante e la generosa anatomia a forma di peperone rosso. Marujita si guadagnava la vita facendo le pulizie in negozi di mezza tacca, ma la domenica e le feste comandate le riservava a un fidanzato seminarista che, in incognito, arrivava in treno da Manresa e s'impegnava con brio ed entusiasmo nella conoscenza del peccato. I miei compagni di alloggio se ne stavano insaccati alla finestra per catturare una visione fugace delle titaniche chiappe di Marujita in uno di quegli andirivieni che le facevano lievitare come l'impasto del dolce di Pasqua contro il vetro del lucernario, quando suonò il campanello della pensione. Di fronte alla mancanza di volontari per andare ad aprire, rischiando così di perdere un posto con una buona vista sullo spettacolo, desistetti dal desiderio di unirmi al coro e mi incamminai verso la porta. Quando aprii, mi imbattei in una visione insoli-
ta e improbabile in una cornice tanto miserabile. Don Pedro Vidal in tutto il suo genio, la sua eleganza e il suo completo di seta italiana sorrideva dal pianerottolo. «E la luce fu» disse entrando senza attendere l'invito. Si soffermò a osservare la stanza che faceva le funzioni di sala da pranzo e agorà di quel tugurio e sospirò con disgusto. «Forse è meglio andare nella mia stanza» suggerii. Gli feci strada. Le urla e le ovazioni dei miei coinquilini in onore di Marujita e delle sue acrobazie veneree perforavano le pareti di esultanza. «Che posto allegro» commentò Vidal. «Si degni di accomodarsi nella suite presidenziale, don Pedro» lo invitai. Entrammo e chiusi la porta. Dopo aver dato un'occhiata velocissima alla mia stanza, si sedette sull'unica sedia e mi guardò con freddezza. Non faticavo a immaginare l'impressione che il mio modesto domicilio doveva avergli provocato. «Cosa gliene sembra?» «Incantevole. Quasi quasi trasloco qui anch'io.» Pedro Vidal abitava a Villa Helius, un monumentale casermone modernista di tre piani con torrione, adagiato sulle pendici delle colline che salivano verso Pedralbes, all'incrocio tra calle Abadesa Olzet e calle Panama. La casa era un regalo che il padre gli aveva fatto dieci anni prima con la speranza che mettesse la testa a posto e si facesse una famiglia, impresa nella quale Vidal aveva già qualche decennio di ritardo. La vita aveva benedetto don Pedro Vidal con molti talenti, fra i quali quello di deludere e offendere suo padre con ogni gesto e ogni passo che faceva. Vederlo fraternizzare con indesiderabili come me non aiutava. Ricordo che una volta in cui avevo fatto visita al mio mentore per portargli dei documenti dal giornale mi imbattei nel patriarca del clan Vidal in una delle sale di Villa Helius. Quando mi vide, il padre di don Pedro mi ordinò di andare a prendergli un bicchiere di gassosa e uno strofinaccio pulito per togliergli una macchia dalla giacca. «Credo che si confonda, signore. Non sono un servo...» Mi rivolse un sorriso che metteva in chiaro l'ordine delle cose nel mondo senza bisogno di parole. «Chi si confonde sei tu, ragazzo. Sei un servo, che tu lo sappia o no. Come ti chiami?» «David Martín, signore.» Il patriarca assaporò il mio nome.
«Segui il mio consiglio, David Martín. Vattene da questa casa e torna nel posto a cui appartieni. Ti risparmierai molti problemi e li risparmierai a me.» Non lo confessai mai a don Pedro, ma filai subito in cucina a prendere la gassosa e lo strofinaccio e passai un quarto d'ora a pulire la giacca del grand'uomo. L'ombra del clan era lunga, e per quanto a don Pedro piacesse ostentare una leggiadria da bohémien, tutta la sua vita era una propaggine della rete familiare. Villa Helius era vantaggiosamente situata a cinque minuti dalla grande villa paterna che dominava il tratto superiore di avenida Pearson, un miscuglio cattedralizio di balaustrate, scalinate e abbaini che contemplava tutta Barcellona in lontananza come un bimbo contempla i giocattoli buttati via. Ogni giorno una spedizione di due domestici e una cuoca della casa grande, com'era chiamato il domicilio paterno nel giro dei Vidal, si recava a Villa Helius per pulire, lucidare, stirare, cucinare e rimboccare l'esistenza del mio facoltoso protettore in un letto di comodità e perpetuo oblio degli incresciosi fastidi della vita quotidiana. Don Pedro Vidal si spostava per la città su una fiammante Hispano-Suiza guidata dall'autista di famiglia, Manuel Sagnier, e probabilmente non era mai salito su un tram in tutta la sua vita. Da buona creatura di palazzo e di alto lignaggio, a Vidal sfuggiva il lugubre e macilento fascino che avevano le pensioni economiche nella Barcellona dell'epoca. «Non si faccia scrupoli, don Pedro.» «Questo posto sembra una cella» proclamò alla fine. «Non so come fai a viverci.» «Con il mio stipendio, e pure a stento.» «Se è necessario, ti do io quello che manca per farti vivere in un posto che non puzzi di zolfo e di piscio.» «Non se lo sogni nemmeno.» Vidal sospirò. «Morì d'orgoglio e nell'asfissia più assoluta. Ecco un epitaffio gratis.» Per qualche istante Vidal si mise a camminare per la stanza senza aprire bocca, fermandosi a ispezionare il mio minuscolo armadio, a guardare dalla finestra con la faccia schifata, a tastare la pittura verdastra che ricopriva i muri e a colpire leggermente con l'indice la lampadina nuda che pendeva dal soffitto, come se volesse verificare che la qualità di tutta quella roba era infima. «Cosa la porta da queste parti, don Pedro? Troppa aria pura a Pedralbes?»
«Non vengo da casa. Vengo dal giornale.» «E allora?» «Ero curioso di vedere dove abiti e poi ho qualcosa per te.» Tirò fuori dalla giacca una busta di pergamena bianca e me l'allungò. «È arrivata oggi in redazione, a nome tuo.» Presi la busta e la esaminai. Era chiusa con un sigillo di ceralacca in cui si notava il disegno di un profilo alato. Un angelo. A parte questo, l'unica cosa visibile era il mio nome impeccabilmente scritto in una grafia scarlatta dai tratti raffinati. «Chi la manda?» chiesi, intrigato. Vidal si strinse nelle spalle. «Qualche ammiratore. O ammiratrice. Non lo so. Aprila.» Aprii con cautela la busta e ne estrassi un foglio piegato in due sul quale, nella stessa grafia, si leggeva: Caro amico, mi permetto di scriverle per trasmetterle la mia ammirazione e i miei complimenti per il successo ottenuto di recente dai Misteri di Barcellona sulle pagine della "Voz de la Industria". In quanto lettore e amante della buona letteratura, mi fa un immenso piacere incontrare una nuova voce piena di talento, gioventù e promesse. Mi consenta, dunque, in segno di gratitudine per le belle ore che la lettura dei suoi racconti mi ha regalato, di invitarla a una piccola sorpresa che confido sia di suo gradimento a mezzanotte all'Ensueho del Raval. La aspetteranno. Affettuosamente A.C. Vidal, che aveva letto da dietro le mie spalle, inarcò le sopracciglia, incuriosito. «Interessante» mormorò. «In che senso?» domandai. «Che genere di posto è l'Ensueño?» Vidal estrasse una sigaretta dal portasigarette di platino. «Donna Carmen non lascia fumare nella pensione» lo avvertii. «Perché? Il fumo disturba la puzza di fogna?» Vidal accese la sigaretta e l'assaporò con doppio piacere, come si gode di tutto ciò che è proibito. «Hai mai conosciuto una donna, David?»
«Be', certo. Un mucchio.» «Intendo in senso biblico.» «A messa?» «No, a letto.» «Ah.» «Allora?» La verità è che non avevo granché da raccontare che potesse impressionare uno come Vidal. Le mie avventure e i miei amorazzi da adolescente si erano caratterizzati fino a quel momento per la loro modestia e una notevole mancanza di originalità. Nulla nel mio breve catalogo di pizzicotti, carezze e baci rubati in portoni e sale cinematografiche poteva aspirare a meritare la considerazione del maestro consacrato nelle arti e nelle scienze dei giochi d'alcova della Città Comitale. «Che c'entra questo?» protestai. Vidal adottò un atteggiamento professorale e sciorinò uno dei suoi discorsi. «Nella mia gioventù, la cosa normale, almeno per i signorini come me, era venire iniziati a queste battaglie per mano di una professionista. Quando avevo la tua età, mio padre, che era ed è ancora un habitué dei locali più raffinati della città, mi portò in un posto chiamato l'Ensueño, a pochi metri da quel palazzo macabro che il nostro caro conte Güell volle far costruire da Gaudí sulle Ramblas. Non dirmi che non ne hai mai sentito parlare.» «Del conte o del bordello?» «Molto divertente. L'Ensueño era un locale elegante per una clientela selezionata avveduta. A dire il vero pensavo avesse chiuso da anni, ma immagino che non debba essere così. A differenza della letteratura, certi affari sono sempre in attivo.» «Capisco. È sua l'idea? Una specie di scherzo?» Vidal negò. «Di qualche cretino della redazione, allora?» «Rilevo una certa ostilità nelle tue parole, ma dubito che qualcuno dedito al nobile mestiere della stampa in qualità di soldato semplice possa permettersi gli onorari di un posto come l'Ensueño, se è quello che ricordo.» Sbuffai. «Fa lo stesso, tanto non penso di andarci.» Vidal inarcò le sopracciglia. «Non venirtene fuori adesso con la storia che non sei un miscredente
come me e che vuoi arrivare puro di cuore e di parti basse al talamo nuziale, che sei un'anima immacolata desiderosa di attendere il momento magico in cui il vero amore ti porterà a scoprire l'estasi della carne e dell'anima in un unisono benedetto dallo Spirito Santo, per popolare il mondo di creature che abbiano il tuo cognome e gli occhi della madre, quella santa donna scrigno di virtù e onestà, tenendo la cui mano varcherai le porte del cielo sotto il benevolo e compiaciuto sguardo del Bambin Gesù.» «Non volevo dire questo.» «Ne sono contento, perché è possibile, e sottolineo possibile, che quel momento non arrivi mai, che non ti innamori, che tu non voglia né possa affidare la tua vita a qualcuno e che, come me, tu compia un giorno quarantacinque anni e ti accorga che non sei più giovane e che non c'era per te un coro di cupidi con le lire, né un letto di rose bianche adagiato verso l'altare, e che l'unica vendetta che ti resta è rubare alla vita il piacere di quella carne soda e ardente che evapora più in fretta delle buone intenzioni, la cosa più simile al cielo che troverai in questo porco mondo dove tutto marcisce, a cominciare dalla bellezza per finire con la memoria.» Lasciai fluttuare una pausa solenne a mo' di silenziosa ovazione. Vidal era un appassionato d'opera e aveva finito per acquisire il ritmo e l'oratoria delle grandi arie. Non mancava mai al suo appuntamento con Puccini dal palco di famiglia al Liceo. Era uno dei pochi, senza contare i poveracci ammucchiati in piccionaia, che andavano lì ad ascoltare la musica che tanto amava e che tanto tendeva a influenzare i discorsi sul divino e l'umano con cui a volte, come quel giorno, omaggiava le mie orecchie. «Cosa c'è?» chiese Vidal, con aria di sfida. «Quell'ultimo paragrafo mi ricorda qualcosa.» Sorpreso con le mani nel sacco, sospirò e annuì. «È di Assassinio al Circolo del Liceo» ammise Vidal. «La scena finale in cui Miranda LaFleur spara all'iniquo marchese che le ha spezzato il cuore tradendola in una notte di passione nella suite nuziale dell'hotel Colón fra le braccia della spia dello zar Svetlana Ivanova.» «Mi sembrava. Non avrebbe potuto scegliere meglio. È il suo capolavoro, don Pedro.» Vidal mi sorrise per l'elogio e valutò se accendere un'altra sigaretta. «Il che non toglie che ci sia della verità in tutto questo» concluse. Vidal si sedette sul davanzale, non senza averci prima messo sopra un fazzoletto per non macchiarsi i pantaloni d'alta classe. Vidi la HispanoSuiza parcheggiata sotto, all'angolo di calle Princesa. L'autista, Manuel, lu-
strava le cromature con un panno come se si trattasse di una scultura di Rodin. Manuel mi aveva sempre ricordato mio padre, uomini della stessa generazione che avevano attraversato troppi giorni di sventura e che avevano la propria memoria incisa sulla faccia. Avevo sentito dire da qualcuno dei domestici di Villa Helius che Manuel Sagnier aveva trascorso un lungo periodo in carcere e che quand'era uscito aveva patito anni di stenti perché nessuno gli dava lavoro se non come scaricatore di sacchi e casse sui moli, un mestiere per il quale non aveva più l'età né la salute. Manuel, rischiando la vita, aveva salvato Vidal dal finire sotto un tram. Per riconoscenza Pedro Vidal, venuto a sapere della penosa situazione del pover'uomo, aveva deciso di offrirgli un lavoro e la possibilità di trasferirsi con la moglie e la figlia nel piccolo appartamento sopra i garage di Villa Helius. Gli aveva assicurato che la piccola Cristina avrebbe studiato con gli stessi tutori che ogni giorno si recavano alla casa paterna nell'avenida Pearson per impartire lezioni ai rampolli della dinastia Vidal, e che sua moglie avrebbe potuto svolgere il suo mestiere di sarta per la famiglia. Lui stava pensando di acquistare una delle prime automobili che si vendevano a Barcellona e, se Manuel avesse appreso l'arte della guida motorizzata lasciandosi alle spalle la carrozza e il calesse, Vidal avrebbe avuto bisogno di un autista, perché in quell'epoca i signorini non mettevano le mani sui motori a scoppio né sui congegni con scappamento a gas. Manuel, naturalmente, aveva accettato. Dopo questo riscatto dalla miseria, la versione ufficiale assicurava che Manuel Sagnier e famiglia provavano una devozione cieca nei confronti di Vidal, eterno paladino dei diseredati. Io non sapevo se credere a quella storia o se attribuirla alla sfilza di leggende fiorite intorno al carattere da aristocratico benevolo che coltivava Vidal, al quale a volte sembrava che mancasse solo di apparire a qualche pastorella orfana avvolto in un alone di luce. «Ti è venuta la faccia da mascalzone di quando ti lasci andare a pensieri maliziosi» rilevò Vidal. «Cosa stai tramando?» «Niente. Pensavo a quanto è buono lei, don Pedro.» «Alla tua età e con la tua posizione, il cinismo non apre nessuna porta.» «Questo spiega tutto.» «Su, saluta quel brav'uomo di Manuel, che chiede sempre di te.» Mi affacciai alla finestra. Quando mi vide, l'autista, che mi trattava sempre come un signorino e non come lo zotico che ero, mi salutò da lontano. Ricambiai il saluto. Seduta in macchina c'era sua figlia Cristina, una creatura dalla pelle candida e le labbra pennellate, più grande di me di un paio
d'anni, che mi aveva tolto il fiato quando l'avevo vista la prima volta che Vidal mi aveva invitato a Villa Helius. «Non guardarla troppo, altrimenti la rompi» mormorò Vidal alle mie spalle. Mi girai e mi trovai di fronte all'espressione machiavellica che Vidal riservava agli affari di cuore e di altri organi nobili. «Non so di cosa parla.» «Che gran verità» replicò Vidal. «Allora, cos'hai deciso per stanotte?» Rilessi il biglietto ed esitai. «Lei frequenta questo tipo di locali, don Pedro?» «Non pago per una donna da quando avevo quindici anni e anche allora, tecnicamente, ha pagato mio padre» rispose Vidal senza nessuna spocchia. «Ma a caval donato...» «Non lo so, don Pedro...» «Certo che lo sai.» Vidal mi batté sulla spalla mentre andava verso la porta. «Ti restano sette ore fino a mezzanotte» disse. «Lo dico nel caso volessi schiacciare un pisolino per accumulare forze.» Mi affacciai alla finestra e lo vidi allontanarsi verso la macchina. Manuel gli aprì la portiera e Vidal si lasciò cadere per inerzia sul sedile posteriore. Sentii il motore della Hispano-Suiza dispiegare la sua sinfonia di pistoni e stantuffi. In quell'istante la figlia dell'autista, Cristina, alzò gli occhi e guardò verso la mia finestra. Le sorrisi, ma mi resi conto che lei non si ricordava di me. Un attimo dopo distolse lo sguardo e la grande vettura di Vidal si allontanò per far ritorno al suo mondo. 3 A quell'epoca calle Nou de la Rambla stendeva un corridoio di lampioni e insegne luminose fra le tenebre del Raval. Cabaret, sale da ballo e locali difficili da classificare sgomitavano su entrambi i marciapiedi con case specializzate in malattie veneree, preservativi e lavande che rimanevano aperte fino all'alba mentre gente di ogni risma, dai signorini di una certa distinzione ai membri degli equipaggi di navi ancorate nel porto, si mescolava con stravaganti personaggi che vivevano dal tramonto in poi. Su entrambi i lati della strada si aprivano vicoli angusti e sepolti nella bruma che ospitavano una litania di postriboli dal decrescente cachet.
L'Ensueño occupava la parte superiore di un edificio che a piano terra ospitava un music-hall e che annunciava con grandi locandine lo spettacolo di una ballerina inguainata in una diafana e succinta toga che non faceva mistero dei suoi incanti mentre teneva tra le braccia un serpente nero, la cui lingua bifida sembrava baciarla sulle labbra. "Eva Montenegro e il tango della morte" recitava la locandina a caratteri cubitali. "La regina della notte in sei serate esclusive e imperdibili. Con la partecipazione straordinaria di Mesmero, il lettore di menti che svelerà i vostri più intimi segreti." Accanto all'ingresso del locale c'era una porta stretta oltre la quale si apriva una lunga scalinata con le pareti dipinte di rosso. Salii le scale e mi piazzai davanti a una grande porta di rovere intagliato, il cui batacchio aveva la forma di una ninfa forgiata in bronzo con un pudico trifoglio sul pube. Bussai un paio di volte e aspettai, rifuggendo dal mio riflesso sul grande specchio fumé che occupava buona parte della parete. Stavo considerando la possibilità di squagliarmela in tutta fretta quando la porta si aprì e una donna di mezza età dai capelli completamente bianchi e impeccabilmente acconciati a crocchia mi sorrise serena. «Lei dev'essere il signor David Martín.» Nessuno mi aveva mai chiamato signore, e la cerimoniosità mi colse di sorpresa. «In persona.» «Se vuole avere la cortesia di entrare e di seguirmi...» Le andai dietro lungo un breve corridoio che conduceva a un'ampia sala circolare dalle pareti rivestite di velluto rosso e con lampade dalla luce soffusa. Il soffitto formava una cupola di vetro smaltato da cui pendeva un lampadario di cristallo sotto il quale una tavola di mogano sosteneva un enorme grammofono che esalava un'aria d'opera. «Gradisce qualcosa da bere?» «Se avesse un bicchier d'acqua, gliene sarei grato.» La signora dai capelli bianchi sorrise senza battere ciglio, imperturbabile nel suo atteggiamento cortese e rilassato. «Forse il signore preferisce una coppa di champagne o un liquore. O forse un bianco secco di Jerez.» Il mio palato non andava oltre le diverse vendemmie di acqua del rubinetto, perciò mi strinsi nelle spalle. «Faccia lei.» La signora assentì senza perdere il sorriso e indicò una delle sontuose
poltrone sparse nella sala. «Se il signore vuole accomodarsi, Chloé verrà subito da lei.» Credetti di soffocare. «Chloé?» Indifferente alla mia perplessità, la signora dai capelli bianchi sparì attraverso una porta che s'intravedeva dietro una tenda di perline nere e mi lasciò da solo con il mio nervosismo e i miei inconfessabili desideri. Camminai per la stanza per scacciare la tremarella che si stava impossessando di me. Eccezion fatta per la musica soffusa e il battito del cuore alle tempie, quel posto era una tomba. Sei corridoi partivano dalla sala, fiancheggiati da aperture ricoperte da tendaggi azzurri che conducevano a sei porte bianche a doppia anta, tutte chiuse. Mi lasciai cadere su una poltrona, uno di quegli oggetti concepiti per coccolare le chiappe di principi reggenti e generalissimi con un debole per i colpi di Stato. Dopo un po' la dama bianca ritornò con una coppa di champagne su un vassoio d'argento. L'accettai e la vidi scomparire di nuovo dalla stessa porta. Bevvi lo champagne d'un sorso e mi slacciai il colletto della camicia. Cominciavo a sospettare che fosse tutto uno scherzo ordito a mie spese da Vidal. In quel momento mi accorsi di una figura che avanzava verso di me da uno dei corridoi. Sembrava una bambina, e lo era. Camminava a testa bassa, senza che riuscissi a vederle gli occhi. Mi alzai in piedi. La bambina s'inchinò in una riverente genuflessione e mi fece cenno di seguirla. Solo allora mi resi conto che una delle sue mani era posticcia, come quella di un manichino. La bambina mi condusse alla fine del corridoio e con una chiave che portava appesa al collo aprì la porta e si fece da parte. La stanza era quasi al buio. Mi ci addentrai per qualche passo, cercando di aguzzare la vista. A quel punto sentii che la porta si chiudeva alle mie spalle e, quando mi voltai, la bambina era sparita. Sentii scattare il meccanismo della serratura e seppi di essere chiuso dentro. Per un minuto rimasi lì, immobile. Lentamente gli occhi si abituarono alla penombra e i contorni della stanza si materializzarono intorno a me. Le pareti erano ricoperte di tela nera dal pavimento al soffitto. Su un lato si indovinava una serie di strani aggeggi che non avevo mai visto e che non fui in grado di decidere se mi paressero sinistri o tentatori. Un ampio letto circolare giaceva sotto una testiera simile a una grande ragnatela da cui pendevano due candelieri nei quali due ceri neri ardevano sprigionando quel profumo di cera che si annida nelle cappelle e nelle camere ardenti. Accanto al letto
c'era una grata dal disegno sinuoso. Rabbrividii. Quel posto era identico alla camera da letto che avevo creato nella finzione per la mia ineffabile vampira Chloé e le sue avventure nei Misteri di Barcellona. C'era puzza di bruciato. Mi preparavo a cercare di forzare la porta quando mi accorsi di non essere solo. Mi fermai, raggelato. Un profilo sì disegnava dietro la grata. Due occhi brillanti mi osservavano e riuscii a distinguere le dita bianche e affusolate, con lunghe unghie smaltate di nero, che spuntavano dai fori della grata. Deglutii. «Chloé?» mormorai. Era lei. La mia Chloé. L'operistica e insuperabile femme fatale dei miei racconti, in carne e lingerie. Aveva la pelle più candida che avessi mai visto, e i capelli neri e lucidi tagliati ad angolo retto le incorniciavano il viso. Le labbra sembravano dipinte di sangue fresco e nere aure d'ombra le circondavano gli occhi verdi. Aveva movenze feline, come se quel corpo attillato in un corsetto rilucente come squame fosse d'acqua e avesse imparato a prendersi gioco della gravità. La gola slanciata e interminabile era circondata da un nastro di velluto scarlatto dal quale pendeva un crocifisso rovesciato. La osservai avvicinarsi lentamente, incapace perfino di respirare, gli occhi inchiodati a quelle gambe disegnate con tratto impossibile dentro calze di seta che probabilmente costavano più di quanto io guadagnassi in un anno e sostenute da scarpe a punta annodate alle caviglie con nastri di seta. In vita mia non avevo mai visto niente di così bello, né di così terribile. Mi lasciai condurre da quella creatura fino al letto, dove caddi, letteralmente, di culo. La luce delle candele accarezzava il profilo del suo corpo. Il mio volto e le mie labbra rimasero all'altezza del suo ventre nudo e senza nemmeno rendermi conto di quello che stavo facendo la baciai sotto l'ombelico e le sfiorai la pelle con la guancia. A quel punto mi ero dimenticato chi ero e dove mi trovavo. Lei si inginocchiò di fronte a me e mi prese la mano destra. Languida, come un gatto, mi leccò le dita a una a una, poi mi fissò e cominciò a spogliarmi. Volevo aiutarla, ma sorrise e allontanò le mie mani. «Shhhh.» Quando ebbe finito, si accostò al mio viso e mi leccò le labbra. «Adesso tu. Spogliami. Piano. Molto piano.» Seppi allora di essere sopravvissuto a un'infanzia malaticcia e spiacevole solo per vivere quei secondi. La spogliai lentamente, sfogliandole la pelle
finché le restarono solo il nastro di velluto attorno alla gola e quelle calze nere del cui ricordo tanti poveracci come me avrebbero potuto vivere cent'anni. «Accarezzami» mi sussurrò all'orecchio. «Gioca con me.» Accarezzai e baciai ogni centimetro della sua pelle come se volessi memorizzarlo per tutta la vita. Chloé non aveva fretta e rispondeva al tocco delle mie mani e delle mie labbra con leggeri gemiti che mi guidavano. Poi mi fece stendere sul letto e mi ricoprì con il suo corpo finché sentii bruciare ogni poro. Le posai le mani sulla schiena e percorsi la linea miracolosa che segnava la sua colonna vertebrale. Il suo sguardo impenetrabile osservava il mio viso da pochi centimetri di distanza. Sentii che dovevo dirle qualcosa. «Mi chiamo...» «Shhhhh.» Prima che potessi dire qualche altra stupidaggine, Chloé appoggiò le sue labbra sulle mie e, per un'ora, mi fece scomparire dal mondo. Consapevole della mia goffaggine, ma lasciandomi credere che non la notava, Chloé anticipava ogni mio movimento e guidava le mie mani lungo il suo corpo senza fretta né pudore. Non c'era fastidio né assenza nei suoi occhi. Si lasciava toccare e assaporare con infinita pazienza e con una tenerezza che mi fece dimenticare com'ero giunto fin lì. Quella notte, per il breve spazio di un'ora, imparai ogni piega della sua pelle come altri imparano le preghiere o le maledizioni. Più tardi, quando quasi non mi restava più fiato, Chloé mi lasciò appoggiare la testa sui suoi seni e mi accarezzò i capelli durante un lungo silenzio, fino a quando mi addormentai tra le sue braccia con la mano tra le sue cosce. Quando mi svegliai, la stanza era in penombra e Chloé se n'era andata. La sua pelle non era più tra le mie mani. Al suo posto c'era un biglietto da visita stampato sulla stessa pergamena bianca della busta che conteneva l'invito e sul quale, sotto l'emblema dell'angelo, si leggeva: ANDREAS CORELLI Éditeur Éditions de la Lumière Boulevard St.-Germain, 69. Paris Sul retro c'era un'annotazione a mano:
Caro David, la vita è fatta di grandi speranze. Quando sarà pronto per trasformare le sue in realtà, si metta in contatto con me. La aspetterò. Il suo amico e lettore A.C. Raccolsi gli indumenti da terra e mi vestii. La porta della camera non era più chiusa a chiave. Percorsi il corridoio fino al salone, dove il grammofono si era zittito. Non c'era traccia né della bambina né della donna dai capelli bianchi che mi aveva aperto. Il silenzio era assoluto. Mentre mi dirigevo all'uscita ebbi l'impressione che le luci alle mie spalle svanissero e che corridoi e stanze si oscurassero lentamente. Uscii sul ballatoio e scesi di malavoglia le scale di ritorno al mondo. Una volta in strada mi incamminai verso le Ramblas, lasciandomi dietro la folla e la confusione dei locali notturni. Una nebbia tenue e calda saliva dal porto e il luccichio dei finestroni dell'hotel Oriente la tingeva di un giallo sporco e polveroso in cui i passanti svanivano come volute di vapore. Mi misi a camminare mentre il profumo di Chloé iniziava a svanire dai miei pensieri e mi domandai se le labbra di Cristina Sagnier, la figlia dell'autista di Vidal, avessero lo stesso sapore. 4 Uno non sa cosa sia la sete fin quando non beve per la prima volta. Tre giorni dopo la mia visita all'Ensueño, il ricordo della pelle di Chloé mi bruciava perfino i pensieri. Senza dire nulla a nessuno - men che meno a Vidal - decisi di mettere insieme i pochi risparmi che mi rimanevano e di ritornarci quella sera stessa, nella speranza che bastassero per comprare anche solo un istante tra le sue braccia. Era mezzanotte quando giunsi alla scalinata dalle pareti rosse che portava all'Ensueño. La luce era spenta e salii lentamente, lasciandomi alle spalle la rumorosa cittadella di cabaret, bar, music-hall e locali di difficile definizione che gli anni della Grande guerra in Europa avevano disseminato in calle Nou de la Rambla. La luce tremula che filtrava dal portone disegnava i gradini al mio passaggio. Arrivato sul pianerottolo, mi fermai e cercai con le mani il batacchio. Le mie dita sfiorarono il pesante picchiotto di metallo. Quando lo sollevai, la porta cedette di qualche centimetro e capii che era aperta. La spinsi leggermente.
Un silenzio assoluto mi accarezzò il volto. Di fronte a me si apriva una penombra azzurrata. Feci qualche passo, sconcertato. L'eco delle luci della strada palpitava nell'aria, svelando visioni fugaci delle pareti nude e del pavimento di legno sfasciato. Arrivai alla sala che ricordavo decorata di velluti e mobili opulenti. Era vuota. Il manto di polvere che ricopriva il pavimento brillava come sabbia al luccichio delle insegne luminose della strada. Avanzai lasciando una scia di impronte sulla polvere. Non c'erano tracce né del grammofono, né delle poltrone, né dei quadri. Il soffitto era crepato e s'intravedevano travi di legno annerito. La pittura delle pareti pendeva a brandelli simili a pelli di serpente. Mi diressi verso il corridoio che portava alla stanza dove avevo incontrato Chloé. Attraversai quel tunnel di oscurità fino ad arrivare alla porta a doppia anta, che non era più bianca. Non c'era il pomello, solo un buco nel legno, come se la maniglia fosse stata strappata di colpo. Aprii ed entrai. La stanza di Chloé era una cella di nerume. Le pareti erano carbonizzate e gran parte del soffitto era crollata. Potevo scorgere la muraglia di nuvole nere che attraversavano il cielo e la luna che proiettava un alone argentato sullo scheletro metallico di quello che era stato il letto. Fu allora che sentii il pavimento scricchiolare alle mie spalle e mi voltai di scatto, accorgendomi di non essere solo. Una sagoma scura e affilata, maschile, si stagliava sull'ingresso. Non potevo distinguerne il volto, ma avevo la certezza che mi stesse osservando. Rimase lì, immobile come un ragno, per qualche secondo, il tempo che impiegai a reagire e a fare un passo verso di lui. In un attimo la figura scomparve nell'ombra e quando arrivai nel salone non c'era più nessuno. Un alito di luce proveniente da un'insegna luminosa sull'altro lato della strada inondò la sala per un secondo, svelando un mucchietto di detriti vicino al muro. Qualcosa emergeva dalla pila. Dita. Scostai la cenere che le ricopriva e lentamente affiorò il contorno di una mano. La presi e, tirandola, vidi che era segata all'altezza del polso. La riconobbi all'istante e capii che la mano di quella bambina, che avevo creduto di legno, era di porcellana. La lasciai cadere e mi allontanai. Mi chiesi se non mi fossi immaginato quell'intruso, perché non c'erano orme di passi sulla polvere. Scesi di nuovo in strada e rimasi a contemplare dal marciapiede le finestre del primo piano, in preda alla confusione. La gente mi passava accanto ridendo, incurante della mia presenza. Cercai di ritrovare il profilo dell'intruso tra la folla. Sapevo che era lì, forse a pochi metri, e che mi osservava. Dopo un po' attraversai la strada ed entrai in un piccolo caffè zeppo di gente. Riuscii a ritagliarmi un po' di spazio al ban-
cone e feci un cenno al cameriere. «Dica.» Avevo la bocca secca e sabbiosa. «Una birra» improvvisai. Mentre il cameriere me la versava, mi chinai verso di lui. «Scusi, sa se il locale di fronte, L'Ensueño, ha chiuso?» Il cameriere lasciò il bicchiere sul bancone e mi guardò come se fossi scemo. «È chiuso da quindici anni» disse. «Ne è sicuro?» «Certo. Dopo l'incendio non ha più riaperto. Altro?» Feci segno di no. «Sono quattro centesimi.» Pagai la consumazione e me ne andai senza toccare il bicchiere. Il giorno dopo arrivai in anticipo in redazione e andai dritto agli archivi del piano interrato. Con l'aiuto di Matias, il responsabile, e facendomi guidare da quanto mi aveva detto il cameriere, iniziai a consultare le prime pagine della "Voz de la Industria" di quindici anni prima. Ci misi una quarantina di minuti a trovare la vicenda, appena un trafiletto. L'incendio era scoppiato all'alba del Corpus Domini del 1903. Sei persone erano morte tra le fiamme: un cliente, quattro delle ragazze in organico e una ragazzina che lavorava lì. La polizia e i pompieri avevano individuato la causa della tragedia nel guasto di una lampada, ma il patronato di una parrocchia vicina citava la giustizia divina e l'intervento dello Spirito Santo come fattori determinanti. Tornato alla pensione, mi stesi a letto e cercai inutilmente di conciliare il sonno. Tirai fuori dalla tasca il biglietto da visita di quello strano benefattore che mi ero ritrovato fra le mani risvegliandomi nel letto di Chloé e rilessi nella penombra le parole scritte sul retro. "Grandi speranze." 5 Nel mio mondo le speranze, grandi e piccole, raramente diventavano realtà. Fino a pochi mesi prima il mio unico desiderio ogni sera quando andavo a dormire era di trovare un giorno abbastanza coraggio da rivolgere la parola alla figlia dell'autista del mio mentore, Cristina, e che passassero in fretta le ore che mi separavano dall'alba per poter tornare alla redazione della "Voz de la Industria". Adesso, perfino quel rifugio stava per sfuggir-
mi di mano. Forse, se qualcuno dei miei tentativi fosse fallito miseramente, avrei riconquistato l'affetto dei miei colleghi, mi dicevo. Forse, se avessi scritto qualcosa di tanto mediocre e abietto da non consentire a nessun lettore di superare il primo paragrafo, i miei peccati di gioventù sarebbero stati perdonati. Forse non sarebbe stato un prezzo troppo alto per potermi sentire di nuovo a casa. Forse. Ero arrivato alla "Voz de la Industria" molti anni prima accompagnato da mio padre, un uomo tormentato e senza fortuna che al ritorno dalla guerra delle Filippine aveva trovato una città che preferiva non riconoscerlo e una moglie che l'aveva già dimenticato e che due anni dopo aveva deciso di abbandonarlo. Gli aveva lasciato il cuore infranto e un figlio mai desiderato con cui non sapeva che fare. Mio padre, che a stento era capace di leggere e scrivere il suo nome, non aveva arte né parte. Quello che aveva imparato in guerra era uccidere altri uomini come lui prima che fossero loro a ucciderlo, sempre in nome di cause grandiose e vuote che si rivelavano tanto più assurde e meschine quanto più ci si avvicinava alla battaglia. Al ritorno dalla guerra mio padre, che sembrava vent'anni più vecchio di quando era partito, cercò impiego in varie industrie del Pueblo Nuevo e del quartiere di Sant Marti. I lavori gli duravano appena qualche giorno, e prima o poi me lo vedevo tornare a casa con lo sguardo avvilito dal risentimento. Col tempo, e in mancanza di alternative, accettò un posto da sorvegliante notturno alla "Voz de la Industria". La paga era modesta, però i mesi passavano, e per la prima volta dal ritorno dalla guerra sembrava non mettersi nei guai. La pace fu breve. Ben presto alcuni vecchi compagni d'armi, cadaveri viventi che erano tornati mutilati nel corpo e nell'anima per constatare che chi li aveva mandati a morire in nome di Dio e della patria adesso sputava loro in faccia, lo coinvolsero in affari torbidi troppo grandi per lui e che non riuscì mai a capire davvero. Spesso mio padre spariva per un paio di giorni e, quando tornava, le mani e i vestiti gli puzzavano di polvere da sparo e le tasche di soldi. Allora si rifugiava nella sua stanza e, credendo che io non me ne accorgessi, s'iniettava quel poco o quel tanto che era riuscito a trovare. All'inizio non chiudeva mai la porta, però un giorno mi sorprese a spiarlo e mi diede uno schiaffone che mi spaccò le labbra. Poi mi abbracciò fin quando la forza nelle braccia non lo abbandonò e restò disteso a terra, l'ago ancora conficcato nella pelle. Glielo sfilai e lo coprii con uno scialle. Dopo quell'inci-
dente cominciò a chiudersi a chiave. Abitavamo in una piccola soffitta sospesa sul cantiere del nuovo auditorium del Palau de la Música de l'Orfeó Català. Era un posto freddo e angusto in cui il vento e l'umidità sembravano prendersi gioco dei muri. Io mi sedevo sul piccolo balcone con le gambe penzoloni a vedere la gente che passava e a contemplare quella scogliera di sculture e colonne impossibili che cresceva dall'altra parte della strada e che a volte mi sembrava quasi di poter toccare con le dita, mentre altre, la maggioranza, mi parevano lontane come la luna. Sono stato un bambino debole e malaticcio, incline a febbri e infezioni che mi trascinavano al limitare della tomba, ma che, all'ultimo momento, si pentivano sempre e partivano alla ricerca di una preda più importante. Quando mi ammalavo, mio padre finiva per perdere la pazienza e dopo la seconda notte di veglia mi lasciava alle cure di una vicina e spariva di casa per qualche giorno. Col tempo cominciai a sospettare che sperasse di trovarmi morto al suo ritorno per liberarsi del peso di quel figlio dalla salute di carta che non gli serviva a nulla. Più di una volta desiderai che accadesse, ma mio padre tornava e mi trovava sempre vivo, scodinzolante e un po' più alto. Madre Natura non aveva pudore nel deliziarmi con il suo esteso codice penale di germi e miserie, ma non trovò mai il modo di applicarmi del tutto la legge di gravità. Contro ogni pronostico, sopravvissi a quei primi anni sul filo del rasoio di un'infanzia precedente alla penicillina. A quell'epoca, la morte non viveva ancora nell'anonimato e la si poteva vedere e annusare dappertutto mentre divorava anime che ancora non avevano avuto nemmeno il tempo di peccare. Già a quei tempi i miei unici amici erano fatti di carta e inchiostro. A scuola avevo imparato a leggere e a scrivere molto prima degli altri bambini del quartiere. Dove i miei amici vedevano tracce d'inchiostro su pagine incomprensibili, io vedevo luce, strade, persone. Le parole e il mistero della loro scienza occulta mi affascinavano e mi sembravano una chiave con cui aprire un mondo infinito e al riparo da quella casa, quelle strade e quei giorni torbidi in cui perfino io potevo intuire che mi attendeva scarsa fortuna. A mio padre non piaceva vedere libri per casa. C'era qualcosa in loro, a parte le lettere che non sapeva decifrare, che l'offendeva. Mi diceva che appena avessi avuto dieci anni mi avrebbe messo a lavorare e che era meglio se mi toglievo tutti quei grilli dalla testa perché altrimenti sarei diventato un disgraziato e un morto di fame. Io nascondevo i libri sotto il
materasso e aspettavo che lui uscisse o si addormentasse per poter leggere. Una volta mi sorprese di notte e montò in collera. Mi strappò il libro di mano e lo buttò dalla finestra. «Se ti trovo ancora a sprecare luce leggendo quelle stupidaggini, te ne pentirai.» Mio padre non era un taccagno e, nonostante le ristrettezze che pativamo, quando poteva mi mollava qualche moneta perché mi ci comprassi dei dolciumi come gli altri bambini del quartiere. Era convinto che le spendessi in bastoncini di liquirizia, arachidi o caramelle, ma io le conservavo in un barattolo di caffè sotto il letto e, quando avevo messo insieme quattro o cinque reales, correvo a comprarmi un libro senza che lui lo sapesse. Il mio posto preferito in tutta la città era la libreria di Sempere e Figli in calle Santa Ana. Quel posto che odorava di carta vecchia e di polvere era il mio santuario e il mio rifugio. Il libraio mi lasciava sedere su una sedia in un angolo e leggere a mio piacimento qualunque libro volessi. Quasi mai Sempere mi faceva pagare i libri che mi metteva in mano, ma quando non se ne accorgeva io lasciavo sul banco, prima di andarmene, le monete che avevo risparmiato. Erano solo spiccioli, e se avessi dovuto comprare qualche libro con quella miseria l'unico che mi sarei sicuramente potuto permettere sarebbe stato uno di quei libriccini di cartine per sigarette. Quando era ora di andar via, lo facevo strascicando i piedi e l'anima, perché se fosse di peso da me sarei rimasto a vivere lì. Un Natale, Sempere mi fece il più bel regalo che abbia mai ricevuto in vita mia. Era un tomo vecchio, letto e vissuto a fondo. «Grandi speranze, di Carlos Dickens...» lessi sulla copertina. Mi risultava che Sempere conoscesse alcuni scrittori che frequentavano il suo negozio e, per l'affetto con cui maneggiava quel volume, pensai che forse quel don Carlos era uno di loro. «Un amico suo?» «Di tutta la vita. E da oggi anche tuo.» Quella sera, nascosto sotto i vestiti perché mio padre non lo vedesse, mi portai a casa il mio nuovo amico. Fu un autunno di piogge e giorni plumbei durante il quale lessi Grandi speranze nove volte di fila, in parte perché non avevo altro da leggere a portata di mano e in parte perché non pensavo che potesse esistere un libro migliore e iniziavo a sospettare che don Carlos l'avesse scritto solo per me. Ben presto ebbi la ferma convinzione che non desideravo altro nella vita se non imparare a fare quello che faceva quel tal signor Dickens.
Una notte mi svegliai di colpo per gli scossoni di mio padre, tornato dal lavoro prima del tempo. Aveva gli occhi iniettati di sangue e l'alito gli puzzava di alcol. Lo guardai terrorizzato, e lui tastò con le dita la lampadina nuda appesa a un filo. «È calda.» Mi fissò e scagliò con rabbia la lampadina contro il muro. Esplose in mille pezzi di vetro che mi caddero sulla faccia, ma non osai togliermeli. «Dov'è?» chiese mio padre, la voce fredda e serena. Scossi la testa, tremando. «Dov'è quel libro di merda?» Scossi di nuovo la testa. Nella penombra, quasi non vidi arrivare il colpo. Sentii che mi si annebbiava la vista e che cadevo dal letto, con la bocca sanguinante e un intenso dolore come fuoco bianco che mi bruciava dietro le labbra. Nel girare la testa vidi quelli che mi sembrarono i pezzi di un paio di denti rotti sul pavimento. La mano di mio padre mi afferrò per il collo e mi sollevò. «Dov'è?» «Papà, per favore...» Con tutte le forze mi sbatté la faccia contro il muro e il colpo mi fece perdere l'equilibrio e crollare come un sacco d'ossa. Mi trascinai in un angolo e me ne stetti lì, raggomitolato, guardando mio padre che apriva l'armadio, prendeva le quattro cose che avevo e le buttava a terra. Perquisì cassetti e bauli senza trovare il libro finché, esausto, tornò a occuparsi di me. Chiusi gli occhi e mi addossai al muro, aspettando altre botte che non arrivarono mai. Li riaprii e vidi mio padre seduto sul letto, che piangeva soffocando per la mancanza di fiato e la vergogna. Quando si accorse che lo guardavo, si precipitò giù per le scale. Ascoltai l'eco dei suoi passi allontanarsi nel silenzio dell'alba e solo quando fui sicuro che fosse lontano mi trascinai fino al letto e presi il libro dal nascondiglio sotto il materasso. Mi vestii e uscii con il romanzo sotto il braccio. Un sudario di bruma calava su calle Santa Ana quando arrivai all'ingresso della libreria. Il libraio e suo figlio vivevano al primo piano dello stesso edificio. Sapevo che le sei del mattino non è ora per bussare a casa di nessuno, ma il mio unico pensiero in quel momento era salvare il libro. Avevo la certezza che, se mio padre l'avesse trovato rientrando a casa, l'avrebbe fatto a pezzi con tutta la rabbia che aveva in corpo. Suonai al campanello e aspettai. Dovetti insistere due o tre volte, finché sentii aprirsi la finestra del balcone e vidi il vecchio Sempere, in vestaglia e pantofole, che si affaccia-
va e mi guardava attonito. Un minuto dopo scese ad aprirmi e appena mi vide in faccia qualsiasi accenno di rabbia svanì. Si accovacciò davanti a me e mi sostenne per le braccia. «Santo Dio. Stai bene? Chi ti ha fatto una cosa del genere?» «Nessuno. Sono caduto.» Gli tesi il libro. «Sono venuto a restituirglielo, perché non voglio che gli succeda niente...» Sempere mi guardò senza parlare. Mi prese in braccio e mi portò a casa. Suo figlio, un ragazzino di dodici anni tanto timido che non ricordavo di aver mai sentito la sua voce, si era svegliato sentendo suo padre uscire e aspettava sul pianerottolo. Vedendo il sangue sulla mia faccia, guardò spaventato il padre. «Chiama il dottor Campos.» Il ragazzo annuì e corse al telefono. Lo sentii parlare e verificai che non era muto. Insieme mi fecero accomodare su una poltrona della sala da pranzo e mi pulirono il sangue delle ferite in attesa che arrivasse il dottore. «Non vuoi dirmi chi te l'ha fatto?» Non aprii bocca. Sempere non sapeva dove abitavo e non volevo fargli venire in mente certe idee. «È stato tuo padre?» Distolsi lo sguardo. «No. Sono caduto.» Il dottor Campos, che abitava a quattro o cinque portoni di distanza, arrivò in cinque minuti. Mi esaminò dalla testa ai piedi, palpando i lividi e curando i tagli con tutta la delicatezza possibile. Era chiaro che gli bruciavano gli occhi per l'indignazione, ma non disse nulla. «Non ci sono fratture, ma qualche contusione che ti farà male per un po' di giorni. Questi due denti bisognerà toglierli. Sono rovinati e c'è rischio d'infezione.» Quando il dottore se ne andò, Sempere mi preparò un bicchiere di latte tiepido con il cacao e osservò sorridendo come lo bevevo. «Tutto questo per salvare Grandi speranze, eh?» Mi strinsi nelle spalle. Padre e figlio si scambiarono un sorriso complice. «La prossima volta che vuoi salvare un libro, salvarlo davvero, non rischiare la vita. Me lo dici e ti porto in un posto segreto dove i libri non muoiono mai e dove nessuno può distruggerli.» Li guardai entrambi, intrigato.
«E che posto è?» Sempere mi strizzò l'occhio e mi rivolse quel sorriso misterioso che sembrava rubato da un feuilleton di Alexandre Dumas e che, dicevano, era un marchio di famiglia. «Ogni cosa a suo tempo, amico mio. Ogni cosa a suo tempo.» Mio padre passò tutta quella settimana con gli occhi fissi a terra, roso dal rimorso. Comprò una lampadina nuova e arrivò a dirmi che, se volevo accenderla, lo facessi pure, ma non troppo a lungo, perché l'elettricità era carissima. Io preferii non scherzare con il fuoco. Il sabato di quella settimana volle comprarmi un libro e andò in una libreria, la prima e l'ultima in cui entrava, in calle de la Palla, di fronte alle vecchie mura romane; ma non sapeva leggere i titoli sulle coste delle centinaia di libri esposti, e uscì a mani vuote. Poi mi diede dei soldi, più del solito, e mi disse di comprarci quello che volevo. Mi sembrò il momento opportuno per tirare fuori un argomento per il quale da tempo non trovavo l'occasione propizia. «Donna Mariana, la maestra, mi ha chiesto di dirle se può passare da scuola per parlare con lei» lasciai cadere. «Parlare di che? Cos'hai combinato?» «Niente, papà... Vorrebbe parlare con lei della mia futura educazione. Dice che ho delle possibilità e che crede di potermi aiutare a ottenere una borsa di studio per entrare dagli Esculapi...» «Chi si crede di essere quella donna per riempirti la testa di grilli e per dirti che ti farà entrare in un collegio di figli di papà? Tu conosci quella gentaglia? Sai come ti guarderanno e come ti tratteranno quando sapranno da dove vieni?» Abbassai gli occhi «Donna Mariana vuole solo darmi una mano, papà. Nient'altro. Non si inquieti. Le dirò che non si può fare e basta.» Mio padre mi guardò con rabbia, ma si trattenne e respirò a fondo varie volte con gli occhi chiusi prima di aggiungere: «Ce la faremo, d'accordo? Tu e io. Senza l'elemosina di tutti quei figli di puttana. E a testa alta.» «Sì, papà.» Mi mise una mano sulla spalla e mi guardò come se, per un breve istante che non sarebbe tornato mai più, fosse orgoglioso di me, anche se eravamo tanto diversi, anche se a me piacevano i libri che lui non sapeva leggere, perfino se lei ci aveva messo l'uno contro l'altro. In quell'istante credetti
che mio padre era l'uomo più buono del mondo e che tutti se ne sarebbero resi conto se la vita, per una volta, si fosse degnata di dargli una buona mano di carte. «Tutto il male che uno fa nella vita ritorna, David. E io ne ho fatto tanto. Tanto. Ma ho pagato il prezzo. E la nostra sorte cambierà. Vedrai. Vedrai.» Nonostante le insistenze di donna Mariana, che era più furba della fame e già immaginava come stavano andando le cose, non parlai più con mio padre della mia educazione. Quando la maestra capì che non c'erano speranze, mi disse che ogni giorno, alla fine delle lezioni, mi avrebbe dedicato un'ora in più per parlarmi di libri, di storia e di tutte quelle cose che tanto spaventavano mio padre. «Sarà il nostro segreto» disse la maestra. Già allora avevo cominciato a capire che mio padre si vergognava che la gente pensasse che era un ignorante, un relitto di una guerra che, come quasi tutte le guerre, veniva combattuta in nome di Dio e della patria per rendere più potenti uomini che già lo erano troppo prima di provocarla. In quel periodo, qualche notte cominciai ad accompagnare mio padre al lavoro. Prendevamo un tram in calle Trafalgar che ci lasciava alle porte del cimitero. Io restavo nella sua garitta, a leggere vecchie copie del giornale, e ogni tanto cercavo di fare conversazione con lui, impresa ardua. Mio padre quasi non parlava più, né della guerra nelle colonie né della donna che l'aveva abbandonato. Una volta gli chiesi perché mia madre ci aveva lasciato. Sospettavo che fosse stato per colpa mia, per qualcosa di male che avevo fatto, magari solo per essere nato. «Tua madre mi aveva abbandonato già prima che mi mandassero al fronte. Lo stupido sono stato io, che non me ne sono accorto finché non sono tornato. La vita è così, David. Prima o poi, tutto e tutti ti abbandonano.» «Io non l'abbandonerò mai, papà.» Mi sembrò che stesse per scoppiare a piangere e l'abbracciai per non guardarlo in faccia. Il giorno dopo, senza preavviso, mi portò ai magazzini tessili El Indio in calle del Carmen. Non entrammo, ma dalle vetrate dell'ingresso mi indicò una donna giovane e sorridente che serviva i clienti e mostrava loro stoffe e tessuti pregiati. «Quella è tua madre» mi disse. «Un giorno di questi torno qui e l'ammazzo.» «Non dica così, papà.» Mi guardò con gli occhi arrossati e seppi che l'amava ancora e che io
non l'avrei mai perdonata. Ricordo che la osservai di nascosto, senza che lei sapesse che eravamo lì, e che la riconobbi solo grazie al ritratto che mio padre conservava a casa in un cassetto, accanto alla sua pistola dell'esercito che ogni notte, quando credeva che io dormissi, tirava fuori e contemplava come se possedesse tutte le risposte, o almeno quelle che servivano a lui. Per anni sarei tornato davanti alle porte di quel negozio per spiarla di nascosto. Non ebbi mai il coraggio di entrare né di parlarle quando la vedevo uscire e allontanarsi giù per le Ramblas verso una vita che mi ero immaginato per lei, con una famiglia che la rendeva felice e un figlio che meritava più di me il suo affetto e il contatto della sua pelle. Mio padre non seppe mai che a volte scappavo per vederla, o che c'erano giorni in cui la seguivo da vicino, sempre sul punto di prenderle la mano e di camminare accanto a lei, sempre fuggendo all'ultimo momento. Nel mio mondo, le grandi speranze vivevano soltanto fra le pagine di un libro. La buona sorte che mio padre tanto desiderava non arrivò mai. L'unica cortesia che la vita gli riservò fu di non farlo attendere troppo. Una notte, mentre arrivavamo alle porte del giornale per iniziare il turno di lavoro, tre pistoleri sbucarono dall'ombra e lo crivellarono di colpi sotto i miei occhi. Ricordo l'odore di zolfo e l'alone fumante che saliva dai fori bruciacchiati aperti dalle pallottole nel suo cappotto. Uno dei pistoleri si preparava a dargli il colpo di grazia quando mi gettai su mio padre e un altro degli assassini lo fermò. Ricordo gli occhi del pistolero fissi nei miei, mentre si chiedeva se dovesse uccidere anche me. All'improvviso, si allontanarono a passo svelto e sparirono nei vicoli stretti tra gli edifici del Pueblo Nuevo. Quella notte i suoi assassini lasciarono mio padre a dissanguarsi fra le mie braccia, e me solo al mondo. Passai quasi due settimane dormendo nella tipografia del giornale, nascosto tra linotype che sembravano giganteschi ragni d'acciaio, cercando di zittire quel sibilo esasperante che mi perforava i timpani al tramonto. Quando mi scoprirono, avevo ancora le mani e i vestiti macchiati di sangue secco. All'inizio nessuno sapeva chi fossi, perché non parlai per quasi una settimana e quando lo feci fu per urlare il nome di mio padre fino a perdere la voce. Quando mi chiesero di mia madre, dissi che era morta e che non avevo nessuno al mondo. La mia storia arrivò alle orecchie di Pedro Vidal, la star del giornale e amico intimo dell'editore, che dietro sua richiesta ordinò di darmi un lavoro da fattorino e di permettermi di vivere fino a nuovo avviso nelle modeste stanze
del portiere al piano interrato. Erano anni in cui il sangue e la violenza per le strade di Barcellona cominciavano a essere pane quotidiano. Giorni di volantini e bombe che lasciavano resti di corpi tremanti e fumanti per le strade del Raval, giorni di bande di figure nere che vagavano nella notte spargendo sangue, di processioni e sfilate di santi e generali che puzzavano di morte e di inganni, di discorsi incendiari in cui tutti mentivano e tutti avevano ragione. La rabbia e l'odio che anni dopo avrebbero portato gli uni e gli altri ad ammazzarsi in nome di slogan magniloquenti e di stracci colorati cominciavano già ad assaporarsi nell'aria avvelenata. La bruma perpetua delle fabbriche strisciava sulla città e velava i suoi viali lastricati e solcati da tram e carrozze. La notte apparteneva alla luce a gas, alle ombre dei vicoli spezzate dai bagliori degli spari e dai lampi azzurrati della polvere bruciata. Erano anni in cui si cresceva in fretta, e quando l'infanzia si sbriciolava tra le loro mani molti bambini avevano già lo sguardo da vecchi. Senza altra famiglia se non quella tenebrosa Barcellona, il giornale diventò il mio rifugio e il mio mondo finché il mio stipendio mi permise di affittare quella stanza nella pensione di donna Carmen. Abitavo lì da appena una settimana quando un giorno la padrona venne nella mia camera e mi informò che un signore alla porta chiedeva di me. Sul pianerottolo trovai un uomo vestito di grigio, dallo sguardo grigio e dalla voce grigia che mi domandò se ero David Martín e, al mio assenso, mi allungò un pacchetto avvolto in carta da pacchi e si perse giù per le scale lasciando la sua grigia assenza a impestare quel mondo di miserie di cui ero entrato a far parte. Mi portai il pacchetto in camera e chiusi la porta. Nessuno, a eccezione di due o tre persone del giornale, sapeva che vivevo lì. Disfeci l'involto, intrigato. Era il primo pacchetto che ricevevo in vita mia. All'interno trovai un astuccio di legno stagionato dall'aspetto vagamente familiare. L'appoggiai sulla branda e lo aprii. Conteneva la vecchia pistola di mio padre, l'arma ricevuta dall'esercito e con cui era tornato dalle Filippine per procurarsi una morte precoce e miserabile. Accanto all'arma c'era una scatoletta di cartone con qualche pallottola. Presi la pistola e la soppesai. Puzzava di polvere da sparo e d'olio. Mi chiesi quanti uomini avesse ucciso mio padre con quell'arma, con cui aveva certamente sperato di mettere fine alla propria vita finché non l'avevano preceduto. Riposi l'arma nell'astuccio e lo richiusi. Il mio primo impulso fu di buttarla nella spazzatura, ma mi resi conto che quella pistola era tutto ciò che mi restava di mio padre. Immagi-
nai che l'usuraio di turno che alla morte di mio padre aveva confiscato il poco che avevamo in quel vecchio appartamento di fronte al tetto del Palau de la Música, a compensazione dei propri crediti, avesse deciso di mandarmi allora quel macabro promemoria per salutare il mio ingresso nell'età adulta. Nascosi l'astuccio sopra l'armadio, contro il muro su cui si accumulava il sudiciume e dove donna Carmen non arrivava nemmeno con i trampoli, e non lo toccai più per anni. Quella sera stessa tornai alla libreria di Sempere e Figli e, sentendomi ormai uomo di mondo e dotato di mezzi, manifestai al libraio la mia intenzione di acquistare quel vecchio esemplare di Grandi speranze che mi ero visto costretto a restituirgli anni prima. «Mi faccia il prezzo che vuole» gli dissi. «Mi faccia il prezzo di tutti i libri che non le ho pagato negli ultimi dieci anni.» Ricordo che Sempere sorrise con tristezza e mi posò la mano sulla spalla. «L'ho venduto stamattina» mi confessò abbattuto. 6 Trecentosessantacinque giorni dopo aver scritto il mio primo racconto per "La Voz de la Industria" arrivai, come d'abitudine, in redazione e la trovai quasi deserta. C'era solo un gruppo di redattori che mesi prima mi avevano dedicato soprannomi affettuosi e parole di sostegno e che quel giorno, vedendomi entrare, ignorarono il mio saluto e si chiusero in un capannello di mormorii. In meno di un minuto avevano preso i cappotti ed erano spariti come se temessero qualche tipo di contagio. Rimasi seduto, da solo, in quella sala insondabile, a contemplare lo strano spettacolo di decine di scrivanie vuote. Passi lenti e contundenti alle mie spalle annunciarono l'approssimarsi di don Basilio. «Buona sera, don Basilio. Cosa succede oggi che se ne sono andati tutti?» Don Basilio mi guardò con tristezza e si sedette alla scrivania vicina. «C'è una cena di Natale di tutta la redazione. Al Set Portes» disse con voce tranquilla. «Immagino che non le abbiano detto nulla.» Finsi un sorriso noncurante e feci cenno di no. «Lei non va?» chiesi. Don Basilio scosse la testa. «Non ne ho più voglia.»
Ci guardammo in silenzio. «E se la invito io?» proposi. «Dove vuole. Al Can Solé, se le va. Lei e io, per festeggiare il successo dei Misteri di Barcellona.» Don Basilio sorrise, annuendo lentamente. «Martín» disse alla fine. «Non so come dirglielo.» «Dirmi cosa?» Don Basilio si schiarì la voce. «Non le posso più pubblicare altre puntate dei Misteri di Barcellona.» Lo guardai senza comprendere. Don Basilio distolse lo sguardo. «Vuole che scriva un'altra cosa? Qualcosa di più galdosiano?» «Martín, lei sa com'è la gente. Ci sono state lamentele. Io ho cercato di sistemare la questione, però il direttore è un uomo debole e non gli piacciono i conflitti non necessari.» «Non la capisco, don Basilio.» «Martín, hanno chiesto a me di dirglielo.» Finalmente mi guardò e si strinse nelle spalle. «Sono licenziato» mormorai. Don Basilio annuì. Sentii che, mio malgrado, gli occhi mi si riempivano di lacrime. «Adesso le sembra la fine del mondo, ma mi creda se le dico che in fondo è la cosa migliore che poteva capitarle. Questo non è un posto per lei.» «E qual è il posto per me?» domandai. «Mi dispiace, Martín. Mi creda, mi dispiace.» Don Basilio si alzò e mi mise la mano sulla spalla con affetto. «Buon Natale, Martín.» Quella sera stessa svuotai la mia scrivania e lasciai per sempre quella che era stata la mia casa per perdermi nelle vie buie e solitarie della città. Sulla strada per la pensione passai dalle parti del ristorante Set Portes sotto gli archi di casa Xifré. Rimasi fuori, guardando i miei colleghi ridere e brindare dietro i vetri. Sperai che la mia assenza li rendesse felici o almeno gli facesse dimenticare che non lo erano e non lo sarebbero mai stati. Passai il resto di quella settimana alla deriva, rifugiandomi ogni giorno nella biblioteca dell'Ateneo convinto che, di ritorno alla pensione, avrei trovato un biglietto del direttore del giornale che mi pregava di rientrare in redazione. Nascosto in una delle sale di lettura, tiravo fuori quel biglietto da visita che mi ero ritrovato tra le mani al risveglio nell'Ensueño e iniziavo a scrivere una lettera all'anonimo benefattore, Andreas Corelli, che fini-
vo sempre per strappare e per ricominciare a scrivere il giorno dopo. Il settimo giorno, stanco di compatirmi, decisi di compiere l'inevitabile pellegrinaggio a casa del mio creatore. In calle Pelai presi il treno per Sarrià, che allora circolava ancora in superficie, e mi sedetti in testa al vagone a contemplare la città e le strade che si facevano più ampie e signorili a mano a mano che ci si allontanava dal centro. Scesi alla stazione di Sarrià e presi un tram che portava all'ingresso del monastero di Pedralbes. Era una giornata di caldo insolito per quella stagione e potevo sentire nella brezza il profumo dei pini e delle ginestre che punteggiavano i fianchi della montagna. Imboccai avenida Pearson, dove si iniziava già a edificare, e ben presto scorsi l'inconfondibile profilo di Villa Helius. Mentre salivo e mi avvicinavo, riuscii a scorgere Vidal che assaporava una sigaretta seduto alla finestra del suo torrione in maniche di camicia. Si sentiva una musica che fluttuava nell'aria e ricordai che Vidal era uno dei pochi privilegiati che possedevano un apparecchio radiofonico. Come doveva apparire bella la vita da lassù, e che poca cosa dovevo sembrare io. Lo salutai con la mano e lui ricambiò il saluto. Arrivato alla villa mi imbattei nell'autista, Manuel, che andava verso i garage con un mucchio di stracci e un secchio d'acqua fumante. «È un piacere vederla da queste parti, Martín» disse. «Come va la vita? Sempre sulla cresta dell'onda?» «Si fa quel che si può» risposi. «Non sia modesto, perfino mia figlia si legge quelle avventure che pubblica sul giornale.» Deglutii, sorpreso dal fatto che la figlia dell'autista non solo sapeva della mia esistenza, ma aveva addirittura letto qualcuna delle sciocchezze che scrivevo. «Cristina?» «Non ne ho altre» replicò don Manuel. «Il signore è nel suo studio, se vuol salire.» Ringraziai annuendo e m'infilai in casa. Salii fino al torrione del terzo piano che s'innalzava sul tetto ondulato di tegole policrome. Vidal era lì, in quello studio da cui si vedevano la città e il mare in lontananza. Spense la radio, un arnese delle dimensioni di un piccolo meteorite che aveva comprato mesi prima, quando erano state annunciate le prime trasmissioni di Radio Barcellona dagli studi camuffati sotto la cupola dell'hotel Colón. «Mi è costata quattrocento pesetas e adesso scopro che dice solo scioc-
chezze.» Ci sedemmo uno di fronte all'altro, con tutte le finestre aperte a quella brezza che per me, abitante della città vecchia e tenebrosa, sapeva di un altro mondo. Si sentivano gli insetti svolazzare in giardino e le foglie degli alberi frusciare al vento. «Sembra di essere in piena estate» azzardai. «Non svicoli parlando del tempo. Mi hanno già detto quello che è successo» disse Vidal. Mi strinsi nelle spalle e diedi un'occhiata alla sua scrivania. Sapevo che erano mesi, se non anni, che il mio mentore cercava di scrivere quello che chiamava un romanzo "serio", distante dalle trame leggere delle sue storie poliziesche, per inscrivere il suo nome nelle sezioni più stantie delle biblioteche. Non si vedevano molti fogli. «Come va il capolavoro?» Vidal gettò il mozzicone dalla finestra e guardò lontano. «Non ho più niente da dire, David.» «Sciocchezze.» «Sono tutte sciocchezze in questa vita. È semplicemente una questione di prospettiva.» «Dovrebbe metterci questo, nel libro. Il nichilista sulla collina. Un successo sicuro.» «Chi avrà presto bisogno di un successo sei tu, perché se non mi sbaglio cominciano a scarseggiarti i fondi.» «Posso sempre accettare la sua carità.» «C'è una prima volta per tutto. Adesso ti sembra la fine del mondo, però...» «Ben presto mi renderò conto che è la cosa migliore che poteva succedermi» completai. «Non mi dica che ora è don Basilio a scriverle i discorsi.» Vidal rise. «Cosa pensi di fare?» «Non ha bisogno di un segretario?» «Ho già la migliore segretaria che potrei avere. È più intelligente di me, infinitamente più lavoratrice e quando sorride mi sembra perfino che questo schifo di mondo abbia un po' di futuro.» «E chi è questa meraviglia?» «La figlia di Manuel.» «Cristina?»
«Finalmente ti sento pronunciare il suo nome.» «Ha scelto una brutta settimana per ridere di me, don Pedro.» «Non guardarmi con quella faccia da agnello sgozzato. Credi che Pedro Vidal avrebbe permesso a quel branco di mediocri spilorci e invidiosi di buttarti in mezzo alla strada senza far nulla?» «Una sua parola al direttore avrebbe certamente cambiato le cose.» «Lo so. Perciò sono stato io a suggerirgli di licenziarti» disse Vidal. Fu come se mi avesse appena dato uno schiaffo. «Grazie per l'aiuto» improvvisai. «Gli ho detto di licenziarti perché ho qualcosa di molto meglio per te.» «Chiedere l'elemosina?» «Uomo di poca fede. Proprio ieri ho parlato di te con un paio di soci che hanno appena aperto una nuova casa editrice e cercano sangue fresco da spremere e sfruttare.» «Sembra una meraviglia.» «Sanno già dei Misteri di Barcellona e sono pronti a farti un'offerta che ti renderà un uomo fatto e finito.» «Parla sul serio?» «Certo che parlo sul serio. Vogliono che tu scriva una serie di romanzi nella più barocca, sanguinosa e delirante tradizione del Grand Guignol che stracci I misteri di Barcellona. Credo sia l'opportunità che stavi aspettando. Ho detto che andrai a trovarli e che sei pronto a iniziare a lavorare immediatamente.» Respirai a fondo. Vidal mi fece l'occhiolino e mi abbracciò. 7 Fu così che, pochi mesi prima di compiere vent'anni, ricevetti e accettai un'offerta per scrivere romanzi un tanto a pagina con lo pseudonimo di Ignatius B. Samson. Il mio contratto mi impegnava a consegnare ogni mese duecento pagine dattiloscritte intessute di intrighi, omicidi nell'alta società, orrori senza fine nei bassifondi, amori illeciti tra crudeli possidenti dalla mascella volitiva e damigelle dagli inconfessabili desideri, nonché ogni tipo di contorte saghe familiari con retroscena più sporchi e torbidi delle acque del porto. La serie, che decisi di battezzare La città dei maledetti, sarebbe apparsa in una pubblicazione mensile in edizione rilegata con copertina a colori. In cambio avrei ricevuto più soldi di quanti avessi mai pensato si potessero guadagnare facendo qualcosa degno di rispetto. Non avrei
avuto censure salvo quella imposta dall'interesse dei lettori che avrei saputo conquistare. I termini dell'offerta mi obbligavano a scrivere nell'anonimato di uno stravagante pseudonimo, ma in quel momento mi parve un prezzo molto basso da pagare per potermi guadagnare da vivere con il mestiere che avevo sempre sognato di fare. Avrei rinunciato alla vanità di vedere il mio nome stampato sulla mia opera, ma non a me stesso né a quello che ero. I miei editori erano una coppia di pittoreschi signori chiamati Barrido ed Escobillas. Barrido, minuto, tarchiato e sempre armato di un sorriso untuoso e sibillino, era il cervello dell'operazione. Veniva dall'industria degli insaccati, e sebbene non avesse letto più di tre libri in vita sua, compresi il catechismo e l'elenco telefonico, era posseduto da un'audacia proverbiale per cucinarsi i libri contabili: li falsificava per gli investitori con sfoggi di immaginazione che sarebbero stati volentieri emulati dagli autori che la casa editrice, come aveva predetto Vidal, truffava, sfruttava e infine gettava a mare quando i venti soffiavano in direzione contraria, cosa che prima o poi accadeva sempre. Escobillas svolgeva un ruolo complementare. Alto, allampanato e con l'aria vagamente minacciosa, si era formato nel ramo delle pompe funebri e da sotto la soffocante acqua di colonia con cui irrorava le vergogne sembrava trapelare un vago fetore di formalina che faceva drizzare i capelli. Il suo compito era essenzialmente quello di sinistro sorvegliante, frusta in mano e pronto a fare il lavoro sporco per il quale Barrido, a causa del temperamento più allegro e dell'aspetto non tanto atletico, era meno portato. Il ménage-à-trois era completato dalla loro segretaria, Herminia, che li seguiva dovunque come un cane fedele e che tutti chiamavano Veleno perché, nonostante l'apparenza da gatta morta, ci si poteva fidare di lei come di un serpente a sonagli in calore. Formalità a parte, io cercavo di vederli il meno possibile. Il nostro era un rapporto esclusivamente mercantile e nessuna delle parti aveva un gran desiderio di alterare il protocollo stabilito. Mi ero ripromesso di approfittare di quella opportunità e di lavorare a fondo per dimostrare a Vidal, e a me stesso, che lottavo per meritare il suo aiuto e la sua fiducia. Con un po' di soldi freschi in mano, decisi di lasciare la pensione di donna Carmen in cerca di orizzonti più comodi. Da tempo avevo messo gli occhi su una grande casa dall'aria monumentale al 30 di calle Flassaders, a un tiro di schioppo dal paseo del Born: ci ero passato davanti per anni quando andavo e venivo dal giornale alla pensione. La proprietà, completata da un tor-
rione che sorgeva da una facciata lavorata a rilievi e gargolle, era chiusa da anni, il portone sprangato con catene e catenacci picchiettati di ruggine. Nonostante l'aspetto funebre e smisurato, o forse proprio per questo, l'idea di andarci ad abitare risvegliava in me la lussuria delle intenzioni sconsigliabili. In altre circostanze avrei ammesso che un posto simile andava ben oltre le mie scarse possibilità, ma i lunghi anni di abbandono e di oblio ai quali sembrava condannato mi fecero albergare la speranza che, se nessun altro lo voleva, forse i proprietari avrebbero accettato la mia offerta. Chiedendo nel quartiere, venni a sapere che la casa era disabitata da molti anni e che la proprietà l'aveva affidata a un amministratore chiamato Vicenç, Clavé, con gli uffici in calle Comercio, di fronte al mercato. Clavé era un gentiluomo all'antica a cui piaceva vestire come le statue dei sindaci e dei padri della patria che si trovavano agli ingressi del Parque de la Ciudadela e che alla minima occasione si lanciava in voli retorici che non risparmiavano nessuno. «Così, lei è scrittore. Guardi, io potrei raccontarle storie da scriverci ottimi libri.» «Ne sono certo. Perché non comincia con quella della casa al 30 di Flassaders?» Clavé adottò un'espressione da maschera greca. «La casa della torre?» «Esatto.» «Mi dia retta, giovanotto, non vada a vivere lì.» «Perché no?» Clavé abbassò la voce e, mormorando come se temesse che i muri ci ascoltassero, lasciò cadere una frase in tono funebre. «Quella casa è iellata. Io l'ho vista quando siamo andati con il notaio a mettere i sigilli e posso assicurarle che la parte vecchia del cimitero di Montjuïc è più allegra. Da allora è rimasta vuota. Custodisce brutti ricordi. Nessuno la vuole.» «I suoi ricordi non possono essere peggiori dei miei, e comunque aiuteranno sicuramente ad abbassare il prezzo che chiedono.» «A volte ci sono prezzi che non si possono pagare col denaro.» «Posso vederla?» Visitai per la prima volta la casa della torre una mattina di marzo in compagnia dell'amministratore, del suo segretario e di un funzionario di banca che ostentava il titolo di proprietà. A quanto pareva, la casa era stata
per anni avviluppata in un fitto labirinto di contese legali prima di tornare all'istituto di credito che aveva garantito per il suo ultimo proprietario. Se Clavé non mentiva, nessuno ci era più entrato da almeno vent'anni. 8 Anni dopo, leggendo il resoconto di alcuni esploratori britannici che si erano addentrati nelle tenebre di un millenario sepolcro egiziano con annessi labirinti e maledizioni, avrei ricordato quella prima visita alla casa della torre di calle Flassaders. Il segretario era equipaggiato con una lampada a olio perché non si era mai arrivati a installare l'elettricità. Il funzionario aveva un mazzo di quindici chiavi con cui aprire gli innumerevoli lucchetti che assicuravano le catene. Una volta aperto il portone, la casa esalò un alito putrido, che sapeva di tomba e di umidità. Il funzionario ebbe un attacco di tosse e l'amministratore, che aveva portato con sé la sua migliore espressione di scetticismo e censura, si mise un fazzoletto sulla bocca. «Prima lei» invitò. L'androne era una specie di cortile interno, alla moda degli antichi palazzi della zona, con un lastricato a grandi piastrelle e una scalinata di pietra che saliva alla porta principale della casa. In alto, tremolava un lucernario di vetro completamente sepolto da escrementi di piccioni e gabbiani. «Non ci sono topi» annunciai penetrando nell'edificio. «Qualcuno doveva pure avere un po' di buon gusto e di senso comune» disse l'amministratore alle mie spalle. Procedemmo su per le scale fino al pianerottolo d'ingresso all'appartamento principale, dove il funzionario ebbe bisogno di dieci minuti per trovare la chiave giusta. Il meccanismo cedette con un gemito che non sembrava di benvenuto. La porta si aprì per svelare un infinito corridoio zeppo di ragnatele che ondeggiavano nelle tenebre. «Madre di Dio» mormorò l'amministratore. Nessuno osò fare il primo passo, perciò ancora una volta fui io a guidare la spedizione. Il segretario teneva la lampada in alto, osservando tutto con aria compunta. L'amministratore e il funzionario si scambiarono uno sguardo indecifrabile. Quando videro che li stavo osservando, il funzionario di banca sorrise placidamente. «Si toglie la polvere e con due ritocchi diventa un palazzo» disse.
«Il palazzo di Barbablù» commentò l'amministratore. «Cerchiamo di essere positivi» rettificò il funzionario. «La casa è disabitata da un certo tempo e questo comporta sempre piccoli problemi.» Io a stento gli prestavo attenzione. Avevo sognato tante volte quel posto passandoci davanti che quasi non mi accorgevo dell'aura funebre e oscura che lo possedeva. Avanzai lungo il corridoio principale, esplorando stanze in cui i vecchi mobili giacevano abbandonati sotto una spessa cappa di polvere. Su un tavolo c'erano ancora una tovaglia sfilacciata, un servizio di piatti e un vassoio con frutta e fiori pietrificati. I bicchieri e le posate erano ancora lì, come se gli abitanti della casa si fossero alzati a metà della cena. Gli armadi erano ricolmi di vestiti logori, capi scoloriti e scarpe. C'erano interi cassetti zeppi di fotografie, occhiali, penne e orologi. Ritratti velati di polvere ci osservavano dai comò. I letti erano rifatti e coperti da un velo bianco che brillava nella penombra. Un grammofono monumentale giaceva su un tavolo di mogano. Sopra c'era un disco e la puntina era scivolata fino alla fine. Soffiai via lo strato di polvere che lo ricopriva e apparvero il titolo e l'incisione, il Lacrimosa di Mozart. «L'orchestra sinfonica in casa» disse il funzionario. «Cosa si può chiedere di più? Lei qui starà come un pascià.» L'amministratore gli lanciò uno sguardo assassino, scuotendo la testa di soppiatto. Attraversammo l'appartamento fino al salotto in fondo, dove un servizio da caffè giaceva sul tavolino e un libro aperto continuava ad attendere che qualcuno ne sfogliasse le pagine seduto in poltrona. «Sembra che se ne siano andati all'improvviso, senza il tempo di portarsi via niente» dissi. Il funzionario tossicchiò. «Forse il signore vuol vedere lo studio?» Lo studio si trovava in cima a una sottile torre, una peculiare struttura che aveva per anima una scala a chiocciola alla quale si accedeva dal corridoio principale e sulla cui facciata esterna si potevano leggere le tracce di tutte le generazioni che la città ricordava. La torre disegnava un belvedere sospeso sui tetti del quartiere della Ribera, completato da uno stretto tamburo di metallo e vetro dipinto che svolgeva la funzione di lanterna della cupola e da cui sporgeva una rosa dei venti a forma di drago. Salimmo la scala ed entrammo nella stanza, dove il funzionario si affrettò ad aprire le finestre per far entrare l'aria e la luce. Era una camera rettangolare dai soffitti alti e i pavimenti di legno scuro. Dai quattro finestroni ad arco aperti sui quattro lati potevo contemplare la basilica di Santa
Maria del Mar a sud, il grande mercato del Born a nord, la vecchia stazione Francia a est e verso ovest il labirinto infinito di strade e viali schiacciati gli uni sugli altri verso la collina del Tibidabo. «Cosa mi dice? Una meraviglia» sostenne il funzionario con entusiasmo. L'amministratore esaminava tutto con perplessità e fastidio. Il segretario teneva in alto la lampada, sebbene non ce ne fosse più nessun bisogno. Mi avvicinai a uno dei finestroni e mi affacciai a guardare il cielo, estasiato. Tutta Barcellona si stendeva ai miei piedi e volli credere che, nell'aprire le mie nuove finestre, le sue strade mi avrebbero sussurrato storie al crepuscolo e segreti all'orecchio perché io li catturassi sulla carta e li raccontassi a chi volesse ascoltarli. Vidal aveva la sua esuberante e signorile torre d'avorio nella parte più elevata ed elegante di Pedralbes, circondata da colline, alberi e cieli da sogno. Io avrei avuto il mio sinistro torrione innalzato sulle strade più antiche e tenebrose della città, circondato dai miasmi e dalle tenebre di quella necropoli che i poeti e gli assassini avevano chiamato la "Rosa di Fuoco". A convincermi a prendere la decisione fu la scrivania che dominava il centro dello studio. Su di essa, come una grande scultura di metallo e di luce, giaceva un'impressionante macchina per scrivere Underwood che per me valeva da sola il costo dell'affitto. Mi sedetti sulla poltrona da generale davanti alla scrivania e accarezzai la tastiera, sorridendo. «La prendo» dissi. Il funzionario sospirò di sollievo e l'amministratore, sbarrando gli occhi, si fece il segno della croce. Quel pomeriggio stesso firmai un contratto d'affitto per dieci anni. Mentre gli operai della compagnia elettrica installavano la luce, mi dedicai a pulire, mettere in ordine e sistemare la casa con il contributo di tre aiutanti mandati in truppa da Vidal senza chiedermi prima se volessi assistenza o no. Ben presto scoprii che il modus operandi di quel commando di esperti consisteva prima nel trapanare a destra e a manca e poi nel chiedere. Dopo tre giorni dal loro sbarco, la casa non aveva una sola lampadina in attività, ma chiunque avrebbe detto che era infestata da tarli divoratori di gesso e minerali nobili. «Vuol dire che non c'era altro modo di risolvere il problema?» chiedevo al capo del battaglione che sistemava tutto a martellate. Otilio, così si chiamava quel talento, mi mostrava le piantine che l'amministratore mi aveva consegnato insieme alle chiavi e argomentava che la colpa era della casa, mal costruita. «Guardi qui» diceva. «Quando le cose sono fatte male, sono fatte male.
Ecco. Qui dice che lei ha una cisterna sulla terrazza. E invece no. Ce l'ha nel cortile sul retro.» «E cosa importa? A lei la cisterna non compete, Otilio. Si concentri sul problema elettricità. Luce. Né rubinetti né tubature. Luce. Ho bisogno di luce.» «Ma è tutto connesso. Cosa mi dice del salotto?» «Che non c'è la luce.» «Secondo la piantina, questo dovrebbe essere un muro maestro. Be', qui il mio collega Remigio ha dato un colpetto e ci è crollata mezza parete. E non le dico le stanze. Sempre secondo la pianta, la sala in fondo al corridoio è di quasi quaranta metri quadri. Neanche da lontano. Se arriva a venti, mi ritengo soddisfatto. C'è un muro dove non ci dovrebbe essere. E dei tubi di scarico, be', meglio non parlare. Non ce n'è uno dove si pensa che dovrebbe essere.» «È sicuro di saper leggere le piantine?» «Senta, io sono un professionista. Mi dia retta, questa casa è un rompicapo. Qui ci ha messo le mani chiunque.» «Be', si dovrà arrangiare con quello che c'è. Faccia miracoli o quello che vuole, ma per venerdì voglio i muri intonacati e imbiancati e la luce che funziona.» «Non mi metta fretta, questo è un lavoro di precisione. Bisogna agire con una certa strategia.» «E cosa pensate di fare?» «Per il momento, di andare a mangiare.» «Ma se siete arrivati mezz'ora fa.» «Signor Martín, con questo atteggiamento non andiamo da nessuna parte.» La via crucis di lavori e lavoretti si prolungò una settimana più del previsto, ma con buona pace di Otilio e del suo squadrone di portenti, che facevano buchi dove non dovevano e colazioni di due ore e mezzo, l'illusione di poter finalmente abitare quella casa sognata per tanto tempo mi avrebbe permesso di viverci per anni con candele e lampade a olio, se necessario. Per fortuna il quartiere della Ribera era una riserva spirituale e materiale di artigiani di ogni tipo e a due passi dal mio nuovo domicilio trovai chi mi avrebbe installato nuove serrature che non sembrassero rubate dalla Bastiglia e lampadari e rubinetteria all'uso del XX secolo. L'idea di disporre di una linea telefonica non mi persuadeva e, stando a quanto avevo potuto sentire alla radio di Vidal, quelli che la stampa dell'epoca chia-
mava i nuovi mezzi di comunicazione di massa non mi avevano preso in considerazione al momento di cercare un pubblico. Decisi che la mia sarebbe stata un'esistenza di libri e di silenzio. Portai con me dalla pensione solo un cambio di vestiti e l'astuccio che conteneva la pistola di mio padre, il suo unico ricordo. Divisi il resto degli indumenti e degli effetti personali fra gli altri subaffittuari. Se mi fossi potuto lasciare alle spalle la pelle e la memoria, avrei fatto anche quello. Passai la prima notte ufficiale ed elettrificata nella casa della torre il giorno in cui apparve la puntata inaugurale della Città dei maledetti. Avevo incentrato la trama del romanzo sull'incendio dell'Ensueño nel 1903 e su una creatura spettrale che da allora stregava le strade del Raval. Prima che l'inchiostro della prima edizione si asciugasse, già avevo iniziato a lavorare al secondo romanzo della serie. Secondo i miei calcoli, e partendo dalla base di trenta giorni di lavoro ininterrotto al mese, Ignatius B. Samson doveva produrre una media di 6,66 pagine di dattiloscritto utili al giorno per rispettare i termini del contratto, il che era una follia, ma aveva il vantaggio di non lasciarmi molto tempo libero per rendermene conto. Quasi non mi accorgevo che, con il passare dei giorni, avevo cominciato a consumare più caffè e sigarette che ossigeno. Amano a mano che lo avvelenavo, avevo l'impressione che il mio cervello si stesse trasformando in una macchina a vapore che non si raffreddava mai. Ignatius B. Samson era giovane e aveva resistenza. Lavorava tutta la notte e crollava esausto all'alba, in balìa di strani sogni in cui le lettere sul foglio nel rullo della macchina per scrivere si staccavano dalla carta e, come ragni d'inchiostro, si trascinavano sulle sue mani e sulla sua faccia, attraversandogli la pelle e annidandosi nelle vene fino a ricoprirgli il cuore di nero e ad annebbiargli le pupille in pozzanghere di oscurità. Passavo intere settimane senza uscire di casa e dimenticavo che giorno della settimana o che mese dell'anno fosse. Non prestavo attenzione ai ricorrenti mal di testa che a volte mi assalivano all'improvviso, come se un punteruolo di metallo mi trapanasse il cranio, bruciandomi la vista in un'esplosione di luce bianca. Mi ero abituato a vivere con nelle orecchie un sibilo costante che solo il sussurro del vento o la pioggia riuscivano a mascherare. A volte, quando quel sudore freddo mi ricopriva il volto e sentivo che le mani mi tremavano sulla tastiera dell'Underwood, dicevo a me stesso che il giorno dopo sarei andato dal dottore. Ma poi quel giorno c'era un'altra scena e un'altra storia da rac-
contare. Si compiva il primo anno di vita di Ignatius B. Samson quando, per festeggiare, decisi di prendermi una giornata libera e di ritrovare il sole, la brezza e le strade di una città che avevo smesso di percorrere per limitarmi a immaginarla. Mi feci la barba, mi lavai e indossai il mio vestito migliore e più presentabile. Lasciai aperte le finestre dello studio e del salotto per far prendere aria alla casa e per lasciar spargere ai quattro venti quella nebbia spessa che era diventata il suo profumo caratteristico. Scendendo in strada, trovai una grande busta nella fessura della cassetta delle lettere. Dentro c'era una pergamena, sigillata con la ceralacca con l'immagine dell'angelo e vergata in quella raffinata grafia, su cui si leggeva: Caro David, volevo essere il primo a farle i complimenti per questa nuova tappa della sua carriera. Ho apprezzato enormemente le prime puntate della Città dei maledetti. Spero che questo piccolo omaggio sia di suo gradimento. Le rinnovo la mia ammirazione e la mia volontà che i nostri destini un giorno s'incrocino. Sicuro che così sarà, la saluta con affetto il suo amico e lettore Andreas Corelli L'omaggio era lo stesso esemplare di Grandi speranze che il signor Sempere mi aveva regalato da bambino, lo stesso che avevo restituito prima che mio padre potesse trovarlo e lo stesso che, quando anni dopo avevo voluto recuperarlo a qualunque prezzo, era sparito il giorno precedente tra le mani di uno sconosciuto. Contemplai quell'ammasso di carta che un giorno non troppo lontano mi era sembrato contenere tutta la magia e la luce del mondo. Sulla copertina si potevano ancora vedere le tracce delle mie dita di bambino macchiate di sangue. «Grazie» mormorai. 9 Il signor Sempere inforcò gli occhiali di precisione per esaminare il libro. Lo sistemò su un panno steso sulla scrivania nel retrobottega e abbassò la lampada affinché il fascio di luce fosse concentrato sul volume. La
sua perizia durò diversi minuti, durante i quali rimasi in religioso silenzio. Lo osservai sfogliare le pagine, odorarle, accarezzare la carta e il dorso, soppesare il libro con una mano e poi con l'altra e alla fine chiuderlo ed esaminare con la lente le tracce di sangue secco che le mie dita vi avevano lasciato dodici o tredici anni prima. «Incredibile» sussurrò, togliendosi gli occhiali. «È lo stesso libro. Come ha detto di averlo recuperato?» «Non lo so nemmeno io. Signor Sempere, cosa ne sa di un editore francese chiamato Andreas Corelli?» «A prima vista, suona più italiano che francese, anche se l'Andreas sembra greco...» «La casa editrice è a Parigi. Éditions de la Lumière.» Sempere restò pensieroso per qualche istante, incerto. «Temo che non mi risulti familiare. Chiederò a Barceló, che sa tutto, e vediamo cosa mi dice.» Gustavo Barceló era uno dei decani dei librai antiquari di Barcellona e la sua erudizione enciclopedica era leggendaria quanto il suo umore vagamente abrasivo e pedante. Nel mestiere, il detto consigliava, di fronte a qualunque dubbio, di chiedere a Barceló. In quel momento si affacciò il figlio di Sempere che, sebbene fosse due o tre anni più anziano di me, era così timido che a volte diventava invisibile, e fece un cenno a suo padre. «Papà, vengono a ritirare un ordinativo che credo abbia preso lei.» Il libraio annuì e mi tese un volume spesso e reduce da molte battaglie. «Questo è l'ultimo catalogo degli editori europei. Se vuole, veda un po' se trova qualcosa mentre servo il cliente» suggerì. Rimasi da solo nel retrobottega, cercando invano Éditions de la Lumière mentre Sempere tornava al bancone. Sfogliando il catalogo, lo sentii conversare con una voce femminile che mi risultò familiare. Sentii che menzionavano Pedro Vidal e, intrigato, mi affacciai a curiosare. Cristina Sagnier, figlia dell'autista e segretaria del mio mentore, controllava una pila di libri che Sempere andava annotando sul registro delle vendite. Vedendomi, sorrise con cortesia, ma ebbi la certezza che non mi aveva riconosciuto. Sempere alzò gli occhi e notando il mio sguardo da allocco fece una rapida radiografia della situazione. «Voi due già vi conoscete, vero?» disse. Cristina sollevò le sopracciglia, sorpresa, e mi fissò di nuovo, incapace di situarmi. «David Martín, amico di don Pedro» le venni in soccorso.
«Ah, certo» disse. «Buongiorno.» «Come sta suo padre?» improvvisai. «Bene, bene. Mi aspetta in macchina all'angolo.» Sempere, che non ne lasciava passare una, intervenne. «La signorina Sagnier è venuta a ritirare dei libri ordinati da Vidal. Sono così pesanti che forse lei può essere tanto gentile da aiutarla a portarli in macchina...» «Non vi preoccupate...» protestò Cristina. «Ci mancherebbe altro» mi lanciai io, lesto a sollevare la pila di libri che risultò pesare come l'edizione di lusso dell'Enciclopedia Britannica, appendici incluse. Sentii uno scricchiolio alla schiena e Cristina mi guardò allarmata. «Sta bene?» «Non abbia paura, signorina. L'amico Martín qui presente, sebbene sia un letterato, è un toro» disse Sempere. «Vero, Martín?» Cristina mi osservava poco convinta. Proposi il mio sorriso da maschio invincibile. «Tutti muscoli» dissi. «Questo è solo riscaldamento.» Sempere figlio stava per offrirsi di portare la metà dei libri, ma suo padre, in uno slancio di diplomazia, lo trattenne per il braccio. Cristina mi aprì la porta e mi avventurai a percorrere i quindici o venti metri che mi separavano dall'Hispano-Suiza parcheggiata all'angolo con Portal de l'Ángel. Ci arrivai a stento, con le braccia sul punto di prendere fuoco. Manuel, l'autista, mi aiutò a scaricare i libri e mi salutò calorosamente. «Che combinazione vederla qui, signor Martín.» «Piccolo, il mondo.» Cristina mi offrì un blando sorriso di ringraziamento e salì in macchina. «Mi dispiace per i libri.» «Non è niente. Un po' di esercizio solleva il morale» dissi, ignorando il groppo che mi si era formato alla schiena. «Saluti a don Pedro.» Li vidi partire verso plaza de Catalunya e quando mi voltai avvistai Sempere sulla porta della libreria che mi guardava con un sorriso gattesco e mi faceva dei cenni perché mi pulissi la bava. Avvicinandomi a lui, non potei fare a meno di ridere di me stesso. «Ora conosco il suo segreto, Martín. La facevo più esperto in queste battaglie.» «Tutto si arrugginisce.» «A chi lo dice. Posso tenermi il libro per qualche giorno?»
Annuii. «Me lo tratti bene.» 10 La rividi mesi dopo, in compagnia di Pedro Vidal, al tavolo che teneva sempre prenotato alla Maison Dorée. Vidal mi invitò a unirmi a loro, ma mi bastò scambiare uno sguardo con lei per capire che dovevo declinare l'offerta. «Come va il romanzo, don Pedro?» «Con il vento in poppa.» «Ne sono contento. Buon appetito.» I nostri incontri erano fortuiti. A volte la vedevo nella libreria di Sempere e Figli, dove andava spesso a cercare libri per don Pedro. Sempere, se ci riusciva, mi lasciava solo con lei, ma ben presto Cristina scoprì il trucco e mandava uno dei garzoni di Villa Helius a ritirare le ordinazioni. «Lo so che non sono affari miei» diceva Sempere. «Ma forse dovrebbe togliersela dalla testa.» «Non so di cosa stia parlando, signor Sempere.» «Martín, ci conosciamo da così tanto tempo...» I mesi passavano in controluce senza che me ne accorgessi. Vivevo di notte, scrivendo dal tramonto all'alba e dormendo durante il giorno. Barrido ed Escobillas non smettevano di congratularsi con me per il successo della Città dei maledetti e quando mi vedevano sull'orlo del collasso mi assicuravano che dopo un altro paio di romanzi mi avrebbero concesso un anno sabbatico per riposare o per scrivere un'opera personale che avrebbero pubblicato con grande strepito e con il mio vero nome in copertina a lettere cubitali. Mancavano sempre un altro paio di romanzi. Le fitte, le nausee e i mal di testa si facevano sempre più frequenti e più intensi, ma io li attribuivo alla fatica e li soffocavo con nuove iniezioni di caffeina, sigarette e pastiglie di codeina e diosacché che mi forniva sottobanco un farmacista di calle Argenteria e che sapevano di polvere da sparo. Don Basilio, con il quale pranzavo un giovedì sì e uno no in un ristorante della Barceloneta, mi incitava ad andare da un medico. Io dicevo sempre di sì, e che avevo un appuntamento per quella settimana stessa. A parte il mio ex capo e i Sempere, non avevo troppo tempo per vedere altre persone se non Vidal, e quando succedeva era perché lui veniva a trovarmi più che per mia iniziativa. Non gli piaceva la casa della torre e insi-
steva sempre perché andassimo a fare una passeggiata fino al bar Almirall in calle Joaquim Costa, dove aveva il conto aperto e un circolo letterario il venerdì sera, al quale non mi invitava perché sapeva che tutti i partecipanti, poetastri frustrati e leccaculo che lo compiacevano nella speranza di un'elemosina, una raccomandazione per qualche editore o una parola d'elogio con cui curare le ferite della vanità, mi detestavano con una convinzione, un vigore e un impegno di cui erano prive le loro imprese artistiche che il pubblico ignorante e fedifrago insisteva a ignorare. Lì, a furia d'assenzio e di sigari caraibici, mi parlava del suo romanzo, che non finiva mai, dei progetti di ritirarsi dalla sua vita ritirata e dai suoi amoreggiamenti e dalle sue conquiste, che erano sempre più giovani e nubili quanto più lui diventava anziano. «Non mi chiedi di Cristina» diceva, a volte, malizioso. «Cosa vuole che le chieda?» «Se lei mi chiede di te.» «Le chiede di me, don Pedro?» «No.» «Appunto.» «A dire il vero l'altro giorno ti ha nominato.» Lo guardai negli occhi per vedere se mi stesse prendendo in giro. «E cos'ha detto?» «Non ti piacerà.» «Spari...» «Non ha usato queste parole, ma mi è sembrato di intendere che non capiva come fai a prostituirti scrivendo feuilleton di mezza tacca per quella coppia di ladri, e che stai gettando a mare il tuo talento e la tua gioventù.» Fu come se Vidal mi avesse infilato un pugnale gelido nello stomaco. «È così che la pensa?» Vidal fece spallucce. «Allora per me può andarsene al diavolo.» Lavoravo tutti i giorni eccetto le domeniche, che passavo in giro per le strade e concludevo quasi sempre in qualche cantina del Paralelo, dove non era difficile trovare compagnia e affetto passeggero tra le braccia di un'anima solitaria e in attesa come la mia. Fino al mattino successivo, quando mi risvegliavo accanto a lei e scoprivo un'estranea, non mi rendevo conto che le assomigliavano tutte, nel colore dei capelli, nel modo di camminare, in un gesto o in uno sguardo. Prima o poi, per soffocare il si-
lenzio tagliente degli addii, quelle signore di una notte mi chiedevano come mi guadagnavo da vivere, e quando la vanità mi tradiva e dicevo di essere uno scrittore mi prendevano per bugiardo, perché nessuno aveva sentito parlare di David Martín, anche se qualcuna, sì, sapeva chi era Ignatius B. Samson e conosceva per sentito dire La città dei maledetti. Col tempo cominciai a dire che lavoravo nel palazzo della Dogana portuale delle Atarazanas o che ero un praticante nello studio legale Sayrach, Muntaner e Cruells. Ricordo un pomeriggio in cui ero seduto al caffè dell'Ópera in compagnia di una maestra di musica di nome Alicia che, sospettavo, stavo aiutando a dimenticare qualcuno che non si lasciava dimenticare. Stavo per baciarla quando notai il volto di Cristina dietro il vetro. Quando uscii in strada, si era già perduta tra la folla delle Ramblas. Due settimane dopo, Vidal insistette a invitarmi alla prima della Madame Butterfly al Liceo. La famiglia Vidal era proprietaria di un palco al primo piano e a Vidal piaceva andarci per tutta la stagione con periodicità settimanale. Incontrandolo nella hall, scoprii che aveva portato anche Cristina. Lei mi salutò con un sorriso glaciale e non mi rivolse più la parola né lo sguardo, finché Vidal, a metà del secondo atto, decise di scendere al circolo per salutare uno dei suoi cugini e ci lasciò soli nel palco, l'uno contro l'altra, senza altro scudo se non Puccini e centinaia di volti nella penombra del teatro. Resistetti una decina di minuti prima di girarmi a guardarla negli occhi. «Ho fatto qualcosa che l'ha offesa?» domandai. «No.» «Allora possiamo fingere di essere amici, almeno in occasioni come questa?» «Io non voglio essere amica sua, David.» «Perché no?» «Perché neanche lei vuole essere mio amico.» Aveva ragione, non volevo essere suo amico. «È vero che pensa che mi prostituisco?» «Quello che penso io non conta. L'importante è quello che pensa lei.» Rimasi lì altri cinque minuti e poi mi alzai e me ne andai senza una parola. Arrivato alla grande scalinata del Liceo, già mi ero ripromesso di non dedicarle mai più un pensiero, uno sguardo o una parola gentile. Il giorno dopo la incontrai di fronte alla cattedrale e quando feci per evitarla mi salutò con la mano e mi sorrise. Restai immobile, vedendola avvicinarsi.
«Non mi invita a bere qualcosa?» «Sto battendo e non mi libero prima di due ore.» «Allora lasci che la inviti io. Quanto prende per accompagnare una signora per un'ora?» La seguii di malavoglia fino a una cioccolateria di calle Petritxol. Ordinammo un paio di tazze di cioccolata calda e ci sedemmo uno di fronte all'altra in attesa di vedere chi avrebbe aperto bocca per primo. Per una volta, vinsi io. «Ieri non volevo offenderla, David. Non so cosa le ha raccontato don Pedro, ma io non ho mai detto quelle cose.» «Forse le pensa soltanto, per questo don Pedro me le dice.» «Lei non ha idea di quello che penso» replicò con asprezza. «E nemmeno don Pedro.» Mi strinsi nelle spalle. «D'accordo.» «Ho detto qualcosa di molto diverso. Ho detto che lei non faceva quello che sentiva.» Sorrisi, annuendo. L'unica cosa che sentivo in quel momento era il desiderio di baciarla. Cristina sostenne il mio sguardo, con aria di sfida. Non allontanò il viso quando allungai la mano e le accarezzai le labbra, facendo scivolare le dita lungo il mento e il collo. «Così no» disse alla fine. Quando il cameriere ci portò le due tazze fumanti, se n'era già andata. Passarono mesi senza che sentissi di nuovo il suo nome. Un giorno di fine settembre in cui avevo appena terminato una nuova puntata della Città dei maledetti, decisi di prendermi la serata libera. Intuivo che si avvicinava una di quelle tormente di nausee e pugnalate di fuoco nel cervello. Inghiottii una manciata di pastiglie di codeina e mi stesi sul letto al buio in attesa che passassero quel sudore freddo e quel tremito alle mani. Stavo per addormentarmi quando sentii suonare alla porta. Mi trascinai all'ingresso e aprii. Vidal, in uno dei suoi impeccabili completi di seta italiana, accendeva una sigaretta sotto un fascio di luce che Vermeer in persona sembrava aver dipinto per lui. «Sei vivo o parlo con un fantasma?» domandò «Non mi dica che è venuto fin qui da Villa Helius per dirmi questo.» «No. Sono venuto perché da mesi non so niente di te e sono preoccupato. Perché non fai mettere il telefono in questo mausoleo, come le persone
normali?» «Non mi piacciono i telefoni. Mi piace vedere la faccia delle persone quando mi parlano, e che loro vedano la mia.» «Nel tuo caso non so se questa è una buona idea. Ultimamente ti sei guardato allo specchio?» «Questa è la sua specialità, don Pedro.» «C'è gente all'obitorio del Clinic con un colore migliore in faccia. Su, vestiti.» «Perché?» «Perché lo dico io. Facciamo una passeggiata.» Vidal non accettò rifiuti né proteste. Mi trascinò fino alla macchina che aspettava sul paseo del Born e fece cenno a Manuel di partire. «Dove andiamo?» chiesi. «Sorpresa.» Attraversammo tutta Barcellona fino all'avenida Pedralbes e iniziammo a salire lungo il fianco della collina. Qualche minuto dopo avvistammo Villa Helius, con tutti i finestroni accesi che proiettavano una bolla d'oro rovente sul crepuscolo. Vidal non si sbottonava e mi sorrideva misterioso. Arrivati a casa, mi fece cenno di seguirlo e mi condusse nel salone. Un gruppo di persone era in attesa e, quando mi vide, applaudì. Riconobbi don Basilio, Cristina, Sempere padre e figlio, la mia ex maestra donna Mariana, alcuni autori che pubblicavano con me da Barrido ed Escobillas e con cui avevo fatto amicizia, Manuel, che si era unito al gruppo, e qualcuna delle conquiste di Vidal. Don Pedro mi tese una coppa di champagne e sorrise. «Auguri per il tuo ventottesimo compleanno, David.» Non me ne ero ricordato. Al termine della cena mi scusai per uscire un istante in giardino a prendere aria. Un cielo stellato stendeva un velo d'argento sugli alberi. Era trascorso appena un minuto quando sentii dei passi che si avvicinavano e mi girai per trovarmi di fronte l'ultima persona che mi aspettavo di vedere in quel momento, Cristina Sagnier. Mi sorrise, quasi a scusarsi per l'intrusione. «Pedro non sa che sono uscita per parlare con lei» disse. Notai che non usava più il "don", ma feci finta di nulla. «Mi piacerebbe parlare con lei, David» disse. «Ma non ora, non qui.» Nemmeno la penombra del giardino riuscì a nascondere il mio sconcerto.
«Possiamo vederci domani, da qualche parte?» domandò. «Le prometto di non rubarle troppo tempo.» «A una condizione» dissi. «Che non mi dia più del lei. I compleanni già invecchiano abbastanza.» Cristina sorrise. «D'accordo. Le do del tu se lo fa anche lei.» «Dare del tu è una delle mie specialità. Dove vuoi che ci vediamo?» «Possiamo fare a casa tua? Non voglio che nessuno ci veda né che Pedro sappia che ho parlato con te.» «Come vuoi...» Cristina sorrise, sollevata. «Grazie. Allora a domani? Nel pomeriggio?» «Quando vuoi. Sai dove abito?» «Mio padre lo sa.» Si chinò lievemente e mi baciò sulla guancia. «Buon compleanno, David.» Prima che potessi dire una parola, era svanita nel giardino. Quando tornai nel salone, se n'era già andata. Vidal mi lanciò uno sguardo freddo dall'estremità della stanza e solo dopo essersi accorto che l'avevo visto sorrise. Un'ora dopo Manuel, con il beneplacito di Vidal, insistette per accompagnarmi a casa con l'Hispano-Suiza. Mi sedetti al suo fianco, come sempre quando viaggiavo da solo con lui, e l'autista ne approfittava per spiegarmi trucchi di guida e, senza che Vidal lo sapesse, lasciava perfino che mi mettessi un po' al volante. Quella sera l'autista era più taciturno del solito e non aprì bocca fino a quando non arrivammo in centro. Era più magro dell'ultima volta che l'avevo visto e mi parve che l'età iniziasse a chiedergli il conto. «Succede qualcosa, Manuel?» domandai. L'autista fece spallucce. «Niente d'importante, signor Martín.» «Se qualcosa la preoccupa...» «Sciocchezze di salute. Alla mia età, sono tutte piccole preoccupazioni, lo sa. Ma ormai non hanno più importanza. L'importante è mia figlia.» Non seppi bene cosa rispondere e mi limitai ad annuire. «So che le è affezionato, signor Martín. Alla mia Cristina. Un padre le vede, queste cose.» Annuii di nuovo, in silenzio. Non scambiammo più parola fin quando
Manuel fermò la macchina in calle Flassaders, mi strinse la mano e mi augurò di nuovo buon compleanno. «Se dovesse succedermi qualcosa» disse allora «lei l'aiuterebbe, vero signor Martín? Farebbe questo per me?» «Certo, Manuel. Ma cosa dovrebbe succederle?» L'autista sorrise e mi salutò. Lo vidi salire in macchina e allontanarsi lentamente. Non ne ebbi la certezza assoluta, ma avrei giurato che, dopo tutta quella strada quasi senza aprire bocca, ora stesse parlando da solo. 11 Passai tutta la mattina aggirandomi per la casa, sistemando e mettendo in ordine, arieggiando e pulendo oggetti e angoli che non ricordavo nemmeno che esistessero. Scesi di corsa da una fioraia del mercato e quando tornai carico di mazzi di fiori mi accorsi che non ricordavo dove avevo nascosto i vasi in cui metterli. Mi vestii come se dovessi uscire in cerca di lavoro. Provai parole e saluti che mi suonavano ridicoli. Mi guardai allo specchio e vidi che Vidal aveva ragione, sembravo un vampiro. Alla fine mi sedetti su una poltrona in salotto ad aspettare con un libro in mano. In due ore, non andai oltre la prima pagina. Finalmente, alle quattro in punto, sentii i passi di Cristina sulle scale e mi alzai di scatto. Quando suonò alla porta, ero già lì da un'eternità. «Ciao, David. È un brutto momento?» «No, no. Al contrario. Prego, entra.» Cristina sorrise cortese e si addentrò nel corridoio. La guidai fino all'angolo di lettura del salotto e la invitai a sedersi. Il suo sguardo esaminava tutto con attenzione. «È un posto molto particolare» disse. «Pedro me l'aveva detto che avevi una casa gentilizia.» «Lui preferisce il termine "tetra", ma suppongo sia questione di sfumature.» «Posso chiederti perché sei venuto ad abitare qui? È una casa un po' grande per uno che vive da solo.» Uno che vive da solo, pensai. Si finisce per diventare ciò che si vede negli occhi di quelli che si desiderano. «La verità?» chiesi. «Sono venuto a vivere qui perché per molti anni ho visto questa casa tutti i giorni mentre andavo e venivo dal giornale. Era sempre chiusa e alla fine ho cominciato a pensare che aspettasse proprio
me. Ho finito letteralmente per sognare che un giorno ci sarei venuto ad abitare. E così è stato.» «Tutti i tuoi sogni diventano realtà, David?» Quel tono ironico mi ricordava troppo Vidal. «No» risposi. «Questo è l'unico. Ma tu volevi parlarmi di qualcosa e io ti sto intrattenendo con storie che sicuramente non ti interessano.» Il mio tono suonò più sulla difensiva di quanto avessi desiderato. Con il desiderio, mi capitava come con i fiori: una volta che l'avevo tra le mani, non sapevo dove metterlo. «Volevo parlarti di Pedro» iniziò Cristina. «Ah.» «Tu sei il suo migliore amico. Lo conosci. Parla di te come di un figlio. Ti vuole bene come a nessuno. Lo sai.» «Don Pedro mi ha trattato come un figlio» dissi. «Se non fosse stato per lui e per il signor Sempere non so cosa ne sarebbe stato di me.» «Il motivo per cui volevo parlarti è che sono molto preoccupata per lui.» «Perché?» «Sai che da qualche anno ho cominciato a lavorare per lui come segretaria. La verità è che Pedro è un uomo generoso e abbiamo finito per diventare buoni amici. Si è comportato molto bene con mio padre e con me. Perciò mi fa male vederlo così.» «Così come?» «È quel maledetto libro, il romanzo che vuole scrivere.» «Sono anni che ci lavora.» «Sono anni che lo distrugge. Io correggo e batto a macchina tutte le sue pagine. Negli anni in cui sono stata la sua segretaria ne ha distrutte non meno di duemila. Dice che non ha talento. Che è un buffone. Beve in continuazione. A volte lo trovo nel suo ufficio, là in alto, ubriaco, che piange come un bambino...» Deglutii. «Dice che ti invidia, che vorrebbe essere come te, che la gente mente e lo elogia perché vuole qualcosa da lui, soldi, aiuto, ma lui sa che la sua opera non ha alcun valore. Con gli altri mantiene la facciata, i vestiti e tutto il resto, ma io lo vedo ogni giorno e si sta spegnendo. A volte ho paura che faccia una stupidaggine. È così già da molto. Non ho detto nulla perché non sapevo con chi parlarne. So che se lui scoprisse che sono venuta da te si arrabbierebbe. Mi dice sempre: non scocciare David con le mie cose. Lui ha la vita davanti e io non sono più nulla. Dice sempre cose del genere.
