IL MEGLIO DI WEIRD TALES VOLUME 1° LA VALLE DEGLI ASSASSINI e altri racconti (1987) a cura di GIANNI PILO INDICE UN PROL...
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IL MEGLIO DI WEIRD TALES VOLUME 1° LA VALLE DEGLI ASSASSINI e altri racconti (1987) a cura di GIANNI PILO INDICE UN PROLOGO NECESSARIO di Gianni Pilo LA VALLE DEGLI ASSASSINI di Edmond Hamilton LA SIGNORA IN GRIGIO di Donald Wandrei IL RONDACHE DI LEONARDO di Manly Wade Wellmann NEL BUIO di Ronal Kayser OMBRE DI FANTASMI di Clarence Edwin Flynn GLI ASSASSINI E LA VITTIMA di August Derleth MORTE IN VENTI MINUTI di Charles Henry MacKintosh POZIONE MORTALE di Eando Binder IL DIARIO DI PHILIP WESTERLY di Paul Compton LA MORUADH di Seabury Quinn IL MONDO DEGLI ABITATORI OSCURI di Edmond Hamilton UN PROLOGO NECESSARIO Non abbiate timore. Sapete bene che non è mia abitudine dilungarmi in introduzioni lunghe che possano sottrarre del tempo prezioso alla lettura delle pagine che seguono. Anche questa volta quindi, non defletterò dalla norma, salvo quel tanto che basta per darvi un'idea generale dei criteri cui si ispira questa collana, del motivo di questa scelta, e dei testi e degli autori che vi presenterò di volta in volta. Sulla nostra collana Enciclopedia della Fantascienza, ho avuto modo di presentarvi in questi ultimi anni ben quattro volumi dedicati a Weird Tales, per un totale complessivo di oltre cento racconti. L'accoglienza che gli appassionati hanno tributato a questi libri è stata a dir poco entusiastica, tant'è che i primi due volumi di questa quaterna sono andati esauriti, mentre degli ultimi due ne restano solo pochissime copie. Ma il favore dei lettori verso questo tipo di narrativa si è concretizzato non solo nell'acquisto puro e semplice dei diversi libri, bensì in una serie
veramente ragguardevole di lettere che, mentre si complimentavano per i testi offerti, chiedevano a gran voce una maggior frequenza degli stessi. Ora, chi di voi conosce le nostre collane, sa bene che quella dell'Enciclopedia della Fantascienza presenta tutta una serie di tematiche diverse delle quali quella di Weird Tales era solo una delle tante, per cui non era certo possibile dedicare tutta la collana ad un solo tema. Di qui il motivo che mi ha spinto a creare una serie autonoma, dotata di una cadenza mensile, in modo da poter venire incontro alle vostre richieste che, come ben sapete, sono quelle che hanno sempre determinato le mie scelte relativamente ai libri che ho pubblicato. Sono sempre stato infatti dell'idea che un Direttore Editoriale deve offrire ai lettori solo quello che gradiscono leggere, e non già pensare di fare operazioni del tipo «educazione del lettore» o altre piacevolezze consimili le quali, oltre a dimostrare una scarsa stima delle capacità critiche e culturali di chi legge, denotano una presunzione ed una supponenza che io giudico del tutto fuor di luogo nella figura di un Direttore Editoriale serio e competente. Ed è appunto nell'ottica della realizzazione dei vostri desideri, che ho dato il via a questa collana. Che dire di Weird Tales in generale? Sui quattro volumi dell'Enciclopedia della Fantascienza cui ho fatto cenno prima, c'è tutta una serie di saggi approfonditi che prendono in esame questa Rivista sotto il profilo storico, quello critico, quello sentimentale (si, perché Weird Tales la si ama incondizionatamente), e sono frutto della penna di critici di valore quali Giuseppe Lippi e Domenico Cammarota, oltre a un saggio sugli illustratori che ho scritto io. Insomma, tutto quello che si poteva dire è stato detto, ed in modo egregio, per cui non mi sembra davvero opportuno dilungarmi in inutili doppioni di quanto probabilmente avrete già letto. Al caso, se per ventura qualcuno di voi non dovesse ancora aver preso visione di questi volumi, lo consiglio caldamente ad affrettarsi ad acquistarli, non solo per avere un inquadramento critico/saggistico di Weird Tales, ma per non rimanere privo di quei cento racconti della Rivista che sono compresi in quei libri e che, ovviamente, non ristamperemo in questa serie. Infatti, io sono del parere di pubblicare sempre e soltanto materiale inedito, vuoi perché non c'è niente di peggio che aprire un libro e leggere che quanto è contenuto al suo interno lo si è già letto (magari con un altro titolo...), vuoi perché il materiale apparso su Weird Tales è talmente vasto che non basteranno anni ed anni per riproporlo tutto. Non dobbiamo infat-
ti dimenticare che, nella sua lunga vita, Weird Tales uscì con ben 289 numeri e, se considerate che ognuno di questi numeri - convertito in pagine delle nostre - equivale ad un volume dell'Enciclopedia della Fantascienza di 400 pagine, siete tranquillamente in grado di fare da voi i calcoli di quanto tempo ci vorrebbe per ristamparla tutta... Non mettiamo comunque limiti a... quanto si verificherà in futuro, e per ora dedichiamoci a questa nuova serie della quale LA VALLE DEGLI ASSASSINI che avete per le mani costituisce il primo numero. Come ho avuto modo di dirvi prima, la vita di Weird Tales è stata lunghissima, e questo ha comportato la presenza sulle sue pagine di un numero semplicemente infinito di autori. Di questi, molti hanno continuato a scrivere anche dopo la chiusura della Rivista, per cui il loro nome è stato conosciuto dalle successive generazioni di appassionati del fantastico, ma di molti altri se ne è persa notizia. E questo, badate bene, non è dovuto al fatto che fossero meno validi dei loro colleghi, ma da tutta una serie di altre cause assai ovvie. Per alcuni infatti, l'apparizione sulle pagine di Weird Tales si è trattato di un episodio assolutamente isolato e del tutto privo di quella che è la cosiddetta «velleità dello scrittore»; per altri, dopo la stesura di alcuni racconti, è sopravvenuto l'inserimento nel tessuto sociale del Paese d'origine, con relativo impiego, famiglia, e via dicendo. Altri ancora, pur continuando a scrivere, hanno preso indirizzi diversi da quelli della narrativa fantastica: alcuni sono diventati giornalisti, altri sceneggiatori, altri scrittori di gialli, ed alcuni sono persino diventati commediografi. Insomma un campionario assai vario, e comunque perfettamente giustificato dalla gran quantità di persone che Weird Tales ha proposto. Un altro fattore ha contribuito a far cadere nell'oblio la gran parte dei racconti e romanzi apparsi su Weird Tales. Questo fattore è la quantità veramente enorme di nuovi romanzi di fantascienza e fantasy che appaiono ogni anno negli Stati Uniti (una media di 1.500 titoli), per cui i lettori hanno già difficoltà notevoli nello stare dietro a quanto di nuovo viene pubblicato: non dimenticate che, se nell'arco dell'anno non siete riusciti a leggere tutti i titoli usciti (basta che leggiate solo cinque romanzi al giorno...), già incalzano i successivi 1.500 titoli dell'anno successivo, e così via... Né dobbiamo dimenticare la difficoltà nel reperimento dei fascicoli originali di Weird Tales. Dovete infatti sapere che, in tutto il mondo, ci sono soltanto cinque - diconsi cinque - collezioni complete di questa Rivista, per cui è facile intuire come sia stato sempre arduo procurarsi i testi originali
da poter ristampare. A titolo di cronaca, vi dirò che le quotazioni dei fascicoli di Weird Tales si aggirano su i 1.500 dollari a fascicolo, comprendendo quelli degli ultimi anni che sono quotati 500 dollari ed i primi che salgono a cifre letteralmente astronomiche. L'amico Ackermann, che è indubbiamente la persona al mondo più fornita di questo tipo di materiale, mi ha detto che due anni orsono ha portato personalmente ad un appassionato giapponese il primo numero di Weird Tales, che questi aveva acquistato per la modica somma di 25.000 dollari! Dunque, per venire al contenuto dei fascicoli di questa serie, vi dirò che il materiale che vi presenterò sarà esclusivamente tratto dalla Rivista americana originale, senza alcuna concessione a testi di saggistica, di commento, introduzioni, et similia. Vi saranno racconti, lunghi e brevi, poesie, e romanzi, si romanzi, perché dovete sapere che era abitudine di Weird Tales presentare dei romanzi a puntate nell'arco di diversi numeri. Noi ovviamente non adotteremo lo stesso criterio, nel senso che i romanzi verranno presentati in una soluzione unica e senza dover ricorrere a suddivisioni in puntate che penso non vi trovino molto favorevoli. Gli autori. E qui ci sarebbe veramente da parlare per pagine e pagine. Infatti, a parte I Tre Moschettieri di Weird Tales, ossia Howard P. Lovecraft, Clark Ashton Smith e Robert Howard, la Rivista annovera tra le sue pagine una schiera veramente sterminata di scrittori, che vanno da Jack Williamson a Edmond Hamilton, da Henry Kuttner a Robert Bloch, da E. Hoffmann Price a G. G. Pendarves, a Mary Elizabeth Counselman, e così via dicendo. Ma questi sono nomi che tutti voi conoscete benissimo. Quello che invece costituirà per voi una piacevole sorpresa, saranno i nomi di autori che non vi sono assolutamente noti, e che invece ai tempi della loro pubblicazione su Weird Tales erano i beniamini del pubblico. Mi riferisco a Seabury Quinn, il quale ha pubblicato ben 97 racconti del Ciclo di Jules De Grandin (un investigatore francese che vi diventerà molto simpatico); a Eando Binder, il cui nome cela le iniziali dei due fratelli Earl e Otto; a Thorp McClusky, a Greye La Spina, a Bassett Morgan... e qui mi fermo perché mi sembra di compilare un elenco telefonico o qualcosa di simile. Questi sono racconti del mistero, del bizzarro, del sovrannaturale: vi sono anche componenti fantascientifiche ma, quello che li caratterizza in maniera del tutto esclusiva è l'inusualità e l'estrema diversificazione dei temi trattati di volta in volta. Sono racconti che possono piacere agli appassionati del fantastico, della fantascienza, del gotico, ma sono racconti
che possono piacere anche al lettore di narrativa normale, ed è proprio questo il motivo per il quale riscontrano tanto favore in un numero così grande di lettori. Soprattutto sono racconti diversi. E in un periodo in cui la ripetitività fa capolino in tutti i settori della narrativa (compresa ovviamente quella mainstream), la loro originalità, unita a quell'atmosfera caratteristica ed irripetibile degli Anni Trenta, costituisce il motivo per il quale avvincono ed affascinano. Gianni Pilo Edmond Hamilton LA VALLE DEGLI ASSASSINI The Valley of the Assassins novembre 1943 I Mark Stanton ebbe un brutto presentimento quando udì il coro distante di urla provenienti dai suoi operai indigeni. Era di terrore puro quell'urlo che si alzava da un centinaio di lavoratori persiani. «Il Pavone della Morte!» gridavano in iraniano. «È il Segno dei Figli dell'Assassinio!» «I Figli dell'Assassinio?» ripeté Stanton. «Che diavolo gli è preso ora? Andiamo, Billy.» Il giovane ingegnere capo americano si affrettò lungo i binari battuti dal sole. La sua figura robusta, muscolosa, era stimolata da un'ansia che si rispecchiava nel volto quadrato e abbronzato e negli occhi neri e duri. Billy Bradley, il suo giovane assistente nel lavoro di manutenzione di quella sezione della Ferrovia Trans-Iraniana, lo seguì rapidamente lungo la curva segnata dai binari, verso la fonte di quelle urla di terrore. I binari serpeggiavano tra i precipizi delle tremende Montagne Elburz, quella catena imponente le cui cime e le cui pareti non segnate su nessuna carta geografica, separano l'Iran settentrionale dal Mar Caspio. Pareti enormi e rocciose si alzano misteriose verso la cima dominante del Demavend. Questo territorio selvaggio era una delle regioni meno conosciute di tutto il Medio Oriente, in realtà, di tutta l'Asia. E quei binari, che attraversavano gli spaventosi valichi fino al Mar Caspio, costituivano la rete ferro-
viaria più importante e vitale del mondo. Era la via birmana della Russia: l'unica strada lungo la quale potevano affluire le munizioni inglesi e americane all'Unione Sovietica impegnata nella guerra. Perciò c'erano degli ingegneri americani a controllare che quel tratto funzionasse. Mark Stanton pensava con ansia mentre correva: «Se gli operai smettono di lavorare ora, non riusciremo mai a sgomberare i binari dalla frana. E non potrà passare nemmeno un treno finché non lo avremo fatto!» «Sembrano spaventati a morte,» mormorò il giovane Billy Bradley mentre percorrevano la curva. «Ma che cosa è successo, ad ogni modo?» Stanton e il suo assistente erano giunti in vista della frana catastrofica che aveva bloccato per una settimana tutto il traffico sulla ferrovia. La grande massa di rocce che ostruiva la gola non era più molto grande, perché gli operai persiani si erano affaticati per sei giorni a rimuoverla. Ma i persiani dai volti scuri non lavoravano con piccone e pala in quel momento. Avevano gettato gli attrezzi e si accalcavano terrorizzati, cercando di fuggire lungo i binari verso l'accampamento. La figura alta e allampanata di Angus McLachlan, il secondo ingegnere, scozzese, li tratteneva. Stanton gridò in persiano alla folla dai vestiti bianchi e dai volti scuri: «Ritornate al vostro posto! Che cosa vi è saltato in mente? È per questo che vi viene dato un salario triplo?» «Non lavoreremo più in questo posto, khan!» strillò un persiano terrorizzato che si trovava alla testa del gruppo. «L'ombra della morte si stende su questo luogo. I Figli dell'Assassinio ci hanno dato l'avvertimento di andarcene.» «I Figli dell'Assassinio? Ma di che cosa parlate?» chiese Stanton. «Gli Assassini!» urlò un altro persiano. Il suo volto era grigio per il terrore. La folla ondeggiò in avanti, guidata da quell'uomo. Il pesante pugno di Stanton colpì il capo del persiano sulla mascella, e l'uomo si abbatté a terra. Gli altri si fermarono. «Chiunque altro tenti di abbandonare il proprio lavoro, riceverà lo stesso trattamento,» promise Stanton. Gli uomini lo guardarono con astio, mormorarono qualcosa, e si girarono a guardare l'ammasso di rocce con il terrore sui volti. Fizar Khan, l'ufficiale persiano di mezza età che era assegnato all'accampamento di Stanton, arrivò di corsa. Aveva un'aria preoccupata. «Che cosa è accaduto qui?» chiese in fretta. «Si, che diavolo li ha sconvolti in questo modo, Mac?» chiese Stanton al
secondo ingegnere. L'allampanato scozzese si strinse nelle spalle ossute: il volto scarno era cupo. Sputò con disprezzo a terra. «Ah, questi uomini sono pazzi,» brontolò McLachlan. «Sono venuti qui con me a lavorare come ogni mattina. Poi sono usciti fuori di senno, perché hanno visto quell'uccello.» Indicò la creatura che era il centro degli sguardi terrorizzati degli operai persiani. Sulle rocce che bloccavano i binari era appollaiato un pavone nero di dimensioni insolite. L'uccello era legato alla roccia da una corda attaccata ad una zampa. Agitava la grande coda come per la rabbia, ed emetteva un grido acuto. Al di sotto dell'uccello, sulla roccia, era scarabocchiato uno strano simbolo cabalistico in un rosso brillante. Il volto olivastro di Fizar Khan divenne giallastro. «Inshallah!» mormorò con voce rauca. «È l'avvertimento degli Assassini!» «Che cos'è questa storia degli Assassini?» chiese sorpreso Billy Bradley. «Perché quel pavone spaventa gli uomini?» Fizar Khan deglutì e alzò uno sguardo timoroso alle cime imponenti e misteriose. «È qualcosa di oscuro che appartiene al passato della Persia. Da mille anni, l'ombra della terribile banda di Hasan Sabah oscura queste regioni selvagge.» Mark Stanton ricordò vagamente delle letture che aveva fatto in passato. «Volete dire che l'antica Setta degli Assassini esiste ancora?» Il persiano annuì nervosamente. «Continua ad esistere fin da quando è stata fondata dieci secoli fa da Hasan Sabah, il Maestro più temibile di Magia Nera che l'Asia abbia mai conosciuto. La stessa parola "Assassino" deriva dal suo nome. «Hasan Sabah fondò una terribile Setta di Assassini! La sua fortezza di Alamut si trovava tra queste montagne settentrionali. La leggenda dice che era un castello inespugnabile. Si trovava in una valle tra queste cime: una valle bella come i giardini del paradiso. «In quel paradiso, Hasan radunò i suoi fanatici seguaci. Li mandava ad uccidere tutti quelli che si opponevano al suo volere. Ammazzò Re, Crociati, Grandi Khan, senza incontrare ostacoli. Perché possedeva il potere magico di rendere i propri seguaci obbedienti, di trasformarli in puri strumenti di morte. Per questo lui, il Maestro degli Assassini, era tanto temuto.»
«Ma certamente tutto questo è finito secoli e secoli fa!» protestò Angus McLachlan. Fizar scosse il capo con forza. «L'impero segreto degli Assassini non è mai finito. La loro valle nascosta è ancora una fortezza di mistero e di morte. In realtà, c'è chi afferma che Hasan Sabah ancora domini la Setta, continuando a vivere da secoli.» «Che assurdità!» dichiarò il giovane Bradley in tono incredulo. «È molto più probabile che delle spie naziste abbiano portato qui quell'uccello per spaventare gli operai e mantenere ferma la ferrovia. «Guardate, ci sono delle orme di cavalli che vanno verso le montagne. Se potessi seguirle...» «Allah lo vieta!» esclamò Fizar. «Nessun uomo osa seguire gli emissari della Setta degli Assassini.» Bradley fece qualche passo avanti. Con il disprezzo sul volto, liberò il pavone nero e lo fece allontanare prendendolo a calci. Immediatamente si alzò un urlo di terrore dagli operai persiani. «Il Feringhi ha violato l'avvertimento degli Assassini!», gridò terrorizzato uno degli uomini. «Ora tutti noi siamo condannati!» Si slanciarono nuovamente in avanti, folli di paura superstiziosa e decisi a fuggire lungo la stretta gola fino all'accampamento. L'automatico di Stanton apparve rapidamente e sparò qualche colpo. Le pallottole fischiarono al di sopra delle teste degli operai costringendoli di nuovo a fermarsi. «Siete dei bambini che un uccello vi spaventa?» chiese Stanton in persiano. «Il pavone non vi può fare del male... Ma io posso, e lo farò se non tornate immediatamente al lavoro.» I persiani erano presi tra due paure contrapposte. La paura per il fucile dell'americano si rivelò la più forte. Con astio, raccolsero gli attrezzi che avevano abbandonati e cominciarono a lavorare lentamente sull'ammasso di rocce. Ma, mentre lavoravano, lanciavano sguardi spaventati alle montagne. Stanton camminava a grandi passi fra loro, e la sua presenza, ma soprattutto il fucile che aveva al fianco, enfatizzavano gli ordini. La sua voce secca ed autoritaria li faceva lavorare in fretta. In breve, la stretta gola risuonò del tintinnio dei picconi e delle vanghe. Lo scalpitio degli zoccoli di un cavallo lo fece voltare di colpo. Scorse il pony di Billy Bradley sparire oltre la gola che portava ad ovest tra le mon-
tagne. «Che diavolo... dove è andato Bradley?» domandò Stanton. «Proprio quando ho bisogno di lui...» «Segue le tracce di quelli che hanno portato qui il pavone,» rispose Angus McLachlan. «È pazzo,» imprecò Fizar Khan, madido di sudore. «Non tornerà mai indietro se gli capiterà di imbattersi negli emissari di Alamut.» «Quello stupido!» esclamò Stanton. «Non doveva imbarcarsi in quest'impresa dissennata senza ordini. Gli farò una bella strigliata quando tornerà.» Ma Bradley non tornò per tutto il giorno. Il lavoro nella gola proseguì un'ora dopo l'altra, e gli operai persiani sembravano essersi ripresi dal loro terrore superstizioso. La notte era nera e opprimente, quando Stanton fece sospendere il lavoro. I persiani con gioia abbandonarono la buia gola, e si affrettarono verso l'accampamento che si trovava più a sud, lungo la ferrovia. I loro fuochi ben presto circondarono l'accampamento, illuminando di rosso le tende bianche con i loro raggi tremolanti. Più tardi, quando uscì dalla propria tenda, Stanton udì dei canti e il suono di un tamburo. «Cantano il Daevasta: l'incantesimo contro il male,» mormorò Fizar Khan. «La notte ha risvegliato tutte le loro paure.» Stanton non gli prestò molta attenzione. I suoi occhi cercavano invano tra le montagne distanti, illuminate dalle stelle, una figura a cavallo. «Perché diavolo Bradley non ritorna? Pensate che si sia perso lassù?» «Non tornerà mai più, se si è imbattuto negli emissari degli Assassini.» La voce di Fizar Khan era carica di brutti presagi. «Io penso,» disse in tono strascicato McLachlan, «che è più probabile che su quelle montagne ci siano spie naziste piuttosto che i vostri Assassini.» «Mac ha ragione,» disse tra i denti Stanton. «C'era una quantità di agenti di Hitler qui in Iran prima che gli alleati lo occupassero. Sono abbastanza furbi da sfruttare le superstizioni degli indigeni per tenere bloccata questa ferrovia. Perbacco, ora mi viene in mente che la frana che l'ha bloccata non è stata naturale, ma...» Un grido acuto lo interruppe. Proveniva dal vicino accampamento dei lavoratori persiani. Un uomo cavalcava attraverso l'accampamento. Stanton si accorse con
sollievo che si trattava di Billy Bradley. Poi, quando il giovane entrò nel circolo dei loro fuochi e smontò da cavallo, Stanton si irrigidì. Bradley era... cambiato. Il suo viso giovane e bello era ora una maschera rigida e bianca, priva di ogni espressione. Gli occhi erano incavati e fissi, ed avanzava con un'andatura goffa e irregolare. «Che diavolo... hai bevuto?», domandò Stanton al giovane ingegnere. «Se te ne vai per ubriacarti, allora una volta per tutte...» Un grido di Fizar lo interruppe. Gli occhi del persiano erano spalancati. «È la magia degli Assassini! Guardategli gli occhi!» Accaddero cose incredibili ad una velocità stupefacente. Bradley all'improvviso estrasse la pistola dalla fondina che portava al fianco. Stanton sentì la prima pallottola oltrepassarlo fischiando e sentì un grido soffocato provenire da McLachlan. Una seconda pallottola seguì la prima. Non credeva ai suoi stessi occhi. Non poteva essere vero. Billy Bradley era tornato dalle montagne come uno spettro e cercava di ucciderli! II L'istinto di conservazione può far agire il corpo quando il cervello è troppo stordito per dare ordini ai muscoli. Fu quello che accadde a Stanton. Si slanciò in avanti un secondo dopo che Bradley aveva sparato il primo colpo. La fiammata del secondo sparo gli sfiorò il fianco, mentre prendeva Bradley alla sprovvista e buttava il giovane a terra. Bradley lottava come un demone, brandendo la pistola. Gli occhi vacui fissavano con ira crudele il volto di Stanton alla luce della luna. Ma lottava nel silenzio più assoluto. «Allah, è diventato un Assassino!» urlava Fizar. «Guardate il suo volto!» A Stanton si rizzarono i capelli sul capo per l'orrore. Lottava con una creatura disumana che solo poche ore prima era un suo amico. La ripugnanza diede forza ai suoi colpi. Afferrò l'impugnatura della pistola di quella cosa che era stata Billy Bradley. Alzò la mano destra in un violento montante. Il mento di Bradley si rovesciò all'indietro. Il giovane lasciò cadere il fucile e si abbatté a terra, stordito. Subito, Stanton fu su di lui. «Portatemi una fune!» strillò. «È fuori di sé... dobbiamo legarlo.» Fizar gli portò una corda. Gli operai persiani erano raggruppati tutt'intorno e mormoravano tra loro, ma nessuno si avvicinava.
Stanton legò le mani e i piedi del giovane ingegnere prima che questi riprendesse conoscenza. Quando Bradley rinvenne, la sua rabbia fu violenta come quella di un leopardo in trappola. Tendeva le corde che lo legavano, cercando di spezzarle. Stanton si sentì male a quella vista. Sentì l'urlo rauco, tremante di Fizar. «È un Assassino ora... è uno degli Assassini senz'anima! Lassù tra le montagne gli hanno preso l'anima e lo hanno mandato qui ad ucciderci.» «Il Segno del Pavone ci aveva avvertiti dell'ira di Hasan!» gridò terrorizzato un persiano. Di nuovo i superstiziosi persiani erano sul punto di fuggire. E di nuovo la voce di Stanton li fermò. «Ritornate alle vostre tende! Gli Assassini non c'entrano niente in questa faccenda. Bradley Khan delira perché gli è accaduto un incidente... questo è tutto.» Ma non credeva alle proprie parole, non più dei persiani che, terrorizzati, si allontanarono verso il loro accampamento. Sapeva che sulle montagne era accaduto a Bradley qualcosa di profondo e orribile... qualcosa che l'aveva trasformato in una cosa semi-umana. Si chinò su Angus McLachlan, ignorando la creatura furibonda e schiumante. Lo scozzese era stato colpito alla spalla dalla prima pallottola ed era disteso a terra, con una mano sulla ferita, il volto scarno pallido di dolore. «Mi sentirò meglio, se mi aiuterai a distendermi nella tenda,» mormorò. Stanton lo aiutò. Quando McLachlan fu disteso su una delle brande, gli sterilizzò e fasciò la ferita. Poi trascinò nella tenda Bradley e lo distese sull'altra branda. Alla luce della lanterna a petrolio, il volto di Bradley era una maschera rigida e bianca. Gli occhi vacui erano fissi sul viso del suo superiore. Parlò a Bradley, lo scosse, gli urlò nelle orecchie. Non ottenne alcun risultato. Il giovane continuò a lottare con le funi che lo tenevano legato. «Temevo che accadesse una cosa del genere,» balbettò Fizar. «La mano degli Assassini ci ha raggiunti. Hanno preso l'anima di Bradley Khan e poi...» «Volete smetterla con queste chiacchiere?» disse in tono rabbioso Stanton. «Sono tutte fandonie. Gli è accaduto qualcosa sulle montagne, un incidente.» Ma, mentre parlava, un orrore senza nome gli fece rizzare i capelli. Qualcosa di oscuro e profondo era accaduto al giovane ingegnere là tra
quelle montagne protette dal mistero. Una metamorfosi magica che aveva privato il corpo di Bradley della sua personalità. Era vero che una confraternita malvagia e centenaria si annidava ancora in quei recessi poco noti dell'Asia antica? Esistevano poteri oscuri di una scienza diversa dalla moderna scienza materiale, eppure altrettanto potente a suo modo? Stanton cercò di non sentire il brivido di terrore che lo scuoteva, e si chinò su Bradley. «Billy, ritorna in te! È Mark che ti parla... Mark!» Bradley non diede segno di averlo riconosciuto. I suoi occhi fissi e incavati lo guardarono con quell'espressione vacua e spaventosa. Si contorse selvaggiamente sulla branda. «È sotto l'incantesimo del Maestro degli Assassini,» mormorò Fizar. «La sua mente è presa da un'unica idea: adempiere la missione per la quale è stato inviato, e poi tornare ad Alamut.» La notte stava finendo. Stanton si diresse fuori a svegliare gli operai. Si fermò nella foschia dell'alba, il viso smagrito gli si tese. I persiani se n'erano andati. Le tende e i pony erano scomparsi, l'unica loro traccia erano le ceneri ancora fumanti dei fuochi da campo. «Maledetti disertori!» inveì Stanton. «Se avessi saputo che se la stavano svignando...» «Non avreste potuto fermarli,» disse Fizar con fatalismo. «Hanno visto Bradley salire sulle montagne, e l'hanno visto tornare indietro: un Assassino senz'anima. Nessuno poteva impedir loro di fuggire.» «Devono tornare indietro!» esclamò Stanton. «Capite che sei treni carichi di pezzi anticarro e di aereoplani aspettano a Teheran che questo tratto di ferrovia venga sgomberato? Quei treni possono significare la vittoria o la sconfitta per i russi. Devono passare...» Ad un tratto si interruppe. Parlare non serviva a niente. Era stato lasciato da solo con un uomo ferito, un giovane impazzito e un persiano superstizioso. Toccava a lui fare qualcosa. Stanton ritornò a grandi passi nella tenda. McLachlan si stava alzando a fatica dalla branda. «Mac, ce la faresti a portare da solo l'auto a benzina lungo la linea ferroviaria fino a Teheran?» chiese Stanton allo scozzese. McLachlan annuì. «Si, la spalla non mi fa molto male. Ma non voglio lasciarti nei guai, ragazzo mio.» «Devi farlo. Voglio che tu dica al Quartier Generale a Teheran che i no-
stri operai ci hanno abbandonati e che abbiamo bisogno immediatamente di nuovi uomini.» Il viso di McLachlan si allungò. «Lo farò. Ma temo che sarà inutile. Sai come si diffondono in fretta le notizie in questa terra selvaggia. Quando gli indigeni verranno a sapere che gli Assassini sono al lavoro in questa zona, chi di loro verrà?» «Io mi occuperò di questa faccenda degli Assassini, mentre tu sarai lontano,» disse con decisione Stanton. «Ritengo che tutta questa storia sia opera di qualche agente nazista che si nasconde tra le montagne. Ed ho intenzione di andarli a stanare!» McLachlan obiettò ancora. Ma Stanton sospinse lo scozzese ferito nell'auto a benzina che l'avrebbe portato a Teheran lungo la ferrovia in poche ore. Quando fu tutto pronto per la partenza, Stanton si rivolse a Fizar Khan. «Restate qui o andate via?» Fizar deglutì. Il suo viso era pallido al di sotto del colorito olivastro, e la sua paura era evidente. Ma parlò con calma, con orgoglio. «Penso che non sappiate quanto sia pericoloso quello che avete intenzione di fare. Ma resto con voi.» Stanton si pentì della propria durezza. Fece un cenno di assenso a McLachlan, e gli avviò il motore. L'auto fu ben presto lontana: correva verso sud, lungo la ferrovia. Ritornarono nella tenda. Billy Bradley si lamentava, si contorceva sulla branda come se soffrisse di un'agonia interiore. Si sforzava di raggiungere l'entrata della tenda. «L'incantesimo del Maestro lo attira verso Alamut,» sussurrò Fizar. «È accaduto sempre così: gli assassini senz'anima, che sono mandati ad uccidere, sono attirati verso Alamut da un impulso irresistibile.» «Che assurdità,» brontolò Stanton. Ma non c'era convinzione nella sua voce. Perché Billy Bradley si sforzava di raggiungere l'ingresso della tenda con un'ostinazione pervicace. La pallida maschera del volto del giovane ingegnere esprimeva una smania sovrumana, dolorosa, la stessa che doveva essere dipinta sul volto di Lucifero quando guardava il paradiso da cui era caduto. Stanton sentì i capelli rizzarglisi sulla nuca. C'era qualcosa di orribilmente animalesco nei ciechi sforzi di Bradley.
