PETRA HAMMESFAHR IL SEPPELLITORE DI BAMBOLE (Der Puppengräber, 1999) PERSONAGGI JAKOB SCHLÖSSER, nato nel 1932, agricolt...
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PETRA HAMMESFAHR IL SEPPELLITORE DI BAMBOLE (Der Puppengräber, 1999) PERSONAGGI JAKOB SCHLÖSSER, nato nel 1932, agricoltore; dal marzo '91, dopo avere ceduto la sua fattoria, lavora come magazziniere nel magazzino edile Wilmrod. TRUDE SCHLÖSSER, nata nel 1936, madre di Ben. ANITA SCHLÖSSER, nata nel 1963, laureata in giurisprudenza, vive a Colonia fin dai diciott'anni. BÄRBEL SCHLÖSSER, nata nel 1967, moglie di Uwe von Burg, vive nella fattoria dei suoceri. BENJAMIN SCHLÖSSER, nato nel 1973, chiamato Ben. TANJA SCHLÖSSER, nata nel 1981, viene cresciuta dalla famiglia Lässler. PAUL LÄSSLER, nato nel 1931, agricoltore, migliore amico di Jakob. ANTONIA LÄSSLER, nata Severino, nel 1951, moglie di Paul dal 1969. ANDREAS LÄSSLER, nato nel 1969, marito di Sabine Wilmrod. ACHIM LÄSSLER, nato nel 1971, erede della fattoria paterna. ANNETTE LÄSSLER, nata nel 1975, lavora nella farmacia dello zio, Erich Jensen, ed è fidanzata con Albert Kressmann. BRITTA LÄSSLER, nata nel 1981, è come una sorella per Tanja Schlösser. ERICH JENSEN, nato nel 1947, farmacista, membro della SPD, il Partito socialista tedesco, e consigliere comunale di Lohberg. MARIA JENSEN, nata Lässler, nel 1952, sorella di Paul Lässler, da giovane molto ambita da diversi ammiratori. MARLENE JENSEN, nata nel 1978, scompare nell'estate del 1995 senza lasciare tracce. HEINZ LUKKA, nato nel 1928, avvocato con studio a Lohberg, membro della CDU, l'Unione cristiano democratica, e consigliere comunale a Lohberg. La sua casa è fuori del paese. Maria Lässler è stata il suo grande amore. È buon amico di Ben e ha procurato a Jakob il posto di lavoro
nel magazzino Wilmrod. TONI VON BURG, nato nel 1934, agricoltore. HEIDEMARIE, sorella maggiore di Toni, si è ritirata in convento dopo che Paul Lässler ha rotto il fidanzamento. CHRISTA, sorella minore di Toni, era ritardata e morì durante il periodo nazista. ILLA VON BURG, nata nel 1935, amica di Trude Schlösser. UWE VON BURG, nato nel 1965, erede della fattoria, marito di Bärbel Schlösser. WINFRIED VON BURG, nato nel 1968. Una figlia, deceduta. WILHELM AHLSEN, padre di Thea Kressmann, fu Ortsgruppenleiter (capo sezione locale) durante il periodo nazista e condannò a morte le famiglie Stern e Goldheim, ebree, e la piccola Christa von Burg. RICHARD KRESSMANN, nato nel 1940, agricoltore, possiede millecinquecento iugeri di terra, beve smodatamente. Si dice che avesse investito la figlia di Toni e Illa von Burg sulla strada di scuola. THEA KRESSMANN, nata Ahlsen, nel 1949, figlia di Wilhelm. ALBERT KRESSMANN ha la stessa età di Ben, erede della fattoria, fidanzato di Annette Lässler, ma avrebbe preferito la cugina di lei, Marlene Jensen. IGOR, un russo condannato ai lavori forzati, dopo la guerra è rimasto nella fattoria Kressmann. BRUNO KLEU, nato nel 1951, agricoltore, non si perde una scazzottata, ha due figli illegittimi. Non era abbastanza fine per il suo grande amore, Maria Lässler; il fratello Paul era contrario alla loro unione. Nel 1977 il padre di Bruno gli impose di sposarsi con Renate. RENATE KLEU è originaria di Lohberg, come Trude Schlösser e Antonia Lässler. DIETER KLEU, nato nel 1977, è molto attratto da Marlene Jensen. HEIKO KLEU, nato nel 1980. OTTO E HILDE PETZHOLD erano vicini di Jakob e Trude quando la fattoria degli Schlösser si trovava ancora sulla Bachstrasse. Hilde amava i
gatti. LE SORELLE RÜTTGERS gestiscono il caffè paterno, sono entrambe nubili, il fratello è caduto in guerra. SIBYLLE FASSBENDER, cugina delle sorelle Rüttgers, si prendeva cura della piccola Christa von Burg. Ama Ben come un figlio. GERTA FRANKEN, nata nel 1891, vicina degli Schlösser sulla Bachstrasse, vedova dalla prima guerra mondiale, conosce tutto ciò che avviene in paese. WERNER RUHPOLD, proprietario dell'osteria di Ruhpold, prima dell'inizio della guerra era fidanzato con Edith Stern e fino al 1981 aveva aspettato un suo segno di vita. Dopo la sua morte, l'osteria viene rilevata dal cugino Wolfgang. ALTHEA BELASHI, giovane artista, è scomparsa nel 1980 senza lasciare tracce. URSULA MOHN, ritardata, viveva con i genitori nel condominio di Toni von Burg sul Lerchenweg; nel 1987 fu ferita gravemente. SVENJA KRAHL, diciassettenne di Lohberg, scompare nel luglio 1995 senza lasciare tracce. EDITH STERN, 22 anni, viene dagli Stati Uniti per chiarire il mistero della morte della prozia e omonima, e scompare senza lasciare tracce. NICOLE REHBACH, testimone decisiva. BRIGITTE HALINGER, Ispettore Capo e cronista della vicenda.
PROLOGO È ricresciuta ormai un po' d'erba su quella terribile estate che costò la vita a cinque persone. Se n'è parlato molto, discusso troppo, ci sono state liti e congetture, e sono state attribuite molte responsabilità. Vecchie ostilità si sono riaccese e amicizie solide si sono sciolte come neve al sole. In paese ognuno sapeva qualcosa, e tutti coloro che avevano taciuto fino ad allora parlarono quando ormai non c'era più nulla da fare. Ho parlato con tutti quelli che potevano ancora dirmi qualcosa: ho ascoltato le loro dichiarazioni, le scuse e le giustificazioni stentate. Ho riconosciuto le loro mancanze e i loro errori. Ora desidero parlare per chi non era in grado di esprimere i propri sentimenti. Per Ben. Non sarà facile, lo so. Non c'erano sempre testimoni a conferma dei fatti. Tuttavia, sono certa che le situazioni che nessuno ha potuto verificare si sono svolte più o meno come le racconterò. Per quale motivo un essere umano di intelligenza limitata dovrebbe modificare il suo comportamento proprio nei momenti decisivi? Su di me, non c'è molto da dire. Sono stata il fanalino di coda, solo una figura di secondo piano dal ruolo ininfluente in un breve intermezzo e poi,
all'atto conclusivo, l'Ispettore Capo Brigitte Halinger. Nell'estate del '95 avevo quarantatré anni, ero sposata e madre di un ragazzo di diciassette anni. Probabilmente questo è il motivo per cui la mia è stata una posizione difficile: condividevo e condivido i sentimenti della madre, Trude Schlösser, e, anche se non approvo il suo comportamento, non mi sento di condannarla. Perché, alla fine, riuscì a superare i limiti della sua natura e si autodenunciò, incurante delle conseguenze che avrebbe subìto. Sono enormemente grata a Trude per la sua confessione. Solo grazie alla sua sincerità assoluta sono stata in grado di risolvere il caso e di rendere pubblica la storia di Ben. Perché deve essere resa pubblica. Forse, in tal modo, riuscirò a elaborare l'orrore che ho provato, forse riuscirò a non essere più tormentata dagli incubi che ancora mi strappano al sonno, anche dopo tutto questo tempo. Nei miei sogni, lo accompagno nelle sue spedizioni nei campi. Bocconi, nascosta dai cespugli, con lui spio febbrilmente, con il binocolo, le ragazze. Guardo al di sopra della sua spalla, mentre inizia a spalare. Poi mi sveglio, madida di sudore, e mi chiedo come l'avrei giudicato se l'avessi incontrato nel corso di quelle terribili settimane, magari di notte e lungo un solitario viottolo di campagna. Quell'estate, Ben aveva ventidue anni. Un gigante massiccio e pesante, con uno sguardo mansueto e il quoziente intellettivo di un bimbo di due anni. Portava sempre un binocolo al collo, una pala pieghevole appesa in vita e, solitamente, un coltello nella tasca dei pantaloni. Avrei avuto paura di lui? O avrei ragionato come molti altri, che ritenevano che i bambini di due anni sono innocui e possono al massimo fare a pezzi i loro giochi? Che Ben distruggesse le bambole era un fatto risaputo. Molti sapevano anche che se ne andava sempre a zonzo nei suoi abiti blu scuro. Non quelli eleganti, con la camicia bianca. Lui portava solo quelli comodi, con gli elastici in vita e alle caviglie. Così si sentiva indipendente e poteva espletare le sue necessità corporali all'aria aperta. In paese c'era chi aveva storto il naso fin dall'inizio, commentando: «È una vergogna lasciarlo andare in giro in quel modo». Ma pochi ritenevano che potesse rappresentare un pericolo. Forse, in una grande città non sarebbe neanche stato notato... si vedono in giro tanti di quei personaggi strani. In un paese, invece, anche tra vicini di casa ci si guarda già con sospetto... I paesi hanno le proprie leggi. Succedono cose che non si lasciano trapelare all'esterno. Spesso si conoscono gli scheletri nell'armadio del proprio
vicino di casa e lo si aiuta a tenerli nascosti. Dopodiché, ognuno se ne lava le mani e si passa una spugna su tutto. A Ben questo non si poteva spiegare. Non avrebbe capito. E nessuno capiva lui. Una lunga serie di malintesi e di punizioni insensate lo resero ciò che era, nell'estate del '95: il seppellitore di bambole. 12 AGOSTO 1995 A Marlene Jensen restavano ancora sette ore di vita, quando suo padre lasciò l'appartamento alle diciannove circa. Il farmacista Erich Jensen era membro della SPD e faceva parte del consiglio comunale di Lohberg. Quel sabato sera, aveva intenzione di convincere alcuni compagni di partito a dibattere nuovamente una certa questione nell'imminente riunione della giunta, facendoli votare a modo suo. Si trattava di giungere a un accordo con le due imprese di auto pubbliche della città. Erich voleva organizzare un servizio di taxi a prezzi ridotti, per fare in modo che nei fine settimana i giovani del paese che non possedevano la macchina potessero rientrare a casa sani e salvi dalla discoteca di Lohberg, che distava circa quattro chilometri dal loro paese. L'ultimo autobus per Lohberg partiva poco'dopo le cinque, dopodiché, la sera, dalla cittadina non c'erano più corse. In paese per i giovani non esisteva nessun tipo di svago. La cittadina poco distante non offriva molto di più in quanto a intrattenimenti: c'erano una gelateria italiana, un cinema, e la discoteca Da capo, dove, ogni sabato sera, si ritrovavano praticamente tutti i giovani del paese. Marlene non aveva bisogno di un servizio di auto pubbliche. Con i soldi che aveva si sarebbe potuta permettere un taxi a prezzo pieno. Ma quel fine settimana, a causa di un quattro in matematica, suo padre le aveva proibito di uscire, arrivando perfino a sequestrarle la mancia settimanale. Tale misura drastica era stata presa a metà della settimana precedente e non era la prima volta che capitava. Ciononostante, Marlene aveva dato appuntamento a una sua amica. Era convinta che sua madre l'avrebbe accompagnata a Lohberg, le avrebbe restituito i soldi confiscati e avrebbe tenuto a bada suo padre in camera da letto, per permettere alla figlia di rientrare a casa senza farsi notare. Fino ad allora, le cose erano andate sempre così. Nei fine settimana Erich era spesso occupato fuori casa e raramente, sulle questioni relative all'educazione, sua moglie Maria era d'accordo con lui.
Maria Jensen, nata Lässler, era l'ultimogenita della famiglia. Venuta al mondo a distanza di vent'anni dal fratello Paul (per colmare la perdita di un fratello maggiore caduto in guerra), lei vedeva nei genitori un nonno e una nonna che la coccolavano e la viziavano. Il fratello era stato per lei come un giovane padre putativo che solo in casi eccezionali interveniva ponendole dei limiti. Proprio quando Maria stava per affrontare l'età critica, Paul si era sposato con Antonia, coetanea di sua sorella. E Maria, cresciuta così senza costrizioni e divieti, dava alla propria figlia la stessa libertà di cui aveva goduto. Marlene era seduta sul letto, pronta per uscire. Ma suo padre, prima di andare a incontrare i compagni di partito, chiuse a chiave dall'esterno la porta della camera e s'infilò la chiave in tasca. Poco dopo, anche Maria lasciò l'appartamento che si trovava sopra la farmacia in piazza del Mercato. Non avrebbe sopportato ore e ore di proteste da parte della figlia reclusa. Maria si diresse verso la fattoria Lässler, che si trovava fuori del paese, per lamentarsi una volta di più con il fratello e la cognata della totale incapacità di Erich di comprendere le esigenze dei giovani. Com'era prevedibile, Paul e Antonia le diedero ragione: insieme decisero di liberare la ragazza almeno per la domenica pomeriggio. Antonia sarebbe passata a casa loro il giorno seguente e avrebbe casualmente espresso l'intenzione di andare a far visita a suo padre. La gelateria di Lohberg era di sua proprietà. Poi avrebbe chiesto alla nipote se aveva voglia di accompagnarla. Se Erich avesse protestato, Antonia lo avrebbe rimesso a posto. Quel momento, tuttavia, non sarebbe mai arrivato. Non appena l'auto della madre scomparve alla vista, Marlene aprì la finestra della sua camera: sotto c'era il tetto piatto del garage, cui era fissata una scala. Circa dieci minuti più tardi, la ragazza raggiunse la strada provinciale che portava a Lohberg. Era certa di non dover fare a piedi i quattro chilometri che la separavano dalla città. Difatti, poco dopo, una Mercedes chiara le si fermò accanto. Nell'auto sedevano sua cugina, Annette Lässler, e il suo ragazzo, Albert Kressmann. Com'era prevedibile, erano diretti al Da capo. Fecero salire Marlene e, verso le otto e mezzo, i tre giovani arrivarono alla discoteca. Annette prestò alla cugina venti marchi, sufficienti per un paio di consumazioni, ma certamente non per un taxi. Naturalmente, Albert era disposto a riportare a casa Marlene. Anche Dieter Kleu, un altro ragazzo del paese, era disponibile a farlo, ma per Marlene sarebbe stato l'ultimo ragazzo al mondo cui avrebbe per-
messo di darle un passaggio. E glielo disse chiaro e tondo, quando, all'inizio della serata, lui si offrì di riportarla a casa. Dieter compiva i diciotto anni solo a ottobre ed essendo figlio di un agricoltore poteva guidare il trattore, ma non aveva ancora la patente per auto; tuttavia guidava la macchina della madre quando e come gli pareva. Ma non era questo il motivo per cui Marlene aveva rifiutato la sua offerta. All'inizio dell'anno, lei era uscita con Dieter una sola volta. Non era antipatico. Era un bel ragazzo, un ballerino eccezionale e infaticabile, e aveva sempre un'auto a disposizione, il che rappresentava un certo vantaggio. Ma quando la madre di Marlene, di solito molto comprensiva, aveva saputo che la figlia voleva uscire con lui, aveva dato in escandescenze, definendolo un contadinotto. E la ragazza, anche se lo trovava simpatico, non aveva nessuna intenzione di attirarsi le ire della madre. Dieter però non aveva perso tutte le speranze. Quella sera si consolò con l'amica di Marlene, cercando di intercedere presso di lei; poi l'accompagnò a casa, poco prima di mezzanotte. In quel preciso momento, Marlene si stava divertendo con due ragazzi di Lohberg che nessuno conosceva. Circa un quarto d'ora dopo la partenza di Dieter e dell'amica di Marlene, anche Albert e Annette lasciarono il locale. Albert disse a Marlene che sarebbe passato a riprenderla un'ora dopo. A lei andava bene: non pensava che a quell'ora suo padre avrebbe controllato la sua stanza, ma, se fosse tornata troppo presto, avrebbe potuto sentirla rientrare. All'una e mezzo, invece, sarebbe stato di sicuro addormentato. Era facile capire perché Albert non volesse riportarla subito in paese: aveva programmato di fermarsi in qualche posticino tranquillo con Annette, e Marlene sarebbe stata di troppo. Prima di partire, però, il ragazzo disse una cosa che irritò Marlene: le avrebbe fatto vedere i posticini e le posizioni che sua cugina preferiva. Non era la prima volta che Albert faceva allusioni simili, ma fino ad allora Marlene non lo aveva preso sul serio. Il padre di Albert, Richard Kressmann, era l'uomo più ricco del paese. Fin dalla prima giovinezza, Albert si era abituato a pensare che il denaro potesse comprare tutto e quando ciò non si verificava poteva diventare molto sgradevole. Così, poco prima dell'una, Marlene preferì salire sull'auto dei due giovani con cui aveva trascorso gran parte della serata, e che tuttavia conosceva solo per nome, Klaus e Eddi. Nel parcheggio, scoppiò una rissa. Dieter, che aveva lasciato l'amica di Marlene davanti a casa dei genitori ed era già tornato da un bel po', tentò di ricattarla: «Se non rientri con me, racconto
tutto a tuo padre...» Eddi e Klaus gli diedero il fatto suo. Mentre Klaus lo teneva fermo, Eddi gli fece un occhio nero, gli fece uscire il sangue dal naso e, con un pugno finale allo stomaco, lo mise completamente fuori combattimento. Poi Eddi prese posto al volante e Klaus si sedette accanto a Marlene sul sedile posteriore. All'inizio sembrò che Eddi volesse davvero accompagnarla a casa. Si diresse verso la strada provinciale che dopo quattro chilometri, entrando in paese, prendeva il nome di Bachstrasse e attraversava per due chilometri tutta la località. Prima dell'entrata in paese, una stradina asfaltata svoltava a destra e conduceva alla fattoria dello zio di Marlene, Paul Lässler. Eddi la imboccò e nello stesso momento Klaus cominciò a molestare la ragazza. Marlene si difese, senza però grandi risultati, viste le dimensioni ridotte dell'abitacolo. Eddi guidava a velocità sostenuta. Dopo circa trecento metri, la stradina incrociava un'altra strada, più larga, che correva parallelamente alla Bachstrasse e conduceva a Lohberg come la provinciale. L'avvocato Heinz Lukka si era fatto costruire una villetta all'incrocio delle due strade. Senza rallentare, Eddi svoltò nella strada più ampia e, per una frazione di secondo, Marlene distinse la sagoma scura della casa sull'incrocio. Lukka era stato per anni suo vicino di casa nella piazza del Mercato. Marlene lo conosceva fin da quando era una bambina e lo trovava molto simpatico, soprattutto perché suo padre non poteva soffrire il vecchio avvocato. In consiglio comunale sedevano in fazioni opposte, e'comunque in passato Lukka era stato un fervente ammiratore di sua madre. Ma in quel particolare momento, Marlene sapeva di non potergli chiedere aiuto. Raramente l'avvocato trascorreva a casa i fine settimana e, se anche fosse stato a casa, certamente non avrebbe dato importanza a un'auto di passaggio. Si fermarono a circa cinquecento metri dall'incrocio. Appena spenti i fari e il motore, Eddi balzò dal posto di guida sul sedile posteriore. Marlene lottò contro i due giovani con tutte le sue forze, morsicando e graffiando, e ci rimise una ciocca di capelli e due rivetti a forma di stella dei jeans. I ragazzi continuavano a ripeterle: «E non fare la smorfiosa!» Ma, alla fine, Eddi e Klaus capirono che avrebbero raggiunto il loro scopo solo con la violenza. Prima ancora di rendersene conto, Marlene si ritrovò in un viottolo di campagna. Qualcuno le tirò dietro il giaccone chiaro e la borsa. La macchina si allontanò rombando. Ma il suo sollievo non durò a lungo. La zona era immersa nell'oscurità.
Le strade erano in buono stato, ma non erano illuminate: non ne valeva la pena per gli unici tre proprietari dei terreni adiacenti, visto che abitavano molto distanti l'uno dall'altro. Le fattorie di Richard Kressmann e del padre di Dieter, Bruno Kleu, si trovavano dall'altra parte del villaggio. Circa cinquecento metri più indietro si trovava la casa del vecchio avvocato. Al buio non si vedeva nulla. Dall'incrocio, c'erano ottocento metri per arrivare alla fattoria di suo zio. Nella direzione opposta, la strada fiancheggiava giardini e muri di cinta. I poderi erano di grandi dimensioni, le case costruite sulle proprietà si affacciavano sulla Bachstrasse e non era possibile distinguerle. Solo a tratti qualche luce brillava qua e là, nella notte. A un chilometro e mezzo di distanza c'era un secondo incrocio che portava a sinistra, sulla Bachstrasse, mentre a destra conduceva da Jakob e Trude Schlösser. Dalla Bachstrasse fino alla casa dei genitori sulla piazza del Mercato c'era un buon chilometro di strada. Per arrivare alla fattoria dello zio ci voleva meno. A disagio, Marlene alzò le spalle, raccolse da terra la giacca e la borsa, infilò la giacca e s'incamminò. Il luogo era lugubre: a sinistra solo campi, a destra un prato cintato dal filo spinato, dove crescevano, infestati da erbacce, tre dozzine di alberi di melo. Il prato confinava con un terreno inselvatichito che a suo tempo era stato un giardino e di cui da anni nessuno si occupava più. Così i cespugli di more erano diventati una giungla inestricabile e spinosa, piena di ortiche. Lasciata dietro di sé l'intricata vegetazione e raggiunto l'estesissimo campo di granoturco di proprietà dello zio che delimitava da entrambi i lati il terreno di Heinz Lukka, all'altezza dell'incrocio, Marlene trasse un profondo respiro. E allora, improvvisamente, un'ombra gigantesca le fu dietro e la raggiunse con passi veloci e silenziosi. La ragazza se ne accorse solo quando una mano le afferrò i lunghi capelli. «Bene», disse lui. Superata la paura, Marlene si divincolò e il giovane le lasciò andare i capelli. Poi, furente, si girò verso di lui e gli gridò: «Sei scemo a spaventarmi così?» Probabilmente in quel momento la ragazza non aveva paura: era solo Ben, il figlio di Jakob e Trude Schlösser, terrificante con il suo aspetto e la sua figura massiccia, ma del tutto innocuo. Sua madre e zia Antonia lo ripetevano in continuazione. Ben le fece scivolare di nuovo le dita tra i capelli e ripeté: «Bene». «Piantala, idiota!» urlò Marlene. Lui ritrasse la mano. «Via le mani?» chiese.