Scusa se ti racconto tutto questo, ma non sapevo a chi rivolgermi...» Sprofondammo in un lungo silenzio. Sentii che mi invadeva un freddo intenso, la certezza che mentre l'uomo al quale dovevo la vita era immerso nella disperazione, io, rinchiuso nel mio mondo, non mi ero fermato nemmeno un attimo per accorgermene. «Forse non sarei dovuta venire.» «No» dissi. «Hai fatto bene.» Cristina mi guardò con un sorriso mite e, per la prima volta, ebbi l'impressione di non essere un estraneo per lei. «Cosa facciamo?» chiese. «Lo aiutiamo» dissi. «E se non vuole?» «Allora lo faremo senza che se ne accorga.» 12 Non saprò mai se lo feci per aiutare Vidal, come ripetevo a me stesso, o semplicemente al fine di avere una scusa per passare del tempo accanto a Cristina. Ci incontravamo quasi tutti i pomeriggi nella casa della torre. Cristina portava le cartelle che Vidal aveva scritto a mano il giorno prima, sempre zeppe di cancellature, interi paragrafi eliminati, annotazioni dappertutto e mille e uno tentativi di salvare l'insalvabile. Salivamo in studio e ci sedevamo a terra. Cristina le leggeva una prima volta a voce alta e poi ne discutevamo a lungo. Il mio mentore stava cercando di scrivere una sorta di saga epica che abbracciava tre generazioni di una dinastia barcellonese non molto diversa dai Vidal. L'azione prendeva le mosse qualche anno prima della rivoluzione industriale con l'arrivo di due fratelli orfani in città ed evolveva in una specie di parabola biblica tipo Caino e Abele. Uno dei due fratelli finiva per diventare il più ricco e potente magnate dell'epoca e l'altro si dedicava alla Chiesa e alle opere caritatevoli, per poi finire tragicamente i suoi giorni in un episodio che alludeva alle disavventure del sacerdote e poeta don Jacint Verdaguer. Nel corso delle loro vite, i fratelli si scontravano e un'interminabile galleria di personaggi sfilava per torridi melodrammi, scandali, assassinii, amori illeciti, tragedie e altri requisiti del genere, il tutto ambientato sullo sfondo della nascita della metropoli moderna e del mondo industriale e finanziario. La voce narrante del romanzo era un nipote di uno dei due fratelli, che ricostruiva la storia mentre contemplava la città in fiamme da un palazzo di Pedralbes nei giorni della Set-
timana Tragica del 1909. La prima cosa che mi sorprese fu che quella trama l'avevo abbozzata io a Vidal un paio di anni prima, a mo' di suggerimento affinché iniziasse il suo presunto romanzo serio, quello che diceva sempre di voler scrivere un giorno. La seconda fu che non mi avesse mai detto di aver deciso di utilizzarla né di averci già investito due anni, e non per mancanza di occasioni. La terza fu che il romanzo, così com'era, era un completo e monumentale fiasco in cui non funzionava nulla, a cominciare dai personaggi e dalla struttura, passando per l'ambientazione e i dialoghi per finire con un linguaggio e uno stile che facevano pensare agli sforzi di un dilettante con tante pretese e un mucchio di tempo libero. «Cosa te ne pare?» chiedeva Cristina. «Credi che si possa sistemare?» Preferii non dirle che Vidal aveva preso in prestito da me i presupposti del romanzo e, con l'intenzione di non farla preoccupare più di quanto già non fosse, sorrisi e annuii. «Bisogna lavorarci un po'. Tutto qui.» Quando iniziava ad annottare, Cristina si sedeva alla macchina e insieme riscrivevamo il libro di Vidal lettera per lettera, rigo per rigo, scena per scena. La trama elaborata da Vidal era così vaga e insulsa che scelsi di recuperare quella che avevo improvvisato nel suggerirgli l'idea. Lentamente iniziammo a resuscitare i personaggi reinventandoli dall'interno e rifacendoli dalla testa ai piedi. Non una sola scena, momento, frase o parola sopravviveva a quel procedimento e tuttavia, a mano a mano che avanzavamo, avevo l'impressione di rendere giustizia al romanzo che Vidal aveva in animo e che si era ripromesso di scrivere, ma senza sapere come. Cristina mi diceva che, a volte, Vidal, settimane dopo aver creduto di avere scritto una scena, la rileggeva nella versione finale dattiloscritta e si sorprendeva del proprio raffinato mestiere e della pienezza di un talento nel quale aveva smesso di credere. Cristina temeva che scoprisse quello che stavamo facendo e diceva che dovevamo essere più fedeli all'originale. «Non sottovalutare mai la vanità di uno scrittore, specie di uno scrittore mediocre» replicavo. «Non mi piace sentirti parlare così di Pedro.» «Nemmeno a me. Scusa.» «Forse dovresti rallentare un po' il ritmo. Non hai un bell'aspetto. Non mi preoccupa più Pedro, adesso sei tu a preoccuparmi.»
«Da tutto questo, qualcosa di buono doveva pur venire.» Col tempo mi abituai a vivere per assaporare quegli istanti che condividevo con lei. Il mio lavoro non tardò a risentirne. Trovavo il tempo per lavorare alla Città dei maledetti dove non c'era, dormendo a stento tre ore al giorno e spingendo al massimo per rispettare le scadenze del mio contratto. Barrido ed Escobillas avevano per norma di non leggere nessun libro, né quelli pubblicati da loro né quelli della concorrenza, ma la Veleno sì che li leggeva e ben presto cominciò a sospettare che mi stesse succedendo qualcosa di strano. «Questo non sei tu» diceva a volte. «Certo che non sono io, cara Herminia. È Ignatius B. Samson.» Ero consapevole del rischio che mi ero assunto, ma non m'importava. Non m'importava svegliarmi ogni giorno madido di sudore con il cuore che batteva come se mi stesse per spezzare le costole. Avrei pagato quel prezzo e molto di più per non rinunciare a quel contatto lento e segreto che senza volerlo ci trasformava in complici. Sapevo perfettamente che Cristina lo vedeva nei miei occhi ogni volta che veniva da me, e sapevo perfettamente che non avrebbe mai risposto ai miei segnali. Non c'erano futuro né grandi speranze in quella corsa verso nessun posto, e lo sapevamo entrambi. A volte, stanchi dei tentativi di far galleggiare quella nave che faceva acqua da tutte le parti, abbandonavamo il manoscritto di Vidal e ci arrischiavamo a parlare di qualcosa che non fosse quella prossimità che a furia di nascondersi cominciava a bruciare nella coscienza. A volte mi armavo di coraggio e le prendevo la mano. Lei mi lasciava fare, ma io sapevo di metterla a disagio: sentiva che quello che facevamo non stava bene, che il debito di gratitudine verso Vidal ci univa e ci separava allo stesso tempo. Una sera, poco prima che se ne andasse, le presi il viso e cercai di baciarla. Rimase immobile e quando mi vidi allo specchio del suo sguardo non osai dire nulla. Si alzò e se ne andò senza aprire bocca. Non la vidi per due settimane e quando tornò mi fece promettere che non sarebbe più successo niente del genere. «David, voglio che tu capisca che quando avremo finito di lavorare al libro di Pedro non ci vedremo più come adesso.» «Perché no?» «Lo sai, il perché.» Le mie avances non erano l'unica cosa che Cristina non vedeva di buon
occhio. Iniziavo a sospettare che Vidal avesse ragione quando mi aveva riferito che non le piacevano i libri che scrivevo per Barrido ed Escobillas, anche se non lo diceva. Non faticavo a immaginarla mentre pensava che il mio era un impegno mercenario e senz'anima, che stavo vendendo la mia integrità in cambio di un'elemosina per arricchire quella coppia di topi di fogna perché non avevo il coraggio di scrivere con il cuore, con il mio nome e i miei veri sentimenti. Quello che più mi faceva male era che, in fondo, aveva ragione. Fantasticavo sull'idea di disdire il contratto, di scrivere un libro solo per lei con cui guadagnarmi il suo rispetto. Se nell'unica cosa che sapevo fare non ero abbastanza bravo per lei, forse era meglio tornare ai giorni grigi e miserabili del giornale. Avrei sempre potuto vivere della carità e dei favori di Vidal. Ero uscito a passeggiare dopo una lunga notte di lavoro, incapace di prendere sonno. Senza meta prefissata, i miei passi mi guidarono fin su al cantiere del tempio della Sagrada Familia. Da piccolo, mio padre a volte mi ci aveva portato per contemplare quella babele di sculture e porticati che non riusciva mai a spiccare il volo, come se fosse maledetta. Mi piaceva tornare a vederla e verificare che non era cambiata: la città non smetteva di crescerle attorno, ma la Sagrada Familia rimaneva in rovina fin dal primo giorno. Quando arrivai, spuntava un'alba azzurra falciata da luci rosse che profilava le torri della facciata della Nativitat. Un vento dall'est trascinava la polvere delle strade non selciate e l'odore acido delle fabbriche che punteggiavano la frontiera del quartiere di Sant Marti. Stavo attraversando calle Mallorca quando vidi le luci di un tram che si avvicinava nella nebbiolina dell'alba. Sentii lo sferragliare delle ruote sui binari e il rintocco della campana che il conducente faceva suonare per avvisare del suo passaggio tra le ombre. Cercai di correre, ma non ci riuscii. Rimasi piantato lì, immobile tra i binari a guardare le luci del tram che si lanciavano su di me. Sentii le urla del conducente e vidi la scia di scintille sprigionate dalle ruote quando si bloccarono i freni. E perfino allora, con la morte a pochi metri, non riuscii a muovere un muscolo. Sentii l'odore di elettricità che accompagnava la luce bianca da cui venni abbagliato finché il faro del tram non si velò. Mi accasciai a terra come un fantoccio, conservando i sensi appena per qualche attimo, quanto bastava per vedere che la ruota del tram, fumante, si fermava a una ventina di centimetri dalla mia faccia. Poi tutto fu oscurità.
13 Aprii gli occhi. Colonne di pietra spesse come alberi salivano nella penombra verso una volta spoglia. Aghi di luce polverosa cadevano in diagonale e lasciavano intravedere file interminabili di brande. Piccole gocce d'acqua si staccavano dall'alto come lacrime scure che esplodevano risuonando a terra. La penombra odorava di muffa e di umidità. «Benvenuto in purgatorio.» Mi alzai e nel voltarmi scoprii un uomo vestito di stracci che leggeva un giornale alla luce di una lanterna e brandiva un sorriso a cui mancava la metà dei denti. La prima pagina del quotidiano che stava leggendo annunciava che il generale Primo de Rivera assumeva i pieni poteri e inaugurava una dittatura in guanti di velluto per salvare il paese dall'imminente ecatombe. Quel giornale aveva almeno sei anni. «Dove sono?» L'uomo mi guardò da sopra il giornale, intrigato. «All'hotel Ritz. Non lo sente nell'aria?» «Come sono arrivato qui?» «Come un cencio. L'hanno portata stamattina in barella e da allora sta smaltendo la sbornia.» Mi tastai la giacca e constatai che tutti i soldi che avevo erano spariti. «Come va il mondo» esclamò l'uomo leggendo le notizie del suo giornale. «Si sa che, nelle fasi più avanzate del cretinismo, la mancanza d'idee viene compensata dall'eccesso di ideologie.» «Come si esce di qui?» «Se ha tanta fretta... Ci sono due modi, quello permanente e quello temporaneo. Quello permanente è dal tetto: un bel salto e si libera per sempre da tutta questa schifezza. L'uscita temporanea è lì in fondo, dove c'è quel rimbambito col pugno alzato a cui cadono i pantaloni e che fa il saluto rivoluzionario a chiunque passa. Ma se esce di là, prima o poi tornerà qui.» «È stato lei a derubarmi?» «Il dubbio offende. Quando l'hanno portata qui, lei era già pulito come uno specchio e io accetto solo titoli quotati in borsa.» Lasciai quel lunatico sulla sua branda con il suo giornale in ritardo e i suoi discorsi in anticipo. La testa mi girava ancora e a stento ero in grado di fare quattro passi in linea retta, ma riuscii ad arrivare a una porta su uno dei lati della grande volta che dava su una scalinata. Un tenue chiarore
sembrava filtrare dalla sommità. Salii per quattro o cinque piani finché sentii una ventata d'aria fresca che entrava da un portellone alla fine delle scale. Uscii all'esterno e finalmente capii dove ero andato a finire. Davanti a me si stendeva un lago sospeso sul bosco del Parque de la Ciudadela. Il sole stava per tramontare sulla città e le acque coperte di alghe ondeggiavano come vino versato. Il Depósito de las Aguas aveva l'aspetto di un rozzo castello o di una prigione. Era stato costruito per rifornire d'acqua i padiglioni dell'Esposizione Universale del 1888, ma col tempo il suo ventre di cattedrale laica aveva finito per servire da rifugio a moribondi e indigenti senza altri posti dove andare quando incalzavano la notte o il freddo. Il grande bacino artificiale sul tetto si era trasformato in un lago melmoso e torbido che si dissanguava lentamente attraverso le crepe dell'edificio. Fu allora che notai la figura appostata a una delle estremità della terrazza. Come se il semplice sfioramento del mio sguardo l'avesse allertato, si girò bruscamente e mi fissò. Mi sentivo ancora un po' stordito e avevo la vista annebbiata, ma mi parve di vedere che la figura si stava avvicinando. Lo faceva troppo in fretta, come se i piedi non toccassero terra mentre camminava e si spostasse con strattoni bruschi e troppo agili per essere colti dagli occhi. Potevo a stento scorgerne il volto in controluce, ma riuscii a vedere che si trattava di un signore dagli occhi neri e brillanti che sembravano troppo grandi per il suo volto. Più si avvicinava, più avevo l'impressione che il suo profilo si allungasse e crescesse di statura. Mentre avanzava, provai un brivido e arretrai di qualche passo senza accorgermi che mi stavo dirigendo verso il bordo del lago. Sentii i piedi perdere la presa e stavo già per cadere di spalle nelle acque scure quando lo sconosciuto mi sostenne per il braccio. Mi tirò con delicatezza e mi guidò verso un terreno sicuro. Mi sedetti su una delle panchine che circondavano la cisterna e respirai a fondo. Alzai lo sguardo e lo vidi chiaramente per la prima volta. Gli occhi erano di dimensioni normali, la statura uguale alla mia, i passi e i gesti quelli di un signore come chiunque altro. Aveva un'espressione cortese e tranquillizzante. «Grazie» dissi. «Sta bene?» «Sì. È solo un giramento di testa.» Lo sconosciuto si sedette accanto a me. Indossava un vestito scuro a tre pezzi di fattura raffinata e adornato da una piccola spilla d'argento sul risvolto della giacca, un angelo ad ali spiegate che mi risultò stranamente
familiare. Mi venne in mente che la presenza di un gentiluomo dall'abbigliamento impeccabile su quel tetto era un po' inusuale. Come se potesse leggermi nel pensiero, lo sconosciuto mi sorrise. «Spero di non averla allarmata» disse. «Immagino che non si aspettasse di trovare qualcuno qui su.» Lo guardai, perplesso. Vidi il riflesso del mio viso nelle sue pupille nere, che si dilatavano come una macchia d'inchiostro sulla carta. «Posso chiederle cosa l'ha portata qui?» «La stessa cosa che ha portato lei: grandi speranze.» «Andreas Corelli» mormorai. Gli s'illuminò il viso. «Che gran piacere poterla salutare finalmente di persona, amico mio.» Parlava con un leggero accento che non seppi individuare. Il mio istinto mi diceva di alzarmi e andarmene in tutta fretta prima che lo sconosciuto pronunciasse ancora una sola parola, ma c'era qualcosa nella sua voce, nel suo sguardo, che trasmetteva serenità e fiducia. Preferii non chiedermi come aveva fatto a sapere che mi avrebbe trovato lì se nemmeno io sapevo dov'ero. Mi confortavano il suono delle sue parole e la luce dei suoi occhi. Mi tese la mano e gliela strinsi. Il suo sorriso prometteva un paradiso perduto. «Immagino di doverla ringraziare per tutte le gentilezze che ha avuto nei miei riguardi nel corso degli anni, signor Corelli. Temo di essere in debito con lei.» «Assolutamente no. Sono io a essere in debito, amico mio, e a dovermi scusare per averla abbordata in questo modo, in un luogo e in un momento così sconvenienti, ma confesso che da tempo volevo parlarle e non trovavo l'occasione.» «Mi dica, allora. Cosa posso fare per lei?» domandai. «Voglio che lavori per me.» «Prego?» «Voglio che scriva per me.» «Certo. Dimenticavo che lei è un editore.» L'uomo rise. Aveva una risata dolce, da bambino che non ha mai rotto un piatto. «Il migliore. L'editore che lei aspettava da una vita. L'editore che la renderà immortale.» Mi tese uno dei suoi biglietti da visita, identico a quello che ancora conservavo e che mi ero ritrovato fra le mani al risveglio dal mio sogno con
Chloé. ANDREAS CORELLI Éditeur Éditions de la Lumière Boulevard St.-Germain, 69. Paris «Mi sento lusingato, signor Corelli, ma temo di non poter accettare il suo invito. Ho un contratto con...» «Barrido ed Escobillas, lo so. Gentaglia con cui, senza offesa, non dovrebbe avere alcun rapporto.» «È un'opinione condivisa da altre persone.» «La signorina Sagnier, forse?» «La conosce?» «Di nome. Sembra il tipo di donna per il cui rispetto e la cui ammirazione si farebbe qualunque cosa, non è vero? E la signorina non la spinge a lasciare quella coppia di parassiti e a essere fedele a se stesso?» «Non è così semplice. Ho un contratto che mi lega in esclusiva a loro per altri sei anni.» «Lo so, ma non dovrebbe preoccuparsene. I miei avvocati stanno studiando la questione e le assicuro che ci sono diverse formule per sciogliere definitivamente qualsiasi vincolo legale, nel caso lei volesse accettare la mia proposta.» «E la sua proposta è?» Corelli sorrise con aria allegra e maliziosa, come un ragazzino che gode a svelare un segreto. «Che mi dedichi un anno in esclusiva per lavorare a un libro su commissione, un libro la cui tematica discuteremmo lei e io alla firma del contratto e per il quale le pagherei, in anticipo, la somma di centomila franchi.» Lo guardai, attonito. «Se questa somma non le sembra adeguata sono pronto a considerare quella che riterrà opportuna. Sarò sincero, signor Martín: non litigherò con lei per il denaro. E, in confidenza, credo che nemmeno lei vorrà farlo, perché so che quando le spiegherò il tipo di libro che vorrei scrivesse per me, il prezzo sarà la cosa meno importante.» Sospirai e risi tra me e me. «Vedo che non mi crede.» «Signor Corelli, sono un autore di romanzi d'avventura che non firmo
nemmeno con il mio nome. I miei editori, che a quanto pare lei conosce, sono una coppia di truffatori di mezza tacca che non valgono il loro peso in sterco, e i miei lettori non sanno neppure che esisto. Sono anni che mi guadagno la vita con questo mestiere e ancora non ho scritto una pagina di cui mi senta soddisfatto. La donna che amo crede che sto sprecando la vita e ha ragione. Crede anche che non ho il diritto di desiderarla, che siamo una coppia di anime insignificanti la cui unica ragion d'essere è il debito di gratitudine verso un uomo che ci ha tolti entrambi dalla miseria, e forse ha ragione anche su questo. Poco importa. Quando meno me l'aspetto compirò trent'anni e mi accorgerò che ogni giorno che passa assomiglio meno alla persona che volevo essere quando ne avevo quindici. Se ci arrivo, perché la mia salute ultimamente è buona quasi quanto il mio lavoro. Oggi come oggi, se sono in grado di mettere insieme due o tre frasi leggibili all'ora mi ritengo soddisfatto. Questa è la specie di autore e di uomo che sono. Non di quelli che ricevono visite da editori parigini con assegni in bianco per scrivere il libro che cambierà la loro vita e trasformerà in realtà tutte le loro speranze.» Corelli mi osservò con aria grave, soppesando le mie parole. «Credo che lei sia un giudice troppo severo con se stesso, e questa è sempre una qualità che distingue le persone di valore. Mi creda se le dico che nella mia carriera ho avuto a che fare con un'infinità di personaggi che non valevano un suo sputo ma avevano un'altissima considerazione di se stessi. Voglio che sappia, anche se non mi crede, che so esattamente che tipo di autore e di uomo è lei. Sono anni che la seguo, lo sa. Ho letto dal primo racconto che ha scritto per "La Voz de la Industria" alla serie dei Misteri di Barcellona e adesso tutte le puntate della serie di Ignatius B. Samson. Oserei dire che la conosco meglio di quanto si conosca lei. Per questo so che, alla fine, accetterà la mia offerta.» «Cos'altro sa?» «So che abbiamo qualcosa, o molto, in comune. So che ha perso suo padre, e anch'io. So cosa significa perdere un padre quando ancora se ne ha bisogno. Il suo le è stato strappato in circostanze tragiche. Il mio, per motivi che non è il caso di approfondire, mi ha ripudiato e cacciato di casa. Direi quasi che questo può essere più doloroso. So che si sente solo, e mi creda se le dico che anche questo è un sentimento che conosco in profondità. So che alberga nel cuore grandi speranze, ma che nessuna di esse si è realizzata, e so che questo, senza che lei se ne renda conto, la sta uccidendo un po' ogni giorno che passa.»
Alle sue parole seguì un lungo silenzio. «Lei sa molte cose, signor Corelli.» «Abbastanza per pensare che mi piacerebbe conoscerla meglio ed essere suo amico. E credo che lei non abbia molti amici. Io nemmeno. Non mi fido della gente convinta di avere molti amici. È segno che non conosce gli altri.» «Ma lei non cerca un amico, cerca un dipendente.» «Cerco un socio temporaneo. Cerco lei.» «È molto sicuro di sé» azzardai. «È un difetto congenito» replicò Corelli, alzandosi. «Un altro è la preveggenza. Per questo capisco che forse è troppo presto per lei e che non le basta ascoltare la verità dalle mie labbra. Ha bisogno di vederla con i suoi occhi. Di sentirla nella sua carne. E, mi creda, la sentirà.» Mi tese la mano e non la ritrasse finché non gliela strinsi. «Posso almeno restare con la tranquillità di sapere che penserà a quello che le ho detto e che ne riparleremo?» chiese. «Non so cosa dire, signor Corelli.» «Non dica niente, adesso. Le prometto che la prossima volta che ci incontreremo vedrà le cose molto più chiare.» Con queste parole mi sorrise cordialmente e si allontanò verso le scale. «Ci sarà una prossima volta?» domandai. Corelli si fermò e si voltò. «C'è sempre.» «Dove?» Le ultime luci del giorno cadevano sulla città e i suoi occhi brillavano come braci. Lo vidi scomparire dalla porta delle scale. Solo allora mi resi conto che, per tutta la conversazione, non l'avevo visto nemmeno una volta sbattere le palpebre. 14 Lo studio medico si trovava a un piano alto dal quale si vedevano il mare che luccicava in lontananza e la discesa di calle Muntaner punteggiata di tram che scivolavano fino all'Ensanche tra grandi ville e palazzi signorili. L'ambulatorio odorava di pulito. Le stanze erano decorate con gusto raffinato. I quadri erano tranquillizzanti e pieni di paesaggi di speranza e di pace. Gli scaffali erano zeppi di libri imponenti che trasudavano autorità. Le
infermiere si muovevano come ballerine e sorridevano quando passavano. Era un purgatorio per tasche benestanti. «Il dottore riceve subito, signor Martín.» Il dottor Trias era un uomo dall'aria patrizia e dall'aspetto impeccabile che trasmetteva serenità e fiducia con ogni gesto. Occhi grigi e penetranti dietro occhiali senza montatura. Sorriso cordiale e affabile, mai frivolo. Il dottor Trias era un uomo abituato a combattere con la morte, e più sorrideva, più faceva paura. Dal modo in cui mi fece entrare e sedere ebbi l'impressione che, sebbene qualche giorno prima, quando avevo iniziato a sottopormi alle analisi, mi avesse parlato di recenti progressi scientifici e medici che permettevano di coltivare speranze nella lotta contro i sintomi che gli avevo descritto, per quanto lo riguardava non c'erano dubbi. «Come sta?» domandò, esitante se guardare me o la cartellina sulla scrivania. «Me lo dica lei.» Mi rivolse un sorriso lieve, da buon giocatore. «Mi dice l'infermiera che lei è uno scrittore, anche se vedo qui che, riempiendo il questionario d'ingresso, ha scritto di essere mercenario.» «Nel mio caso non c'è nessuna differenza.» «Credo che qualcuno dei miei pazienti sia un suo lettore.» «Spero che il danno neurologico provocato non sia permanente.» Il dottore sorrise come se il mio commento gli sembrasse spiritoso e adottò un atteggiamento più diretto che lasciava intendere che i cortesi e banali prolegomeni della conversazione erano terminati. «Signor Martín, vedo che è venuto da solo. Non ha parenti prossimi? Moglie? Fratelli? Genitori ancora in vita?» «Questo suona un po' funebre» azzardai. «Signor Martín, non le dirò bugie. I risultati delle prime analisi non sono incoraggianti quanto ci aspettavamo.» Lo guardai in silenzio. Non provavo paura né inquietudine. Non provavo nulla. «Tutto fa pensare che lei abbia un'escrescenza localizzata nel lobo sinistro del cervello. I risultati confermano ciò che i sintomi che mi aveva descritto facevano temere, e tutto sembra indicare che potrebbe trattarsi di un carcinoma.» Per qualche secondo fui incapace di dire alcunché. Non riuscii nemmeno a fingere sorpresa. «Da quanto ce l'ho?»
«È impossibile saperlo con certezza, anche se mi spingerei a supporre che il tumore si stia sviluppando da parecchio tempo, il che spiegherebbe i sintomi che mi ha descritto e le difficoltà incontrate ultimamente nel lavoro.» Respirai a fondo, annuendo. Il dottore mi osservava con aria paziente e benevola, lasciandomi prendere tempo. Cercai di iniziare varie frasi che non riuscirono ad affiorarmi alle labbra. Alla fine i nostri sguardi si incontrarono. «Suppongo di essere nelle sue mani, dottore. Mi dirà lei che cura devo fare.» Vidi che gli occhi gli s'inondavano di sconforto: in quel momento si rendeva conto che non avevo voluto capire quello che mi stava dicendo. Annuii di nuovo, combattendo contro la nausea che iniziava ad assalirmi alla gola. Il dottore mi versò un bicchiere d'acqua da una caraffa e me lo tese. Lo svuotai in un sorso. «Non c'è cura» dissi. «C'è. Ci sono molte cose che possiamo fare per alleviare il dolore e per garantirle la massima comodità e tranquillità...» «Ma morirò.» «Sì.» «Presto.» «Probabilmente.» Sorrisi tra me. Perfino le peggiori notizie sono un sollievo quando non fanno altro che confermare ciò che si sa già senza volerlo sapere. «Ho ventotto anni» dissi, senza sapere bene perché. «Mi dispiace, signor Martín. Vorrei poterle dare altre notizie.» Sentii che era come se alla fine avesse confessato una bugia o un peccato veniale e che si era liberato d'un colpo del peso del rimorso. «Quanto tempo mi resta?» «È difficile determinarlo con esattezza. Direi un anno, un anno e mezzo al massimo.» Il tono faceva capire che si trattava di una prognosi più che ottimista. «E in quest'anno, o quello che sarà, quanto tempo crede che potrò conservare la capacità di lavorare e badare a me stesso?» «Lei è uno scrittore e lavora con il cervello. Purtroppo, però, è proprio lì che è localizzato il problema ed è lì che cominceremo a trovarci di fronte a delle limitazioni.» «Limitazioni non è un termine medico, dottore.»
«Di solito, via via che la malattia avanza, i sintomi già sperimentati si manifesteranno con maggior intensità e frequenza. A partire da un determinato momento, dovrà essere ricoverato in ospedale affinché possiamo prenderci cura di lei.» «Non potrò scrivere.» «Non potrà nemmeno pensarci, a scrivere.» «Quanto tempo?» «Non lo so. Nove o dieci mesi. Forse più, forse meno. Mi dispiace molto, signor Martín.» Annuii e mi alzai. Mi tremavano le mani e mi mancava l'aria. «Signor Martín, capisco che ha bisogno di tempo per pensare a tutto quello che le ho detto, ma è importante prendere provvedimenti prima possibile...» «Non posso morire, dottore. Non ancora. Ho delle cose da fare. Poi avrò tutta la vita per morire.» 15 Quella notte stessa salii allo studio nella torre e mi sedetti davanti alla macchina per scrivere pur sapendo che l'ispirazione era esaurita. Le finestre erano spalancate, ma Barcellona non voleva raccontarmi più nulla e non fui in grado di completare una sola pagina. Quello che ero capace di evocare mi sembrava banale e vuoto. Mi bastava rileggerle per capire che le mie parole valevano a stento l'inchiostro con cui erano scritte. Non riuscivo più a sentire la musica sprigionata da un brano di prosa decente. A poco a poco, come un veleno lento e piacevole, le parole di Andreas Corelli iniziarono a sgocciolare nei miei pensieri. Mi restavano almeno cento pagine per terminare l'ennesima puntata delle rocambolesche avventure che tanto avevano gonfiato le tasche di Barrido ed Escobillas, ma in quello stesso istante seppi che non l'avrei finita. Ignatius B. Samson era rimasto steso sui binari davanti a quel tram, esausto, l'anima dissanguata in troppe pagine che non avrebbero mai dovuto vedere la luce. Tuttavia, prima di andarsene mi aveva lasciato le sue ultime volontà. Dovevo seppellirlo senza troppe cerimonie e, per una volta nella vita, dovevo avere il coraggio di usare la mia voce. Mi lasciava in eredità il suo considerevole arsenale di fumo e di specchi. E mi chiedeva di lasciarlo andare, perché lui era nato per essere dimenticato. Presi le pagine già scritte del suo ultimo romanzo e diedi loro fuoco,
sentendo che una specie di lapide mi si sollevava di dosso a ogni pagina che consegnavo alle fiamme. Una brezza calda e umida soffiava quella sera sui tetti: quando entrò dalle finestre, si portò via le ceneri di Ignatius B. Samson e le sparse nei vicoli della città vecchia da dove, per quanto le sue parole si fossero perdute per sempre e il suo nome fosse scivolato via dalla memoria dei suoi più devoti lettori, non si sarebbe mai più allontanato. Il giorno dopo mi presentai nella sede di Barrido ed Escobillas. La segretaria all'ingresso era nuova, quasi una ragazzina, e non mi riconobbe. «Il suo nome?» «Hugo, Víctor.» La ragazza sorrise e inserì lo spinotto nel centralino per avvisare Herminia. «Donna Herminia, c'è qui don Hugo Víctor per il signor Barrido.» La vidi annuire e scollegare il centralino. «Dice che viene subito.» «È da molto che lavori qui?» «Una settimana» rispose sollecita la ragazza. Se i miei calcoli non erano errati, quella era l'ottava segretaria di Barrido ed Escobillas dall'inizio dell'anno. Gli impiegati che dipendevano direttamente dall'astuta Herminia duravano poco perché la Veleno, quando scopriva che qualcuno aveva un po' più di cervello di lei e temeva che potesse farle ombra, cosa che accadeva nove volte su dieci, lo accusava di furto, rapina o di qualche errore assurdo e metteva su un rosario finché Escobillas lo cacciava in strada e minacciava di mandargli qualche sicario se per caso gli si scioglieva troppo la lingua. «Sono contenta di vederti, David» disse la Veleno. «Ti trovo più bello. Hai un aspetto stupendo.» «È che sono finito sotto a un tram. C'è Barrido?» «Ma cosa dici? Per te c'è sempre. Sarà contentissimo quando gli dico che sei venuto a trovarci.» «Non ne hai idea.» La Veleno mi condusse nell'ufficio di Barrido, addobbato come la stanza di un ministro da operetta, con profusione di tappeti, busti di imperatori, nature morte e volumi rilegati in pelle acquistati a peso le cui pagine, a quanto potevo immaginare, dovevano essere completamente bianche. Barrido mi rivolse il più untuoso dei suoi sorrisi e mi strinse la mano. «Siamo tutti impazienti di ricevere la nuova puntata. Sappia che stiamo ripubblicando le ultime due e che ce le strappano di mano. Altre cinquemi-
la copie. Cosa gliene sembra?» Mi sembrava che dovessero essere almeno cinquantamila, ma mi limitai ad annuire senza entusiasmo. Barrido ed Escobillas avevano raffinato, al punto da farne una composizione floreale, quella che fra gli editori barcellonesi era nota come doppia tiratura. Di ogni titolo si stampava un'edizione ufficiale dichiarando poche migliaia di copie, per le quali veniva pagata una ridicola percentuale all'autore. Poi, se il libro funzionava, c'erano una o più edizioni reali e sotterranee di decine di migliaia di copie che non venivano mai dichiarate e per le quali l'autore non vedeva nemmeno una peseta. Queste copie si distinguevano dalle prime perché Barrido le faceva stampare sottobanco in una vecchia fabbrica di insaccati di Santa Perpètua de Mogoda e, se uno le sfogliava, sprigionavano ancora l'inconfondibile profumo del salame ben stagionato. «Temo di avere brutte notizie.» Barrido e la Veleno si scambiarono un'occhiata senza smorzare il sorriso. In quel momento, Escobillas si materializzò sulla porta e mi guardò con quell'aria dura e sgradevole con cui sembrava prenderti a occhio le misure per la bara. «Guarda chi è venuto a trovarci. Che bella sorpresa, vero?» chiese Barrido al socio, che si limitò ad annuire. «Quali brutte notizie?» domandò Escobillas. «Ha un po' di ritardo, amico Martín?» aggiunse Barrido amichevolmente. «Sono sicuro che troveremo una soluzione...» «No. Niente ritardi. Semplicemente, non ci sarà il libro.» Escobillas fece un passo avanti e inarcò le sopracciglia. Barrido si lasciò sfuggire una risatina. «Come sarebbe che non ci sarà il libro?» chiese Escobillas. «Ieri gli ho dato fuoco e non resta più nemmeno una pagina del manoscritto.» Cadde un pesante silenzio. Barrido fece un gesto conciliante e indicò quella che era nota come la poltrona dei visitatori, un trono nerastro e infossato in cui venivano confinati autori e fornitori in modo che si trovassero all'altezza dello sguardo di Barrido. «Martín, si sieda e mi racconti. Qualcosa la preoccupa, si vede. Con noi può aprirsi, è in famiglia.» La Veleno ed Escobillas annuirono con convinzione, mostrando la portata del loro apprezzamento con uno sguardo di estatica devozione. Preferii restare in piedi. Fecero tutti lo stesso e mi contemplarono come se fossi
una statua di sale che da un momento all'altro si sarebbe messa a parlare. A Barrido facevano male le mascelle a furia di sorridere. «Allora?» «Ignatius B. Samson si è suicidato. Ha lasciato un racconto inedito di venti pagine in cui muore accanto a Chloé Permanyer, abbracciati dopo aver ingerito un veleno.» «L'autore muore in uno dei suoi romanzi?» chiese Herminia, confusa. «È il suo addio d'avant-garde al mondo del romanzo a puntate. Un dettaglio che ero sicuro vi sarebbe piaciuto moltissimo.» «E non potrebbe esserci un antidoto o...?» domandò la Veleno. «Martín, non c'è bisogno che le ricordi che è lei, e non il presuntamente defunto Ignatius, ad aver sottoscritto un contratto...» disse Escobillas. Barrido sollevò la mano per zittire il collega. «Credo di sapere cosa le succede, Martín. Lei è esaurito. Da anni si spreme senza tregua le meningi, cosa che questa casa editrice apprezza e per cui le è grata, e ha bisogno di un po' di respiro. Lo capiamo, vero?» Barrido guardò Escobillas e la Veleno, che si affrettarono ad annuire con facce di circostanza. «Lei è un artista e vuol fare arte, alta letteratura, qualcosa che le sgorghi dal cuore e inscriva il suo nome a lettere d'oro sui gradini della storia universale.» «Come lo spiega lei, suona ridicolo» dissi. «Perché lo è» sostenne Escobillas. «No, non lo è» troncò Barrido. «È umano. E noi siamo umani. Io, il mio socio e Herminia, che essendo donna e creatura dalla sensibilità delicata è la più umana di tutti; non è così, Herminia?» «Umanissima» convenne la Veleno. «E dato che siamo umani, la comprendiamo e vogliamo sostenerla. Perché siamo orgogliosi di lei e convinti che i suoi successi saranno i nostri e perché in questa casa editrice, dopo tutto, a contare sono le persone e non i numeri.» Alla fine del discorso, Barrido fece una pausa teatrale. Forse sperava che mi mettessi ad applaudire, ma quando vide che restavo fermo proseguì senza esitare nella sua esposizione. «Perciò, ecco cosa le propongo: si prenda sei mesi, nove se ce n'è bisogno, perché un parto è un parto, e si chiuda nel suo studio a scrivere il grande romanzo della sua vita. Quando l'ha finito, ce lo porta e noi lo pubblichiamo con il suo nome, mettendo tutta la carne al fuoco e scommetten-
do il tutto per tutto. Perché siamo dalla sua parte.» Guardai Barrido e poi Escobillas. La Veleno era sul punto di scoppiare a piangere per l'emozione. «Naturalmente, senza anticipo» puntualizzò Escobillas. Barrido agitò euforicamente la mano in aria. «Cosa ne dice?» Iniziai a lavorare quel giorno stesso. Il mio piano era tanto semplice quanto folle. Di giorno avrei riscritto il libro di Vidal e di notte avrei lavorato al mio. Sarei ricorso a tutti i trucchi che mi aveva insegnato Ignatius B. Samson e li avrei messi al servizio di quel po' di dignità e di decenza, se c'era, che mi restava nel cuore. Avrei scritto per gratitudine, per disperazione e per vanità. Avrei scritto soprattutto per Cristina, per dimostrarle che anch'io ero capace di pagare il mio debito con Vidal e che David Martín, seppure in punto di morte, si era guadagnato il diritto di guardarla negli occhi senza vergognarsi delle sue ridicole speranze. Non tornai all'ambulatorio del dottor Trias. Non ne vedevo la necessità. Il giorno in cui non avrei più potuto scrivere una parola, né immaginarla, sarei stato il primo ad accorgermene. Il mio poco scrupoloso farmacista di fiducia mi forniva senza fare domande tutte le pastiglie di codeina che gli chiedevo e, a volte, qualche altra delizia che dava fuoco alle vene e faceva esplodere il dolore e la coscienza. Non parlai con nessuno della mia visita medica né dei risultati delle analisi. Le mie necessità essenziali erano soddisfatte da una fornitura settimanale che mi facevo arrivare da Can Gispert, un formidabile negozio di articoli coloniali in calle Mirallers, dietro la cattedrale di Santa Maria del Mar. L'ordinazione era sempre la stessa. Di solito me la portava la figlia dei proprietari, una ragazza che restava a guardarmi come un cerbiatto spaventato quando la invitavo a entrare e ad aspettare nell'ingresso mentre andavo a prendere i soldi per pagarla. «Questo è per tuo padre, e questo è per te.» Le davo sempre dieci centesimi di mancia, che accettava in silenzio. Ogni settimana la ragazza bussava di nuovo alla porta con l'ordinazione, e ogni settimana pagavo e le davo dieci centesimi di mancia. Per nove mesi e un giorno, il tempo che avrei impiegato a scrivere l'unico romanzo che sarebbe apparso con la mia firma, quella ragazza, di cui ignoravo il nome e il cui volto dimenticavo ogni settimana fin quando la ritrovavo sulla soglia di casa, fu la persona che vidi più spesso.
Cristina smise di venire senza preavviso ai nostri appuntamenti pomeridiani. Cominciavo a temere che Vidal avesse scoperto il nostro stratagemma quando, un pomeriggio in cui la stavo aspettando dopo quasi una settimana di assenza, aprii la porta credendo che fosse lei e mi trovai davanti Pep, uno dei domestici di Villa Helius. Mi portava da parte di Cristina un pacchetto gelosamente sigillato che conteneva l'intero manoscritto di Vidal. Pep mi spiegò che il padre di Cristina aveva avuto un aneurisma che l'aveva lasciato praticamente invalido, e che lei l'aveva portato in una clinica sui Pirenei, a Puigcerdà, dove, a quanto pareva, c'era un giovane dottore specializzato nella cura di quelle malattie. «Il signor Vidal si è fatto carico di tutto» aggiunse Pep. «Senza badare a spese.» Vidal non dimenticava mai i suoi servitori, pensai, non senza una certa amarezza. «Mi ha chiesto di darle questo di persona. E di non dire niente a nessuno.» Il domestico mi consegnò il pacchetto, sollevato per essersi liberato di quel misterioso oggetto. «Ti ha lasciato qualche indicazione su dove trovarla in caso di necessità?» «No, signor Martín. Tutto quello che so è che il padre della signorina Cristina è ricoverato in un posto che si chiama Villa San Antonio.» Giorni dopo Vidal mi fece una delle sue visite improvvise e rimase da me tutto il pomeriggio, bevendo il mio anice, fumando le mie sigarette e parlando della disgrazia accaduta al suo autista. «Sembra impossibile. Un uomo forte come una quercia che, di botto, crolla a terra e non sa più chi è.» «Come sta Cristina?» «Puoi immaginartelo. Sua madre è morta anni fa e Manuel è l'unico familiare che le resta. Ha portato con sé un album di fotografie e lo mostra tutti i giorni a quel poveretto per vedere se ricorda qualcosa.» Mentre Vidal parlava, il suo romanzo - o dovrei dire il mio - giaceva in una pila di fogli a faccia in giù sul tavolo del salotto, a mezzo metro dalle sue mani. Mi raccontò che, in assenza di Manuel, aveva sollecitato Pep che a quanto pare era un buon cavaliere - a impadronirsi dell'arte della guida, ma il ragazzo per il momento era un disastro. «Ci vuole tempo. Un'automobile non è un cavallo. Il segreto è la pratica.»
«Ora che lo dici, Manuel ti ha insegnato a guidare, vero?» «Un poco» ammisi. «E non è facile come sembra.» «Se questo romanzo a cui stai lavorando non si vende, puoi sempre diventare il mio autista.» «Non seppelliamo il povero Manuel prima del tempo, don Pedro.» «Un commento di cattivo gusto» ammise Vidal. «Mi dispiace.» «E il suo romanzo, don Pedro?» «Sulla buona strada. Cristina si è portata a Puigcerdà il manoscritto finale per rivederlo e metterlo in bella copia mentre sta vicino al padre.» «Sono contento di vederla allegro.» Vidal sorrise, trionfante. «Credo che sarà qualcosa di grande» disse. «Dopo tanti mesi che credevo persi, ho riletto le prime cinquanta pagine messe in bella da Cristina e mi sono sorpreso di me stesso. Credo che sorprenderà anche te. Finirà che sarò ancora io a doverti insegnare certi trucchi.» «Non ne ho mai dubitato, don Pedro.» Quel pomeriggio Vidal stava bevendo più del solito. Gli anni mi avevano insegnato a leggere la sua gamma di inquietudini e di dubbi, e immaginai che quella non fosse una semplice visita di cortesia. Quando ebbe liquidato le mie riserve di anice, gli versai una generosa coppa di brandy e aspettai. «David, ci sono cose di cui tu e io non abbiamo mai parlato...» «Di calcio, per esempio.» «Parlo sul serio.» «Allora dica, don Pedro.» Mi guardò a lungo, esitante. «Ho sempre cercato di essere un buon amico per te, David. Lo sai, vero?» «Lei è stato molto più di questo, don Pedro. Lo so io e lo sa lei.» «A volte mi domando se non sarei dovuto essere più onesto con te.» «Riguardo a cosa?» Vidal annegò lo sguardo nella coppa di brandy. «Ci sono cose che non ti ho mai raccontato, David. Cose di cui forse avrei dovuto parlarti anni fa...» Lasciai passare un istante che diventò eterno. Qualunque cosa Vidal avesse voluto raccontarmi, era chiaro che nemmeno tutto il brandy del mondo sarebbe riuscito a tirargliela fuori. «Non si preoccupi, don Pedro. Se hanno aspettato per anni, potranno
certo aspettare fino a domani.» «Domani forse non avrò il coraggio di dirtele.» Mi resi conto di non averlo mai visto così spaventato. Qualcosa gli si era conficcato nel cuore, e iniziava a mettermi a disagio vederlo in quella situazione. «Facciamo una cosa, don Pedro. Quando verranno pubblicati il suo libro e il mio, ci vediamo per brindare e mi racconta quello che deve raccontarmi. Mi invita lei in uno di quei posti cari e raffinati dove non mi lasciano entrare se non sono con lei e mi fa tutte le confidenze che vuole. Le sta bene?» All'imbrunire lo accompagnai fino al paseo del Born dove Pep aspettava accanto all'Hispano-Suiza vestito con l'uniforme di Manuel, che gli stava cinque taglie più grande, proprio come l'automobile. La carrozzeria era fragrante di graffi e ammaccature che sembravano recenti e facevano male agli occhi. «Al piccolo trotto, eh, Pep?» consigliai. «Niente galoppo. Lento ma sicuro, come se fosse un asino.» «Sì, signor Martín. Lento ma sicuro.» Per salutarmi, Vidal mi abbracciò con forza e quando salì in macchina mi parve che portasse il peso del mondo intero sulle spalle. 16 Pochi giorni dopo che avevo messo il punto finale ai due romanzi, quello di Vidal e il mio, Pep si presentò a casa senza preavviso. Era insaccato nell'uniforme ereditata da Manuel, che gli conferiva l'aspetto di un bambino travestito da generale. All'inizio pensai che portasse qualche messaggio di Vidal, o forse di Cristina, ma la sua faccia scura tradiva un'inquietudine che mi fece scartare quella possibilità al primo sguardo che ci scambiammo. «Brutte notizie, signor Martín.» «Cos'è successo?» «Il signor Manuel.» Mentre mi spiegava l'accaduto gli si spezzò la voce e quando gli chiesi se voleva un bicchier d'acqua scoppiò a piangere. Manuel Sagnier era morto tre giorni prima nella clinica di Puigcerdà dopo una lunga agonia. Per decisione della figlia, l'avevano seppellito il giorno prima in un piccolo cimitero ai piedi dei Pirenei.
«Dio santo» mormorai. Invece dell'acqua, servii a Pep una coppa di brandy bella piena e lo parcheggiai su una poltrona in salotto. Quando fu più calmo, Pep mi spiegò che Vidal l'aveva mandato a prendere Cristina, che tornava quel pomeriggio con il treno delle cinque. «S'immagini come starà la signorina Cristina...» mormorò, angosciato alla prospettiva di dover essere lui ad accoglierla e a consolarla sulla strada verso il piccolo appartamento sopra i garage di Villa Helius dove aveva vissuto con il padre da quando era bambina. «Pep, non credo sia una buona idea che tu vada a prendere la signorina Sagnier.» «Ordini di don Pedro.» «Di' a don Pedro che mi assumo io la responsabilità.» A forza di alcol e di retorica lo convinsi ad andarsene e a lasciare la cosa nelle mie mani. Sarei andato io stesso a prenderla e l'avrei accompagnata a Villa Helius in taxi. «La ringrazio, signor Martín. Lei è uomo di lettere e saprà meglio di me cosa dire a quella poverina.» Alle cinque meno un quarto m'incamminai verso la stazione Francia, da poco inaugurata. L'Esposizione Universale di quell'anno aveva disseminato prodigi in città, ma, fra tutti, quella volta di acciaio e vetro dall'aspetto di cattedrale era la mia preferita, magari solo perché era vicina a casa mia e potevo vederla dallo studio della torre. Quel pomeriggio il cielo era punteggiato di nuvole nere che arrivavano cavalcando dal mare e si intrecciavano sopra la città. L'eco dei lampi all'orizzonte e un vento caldo che sapeva di polvere e di elettricità facevano presagire che si avvicinava un temporale estivo di notevole intensità. Quando arrivai in stazione si iniziavano a vedere le prime gocce, lucide e pesanti come monete cadute dal cielo. Mentre avanzavo lungo la banchina per aspettare l'arrivo del treno, la pioggia batteva già con forza sulla volta della stazione e la notte sembrò precipitare di colpo, appena interrotta dalle fiammate di luce che esplodevano sulla città e lasciavano una scia di frastuono e di furia. Il treno arrivò con quasi un'ora di ritardo, un serpente a vapore che si trascinava sotto il temporale. Aspettai ai piedi del locomotore di veder comparire Cristina tra i viaggiatori che scendevano dai vagoni. Dieci minuti dopo erano scesi tutti e di lei non c'era ancora traccia. Stavo per tornare a casa, credendo che alla fine Cristina non avesse preso quel treno, quando decisi di dare un'ultima occhiata e di percorrere tutta la banchina
fino alla fine con lo sguardo attento ai finestrini degli scompartimenti. La trovai nel penultimo vagone, seduta con la testa appoggiata al vetro e lo sguardo perso. Salii e mi fermai sulla soglia dello scompartimento. Sentendo i miei passi, si girò e mi guardò senza stupirsi, sorridendo debolmente. Si alzò e mi abbracciò in silenzio. «Benvenuta» dissi. Cristina aveva per bagaglio solo una piccola valigia. Le offrii la mano e scendemmo sulla banchina, ormai deserta. Percorremmo il tragitto fino all'ingresso della stazione senza aprire bocca. All'uscita ci fermammo. L'acquazzone cadeva con violenza e la fila di taxi che c'era davanti all'ingresso al mio arrivo era svanita. «Non voglio tornare a Villa Helius stanotte, David. Non ancora.» «Puoi stare da me, se vuoi, o possiamo cercarti una stanza in albergo.» «Non voglio stare sola.» «Andiamo a casa. Se ho qualcosa in abbondanza, sono le stanze.» Avvistai uno dei facchini che si era affacciato a guardare il temporale e che reggeva un enorme ombrello. Mi avvicinai a lui e mi offrii di comprarglielo per una somma cinque volte superiore al suo prezzo. Me lo consegnò avvolto in un servizievole sorriso. Al riparo di quell'ombrello ci avventurammo sotto il diluvio verso la casa della torre, dove, grazie alle raffiche di vento e alle pozzanghere, arrivammo dieci minuti più tardi completamente zuppi. Il temporale aveva fatto spegnere i lampioni, e le strade erano immerse in una liquida oscurità, punteggiata appena di lampade a olio o di candele accese proiettate da finestre e portoni. Non ebbi dubbi che il formidabile impianto elettrico di casa mia fosse stato uno dei primi a soccombere. Fummo costretti a salire le scale a tentoni e, quando aprimmo la porta principale dell'appartamento, l'alito dei lampi ne disseppellì l'aspetto più funebre e inospitale. «Se hai cambiato idea e preferisci cercare un albergo...» «No, va bene. Non preoccuparti.» Lasciai la valigia di Cristina nell'ingresso e andai in cucina a cercare una scatola di candele e di ceri che conservavo nella credenza. Iniziai ad accenderli tutti, uno per uno, fissandoli su piatti e bicchieri. Cristina mi osservava dalla porta. «Questione di un minuto» assicurai. «Ormai sono esperto.» Cominciai a distribuire candele nelle stanze, in corridoio e in ogni angolo finché tutta la casa fu immersa in una tenue tenebra dorata. «Sembra una cattedrale» disse Cristina.
L'accompagnai in una delle camere da letto che non usavo mai, ma che tenevo sempre pulita e in ordine da quando Vidal, una volta, troppo ubriaco per tornare al suo palazzo, si era fermato a dormire da me. «Ti porto subito gli asciugamani puliti. Se non hai da cambiarti, posso offrirti il vario e sinistro abbigliamento stile Belle Époque che i vecchi proprietari hanno lasciato negli armadi.» I miei goffi tentativi di fare lo spiritoso riuscivano a stento a strapparle un sorriso e si limitò ad annuire. La lasciai seduta sul letto mentre correvo a cercare gli asciugamani. Quando tornai era ancora lì, immobile. Misi gli asciugamani sul letto, accanto a lei, e le avvicinai un paio di candele che avevo sistemato all'ingresso perché avesse un po' più di luce. «Grazie» mormorò. «Mentre ti cambi, vado a prepararti un brodo caldo.» «Non ho appetito.» «Ti farà bene lo stesso. Se hai bisogno di qualunque cosa, chiamami.» La lasciai sola e andai nella mia stanza per sbarazzarmi delle scarpe bagnate. Misi a riscaldare dell'acqua e mi sedetti in salotto ad aspettare. La pioggia continuava a cadere con forza, mitragliando rabbiosamente le finestre e formando rigagnoli, negli scarichi della torre e nelle grondaie, che risuonavano come passi sul tetto. Più in là, il quartiere della Ribera era immerso in un'oscurità quasi assoluta. Dopo un po' sentii la porta della stanza di Cristina che si apriva e i suoi passi che si avvicinavano. Aveva indossato una vestaglia bianca e si era gettata sulle spalle uno scialle di lana che non le si intonava. «Ho preso in prestito questo da uno degli armadi» disse. «Spero che non ti dispiaccia.» «Puoi tenerlo, se vuoi.» Si sedette su una delle poltrone e portò a spasso gli occhi per la stanza, soffermandosi sulla pila di fogli sul tavolo. Mi guardò e annuii. «L'ho finito da qualche giorno» dissi. «E il tuo?» A dire il vero sentivo miei entrambi i manoscritti, ma mi limitai ad annuire. «Posso?» chiese, prendendo una pagina e avvicinandola alla candela. «Certo.» La vidi leggere in silenzio, con un tiepido sorriso sulle labbra. «Pedro non crederà mai di averlo scritto» disse. «Abbi fiducia in me» replicai.
Cristina rimise il foglio sulla pila e mi guardò a lungo. «Mi sei mancato» disse. «Non avrei voluto, ma è stato così.» «Anche tu.» «C'erano giorni che, prima di andare in clinica, passavo dalla stazione e mi sedevo sulla banchina ad aspettare il treno che arrivava da Barcellona, pensando che forse ti avrei visto.» Deglutii. «Pensavo che non volessi vedermi» dissi. «Anch'io lo pensavo. Mio padre chiedeva spesso tue notizie, sai? Mi ha chiesto di prendermi cura di te.» «Tuo padre era un brav'uomo» dissi. «Un buon amico.» Cristina annuì con un sorriso, ma vidi che gli occhi le si riempivano di lacrime. «Alla fine non ricordava più niente. C'erano giorni in cui mi confondeva con mia madre e mi chiedeva di perdonarlo per gli anni che aveva trascorso in carcere. Poi passavano settimane in cui a stento si rendeva conto che ero lì. Col tempo, la solitudine ti si intrufola dentro e non se ne va più.» «Mi dispiace, Cristina.» «Gli ultimi giorni ho creduto che stesse meglio. Cominciava a ricordare qualcosa. Mi ero portata un album di fotografie che aveva a casa e gliele mostravo ogni volta dicendogli chi erano quelle persone. C'era una foto di tanti anni fa, a Villa Helius, in cui ci siete tu e lui in macchina. Tu sei al volante e mio padre ti sta insegnando a guidare. E tutti e due state ridendo. Vuoi vederla?» Esitai, ma non osai rovinare quell'istante. «Certo...» Cristina andò a prendere l'album dalla valigia e tornò con un piccolo volume rilegato in pelle. Si sedette al mio fianco e cominciò a sfogliare le pagine piene di vecchi ritratti, ritagli e cartoline. Manuel, come mio padre, aveva a stento imparato a leggere e scrivere, e i suoi ricordi erano fatti di immagini. «Guarda, eccovi qui.» Esaminai la fotografia e ricordai esattamente il giorno d'estate in cui Manuel mi aveva fatto salire sulla prima automobile comprata da Vidal per insegnarmi i rudimenti della guida. Poi avevamo portato l'auto fino in calle Panamá e, a una velocità di cinque chilometri all'ora che a me sembrò vertiginosa, eravamo andati fino all'avenida Pearson ed eravamo tornati con me ai comandi.
"Lei è diventato un asso del volante" aveva sentenziato Manuel. "Se un giorno non le andasse bene con i racconti, pensi a un futuro nelle corse automobilistiche." Sorrisi, ricordando quel momento che avevo creduto perduto. Cristina mi tese l'album. «Tienilo. A mio padre sarebbe piaciuto che l'avessi tu.» «È tuo, Cristina. Non posso accettarlo.» «Anch'io preferisco che lo conservi tu.» «Rimane in deposito, allora, finché non vuoi riprendertelo.» Iniziai a sfogliarlo, rivisitando volti che ricordavo e altri mai visti. C'era la foto delle nozze di Manuel Sagnier e di sua moglie Marta, a cui tanto assomigliava Cristina, ritratti in studio dei suoi zii e nonni, di una strada del Raval dove passava una processione e dei bagni di San Sebastián sulla spiaggia della Barceloneta. Manuel aveva collezionato vecchie cartoline e ritagli di giornale, con immagini di un Vidal giovanissimo in posa all'ingresso dell'hotel Florida in cima al Tibidabo, e un'altra al braccio di una bellezza da infarto nei saloni del casinò della Arrabassada. «Tuo padre venerava don Pedro.» «Mi ha sempre detto che gli dovevamo tutto» rispose Cristina. Continuai a viaggiare nella memoria del povero Manuel fino a imbattermi in una pagina con una fotografia che non sembrava legare con il resto: una bambina di otto o nove anni camminava su un piccolo molo di legno sporgente su una lastra luminosa di mare. Era per mano a un adulto, un uomo con un abito bianco tagliato fuori dall'inquadratura. In fondo al molo si potevano notare una piccola barca a vela e un orizzonte infinito dove tramontava il sole. La bambina, di spalle, era Cristina. «Questa è la mia preferita» mormorò Cristina. «Dove è stata scattata?» «Non lo so. Non ricordo né il posto né il giorno. Non sono nemmeno sicura che quell'uomo sia mio padre. È come se quel momento non fosse mai esistito. L'ho trovata anni fa nell'album di mio padre e non ho mai saputo cosa significhi. È come se volesse dirmi qualcosa.» Sfogliai le pagine. Cristina mi spiegava chi erano quelle persone. «Guarda, questa sono io a quattordici anni.» «Lo so.» Cristina mi guardò con tristezza. «Io non me ne accorgevo, vero?» domandò. Mi strinsi nelle spalle.
«Non mi perdonerai mai.» Preferii sfogliare le pagine piuttosto che guardarla negli occhi. «Non ho niente da perdonare.» «Guardami, David.» Chiusi l'album e feci quello che mi chiedeva. «Non è vero» disse. «Me ne accorgevo, invece. Me ne accorgevo ogni giorno, ma credevo di non averne diritto.» «Perché?» «Perché le nostre vite non ci appartengono. Né la mia, né quella di mio padre, né la tua...» «Tutto appartiene a Vidal» dissi con amarezza. Lentamente mi prese la mano e se la portò alle labbra. «Oggi no» mormorò. Sapevo che l'avrei persa non appena quella notte fosse trascorsa e il dolore e la solitudine che la consumavano si fossero azzittiti. Sapevo che aveva ragione, non perché fosse vero quello che aveva detto, ma perché in fondo lo credevamo entrambi e sarebbe sempre stato così. Ci nascondemmo come due ladri in una delle stanze senza osare accendere una candela, senza osare nemmeno parlare. La spogliai lentamente, percorrendole la pelle con le labbra, consapevole che non l'avrei mai più rifatto. Cristina si diede con rabbia e abbandono, e quando la stanchezza ci vinse si addormentò tra le mie braccia senza bisogno di dire nulla. Resistetti al sonno, assaporando il calore del suo corpo e pensando che se il giorno dopo la morte avesse voluto venirmi incontro l'avrei accolta in pace. Accarezzai Cristina nella penombra, sentendo oltre le pareti il temporale che si allontanava dalla città, sapendo che l'avrei persa ma che, per qualche minuto, eravamo appartenuti l'uno all'altra, e a nessun altro. Quando il primo alito dell'alba sfiorò le finestre, aprii gli occhi e trovai il letto vuoto. Uscii in corridoio e andai verso il salotto. Cristina aveva lasciato l'album e si era portata via il romanzo di Vidal. Percorsi la casa, che già odorava della sua assenza, e spensi a una a una le candele che avevo acceso la notte prima. 17 Nove settimane più tardi mi trovavo davanti al numero 17 di plaza de Catalunya, dove la libreria Catalonia aveva aperto due anni prima, a guardare imbambolato una vetrina che mi sembrò infinita e zeppa di copie di
un romanzo intitolato La casa delle ceneri di Pedro Vidal. Sorrisi tra me. Il mio mentore aveva usato perfino il titolo che gli avevo suggerito tempo prima, quando gli avevo spiegato le premesse della storia. Mi decisi a entrare e chiesi una copia. L'aprii a caso e cominciai a rileggere passi che conoscevo a memoria e che avevo finito di limare da appena un paio di mesi. Non trovai in tutto il libro una sola parola che non ci avessi messo io, eccetto la dedica: "A Cristina Sagnier, senza la quale...". Quando gli restituii il libro, il commesso mi disse di non pensarci su. «È arrivato un paio di giorni fa e l'ho già letto tutto» aggiunse. «Un grande romanzo. Mi dia retta, lo prenda. So che tutti i giornali lo stanno incensando, e che questo è quasi sempre brutto segno, ma stavolta l'eccezione conferma la regola. Se non le piace, me lo riporta e le restituisco i soldi.» «Grazie» risposi, per il consiglio e soprattutto per il resto. «Ma l'ho già letto anch'io.» «Allora potrebbe interessarle qualcos'altro?» «Ha un romanzo intitolato I passi del cielo?» Il libraio rifletté un istante. «È di Martín, vero, quello della Città...?» Annuii. «L'avevo ordinato, ma la casa editrice non me l'ha mandato. Mi lasci controllare.» Lo seguii verso un bancone dove si consultò con un collega, che scosse la testa. «Doveva arrivare ieri, ma l'editore dice di non avere più copie. Mi dispiace. Se vuole, glielo metto da parte quando arriva...» «Non si preoccupi. Ripasserò. E molte grazie.» «Mi dispiace, signore. Non so cosa sia successo, perché, come le ho detto, avrei già dovuto riceverlo...» Uscendo dalla libreria mi avvicinai a un'edicola all'imbocco delle Ramblas. Comprai quasi tutti i quotidiani, da "La Vanguardia" a "La Voz de la Industria". Mi sedetti al caffè Canaletes e cominciai a sfogliarli. La recensione del romanzo che avevo scritto per Vidal era dovunque, a tutta pagina, con grandi titoli e una foto di don Pedro in cui appariva meditabondo e misterioso, sfoggiando un vestito nuovo e assaporando una pipa con studiata noncuranza. Cominciai a leggere i titoli e il primo e l'ultimo paragrafo delle recensioni. Il primo apriva così: "La casa delle ceneri è un'opera matura, ricca e di
grande livello che ci riconcilia con il meglio che ha da offrire la letteratura contemporanea". Un altro quotidiano del mattino spiegava al lettore che "in Spagna nessuno scrive meglio di Pedro Vidal, il nostro più stimato e celebre romanziere", e un terzo sentenziava che si trattava di "un romanzo fondamentale, di fattura magistrale e di qualità eccellente". Un quarto quotidiano chiosava il grande successo internazionale di Vidal e della sua opera: "L'Europa si arrende al maestro" (anche se il libro era uscito solo da due giorni in Spagna e le eventuali traduzioni non sarebbero state pubblicate prima di un anno). L'articolo si dilungava in un prolisso commento sul grande riconoscimento internazionale e sull'enorme rispetto che il nome di Vidal suscitava tra "i più quotati esperti internazionali", sebbene, che io sapessi, nessuno dei suoi libri fosse mai stato tradotto in nessuna lingua, salvo un romanzo la cui traduzione francese era stata finanziata dallo stesso don Pedro e della quale si erano vendute 126 copie. Miracoli a parte, la stampa conveniva sul fatto che fosse "nato un classico" e che il romanzo segnasse "il ritorno di uno dei grandi, la migliore penna dei nostri tempi: Vidal, maestro indiscutibile". Sulla pagina a fronte di qualcuno di quei giornali, con un rilievo più modesto, a una o a due colonne, trovai anche qualche recensione del romanzo di un certo David Martín. La più favorevole iniziava così: "Opera prima dallo stile pedestre, I passi del cielo, del debuttante David Martín, evidenzia fin dalla prima pagina la mancanza di risorse e di talento del suo autore". Per la seconda "il principiante Martín si sforza di imitare il maestro Pedro Vidal senza riuscirci". L'ultima che riuscii a leggere, pubblicata dalla "Voz de la Industria", apriva in maniera lapidaria con un sommario in neretto: "David Martín, un completo sconosciuto e redattore di annunci a pagamento, ci sorprende con quello che è forse il peggiore debutto letterario dell'anno". Lasciai sul tavolino i giornali e il caffè che avevo ordinato e m'incamminai giù per le Ramblas verso gli uffici di Barrido ed Escobillas. Lungo la strada passai davanti a quattro o cinque librerie, tutte addobbate con innumerevoli copie del romanzo di Vidal. In nessuna trovai una sola copia del mio. In tutte si ripeteva lo stesso episodio che avevo vissuto alla Catalonia. «Guardi, non so cosa sarà successo, doveva arrivarmi l'altro ieri, però l'editore dice di aver esaurito le scorte e di non sapere quando lo ristamperà. Se vuole lasciarmi il nome e il telefono, posso avvisarla se mi arriva... Ha chiesto alla Catalonia? Se non ce l'hanno loro...» I due soci mi accolsero con aria funebre e ostile. Barrido, dietro la sua
scrivania, accarezzava una stilografica, ed Escobillas, in piedi alle sue spalle, mi trapanava con lo sguardo. La Veleno si squagliava per l'aspettativa seduta su una sedia accanto a me. «Non sa quanto mi dispiace, Martín, amico mio» spiegò Barrido. «Il problema è il seguente: i librai fanno le ordinazioni basandosi sulle recensioni dei giornali, non mi chieda il perché. Se va nel magazzino qui di fianco, troverà tremila copie del suo romanzo abbandonate e indignate.» «Con i costi e le perdite che ne conseguono» completò Escobillas con un tono chiaramente ostile. «Sono passato in magazzino prima di venire qui e ho verificato che c'erano trecento copie. Il capo mi ha detto che non ne sono state stampate altre.» «È una bugia» proclamò Escobillas. Barrido l'interruppe, conciliante. «Scusi il mio socio, Martín. Capisca che siamo indignati quanto o più di lei per il vergognoso trattamento riservato dalla stampa locale a un libro di cui tutti in questa casa editrice siamo profondamente innamorati, ma la prego di comprendere che, nonostante la nostra fede entusiastica nel suo talento, in questo caso siamo legati mani e piedi dalla confusione creata da quegli articoli maliziosi. Però non si scoraggi, Roma non è stata fatta in un giorno. Stiamo combattendo con tutte le nostre forze per dare alla sua opera la risonanza che il suo livello letterario, altissimo, merita ...» «Con un'edizione di trecento copie.» Barrido sospirò, addolorato dalla mia mancanza di fede. «La tiratura è di cinquecento» precisò Escobillas. «Le altre duecento copie sono venuti a prenderle ieri Barceló e Sempere di persona. Il resto partirà con la prossima spedizione perché non è entrato in questa a causa di un accumulo di novità. Se lei si prendesse la briga di comprendere i nostri problemi e non fosse così egoista, lo capirebbe perfettamente.» Guardai tutti e tre, incredulo. «Non mi dica che non farete nient'altro.» Barrido mi fissò, desolato. «E cosa vuole che facciamo, amico mio? Stiamo dando il massimo. Ci aiuti un po' anche lei.» «Se almeno avesse scritto un libro come quello del suo amico Vidal» disse Escobillas. «Quello sì che è un gran romanzo» confermò Barrido. «Lo dice perfino "La Voz de la Industria".»
«Sapevo che sarebbe andata così» proseguì Escobillas. «Lei è un ingrato.» Accanto a me, la Veleno mi guardava con aria compunta. Mi sembrò che fosse sul punto di prendermi la mano per consolarmi e la scostai rapidamente. Barrido mi rivolse un sorriso untuoso. «Forse non tutti i mali vengono per nuocere, Martín. Forse questo è un segno di Nostro Signore, che nella sua infinita saggezza vuole mostrarle il cammino del ritorno al lavoro che tanta felicità ha portato ai lettori della Città dei maledetti.» Scoppiai a ridere. Barrido si unì a me e, a un suo cenno, fecero altrettanto Escobillas e la Veleno. Contemplai quel coro di iene e mi dissi che, in altre circostanze, quel momento mi sarebbe sembrato di una raffinata ironia. «Così mi piace, che la prenda positivamente» proclamò Barrido. «Cosa mi dice? Quando avremo la prossima puntata di Ignatius B. Samson?» Mi guardarono tutti e tre solleciti e in attesa. Mi schiarii la voce per vocalizzare con precisione e sorrisi. «Andate tutti affanculo.» 18 Uscii e vagabondai per ore per le strade di Barcellona, senza meta. Mi costava fatica respirare e sentii che qualcosa mi premeva sul petto. Un sudore freddo mi ricopriva la fronte e le mani. Verso sera, non sapendo più dove nascondermi, intrapresi il cammino di ritorno a casa. Passando davanti alla libreria di Sempere e Figli, notai che il libraio aveva riempito la vetrina di copie del mio romanzo. Era già tardi e il negozio era chiuso, ma c'era ancora luce all'interno e quando volli affrettare il passo vidi che Sempere si era accorto della mia presenza e mi sorrideva con una tristezza che non gli avevo mai visto da quando lo conoscevo. Si avvicinò alla porta e aprì. «Entri un momento, Martín.» «Un altro giorno, signor Sempere.» «Lo faccia per me.» Mi prese per il braccio e mi trascinò dentro la libreria. Lo seguii nel retrobottega e lì mi offrì una sedia. Servì un paio di bicchieri di qualcosa che mi sembrò più denso del catrame e mi fece cenno di berlo d'un sorso. Lui fece la stessa cosa.
«Ho sfogliato il libro di Vidal» disse. «Il successo della stagione» suggerii. «Lui sa che l'ha scritto lei?» Mi strinsi nelle spalle. «Che importa?» Sempere mi rivolse lo stesso sguardo con cui aveva accolto quel ragazzino di otto anni un lontano giorno in cui gli si era presentato a casa pesto e con i denti rotti. «Sta bene, Martín?» «Perfettamente.» Sempere scosse la testa di soppiatto e si alzò per prendere qualcosa da uno scaffale. Vidi che si trattava di una copia del mio romanzo. Me la tese insieme a una penna e sorrise. «Sia così gentile da dedicarmelo.» Una volta che gli ebbi scritto la dedica, Sempere mi prese il libro dalle mani e lo consacrò alla vetrina d'onore dietro il bancone dove conservava prime edizioni che non erano in vendita. Era il suo santuario privato. «Non ce n'è bisogno, signor Sempere» mormorai. «Lo faccio perché mi va e perché l'occasione lo merita. Questo libro è un pezzo del suo cuore, Martín. E, per la parte che mi riguarda, anche del mio. Lo metto tra Papà Goriot e L'educazione sentimentale.» «Questo è un sacrilegio.» «Stupidaggini. È uno dei migliori libri che ho venduto negli ultimi dieci anni, e ne ho venduti tanti» mi disse il vecchio Sempere. Le amabili parole del libraio riuscirono a stento a scalfire quella calma fredda e impenetrabile che iniziava a invadermi. Tornai a casa passeggiando, senza fretta. Quando arrivai, mi versai un bicchiere d'acqua e, mentre lo bevevo in cucina, al buio, scoppiai a ridere. Il mattino dopo ricevetti due visite di cortesia. La prima era di Pep, il nuovo autista di Vidal. Portava un messaggio del suo padrone che mi invitava a pranzo alla Maison Dorée, senza dubbio per i festeggiamenti che mi aveva promesso tempo prima. Pep sembrava teso e ansioso di andarsene prima possibile. L'aria complice che di solito aveva con me era svanita. Non volle entrare e preferì aspettare sul pianerottolo. Mi tese il messaggio scritto da Vidal quasi senza guardarmi negli occhi e appena gli dissi che sarei andato all'appuntamento se la filò senza salutare. La seconda visita, mezz'ora più tardi, condusse alla mia porta i miei due
editori accompagnati da un signore dal portamento austero e dallo sguardo penetrante che si presentò come il loro avvocato. Il formidabile trio esibiva un'espressione fra il lutto e la belligeranza che non lasciava adito a dubbi sulla natura dei motivi che li avevano spinti fin là. Li invitai ad accomodarsi in salotto, dove si sedettero sul sofà allineati da sinistra a destra in ordine decrescente di altezza. «Posso offrirvi qualcosa? Un bicchierino di cianuro?» Non mi aspettavo un sorriso e non l'ottenni. Dopo una breve introduzione di Barrido sulle terribili perdite che la débâcle provocata dal fiasco dei Passi del cielo avrebbe causato alla casa editrice, l'avvocato procedette a un'esposizione sommaria per dirmi papale papale che se non tornavo al lavoro nella mia incarnazione di Ignatius B. Samson e non consegnavo un manoscritto della Città dei maledetti entro un mese e mezzo avrebbero proceduto a farmi causa per inadempienza contrattuale, danni e altri cinque o sei capi d'accusa che mi sfuggirono perché a quel punto non stavo già più prestando attenzione. Non erano tutte cattive notizie. Nonostante i dissapori causati dal mio comportamento, Barrido ed Escobillas avevano trovato nei loro cuori una perla di generosità con cui limare asprezze e sedimentare una nuova alleanza in nome dell'amicizia e del profitto. «Se vuole, può acquistare a un prezzo di favore, con lo sconto del settanta per cento, tutte le copie non distribuite dei Passi del cielo, giacché abbiamo constatato che il titolo non viene richiesto e non potremo includerlo nella prossima distribuzione» spiegò Escobillas. «Perché non mi restituite i diritti? Dopo tutto, non mi avete pagato un soldo e non intendete venderne nemmeno una copia.» «Non possiamo farlo, amico mio» precisò Barrido. «Anche se non le sono stati corrisposti anticipi, l'edizione ha comportato un cospicuo investimento per la casa editrice, e il contratto che lei ha firmato ha una durata di vent'anni, automaticamente rinnovabile negli stessi termini nel caso che la casa editrice decida di esercitare i suoi legittimi diritti. Cerchi di capire che anche noi abbiamo titolo a ricevere qualcosa. Non può andare tutto all'autore.» Al termine del suo discorso, invitai i tre signori ad accomodarsi all'uscita con i propri piedi oppure a calci, a loro scelta. Prima che sbattessi loro la porta in faccia, Escobillas volle lanciarmi una delle sue occhiate di malaugurio. «Esigiamo una risposta entro una settimana, o lei è finito» borbottò. «Tra una settimana lei e quell'imbecille del suo socio sarete morti» re-
plicai con calma, senza sapere bene perché pronunciavo quelle parole. Passai il resto della mattinata a contemplare i muri, finché le campane di Santa Maria mi ricordarono che si avvicinava l'ora dell'appuntamento con don Pedro Vidal. Mi aspettava al tavolo migliore della sala, giocherellando con un bicchiere di vino bianco tra le mani e ascoltando il pianista che accarezzava un brano di Enrique Granados con dita di velluto. Quando mi vide, si alzò e mi tese la mano. «Congratulazioni» dissi. Vidal sorrise imperturbabile e aspettò che mi fossi seduto per fare altrettanto. Lasciammo passare un minuto di silenzio al riparo della musica e degli sguardi della gente bene che salutava Vidal da lontano o che si avvicinava al tavolo per fargli i complimenti per il successo, sulla bocca di tutta la città. «David, non sai quanto mi dispiace per quello che è accaduto» cominciò. «Non se ne dispiaccia, se lo goda.» «Credi che questo significhi qualcosa per me? L'adulazione di quattro disgraziati? La mia speranza più grande era di vederti avere successo.» «Mi dispiace averla delusa di nuovo, don Pedro.» Vidal sospirò. «David, non è colpa mia se ce l'hanno con te. La colpa è tua. Lo stavi chiedendo a gran voce. Sei abbastanza grande per sapere come funzionano queste cose.» «Me lo dica lei.» Vidal fece schioccare la lingua, come se la mia ingenuità l'offendesse. «Cosa ti aspettavi? Non sei uno di loro. Non lo sarai mai. Non hai voluto esserlo, e credi che te lo perdoneranno. Ti chiudi nel tuo palazzo convinto di poter sopravvivere senza unirti al coro di chierichetti e metterti l'uniforme. Be', ti sbagli, David. Ti sei sempre sbagliato. Il gioco non funziona così. Se vuoi giocare da solo, fai le valigie e vattene in qualche posto dove puoi essere padrone del tuo destino, se pure esiste. Ma se rimani qui ti conviene iscriverti a qualche parrocchia, una qualunque. È semplicissimo.» «È questo che fa lei, don Pedro? Iscriversi alla parrocchia?» «Io non ne ho bisogno, David. Io gli do da mangiare. Nemmeno questo hai mai capito.» «La sorprenderebbe sapere quanto rapidamente mi sto aggiornando. Ma
non si preoccupi, la cosa meno importante sono quelle recensioni. Nel bene o nel male, domani nessuno se ne ricorderà, né delle mie né delle sue.» «Qual è il problema, allora?» «Lasci perdere.» «Sono quei due figli di puttana? Barrido e il ladro di cadaveri?» «Lasci stare, don Pedro. Come dice lei, la colpa è mia. Di nessun altro.» Il maître si avvicinò con aria inquisitoria. Non avevo guardato il menu né pensavo di farlo. «Il solito, per tutti e due» disse don Pedro. Il maître si allontanò con un inchino. Vidal mi osservava come se fossi un animale pericoloso rinchiuso in una gabbia. «Cristina non è potuta venire» disse. «Ho portato questo, così le scrivi una dedica.» Posò sul tavolo una copia dei Passi del cielo avvolta in carta porpora con il timbro della libreria Sempere e Figli e la spinse verso di me. Non feci il gesto di prenderlo. Vidal era impallidito. La veemenza del discorso e il tono difensivo battevano in ritirata. Adesso viene la stoccata, pensai. «Mi dica una buona volta quello che ha da dirmi, don Pedro. Non la mordo.» Vidal finì il vino d'un sorso. «Sono due le cose che volevo dirti. Non ti piaceranno.» «Comincio ad abituarmi.» «Una ha a che fare con tuo padre.» Sentii che quel sorriso avvelenato mi si scioglieva sulle labbra. «Avrei voluto dirtelo da anni, ma pensavo che non ti avrebbe fatto bene. Crederai che non te l'ho detto per vigliaccheria, ma te lo giuro, te lo giuro su quello che vuoi che...» «Allora?» lo interruppi. Vidal sospirò. «La sera che tuo padre è morto...» «Che l'hanno assassinato» lo corressi in tono glaciale. «È stato uno sbaglio. La morte di tuo padre è stata uno sbaglio.» Lo guardai senza capire. «Quegli uomini non cercavano lui. Si sono sbagliati.» Ricordai lo sguardo dei tre pistoleri nella nebbia, l'odore di polvere da sparo e il sangue di mio padre che sgorgava nero fra le mie mani. «Volevano ammazzare me» disse Vidal con un filo di voce. «Un ex socio di mio padre aveva scoperto che sua moglie e io...»
Chiusi gli occhi e ascoltai una risata oscura salirmi da dentro. Mio padre era morto crivellato per una questione di gonne del grande Pedro Vidal. «Di' qualcosa, per favore» supplicò Vidal. Aprii gli occhi. «Qual è la seconda cosa che doveva dire?» Non avevo mai visto Vidal spaventato. Gli donava. «Ho chiesto a Cristina di sposarmi.» Un lungo silenzio. «Ha detto di sì.» Vidal abbassò lo sguardo. Uno dei camerieri si avvicinò con gli antipasti. Li depositò sul tavolo augurando «Bon appétit». Vidal non osò guardarmi di nuovo. Gli antipasti si raffreddavano nei piatti. Dopo un po' presi la copia dei Passi del cielo e me ne andai. Quel pomeriggio, uscendo dalla Maison Dorée, mi sorpresi a camminare giù per le Ramblas con quella copia dei Passi del cielo. Via via che mi avvicinavo all'angolo da dove partiva calle del Carmen iniziarono a tremarmi le mani. Mi fermai davanti alla vetrina della gioielleria Bagués, fingendo di guardare medaglioni d'oro a forma di fata e fiori spruzzati di rubini. La facciata barocca ed esuberante dei magazzini El Indio era a pochi metri e chiunque avrebbe creduto che si trattasse di un gran bazar di prodigi e meraviglie insospettate invece che di un negozio di tele e tessuti. Mi avvicinai lentamente e avanzai nel vestibolo che conduceva alla porta. Sapevo che lei non avrebbe potuto riconoscermi, che forse nemmeno io avrei potuto più riconoscerla, ma rimasi lo stesso lì per quasi cinque minuti prima di azzardarmi a entrare. Quando lo feci, il cuore mi batteva forte e sentii che mi sudavano le mani. Le pareti erano coperte di scaffali pieni di grandi bobine con ogni tipo di tessuto e sui tavoli i commessi, armati di metri a nastro e di forbici speciali legate alla vita, mostravano a signore di alto lignaggio accompagnate da domestiche e sarte le stoffe pregiate, come se si trattasse di materiale prezioso. «Posso aiutarla, signore?» Era un uomo corpulento e dalla voce stridula, con un vestito di flanella che sembrava sul punto di scoppiare da un momento all'altro e di seminare il negozio di brandelli di stoffa fluttuanti. Mi osservava con aria condiscendente e un sorriso forzato e ostile. «No» mormorai.
Allora la vidi. Mia madre scendeva da una scala con un mucchio di scampoli in mano. Indossava una blusa bianca e la riconobbi all'istante. Si era un po' riempita e il viso, più indistinto, mostrava la lieve sconfitta della routine e del disinganno. Il commesso, irato, continuava a parlarmi ma io quasi non sentivo la sua voce. Vedevo solo lei che si avvicinava e mi passava davanti. Per un secondo mi guardò, e vedendo che la stavo osservando mi sorrise docilmente, come si sorride a un cliente o a un padrone, e poi proseguì nel suo lavoro. Mi si formò un tale nodo alla gola che a stento riuscii a spiccicare qualche parola per zittire il commesso, e mi ci volle del tempo per dirigermi all'uscita con le lacrime agli occhi. Una volta in strada, l'attraversai ed entrai in un caffè. Mi sedetti a un tavolino accanto alla finestra da cui si vedeva la porta di El Indio e aspettai. Era passata quasi un'ora e mezza quando vidi il commesso che mi aveva accolto che abbassava la serranda dell'ingresso. Dopo un po' cominciarono a spegnersi le luci e uscirono alcuni dei commessi che lavoravano lì. Mi alzai e mi affacciai in strada. Un ragazzino di una decina d'anni era seduto sulla soglia del portone di fianco e mi guardava. Gli feci cenno di avvicinarsi e gli mostrai una moneta. Sorrise da orecchio a orecchio e vidi che gli mancavano diversi denti. «Vedi questo pacchetto? Devi darlo a una signora che sta per uscire. Le dici che te l'ha dato un signore per lei, ma non dirle che sono stato io. Hai capito?» Il ragazzino annuì. Gli diedi la moneta e il libro. «Adesso, aspettiamo.» Non ci fu da attendere molto. Tre minuti dopo la vidi uscire. Camminava verso le Ramblas. «È quella signora. La vedi?» Mia madre si fermò un attimo davanti al portico della chiesa di Betlem e feci un cenno al ragazzo, che corse verso di lei. Assistetti alla scena da lontano, senza poter sentire le loro parole. Il bambino le tese il pacchetto e lei lo guardò stranita, incerta se accettarlo o no. Lui insistette e alla fine lei prese il pacchetto e guardò il bambino che si metteva a correre. Sconcertata, si voltò da una parte e dall'altra, cercando con gli occhi. Soppesò il pacchetto, esaminando la carta porpora in cui era avvolto. Alla fine fu vinta dalla curiosità e l'aprì. La vidi tirare fuori il libro. Lo tenne con le due mani, guardando la copertina e poi rigirandolo per esaminare la quarta. Sentii che mi mancava il
fiato. Volevo avvicinarmi, dirle qualcosa, ma non ci riuscii. Rimasi lì, a pochi metri da mia madre, spiandola senza che si accorgesse della mia presenza fin quando riprese il cammino con il libro in mano in direzione di Colón. Passando davanti al palazzo de la Virreina si avvicinò a un cestino e lo buttò via. La vidi scendere giù per la Rambla finché si perse tra la folla, come se non fosse mai stata lì. 19 Sempere padre era solo nella sua libreria a incollare la costa di un esemplare di Fortunata e Giacinta che cadeva a pezzi quando alzò gli occhi e mi vide dall'altro lato della porta. Gli bastarono un paio di secondi per notare lo stato in cui mi trovavo. Mi fece cenno di entrare. Appena fui dentro, mi offrì una sedia. «Ha una brutta faccia, Martín. Dovrebbe andare dal medico. Se ha fifa, l'accompagno. Anche a me i dottori fanno venire i brividi, con quei camici bianchi e quelle cose appuntite in mano, ma a volte ci si è costretti.» «È solo un mal di testa, signor Sempere. Mi sta già passando.» Sempere mi versò un bicchiere di acqua di Vichy. «Tenga. Questa cura tutto, meno la stupidità, che è un'epidemia sempre più diffusa.» Sorrisi svogliato alla battuta di Sempere. Scolai il bicchier d'acqua e sospirai. Sentivo la nausea salirmi alle labbra e una pressione intensa che pulsava dietro l'occhio sinistro. Per un attimo credetti di svenire e chiusi gli occhi. Respirai a fondo, supplicando di non crepare lì. Il destino non poteva avere un senso dell'umorismo tanto perverso da avermi portato fino alla libreria di Sempere per lasciargli, come ringraziamento di tutto quello che aveva fatto per me, un cadavere per mancia. Sentii una mano che mi sosteneva la fronte con delicatezza. Sempere. Aprii gli occhi e trovai il libraio e suo figlio, affacciatosi dentro, che mi osservavano con facce da veglia funebre. «Avviso il dottore?» chiese Sempere figlio. «Sto già meglio, grazie. Molto meglio.» «Lei ha un modo di stare meglio che fa drizzare i capelli. È grigio.» «Un altro po' d'acqua?» Sempere figlio si affrettò a riempirmi di nuovo il bicchiere. «Scusate per lo spettacolo» dissi. «Vi assicuro che non era preparato.» «Non dica sciocchezze.»
«Forse le farebbe bene mangiare qualcosa di dolce. Può essere stato un calo di zuccheri...» propose il figlio. «Vai al forno all'angolo e porta qualche dolce» convenne il libraio. Quando restammo soli, Sempere mi fissò. «Le giuro che andrò dal medico» promisi. Un paio di minuti dopo il figlio del libraio tornò con un sacchetto di carta che conteneva le specialità della panetteria del quartiere. Me lo tese e scelsi una brioche che, in altre occasioni, mi avrebbe tentato come il sedere di una ballerina di varietà. «Morda» ordinò Sempere. Mangiai la brioche docilmente. A poco a poco mi sentii meglio. «Sembra riprendersi» osservò il figlio. «Quello che non curano i dolci del forno all'angolo...» In quell'istante sentimmo il campanello della porta. Un cliente era entrato nella libreria e, a un cenno d'assenso del padre, Sempere figlio ci lasciò per servirlo. Il libraio restò accanto a me e cercò di calcolare i battiti premendomi il polso con l'indice. «Signor Sempere, si ricorda, tanti anni fa, quando mi disse che se un giorno avessi dovuto salvare un libro, salvarlo davvero, sarei dovuto venire da lei?» Sempere diede un'occhiata al libro recuperato dal cestino dove l'aveva gettato mia madre e che tenevo ancora fra le mani. «Mi dia cinque minuti.» Cominciava ad annottare quando scendemmo per le Ramblas tra la folla uscita a passeggio in una serata calda e umida. Soffiava un accenno di brezza, balconi e finestre erano spalancati, e la gente si affacciava a guardare sfilare le sagome sotto il cielo incendiato d'ambra. Sempere camminava a passo spedito e non rallentò la marcia finché non avvistammo il portico d'ombra che si apriva all'imbocco di calle del Arc del Teatre. Prima di attraversare, mi guardò con solennità e disse: «Martín, quello che ora vedrà non potrà raccontarlo a nessuno, nemmeno a Vidal. A nessuno». Annuii, intrigato dall'aria seria e misteriosa del libraio. Lo seguii lungo l'angusta stradina tra edifici tetri e cadenti che sembravano chinarsi come salici di pietra per chiudere la linea di cielo ritagliata dai tetti. Dopo un po' arrivammo a un grande portone di legno che sembrava sigillare una vecchia basilica che fosse rimasta cent'anni sul fondo di una palude. Sempere
salì i gradini fino al portone e afferrò il picchiotto di bronzo forgiato a forma di diavoletto sorridente. Bussò tre volte e scese di nuovo ad aspettare accanto a me. «Quello che vedrà ora non potrà raccontarlo...» «... a nessuno. Nemmeno a Vidal. A nessuno.» Sempere annuì con severità. Aspettammo un paio di minuti finché si sentì un rumore come di centinaia di serrature che scattavano simultaneamente. Il portone si socchiuse con un gemito profondo e si affacciò il volto di un uomo di mezz'età, dai capelli radi, l'espressione rapace e lo sguardo penetrante. «Stavamo scarsi ed è arrivato Sempere, tanto per cambiare» buttò lì. «Cosa mi porta oggi? Un altro succhiainchiostro, uno di quelli che non si fanno la fidanzata perché preferiscono vivere con mammà?» Sempere non fece caso alla sarcastica accoglienza. «Martín, questo è Isaac Monfort, guardiano di questo luogo e possessore di una simpatia senza paragoni. Dia retta a tutto ciò che dirà. Isaac, questo è David Martín, buon amico, scrittore e persona di mia fiducia.» Isaac mi squadrò dall'alto in basso con scarso entusiasmo e poi scambiò un'occhiata con il libraio. «Uno scrittore non è mai una persona di fiducia. Vediamo, Sempere le ha spiegato le regole?» «Solo che non posso parlare a nessuno di quello che vedo qui.» «Questa è la prima e la più importante. Se non la rispetta, verrò di persona a torcerle il collo. Si impregna dello spirito generale?» «Al cento per cento.» «Allora andiamo» disse Isaac, facendomi cenno di entrare. «Io la saluto adesso, Martín, e vi lascio. Qui sarà al sicuro.» Capii che Sempere si riferiva al libro, non a me. Mi abbracciò con forza e poi si perse nella notte. Oltrepassai la soglia e Isaac tirò una leva sul retro del portone. Mille meccanismi intrecciati in una ragnatela di binari e pulegge lo sigillarono. Isaac prese una lanterna da terra e la sollevò all'altezza del mio viso. «Ha una brutta faccia» sentenziò. «Indigestione» replicai. «Di cosa?» «Di realtà.» «Mi venga dietro» tagliò corto. Avanzammo per un lungo corridoio ai cui fianchi velati di penombra si
indovinavano affreschi e scalinate di marmo. Ci addentrammo nel palazzo e dopo un po' s'intravide davanti a noi l'entrata di quella che pareva una grande sala. «Che cosa porta?» domandò Isaac. «I passi del cielo. Un romanzo.» «Bella stupidaggine di titolo. Magari è lei l'autore?» «Temo di sì.» Isaac sospirò, scuotendo la testa di nascosto. «E cos'altro ha scritto?» «La città dei maledetti, volumi dall'uno al ventisette, tra le altre cose.» Isaac si girò e sorrise, compiaciuto. «Ignatius B. Samson?» «Che riposi in pace e per servirla.» L'enigmatico guardiano si fermò e appoggiò la lampada su quella che sembrava una balaustrata sospesa di fronte a una grande volta. Sollevai lo sguardo e ammutolii. Un colossale labirinto di ponti, passaggi e scaffali zeppi di centinaia di migliaia di libri s'innalzava a formare una gigantesca biblioteca dalle prospettive impossibili. Un intrico di tunnel attraversava l'immensa struttura che sembrava ascendere a spirale verso una grande cupola di vetro da cui filtravano cortine di luce e di tenebra. Riuscii a vedere alcune figure isolate che percorrevano passerelle e scale o esaminavano nel dettaglio gli anditi di quella cattedrale di libri e di parole. Non riuscivo a credere ai miei occhi e guardai Isaac Monfort, attonito. Sorrideva come una vecchia volpe che assapora il suo trucco preferito. «Ignatius B. Samson, benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati.» 20 Seguii il guardiano fino alla base della costruzione che ospitava il labirinto. Il pavimento che calpestavamo era rappezzato di lastre e lapidi, con iscrizioni funerarie, croci e volti diluiti nella pietra. Il guardiano si fermò e fece scivolare a mio beneficio la lampada a gas su alcune tessere di quel macabro rompicapo. «Resti di un'antica necropoli» spiegò. «Ma che non le vengano in mente certe idee e decida di morirmi qui.» Proseguimmo fino a una zona di fronte alla struttura centrale che sembrava svolgere le funzioni di soglia. Isaac mi recitava a memoria le regole e i doveri, rivolgendomi di tanto in tanto uno sguardo che io cercavo di
placare con un cenno di assenso mansueto. «Articolo uno: la prima volta che qualcuno viene qui ha il diritto di scegliere un libro, quello che desidera, fra tutti quelli che ci sono. Articolo due: quando si adotta un libro, si contrae l'obbligo di proteggerlo e di fare il possibile perché non venga mai perso. Per tutta la vita. Qualche dubbio finora?» Sollevai gli occhi verso l'immensità del labirinto. «Come si fa a scegliere un solo libro fra tanti?» Isaac si strinse nelle spalle. «C'è chi preferisce credere che sia il libro a scegliere lui... Il destino, per così dire. Quella che lei vede qui è la summa di secoli di libri perduti e dimenticati, libri condannati a essere distrutti e ridotti per sempre al silenzio, libri che preservano la memoria e l'anima di epoche e prodigi che nessuno più ricorda. Nessuno di noi, nemmeno i più vecchi, sa esattamente quando è stato creato questo posto e da chi. Probabilmente è antico quanto la città stessa ed è cresciuto con lei, alla sua ombra. Sappiamo che l'edificio è stato innalzato con i resti di palazzi, chiese, prigioni e ospedali che una volta forse si trovavano in questo luogo. L'origine della struttura principale è degli inizi del XVIII secolo e da allora non ha smesso di cambiare. In precedenza, il Cimitero dei Libri Dimenticati era nascosto sotto le gallerie della città medievale. C'è chi sostiene che ai tempi dell'Inquisizione persone colte e dalla mente libera nascondevano libri proibiti nei sarcofaghi e li seppellivano negli ossari sparsi in tutta la città per proteggerli, sperando che le generazioni future potessero dissotterrarli. Verso la metà del secolo scorso fu trovata una lunga galleria che conduce dalle viscere del labirinto ai sotterranei di una vecchia biblioteca oggi chiusa e nascosta fra le rovine di un'antica sinagoga del quartiere del Call. Quando caddero le ultime mura della città, si verificò uno smottamento e la galleria venne inondata dalle acque del torrente sotterraneo che scorre da secoli sotto le odierne Ramblas. Adesso è impraticabile, ma supponiamo che per molto tempo quella galleria sia stata una delle principali vie d'accesso a questo luogo. La maggior parte della struttura che lei può vedere è sorta durante il XIX secolo. Non più di cento persone in tutta la città conoscono questo luogo e spero che Sempere non abbia commesso un errore includendovi anche lei...» Negai energicamente, ma Isaac mi osservava con scetticismo. «Articolo tre: può seppellire il suo libro dove vuole.» «E se mi perdo?» «Una clausola addizionale, farina del mio sacco: cerchi di non perdersi.»
«Si è perso qualcuno qualche volta?» Isaac si lasciò sfuggire uno sbuffo. «Quando ho iniziato qui, anni fa, raccontavano la storia di Dario Alberti de Cymerman. Immagino che Sempere non gliene avrà parlato, naturalmente...» «Cymerman? Lo storico?» «No, il domatore di scarafaggi. Quanti Dario Alberti de Cymerman conosce? Si dà il caso che nell'inverno del 1889 Cymerman si addentrò nel labirinto e scomparve per una settimana. Lo trovarono nascosto in una delle gallerie, mezzo morto di terrore. Si era murato dietro varie file di testi sacri per non essere visto.» «Visto da chi?» Isaac mi fissò a lungo. «Dall'uomo vestito di nero. Sicuro che Sempere non gliel'ha raccontato?» «Sicuro.» Isaac abbassò la voce e adottò un tono confidenziale. «Alcuni membri, nel corso degli anni, hanno visto a volte l'uomo vestito di nero nelle gallerie del labirinto. Ognuno lo descrive in modo diverso. C'è perfino chi afferma di avergli parlato. C'è stato un tempo in cui si sparse la voce che l'uomo vestito di nero fosse lo spirito di un autore maledetto tradito da uno dei membri che si era portato via un suo libro e non aveva mantenuto la promessa. Il libro si perse per sempre e l'autore defunto vaga eternamente per i corridoi in cerca di vendetta, sa, quel tipo di cose alla Henry James che piacciono tanto alla gente.» «Non mi dirà che lei ci crede.» «Certo che no. Io ho un'altra teoria. Quella di Cymerman.» «Cioè...?» «L'uomo vestito di nero è il padrone di questi luoghi, il padre di ogni conoscenza segreta e proibita, del sapere e della memoria, portatore della luce di romanzieri e scrittori da tempo immemorabile... È il nostro angelo custode, l'angelo delle menzogne e della notte.» «Mi sta prendendo in giro.» «Ogni labirinto ha il suo minotauro» commentò il guardiano. Isaac sorrise enigmaticamente e indicò l'ingresso del labirinto. «È tutto suo.» Imboccai una passerella che conduceva a una delle entrate e avanzai lentamente per un lungo corridoio di libri che descriveva una curva ascenden-
te. Alla fine della curva, la galleria si ramificava in quattro bracci e formava un piccolo cerchio dal quale partiva una scala a chiocciola che si perdeva in alto. Salii i gradini finché trovai un pianerottolo da cui si diramavano tre gallerie. Ne scelsi una, quella che credevo portasse al cuore della struttura, e mi ci avventurai. Passando, sfioravo con le dita i dorsi di centinaia di libri. Mi lasciai impregnare dall'odore, dalla luce che riusciva a filtrare dalle fessure e dalle lanterne di vetro incastonate nella struttura di legno e che fluttuava negli specchi e nella penombra. Camminai senza meta per quasi trenta minuti finché giunsi in una specie di camera chiusa dove c'erano un tavolo e una sedia. Le pareti erano fatte di libri e davano l'impressione di essere solide, a eccezione di uno spiraglio da cui sembrava che qualcuno avesse portato via un volume. Decisi che quella sarebbe stata la nuova casa dei Passi del cielo. Guardai la copertina per l'ultima volta e rilessi il primo paragrafo, immaginando l'istante in cui, se la fortuna l'avesse voluto, e molti anni dopo che io fossi morto e dimenticato, qualcuno avrebbe percorso lo stesso cammino e sarebbe arrivato in quella sala per trovare un libro sconosciuto nel quale avevo messo tutto ciò che avevo da offrire. Lo lasciai lì, con la sensazione di essere io a restare sullo scaffale. Fu allora che sentii la presenza alle mie spalle, e mi girai per imbattermi nell'uomo vestito di nero che mi fissava negli occhi. 21 All'inizio non riconobbi il mio stesso sguardo nello specchio, uno dei tanti che formavano una catena di luce tenue lungo i corridoi del labirinto. Quelli che vedevo riflessi erano il mio volto e la mia pelle, ma gli occhi appartenevano a un estraneo. Torbidi e scuri e pieni di malizia. Distolsi lo sguardo e sentii che mi prendeva di nuovo la nausea. Mi sedetti sulla sedia accanto al tavolo e respirai a fondo. Immaginai che perfino il dottor Trias si sarebbe divertito all'idea che l'inquilino del mio cervello, l'escrescenza tumorale, come a lui piaceva chiamarla, avesse pensato di darmi il colpo di grazia proprio in quel posto e di concedermi l'onore di essere il primo cittadino permanente del Cimitero dei Romanzieri Dimenticati. Seppellito in compagnia della sua ultima e penosa opera, quella che l'aveva portato alla tomba. Qualcuno mi avrebbe trovato lì dentro dopo dieci mesi o dieci anni, o forse mai. Un gran finale, degno della Città dei maledetti. Credo che mi salvò quella mia risata amara, che mi snebbiò la testa e mi
restituì la nozione di dove mi trovassi e di cosa fossi venuto a fare. Stavo per alzarmi dalla sedia quando lo vidi. Era un volume rozzo, scuro e senza titolo visibile sulla costa. Era in cima a una pila di altri quattro libri all'estremità del tavolo. Lo presi fra le mani. Sembrava rilegato in cuoio o in qualche tipo di pelle conciata e annerita, più dal tatto che da una tintura. Le parole del titolo, incise in copertina con quello che immaginai come un qualche tipo di marchio a fuoco, erano indistinguibili, ma sulla quinta pagina si poteva leggere chiaramente lo stesso titolo. Lux Aeterna DM. Supposi che le iniziali, che coincidevano con le mie, corrispondessero al nome dell'autore, ma nel libro non c'era nessun altro indizio che lo confermasse. Sfogliai al volo parecchie pagine e riconobbi almeno cinque diverse lingue che si alternavano nei testo. Castigliano, tedesco, latino, francese ed ebraico. Lessi un paragrafo a caso che mi fece pensare a un'orazione che non ricordavo nella liturgia tradizionale e mi chiesi se quel tomo non fosse una specie di messale o di compendio di preghiere. Il testo era punteggiato di numeri e di strofe con gli incipit sottolineati che parevano indicare episodi o divisioni tematiche. Più lo esaminavo, più mi rendevo conto che mi ricordava i Vangeli e i libri di catechismo di quando andavo a scuola. Avrei potuto uscire di lì, scegliere qualunque altro volume tra centinaia di migliaia e abbandonare quel luogo per non tornarci mai più. Credetti quasi di averlo fatto quando mi resi conto di ripercorrere le gallerie e i corridoi del labirinto con il libro in mano, come se fosse un parassita appiccicato alla mia pelle. Per un istante mi attraversò la mente l'idea che il libro avesse più voglia di me di uscire da quel posto e che, in qualche maniera, guidasse i miei passi. Dopo aver fatto qualche giro ed essere passato un paio di volte davanti allo stesso esemplare del quarto volume delle opere complete di LeFanu, mi ritrovai senza sapere come di fronte alla scala che scendeva a spirale, e da lì riuscii a imbroccare la strada che portava all'uscita del labirinto. Credevo che Isaac mi aspettasse sulla soglia, ma non c'era traccia della sua presenza, anche se ebbi la certezza che qualcuno mi stesse osservando dall'oscurità. La grande volta del Cimitero dei Libri Dimenticati era immersa in un profondo silenzio.
«Isaac?» chiamai. L'eco della mia voce si perse nell'ombra. Attesi inutilmente qualche secondo e m'incamminai verso l'uscita. Le tenebre azzurrate che filtravano dalla cupola a poco a poco svanirono finché l'oscurità intorno a me fu quasi assoluta. Qualche passo più avanti scorsi una luce che palpitava all'estremità della galleria e vidi che il guardiano aveva lasciato la lanterna ai piedi del portone. Mi girai per l'ultima volta per scrutare nel buio della galleria. Tirai la leva che metteva in funzione il meccanismo di binari e pulegge. Gli anelli del chiavistello si liberarono uno dopo l'altro e la porta cedette di qualche centimetro. La spinsi quel tanto che bastava per passare e uscii all'esterno. Dopo pochi secondi la porta iniziò a chiudersi di nuovo e si sigillò con un'eco profonda. 22 Via via che mi allontanavo da quel posto, sentivo che la sua magia mi abbandonava e che m'invadevano di nuovo la nausea e il dolore. Caddi bocconi un paio di volte, la prima sulle Ramblas e la seconda mentre tentavo di attraversare via Layetana, dove un bambino mi sollevò e mi salvò da un tram che stava per investirmi. A malapena riuscii ad arrivare alla mia porta. La casa era stata chiusa tutto il giorno e il caldo, quel caldo umido e velenoso che ogni giorno soffocava un po' di più la città, fluttuava all'interno sotto forma di luce polverosa. Salii allo studio della torre e spalancai le finestre. C'era appena un alito di brezza sotto un cielo lapidato di nubi nere che si muovevano lentamente in circolo sopra Barcellona. Lasciai il libro sulla scrivania e mi dissi che ci sarebbe stato tempo per esaminarlo con cura. O forse no. Forse il mio tempo era già finito. Ormai pareva importare poco. In quegli istanti mi reggevo a stento in piedi e avevo bisogno di stendermi al buio. Recuperai dal cassetto un flacone di pillole di codeina e ne inghiottii tre o quattro d'un colpo. Mi misi il flacone in tasca e scesi per le scale, non del tutto sicuro di poter arrivare intero alla camera da letto. In corridoio mi sembrò di vedere un palpitio nella striscia di luce sotto la porta principale, come se ci fosse qualcuno dall'altro lato. Mi avvicinai lentamente all'entrata, sostenendomi ai muri. «Chi è?» domandai. Non ci fu risposta né alcun suono. Esitai un attimo e poi aprii e mi affacciai sul pianerottolo. Mi sporsi a guardare giù per le scale. I gradini scen-
devano a spirale, sfumando nelle tenebre. Non c'era nessuno. Mi girai verso la porta e notai che la piccola lampada che illuminava il pianerottolo palpitava. Entrai di nuovo in casa e chiusi a chiave, cosa che molte volte dimenticavo di fare. Fu allora che la vidi. Una busta color crema con il bordo sigillato. Qualcuno l'aveva fatta scivolare sotto la porta. Mi accovacciai per raccoglierla. Era una carta dalla grammatura pesante, porosa. La busta era sigillata con la ceralacca e recava il mio nome. L'emblema sulla ceralacca tracciava il profilo dell'angelo ad ali spiegate. L'aprii. Stimato signor Martín, trascorrerò qualche tempo in città e mi piacerebbe molto poter godere della sua compagnia e magari dell'opportunità di riprendere il discorso della mia offerta. Le sarei molto grato se, non avendo impegni precedenti, volesse cenare in mia compagnia il prossimo venerdì 13 di questo mese alle 22.00 in una piccola villa che ho affittato per la mia permanenza a Barcellona. La casa si trova all'angolo tra calle Olot e calle San José de la Montana, accanto all'ingresso del Park Güell. Confido e mi auguro che le sarà possibile venire. Il suo amico Andreas Corelli Lasciai cadere il biglietto e mi trascinai in salotto. Lì mi stesi sul divano, al riparo della penombra. Mancavano sette giorni all'appuntamento. Sorrisi tra me. Non credevo di avere altri sette giorni di vita. Chiusi gli occhi e cercai di conciliare il sonno. Quel sibilo costante nelle orecchie mi sembrava adesso più rumoroso che mai. Stilettate di luce bianca si accendevano nella mia mente a ogni battito del cuore. Non potrà nemmeno pensarci, a scrivere. Riaprii gli occhi e scrutai le tenebre azzurrate che velavano il salotto. Accanto a me, sul tavolo, giaceva ancora quel vecchio album di fotografie lasciato da Cristina. Mi era mancato il coraggio di buttarlo via, e non l'avevo quasi toccato. Allungai la mano e lo aprii. Sfogliai le pagine fino a trovare l'immagine che cercavo. La staccai per esaminarla. Cristina, da bambina, camminava per mano a uno sconosciuto lungo quel molo che si addentrava nel mare. Strinsi la foto al petto e mi abbandonai alla stanchezza. Lentamente, l'amarezza e la rabbia di quel giorno, di quegli anni, si
spensero e mi avvolse una calda oscurità piena di voci e mani che mi stavano aspettando. Desiderai perdermici come non avevo mai desiderato nulla in tutta la vita, ma qualcosa mi diede uno strattone, e una pugnalata di luce e di dolore mi strappò a quel sogno piacevole che prometteva di non avere fine. Non ancora - sussurrò la voce - non ancora. Seppi che passavano i giorni perché a tratti mi svegliavo e mi sembrava di vedere la luce del sole che attraversava le stecche delle imposte alle finestre. In diverse occasioni credetti di sentire bussare alla porta e voci che pronunciavano il mio nome e dopo un po' sparivano. Ore o giorni dopo mi alzai e mi portai le mani alla faccia scoprendo del sangue sulle labbra. Non so se scesi in strada o se sognai di farlo, ma senza sapere come ci ero arrivato mi ritrovai a imboccare il paseo del Born e a camminare verso la cattedrale di Santa Maria del Mar. Le strade erano deserte sotto la luna di mercurio. Alzai lo sguardo e credetti di vedere lo spettro di un gran temporale nero che dispiegava le sue ali sulla città. Un soffio di luce bianca squarciò il cielo e un manto intessuto di gocce di pioggia precipitò come uno sciame di pugnali di cristallo. Un attimo prima che le gocce sfiorassero il suolo, il tempo si fermò e centinaia di migliaia di lacrime di luce rimasero sospese nell'aria come pagliuzze di polvere. Seppi che qualcuno o qualcosa camminava alle mie spalle e sentii il suo alito sulla nuca, freddo e impregnato del fetore della carne putrefatta e del fuoco. Sentii che le sue dita, lunghe e affusolate, incombevano sulla mia pelle e in quell'istante, attraversando la pioggia in sospensione, apparve quella bambina che viveva soltanto nel ritratto che stringevo al petto. Mi prese per mano e mi trascinò, guidandomi di nuovo alla casa della torre, lasciando alle spalle quella presenza gelida che strisciava dietro di me. Quando recuperai la coscienza, erano passati sette giorni. Era l'alba del 13 luglio, venerdì. 23 Pedro Vidal e Cristina Sagnier si sposarono quel pomeriggio. La cerimonia ebbe luogo alle cinque nella cappella del monastero di Pedralbes e vi partecipò solo una piccola parte del clan Vidal, mentre i membri più importanti della famiglia, incluso il padre dello sposo, brillavano per la loro vergognosa assenza. Ci fosse stata qualche malalingua, avrebbe detto che
la trovata del prediletto di contrarre matrimonio con la figlia dell'autista era caduta come un secchio di acqua gelata sui seguaci della dinastia. Ma non c'era. In virtù di un discreto patto del silenzio, i cronisti di costume e società avevano altre cose da fare quel pomeriggio e non una sola pubblicazione parlò della cerimonia. Nessuno era lì per raccontare che alle porte della chiesa si era riunito un gruppo di ex amanti di don Pedro, che piangevano in silenzio come una confraternita di vedove avvizzite a cui restava da perdere soltanto l'ultima speranza. Nessuno era lì per raccontare che Cristina aveva un mazzo di rose bianche in mano e un vestito avorio che si confondeva con la pelle e faceva pensare che la sposa arrivasse nuda all'altare, senz'altri ornamenti se non il velo bianco che le copriva il volto e un cielo ambrato che sembrava raccogliersi in un mulinello di nubi sulla guglia del campanile. Nessuno era lì per ricordare come scendeva dalla macchina e come, per un istante, si fermava per alzare lo sguardo sulla piazza di fronte al portale della chiesa, finché i suoi occhi incontrarono quell'uomo moribondo a cui tremavano le mani e che mormorava, senza che nessuno potesse sentirlo, parole che avrebbe portato con sé nella tomba. «Siate maledetti. Siate tutti e due maledetti.» Due ore dopo, seduto nella poltrona dello studio, aprii l'astuccio che anni prima era giunto tra le mie mani e che conteneva l'unica cosa che mi restava di mio padre. Estrassi la pistola avvolta nel panno e aprii il tamburo. Caricai sei pallottole e richiusi l'arma. Appoggiai la canna alla tempia, armai il percussore e chiusi gli occhi. In quell'istante sentii quella raffica di vento sferzare all'improvviso la torre e spalancare i finestroni dello studio, che sbatterono con forza contro i muri. Una brezza gelida mi accarezzò la pelle, portando con sé il soffio perduto delle grandi speranze. 24 Il taxi saliva lentamente fino ai confini del quartiere di Gracia verso il solitario e cupo recinto del Park Güell. La collina era punteggiata di ville che avevano visto giorni migliori, immerse in un bosco che si agitava al vento come acqua scura. Intravidi nella parte alta del pendio la grande porta del recinto. Tre anni prima, alla morte di Gaudi, gli eredi del conte Güell avevano venduto al Comune quell'area deserta che non aveva mai avuto altro abitante se non il suo architetto al prezzo di una peseta. Dimenticato e
trascurato, il giardino con le colonne e le torri faceva pensare adesso a un eden maledetto. Indicai all'autista di fermarsi davanti ai cancelli dell'ingresso e gli pagai la corsa. «Il signore è sicuro di voler scendere qui?» domandò l'autista, dubbioso. «Se vuole, posso aspettarla qualche minuto...» «Non sarà necessario.» Il mormorio del taxi si perse giù per la collina e rimasi solo con l'eco del vento tra gli alberi. Le foglie morte si trascinavano all'entrata del parco e formavano mulinelli ai miei piedi. Mi avvicinai al cancello, chiuso con catene corrose dalla ruggine, e scrutai all'interno. La luce della luna lambiva il profilo del drago che presidiava la scalinata. Una forma scura scendeva i gradini molto lentamente, osservandomi con occhi che brillavano come perle nell'acqua. Era un cane nero. L'animale si fermò ai piedi delle scale e solo allora notai che non era solo. Altri due animali mi osservavano in silenzio. Uno si era avvicinato con cautela al riparo dell'ombra proiettata dalla casa del guardiano, di fianco all'ingresso. L'altro, il più grande dei tre, si era arrampicato in cima al muro e mi contemplava dal bordo a nemmeno un paio di metri. La bruma del suo fiato stillava tra i canini scoperti. Arretrai molto lentamente, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi e senza rivolgergli le spalle. Passo dopo passo, guadagnai il marciapiede di fronte all'entrata. Un altro cane era salito sul muro e mi seguiva con gli occhi. Tastai il terreno in cerca di qualche bastone o di una pietra da utilizzare come arma di difesa se avessero deciso di saltarmi addosso, ma c'erano solo foglie secche. Sapevo che, se distoglievo lo sguardo e mi mettevo a correre, gli animali mi avrebbero dato la caccia e che non avrei fatto nemmeno venti metri prima che mi raggiungessero e mi facessero a pezzi. Il più grande avanzò qualche metro in cima al muro ed ebbi la certezza che stesse per saltare. Quello che avevo visto all'inizio e che probabilmente faceva da esca cominciava a scalare la parte bassa del muro per unirsi agli altri due. Eccoci qua, pensai. In quell'istante un lampo si accese e illuminò i musi da lupo dei tre animali, che si fermarono di colpo. Guardai da sopra la spalla e vidi il monticello che s'innalzava a una cinquantina di metri dall'ingresso del parco. Le luci della casa si erano accese, le uniche in tutta la collina. Uno degli animali emise un gemito sordo e si ritirò verso l'interno del parco. Gli altri lo seguirono un attimo dopo. Senza pensarci su, m'incamminai verso la casa. Come aveva indicato Corelli nel suo invito, la villa s'innalzava all'angolo tra calle Olot e calle
San José de la Montana. Era una struttura slanciata e spigolosa di tre piani a forma di torre, coronata da mansarde, che osservava come una sentinella la città e il parco spettrale ai suoi piedi. La casa sorgeva alla fine di una ripida salita e di una scalinata che conducevano alla sua porta. Aloni di luce dorata trapelavano dai finestroni. Mentre salivo le scale di pietra, mi parve di distinguere un profilo ritagliato su una balaustrata del secondo piano, immobile come un ragno al centro della sua tela. Raggiunsi l'ultimo gradino e mi fermai a riprendere fiato. La porta principale era socchiusa e una lama di luce si allungava fino ai miei piedi. Mi avvicinai lentamente e mi arrestai sulla soglia. Dall'interno veniva un odore di fiori morti. Bussai con le nocche alla porta e si socchiuse di qualche centimetro. Davanti a me c'erano un ingresso e un lungo corridoio che si addentrava nella casa. Avvertii un suono secco e ripetitivo, come quello di un'imposta sbattuta dal vento, che proveniva da qualche luogo della casa e ricordava il battito di un cuore. Avanzai pochi passi nell'ingresso e vidi alla mia sinistra le scale che salivano alla torre. Credetti di sentire dei passi leggeri, passi di bambino, sugli ultimi gradini. «Buona sera...» chiamai. Prima che l'eco della mia voce si perdesse lungo il corridoio, il suono percussivo che pulsava in qualche angolo della casa si fermò. Un silenzio assoluto calò attorno a me e una corrente d'aria gelida mi accarezzò il volto. «Signor Corelli? Sono Martín, David Martín...» Non ottenendo risposta, mi avventurai lungo il corridoio che portava nel cuore della casa. Le pareti erano ricoperte di ritratti fotografici in cornici di diverse misure. Dalle pose e dai vestiti dei soggetti dedussi che la maggior parte risaliva almeno a venti o trent'anni prima. Sotto ogni cornice c'era una piccola targa con il nome e l'anno in cui la foto era stata scattata. Studiai quei volti che mi osservavano da un altro tempo. Vecchi e bambini, uomini e donne. Li univa un'ombra di tristezza nello sguardo, un appello silenzioso. Tutti guardavano in macchina con un anelito che gelava il sangue. «Le interessa la fotografia, Martín, amico mio?» disse la voce al mio fianco. Mi girai di soprassalto. Andreas Corelli guardava le fotografie accanto a me con un sorriso che irradiava malinconia. Non l'avevo visto né sentito avvicinarsi e quando mi sorrise provai un brivido. «Credevo che non sarebbe venuto.»