«Billy, svegliati!» gridò con forza nell'orecchio del giovane. Lo afferrò per le spalle e lo scosse. «Ritorna in te!» Gli occhi infossati di Bradley non diedero nemmeno un guizzo. Il giovane ingegnere si contorceva ancora nello sforzo di raggiungere l'entrata della tenda. Per ore Stanton si occupò del giovane. Si servì delle risorse limitate della cassetta del pronto soccorso, ma nessuno dei ricostituenti o dei sedativi che provò ebbe il minimo effetto su Bradley. «È inutile,» mormorò il persiano. «Una volta che un uomo è diventato un Assassino, solo la morte può rompere l'incantesimo.» Stanton fece un solenne giuramento, guardando le montagne che si stagliavano nel tramonto. «Se qualcuno lassù ha fatto deliberatamente questo a Billy, lo stanerò e gliela farò pagare.» Fizar si strinse nelle spalle con espressione rassegnata. «Non li troverete mai. Molte volte, il Governo di Teheran ha inviato dei soldati tra queste montagne per cercare gli Assassini. Ma non sono riusciti a trovare nemmeno la loro fortezza.» «Io la troverò!» disse Stanton con violenza. «In qualche modo io...» Si fermò di colpo. I suoi occhi, fissi su Bradley, si strinsero. «In nome del Cielo, ecco la nostra strada per trovare Alamut o qualsiasi altro posto infernale sia responsabile di tutto ciò!» disse. «Billy!» Fizar lo fissò. «Non capisco.» «Billy ci guiderà!» disse in fretta. «Egli è ossessionato dall'impulso cieco di ritornare dai diavoli che lo hanno mandato a compiere la missione omicida. Gli slegheremo le gambe e lo lasceremo andare. E lo seguiremo.» Gli occhi scuri di Fizar diedero un guizzo di terrore. «Allah, no! Due uomini alla ricerca di Alamut, con un Assassino per guida? È una follia!» «Dobbiamo farlo,» insisté Stanton. «Nessuno tornerà a lavorare qui fin quando questa superstizione non verrà distrutta.» Esaminò rapidamente la propria pistola, poi estrasse un coltello e si chinò a tagliare le corde che tenevano legate le caviglie di Bradley. Si fermò e alzò gli occhi. «Dimenticavo, Fizar... anche voi credete in queste superstizioni. Bene, andrò da solo. Non avrò bisogno di voi.» Il volto nobile di Fizar esprimeva il conflitto tra orgoglio e timore. E l'orgoglio - l'orgoglio della razza più antica del mondo - vinse. «Verrò con voi,» disse con calma. «Ma credo che se Bradley ci condurrà
ad Alamut, noi morremo o peggio ancora. Che cosa possono fare due uomini contro i poteri demoniaci degli Assassini?» «No, non sto proponendo un tentativo avventato di risolvere tutta la faccenda da soli,» replicò Stanton. «Noi scopriremo solo chi è dietro questo sabotaggio superstizioso. Se è opera di agenti nazisti, come io credo, e ne scopriamo parecchi sulle montagne, torneremo con dei soldati. Questa ferrovia deve essere sgomberata!» Aveva tagliato le corde che tenevano legate le caviglie di Bradley. Il giovane folle balzò in piedi violentemente e si slanciò verso l'entrata della tenda. Stanton lo afferrò. Benché Bradley lottasse con forza, gli afferrò le mani, che erano ancora legate, e lo tirò indietro. «Non dobbiamo dargli la possibilità di andarsene,» mormorò. «Ma mi fa soffrire l'idea di trattare Billy come una bestia selvaggia.» Fizar prese tre cavalli e li portò attraverso l'accampamento abbandonato, illuminato dalla luce del tramonto. Aiutarono Bradley a montare sulla sella di uno dei tre cavalli, mentre il persiano ne reggeva le redini. Non poteva scappare. Poi, con Bradley al centro, si allontanarono al trotto dall'accampamento verso la gola che conduceva ad ovest, sulle montagne. Le cime terribili e misteriose si stagliavano contro il tramonto rosso sangue. Tra esse si scorgevano, più lontani e più alti, i picchi della possente Catena di Elburz che si alzavano verso il cielo come montagne fantasma. Gli zoccoli dei loro cavalli risuonavano sui ciottoli della gola. Il viottolo saliva ripido, a curve e a tornanti. Il cavallo di Bradley era in testa, spronato dalla pressione delle ginocchia del giovane folle. Nella luce del crepuscolo, il volto di Bradley era ancora una maschera vacua illuminata solo dalla brama divorante di andare avanti. «Come un drogato che cerchi di ritrovare la propria droga,» mormorò Stanton. «Ma che cosa mai gli è stato fatto?» «È l'incantesimo del Maestro che lo attira verso Alamut,» ripeté cupamente Fizar. «Accade sempre così agli Assassini.» «Volete dimenticare per un attimo la leggenda degli Assassini?» domandò Stanton. «Ha cercato di ucciderci, sì... ma perché era fuori di sé. Adesso non cerca di attaccarci.» «Ci sta portando ad Alamut,» mormorò il persiano. «Alla morte. Non ha
bisogno di ucciderci.» Stanton sbuffò, ma non replicò. I loro pony erano sotto sforzo, si arrampicavano lungo un ripido sentiero che correva su una cornice di roccia tanto stretta che dovevano cavalcare in fila. Il tramonto rosso sangue si andava scolorendo in un imbrunire grigiastro che ben presto si oscurò. Un vento lieve cominciò a gemere tra i picchi. Nel cielo fiorivano le torce fiammeggianti delle stelle persiane. Stanton sentiva il freddo e la leggerezza dell'aria. Erano già parecchie miglia al di sopra del bassopiano dove correva la ferrovia, e salivano ancora. Bradley li conduceva nel buio con una strana sicurezza. «Come fa a conoscere la strada con tanta sicurezza?» si chiese Stanton. «Sembra che qualcosa lo attiri.» Stanton non dava alcun credito alle credenze superstiziose di Fizar, ma credeva che lassù, tra quelle cime selvagge, lì attendessero grossi guai. Sarebbe stato un colpo maestro per gli agenti nazisti, se fossero riusciti a servirsi delle superstizioni degli indigeni per bloccare la ferrovia transiraniana. La Germania avrebbe fatto di tutto per tagliare quella vitale linea di rifornimenti all'Unione Sovietica. Era sicuro che da qualche parte, tra quelle montagne, si annidasse un covo di spie. Bradley l'aveva trovato. E loro avevano catturato Bradley. Gli avevano fatto qualcosa: forse l'avevano drogato. Qualsiasi cosa gli avessero fatto, era stato abbastanza da trasformare un giovane amabile in una creatura disumana dagli occhi vacui che li conduceva febbrilmente avanti. Stanton giurò a sé stesso. «La pagheranno per quello che hanno fatto, chiunque essi siano. Se hanno danneggiato per sempre la mente di Billy...» Faceva sempre più freddo. Erano saliti molto in altro tra le cime, infilandosi tra labirinti di gole e canyon. Le ore passavano, e Stanton cominciava ad essere stanco. Fizar si era curvato sulla sella, ansimando nell'aria rarefatta. Ma Bradley andava ancora avanti, spinto da una brama disumana. «Non c'è da meravigliarsi che i vostri soldati non abbiano trovato niente quassù,» mormorò Stanton al persiano. «Quello che mi stupisce è come Billy sia riuscito a trovare... qualsiasi cosa abbia trovato.» «Io penso che siano stati loro a trovare lui,» rispose Fizar. Il suo volto era grigiastro alla luce delle stelle. Erano entrati in un canyon strettissimo. Era solo una spaccatura verticale nella massa rocciosa della catena montuosa. Gli stanchi pony affondarono le zampe in un ruscello che ne percorreva il fondo. Si avanzava nel buio. Ad un tratto Billy Bradley sollevò il volto pallido ed emise un grido so-
vrumano, rauco. Echeggiò orribilmente tra le pareti del canyon. «Che diavolo succede?» esclamò Stanton spaventato. «Quel grido...» «È il richiamo del pavone!» gridò Fizar. «Un segnale!» Il fucile di Stanton era già stretto nella sua mano. Ma non ebbe la possibilità di usarlo. Dal buio che li circondava irruppero delle figure nere che li sbalzarono giù dai pony. Stanton rimase senza fiato quando colpì il terreno. I corpi degli uomini si ammassarono selvaggiamente su di lui. Stanton capì che quegli uomini non erano balzati su di loro per caso. Erano delle sentinelle poste sulle cornici lungo il canyon, e avevano risposto allo strano grido di Bradley con quel rapido attacco. Mentre lottava al di sotto dei corpi dei suoi assalitori, riuscì a trovare il grilletto del fucile. L'arma sparò ed egli sentì che uno degli uomini che gli erano addosso arretrava per l'impatto della pallottola. Ma quell'uomo non emise alcun grido di dolore! Continuò a lottare con ferocia disumana, anche se le forze gli diminuivano costantemente. «Allah!» si udì l'urlo soffocato di Fizar alzarsi nel buio. «Gli Assassini...» Quegli uomini, chiunque fossero, non erano umani! Mark Stanton lo capì mentre lottava. Un essere umano non avrebbe mai ricevuto una pallottola senza nemmeno trasalire! Non ebbe nessuna possibilità di sparare un altro colpo. I suoi attaccanti lo inchiodarono a terra e gli strapparono il fucile dalle mani. Sentì che gli legavano con perizia le mani. Quegli uomini non avevano detto nemmeno una parola. Il silenzio soprannaturale fu il tocco finale di quella scena orribile. Poi, quando fu messo in piedi, vide più distintamente le figure dei suoi assalitori. Alcuni di essi erano persiani, ma c'erano anche arabi, siriani e turchi. Tutti indossavano gli abiti tradizionali e tutti avevano gli stessi occhi vacui e lo stesso volto inespressivo di Bradley. «I Figli dell'Assassinio,» Fizar mormorava. Anche lui era stato legato, sanguinava da una ferita sulla fronte e il suo volto era spettrale. «Abbiamo permesso che Bradley ci conducesse direttamente nelle loro mani. Sapevo che sarebbe finita così.» «Sono tutti drogati,» disse affannosamente Stanton. «Guarda i loro volti. Questi uomini non pensano.» Uomini senz'anima! Sembravano veramente così, quelle creature dagli
occhi vacui. Gettarono Stanton e il persiano sulle groppe dei loro pony e legarono le caviglie dei prigionieri alle staffe. Bradley si era unito agli altri, ed era uno di loro sotto tutti gli aspetti. Poi l'arabo alto e sicuro che sembrava il capo della banda parlò con una voce spessa e biascicante. «Ad Alamut!» Si avviarono, cavalcando lungo lo stretto canyon e tirandosi dietro i cavalli su cui erano legati Stanton e Fizar Khan. «Avete sentito?» sussurrò Fizar al suo compagno di prigionia. «Alamut! L'antica fortezza di Hasan Sabah, la Valle degli Assassini.» «Ancora non posso crederci,» mormorò Stanton, e i suoi pensieri erano vorticosi. «La Confraternita degli Assassini non può aver continuato ad esistere per tutti questi secoli. È solo una leggenda orribile...» Una leggenda che stava diventando verità davanti ai suoi occhi! Doveva ammetterlo, anche se la sua intelligenza del Ventesimo Secolo rifiutava l'esistenza di fenomeni del genere. Perché i loro catturatori dalle facce di pietra, simili a zombie, rispondevano perfettamente alle descrizioni degli Assassini leggendari che secoli prima avevano gettato un'ombra di terrore su tutta l'Asia e l'Europa. Uomini immuni da paura e dolore, uomini che commettevano qualsiasi crimine venisse loro ordinato dal Maestro, per poter ritornare al paradiso segreto di Alamut che egli dominava. Quegli uomini cavalcavano ora verso la loro misteriosa fortezza con una brama terribile negli occhi. Un'avidità soprannaturale che sembrava attirarli come un magnete. «L'incantesimo di Hasan Sabah,» diceva Fizar sotto voce. «Li riporta indietro come sempre. Guardate i loro volti.» «Hasan Sabah è morto secoli fa,» replicò Stanton. «Non esistono gli incantesimi...» La voce gli mancò. I suoi occhi si erano posati su uno degli Assassini che cavalcavano accanto a loro nello stretto canyon. L'uomo era un persiano, un ometto esile e dal colorito giallastro, aveva un volto cereo e rigido e gli occhi fissi. Nel fianco aveva il foro di una pallottola da cui scorreva sangue. Era l'uomo che aveva ricevuto la pallottola che Stanton aveva sparato durante la lotta nel canyon. Stanton sapeva che quella ferita era mortale. L'uomo doveva essere moribondo. Eppure non mostrava alcun segno né di dolore né di agonia! Cavalcava
rigido e insensibile come gli altri. Un moribondo che cavalcava con i suoi compagni dalle facce rigide verso la misteriosa cittadella della loro terribile Confraternita! III La luna stava sorgendo. Continuavano a salire attraverso un labirinto di gole, e l'aria aveva la rarefazione e il gelo delle grandi altitudini. Stanton aveva le vertigini, e l'aria che respirava sembrava priva di ossigeno. Sospettava che si trovassero ad oltre cinquemila metri, sulle cime della misteriosa catena di Elburz. Poi uno dei suoi assalitori indicò davanti a sé, con un gesto di avidità estrema. Con voce biascicante pronunciò una parola. «Alamut!» «Allah... guardate!» ansimò Fizar. Stanton alzò lo sguardo, mentre il suo pony avanzava a scossoni. Erano entrati in uno stretto crepaccio fiancheggiato da alte pareti rocciose. Davanti a loro, il crepaccio era ostruito da un massiccio castello in pietra nera. Riempiva lo stretto crepaccio da parete a parete. Aveva una facciata alta e imponente, le cui uniche aperture erano costituite da strette feritoie e da una massiccia porta di bronzo. Le torri si innalzavano di una trentina di metri alla luce della luna. Stanton osservò la fortezza stupito. Quella imponente cittadella sembrava antichissima. Simile ad una mostruosa reliquia di età morte, esibiva le pareti, le torri e i torrioni massicci e merlati. Vide delle sentinelle nelle feritoie, che li guardavano risalire il ripido crepaccio. Gli parve di vedere canne di fucili. Stanton comprese quanto fosse inespugnabile quel castello: dieci uomini potevano difenderlo da un'armata intera. «La cittadella di Hasan,» mormorava Fizar. «È proprio come la descrive la leggenda. Da questo luogo, per secoli, gli Assassini sono partiti per le loro missioni omicide, dietro ordine del loro Padrone.» «È solo un'antica fortezza medievale,» disse Stanton con la gola secca. «Non c'è niente di strano nel trovare un'antichità del genere in una regione selvaggia come questa.» Ma egli stesso non credeva a quello che aveva detto. Niente di strano? Quel posto era la quintessenza di ogni stranezza. Era acquattato nella luce della luna come un antico ragno in attesa della preda. Bradley e gli altri assalitori spronavano ansiosamente i cavalli lungo il
ripido sentiero, verso la cittadella. Ora quella brama empia e spasmodica era più forte sui visi degli Assassini. La massiccia porta di bronzo si aprì lentamente quando si avvicinarono. Era molto alta, ed essi passarono a cavallo attraverso l'apertura. Gli zoccoli dei pony risuonarono sull'acciottolato. Stanton sentì che la porta si chiudeva inesorabilmente alle loro spalle. «Smontate,» disse con voce atona l'arabo che era a capo del gruppo. I loro piedi furono slegati dalle staffe e i due prigionieri scesero dalle selle. Con meraviglia, Stanton si guardò intorno. Il corridoio dagli alti soffitti a volta, nel quale si trovavano, attraversava la cittadella come un tunnel. Era aperto all'altra estremità: si apriva sul crepaccio che era al di là del castello. Stanton e Fizar guardarono la valle illuminata dalla luna. Era verde e bella come il giardino dell'Eden! Il crepaccio si ampliava al di là del castello. I bastioni rocciosi del crepaccio, alti tremila metri, erano alla distanza di un quarto di miglio l'uno dall'altro e si estendevano per un miglio, fino ad un punto dove la vallata era chiusa da un'altra parete rocciosa. Di conseguenza, quella valle era una sacca senza uscita, posta all'estremità del crepaccio e chiusa ermeticamente dal castello. Alberi alti e ondeggianti oscillavano alla luce della luna, al di sopra della distesa argentea dei prati rasati. Fiori erano ammassati ovunque, e la loro fragranza era portata dalla lieve brezza. Dalle ombre si alzavano i canti meravigliosi dei bulbul, gli usignoli persiani. Pace e bellezza erano nella valle che Stanton fissava in estasi. «La Valle degli Assassini,» sussurrava Fizar. «La valle che è l'inferno e il paradiso... sulla terra!» Bradley e la maggior parte dei loro assalitori si affrettarono lungo il corridoio. Con grida rauche, come di uomini che ritornino al paradiso dopo un lungo esilio, essi si precipitarono nella valle illuminata dalla luna. Stanton scorse altri uomini in quei giardini argentei, e anche donne o ragazze. Ma, prima che potesse vedere di più, lui e Fizar furono spinti rudemente in un atrio, e lungo un corridoio di pietra. «Ci portano dal Maestro: da Hasan,» disse Fizar piagnucolando. «Coraggio!» mormorò Stanton. «Partite già sconfitto, se vi fate abbattere dalle superstizioni.» Ma il suo scetticismo era stato scosso in profondità da quello che aveva già visto. Quel luogo, così remoto, corrispondeva esattamente alle antiche leggende sugli Assassini. Quella valle paradisiaca e quella cittadella ine-
spugnabile che la difendeva erano proprio come le aveva descritte Marco Polo secoli prima. A quei tempi esisteva una setta di assassini e di magia. Era possibile che fosse continuata ad esistere in quel territorio selvaggio e remoto? «Dannazione, no,» Stanton si disse con decisione. «Deve essere un trucco dei nazisti, solo ai tedeschi serve bloccare i rifornimenti ai Russi.» I corridoi e le sale, attraverso cui erano condotti, erano bui e freddi, illuminati solo da oscillanti lampade d'argento. Ad ogni porta c'era una sentinella dagli occhi vacui e con quell'espressione spaventosa sul volto. Tra loro c'erano europei e asiatici di tutte le razze. Tutti avevano fucili e lunghe sciabole. E i bui corridoi di quel tetro castello erano anche pieni di... pavoni! Gli uccelli dal piumaggio variopinto gironzolavano da tutte le parti, come per un proprio diritto, ed emettevano le loro strida aspre e dissonanti che echeggiavano nelle sale di pietra. Stanton cominciò a ricordare. Il pavone era l'emblema del male per la maggior parte dei popoli del Medio Oriente. Ed era anche stato l'emblema degli Assassini, nei giorni del loro invisibile impero. Poi questi pensieri furono cancellati dalla sua mente, quando lui e Fizar furono introdotti nella sala centrale del castello, una vasta camera di pietra con il soffitto a volte. Lampade d'argento, il cui fumo era odoroso d'incenso, illuminavano di luce soffusa la grande stanza e, in fondo, due bracieri bruciavano di fiamme rosse e guizzanti. Lì, su una sedia nera e intagliata, che era su un basso gradino di pietra, sedeva un uomo che li osservava tra un gruppetto di uomini e donne silenziosi. «È lui,» sussurrò Fizar Khan. «Hasan Sabah!» Ma Stanton, guardando davanti a sé mentre venivano condotti verso il fondo della sala, disse con sollievo. «Dimenticate tutte quelle stupidaggini. È solo un vecchio.» Si era aspettato di vedere a capo di quegli uomini fantasma un personaggio molto più spaventoso di loro. Ma quell'uomo, rannicchiato sulla sedia, il Signore della misteriosa Alamut, era solo un vecchietto avvizzito. Indossava una tunica di pesante seta nera su cui erano ricamati dei pavoni in argento. La veste copriva il suo corpo magro fino al mento. Solo le mani ad artiglio e la testa erano scoperte. I radi capelli grigi erano scoperti,
e da un viso scuro e incartapecorito, due occhi stranamente luminosi li osservarono con attenzione. E, quando i due prigionieri furono fermati, il vecchio emise una risata acuta. Parlò a Stanton. «Si, avete ragione. Sono un vecchio. Nel mondo esterno un tempo mi chiamavano il Vecchio della Montagna.» «Il Vecchio della Montagna?» disse Stanton con stupore, «Ma era così che Marco Paolo chiamava...» Si fermò. E il vecchio raggrinzito ridacchiò. «Si, ricordo Polo. Attraversò questa regione alla fine del Quattordicesimo Secolo. Un giovane veneziano che venne a curiosare tra queste montagne. Lo lasciai andare via: non ci era di alcuna utilità.» Stanton spalancò la bocca. Fissò quel viso raggrinzito, avvizzito. «Che diavolo...! State cercando di dirmi che...» «Che ero vivo sei secoli fa?» L'altro completò la frase con calma. «Vi sembra incredibile?» Fizar sussurrò a Stanton: «Ve l'avevo detto che era così. Hasan Sabah non muore, come non muore Malik Taus, il Male.» «Il vostro compagno, almeno, non ha dubbi,» disse con soddisfazione Hasan Sabah. «Ma voi occidentali avete un preciso schema teorico e rigettate qualsiasi fatto che non vi si adatti.» «Chiacchiere,» disse Stanton, «non riuscirete mai a farmi credere che avete parlato con Marco Polo.» La faccia rugosa di Hasan si aggrinzi in un sorriso. «Ma io ho parlato con personaggi molto più importanti di Polo! Sono mille anni che i potenti della terra passano in rivista davanti a me. Molti di loro mi hanno incontrato di persona e molti di più mi hanno temuto. «Omar Khayyam, il poeta, fu mio compagno di studi. I Crociati che arrivarono troppo vicini a questa fortezza mi conobbero a costo delle loro vite. Furono i miei servi che andarono a massacrare Conrad de Montferrat e gli altri, facendo fallire la loro impresa. Ho conosciuto Gengis Khan: un mongolo tozzo e tarchiato che inviò un'armata a distruggere Alamut, ma che in seguito morì sotto le sciabole dei miei uomini.» «Tamerlano mi conosceva meglio: lui ci lasciò in pace. I Mogol dell'India in seguito cercarono di distruggerci, ma Akbar morì per questo e, dopo di lui, Jahangir. Napoleone, quando invase il Medio Oriente, sulle prime rifiutò di ascoltare i miei avvertimenti, ma cambiò ben presto idea quando gli mostrai il mio potere. Era un uomo astuto, quel piccolo corso.»
Mark Stanton lottò contro la tentazione, sempre più forte, di credere al vecchio. L'assurdità di quelle parole era mitigata dall'atmosfera irreale del luogo in cui si trovavano. La sala alta e buia, i pavoni che camminavano impettiti e lanciavano i loro richiami, quegli zombie dagli occhi vacui che stavano in silenzio, tutto contribuiva a creare uno sfondo che si adattava perfettamente alle fantastiche asserzioni di quel vecchietto avvizzito, simile ad un ragnetto malvagio. La mente di Stanton cercava di aggrapparsi disperatamente alla realtà, allo scopo che l'aveva condotto ad infilarsi in quella trappola. «Allora sono stati i vostri seguaci a bloccare la ferrovia trans-iraniana?» disse in tono di sfida. Hasan Sabah annuì con indifferenza. «Naturalmente. È mio interesse che quella ferrovia rimanga bloccata e che la Russia venga sconfitta.» Gli occhi di Stanton si strinsero. «Capisco. Lavorate per la Germania...» Il vecchio rise. «Lavorare per la Germania? Ebbene, le vostre nazioni occidentali e le loro guerre non significano niente per me. Io desidero che la Russia crolli perché questo significherà la rinascita del mio impero.» Gli occhi scuri gli scintillarono. «Secoli fa, io tenevo tutto il Medio Oriente in pugno. Il mio regno era invisibile, potente. I piccoli signori dei vari regni sapevano bene che, se non mi obbedivano, i miei emissari avrebbero dato loro la morte. Ed essi obbedivano! Ma in quest'ultimo secolo, le potenze occidentali hanno colonizzato questa parte del mondo e di conseguenza il mio dominio si è lentamente dissolto. «Ma se la Russia crolla, se tutto il Medio Oriente diventa un caos anarchico, allora i miei Assassini potranno ristabilire il mio dominio su una scala più ampia di prima. La Gran Bretagna e la Russia hanno mantenuto la pace in questa regione ma, se saranno sconfitte, la pace si dissolverà in un calderone ribollente di tribù e popoli in guerra che io riuscirò a dominare in poco tempo. Perciò la vostra linea di rifornimenti deve essere distrutta!» Stanton era sbalordito. Quel piano sinistro e vasto aveva delle possibilità di adempimento. Se la Gran Bretagna, la Russia e i loro alleati perdevano il proprio potere in Medio Oriente, in tutta la regione si sarebbe creato un vuoto di potere in cui avrebbero soffiato i venti del caos. È l'unico potere centralizzato e risoluto nell'intera regione sarebbe stato quello degli Assassini... «Allah! È in grado di farlo,» mormorò Fizar Khan. «Egli possiede l'astu-
zia di mille anni.» Stanton cercò di liberarsi da quella sensazione opprimente di ansia. «Queste che cosa sono se non le chiacchiere sciocche di un vecchio impazzito che si nasconde in un castello in rovina tra le montagne?» disse in tono irato. Gli occhi luminosi di Hasan Sabah si strinsero leggermente. «Voi mi ritenete pazzo perché affermo di vivere da tanti secoli?» «Non avete vissuto più di sessant'anni, a giudicare dal vostro aspetto,» rispose con asprezza Stanton. Con suo stupore, il vecchio annuì. «Si, è vero che questo mio corpo ha solo sessant'anni. Ma non è l'unico corpo che io abbia avuto, americano. La mia mente ha abitato molti corpi nei secoli scorsi, uno dopo l'altro.» C'era qualcosa di tanto orribile in quella affermazione, che Stanton sentì un brivido che non gli era stato provocato dal freddo della stanza. «La mente può uscire dal corpo?» disse in tono derisorio. «Può passare da un corpo all'altro, come un inquilino in una casa nuova?» «Lo può fare, con un certo aiuto,» disse con calma Hasan Sabah. «La vostra scienza occidentale non ha approfondito lo studio della mente. Solo negli ultimi decenni avete cominciato ad avere una scienza che studia la mente. Ma noi in oriente la studiamo da migliaia di anni, ad esclusione di tutte le altre scienze.» Un sorriso segreto spuntò negli occhi socchiusi di Hasan, e giocò agli angoli delle sue labbra avvizzite. «Ma ne saprete di più tra qualche momento. Prima di tutto ora è necessario che il vostro compagno diventi uno dei miei servi.» Fizar Khan a queste parole arretrò, e il volto gli divenne spettralmente pallido. Ma gli Assassini, che erano alle loro spalle, già li avevano afferrati entrambi. Hasan, nell'alzarsi, fece un rapido gesto con la mano ad artiglio. Immediatamente, al comando del vecchio, due Assassini andarono in un angolo della sala e spinsero verso il centro un oggetto grande e strano. Era una ruota d'argento, montata verticalmente su un telaio perpendicolare dello stesso metallo. La ruota era un disco piatto di due metri di diametro, la cui faccia anteriore era incastonata di diamanti splendenti. Mark Stanton deglutì. I diamanti che costellavano quel disco erano di
valore incalcolabile. Ma non furono i diamanti a sorprenderlo di più. Fu il disegno che essi formavano. Era composto da cerchi e spirali che si intersecavano: sembrava il prodotto di una strana geometria folle ed extraterrestre. I suoi occhi non riuscivano a seguire la complessità di quelle curve che si intersecavano. Fissandole, sentì che la mente gli vacillava per lo sforzo, come se stesse precipitando in un abisso. Con uno sforzo riuscì a staccare lo sguardo da quel disegno ipnotico. E senti la risata acuta e divertita di Hasan Sabah. «Non riuscite a guardare la Ruota del Potere?» lo derise l'anziano Maestro degli Assassini. «Forse ora cominciate a credere che esistono scienze della mente di cui voi occidentali non avete la minima idea?» Stanton era scosso. Se Hasan Sabah era il Maestro di una scienza psichica sconosciuta nel mondo esterno... Stavano trascinando Fizar Khan verso la ruota. Il persiano fu gettato su una sedia che era di fronte al disco splendente di diamanti; aveva la testa legata rigidamente all'indietro in modo che i suoi occhi dilatati fissassero la ruota. «Stanton, cercano di rubarmi l'anima!» gemette l'uomo terrorizzato. «Mi trasformeranno in uno di loro...» «Non fatevi ingannare, Fizar!» urlò Stanton. «È solo un espediente per influenzarvi attraverso il potere della suggestione. Non arrendetevi.» Fizar non parve sentirlo. La ruota aveva cominciato a girare, e il persiano la fissava incantato. Stanton era stato spinto indietro dalle guardie. Non riusciva più a vedere la ruota. Ma vide l'orribile cambiamento che sopravvenne nel volto del persiano. Il viso olivastro di Fizar assunse un'espressione rapita, e gli occhi sembrarono uscire dalle orbite mentre lui continuava a fissare la ruota. I suoi occhi presero lentamente quell'espressione fissa e vacua che avevano gli Assassini. Hasan Sabah, che guardava la scena come un ragno avvizzito, parlò al persiano. «Io sono il Maestro,» disse Hasan. «Io sono Malik Taus, il Signore del Paradiso e dell'Inferno.» «Tu sei il Signore del Paradiso e dell'Inferno,» rispose Fizar con voce atona.
«Il paradiso è in questa valle,» continuò Hasan, e Stanton vide il desiderio apparire negli occhi vacui di Fizar. «E il paradiso e tutti i suoi piaceri saranno tuoi finché mi obbedirai.» «Io obbedirò!» gridò Fizar, con quella brama terribile. «Fizar! Per l'amor di Dio!» strillò Mark Stanton. Il persiano non parve sentirlo. Non distolse lo sguardo dalla ruota di diamanti che oramai aveva smesso di girare non appena Hasan aveva toccato qualche comando nascosto. «Va bene,» disse Hasan, quando la ruota si fermò. «Presto avrò bisogno di te. Ora fatti da parte.» Fizar fu liberato dalle corde che l'avevano tenuto legato. Il persiano si alzò dalla sedia. E si unì agli altri Assassini. Non lanciò nemmeno un'occhiata a Stanton. Ma Hasan Sabah guardava il volto pallido di Stanton. E c'era una luce divertita negli occhi del vecchio. «Adesso credete che sia possibile staccare la mente dal corpo?» chiese a Stanton in tono derisorio. Stanton si costrinse ad un diniego. «No, non ci credo! È un fenomeno di ipnosi.» «Presto la penserete in un altro modo,» promise Hasan Sabah. «Sto per separare la vostra mente dal vostro corpo, Stanton. E io prenderò il posto della vostra mente.» L'americano lo fissò. Disse con voce rauca, «Che cosa state cercando di dirmi? Che potete scambiare la vostra mente con la mia... scambiare i corpi...» «E in che modo» chiese Hasan in tono significativo, «pensate che io sia vissuto per tutti questi secoli? Questo è il sistema che uso. Quando il mio corpo diventa vecchio e stanco, mi trasferisco semplicemente in un altro corpo, più giovane e più forte. La mente è una rete di forze immateriali che può vivere in un cervello fisico qualsiasi.» I suoi occhi scuri esaminarono con attenzione il corpo irrigidito di Stanton. «Il vostro corpo mi farà sopravvivere per molti anni, credo. E ho una ragione particolare per desiderare il vostro corpo. Perciò ho mandato il vostro amico Bradley, mio servo, ad uccidere i vostri amici ma a catturare voi e portarvi qui. Vedete, Stanton, nel vostro corpo io posso scendere fino alla ferrovia e fare in modo che la linea di rifornimenti della Russia sia interrotta e i miei grandi piani siano realizzati.»
A Stanton sembrava di vivere un incubo orribile. Quella sala gelida e buia, popolata di pavoni e di uomini dagli occhi vitrei, doveva essere irreale come le affermazioni che il vecchio aveva appena fatte. Uno scambio di menti tra due corpi? Non era possibile! Tutti i princìpi della scienza nota rifiutavano la possibilità di un fenomeno del genere. Tutta la scienza nota... ma poteva esistere una scienza sconosciuta che era riuscita ad ottenere un risultato del genere... Hasan Sabah diede un ordine all'enorme curdo che era il capitano delle guardie. «Chiama tutti i miei servi. Devono assistere alla trasformazione in modo che in seguito riconoscano il nuovo corpo del loro Signore.» Un gong echeggiò, rimbombò in tutto il castello. Nel frattempo, Stanton era stato fatto sedere sulla sedia che era di fronte alla ruota di diamanti. Nella grande sala affluirono gli abitanti della valle. Gli Assassini! Erano decine e decine. Affollarono silenziosamente la grande stanza. Soldati delle razze più svariate dell'oriente e dell'occidente, vigorosi, giovani e armati. E ragazze di tutto l'oriente, snelle e seducenti: fanciulle cinesi gialle come l'oro, ragazze turche dalle movenze feline, pallide giovanette circasse. Ed erano tutti morti viventi! Tutti si muovevano rigidamente come cadaveri dotati di movimento, tutti avevano gli occhi vitrei e fissi che caratterizzavano Bradley e Fizar. Assassini: strumenti senz'anima del Signore della Morte che li aveva trasformati secondo la propria volontà. La voce acuta di Hasan Sabah risuonò autoritaria nella grande sala affollata di morti viventi. «Oggi, miei servi, assumerò un nuovo corpo. Da oggi in poi abiterò nel corpo di quest'uomo. Avete capito?» Indicò il corpo rigido di Stanton. E da quei volti cadaverici si alzò un coro di mormorii. «Abbiamo capito, Capo.» «Da oggi in poi,» dichiarò Hasan, «mi obbedirete come prima, ma i miei ordini proverranno dalle labbra di quest'uomo, perché io mi impossesserò del suo corpo. Mi obbedirete?» «Noi obbediremo, Maestro,» risuonò il coro di risposte. «Va bene,» disse Hasan. «Ora guardate il vostro Signore disfarsi di questo corpo logoro e prendere una nuova forma e una nuova vita.» La sua sedia era stata portata accanto a quella di Stanton, cosicché entrambi erano di fronte all'enigmatica Ruota del Potere. Il disco di diamanti cominciò a girare. Stanton cercò di non guardarlo, ma il gigantesco curdo,
che gli era dietro, gli girò la testa in modo che i suoi occhi aperti guardassero il disco brillante. Il disegno incastonato di diamanti parve srotolarsi quando la ruota cominciò a girare più veloce. Stanton ebbe di nuovo l'impressione di precipitare in un abisso. Quel giro vorticoso di curve anti-geometriche trascinava il suo cervello. Lottava selvaggiamente contro quella sensazione schiacciante. «Non magia... scienza!» pensò mentre lottava. «La avanzatissima scienza psichica di una razza dimenticata...» La mente era una fragile rete di forza elettrica. Poteva essere facilmente liberata dal suo corpo fisico: l'ipnosi, provocata da quella ruota che girava, era in grado di farlo. Ma se due menti erano liberate dai loro corpi nello stesso momento, e se una di esse, grazie alla volontà e all'esperienza, entrava nel corpo dell'altra quando il processo veniva invertito... «Dio mio, non può succedere! Non deve!» pensò Stanton disperatamente, mentre la sua coscienza tremava sull'orlo del buio. Non capì più nulla. Era avvolto da un'oscurità rombante, nella quale l'unica luce era quella della ruota splendente. Poi gli parve che il giro vorticoso di quelle linee ipnotiche fosse invertito. Lentamente la coscienza ritornò in lui. Fu di nuovo conscio della sedia su cui era seduto. Un palpito di gioia lo scosse. Non era accaduto! Avrebbe dovuto capire che una mostruosità del genere non poteva accadere... Una voce forte e tonante parlò. «È fatta!» Quella voce... Stanton la riconobbe... era la sua voce! Aprì gli occhi. Ed emise un grido soffocato quando vide l'uomo che si era alzato in piedi accanto a lui. Quell'uomo era... lui! Era la figura vigorosa e giovane di Mark Stanton quella che era in piedi accanto alla sua sedia. Stanton abbassò lo sguardo verso il proprio corpo. Sapeva che cosa avrebbe visto. E lo vide. Le sue erano le mani scarne e sottili di un uomo molto vecchio. Tremarono quando le portò al viso: un viso avvizzito e rugoso che non era il suo. Gridò... e la sua voce era un gracchio acuto e tremante. Hasan Sabah non gli prestò alcuna attenzione. Rivolgendosi alla folla degli Assassini, l'uomo che era nel corpo di Stanton parlò a voce alta e trionfante.
«Mi avete visto prendere questo nuovo corpo, miei servi. Guardatemi e imparate a riconoscermi, perché da oggi in poi dovete obbedire al nuovo Hasan.» E Stanton udì la folla rispondere: «Obbediremo, Maestro!» IV La folla di Assassini andò via, rifluì nella valle da cui era arrivata. Hasan Sabah fece un cenno di assenso alle sue gigantesche guardie. «Si, anche voi potete andare. Non ho bisogno di nessuno per difendermi da quello.» E indicò con espressione divertita Stanton, che fissava ancora stordito e tremante il proprio corpo vecchio e debole. Stanton, con passo traballante, si avvicinò ad uno scudo appeso alla parete e guardò il proprio riflesso sulla superficie metallica. E il volto vecchio e avvizzito che lo guardò di rimando liberò l'orrore represso che gli riempiva la mente. Si voltò e si slanciò contro il corpo alto e giovane che era stato il suo fino a pochi momenti prima. Le sue mani afferrarono la gola di Hasan: la sua propria gola. Ma la sua stretta era la stretta debole di un uomo anziano. Hasan lo respinse e lo mise a sedere su una sedia, come se fosse stato un bambino. «Oh, ma è bello essere di nuovo forte e giovane!» disse in tono esultante il Maestro degli Assassini. La faccia abbronzata che Stanton continuava a sentire propria brillò di gioia. «Il vostro corpo e la vostra identità mi saranno utili, americano.» Quell'osservazione gettò la mente vacillante di Stanton in un orrore ancora più profondo. Non solo lui era orrendamente imprigionato in quel corpo logoro e vecchio. Ma Hasan Sabah, nel suo corpo e nella sua identità, sarebbe stato in grado di scendere a valle e sabotare con efficacia la linea di rifornimento dei Russi, e provocare in tal modo il crollo del potere degli Alleati nel Medio Oriente, nel quale egli avrebbe fondato il proprio impero di morte. La mente di Stanton vacillò a quest'idea. Doveva trovare il modo di impedirlo, senza preoccuparsi di quello che poteva accadere a lui stesso. Il destino del fronte più importante e più vitale di tutta la guerra dipendeva solo da quel fattore. Ma... che cosa poteva fare lui, intrappolato non solo nella fortezza di Hasan ma anche nel vecchio corpo di Hasan?
Hasan lo stava osservando senza pietà. «Hai una possibilità di vivere un po' più a lungo,» disse il Maestro degli Assassini. «Quel corpo in cui vivi ora durerà ancora qualche anno... e la vita è bella, in qualsiasi forma la si viva. Io ti lascerò vivere, come uno dei miei servi, se mi aiuterai. Tu conosci delle cose che io devo sapere, se devo prendere il tuo posto.» Era quello il motivo per cui Hasan l'aveva mantenuto in vita, dopo aver compiuto quell'orrendo scambio di corpi? Era quello il motivo per cui aveva allontanato le guardie? Il piano dell'Assassino divenne più chiaro a Stanton. E la mente disperata di Stanton afferrò per la prima volta una debole possibilità di ostacolare il piano mortale dell'altro. Sembrava uno stratagemma folle e assurdo. Ma doveva tentare... Alzò gli occhi sull'uomo che gli aveva rubato il corpo. «Mi lascerete vivere?» disse con voce tremolante. «Se vi dico tutto quello che volete sapere?» Hasan Sabah rise. «Allora la vita è ancora bella per te? Sapevo che lo sarebbe stata: è sempre così. Si, puoi vivere come mio servo, se mi dirai ciò che ti chiederò.» Stanton stava facendo rapidi calcoli. Quanto tempo era passato da quando lui e Fizar erano arrivati alla cittadella? Sembrava un'eternità, ma quanto tempo era passato realmente? Due ore? Non più di tanto, sicuramente. Ma non era abbastanza. Il suo disperato stratagemma non avrebbe funzionato se non fossero passate almeno altre due ore. Questo significava che doveva prender tempo. «Che cosa volete sapere?» chiese con voce acuta. La risposta di Hasan fu decisa. «Devo sapere quali sono i punti precisi in cui la linea di rifornimento può essere bloccata più facilmente. Devo sapere anche dove vengono immagazzinati gli esplosivi, le distanze, i particolari riguardanti i servizi di guardia.» Stanton intuì le intenzioni dell'altro. Hasan sarebbe sceso in pianura, con il suo corpo e la sua identità, avrebbe potuto preparare indisturbato dei sabotaggi e, con l'aiuto dei suoi schiavi, avrebbe interrotto la linea di rifornimenti russa una volta e per tutte. E poi... il male si sarebbe riversato su tutto il Medio-Oriente e l'impero degli Assassini sarebbe rifiorito come un fiore avvelenato. Lentamente, Stanton elencò con voce tremula le informazioni che l'altro gli chiedeva. Si faceva tirar fuori ogni particolare con domande spietate. Cercava di prender tempo, di stare in guardia e aspettare. L'unica speranza
che il suo folle piano riuscisse era quella di prolungare il più possibile quell'interrogatorio. In questo modo passò un'ora e parte di un'altra. Erano ormai passate quasi quattro ore da quando lui e Fizar avevano raggiunto il castello. Quello che egli sperava accadesse, ormai sarebbe dovuto già accadere. Ma non era accaduto. Hasan Sabah ad un tratto comprese il motivo della tensione mostrata dal corpo tremolante di Stanton. Gli occhi del Capo si strinsero. «È per questo che hai prolungato quest'interrogatorio,» disse con rabbia. «Lo hai fatto deliberatamente; speri che arrivi un aiuto dall'esterno. Senza dubbio in pianura hai lasciato degli amici che ti possono venire in aiuto.» «No!» negò Stanton con sgomento e paura. «Non è così...» Hasan Sabah rise. «Povero stupido! Anche se quassù arriva un'armata, nessuno può più aiutarti. Una sola parola ai miei servi fedeli, e chiunque arrivi a queste cime verrà distrutto.» Si voltò, e sollevò un martelletto per colpire il gong di rame che chiamava a raccolta le guardie. Stanton fu preso dalla disperazione. Il suo folle piano non avrebbe funzionato. La fragile speranza che aveva nutrito era crollata. Balzò su Hasan. Avrebbe fatto il possibile per uccidere quel demonio. Se avesse potuto morire trascinando l'Assassino con sé... Hasan Sabah roteò su se stesso, e la sua stretta potente fermò l'assalto di Stanton. L'Assassino scosse il corpo fragile e inerme di Stanton così come avrebbe scosso una bambola. Esplose in una risata. «Non hai ancora capito che sei solo un povero vecchio guscio che anche un bambino potrebbe sopraffare,» rise Hasan. «Posso spezzarti il collo a mani nude e ora che ho appreso tutto quello che potevi dirmi, io...» Hasan si fermò di colpo. Sul suo volto - sul volto abbronzato di Stanton - apparve un'espressione improvvisa di dolore. Lasciò cadere Stanton e indietreggiò, tenendosi una mano sul cuore. Ansimava, il volto gli divenne livido, le labbra blu. «Che cosa... che cos'è?» disse con voce soffocata. «Non riesco a respirare... il cuore mi scoppia...» Stanton emise una risata stridula. «Sei tu lo stupido, Hasan!» gridò. «Tu volevi il mio corpo perché credevi che fosse giovane e forte. Quello che non sapevi è che il mio cuore era malato e che avevo un attacco dopo l'altro. I medici mi avevano detto che il prossimo attacco mi sarebbe stato fa-
tale.» Hasan ansimava, vacillava, gli occhi avevano un'espressione terrorizzata e il volto era spettrale. «No!» disse con voce soffocata. «Non può essere!» «Stai per morire, Hasan!» strillò Stanton. «Stai per morire nel mio corpo! Non potevi saperlo, ma mi hai fatto un favore quando hai scambiato i nostri corpi.» Gli occhi dell'altro lampeggiarono di un'ira selvaggia quando udì quella frase e vide l'amara derisione sul volto di Stanton. Lottando contro l'attacco che lo stava sopraffacendo, Hasan Sabah mostrò la sua terribile forza di volontà. «No!» esclamò con voce rauca. «Non voglio morire nel tuo corpo, Stanton. Faremo di nuovo a cambio... c'è ancora tempo...» Barcollò in avanti. Stanton accennò alla fuga, ma le mani dell'altro lo afferrarono. Il vecchio corpo di Stanton non aveva abbastanza forza da resistere. Hasan lo mise a sedere in una delle sedie che erano davanti alla Ruota del Potere. La ruota incastonata di diamanti cominciò a girare. Hasan, ansimante e pallido, esercitò una forza spasmodica per mantenere la testa di Stanton ferma davanti al disco ipnotico. «Hai esultato troppo presto!» disse malignamente. «Guarda!» Stanton fece come se volesse resistere, ma sembrava incapace di staccare gli occhi dalle linee e dalle spirali del disco che roteava. Di nuovo, ebbe la strana sensazione di essere trascinato in un abisso, fuori dal proprio corpo fisico. Ritornò alla coscienza. Era seduto nell'altra sedia, ora... ed era di nuovo nel proprio corpo. Stanton guardò il proprio corpo con un palpito di gioia. Il suo corpo giovane e vigoroso! Anche se il cuore gli batteva violentemente, anche se respirava a fatica e si sentiva stordito, si sentì pieno di gioia e gratitudine. Hasan Sabah si stava alzando dall'altra sedia. Hasan era ritornato nel proprio corpo, il corpo esile e scarno di un vecchio. Gli occhi di Hasan brillarono di trionfo nel guardare Stanton. «Il tuo trucco è fallito!» strillò. Si girò a colpire il gong di rame. «Pensavi che sarei morto nel tuo corpo, ma non sono morto... e ora tu stai per morire.» «Al contrario, il mio trucco ha funzionato,» disse Stanton con voce rauca. «Il mio cuore è sano. Ho detto che era malato per costringerti a fare di
nuovo il cambio dei nostri corpi.» «È una menzogna!» strillò Hasan Sabah. «L'ho avvertito io stesso nel tuo corpo quel violento attacco di cuore che mi ha quasi ucciso. Ora lo avverti tu stesso.» «Non è un attacco di cuore, anche se ne presenta tutti i sintomi,» replicò Stanton con voce soffocata. «È solo un'anossiemia: il male d'alta montagna. È quel male che fa battere velocemente il cuore e rende il respiro breve e affannoso. Colpisce coloro che vivono nelle pianure, come me, quando arrivano di colpo ad un'altitudine come questa. «Io sapevo che il mio corpo sarebbe stato colpito dal male d'alta montagna in breve tempo,» Stanton continuò rapidamente. «Colpisce sempre dopo tre o quattro ore dall'arrivo ad un'altitudine del genere. Ho avvertito i primi sintomi un'ora fa. E quando il male ha colpito il mio corpo - il tuo corpo, in quel momento - ti ho detto che era un attacco di cuore e tu ci hai creduto.» La vecchia faccia rugosa di Hasan Sabah era livida. «Sporco bugiardo! Il tuo trucco non ti sarà di nessuna utilità: io posso rifare lo scambio dei corpi e portare a termine il mio piano.» Il vecchio si girò su sé stesso, quando le guardie dai visi cadaverici entrarono nella sala in risposta al gong. Indicò Stanton con una mano rugosa. «Prendetelo!» disse in tono rabbioso. Gli Assassini non obbedirono. Invece, rivolsero gli occhi vacui e fissi a Stanton. «Ci hai chiamati, Maestro?» chiese il grosso curdo, capitano delle guardie. Per la prima volta, nella sua ira, Hasan Sabah comprese che i suoi Assassini non sapevano che era avvenuto un nuovo scambio dei corpi. Per loro Stanton era ancora il Maestro. «Stupidi, io sono il Maestro!» strillò Hasan, con la paura negli occhi. «Io sono Hasan Sabah!» Poi, visto che i morti viventi non gli prestavano nessuna attenzione, tirò fuori una pistola e la puntò su Stanton. Stanton non aveva armi. Rispose a quell'attacco mortale e improvviso nell'unico modo in cui poteva. Gridò alle guardie: «Uccidete quell'uomo!» E indicò Hasan Sabah.