«Ecco, proprio così», disse Marlene, un po' rabbonita. «Via le mani. E non farlo più.» Poi si girò e proseguì verso l'incrocio. Lui la seguì. «Via le mani», ripeté. Questa volta non suonò come una domanda. Tese la mano verso la sua spalla. Marlene si liberò e cominciò a correre. Ben si mantenne al suo fianco, le prese un braccio e tirò talmente forte da farla quasi cadere a terra. Adesso gridava: «Via le mani!» Marlene riuscì a liberare il braccio dalla stretta e un lembo della giacca rimase in mano a Ben. Ormai lei correva a perdifiato. Ben la superò, le si parò davanti a gambe larghe e allargò le braccia per bloccarle il passo. «Via le mani!» gridò per la quarta volta. «Vattene!» urlò Marlene. «Vattene via, idiota!» Ben tentò di tendere ancora una mano verso di lei e la ragazza gli sferrò un pugno. Lui si mise a saltellare e infilò una mano nella tasca dei pantaloni. Quando la mano riapparve, stringeva un coltello a serramanico. Nel buio, Marlene lo distinse solo quando la lama scattò fuori e lui gliela agitò davanti. Il suo linguaggio già povero si ridusse a incomprensibili gorgoglìi, in cui solo due parole erano riconoscibili: «Carogna, freddo». I PRIMI ANNI Quando nacque, un gelido mattino di febbraio del '73, nessuno in paese pensava che ce l'avrebbe fatta. Per settimane intere, tutti accesero molte candele in chiesa, davanti all'altare di Maria Ausiliatrice. La disgrazia si era risaputa molto in fretta. Incinta di sei mesi, Trude era caduta così malamente sui gradini che portavano alla cucina che dovettero trasportarla in ambulanza, a sirene spiegate, all'ospedale di Lohberg. Ben venne alla luce nell'ambulanza, dopodiché fu immediatamente trasferito in una clinica di Colonia. Un bimbetto di circa un chilo e mezzo. Tutti quelli che conoscevano i suoi genitori temevano tanto quanto loro per la sua vita. Jakob e Trude Schlösser erano due persone oneste, leali e lavoratrici, e ciascuno si augurava che i medici salvassero il loro bambino, perché avevano fatto di tutto per averlo. Jakob era nato nel '32, Trude aveva quattro anni di meno. Si erano sposati nel 1957 e pensavano di avere subito dei figli, ma Trude aveva delle difficoltà a rimanere incinta. Solo dopo sei anni di matrimonio venne al mondo Anita e, quattro anni più tardi, Bärbel. Poi, non ci fu più verso. Jakob era orgoglioso di Anita: la figlia maggiore era una bambina molto
intelligente che faceva continuamente domande cui nessuno sapeva dare risposta. Per Bärbel, provava tenerezza: era tranquilla e di gran lunga meno brillante della sorella. Lui non si aspettava che le figlie arrivassero a casa con i generi adatti: con una proprietà di trecento iugeri ci voleva un figlio maschio. Nella zona, alla fine degli anni '60, c'erano ancora tredici fattorie. Otto di piccole dimensioni, che sfamavano a malapena i padroni, e poi cinque grandi, che appartenevano alle famiglie Schlösser, Lässler, Kressmann, Kleu e von Burg. Il podere di Richard Kressmann era di gran lunga il più esteso: millecinquecento iugeri, quasi la metà di tutto il territorio comunale. Nel 1968, pur avendo già superato la trentina, Kressmann era ancora scapolo. Ma non si preoccupava per la successione del podere perché era convinto, grazie alla sua ricchezza, di potersi permettere di aspettare. Spesso, nell'osteria di Ruhpold, l'unica birreria del paese, lo si vedeva con delle ragazze. Mai le stesse, però: chi aveva un po' di buon senso non accettava gli inviti di Richard più di due volte, perché troppo spesso alzava il gomito. Paul Lässler possedeva trecentoventi iugeri di terra. Aveva un anno più di Jakob ed era suo amico d'infanzia. Anche lui, alla fine degli anni '60, non era ancora sposato, ma sperava che la sua situazione cambiasse di lì a breve: era fidanzato da dieci anni con Heidemarie von Burg. Il fratello di costei, Toni von Burg, e sua moglie Illa coltivavano quattrocento iugeri di terra. Il loro avvenire era da tempo assicurato: Uwe, un terremoto che non dava tregua a Illa e che quasi non le permetteva di avere delle amicizie. Ma in fondo quel bambino così vivace costituiva solo una giustificazione per Toni e Illa von Burg, che da sempre avevano condotto una vita molto ritirata. La famiglia Kleu possedeva quasi trecentocinquanta iugeri di terra. Non c'era molto da dire riguardo al vecchio Kleu e a sua moglie. Il figlio Bruno era ancora troppo giovane per pensare al matrimonio, ma aveva comunque già fatto la sua scelta. Era innamorato pazzo di Maria Lässler, ma il fratello di lei, Paul, non vedeva assolutamente di buon occhio la cosa. Bruno era conosciuto per essere un tipo manesco e già a diciotto anni aveva dimostrato di essere in grado di concepire figli, avendo messo incinta una ragazza di Lohberg. Con gran dispiacere di suo padre, che aveva dovuto provvedere agli alimenti. Per sei lunghi anni, speranze e delusioni si susseguirono ogni mese per
Jakob e Trude. In quel periodo accadde un po' di tutto. Nella primavera del '69, Paul Lässler ruppe il fidanzamento con Heidemarie von Burg e lo stesso mese sposò la diciottenne Antonia Severino; tre mesi dopo, aveva già tra le braccia il suo primogenito, purtroppo solo per pochi minuti, perché il bambino era nato con un difetto cardiaco. L'anno seguente, Antonia era di nuovo incinta. Dopo i primi due maschi, Illa von Burg diede a Toni una bambina. Per la seconda volta, Bruno Kleu mise incinta una ragazza di Lohberg, ebbe il secondo figlio illegittimo e da suo padre una bella scarica di botte che lo riportarono alla ragione per qualche tempo. Richard Kressmann convinse Thea Ahlsen, che aveva messo gli occhi sul giovane farmacista Erich Jensen, che millecinquecento iugeri valevano bene un paio di grappe di troppo e certamente ben più di una farmacia. Sei settimane dopo il loro matrimonio, Thea annunciò a tutto il paese che era incinta, e che il concepimento era avvenuto fin dalla prima notte di matrimonio: tale affermazione si dimostrò in seguito errata. Jakob e Trude Schlösser avevano ormai perso ogni speranza. Jakob aveva già superato la quarantina e anche Trude non era più giovanissima, ed ecco che si ritrovarono con il maschio, il tanto atteso erede della fattoria, nell'incubatrice. Lo battezzarono Benjamin, visto che era così minuto. Tuttavia, quando parlavano del bambino, lo chiamavano Ben: pareva più forte, così. Trude si recava in clinica tutti i giorni (a quel tempo guidava ancora) per farsi togliere il latte che poi veniva somministrato al bambino tramite una sonda. Per un'ora intera rimaneva accanto all'incubatrice a osservare quel misero fagottino, di cui s'immaginava di vedere le ossa attraverso la pelle sottile; versava qualche lacrima e pregava il cielo perché lo facesse sopravvivere e crescere. E, da qualche parte, le sue preghiere vennero ascoltate. Quando lo portarono finalmente a casa, quattro mesi dopo, Ben pesava due chili e mezzo. Le dita e il visino erano ancora così trasparenti che nessuno osava quasi respirare, in sua presenza. Ma i medici affermarono che il peggio era passato, e tutti, amici e parenti, fecero loro coraggio. Thea Kressmann, che era diventata madre da poco, li andò a trovare la prima volta portandosi il suo Albert per metterlo a confronto. A sei settimane di vita, il figlio di Thea e Richard pesava il doppio di Ben. La donna sprizzava orgoglio da tutti i pori ed era convinta che fossero solo storie da levatrici le voci che un po' di alcol faceva male ai nascituri.
Antonia Lässler ricordò a Trude che il suo maggiore era cresciuto benissimo anche dopo l'operazione al cuore. Bruno Kleu non era ancora sposato e fu sua madre ad andare a congratularsi per il lieto evento. Illa von Burg fu più discreta e, prendendo a pretesto i suoi bambini troppo vivaci, non fece visita nei primi giorni. Anche gli uomini non si presentarono a casa loro, ma chiedevano notizie dei miglioramenti di Ben a Jakob, nell'osteria di Ruhpold. Nel 1973, il padre di Ben era ancora membro dell'associazione degli Schützen e talvolta, di domenica pomeriggio, giocava a calcio nella squadra dei seniores. Erich Jensen e Heinz Lukka lo assillavano di continuo affinché entrasse nella SPD o nella CDU, o perlomeno si candidasse a membro del consiglio comunale. La riorganizzazione del comune era alle porte e il paese rischiava di essere accorpato al comune di Lohberg, fatto assolutamente da evitare, secondo il farmacista e l'avvocato. Ma Jakob non s'interessava di politica e tantomeno dei maneggi che avvenivano dietro le quinte. E poi, non aveva tempo. Era pur vero che i suoi genitori erano ancora vivi, ma suo padre aveva ottantatré anni, anche se non li dimostrava. Era alto, il vecchio Schlösser, quasi quanto lo sarebbe diventato suo nipote parecchi anni dopo. In gioventù era stato anche altrettanto massiccio, mentre con l'età si era fatto secco e tenace. Guidava ancora il trattore e sbrigava quasi sempre da solo i lavori nella stalla, fino a quando, nel marzo del '75, non se ne andò. Anche la madre di Jakob era ancora arzilla, nonostante l'età avanzata. Si occupava dei lavori domestici, badava alle galline e si prendeva cura delle due nipotine, Anita e Bärbel. Prese sotto la sua ala protettrice anche il neonato, perché Trude potesse continuare ad aiutare nel lavoro dei campi. Grazie alle cure della nonna, Ben crebbe magnificamente. Alla sagra del maggio del '74 stava già quasi seduto nella carrozzina, appoggiato ad alcuni cuscini, e le sue guance erano rosee e le manine paffute. Gli occhi di Trude brillavano pieni di orgoglio mentre lo spingeva sulla piazza in festa. A un chiosco, gli comprò un sonaglio colorato che, scosso, suonava un motivetto di montagna. Ben non voleva scuoterlo, perché il rumore lo spaventava; lo tenne chiuso nella manina, senza scagliarlo a terra con gusto, come faceva Albert Kressmann con ogni oggetto che gli veniva dato. Nel mese di settembre, alla festa degli Schützen, Jakob lo portò in braccio in piazza, lo mise a terra in un punto dove c'era meno ressa e gli fece fare qualche passo da solo. Trude gli comprò una girandola, ma Ben non sapeva proprio che farsene.
Infine, nel maggio del '75, quand'era appena stato sepolto il padre di Jakob, per non negare uno svago ai bambini, portarono Ben e Bärbel alle giostre. Durante il giro, però, Jakob dovette portare via Ben, perché il piccolo, terrorizzato, si era messo a gridare come un forsennato. La spada di Damocle che pendeva da mesi sulla loro testa stava diventando a poco a poco una morsa che attanagliava dolorosamente il petto di Trude. Ben aveva imparato a stare seduto e in piedi, faceva qualche passo e cominciava a emettere qualche suono incomprensibile, ma niente di più. Le preghiere di Trude erano state esaudite: Ben viveva e cresceva bene. Fino al giorno della sua morte, nel novembre del '76, la madre di Jakob continuò a ripetere che era un sollievo per lei pensare che suo marito non aveva dovuto assistere a tutto quel che accadde. Si era spremuta il cervello con le sue anziane vicine nel tentativo di capire di chi fosse la colpa. Avevano ricostruito, per quanto era possibile, i fatti precedenti alla nascita di Ben. Tuttavia nessuno ricordava un cagnaccio nero che forse aveva spaventato Trude. E neppure si erano presentati degli zingari alla fattoria, che, se respinti, avrebbero potuto lanciare chissà quali maledizioni. Nelle due famiglie non si ricordavano casi simili. Non nella famiglia Schlösser, ne erano assolutamente certi, ma neanche nella famiglia di Trude si conoscevano disgrazie di quel genere. La madre di Jakob escludeva che la disgrazia potesse essere accaduta a causa di quella caduta di Trude sui gradini gelati della cucina, perché in tal caso sarebbe stata lei la responsabile. Il giorno dell'incidente, infatti, aveva dimenticato di cospargere di cenere il pavimento. Fino all'ultimo, la nonna sperò in un cambiamento dello stato di Ben. Un mese prima della sua morte, si recò in pellegrinaggio a Lourdes con la comunità cattolica delle contadine, fece ritorno a casa con due bottiglie di acqua benedetta e con la polmonite. Con l'acqua benedetta asperse la nuca di Ben e con la polmonite se ne andò all'altro mondo. La morte della suocera fu un duro colpo per Trude. Dopo i primi due anni trascorsi in un susseguirsi di orgoglio, gioia, notti piene di ansia e interrogativi assurdi, per lei iniziò un periodo buio. Non riusciva ad accettare ciò che vedeva quando entrava in cucina di ritorno dai campi o dalla stalla, e scorgeva Ben seduto in un angolo. Alla nonna Ben aveva ubbidito alla lettera, stava seduto dove lei lo metteva, spesso con il sederino arrossato e il viso bagnato dalle lacrime. Ora, quando Trude entrava in casa, non alzava neppure il viso, e restava apati-
camente immerso nel suo mondo oscuro. Agli occhi delle sorelle, Ben non era diverso dalla scopa che si posa in un angolo. Anita aveva interessi ben più elevati, era amica della figlia di un medico e si comportava come se Ben non esistesse. Bärbel ogni tanto s'impietosiva e allora metteva in bocca a Ben una caramella e, se nessuno la vedeva, gli accarezzava il capo. Jakob, la sera, se lo prendeva in grembo e gli faceva fare il cavalluccio sulle ginocchia dicendo: «Ma, sì, che andrà tutto bene». Ma neanche suo padre riusciva a strappargli un sorriso. Per Trude l'inverno tra il '76 e il '77 fu particolarmente difficile. Si portava dietro Ben dappertutto, cercando d'insegnargli qualche parola; e di sera discuteva con Jakob il da farsi, perché era necessario trovare una soluzione entro la primavera: il marito non era in grado di gestire da solo il lavoro dei campi. Come loro, anche altri avevano dovuto affrontare lo stesso problema e avevano trovato una soluzione. Paul Lässler, Toni von Burg e il vecchio Kleu avevano fondato una cooperativa di lavoro negli anni '70. Richard Kressmann invece non ne faceva parte poiché aveva sei o sette uomini che lavoravano per lui. Recentemente, Toni aveva deciso di lasciare la cooperativa per specializzarsi nell'allevamento dei polli e ora era in trattative per vendere gran parte della sua terra come terreno edificabilc Durante ogni visita, Thea Kressmann raccontava che Toni stava facendo un sacco di soldi. Con il ricavato, diceva Thea, avrebbe investito in appartamenti d'affitto per evitare che le tasse gli mangiassero tutto l'utile. Jakob fu molto contento di subentrare al posto di Toni e stava infatti organizzando il lavoro nel suo podere. Per reazione, Trude si fece un bell'orto sul retro della casa e lo coltivò. Nella primavera e nell'estate del '77, si precipitava fuori di casa dopo pranzo, lasciando Ben sulla stradina tra le aiuole, perché all'inizio stava ancora seduto e immobile. Ma questo stato di grazia non durò a lungo. Forse Ben era troppo stupido per pronunciare la parola «mamma», ma si rese conto velocemente che la mamma era ben diversa dalla nonna. I primi giorni, tutta quella vastità lo confondeva. Socchiudendo insicuro gli occhi alla luce del sole, guardava incantato, a bocca aperta, le nuvole, trasalendo se un'ape o una farfalla gli si avvicinava troppo. Poi si avventurò una prima volta gattoni lungo il sentiero dei campi che correva parallelo alla Bachstrasse dietro il giardino. Lo sguardo di Ben era sempre fisso su Trude, diffidente e pauroso. Ma nel giro di una settimana era diventato svelto come una donnola, tanto che la madre riusciva a riprenderlo a fatica.
«No, no», lo sgridava con il fiato grosso, «devi restare qui con la mamma!» Non che servisse molto parlargli, non capiva comunque. Per Ben, scappare per farsi acchiappare era un gioco. Trude pensava spesso che suo figlio comprendesse una proibizione solo se veniva picchiato, così come aveva sempre fatto sua suocera, ma non aveva il cuore di farlo, né poteva legarlo, non era mica una bestia. Tuttavia ogni volta che si precipitava dietro al bambino, aveva l'impressione di non poterne più. Isolata ed esclusa, era marchiata a vita. La domenica mattina non poteva più recarsi alla santa messa con Illa, né poteva concedersi il lusso di andare in gelateria a Lohberg con Antonia nel pomeriggio, mentre i mariti giocavano a pallone. Trude non poteva più invitare nessuno a bere il caffè a casa sua ed era costretta a declinare gli inviti dei vicini nelle occasioni speciali. Era riuscita ad assistere al matrimonio di Erich Jensen e Maria Lässler, ma quello era avvenuto nel 1974 e a quel tempo sua suocera era ancora viva ed era rimasta a casa con Ben. Nel 1977, quando Bruno Kleu mise incinta per l'ennesima volta una ragazza di Lohberg e questa, Renate, fu costretta dal padre a sposarlo, Trude s'inventò un'emicrania. Alla cerimonia partecipò Jakob, accompagnato dalle figlie. E quando Bruno e Renate festeggiarono il battesimo del loro Dieter, all'inizio di ottobre, Trude accusò un tale mal di schiena da non poter stare in piedi in chiesa, né tantomeno seduta al tavolo del rinfresco. E quando, tre settimane più tardi, la bambina di Toni e Illa von Burg fu investita da un'auto mentre si recava a scuola, il giorno del funerale Trude restò a casa per disturbi di stomaco. Certamente non poteva rimandare indietro chi veniva a farle visita all'improvviso. Antonia Lässler non ci rinunciò mai. Grazie alla profonda amicizia che legava suo marito a Jakob, lei frequentava Trude già molto prima della nascita di Ben. Inoltre, il podere dei Lässler confinava con il Feldweg che a quel tempo era coltivato solo per trecento metri di lunghezza, e poiché la tenuta di Paul si trovava proprio all'inizio e quella di Jakob in fondo, Antonia e Trude si consideravano vicine. Nonostante i quindici anni di differenza, erano sempre andate molto d'accordo. Antonia non accettava che la loro amicizia dovesse finire solo perché Trude aveva un figlio che si aggrappava alla tovaglia quando meno te l'aspettavi o rovesciava una tazza se non prestavi attenzione, oppure spariva nel pollaio con le chiavi dell'auto. Anzi, lei riteneva che avrebbero potuto portarsi Ben perfino in gelateria. Suo padre non si sarebbe certo preoccu-
pato se Ben avesse saltellato qua e là perché era incapace di stare fermo a lungo; ma Trude non osava tanto. Illa von Burg capiva la situazione di Trude e si rendeva conto dei motivi per cui non voleva portarsi in chiesa il suo Ben. Così, ogni quindici giorni, faceva una capatina nella cucina dell'amica dopo la messa, visto che, in ogni caso, aveva commissioni da sbrigare nelle vicinanze. E continuò ad andare a trovarla anche dopo la morte della figlia, sebbene Ben con le sue dita sporche le imbrattasse la gonna nera della festa. Persino Renate ogni tanto si presentava con la sua carrozzina al seguito. Il giorno del suo matrimonio aveva saputo da Jakob che anche Trude era originaria di Lohberg; così, sentendosi nuova del posto e non conoscendo le abitudini di campagna, intimidita com'era dal comportamento e dalle pretese del marito, trovava in Trude l'unica persona con cui poteva parlare liberamente. Bruno trascorreva sei sere alla settimana fuori casa. Sua madre pensava che non gli si poteva negare una birra dopo il lavoro, mentre suo padre consigliava a Renate di accompagnarlo per essere sicura che si fermasse solo all'osteria di Ruhpold. Bruno però non voleva portare la moglie con sé; ormai, da quando l'aveva sposata, non gli interessava più. Quando facevano l'amore, al massimo una volta al mese, se la sbrigava in cinque minuti. E intanto le raccontava con fervore di Maria Jensen, imprecando contro Paul Lässler ed Erich Jensen. Renate non osava pensare al divorzio: che cosa ne sarebbe stato di suo figlio? Trude, pur con tutta la buona volontà di questo mondo, non sapeva come consigliarla. E poi non riusciva neanche a darle ascolto, presa com'era da Ben, che cercava di tenere lontano dalla carrozzina. Ma il momento peggiore era quando si faceva viva Thea Kressmann con i suoi consigli e il suo bambino, di cui faceva mostra come di una scimmia ammaestrata. Thea si presentava da Trude almeno quattro volte a settimana, e ogni volta le faceva notare la differenza tra i due bambini, come se Trude non lo avesse già fatto per conto suo. Albert raccoglieva le uova, così affermava sua madre, o perlomeno era già in grado di aiutarla in quell'occupazione. Con molta probabilità, Thea non aveva neanche mai visto un pollaio dall'interno. Invece Ben lo conosceva bene, dato che Trude se lo portava dietro dappertutto. E, se non faceva attenzione, suo figlio acchiappava un pulcino, se lo strofinava contro la guancia e poi se lo infilava in tasca. Il più delle volte il povero animaletto ci arrivava già stecchito, schiacciato dalle mani del bambino.
A cinque anni, Ben, per peso, altezza e forza fisica, era in grado di uguagliare un bambino di otto. La gente cominciava a guardarlo con diffidenza e Trude sudava sette camicie quando se lo portava in paese: era costretta a condurlo con sé, perché Anita si rifiutava di tenere il fratellino anche solo per un quarto d'ora, mentre Bärbel non era ancora in grado di badare a lui. Così Ben era sempre accanto a sua madre, la bocca semiaperta, un rivolo di saliva che gli scendeva sul mento, la fronte corrugata come se stesse riflettendo senza posa su un problema di difficile soluzione. Forse rifletteva: chi mai poteva sapere quel che gli passava per la testa? A volte lanciava di colpo un grido selvaggio e la gente per strada si voltava a guardare; oppure spiccava salti improvvisi e Trude, nel tentativo di non farlo cadere a terra, rischiava di slogargli un braccio. Se non lo teneva per mano con decisione, il bambino era capace di liberarsi dalla sua stretta e di lanciarsi verso i passanti per poi abbracciarli con un sogghigno idiota. Per lei, era come andare a passeggio con un cane con la rabbia. I più non osavano lamentarsi quando Ben li importunava. Jakob e Trude erano persone stimate, perciò si costringevano a sorridere, accarezzandolo sul capo in punta di dita mentre dicevano: «Via, via, non è nulla di grave, signora Schlösser». Trude soffriva molto. Soffriva di palpitazioni, disturbi circolatori, disturbi del sonno e sudorazioni improvvise. Due volte la settimana controllava la pressione, sempre tenendo Ben per mano o in grembo. E lo teneva stretto, altrimenti nell'ambulatorio medico il bambino si sarebbe avventato sugli strumenti lucidi riposti nella bacinella sul tavolo accanto al quale la madre si sedeva. Tutto ciò che brillava lo affascinava. Non c'erano forchetta né coltello né cucchiaio che fossero al sicuro da Ben. Migliaia di volte al giorno Trude esclamava: «Via le mani!» Ma l'impulso peggiore che aveva Ben, oltre a voler afferrare questo o quello, era quello all'emulazione. Se Albert Kressmann faceva le smorfie, Ben era la sua immagine spiccicata. Se il piccolo Dieter Kleu tirava calci negli stinchi alla mamma o si rotolava per terra per la rabbia di non avere ottenuto ciò che voleva, dopo pochi istanti Ben era a terra con lui. Se Bärbel prendeva una bambola dal letto, lui voleva fare lo stesso. E se Trude gliela toglieva di mano, perché era un maschietto, si buttava sul pavimento, strillando e piangendo, pestando i piedi e sbattendo la testa; oppure con le gambette veloci si precipitava nel pollaio, strangolava due o tre pulcini e restava imbronciato per tutto il resto della giornata.
Albert entrò in prima elementare all'inizio del '79, nonostante le smorfie e le boccacce. Il caso di Ben fece scuotere la testa, non si poteva neppure mandarlo alla scuola speciale. Il professore che Trude andò a consultare nel marzo del '79, sempre su ripetute insistenze di Thea, pronunciò il verdetto che Trude stessa non aveva mai osato pensare: deficienza mentale acuta. Ben sedeva sul lettino con una sbarretta di metallo lucente in mano e una tavoletta di cioccolato in bocca perché solo con i dolci si riusciva a farlo star fermo per qualche minuto, quando il professore disse: «Naturalmente il suo istinto di emulazione potrebbe far sperare in qualche possibilità, ma ricordi che non riuscirà a concentrarsi a lungo su niente. È un ragazzo molto attivo e si distrae facilmente ed è molto alto e robusto per la sua età. Alla lunga, occuparsi di lui sarà un compito al di sopra delle sue forze. La cosa migliore da fare per Ben è cercare un istituto». Trude guardò suo figlio, il figlio che aveva desiderato più di ogni altra cosa al mondo. E lui ricambiò lo sguardo, continuando a mangiare il cioccolato. Un rivolo di bava marroncina gli colò lungo il mento e Trude si affrettò a pulirlo. Ben sogghignò e, quasi a volerla ringraziare, alzò il pugno, stringendo la barretta di cioccolato. In quel preciso istante, Trude cominciò ad amarlo, ad amarlo davvero, sinceramente, con tutto il cuore. Fu quello il momento in cui giurò a se stessa che lo avrebbe difeso da qualsiasi offesa e sopraffazione, e che avrebbe lottato per lui, ignorando l'irritazione e le perplessità negli sguardi della gente. 16 AGOSTO 1995 A essere precisi, Trude fu la sola persona a vivere appieno i terribili avvenimenti di quell'estate. Per lei tutto cominciò fin dal mese di luglio. Un lunedì mattina, Ben posò sul tavolo della cucina una borsetta insanguinata. Trude non s'impressionò per il sangue. Ben aveva il dorso della mano sinistra graffiato e un'escoriazione su due polpastrelli. Nella borsa trovò un borsellino con poche monete, due compresse avvolte in un fazzolettino di carta, un pettine, uno specchio, un rossetto e una carta d'identità intestata a Svenja Krahl con un indirizzo di Lohberg. Era tutto intatto. Trude pensò che suo figlio avesse trovato la borsa da qualche parte e che se la fosse portata dietro. Ogni tanto portava a casa qualcosa dai suoi vagabondaggi: una pentola
di alluminio ammaccata, il bicchiere di un termos smarrito da qualcuno. Una volta era persino tornato con uno pneumatico, forse per fare un regalo a Jakob. Ma il più delle volte erano piccoli oggetti che posava sul tavolo della cucina: sassi con venature e forme strane, cocci, resti di qualche topolino di campagna. Due anni prima Ben aveva spaventato sua madre portandole a casa un vecchio osso troppo grande per essere di un topo, forse era di un maiale... Ma chi si sarebbe mai sognato di sotterrare un maiale in aperta campagna? C'erano i macelli apposta. Quell'osso poteva anche essere di un uomo, magari sepolto da tempo nel posto sbagliato. Trude non l'aveva osservato molto attentamente, perciò non avrebbe saputo dire di che cosa fosse, e allorché Ben le mise dinanzi quell'osso, lei non aveva mai visto in vita sua un femore umano. L'anno precedente, Ben aveva portato uno straccetto rivelatosi poi un paio di mutandine sporche e macchiate di sangue al centro. Ma cose simili erano abbastanza comuni nella zona, che nelle serate miti vedeva spesso le coppiette appartarsi. Magari tra loro c'era stata una verginella che non osava tornare a casa con la prova evidente della sua colpa e che forse aveva preferito abbandonare le mutandine sul posto. Una ragazza impegnata in altre faccende non avrebbe potuto dimenticare la sua borsa? Ben l'aveva semplicemente trovata. All'inizio, Trude immaginò qualcosa del genere. Lodò il ragazzo, ripulì il sangue e cercò il nome sulla guida del telefono, ma non c'era nessuna Krahl. Così mise da parte la borsa e si ripromise di consegnarla all'indirizzo segnato sulla carta d'identità la prossima volta che fosse andata in città. Ma la sera del martedì, Hans Lukka le raccontò che la notte prima si era svegliato sentendo le urla di una ragazza; si era alzato e si era affacciato alla finestra, ma nell'oscurità non aveva visto nulla. Allora Trude bruciò la borsa con tutto il suo contenuto nella stufa della cucina e ringraziò Dio per aver dimenticato di raccontare l'episodio a Jakob. Era convinta che Ben avesse trovato la borsa all'aperto e si fosse graffiato le mani con il filo spinato del prato che un tempo aveva fatto parte della loro proprietà ed era tra le mete preferite dei vagabondaggi del figlio. Ma chi le avrebbe creduto se avesse affermato che lunedì notte Ben era fuori a giocare in quel prato? Chiunque avrebbe potuto pensare che era stato lui a sottrarre la borsa a Svenja Krahl, e magari si sarebbe anche chiesto perché la ragazza non aveva denunciato il fatto alla polizia. Se poi Lukka avesse detto che aveva sentito le urla di una ragazza...