«Anch'io.» «Allora mi permetta di offrirle un bicchiere di vino per brindare ai nostri errori.» Lo seguii fino a una grande sala con ampi finestroni orientati verso la città. Corelli mi fece cenno di accomodarmi su una poltrona e servì due bicchieri da una bottiglia di cristallo che stava sopra un tavolo. Mi tese il bicchiere e si sedette sulla poltrona di fronte alla mia. Assaggiai il vino. Era eccellente. Lo finii quasi d'un sorso e ben presto sentii che il calore che mi scendeva lungo la gola mi calmava i nervi. Corelli annusava il suo bicchiere e mi osservava con un sorriso sereno e amichevole. «Lei aveva ragione» dissi. «Di solito ce l'ho» replicò Corelli. «È un'abitudine che raramente mi dà qualche soddisfazione. A volte penso che poche cose mi piacerebbero di più della certezza di essermi sbagliato.» «Questo si risolve facilmente. Chieda a me. Io mi sbaglio sempre.» «No, non si sbaglia. Mi sembra che lei veda le cose chiaramente quanto me e che nemmeno lei ne ricavi alcuna soddisfazione.» Ascoltandolo, mi venne in mente che in quel momento l'unica cosa in grado di darmi qualche soddisfazione sarebbe stata dare fuoco al mondo intero e bruciarci dentro anch'io. Corelli, come se mi avesse letto nel pensiero, sorrise mostrando i denti e annuì. «Io posso aiutarla, amico mio.» Mi sorpresi a schivare il suo sguardo per concentrarmi sulla piccola spilla con un angelo d'argento sul risvolto della sua giacca. «Carina, quella spilla» dissi, indicandola. «Un ricordo di famiglia» spiegò Corelli. Mi sembrò che ci fossimo scambiati cortesie e banalità sufficienti per tutta la serata. «Signor Corelli, cosa ci faccio qui?» I suoi occhi brillavano dello stesso colore del vino che ondeggiava lentamente nel suo bicchiere. «È molto semplice. Lei è qui perché ha finalmente capito che questo è il suo posto. È qui perché un anno fa le ho fatto un'offerta. Un'offerta che in quel momento non era pronto ad accettare, ma che non ha dimenticato. E io sono qui perché continuo a pensare che lei sia la persona che cerco, e per questo ho preferito aspettare dodici mesi piuttosto che soprassedere.» «Un'offerta che non mi ha mai illustrato nei dettagli» ricordai.
«In realtà, l'unica cosa che le ho fornito sono stati i dettagli.» «Centomila franchi per lavorare un anno intero per lei a scrivere un libro.» «Esattamente. Molti avrebbero pensato che questo era l'essenziale. Ma non lei.» «Mi disse che quando mi avrebbe spiegato che tipo di libro avrei dovuto scrivere per lei, l'avrei fatto anche se non mi pagava.» Corelli annuì. «Lei ha buona memoria.» «Ho una memoria eccellente, signor Corelli, tanto che non ricordo di aver visto, letto o sentito parlare di nessun libro pubblicato da lei.» «Dubita della mia solvibilità?» Negai cercando di dissimulare il desiderio e l'avidità che mi rodevano. Quanto più disinteresse mostravo, più mi sentivo tentato dalle promesse dell'editore. «Semplicemente mi intrigano i suoi moventi» dichiarai. «Com'è giusto.» «In ogni caso le ricordo che ho un contratto in esclusiva con Barrido ed Escobillas per altri cinque anni. L'altro giorno ho ricevuto una visita molto eloquente da parte loro in compagnia di un avvocato dall'aria sbrigativa. Però suppongo che faccia lo stesso, perché un lustro è un periodo di tempo troppo lungo, e se sono sicuro di qualcosa è che ciò che mi manca è proprio il tempo.» «Non si preoccupi per gli avvocati. I miei hanno un'aria infinitamente più sbrigativa degli avvocati di quella coppia di pustole e non perdono mai una causa. Lasci a me i dettagli legali e i litigi.» Dal modo in cui sorrise pronunciando quelle parole pensai che sarebbe stato meglio non avere mai un colloquio con i consulenti legali delle Éditions de la Lumière. «Le credo. Immagino che a questo punto resti aperta la questione degli altri dettagli della sua offerta, quelli essenziali.» «Non c'è un modo semplice di dirlo, perciò la cosa migliore sarà parlarle senza remore.» «La prego.» Corelli si chinò in avanti e mi fissò. «Martín, voglio che lei crei una religione per me.» All'inizio pensai di non aver sentito bene. «Come dice?»
Continuò a fissarmi con quel suo sguardo senza fondo. «Ho detto che voglio che crei una religione per me.» Lo osservai per un lungo istante, muto. «Mi sta prendendo in giro.» Corelli negò, assaporando con gusto il suo vino. «Voglio che convochi tutto il suo talento e che si dedichi anima e corpo per un anno a lavorare alla storia più grande che abbia mai creato: una religione.» Non potei far altro che scoppiare a ridere. «Lei è completamente pazzo. È questa la sua offerta? È questo il libro che vuole che scriva?» Corelli annuì sereno. «Ha sbagliato scrittore. Io non so nulla di religione.» «Non si preoccupi di questo. Io sì. Non cerco un teologo. Cerco un narratore. Sa cos'è una religione, Martín, amico mio?» «A stento ricordo il Padre Nostro.» «Una preghiera bella e ben fatta. Poesia a parte, una religione è un codice morale che si esprime mediante leggende, miti o qualunque tipo di artefatto letterario al fine di istituire un sistema di credenze, valori e norme con i quali regolare una cultura o una società.» «Amen» replicai. «Come per la letteratura o qualunque atto comunicativo, a conferirle efficacia è la forma e non il contenuto» continuò Corelli. «Mi sta dicendo che una dottrina in pratica è un racconto.» «Tutto è racconto, Martín. Quello che crediamo, quello che conosciamo, quello che ricordiamo e perfino quello che sogniamo. Tutto è racconto, narrazione, una sequenza di eventi e personaggi che comunicano un contenuto emotivo. Un atto di fede è un atto di accettazione, accettazione di una storia che ci viene raccontata. Accettiamo come vero solo quello che può essere narrato. Non mi dica che l'idea non la tenta.» «No.» «Non la tenta creare una storia per la quale gli uomini siano capaci di vivere e morire, di uccidere e farsi uccidere, di sacrificarsi e di condannarsi, di offrire la propria anima? Quale sfida più grande per il suo mestiere che creare una storia tanto potente da trascendere la finzione e diventare verità rivelata?» Ci guardammo in silenzio per diversi secondi. «Credo che conosca già la mia risposta» dissi alla fine.
Corelli sorrise. «Io sì. Credo che sia lei a non conoscerla ancora.» «Grazie per la compagnia, signor Corelli. E per il vino e i discorsi. Molto stimolanti. Stia attento a chi li rivolge. Le auguro di trovare il suo uomo e che il pamphlet sia un gran successo.» Mi alzai e mi preparai ad andarmene. «L'aspettano da qualche parte, Martín?» Non risposi, ma mi fermai. «Non si prova rabbia quando si sa che potrebbero esserci tante cose per cui vivere, ricchi e in salute, senza vincoli?» disse Corelli alle mie spalle. «Non si prova rabbia quando gliele strappano dalle mani?» Mi voltai lentamente. «Cos'è un anno di lavoro di fronte alla possibilità che tutto ciò che si desidera diventi realtà? Cos'è un anno di lavoro di fronte alla promessa di una lunga e piena esistenza?» Niente, pensai dentro di me, mio malgrado. Niente. «È questa la sua promessa?» «Stabilisca lei il prezzo. Vuole dar fuoco al mondo e bruciarci dentro anche lei? Facciamolo insieme. Fissi lei il prezzo. Io sono disposto a darle quello che più desidera.» «Non so cos'è che desidero di più.» «Io credo invece che lo sappia bene.» L'editore sorrise e mi strizzò l'occhio. Si alzò e si avvicinò a un comò sul quale giaceva una lampada. Aprì il primo cassetto ed estrasse una busta di carta pergamena. Me la tese, ma non l'accettai. La lasciò sul tavolo e si sedette di nuovo, senza dire una parola. La busta era aperta e al suo interno si intravedevano quelli che sembravano diversi mazzetti di banconote da cento franchi. Una fortuna. «Lei tiene tutto questo denaro in un cassetto e non chiude nemmeno la porta?» domandai. «Può contarlo. Se le sembra insufficiente, dica una cifra. Le ho già detto che non avrei discusso di denaro con lei.» Guardai quel tocco di fortuna per un lungo istante e alla fine scossi la testa. Almeno l'avevo visto. Era reale. L'offerta e la vanità che mi blandivano in quei momenti di miseria e disperazione erano reali. «Non posso accettarlo» dissi. «Crede sia denaro sporco?» «Tutto il denaro è sporco. Se fosse pulito, nessuno lo vorrebbe. Ma non
è questo il problema.» «Allora?» «Non posso accettarlo perché non posso accettare la sua offerta. Non potrei neanche se volessi.» Corelli soppesò le mie parole. «Posso chiederle perché?» «Perché sto morendo, signor Corelli. Perché mi restano solo poche settimane di vita, forse giorni. Perché non mi rimane nulla da offrire.» Corelli abbassò lo sguardo e sprofondò in un lungo silenzio. Sentii il vento graffiare le finestre e strisciare sopra la casa. «Non mi dica che non lo sapeva» aggiunsi. «Lo intuivo.» Rimase seduto, senza guardarmi. «Ci sono molti altri scrittori che possono scrivere quel libro per lei, signor Corelli. Le sono riconoscente per la sua offerta. Più di quanto immagini. Buona notte.» M'incamminai verso l'uscita. «Diciamo che potrei aiutarla a sconfiggere la sua malattia» disse. Mi fermai a metà corridoio e mi voltai. Corelli era a due palmi da me e mi fissava. Mi sembrò più alto di quando l'avevo visto per la prima volta nel corridoio e che i suoi occhi fossero più grandi e scuri. Vidi il mio riflesso rimpicciolire nelle sue pupille via via che si dilatavano. «La inquieta il mio aspetto, amico Martín?» Deglutii. «Sì» confessai. «Per favore, torni in salotto e si sieda. Mi dia l'opportunità di spiegarle meglio. Cos'ha da perdere?» «Nulla, credo.» Mi mise la mano sul braccio con delicatezza. Aveva dita lunghe e pallide. «Non ha nulla da temere da me, Martín. Sono suo amico.» Il suo tocco era confortante. Mi lasciai guidare di nuovo in salotto e mi sedetti docilmente, come un bambino che aspetta le parole di un adulto. Corelli si accovacciò accanto alla poltrona e posò lo sguardo sul mio. Mi prese la mano e la strinse con forza. «Lei vuole vivere?» Volevo rispondere ma non trovai le parole. Mi resi conto di avere un nodo alla gola e gli occhi che si riempivano di lacrime. Non avevo capito fi-
no ad allora quanto desiderassi continuare a respirare, continuare ad aprire gli occhi ogni mattina e poter uscire in strada per calpestare i ciottoli e vedere il cielo e, soprattutto, continuare a ricordare. Annuii. «L'aiuterò, Martín, amico mio. Le chiedo solo di avere fiducia in me. Accetti la mia offerta. Lasci che l'aiuti. Lasci che le dia ciò che più desidera. È questa la mia promessa.» Annuii di nuovo. «Accetto.» Corelli sorrise e si chinò su di me per baciarmi sulla guancia. Aveva le labbra fredde come il ghiaccio. «Io e lei, amico mio, faremo grandi cose insieme. Vedrà» mormorò. Mi offrì un fazzoletto per asciugarmi le lacrime. Lo feci senza provare la vergogna muta di piangere di fronte a un estraneo, cosa che non facevo da quando era morto mio padre. «Lei è esausto, Martín. Resti qui per la notte. In questa casa le stanze abbondano. Le assicuro che domani si sentirà meglio e vedrà le cose più chiaramente.» Mi strinsi nelle spalle, anche se capii che Corelli aveva ragione. A stento mi reggevo in piedi e desideravo soltanto dormire profondamente. Non mi ci vedevo a sollevarmi da quella poltrona, la più comoda e accogliente di tutte le poltrone nella storia universale. «Se non le dispiace, preferisco restare qui.» «Certo. La lascio riposare. Presto si sentirà meglio. Le do la mia parola.» Si avvicinò al comò e spense la lampada a gas. La stanza sprofondò in una penombra azzurrata. Mi cadevano le palpebre e una sensazione di ubriachezza mi inondava la testa, ma riuscii a vedere il profilo di Corelli attraversare la stanza e svanire nell'ombra. Chiusi gli occhi e ascoltai il sussurro del vento dietro i vetri. 25 Sognai che la casa affondava lentamente. All'inizio piccole lacrime d'acqua scura iniziarono a spuntare dalle crepe delle mattonelle, dai muri, dalle increspature del soffitto, dai globi delle lampade, dai buchi delle serrature. Era un liquido freddo che avanzava in maniera lenta e pesante, come gocce di mercurio, e a poco a poco formava un manto che ricopriva il pavimento e risaliva lungo le pareti. Sentii che l'acqua mi copriva i piedi e saliva rapi-
damente. Rimasi sulla poltrona, a osservare come il livello dell'acqua mi arrivava alla gola e poi in pochi secondi al soffitto. Avevo l'impressione di galleggiare e distinsi luci pallide ondeggiare dietro i finestroni. Erano figure umane sospese a loro volta in quella tenebra acquosa. Fluivano trascinate dalla corrente e allungavano le mani verso di me, ma io non potevo aiutarle e l'acqua le portava via senza rimedio. I centomila franchi di Corelli fluttuavano attorno a me, oscillando come pesci di carta. Attraversai il salotto e mi avvicinai a una porta chiusa in fondo alla stanza. Un filo di luce trapelava dalla serratura. Aprii la porta e vidi che dava su una scalinata che portava nelle profondità della casa. Scesi. Alla fine delle scale si apriva una sala ovale al cui centro si distingueva un gruppo di figure raccolte in circolo. Quando avvertirono la mia presenza, si girarono e vidi che vestivano di bianco e indossavano maschere e guanti. Intense luci bianche ardevano su quello che mi parve un lettino di sala operatoria. Un uomo il cui volto non aveva occhi né lineamenti metteva in ordine i pezzi su un vassoio di strumenti chirurgici. Una delle figure mi tese la mano, invitandomi a raggiungerla. Mi avvicinai e sentii che mi prendevano la testa e il corpo e mi sistemavano sul lettino. Le luci mi accecavano, ma riuscii a vedere che tutte le figure erano identiche e avevano il viso del dottor Trias. Risi in silenzio. Uno dei dottori aveva in mano una siringa e mi fece un'iniezione nel collo. Non sentii nessuna puntura, solo una piacevole sensazione di stordimento e di calore che mi si spargeva per il corpo. Due dottori mi immobilizzarono la testa su un marchingegno e sistemarono la corona di viti che sosteneva una placca imbottita all'estremità. Sentii che mi legavano mani e piedi con delle cinghie. Non feci alcun tipo di resistenza. Quando fui completamente immobilizzato, uno dei dottori tese un bisturi a un suo gemello e quest'ultimo si chinò su di me. Sentii che qualcuno mi afferrava la mano e me la teneva. Era un bambino che mi guardava con tenerezza e con la stessa espressione che avevo avuto io il giorno in cui avevano ucciso mio padre. Vidi la lama del bisturi discendere nella tenebra liquida e sentii che il metallo mi faceva un taglio sulla fronte. Non provai dolore. Sentii che qualcosa si sprigionava dal taglio e vidi una nube nera che sanguinava lentamente dalla ferita e si spargeva nell'acqua. Il sangue saliva a volute verso la luce, come fumo, e si contorceva in forme cangianti. Guardai il bambino, che mi sorrideva e mi teneva forte la mano. Lo notai allora. Qualcosa si muoveva dentro di me. Qualcosa che appena un istante prima stringeva come una tenaglia intorno alla mia mente. Sentii che qualcosa si ritraeva,
come un ago conficcato fin nel midollo che viene estratto con le pinze. Provai panico e cercai di alzarmi, ma ero immobilizzato. Il bambino mi guardava fisso e annuiva. Credetti di essere sul punto di svenire, o di svegliarmi, e allora lo vidi. Lo vidi riflesso nelle luci sopra il lettino. Un paio di filamenti scuri spuntavano dalla ferita, strisciandomi sulla pelle. Era un ragno nero della grandezza di un pugno. Mi corse sulla faccia e, prima che potesse saltare giù, uno dei chirurghi l'infilzò con un bisturi. Lo sollevò alla luce perché potessi vederlo. Il ragno agitava le zampe e sanguinava in controluce. Una macchia candida gli copriva il carapace e suggeriva una sagoma dalle ali spiegate. Un angelo. Dopo un po', le zampe rimasero inerti e il corpo si staccò dal bisturi. Restò a fluttuare e quando il bambino alzò la mano per toccarlo si dissolse in polvere. I dottori mi sciolsero i legacci e allentarono il marchingegno che mi attanagliava il cranio. Con l'aiuto dei medici, mi sollevai sul lettino e mi portai la mano alla fronte. La ferita si stava richiudendo. Quando mi guardai di nuovo attorno, mi resi conto di essere solo. Le luci della sala operatoria si spensero e la stanza rimase in penombra. Tornai verso la scalinata e salii i gradini che mi condussero di nuovo in salotto. La luce dell'alba filtrava nell'acqua e catturava mille particelle in sospensione. Ero stanco. Più stanco di quanto fossi mai stato in tutta la vita. Mi trascinai fino alla poltrona e mi lasciai andare. Il mio corpo cadde lentamente e quando alla fine fu a riposo sulla poltrona vidi scie di piccole bolle che iniziavano a trotterellare sul soffitto. Una piccola camera d'aria si formò in alto e capii che il livello dell'acqua cominciava a calare. L'acqua, densa e brillante come gelatina, fuoriusciva a fiotti dalle fessure delle finestre come se la casa fosse un sommergibile in emersione. Mi rannicchiai sulla poltrona, in preda a una sensazione di leggerezza e di pace che non avrei mai più voluto abbandonare. Chiusi gli occhi e ascoltai il mormorio dell'acqua attorno a me. Li riaprii e intravidi una pioggia di gocce che cadevano molto lentamente, come lacrime che si potevano fermare al volo. Ero stanco, molto stanco e desideravo solo dormire profondamente. Aprii gli occhi all'intenso chiarore di un caldo mezzogiorno. La luce cadeva come polvere dai finestroni. La prima cosa che notai fu che i centomila franchi erano ancora sul tavolo. Mi alzai e mi avvicinai alla finestra. Feci scorrere le tende e un tentacolo di chiarore accecante invase la stanza. Barcellona era sempre là, ondulante come un miraggio provocato dal calore. Fu allora che mi resi conto che il sibilo alle orecchie, di solito masche-
rato dai rumori del giorno, era completamente scomparso. Sentii un silenzio intenso, puro come acqua cristallina, che non ricordavo di avere mai sperimentato. Sentii me stesso ridere. Mi portai le mani alla testa e palpai la pelle. Non avvertivo nessuna pressione. La mia visione era chiara e avevo l'impressione che i cinque sensi si fossero appena risvegliati. Potei sentire nelle narici l'odore di legno vecchio del soffitto a cassettoni. Cercai uno specchio, ma non ce n'era uno in tutta la stanza. Uscii alla ricerca di un bagno o di un'altra stanza in cui trovare uno specchio per sincerarmi che non mi ero risvegliato nel corpo di un estraneo, che quella pelle che sentivo e quelle ossa erano mie. Tutte le porte di casa erano chiuse. Percorsi l'intero piano senza riuscire ad aprirne nemmeno una. Tornai in salotto e verificai che dove avevo sognato una porta che dava in cantina c'era solo un quadro con l'immagine di un angelo raccolto su se stesso sopra uno scoglio che emergeva da un lago infinito. Mi diressi verso le scale che salivano ai piani superiori, ma appena imboccai la prima rampa mi fermai. Un'oscurità pesante e impenetrabile sembrava abitare al di là del punto in cui il chiarore svaniva. «Signor Corelli?» chiamai. La mia voce si perse come se si fosse scontrata con qualcosa di solido, senza provocare echi o riflessi. Tornai in salotto e guardai il denaro sul tavolo. Centomila franchi. Li presi e li soppesai. La carta si lasciava accarezzare. Me li misi in tasca e m'incamminai di nuovo per il corridoio che portava all'esterno. Le decine di volti dei ritratti continuavano a osservarmi con l'intensità di una promessa. Preferii non affrontare quegli sguardi e mi diressi all'uscita, ma appena prima di raggiungerla notai che tra le cornici ce n'era una vuota, senza targhetta né fotografia. Sentii un odore dolce e come di pergamena e mi resi conto che veniva dalle mie dita. Era il profumo dei soldi. Aprii la porta principale e uscii alla luce del giorno. La porta si richiuse pesantemente alle mie spalle. Mi voltai per osservare la casa, oscura e silenziosa, estranea al raggiante chiarore di quella giornata di cieli azzurri e sole splendente. Consultai l'orologio e vidi che era l'una passata. Avevo dormito più di dodici ore di seguito su una vecchia poltrona, e tuttavia non mi ero mai sentito meglio in tutta la vita. M'incamminai giù per la collina di ritorno in città con il sorriso in volto e la certezza che, per la prima volta in moltissimo tempo, forse per la prima volta nella mia vita, il mondo mi sorrideva. ATTO SECONDO
Lux Aeterna 1 Festeggiai il mio ritorno nel mondo dei vivi rendendo grazie in uno dei templi più influenti della città: la sede centrale del Banco Hispano Colonial in calle Fontanella. Alla vista dei centomila franchi, il direttore, i funzionari e tutto un esercito di cassieri e contabili andarono in estasi e mi innalzarono agli altari riservati a quei clienti che ispirano una devozione e una simpatia molto prossime alla santità. Risolta l'incombenza della banca, decisi di vedermela con un altro cavallo dell'apocalisse e mi avvicinai a un'edicola di plaza Urquinaona. Aprii più o meno alla metà una copia della "Voz de la Industria" e cercai la sezione di cronaca che una volta era stata la mia. La mano esperta di don Basilio si scorgeva ancora nei titoli e riconobbi quasi tutte le firme, come se il tempo non fosse passato. I sei anni di blanda dittatura del generale Primo de Rivera avevano regalato alla città una calma velenosa e torbida che non faceva buon gioco alle pagine di cronaca nera. Sui giornali cominciava appena a comparire qualche storia di bombe o di sparatorie. Barcellona, la temibile "Rosa di fuoco", cominciava ad assomigliare più che altro a una pentola a pressione. Stavo per chiudere il giornale e ritirare il resto quando lo vidi. Era solo un trafiletto a una colonna con quattro notizie evidenziate nell'ultima pagina di cronaca. UN INCENDIO A MEZZANOTTE AL RAVAL PROVOCA UN MORTO E DUE FERITI GRAVI Joan Marc Huguet / Redazione. Barcellona Nella notte di venerdì si è verificato un grave incendio al numero 6 di plaza dels Angels, nella sede della casa editrice Barrido ed Escobillas, nel quale ha perso la vita il direttore dell'azienda, il signor José Barrido, e sono rimasti gravemente feriti il suo socio, il signor José Luis López Escobillas, e il dipendente signor Ramón Guzmán, raggiunto dalle fiamme mentre cercava di prestare aiuto ai due responsabili della ditta. I pompieri ritengono che la causa dell'incendio sia da attribuirsi alla combustione di una sostanza chimica impiegata per la ristrutturazione degli uffici. Non si escludono per il momento altre cause, giacché testimoni oculari affermano di aver visto un uomo uscire dai locali un istante prima
dello scoppio dell'incendio. Le vittime sono state trasportate all'Hospital Clinic, dove una è giunta cadavere e le altre due sono tuttora ricoverate con prognosi riservata. Arrivai più in fretta che potei. La puzza di bruciato si sentiva fin dalle Ramblas. Un gruppo di vicini e di curiosi si era riunito sulla piazza di fronte al palazzo. Fili di fumo bianco salivano da un mucchio di macerie accanto all'entrata. Riconobbi diversi impiegati della casa editrice che cercavano di salvare tra le rovine il poco che era rimasto. Scatoloni di libri bruciacchiati e mobili morsi dalle fiamme si ammucchiavano in strada. La facciata era rimasta annerita, le finestre erano saltate per il fuoco. Attraversai il cerchio di guardoni ed entrai. Un fetore intenso mi si appiccicò alla gola. Alcuni dipendenti della casa editrice che si davano da fare per recuperare le loro cose mi riconobbero e mi salutarono a testa bassa. «Signor Martín... che disgrazia» mormoravano. Attraversai quella che era stata la reception e mi diressi all'ufficio di Barrido. Le fiamme avevano divorato i tappeti e ridotto i mobili a scheletri di brace. Il soffitto a cassettoni era crollato in un angolo, lasciando intravedere la luce che proveniva dal cortile posteriore. Un fascio intenso di cenere fluttuante attraversava la sala. Una sedia era sopravvissuta miracolosamente al fuoco. Era al centro della stanza e vi sedeva la Veleno, che piangeva con lo sguardo sconsolato. Mi accovacciai davanti a lei. Mi riconobbe e sorrise tra le lacrime. «Stai bene?» domandai. Annuì. «Mi aveva detto di andare a casa, sai?, mi aveva detto che era già tardi e che dovevo riposare perché oggi avremmo avuto una giornata molto lunga. Stavamo chiudendo la contabilità del mese... Se fossi rimasta un altro minuto...» «Cos'è successo, Herminia?» «Abbiamo lavorato fino a tardi. Era quasi mezzanotte quando il signor Barrido mi ha detto di andarmene a casa. Gli editori stavano aspettando un signore che doveva incontrarli...» «A mezzanotte? Quale signore?» «Uno straniero, credo. Aveva qualcosa a che fare con un'offerta, non so. Sarei rimasta volentieri, ma era molto tardi e il signor Barrido mi ha detto...» «Herminia, quel signore, ti ricordi il nome?»
La Veleno mi guardò sorpresa. «Tutto quello che ricordo l'ho già raccontato all'ispettore che è venuto stamattina. Mi ha chiesto di te.» «Un ispettore? Di me?» «Stanno parlando con tutti.» «È chiaro.» La Veleno mi fissava diffidente, come se cercasse di leggermi nel pensiero. «Non sanno se ne uscirà vivo» mormorò, riferendosi a Escobillas. «Abbiamo perso tutto, gli archivi, i contratti... Tutto. È la fine della casa editrice.» «Mi dispiace, Herminia.» Un sorriso contorto e malizioso le affiorò alle labbra. «Ti dispiace? Non è quello che volevi?» «Come puoi pensare una cosa del genere?» La Veleno mi guardò con sospetto. «Adesso sei libero.» Feci il gesto di toccarle il braccio, ma Herminia si alzò e arretrò di un passo, come se la mia presenza le facesse paura. «Herminia...» «Vattene» disse. La lasciai tra le rovine fumanti. Uscendo in strada m'imbattei in un gruppo di ragazzini intenti a scavare tra i mucchi di macerie. Uno di loro aveva dissotterrato un libro dalle ceneri e lo esaminava con un misto di curiosità e disprezzo. La copertina era stata lambita dalle fiamme e il bordo delle pagine era annerito, ma per il resto il libro era intatto. Riconobbi dall'incisione sul dorso che si trattava di una delle puntate della Città dei maledetti. «Signor Martín?» Mi voltai e mi trovai di fronte tre uomini agghindati con vestiti in saldo inadatti al caldo umido e appiccicoso che aleggiava nell'aria. Uno di loro, che sembrava il capo, avanzò di un passo e mi rivolse un sorriso cordiale, da venditore esperto. Gli altri due, che parevano avere la costituzione e il temperamento di una pressa idraulica, si limitarono a fissarmi con uno sguardo apertamente ostile. «Signor Martín, sono l'ispettore Víctor Grandes e questi sono i miei colleghi, gli agenti Marcos e Castelo. Mi domando se può essere tanto cortese da dedicarci pochi minuti.»
«Naturalmente» risposi. Il nome di Víctor Grandes lo ricordavo dagli anni trascorsi in cronaca. Vidal gli aveva dedicato qualche articolo e me ne venne in mente in particolare uno in cui lo definiva la rivelazione della polizia, una valida risorsa che confermava l'arrivo nelle forze dell'ordine di una nuova generazione di professionisti d'élite con una formazione migliore dei loro predecessori, incorruttibili e duri come l'acciaio. Gli aggettivi e l'iperbole erano di Vidal, non miei. Immaginai che da allora l'ispettore Grandes non avesse fatto altro che scalare gerarchie nel comando, e che la sua presenza lì rivelava che il corpo prendeva sul serio l'incendio degli uffici di Barrido ed Escobillas. «Se non le spiace, possiamo andare in un caffè per parlare senza essere interrotti» disse Grandes senza ammainare di una virgola il sorriso di servizio. «Come preferisce.» Grandes mi condusse in un piccolo bar all'angolo tra calle Doctor Dou e calle Pintor Fortuny. Marcos e Castelo camminavano alle nostre spalle, senza togliermi gli occhi di dosso. Grandes mi offrì una sigaretta, che rifiutai. Rimise via il pacchetto. Non aprì bocca fin quando non arrivammo al caffè e i tre mi scortarono fino a un tavolino sul fondo dove si appostarono intorno a me. Se mi avessero portato in una cella buia e umida, l'incontro mi sarebbe sembrato più amichevole. «Signor Martín, credo che sia a conoscenza di quanto è accaduto questa notte.» «So solo quello che ho letto sul giornale. E quello che mi ha raccontato la Veleno...» «La Veleno?» «Mi scusi. La signorina Herminia Duaso, la segretaria di direzione.» Marcos e Castelo si scambiarono uno sguardo impagabile. Grandes sorrise. «Interessante soprannome. Mi dica, signor Martín, dove si trovava ieri notte?» Beata ingenuità, la domanda mi colse di sorpresa. «È una domanda di routine» chiarì Grandes. «Stiamo cercando di stabilire gli spostamenti di tutte le persone che potrebbero avere avuto rapporti con le vittime negli ultimi giorni. Impiegati, fornitori, familiari, conoscenti...» «Ero con un amico.» Appena aprii bocca mi pentii della scelta delle parole. Grandes lo notò.
«Un amico?» «Più che di un amico, si tratta di una persona con cui ho rapporti di lavoro. Un editore. Ieri sera avevo un appuntamento con lui.» «Potrebbe dire fino a che ora è rimasto con questa persona?» «Fino a tardi. In effetti, ho finito per passare la notte a casa sua.» «Capisco. E la persona con cui dice di avere rapporti di lavoro si chiama?» «Corelli. Andreas Corelli. Un editore francese.» Grandes annotò il nome su un piccolo quaderno. «Il cognome sembrerebbe italiano» commentò. «A dire il vero non so con esattezza quale sia la sua nazionalità.» «È comprensibile. E questo signor Corelli, qualunque sia la sua cittadinanza, potrebbe confermare che ieri sera si trovava con lei?» Mi strinsi nelle spalle. «Suppongo di sì.» «Lo suppone?» «Ne sono sicuro. Perché non dovrebbe farlo?» «Non lo so, signor Martín. C'è qualche motivo per cui lei crede che non lo farebbe?» «No.» «Argomento chiuso, allora.» Marcos e Castelo mi guardavano come se da quando ci eravamo seduti mi avessero sentito pronunciare solo frottole. «Per finire, potrebbe chiarirmi la natura dell'incontro di ieri sera tra lei e questo editore di nazionalità imprecisata?» «Il signor Corelli mi aveva dato appuntamento per formularmi un'offerta.» «Che genere di offerta?» «Professionale.» «Capisco. Scrivere un libro, forse?» «Esattamente.» «Mi dica, è sua abitudine, dopo una riunione di lavoro, fermarsi a dormire in casa della, diciamo, parte contraente?» «No.» «Però mi ha detto che è rimasto a dormire al domicilio di questo editore.» «Mi sono fermato perché non mi sentivo bene e non credevo di poter arrivare a casa.»
«Le ha forse fatto male la cena?» «Ho avuto qualche problema di salute ultimamente.» Grandes annuì con aria costernata. «Nausee, mal di testa...» completai. «Ma è ragionevole presumere che adesso sta meglio?» «Sì. Molto meglio.» «Me ne rallegro. Di sicuro ha un aspetto invidiabile. Non è così?» Castelo e Marcos annuirono lentamente. «Chiunque direbbe che lei si sia tolto un gran peso di dosso» osservò l'ispettore. «Non la seguo.» «Mi riferisco alle nausee e ai disturbi.» Grandes conduceva quella farsa con un dominio del tempo esasperante. «Scusi la mia ignoranza riguardo ai dettagli del suo ambito professionale, signor Martín, ma lei non aveva sottoscritto un contratto con i due editori che sarebbe scaduto fra sei anni?» «Cinque.» «E questo contratto non la legava in esclusiva, per così dire, alla casa editrice di Barrido ed Escobillas?» «Questi erano i termini.» «Allora, per quale motivo lei avrebbe dovuto discutere un'offerta con un concorrente se il suo contratto le impediva di accettarla?» «Era una semplice conversazione. Niente di più.» «Che tuttavia si è trasformata in una nottata nel domicilio di questo signore.» «Il mio contratto non mi impedisce di parlare con terzi. E nemmeno di passare la notte fuori casa. Sono libero di dormire dove voglio e parlare di quello che voglio con chi voglio.» «Certamente. Non volevo insinuare il contrario, ma grazie per avermi chiarito questo punto.» «Posso chiarirle qualcos'altro?» «Solo un dettaglio. Nell'ipotesi che, defunto il signor Barrido e che, Dio non voglia, il signor Escobillas non si rimettesse dalle ferite e morisse anche lui, la casa editrice verrebbe sciolta e così pure il suo contratto. Mi sbaglio?» «Non ne sono sicuro. Non so esattamente in che regime era costituita l'impresa.» «Ma secondo lei è probabile che andrebbe così?»
«È possibile. Dovrebbe chiederlo all'avvocato degli editori.» «Difatti gliel'ho già chiesto. E mi ha confermato che, se accadesse quello che nessuno vuole che accada e il signor Escobillas passasse a miglior vita, andrebbe proprio così.» «Allora lei ha già la sua risposta.» «E lei piena libertà di accettare l'offerta del signor...» «Corelli.» «Mi dica, l'ha già accettata?» «Posso chiederle cosa c'entra questo con le cause dell'incendio?» sbottai. «Niente. Semplice curiosità.» «È tutto?» chiesi. Grandes guardò i suoi colleghi e poi me. «Per parte mia, sì.» Accennai ad alzarmi. I tre poliziotti rimasero incollati ai loro posti. «Signor Martín, prima che mi dimentichi» disse Grandes. «Può confermarmi se ricorda che una settimana fa i signori Barrido ed Escobillas le hanno fatto visita al suo domicilio al numero 30 di calle Flassaders in compagnia del succitato avvocato?» «L'hanno fatto.» «Si trattava di una visita d'affari o di cortesia?» «Gli editori sono venuti a esprimermi il loro desiderio che ritornassi a lavorare a una serie di libri che avevo accantonato per dedicare qualche mese a un altro progetto.» «Definirebbe la conversazione come cordiale e distesa?» «Non ricordo che nessuno abbia alzato la voce.» «E ricorda di aver risposto, cito testualmente, "tra una settimana sarete morti"? Senza alzare la voce, naturalmente.» Sospirai. «Sì» ammisi. «A cosa si riferiva?» «Ero arrabbiato e ho detto la prima cosa che mi è passata per la testa, ispettore. Questo non significa che parlassi sul serio. A volte si dicono cose che non si pensano.» «Grazie per la sua sincerità, signor Martín. Ci è stato di grande aiuto. Buona giornata.» Me ne andai con i tre sguardi conficcati come pugnali nella schiena e la certezza che se avessi risposto a ogni domanda dell'ispettore con una menzogna non mi sarei sentito così colpevole.
2 Il cattivo sapore in bocca lasciatomi dall'incontro con Víctor Grandes e la coppia di basilischi che si portava dietro come scorta durò soltanto per cento metri di passeggiata al sole, mentre camminavo in un corpo che a stento riconoscevo: forte, senza dolore né nausea, senza sibili alle orecchie né fitte di agonia nel cranio, senza fatica né sudori freddi. Senza alcuna memoria della certezza di una morte sicura che mi asfissiava appena ventiquattr'ore prima. Qualcosa mi diceva che la tragedia accaduta quella notte, inclusa la morte di Barrido e il probabile decesso di Escobillas, avrebbe dovuto riempirmi di dispiacere e di angoscia, ma né io né la mia coscienza fummo in grado di provare qualcosa che andasse oltre la più piacevole indifferenza. Quella mattina di luglio le Ramblas erano una festa e io il loro principe. Passeggiando, mi ritrovai dalle parti di calle Santa Ana, con l'idea di fare una visita a sorpresa al signor Sempere. Quando entrai nella libreria, Sempere padre era dietro il bancone a cercare di far quadrare i conti mentre suo figlio si era arrampicato su una scala e stava riordinando gli scaffali. Vedendomi, il libraio mi rivolse un sorriso cordiale e mi resi conto che, per un istante, non mi aveva riconosciuto. Un secondo dopo gli si cancellò il sorriso dalla faccia e, a bocca aperta, fece il giro del bancone per abbracciarmi. «Martín? È lei? Santa Madre di Dio... Ma è irriconoscibile! Ero preoccupatissimo. Siamo stati diverse volte a casa sua, ma lei non rispondeva. Ho chiesto negli ospedali e nei commissariati.» Il figlio restò a guardarmi dall'alto della scala, incredulo. Dovetti ricordarmi che appena una settimana prima mi avevano visto in uno stato che non aveva nulla da invidiare agli inquilini dell'obitorio del quinto distretto. «Mi dispiace avervi fatto preoccupare. Mi sono assentato qualche giorno per motivi di lavoro.» «Ma allora? Mi ha dato retta ed è andato dal medico, vero?» Annuii. «Alla fine era una sciocchezza. Problemi di pressione. Un ricostituente per qualche giorno e sono tornato come nuovo.» «Poi mi dice il nome del ricostituente, magari mi ci faccio una doccia... Che piacere e che sollievo vederla così!»
L'euforia si esaurì rapidamente quando piombò tra di noi la notizia del giorno. «Ha sentito di Barrido ed Escobillas?» chiese il libraio. «Vengo da lì. Si fa fatica a crederci.» «Chi l'avrebbe detto? Non che mi ispirassero simpatia, ma da qui a una cosa del genere... E mi dica, tutto questo, per lei, sul piano legale, che conseguenze ha? Scusi la brutalità della domanda.» «A dire il vero non lo so. Credo che i due soci fossero i titolari della società. Ci saranno eredi, immagino, ma se entrambi vengono a mancare la società in quanto tale potrebbe essere sciolta. E anche il mio contratto con loro. Almeno credo.» «Vale a dire che, se anche Escobillas, che Dio mi perdoni, crepa, lei è un uomo libero.» Annuii. «Bel dilemma...» mormorò il libraio. «Sia fatta la volontà di Dio» azzardai. Sempere annuì, ma notai che qualcosa in tutta quella faccenda lo inquietava e preferiva cambiare argomento. «Insomma. Comunque, mi viene a fagiolo che sia passato di qui perché volevo chiederle un favore.» «Lo consideri già fatto.» «L'avverto che non le piacerà.» «Se mi piacesse non sarebbe un favore, sarebbe un piacere. E se il favore è per lei, lo sarà.» «In realtà non è per me. Glielo spiego e lei decide. Senza impegno, d'accordo?» Sempere si appoggiò sul bancone e adottò l'espressione affabulatoria che mi rievocava tanti ricordi d'infanzia legati a quel negozio. «È per una ragazza, Isabella. Deve avere diciassette anni. Sveglia come la fame. Viene sempre qui e le presto dei libri. Mi dice che vuole diventare scrittrice.» «La storia non mi è nuova» dissi. «Fatto sta che una settimana fa mi ha lasciato uno dei suoi racconti, niente, venti o trenta pagine, e mi ha chiesto un parere.» «E allora?» Sempere abbassò il tono, come se mi raccontasse una confidenza vincolata a un segreto istruttorio. «Magistrale. Meglio del novantanove per cento delle cose che ho visto
pubblicare negli ultimi vent'anni.» «Spero che mi conti nel rimanente uno per cento o la mia vanità si sentirà calpestata e pugnalata a tradimento.» «Proprio lì andavo a parare. Isabella l'adora.» «Mi adora? Me?» «Sì, come se fosse la Vergine di Montserrat e il Bambin Gesù allo stesso tempo. Si è letta La città dei maledetti dieci volte e quando le ho dato I passi del cielo mi ha detto che se lei fosse capace di scrivere un libro così potrebbe morire tranquilla.» «Questo mi sa di trappola.» «Sapevo che avrebbe svicolato.» «Non svicolo. Non mi ha detto in cosa consiste il favore.» «Se lo può immaginare.» Sospirai. Sempere schioccò la lingua. «Le ho detto che non le sarebbe piaciuto.» «Mi chieda un'altra cosa.» «Deve solo parlare con lei. Darle coraggio, consigli... Ascoltarla, leggere qualche cosa e orientarla. Non le costerà tanto. Il cervello di quella ragazza è veloce come una pallottola. Le piacerà da matti. Diventerete amici. E può lavorare come sua assistente.» «Non ho bisogno di un'assistente. E meno che mai sconosciuta.» «Sciocchezze. E poi, conoscerla, già la conosce. O almeno, così dice lei. Sostiene di conoscerla da anni, ma che sicuramente lei non si ricorda. A quanto pare, quei due sempliciotti dei suoi genitori sono convinti che la faccenda della letteratura la condannerà all'inferno o a una zitellaggine laica e sono indecisi se mandarla in convento o farla sposare con qualche cretino che le faccia scodellare otto figli e la seppellisca per sempre tra pentole e padelle. Se lei non fa qualcosa per salvarla, è l'equivalente di un assassinio.» «Non drammatizzi, signor Sempere.» «Guardi, non gliel'avrei chiesto perché so che lei è portato all'altruismo come per ballare la sardana, però ogni volta che vedo quella ragazza entrare qui e guardarmi con quegli occhietti che sprizzano intelligenza ed entusiasmo e penso all'avvenire che l'aspetta mi si spezza il cuore. Quello che potevo insegnarle gliel'ho già insegnato. La ragazza impara in fretta, Martín. Se mi ricorda qualcuno, è lei da ragazzo.» Sospirai. «Isabella e poi?»
«Gispert. Isabella Gispert.» «Non la conosco. Mai sentito questo nome. Le hanno raccontato una frottola.» Il libraio scosse la testa. «Isabella ha detto che lei avrebbe risposto esattamente così.» «Piena di talento e anche indovina. E cos'altro le ha detto?» «Sospetta che lei sia molto meglio come scrittore che come persona.» «Un tesoro, questa Isabelita.» «Posso dirle di venire a trovarla? Senza impegno?» Mi arresi e annuii. Sempere sorrise trionfante e voleva sigillare il patto con un abbraccio, ma mi diedi alla fuga prima che il vecchio libraio potesse completare la sua missione di cercare di farmi sentire una brava persona. «Non se ne pentirà, Martín» gli sentii dire mentre uscivo. 3 Arrivando a casa, trovai l'ispettore Víctor Grandes seduto sulle scale nell'atrio che si gustava con calma una sigaretta. Quando mi vide, sorrise con quella grazia da attore d'avanspettacolo, come se fosse un vecchio amico in visita di cortesia. Mi sedetti accanto a lui e mi offrì il portasigarette aperto. Gitanes, notai. Accettai. «E Hansel e Gretel?» «Marcos e Castelo non sono potuti venire. Abbiamo avuto una soffiata e sono andati a prendere un vecchio conoscente al Pueblo Seco che probabilmente aveva bisogno di un po' di persuasione per rinfrescare la memoria.» «Povero diavolo.» «Se avessi detto che venivo da lei, sarebbero corsi. La trovano simpaticissimo.» «Un autentico colpo di fulmine, l'ho notato. Cosa posso fare per lei, ispettore? Gradisce un caffè di sopra?» «Non oserei invadere la sua intimità, signor Martín. In realtà volevo solo darle la notizia di persona prima che la sapesse da altri.» «Che notizia?» «Escobillas è morto nelle prime ore di questo pomeriggio al Clinic.» «Dio. Non lo sapevo» dissi. Grandes si strinse nelle spalle e continuò a fumare in silenzio.
«C'era da immaginarselo. Cosa ci possiamo fare?» «È riuscito ad appurare qualcosa sulle cause dell'incendio?» domandai. L'ispettore mi guardò a lungo e poi annuì. «Tutto sembra indicare che qualcuno ha versato della benzina addosso al signor Barrido e gli ha dato fuoco. Le fiamme si sono propagate quando lui, in preda al panico, ha cercato di fuggire dal suo ufficio. Il socio e l'altro dipendente accorso in suo aiuto sono stati avvolti dal fuoco.» Deglutii. Grandes sorrise tranquillizzante. «Mi diceva poco fa l'avvocato degli editori che, visto il vincolo personale presente nel testo sottoscritto con loro, al decesso degli editori il contratto viene sciolto, anche se gli eredi mantengono i diritti sulla sua opera già pubblicata. Suppongo che le scriverà una lettera per informarla, ma ho pensato che le sarebbe piaciuto saperlo prima, nel caso debba prendere una decisione sull'offerta di quell'editore di cui mi ha parlato.» «Grazie.» «Di nulla.» Grandes finì la sigaretta e gettò il mozzicone a terra. Mi sorrise affabilmente e si alzò. Mi diede una pacca sulla spalla e si allontanò in direzione di calle Princesa. «Ispettore?» chiamai. Grandes si fermò e si voltò. «Lei non penserà...» L'ispettore mi rivolse un sorriso triste e stanco. «Si riguardi, Martín.» Me ne andai a dormire presto e mi svegliai di colpo credendo che fosse già il giorno successivo, per scoprire subito dopo che era da poco passata mezzanotte. In sogno avevo visto Barrido ed Escobillas imprigionati nel loro ufficio. Le fiamme risalivano lungo i vestiti fino a ricoprire ogni centimetro dei loro corpi. Sotto gli indumenti, la pelle cadeva a brandelli e gli occhi iniettati di panico si spaccavano a causa del fuoco. I loro corpi sussultavano in spasmi di agonia e terrore fino ad abbattersi tra le macerie, mentre la carne si staccava dalle ossa come cera fusa e formava ai miei piedi una pozzanghera fumante, nella quale vedevo riflesso il mio stesso volto sorridente che spegneva con un soffio il fiammifero che avevo tra le dita. Mi alzai per bere un bicchier d'acqua e, convinto di avere ormai perso il treno del sonno, salii nello studio e tirai fuori dal cassetto della scrivania il
libro salvato dal Cimitero dei Libri Dimenticati. Accesi la lampada e ne regolai il braccio per dirigere la luce esattamente sul libro. Lo aprii alla prima pagina e iniziai a leggere. Lux Aeterna D.M. A prima vista, il libro conteneva una raccolta di testi e preghiere che non aveva alcun senso. Si trattava di un originale, una manciata di pagine dattiloscritte e rilegate in pelle senza eccessiva cura. Continuai a leggere e dopo un po' mi sembrò di intuire un certo metodo nella sequenza di eventi, canti e riflessioni disseminati nel testo. Il linguaggio aveva una sua particolare cadenza, e quella che all'inizio sembrava una completa assenza di struttura o di stile a poco a poco svelava un canto ipnotico che penetrava nel lettore immergendolo in uno stato tra il sopore e l'oblio. La stessa cosa accadeva con il contenuto, il cui asse centrale non emergeva finché non ci si era ben addentrati nella prima sezione, o canto, giacché l'opera pareva strutturata alla maniera dei vecchi poemi composti in epoche in cui il tempo e lo spazio scorrevano a loro libero arbitrio. Mi resi allora conto che quel Lux Aeterna era, in mancanza di altre parole, una specie di libro dei morti. Passate le prime trenta o quaranta pagine di inutili giri di parole ed enigmi, ci si addentrava in un preciso e stravagante rompicapo di orazioni e suppliche sempre più inquietanti in cui la morte, descritta in versi dalla dubbia metrica a volte come un angelo bianco con gli occhi da rettile e altre come un bambino luminoso, era presentata come una divinità unica e onnipresente che si manifestava nella natura, nel desiderio e nella fragilità dell'esistenza. Chiunque fosse quell'enigmatico D.M., nei suoi versi la morte si dispiegava come una forza vorace ed eterna. Una commistione bizantina di riferimenti a distinte mitologie di paradisi e averni si disponeva qui su un unico piano. Secondo D.M. c'erano solo un principio e una fine, un solo creatore e distruttore che si presentava con diversi nomi per confondere gli uomini e mettere alla prova la loro debolezza, un unico Dio il cui vero volto era diviso in due metà: una, dolce e compassionevole; l'altra, crudele e demoniaca. Questo è quanto riuscii a dedurre, perché al di là di tali princìpi l'autore sembrava aver perso il filo della sua narrazione e a stento era possibile decifrare i riferimenti e le immagini che popolavano il testo a mo' di visioni
profetiche. Tempeste di sangue e di fuoco che precipitavano su città e villaggi. Eserciti di cadaveri in uniforme che percorrevano pianure infinite cancellando ogni traccia di vita al loro passaggio. Neonati impiccati con brandelli di bandiere alle porte delle fortezze. Mari oscuri dove migliaia di anime in pena fluttuavano sospese per l'eternità in acque gelide e avvelenate. Nubi di cenere e oceani di ossa e carne in putrefazione infestati di insetti e serpenti. La successione di immagini infernali e nauseabonde continuava fino alla sazietà. A mano a mano che sfogliavo il manoscritto, avevo la sensazione di percorrere passo dopo passo la mappa di una mente malata e incrinata. Rigo dopo rigo, l'autore di quelle pagine aveva documentato senza saperlo la sua discesa in un abisso di follia. La terza e ultima parte del libro mi sembrò un tentativo di ripercorrere il cammino all'indietro, un urlo disperato dalla cella della sua pazzia per sfuggire al labirinto di gallerie che gli aveva scavato nella mente. Il testo moriva a metà frase di una supplica, una soluzione di continuità inspiegabile. Arrivato a quel punto, mi cadevano le palpebre dal sonno. Dalla finestra mi giunse una brezza leggera che veniva dal mare e spazzava via la nebbia dai tetti. Stavo per chiudere il libro quando avvertii che qualcosa era rimasto ingorgato nel filtro della mia mente, qualcosa che aveva a che fare con i caratteri tipografici di quelle pagine. Tornai all'inizio e cominciai a riesaminare il testo. Trovai la prima occorrenza al quinto rigo. A partire da lì lo stesso segno compariva ogni due o tre righi. Una delle lettere, la S maiuscola, era sempre leggermente inclinata verso destra. Presi un foglio bianco dal cassetto e lo infilai nel rullo della Underwood sulla mia scrivania. Scrissi una frase a caso. Suonano le campane di Santa Maria del Mar. Estrassi il foglio e lo esaminai bene alla luce della lampada. Suonano... di Santa Maria Sospirai. Lux Aeterna era stato scritto con quella stessa macchina per scrivere e, immaginai, probabilmente a quella stessa scrivania. 4
Il mattino dopo scesi a far colazione in un bar di fronte alle porte di Santa Maria del Mar. Il quartiere del Born era zeppo di carri e persone che si recavano al mercato e di commercianti e venditori all'ingrosso che aprivano i negozi. Mi sedetti a un tavolino all'aperto e ordinai un caffellatte. Una copia della "Vanguardia" era rimasta orfana sul tavolino di fianco e la adottai. Mentre gli occhi scivolavano su titoli e sommari notai che una figura saliva la scalinata fino all'entrata della cattedrale e si sedeva sull'ultimo gradino per osservarmi senza farsi notare. La ragazza doveva avere sedici o diciassette anni e fingeva di prendere appunti su un quaderno mentre mi lanciava occhiate furtive. Degustai con calma il caffellatte. Dopo un po' feci segno al cameriere di avvicinarsi. «Vede quella signorina seduta sulla porta della chiesa? Le dica di ordinare quello che vuole, offro io.» Il cameriere annuì e si diresse verso di lei. Vedendolo avvicinarsi, la ragazza affondò la testa nel quaderno e assunse un'espressione di assoluta concentrazione che mi strappò un sorriso. Il cameriere le si fermò davanti e tossicchiò. Lei alzò gli occhi dal quaderno e lo guardò. Il cameriere le spiegò la propria missione e finì per indicarmi. La ragazza, allarmata, mi lanciò uno sguardo. La salutai con la mano. Le si accesero le guance come braci. Si alzò e si avvicinò al tavolo a passi corti e lo sguardo fisso sui piedi. «Isabella?» domandai. La ragazza alzò lo sguardo e sospirò, infastidita con se stessa. «Come fa a saperlo?» chiese. «Intuizione sovrannaturale» risposi. Mi diede la mano e gliela strinsi senza entusiasmo. «Posso sedermi?» domandò. Prese posto senza attendere la mia risposta. Per mezzo minuto la ragazza cambiò posizione almeno sei volte per poi riprendere quella iniziale. Io la osservavo con calma e calcolato disinteresse. «Non si ricorda di me, vero, signor Martín?» «Dovrei?» «Per anni le ho portato la spesa da Can Gispert ogni settimana.» L'immagine della bambina che per tutto quel tempo mi aveva portato la spesa dal negozio mi tornò alla memoria e si diluì nel viso più adulto e leggermente più spigoloso di quella Isabella, donna dalle forme morbide e dallo sguardo d'acciaio. «La bambina delle mance» dissi, anche se della bambina restava poco o
nulla. Isabella annuì. «Mi sono sempre chiesto cosa ci facevi con tutte quelle monete.» «Compravo libri da Sempere e Figli.» «Se l'avessi saputo...» «Se la disturbo, me ne vado.» «Non mi disturbi. Prendi qualcosa?» La ragazza rifiutò. «Il signor Sempere dice che hai talento.» Isabella si strinse nelle spalle e mi restituì un sorriso scettico. «Per norma generale, quanto più talento si ha, più si dubita di averlo» dissi. «E viceversa.» «Allora io devo essere un prodigio» ribatté Isabella. «Benvenuta nel club. Dimmi, cosa posso fare per te?» La ragazza inspirò a fondo. «Il signor Sempere mi ha detto che forse lei poteva leggere qualcosa di mio e darmi il suo parere e qualche consiglio.» La guardai negli occhi per alcuni secondi ma non risposi. Lei sostenne il mio sguardo senza battere ciglio. «Questo è tutto?» «No.» «Mi pareva. Qual è il capitolo due?» Isabella esitò solo un istante. «Se le piace quello che legge e crede che io abbia delle possibilità, vorrei chiederle di permettermi di essere la sua assistente.» «Cosa ti fa supporre che ho bisogno di un'assistente?» «Posso mettere in ordine le sue carte, battere a macchina, correggere errori e imperfezioni...» «Errori e imperfezioni?» «Non volevo insinuare che lei commetta errori...» «Cosa volevi insinuare, allora?» «Niente. Però quattro occhi vedono sempre meglio di due. E poi posso occuparmi della corrispondenza, recapitare messaggi, aiutarla a cercare documentazione. In più, so cucinare e posso...» «Mi stai chiedendo un posto da assistente o da cuoca?» «Le sto chiedendo un'opportunità.» Isabella abbassò lo sguardo. Non riuscii a trattenere un sorriso. Quella curiosa creatura mi risultava simpatica, mio malgrado.
«Facciamo una cosa. Portami le venti pagine migliori che hai scritto, quelle che secondo te mostrano il meglio che sai fare. Non una di più, perché non ci penso nemmeno, a leggerla. Me le guardo con calma e, a seconda dei casi, ne parliamo.» Le s'illuminò il viso e per un istante quel velo di durezza e di tensione che irrigidiva la sua espressione svanì. «Non se ne pentirà» disse. Si alzò e mi guardò nervosa. «Va bene se gliele porto a casa?» «Lasciamele nella cassetta della posta. È tutto?» Annuì ripetutamente e arretrò con quei passi corti e nervosi che la sostenevano. Quando fu sul punto di girarsi e mettersi a correre la chiamai. «Isabella?» Mi guardò sollecita, lo sguardo annuvolato da un'improvvisa inquietudine. «Perché io?» chiesi. «E non mi dire perché sono il tuo autore preferito e tutte le lusinghe con cui Sempere ti ha consigliato di insaponarmi, altrimenti questa sarà la nostra prima e ultima conversazione.» Isabella esitò un istante. Mi rivolse uno sguardo nudo e rispose senza riguardi. «Perché lei è l'unico scrittore che conosco.» Mi sorrise impacciata e partì con il suo quaderno, il suo passo incerto e la sua sincerità. La osservai girare l'angolo di calle Mirallers e perdersi dietro la cattedrale. 5 Tornando a casa appena un'ora dopo, me la ritrovai seduta nell'atrio ad aspettare con quello che immaginai fosse il suo racconto fra le mani. Quando mi vide, si alzò e si sforzò di sorridere. «Ti avevo detto di lasciarmelo nella cassetta» dissi. Isabella annuì e si strinse nelle spalle. «Per ringraziarla, le ho portato un po' di caffè dal negozio dei miei. È colombiano. Buonissimo. Non entrava nella cassetta e ho pensato che era meglio aspettarla.» Quella scusa poteva venire in mente solo a una romanziera in erba. Sospirai e aprii la porta. «Dentro.»
Salii le scale con Isabella che mi seguiva di qualche gradino come un cagnolino. «Ci mette sempre tanto a fare colazione? Non che mi riguardi, è chiaro, ma visto che ero qui ad aspettare da quasi tre quarti d'ora ho cominciato a preoccuparmi, cioè, non sarà che gli è andato qualcosa di traverso, per una volta che incontro uno scrittore in carne e ossa, con la mia fortuna non sarebbe strano se un'oliva gli va di traverso, e lì finisce la mia carriera letteraria» mitragliò la ragazza. Mi fermai a metà della scala e la guardai con l'espressione più ostile che riuscii a trovare. «Isabella, se vogliamo far funzionare le cose tra di noi, dovremo stabilire una serie di regole. La prima è che le domande le faccio io e tu ti limiti a rispondere. Quando non ci sono domande da parte mia, da te non verranno né risposte né discorsi spontanei. La seconda regola è che io, per fare colazione o merenda o per guardare le ragnatele, ci metto tutto il tempo che mi gira, e questo non costituisce oggetto di dibattito.» «Non volevo offenderla. So che una digestione lenta aiuta l'ispirazione.» «La terza regola è che il sarcasmo non lo tollero prima di mezzogiorno. D'accordo?» «Sì, signor Martín.» «La quarta è che non devi chiamarmi signor Martín nemmeno il giorno del mio funerale. A te sembrerò un fossile, ma a me piace credere di essere ancora giovane. Anzi, lo sono e basta.» «Come devo chiamarla?» «Per nome: David.» La ragazza annuì. Aprii la porta di casa e le feci cenno di entrare. Isabella esitò un istante e s'infilò dentro con un saltino. «Io credo che lei abbia ancora un aspetto abbastanza giovanile per la sua età, David.» La guardai, attonito. «Quanti anni credi che abbia?» Isabella mi squadrò dalla testa ai piedi, valutando. «Più o meno una trentina? Ma ben portati, eh?» «Fammi il favore di stare zitta e di preparare una caffettiera con quell'intruglio che hai portato.» «Dov'è la cucina?» «Cercatela.» Bevemmo quel delizioso caffè colombiano seduti in salotto. Isabella
reggeva il suo tazzone e mi guardava di sottecchi mentre leggevo le venti pagine che mi aveva portato. Ogni volta che giravo una pagina e alzavo gli occhi mi imbattevo nel suo sguardo pieno di aspettative. «Se resti lì a guardarmi come una civetta, ci vorrà un sacco di tempo.» «Cosa vuole che faccia?» «Non volevi diventare la mia assistente? E allora assistimi. Cerca qualcosa che ha bisogno di essere messo in ordine e mettilo in ordine, per esempio.» Isabella si guardò attorno. «È tutto in disordine.» «Approfitta dell'occasione.» Annuì e partì incontro al caos e al disordine che regnavano con rigore militare in casa mia. Sentii i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio e continuai a leggere. Il racconto che mi aveva portato quasi non aveva trama. Narrava con una sensibilità affilata e parole ben articolate le sensazioni e le assenze che passavano per la mente di una ragazza confinata in una stanza gelida in una soffitta del quartiere della Ribera, da dove contemplava la città e le persone che andavano e venivano per i vicoli stretti e scuri. La ragazza del racconto passava le ore prigioniera del proprio mondo e, a volte, si metteva di fronte a uno specchio e si provocava tagli alle braccia e alle cosce con un vetro rotto, lasciando cicatrici come quelle che si potevano intravedere sotto le maniche di Isabella. Stavo quasi per finire la lettura quando avvertii che mi guardava dalla porta del salotto. «Che c'è?» «Scusi l'interruzione, ma cosa c'è nella stanza in fondo al corridoio?» «Niente.» «C'è uno strano odore.» «Umidità.» «Se vuole posso pulirla e...» «No. Quella stanza non si usa. E inoltre tu non sei la mia cameriera e non devi pulire niente.» «Voglio solo dare una mano.» «Dammela portandomi un'altra tazza di caffè.» «Perché? Il racconto le fa venire sonno?» «Che ore sono, Isabella?» «Devono essere le dieci.» «E questo vuol dire?» «Niente sarcasmo fino a mezzogiorno» replicò lei.
Sorrisi trionfante e le tesi la tazza vuota. La prese e partì verso la cucina. Quando tornò con il caffè fumante, avevo già finito l'ultima cartella. Isabella si sedette di fronte a me. Le sorrisi e degustai con calma lo squisito caffè. La ragazza si torceva le mani e stringeva i denti, lanciando sguardi furtivi ai fogli del suo racconto che avevo lasciato a faccia in giù sul tavolo. Resistette un paio di minuti senza aprire bocca. «Allora?» disse alla fine. «Superbo.» Le si illuminò il viso. «Il mio racconto?» «Il caffè.» Mi guardò, ferita, e si alzò per raccogliere i suoi fogli. «Lasciali dove sono» ordinai. «Perché? È chiaro che non le è piaciuto e che mi giudica una povera idiota.» «Non ho detto questo.» «Non ha detto niente, che è peggio.» «Isabella, se davvero vuoi scrivere, o almeno scrivere perché altri ti leggano, devi abituarti al fatto che a volte ti ignorino, ti insultino, ti disprezzino e che quasi sempre ti dimostrino indifferenza. È uno dei vantaggi del mestiere.» Isabella abbassò lo sguardo e respirò a fondo. «Io non so se ho talento. So solo che mi piace scrivere. O meglio, che ho bisogno di scrivere.» «Bugiarda.» Alzò gli occhi e mi guardò con durezza. «Benissimo. Ho talento. E non me ne importa un'acca se lei crede che non lo abbia.» Sorrisi. «Questo già mi piace di più. Non potrei essere più d'accordo.» Mi guardò confusa. «Sul fatto che ho talento o sul fatto che lei crede che non lo abbia?» «A te cosa sembra?» «Allora, crede che abbia qualche possibilità?» «Credo che tu abbia talento ed entusiasmo, Isabella. Più di quanto credi e meno di quello che ti aspetti. Ma ci sono tante persone che hanno talento ed entusiasmo, e molte di loro non arrivano mai a nulla. Questo è solo l'inizio per combinare qualcosa nella vita. Il talento naturale è come la forza
di un atleta. Si può nascere con maggiori o minori capacità, però nessuno diventa un atleta perché è nato alto o forte o veloce. A fare l'atleta, o l'artista, è il lavoro, il mestiere e la tecnica. L'intelligenza con cui nasci è solo una dotazione di munizioni. Per riuscire a farci qualcosa è necessario trasformare la tua mente in un'arma di precisione.» «E questo paragone bellico?» «Ogni opera d'arte è aggressiva, Isabella. E ogni vita d'artista è una piccola o grande guerra, a cominciare da quella con se stessi e con i propri limiti. Per raggiungere qualunque obiettivo, c'è bisogno prima di tutto dell'ambizione e poi del talento, della conoscenza e, infine, dell'opportunità.» Isabella valutò le mie parole. «Sciorina questo discorso a tutti o le è appena venuto in mente?» «Non è mio. Me l'ha sciorinato, come dici tu, qualcuno a cui feci le stesse domande che stai facendo a me. È successo molti anni fa, ma non c'è giorno in cui non mi renda conto di quanto aveva ragione.» «Allora posso essere la sua assistente?» «Ci penserò.» Isabella annuì, soddisfatta. Si era seduta a un angolo del tavolo sul quale giaceva l'album di fotografie lasciato da Cristina. Lo aprì a caso all'ultima pagina e rimase a guardare un ritratto della recente signora Vidal scattato all'ingresso di Villa Helius due o tre anni prima. Deglutii. Isabella chiuse l'album e fece scorrere lo sguardo sul salotto fino a posarlo di nuovo su di me. Io l'osservavo con impazienza. Mi sorrise impacciata, come se l'avessi sorpresa a curiosare dove non doveva. «Ha una fidanzata molto bella» disse. L'occhiata che le lanciai cancellò il suo sorriso di colpo. «Non è la mia fidanzata.» «Ah.» Ci fu un lungo silenzio. «Immagino che la quinta regola sia non impicciarmi di cose che non mi riguardano.» Non risposi. Isabella annuì tra sé e si alzò. «Allora, meglio che la lasci in pace e che per oggi non la disturbi più. Se le va bene, torno domani e cominciamo.» Raccolse i suoi fogli e mi sorrise timidamente. Risposi con un cenno di assenso. Isabella si ritirò con discrezione e sparì in corridoio. Sentii i suoi passi
che si allontanavano e poi il rumore della porta che si chiudeva. In sua assenza, notai per la prima volta il silenzio che stregava quella casa. 6 Forse fu l'eccesso di caffeina che mi scorreva nelle vene, o solo la mia coscienza che cercava di tornare, come la luce dopo un blackout, però passai il resto della mattinata girando intorno a un'idea che non era affatto consolante. Era difficile pensare che non ci fosse qualche rapporto tra l'incendio a causa del quale erano deceduti Barrido ed Escobillas, da un lato, l'offerta di Corelli, di cui non avevo più avuto notizie, dall'altro, e lo strano manoscritto salvato dal Cimitero dei Libri Dimenticati che sospettavo fosse stato scritto fra quelle quattro mura. La prospettiva di ritornare, senza essere stato invitato, a casa di Andreas Corelli per chiedergli della coincidenza tra il nostro colloquio e l'incendio, avvenuti quasi contemporaneamente, mi risultava poco gradita. Il mio istinto mi diceva che quando l'editore avesse deciso di rivedermi l'avrebbe fatto motu proprio, e che l'ultima cosa che quell'inevitabile incontro mi ispirava era proprio la fretta. L'indagine sull'incendio era già nelle mani dell'ispettore Víctor Grandes e dei suoi due mastini, Marcos e Castelo, nella cui lista di persone preferite mi consideravo incluso con menzione d'onore. Quanto più lontano mi tenevo da loro, tanto meglio per me. L'unica alternativa percorribile restava il manoscritto e il suo rapporto con la casa della torre. Dopo anni in cui mi ero ripetuto che non era un caso se ero finito ad abitare lì, l'idea iniziava ora ad assumere un altro significato. Decisi di cominciare dal posto in cui avevo confinato buona parte delle cose e degli oggetti personali lasciati dai vecchi abitanti della casa della torre. Da un cassetto della cucina dove aveva trascorso anni recuperai la chiave dell'ultima stanza del corridoio. Non ci ero più entrato da quando gli operai dell'azienda elettrica avevano installato l'impianto. Quando introdussi la chiave nella serratura, sentii sulle dita una corrente d'aria fredda che fuoriusciva dal buco e constatai che Isabella aveva ragione; quella stanza sprigionava uno strano odore che faceva pensare a fiori marci e terra smossa. Aprii la porta e mi portai la mano alla faccia. La puzza era intensa. Tastai il muro cercando l'interruttore della luce, ma la lampadina spoglia che
pendeva dal soffitto non si accese. Il chiarore che entrava dal corridoio permetteva di intravedere i contorni della pila di scatoloni, libri e bauli che avevo confinato in quel posto anni addietro. Contemplai tutto con ripugnanza. La parete in fondo era coperta da un grande armadio di rovere. Mi accovacciai davanti a una cassa che conteneva vecchie foto, occhiali, orologi e piccoli oggetti personali. Iniziai a frugare senza sapere bene cosa cercassi. Dopo un po' abbandonai l'impresa e sospirai. Se speravo di scoprire qualcosa, avevo bisogno di un piano. Stavo per lasciare la stanza quando sentii un'anta dell'armadio aprirsi lentamente alle mie spalle. Un alito di aria gelida e umida mi sfiorò la nuca. Mi girai piano. L'anta era socchiusa e si potevano vedere all'interno i vecchi vestiti appesi alle grucce, rosi dal tempo, che ondeggiavano come alghe sott'acqua. La corrente d'aria fredda che portava quella puzza veniva da lì. Mi alzai e mi avvicinai lentamente all'armadio. Spalancai le ante e separai con le mani gli indumenti appesi. Il legno sul fondo era marcio e aveva iniziato a cadere a pezzi. Dietro, si poteva intuire un muro di gesso in cui si era aperto un buco di un paio di centimetri. Mi chinai per cercare di vedere cosa c'era dall'altra parte, ma il buio era quasi assoluto. Il chiarore tenue del corridoio filtrava attraverso il buco e proiettava dall'altro lato un filamento vaporoso di luce. Si percepiva appena un'atmosfera pesante. Avvicinai l'occhio cercando di catturare qualche immagine di ciò che c'era dall'altra parte del muro, ma in quell'istante dal buco spuntò un ragno nero. Arretrai di colpo e il ragno si affrettò ad arrampicarsi all'interno dell'armadio e a sparire nell'ombra. Chiusi le ante e uscii dalla stanza. Tolsi la chiave e la misi nel primo cassetto del comò in corridoio. La puzza imprigionata in quella camera si era sparsa per il corridoio come un veleno. Maledissi il momento in cui mi era passato per la testa di aprire quella porta e uscii sperando di dimenticare, sia pure per qualche ora, l'oscurità che pulsava nel cuore di quella casa. Le cattive idee vengono sempre in coppia. Per festeggiare la scoperta di una sorta di camera oscura nascosta in casa, andai alla libreria di Sempere e Figli con l'idea di invitare a pranzo il libraio alla Maison Dorée. Sempere padre stava leggendo una preziosa edizione del Manoscritto trovato a Saragozza di Potocki e non volle neanche sentirne parlare. «Se voglio vedere snob e gonzi che si danno un tono e si congratulano a vicenda non ho bisogno di pagare, Martín.» «Non faccia il brontolone. Offro io.» Sempere scosse la testa. Suo figlio, che aveva assistito alla conversazio-
ne dalla soglia del retrobottega, mi guardava, esitante. «E se mi porto suo figlio, che succede? Non mi rivolgerà più la parola?» «Decidete voi come sprecare tempo e denaro. Io resto qui a leggere, perché la vita è breve.» Sempere figlio era il paradigma della timidezza e della discrezione. Sebbene ci conoscessimo fin da bambini, non ricordavo di aver avuto con lui più di tre o quattro conversazioni da soli per più di cinque minuti. Non mi risultava che avesse vizi né peccatucci. Sapevo da fonte certa che tra le ragazze del quartiere era considerato nientemeno che il bello per antonomasia e lo scapolo d'oro. Più d'una capitava in libreria con una scusa qualsiasi e si fermava davanti al bancone a sospirare, ma lui, se pure se ne accorgeva, non faceva mai un passo per incassare quelle cambiali di devozione e labbra socchiuse. Chiunque altro avrebbe fatto una carriera luminosa da libertino con un decimo di quel capitale. Chiunque, meno Sempere figlio, a cui a volte non si sapeva se attribuire il titolo di beato. «Di questo passo, finirà per fare solamente tappezzeria» si lamentava ogni tanto Sempere. «Ha provato a mettergli un po' di peperoncino nella zuppa per stimolare l'irrigazione nei punti chiave?» domandavo io. «Rida, rida, mascalzone, che io già vado per i settanta e non ho nemmeno un fottuto nipote.» Ci accolse lo stesso maître che ricordavo dall'ultima visita, ma senza il sorriso servile né il gesto di benvenuto. Quando gli comunicai che non avevo prenotato, annuì con una smorfia di disprezzo e schioccò le dita per invocare la presenza di un cameriere che ci scortò senza troppe cerimonie a quello che immaginai fosse il peggior tavolo della sala, accanto alla porta delle cucine e seppellito in un angolo buio e rumoroso. Per i successivi venticinque minuti nessuno si avvicinò al tavolo, nemmeno per consegnarci il menu o per versarci un bicchier d'acqua. Il personale andava e veniva sbattendo la porta della cucina e ignorando completamente la nostra presenza e i nostri cenni per reclamare attenzione. «Vuol dire che dovremmo andarcene?» chiese alla fine Sempere figlio. «Io, con un panino in un posto qualsiasi, risolvo...» Non aveva finito di pronunciare queste parole quando li vidi comparire. Vidal e signora avanzavano verso il loro tavolo scortati dal maître e da due camerieri che si scioglievano in felicitazioni. Dopo un paio di minuti che avevano preso posto, iniziò la processione di baciamano con cui, uno dopo
l'altro, i commensali si avvicinavano a Vidal per fargli gli auguri. Lui li accoglieva con grazia divina e li congedava poco dopo. Sempere figlio, che si era reso conto della situazione, mi osservava. «Martín, sta bene? Perché non ce ne andiamo?» Annuii lentamente. Ci alzammo e ci dirigemmo all'uscita, costeggiando la sala lungo l'estremità opposta a quella del tavolo di Vidal. Prima di abbandonare il ristorante, passammo davanti al maître, che non si prese nemmeno la briga di guardarci, e mentre raggiungevamo l'uscita potei vedere nello specchio sopra la cornice della porta che Vidal si chinava e baciava Cristina sulle labbra. In strada, Sempere mi guardò, mortificato. «Mi dispiace, Martín.» «Non si preoccupi. Cattiva scelta. Tutto qui. Se permette, di questo, a suo padre...» «Nemmeno una parola» assicurò. «Grazie.» «Non c'è di che. Cosa ne dice se l'invito io in un posto più plebeo? C'è una trattoria favolosa in calle del Carmen.» Mi era passato l'appetito, ma accettai volentieri. «D'accordo.» La trattoria era vicino alla biblioteca e serviva cibi caserecci a prezzo economico per la gente del quartiere. Assaggiai appena qualche pietanza, che aveva un odore infinitamente migliore di qualunque cosa avessi annusato alla Maison Dorée da quando era aperta, però al dolce mi ero già scolato da solo una bottiglia e mezzo di rosso e la testa mi era entrata in orbita. «Sempere, mi dica una cosa. Cos'ha lei contro il miglioramento della razza? Come si spiega, altrimenti, che un cittadino giovane e sano, benedetto dall'Altissimo con un fisico come il suo, non abbia approfittato a man bassa di tutto quel ben di dio?» Il figlio del libraio rise. «Cosa le fa pensare che non l'abbia fatto?» Mi toccai il naso con l'indice, strizzandogli l'occhio. Sempere figlio annuì. «A rischio che mi prenda per un bacchettone, mi piace pensare che sto aspettando.» «Cosa? Che l'armamentario non le funzioni più?» «Parla come mio padre.» «Gli uomini saggi condividono pensieri e parole.»
«Io dico che ci sarà qualcos'altro, no?» chiese. «Qualcos'altro?» Sempere annuì. «Che ne so?» dissi. «Invece credo che lo sappia.» «E allora lei sa che mi sta utilizzando.» Stavo per versarmi un altro bicchiere quando Sempere mi fermò. «Prudenza» mormorò. «Vede che è un bacchettone?» «Ognuno è quello che è.» «Questo si può curare. Cosa ne dice se adesso lei e io andiamo a spassarcela un po'?» Sempere mi guardò con compassione. «Martín, credo sia meglio che se ne vada a casa a riposare. Domani è un altro giorno.» «Non dirà a suo padre che mi sono preso una sbronza, vero?» Sulla strada di casa mi fermai in non meno di sette bar per degustarne le riserve ad alta gradazione finché, con una scusa o con l'altra, mi cacciavano in strada e percorrevo altri cento o duecento metri in cerca di un nuovo porto in cui fare scalo. Non ero mai stato un bevitore di fondo e alla fine del pomeriggio ero così ubriaco che non mi ricordavo nemmeno dove abitavo. Un paio di camerieri della locanda Ambos Mundos di plaza Real mi sollevarono ciascuno per un braccio e mi depositarono su una panchina di fronte alla fontana, dove caddi in un sopore spesso e scuro. Sognai di andare al funerale di don Pedro. Un cielo insanguinato attanagliava il labirinto di croci e angeli che circondavano il grande mausoleo dei Vidal nel cimitero di Montjuic. Una comitiva silenziosa di veli neri attorniava l'anfiteatro di marmo brunito che formava il porticato del mausoleo. Ogni figura portava un lungo cero bianco. La luce di cento fiammelle scolpiva il contorno di un grande angelo di marmo sconsolato per il dolore e la perdita su un piedistallo ai cui piedi giaceva la tomba aperta del mio mentore, con all'interno un sarcofago di vetro. Il corpo di Vidal, vestito di bianco, era steso sotto il vetro a occhi aperti. Lacrime nere gli scendevano dalle guance. Dal gruppo si staccava il profilo della vedova, Cristina, che cadeva in ginocchio davanti al feretro inzuppata di pianto. A uno a uno, i membri della comitiva sfilavano davanti al defunto e depositavano rose nere sulla bara di vetro fino a coprirlo tutto, a eccezione del viso. Due bec-
chini senza volto calavano il feretro nella fossa, il cui fondo era inondato da un liquido denso e scuro. Il sarcofago galleggiava su quella distesa di sangue, che lentamente filtrava tra gli spiragli della chiusura. Pian piano, la bara veniva inondata e il sangue ricopriva il cadavere di Vidal. Prima che il suo volto venisse sommerso del tutto, il mio mentore muoveva gli occhi e mi guardava. Uno stormo di uccelli neri si alzava in volo e io mi mettevo a correre, perdendomi tra i sentieri dell'infinita città dei morti. Solo un pianto lontano riusciva a guidarmi verso l'uscita e mi permetteva di eludere i lamenti e le preghiere di oscure figure d'ombra che mi venivano incontro e mi supplicavano di portarle con me, di salvarle dalla loro eterna oscurità. Mi svegliarono due guardie dandomi dei colpetti sulla gamba con lo sfollagente. Era già buio e mi ci volle qualche secondo per capire se si trattava della forza pubblica o di agenti della Parca in missione speciale. «Forza, giovanotto, a smaltire la sbronza a casa, d'accordo?» «Agli ordini, colonnello.» «Svelto, o la sbatto in cella, e vediamo se ha ancora voglia di fare battute.» Non dovette ripetermelo due volte. Mi alzai come potei e m'incamminai verso casa con la speranza di arrivarci prima che i miei passi mi guidassero di nuovo in qualche postaccio. Il tragitto, che in condizioni normali mi avrebbe richiesto dieci o quindici minuti, si prolungò del triplo. Alla fine, quasi per miracolo, arrivai alla porta di casa dove, come se si trattasse di una maledizione, ritrovai Isabella seduta, stavolta nell'atrio interno, che mi aspettava. «È ubriaco» disse. «Deve essere così, perché in pieno delirium tremens mi è sembrato di trovarti a mezzanotte addormentata sotto casa mia.» «Non avevo un altro posto dove andare. Ho litigato con mio padre e mi ha cacciata di casa.» Chiusi gli occhi e sospirai. Il mio cervello intasato di alcol e amarezza non era in grado di dare forma al torrente di rifiuti e maledizioni che si affollavano sulle mie labbra. «Qui non puoi restare, Isabella.» «Per favore, solo per stanotte. Domani cerco una pensione. La supplico, signor Martín.» «Non guardarmi con quegli occhi da agnello sgozzato» minacciai. «E poi, se sono per strada è per colpa sua.» «Per colpa mia. Questa sì che è buona. Non so se hai talento per scrive-
re, ma di immaginazione febbrile ne hai a valanghe. Per quale infausto motivo, se si può sapere, sarebbe colpa mia se il tuo signor padre ti ha depositato sulla strada?» «Quando è ubriaco lei parla strano.» «Non sono ubriaco. Non sono mai stato ubriaco in vita mia. Rispondi alla domanda.» «Ho detto a mio padre che lei mi aveva assunto come assistente e che a partire da adesso mi sarei dedicata alla letteratura e non avrei più potuto lavorare in negozio.» «Cosa?» «Possiamo entrare? Ho freddo e il sedere mi si è pietrificato a forza di dormire sulle scale.» Sentii che la testa mi girava e che mi assaliva la nausea. Alzai gli occhi verso la tenue penombra che trapelava dal lucernario in cima alle scale. «È questo il castigo che mi invia il cielo per farmi pentire della mia vita dissoluta?» Isabella seguì il mio sguardo, intrigata. «Con chi parla?» «Non parlo, monologo. Prerogativa del beone. Però domattina presto vado a dialogare con tuo padre e mettiamo fine a questa assurdità.» «Non so se è una buona idea. Ha giurato che appena la vede l'ammazza. Ha un fucile a due canne nascosto sotto il bancone. Lui è fatto così. Una volta ci ha ammazzato un asino. Era estate, vicino ad Argentona...» «Zitta. Nemmeno una parola in più. Silenzio.» Isabella annuì e restò a guardarmi, in attesa. Ricominciai a cercare la chiave. In quel momento non potevo mettermi a combattere con le balle di quella loquace adolescente. Avevo bisogno di sprofondarmi a letto e perdere la coscienza, preferibilmente in quest'ordine. Cercai per un paio di minuti, senza risultato. Alla fine Isabella, senza dire una parola, mi si avvicinò, frugò nella tasca della giacca dove le mie mani erano passate cento volte e trovò la chiave. Me la mostrò e io annuii, sconfitto. Isabella aprì la porta e mi aiutò a reggermi in piedi. Mi guidò fino alla stanza da letto come un invalido e mi aiutò a stendermi. Mi sistemò la testa sui cuscini e mi tolse le scarpe. La guardai confuso. «Tranquillo, i pantaloni non glieli tolgo.» Mi allentò i bottoni del colletto e si sedette accanto a me, osservandomi. Mi sorrise con una malinconia che i suoi anni non meritavano. «Non l'ho mai vista tanto triste, signor Martín. È per quella donna, vero?
Quella della foto.» Mi prese la mano e me l'accarezzò, tranquillizzandomi. «Tutto passa, mi dia retta. Tutto passa.» Mio malgrado, mi si riempirono gli occhi di lacrime e girai la testa per non farmi vedere in viso. Isabella spense la luce sul comodino e rimase seduta accanto a me, nella penombra, a sentir piangere quel miserabile ubriaco, senza fare domande né dare altro giudizio se non quello della sua compagnia e della sua bontà, finché mi addormentai. 7 Mi svegliarono l'agonia del doposbornia, una pressa che si chiudeva sulle tempie e il profumo di caffè colombiano. Isabella aveva sistemato accanto al letto un tavolino con una caffettiera appena fatta e un piatto con pane, formaggio, prosciutto e una mela. La vista del cibo mi diede la nausea, ma allungai la mano verso la caffettiera. Isabella, che mi stava osservando dalla soglia senza che lo notassi, mi precedette e me ne servì una tazza, sciogliendosi in sorrisi. «Lo prenda così, bello forte, e le farà benissimo.» Accettai la tazza e bevvi. «Che ore sono?» «L'una.» Mi lasciai sfuggire uno sbuffo. «Da quante ore sei sveglia?» «Più o meno sette.» «E cos'hai fatto?» «Ho pulito e messo in ordine, però qui c'è lavoro per diversi mesi» replicò Isabella. Bevvi un altro lungo sorso di caffè. «Grazie» mormorai. «Per il caffè. E per aver messo in ordine e pulito, ma non c'è motivo per cui tu debba farlo.» «Non lo faccio per lei, se è questo che la preoccupa. Lo faccio per me. Se devo vivere qui, preferisco pensare che non rimarrò appiccicata a qualcosa se per caso mi ci appoggio...» «Vivere qui? Credevo che avessimo detto...» Nell'alzare la voce, una fitta di dolore mi spezzò le parole e i pensieri. «Shhhh» sussurrò Isabella. Annuii in segno di tregua. In quel momento non potevo né volevo discu-
tere con lei. Più tardi ci sarebbe stato tempo per restituirla alla sua famiglia, quando i postumi della sbronza avessero battuto in ritirata. Svuotai la tazza al terzo sorso e mi alzai lentamente. Cinque o sei aculei di dolore mi si conficcarono in testa. Mi lasciai sfuggire un lamento. Isabella mi sosteneva per un braccio. «Non sono invalido. Ce la faccio da solo.» Provò a lasciarmi. Feci qualche passo verso il corridoio. Lei mi seguiva da vicino, come se temesse di vedermi crollare da un momento all'altro. Mi fermai davanti al bagno. «Posso orinare da solo?» domandai. «Miri bene» mormorò la ragazza. «Le lascio la colazione in salotto.» «Non ho fame.» «Deve mangiare qualcosa.» «Sei la mia apprendista o mia madre?» «Glielo dico per il suo bene.» Chiusi la porta del bagno e mi ci rifugiai. Gli occhi ci misero un paio di secondi a adattarsi a quello che vedevo. Il bagno era irriconoscibile. Pulito e brillante. Ogni cosa al suo posto. Una saponetta nuova sul lavabo. Asciugamani puliti che non sapevo nemmeno di avere. Odore di liscivia. «Madonna» mormorai. Ficcai la testa sotto il rubinetto e lasciai scorrere l'acqua fredda un paio di minuti. Uscii in corridoio e mi diressi lentamente in salotto. Se il bagno era irriconoscibile, il salotto apparteneva a un altro mondo. Isabella aveva pulito i vetri e il pavimento e spolverato mobili e poltrone. Una luce pura e chiara irrompeva dalle vetrate e l'odore di polvere era scomparso. La colazione mi aspettava sul tavolo di fronte al sofà, sul quale la ragazza aveva messo una fodera pulita. Gli scaffali zeppi di libri sembravano riordinati e le cristalliere avevano ritrovato la trasparenza. Isabella mi versò un secondo tazzone di caffè. «So quello che stai facendo, e non funzionerà» dissi. «Servire una tazza di caffè?» Isabella aveva rimesso a posto i libri sparpagliati sui tavoli e negli angoli. Aveva svuotato i portariviste strabordanti da più di un decennio. In sole sette ore, aveva spazzato via di colpo anni di penombra e tenebre con la sua lena e la sua presenza, e ancora le rimanevano tempo e voglia di sorridere. «Mi piaceva di più com'era prima» dissi. «Certo. A lei e ai centomila scarafaggi che aveva per inquilini e che ho
scacciato con aria fresca e ammoniaca.» «È questa la puzza che si sente?» «La puzza è odore di pulito» protestò Isabella. «Potrebbe essere un poco grato.» «Lo sono.» «Non si nota. Domani salgo nello studio e...» «Che non ti venga neanche in mente.» Isabella si strinse nelle spalle, però il suo sguardo era determinato e seppi che entro ventiquattr'ore lo studio della torre avrebbe sofferto una trasformazione irreparabile. «Comunque, stamattina ho trovato una busta all'ingresso. Qualcuno deve averla infilata sotto la porta stanotte.» La guardai da sopra la tazza. «Il portone di sotto è chiuso a chiave» dissi. «Lo pensavo anch'io. A dire il vero mi è sembrato molto strano e, anche se c'era il suo nome...» «L'hai aperta.» «Temo di sì. L'ho fatto senza volere.» «Isabella, aprire la corrispondenza degli altri non è segno di buona educazione. In qualche posto è perfino un reato punibile con il carcere.» «Lo dico sempre a mia madre, che mi apre tutte le lettere. Ed è ancora in libertà.» «Dov'è la lettera?» Isabella tirò fuori una busta dalla tasca del grembiule che aveva indossato e me la tese evitando il mio sguardo. I bordi erano seghettati e la carta spessa e porosa, color avorio, con il sigillo dell'angelo - rotto - sulla ceralacca rossa e il mio nome scritto con inchiostro cremisi e profumato. L'aprii ed estrassi un foglio piegato in due. Stimato David, spero che stia bene in salute e che abbia incassato senza problemi la somma concordata. Le va di vederci stasera a casa mia per cominciare a discutere i dettagli del nostro progetto? Verrà servita una cena leggera verso le dieci. L'aspetto. Il suo amico Andreas Corelli Ripiegai il foglio e lo rimisi nella busta. Isabella mi osservava intrigata.
«Buone notizie?» «Nulla che ti riguardi.» «Chi è il signor Corelli? Ha una bella calligrafia, non come lei.» La guardai con severità. «Se diventerò la sua assistente, credo che dovrò sapere con chi ha rapporti. Se per caso devo mandarli a spasso, voglio dire.» Sospirai. «È un editore.» «Dev'essere un buon editore, guardi che carta da lettera e che buste... Che libro sta scrivendo per lui?» «Niente che ti riguardi.» «Come faccio ad assisterla se non mi dice a che cosa sta lavorando? No, meglio che non risponda. Sto zitta.» Per dieci miracolosi secondi, Isabella restò in silenzio. «Com'è questo signor Corelli?» La guardai freddamente. «Particolare.» «Dio li fa e... non dico nient'altro.» Osservando quella ragazza dall'animo nobile mi sentii, se possibile, ancora più meschino e capii che quanto prima l'avessi allontanata da me, anche a rischio di ferirla, meglio sarebbe stato per entrambi. «Perché mi guarda così?» «Stasera esco, Isabella.» «Le preparo qualcosa per cena? Torna tardi?» «Ceno fuori e non so quando torno, ma a qualunque ora sia, non voglio trovarti qui. Voglio che prendi le tue cose e te ne vai. Dove, mi è indifferente. Qui non c'è posto per te. Capito?» Il suo viso impallidì e gli occhi le si inumidirono. Si morse le labbra e mi sorrise con le guance solcate di lacrime. «Sono di troppo. Capito.» «E non pulire più.» Mi alzai e la lasciai sola in salotto. Mi rifugiai nello studio della torre. Aprii le finestre. Il pianto di Isabella arrivava fin dal piano di sotto. Contemplai la città stesa al sole di mezzogiorno e rivolsi lo sguardo all'altro estremo, dove credetti quasi di vedere le tegole brillanti di Villa Helius e di immaginare Cristina, la signora Vidal, in alto, alle finestre del torrione, che guardava verso La Ribera. Qualcosa di oscuro e di torbido mi ricoprì il cuore. Dimenticai il pianto di Isabella e desiderai soltanto che arrivasse il
momento di incontrare Corelli per parlare del suo maledetto libro. Rimasi nello studio della torre fino a quando il tramonto si sparse sulla città come sangue nell'acqua. Faceva caldo, più che in tutta l'estate, e i tetti della Ribera sembravano vibrare allo sguardo come miraggi di vapore. Scesi e mi cambiai. La casa era silenziosa, le persiane del salotto socchiuse e le vetrate imbevute di un chiarore ambrato che si diffondeva nel corridoio centrale. «Isabella?» chiamai. Non ottenni risposta. Mi affacciai in salotto e verificai che se n'era andata. Prima di farlo, però, si era messa a riordinare e a pulire la collezione delle opere complete di Ignatius B. Samson che per anni avevano accumulato polvere e oblio in una cristalliera che adesso brillava. La ragazza aveva lasciato uno dei volumi aperto su un leggio. Lessi un rigo a caso e mi sembrò di viaggiare in un tempo in cui tutto sembrava semplice quanto inevitabile. "'La poesia si scrive con le lacrime, i romanzi con il sangue e la storia con le bolle di sapone' disse il cardinale mentre bagnava di veleno la lama del coltello alla luce del candelabro." La studiata ingenuità di quelle frasi mi strappò un sorriso e mi restituì un sospetto che non mi aveva mai abbandonato: forse sarebbe stato meglio per tutti, soprattutto per me, se Ignatius B. Samson non si fosse mai suicidato e David Martín non avesse preso il suo posto. 8 Si stava già facendo buio quando uscii. Il caldo e l'umidità avevano spinto molti abitanti del quartiere a portarsi le sedie in strada in cerca di una brezza che non arrivava. Evitai gli improvvisati capannelli davanti ai portoni e agli angoli e mi diressi verso la stazione Francia, dove si potevano sempre trovare due o tre taxi in attesa. Salii sul primo della fila. Ci vollero una ventina di minuti per attraversare la città e risalire il pendio della collina su cui si trovava il bosco spettrale dell'architetto Gaudí. Le luci della casa di Corelli erano visibili da lontano. «Non sapevo che ci abitasse qualcuno» commentò l'autista. Appena ebbi pagato la corsa, mancia inclusa, non perse un secondo a squagliarsela in tutta fretta. Attesi qualche istante prima di bussare alla porta, assaporando lo strano silenzio che regnava in quel luogo. Soltanto
una foglia si agitava nel bosco che ricopriva la collina alle mie spalle. Un cielo disseminato di stelle e pennellate di nubi si estendeva in ogni direzione. Potevo sentire il suono del mio respiro, del fruscio dei miei vestiti mentre camminavo, dei miei passi che si avvicinavano alla porta. Suonai il campanello e attesi. La porta si aprì qualche momento dopo. Un uomo dallo sguardo e dalle spalle stanchi annuì alla mia presenza e mi fece cenno di entrare. L'abbigliamento suggeriva che si trattava di una specie di maggiordomo o di domestico. Non emise alcun suono. Lo seguii attraverso il corridoio che ricordavo fiancheggiato da ritratti, e mi cedette il passo nel grande salone sul fondo, dal quale si poteva contemplare tutta la città in lontananza. Con una lieve riverenza mi lasciò solo e si ritirò con la stessa lentezza con cui mi aveva accompagnato. Mi avvicinai ai finestroni e guardai attraverso le tendine, per ammazzare il tempo in attesa di Corelli. Erano trascorsi un paio di minuti quando notai che una figura mi osservava da un angolo della sala. Era seduto, completamente immobile, su una poltrona, tra la penombra e la luce di una lanterna che a stento rivelava le gambe e le mani appoggiate ai braccioli. Lo riconobbi dal brillio degli occhi che non sbattevano mai le palpebre e dal riflesso della lanterna sulla spilla a forma di angelo che portava sempre sul risvolto della giacca. Appena posai lo sguardo su di lui, si alzò e si avvicinò a passi rapidi, troppo rapidi, e con un sorriso da lupo che mi gelò il sangue. «Buona sera, Martín.» Annuii cercando di rispondere al suo sorriso. «L'ho spaventata di nuovo» disse. «Mi dispiace. Posso offrirle qualcosa da bere o passiamo senza preamboli alla cena?» «A dire il vero, non ho appetito.» «È questo caldo, senza dubbio. Se le va, possiamo andare in giardino e chiacchierare lì.» Il silenzioso maggiordomo fece atto di presenza e procedette ad aprire le porte che davano in giardino, dove un sentiero di candele sistemate su piattini da caffè conduceva a un tavolo di metallo bianco con due sedie messe una di fronte all'altra. La fiamma delle candele bruciava diritta, senza nessuna oscillazione. La luna diffondeva un tenue chiarore azzurrato. Presi posto e Corelli fece lo stesso mentre il maggiordomo ci riempiva due bicchieri da un recipiente, immaginai pieno di vino o di qualche liquore che non avevo intenzione di assaggiare. Alla luce di quei tre quarti di luna, Corelli mi sembrò più giovane, con i tratti del volto più affilati. Mi osservava
con un'intensità prossima alla voracità. «Qualcosa la preoccupa, Martín.» «Immagino abbia sentito dell'incendio.» «Una fine spiacevole e tuttavia poeticamente giusta.» «Le sembra giusto che due uomini muoiano in quel modo?» «Un modo meno cruento le sembrerebbe più accettabile? La giustizia è un artificio della prospettiva, non un valore universale. Non fingerò una costernazione che non provo, e credo nemmeno lei, per quanto voglia mostrarla. Ma se preferisce osserviamo un minuto di silenzio.» «Non sarà necessario.» «Certo che no. È necessario solo quando non si ha niente di valido da dire. Il silenzio fa sembrare saggi perfino gli stupidi, per un minuto. Qualcos'altro che la preoccupa, Martín?» «La polizia sembra ritenere che io abbia qualcosa a che fare con l'accaduto. Mi hanno chiesto di lei.» Corelli annuì con noncuranza. «La polizia deve fare il suo lavoro e noi il nostro. Cosa ne dice se diamo per esaurito l'argomento?» Annuii lentamente. Corelli sorrise. «Poco fa, mentre l'aspettavo, mi sono reso conto che noi due abbiamo in sospeso una piccola conversazione retorica. Prima ce ne sbarazziamo, prima arriveremo al dunque» disse. «Mi piacerebbe cominciare chiedendole cos'è per lei la fede.» Esitai qualche istante. «Non sono mai stato una persona religiosa. Più che credere o non credere, ho dei dubbi. Il dubbio è la mia fede.» «Molto prudente e molto borghese. Ma mettendo palloni in fallo laterale non si vince la partita. Per quale motivo, secondo lei, credenze di ogni tipo compaiono e scompaiono nel corso della storia?» «Non lo so. Credo per fattori sociali, economici o politici. Lei parla con uno che ha smesso di andare a scuola a dieci anni. La storia non è il mio forte.» «La storia è l'immondezzaio della biologia, Martín.» «Il giorno in cui hanno spiegato questo argomento forse non ero a scuola.» «Questa lezione non viene impartita nelle aule, Martín. Ce la impartiscono la ragione e l'osservazione della realtà. Ma nessuno vuole impararla, perciò è quella che dobbiamo analizzare meglio per svolgere bene il nostro
lavoro. Ogni opportunità di fare un affare nasce dall'incapacità degli altri di risolvere un problema semplice e inevitabile.» «Parliamo di religione o di economia?» «Scelga lei la terminologia.» «Se capisco bene, lei suggerisce che la fede, l'atto di credere in miti o ideologie o leggende sovrannaturali, è una conseguenza della biologia.» «Né più né meno.» «Una visione piuttosto cinica per un editore di testi religiosi» notai. «Una visione professionale e spassionata» specificò Corelli. «L'essere umano crede come respira, per sopravvivere.» «Questa teoria è sua?» «Non è una teoria, è una statistica.» «Mi viene in mente che almeno tre quarti del mondo non sarebbero d'accordo con quest'affermazione» osservai. «Naturalmente. Se fossero d'accordo, non sarebbero potenziali credenti. Nessuno può venire davvero convinto di quello in cui non ha bisogno di credere per un imperativo biologico.» «Allora secondo lei è nella nostra natura vivere nell'inganno?» «Sopravvivere, è nella nostra natura. La fede è una risposta istintiva ad aspetti dell'esistenza che non possiamo spiegare in altro modo: il vuoto morale che percepiamo nell'universo, la certezza della morte, il mistero dell'origine delle cose o il senso della nostra vita, o la sua assenza. Sono aspetti elementari e di straordinaria semplicità, ma i nostri stessi limiti ci impediscono di rispondere in modo univoco a queste domande e per questo motivo generiamo, come difesa, una risposta emotiva. È pura e semplice biologia.» «Secondo lei, allora, tutte le fedi e gli ideali sarebbero solo una finzione.» «Qualsiasi interpretazione o osservazione della realtà lo è. In questo caso, il problema sta nel fatto che l'uomo è un animale morale abbandonato in un universo amorale e condannato a un'esistenza finita e senza altro significato che quello di perpetuare il ciclo naturale della specie. È impossibile sopravvivere in uno stato prolungato di realtà, almeno per un essere umano. Passiamo buona parte della nostra vita a sognare, soprattutto quando siamo svegli. Come le dicevo, semplice biologia.» Sospirai. «E dopo tutto questo, lei vuole che io mi inventi una favola che faccia cadere in ginocchio gli incauti e li convinca di aver visto la luce, dell'esi-
stenza di qualcosa in cui credere, per cui vivere e per cui morire e perfino ammazzare.» «Esatto. Non le chiedo di inventare nulla che non sia già stato inventato, in una forma o in un'altra. Le chiedo soltanto di aiutarmi a dar da bere agli assetati.» «Un proposito lodevole e pio» ironizzai. «No, una semplice proposta commerciale. La natura è un grande libero mercato. La legge della domanda e dell'offerta è una questione molecolare.» «Forse dovrebbe cercarsi un intellettuale per questo lavoro. A proposito di questioni molecolari e mercantili, le assicuro che la maggior parte di loro non ha mai visto centomila franchi tutti insieme e scommetto che saranno disposti a vendersi l'anima, o a inventarsela, per una parte di quella somma.» Lo scintillio metallico dei suoi occhi mi fece sospettare che Corelli stava per dedicarmi un altro dei suoi acidi sermoni tascabili. Visualizzai il saldo del mio conto al Banco Hispano Americano e mi dissi che centomila franchi valevano bene una messa o una collezione di omelie. «Un intellettuale di solito è uno che non si distingue esattamente per il suo intelletto» sentenziò Corelli. «Si attribuisce da solo quella definizione per compensare l'impotenza naturale che intuisce nelle sue capacità. È la vecchia storia del dimmi di cosa ti vanti e ti dirò di cosa sei privo. Pane quotidiano. L'incompetente si presenta sempre come esperto, il crudele come misericordioso, il peccatore come baciapile, l'usuraio come benefattore, il meschino come patriota, l'arrogante come umile, il volgare come elegante e lo stupido come intellettuale. Di nuovo, tutta opera della natura, la quale, lungi dall'essere la silfide cantata dai poeti, è una madre crudele e vorace che ha bisogno di cibarsi delle creature che partorisce per continuare a vivere.» Corelli e la sua poetica della biologia feroce iniziavano a darmi la nausea. La veemenza e l'ira trattenute che stillavano le parole dell'editore mi mettevano a disagio e mi domandai se ci fosse qualcosa nell'universo che non gli sembrasse ripugnante e spregevole, incluso me stesso. «Lei dovrebbe tenere conferenze di orientamento nelle scuole e nelle parrocchie la Domenica delle Palme. Avrebbe un successo impressionante» suggerii. Corelli rise con freddezza. «Non cambi argomento. Quello che io cerco è l'opposto di un intellettua-
le, vale a dire qualcuno intelligente. E l'ho trovato.» «Mi lusinga.» «Meglio ancora, la pago. E molto bene, che è l'unica vera lusinga in questo mondo mercenario. Non accetti mai decorazioni che non siano stampate su un assegno. Arrecano benefici solo a chi le concede. E visto che la pago, spero che mi ascolti e segua le mie istruzioni. Mi creda se le dico che non ho alcun interesse a farle perdere tempo. Finché lei è stipendiato, il suo tempo è anche il mio.» Il tono era amabile, ma lo scintillio dei suoi occhi era d'acciaio e non lasciava spazio a equivoci. «Non è necessario che me lo ricordi ogni cinque minuti.» «Perdoni la mia insistenza, amico mio. Se le do il voltastomaco con tutti questi sproloqui è per sbarazzarmene quanto prima. Quello che voglio da lei è la forma, non il contenuto. Il contenuto è sempre lo stesso ed è stato inventato da quando esiste l'essere umano. È inciso nel suo cuore come un numero di serie. Quello che voglio da lei è che trovi un modo intelligente e seduttivo di rispondere alle domande che tutti noi ci rivolgiamo, e che lo faccia a partire dalla sua personale lettura dell'animo umano, mettendo in pratica la sua arte e il suo mestiere. Voglio che mi porti una narrazione che risvegli l'anima.» «Niente di meno...» «E niente di più.» «Lei parla di manipolare sentimenti ed emozioni. Non sarebbe più facile convincere la gente con un'esposizione razionale, semplice e chiara?» «No. È impossibile avviare un dialogo razionale con una persona su credenze e concetti che non ha acquisito mediante la ragione. Fa lo stesso se parliamo di Dio, della razza o dell'orgoglio patriottico. Per questo mi serve qualcosa di più potente di una semplice esposizione retorica. Mi serve la forza dell'arte, la messa in scena. Le parole delle canzoni sono ciò che crediamo di capire, ma a renderle credibili o no è la musica.» Cercai di inghiottire tutto quel guazzabuglio senza strozzarmi. «Tranquillo, per oggi niente più discorsi» tagliò corto Corelli. «Veniamo alla parte pratica: lei e io ci vedremo approssimativamente ogni quindici giorni. Mi informerà sui suoi progressi e mi mostrerà il lavoro fatto. Se ho osservazioni o cambiamenti da suggerire, glielo farò presente. Il lavoro durerà dodici mesi, o la frazione necessaria per completarlo. Al termine di questo periodo lei mi consegnerà, senza eccezioni, tutto il testo e la documentazione prodotta, che spettano all'unico proprietario e titolare dei dirit-
ti, cioè io. Il suo nome non figurerà come autore e lei si impegna a non rivendicarlo dopo la consegna e a non parlare con nessuno del lavoro realizzato, o dei termini di questo accordo, né in privato né in pubblico. In cambio, otterrà un anticipo di centomila franchi, che le è già stato versato, e alla fine, e previa consegna del lavoro e approvazione da parte mia, un bonus addizionale di altri cinquantamila franchi.» Deglutii. Uno non è pienamente cosciente dell'avidità che si nasconde nel suo cuore fino a quando non sente il dolce tintinnio dei soldi nelle tasche. «Non vuole formalizzare un contratto per iscritto?» «Il nostro è un accordo sulla parola d'onore. La sua e la mia. Ed è già stato siglato. Un accordo sulla parola d'onore non si può infrangere perché infrange chi lo ha sottoscritto» disse Corelli con un tono che mi fece pensare che sarebbe stato preferibile firmare comunque un pezzo di carta, sia pure con il sangue. «Qualche dubbio?» «Sì. Perché?» «Non la capisco, Martín.» «Perché vuole questo materiale, o come preferisce chiamarlo? Cosa pensa di farci?» «Problemi di coscienza, Martín, arrivati a questo punto?» «Forse lei mi prende per un individuo senza princìpi, ma se partecipo a qualcosa come ciò che mi propone voglio sapere qual è l'obiettivo. Credo di averne diritto.» Corelli sorrise e posò la sua mano sulla mia. Provai un brivido al contatto della pelle gelida e liscia come il marmo. «Perché lei vuole vivere.» «Questo suona vagamente minaccioso.» «Un semplice e amichevole promemoria di ciò che già sa. Lei mi aiuterà perché vuole vivere e perché non le importano né il prezzo né le conseguenze. Perché non molto tempo fa sapeva di essere alle porte della morte e adesso ha un'eternità davanti a sé e l'opportunità di una vita. Mi aiuterà perché è umano. E perché, anche se non vuole ammetterlo, ha fede.» Scostai la mano fuori dalla sua portata e l'osservai alzarsi dalla sedia e dirigersi verso il fondo del giardino. «Non si preoccupi, Martín. Andrà tutto bene. Mi dia retta» disse Corelli in un tono dolce e soporifero, quasi materno. «Posso andare?» «Certo. Non voglio trattenerla più del necessario. Mi è piaciuta la nostra
conversazione. Ora la lascerò ripensare a tutto quello di cui abbiamo discusso. Vedrà, passata l'indigestione, si renderà conto che le vere risposte verranno a lei. Non c'è nulla nel sentiero della vita che non sappiamo già prima di imboccarlo. Non si impara nulla di importante nella vita, semplicemente si ricorda.» Corelli fece un cenno al taciturno maggiordomo che aspettava al limite del giardino. «Un'automobile la porterà a casa. Noi ci vediamo tra due settimane.» «Qui?» «Lo dirà Dio» mormorò leccandosi le labbra come se avesse detto una battuta deliziosa. Il maggiordomo si avvicinò e mi indicò di seguirlo. Corelli annuì e si risedette, lo sguardo di nuovo perso sulla città. 9 L'automobile, per chiamarla in qualche modo, aspettava alla porta della villa. Non era un'auto qualunque, ma un pezzo da collezione. Mi fece pensare a una carrozza incantata, a una cattedrale semovente con cromature e curve fatte di scienza pura, e il tocco finale dell'emblema di un angelo d'argento sul cofano a mo' di polena. In altre parole, una Rolls-Royce. Il maggiordomo mi aprì la portiera e mi salutò con una riverenza. Entrai nell'abitacolo, che sembrava più una stanza d'albergo che la cabina di un veicolo a motore. L'auto si mise in moto appena mi appoggiai al sedile e partì giù per la collina. «Sa l'indirizzo?» domandai. L'autista, una figura scura dall'altra parte del divisorio di vetro, fece un leggero cenno di assenso. Attraversammo Barcellona nel silenzio narcotico di quella carrozza di metallo che sembrava sfiorare appena il suolo. Vidi sfilare strade e palazzi dal finestrino come se si trattasse di scogliere sommerse. Era già passata mezzanotte quando la Rolls-Royce nera svoltò in calle Comercio e imboccò il paseo del Born. Si fermò all'inizio di calle Flassaders, troppo stretta per permetterne il passaggio. L'autista scese e mi aprì la portiera con un inchino. Scesi e lui la richiuse, poi risalì in macchina senza dire una parola. Lo vidi allontanarsi finché la sagoma scura si dissolse in un velo di ombre. Mi chiesi cosa avevo fatto e, preferendo non trovare la risposta, mi incamminai verso casa con la sensazione che il mondo intero fosse una prigione senza possibilità di fuga.