L'enorme curdo balzò in avanti. La sua sciabola fischiò in aria. La punta entrò nella schiena di Hasan Sabah e uscì dal petto. E la piccola figura avvizzita e magra lasciò cadere il fucile, barcollò e cadde di fianco. Stanton si sorprese a tremare violentemente. Hasan Sabah, il Maestro degli Assassini, che aveva vissuto per mille anni, era morto. Il gigante curdo e gli altri Assassini alzarono i loro occhi vitrei su Stanton. «Ora che cosa dobbiamo fare, Maestro?» mormorò l'uomo. «Portate qui Bradley e Fizar Khan,» ordinò Stanton. Dopo poco le guardie tornarono con Bill Bradley e Fizar. I due uomini, zombie dagli occhi vacui come tutti gli altri, guardarono Stanton senza dare segni di riconoscerlo. «Fizar! Billy!» gridò Stanton. «Dovete svegliarvi!» Non fu visibile alcuna reazione sui loro volti rigidi e cerei. Bradley rispose. «Siamo svegli, Maestro,» dissero ottusamente. Stanton sì sentì disperare. Ma poi la speranza tornò in lui. Billy Bradley e Fizar sarebbero stati riportati al loro stato normale per mezzo della scienza ipnotica. La psichiatria degli psicologi moderni sarebbe stata in grado di riportarli alla normalità. E se ciò era possibile, anche gli altri potevano ritornare normali. Tutti quegli Assassini, quegli uomini e quelle donne, ridotti allo stato di morti viventi, avrebbero potuto vivere di nuovo. Diede ordini ai suoi servi. «Aprite i cancelli del castello e portate i cavalli. Chiamate tutti gli Assassini che sono nella valle. Scenderemo in pianura, all'accampamento.» L'enorme curdo chiese: «Andiamo ad uccidere, Maestro?» «No,» replicò Stanton. «Non uccideremo questa volta. Lasciate qui le vostre armi.» Mentre i silenziosi Assassini si raccoglievano all'esterno del castello, Stanton ne esplorò le stanze. Trovò, come si era aspettato, un arsenale di armi e munizioni. Venti minuti più tardi, uscì nell'alba luminosa. Si unì alla banda di Assassini che lo attendeva. Tutti, uomini e donne, montavano a cavallo, e i loro volti cadaverici erano tranquilli. Stanton salì a cavallo e diede i propri ordini. «Cavalcheremo. Voi mi seguirete.»
Da molte gole uscì un mormorio. «Ti seguiremo, Maestro.» Galopparono lungo lo stretto crepaccio, un'armata soprannaturale che cavalcava silenziosamente dietro l'americano. Quando erano ancora vicini al castello, echeggiò un boato alle loro spalle. Nessuno dei cavalieri morti viventi si girò a guardare. Continuarono rigidamente a cavalcare. Ma Stanton guardò indietro. E vide le rovine del castello di Hasan Sabah crollare nell'imboccatura della valle cieca. La miccia che aveva acceso nell'arsenale aveva funzionato. La Valle degli Assassini era chiusa per sempre e, dopo mille anni, Hasan Sabah era sepolto sotto le rovine della mitica Alamut. Stanton si voltò e continuò a cavalcare. Bradley, Fizar e gli altri presto sarebbero tornati ad essere degli uomini normali, a Dio piacendo. La minaccia a quella linea di rifornimenti, vitale per le democrazie, era scomparsa. Sentì una gratitudine profonda. E il sole che sorgeva illuminava per l'ultima volta gli Assassini che scendevano lungo la montagna, dietro al loro Maestro.
Donald Wandrei LA SIGNORA IN GRIGIO The Lady in Gray dicembre 1933 In tutto il corso della mia vita, le ore dal tramonto all'alba, quando gli altri dormono, sono state oppresse dalla paura. Fin dalla più tenera infanzia sono stato soggetto ad incubi terrificanti, dai quali non sono riusciti a liberarmi né medici né psicologi. I dottori non hanno riscontrato alcun disturbo organico, ad eccezione di piccoli problemi comuni a qualsiasi uomo. La mia vita è stata stranamente priva di incidenti, shock, tragedie e disgrazie. Non ho mai avuto preoccupazioni economiche. La mia carriera è stata accompagnata da un successo costante. Gli psichiatri hanno passato mesi ad analizzarmi, ad indagare sulla mia vita, sul mio sviluppo emotivo, sulla mia coscienza e sul mio inconscio. Mi hanno ipnotizzato, mi hanno sottoposto ad innumerevoli test, hanno ricercato paure od ossessioni segrete che potessero giustificare i miei incubi, ma invano. Sedativi, oppiacei, diete, viaggi e riposo: mi sono stati consigliati di volta in volta, e io li ho provati senza successo. Per i medici, sono un uomo sano di trentaquattro anni. Per gli psichiatri, sono una persona
normale ed equilibrata, i cui sogni straordinari sono o esagerati o falsi. Questo non mi consola. Sono arrivato a temere il momento in cui la notte si avvicina. Darei volentieri tutte le mie ricchezze, se potessi essere liberato dalle visioni che mi ossessionano la notte, ma i grandi diagnostici americani e i più importanti psichiatri europei si sono affaticati invano. Ora, mentre sono seduto a scrivere queste ultime parole, sono dominato dalla calma e dalla disperazione. La mia mente è più lucida di quanto sia mai stata prima, nonostante l'orrore, il disgusto, la repulsione e la paura che hanno accompagnato il mio primo, e credo ultimo, shock profondo. Uno schock che ha annullato solo pochi minuti fa, e nella piena luce del giorno, qualsiasi speranza avessi di vivere la mia vita in modo soddisfacente. La cosa spaventosa è al mio fianco in questo momento; e quando avrò finito di scrivere, la distruggerò. Ma torniamo indietro di molti anni. Sono stato soggetto, lo ripeto, a sogni terribili fin dalla più tenera infanzia. Teste che mi inseguivano rotolando, città dalle statue aliene e colossali, fiamme che bruciavano e animali che balzavano. Cadute in precipizi titanici, ascese vorticose da inferi di un male antico, gli Antichi che aspettavano in eterno, fughe in un'oscurità infinita. La morsa di infernali macchine da tortura sulla mia carne, mostri composti da un'unione incredibile di fiori e animali, pesci e uccelli, pietre e legno, metalli e gas. I pallidi vendicatori, discese in regioni necrofile, un occhio al centro di pianure vaste e desertiche, un cadavere che sorge e volta verso di me il viso di un amico, tentacoli e strisce di carne nera e lacera che si agitano come se fossero colpiti da folate di vento. I Piccoli che mi avvicinano con strane suppliche, raggi di sole su una collina coperta di querce, raggi di sole che hanno un colore, una pulsazione e un odore maligno e ignoto e che instillano in me quell'odio irragionevole che è alleato della pazzia. Orchidee dalle corolle simili a volti di bambini, i morti che ritornano in eterno. Quell'orribile momento in cui affondavo e un essere gigantesco usciva dalle profondità marine per divorarmi. Erbe miagolanti che facevano le fusa, mentre le calpestavo. Questi e altri incubi del genere hanno afflitto i miei sonni, fin dove arriva il mio ricordo, e hanno generato in me un'avversione profonda e radicata nei confronti del dormire. Ma io devo dormire, come ogni altro uomo. E che cosa dovrei dire di quei sogni più oscuri, quelle processioni spettrali che non corrispondevano e non corrispondono alle conoscenze che sono in mio possesso? Che cosa dovrei dire della città sottomarina, tutta di marmo vermiglio e di bronzo
corroso, nella quale sorgono costruzioni dalla strana geometria, costruzioni che sulla terra non si sono mai viste? E Colui che sussurra nell'oscurità, e il richiamo di Cthulhu? Io ho visto le Sette Morti di Commoriom, e i Ventitré Dormienti, dove Hali solleva le sue spire nere a Carcosa. Chi altri è stato testimone del risveglio dei Titani morti, o del colore dello spazio esterno, o dell'icore degli Dei di Pietra? Questi incubi mi tormentavano e mi destavano, sudato e febbricitante, nel grigiore dell'alba, in quelle ore silenziose e calme dopo la mezzanotte. Ma quei vecchi sogni sono minuzie, se confrontati agli incubi degli ultimi tempi. Ora non posso narrare gli avvenimenti che portarono a farmi conoscere Miriam, né il nostro amore breve ma sconfinato, l'unione eterna che avevamo immaginato, e la sua tragica morte. L'aeroplano, che la riportava a casa dopo una visita ai suoi genitori, cadde alla vigilia delle nostre nozze. Forse lo shock di quell'incubo ad occhi aperti ha completato la lenta devastazione della mia mente, quella devastazione provocata dagli incubi notturni. Non sono l'unico a dirlo. Miriam era morta, tutta la sua strana bellezza, il grigio dei suoi occhi, l'inclinazione grigia e sommessa della sua personalità, il pallore delle sue guance, il suo spirito misterioso e vago, tutto era scomparso. La chiamavo la signora in grigio. Lei era nella bara, come una donna dei racconti di Poe, o una creatura soprannaturale del Giro della Vite. Così amabile, così irreale, così estranea, eppure così misteriosamente dolce. Morta, ma non per me. Anche il giorno era grigio, quel pomeriggio autunnale. E le foglie mosse dal vento frusciavano con un rumore secco, triste. Più tardi cominciò a piovere, e il mondo divenne di un grigio più cupo. Il rumore della pioggia sferzante rivaleggiava con le improvvise folate di vento, ed io ero solo con la mia solitudine. Nel santuario della mia camera, quella notte, io feci un sogno. Sognai che Miriam veniva da me, mi prendeva per mano mi conduceva lontano. Arrivammo ad un mare vasto e fangoso, il cui colore spaventoso mi terrorizzò più del suo fetore. Il nero di quel mare, la sua viscosità, e la generale atmosfera di decadenza, mi nausearono prima ancora che Miriam mi facesse immergere in quelle acque, cosicché il tocco con quel fluido mi inorridì doppiamente. Quando fummo al largo, mentre io lottavo per non annegare,
la signora in grigio, che galleggiava luminosa sulla superficie di quel liquido, senza alcun motivo apparente si voltò e mi riaccompagnò a riva. La mattina dopo non riuscii a spiegarmi la presenza di quel fango che mi ricopriva né di quell'odore mefitico nella mia camera. Solo con grandi sforzi riuscii a rimuovere quella sostanza orribile dal mio corpo, e fui costretto a bruciare ogni cosa che quella roba fangosa e nauseante aveva macchiato. Quella notte sognai cieli di fuoco e terre le cui rocce rosse si libravano in volo da valli sterili, dove non viveva niente e nessuna pianta fioriva. Volavano verso una metropoli ciclopica sospesa nei cieli. Poi, per molte notti, ritornarono i miei vecchi sogni finché, una notte, ebbi di nuovo la visione della signora in grigio. Mi prese nuovamente per mano e mi fece alzare dal Ietto. Attraversammo pianure di polvere grigia, e arrivammo davanti ad una colonna. In questa colonna viveva un grande verme bianco che non era un vero verme. Era una creatura gigantesca, simile ad un lumacone, tutta grigia, e con il volto, se così si può chiamare quella cosa orrenda, di un essere pensante. Era una testa munita di corna, la cui pelle, rossa, bianca e grigia, mi nauseò, ma Miriam comandò ed io obbedii. Colpii la colonna: cadde. Dai cocci uscì quel disgustoso verme, e io lo presi tra le braccia. Si avvolse a spirale. Poi la signora in grigio mi ricondusse attraverso quella pianura tremenda e desolata. Quando arrivammo alla mia camera, affidò alle mie cure l'abitatore della colonna. Si chinò su di me, e la creatura grigia baciò la donna grigia con la sua bocca adunca. Poi Miriam si abbassò ad accarezzarmi le labbra, quindi si allontanò, come una nebbia, silenziosamente. Quando, la mattina dopo, trovai accanto a me quell'orribile verme, fui terrorizzato. Balzai dal letto e con le molle del caminetto colpii e schiacciai la creatura. Poi ne avvolsi i resti tra le lenzuola sporche, e li bruciai nel forno. Feci un bagno. Mentre mi vestivo, trovai della polvere grigia sulle scarpe, e fui riassalito dalla paura. In effetti, nel cimitero in cui è stata sepolta Miriam, il terreno è grigio. E, sebbene l'erba cresca folta e verde e i fiori selvatici siano rigogliosi, quella terra grigia non è stata mai sconfitta. Perciò, in primavera, il grigio trapela tra il verde, e in autunno la polvere cinerea ricopre le foglie secche e l'erba morente. Ma non volli andare al cimitero a cercare le mie tracce; perché, se avessi
trovato le mie orme, ai miei deliri si sarebbe aggiunto l'orrore del sonnambulismo: e se non avessi trovato le mie impronte, la mia paura sarebbe divenuta insostenibile. Dove ero stato? Da dove veniva il verme gigante? In seguito, per molte notti, tante notti che la perdita di Miriam era diventata un dolore sordo, attenuato dal passare del tempo, rifeci i vecchi sogni. Sognai di cadere e di volare, sognai le città sottomarine, le macchine da tortura, gli animali sconosciuti e gli occhi. Poi la signora in grigio è ritornata una notte all'inizio dell'inverno, quando avevo cominciato a dimenticare, per quanto mi fosse possibile. Quella notte è stata la notte scorsa. La neve era caduta per tutto il giorno, e il vento di nord-ovest, con un prolungato lamento, l'aveva spinta in avanti e l'aveva ammucchiata in cumuli. I rami degli alberi spogli si abbassavano e gemevano tristemente. Al calare delle tenebre sono stato preso dalla malinconia e dalla depressione. Pensavo a Miriam ed alla sua morte. L'urlo del vento cresceva, e, al suono di quel grido lontano, mi sono addormentato. E, non appena mi sono addormentato, Miriam è venuta a prendermi. Mi ha condotto attraverso quelle pianure desolate fino ad una foresta, nella quale ci siamo addentrati. I tronchi di alberi giganteschi si alzavano sempre più alti intorno a noi. Poi siamo arrivati ad una caverna, nella quale lei è entrata. L'ho seguita, allungando il passo per cercare di raggiungerla, ma non sono riuscito ad accorciare la distanza tra noi. Ad un tratto è accaduta una cosa strana: la caverna si è inclinata verso il basso, fino a divenire verticale. Poi è accaduta una cosa ancora più strana: abbiamo cominciato ad affondare nella terra, come se stessimo cadendo lentamente, eppure dovevamo compiere un certo sforzo, come se stessimo camminando normalmente, solo che l'orizzontale era divenuto verticale. E con lentezza sono finalmente riuscito ad avvicinarmi a Miriam. Dopo una lunghissima caduta, ci siamo fermati ad una profondità incredibile sotto la superficie della terra. Ci siamo ritrovati nel mezzo di una grotta, il cui soffitto si allargava in grandi archi, mentre le pareti somigliavano alle navate di una cattedrale cosmica e sotterranea. L'ho seguita lungo la navata centrale dello spazioso edificio. Ceri spettrali, che si levavano come torce giganti accanto a noi, gettavano ombre grottesche e tremolanti sul pavimento, mentre soffi di vento umido facevano tremolare le fiamme. La tunica grigia di Miriam, il sudario grigio, fluttuava dietro di lei e mi sfiorava il volto. Siamo arrivati ad una porta di ebano, che si è spalancata silenziosamente
sui grandi cardini, al nostro avvicinarci. La signora in grigio vi è entrata, ed io l'ho seguita. Mi sono ritrovato all'interno di una cripta, nella quale tre ceri rossi gettavano un bagliore cupo e sinistro. Uno era alla sua testa, uno ai suoi piedi, ed uno lasciava cadere gocce scarlatte sul suo petto. Perché lì giaceva Miriam: la mia signora in grigio riposava sul marmo eterno. Alla sua testa c'era una ciotola di fango del Mare Nero, ai suoi piedi c'era il verme bianco redivivo. Tra le mani, ripiegate sul petto, teneva da una parte un cero e dall'altra una gardenia, la cui fragranza acuta e virginea, vinceva l'odore della camera ardente. Nel sogno, con la strana logica dei sogni, tutto ciò mi è parso naturale, e non avevo paura. Mi sono avvicinato alla mia signora in grigio e, al mio arrivo, la ciotola si è rovesciata: ma io l'ho scostata, e allora il grande verme si è levato, ma io l'ho calpestato. Intanto i ceri si sono spenti. La gardenia emanava un bagliore fosforescente. A questa luce, per quanto fosse fioca, ho visto Miriam agitarsi, e tremare. L'ho presa tra le braccia. La gardenia illuminava fiocamente il mio cammino, e io ho portato Miriam nell'oscurità sussurrante, mentre il grigio del suo sudano ondeggiava intorno alle mie caviglie. Sono ritornato nella navata ventosa, con la sua fuga d'archi e i suoi ceri tremolanti. Poi, con la strana irrazionalità dei sogni, il corridoio verticale è scomparso, ed io ho camminato lungo la vasta grotta fino a riemergere sulla pianura. La polvere grigia si è alzata, ma il sudario grigio di Miriam mi ha avvolto, e la polvere è volata via. Il cielo era pieno di stelle. Ho camminato al buio. Solo la gardenia, il cui odore addolciva l'aria, illuminava la strada. Mi sono abbarbicato a Miriam, e ho portato la signora in grigio nella mia camera. Mi sono svegliato da questo sogno solo da poco. La mia mente è stata investita da ondate di cieca oscurità, alternate da vampate di fiamme rosse, la mia tranquillità è persa in eterno. Per me non ci saranno più dimore mortali ed umane su questa terra, non ci saranno più le incertezze, transitorie ed effimere della vita. Ho scritto, ed ora morirò. Mi ucciderò. Perché, quando mi sono svegliato, ho visto la signora in grigio accanto al letto. La sua faccia portava i segni di corruzione della morte, e il suo sudario pendeva lacero ed ammuffito. Ma sono state queste tre cose a scuotere il mio equilibrio: la gardenia fresca nelle sue mani; le sue unghie, lun-
ghe e gialle, come lo sono solo quelle di coloro morti e sepolti da mesi; e il modo spaventoso in cui le sue mani torcevano il fiore, mentre i suoi occhi, neri e liquescenti, mi fissavano! Manly Wade Wellmann IL RONDACHE DI LEONARDO The Leonardo Rondache marzo 1948 Tra Prendic Norbier e John Thunstone non c'erano molte differenze fisiche. Erano entrambi alti più di un metro e ottanta, erano entrambi larghi in proporzione all'altezza, avevano entrambi i capelli neri e i lineamenti decisi. Ciascuno dei due aveva mani lunghe ed enormi, ciascuno dei due era costretto ad indossare abiti e scarpe fatti su misura. E in quel momento, nel piccolo capanno che fungeva da studio, dietro la casa di campagna di Norbier, erano seduti, l'uno di fronte all'altro, al tavolo illuminato vivacemente. Entrambi avevano sul volto la stessa espressione di interesse e di avidità. Le differenze tra i due erano le grandi differenze che si notano ad un secondo sguardo. Questo secondo sguardo, se approfondito, avrebbe definito John Thunstone un grasso energico, attivo, e Norbier un grasso rilassato, allegro. L'abbronzatura, che colorava la fronte ampia e le guance rugose di Thunstone, era l'abbronzatura prodotta da un'attività all'aria aperta, mentre quella di Norbier era l'abbronzatura elegante, il prodotto di passeggiate sulle spiagge e di sedute sotto le lampade al quarzo. E l'espressione degli occhi di Thunstone era assorta, quasi ansiosa, mentre Norbier manifestava una fiduciosa attesa. Tra le grandi dita di Thunstone c'era una lente d'ingrandimento. Stringeva un occhio per scrutare attraverso la lente la fotografia che era sul tavolo. Infine posò la lente e guardò Norbier. «È la firma di Leonardo da Vinci,» annunciò con serietà. «La scrittura invertita e la tipica forma delle lettere sono lampanti. Naturalmente, potrebbe trattarsi di un falso, e anche di un falso maldestro. Ma alla lente d'ingrandimento risulta chiaro che la firma non è una copia realizzata da un falsario. È di Leonardo da Vinci, anche se sembra la firma più giovanile che abbia mai visto. Naturalmente, ci sono altri esperti meglio qualificati di me...» «Voi non siete il primo a dire che la firma, che ho fotografato, è di Leo-
nardo da Vinci,» disse Norbier. «Grazie, Thunstone.» Riprese la fotografia. «Ora parliamo del vostro onorario...» «Come onorario,» disse Thunstone, «voglio solo che mi mostriate l'originale.» Norbier sorrise. Il suo sorriso non somigliava a quello di Thunstone, era un po' astuto e sospettoso. «Bene,» disse, «ho riflettuto molto sull'opportunità di mostrare l'originale. Ma voi, Thunstone, studiate altro, oltre la grafologia e l'Arte del Rinascimento. Vi sarebbe molto utile dare un'occhiata all'originale. Mi hanno deciso a mostrarvelo i vostri studi specifici... e il desiderio sincero che provo di diventarvi amico.» «Il mio unico altro studio serio,» ricordò Thunstone, «è la Magia Nera e il metodo per annullarne gli effetti.» «Esatto,» annuì Norbier. «Capirete come quell'oggetto si accordi al vostro studio. Venite da questa parte.» Si alzarono e Norbier fece strada verso un tavolino che era contro la parete. Sul tavolino c'era qualcosa che somigliava ad un grande specchio rotondo, ed era ricoperta da un panno bianco. «Eccolo,» annunciò Norbier, e tirò il panno. Thunstone mormorò qualcosa che poteva sembrare una bestemmia, ma il tono in cui la disse la rese una preghiera. Fissò il disco rotondo di legno, antico e pesante, grande quanto un vassoio da tè. Per un attimo non vide né il disco né il legno. Alla luce vivace della lampada appesa al soffitto avvertì solo una minaccia, intensa ed evidente, provenire dall'oggetto. Poi si costrinse a pensare che stava guardando un oggetto dipinto, dipinto secoli prima: i colori erano anneriti, i particolari erano sbiaditi. La bocca di Thunstone si strinse per un attimo, ma lui si mantenne calmo. «Qui c'è la firma che ho fotografato, è tracciata con un pigmento nero al di sotto del disegno,» Norbier gli stava dicendo. «E forse avete capito di quale capolavoro perduto di Leonardo si tratti.» Thunstone guardò Norbier. «So a quale episodio della sua vita si riferisce,» disse. «Un episodio che qualcuno crede sia una leggenda, e altri come Rachel Annand Taylor - ritengono reale. Leonardo era ancora un ragazzo e viveva nella casa di suo padre, il notaio Piero da Vinci. Un contadino portò un cerchio di legno - un rondache, simile a quelli usati dai fanti dell'epoca come scudi - chiedendo a Leonardo di decorarlo...» «Esatto, esatto,» Norbier gridò quasi di gioia. «E Leonardo si era sempre
interessato ai mostri. Studiò tutti i generi di animali mostruosi - lucertole, ragni e pipistrelli - e da ognuno prese qualche elemento, li mescolò e vi aggiunse un tocco del suo genio. Il lavoro che eseguì fu sufficiente a spaventare il padre; ma poi prevalse il senso d'affari di Piero da Vinci. Diede al contadino un altro rondache, decorato da un cuore trafitto da una freccia. Vendette invece il capolavoro di suo figlio ad un prezzo enorme; abbastanza forse da pagare l'istruzione di Leonardo nella bottega del Verrocchio a Firenze.» «E questo potrebbe essere il rondache in questione.» Thunstone lo osservò di nuovo. «Riuscite a comprendere la prima reazione che ebbe Piero da Vinci, non è vero? Posso chiedervi dove è stato ritrovato e come siete riuscito ad ottenerlo?» «In Germania,» disse Norbier. «Come senza dubbio avete saputo, ho dato un piccolo contributo allo studio e alla catalogazione dei tesori d'arte rubati dai Nazisti e conservati in camere blindate. Questo rondache è saltato fuori da una cassaforte, che era all'interno di una camera blindata di proprietà di un certo Gaierstein.» «Gaierstein,» fece eco Thunstone. «Non era molto noto, ma era ammirato dai suoi capi, perché aveva una discreta conoscenza delle religioni pagane. Litigò con Himmler perché lui, Gaierstein, suggerì che i seguaci di Himmler si sottoponessero ad un'iniziazione, prima di assistere ai riti antichi con i quali i capi nazisti volevano sostituire le varie chiese tedesche. Nessuno sa come sia morto Gaierstein. Si sa solo che è morto. Ed è a questo punto che intervengono i miei studi di Magia Nera.» «Questo rondache era in una camera blindata all'interno di una camera blindata,» spiegò Norbier. «Gli altri oggetti d'arte si dividevano in due classi: capolavori di grande valore e banali oscenità. Questo era un oggetto particolare. Non c'è stato modo di scoprirne la provenienza. Alla fine sono riuscito a comprarlo.» Si voltò verso il cerchio dipinto e ne toccò i bordi con un dito. «Ho dovuto darmi un bel da fare per pulirlo senza danneggiarlo. Solo oggi sono venute alla luce queste scritte intorno ai bordi: una spirale tripla di lettere. Che cosa ne pensate, Thunstone?» Thunstone si chinò a guardare. Le sue labbra si mossero lentamente, poi si irrigidirono. Afferrò il panno bianco e ricoprì il rondache. «Norbier,» disse, con la stessa severità di un giudice sullo scranno, «se vi ho fatto un favore, ricambiatemelo. Per il momento lasciate perdere questo rondache. Non lo scoprite e non lo guardate finché io non ritorno.»
«Ritornate?» disse Norbier. «Quando?» «Presto. Tra un'ora, forse. Siete d'accordo, Norbier?» «D'accordo,» sorrise Norbier, e Thunstone si affrettò ad uscire, con meno cortesia del solito. Rimasto solo nel suo studiolo, Norbier notò che il silenzio era più profondo di prima che Thunstone facesse quella richiesta, e che la luce della lampada era d'improvviso più opaca, meno brillante. Scosse il suo grande corpo, e sorrise per liberarsi di quelle allucinazioni. Si era fatto turbare dalla strana reazione di Thunstone a quella spirale tripla di lettere che era intorno ai bordi del rondache. Disse a sé stesso di lasciare quelle sensazioni raccapriccianti a Thunstone. Chi era Thunstone, ad ogni modo? Un uomo di grande aiuto e di grande cultura che, però, si gingillava con superstizioni che nessuno prendeva sul serio. C'erano quelle voci sull'odio di Thunstone per un sedicente mago, di nome Rowley Thorne, e sulla distruzione di Thorne. E c'erano altre voci, ancor più oscure, su un popolo, gli Shonokins - era quello il nome giusto? - che non erano un popolo, ma qualcosa di simile. Norbier non riusciva nemmeno a ricordare dove avesse sentito queste storie e se gli fossero state raccontate seriamente. Ad ogni modo, aveva altre cose più importanti a cui pensare. Quel rondache era un'opera di Leonardo da Vinci, il genio senza il quale il Rinascimento non sarebbe stato il Rinascimento. Inoltre, era forse il primo lavoro di Leonardo da Vinci che avesse interessato qualcun altro oltre i suoi familiari, ed era alla base di una storiella deliziosa a proposito di un grande uomo. Leonardo era un semidio del Quattrocento, e quella era la sua prima manifestazione di grandezza. Norbier dimenticò di aver fatto una solenne promessa a Thunstone. Con una mano scoprì il rondache. Non ne distolse lo sguardo, anche se molti avevano trovato l'impatto con quella pittura troppo forte e spaventoso. Norbier, nonostante la sua apparenza di uomo pigro e mite, non era né ingenuo né codardo. Si sedette davanti al rondache a studiarlo. Se Leonardo da Vinci, un ragazzino biondo e ricciuto, aveva studiato lucertole, pipistrelli e ragni per realizzare quell'opera, era evidente che non si era fatto influenzare dai propri studi. Chiunque altro si sarebbe accontentato del corpo della lucertola, delle zampe del ragno e delle ali del pipistrello. Ma non Leonardo, che era un maestro del pennello prima ancora che la voce gli cambiasse e sul mento gli comparisse la prima peluria,
preannuncio di quella barba apostolica che avrebbe portato in età adulta. Che cosa aveva detto Thunstone? «... li mescolò e vi aggiunse un tocco del suo genio.» Era giusto. Sembrava quasi una frase tratta da una critica d'arte. Ma Norbier non aveva voglia di pensare alla critica d'arte. Voleva prima di tutto godersi quel capolavoro, poi decidere a quale Museo - Civico o Universitario - offrirlo in prestito. Non una donazione, un prestito. Allora i critici sarebbero andati ad ammirare e adorare quella creazione. Immerso in queste riflessioni, Norbier continuava a fissare il rondache. Ad un tratto gli parve che l'orribile figura, che era al centro del cerchio di legno, fosse più netta di prima. Quel colore antico su quel legno antico aveva chiarezza e vitalità. La creatura aveva la testa rivolta verso l'eventuale spettatore, ma si sentiva la forma e la profondità del corpo visto in prospettiva: nello stesso tempo, snello come quello di una lucertola e tozzo come quello di un ragno. Le zampe - sembravano moltissime - erano filiformi e snodate, ma quelle anteriori avevano delle estremità simili a mani, che ricordavano le zampe anteriori della lucertola. Quelle ali erano una vera creazione di Leonardo: Norbier ricordò che Leonardo, nel tentativo di inventare l'aereoplano secoli prima di Langley e Wright, aveva studiato ogni creatura volante; pipistrelli, uccelli ed insetti. La testa della creatura era un ammasso tozzo, coperto di un pelo scuro, con due occhi brillanti e vicini, nascosti tra i peli. Il muso era piatto come quello di un pipistrello, e la bocca era sottile come quella degli ofidi, semiaperta, a mostrare... sì, zanne. Non c'era da meravigliarsi che chiunque avesse visto quel rondache, da Piero da Vinci fino ai tempi moderni, si stringesse nelle spalle per dissimulare un brivido. Norbier passò ad esaminare la scritta che era lungo il bordo. Era piuttosto strano che Thunstone fosse stato più impressionato dalla scritta che dalla creatura mostruosa. La gente aveva detto a Norbier che Thunstone non si spaventava mai, ma Norbier la pensava in maniera diversa. Che cosa diceva quella scritta? Era una serie di caratteri latini maiuscoli, che cominciava alla sommità del rondache e curvava verso sinistra intorno al bordo di legno, poi ritornava indietro e faceva un secondo giro all'interno del primo, e un terzo all'interno del secondo: una spirale tripla. Norbier pronunciò ad alta voce alcune delle lettere: «A-G-L-A-» Seguiva una linea trasversale. «La fine della parola,» disse, e il suono della propria voce gli fu di conforto. «Se leggo al contrario, da sinistra a
destra, si distinguono delle parole. In che lingua? Vediamo.» Prese il rondache e lo fece roteare lentamente verso la sommità in modo da leggere le altre parole: «Agla... Barachiel... On... Astasieel... Alpahere... Raphael... Algar... Uriel... fine del primo cerchio.» Alcuni di quei nomi gli suonarono familiari, erano nomi di canti e di preghiere antiche. Fece roteare il disco per leggere il secondo cerchio: «Michael... Iova... Gabriel... Adonai... Haka... Ionna... Tetragramaton.» Quest'ultimo nome l'aveva già sentito, e non in un canto né in una preghiera. Forse l'aveva letto in un racconto: Tetragramaton non era un demonio o uno spirito maligno? Fece roteare il disco ancora una volta per leggere l'ultimo cerchio di nomi: «Vusio... Ualactra... Inifra... Mena... lana... Ibam... Femifra.» Norbier desiderò che Thunstone fosse rimasto con lui. Ma Thunstone aveva detto che sarebbe tornato. Forse Thunstone sapeva che cosa significavano quei nomi. Intanto, quel mostro dipinto continuava a fargli impressione. Un qualsiasi stupido, senza alcuna sensibilità artistica, avrebbe ammirato il tocco da maestro di Leonardo giovane. In quel momento, il disegno sembrava tridimensionale, come se fosse un bassorilievo. «Hmmmmmm!» mormorò Norbier ad alta voce. Perché era un bassorilievo. Non se n'era mai accorto. La figura dipinta, troppo ben fatta per essere grottesca, sporgeva dalla superficie piatta del legno. Norbier allungò una mano a toccarne i contorni... e la ritirò di scatto. Qualcosa si era mossa alle sue spalle, in direzione del camino in cui il fuoco si stava spegnendo. Balzò in piedi, con la stessa rapidità che avrebbe avuto Thunstone, e si girò di scatto per vedere di che cosa si trattasse. Si aspettava di vedere una creatura enorme uscire dal camino verso di lui; una creatura scesa dal comignolo, una specie di antitesi malefica di Santa Claus, colma di doni malvagi. Ma non c'era niente. Niente si muoveva. Norbier si accorse di agitare e contorcere la mano che aveva toccato il rondache, e di strofinare l'una contro l'altra le dita. Sentiva una sensazione spiacevole sulla punta delle dita. Perché quando aveva toccato il ritratto del mostro, gli era parso che si muovesse e cedesse sotto la pressione della mano, e un pezzo di legno non poteva farlo. Questo l'aveva spaventato più di quel rumore che proveniva dal camino. Ma che cosa aveva provocato quel rumore? Attraversò con cautela la stanza, e poi vide. Un libro era caduto da uno
scaffale, e ora era aperto sul tavolo che era al di sotto dello scaffale. Si chinò a vedere. Era la Bibbia. Si era spalancata al Libro di Isaia, Capitolo Otto. Lesse il versetto che era all'inizio della colonna interna, il versetto diciannove: «Se dovessero poi dirvi: consultate gli spiriti e gli indovini, che bisbigliano e mugulano... Era una coincidenza, naturalmente, ma Norbier maledisse la propria immaginazione che gli aveva fatto sentire un mormorio alle spalle. I suoi occhi saltarono all'ultimo versetto del capitolo: Ed essi guarderanno la terra; e vedranno pene e tenebre, e l'oscurità dell'angoscia; e saranno condotti alle tenebre. «L'oscurità dell'angoscia,» ripeté Norbier ad alta voce, perché gli piaceva lo stile terso della frase. «Saranno condotti alle tenebre. Mi pare si adatti a quello che sta accadendo... «Che cosa sta accadendo?» Si girò di nuovo verso il rondache che era appoggiato al tavolo di fronte. Una creatura enorme, pesante, con molte zampe, si stava calando furtivamente dal tavolo a terra. Norbier si immobilizzo, la sua mente cercava disperatamente di spiegare quel fenomeno. La spiegazione arrivò. Ipnosi. Era proprio questo. Auto-ipnosi. Si era concentrato troppo su quel mostro dipinto. Oppure, più probabilmente, la colpa era da attribuire alla spirale tripla di lettere. Un anno prima, aveva letto su una rivista un articolo sull'ipnosi e su come era possibile indurla. È possibile autoipnotizzarsi fissando a lungo una spirale, una linea che si arrotoli su sé stessa, intorno ad un punto centrale. La si fissa, e alla fine sembra che cominci a girare come una piccola girandola, e ci si addormenta. Era quello che Norbier stava facendo: dormiva, sognava. L'essere aveva completato il suo lento spostamento dal tavolo a terra. Si accucciò, poi si alzò in posizione eretta sulla punta delle sue molteplici zampe. Tra quelle zampe, curve e snodate pendeva un corpo gonfio, simile ad una grande borsa stipata. Il tegumento era ricoperto di squame, e tra una squama e l'altra spuntavano ciuffi di pelo scuro. La creatura aveva un paio d'ali, nervate come quelle dei pipistrelli. Le ali si agitavano e sbattevano al di sopra della massa del corpo. La testa, una palla irsuta, si allungava verso di lui. Sulla faccia, nascosti tra il pelo, brillavano di una luce verdastra un paio d'occhi astuti. La fronte della creatura sembrava divisa in due parti, come se fosse aggrottata. La bocca si aprì e un raggio di luce illuminò una
fila di zanne bianche, irregolari, appuntite. Ne usciva un rivolo di bava, che gocciolava a terra. Gli artigli stridettero sulle assi del pavimento, come i denti appuntiti di un forcone. La creatura sì muoveva verso Norbier. Le due zampe anteriori si sollevarono, e Norbier vide che terminavano con delle appendici simili a mani, come le zampe anteriori di una lucertola enorme. Norbier scosse il capo, come un boxer stordito dai pugni che cerchi di riprendersi. Continuava a pensare a quell'articolo sull'ipnosi. Ma l'ipnosi non dura tanto a lungo. Anche se si viene ipnotizzati, e l'ipnotizzatore muore subito dopo, si fa una dormitina e ci si risveglia dopo poco, sereni e tranquilli come prima. Ma, mentre si dorme, gli incubi sono terribili. Norbier arretrò davanti all'avanzata della creatura e urtò con la schiena contro i mattoni che erano a lato del camino. Si abbassò e afferrò un paio di molle. «Va via!» urlò con la voce che gli tremava, e alzò le molle in gesto di minaccia. Le ali si agitarono e frullarono. Il grande corpo - sembrava quello di un orso - si alzò lentamente da terra. Ci fu un altro frullo d'ali e la creatura volò verso di lui. Norbier diede un colpo con le molle, ma mancò il bersaglio. L'estremità pelosa di un'ala lo colpì, la creatura volò intorno alla stanza e atterrò di fronte a lui. Norbier si sentì male. Il tocco dell'ala pelosa lo aveva nauseato; lo aveva infiacchito. La creatura frullava di nuovo le ali. Questa volta... «Restate fermo, Norbier!» disse John Thunstone in tono severo, tranquillo. Norbier non sarebbe riuscito a muoversi, anche se l'avesse voluto. Si incurvò e si accostò ancora di più alla solida parete di mattoni. La vista gli si annebbiò, cosicché Thunstone era solo un'ombra vaga ed enorme che gli si muoveva davanti. Verso Thunstone si mosse un'altra ombra, grande e vaga, ma che agitava un paio d'ali e molteplici zampe. «Ti piacerebbe, eh?» Norbier sentì che Thunstone diceva, poi scorse un movimento rapido, come se un'ombra si muovesse ad incontrare l'altra. I timpani di Norbier furono percossi da un grido, così alto da essere quasi una vibrazione senza suono. Un grido reso acuto da dolore, rabbia e terrore. Quel grido sembrava provenire da un pipistrello più grande e più malvagio di qualsiasi altro pipistrello esistente o immaginario. Norbier si strofinò gli occhi con una mano, e riuscì a vedere la lotta.