Dopo quell'episodio del mese di luglio, Trude aveva controllato attentamente il giornale ogni giorno e, non avendo letto nessuna notizia su una certa Svenja Krahl, si era via via tranquillizzata. Quel mercoledì mattina di agosto, sul giornale c'era un articolo su Marlene Jensen, assente da casa da domenica. Trude ne aveva già sentito parlare martedì, quando era andata a fare acquisti; Renate Kleu le aveva infatti raccontato che Marlene aveva fatto baldoria in una discoteca di Lohberg con due ragazzi, aveva inveito contro suo padre e si era ostinatamente rifiutata di tornare in paese con Dieter. Naturalmente Renate aveva tralasciato di raccontarle che suo figlio le aveva prese di santa ragione. Trude aveva inoltre saputo da Thea che anche Albert le aveva offerto un passaggio e aveva fatto un viaggio a vuoto a Lohberg all'una di notte. Thea aveva saputo che Erich Jensen aveva proibito alla figlia di uscire quella sera e quindi aveva concluso che la ragazza fosse scappata per dimostrare al padre che non accettava supinamente ogni sua imposizione. Sul giornale erano riportati altri dettagli: c'erano una foto tessera di Marlene e una descrizione dell'abbigliamento che indossava (jeans con applicazioni sgargianti e una giacca a vento azzurra). L'articolo chiudeva con un appello disperato di Maria Jensen che supplicava la figlia di tornare a casa subito perché nessuno l'avrebbe punita. Un altro appello era invece rivolto ai due giovani che le avevano dato un passaggio, affinché si rivolgessero alla farmacia o alla polizia per fornire notizie sulla ragazza. Con polizia si intendeva il posto di polizia di Lohberg, perché Erich Jensen conosceva personalmente il funzionario, suo compagno di partito. Il farmacista avrebbe voluto evitare che si facesse chiasso intorno alla vicenda ed era stato contrario al fatto che sua moglie informasse gli organi di stampa, ma Maria, appoggiata dal fratello e dalla cognata, l'aveva spuntata sul marito. Alla luce dei fatti, la polizia lo riteneva un caso di ordinaria amministrazione, che non destava preoccupazione. Nessuno sapeva che quattro settimane prima era già scomparsa un'altra ragazza della stessa età. E tantomeno ne era a conoscenza Trude che, per paura di domande imbarazzanti o di eventuali conseguenze, non aveva chiesto informazioni; pur continuando a domandarsi se Svenja Krahl era la ragazza che Lukka aveva sentito urlare, e, in caso affermativo, aveva gridato per paura, per uno spavento improvviso o per quale altro motivo? In ogni modo, la vicenda di Marlene la interessava molto meno. Lesse rapidamente l'articolo dopo avere lavato le stoviglie della colazione, poi ripiegò il giornale e lo portò in soggiorno perché Jakob potesse dargli u-
n'occhiata la sera, dato che difficilmente riusciva a leggerlo al mattino; anzi, il più delle volte il giornale arrivava quando suo marito era già uscito. Da quando, nell'aprile dell'87, si erano trasferiti dalla Bachstrasse in aperta campagna, i vantaggi erano stati molti; quello era uno dei pochi svantaggi. Poco prima delle nove, Trude sentì sbattere la porta della cantina. Ben rientrava sempre passando dalla cantina, perché lei gli aveva proibito di camminare per casa con gli stivali inzaccherati, e Ben non dimenticava i divieti semplici. Lasciava sempre da basso anche la pala. Era stato in giro tutta la notte, anzi, da quella famosa notte di luglio, non aveva più dormito neanche una volta nel suo letto. Se rientrava per cena, cosa che di solito non faceva per timore di essere trattenuto a casa con la forza, schizzava via non appena aveva finito di vuotare il suo piatto e lei lo rivedeva solo la mattina dopo, quando si facevano sentire i morsi della fame. Se saliva le scale con le sole calze addosso, Trude non lo sentiva. Appariva improvvisamente sulla soglia, riempiendo con la sua figura tutto il riquadro della porta. Aveva spalle da lottatore, mani come martelli da fabbro e una tale forza nelle braccia che avrebbe potuto rompere l'osso del collo a un bue con un solo colpo, se mai gli fosse saltato in mente di voler uccidere un bue. Ma era pacifico e mansueto come un agnellino; Trude ne era assolutamente certa nonostante i numerosi precedenti spiacevoli. Ben entrò in cucina sporco come chi ha passato ore e ore a scavare nel fango e con il binocolo che gli dondolava sul petto. Se lo portava sempre dietro quando usciva all'aperto, anche se di notte non gli era di molta utilità. «No, no», disse Trude quando lui fece per sedersi a tavola, «prima lavati le mani. Lo sai bene.» Certo che lo sapeva, ma tentava sempre di sfuggire a quel dovere. Non che avesse paura dell'acqua, piuttosto temeva il dolore che gli causava sua madre quando lo medicava. Mani e avambracci erano cosparsi di vecchie cicatrici e graffi recenti e vesciche che si provocava nei rovi e nelle ortiche, lungo il filo spinato e andando a sbattere contro ogni possibile ostacolo. Ben si lasciò mettere le mani sotto il rubinetto e Trude strofinò e controllò se si fossero aggiunte nuove ferite che andavano medicate. Gli trovò una scheggia di legno nel polpastrello del dito medio della mano destra e, non riuscendo a sfilarla con la pinzetta, dovette aiutarsi con un ago. Ben sibilò inspirando.
«Dove sei andato a pescarti questa?» Lo chiedeva più per abitudine, non si aspettava una risposta, perché il vocabolario di suo figlio era molto ridotto e comprendeva poche parole intelligibili. Con un po' di buona volontà e se lo si conosceva bene come lei, si riusciva a dare un'interpretazione ai suoi farfugliamenti. Trude era certa di comprenderlo: bastava fare attenzione per capire se la sua era una domanda, una richiesta o una conferma. Tolta la scheggia, Ben si sedette a tavola, succhiandosi il dito sanguinante e guardando verso la credenza con occhi smaniosi. Trude prese il pane, spalmò un paio di fette con burro e paté di carne, riempì di latte una grande tazza di alluminio e mise tutto davanti al figlio; e mentre lui si avventava sul pane, lavò il coltello, lo ripose nell'armadio che chiuse a chiave, infilandosela poi nella tasca del grembiule. Ben aveva vuotato la tazza velocemente e aveva già lasciato la stanza. Trude lo cercò e lo trovò che dormiva sul letto, con i vestiti sporchi addosso. Lui scese da basso poco dopo l'una e si fece infilare una camicia e pantaloni puliti. Sua madre gli riempì il piatto, lui mangiò e scomparve in cantina. Dal mese di luglio la porta della cantina veniva sempre lasciata aperta per lui, giorno e notte. Jakob l'aveva chiusa una volta sola nelle ultime settimane; Ben allora aveva cercato di uscire dalla finestra della cantina; era rimasto imprigionato e si era messo a mugolare e a lamentarsi come un cucciolone, finché Trude e Jakob non si erano svegliati e lo avevano liberato con grande fatica. Ben portava ancora i segni del telaio della finestra impressi sul corpo. Quando Jakob tornò dal lavoro alle sette, Ben era ancora fuori. Trude gli aveva cambiato le lenzuola del letto, aveva pulito la finestra della sua camera e aveva dato un'occhiata fuori, sperando che tornasse per la notte. Dopo cena lei si sedette in soggiorno con il marito e parlarono di Marlene Jensen. Per una volta, Trude era d'accordo con Thea; Jakob invece non credeva all'ipotesi che la figlia di Erich se ne fosse andata di casa. «Magari, per una notte, sì, ma andarsene per un paio di giorni... Dove potrebbe essere?» «Forse con quelli che ha conosciuto in discoteca», ipotizzò Trude. «Erich è troppo severo. Anche Antonia lo dice sempre. Posso immaginare che lei voglia dargli una lezione.» 17 AGOSTO 1995
Il giovedì Jakob andò via alle sette, come di consueto. Uscì in macchina dal fienile e imboccò la stretta strada, a stento percorribile da due auto. A circa seicento metri di distanza c'era il primo incrocio, poi la strada continuava per altri duecento metri tra giardini e campi, prima d'immettersi sulla Bachstrasse. Jakob svoltò a sinistra sull'ampia strada che portava a Lohberg correndo parallela alla provinciale e alla Bachstrasse, e con una stretta al cuore percorse i due chilometri successivi che passavano dalla casa di Heinz Lukka. Era un tragitto che faceva sempre a malincuore, perché passava davanti alla sua vecchia proprietà e gli riportava alla mente tanti ricordi. Non è facile rinunciare al luogo dove si è nati e cresciuti e dove si sono passati tanti anni a sognare, amare, sperare, sudare e soffrire. Dietro il filo spinato alto due metri, Jakob vedeva scorrere la sua vecchia proprietà e per lui era sempre un sollievo arrivare finalmente alla casa dell'avvocato. Quella mattina incontrò il suo amico Paul Lässler proprio vicino alla proprietà di Lukka e si fermò a salutarlo, scambiando qualche parola con lui. Paul, fratello di Maria e quindi zio di Marlene Jensen, era preoccupatissimo, oltre che infuriato con suo cognato. «Non capisco come ragiona», inveì. «Io, al suo posto, avrei messo in moto tutto il possibile, mentre lui mette un freno anche alla polizia per paura di uno scandalo. L'unico scandalo è il modo in cui vuole educare sua figlia. Sta in un partito sballato e non ha la più pallida idea di che cosa sia la socialdemocrazia. Maria è disperata.» «Ci credo», disse Jakob. «Che stupida!» proseguì Paul, prendendosela con sua nipote. «Perché non ha aspettato Albert? Era tornato apposta dopo aver accompagnato a casa Annette.» «Me l'ha raccontato Trude. Ma perché Albert non l'ha accompagnata a casa subito?» Paul abbassò lo sguardo e alzò le spalle. «Lei ha detto che era troppo presto. E non voleva tornare con Dieter perché era rischioso.» Jakob pensò che si riferisse al fatto che non aveva ancora la patente. «Io non capisco perché Bruno lo lasci andare in giro comunque», disse. «Ancora un paio di mesi e a ottobre compirà i diciotto anni. E allora non dovranno più temere che venga pizzicato.» «Finora non è mai stato colto in flagrante», dichiarò l'amico. «Guida abbastanza bene. Ma non tiene le mani a posto», proseguì con veemenza, «e probabilmente Marlene avrà pensato che sarebbe stato più sicuro rientrare
con i due ragazzi. Ed è stato un errore. Ci scommetto quel che vuoi, Jakob, ma lei non è fuggita con quei due. Non è il tipo. È successo qualcosa.» Quando il padre di Ben rientrò a casa quel giovedì sera, suo figlio era ancora fuori. Trude stava passando un panno asciutto sulla finestra mentre guardava se il figlio tornava. Cenarono soli. Jakob le raccontò della conversazione avuta con Paul e concluse dicendo: «Paul pensa che alla figlia di Erich sia successo qualcosa». Lei raccolse i piatti e le posate, ripose gli avanzi della cena in un contenitore che mise in frigorifero. «Dobbiamo sperare che Paul si sbagli», aggiunse Jakob in tono cupo. Trude si volse di scatto verso il marito: «Dobbiamo? Io spero per lei e per i suoi genitori che non sia successo nulla. Ma noi non dobbiamo sperare proprio niente. Noi non abbiamo niente a che fare con questa faccenda!» Jakob alzò la mano in un gesto conciliante. «Non era quel che intendevo.» E poco dopo proseguì incerto: «Pensavo solo che Ben dovrebbe starsene in casa, per un paio di notti». «Perché?» chiese adirata la moglie. «Dobbiamo chiuderlo in casa perché una stupidella non ha ritrovato la via di casa? È sparita a Lohberg, non qui. E lui non ha altro da fare che stare fuori. Che cosa gli offre la vita, altrimenti?» VECCHIE STORIE L'amore materno di Trude non era nato improvvisamente nel marzo del 1979. All'inizio non era vero e proprio amore, era più un senso di vergogna, un fatto istintivo, lo stesso istinto che induce l'animale a proteggere il suo cucciolo indifeso. Forse dipendeva dal fatto che il consiglio di consultare quel professore veniva proprio da Thea Kressmann. E non per un semplice caso. Durante il viaggio di andata, Trude sentì un leggero bruciore allo stomaco. Lo scompartimento del treno era silenzioso, c'erano pochi viaggiatori. Ben sedeva accanto al finestrino, intimidito dalla velocità e da tutte quelle impressioni a lui sconosciute, e osservava il paesaggio che gli sfilava davanti. Paesi, la stazione di qualche cittadina, e campi, prati e mucche al pascolo, un tiro di cavalli e tante pecore lungo'la strada ferrata. «Pecorelle a sinistra, solo gioia in vista», diceva spesso la madre di Trude. «Pecorelle a destra, rovinata è la tua festa.»
Durante il viaggio di ritorno, vedevano pecore sempre solo a destra. La mente di Trude era obnubilata, non era in grado di pensare. Il bruciore nelle viscere, quella palpitazione sorda... aveva una grande paura. Le pecore lungo la ferrovia erano un presagio di sventure. Nel 1943, le pecore erano state fatali a Christa von Burg, sorella minore di Toni. Christa von Burg e Thea Kressmann: due nomi segnati da una serie di coincidenze. Thea era nata Ahlsen e suo padre, Wilhelm, era da sempre un vero patriota. Aveva fatto molto per il suo Paese: nella prima guerra mondiale era passato dal banco di scuola al fronte occidentale, dove aveva perduto mezza gamba sinistra e tutto il braccio sinistro in un'azione eroica, per poi ricevere un'onorificenza e una misera pensione. Ma non una moglie. La vecchia Gerta Franken, ultracentenaria e vicina di Trude e Jakob, ricordava perfettamente ogni cosa avvenuta nel passato. Così, un pomeriggio di marzo del '79, l'anziana donna si era presa la briga di raccontare a Trude tutti i retroscena dei diversi rapporti interpersonali, perché Trude, nata e cresciuta a Lohberg, non poteva essere al corrente di tutto. Per quale motivo, per esempio, Toni e Illa von Burg tenevano a distanza Richard e Thea Kressmann già molto prima che Richard fosse sospettato di essere stato lui a investire la loro bambina sulla via di scuola e a fuggire subito dopo? Per quale motivo Toni e Illa, per i medicinali, persino nei casi di emergenza, andavano fino Lohberg anziché recarsi da Erich Jensen, il quale in fondo era uscito con Thea solo due o tre volte, e non aveva nessuna responsabilità? C'erano antichi odi che si tramandavano di generazione in generazione. Negli anni '20 e '30 Wilhelm Ahlsen era un poveraccio, per di più scapolo. Non solo perché gli mancavano un braccio e mezza gamba, ma perché non concludeva molto. E la sua misera pensione gli permetteva a malapena di vivere. Ma, a partire dal 1933, le cose presero un'altra piega. I patrioti e gli eroi di guerra erano molto richiesti, e Wilhelm Ahlsen era uno di loro ed era in grado di provarlo. E allora fece carriera. Ortsgruppenleiter! Pur con la sua menomazione fisica, era in grado di zoppicare di casa in casa a declamare gli slogan propagandistici sulla grandezza cui era destinato il Reich, una volta vinta la guerra, e spiava tutti. Gerta Franken raccontò che, una volta, mentre sedeva nella sua cucina, l'aveva persino minacciata, nel vero senso della parola. L'aveva avvertita che, se non stava attenta a come parlava, come quando diceva che dopo la
prima guerra mondiale qualcuno avrebbe dovuto fare fuori quel caporale di nome Adolf, avrebbe fatto la stessa fine degli Stern e dei Goldheim. Gli Stern e i Goldheim erano stati prelevati da Wilhelm Ahlsen e da due soldati delle SA, e di loro non si era più saputo nulla. Tuttavia circolava la voce che la figlia degli Stern, Edith, se la fosse cavata, però anche di lei non si seppe più nulla. Ahlsen si era trasferito nella casa degli Stern, perché aveva bisogno di una residenza adeguata; e la sua pensione da fame venne aumentata attingendo dalle casse dello Stato. Una taglia! Una ricompensa per la pelle di gente di cui nessuno si occupava! E anche se ormai aveva passato i quaranta, trovò un'oca che lo sposò. Ma ciò avvenne verso la fine della guerra, e dopo quattro anni nacque Thea. E riguardo i von Burg... Gerta non sapeva se Trude era al corrente e così le raccontò tutto per filo e per segno, perché lei si potesse fare un'idea. I von Burg erano stati tre bambini bellissimi: Toni poi era stupendo, come il Principe Azzurro delle favole. La sorella maggiore, Heidemarie, era molto graziosa e, secondo Gerta, era un vero delitto che si fosse rinchiusa in un convento dopo che Paul Lässler l'aveva lasciata per quell'italiana dall'argento vivo addosso. Heidemarie però non era nulla al confronto di sua sorella, Christa, che quando arrivava in paese faceva morire d'invidia tutte le donne. Quando arrivava in paese per mano alla mamma saltando di gioia, la piccola Christa assomigliava a un angioletto vivace e pieno di gioia di vivere. I von Burg a quell'epoca possedevano le pecore. E Christa, quella creatura così incantevole, educata e forte, slanciata e bionda, non era del tutto normale. Non che fosse come Ben, assolutamente no, solo raccoglieva gli escrementi delle pecore nel podere e, se nessuno la osservava, se li metteva in bocca. Wilhelm Ahlsen, però, l'aveva vista. A quel tempo, lui era dappertutto e appariva sempre dove uno meno se l'aspettava. Nulla gli sfuggiva, aveva a disposizione tutti gli occhi e le orecchie della gioventù hitleriana, vedeva ogni cosa e origliava in ogni cucina, in ogni camera. La famiglia von Burg fu costretta a mettere la piccola Christa in un sanatorio. Ordini dall'alto, recapitati da Ahlsen in persona, come del resto tutte le brutte notizie in quel periodo. Nell'istituto un certo professore si sarebbe occupato del caso di Christa. I von Burg erano abbastanza agiati e avevano accompagnato personalmente la loro figlioletta all'ospedale, portando due pezzi di lardo, una doz-
zina di cotolette d'agnello, due galline, uova, burro e altre vettovaglie che avrebbero potuto essere utili. Ovviamente speravano di lasciare tutto al professore per potersi riportare Christa a casa. Ma le cose a quei tempi non erano così semplici: dissero loro che servivano alcuni giorni per fare tutti gli esami necessari. E, pochi giorni dopo, Christa era morta di polmonite e già sottoterra quando i von Burg furono avvertiti. A quei tempi le cose andavano così: in fretta. E Ahlsen, insieme con il vecchio Lukka, avvocato come più tardi sarebbe diventato suo figlio Heinz, e nazista fino al midollo, aveva discusso dello sterminio dei nemici del popolo e dell'eliminazione totale delle vite inutili, mentre il giovane Werner Ruhpold, il viso terreo, puliva il bancone. Werner era stato gravemente ferito all'inizio del '43. Certa se lo ricordava perfettamente. Aveva perso molto sangue e, dopo una lunga degenza, prima nell'ospedale da campo e poi a casa, si era ripreso lentamente. Ma la sua espressione, durante la discussione tra Wilhelm e il vecchio Lukka, dipendeva certamente da altri motivi. Qualcuno in paese ricordava bene che, prima della guerra, Werner era fidanzato con Edith Stern, la giovane ebrea. Perché il fidanzamento fosse andato a monte, Gerta non lo spiegò. Osservando di sottecchi Ben che stava accoccolato nel fango mentre parlavano, l'anziana donna riferì a Trude le argomentazioni di Wilhelm durante la chiacchierata nell'osteria di Ruhpold. Una nazione che aveva lottato duramente per conquistare la supremazia nel mondo non doveva perdere tempo a nutrire i nemici del popolo, gli idioti e gli storpi. Ahlsen non si riteneva tale, lui era un eroe di guerra e anche con il suo unico braccio e la sua gamba e mezzo poteva contribuire valorosamente alla gloria del Führer. Sempre fissando Ben, Gerta continuò: «Quando comandava Wilhelm, Ben non sarebbe arrivato a quest'età e tu avresti già dimenticato da tempo la tua disgrazia. Avresti riprovato una seconda volta e magari, chi lo sa, saresti stata più fortunata. Di' la verità, non ci hai pensato anche tu, qualche volta?» Trude non avrebbe mai fatto un simile ragionamento. Non sapeva che il padre di Thea avesse svolto quel particolare incarico in paese. A volte, guardando Ben nell'incubatrice, si era detta che forse non valeva la pena di usare ogni mezzo possibile per salvarlo. Ma, nel momento in cui il professore aveva proposto un istituto, lei si era vista davanti la figura di Ahlsen. Gli alleati erano venuti a conoscenza di quei quattro anni di Ahlsen: quattro anni disperati per gli Stern, i Goldheim, la piccola Christa von
Burg e un'altra decina di persone cui nessuno aveva fatto caso. «Me la caverò», rispose Trude al professore, riuscendo a guardarlo fisso negli occhi seri. «Finora ci sono riuscita. È un po' turbolento, ma non fa male a una mosca.» E comunque i pulcini stritolati non erano affari suoi. Durante il viaggio di ritorno, lei e il figlio trovarono un posto accanto al finestrino, ma c'era molta gente, e Trude fu costretta a prendere in braccio Ben per fare posto ad altri viaggiatori. Continuò a guardare le pecore. Pecorelle a destra... Ma il gregge aveva attraversato il terrapieno della ferrovia ed era passato sull'altro lato della strada. Pecorelle a sinistra... Trude abbracciò il suo bambino e sussurrò: «Ce la faremo, noi due. Non è colpa tua, se sei così». 20 AGOSTO 1995 Nei primi giorni, la polizia non effettuò nessuna indagine per scoprire che fine avesse fatto Marlene Jensen. Non ce n'era motivo: la sua amica aveva rilasciato una dichiarazione che corroborava l'ipotesi di una fuga da casa; era intervenuta anche la stampa, ma, stando così le cose, non si poteva fare molto di più. La situazione cominciò a precipitare esattamente domenica notte della settimana successiva alla scomparsa di Marlene. Alle otto del mattino prese il via una battuta in grande stile nei dintorni del paese. Gli uomini della polizia di Lohberg, coadiuvati dai vigili del fuoco con i cani, setacciarono anche il Boschetto, una zona che delimitava a est i campi aperti. Poco dopo le dieci, Trude salì al piano superiore per rifare i letti e chiudere le finestre, per evitare che la calura estiva entrasse in casa. Avvicinandosi alla finestra, vide tre camioncini verdi e bianchi parcheggiati sulla strada che costeggiava il bosco; naturalmente non sentiva nulla, erano troppo lontani. E non c'era neanche molto da vedere, solo gli uomini, i cani e i tre camioncini. Lei restò a fissarli per qualche minuto, mentre i palpiti sordi del suo cuore si facevano sempre più violenti; quando le salirono al cervello e le rimbombarono nelle orecchie, chiamò Jakob. Dopo colazione, suo marito si era accomodato in poltrona nel soggiorno, con il giornale del sabato che non era ancora riuscito a leggere. C'erano un articolo che parlava dei trasporti insufficienti, un appello accorato alla ragazza e un altro rivolto ai due giovani affinché si facessero vivi. La foto di Marlene Jensen era un po' più grande rispetto a quella di mer-
coledì. Bellissima ragazza, pensò Jakob, che non aveva mai notato la nipote di Paul, anche se talvolta si era detto che sembrava la copia precisa di Maria: il suo viso, ma soprattutto quei lunghi capelli biondi, gli richiamava alla mente una preziosa bambola di porcellana. Posò il giornale sul tavolo e si alzò. Gli sembrò che la voce di Trude avesse un tono leggermente isterico. Non appena fu in camera, sua moglie indicò con il dito verso la campagna. «Guarda un po' là. Che cosa ci fanno quelli, proprio là?» A cinquantanove anni, Trude aveva una figura imponente: appena più piccola del marito, era di costituzione robusta. Non era grassa, ma si vedeva che aveva lavorato per anni come un uomo. In quel momento, sembrava una ragazzetta impaurita da un topolino. «Che cosa vuoi che facciano?» disse Jakob, cingendole le spalle con un braccio. «Cercano. Lo vedi bene.» Lei fece un cenno di assenso e la sua voce, già sulla difensiva, si fece stridula. «E perché proprio là?» Quello era il territorio di Ben. Giorno e notte, lui seguiva sempre lo stesso itinerario, seicento metri che dividevano la porta di casa dalla strada ampia. Poi girava a sinistra, faceva i due chilometri tra campi e giardini fino alla villetta di Heinz Lukka, girava a sinistra e correva per ottocento metri, fino alla proprietà dei Lässler. Da là prendeva una strada trasversale che, dopo circa un chilometro, arrivava alla Fossa, un vecchio cratere prodotto da una bomba. Dopodiché, piegava a sinistra ancora per un chilometro buono fino al Boschetto, da dove solitamente ritornava alla casa dei genitori. A volte, sostava lungo il percorso; magari si accucciava per ore nei campi di granoturco di Paul Lässler, che fiancheggiavano la proprietà di Lukka su due lati. Altre volte, si metteva a scavare nella Fossa alla ricerca di tesori nascosti. Oppure si appostava nel Boschetto, perché di notte, in quella zona, c'erano cose particolarmente interessanti da scoprire. Jakob sapeva, Trude sapeva. Probabilmente tutti in paese sapevano il motivo per cui in giugno Ben aveva spaventato Albert Kressmann e Annette Lässler, anche se in seguito Albert si era vantato di aver rimesso a posto Ben, senza naturalmente dire che era sceso dall'auto e, facendo un gesto osceno, gli aveva gridato: «Sta' attento, idiota, o finisci male!», mentre Annette si rivestiva frettolosamente. Alcuni giorni più tardi Paul, probabilmente dietro insistenza di Antonia che aveva un cuore tenero da vera italiana e che per Ben era sempre disposta a spezzare una lancia, aveva sdrammatizzato l'accaduto. «Lascia stare,