Entrato in casa, andai direttamente nello studio. Aprii le finestre ai quattro venti e lasciai che la brezza umida e infocata penetrasse nella stanza. Su alcuni tetti del quartiere si potevano scorgere figure stese su materassi e lenzuola che cercavano di sfuggire al caldo asfissiante e di conciliare il sonno. In lontananza, le tre grandi ciminiere del Paralelo si innalzavano come pire funebri, spargendo un manto di cenere bianca che si stendeva sopra Barcellona come polvere di vetro. Più vicino, la statua della Mercè che spiccava il volo dalla cupola della chiesa mi ricordò l'angelo della Rolls-Royce e quello che Corelli sfoggiava sempre sul risvolto. Sentivo che la città, dopo molti mesi di silenzio, tornava a parlarmi e a raccontarmi i suoi segreti. Fu allora che la vidi, accoccolata sullo scalino di una porta di quel miserabile e angusto tunnel fra vecchi palazzi chiamato calle Mosques. Isabella. Mi chiesi da quanto tempo fosse lì e mi dissi che non erano affari miei. Stavo per chiudere la finestra e andare alla scrivania quando notai che non era sola. Dall'estremità del vicolo, un paio di figure si avvicinavano lentamente a lei, forse troppo. Sospirai, desiderando che passassero oltre. Non lo fecero. Una si appostò dall'altro lato, bloccando l'uscita della strada. L'altra si accovacciò davanti alla ragazza, allungando il braccio verso di lei. Isabella si mosse. Qualche istante dopo le due figure si gettarono su di lei e la sentii gridare. Mi ci volle più o meno un minuto per arrivare fin lì. Quando lo feci, uno degli uomini teneva stretta Isabella per le braccia e l'altro le aveva sollevato la gonna. Un'espressione di terrore attanagliava il viso della ragazza. Il secondo individuo, che si stava facendo strada fra le sue cosce tra le risate, le puntava un coltello alla gola. Tre fili di sangue gocciolavano dal taglio. Mi guardai attorno. Un paio di casse di rottami e una pila di sampietrini e materiali da costruzione abbandonati contro il muro. Afferrai quella che si rivelò una sbarra di metallo, solida e pesante, di mezzo metro. Il primo ad accorgersi della mia presenza fu quello con il coltello. Avanzai di un passo, brandendo la sbarra di metallo. Il suo sguardo saltò dalla sbarra ai miei occhi e vidi che gli moriva il sorriso sulle labbra. L'altro si girò e mi vide avanzare verso di lui con la sbarra sollevata. Bastò che gli facessi un cenno con la testa perché lasciasse Isabella e si affrettasse a ripararsi dietro il suo compagno. «Dài, andiamo» mormorò. L'altro ignorò le sue parole. Mi guardava fisso con il fuoco negli occhi e il coltello in mano.
«A te chi ti ha invitato, figlio di puttana?» Senza staccare gli occhi dall'uomo con l'arma, presi Isabella per un braccio e la sollevai da terra. Cercai le chiavi in tasca e gliele passai. «Va' a casa» dissi. «Fa' come ti dico.» Lei esitò un istante, ma poi sentii i suoi passi allontanarsi nel vicolo verso calle Flassaders. Il tipo con il coltello la vide andare via e sorrise con rabbia. «Ti faccio a fette, stronzo.» Non dubitai della sua capacità e della sua voglia di mettere in pratica la minaccia, ma qualcosa nel suo sguardo mi faceva pensare che il mio avversario non era del tutto imbecille: se non l'aveva ancora fatto, era perché si stava chiedendo quanto pesasse la sbarra di metallo che avevo in mano e, soprattutto, se avrei avuto la forza, il coraggio e il tempo di usarla per fracassargli il cranio prima che lui potesse affondare la lama del suo coltello. «Provaci» lo sfidai. Il tipo sostenne il mio sguardo per diversi secondi e poi rise. Il ragazzo che era con lui sospirò di sollievo. L'uomo richiuse la lama e sputò ai miei piedi. Si voltò e si allontanò verso le ombre da cui era uscito, mentre il suo compagno gli trotterellava dietro come un cane fedele. Trovai Isabella accoccolata sul pianerottolo interno della casa della torre. Tremava e teneva le chiavi con tutte e due le mani. Mi vide entrare e si alzò di scatto. «Vuoi che chiami un medico?» Scosse la testa. «Sei sicura?» «Non erano ancora riusciti a farmi niente» mormorò, mordendosi le lacrime. «Non mi è sembrato.» «Non mi hanno fatto niente, d'accordo?» protestò. «D'accordo» dissi. Volevo sostenerla per un braccio mentre salivamo le scale, ma lei rifiutò il contatto. Una volta in casa, l'accompagnai in bagno e accesi la luce. «Hai un cambio di vestiti puliti da metterti?» Isabella mi mostrò la borsa che portava con sé e annuì. «Su, lavati, mentre preparo qualcosa da mangiare.» «Come può avere fame adesso?»
«Be', ce l'ho.» Isabella si morse il labbro inferiore. «A dire il vero anch'io...» «Discussione finita, allora» dissi. Chiusi la porta del bagno e aspettai di sentir scorrere l'acqua. Tornai in cucina e misi una pentola sul fuoco. Era rimasto un po' di riso, della pancetta e qualche ortaggio portato da Isabella la mattina prima. Improvvisai qualcosa con quegli avanzi e aspettai quasi mezzora che uscisse dal bagno, bevendomi quasi mezza bottiglia di vino. La sentii piangere di rabbia dall'altro lato del muro. Quando comparve sulla porta della cucina aveva gli occhi arrossati e sembrava più bambina che mai. «Non so se ho ancora fame» mormorò. «Siediti e mangia.» Ci sedemmo alla piccola tavola al centro della cucina. Isabella esaminò con un certo sospetto il piatto di riso e bocconi vari che le avevo servito. «Mangia» ordinai. Prese una cucchiaiata esplorativa e se la portò alle labbra. «È buono» disse. Le versai mezzo bicchiere di vino e riempii il resto d'acqua. «Mio padre non mi lascia bere vino.» «Io non sono tuo padre.» Cenammo in silenzio, scambiandoci occhiate. Isabella svuotò il piatto e mangiò il pezzo di pane che le avevo tagliato. Sorrideva timidamente. Non si rendeva conto che lo spavento non le era ancora piombato addosso. Poi l'accompagnai alla porta della sua stanza e accesi la luce. «Cerca di riposare un po'» le dissi. «Se hai bisogno di qualcosa dai un colpo sul muro. Sono nella stanza accanto.» Isabella annuì. «L'ho già sentita russare l'altra notte.» «Io non russo.» «Saranno state le tubature. O forse qualche vicino che ha un orso.» «Un'altra parola e te ne torni per strada.» Isabella sorrise e annuì. «Grazie» bisbigliò. «Non chiuda del tutto la porta, per favore. La lasci socchiusa.» «Buona notte» dissi spegnendo la luce e lasciando Isabella nella penombra. Più tardi, mentre mi spogliavo nella mia stanza, notai che avevo un se-
gno scuro sulla guancia, come una lacrima nera. Mi avvicinai allo specchio e lo strofinai con le dita. Era sangue secco. Solo allora mi resi conto di essere esausto e di avere dolori dappertutto. 10 La mattina dopo, prima che Isabella si svegliasse, andai alla drogheria che la sua famiglia gestiva in calle Mirallers. Era da poco passata l'alba e la serranda del negozio era mezza aperta. M'infilai dentro e trovai un paio di garzoni che accatastavano scatole di tè e altre mercanzie sul bancone. «È chiuso» disse uno di loro. «Non sembra. Va' a chiamare il proprietario.» Mentre aspettavo, mi misi a esaminare l'emporio familiare dell'ingrata erede Isabella, che nella sua infinita innocenza aveva rinunciato al miele del commercio per abbassarsi alle miserie della letteratura. Il negozio era un piccolo bazar di meraviglie provenienti da tutti gli angoli del mondo. Marmellate, dolci e tè. Caffè, spezie e conserve. Frutta e carni stagionate. Cioccolata e insaccati affumicati. Un paradiso pantagruelico per tasche ben fornite. Don Odón, padre della creatura e responsabile della ditta, si presentò dopo un po' con un camice blu, un paio di baffi da maresciallo e un'espressione costernata che lo situava in un'allarmante prossimità all'infarto. Decisi di saltare le formalità. «Mi dice sua figlia che lei ha un fucile a due canne con cui ha promesso di ammazzarmi» dissi, aprendo le braccia a croce. «Eccomi qui.» «E lei chi è, svergognato?» «Sono lo svergognato che ha dovuto ospitare una ragazza perché quel calabrache di suo padre non è capace di tenerla in riga.» La rabbia gli scivolò via dalla faccia e il negoziante mostrò un sorriso angosciato e pusillanime. «Signor Martín? Non l'avevo riconosciuta... Come sta la bambina?» Sospirai. «La bambina è sana e salva a casa mia, russando come un mastino, ma con l'onore e la virtù intatti.» Il negoziante si fece il segno della croce due volte di seguito, sollevato. «Il Signore gliene renda merito.» «E lei possa vedere quel momento, ma nel frattempo le chiedo di farmi il favore di venirsela a riprendere entro oggi oppure le spacco la faccia, fucile o no.»
«Fucile?» mormorò il negoziante, confuso. Sua moglie, una donna minuta e dallo sguardo nervoso, ci spiava da dietro una tenda che nascondeva il retrobottega. Qualcosa mi diceva che non ci sarebbero state sparatorie. Don Odón, sbuffando, sembrò afflosciarsi su se stesso. «Non desidero altro, signor Martín. Però la bambina non vuole stare qua» spiegò, desolato. Vedendo che il negoziante non era l'orco dipinto da Isabella, mi pentii del tono delle mie parole. «Non è stato lei a cacciarla di casa?» Don Odón spalancò gli occhi come piatti, afflitto. Sua moglie si fece avanti e gli prese la mano. «Abbiamo avuto una discussione. Si sono dette cose che non si sarebbero dovute dire, da entrambe le parti. Ma il fatto è che la bambina ha un carattere che tienila... Ha minacciato di andarsene dicendo che non l'avremmo rivista mai più. Quella santa donna di sua madre per poco non ci rimane per la tachicardia. Io ho alzato la voce e ho detto che l'avrei messa in convento.» «Un argomento infallibile per convincere una ragazza di sedici anni» notai. «È la prima cosa che mi è venuta in mente...» spiegò il negoziante. «Come avrei potuto metterla in convento?» «A quanto ho visto, solo con l'aiuto di un intero reggimento della Guardia Civil.» «Non so cosa le abbia raccontato la bambina, signor Martín, ma non le creda. Non saremo persone raffinate, ma non siamo neanche mostri. Io non so più come gestirla. Non sono il tipo d'uomo capace di togliersi la cinta e farla ubbidire a cinghiate. E la mia signora qui presente non alza la voce nemmeno con il gatto. Non so dove la bambina abbia preso quel carattere. Credo a furia di leggere tanto. E guardi che le suore ci avevano avvisato. Lo diceva mio padre, che riposi in pace: il giorno in cui si permetterà alle donne di imparare a leggere e scrivere, il mondo sarà ingovernabile.» «Gran pensatore, suo padre, ma questo non risolve né il suo problema né il mio.» «E cosa possiamo fare? Isabella non vuole stare con noi, signor Martín. Dice che siamo ottusi, che non la capiamo, che vogliamo seppellirla in questo negozio... Cos'altro potrei desiderare se non capirla? Lavoro qui da quando avevo sette anni, dall'alba al tramonto, e l'unica cosa che ho capito
è che il mondo è un posto repellente e senza riguardi per una ragazzina con la testa fra le nuvole» spiegò il negoziante, appoggiandosi a un barile. «La mia paura è che, se la costringo a tornare, ci scappi davvero e finisca nelle mani di qualche. .. Non voglio nemmeno pensarci.» «È vero» aggiunse sua moglie, che parlava con un pizzico di accento italiano. «Creda, la bambina ci ha spezzato il cuore, però non è la prima volta che se ne va. È venuta uguale a mia madre, che aveva un carattere napoletano...» «Ah, la mamma 1 » ricordò don Odón, atterrito solo all'evocare la memoria della suocera. «Quando ha detto che veniva ad abitare a casa sua per qualche giorno mentre l'aiutava nel lavoro, ci siamo tranquillizzati un po'» continuò la madre di Isabella «perché sappiamo che lei è una brava persona e in fondo la bambina è qui vicino, a due strade da qui. Sappiamo che lei saprà convincerla a tornare.» Mi chiesi cosa avesse raccontato Isabella di me per convincerli che il sottoscritto camminava sull'acqua. «Proprio ieri notte, a un tiro di schioppo da qui, hanno riempito di botte un paio di operai che tornavano a casa. Mi dica lei. Pare che li abbiano colpiti con un ferro fino a ridurli come stracci. Dicono che non si sa se uno sopravviverà e che l'altro rimarrà sciancato per tutta la vita» disse la madre. «In che mondo viviamo?» Don Odón mi guardò, costernato. «Se vengo a prenderla, se ne andrà di nuovo. E stavolta non so se incontrerà uno come lei. Sappiamo che non sta bene che una ragazzina abiti nella casa di uno scapolo, ma almeno ci risulta che lei è onesto e saprà averne cura.» Il negoziante sembrava sul punto di scoppiare a piangere, Avrei preferito che corresse a prendere il fucile. C'era sempre la possibilità che qualche cugino napoletano si presentasse dalle nostre parti con uno schioppo in mano per salvaguardare l'onore della bambina. Porca miseria2 . «Ho la sua parola che se ne prenderà cura finché recupera l'uso della ragione e torna a casa?» Sbuffai. «Ha la mia parola.» Tornai a calle Flassaders carico di ghiottonerie e leccornie che don Odón 1 2
In italiano nel testo. In italiano nel testo.
e sua moglie vollero affibbiarmi come omaggio della casa. Ribadii che mi sarei occupato di Isabella per qualche giorno fin quando non avesse messo giudizio e capito che il suo posto era con la sua famiglia. I commercianti insistettero a pagarmi per il suo mantenimento, proposta che rifiutai. Il mio piano era che nel giro di una settimana Isabella tornasse a dormire a casa sua, anche se per riuscirci avrei dovuto mantenere la finzione che fosse la mia assistente durante il giorno. Erano cadute torri ben più alte. Entrando in casa, la trovai seduta al tavolo della cucina. Aveva lavato tutti i piatti della sera prima, aveva fatto il caffè e si era vestita e pettinata come una santa uscita da un'immaginetta. Isabella, che non era stupida nemmeno un po', sapeva perfettamente da dove venivo e si armò del suo sguardo migliore da cane abbandonato e mi sorrise, sottomessa. Lasciai le borse con la scorta di delizie di don Odón sull'acquaio e la guardai. «Mio padre non le ha sparato?» «Aveva finito le munizioni e ha deciso di lanciarmi tutti questi vasetti di marmellata e questi pezzi di formaggio manchego.» Isabella strinse le labbra, facendo una faccia di circostanza. «Sicché il nome Isabella è per via della nonna?» «La mamma3 » confermò. «Nel suo quartiere la chiamavano la Vesuvia.» «Ci credo.» «Dicono che assomiglio un poco a lei. Per l'ostinazione.» Non c'era bisogno di un notaio per attestarlo, pensai. «I tuoi genitori sono brave persone, Isabella. Non ti capiscono meno di quanto tu capisca loro.» La ragazza non disse nulla. Mi versò una tazza di caffè e attese il verdetto. Avevo due possibilità: cacciarla di casa e far morire di crepacuore la coppia di negozianti o fare di necessità virtù e armarmi di pazienza per due o tre giorni. Immaginai che quarantott'ore della mia incarnazione più cinica e sferzante sarebbero bastate a spezzare la ferrea determinazione di una ragazzina e a rispedirla in ginocchio alle gonne della madre implorando perdono e alloggio a pensione completa. «Puoi restare qui per il momento...» «Grazie!» «Non correre. Puoi restare a condizione che, uno, ogni giorno passi un momento in negozio per salutare i tuoi genitori e dire che stai bene, e, due, che mi obbedisca e rispetti le regole di questa casa.» Il discorsetto suonava patriarcale, ma eccessivamente magnanimo. Man3
In italiano nel testo.
tenni l'espressione severa e decisi di forzare un po' i toni. «E quali sono le regole di questa casa?» domandò Isabella. «Fondamentalmente, quello che a me mi gira.» «Mi sembra giusto.» «Affare fatto, allora.» Isabella aggirò la tavola e mi abbracciò con gratitudine. Sentii il calore e le forme sode del suo corpo di diciassettenne contro il mio. La scostai con delicatezza e la tenni a un metro di distanza. «La prima regola è che questo non è Piccole donne e qui non ci abbracciamo e non scoppiamo a piangere all'improvviso.» «Come vuole lei.» «Ecco il motto su cui costruiremo la nostra convivenza: come voglio io.» Isabella rise e partì rapida verso il corridoio. «Dove credi di andare?» «A mettere in ordine il suo studio. Non vorrà lasciarlo com'è, vero?» 11 Avevo bisogno di un posto dove pensare e sfuggire allo zelo domestico e all'ossessione per la pulizia della mia nuova assistente, così andai alla biblioteca che occupava la navata ad arcate gotiche dell'antico ospizio medievale di calle del Carmen. Passai il resto della giornata circondato da volumi che odoravano di sepolcro papale, leggendo di mitologia e storia delle religioni finché gli occhi non furono sul punto di cadermi sulla tavola e di ruzzolare fuori dalla biblioteca. Dopo ore di letture senza tregua, calcolai di avere a stento raggranellato una milionesima parte di quello che potevo trovare sotto le arcate di quel santuario di libri, per non parlare di tutto quello che si era scritto sull'argomento. Decisi che sarei tornato il giorno dopo, e quello dopo ancora, e che avrei dedicato almeno un'intera settimana ad alimentare la caldaia del mio pensiero con pagine e pagine su dèi, miracoli e profezie, santi e apparizioni, rivelazioni e misteri. Qualunque cosa pur di non pensare a Cristina e don Pedro e alla loro vita matrimoniale. Visto che disponevo di un'assistente sollecita, le diedi istruzioni perché si procurasse copie dei libri di catechismo e dei testi scolastici utilizzati in città per l'insegnamento della religione e me ne stilasse poi un riassunto.
Isabella non discusse gli ordini, ma aggrottò le sopracciglia quando li ricevette. «Voglio sapere per filo e per segno come viene insegnato ai bambini tutto l'ambaradan, dall'arca di Noè al miracolo dei pani e dei pesci» spiegai. «E a che scopo?» «Perché sono fatto così e ho un ampio ventaglio di curiosità.» «Si sta documentando per una nuova versione del Dolce cuore di Gesù fa' ch'io t'ami sempre più?» «No. Ho in mente una versione romanzata delle avventure di Catalina de Erauso, la suora soldato. Tu limitati a fare quello che ti dico e non discutere o ti rispedisco al negozio dei tuoi a vendere cotognate a tutto spiano.» «Lei è un despota.» «Sono contento che a poco a poco ci conosciamo.» «Ha a che fare con il libro che deve scrivere per quell'editore, Corelli?» «Può darsi.» «Mi sa che questo libro non ha possibilità commerciali.» «E tu che ne sai?» «Più di quanto lei creda. E non c'è bisogno che faccia così, perché cerco solo di aiutarla. O ha deciso di non essere più uno scrittore professionista e di trasformarsi in un dilettante da caffè e pasticcini?» «Al momento sono occupato a fare la bambinaia.» «Io non tirerei in ballo chi fa da bambinaia a chi, perché l'avrei vinta prima di cominciare.» «E di cosa vorrebbe discutere vostra eccellenza?» «L'arte commerciale contrapposta alle stupidaggini con tanto di morale.» «Cara Isabella, mia piccola Vesuvia: nell'arte commerciale, e ogni arte degna di questo nome prima o poi diventa commerciale, la stupidità sta quasi sempre nello sguardo dell'osservatore.» «Mi sta dando della stupida?» «Ti sto richiamando all'ordine. Fa' quello che ti dico. E punto. Zitta.» Indicai la porta e Isabella sbarrò gli occhi, mormorando qualche improperio che non riuscii a sentire mentre si allontanava lungo il corridoio. Mentre Isabella batteva scuole e librerie alla ricerca di libri di testo e di catechismo da riassumere, io mi recavo alla biblioteca del Carmen ad approfondire la mia educazione teologica, impegno che intraprendevo con stravaganti dosi di caffè e di stoicismo. I primi sette giorni di quella strana creazione non partorirono altro che dubbi. Una delle poche certezze trovate
fu che la stragrande maggioranza degli autori che si erano sentiti chiamati a scrivere di cose divine, umane e sacre dovevano essere studiosi dotti e pii al massimo grado, ma come scrittori erano una palla. Il sofferente lettore costretto a scivolare sulle loro pagine doveva mettercela tutta per non cadere in uno stato di coma indotto dalla noia a ogni punto e a capo. Dopo essere sopravvissuto a migliaia di pagine sull'argomento, cominciavo ad avere l'impressione che le centinaia di fedi religiose catalogate nel corso della storia della stampa risultassero straordinariamente simili tra loro. Attribuii questa prima impressione alla mia ignoranza o a una mancanza di documentazione adeguata, ma non riuscivo a scacciare l'idea di aver passato in rassegna decine di storie poliziesche in cui l'assassino cambiava, ma la meccanica della trama era essenzialmente sempre la stessa. Miti e leggende, sia sulle divinità sia sulla formazione e la storia di popoli e razze, cominciarono a sembrarmi immagini di rompicapo poco differenziati e costruiti sempre con le stesse tessere, anche se in un ordine diverso. Dopo due giorni ero già diventato amico di Eulalia, la bibliotecaria, che mi selezionava testi e tomi nell'oceano di carta di cui era responsabile e che di tanto in tanto veniva a trovarmi al mio tavolo d'angolo per chiedermi se avessi bisogno di qualcos'altro. Doveva avere la mia età e l'intelligenza le sprizzava dagli occhi, di solito sotto forma di frecciate acuminate e vagamente velenose. «Sta leggendo un bel po' su santi e affini... Ha deciso di farsi chierichetto adesso, alle soglie della maturità?» «È solo per documentazione.» «Ah, dicono tutti così.» Le battute e l'ingegno della bibliotecaria offrivano un balsamo impagabile per sopravvivere a quei testi pesanti come macigni e per proseguire nel mio pellegrinaggio documentativo. Quando Eulalia aveva un po' di tempo libero veniva al mio tavolo e mi aiutava a mettere ordine in quel guazzabuglio. Erano pagine in cui abbondavano racconti di padri e figli, madri pure e sante, tradimenti e conversioni, profezie e profeti martiri, inviati del cielo o del paradiso, neonati venuti al mondo per salvare l'universo, entità malefiche dall'aspetto raccapricciante e dalla morfologia solitamente animalesca, esseri eterei e dai tratti razziali accettabili che erano agenti del bene ed eroi sottoposti a tremende prove dal destino. Si percepiva sempre l'idea dell'esistenza terrena come una specie di stazione di passaggio, che invitava alla docilità e all'accettazione del destino e delle norme della tribù, perché la ricompensa si trovava sempre in un aldilà che prometteva paradi-
si ricolmi di tutto ciò di cui si era privi nella vita mondana. A mezzogiorno del giovedì, in una delle sue pause, Eulalia mi si avvicinò e mi chiese se, a parte leggere messali, di tanto in tanto mangiavo. La invitai a pranzo a Casa Leopoldo, che aveva da poco aperto lì vicino. Mentre degustavamo uno squisito stufato di coda di toro, mi raccontò che faceva quel mestiere da due anni e che da altri due stava lavorando a un romanzo che non le riusciva e che aveva come scenario principale la biblioteca del Carmen, e per tema una serie di misteriosi delitti perpetrati al suo interno. «Mi piacerebbe scrivere qualcosa di simile a quei romanzi di qualche anno fa di Ignatius B. Samson» disse. «Le dice qualcosa?» «Vagamente» risposi. Eulalia non riusciva a elaborare la trama del suo romanzo e io le suggerii di dare al tutto un tono leggermente sinistro e di incentrare la vicenda su un libro segreto posseduto da uno spirito tormentato, con sottotrame di apparente contenuto sovrannaturale. «È quello che farebbe Ignatius B. al suo posto» azzardai. «E cosa ci fa lei con tutte quelle letture su angeli e demoni? Non mi dica che è un ex seminarista pentito.» «Sto cercando di appurare cos'hanno in comune le origini di religioni e miti diversi» spiegai. «E cos'ha imparato finora?» «Quasi niente. Non la voglio annoiare con il miserere.» «Non mi annoia. Racconti.» Mi strinsi nelle spalle. «Be', quello che finora ho trovato più interessante è che la maggioranza di queste credenze nasce da un fatto o da un personaggio probabilmente storico, ma presto si evolve in movimenti sociali modellati dalle circostanze politiche, economiche e sociali del gruppo che le accetta. È ancora sveglia?» Eulalia annuì. «Buona parte della mitologia che si sviluppa attorno a ciascuna di queste dottrine, dalle liturgie alle norme e ai tabù, proviene dalla burocrazia che si genera via via che evolvono, e non dal presunto evento soprannaturale da cui hanno avuto origine. La maggioranza parte da aneddoti semplici e sicuri, un misto di senso comune e di folclore, e tutta la carica bellicosa che sviluppa deriva dall'interpretazione posteriore di quei princìpi, quando non tendono a snaturarsi per opera dei loro amministratori. L'aspetto ammini-
strativo e gerarchico sembra la chiave della loro evoluzione. All'inizio la verità viene rivelata a tutti gli uomini, ma rapidamente compaiono individui che si attribuiscono la potestà e il dovere di interpretare, amministrare e, nel caso, alterare quella verità in nome del bene comune. A questo scopo fondano un'istituzione potente e potenzialmente repressiva. Questo fenomeno, tipico di tutti i gruppi di animali sociali, come ci insegna la biologia, non tarda a trasformare la dottrina in un elemento di controllo e di battaglia politica. Prima o poi, la parola si fa sangue, e la carne sanguina.» Mi sembrò di cominciare a parlare come Corelli e sospirai. Eulalia sorrideva debolmente e mi osservava con qualche riserva. «È questo che cerca? Sangue?» «Come si dice? Per imparare bisogna sputare sangue, non al contrario.» «Io non ne sarei tanto sicura.» «Intuisco che lei ha frequentato una scuola di suore.» «Le dame nere. Otto anni.» «È vero quello che si dice, che sono proprio le alunne delle scuole di suore a covare i desideri più oscuri e inconfessabili?» «Scommetto che le piacerebbe scoprirlo.» «Punti tutte le fiches sul sì.» «Cos'altro ha imparato nel suo corso accelerato di teologia per menti fervide?» «Poco altro. Le mie prime conclusioni mi hanno lasciato un retrogusto di banalità e incongruenza. Tutto questo mi sembrava già più o meno evidente senza bisogno di divorare enciclopedie e trattati sul sesso degli angeli, forse perché non sono in grado di superare i miei pregiudizi o perché non c'è niente da capire e il nocciolo della questione sta semplicemente nel credere o no, senza soffermarsi sul perché. Come le pare la mia retorica? Continua a impressionarla?» «Mi fa venire la pelle d'oca. Peccato non averla conosciuta quando ero una studentessa dagli oscuri desideri.» «Lei è crudele, Eulalia.» La bibliotecaria rise di gusto e mi guardò a lungo negli occhi. «Mi dica, Ignatius B., chi le ha spezzato il cuore con tanta rabbia?» «Vedo che lei sa leggere anche altro, oltre ai libri.» Rimanemmo seduti ancora alcuni minuti, osservando l'andirivieni dei camerieri nella sala di Casa Leopoldo. «Sa qual è il bello dei cuori infranti?» domandò la bibliotecaria. Scossi la testa.
«Che possono rompersi davvero soltanto una volta. Il resto sono graffi.» «Lo metta nel suo libro.» Indicai il suo anello di fidanzamento. «Non so chi sia quel citrullo, ma spero che sappia di essere l'uomo più fortunato del mondo.» Eulalia sorrise con una certa tristezza e annuì. Tornammo in biblioteca e ognuno riprese il proprio posto, lei alla sua scrivania e io al mio angolo. Mi accomiatai da lei il giorno dopo, quando decisi che non potevo né volevo leggere nemmeno un altro rigo su rivelazioni e verità eterne. Sulla strada della biblioteca le comprai una rosa bianca da un fioraio delle Ramblas e gliela lasciai sulla scrivania. La trovai in uno dei corridoi che sistemava libri. «Già mi abbandona, così presto?» disse quando mi vide. «Chi mi farà i complimenti adesso?» «Chi non glieli farà?» Mi accompagnò all'uscita e mi strinse la mano in cima alla scalinata che portava al cortile del vecchio ospedale. M'incamminai giù per le scale. A metà strada mi fermai e mi voltai. Era ancora lì, a osservarmi. «Buona fortuna, Ignatius B. Spero che trovi quello che cerca.» 12 Mentre cenavo con Isabella alla tavola del salotto, notai che la mia nuova assistente mi guardava di sottecchi. «Non le piace la minestra? Non l'ha toccata...» azzardò la ragazza. Guardai il piatto intatto che avevo lasciato raffreddare. Presi una cucchiaiata e feci finta di provare lo squisito manicaretto. «Buonissima» concessi. «E non ha detto nemmeno una parola da quando è tornato dalla biblioteca» aggiunse Isabella. «Qualche altro reclamo?» Isabella sviò lo sguardo, infastidita. Mangiai la minestra fredda senza appetito, un pretesto per non dover fare conversazione. «Perché è così triste? È per quella donna?» Lasciai il cucchiaio nel piatto. Non risposi e continuai a rimestare nella minestra con il cucchiaio. Isabella non mi toglieva gli occhi di dosso. «Si chiama Cristina» dissi. «E non sono triste. Sono contento per lei per-
ché ha sposato il mio migliore amico e sarà molto felice.» «E io sono la regina di Saba.» «Tu sei solo una ficcanaso.» «Mi piace di più così, quando è di cattivo umore e dice la verità.» «Allora vediamo se ti piace questo: smamma nella tua stanza e lasciami in pace una buona volta.» Cercò di sorridere, ma quando allungai la mano verso di lei gli occhi le si erano riempiti di lacrime. Prese il mio piatto e il suo e fuggì in cucina. Sentii i piatti cadere nell'acquaio e, qualche secondo dopo, la porta della sua stanza chiudersi di botto. Sospirai e assaporai il bicchiere di vino rimasto, un vinello squisito che veniva dal negozio dei genitori di Isabella. Dopo un po' mi avvicinai alla porta della sua stanza e bussai leggermente con le nocche. Non rispose, ma potevo sentirla singhiozzare. Cercai di aprire, ma la ragazza aveva chiuso dall'interno. Salii nello studio, che dopo il passaggio di Isabella odorava di fiori freschi e sembrava la cabina di una nave da crociera di lusso. Isabella aveva messo in ordine i libri, spolverato e lasciato tutto brillante e irriconoscibile. La vecchia Underwood sembrava una scultura e le lettere della tastiera si leggevano di nuovo senza difficoltà. Una pila di fogli accuratamente ordinati giaceva sulla scrivania con i riassunti di vari testi scolastici di religione e catechesi insieme alla corrispondenza del giorno. In un piattino da caffè c'erano un paio di sigari che sprigionavano un profumo molto gradevole. Macanudos, una delle delizie cubane che un contatto nella Manifattura Tabacchi passava sottobanco al padre di Isabella. Ne presi uno e l'accesi. Aveva un sapore intenso che lasciava intuire nel suo respiro tiepido tutti gli aromi e i veleni che un uomo poteva desiderare per morire in pace. Mi sedetti alla scrivania ed esaminai le lettere della giornata. Le ignorai tutte meno una, di carta pergamena ocra ornata da quella calligrafia che avrei riconosciuto dovunque. La missiva del mio nuovo editore e mecenate, Andreas Corelli, mi dava appuntamento la domenica a metà pomeriggio in cima alla torre della nuova funivia che attraversava il porto di Barcellona. La torre di San Sebastián si innalzava a cento metri d'altezza in un ammasso di cavi e acciaio che provocava le vertigini al solo vederlo. La linea della funivia era stata inaugurata quello stesso anno per l'Esposizione Universale che aveva messo tutto a soqquadro e costellato Barcellona di portenti. La funivia attraversava la darsena del porto da quella prima torre a un pilastro centrale che ricordava la torre Eiffel e serviva da fulcro e dal
quale partivano le cabine sospese nel vuoto nella seconda parte del tragitto fino al Montjuïc, dove si trovava il cuore dell'Esposizione. Il prodigio della tecnica prometteva panorami della città fino a quel momento consentiti solo a dirigibili, uccelli di una certa grandezza e chicchi di grandine. Per come la vedevo io, gli uomini e i gabbiani non erano stati concepiti per condividere lo stesso spazio aereo, e appena entrai nell'ascensore che saliva in cima alla torre sentii lo stomaco restringersi fino a diventare una biglia. L'ascesa mi sembrò infinita, e lo sferragliare di quella capsula di latta un autentico esercizio di nausea. Trovai Corelli intento a guardare da uno dei finestroni affacciati sulla darsena del porto e sulla città intera, gli occhi perduti negli acquerelli di vele e alberi che scivolavano sull'acqua. Indossava un completo di seta bianca e giocherellava con una zolletta di zucchero che teneva fra le dita e che inghiottì con voracità da lupo. Tossicchiai e il mio principale si girò, sorridendo compiaciuto. «Un panorama meraviglioso, non le pare?» domandò Corelli. Annuii, bianco come un foglio. «Le fa impressione l'altezza?» «Sono un animale di superficie» risposi, tenendomi a una distanza prudenziale dalla finestra. «Mi sono permesso di comprare biglietti di andata e ritorno» m'informò. «Troppo gentile.» Lo seguii fino alla passerella d'accesso alle cabine che partivano dalla torre e rimanevano sospese nel vuoto a quasi un centinaio di metri d'altezza per un tempo che mi sembrava infinito. «Come ha trascorso la settimana, Martín?» «Leggendo.» Mi guardò brevemente. «Dalla sua espressione annoiata sospetto che non si trattava di Alexandre Dumas.» «Piuttosto di una collezione di forforosi accademici con la loro prosa di cemento.» «Ah, intellettuali. E lei voleva che ne assumessi uno. Perché mai, se si ha così poco da dire, lo si dice nella maniera più pomposa e pedante possibile?» chiese Corelli. «Sarà per ingannare gli altri o se stessi?» «Forse tutte e due le cose.» Il principale mi consegnò i biglietti e mi fece cenno di passare per primo. Li diedi al controllore che teneva aperta la porta della cabina. Entrai
senza alcun entusiasmo. Decisi di stare al centro, il più lontano possibile dai vetri. Corelli sorrideva come un bambino euforico. «Forse parte del suo problema è che ha letto i commentatori e non i commentati. Un errore abituale, ma fatale, quando si vuole imparare qualcosa di utile» osservò Corelli. Le porte della cabina si chiusero e un brusco scossone ci mandò in orbita. Mi aggrappai a una sbarra di metallo e respirai a fondo. «Intuisco che gli studiosi e i teorici non sono santi di cui lei è devoto» dissi. «Non sono devoto di nessun santo, amico mio, e men che meno di quelli che si canonizzano da soli o tra di loro. La teoria è la pratica degli impotenti. Le suggerisco di lasciare da parte gli enciclopedisti e i loro articoli e di andare direttamente alle fonti. Mi dica, ha letto la Bibbia?» Esitai un istante. La cabina si affacciò nel vuoto. Guardai a terra. «Frammenti qui e là, suppongo» mormorai. «Suppone. Come quasi tutti. Grave errore. Tutti dovrebbero leggere la Bibbia. E rileggerla. Credenti e non credenti, fa lo stesso. Io la rileggo almeno una volta all'anno. È il mio libro preferito.» «E lei è un credente o uno scettico?» chiesi. «Sono un professionista. E anche lei. Quello che crediamo o no è irrilevante per portare a termine il nostro lavoro. Credere o non credere è un atto da pusillanimi. Si sa o non si sa, punto.» «Allora confesso che non so nulla.» «Continui su questa strada e incontrerà i passi del grande filosofo. E lungo la strada legga la Bibbia dall'a alla zeta. È una delle più grandi storie mai raccontate. Non commetta l'errore di confondere la parola di Dio con l'industria del messale che di quella vive.» Più tempo passavo in compagnia dell'editore, meno ero convinto di capirlo. «Credo di essermi perso. Stiamo parlando di leggende e favole e lei adesso mi dice di pensare alla Bibbia come alla parola letterale di Dio?» Un'ombra d'impazienza e irritazione gli annebbiò lo sguardo. «Parlo in senso figurato. Dio non è un ciarlatano. La parola è moneta umana.» A quel punto mi sorrise come si sorride a un bambino che non è in grado di capire le cose più elementari, per non dargli uno schiaffo. Osservandolo, mi resi conto che era impossibile sapere quando l'editore parlasse sul serio o scherzasse. Impossibile come indovinare lo scopo di quella stravagante
impresa per la quale mi stava pagando uno stipendio da monarca reggente. In più, la cabina si agitava al vento come una mela su un albero sferzato da un uragano. Non avevo mai pensato tanto a Isaac Newton in tutta la mia vita. «Lei è un fifone, Martín. Questo marchingegno è completamente sicuro.» «Ci crederò quando tocchiamo terra.» Ci stavamo avvicinando al punto mediano del tragitto, la torre di San Jaime, che si innalzava tra i moli vicini al grande palazzo delle Dogane. «Le dispiace se scendiamo qui?» domandai. Corelli fece spallucce e annuì controvoglia. Non respirai con calma fin quando non fui sull'ascensore della torre e lo sentii toccare terra. Uscendo sui moli trovammo una panchina che guardava le acque del porto e il Montjuic e ci sedemmo a osservare la funivia sopra di noi; io con sollievo, Corelli con rimpianto. «Mi parli delle sue prime impressioni. Di quello che le hanno suggerito questi giorni di studio e di lettura intensiva.» Riassunsi quello che credevo di avere imparato, o disimparato, in quei giorni. L'editore ascoltava attento, annuendo e gesticolando con le mani. Alla fine del mio rapporto tecnico su miti e credenze dell'essere umano, Corelli si pronunciò positivamente. «Credo che lei abbia fatto un eccellente lavoro di sintesi. Non ha trovato il proverbiale ago nel pagliaio, ma ha capito che l'unica cosa davvero interessante del mucchio di paglia è un dannato spillo e tutto il resto è cibo per gli asini. A proposito di asini, mi dica, le interessano le favole?» «Da bambino, per un paio di mesi, volevo essere Esopo.» «Tutti lasciamo grandi speranze lungo il cammino.» «Cosa voleva essere da bambino, signor Corelli?» «Dio.» Il suo sorriso da sciacallo cancellò il mio di colpo. «Martín, le favole sono probabilmente uno dei meccanismi letterari più interessanti che siano stati inventati. Sa che cosa ci insegnano?» «Lezioni morali?» «No. Ci insegnano che gli esseri umani imparano e assorbono idee e concetti attraverso narrazioni, storie, non attraverso lezioni magistrali o discorsi teorici. La stessa cosa ci insegna qualunque grande testo religioso. Si tratta sempre di racconti con personaggi che devono affrontare la vita e superare ostacoli, figure che si imbarcano in un viaggio di arricchimento
spirituale attraverso peripezie e rivelazioni. Tutti i libri sacri sono, prima di tutto, grandi storie le cui trame affrontano gli aspetti fondamentali della natura umana e li collocano in un determinato contesto morale e in una cornice di dogmi sovrannaturali. Ho preferito che trascorresse una settimana infelice a leggere tesi, discorsi, opinioni e commenti perché si rendesse conto da solo che da quelli non c'è niente da imparare. Di fatto sono solo esercizi di buona o cattiva volontà, normalmente falliti, per cercare di imparare a loro volta. Sono finite le conversazioni ex cathedra. A partire da oggi voglio che inizi a leggere i racconti dei fratelli Grimm, le tragedie di Eschilo, il Ramayana o le leggende celtiche. Lei stesso. Voglio che analizzi come funzionano quei testi, che ne distilli l'essenza e i motivi per cui provocano una reazione emotiva. Voglio che impari la grammatica, non la morale della favola. E voglio che fra due o tre settimane mi porti qualcosa di suo, l'inizio di una storia. Voglio che mi faccia credere.» «Pensavo che eravamo professionisti e non potevamo commettere il peccato di credere in qualcosa.» Corelli sorrise, mostrando i denti. «Si può convertire solo un peccatore, mai un santo.» 13 I giorni passavano fra letture e intoppi. Abituato da anni a vivere da solo e a quello stato di metodica e sottovalutata anarchia tipico del maschio scapolo, la costante presenza di una donna in casa, per quanto fosse un'adolescente discola e dal carattere lunatico, cominciava a minare le mie abitudini in modo sottile ma sistematico. Io credevo nel disordine categorizzato; Isabella no. Io credevo che gli oggetti trovano il proprio posto nel caos di una casa; Isabella no. Io credevo nella solitudine e nel silenzio; Isabella no. Nel giro di un paio di giorni scoprii che non ero in grado di trovare alcunché nella mia stessa casa. Se cercavo un tagliacarte o un bicchiere o un paio di scarpe, dovevo domandare a Isabella dove la provvidenza le aveva ispirato di nasconderli. «Non nascondo niente. Metto le cose al loro posto, che è diverso.» Non passava giorno in cui non provassi l'impulso di strangolarla una mezza dozzina di volte. Quando mi rifugiavo nello studio in cerca di pace e di tranquillità per pensare, Isabella compariva dopo pochi minuti con una tazza di tè o dei pasticcini, sorridente. Cominciava ad aggirarsi per lo studio, si affacciava alla finestra, iniziava a mettere in ordine il ripiano della
scrivania e poi mi chiedeva cosa ci facessi lassù, così silenzioso e pieno di mistero. Scoprii che le ragazze di diciassette anni possiedono una tale capacità verbale che il loro cervello le spinge a esercitarla ogni venti secondi. Il terzo giorno decisi che bisognava trovarle un fidanzato, possibilmente sordo. «Isabella, come è possibile che una ragazza carina come te non abbia pretendenti?» «Chi ha detto che non ce li ho?» «Non c'è nessun ragazzo che ti piace?» «I ragazzi della mia età sono noiosi. Non hanno niente da dire e la metà sembrano scemi con la nocca.» Stavo per dirle che con l'età non miglioravano, ma non volli rovinarle la festa. «Allora di che età ti piacciono?» «Anziani. Come lei.» «Ti sembro anziano?» «Be', non è più un pivellino.» Preferii credere che mi stesse prendendo in giro piuttosto che incassare quel colpo basso alla mia vanità. Decisi di cavarmela con qualche goccia di sarcasmo. «La buona notizia è che alle ragazzine piacciono gli uomini anziani, e la cattiva che agli uomini anziani, e specialmente a quelli decrepiti e bavosi, piacciono le ragazzine.» «Lo so. Non creda che mi succhi ancora il dito.» Isabella mi osservò, macchinando qualcosa, e sorrise con malizia. Eccoci, pensai. «E anche a lei piacciono le ragazzine?» Avevo la risposta sulle labbra prima che mi facesse la domanda. Adottai un tono didattico ed equanime, da cattedratico di geografia. «Mi piacevano quando avevo la tua età. Generalmente mi piacciono le ragazze della mia.» «Alla sua età non sono più ragazze, sono signorine o, se proprio ci tiene, signore.» «Fine del dibattito. Non hai niente da fare di sotto?» «No.» «Allora mettiti a scrivere. Non ti tengo qui per lavare i piatti e nascondermi le cose. Ti tengo perché mi hai detto che volevi imparare a scrivere e io sono l'unico idiota che conosci in grado di aiutarti a farlo.»
«Non c'è bisogno che si arrabbi. È che mi manca l'ispirazione.» «L'ispirazione viene quando si mettono i gomiti sul tavolo, il culo sulla sedia e si comincia a sudare. Scegli un tema, un'idea e spremiti le meningi fin quando ti fanno male. Questa si chiama ispirazione.» «Il tema ce l'ho già.» «Alleluia.» «Scriverò su di lei.» Un lungo silenzio di sguardi scambiati, di avversari che si fissano al di sopra della scacchiera. «Perché?» «Mi sembra interessante. E strano.» «E anziano.» «E suscettibile. Quasi come un ragazzo della mia età.» Mio malgrado, stavo cominciando ad abituarmi alla compagnia di Isabella, alle sue frecciate e alla luce che aveva portato in quella casa. Se le cose fossero andate avanti così, le mie peggiori paure si sarebbero concretizzate e avremmo finito per diventare amici. «E lei ce l'ha già un tema con tutti quei libracci che sta consultando?» Decisi che meno avessi raccontato a Isabella del mio incarico, meglio sarebbe stato. «Sono ancora nella fase della documentazione.» «Documentazione? E come funziona?» «Fondamentalmente, si leggono migliaia di pagine per imparare il necessario e arrivare all'essenziale di un tema, alla sua verità emotiva, e poi si disimpara tutto per iniziare da zero.» Isabella sospirò. «Cos'è la verità emotiva?» «È la sincerità all'interno della finzione.» «Allora bisogna essere onesti e brave persone per scrivere narrativa?» «No. Bisogna avere mestiere. La verità emotiva non è una qualità morale, è una tecnica.» «Parla come uno scienziato» protestò Isabella. «La letteratura, almeno quella buona, è una scienza con sangue artistico. Come l'architettura o la musica.» «Io pensavo che fosse qualcosa che sgorgava dall'artista, così, all'improvviso.» «A sgorgare così all'improvviso sono solo i peli e le verruche.» Isabella considerò quelle rivelazioni con scarso entusiasmo.
«Tutto questo lo dice per scoraggiarmi e farmi tornare a casa.» «Non avrò questa fortuna.» «Lei è il peggior maestro del mondo.» «Il maestro lo fa l'alunno, non il contrario.» «Non si può discutere con lei perché sa tutti i trucchi della retorica. Non è giusto.» «Niente è giusto. Al massimo si può sperare che sia logico. La giustizia è una malattia rara in un mondo per il resto sano come un pesce.» «Amen. È questo che succede diventando grandi? Si smette di credere nelle cose, come lei?» «No. Via via che s'invecchia, la maggior parte della gente continua a credere a sciocchezze, generalmente sempre più grandi. Io vado controcorrente perché mi piace girarmi i pollici.» «Non ci giuri. Io quando sarò anziana continuerò a credere nelle cose» minacciò Isabella. «Buona fortuna.» «E inoltre credo in lei.» Non distolse lo sguardo quando la fissai. «Perché non mi conosci.» «Questo lo crede lei. Non è così misterioso come pensa.» «Non pretendo di essere misterioso.» «Era un sostituto amabile di antipatico. Anch'io conosco qualche trucco retorico.» «Questa non è retorica. È ironia. Sono cose diverse.» «Deve sempre averla vinta nelle discussioni?» «Quando mi rendono le cose così facili, sì.» «E quell'uomo, il suo principale...» «Corelli?» «Corelli. Le rende le cose facili?» «No. Corelli conosce molti più trucchi retorici di me.» «Mi sembrava. Si fida di lui?» «Perché me lo chiedi?» «Non so. Si fida?» «Perché non dovrei fidarmi?» Isabella si strinse nelle spalle. «Cos'è concretamente che le ha commissionato? Non me lo vuole dire?» «Te l'ho già detto. Vuole che scriva un libro per la sua casa editrice.» «Un romanzo?»
«Non esattamente. Piuttosto una favola. Una leggenda.» «Un libro per bambini?» «Qualcosa del genere.» «E lei lo farà?» «Paga molto bene.» Isabella aggrottò le sopracciglia. «Per questo scrive? Perché la pagano bene?» «A volte.» «E stavolta?» «Stavolta scriverò questo libro perché devo farlo.» «È in debito con lui?» «Si potrebbe dire così, suppongo.» Isabella soppesò la questione. Mi sembrò che stesse per dire qualcosa, ma ci pensò su e si morse le labbra. Invece mi rivolse un sorriso innocente e uno dei suoi sguardi angelicali con cui era capace di cambiare argomento in un battito di ciglia. «Anche a me piacerebbe essere pagata per scrivere» disse. «A chiunque scrive piacerebbe, ma questo non significa che ci riuscirà.» «E come ci si riesce?» «Si comincia scendendo in salotto, prendendo un foglio...» «Mettendo i gomiti sul tavolo e spremendosi le meningi fin quando fanno male. Già.» Mi guardò negli occhi, esitante. Era già una settimana e mezza che la tenevo in casa e non avevo fatto cenno di rimandarla dai suoi. Immaginai che si chiedesse quando l'avrei fatto o perché non l'avessi ancora fatto. Anch'io me lo chiedevo e non trovavo la risposta. «Mi piace essere la sua assistente, anche se lei è com'è» disse alla fine. La ragazza mi guardava come se la sua vita dipendesse da una parola gentile. Non resistetti alla tentazione. Le buone parole sono gesti di bontà vani che non esigono alcun sacrificio e sono più graditi di quelli pratici. «Anche a me piace che tu sia la mia assistente, Isabella, anche se sono come sono. E mi piacerà di più quando non ci sarà più bisogno che tu sia la mia assistente e non avrai più niente da imparare da me.» «Crede che ho qualche possibilità?» «Non ho alcun dubbio. Tra dieci anni tu sarai la maestra e io l'apprendista» dissi, ripetendo quelle parole che ancora mi sapevano di tradimento. «Bugiardo» disse baciandomi dolcemente sulla guancia per poi, subito dopo, uscire di corsa giù per le scale.
14 Nel pomeriggio lasciai Isabella alla scrivania che avevamo sistemato per lei in salotto, davanti ai fogli bianchi, e mi recai alla libreria di don Gustavo Barceló in calle Ferran con l'intenzione di procurarmi una buona e leggibile edizione della Bibbia. L'intero set di vecchi e nuovi testamenti di cui disponevo a casa era stampato in caratteri microscopici su carta velina semitrasparente, e la loro lettura, più che al fervore e all'ispirazione divini, induceva all'emicrania. Barceló, che tra molte altre cose era un pertinace collezionista di libri sacri e testi apocrifi cristiani, aveva un séparé nel retro della libreria con un formidabile assortimento di Vangeli, memorie di santi e beati e ogni tipo di testi religiosi. Quando mi vide entrare in libreria, uno dei dipendenti corse ad avvisare il proprietario nell'ufficio del retrobottega. Barceló emerse dal suo studio, euforico. «Che bel vedere. Sempere me l'aveva detto che lei era rinato, ma così è da antologia. Al suo fianco, Rodolfo Valentino sembra appena arrivato dalla campagna. Dove si era ficcato, mascalzone?» «Qui e là» dissi. «Dappertutto meno che al pranzo di nozze di Vidal. Ci è mancato, amico mio.» «Mi permetta di dubitarne.» Il libraio annuì, facendo intendere che veniva incontro al mio desiderio di non approfondire l'argomento. «Gradisce una tazza di tè?» «Anche due. E una Bibbia. Se possibile, maneggevole.» «Non sarà un problema» disse il libraio. «Dalmau!» Un commesso accorse sollecito all'appello. «Dalmau, all'amico Martín serve un'edizione della Bibbia di carattere non decorativo, ma leggibile. Pensavo a Torre Amat, 1825. Cosa gliene pare?» Una delle particolarità della libreria di Barceló era che vi si parlava di libri come di vini sopraffini, catalogando bouquet, aroma, corposità e anno di vendemmia. «Scelta eccellente, signor Barceló, sebbene io propenderei per la versione attualizzata e riveduta.» «1860?»
«1893.» «Naturalmente. Aggiudicata. La incarti all'amico Martín e la segni in conto alla casa.» «Assolutamente no» obiettai. «Il giorno che mi farò pagare per la Parola di Dio da un miscredente come lei, sarà il giorno in cui una saetta distruttrice mi fulminerà, e a ragione.» Dalmau partì spedito alla ricerca della mia Bibbia e io seguii Barceló nel suo ufficio, dove il libraio servì due tazze di tè e mi offrì un sigaro dall'umidificatore. Lo accettai e lo accesi alla fiamma di una candela che mi tendeva Barceló. «Macanudo?» «Vedo che si sta raffinando il palato. Un uomo deve avere qualche vizio, se possibile di classe, altrimenti quando arriva alla vecchiaia non ha nulla da cui redimersi. In effetti, le farò compagnia, che diamine.» Una nube di eccellente fumo di sigaro cubano ci ricoprì come l'alta marea. «Sono stato qualche mese fa a Parigi e ho avuto l'opportunità di fare indagini sul tema di cui ha parlato all'amico Sempere tempo addietro» spiegò Barceló. «Éditions de la Lumière.» «Esatto. Mi sarebbe piaciuto scoprire qualcosa di più, ma purtroppo da quando la casa editrice ha chiuso non sembra che qualcuno abbia acquisito il catalogo, ed è stato difficile tirare fuori grandi cose.» «Dice che ha chiuso? Quando?» «Millenovecentoquattordici, se la memoria non mi tradisce.» «Dev'esserci un errore.» «No, se parliamo delle Éditions de la Lumière, in boulevard St.Germain.» «Proprio quelle.» «Guardi, in realtà mi sono annotato tutto per non dimenticarmi quando ci saremmo visti.» Barceló cercò nel cassetto della scrivania e tirò fuori un piccolo quaderno di appunti. «Ecco qua: "Éditions de la Lumière, casa editrice di testi religiosi con uffici a Roma, Parigi, Londra e Berlino. Fondatore e direttore, Andreas Corelli. Anno di apertura della prima sede a Parigi, 1881".» «Impossibile» mormorai
Barceló si strinse nelle spalle. «Be', posso essermi sbagliato, però...» «Ha avuto modo di visitare gli uffici?» «In realtà ci ho provato, perché il mio albergo era di fronte al Pantheon, proprio lì vicino, e l'ex sede della casa editrice era sul lato sud del boulevard, fra rue St.-Jacques e boulevard St.-Michel.» «E allora?» «Il palazzo era vuoto e sbarrato, e sembrava ci fosse stato un incendio o qualcosa di simile. L'unica cosa intatta era il battente della porta, un pezzo davvero pregevole a forma di angelo. In bronzo, direi. Me lo sarei portato via se non fosse stato che un gendarme mi guardava di sottecchi e non ho avuto il coraggio di provocare un incidente diplomatico, non fosse mai che la Francia decidesse di invaderci di nuovo.» «Visto il panorama, forse ci facevano un favore.» «Ora che me lo dice... Ma tornando al punto, quando ho visto in quale stato era ridotto il palazzo sono andato a domandare al caffè di fianco e mi hanno detto che era così da più di vent'anni.» «È riuscito a sapere qualcosa dell'editore?» «Corelli? A quanto ho capito, la casa editrice ha chiuso quando lui ha deciso di ritirarsi, anche se non doveva avere nemmeno cinquant'anni. Credo si sia trasferito in una villa nel sud della Francia, nel Luberon, e che sia morto poco tempo dopo. Morso di serpente, si è detto. Una vipera. Si ritiri in Provenza, se vuole fare la stessa fine.» «È sicuro che sia morto?» «Père Coligny, un ex concorrente, mi ha fatto vedere il suo necrologio, che custodiva incorniciato come se fosse un trofeo. Ha detto che lo guardava ogni giorno per ricordarsi che quel maledetto bastardo era morto e sepolto. Le sue parole esatte, anche se in francese suonavano molto più belle e musicali.» «Coligny le ha detto se Corelli aveva qualche figlio?» «Ho avuto l'impressione che Corelli non fosse il suo argomento preferito e, appena ha potuto, Coligny ha glissato. C'era stato uno scandalo, pare, quando Corelli gli aveva rubato uno dei suoi autori, un certo Lambert.» «Cos'era successo?» «La cosa più divertente dell'affare è che Coligny non era mai nemmeno riuscito a vedere Corelli. Tutti i loro contatti si riducevano alla corrispondenza commerciale. Il nocciolo della questione, direi, era che, a quanto pare, monsieur Lambert aveva firmato un contratto per scrivere un libro per
le Éditions de la Lumière di nascosto da Coligny, per il quale lavorava in esclusiva. Lambert era un oppiomane terminale e aveva abbastanza debiti da lastricare rue Rivoli da un capo all'altro. Coligny sospettava che Corelli gli avesse offerto una somma astronomica e il poveretto, che stava morendo, aveva accettato perché voleva sistemare i figli.» «Che tipo di libro?» «Qualcosa di contenuto religioso. Coligny mi ha citato il titolo, un latinorum alla moda che adesso non mi viene in mente. Come sa, tutti i messali hanno un certo stile. Pax Gloria Mundi o qualcosa del genere.» «E cosa ne è stato del libro e di Lambert?» «Qui la questione si complica. A quanto pare, il povero Lambert, in un accesso di follia, voleva bruciare il manoscritto ed è rimasto tra le fiamme con tutta la casa editrice. Molti hanno pensato che l'oppio avesse finito per friggergli il cervello, ma Coligny sospettava che fosse stato Corelli a spingerlo al suicidio.» «Perché l'avrebbe fatto?» «Chissà! Forse non voleva corrispondergli la somma promessa. Forse sono fantasie di Coligny, che io definirei un appassionato di Beaujolais tutti e dodici i mesi dell'anno. Senza spingersi oltre, mi ha detto che Corelli aveva cercato di ucciderlo per liberare Lambert dal contratto e che l'aveva lasciato in pace solo quando lui aveva deciso di rescinderlo e di lasciare libero lo scrittore.» «Non ha detto che non l'aveva mai visto?» «A maggior ragione. Io credo che Coligny delirasse. Quando sono andato a trovarlo a casa sua, ho visto più crocifissi, madonne e immagini di santi che in un negozio di presepi. Ho avuto l'impressione che non avesse tutte le rotelle al loro posto. Nel salutarmi, mi ha detto di stare lontano da Corelli.» «Ma non aveva detto che era morto?» «Ecco qua 4 .» Rimasi in silenzio. Barceló mi guardava, intrigato. «Ho l'impressione che i risultati delle mie ricerche non le abbiano provocato grandi sorprese.» Abbozzai un sorriso noncurante, togliendo importanza alla questione. «Al contrario. La ringrazio per aver dedicato del tempo alle indagini.» «Di nulla. Per me è un piacere andare in giro per Parigi a spettegolare, lei mi conosce.» 4
In italiano nel testo.
Barceló strappò dal quadernetto la pagina con i dati che aveva annotato e me la diede. «Per quello che può servirle. Qui c'è tutto quello che ho potuto verificare.» Mi alzai e gli strinsi la mano. Mi accompagnò all'uscita, dove Dalmau mi aveva preparato il pacchetto. «Se vuole qualche immaginetta del Bambin Gesù che apre e chiude gli occhi a seconda da dove si guarda, abbiamo anche quelle. E un'altra con la Vergine circondata da agnellini che, facendola girare, si trasformano in cherubini paffuti. Un prodigio della tecnologia stereoscopica.» «Per il momento mi basta la parola rivelata.» «Così sia.» Ero grato agli sforzi del libraio per darmi coraggio, ma via via che mi allontanavo cominciò a invadermi una fredda inquietudine ed ebbi l'impressione che le strade e il mio destino fossero lastricati sulle sabbie mobili. 15 Sulla strada di casa mi fermai davanti alle vetrine di una cartoleria in calle Argenteria. Su un tessuto drappeggiato spiccava un astuccio che conteneva dei pennini con un'impugnatura di avorio in tono con un calamaio bianco su cui erano incise quelle che parevano muse o fate. L'insieme aveva un'aria un po' melodrammatica e sembrava rubato dalla scrivania di qualche romanziere russo, di quelli che si dissanguano con migliaia di pagine. Isabella aveva una calligrafia danzante che le invidiavo, limpida e pura come la sua coscienza, e mi parve che quel set di pennini portasse il suo nome. Entrai e chiesi al commesso di mostrarmelo. I pennini erano placcati in oro e lo scherzetto costava una piccola fortuna, ma decisi che non sarebbe stato eccessivo contraccambiare con un gesto gentile la cortesia e la pazienza che la mia giovane assistente mi dedicava. Chiesi di incartarlo con carta porpora brillante e con un fiocco della grandezza di una carrozza. Arrivato a casa mi preparai a gustare la soddisfazione egoistica di presentarsi con un regalo in mano. Stavo per chiamare Isabella come se fosse una mascotte fedele senza altro da fare se non attendere con devozione il ritorno del padrone, ma quello che vidi aprendo la porta mi lasciò a bocca aperta. Il corridoio era buio come un tunnel. La porta della stanza in fondo era aperta e proiettava sul pavimento una striscia di luce giallastra e palpi-
tante. «Isabella?» chiamai, la bocca secca. «Sono qui.» La voce proveniva dall'interno della stanza. Lasciai il pacchetto sul tavolino dell'ingresso e avanzai. Mi fermai sulla soglia e guardai dentro. Isabella era seduta a terra. Aveva messo una candela in un lungo bicchiere e si dedicava ansiosamente alla sua seconda vocazione dopo la letteratura: mettere ordine nelle case altrui. «Come sei entrata?» Mi guardò sorridente e si strinse nelle spalle. «Ero in salotto e ho sentito un rumore. Ho pensato che fosse lei di ritorno e quando sono uscita in corridoio ho visto la porta della stanza aperta. Mi sembrava che avesse detto che la teneva chiusa.» «Esci. Non mi piace che entri in questa stanza. È molto umida.» «Bella sciocchezza. Con tutto il lavoro che c'è da fare qui. Su, guardi. Guardi cosa ho trovato.» Esitai. «Entri, forza.» Entrai nella stanza e mi accovacciai accanto a lei. Isabella aveva separato gli oggetti e le casse per tipo: libri, giocattoli, fotografie, vestiti, scarpe, occhiali. Guardai tutti quegli oggetti con apprensione. Isabella sembrava incantata, come se avesse scoperto le miniere del re Salomone. «È tutta roba sua?» Scossi la testa. «È del vecchio proprietario.» «Lo conosceva?» «No. Era tutto qui da anni quando ho traslocato.» Isabella aveva fra le mani un pacchetto di lettere e me lo mostrò come se si trattasse di una prova istruttoria. «Credo di aver scoperto come sì chiamava.» «Non mi dire.» Isabella sorrise, chiaramente rapita dalle sue ambizioni da detective. «Marlasca» sentenziò. «Si chiamava Diego Marlasca. Non le sembra curioso?» «Cosa?» «Che le iniziali siano le stesse delle sue: D.M.» «È una semplice coincidenza. Decine di migliaia di persone in questa città hanno le stesse iniziali.»
Isabella mi strizzò l'occhio. Si divertiva come non mai. «Guardi cosa ho trovato.» Aveva recuperato una scatola di latta piena di vecchie foto. Erano immagini d'altri tempi, cartoline dell'antica Barcellona, dei palazzi abbattuti nel Parque de la Ciudadela per l'Esposizione Universale del 1888, di grandi casermoni distrutti e viali disseminati di persone vestite alla maniera cerimoniosa dell'epoca, di carri e memorie che avevano il colore della mia infanzia. Volti e sguardi perduti mi contemplavano da trent'anni di distanza. In parecchie di quelle fotografie mi sembrò di riconoscere il viso di un'attrice popolare nei miei anni di gioventù e caduta nell'oblio da molto tempo. Isabella mi osservava, silenziosa. «La riconosce?» domandò. «Mi sembra che si chiamasse Irene Sabino, credo. Era un'attrice di una certa fama nei teatri del Paralelo. Tanto tempo fa. Prima che tu nascessi.» «Allora guardi questa.» Isabella mi tese una fotografia in cui Irene Sabino appariva appoggiata a una finestra che non ci misi molto a identificare come quella del mio studio in cima alla torre. «Interessante, vero?» chiese Isabella. «Crede che vivesse qui?» Mi strinsi nelle spalle. «Forse era l'amante di quel Diego Marlasca...» «In ogni caso, non credo che siano affari nostri.» «Com'è sciocco, a volte.» Isabella rimise le foto nella scatola. Nel farlo, gliene scivolò una dalle mani. E cadde ai miei piedi. La raccolsi e la esaminai. Irene Sabino, con uno sfolgorante vestito nero, posava assieme a un gruppo di persone vestite da festa in quello che mi parve di riconoscere come il grande salone del Circulo Ecuestre. Era soltanto l'immagine di una festa che non avrebbe richiamato la mia attenzione se non fosse stato perché, in secondo piano, quasi sfocato, si distingueva un signore dai capelli bianchi in cima alla scalinata: Andreas Corelli. «È impallidito» disse Isabella. Mi prese la foto dalle mani e la esaminò senza dire nulla. Mi alzai e le feci segno di uscire dalla stanza. «Non voglio che entri mai più qui» dissi senza forze. «Perché?» Aspettai che uscisse e chiusi la porta. Isabella mi guardava come se non fossi del tutto in me.
«Domani avvisi le sorelle della carità e dici di passare a ritirare questa roba. Si portino via tutto, e quello che non vogliono lo buttino via.» «Ma...» «Non discutere.» Non volevo affrontare il suo sguardo e mi diressi verso le scale che salivano allo studio. Isabella mi fissava dal corridoio. «Chi è quell'uomo, signor Martín?» «Nessuno» mormorai. «Nessuno.» 16 Salii nello studio. Era notte alta, senza luna né stelle in cielo. Spalancai le finestre e mi affacciai a guardare la città immersa nell'ombra. C'era appena un soffio di brezza e il sudore mordeva la pelle. Mi sedetti sul davanzale e accesi il secondo dei sigari che Isabella mi aveva lasciato sulla scrivania giorni prima, in attesa di un alito di vento fresco o di un'idea un po' più presentabile di quella collezione di luoghi comuni con cui portare a compimento l'incarico del mio principale. Sentii allora il rumore delle imposte della camera da letto di Isabella che si aprivano al piano di sotto. Un rettangolo di luce si allargò sul cortile e vidi il suo profilo stagliarsi all'interno. Isabella si avvicinò alla finestra e scrutò nell'ombra senza avvertire la mia presenza. La guardai spogliarsi lentamente. La vidi andare allo specchio dell'armadio ed esaminare il suo corpo, accarezzarsi il ventre con i polpastrelli e percorrere i tagli che si era procurata nella parte interna delle cosce e delle braccia. Si contemplò a lungo, senza altro indumento se non uno sguardo sconfitto, e poi spense la luce. Tornai alla scrivania e mi sedetti davanti alla pila di appunti e note che avevo raccolto per il libro del mio principale. Riesaminai quegli abbozzi di storie zeppe di rivelazioni mistiche e di profeti che sopravvivevano a prove tremende e ritornavano con la verità rivelata, di neonati messianici abbandonati sulla porta di famiglie umili e pure di cuore perseguitati da imperi laici e malefici, di paradisi promessi in altre dimensioni a quanti accettassero sportivamente il proprio destino e le regole del gioco, e di divinità oziose e antropomorfe, senza nulla di meglio da fare che mantenere una sorveglianza telepatica sulla coscienza di milioni di fragili primati che avevano imparato a pensare giusto in tempo per scoprirsi abbandonati alla propria sorte in un angolo remoto dell'universo, e la cui vanità, o disperazione, li portava a credere a occhi chiusi che cielo e inferno non facessero
altro che pensare ai loro volgari e meschini peccatucci. Mi domandai se non fosse proprio quello ciò che il mio principale aveva visto in me, una mente mercenaria e priva di scrupoli per elaborare un racconto narcotizzante capace di mandare a letto i bambini o di convincere un povero diavolo senza speranze ad assassinare il suo vicino in cambio della gratitudine eterna di divinità che condividevano l'etica dei pistoleri. Giorni prima era arrivata un'altra di quelle missive con cui il principale mi dava appuntamento per discutere sui progressi del mio lavoro. Stanco dei miei stessi scrupoli, mi dissi che mancavano solo ventiquattr'ore all'appuntamento e che, alla velocità con cui procedevo, mi sarei presentato a mani vuote e con la testa piena di dubbi e sospetti. Non avendo alternative, feci quello che avevo fatto per tanti anni in situazioni simili. Misi un foglio nella Underwood e, con le mani sulla tastiera come un pianista in attesa dell'attacco, cominciai a spremermi le meningi, per vedere cosa ne sarebbe uscito. 17 «Interessante» disse il principale quando finì la decima e ultima pagina. «Strano, ma interessante.» Eravamo seduti su una panchina nelle tenebre dorate del pergolato del Parque de la Ciudadela. Una volta di foglie filtrava la luce fino a ridurla a polvere d'oro, e un orto botanico scolpiva i chiaroscuri di quella strana penombra luminosa che ci circondava. Accesi una sigaretta e guardai il fumo salire dalle mie dita in volute azzurrate. «Detto da lei, strano è un aggettivo inquietante» osservai. «Mi riferivo a strano in opposizione a ordinario» precisò Corelli. «Ma?» «Non ci sono ma, amico mio. Credo che lei abbia imboccato una strada interessante e con molte possibilità.» Per un romanziere, quando gli dicono che qualcuna delle sue pagine è interessante e ha delle possibilità è segno che le cose non vanno bene. Corelli sembrò leggere la mia inquietudine. «Lei ha girato intorno alla questione. Invece di risalire ai riferimenti mitologici, ha iniziato dalle fonti più prosaiche. Posso chiederle dove ha preso l'idea di un messia guerriero invece che pacifico?» «Lei ha citato la biologia.» «Tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere è scritto nel grande libro della
natura. Basta avere coraggio e lucidità di mente e di spirito per leggerlo» convenne Corelli. «Uno dei libri che ho consultato spiegava che nell'essere umano il maschio raggiunge il punto critico di fertilità a diciassette anni. La donna lo raggiunge dopo, e lo mantiene, e in qualche modo agisce da selettore e giudice dei geni che accetta di riprodurre e di quelli che rifiuta. Il maschio, invece, semplicemente propone e si consuma molto più in fretta. L'età in cui raggiunge la massima potenza riproduttiva è quella in cui il suo spirito combattivo è al suo punto critico. Un ragazzo è il soldato perfetto. Possiede un grande potenziale di aggressività e una scarsa o nulla capacità critica per analizzarlo e decidere come incanalarlo. Nel corso della storia, numerose società hanno trovato il modo di impiegare questo capitale di aggressività e hanno trasformato in soldati gli adolescenti, carne da cannone con cui sottomettere i vicini o difendersi dai loro attacchi. Qualcosa mi diceva che il nostro protagonista era un inviato dei cieli, ma nella prima parte della sua giovinezza si sollevava in armi e liberava la verità a colpi di spada.» «Ha deciso di mescolare la storia con la biologia, Martín?» «Dalle sue parole mi era sembrato di capire che erano una cosa sola.» Corelli sorrise. Non so se ne fosse consapevole, ma quando lo faceva sembrava un lupo affamato. Deglutii e ignorai quell'espressione che faceva venire la pelle d'oca. «Ci ho pensato e mi sono reso conto che la maggior parte delle grandi religioni ha tratto origine, o ha raggiunto il proprio punto critico di espansione e influenza, nei momenti storici in cui le società che le adottavano avevano una base demografica più giovane e impoverita. Società nelle quali il settanta per cento della popolazione aveva meno di diciotto anni, e la metà erano maschi adolescenti con le vene ardenti di aggressività e impulsi fertili, terreno propizio all'accettazione e al rigoglio della fede.» «È una semplificazione, ma capisco dove vuole andare a parare, Martín.» «Lo so. Ma tenendo conto di queste linee generali mi sono chiesto perché non andare dritto al nocciolo della questione ed elaborare una mitologia intorno a questo messia guerriero, di sangue e rabbia, che salva il suo popolo, i suoi geni, le sue donne e i suoi anziani, garanti del dogma politico e razziale, dai nemici, vale a dire da tutti coloro che non accettano o non si sottomettono alla sua dottrina.» «E gli adulti?» «All'adulto arriveremo facendo appello alla sua frustrazione. A mano a
mano che la vita avanza e che bisogna rinunciare alle illusioni, ai sogni e ai desideri della gioventù, aumenta la sensazione di essere vittima del mondo e degli altri. Troviamo sempre qualche colpevole della nostra sventura o del nostro fallimento, qualcuno che vogliamo escludere. Abbracciare una dottrina che renda positivo questo rancore e questo vittimismo è consolante e dà forza. L'adulto si sente così parte del gruppo e sublima i propri desideri e i propri aneliti perduti attraverso la comunità.» «Forse» concesse Corelli. «E tutta quell'iconografia della morte e di bandiere e scudi? Non le sembra controproducente?» «No. Mi sembra essenziale. L'abito fa il monaco, ma soprattutto il fedele.» «E cosa mi dice delle donne, dell'altra metà? Mi dispiace, ma faccio fatica a immaginare che una parte sostanziale delle donne di una società creda a bandierine e scudi. La psicologia del boy scout è una cosa da maschietti.» «Ogni religione organizzata, con scarse eccezioni, ha come pilastro fondamentale il soggiogamento, la repressione e l'annullamento della donna nel gruppo. La donna deve accettare il ruolo di presenza eterea, passiva e materna, mai quello di autorità o di indipendenza, oppure ne paga le conseguenze. Può avere un posto d'onore tra i simboli, ma non nella gerarchia. La religione e la guerra sono affari maschili. E, comunque, la donna finisce a volte per diventare complice ed esecutrice del suo stesso soggiogamento.» «E i vecchi?» «La vecchiaia è la vaselina della credulità. Quando la morte bussa alla porta, lo scetticismo salta dalla finestra. Una bella crisi cardiovascolare e si crede pure a Cappuccetto Rosso.» Corelli rise. «Attento, Martín, mi sembra che stia diventando più cinico di me.» Lo guardai come se fossi un alunno docile e ansioso di ottenere l'approvazione di un maestro difficile ed esigente. Corelli mi batté la mano sul ginocchio, annuendo compiaciuto. «Mi piace. Mi piace il profumo di tutto questo. Voglio che ci ragioni su e gli dia una forma. Le concederò più tempo. Ci incontreremo fra due o tre settimane. L'avviserò con qualche giorno di anticipo.» «Deve lasciare la città?» «Questioni della casa editrice mi reclamano e temo di avere davanti qualche giorno di viaggio. Ma parto contento. Ha fatto un buon lavoro.
Sapevo di aver trovato il mio candidato ideale.» Il principale si alzò e mi tese la mano. Mi asciugai sui pantaloni il sudore che mi inzuppava il palmo e gliela strinsi. «Ci mancherà» improvvisai. «Non esageri, Martín, stava andando benissimo.» Lo vidi andar via nelle tenebre del pergolato, mentre l'eco dei suoi passi svaniva nell'ombra. Rimasi lì ancora un bel po', chiedendomi se il principale avesse abboccato all'amo e si fosse bevuto il mucchio di menzogne che gli avevo appena rifilato. Ero sicuro di avergli raccontato esattamente quello che voleva sentirsi dire. Speravo che così fosse e che quella sfilza di spropositi lo avesse soddisfatto per il momento e convinto che il sottoscritto, l'infelice romanziere fallito, si era convertito al movimento. Pensai che qualunque cosa potesse farmi guadagnare un po' di tempo per capire dove mi fossi infilato valeva il tentativo. Quando mi alzai e lasciai il pergolato, mi tremavano ancora le mani. 18 Anni di esperienza nella scrittura di trame poliziesche forniscono una serie di princìpi di base da cui iniziare un'indagine. Uno di questi è che quasi tutti gli intrecci abbastanza solidi, inclusi quelli passionali, nascono e muoiono in mezzo all'odore dei soldi e delle proprietà immobiliari. Uscendo dal pergolato mi diressi all'ufficio del Registro in calle del Consejo de Ciento e chiesi di consultare i volumi in cui si faceva riferimento all'acquisto, alla vendita e alla proprietà della mia casa. I tomi dell'ufficio del Registro contengono quasi altrettante informazioni sulla realtà della vita quanto le opere complete dei più prestigiosi filosofi, o forse di più. Iniziai a consultare la sezione che conteneva la pratica di affitto a mio nome dell'immobile ubicato al numero 30 di calle Flassaders. Lì trovai le indicazioni necessarie per passare al setaccio la storia dell'edificio prima dell'acquisizione della proprietà da parte del Banco Hispano Colonial nel 1911 nel quadro di un procedimento di sequestro nei confronti della famiglia Marlasca, che a quanto pareva aveva ereditato l'immobile alla morte del proprietario. Lì si menzionava un avvocato chiamato S. Valera, che aveva agito come rappresentante della famiglia nel corso della causa. Un nuovo salto nel passato mi permise di scoprire le informazioni sull'acquisto della villa da parte di don Diego Marlasca Pongiluppi nel 1902 da un certo Bernabé Massot y Caballé. Annotai su un foglio a parte tutti i dati, dal no-
me dell'avvocato ai partecipanti alle transazioni e alle rispettive date. Uno degli impiegati avvisò a voce alta che mancavano quindici minuti alla chiusura e mi preparai ad andarmene, ma prima mi affrettai a consultare lo stato della proprietà della residenza di Andreas Corelli vicino al Park Güell. Trascorsi i quindici minuti, e senza avere avuto successo nelle mie ricerche, sollevai gli occhi dal volume del registro per incontrare lo sguardo cinereo del segretario. Era un tipo smunto, lucido di brillantina dai capelli ai baffi e stillava quell'inerzia polemica tipica di chi fa del proprio lavoro una tribuna da cui ostacolare la vita degli altri. «Mi scusi. Non riesco a trovare una proprietà» dissi. «Sarà perché non esiste o perché non sa cercare. Per oggi abbiamo chiuso.» Risposi a quello sfoggio di amabilità ed efficienza con il mio migliore sorriso. «Forse con l'aiuto di un esperto come lei riesco a trovarla» suggerii. Mi rivolse uno sguardo schifato e mi strappò il volume dalle mani. «Torni domani.» La mia sosta successiva fu al cerimonioso palazzo dell'ordine degli avvocati in calle Mallorca, a poche traverse da lì. Salii le scale sorvegliate da lampadari di cristallo e da quella che mi parve una scultura della giustizia con busto e atteggiamento da diva del Paratelo. Un ometto dall'aspetto da topo mi ricevette in segreteria con un sorriso affabile e mi chiese in che cosa poteva aiutarmi. «Cerco un avvocato.» «È capitato nel posto giusto. Qui non sappiamo più come toglierceli di dosso. Ce ne sono ogni giorno di più. Si riproducono come conigli.» «È il mondo moderno. Quello che cerco si chiama, o si chiamava, Valera, S. Valera.» L'ometto si smarrì in un labirinto di schedari, mormorando sottovoce. Aspettai appoggiato al banco, lasciando scorrere lo sguardo su quell'arredamento impregnato del peso contundente della legge. Cinque minuti dopo, l'ometto tornò con una cartellina. «Mi risultano dieci Valera. Due con la esse. Sebastián e Soponcio.» «Soponcio?» «Lei è molto giovane, ma anni fa era un nome quotato e idoneo all'esercizio della professione legale. Poi è arrivato il charleston e ha rovinato tutto.» «È vivo don Soponcio?»
«Secondo l'archivio e la cessazione dei pagamenti della quota dell'ordine, Soponcio Valera y Menacho fu ricevuto nella gloria di nostro Signore nell'anno 1919. Memento mori. Sebastián è il figlio.» «In esercizio?» «Costante e pieno. Intuisco che lei vorrà l'indirizzo.» «Se non è troppo disturbo.» L'ometto me l'annotò su un foglietto e me lo diede. «Diagonal 422. È a un tiro di schioppo da qui, anche se sono già le due e a quest'ora gli avvocati di grido portano a pranzo ricche eredi vedove o fabbricanti di tessuti e di esplosivi. Io aspetterei le quattro.» Misi l'indirizzo nella tasca della giacca. «Farò così. Moltissime grazie per il suo aiuto.» «Siamo qui per questo. Che Dio l'accompagni.» Mi restavano un paio d'ore da perdere prima di fare visita all'avvocato Valera, così presi un tram fino a via Layetana e scesi all'altezza di calle Condal. La libreria di Sempere e Figli era a un passo da lì e sapevo per esperienza che il vecchio libraio, contravvenendo alla prassi immutabile del commercio locale, non chiudeva a mezzogiorno. Lo trovai, come sempre, al bancone, a sistemare libri e a servire un nutrito gruppo di clienti che passeggiavano fra i tavoli e gli scaffali alla caccia di qualche tesoro. Sorrise vedendomi e si avvicinò per salutarmi. Era più magro e pallido dell'ultima volta che ci eravamo visti. Dovette leggere la preoccupazione nel mio sguardo perché si strinse nelle spalle e fece un gesto come per togliere importanza alla questione. «Chi tanto e chi niente. Lei è diventato un figurino e io un rottame, ha visto?» disse. «Sta bene?» «Io, come una rosa. È la maledetta angina. Nulla di serio. Cosa la porta da queste parti, Martín, amico mio?» «Pensavo di invitarla a pranzo.» «La ringrazio, ma non posso lasciare il timone. Mio figlio se n'è andato a Sarrià a valutare una collezione e gli affari non vanno tanto bene da chiudere quando ci sono clienti per la strada.» «Non mi dica che avete problemi di soldi.» «Questa è una libreria, Martín, non uno studio di notaio. Qui la scrittura dà appena il necessario, e a volte nemmeno quello.» «Se ha bisogno di aiuto...»
Sempere mi fermò alzando la mano. «Se vuole aiutarmi, compri qualche libro.» «Lei sa che il debito che ho nei suoi confronti non si paga con il denaro.» «Ragione di più perché non le passi neanche per la testa. Non si preoccupi per noi, Martín, da qui non ci cacceranno se non in una cassa di pino. Ma se vuole può dividere con me un succulento pranzo a base di pane con l'uvetta e formaggio fresco di Burgos. Con questo e un Montecristo si può sopravvivere cent'anni.» 19 Sempere quasi non toccò cibo. Sorrideva stancamente e fingeva interesse per i miei commenti, ma si vedeva che a tratti gli costava fatica respirare. «Mi racconti, Martín, a cosa sta lavorando?» «Difficile da spiegare. Un libro su commissione.» «Romanzo?» «Non esattamente. Non saprei bene come definirlo.» «L'importante è che stia lavorando. L'ho sempre detto che l'ozio rammollisce lo spirito. Bisogna tenere il cervello occupato. E se non si ha cervello, almeno le mani.» «Però a volte si lavora più del dovuto, signor Sempere. Non dovrebbe prendersi un po' di respiro? Da quanti anni è qui in prima linea senza fermarsi mai?» Sempere si guardò attorno. «Questo posto è la mia vita, Martín. Dove potrei andare? Su una panchina del parco al sole a dar da mangiare ai piccioni e a lamentarmi dei reumatismi? Morirei in dieci minuti. Il mio posto è qui. E mio figlio non è ancora pronto per prendere le redini, anche se lo pensa.» «Ma è un buon lavoratore. E una brava persona.» «Troppo una brava persona, detto tra noi. A volte lo guardo e mi domando cosa ne sarà di lui il giorno in cui verrò a mancare. Come se la caverà...» «Tutti i padri fanno così, signor Sempere.» «Anche il suo? Mi scusi, non volevo...» «Non si preoccupi. Mio padre aveva già abbastanza grattacapi per conto suo per caricarsi addosso anche quelli che gli davo io. Suo figlio sa cavar-
sela meglio di quanto lei creda.» Sempere mi guardava, esitante. «Sa cosa credo gli manchi?» «Malizia?» «Una donna.» «Non gli mancheranno le fidanzate, con tutte le tortorelle che si affollano davanti alle vetrine per ammirarlo.» «Io parlo di una donna vera, di quelle che ti fanno essere quello che devi essere.» «È ancora giovane. Lasci che si diverta qualche anno.» «Questa è buona. Se almeno si divertisse. Io alla sua età, se avessi avuto quel coro di ragazze, avrei peccato come un cardinale.» «Dio dà il pane a chi non ha i denti.» «Ecco cosa gli manca: denti. E voglia di mordere.» Mi sembrò che qualcosa ronzasse in testa al libraio. Mi guardava e sorrideva. «Forse lei può aiutarlo...» «Io?» «Lei è un uomo di mondo, Martín. E non mi guardi così. Sicuro che, se si applica, gli trova una brava ragazza, a mio figlio. Il viso carino già ce l'ha. Il resto glielo insegna lei.» Rimasi senza parole. «Non voleva aiutarmi?» chiese il libraio. «Ecco qua.» «Io parlavo di soldi.» «E io parlo di mio figlio, del futuro di questa casa. Di tutta la mia vita.» Sospirai. Sempere mi prese la mano e strinse con la poca forza che gli rimaneva. «Mi prometta che non mi lascerà andar via da questo mondo senza vedere mio figlio sistemato con una donna di quelle per cui vale la pena morire. E che mi dia un nipote.» «Se lo sapevo, mi fermavo a pranzare al caffè Novedades.» Sempere sorrise. «A volte penso che sarebbe dovuto essere lei mio figlio, Martín.» Guardai il libraio, più fragile e vecchio che mai, appena un'ombra dell'uomo forte e imponente dei miei ricordi d'infanzia tra quei muri, e sentii il mondo crollare ai miei piedi. Mi avvicinai a lui e, prima di rendermene conto, feci quello che non avevo mai fatto da quando lo conoscevo. Gli diedi un bacio su quella fronte punteggiata di macchie e coronata da quat-
tro capelli grigi. «Me lo promette?» «Glielo prometto» gli dissi, avviandomi verso l'uscita. 20 Lo studio dell'avvocato Valera occupava il piano alto di uno stravagante edificio modernista incassato al numero 442 dell'avenida Diagonal, a un passo dall'angolo con Paseo de Gracia. La proprietà, in mancanza di migliori definizioni, sembrava un incrocio fra un gigantesco orologio a carillon e un vascello pirata, dotato di grandiosi finestroni e con un tetto a mansarda verde. In qualunque altro luogo della Terra, quella struttura barocca e bizantina sarebbe stata proclamata una delle sette meraviglie del mondo o un aborto diabolico, opera di qualche artista pazzo posseduto da spiriti dell'aldilà. Nell'Ensanche di Barcellona, dove esemplari simili spuntavano dappertutto come trifogli dopo la pioggia, a stento riusciva a far sollevare un sopracciglio. Avanzai nell'atrio e scoprii un ascensore che mi fece pensare a quello che avrebbe lasciato al suo passaggio un grande ragno tessitore di cattedrali invece che di tele. Il portiere mi aprì la cabina e m'imprigionò in quella strana capsula che iniziò a salire lungo la parte centrale della scalinata. Una segretaria dall'aria severa mi aprì la porta di rovere intagliata e mi fece cenno di entrare. Le dissi il mio nome e spiegai che non avevo preso appuntamento, ma che ero lì per una questione legata alla compravendita di un immobile del quartiere della Ribera. Qualcosa cambiò nel suo sguardo imperturbabile. «La casa della torre?» chiese. Annuii. La segretaria mi guidò verso un ufficio deserto e mi invitò a entrare. Intuii che non era la sala d'attesa ufficiale. «Aspetti un momento, per favore, signor Martín. Avverto l'avvocato.» Passai i successivi quarantacinque minuti in quell'ufficio, circondato da scaffali stipati di volumi grandi come lapidi funerarie, con iscrizioni sui dorsi del tipo "1888-1889, B.C.A. Sezione prima. Titolo secondo" che invitavano alla lettura compulsiva. L'ufficio aveva un ampio finestrone sulla Diagonal dal quale si poteva contemplare tutta la città. I mobili odoravano di legno pregiato stagionato e macerato nel denaro. Tappeti e poltrone di pelle suggerivano un'atmosfera da club britannico. Cercai di sollevare una delle lampade che dominavano la scrivania e calcolai che doveva pesare
non meno di trenta chili. Un grande dipinto a olio appeso sopra un camino mai acceso mostrava la tronfia ed espansiva presenza di qualcuno che non poteva essere altri che l'ineffabile don Soponcio Valera y Menacho. Il titanico leguleio sfoggiava favoriti e baffi che assomigliavano alla criniera di un vecchio leone, e gli occhi, di fuoco e acciaio, dominavano dall'aldilà ogni angolo della stanza con la gravità di una sentenza di morte. «Non parla, ma se ci si ferma a guardare il quadro per un po' sembra sul punto di farlo da un momento all'altro» disse la voce alle mie spalle. Non l'avevo sentito entrare. Sebastián Valera era un uomo dal passo discreto che sembrava aver trascorso gran parte della vita cercando di trascinarsi fuori dall'ombra di suo padre e che adesso, a cinquant'anni e rotti, si era stancato di provarci. Il suo sguardo intelligente e penetrante proteggeva quell'atteggiamento raffinato che possiedono solo le principesse reali e gli avvocati davvero cari. Mi tese la mano e gliela strinsi. «Mi dispiace averla fatta attendere, ma non aspettavo la sua visita» disse, invitandomi a sedere. «Al contrario. La ringrazio per la cortesia di ricevermi.» Valera sorrideva come può farlo soltanto chi conosce e fissa il prezzo di ogni minuto. «La segretaria mi dice che il suo nome è David Martín. David Martín, lo scrittore?» La mia faccia sorpresa dovette smascherarmi. «Vengo da una famiglia di grandi lettori» spiegò. «In cosa posso esserle utile?» «Vorrei informazioni sulla compravendita di una proprietà ubicata in...» «La casa della torre?» interruppe l'avvocato, cortese. «Sì.» «La conosce?» «Ci abito.» Valera mi guardò a lungo senza abbandonare il sorriso. Si raddrizzò sulla sedia e adottò un atteggiamento chiuso e teso. «Lei è l'attuale proprietario?» «In realtà, vi risiedo come affittuario.» «E cosa vorrebbe sapere, signor Martín?» «Vorrei conoscere, se possibile, i dettagli dell'acquisizione dell'immobile da parte del Banco Hispano Colonial e procurarmi qualche informazione sul vecchio proprietario.» «Don Diego Marlasca» mormorò l'avvocato. «Posso chiederle la natura
del suo interesse?» «Scrupolosità. Recentemente, nel corso di una ristrutturazione della villa, ho trovato una serie di oggetti che credo gli appartengano.» L'avvocato aggrottò le sopracciglia. «Oggetti?» «Un libro. O, più propriamente, un manoscritto.» «Il signor Marlasca era un grande appassionato di letteratura. In realtà, era autore di numerosi libri di diritto e anche di storia e di altri argomenti. Un grande erudito. E un grand'uomo, anche se alla fine della sua vita ci fu chi cercò di infangarne la reputazione.» L'avvocato notò la meraviglia sulla mia faccia. «Presumo che non sia al corrente delle circostanze della morte del signor Marlasca.» «Temo di no.» Valera sospirò come se fosse incerto se continuare a parlare. «Non ne scriverà, vero? E non scriverà nemmeno di Irene Sabino?» «No.» «Ho la sua parola?» Annuii. Valera si strinse nelle spalle. «Del resto, non potrei nemmeno dirle cose che non siano già state dette all'epoca» mormorò, più rivolto a se stesso che a me. L'avvocato guardò brevemente il ritratto del padre e poi posò gli occhi su di me. «Diego Marlasca era il socio e il miglior amico di mio padre. Insieme fondarono questo studio. Il signor Marlasca era molto brillante. Purtroppo, era anche un uomo complesso, che soffriva di lunghi periodi di malinconia. Arrivò un momento in cui lui e mio padre decisero di sciogliere i loro vincoli. Il signor Marlasca lasciò la professione per consacrarsi alla sua prima vocazione: la scrittura. Dicono che quasi tutti gli avvocati desiderino in segreto lasciare l'avvocatura e diventare scrittori...» «Fin quando mettono a confronto i guadagni.» «Il fatto è che don Diego aveva avviato un rapporto di amicizia con un'attrice che godeva all'epoca di una certa popolarità, Irene Sabino, per la quale voleva scrivere un dramma. Non c'era altro. Il signor Marlasca era un gentiluomo e non fu mai infedele alla moglie, ma lei sa com'è la gente... Pettegolezzi. Chiacchiere e gelosie. Fatto sta che si sparse la voce che don Diego intrattenesse una relazione illecita con Irene Sabino. Sua moglie non
glielo perdonò e la coppia si separò. Il signor Marlasca, distrutto, acquistò la casa della torre e vi si trasferì. Per disgrazia, ci viveva da nemmeno un anno quando morì in uno sfortunato incidente.» «Che tipo di incidente?» «Morì annegato. Una tragedia.» Valera aveva abbassato gli occhi e parlava in un sospiro. «E lo scandalo?» «Diciamo che certe lingue viperine vollero far credere che il signor Marlasca si fosse suicidato dopo aver sofferto una delusione amorosa con Irene Sabino.» «E andò così?» Valera si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi. «Se vuole che le dica la verità, non lo so. Non lo so e non m'importa. Il passato è passato.» «E che ne è stato di Irene Sabino?» Valera si rimise gli occhiali. «Credevo che il suo interesse si limitasse al signor Marlasca e ai dettagli della compravendita.» «Pura curiosità. Tra i suoi effetti personali ho trovato numerose fotografie di Irene Sabino, e lettere dell'attrice al signor Marlasca...» «Dove vuole arrivare con tutto questo?» sbottò Valera. «Vuole soldi?» «No.» «Ne sono contento, perché nessuno gliene darà. La questione non interessa più. Ha capito?» «Perfettamente, signor Valera. Non intendevo importunarla né fare insinuazioni fuori luogo. Mi dispiace di averla offesa con le mie domande.» L'avvocato sorrise e si lasciò sfuggire un sospiro gentile, come se la conversazione fosse ormai finita. «Non ha importanza. Mi scusi lei.» Approfittando della sua vena conciliatrice, adottai la mia espressione più dolce. «Forse donna Alicia Marlasca, la vedova...» Valera si rannicchiò nella poltrona, visibilmente a disagio. «Signor Martín, non vorrei essere frainteso, ma rientra nei miei doveri di avvocato della famiglia proteggerne l'intimità. Per ovvi motivi. È passato molto tempo, ma non vorrei che ora si riaprissero vecchie ferite che non portano da nessuna parte.» «Mi rendo conto.»
L'avvocato mi osservava, teso. «E ha detto di aver trovato un libro?» domandò. «Sì... Un manoscritto. Probabilmente non ha importanza.» «Probabilmente no. Di cosa tratta?» «Teologia, direi.» Valera annuì. «La sorprende?» chiesi. «No. Al contrario. Don Diego era un'autorità in storia delle religioni. Un saggio. Qui lo ricordiamo ancora con grande affetto. Mi dica, quali aspetti concreti della compravendita voleva approfondire?» «Credo che mi abbia già aiutato molto, signor Valera. Non vorrei rubarle altro tempo.» L'avvocato annuì, sollevato. «È la casa, vero?» «È un posto strano, sì» convenni. «Ricordo di esserci stato una volta da giovane, poco dopo che l'aveva comprata don Diego.» «Sa perché la comprò?» «Disse che ne era affascinato fin da ragazzo e di avere sempre pensato che gli sarebbe piaciuto viverci. Don Diego era fatto così. A volte sembrava un ragazzino capace di dare tutto in cambio di una semplice illusione.» Non dissi nulla. «Si sente bene?» «Perfettamente. Sa qualcosa del proprietario da cui la comprò il signor Marlasca? Un certo Bernabé Massot?» «Un americano. Non ci ha passato nemmeno un'ora. La comprò quando tornò da Cuba e la tenne vuota per diversi anni. Non disse mai perché. Abitava in una villa che si era fatto costruire ad Arenys de Mar. La vendette per quattro soldi. Non voleva saperne più nulla.» «E prima di lui?» «Credo che ci vivesse un sacerdote. Un gesuita. Non ne sono sicuro. Era mio padre a gestire gli affari di don Diego e, alla sua morte, distrusse tutti gli archivi.» «Perché fece una cosa del genere?» «Per tutto quello che le ho raccontato. Per evitare pettegolezzi e preservare la memoria del suo amico, suppongo. In realtà non me l'ha mai detto. Mio padre non era abituato a fornire spiegazioni dei suoi atti. Avrà avuto i suoi motivi. Motivi validi, senza alcun dubbio. Don Diego era stato un
buon amico, oltre che socio, e quella vicenda fu molto dolorosa per mio padre.» «Cosa ne è stato del gesuita?» «Credo avesse problemi disciplinari con l'ordine. Era amico di monsignor Cinto Verdaguer e mi pare che fu implicato in qualcuno dei suoi guai, sa...» «Esorcismi?» «Pettegolezzi.» «Come può un gesuita espulso dall'ordine permettersi una casa del genere?» Valera si strinse di nuovo nelle spalle e dedussi di essere arrivato al fondo del barile. «Mi piacerebbe poterla aiutare di più, signor Martín, ma non so come. Mi creda.» «Grazie per il suo tempo, signor Valera.» Annuì e premette un campanello sulla scrivania. La segretaria che mi aveva ricevuto comparve sulla porta. Valera mi offrì la mano e gliela strinsi. «Il signor Martín va via. Accompagnalo, Margarita.» La segretaria mi fece strada. Prima di uscire mi girai per guardare l'avvocato, accasciato sotto il ritratto del padre. Seguii Margarita fino alla porta e proprio quando stava per chiuderla le rivolsi il più innocente dei miei sorrisi. «Mi scusi. L'avvocato Valera mi ha dato prima l'indirizzo della signora Marlasca, ma adesso che ci penso non sono sicuro di ricordare il numero civico...» Margarita sospirò, ansiosa di liberarsi di me. «È il tredici. Carretera de Vallvidrera, numero tredici.» «Certo.» «Arrivederci» disse Margarita. Prima che potessi rispondere al suo saluto, la porta mi si chiuse in faccia con la solennità e la gravità di un santo sepolcro. 21 Tornando alla casa della torre, imparai a vedere con altri occhi quello che era stato il mio focolare e il mio carcere per troppi anni. Entrai dal portone con la sensazione di attraversare le fauci di un essere di pietra e om-
bra. Salii le scale come se mi addentrassi nelle sue viscere e aprii la porta di casa per ritrovarmi in quel lungo corridoio buio che si perdeva nella penombra e che, per la prima volta, mi parve l'anticamera di una mente sospettosa e avvelenata. In fondo, nel fulgore scarlatto del crepuscolo che trapelava dal salotto, si stagliava la figura di Isabella che avanzava verso di me. Chiusi la porta e accesi la luce dell'ingresso. Isabella si era vestita come una signorina raffinata, i capelli raccolti e un trucco che la facevano sembrare una donna con dieci anni in più. «Sei molto bella ed elegante» dissi freddamente. «Quasi come una ragazza della sua età, vero? Le piace il vestito?» «Dove l'hai preso?» «Era in un baule nella stanza in fondo. Credo che fosse di Irene Sabino. Come le sembra? Non mi sta d'incanto?» «Ti avevo detto di avvisare perché venissero a prendere tutto.» «E l'ho fatto. Stamattina sono andata in parrocchia a chiedere e mi hanno detto che loro non possono venire a ritirare niente, ma che possiamo portarlo noi.» La guardai senza dire nulla. «È la verità» disse lei. «Toglitelo e rimettilo dove l'hai trovato. E lavati la faccia. Sembri...» «Una qualunque?» terminò la frase Isabella. Scossi la testa, sospirando. «No. Tu non potresti mai sembrare una qualunque, Isabella.» «Certo. Per questo le piaccio così poco» mormorò voltandosi e dirigendosi verso la sua camera. «Isabella» chiamai. Mi ignorò ed entrò nella stanza. «Isabella» ripetei, alzando la voce. Mi indirizzò uno sguardo ostile e sbatté la porta. Sentii che iniziava a spostare cose in camera da letto e mi avvicinai. Bussai. Nessuna risposta. Bussai di nuovo. Aprii e la trovai che piegava le quattro cose che aveva portato con sé e le metteva nella sua borsa. «Cosa stai facendo?» chiesi. «Me ne vado, ecco quello che faccio. Me ne vado e la lascio in pace. O in guerra, perché con lei non si sa mai.» «Posso sapere dove vai?» «E cosa gliene importa? È una domanda retorica o ironica? Per lei, chiaramente, fa lo stesso, ma siccome io sono un'imbecille, non so distingue-
re.» «Isabella, aspetta un momento e...» «Non si preoccupi per il vestito, adesso me lo tolgo. E i pennini può riportarli indietro, tanto non li ho usati e nemmeno mi piacciono. Sono una pacchianata da bambina dell'asilo.» Mi avvicinai e le misi una mano sulla spalla. Si scostò d'un balzo, come se l'avesse sfiorata un serpente. «Non mi tocchi.» «Isabella, scusami. Per favore. Non volevo offenderti.» Mi guardò con le lacrime agli occhi e un sorriso amaro. «Ma se non ha fatto altro. Da quando sono qui. Non ha fatto altro che insultarmi e trattarmi come se fossi una povera idiota che non capisce niente.» «Scusa» ripetei. «Lascia stare quelle cose. Non te ne andare.» «Perché no?» «Perché te lo chiedo per favore.» «Se voglio compassione e carità, posso trovarle da qualche altra parte.» «Non è compassione, né carità, a meno che non le provi tu per me. Ti chiedo di restare perché l'idiota sono io, e non voglio stare solo. Non posso stare solo.» «Che gentile. Sempre a pensare agli altri. Si compri un cane.» Lasciò cadere la borsa sul letto e mi affrontò, asciugandosi le lacrime e tirando fuori la rabbia che aveva accumulato. Deglutii. «Allora, visto che stiamo giocando a dire la verità, lasci che le dica che sarà sempre solo. Sarà solo perché non sa amare né condividere. Lei è come questa casa, che mi fa drizzare i capelli in testa. Non mi meraviglia che la sua signorina in bianco l'abbia piantato né che lo facciano tutti. Lei non ama e non si lascia amare.» La guardai avvilito, come se me le avessero appena date e non sapessi da dove erano venuti i colpi. Cercai le parole e trovai soltanto dei balbettii. «Davvero non ti piace il set di pennini?» riuscii ad articolare alla fine. Isabella alzò gli occhi al cielo, esausta. «Non faccia quell'espressione da cane bastonato, perché sarò pure idiota, ma non fino a questo punto.» Restai in silenzio, appoggiato alla cornice della porta. Isabella mi osservava con un'aria tra sospettosa e compassionevole. «Non volevo dire certe cose della sua amica, quella delle foto. Scusi» mormorò.
«Non scusarti. È la verità.» Abbassai gli occhi e uscii dalla stanza. Mi rifugiai nello studio a contemplare la città scura e sepolta dalla nebbiolina. Dopo un po' sentii i suoi passi sulle scale, esitanti. «È lì su?» chiamò. «Sì.» Isabella entrò nella stanza. Si era cambiata il vestito e si era lavata via le lacrime dalla faccia. Mi sorrise e io feci lo stesso. «Perché è così, lei?» domandò. Mi strinsi nelle spalle. Isabella si avvicinò e si sedette sul davanzale, accanto a me. Ci godemmo lo spettacolo di silenzi e ombre sui tetti della città vecchia senza bisogno di dire nulla. Dopo un po', mi sorrise e mi guardò. «E se accendiamo uno di quei sigari che le regala mio padre e ce lo fumiamo insieme?» «Neanche a parlarne.» Isabella sprofondò in uno dei suoi lunghi silenzi. Ogni tanto mi guardava brevemente e sorrideva. Io la osservavo di sottecchi e mi accorgevo che bastava guardarla e diventava meno difficile credere che forse restava qualcosa di buono e decente in questo schifo di mondo e, con un po' di fortuna, anche in me. «Rimani?» domandai. «Mi dia un buon motivo. Un motivo sincero, cioè, nel suo caso, egoistico. E meglio per lei che non sia una bugia, altrimenti me ne vado su due piedi.» Si riparò dietro uno sguardo difensivo, in attesa di qualche mia lusinga, e per un istante mi sembrò l'unica persona al mondo a cui non volevo né potevo mentire. Abbassai gli occhi e per una volta dissi la verità, fosse anche solo per sentirla io stesso a voce alta. «Perché sei l'unica amica che mi resta.» La durezza della sua espressione svanì e, prima di riconoscere la compassione nei suoi occhi, distolsi lo sguardo. «E il signor Sempere e quell'altro tanto pedante, Barceló?» «Sei l'unica che mi resti che si azzardi a dirmi la verità.» «E il suo amico, il suo principale, non gliela dice?» «Non mischiare la lana con la seta. Lui non è mio amico. E non credo abbia mai detto la verità in tutta la vita.» Isabella mi guardò attentamente.
«Lo vede? Sapevo che non si fidava di lui. Gliel'ho letto in faccia fin dal primo giorno.» Cercai di recuperare un po' di dignità, ma trovai solo sarcasmo. «Hai aggiunto la lettura delle facce al tuo elenco di talenti?» «Per leggere la sua non c'è bisogno di nessun talento» ribatté Isabella. «È come una favola di Pollicino.» «E cos'altro leggi sul mio volto, egregia sibilla?» «Paura.» Cercai di ridere senza averne voglia. «Non deve vergognarsi di avere paura. È segno di buon senso. Gli unici che non hanno paura di nulla sono i matti da legare. L'ho letto in un libro.» «Il manuale del fifone?» «Non c'è bisogno che lo ammetta, se questo mette in pericolo il suo senso di mascolinità. So che voi uomini credete che le dimensioni della vostra testardaggine corrispondano a quelle delle vostre vergogne.» «Anche questo l'hai letto in quel libro?» «No, è farina del mio sacco.» Lasciai cadere le braccia, arrendendomi all'evidenza. «D'accordo. Sì, ammetto di sentire una vaga inquietudine.» «Lei sì, che è vago. Muore dalla paura. Confessi.» «Non esageriamo. Diciamo che ho qualche dubbio sul rapporto con il mio editore, il che, data la mia esperienza, è comprensibile. A quanto ne so, Corelli è un perfetto gentiluomo e il nostro rapporto professionale sarà fruttifero e positivo per entrambe le parti.» «Per questo le borbotta la pancia ogni volta che salta fuori il suo nome.» Sospirai, senza più fiato per discutere. «Cosa vuoi che ti dica, Isabella?» «Che non lavorerà più per lui.» «Questo non posso farlo.» «E perché no? Non può restituirgli i soldi e mandarlo a spasso?» «Non è così semplice.» «Perché no? Si è ficcato in qualche guaio?» «Credo di sì.» «Di che tipo?» «È quello che sto tentando di appurare. In ogni caso, sono l'unico responsabile e devo risolverlo io. Niente di cui tu debba preoccuparti.» Isabella mi guardò, rassegnata per il momento, ma non convinta. «Come persona lei è un disastro completo, lo sa?»
«Sto abituandomi all'idea.» «Se vuole che resti, le regole, qui, devono cambiare.» «Sono tutt'orecchi.» «È finito il dispotismo illuminato. A partire da oggi, in questa casa vige la democrazia.» «Libertà, uguaglianza e fraternità.» «Stia attento alla fraternità. Ma basta "comando io e ordino io", e niente più sceneggiate alla mister Rochester.» «Come vuole, miss Eyre.» «E non si faccia illusioni, non la sposo nemmeno se rimane cieco.» Le tesi la mano per siglare il nostro patto. La strinse, esitando, e poi mi abbracciò. Mi lasciai avvolgere dalle sue braccia e le appoggiai il viso sui capelli. Il contatto con lei era pace e accoglienza, la luce vitale di una ragazza di diciassette anni che volli credere simile all'abbraccio che mia madre non ebbe mai il tempo di darmi. «Amici?» mormorai. «Finché morte non ci separi.» 22 Le nuove regole del regno di Isabella I entrarono in vigore alle ore nove del giorno dopo, quando la mia assistente fece la sua comparsa in cucina e, senza tanti giri di parole, mi informò su come sarebbero andate le cose a partire da quel momento. «Ho pensato che lei ha bisogno di una routine nella sua vita. Sennò si disorienta e agisce in maniera dissoluta.» «Dove l'hai presa questa espressione?» «Da uno dei suoi libri. D-i-s-s-o-l-u-t-a. Suona bene.» «E fa rima con prosti...» «Non cambi argomento.» Durante la giornata, avremmo lavorato entrambi ai rispettivi manoscritti. Dopo aver cenato insieme, lei mi avrebbe mostrato le pagine scritte e le avremmo discusse. Io giuravo di essere sincero e di darle le indicazioni opportune, niente zuccherini per farla contenta. Le domeniche sarebbero state di vacanza e io l'avrei portata al cinematografo, a teatro o a passeggio. Lei mi avrebbe aiutato a cercare documentazione nelle biblioteche e negli archivi e avrebbe fatto in modo che la dispensa fosse piena grazie alla connessione con l'emporio di famiglia. Io avrei preparato la colazione e
lei la cena. Il pranzo l'avrebbe preparato chi fosse stato libero in quel momento. Ci saremmo divisi i lavori e io mi impegnavo ad accettare il fatto incontestabile che la casa doveva essere pulita con regolarità. Io non avrei assolutamente cercato di trovarle un fidanzato e lei si sarebbe astenuta dal discutere le mie ragioni per lavorare per Corelli o dal manifestare le sue opinioni al riguardo, a meno che non fossi io a chiedergliele. Per il resto, avremmo improvvisato in corso d'opera. Sollevai la mia tazza di caffè e brindammo alla mia sconfitta e alla mia resa incondizionata. In appena un paio di giorni mi consegnai alla pace e alla serenità del vassallo. Isabella aveva un risveglio lento e vischioso, e quando emergeva dalla sua stanza con gli occhi semichiusi, strascicando un paio delle mie pantofole che le stavano grandi di mezzo piede, io avevo già preparato la colazione, il caffè e un quotidiano del mattino, uno diverso ogni giorno. La routine è la governante dell'ispirazione. Non erano trascorse nemmeno quarantott'ore dall'instaurazione del nuovo regime quando scoprii che cominciavo a recuperare la disciplina dei miei anni più produttivi. Le ore di reclusione nello studio si cristallizzarono rapidamente in pagine e pagine nelle quali, non senza una certa inquietudine, iniziai a riconoscere che il lavoro aveva raggiunto quel punto di consistenza in cui smette di essere un'idea e diventa una realtà. Il testo scorreva, brillante ed elettrico. Si lasciava leggere come se si trattasse di una leggenda, una saga mitologica di prodigi e penurie popolata di personaggi e scenari intrecciati attorno a una profezia di speranza per la stirpe. La narrazione spianava la strada all'avvento di un salvatore guerriero che avrebbe liberato la nazione da ogni male e offesa per restituirle la gloria e l'orgoglio, usurpati da scaltri nemici che avevano cospirato da sempre e per sempre contro il popolo, quale che fosse. Il meccanismo era impeccabile e funzionava ugualmente se applicato a qualunque credo, stirpe o tribù. Bandiere, dèi e proclami erano come jolly di un mazzo che distribuiva sempre le stesse carte. Vista la natura del lavoro, avevo optato per utilizzare uno degli artifici più complessi e difficili da realizzare in qualsiasi testo letterario: l'apparente assenza di artifici. Il linguaggio risuonava chiaro e semplice, la voce onesta e limpida di una coscienza che non narra, ma semplicemente rivela. A volte mi soffermavo a rileggere quanto avevo scritto fino a quel momento ed ero invaso dalla vanità cieca di senti-
re che il macchinario che stavo montando funzionava con una precisione assoluta. Mi resi conto che, per la prima volta da molto tempo, passavo ore intere senza pensare a Cristina o a Pedro Vidal. Le cose, dissi fra me, andavano per il meglio. Forse per questo, perché mi sembrava finalmente di uscire dal tunnel, feci quello che ho sempre fatto ogni volta che la mia vita si è incamminata su una buona strada: rovinare tutto. Una mattina, dopo colazione, indossai uno dei miei vestiti da cittadino rispettabile. Passai dal salotto per salutare Isabella e la vidi china sulla scrivania a rileggere pagine del giorno prima. «Oggi non scrive?» chiese senza alzare gli occhi. «Giornata di riflessione.» Notai che aveva sistemato il set di pennini e il calamaio delle muse accanto al suo quaderno. «Credevo che per te fosse una pacchianata» dissi. «Infatti, ma sono una ragazza di diciassette anni e ho tutti i diritti di farmi piacere le pacchianate. Come lei con i sigari.» Il profumo di colonia la raggiunse e mi lanciò un'occhiata intrigata. Vedendo che mi ero vestito per uscire, aggrottò le sopracciglia. «Va a fare di nuovo il detective?» domandò. «Un poco.» «Non ha bisogno di un guardaspalle? Una dottoressa Watson? Qualcuno con un po' di buonsenso?» «Non imparare a cercare pretesti per non scrivere prima di imparare a scrivere. È un privilegio dei professionisti e bisogna guadagnarselo.» «Io credo che, se sono la sua assistente, devo esserlo in tutto.» Sorrisi mansueto. «Ora che me lo dici, c'è qualcosa che volevo chiederti. No, non spaventarti. Ha a che fare con Sempere. Ho saputo che ha problemi di soldi e che la libreria traballa.» «Non può essere.» «Purtroppo è così, ma non succederà nulla perché noi non permetteremo che le cose peggiorino.» «Guardi che il signor Sempere è molto orgoglioso e non la lascerà... Ci ha già provato, vero?» Annuii. «Perciò ho pensato che dobbiamo essere più astuti e fare ricorso all'eterodossia e alle male arti.»