Thunstone colpiva la creatura con qualcosa... Thunstone dava le spalle a Norbier, perciò l'arma non era visibile a quest'ultimo. La creatura si ritraeva, ma cercava di colpire o di afferrare con una delle zampe. «Torna indietro,» diceva Thunstone. «Torna da dove sei venuto. Via!» La creatura si arrampicò sul tavolo. Si stava rimpicciolendo: non aveva più le dimensioni di un orso, piuttosto quelle di un gatto. Si ritraeva verso il rondache. Scomparve. Il rondache ora mostrava il disegno che Norbier conosceva. Thunstone posò rapidamente sul tavolo un oggetto sottile e scintillante, e afferrò il rondache con entrambe le mani. Lo fece roteare da sinistra a destra. Poi si girò verso Norbier. «Ora siamo al sicuro,» disse, in tono cordiale. Norbier guardò gli spruzzi neri che erano sul pavimento: una fila di macchie umide e irregolari che arrivavano fino al tavolo. Sembrava sangue, ma era troppo scuro. Alle narici gli arrivò un odore nauseante. Barcollò, poi si appoggiò alla parete. «Sedete in quella sedia che avete accanto,» disse Thunstone, e Norbier riuscì a raggiungerla. Thunstone appoggiò il rondache e si diresse rapidamente verso la credenza. Lo sportello era chiuso a chiave, ma Thunstone lo forzò. Ne trasse una bottiglia e versò un po' di liquore in un bicchiere. «Bevete,» disse, mettendo il bicchiere tra le mani di Norbier. Era un buon brandy. Norbier pensò che lui comprava sempre del brandy ottimo. Alzò gli occhi, ristorato. Fissò l'oggetto oblungo e brillante che era sul tavolo, accanto al rondache. «Quello?» disse Thunstone, seguendo la direzione dello sguardo. «È un coltello d'argento... l'argento è nemico della Magia Nera, come sapete. Le pallottole d'argento uccidono streghe e lupi mannari, i talismani d'argento tengono lontani i demoni. Qualcuno dice che fu lo stesso San Dunstan a forgiare quella lama. Non è la prima volta che la uso con successo. «Mi... dispiace, Thunstone,» riuscì a dire Norbier. «Ho dato un'occhiata a quella spirale tripla...» «Naturalmente. E l'avete girato tre volte da destra a sinistra, nel senso contrario a quello del sole e dell'orologio. E così il demone è uscito. Ci sono decine e decine di leggende che vi convinceranno che nessun demone vuol essere evocato da chi non sa come trattarlo. Io l'ho fatto tornare da dove veniva, facendo girare il rondache nel verso opposto. «Ma quella non è un'opera di Leonardo!» Norbier protestò, sentendosi come un bambino cui sono state infrante tutte le illusioni. «Non è di Leo-
nardo! Lui poteva avere a che fare con gli dei, ma non con i demoni.» «Pensate alla storia del rondache,» ricordò con gentilezza Thunstone. «Il padre di Leonardo fu spaventato da quel disegno, ma era abbastanza avido da venderlo. Chi poteva comprare un oggetto simile, e a quale scopo?» Norbier non rispose, e Thunstone continuò. «Un mago, naturalmente. A quell'epoca, l'Italia era piena di stregoni. L'aggiunta della spirale e il metodo di roteare il rondache era un incantesimo per invocare il mostro. «Distruggetelo,» supplicò Norbier. «Tutti i soldi che ho speso per comprarlo saranno soldi ben spesi, se quell'oggetto viene eliminato.» Thunstone sorrise. Aveva sollevato la lama d'argento e la stava pulendo. «Speravo che diceste una cosa del genere, Norbier.» Si abbassò a prendere un bastone che era a terra. Norbier notò che era un bastone da passeggio, ma cavo. Thunstone vi infilò la lama d'argento. Poi appoggiò il bastone in un angolo. Ritornò a prendere il rondache. Lo portò fino al camino, smosse le braci con un piede, e vi appoggiò il disco di legno. Si alzò una fiamma, chiara e infocata, come il centro di un altoforno. Intorno alla fiammata sì formò un cerchio rosso e incandescente, da cui si levarono scintille. Le scintille scomparvero, sostituite da nubi nere di vapore, che a loro volta svanirono. Quando Norbier si avvicinò, il legno era ridotto in cenere. Norbier sì alzò e si avvicinò al tavolo su cui era aperta la Bibbia. «È stato come se un potere benefico cercasse di avvertirmi,» disse. «Guardate che cosa dice questo versetto... no, le pagine si sono voltate.» «C'è stata una forte corrente d'aria in questa stanza,» osservò Thunstone. Si affiancò a Norbier. «Ora il libro è aperto all'inizio del Vangelo di San Giovanni. Se quell'altro versetto vi ammoniva, questo vi dovrebbe consolare.» Posò un dito sulla pagina. «In principio c'era il verbo, e il verbo era con Dio, e il verbo era Dio,» egli lesse. «Esso in principio era presso Dio. Per esso furono fatte tutte le cose e fatta separatamente da esso nessuna esistette.» Thunstone sorrise a Norbier. «È sufficiente, eh?» «No, non è ancora tutto,» disse Norbier, osservando la pagina. «Guardate più sotto, il sesto versetto. «C'era un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni...» John Thunstone tolse la mano e chiuse il libro.
Ronal Kayser NEL BUIO In the Dark agosto/settembre 1936 La torcia del guardiano disegnò un cerchio bianco sul vetro smerigliato, della porta, su cui spiccavano le lettere nere: GRFGG CHEMICAL CO. ASA GREGG, PRES. PRIVATO La mano del guardiano si strinse sulla maniglia, fece tintinnare il vetro del telaio. Strano, ma quella notte il rumore era sembrato provenire dall'interno... Ma era impossibile. Sapeva che il signor Gregg e Miss Carruthers portavano con loro le uniche chiavi dell'ufficio, perciò un qualsiasi intruso sarebbe stato costretto a forzare la serratura. Forse il rumore proveniva dal deposito. Il guardiano camminò con passo pesante lungo il corridoio dal pavimento di gomma, si appoggiò con tutto il peso alla porta. Si aprì con difficoltà, perché era di metallo pesante. La stanza era veramente un sotterraneo impermeabile all'aria e a prova di incendi. Gironzolò tra le grandi vasche di porcellana, e le sue scarpe stridettero sul pavimento di cemento. Il fascio di luce della torcia filtrò tra la nebbia azzurrognola ed illuminò le mura di cemento. Fumi acidi sfuggivano da sotto i coperchi delle vasche, producendo la nebbia e bruciando la gola del guardiano. Si precipitò fuori, tossendo e strofinandosi gli occhi. Era dannatamente strano. Ogni notte, sentiva lo stesso particolare rumore provenire da qualche parte di quell'ala dell'edificio... Faceva pensare a qualcuno che gemesse e si agitasse nel sonno. Gli faceva paura. Ma non aveva parlato a nessuno di quel mistero. Era anziano, e non voleva che il signor Gregg pensasse che lui era diventato troppo vecchio per quel lavoro. «Asa penserebbe che sono pazzo, se gliene parlassi,» borbottò. Nell'ufficio, Asa Gregg udì distintamente le parole mormorate dal guardiano. Restò immobile sulla grande sedia di pelle imbottita, respirando appena, finché lo stridore delle scarpe del guardiano non si fu allontanato lungo l'atrio. Nella stanza non c'era nessuna luce a tradirlo; solo la brace
rossa del suo sigaro, che però non era visibile attraverso il vetro smerigliato della porta. Ad ogni modo, sarebbe passata un'ora, prima che il guardiano passasse di nuovo davanti all'ufficio. Asa Gregg aveva quell'ora a disposizione, se riusciva a farne buon uso... Tolse l'estremità sfilacciata del sigaro dalla bocca. La sua mano, che negli ultimi mesi si era ridotta a pelle ed ossa, brancolò nel buio, sfiorò la superficie lucida e fredda del dittafono, e fece scattare l'interruttore. La macchina emise un flebile ronzio. Le sue dita trovarono il microfono, lo sollevarono. «Miss Carruthers!» disse di scatto. Poi esitò. Certamente, poteva fidarsi di Mary Carruthers! Non si era mai preoccupato di lei. Era la sua segretaria da una decina d'anni, e, negli ultimi tempi, visto che non riusciva ad occuparsi degli affari da solo, come aveva sempre fatto, la donna aveva praticamente preso le redini della ditta. Aveva quarant'anni, era sensibile, bruttina e riservata. All'inferno, doveva fidarsi di lei! La sua voce affondò nel buio. «Quello che ho da dire è rivolto solo alla signora Gregg. Naturalmente, prenderà la prima nave per tornare a casa. Andatela a prendere alla nave e portatela in ufficio. Poiché mia moglie non sa come funziona un dittafono, sarà necessario che glielo mettiate in funzione. Non appena l'avrete fatto, lasciatela sola nella stanza. Assicuratevi che nessuno la interrompa per mezz'ora. Questo è tutto.» Aspettò che passasse un intervallo di tempo sufficiente. L'ago invisibile premeva sul cilindro incerato. «Jeannette,» mormorò Asa Gregg, ed esitò nuovamente. Non era facile da dire. Decise di cominciare dai fatti concreti. «Come forse sai, il mio testamento e le polizze d'assicurazione sono in una cassetta di sicurezza alla First National Bank. Credo che troverai tutti i miei documenti in ordine. Se insorgono dei problemi, consulta Miss Carruthers. Quello che ora devo dirti è strettamente personale... Sento, mia cara, di doverti una spiegazione... cioè...» Dio Santo, era più difficile di quello che si aspettava. «Jeannette,» ricominciò, «ricordi tre anni fa, quando ero in ospedale? Allora tu eri a Palm Beach, e ti telefonai per dirti che avevo subito un incidente in fabbrica. Non era proprio così. Il fatto è che ero innamorato di una ragazza...» Si fermò, tremava. Nel buio, il ritratto di Dot oscillava davanti ai suoi occhi. Il volto ovale, incorniciato da riccioli di un biondo falso, aveva una
bocca scarlatta e imbronciata e un paio d'occhi la cui seduzione era accentuata dall'ombretto viola. Il ritratto a grandezza naturale includeva un corpo ben fatto, pieno, eppure snello. Una costosa e seducente cantante di Broadway! In effetti, era lì che l'aveva conosciuta. «Non voglio trovare giustificazioni al mio comportamento,» disse con voce rauca Asa Gregg. «Ma potrei sottolineare che tu eri sempre in Florida, alle Bermude o in Francia, e che io ero solo. Ma non era solo la solitudine, ed io non cercavo compagnia. Pensavo di dare l'addio all'amore romantico. Ero un uomo di successo, sessantenne e sciocco, e ho fatto tutte le possibili sciocchezze... le ho scritto perfino delle lettere. Lettere stupide e mielate.» Il dittafono non poteva registrare la smorfia che gli contorse le labbra. «Lei le conservò, naturalmente, e poi le mise in vendita a diecimila dollari. Dot affermava che uno di quegli osceni giornali scandalistici le aveva offerto quella somma per le lettere... e che cosa doveva fare una povera ragazza che viveva del proprio lavoro? Mentiva. Lo sapevo. «Le dissi di portare le lettere in ufficio, dopo le ore di lavoro, e io mi sarei occupato di lei. Mi occupai di lei, si. Le sparai, Jeannette!» Si asciugò il volto con un fazzoletto che era già umido. «Non lo feci per i soldi, lo capisci. Lo feci per le cose che mi disse, dopo aver ripiegato le banconote nella borsetta... erano cose disgustose, a proposito di come si era guadagnata quei soldi sopportando i miei baci bestiali. Io avevo amato veramente quella ragazza, e pensavo che lei mi avesse voluto un po' di bene. Fu il suo odio a farmi impazzire. Allora presi la pistola dal cassetto della scrivania...» Asa Gregg allungò la mano nel buio per spegnere il dittafono. Annaspò per cercare la bottiglia che era sulla scrivania. La mano gli tremava. Gli cadde qualche goccia di liquore in grembo. Bevve dalla bottiglia... Aveva omesso una parte della storia. Era troppo orribile, anche solo a pensarci. Non voleva ricordare il sangue che macchiava la pelliccia di Dot. Non voleva ricordare come era riuscito a trasportare il corpo fuori dall'ufficio, senza far cadere nemmeno una goccia di sangue sul pavimento. Cercava di dimenticare la dolcezza del profumo muschiato, mescolata all'odore di sangue. Soprattutto, non voleva ricordare i momenti spaventosi in cui le aveva dovuto strappare gli anelli d'oro dalle dita e il dente d'oro dalla bocca... L'orrore riempì le tenebre che lo circondavano. I denti urtarono contro il collo della bottiglia, quando ingollò una seconda sorsata. Fece scattare l'in-
terruttore con violenza, ma quando parlò, la voce gli tremava di paura: «La portai nel deposito. Sollevai il coperchio di una delle vasche di acido. Quella vasca conteneva un acido abbastanza potente da distruggere qualsiasi cosa, tranne l'oro. Difatti, la vasca era rivestita di una sfoglia d'oro. Sapevo che in ventiquattro ore il corpo sarebbe stato irriconoscibile, e che in una settimana non ci sarebbe stata più nessuna traccia. Non importava se la polizia avesse sospettato di me, nessuno poteva accusarmi di omicidio, senza il corpus delicti. Avevo commesso il delitto perfetto, tranne che per un particolare. Non capii che ci sarebbe stato uno spruzzo, quando lei sarebbe caduta nella vasca.» Gregg rise, e non era una risata piacevole. Sua moglie avrebbe pensato che era un singhiozzo. «Adesso capisci perché andai in ospedale,» disse a scatti. «Forse la definiresti giustizia poetica. Oh, Dio mio!» La sua voce si spezzò. Spense di nuovo il dittafono, e si asciugò il viso con il fazzoletto umido. Il resto... come avrebbe spiegato il resto della storia? Si fermò qualche minuto a riordinare le idee. «Non hai idea,» riprese a parlare, «nessuno può avere un'idea di quanto sia stato punito per il delitto che ho commesso. Non mi riferisco solo alla sofferenza fisica, ma alla paura che mi assalì di aver parlato quando ero sotto l'effetto dell'anestesia. La paura che le sue tracce fossero seguite fino al mio ufficio... io avevo solo nascosto i suoi anelli, aspettando di gettarli nel fiume. La paura che lei si fosse confidata con il suo amante... sì, ne aveva uno. Oppure, temevo che arrivasse un'enorme ordinazione e che la vasca fosse svuotata il giorno seguente. E non potevo fare domande... non sapevo nemmeno, che cosa era stato pubblicato sui quotidiani. «Comunque, una parte dei miei dubbi atroci si chiarì. Interrogai Miss Carruthers, e venni a sapere che il cadavere irriconoscibile di una donna era stato ripescato nell'East River pochi giorno dopo la scomparsa di Dot. Fu così che la polizia "risolse" il caso. Mi liberai degli anelli. Ordinai di non toccare quella vasca. «L'altra cosa è cominciata sei mesi fa.» Uno spasmo gli contorse la faccia. Le dita si strinsero dolorosamente intorno al microfono. «Jeannette, ricordi quando ho cominciato a detestare la radio, come ti urlavo di spegnerla a metà di un programma? Tu credevi che stessi male e che fossi preoccupato per il lavoro... Eri in errore. La cosa che mi terrorizzava era che sentivo la voce di Dot...»
Afferrò il sigaro spento, lo mordicchiò. «È molto strano che tu non l'abbia notato. Non importava su quale stazione fossimo sintonizzati, era sempre la stessa voce quella che entrava furtiva nella stanza! Ma forse lo hai notato? Hai detto qualche volta che tutte quelle cantanti di blues avevano la stessa voce! «E lei era una cantante di blues... Era lei, si, che cantava per ricordarmi... «Poi accadde che... beh, sulle prime, ho pensato che Miss Carruthers avesse deciso di ringiovanirsi. Perché, vedi, continuavo a sentire un profumo in ufficio.» E lo sentiva anche in quel momento. Era come un miasma che si alzava nel buio. «Ma non è il profumo di Miss Carruthers,» disse con voce stridula. «Proviene da... si, dal deposito. L'ho capito circa un mese fa. Poco dopo che tu sei partita... una sera mi sono trattenuto in ufficio, e sono andato nel deposito... Sembrava che il profumo fosse più intenso intorno alla vasca la sua vasca - e ho sollevato il coperchio. «Il profumo, dolce e muschiato, mi ha investito il viso. «E questo non è tutto!» Il terrore pervase la stanza. Asa Gregg si acquattò sulla sedia, avvertì il peso della paura sul proprio corpo. Il sigaro gli cadde in grembo, poi a terra. «Non ci crederai, Jeannette.» Martellò quelle parole come chiodi nel buio che lo circondava. «Dirai che è impossibile. Lo so. È impossibile. È un'assurdità fisiologica: contraddice le leggi delle scienze naturali. «Ma io ho visto qualcosa sul fondo di quella vasca!» Afferrò la bottiglia. La moglie avrebbe sentito un lungo gorgoglio, e poi un colpo di tosse... «La vasca era pressoché piena di quell'acido trasparente ed oleoso,» continuò. «Io vi ho visto un sedimento sul fondo rivestito d'oro. E non avrebbe dovuto esserci nessun sedimento! Quell'acido dissolve i tessuti animali, le ossa e perfino i minerali: li mantiene in sospensione. «Ma non aveva nemmeno l'aspetto di un sedimento. Sembrava un mucchio di terra... «Ho rimesso il coperchio. Ho passato una settimana a convincermi che era impossibile, che non avevo potuto vedere niente del genere. Poi sono ritornato alla vasca...» Il silenzio incombeva nel buio. Soffiò aria nei polmoni. Poi le parole e-
splosero. Urla articolate, separate: «Sono andato a guardare la vasca, una notte dopo l'altra! Aspettavo per ore che avvenisse il cambiamento... Hai mai visto un corpo in decomposizione? Naturalmente, no! E nemmeno io. Ma, in linee generali, sai qual è il processo. Beh, in questo caso avveniva il contrario! «Sulle prime, ho osservato quel mucchio di terra trasformarsi in ossa, poi in uno scheletro. «Ho seguito lo spuntare dei capelli, un groviglio giallo che copriva il cranio nudo. Poi - oh, Dio mio! - la carne ha cominciato a crescere davanti ai miei occhi! Non ce l'ho fatta più. Non sono più ritornato in ufficio per cinque giorni.» Il microfono gli scivolò dalle dita sudate, viscide. Ansimando, Asa Gregg annaspò nel buio e lo ritrovò. La stanchezza, l'agitazione, appiattirono la sua voce. Era una monotona cantilena. «Ho cercato una via d'uscita. Se avessi potuto ripescare il cadavere dalla vasca! Ma non potevo portarlo fuori dalla fabbrica, da solo. Lo capisci, e lo capivo anch'io. Inoltre, a che cosa sarebbe servito? Se l'acido non l'aveva uccisa, niente avrebbe potuto farlo. «Perciò non ho nemmeno fatto cementare il coperchio di quella vasca. Anche quello non sarebbe servito a nulla! Fino a tre giorni fa, lei era pallida, esangue come un fantasma. Un fantasma nudo, perché non c'è stata resurrezione anche per i suoi abiti... «Ho guardato il suo corpo divenire roseo! Ormai ha le labbra scarlatte! Gli occhi brillanti... si sono aperti ieri... e il seno si alza e si abbassa... oh, quasi impercettibilmente... ma questo è successo la notte scorsa. «E stanotte - lo giuro - le sue labbra si sono mosse! Ha mormorato il mio nome! Si è girata... era poggiata su un fianco... e si è stesa supina!» La registrazione sarebbe stata confusa. La mano gli tremava violentemente, spingeva il microfono contro le labbra. Gregg poggiò il gomito alla scrivania. «Non è morta,» disse con voce soffocata. «È solo addormentata... e non dorme profondamente... Si sta svegliando!» L'ago invisibile tremò nel tracciare sulla cera una serie di rumori. Si sentiva un respiro ansimante, il grattare delle sue unghie sul piano della scrivania. Lo scatto di un cassetto che si apriva. Lo sparo di un revolver.
Clarence Edwin Flynn OMBRE DI FANTASMI Ghost Shadows gennaio 1936 Ho visto passare: Fantasmi di alberi al tramonto Che si allungavano sull'erba, Fantasmi di nuvole estive. Ho visto andare: Fantasmi di navi sul mare Disegnati dal chiaro di luna, Fantasmi di fiori appassiti. Ho visto tutto: Fantasmi di fiamme del focolare Illuminare un muro, Fantasmi di amici. Fantasmi di momenti svaniti Passare dove un tempo La rugiada era sulle rose: Ho visto anche questo. August Derleth GLI ASSASSINI E LA VITTIMA The Slayers and the Slain settembre 1949 Nessuno, forse, di coloro che passano vicino ai grandi edifici che ospitano immense biblioteche, pensa mai a ciò che si trova all'interno di quelle mura; e nessuno, entrando per lavorare su quei tavoli, tra i mucchi di carte, negli sgabuzzini e nelle cantine, immagina cosa potrebbe celarsi in ogni archivio insieme all'intera storia di quel mammifero chiamato Uomo, unitamente a molte altre informazioni sulle creature sue amiche. Una storia vista attraverso gli occhi dell'uomo, interpretata dall'uomo, scritta dall'uomo.
Documento di follia e arroganza, di ingordigia, avarizia e lussuria, di ignoranza e avidità, solo debolmente rischiarato dalla luce della saggezza e dal lento avanzare del progresso umani, tutto è definitivamente scolpito in milioni di libri, riviste, giornali, opuscoli, ritratti: questa intera, grandiosa e patetica testimonianza è eternata nella stampa per le generazioni a venire, forse per sempre. E c'è qualcosa di più, qualcosa che ha a che fare con quella testimonianza, qualcosa di palpabile nell'atmosfera stessa di certi luoghi, qualcosa che giace in attesa di anime sensibili, qualcosa che attende al di sopra del silenzio e della solitudine, e delle profondità della notte, di potersi manifestare... Poiché faccio parte del personale della grande sezione dei periodici appartenente alla Biblioteca della Historical Society del Wisconsin - che si trova nella Capitale di quello Stato - comprendo meglio della maggior parte degli altri cose che non è facile spiegare a parole. Ma questi lo seppi e compresi anni fa, quando ero ancora uno studente, e insieme a Ken Harley eravamo soliti trattenerci fra le pile di giornali, lavorando fino a tardi, notte dopo notte. Era un'infrazione alle regole, lo so; lo sapevo anche allora, ma non le davo importanza. Da quel tempo sono giunto a rendermi conto che di rado le regole sono puramente arbitrarie, che forse dietro di loro c'è un motivo inconscio, il risultato di una tradizione ancestrale da cui è meglio non allontanarsi e che è meglio non violare, per evitare che abbiano luogo avvenimenti di un tipo che nessuno potrebbe aspettarsi. Le pile di giornali formano dei corridoi senza fine sotto il grande edificio: sono miglia di corridoi, file su file di carte, rilegate e ammassate fino al soffitto e ai tubi delle caldaie, lungo i muri di cemento; giornali provenienti da ogni città del mondo - il London Times, La Prensa, il NewOrleans Time-Picayune, il Ceylon Observer, il Melbourne Herald, il Toronto Star, il Berliner Tageblatt, Le Temps, L'Osservatore Romano, Le Figaro, il Neues Wiener Journal, il Prager Presse, il Novoe Vrèmja, La Libre Belgique, il Nieuwe Rotterdamsche Courant,El Sol, il Journal de Genève, La Nacion, lo Shanghai Times, lo Asahi - infinite carte, la cui massa pesante e polverosa trattiene una sorta di continua oscenità all'interno di quelle stanze sotterranee, anche nei giorni più chiari. Fra queste cataste di giornali lavorano gli studenti, che devono però smettere per regolamento alle cinque del pomeriggio. Nei nostri giorni da studenti, Ken ed io ci facevamo beffe del regolamento, ma da allora ogni
giorno di più ho capito che le regole che tengono lontani gli studenti dagli archivi durante la notte sono giuste ed appropriate. Il conservatorismo degli anziani contro il radicalismo dei giovani, si potrebbe dire. Può darsi. Avete mai saputo con precisione quali fattori portano al formarsi di una opinione, di un atteggiamento, di una convinzione? Ma Ken ed io lo sappiamo, e non è solo per puro rispetto verso il regolamento, che mi sono sempre opposto a qualunque eccezione alle regole, e in particolare al concedere permessi speciali per lavorare negli archivi dopo l'orario di chiusura, soprattutto ad alcuni studenti come Darwin Vesper, vero modello del topo di biblioteca, sensibile, introspettivo, che vive una vita solitaria all'interno di sé stesso. Si conosce queste persone, o si arriva a conoscerle, lavorando con loro all'interno del loro mondo. È vero, all'autorizzazione concessa a Vesper di lavorare fino a tardi negli archivi mi opposi con una veemenza molto maggiore di quanta ne abbia avuta in altri casi simili. Il mio superiore, il vecchio signor Van Ordern, mi ricordò con fare sardonico che io stesso avevo ostinatamente richiesto - e alfine ottenuto - quel permesso, quando ero studente all'Università del Wisconsin. E perché, allora, questo mio atteggiamento reazionario? Non potevo dir loro che, proprio perché mi era stato rilasciato quel permesso, mi opponevo a che fosse concesso agli altri. Ma nessuno può dire che non mi sia opposto comunque con ogni mezzo a mia disposizione; il fatto che abbia fallito non si può certamente rimproverare a me. Perché io ho visto gli archivi di notte. Li ho visti molti anni fa. Ed anche Ken Harley li ha visti. Lui era l'altro studente del mio Corso che aveva ricevuto la mia stessa autorizzazione, benché lavorassimo laggiù in notti diverse. Noi due conoscevamo i corridoi oscuri, le torreggianti pile di giornali, le pozze di luce isolate dove si trovavano le poche lampade, quella luce che gettava un timido chiarore contro l'oscurità che premeva da ogni parte. Era sempre caldo laggiù, caldo umido in estate, caldo secco e torrido in inverno, e la polvere giaceva senza alcun cambiamento anno dopo anno, decennio dopo decennio; lo spazio occupato dai volumi in cui erano rilegati i giornali era così vasto che solo un piccolo esercito di inservienti avrebbe potuto tenerlo pulito per un tempo non superiore ad una settimana. Ma un simile esercito non invase mai gli archivi. Anche di giorno pochi studenti vi scendevano, preferendo lavorare nelle stanze meglio illuminate del piano superiore, mentre i volumi dei giornali venivano portati loro nel-
la sala di lettura dei periodici, al primo piano, da solerti impiegati. Il periodo in cui lavorai laggiù fu breve. Fu in relazione ad una ricerca dettagliata sulle scienze politiche, che iniziai a studiare gli editoriali in diversi periodici degli anni a partire dal 1850. Indugiai troppo a lungo, e la scarsità di tempo mi rese inevitabile lavorare di notte negli archivi, e così iniziai, dapprima con una certa fretta, ma poi con sempre maggior tranquillità. Non erano neppure quattro notti che lavoravo laggiù, quando un giorno, dopo colazione, Ken Harley nominò gli archivi. «Hai mai pensato a tutto ciò che è contenuto in quei volumi?», chiese. «Tutti quei crimini, gli orrori, le tragedie? Tutte le battaglia, gli incendi, le catastrofi? Un'incredibile testimonianza di terrore e morte, non di alcuni singoli individui, ma di una razza intera!» «Oh, andiamo,» dissi io sorridendo, «oggi sei in giornata nera.» «Ma no,» protestò con decisione, «io parlo seriamente, David: la morte di mondi interi... il mondo del 1850, del 1860, del 1900, del 1700...» «Il termine adatto è "morboso".» Dissi. «Lo è?», scosse la testa, pensieroso. «Vorrei sapere, se è vero che tutto questo rimane solo una pagina stampata, che cos'è allora, che si avverte laggiù?» «Una fantasia macabra.» Risposi. Ma lo era? Pensavo a questo quella stessa notte, mentre sedevo da solo nell'enorme edificio. Le porte della Sezione Periodici erano state chiuse alle sei ma, al di sopra degli archivi, la vita della Biblioteca continuò a svolgersi fino alle dieci e, solo verso le undici, il palazzo divenne buio, silenzioso, deserto. Era quello il momento, il periodo fra le dieci e mezzanotte, in cui il silenzio della Biblioteca diventava opprimente, per nulla mitigato dal lontano mormorio del traffico. La profonda voce della città si levava tutto intorno, e i rumori della notte, al di là dei muri, offrivano uno stridente contrasto con l'oscurità e la quiete all'interno. Vi erano degli impercettibili rumori che riecheggiavano senza fine tra gli archivi - tubature, pesi che si assestavano, topi, e qualcosa d'altro - qualcosa di cui non mi ero mai accorto prima, qualcosa che, probabilmente, soltanto un uomo solo con la storia del mondo ordinata e tangibile in file e file di giornali rilegati avrebbe potuto percepire. Forse quella di Ken Harley non era solo una macabra fantasia. Che raccolta di crimini e di morte, di assassini, suicidi, guerre e catastrofi, ovun-
que intorno a me! Pensavo sempre più a tutto questo mentre passava il tempo, e le cose che non potevo fare a meno di vedere nei titoli che scorrevo, tornavano indietro come vivificate, divenute più solide. Quando sollevai lo sguardo dalle pagine illuminate sotto i miei occhi per fissarlo nell'oscurità incombente, avrei voluto sapere di chi erano i passi che giungevano strisciando dai corridoi vicini, di chi il respiro che risuonava nell'atmosfera, di chi le pulsazioni che echeggiavano come una condanna fra gli archivi. John Wilkes Booth, il morente Lincoln, le migliaia di morti di Gettysburg, Jesse James, il generale Custer che opponeva la sua ultima resistenza, Crazy Horse assassinato, gli spaventosi crimini dei Bender, i morti nell'incendio di Peshtigo, di Chicago, nel terremoto di San Francisco, il dr. Crippen: tutti costoro, ed altri ancora, giungevano da una specie di esistenza sull'orlo di quell'oscurità incalzante, tornando da una vita di ombre, divenuti reali, per quanto effimeri, nei miei pensieri. Il mio interesse per lo studio vacillava, diminuiva. Chi si protendeva appena al di là della piccola zona di pallida luce dove ero seduto, curvo su una parte di storia, la storia dell'uomo? Lizzie Borden o Henriette DeluzyPraslin? Little Bobbie Franks o lo sfortunato Nicola Romanov? Il sinistro Rasputin o Henri Landru? Mabel Young assassinata e il sagrestano suo uccisore, o il professor Webster e la sua vittima Parkman? Desmond Taylor o la povera Josie Langmaid, violentata? Joseph Elwell o Dorothy King, la prostituta di Broadway? Ognuno e tutti si nascondevano nelle ombre, mentre il terrore e la morte prendevano forma ovunque dalle terribili storie tramandate per sempre in quei freddi caratteri stampati. Chiusi il volume. La stanza torrida sembrava viscida, repellente, sinistra. Una paura tangibile si diffondeva nelle tenebre circostanti. Camminai nel buio fino alla successiva lampada, e la accesi. Quindi ritornai nel punto in cui stavo studiando, e lì spensi la luce. Poi feci lo stesso con la lampada ancora successiva, e di nuovo tornai indietro, e continuai così finché trovai rifugio nel grande atrio al piano superiore, e potei scorgere il portone che dava all'esterno, con le ombre di due innamorati che cercavano quella penombra lontana dall'illuminazione delle strade. Che sollievo essere sfuggito al terrore che mi aveva attanagliato dabbasso! Follie dell'immaginazione! Questo pensai il giorno dopo. Vidi di nuovo Ken Harley a colazione e lo accusai di avermi suggestionato il giorno precedente. Ma lui non sembrò divertito. «Lo hai sentito anche tu?»