Jakob. A parte che non capisce neanche di che si tratta, in fondo che ha fatto? Ha infilato una mano nell'auto. Non dovevano tenere i finestrini abbassati. E poi, che ci facevano lì?» Anche Trude si era posta la stessa domanda e si era preoccupata, venendo a sapere che nel Boschetto succedevano cose da casa di tolleranza. Jakob scrollò le spalle e, pur sentendo montare il panico, cercò di restare calmo per tranquillizzare la moglie. Ben era fuori casa la notte in cui era scomparsa Marlene; che suo figlio potesse essere coinvolto nel fatto, no, a questo Jakob non aveva mai pensato. Lui temeva qualcosa tutto sommato più innocente. Sempre che qualcuno avesse visto Ben, perché, in tal caso, avrebbero dovuto per forza tenerlo chiuso in casa, ma purtroppo questo non era possibile. E allora sarebbero stati daccapo e, se non cambiava la situazione, l'avrebbero dovuto rinchiudere in un istituto. Era l'incubo di Trude, e Jakob lo sapeva. E sapeva anche che poteva rappresentare la fine per Ben. Mura, sbarre e iniezioni, se avesse dato in escandescenze. In un istituto chi si sarebbe preoccupato della sua sete di libertà? Della sua necessità di correre, saltare e scavare qua e là? «Devono pur iniziare a cercare da qualche parte», disse Jakob e aggiunse: «Ed era ora che iniziassero. È passata una settimana! Hai letto? I due ragazzi con cui è uscita non si sono neppure fatti vivi». Trude annuì. Per un po', rimasero vicini in silenzio. A un certo punto, dal bosco uscirono alcune persone che si diressero disordinatamente verso la strada. «Non vorranno calpestare il grano di Richard, quelli?» riprese Jakob irritato. «Vado a prendere il binocolo, voglio guardare bene.» Si girò e, mentre andava verso la porta, lanciò un'occhiata sul letto ed ebbe un sussulto. In passato, contro la testata del letto, sulla trapunta ben tesa e in mezzo a due cuscini rivestiti di tessuto con pizzi e merletti, c'era una bambola che gli ricordava il viso di Marlene Jensen, visto poco prima sul giornale. Jakob aveva vinto quella bellissima bambola, cui Trude teneva molto, nel settembre del '69 alla festa degli Schützen. Alta come un bimbo di tre o quattro anni, aveva un viso di porcellana finissima incorniciato da una massa di riccioli d'oro che le scendevano fin sulle spalle. Indossava un vestitino di pizzo bianco con applicazioni di nastri azzurro scuro, con il cerchio sotto la gonna che le si allargava intorno quando veniva messa seduta. Dieci marchi spesi alla lotteria, e neanche un biglietto vincente. E poi,
quel primo premio. E Trude, fuori di sé dalla gioia, lo aveva afferrato per un braccio e aveva gridato: «Non ci posso credere! Non ci posso credere!» Quanti anni erano passati? Sembrava un'eternità. A quel tempo le bambine erano ancora piccole, Anita aveva sei anni, Bärbel due, e nessuno pensava ancora a Ben. Solo Trude affermava che voleva un figlio, lo voleva a ogni costo. Chi avrebbe pensato alla loro fattoria? Quella domenica, dopo il caffè, erano andati in piazza con le figlie. Trude aveva già adocchiato la bambola, ma non aveva detto nulla. Però Jakob aveva notato il suo sguardo. Portarono le bambine a fare due giri sulle giostre, comprarono loro delle perline colorate e dei cuori di pampepato, regalarono ad Anita una bambola di colore e a Bärbel una scimmia di peluche. La sera, messe a letto le bambine, andarono al tendone della festa, Jakob agghindato nell'uniforme degli Schützen, Trude con la permanente fatta di fresco e un vestito nuovo di organza verde chiaro. Si erano seduti al tavolo di Richard Kressmann e di Thea, allora ancora signorina Ahlsen, insieme con Paul Lässler e con la giovane Antonia, in stato di gravidanza avanzata. Ballarono e bevvero, risero e si divertirono alle spalle di Heinz Lukka, che aveva già quarantun anni ed era ancora scapolo. Heinz, che aveva bevuto un bicchierino di troppo ed era paonazzo in viso, cercava di trovare una ragazza per fare un giro di ballo, ma continuava a ricevere rifiuti perché si ostinava a scegliere sempre le più giovani, e così se ne andò a casa prima delle dieci. Dopo la sua partenza, gli altri avevano continuato a sparlare di lui. Allora si poteva ancora sparlare e fare congetture sul perché non riuscisse a trovare una moglie. Forse dipendeva in parte dal suo fisico mingherlino, oppure dal fatto che tutti ricordavano che suo padre era stato nazista, quindi: tale padre, tale figlio. Heinz aveva preso le distanze dal passato diventando membro dell'Unione cristiano democratica. Ogni domenica mattina, andava in chiesa e, prima, si recava in cimitero a portare fiori freschi sulla tomba di sua madre. E che mazzi, bisognava vederli, da non credere! Ma la sua situazione non cambiava. Alle spalle di Heinz ancora si sussurrava la parola «nazista»; anche se da anni faceva parte della buona società, era membro del consiglio comunale e, in qualità di avvocato, era indispensabile a persone come Richard Kressmann, spesso preoccupato per la sua patente, o come il vecchio Kleu, tormentato dalle richieste di alimenti o di risarcimento danni a causa delle
scazzottate di Bruno. Nessuno perdonava a Heinz Lukka, ex caposquadra della gioventù hitleriana, tutte le piccole e grandi vessazioni che aveva inflitto a quelli come Paul Lässler e Jakob Schlösser, che avevano vissuto nel terrore. A quattordici anni, Heinz correva dietro a tutte le giovani tedesche, e a quaranta ancora rimaneva a bocca asciutta. Thea raccontò che quando Heinz aveva preso di mira Maria Lässler, che aveva solo diciassette anni, Paul voleva precipitarsi fuori a darle di santa ragione al vecchio caprone, ma Antonia con l'aiuto di Jakob era riuscita a trattenerlo. Thea non capiva perché si fosse agitato tanto: in fondo, anche Paul aveva vent'anni più di sua moglie, e dopotutto Heinz aveva intenzioni serie, contrariamente a quello sbarbatello di Bruno Kleu, cui interessava una cosa sola; e se la sorella di Paul avesse continuato a uscire con Bruno, non si dovevano sorprendere se un giorno o l'altro fosse arrivata a casa con una bella pancia. «Lascia che sia io a occuparmi della faccenda», disse Paul. «Di Bruno mi sono già occupato, e Maria non lo vede più da diverse settimane. Sabato scorso è uscita con Erich Jensen.» Al posto di Paul, Thea avrebbe considerato meglio la cosa. Un avvocato con uno studio ben avviato a Lohberg era certamente da preferirsi a un giovane farmacista. Inoltre, Thea dubitava che Jensen avrebbe tenuto aperta a lungo la sua farmacia, dopo che lui le aveva dato il benservito. La maggior parte delle persone andava con le proprie ricette fino a Lohberg, come Toni e Illa von Burg. Lukka era un partito di gran lunga migliore di Jensen, pensava Thea, ed era un uomo di buon cuore che avrebbe portato in palmo di mano la sua giovane moglie. Lei conosceva bene Heinz, da bambini si erano frequentati spesso per via dell'amicizia che legava i due padri; conosceva bene Heinz, e lo compativa sinceramente. La madre gli aveva reso la vita difficile quando era giovane; gli aveva impedito di studiare medicina, perché, che lo volesse o no, doveva subentrare al padre nello studio legale. Aveva sempre criticato le ragazze con cui usciva e Heinz non aveva mai osato puntare i piedi e neppure controbattere. Ormai, non c'era più nessuna donna che avesse un'età adatta a lui; forse poteva trovare una vedova o una donna divorziata con figli, ma lui non voleva una moglie del genere, aveva il suo orgoglio e non si accontentava di merce usata. Con Heinz Lukka, una creatura viziata come Maria Lässler avrebbe trovato il paradiso in terra, pensava Thea; con un uomo del genere
non avrebbe mai dovuto alzare un dito. Thea parlava e fantasticava, e, dopo il decimo bicchierino di acquavite, Richard scivolò giù dalla sedia. Jakob e Trude l'aiutarono a salire sull'auto e poi se ne andarono ancora a spasso sulla piazza illuminata per prendere un po' di aria fresca e smaltire i fumi della birra. La giostra e il trenino a forma di bruco erano già stati chiusi, solo i chioschi erano ancora aperti. Una lotteria, biglietti per dieci marchi. «Sei diventato pazzo?» aveva esclamato Trude con voce felice e piena di aspettativa. Un biglietto perdente dopo l'altro, i quadratini di carta si spargevano a terra come grossi fiocchi di neve. E, poi, il primo premio. E Trude che saltava di gioia. «Non ci posso credere! Non ci posso credere!» La bambola fu messa sul letto tra i cuscini di pizzo; quando il vestitino si riempiva di polvere, Trude lo lavava a mano con estrema cura, lo strizzava appena, lo stirava con pazienza e poi rivestiva la bambola. Quando aveva svestito la bambola per la prima volta, aveva provato una grande delusione. «Ma guarda un po'!» aveva detto puntando il dito accusatore contro la bambola nuda sul letto: la testa, le braccia e le gambe erano di porcellana, ma il tronco era un sacco pieno di segatura che non si vedeva quand'era vestita. Per anni, la bambola era stata in mezzo ai cuscini. Poi, improvvisamente, era scomparsa. Ben allora aveva sette anni. Per giorni interi, Trude aveva cercato di blandirlo. «Dove l'hai nascosta? Se l'hai rotta forse posso ripararla. Se mi dici dove l'hai messa, ti compro un gelato.» A quel tempo era ancora possibile ottenere qualsiasi cosa con la promessa di un gelato alla vaniglia. Ma tutto fu inutile, non riuscirono mai a trovare né un pezzetto di pizzo né un frammento di porcellana. E ora, là fuori, stavano cercando l'unica figlia del farmacista. Jakob si riscosse, non era quello il momento di pensare a una vecchia bambola; che rabbia che gli venisse in mente proprio adesso, pensò, mentre si avviava verso la porta di fronte, quella della camera di Ben. Il ragazzo era rientrato a casa alle sei del mattino. Jakob l'aveva sentito nel dormiveglia; non esattamente quando rientrava in casa, ma mentre faceva rumore nella camera eseguendo i suoi rituali e nascondendo i tesori che riportava dai suoi vagabondaggi. Non sempre faceva vedere ai genitori quello che trovava all'aperto. Jakob pensava di trovarlo addormentato sul letto, invece il ragazzo era seduto a terra, e tra le gambe aveva alcune patate piene di incisioni. Appena si aprì la porta, Ben nascose la mano destra dietro la schiena, poi alzò la
testa e guardò suo padre socchiudendo gli occhi come un gatto che mendica un gesto amico. Jakob notò la mano dietro la schiena e stese la sua intimandogli: «Che cos'hai lì? Fammi vedere!» Ben allungò il braccio e abbassò nuovamente il capo mentre suo padre gli toglieva il coltello di mano. Era un coltellino da cucina che serviva per pelare le patate; da una settimana Trude non riusciva a trovarlo, ma Jakob non ne era al corrente. Erano molte le cose che non sapeva e se ne rendeva perfettamente conto. Avrebbe dovuto rimproverarlo, ma l'aveva già sgridato e battuto spesso, a volte anche ingiustamente, per rabbia e perché si sentiva impotente e non conosceva un altro modo per farsi capire da Ben. E perché si era reso conto troppo tardi che spesso con una parola buona avrebbe ottenuto di più. Quando finalmente l'aveva capito, le sue parole, seppure piene di bonomia, sortivano solo un effetto minimo. Ben gli ubbidiva quasi sempre. Ma l'ubbidienza non era sinonimo né di amore né di fiducia, e Ben provava amore e fiducia per altri, ma non per lui. Jakob infilò il coltello nella cintura, si guardò intorno ma non riuscì a vedere il binocolo. «Il vetro», disse. Ben si rialzò prontamente e Jakob fu colpito una volta di più dalla sua agilità, nonostante il corpo massiccio. Poi se ne stette fermo al centro della stanza, la testa incassata nel collo e la fronte corrugata. «Il vetro», ripeté Jakob. «Dove l'hai messo?» Il giovane andò titubante verso l'armadio, lo aprì e rovistò tra la biancheria con entrambe le mani. Infine da un angolo recondito trasse un vaso di vetro che porse a Jakob con riluttanza. Era un vaso di Trude ed era pieno di pezzi di patate nerastre dalle forme bizzarre, marce e ammuffite, di foglie di piantaggine arrotolate e ormai secche, e di un pezzo di stoffa che forse era stata azzurra, ma che adesso era talmente sporca che il colore era irriconoscibile. La muffa riempiva tutto il barattolo fino al coperchio che era solo appoggiato, e un insopportabile fetore dolciastro emanava dal vasetto: Jakob fece una smorfia disgustata quando vide il corpo decomposto di un topo di campagna. «No», disse, «non questo. Voglio l'altro vetro.» Per farsi capire mise sottobraccio il vasetto e chiuse pollice e indice a mo' di cerchio intorno agli occhi. Ben comprese, corse verso il letto, alzò una grossa bambola di stoffa, ta-
stò sotto il cuscino ed estrasse il binocolo. Jakob glielo tolse di mano e si avvicinò alla finestra. Guardò a sud-est, verso i campi estesi coltivati a barbabietole da zucchero, patate e segale. Laggiù c'era la Fossa, e il terreno era particolarmente scosceso. Nel marzo del '45, proprio nelle ultime settimane di guerra, in quella zona erano cadute alcune bombe. Era lì che i Kressmann avevano la loro proprietà. Era una tenuta imponente, a quel tempo l'unica in aperta campagna. Il padre di Richard aveva una ventina di contadini che lavoravano da lui. Ma la sera del bombardamento erano tutti riuniti in assemblea nell'osteria di Ruhpold, e si erano portati dietro perfino Igor, un forzato russo che allora non capiva neanche una parola di tedesco e, fortunatamente, anche il piccolo Richard, di cinque anni. Alla fattoria restò solo una vecchia serva mezza sorda, per badare alla mucca che doveva figliare durante la notte. E mentre tutti ascoltavano il discorso di Wilhelm Ahlsen, che chiamava la popolazione alla mobilitazione con le ultime forze rimaste, la vecchia lasciò accesa la luce della fattoria nonostante la sirena del coprifuoco. Sabotaggio, tuonò in seguito Ahlsen. Sordità, affermarono altri. Sta di fatto che la fattoria andò distrutta e non fu mai più ricostruita. Il luogo era pieno di mistero. In passato, Gerta Franken aveva raccontato che ogni notte la vecchia serva si aggirava ancora tra le rovine per spegnere la luce. Ma Gerta raccontava anche tante frottole ai suoi tempi. In quel momento, erano altri ad aggirarsi sul posto. Sugli argini della discesa c'erano alcune auto e diversi uomini in abiti civili: uno di loro aveva un megafono in mano. Jakob pensò che fosse un funzionario di polizia, ma sbagliava. Erano vigili del fuoco volontari. Con il vasetto di vetro sottobraccio, Jakob sollevò il binocolo con la mano destra e osservò alcuni uomini che scendevano lungo il precipizio, senza cani al seguito. Per parecchi minuti li osservò scomparire tra cardi e ortiche. Quando si girò verso Ben, si sentiva vecchio e stanco. Un quintale di responsabilità, forse anche di più; Ben non permetteva che lo si pesasse. Non era grasso, Ben, anzi era allenato dalle corse e dall'esercizio all'aria aperta e il suo fisico poteva competere con quello di un lottatore. Mansueto come un agnellino, diceva spesso Trude. E Jakob non aveva mai visto con i propri occhi il figlio fare del male a una creatura qualsiasi. Ma la sua forza era involontariamente distruttiva: lo dimostravano i numerosi pulcini che erano morti tra le sue mani. Jakob lasciò la stanza e la chiuse a chiave dall'esterno, ritornò nella ca-
mera da letto e ripose nel cassettone il vasetto di vetro con il suo contenuto ributtante. Trude era ancora alla finestra e osservava con il viso impietrito la luce abbagliante del sole, come se il demonio in persona le fosse stato dinanzi. «Cercano anche nella Fossa», annunciò Jakob con voce grave. «L'ho chiuso in camera, è meglio che oggi non esca, non è il caso che si faccia vedere da quelli.» Si aspettava che la moglie protestasse, ma Trude si limitò ad annuire. «Aveva ancora un coltello», riprese lui con un leggero tono di riprovazione, tirando fuori il coltellino dalla cintura e gettandolo sul letto. Trude lo guardò appena. «Deve averlo trovato fuori», ribatté. «Non è nostro. Io li ho nascosti bene, i coltelli.» APPRENDISTATO A suo tempo, Jakob era venuto a sapere dei pulcini e aveva dato a Ben una bella dose di legnate. Prima della visita dal professore, Trude aveva assistito a quelle scene con grandi sensi di colpa. Perché era lei che si era portata dietro Ben nel pollaio, lei che non aveva prestato attenzione allo scalino ghiacciato davanti alla porta della cucina... lei che, semplicemente, gli aveva dato la vita. Chiuse gli occhi e, sentendosi un macigno al posto del cuore, comprese che in qualche modo suo figlio doveva imparare a rispettare gli altri esseri viventi. Ma tutto ciò che Ben riuscì a imparare fu solo ad avere paura di Jakob. Non era in grado di collegare il pulcino che aveva stritolato il mattino con le botte di suo padre la sera quando era davanti al piatto pieno con Trude che lo imboccava, o quando era già a letto e Jakob gli strappava di dosso le coperte. E così, non appena vedeva suo padre comparire sulla soglia, Ben cominciava a piagnucolare e si nascondeva sotto il tavolo o in un angolo. Dopo la visita dal professore, molte cose cambiarono per Trude: il suo atteggiamento, le sue opinioni, tutto il suo comportamento. L'arrivo della primavera le fu d'aiuto. Jakob era fuori tutto il giorno e non vedeva quel che succedeva in casa, nel cortile, nelle stalle, nel fienile o in giardino. Quando la sera faceva domande, lei rispondeva: «Oggi Ben è stato proprio bravo. Non ha combinato nulla, è sempre stato seduto qui intorno. Mi sono persino chiesta se non si stia ammalando». Era un bambino selvaggio, quasi incontenibile. Non sapeva neppure che cosa significasse essere ammalato, non aveva neanche un dente cariato no-
nostante tutti i dolciumi che mangiava. Da mattino a sera imperversava in casa o per la fattoria, saltando, gridando, agitando le braccia. Spesso Trude pensava a quanto aveva detto Gerta a proposito della piccola Christa von Burg: saltava e sprizzava gioia da tutti i pori. Forse era di questo che si trattava. E quando si strofinava un pulcino contro il viso forse esprimeva il suo bisogno di tenerezza. Quando morì l'ennesimo pulcino, Trude non buttò il corpicino nella pattumiera dove Jakob l'avrebbe potuto trovare, ma lo bruciò nella stufa della cucina. Poi andò nel fienile, dove c'erano alcuni gattini, ne scelse uno, lo accarezzò e mostrò a Ben dove tenerlo, dietro la nuca o tra le braccia. Visto che desiderava un animaletto, un gatto era più forte e, all'occorrenza, sapeva difendersi. Per due giorni Ben si portò a spasso il gatto dappertutto: tenendolo al collo o in braccio, premeva il viso contro il pelo dell'animale, lo faceva correre per il cortile e lo riprendeva prima che riuscisse a rintanarsi nel fienile. La notte se lo portava persino a letto. A Trude non faceva piacere, ma lo tollerava. Il ragazzo fu graffiato e morsicato, ma sembrò più sorpreso che disturbato dalla cosa. Il terzo giorno Trude lo colse sul fatto, mentre affogava la bestiola nella botte dell'acqua piovana. Ma forse, si disse, voleva fargli il bagno. A Ben piaceva fare il bagno e sguazzare a lungo nella botte quando era piena. Così gli diede un buffetto sulle dita, gli tenne il viso per qualche secondo nell'acqua e, non appena lui cominciò ad agitarsi e a boccheggiare, gli disse: «Vedi, è così che ci si sente, se ti tengono la testa nell'acqua. Non è bello». Ripescò il gattino dalla botte e quando Ben cercò titubante di tendere la mano verso di lui, gli disse: «No, non te lo do più. L'hai ucciso, adesso dobbiamo bruciarlo. E non te ne darò un altro». Non credeva che lui avesse capito tutto. Quando, poco dopo, cercò di aprire lo sportello della stufa e lei gli intimò un severo «via le mani!», temendo che si scottasse le dita, Ben ritirò la mano e fece un paio di giri per il cortile, con aria afflitta. Il giorno dopo, Ben cercò nel fienile un sostituto del gattino affogato. Qualche minuto dopo entrò urlando e gesticolando in cucina con un gatto rabbioso avvinghiato al collo. Per la prima volta fu lui a esclamare: «Via le mani!» Quindi capiva. E Trude imparò a capirlo e a trattare con lui. Non era cattivo, pensava, solo imprevedibile e impulsivo. Non poteva lasciarlo solo neanche per cinque minuti. In qualsiasi momento c'era da aspettarsi qualche atto incon-
sulto. Quando per due minuti lei non sentiva la sua voce in cortile, Ben aveva già agguantato la scure dal ceppo e la roteava, rischiando di darsela su una spalla. Se lei andava un attimo in cantina, lui aveva già aperto il rubinetto del serbatoio di gasolio che Jakob usava per il rifornimento. Un secondo al telefono, e già Ben aveva strappato un sacco di fertilizzante, e Trude riusciva a malapena a evitare che s'ingozzasse del prodotto. Tentò d'indirizzare il suo spirito di emulazione a fini educativi, e decise che non era un gran male se giocava con le bambole. Dopotutto, non sapeva neanche di essere un maschio, e forse sarebbe arrivato il giorno in cui sarebbe stata grata e felice che lui non lo sapesse. Gli diede una delle bambole inutilizzate che stavano sul letto di Anita e, così facendo, riuscì ad avere qualche attimo di pace durante il pomeriggio per stirare un cesto di biancheria o preparare la cena. Trude riusciva a tenere a freno la smania di libertà del figlio solo grazie al portone della fattoria. Tenevano chiusa anche la porta del fienile, sebbene non fosse più necessario. Dopo l'esperienza nefasta con il gatto, Ben non metteva più piede nel fienile. I problemi nascevano solo quando Trude andava in giardino, perché Ben provava un'attrazione fortissima per il Feldweg. Per non farlo allontanare, lei cercò di tenerlo occupato e per ogni cespo d'insalata che estraeva dal terreno o per ogni fagiolo staccato dalla pianta si profondeva in parole di lode. «È molto bello che tu mi aiuti, sono molto contenta. Questo è molto bello.» E quando Ben dissotterrava un verme dalla terra, raccoglieva un bruco dal cavolfiore o una dorifora dalle patate, lei diceva: «Questo vermetto lo devi sotterrare, fa bene al terreno, gli altri animali sono parassiti e li puoi schiacciare». Lui invece se li infilava tutti in tasca e un attimo dopo erano già schiacciati. Più volte le sfuggì, correndo alla ricerca d'insetti e di parole di lode. In qualche occasione, il bambino perse completamente la testa e si precipitò sul Feldweg prima in una direzione e poi in quella opposta. Quando scappò la quinta volta e Trude lo ritrovò nel prato comunale, dove in seguito sarebbe stata costruita la villetta di Heinz Lukka, decise che l'avrebbe lasciato libero di girovagare un po'. Il prato era a mezzo chilometro di distanza dal loro giardino e lì Ben non poteva fare nulla di male: cercava solo insetti e, quando ne avesse avuto un buon numero, sarebbe tornato spontaneamente per portarle il bottino.