«La sua specialità.» Ignorai il tono di riprovazione e proseguii il discorso. «Ecco cosa ho pensato: come per caso, càpiti in libreria e dici a Sempere che sono un orco, che non ne puoi più di me...» «Fin qui, verosimile al cento per cento.» «Non interrompere. Poi gli dici anche che quello che ti pago per farmi da assistente è una miseria.» «Ma se non mi dà neanche un centesimo...» Sospirai, armandomi di pazienza. «Quando ti dirà che gli dispiace, perché lo dirà, fai la faccia da damigella in pericolo e gli confessi, magari con qualche lacrimuccia, che tuo padre ti ha diseredato e ti vuole fare monaca e per questo hai pensato che forse potevi lavorare lì qualche ora, in prova, in cambio del tre per cento di commissione su quello che vendi, per costruirti un futuro lontano dal convento come donna libertaria e consacrata alla diffusione delle belle lettere.» Isabella strabuzzò gli occhi. «Tre per cento? Vuole aiutare Sempere o vuole forse spennarlo?» «Voglio che indossi un vestito come quello dell'altra sera, ti agghindi come sai e vai a trovarlo quando suo figlio è in libreria, di solito nel pomeriggio.» «Stiamo parlando di quello bello?» «Quanti figli ha il signor Sempere?» Isabella tirò le somme e quando cominciò a capire dove andavo a parare mi lanciò un'occhiata sulfurea. «Se mio padre sapesse che specie di mente perversa ha lei, si comprerebbe il fucile.» «Voglio solo che il figlio ti veda. E che il padre veda come il figlio ti guarda.» «Lei è ancora peggio di quanto pensavo. Ora si dedica alla tratta delle bianche.» «È semplice carità cristiana. Inoltre, sei stata tu la prima ad ammettere che il figlio di Sempere è di bell'aspetto.» «Di bell'aspetto e un po' stupido.» «Non esageriamo. Sempere junior è semplicemente un po' timido in presenza del genere femminile, il che gli fa onore. È un cittadino modello che, nonostante sia cosciente dell'effetto persuasivo della sua grazia e della sua prestanza, esercita autocontrollo e ascetismo per rispetto e devozione alla
purezza senza macchia della donna barcellonese. Non mi dirai che questo non gli conferisce un'aura di nobiltà e fascino che fa appello ai tuoi istinti, quello materno e quelli periferici!» «A volte credo di odiarla, signor Martín.» «Aggrappati a questo sentimento, ma non incolpare il povero figliolo di Sempere delle mie carenze come essere umano perché lui è, confidenzialmente, un sant'uomo.» «Eravamo d'accordo che non mi avrebbe cercato un fidanzato.» «Nessuno ha parlato di fidanzamento. Se mi lasci finire, ti racconto il resto.» «Prosegua, Rasputin.» «Quando Sempere padre dirà di sì, perché lo dirà, voglio che ogni giorno tu stia due o tre ore al banco della libreria.» «Vestita come? Da Mata Hari?» «Con il decoro e il buon gusto che ti caratterizzano. Carina, invitante, ma senza esagerare. Se occorre, prendi uno dei vestiti di Irene Sabino, però decente.» «Ce ne sono due o tre che mi stanno da schianto» osservò Isabella, sdilinquendosi in anticipo. «Be', indossa quello che ti copre di più.» «Lei è un reazionario. E la mia formazione letteraria?» «Quale migliore aula di Sempere e Figli per ampliarla? Lì sarai circondata da capolavori da cui imparare un sacco.» «E cosa faccio? Respiro a fondo per vedere se mi resta appiccicato qualcosa?» «È solo per qualche ora al giorno. Poi puoi continuare con il tuo lavoro qui, come finora, e ricevere i miei consigli, che non hanno prezzo e faranno di te una nuova Jane Austen.» «E dov'è il trucco?» «Il trucco è che ogni giorno io ti darò qualche peseta e ogni volta che i clienti ti pagano e apri la cassa ce la metti dentro con discrezione.» «Così, questo è il piano...» «Come puoi vedere, non ha niente di perverso.» Isabella aggrottò le sopracciglia. «Non funzionerà. Si accorgerà che c'è qualcosa di strano. Il signor Sempere è più sveglio della fame.» «Funzionerà. E se Sempere si stupisce, gli dici che i clienti, quando vedono una ragazza bella e simpatica dietro il bancone, aprono il portafoglio
e si mostrano più generosi.» «Questo succederà nei tuguri di bassa lega che frequenta lei, non in una libreria.» «Non sono d'accordo. Se entro in una libreria e trovo una commessa affascinante come te sono capace di comprare perfino l'ultimo premio nazionale di letteratura.» «Perché la sua mente è più sporca di una gruccia da pollaio.» «Ho anche, o dovrei dire abbiamo, un debito di gratitudine con Sempere.» «Questo è un colpo basso.» «Allora non costringermi a mirare ancora più in basso.» Ogni manovra di persuasione che si rispetti fa appello prima alla curiosità, poi alla vanità e, per ultimo, alla bontà o al rimorso. Isabella abbassò lo sguardo e annuì lentamente. «E quando vorrebbe mettere in pratica il suo piano della ninfa con il pane sottobraccio?» «Non lasciamo per domani quello che possiamo fare oggi.» «Oggi?» «Questo pomeriggio.» «Mi dica la verità. È uno stratagemma per lavare il denaro che le paga il suo principale e purgare la sua coscienza o qualunque cosa abbia al suo posto?» «Sai che i miei moventi sono sempre egoistici.» «E cosa succede se il signor Sempere dice di no?» «Tu assicurati che il figlio sia lì e vacci con il vestito della domenica, ma non quello della messa.» «È un piano degradante e offensivo.» «E ti piace da matti.» Isabella alla fine sorrise, felina. «E se il figlio ha un attacco di coraggio e decide di osare più del dovuto?» «Ti garantisco che l'erede non si azzarderà a metterti un dito addosso se non in presenza di un prete e con un certificato della diocesi in mano.» «Chi troppo e chi niente.» «Lo farai?» «Per lei?» «Per la letteratura.»
23 Uscendo in strada mi sorprese un vento freddo e tagliente che spazzava le strade con impazienza e capii che l'autunno stava entrando in punta di piedi a Barcellona. In plaza Palacio salii su un tram che aspettava vuoto come una grande trappola per topi di ferro battuto. Occupai un posto vicino al finestrino e pagai il biglietto al controllore. «Va a Sarrià?» domandai. «Fino alla piazza.» Appoggiai la testa contro il finestrino e dopo un po' il tram partì con uno scossone. Chiusi gli occhi e mi abbandonai a uno di quei pisolini che ci si può godere solo a bordo di qualche mostro meccanico, l'aspirazione dell'uomo moderno. Sognai di viaggiare in un treno fatto di ossa nere e di vagoni a forma di bara che attraversava una Barcellona deserta e disseminata di indumenti abbandonati, come se i corpi che li avevano occupati fossero evaporati. Una tundra di cappelli e vestiti, completi e scarpe ricopriva le strade stregate dal silenzio. La locomotiva sprigionava una scia di fumo scarlatto che si spargeva in cielo come pittura versata. Il principale, sorridente, viaggiava accanto a me. Era vestito di bianco e portava i guanti. Qualcosa di scuro e gelatinoso gli gocciolava dalla punta delle dita. «Cos'è successo alla gente?» «Abbia fede, Martín. Abbia fede.» Quando mi svegliai, il tram scivolava lentamente all'ingresso della piazza di Sarrià. Scesi prima che si fosse fermato del tutto e imboccai la salita di calle Mayor de Sarrià. Quindici minuti più tardi arrivavo a destinazione. La carretera de Vallvidrera partiva da un bosco scuro alle spalle del castello di mattoni rossi del Colegio San Ignacio. La strada saliva verso la montagna, fiancheggiata da ville solitarie e ricoperta da un manto di foglie secche. Nubi basse scivolavano lungo il fianco della collina e si disfacevano in aliti di nebbia. Presi il marciapiede dei numeri dispari e perlustrai con lo sguardo muri e cancelli cercando di leggere la numerazione. Al di là si intravedevano facciate di pietra annerita e fontane asciutte arenate tra sentieri invasi dalle erbacce. Percorsi un tratto di marciapiede all'ombra di una lunga fila di cipressi e scoprii che la numerazione saltava dall'11 al 15. Confuso, ritornai sui miei passi cercando il numero 13. Cominciavo a sospettare che la segretaria dell'avvocato Valera fosse più astuta di quanto sembrava e che mi avesse dato un indirizzo falso, quando notai l'ingresso
di un vialetto che partiva dal marciapiede e si prolungava per un altro centinaio di metri fino a un cancello scuro che formava una cresta di lance. Imboccai lo stretto vicolo lastricato e mi avvicinai all'inferriata. Un giardino folto e non curato era strisciato verso l'esterno, e i rami di un eucalipto attraversavano le lance del cancello come braccia supplicanti tra le sbarre di una cella. Scostai le foglie che ricoprivano parte del muro e scoprii le lettere e le cifre incise sulla pietra. Casa Marlasca 13 Seguii la cancellata che fiancheggiava il giardino, cercando di scrutare all'interno. A una ventina di metri trovai una porta metallica incassata nel muro di pietra. C'era un battente sulla lastra di ferro, saldato con lacrime di ruggine. La porta era socchiusa. Spinsi con la spalla e riuscii a farla cedere abbastanza per passare senza che gli spigoli di pietra che sporgevano dal muro mi strappassero i vestiti. Un intenso odore di terra bagnata impregnava l'aria. Un sentiero di piastrelle di marmo si apriva tra gli alberi e conduceva a una radura ricoperta di pietre bianche. Su un lato si potevano vedere dei garage con il portone aperto e i resti di quella che un tempo era stata una Mercedes-Benz e adesso sembrava un carro funebre abbandonato alla sua sorte. La casa era una struttura in stile modernista innalzata su tre piani dalle linee curve, sormontata da una cresta di abbaini che si accalcavano sopra torrioni e archi. Finestroni stretti e acuminati come pugnali si aprivano nella facciata punteggiata di incisioni e gargolle. I vetri riflettevano il passaggio silenzioso delle nuvole. Mi sembrò di scorgere un viso stagliarsi dietro uno dei finestroni del primo piano. Senza pensarci troppo, alzai la mano e abbozzai un saluto. Non volevo che mi scambiassero per un ladro. La sagoma restò lì a osservarmi, immobile come un ragno. Abbassai gli occhi un istante e, quando tornai a guardarla, era sparita. «Buon giorno!» chiamai. Attesi qualche secondo e non ottenendo risposta mi avvicinai lentamente alla casa. Una piscina ovale fiancheggiava la facciata est. Sull'altro lato si innalzava una veranda a vetrate. Sedie di tela sfilacciata circondavano la piscina. Un trampolino aggredito dall'edera si protendeva sulla lastra di acqua scura. Mi avvicinai al bordo e vidi che la vasca era disseminata di
foglie morte e alghe che ondeggiavano sulla superficie. Stavo contemplando il mio riflesso nell'acqua della piscina quando sentii che una sagoma scura incombeva alle mie spalle. Mi voltai bruscamente e mi imbattei in un volto affilato e cupo che mi scrutava con inquietudine e sospetto. «Chi è lei e cosa ci fa qui?» «Mi chiamo David Martín e mi manda l'avvocato Valera» improvvisai. Alicia Marlasca strinse le labbra. «Lei è la signora Marlasca? Donna Alicia?» «Cos'è successo a quello che viene di solito?» chiese. Capii che mi aveva scambiato per un praticante dello studio di Valera e riteneva che portassi qualche documento da firmare o un messaggio da parte degli avvocati. Per un istante valutai la possibilità di adottare quell'identità, ma qualcosa nell'aspetto della donna mi disse che nella sua vita aveva già sentito abbastanza bugie per sopportarne altre. «Non lavoro per lo studio, signora Marlasca. Il motivo della mia visita è di indole privata. Mi chiedevo se lei avesse qualche minuto per parlare di una delle vecchie proprietà del suo defunto marito, don Diego.» La vedova impallidì e distolse lo sguardo. Si appoggiava a un bastone e vidi che sulla porta della veranda c'era una sedia a rotelle sulla quale immaginai trascorresse più tempo di quanto le piacesse ammettere. «Ormai non resta più nessuna proprietà di mio marito, signor...» «Martín.» «Hanno preso tutto le banche, signor Martín. Tutto meno questa casa, che grazie ai consigli del signor Valera, il padre, fu intestata a mio nome. Il resto se lo sono portato via le iene...» «Mi riferivo alla casa della torre, in calle Flassaders.» La vedova sospirò. Calcolai che doveva avere sessanta o sessantacinque anni. L'eco di quella che doveva essere stata una bellezza sfolgorante quasi non si era spento. «Si scordi di quella casa. È un posto maledetto.» «Purtroppo non posso farlo. Ci abito.» La signora Marlasca aggrottò le sopracciglia. «Credevo che nessuno ci potesse vivere. È rimasta vuota molti anni.» «L'ho affittata già da parecchio tempo. Il motivo della mia visita è che, nel corso di qualche lavoro di ristrutturazione, ho trovato una serie di effetti personali che credo appartenessero al suo defunto marito e, immagino, a lei.»
«Non c'è niente di mio in quella casa. Quello che ha trovato sarà di quella donna...» «Irene Sabino?» Alicia Marlasca sorrise con amarezza. «Cos'è che davvero vuole sapere, signor Martín? Mi dica la verità. Lei non è venuto fin qui per restituirmi le vecchie cose di mio marito.» Ci guardammo in silenzio e seppi che non potevo né volevo mentire a quella donna, a nessun costo. «Sto cercando di capire cosa accadde a suo marito, signora Marlasca.» «Perché?» «Perché credo che a me stia succedendo la stessa cosa.» Casa Marlasca aveva quell'atmosfera da mausoleo abbandonato delle grandi dimore che vivono dell'assenza e della mancanza. Lontana dai giorni di fortuna e di gloria, dai tempi in cui un esercito di domestici la manteneva intatta e piena di splendore, la casa ora andava in rovina. La pittura delle pareti, scrostata; le piastrelle del pavimento, dissestate; i mobili, rosi dall'umidità e dal freddo; i soffitti, caduti; e i grandi tappeti, spelacchiati e scoloriti. Aiutai la vedova a sistemarsi sulla sedia a rotelle e seguendo le sue indicazioni la condussi in una sala di lettura in cui quasi non restavano più né libri né quadri. «Ho dovuto vendere gran parte delle cose per sopravvivere» spiegò. «Non fosse stato per l'avvocato Valera, che continua a mandarmi ogni mese una piccola pensione dello studio, non avrei saputo dove andare.» «Vive sola qui?» La vedova annuì. «Questa è la mia casa. L'unico posto dove sono stata felice, anche se sono passati tanti anni. Ho vissuto sempre qui e morirò qui. Scusi se non le ho offerto nulla. Non ricevo visite da tanto e non so più come trattare gli ospiti. Preferisce tè o caffè?» «Sto bene così, grazie.» La signora Marlasca sorrise e indicò la poltrona su cui ero seduto. «Quella era la preferita di mio marito. Si sedeva lì a leggere fino a molto tardi, davanti al fuoco. Io a volte mi mettevo qui, accanto a lui, e lo ascoltavo. A lui piaceva raccontarmi cose, almeno allora. Siamo stati molto felici in questa casa...» «Cosa accadde?» La vedova si strinse nelle spalle, lo sguardo perso nelle ceneri del cami-
no. «È sicuro di voler sentire questa storia?» «La prego.» 24 «A dire la verità, non so bene quando fu che mio marito Diego la conobbe. Ricordo solo che una volta cominciò a parlarne, di sfuggita, e che ben presto non ci fu giorno in cui non lo sentissi pronunciare il suo nome: Irene Sabino. Mi disse che gliel'aveva presentata un certo Damián Roures, che organizzava sedute spiritiche in un appartamento di calle Elisabets. Diego era uno studioso di religioni e mitologie, e aveva assistito a diverse sedute come osservatore. A quell'epoca, Irene Sabino era una delle attrici più popolari del Paratelo. Era una bellezza, non lo nego. A parte ciò, non credo sapesse contare più in là di dieci. Si diceva che era nata tra le baracche della spiaggia del Bogatell, che la madre l'aveva abbandonata nella bidonville del Somorrostro e che era cresciuta in mezzo a mendicanti e gente che andava lì a nascondersi. Iniziò a ballare nei cabaret e nei locali del Paratelo e del Raval a quattordici anni. Ballare, si fa per dire. Immagino che abbia cominciato a prostituirsi prima di imparare a leggere, se pure imparò... Per un periodo fu la stella della sala La Criolla, o così dicevano. Poi passò ad altri locali di maggior classe. Credo che fu all'Apolo dove conobbe un certo Juan Corbera, che tutti chiamavano Jaco. Jaco era il suo agente e probabilmente il suo amante. Fu lui a inventare il nome di Irene Sabino e la leggenda che fosse la figlia segreta di una grande vedette di Parigi e di un principe della nobiltà europea. Non so qual era il suo vero nome. Non so se riuscì mai ad averne uno. Jaco la introdusse alle sedute spiritiche, credo dietro suggerimento di Roures, e i due si spartivano i proventi della vendita della sua presunta verginità a uomini ricchi e annoiati che partecipavano a quelle farse per vincere la monotonia. Dicevano che la sua specialità erano le coppie. «Quello che Jaco e il suo socio Roures non sospettavano è che Irene era ossessionata da quelle sedute e credeva davvero che durante quelle pantomime si potesse entrare in contatto con il mondo degli spiriti. Era convinta che sua madre le mandasse messaggi dall'altro mondo e perfino quando raggiunse la fama continuava ad andarci per entrare in contatto con lei. Lì conobbe mio marito Diego. Credo che attraversassimo un brutto periodo, come tutte le coppie. Da tempo Diego voleva abbandonare la professione e
dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Riconosco che non trovò in me l'appoggio di cui aveva bisogno. Io credevo che se l'avesse fatto avrebbe gettato la vita alle ortiche, ma forse temevo solo di perdere tutto questo, la casa, i domestici... Persi tutto lo stesso, e anche lui. A separarci definitivamente fu la perdita di Ismael. Ismael era nostro figlio. Diego era pazzo di lui. Non ho mai visto un padre tanto attaccato al figlio. Ismael, non io, era la sua vita. Stavamo discutendo nella camera da letto al primo piano. Avevo iniziato a recriminare sul tempo che passava a scrivere, sul fatto che il suo socio Valera, stanco di addossarsi il lavoro di tutti e due, gli aveva dato un ultimatum e meditava di sciogliere la società e mettersi per conto suo. Diego disse che non gli importava, che era disposto a vendere la sua quota dello studio per dedicarsi alla sua vocazione. Quel pomeriggio ci accorgemmo dell'assenza di Ismael. Non era in camera sua, né in giardino. Credetti che, sentendoci litigare, si fosse spaventato e fosse uscito. Non era la prima volta che lo faceva. Mesi prima l'avevano trovato in lacrime su una panchina di plaza Sarrià. Uscimmo a cercarlo al tramonto. Non c'era traccia di lui da nessuna parte. Andammo a casa dei vicini, negli ospedali... Tornando, all'alba, dopo aver passato la notte a cercarlo, trovammo il suo corpo in fondo alla piscina. Era annegato la sera prima e non avevamo sentito le sue grida di aiuto perché stavamo litigando a voce alta. Aveva sette anni. Diego non mi perdonò mai, e non perdonò nemmeno se stesso. Ben presto fummo incapaci di sopportare la presenza l'uno dell'altra. Ogni volta che ci guardavamo o ci toccavamo vedevamo il cadavere di nostro figlio in fondo a quella maledetta piscina. Un giorno mi svegliai e seppi che Diego mi aveva abbandonato. Lasciò lo studio e andò ad abitare in una grande casa del quartiere della Ribera che da anni lo ossessionava. Diceva che stava scrivendo, che aveva ricevuto un incarico molto importante da un editore di Parigi, che non dovevo preoccuparmi per i soldi. Io sapevo che stava con Irene, anche se lui non lo ammetteva. Era un uomo distrutto. Era convinto che gli restasse poco tempo da vivere. Credeva di aver preso una malattia, una specie di parassita, che lo stava divorando dal di dentro. Parlava solo della morte. Non ascoltava nessuno. Né me né Valera... Solo Irene e Roures, che gli avvelenavano il cervello con storie di spiriti e gli estorcevano denaro con la promessa di metterlo in contatto con Ismael. Una volta andai alla casa della torre e lo supplicai di aprirmi. Non mi fece entrare. Mi disse che era occupato, che stava lavorando a qualcosa che gli avrebbe permesso di salvare Ismael. A quel punto mi resi conto che cominciava a perdere la ragione. Era convinto che se avesse scritto quel maledet-
to libro per l'editore di Parigi nostro figlio sarebbe tornato indietro dalla morte. Credo che Irene, Roures e Jaco siano riusciti a spillargli i soldi che gli restavano, che ci restavano... Mesi dopo, quando ormai non vedeva più nessuno e passava tutto il tempo chiuso in quel posto orribile, lo trovarono morto. La polizia disse che era stato un incidente, ma io non ci ho mai creduto. Jaco era scomparso e non c'era traccia dei soldi, mentre Roures diceva di non sapere nulla. Dichiarò che da mesi non aveva contatti con Diego perché era impazzito e gli faceva paura. Disse che le ultime volte che si era presentato alle sue sedute spiritiche Diego terrorizzava i clienti con le sue storie di anime maledette e che lui gli aveva proibito di tornare. Diceva che c'era un grande lago di sangue sotto la città. Diceva che suo figlio gli parlava in sogno, che Ismael era prigioniero di un'ombra con la pelle di serpente che si faceva passare per un bambino e giocava con lui... Nessuno si sorprese quando lo trovarono morto. Secondo Irene, Diego si era tolto la vita per colpa mia: quella moglie fredda e calcolatrice che aveva lasciato morire suo figlio perché non voleva rinunciare a una vita nel lusso lo aveva spinto verso la morte. Disse che lei era l'unica ad averlo amato davvero e che non aveva mai accettato neppure un centesimo. E credo che, almeno su questo, dicesse la verità. Credo che Jaco l'abbia usata per sedurre Diego e rubargli tutto. Poi, al momento della verità, la mollò e fuggì senza dividere un soldo con lei. Così disse la polizia, o almeno alcuni poliziotti. Mi è sempre sembrato che non volessero rimestare in quell'affare e che la versione del suicidio fosse la più conveniente per loro. Ma io non credo che Diego si sia tolto la vita. Non l'ho creduto allora e non lo credo adesso. Credo che l'abbiano ucciso Irene e Jaco. E non solo per denaro. C'era altro. Mi ricordo che la pensava così anche uno dei poliziotti assegnati al caso, un uomo molto giovane, Ricardo Salvador. Disse che qualcosa non quadrava nella versione ufficiale dei fatti e che qualcuno stava coprendo la vera causa della morte di Diego. Salvador lottò per chiarire le cose finché lo sollevarono dal caso e, col tempo, lo espulsero dal corpo. Perfino allora continuò a indagare per conto suo. A volte veniva a trovarmi. Diventammo buoni amici... Ero una donna sola, in rovina e disperata. Valera mi suggeriva di risposarmi. Anche lui mi incolpava per quello che era successo a mio marito e arrivò a insinuare che c'erano molti commercianti scapoli ai quali una vedova di bella presenza e dall'aria aristocratica poteva scaldare il letto negli anni d'oro. Col tempo, anche Salvador smise di venirmi a trovare. Non gliene faccio una colpa. Nel suo tentativo di aiutarmi, si era rovinato la vita. A volte mi sembra che sia l'unica cosa che sono riuscita a fa-
re per gli altri in questo mondo, rovinargli la vita... Fino a oggi non avevo raccontato a nessuno questa storia, signor Martín. Se vuole un consiglio, si scordi di quella casa, di me, di mio marito e di questa storia. Se ne vada lontano. Questa città è maledetta. Maledetta.» 25 Lasciai Casa Marlasca con il cuore nelle calze e vagai senza meta per il labirinto di strade solitarie che portavano verso Pedralbes. Il cielo era coperto da una ragnatela di nuvole grigie che a stento permettevano al sole di filtrare. Aghi di luce perforavano quel sudario e spazzavano il fianco della collina. Seguii con lo sguardo quelle linee luminose e vidi come, in lontananza, accarezzavano il tetto smaltato di Villa Helius. Le finestre brillavano lontane. Trascurando il buon senso, mi incamminai in quella direzione. Via via che mi avvicinavo, il cielo si oscurava e un vento tagliente sollevava spirali di foglie morte al mio passaggio. Mi fermai all'inizio di calle Panama. Villa Helius si ergeva davanti a me. Non osai attraversare la strada e avvicinarmi al muro che circondava il giardino. Rimasi lì sa Dio quanto tempo, incapace di fuggire o di andare alla porta e bussare. Fu allora che la vidi passare davanti a uno dei finestroni del secondo piano. Sentii un freddo intenso nelle viscere. Stavo per andarmene quando si voltò e si fermò. Si avvicinò al vetro e sentii i suoi occhi nei miei. Alzò la mano, come se volesse salutare, ma non arrivò a distendere le dita. Non ebbi il coraggio di sostenere il suo sguardo e mi voltai, allontanandomi giù per la strada. Mi tremavano le mani e me le misi in tasca perché non si notasse. Prima di girare l'angolo, mi voltai di nuovo e vidi che era ancora lì a guardarmi. Volevo odiarla, ma mi mancarono le forze. Arrivai a casa con il freddo, o così volevo pensare, nelle ossa. Varcando il portone, vidi una busta che spuntava dalla cassetta postale dell'androne. Pergamena e ceralacca. Notizie del principale. L'aprii mentre mi trascinavo su per le scale. La sua calligrafia elegante mi dava appuntamento per il giorno dopo. Arrivando sul pianerottolo, vidi che la porta era socchiusa e che Isabella mi aspettava sorridente. «Ero nello studio e l'ho vista arrivare» disse. Cercai di sorriderle, ma non dovetti essere molto convincente perché appena Isabella mi guardò negli occhi assunse un'aria preoccupata. «Si sente bene?» «Non è niente. Credo di avere preso un po' di freddo.»
«Ho un brodino sul fuoco che sarà come una mano santa. Entri.» Mi prese per il braccio e mi condusse in salotto. «Isabella, non sono un invalido.» Mi lasciò e abbassò gli occhi. «Scusi.» Non avevo forze per litigare con nessuno, e men che meno con la mia ostinata assistente, perciò mi lasciai guidare verso una delle poltrone del salotto e vi sprofondai come un sacco d'ossa. Isabella si sedette di fronte a me e mi guardò, allarmata. «Cos'è successo?» Le sorrisi tranquillizzante. «Niente. Non è successo niente. Non dovevi portarmi una tazza di brodo?» «Subito.» Si precipitò in cucina e la sentii sfaccendare. Respirai a fondo e chiusi gli occhi finché sentii i passi di Isabella che si avvicinavano. Mi tese un tazzone fumante di dimensioni esagerate. «Sembra un orinale» dissi. «Beva e non dica bestialità.» Annusai il brodo. Aveva un buon odore, ma non volevo fornire prove di eccessiva docilità. «Ha uno strano odore. Cosa c'è dentro?» «Odora di pollo perché c'è pollo, sale e un goccino di Jerez. Se lo beva.» Ne bevvi un sorso e le restituii il tazzone. Isabella scosse la testa. «Tutto.» Sospirai e bevvi un altro sorso. Era buono, mio malgrado. «Com'è andata la giornata, allora?» chiese Isabella. «Ha avuto i suoi momenti. E a te?» «Lei ha di fronte la nuova star dei dipendenti di Sempere e Figli.» «Eccellente.» «Prima delle cinque avevo già venduto due copie del Ritratto di Dorian Gray e le opere complete di Thomas Hardy a un signore molto distinto di Madrid che mi ha dato anche la mancia. Non faccia quella faccia, perché ho messo nella cassa anche quella.» «E Sempere figlio, cos'ha detto?» «Dire, non ha detto un granché. È stato tutto il tempo come un allocco a far finta di non guardarmi, ma senza togliermi gli occhi di dosso. Non posso nemmeno avvicinarmi a una sedia, tanto mi ha guardato il sedere ogni
volta che salivo sulla scala per prendere un libro.» Sorrisi e annuii. «Grazie, Isabella.» Mi guardò fisso negli occhi. «Lo dica di nuovo.» «Grazie, Isabella. Di tutto cuore.» Arrossì e distolse lo sguardo. Restammo per un po' in un placido silenzio, godendoci quell'affiatamento che a volte non aveva bisogno nemmeno di parole. Finii il brodo, anche se non mi entrava più nemmeno una goccia, e le mostrai il tazzone vuoto. Annuì. «È andato a trovarla, vero? Quella donna. Cristina» disse Isabella, sfuggendo il mio sguardo. «Isabella, la lettrice di facce...» «Mi dica la verità.» «L'ho vista solo da lontano.» Isabella mi osservò con cautela, come se esitasse tra dirmi o non dirmi qualcosa che le si era incagliato nella coscienza. «L'ama?» domandò alla fine. Ci guardammo in silenzio. «Io non so amare nessuno. Lo sai. Sono un egoista e tutto il resto. Parliamo d'altro.» Isabella annuì, lo sguardo catturato dalla busta che mi spuntava dalla tasca. «Notizie del principale?» «La convocazione mensile. L'eccellentissimo signor Andreas Corelli si pregia di darmi appuntamento domani alle sette del mattino alle porte del cimitero del Pueblo Nuevo. Non poteva scegliere un posto diverso.» «E pensa di andarci?» «Cos'altro posso fare?» «Può prendere un treno stasera stessa e scomparire per sempre.» «Sei la seconda persona a propormelo oggi. Scomparire da qui.» «Ci sarà un motivo.» «E chi sarà la tua guida e il tuo mentore nei disastri della letteratura?» «Io vengo con lei.» Sorrisi e le presi la mano. «Con te in capo al mondo, Isabella.» Ritirò la mano di scatto e mi guardò, offesa. «Lei si prende gioco di me.»
«Isabella, se un giorno mi venisse in mente di prendermi gioco di te, mi sparerei un colpo.» «Non dica queste cose. Non mi piace quando parla così.» «Scusa.» La mia assistente tornò alla scrivania e s'immerse in uno dei suoi lunghi silenzi. La osservai sfogliare le pagine scritte nella giornata, fare correzioni e cancellare paragrafi interi con il set di pennini che le avevo regalato. «Se mi guarda, non riesco a concentrarmi.» Mi alzai e aggirai la scrivania. «Allora ti lascio lavorare e dopo cena mi fai vedere quello che hai scritto.» «Non è pronto. Devo correggerlo tutto e riscriverlo e...» «Non è mai pronto, Isabella. Abituati. Lo leggeremo insieme dopo cena.» «Domani.» Mi arresi. «Domani.» Annuì e mi accinsi a lasciarla sola con le sue parole. Stavo chiudendo la porta del salotto quando sentii la sua voce che mi chiamava. «David?» Mi fermai in silenzio dall'altro lato della porta. «Non è vero. Non è vero che lei non sa amare nessuno.» Mi rifugiai nella mia stanza e chiusi la porta. Mi stesi di fianco sul letto, raccolto su me stesso, e chiusi gli occhi. 26 Uscii di casa dopo l'alba. Nubi scure si trascinavano sopra i tetti e rubavano il colore alle strade. Mentre attraversavo il Parque de la Ciudadela vidi le prime gocce colpire le foglie degli alberi e schioccare sul vialetto, sollevando volute di polvere come se fossero pallottole. Dall'altro lato del parco, una foresta di fabbriche e gasometri si moltiplicava verso l'orizzonte, il pulviscolo delle ciminiere diluito in quella pioggia nera che precipitava dal cielo in lacrime di catrame. Percorsi l'inospitale viale di cipressi che conduceva alle porte del cimitero dell'Est, lo stesso tragitto che tante volte avevo fatto con mio padre. Il principale era già lì. Lo vidi da lontano, che aspettava imperturbabile sotto la pioggia, ai piedi di uno dei grandi angeli che sorvegliavano l'entrata principale del camposanto. Vestiva di nero e a
impedire che si confondesse con una delle centinaia di statue oltre le cancellate erano soltanto i suoi occhi. Non mosse una palpebra finché non fui a pochi metri e, non sapendo cosa fare, lo salutai con la mano. Faceva freddo e il vento odorava di calce e di zolfo. «I visitatori occasionali credono ingenuamente che ci siano sempre caldo e sole in questa città» disse il principale. «Ma, come amo dire, prima o poi l'anima antica, torbida e oscura di Barcellona si riflette in cielo.» «Dovrebbe pubblicare guide turistiche invece di testi religiosi» suggerii. «Praticamente sono la stessa cosa. Come ha passato questi giorni di pace e tranquillità? Il lavoro è andato avanti? Ha buone notizie per me?» Aprii la giacca e gli diedi un plico di fogli. Ci addentrammo nel cimitero in cerca di un posto al riparo dalla pioggia. Il principale scelse un vecchio mausoleo che ci offriva una cupola sostenuta da colonne di marmo e circondata da angeli dal volto affilato e dalle dita troppo lunghe. Ci sedemmo su una panchina di pietra fredda. Lui mi rivolse uno dei suoi sorrisi canini e mi fece l'occhiolino, mentre le sue pupille gialle e brillanti si chiudevano in un punto nero in cui potevo vedere riflesso il mio volto pallido e visibilmente inquieto. «Si rilassi, Martín. Lei dà troppa importanza al macchinario di scena.» Iniziò a leggere con calma i fogli che gli avevo portato. «Credo che mi farò un giro mentre lei legge» dissi. Corelli annuì senza alzare gli occhi dalle pagine. «Non scappi» mormorò. Mi allontanai il più in fretta possibile senza che sembrasse evidente che lo facevo e mi persi tra le strade e gli anfratti della necropoli. Aggirai obelischi e sepolcri, addentrandomi nel cuore del cimitero. La lapide era ancora lì, segnalata da un vaso vuoto in cui rimaneva lo scheletro di fiori pietrificati. Vidal aveva pagato le esequie e aveva perfino commissionato a uno scultore di una certa reputazione nell'ambiente delle pompe funebri una Pietà che custodiva la tomba alzando gli occhi al cielo, le mani sul petto in atteggiamento di supplica. Mi inginocchiai davanti alla lapide e la ripulii dal muschio che aveva ricoperto le lettere incise a scalpello. JOSÉ ANTONIO MARTÍN CLARÉS 1875-1908 Eroe della guerra delle Filippine. Il suo paese e i suoi amici non lo dimenticheranno mai
«Buon giorno, papà» dissi. Contemplai la pioggia nera che scivolava sul viso della Pietà, la pioggia che batteva sulle lapidi, e sorrisi alla salute di quegli amici che non ebbe mai e del paese che lo mandò a morire da vivo per arricchire quattro capoccioni che non seppero mai nemmeno che esisteva. Mi sedetti sulla lapide e poggiai la mano sul marmo. «Chi gliel'avrebbe detto, vero?» Mio padre, che aveva vissuto la sua esistenza sull'orlo della miseria, riposava per l'eternità in una tomba da borghese. Da bambino non avevo mai capito perché il giornale avesse deciso di pagargli un funerale con un prete elegante e le prefiche, i fiori e un sepolcro da importatore di zucchero. Nessuno mi disse che era stato Vidal a pagare i fasti dell'uomo morto al suo posto, anche se io l'avevo sempre sospettato, attribuendo quel gesto alla bontà e generosità infinite con cui il cielo aveva benedetto il mio mentore e idolo, il grande don Pedro Vidal. «Devo chiederle perdono, papà. Per anni l'ho odiata per avermi lasciato qui, da solo. Mi dicevo che aveva avuto la morte che si era cercato. Per questo non ero mai venuto a trovarla. Mi perdoni.» A mio padre non erano mai piaciute le lacrime. Credeva che un uomo non piangesse mai per gli altri, ma solo per se stesso. E se lo faceva era un vigliacco e non meritava nessuna pietà. Non volli piangere per lui e tradirlo ancora una volta. «Mi sarebbe piaciuto che lei vedesse il mio nome su un libro, anche se non avrebbe potuto leggerlo. Mi sarebbe piaciuto averla qui, con me, per vedere come suo figlio riusciva ad aprirsi una strada e a fare alcune delle cose che a lei vennero sempre vietate. Mi sarebbe piaciuto conoscerla, papà, e che lei conoscesse me. L'ho trasformata in un estraneo per dimenticarla e adesso l'estraneo sono io.» Non lo sentii avvicinarsi, ma sollevando la testa vidi il principale che mi osservava in silenzio ad appena pochi metri. Mi alzai e mi avvicinai a lui come un cane ben ammaestrato. Mi chiesi se sapesse che lì era sepolto mio padre e se mi avesse dato appuntamento in quel posto proprio per quel motivo. La mia faccia doveva essere un libro aperto, perché lui scosse la testa e mi posò una mano sulla spalla. «Non lo sapevo, Martín. Mi dispiace.» Non ero disposto ad aprirgli la porta del cameratismo. Mi girai per liberarmi dal suo gesto di affetto e commiserazione e strinsi gli occhi per trat-
tenere lacrime di rabbia. Mi avviai verso l'uscita, senza aspettarlo. Lui attese qualche secondo e poi decise di seguirmi. Camminò al mio fianco in silenzio fin quando arrivammo alla porta principale. Lì mi fermai e lo guardai con impazienza. «E allora? Ha qualche commento?» Il principale ignorò il mio tono vagamente ostile e sorrise paziente. «Il lavoro è eccellente.» «Ma...» «Se dovessi fare un'osservazione seria, credo che lei abbia colto nel segno costruendo tutta la storia dal punto di vista di un testimone dei fatti che si sente vittima e parla in nome del popolo che attende questo salvatore guerriero. Voglio che continui su questa strada.» «Non le sembra forzato, artificioso...?» «Al contrario. Niente ci fa credere più della paura, della certezza di essere minacciati. Quando ci sentiamo vittime, tutte le nostre azioni e le nostre credenze vengono legittimate, per quanto discutibili siano. I nostri oppositori, o semplicemente i nostri vicini, smettono di essere al nostro livello e diventano nemici. Smettiamo di essere aggressori per diventare difensori. L'invidia, l'avidità o il risentimento che ci muovono vengono santificati, perché diciamo a noi stessi di agire in nostra difesa. Il male, la minaccia, è sempre nell'altro. Il primo passo per credere con passione è la paura. La paura di perdere la nostra identità, la nostra vita, la nostra condizione o le nostre fedi. La paura è la polvere da sparo e l'odio è la miccia. Il dogma, in ultima istanza, è solo un fiammifero acceso. È qui che la sua trama ha qualche lacuna, credo.» «Mi chiarisca una cosa. Lei cerca fede o dogma?» «Ci può bastare che le persone credano. Devono credere a quello che vogliamo che credano. E non devono metterlo in discussione né ascoltare la voce di chi lo fa. Il dogma deve far parte dell'identità stessa. Chiunque lo metta in discussione è nostro nemico. È il male. Ed è nostro diritto, e dovere, affrontarlo e distruggerlo. È l'unico cammino di salvezza. Credere per sopravvivere.» Sospirai e distolsi lo sguardo, annuendo di malavoglia. «Non la vedo convinto, Martín. Mi dica quello che pensa. Crede che mi sbagli?» «Non lo so. Credo che semplifichi le cose in modo pericoloso. Tutto il suo discorso sembra un semplice meccanismo per generare e incanalare odio.»
«L'aggettivo che stava per usare non era pericoloso, bensì ripugnante, ma non ne terrò conto.» «Perché dobbiamo ridurre la fede a un atto di rifiuto e di obbedienza cieca? Non è possibile credere in valori di accettazione, di concordia?» Il principale sorrise, divertito. «È possibile credere in qualunque cosa, Martín, nel libero mercato o in Topolino. Perfino nel fatto che non crediamo in nulla, come fa lei, che è la credulità più grande. Ho ragione?» «Il cliente ha sempre ragione. Qual è la lacuna che vede nella storia?» «Manca il cattivo. La maggior parte di noi, ce ne rendiamo conto o no, ci definiamo in opposizione a qualcosa o a qualcuno, più che a favore di qualcosa o qualcuno. È più facile reagire che agire, per così dire. Niente ravviva la fede e lo zelo del dogma quanto un buon antagonista. Quanto più inverosimile, tanto meglio.» «Avevo pensato che quel ruolo potesse funzionare meglio in astratto. L'antagonista sarebbe il non credente, lo straniero, colui che è fuori dal gruppo.» «Sì, però mi piacerebbe che fosse più concreto. È difficile odiare un'idea. Richiede una certa disciplina intellettuale e uno spirito ossessivo e malsano, che non abbondano. È molto più facile odiare qualcuno con un volto riconoscibile a cui dare la colpa di tutto ciò che ci disturba. Non deve essere per forza un personaggio individuale. Può essere una nazione, una razza, un gruppo... quello che sia.» Il cinismo nitido e sereno del principale riusciva ad averla vinta anche con me. Sospirai, abbattuto. «Adesso non mi faccia il cittadino modello, Martín. Per lei fa lo stesso, e abbiamo bisogno di un cattivo in questo vaudeville. Dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro. Non c'è dramma senza conflitto.» «Che tipo di cattivo le piacerebbe? Un tiranno invasore? Un falso profeta? L'uomo nero?» «Lascio a lei la scelta dei costumi di scena. Uno qualunque degli abituali sospetti mi sta bene. Una delle funzioni del nostro cattivo dev'essere quella di consentirci di adottare il ruolo di vittima e reclamare la nostra superiorità morale. Proietteremo su di lui tutto quello che siamo incapaci di riconoscere in noi stessi e che demonizziamo in accordo con i nostri interessi personali. È l'aritmetica di base del fariseismo. Le ho già detto di leggere la Bibbia. Tutte le risposte che cerca sono lì.» «Lo sto facendo.»
«Basta convincere il sant'uomo che è libero da ogni peccato perché inizi a tirare pietre, o bombe, con entusiasmo. E in realtà non c'è bisogno di un grande sforzo, perché si convince con un minimo di coraggio e di alibi. Non so se mi spiego.» «Alla perfezione. I suoi argomenti hanno la sottigliezza di un crogiolo siderurgico.» «Non credo che mi piaccia tanto questo tono condiscendente, Martín. Le pare forse che tutto ciò non sia all'altezza della sua purezza morale o intellettuale?» «Assolutamente» mormorai, pusillanime. «Cos'è allora che le solletica la coscienza, amico mio?» «Il solito. Non sono sicuro di essere il nichilista che le serve.» «Nessuno lo è. Il nichilismo è una posa, non una dottrina. Metta la fiamma di una candela sotto i testicoli di un nichilista e constaterà come vede in fretta la luce dell'esistenza. A darle fastidio è un'altra cosa.» Alzai lo sguardo e ripescai il tono più di sfida che ero capace di usare fissando il principale negli occhi. «Forse a darmi fastidio è che posso capire tutto quello che dice, ma non lo sento.» «La pago per sentire?» «A volte pensare e sentire sono la stessa cosa. L'idea è sua, non mia.» Il principale sorrise con una delle sue pause drammatiche, come un maestro di scuola che prepara la stoccata letale con cui zittire un alunno discolo e svogliato. «E lei cosa sente, Martín?» L'ironia e il disprezzo nella sua voce mi diedero coraggio e aprii il rubinetto dell'umiliazione che avevo accumulato per mesi alla sua ombra. Rabbia e vergogna di sentirmi intimorito dalla sua presenza e di permettere i suoi discorsi avvelenati. Rabbia e vergogna perché mi aveva dimostrato che, sebbene io preferissi credere che in me c'era disperazione, la mia anima era meschina e miserabile quanto il suo umanesimo da fogna. Rabbia e vergogna di sentire, di sapere, che aveva sempre ragione, soprattutto quando faceva più male accettarlo. «Le ho fatto una domanda, Martín. Cosa sente lei?» «Sento che la cosa migliore sarebbe lasciare le cose come stanno e restituirle i suoi soldi. Sento che, qualunque cosa si proponga con questa assurda impresa, preferisco non parteciparvi. E soprattutto sento che mi dispiace averla conosciuta.»
Il mio principale lasciò cadere le palpebre e s'immerse in un lungo silenzio. Si voltò e si allontanò di qualche passo in direzione delle porte della necropoli. Osservai il suo profilo scuro ritagliato sullo sfondo del giardino di marmo, e la sua ombra immobile sotto la pioggia. Provai paura, un timore torbido che mi nasceva dalle viscere e mi ispirava un desiderio infantile di chiedere scusa e di accettare qualunque punizione mi venisse imposta pur di non dover sopportare quel silenzio. E provai schifo. Della sua presenza e, specialmente, di me stesso. Il principale si girò e si avvicinò di nuovo. Si fermò ad appena pochi centimetri e chinò il suo volto sul mio. Sentii il suo alito freddo e mi persi nei suoi occhi neri, senza fondo. Stavolta la voce e il tono erano di ghiaccio, privi di quella umanità pratica e studiata che sprizzavano la sua conversazione e i suoi gesti. «Glielo dirò per l'ultima volta. Lei farà la sua parte e io la mia. Questa è l'unica cosa che può e deve sentire.» Non mi resi conto che stavo annuendo ripetutamente finché il principale non tirò fuori il plico di pagine dalla tasca e me le tese. Le lasciò cadere prima che potessi prenderle. Il vento le trascinò in un mulinello e le vidi spargersi verso l'entrata del camposanto. Mi affrettai a cercare di salvarle dalla pioggia, ma alcune erano cadute nelle pozzanghere e si dissanguavano nell'acqua, mentre le parole si staccavano a filamenti. Le riunii tutte in un mazzo di carta bagnata. Quando alzai gli occhi e mi guardai intorno, il principale se n'era andato. 27 Se c'era un momento in cui avevo avuto bisogno di un volto amico nel quale rifugiarmi, era quello. Il vecchio edificio della "Voz de la Industria" spuntava dietro i muri del cimitero. Mi diressi lì con la speranza di trovare il mio maestro don Basilio, una di quelle rare anime immuni dalla stupidità del mondo che danno sempre buoni consigli. Entrando nella sede del giornale, scoprii che ancora riconoscevo la maggior parte del personale. Sembrava che non fosse passato neppure un minuto da quando me n'ero andato sei anni prima. Quelli che mi riconobbero, a loro volta, mi guardavano con sospetto e distoglievano lo sguardo per evitare di dovermi salutare. Mi infilai nella sala della redazione e andai dritto nello studio di don Basilio, in fondo. La sala era vuota. «Chi cerca?»
Mi girai e mi imbattei in Roseli, uno dei redattori che già mi sembravano vecchi quando lavoravo lì da ragazzino e che aveva firmato la recensione velenosa dei Passi del cielo in cui venivo definito "redattore di annunci a pagamento". «Signor Roseli, sono Martín. David Martín. Non si ricorda di me?» Roseli dedicò vari secondi a ispezionarmi, fingendo di avere grande difficoltà a riconoscermi, e alla fine annuì. «E don Basilio?» «Se n'è andato due mesi fa. Lo troverà alla redazione della "Vanguardia". Se lo vede, me lo saluti.» «Certamente.» «Mi dispiace per la faccenda del suo libro» disse Roseli con un sorriso compiacente. Attraversai la redazione navigando tra sguardi schivi, sorrisi sghembi e mormorii gelidi. Il tempo cura tutto, pensai, meno la verità. Mezz'ora più tardi, un taxi mi lasciava alle porte della sede della "Vanguardia" in calle Pelayo. A differenza della sinistra decrepitezza del mio vecchio giornale, lì tutto promanava un'aria di signorilità e di opulenza. Mi identificai al banco della portineria e un ragazzo con l'aspetto da apprendista, che mi ricordò me stesso nei miei anni da Grillo Parlante, fu mandato ad avvisare don Basilio che aveva visite. L'aspetto leonino del mio vecchio maestro non era venuto meno con il passare degli anni. Se possibile, e con il tocco del nuovo abbigliamento in tono con l'esclusiva scenografia, don Basilio aveva un personale formidabile come ai tempi della "Voz de la Industria". Quando mi vide, gli s'illuminarono gli occhi di allegria e, infrangendo il suo ferreo protocollo, mi accolse con un abbraccio nel quale avrei facilmente potuto rompermi due o tre costole se non ci fosse stato del pubblico presente, per il quale, contento o no, don Basilio doveva salvare le apparenze e la reputazione. «Ci stiamo imborghesendo, don Basilio?» Il mio vecchio capo si strinse nelle spalle, facendo un gesto per togliere importanza al nuovo arredamento che lo circondava. «Non si lasci impressionare.» «Non sia modesto, don Basilio, qui è nel tesoro della corona. Li sta già mettendo in riga?» Don Basilio tirò fuori la sua perenne matita rossa e me la mostrò, facendomi l'occhiolino.
«Ne consumo quattro a settimana.» «Due in meno che alla "Voz".» «Mi dia tempo, qui c'è qualche genio che mette la punteggiatura a fucilate e crede che il sommario sia una specie di libro delle addizioni.» Malgrado le sue parole, era evidente che don Basilio si trovava a proprio agio nella nuova casa e aveva perfino un aspetto più florido. «Non mi dica che è venuto a chiedermi lavoro perché sono capace di darglielo» minacciò. «La ringrazio, don Basilio, ma lei sa che ho smesso la tonaca e che il giornalismo non è cosa per me.» «Allora mi dica in cosa può esserle utile questo vecchio brontolone.» «Ho bisogno di informazioni su un vecchio caso per una storia a cui sto lavorando, la morte di un avvocato di grido di nome Marlasca, Diego Marlasca.» «Di quando stiamo parlando?» «1904.» Don Basilio sospirò. «Credito a lungo termine. Ne è passata di acqua sotto i ponti.» «Non abbastanza da ripulire la faccenda.» Don Basilio mi posò la mano sulla spalla e mi fece cenno di seguirlo all'interno della redazione. «Non si preoccupi, è venuto nel posto giusto. Questa brava gente ha un archivio da fare invidia al Vaticano. Se è uscito qualcosa sulla stampa, qui lo troviamo. E poi il capo dell'archivio è un buon amico. L'avverto che io, paragonato a luì, sono Biancaneve. Non faccia caso ai suoi modi bruschi. In fondo, ma proprio in fondo in fondo, è un pezzo di pane.» Seguii don Basilio attraverso un ampio atrio di legni pregiati. Su un lato si apriva una sala circolare con una grande tavola rotonda e una serie di ritratti dai quali ci osservava una pleiade di aristocratici dall'aspetto severo. «La stanza del sabba» spiegò don Basilio. «Qui si riuniscono i capiredattori con il condirettore, che è il sottoscritto, e il direttore e, come i bravi cavalieri della Tavola rotonda, troviamo il santo Graal tutti i giorni alle sette di sera.» «Impressionante.» «Non ha ancora visto nulla» disse don Basilio, strizzandomi l'occhio. «Guardi.» Si mise sotto uno degli augusti ritratti e spinse il pannello di legno che ricopriva la parete. Il pannello cedette con uno scricchiolio, rivelando un
corridoio nascosto. «Eh? Cosa mi dice, Martín? E questo è solo uno dei tanti passaggi segreti della casa. Nemmeno i Borgia avevano un labirinto simile.» Lo seguii lungo il corridoio e arrivammo in una grande sala di lettura circondata da teche di vetro, sepolcro della biblioteca segreta della "Vanguardia". In fondo alla sala, sotto il fascio di luce di una lampada di cristallo verdino, si distingueva la sagoma di un uomo di mezza età seduto a un tavolo a esaminare un documento con una lente. Vedendoci entrare, alzò gli occhi e ci rivolse uno sguardo che avrebbe pietrificato chiunque fosse minorenne o facilmente impressionabile. «Le presento don José Maria Brotons, signore dell'inframondo e capo delle catacombe di questa santa casa» annunciò don Basilio. Brotons, senza mollare la lente, si limitò a osservarmi con quegli occhi che ossidavano al contatto. Mi avvicinai e gli tesi la mano. «Questo è il mio vecchio allievo, David Martín.» Brotons mi strinse la mano di malavoglia e guardò don Basilio. «Lo scrittore?» «In persona.» Brotons annuì. «Ne ha di coraggio, a uscire per strada dopo le mazzate che le hanno dato. Cosa ci fa qui?» «È venuto a supplicare il suo aiuto, benedizione e consiglio su un argomento di alta investigazione e archeologia del documento» spiegò don Basilio. «E dov'è il sacrificio di sangue?» sbottò Brotons. Deglutii. «Sacrificio?» chiesi. Brotons mi guardò come se fossi idiota. «Una capra, un agnellino, almeno un cappone...» Rimasi di stucco. Brotons sostenne il mio sguardo senza battere ciglio per un istante infinito. Poi, quando cominciavo a sentire il prurito del sudore sulla schiena, il capo dell'archivio e don Basilio scoppiarono a ridere. Li lasciai sghignazzare di gusto a mie spese finché restarono senza fiato e dovettero asciugarsi le lacrime. Chiaramente, don Basilio aveva trovato un'anima gemella nel nuovo collega. «Venga da questa parte, giovanotto» disse Brotons, la facciata feroce in ritirata. «Vediamo cosa le troviamo.»
28 Gli archivi del giornale si trovavano in uno degli scantinati del palazzo, sotto il piano che ospitava il grande macchinario della rotativa, un mostro di tecnologia postvittoriana che sembrava un incrocio tra una spaventosa locomotiva a vapore e una macchina per fabbricare fulmini. «Le presento la rotativa, più nota come Leviatano. Faccia attenzione, dicono che si è già divorata più di un incauto» avvertì don Basilio. «È come Giona e la balena, ma con effetto trinciato.» «A qualcosa servirà.» «Uno di questi giorni potremmo buttarci dentro il borsista, quello nuovo, che dice di essere nipote di Macià e fa tanto il furbetto» propose Brotons. «Decida giorno e ora e festeggiamo con un piatto di cap-i-pota» convenne don Basilio. Scoppiarono a ridere come due ragazzini. Dio li fa e poi li accoppia, pensai. La sala dell'archivio era un labirinto di corridoi formati da scaffalature alte tre metri. Un paio di creature pallide, che avevano l'aria di chi non usciva da quello scantinato da quindici anni, svolgevano le funzioni di assistenti di Brotons. Vedendolo, accorsero come cuccioli fedeli in attesa dei suoi ordini. Brotons mi rivolse uno sguardo inquisitorio. «Cosa cerchiamo?» «1904. Morte di un avvocato di nome Diego Marlasca. Membro eminente della buona società barcellonese, socio fondatore dello studio Valera, Marlasca e Sentís.» «Mese?» «Novembre.» A un cenno di Brotons, i due assistenti partirono alla ricerca delle copie del mese di novembre del 1904. A quell'epoca, la morte era tanto presente nel colore dei giorni che la maggioranza dei giornali aprivano ancora la prima pagina con grandi necrologi. C'era da supporre che un personaggio della statura di Marlasca avesse dato origine a più di un articolo sulla stampa cittadina e che il suo necrologio fosse stato materia da prima pagina. Gli assistenti tornarono con parecchi volumi e li depositarono su una grande scrivania. Ci dividemmo i compiti e insieme trovammo il necrologio di don Diego Marlasca in prima pagina, come avevo immaginato. L'edizione era del 23 novembre 1904. «Habemus cadavere» annunciò Brotons, lo scopritore.
C'erano quattro necrologi dedicati a Marlasca. Uno della sua famiglia, uno dello studio, uno dell'ordine degli avvocati di Barcellona e l'ultimo dell'associazione culturale dell'Ateneo Barcelonés. «È il bello dell'essere ricchi. Si muore cinque o sei volte» osservò don Basilio. I necrologi in sé non erano granché interessanti. Suppliche per l'anima immortale del defunto, indicazioni sul fatto che il funerale sarebbe stato riservato agli intimi, grandiosi soffietti a un grande cittadino, erudito e membro insostituibile della società barcellonese eccetera eccetera. «Quello che interessa a lei deve essere nelle edizioni di uno o due giorni prima o dopo» suggerì Brotons. Sfogliammo i quotidiani della settimana della morte dell'avvocato e trovammo una serie di notizie riguardanti Marlasca. La prima annunciava che il famoso erudito era deceduto in un incidente. Don Basilio la lesse a voce alta. «Questa l'ha scritta un orango» sentenziò. «Tre paragrafi ridondanti che non dicono niente e solo alla fine si spiega che la morte è stata accidentale, ma senza dire di che tipo di incidente si è trattato.» «Qui c'è qualcosa di interessante» disse Brotons. Un articolo del giorno successivo spiegava che la polizia stava indagando sulle circostanze dell'incidente per stabilire con precisione l'accaduto. La cosa più interessante era l'affermazione che nel rapporto del medico legale sulla causa del decesso si diceva che Marlasca era morto annegato. «Annegato?» interruppe don Basilio. «Come? Dove?» «Non lo chiarisce. Probabilmente hanno dovuto tagliare il pezzo per inserire questa urgente ed estesa apologia della sardana che apre a tre colonne con il titolo "Al suono della tenora: vigore e armonia"» suggerì Brotons. «Dice chi era il responsabile delle indagini?» domandai. «Un certo Salvador. Ricardo Salvador» disse Brotons. Esaminammo il resto delle notizie relative alla morte di Marlasca, ma non c'era nulla di interessante. I testi si riversavano gli uni negli altri, ripetendo una cantilena che suonava troppo simile alla linea ufficiale fornita dallo studio di Valera e compagni. «Puzza di insabbiamento» suggerì Brotons. Sospirai, scoraggiato. Avevo sperato di trovare qualcosa di più che semplici ricordi mielosi e notizie vuote che non chiarivano nulla degli eventi. «Lei non aveva un buon contatto alla polizia?» chiese don Basilio.
«Come si chiamava?» «Víctor Grandes» disse Brotons. «Magari potrebbe metterla in contatto con quel Salvador.» Tossicchiai e i due omoni mi guardarono con le ciglia aggrottate. «Per ragioni che non c'entrano con questa faccenda, o che forse c'entrano troppo, preferirei non coinvolgere l'ispettore Grandes» spiegai. Brotons e don Basilio si scambiarono un'occhiata. «D'accordo. Qualche altro nome da cancellare dalla lista?» «Marcos e Castelo.» «Vedo che non ha perso il talento di farsi amici dovunque vada» osservò don Basilio. Brotons si sfregò il mento. «Non ci agitiamo. Credo di poter trovare qualche altra via di accesso che non induca sospetti.» «Se mi trova Salvador, le sacrifico quello che vuole, anche un maiale.» «Con questo fatto della gotta, mi hanno tolto gli insaccati, ma non direi di no a un buon sigaro» disse Brotons. «Due» aggiunse don Basilio. Mentre correvo da un tabaccaio di calle Tallers in cerca dei due esemplari di Cohiba più prelibati e cari del negozio, Brotons fece un paio di discrete telefonate alla polizia e confermò che Salvador aveva lasciato il corpo, perché costretto, e aveva iniziato a lavorare come guardaspalle per gli industriali o come detective per diversi studi legali della città. Quando tornai in redazione per consegnare i sigari ai miei benefattori, il capo dell'archivio mi allungò un appunto con un indirizzo. Ricardo Salvador Calle de la Lleona, 21. Ultimo piano. «Che il Signore vi ripaghi» dissi. «E che lei possa vedere quel momento.» 29 La calle de la Lleona, più conosciuta dai locali come calle dels Tres Llits, dei Tre Letti, in onore del celebre postribolo che ospitava, era un vicolo tenebroso quasi quanto la sua reputazione. Partiva dai portici all'ombra di plaza Real e si snodava lungo una fenditura umida ed estranea alla
luce del sole tra vecchi palazzi ammucchiati gli uni sugli altri e cuciti insieme da una perpetua ragnatela di corde di panni stesi. Dalle sue facciate decrepite si staccavano pezzi di intonaco ocra, e le lastre di pietra che ricoprivano il suolo erano state inzuppate di sangue durante gli anni del pistolerismo. Più di una volta l'avevo utilizzata come scenario delle mie storie della Città dei maledetti e perfino adesso, deserta e dimenticata, per me continuava ad avere l'odore degli intrighi e della polvere da sparo. Alla vista di quel cupo scenario, tutto lasciava credere che il pensionamento forzato del commissario Salvador dal corpo di polizia non fosse stato generoso. Il numero 21 era un modesto immobile incassato fra due palazzi che lo stringevano come una tenaglia. Il portone, aperto, non era che un pozzo d'ombra da cui partiva una scala stretta e ripida che saliva a spirale. Il pavimento era pieno di pozzanghere, e un liquido scuro e viscoso sgocciava dagli interstizi fra le mattonelle. Salii le scale alla meglio, senza mollare la ringhiera ma senza fidarmene. C'era solo una porta a ogni pianerottolo e, a giudicare dall'aspetto della proprietà, immaginai che nessuno di quegli appartamenti superasse i quaranta metri quadri. Un piccolo lucernario coronava la tromba delle scale e bagnava di un tenue chiarore i piani superiori. La porta dell'ultimo piano era in fondo a un piccolo corridoio. Mi sorprese trovarla aperta. Bussai con le nocche, ma non ebbi risposta. La porta dava su una stanzetta in cui si vedevano una poltrona, un tavolo e una scaffalatura con libri e scatole di latta. Una specie di cucina e di lavanderia occupavano la camera attigua. L'unica benedizione di quella cella era un terrazzo sul lastrico. Anche la porta del terrazzo era aperta e da lì si insinuava una brezza fresca che portava con sé l'odore di cibo e di bucato dei tetti della città vecchia. «Qualcuno in casa?» chiamai. Non avendo risposta, raggiunsi la porta del terrazzo e mi affacciai fuori. La giungla di tetti, torrette, serbatoi d'acqua, parafulmini e comignoli si estendeva in ogni direzione. Non avevo fatto nemmeno un passo quando sentii il ferro freddo sulla nuca e lo schiocco metallico di un revolver a cui veniva armato il percussore. Non mi venne in mente altro che alzare le mani e cercare di non muovere nemmeno un sopracciglio. «Mi chiamo David Martín. Alla polizia mi hanno dato il suo indirizzo. Vorrei parlare con lei di un caso di cui si è occupato quando era in servizio.» «Lei entra sempre nelle case della gente senza bussare, signor David
Martín?» «La porta era aperta. Ho chiamato, ma forse non mi ha sentito. Posso abbassare le mani?» «Non le ho detto di alzarle. Quale caso?» «La morte di Diego Marlasca. Sono l'inquilino di quella che è stata la sua ultima residenza. La casa della torre in calle Flassaders.» La voce tacque. La pressione del revolver era sempre lì, costante. «Signor Salvador?» domandai. «Sto pensando se non sarebbe meglio farle saltare subito le cervella.» «Non vuole prima sentire la mia storia?» L'uomo allentò la pressione del revolver. Sentii che il percussore veniva rilasciato e mi girai lentamente. Ricardo Salvador aveva un aspetto imponente e cupo, i capelli grigi e gli occhi azzurro chiaro penetranti come aghi. Calcolai che doveva essere sulla cinquantina, ma sarebbe stata dura trovare uomini con la metà dei suoi anni che si azzardassero a sbarrargli la strada. Deglutii. Salvador abbassò il revolver e mi diede le spalle, tornando all'interno dell'appartamento. «Mi scusi per l'accoglienza» mormorò. Lo seguii fino alla piccola cucina e mi fermai sulla soglia. Salvador lasciò la pistola sull'acquaio e accese uno dei fornelli con carta e cartone. Tirò fuori un barattolo di caffè e mi guardò inquisitorio. «No, grazie.» «È l'unica cosa buona che ho, l'avverto» disse. «Allora le faccio compagnia.» Salvador introdusse un paio di generose cucchiaiate di caffè macinato nella caffettiera, la riempì con l'acqua di una brocca e la mise sul fuoco. «Chi le ha parlato di me?» «Qualche giorno fa sono andato a trovare la signora Marlasca, la vedova. È stata lei a parlarmene. Mi ha detto che lei era l'unico ad aver cercato di scoprire la verità, e che questo fatto le era costato il posto.» «È una maniera di descrivere le cose, immagino.» Notai che la menzione della vedova gli aveva intorbidito lo sguardo e mi chiesi cosa fosse accaduto fra loro in quei giorni di sventura. «Come sta?» domandò. «La signora Marlasca.» «Credo che lei le manchi» azzardai. Salvador annuì. La sua ferocia era completamente venuta meno. «È da molto che non vado a trovarla.» «La signora crede che lei la incolpi di quello che le è successo. Penso
che le farebbe piacere rivederla, anche se è passato tanto tempo.» «Forse ha ragione. Forse dovrei andare a trovarla...» «Può parlarmi di quello che accadde?» Salvador recuperò l'aspetto severo e annuì. «Cosa vuole sapere?» «La vedova Marlasca mi ha spiegato che lei non accettò mai la versione secondo cui suo marito si sarebbe tolto la vita e che aveva dei sospetti.» «Più che sospetti. Qualcuno le ha raccontato come morì Marlasca?» «So solo che parlarono di un incidente.» «Morì annegato. O almeno, così diceva il rapporto finale della polizia.» «Come annegò?» «C'è solo un modo di annegare, ma ci tornerò dopo. La cosa curiosa è dove.» «In mare?» Salvador sorrise. Era un sorriso nero e amaro come il caffè che iniziava a salire. Salvador lo annusò. «È sicuro di voler sentire questa storia?» «Non sono mai stato più sicuro di qualcosa in vita mia.» Mi tese una tazza e mi guardò dall'alto in basso, analizzandomi. «Presumo che lei sia già stato a trovare quel figlio di puttana di Valera.» «Se si riferisce al socio di Marlasca, è morto. Ho parlato con il figlio.» «Figlio di puttana pure lui, solo con meno fegato. Non so cosa le abbia raccontato, ma di sicuro non le ha detto che fra tutti e due riuscirono a farmi espellere dal corpo e a trasformarmi in un paria a cui nessuno faceva nemmeno l'elemosina.» «Temo che si sia dimenticato di includerlo nella sua versione dei fatti» ammisi. «Non mi sorprende.» «Mi stava raccontando come annegò Marlasca.» «È lì che le cose si fanno interessanti» disse Salvador. «Sapeva che il signor Marlasca, oltre che avvocato, erudito e scrittore, in gioventù era stato due volte campione della traversata del porto a nuoto organizzata durante le feste natalizie dal Club Natación Barcelona?» «Come può annegare un campione di nuoto?» «Il problema è dove. Il cadavere del signor Marlasca fu trovato nella cisterna sul tetto del Depósito de las Aguas del Parque de la Ciudadela. Conosce il posto?» Deglutii e annuii. Era lì che avevo incontrato Corelli la prima volta.
«Se lo conosce saprà che, quando la cisterna è piena, ha solo un metro di profondità ed è, essenzialmente, una tavola. Il giorno in cui l'avvocato fu trovato morto, era mezza vuota e il livello dell'acqua non arrivava a sessanta centimetri.» «Un campione di nuoto non annega in sessanta centimetri» osservai. «Quello che ho detto anch'io.» «C'erano altre opinioni?» Salvador sorrise amaro. «Per cominciare, è discutibile che sia annegato. Il medico legale che praticò l'autopsia al cadavere trovò un po' d'acqua nei polmoni, ma secondo il suo referto la morte era dovuta a un arresto cardiaco.» «Non capisco.» «Quando Marlasca cadde nella cisterna, o quando qualcuno ce lo spinse, era in fiamme. Il cadavere presentava ustioni di terzo grado sul torso, sulle braccia e sul volto. Secondo il medico legale, il corpo poteva aver bruciato per quasi un minuto prima di entrare in contatto con l'acqua. Resti trovati sui vestiti dell'avvocato rivelavano la presenza di qualche tipo di solvente nei tessuti. Marlasca fu bruciato vivo.» Ci misi qualche secondo a digerire tutto. «Perché qualcuno avrebbe fatto una cosa del genere?» «Regolamento di conti? Semplice crudeltà? Scelga lei. La mia opinione è che qualcuno voleva ritardare l'identificazione del corpo di Marlasca per guadagnare tempo e confondere la polizia.» «Chi?» «Jaco Corbera.» «L'agente di Irene Sabino.» «Che sparì lo stesso giorno della morte di Marlasca con l'importo di un conto corrente personale che l'avvocato aveva presso il Banco Hispano Colonial e di cui sua moglie non sapeva nulla.» «Centomila franchi francesi» dissi. Salvador mi guardò, intrigato. «E lei come fa a saperlo?» «Non ha importanza. Cosa ci faceva Marlasca sul tetto del Depósito de las Aguas? Non è esattamente un luogo di passaggio.» «Questo è un altro punto confuso. Trovammo un'agenda nel suo studio con l'annotazione che aveva lì un appuntamento alle cinque. O così pareva. Sull'agenda figuravano solo un'ora, un luogo e un'iniziale. Una "C". Probabilmente, Corbera.»
«Cosa crede che sia accaduto, allora?» domandai. «Quello che credo, e che l'evidenza suggerisce, è che Jaco ingannò Irene Sabino perché manipolasse Marlasca. Saprà già che l'avvocato era ossessionato da quelle fregature delle sedute spiritiche, specialmente dopo la morte del figlio. Jaco aveva un socio, Damián Roures, introdotto in questi ambienti. Un commediante fatto e finito. Insieme, e con l'aiuto di Irene Sabino, infinocchiarono Marlasca, promettendogli un contatto con il bambino nel mondo degli spiriti. Marlasca era un uomo disperato e disposto a credere a qualsiasi cosa. Quel trio di vermi aveva organizzato l'affare perfetto finché Jaco non diventò più avido del dovuto. C'è chi pensa che la Sabino non agisse in malafede, che fosse davvero innamorata di Marlasca e credesse a tutto proprio come lui. Io non ne sono convinto, ma agli effetti di quanto accadde è irrilevante. Jaco venne a sapere che Marlasca aveva quei fondi in banca e decise di toglierlo di mezzo e sparire con il denaro, lasciando una scia di confusione. L'appuntamento sull'agenda poteva essere una pista falsa lasciata dalla Sabino o da Jaco. Non c'era nessuna prova che l'avesse annotato Marlasca.» «E da dove provenivano i centomila franchi che l'avvocato aveva al Banco Hispano Colonial?» «Lo stesso Marlasca li aveva depositati in contanti un anno prima. Non ho la minima idea di dove avesse preso una cifra del genere. Quello che so è che quanto ne restava fu prelevato, in contanti, la mattina del giorno in cui morì. Gli avvocati dissero poi che il denaro era stato trasferito a una specie di fondo tutelato e che non era scomparso: Marlasca aveva semplicemente deciso di riorganizzare le sue finanze. Ma a me risulta difficile credere che uno riorganizzi le sue finanze e sposti quasi centomila franchi al mattino per poi essere bruciato vivo al pomeriggio. Non credo che quel denaro sia finito in qualche fondo misterioso. Oggi come oggi nulla mi convince che non sia finito nelle mani di Jaco Corbera e Irene Sabino. Almeno all'inizio, perché dubito che lei poi abbia mai visto un centesimo. Jaco sparì con i soldi. Per sempre.» «Cosa ne è stato di lei, allora?» «Questo è un altro degli aspetti che mi fanno pensare che Jaco abbia ingannato Roures e Irene Sabino. Poco dopo la morte di Marlasca, Roures lasciò gli affari d'oltretomba e aprì un negozio di articoli di magia in calle Princesa. Che io sappia, è ancora lì. Irene Sabino lavorò ancora per un paio di anni in cabaret e locali con ingaggi sempre più bassi. L'ultima cosa che seppi di lei fu che si prostituiva nel Raval e che viveva in miseria. Ovvia-
mente non ebbe nemmeno uno di quei franchi. E neppure Roures.» «E Jaco?» «La cosa più probabile è che abbia lasciato il paese sotto falso nome e che si trovi da qualche parte vivendo comodamente di rendita.» In realtà, tutta quella storia, invece di chiarirmi qualcosa, mi spalancava altri interrogativi. Salvador dovette interpretare il mio sguardo sconfortato e mi rivolse un sorriso di commiserazione. «Valera e i suoi amici in Comune riuscirono a fare in modo che la stampa pubblicasse la versione dell'incidente. Risolse la questione con un funerale di lusso per non intorbidare le acque degli affari dello studio, che in buona parte erano gli affari del Comune e della Provincia, e sorvolando sullo strano comportamento del signor Marlasca negli ultimi dodici mesi di vita, da quando aveva abbandonato la famiglia e i soci decidendo di acquistare una casa in rovina in una zona della città in cui non aveva messo il suo piede ben calzato in tutta la vita per dedicarsi, secondo il suo ex socio, a scrivere.» «Valera disse cosa voleva scrivere Marlasca?» «Un libro di poesia o qualcosa del genere.» «E lei gli credette?» «Ho visto cose ben strane nel mio lavoro, amico mio, ma avvocati pieni di soldi che mollano tutto per ritirarsi a scrivere sonetti non fanno parte del repertorio.» «E allora?» «Allora sarebbe stato più ragionevole dimenticarmi della questione e fare quello che mi veniva detto.» «Ma non fu così.» «No. E non perché sia un eroe o un imbecille. Lo feci perché ogni volta che vedevo quella povera donna, la vedova Marlasca, mi si rivoltava lo stomaco e non riuscivo più a guardarmi nello specchio senza fare quello che si suppone fossi pagato per fare.» Indicò l'ambiente misero e freddo che gli faceva da casa e rise. «Mi creda, se l'avessi saputo avrei preferito essere un vigliacco e non mettermi in luce. Non posso dire che alla polizia non mi avessero avvertito. Morto e sepolto l'avvocato, bisognava voltare pagina e dedicare i nostri sforzi alle indagini su anarchici morti di fame e maestri di scuola dalle idee sospette.» «Lei dice sepolto... Dov'è la tomba di Diego Marlasca?» «Credo nella cappella di famiglia del cimitero di Sant Gervasi, non mol-
to lontano dalla casa in cui vive la vedova. Posso chiederle il motivo del suo interesse in questa vicenda? E non mi dica che le si è risvegliata la curiosità solo perché abita nella casa della torre.» «È difficile da spiegare.» «Se vuole un consiglio da amico, guardi me e si curi. Lasci perdere.» «Mi piacerebbe. Il problema è che non credo che questa storia lascerà perdere me.» Salvador mi guardò a lungo e annuì. Prese un foglio e annotò un numero. «Questo è il telefono dei vicini di sotto. Sono brave persone e gli unici ad averlo in tutta la scala. Può trovarmi lì o lasciare un messaggio. Chieda di Emilio. Se ha bisogno di aiuto, non esiti a chiamarmi. E stia attento. Jaco è sparito di scena da molti anni, ma c'è ancora gente a cui non interessa smuovere le acque. Centomila franchi sono una bella cifra.» Accettai il numero e lo misi via. «La ringrazio.» «Di nulla. In fin dei conti, ormai cosa possono farmi?» «Non avrebbe una foto di Diego Marlasca? Non ne ho trovata nemmeno una in tutta la casa.» «Non so... Credo che qualcuna dovrei averla. Mi faccia guardare.» Salvador si diresse verso una scrivania nell'angolo della stanza e tirò fuori una scatola di latta piena di carte. «Conservo ancora documenti del caso... Come vede, non imparo nemmeno con gli anni... Ecco, guardi. Questa foto me la diede la vedova.» Mi tese un vecchio ritratto da studio in cui compariva un uomo alto e di bell'aspetto di quaranta e passa anni che sorrideva alla macchina su uno sfondo di velluto. Mi persi in quello sguardo limpido, chiedendomi come fosse possibile che dietro vi si nascondesse il mondo tenebroso che avevo incontrato nelle pagine di Lux Aeterna. «Posso tenerla?» Salvador esitò. «Credo di sì. Ma non la perda.» «Le prometto che gliela restituirò.» «Mi prometta di stare attento e sarò più tranquillo. E che se non lo farà e si metterà nei guai mi chiamerà.» Gli diedi la mano e me la strinse. «Promesso.»
30 Cominciava a tramontare il sole quando lasciai Ricardo Salvador nella sua fredda soffitta e tornai nella plaza Real inondata da una luce polverosa che dipingeva di rosso le sagome dei passanti. Mi misi a camminare e finii per rifugiarmi nell'unico posto di tutta la città in cui mi ero sempre sentito protetto e ben accolto. Quando arrivai in calle Santa Ana, la libreria Sempere e Figli stava per chiudere. Il crepuscolo strisciava sulla città e una breccia blu e porpora si era aperta in cielo. Mi fermai davanti alla vetrina e vidi che Sempere figlio aveva appena finito di servire un cliente che stava per andarsene. Quando mi vide, sorrise e mi salutò con quella timidezza che sembrava più che altro pudore. «Proprio a lei stavo pensando, Martín. Tutto bene?» «Meglio non si potrebbe.» «Glielo si legge in faccia. Su, entri, facciamo un po' di caffè.» Mi si fece incontro e mi cedette il passo. Entrai nella libreria e aspirai quel profumo di carta e magia che inspiegabilmente a nessuno era ancora venuto in mente di imbottigliare. Sempere figlio mi fece cenno di seguirlo nel retrobottega, dove si mise a preparare una caffettiera. «E suo padre? Come sta? L'ho visto un po' moscio l'altro giorno.» Sempere figlio annuì, come se fosse grato per la domanda. Mi resi conto che probabilmente non aveva nessuno con cui parlarne. «Ha visto tempi migliori, è vero. Il medico dice che deve stare attento all'angina, ma lui insiste a lavorare più di prima. A volte devo arrabbiarmi con lui, ma sembra convinto che se lascia la libreria nelle mie mani andrà tutto a catafascio. Stamattina, quando mi sono alzato, gli ho detto di farmi il favore di restare a letto e di non scendere a lavorare per tutto il giorno. Ci crede? Tre minuti dopo me lo trovo in sala da pranzo che si mette le scarpe.» «È un uomo dalle idee salde» convenni. «È testardo come un mulo» replicò. «Meno male che adesso abbiamo un po' di aiuto, se no...» Sfoderai la mia espressione di sorpresa e innocenza, così sollecita e spontanea. «La ragazza» chiarì Sempere figlio. «Isabella, la sua assistente. Per questo stavo pensando a lei. Spero che non le dispiaccia se passa qualche ora qui. A dire il vero, così come stanno le cose, il suo aiuto è prezioso, ma se lei è contrario...»
Repressi un sorriso per il modo in cui si era sdilinquito con le due elle di Isabella. «Be', se è una cosa temporanea... Isabella è davvero una brava ragazza. Intelligente e lavoratrice» dissi. «Assolutamente di fiducia. Andiamo molto d'accordo.» «Be', lei l'accusa di essere un despota.» «Questo dice?» «In realtà, ha un soprannome per lei: mister Hyde.» «Che angelo. Non ci faccia caso. Sa come sono le donne.» «Sì, lo so» replicò Sempere figlio, in un tono che faceva capire che sapeva molte cose, ma di quella non aveva la minima idea. «Isabella le dice questo di me, ma non creda che a me non dica nulla di lei» azzardai. Vidi che qualcosa gli si agitava in volto. Lasciai che le mie parole corrodessero lentamente gli strati della sua armatura. Mi tese una tazza di caffè con un sorriso premuroso e riprese l'argomento con una scusa che non avrebbe superato il filtro di un'operetta da quattro soldi. «Chissà cosa dirà di me» lasciò cadere. Lo tenni a macerare nell'incertezza qualche istante. «Le piacerebbe saperlo?» chiesi casualmente, nascondendo il sorriso dietro la tazza. Sempere figlio si strinse nelle spalle. «Dice che lei è un uomo buono e generoso, che la gente non la capisce perché è un po' timido e non vede quello che c'è dietro, cito testualmente, un aspetto da attore cinematografico e una personalità affascinante.» Sempere figlio deglutì e mi guardò, attonito. «Non le dirò bugie, Sempere, amico mio. Guardi, in realtà sono contento che abbia tirato fuori l'argomento perché a dire il vero sono giorni che volevo parlarne con lei e non sapevo come fare.» «Parlare di cosa?» Abbassai la voce e lo fissai negli occhi. «A quattr'occhi, le dirò che Isabella vuole lavorare qui perché l'ammira e temo sia segretamente innamorata di lei.» Sempere mi guardava al limite dello sconcerto. «Ma un amore puro, eh! Attenzione. Spirituale. Come un'eroina di Dickens, per capirci. Niente frivolezze né bambinate. Isabella, anche se è giovane, è una donna. Lo avrà sicuramente notato...» «Ora che me lo dice...»
«E non parlo solo della sua, se mi permette la licenza, squisitamente soffice cornice, bensì del quadro di bontà e bellezza interiore che porta dentro di sé, in attesa del momento opportuno per emergere e fare di un fortunato l'uomo più felice del mondo.» Sempere non sapeva dove nascondersi. «E inoltre ha dei talenti nascosti. Parla varie lingue. Suona il piano come gli angeli. Ha una testa per i numeri che nemmeno Isaac Newton. E oltretutto cucina da schianto. Mi guardi. Sono ingrassato diversi chili da quando lavora per me. Delizie che neanche la Tour d'Argent... Non mi dica che non se n'era accorto?» «Be', non ha detto di saper cucinare...» «Parlo del colpo di fulmine.» «A dire il vero...» «Sa cos'è? La ragazza, in fondo, anche se si dà quelle arie da belvetta da domare, è mansueta e timida fino a estremi patologici. Colpa delle monache, che le rimbambiscono con tutte quelle storie sull'inferno e quelle lezioni di taglio e cucito. Viva la scuola laica.» «Be', io avrei giurato che mi ritenesse poco meno che stupido» assicurò Sempere. «Eccola. La prova inconfutabile. Sempere, amico mio, quando una donna tratta qualcuno da stupido significa che le si stanno aguzzando le gonadi.» «Ne è sicuro?» «Più che dell'affidabilità del Banco di Spagna. Mi dia retta, di queste cose un po' ne capisco.» «Così dice mio padre. E cosa devo fare?» «Be', dipende. A lei piace la ragazza?» «Se mi piace? Non so. Come si fa a sapere se...?» «È semplicissimo. Quando la guarda di nascosto le viene voglia come di morderla?» «Morderla?» «Sul sedere, per esempio.» «Signor Martín...» «Non mi faccia il pudico, siamo tra gentiluomini e si sa che noi maschi siamo l'anello perduto tra il pirata e il maiale. Le piace o no?» «Be', Isabella è una ragazza aggraziata.» «Che altro?» «Intelligente. Simpatica. Lavoratrice.»
«Vada avanti.» «E una buona cristiana, credo. Non che io sia molto praticante, però...» «Non me ne parli. Isabella va più a messa di quanto si lavi i denti. Le monache, gliel'ho detto.» «Però di morderla, la verità, non mi era venuto in mente.» «Finché non gliel'ho suggerito io.» «Devo dirle che mi sembra una mancanza di rispetto parlare così di lei, o di chiunque, e che dovrebbe vergognarsi...» protestò Sempere figlio. «Mea culpa» intonai alzando le mani in segno di resa. «Ma non importa, perché ognuno manifesta la propria devozione a suo modo. Io sono una creatura frivola e superficiale, e di lì il mio punto di vista lupesco, ma lei, con quella aurea gravitas, è un uomo dai sentimenti mistici e profondi. Quel che conta è che la ragazza l'adora e che il sentimento è reciproco.» «Be'...» «Niente be' né ma. Le cose come stanno, Sempere. Lei è un uomo rispettabile e responsabile. Se fossi io... cosa glielo dico a fare? Ma lei non è uomo che giochi con i sentimenti nobili e puri di una donna in fiore. Mi sbaglio?» «Credo di no.» «Allora è fatta.» «Cosa?» «Non è chiaro?» «No.» «È ora di farle la corte.» «Prego?» «Corteggiare o, in linguaggio scientifico, fare il filo. Vede, Sempere, per qualche strano motivo, secoli di presunta civiltà ci hanno condotto in una situazione in cui non ci si può buttare addosso alle donne agli angoli di strada, o proporre loro il matrimonio, così di colpo. Prima bisogna fare loro la corte.» «Matrimonio? È impazzito?» «Quello che voglio dirle è che magari, e questa è una sua idea anche se non se n'è ancora reso conto, oggi, domani o dopodomani, quando le sarà passata la fifa e non sembrerà che sbavi, alla fine dell'orario di Isabella in libreria, lei la invita a prendere qualcosa in un posto magico e così vi rendete conto una buona volta di essere fatti l'uno per l'altra. Facciamo a Els Quatre Gats, dove sono un po' spilorci e tengono la luce fioca per risparmiare corrente, e questo aiuta sempre in casi simili. Per la ragazza ordina
un dolce di ricotta con una bella cucchiaiata di miele, che stimola gli appetiti, e poi, come senza volere, le rifila un paio di bicchieri di quel moscatello che dà alla testa per forza e, mentre le mette la mano sul ginocchio, me la rimbambisce con quello scilinguagnolo che tiene tanto ben nascosto, mascalzone.» «Ma se non so niente di lei, né di quello che le interessa né...» «Le interessano le stesse cose che a lei. I libri, la letteratura, l'odore di questi tesori che ha qui e la promessa di passione e avventura dei romanzi popolari. Le interessa sconfiggere la solitudine e non perdere tempo a capire che in questo schifo di mondo niente vale un centesimo se non abbiamo qualcuno con cui condividerlo. Già sa l'essenziale. Il resto lo impara e se lo gode strada facendo.» Sempere restò pensieroso, alternando sguardi alla sua tazza di caffè, intatta, e al sottoscritto, che manteneva di riffa o di raffa il suo sorriso da venditore di titoli di borsa. «Non so se ringraziarla o denunciarla alla polizia» disse alla fine. In quel momento si sentirono i passi pesanti di Sempere padre in libreria. Pochi secondi dopo si affacciava nel retrobottega e ci guardava aggrottando le ciglia. «E allora? Nessuno che bada al negozio e qui in due a fare chiacchiere come se fosse la festa del patrono? E se entra qualche cliente? O uno svergognato che si porta via tutto?» Sempere figlio sospirò, alzando gli occhi al cielo. «Non abbia paura, signor Sempere, i libri sono l'unica cosa al mondo che non si ruba» dissi facendogli l'occhiolino. Un sorriso complice gli illuminò il volto. Sempere figlio ne approfittò per sfuggire alle mie grinfie e svignarsela in libreria. Suo padre si sedette accanto a me e annusò la tazza di caffè lasciata intatta dal figlio. «Cosa dice il medico della caffeina per il cuore?» chiesi. «Quello non si trova le chiappe nemmeno con un manuale di anatomia. Cosa vuole che ne sappia del cuore?» «Più di lei, sicuro» replicai, togliendogli la tazza dalle mani. «Ma se sono un toro, Martín.» «Un mulo, ecco cos'è. Mi faccia il favore di rientrare in casa e di mettersi a letto.» «A letto vale la pena di stare soltanto quando si è giovani e in compagnia.» «Se vuole compagnia, gliela cerco, però non credo che ci troviamo nella
congiuntura cardiaca adeguata.» «Martín, alla mia età l'erotismo si riduce ad assaporare un crème caramel e a guardare il collo alle vedove. A preoccuparmi è l'erede. Qualche progresso su questo terreno?» «Siamo in fase di concimazione e semina. Bisogna vedere se il clima ci aiuta e avremo qualcosa da raccogliere. In due o tre giorni posso farle una previsione al rialzo con il sessanta o settanta per cento di affidabilità.» Sempere sorrise, compiaciuto. «Colpo da maestro, quello di mandarmi Isabella come commessa» disse. «Ma non la vede un po' troppo giovane per mio figlio?» «Quello che vedo un po' immaturo è lui, se devo essere sincero. O si sveglia o Isabella se lo mangia crudo in cinque minuti. Meno male che è di buon carattere, se no...» «Come posso ringraziarla?» «Rientrando in casa e mettendosi a letto. Se ha bisogno di compagnia piccante, si porti Fortunata e Jacinta.» «Ha ragione. Don Benito Pérez-Galdós non tradisce mai.» «Neanche volendo. Su, in branda.» Sempere si alzò. Gli costava muoversi e respirava a fatica, con un soffio rauco che faceva drizzare i capelli in testa. Lo presi per il braccio per aiutarlo e mi accorsi che la sua pelle era fredda. «Non si spaventi, Martín. È il mio metabolismo, un po' lento.» «Oggi mi sembra come quello di Guerra e pace.» «Un pisolino e ritorno come nuovo.» Decisi di accompagnarlo fino all'appartamento in cui abitavano padre e figlio, proprio sopra la libreria, e di assicurarmi che si infilasse sotto le coperte. Ci mettemmo un quarto d'ora a fare le scale. Lungo il cammino incontrammo uno dei vicini, don Anacleto, un affabile professore che dava lezioni di lingua e letteratura dai gesuiti di Casp e stava ritornando a casa. «Come va la vita oggi, Sempere, amico mio?» «In salita, don Anacleto.» Con l'aiuto del professore riuscii ad arrivare al primo piano con Sempere praticamente appeso al collo. «Con il vostro permesso, vado a riposarmi dopo una lunga giornata di battaglia con quel branco di primati che ho come alunni» annunciò il professore. «Ve lo dico io, questo paese si disintegrerà nello spazio di una generazione. Si scanneranno gli uni con gli altri come topi.» Sempere fece un'espressione come a dirmi di non fare troppo caso a don
Anacleto. «Brav'uomo» mormorò «ma affoga in un bicchier d'acqua.» Entrando in casa, mi assalì il ricordo di quella lontana mattina in cui ero arrivato lì insanguinato, con una copia di Grandi speranze tra le mani, e Sempere mi aveva portato in braccio fino in casa e mi aveva offerto una tazza di cioccolata calda, che avevo bevuto mentre aspettavamo il dottore e lui mi sussurrava parole tranquillizzanti e mi puliva il sangue con un asciugamano tiepido e una delicatezza che nessuno mi aveva mai dimostrato prima. A quei tempi, Sempere era un uomo forte che mi pareva un gigante in tutti i sensi e senza il quale non credo sarei sopravvissuto a quegli anni di scarsa fortuna. Poco o nulla restava di quella forza mentre lo sostenevo tra le braccia per aiutarlo a infilarsi a letto e gli mettevo addosso un paio di coperte. Mi sedetti accanto a lui e gli presi la mano senza sapere cosa dire. «Senta, se cominciamo tutti e due a piangere come Maddalene, meglio che se ne vada» disse lui. «Si riguardi, ha capito?» «Fra la bambagia, non abbia paura.» Annuii e mi diressi all'uscita. «Martín?» Mi voltai sulla soglia. Sempere mi fissava con la stessa preoccupazione con cui mi aveva guardato quella mattina in cui avevo perso qualche dente e buona parte dell'innocenza. Me ne andai prima che mi domandasse cosa mi stava succedendo. 31 Una delle prime risorse dello scrittore professionista che Isabella aveva imparato da me era l'arte e la pratica di procrastinare. Ogni veterano del mestiere sa che qualunque occupazione, dal temperare la matita al catalogare le ragnatele, ha la priorità al momento di sedersi alla scrivania per spremersi le meningi. Isabella aveva assorbito per osmosi questa lezione fondamentale e quando arrivai a casa, invece di trovarla allo scrittoio, la sorpresi in cucina a dare gli ultimi ritocchi a una cena che aveva un profumo e un aspetto come se la sua elaborazione avesse richiesto molte ore. «Festeggiamo qualcosa?» chiesi. «Con la faccia che ha, non credo proprio.» «Cosa c'è di buono?»
«Anatra caramellata con pere al forno e salsa al cioccolato. Ho trovato la ricetta in uno dei suoi libri di cucina.» «Io non ho libri di cucina.» Isabella si alzò e prese un volume rilegato in pelle che depositò sul tavolo. Titolo: Le 101 migliori ricette della cucina francese, di Michel Aragon. «Questo lo crede lei. In seconda fila, sugli scaffali della biblioteca, ho trovato di tutto, perfino un manuale di igiene matrimoniale del dottor Pérez-Aguado con illustrazioni molto esplicite e frasi del tipo "la femmina, per disegno divino, non conosce desiderio carnale e la sua realizzazione spirituale e sentimentale si sublima nell'esercizio naturale della maternità e dei lavori domestici". Lì ci sono le miniere del re Salomone.» «E si può sapere cosa cercavi nella seconda fila degli scaffali?» «Ispirazione. E l'ho trovata.» «Però di tipo culinario. Eravamo rimasti che avresti scritto tutti i giorni, con o senza ispirazione.» «Mi sono arenata. E la colpa è sua, perché mi fa fare più lavori e mi coinvolge nei suoi intrighi con quel santarellino di Sempere figlio.» «Ti sembra bello prenderti gioco dell'uomo che è perdutamente innamorato di te?» «Cosa?» «Mi hai sentito. Sempere figlio mi ha confessato che gli hai rubato il sonno. Letteralmente. Non dorme, non mangia, non beve, non può nemmeno orinare, il poveretto, a furia di pensare a te tutto il giorno.» «Lei delira.» «A delirare è il povero Sempere. Avresti dovuto vederlo. Sono stato lì lì per sparargli un colpo e liberarlo dal dolore e dalla miseria che lo angosciano.» «Ma se non mi dà nemmeno retta» protestò Isabella. «Perché non sa come aprire il suo cuore e trovare le parole per esprimere i suoi sentimenti. Noi uomini siamo così. Brutali e primitivi.» «Comunque ha saputo trovarle le parole per sgridarmi, quando ho sbagliato a sistemare la collana degli Episodi nazionali. Bello scilinguagnolo.» «Non è la stessa cosa. Un conto sono i rapporti amministrativi e un altro il linguaggio della passione.» «Stupidaggini.» «Non c'è niente di stupido nell'amore, esimia assistente. Ma, cambiando argomento, ceniamo o no?»
Isabella aveva imbandito una tavola intonata con il banchetto che aveva cucinato, mettendo in campo un arsenale di piatti, posate e bicchieri che non avevo mai visto. «Non so come mai, avendo queste cose bellissime, non le usa. Teneva tutto in qualche cassa nella stanza accanto alla lavanderia» disse Isabella. «È proprio un uomo...» Sollevai uno dei coltelli e lo osservai alla luce delle candele disposte da Isabella. Capii che si trattava delle posate personali di Diego Marlasca e sentii che perdevo completamente l'appetito. «Cosa c'è?» domandò Isabella. Scossi la testa. La mia assistente mi servì due piatti e rimase a guardarmi, in attesa. Provai il primo boccone e sorrisi, annuendo. «Buonissima» dissi. «Un po' gommosa, credo. La ricetta diceva che bisognava arrostirla a fuoco lento per non so quanto tempo, ma con la sua cucina il fuoco o è inesistente o brucia tutto, non c'è via di mezzo.» «È buona» ripetei, mangiando senza avere fame. Isabella mi guardava di sottecchi. Continuammo a cenare in silenzio, con il tintinnio di piatti e posate per unica compagnia. «Diceva sul serio a proposito di Sempere figlio?» Annuii senza alzare gli occhi dal piatto. «E cos'altro le ha detto di me?» «Che hai una bellezza classica, che sei intelligente, intensamente femminile, perché lui è così, un po' vezzoso, e che sente un legame spirituale tra di voi.» Isabella mi infilzò con uno sguardo assassino. «Giuri che non se lo sta inventando» disse. Misi la mano destra sul libro di ricette e sollevai la sinistra. «Lo giuro sulle 101 migliori ricette della cucina francese» dichiarai. «Si giura con l'altra mano.» Cambiai mano e ripetei l'operazione con espressione solenne. Isabella sospirò. «E cosa devo fare?» «Non lo so. Cosa fanno gli innamorati? Vanno a passeggio, a ballare...» «Ma io non sono innamorata di quel signore.» Continuai a degustare l'anatra caramellata, incurante delle sue occhiate insistenti. Dopo un po', Isabella diede una manata sul tavolo. «Mi faccia il piacere di guardarmi. La colpa è tutta sua.»
Lasciai le posate con calma, mi pulii con il tovagliolo e la guardai. «Cosa devo fare?» chiese di nuovo. «Dipende. Ti piace Sempere o no?» Una nube di dubbi le attraversò il viso. «Non lo so. Per cominciare, è un po' vecchio per me.» «Ha praticamente la mia età» osservai. «Al massimo, uno o due anni in più. Forse tre.» «O quattro o cinque.» Sospirai. «È nel fiore della vita. Eravamo rimasti che ti piacevano un po' maturi.» «Non si prenda gioco di me.» «Isabella, non sono io che posso dirti cosa devi fare...» «Questa sì che è buona.» «Lasciami finire. Voglio dire che questa è una cosa fra Sempere e te. Se mi chiedi un consiglio, ti direi di dargli una possibilità. Niente di più. Se uno di questi giorni decide di fare il primo passo e ti invita, diciamo, a prendere qualcosa, accetta. Magari cominciate a parlare e vi conoscete e finite per diventare grandi amici, o magari no. Però credo che Sempere sia un brav'uomo, il suo interesse per te è genuino e oserei dire che, se ci pensi, in fondo anche tu provi qualcosa per lui.» «Lei è pieno di fissazioni.» «Ma Sempere no. E credo che non rispettare l'affetto e l'ammirazione che prova per te sarebbe meschino. E tu non lo sei.» «Questo è un ricatto sentimentale.» «No, è la vita.» Isabella mi fulminò con lo sguardo. Le sorrisi. «Almeno, mi faccia il piacere di finire la cena» ordinò. Svuotai il piatto, lo ripulii con il pane e mi lasciai sfuggire un sospiro di soddisfazione. «Cosa c'è per dessert?» Dopo cena, lasciai un'Isabella meditabonda nella sala di lettura a macerare i suoi dubbi e le sue inquietudini e salii allo studio della torre. Tirai fuori la foto di Diego Marlasca che mi aveva prestato Salvador e la misi ai piedi della lampada. Subito dopo diedi uno sguardo alla piccola cittadella di bloc notes, appunti e fogli che avevo via via accumulato per il principale. Con il gelo delle posate di Diego Marlasca ancora sulle dita, non feci fatica a immaginarlo seduto lì, a contemplare lo stesso panorama sui tetti
della Ribera. Presi a caso una delle mie cartelle e iniziai a leggere. Riconoscevo le parole e le frasi perché le avevo scritte io, ma lo spirito torbido che le nutriva mi era più lontano che mai. Lasciai cadere il foglio a terra e alzai lo sguardo per trovare il mio riflesso sul vetro della finestra, uno sconosciuto sulle tenebre azzurrate che seppellivano la città. Capii che quella notte non avrei potuto lavorare, che non sarei stato in grado di imbastire un solo paragrafo per il principale. Spensi la luce della scrivania e rimasi seduto nella penombra, ascoltando il vento che graffiava le finestre e immaginando Diego Marlasca che precipitava in fiamme nelle acque della cisterna, mentre le ultime bolle d'aria gli uscivano dalle labbra e il liquido gelido gli inondava i polmoni. Mi svegliai all'alba dolorante e incastrato nella poltrona dello studio. Mi alzai e sentii scrocchiare due o tre ingranaggi della mia anatomia. Mi trascinai alla finestra e la spalancai. I tetti della città vecchia brillavano di brina e un cielo porpora si stendeva sopra Barcellona. Al suono delle campane di Santa Maria del Mar, una nuvola di ali nere si alzò in volo da una piccionaia. Un vento freddo e tagliente mi portò l'odore dei moli e delle ceneri di carbone che uscivano dalle ciminiere del quartiere. Scesi nell'appartamento e andai in cucina a preparare il caffè. Diedi un'occhiata alla credenza e restai attonito. Da quando avevo in casa Isabella, la mia dispensa somigliava al negozio di alimentari Quilmes sulla Rambla de Catalunya. In mezzo alla sfilata di manicaretti esotici importati dal negozio del padre di Isabella, trovai una scatola di latta di biscotti inglesi ricoperti di cioccolato e decisi di provarli. Mezz'ora dopo, quando le vene iniziarono a pompare zucchero e caffeina, il cervello si mise in moto ed ebbi la geniale idea di iniziare la giornata complicandomi, se possibile, un po' di più la vita. Appena scoccato l'orario di apertura, avrei fatto una visita al negozio di articoli di magia e prestidigitazione di calle Princesa. «Cosa fa sveglio a quest'ora?» La voce della mia coscienza, Isabella, mi osservava dalla soglia. «Mangio biscotti.» Isabella si sedette a tavola e si versò una tazza di caffè. Aveva l'aria di chi non ha chiuso occhio. «Mio padre dice che è la marca preferita della regina madre.» «Perciò è così bella.» Prese un biscotto e lo mordicchiò con aria assente. «Hai pensato a cosa fare? Con Sempere, intendo dire...» Isabella mi lanciò un'occhiata velenosa.
«E lei cosa farà oggi? Niente di buono, sicuramente.» «Un paio di commissioni.» «Già.» «Già, già? O già, avverbio di tempo?» Isabella posò la tazza sul tavolo e mi affrontò con la sua espressione da interrogatorio sommario. «Perché non parla mai di quello che sta combinando con quel tipo, il suo principale?» «Fra le altre cose, per il tuo bene.» «Per il mio bene. Certo. Che stupida. A proposito, mi sono dimenticata di dirle che ieri è passato il suo amico, l'ispettore.» «Grandes? Era solo?» «No. Con un paio di sgherri grandi come armadi e con la faccia da cani paciosi.» L'idea di Marcos e Castelo alla mia porta mi fece venire un nodo allo stomaco. «E cosa voleva Grandes?» «Non l'ha detto.» «E allora cos'ha detto?» «Mi ha chiesto chi ero.» «E tu cos'hai risposto?» «Che ero la sua amante.» «Davvero spiritosa.» «Be', uno dei ragazzoni si è divertito molto.» Isabella prese un altro biscotto e lo divorò in due morsi. Si accorse che la stavo guardando di sottecchi e smise subito di masticare. «Cosa ho detto?» chiese, spruzzando una nuvola di briciole di biscotto. 32 Un dito di luce vaporosa scendeva dal manto di nuvole e accendeva la pittura rossa della facciata del negozio di articoli di magia di calle Princesa. La bottega si trovava dietro un paravento di legno scolpito. Le vetrate della porta lasciavano intravedere a stento i contorni di un interno cupo e rivestito da tendaggi di velluto nero che avvolgevano vetrine con maschere e aggeggi di gusto vittoriano, mazzi di carte truccati e daghe con i contrappesi, libri di magia e boccette di vetro molato che contenevano un arcobaleno di liquidi con le etichette in latino e probabilmente imbottigliati ad
Albacete. Il campanello dell'entrata annunciò la mia presenza. In fondo c'era un bancone deserto. Attesi qualche secondo, esaminando la raccolta di curiosità del bazar. Stavo cercando il mio volto in uno specchio nel quale si rifletteva tutto il negozio tranne me, quando scorsi con la coda dell'occhio una figura minuta che si affacciava da dietro la tenda del retrobottega. «Un trucco interessante, vero?» disse l'ometto dai capelli bianchi e dallo sguardo penetrante. Annuii. «Come funziona?» «Non lo so ancora. Mi è arrivato un paio di giorni fa da un fabbricante di specchi truccati di Istanbul. L'autore la chiama inversione refrattaria.» «Ci ricorda che niente è quello che sembra» notai. «Eccetto la magia. In cosa posso esserle utile?» «Parlo con il signor Damián Roures?» L'ometto annuì lentamente, senza battere ciglio. Notai che aveva le labbra atteggiate in una smorfia sorridente che, come il suo specchio, non era quello che sembrava. Lo sguardo era freddo e guardingo. «Mi hanno raccomandato il suo negozio.» «Posso chiedere chi è stato così gentile?» «Ricardo Salvador.» Il tentativo di sorriso affabile gli si cancellò dalla faccia. «Non sapevo che fosse ancora vivo. Non lo vedo da venticinque anni.» «E Irene Sabino?» Roures sospirò, scuotendo la testa. Aggirò il bancone e si avvicinò alla porta. Appese il cartello con la scritta "Chiuso" e diede due giri di chiave. «Chi è lei?» «Mi chiamo Martín. Sto cercando di chiarire le circostanze della morte del signor Diego Marlasca, e so che lei lo conosceva.» «Che io sappia, sono state chiarite molti anni fa. Il signor Marlasca si suicidò.» «Io avevo capito un'altra cosa.» «Non so cosa le abbia raccontato quel poliziotto. Il risentimento danneggia la memoria, signor... Martín. Salvador ha già provato a suo tempo a vendere la storia di un complotto di cui non aveva nessuna prova. Tutti sapevano che stava scaldando il letto alla vedova Marlasca e che voleva fare l'eroe della situazione. Come c'era da attendersi, i suoi superiori lo misero in riga e lo espulsero dal corpo.» «Lui crede che ci fu un tentativo di nascondere la verità.»
Roures rise. «La verità... Non mi faccia ridere. Quello che si cercò di coprire fu lo scandalo. Lo studio di Valera e Marlasca aveva le mani in pasta in quasi tutti gli affari di questa città. A nessuno interessava che venisse fuori una storia come quella. Marlasca aveva abbandonato la sua posizione sociale, il lavoro e la moglie per chiudersi in quella casa a fare Dio sa cosa. Chiunque con un po' di sale in zucca poteva immaginare che non sarebbe andata a finire bene.» «Questo non impedì a lei e al suo socio Jaco di mettere a frutto la pazzia di Marlasca promettendogli la possibilità di entrare in contatto con l'aldilà nelle vostre sedute spiritiche...» «Non gli ho mai promesso niente. Quelle sedute erano un semplice divertimento. Lo sapevano tutti. Non cerchi di scaricarmi addosso il morto, io non facevo altro che guadagnarmi la vita onestamente.» «E il suo socio Jaco?» «Io rispondo di me. Quello che faceva Jaco non era responsabilità mia.» «Dunque qualcosa fece.» «Cosa vuole che le dica? Che si portò via i soldi che Salvador insisteva a dire che erano su un conto segreto? Che ammazzò Marlasca e ci ingannò tutti?» «E non andò così?» Roures mi guardò a lungo. «Non lo so. Non l'ho più visto dal giorno che morì Marlasca. Ho già detto a Salvador e agli altri poliziotti quello che sapevo. Non ho mai mentito. Mai. Se Jaco ha fatto qualcosa, non l'ho mai saputo e non ne ho ricavato nulla.» «Cosa mi dice di Irene Sabino?» «Irene amava Marlasca. Non avrebbe mai fatto niente per danneggiarlo.» «Sa cosa ne è stato di lei? È ancora viva?» «Credo di sì. Mi hanno detto che lavorava in una lavanderia del Raval. Irene era una brava donna. Troppo buona. È finita così. Lei credeva a quelle cose. Ci credeva col cuore.» «E Marlasca? Cosa cercava in quel mondo?» «Marlasca era impelagato in qualcosa, non mi chieda cosa. Qualcosa che né io né Jaco gli avevamo venduto né potevamo vendergli. So quello che sentii dire una volta da Irene. A quanto pareva, Marlasca aveva incontrato qualcuno, qualcuno che io non conoscevo, e mi creda che conoscevo e conosco tutti nell'ambiente, che gli aveva promesso che se faceva qualcosa,
non so cosa, avrebbe riscattato il figlio Ismael dal regno dei morti.» «Irene disse chi era questo qualcuno?» «Lei non l'aveva mai visto. Marlasca non glielo permetteva. Ma lei sapeva che lui aveva paura.» «Paura di cosa?» Roures fece schioccare la lingua. «Credeva che fosse maledetto.» «Si spieghi.» «Gliel'ho già detto. Era malato. Era convinto che qualcosa gli si fosse insinuato dentro.» «Qualcosa?» «Uno spirito. Un parassita. Non lo so. Vede, in questo ambiente si conosce molta gente che non ha esattamente la testa a posto. Gli capita una tragedia personale, perdono un amante o una fortuna e precipitano in un buco nero. Il cervello è l'organo più fragile del corpo. Il signor Marlasca era fuori di testa, e chiunque ci parlasse per cinque minuti poteva rendersene conto. Perciò venne da me.» «E lei gli disse quello che voleva sentire.» «No. Gli dissi la verità.» «La sua verità?» «L'unica che conosco. Mi sembrò che quell'uomo fosse seriamente squilibrato e non volli approfittarmi di lui. Queste cose non finiscono mai bene. In questa attività c'è un limite che uno non attraversa se sa cosa gli conviene. Chi arriva in cerca di divertimento o di un po' di emozioni e di consolazione dall'aldilà, viene servito e ci si fa pagare per il lavoro prestato. Ma chi arriva già sul punto di perdere la ragione viene rimandato a casa. Si tratta di uno spettacolo come qualunque altro. Si ha bisogno di spettatori, non di illuminati.» «Un'etica esemplare. Cosa disse, allora, a Marlasca?» «Che erano tutte superstizioni, favole. Gli dissi che ero un commediante che si guadagnava da vivere organizzando sedute spiritiche per poveri disgraziati che avevano perduto i loro cari e avevano bisogno di credere che amanti, padri e amici li aspettassero nell'altro mondo. Gli dissi che non c'era niente dall'altra parte, solo un grande vuoto, che questo mondo era tutto quanto avevamo. Gli dissi di scordarsi degli spiriti e di tornare dalla sua famiglia.» «E lui le credette?» «Evidentemente no. Smise di venire alle sedute e cercò aiuto altrove.»