«Sentito cosa?» «Quello che c'è laggiù. Sai cosa intendo, David. Tutto quell'ammasso di orrori, di omicidi e violenze, di rapine e torture, di morti improvvise. Una notte ho addirittura creduto di vedere Burke e Hare!» «Adesso stai esagerando!» «Davvero? Ti dico, David, che le parole sono reali, i pensieri sono reali. Puoi dubitarne? Tutte quelle testimonianze di terrore e morte!» Quella notte il silenzio sembrava immenso. Tutta l'oscurità di quella stanza enorme ed ingombra, sembrava attendere che succedesse qualcosa, ad ogni secondo che passava, ad ogni battito che pulsava nelle mie vene. Persino la polvere sembrava viva, e una specie di sussurro percorreva la densa atmosfera. Faceva caldo fra le file di libri, un caldo opprimente. A poco a poco, i rumori al piano superiore si affievolivano, e un silenzio strisciante s'insinuava sempre più nel grande edificio ai margini del Campus dell'Università. E presto si rafforzò in me la convinzione di essere solo, nel palazzo... eppure non del tutto solo. Tutto intorno a me qualcosa aspettava, attendeva come l'orribile progenie di bestie terrificanti, facendosi credere timida e paurosa prima di balzarmi addosso per sbranarmi, squartarmi e divorarmi; qualcosa che si sviluppava dai pesanti volumi, crescendo da ogni parte, provenendo dai ricordi di parole, volti, pensieri che si erano accumulati nel subconscio del solitario studente, curvo su quei giornali. Le frasi sotto i miei occhi apparivano e scorrevano via; io non leggevo più «Le teorie economiche messe in pratica dall'amministrazione di Cleveland...». Leggevo invece le terribili parole di quella donna, Frau Seemann che, ricordando gli orrendi massacri commessi da Fritz Harmann, l'Orco di Hannover, raccontava come lui le avesse portato un sacco pieno d'ossa: «Ne avrei fatto del brodo, ma pensai che fossero troppo scarne e così le gettai via.» All'improvviso, intorno a me apparvero le disgraziate vittime dell'orrenda depravazione di un grottesco ed incredibile pervertito: degli innocenti macellati e divorati. Proprio Harmann, l'orribile Macellaio di Hannover, e Jean Baptiste Troppmann, responsabile di diverse stragi, e George Joseph Smith che, dopo aver carpito la fiducia delle donne, le rapinava e le trucidava come animali, e tutte le loro vittime - Erich de Vries, Heinz Martin, Hermann Bock, Adolph Hannappel, Wilhelm Erdner, Hans Sennenfeld, la sfortunata famiglia Kinck, Bessie Mundy, Alice Burnham, Margaret Lofty - incalzavano dalle tenebre, come fossero bramose di nuova vita, di un al-
tro atto dell'eterno dramma in cui gli assassini interpretano sempre lo stesso ruolo, e le vittime impotenti vengono massacrate sempre senza un motivo che non sia lussuria, brutalità o avidità, in un cerchio che si ripete, come se alcuni nascessero già destinati ad uccidere, ed altri ad essere uccisi. E sembrava che ovunque, intorno, l'odore della polvere e della carta antica svanisse, mentre al suo posto sopraggiungeva il tanfo orribile ed invadente del sangue che sgorga dalle ferite, e i rumori di quell'oscurità si trasformavano nei gemiti degli assassinati, inascoltati da tutti tranne che dai loro uccisori, e che riecheggiavano dal passato, da quegli attimi congelati nel tempo, mentre da ogni parte si profilavano quelle pagine stampate, enormi, coscienti, vive, con le terribili energie che animavano gli assassini e la disperata bramosia di vita che si spegneva insieme alle vittime, pedine di un destino sempre uguale. Mi alzai in piedi. Avevo la gola secca per il terrore. L'atto di alzarmi mi portò oltre il perimetro della luce che si irraggiava sul piccolo tavolo al quale ero seduto prima. In quel momento il buio in cui fissavo lo sguardo si congelò e, fissandomi a loro volta, vi apparvero quei volti, enormemente distorti e lontani nei corridoi del tempo, incuranti dei muri e degli archivi, del giorno e della notte. I volti enigmatici, sinistri, i ghigni astuti, gli sguardi corrotti, le fattezze sofferenti ed emaciate dei moribondi, i visi angosciati di chi veniva colpito a tradimento, le facce miti e falsamente ingenue che promettevano la morte, erano tutti lì - Lizzie Borden, Harmann, Troppmann, Landru, Webster, Smith, Bessie Mundy, Mabel Young - e fluttuavano dalle tenebre, premevano, sempre più vicine, muovendosi verso la luce. E dietro di me ce n'erano altre. Potevo sentire le loro mani di fantasma avvicinarsi a me, che avevo dato loro ancora una volta quel breve sprazzo di vita, e si approssimavano avidamente dai volumi ammassati su centinaia di scaffali, bramose di afferrare strettamente la vita una volta di più, per provare ancora l'accelerazione del respiro e delle pulsazioni, l'angoscia di morire, l'agonia di chi vive nell'ombra della morte, l'estasi di uccidere... Attraverso l'oscurità udii un fremito, come un sospiro o un anelito, e mi percorse un brivido, quale non avevo provato neanche nel più profondo gelo invernale. Gridai, inciampando all'indietro, e corsi alla cieca verso le scale. Giunto finalmente fuori, dopo un tempo che mi parve interminabile, rimasi a lungo aggrappato alla ringhiera esterna del parapetto. Alle mie spal-
le c'erano orrore e sgomento, paura e disgusto; alle mie spalle c'era un'impensabile, incredibile vita sprofondata da anni immemorabili nella polvere e nella carta in disfacimento... Non tornai mai più indietro, né lo fece Ken. Passarono più di dieci anni, quasi venti. Il mio lavoro mi riconduceva spesso fra gli archivi ormai familiari, ma sempre di giorno, poiché aderivo rigidamente all'orario di lavoro previsto, opponendomi a qualsiasi infrazione alle regole. Non accadeva spesso che degli studenti richiedessero l'autorizzazione a lavorare negli archivi dopo l'orario di chiusura, ed anche allora, per la maggior parte dei casi, non era mai più tardi delle nove o giù di lì. Mi accorsi che sarebbe stato diverso, quando arrivò Darwin Vesper. Cercai di dissuaderlo dall'insistere nel suo progetto, ma stava lavorando duramente per una borsa di studio e, in definitiva, nulla di ciò che potei dirgli lo impressionò abbastanza. Giunsi al punto - forse imprudentemente - di accennargli in parte ciò che era accaduto a me in quelle tenebre durante le ore notturne in cui egli aveva intenzione di lavorare. Mi sorrise, come immaginavo che avrebbe fatto, nello stesso modo in cui anch'io avevo sorriso a Ken Harley, circa due decenni prima. Era un sognatore, un giovane ricco d'immaginazione, in qualche modo brillante, ma privo di senso pratico, un solitario in cerca di solitudine. Non gli si sarebbe mai dovuto permettere di lavorare da solo, di notte, negli archivi. Perché lui stava preparando una monografia sulla psicologia degli assassini di massa per il suo corso di psicologia anormale. Studiando direttamente i soggetti, la sua mente ricca d'immaginazione poté evocare in vita, alla presenza delle ombre dei crimini passati, stampati e tramandati, le essenze, racchiuse in quelle carte, di criminali mai dimenticati e delle loro vittime, i resti psichici di terrore e violenza, di brutalità e lussuria e avidità, di morte orribile ed improvvisa. Trovarono Darwin Vesper la mattina del quarto giorno. Giaceva ad appena tre metri dal tavolo al quale stava lavorando, con una mano davanti alla gola, come in un gesto di difesa. Morto, senza dubbio. Morto almeno dalla mezzanotte, disse il medico legale mentre lo esaminava. Le sue annotazioni erano ancora come le aveva lasciate. Strane annotazioni. Normali quasi fino alla fine, e qui, ad un tratto, scarabocchiati con mano frettolosa e tremante, tre nomi, l'ultimo dei quali terminava con un lungo segno che tagliava la pagina e ne usciva: Troppmann, Landry, Har-
mann. «Insufficienza cardiaca,» dissero. Un'etichetta conveniente per coprire molte cose; non c'era nessun precedente di ipertensione o di altri problemi cardiaci. Ma io conosco la paura, lo sgomento, il terrore che lo uccisero. Anch'io vidi quelle orribili facce ghignanti. Ma quello che io non so, che non potrò mai sapere, è se furono le sue paure ad ucciderlo, o se semplicemente riportò ad una nuova, avida vita, quegli stessi terribili fantasmi che, da studente, vidi anch'io nelle mie ore di studio notturno. Quelle spaventose ombre da sempre nascoste negli archivi, che sono in attesa di un'altra persona solitaria e sensibile, rispettivamente gli assassini e la vittima, che aspettano in eterno di poter rinnovare il tragico susseguirsi dell'uccisione e dell'agonia mortale, dell'amore e della lussuria, della cupidigia e del tradimento, e dell'ultimo, interminabile orrore dell'oblio. Charles Henry MacKintosh MORTE IN VENTI MINUTI Death in Twenty Minutes gennaio 1935 È eccitante... aspettare qui nel mio studio, illuminato solo dalla lampada che è sulla scrivania, le grida acute, rauche degli strilloni: «Edizione straordinaria!» Lui sarà sicuramente considerato degno di un'edizione straordinaria: il buono, il grande, il colto Dottor Barrion. Questa è la misura della fama nella nostra America: meritarsi un'edizione straordinaria... e il Dottor Barrion è, o posso già dire era?, famoso. Un po' troppo famoso, forse, per la sua salute. «Siamo spiacenti, Dottor Graeme, ma il comitato nominato per scegliere un curatore ha deciso a favore del Dottor Barrion, a causa della sua fama come autore delle monografie su Amen.» Ih... ih... ih! Le monografie su Amen... il termine della tua fama crescente, il termine della tua camera, e della tua interferenza nella mia vita. Amen... e così sia! Mi chiedo se ora stia svolgendo le bende bitumate di quella bella mummia che io così generosamente gli ho offerto. Sempre con le sue mani, eh? A causa degli scarabei sacri e degli amuleti che tanto spesso sono avvolti insieme alle bende... tanto allettanti e tanto facili da sottrarre! Ih... ih... ih! C'è un amuleto avvolto tra le bende di quella mummia che avresti fatto meglio a lasciare a qualcun altro, Dottor Barrion... ma ora è
troppo tardi per pensarci, non è vero? Non si cambiano facilmente le abitudini di tutta una vita. Anche a me è costato. Mi è costato la mia mummia - non una mummia molto buona, ma una autentica - e uno dei miei due ragni testa di morto delle Hawaii. È stato intelligente da parte mia pensare ai miei ragni testa di morto. Non è più grande di uno scarabeo. È strano che una creatura così piccola riesca a dare la morte in venti minuti! Si dice che sia l'unica cosa velenosa che esiste in quel Paradiso del Pacifico, ed è molto rara anche lì: si trova solo nelle foreste più fitte, dove sono stati trovati i miei due esemplari. Ora ne ho uno solo. Ne posso avere bisogno per quel moccioso che è stato così felice di farmi le sue condoglianze per la decisione del comitato. Quel ghigno che aveva stampato sul viso! Che sia dannato! «E inoltre, pensano che il Dottor Barrion abbia un carattere più dolce, più forte.» Un insulto deliberato! Più dolce, forse: i deboli sono sempre «dolci». Ma più forte! Beh, vedremo chi è il più forte. Io sono forte come la Morte, Dottor Barrion; forte come la Morte, e non sono dolce. Non ti piacerà la tua morte... ma a me non piaceva la tua vita, e io sono più forte di te, Dottor Barrion. Ih... ih... ih! Perché non si affrettano con quell'edizione straordinaria? Certamente non vorranno conservare una notizia così importante per le edizioni del mattino. Non posso sopportare di stare qui ad aspettare, ad aspettare fino a domani mattina, ma lo farò, se devo. Ho già aspettato tanti anni... certamente posso aspettare un'altra notte. Mi domando che interpretazione ne daranno, quei giornalisti. Naturalmente, tireranno fuori la vecchia storia della maledizione dei sacerdoti sui profanatori di tombe. Al caro Dottor Barrion ha sempre dato fastidio essere definito un profanatore di tombe! Ma i giornalisti tireranno sicuramente fuori la storia della maledizione, per sollecitare le superstizioni dei lettori. È strano che un popolo così pratico come il nostro sia così superstizioso. Noi, il cui compito è aver a che fare con le mummie, «saccheggiare» le loro tombe e «profanare» i loro corpi... noi non siamo superstiziosi. Non possiamo permetterci un lusso come la superstizione nel nostro lavoro, è vero, Dottor Barrion? Noi non siamo superstiziosi. Noi siamo scienziati, tu ed io, razionali scienziati. Ih... ih... ih...! Ma forse perfino il Dottor Barrion farà un'abiura in quegli ultimi venti minuti! Cadrà in delirio e gemerà. Griderà preghiere e promesse ai sacer-
doti di Amen. Vorrei essere lì ad ascoltare... Ma è meglio essere qui ad aspettare nel mio studio tranquillo e buio, con i domestici al pianterreno che possono giurare che non sono più uscito dopo cena, se sarà necessario giurarlo. Nessuno può mettermi in relazione con la misteriosa morte del povero, caro dottore. Diranno che è stata la maledizione di Amon-Ra sui profanatori di tombe! Una bella fine per te, mio caro, famoso, arrogante collega! Era un grido quello che si è alzato dalla strada? Sì, sì, urlano «Edizione straordinaria!» Oh, avvicinatevi! Avvicinatevi in fretta! Fatemi sentire bene quella bella notizia... che cos'è stato? Qualcuno ha bussato alla porta del mio studio? Ma ho impartito ordini severissimi di non farmi disturbare per nessun motivo! «Sei tu, Williams?» Nessuna risposta. Strano... e seccante che i miei ordini vengano trascurati. Ma, pensandoci bene, può essere una sicurezza in più il fatto che si senta la mia voce da dietro la porta chiusa lo studio. Ih... ih... ih! Non è male! «Il Dottor Graeme è stato nel suo studio tutta la sera! Ho sentito la sua voce...» così dirà il buon Williams sul banco dei testimoni. Ma sono pazzo a pensare una cosa del genere! Non ci sarà nessuna testimonianza. Nessun processo. Nessun testimone. «Morte per disgrazia.» Un bel funerale... al quale parteciperò con il mio abito migliore, dopo aver mandato una degna corona di fiori. La più costosa... ma bisogna considerare tutto come un investimento. Questa volta il comitato non potrà che scegliere il Dottor Graeme. Che cos'è? Giuro che questa attesa mi innervosisce! Mi è sembrato che ci fosse qualcuno nella stanza... ma la porta è chiusa a chiave; sì, è chiusa a chiave, e nessuno può entrare. Stupido! Devo bere qualcosa. Ecco... a te, Dottor Barrion, dovunque tu sia ora! Salve atque vale! Buon Dio! Come hai fatto ad entrare? La porta è chiusa a chiave, chiusa a chiave, ti dico. Io... tu... che cosa vuoi, Dottor Barrion? Che cos'è quella strana fosforescenza intorno al tuo corpo? È qualche stupido scherzo? Che cosa! Sei venuto a restituirmi il mio ragno testa di morto? Che cos'hai in mano? Il ragno? Impossibile... è letale al tatto! Ma forse il ragno è morto. Forse le bende l'hanno soffocato. Mi dispiace che... ma che sto dicendo? Io non so niente di nessun ragno testa di morto! Dio mio! Non è morto! L'ho visto muoversi!
Sta attento, per l'amor di Dio! Hai la morte nella mano! No... no... tienilo lontano da me! È la morte, ti ho detto... Una morte orribile... una morte in venti minuti... Eando Binder POZIONE MORTALE The Elisir of Death marzo 1937 Mastro Ichnor contemplò con orgoglio estatico filtri e pozioni sistemati, lindi e ordinati, su larghe mensole di legno. Infusi di piante rare e ingegnosi composti delicatamente profumati con mirra, legno di sandalo e coriandolo e distillati in una atmosfera di magico incanto, possedevano il potere di modificare il corso della vita. Il suo sguardo correva da una parte all'altra della credenza: un verde rame, un rosa corolla, un'ambra trasparente, un giallo scuro, ve ne erano di tutti i colori e per tutti gli usi. Alcuni erano filtri d'amore, altri medicamenti per la cura di afflizioni; e ancora, pozioni per reprimere passioni violente, infusi per provocarle, miscele che potevano spingere al male o al bene a seconda di come usate. Negromante e alchimista, mastro Ichnor era famoso in tutta la Normandia come un potentissimo mago. I prodotti del suo laboratorio erano richiestissimi e raggiungevano prezzi principeschi. Non solo univa una rara esperienza di chimico ad una conoscenza di segreti vecchi di secoli, ma sapeva anche infondere in lozioni, balsami e fluidi, una straordinaria magia. Il suo familiare, un ripugnante e grasso rospo sempre sonnecchiante e appollaiato sul suo scrittorio, era un servitore abile ed obbediente, e le sue evocazioni permettevano a Mastro Ichnor di entrare in contatto con molte delle potenti e lontane divinità minori. Il suo laboratorio, parte di una antica caverna dalle origini sconosciute, era ricolma di apparecchiature alchimistiche e dei più raccapriccianti oggetti di lavoro. Alambicchi, zucche, fornelli, pinze, storte appoggiate e mescolate quasi casualmente con teschi lucenti, incensieri, immagini di idoli, scaffali ricolmi di ossa biancheggianti e vasi contenenti cose e oggetti rari come occhi di rana, denti di lupo e sangue di piccione, ingredienti indispensabili per le sue diverse miscele. Anche i locali estranei al laboratorio ed usati come abitazione, erano ornati con pietre e pali stranamente dipinti, totem ormai marciti, pentacoli finemente incisi e con una libreria ricolma
di libri e di pergamene ingiallite. Mastro Ichnor aggrottò la fronte quando lo sguardo fu attirato da uno spazio vuoto tra fiale e bottiglie. Tempo fa aveva occupato quel posto con una fiaschetta contenente un liquido scintillante e dorato, una bevanda atta a prolungare la vita umana oltre la sua normale durata. Questa pozione, che si avvicinava all'antica idea della panacea universale, ridonava ai vecchi l'età perduta, stimolandoli alla esuberante vigoria giovanile e risvegliandoli alla gioia di vivere; nessuna altra cosa avrebbe potuto risollevarlo dalla sua vita tediosa. Anche un solo sorso di quella bevanda poteva essere venduto per una piccola fortuna. Ma il posto destinato alla fiaschetta restava vuoto e, per Mastro Ichnor, sarebbe stato impossibile procurarsi una seconda volta uno degli inestimabili ingredienti. Assorto nell'esaminare le ampolle e i loro delicati contenuti, Mastro Ichnor non notò che il suo giovane assistente, preso da altri pensieri, non stava svolgendo il suo compito di azionare correttamente il mantice. Un enorme alambicco di vetro, era poggiato su un bulbo di rame e, sotto di esso, i carboni ardevano come se soffiasse l'inferno stesso. Il contenuto dell'ampolla cominciò così a bollire violentemente. Non passò molto tempo che la camera superiore dell'alambicco esplose, sollecitata dalla tremenda pressione esercitata al suo interno, spargendo il liquido bollente in finissime goccioline, per un raggio di diversi metri nella stanza. Scosso dalla frastornante esplosione, Mastro Ichnor cadde sullo scaffale che stava esaminando, rovesciando sul pavimento di pietra i preziosissimi filtri. Preso dalla collera, fissò accigliato il ragazzo che giaceva stordito sul pavimento. «Margo, stupido! Cosa hai combinato?» «Maestro, io...» «Silenzio idiota! Dopo tanto lavoro, dovevi rovinare proprio là distillazione finale. E questi...» Guardò l'alambicco frantumato e la pozza di liquido ai suoi piedi: si fece ancora più scuro in volto. Margo, scosso e ammutolito dalla paura, si acquattò tremante in un angolo della stanza. «Figlio di Belzebù, tu non sei migliore del mio precedente assistente! Lui aveva lasciato che il fuoco si spegnesse, tu invece, lo hai alimentato troppo. Sono perseguitato da veri e propri incapaci. Mi condurrete alla tomba con la vostra trascuratezza.» «Maestro mi perdoni. Io...»
Per risposta, l'alchimista prese dalla credenza con la sua mano ossuta, una bottiglia di vetriolo. Accecato dall'ira per quei tre giorni di lavoro buttati al vento, non avrebbe esitato un solo istante a lanciare l'acido sulla faccia del giovane perché restasse così sfigurato per il resto della vita. Qualcuno bussò alla porta del laboratorio. Già pronto a scagliare il liquido corrosivo sul piagnucolante assistente, Mastro Ichnor si fermò. Rabbia e sorpresa si contendevano entrambe la sua attenzione. Chi mai poteva essere: era già scoccata la mezzanotte! Alle singhiozzanti richieste del giovane assistente, l'alchimista posò la bottiglia d'acido. «Ti punirò più tardi. Ora vai ad aprire la porta. Ma prima assicurati che si tratti di una sola persona; non voglio essere vittima di ladri e malfattori proprio nel mio laboratorio. E vedi anche di pulire tutto il sudiciume causato dalla sua stupidità.» Con riconoscente alacrità, l'assistente, un ragazzo dai modi semplici e gentili, si diresse vero la parte terminale della bassa e lunga camera di pietra. Si chinò per poter attraversare un corridoio angusto e arrivò di fronte ad una pesante porta di quercia. Facendo scivolare un piccolo pannello, guardò fuori con attenzione e, sinceratosi della presenza di una sola persona, spinse lateralmente il pesante chiavistello di ferro aprendo la porta. Scrollandosi la neve dal mantello, apparve una figura alta ed imponente che sembrava portare su di sé tutti i disagi di una lunga camminata invernale. Indossava abiti di lana pesante e una spessa sciarpa gli ricopriva il volto in modo da rendere visibili solo gli occhi. «Il tuo padrone è in casa, ragazzo?» «Si, signore. Mi segua.» Lo straniero lo seguì silenziosamente: al termine del basso corridoio si alzò in tutta la sua statura e si trovò alla presenza di Mastro Ichnor. Il mago lo scrutò con occhi penetranti: aveva molti nemici e non sarebbe stato saggio essere incauti. Il nuovo arrivato si inchinò. «Mastro Ichnor, credo?» L'alchimista a sua volta si inchinò leggermente. «Al vostro servizio, signore.» Disse con tono indagatore. «Forse sarò io al vostro servizio,» rispose lo straniero con la voce smorzata dalla sciarpa saldamente avvolta sul viso. L'alchimista lo guardò fisso senza comprendere. Si mosse ed offrì al vi-
sitatore una sedia appositamente preparata nel punto opposto alla sua scrivania. Come lo straniero gli passò davanti, Mastro Ichnor lo scrutò ancora una volta. La scrivania era un normale tavolo di fattura grezza che si trovava in un angolo del laboratorio. Mentre attendeva che Margo facesse entrare lo straniero all'interno del laboratorio di pietra, l'alchimista aveva svolto un curioso rito. Mormorando strane parole, aveva tracciato, con una lunga e sottile bacchetta d'avorio dalla punta ornata d'ambra e con incastonata una scaglia di drago, delle rette tra la porta d'entrata e la scrivania. Si trattava di un invisibile filo magico che aveva il potere di rivelare i pensieri malvagi. Le persone ostili all'alchimista che attraversavano l'ipotetica linea, erano prese da brividi e tremiti, scoprendo così i loro veri intendimenti. Se si era alla presenza di un odio molto forte, il meschino cadeva addirittura a terra in totale agonia. Questa precauzione contro eventuali malpensanti, era rigidamente applicata da Mastro Ichnor a tutte le persone che erano solite andare da lui per una richiesta di servigio o per semplice visita. Come lo sconosciuto attraversò la linea negromantica, l'alchimista aguzzò gli occhi. Senza esitazioni apparenti o afflizioni, il visitatore passò oltre e si sedette sulla sedia che gli era stata offerta. Mastro Ichnor era soddisfatto. Qualunque cosa l'uomo volesse, era ben intenzionato nei confronti del padrone del laboratorio. Il grosso e sgradevole rospo, infastidito dal gomito dello straniero, gli ammiccò un istante, ma riassunse subito la sua abituale posizione continuando a sonnecchiare. «Ora, buon signore,» disse l'alchimista, «ti devi togliere quella sciarpa soffocante: dimmi il tuo nome e parleremo come vecchi amici.» Lo straniero scosse la testa. «Io non mi toglierò la sciarpa, Mastro Ichnor. C'è una ragione per la quale non ti mostrerò la mia faccia in questo luogo. La necessità mi ha spinto a venire da te, ma io non posso rompere il giuramento fatto in nome di certi Dei che onoro.» L'alchimista aggrottò le ciglia per la disapprovazione, quindi alzò le spalle rassegnato. «Il nome con il quale puoi chiamarmi è Lordeaux.» «Allora, Lordeaux, quale problema ti ha spinto sino alla mia povera casupola di pietra?» sondò Mastro Ichnor sospettando che il visitatore non fosse altro che un nobile restio a rivelare la sua identità. In tempi passati, numerose persone, erano andate da lui con richieste così nefande e sinistre che potevano essere rivelate solo con molta cautela.
«Cerchi forse un incantesimo per attirare sotto la luna un amore non corrisposto? La tua donna ti tradisce? Vuoi punire in modo sottile qualche nemico? Desideri incrementare il tuo acume, la tua vigoria nell'amore? Vorresti maggiore serenità di spirito? Cerchi forse fama, fortuna, potere, conoscenza? Per tutte queste cose io posso accontentarti con le mie pozioni, i miei alambicchi, i miei distillati. Ovviamente il prezzo è proporzionale ai benefici che ne risulteranno.» «No, niente di tutto ciò.» Rispose lo straniero. «Cerco una pozione che mi dia la forza di riappropriarmi della vigoria di un'altra età e scacci il flagello della senilità dal mio corpo, voglio essere di nuovo giovane. Hai qualcosa di simile ad un elisir di giovinezza?» «Un elisir di giovinezza! Ma mio buon Lordeaux...» «Ti pagherò come neanche puoi immaginare.» Lo interruppe lo straniero impaziente. «Mostrami una fiala, persino poche gocce se sono sufficienti ad illuminare il rigoglio della giovinezza anche per un solo giorno, ed io getterò oro ai tuoi piedi.» Gli occhi acuti di Mastro Ichnor lampeggiarono di avidità e, nel suo intimo, maledì quello spazio vuoto e il suo sguardo si diresse sulla mensola. «Non ce l'hai!» disse lo straniero leggendo il disappunto negli occhi dell'alchimista. «Ah, allora devo abbandonare ogni speranza, non vi è nessun altro guaritore in queste terre che potrebbe averlo.» «Uno degli ingredienti,» spiegò Mastro Ichnor rattristato, «è un elemento così raro che per averlo anche un re dovrebbe mendicare. Si trova solo in una terra molto distante, una terra di barbari, infestata da draghi e popolazioni crudeli. Io l'ho avuto una sola volta, dalle mani di un uomo che gli dei hanno protetto durante il viaggio condotto alla ricerca del prezioso ingrediente. Ma da allora nessuno ha più avuto il coraggio di cercarlo ed io inutilmente ho offerto uno scrigno di gioielli per chi me lo avesse consegnato.» Il corpo dello straniero sembrò agitarsi improvvisamente come se il mantello stesso esprimesse emozioni. «Offriresti ora lo stesso scrigno di gioielli se io ti mostrassi l'ingrediente tanto agognato?» La sedia di Mastro Ichnor scricchiolò sulla nuda roccia e l'alchimista replicò. «Ma che scherzo è mai questo, Lordeaux? Puoi, tu, meschino...» «L'ingrediente,» continuò lo straniero, «è il sublimato di petali di mandragora, pianta che cresce solo in una terra nella parte più a est del paese, sulla spiaggia di un mare chiamato Lete. In questa terra hanno il loro covo
le orde Unne, nomadi indolenti che provano piacere nel versare e spargere sangue umano. Le spiagge stesse del Mar Lete, sono coperte da una giungla umida e rigogliosa infestata da feroci draghi, da gorgoni e da orrende creature senza nome. L'acqua del mare ribolle per le contorsioni di serpenti marini e di demoni d'acqua alti come montagne. «La pianta di mandragora, affonda le sue radici nel cuore di questo sdrucciolevole caos. È molto delicata: per crescere ha bisogno della luce del sole, produce foglie di un verde vivo con spine acuminate, fiori dai petali ampi che emanano, anche di notte, una strana luminescenza color cremisi e trasuda un inebriante profumo che, se inalato, conduce fatalmente alla pazzia. Se i petali sono colti nel momento della massima fioritura e alla luce della luna, se sono separati dallo stelo con un coltello d'argento consacrato a Belial, protettore delle Arti Nere, allora si ha il componente grezzo da cui può essere distillato l'elisir. Da quanto ho detto potrai capire che parlo perché conosco la verità.» Le labbra di mastro Ichnor si mossero senza preferire parola per lo stupore. Quest'uomo così misterioso era a conoscenza di segreti noti solo alla ristretta cerchia dei Negromanti. Passato qualche istante, ritrovò la forza per parlare. «Mostrami i petali, almeno una dozzina, e avrai il cofanetto di gioielli.» Lo straniero infilò la mano guantata sotto il mantello e ne tirò fuori un pacchetto non più grande del suo palmo, avvolto accuratamente in pelle di daino e legato con un sottile cordino di cuoio. L'alchimista, tremante, avvicinò le mani all'involucro. «I gioielli», ricordò Lordeaux stringendo saldamente il pacchetto. Mastro Ichnor rimase con le braccia distese mentre nei suoi occhi cresceva una luce maligna. Il prezzo non era alto, anzi quelle foglioline valevano almeno dieci volte tanto, ma a chi avrebbe pagato quella piccola fortuna? La voce aspra dello straniero ruppe il silenzio. «Tre uomini armati mi aspettano fuori: si trovano trenta metri oltre la grande roccia. Per questo il tuo assistente non li ha potuti vedere. Se io non sarò fuori da qui entro un'ora...» Mastro Ichnor ondeggiò rassegnato la sua mano: «I gioielli, ovviamente!» Si alzò e scomparve nella stanza attigua al laboratorio. Lo straniero sospirò rumorosamente attraverso la sciarpa, osservando il giovane Mago che ripuliva operosamente il pavimento dai composti chimici che vi erano caduti, quindi girò lo sguardo verso il grosso rospo appollaiato sul calama-
io. La creatura lo osservava con insistenza e solennità. Uno dei suoi occhi bulbosi era aperto, mentre l'altro restava enigmaticamente chiuso. Mastro Ichnor tornò dopo un solo minuto ed appoggiò sul tavolo un piccolo scrigno di teak stagionato tenuto insieme da fasce di metallo. Lo aprì con una chiave d'argento. Lo scrigno emanò una scintillante irridiscenza, come se una luce fosse stata imprigionata all'interno di una massa cristallina. Lo straniero rimase attonito per la bellezza e l'opulescenza che si presentava di fronte ai suoi occhi. Quindi si guardò intorno con attenzione: furti ed omicidi erano stati commessi anche per molto meno. Nonostante sapesse dei tre uomini armati, l'alchimista non avrebbe avuto esitazioni a rubargli il prezioso involucro non appena la linea negromantica avesse segnalato azioni ostili da parte sua. L'alchimista richiuse lo scrigno e lo consegnò allo straniero prendendo in cambio il rigonfio pacchetto. Come Lordeaux tentò di alzarsi per uscire dal laboratorio con il tesoro, Mastro Ichnor fece un cenno per intimargli di restare seduto. «Noi dobbiamo completare il nostro patto firmando un contratto, buon signore. E inoltre, non che dubiti delle tue oneste intenzioni, ma devo prima verificare il contenuto del sacchetto.» «Come preferisci,» rispose lo straniero senza esitazioni. «Margo!», stridette l'alchimista rivolto al suo assistente. «Sistema il crogiolo d'oro su un tripode e portami un mortaio di porcellana con il suo pestello. Prepara tutto il necessario per il bagnomaria e incomincia ad azionare il mantice. Tutto chiaro vero? Non dobbiamo far attendere troppo questo gentiluomo.» Il giovane assistente scattò obbediente e Mastro Ichnor, nervoso ed eccitato, aprì il pacchetto. Sciolti i legacci e tolta la pelle di daino, apparvero una dozzina di petali color cremisi. L'alchimista ne prese uno e lo posò, con attenzione, all'interno del mortaio, cominciando a pestarlo sino ad ottenere una polvere sottile. Lo straniero seguiva il rito con apparente indifferenza. A volte lanciava delle fugaci occhiate al mostruoso rospo seduto immobile sul bordo del tavolo. Gli occhi della creatura erano ora entrambi aperti e sembravano fissarlo come se volesse leggergli nella mente. Lordeaux spostò la sua seggiola e, visibilmente scosso, allontanò lo sguardo dall'animale. Intanto Mastro Ichnor aveva miscelato la polvere rossastra con liquidi di
vari colori e, filtrato il tutto attraverso un fine setaccio, ottenne un nettare denso che versò in uno degli alambicchi del distillatore. Il composto, ora di colore arancio, si trasformò in vapore che, circolando lentamente nelle spirali dell'alambicco, tinse l'aria circostante di riflessi dorati, mentre Margo azionava diligentemente il mantice alimentando il fuoco al di sotto del bagnomaria. L'alchimista raccolse il distillato in una stretta provetta, non più di qualche goccia in tutto. L'alzò fino ad esaminarne avidamente il colore alla luce delle torce. Era perfetto. Ne odorò l'aroma per essere ulteriormente sicuro di non aver commesso errori. «Ed ora la prova finale,» disse Mastro Ichnor spiegando allo straniero. «Faremo bollire il liquido con del vetriolo in un crogiolo. Se la pozione ha la forza dell'elisir di giovinezza, il fragrante aroma non sarà intaccato, anzi, l'intera stanza sarà pervasa dal suo profumo. Inoltre saremo rapiti da visioni celestiali e, per un attimo, le nostre vene saranno inondate da vigoria giovanile.» Lo straniero, con il volto ancora avvolto nella sciarpa, si sporse in avanti interessato. Mastro Ichnor pose il crogiolo e il suo contenuto sopra un fornello ad alcool, quindi cominciò a versare il liquido giallo oro dove il vetriolo cominciava leggermente a vaporizzarsi. Lo straniero, muovendosi nervosamente e mostrando un'aria pensierosa, cominciò a cercare qualcosa all'interno del suo mantello. L'alchimista non notò che lo strano individuo aveva afferrato un piccolo ramoscello di cedro e che lo teneva furtivamente all'altezza del proprio viso. Mastro Ichnor fissava attonito la mistura che ora ribolliva freneticamente: finalmente avrebbe potuto colmare lo spazio vuoto nello scaffale e così accumulare quelle ricchezze che gli avrebbero permesso di dedicarci alla ricerca di un potere e di una conoscenza senza limiti. Era il sogno di ogni alchimista, quello di scoprire l'essenza della Pietra della Saggezza: possederla voleva dire godere del potere e della forza di un Dio. La miscela continuava a bollire. Assunse, dapprima, un chiaro colore ambrato, quindi si scurì mostrandosi con striature nere. Mastro Ichnor aggrottò la fronte e si avvicinò per osservare da vicino la preziosa pozione. Lo straniero sembrò mettersi in guardia. Il corpo del grosso rospo cominciò a contorcersi come se la sua pelle fosse stata trafitta da migliaia di aghi invisibili. Accigliato per l'apprensione, l'alchimista odorava continuamente il li-
quido nel crogiolo d'oro, aspettando che il delicato, profumo si levasse nell'aria e lo rassicurasse di trovarsi alla presenza della sostanza tanto desiderata. Improvvisamente, la spumeggiante mistura cominciò ad agitarsi stranamente e dalla sua superficie si levò una nuvola di vapore nero che riempì ogni angolo del laboratorio di un fetore penetrante. Mastro Ichnor si allontanò velocemente dal fornello. Ma ormai aveva inalato una boccata del malefico vapore nero e la sua gola e le sue narici cominciarono ad irritarsi e a spellarsi. «Ma che diavoleria è questa?», urlò allo straniero. Ma subito tacque per lo stupore. Il misterioso individuo si era alzato in piedi e la sciarpa era caduta a terra mostrandone il volto. Prima che le sue narici fossero colpite dal malefico olezzo, lo straniero aveva respirato l'aroma acuto del rametto sempreverde, usandolo come un antidoto. Al tetro tremolio della lampada, il suo volto era sottile e smunto e, gran parte della sua pelle, era coperta da orrende bolle rosse, segno indelebile di una terribile ustione. «Toussaint!», gridò Mastro Ichnor. «Sei tu!» «Si, sono proprio,» rispose l'altro con un sogghigno malvagio. «Il tuo vecchio assistente, che un giorno si addormentò inavvertitamente mentre azionava il mantice. Per la mia colpa mi hai gettato in faccia del vetriolo, sfigurandomi per il resto della vita.» «Toussaint, demonio! Cosa mi hai fatto,» piagnucolò l'alchimista. «I miei polmoni stanno bruciando, il mio cuore...» Una risata smodata e vendicativa risuonò nel laboratorio. «Tu sei condannato, Mastro Ichnor, e per mano di una persona che per dieci anni ha giurato e progettato una dolce vendetta. Come tuo assistente ho imparato molto, e oggi sono un tuo pari, anzi, come alchimista, forse sono più potente di te. Ma come negromante ti sono infinitamente superiore. Non ho forse attraversato la tua linea negromantica senza mostrare il benché minimo cedimento? Io prenderò il tuo posto Mastro Ichnor, mi impossesserò del tuo laboratorio e dei tuoi tesori; non potevamo vivere entrambi sulla stessa terra.» «Prenderai il mio posto!», borbottò l'alchimista ormai quasi totalmente senza fiato ma con la forza ancora di afferrare la sua bacchetta d'avorio. «Ma morirai prima di me. Guarda, mi basta semplicemente agitare la mia bacchetta per paralizzarti! Spezza questa magia con la forza della quale tanto ti vanti! Ancora un minuto, ed io tesserò un potente incantesimo che
imprigionerà la tua anima nelle profondità della terra.» Toussaint improvvisamente si immobilizzò, impotente a muovere mani e piedi.» «Sono in tuo potere Mastro Ichnor», disse il vecchio assistente con grande fatica. «Io non posso raggiungere la mia bacchetta per rompere il tuo incantesimo. Ma so che il vapore nero che hai inalato compirà la mia vendetta. Devi riconoscere, grande maestro, che il Soffio di Asmodeo è una grande magia, prodotta dalla mia arte e racchiusa in quei petali cremisi che tanto assomigliano a quelli della mandragora che cresce sulle rive del Mar Lete. Il vetriolo libera l'orrendo vapore sin dalle viscere dell'inferno, ed ora ti sta corrodendo il corpo. Non pensare di poter estirpare dalla tua anima il male che ti sta divorando. Le tue colpe ti stanno trasformando in una entità infernale, e anima e corpo saranno presto trasportate nell'orrido abisso.» Mastro Ichnor tossì atrocemente. Alzò la sua bacchetta in direzione del rospo che si trovava sul tavolo, sussurrando una supplica. L'orrenda creatura, in risposta, cercò di rialzarsi, ma un violento tremore scosse il suo corpo lasciandolo senza vita. Toussaint rise. «Il tuo servo ti ha abbandonato.» Gli occhi di Mastro Ichnor si fecero scuri, segno inconfondibile della presenza del potere demoniaco che si stava impossessando da lui. «Dici il vero, posso sentire la disgregazione nefanda della mia anima! So che non ho scampo, ma mi consola il fatto che tu verrai con me all'inferno perché la tua malvagità non è inferiore alla mia.» «Ma io ho vinto,» gridò Toussant trionfante. «Il vapore nero non ha potere su di me perché avevo il naso protetto da un rametto di cedro e Margo è salvo perché è protetto dalla sua giovane età.» L'alchimista improvvisamente si irrigidì e, accompagnato da una raccapricciante convulsione, rigurgitò dalla bocca una grande nuvola di vapore nero. Ma vi era anche qualcosa di tenue, una nebbia grigia viscida e sgradevole; si muoveva come se fosse viva e si condensò al di sopra del crogiolo d'oro cominciando ad assorbire i resti della pozione. Il globo di vapore continuò a crescere espandendosi fino a toccare le pareti della stanza. Nel suo orrendo essere, la sostanza sembrava composta da piccole spirali di malvagia oscurità. Era la personificazione di tutto il male che dimorava all'interno dell'anima dell'alchimista. La nube cambiava forma con spaventosa rapidità e, negli occhi attoniti di Mastro Ichnor, era riflesso ogni peccato che aveva commesso nel corso della sua vita, grande o
piccolo che fosse. Toussaint sogghignò beffardo per tutto il tempo: improvvisamente, il volto gli si scurì per la paura e, ormai non più trattenuto dall'incantesimo di Mastro Ichnor, volse lo sguardo oltre la visione blasfema. Raccolse il rametto di cedro e freneticamente lo portò al volto. Il vapore scuro impediva una corretta visione nella stanza ma, anche inciampando, riuscì a raggiungere la porta d'uscita e a fuggire dall'abominio da lui stesso evocato per consumare la vendetta. Non vi furono spettatori per la scena finale. Il giovane Margo giaceva a terra svenuto. La terribile e vibrante figura del Maligno, evocata con il Soffio di Asmodeo, balzò addosso al rattrappito e attonito alchimista, avviluppandolo in un manto di malvagità. Avvennero alcune strane trasformazioni quindi, con un colpo di tuono che mandò in frantumi ogni oggetto di vetro presente nel laboratorio, la ripugnante visione scomparve. Con lei svanì anche Mastro Ichnor. Paul Compton IL DIARIO DI PHILIP WESTERLY The Diary of Peter Westerly agosto/settembre 1936 Sono trascorsi dieci anni da quando mio zio, Philip Westerly, è scomparso. Sono state avanzate molte teorie sul perché e sul come egli sia scomparso nel nulla. Molti si sono domandati perché un uomo dovrebbe svanire e lasciare dietro di sé solo uno specchio rotto. Ma nessuna di queste teorie e di queste spiegazioni fantastiche sono incredibili quanto la storia che ho appreso dal diario che egli scriveva per una sorta di capriccio. Ma prima bisogna dire qualche parola su Philip Westerly. Era molto ricco, ma anche crudele ed egoista. La sua ricchezza era attribuita proprio alla sua crudeltà e al suo egoismo. Aveva anche molte manie. Una di queste era tenere un diario. Un'altra era il suo amore per gli specchi. Era di una bellezza crudele. Ed era quasi effeminato nel suo rimirarsi a lungo negli specchi. Questa sua eccentricità era messa in evidenza dal fatto che uno specchio gigantesco copriva un'intera parete della sua stanza... quello stesso specchio che si incrinò al momento della sua scomparsa. Ma è meglio leggere questi brani tratti dal diario di Philip Westerly. 3 agosto. Pomeriggio: Oggi Billings mi ha chiesto una dilazione sul pa-
gamento di quella cambiale, ma non vedo nessuna ragione per concedergli una cosa del genere. Quando gliel'ho detto, ha cominciato a maledirmi in un modo terribile. Ha detto che ero crudele e che un giorno sarò chiamato a rendere conto del modo in cui tratto le persone. Ho riso di gusto a questa sua affermazione, ma nel medesimo tempo ho sentito un vago senso di disagio che fino ad ora non sono riuscito a dissipare. Notte: È accaduta una cosa incredibile. Ero andato nella mia stanza a vestirmi per la cena ed ero davanti allo specchio ad annodarmi la cravatta. Avevo cominciato la procedura che si segue di solito, quando ho notato che nello specchio non si rifletteva nessuno dei miei gesti. Nello specchio si rifletteva la mia immagine, ma era immobile! Ho teso una mano a toccare il riflesso, ed ho incontrato solo la superficie lucida dello specchio. Poi ho notato una cosa veramente incredibile. La mia immagine nello specchio non aveva la cravatta! Inorridito, ho fatto un passo indietro. Era un'allucinazione? La mia mente e la mia vista erano affette da un morbo di cui non ero cosciente? Impossibile! Allora ho guardato l'immagine allo specchio con più attenzione. Ho riscontrato un certo numero di differenze tra me e il riflesso. Prima di tutto, la mia immagine allo specchio aveva una barba lunga ed ispida. Io ero certo di essere andato dal barbiere questa mattina e ho passato una mano sul mento per verificarlo. Ho toccato solo pelle liscia e morbida. Le labbra dell'uomo nello specchio esibivano una serie di denti cariati e ingialliti, mentre la mia bocca mostrava due file di denti bianchi e ben curati. Sono stato preso simultaneamente da una sensazione di disgusto e da una di paura, e ho cercato ulteriori discrepanze. Le ho trovate. I piedi e le mani erano grandi in modo abnorme, e i vestiti dell'uomo allo specchio erano vecchi, cascanti e coperti di sudiciume. Non ho osato guardare oltre. Ho annodato la cravatta alla men peggio e sono sceso di corsa a cenare. 4 agosto. Mattina. Mi sono svegliato stanco e spossato. Il mio amico dello specchio è ancora con me. Di solito, dal letto mi rifletto nello specchio, ma non stamattina. Invece, ho visto che l'abitante dello specchio aveva dormito come me. Spero che abbia riposato meglio di me, perché, per quanto mi riguarda, il mio sonno è stato agitato e spossante. «Buon giorno,» ho detto, alzandomi. Quando mi muovevo, si muoveva. Quando mi sono avvicinato allo
specchio, si è fatto più vicino anche lui. Mi sono fermato ad esaminarlo. Mi somigliava solo lontanamente, almeno spero. Ho sorriso, e lui ha risposto con una smorfia animalesca. Ho steso la mano come se volessi stringere la sua, ma lui l'ha tirata indietro. Non capisco perché ha tanta paura di me. Io cerco di non mostrargli la mia paura, ma so che lui, animalesco com'è, la sente. Parlo della cosa che è nello specchio in terza persona, perché non riesco a convincermi che sia il mio riflesso. Ma non oso scrivere che cosa credo che sia. Sono sempre stato scettico su cose come l'«anima», ma quando guardo nello specchio... che Iddio mi aiuti! Notte: Ora passo molto tempo nella mia stanza. Vi ho passato la maggior parte del giorno. Questa cosa sta cominciando ad avere un fascino morboso su di me. Non riesco a starne lontano a lungo. Lo vorrei. Mia moglie sta cominciando a preoccuparsi per me. Dice che sono pallido. Mi dice che ho bisogno di riposo... di un lungo riposo. Se solo potessi confidarmi con lei! Con chiunque! Ma non posso. Devo lottare da solo. 5 agosto: Non c'è stato alcun cambiamento nel nostro rapporto. Lui si mantiene ancora sulle sue. Oggi mia moglie è venuta nella mia stanza a vedere come mi sentivo. Era in una posizione tale che guardare nello specchio era inevitabile. Si è fermata davanti allo specchio a sistemarsi i capelli. Non ha notato nulla di insolito, ma lui era ancora lì e mi ha indirizzato un ghigno di trionfo. C'è un'altra cosa da notare. Mia moglie non ha visto la cosa nello specchio, ma io non ho visto il riflesso di lei. È accaduta la stessa cosa con Peter, il mio cameriere, e con Anna, la cameriera. Anna avrebbe voluto spolverare lo specchio, ma gliel'ho impedito. Non devo correre rischi. Un esame più ravvicinato potrebbe rivelare loro la sua presenza nello specchio e loro non devono sapere... non devono sapere! 6 agosto: Tre giorni. Tre giorni d'inferno! La mia vita è un inferno da quando ho scoperto quella dannata cosa. Quanto mi fa soffrire! Ha cominciato a scimmiottarmi. Quando pensa di aver fatto un'imitazione particolarmente intelligente, scoppia a ridere. Non lo sento ridere. Ma lo vedo. Il che è peggio. Non posso più sopportarlo! 7 agosto: Non sappiamo quali sono i nostri limiti di sopportazione finché non siamo sottoposti a prove terribili, come quella che sto vivendo io.