La loro vita ritornò lentamente a una certa normalità e Trude diventò un po' più imprudente, ma non Sarebbe corretto fargliene una colpa, perché aveva anche le due figlie da tenere a bada. Anita sceglieva con estrema cura le persone da frequentare e quelle da evitare, e Ben era certamente tra gli esclusi. Se si avvicinava troppo, lei gridava e si faceva venire un attacco isterico, e lo picchiava persino, pur di tenerlo lontano. Bärbel si accaniva meno, a quel tempo, e in alcuni casi era perfino disposta a badare a lui per una mezz'oretta per permettere a Trude di sbrigare qualche commissione. Mandare Bärbel ad acquistare un chilo di zucchero o una confezione di latte condensato causava più danno che aiuto. Una volta la bambina dimenticò il resto nel negozio, la volta dopo perse una moneta da cinque marchi per strada, un'altra volta ancora, invece che con lo zucchero per le gelatine, di cui Trude aveva bisogno per fare la gelatina di more, tornò a casa con quello a velo. D'altro canto, lavare e vestire Ben per portarselo dietro significava perdere solo del tempo, e quando Trude era di fretta preferiva correre il rischio di lasciarlo per un po' con la sorella. Un mercoledì pomeriggio del settembre '79, Trude dovette recarsi al piccolo supermercato della Kirchstrasse. Bärbel stava ancora facendo i compiti, mentre Ben, bagnato fino all'osso, giocava con la bambola nella botte in cortile. La madre disse alla figlia di badargli per pochi minuti e poi inforcò la bicicletta. Poco dopo, anche Anita uscì dalla fattoria, ma non chiuse bene il portone. Mentre Trude aspettava con impazienza, perché la cassiera stava chiacchierando con una nuova cliente appena arrivata in paese e che abitava in una casa in affitto sul Lerchenweg, e pareva non avere nessuna intenzione di fare il conto a Trude, ecco irrompere Bärbel che continuava a scusarsi con la madre, giurando di aver perso di vista il cortile solo per un attimo e di aver già cercato il fratello, sul Feldweg e nel prato comunale. Mentre la cliente raccontava alla cassiera che aveva affittato un appartamento al pianterreno e che si sarebbe tenuta alla larga dai vicini, Trude lasciò il negozio senza la spesa. Cassiera e cliente si scambiarono uno sguardo piccato e la prima si premurò di raccontarle di Ben; mentre l'altra, di rimando, le raccontò di un caso simile di cui era a conoscenza. La famiglia Mohn aveva una figlia, Ursula, una bella bambina di otto o nove anni che era così insistente da far perdere la pazienza a un santo. Sorrideva a chiunque incontrasse nell'ingresso del condominio e pretendeva
che le si facessero dei complimenti; in caso contrario diventava manesca, aggressiva. Metteva le mani addosso alle persone in continuazione, e più di una volta aveva impiastricciato loro gli abiti con le sue manine appiccicose. Il proprietario della casa, Toni von Burg, cercava di sdrammatizzare. Ma ciò non serviva certamente a placare gli animi di chi doveva subire la situazione. Nel frattempo, Trude, dopo aver rispedito Bärbel a casa nella speranza che Ben tornasse da solo, pedalava a tutta velocità attraverso il paese. Aveva appena superato il caffè delle sorelle Rüttgers, quando udì chiamare il suo nome; dal marciapiede, una delle due donne le faceva cenno di tornare indietro. Le sorelle Rüttgers, sulla cinquantina e nubili entrambe, gestivano il caffè e la pasticceria annessa con l'aiuto della cugina, Sibylle Fassbender, che era panettiera e pasticcera di professione. Ben era seduto nel retro del negozio e mangiava una fetta di torta; mentre lo imboccava, Sibylle spiegò a Trude che sua cugina le aveva fatto notare Ben che trotterellava spaesato sul marciapiede, proprio di fronte alla vetrina della pasticceria, e lei, con prontezza di spirito, si era precipitata fuori, lo aveva preso per mano, lo aveva portato al forno e si era presa cura di lui. Avevano anche telefonato a casa, aggiunse Sibylle, ma non aveva risposto nessuno. Fino ad allora, solo una volta Trude aveva osato mettere piede nel caffè Rüttgers con Jakob e Ben, e solo dopo che Antonia Lässler li aveva convinti tenendo loro una predica sul falso pudore. Alla fine però Jakob si era arrabbiato perché Ben si era fatto notare da tutti rompendo il suo piatto e sporcandosi la camicia con la panna. E poi aveva strappato la forchetta a Trude perché voleva mangiare da solo e aveva rovesciato il piccolo vaso di garofani. Quella circostanza si rivelò una benedizione, perché altrimenti nessuno nella pasticceria avrebbe riconosciuto il bambino che strisciava furtivamente davanti alla vetrina. La sera Trude seppe da Jakob che la simpatia di cui Ben era stato fatto segno era dovuta alla piccola Christa von Burg, perché Sibylle aveva badato a lei quand'era giovane, e alla perdita di un fratello delle sorelle Rüttgers, caduto sul fronte orientale. Non era una gran mente, aggiunse Jakob, un sognatore, ma buono lo stesso come carne da macello. Poi Jakob ridacchiò e, per la prima volta, espresse ammirazione per la memoria di Ben. «In fondo, siamo andati in quel caffè con Ben solo una volta e ha ricordato la strada. Però credo che nostro figlio ricordi bene le
persone che sono gentili con lui. Se poi gli danno anche qualche dolciume...» Trude non pensava che Ben fosse capitato là ricordando le gentilezze o le torte: semplicemente aveva vagato alla ricerca di sua madre e, per puro caso, era arrivato al caffè. Ma non ribatté. Era felice che ci fossero persone che avevano simpatia per suo figlio. E non erano poche. Regolarmente, mattino e sera, l'avvocato Lukka portava a spasso il suo pastore tedesco sul Feldweg. E regolarmente, se vedeva Ben sul prato o in giardino, si fermava e lo apostrofava come avrebbe fatto con chiunque altro, gentile e benevolo. Lo chiamava «amico mio» e gli allungava sempre un dolcetto. La vecchia Gerta, che osservava spesso Ben dalla sua finestra e che passava dal giardino di Trude mentre lei era presa dalle sue occupazioni, una volta le disse: «Se lo paragono a quel villano che è il figlio di Richard e Thea o a quell'animale di Bruno e della povera Renate, allora il tuo Ben vale tanto oro quanto pesa». Anche un'altra vicina di Trude, Hilde Petzhold, pensava che, nonostante tutto, lui fosse un bravo ragazzo e che avesse buon cuore. E aggiunse che, se Trude avesse avuto bisogno di andare dal medico a Lohberg, lei sarebbe stata disposta a badare a lui per un paio d'ore. Hilde non aveva figli e gestiva con suo marito Otto un'azienda di dimensioni più ridotte. Possedevano, infatti, un terreno di soli cinquanta iugeri. Talvolta suo marito diceva di lei che non valeva un fico secco, e quando alzava un po' il gomito si era già lasciato scappare che, se avesse saputo prima... Dopo la nascita di Ben, Hilde aveva acceso il maggior numero di candele davanti all'altare di Maria Ausiliatrice. Sibylle Fassbender e le sorelle Rüttgers si lasciarono andare a più di un gesto di tenerezza nei confronti di Ben quando Trude si arrischiò a tornare un'altra volta al caffè. Sibylle se lo portò al forno dove non aveva importanza come avrebbe mangiato la sua fetta di torta o se avesse sporcato il tavolo o la camicia. Antonia Lässler andava spesso a trovarla il sabato pomeriggio, con i figli e la piccola Annette che aveva tre anni, in modo che i bambini giocassero a pallone con Ben, perché riteneva che la cosa migliore per un bambino fosse poter frequentare suoi coetanei. Ma Ben non sapeva che farsene di un pallone, di una bicicletta o dei pattini a rotelle. Gli piaceva la piccola Annette, e Antonia non aveva nulla in contrario se lui si occupava di lei. Ogni tanto, Trude dava un'occhiata fuori della finestra della cucina e ve-
deva Ben sdraiato per terra, con Annette a cavalcioni, che gli faceva il solletico sul petto, e ridevano entrambi. Poi lo vedeva sollevare Annette per aria e, non appena la bambina cominciava a sbattere le gambe, la rimetteva a terra. Giochi innocenti. Trude era sempre più convinta che Ben, pur essendo imprevedibile, fosse innocuo. Quando, nel 1980, Renate Kleu arrivò alla fattoria per mostrarle il suo secondogenito Heiko di quattro settimane, Trude avrebbe ormai messo la mano sul fuoco per Ben, sempre più convinta che il bambino le ubbidisse in tutto e per tutto. Ben fissò ammirato il neonato e lei si accorse che suo figlio muoveva nervosamente le mani. Ma fu sufficiente un «via le mani!» perché Ben si ricomponesse, annuendo con gravità. Renate le chiese come facesse a farsi ubbidire in tutto e per tutto. «Vorrei avere la stessa tua fortuna col mio Dieter. Pensa, ieri ha picchiato il piccolo.» «Ben non lo farebbe mai», disse Trude. «Certo, gli piacerebbe accarezzare il tuo piccino, ma, con le mani sporche che ha, non mi sembra proprio il caso.» Trude si sentiva a disagio solo quando arrivava Thea Kressmann con Albert. Questi correva sempre nei pressi del fienile come una trottola impazzita, e Trude non era in grado di controllare la situazione dalla finestra; sentiva solo la voce del bambino che diceva: «Dai, Ben, fallo». E Ben imitava ogni sciocchezza che Albert gli insegnava: saltava su di una sola gamba fino a crollare lungo disteso nel letame, mentre Albert rideva a crepapelle; oppure si schiacciava le dita con una pietra mentre il figlio di Thea aveva fatto lo stesso badando bene a non colpirsi; o ancora sbatteva la testa contro la porta del fienile se Albert diceva: «Ora giochiamo a fare i caproni!» Ogni tanto Thea usciva di casa per controllare che suo figlio stesse bene, perché, nonostante tutto, era di una testa più piccolo e notevolmente più mingherlino rispetto a Ben, anche se Trude si ritrovava a pensare che era di Ben che ci si sarebbe dovuti preoccupare. Non era felice quando suo figlio trascorreva il suo tempo con Albert. Piuttosto preferiva portarlo per un'ora da Hilde Petzhold, anche se lei, per prima cosa, gli toglieva la bambola, perché riteneva che un maschio grande e grosso come lui non dovesse coccolare una bambola, e ogni volta gli metteva in grembo la gatta soriana. Trude le aveva spiegato più volte che Ben, dopo l'esperienza vissuta nel
fienile, aveva una paura folle dei gatti, ma Hilde liquidava ogni spiegazione e preghiera sbrigativamente: «Non gli farà nulla, e anche lui lo sa. Nevvero, Ben? È una bella gatta, bella e cara». Ben sedeva immobile sul divano, lanciando occhiate di desiderio alla bambola e di sospetto alla gatta che, accoccolataglisi in grembo, lo guardava. Quando poi Hilde pretendeva che lui accarezzasse la gatta, Ben appoggiava la mano sul collo dell'animale in un modo che faceva temere a Trude il peggio. Fu nel maggio del 1980, quando le sue più intime paure divennero realtà, che Trude si rese conto in modo drammatico che ogni negligenza veniva punita. Tutto successe un venerdì. Sulla piazza del Mercato si stavano montando giostre e chioschi. In ogni casa si facevano le pulizie delle grandi occasioni, mentre si finiva di stirare le bandiere lavate di fresco. Quella mattina, Trude si recò nel pollaio per cercare una vecchia gallina da sacrificare per la minestra del giorno festivo. Come sempre Ben le trotterellava accanto e lei, improvvisamente, sentì il bisogno di fare qualcosa che gli facesse piacere. A Ben piaceva correre dietro agli animaletti e Jakob gli aveva inculcato a suon di botte il principio che non gli era permesso catturare tutto ciò che era più grande di un verme o di un insetto. Così, essendo un po' stanca, e vedendolo così agile e pieno d'iniziativa, Trude gli chiese: «Mi vuoi aiutare?» Gli indicò la gallina destinata alla cena e, quando lui gliela portò, lo lodò apertamente. Poi, sotto lo sguardo ammirato del figlio, le tirò il collo. Non appena l'animale si accasciò tra le sue mani, Ben rientrò nella stalla, acchiappò una giovane ovaiola, le tirò il collo e la pose in grembo a sua madre con occhi carichi di aspettativa. Se in quel preciso istante Trude avesse deciso di punire suo figlio, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma come poteva picchiarlo, se proprio lei aveva voluto dargli una gioia? Spennò le due galline e le sventrò, sconvolta dalla propria leggerezza e dalla velocità di Ben. Forse fu l'espressione del suo viso a confondere Ben. Piegando di lato il capo, le chiese due volte: «Ben fatto?» e, poiché Trude non rispondeva, lui chiese, a disagio: «Via le mani?», perché a quel tempo sapeva solo rendersi comprensibile con le poche frasi che differenziavano per lui il bene dal male, e ciò che era permesso da ciò che non lo era. «Sì, sì», disse Trude brusca. «Via le mani! Sei stato cattivo. Io ti avevo detto di prendere, solo prendere, non uccidere. Solo io posso uccidere. O
tutt'al più il papà e qualcun altro. Ricordalo. Se lo farai ancora, le prenderai, ma quelle forti, con il bastone.» Il pomeriggio, Ben giocò in cortile, mentre Trude puliva le finestre. Anita e Bärbel erano uscite di casa poco dopo mezzogiorno, e ogni due o tre minuti lei posava a terra secchio e straccio e andava alla porta della cucina a controllare quello che faceva il figlio. Lo vide armeggiare intorno al chiavistello del pollaio. «Via le mani!» gridò. Lui la fissò con lo sguardo di chi è stato colto sul fatto e trotterellò verso la parte opposta del cortile. Un'altra volta lo vide vicino alla botte dell'acqua e pensò che stesse inventando un nuovo gioco, ma, guardando in cortile dieci minuti più tardi, di Ben non c'era più l'ombra. Con un terribile presentimento, si precipitò verso il pollaio. Temeva un massacro di galline, ma la porta era chiusa, e lo stesso valeva per il portone della fattoria. Invece era spalancata la porta del fienile cui Trude non aveva pensato, perché Ben era terrorizzato dai gatti. A quel tempo, però, erano tante le cose che lei non poteva immaginare. Non immaginava quanta memoria avesse Ben, né quale inventiva avesse Albert. Perché il figlio di Thea aveva scoperto che i gatti rifuggono anche da una sola goccia d'acqua e aveva trasmesso questa conoscenza a Ben, proprio come gli aveva insegnato a riempire nella botte la sua vecchia pistola ad acqua (che gli aveva regalato dopo che sua madre ne aveva comprata a lui una nuova), pistola che di solito Ben utilizzava più come strumento per dissetarsi, anche se talvolta sparacchiava qua e là. Mentre l'ignara Trude si dedicava alle finestre della stanza da letto, pensando che suo figlio stesse giocando nel serbatoio dell'acqua, Ben probabilmente aveva già caricato la pistola e poi si era rintanato nel fienile, con il cuore in gola in attesa del nemico. Vedendo che non accadeva nulla, s'incamminò fuori della fattoria. Trude riteneva di conoscere la sua meta, e cioè il prato comunale. Ma non lo trovò. Allora si diresse nella direzione opposta, sul retro della proprietà dei Lässler, dove c'erano solo campi aperti, ma di suo figlio neppure l'ombra; né si trovava da Antonia. Trude non voleva andare fino in paese per non suscitare troppo clamore, così tornò indietro di corsa e chiamò la pasticceria Rüttgers al telefono, ma nessuno aveva notato il ragazzo. Ormai erano passate le quattro, e Ben era assente da più di un'ora. Pure le chiamate a Illa e a Renate furono infruttuose, anche se le due amiche le assicurarono che avrebbero tenuto gli occhi ben aperti, senza comunque raccontare ai rispettivi mariti della scappa-
tella di Ben. Trude non voleva telefonare a Thea Kressmann, perché certamente sabato tutto il paese sarebbe stato al corrente del fatto, e si sarebbe saputo che lei lasciava solo suo figlio senza tenerlo d'occhio; e poi la nuova proprietà dei Kressmann si trovava a più di un chilometro di distanza dal limite opposto del paese. Fuori di sé dall'ansia, Trude correva dal portone della proprietà al giardino, poi sulla strada e nei campi, e mentre chiamava suo figlio ad alta voce, richiamò l'attenzione della vecchia Gerta. Per un po', Hilde Petzhold le fece compagnia in giardino, poi dovette accomiatarsi per andare alla ricerca della sua gatta gravida che si era dileguata anche lei, sfruttando un attimo di disattenzione della padrona. «So come succede», disse Hilde. «Anch'io sono sempre in giro, e non sai quante volte ho ritrovato le mie gatte investite da un'auto, o azzannate da un cane; me le hanno anche avvelenate, o prese a fucilate. E se mi rivolgo alla polizia, mi ridono in faccia. Forse dovresti chiamare il comando. Scusa, ma che cosa racconterai a Jakob, se, quando tornerà a casa, Ben non ci sarà ancora?» Trude non sapeva certo cosa avrebbe detto a suo marito. Sapeva solo che non voleva rivolgersi alla polizia. Ricordava l'osservazione di Thea quando Ben era andato alla pasticceria Rüttgers. Ringrazia il cielo che le cose sono andate lisce. Avrebbe potuto incontrare qualcuno come Erich Jensen, mentre era in giro da solo. Posso ben immaginare quel che ti avrebbe raccontato Erich... Anche Trude lo sapeva. Con quel suo tono amichevole e condiscendente, che trasmetteva al prossimo un sentimento di partecipazione, Erich avrebbe sicuramente detto: «Trude, so che è faticoso per una persona sola occuparsi di questo ragazzo. Hai anche altro di cui occuparti. La cosa migliore da fare è metterlo in un istituto. Per te, sarebbe un gran sollievo». C'era questo problema. E poi, c'era in lei una sorta di istinto, un sesto senso provocato dall'episodio della gallina, al mattino. In lei erano riaffiorate tutte le paure che negli ultimi mesi aveva giudicato esagerate. I timori ormai quasi dimenticati che Ben commettesse atti che non potevano essere semplicemente «bruciati» in una stufa. Poco dopo le cinque, Ben riapparve. Dove fosse stato, Trude non lo seppe mai. Era sporco e completamente ricoperto di sangue. Teneva la pistola ad acqua in una mano, mentre nell'altra stringeva un brandello di carne che Trude riconobbe perché ricoperto di pelo tigrato di gatto.
All'inizio vide solo la carne e il sangue, e un conato improvviso le salì in gola; si precipitò fuori e vomitò accanto alla porta della cucina. Era piena di rimorsi di coscienza per aver fatto assistere il figlio all'uccisione della gallina, perché forse in quel modo gli aveva fornito l'idea di eliminare un animale che lo spaventava. Mentre lei vomitava e annaspava cercando di respirare, Ben depose il brandello di carne sul tavolo della cucina, vuotò le sue tasche del contenuto che depose accanto al resto. Quando Trude alzò gli occhi su quell'ammasso sanguinolento in mezzo al tavolo vide due piccoli feti di gatto e un coltello a serramanico di madreperla imbrattato di sangue. Ben seguiva con occhi ansiosi la madre e, quando lei rientrò in cucina vacillando, esclamò con tono deciso: «Via le mani!» e poi aggiunse, con tono interrogativo: «Ben fatto?» Trude scosse il capo più volte, senza riuscire a fermarsi. «No», disse poi con voce sorda e un poco aspra. «No, non hai fatto bene. Sei stato molto cattivo.» Non capì come accadde, ma proprio lei, che si era ripromessa di non batterlo per nessun motivo, improvvisamente lo afferrò per un braccio, se lo mise sulle ginocchia e lo sculacciò come neanche Jakob aveva mai fatto. «Guai a te se ci riprovi!» gridava. «Guai a te se ci riprovi!» Smise di batterlo solo quando Ben scivolò dalle sue ginocchia urlando e lamentandosi e si accasciò a terra come una larva. Allora lo lasciò andare e si mise a pulire il tavolo; poi si dedicò a Ben, pulendolo e strofinandolo sino a farsi male. Lo rialzò da terra e lo trascinò su per le scale fino alla stanza da bagno. Solo quando lo spogliò, si accorse che il sangue non proveniva solo dalla gatta uccisa. Le mani e gli avambracci di Ben erano cosparsi di graffi, la camicia e i pantaloni erano strappati in più punti e, se Trude non avesse visto i brandelli di carne e le interiora, avrebbe pensato che Ben si era rotolato nei cespugli di more di Gerta Franken. La schiena era attraversata dalle scapole in giù da una lunga striatura rossa, come se fosse stato colpito da una frusta. Immerse Ben nella vasca da bagno e gli disinfettò tutte le ferite con la tintura di iodio, poi bruciò la camicia e i pantaloni nella stufa, e cercò di farsi una ragione: dov'era andato con la gatta di Hilde, perché aveva ridotto l'animale in quello stato e, per tutti i santi del paradiso, dote aveva trovato quel coltello a serramanico? Non era un comune coltello da cucina, era un oggetto di pregio. Ma non riuscì a tirargli fuori nulla. A ogni sua domanda,
Ben rispondeva con voce tremante e piagnucolosa: «Via le mani». Quando Jakob e le figlie arrivarono a casa la sera, e il marito chiese spiegazioni per le mani e le braccia graffiate, Trude dichiarò: «È andato nel giardino di Gerta e si è impigliato nei cespugli di more. Credo che gli servirà di lezione». Jakob credette alla moglie, ma lei si struggeva dalla paura che qualcuno potesse aver visto Ben. Il livido sulla schiena parlava da sé; lei non lo aveva picchiato così in alto, e aveva usato solo le mani nude. 20 AGOSTO 1995 Domenica, nel primo pomeriggio, il Boschetto e la Fossa brulicavano di gente. Le ricerche avevano destato scalpore in paese, e molti curiosi ne approfittarono per fare una bella passeggiata con la famiglia. Nessuno però osava avvicinarsi più di tanto, e poiché da cinquecento metri di distanza non c'era molto da vedere, alla fine tutti batterono in ritirata e si ritrovarono al caffè Rüttgers per discutere del fatto. Bruno e Renate Kleu sedevano a uno dei tavoli con il figlio minore. Il quindicenne Heiko si pavoneggiava citando per l'ennesima volta la testimonianza del fratello, quasi fosse stato lui il promotore delle ricerche della polizia, cosa peraltro vera, ma questo si seppe solo in seguito. Quando poi Bruno si lanciò a tessere lodi sperticate del proprio figlio, qualche avventore non riuscì a fare a meno di chiedergli se il supertestimone Dieter Kleu non avesse tirato in ballo i due giovani per sviare in qualche modo l'attenzione degli inquirenti dalla sua persona. Tutti sapevano, infatti, che Dieter aveva un debole per Marlene Jensen e non era certo l'unico, perché l'avvenente ragazza aveva fatto battere il cuore a parecchi giovani del paese. Tuttavia, mentre tutti gli altri si limitavano a lanciare sguardi languidi o a fare qualche battuta allusiva, come Albert Kressmann che aveva ripetuto più volte che avrebbe giocato volentieri a nascondino con la cugina di Annette, Dieter aveva dimostrato più di una volta di voler seguire le orme del padre. Solo tre settimane prima, Maria Jensen si era lamentata con Thea Kressmann, affermando che, se Dieter avesse continuato a comportarsi così con sua figlia, avrebbe preso da parte Renate Kleu per dirle che era ora che il suo maggiore la piantasse di importunare le ragazze che non provavano il minimo interesse per lui. I trascorsi giovanili di Bruno erano ancora vividamente impressi nella
memoria di tutti. Si sapeva che Bruno aveva conquistato la sua attuale moglie solo con una dimostrazione di forza bruta, visto che la ragazza non sapeva decidersi. Come un antico germano, aveva preso a pugni un giovanotto che era innamorato di Renate e che ogni domenica le portava una rosa davanti alla gelateria di Lohberg. Ma dopo avere ben strapazzato il rivale, il fervore romantico per Renate si esaurì improvvisamente com'era nato. Questo, in fondo, era stato un episodio tra i meno gravi. Ce n'erano altri, e molto più seri. Tutti ricordavano che Bruno in gioventù era stato pazzo d'amore per la madre di Marlene, tanto da non indietreggiare nemmeno dinanzi alla forza bruta, e non era servito a nulla che Paul Lässler avesse preso a cuore la faccenda, come aveva raccontato nel settembre del '69 quando Jakob Schlösser aveva estratto il primo premio per sua moglie Trude. Nell'ottobre del '69, dopo che Bruno aveva fatto di nuovo a pugni, Paul permise che sua sorella frequentasse Erich Jensen e questo irritò Bruno, tanto che non perdeva occasione di importunare Maria. La prima volta Paul si limitò ad avvertirlo, ma la seconda passò decisamente alle maniere forti, e Bruno se ne andò in giro con un occhio pesto e un labbro gonfio per un bel po' di tempo e giurò in cuor suo di vendicarsi. Una sera di ottobre del '69 Maria fu aggredita e rischiò di essere violentata. La versione ufficiale fu che una persona con il volto mascherato l'aveva afferrata e trascinata dietro un cespuglio; fortunatamente erano nel giardino di Gerta Franken, e l'arrivo di Heinz Lukka, che stava passando di lì con il suo cane pastore, aveva evitato il peggio. Il malfattore era riuscito a fuggire, ma nessuno aveva dubbi sulla sua identità. Ci furono chiacchiere, allora, in paese; c'era chi diceva che Lukka era arrivato troppo tardi, quando il peggio era già successo e lui l'aveva solo interrotto. Per la vergogna Maria aveva affermato di non aver riconosciuto l'aggressore, e il vecchio Kleu, aiutandosi con una somma cospicua, aveva convinto Heinz Lukka a fare altrettanto. Le voci ricominciarono a circolare anche ora. Bruno Kleu aveva fatto in modo che il figlio si tenesse alla larga dal paese fino a che non fossero spariti i lividi in viso, ma c'era chi li aveva notati, e poiché nessuno sapeva come se li fosse procurati, ognuno faceva congetture in proposito. Ormai nessuno pensava più che Marlene Jensen fosse ancora viva. Solo Thea insisteva nell'affermare che la giovane fosse scappata per far passare un paio di notti insonni ai genitori. Ma neanche suo marito le dava più ascolto. Richard interruppe bruscamente la moglie dicendole di non dire stupidaggini. Non si possono non sospettare due sconosciuti solo perché
l'unico testimone non è del tutto attendibile. Così dicendo, e in tutta ingenuità, Richard Kressmann ottenne una reazione contraria a quella voluta. Il termine attendibile fu la classica goccia che fa traboccare il vaso, e i due uomini sarebbero certamente venuti alle mani, se Renate non avesse pagato caffè e torta in tutta fretta, per poi afferrare il braccio di Bruno e spingerlo verso l'uscita. Bruno ribolliva dalla rabbia. E quando Renate gli chiese per strada: «E tu, dov'eri lo scorso sabato?» l'ira lo travolse e alcuni avventori lo videro alzare la mano e colpire sua moglie in viso; videro anche Renate scoppiare a piangere e Heiko che mostrava i pugni al padre con fare minaccioso. Poi Heiko prese la madre per un braccio e si allontanarono insieme. Bruno restò un attimo sul posto, poi a lunghi passi si avviò nella direzione opposta. Nello stesso istante Ben era recluso nella sua camera. All'inizio, dopo che suo padre aveva abbandonato la stanza con i due recipienti, era rimasto tranquillo e aveva riposato per alcune ore. Poi Trude era venuta a prenderlo per il pranzo. Quando il ragazzo fece per uscire, lei lo fermò: «Oggi no, Ben», gli disse. Se avesse voluto, Ben si sarebbe potuto liberare dalla sua presa. Ma non avrebbe mai potuto fare del male a sua madre, sarebbe stato come ferire la propria carne. Non si morde la mano che dà nutrimento. Ciò che suo padre riteneva amore era semplicemente istinto, l'istinto di sopravvivenza. Se ne sarebbe potuto andare quando la madre gli lasciò il braccio. Già altre volte Trude gli aveva detto: «Non oggi, Ben», oppure: «Devi restare qui con me», e lui se n'era andato lo stesso. Ma quel giorno c'era suo padre, e Ben portava rispetto per le sue mani, anche perché non si era reso conto che il rapporto di forza tra loro era progressivamente passato a suo vantaggio. Così, seppur controvoglia, si lasciò riaccompagnare in camera da sua madre, borbottando qualcosa di incomprensibile a bassa voce. Jakob, seduto in soggiorno, lo sentiva andare avanti e indietro al piano di sopra, dalla finestra alla porta, dalla porta alla finestra, come un leone in gabbia. Ogni tanto picchiava sul legno e abbassava la maniglia dicendo: «Via le mani!» Trude immaginava quel che gli passava per la testa: Ben temeva che il suo mondo fosse distrutto da tutte quelle persone che perlustravano e calpestavano il suo territorio. Trude gli portò un gelato di vaniglia, poi, più tardi, una barretta di cioccolato, e cercò di tranquillizzarlo: «Là fuori c'è la polizia. Certo non romperanno nulla, stanno solo guardando per bene.