«Dove?» «Irene era cresciuta nelle baracche della spiaggia del Bogatell e, anche se era diventata famosa ballando e recitando nel Paralelo, apparteneva ancora a quel quartiere. Mi raccontò di aver portato Marlasca da una donna che chiamavano la Strega del Somorrostro per chiedergli protezione dalla persona con cui lui era in debito.» «Irene disse il nome di questa persona?» «Se lo fece, non lo ricordo. Le ho già detto che smisero di venire alle sedute.» «Andreas Corelli?» «Non l'ho mai sentito nominare.» «Dove posso trovare Irene Sabino?» «Le ho già detto tutto quello che so» replicò Roures, esasperato. «Un'ultima domanda e me ne vado.» «Vediamo se è vero.» «Ricorda se ha mai sentito Marlasca parlare di qualcosa chiamato Lux Aeterna?» Roures aggrottò le sopracciglia, negando con la testa. «Grazie per il suo aiuto.» «Di nulla. E, se possibile, non si faccia più vedere.» Annuii e mi diressi all'uscita. Roures mi seguiva con gli occhi, sospettoso. «Aspetti» disse prima che attraversassi la soglia del retrobottega. Mi girai. L'ometto mi osservava, esitante. «Credo di ricordare che Lux Aeterna era il titolo di una specie di pamphlet religioso che usavamo qualche volta nelle sedute dell'appartamento di calle Elisabets. Faceva parte di una collana di libretti simili, probabilmente preso in prestito dalla biblioteca di superstizioni della società El Porvenir. Non so se è quello a cui lei si riferisce.» «Ricorda di cosa trattava?» «Chi lo conosceva meglio era il mio socio, Jaco, che conduceva le sedute. Però, a quanto ricordo, Lux Aeterna era un poema sulla morte e i sette nomi del Figlio del Mattino, il Portatore della Luce.» «Il Portatore della Luce?» Roures sorrise. «Lucifero.» 33
Una volta in strada, mi incamminai verso casa chiedendomi cosa avrei fatto a quel punto. Ero quasi all'imbocco di calle Moncada quando lo vidi. L'ispettore Víctor Grandes, appoggiato al muro, assaporava una sigaretta e mi sorrideva. Mi salutò con la mano e attraversai la strada per andargli incontro. «Non sapevo che fosse interessato alla magia, Martín.» «E io non sapevo che lei mi seguisse, ispettore.» «Non la seguo. Ma lei è un uomo difficile da trovare, così ho deciso che se la montagna non veniva da me, sarei andato io alla montagna. Ha cinque minuti per bere qualcosa? Offre il Comando di polizia.» «In questo caso... Non si è portato gli chaperon oggi?» «Marcos e Castelo sono rimasti al Comando a sbrigare pratiche, però se avessi detto che venivo da lei si sarebbero precipitati.» Scendemmo lungo il canyon di vecchi palazzi medievali fino a El Xampanyet e trovammo un tavolo in fondo al locale. Un cameriere armato di uno straccio che puzzava di varechina ci guardò e Grandes ordinò un paio di birre e un piattino di formaggio. Quando arrivarono le birre e lo stuzzichino l'ispettore mi offrì il piatto, ma declinai l'invito. «Le dispiace? A quest'ora ho una fame che non mi reggo in piedi.» «Bon appétit.» Grandes inghiottì un pezzo di formaggio e se lo gustò a occhi chiusi. «Non le hanno detto che ieri sono passato da casa sua?» «Mi hanno avvisato tardi.» «Comprensibile. Senta, che gioiellino, la bambina. Come si chiama?» «Isabella.» «Canaglia, che bella vita fa qualcuno. La invidio. Quanti anni ha il bocconcino?» Gli lanciai un'occhiata velenosa. L'ispettore sorrise compiaciuto. «Mi ha detto un uccellino che lei ultimamente si è messo a fare il detective. Non lascia niente a noi professionisti?» «Come si chiama il suo uccellino?» «È piuttosto un uccellaccio. Uno dei miei superiori è intimo dell'avvocato Valera.» «Anche lei nell'organico dell'avvocato?» «Ancora no, amico mio. Mi conosce, ormai. Vecchia scuola. L'onore e tutte quelle stronzate.» «Peccato.»
«E mi dica, come sta il povero Ricardo Salvador? Sa che da una ventina d'anni non sentivo quel nome? Lo davano tutti per morto.» «Una diagnosi precipitosa.» «E come sta?» «Solo, tradito e dimenticato.» L'ispettore annuì lentamente. «Fa pensare al futuro che riserva questo mestiere, vero?» «Scommetto che nel suo caso le cose andranno diversamente e che l'ascesa ai vertici del corpo è questione di un paio d'anni. La vedo direttore generale prima dei quarantacinque, a baciare mani a vescovi e generali dell'esercito alla sfilata del Corpus Domini.» Grandes annuì freddamente, ignorando il tono sarcastico. «A proposito di baciamano, ha saputo del suo amico Vidal?» Grandes non iniziava mai una conversazione senza un asso nascosto nella manica. Mi osservò sorridendo, assaporando la mia inquietudine. «Cosa?» mormorai. «Dicono che l'altra notte la moglie ha cercato di suicidarsi.» «Cristina?» «È vero, lei la conosce...» Non mi resi conto che mi ero alzato e che mi tremavano le mani. «Calma. La signora Vidal sta bene. Solo uno spavento. A quanto pare, le è scappata la mano con il laudano.. Mi faccia il piacere di sedersi, Martín. Per favore.» Mi sedetti. Lo stomaco mi si era aggrovigliato in un nodo di chiodi. «Quando è successo?» «Due o tre giorni fa.» Mi venne alla memoria l'immagine di Cristina alla finestra di Villa Helius giorni prima, quando mi salutava con la mano mentre io sfuggivo il suo sguardo e le davo le spalle. «Martín?» chiese l'ispettore, passandomi la mano davanti agli occhi come se temesse che fossi completamente partito. «Sì?» L'ispettore mi osservò con quella che sembrava genuina preoccupazione. «Ha qualcosa da raccontarmi? So che non mi crederà, ma mi piacerebbe aiutarla.» «Crede ancora che sia stato io a uccidere Barrido e il socio?» Grandes negò. «Non l'ho mai creduto, ma ad altri piacerebbe farlo.»
«Allora perché indaga su di me?» «Si tranquillizzi. Non sto indagando su di lei, Martín. Non l'ho mai fatto. Il giorno che lo farò se ne accorgerà. Per il momento la osservo. Mi è simpatico e mi preoccupo che finisca in qualche guaio. Perché non si fida di me e non mi dice cosa sta succedendo?» I nostri sguardi si incontrarono e per un istante fui tentato di raccontargli tutto. L'avrei fatto, se avessi saputo da dove cominciare. «Non succede niente, ispettore.» Grandes annuì e mi guardò con compassione, o forse solo con delusione. Finì la sua birra e lasciò qualche moneta sul tavolo. Mi diede una pacca sulla spalla e si alzò. «Si riguardi, Martín. E stia attento a dove mette i piedi. Non tutti l'apprezzano come me.» «Me ne ricorderò.» Era quasi mezzogiorno quando tornai a casa senza riuscire a non pensare a quello che mi aveva raccontato l'ispettore. Salii i gradini della scalinata lentamente, come se mi pesasse finanche l'anima. Aprii la porta temendo di trovare un'Isabella in vena di conversazione. La casa era silenziosa. Percorsi il corridoio fino al salotto in fondo e la trovai lì, addormentata sul divano con un libro aperto sul petto, uno dei miei vecchi romanzi. Non potei evitare di sorridere. In quei giorni d'autunno, la temperatura in casa era scesa sensibilmente e temetti che potesse prendere freddo. A volte la vedevo girare per casa con una mantella di lana sulle spalle. Andai un istante nella sua stanza per cercarla e mettergliela addosso con circospezione. La porta era socchiusa e, sebbene fossi in casa mia, sta di fatto che non entravo in quella stanza da quando Isabella vi si era sistemata ed ebbi qualche remora a farlo. Scorsi la mantella piegata su una sedia ed entrai a prenderla. La stanza profumava dell'aroma dolce e limonoso di Isabella. Il letto era ancora disfatto e mi chinai per aggiustare le lenzuola e le coperte, sapendo che quando mi dedicavo a qualche lavoro domestico la mia categoria morale guadagnava punti agli occhi della mia assistente. Fu allora che notai qualcosa tra il materasso e la rete. L'angolo di un foglio spuntava dalla rimboccatura del lenzuolo. Quando lo tirai, vidi che si trattava di un plico. Lo estrassi completamente e mi ritrovai fra le mani quelle che sembravano una ventina di buste di carta azzurra legate da un nastro. Mi sentii invadere da una sensazione di gelo, ma negai dentro di me. Sciolsi il nodo del nastro e presi una delle buste. C'erano il mio nome
e il mio indirizzo. Il mittente diceva semplicemente Cristina. Mi sedetti sul letto di spalle alla porta ed esaminai i timbri postali, uno dopo l'altro. Il primo era vecchio di diverse settimane, l'ultimo di tre giorni prima. Tutte le buste erano aperte. Chiusi gli occhi e sentii che le lettere mi cadevano di mano. La sentii respirare alle mie spalle, immobile sulla soglia. «Mi perdoni» mormorò Isabella. Si avvicinò lentamente e si inginocchiò per raccogliere le lettere, a una a una. Quando le ebbe riunite tutte, me le tese con uno sguardo ferito. «L'ho fatto per proteggerla» disse. Le si riempirono gli occhi di lacrime e mi posò la mano sulla spalla. «Vattene» dissi. La scostai da me e mi alzai. Isabella si lasciò cadere a terra, gemendo come se qualcosa le bruciasse dentro. «Vattene da questa casa.» Uscii senza prendermi la briga di chiudermi la porta alle spalle. Arrivai in strada e mi trovai di fronte un mondo di facciate e volti estranei e lontani. Mi misi a camminare senza meta, indifferente al freddo e a quel vento impregnato di pioggia che cominciava a sferzare la città con il respiro di una maledizione. 34 Il tram si fermò alle porte della torre di Bellesguard, dove la città moriva ai piedi della collina. Mi incamminai verso l'ingresso del cimitero di Sant Gervasi seguendo il sentiero di luce giallastra che i fari del tram trapanavano nella pioggia. I muri del camposanto si innalzavano a una cinquantina di metri come una fortezza di marmo dalla quale emergeva un guazzabuglio di statue del colore del temporale. All'entrata trovai una guardiola dove un custode avvolto in un cappotto si riscaldava le mani al fuoco di un braciere. Vedendomi comparire tra la pioggia si alzò allarmato. Mi esaminò per qualche secondo prima di aprire la porticina. «Cerco la cappella della famiglia Marlasca.» «Farà scuro in meno di mezz'ora. Meglio che torni un'altra volta.» «Prima mi dice dov'è, prima me ne vado.» Il custode consultò un elenco e mi mostrò l'ubicazione puntando il dito su una mappa appesa al muro. Mi allontanai senza ringraziarlo. Non fu difficile trovare la cappella in mezzo alla cittadella di tombe e
mausolei che si assiepavano dentro le mura del camposanto. La struttura si trovava su un basamento di marmo. In stile modernista, la cappella descriveva una specie di arco formato da due grandi scalinate disposte a mo' di anfiteatro che ascendevano a un loggione sostenuto da colonne, al cui interno si apriva un atrio fiancheggiato da lapidi. Il loggione era coronato da una cupola sulla cui cima si innalzava una statua di marmo brunito. Il viso era nascosto da un velo, ma avvicinandosi alla cappella si aveva l'impressione che quella sentinella d'oltretomba girasse la testa per seguirlo con gli occhi. Salii per una delle scalinate e, arrivato all'entrata del loggione, mi fermai a guardare indietro. Le luci della città s'intravedevano nella pioggia, lontane. Mi addentrai nel loggione. Al centro si ergeva la statua di una figura femminile abbracciata a un crocifisso in atteggiamento supplice. Il volto era stato sfigurato con dei colpi, e qualcuno aveva dipinto di nero gli occhi e le labbra, conferendole un aspetto da lupa. Non era l'unico segno di profanazione della cappella. Le lapidi mostravano quelli che sembravano marchi o graffi realizzati con qualche oggetto appuntito, e alcune erano state incise con disegni osceni e parole che nella penombra a stento si riuscivano a leggere. La tomba di Diego Marlasca era in fondo. Mi ci avvicinai e misi la mano sulla lapide. Tirai fuori il ritratto di Marlasca che mi aveva dato Salvador e lo esaminai. Fu allora che sentii i passi sulle scale che conducevano alla cappella. Misi la foto nel cappotto e mi girai verso l'ingresso del loggione. I passi si erano fermati e si udiva soltanto la pioggia che batteva sul marmo. Mi avvicinai lentamente all'ingresso e mi affacciai. La sagoma era di spalle, intenta a guardare la città in lontananza. Era una donna vestita di bianco con la testa coperta da uno scialle. Si girò piano e mi guardò. Sorrideva. Nonostante gli anni, la riconobbi all'istante. Irene Sabino. Feci un passo verso di lei e solo allora capii che c'era qualcuno alle mie spalle. Il colpo alla nuca fece esplodere uno spasmo di luce bianca. Sentii che cadevo in ginocchio. Un secondo dopo mi afflosciai sul marmo inzaccherato. Una sagoma scura si stagliava nella pioggia. Irene si inginocchiò accanto a me. Sentii la sua mano tastarmi la testa e palpare il punto in cui avevo ricevuto il colpo. Vidi le sue dita ritrarsi bagnate di sangue. Con quelle mi accarezzò il viso. L'ultima cosa che scorsi prima di perdere i sensi fu Irene Sabino che estraeva un rasoio e l'apriva lentamente, e le gocce argentee di pioggia che scivolavano sulla lama mentre l'avvicinava a me.
Aprii gli occhi al fulgore accecante della lampada a olio. Il volto del custode mi osservava senza alcuna espressione. Cercai di sbattere le palpebre mentre una vampata di dolore mi attraversava il cranio partendo dalla nuca. «È vivo?» chiese il custode, senza specificare se la domanda fosse rivolta a me o puramente retorica. «Sì» gemetti. «Non le venga in mente di mettermi in una fossa.» Il custode mi aiutò a raddrizzarmi. Ogni centimetro mi costava una fitta alla testa. «Cos'è successo?» «Se non lo sa lei... Avrei dovuto chiudere già da un'ora, ma non vedendola sono venuto fin qui per capire cosa succedeva e l'ho trovata a smaltire la sbornia.» «E la donna?» «Quale donna?» «Erano in due.» «Due donne?» Sospirai, scuotendo la testa. «Può aiutarmi ad alzarmi?» Con l'aiuto del custode, riuscii a rimettermi in piedi. Fu allora che sentii il bruciore e mi accorsi di avere la camicia aperta. Diversi tagli superficiali mi attraversavano il petto. «Senta, non è un bello spettacolo...» Mi chiusi il cappotto e, nel farlo, tastai nella tasca interna. La foto di Marlasca era scomparsa. «Ha il telefono nella guardiola?» «Sì, nella sala dei bagni turchi.» «Può almeno aiutarmi a raggiungere la torre di Bellesguard così da lì posso chiamare un taxi?» Il custode imprecò e mi afferrò sotto le ascelle. «Gliel'avevo detto di tornare un'altra volta» disse rassegnato. 35 Mancavano solo pochi minuti a mezzanotte quando arrivai finalmente alla casa della torre. Appena aprii la porta, seppi che Isabella se n'era andata. Il suono dei miei passi nel corridoio aveva un'altra eco. Non accesi nemmeno la luce. Mi addentrai nella casa in penombra e mi affacciai in
quella che era stata la sua stanza. Isabella l'aveva pulita e messa in ordine. Le lenzuola e le coperte erano accuratamente piegate su una sedia, il materasso scoperto. Il suo odore ancora fluttuava nell'aria. Andai in salotto e mi sedetti alla scrivania utilizzata dalla mia assistente. Isabella aveva temperato le matite e le aveva sistemate in modo impeccabile in un bicchiere. La pila di fogli bianchi era in bell'ordine sopra un vassoio. Il set di pennini che le avevo regalato giaceva a un'estremità del tavolo. La casa non mi era mai sembrata così vuota. In bagno mi liberai dei vestiti zuppi e mi misi una garza con dell'alcol sulla nuca. Il dolore era diminuito fino a ridursi a un battito sordo e a una sensazione generale non molto diversa dai postumi di una monumentale sbronza. Allo specchio i tagli sul petto sembravano linee tracciate con una penna. Erano netti e superficiali, ma bruciavano parecchio. Li pulii con l'alcol e sperai che non si infettassero. Mi misi a letto e mi rimboccai fino al collo due o tre coperte. Le uniche parti del corpo che non mi facevano male erano quelle che il freddo e la pioggia avevano intirizzito fino a privarle di sensibilità. Aspettai di scaldarmi, ascoltando quel silenzio freddo, un silenzio d'assenza e di vuoto che soffocava la casa. Prima di andarsene, Isabella aveva lasciato le buste con le lettere di Cristina sul comodino. Allungai la mano e ne tirai fuori una a caso, datata due settimane prima. Caro David, i giorni passano e io continuo a scriverti lettere a cui immagino tu preferisca non rispondere, se pure le apri. Ho iniziato a pensare che le scrivo solo per me, per sconfiggere la solitudine e credere per un istante di averti vicino. Ogni giorno mi domando cosa ne sarà di te e cosa starai facendo. A volte penso che hai lasciato Barcellona per non tornare mai più e ti immagino da qualche parte circondato da estranei, a cominciare una nuova vita che non conoscerò mai. Altre volte penso che mi odii ancora, che distruggi queste lettere e che vorresti non avermi mai conosciuto. Non te ne faccio una colpa. È curioso quanto sia facile raccontare da soli a un pezzo di carta quello che non si osa dire in faccia. Le cose per me non sono facili. Pedro non potrebbe essere più buono e comprensivo con me, tanto che a volte mi irritano la sua pazienza e la sua voglia di farmi felice, che mi fanno sentire sol-
tanto miserabile. Pedro mi ha mostrato che ho il cuore arido e non merito che qualcuno mi ami. Passa quasi tutta la giornata con me. Non vuole lasciarmi sola. Sorrido sempre e condivido il suo letto. Quando mi chiede se lo amo, gli dico di sì, e quando vedo la verità riflessa nei suoi occhi vorrei morire. Non me lo rimprovera mai. Parla molto di te. Gli manchi. Tanto che a volte penso che la persona che più ama al mondo sei tu. Lo vedo invecchiare, da solo, con la peggiore delle compagnie, la mia. Non pretendo che tu mi perdoni, ma se qualcosa desidero a questo mondo è che perdoni lui. Non vale la pena negargli la tua amicizia e la tua compagnia per me. Ieri ho finito di leggere uno dei tuoi libri. Pedro li ha tutti e li ho letti perché è l'unico modo in cui ho l'impressione di stare con te. Era una storia triste e strana, di due pupazzi rotti e abbandonati in un circo ambulante che, per lo spazio di una notte, acquistavano vita sapendo che sarebbero morti all'alba. Leggendola, mi è sembrato che scrivessi di noi. Qualche settimana fa ho sognato di rivederti, ci incontravamo per strada e non ti ricordavi di me. Sorridevi e mi chiedevi come mi chiamavo. Non sapevi nulla di me. Non mi odiavi. Tutte le notti, quando Pedro si addormenta accanto a me, chiudo gli occhi e prego il cielo o l'inferno di permettermi di rifare quel sogno. Domani, o forse dopodomani, ti scriverò di nuovo per dirti che ti amo, anche se questo non significa nulla per te. Cristina Lasciai cadere a terra la lettera, incapace di continuare a leggere. Domani è un altro giorno, dissi fra me. Difficilmente peggiore di oggi. Non immaginavo che le delizie di quella giornata erano solo iniziate. Dovevo essere riuscito a dormire un paio d'ore al massimo quando mi svegliai all'improvviso nel cuore della notte. Qualcuno bussava con forza alla porta. Rimasi qualche secondo stordito nell'oscurità, cercando il filo dell'interruttore della luce. Di nuovo i colpi alla porta. Accesi la luce, scesi dal letto e andai all'ingresso. Aprii lo spioncino. Tre volti nella penombra del pianerottolo. L'ispettore Grandes e, dietro di lui, Marcos e Castelo. Tutti e tre a fissare lo spioncino. Respirai a fondo un paio di volte prima di aprire. «Salve, Martín. Scusi l'ora.» «E che ora sarebbe?»
«Ora di muovere il culo, figlio di puttana» grugnì Marcos, strappando a Castelo un sorriso con cui avrei potuto radermi la barba. Grandes lanciò a entrambi uno sguardo di riprovazione e sospirò. «Le tre di notte passate» disse. «Posso entrare?» Sospirai infastidito, ma annuii, cedendogli il passo. L'ispettore fece cenno ai suoi uomini di aspettarlo sul pianerottolo. Marcos e Castelo annuirono a denti stretti e mi rivolsero uno sguardo subdolo. Gli chiusi la porta in faccia. «Dovrebbe essere più cauto con quei due» disse Grandes mentre s'inoltrava a suo agio lungo il corridoio. «Prego, faccia come se fosse a casa sua...» dissi. Tornai nella mia stanza e indossai a casaccio le prime cose che trovai, vestiti sporchi ammucchiati su una sedia. Quando uscii, non c'era traccia di Grandes. Percorsi il corridoio fino in salotto e lo trovai lì, a contemplare dalla finestra le nubi basse che strisciavano sui tetti. «E il bocconcino?» chiese. «A casa sua.» Grandes si girò sorridendo. «Uomo saggio, non le tiene a pensione completa» disse indicando una poltrona. «Si sieda.» Mi ci lasciai cadere. Grandes rimase in piedi fissandomi. «Allora?» chiesi alla fine. «Ha una brutta faccia, Martín. S'è ficcato in qualche rissa?» «Sono caduto.» «Già. So che oggi è stato al negozio di articoli di magia di proprietà del signor Damián Roures in calle Princesa.» «Ma se mi ha visto uscire di lì a mezzogiorno... Cosa significa tutto questo?» Grandes mi osservava freddamente. «Prenda un cappotto e una sciarpa o quel che sia. Fa freddo. Andiamo al commissariato.» «A fare che?» «Faccia come le dico.» Un'auto del Comando ci aspettava sul paseo del Born. Marcos e Castelo mi ficcarono nell'abitacolo senza troppi riguardi e si appostarono di fianco a me, stringendomi in mezzo. «Sta comodo il signorino?» chiese Castelo affondandomi il gomito nelle
costole. L'ispettore si sedette davanti, accanto all'autista. Nessuno di loro aprì bocca nei cinque minuti che impiegammo a percorrere una via Layetana deserta e sepolta in una nebbia ocra. Arrivati al commissariato, Grandes scese dall'auto ed entrò senza aspettare. Marcos e Castelo mi presero ciascuno per un braccio come se volessero stritolarmi le ossa e mi trascinarono per un labirinto di scale, corridoi e celle fino a una stanza senza finestre che puzzava di sudore e orina. Al centro c'erano un tavolo di legno tarlato e due sedie sgangherate. Una lampadina spoglia pendeva dal soffitto e c'era una grata di scolo in mezzo alla stanza, nel punto in cui convergevano le due leggere pendenze che formavano il pavimento. Faceva un freddo atroce. Prima che me ne rendessi conto, la porta si chiuse con forza alle mie spalle. Sentii dei passi che si allontanavano. Feci dodici giri attorno a quella cella prima di abbandonarmi su una sedia traballante. Nell'ora successiva, a parte il mio respiro, lo scricchiolio della sedia e l'eco di un gocciolio che non riuscii a localizzare, non sentii nessun altro rumore. Un'eternità dopo percepii l'eco di passi che si avvicinavano e dopo un po' la porta si aprì. Marcos si affacciò all'interno della cella, sorridente. Tenne aperta la porta e cedette il passo a Grandes, che entrò senza posare gli occhi su di me e si accomodò sulla sedia dall'altra parte del tavolo. Annuì a Marcos e lui chiuse la porta, non senza avermi prima lanciato un bacio silenzioso in aria e avermi fatto l'occhiolino. L'ispettore ci mise trenta secondi buoni prima di degnarsi di guardarmi in faccia. «Se voleva impressionarmi, ci è riuscito, ispettore.» Grandes non fece caso alla mia ironia e mi fissò come se non mi avesse mai visto. «Cosa sa lei di Damián Roures?» domandò. Mi strinsi nelle spalle. «Non molto. Che ha un negozio di articoli di magia. In realtà non ne sapevo niente fino a qualche giorno fa, quando Ricardo Salvador mi ha parlato di lui. Oggi, o ieri, non so nemmeno più che ora sia, sono andato a trovarlo per avere informazioni sull'uomo che abitava prima nella casa in cui vivo. Salvador mi aveva detto che Roures e il vecchio proprietario...» «Marlasca.» «Sì, Diego Marlasca. Come dicevo, Salvador mi ha raccontato che lui e Roures avevano avuto rapporti anni fa. Gli ho fatto qualche domanda e ha risposto come ha potuto o saputo. E poco altro.»
Grandes annuì ripetutamente. «Questa è la sua versione?» «Non so. Qual è la sua? Confrontiamole e forse riesco a capire che cazzo ci faccio nel cuore della notte a congelarmi in una cantina che puzza di merda.» «Non alzi la voce, Martín.» «Scusi, ispettore, ma credo che potrebbe almeno degnarsi di dirmi cosa ci faccio qui.» «Glielo dirò. Circa tre ore fa, un abitante del palazzo accanto al negozio del signor Roures tornava a casa tardi quando ha visto la porta aperta e le luci accese. Sorpreso, è entrato e, non vedendo il proprietario e non sentendolo rispondere alle sue chiamate, si è diretto nel retrobottega dove lo ha trovato legato mani e piedi con il fil di ferro, su una sedia, in una pozza di sangue.» Grandes fece una lunga pausa che impiegò a trapanarmi con gli occhi. Immaginai che ci fosse qualcos'altro. L'ispettore riservava sempre un colpo a effetto per il finale. «Morto?» domandai. Grandes annuì. «Abbastanza. Qualcuno si è divertito a strappargli gli occhi e a mozzargli la lingua con delle forbici. Il medico legale pensa che sia morto affogato dal suo stesso sangue mezz'ora dopo.» Mi mancava l'aria. Grandes mi camminava intorno. Si fermò alle mie spalle e lo sentii accendersi una sigaretta. «Come ha preso questo colpo? Sembra recente.» «Sono scivolato nella pioggia e ho battuto la nuca.» «Non mi tratti da imbecille, Martín. Non le conviene. Preferisce che la lasci un po' con Marcos e Castelo e vediamo se le insegnano le buone maniere?» «E va bene. Mi hanno colpito.» «Chi?» «Non lo so.» «Questa conversazione comincia ad annoiarmi, Martín.» «S'immagini a me.» Grandes si sedette di nuovo di fronte a me e mi rivolse un sorriso conciliante. «Non crederà che abbia qualcosa a che fare con la morte di quell'uomo?»
«No, Martín. Non lo credo. Però credo che lei non mi stia raccontando la verità e che in qualche modo la morte di quel povero disgraziato sia in rapporto con la sua visita. Come quella di Barrido ed Escobillas.» «Cosa glielo fa pensare?» «Lo chiami un presentimento.» «Le ho già detto quello che so.» «L'ho già avvertita di non prendermi per imbecille, Martín. Marcos e Castelo sono lì fuori in attesa di un'opportunità per fare quattro chiacchiere da soli con lei. È questo che vuole?» «No.» «Allora mi aiuti a tirarla fuori da questa situazione e a rispedirla a casa prima che le si raffreddino le lenzuola.» «Cosa vuole sapere?» «La verità, per esempio.» Spinsi indietro la sedia e mi alzai, esasperato. Il freddo mi era penetrato fin nelle ossa e avevo la sensazione che la testa mi scoppiasse. Cominciai a camminare in circolo attorno al tavolo, sputando fuori le parole come se fossero pietre. «La verità? Le dirò la verità. La verità è che non so quale sia la verità. Non so cosa raccontarle. Non so perché sono andato da Roures e da Salvador. Non so cosa sto cercando né cosa mi sta succedendo. Ecco la verità.» Grandes mi osservava stoicamente. «Smetta di girare e si sieda. Mi sta facendo venire il mal di mare.» «Non ne ho voglia.» «Martín, tra quello che mi dice e il nulla non c'è nessuna differenza. Le chiedo soltanto di aiutarmi in modo che io possa aiutarla.» «Lei non potrebbe aiutarmi neanche volendo.» «E chi può farlo allora?» Mi abbandonai di nuovo sulla sedia. «Non lo so...» mormorai. Mi sembrò di vedere un accenno di compassione, o forse era solo stanchezza, negli occhi dell'ispettore. «Guardi, Martín. Iniziamo da capo. Facciamolo alla sua maniera. Mi racconti una storia. Cominci dal principio.» Lo guardai in silenzio. «Martín, non creda che, siccome mi è simpatico, io non farò il mio lavoro.» «Faccia quello che deve fare. Chiami pure Hansel e Gretel, se vuole.»
In quell'istante notai una punta di inquietudine sul suo viso. Si avvicinavano dei passi nel corridoio e qualcosa mi disse che l'ispettore non li aspettava. Si sentì qualche parola e Grandes, nervoso, si avvicinò alla porta. Bussò tre volte con le nocche e Marcos, che la sorvegliava, aprì. Un uomo con un cappotto di cammello e un vestito elegante entrò nella stanza, si guardò attorno con aria disgustata e poi mi rivolse un sorriso di infinita dolcezza mentre si toglieva i guanti con grande flemma. L'osservai, attonito, riconoscendo l'avvocato Valera. «Sta bene, signor Martín?» domandò. Annuii. L'avvocato condusse l'ispettore in un angolo. Li sentii mormorare. Grandes gesticolava con furia trattenuta. Valera lo osservava freddamente e scuoteva la testa. La conversazione durò quasi un minuto. Alla fine Grandes sospirò e lasciò cadere le braccia. «Prenda la sciarpa, signor Martín, ce ne andiamo» disse Valera. «L'ispettore ha finito con le domande.» Alle sue spalle, Grandes si morse le labbra, fulminando con un'occhiata Marcos, che si strinse nelle spalle. Valera, senza abbandonare il sorriso amabile ed esperto, mi prese per il braccio e mi tirò fuori da quella cella. «Spero che il trattamento ricevuto da parte di questi agenti sia stato corretto, signor Martín.» «Sì» riuscii a balbettare. «Un momento» disse Grandes alle nostre spalle. Valera si fermò e, facendomi cenno di tacere, si voltò. «Per qualsiasi problema con il signor Martín può rivolgersi al nostro studio, che se ne occuperà con molto piacere. Nel frattempo, a meno che lei non abbia qualche motivo grave per trattenere il signor Martín in questi uffici, per oggi ce ne andiamo augurandole buona notte e ringraziandola per la sua cortesia, di cui volentieri riferirò ai suoi superiori, in particolare all'ispettore capo Salgado, che come lei sa è un mio grande amico.» Il sergente Marcos accennò ad avvicinarsi a noi, ma l'ispettore lo trattenne. Scambiai con lui un ultimo sguardo prima che Valera mi prendesse di nuovo per il braccio e mi tirasse via. «Non si fermi» mormorò. Percorremmo il lungo corridoio punteggiato di luci smorte fino a una scala che ci condusse in un altro lungo corridoio, per arrivare poi a una porticina che dava sull'atrio del piano terra e all'uscita, dove ci attendeva una Mercedes-Benz con il motore acceso e un autista che appena vide Valera ci aprì la portiera. Entrai e mi sistemai nell'abitacolo. L'automobile era
dotata di riscaldamento e i sedili di pelle erano tiepidi. Valera si sedette al mio fianco e, con un colpetto sul vetro che separava l'abitacolo dall'autista, gli ordinò di partire. Quando l'automobile fu in moto e imboccò la corsia centrale di via Layetana, mi sorrise come se niente fosse e indicò la nebbia che si apriva al nostro passaggio come una boscaglia. «Una brutta nottata, vero?» chiese come per caso. «Dove andiamo?» «A casa sua, naturalmente. A meno che lei preferisca andare in albergo o...» «No. Va bene.» L'automobile scendeva lentamente per la via Layetana. Valera osservava con indifferenza le strade deserte. «Cosa ci fa lei qui?» domandai alla fine. «Cosa le sembra che stia facendo? La rappresento e tutelo i suoi interessi.» «Dica all'autista di fermarsi.» L'autista cercò lo sguardo di Valera nello specchietto retrovisore. L'avvocato scosse la testa e gli fece cenno di proseguire. «Non dica sciocchezze, signor Martín. È tardi, fa freddo e l'accompagno a casa.» «Preferisco andare a piedi.» «Sia ragionevole.» «Chi l'ha mandata?» Valera sospirò e si sfregò gli occhi. «Lei ha buoni amici, Martín. Nella vita è importante avere buoni amici e soprattutto saperseli conservare» disse. «Importante come sapere quando ci si ostina a proseguire su una strada sbagliata.» «Non sarà quella che passa da casa Marlasca, al numero 13 della carretera de Vallvidrera?» L'avvocato sorrise paziente, come se stesse rimproverando con affetto un bambino discolo. «Signor Martín, mi creda quando le dico che più lontano si tiene da quella casa e da quella faccenda, meglio sarà per lei. Mi dia retta, anche se soltanto su questo consiglio.» L'autista svoltò per il paseo de Colón e imboccò il paseo del Born da calle Comercio. I carretti di pesce e di carne, di ghiaccio e di spezie cominciavano ad accalcarsi davanti alla grande area del mercato. Mentre passavamo, quattro garzoni scaricavano la carcassa squartata di un vitello la-
sciando una scia di sangue e vapore che impregnava l'aria. «Un quartiere pieno di fascino e di scorci pittoreschi, il suo, signor Martín.» L'autista si fermò all'imbocco di calle Flassaders e scese dall'auto per aprirci la portiera. L'avvocato scese insieme a me. «L'accompagno fino al portone» disse. «Penseranno che siamo fidanzati.» Ci addentrammo nel canyon di ombre del vicolo in direzione di casa mia. Arrivati al portone, l'avvocato mi diede la mano con cortesia professionale. «Grazie per avermi tirato fuori da quel postaccio.» «Non ringrazi me» rispose Valera, estraendo una busta dalla tasca interna del cappotto. Riconobbi il sigillo dell'angelo sulla ceralacca perfino nella penombra che sgocciolava dal lampione appeso al muro sulle nostre teste. Valera mi tese la busta e, con un ultimo cenno di assenso, si allontanò per tornare all'automobile che lo stava aspettando. Aprii il portone e salii le scale fino al pianerottolo di casa. Entrando, andai direttamente nello studio e posai la busta sulla scrivania. L'aprii e tirai fuori il foglio ripiegato sulla calligrafia del mio principale. Amico Martín, spero e mi auguro che questo biglietto la trovi di buonumore e in salute. Si dà il caso che sia di passaggio in città e mi piacerebbe molto poter approfittare della sua compagnia questo venerdì alle diciannove nella sala biliardi del Circulo Ecuestre per discutere dei progressi del nostro progetto. Fino ad allora, la saluta con affetto il suo amico Andreas Corelli Ripiegai il foglio e lo rimisi con cura nella busta. Accesi un fiammifero e, tenendola per un angolo, l'avvicinai alla fiamma. La guardai bruciare finché la ceralacca prese fuoco in lacrime scarlatte che si sparsero sulla scrivania e le mie dita si ricoprirono di cenere. «Vada all'inferno» mormorai, mentre la notte, più scura che mai, sprofondava dietro i vetri. 36
Aspettai un'alba che non arrivava seduto sulla poltrona dello studio finché mi vinse la rabbia e uscii in strada disposto a sfidare l'avvertimento dell'avvocato Valera. C'era quel freddo tagliente che precede l'alba in inverno. Attraversando il paseo del Born, mi parve di sentire dei passi alle mie spalle. Mi voltai un istante, ma non riuscii a vedere nessuno, tranne i garzoni del mercato che scaricavano i carretti, e proseguii per la mia strada. Arrivando in plaza Palacio, avvistai le luci del primo tram in attesa tra la nebbiolina che saliva dalle acque del porto. Serpentine di luce azzurrata scintillavano sui fili. Salii sul tram e mi sedetti davanti. Mi fece il biglietto lo stesso controllore della volta precedente. Una decina di passeggeri arrivarono a poco a poco, tutti soli. Dopo pochi minuti il tram partì e iniziammo il tragitto mentre nel cielo si estendeva una rete di capillari rossastri tra le nuvole nere. Non c'era bisogno di essere un poeta o un saggio per sapere che sarebbe stata una brutta giornata. Quando arrivammo a Sarrià, si era fatto giorno con una luce grigia e smorta che impediva di distinguere i colori. Salii per le viuzze solitarie del quartiere verso le falde della collina. A tratti mi pareva di sentire dei passi dietro di me, ma ogni volta che mi fermavo per guardarmi alle spalle non c'era nessuno. Alla fine arrivai all'ingresso del vialetto che portava a Casa Marlasca e mi feci strada attraverso il manto di foglie morte che crepitava ai miei piedi. Attraversai lentamente il cortile e salii gli scalini fino alla porta principale, scrutando i finestroni della facciata. Picchiai tre volte il battente e arretrai di qualche passo. Aspettai un minuto senza ottenere risposta e bussai di nuovo. Sentii l'eco dei colpi perdersi all'interno della casa. «Buongiorno!» chiamai. Il bosco che circondava la villa sembrò assorbire l'eco della mia voce. Aggirai la casa fino al padiglione che ospitava la piscina e mi avvicinai alla veranda a vetrate. Le finestre erano oscurate da imposte di legno socchiuse che impedivano di vedere all'interno. Quella accanto alla porta a vetri che dava sulla veranda era mezza aperta. Attraverso il vetro si vedeva il saliscendi che la chiudeva. Introdussi il braccio dalla finestra socchiusa e liberai il saliscendi. La porta cedette con un suono metallico. Mi guardai ancora una volta alle spalle, assicurandomi che non ci fosse nessuno, ed entrai.
Via via che i miei occhi si abituavano alla penombra, cominciai a indovinare i contorni della sala. Andai ai finestroni e socchiusi le imposte per avere un po' di chiarore. Una sventagliata di lame di luce attraversò le tenebre e disegnò il profilo della stanza. «C'è qualcuno?» chiesi. Sentii il suono della mia voce affondare nelle viscere della casa come una moneta che cade in un pozzo senza fondo. Andai all'estremità della stanza dove un arco di legno intagliato dava su un corridoio buio, fiancheggiato da quadri che a stento si vedevano sui muri di velluto. All'altro capo si apriva un grande salone circolare con pavimenti a mosaico e una vetrata smaltata in cui si distingueva la figura di un angelo bianco con un braccio teso e dita di fuoco. Una grande scalinata di pietra saliva in una spirale che circondava la sala. Mi fermai ai piedi dei gradini e chiamai di nuovo. «Buongiorno! Signora Marlasca?» La casa era immersa in un silenzio assoluto e l'eco smorta si portava via le mie parole. Salii per le scale fino al primo piano e mi fermai sul pianerottolo da cui si potevano contemplare il salone e la vetrata. Da lì potei vedere le tracce lasciate dai miei passi sulla pellicola di polvere che ricopriva il pavimento. A parte le mie orme, l'unico segno di passaggio che riuscii a notare era una specie di corridoio tracciato sulla polvere da due linee continue separate da una distanza di due o tre palmi, con all'interno orme di scarpe. Orme grandi. Osservai quelle tracce, disorientato, finché capii cosa stavo vedendo. I segni di una sedia a rotelle e le orme di chi la spingeva. Mi sembrò di sentire un rumore alle mie spalle e mi voltai. Una porta socchiusa all'estremità di un corridoio oscillava leggermente. Da lì proveniva una corrente di aria fredda. Mi avvicinai piano. Mentre lo facevo, diedi un'occhiata alle stanze che si trovavano su entrambi i lati. Si trattava di camere da letto con i mobili ricoperti da teli e lenzuola. Le finestre chiuse e una penombra fitta suggerivano che non fossero state utilizzate da molto tempo, tranne una più ampia delle altre, una camera da letto matrimoniale. Ci entrai e mi accorsi che odorava di quella strana miscela di profumo e malattia che accompagna le persone anziane. Immaginai che fosse la stanza della vedova Marlasca, ma non c'era traccia della sua presenza. Il letto era rifatto con cura. Di fronte c'era un comò con una serie di ritratti incorniciati. In tutti, senza eccezione, appariva un bambino dai capelli chiari e dall'aria allegra. Ismael Marlasca. In alcune immagini era in posa con la madre o con altri bambini. Non c'era traccia di Diego Marlasca in
nessuna di quelle fotografie. Il rumore di una porta nel corridoio mi spaventò di nuovo e uscii dalla stanza lasciando le foto così come le avevo trovate. La porta all'estremità del corridoio continuava a oscillare. Mi diressi lì e mi fermai un istante prima di entrare. Respirai a fondo e aprii. Era tutto bianco. I muri e il soffitto erano dipinti di un bianco immacolato. Tende di seta bianca. Un lettino coperto da teli bianchi. Un tappeto bianco. Scaffali e armadi bianchi. Dopo la penombra che regnava in tutta la casa, quel barbaglio mi offuscò la vista per qualche secondo. La stanza pareva ricalcare una visione onirica, una fantasia fiabesca. Sugli scaffali c'erano giocattoli e libri di favole. Un arlecchino di porcellana a grandezza naturale era seduto davanti a una toilette, guardandosi allo specchio. Dal soffitto pendeva un giocattolo con tante cordicelle a cui erano appesi degli uccelli bianchi. A prima vista sembrava la stanza di un bambino viziato, Ismael Marlasca, ma l'atmosfera opprimente era quella di una camera mortuaria. Mi sedetti sul letto e sospirai. Solo allora notai che c'era qualcosa che sembrava fuori luogo. A cominciare dall'odore. Una puzza dolciastra aleggiava nell'aria. Mi alzai e mi guardai attorno. Su una cassettiera c'era un piatto di porcellana con una candela nera, la cera sciolta in un grappolo di lacrime scure. Mi girai. L'odore sembrava provenire dalla testiera del letto. Aprii il cassetto del comodino e trovai un crocifisso spezzato in tre parti. Sentivo la puzza più vicina. Feci un paio di giri per la stanza, ma senza trovare la fonte di quell'odore. Fu allora che la vidi. C'era qualcosa sotto il letto. Mi inginocchiai e guardai sotto la rete. Una scatola di latta, come quelle che usano i bambini per conservare i loro tesori d'infanzia. La tirai fuori e la misi sul letto. La puzza era adesso molto più netta e penetrante. Ignorai la nausea e aprii la scatola. All'interno c'era una colomba bianca con il cuore attraversato da un ago. Feci un passo indietro, tappandomi la bocca e il naso, e poi arretrai fino in corridoio. Gli occhi dell'arlecchino, con il loro sorriso da sciacallo, mi osservavano dallo specchio. Tornai di corsa verso le scale e le feci a precipizio, cercando il corridoio che portava alla sala di lettura e la porta che ero riuscito ad aprire in giardino. A un certo punto credetti di essermi perso e che la casa, come una creatura capace di spostare a suo piacimento saloni e corridoi, non volesse lasciarmi fuggire. Alla fine avvistai la veranda a vetrate e corsi verso la porta. Solo allora, mentre armeggiavo con la serratura, sentii quella risata maligna alle mie
spalle e seppi di non essere solo nella casa. Mi voltai un istante e riuscii a scorgere una sagoma scura che mi osservava dal fondo del corridoio impugnando un oggetto rilucente. Un coltello. La serratura cedette sotto le mie mani e aprii la porta con uno spintone. L'impeto mi fece cadere bocconi sulle piastrelle di marmo che circondavano la piscina. La faccia si fermò ad appena un palmo dalla superficie e sentii il fetore dell'acqua stagnante. Per un istante scrutai nelle tenebre che s'intravedevano sul fondo della piscina. Un varco si aprì fra le nubi e la luce del sole scivolò attraverso l'acqua, spazzando il fondo di mosaico disselciato. La visione durò appena un istante. La sedia a rotelle era caduta in avanti, arenata sul fondo. La luce proseguì nel suo percorso verso la parte più profonda della piscina e fu lì che la trovai. Appoggiato alla parete giaceva quello che mi parve un corpo avvolto in un vestito bianco sfilacciato. Pensai che si trattasse di un manichino, con quelle labbra scarlatte corrose dall'acqua e quegli occhi brillanti come zaffiri. I suoi capelli rossi dondolavano lentamente nell'acqua putrida e la pelle era blu. Era la vedova Marlasca. Un secondo dopo, il varco in cielo si richiuse e le acque ridiventarono uno specchio scuro in cui riuscii solo a vedere il mio volto e una sagoma che si materializzava alle mie spalle, sulla soglia della veranda, con il coltello in mano. Mi alzai rapidamente e mi misi a correre verso il giardino, attraversando il bosco, graffiandomi la faccia e le mani con gli arbusti, finché raggiunsi il portone metallico e uscii nel vialetto. Continuai a correre e non mi fermai fino a quando arrivai alla carretera de Vallvidrera. Una volta lì, senza fiato, mi voltai e vidi che Casa Marlasca era di nuovo nascosta oltre il vialetto, invisibile al mondo. 37 Tornai a casa con lo stesso tram, percorrendo la città che si faceva ogni minuto più buia sotto un vento gelido che sollevava le foglie morte per le strade. Scendendo in plaza Palacio, sentii due marinai provenienti dalle banchine parlare di una burrasca che si avvicinava dal mare e che avrebbe colpito la città prima di sera. Alzai lo sguardo e vidi che il cielo cominciava a ricoprirsi di un manto di nubi rosse che si spandevano sul mare come sangue versato. Nelle strade attorno al Born la gente si affannava ad assicurare porte e finestre, i commercianti chiudevano i negozi prima del solito e i bambini uscivano in strada a sfidare il vento, spalancando le braccia a
croce e ridendo del rimbombo dei tuoni lontani. I lampioni sfarfallavano e i balenii dei lampi velavano di luce bianca le facciate. Mi affrettai verso il portone della casa della torre e salii le scale in fretta e furia. Si sentiva il frastuono della burrasca avvicinarsi al di là dei muri. In casa faceva tanto freddo che, entrando in corridoio, potevo vedere il contorno del mio fiato. Andai direttamente nella stanza dove c'era una vecchia stufa a carbone che avevo usato solo quattro o cinque volte da quando abitavo lì e l'accesi con un fascio di giornali vecchi e asciutti. Accesi anche il camino del salotto e mi sedetti a terra davanti alle fiamme. Mi tremavano le mani e non sapevo se era per il freddo o per la paura. Aspettai di recuperare un po' di calore contemplando il reticolo di luce bianca lasciato dai fulmini in cielo. La pioggia non arrivò fino a sera e quando iniziò a cadere precipitò in cortine di gocce furiose che in pochi minuti accecarono la notte e annegarono tetti e vicoli sotto un manto nero che colpiva con forza i vetri e i muri. A poco a poco, tra la stufa a carbone e il camino, la casa si riscaldò, ma io continuavo ad avere freddo. Mi alzai e andai nella camera da letto in cerca di coperte per avvolgermi. Aprii l'armadio e cominciai a frugare nei due grandi cassetti della parte inferiore. L'astuccio era ancora lì, nascosto sul fondo. Lo presi e lo misi sul letto. L'aprii e contemplai il vecchio revolver di mio padre, tutto ciò che mi restava di lui. Lo presi in mano, accarezzando il grilletto con l'indice. Aprii il tamburo e vi introdussi sei pallottole della scatola di munizioni che si trovava nel doppio fondo dell'astuccio. Lasciai la scatola sul comodino e mi portai il revolver e una coperta in salotto. Una volta lì, mi stesi sul sofà avvolto nella coperta con il revolver sul petto e lasciai vagare lo sguardo sul temporale dietro i finestroni. Potevo sentire il rumore dell'orologio che stava sulla mensola del camino. Non avevo bisogno di guardarlo per sapere che mancava appena mezz'ora all'incontro con il principale nella sala biliardi del Circulo Ecuestre. Chiusi gli occhi e lo immaginai mentre percorreva le strade della città, deserte e inondate d'acqua. Lo immaginai sul sedile posteriore della sua automobile, con gli occhi dorati che brillavano nell'oscurità e l'angelo d'argento sul cofano della Rolls-Royce che si faceva strada in mezzo al temporale. Lo immaginai immobile come una statua, senza respiro né sorriso, senza nessuna espressione. Dopo un po', ascoltando il rumore della legna che bruciava e della pioggia sui vetri, mi addormentai con l'arma tra le
mani e la certezza che non sarei andato all'appuntamento. Poco dopo mezzanotte aprii gli occhi. Il fuoco nel camino era quasi spento e il salotto era immerso nella penombra ondeggiante proiettata dalle fiamme azzurrine che consumavano le ultime braci. Continuava a piovere forte. Il revolver era sempre tra le mie mani, tiepido. Rimasi lì, disteso, ancora qualche secondo, senza quasi battere ciglio. Seppi che c'era qualcuno alla porta ancora prima di sentire bussare. Scostai la coperta e mi alzai. Sentii di nuovo i colpi. Nocche sulla porta di casa. Mi alzai con l'arma in pugno e andai in corridoio. Altri colpi. Feci qualche passo verso la porta e mi fermai. Lo immaginai sorridente sul pianerottolo, con l'angelo sul risvolto della giacca che brillava nell'oscurità. Armai il percussore. Di nuovo il rumore di una mano che bussava alla porta. Cercai di accendere la luce, ma non c'era elettricità. Continuai ad avanzare fino alla porta. Stavo per aprire lo spioncino, ma non osai. Rimasi lì immobile, quasi senza respirare, tenendo l'arma puntata verso la porta. «Se ne vada» urlai, senza forza nella voce. Sentii allora quel pianto dall'altra parte e abbassai il revolver. Aprii la porta nel buio e la trovai lì. Aveva i vestiti bagnati e tremava. La sua pelle era gelida. Quando mi vide, fu sul punto di cadere tra le mie braccia. La sostenni e, senza trovare le parole da dire, l'abbracciai forte. Mi sorrise debolmente e quando le misi la mano sulla guancia la baciò chiudendo gli occhi. «Perdonami» mormorò Cristina. Aprì gli occhi e mi rivolse quello sguardo ferito e spezzato che mi avrebbe perseguitato fino all'inferno. Le sorrisi. «Benvenuta a casa.» 38 La spogliai alla luce di una candela. Le tolsi le scarpe zuppe d'acqua, il vestito bagnato e le calze sfilacciate. Le asciugai il corpo e i capelli con un asciugamano pulito. Tremava ancora di freddo quando la feci sdraiare sul letto e mi stesi accanto a lei, abbracciandola per scaldarla. Restammo così a lungo, in silenzio, ad ascoltare la pioggia. Lentamente sentii che il suo corpo s'intiepidiva sotto le mie mani e cominciava a respirare profondamente. Credevo si fosse addormentata, quando la sentii parlare nella penombra.
«La tua amica è venuta a trovarmi.» «Isabella.» «Mi ha raccontato che ti aveva nascosto le mie lettere. Che non l'aveva fatto in malafede. Credeva di farlo per il tuo bene e forse aveva ragione.» Mi chinai su di lei e cercai i suoi occhi. Le accarezzai le labbra e sorrise debolmente. «Pensavo che ti fossi dimenticato di me» disse. «Ci ho provato.» Il suo viso era segnato dalla stanchezza. I mesi di assenza le avevano disegnato delle linee sulla pelle e il suo sguardo aveva un'aria di sconfitta e di vuoto. «Non siamo più giovani» disse, leggendo nei miei pensieri. «Quando siamo stati giovani, tu e io?» Scostai la coperta e contemplai il suo corpo nudo steso sul lenzuolo bianco. Le accarezzai il collo e il seno, sfiorandole appena la pelle con la punta delle dita. Le disegnai cerchi sul ventre e tracciai il contorno delle ossa che si insinuavano sotto i fianchi. Lasciai che le mie dita giochicchiassero sul vello quasi trasparente tra le sue cosce. Cristina mi osservava in silenzio, con il sorriso spezzato e gli occhi socchiusi. «Cosa facciamo?» chiese. Mi chinai su di lei e la baciai sulle labbra. Mi abbracciò e rimanemmo lì distesi mentre la luce della candela si esauriva lentamente. «Qualcosa ci verrà in mente» mormorò. Poco dopo l'alba mi svegliai e scoprii di essere solo nel letto. Mi alzai di scatto, temendo che Cristina se ne fosse andata di nuovo nel cuore della notte. Allora vidi che i suoi vestiti e le sue scarpe erano ancora sulla sedia e respirai a fondo. La trovai in salotto, avvolta in una coperta e seduta a terra davanti al camino, dove un ciocco ridotto ormai a brace sprigionava una fiamma azzurra. Mi sedetti accanto a lei e la baciai sul collo. «Non riuscivo a dormire» disse, con lo sguardo fisso sul fuoco. «Potevi svegliarmi.» «Non me la sono sentita. Avevi l'aria di esserti addormentato per la prima volta da mesi. Ho preferito esplorare la tua casa.» «E allora?» «Questa casa è stregata di tristezza» disse. «Perché non le dai fuoco?» «E dove andremmo a vivere?»
«Al plurale?» «Perché no?» «Credevo che non scrivessi più racconti fantastici.» «È come andare in bicicletta. Una volta che hai imparato...» Cristina mi guardò a lungo. «Cosa c'è nella stanza in fondo al corridoio?» «Niente. Vecchie cianfrusaglie.» «È chiusa a chiave.» «Vuoi vederla?» Scosse la testa. «È solo una casa, Cristina. Un mucchio di pietre e ricordi. Niente di più.» Cristina annuì con scarsa convinzione. «Perché non ce ne andiamo?» domandò. «Dove?» «Lontano.» Non riuscii a evitare di sorridere, ma lei non fece altrettanto. «Dove?» chiesi di nuovo. «Dove nessuno sappia chi siamo e a nessuno importi saperlo.» «È questo che vuoi?» «E tu no?» Esitai un istante. «E Pedro?» domandai, quasi strozzandomi con le parole. Lasciò cadere la coperta che aveva sulle spalle e mi fissò con aria di sfida. «Hai bisogno del suo permesso per venire a letto con me?» Mi morsi la lingua. Cristina mi guardava con le lacrime agli occhi. «Scusa» mormorò. «Non avevo il diritto di dirlo.» Raccolsi la coperta da terra e cercai di mettergliela addosso, ma lei si scostò e respinse il mio gesto. «Pedro mi ha lasciato» disse con la voce rotta. «Si è trasferito ieri al Ritz ad aspettare che me ne andassi. Mi ha detto che sapeva che non lo amo, che l'ho sposato per gratitudine o per pietà. Mi ha detto che non vuole la mia compassione, che ogni giorno che trascorro accanto a lui fingendo di amarlo gli faccio del male. Mi ha detto che, qualunque cosa avrei fatto, mi avrebbe sempre amato e che per questo non voleva più rivedermi.» Le tremavano le mani. «Mi ha amato con tutto il cuore e io ho saputo solo renderlo infelice»
mormorò. Chiuse gli occhi e il suo volto si contrasse in una smorfia di dolore. Un attimo dopo le sfuggì un gemito profondo e iniziò a prendersi a pugni la faccia e il corpo. Mi gettai su di lei e la strinsi tra le braccia, immobilizzandola. Cristina si divincolava e urlava. La premetti contro il pavimento, tenendola per le mani. Si arrese lentamente, esausta, il volto coperto di lacrime e saliva, gli occhi arrossati. Restammo così quasi mezz'ora, fin quando sentii il suo corpo rilassarsi e sprofondare in un lungo silenzio. Le misi addosso la coperta e l'abbracciai da dietro, nascondendole le mie lacrime. «Ce ne andremo lontano» le mormorai all'orecchio senza sapere se poteva sentirmi o capirmi. «Ce ne andremo lontano dove nessuno sappia chi siamo e a nessuno importi saperlo. Te lo prometto.» Cristina girò la testa e mi guardò. Aveva l'aria assente, come se le avessero spezzato l'anima a martellate. L'abbracciai forte e la baciai in fronte. La pioggia continuava a battere sui vetri. Intrappolati nella luce grigia e pallida dell'alba smorta, pensai per la prima volta che stavamo affondando. 39 Abbandonai il lavoro per il principale quel mattino stesso. Mentre Cristina dormiva, salii nello studio e misi la cartellina che conteneva pagine, note e appunti in un vecchio baule addossato a un muro. Il primo impulso era stato di darle fuoco, ma non ne ebbi il coraggio. Per tutta la vita avevo sentito che le pagine che lasciavo al mio passaggio erano parte di me. La gente normale mette al mondo dei figli; noi romanzieri dei libri. Siamo condannati a metterci la vita, anche se quasi mai ce ne sono grati. Siamo condannati a morire nelle loro pagine e a volte perfino a lasciare che siano loro a toglierci la vita. Fra tutte le strane creature di carta e inchiostro che avevo portato in questo miserabile mondo, quella, la mia offerta mercenaria alle promesse del principale, era senza dubbio la più grottesca. Non c'era nulla in quelle pagine che meritasse qualcosa di diverso dal fuoco, ma era pur sempre sangue del mio sangue e non avevo il coraggio di distruggerla. L'abbandonai in fondo a quel baule e uscii dallo studio afflitto, quasi vergognandomi della mia vigliaccheria e della torbida sensazione di paternità che m'ispirava quel manoscritto tenebroso. Probabilmente il principale avrebbe saputo apprezzare l'ironia della situazione. A me, semplicemente, dava la nausea.
Cristina dormì fino al pomeriggio inoltrato. Ne approfittai per andare a comprare un po' di latte, pane e formaggio in una bottega accanto al mercato. La pioggia era finalmente cessata, ma le strade erano piene di pozzanghere e l'umidità si palpava nell'aria come se fosse una polvere fredda che penetrava nei vestiti e nelle ossa. Mentre aspettavo il mio turno nella latteria, ebbi l'impressione che qualcuno mi stesse osservando. Uscendo di nuovo in strada e attraversando il paseo del Born, mi guardai alle spalle e vidi che un bambino di non più di cinque anni mi seguiva. Mi fermai e lo guardai. Anche lui si fermò e sostenne il mio sguardo. «Non avere paura» gli dissi. «Vieni.» Il bambino si avvicinò di qualche passo e si fermò a un paio di metri da me. Aveva la pelle pallida, quasi azzurrata, come se non avesse mai visto la luce del sole. Vestiva di nero e portava scarpe di vernice nuove e lucide. Aveva gli occhi scuri e le pupille così grandi che a stento gli si vedeva il bianco delle cornee. «Come ti chiami?» domandai. Il bambino sorrise e mi indicò con il dito. Cercai di fare un passo verso di lui, ma si mise a correre e lo vidi perdersi per il paseo del Born. Quando tornai a casa, trovai una busta infilata nella porta. Il sigillo di ceralacca rossa con l'angelo era ancora tiepido. Guardai da una parte e dall'altra della strada, ma non vidi nessuno. Entrai e mi chiusi il portone alle spalle a doppia mandata. Mi fermai ai piedi delle scale e aprii la busta. Caro amico, mi rincresce profondamente che non sia potuto venire al nostro appuntamento ieri notte. Spero che stia bene e che non si siano verificate emergenze o contrattempi. Mi spiace non aver potuto godere del piacere della sua compagnia in questa occasione, ma spero e mi auguro che, qualunque cosa le abbia impedito di vedermi, la questione abbia una pronta e favorevole soluzione e che la prossima volta sia più propizia a facilitare il nostro incontro. Devo assentarmi dalla città per qualche giorno, ma appena tornato le farò avere mie notizie. Nell'attesa di sapere di lei e dei suoi progressi nel nostro comune progetto, la saluta come sempre con affetto il suo amico Andreas Corelli
Strinsi la lettera nel pugno e me l'infilai in tasca. Entrai in casa con cautela e accompagnai la porta con dolcezza. Mi affacciai nella camera da letto e vidi che Cristina dormiva ancora. Andai in cucina e cominciai a preparare il caffè e una piccola colazione. Dopo pochi minuti sentii i passi di Cristina alle mie spalle. Mi osservava dalla soglia con addosso un mio vecchio pullover che le arrivava a metà coscia. Aveva i capelli in disordine e gli occhi gonfi. Sulle labbra e le guance aveva i segni scuri dei colpi, come se l'avessi presa a schiaffi con forza. Sfuggiva il mio sguardo. «Scusa» mormorò. «Hai fame?» chiesi. Scosse la testa, ma io ignorai il suo gesto e le feci cenno di sedersi a tavola. Le servii una tazza di caffellatte zuccherato e una fetta di pane appena sfornato con formaggio e un po' di prosciutto. Non fece nemmeno la mossa di toccare il piatto. «Solo un boccone» suggerii. Civettò di malavoglia con il formaggio e mi sorrise debolmente. «È buono» disse. «Quando lo proverai, ti sembrerà migliore.» Mangiammo in silenzio. Cristina, con mia sorpresa, mangiò metà del suo piatto. Poi si nascose dietro la tazza di caffè e mi guardò di sottecchi. «Se vuoi, me ne vado oggi stesso» disse alla fine. «Non preoccuparti. Pedro mi ha dato dei soldi e...» «Non voglio che te ne vada da nessuna parte. Non voglio che te ne vada mai più. Mi hai sentito?» «Non sono una buona compagnia, David.» «Siamo in due.» «Dicevi davvero? Di andarcene lontano?» Annuii. «Mio padre diceva che la vita non dà seconde opportunità.» «Le dà solo a quelli a cui non ha mai dato nemmeno la prima. In realtà, sono opportunità di seconda mano che qualcuno non ha saputo utilizzare, ma sono sempre meglio di niente.» Sorrise a stento. «Portami a fare una passeggiata» disse all'improvviso. «Dove vuoi andare?» «Voglio dire addio a Barcellona.» 40
A metà pomeriggio il sole spuntò da sotto il manto di nuvole lasciato dal temporale. Le strade lucide di pioggia si trasformarono in specchi su cui camminavano i passanti e si rifletteva il colore ambrato del cielo. Ricordo che andammo fino all'inizio delle Ramblas, dove la statua di Colombo spuntava dalla bruma. Camminavamo in silenzio, osservando le facciate e la folla come se fossero un miraggio, come se la città fosse ormai deserta e dimenticata. Barcellona non mi sembrò mai tanto bella e tanto triste quanto quel pomeriggio. Quando iniziò a far scuro, ci dirigemmo verso la libreria di Sempere e Figli. Ci appostammo in un portone dall'altra parte della strada, dove nessuno poteva vederci. La vetrina della libreria proiettava una bolla di luce sui sampietrini umidi e brillanti. All'interno si riusciva a scorgere Isabella in cima a una scala che metteva in ordine i libri dell'ultimo scaffale, mentre il figlio di Sempere faceva finta di rivedere il registro della contabilità dietro il bancone e le guardava le gambe di nascosto. Seduto in un angolo, vecchio e stanco, il signor Sempere li osservava entrambi con un sorriso triste. «Questo è il posto in cui ho trovato quasi tutte le cose buone della mia vita» dissi senza pensare. «Non voglio dirgli addio.» Quando tornammo alla casa della torre era già buio. Entrando, ci accolse il calore del fuoco che avevo lasciato acceso prima di uscire. Cristina mi precedette lungo il corridoio e, senza dire una parola, si spogliò lasciando una scia di vestiti sul pavimento. La trovai stesa sul letto, in attesa. Mi sdraiai accanto a lei e lasciai che mi guidasse le mani. Mentre l'accarezzavo vidi i muscoli tendersi sotto la sua pelle. Nei suoi occhi non c'era tenerezza, ma un desiderio di calore e di urgenza. Mi abbandonai nel suo corpo, penetrandola con rabbia mentre sentivo le sue unghie sulla pelle. La sentii gemere di dolore e di vita, come se le mancasse l'aria. Alla fine ci abbandonammo esausti e ricoperti di sudore l'uno accanto all'altra. Cristina mi appoggiò la testa sulla spalla e cercò il mio sguardo. «La tua amica mi ha detto che ti sei cacciato in un guaio.» «Isabella?» «È molto preoccupata per te.» «Isabella ha la tendenza a credere di essere mia madre.» «Non penso che miri a quello.» Evitai i suoi occhi. «Mi ha raccontato che stai lavorando a un libro nuovo, su incarico di un
editore straniero. Lei lo chiama il tuo principale. Dice che ti paga una fortuna, ma che tu ti senti in colpa per aver accettato i soldi. Dice che hai paura di quell'uomo e che c'è qualcosa di torbido in questo affare.» Sospirai irritato. «C'è qualcosa che Isabella non ti abbia raccontato?» «Il resto sono cose tra di noi» replicò facendomi l'occhiolino. «Ha forse mentito?» «Non mentiva, faceva congetture.» «E di cosa tratta il libro?» «È un racconto per bambini.» «Isabella mi ha avvertito che avresti risposto così.» «Se Isabella ti ha già dato tutte le risposte, perché mi fai queste domande?» Cristina mi guardò con severità. «Per la tua tranquillità, e per quella di Isabella, ho abbandonato il libro. C'est fini» assicurai. «Quando?» «Stamattina, mentre dormivi.» Cristina aggrottò le sopracciglia, scettica. «E quell'uomo, il tuo principale, lo sa?» «Non gli ho parlato. Ma suppongo lo immagini. E se non lo immagina, lo farà molto presto.» «Dovrai restituirgli i soldi, allora?» «Non credo che i soldi gli importino minimamente.» Cristina sprofondò in un lungo silenzio. «Posso leggerlo?» chiese alla fine. «No.» «Perché no?» «È una bozza senza capo né coda. È solo un mucchio di idee e di appunti, di frammenti sparsi. Niente di leggibile. Ti annoierebbe.» «Mi piacerebbe leggerlo lo stesso.» «Perché?» «Perché l'hai scritto tu. Pedro dice sempre che l'unico modo di conoscere davvero uno scrittore è attraverso la scia di inchiostro che lascia, dice che la persona che uno crede di vedere è solo un personaggio vuoto e che la verità si nasconde sempre nella finzione.» «Deve averlo letto su qualche cartolina.» «In realtà l'ha preso da uno dei tuoi libri. Lo so perché l'ho letto anch'i-
o.» «Il plagio non lo innalza dal rango di stupidaggine.» «Io credo che abbia un senso.» «Allora sarà vero.» «Quindi posso leggerlo?» «No.» Cenammo con quanto restava del pane e del formaggio della mattina, seduti l'uno di fronte all'altra al tavolo di cucina, guardandoci di tanto in tanto. Cristina masticava senza appetito, esaminando ogni boccone di pane alla luce della lampada prima di portarselo alla bocca. «C'è un treno che parte dalla stazione Francia per Parigi domani a mezzogiorno» disse. «È troppo presto?» Non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di Andreas Corelli che da un momento all'altro saliva le scale e bussava alla mia porta. «Immagino di no» convenni. «Conosco un alberghetto di fronte ai Jardins du Luxembourg che affitta stanze a mese. È un po' caro, però...» aggiunse. Preferii non chiederle come mai conosceva quell'albergo. «Il prezzo non importa, però non parlo francese» sottolineai. «Io sì.» Abbassai lo sguardo. «Guardami negli occhi, David.» Alzai la testa controvoglia. «Se preferisci che me ne vada...» Negai ripetutamente. Mi afferrò la mano e se la portò alle labbra. «Andrà bene, vedrai» disse. «Lo sento. Sarà la prima cosa che mi andrà bene nella vita.» La guardai, una donna spezzata nella penombra con le lacrime agli occhi, e non desiderai altro al mondo che poterle restituire ciò che non aveva mai avuto. Ci sdraiammo sul divano del salotto al riparo di un paio di coperte, osservando le braci nel camino. Mi addormentai accarezzando i capelli di Cristina e pensando che quella sarebbe stata l'ultima notte che avrei trascorso in quella casa, la prigione in cui avevo seppellito la mia gioventù. Sognai di correre per le strade di una Barcellona infestata di orologi le cui lancette giravano in senso inverso. Vicoli e viali si curvavano al mio passaggio come tunnel con volontà propria, formando un labirinto vivente che
si prendeva gioco di tutti i miei tentativi di avanzare. Alla fine, sotto un sole di mezzogiorno che ardeva nel cielo come una sfera di metallo incandescente, riuscivo a raggiungere la stazione Francia e mi dirigevo in tutta fretta verso il binario dove il treno cominciava a muoversi. Gli correvo dietro, ma il treno prendeva velocità e nonostante i miei sforzi non riuscivo a far altro che sfiorarlo con la punta delle dita. Continuavo a correre fino a perdere il fiato e quando arrivavo alla fine della banchina cadevo nel vuoto. Quando alzavo gli occhi, era troppo tardi. Il treno, ormai distante, si allontanava, mentre il volto di Cristina mi guardava dall'ultimo finestrino. Aprii gli occhi e seppi che Cristina non c'era. Il fuoco si era ridotto a un pugno di cenere che a stento scintillava. Mi alzai e guardai dal finestrone. Accostai la faccia al vetro e notai un chiarore tremulo alle finestre dello studio. Mi diressi verso la scala a chiocciola che saliva alla torre. Un bagliore ramato si spargeva sui gradini. Salii lentamente. Arrivato in cima, mi fermai sulla soglia dello studio. Cristina era di spalle, seduta per terra. Il baule accanto al muro era aperto. Cristina aveva tra le mani la cartellina che conteneva il manoscritto per il principale e stava sciogliendo il nodo che la chiudeva. Sentendo i miei passi, si fermò. «Cosa ci fai qui?» domandai cercando di nascondere l'allarme nella voce. Lei si voltò e sorrise. «Curiosavo.» Seguì la linea del mio sguardo fino alla cartellina che aveva fra le mani e adottò una smorfia maliziosa. «Cosa c'è qui dentro?» «Niente. Note. Appunti. Niente di interessante...» «Bugiardo. Scommetto che è il libro a cui stavi lavorando» disse iniziando a sciogliere il nodo. «Muoio dalla voglia di leggerlo...» «Preferirei che non lo facessi» dissi nel tono più rilassato di cui fui capace. Cristina aggrottò le sopracciglia. Ne approfittai per accovacciarmi davanti a lei e toglierle delicatamente la cartellina dalle mani. «Cosa succede, David?» «Niente, non succede niente» assicurai con un sorriso stupido stampato sulle labbra. Riannodai di nuovo lo spago della cartellina e la rimisi nel baule.
«Non lo chiudi a chiave?» chiese Cristina. Mi voltai, pronto a offrirle delle scuse, ma era sparita giù per le scale. Sospirai e chiusi il baule. La trovai giù nella camera da letto. Per un istante mi guardò come se fossi un estraneo. Rimasi sulla porta. «Scusa» iniziai. «Non c'è motivo di farlo» replicò. «Non avrei dovuto ficcare il naso dove nessuno mi aveva chiamato.» «Non è questo.» Mi rivolse un sorriso sotto zero e un gesto di noncuranza che tagliavano l'aria a fette. «Non ha importanza» disse. Annuii, rimandando il secondo assalto a un altro momento. «La biglietteria della stazione apre presto» dissi. «Ho pensato di avviarmi in modo da essere lì appena apre e comprare i biglietti per oggi a mezzogiorno. Poi vado in banca a ritirare i soldi.» Cristina si limitò ad annuire. «Molto bene.» «Perché nel frattempo non prepari una borsa con qualche vestito? Io torno al massimo tra un paio d'ore.» Cristina sorrise debolmente. «Ti aspetto qui.» Mi avvicinai e le presi il viso tra le mani. «Domani sera saremo a Parigi» le dissi. La baciai sulla fronte e me ne andai. 41 L'atrio della stazione Francia stendeva ai miei piedi uno specchio in cui si rifletteva il grande orologio sospeso al soffitto. Le lancette segnavano le sette e trentacinque del mattino, ma gli sportelli della biglietteria erano ancora chiusi. Un commesso armato di spazzolone e in vena di preziosismi lustrava il pavimento fischiettando una canzone e, per quanto lo permettesse la sua zoppia, dimenando i fianchi con un certo garbo. In mancanza di altro da fare, mi misi a osservarlo. Era un ometto minuto che il mondo aveva fatto raggrinzire su se stesso fino a togliergli tutto tranne il sorriso e il piacere di pulire quel pavimento come se si trattasse della Cappella Sistina. Non c'era nessun altro, e alla fine si accorse di essere osservato. Quando il
suo quinto passaggio trasversale lo portò davanti al mio posto di osservazione su una delle panchine di legno disposte ai lati dell'atrio, il commesso si fermò e, appoggiandosi con tutte e due le mani sullo spazzolone, trovò il coraggio per guardarmi apertamente. «Non aprono mai all'ora che dicono» spiegò indicando gli sportelli. «E allora perché mettono un cartello che dice che aprono alle sette?» L'ometto si strinse nelle spalle e sospirò con aria filosofica. «Be', mettono anche gli orari ai treni e in quindici anni che sono qui non ne ho visto nemmeno uno che arrivasse o partisse all'ora prevista.» Il commesso proseguì nella sua pulizia in profondità e quindici minuti più tardi sentii che si apriva il finestrino dello sportello. Mi avvicinai e sorrisi al bigliettaio. «Credevo che apriste alle sette» dissi. «Così dice il cartello. Cosa desidera?» «Due biglietti di prima classe per Parigi sul treno di mezzogiorno.» «Per oggi?» «Se non è troppo disturbo.» Il rilascio dei biglietti gli portò via quasi quindici minuti. Una volta terminato il suo capolavoro, li lasciò cadere di malavoglia sul bancone. «All'una. Binario quattro. Non faccia tardi.» Pagai e, siccome non me ne andavo, fui ossequiato da uno sguardo ostile e inquisitorio. «Qualcos'altro?» Gli sorrisi e scossi la testa, opportunità di cui approfittò per chiudermi il finestrino in faccia. Mi girai e attraversai l'atrio immacolato e brillante per merito del commesso, che mi salutò da lontano e mi augurò bon voyage. La sede centrale del Banco Hispano Colonial in calle Fontanella faceva pensare a un tempio. Un grande portico dava accesso a una navata fiancheggiata da statue che si estendeva fino a una fila di sportelli disposti come un altare. Su entrambi i lati, a mo' di cappelle e confessionali, poltrone presidenziali e tavoli di quercia presidiati da un esercito di funzionari e impiegati impeccabilmente vestiti e armati di sorrisi cordiali. Prelevai quattromila franchi in contanti e ricevetti le istruzioni su come ritirare fondi negli uffici della banca all'incrocio fra rue de Rennes e boulevard Raspail a Parigi, vicino all'albergo di cui aveva parlato Cristina. Con quella piccola fortuna in tasca mi accomiatai, senza dar retta ai consigli del funzionario su quanto fosse imprudente andarsene in giro con una somma si-
mile in contanti. Il sole si stagliava sopra un cielo azzurro con il colore della buona sorte, e una brezza tersa portava il profumo del mare. Camminavo a passo leggero, come se mi fossi liberato da un tremendo peso, e iniziai a pensare che la città aveva deciso di lasciarmi andar via senza rancore. Sul paseo del Born mi fermai a comprare dei fiori per Cristina, rose bianche annodate da un nastro rosso. Salii le scale della casa della torre a due a due, con un sorriso stampato sulle labbra e la certezza che quello sarebbe stato il primo giorno di una vita che avevo creduto ormai persa per sempre. Stavo per aprire quando, introducendo la chiave nella serratura, la porta cedette. Era aperta. La spinsi e avanzai nell'ingresso. La casa era silenziosa. «Cristina?» Lasciai i fiori sulla mensola dell'anticamera e mi affacciai nella camera da letto. Cristina non c'era. Percorsi il corridoio fino al salotto in fondo. Nessuna traccia della sua presenza. Mi avvicinai alla scala dello studio e chiamai a voce alta. «Cristina?» L'eco mi restituì la mia voce. Mi strinsi nelle spalle e consultai l'orologio che stava in una delle cristalliere del salotto. Erano quasi le nove. Immaginai che Cristina fosse uscita in cerca di qualcosa e che, male abituata dalla sua vita a Pedralbes, dove avere a che fare con porte e serrature era una questione riservata ai domestici, avesse lasciato la porta aperta. Mentre aspettavo, decisi di stendermi sul sofà del salotto. Il sole entrava dalla vetrata, un sole invernale limpido e brillante, e invitava a lasciarsi accarezzare. Chiusi gli occhi e cercai di pensare a cosa avrei portato con me. Avevo vissuto mezza vita circondato da tutti quegli oggetti e adesso, al momento di dire loro addio, ero incapace di compilare una breve lista di quelli che ritenevo imprescindibili. A poco a poco, senza accorgermene, steso alla calda luce del sole e di quelle tiepide speranze, mi addormentai placidamente. Quando mi svegliai e guardai l'orologio della biblioteca era mezzogiorno e mezzo. Mancava appena mezz'ora alla partenza del treno. Mi alzai di scatto e corsi verso la camera da letto. «Cristina?» Stavolta girai tutta la casa, stanza per stanza, finché arrivai nello studio.
Non c'era nessuno, però mi parve di percepire uno strano odore nell'aria. Fosforo. La luce che penetrava dai finestroni catturava una tenue rete di filamenti di fumo azzurrato sospesi nell'aria. Entrai nello studio e trovai un paio di cerini bruciati sul pavimento. Sentii una fitta di inquietudine e mi inginocchiai davanti al baule. L'aprii e sospirai, sollevato. La cartellina con il manoscritto era ancora lì. Stavo per chiudere il baule quando me ne accorsi. Il nodo dello spago rosso che chiudeva la cartellina era disfatto. La presi e l'aprii. Scorsi le pagine, ma mi parve che non mancasse nulla. Richiusi la cartellina, stavolta con un doppio nodo, e la rimisi a posto. Chiusi il baule e scesi di nuovo nell'appartamento. Mi sedetti ad aspettare su una sedia in salotto, guardando il lungo corridoio che conduceva alla porta d'ingresso. I minuti passarono con infinita crudeltà. Lentamente la coscienza di quanto era accaduto mi crollò addosso e quel desiderio di credere e sperare si trasformò pian piano in fiele e amarezza. Ben presto sentii le campane di Santa María suonare le due. Il treno per Parigi aveva già lasciato la stazione e Cristina non era tornata. Capii allora che se n'era andata, che quelle brevi ore che avevamo condiviso erano state un miraggio. Guardai dietro i vetri quella giornata abbagliante che non aveva più il colore della buona sorte e la immaginai di ritorno a Villa Helius, a cercare protezione tra le braccia di Pedro Vidal. Sentii che il rancore mi stava avvelenando il sangue a poco a poco e risi di me stesso e delle mie assurde speranze. Incapace di fare un solo passo, rimasi a contemplare la città che si faceva scura con il tramonto e le ombre che si allungavano sul pavimento dello studio. Mi alzai e mi avvicinai alla finestra. La spalancai e mi affacciai. Davanti a me si apriva un vuoto verticale di parecchi metri, sufficienti a fracassarmi le ossa, a trasformarle in pugnali che mi avrebbero attraversato il corpo lasciando che si spegnesse in una pozza di sangue in cortile. Mi chiesi se il dolore sarebbe stato atroce quanto immaginavo, o se la forza dell'impatto sarebbe bastata ad addormentare i sensi e a darmi una morte rapida ed efficace. In quel momento sentii i colpi alla porta. Uno, due, tre. Bussavano con insistenza. Mi voltai, ancora stordito da quei pensieri. Di nuovo i colpi. C'era qualcuno da basso, alla mia porta. Ebbi un tuffo al cuore e mi precipitai giù per le scale, convinto che Cristina fosse tornata, che lungo la strada fosse successo qualcosa che l'aveva trattenuta, che i miei miserabili e spregevoli sentimenti di sfiducia erano stati ingiustificati: quello era, dopo tutto, il primo giorno della nuova vita. Corsi alla porta e l'aprii. Era lì, nella penombra, vestita di bianco. Volevo abbracciarla, ma a quel punto vidi il
suo volto inondato di lacrime e capii che quella donna non era Cristina. «David» mormorò Isabella con la voce spezzata. «Il signor Sempere è morto.» ATTO TERZO Il gioco dell'angelo 1 Quando arrivammo alla libreria era già scuro. Un bagliore dorato incrinava il nero della notte davanti alle porte di Sempere e Figli, dove un centinaio di persone si erano riunite con delle candele in mano. Alcuni piangevano in silenzio, altri si scambiavano sguardi senza sapere cosa dire. Riconobbi qualche volto, amici e clienti di Sempere, persone a cui il vecchio aveva regalato libri e che aveva iniziato alla lettura. Via via che la notizia si spargeva per il quartiere, arrivavano altri clienti e amici che non riuscivano a credere che il signor Sempere fosse morto. Le luci della libreria erano accese e all'interno si poteva vedere don Gustavo Barceló abbracciare con forza un uomo giovane che a stento si reggeva in piedi. Non mi resi conto che era il figlio di Sempere finché Isabella non mi prese per mano e mi condusse dentro la libreria. Vedendomi entrare, Barceló alzò gli occhi e mi rivolse un sorriso sconfitto. Il figlio del libraio piangeva tra le sue braccia e non ebbi il coraggio di salutarlo. Fu Isabella ad avvicinarsi a lui e a posargli la mano sulla spalla. Sempere figlio si girò e vidi il suo volto abbattuto. Isabella lo guidò verso una sedia e lo aiutò a sedersi. Il figlio del libraio vi crollò sopra come un pupazzo rotto. Isabella si chinò accanto a lui e lo abbracciò. Non mi ero mai sentito tanto orgoglioso di qualcuno quanto lo fui in quel momento di Isabella, che non mi sembrava più una ragazza ma una donna, più forte e saggia di tutti noi che eravamo lì. Barceló si avvicinò e mi tese la mano tremante. Gliela strinsi. «È successo un paio d'ore fa» spiegò con voce rauca. «Era rimasto solo per un momento in libreria e quando suo figlio è tornato... Dicono che stava litigando con qualcuno... Non so. Secondo il dottore è stato il cuore.» Deglutii. «Dov'è?» Barceló indicò con la testa la porta del retrobottega. Annuii e mi diressi lì. Prima di entrare, respirai a fondo e strinsi i pugni. Oltrepassai la soglia e
lo vidi. Era steso su un tavolo, con le mani incrociate sul ventre. Aveva la pelle bianca come la carta e i tratti del viso sembravano essersi infossati, come se fossero stati di cartone. Aveva ancora gli occhi aperti. Mi accorsi che mi mancava l'aria e sentii come se qualcosa mi colpisse con enorme violenza allo stomaco. Mi appoggiai al tavolo e respirai a fondo. Mi chinai su di lui e gli chiusi le palpebre. Gli accarezzai la guancia, che era gelida, e guardai attorno a me quel mondo di pagine e di sogni che lui aveva creato. Volli credere che Sempere fosse ancora lì, fra i suoi libri e i suoi amici. Sentii dei passi alle mie spalle e mi voltai. Barceló scortava un paio di uomini vestiti di nero dall'aspetto cupo, la cui professione non lasciava adito a dubbi. «Questi signori sono delle pompe funebri» disse Barceló. I due salutarono annuendo con gravità professionale e si avvicinarono a esaminare il corpo. Uno di loro, alto e magro, fece un esame molto sommario e segnalò qualcosa al collega, che annuì e annotò le indicazioni su un bloc notes. «In linea di principio il funerale sarà domani pomeriggio, al cimitero del Este» disse Barceló. «Ho preferito farmi carico io della questione perché il figlio è distrutto, l'ha visto. E in queste cose, quanto prima...» «Grazie, don Gustavo.» Il libraio lanciò un'occhiata al suo vecchio amico e sorrise fra le lacrime. «E cosa faremo adesso che il vecchio ci ha lasciati soli?» disse. «Non lo so...» Uno degli addetti delle pompe funebri tossicchiò discretamente, facendo intendere che aveva qualcosa da comunicare. «Se siete d'accordo, il mio collega e io andremmo adesso a prendere la cassa e...» «Faccia quello che deve fare» lo interruppi. «Qualche preferenza riguardo al rito funebre?» Lo guardai senza capire. «Il defunto era credente?» «Il signor Sempere credeva nei libri» dissi. «Capisco» disse mentre si ritirava. Guardai Barceló, che si strinse nelle spalle. «Mi faccia domandare al figlio» aggiunsi. Ritornai in libreria. Isabella mi lanciò un'occhiata inquisitoria e si alzò, lasciandomi il posto accanto a Sempere figlio. Mi si avvicinò e le sussurrai i miei dubbi.
«Il signor Sempere era un buon amico del parroco della chiesa di Santa Ana, qui vicino. Corre voce che quelli del vescovado vogliono cacciarlo da anni perché è ribelle e indisciplinato, ma è tanto vecchio che hanno preferito aspettare che muoia per i fatti suoi perché con lui non riescono ad averla vinta.» «È l'uomo di cui abbiamo bisogno» dissi. «Ci parlo io» disse Isabella. Indicai Sempere figlio. «Come sta?» Isabella mi guardò negli occhi. «E lei?» «Bene» mentii. «Chi rimane con lui stanotte?» «Io» disse senza esitare un istante. Annuii e la baciai sulla guancia prima di tornare nel retrobottega. Barceló si era seduto di fronte al suo vecchio amico. Mentre i due addetti delle pompe funebri prendevano misure e chiedevano di scarpe e vestiti, versò due bicchieri di brandy e me ne diede uno. Mi sedetti accanto a lui. «Alla salute dell'amico Sempere, che insegnò a tutti noi a leggere, quando non a vivere» disse. Brindammo e bevemmo in silenzio. Restammo lì finché gli addetti dell'agenzia funeraria rientrarono con la bara e i vestiti con cui Sempere sarebbe stato seppellito. «Se siete d'accordo, ce ne occupiamo noi» suggerì quello che pareva più sveglio. Annuii. Prima di tornare in libreria raccolsi la vecchia copia di Grandi speranze che non mi ero mai ripreso e la misi tra le mani del signor Sempere. «Per il viaggio» dissi. Dopo un quarto d'ora gli addetti dell'agenzia sollevarono il feretro e lo depositarono su un grande tavolo disposto al centro della libreria. Una folla di persone si era riunita in strada e attendeva in un profondo silenzio. Andai verso le porte della libreria e le aprii. A uno a uno, gli amici di Sempere e Figli sfilarono all'interno del negozio per vedere il libraio. Più d'uno non riusciva a trattenere le lacrime. Di fronte a quello spettacolo, Isabella prese per mano il figlio e se lo portò nella casa, proprio sopra la libreria, dove aveva vissuto con il padre per tutta la vita. Barceló e io restammo lì, a far compagnia al vecchio Sempere mentre la gente veniva a salutarlo per l'ultima volta. Alcuni, i più intimi, si trattenevano. La veglia durò tutta la notte. Barceló rimase fino alle cinque del mattino e io fino a
quando Isabella scese, poco dopo l'alba, e mi ordinò di andarmene a casa, almeno per lavarmi e cambiarmi. Guardai il povero Sempere e le sorrisi. Non potevo credere che oltrepassando quella porta non lo avrei più trovato dietro il bancone. Ricordai la prima volta che ero stato nella libreria, quando ero solo un ragazzino, e il libraio mi era sembrato alto e forte. Indistruttibile. L'uomo più saggio del mondo. «Se ne vada a casa, per favore» sussurrò Isabella. «A far che?» «Per favore...» Mi accompagnò in strada e mi abbracciò. «So quanto lo stimava e quello che significava per lei» mi disse. Nessuno lo sapeva, pensai. Nessuno. Però annuii, e dopo averla baciata sulla guancia cominciai a camminare senza meta, percorrendo strade che mi sembravano più vuote che mai, convinto che se non mi fossi fermato, se avessi continuato a camminare, non mi sarei reso conto che il mondo che credevo di conoscere non c'era più. 2 La folla si era riunita all'ingresso del cimitero ad aspettare l'arrivo del carro funebre. Nessuno osava parlare. Si sentiva il rumore del mare in lontananza e l'eco di un treno merci che scivolava verso la città di fabbriche che si estendeva alle spalle del camposanto. Faceva freddo e granelli di neve fluttuavano nel vento. Poco dopo le tre del pomeriggio il carro funebre, tirato da cavalli neri, imboccò un'avenida de Icària fiancheggiata da cipressi e vecchi magazzini. Il figlio di Sempere e Isabella viaggiavano con lui. Sei colleghi della associazione dei librai di Barcellona, tra i quali don Gustavo, sollevarono il feretro sulle spalle e lo trasportarono all'interno del cimitero. La gente li seguì, formando una comitiva silenziosa che percorse le strade e i padiglioni sotto un manto di nuvole basse che ondeggiavano come una lamina di mercurio. Sentii qualcuno dire che il figlio del libraio sembrava invecchiato di quindici anni in una sola notte. Lo chiamavano il signor Sempere, perché adesso era lui il responsabile della libreria, e per quattro generazioni quel bazar incantato di calle Santa Ana non aveva mai cambiato nome ed era sempre stato diretto da un signor Sempere. Isabella lo teneva per il braccio e mi parve che, se non ci fosse stata lei, sarebbe crollato come un burattino privo di fili.
Il parroco della chiesa di Santa Ana, un veterano dell'età del defunto, aspettava davanti al sepolcro, una lastra di marmo sobria e senza orpelli che passava quasi inavvertita. I sei librai che avevano portato il feretro lo depositarono davanti alla tomba. Barceló, che mi aveva visto, mi salutò con un cenno del capo. Preferii rimanere indietro, non so se per vigliaccheria o per rispetto. Da lì potevo vedere la tomba di mio padre, a una trentina di metri. Una volta che la folla si fu schierata attorno al feretro, il parroco alzò gli occhi e sorrise. «Il signor Sempere e io siamo stati amici per quasi quarant'anni, e in tutto questo tempo abbiamo parlato di Dio e dei misteri della vita una sola volta. Quasi nessuno lo sa, però il signor Sempere non era più stato in chiesa dal funerale di sua moglie Diana, al cui fianco lo accompagniamo oggi affinché riposino uno accanto all'altra per sempre. Forse per questo tutti lo prendevano per un ateo, ma lui era un uomo di fede. Credeva nei suoi amici, nella verità delle cose e in qualcosa a cui non osava dare un nome e un volto perché diceva che per far questo c'eravamo noi preti. Il signor Sempere credeva che tutti facciamo parte di qualcosa, e che, lasciando questo mondo, i nostri ricordi e i nostri desideri non vanno perduti, ma diventano i ricordi e i desideri di chi prende il nostro posto. Non sapeva se avevamo creato Dio a nostra immagine e somiglianza, o se lui aveva creato noi senza sapere bene quello che faceva. Credeva che Dio, o chiunque ci abbia messo qui, vive in ciascuna delle nostre azioni, in ciascuna delle nostre parole, e si manifesta in tutto ciò che ci fa essere qualcosa di più che semplici statue di fango. Il signor Sempere credeva che Dio vivesse un po', o molto, nei libri e per questo dedicò la propria vita a condividerli, a proteggerli e ad assicurarsi che le loro pagine, come i nostri ricordi e i nostri desideri, non andassero mai perdute, perché credeva, e fece credere anche a me, che finché fosse rimasta una sola persona al mondo capace di leggerli e di viverli, sarebbe restato un frammento di Dio o di vita. So che al mio amico non sarebbe piaciuto che ci accomiatassimo da lui con orazioni e canti. So che gli sarebbe bastato sapere che i suoi amici, tanti quanti sono venuti qui oggi a salutarlo, non l'avrebbero mai dimenticato. Non ho dubbi che il Signore, sebbene il vecchio Sempere non se l'aspettasse, accoglierà accanto a sé il nostro caro amico, e so che vivrà per sempre nei cuori di tutti i presenti, di tutti coloro che un giorno scoprirono la magia dei libri grazie a lui, e di tutti coloro che, anche senza conoscerlo, un giorno oltrepasseranno le porte della sua piccola libreria, dove, come a lui piaceva dire, la storia è appena cominciata. Riposi in pace, Sempere, amico mio, e
che Dio conceda a tutti noi l'opportunità di onorare la sua memoria e il privilegio di averla conosciuta.» Un infinito silenzio pervase il cimitero quando il parroco finì di parlare e arretrò di qualche passo, benedicendo la bara e abbassando lo sguardo. A un segnale del capo degli addetti delle pompe funebri, i becchini si fecero avanti e calarono il feretro lentamente con delle corde. Ricordo il rumore della bara che toccava il fondo e i singhiozzi soffocati della gente. Ricordo che rimasi lì, incapace di fare un passo, osservando i becchini che ricoprivano la tomba con la grande lastra di marmo su cui si leggeva solo la parola Sempere e nella quale sua moglie Diana giaceva da ventisei anni. Lentamente, la folla si ritirò verso le porte del cimitero, dove si divise in gruppi che non sapevano dove andare, perché nessuno voleva muoversi da lì e lasciare il povero signor Sempere. Barceló e Isabella, uno per lato, si portarono via il figlio del libraio. Rimasi lì fin quando tutti si furono allontanati e solo allora osai avvicinarmi alla tomba di Sempere. Mi inginocchiai e poggiai la mano sul marmo. «A presto» mormorai. Lo sentii avvicinarsi e seppi che era lui prima di vederlo. Mi alzai e mi voltai. Pedro Vidal mi offrì la mano e il sorriso più triste che avessi mai visto. «Non mi stringi la mano?» domandò. Non lo feci, e qualche secondo dopo Vidal annuì tra sé e ritirò la sua. «Cosa ci fa lei qui?» sbottai. «Sempere era anche mio amico» replicò. «Già. Ed è solo?» Vidal mi guardò senza capire. «Dov'è?» chiesi. «Chi?» Mi lasciai sfuggire una risata amara. Barceló, che ci aveva visto, si stava avvicinando con aria costernata. «Cosa le ha promesso adesso per comprarla?» Lo sguardo di Vidal s'indurì. «Non sai quello che dici, David.» Avanzai fino a sentire il suo fiato sulla faccia. «Dov'è?» insistetti. «Non lo so» rispose. «Certo» dissi distogliendo lo sguardo. Mi girai, pronto a incamminarmi verso l'uscita, ma Vidal mi afferrò per
il braccio e mi fermò. «David, aspetta...» Prima che mi rendessi conto di quello che stavo facendo, mi girai e lo colpii con tutte le mie forze. Il mio pugno si schiantò sul suo volto e lo vidi cadere all'indietro. Mi accorsi del sangue sulla mano e sentii dei passi che si avvicinavano in tutta fretta. Un paio di braccia mi afferrarono e mi separarono da Vidal. «Per l'amor di Dio, Martín...» disse Barceló. Il libraio si accovacciò accanto a Vidal, che aveva la bocca piena di sangue e ansimava. Gli sostenne la testa e mi lanciò un'occhiata furiosa. Me ne andai in tutta fretta, incrociando lungo la strada alcuni partecipanti alla cerimonia che si erano fermati a osservare il litigio. Non ebbi il coraggio di guardarli in faccia. 3 Passai diversi giorni senza uscire di casa, dormendo fuori orario, senza quasi toccare cibo. Di notte mi sedevo in salotto davanti al fuoco e ascoltavo il silenzio, sperando di sentire dei passi alla porta, convinto che sarebbe arrivata Cristina, che appena avesse saputo della morte del signor Sempere sarebbe tornata al mio fianco, anche se solo per compassione, che a quel punto già mi sarebbe bastata. Quando era trascorsa quasi una settimana dalla morte del libraio e sapevo ormai che Cristina non sarebbe venuta, cominciai a salire di nuovo nello studio. Recuperai dal baule il manoscritto per il principale e iniziai a rileggerlo, assaporando ogni frase e ogni paragrafo. La lettura mi ispirò allo stesso tempo nausea e un'oscura soddisfazione. Quando pensavo ai centomila franchi che all'inizio mi erano sembrati tanti, sorridevo tra me e mi dicevo che quel figlio di cagna mi aveva comprato per pochissimo. La vanità appannava l'amarezza, e il dolore chiudeva le porte alla coscienza. In un atto di superbia, rilessi quel Lux Aeterna del mio predecessore, Diego Marlasca, e poi lo consegnai alle fiamme del camino. Dove lui aveva fallito, io avrei trionfato. Dove lui si era perso lungo la strada, io avrei trovato l'uscita del labirinto. Tornai al lavoro il settimo giorno. Attesi la mezzanotte e mi sedetti alla scrivania. Un foglio bianco nel tamburo della vecchia Underwood e la città scura dietro le finestre. Le parole e le immagini mi sgorgarono dalle mani come se avessero aspettato con rabbia nella prigione dell'anima. Le pagine fluivano senza coscienza né misura, senza altra volontà se non quella di
stregare e avvelenare i sensi e i pensieri. Avevo smesso di pensare al principale, alla sua ricompensa o alle sue esigenze. Per la prima volta nella vita scrivevo per me e non per qualcun altro. Scrivevo per dar fuoco al mondo e consumarmi con lui. Lavoravo tutte le notti fino a crollare esausto. Battevo sulla tastiera della macchina fino a quando le dita mi sanguinavano e la febbre mi annebbiava la vista. Una mattina di gennaio in cui avevo ormai perduto la nozione del tempo sentii bussare alla porta. Ero steso sul letto, lo sguardo perduto nella vecchia foto di Cristina bambina che camminava per mano a uno sconosciuto su quel molo che si addentrava in un mare di luce, in quell'immagine che ormai mi sembrava l'unica cosa bella che mi restasse e la chiave di tutti i misteri. Ignorai i colpi alla porta per diversi minuti finché sentii la sua voce e seppi che non si sarebbe arresa. «Apra una buona volta. So che è lì e non me ne vado fin quando non apre la porta o non la butto giù io.» Quando aprii, Isabella fece un passo indietro e mi guardò inorridita. «Sono io, Isabella.» Mi scostò e andò dritta in salotto a spalancare le finestre. Poi si diresse in bagno e cominciò a riempire la vasca. Mi prese per il braccio e mi trascinò fin lì. Mi fece sedere sul bordo e mi guardò negli occhi, sollevandomi le palpebre con le dita e scuotendo la testa. Senza dire una parola, cominciò a togliermi la camicia. «Isabella, non sono dell'umore giusto.» «Cosa sono questi tagli? Cosa si è fatto?» «Sono solo graffi.» «Voglio che la veda un dottore.» «No.» «A me non si azzardi a dire di no» replicò con durezza. «Adesso si ficca nella vasca, ci dà dentro con acqua e sapone e poi si rade la barba. Ha due opzioni: o lo fa lei o lo faccio io. Non creda che avrei degli scrupoli.» Sorrisi. «Lo so.» «Faccia come le ho detto. Io intanto vado a cercare un dottore.» Stavo per dire qualcosa, ma lei alzò la mano e mi zittì. «Non dica nemmeno una parola. Se crede di essere l'unico a soffrire, si sbaglia. E se non le importa lasciarsi morire come un cane, almeno abbia la decenza di ricordare che ad altri invece importa, anche se in verità non so perché.»
«Isabella...» «In acqua. E mi faccia il piacere di togliersi i pantaloni e le mutande.» «Me lo so fare il bagno.» «Non si direbbe.» Mentre Isabella andava a cercare un medico, mi arresi ai suoi ordini e mi sottoposi a un battesimo di acqua fredda e sapone. Non mi facevo la barba dal funerale e il mio aspetto nello specchio era quello di un lupo. Avevo gli occhi iniettati di sangue e la pelle di un pallore malaticcio. Indossai vestiti puliti e mi sedetti ad aspettare in salotto. Isabella tornò dopo venti minuti in compagnia di un dottore che mi era sembrato di vedere qualche volta in giro per il quartiere. «Questo è il paziente. Non dia retta a quello che le dirà, perché è un bugiardo» annunciò Isabella. Il medico mi squadrò con un'occhiata, calibrando il mio grado di ostilità. «Faccia pure, dottore. Come se io non ci fossi.» Iniziò il bizantino rituale di misurazione della pressione, auscultazioni varie, esame delle pupille e della bocca, domande di natura misteriosa e sguardi di sbieco che costituiscono la base della scienza medica. Quando esaminò i tagli che Irene Sabino mi aveva fatto sul petto con un coltello, inarcò un sopracciglio e mi guardò. «E questi?» «È lungo da spiegare, dottore.» «Se li è fatti lei?» Scossi la testa. «Le do una pomata, ma temo che le resteranno le cicatrici.» «Credo che l'intenzione fosse proprio questa.» Il medico proseguì nella visita. Io mi sottomisi a tutto, docile, guardando Isabella, che osservava ansiosa dalla soglia. Capii quanto mi era mancata e quanto apprezzavo la sua compagnia. «Bello spavento» mormorò con disapprovazione. Il dottore mi esaminò le mani e aggrottò le sopracciglia quando vide i polpastrelli quasi in carne viva. Me li bendò a uno a uno, mormorando tra sé. «Da quant'è che non mangia?» Mi strinsi nelle spalle. Il medico scambiò un'occhiata con Isabella. «Non c'è motivo di allarmarsi, ma vorrei visitarla nel mio studio domani al più tardi.» «Temo che non sarà possibile, dottore» dissi.
«Ci sarà» assicurò Isabella. «Nel frattempo le raccomando di cominciare a mangiare qualcosa di caldo, prima brodini e poi roba solida, molta acqua, ma niente caffè o eccitanti, e soprattutto riposo. Prenda un po' d'aria e di sole, ma senza fare sforzi. Lei presenta un quadro classico di esaurimento e disidratazione, e un inizio di anemia.» Isabella sospirò. «Non è niente» azzardai. Il dottore mi guardò dubbioso e si alzò. «Domani nel mio studio, alle quattro. Qui non ho gli strumenti né le condizioni per poterla esaminare bene.» Chiuse la valigetta e mi salutò con gentilezza. Isabella lo accompagnò all'uscita e li sentii mormorare sul pianerottolo per un paio di minuti. Mi rivestii e aspettai come un bravo paziente, seduto sul letto. Sentii la porta che si chiudeva e i passi del medico giù per le scale. Sapevo che Isabella era nell'ingresso, aspettando qualche secondo prima di entrare in camera da letto. Quando alla fine lo fece, l'accolsi con un sorriso. «Le preparo qualcosa da mangiare.» «Non ho appetito.» «Non me ne importa. Adesso mangia qualcosa e poi usciamo a prendere un po' d'aria. Punto.» Mi preparò un brodo in cui, facendo uno sforzo, misi dei tozzi di pane e che inghiottii con aria affabile anche se sapeva di pietre. Lasciai il piatto pulito e lo mostrai a Isabella, che aveva montato la guardia come un sergente di fianco a me mentre mangiavo. Subito dopo mi portò in camera da letto e cercò un cappotto nell'armadio. Mi mise guanti e sciarpa e mi spinse fino alla porta. Quando uscimmo nell'androne c'era un vento freddo, però il cielo brillava con un sole al crepuscolo che spruzzava le strade di ambra. Mi prese per il braccio e cominciammo a camminare. «Come due fidanzati» dissi. «Molto spiritoso.» Andammo fino al Parque de la Ciudadela e ci addentrammo nei giardini che circondavano il pergolato. Arrivati allo stagno della grande fontana ci sedemmo su una panchina. «Grazie» mormorai. Isabella non rispose. «Non ti ho chiesto come stai» aggiunsi. «Non è una novità.»
«Come stai?» Isabella si strinse nelle spalle. «I miei genitori sono felicissimi da quando sono tornata. Dicono che lei ha avuto una buona influenza. Se sapessero... Comunque, andiamo più d'accordo. Del resto, non è che li veda molto. Passo quasi tutto il tempo in libreria.» «E Sempere? Come ha preso la morte del padre?» «Non molto bene.» «E con lui come va?» «È un brav'uomo» disse. Isabella restò a lungo in silenzio e abbassò la testa. «Mi ha chiesto di sposarlo» disse. «Un paio di giorni fa, al Quatre Gats.» Guardai il suo profilo, sereno e già privo di quell'innocenza giovanile che avevo voluto vedere in lei e che probabilmente non c'era mai stata. «E allora?» chiesi alla fine. «Gli ho risposto che ci avrei pensato.» «E lo farai?» Gli occhi di Isabella erano persi nella fontana. «Mi ha detto che vuole costruirsi una famiglia, avere figli... Che vivremo nella casa sopra la libreria, e tireremo avanti nonostante i debiti del signor Sempere.» «Be', sei ancora giovane...» Inclinò la testa e mi guardò negli occhi. «Lo ami?» Sorrise con infinita tristezza. «Che ne so? Credo di sì, anche se non tanto quanto lui crede di amare me.» «A volte, in circostanze difficili, si può confondere la compassione con l'amore» dissi. «Non si preoccupi per me.» «Ti chiedo solo di prenderti un po' di tempo.» Ci guardammo, al riparo di un'infinita complicità che non aveva più bisogno di parole, e l'abbracciai. «Amici?» «Finché morte non ci separi.» 4
Di ritorno a casa, ci fermammo in un negozio di alimentari di calle Comercio a comprare latte e pane. Isabella mi disse che avrebbe chiesto a suo padre di portarmi un pacco di cibi raffinati e che avrei fatto meglio a mangiarli tutti. «Come vanno le cose in libreria?» chiesi. «Le vendite sono calate moltissimo. Io credo che alla gente faccia pena venire perché si ricorda del povero signor Sempere. E la verità è che, con questi conti, le cose non vanno per niente bene.» «Come sono i conti?» «In rosso. In queste settimane, lavorando lì, ho dato un'occhiata ai bilanci e ho verificato che il signor Sempere, riposi in pace, era un disastro. Regalava libri a chi non poteva pagarli. O li prestava e non glieli restituivano. Comprava collezioni che sapeva di non poter vendere perché i proprietari minacciavano di bruciarle o di buttarle via. Manteneva a forza di elemosine un mucchio di poetastri di mezza tacca che non sapevano dove andare a sbattere. E può immaginarsi il resto.» «Creditori in vista?» «Un paio al giorno, senza contare le lettere e gli avvisi della banca. La buona notizia è che non ci mancano offerte.» «Di acquisto?» «Un paio di salumieri di Vic sono molto interessati ai locali.» «E Sempere figlio cosa dice?» «Che del maiale non si butta niente. Il realismo non è il suo forte. Dice che ce la faremo, che devo avere fede.» «E non ce l'hai?» «Ho fede nell'aritmetica, e quando faccio i conti mi risulta che fra due mesi la vetrina della libreria sarà piena di salami, budella e salsicce bianche.» «Troveremo una soluzione.» Isabella sorrise. «Mi aspettavo che lo dicesse. E parlando di conti in sospeso, mi dica che non sta più lavorando per il suo principale.» Mostrai le mani pulite. «Sono di nuovo una persona libera» dissi. Mi accompagnò su per le scale, e quando stava per salutarmi la vidi esitare. «Cosa c'è?» domandai. «Avevo pensato di non dirglielo, però... Preferisco che lo sappia da me e
non da altri. Riguarda il signor Sempere.» Entrammo e ci sedemmo in salotto davanti al fuoco, che Isabella ravvivò mettendoci un paio di ciocchi. Le ceneri del Lux Aeterna di Marlasca erano ancora lì e la mia ex assistente mi lanciò un'occhiata che avrei potuto incorniciare. «Cosa mi stavi dicendo di Sempere?» «L'ho saputo da don Anacleto, uno dei vicini. Mi ha raccontato che la sera in cui il signor Sempere è morto l'ha sentito litigare con qualcuno in negozio. Lui stava tornando a casa e dice che le voci si sentivano dalla strada.» «Con chi litigava?» «Una donna. Un po' anziana. Don Anacleto ha l'impressione di non averla mai vista da quelle parti, anche se gli risultava vagamente familiare, però con don Anacleto non si sa mai, perché gli piacciono di più gli avverbi che i confetti.» «Ha sentito su cosa litigavano?» «Gli è sembrato che parlassero di lei.» «Di me?» Isabella annuì. «Il figlio era uscito un momento a fare una consegna in calle Canuda. È stato via solo dieci o quindici minuti. Tornando ha trovato suo padre a terra, dietro il bancone. Respirava ancora, ma era freddo. Quando è arrivato il medico era già tardi...» Mi parve che il mondo mi crollasse addosso. «Non avrei dovuto dirglielo...» mormorò Isabella. «No. Hai fatto bene. Don Anacleto non ha detto nient'altro su quella donna?» «Solo che li ha sentiti litigare. Gli è sembrato che discutessero di un libro. Lei voleva comprarlo e il signor Sempere non voleva venderglielo.» «E perché hanno fatto il mio nome? Non capisco.» «Perché il libro era suo. I passi del cielo. L'unica copia che il signor Sempere aveva conservato nella sua collezione personale e che non era in vendita...» Mi invase un'oscura certezza. «E il libro...?» iniziai. «Non c'è più. È scomparso» completò Isabella. «Ho controllato il registro, perché il signor Sempere segnava tutti i libri che vendeva con la data e il prezzo, e non c'era.»
«Il figlio lo sa?» «No. L'ho raccontato solo a lei. Sto ancora cercando di capire cos'è successo quella sera in libreria. E perché. Pensavo che magari lei lo sapeva...» «Quella donna ha cercato di portarsi via il libro con la forza, e durante la lite al signor Sempere è venuto un attacco di cuore. Ecco cos'è successo» dissi. «E tutto per un maledetto libro mio.» Sentii che mi si torcevano le budella. «C'è dell'altro» disse Isabella. «Cosa?» «Qualche giorno dopo ho incrociato don Anacleto sulle scale. Mi ha detto di sapere chi gli ricordava quella donna. Quella sera non l'aveva capito, ma gli sembrava di averla già vista, tanti anni prima, a teatro.» «A teatro?» Isabella annuì. «Mi ha detto di essere sicuro: la donna che ha visto quella sera in libreria era Irene Sabino.» Sprofondai in un lungo silenzio. Isabella mi osservava, inquieta. «Ora non sono tranquilla a lasciarla qui. Non avrei dovuto dirglielo.» «No, hai fatto bene. Sto bene, davvero.» Isabella scosse la testa. «Stanotte resto con lei.» «E la tua reputazione?» «Quella che è in pericolo è la sua. Vado un attimo al negozio dei miei per telefonare in libreria e avvisare.» «Non ce n'è bisogno, Isabella.» «Non ce ne sarebbe bisogno se lei avesse accettato di vivere nel XX secolo e avesse fatto mettere il telefono in questo mausoleo. Torno fra un quarto d'ora. E niente discussioni.» In assenza di Isabella, la certezza che la morte del mio vecchio amico Sempere pesava sulla mia coscienza iniziò a ghermirmi. Ricordai che il vecchio libraio diceva sempre che i libri hanno un'anima, l'anima di chi li ha scritti e di chi li ha letti e sognati. Capii allora che fino all'ultimo istante aveva lottato per proteggermi, sacrificandosi per salvare quella carta e quell'inchiostro che riteneva custodi della mia anima scritta. Quando Isabella tornò, carica di una borsa di manicaretti del negozio dei genitori, le bastò guardarmi per capirlo. «Lei conosce quella donna» disse. «La donna che ha ucciso il signor
Sempere...» «Credo di sì. Irene Sabino.» «Non è quella delle vecchie foto che abbiamo trovato nella stanza in fondo? L'attrice?» Annuii. «E perché voleva quel libro?» «Non lo so.» Più tardi, dopo aver mangiato qualche boccone dei manicaretti di Can Gispert, ci sedemmo sulla grande poltrona davanti al camino. Ci stavamo in due e Isabella mi appoggiò la testa sulla spalla mentre guardavamo il fuoco. «L'altra notte ho sognato di avere avuto un figlio» disse. «Lui mi chiamava, ma io non potevo sentirlo né raggiungerlo perché ero prigioniera in un posto dove faceva molto freddo e non potevo muovermi. Mi chiamava e io non potevo correre da lui.» «È solo un sogno» dissi. «Sembrava vero.» «Forse dovresti scrivere questa storia» azzardai. Isabella scosse la testa. «Ci ho pensato. E ho deciso che preferisco vivere la vita, non scriverla. Non se la prenda a male.» «Mi sembra una saggia decisione.» «E lei? La vivrà?» «Temo che la mia vita sia già abbastanza vissuta.» «E quella donna? Cristina?» Respirai a fondo. «Se n'è andata. È tornata da suo marito. Un'altra saggia decisione.» Isabella si scostò da me e mi guardò aggrottando le sopracciglia. «Cosa c'è?» chiesi. «Credo che si sbagli.» «Riguardo a cosa?» «L'altro giorno è venuto a trovarci don Gustavo Barceló e abbiamo parlato di lei. Mi ha detto di aver incontrato il marito di Cristina, quel...» «Pedro Vidal.» «Ecco. A sentire lui, Cristina se n'era andata con lei, non l'aveva rivista e non ne sapeva nulla da un mese o più. In effetti, mi ha sorpreso non trovarla qui con lei, ma non osavo chiedere...» «Sei sicura di quello che ha detto Barceló?»