Ma sento che il mio sistema nervoso è vicino al punto di rottura. Ho chiuso a chiave la porta della mia stanza. Anna lascia un vassoio dietro la porta. A volte mangio quello che mi porta, ma più spesso non tocco niente. Mia moglie mi prega di farla entrare, ma io le dico di andarsene. Ho paura di parlarle. Ho paura di parlare con chiunque. So che cosa fanno alle persone che soffrono di «allucinazioni». No, non posso parlare. Non posso nemmeno andarmene. Dio sa perché, ma non posso. 8 agosto: L'altro ieri ho detto che mi scimmiottava. Oggi - tremo al solo pensarvi - ha cominciato ad assomigliarmi! Questa mattina ho guardato nello specchio e ho scoperto che aveva abbandonato i suoi stracci e che ora indossa uno dei miei abiti. Sono corso al guardaroba e ho scoperto che i suoi vestiti sono appesi al posto dei miei. Mi sono girato a guardarlo. Ha riso e mi ha indicato le mie mani e i miei piedi. Erano gonfi ed irriconoscibili. Non oso nemmeno immaginare come sia avvenuto questo cambiamento. Oggi non posso più scrivere. 9 agosto: Il cambiamento è completo. Ora lui mi somiglia più di quanto non mi somigli io. E con questo cambiamento è diventato più crudele. Mi rimprovera per la mia trascuratezza. Infine non ce l'ho fatta più a sopportare. Sono fuggito dalla stanza. Alla fine ho trovato quello che cercavo: uno specchio. Quando ho visto che cosa sono diventato, sono quasi svenuto. Si, lui si è impossessato del mio corpo. Che Iddio abbia pietà di me! E io mi sono impossessato del suo! Sono sgattaiolato nella mia stanza, pieno di orrore. Sono ritornato alle sue risate e all'inferno che è divenuta la mia esistenza. Dio sa che cosa mi porterà domani! 10 agosto: Sono passati sette giorni da quando quel demonio è nello specchio. Ho pregato Iddio che oggi sia l'ultimo. Lo sarà! So che lo sarà! Anche lui, nello specchio, lo avverte. Vedo un'espressione ansiosa nei suoi occhi. Che sia dannato! È il mio turno ora di ghignare di trionfo. Perché, quando poserò la penna, per l'ultima volta, forse, salterò attraverso lo specchio. E lui esiste solo nello specchio. Che Iddio mi protegga! Sto per posare la penna! Seabury Quinn LA MORUADH
The Merrow marzo 1948 Era seduto nella grande poltrona di paglia intrecciata, immobile come un ritratto, e il crepuscolo era più fitto intorno a lui. La luce della luna trapelava tra le nuvole e dava un'aria di irrealtà a tutta la scena. Somigliava al chiarore che precede l'alba, oppure alla luce fioca dell'imbrunire, ma non era né l'uno né l'altro. Sui mattoni della terrazza, piccoli raggi di luce ambrata strisciavano simili a bambini timidi che si avventurino nel buio, e poi si ritraggano, spaventati dal loro stesso ardire. Provenivano dalle candele: gli alti ceri bianchi che erano alla testa e ai piedi di lei. Prima c'erano state le preghiere e la lettura delle Scritture: «Agli occhi degli stolti, sembrano morti, ma essi sono in pace.» Ora c'erano solo le chiacchiere, quelle chiacchiere sussurrate, a mezza voce, che sono riservate ad occasioni simili. «Wirra,» si udì il lamento di un fittavolo, che si toglieva il cappello sulla soglia, «pensare che sia morta, lei tanto bella,» e la moglie gli sussurrò un rimprovero, lasciando scivolare lo scialle dal capo sulle spalle: «Musha, non parlare. Questo angelo risorgerà, sì risorgerà!» Il giorno prima l'avevano trovata sulla spiaggia. Tutto il colore le era scomparso dalle guance, e onde lievi la accarezzavano come se la volessero cullare. Dopo il tramonto, il sentiero che costeggiava il mare era infido, e più di un incauto passante era scivolato ed era morto nella piccola baia. Ma questa era una morte per disgrazia, e perciò un caso che toccava al Coroner, e solo quando i solenni uomini della legge e la Garde Siochana - la guardia civile - avevano concluso le indagini, avevano dato il permesso di seppellirla. Le sue sensazioni lo stupivano. Si chiedeva perché non piangesse, o almeno perché non si sentisse distrutto dal dolore. Non lo era. La morte di un animale domestico, quando era bambino, lo aveva fatto soffrire di più della perdita di questa donna, che era sua moglie da meno di un anno. Sentì improvvisamente una fitta dolorosa. Peer Gynt aveva generato un diavoletto con la figlia di Re Troll soltanto con il pensiero; era allora possibile che un desiderio vago, inespresso - una voglia violenta e improvvisa - avesse spinto Rosalys in mare... «Che assurdità!» Egli respinse quel pensiero dalla mente. «Che stupidaggine!» Fantasie simili erano adatte agli irlandesi, ai superstiziosi irlandesi, che erano o matti o infantili, e spesso entrambe le cose: ma lui era americano, ed era sano di mente.
Finalmente i sussurri si erano zittiti, e le lampade, che bruciavano nel salotto, si erano spente. Nella casa restava solo la fioca luce giallina delle candele e, all'esterno, la luce della luna e delle stelle. Il traliccio di una porta-finestra stridette, e i passi del Vicario risuonarono sui mattoni della terrazza. «Povero Stephen,» una mano del vecchio gli premette con affetto una spalla. «Lo so, Stephen, ragazzo mio. Le parole a volte non servono a niente. Capisco.» Ma non capiva. Nessuno capiva, e tanto meno Stephen McKelvy, la cui sposa giaceva lì accanto, tra i ceri. Ormai per lei la vita non aveva più significato di un puzzle di cui si siano persi la metà dei pezzi. Per esempio, non aveva avuto nessun motivo valido per venire nell'Eire. Solo un capriccio, una sorta di curiosità infantile l'avevano spinto oltre il St. George Channel fino a Dublino, e da lì, attraverso l'isola, fino a questo piccolo villaggio costiero, a venti miglia a nord dello Shannon. Era vero che i suoi antenati provenivano da quella zona, ma l'Irlanda per lui era poco più di un nome su una cartina geografica. Il padre di suo nonno era emigrato in America da Kildillon, durante la grande carestia del 46 e, come tanti suoi compatrioti, aveva fatto fortuna nel nuovo mondo. Un lavoro come autista in un teatro di Broadway era stato seguito dall'assunzione nella polizia. Dopo aver partecipato con onore alla Guerra Civile, approfittò della buona fortuna politica dei reduci. La stella di Boss Tweed era cominciata a sorgere e con lui sorse anche la stella di Kevin McKelvy. Da Capitano della Guardia divenne Consigliere Comunale, e poi Magistrato della Polizia. A cinquantacinque anni era proprietario di due prosperi saloon e di una bella stalla di cavalli da nolo. A sessantacinque anni rese l'anima a Dio e fu seppellito nel cimitero di St. Patrick, lasciando un discreto patrimonio ed un figlio, che era già sposato e padre. Il figlio accrebbe le ricchezze della famiglia e, quando le auto a motore cominciarono a scacciare i cavalli dalle strade, era già pronto per il cambiamento. Lasciò a suo figlio un garage ben rifornito e un'agenzia di rappresentanza di una delle più famose case automobilistiche. Poi arrivò Stephen, a cui toccò tutto il patrimonio accumulato dai suoi antenati. Il suo bisnonno era stato un vero contadino e non se ne vergognava. Era orgoglioso dei propri successi nella nuova patria, ma continuava ad essere affezionato al paese d'origine. L'Irlanda era stata solo una leggenda per suo nonno, e per suo padre ancor meno di questo.
Ad un certo punto della discendenza, si erano staccati dall'antica fede. Il sangue irlandese era stato diluito con matrimoni misti, e Stephen non sentiva alcun legame, né di fede, né di sangue, né di affetto, per la vecchia Irlanda. Quando era cominciata la guerra, era stato assegnato ai reparti motorizzati, e aveva prestato servizio in un'unità operativa in Inghilterra, fino al giorno della, vittoria. Poi, per un impulso improvviso, aveva deciso di andare a visitare la terra dei suoi antenati. L'industria automobilistica era ferma in America, lui non aveva niente da fare, era ben fornito di denaro, e non aveva alcuna fretta di tornare a New York. Era stato un capriccio a portarlo in Irlanda, talvolta si chiedeva, o era stato quell'istinto del ritorno a casa, quello stesso istinto che riporta le oche selvatiche al West Meath e a Roscommon da qualsiasi posto del mondo? Si era immaginato l'Irlanda come un paese sterile, come una terra oppressa dalla povertà, nella quale solo i pigri e gli sfortunati restano, e da cui gli ambiziosi scappano in altri paesi per ricordare la propria terra natia solo con una specie di disprezzo affettuoso. Dopo aver vissuto l'austerità del periodo bellico in Inghilterra, scoprì un paese che doveva essere simile a quello scorto dalle vedette di Mosé dalla cima della montagna. Un paese che grondava letteralmente latte e miele. Nei pascoli verdi e rigogliosi, i greggi affondavano nell'erba e nel trifoglio fino ai garretti. Le api ritornavano agli alveari cariche di nettare che proveniva dal trifoglio e dai frutteti. Al Moruadh Inn, a Kildillon, si mangiavano uova e pancetta irlandese, bistecche di vitello e di montone, come non ne aveva più viste da quando aveva lasciato l'America. E c'era la panna da mettere nel caffè, e burro dorato da spalmare sul pane bianco. Le fattorie, che erano intorno al villaggio, erano ben tenute, come quelle della Contea di Dutchess, e le case, dalle mura bianche e dai tetti di paglia marrone, erano solide. Dovunque c'era pace, allegria e prosperità, e nessuno parlava o agiva come la tipica macchietta irlandese. La domenica si recò nella chiesetta anglicana di St. Brandon, un edificio quadrato, di pietra, che risaliva al Sedicesimo Secolo. Vi erano panche di quercia annerita dai secoli e le pietre tombali di parrocchiani morti da lungo tempo. Dopo il servizio, il Vicario gli rivolse la parola con la cortesia grave, tipica del vecchio continente, e lo invitò a prendere il tè quella sera. Il tè nel Vicariato di un villaggio: un'episodio che sembrava uscito dai romanzi di Jane Austin! Era qualcosa da raccontare, non appena fosse tor-
nato in patria. Molto probabilmente sarebbe stato un pomeriggio noioso; il vecchio avrebbe ciarlato di politica, forse avrebbe ricordato i bei tempi in cui la Chiesa era ancora di Stato, e l'accenno ad una donazione non l'avrebbe offeso. Il Vicariato era grazioso come una porcellana Ming o un tappeto di Hamadann, nella luce azzurrina del crepuscolo. Era in mattoni rossi, coperto di edera: lo circondavano alti alberi ed un prato fine e levigato quanto un panno di velluto verde. Sorgeva accanto al piccolo camposanto con i suoi tassi ed i cespugli di cicuta, e dalle alte finestre entrava una luce ambrata. L'interno era caldo e accogliente, faceva pensare a cimeli di famiglia, ad antenati e al passato. Candele in alti candelieri d'argento riflettevano una luce rosata sul mogano lucido, sull'argenteria georgiana, sui tappeti Shiraz e sui rossi, sugli azzurri e sui porpora delle porcellane. Dalle pareti, vecchi ritratti in cornici dorate guardavano benignamente, la torba bruciava odorosa in un braciere, e ovunque regnava un'atmosfera di letizia e di benessere. Con un'occhiata osservò tutti questi particolari, e confrontò quell'arredamento perfetto con la sconvolgente mancanza di gusto che aveva incontrato nella maggior parte delle case inglesi, poi perse ogni interesse per la stanza, quando il signor de Barry presentò: «Mia figlia Rosalys, signor McKelvy.» Per prima cosa vide la grande massa dei suoi capelli, fulvi come il fogliame di un faggio rosso, che somigliava più ad una macchia di colore di un ritratto di Tiziano che alla capigliatura di una donna. Poi notò il piccolo naso dalle narici sottili, gli occhi verdi e limpidi, e la bocca e il mento che esprimevano sensibilità e coraggio. Gli parve che l'abito di lei fosse verde e semplice, ma non poteva esserne sicuro, perché era stupito dalla bellezza del suo viso dolce e calmo, dallo splendore dei capelli fulvi, dalla lirica grazia delle mani lunghe e belle. Non era né alta né robusta, ma lo sembrava, a causa del portamento altero. Gli ritornarono alla mente le storie che aveva udito da suo nonno, storie sulle antiche eroine dell'Irlanda: la Regina Maeve di Connaught che aveva condotto un esercito di centomila guerrieri sugli altipiani, Eimer che era morta per amore di Cochulainn, perito sul campo di battaglia, Eibhlin, la figlia del re, che era scappata dal castello del padre per dividere l'esilio con Cuin O'Caian, l'auriga dalla fulva chioma. C'erano biscottini all'avena, panini al prosciutto e cetriolo, e una torta di
farina bianca, ricoperta di glassa rosa; il tutto era accompagnato da un tè cinese dal dolce aroma, da una bottiglia di Jameson's Green Label, più fine del liquore scozzese, ma potente quanto un incantesimo, e un delizioso sherry di Malaga. Ma, più inebriante del vino o del whiskey era la conversazione. Ascoltò le antiche storie dei tempi in cui Gilles de Barrie arrivò con i Normanni nel 1170. Gli fu narrato di Shoneen de Barrie che accompagnò Napper Tandy nella sua sfortunata spedizione e fu mandato dai Tedeschi di Amburgo che non possano mai trovar pace le loro anime! - a Dublino perché fosse impiccato dagli Inglesi. «Ma io credevo che foste protestanti,» ribatté McKelvy. «Sicuramente...» «Oh, sicuramente voi avete sentito le storie che raccontano gli irlandesi che hanno fatto fortuna in America!» ridacchiò il Vicario. «Nessuno di loro rischierebbe la pelle per combattere i Sassoni, e scommetto che nessuno direbbe mai che Napper Tandy era protestante, ed Emmet - pace all'anima sua! - un frammassone.» La luna era rotonda e lucente come una moneta nuova di zecca, quando Stephen augurò la buona notte e il signor de Barry si offrì di accompagnarlo per un tratto di strada. «Vi siete fermato alla locanda?» chiese, mentre salivano sul cavalcasiepe che attraversava la siepe tra il giardino del Vicariato e il cimitero. «Si. Si chiama Moruadh. Immagino che significhi "sirena" in irlandese. Sull'insegna c'è una figura che un tempo doveva rappresentare una sirena, ma ormai è sbiadita...» «Non è esattamente una sirena,» il Vicario si fermò per riempire un'improbabile pipa di radica nera con uno strano tabacco scuro e poi accese un fiammifero contro l'impugnatura del bastone da passeggio. «La sirena è una creatura innocua e gentile come un delfino, ma la Moruadh è diversa. Gli inglesi la chiamano "Merrow", ed è una creatura sinistra. Evoca tempeste per tormentare i pescherecci, trascina i pescatori nelle profondità marine. A volte emerge sulle spiagge, e guai al mortale che la vede. È bella, di una bellezza disumana e mortale. Può succhiare l'anima di un uomo attraverso le sue labbra, con un bacio. Una leggenda dice che una Moruadh vive nella piccola baia, costeggiata dal sentiero che è tra il Vicariato e il villaggio. È da questa leggenda che la locanda prende il nome...» «Ma certamente, signore,» rise McKelvy, «non crederete ad assurdità simili.» Improvvisamente gli parve di essere un adulto che assecondi le
fantasticherie di un bambino. «Non posso dire di credervi, no,» il Vicario aveva un'aria più grave di quanto lo richiedesse l'occasione. «Ma non riteniamo che tutte le storie di questo genere siano solo racconti di vecchie comari superstiziose. È difficile dire esattamente in che cosa si creda. In Irlanda l'altro mondo è molto vicino, e... quel sentiero è infido, nel punto in cui costeggia la baia. Più di una persona, che l'aveva percorso di notte, è stata ripescata in mare la mattina dopo, soffocata.» «Soffocata?» McKelvy fece eco in tono interrogativo. «Si. Con i polmoni vuoti, come se una pompa li avesse svuotati di tutta l'aria, e senza nemmeno una goccia di acqua di mare al loro interno.» Ancora una volta McKelvy rise, ma questa volta la sua risata aveva un tono stridulo e sforzato. Una nuvola aveva coperto il disco pallido della luna, una nuvola gialla dai bordi frastagliati, e un'oscurità, magica e strana, era scesa sul villaggio. Il vento lieve, che soffiava tra i rami nodosi dei vecchi meli, sembrava essersi ritirato per lasciare il posto ad un'umidità fredda e minacciosa. Il mattino arrivò. Era una giornata fredda e bella, con un'aria limpida e dolce, e i raggi del sole splendevano sugli alberi e sull'erba coperti di rugiada. Fece una colazione abbondante, secondo le abitudini della locanda: un porridge di farina d'avena con zucchero in abbondanza, una ciotola di crema, uova fritte in un burro dolce e grasso, rognoni arrostiti e pancetta irlandese tagliata a fette spesse: il tutto accompagnato da un bicchiere di birra scura, aromatizzata allo zenzero e allungata con gassosa. La birra lo rese appena brillo, ma felice e soddisfatto della vita. Dopo la colazione, si diresse lungo la strada asfaltata, ma svoltò subito per il sentiero ondulato che costeggiava la scogliera. Alla sua sinistra, l'oceano si stendeva limpido fino alle coste americane, una superficie vasta e brillante, laddove il sole la illuminava. Qui e lì, si alzavano onde bianche. Alla sua destra, si allungavano prati verdi e folti e, più lontano, sbuffi di fumo si alzavano dai cottage. Gabbiani grigi volavano sull'immensa e malinconica distesa del mare. Ad un tratto la vide camminare verso di lui lungo il viottolo. Indossava un rozzo completo di tweed variopinto, una giacca e una gonna che sembravano stranamente maschili su una figura così squisitamente femminile. Un piccolo feltro marrone era posato sui suoi capelli fulvi. Con lei erano due cuccioli di terrier Aberdeen, che sembrarono contenti
di vederlo e le tirarono quasi il guinzaglio dalle mani nell'esuberanza del loro saluto. «Salve,» disse, e sembrò sinceramente felice, e sinceramente sorpresa, di quell'incontro. «Come va?» «Benissimo,» rispose con entusiasmo, tirando le orecchie ai due cuccioli. «Fate la mia strada?» Sembrò ponderare la domanda. «Che strada è?» «Quella che state facendo voi,» replicò lui. Scoppiarono entrambi a ridere, e si chiesero come mai non avessero mai riso con tanta gioia prima di allora. Si era ormai nel pieno dell'estate, e i peri e i meli erano carichi di frutti. Le mattine avevano un sorriso d'oro, i pomeriggi una dolce sonnolenza, le notti erano fantasie bagnate dalla luna e stellate, in cielo da una rete brillante di astri, e in terra dalle bianche costellazioni dei fiori. Rosalys e Stephen avevano fatto un pic-nic. Si erano recati in un posto che conoscevano sulla collina - una montagna dalla cima rotonda e coperta di erica - e ora erano distesi sull'erba soffice e dolce a sentire i raggi del sole carezzare le loro palpebre chiuse. Il cestino della colazione era ormai vuoto, e tra i tovaglioli ripiegati spuntavano le bottiglie vuote di vino del Reno. La giovinezza, la coscienza pulita e la ripida salita, avevano fatto venire loro una fame violenta e, quando ebbero finito di mangiare, rimase ben poco per gli uccelli e gli insetti. Intorno a loro si sentiva la dolce fragranza del trifoglio e il delicato odore delle felci. Lei intrecciò le mani dietro la nuca, sorrise al sorbo selvatico che stendeva i rami al di sopra di loro come un baldacchino, e sospirò. «Che cosa c'è?» chiese Stephen, e lei rise deliziata dal suo accento americano. «C'è sempre qualcosa di triste nella felicità, acushla. Forse perché sappiamo che non può durare e perciò la rimpiangiamo, quando l'abbiamo ancora.» «Sei stata felice oggi?» Tremò per un brivido improvviso, poi rise. «Vorrei che fosse così per sempre; che potessimo fermare questo giorno in eterno.» La guardò meravigliato, come qualcuno che assista ad un miracolo. Il cuore cominciò a battergli forte, tanto da impedirgli di parlare, ma in qualche modo riuscì a calmare i battiti. «Perché non lo facciamo durare per sempre?» chiese con voce rauca. «Rosalys, io... vuoi sposarmi?»
Si alzò per l'agitazione, e anche lei si alzò e gli si pose di fronte, con gli occhi fissi nei suoi. «Mi ami... mi ami veramente... Stephen McKelvy?» «Con tutto il mio cuore e la mia anima...» Le sue braccia gli circondarono il collo, tiepide e tenere, e la sua voce era piena di gentilezza e di gioia. «Avick,» sussurrò. «Acushla, cuisle mo chroidhe!» Pronunciò quelle dolci parole gaeliche con la stessa naturalezza con cui una madre mormora delle tenerezze al suo bambino. «Mio caro, mio amato, sangue del mio cuore!» e la sua faccia sembrava quella di un angelo, tanta era la bellezza e la felicità che la trasfiguravano. Poi alzò le labbra, fresche e dolci, verso la bocca di lui. «Allora, Stephen, ragazzo mio,» disse il Vicario, quando gli comunicarono la notizia del fidanzamento, «la porterai con te negli Stati Uniti?» «Si, signore, è la mia patria...» «Non ti si può biasimare, avick. Da quando la storia è cominciata, ed anche prima, le donne irlandesi hanno sempre seguito i propri uomini nell'esilio o in altre avventure, ma io ti devo chiedere un favore. Restate qui, se gli affari te lo permettono, finché io non abbia visto il mio primo nipote. Sono appena ritornato da Limerick e il Dr. O'Boyle, e...» sorrise, come se non avesse alcuna preoccupazione, «e mi ha detto di aspettarmi il còistebodhar da un momento all'altro.» «Il còiste-bodhar?» «Si, ragazzo mio. È la grande carrozza nera, tirata da sei cavalli neri senza testa e guidata da un postiglione senza testa. Viene a raccogliere le anime dei morti. È il cuore, Stephen. Può continuare a battere per un anno o due; può fermarsi tra un minuto, e non avrei le energie necessarie per venirvi a trovare in America.» «Si, naturalmente.» Disse Stephen. Non aveva nessun motivo pressante per tornare in patria. Gli affari erano affidati a persone competenti, e sarebbero passati due, o forse tre anni, prima che le industrie automobilistiche tornassero a produrre. «Andremo a vivere nella casa che è in dote a Rosalys.» Egli annuì per rassicurare il vecchio Vicario, ma più che mai si sentì Come un'uomo sano di mente che si trovi a vivere in un mondo popolato di amabili pazzi. La carrozza nera... i cavalli senza testa, il postiglione senza testa! Buon Dio, la prossima volta gli avrebbero detto che lo spirito dei morti era venuto a lamentarsi fuori alle finestre del Vicariato! L'edificio principale della villa era bruciato nell'autunno del '21, ma la
piccola dependance in mattoni rossi era ancora intatta, e Rosalys e Stephen vi si trasferirono. Era autunno inoltrato, e il vento era impegnato a creare turbini di polvere lungo le strade, per poi dimenticare di inseguire le foglie secche. I castagni lasciavano cadere i loro frutti, e sui sorbi selvatici le piccole bacche rosse, amare come la morte, splendevano simili a rubini. La notte, le candele bruciavano con una luce ambrata e ferma, oppure le lampade a petrolio riempivano le stanze di una luce vellutata. Di giorno facevano lunghe passeggiate, andavano in città a fare spese oppure al cinema. Qualche volta andarono alle corse, e le loro perdite furono superiori alle vincite ma, poiché le loro scommesse erano molto modeste, non se ne curarono. La vita era dolce e piacevole come nelle tir-na-hòige, Le Isole della Cuccagna, «dove la felicità si compra con un penny» ma, a poco a poco, Stephen se ne stancò. La sua breve vita era stata piena di movimento: la scuola, gli affari, la guerra... e la tranquillità di quei giorni pigri cominciò ad innervosirlo, come una musica sentita troppo spesso diventa prima monotona, poi irritante, e infine insopportabile. Prese ad uscire da solo la sera e, quando Rosalys gli gridava dietro: «Sta attento, acushla, la Moruadh forse aspetta nella caletta!» lui mormorava qualche bestemmia contro tutti quegli irlandesi pazzi e superstiziosi. La primavera arrivò con dolcezza, e investì i ripidi pendii delle colline con una grande ondata verde, che si infranse sulle cime in una spuma di boccioli. Peri, meli e susini, dondolavano i rami bianchi nella lieve brezza, e il vento aveva un suono così dolce che si vedeva quasi materializzare il suo profumo. Ma quella bella stagione non migliorò l'umore di Stephen. Aveva sempre più nostalgia di New York, della Quinta Avenue mondata di luci e colori, di Central Park con il suo fogliame verde e lucente, e dell'acciottolio dei pattini a rotelle lungo i viali. Quella sera era uscito presto a fare la sua passeggiata, perché Rosalys non lo accompagnava più. Due volte alla settimana andava dal medico e ben presto, prima della fine di giugno... La sera era arrivata dolcemente, il crepuscolo azzurrino era calato come un tendaggio. La notte traboccava di grandi stelle scintillanti e la luna era rotonda e bianca nel cielo, simile ad una lampada cinese. Sentì la lieve canzone delle onde contro la scogliera, che era al di sotto del sentiero. Passò accanto alla baia, e ghignò al pensiero che la superstizione aveva trasformato il rumore dell'eco in un coro spettrale. Poi si fermò di colpo, co-
me se avesse udito un ordine. Lei avanzava verso di lui lentamente, e sulle prime non capì se si trattava di un'illusione ottica provocata dalla luce della luna sui ciottoli del sentiero. Era alta, molto alta, ed imponente come una statua. Era priva di colore, ad eccezione degli occhi che avevano una sfumatura indefinita, ora grigia, ora azzurra, simile all'acqua di mare. Dal collo alle caviglie era rivestita di una lunga tunica, che avrebbe potuto essere di lana leggera o di lino, perché era lievemente iridescente quando un raggio di luna la illuminava. Sulla fronte portava un antico lann celtico, una lama d'argento, a forma di mezzaluna, che si confondeva con i capelli. Le chiome erano di un oro così chiaro, che avrebbe potuto essere platino o argento, ed erano ornate di fili di perle. Erano legate in due trecce, spesse quanto le braccia di un uomo robusto, che arrivavano quasi fino all'orlo della veste bianca. Sulle braccia portava dei braccialetti e, intorno al collo, un filo di perle bianche come la schiuma dell'oceano, ma non più bianche del collo su cui si posavano. Non riuscì a vederla in volto, perché al di sotto degli occhi portava un velo di trina, fine come spuma di mare, ma opaco come un elmetto metallico. Ma sentì istintivamente che era bello, di quella stessa bellezza di Elena di Troia che distruggeva gli uomini con un solo sguardo. Si muoveva con una grazia consumata, simile ad una pattinatrice che scivoli sul ghiaccio. Stephen avrebbe giurato che i ciottoli del sentiero non si muovevano sotto la pressione dei suoi piedi, lunghi e stretti. Non sarebbe stato del tutto vero dire che fosse terrorizzato, ma qualcosa di molto simile al terrore gli riempì la mente. Una morsa di gelo gli strinse il cervello, quando lei gli si avvicinò. Si ritrovò in ginocchio, il cuore gli pulsava rapido e veloce, i capelli gli si rizzarono sul capo. Quello che vedeva era qualcosa che ispirava timore. Era una creatura di un altro mondo, un essere uscito da un antico pantheon, privo di umanità o di compassione. Chiedeva solo l'adorazione che le era dovuta, e non restituiva alcuna ricompensa per quest'adorazione. «Benvenuto, Kelvy figlio di Kelvy,» disse piano, quando si fermò dinanzi a lui, la sua voce somigliava ad uno scampanio udito in lontananza. «Benvenuto nella terra dei tuoi padri.» Egli capì che la donna non parlava né in inglese né in gaelico, le sue parole erano in una lingua già dimenticata da millenni, quando fu posata la prima pietra della piramide di Cheofi, eppure egli la comprendeva perfettamente. «Che cosa... chi siete, signora?» chiese con un fil di voce, sapendo per
istinto che lei lo capiva. La sua risata risuonò come il mormorio delle onde su una spiaggia di sabbia, come acqua che lambisca delicatamente rocce ricoperte di alghe. «Sono quello che sono stata, che sono e che sarò, Kelvy mic Kelvy. Da quando le acque si sono separate dalle terre, ho sempre amato gli uomini, e per coloro che conquistano i miei favori, io tolgo il velo. Vorresti guardarmi in viso, Kelvy mic Kelvy?» Non riuscì a trovare le parole per risponderle. Sapeva bene che non aveva mai desiderato nulla quanto guardare quel volto dalla perfezione classica, celato dietro il volto luccicante, eppure una sentinella interiore lo ammoniva di non cedere a questo desiderio. Vedere il volto di lei avrebbe significato la fine di qualcosa... di qualcosa infinitamente prezioso; la vita, forse. Ancora una volta, lei rise, non proprio con malignità, ma certamente senza alcuna gentilezza. Lo stesso genere di risata che si riserva allo sbalordimento di un animale domestico: indulgente, lievemente divertito, e sprezzante. La donna gli tese la mano, ed egli la portò alle labbra, come se si trattasse di una reliquia sacra. La carne di lei era fredda come gli spruzzi che si alzavano dalle rocce sottostanti, ma ferma e bella al tatto. Egli avvertì il lieve gusto salato, quando le baciò ciascuna delle cinque dita, le nocche e il palmo, freddo e rigato della mano. Barcollò come un ubriaco, sulla via del ritorno. Quando Rosalys gli andò all'incontro con le mani tese e le labbra sollevate, lui la spinse da parte rudemente. Ad un tratto, la sua vita era vuota come una casa abbandonata da secoli. La bellezza mortale di Rosalys non era paragonabile a quella grazia immortale che egli aveva contemplato, le sue mani graziose non avevano nulla in comune con quella mano fredda e perfetta che aveva adorato con le labbra. La sera seguente, uscì al crepuscolo, ed anche la sera successiva; alla terza sera, lei gli chiese, con un tono tra il timido e lo scherzoso: «Dove vai ogni sera, avoureen? Il sentiero sulla scogliera è un posto pericoloso nelle notti di luna piena, perché la Moruadh può essere a riva, e io non voglio che mi porti via il mio uomo...» Lui si voltò verso di lei, la fronte corrugata, le labbra tirate sui denti, un'espressione di rabbia gelida negli occhi. «Esco perché così mi piace, e dove vado e che cosa faccio non è affare di nessuno.» Lei indietreggiò e lo guardò con gli occhi spalancati, pieni di meraviglia.
L'aveva ferita, l'aveva ferita in modo tremendo, ma lei non provava rancore. Era solo stupita della sua scortesia. La coscienza gli rimordeva, mentre camminava lungo il sentiero di ciottoli. Rosalys era così gentile, così innamorata e fiduciosa, ma - represse l'ondata di tenerezza - l'essere fulgido che veniva dal mare, la dea... In un attimo raggiunse la piccola insenatura, e dopo poco arrivò lei, alta, snella, bella. I suoi occhi del colore del mare brillarono divertiti, quando egli si inginocchiò e portò la sua mano alle labbra. Il respiro gli si accelerò, il cuore sembrava scoppiargli nel guardarla con occhi adoranti. «Signora,» mormorò, «Bella signora del mare, mostrami il tuo viso. Te lo chiedo per pietà. Togli il velo.» Il suo riso risuonò come una lieve brezza sul mare. «Il mio volto potrebbe essere l'ultima cosa che vedi, Kelvy mic Kelvy. Acconsenti ugualmente? Vuoi guardarlo?» «Qualsiasi cosa... qualsiasi cosa! La mia vita, la mia anima, tutto quello che ho e spero di avere...» Il battito del cuore gli fermò le parole in gola, ma i suoi occhi sofferenti dissero quello che le labbra non potevano dire. La voce di lei era esultante. «E così sia, allora, Kelvy figlio di Kelvy. Vieni da me la prima notte di luna calante, e il tuo desiderio verrà esaudito.» Poi gli tese le mani e gli permise di baciargliele. La sua mente era sconvolta, quando si avviò lungo lo stretto sentiero che lo riportava a casa. Lei aveva promesso, gli aveva dato la sua parola che avrebbe potuto vederla in volto. Nessun mussulmano desideroso del Paradiso del Profeta, nessun peccatore morente nella speranza del perdono, avrebbe aspettato con più ansia l'adempimento della promessa della dea. Ancora una volta la coscienza gli si risvegliò. Rosalys... la sua dolce, gentile Rosalys, che egli aveva tanto ferito quella sera, che stava per scendere nella Valle delle Ombre... Mise da parte questo pensiero così come si spinge di lato un accattone. Se solo fosse stato libero, libero da tutti i legami... se Rosalys non fosse sopravvissuta... la sua mente cosciente si rivoltò a questa conclusione cinica, ma nel suo subconscio quel pensiero continuava a vivere... Se Rosalys non fosse sopravvissuta... Non sapeva che Rosalys l'aveva seguito, quando era fuggito dalla casa, né che l'aveva visto inginocchiarsi davanti a quella creatura che l'aveva stregato. Non la vide correre lungo il sentiero, quando egli lasciò la dea, ne udì la sua sfida:
«Creatura del mare, ridammi il mio uomo. Dea pagana, fata o spettro, non mi fai paura, perché, sebbene io sia mortale, la mia anima è immortale, e, anche se non conosco gli incantesimi, l'amore che ho per il mio uomo...» Non vide le lunghe braccia bianche della donna del mare allungarsi come i tentacoli di un diavolo marino, né vide la lotta breve e violenta che avvenne sullo stretto sentiero. Non vide le due figure, strette in un corpo a corpo, librarsi per un momento sull'orlo del sentiero, né le vide precipitare sulla scogliera, posta trenta metri più in basso. Non le vide rotolarsi l'una sull'altra, roteare come le braccia di un grande mulino a vento, colpire con un tonfo quasi impercettibile le acque tranquille della baia. Non vide niente di tutto ciò, perché era sotto un incantesimo. Ma quando alla fine vide le luci della sua casa splendere come un faro nell'oscurità, il suo amore e la sua fedeltà avevano vinto. Rosalys e lui erano un'unità indissolubile, erano uniti per sempre dalla promessa che si erano scambiati: «... questa coppia sarà una sola carne... l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie...» «Rosalys!» urlò, entrando in casa. «Mi dispiace, cara, sono dispiaciuto e addolorato di aver... Rosalys!» La sua voce rimbombò come uno sparo in un tunnel. La piccola, vecchia casa era silenziosa come i crateri di un mondo morto, come una chiesa abbandonata dai fedeli. Le stanze, un tempo illuminate dalle candele e dal fuoco dei caminetti, un tempo piene del dolce aroma della torba e delle musica della sua voce armoniosa, erano silenziose del silenzio di un mondo che un tempo sia stato vivo, ma ora è morto. «Rosalys!» La sua voce aveva i toni stridenti di una stoffa che si lacera... Per tutta la notte camminò avanti e indietro nel piccolo soggiorno, fermandosi ad ogni piccolo rumore, guardando con ansia il sentiero ammattonato nel giardino. Gli pareva di vederla tornare in ogni ombra che i faggi, smossi dal vento notturno, formavano sul prato. Mise il bollitore sul focolare, prese il barattolo del tè, la zuccheriera e la ciotola di crema: sarebbe stata infreddolita, quando sarebbe tornata a casa, una tazza di tè l'avrebbe scaldata... E la mattina arrivarono a dirgli che era stata ritrovata sulla spiaggia, tutto il colore le era scomparso dalle guance, e onde lievi l'accarezzavano come se la volessero cullare. Era da biasimare? Era stato lui il suo assassino? Peer Gynt aveva generato un diavoletto con la figlia di Re Troll soltanto con il pensiero; era allora possibile che un desiderio vago, inespresso - una voglia violenta e improv-
visa - avesse spinto Rosalys in mare? Sotto la luna che stava sorgendo, la terra sembrava un paese da fiaba. I cespugli del giardino stormivano lievemente alla brezza leggera e le foglie illuminate dalla luna si muovevano appena. Ombre purpuree e luci danzanti si univano insieme, fondendosi in un groviglio di sfumature brillanti. Si alzò lentamente dalla grande sedia. Si muoveva con rigidità, come un uomo vecchio e malato. Senza fermarsi a prendere il cappello e la giacca, senza dare nemmeno uno sguardo alle proprie spalle, si avviò lungo il sentiero del giardino, uscì dal cancello, e si incamminò a fatica verso il sentiero lungo la scogliera. Lei era magnifica nel freddo bagliore delle luci riflesse dal cielo e dal mare. Dritta, statuaria, «divinamente alta e ancor più divinamente bella,» si mosse verso di lui con la stessa grazia di una folata di vento su un campo di grano maturo. Non le si inginocchiò davanti. Invece la guardò negli occhi verdemare, e c'era odio nel suo sguardo. Questa incarnazione dell'oceano gelido e spietato, quest'essere di un altro mondo, più antico... se non fosse stato per lei, Rosalys, la sua Rosalys, avrebbe ancora riempito la vecchia casetta delle sue canzoni d'argento e delle sue risate d'oro... «Sei venuto, Kelvy figlio di Kelvy?» La sua voce aveva un tono interrogativo, anche se pronunciò la frase come un'asserzione. «Non sei mancato al nostro appuntamento.» «Si, sono qui,» la sua voce era dura e aspra, con un sottofondo di amarezza e disperazione. «Sono venuto a dirti...» «Guarda, Kelvy figlio di Kelvy,» la sua voce era quasi carezzevole, «è questo che sei venuto a vedere, non è vero?» e dal viso tolse il velo di stoffa luccicante. Egli emise un singulto, un gemito simile a quello di un animale ferito, e gli occhi gli si spalancarono come se non riuscisse a saziarsi di ciò che vedeva. La faccia di lei era una maschera, immobile, imperscrutabile. I tratti erano netti, come quelli di un intaglio, e perfetti, con la stessa regolarità dei volti scolpiti di quelle dee a cui i greci tributavano onori e adorazione. L'alta linea delle sopracciglia continuava nel naso senza la minima curva, la bocca aveva le labbra sottili ed era piuttosto grande, ma curvata con grazia in un perfetto arco di Cupido e colorata di un vivido rosa corallo. Il mento era forte e lievemente appuntito. Gli occhi grigio-azzurri erano insondabili come gli abissi oceanici. La pelle era di una bellissima sfumatura d'avorio, non era né il bianco marmoreo di una morta, né il rosa chiaro di
una pelle umana, ma aveva una lieve iridescenza, simile a quella di una perla. Nonostante la sua bellezza fredda e classica, quel viso era animato da un desiderio avido e animalesco. Era un desiderio che sembrava completamente impersonale, simile alla brama del mare che prende sempre, ma non è mai sazio di sacrifici. «Non è questo che sei venuto a vedere, Kelvy mic Kelvy?» chiese la sua voce dolce ed ipnotica, mentre lei stendeva le braccia bianche e nude verso di lui. Egli singhiozzò. Era un singhiozzo duro, secco, sgradevole; era il requiem e l'addio alla sua umanità. Odiava e disprezzava sé stesso. Sapeva che per vedere quel volto aveva calpestato il proprio onore, aveva tradito tutto l'amore, la lealtà e la fedeltà che doveva alla sua donna, aveva gettato la sua anima sulla bilancia per far scendere i piatti al livello della sua cupidigia, e perciò singhiozzò, pieno di rimorsi e di amarezza. Poi si trovò tra le braccia di lei. Gli si chiusero intorno così come il mare si richiude sul corpo di un annegato, ed egli era inerme nel suo abbraccio. Inerme, e felice di esserlo. Lei emanava un odore fresco, pulito, corroborante di sale e di mare. Le labbra, premute contro le sue, erano fredde come le acque che s'increspano nelle baie rocciose di Aran. Lei lo strinse a sé, e i suoi grandi occhi si chiusero, poi si riaprirono a metà e, tra le ciglia, Stephen vide il loro azzurro lucente. Il seno di lei era freddo e immobile, vi si avvertiva solo una grande frescura calmante, simile alla frescura dell'oceano in estate, quando la luna è calata e il sole non è ancora sorto. Il suo cervello era un caos ribollente; era incapace di pensare, e nel suo cuore si agitavano sensazioni frenetiche. Il cuore lottava come un uccello in gabbia e i suoi battiti avevano lo stesso ritmo dello strepito della grandine su di un tetto. I polmoni gli si stavano vuotando di tutta l'aria. Il respiro, la vita, l'anima di Stephen scorrevano dalla sua bocca a quella della dea. Due corpi, serrati in un abbraccio inscindibile, scivolarono sull'orlo del sentiero e caddero, formando un grande arco, nelle acque illuminate dalla luna. Si sentì un lieve tonfo, e poi il silenzio. Edmond Hamilton IL MONDO DEGLI ABITATORI OSCURI The World of the Dark Dwellers
agosto 1937 I. Il Richiamo di Krann Mio padre stava morendo. Mi chinai sul suo letto, con un dolore atroce nel cuore e un groppo soffocante alla gola. Dietro le palpebre sentivo lacrime calde, pungenti. Nel letto intagliato mio padre ansimava. Era ormai solo il guscio avvizzito di un uomo, ma qualcosa, nella sua figura grande e scarna e nel viso scuro e sciupato, mi faceva sentire più vecchio. Perché noi due appartenevamo alla stessa razza, una razza dura, forte e un po' bizzarra. «Padre?» La mia voce era rauca nello sforzo di renderla normale. «Volevi dirmi qualcosa?» «Si, Eric.» James North, mio padre, bisbigliò le parole in un fioco sussurro. I suoi occhi erano pozze nere di dolore e di disperata fermezza. «Devo dirti, prima di morire, il grande segreto della nostra razza, il Segreto dei Due Mondi...» «Non sforzarti di parlare, padre, se ti fa male,» dissi, cercando di ingoiare il groppo che mi stringeva la gola. «Devo dirtelo!» La voce di mio padre era ormai un balbettio soffocato. «Eric ascoltami bene. Tu sai che fin dall'infanzia ti è stato insegnato a parlare e a leggere una strana lingua, diversa da qualsiasi altra lingua conosciuta sulla Terra.» «Sì, padre. Tu non hai mai voluto dirmi perché dovevo impararla, insieme a tutte quelle altre cose.» Perfino in quel momento di atroce dolore sentivo quella confusione che aveva annebbiato la mia mente per tanti anni. Quanto mi ero scervellato su quella faccenda durante tutti quegli anni! Quella lingua strana che mio padre mi aveva accuratamente insegnato, una lingua che non aveva uguali tra le lingue passate e presenti della Terra. Una lingua soprannaturale, aliena, ignota! E mio padre aveva anche insistito che diventassi un esperto schermitore e che intraprendessi una carriera scientifica, senza mai spiegarmene il motivo, dicendo solo: «Lo saprai più tardi, Eric.» E finalmente era arrivata l'ora delle spiegazioni. L'ora della morte di mio padre! Quella mattina un telegramma mi aveva richiamato dall'Università di New York dove ero un giovane fisico promettente, alla vecchia proprietà di famiglia nel Connecticut. Mio padre era grave. E, in punto di morte, desiderava disperatamente spiegarmi qualcosa.