Quando se ne saranno andati, allora potrai uscire. Siediti e gioca un po'. Dov'è la tua bambola?» Trude continuò a passare dalla finestra della stanza da letto alla camera di Ben, stando bene attenta a chiudere a chiave quando lo lasciava solo. A tarda sera, quando i curiosi, la polizia e i vigili del fuoco ebbero levato le tende, Jakob accompagnò Ben a fare una bella passeggiata. Amava passeggiare nei campi, soprattutto se Ben lo accompagnava. Jakob cominciò a parlare quando erano ancora in vista della fattoria. Il figlio era l'unica persona con cui potesse conversare di tutto. Ben non rispondeva, non dava consigli, non faceva proposte assurde: ascoltava con espressione seria tutto quello che il padre gli diceva, come quando gli confessava che la coscienza gli rimordeva per averlo chiuso a chiave in camera, e tante altre cose. «Andiamo un po' a vedere che hanno combinato», esordì Jakob, anche se la cosa non lo riguardava più. Non erano più le sue barbabietole, e neanche il suo grano. Era tutto finito da qualche anno. La cooperativa di Paul Lässler e Bruno Kleu aveva funzionato bene per parecchio tempo, ma poi entrambi avevano puntato su colture specializzate, e Jakob aveva rinunciato alla sua attività. Non aveva figli maschi. Solo Ben, il gigante, con la forza di dieci persone, occhi di falco, memoria di elefante e cervello di gallina. Nel corso degli anni si erano resi conto che forse la diagnosi del professore era stata un po' azzardata: la sua debolezza mentale non era poi così grave. Ben aveva appreso qualcosa, anche se non era nulla di utile. Forse, con il tempo avrebbe imparato ancora qualcosa, se Trude si fosse finalmente decisa a farlo ricoverare in un istituto dove sarebbe stato assistito adeguatamente. Tuttavia, affrontare l'argomento significava angosciare Trude e quindi non se ne fece nulla. Avevano tenuto solo le galline e due maiali, di cui si occupava Trude, come faceva per l'orto che aveva creato da sola. Avevano dato in affitto a Bruno Kleu tutto il loro fondo, mentre Bruno e Paul Lässler condividevano il nuovo granaio. Nel terreno che si trovava tra le due proprietà Paul ammucchiava la paglia, mentre Bruno ci teneva il suo trattore, perché le barbabietole si trovavano vicino alla Fossa ed era più pratico lasciarlo lì invece di fare un lungo giro quando lo usava. Non era possibile vivere solo dell'affitto della terra, ma, nonostante l'età, Jakob era stato abbastanza fortunato. Grazie alle sue conoscenze, Heinz Lukka era riuscito a procurargli un lavoro. Da alcuni anni, Jakob era ma-
gazziniere da Wilmrod. Da mattina a sera stava alla guida del suo carrello elevatore nell'enorme magazzino di materiali edili di Lohberg, spostava casse di viti e tasselli, water, vasche da bagno e piatti delle docce, caricando gli scaffali del magazzino quando nessuno aveva tempo per farlo. E talvolta, in mezzo a quegli scaffali, aveva l'impressione di soffocare: allora alzava gli occhi verso il soffitto altissimo, rimpiangendo il suo cielo azzurro e comprendendo quel suo figlio che non sapeva resistere negli ambienti chiusi. Quell'attaccamento per la terra era nel loro sangue, nel patrimonio genetico tramandato di generazione in generazione, che la tecnica aveva soffocato. In Ben, quell'istinto primordiale era ripartito da zero, manifestandosi all'ennesima potenza. Ben provava un terrore cieco per le macchine, mentre con la sua pala riusciva a fare piccole meraviglie e, quando scavava, non rovinava nulla. Rispettava ogni filo d'erba che doveva spostare alla ricerca dei suoi piccoli tesori, le zolle che sollevava venivano rimesse accuratamente al proprio posto, tanto che pareva che nulla fosse stato mai spostato. Jakob non era felice dell'attrazione di Ben per i vagabondaggi notturni, ma purtroppo da metà luglio ormai suo figlio se ne andava in giro ogni notte. Ogni tanto in paese si chiacchierava, come era accaduto a giugno, quando aveva sorpreso gli occupanti della Mercedes di Albert Kressmann e aveva accarezzato il seno di Annette Lässler. L'estate prima, Bruno Kleu aveva accennato al fatto che Ben l'aveva spaventato a morte apparendo improvvisamente accanto alla sua auto senza fare rumore. Jakob si era chiesto che cosa ci facesse Bruno in giro a quell'ora: di certo non stava controllando le sue barbabietole, e poi non era un'impresa facile spaventare a morte Bruno. Probabilmente a spaventarsi era stata la compagna di Bruno e, se non era una donna che poteva permettersi di portarlo nel proprio letto per divertirsi un po', ma era costretta ad andare al Boschetto, doveva esserci un motivo valido, un marito magari. Jakob non voleva erigersi a giudice, ma pensava che uno spavento in quel frangente era stato un'ottima lezione. Tuttavia si rendeva conto che alcuni avevano paura di suo figlio. Che Ben fosse un bambinone inoffensivo, come affermava costantemente sua moglie, non era evidente per chiunque, e vedersi improvvisamente apparire davanti un ragazzone alto due metri, con due spalle larghe come un armadio, due mani da scaricatore, un binocolo davanti agli occhi e una pala a tracolla, magari mentre si stava seduti in auto o sdraiati su una coperta al
margine del bosco, non contribuiva certo a farlo considerare un essere innocuo e dolce. Ci si ritrovava con il cuore in gola. Forse, chi lo conosceva bene, come Albert Kressmann o Bruno Kleu e pochi altri, sapeva che pesci pigliare, ma gli estranei... «Dobbiamo parlare, tu e io», esordì Jakob, mentre si avvicinavano tranquillamente al Boschetto. «Non ho nulla in contrario se te ne vai in giro, ma di notte dovresti restartene a casa fino a che questa storia non sarà chiarita. Capisci?» Ben annuì con fare importante. Reagiva al tono riflessivo di suo padre, quello che Jakob usava per confidargli preoccupazioni e pensieri intimi. «Allora siamo d'accordo. Non ci vorrà molto, se troveranno la figlia di Erich o se la ragazza si farà viva da sola...» S'interruppe e sospirò. «Se devo essere sincero, ho i miei bravi dubbi in proposito. Se non fosse accaduto nulla di grave, i due ragazzi si sarebbero fatti vivi per confermare che le avevano dato un passaggio e spiegare dove l'avevano lasciata.» Ben annuì ancora con espressione seria, poi superò nervosamente il padre di qualche passo. Jakob s'immerse nuovamente nei suoi pensieri. Era preoccupato per Trude, di cui conosceva ogni gesto involontario, impercettibile, e quel silenzio unito all'espressione chiusa che aveva mostrato quel giorno. Per tutti quei lunghi anni Trude aveva temuto che dall'alto arrivasse un ordine che imponesse loro di rinchiudere Ben in un istituto: ora le sembrava quasi d'impazzire al pensiero che suo figlio era in giro di notte e che qualcuno lo avrebbe potuto vedere e che addirittura la polizia stava perlustrando il territorio di Ben con l'aiuto dei cani. Jakob era convinto che le ricerche della polizia non avessero un significato speciale, si trattava solo di ordinaria amministrazione. Erano solo cambiati i tempi: in passato, le ragazze sparivano senza che nessuno le reclamasse e spesso erano scomparsi nel nulla anche individui come Ben. Jakob guardò le spalle ampie del figlio, poi abbassò il capo, assorto nei suoi pensieri. Ben si fermò, avvicinò il binocolo al viso e scrutò verso il Boschetto aspettando che il padre lo raggiungesse. «Qui si può cercare per giorni e giorni», disse Jakob. «Quel che sparisce in questa zona non si recupera tanto facilmente. Bisogna proprio scavare nel punto giusto.» Tese il braccio nella direzione in cui stava guardando Ben. «Là dietro io e Paul abbiamo trovato qualcosa.» Allora Jakob raccontò al figlio di Edith Stern, fidanzata con il figlio dell'oste Werner Ruhpold da prima della guerra, e che secondo alcuni era
sfuggita ai nazisti; forse era andata così, ma la ragazza non ne era uscita viva, e Jakob lo sapeva per certo, anche se non ne aveva mai fatto parola con anima viva. A Ben poteva raccontare con tranquillità della buca che avevano scavato, lui e Paul, tra le vecchie radici del faggio centenario colpito da un fulmine. Era là che andavano a giocare nell'inverno del '43, quando nelle case si cominciava a temere per la propria vita, quando bimbe innocenti come Christa von Burg morivano di polmonite solo per aver messo in bocca qualcosa di disgustoso. Jakob e Paul non sapevano nulla della paura senza nome che attanagliava le famiglie Stern e Goldheim; i due ragazzi provavano timori diversi, quando si rifugiavano bene imbacuccati nella buca. Lì si raccontavano storie avventurose di fratelli maggiori che non avevano più fatto ritorno dalla Russia e dalla Francia, uno disperso e l'altro caduto per la patria. Il fratello di Paul aveva fatto quella fine, esattamente come i due fratelli di Jakob. Paul fantasticava di grandi gesta valorose, quando fosse venuto il loro turno. Solo Toni von Burg non sarebbe partito per il fronte, suo padre aveva avvertito la madre: «Piuttosto che mi portino via anche lui, gli stacco un braccio o una gamba, così farà carriera in qualche altro modo». Eppure, sebbene mossi da coraggio, valore, e fedeltà al Führer, con i loro rispettivi undici e dodici anni ogni tanto nutrivano qualche dubbio sul loro eroismo. Forse non era tanto il nemico che li spaventava, perché il nemico non aveva nome, ma se avessero avuto un comandante come quell'idiota di Heinz Lukka? Non sarebbe stato un bel combattere, con un tipo del genere. Pensarono quindi di ampliare la loro tana, rinforzandola con delle assi e riempiendola di viveri per il caso che... così avrebbero sorpreso il nemico alle spalle. Ogni sera il padre di Toni von Burg pregava che il figlio tornasse, mentre la madre pregava perché le preghiere della famiglia von Burg venissero esaudite. Paul lo sapeva. Se ne parlava spesso alla fattoria dei Lässler, e Paul la sera ascoltava i discorsi degli adulti quando era già nel suo letto. Nella primavera e nell'estate del '44 non poterono andarsene a zonzo perché dovevano aiutare a sbrigare il lavoro dei campi e nelle stalle, e la sera crollavano nel letto stanchi morti, pregustando già l'arrivo dell'autunno e dell'inverno. Dopo il raccolto avrebbero messo in atto il progetto di
ampliamento del loro nascondiglio. Nell'estate del '44, quando i timori degli Stern e dei Goldheim diventarono realtà, Wilhelm Ahlsen notò, mentre controllava le deportazioni, che mancava una persona, certa Edith Stern, venticinque anni, che forse, se non fosse subentrata la guerra, si sarebbe già chiamata Edith Ruhpold. Dopo la deportazione degli Stern e dei Goldheim, Werner Ruhpold faceva lunghe passeggiate verso il Boschetto, per riprendere le forze dopo le ferite riportate in guerra. In paese si mormorava che Werner si portasse dietro pane e viveri, ma erano chiacchiere benevole perché nessuno aveva mai provato astio nei riguardi delle due famiglie ebree, anzi il vecchio von Burg e altri amici ridevano sotto i baffi al pensiero che Edith fosse sfuggita alle grinfie del vecchio Ahlsen. Alla fine dell'estate, Jakob e Paul vollero andare a controllare il loro covo, e trovarono la buca colma di terra. Si procurarono delle vanghe e scavarono fino a notte inoltrata, fino a che dissotterrarono un viso. Edith Stern. Paul la riconobbe benché fosse conciata male. Il cranio era stato sfondato. Non vollero scoprire null'altro, ma erano sicuri che non era stata sepolta lì da molto. E nessuno in paese seppe mai come ci era arrivata, perché Jakob e Paul, terrorizzati, ricoprirono in tutta fretta la buca e si giurarono reciprocamente che mai avrebbero fatto parola con qualcuno di ciò che avevano visto. Parecchio tempo dopo, quando tutti poterono parlare liberamente di questo e di quello, cominciarono a circolare voci su Werner Ruhpold: il giovane avrebbe affermato, poco dopo la fine della guerra, che il suo fidanzamento con Edith non era mai stato rotto e che lui l'aveva tenuta nascosta in una caverna nel Boschetto. Una sera, durante una delle sue passeggiate per portare i viveri alla ragazza, era stato seguito da Heinz Lukka, che all'epoca aveva solo sedici anni, ma che faceva già di tutto per mettersi in buona luce con chi di dovere. Vedendosi seguito, Werner si era insospettito e aveva evitato prudentemente di avvicinarsi al nascondiglio. Aveva bighellonato verso la fattoria dei Kressmann e aveva pregato Igor, il forzato, di avvertire Edith e di prendersi cura di lei fino a quando non fosse riuscita a fuggire, visto che lui non avrebbe più osato avvicinarsi al nascondiglio. Probabilmente il giovane Lukka spifferò tutto al padre, ed era risaputo che il vecchio Lukka era molto amico di Wilhelm. In seguito, Igor raccontò a tutti che aveva avvertito subito Edith; la stessa notte la ragazza aveva preso il volo. Dopodiché Igor aveva riempito la
buca di terra perché nessuno potesse sospettare che Werner aveva tenuto nascosti i nemici della patria. Tutti accettarono la versione di Igor, mentre Jakob e Paul erano certi che stava mentendo. In seguito si chiesero perché. Non ci voleva molto per immaginare chi avesse sfondato il cranio a Edith, bastava pensare al periodo e alla situazione particolari: un russo, solo, che non sperava certamente, nel '44, di rivedere la sua patria e di trovare moglie, e un'ebrea di cui sentiva la mancanza, dolorosamente, un unico uomo. Werner Ruhpold aspettò un anno, poi cinque. Anche a dieci anni di distanza continuò a credere con incrollabile ingenuità che Edith fosse riuscita a fuggire all'estero. E che forse avesse incontrato un altro uomo, che avesse avuto dei figli e che lo avesse dimenticato. Sperava che fosse felice, che stesse bene e che forse, un giorno, si sarebbe rifatta viva con lui. Fino al giorno della sua morte, nella primavera dell'81, Werner sperò e credette. «Ogni volta che lo incontravamo, mi sentivo rimordere la coscienza», raccontò Jakob al figlio. «Paul e io ci siamo chiesti talvolta se non sarebbe stato giusto dirgli la verità. Ma non volevamo nuocere al vecchio Igor. Anche lui era un pover'uomo, e Paul non riusciva a credere che fosse stato l'assassino. Ma non c'era nessun altro che si potesse sospettare. Poi pensammo che Werner non avrebbe retto al dolore, era una brava persona, silenzioso e gentile. Quando se ne stava dietro il banco e ti sorrideva, ti sentivi un nodo alla gola. E quando morì ho pensato: ecco, ora sono finalmente riuniti.» Avevano raggiunto il limitare del bosco. Jakob si fermò e indicò con il braccio teso le ortiche calpestate. «Era più o meno là dietro.» Il vecchio faggio con il tronco spaccato era stato abbattuto negli anni '50. Il ceppo aveva resistito per qualche anno, prima di marcire. Al suo posto, ora svettavano alcuni giovani abeti rossi. Jakob sospirò: «Forse è ancora lì sotto». Ben annuì gravemente. «E forse, da qualche parte, c'è anche la figlia di Erich», mormorò Jakob. «Noi due sappiamo bene in che direzione vanno le auto quando partono dalla discoteca.» Ben annuì nuovamente, e Jakob fece un ampio gesto con il braccio. «Qui c'è molto posto, e, se sono sepolti abbastanza in profondità, anche i cani non servono granché. Ma, per seppellirli così in profondità, uno deve saper pensare. Oppure deve inventarsi qualcosa d'altro.» ALTHEA BELASHI
Nell'agosto dell'80, quindici anni prima che Marlene Jensen scomparisse, in paese arrivò un circo. Il tendone era stato montato nella piazza del Mercato, dove in maggio e in settembre i proprietari di chioschi e negozietti si ritrovavano per il luna park e la festa degli Schützen. C'erano manifesti dipinti a mano un po' ovunque, attaccati ai lampioni, alle cassette delle lettere, perfino sui muri delle case, e vi si annunciavano grandi attrazioni. Solitamente, quel genere di spettacolo si trovava solo a Lohberg, ma quell'anno non c'era posto per un popolo nomade che d'inverno faceva fatica a sfamare le proprie bestie e che girovagava elemosinando denaro per il foraggio. Era uno spettacolo penoso: un tendone circolare rappezzato qua e là, pochi vecchi carrozzoni in legno per uomini e donne, animali e attrezzature e, in mezzo, tanta biancheria stesa. Alcuni abitanti delle case circostanti si lagnarono. Erich Jensen sosteneva di non poter neppure aprire le finestre a causa dell'odore penetrante, né di giorno né di notte, e, visto il caldo che faceva, era inaccettabile. Heinz Lukka, che a quel tempo aveva in affitto un appartamento accanto alla farmacia, era più disturbato dal rumore. Va detto che la notte non si sentivano schiamazzi di sorta, e anche l'odore non era poi così terribile. Infatti, gli animali pascolavano per buona parte della mattinata e della notte nel prato comunale, accanto al Feldweg, in direzione di Lohberg, e poi si trattava solo di alcuni pony, una zebra e un cammello. Sulla piazza c'era, solitario, un vecchio elefante che di notte veniva legato a un palo e stava accanto a un carrozzone fino a quando non lo portavano in pista per lo spettacolo del pomeriggio. Prima dello spettacolo i pony, la zebra e il cammello sfilavano per il paese. Li conducevano due artisti lungo tutta la Bachstrasse: un uomo e una ragazza molto bella, con lunghi capelli biondo chiaro. Abbigliati con coperte impolverate ma ricamate di piume sgargianti, i due sfilavano verso la piazza del Mercato mostrando cartelli variopinti con gli orari degli spettacoli, seguiti da uno sciame di bambini felici per quella novità degli ultimi giorni di vacanza. Anche Bärbel li rincorse due volte e, tornata a casa, raccontò la novità con occhi sfavillanti, chiedendo i soldi per il biglietto d'entrata. Anita, che aveva già diciassette anni, si considerava superiore a certe ragazzate. Ben, vedendo passare la misera carovana, schiacciava il naso contro il vetro della finestra del soggiorno e più volte, al mattino, correva al prato comunale
per ammirare gli animali. Quando Trude lo andava a riprendere, camminava con la testa voltata all'indietro per continuare a guardare gli animali il più a lungo possibile. Il circo teneva tre spettacoli giornalieri e gli artisti si davano molto da fare. Bärbel vi andò un sabato e tornò entusiasta di quella fragile ragazza bionda dallo strano nome. Althea Belashi era cavallerizza e trapezista, ed era persino in grado di far eseguire alcune semplici operazioni di aritmetica alla zebra. Bärbel aveva sentito dire che i cavalli sanno fare i calcoli, ma una zebra... era un fatto sensazionale. Naturalmente si trattava di semplici operazioni, due meno uno, quattro meno tre, ma per Trude, che si recò con Ben al secondo spettacolo della domenica, sarebbe stato bello se suo figlio, a sette anni, fosse stato almeno in grado di fare di conto come la zebra e di rispondere ogni tanto a una domanda precisa: «Perché hai ucciso la gatta di Hilde Petzhold?» Era perfettamente inutile aspettarsi una risposta. E c'erano giornate in cui Trude riusciva perfino a dimenticare quell'ammasso sanguinolento sul tavolo della cucina. La scarica di botte della madre pareva aver sortito un certo effetto con Ben. Se le sfuggiva di mano, il che accadeva abbastanza spesso, purtroppo, correva solo al prato comunale e non combinava guai. Un giorno ne ritornò con un mazzo di cardi per lei. Il giorno precedente aveva visto Jakob che regalava alla moglie un mazzo di fiori per il suo compleanno. Fiori di cardo! Come si poteva pensare che Ben fosse crudele? Nel suo cervello confuso poteva avere avuto motivi validi per eliminare quella gatta. E lei, Trude, gli aveva mostrato come fare. Quando Ben era nelle vicinanze, non si era mai abbastanza accorti e bisognava soppesare attentamente ogni gesto. Thea Kressmann era del parere che Trude avrebbe dovuto insistere per ottenere l'iscrizione alla scuola speciale. Così perlomeno il mattino sarebbe stata più tranquilla e si sarebbe potuta permettere di andare dal parrucchiere. Magari gli avrebbero insegnato qualche cosa, intrecciare dei cesti, o confezionare sacchetti. Magari avrebbe preso la polmonite! Trude non riusciva a liberarsi dalle sue paure irrazionali e in ogni caso suo marito non poteva sollevarla da quella responsabilità. Non aveva tempo. Nel mese di luglio Jakob si era portato Ben nei campi, perché Trude doveva andare con urgenza dal medico a Lohberg, e non poteva portarsi dietro il figlio né voleva affidarlo a Hilde, per paura che questa si rendesse conto della fine che aveva fatto la sua gatta tigrata incinta. «Facciamo un tentativo», aveva detto Jakob, salendo sulla mietitrebbia.