Isabella annuì. «Cos'ho detto adesso?» chiese Isabella, allarmata. «Niente.» «C'è qualcosa che non mi sta dicendo...» «Cristina non è qui. Dal giorno in cui è morto il signor Sempere.» «E allora dov'è?» «Non lo so.» A poco a poco restammo in silenzio, rannicchiati nella poltrona davanti al camino, e a notte inoltrata Isabella si addormentò. La cinsi con il braccio e chiusi gli occhi, pensando a tutto quello che aveva detto e cercando di trovarci qualche significato. Quando il chiarore dell'alba incendiò la cristalliera del salotto, aprii gli occhi e scoprii che Isabella era già sveglia e mi guardava. «Buon giorno» dissi. «Ho riflettuto» azzardò. «E allora?» «Sto pensando di accettare la proposta del figlio del signor Sempere.» «Sei sicura?» «No» rise. «Cosa diranno i tuoi genitori?» «Ne saranno contrariati, immagino, ma gli passerà. Per me preferirebbero un prospero mercante di salumi piuttosto che uno di libri, ma dovranno accontentarsi.» «Poteva andare peggio» dissi. Isabella annuì. «Sì. Sarei potuta finire con uno scrittore.» Ci guardammo a lungo, finché Isabella si alzò dalla poltrona. Prese il cappotto e se lo abbottonò dandomi le spalle. «Devo andare» disse. «Grazie della compagnia» risposi. «Non se la lasci scappare» disse Isabella. «La cerchi, dovunque sia, e le dica che l'ama, anche se è una bugia. A noi ragazze piace sentircelo dire.» Proprio allora si voltò e si chinò per sfiorare le mie labbra con le sue. Mi strinse forte la mano e se ne andò senza salutare. 5 Consumai il resto di quella settimana in giro per Barcellona alla ricerca
di qualcuno che ricordasse di aver visto Cristina nell'ultimo mese. Andai nei luoghi che avevo condiviso con lei e ripercorsi invano l'itinerario prediletto di Vidal per caffè, ristoranti e negozi di lusso. A chiunque incontrassi mostravo una foto dell'album che Cristina aveva lasciato a casa mia e domandavo se l'avesse vista di recente. Da qualche parte m'imbattei in qualcuno che la riconosceva e ricordava di averla incrociata a volte in compagnia di Vidal. Qualcuno riusciva perfino a ricordare il suo nome. Nessuno la vedeva da settimane. Al quarto giorno di ricerche iniziai a sospettare che Cristina fosse uscita dalla casa della torre la mattina in cui ero andato a comprare i biglietti del treno e fosse evaporata dalla faccia della terra. Ricordai allora che la famiglia Vidal aveva una camera riservata all'Hotel Espana di calle Sant Pau, dietro il Liceo, a disposizione dei membri della famiglia che, nelle serate d'opera, ritenevano scomodo o non avevano voglia di tornare a Pedralbes in piena notte. Mi risultava che, almeno nei suoi anni di gloria, lo stesso Vidal e il suo signor padre l'avevano utilizzata per intrattenersi con signorine e signore la cui presenza nella residenza ufficiale di Pedralbes, sia per il basso sia per l'alto lignaggio dell'interessata, avrebbe dato adito a pettegolezzi poco consigliabili. Più di una volta me l'aveva offerta quando ancora vivevo nella pensione di donna Carmen, nel caso, come diceva lui, mi fosse venuta voglia di denudare qualche signora in un posto che non facesse paura. Non credevo che Cristina avesse scelto quel luogo come rifugio, se pure sapeva della sua esistenza, ma era l'ultimo posto nella mia lista e non mi veniva in mente nessun'altra possibilità. Faceva scuro quando arrivai all'Hotel España e chiesi di parlare con il direttore sfruttando la mia amicizia con il signor Vidal. Quando gli mostrai la foto di Cristina, il direttore, un uomo che la discrezione rendeva di ghiaccio, mi sorrise cortese e mi disse che "altri" dipendenti del signor Vidal erano già venuti a chiedere di quella persona qualche settimana prima e che aveva detto loro le stesse cose che diceva a me. Non aveva mai visto quella signora nel suo albergo. Lo ringraziai per la sua gentilezza glaciale e m'incamminai sconfitto verso l'uscita. Passando davanti alla porta a vetri che dava al ristorante, mi sembrò di registrare un profilo familiare con la coda dell'occhio. Il principale era seduto a uno dei tavoli, unico cliente in tutto il ristorante, e degustava quelle che sembravano zollette di zucchero per il caffè. Stavo per sparire in tutta fretta quando si voltò e mi salutò con la mano, sorridendo. Maledissi la mia sfortuna e gli restituii il saluto. Il principale mi fece cenno di unirmi a
lui. Mi trascinai fino alla porta del ristorante ed entrai. «Che piacevole sorpresa trovarla qui, caro amico. Stavo proprio pensando a lei» disse Corelli. Gli strinsi la mano di malavoglia. «La credevo fuori città» osservai. «Sono tornato prima del previsto. Posso offrirle qualcosa?» Scossi la testa. Mi invitò a sedermi al suo tavolo e io obbedii. Come d'abitudine, il principale indossava un completo con gilet di lana nero e una cravatta di seta rossa. Impeccabile com'era di rigore in lui, ma questa volta c'era qualcosa che non quadrava. Ci misi qualche secondo a notarlo. Non aveva sul risvolto la spilla con l'angelo. Corelli seguì il mio sguardo e annuì. «Purtroppo l'ho persa, e non so dove» spiegò. «Spero che non fosse troppo preziosa.» «Il suo valore era puramente sentimentale. Ma parliamo di cose più importanti. Come sta, amico mio? Mi sono mancate molto le nostre conversazioni, nonostante i disaccordi occasionali. È difficile incontrare buoni conversatori.» «Lei mi sopravvaluta, signor Corelli.» «Al contrario.» Ci fu un breve silenzio, senza altra compagnia che quello sguardo senza fondo. Mi dissi che lo preferivo quando si imbarcava in una conversazione banale. Quando smetteva di parlare, il suo aspetto cambiava e l'aria attorno a lui si faceva pesante. «Ha preso alloggio qui?» domandai per spezzare il silenzio. «No, sono sempre nella casa accanto al Park Güell. Ho dato appuntamento qui a un amico, ma sembra sia in ritardo. La mancanza di educazione di alcune persone è deplorevole.» «Credo non ci siano tante persone che osino darle un bidone, signor Corelli.» Il principale mi guardò negli occhi. «Non molte. In realtà, l'unica che mi viene in mente è lei.» Prese una zolletta di zucchero e la fece cadere nella tazza. La seguirono una seconda e una terza. Assaggiò il caffè e ce ne mise altre quattro. Poi ne prese una quinta e se la portò alle labbra. «Mi fa impazzire lo zucchero» disse. «Vedo.» «Non mi dice nulla del nostro progetto, amico mio?» tagliò corto.
«Qualche problema?» «Ho quasi finito» dissi. Il viso del principale s'illuminò di un sorriso che preferii eludere. «Questa sì che è una grande notizia. Quando potrò averlo?» «Fra un paio di settimane. Devo rivederlo. Aggiustamenti e rifiniture, più che altro.» «Possiamo fissare una data?» «Se vuole...» «Cosa ne dice di venerdì 23? Accetterà per allora un invito a cena per festeggiare il successo dell'impresa?» Mancavano esattamente due settimane al venerdì 23 gennaio. «D'accordo» dissi. «Allora è confermato.» Sollevò la sua tazza di caffè stracolma di zucchero come se brindasse e la svuotò d'un sorso. «E lei?» chiese come per caso. «Cosa la porta da queste parti?» «Cercavo una persona.» «Qualcuno che conosco?» «No.» «E l'ha trovata?» «No.» Il principale sorrise lentamente, assaporando il mio mutismo. «Ho l'impressione di trattenerla contro la sua volontà, amico mio.» «Sono un po' stanco, nient'altro.» «Allora non voglio rubarle altro tempo. A volte dimentico che, anche se mi piace molto la sua compagnia, forse la mia non è di suo gradimento.» Sorrisi docilmente e ne approfittai per alzarmi. Mi vidi riflesso nelle sue pupille, un fantoccio pallido imprigionato in un pozzo oscuro. «Si riguardi, Martín. Per favore.» «Lo farò.» Mi accomiatai con un cenno di assenso e mi diressi all'uscita. Mentre mi allontanavo, sentii che si metteva in bocca un'altra zolletta e la triturava con i denti. Sulla strada verso le Ramblas vidi che le pensiline del Liceo erano accese e che una lunga fila di automobili sorvegliate da un piccolo reggimento di autisti in uniforme attendeva in strada. I cartelloni annunciavano Così fan tutte e mi domandai se Vidal si fosse deciso a lasciare il castello per
andare al suo appuntamento. Scrutai il capannello di autisti che si era formato e non tardai ad avvistare Pep. Gli feci segno di avvicinarsi. «Cosa ci fa qui, signor Martín?» «Dov'è?» «Il signore è dentro, a vedere lo spettacolo.» «Non dico don Pedro. Cristina. La signora Vidal. Dov'è?» Il povero Pep deglutì. «Non lo so. Non lo sa nessuno.» Mi spiegò che da settimane Vidal cercava di rintracciarla e che suo padre, il patriarca del clan, aveva perfino assoldato diversi membri del dipartimento di polizia per localizzarla. «All'inizio il signore pensava che fosse con lei...» «Non ha chiamato, o mandato una lettera, un telegramma...?» «No, signor Martín. Glielo giuro. Siamo tutti molto preoccupati, e il signore, be'... Non l'ho mai visto così da quando lo conosco. Oggi è la prima sera che esce da quando se n'è andata la signorina, la signora, voglio dire...» «Ricordi se Cristina ha detto qualcosa, qualunque cosa, prima di lasciare Villa Helius?» «Be'...» disse Pep, abbassando il tono di voce fino a ridurla a un sussurro. «La sentivo litigare con il signore. La vedevo triste. Passava molto tempo da sola. Scriveva lettere e ogni giorno andava a spedirle all'ufficio postale del paseo de la Reina Elisenda.» «Hai parlato qualche volta con lei, da solo?» «Un giorno, poco prima che se ne andasse, il signore mi ha chiesto di accompagnarla in auto dal medico.» «Era malata?» «Non riusciva a dormire. Il dottore le ha prescritto delle gocce di laudano.» «Ti ha detto qualcosa lungo la strada?» Pep si strinse nelle spalle. «Mi ha chiesto di lei, se avevo sue notizie o se l'avevo vista.» «Nient'altro?» «Era molto triste. Si è messa a piangere e quando le ho chiesto cosa succedeva mi ha detto che le mancava molto suo padre, il signor Manuel...» Lo capii in quel momento e mi maledissi per non averci pensato prima. Pep mi guardò stranito e mi chiese perché sorridevo. «Lei sa dov'è?» domandò.
«Credo di sì» mormorai. Mi sembrò allora di sentire una voce dall'altro lato della strada e di notare una figura familiare che si stagliava nell'atrio del Liceo. Vidal non aveva resistito nemmeno per il primo atto. Pep si girò un secondo per rispondere al suo padrone e quando stava per dirmi di nascondermi io ero già scomparso nella notte. 6 Perfino da lontano avevano l'aspetto inconfondibile delle brutte notizie. La brace di una sigaretta nell'oscurità della notte, sagome appoggiate al nero dei muri e volute di vapore nel fiato di tre figure che sorvegliavano il portone della casa della torre. L'ispettore Víctor Grandes in compagnia dei suoi due agenti da presa, Marcos e Castelo, in veste di comitato d'accoglienza. Non ci voleva molto a immaginare che avevano scoperto il cadavere di Alicia Marlasca sul fondo della piscina della sua casa di Sarrià e che le mie quotazioni nella lista nera erano salite di parecchi punti. Appena li vidi, mi fermai e mi confusi tra le ombre della strada. Li osservai per qualche istante, assicurandomi che non si fossero accorti della mia presenza ad appena una cinquantina di metri. Distinsi il profilo di Grandes alla luce del lampione appeso alla facciata. Retrocedetti lentamente al riparo dell'oscurità che inondava le strade e m'infilai nel primo vicolo, perdendomi nel groviglio di passaggi e archi della Ribera. Dieci minuti dopo ero alle porte della stazione Francia. Gli sportelli della biglietteria erano già chiusi, ma si potevano ancora vedere diversi treni allineati sui binari sotto la grande volta di vetro e acciaio. Consultai il tabellone degli orari e vidi che, come temevo, non erano previste partenze fino al giorno successivo. Non potevo rischiare di tornare a casa e di imbattermi in Grandes e compagni. Qualcosa mi diceva che stavolta la visita al commissariato sarebbe stata a pensione completa e che nemmeno i buoni uffici dell'avvocato Valera sarebbero riusciti a tirarmi fuori tanto facilmente come la volta prima. Decisi di passare la notte in un albergo di mezza tacca di fronte al palazzo della Borsa, in plaza Palacio, dove, secondo la leggenda, sopravvivevano i cadaveri viventi di ex speculatori ai quali l'avidità e l'ossessione per l'aritmetica erano esplose in faccia, a furia di aggirarsi per casa. Scelsi quell'antro perché pensai che lì non sarebbe venuta a cercarmi nemmeno la Parca. Mi registrai con il nome di Antonio Miranda e pagai in anticipo. Il
portiere, un individuo dall'aspetto di mollusco che sembrava incrostato nella garitta che serviva da reception, distributore di asciugamani e negozio di souvenir, mi diede la chiave, una saponetta marca El Cid Campeador che puzzava di varechina e che mi parve usata, e mi informò che se avevo voglia di compagnia femminile poteva mandarmi una domestica soprannominata la Guercia, appena fosse tornata da una visita a domicilio. «La rimetterà a nuovo» assicurò. Declinai l'offerta con la scusa di un principio di colpo della strega e presi le scale augurandogli la buona notte. La stanza aveva l'aspetto e le dimensioni di un sarcofago. Una semplice occhiata mi persuase a stendermi vestito sulla branda invece di infilarmi tra le lenzuola e fraternizzare con quello che c'era dentro. Mi avvolsi in una coperta sfilacciata trovata nell'armadio - e che, puzza per puzza, almeno puzzava di naftalina - e spensi la luce, immaginando di trovarmi nel tipo di suite che poteva permettersi qualcuno con centomila franchi in banca. A stento riuscii a chiudere occhio. Lasciai l'albergo a metà mattinata e andai alla stazione. Comprai un biglietto di prima classe con la speranza di recuperare in treno tutto il sonno perso in quell'antro. Mancavano ancora venti minuti alla partenza e mi diressi alla fila di cabine dei telefoni pubblici. Dettai alla centralinista il numero che mi aveva dato Ricardo Salvador, quello dei suoi vicini del piano di sotto. «Vorrei parlare con Emilio, per favore.» «Sono io.» «Mi chiamo David Martín. Sono amico del signor Ricardo Salvador. Mi ha detto che potevo chiamarlo a questo numero in caso di urgenza.» «Vediamo... Può aspettare un attimo che lo avvisiamo?» Guardai l'orologio della stazione. «Sì. Aspetto. Grazie.» Trascorsero più di tre minuti, poi sentii dei passi che si avvicinavano e la voce di Ricardo Salvador mi riempì di tranquillità. «Martín? Sta bene?» «Sì.» «Grazie a Dio. Ho letto sul giornale di Roures ed ero molto preoccupato. Dove si trova?» «Signor Salvador, ora non ho molto tempo. Devo assentarmi dalla città.» «Sicuro che sta bene?»
«Sì. Mi ascolti. Alicia Marlasca è morta.» «La vedova? Morta?» Un lungo silenzio. Mi sembrò che Salvador singhiozzasse e mi maledissi per avergli dato la notizia con così poca delicatezza. «È ancora lì?» «Sì...» «La chiamo per avvertirla di fare molta attenzione. Irene Sabino è viva e mi ha seguito. C'è qualcuno con lei. Credo sia Jaco.» «Jaco Corbera?» «Non ne sono sicuro. Credo che sappiano che sono sulle loro tracce e stanno cercando di far tacere tutti quelli che hanno parlato con me. Mi sembra che lei avesse ragione...» «Ma perché Jaco sarebbe tornato proprio adesso?» chiese Salvador. «Non ha senso.» «Non lo so. Ora devo andare. Volevo solo avvisarla.» «Non si preoccupi per me. Se quel figlio di puttana viene a trovarmi, sarò preparato. Sono venticinque anni che aspetto.» Il capostazione annunciò con un fischio la partenza del treno. «Non si fidi di nessuno. Ha capito? Le telefono appena torno in città.» «Grazie di avermi chiamato, Martín. Faccia molta attenzione.» 7 Il treno cominciava a scivolare lungo i binari quando mi rifugiai nel mio scompartimento e mi lasciai cadere sul sedile. Mi abbandonai al tiepido respiro del riscaldamento e al dolce sferragliare del convoglio. Ci lasciammo alle spalle la città attraversando la foresta di fabbriche e fumaioli che la circondava e sfuggendo al sudario di luce scarlatta che la ricopriva. Lentamente il territorio abbandonato di hangar e treni fermi sui binari morti si diluì in una superficie infinita di campi e colline coronati da cascine e belvederi, boschi e fiumi. Piccole stazioni passavano veloci mentre campanili e masserie disegnavano miraggi in lontananza. A un certo punto del viaggio mi addormentai e quando mi svegliai il paesaggio era completamente cambiato. Attraversavamo scoscese vallate e rupi rocciose che si ergevano tra laghi e ruscelli. Il treno costeggiava grandi boschi che risalivano i fianchi di montagne che sembravano infinite. Dopo un po' il groviglio di montagne e tunnel scavati nella pietra si sciolse in un'ampia e aperta vallata di pianure senza fine dove branchi di cavalli
selvaggi correvano sulla neve e piccoli villaggi di case di pietra si scorgevano in lontananza. Le vette dei Pirenei si innalzavano sull'altro lato, con i versanti innevati accesi nel crepuscolo color ambra. Davanti a me, un'accozzaglia di case e palazzi si assiepava su una collina. Il controllore si affacciò nello scompartimento e mi sorrise. «Prossima fermata, Puigcerdà» annunciò. Il treno si fermò esalando una tempesta di vapore che inondò la banchina. Scesi e mi vidi avvolto in quella nebbia che odorava di elettricità. Dopo un po' sentii la campana del capostazione e il convoglio che riprendeva la marcia. Lentamente, mentre i vagoni sfilavano sui binari, il profilo della stazione emerse come un miraggio attorno a me. Una sottile cortina di nevischio cadeva con infinita lentezza. Un sole rossastro si affacciava da ovest sotto la volta di nuvole e tingeva la neve come piccole braci accese. Mi avvicinai all'ufficio del capostazione. Battei sui vetri e lui alzò gli occhi. Aprì la porta e mi rivolse uno sguardo indifferente. «Potrebbe dirmi come trovare un posto chiamato Villa San Antonio?» Il capostazione inarcò un sopracciglio. «La clinica?» «Credo di sì.» Il capostazione assunse l'espressione meditabonda di chi valuta come dare indicazioni e indirizzi ai forestieri, poi, dopo aver passato in rassegna il proprio catalogo di gesti e smorfie, mi offrì il seguente schizzo: «Deve attraversare il paese, oltrepassare la piazza della chiesa e arrivare al lago. Sull'altro lato troverà un lungo viale fiancheggiato da ville che finisce nel paseo de la Rigolisa. Lì, all'angolo, c'è un grande edificio a tre piani circondato da un giardino. Quella è la clinica.» «E conosce qualche posto dove posso affittare una stanza?» «Lungo la strada, passerà davanti all'Hotel del Lago. Dica che la manda il Sebas.» «Grazie.» «Buona fortuna.» Attraversai le strade solitarie del paese sotto la neve, cercando il profilo del campanile della chiesa. Lungo il cammino incrociai alcuni abitanti del posto che mi salutarono con un cenno d'intesa e mi guardarono di sottecchi. Arrivato in piazza, un paio di garzoni che scaricavano un carro di carbone mi indicarono la strada che portava al lago e, qualche minuto dopo,
imboccai una via che costeggiava una grande laguna ghiacciata e bianca. Imponenti case dai torrioni acuminati e dall'aria signorile circondavano il lago, e un viale punteggiato di panchine e alberi formava un nastro attorno alla grande lastra di ghiaccio in cui erano rimaste imprigionate piccole barche a remi. Mi avvicinai alla riva e mi fermai a osservare lo stagno congelato che si stendeva ai miei piedi. Lo strato di ghiaccio doveva essere spesso un palmo e in qualche punto riluceva come vetro opaco, lasciando trapelare la corrente di acque scure che scivolava sotto la crosta. L'Hotel del Lago era una casona a due piani dipinta di rosso scuro sulla riva del lago. Prima di proseguire per la mia strada, mi fermai a prenotare una stanza per due notti e pagai in anticipo. Il portiere m'informò che l'albergo era quasi vuoto e mi fece scegliere la stanza. «La 101 ha un panorama spettacolare dell'alba sul lago» mi disse. «Ma se preferisce la vista a nord, ho...» «Scelga lei» tagliai corto, indifferente alla nobile bellezza di quel paesaggio crepuscolare. «Allora la 101. D'estate è la preferita dalle coppie in luna di miele.» Mi tese le chiavi di quella presunta suite nuziale e m'informò degli orari della cena. Gli dissi che sarei tornato più tardi e gli chiesi se Villa San Antonio era lontana. Il portiere assunse la stessa espressione che avevo visto nel capostazione e scosse la testa con un sorriso affabile. «È qui vicino, a una decina di minuti. Se prende il viale alla fine di questa strada, la vedrà in fondo. La trova in un baleno.» Dieci minuti dopo ero alle porte di un grande giardino disseminato di foglie secche imprigionate nella neve. Più avanti, Villa San Antonio si ergeva come una cupa sentinella avvolta nell'alone di luce dorata che emanava dai suoi finestroni. Attraversai il giardino, con il cuore che batteva forte e le mani sudate nonostante il freddo tagliente. Salii le scale che portavano all'ingresso principale. L'atrio, una sala dal pavimento a scacchi, conduceva a una scalinata sulla quale vidi una ragazza vestita da infermiera che teneva per mano un uomo tremante che pareva eternamente sospeso fra due gradini, come se tutta la sua esistenza fosse rimasta imprigionata in un attimo. «Buona sera» disse una voce alla mia destra. Aveva gli occhi neri e severi, i tratti scolpiti senza accenno di simpatia e l'espressione grave di chi ha imparato a non attendersi altro che brutte notizie. Doveva sfiorare la cinquantina e sebbene indossasse la stessa uni-
forme della giovane infermiera che accompagnava l'anziano, tutto in lei manifestava autorità e rango. «Buona sera. Sto cercando una persona che si chiama Cristina Sagnier. Ho motivo di credere che sia vostra ospite...» Mi osservò senza battere ciglio. «Qui non ospitiamo nessuno, signore. Questo non è un albergo né un residence.» «Mi scusi. Ho fatto un lungo viaggio per cercare questa persona...» «Non si scusi» disse l'infermiera. «Posso chiederle se è un familiare o un amico?» «Mi chiamo David Martín. Cristina Sagnier è qui? Per favore...» L'espressione dell'infermiera si addolcì. Seguirono un'insinuazione di sorriso amabile e un cenno d'assenso. Respirai a fondo. «Sono Teresa, la capoinfermiera del turno di notte. Se è così gentile da seguirmi, signor Martín, l'accompagnerò nell'ufficio del dottor Sanjuán.» «Come sta la signorina Sagnier? Posso vederla?» Altro sorriso lieve e impenetrabile. «Da questa parte, per favore.» La stanza era un rettangolo senza finestre incassato fra quattro pareti dipinte di azzurro e illuminato da due lampade appese al soffitto che emettevano una luce metallica. Gli unici tre mobili che la occupavano erano un tavolo spoglio e due sedie. L'aria odorava di disinfettante e faceva freddo. L'infermiera l'aveva descritto come un ufficio, ma dopo dieci minuti che aspettavo da solo, ancorato a una sedia, riuscivo a vedere solo una cella. La porta era chiusa, ma nonostante ciò potevo sentire voci, a volte urla isolate, al di là dei muri. Iniziavo a perdere la nozione del tempo trascorso lì quando la porta si aprì ed entrò un uomo fra i trenta e i quarant'anni con un camice bianco e un sorriso gelido come l'aria che impregnava la stanza. Il dottor Sanjuán, supposi. Aggirò il tavolo e prese posto sulla sedia di fronte alla mia. Appoggiò le mani sul ripiano e mi osservò con vaga curiosità per qualche secondo prima di parlare. «Mi rendo conto che ha fatto un lungo viaggio e che sarà stanco, ma mi piacerebbe sapere perché non è qui il signor Pedro Vidal» disse alla fine. «Non è potuto venire.» Il dottore mi osservava senza battere ciglio, in attesa. Aveva lo sguardo freddo e l'atteggiamento particolare di chi non sente, ma ascolta. «Posso vederla?» «Non può vedere nessuno se prima non mi dice la verità e io non so cosa
ci fa qui.» Sospirai e annuii. Non avevo fatto centocinquanta chilometri per mentire. «Mi chiamo Martín, David Martín. Sono amico di Cristina Sagnier.» «Qui la chiamiamo signora Vidal.» «Non me ne importa di come la chiamate. Voglio vederla. Adesso.» Il dottore sospirò. «Lei è lo scrittore?» Mi alzai impaziente. «Che specie di posto è questo? Perché non posso vederla subito?» «Si sieda. Per favore. La prego.» Indicò la sedia e aspettò che mi accomodassi di nuovo. «Posso chiederle quando è stata l'ultima volta che l'ha vista o che le ha parlato?» «Più di un mese fa» risposi. «Perché?» «Sa se qualcuno l'ha vista o le ha parlato dopo di lei?» «No. Non lo so. Cosa sta succedendo qui?» Il dottore si portò la mano destra alle labbra, calibrando le parole. «Signor Martín, temo di avere brutte notizie.» Sentii che mi si formava un nodo alla bocca dello stomaco. «Cosa le è successo?» Il dottore mi guardò senza rispondere e per la prima volta mi sembrò di intravedere un accenno di dubbio nei suoi occhi. «Non lo so» disse. Percorremmo un corridoio fiancheggiato da porte di metallo. Il dottor Sanjuán mi precedeva con un mazzo di chiavi in mano. Mi parve di sentire delle voci dietro le porte che sussurravano al nostro passaggio, soffocate tra risate e pianti. La stanza era alla fine del corridoio, il dottore aprì la porta e si fermò sulla soglia, fissandomi con uno sguardo privo di espressione. «Quindici minuti» disse. Entrai e sentii il dottore chiudere la porta alle mie spalle. Davanti a me c'era un locale dai soffitti alti e dalle pareti bianche che si riflettevano in un pavimento di piastrelle brillanti. Su un lato c'era un letto dalla struttura metallica avvolto in una tenda di garza, vuoto. Un ampio finestrone contemplava il giardino innevato, gli alberi e, in lontananza, il contorno del lago. Non la notai finché non mi avvicinai di qualche passo.
Era seduta su una poltrona davanti alla finestra. Indossava un camicione bianco e portava i capelli raccolti in una treccia. Aggirai la poltrona e la guardai. I suoi occhi rimasero immobili. Quando mi accovacciai al suo fianco non batté ciglio. Quando posai la mano sulla sua non mosse un solo muscolo del corpo. Notai allora le bende che le ricoprivano le braccia, dal polso al gomito, e i lacci che la tenevano legata alla poltrona. Le accarezzai la guancia raccogliendo una lacrima che le scorreva sul viso. «Cristina» mormorai. Il suo sguardo rimase imprigionato da qualche parte, indifferente alla mia presenza. Avvicinai una sedia e mi sedetti di fronte a lei. «Sono David» mormorai. Per un quarto d'ora restammo così, in silenzio, la sua mano nella mia, il suo sguardo smarrito e le mie parole senza risposta. A un certo punto avvertii che la porta si apriva di nuovo e sentii qualcuno stringermi il braccio con delicatezza e tirarmi via. Era il dottor Sanjuán. Mi lasciai condurre in corridoio senza opporre resistenza. Il dottore chiuse la porta e mi riaccompagnò in quell'ufficio gelido. Mi lasciai cadere sulla sedia e lo guardai, incapace di articolare parola. «Vuole che la lasci solo qualche minuto?» domandò. Annuii. Il dottore si ritirò e socchiuse la porta mentre usciva. Mi guardai la mano destra, che stava tremando, e la chiusi a pugno. A stento avvertivo il freddo di quella stanza, e non riuscii a sentire le urla e le voci che trapelavano dai muri. Seppi solo che mi mancava l'aria e che dovevo andar via da quel posto. 8 Il dottor Sanjuán mi trovò nel ristorante dell'Hotel del Lago, seduto davanti al camino e in compagnia di un piatto che non avevo assaggiato. Non c'era nessun altro nella sala, tranne una cameriera che girava per i tavoli deserti e lustrava con uno strofinaccio le posate sulle tovaglie. Dietro i vetri si era fatto scuro e la neve cadeva lentamente, come polvere di vetro azzurrino. Il dottore si avvicinò al mio tavolo e mi sorrise. «Immaginavo di trovarla qui» disse. «Tutti i forestieri ci finiscono. Io ci ho passato la mia prima notte in paese quando sono arrivato, dieci anni fa. Che stanza le hanno dato?» «A quanto pare la preferita dalle coppie in luna di miele, con vista sul lago.»
«Non ci creda. Lo dicono di tutte le stanze.» Fuori dalla clinica e senza il camice bianco, il dottor Sanjuán si presentava più rilassato e affabile. «Senza l'uniforme, quasi non l'avevo riconosciuta» azzardai. «La medicina è come l'esercito. Senza abito, niente monaco» replicò. «Come sta?» «Bene. Ho passato giorni peggiori.» «Già. Mi è mancato prima, quando sono tornato in ufficio a cercarla.» «Avevo bisogno di un po' d'aria.» «Capisco. Ma contavo sul fatto che fosse meno impressionabile.» «Perché?» «Perché ho bisogno di lei. O meglio, è Cristina ad averne bisogno.» Deglutii. «Penserà che sono un vigliacco» dissi. Il dottore scosse la testa. «Da quanto tempo sta così?» «Da settimane. Praticamente da quando è arrivata. Ed è peggiorata con il passar del tempo.» «È cosciente di dove si trova?» Il dottore si strinse nelle spalle. «Difficile saperlo.» «Cosa le è successo?» Il dottor Sanjuán sospirò. «Quattro settimane fa l'hanno trovata non molto lontano da qui, nel cimitero del paese, stesa sulla lapide del padre. Soffriva di ipotermia e delirava. L'hanno portata in clinica perché una delle guardie civili l'ha riconosciuta dai tempi in cui era stata qui per mesi l'anno scorso per accudire il padre. Molta gente del paese la conosceva. L'abbiamo ricoverata ed è rimasta sotto osservazione un paio di giorni. Era disidratata e probabilmente non dormiva da un bel po'. A tratti recuperava la coscienza. Quando lo faceva, parlava di lei. Diceva che lei correva un grande pericolo. Mi ha fatto giurare di non avvisare nessuno, né suo marito né altri, finché non avesse potuto farlo lei stessa.» «Nonostante questo, perché non ha avvertito Vidal dell'accaduto?» «L'avrei fatto, però... Le sembrerà assurdo.» «Cosa?» «Mi sono convinto che stesse fuggendo e ho pensato fosse mio dovere aiutarla.»
«Fuggendo da chi?» «Non ne sono sicuro» disse con un'espressione ambigua. «Cos'è che non vuole dirmi, dottore?» «Sono solo un medico. Ci sono cose che non capisco.» «Quali cose?» Il dottor Sanjuán sorrise nervosamente. «Cristina crede che qualcosa, o qualcuno, sia entrato dentro di lei e voglia distruggerla.» «Chi?» «So solo che secondo Cristina ha a che fare con lei ed è qualcosa o qualcuno che le fa paura. Per questo credo che nessun altro possa aiutarla. Per questo non ho avvertito Vidal, come sarebbe stato mio dovere. Sapevo che prima o poi lei si sarebbe fatto vivo.» Mi guardò con una strana mescola di compassione e risentimento. «Anch'io la stimo, signor Martín. Nei mesi trascorsi qui da Cristina per suo padre... siamo diventati buoni amici. Immagino che non le abbia parlato di me, e probabilmente non aveva motivo per farlo. È stato un periodo molto difficile per lei. Mi ha confidato parecchie cose, e anch'io a lei, cose che non ho mai detto a nessuno. In realtà, le ho perfino proposto di sposarmi, perché si renda conto che qui anche noi medici siamo un po' fuori di testa. Naturalmente ha rifiutato. Non so perché le racconto tutto questo.» «Ma tornerà a stare bene, vero, dottore? Si rimetterà...» Il dottor Sanjuán sviò lo sguardo verso il fuoco, sorridendo con tristezza. «Lo spero» rispose. «Voglio portarmela via.» Il medico inarcò le sopracciglia. «Portarsela via? Dove?» «A casa.» «Signor Martín, mi permetta di parlarle con franchezza. A parte il fatto che lei non è un familiare stretto né il marito della paziente, il che è un semplice requisito legale, Cristina non è in condizione di andare con nessuno da nessuna parte.» «Sta meglio qui, rinchiusa con lei in una villa, legata a una sedia e drogata? Non mi dica che le ha proposto di nuovo di sposarla!» Il dottore mi osservò a lungo, mandando giù l'offesa che chiaramente gli avevano provocato le mie parole. «Signor Martín, sono contento che lei sia qui perché credo che, insieme, potremo aiutare Cristina. Sono convinto che la sua presenza le permetterà
di uscire dal luogo in cui si è rifugiata, perché l'unica parola che ha pronunciato nelle ultime due settimane è il suo nome. Qualunque cosa le sia successa, credo abbia a che fare con lei.» Il medico mi guardava come se si aspettasse qualcosa da me, una risposta a tutte le domande. «Credevo mi avesse abbandonato» iniziai. «Stavamo per metterci in viaggio, per lasciare tutto. Io ero uscito un momento a comprare i biglietti del treno e a fare una commissione. Sono stato fuori solo un'ora e mezza. Quando sono tornato a casa, Cristina se n'era andata.» «Era successo qualcosa prima? Avevate avuto una discussione?» Mi morsi le labbra. «Non la chiamerei una discussione.» «Come la chiamerebbe?» «L'avevo sorpresa a sbirciare in certe carte riguardanti il mio lavoro e credo si fosse offesa per quella che deve aver interpretato come una mia mancanza di fiducia nei suoi confronti.» «Era qualcosa di importante?» «No. Un semplice manoscritto, una bozza.» «Posso chiedere di che tipo di manoscritto si trattava?» Esitai. «Una fiaba.» «Per bambini?» «Diciamo per un pubblico familiare.» «Capisco.» «No, non credo che capisca. Non c'è stata nessuna discussione. Cristina si era solo un po' infastidita perché non le avevo permesso di dargli un'occhiata, nient'altro. Quando l'ho lasciata stava bene, preparava le valigie. Quel manoscritto non ha nessuna importanza.» Il dottore fece un cenno d'assenso più per cortesia che per convinzione. «Potrebbe darsi che mentre lei era fuori qualcuno sia andato a trovarla a casa sua?» «Nessuno all'infuori di me sapeva che era lì.» «Le viene in mente qualche motivo per il quale avrebbe potuto decidere di uscire prima del suo ritorno?» «No. Perché?» «Sono solo domande, signor Martín. Cerco di chiarire cosa è successo tra il momento in cui lei l'ha vista per l'ultima volta e la sua comparsa qui.» «Cristina ha detto cosa o chi le è entrato dentro?»
«È un modo di dire, signor Martín. Non è entrato nulla dentro Cristina. Non è raro che pazienti reduci da un'esperienza traumatica avvertano la presenza di familiari defunti o di persone immaginarie, o che si rifugino nella propria mente e chiudano le porte all'esterno. È una risposta emotiva, un modo per difendersi da sentimenti o emozioni inaccettabili. Questo, adesso, non deve preoccuparla. Ciò che conta e che ci può aiutare è che, se c'è qualcuno importante ora per Cristina, quella persona è lei. Dalle cose che mi ha raccontato a suo tempo e che sono restate fra noi, e da quanto ho osservato in queste ultime settimane, mi risulta che Cristina l'ama, signor Martín. L'ama come non ha mai amato nessuno, e certamente come non amerà mai me. Per questo le chiedo di aiutarmi, di non lasciarsi accecare dal risentimento o dalla paura e di aiutarmi, perché tutti e due vogliamo la stessa cosa. Tutti e due vogliamo che Cristina possa andarsene da qui.» Annuii pieno di vergogna. «Mi scusi se prima...» Il medico sollevò la mano per zittirmi. Si alzò e si mise il cappotto. Mi tese la mano e gliela strinsi. «L'aspetto domani» disse. «Grazie, dottore.» «Grazie a lei. Per essere al suo fianco.» La mattina dopo uscii dall'hotel quando il sole iniziava ad alzarsi sul lago gelato. Un gruppo di bambini giocava sulla riva tirando pietre e cercando di colpire lo scafo di una barchetta imprigionata nel ghiaccio. Aveva smesso di nevicare e si potevano vedere le montagne bianche in lontananza e grandi nuvole passeggere che scivolavano nel cielo come monumentali città di vapore. Arrivai alla clinica di Villa San Antonio poco prima delle nove. Il dottor Sanjuán mi aspettava in giardino con Cristina. Erano seduti al sole e il medico le teneva la mano mentre le parlava. Lei lo guardava appena. Quando mi vide attraversare il giardino, il dottore mi fece cenno di avvicinarmi. Mi aveva sistemato una sedia di fronte a Cristina. Mi sedetti e la guardai, i suoi occhi nei miei senza vedermi. «Cristina, guarda chi è venuto» disse il dottore. Le presi la mano e mi avvicinai a lei. «Le parli» disse il dottore. Annuii, perso in quello sguardo assente, senza trovare le parole. Il medico si alzò e ci lasciò soli. Lo vidi scomparire all'interno della clinica, non senza avere prima ordinato a una delle infermiere di non toglierci gli occhi
di dosso. Ignorai la presenza dell'infermiera e avvicinai la sedia a Cristina. Le scostai i capelli dalla fronte e lei sorrise. «Ti ricordi di me?» domandai. Potevo vedere il mio riflesso nei suoi occhi, però non sapevo se mi vedeva o se sentiva la mia voce. «Il dottore dice che presto ti rimetterai e potremo tornare a casa. Dove vorrai. Ho pensato di lasciare la casa della torre e di andarcene molto lontano, come volevi tu. Dove nessuno ci conosca e a nessuno importi chi siamo e da dove veniamo.» Le avevano coperto le mani con guanti di lana per nascondere le bende sulle braccia. Era calata di peso e aveva rughe profonde sulla pelle, labbra screpolate e occhi spenti e privi di vita. Mi limitai a sorridere e ad accarezzarle il viso e la fronte, parlando senza tregua, raccontandole quanto mi era mancata e che l'avevo cercata dappertutto. Trascorremmo così un paio d'ore, finché il medico tornò con un'infermiera e la portarono dentro. Rimasi seduto lì in giardino, senza sapere dove andare, fino a quando vidi comparire di nuovo il dottor Sanjuán sulla porta. Si avvicinò e si sedette accanto a me. «Non ha detto una parola» spiegai. «Non credo si sia nemmeno resa conto che ero qui...» «Si sbaglia, amico mio» disse. «È un processo lento, ma le assicuro che la sua presenza l'aiuta, e molto.» Annuii all'elemosina e alle bugie pietose del dottore. «Domani ci riproviamo» disse. Era appena mezzogiorno. «E cosa faccio fino a domani?» chiesi. «Non è uno scrittore? Scriva. Scriva qualcosa per lei.» 9 Ritornai in albergo costeggiando il lago. Il portiere mi spiegò come trovare l'unica cartoleria del paese, dove riuscii a comprare dei fogli e una stilografica che era lì da tempi immemorabili. Una volta armato, mi chiusi nella stanza. Spostai il tavolo davanti alla finestra e ordinai un thermos di caffè. Passai quasi un'ora a guardare il lago e le montagne in lontananza prima di scrivere una sola parola. Ricordai la vecchia fotografia che Cristina mi aveva regalato, quell'immagine di una bambina che camminava su un molo di legno proteso nel mare il cui mistero era sempre sfuggito alla
sua memoria. Immaginai di camminare su quel molo, immaginai che i miei passi mi conducevano dietro di lei, e lentamente le parole iniziarono a fluire e lo scheletro di una piccola storia si insinuò tra le righe. Seppi che avrei scritto la storia che Cristina non era mai riuscita a ricordare, la storia che l'aveva condotta da bambina a camminare su quelle acque rilucenti tenendo per mano uno sconosciuto. Avrei scritto la storia di quel ricordo che non era mai stato tale, la memoria di una vita rubata. Le immagini e la luce che si affacciavano nelle frasi mi riportarono nella vecchia Barcellona tenebrosa che ci aveva segnati entrambi. Scrissi fino al tramonto e fino a quando nel thermos non restò nemmeno una goccia di caffè, fino a quando il lago gelato si accese di una luna azzurra e mi fecero male gli occhi e le mani. Lasciai cadere la penna e scostai i fogli sul tavolo. Quando il portiere bussò alla porta per domandarmi se scendevo a cenare, non lo sentii. Mi ero addormentato profondamente, sognando e credendo, per una volta, che le parole, perfino le mie, avessero il potere di curare. Passarono quattro giorni al ritmo della stessa routine. Mi svegliavo all'alba e uscivo sul balcone della stanza per vedere il sole tingere di rosso il lago ai miei piedi. Arrivavo in clinica verso le otto e mezzo e trovavo il dottor Sanjuán seduto sui gradini dell'ingresso che contemplava il giardino con una tazza di caffè fumante tra le mani. «Non dorme mai, dottore?» gli chiedevo. «Non più di lei» rispondeva. Verso le nove, il medico mi accompagnava nella stanza di Cristina e apriva la porta. Ci lasciava soli. La trovavo sempre seduta sulla stessa poltrona davanti alla finestra. Avvicinavo una sedia e le prendevo la mano. A stento si accorgeva della mia presenza. Poi iniziavo a leggere le pagine che avevo scritto per lei la notte prima. Ogni giorno ricominciavo dall'inizio. A volte interrompevo la lettura e alzando gli occhi mi stupivo scoprendo un accenno di sorriso sulle sue labbra. Passavo la giornata con lei fin quando il dottore tornava al tramonto e mi chiedeva di andarmene. Poi mi trascinavo per le strade deserte sotto la neve e rientravo in albergo, mangiavo qualcosa e salivo in camera per continuare a scrivere finché non mi vinceva la stanchezza. I giorni smisero di avere un nome. Il quinto giorno entrai nella stanza di Cristina come tutte le mattine, ma la poltrona in cui mi aspettava sempre era vuota. Allarmato, mi guardai intorno e la trovai rannicchiata a terra, raggomitolata in un angolo, che si stringeva le ginocchia e con il volto pieno di lacrime. Quando mi vide sor-
rise e capii che mi aveva riconosciuto. Mi inginocchiai davanti a lei e l'abbracciai. Non credo di essere mai stato tanto felice come in quei miseri secondi in cui sentii il suo fiato sul viso e vidi che un filo di luce le era ritornato negli occhi. «Dove sei stato?» domandò. Quel pomeriggio il dottor Sanjuán mi diede il permesso di portarla a passeggio per un'ora. Camminammo fino al lago e ci sedemmo su una panchina. Iniziò a parlarmi di un sogno che aveva fatto, la storia di una bambina che viveva in una città labirintica e oscura le cui strade e i cui palazzi si nutrivano delle anime degli abitanti. Nel suo sogno, come nel racconto che le avevo letto per diversi giorni, la bambina riusciva a fuggire e arrivava a un molo proteso su un mare sconfinato. Camminava tenendo per mano uno sconosciuto senza nome né volto che l'aveva salvata e che adesso l'accompagnava verso l'estremità di quella piattaforma di assi sporgente sulle acque dove qualcuno l'aspettava, qualcuno che non riusciva mai a vedere, perché il suo sogno, come la storia che le avevo letto, era incompiuto. Cristina ricordava vagamente Villa San Antonio e il dottor Sanjuán. Arrossì raccontandomi che credeva che le avesse proposto di sposarla la settimana prima. Il tempo e lo spazio le si confondevano negli occhi. A volte credeva che suo padre fosse ricoverato in una delle stanze e che lei fosse venuta a trovarlo. Un istante dopo non ricordava come era arrivata fin lì e spesso nemmeno se lo chiedeva. Ricordava che io ero uscito per comprare dei biglietti per un treno e, a tratti, alludeva alla mattina in cui era scomparsa come se fosse successo il giorno prima. A volte mi confondeva con Vidal e mi chiedeva scusa. Altre volte la paura le oscurava il viso e si metteva a tremare. «Si avvicina» diceva. «Devo andarmene. Prima che ti veda.» Allora sprofondava in un lungo silenzio, indifferente alla mia presenza e al mondo, come se qualcosa l'avesse trascinata in un luogo remoto e irraggiungibile. Trascorso qualche giorno, la certezza che Cristina avesse perso la ragione cominciò a penetrarmi a fondo. La speranza dei primi momenti si tinse di amarezza e a volte, tornando di notte alla cella del mio albergo, sentivo spalancarsi dentro di me quel vecchio abisso di oscurità e di odio che credevo dimenticato. Il dottor Sanjuán, che mi osservava con la stessa pazienza e la stessa tenacia che riservava ai suoi malati, mi aveva avvertito che sarebbe accaduto.
«Non deve perdere la speranza, amico mio» diceva. «Stiamo facendo grandi progressi. Abbia fiducia.» Io annuivo docilmente e giorno dopo giorno tornavo in clinica per portare Cristina a passeggio fino al lago, per ascoltare quei ricordi sognati che mi aveva raccontato decine di volte ma che riscopriva di nuovo ogni giorno. Ogni giorno mi chiedeva dove ero stato, perché non ero tornato a prenderla, perché l'avevo lasciata sola. Ogni giorno mi guardava dalla sua gabbia invisibile e mi chiedeva di abbracciarla. Ogni giorno, quando ci separavamo, mi domandava se l'amavo e io le rispondevo sempre la stessa cosa. «Ti amerò sempre» dicevo. «Sempre.» Una notte mi svegliai sentendo bussare alla mia stanza. Erano le tre. Mi trascinai alla porta, intontito, e sulla soglia trovai un'infermiera della clinica. «Il dottor Sanjuán mi ha chiesto di venirla a prendere.» «Cos'è successo?» Dieci minuti dopo entravo a Villa San Antonio. Le urla si sentivano fin dal giardino. Cristina aveva bloccato dall'interno la porta della sua stanza. Il dottor Sanjuán, con l'aria di chi non dorme da una settimana, e due infermieri stavano cercando di forzarla. Dentro si sentiva Cristina che gridava e colpiva le pareti, rovesciava i mobili e faceva a pezzi tutto ciò che trovava. «Chi c'è lì dentro con lei?» chiesi, raggelato. «Nessuno» rispose il medico. «Ma sta parlando con qualcuno...» protestai. «È sola.» Un sorvegliante arrivò di corsa con una sbarra di metallo. «È tutto quello che ho trovato» disse. Il dottore annuì e il sorvegliante introdusse la sbarra nel buco della serratura iniziando a forzarla. «Come ha fatto a chiudersi dentro?» domandai. «Non lo so...» Per la prima volta mi parve di scorgere la paura sul volto del medico, che evitava il mio sguardo. Il sorvegliante era sul punto di forzare la serratura con la sbarra quando, all'improvviso, si fece silenzio dall'altro lato della porta. «Cristina?» chiamò il dottore.
Nessuna risposta. La porta alla fine cedette e si aprì di colpo verso l'interno. Seguii il dottore nella stanza, immersa nella penombra. La finestra era aperta e un vento gelido inondava la camera. Le sedie, i tavoli e le poltrone erano rovesciati. Le pareti erano macchiate da quello che mi parve un tratto irregolare di pittura nera. Era sangue. Di Cristina non c'era traccia. Gli infermieri corsero sul balcone e scrutarono il giardino in cerca di orme sulla neve, mentre il medico guardava dappertutto. Fu allora che sentimmo una risata che proveniva dal bagno. Mi avvicinai alla porta e l'aprii. Il pavimento era cosparso di vetri. Cristina era seduta per terra, appoggiata alla vasca di metallo come un pupazzo rotto. Le sanguinavano le mani e i piedi, cosparsi di tagli e schegge di vetro. Il suo sangue scorreva ancora lungo le incrinature dello specchio che aveva fatto a pezzi con i pugni. L'abbracciai e cercai il suo sguardo. Sorrise. «Non l'ho lasciato entrare» disse. «Chi?» «Voleva che dimenticassi, ma non l'ho lasciato entrare» ripeté. Il dottore si accovacciò accanto a me ed esaminò i tagli e le ferite che ricoprivano il corpo di Cristina. «Per favore» mormorò, separandomi da lei. «Adesso no.» Uno degli infermieri era corso a prendere una barella. Li aiutai ad adagiarvi Cristina e le tenni la mano mentre la portavano in un ambulatorio, dove il dottor Sanjuán le iniettò un calmante che in pochi secondi le rubò la coscienza. Restai al suo fianco, guardandola negli occhi finché il suo sguardo divenne uno specchio vuoto e un'infermiera mi prese per un braccio e mi portò fuori. Rimasi lì, in mezzo a un corridoio in penombra che puzzava di disinfettante, con le mani e i vestiti macchiati di sangue. Mi appoggiai al muro e mi lasciai scivolare a terra. Cristina si svegliò il giorno dopo per ritrovarsi legata a un letto con cinghie di cuoio, rinchiusa in una stanza senza finestre e senza altra luce se non quella di una lampadina smorta appesa al soffitto. Io avevo passato la notte su una sedia in un angolo, osservandola, senza la nozione del tempo trascorso. Aprì gli occhi di colpo, una smorfia di dolore sul viso nel sentire le fitte delle ferite alle braccia. «David?» chiamò. «Sono qui» risposi. Mi avvicinai al letto e mi chinai perché vedesse la faccia e il sorriso anemico che avevo studiato apposta per lei.
«Non riesco a muovermi.» «Sei legata con delle cinghie. È per il tuo bene. Appena viene il dottore, te le toglie.» «Toglimele tu.» «Non posso. Dev'essere il dottore a...» «Per favore...» supplicò. «Cristina, è meglio che...» «Per favore.» C'erano dolore e paura nel suo sguardo, ma soprattutto un chiarore e una presenza che non avevo mai visto in quei giorni andando a trovarla. Era di nuovo lei. Sciolsi le prime due cinghie che le attraversavano le spalle e i fianchi. Le accarezzai il viso. Stava tremando. «Hai freddo?» Scosse la testa. «Vuoi che avverta il dottore?» Scosse di nuovo la testa. «David, guardami.» Mi sedetti sul bordo del letto e la guardai negli occhi. «Devi distruggerlo» disse. «Non ti capisco.» «Devi distruggerlo.» «Cosa?» «Il libro.» «Cristina, sarà meglio che avverta il dottore...» «No. Ascoltami.» Mi afferrò la mano con forza. «La mattina che sei andato a prendere i biglietti, ricordi? Sono salita di nuovo nel tuo studio e ho aperto il baule.» Sospirai. «Ho trovato il manoscritto e ho cominciato a leggerlo.» «È solo una fiaba, Cristina...» «Non mentire. L'ho letto, David. Abbastanza per sapere che dovevo distruggerlo...» «Non preoccuparti di questo, adesso. Ti ho già detto che l'ho abbandonato.» «Ma lui non ha abbandonato te. Ho cercato di bruciarlo...» Per un attimo, a quelle parole, le lasciai la mano, reprimendo una rabbia fredda al ricordo dei fiammiferi usati che avevo trovato sul pavimento del-
lo studio. «Hai cercato di bruciarlo?» «Ma non ci sono riuscita» mormorò. «C'era qualcun altro in casa.» «Non c'era nessuno in casa, Cristina. Nessuno.» «Appena ho acceso il fiammifero e l'ho avvicinato al manoscritto, l'ho sentito dietro di me. Ho sentito un colpo alla nuca e sono caduta.» «Chi ti ha colpito?» «Era tutto scuro, come se la luce del giorno si fosse ritratta e non potesse entrare. Mi sono girata, ma era molto buio. Gli ho visto solo gli occhi. Occhi da lupo.» «Cristina...» «Mi ha tolto di mano il manoscritto e l'ha rimesso nel baule.» «Cristina, non stai bene. Chiamo il dottore e...» «Non mi stai ascoltando.» Le sorrisi e la baciai sulla fronte. «Certo che ti ascolto. Però non c'era nessun altro in casa...» Socchiuse gli occhi e girò la testa, gemendo come se le mie parole fossero pugnali che le squarciassero le viscere. «Vado a chiamare il dottore...» Mi chinai per baciarla di nuovo e mi alzai. Mi avviai verso la porta, sentendo il suo sguardo sulla schiena. «Vigliacco» disse. Quando tornai con il dottor Sanjuán, Cristina aveva sciolto l'ultima cinghia e barcollava per la stanza diretta alla porta, lasciando orme insanguinate sulle piastrelle bianche. La tenemmo ferma in due e l'adagiammo di nuovo sul letto. Cristina urlava e si divincolava con una rabbia che gelava il sangue. Il baccano mise in allerta gli infermieri. Un sorvegliante ci aiutò a tenerla mentre il dottore la legava un'altra volta con le cinghie. Quando fu immobilizzata, il dottore mi guardò con severità. «La sederò ancora. Rimanga qui e non le venga in mente di scioglierle di nuovo le cinghie.» Restai solo con lei un minuto, cercando di calmarla. Cristina continuava a lottare per liberarsi delle cinghie. Le afferrai il viso e cercai di captare il suo sguardo. «Cristina, per favore...» Mi sputò in faccia. «Vattene.»
Il medico tornò in compagnia di un'infermiera che portava un vassoio di metallo con una siringa, le garze e una boccetta contenente una soluzione giallastra. «Esca» mi ordinò. Arretrai fino alla soglia. L'infermiera tenne ferma Cristina sul letto e il dottore le iniettò il calmante nel braccio. Cristina urlava con voce lacerata. Mi tappai le orecchie e uscii in corridoio. Vigliacco, mi dissi. Vigliacco. 10 Oltre la clinica Villa San Antonio si apriva un sentiero fiancheggiato da alberi che costeggiava un canale e si allontanava dal paese. La mappa incorniciata appesa nella sala da pranzo dell'Hotel del Lago lo identificava con l'appellativo mieloso di paseo de los Enamorados. Quel pomeriggio, lasciando la clinica, mi avventurai per quel cupo sentiero che, più che amoreggiamenti, suggeriva solitudine. Camminai per quasi mezz'ora senza incontrare anima viva, lasciandomi alle spalle il paese finché il profilo spigoloso di Villa San Antonio e le grandi case che circondavano il lago mi sembrarono ritagli di cartone sull'orizzonte. Mi sedetti su una delle panchine che punteggiavano il sentiero e contemplai il sole che tramontava all'altra estremità della valle della Cerdanya. Da lì, a un duecento metri, si scorgeva il profilo di un piccolo eremo isolato al centro di un campo innevato. Senza sapere bene perché, mi alzai e mi feci strada in mezzo alla neve, diretto all'edificio. Quando ero a una dozzina di metri, notai che l'eremo non aveva portone. La pietra era annerita dalle fiamme che avevano divorato la struttura. Salii i gradini che conducevano a quello che era stato l'ingresso e avanzai di qualche passo. I resti delle panche incendiate e delle travi cadute dal soffitto spuntavano dalla cenere. Le sterpaglie si erano intrufolate all'interno e si arrampicavano su quello che era stato l'altare. La luce del crepuscolo penetrava dalle anguste finestre di pietra. Mi sedetti su quanto restava di una panca di fronte all'altare e sentii il vento sussurrare tra le crepe della volta consumata dal fuoco. Alzai gli occhi e desiderai avere anche solo una briciola della fede, in Dio o nei libri, che aveva albergato il mio vecchio amico Sempere, per pregare Dio o l'inferno di concedermi un'altra opportunità e di lasciarmi portar via Cristina da lì. «Per favore» mormorai, mordendomi le lacrime. Sorrisi amaramente, un uomo ormai sconfitto che supplicava meschinità
a un Dio in cui non aveva mai creduto. Mi guardai intorno e vidi quella casa di Dio fatta di rovina e di cenere, di vuoto e di solitudine. Allora seppi che sarei tornato a prenderla quella notte stessa, senza altro miracolo né benedizione se non la mia determinazione di portarmela via e di strapparla dalle mani di quel dottore pusillanime e cascamorto che aveva deciso di farne la sua bella addormentata. Avrei dato fuoco alla clinica piuttosto che permettere che qualcuno le mettesse di nuovo le mani addosso. Me la sarei portata a casa per morire accanto a lei. L'odio e la rabbia avrebbero illuminato il mio cammino. Lasciai il vecchio eremo all'imbrunire. Attraversai quel campo d'argento che brillava alla luce della luna e ritornai al sentiero nel bosco seguendo le tracce del canale nelle tenebre, finché avvistai in lontananza le luci di Villa San Antonio e la cittadella di torrioni e mansarde che circondavano il lago. Arrivato in clinica, non mi presi la briga di tirare il campanello che c'era al cancello. Saltai il muro e attraversai il giardino strisciando nell'oscurità. Aggirai la casa e mi avvicinai a uno degli ingressi posteriori. Era chiuso dall'interno, ma non esitai un istante a colpire il vetro con il gomito per romperlo e raggiungere la maniglia. Mi inoltrai nel corridoio, ascoltando le voci e i mormorii, sentendo nell'aria l'aroma di brodo che saliva dalle cucine. Attraversai il piano fino ad arrivare alla stanza in fondo, dove il buon dottore aveva rinchiuso Cristina, senza dubbio fantasticando di farne la sua bella addormentata, prostrata per sempre in un limbo di farmaci e cinghie. Avevo immaginato di trovare chiusa la porta della stanza, però la maniglia mi cedette sotto la mano. Spinsi la porta ed entrai. La prima cosa che notai fu che potevo vedere il mio fiato fluttuare davanti alla faccia. La seconda fu che il pavimento a piastrelle bianche era pieno di orme insanguinate. Il finestrone che dava sul giardino era spalancato e le tende ondeggiavano al vento. Il letto era vuoto. Mi avvicinai e presi una delle cinghie di cuoio con cui il dottore e gli infermieri avevano legato Cristina. Erano tagliate di netto, come se fossero state di carta. Uscii in giardino e vidi una scia di orme rossastre che brillavano sulla neve e si allontanavano verso il muro. La seguii e tastai il muro di pietra che circondava il giardino. C'era del sangue. Mi arrampicai e saltai dall'altra parte. Le orme, erratiche, si allontanavano in direzione del paese. Ricordo di essermi messo a correre. Seguii le tracce sulla neve fino al parco che circondava il lago. La luna piena ardeva sulla grande lastra di ghiaccio. Fu lì che la vidi. Avanzava lentamente, zoppicando, sul lago ghiacciato, lasciandosi alle spalle una
scia di orme insanguinate. Il vento agitava il camicione che le avvolgeva il corpo. Quando raggiunsi la riva, Cristina si era addentrata una trentina di metri verso il centro del lago. Gridai il suo nome e si fermò. Si voltò lentamente e la vidi sorridere mentre una ragnatela di crepe s'intesseva ai suoi piedi. Saltai sul ghiaccio, sentendo la superficie rompersi al mio passaggio, e corsi verso di lei. Cristina rimase immobile a guardarmi. Le incrinature sotto i suoi piedi si espandevano come un'edera di capillari neri. Il ghiaccio cedeva sotto i miei passi e caddi bocconi. «Ti amo» la sentii dire. Mi trascinai verso di lei, ma la rete di crepe mi cresceva sotto le mani e la circondò. Ci separavano solo pochi metri quando sentii il ghiaccio rompersi e cederle sotto i piedi. Delle fauci nere si spalancarono e la inghiottirono come un pozzo di catrame. Appena scomparve sotto la superficie, le lastre di ghiaccio si ricomposero sigillando l'apertura nella quale Cristina era precipitata. Spinto dalla corrente, il suo corpo scivolò un paio di metri sotto la lastra di ghiaccio. Riuscii a trascinarmi fin dove era rimasta imprigionata e colpii il ghiaccio con tutte le mie forze. Cristina, gli occhi aperti e i capelli ondeggianti nella corrente, mi osservava dall'altro lato di quella lamina traslucida. Picchiai sul ghiaccio fino a ridurmi inutilmente a pezzi le mani. Cristina non staccò mai gli occhi dai miei. Appoggiò la mano sul ghiaccio e sorrise. Le ultime bolle d'aria le sfuggivano ormai dalle labbra e le sue pupille si dilatarono per l'ultima volta. Un secondo dopo, lentamente, cominciò ad affondare per sempre nell'oscurità. 11 Non tornai in camera a riprendere le mie cose. Nascosto tra gli alberi che circondavano il lago, vidi il dottore e un paio di poliziotti arrivare in albergo. Attraverso le vetrate, li vidi parlare con il direttore. Al riparo di strade oscure e deserte attraversai il paese fino a raggiungere la stazione sepolta nella nebbia. Due lampioni a gas permettevano di indovinare il profilo di un treno in attesa sui binari. Il semaforo rosso acceso all'uscita della stazione tingeva il suo scheletro di metallo scuro. La locomotiva era ferma; lacrime di ghiaccio pendevano da leve e binari come gocce di gelatina. I vagoni erano al buio, i finestrini velati dalla brina. Non si vedeva nessuna luce nell'ufficio del capostazione. Mancavano ancora parecchie ore alla partenza e la stazione era deserta. Mi avvicinai a uno dei vagoni e provai ad aprire una porta. Era chiusa
dall'interno. Scesi sui binari e aggirai il treno. Protetto dall'ombra, mi arrampicai sulla piattaforma di passaggio fra i due vagoni di coda e tentai la sorte con la porta che metteva in comunicazione le carrozze. Era aperta. Mi infilai nel vagone e avanzai nella penombra fino a uno degli scompartimenti. Entrai e chiusi la serratura dall'interno. Tremante di freddo, mi lasciai sprofondare nel sedile. Non osavo chiudere gli occhi per timore che lo sguardo di Cristina mi attendesse sotto il ghiaccio. Passarono minuti, forse ore. A un certo punto mi chiesi perché mi stessi nascondendo e perché fossi incapace di provare qualcosa. Mi rifugiai in quel vuoto e aspettai lì, nascosto come un fuggiasco, ascoltando i mille lamenti del metallo e del legno che si contraevano per il freddo. Scrutai le ombre dietro i finestrini fin quando il fascio di luce di un lampione sfiorò le pareti della carrozza e sentii delle voci sulla banchina. Aprii con le dita uno spioncino nella pellicola di vapore che appannava i vetri e vidi il macchinista e un paio di operai che si dirigevano verso la parte anteriore del treno. A una decina di metri, il capostazione chiacchierava con la coppia di poliziotti che poco prima avevo visto all'albergo insieme al dottore. Lo vidi annuire e tirare fuori un mazzo di chiavi mentre si avvicinava al treno seguito dai poliziotti. Mi ritrassi di nuovo nello scompartimento. Qualche secondo dopo sentii il rumore delle chiavi e lo scatto della porta del vagone che si apriva. Dei passi avanzarono dall'estremità della carrozza. Sollevai il saliscendi della serratura, lasciando la porta dello scompartimento aperta, e mi stesi a terra sotto una fila di sedili, appiattito contro la parete. Sentii avvicinarsi i poliziotti, vidi il fascio delle torce che tracciavano aghi di luce azzurrata scivolando sulle vetrate degli scompartimenti. Quando i passi si fermarono davanti al mio, trattenni il respiro. Le voci si erano zittite. Sentii la porta che si apriva e gli stivali che mi passavano a un paio di palmi dalla faccia. Il poliziotto restò lì qualche secondo, poi uscì e richiuse. I suoi passi si allontanarono lungo il vagone. Rimasi lì, immobile. Un paio di minuti dopo sentii un tramestio, e un soffio caldo che esalava dalla grata del riscaldamento mi accarezzò il volto. Un'ora più tardi le prime luci dell'alba sfiorarono i finestrini. Uscii dal mio nascondiglio e guardai fuori. Viaggiatori solitari o a coppie percorrevano la banchina trascinando pacchi e valigie. Sulle pareti e sul pavimento del vagone si sentiva il rumore della locomotiva in moto. In pochi minuti i viaggiatori cominciarono a salire sul treno e il controllore accese le luci. Mi sedetti di nuovo sul sedile accanto al finestrino e ricambiai i saluti di qualche passeggero che passava davanti allo scompartimento. Quando il
grande orologio della stazione batté le otto, il convoglio iniziò a muoversi. Solo allora chiusi gli occhi e sentii le campane della chiesa suonare in lontananza con l'eco di una maledizione. Il viaggio di ritorno fu funestato dai ritardi. Parte della linea era fuori uso e non arrivammo a Barcellona fino all'imbrunire di quel venerdì 23 febbraio. La città era sepolta sotto un cielo scarlatto sul quale si stendeva una ragnatela di fumo nero. Faceva caldo, come se l'inverno si fosse ritratto d'improvviso e un fiato sporco e umido salisse dalle grate delle fognature. Aprendo il portone della casa della torre trovai una busta bianca sul pavimento. Scorsi il sigillo di ceralacca rossa e non mi preoccupai di raccoglierla perché sapevo perfettamente quello che conteneva: un promemoria dell'appuntamento con il principale per consegnargli il manoscritto quella sera stessa nella villa accanto al Park Güell. Salii le scale al buio e aprii la porta dell'appartamento. Non accesi la luce e andai direttamente nello studio. Mi avvicinai al finestrone e osservai la stanza nel chiarore infernale distillato da quel cielo in fiamme. La immaginai lì, come mi aveva raccontato, in ginocchio davanti al baule. La immaginai mentre lo apriva e tirava fuori la cartellina con il manoscritto. Mentre leggeva quelle pagine maledette con la certezza di doverle distruggere. Mentre accendeva i fiammiferi e avvicinava la fiamma alla carta. C'era qualcun altro in casa. Mi avvicinai al baule e mi fermai a qualche passo di distanza, come se fossi alle sue spalle, a spiarla. Mi chinai in avanti e lo aprii. Il manoscritto era ancora lì, ad aspettarmi. Allungai la mano per sfiorare la cartellina con le dita, accarezzandolo. Fu allora che la vidi. Il profilo d'argento brillava sul fondo del baule come una perla sul fondo di uno stagno. La presi fra le dita e l'esaminai alla luce di quel cielo insanguinato. La spilla dell'angelo. «Figlio di puttana» mi sentii dire. Presi la scatola con il vecchio revolver di mio padre dal fondo dell'armadio. Aprii il tamburo e verificai che era carico. Misi la scatola di munizioni nella tasca sinistra del cappotto. Avvolsi l'arma in uno strofinaccio e la infilai nella tasca destra. Prima di uscire mi fermai un istante a contemplare lo sconosciuto che mi osservava dallo specchio dell'ingresso. Sorrisi, con la pace dell'odio che mi bruciava nelle vene, e uscii nella notte. 12
La casa di Andreas Corelli si ergeva sulla collina, stagliandosi contro un manto di nuvole rosse. Alle sue spalle ondeggiava il bosco di ombre del Park Güell. Il vento agitava i rami e le foglie sibilavano come serpenti nel buio. Mi fermai davanti all'ingresso ed esaminai la facciata. Non c'era nemmeno una luce accesa in tutta la casa. Le imposte dei finestroni erano chiuse. Sentii alle mie spalle il respiro dei cani che si aggiravano dietro i muri del parco, seguendo i miei passi. Estrassi il revolver dalla tasca e mi girai verso il cancello d'ingresso, dove s'intravedevano i contorni degli animali, ombre liquide che scrutavano dall'oscurità. Mi avvicinai alla porta principale e diedi tre colpi secchi al battente. Non aspettai la risposta. Avrei fatto saltare la serratura con il revolver, ma non ce ne fu bisogno. La porta era aperta. Girai la maniglia di bronzo fino a far scattare la serratura e la porta di rovere scivolò lentamente verso l'interno per l'inerzia del suo stesso peso. Il lungo corridoio mi si spalancava di fronte, con lo strato di polvere sul pavimento che brillava come sabbia fine. Avanzai di qualche passo e mi avvicinai alla scalinata a un lato dell'ingresso che scompariva in una spirale di ombre. Proseguii lungo il corridoio che portava in salotto. Decine di sguardi mi seguivano dalla galleria di vecchie foto incorniciate che ricoprivano le pareti. Gli unici rumori che riuscivo a percepire erano quelli dei miei passi e del mio respiro. Raggiunsi la fine del corridoio e mi fermai. Il chiarore notturno filtrava dalle imposte come lame di luce rossastra. Sollevai il revolver ed entrai in salotto. Lasciai che i miei occhi si abituassero alle tenebre. I mobili erano dove li ricordavo, ma perfino nella scarsità di luce si poteva notare che erano vecchi e ricoperti di polvere. Relitti. I tendaggi pendevano sfilacciati e la pittura dei muri era ridotta a brandelli simili a squame. Mi diressi verso uno dei finestroni per aprire le imposte e far entrare un po' di luce. Ero a un paio di metri dal balcone quando capii di non essere solo. Mi fermai, raggelato, e mi voltai piano. La figura si distingueva chiaramente in un angolo della stanza, seduta sulla solita poltrona. La luce che sanguinava dalle imposte riusciva a svelarne le scarpe lucide e il contorno del vestito. Il volto era completamente in ombra, ma sapevo che mi stava guardando. E che sorrideva. Sollevai il revolver e glielo puntai contro. «So quello che ha fatto» dissi. Corelli non mosse nemmeno un muscolo. La sua figura restò immobile come un ragno. Feci un passo avanti, tenendogli il volto sotto mira. Mi parve di sentire un sospiro nell'oscurità, poi, per un istante, la luce rossa-
stra si accese nei suoi occhi ed ebbi la certezza che mi sarebbe saltato addosso. Sparai. Il rinculo dell'arma mi colpì l'avambraccio come una martellata secca. Una nube di fumo azzurrato si alzò dal revolver. Una mano di Corelli scivolò giù dal bracciolo della poltrona oscillando, con le unghie che sfioravano il pavimento. Sparai di nuovo. La pallottola lo raggiunse al petto e aprì un buco fumante nel vestito. Rimasi fermo, impugnando il revolver con tutte e due le mani, senza osare fare un altro passo, scrutando il suo profilo immobile sulla poltrona. Il dondolio del braccio si fermò a poco a poco finché il corpo giacque inerte e le sue unghie, lunghe e curate, rimasero ancorate al pavimento di rovere. Non ci fu alcun rumore né un accenno di movimento nel corpo che aveva appena ricevuto due proiettili, uno al viso e l'altro al petto. Arretrai di qualche passo verso il finestrone e lo aprii a calci, senza staccare gli occhi dalla poltrona dove giaceva Corelli. Una colonna di luce vaporosa si fece strada dalla balaustra all'angolo della stanza, illuminando il volto e il corpo del principale. Cercai di deglutire, ma avevo la bocca secca. Il primo sparo gli aveva aperto un foro tra gli occhi. Il secondo gli aveva bucato uno dei risvolti della giacca. Non c'era nemmeno una goccia di sangue. Al suo posto stillava una polvere sottile e brillante, come quella di una clessidra, che scivolava tra le pieghe del vestito. Gli occhi gli brillavano e aveva le labbra congelate in un sorriso sarcastico. Era un fantoccio. Abbassai il revolver, la mano che ancora tremava, e mi avvicinai lentamente. Mi chinai su quel grottesco burattino e gli accostai piano la mano alla faccia. Per un istante temetti che da un momento all'altro quegli occhi di cristallo si sarebbero mossi e che quelle mani dalle lunghe unghie mi si sarebbero avventate al collo. Gli sfiorai la guancia con i polpastrelli. Legno smaltato. Non riuscii a trattenere una risata amara. Non potevo aspettarmi di meno dal principale. Affrontai di nuovo quella smorfia beffarda e assestai al fantoccio un colpo con il calcio del revolver che lo rovesciò su un fianco. Lo vidi cadere a terra e mi accanii a calci contro di lui. La struttura di legno cominciò a deformarsi finché braccia e gambe si annodarono in una posizione impossibile. Arretrai di qualche passo e mi guardai attorno. Osservai la grande tela con la figura dell'angelo e la tirai giù con un solo strattone. Dietro il quadro scoprii la porta di accesso al sotterraneo che ricordavo dalla notte in cui ero rimasto a dormire lì. Saggiai la serratura. Era aperta. Scrutai la scala che scendeva in quella cavità oscura. Andai verso il comò dove ricordavo di avere visto Corelli mettere i centomila franchi durante il nostro primo incontro in quella casa e frugai nei cassetti. In uno
trovai una scatola di latta con candele e fiammiferi. Esitai un istante, chiedendomi se il principale avesse lasciato lì anche quelli sperando che li trovassi, così come avevo trovato il fantoccio. Accesi una candela e attraversai il salotto diretto alla porta. Diedi un'ultima occhiata al pupazzo a terra e, con la candela in alto e il revolver stretto nella mano destra, mi preparai a scendere. Avanzai gradino dopo gradino, fermandomi a ogni passo per guardarmi alle spalle. Quando raggiunsi la stanza sotterranea, tenni la candela il più possibile lontana da me e descrissi un semicerchio con il braccio. Era ancora tutto lì, il tavolo operatorio, le lampade a gas e il vassoio con gli strumenti chirurgici. Tutto ricoperto da una patina di polvere e ragnatele. Ma c'era qualcos'altro. Si notavano altre sagome contro la parete. Immobili come quella del principale. Lasciai la candela sul tavolo e mi avvicinai a quei corpi inerti. Riconobbi il domestico che ci aveva servito una sera e l'autista che mi aveva riportato a casa dopo la cena con Corelli in giardino. C'erano altre sagome che non riuscii a identificare, fra cui una rivolta contro il muro, con il viso nascosto. La spinsi con la punta dell'arma, facendola ruotare, e un secondo dopo mi ritrovai a guardare me stesso. Sentii un brivido che mi invadeva. Il pupazzo che mi imitava aveva solo mezza faccia. L'altra metà non aveva tratti definiti. Stavo per prendere a calci quel volto quando sentii la risata di un bambino in cima alle scale. Trattenni il respiro e a quel punto si sentì una serie di scatti secchi. Corsi su per i gradini e quando arrivai al piano terra il fantoccio del principale non era più sul pavimento dove l'avevo lasciato. Una scia di orme si allontanava da lì in direzione del corridoio. Armai il percussore del revolver e seguii quelle tracce. Mi fermai sulla soglia e sollevai l'arma. Le orme si interrompevano a metà corridoio. Cercai la figura del principale occulta nell'ombra, ma non ce n'era traccia. In fondo al corridoio, la porta principale era ancora aperta. Avanzai lentamente fino al punto in cui le orme si fermavano. Non me ne accorsi se non qualche secondo dopo, quando notai che il vuoto che ricordavo fra i ritratti della parete non c'era più. Al suo posto c'era una cornice nuova e dentro, in una foto che pareva scattata dalla stessa macchina fotografica di quelle che formavano la macabra collezione, si vedeva Cristina vestita di bianco, lo sguardo perso nell'obiettivo. Non era sola. Due braccia la circondavano e la sostenevano. Il loro proprietario sorrideva alla macchina. Andreas Corelli. 13
Mi allontanai giù per la collina, diretto al groviglio di strade buie di Gracia. Trovai un caffè aperto dove si era riunita una nutrita clientela che discuteva furiosamente di politica o di calcio: difficile stabilirlo. Schivai la folla e attraversai una nube di fumo e di baccano fino a raggiungere il bancone, dove il barista mi rivolse lo sguardo vagamente ostile con cui immaginai accogliesse tutti gli sconosciuti, che in quel caso dovevano essere tutti i residenti in qualsiasi posto a più di un paio di isolati dal suo locale. «Ho bisogno di usare il telefono» dissi. «È riservato ai clienti.» «Mi dia un cognac. E il telefono.» Il barista prese un bicchiere e indicò un corridoio che si apriva in fondo alla sala sotto un cartello con la scritta LATRINE. Lì trovai una specie di cabina telefonica, proprio davanti all'entrata dei bagni, esposta a un'intensa puzza di ammoniaca e al fracasso proveniente dalla sala. Sollevai la cornetta e attesi di avere la linea. Qualche secondo più tardi mi rispose una centralinista della compagnia telefonica. «Devo chiamare lo studio legale Valera, al numero 442 dell'avenida Diagonal.» La centralinista si prese un paio di minuti per trovare il numero e mettermi in comunicazione. Aspettai lì, tenendo la cornetta con una mano e tappandomi l'orecchio sinistro con l'altra. Alla fine, mi confermò che trasferiva la mia chiamata e dopo pochi secondi riconobbi la voce della segretaria dell'avvocato Valera. «Mi dispiace, ma l'avvocato al momento non c'è.» «È importante. Gli dica che mi chiamo Martín, David Martín. È questione di vita o di morte.» «So già chi è lei, signor Martín. Mi dispiace, ma non posso passarle l'avvocato perché non è qui. Sono le nove e mezza di sera e se n'è andato da un bel po'.» «Allora mi dia l'indirizzo di casa.» «Non posso fornirle questa informazione, signor Martín. Mi dispiace. Se vuole, può chiamare domani mattina e...» Riagganciai e attesi di nuovo la linea. Stavolta diedi alla centralinista il numero di Ricardo Salvador. Il suo vicino rispose e disse che sarebbe salito a vedere se l'ex poliziotto era in casa. Salvador arrivò dopo un minuto. «Martín? Sta bene? È a Barcellona?» «Sono appena arrivato.» «Deve fare molta attenzione. La polizia la cerca. Sono venuti qui a fare
domande su di lei e su Alicia Marlasca.» «Víctor Grandes?» «Credo di sì. Era con un paio di ragazzoni che non mi sono piaciuti per niente. Mi pare che voglia affibbiare a lei le morti di Roures e di Alicia Marlasca. È meglio che tenga gli occhi ben aperti. Sicuramente la stanno sorvegliando. Se vuole può venire qui.» «Grazie, signor Salvador. Ci penserò. Non voglio metterla in altri guai.» «Qualunque cosa faccia, occhio. Credo che lei avesse ragione: Jaco è tornato. Non so perché, ma è tornato. Ha un piano?» «Ora cerco di localizzare l'avvocato Valera. Credo che al centro di tutto ci sia l'editore per cui lavorava Marlasca e penso che Valera sia l'unico a sapere la verità.» Salvador fece una pausa. «Vuole che venga con lei?» «Non credo sia necessario. La chiamo appena avrò parlato con Valera.» «Come vuole. È armato?» «Sì.» «Sono contento di saperlo.» «Signor Salvador... Roures mi aveva parlato di una donna del Somorrostro consultata da Marlasca. Una che aveva conosciuto attraverso Irene Sabino.» «La Strega del Somorrostro?» «Cosa sa di lei?» «Non c'è molto da sapere. Non credo nemmeno che esista, come quell'editore. Quelli di cui deve preoccuparsi sono Jaco e la polizia.» «Ne terrò conto.» «Mi chiami appena sa qualcosa, d'accordo?» «Lo farò. Grazie.» Riagganciai e passando davanti al bancone lasciai qualche moneta per pagare le telefonate e il bicchiere di cognac che era ancora lì, intatto. Venti minuti dopo ero al numero 442 dell'avenida Diagonal a guardare le luci accese nello studio di Valera in cima al palazzo. La portineria era chiusa, ma bussai finché il portiere si affacciò e si avvicinò con un'aria non molto amichevole. Appena aprì un po' la porta per liquidarmi in malo modo, diedi uno spintone e m'infilai nella portineria, ignorando le sue proteste. Andai dritto all'ascensore e, quando lui cercò di fermarmi trattenendomi per il braccio, gli lanciai uno sguardo avvelenato che lo dissuase dal tentativo.
Quando la segretaria di Valera aprì, la sua espressione di sorpresa sì trasformò rapidamente in paura, in particolare quando infilai il piede nello spiraglio per evitare che mi chiudesse la porta in faccia ed entrai senza essere stato invitato. «Avverta l'avvocato» dissi. «Subito.» La segretaria mi guardò, pallida. «Il signor Valera non c'è...» La presi per un braccio e la spinsi fino all'ufficio dell'avvocato. Le luci erano accese, ma non c'era traccia di Valera. La segretaria singhiozzava, terrorizzata, e mi resi conto che le stavo conficcando le dita nel braccio. La lasciai e arretrò di qualche passo. Stava tremando. Sospirai e cercai di abbozzare un gesto tranquillizzante che servì solo a farle vedere il revolver che spuntava dalla cintura dei pantaloni. «Per favore, signor Martín... Le giuro che il signor Valera non c'è.» «Le credo. Si calmi. Voglio solo parlargli. Nient'altro.» La segretaria annuì. Le sorrisi. «Sia così gentile da prendere il telefono e chiamarlo a casa.» La segretaria sollevò la cornetta e mormorò il numero dell'avvocato alla centralinista. Quando ebbe risposta, mi passò il telefono. «Buona sera» arrischiai. «Martín, che brutta sorpresa» disse Valera all'altro capo della linea. «Posso sapere cosa sta facendo nel mio ufficio a quest'ora di notte, a parte terrorizzare i miei dipendenti?» «Mi dispiace per il disturbo, avvocato, ma devo assolutamente localizzare il suo cliente, il signor Andreas Corelli, e lei è l'unico in grado di aiutarmi.» Un lungo silenzio. «Temo che si sbagli, Martín. Non posso aiutarla.» «Speravo di poter risolvere questa faccenda amichevolmente, signor Valera.» «Non ha capito, Martín. Io non conosco il signor Corelli.» «Prego?» «Non l'ho mai visto e non ci ho mai parlato, e men che meno so dove trovarlo.» «Le ricordo che lui l'ha assunta per tirarmi fuori dal commissariato.» «Un paio di settimane prima avevamo ricevuto un suo assegno e una lettera in cui spiegava che lei era un suo associato, che l'ispettore Grandes la stava tormentando e che dovevamo assumere la sua difesa in caso di ne-
cessità. Assieme alla lettera, c'era la busta che ci ha chiesto di consegnarle di persona. Io mi sono limitato a incassare l'assegno e a chiedere ai miei contatti nella polizia di avvisarmi se la portavano lì. Così è stato e, come ben ricorda, ho rispettato la mia parte del contratto e l'ho tirata fuori minacciando Grandes di tempestarlo di problemi se non avesse facilitato la sua liberazione. Non credo che lei possa lamentarsi dei nostri servizi.» Stavolta il silenzio fu mio. «Se non mi crede, chieda alla signorina Margarita di mostrarle la lettera» aggiunse Valera. «E suo padre?» domandai. «Mio padre?» «Lui e Marlasca avevano rapporti con Corelli. Doveva sapere qualcosa...» «Le assicuro che mio padre non ha mai avuto rapporti diretti con il signor Corelli. Tutta la sua corrispondenza, se c'era, perché negli archivi dello studio non ve n'è traccia, era gestita personalmente dal defunto signor Marlasca. In realtà, dato che me lo chiede, posso dirle che mio padre arrivò a dubitare dell'esistenza di Corelli, soprattutto negli ultimi mesi di vita del signor Marlasca, quando iniziò ad avere, per così dire, rapporti con quella donna.» «Quale donna?» «La ballerina di varietà.» «Irene Sabino?» Lo sentii sospirare, irritato. «Prima di morire, il signor Marlasca lasciò un fondo sotto la tutela e l'amministrazione dello studio per effettuare una serie di pagamenti su un conto corrente a nome di un certo Juan Corbera e di Maria Antonia Sanahuja.» Jaco e Irene Sabino, pensai. «A quanto ammontava il fondo?» «Era un deposito in divisa estera. Mi sembra di ricordare che fosse attorno ai centomila franchi francesi.» «Marlasca disse dove aveva preso quei soldi?» «Siamo uno studio legale, non di detective. Lo studio si limitò a seguire le istruzioni secondo la volontà del signor Marlasca, non a metterle in discussione.» «Quali altre istruzioni aveva lasciato?» «Niente di speciale. Semplici pagamenti a terzi che non avevano alcun
rapporto con lo studio né con la sua famiglia.» «Ricorda qualcuno in particolare?» «Mio padre si occupava di queste faccende personalmente per evitare che i dipendenti dello studio avessero accesso a informazioni, per così dire, compromettenti.» «E a suo padre non sembrò strano che il suo ex socio volesse dare quei soldi a degli sconosciuti?» «Certo che gli sembrò strano. Molte cose gli sembrarono strane.» «Ricorda dove si dovevano inviare quei pagamenti?» «Come vuole che lo ricordi? Sono passati almeno venticinque anni.» «Faccia uno sforzo» dissi. «Per la signorina Margarita.» La segretaria mi lanciò un'occhiata terrorizzata, a cui risposi strizzandole l'occhio. «Non le venga in mente di metterle un dito addosso» minacciò Valera. «Non mi suggerisca certe idee» tagliai corto. «Come va la memoria? Si sta rinfrescando?» «Posso consultare le agende personali di mio padre. È tutto.» «Dove sono?» «Qui, tra le sue carte. Però mi ci vorranno delle ore...» Riagganciai e osservai la segretaria di Valera, che si era messa a piangere. Le tesi un fazzoletto e le diedi una pacca sulla spalla. «Su, non faccia così, adesso me ne vado. Ha visto che volevo solo parlargli?» Annuì atterrita, senza staccare gli occhi dal revolver. Mi abbottonai il cappotto e le sorrisi. «Un'ultima cosa.» Alzò lo sguardo temendo il peggio. «Mi annoti l'indirizzo dell'avvocato. E non cerchi di imbrogliarmi, perché, se dice bugie, torno e le assicuro che lascio giù in portineria la simpatia naturale che mi caratterizza.» Prima di uscire chiesi alla signorina Margarita di farmi vedere dov'era il cavo del telefono e lo tagliai, risparmiandole così la tentazione di avvisare Valera che stavo per fargli una visita di cortesia, o di chiamare la polizia per informarla del nostro piccolo diverbio. 14 L'avvocato Valera viveva in una villa monumentale con pretese da ca-
stello normanno incastonata all'angolo tra calle Girona e calle Ausiàs March. Immaginai che avesse ereditato dal padre quella mostruosità insieme allo studio, e che ogni pietra che la sosteneva fosse forgiata con il sangue e il sudore di intere generazioni di barcellonesi che non avrebbero mai sognato di mettere piede in un palazzo come quello. Dissi al portiere che avevo dei documenti dello studio per l'avvocato, da parte della signorina Margarita, e lui, dopo aver esitato un istante, mi lasciò salire. Feci le scale senza fretta sotto il suo sguardo attento. Il pianerottolo dell'appartamento principale era più grande della maggioranza delle abitazioni che ricordavo dalla mia infanzia nel vecchio quartiere della Ribera, a pochi metri da lì. Il battente della porta era un pugno di bronzo. Appena lo presi in mano per bussare mi resi conto che la porta era aperta. Spinsi leggermente e mi affacciai all'interno. L'ingresso dava su un lungo corridoio largo circa tre metri, con le pareti rivestite di velluto azzurro e ricoperte di quadri. Mi chiusi la porta alle spalle e scrutai nell'intensa penombra che si intravedeva in fondo al corridoio. Una musica tenue fluttuava nell'aria, un lamento di pianoforte elegante e malinconico. Granados. «Signor Valera?» chiamai. «Sono Martín.» Non avendo risposta mi avventurai lentamente per il corridoio, seguendo quella musica triste. Avanzai fra i quadri e le nicchie che ospitavano statue di madonne e di santi. Il corridoio era scandito da archi successivi velati da tende. Superai veli dopo veli fino a raggiungerne la fine, dove si apriva una grande stanza in penombra. Il salotto era rettangolare, con pareti ricoperte da scaffali di libri, dal pavimento al soffitto. In fondo si distinguevano una grande porta socchiusa e più in là le tenebre palpitanti e arancioni di un camino. «Valera?» chiamai di nuovo, alzando la voce. Una figura si profilò nel fascio di luce proiettato dal fuoco attraverso la porta socchiusa. Due occhi brillanti mi esaminarono sospettosi. Un cane che mi parve un pastore tedesco ma con il pelo bianco si avvicinò piano. Rimasi tranquillo, mi sbottonai lentamente il cappotto e cercai il revolver. L'animale si fermò ai miei piedi e mi guardò, lasciandosi sfuggire un lamento. Gli accarezzai la testa e lui mi leccò le dita. Poi si voltò e si avvicinò alla porta oltre la quale brillava il chiarore del fuoco. Si arrestò sulla soglia e mi guardò di nuovo. Lo seguii. Al di là della porta trovai una sala di lettura in cui troneggiava un grande camino. Non c'era altra luce se non quella delle fiamme, e una danza di ombre palpitanti strisciava lungo i muri e il soffitto. Al centro della stanza
c'era un tavolo con il grammofono da cui emanava quella musica. Davanti al fuoco, di spalle alla porta, c'era una grande poltrona di pelle. Il cane vi si avvicinò e si voltò di nuovo a guardarmi. Mi avvicinai anch'io, quanto bastava per vedere la mano sul bracciolo della poltrona che reggeva una sigaretta accesa da cui esalava un pennacchio di fumo azzurro che ascendeva lentamente. «Valera? Sono Martín. La porta era aperta...» Il cane si accucciò ai piedi della poltrona, senza smettere di fissarmi. Mi avvicinai lentamente e feci il giro della poltrona. L'avvocato Valera era seduto davanti al camino, con gli occhi aperti e un leggero sorriso sulle labbra. Indossava un completo con gilet e con l'altra mano reggeva in grembo un quaderno di pelle. Mi misi di fronte a lui e lo guardai negli occhi. Non batteva ciglio. Allora notai quella lacrima rossa, una lacrima di sangue, che gli scendeva lenta lungo la guancia. Mi inginocchiai e presi il quaderno. Il cane mi lanciò uno sguardo desolato. Gli accarezzai la testa. «Mi dispiace» mormorai. Il quaderno era scritto a mano e sembrava una specie di agenda con paragrafi datati e separati da una breve linea. Valera lo teneva aperto più o meno a metà. La prima annotazione della pagina a cui era rimasto indicava che risaliva al 23 novembre del 1904. Nota di cassa (356-a/23-ll-04), 7500 pesetas dal fondo D.M. Consegna da parte di Marcel (di persona) all'indirizzo fornito da D.M. Vicolo dietro il cimitero vecchio - laboratorio di scultura Sanabre e Figli. Rilessi quella annotazione parecchie volte, cercando di strapparle qualche senso. Conoscevo quel vicolo dai miei anni alla redazione della "Voz de la Industria". Era una miserabile stradina sprofondata dietro i muri del cimitero del Pueblo Nuevo dove si accalcavano laboratori di lapidi e sculture funerarie, e moriva sulle rive di uno dei ruscelli che attraversavano la spiaggia del Bogatell e la cittadella di catapecchie che si estendeva fino al mare, il Somorrostro. Per qualche motivo, Marlasca aveva lasciato istruzioni per il pagamento di una somma considerevole a uno di quei laboratori. Nella pagina corrispondente a quello stesso giorno, c'era un'altra annotazione legata a Marlasca che indicava l'inizio dei pagamenti a Jaco e a Irene Sabino.
Bonifico bancario da fondo D.M. a conto Banco Hispano Colonial (agenzia calle Fernando) n. 008965-2564-1. Juan Corbera Maria Antonia Sanahuja. Prima mensilità di 7000 pesetas. Stabilire programma pagamenti. Continuai a sfogliare il quaderno. La maggior parte delle annotazioni riguardava spese e operazioni minori relative allo studio. Dovetti scorrere molte pagine piene di criptici promemoria prima di trovarne un'altra in cui fosse menzionato Marlasca. Di nuovo, si trattava di un pagamento in contanti attraverso quel Marcel, probabilmente uno dei tirocinanti dello studio. Nota di cassa (379-a/29-12-04) 15.000 pesetas dal fondo D.M. Consegna tramite Marcel. Spiaggia del Bogatell, vicino passaggio a livello. Ore 9. Il contatto si identificherà. La Strega del Somorrostro, pensai. Dopo morto, Diego Marlasca aveva distribuito rilevanti somme di denaro attraverso il suo socio. Questo contraddiceva i sospetti di Salvador che Jaco fosse fuggito con i soldi. Marlasca aveva ordinato i pagamenti di persona lasciando il denaro su un fondo tutelato dallo studio legale. Gli altri due pagamenti suggerivano che poco prima di morire aveva avuto rapporti con un laboratorio di sculture funerarie e con qualche torbido personaggio del Somorrostro, rapporti che si erano tradotti in una grande quantità di denaro che cambiava di mano. Chiusi il quaderno più smarrito che mai. Stavo per lasciare la casa quando, voltandomi, notai che una delle pareti della sala di lettura era ricoperta da ritratti accuratamente incorniciati su uno sfondo di velluto granata. Mi avvicinai e riconobbi il volto severo e imponente del patriarca Valera, il cui ritratto a olio dominava ancora l'ufficio del figlio. L'avvocato compariva nella maggior parte delle immagini in compagnia di una serie di uomini importanti e di nobili della città, in quelle che sembravano differenti occasioni mondane ed eventi civici. Bastava scorrere una dozzina di quei ritratti e identificare la serie di personalità che posavano sorridenti accanto al vecchio avvocato per constatare che lo studio Valera, Marlasca e Sentis era un organo vitale per il funzionamento di Barcellona. Anche il figlio di Valera, molto più giovane ma chiaramente riconoscibile, compariva in qualche foto, sempre in secondo piano, sempre con lo sguardo sepolto nell'ombra del patriarca.
Lo sentii prima di vederlo. In un ritratto c'erano Valera padre e figlio. La foto era stata scattata all'ingresso del numero 442 della Diagonal, sotto lo studio. Accanto a loro c'era un signore alto e distinto. Il suo volto compariva in molte altre foto della collezione, sempre accanto a Valera. Diego Marlasca. Mi concentrai su quello sguardo torbido, su quell'espressione tagliente e serena che mi osservava da un'istantanea scattata venticinque anni prima. Come il principale, non era invecchiato di un giorno. Sorrisi amaramente quando compresi la mia ingenuità. Quel volto non era lo stesso che compariva nella foto che mi aveva dato il mio amico, l'ex poliziotto. L'uomo che conoscevo come Ricardo Salvador non era altri che Diego Marlasca. 15 La scala era al buio quando lasciai il palazzo della famiglia Valera. Attraversai l'atrio a tentoni e quando aprii la porta i lampioni della strada proiettarono all'interno un rettangolo di chiarore azzurrato al cui termine trovai lo sguardo del portiere. Mi allontanai da lì a passo svelto verso calle Trafalgar, da dove partiva il tram notturno che lasciava alle porte del cimitero del Pueblo Nuevo, lo stesso che tante notti avevo preso con mio padre quando gli facevo compagnia nel suo turno di sorveglianza alla "Voz de la Industria". Non c'erano quasi passeggeri e mi sedetti davanti. Via via che ci avvicinavamo al Pueblo Nuevo, il tram si addentrava in una rete di strade tenebrose, ricoperte da grandi pozzanghere velate dal vapore. C'erano solo rari lampioni e le luci del tram andavano svelando i contorni delle cose come torce in un tunnel. Alla fine avvistai le porte del cimitero e il profilo di croci e sculture che si stagliava sull'orizzonte sconfinato di fabbriche e fumaioli che iniettavano strie di rosso e di nero nella volta del cielo. Un branco di cani famelici si aggirava ai piedi dei due grandi angeli che sorvegliavano il recinto. Per un istante rimasero immobili a guardare i fari del tram, gli occhi ardenti come quelli degli sciacalli, poi si dispersero nell'ombra. Scesi dal tram ancora in marcia e cominciai a fare il giro dei muri del camposanto. Il tram si allontanò come una nave nella nebbia e affrettai il passo. Sentivo lo scalpiccio e l'odore dei cani che mi seguivano nell'oscurità. Quando raggiunsi il retro del cimitero, mi fermai all'angolo di un vicolo e lanciai un sasso alla cieca. Sentii un lamento acuto e passi rapidi che si
allontanavano nella notte. Imboccai il vicolo, appena un passaggio incastrato tra il muro e la fila di laboratori di sculture funerarie che si accalcavano uno dopo l'altro. Il cartello di Sanabre e Figli ondeggiava al chiarore di un lampione che proiettava una luce ocra e polverosa a una trentina di metri di distanza. Mi avvicinai alla porta, solo una grata assicurata con delle catene e un catenaccio arrugginito che feci saltare con una sola pallottola. Il vento che soffiava dall'estremità del vicolo, impregnato del salnitro del mare che s'infrangeva ad appena un centinaio di metri, si portò via l'eco dello sparo. Aprii la grata ed entrai nel laboratorio di Sanabre e Figli. Scostai la tenda di tela scura che mascherava l'interno e lasciai che il chiarore del lampione vi penetrasse. Era una navata stretta e profonda popolata da statue di marmo congelate nelle tenebre, con i volti scolpiti a metà. Avanzai di qualche passo fra vergini e madonne che reggevano bambini tra le braccia, dame bianche con in mano rose di marmo che alzavano lo sguardo al cielo e blocchi di pietra sui quali iniziavano a disegnarsi degli sguardi. Si avvertiva nell'aria l'odore della polvere di marmo. Non c'era nessuno lì, tranne quelle effigi senza nome. Stavo per tornare indietro quando lo vidi. La mano spuntava da dietro un retablo di sculture coperto da un telo in fondo al laboratorio. Mi avvicinai lentamente e il suo contorno si andò rivelando centimetro dopo centimetro. Mi ci fermai davanti e contemplai quel grande angelo buono, lo stesso che il principale portava sul risvolto della giacca e che avevo trovato in fondo al baule del mio studio. Doveva essere alto due metri e mezzo. Osservandone il volto, ne riconobbi i tratti e soprattutto il sorriso. Ai suoi piedi c'era una lapide. Incisa sulla pietra, si poteva leggere una scritta. DAVID MARTÍN 1900-1930 Sorrisi. Se qualcosa dovevo riconoscere al mio buon amico Diego Marlasca era il senso dell'ironia e il gusto per le sorprese. Mi dissi che non dovevo stupirmi se, nel suo zelo, aveva anticipato le circostanze preparandomi un sentito commiato. Mi inginocchiai davanti alla lapide e accarezzai il mio nome. Passi lenti e leggeri si sentivano alle mie spalle. Mi voltai e scoprii un viso familiare. Il bambino aveva lo stesso vestito nero che indossava quando, settimane prima, mi aveva seguito sul paseo del Born. «La signora la riceverà adesso» disse.
Annuii e mi alzai. Il bambino mi tese la mano e la presi. «Non abbia paura» disse guidandomi verso l'uscita. «Non ne ho» mormorai. Mi condusse fino in fondo al vicolo. Da lì si poteva intravedere la linea della spiaggia, nascosta dietro una fila di magazzini dilapidati e resti di un treno merci abbandonato su un binario morto ricoperto dalle sterpaglie. I vagoni erano corrosi dalla ruggine e la locomotiva era ridotta a uno scheletro di caldaie e ferraglia in attesa di demolizione. In alto, la luna si affacciò dalle crepe di una volta di nuvole plumbee. Al largo si intravedevano alcune navi da carico sepolte fra le onde e, davanti alla spiaggia del Bogatell, un ossario di vecchi scafi di pescherecci e barche di piccolo cabotaggio sputati lì dalle tempeste e incagliati nella sabbia. Dall'altra parte, come un manto di scorie disteso alle spalle della fortezza di tenebre industriali, si estendeva l'accampamento di baracche del Somorrostro. Le onde si infrangevano a pochi metri dalla prima linea di capanne di canne e legno. Pennacchi di fumo bianco strisciavano fra i tetti di quel villaggio di miseria che cresceva fra la città e il mare come un infinito immondezzaio umano. Il fetore della spazzatura bruciata aleggiava nell'aria. Ci addentrammo nelle strade di quella città dimenticata, passaggi ricavati tra strutture messe su con mattoni rubati, fango e legna restituiti dalla marea. Il bambino mi guidò verso l'interno, incurante degli sguardi diffidenti della gente del posto. Lavoratori giornalieri senza lavoro, zingari espulsi da altri accampamenti simili sorti sui fianchi del Montjuïc o davanti alle fosse comuni del cimitero di Can Tunis, bambini e anziani abbandonati. Tutti mi osservavano con sospetto. Donne dall'età indefinibile riscaldavano sul fuoco acqua o cibo in recipienti di latta davanti alle baracche. Ci fermammo di fronte a una struttura di un bianco sbiadito alle cui porte c'era una bambina con la faccia da anziana che zoppicava su una gamba colpita dalla poliomielite, trascinando un secchio in cui si agitava qualcosa di grigiastro e viscoso. Anguille. Il bambino indicò la porta. «È qui» disse. Diedi un'ultima occhiata al cielo. La luna si nascondeva di nuovo fra le nubi e un velo di oscurità avanzava dal mare. Entrai. 16 Aveva il viso disegnato dai ricordi e uno sguardo che avrebbe potuto a-
vere dieci o cent'anni. Era seduta accanto a un piccolo fuoco e contemplava la danza delle fiamme con la stessa fascinazione con cui l'avrebbe fatto un bambino. I suoi capelli, del colore della cenere, erano annodati in una treccia. Il fisico era snello e austero, i gesti brevi e lenti. Vestiva di bianco e portava un fazzoletto di seta annodato alla gola. Mi sorrise calorosamente e mi offrì una sedia vicino a lei. Mi sedetti. Restammo un paio di minuti in silenzio, ascoltando il crepitio delle braci e il rumore della marea. In sua presenza, il tempo sembrava essersi fermato e l'urgenza che mi aveva condotto alla sua porta era stranamente svanita. A poco a poco l'alito del fuoco mi penetrò e il freddo che mi si era insinuato fin nelle ossa si sciolse al riparo della sua compagnia. Solo allora distolse gli occhi dal fuoco e, prendendomi la mano, aprì bocca. «Mia madre è vissuta in questa casa per quarantacinque anni» disse. «Allora non era nemmeno una casa, ma soltanto una capanna fatta con le canne e i relitti portati dalla marea. Perfino quando si fece una reputazione ed ebbe la possibilità di andarsene si rifiutò di farlo. Diceva sempre che il giorno in cui avesse lasciato il Somorrostro sarebbe morta. Era nata qui, con la gente della spiaggia, e qui è rimasta fino all'ultimo giorno. Di lei si sono dette tante cose. Molti ne hanno parlato e pochissimi l'hanno conosciuta davvero. Molti la temevano e la odiavano. Anche dopo morta. Le racconto tutto questo perché mi sembra giusto farle sapere che non sono la persona che cerca. La persona che cerca, o che crede di cercare, quella che molti chiamavano la Strega del Somorrostro, era mia madre.» La guardai confuso. «Quando...?» «È morta nel 1905» disse. «L'hanno ammazzata a pochi metri da qui, vicino alla spiaggia, con una coltellata al collo.» «Mi dispiace. Credevo che...» «Sono in molti a crederlo. Il desiderio di credere sconfigge persino la morte.» «Chi l'ha uccisa?» «Lei lo sa.» Tardai qualche secondo a rispondere. «Diego Marlasca...» Annuì. «Perché?» «Per farla tacere. E cancellare le sue tracce.» «Non capisco. Sua madre l'aveva aiutato... E lui in cambio le aveva dato
un bel po' di soldi.» «Proprio per questo l'ha uccisa, perché si portasse il segreto nella tomba.» Mi osservò con un sorriso lieve, come se la mia confusione la divertisse e allo stesso tempo le ispirasse compassione. «Mia madre era una donna semplice, signor Martín. Era cresciuta nella miseria e l'unico potere che aveva era la volontà di sopravvivere. Non imparò mai a leggere e scrivere, ma sapeva vedere dentro le persone. Sentiva quello che sentivano, quello che nascondevano e quello che desideravano. Lo leggeva nei loro sguardi, nei loro atteggiamenti, nel modo in cui camminavano o gesticolavano. Sapeva in anticipo quello che avrebbero detto e fatto. Per questo molti la chiamavano indovina, perché era capace di vedere in loro quello che essi stessi si rifiutavano di vedere. Si guadagnava da vivere vendendo pozioni d'amore e incantesimi che preparava con l'acqua del ruscello, qualche erba e un po' di zucchero. Aiutava anime smarrite a credere in ciò che desideravano credere. Quando il suo nome cominciò a diventare popolare, molta gente altolocata iniziò a farle visita e a sollecitare i suoi favori. I ricchi volevano diventarlo ancora di più. I potenti volevano più potere. I meschini volevano sentirsi santi, e i santi volevano essere puniti per peccati che rimpiangevano di non aver commesso per mancanza di coraggio. Mia madre ascoltava tutti e accettava il loro denaro. Con quei soldi mandò me e i miei fratelli a studiare nelle scuole che frequentavano i figli dei suoi clienti. Ci comprò un altro nome e un'altra vita lontano da questo posto. Mia madre era una brava persona, signor Martín. Non si lasci ingannare. Non si approfittò mai di nessuno, né fece credere alle persone altro che quello in cui avevano bisogno di credere. La vita le aveva insegnato che viviamo di grandi e piccole menzogne quanto dell'aria. Diceva che se fossimo capaci di vedere senza paraocchi la realtà del mondo e di noi stessi per un solo giorno, dall'alba al tramonto, ci toglieremmo la vita o perderemmo la ragione.» «Però...» «Se è venuto qui in cerca di magia, mi spiace deluderla. Mia madre mi ha spiegato che non c'è magia, che non c'è altro male o bene al mondo se non quello che immaginiamo, per avidità o ingenuità. A volte, perfino per follia.» «Non fu questo che raccontò a Diego Marlasca quando accettò i suoi soldi» obiettai. «Settemila pesetas di quell'epoca dovevano poter comprare parecchi anni di buon nome e buone scuole.»
«Diego Marlasca aveva bisogno di credere. Mia madre l'aiutò a farlo. Tutto qui.» «Credere in cosa?» «Nella propria salvezza. Era convinto di avere tradito se stesso e quelli che l'amavano. Credeva di aver incamminato la sua vita su una strada di cattiveria e falsità. Mia madre pensò che questo non lo rendeva diverso dalla maggioranza degli uomini che si fermano in qualche momento della loro vita a guardarsi allo specchio. Sono le bestiacce meschine a considerarsi sempre virtuose e a guardare il resto del mondo dall'alto in basso. Ma Diego Marlasca era un uomo di coscienza e non era soddisfatto di ciò che vedeva. Per questo venne da mia madre. Perché aveva perso la speranza e probabilmente la ragione.» «Marlasca disse quello che aveva fatto?» «Disse di aver consegnato l'anima a un'ombra.» «Un'ombra?» «Queste furono le sue parole. Un'ombra che lo seguiva, che aveva la sua stessa forma, il suo stesso volto e la sua stessa voce.» «Cosa significava?» «La colpa e il rimorso non hanno significato. Sono sentimenti, emozioni, non idee.» Mi venne in mente che nemmeno il principale avrebbe potuto spiegarlo con maggiore chiarezza. «E cosa poteva fare sua madre per lui?» «Niente di più che consolarlo e aiutarlo a trovare un po' di pace. Diego Marlasca credeva nella magia e per questo motivo mia madre pensò di doverlo convincere che il suo cammino verso la salvezza passava attraverso di lei. Gli parlò di un vecchio incantesimo, una leggenda di pescatori ascoltata da bambina fra le baracche della spiaggia. Quando un uomo perde la rotta della propria vita e sente che la morte ha assegnato un prezzo alla sua anima, secondo la leggenda, se trova un'anima pura disposta a sacrificarsi per lui, occultando il suo cuore nero, la morte, cieca, girerà al largo.» «Un'anima pura?» «Libera dal peccato.» «E come si realizzava questo sacrificio?» «Con dolore, naturalmente.» «Che specie di dolore?» «Un sacrificio di sangue. Un'anima in cambio di un'altra. Morte in cambio di vita.»
Un lungo silenzio. Il rumore del mare sulla riva e quello del vento tra le catapecchie. «Irene si sarebbe strappata gli occhi e il cuore per Marlasca. Era la sua unica ragione di vita. Lo amava ciecamente e, come lui, credeva che la sua unica salvezza fosse nella magia. All'inizio voleva togliersi la vita e offrirla in sacrificio, ma mia madre la dissuase. Le disse quanto già sapeva, che la sua non era un'anima libera dal peccato e il sacrificio sarebbe stato vano. Glielo disse per salvarla. Per salvarli entrambi.» «Da chi?» «Da se stessi.» «Ma commise un errore...» «Nemmeno mia madre poteva vedere tutto.» «Che cosa fece Marlasca?» «Mia madre non volle mai dirmelo, non voleva che io o i miei fratelli fossimo coinvolti. Ci mandò lontano e ci separò in collegi diversi per farci dimenticare da dove venivamo e chi eravamo. Diceva che ora eravamo noi i maledetti. Morì poco dopo, sola. Non lo venimmo a sapere per molto tempo. Quando trovarono il suo cadavere, nessuno osò toccarlo e lasciarono che il mare se lo portasse via. Nessuno si azzardava a parlare della sua morte. Ma io sapevo chi l'aveva uccisa e perché. E ancora oggi credo che mia madre sapesse che sarebbe morta presto e per mano di chi. Lo sapeva e non fece nulla perché alla fine anche lei ci credette. Ci credette perché non era capace di accettare ciò che aveva fatto. Credette che, offrendo la propria anima, avrebbe salvato la nostra, quella di questo posto. Perciò non volle andarsene, perché secondo la vecchia leggenda l'anima che si offre deve restare sempre nel luogo in cui è stato commesso il tradimento, una benda sugli occhi della morte, incarcerata per sempre.» «E dov'è l'anima che salvò quella di Diego Marlasca?» La donna sorrise. «Non ci sono anime né salvezze, signor Martín. Si tratta di vecchie favole e dicerie. Ci sono solo ceneri e ricordi. Ma se ci fossero, sarebbero nel luogo in cui Marlasca commise il suo delitto, il segreto che ha nascosto in tutti questi anni per prendersi gioco del proprio destino.» «La casa della torre... Ci ho abitato per quasi dieci anni e in quella casa non c'è nulla.» Sorrise di nuovo e, fissandomi negli occhi, si chinò verso di me e mi baciò sulla guancia. Le sue labbra erano gelide, come quelle di un cadavere. Il suo alito sapeva di fiori morti.