I suoi occhi morenti erano impressionanti per la loro vivacità, come se la vita stesse dando un ultimo guizzo, prima di scomparire per sempre. Sussurrò: «La catena... la catena che è intorno al mio collo, Eric. Toglimela.» Le mie dita annasparono sotto la giacca del suo pigiama, e gli tolsi dal collo una sottile catena. Alla sua estremità c'era uno strano emblema di un metallo grigio e scintillante, simile al platino. L'emblema consisteva in tre pentagoni che si intersecavano. Era gelido al tatto, e sentii una specie di corrente elettrica attraversarmi, una strana sensazione di potere, come se forze aliene fluissero in me da quel piccolo medaglione. «Mettilo intorno al tuo collo,» ansimò mio padre. «Indossalo per tutta la vita, e prima di morire, dallo a tuo figlio. Appartiene alla nostra casa da innumerevoli generazioni: è l'antico simbolo della regalità nel mondo di Krann.» La sua voce divenne un rantolo, ed egli mi strinse convulsamente un braccio. «La pergamena... la pergamena che troverai nello scrigno chiuso nella mia cassaforte. Ti narrerà la storia, il grande segreto della nostra famiglia, e perché un giorno qualcuno della nostra razza dovrà ritornare a Krann. Io speravo di essere il predestinato, ma le mie conoscenze scientifiche non erano sufficienti. Forse, sarai tu il prescelto, dopo tutte queste generazioni.» I suoi occhi trafissero i miei. «Sento che tu sarai quello che finalmente tornerà all'altro mondo! Ma se vi tornerai, sta attento agli Abitatori dell'Oscurità... l'avvertimento è nello scrigno...» Ad un tratto, e con dolcezza, mio padre morì. Il suo corpo si era rilassato tra le mie braccia, la sua voce si era spenta, i suoi occhi vivaci si erano appannati. Le lacrime lottavano nei miei occhi, mentre riappoggiavo pietosamente quel corpo devastato sul letto. Il mio carattere, rigido e incline all'autocontrollo, ricacciò indietro quelle lacrime. Andai lentamente verso la porta a chiamare il medico che era in attesa. «Se ne è andato, dottore,» dissi con voce inespressiva. Il dottore annuì con serietà. «È stata solo la forza di volontà a tenerlo in vita così a lungo. Diceva di dovervi parlare prima di morire.» Aggiunse in tono comprensivo, «Cercherei di riposarmi, Eric, se fossi in voi.»
Annuii, con le labbra serrate, e discesi le scale buie e rimbombanti della vecchia casa. Lentamente entrai nella biblioteca. Il crepuscolo rendeva quella stanza colma di libri, buia e malinconica. Sedetti alla scrivania. Perfino il mio atroce dolore non riusciva ad attenuare la meraviglia e il dubbio che mi colmavano la mente. Quale stranezza aveva cercato di dirmi mio padre morente, a proposito di un altro mondo chiamato Krann, a proposito di un grande segreto legato alla nostra famiglia e alla strana lingua che avevo dovuto imparare da bambino? Che cosa voleva dire? Mio padre aveva delirato? Non potevo crederlo. Osservai con attenzione l'emblema che pendeva al mio collo, i tre pentagoni intersecantisi, di metallo grigio e splendente. Era un oggetto strano, bizzarro! Che cosa aveva detto mio padre... era un segno, un simbolo di regalità su quell'altro mondo? Poi, ad un tratto, ricordai le ultime parole di mio padre. Lo scrigno che era nella cassaforte, lo scrigno che conteneva la pergamena. Quale pergamena? Non ne avevo mai sentito parlare prima di allora, come non avevo mai sentito parlare di quello strano emblema. Ma sentivo che in quello scrigno poteva esserci... la spiegazione. Rapidamente attraversai la stanza buia e mi avvicinai alla cassaforte della biblioteca. Era chiusa a chiave, ma conoscevo la combinazione, e l'aprii. Dopo una breve ricerca, trovai lo scrigno. Lo portai sulla scrivania e sedetti per un momento a fissare l'oggetto nell'oscurità. Era una scatola oblunga, di metallo nero, con un coperchio a cerniera. La scatola era leggera, più leggera di qualsiasi altro oggetto in metallo delle stesse dimensioni. I miei occhi esperti si accorsero immediatamente che il metallo nero di quello scrigno era sconosciuto sulla Terra. Sollevai avidamente il coperchio. Il mio dolore, per quanto fosse reale e atroce, si era per il momento ritirato in un angolo del mio cervello. Mi sentivo sull'orlo di scoprire un mistero tremendo. Le mie narici fremettero all'odore debole, elusivo, alieno che emanava dallo scrigno. Nella scatola di metallo nero c'era solo un oggetto: un rotolo di un materiale scuro, simile alla pergamena. Le mie dita ne sentirono la composizione, mentre lo tiravo fuori. Era una pelle sottile, conciata, ma di un tipo che non avevo mai visto: una pergamena dalla grana fine e di una straordinaria robustezza. Ciò nonostante era consunta, annerita e logora, come se l'avessero toccata le mani di innumerevoli generazioni. Svolsi il rotolo. I righi, formati da grandi caratteri rossi, risaltavano appena sulla pergamena logora e annerita. In fretta accesi la lampada da scri-
vania. Scorsi i primi righi. Erano caratteri strani, compatti, più simili all'antica scrittura ieratica egiziana che a qualsiasi altra, ma diversi anche da questa, molto diversi da qualsiasi scrittura nota agli uomini moderni. Eppure sapevo leggere quei caratteri, perché erano quelli della strana lingua che mio padre mi aveva con tanta pazienza insegnato quando ero bambino; la lingua che non avevo mai trovato in nessun altro posto al mondo, e su cui mi ero scervellato così spesso. Tremai d'eccitazione, quando lessi i primi righi. «Da Nort Norus, il vero Khal di Krann, ai suoi figli e ai figli dei figli e a tutte le generazioni che verranno: salve!» Il soffio gelido di un mondo alieno ed ignoto sembrò colpirmi in quella biblioteca calda ed illuminata. Capii subito, con un brivido d'orrore, che, attraverso quelle lettere cremisi scuro, mi parlava una voce che proveniva da innumerevoli ere di distanza. Ma continuai a leggere: il cuore batteva più veloce nell'ascoltare la voce di quell'antenato che mi parlava, attraverso la pergamena, dagli abissi del tempo. «Tu che leggerai queste parole sarai un figlio della Terra,» lessi, «e non conoscerai nessun altro mondo. Ma sappi che io, Nort Norus, tuo antenato, non sono nato su questo pianeta, ma su un pianeta che è lontanissimo dalla Terra: li divide tutto l'universo stellato. L'altro mondo, che gira intorno ad un sole rosso e morente, si chiama Krann. «Io, Nort Norus, ero Khal di Krann, il suo Re Supremo, come i miei antenati lo erano stati prima di me. Dominavo tutte le città e tutti i popoli che erano sulla superficie di Krann. Nelle caverne sotterranee del nostro pianeta vivevano i terribili Abitatori dell'Oscurità, creature disumane e malvage, il cui potere è più grande di qualsiasi potere umano. Ma gli abitatori dell'Oscurità non potevano emergere in superficie, perché la luce del sole e quella della luna li uccidono; perciò non potevano attaccarci, e il mio popolo viveva nella pace e nell'abbondanza. «Ero un re giusto e gentile, e il mio popolo mi amava. Vivevo nella Capitale del mio reame, Zinziba, e occupavo il mio tempo libero nello studio dei segreti della natura. Nel corso delle mie ricerche, scoprii che punti, molto lontani fra loro nell'universo tridimensionale, possono essere molto vicini in altre dimensioni. Capii che sarebbe stato possibile arrivare su mondi lontani da Krann attraverso queste altre dimensioni. Ma non pensai più alla mia scoperta, perché i miei doveri erano su Krann.
«Poi arrivò... la ribellione! Un mio lontano cugino aspirava ad essere Khal di Krann in mia vece. Sapeva bene che lui e i suoi pochi seguaci non potevano prendere il mio posto, perché io ero amato e adorato dal mio popolo. Perciò, deciso ad usurpare il mio trono, insieme ai suoi congiurati, fece una cosa orrenda e maledetta. In segreto, scese nelle viscere di Krann, dove nessun uomo aveva mai osato andare. Si recò dagli Abitatori dell'Oscurità. E fece un patto con quelle creature spaventose e disumane: se l'avessero aiutato a prendere il mio posto, in cambio avrebbe dato loro qualsiasi cosa avessero desiderato. «Gli Abitanti dell'Oscurità accettarono quel patto sacrilego. Prestarono all'usurpatore poteri strani e sovrumani, e in cambio chiesero che, una volta divenuto re, offrisse loro ogni anno un certo numero di uomini in sacrificio. Perché gli Abitatori dell'Oscurità, per qualche motivo particolare, desiderano ardentemente il cervello degli esseri umani. L'usurpatore giurò di offrire loro i sacrifici che esigevano. «Con i poteri che essi gli avevano dato, l'usurpatore e i suoi seguaci spezzarono ogni resistenza e infine assediarono la mia Capitale, Zinziba. La mia famiglia e i pochi sopravvissuti tra i miei fedeli furono circondati, ed io compresi che dovevamo fuggire. Ma non potevamo fuggire in nessun posto su Krann. Allora, in tutta fretta, preparai una macchina che ci avrebbe lanciati attraverso l'universo su un altro mondo, penetrando velocemente attraverso le dimensioni. Quella macchina, il cui progetto è allegato a questo scritto, riuscì nell'intento, e in un attimo ci scagliò dall'altra parte dell'universo stellato, su questo pianeta selvaggio ed alieno: la Terra. L'usurpatore non poté seguirci, ma noi eravamo su uno strano mondo, attaccati da uomini animaleschi e da bestie mostruose. Lottammo per la sopravvivenza, ed io, Nort Norus, bruciavo dal desiderio di ritornare un giorno su Krann, distruggere l'usurpatore, e fermare quei sacrifici umani ai malvagi Abitatori dell'Oscurità. «Ma non ho potuto farlo! Io, Nort Norus, ero già vecchio e ho dovuto usare tutte le mie energie per mantenere in vita i miei fedeli su questo pianeta selvaggio. Ora sto per morire, ma scrivo questo messaggio perché sia affidato come una reliquia a mio figlio, ai suoi figli, e alle generazioni che verranno. Che serbino con cura la pergamena, insieme al Simbolo Sacro che è il segno della regalità del Khal di Krann. Che insegnino ai loro figli la lingua del mio popolo in modo che possano leggere la pergamena. E un giorno, uno dei miei discendenti potrà ritornare su Krann, abbattere i successori dell'usurpatore e porre termine agli empi sacrifici.
«Tu, che ora leggi le mie parole forse dopo millenni, potresti essere colui che tornerà. Se hai le conoscenze ed il potere per tornare a Krann, ti ordino solennemente di tornarvi! Non tradire il tuo popolo in catene sulla lontana Krann; perché è ancora il tuo popolo, tu sei il vero Khal, anche se sono passati millenni e millenni. Forse morirai orrendamente in questo tentativo, perché terribili sono i poteri degli Abitatori dell'Oscurità, che sono alleati agli usurpatori. Ma la giustizia sarà la tua arma e, se morirai, morirai in difesa della giustizia. E sappi che, se tornerai, con te verrà lo spirito del tuo antenato, Nort Norus, Khal di Krann.» Appoggiai la pergamena sulla scrivania. Il mio cervello era sconvolto dallo stupore. Mi era sembrato che quella pergamena dagli strani caratteri avesse parlato a voce alta e chiara. Era un grido proveniente da un passato lontanissimo, un messaggio solenne che si era tramandato per generazioni e generazioni. Era possibile che fosse tutto vero, mi chiesi? Un altro pianeta abitato, lontanissimo dalla Terra, da cui i miei antenati erano venuti sulla Terra? Un mondo abitato da uomini civili, perseguitati da un'oscura razza, potente e disumana, che viveva nelle viscere del pianeta? Lo strano scrigno, la pergamena e l'emblema che avevo intorno al collo, potevano certamente provenire da un altro pianeta. Ripresi in mano la pergamena, ne srotolai l'ultimo pezzo. Vi era il progetto a cui aveva alluso Nort Norus, un diagramma di un meccanismo che era abbastanza chiaro per me, fisico moderno. Era un sistema per attraversare velocemente le dimensioni dell'universo, generando una potente forza vibratoria che lanciava la macchina attraverso il continuum del normale spazio gravitazionale... Potevo costruire quella macchina, potevo saettare attraverso l'universo in un istante e arrivare su un altro pianeta, con quel progetto che mi era davanti! La mia immaginazione si infiammò all'idea di quell'avventura incredibile. Balzare su quel mondo distante, un mondo strano, alieno, di cui ero il vero re! Riconquistare il regno che il mio antenato aveva perso e spezzare l'orrendo giogo che imprigionava il mio popolo! Si, era il mio popolo. Perché io, Eric North, ero il vero Khal di Krann, e al mio collo pendeva l'emblema della regalità. E da quell'emblema, correnti sottili di potere e di energia sembravano fluire in me. Si, avrei abbattuto gli usurpatori che millenni prima avevano scacciato la nostra famiglia dal trono! Li avrei distrutti perché avevano osato dare in sacrificio il mio po-
polo ai malvagi che abitavano nelle viscere oscure di Krann! Per un attimo, un dubbio atroce mi gelò il sangue. Quelle creature disumane che vivevano nei sotterranei... dopotutto, l'aiuto che avevano fornito all'usurpatore aveva sconfitto il mio antenato. Egli era dovuto fuggire su questo pianeta, e nella pergamena aveva ammonito, «Terribili sono i poteri degli Abitatori dell'Oscurità». E mio padre aveva ripetuto quell'avvertimento, prima di morire. Potevo sperare di sconfiggerli, quando lo stesso Nort Norus aveva perso? Respinsi quel dubbio raggelante. Avevo preso una risoluzione immutabile. Stavo per intraprendere un'avventura tremenda. Sarei andato su quel pianeta e avrei lottato per spezzare l'orrenda tirannia che schiacciava il mio popolo. Mi aspettava o una morte orrenda o il dominio su di un pianeta. Dissi a voce alta e decisa, come se nella stanza ci fosse qualcuno: «Tornerò, Nort Norus,» dissi. «Uno dei tuoi figli finalmente tornerà a Krann.» 2. La Confraternita dei Redentori Ero in piedi sulla parte superiore della macchina tozza e quadrata che avevo impiegato tre mesi a costruire, la macchina che stava per lanciarmi dall'altra parte dell'universo, su un altro mondo! «Ora zero,» mormorai tra me e me, e la mia mano si sollevò lentamente verso il piccolo pannello di controllo. La macchina misurava un metro e mezzo di lato ed era alta un metro. All'interno della scatola metallica c'erano le batterie, i trasformatori e dei grandi tubi vuoti da cui si irradiava la forza che, quando il motore sarebbe stato acceso, avrebbe lacerato lo spazio normale e avrebbe lanciato la macchina, e qualsiasi cosa fosse al suo interno, in un punto lontano del continuum gravitazionale. La macchina si trovava in un angolo della biblioteca della vecchia casa, il mio laboratorio di fortuna. Erano servite tutte le mie conoscenze scientifiche per costruire quella macchina, anche se avevo la guida del diagramma. E perfino in quel momento ero ossessionato dai dubbi. Se la macchina non funzionava bene, come mi aspettavo accadesse, mi avrebbe potuto scagliare al di fuori del nostro universo spaziale. Oppure, se le coordinate non erano esatte, avrebbe potuto lanciarmi su di un mondo diverso da Krann. Quel dubbio terribile incombeva su di me, mentre esitavo con la mano sull'accensione. Mi vidi riflesso in uno specchio, che era dall'Altra parte
della stanza: ero una strana figura. Il mio corpo, alto e robusto, era rivestito da una camicia e da un paio di pantaloncini color cachi, alla cinta pendeva una lunga spada, del genere che mio padre mi aveva insegnato ad usare, i miei capelli neri erano scoperti. Quel dubbio atroce era dipinto sul mio volto scuro, aquilino. Mi morsi un labbro e dissi, «Ormai non c'è più tempo per i dubbi. È un gioco d'azzardo: la mia vita è puntata su una sola possibilità di raggiungere Krann.» Il cuore accelerò i battiti, quando strinsi l'interruttore. Sussurrai, «Tutto si deciderà tra un attimo, o Krann o la morte. Via.» Feci scattare l'interruttore. All'istante, una forza terribile mi colpì con violenza. Tutto divenne nero ed io non capii più nulla. Quando mi svegliai, per prima cosa mi accorsi di essere disteso bocconi sulla parte superiore della macchina. Aprii gli occhi, poi li battei alla forte luce del sole. Era una luce rossa scura. Sulla mia testa si stendeva un cielo color ocra, in cui bruciava un enorme sole morente, di un cremisi scuro. Mi alzai in piedi, traballante, e mi guardai intorno, intimorito e meravigliato. Intorno a me torreggiava una strana giungla, una foresta vasta e silenziosa, i cui alberi dai tronchi neri si elevavano alti nell'aria fosca e terminavano in ampie chiome dal fogliame cremisi. Tra i tronchi neri si vedevano cespugli di un rosso scarlatto. La mia macchina si era fermata in una piccola radura naturale. Il terreno era nero. Nere erano le rocce che si intravvedevano tra la vegetazione, e nere come l'inchiostro erano le acque di un ruscelletto che mormorava lì accanto. Era un pianeta nero, il cui colore fosco era alleggerito solo dal rosso sangue della folta vegetazione. Era una terra nera a chiazze rosso sangue, che si stendeva sotto un cielo color ocra. «Krann!» sussurrai. «Sono a Krann. Ma dove sono le città e il popolo, il mio popolo?» Il cuore mi vibrava di un'eccitazione sovrumana. In questo strano pianeta, i miei antenati erano stati re, e io mi ci ero avventurato nel tentativo temerario di riconquistare quel reame perso da millenni. «Bisogna stare in guardia,» dissi a me stesso. «Prima di tutto, bisogna scoprire quanto è cambiato questo mondo, prima di fare un qualsiasi tentativo.» Poi l'energia e la fiducia sembrarono fluire in me dal simbolo che era nascosto dalla camicia. «Sì, agirò, quando sarà il momento. Questo mondo è
il mio mondo, di diritto!» Il mio primo pensiero fu nascondere la macchina. Ne discesi e la trascinai verso un vicino gruppo di cespugli scarlatti, su cui sovrastava un alto albero dai rami lisci e spogli. Poi, mentre trascinavo la macchina in quel nascondiglio sotto l'albero, accadde una cosa orribile. I rami neri dell'albero si allungarono come grandi tentacoli e mi afferrarono! Cominciarono a tirarmi verso il tronco lucido. Emisi un grido rauco e diedi uno strappo all'indietro. Mi liberai da quei rami-tentacoli un istante prima che mi afferrassero anche gli altri. Le membra dell'albero-polipo frustarono l'aria nel tentativo di riaffermarmi. Mi asciugai la fronte, tremante. Inorridito, guardai quella creatura diabolica. Poi mi accorsi che c'erano altri alberi neri, lucidi e spogli, nella giungla rossa, e intuii che erano metà animale e metà pianta, avevano le radici ma erano in grado di afferrare e divorare una preda. Ad un tratto, nel silenzio acuto di quella terra buia, si alzò un grido d'orrore, proveniente da una voce umana. Mi girai a guardare in quella direzione. Il grido si ripeté più acuto: era una disperata richiesta di aiuto. Non ebbi più esitazioni. Mi inoltrai nella fitta giungla, in quella direzione. L'orrore e l'agonia, espressi da quel grido, erano troppo intensi per potervi resistere. Lottai nello spinoso sottobosco, mi feci strada a colpi di spada, evitando gli alberi-polipo. Poi, quando irruppi in un'altra piccola radura naturale, mi fermai per un attimo, inorridito. In quella radura cresceva un altro degli alberi-polipo, che tra le miriadi di rami-tentacoli serrava un essere umano, lo tirava verso il tronco, dove si apriva un'ampia fessura. E la vittima era una ragazza! Una ragazza snella, che indossava una camicia e un paio di pantaloncini bianchi molto simili ai miei, ed i suoi occhi erano nere pozze d'orrore in un volto pallido. La ragazza si contorceva freneticamente nella stretta dell'albero-polipo. Si sforzava vanamente di usare un pugnale, ma le braccia e le gambe bianche erano imprigionate. Balzai in avanti con un urlo, e la mia spada sollevata si abbassò con un colpo terribile sui tentacoli che serravano la giovane. La lama tagliò di netto la metà di essi, dai quali stillò sangue o linfa. Ma gli altri si contorsero con rabbia per afferrarmi. Liberai il braccio che manteneva la spada e colpii di nuovo, tagliando la maggior parte dei rami che stringevano la ragazza. Un altro colpo rapido spezzò l'ultimo tentacolo che si avvolgeva intorno al suo corpo.
Prima che altri rami potessero afferrarci, allontanai la ragazza dall'albero-polipo. La trascinai fuori dalla portata dei tentacoli, e poi mi fermai ansimante. Dissi, parlando nella lingua di Krann che mi era stata insegnata tanti anni prima: «Per poco l'albero non ci ha catturati entrambi.» La ragazza, inaspettatamente, cercò di colpirmi al cuore con il pugnale che stringeva in mano! Il mio istintivo balzo all'ìndietro mi salvò la vita. Il suo pugnale affilato mi aveva strappato il davanti della camicia. Gridai: «Ma che diavolo...» La ragazza, con gli occhi fiammeggianti nel volto pallido e teso, mi colpì di nuovo, prima che potessi finire la frase. Questa volta, già preparato, le diedi una manata sul braccio e l'afferrai. Si dimenò come un gatto selvatico tra le mie braccia, ma io la trattenni. «È questa la gratitudine per averti salvato la vita?» gridai adirato. La ragazza parlò con impeto: «Mi hai salvato la vita solo per riportarmi come prigioniera a Zinziba. Guardia!» Capii le sue parole, sebbene la sua lingua fosse leggermente diversa da quella che io avevo appreso. L'antica lingua di Krann era cambiata nel corso del tempo, ma evidentemente i cambiamenti non erano stati molti. Una parola nel suo discorso catturò la mia attenzione. Zinziba! La Capitale di quel mondo, dove millenni prima i miei antenati avevano regnato come Khal di Krann! Dissi, stupito: «Non sono una guardia, e non ho alcun desiderio di farti prigioniera. Volevo solo...» Improvvisamente due braccia muscolose mi afferrarono da dietro! Lasciai subito la presa sulla ragazza e tentai di girarmi con la spada verso il mio assalitore invisibile, ma non vi riuscii. Quelle braccia enormi mi tenevano immobile. Riuscii a girare il capo. Era un gigante l'uomo che mi aveva afferrato, un guerriero altissimo, dal viso sfregiato e dagli occhi duri e spietati come acciaio. Una grande spada gli pendeva alla cintura. Gli era accanto un altro uomo. Era più anziano, i capelli erano grigi, il volto scavato era segnato da rughe profonde, gli occhi sbiaditi mi scrutavano. Il gigante, che mi manteneva, disse con voce profonda alla ragazza: «Usa il tuo pugnale, Lura. Presto, prima che arrivino altre guardie!»
Lura esitò. «Dice di non essere una guardia, Herk Ell.» Herk Ell, il gigante che mi tratteneva, mugghiò: «Mente, naturalmente! È uno della maledetta stirpe di Zinziba che ci dà la caccia.» L'uomo più anziano disse in fretta: «Forse quest'uomo dice la verità, Herk Ell. Forse appartiene alla nostra Confraternita.» Non capii che cosa intendesse, ma avvertii di essere in un terribile pericolo ed esclamai, «Non sono una guardia, non so nemmeno chi siano le guardie. E non sono mai stato a Zinziba.» Herk Ell, mantenendomi ancora come un bambino tra quelle braccia enormi, rise con voce stridula. «Che bugiardo!», gracchiò il gigante. «Wal Az, guardagli le piante dei piedi e vedi se appartiene alla Confraternita.» Wal Az, l'uomo dai capelli grigi, si chinò e, con mia meraviglia, mi sfilò i sandali dai piedi. Quindi esaminò le piante dei miei piedi. Poi l'uomo più anziano si drizzò, e il suo volto rugoso divenne pallido e spietato. Disse con voce metallica, «Sui piedi non ha il segno. Non appartiene alla Confraternita.» «Lo sapevo che era una guardia!» tuonò Herk Ell, in tono trionfante. «Presto, infilagli il pugnale nel cuore, Lura.» Ero stordito dalla rapidità degli avvenimenti. Vidi Lura avvicinarsi con il pugnale alzato. Il suo viso bianco e fine si era indurito per lo stesso odio spietato che mi avevano mostrato gli altri due. E, sebbene la bocca tremasse, gli occhi scuri erano implacabili e decisi. Lottai disperatamente per liberarmi, ma ero inerme tra le braccia potenti del gigante. Lura sollevò il pugnale, ed io, involontariamente, chiusi gli occhi. Era la fine della mia avventura, appena cominciata! Un rimpianto violento mi scosse il cuore. Io, il discendente degli antichi Khal, dovevo ritornare finalmente su Krann solo per essere ucciso! Non sentii il colpo del pugnale, e riaprii gli occhi. Lura era ferma con il pugnale sollevato, ma sembrava raggelata. Mi fissava il petto, dove il colpo che mi aveva dato in precedenza aveva lacerato la camicia. Il volto le si impallidì di paura e di timore. «Colpisci, ragazza!» gridò Herk Ell, al di sopra della mia spalla. «Che cosa ti trattiene?» Lura puntò un dito tremante verso il mio petto. Le sue labbra irrigidite riuscirono solo a mormorare: «Guarda...» Herk Ell allungò la testa oltre la mia spalla per guardarmi in petto e anche Wal Az si sporse a fissarmi. E sui loro volti vidi dipingersi lo stesso timore incredulo che era sul viso della ragazza.
Mi fissavano il petto con l'espressione di chi vede qualcosa che non può esistere, che non può essere vera. Le braccia di Herk Ell ricaddero senza forza. Il gigante dalla faccia sfregiata mormorò lentamente: «Dei di Krann... il Segno del Redentore!» Gli occhi sbiaditi di Wal Az si illuminarono di timore e di esaltazione. Gridò: «Il Redentore! È arrivato finalmente!» E improvvisamente, capii. Tutti e tre fissavano timorosi il simbolo di metallo grigio, formato dai pentagoni intersecantisi, che era appeso al mio collo e che lo squarcio nella camicia aveva rivelato: il Segno degli antichi Khal di Krann. Allora il popolo di Krann lo ricordava ancora! Una fiducia improvvisa travolse il mio stordimento. I tre continuavano a fissarmi intimoriti. Lura mi sussurrò: «Tu sei il Redentore, non è vero? Colui il quale hanno implorato generazioni e generazioni affinché tornasse a Krann dal pianeta lontano, su cui fuggì millenni fa il grande Khal, Nort Norus?» Risposi: «Sono Eric, uno dei discendenti di Nort Norus. Sono ritornato a prendere il mio posto di Khal di Krann.» Il gigante Herk Ell alzò la spada e gridò esultante: «Permetti che io sia il primo ad acclamarti, Khal Erik! E sappi che io e tutti i seguaci della Confraternita ti seguiremo fino alla morte!» «La Confraternita?», dissi in tono interrogativo. Lura spiegò con voce tremante per l'emozione. «La Confraternita del Redentore, Khal Erik! Perché, fin da quella remota notte, in cui il grande Nort Norus e la sua famiglia scomparvero da questo pianeta, molti uomini hanno creduto che un giorno uno dei suoi figli sarebbe tornato a distruggere il male che qui impera, e avrebbe regnato su di noi nella pace e nella giustizia. Noi della Confraternita segreta, che crediamo in questo ritorno, abbiamo un segno segreto sulle piante dei piedi. Pensavamo che tu, che non hai un segno simile sui piedi, fossi un nostro nemico.» Chiesi in fretta: «I successori dell'usurpatore imperano ancora? I sacrifici agli Abitatori dell'Oscurità continuano ancora?» «Si, Khal Erik.» Negli occhi scintillanti di Lura si alternava l'orrore alla nuova speranza. «Nella città di Zinziba, Gor Om, discendente dell'usurpatore, siede sul trono. E, una volta al mese, mette molti di noi nel carro che porta i sacrifici umani nelle viscere nere di questo mondo, agli Abitatori dell'Oscurità.» Aggiunse: «Questa volta, anche noi tre avremmo dovuto far parte dei sa-
crifici, perché avevamo scoperto la nostra appartenenza alla Confraternita del Redentore, che Gor Om odia e tenta di sradicare. Ma siamo scappati da Zinziba e ci siamo nascosti in quella giungla. Le guardie hanno continuamente tentato di catturarci, volando sulla giungla con i loro rhor. Pensavamo che tu fossi uno di loro.» Pensai rapidamente e poi dissi loro con decisione: «Devo andare a Zinziba, farmi conoscere dagli appartenenti alla vostra Confraternita e chiamarli a raccolta affinché Gor Om sia detronizzato...» «Nella giungla... stanno arrivando le guardie!», sibilò Wal Az in quell'istante, puntando un dito verso l'alto. Herk Ell sguainò la spada e Lura gridò. In cielo erano apparse una decina di grandi creature volanti: sbattevano veloci le ali nel cielo color ocra e si abbassavano verso la foresta rossa. Erano enormi rettili volanti, grigio-verdi, simili a dinosauri alati. Avevano una grande testa, una fila di zanne e un corpo lungo, munito di ali. E sul dorso di ciascun rettile volante, c'era una sella e un essere umano! Indossavano delle corazze nere e cavalcavano i rettili alati, scrutando in basso, quando gli animali planarono verso la giungla. Balzammo attraverso la radura verso il riparo della giungla. Ma Wal Az gridò disperatamente: «Troppo tardi... ci hanno visti!» Gli occhi acuti di una delle guardie ci avevano visti correre nella radura. Urlò ai suoi compagni, e contemporaneamente fece girare il suo destriero volante, muovendo le redini che gli circondavano la testa. Subito furono fatti girare anche gli altri rettili alati. Con un grande frullio d'ali e un coro di strilli trionfanti, tutta la compagnia di destrieri e cavalieri planò su di noi. 3. Nella Città Nera Non raggiungemmo mai il margine della giungla. Prima che ci avvicinassimo, i cavalieri atterrarono nella radura, smontarono dai destrieri alati e ci furono addosso. Avemmo appena il tempo di girarci ad alzare le spade per rispondere all'attacco. Ci assalirono con urla feroci, un branco selvaggio guidato da un capitano, munito di elmetto. I rettili alati restarono immobili, con le ali ripiegate. Herk Ell, il vecchio Wal Az ed io, proteggemmo con i nostri corpi Lura. «Schiavi maledetti di Gor Om, prendete questo!» strillò Herk Ell, con gli occhi scintillanti, menando un colpo tremendo con la spada.
Il violento fendente tagliò di netto la testa ad una delle guardie. Nello stesso momento, infilzai la gola di un'altra guardia, e lo vidi indietreggiare, ferito a morte. «Vivi... prendeteli vivi!», vociò il capitano. Poi risuonò solo il clangore delle spade e le urla di rabbia e di paura. Herk Ell abbatté un'altra guardia, ma ricevette un colpo ad una spalla. Wal Az era caduto, colpito alla testa dalla parte piatta della lama di una spada. Quella mischia selvaggia durò solo pochi minuti. Nel frattempo, infilai la punta della mia spada nell'armatura di un altro dei nostri assalitori. Ma una metà delle guardie ci aveva accerchiato alle spalle. Sentii Lura gridare, mi voltai e la vidi lottare nella morsa di due guardie. Mi slanciai in suo aiuto, ma in quel momento fui afferrato alle spalle dagli altri. Mi buttarono a terra, e sentii che mi legavano mani e piedi con cinghie di cuoio. Herk Ell lottava ancora selvaggiamente, gridando le sue sfide, mentre brandiva la sua enorme spada. Ma in un attimo anche lui fu sconfitto dal numero schiacciante dei nemici. Quando anche lui fu legato e reso inoffensivo, il capitano delle guardie lo colpì sul volto insanguinato e ammaccato. «Feccia della Confraternita,» disse in tono sprezzante l'ufficiale. «Gor Om sarà felice quanto ti riporteremo a Zinziba.» Una guardia, che era accanto a me, chiese al proprio superiore: «Chi è questo qui? Non fa parte del gruppo che dovevamo catturare, perciò possiamo ucciderlo sul posto.» Mi appoggiò la spada sul petto, all'altezza del cuore. Il simbolo che portavo al collo, l'antico emblema pentagonale, durante la lotta mi era scivolato dietro la schiena, cosicché non si vedeva più. Il capitano grugnì. «No, lo porteremo insieme agli altri. Senza dubbio, appartiene alla loro maledetta società segreta, e deve averli aiutati a nascondersi. Il grande Gor Om lo ricompenserà per la sua gentilezza.» Uno scoppio di risa bestiali fu la risposta degli altri a quello scherzo crudele. Il capitano ordinò: «Ritorniamo a Zinziba! Voi quattro prenderete ciascuno un prigioniero sul vostro rhor.» Le quattro guardie che aveva indicate, ci trascinarono verso i destrieri alati. I rhor, così si chiamavano i rettili volanti, erano accucciati in attesa dei padroni. Quando fui trascinato dal mio guardiano verso un rhor, potei osservare la grottesca creatura più da vicino. Fui gettato sulla sella, e poi la mia guardia vi si arrampicò a cavalcioni. Notai che alla sedia erano attaccate le staffe, e che robuste redini di cuoio
erano legate ad anelli di metallo incastrati nella mascella del rhor. Anche i miei tre compagni furono gettati sulle selle. Poi il capitano urlò e le creature si alzarono in volo con un potente frullìo d'ali. I rhor decollarono con una potenza incredibile, e si innalzarono ripidi nel cielo illuminato dal sole rosso scuro. L'ufficiale, che volava in testa, conduceva la truppa. Ad un'altezza di trecento metri dal suolo, i rettili cominciarono a volare al di sopra della giungla rossa. Era una strana cavalcata nel cielo. La testa mi pesava come fosse di piombo. Il mio breve sogno di radunare la Confraternita del Redentore e detronizzare Gor Om sembrava frantumato. Si, mi stavo dirigendo a Zinziba, ma come prigioniero e non come Khal di Krann. Eppure non disperavo. L'energia, che fluiva in me dal simbolo che portavo al collo, mi dava coraggio. E, sebbene mi aspettasse una sorte crudele, ero ancora determinato a liberare il mio popolo, quando alla fine arrivammo in vista delle torri di Zinziba. Mi apparve davanti una città tutta nera che si stagliava contro la vegetazione rossa di quel mondo nero. La città, costruita in metallo nero, era un ammasso di sottili spirali che si alzavano nel tenebroso tramonto. Un'alta parete nera la separava dalla foresta circostante, e io mi accorsi che tutta la città aveva la forma di un pentagono. Ci avvicinammo, e vidi molti rhor volare intorno alle spirali nere. Le luci si accendevano scintillanti, mentre il sole tramontava. Poi notai che nel centro geometrico della metropoli pentagonale si alzava una torre nera e affusolata che, in sezione obliqua, era pentagonale. Era la torre più alta della città. I nostri rhor planarono ad ali rigide tra le tremende spirali. Nelle strade buie vidi folle di uomini e donne vestiti di bianco. I nostri destrieri alati si abbassarono verso la base della torre centrale, e si diressero verso un cortile, cinto da mura, che si trovava dietro la torre. Intravvidi una grande apertura rotonda nel pavimento nero, un pozzo scuro che sembrava l'accesso ai bui sotterranei di Krann. I rhor superarono quell'orribile apertura, e si posarono in un altro cortile cinto da mura, che si trovava accanto all'enorme torre pentagonale. Vi erano accucciati altri rhor. Delle guardie armate corsero verso di noi. Una di esse esclamò rivolta al nostro capitano: «Allora, avete ripreso i fuggitivi? Il Khal Gor Om ne sarà molto soddisfatto.»