Aveva messo Ben sul sedile del passeggero e l'aveva legato con la cintura. Ma lui non riusciva a stare seduto a lungo. Non era passato neppure un quarto d'ora che Ben già piagnucolava da stringere il cuore, tanto che Paul, il vecchio Kleu e Bruno furono concordi nel dirgli: «E lascialo libero, che corra pure! Qui in ogni caso non può fare danni!» Ben fu lasciato libero; giocherellò un po' sugli argini del campo e scomparve proprio quando tutti pensavano che non si sarebbe mosso da lì. Lo cercarono per ore e, quando finalmente lo trovarono, aveva le tasche dei pantaloni piene di insetti schiacciati, mani e bocca piene di fragole di bosco, anche quelle infestate di vermi. La sera Jakob informò sua moglie: «Forse più avanti potrò portarmelo dietro, per ora è ancora troppo irragionevole». Irragionevole, ecco com'era Ben. Eppure c'erano anche momenti in cui era ragionevole. Quando sedeva sul pavimento della cucina con la sua bambola. Quando andava a prendere dalla cantina le mattonelle di carbone per sua madre. O durante lo spettacolo al circo. Seduto quasi immobile sulla scomoda panca di legno in prima fila, Ben osservava la rappresentazione sulla pista, incassando la testa tra le spalle per seguire meglio le evoluzioni di Althea Belashi al trapezio. Aveva la bocca spalancata per l'ammirazione. Trude gli passò velocemente un fazzoletto sul mento per asciugare il rivolo di saliva e gli circondò le spalle con un braccio, sorridendo. Lui le sorrise di rimando e bisbigliò sotto voce: «Ben fatto». Fu un'ora serena per Trude. Dopo lo spettacolo, Ben si sbucciò le mani a forza di applaudire, si scatenò, urlò e borbottò «ben fatto» in direzione della giovane artista finché questa non gli si avvicinò e, sorridendo, gli fece una lieve carezza sul capo, ringraziandolo per gli applausi scroscianti che le aveva rivolto. Poi, dopo un attimo d'incertezza, gli prese una mano e lo condusse sulla pista, dove i pony sfilavano in tondo un'ultima volta. Lo aiutò a montare a cavallo, poi salì in groppa dietro di lui ed eseguì ancora qualche acrobazia. E Ben cavalcava, attaccato alla criniera del pony con entrambe le mani, fiero come un re. Trude vide che la trapezista gli parlava in continuazione e che lui annuiva e si divertiva un mondo. Il suo volto era semplicemente raggiante. Poi Althea Belashi lo accompagnò al suo posto e, cosa che nessuno, tranne Trude, Antonia e Sibylle, faceva mai, tantomeno una giovane e attraente ragazza, lo abbracciò e lo baciò su entrambe le guance. Ben ammutolì intimorito e con riluttanza si allontanò dal tendone del
circo. Solo dopo avergli comprato un gelato di vaniglia al chiosco accanto alla farmacia, Trude riuscì a rientrare alla fattoria con una certa tranquillità. Appena giunti a casa, Ben si rifugiò in un angolo con la sua bambola, l'afferrò per i piedi, la fece dondolare a testa in giù, le aprì braccia e gambe e la fece muovere come aveva fatto la giovane artista mentre cavalcava sulla groppa del pony. Quella sera, fece vedere a suo padre che gettava per aria la bambola, cercando di riprenderla con le mani, come avevano fatto gli uomini del circo con Althea. Alle nove Trude lo mise a letto, poi si sedette con Jakob in soggiorno riflettendo ad alta voce sul da farsi: forse, il giorno dopo avrebbe potuto condurre nuovamente Ben al circo. «Farò il bucato martedì», disse. «Si è talmente divertito. Forse la ragazza lo farà cavalcare ancora. Ha così pochi svaghi.» Alle dieci andarono a dormire. Mezz'ora dopo, Anita rientrò a casa, chiuse il portone, ma dimenticò di chiudere a chiave la porta della cucina. E alle due di notte, improvvisamente, Ben fu accanto al letto della madre, a scuoterle una spalla mentre bisbigliava: «Via le mani». Non era strano che Ben la strappasse al sonno: quando si svegliava, andava da lei, spesso anche due volte a notte. Trude non attribuì grande importanza a ciò che le disse. Pensava che avesse fatto brutti sogni, così si alzò al buio cercando di non svegliare Jakob, per riportare il figlio nella sua stanza. Ma non appena accese la luce del corridoio, si spaventò. Il pigiama di Ben era macchiato d'erba e di fango. «Sei stato ancora fuori?» gli chiese. «Via le mani», disse Ben. «Sì, via le mani. Non devi uscire quando è buio. Come hai fatto a uscire?» Trovò la risposta vedendo la porta della cucina aperta. Dopo averla richiusa a chiave, Trude svestì Ben, gli infilò la biancheria pulita, e lo fece andare di nuovo in bagno dicendogli: «Se sarai buono e rimarrai a letto, domani mattina potrai rivedere gli animali e quella ragazza». Lui se ne stette buono e non si mosse più per tutta la notte; al mattino gironzolò intorno al fienile facendo roteare incessantemente le braccia avanti e indietro come se volesse fare a pugni con qualcuno e borbottando «via le mani» e «ben fatto». Riuscì persino a terminare il pranzo senza l'aiuto di Trude e senza fare le solite storie. Poi rimase in cucina con lei. Alle due e mezzo, Trude gli fece indossare i pantaloni buoni e una cami-
cia fresca di bucato; poi si avviò in paese tenendolo per mano e spiegandogli quello che avrebbe visto per rinfrescargli la memoria e fargli pregustare il piacere che lo aspettava. Ma lo spettacolo era stato sospeso. Si stavano avvicinando alla piazza quando Trude notò un certo scompiglio. Accanto al tendone, invece dei pony, sostava un furgone a strisce. Qua e là gruppetti di persone discutevano animatamente, altri guardavano con curiosità verso una roulotte, dove il direttore del circo stava parlando concitatamente con due poliziotti. Thea e Renate con i rispettivi figli si trovavano in uno dei gruppetti. Quando Trude e Ben si avvicinarono, Albert mostrò loro la bocca, dove mancava un dentino. Renate muoveva avanti e indietro con una mano il passeggino di Heiko, mentre con l'altra teneva saldamente Dieter che cercava in ogni modo di divincolarsi perché voleva assolutamente andare verso il tendone. In un momento di distrazione della madre, sferrò un calcio negli stinchi ad Albert, che scoppiò a piangere. Dieter si prese uno schiaffo, cominciò a fare il matto e prese a calci la carrozzina, facendo piangere il piccolo Heiko. Renate non sapeva più che pesci pigliare per calmarli. Ma non era l'unica ad avere problemi simili. Paonazza in viso, Renate si accomiatò frettolosamente. Thea iniziò a raccontare che la notte precedente la cavallerizza acrobata era fuggita dal circo. Lei aveva sentito casualmente le proteste del direttore del circo sulle ipotesi avanzate dalla polizia: diceva che sua figlia non poteva assolutamente essere fuggita, era una persona affidabile in tutto e per tutto. La sera prima, sul tardi, era andata nel prato a controllare un'ultima volta uno dei suoi pony, perché le era sembrato svogliato durante lo spettacolo della sera. E poi, se uno scappa si porta via una valigia. Renate se n'era ormai andata da un po', eppure Thea continuava a guardare nella direzione in cui si era allontanata. «Mi fa veramente molta pena», disse all'amica. «Pensa, Bruno stanotte è tornato a casa alle tre, me lo ha appena raccontato lei stessa. Ieri sera, Maria Jensen lo ha visto qui e stava parlando proprio con la ragazza scomparsa. Renate non si merita un trattamento simile.» Thea scosse il capo, afflitta, e aggiunse che Heinz Lukka aveva visto un'auto ferma nei pressi del pascolo comunale verso le undici e trenta della sera precedente, quando era andato a passeggio con il suo cane. Certo, non poteva giurare che fosse l'automobile di Bruno, anche se era una Mercedes, perché ce n'erano parecchie nella zona e lui stesso ne possedeva una. Quando Heinz si era avvicinato, il conducente si era allontanato in fretta senza accendere i fari, e al buio l'avvocato non era riuscito
a leggere il numero di targa. «Che ne dici?» chiese Thea. «Devo dire alla polizia quello che hanno visto Heinz e Maria? Credo che dovrebbe essere avvisata.» «Lascia che siano loro a parlare!» esclamò Trude. «Tu non hai visto niente.» 21 AGOSTO 1995 Dopo aver trascorso la domenica chiuso in camera e aver poi passeggiato con suo padre, Ben se ne stette tranquillo per qualche ora. Jakob chiuse la porta a chiave, certo che il figlio avesse compreso il motivo del suo comportamento. Fino alle due del mattino, Trude trattenne il respiro, mentre nella stanza accanto succedeva il finimondo. Ben non si limitava a protestare: piagnucolava, gemeva, guaiva come un cane, abbassava la maniglia e colpiva la porta; la prendeva a calci e pugni, tanto che Jakob pensò che il legno non avrebbe resistito a lungo. Un paio di volte, il padre gli urlò: «Se non te ne stai buono, vengo lì io e allora le prendi». Per qualche minuto tutto taceva, dopodiché Ben ricominciava daccapo. Alle due Trude intervenne: «Non ce la faccio più. Se non lo lasci uscire tu, lo farò io. E aprigli, chi vuoi che lo veda? A quest'ora non c'è nessuno in giro». Sbagliava. Bruno Kleu era ancora per strada. Dopo avere schiaffeggiato la moglie, aveva lasciato il caffè Rüttgers ed era andato all'osteria di Ruhpold, dove si era fermato fino a che il locale non aveva chiuso, intorno all'una di notte. Aveva due possibilità: tornare a casa e infilarsi nel letto per sorbirsi l'interrogatorio di Renate sul famoso sabato sera, oppure tornare a casa, prendere l'auto e recarsi a Lohberg. Ma anche là le osterie chiudevano alla stessa ora, e lui aveva alzato un po' il gomito. Troppo per sedere al volante. Bruno non era come Richard Kressmann che poteva guidare avendo in corpo tutto l'alcol che voleva, minacciando di querelare tutti quelli che osavano accennare anche solo velatamente alla sua responsabilità nella morte della piccola von Burg. Bruno era solo in collera e, anche se non lo avrebbe ammesso con nessuno, aveva paura. Pur essendo un uomo che sapeva discutere solo menando le mani, c'erano momenti in cui aveva paura. Era facile chiudere la bocca di una donna con uno schiaffo, ma non si potevano picchiare tutti coloro che facevano
domande. Adesso gli sguardi erano puntati su di lui, e non solo, ma anche su suo figlio. Quindici anni prima, Bruno aveva vissuto sulla propria pelle l'esperienza della scomparsa di una ragazza, e di tutte le chiacchiere che si erano fatte in giro. Sapeva perfettamente che l'unico motivo per cui non era finito in carcere era il fatto che non si era trovato nessun cadavere. In entrambi i casi si era trattato di ragazze che non avevano fatto notizia in paese. Adesso le cose stavano diversamente. «Tre è il numero perfetto», diceva sempre sua madre. Che cosa ci fosse di perfetto in tutto ciò, proprio non lo sapeva. Se solo Jakob avesse saputo che Bruno stava correndo da più di un'ora per i campi, che aveva superato il Boschetto e che si stava dirigendo verso la Fossa con la mente affollata di pensieri cupi, non avrebbe certamente ceduto alla richiesta di Trude. Invece, dopo aver riflettuto per qualche minuto, pensò che la moglie avesse ragione e che in fondo avevano bisogno di qualche ora di sonno. Si alzò, si versò un bicchiere d'acqua e poi andò a girare la chiave nella serratura. Per un attimo ci fu silenzio. Immobile nel corridoio, Jakob guardava fisso la maniglia della porta; questa si abbassò lentamente e con altrettanta lentezza la porta si aprì. Ben stava di fronte al padre, la testa incassata nelle spalle e negli occhi uno sguardo timoroso e diffidente. Il binocolo gli dondolava sul petto. «Che cosa c'è?» chiese il padre severamente. «Perché non ci lasci un po' in pace? Eravamo d'accordo che te ne stavi in casa. Che vai a fare, là fuori? Non c'è niente da vedere.» Udendo il tono brusco del padre, Ben chinò il capo e mormorò: «Amico». Jakob fece cenno di no, rabbioso e insoddisfatto di sé. Per un attimo Ben restò immobile, incerto sul da farsi, chiedendosi probabilmente se poteva rischiare di passare davanti a suo padre per scendere le scale. Quando Jakob si voltò verso la sua camera, in tre balzi fu in fondo alle scale. Corse in cantina, si allacciò la pala pieghevole alla cintura dei pantaloni, infilò gli stivali di gomma e fu fuori prima che il padre si fosse girato dall'altra parte del letto. Non si diresse verso il primo incrocio, ma verso la strada ampia, corse tra campi e giardini superando il filo spinato e poi il giardino di Gerta Franken, finché non si ritrovò nel campo di granoturco. La casa di Lukka era totalmente al buio. Là prese la strada per la fattoria dei Lässler e andò verso la Fossa. Bruno Kleu era seduto sul margine della discesa, nascosto tra gli alti ro-
vi. Lo vide arrivare e scomparire, un'ombra massiccia e inconfondibile nella notte. Il terreno era scosceso. Il vecchio cratere scavato dalle bombe aveva un diametro di duecento metri circa, e numerose collinette ne punteggiavano il centro. Da cinquant'anni, là giacevano le vecchie rovine di quella che era stata la fattoria dei Kressmann. La casa, il centro agricolo, le stalle, i fienili: con il tempo ogni angolo era stato smussato e ricoperto da muschio e edera selvatica. Tutte le ortiche e i cardi che Ben curava con amore erano stati schiacciati e calpestati. La polizia e i vigili del fuoco non avevano badato a quelle erbacce. Bruno Kleu lo osservò chinarsi e trafficare con le mani nella terra: cercava di raddrizzare gli steli piegati, ma quelli ormai erano troppo secchi per restare dritti. Poi Ben si diresse verso una collina, dove troneggiavano i ruderi della fattoria sotto i quali si trovavano le cantine dal vasto soffitto a volta. In un punto preciso, era possibile accedere a una parte della vecchia cantina. Ben si tolse il binocolo e lo posò a terra, poi iniziò a tastare il muschio e a sollevarne un angolo con i polpastrelli. Sollevò un pezzetto, poi un altro e un altro ancora, finché, sotto le sue mani, l'apertura non si allargò sempre di più. Per tutto il pomeriggio, quella era stata la sua preoccupazione: che qualcuno scoprisse la sua buca, che ci entrasse e che trovasse quel che vi aveva nascosto. Come aveva fatto suo padre, quando gli aveva sottratto il vaso di vetro con tutti i suoi tesori. Non era la prima volta che suo padre gli gettava via qualcosa. Forse, in questo senso, Ben era più intelligente di altri: ogni esperienza gli rimaneva impressa a lettere di fuoco. Non portava mai a casa quello cui teneva di più; raccoglieva molte cose e poi decideva se tenerle per sé o portarle a casa alla madre per farle una sorpresa. Le aveva portato molti oggetti: una pentola di alluminio ammaccata, un grosso osso, che preferiva a quelli piccoli, una forchetta con un dente piegato che faceva parte di un servizio di posate dei tempi andati, una borsetta, cocci e manici di tazze distrutte. E, soprattutto, quei cerchietti con una pietra luccicante che le ragazze e le signore infilavano alle dita. Quella volta, sua madre non la finiva più di lodarlo. Dopo aver liberato l'ingresso, Ben s'infilò a fatica sotto una trave massiccia che poggiava di traverso a una rampa di scale rotte e consumate. La vecchia cantina era avvolta nel buio più fitto e lui non riusciva a controllare se era stato spostato qualcosa. Di giorno, perlomeno, un po' di luce fil-
trava attraverso l'apertura. Avrebbe avuto bisogno di una pila, ma poteva solo tastare i suoi tesori con le mani. Così, rimase là sotto finché non fu certo che tutto fosse al suo posto. Guarda guarda, pensò Bruno Kleu dopo che Ben se ne fu andato, mentre osservava la zona alla luce incerta del suo accendino. Che qualcuno provi a dire ancora che quello è scemo. Che provino a fare quello che fa lui, prima. Bruno non sapeva se essere più stupefatto o divertito. Gli effetti dell'alcol erano svaniti. Si accese una sigaretta e decise che avrebbe perlustrato meglio quel posto alla luce diurna. Poi seguì Ben, in cerca di qualche altra sorpresa. Ben era irresistibilmente attratto dal Boschetto. Non aveva potuto verificare i danni quando era lì con il padre. Il danno c'era, e anche notevole: erba calpestata, rami dei cespugli divelti o spezzati. Fino all'alba continuò a piantumare il terreno e di quando in quando fu ricompensato, perché gli steli restavano ritti. Al levare del sole decise che era tempo di trovare un altro posto per i suoi tesori. Bruno si mise sulla via del ritorno solo quando vide che anche Ben stava tornando a casa dai genitori. Ben si diresse verso il fienile buio e fece un ampio giro intorno alle macchine e alla vecchia Mercedes che Jakob aveva comprato da Bruno due anni prima. Si tenne sulla destra. C'era una scala di corda che portava al sottotetto quasi vuoto, che di lì a poche settimane sarebbe stato riempito di paglia. Grossi rotoli fissati l'uno all'altro, senza intercapedini. Solo sul davanti, vicino alla porta, restava un metro di spazio per far passare i rotoli, e quello era il suo passaggio. Jakob conosceva quel punto di osservazione preferito del figlio. Che cosa osservasse, be', questo non lo sapeva proprio. Ben strisciò a testa bassa fino alla porta, la sollevò, e puntò il binocolo in direzione della fattoria dei Lässler. Alla luce livida del mattino e nonostante la distanza, riusciva a riconoscere l'abitazione dei vicini e il lungo edificio adibito a porcilaia. Paul aveva rinunciato a un fienile di proprietà quando la fattoria era stata trasferita in campagna alcuni anni prima, e l'abitazione ne aveva certo tratto vantaggio. Da quella postazione, di giorno Ben poteva ammirare con il binocolo il rosso fiammeggiante delle begonie che decoravano il balcone di casa. E le ragazze. Nelle ultime settimane, le aveva osservate quasi ogni giorno. Quando si stendevano al sole, lontane dagli occhi indiscreti degli abitanti del villaggio, si spogliavano completamente e si offrivano ai raggi solari
perché questi raggiungessero gli angoli più reconditi del loro corpo. Ben si mise bocconi e aspettò. A quell'ora del mattino là intorno tutto taceva, e una leggera nebbiolina aleggiava sulla campagna. Trascorse più di un'ora e, quando la zona era stata ormai invasa dalla luce vivida del sole, notò il primo movimento. Riconobbe le figure di Paul Lässler e di uno dei suoi figli che si dirigevano alla stalla. Paul e il figlio erano ormai rientrati in casa e sedevano a tavola con Antonia per la colazione, parlando di Marlene Jensen e invitando alla prudenza le due figlie. Ben aspettava pazientemente che succedesse qualcosa. Alle sette e un quarto le ragazze solitamente uscivano e si dirigevano all'incrocio in bicicletta. Oltrepassavano la villetta di Heinz Lukka e il campo di granoturco, dove lui le avrebbe perse di vista se fosse restato nel sottotetto del fienile. Ma lui non ci restava a lungo. Prima che le due giovani lasciassero l'abitazione, lui usciva all'aperto, raggiungeva di corsa lo stradone, girava a sinistra e arrivava ai campi di granoturco. Là s'inginocchiava e poi strisciava carponi tra le piante per nascondersi agli occhi di chiunque. Il suo riferimento era il padre, perché Jakob si recava sempre al lavoro alle sette in punto. Ma quella mattina Jakob era ancora a tavola e cercava di discutere con Trude della notte precedente. Era in collera per la sua stessa debolezza e tentava di spiegare alla moglie che non era possibile continuare a subire quella situazione. Non gliene voleva a Ben, per l'amor d'Iddio. Ma avrebbero fatto il suo e il loro bene se l'avessero trattenuto in casa almeno per un paio di sere, solo fino a che non fosse chiarita la situazione e la figlia di Erich non fosse ricomparsa. Così, se qualcuno avesse incontrato Ben fuori di notte, non ci sarebbero state più chiacchiere in paese. Trude, però, sapeva benissimo che ci voleva ben poco per far cadere i sospetti su qualcuno. Com'erano andate le cose esattamente, quella volta che Wilhelm Ahlsen si era improvvisamente accasciato nell'osteria di Ruhpold ed era morto prima che arrivasse il medico dell'ospedale? Allora si era sparsa la voce che Toni von Burg lo avesse avvelenato con il cianuro per vendicare la morte della sorella minore. Solo perché Toni si era fermato al banco accanto al vecchio per qualche minuto. E com'era andata, quando la figlia di Toni e Illa era stata investita sulla strada di scuola? Tutti gli occhi si erano puntati su Richard Kressmann. Richard era ubriaco, come al solito, perciò non aveva visto la bambina. Si sussurrava persino che lui fosse talmente sicuro di sé e dei suoi mezzi da
potersi permettere il lusso di investire con l'auto una povera bambina per poi lasciarla morire dissanguata. Ecco quel che si era detto in giro. E quindici anni prima, anche a proposito di Bruno Kleu si era sussurrato che era un assassino. Che si era dato appuntamento con la giovane artista e che lei lo aveva respinto, così lui si era appostato sul prato, l'aveva violentata e uccisa e si era fabbricato un alibi con una poco di buono di Lohberg. Non doveva succedere a Ben, non doveva essere additato pubblicamente. Solo un paio di notti. Se non riuscivano a convincerlo con le buone, si sarebbero procurati qualcosa in farmacia. Prima che Trude potesse rispondergli, Jakob lanciò uno sguardo all'orologio. Erano le sette e un quarto, così disse frettolosamente: «È ora, devo andare. Ne parleremo ancora stasera, con tutta calma». Dal sottotetto del fienile Ben vide aprirsi il portone della fattoria dei Lässler e le due ragazze uscire; una aveva i capelli biondo chiaro, come Marlene Jensen e come l'artista del circo che lo aveva baciato sulle guance quindici anni prima, mentre l'altra aveva una capigliatura scura e portava gli occhiali da sole. Presero le biciclette dalla rimessa, salirono in sella e fecero un cenno di saluto ad Antonia, ritta sulla porta di casa. Ben allontanò il binocolo, deluso, e andò in un angolo dove erano state ammonticchiate alcune bracciate di fieno. Non era un gran nascondiglio, ma era l'unico abbastanza vicino a casa. Spostò la paglia. Il coltello a serramanico era là sotto, lo stesso coltello che Marlene Jensen gli aveva visto in mano. Era vecchio, e la lama arrugginita. Era suo da quindici anni, da quando Althea Belashi era scomparsa. Se lo infilò in tasca, anche se di giorno non ne aveva bisogno. Poi scese la scala e camminò nella penombra del fienile fino al riquadro della porta illuminato dal sole. Appena fu sulla soglia, vide suo padre che usciva da casa. Jakob gli venne incontro, allargò gambe e braccia, e disse imperiosamente: «Vai a casa, Ben. Mamma aspetta con la colazione». Jakob era ancora adirato, forse più di prima, perché si sentiva un vile. Aveva evitato di discutere con Trude, anche se riconosceva in cuor suo che riempire di farmaci Ben solo per chiudere la bocca a qualche linguaccia non sarebbe stata una soluzione. Un padre doveva avere più nerbo ed essere in grado di tenere testa al proprio figlio. Ben si bloccò, abbassò il capo e, seguito dagli occhi severi del padre, trotterellò verso la porta di casa. Prima ancora che l'avesse raggiunta, Jakob era già scomparso nel fienile. E allora Ben si mise a correre, a correre via da casa, più veloce che poteva, sulle gambe robuste. Si allontanò dalla
strada dove suo padre avrebbe potuto raggiungerlo e fermarlo. Fece come aveva fatto la notte, attraversò il campo di patate e quello di barbabietole per andare verso il Feldweg. Prima ancora che Jakob fosse uscito dal fienile con la vecchia Mercedes, Ben era già arrivato sulla strada principale. Mentre Jakob frenava all'incrocio, vide da lontano suo figlio che correva e le ragazze in bicicletta che gli andavano incontro. Anche Jakob svoltò a destra. Passò dalla collera all'ira cieca, vedendo che Ben non gli aveva ubbidito. Suo figlio si avvicinava alle ragazze e faceva cenni di saluto. La ragazza con gli occhiali da sole fermò la bicicletta davanti a Ben. «Sei in ritardo», gli disse salutandolo. «Ti sei addormentato, uomo dei boschi?» Erano troppo distanti perché Jakob potesse sentire quel che dicevano, anche perché il motore diesel rombava. Jakob vedeva solo quel che succedeva. Ben annuì con foga, avanzò di un passo e abbracciò la ragazza bruna, facendo una giravolta. La ragazza rise rovesciando indietro la testa, e ansimando gli colpì le spalle con le mani. «Lasciami, Orso, mi stai soffocando!» Jakob sentì l'ultima esclamazione: era arrivato alla loro altezza e aveva fermato l'auto. La biondina accarezzò velocemente Ben sulle spalle e insistette: «Dobbiamo andare, o arriveremo in ritardo». «Credo anch'io», intervenne Jakob. Le due ragazze montarono in sella, voltarono le biciclette e ripresero il cammino. Salutarono un'altra volta. La ragazza con gli occhiali gettò un bacio con la mano e gridò: «A più tardi, Orso». Poi pedalarono fino all'incrocio e svoltarono a destra sulla strada che portava alla provinciale. Jakob indugiò, indeciso se riportare Ben a casa dopo averlo costretto a salire sull'auto. Sapeva che non sarebbe stato facile, e che sarebbe arrivato tardi al lavoro. In passato, Ben lo accompagnava volentieri, ma sulla Mercedes saliva con grande riluttanza. Jakob non ne conosceva il motivo, né si era mai posto il problema. «Torna indietro», ordinò al figlio. Quella volta, apparentemente, Ben ubbidì. Jakob proseguì verso l'incrocio, sentendosi vagamente soddisfatto. Prima di svoltare guardò nello specchietto retrovisore e vide che Ben si stava avvicinando al filo spinato. Poi la Mercedes scomparve, e Ben si fermò di nuovo. Anche lui, come suo padre, conosceva una buca. Era oltre il filo spinato, e ci andava spesso. TRUDE RICOLLEGA
MOLTI AVVENIMENTI Nell'agosto dell'80, dopo che lo spettacolo del circo fu sospeso, Trude cominciò a sospettare che le voci che circolavano in paese su Bruno Kleu e la giovane acrobata forse non erano poi così infondate come ci si sarebbe potuti augurare per Renate e per i suoi due figli. Tuttavia, Trude non aveva mai osato affrontare apertamente l'argomento. Non accennò neppure a suo marito del pigiama sporco di Ben e delle possibili ipotesi su quella notte passata all'aperto. Che cosa attraeva tanto Ben, quando scappava da casa? Il prato comunale. E quella famosa notte, dove stava andando la trapezista? Al prato comunale. E se laggiù le fosse successo qualcosa di terribile? Se Ben avesse visto qualcosa? Dato il suo spirito di emulazione, le conseguenze potevano essere drammatiche. E lo furono. Tutto cominciò lunedì, sulla strada di casa, anche se, sul momento, Trude non collegò i fatti nel modo corretto. Le pareva di assistere ai capricci di Dieter Kleu, mentre Ben la tirava per la mano e si comportava in modo talmente scalmanato che non riusciva a trattenerlo. Non voleva lasciare la piazza del Mercato, il tendone, il carrozzone. Continuava a impuntarsi come un asino cocciuto. Se lei si fermava per cercare di convincerlo con le buone, lui la prendeva per il braccio, si gettava all'indietro con tutta la forza che aveva, e ne aveva tanta già allora, e gridava: «Ben fatto!» Forse Ben voleva spiegare a sua madre che il giorno prima Althea Belashi e la sua rappresentazione gli erano piaciute enormemente. Che avrebbe tanto voluto assistere ancora una volta alle sue evoluzioni sul trapezio e in sella al pony, e che avrebbe voluto cavalcare ancora con lei. E che anelava a quel bacio finale, dopo lo spettacolo. Più di una volta Trude aveva constatato che ogni gesto amichevole, ogni sensazione si fissavano in modo duraturo e indelebile nella mente di suo figlio; Ben non era in grado di comprendere il motivo per cui quel gesto di tenerezza gli veniva negato una seconda volta, e dunque si scalmanava come un bambino qualsiasi che vuole affermare la sua volontà. Forse era un po' più agitato del normale, però di solito si calmava in fretta. C'era sempre un modo per tranquillizzarlo. «Mi dispiace», disse Trude. «La ragazza è partita. Il circo non c'è più.
Ora andiamo a casa e, se sarai buono, avrai il tuo gelato.» Ben si calmò per un attimo e la fissò con la fronte corrugata, concentrato come se facesse fatica a pensare alla sua proposta. Le persone che si erano voltate alle sue escandescenze proseguirono, scuotendo la testa. Trude sospirò, quando Ben riprese a urlare: «Via le mani! Ben fatto! Via le mani!» Era completamente fuori di sé; e mentre fendeva l'aria con la mano libera, pronunciò improvvisamente una parola che lei non gli aveva mai sentito dire: «Carogna!» Pur sconcertata, Trude non si chiese dove avesse imparato quell'espressione, visto che non aveva mai ripetuto «mamma» o un semplice «sì» o «no». «Adesso basta», lo zittì severamente, vedendo che altre persone si fermavano in attesa che lei facesse quello che di solito si fa in questi casi. Se fossero stati a casa, gli avrebbe messo in mano un gelato di vaniglia. Il gelato di vaniglia era il primo nella lista dei prodotti che facevano miracoli con Ben, e per questo Trude ne teneva sempre una provvista nel congelatore. Bastava che lui la vedesse aprire il coperchio, perché nel giro di pochi secondi si trasformasse in un agnellino mansueto. Pensò di tornare indietro di qualche metro per comprare un gelato al chiosco. La domenica precedente aveva funzionato. Trude alzò il braccio per colpirlo con forza, poi si trattenne e gli assestò solo un leggero schiaffo. «Carogna!» gridò Ben ripetutamente, colpendola allo stomaco con un pugno. Non era un colpo forte, e nessuno lo vide. Il bambino alzò il piede per colpirla agli stinchi: anche questo lo aveva imparato da Dieter Kleu. «Provaci, e poi le prendi sul serio», sibilò Trude. Per alcuni secondi lui la guardò con il viso contratto, poi abbassò la gamba e disse: «Freddo». Anche se era la prima volta che lo sentiva pronunciare questa parola, lei pensò di interpretarla correttamente, perché spesso lo avvertiva dicendo: «Non masticarlo così, Ben. È troppo freddo». «No», gli disse decisa. «Niente gelato adesso. Te l'avrei comperato, ma non sei bravo. Se vieni a casa con me buono buono, te ne darò uno. Solo quando saremo a casa. Adesso fai il bravo.» A quel punto Ben si lasciò condurre, anche se riluttante, verso casa. Trude non riuscì a mantenere la sua promessa perché, appena giunti alla fattoria, Ben si gettò con rabbia sulla vecchia bambola innocente. «Ben fatto!» gridò, facendola dondolare davanti a sé come aveva fatto la sera prima davanti al padre. Poi la colpì alla testa con un pugno e strappò il
vestito dal corpo di celluloide. Tirò con forza una gamba finché questa non gli restò in mano. Fu quindi la volta dell'altra gamba. Gettò ai piedi della madre i pezzi che aveva strappato, gridando ripetutamente: «Carogna, freddo!» Ci volle un po' di tempo prima che la madre comprendesse. Non che fosse stupida. Prima che il sospetto diventasse realtà c'era bisogno di qualcosa di più di un pigiama sporco, un bambino in collera o due nuove parole nel suo vocabolario. Dal momento che non c'erano altri testimoni, Trude raccolse i pezzi della bambola, li fece sparire nella stufa e poi andò in cantina. Ben, che l'aveva seguita, si rischiarò in viso quando la vide sollevare il coperchio del congelatore. Prese il gelato che gli veniva offerto, poi prese la mano di sua madre e trascinò la donna fuori nel cortile e, attraversato il fienile, la portò fino al giardino. Lì vicino si trovava il podere di Otto Petzhold e il retro del suo fienile confinava con il prato delle mele, dove c'era una quarantina di piccoli alberi di mele, che non superavano l'altezza di un uomo, cosicché non c'era bisogno di una scala per raccogliere i frutti neanche nel punto più alto. Ai bambini era assolutamente vietato calpestare il prato delle mele. Negli anni '20 e '30 quella zona era stata sfruttata per l'estrazione della sabbia. I pozzi erano otto, profondi anche fino a dodici metri, e si allargavano alle estremità. Quando diminuì la capacità estrattiva, le autorità ordinarono al padre di Jakob di riempire i pozzi. Alcuni erano stati riempiti, ma non tutti. Con il tempo, due o tre pozzi erano sprofondati naturalmente, creando affossamenti che era meglio non calpestare perché si rischiava un ulteriore cedimento del terreno. Esisteva ancora un pozzo a cielo aperto che penetrava nel terreno come un imbuto rovesciato. Qualsiasi cosa ci finisse dentro, era perduta per sempre. Anche Ben, come tutti gli altri bambini, aveva il divieto di camminare da solo in mezzo agli alberelli di melo. E lo sapeva. Si fermò accanto al terreno, additò il Pozzo aperto e disse: «Via le mani». «Sì», annuì Trude. «Non correre sul prato. Resta in giardino, da bravo. Se fai il buono, stasera avrai una bambola nuova.» Ben si sedette ai margini del campo e mangiò il suo gelato. La madre lo fece rientrare a casa prima che ritornasse Jakob. Il bambino rimase tranquillo al suo posto, così ricevette in premio la bambola che era sul letto di Anita e ci giocò finché il padre non entrò in cucina.