«Forse non ha saputo guardare dove doveva» mi sussurrò all'orecchio. «Forse quell'anima imprigionata è la sua.» A quel punto si sciolse il fazzoletto che le copriva la gola e vidi che una grande cicatrice le attraversava il collo. Stavolta il suo sorriso fu malizioso e i suoi occhi brillarono di una luce crudele e burlona. «Presto spunterà il sole. Se ne vada finché è ancora in tempo» disse la Strega del Somorrostro, dandomi le spalle e rivolgendo lo sguardo al fuoco. Il bambino con il vestito nero comparve sulla soglia e mi tese la mano, come a dirmi che il mio tempo era scaduto. Mi alzai e lo seguii. Mentre mi voltavo, mi sorprese il mio riflesso in uno specchio appeso al muro. Vi si scorgeva il profilo curvo e ricoperto di stracci di una vecchia seduta davanti al fuoco. La sua risata cupa e crudele mi accompagnò fino all'uscita. 17 Quando arrivai alla casa della torre, iniziava ad albeggiare. La serratura della porta sulla strada era rotta. Spinsi con la mano ed entrai nell'atrio. Il meccanismo del chiavistello sul retro della porta sprigionava fumo e un odore intenso. Acido. Salii le scale lentamente, convinto che avrei trovato Marlasca ad aspettarmi nell'oscurità del pianerottolo, o che se mi fossi voltato l'avrei visto lì, alle mie spalle, sorridente. Sull'ultimo tratto di scale notai che anche il foro della serratura della porta dell'appartamento evidenziava tracce di acido. Introdussi la chiave e dovetti armeggiare quasi due minuti per sbloccare la serratura, che era rimasta mutilata, ma apparentemente non aveva ceduto. Tirai fuori la chiave corrosa da quella sostanza e aprii la porta con uno spintone. Me la lasciai aperta alle spalle e avanzai lungo il corridoio senza togliermi il cappotto. Estrassi il revolver dalla tasca e aprii il tamburo. Tolsi i bossoli dei colpi che avevo sparato e li sostituii con pallottole nuove, come avevo visto fare tante volte a mio padre quando tornava a casa all'alba. «Salvador?» chiamai. L'eco della mia voce si propagò per la casa. Armai il percussore. Continuai a inoltrarmi nel corridoio fino ad arrivare alla stanza in fondo. La porta era socchiusa. «Salvador?» dissi di nuovo. Puntai l'arma contro la porta e l'aprii con un calcio. Non c'era traccia di Marlasca all'interno, solo la montagna di casse e vecchi oggetti ammuc-
chiati contro il muro. Sentii di nuovo quell'odore che sembrava filtrare dalle pareti. Mi avvicinai all'armadio che occupava la parete in fondo e spalancai le ante. Tolsi i vecchi vestiti appesi alle grucce. La corrente fredda e umida che sgorgava da quel foro nel muro mi accarezzò la faccia. Qualunque cosa Marlasca avesse nascosto in quella casa, era dietro quella parete. Rimisi l'arma nella tasca del cappotto e me lo tolsi. Introdussi il braccio nella fessura tra l'armadio e la parete. Riuscii ad afferrare la parte posteriore con la mano e tirai con forza. Il primo strattone mi permise di guadagnare un paio di centimetri per rafforzare la presa e tirai di nuovo. L'armadio cedette di quasi un palmo. Continuai a spingere verso l'esterno finché la parete dietro l'armadio rimase allo scoperto ed ebbi lo spazio per infilarmici. Una volta lì, spinsi con la spalla e lo spostai completamente verso la parete contigua. Mi fermai a riprendere fiato ed esaminai il muro. Era dipinto di un colore ocra diverso dal resto della stanza. Sotto la pittura si indovinava una specie di impasto argilloso non rifinito. Lo colpii con le nocche. L'eco che ne risultò non dava adito a dubbi. Quello non era un muro maestro. C'era qualcosa dall'altra parte. Appoggiai la testa contro la parete e tesi l'orecchio. Allora sentii un rumore. Passi in corridoio che si avvicinavano... Arretrai lentamente e allungai la mano verso il cappotto che avevo lasciato su una sedia per prendere il revolver. Un'ombra si stagliò sulla soglia. Trattenni il respiro. La figura si affacciò a poco a poco all'interno della stanza. «Ispettore...» mormorai. Víctor Grandes mi sorrise freddamente. Immaginai che mi aspettassero da ore nascosti in qualche portone. «Sta facendo lavori di ristrutturazione, Martín?» «Metto in ordine.» L'ispettore guardò il mucchio di vestiti e scatoloni gettati a terra e l'armadio sgangherato e si limitò ad annuire. «Ho chiesto a Marcos e Castelo di aspettare di sotto. Avrei bussato, ma lei ha lasciato la porta aperta e mi sono preso la libertà... Mi sono detto: vuol dire che l'amico Martín mi sta aspettando.» «Cosa posso fare per lei, ispettore?» «Seguirmi al commissariato, se è così gentile.» «Sono in arresto?» «Temo di sì. Mi renderà le cose facili o dovremo ricorrere alle maniere forti?» «No» assicurai.
«Gliene sono grato.» «Posso prendere il cappotto?» chiesi. Grandes mi guardò un istante negli occhi. Poi prese il cappotto e mi aiutò a mettermelo. Sentii il peso del revolver contro la gamba. Mi abbottonai con calma. Prima di uscire dalla stanza, l'ispettore diede un'ultima occhiata al muro rimasto scoperto. Poi mi fece cenno di uscire in corridoio. Marcos e Castelo erano saliti fino al pianerottolo e aspettavano con un sorriso trionfante. Arrivato in fondo al corridoio, mi fermai un momento per guardare l'interno della casa, che sembrava ripiegarsi in un pozzo di ombre. Mi chiesi se l'avrei mai rivista. Castelo tirò fuori le manette, ma Grandes fece un cenno di diniego. «Non sarà necessario, vero, Martín?» Scossi la testa. Grandes socchiuse la porta e mi spinse dolcemente ma con fermezza verso le scale. 18 Stavolta non ci furono colpi a effetto, né scenografie cupe, né echi di celle umide e buie. La stanza era ampia, luminosa e con i soffitti alti. Mi fece pensare all'aula di una scuola religiosa di lusso, crocifisso al muro incluso. Si trovava al primo piano del Comando di polizia e aveva ampi finestroni che permettevano di osservare le persone e i tram che già iniziavano la loro sfilata mattutina sulla via Layetana. Al centro c'erano due sedie e un tavolo di metallo che, abbandonati in mezzo a tanto spazio vuoto, sembravano minuscoli. Grandes mi guidò verso il tavolo e ordinò a Marcos e Castelo di lasciarci soli. I due poliziotti si presero il loro tempo per eseguire l'ordine. La rabbia che respiravano si poteva fiutare nell'aria. Grandes attese che fossero usciti e si rilassò. «Credevo che mi desse in pasto ai leoni» dissi. «Si sieda.» Obbedii. Non fosse stato per le occhiate di Marcos e Castelo mentre uscivano, per la porta di metallo e le sbarre alle finestre, nessuno avrebbe detto che la mia situazione era grave. Finirono per convincermi il thermos di caffè caldo e il pacchetto di sigarette che Grandes lasciò sul tavolo, ma soprattutto il suo sorriso sereno e affabile. Sicuro. Stavolta l'ispettore faceva sul serio. Si sedette di fronte a me e aprì una cartellina, da cui tirò fuori delle fotografie che mise sul tavolo, una accanto all'altra. Nella prima compariva
l'avvocato Valera sulla poltrona del suo salotto. Vicino c'era un'immagine del cadavere della vedova Marlasca, o di quello che ne restava dopo averlo tirato fuori dal fondo della piscina della sua casa sulla carretera de Vallvidrera. Una terza fotografia mostrava un ometto con la gola squarciata che assomigliava a Damián Roures. La quarta immagine era di Cristina Sagnier, e mi resi conto che era stata scattata il giorno delle nozze con Pedro Vidal. Le ultime due erano ritratti da studio dei miei ex editori, Barrido ed Escobillas. Una volta che ebbe allineato in bell'ordine le sei foto, Grandes mi rivolse uno sguardo impenetrabile e lasciò trascorrere un paio di minuti di silenzio, studiando la mia reazione alle immagini, o la sua assenza. Poi, con infinita flemma, versò due tazze di caffè e ne spinse una verso di me. «Prima di tutto, mi piacerebbe darle l'opportunità di essere lei a raccontarmi ogni cosa, Martín. A modo suo e senza fretta» disse alla fine. «Non servirà a niente» replicai. «Non cambierà niente.» «Preferisce un faccia a faccia con altri possibili implicati? Con la sua assistente, per esempio? Come si chiama? Isabella?» «La lasci in pace. Lei non sa niente.» «Mi convinca.» Guardai verso la porta. «C'è solo un modo per uscire da questa stanza, Martín» disse l'ispettore mostrandomi una chiave. Sentii di nuovo il peso del revolver nella tasca del cappotto. «Da dove vuole che inizi?» «È lei il narratore. Le chiedo solo di dirmi la verità.» «Non so qual è.» «La verità è quella che fa male.» Per oltre due ore, Víctor Grandes non aprì bocca nemmeno una volta. Ascoltò attentamente, annuendo ogni tanto e annotando qualche parola sul suo quaderno di quando in quando. All'inizio lo guardavo, ma presto mi dimenticai che era lì e scoprii che stavo raccontando la storia a me stesso. Le parole mi fecero riandare a un tempo che credevo perduto, alla notte in cui avevano assassinato mio padre davanti alla sede del giornale. Ricordai i miei giorni alla "Voz de la Industria", gli anni in cui avevo vissuto scrivendo racconti del terrore e la prima lettera firmata da Andreas Corelli che mi augurava grandi speranze. Ricordai il primo incontro con il principale alla cisterna e i giorni in cui la certezza di una morte sicura era tutto l'orizzonte che mi si spalancava davanti. Gli parlai di Cristina, di Vidal e di una
storia il cui finale chiunque avrebbe potuto intuire eccetto me. Gli parlai dei due libri che avevo scritto, uno con il mio nome e l'altro con quello di Vidal, della perdita di quelle misere speranze, e del pomeriggio in cui vidi mia madre gettare nella spazzatura l'unica cosa buona che credevo di aver fatto nella vita. Non cercavo la comprensione né la compassione dell'ispettore. Mi bastava tracciare una mappa immaginaria degli avvenimenti che mi avevano condotto in quella stanza, a quell'istante di vuoto assoluto. Tornai in quella casa accanto al Park Güell e alla sera in cui il principale mi aveva formulato un'offerta che non potevo rifiutare, che non volevo rifiutare. Confessai i miei primi sospetti, le scoperte sulla storia della casa della torre, sulla strana morte di Diego Marlasca e sulla rete di inganni in cui ero caduto o che avevo scelto per soddisfare la mia vanità, la mia avidità e la mia volontà di vivere a qualunque costo. Vivere per raccontare quella storia. Non tralasciai nulla. Nulla tranne la cosa più importante, quella che non osavo raccontare nemmeno a me stesso. Nel mio racconto, tornavo alla clinica di Villa San Antonio in cerca di Cristina e trovavo solo una scia di orme che si perdevano nella neve. Forse, se me lo fossi ripetuto varie volte, perfino io sarei arrivato a credere che era andata così. La mia storia terminava quella stessa mattina, di ritorno dalle catapecchie del Somorrostro, con la scoperta che Diego Marlasca aveva deciso che la foto mancante nella serie disposta sul tavolo dall'ispettore era la mia. Terminato il racconto, sprofondai in un lungo silenzio. Non mi ero mai sentito tanto stanco in vita mia. Avrei voluto andarmene a dormire e non svegliarmi mai più. Grandes mi osservava dall'altro lato del tavolo. Mi sembrò che fosse confuso, triste, collerico e soprattutto sperduto. «Dica qualcosa» lo esortai. Sospirò. Si alzò dalla sedia che non aveva abbandonato durante tutta la mia storia e si avvicinò alla finestra, dandomi le spalle. Mi vidi estrarre il revolver dal cappotto, sparargli nella nuca e uscire da lì con la chiave che si era messo in tasca. In sessanta secondi sarei potuto essere in strada. «Il motivo per cui stiamo parlando è che ieri è arrivato un telegramma dalla caserma della Guardia Civil di Puigcerdà con la notizia che Cristina Sagnier è scomparsa dalla clinica di Villa San Antonio e che lei è il principale sospettato. Secondo il medico del centro, lei aveva manifestato la sua intenzione di portarsela via e lui non glielo ha concesso. Le racconto tutto questo affinché capisca esattamente perché siamo qui, in questa stanza, con caffè caldo e sigarette, a chiacchierare come vecchi amici. Siamo qui
perché la moglie di uno degli uomini più ricchi di Barcellona è scomparsa e lei è l'unico che sa dove si trova. Siamo qui perché il padre del suo amico Pedro Vidal, uno degli uomini più potenti di questa città, si è interessato al caso perché a quanto pare è un suo vecchio conoscente e ha chiesto amabilmente ai miei superiori di ottenere quelle informazioni prima di torcerle un capello e di lasciare a dopo ogni altra considerazione. Non fosse stato per questo, e per la mia insistenza nell'avere un'opportunità per cercare di chiarire la questione a modo mio, lei adesso si troverebbe in una cella del Campo de la Bota e invece di parlare con me dovrebbe vedersela con Marcos e Castelo i quali, per sua informazione, credono che bisognerebbe cominciare a spezzarle le ginocchia con un martello, perché tutto il resto è una perdita di tempo e mette in pericolo la vita della signora Vidal. E questa opinione a ogni minuto che passa è sempre più condivisa dai miei superiori, convinti che io le stia lasciando troppa briglia a causa della nostra amicizia.» Grandes si voltò e mi guardò trattenendo l'ira. «Non mi ha ascoltato» dissi. «Non ha sentito niente di quello che le ho detto.» «L'ho ascoltata benissimo, Martín. Ho ascoltato come, moribondo e disperato, ha formalizzato un accordo con un più che misterioso editore parigino, di cui nessuno ha mai sentito parlare e che nessuno ha mai visto, per inventarsi, secondo le sue stesse parole, una nuova religione in cambio di centomila franchi francesi, solo per scoprire che in realtà era caduto in un sinistro complotto in cui sarebbero implicati un avvocato, che ha simulato la propria morte venticinque anni fa, e la sua amante, una ballerina di varietà in disgrazia, per sfuggire al proprio destino, che adesso è il suo. Ho ascoltato come questo destino l'ha fatta cadere nella trappola di una casa maledetta che aveva già catturato il suo predecessore, Diego Marlasca, e dove ha trovato la prova che qualcuno la seguiva e uccideva tutti coloro che potevano svelare il segreto di un uomo che, a giudicare dalle sue parole, era pazzo quasi quanto lei. L'uomo nell'ombra, che avrebbe assunto l'identità di un ex poliziotto per occultare il fatto di essere vivo, ha commesso una serie di crimini con l'aiuto della sua amante, incluso quello di aver provocato la morte del signor Sempere per qualche strano motivo che nemmeno lei è in grado di spiegare.» «Irene Sabino ha ucciso Sempere per rubargli un libro. Un libro che secondo lei conteneva la mia anima.» Grandes si batté la palma della mano sulla fronte, come se avesse appena
trovato il quid della questione. «Certo. Che stupido. Questo spiega tutto. Come quel terribile segreto che una maga della spiaggia del Bogatell le ha svelato. La Strega del Somorrostro. Mi piace. Molto nel suo stile. Vediamo se ho capito bene. Il Marlasca tiene prigioniera un'anima per occultare la sua e sfuggire così a una specie di maledizione. Mi dica, l'ha preso dalla Città dei maledetti o se l'è appena inventato?» «Non mi sono inventato nulla.» «Si metta al mio posto e pensi se crederebbe a qualcosa di quello che ha detto.» «Immagino di no. Ma le ho raccontato tutto quello che so.» «Naturalmente. Mi ha fornito dati e prove concrete per verificare la veridicità del suo racconto, dalla visita con il dottor Trias al suo conto corrente presso il Banco Hispano Colonial, alla sua stessa lapide mortuaria che l'attende in un laboratorio del Pueblo Nuevo, e perfino a un vincolo legale tra l'uomo che lei chiama il principale e lo studio Valera, nonché molti altri dettagli fattuali che non smentiscono la sua esperienza nella creazione di storie poliziesche. L'unica cosa che non mi ha raccontato e che, francamente, per il suo bene e per il mio, speravo di sentire è dove si trova Cristina Sagnier.» Capii che l'unico modo per salvarmi in quel momento era mentire. Dall'istante in cui avessi detto la verità su Cristina, le mie ore sarebbero state contate. «Non lo so.» «Mente.» «Le ho già detto che non servirebbe a nulla raccontarle la verità» replicai. «Tranne che a farmi fare la figura dello stupido per averla voluta aiutare.» «È questo che sta cercando di fare, ispettore? Aiutarmi?» «Sì.» «Allora verifichi tutto quello che le ho detto. Trovi Marlasca e Irene Sabino.» «I miei superiori mi hanno concesso ventiquattr'ore con lei. Se per allora non consegno Cristina Sagnier sana e salva, o almeno viva, mi toglieranno il caso e lo passeranno a Marcos e Castelo, che da tempo aspettano l'opportunità di acquistare meriti e non la sprecheranno.» «Allora non perda tempo.»
Grandes sbuffò ma annuì. «Spero che sappia quello che sta facendo, Martín.» 19 Calcolai che dovevano essere le nove del mattino quando l'ispettore Grandes mi lasciò chiuso in quella stanza senza altra compagnia che il thermos con il caffè freddo e il suo pacchetto di sigarette. Fece appostare uno dei suoi uomini alla porta e lo sentii ordinargli di non permettere a nessuno di entrare per nessun motivo. Cinque minuti dopo la sua partenza, sentii qualcuno bussare e riconobbi il viso del sergente Marcos ritagliato nel finestrino di vetro. Non potevo sentire le sue parole, ma la calligrafia delle sue labbra non lasciava spazio ai dubbi. Comincia a prepararti, figlio di puttana. Passai il resto della mattinata seduto sul davanzale della finestra a osservare la gente che si credeva libera camminare al di là delle sbarre, fumando e mangiando zollette di zucchero con lo stesso godimento con cui lo avevo visto fare dal principale in più di un'occasione. La stanchezza, o forse solo il rinculo della disperazione, mi raggiunsero verso mezzogiorno e mi stesi a terra, la faccia rivolta al muro. Mi addormentai in meno di un minuto. Quando mi svegliai, la stanza era in penombra. Si era già fatto scuro e il chiarore ocra dei lampioni di via Layetana disegnava ombre di auto e di tram sul soffitto. Mi alzai, con il freddo del pavimento che m'impregnava tutti i muscoli, e mi avvicinai a un radiatore in un angolo, ma era più gelido delle mie mani. In quell'istante sentii che la porta si apriva alle mie spalle e mi voltai, trovando l'ispettore che mi osservava dalla soglia. A un cenno di Grandes, uno dei suoi uomini accese la lampada della stanza e chiuse la porta. La luce dura e metallica mi colpì gli occhi, accecandomi per qualche istante. Quando li riaprii, vidi un ispettore con un aspetto brutto quasi quanto il mio. «Deve andare in bagno?» «No. Approfittando delle circostanze, ho deciso di pisciarmi addosso e di cominciare a fare pratica per quando mi manderà nella stanza degli orrori degli inquisitori Marcos e Castelo.» «Sono contento che non abbia perso il senso dell'umorismo. Ne avrà bisogno. Si sieda.» Riprendemmo le nostre postazioni di parecchie ore prima e ci guardam-
mo in silenzio. «Ho cercato di verificare i dettagli della sua storia.» «E allora?» «Da dove vuole che inizi?» «Il poliziotto è lei.» «La prima visita l'ho fatta allo studio del dottor Trias, in calle Muntaner. È stata breve. Il dottor Trías è morto dodici anni fa e l'ambulatorio appartiene da otto a un dentista di nome Bernat Llofriu, che, inutile dirlo, non ha mai sentito parlare di lei.» «Impossibile.» «Aspetti, che il bello deve ancora venire. Uscendo da lì, sono passato dalla sede centrale del Banco Hispano Colonial. Impressionante arredamento e un servizio impeccabile. Mi è venuta voglia di aprire un libretto di risparmio. Lì ho potuto accertare che lei non ha mai avuto nessun conto nell'istituto, che non hanno mai sentito parlare di nessun Andreas Corelli e che nessun cliente in questo momento ha un conto in divisa estera per un importo di centomila franchi francesi. Vado avanti?» Strinsi le labbra, ma annuii. «La fermata successiva è stata nello studio del defunto avvocato Valera. Lì ho verificato che lei ha, sì, un conto corrente, ma non all'Hispano Colonial, bensì al Banco de Sabadell, dal quale ha trasferito fondi a favore degli avvocati per un importo di duemila pesetas sei mesi fa.» «Non la capisco.» «Semplicissimo. Lei ha ingaggiato Valera in maniera anonima, o almeno così credeva, perché le banche hanno una memoria da poeta e una volta che hanno visto un centesimo volare non se lo scordano più. Le confesso che a quel punto cominciavo a prenderci gusto e ho deciso di fare una visita al laboratorio di sculture funerarie di Sanabre e Figli.» «Non mi dica che non ha visto l'angelo...» «L'ho visto, l'ho visto. Impressionante. Come la lettera firmata di suo pugno datata tre mesi fa con la quale ha commissionato il lavoro e la ricevuta del pagamento in anticipo che quel brav'uomo di Sanabre conservava nei suoi registri. Un uomo affascinante e orgoglioso del proprio mestiere. Mi ha detto che è il suo capolavoro, che ha avuto un'ispirazione divina.» «Non gli ha chiesto del denaro ricevuto da Marlasca venticinque anni fa?» «L'ho fatto. Conservava le ricevute. Riguardavano lavori di ampliamento, manutenzione e ristrutturazione della cappella di famiglia.»
«Nella tomba di Marlasca c'è seppellito qualcuno che non è lui.» «Questo lo dice lei. Ma se vuole che profani un sepolcro, capisce che dovrà fornirmi argomenti più solidi. Ma mi permetta di proseguire nel mio ripasso della sua storia.» Deglutii. «Approfittando del fatto che ero lì, sono andato alla spiaggia del Bogatell, dove per un real ho trovato almeno dieci persone disposte a rivelarmi il tremendo segreto della Strega del Somorrostro. Non gliel'ho detto stamattina quando mi ha fatto il suo racconto per non rovinare il dramma, ma in realtà la donnona che si faceva chiamare così è morta da diversi anni. La vecchia che ho incontrato non spaventa neanche i bambini ed è prostrata su una sedia. Un dettaglio che le piacerà moltissimo: è muta.» «Ispettore...» «Non ho ancora finito. Non mi potrà dire che non prendo il mio lavoro sul serio. Abbastanza da andare da lì alla villa che lei mi ha descritto accanto al Park Güell. È abbandonata da almeno dieci anni e mi dispiace dirle che non c'erano né fotografie né stampe né nient'altro che merda di gatto. Cosa gliene pare?» Non risposi. «Mi dica, Martín. Si metta nei miei panni. Che avrebbe fatto lei se si fosse trovato in questa situazione?» «Avrei lasciato perdere, immagino.» «Esatto. Ma io non sono lei e, come un idiota, dopo un periplo tanto fruttuoso, ho deciso di seguire il suo consiglio e di cercare la temibile Irene Sabino.» «L'ha trovata?» «Un po' di fiducia nelle forze dell'ordine, Martín. Certo che l'abbiamo trovata. Ridotta uno schifo in una misera pensione del Raval dove vive da anni.» «Le ha parlato?» Grandes annuì. «A lungo.» «E allora?» «Non ha la minima idea di chi lei sia.» «Questo è ciò che le ha detto?» «Fra le altre cose.» «Quali cose?» «Mi ha raccontato di aver conosciuto Diego Marlasca a una seduta orga-
nizzata da Roures in un appartamento di calle Elisabets dove si riuniva l'associazione spiritica El Porvenir nell'anno 1903. Mi ha raccontato di aver trovato un uomo che si rifugiò fra le sue braccia distrutto per la perdita del figlio e imprigionato in un matrimonio che non aveva più senso. Mi ha raccontato che Marlasca era un uomo buono ma turbato, che credeva che qualcosa gli si fosse insinuato dentro ed era convinto che sarebbe morto presto. Mi ha raccontato che prima di morire donò un fondo affinché lei e l'uomo che aveva lasciato per mettersi con Marlasca, Juan Corbera, alias Jaco, ricevessero qualcosa in sua assenza. Mi ha raccontato che Marlasca si tolse la vita perché non poteva sopportare il dolore che lo consumava. Mi ha raccontato di aver vissuto con Juan Corbera di quella carità di Marlasca finché il fondo si esaurì, e che l'uomo che lei chiama Jaco la lasciò poco dopo, e di aver saputo che era morto solo e alcolizzato mentre lavorava come sorvegliante notturno nello stabilimento di Casaramona. Mi ha raccontato di avere effettivamente accompagnato Marlasca da quella donna che chiamavano la Strega del Somorrostro perché era convinta che lo avrebbe consolato facendogli credere che si sarebbe ritrovato con suo figlio nell'aldilà... Vuole che vada avanti?» Mi aprii la camicia e gli mostrai i tagli che Irene Sabino mi aveva inciso sul petto la notte che lei e Marlasca mi avevano aggredito nel cimitero di Sant Gervasi. «Una stella a sei punte. Non mi faccia ridere, Martín. Questi tagli può esserseli fatti da solo. Non significano nulla. Irene Sabino è solo una povera donna che si guadagna da vivere lavorando in una lavanderia di calle Cadena, non una fattucchiera.» «E Ricardo Salvador?» «Fu espulso dal corpo di polizia nel 1906, dopo aver passato due anni a rivangare il caso della morte di Diego Marlasca mentre intratteneva una relazione illecita con la vedova del defunto. L'ultima cosa che si è saputa di lui è che aveva deciso di imbarcarsi e di andarsene in America per iniziare una nuova vita.» Non potei evitare di mettermi a ridere davanti all'enormità di quell'inganno. «Non se ne rende conto, ispettore? Non si rende conto che sta cadendo esattamente nella stessa trappola che Marlasca ha teso a me?» Grandes mi osservava con compassione. «A non rendersi conto di quello che sta succedendo è lei, Martín. L'orologio corre e lei, invece di dirmi cosa ne ha fatto di Cristina Sagnier, si o-
stina a cercare di convincermi di una storia che sembra uscita dalla Città dei maledetti. Qui c'è solo una trappola: quella che lei ha teso a se stesso. E ogni minuto che passa senza dire la verità mi rende più difficile tirarla fuori dai guai.» Grandes mi passò la mano davanti agli occhi un paio di volte, come se volesse assicurarsi che avevo ancora il senso della vista. «No? Niente? Come vuole. Mi permetta di finire di raccontarle i risultati della giornata. Dopo la visita a Irene Sabino in verità ero stanco e sono tornato per un po' al Comando, dove ho trovato ancora il tempo e la voglia di chiamare la caserma della Guardia Civil di Puigcerdà. Lì mi hanno confermato che lei è stato visto uscire dalle stanze dov'era ricoverata Cristina Sagnier la notte in cui è scomparsa, che non è mai tornato in albergo a prendere il suo bagaglio e che secondo il responsabile medico della clinica è stato lei a tagliare le cinghie di cuoio che legavano la paziente. Allora ho chiamato un vecchio amico suo, Pedro Vidal, che ha avuto la cortesia di venire al Comando. Il pover'uomo è a pezzi. Mi ha raccontato che l'ultima volta che vi siete visti lei l'ha picchiato. È vero?» Annuii. «Sappia che non gliene vuole. In realtà, ha quasi cercato di persuadermi a lasciarla andare. Dice che deve esserci una spiegazione. Che lei ha avuto una vita difficile. Che ha perso il padre per colpa sua. Che lui si sente responsabile. E l'unica cosa che desidera è ritrovare la moglie e non ha alcuna intenzione di fare ritorsioni contro di lei.» «Ha raccontato tutto a Vidal?» «Non ho potuto fare altrimenti.» Mi nascosi la faccia tra le mani. «Cosa ha detto?» chiesi. Grandes si strinse nelle spalle. «Crede che lei abbia perso la ragione. La ritiene innocente e, in ogni caso, non vuole che le succeda nulla. La sua famiglia è un altro paio di maniche. Mi risulta che il padre del suo amico Vidal, che non la può soffrire, come le ho detto, ha offerto in segreto una gratifica di cinquemila pesetas a Marcos e Castelo se le strappano una confessione in meno di dodici ore. Loro gli hanno assicurato che nel giro di una mattinata lei reciterà perfino i versi del Canigó.» «E lei cosa crede?» «La verità? Mi piacerebbe credere che Pedro Vidal sia nel giusto, che lei abbia perso la ragione.»
Non gli dissi che, in quello stesso momento, anch'io cominciavo a crederlo. Guardai Grandes e notai qualcosa nella sua espressione che non quadrava. «C'è qualcosa che non mi ha raccontato» dissi. «Direi che le ho raccontato più che abbastanza» replicò. «Cos'è che non mi ha detto?» Grandes mi osservò attentamente e poi si lasciò sfuggire una risata trattenuta. «Stamattina, quando mi ha raccontato che la sera in cui morì il signor Sempere qualcuno era andato in libreria e che li avevano sentiti litigare, sospettava che quella persona volesse acquistare un libro, un libro suo, e che al rifiuto di Sempere di venderglielo fosse nata una colluttazione e il libraio avesse avuto un attacco di cuore. Secondo lei era un pezzo quasi unico, di cui esistono pochissime copie. Come si intitolava il libro?» «I passi del cielo.» «Esatto. È quello il libro che, secondo i suoi sospetti, è stato rubato la sera che Sempere è morto?» Annuii. L'ispettore prese una sigaretta e l'accese. Assaporò un paio di boccate e la spense. «È questo il mio dilemma, Martín. Credo che lei mi abbia venduto un mucchio di fandonie che si è inventato prendendomi per imbecille oppure, e non so se è peggio, ha iniziato lei stesso a crederci a forza di ripeterle. Tutto porta a lei, e la cosa più facile per me è lavarmene le mani e lasciarla in quelle di Marcos e Castelo.» «Ma...» «Ma... ed è un ma minuscolo, insignificante, un ma che i miei colleghi non avrebbero alcun problema a trascurare, e invece a me disturba come se fosse un bruscolino di polvere nell'occhio e mi fa pensare se, magari, e quello che sto per dire contraddice tutto ciò che ho imparato in vent'anni di mestiere, le cose che mi ha raccontato non siano la verità, ma non siano nemmeno false.» «Posso solo dirle che le ho raccontato ciò che ricordo, ispettore. Può credermi oppure no. La verità è che a volte non mi credo nemmeno io. Ma è quello che ricordo.» Grandes si alzò e iniziò a girare attorno al tavolo. «Questo pomeriggio, parlando con Maria Antonia Sanahuja, o Irene Sabino, nella stanza della sua pensione, le ho chiesto se la conosceva. Ha detto di no. Le ho spiegato che viveva nella casa della torre dove lei e Marla-
sca avevano trascorso diversi mesi. Le ho chiesto di nuovo se si ricordava di lei. Mi ha risposto di no. Poco dopo le ho detto che lei aveva visitato la cappella della famiglia Marlasca ed era sicuro di averla vista lì. Per la terza volta quella donna ha negato di averla mai incontrata. E io le ho creduto. Le ho creduto finché, quando stavo per andarmene, ha detto di avere un po' freddo e ha aperto l'armadio per prendere uno scialle di lana da mettersi sulle spalle. Allora ho visto un libro su un tavolo. Ha richiamato la mia attenzione perché era l'unico libro nella stanza. Approfittando del fatto che mi aveva dato le spalle, l'ho aperto e ho letto una dedica scritta a mano sulla prima pagina.» «"Per il signor Sempere, il miglior amico che un libro potrebbe desiderare, per avermi aperto le porte del mondo e insegnato ad attraversarle"» citai a memoria. «"Firmato, David Martín"» completò Grandes. L'ispettore si fermò davanti alla finestra, dandomi le spalle. «Tra mezz'ora verranno a prenderla e mi toglieranno il caso» disse. «Lei passerà in custodia al sergente Marcos. E io non potrò fare più nulla. Ha qualcos'altro da dire che mi permetta di salvarle il collo?» «No.» «Allora prenda quel ridicolo revolver che tiene nascosto da ore nel cappotto e, facendo attenzione a non spararsi a un piede, mi minacci di farmi saltare la testa se non le consegno la chiave che apre quella porta.» Guardai verso la porta. «In cambio, le chiedo solo di dirmi dov'è Cristina Sagnier, se è ancora viva.» Abbassai lo sguardo, incapace di trovare la mia stessa voce. «L'ha uccisa lei?» Lasciai trascorrere un lungo silenzio. «Non lo so.» Grandes si avvicinò e mi tese la chiave della porta. «Se la squagli, Martín.» Esitai un istante prima di accettarla. «Non usi la scala principale. Uscendo in corridoio, alla fine, sulla sinistra, c'è una porta blu che si apre solo da questo lato e conduce alla scala antincendio. L'uscita dà nel vicolo sul retro.» «Come posso ringraziarla?» «Può cominciare non perdendo tempo. Ha una trentina di minuti prima che tutto il dipartimento si metta alle sue calcagna. Cerchi di non sprecar-
li» disse l'ispettore. Presi la chiave e mi diressi alla porta. Prima di uscire, mi voltai un istante. Grandes si era seduto sul tavolo e mi osservava senza alcuna espressione. «Quella spilla dell'angelo» disse, indicandosi il risvolto della giacca. «Sì?» «Gliel'ho vista addosso da quando la conosco.» 20 Le strade del Raval erano tunnel d'ombra punteggiati di lampioni sfarfallanti che a malapena riuscivano a graffiare l'oscurità. Mi ci volle qualcosa in più dei trenta minuti che mi aveva concesso l'ispettore Grandes per scoprire che c'erano due lavanderie in calle Cadena. Nella prima, quasi una grotta in fondo a scale lucide di vapore, lavoravano solo bambini con le mani violacee di tintura e gli occhi giallastri. La seconda, una fucina di sudiciume e di puzza di liscivia da cui si faticava a credere che potesse uscire qualcosa di pulito, era gestita da un donnone che alla vista di qualche moneta non perse tempo ad ammettere che Maria Antonia Sanahuja lavorava lì sei pomeriggi alla settimana. «Che ha combinato adesso?» domandò la matrona. «Ha ereditato. Mi dica dove posso trovarla e forse ci guadagna qualcosa.» La matrona rise, però gli occhi le brillarono di avidità. «Che io sappia, vive nella pensione Santa Lucia, in calle Marqués de Barberà. Quanto ha ereditato?» Lasciai cadere qualche moneta sul bancone e uscii da quel buco immondo senza prendermi la briga di rispondere. La pensione in cui viveva Irene Sabino languiva in un cupo edificio che sembrava costruito con ossa dissepolte e lapidi rubate. Le targhette delle cassette della posta in portineria erano ricoperte di ruggine. Ai primi due piani non figurava nessun nominativo. Il terzo ospitava una sartoria dal nome magniloquente, La Textil Mediterránea. Il quarto e ultimo era occupato dalla pensione Santa Lucia. Una scala su cui a stento passava una persona saliva nella penombra, mentre le esalazioni delle fognature s'infiltravano dai muri e si mangiavano la pittura delle pareti come acido. Salii quattro piani fino a raggiungere un pianerottolo inclinato sul quale si affacciava una sola porta. Bussai con il pugno e dopo un po' mi aprì un uomo
alto e magro come un incubo di El Greco. «Cerco Maria Antonia Sanahuja» dissi. «Lei è il medico?» domandò. Lo spinsi di lato ed entrai. L'appartamento non era altro che un guazzabuglio di stanze strette e buie aggrappiate ai due lati di un corridoio che moriva in un finestrone affacciato su un cavedio. Il fetore che usciva dalle tubature permeava l'atmosfera. L'uomo che mi aveva aperto era rimasto sulla soglia e mi guardava sconcertato. Immaginai che si trattasse di un pensionante. «Qual è la sua stanza?» chiesi. Mi guardò in silenzio, impenetrabile. Tirai fuori il revolver e glielo mostrai. L'uomo, senza perdere la serenità, indicò l'ultima porta del corridoio accanto allo sfiatatoio del cavedio. Ci andai e quando scoprii che era chiusa cominciai ad armeggiare con la serratura. Gli altri ospiti si erano affacciati in corridoio, un coro di anime dimenticate che sembravano non avere sfiorato la luce del sole per anni. Ricordai i miei giorni di miseria nella pensione di donna Carmen e mi passò per la mente che il mio vecchio domicilio sembrava il nuovo Hotel Ritz a paragone di quel miserabile purgatorio, uno dei tanti nell'alveare del Raval. «Tornate nelle vostre stanze» dissi. Nessuno diede segno di avermi sentito. Alzai la mano mostrando l'arma. Immediatamente tutti s'infilarono nelle loro stanze come roditori spaventati, eccetto il cavaliere dalla triste e slanciata figura. Concentrai di nuovo l'attenzione sulla porta. «Ha chiuso dall'interno» spiegò il pensionante. «È lì da tutto il pomeriggio.» Un odore che mi fece pensare alle mandorle amare filtrava da sotto la porta. La colpii con il pugno diverse volte senza ottenere risposta. «La padrona ha un passe-partout» disse il pensionante. «Se vuole aspettare... Non credo ci metterà molto a tornare.» Per tutta risposta, mi allontanai di qualche passo e mi lanciai contro la porta, che cedette alla seconda carica. Appena mi ritrovai nella stanza, mi assalì quel fetore acre e nauseabondo. «Dio mio» mormorò il pensionante alle mie spalle. La ex stella del Paratelo giaceva su una branda, pallida e ricoperta di sudore. Aveva le labbra nere e, vedendomi, sorrise. Le sue mani stringevano con forza la boccetta di veleno. L'aveva bevuto fino all'ultima goccia. Il fetore del suo alito, di sangue e di bile, riempiva la stanza. Il pensionante si
tappò il naso e la bocca con la mano e arretrò in corridoio. Osservai Irene Sabino che si contorceva mentre il veleno la corrodeva dall'interno. La morte si stava prendendo il suo tempo. «Dov'è Marlasca?» Mi guardò attraverso lacrime di agonia. «Non aveva più bisogno di me» disse. «Non mi ha mai amato.» Aveva la voce aspra e spezzata. L'assalì una tosse secca che le strappò dal petto un suono sdrucito, e un secondo dopo un liquido scuro le affiorò tra i denti. Irene Sabino mi osservava aggrappandosi all'ultimo soffio di vita. Mi prese la mano e la strinse forte. «Lei è maledetto, come lui.» «Cosa posso fare?» Negò lentamente con la testa. Un nuovo attacco di tosse le scosse il petto. I capillari degli occhi le si rompevano e una rete di linee sanguinanti avanzava verso le sue pupille. «Dov'è Ricardo Salvador? Nella tomba di Marlasca, nella cappella di famiglia?» Irene Sabino scosse la testa. Una parola muta le si formò sulle labbra. Jaco. «Dov'è Salvador, allora?» «Lui sa dov'è lei. La vede. Verrà a cercarla.» Mi sembrò che iniziasse a delirare. La pressione della sua mano perdeva forza. «Io l'amavo» disse. «Era un uomo buono. Un uomo buono. Lui l'ha cambiato. Era un uomo buono...» Un rumore di carne lacerata le uscì dalle labbra e il suo corpo si tese in uno spasmo. Irene Sabino morì con gli occhi fissi nei miei, portandosi via per sempre il segreto di Diego Marlasca. Ora restavo solo io. Le coprii il volto con un lenzuolo e sospirai. Sulla soglia, il pensionante si fece il segno della croce. Mi guardai attorno, cercando qualcosa che potesse aiutarmi, un indizio su quale dovesse essere il mio prossimo passo. Irene Sabino aveva trascorso i suoi ultimi giorni in una cella di due metri per quattro. Non c'erano finestre. La branda di ferro su cui giaceva il suo cadavere, un armadio sull'altro lato e un tavolino contro il muro costituivano tutto l'arredamento. Una valigia spuntava da sotto la branda, accanto a un ormale e a una cappelliera. Sul tavolino c'erano un piatto con briciole di pane, una caraffa d'acqua e una pila di quelle che sembravano cartoline, ma che si rivelarono immaginette di santi e avvisi funebri. Avvolto in un
panno bianco c'era quello che pareva un libro. Lo scartocciai e trovai la copia dei Passi del cielo che avevo dedicato al signor Sempere. La compassione risvegliata in me dall'agonia di quella donna svaporò all'istante. Quella disgraziata aveva ammazzato il mio buon amico per strappargli quel maledetto libro. Ricordai allora le parole di Sempere la prima volta che ero entrato nella sua libreria: ogni libro aveva un'anima, l'anima di chi l'aveva scritto e l'anima di quelli che lo avevano letto e sognato. Sempere era morto credendo a quelle parole e capii che anche Irene Sabino, a suo modo, ci aveva creduto. Sfogliai le pagine rileggendo la dedica. Trovai il primo segno a pagina sette. Un tratto marrone sgorbiava le parole, disegnando una stella a sei punte identica a quella che mi aveva inciso sul petto con la lama di un rasoio qualche settimana prima. Capii che era tracciata con il sangue. Continuai a girare le pagine e a scoprire nuovi disegni. Delle labbra. Una mano. Occhi. Sempere aveva sacrificato la vita per un miserabile e ridicolo incantesimo da baraccone. Misi il libro nella tasca interna del cappotto e mi inginocchiai accanto al letto. Tirai fuori la valigia e la svuotai sul pavimento. C'erano solo vestiti e scarpe vecchie. Aprii la cappelliera e trovai un astuccio di pelle che conteneva il rasoio con cui Irene Sabino mi aveva fatto i segni sul petto. All'improvviso avvertii un'ombra che si allungava sul pavimento e mi girai di scatto, puntando il revolver. Il pensionante dal fisico asciutto mi guardò con una certa sorpresa. «Mi sembra che abbia compagnia» disse lapidario. Uscii in corridoio e andai verso l'ingresso. Mi affacciai sulle scale e sentii i pesanti passi che salivano. Un volto si profilò nella tromba delle scale. Guardava in alto, e mi imbattei negli occhi del sergente Marcos due piani sotto di me. Si tirò indietro e i passi accelerarono. Non era solo. Chiusi e mi appoggiai alla porta, sforzandomi di pensare. Il mio complice mi osservava, calmo ma in attesa. «C'è un'altra uscita?» domandai. Scosse la testa. «Sul tetto?» Indicò la porta che avevo appena chiuso. Tre secondi più tardi sentii l'impatto dei corpi di Marcos e Castelo che cercavano di sfondarla. Mi allontanai, retrocedendo nel corridoio con l'arma puntata verso la porta. «Io, magari, me ne vado nella mia stanza» disse l'inquilino. «È stato un piacere.»
«Altrettanto.» Fissai gli occhi sulla porta, che veniva scossa con forza. Il legno consumato attorno ai cardini e alla serratura cominciò a fendersi. Andai verso il fondo del corridoio e aprii la finestra che dava sul cavedio. Un tunnel verticale approssimativamente di un metro per un metro e mezzo s'inabissava nell'ombra. Il bordo del lastrico sul tetto s'intravedeva in alto, a circa tre metri dalla finestra. Dall'altra parte del cavedio c'era uno sfiatatoio attaccato al muro con ganci marci di ruggine. L'umidità suppurante ne spruzzava la superficie di lacrime nere. Il rumore dei colpi continuava a rintronare alle mie spalle. Mi voltai e vidi che la porta era ormai praticamente scardinata. Calcolai che mi restavano appena pochi secondi. Senza altra alternativa, salii sul davanzale e saltai. Riuscii ad aggrapparmi alle tubature e a poggiare un piede su uno dei ganci che sporgeva. Sollevai la mano per afferrare la parte superiore del tubo, ma appena feci forza sentii che mi si sbriciolava tra le mani e che un intero metro precipitava lungo il cavedio. Fui sul punto di cadere anch'io, ma mi aggrappai al pezzo di metallo conficcato nel muro che sosteneva il gancio. La tubatura grazie alla quale avevo sperato di salire sul tetto era adesso completamente al di fuori della mia portata. Non c'erano che due vie d'uscita: tornare nel corridoio dove entro un paio di secondi Marcos e Castelo sarebbero riusciti a entrare, oppure scendere per quella gola oscura. Sentii la porta sbattere forte contro il muro interno della casa e mi lasciai cadere lentamente, afferrandomi come potevo al tubo di scarico e lacerandomi buona parte della pelle della mano sinistra nel tentativo. Ero riuscito a scendere di un metro e mezzo quando vidi le figure dei due poliziotti ritagliate nel fascio di luce proiettato dalla finestra sull'oscurità del cavedio. Il volto di Marcos fu il primo ad affacciarsi. Sorrise e io mi domandai se mi avrebbe sparato subito, senza troppi indugi. Poi, al suo fianco, comparve Castelo. «Tu rimani qui. Io vado al piano di sotto» ordinò Marcos. Castelo annuì senza togliermi gli occhi di dosso. Mi volevano vivo, almeno per qualche ora. Sentii i passi di Marcos che si allontanavano di corsa. Entro pochi secondi l'avrei visto affacciarsi dalla finestra che si trovava ad appena un metro sotto di me. Guardai in basso e vidi che le finestre del secondo e del primo piano disegnavano ritagli di luce, ma quella del terzo era al buio. Scesi lentamente finché sentii il piede poggiare sul gancio successivo. La finestra oscura del terzo piano era di fronte a me, il corridoio vuoto con in fondo la porta a cui Marcos stava bussando. A quell'ora la
sartoria aveva già chiuso e non c'era nessuno. I colpi alla porta cessarono e capii che Marcos era sceso al secondo piano. Guardai in alto e vidi che Castelo continuava a osservarmi, leccandosi i baffi come un gatto. «Non cadere, così quando ti prendiamo ci divertiamo» disse. Sentii delle voci al secondo piano e capii che Marcos era riuscito a farsi aprire. Senza pensarci due volte, mi lanciai contro la finestra del terzo piano con tutta la forza che riuscii a trovare. L'attraversai coprendomi la faccia e il collo con le maniche del cappotto, e atterrai in una pozzanghera di vetri rotti. Mi rialzai a fatica e nella penombra vidi una macchia scura allargarsi sul braccio sinistro. Una scheggia di vetro, affilata come una daga, spuntava da sopra il gomito. La strinsi fra le dita e tirai. Il freddo lasciò il posto a una fiammata di dolore che mi fece cadere ginocchioni a terra. Da lì riuscii a vedere che Castelo aveva iniziato a scendere lungo le tubature e mi osservava dal punto dal quale ero saltato. Prima che potessi estrarre l'arma, saltò verso la finestra. Vidi le sue mani afferrarsi al telaio e, in un atto irriflesso, colpii la cornice della finestra rotta con tutte le mie forze e con tutto il peso del corpo. Sentii le ossa delle sue dita rompersi con uno scatto secco e Castelo urlò di dolore. Tirai fuori il revolver e glielo puntai in faccia, ma lui aveva già iniziato a sentire che le mani stavano abbandonando la presa. Un secondo di terrore negli occhi e cadde giù per il cavedio, con il corpo che sbatteva sulle pareti lasciando una scia di sangue nelle macchie di luce disegnate dalle finestre dei piani inferiori. Mi trascinai lungo il corridoio in direzione della porta. La ferita al braccio pulsava con forza e mi accorsi di avere anche parecchi tagli alle gambe. Continuai ad avanzare. Sui due lati si aprivano stanze in penombra piene di macchine per cucire, bobine di filo e tavoli con grandi rotoli di stoffa. Raggiunsi la porta e appoggiai la mano sulla maniglia. Un decimo di secondo dopo la sentii girare sotto le dita. La mollai. Marcos era dall'altra parte e cercava di forzarla. Arretrai di qualche passo. Un terribile frastuono scosse la porta, e parte della serratura schizzò via proiettata in una nube di scintille e fumo azzurrato. Marcos avrebbe fatto saltare la serratura con il revolver. Mi rifugiai nella prima delle stanze, piena di sagome immobili a cui mancavano le braccia o le gambe. Erano manichini da vetrina, accatastati gli uni contro gli altri. M'infilai tra i torsi che brillavano nella penombra. Sentii un secondo sparo. La porta si spalancò di colpo. La luce del pianerottolo, giallastra e imprigionata nell'alone di polvere da sparo, penetrò nell'appartamento. Il corpo di Marcos disegnò un profilo spigoloso in quel chiarore. I suoi passi pesanti si avvicinarono lungo il corridoio. Lo
sentii socchiudere la porta. Mi appiattii al muro, nascosto dietro i manichini, con il revolver tra le mani tremanti. «Martín, esca» disse Marcos con calma, avanzando lentamente. «Non le farò del male. Ho ordini di Grandes di portarla al commissariato. Abbiamo trovato quell'uomo, Marlasca. Ha confessato tutto. Lei è pulito. Ora non faccia sciocchezze. Esca e ne parliamo al Comando.» Lo vidi camminare davanti alla soglia della stanza e tirare dritto. «Martín, mi ascolti. Grandes sta arrivando. Possiamo chiarire tutto senza dover complicare ulteriormente le cose.» Armai il percussore del revolver. I passi di Marcos si fermarono. Un fruscio sulle mattonelle. Era dall'altra parte del muro. Sapeva perfettamente che mi trovavo in quella stanza, senza altra via d'uscita che passargli davanti. Lentamente vidi il suo profilo adattarsi alle ombre dell'entrata. La sua figura sì confuse nella penombra liquida, lo scintillio degli occhi era l'unica traccia della sua presenza. Era ad appena quattro metri da me. Mi lasciai scivolare lungo il muro fino a terra, piegando le ginocchia. Le gambe di Marcos si avvicinavano dietro quelle dei manichini. «So che è qui, Martín. La smetta con le ragazzate.» Si fermò, immobile. Lo vidi accovacciarsi e tastare con le dita le tracce di sangue che avevo lasciato. Si portò un dito alle labbra. Immaginai che sorridesse. «Sta sanguinando molto, Martín. Ha bisogno di un medico. Esca e l'accompagno in un ambulatorio.» Rimasi zitto. Marcos si fermò davanti a un tavolo e prese un oggetto brillante che giaceva tra brandelli di stoffa. Grandi forbici da telaio. «A lei, Martín.» Sentii il rumore delle lame delle forbici che si aprivano e si chiudevano fra le sue mani. Una fitta di dolore mi attanagliò il braccio e mi morsi le labbra per non gemere. Marcos girò la faccia verso il punto in cui mi trovavo. «A proposito di sangue, le farà piacere sapere che abbiamo preso la sua puttana e prima di cominciare con il signor David Martín ce la spasseremo un po' con quella Isabella...» Sollevai l'arma e gliela puntai alla faccia. Lo scintillio del metallo mi tradì. Marcos mi saltò addosso, travolgendo i manichini e schivando lo sparo. Sentii il suo peso su di me e il suo fiato sulla faccia. Le lame delle forbici si chiusero con forza a un centimetro dal mio occhio sinistro. Lo colpii sul volto con la fronte, mettendoci tutta l'energia che riuscii a trova-
re, e Marcos cadde a terra. Alzai il revolver e glielo puntai in faccia. Marcos, con un labbro spaccato, si alzò e mi fissò negli occhi. «Non ne hai il fegato» mormorò. Appoggiò la mano sulla canna e mi sorrise. Premetti il grilletto. La pallottola gli spappolò la mano, proiettando il braccio all'indietro come se avesse ricevuto una martellata. Marcos cadde a terra di spalle, stringendosi il polso mutilato e fumante, mentre il suo volto punteggiato di bruciature di polvere da sparo si scioglieva in una smorfia di dolore che urlava senza voce. Mi alzai e lo lasciai lì, a dissanguarsi in una pozzanghera della sua stessa orina. 21 A malapena riuscii a trascinarmi per i vicoli del Raval fino al Paralelo, dove si era formata una fila di taxi alle porte del Teatro Apolo. M'infilai nel primo che potei. Quando sentì il rumore della portiera, l'autista si voltò e, vedendomi, fece una smorfia dissuasiva. Mi lasciai cadere sul sedile posteriore ignorando le sue proteste. «Senta, non mi morirà mica lì dietro?» «Prima mi porta dove voglio andare, prima si libera di me.» Il conducente bestemmiò tra sé e avviò il motore. «E dove vuole andare?» Non lo so, pensai. «Lei parta e poi glielo dico.» «Partire per dove?» «Pedralbes.» Venti minuti più tardi avvistai le luci di Villa Helius sulla collina. Le indicai all'autista, che non vedeva l'ora di sbarazzarsi di me. Mi lasciò all'ingresso della villa e quasi si dimenticò di farsi pagare la corsa. Mi trascinai al portone e suonai il campanello. Mi lasciai cadere sui gradini e appoggiai la testa contro il muro. Sentii avvicinarsi dei passi e a un certo punto mi parve che la porta si aprisse e una voce pronunciasse il mio nome. Sentii una mano sulla fronte e mi sembrò di riconoscere gli occhi di Vidal. «Mi perdoni, don Pedro» supplicai. «Non sapevo dove andare...» Lo sentii alzare la voce e dopo un po' avvertii diverse mani che mi prendevano per le braccia e le gambe e mi tiravano su. Quando riaprii gli occhi ero nella camera di don Pedro, steso sullo stesso letto che aveva diviso con
Cristina nei due mesi scarsi che era durato il loro matrimonio. Sospirai. Vidal mi osservava dai piedi del letto. «Non parlare adesso» disse. «Il medico sta arrivando.» «Non gli creda, don Pedro» gemetti. «Non gli creda.» Vidal annuì stringendo le labbra. «Certo che no.» Don Pedro prese una coperta e me la mise addosso. «Scendo ad aspettare il dottore» disse. «Riposati.» Dopo un po' sentii passi e voci entrare nella stanza. Sentii che mi toglievano i vestiti e riuscii a scorgere le dozzine di tagli che mi ricoprivano il corpo come un'edera sanguinolenta. Sentii le pinze che frugavano nelle ferite, estraendo schegge di vetro che si portavano via brandelli di pelle e di carne. Sentii il calore dei disinfettanti e le punture dell'ago con cui il dottore ricuciva le ferite. Non c'era più dolore, solo stanchezza. Una volta bendato, ricucito e rammendato come se fossi un pupazzo rotto, il medico e Vidal mi coprirono e mi fecero appoggiare la testa al cuscino più dolce e soffice che avessi mai conosciuto in vita mia. Aprii gli occhi e trovai il viso del dottore, un signore dal portamento aristocratico e dal sorriso tranquillizzante. Aveva una siringa in mano. «Ha avuto fortuna, giovanotto» disse mentre mi affondava l'ago nel braccio. «Cos'è questo?» mormorai. Il viso di Vidal si affacciò accanto a quello del medico. «Ti aiuterà a riposare.» Una nube di freddo si diffuse nel braccio e mi ricoprì il petto. Caddi in un pozzo di velluto nero mentre Vidal e il dottore mi osservavano dall'alto. Il mondo si andò richiudendo fino a ridursi a una goccia di luce che evaporò dalle mie mani. Sprofondai in quella pace calda, chimica e infinita, dalla quale non sarei mai voluto fuggire. Ricordo un mondo di acque nere sotto il ghiaccio. La luce della luna accarezzava la volta gelata lassù in alto e si rifrangeva in mille fasci polverosi che si agitavano nella corrente che mi trascinava. Il manto bianco che l'avvolgeva ondeggiava lentamente, il profilo del suo corpo visibile in trasparenza. Cristina allungava la mano verso di me e io lottavo contro quella corrente fredda e densa. Quando restavano pochi millimetri fra la mia mano e la sua, una nube tenebrosa dispiegava le ali dietro di lei e l'avvolgeva come un'esplosione di inchiostro. Tentacoli di luce nera le circondavano le
braccia, la gola e il viso per trascinarla con forza verso l'oscurità. 22 Mi svegliai al suono del mio nome sulle labbra dell'ispettore Grandes. Mi alzai di scatto, senza riconoscere il luogo in cui mi trovavo e che, se assomigliava a qualcosa, sembrava la suite di un grand hotel. Le frustate di dolore delle dozzine di ferite che mi percorrevano il torso mi riportarono alla realtà. Ero nella camera da letto di Vidal a Villa Helius. Una luce di metà pomeriggio si insinuava fra le imposte socchiuse. C'era il fuoco acceso nel camino e faceva caldo. Le voci provenivano dal piano di sotto. Pedro Vidal e Víctor Grandes. Ignorai gli strattoni e le trafitture che mi mordevano la pelle e scesi dal letto. I miei vestiti sporchi e insanguinati erano gettati su una poltrona. Cercai il cappotto. Il revolver era ancora nella tasca. Armai il percussore e uscii dalla stanza, seguendo la traccia delle voci fino alle scale. Scesi qualche gradino, appiattendomi contro il muro. «Mi dispiace molto per i suoi uomini, ispettore» sentii dire a Vidal. «Stia certo che se David si mette in contatto con me, o se vengo a sapere dove si nasconde, glielo comunicherò immediatamente.» «La ringrazio per la collaborazione, signor Vidal. Mi spiace doverla disturbare in queste circostanze, ma la situazione è di straordinaria gravità.» «Me ne rendo conto. Grazie per la visita.» Passi verso l'ingresso e il rumore della porta. Passi in giardino che si allontanavano. Il respiro di Vidal, pesante, ai piedi delle scale. Scesi qualche altro gradino e lo trovai con la fronte appoggiata alla porta. Quando mi sentì, aprì gli occhi e si voltò. Non disse nulla. Si limitò a guardare il revolver che impugnavo. Lo lasciai sul tavolino in fondo alle scale. «Vieni, vediamo se troviamo qualche vestito pulito per te» disse. Lo seguii fino a un immenso guardaroba che sembrava un vero e proprio museo degli indumenti. Tutti gli abiti eleganti che ricordavo dagli anni di gloria di Vidal erano lì. Decine di cravatte, scarpe e gemelli in astucci di velluto rosso. «Tutte cose di quando ero giovane. Ti andranno bene.» Vidal scelse per me. Mi tese una camicia che probabilmente valeva quanto un piccolo appezzamento di terreno, un completo con gilet fatto su misura a Londra e scarpe italiane che non avrebbero sfigurato nel guarda-
roba del mio principale. Mi vestii in silenzio mentre Vidal mi osservava pensieroso. «Un po' largo di spalle, ma dovrai accontentarti» disse, passandomi due gemelli di zaffiri. «Cosa le ha raccontato l'ispettore?» «Tutto.» «E lei gli ha creduto?» «Cosa importa quello che credo io?» «Importa a me.» Vidal si sedette su una panca sistemata contro una parete ricoperta di specchi dal pavimento al soffitto. «Dice che tu sai dov'è Cristina» disse. Annuii. «È viva?» Lo guardai negli occhi e, molto lentamente, annuii. Vidal sorrise debolmente, schivando il mio sguardo. Poi si mise a piangere, lasciandosi sfuggire un gemito che gli sgorgava dal profondo. Mi sedetti accanto a lui e lo abbracciai. «Mi perdoni, don Fedro, mi perdoni...» Più tardi, quando il sole iniziava a declinare sull'orizzonte, don Pedro raccolse i miei vecchi vestiti e li buttò nel fuoco. Prima di consegnare il cappotto alle fiamme tirò fuori la copia dei Passi del cielo e me la diede. «Dei due libri che hai scritto l'anno scorso, questo è quello buono» disse. Lo osservai smuovere i miei vestiti che bruciavano nel camino. «Quando se n'è accorto?» Vidal si strinse nelle spalle. «È difficile ingannare qualcuno per sempre, David; perfino uno stupido vanitoso.» Non riuscii a capire se nella sua voce ci fosse rancore o soltanto tristezza. «L'ho fatto perché credevo di aiutarla, don Pedro.» «Lo so.» Mi sorrise senza acredine. «Mi perdoni» mormorai. «Devi andartene dalla città. C'è una nave da carico ancorata al molo di San Sebastián che salpa a mezzanotte. È tutto organizzato. Chiedi del capitano Olmo. Ti aspetta. Prendi una delle auto dal garage. Puoi lasciarla al
molo. Pep l'andrà a riprendere domani. Non parlare con nessuno. Non tornare a casa tua. Avrai bisogno di denaro.» «Ne ho abbastanza» mentii. «Non è mai abbastanza. Quando sbarchi a Marsiglia, Olmo ti accompagnerà in banca e ti consegnerà cinquantamila franchi.» «Don Pedro...» «Ascoltami. Quei due uomini che secondo Grandes hai ammazzato...» «Marcos e Castelo. Credo che lavorassero per suo padre, don Pedro.» Vidal scosse la testa. «Né mio padre né i suoi avvocati trattano con i gradi intermedi, David. Come credi che sapessero dove trovarti trenta minuti dopo essere uscito dal commissariato?» La fredda certezza mi cadde addosso, trasparente. «Grazie al mio amico, l'ispettore Víctor Grandes.» Vidal annuì. «Grandes ti ha lasciato andare perché non voleva sporcarsi le mani al commissariato. Appena sei uscito, i suoi due uomini erano sulle tue tracce. La tua era una morte telegrafata. Sospetto omicida fugge e muore mentre cerca di sfuggire all'arresto.» «Come ai vecchi tempi in cronaca» disse. «Certe cose non cambiano mai, David. Tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro.» Aprì l'armadio e mi allungò un cappotto nuovo, mai indossato. Lo accettai e misi il libro nella tasca interna. Vidal mi sorrise. «Per una volta nella vita ti vedo ben vestito.» «A lei stava meglio, don Pedro.» «Questo è scontato.» «Don Pedro, ci sono molte cose che...» «Adesso non hanno più importanza, David. Non mi devi nessuna spiegazione.» «Le devo molto di più di una spiegazione...» «Allora parlami di lei.» Vidal mi guardava con occhi disperati, supplicando che gli mentissi. Ci sedemmo in salotto, di fronte ai finestroni da cui si dominava tutta Barcellona, e gli mentii con tutto il cuore. Gli dissi che Cristina aveva affittato un piccolo attico in rue de Soufflot sotto il nome di madame Vidal e che mi aveva promesso di aspettarmi ogni giorno a metà pomeriggio davanti alla fontana dei Jardins du Luxembourg. Gli dissi che parlava sempre di lui,
che non l'avrebbe mai dimenticato, e che io sapevo che, anche se avessi passato molti anni al suo fianco, non sarei mai riuscito a colmare il vuoto lasciato da lui. Don Pedro annuiva, lo sguardo perso lontano. «Devi promettermi che avrai cura di lei, David. Che non l'abbandonerai mai. Qualunque cosa succeda, le starai accanto.» «Glielo prometto, don Pedro.» Nella luce pallida del tramonto riuscii a vedere in lui solo un uomo vecchio e sconfitto, malato di ricordi e di rimorsi, un uomo che non aveva mai creduto e al quale adesso restava soltanto il balsamo della credulità. «Mi sarebbe piaciuto essere un amico migliore per te, David.» «Lei è stato il migliore degli amici, don Pedro. E molto più di questo.» Vidal allungò il braccio e mi prese la mano. Stava tremando. «Grandes mi ha parlato di quell'uomo, quello che chiami il tuo principale... Dice che gli devi qualcosa e che secondo te l'unico modo per pagare il tuo debito è consegnargli un'anima pura...» «Sono stupidaggini, don Pedro. Non ci faccia caso.» «Non ti serve un'anima sporca e stanca come la mia?» «Non conosco davvero un'anima più pura della sua, don Pedro.» Vidal sorrise. «Se potessi fare cambio con tuo padre, non ci penserei, David.» «Lo so.» Si alzò e contemplò il tramonto che precipitava sulla città. «Dovresti metterti in marcia» disse. «Va' in garage e prendi una macchina. Quella che vuoi. Io vado a vedere se ho denaro in contanti.» Annuii e presi il cappotto. Uscii in giardino e mi diressi verso il garage di Villa Helius. C'erano due automobili lustre come carrozze reali. Scelsi la più piccola e discreta, una Hispano-Suiza nera che sembrava non essere uscita da lì più di due o tre volte e odorava ancora di nuovo. Mi sedetti al volante e misi in moto. Uscii dal garage e aspettai in cortile. Passò un minuto e, vedendo che don Pedro non usciva, scesi dalla macchina lasciando il motore acceso. Rientrai in casa per salutarlo e dirgli di non preoccuparsi per i soldi, me la sarei cavata. Attraversando l'ingresso ricordai di aver lasciato lì il revolver, sul tavolino accanto alle scale. Quando andai a riprenderlo, non c'era più. «Don Pedro?» La porta che dava in salotto era socchiusa. Mi affacciai sulla soglia e lo vidi al centro della stanza. Si portò al petto la pistola di mio padre e puntò la canna sul cuore. Corsi verso di lui ma il frastuono dello sparo coprì le
mie urla. L'arma gli cadde di mano. Il corpo s'inclinò verso il muro e scivolò lentamente sul pavimento lasciando una scia scarlatta sul marmo. Caddi in ginocchio accanto a lui e lo sostenni tra le braccia. Lo sparo gli aveva aperto nel vestito un foro fumante, dal quale sgorgava a fiotti sangue scuro e denso. Don Pedro mi guardava fisso negli occhi mentre il suo sorriso si riempiva di sangue e il suo corpo smetteva di tremare e cadeva a terra in un odore di polvere da sparo e di miseria. 23 Tornai in macchina e mi sedetti, con le mani insanguinate sul volante. A stento riuscivo a respirare. Aspettai un minuto e poi abbassai la leva del freno. Il tramonto aveva coperto il cielo con un sudario rosso, sotto il quale palpitavano le luci della città. Partii e mi lasciai alle spalle il profilo di Villa Helius in cima alla collina. Arrivato in avenida Pearson, mi fermai e guardai nello specchietto retrovisore. Un'auto svoltò da un vicolo nascosto e si piazzò a una cinquantina di metri da me. Non aveva acceso i fari. Víctor Grandes. Proseguii giù per l'avenida de Pedralbes fino a superare il grande drago di ferro battuto che sorvegliava il porticato della Finca Güell. L'auto dell'ispettore Grandes era ancora lì, a un centinaio di metri. Arrivato sulla Diagonal, girai a sinistra verso il centro. Circolavano pochissimi veicoli e Grandes mi seguì senza difficoltà finché non decisi di svoltare a destra con la speranza di seminarlo nelle stradine strette delle Corts. A quel punto l'ispettore si era accorto che la sua presenza non era un segreto e aveva acceso i fari, accorciando le distanze. Per venti minuti schivammo un intreccio di strade e di tram. M'infilai tra omnibus e carri, per ritrovarmi sempre i fari di Grandes alle calcagna, senza tregua. Dopo un po', mi s'innalzò davanti la collina del Montjuïc. Il grande palazzo dell'Esposizione universale e i resti degli altri padiglioni erano stati chiusi appena due settimane prima, ma già si profilavano nella bruma del crepuscolo come le rovine di una grande civiltà dimenticata. Imboccai l'ampio viale che saliva fino alla cascata di luci fantasma e fuochi fatui delle fontane dell'Esposizione e accelerai fin dove ce la faceva il motore. Via via che salivamo lungo la strada che fiancheggiava la collina e serpeggiava fino allo Stadio Olimpico, Grandes guadagnava terreno, finché riuscii a distinguere chiaramente il suo viso nello specchietto. Per un istante fui tentato di prendere la strada che saliva fino al castello militare in cima all'altura, ma se c'era un posto
senza via d'uscita era proprio quello. La mia unica speranza era raggiungere l'altro versante della collina che guardava verso il mare e sparire in qualcuno dei moli del porto. Per farlo, avevo bisogno di guadagnare un po' di tempo. Grandes adesso era a una quindicina di metri. Le enormi balaustrate di Miramar ci si aprivano davanti con la città stesa ai nostri piedi. Tirai con tutte le forze la leva del freno e lasciai che Grandes sbattesse contro l'Hispano-Suiza. L'impatto ci trascinò entrambi per una ventina di metri, sollevando una ghirlanda di scintille sulla strada. Mollai il freno e avanzai un po'. Mentre Grandes cercava di recuperare il controllo, misi la retromarcia e accelerai a fondo. Quando lui si rese conto di quello che stavo facendo, era troppo tardi. Lo investii con la forza di una carrozzeria e di un motore, gentile concessione della scuderia più prestigiosa della città, notevolmente più robusti di quelli che proteggevano lui. L'impatto lo fece sussultare all'interno dell'abitacolo e vidi la sua testa colpire il parabrezza, facendolo crepare completamente. Un fumo bianco uscì dalla capote della sua macchina e i fari si spensero. Innestai la marcia e accelerai, lasciandolo indietro e dirigendomi verso il belvedere di Miramar. Dopo pochi secondi mi accorsi che l'urto aveva schiacciato il parafango posteriore contro la ruota, che adesso girava soffrendo l'attrito con il metallo. L'odore di gomma bruciata invase l'abitacolo. Venti metri più avanti lo pneumatico scoppiò e l'auto iniziò a serpeggiare fino a fermarsi, avvolta in una nuvola di fumo nero. L'abbandonai e rivolsi lo sguardo verso il punto in cui era rimasta quella di Grandes. L'ispettore si trascinava fuori dall'abitacolo, raddrizzandosi lentamente. Mi guardai intorno. La fermata della funivia che attraversava il porto cittadino dalla collina del Montjuïc alla torre di San Sebastián era a una cinquantina di metri da lì. Intravidi il profilo delle cabine sospese ai cavi che scivolavano sullo sfondo scarlatto del crepuscolo e mi misi a correre in quella direzione. Uno degli addetti della funivia si stava preparando a chiudere le porte dell'edificio quando mi vide arrivare trafelato. Mi tenne la porta aperta e indicò l'interno. «È l'ultima corsa per oggi» avvertì. «Meglio che si sbrighi.» La biglietteria stava per chiudere quando acquistai l'ultimo biglietto della giornata e mi affrettai a unirmi a un gruppo di quattro persone che aspettavano fuori della cabina. Non notai i loro abiti fin quando l'addetto non aprì la porta e li invitò a entrare. Sacerdoti. «La funivia è stata realizzata per l'Esposizione Universale ed è dotata dei più avanzati ritrovati della tecnica. La sua sicurezza è garantita in ogni
momento. Appena inizierà il percorso, questa porta di sicurezza, che può essere aperta solo dall'esterno, verrà bloccata per evitare incidenti o, Dio non voglia, tentativi di suicidio. È chiaro che con voi, eminenze, non c'è pericolo di...» «Giovanotto» lo interruppi. «Non può sveltire il cerimoniale, che qui si fa notte?» L'addetto mi rivolse uno sguardo ostile. Uno dei sacerdoti notò le macchie di sangue sulle mie mani e si fece il segno della croce. L'addetto proseguì la sua tiritera. «Viaggerete nel cielo di Barcellona a una settantina di metri d'altezza al di sopra delle acque del porto, godendo del panorama più spettacolare di tutta la città, finora riservato a rondini, gabbiani e altre creature dotate di piumaggio dall'Altissimo. Il viaggio ha una durata di dieci minuti e fa due fermate, la prima alla torre centrale del porto o, come a me piace chiamarla, la torre Eiffel di Barcellona, o torre di San Jaime, e la seconda e ultima alla torre di San Sebastián. Senza ulteriori indugi, auguro alle vostre eminenze una buona traversata e vi rinnovo il desiderio della compagnia di rivedervi a bordo della funivia del porto di Barcellona in una prossima occasione.» Fui il primo a salire in cabina. L'addetto allungò la mano al passaggio dei quattro sacerdoti nella speranza di una mancia che non arrivò mai. Con visibile delusione sbatté la porta e si voltò, pronto ad abbassare la leva. L'ispettore Víctor Grandes lo aspettava dall'altra parte, malconcio ma sorridente, con la sua tessera della polizia in mano. L'addetto gli aprì e Grandes entrò in cabina salutando con un cenno del capo i sacerdoti e strizzandomi un occhio. Qualche secondo più tardi, stavamo fluttuando nel vuoto. La cabina si sollevò dal terminal verso il bordo della collina. I sacerdoti si erano ammucchiati tutti su un lato, chiaramente pronti a godersi il panorama del tramonto su Barcellona e a ignorare, qualunque essa fosse, la torbida questione che aveva riunito me e Grandes in quella cabina. L'ispettore si avvicinò lentamente e mi mostrò l'arma che impugnava. Grandi nuvole rossastre fluttuavano sulle acque del porto. La cabina della funivia sprofondò in una di esse e per un istante sembrò che ci fossimo immersi in un lago di fuoco. «Ci era già salito qualche volta?» domandò Grandes. Annuii. «A mia figlia piace da matti. Una volta al mese mi chiede di fare il viag-
gio andata e ritorno. Un po' caro, ma vale la pena.» «Con quello che le paga il vecchio Vidal per vendermi di sicuro potrà portarci sua figlia tutti i giorni, se le va. Pura curiosità. Qual è il mio prezzo?» Grandes sorrise. La cabina emerse dalla grande nube scarlatta e rimanemmo sospesi sulla darsena del porto, mentre le luci della città si spargevano sulle acque scure. «Quindicimila pesetas» rispose battendo con la palma della mano una busta bianca che gli spuntava dalla tasca del cappotto. «Immagino che dovrei sentirmi lusingato. C'è chi ammazza per quattro soldi. E quel prezzo include anche il tradimento dei suoi due uomini?» «Le ricordo che qui l'unico ad avere ammazzato qualcuno è lei.» A quel punto i quattro sacerdoti ci osservavano attoniti e costernati, indifferenti al fascino della vertigine e del volo sulla città. Grandes li guardò appena. «Quando arriviamo alla prima fermata, se non è troppo disturbo, chiederei alle vostre eminenze di scendere e di lasciarci discutere dei nostri affari mondani.» La torre della darsena si innalzava di fronte a noi come una cupola di acciaio e cavi strappata da una cattedrale meccanica. La cabina penetrò sotto la volta della torre e si fermò sulla piattaforma. Quando la porta si aprì, i quattro sacerdoti uscirono in fretta e furia. Grandes, pistola in pugno, mi fece cenno di andare in fondo alla cabina. Uno dei preti, mentre scendeva, mi guardò preoccupato. «Stia tranquillo, giovanotto, avviseremo la polizia» disse prima che la porta si richiudesse. «Mi raccomando» replicò Grandes. Una volta che la porta fu bloccata, la cabina riprese il tragitto. Uscimmo dalla torre della darsena e iniziammo l'ultimo tratto della traversata. Grandes si avvicinò al finestrino e contemplò il panorama della città, un miraggio di luci e brume, cattedrali e palazzi, vicoli e grandi viali intessuti in un labirinto di ombre. «La città dei maledetti» disse Grandes. «Più da lontano la si osserva, più bella sembra.» «È il mio epitaffio?» «Non l'ucciderò, Martín. Io non ammazzo la gente. Me lo farà lei il favore. A me e a se stesso. Sa che ho ragione.» Detto fatto, l'ispettore scaricò tre pallottole sul meccanismo di chiusura
della porta e l'aprì con un calcio. Lo sportello rimase a penzolare nel vuoto, mentre una raffica di vento umido invadeva la cabina. «Non sentirà nulla, Martín. Mi creda. L'impatto non dura nemmeno un decimo di secondo. Istantaneo. E poi, la pace.» Guardai la porta aperta. Davanti a me, una caduta di settanta metri nel vuoto. Guardai verso la torre di San Sebastián e calcolai che ci volevano ancora alcuni minuti per arrivarci. Grandes mi lesse nel pensiero. «Tra pochi minuti sarà tutto finito, Martín. Dovrebbe essermene grato.» «Davvero crede che io abbia ucciso tutte quelle persone, ispettore?» Grandes sollevò il revolver e mirò al cuore. «Non lo so e non m'importa.» «Credevo che fossimo amici.» Grandes sorrise e scosse la testa. «Lei non ha amici, Martín.» Sentii il frastuono dello sparo e un impatto al petto, come se un martello pneumatico mi avesse colpito nelle costole. Caddi di spalle, senza fiato, mentre uno spasmo di dolore mi bruciava per tutto il corpo come benzina. Grandes mi aveva afferrato per i piedi e mi tirava verso la porta. La cima della torre di San Sebastián comparve tra veli di nubi. Grandes mi passò sopra e si accovacciò dietro di me. Mi spintonò alle spalle verso la porta. Sentii il vento umido sulle gambe. Grandes mi diede un altro spintone e notai che il mio bacino fuoriusciva dalla piattaforma della cabina. Il risucchio della gravità fu istantaneo. Stavo iniziando a cadere. Allungai le braccia verso l'ispettore e gli conficcai le dita nel collo. Zavorrato dal peso del mio corpo, Grandes restò incastrato nel vano della porta. Strinsi con tutte le mie forze, premendogli sulla trachea e schiacciandogli le arterie del collo. Cercò di dimenarsi per liberarsi dalla mia presa con una mano mentre con l'altra brancolava in cerca della sua arma. Le sue dita trovarono la culatta della pistola e scivolarono verso il grilletto. Lo sparo mi sfiorò la tempia e colpì il bordo della porta. La pallottola rimbalzò verso l'interno della cabina e gli attraversò in maniera netta la palma della mano. Gli affondai le unghie nel collo, sentendo che la pelle cedeva. Grandes emise un gemito. Tirai forte e mi arrampicai di nuovo fino a restare con più di metà corpo dentro la cabina. Una volta che riuscii ad afferrarmi alle pareti di metallo, mollai Grandes e mi spostai di lato. Mi palpai il petto e trovai il foro lasciato dal proiettile dell'ispettore. Mi sbottonai il cappotto e tirai fuori la copia dei Passi del cielo. La pallottola aveva attraversato la copertina, le quasi quattrocento pagine e sbucava co-
me la punta di un dito d'argento dalla quarta di copertina. Accanto a me, Grandes si contorceva a terra, tenendosi disperatamente il collo. Il suo viso era livido e le vene della fronte e delle tempie gli pulsavano come cavi tesi. Mi rivolse uno sguardo di supplica. Una ragnatela di capillari rotti si diffondeva nei suoi occhi e capii di avergli schiacciato la trachea con le mani e che stava soffocando senza rimedio. L'osservai agitarsi a terra nella sua lenta agonia. Tirai per il bordo la busta bianca che gli spuntava dal taschino. La aprii e contai quindicimila pesetas. Il prezzo della mia vita. Mi misi la busta in tasca. Grandes si trascinava a terra verso l'arma. Mi alzai e l'allontanai con un calcio. L'ispettore mi afferrò la caviglia implorando misericordia. «Dov'è Marlasca?» chiesi. La sua gola emise un gemito sordo. Posai lo sguardo sui suoi occhi e capii che stava ridendo. La cabina era ormai entrata nella torre di San Sebastián quando lo spinsi fuori dalla porta e lo vidi precipitare per quasi ottanta metri attraverso un labirinto di cavi, leve, ruote dentate e sbarre d'acciaio che lo fecero a pezzi lungo la caduta. 24 La casa della torre era sepolta nell'oscurità. Salii a tentoni i gradini della scalinata di pietra fino al pianerottolo e trovai la porta socchiusa. La spinsi con la mano e rimasi sulla soglia, scrutando le ombre che invadevano il lungo corridoio. Avanzai di qualche passo. Restai lì, immobile, in attesa. Tastai la parete fino a trovare l'interruttore della luce. Lo feci girare quattro volte senza nessun risultato. La prima porta sulla destra portava in cucina. Percorsi lentamente i tre metri che me ne separavano e mi ci fermai proprio davanti. Ricordai che tenevo una lampada a olio in una delle credenze. La trovai tra barattoli di caffè ancora da aprire provenienti dall'emporio di Can Gispert. Appoggiai la lampada sul tavolo di cucina e l'accesi. Una tenue luce ambrata impregnò le pareti. Presi la lampada e uscii di nuovo in corridoio. Avanzai lentamente, la luce che sfarfallava in alto, aspettandomi di vedere qualcosa o qualcuno uscire da un momento all'altro da una delle porte che fiancheggiavano il corridoio. Sapevo di non essere solo. Lo fiutavo. Un fetore acre, di rabbia e di odio, aleggiava nell'aria. Raggiunsi la fine del corridoio e mi fermai davanti alla porta dell'ultima stanza. Il chiarore della lampada accarezzò il contorno dell'armadio scostato dal muro, i vestiti get-
tati a terra esattamente come li avevo lasciati quando Grandes era venuto ad arrestarmi due sere prima. Proseguii fino ai piedi della scala che conduceva allo studio. Salii lentamente, guardandomi alle spalle ogni due o tre passi, finché arrivai nella stanza. Il respiro rossastro del crepuscolo penetrava dai finestroni. Andai in fretta verso il muro dove si trovava il baule e lo aprii. La cartellina con il manoscritto per il principale era sparita. Tornai verso le scale. Passando davanti alla mia scrivania vidi che la tastiera della vecchia macchina per scrivere era sfasciata, come se qualcuno l'avesse presa a pugni. Scesi lentamente le scale. Imboccando di nuovo il corridoio, mi affacciai all'ingresso del salotto. Perfino nella penombra riuscii a vedere tutti i miei libri gettati a terra e la pelle delle poltrone ridotta a brandelli. Mi voltai ed esaminai i venti metri di corridoio che mi separavano dalla porta. Il chiarore della lampada mi permetteva di scorgere i contorni solo fino alla metà di quella distanza. Più in là, le ombre si agitavano come acque scure. Ricordavo di aver lasciato aperta la porta di casa quando ero entrato. Adesso era chiusa. Avanzai un paio di metri, ma qualcosa mi fermò mentre ripassavo davanti all'ultima stanza del corridoio. Entrando non l'avevo notata perché la porta si apriva verso sinistra e passandoci davanti non mi ero affacciato, ma adesso, avvicinandomi, la vidi chiaramente. Una colomba bianca con le ali spiegate a croce era inchiodata sulla porta. Le gocce di sangue colavano sul legno, ancora fresche. Entrai. Guardai dietro la porta, ma non c'era nessuno. L'armadio era ancora scostato di lato. La corrente fredda e umida che usciva dal foro nel muro invadeva la stanza. Lasciai la lampada sul pavimento e appoggiai le mani sullo stucco ammorbidito che circondava il buco. Iniziai a grattare con le unghie e sentii che mi si sgretolava tra le dita. Cercai lì intorno e trovai un vecchio tagliacarte nel cassetto di uno dei tavolini ammucchiati nell'angolo. Infilai la lama nello stucco e cominciai a scavare. Il gesso si staccava con facilità. Lo strato non era spesso più di tre centimetri. In fondo c'era del legno. Una porta. Ne cercai i bordi con il tagliacarte e a poco a poco il contorno della porta si disegnò sul muro. A quel punto avevo già dimenticato la presenza incombente che avvelenava la casa e restava in agguato nell'ombra. La porta non aveva maniglia, solo una serratura arrugginita che era rimasta sepolta nel gesso rammollito da anni di umidità. Vi affondai la lama e cercai invano di forzarla. Cominciai a prenderla a calci finché lo stucco che sosteneva
la serratura si sbriciolò lentamente. Finii di liberare il meccanismo con il tagliacarte e, subito dopo, un semplice spintone buttò giù la porta. Una ventata di aria putrefatta esalò dall'interno, impregnandomi i vestiti e la pelle. Presi la lampada ed entrai. La stanza era un rettangolo di cinque o sei metri di profondità. I muri erano ricoperti da disegni e iscrizioni che sembravano fatti con le dita. Il tratto era di color marrone scuro. Sangue secco. Il pavimento era cosparso di ciò che all'inizio scambiai per polvere, ma quando abbassai la lampada si rivelarono frammenti di ossicini. Ossa di animali, spezzate in una marea di cenere. Dal soffitto pendevano innumerevoli oggetti legati a cordicelle nere. Riconobbi statuette religiose, immaginette di santi e madonne con il volto bruciato e gli occhi strappati via, crocifissi avvolti nel filo spinato e resti di giocattoli di latta e bambole dagli occhi di vetro. La figura era sul fondo, quasi invisibile. Una sedia rivolta verso l'angolo, sulla quale si distingueva un profilo. Vestiva di nero. Un uomo. Le mani erano ammanettate dietro la schiena. Uno spesso fil di ferro stringeva le sue membra alla sedia. Mi invase un freddo come non l'avevo mai provato fino a quel momento. «Salvador?» riuscii ad articolare. Avanzai lentamente verso di lui. La figura rimase immobile. Mi fermai a un passo da lei e allungai piano la mano. Le mie dita gli sfiorarono i capelli e si posarono sulla spalla. Cercai di far girare il corpo, ma sentii che qualcosa cedeva sotto le dita. Un secondo dopo averlo toccato mi sembrò di sentire un sussurro e il cadavere si dissolse in cenere, che si sparse tra i vestiti e i legacci di fil di ferro per poi innalzarsi in una nuvola di tenebre che restò a fluttuare fra i muri di quella prigione che l'aveva nascosto per anni. Contemplai il velo di cenere sulle mie mani e me le portai alla faccia, spargendomi sulla pelle i resti dell'anima di Ricardo Salvador. Quando aprii gli occhi, vidi che Diego Marlasca, il suo carceriere, aspettava sulla soglia della cella con il manoscritto per il principale in mano e il fuoco negli occhi. «L'ho letto mentre l'aspettavo, Martín» disse. «Un capolavoro. Il principale saprà ricompensarmi quando glielo consegnerò a nome suo. Riconosco di non essere stato capace di risolvere l'enigma. Mi sono fermato lungo la strada. Sono contento di vedere che il principale ha saputo trovare un successore con più talento di me.» «Si sposti.» «Mi dispiace, Martín. Creda, mi dispiace. Cominciavo a stimarla» disse estraendo dalla tasca quello che sembrava un manico d'avorio. «Ma non
posso lasciarla uscire da questa stanza. È ora che lei prenda il posto del povero Salvador.» Premette un bottone sul manico e una lama a doppio filo brillò nella penombra. Si scagliò su di me con un urlo di rabbia. La lama del coltello mi squarciò la guancia e mi avrebbe strappato l'occhio sinistro se non mi fossi spostato di lato. Caddi di spalle sul pavimento ricoperto di piccole ossa e di polvere. Marlasca afferrò il coltello con entrambe le mani e si lasciò cadere su di me, appoggiando tutto il suo peso sulla lama. La punta si fermò a un paio di centimetri dal mio petto, mentre con la mano destra stringevo Marlasca alla gola. Girò la faccia per mordermi il polso e gli sferrai un pugno sul viso con la sinistra. Quasi non fece una piega. Lo muoveva una rabbia al di là della ragione e del dolore, e capii che non mi avrebbe lasciato uscire vivo da quella cella. Si scagliò su di me con una forza incredibile. Sentii la punta del coltello che mi perforava la pelle. Lo colpii di nuovo con tutte le mie forze. Il mio pugno si schiantò sul suo volto e sentii rompersi il setto nasale. Il suo sangue m'impregnò le nocche della mano. Marlasca urlò ancora, indifferente al dolore, e mi affondò la lama di un centimetro nella carne. Una fitta di dolore mi percorse il petto. Lo colpii un'altra volta, cercandogli le orbite degli occhi con le dita, ma lui sollevò il mento e riuscii a conficcargli le unghie soltanto nella guancia. Stavolta sentii i suoi denti sulle dita. Gli affondai il pugno nella bocca, rompendogli le labbra e strappandogli diversi denti. Lo sentii urlare e il suo impeto si affievolì per un istante. Lo spinsi di lato e cadde a terra, il volto ridotto a una maschera di sangue tremante di dolore. Mi scostai da lui, pregando che non si rialzasse. Un secondo dopo si trascinò verso il coltello e cominciò a sollevarsi. Lo afferrò e si gettò su di me con un urlo assordante. Stavolta non mi colse di sorpresa. Riuscii ad afferrare il manico della lampada e gliela scagliai contro con tutte le mie forze. La lampada si schiantò sulla sua faccia e l'olio gli si rovesciò sugli occhi, le labbra, la gola e il petto. Prese fuoco all'istante. In un paio di secondi le fiamme stesero un manto che ricoprì tutto il suo corpo. I capelli svaporarono in un attimo. Vidi il suo sguardo d'odio attraverso le fiamme che gli divoravano le palpebre. Presi il manoscritto e uscii. Marlasca impugnava ancora il coltello quando cercò di seguirmi fuori da quella stanza maledetta e cadde bocconi sul mucchio di vestiti vecchi, che presero subito fuoco. Le fiamme raggiunsero il legno sta-
gionato dell'armadio e i mobili accatastati contro il muro. Fuggii verso il corridoio e lo vidi avanzare ancora alle mie spalle con le braccia tese, che cercava di raggiungermi. Mi portai di corsa verso la porta, ma prima di uscire mi fermai a osservare Diego Marlasca che si consumava tra le fiamme colpendo rabbiosamente le pareti che s'incendiavano quando le toccava. Il fuoco si propagò tra i libri sparpagliati in salotto e raggiunse le tende. Le fiamme si sparsero in serpenti di fuoco sul soffitto, lambendo le cornici di porte e finestre, strisciando per le scale dello studio. L'ultima immagine che ricordo è quella di quell'uomo maledetto che cadeva ginocchioni alla fine del corridoio, perdute ormai le vane speranze della sua follia e il corpo ridotto a una torcia di carne e di odio che fu inghiottita dalla tormenta di fiamme che si propagava senza rimedio per la casa della torre. Poi aprii la porta e corsi giù per le scale. Alcuni abitanti del quartiere si erano riuniti in strada quando avevano visto le prime fiamme spuntare dalle finestre. Nessuno fece caso a me mentre mi allontanavo giù per il vicolo. Dopo un po' sentii esplodere i vetri dello studio e mi voltai per vedere il fuoco ruggire e abbracciare la rosa dei venti a forma di drago. Qualche secondo dopo mi allontanai verso il paseo del Born camminando in senso contrario a una marea di persone che accorrevano guardando in alto, gli occhi catturati dallo sfavillio del falò che s'innalzava nel cielo nero. 25 Quella notte tornai per l'ultima volta alla libreria di Sempere e Figli. Alla porta era appeso un cartello con la scritta "Chiuso", ma quando mi avvicinai vidi che c'era ancora luce all'interno e che Isabella era dietro al bancone, sola, lo sguardo assorto in un grosso libro contabile che, a giudicare dall'espressione del suo viso, prometteva la fine dei giorni dell'antica libreria. Vedendola mordicchiare la matita e grattarsi la punta del naso con l'indice, seppi che finché ci fosse stata lei quel posto non sarebbe mai scomparso. La sua presenza l'avrebbe salvato, come aveva fatto con me. Non osai rovinare quell'istante e rimasi a guardarla senza che lei mi notasse, sorridendo tra me. All'improvviso, come se mi avesse letto nei pensieri, alzò gli occhi e mi vide. La salutai con la mano e notai che, suo malgrado, gli occhi le si riempivano di lacrime. Chiuse il libro e uscì di corsa da dietro il bancone per aprirmi la porta. Mi guardava come se non riuscisse a credere che fossi lì.
«Quell'uomo mi ha detto che lei era fuggito... Che non l'avremmo mai più rivista.» Immaginai che Grandes le avesse fatto una visita. «Voglio che sappia che non ho creduto a una sola parola di quello che mi ha raccontato» disse Isabella. «Mi faccia avvertire...» «Non ho molto tempo, Isabella.» Mi guardò, abbattuta. «Se ne va, vero?» Annuii. Isabella deglutì. «Le ho già detto che non mi piacciono gli addii.» «A me ancora meno. Per questo non sono venuto a dirti addio. Sono venuto a restituire un paio di cose che non mi appartengono.» Tirai fuori la copia dei Passi del cielo e gliela diedi. «Questa non sarebbe mai dovuta uscire dalla vetrina con la collezione privata del signor Sempere.» Isabella la prese e, vedendo la pallottola ancora imprigionata fra le pagine, mi guardò senza dire nulla. Allora tirai fuori la busta bianca con le quindicimila pesetas con cui il vecchio Vidal aveva tentato di comprare la mia morte e la lasciai sul bancone. «E questa è per tutti i libri che Sempere mi ha regalato in questi anni.» Isabella l'aprì e contò il denaro, attonita. «Non so se posso accettarlo...» «Consideralo il mio regalo di nozze, in anticipo.» «E io che avevo ancora speranze che un giorno lei mi portasse all'altare, anche se solo come padrino.» «Niente mi avrebbe fatto più piacere.» «Ma deve andarsene.» «Sì.» «Per sempre.» «Per un po' di tempo.» «E se vengo con lei?» La baciai sulla fronte e l'abbracciai. «Dovunque vada, tu sarai sempre con me, Isabella. Sempre.» «Non penso di sentire la sua mancanza.» «Lo so.» «Posso almeno accompagnarla al treno o a quello che è?» Esitai troppo a lungo per rifiutare quegli ultimi minuti in sua compagnia. «Per essere sicura che se ne va davvero e che mi sono liberata di lei per
sempre» aggiunse. «Affare fatto.» Scendemmo lentamente per le Ramblas, con Isabella che mi teneva il braccio. Arrivati in calle del Arc del Teatre, imboccammo il vicolo scuro che si faceva strada attraverso il Raval. «Isabella, quello che vedrai stanotte non potrai raccontarlo a nessuno.» «Nemmeno al mio Sempere junior?» Sospirai. «Certo che sì. A lui puoi raccontare tutto. Con lui non abbiamo quasi segreti.» Aprendo la porta, Isaac, il guardiano, ci sorrise e si tirò da parte. «Era ora che avessimo una visita importante» disse, facendo una riverenza a Isabella. «Immagino che preferisca fare lei da guida, Martín.» «Se non le spiace.» Isaac annuì e mi tese la mano. Gliela strinsi. «Buona fortuna» disse. Il guardiano si ritirò nell'ombra, lasciandomi solo con Isabella. La mia ex assistente e fiammante nuova direttrice di Sempere e Figli osservava tutto con una mescola di meraviglia e apprensione. «Che specie di posto è questo?» domandò. La presi per mano e lentamente la guidai per il resto del tragitto fino ad arrivare alla grande sala che ospitava l'ingresso. «Benvenuta al Cimitero dei Libri Dimenticati, Isabella.» Isabella alzò lo sguardo verso la cupola di vetro e si perse in quella visione impossibile di fasci di luce bianca che tempestavano una babele di tunnel, passerelle e ponti tesi verso le viscere di quella cattedrale fatta di libri. «Questo posto è un mistero. Un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi, ha un'anima. L'anima di chi lo ha scritto e di quelli che lo hanno letto e vissuto e sognato. Ogni volta che un libro cambia di mano, ogni volta che qualcuno fa scorrere lo sguardo sulle sue pagine, il suo spirito cresce e si rafforza. In questo posto i libri che nessuno più ricorda, i libri che si sono perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa di arrivare tra le mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito...» Più tardi lasciai Isabella ad aspettare all'ingresso del labirinto e mi ad-
dentrai da solo nelle gallerie con in mano quel manoscritto maledetto che non avevo avuto il coraggio di distruggere. Sperai che i miei passi mi guidassero a trovare il posto in cui dovevo seppellirlo per sempre. Svoltai a mille angoli fino a credere di essermi perso. Poi, quando ebbi la certezza di aver già fatto quello stesso percorso dieci volte, capitai all'ingresso della stanzetta dove mi ero ritrovato di fronte al mio stesso riflesso, in quel piccolo specchio in cui lo sguardo dell'uomo vestito di nero era sempre presente. Avvistai un vuoto tra due dorsi di cuoio nero e, senza pensarci, ci infilai la cartellina del principale. Stavo per andarmene quando mi voltai e mi avvicinai di nuovo allo scaffale. Presi il volume accanto al quale avevo confinato il manoscritto e lo aprii. Mi bastò leggere un paio di frasi per sentire un'altra volta quella risata cupa alle mie spalle. Lo rimisi a posto e ne presi un altro a caso, dandogli una rapida occhiata. Ne presi un altro e poi un altro, e così via di seguito fino a esaminare decine di volumi stipati nella stanza e a verificare che tutti contenevano diverse scritte con le stesse parole, che erano oscurati dalle stesse immagini e che la stessa favola si ripeteva come un pas de deux in un'infinita galleria di specchi. Lux Aeterna. Uscendo dal labirinto, trovai Isabella che mi aspettava seduta su un gradino con il libro che aveva scelto tra le mani. Mi sedetti accanto a lei e Isabella mi appoggiò la testa sulla spalla. «Grazie per avermi portato qui» disse. Capii allora che non avrei mai più rivisto quel posto, che ero condannato a sognarlo e a scolpire il suo ricordo nella mia memoria, sapendomi fortunato per aver potuto percorrerne i corridoi e sfiorarne i misteri. Chiusi gli occhi un istante e lasciai che quell'immagine mi s'incidesse per sempre nella mente. Poi, senza osare guardare di nuovo, presi per mano Isabella e mi diressi all'uscita lasciandomi per sempre alle spalle il Cimitero dei Libri Dimenticati. Isabella mi accompagnò fino al molo dove mi aspettava la nave che mi avrebbe portato lontano da quella città e da tutto quanto avevo conosciuto. «Come ha detto che si chiama il capitano?» domandò Isabella. «Caronte.» «Non è divertente.» L'abbracciai per l'ultima volta e la guardai negli occhi in silenzio. Lungo la strada eravamo rimasti d'accordo che non ci sarebbero stati addii, né parole solenni né promesse da mantenere. Quando le campane di Santa Maria
del Mar batterono la mezzanotte salii a bordo. Il capitano Olmo mi diede il benvenuto e si offrì di accompagnarmi nella mia cabina. Gli dissi che preferivo aspettare. L'equipaggio mollò gli ormeggi e lentamente lo scafo si separò dal molo. Mi appostai a poppa, contemplando la città che si allontanava in una marea di luci. Isabella rimase lì, immobile, i suoi occhi nei miei, finché il molo si perse nell'oscurità e il grande miraggio di Barcellona sprofondò nelle acque buie. A una a una le luci della città si spensero in lontananza e capii che avevo già iniziato a ricordare. EPILOGO 1945 Sono passati quindici lunghi anni dalla notte in cui fuggii per sempre dalla città dei maledetti. Per molto tempo la mia è stata un'esistenza di assenze, senz'altro nome né presenza se non quella di un estraneo itinerante. Ho avuto cento nomi e altrettanti mestieri: nessuno di loro era il mio. Sono scomparso in città infinite e in villaggi così piccoli che nessuno lì aveva più passato né futuro. In nessun posto mi sono fermato più del necessario. Più prima che poi, fuggivo di nuovo, senza avvisare, lasciando solo un paio di libri vecchi e qualche vestito di seconda mano in stanze lugubri in cui il tempo non aveva pietà e il ricordo bruciava. Non ho avuto altra memoria se non l'incertezza. Gli anni mi hanno insegnato a vivere nel corpo di un estraneo che non sapeva se aveva commesso quei crimini che poteva ancora fiutare sulle proprie mani, se aveva perduto la ragione ed era condannato a vagare per il mondo in fiamme che aveva sognato, in cambio di qualche moneta e della promessa di prendersi gioco di una morte che adesso gli sembrava la più dolce delle ricompense. Molte volte mi sono chiesto se la pallottola che l'ispettore Grandes mi aveva sparato al cuore non avesse attraversato le pagine del libro, se non fossi stato io a morire in quella cabina sospesa in aria. Nei miei anni di pellegrinaggio ho visto l'inferno promesso nelle pagine scritte per il principale acquistare vita al mio passaggio. Mille volte sono fuggito dalla mia stessa ombra, sempre guardandomi alle spalle, sempre aspettandomi di trovarla girato l'angolo, dall'altra parte della strada o ai piedi del letto nelle ore interminabili che precedevano l'alba. Non ho mai permesso a nessuno di frequentarmi abbastanza a lungo da chiedermi perché non invecchiavo, perché non si aprivano rughe sul mio viso, perché il mio riflesso era lo stesso della notte in cui avevo lasciato Isabella sul molo
di Barcellona e non era un minuto più vecchio. C'è stato un tempo in cui ho creduto di aver esaurito tutti i nascondigli del mondo. Ero così stanco di avere paura, di vivere e morire di ricordi, che mi sono fermato lì dove finiva la terra e iniziava un oceano che, come me, si sveglia ogni giorno uguale a quello precedente, e ci sono rimasto. Oggi è un anno che sono arrivato qui e ho recuperato il mio nome e il mio mestiere. Ho comprato questo vecchio capanno sulla spiaggia, poco più di una tettoia che divido con i libri lasciati dal vecchio proprietario e una macchina per scrivere che mi piace credere potrebbe essere la stessa con cui avevo scritto centinaia di pagine che non saprò mai se qualcuno ricorda. Dalla mia finestra vedo un piccolo molo di legno che si protende in mare e, legata alla sua estremità, la barca che era in vendita assieme alla casa, una barchetta con cui a volte esco in mare fino alla scogliera su cui le onde s'infrangono e dove la costa quasi scompare dalla vista. Non avevo più scritto fin quando sono arrivato qui. La prima volta che ho infilato un foglio in macchina e ho messo le mani sulla tastiera, ho temuto di non essere in grado di comporre un solo rigo. Ho scritto le prime pagine di questa storia durante la mia prima notte nel capanno sulla spiaggia. Ho scritto fino all'alba, come ero solito fare anni fa, senza sapere ancora per chi la stessi scrivendo. Di giorno camminavo lungo la spiaggia o mi sedevo sul molo di legno davanti al capanno - una passerella tra il cielo e il mare - a leggere i mucchi di giornali vecchi che avevo trovato in uno degli armadi. Nelle loro pagine c'erano storie di guerra, del mondo in fiamme che avevo sognato per il principale. È stato così, leggendo quegli articoli sulla guerra in Spagna e poi in Europa e nel mondo, che ho deciso: non avevo più niente da perdere e l'unica cosa che desideravo era sapere se Isabella stava bene e se magari si ricordava ancora di me. O forse volevo solo sapere se era ancora viva. Ho scritto quella lettera indirizzata all'antica libreria Sempere e Figli in calle Santa Ana di Barcellona che ci avrebbe messo settimane o mesi ad arrivare, sempre che fosse arrivata, a destinazione. Come mittente ho messo Mr Rochester, sapendo che se la lettera fosse finita tra le sue mani Isabella avrebbe saputo di chi si trattava e, se lo desiderava, avrebbe potuto lasciarla chiusa e dimenticarmi per sempre. Per mesi ho continuato a scrivere questa storia. Ho rivisto il volto di mio padre e mi sono aggirato di nuovo nella redazione della "Voz de la Industria" sognando di emulare il grande Pedro Vidal. Ho rivisto per la prima volta Cristina Sagnier e sono rientrato nella casa della torre per sprofonda-
re nella follia che aveva consumato Diego Marlasca. Scrivevo da mezzanotte all'alba senza tregua, sentendomi vivo per la prima volta da quando ero scappato dalla città. La lettera è arrivata un giorno di giugno. Il postino aveva fatto scivolare la busta sotto la porta mentre dormivo. Era indirizzata a Mr Rochester e come mittente c'era, semplicemente, Sempere e Figli, Barcellona. Per diversi minuti mi sono aggirato per il capanno, senza osare aprirla. Alla fine sono andato a sedermi in riva al mare a leggerla. La lettera conteneva un foglio e una seconda busta, più piccola. Sulla seconda busta, invecchiata, c'era soltanto il mio nome, David, in una calligrafia che non avevo dimenticato nonostante tutti gli anni in cui l'avevo persa di vista. Nella lettera, Sempere figlio mi raccontava che lui e Isabella, dopo diversi anni tormentati di fidanzamento, si erano sposati il 18 gennaio 1935 nella chiesa di Santa Ana. La cerimonia, contro ogni previsione, era stata celebrata dal novantenne sacerdote che aveva pronunciato il commiato funebre ai funerali del signor Sempere e che, nonostante tutti i tentativi del vescovado, recalcitrava a morire a continuava a fare le cose alla sua maniera. Un anno dopo, qualche giorno prima che scoppiasse la guerra civile, Isabella aveva dato alla luce un maschietto che si sarebbe chiamato Daniel Sempere. Gli anni terribili della guerra avevano portato ogni specie di ristrettezze e poco dopo la fine del conflitto, in quella pace nera e maledetta che avrebbe avvelenato la terra e il cielo per sempre, Isabella aveva preso il colera ed era morta tra le braccia del marito nell'appartamento sopra la libreria. L'avevano seppellita al Montjuïc il giorno del quarto compleanno di Daniel sotto una pioggia che era durata due giorni e due notti, e quando il piccolo aveva chiesto al padre se il cielo piangesse a lui era mancata la voce per rispondergli. La busta a mio nome conteneva una lettera che Isabella mi aveva scritto nei suoi ultimi giorni di vita. Aveva fatto giurare al marito di recapitarmela se fosse venuto a sapere dove mi trovavo. Caro David, a volte mi sembra di avere iniziato a scriverle questa lettera tanti anni fa e di non essere stata ancora capace di finirla. È passato molto tempo da quando l'ho vista per l'ultima volta, sono successe molte cose terribili e meschine, eppure non c'è giorno in cui non mi ricordi di lei e non mi chieda dov'è, se ha trovato pace, se sta scrivendo, se è diventato un vecchio brontolone, se è innamorato
o se si ricorda di noi, della piccola libreria di Sempere e Figli e della peggior assistente che abbia mai avuto. Temo che lei se ne sia andato senza avermi insegnato a scrivere e non so nemmeno da dove iniziare a mettere in parole tutto quello che vorrei dirle. Mi piacerebbe che sapesse che sono stata felice, che grazie a lei ho trovato un uomo che ho amato e che mi ha amato, e che insieme abbiamo avuto un figlio, Daniel, a cui parlo sempre di lei e che ha dato un senso alla mia vita che nemmeno tutti i libri del mondo potrebbero neanche cominciare a spiegare. Nessuno lo sa, però a volte torno ancora su quel molo dal quale l'ho vista partire per sempre e mi siedo un po', da sola, ad aspettare, come se credessi che lei sta per tornare. Se lo facesse, vedrebbe che, nonostante tutto quello che è successo, la libreria è ancora aperta, il terreno su cui sorgeva la casa della torre è ancora abbandonato, tutte le menzogne dette su di lei sono state dimenticate e in queste strade ci sono tante persone con l'anima talmente macchiata di sangue che non osano più ricordare e quando lo fanno mentono a se stesse, perché non possono nemmeno guardarsi allo specchio. In libreria continuiamo a vendere i suoi libri, ma di nascosto, perché adesso sono stati dichiarati immorali e il paese si è riempito di gente desiderosa di distruggere e bruciare libri piuttosto che di leggerli. Sono brutti tempi e spesso credo che se ne avvicinino di peggiori. Mio marito e i dottori credono di ingannarmi, ma io so che mi resta poco tempo. So che morirò presto e che quando lei riceverà questa lettera io non ci sarò più. Per questo volevo scriverle, per farle sapere che non ho paura, che il mio unico dispiacere è lasciare un uomo buono che mi ha dato la sua vita e il mio Daniel soli in un mondo che ogni giorno mi sembra più simile a come lei diceva che fosse, e non a come io volevo credere che potesse essere. Volevo scriverle perché sapesse che, nonostante tutto, ho vissuto e sono grata per il tempo che ho trascorso qui, grata di averla conosciuta e di essere stata sua amica. Volevo scriverle perché mi piacerebbe che mi ricordasse e che, un giorno, se lei ha qualcuno come io ho il mio piccolo Daniel, gli parlasse di me e con le sue parole mi facesse vivere per sempre. Le vuole bene Isabella
Giorni dopo aver ricevuto quella lettera seppi di non essere solo sulla spiaggia. Avvertii la sua presenza nella brezza dell'alba, ma non volli o non potei fuggire di nuovo. Accadde un pomeriggio, quando mi ero seduto a scrivere davanti alla finestra mentre aspettavo che il sole calasse all'orizzonte. Sentii i passi sulle tavole di legno del molo e lo vidi. Il principale, vestito di bianco, camminava lentamente lungo il molo e teneva per mano una bambina di sette o otto anni. Riconobbi l'immagine all'istante, quella vecchia foto che Cristina aveva custodito per tutta la vita senza sapere da dove provenisse. Il principale si avvicinò alla fine del molo e si accovacciò accanto alla bambina. Contemplarono entrambi il sole che si spargeva sull'oceano in un'infinita lamina d'oro incandescente. Uscii dal capanno e avanzai lungo il molo. Quando arrivai all'estremità, il principale si voltò e mi sorrise. Sul suo viso non c'era minaccia né rancore, appena un'ombra di malinconia. «Mi è mancato, amico mio» disse. «Mi sono mancate le nostre conversazioni, perfino le nostre piccole controversie...» «È venuto a regolare i conti?» Il principale sorrise e scosse lentamente la testa. «Tutti commettiamo errori, Martín. Io per primo. Le ho rubato ciò che più amava. Non l'ho fatto per ferirla. L'ho fatto per paura. Paura che lei l'allontanasse da me, dal nostro lavoro. Mi sbagliavo. Ci ho messo un po' di tempo a riconoscerlo, ma se c'è una cosa che non mi manca è proprio il tempo.» L'osservai con attenzione. Il principale, come me, non era invecchiato di un solo giorno. «Cosa è venuto a fare, allora?» Si strinse nelle spalle. «Sono venuto a dirle addio.» Il suo sguardo si concentrò sulla bambina che teneva per mano e che mi guardava con curiosità. «Come ti chiami?» le domandai. «Cristina» disse il principale. Lo guardai negli occhi e annuì. Sentii il sangue che mi si gelava. Potevo solo intuire i lineamenti, ma lo sguardo era inconfondibile. «Cristina, saluta il mio amico David. Da adesso vivrai con lui.» Scambiai uno sguardo con il principale, ma non dissi nulla. La bambina mi allungò la mano, come se avesse provato quel gesto mille volte, e rise
piena di vergogna. Mi chinai verso di lei e gliela strinsi. «Ciao» mormorò. «Molto bene, Cristina» approvò il principale. «E che altro?» La bambina annuì, ricordando di colpo. «Mi hanno detto che lei è un fabbricante di storie e di racconti.» «Uno dei migliori» aggiunse il principale. «Ne farà uno per me?» Esitai qualche secondo. La bambina guardò il principale, inquieta. «Martín?» mormorò lui. «Certo» dissi alla fine. «Ti farò tutti i racconti che vorrai.» La bambina sorrise e, avvicinandosi, mi baciò sulla guancia. «Perché non vai in spiaggia e aspetti lì mentre saluto il mio amico, Cristina?» domandò il principale. Cristina annuì e si allontanò lentamente, girandosi a guardare a ogni passo e sorridendo. Al mio fianco, la voce del principale sussurrò la sua maledizione eterna con dolcezza. «Ho deciso di restituirle ciò che ha amato di più e che le ho rubato. Ho deciso che per una volta lei si metterà al mio posto e sentirà ciò che io sento, non invecchierà di un solo giorno e vedrà crescere Cristina, si innamorerà di lei ancora una volta, la vedrà invecchiare al suo fianco e un giorno la vedrà morire fra le sue braccia. Questa è la mia benedizione e la mia vendetta.» Chiusi gli occhi, scuotendo la testa fra me. «Questo è impossibile. Non sarà mai la stessa.» «Dipenderà solo da lei, Martín. Le consegno una pagina bianca. Questa storia non mi appartiene più.» Sentii i suoi passi che si allontanavano e quando riaprii gli occhi il principale non c'era più. Cristina, ai piedi del molo, mi osservava attenta. Le sorrisi e lei si avvicinò lentamente, esitante. «Dov'è il signore?» domandò. «Se n'è andato.» Cristina si guardò intorno, l'infinita spiaggia deserta in entrambe le direzioni. «Per sempre?» «Per sempre.» Cristina sorrise e si sedette accanto a me. «Ho sognato che eravamo amici» disse. La guardai e annuii.
«E siamo amici. Lo siamo sempre stati.» Rise e mi prese la mano. Indicai, davanti a noi, il sole che sprofondava in mare, e Cristina lo contemplò con le lacrime agli occhi. «Me ne ricorderò un giorno?» chiese. «Un giorno.» Allora seppi che avrei dedicato ogni minuto che ci restava da passare insieme a renderla felice, a riparare al male che le avevo fatto e a restituirle ciò che non avevo mai saputo darle. Queste pagine saranno la nostra memoria fino a quando il suo ultimo respiro si spegnerà fra le mie braccia e l'accompagnerò al largo, dove s'infrangono le onde, per immergermi con lei per sempre e poter finalmente fuggire dove né il cielo né l'inferno potranno mai trovarci. FINE