Il capitano dichiarò: «Li porterò davanti al Khal, perché siano giudicati. Sciogliete loro le cinghie.» Fummo tirati giù con violenza dalle selle e fummo liberati. Herk Ell stese le enormi braccia, e le guardie che ci circondavano sollevarono minacciosamente le spade. «In marcia!», ringhiò il capitano, mostrandoci la direzione. «Un solo tentativo di resistere, e sarete uccisi qui.» «È meglio morire così, piuttosto che aspettare il carro nero degli Abitatori dell'Oscurità,» mormorò Herk Ell, gonfiando i muscoli possenti, pronto a lottare. Gli sussurrai piano: «No, non resistere! Finché siamo vivi, abbiamo ancora una possibilità. Ho qualcosa in mente, se ci portano da Gor Om, come hanno detto.» «Ormai non abbiamo più nessuna possibilità di fuggire,» mormorò il gigante, e vidi che anche il volto di Lura e del vecchio Wal Az riflettevano la stessa disperazione. Ciò nonostante, Herk Ell si trattenne dall'attaccare le guardie. Con le spade sguainate tutt'intorno a noi e il capitano in testa, fummo condotti nell'enorme torre pentagonale. Attraversammo sale e corridoi di metallo nero illuminati da luci soffuse. Il cuore mi batteva di una strana emozione. Quello era il palazzo dei Khal, dove i miei antenati un tempo avevano regnato. Sulla soglia di una porta a doppio battente, fummo fermati da alcune guardie. Il nostro capitano dichiarò i motivi del suo arrivo al palazzo. Dopo poco, una delle guardie ritornò a dire: «Il Khal Gor Om vedrà e giudicherà i prigionieri ora.» Gli enormi battenti si spalancarono. Davanti a noi si aprì una vasta camera pentagonale, che si trovava al centro della torre. Era illuminata da luci soffuse, quasi liquide, le pareti nere erano altissime. Vi echeggiavano una musica ritmata, lenta, che proveniva da una fonte invisibile. Ai tavoli sfarzosi sedevano non meno di duecento persone: erano i Nobili di Krann. Avevano tutti i capelli neri e la pelle bianca, indossavano abiti corti e bianchi, e gli uomini portavano la spada. Le chiacchiere e le risate si spensero al nostro ingresso. Sotto lo sguardo attento degli astanti, marciammo verso un tavolo, più alto rispetto agli altri, dove sedeva il Khal. Gor Om, l'usurpatore, i cui antenati avevano detronizzato i miei! Quando ci fronteggiammo, il mio cuore pulsò di un odio antico per quella stirpe vi-
le, che da millenni offriva il mio popolo in sacrificio alle creature oscure che popolavano i sotterranei di quel pianeta. E lo sguardo di Gor Om si fermò sul mio volto, attirato dai miei occhi fiammeggianti. Aveva un aspetto volgare Gor Om. Era obeso, gonfio, dimostrava una quarantina d'anni, una massa di carne flaccida straripava dal trono su cui era seduto. Le mani grasse e inanellate pendevano inerti, tirate in basso dal loro stesso peso. I folti capelli neri erano unti e arricciati, e i grandi rotoli di grasso sul suo volto nascondevano quasi gli occhietti neri e astuti. Si, c'era astuzia in quegli occhi, e potere in quel corpo volgare e osceno. Spostò lo sguardo sul capitano che ci aveva condotti e disse con voce spessa e rauca: «Avete fatto bene a riacciuffare Herk Ell, Wal Az e la ragazza, che hanno congiurato per anni con la loro maledetta Confraternita contro di me. Ma chi è quest'altro?» Fece schioccare le dita verso di me. Il capitano spiegò: «L'abbiamo trovato con i fuggitivi, ed ha lottato al loro fianco. Senza dubbio, anche lui appartiene alla Confraternita.» «Allora condividerà la loro stessa sorte,» dichiarò Gor Om. «All'alba, il carro nero dei potenti, gli Abitatori dell'Oscurità, salirà attraverso il Pozzo Sacro per il sacrificio mensile. Questi quattro faranno parte dei sacrifici, e scenderanno ad incontrare i potenti.» Mi parve che la gaia folla di Nobili fosse attraversata da un fremito di terrore, quando sentì nominare i temuti Abitatori dell'Oscurità. Ma Gor Om continuò a parlare, e la sua faccia volgare aveva un'espressione divertita. «Sicuramente,» disse in tono ironico, «per voi della Confraternita del Redentore, come amate definirvi, è meglio morire così rapidamente piuttosto che aspettare un Redentore che, ahimè, non verrà mai.» A questo motto di spirito, uno scoppio di risate si alzò dagli uomini e dalle donne che erano intorno al tavolo. Vidi Herk Ell digrignare i denti e Lura fissarmi, con il suo volto strano, affascinante. Il cuore mi ribolliva di ira. Ma, quando parlai, mantenni calma la voce. Dissi: «Ti sbagli, Gor Om. La Confraternita non ha atteso invano.» Gli occhietti dell'usurpatore luccicarono. «Ancora credi che arriverà il vostro fantastico Redentore?» Dissi: «Il Redentore è arrivato.» La vasta camera vibrò, come fosse stata attraversata da una corrente di elettricità! Ognuno si sporse in avanti, i muscoli tesi, fissandomi con stupore. Ma io continuai a tenere gli occhi fissi su Gor Om.
Le pieghe di grasso che erano sul suo volto gonfio si rattrappirono in un sorriso. Disse: «Allora, dov'è il Redentore? Perché non si fa vedere a Zinziba?» «È qui!», esclamai. Tirai fuori il simbolo pentagonale dall'interno della camicia e lo alzai per farlo vedere a tutti. Un grande sospiro echeggiò nella sala. Tutti sembravano pietrificati, mentre i loro occhi fissavano quel simbolo antico e sacro. Sui loro volti c'era timore e meraviglia. Gor Om si alzò a metà dalla sedia, i suoi occhietti erano sbarrati. In quell'istante, prima che egli riuscisse a controllare la sua espressione, vidi la paura stampata sul suo volto enfio. Esclamai, «Gor Om, il tuo dominio si avvicina alla fine! Si, e il dominio di tutta la sua stirpe che per millenni ha tiranneggiato questo pianeta e ha offerto il popolo agli Oscuri, ai Malvagi. Io discendo da Nort Norus, il Grande Khal, che millenni fa partì da questo mondo. Sono tornato a riprendere il trono e a distruggere questa diabolica tirannia.» E, prima che qualcuno mi fermasse, mi rivolsi alla gente pietrificata che sedeva ai tavoli e gridai: «Nobili di Krann, voi avete visto il Simbolo e sapete che dico la verità. Alzatevi e seguitemi. Uccideremo questo despota osceno e fermeremo per sempre i sacrifici agli Oscuri!» Qualcuno dei Nobili balzò in piedi, e, per un attimo, ebbi la folle speranza che stessero per unirsi a me. Ma Gor Om si era ripreso e la sua voce rauca gridò in fretta. «Guardie! Prendete quest'impostore!» Le guardie dalla armatura nera afferrarono me e i miei compagni. E altre guardie si precipitarono nella sala. I Nobili restarono in piedi, fissandomi intensamente. Gor Om disse loro in tono tranquillo: «Questi non è altro che un impostore, uno schiavo che è venuto a raccontarci la sua favola di essere discendente di Nort Norus. Nort Norus scomparve e morì millenni fa come tutti noi sappiamo. Quest'uomo ha contraffatto l'antico Simbolo, e recita la parte del Redentore.» «Sei tu che menti!» gridò Herk Ell, lottando per liberarsi, con il volto sfregiato rosso di ira. «Il Khal Erik dice la verità e il simbolo è quello vero. Perché tutti voi sapete bene che su questo pianeta l'unico metallo grigio era quello dell'Emblema indossato dagli antichi Khal.» Gor Om ordinò, «Portateli nelle celle. Quando il carro dei sacrifici arriverà all'alba, questi quattro vi andranno insieme agli altri prescelti. Gli A-
bitatori dell'Oscurità sapranno come trattare un impostore simile. Che il banchetto continui!» Fummo rapidamente trascinati fuori dalla grande sala. Fummo sospinti lungo sale e corridoi, poi ci fecero scendere delle scale che portavano a sotterranei, illuminati fiocamente. Lungo un corridoio erano allineate celle dalle porte sprangate. Fummo gettati in una di queste celle, e la porta si richiuse con clangore. La cella era piccola, completamente buia. La sua unica apertura era un finestrino di trenta centimetri quadrati, che si apriva in alto nella parete di metallo, al livello del terreno. Attraverso quell'apertura, guardavamo nel cortile del pozzo oscuro. Herk Ell si sedette a terra e disse gravemente, «È stato un'ottimo tentativo quello di sollevare i Nobili, Khal Erik. Ma coloro che desideravano seguirti temevano troppo le guardie di Gor Om.» Wal Az esclamò: «L'usurpatore ti teme, Khal Erik! Sa bene che sei il Redentore.» Percorrevo avanti e indietro la cella, come un animale in trappola. «Dobbiamo uscire di qui in qualche modo!» «Impossibile,» disse il vecchio in tono disperato. «Nessuno è mai scappato da queste celle. Sono sprangate, e ci sono le guardie all'esterno. E mancano solo poche ore all'arrivo del carro dei sacrifici.» Lura parlò a voce bassa dall'angolo buio, in cui era seduta. Sussurrò: «Ho paura... ho paura di scendere dagli Abitatori dell'Oscurità.» Mi sedetti accanto a lei, e le posi un braccio intorno alle spalle esili. Mi si aggrappò. Non era più la fanciulla fiera e combattiva che avevo incontrato nella giungla, ma solo una ragazza spaventata, che inorridiva all'idea del destino orrendo e misterioso che ci attendeva. Maledissi amaramente la mia impotenza. Improvvisamente mi venne in mente quanta fede cieca lei e gli altri avevano riposto in me, il Redentore, la cui venuta era stata implorata per secoli da un popolo terrorizzato. Era stato il sogno della loro vita che un giorno, in qualche modo, io arrivassi a liberarli dalla schiavitù che li legava alle orrende creature dei sotterranei. Quando infine ero arrivato, avevo tradito le loro speranze, avevo frantumato il loro sogno secolare, ed ero stato condannato alla loro stessa sorte. 4. Il carro dei Sacrifici Per ore sedetti avvolto dal buio assoluto di quella piccola cella, con Lura
stretta a me. In tutto quel tempo non si udì nessun rumore, tranne quello dei passi delle guardie, che erano nel corridoio. Poi Herk Ell si mosse, e si avvicinò alla finestra a guardare fuori. Sì stava facendo giorno, e le stelle impallidivano nel cielo striato di rosa, contro cui si stagliavano le spirali nere di Zinziba. Ad un tratto, Herk Ell disse: «Sta arrivando il carro dei sacrifici!» Ci avvicinammo in fretta, e scrutammo il cortile attraverso la piccola finestra. Qualcosa stava uscendo dal pozzo nero, insondabile, che era al centro del cortile. Era uno strano apparecchio nero, un grande disco bordato da una parete bassa. Non vi era nessuno, non si sentiva nessun rumore di motore. Salì dalle profondità del pozzo come una nera nave fantasma e si fermò all'altezza del bordo del pozzo. «Si, è il carro dei sacrifici,» disse Wal Az con voce resa tremula dall'orrore. «Tra poco vi saliremo sopra, insieme agli altri condannati, e scenderemo nelle profondità verso una sorte terribile.» La sottile figura di Lura tremò convulsamente accanto a me. La circondai con un braccio, il cuore gonfio di un'ira vana. Improvvisamente ci irrigidimmo tutti con le orecchie tese. Dal corridoio, su cui sì affacciava la porta della nostra cella, una voce sussurrava piano. «Khal Erik! Khal Erik!» Balzai alla porta chiusa a chiave. A bassa voce, domandai: «Chi è?» La voce che sussurrava dall'altra parte della porta chiese in fretta: «Sei Khal Erik? Il Redentore?» Risposi affermativamente, e allora la porta fu aperta rapidamente. Nel corridoio, fiocamente illuminato, scorgemmo una mezza dozzina di uomini, con le spade sguainate e i volti eccitati. Wal Az mi disse: «Li conosco! Sono della nostra Confraternita!» «Si,» disse il loro capo. «Apparteniamo al corpo di guardia di questo palazzo, ma siamo membri segreti della Confraternita, e abbiamo deciso di liberarvi. Abbiamo ucciso le due sentinelle che erano nel corridoio.» Gridai: «Come sapevate che mi trovavo in questa cella?» L'uomo rispose: «In tutta Zinziba si mormora che il Redentore è tornato e che Gor Om lo ha imprigionato per sacrificarlo agli Abitatori dell'Oscurità. Dimmi, sei veramente il Redentore?» Per tutta risposta, sollevai il simbolo che avevo intorno al collo. Gli uomini caddero in ginocchio: nei loro occhi brillavano timore e rispetto. Gridarono: «Tu sei il Redentore! Ti seguiremo fino alla morte, Khal E-
rik! E tutta la Confraternita e molti altri a Zinziba sono pronti ad unirsi a te e detronizzare Gor Om.» «Dobbiamo agire rapidamente, allora.» Esclamai, e il cuore accelerò i battiti per l'agitazione. «Dove sono i nostri uomini? Quanti ce ne sono?» Mi disse: «Almeno diecimila membri della Confraternita si sono radunati in segreto intorno al palazzo, Khal. Ma non possono entrare, perché le porte del palazzo sono ancora sbarrate, e sono custodite, al loro interno, da una dozzina di guardie. Dobbiamo sopraffare queste guardie e aprire le porte per far entrare gli altri. Poi, al loro attacco al palazzo, tutta Zinziba si solleverà, si, e ogni altra città su Krann, non appena riceverà la notizia.» Ci porse le spade che aveva portato per noi. Io afferrai la mia e gridai: «Presto, alle porte! Uccideremo le guardie e le apriremo ai nostri che aspettano fuori!» Herk Ell esclamò con gioia, sguainando la spada: «Ora regoleremo i conti con il tiranno, una volta per tutte.» Dissi in fretta alla ragazza: «Lura, tu resterai qui. Non voglio che tu sia coinvolta nella battaglia.» Gli occhi di lei lampeggiarono. «Dove andrai, lì ti seguirò, Khal Erik!» Non c'era tempo per protestare, dovevamo agire subito. Ci affrettammo lungo il corridoio buio, e balzammo oltre i corpi delle guardie trucidate dai nostri soccorritori. Poi salimmo di corsa le scale a chiocciola che portavano al pianterreno del grande palazzo. Quando uscimmo in una grande sala, illuminata dalle luci rossastre dell'alba, ci precipitammo verso una porta, aldilà della quale c'era un corridoio che conduceva alle grandi porte esterne del palazzo. Eravamo appena entrati in quel corridoio, quando dal lato opposto della grande sala, che avevamo appena attraversato, uscì Gor Om in persona con una ventina di guardie. Gor Om, non appena entrò nella sala, ordinò: «Andate subito a prendere i prigionieri dalle celle affinché siano portati al carro dei sacrifici. Fate in fretta, i potenti non tollerano ritardi.» Poi ci scorse ed urlò: «Sono scappati! Prendeteli!» I suoi uomini si slanciarono verso di noi con le spade sguainate. Gridai ad Herk Ell e agli altri: «Andate alle grandi porte e apritele agli uomini che attendono fuori! Wal Az ed io rimarremo a trattenere queste guardie.» Il gigante gridò: «Ma Khal Erik, sono troppi per voi due...»
«Andate!», gli gridai con fierezza. «Se non riuscite a far entrare gli uomini che sono fuori, non abbiamo più nessuna possibilità!» Herk Ell obbedì: lui e una mezza dozzina di uomini corsero lungo il corridoio verso le grandi porte del palazzo, che non potevano essere aperte finché non fossero stati sopraffatti gli uomini che le difendevano dall'interno. Spinsi Lura dietro le mie spalle, e poi io e Wal Az alzammo le spade per rispondere all'attacco delle guardie di Gor Om. L'obeso usurpatore non si unì all'assalto, ma rimase indietro ad incitarli. Ci assalirono tutt'e venti, ma in quello stretto corridoio non potevano attaccarci tutti insieme. Fu questo a salvarci nel primo assalto. Wal Az ed io attaccammo nello stesso momento le guardie, e due di esse crollarono sotto i nostri colpi impetuosi. Ferii un altro uomo al collo, e il resto delle guardie indietreggiò davanti alla nostra coraggiosa difesa. «Prendeteli, codardi!», urlò Gor Om ai suoi uomini, la faccia gonfia rossa di rabbia. «Vieni a provare tu stesso, falso Khal!», lo sfidai. Ma le guardie ci attaccarono di nuovo, incitate dagli ordini rabbiosi del loro padrone. Di nuovo le lame si scontrarono con le lame, ma questa volta Wal Az cadde ferito alla coscia. Una lama partì per dargli il colpo di grazia, ma io la intercettai e tagliai di netto la testa dello spadaccino. Un altro attaccante mi prese alla sprovvista: aveva alzato la spada per infilzarmi, ma Lura afferrò l'arma di Wal Az e l'affondò nella gola dell'uomo. Ma ormai lottavo da solo, coprendo la ragazza alle mie spalle. La mia spada risuonava contro le lame che tentavano di raggiungermi. Poi persi l'equilibrio sul pavimento reso scivoloso dal sangue e, prima che potessi ritrovarlo, una lama mi sfiorò il capo e caddi. Mentre mi abbattevo al suolo, una seconda spada mi trafisse una spalla. Il mio corpo era debole, la mia coscienza annebbiata. Vidi Lura, afferrata dalle guardie, lottare come un gatto selvatico. Gor Om era balzato in avanti e ora urlava ai suoi uomini ansimanti: «Seguite gli altri che sono fuggiti lungo questo corridoio!» Ma in quel momento, echeggiò un urlo terribile nel lungo corridoio, e una guardia, barcollante e coperta di sangue, traballò verso di noi strillando: «Stanno attaccando il palazzo! Hanno aperto le porte e migliaia di uomini della Confraternita si stanno riversando all'interno!» Vidi confusamente che il volto di Gor Om impallidiva di rabbia. Gridò:
«Suonate l'allarme per richiamare tutte le mie guardie che sono in città!» L'uomo ferito gridò: «Khal, è troppo tardi: tutta Zinziba è in rivolta. Dovunque le tue guardie vengono sopraffatte dai ribelli oppure si uniscono ai rivoltosi. Urlano che il Redentore è arrivato e, a momenti, le loro orde arriveranno al palazzo. La tua unica possibilità di salvezza è fuggire!» Gli occhi di Gor Om fiammeggiarono di ira. Esclamò rivolto ai suoi uomini: «Presto, allora, al carro dei sacrifici! Fuggiremo dagli Abitatori dell'Oscurità, che mi daranno i poteri per ritornare a schiacciare questi maledetti ribelli. «Prendete questi due come cibo per i potenti, presto!», urlò. Sentii confusamente che trascinavano me e Lura lungo la sala, mentre la figura obesa di Gor Om correva avanti ad una velocità incredibile. Cercai di lottare, come faceva Lura, ma annebbiato e confuso per tutto il sangue che avevo perso, non riuscii a compiere il benché mimmo sforzo. Sentivo vagamente le urla di una grande folla che si avvicinava da ogni lato del palazzo pentagonale, distinsi perfino la voce robusta di Herk Ell che incitava ad andare avanti. Poi gli uomini di Gor Om, attraverso una porta, ci portarono nel cortile. Vi si spalancava l'orrendo pozzo, nero nella luce rossastra dell'alba. Il carro dei sacrifici vi galleggiava al livello del pavimento. In fretta, Lura, che lottava ancora, ed io fummo buttati nel carro da due uomini di Gor Om. Il grasso usurpatore balzò sul carro, ma gli altri suoi uomini rimasero a terra. Gridarono terrorizzati: «Khal, non abbiamo il coraggio di scendere nei bui sotterranei: abbiamo paura degli Abitatori dell'Oscurità.» Gor Om esclamò: «Gli Abitatori dell'Oscurità sono miei amici e alleati e non vi faranno del male. Mi daranno le armi con cui ritornerò quassù a spegnere questa rivolta. Ma, se resterete qui, sarete uccisi.» Sbarrarono gli occhi, presi dal panico, ed uno esclamò: «È meglio morire qui che scendere negli antri oscuri dei potenti!» In quel momento, Herk Ell e una folla furiosa di uomini irruppero nel cortile, brandendo le spade. Il gigante ci vide nel carro, urlò e balzò in avanti. Troppo tardi! In quell'istante, senza preavviso, senza alcun rumore di motore, il carro nero cominciò a cadere nel pozzo scuro. Scendeva sempre più giù, nelle tenebre insondabili. Poi mi sembrò che il carro girasse e cominciasse a correre obliquamente, quasi in orizzontale. Si muoveva nell'oscurità, sotto la superficie di Krann,
guidato dagli esseri misteriosi che abitavano quelle caverne. Ci portava in silenzio, come una nave fantasma. 5. Gli Abitatori dell'Oscurità A poco a poco, la mia mente divenne più lucida. Scoprii che Lura, accoccolata accanto a me sul fondo del carro, era riuscita a bloccare il flusso di sangue che mi scorreva dalle ferite. Mi sentivo ancora debolissimo ma, con uno sforzo, mi alzai a sedere. E mi accorsi che si riusciva a scorgere qualcosa. Quegli abissi neri non erano completamente bui, anche se, quando ci eravamo immersi, erano sembrati tali per contrasto con la luce del sole. Vi era una fioca luminescenza, una luce debole, soprannaturale, che proveniva da un gas radioattivo che riempiva l'atmosfera. Quando i miei occhi vi si abituarono, riuscii a discernere quello che mi circondava. Le due guardie erano accanto a noi con le spade in mano, pronte a colpirci al minimo segno di ribellione. Gor Om si sporgeva dal basso parapetto del carro e teneva lo sguardo fisso in avanti. Il volto gonfio dell'usurpatore esprimeva ansia, come se non fosse troppo sicuro di avventurarsi in quei terribili abissi, anche se gli esseri che li popolavano erano suoi alleati. Il carro si muoveva costantemente, in silenzio, lungo un enorme tunnel naturale che si stendeva sotto la superficie del pianeta. Il tetto era formato da alte volte di roccia nera, e grandi stalattiti puntavano in basso come dita enormi. Un silenzio spaventoso colmava quei sotterranei, mentre il nostro carro avanzava leggero e veloce. Lura singhiozzava sulla mia spalla. «Khal Erik, ho paura che saremo uccisi!» Gor Om la sentì, e si rivolse a noi con un sorriso spaventoso sul volto grasso. «Vorreste essere già morti, tutti e due, quando incontrerete gli Abitatori dell'Oscurità.» La rabbia gli contorse i lineamenti gonfi, e aggiunse con malignità: «E anche i ribelli desidereranno di essere già morti, quando tornerò con le armi che mi forniranno i potenti, e li ridurrò nuovamente in schiavitù.» Lura sussurrò: «Lo farà, Khal Erik! Prenderà potenti armi dagli Abitatori dell'Oscurità e ritornerà in superficie.» «Non lo farà, se io gliel'impedirò,» dissi con la disperazione nella voce. Con gli occhi misurai le spade puntate contro di me e stimai le possibilità
che avevo di sopraffare questi uomini, debole com'ero. Una delle guardie si era voltata a chiedere a Gor Om, con voce timorosa: «Che aspetto hanno i potenti, Khal?» Gor Om, sul cui volto riapparve l'ansia, disse: «Non lo so, perché né io né nessun altro è mai andato da loro e ritornato, tranne il mio antenato, che secoli fa strinse la grande alleanza con loro. Ma non temete: mi riconosceranno e capiranno che sono loro alleato.» Il carro continuava a correre a velocità costante lungo quel tunnel strano, poco illuminato. Contrassi i muscoli per fare un disperato balzo in avanti. Sapevo che nulla poteva salvare me e Lura - non potevamo né fermare né girare il carro - ma ero determinato a che Gor Om non ritornasse mai più in superficie ad imporre nuovamente la tirannia al mio popolo. Stavo per intraprendere quell'attacco disperato, ma proprio in quel momento il carro emerse in una caverna gigantesca. Rimasi pietrificato. In alto, molto in alto, si scorgevano le volte che formavano il soffitto di quella camera colossale. L'altra estremità della caverna si perdeva in lontananza. E sul pavimento metallico erano ammucchiate strutture e meccanismi, oggetti strani dall'uso incomprensibile, grotteschi meccanismi di metallo. Scorsi delle creature che si muovevano tra le strutture metalliche. Il carro planò lentamente in quel debole bagliore sulle macchine misteriose, il cui flebile ronzio arrivava fino alle nostre orecchie. Il disco si fermò in uno spazio, perfettamente circolare, che risaltava sul pavimento metallico. Alla luce fioca, vedemmo incombere su di noi quei meccanismi giganteschi. E verso di noi vennero... «Gli Abitatori dell'Oscurità!», esclamò Gor Om con voce rauca e i suoi occhietti si spalancarono per il terrore, alla vista delle creature che avanzavano verso di noi. «Dei di Krann... salvateci!», singhiozzò una delle due guardie. Sentii Lura irrigidirsi, sentii il mio sangue gelarsi nelle vene. Quelle creature continuavano ad avanzare nel debole bagliore. Gli Abitatori dell'Oscurità erano... esseri vermiformi. Erano enormi vermi bianchi, misuravano tre metri di lunghezza e sessanta centimetri di diametro. Venivano verso di noi, strisciando in quella foresta di meccanismi enormi. Ma - e questa era la loro caratteristica più orrenda - avevano nello stesso tempo un aspetto umano. Non i loro orrendi corpi vermiformi, no, ma le loro facce. La parte anteriore della loro testa smussata era munita di un paio d'occhi enormi e brillanti, di una fessura all'altezza della bocca, e di due
piccole aperture al posto delle orecchie. Al di sotto della testa smussata sporgevano una specie di braccia rudimentali. Gor Om, scosso come noi dalla paura e dall'orrore, scese dal disco per andare incontro agli Abitatori dell'Oscurità. Ebbi quasi un moto di ammirazione per l'obeso usurpatore, per il coraggio che mostrava in quel momento. Disse con voce tremante alle orrende creature che lo fissavano: «Creature potenti, voi che sapete tutto, dovete sapere che io sono il Khal di Krann. Sono colui il quale ogni mese vi invia i sacrifici, secondo il patto che con voi strinsero i miei antenati millenni fa.» Uno tra la folla dei vermi, uno la cui testa torreggiava tra le altre e che sembrava il loro capo o il portavoce, rispose con una voce sibilante che usciva dalla bocca a fessura. «Ti conosciamo,» disse la creatura. «Ma perché questa volta non ci hai mandato le vittime, come fai di solito? Tutta la nostra razza è qui radunata ad aspettare i sacrifici, come facciamo ogni mese. Infatti, sebbene siamo potenti, ammontiamo solo a qualche centinaia. Dove sono le solite vittime, e perché sei sceso anche tu?» Gor Om spiegò rapidamente. «Il popolo delle mie città si è sollevato contro di me. Sono fuggito da voi, potenti, per chiedervi i poteri che mi permettano di ritornare a soffocare la rivolta. Poi riavrò il mio dominio in superficie, e potrò inviarvi i sacrifici ogni mese. Volete darmi quei poteri?» Cadde un silenzio colmo di attesa e di ansia. Poi il capo degli Abitatori rispose. «Ti daremo i poteri che chiedi,» sibilò, «poteri che ti permetteranno di riconquistare con facilità il tuo popolo. Non vogliamo che i sacrifici vengano interrotti. Sappi che noi utilizziamo il cervello delle vittime che ci mandate. Con un'operazione chirurgica, aggiungiamo la loro corteccia cerebrale ai nostri cervelli, e, in questo modo, accresciamo costantemente le capacità ed il potere della nostra mente.» Il capo degli Abitatori proseguì, «Possiamo realizzare un'operazione simile, perché la nostra materia cerebrale è simile a quella degli umani, in quanto, molto tempo fa, anche noi eravamo uomini. Sì, eravamo una razza umana che viveva sulla superficie di Krann, come gli altri esseri umani ma, a causa di una guerra, ci ritirammo in questi abissi, e qui i nostri corpi si sono trasformati e le nostre menti si sono sviluppate. Ormai non possia-
mo più tornare in superficie, perché il sole, e perfino la luna, ci ucciderebbero istantaneamente, tanto la nostra razza si è abituata al buio, nel corso dei millenni. Perciò le vittime, di cui desideriamo la materia cerebrale, devono esserci inviate dalla superficie, e per questo motivo ti offriamo i poteri che ci chiedi.» Il trionfo illuminò il volto gonfio di Gor Om. Egli si voltò verso me e Lura, che eravamo sul disco, sotto la minaccia delle spade delle sue guardie. Disse al capo delle orrende creature vermiformi, «Nemmeno questa volta, sono venuto meno al patto. Vi ho portato due vittime.» «Molto bene,» sibilò la voce fredda dell'Abitatore dell'Oscurità. «Prima li priveremo della materia cerebrale che ci necessita, e poi prepareremo per te le armi potenti che ci hai chiesto.» Lura emise un debole grido d'orrore, quando vide che un gruppo di vermi arrivava contorcendosi verso il carro. Vidi Gor Om ghignare: il suo volto aveva un'espressione trionfante e malvagia. Mi accingevo a strappare la spada ad una delle due guardie per lottare fino alla fine, quando improvvisamente mi venne un'idea folle. Gridai al capo degli Abitatori dell'Oscurità: «Aspettate! Potenti, posso rivelarvi un importantissimo segreto, se risparmierete me e questa ragazza!» E quando le creature arrestarono la loro avanzata, aggiunsi in fretta: «Il segreto che posso rivelarvi, vi permetterebbe di balzare in un istante su altri mondi da queste caverne buie. Devono esistere molti pianeti bui nel cosmo, pianeti popolati da creature viventi. Tutti questi mondi potrebbero essere vostri, potreste conquistarli! È proprio in questo modo che io sono arrivato su Krann da un mondo incredibilmente lontano.» Lura mi grido inorridita: «Khal Erik, non puoi desiderare veramente una cosa del genere... non puoi far diffondere queste creature su altri pianeti solo per salvare le nostre due vite!» Gor Om disse adirato: «Questo schiavo mente, non è venuto da un altro pianeta.» Il capo degli Abitatori dell'Oscurità mi scrutava con i suoi occhi enormi e luccicanti. Sibilò piano. «L'uomo dice la verità: viene da un altro pianeta. Riesco a distinguere molte differenze tra il suo corpo e quello degli abitatori di questo pianeta.» «Si, dico la verità,» dissi rapidamente, «e posso spiegarti come costruire una macchina che vi potrà trasferire istantaneamente su pianeti lontanissi-
mi.» «Khal Erik, non farlo!» gridò Lura, con voce rotta dal pianto. Il capo degli Abitatori mi fissava con attenzione. La creatura infine disse: «Sarebbe un bene per noi avere un potere simile. Potremmo dominare tutti i pianeti bui dell'universo. Ci mostrerai come si costruisce questa macchina.» «Solo se mi prometti di liberare me e questa ragazza!», gli ricordai. L'Abitatore sibilò: «Ci mostrerai come si costruisce questa macchina. Dopo che ce l'avrai mostrato, tu e l'altra vittima subirete lo stesso trattamento che subiscono tutti gli esseri umani che vengono inviati quaggiù.» «No!», gridai. «In questo caso, non vi mostrerò nulla.» Ad un tratto, una delle creature strisciò verso di me con un piccolo apparecchio, simile ad una scatola. Lo tese verso di me. E un dolore terribile colpì ogni nervo del mio corpo. Era un dolore indotto elettricamente dal misterioso apparecchio. Ansimai: «Fermatelo!... fermatelo! Ve lo mostrerò!» Il dolore cessò, non appena l'apparecchio fu riabbassato. Gor Om ridacchiò: «Pensavi di poter mercanteggiare con i potenti, schiavo... ora vedi quali sono i risultati delle tue trattative.» Uscii dal carro e mi unii al gruppo delle creature vermiformi. Debole e ancora dolorante per la tremenda tortura, elencai al capo degli Abitatori le varie parti della macchina per attraversare lo spazio tridimensionale. Gli Oscuri si sparsero in tutte le direzioni a prendere i pezzi necessari, ed io cominciai ad istruirli sul montaggio. Una scena incredibile, assurda! La vasta caverna, illuminata fiocamente, il cui tetto a volte si perdeva nell'oscurità. Le strutture misteriose che ci circondavano, e gli orrendi vermi bianchi occupati, sotto la mia direzione, a montare le varie parti della macchina. Il capo degli Oscuri osservava tutta la scena con i suoi grandi occhi disumani. Gor Om aspettava con impazienza. Lura era rincantucciata in un angolo e fissava con orrore il mio lavoro. Gli Oscuri stavano montando una macchina che era identica a quella che io avevo usato per arrivare su Krann, solo che era molto più grande. Era una macchina enorme piatta e quadrata che riempiva quasi tutto l'ampio spazio circolare tra le strutture metalliche. Era capace di generare una forza che avrebbe potuto lanciare una qualsiasi quantità di materia al di fuori del normale universo tridimensionale. La folle speranza che avevo si raf-
forzò man mano che la macchina veniva completata. Chiesi al capo degli Abitatori dell'Oscurità: «Che spessore ha il cielo di questa galleria?» I suoi occhi brillanti fissarono i miei, e per un attimo pensai che avesse dei sospetti. «Perché lo chiedi?», sibilò. «È necessario che lo sappia. Non devo tenere conto per la sua influenza gravitazionale,» mentii. Disse: «Ha uno spessore di soli trenta metri, perché questa caverna è molto vicina alla superficie di Krann.» Poi aggiunse: «Non pensare di avere qualche possibilità di fuggire con questa macchina. Non ti sarà permesso di metterla in moto: la prima volta la manovreremo sotto la tua direzione.» Erano trascorse molte ore. Sulla superficie di Krann doveva essere mezzogiorno. La grande macchina quadrata era completata. Era stata finita in brevissimo tempo da quegli esseri dalla mente super-scientifica. Le unità che producevano l'energia necessaria erano state sistemate nei punti che io avevo indicato. Poi, con il cuore che mi batteva selvaggiamente, dissi: «Bisogna ancora fare un collegamento: un filo tra questi due punti.» Il collegamento tra quei due punti avrebbe significato chiudere il circuito. E la macchina era stata costruita, sotto la mia direzione, in modo tale che la terribile energia irradiata da essa si sarebbe diretta verso l'alto e avrebbe lanciato tutto il tetto della caverna al di fuori dell'universo normale! Un Abitatore si avvicinò e cominciò a fare il collegamento tra i due punti, seguendo le mie indicazioni. Ma il capo degli Oscuri, i cui enormi occhi avevano ispezionato attentamente il macchinario, improvvisamente sibilò: «È un inganno! Non...» Ma, prima che finisse di parlare, il collegamento era stato fatto. E immediatamente, quando le energie silenziose, terribili, di quella macchina si diressero verso l'alto, tutto il tetto della caverna scomparve, lanciato istantaneamente al di fuori del continuum spaziotemporale! La caverna era aperta verso il cielo. E in alto splendeva il sole cremisi, che mandava raggi di luce e di calore in quegli antri oscuri che non avevano mai conosciuto la luce. Gli Abitatori dell'Oscurità gridarono e sibilarono per il terrore, quando i raggi del sole li colpirono. Tentarono di allontanarsi, di porsi al riparo, ma non poterono. Perché immediatamente i loro corpi bianchi divennero neri. Morirono, uccisi dai raggi del sole, fatali per la loro razza oscura.
Si, la folle possibilità, su cui avevo puntato tutto, aveva avuto successo. Tutta la razza degli Abitatori dell'Oscurità, che si celava nelle buie profondità in attesa di vittime umane, era morta e non avrebbe mai più intimorito quel pianeta. Gor Om, le sue due guardie, e anche Lura, erano paralizzati dallo stupore. Afferrai una spada dalla più vicina delle guardie. Prima che potessi usarla, lui e l'altra guardia fuggirono, urlando per il terrore, tra le strutture metalliche e i cadaveri dei vermi morti. Ma Gor Om, perfino in quel momento, ebbe il coraggio di sguainare la spada. Le lame cozzarono l'una contro l'altra, mentre Lura fissava la scena, stordita. Per quanto fossi debole, appena in grado di reggermi in piedi, feci arretrare l'usurpatore sempre più indietro, finché con un'ultima potente stoccata gli infilzai la gola. Allora Lura corse verso di me, singhiozzando: «Khal Erik... guarda!» Indicò verso l'alto. Uomini montati su rhor stavano planando con cautela verso la vasta caverna. I rettili alati atterrarono vicino a me e a Lura, ed un uomo corse verso di noi, urlando. Era Herk Ell. Gridò: «Khal Erik... sei ancora vivo! Pensavamo che fossi morto; poi, qualche minuto fa, abbiamo visto aprirsi questa radura enorme, che è poco distante da Zinziba, e siamo venuti ad indagare. Gor Om...» «Gor Om è morto,» dissi con voce fioca, «e sono morti anche gli Abitatori dell'Oscurità, morti.» Mi fecero montare su uno dei rhor, Lura era davanti a me, stretta tra le mie braccia. Con un enorme frullio d'ali, ci alzammo in volo da quel posto maledetto. Volammo nell'aria e nella luce del sole, al di sopra di quel vasto cratere che si spalancava nella giungla rossa. Ci dirigemmo verso le torri di Zinziba. E quando ci abbassammo tra le spirali, verso il palazzo del Kahl di Krann - il mio palazzo - la popolazione mi vide e mi riconobbe con urla di gioia. «Il Redentore! Il Redentore!» E, mentre atterravamo nel cortile del mio palazzo, il corpo di Lura, era dolce e caldo tra le mie braccia. FINE