Quella sera Trude pensò che quello del pomeriggio fosse stato uno dei soliti attacchi di Ben. Il circo era ancora in paese, e la piazza del Mercato fu sgomberata solo a fine settimana. Nel frattempo gli artisti girarono per le strade suonando alle porte, mostrando foto di Althea Belashi, e facendo domande che rimasero senza risposta. Andarono anche alla Bachstrasse. Un ragazzo che lavorava al trapezio capitò improvvisamente nella cucina di Trude giovedì. Per l'ennesima volta, il portone non era stato chiuso a chiave. Lei si spaventò perché pensò subito a Ben che giocava nel cortile. Un portone aperto era un richiamo allettante verso il paese. Senza badare al giovane, Trude si precipitò fuori giusto in tempo per riacciuffare Ben che aveva aperto il portone. Lo richiuse, prese il figlio per un braccio e lo trascinò in cucina. Il ragazzo del circo stava in piedi accanto al tavolo e la guardava, in attesa. «Si accomodi», gli disse Trude distrattamente, mentre lavava le mani di Ben sotto il rubinetto e lo sgridava: «Non si corre sulla strada! Quante volte te l'ho detto?» Non fece attenzione al coltellino nel lavello, con cui aveva tagliato il cavolo per la cena. Il ragazzo prese dalla tasca della camicia una fotografia, gliela mostrò e le spiegò di che si trattava. Trude si asciugò le mani nel grembiule, prese la fotografia e le lanciò uno sguardo, rigirandola più volte tra le mani prima di appoggiarla sul tavolo della cucina. «Ho saputo», disse. «Mi dispiace molto, ma non posso esserle di grande aiuto. Ho visto la ragazza solo durante lo spettacolo. Domenica, forse ricorderà, ero lì con lui. Lo ha fatto montare sul cavallino e gli è piaciuto tanto.» Indicò il figlio mentre parlava. Non vide che Ben aveva già in mano il coltello. Lui vide che la madre aveva appoggiato qualche cosa sul tavolo e si avvicinò, incuriosito. «Via le mani», avvertì Trude, ma Ben aveva già la foto in mano. «Ben fatto», biascicò lui, pieno di gioia nel riconoscere la trapezista. Di colpo, si mise a saltellare selvaggiamente intorno al tavolo, tenendosi davanti la fotografia e accoltellando l'aria come per fare a pezzi l'immagine della giovane. Trude lo rincorse, lo agguantò e gli strappò il coltello e la foto dalle mani. Lo scrollò e gli gridò di nuovo: «Sai che non devi toccare i coltelli. Poi ti tagli e ti fai male».
Non appena lo lasciò andare, Ben affrontò il giovane e gli sferrò un pugno allo stomaco inveendo contro di lui: «Carogna!» Poi si lasciò cadere sul pavimento accanto alla stufa, dove giaceva la nuova bambola. L'agguantò, si rotolò avanti e indietro, si rialzò in piedi, e colpì la testa della bambola con un pugno gridando di nuovo: «Carogna! Freddo!» e facendo a pezzi il vestitino. Poi ne gettò un lembo al ragazzo, strappò una gamba alla bambola e la buttò sul pavimento. «Demonio!» gridò Trude. «Perché rompi anche questa?» Cercò di scusarsi con l'estraneo. «È un selvaggio, a volte, ma non è pericoloso. Spero che non le abbia fatto nulla.» «No, niente», disse il giovane prendendo la fotografia e accomiatandosi frettolosamente. Trude restò immobile. Rivide mentalmente quanto era appena successo, ricollegò la scena ad altre vissute con Ben e a quanto era accaduto la notte di lunedì, al pigiama sporco e a Thea Kressmann che compativa ipocritamente la povera Renate. In quel preciso istante, le si gelò il sangue nelle vene. «Dio santissimo», mormorò fissando Benf «Bruno ha fatto veramente del male a quella ragazza, e tu l'hai visto, vero? Che il cielo ci protegga. Non devi fare mai, mai, del male a qualcuno, hai capito? È male fare così a una ragazza. Ma dimmi: hai visto Bruno fare del male a quella ragazza?» Naturalmente Ben non rispose. Trude respirava a fatica e sentiva le lacrime pungerle gli occhi; si passò una mano sulle guance, mentre balbettava: «Che cosa ne faccio di te, ora?» Poi pensò ad altre possibili conseguenze, oltre al solito spirito di emulazione di Ben. «Bruno sa che lo hai visto? Lui ti ha visto?» La voce di Trude si fece sempre più stridula. Agguantò Ben per le spalle, implorando: «Di' qualcosa. Di' almeno sì o no». Lui la guardò, confuso dalla sua agitazione, dondolando il capo e le spalle come faceva in presenza di qualcosa di spiacevole, o quando cominciava ad annoiarsi. 21 AGOSTO 1995 Intorno a mezzogiorno un furgone si fermò alla fattoria degli Schlösser. Trude era in cucina; il rombare del motore si confuse con lo sfrigolio della padella. Pensò che fosse Jakob, anche se raramente rientrava a casa per pranzo. Lo faceva solo in casi particolari, e quella era una situazione particolare. Una medicina: come poteva Jakob proporre cose del genere? Allora
la situazione era così grave, secondo lui? Ma per Trude era ancora peggio. C'erano tante cose taciute. Jakob aveva già abbastanza preoccupazioni. Non era il caso di riferirgli di un vecchio osso, di una mutandina sporca di sangue e di una borsetta che Ben aveva trovato là fuori, chissà dove. Forse, nel frattempo, Heinz Lukka aveva già informato la polizia delle urla della ragazza sentite in luglio. Trude si vedeva ancora davanti la scena del giorno prima e, mentre girava la salsiccia nella padella, fu colta da un senso d'impotenza. Non fece caso alla vettura che spense il motore nel cortile. Sentendo il campanello della porta, trasalì. Guardò dalla finestra, vide il furgone e pensò che Satana in persona fosse venuto a carpirle suo figlio. O forse era l'Angelo della Giustizia che la puniva per il suo amore materno che l'aveva resa cieca e colpevole? «Come hai osato tacere, quindici anni fa? Come osi tacere ora? Come potevi pensare che quei graffi alle mani fossero provocati dal filo spinato? Chiunque avesse un briciolo di buon senso avrebbe capito. Lui ti aveva messo la borsa sul tavolo. Era facile supporre che i graffi fossero dovuti alle unghie di qualcuno che si difendeva.» Mentre si asciugava le mani sul grembiule e si avviava lentamente alla porta, Trude sentì quel ronzio spiacevole alla testa. Non era un angelo e neppure il diavolo, solo due uomini in uniforme. Lei li fissò e, in preda al panico, vide dinanzi a sé il viso grasso di Wilhelm Ahlsen, e si chiese che cosa volessero da lei quei due poliziotti. Non era nulla, semplice routine. Volevano solo farle alcune domande, come stavano facendo a molti abitanti della Bachstrasse e a chi abitava nei dintorni. Aveva notato nulla di strano, la notte in cui Marlene Jensen era scomparsa? «No, proprio nulla», rispose Trude. Chi viveva in quella casa, oltre a lei? chiesero i poliziotti. «Solo mio marito e mio figlio», rispose lei, aggiungendo con voce abbastanza decisa: «Adesso non sono qui, però». Che bugia spudorata. Ben era nel suo letto che dormiva; era tornato a casa per colazione ed era al piano di sopra. Mentire per Ben era diventata per lei un'abitudine connaturata, faceva parte della quotidianità, come dar da mangiare ai suoi maiali. L'assenza dei due uomini parve naturale ai poliziotti, visto che era lunedì mattina. Ma forse loro avevano notato qualcosa? vollero sapere. «No», affermò Trude. «Me l'avrebbero detto, in quel caso. Abbiamo let-
to la notizia sul giornale, e ormai non si parla d'altro. Ma quella notte stavamo già dormendo. Ci siamo coricati presto. Ci corichiamo sempre presto.» Notato nulla di strano? «No, nulla», dichiarò nuovamente lei. «Che vuole che si noti, quando si vive così isolati? Certo, ogni tanto si sente passare un'auto diretta al Boschetto. I giovani ci vanno, si sa. Ma se c'è la televisione accesa, o la radio, non si sente nulla. Ho sentito dire in paese che Marlene era salita in auto con due estranei. Non si sono ancora fatti vivi, quei due?» Non le risposero. Non appena i due poliziotti si allontanarono dalla fattoria, Trude si sedette a tavola e aspettò finché il cuore non cessò di martellarle nelle tempie. Aveva ancora quel ronzio nelle orecchie, le pareva che la testa le stesse per scoppiare per la pressione che l'opprimeva. Ben ricomparve in cucina poco dopo, il viso segnato dall'impronta delle coperte. Sedette a tavola. Trude gli tagliò la salsiccia a pezzettini, lavò il coltello, lo ripose al sicuro. Poi si sedette accanto al figlio e lo guardò mentre divorava il pranzo. «È stata qui la polizia», disse. «Volevano sapere se abbiamo sentito o visto qualcosa.» Attese con il fiato sospeso, mentre Ben trangugiava i bocconi in fretta e furia. «Se mi dicessi almeno dove trovi tutte quelle cose», proseguì. «Quella borsetta, ricordi, un mese fa? Mi aveva fatto piacere che tu me l'avessi portata. Sei stato bravo. L'hai solo trovata, la borsetta, vero?» Lui annuì. Annuiva a tante domande, mentre per altre scuoteva la testa. Solitamente dipendeva dal tono di voce che si usava. Se si parlava con gentilezza, annuiva. Se il tono era brusco, aveva un moto di rifiuto. Non ci si poteva fidare della sua reazione, Trude lo sapeva perfettamente. Ben aveva vuotato il piatto e stava per alzarsi, ma lei gli mise una mano sul braccio. «Stai seduto e attento», gli impose, e cominciò a interrogarlo a proposito di Marlene Jensen e Svenja Krahl. Aveva visto le due ragazze, dove, quando, sole o in compagnia di qualcuno, che cos'era successo in seguito, dov'erano adesso? Ma Ben si comportò come per la gatta di Hilde. Ripeté più volte: «Via le mani». Trude assentì gravemente. «Sì, via le mani. Non devi toccare quelle ragazze. A loro non piace. E non devi neppure spaventarle, come hai fatto con Annette e Albert.» Ben si agitò inquieto sulla sedia. «Amico», disse poi.
Trude scosse il capo. «Povero stupidone. Albert non è mai stato tuo amico. Voleva solo renderti ridicolo. È uno schifoso. Gli hanno messo da sempre troppi soldi in tasca, fin da bambino. Pensa di poter comprare ciò che vuole. E se non fai come vuole lui, prima o poi te la fa pagare cara.» «Amico carogna», rispose Ben alzandosi e dirigendosi alla porta. La madre lo seguì con lo sguardo, sospirando. «Sì, Albert è sempre stato una carogna. L'hai capito, bravo.» Trude uscì in bicicletta poco dopo per andare dal medico. Sentiva che la pressione sanguigna non era normale, ormai erano giorni che andava avanti così. Quella tensione alle tempie, quel ronzio alle orecchie, quei mancamenti improvvisi, la paura, quella tremenda paura che le faceva mancare il respiro. Nella sala d'attesa del medico la paura aumentò. Anche se era in anticipo, visto che le visite iniziavano solo alle tre, c'erano già alcune persone. E, come al solito, nessuno sfogliava le riviste della settimana precedente. C'erano argomenti più interessanti. Dopo aver ascoltato per un quarto d'ora le ipotesi e le congetture su Marlene Jensen, Trude chiese all'infermiera se poteva solo misurarle la pressione, dato che Ben era chiuso a casa da solo, e di certo si stava già innervosendo. Ma aveva la pressione troppo alta e dovette aspettare il suo turno. Il medico le preparò una ricetta, e le consigliò di risparmiarsi un po', con tanti saluti a Jakob. Fu una tortura ritirare la medicina nella farmacia di Erich Jensen. Fortunatamente Maria, che di solito si occupava del banco dei cosmetici, non era presente. Erich c'era, ma era nel retro a scrivere e non alzò neppure la testa dal foglio. Fu Annette Lässler, che aiutava lo zio come commessa, a ritirarle la ricetta e a consegnarle la scatola di farmaci. Trude pagò e ritornò a casa. Mentre percorreva il Feldweg, ripensava ai poliziotti che sciamavano nel Boschetto, alla pala pieghevole, al coltello che era sparito per un'intera settimana. Udiva la voce di sua madre: «Bambini piccoli, problemi piccoli. Bambini grandi, problemi grandi». In passato c'erano stati solo i pulcini, una gatta e le bambole. IL PRATO DELLE MELE È comprensibile che Trude tacesse quando scomparve la giovane trapezista nell'agosto dell'80. Lei non aveva visto nulla, tranne il comportamen-
to di Ben, né aveva sentito nulla tranne alcune chiacchiere e due parole nuove pronunciate dal figlio. Quanto poteva essere credibile un testimone debole di mente di appena sette anni? C'erano anche altri testimoni, benché le affermazioni di Maria Jensen e Heinz Lukka non contenessero alcun elemento che provasse un eventuale delitto. Solo le affermazioni di Gerta Franken erano in grado di fornire una prova convincente, ma lei non si rivolse mai alla polizia. Erich Jensen venne a conoscenza del fatto in quanto membro del consiglio comunale. Ma aveva cose più importanti di cui occuparsi che ascoltare le chiacchiere di una vecchia pazza. Quell'anno, erano rimaste poche aziende agricole nella zona. La maggior parte delle piccole fattorie era stata ceduta: troppo lavoro e reddito insufficiente. Le offerte di cedere le proprietà per farne terreni edificabili erano abbastanza allettanti. Fu la Bachstrasse a risentire in particolar modo della tendenza, diventando così sempre più lunga. Sulle proprietà sufficientemente estese furono edificate case unifamiliari di discrete dimensioni, quasi delle piccole ville. Anche alcune vecchie proprietà che confinavano con i Lässler e con il terreno di Jakob erano state vendute e i nuovi proprietari le avevano ristrutturate con ostentazione, facendole diventare veri e propri gioiellini. Nella città di Lohberg, della cui circoscrizione faceva parte il paese da quattro anni, la Bachstrasse era considerata una zona residenziale alla moda e di conseguenza i poderi di Jakob e Otto Petzhold davano molto fastidio. Chi avrebbe voluto sdraiarsi sul prato all'inglese per essere disturbato da uno sciame di mosche appena uscite da una stalla? Nessuno però teneva in conto il fatto che le stesse mosche potevano provenire dal porcile di Paul Lässler che abitava proprio accanto alla Bachstrasse. Era da dimostrare che Otto Petzhold, con le sue cinque vacche, potesse costituire un fastidio per qualcuno. L'ingresso della sua proprietà si trovava sulla Bachstrasse, e i suoi cinquanta iugeri di terra si estendevano a est del Boschetto. Da sempre Otto aveva percorso con il suo trattore la Bachstrasse, non aveva mai fatto il giro dietro i giardini, neppure con le sue vacche. Così ogni tanto sulla strada si trovava dello sterco. Jakob, invece, utilizzava sempre l'uscita posteriore. A ogni riunione del consiglio comunale, Jensen proponeva di far trasferire le due fattorie, facendo un'offerta vantaggiosa ai proprietari, ma si scontrava sempre con un rifiuto, soprattutto da parte di Heinz Lukka che, come il farmacista, conosceva perfettamente le persone con cui avevano a
che fare. Evidentemente, se offrivano condizioni vantaggiose a Jakob Schlösser e a Otto Petzhold, non avrebbero potuto rifiutare lo stesso trattamento a Paul Lässler, se anche lui avesse deciso di trasferirsi altrove. In quel caso, sarebbe stato d'accordo anche Bruno Kleu? Comunque, trasferire le due fattorie non avrebbe risolto il problema della Bachstrasse. Il terreno di Gerta Franken era un vero pugno negli occhi per gli abitanti della zona. Era il fondo più a margine di tutto l'abitato e, come il terreno di Jakob, percorreva tutta la Bachstrasse fino al Feldweg, e dunque aveva un notevole valore. Solo il giardino sul davanti della casa, un groviglio di avena selvatica, rose incolte e sambuco che richiamava tutti i parassiti della zona, sarebbe stato sufficiente per costruirvi un condominio con un ampio giardino. Nessuno in realtà desiderava un edificio di quel tipo, ma teoricamente lo spazio era disponibile. Il giardino retrostante, poi, era grande il doppio e pareva una vera e propria giungla. La casetta di Gerta, di contro, era una piccola costruzione a traliccio vecchia di duecento anni, tutta sghemba e priva di valore. Con il tempo, l'argilla delle pareti era diventata fradicia e cadente. I tarli avevano lasciato il segno nella grossa trave che attraversava orizzontalmente tutta la costruzione, quindi era solo questione di tempo e, prima o poi, la catapecchia sarebbe crollata definitivamente e sarebbe stato necessario cercare la vecchia Gerta sotto le macerie. Jensen sosteneva spesso che non si poteva permettere una cosa del genere: una vecchia come Gerta andava affidata alle cure delle generose suore del convento del luogo o del canonico decano di Lohberg, con un provvedimento coercitivo, se necessario. La sua stessa età giustificava una misura simile. Gerta Franken era nata nel 1891 ed era sola al mondo. All'inizio del secolo, per breve tempo aveva avuto un marito. Un bel giovanotto, diceva allora il padre di Jakob. Era caduto nella prima guerra mondiale e da allora Gerta era mezza uscita di senno. Era rimasta chiusa in casa per settimane senza mangiare né bere, non parlava con nessuno e non dormiva. C'era chi diceva che con il tempo lei avesse perso anche l'altra metà del senno. Ma forse l'anziana donna sapeva troppo. A volte, si presentava in chiesa alla prima messa del mattino e affrontava il parroco gridandogli: « Non ti addormentare lì davanti! Alla tua età faresti bene a dormire, la notte! Ma certamente te la sei spassata di nuovo con Liesel ».
Liesel era la perpetua del parroco e, come il suo padrone, aveva superato la sessantina. Trent'anni prima, per alcuni mesi in paese erano girate chiacchiere al riguardo perché c'era stato bisogno della levatrice, e non per un parto. Gerta sapeva e parlava di cose passate come se fossero successe il giorno stesso: ricordava perfettamente anche il giorno in cui Heinz Lukka si era spezzato un canino e il dentista glielo aveva dovuto ricoprire. All'osteria di Ruhpold, Heinz aveva spiegato che si era rotto il dente scivolando in bagno e sbattendo contro il bordo del lavandino. Era successo all'inizio di novembre del 1969, una settimana buona dopo che Heinz aveva salvato Maria Jensen, nata Lässler, da un losco figuro. Da allora Gerta andava in giro a dire che non era stato il bordo del lavandino ma il pugno di Bruno Kleu che aveva colpito Heinz ben due volte, e precisamente nel suo giardino. Inoltre, l'ultracentenaria raccontava che alla fine di ottobre del '69 non era avvenuta nessuna aggressione, né violenza. Bruno e Maria erano a passeggio sul Feldweg, si erano scambiati alcune effusioni, poi si erano rintanati nel giardino di Gerta. Là, tra i cespugli, era avvenuto il fattaccio. Maria non si era difesa, aveva solo protestato un po'. Faceva troppo freddo per spogliarsi come avrebbe voluto Bruno. A quel punto, era apparso il cane di Lukka, che puntualmente si perdeva nel giardino di Gerta. E dove appariva il cane, nei dintorni c'era il padrone. All'inizio, Heinz era rimasto sul viottolo aspettando che l'animale facesse i suoi bisogni, ma nel frattempo il cane aveva disturbato i due giovani. Quando Bruno cercò di scacciare il cane, l'avvocato intervenne aizzandogli contro l'animale, perché Heinz sbavava per Maria. Tutto il resto era stata pura invenzione, in modo che Maria non avesse problemi con suo fratello ed Erich Jensen non potesse trarre le dovute conseguenze dall'incertezza di Maria nei suoi riguardi. In quel periodo, infatti, Maria usciva regolarmente con Erich. Gerta soffriva di insonnia da anni. Ogni notte si sedeva alla finestra della sua camera da dove godeva di una vista perfetta. Fino alla metà degli anni '80 tutti i viottoli dei campi erano in pessime condizioni, quindi quasi impraticabili, se non con il trattore. Chi si avventurava nel Boschetto con l'auto rischiava di rimanere impantanato nei solchi profondi lasciati dai trattori; così, di solito, tutte le coppiette si appartavano sulla strada ampia che passava dietro i giardini, che era già asfaltata. Chi non disponeva di un'auto si nascondeva nel giardino di Gerta e poteva così agire indisturbato.
Alcuni si appartavano anche solo per un'oretta, ed erano sposati, ma non l'uno con l'altra. Ben aveva imparato da Gerta a usare il binocolo. Non appena scendeva il crepuscolo, era impossibile riconoscere le persone che andavano a spasso, che sedevano in un'auto o si scambiavano effusioni dietro un cespuglio. Il binocolo metteva a fuoco i visi degli interessati e i racconti dell'anziana donna avevano messo più volte la pulce nell'orecchio a mariti e mogli, tanto che erano parecchie le persone che le auguravano un accidente. Quando le gambe le funzionavano bene, Gerta trascorreva i pomeriggi miti su una panca nella piazza del Mercato. La farmacia era proprio là di fronte e sopra il negozio c'era l'appartamento di Erich e Maria Jensen. Accanto a loro abitava Heinz Lukka. E se passava qualcuno, Gerta si lamentava a voce alta dicendo che anche i peggiori nemici facevano comunella se avevano uno scopo comune, cioè quello di far fuori una vecchia donna indifesa. Gerta raccontava che da anni Erich tentava di farla morire con le sue polverine solo per risparmiare i soldi della pensione sociale che lei percepiva come vedova di guerra. E Heinz, ogni sera, le lanciava addosso quel bastardo del suo cane solo per impossessarsi della sua proprietà. Che nessuno si sorprendesse, se un giorno l'avessero trovata in giardino con la gola squarciata. Le sue affermazioni non erano del tutto campate in aria, visto che Jensen aveva effettivamente dichiarato che con quella vecchia megera bisognava aiutare la natura, magari con un sonnifero. La sua era stata una battuta, ma Gerta non stava allo scherzo, ed era d'altro canto risaputo che Lukka guardava al suo terreno con un certo interesse. Quando l'avvocato aveva messo in vendita la casa paterna prendendo in affitto l'appartamentino sulla piazza del Mercato, forse nutriva alcune speranze nei riguardi della sua vicina. La scelta di Maria a favore del farmacista non aveva fatto soffrire solo Bruno Kleu. La sorella di Paul era stata il grande amore di Heinz; Bruno certamente si sarebbe consolato con le ragazze di Lohberg, perché era ancora giovane, mentre Heinz Lukka, a quarant'anni suonati, ormai non sperava più di trovar moglie. Si rese conto ben presto che vivere vicino a Maria non serviva comunque ad avvicinargliela di più. Decise di cambiare casa soprattutto perché Erich non amava i pastori tedeschi e perché aveva bisogno di più spazio. Date le dimensioni ristrette del suo appartamento, Heinz era costretto a portare il cane a correre nei campi e il fatto che andasse dietro i giardini
era dovuto semplicemente alle buone condizioni della strada e alla possibilità di arrivarci in auto. Tuttavia Heinz non voleva sporcare quella strada con escrementi di cane e perciò portava il cane nel giardino di Gerta, senza per questo nutrire alcuna intenzione omicida nei confronti della proprietaria. Nell'agosto dell'80 ci fu un omicidio. Nel giardino di Gerta Franken. Lei ne parlò parecchi giorni dopo, non alla polizia e neppure a quel giovane artista che aveva chiesto della sorella: non l'aveva neanche fatto entrare in casa. Lo raccontò a Hilde Petzhold e a Illa von Burg, che a turno le portavano un pasto caldo al giorno, le ritiravano la spesa, le lavavano la biancheria e le tenevano in ordine la casa. Hilde lo raccontò a Erich, che non la prese sul serio, esattamente come aveva fatto Illa, perché l'anziana donna aveva affermato che la vittima era Maria Jensen. L'errore dipendeva dalla sorprendente somiglianza tra le due giovani. Come Maria, Althea Belashi aveva lunghi capelli biondi, una figura minuta e un viso delicato. Era mezzanotte passata. Gerta si era appisolata nella vecchia poltrona davanti alla finestra quando improvvisamente fu svegliata da un grido che si trasformò ben presto in un rantolo sordo. Contemporaneamente udì una voce imprecare. Avvicinò agli occhi il binocolo e percorse con lo sguardo il viottolo. Nulla. A prima vista, neanche nel suo giardino si riuscivano a distinguere delle figure. Solo quando sentì un rumore di rami spezzati, notò il punto dove era accaduto qualcosa. La situazione era chiara e, con i suoi ottantanove anni, Gerta, affascinata, non intervenne. Non possedeva un telefono per chiamare aiuto. Forse sarebbe stato sufficiente urlare per fare scappare l'aggressore prima che la situazione precipitasse. Forse l'anziana donna non ci pensò o non lo fece per motivi che solo lei conosceva. All'inizio pensava persino che la donna che riteneva fosse Maria Jensen sarebbe uscita vittoriosa da quella lotta disperata. Quando si rese conto di aver sbagliato ipotesi, era ormai troppo tardi per intervenire. Gerta ebbe paura di mettere in pericolo la propria vita facendosi notare. Ci voleva poco per entrare in casa sua dalla porta posteriore. Non si seppe mai se avesse riconosciuto l'omicida. Probabilmente lo riconobbe, e probabilmente sapeva anche perché non fu mai trovato un cadavere. Per di più era certa che fosse presente un altro testimone oculare: Ben. Gerta confidò una cosa a Hilde che non lascia dubbi in proposito; una confidenza che fece il giorno in cui il circo levò le tende e lei ebbe modo di vedere qualcosa di spaventoso. Era il sabato successivo all'omicidio di
Althea Belashi, cui nessuno credeva. Nel primo pomeriggio, seduta accanto alla finestra dello stanzino, Gerta osservava il terreno di Jakob, interessata soprattutto al prato delle mele. Da quella postazione consueta, lei osservava spesso i movimenti di Trude mentre raccoglieva la frutta caduta a terra con accanto il figlio Ben. E aveva anche notato che la donna mostrava al figlio il Pozzo sprofondato e, indicandolo con il dito, lo avvertiva del pericolo che rappresentava. E quel sabato di agosto dell'80, Gerta vide Ben andare di soppiatto verso il campo; era solo, ma questo non era un fatto eccezionale. La zona gli era vietata, sì, tuttavia, se non c'era nessuno in giro, ci andava lo stesso. L'anziana donna era convinta che lui fosse a conoscenza del pericolo che il terreno rappresentava, tanto che poggiava i piedi con estrema cautela, facendo scorrere lo sguardo sui profondi avvallamenti mentre si avvicinava al Pozzo a cielo aperto. Gerta pensò che stesse esagerando. A modo suo, provava una forte simpatia per quel ragazzo. Ai suoi occhi, Ben non era ipocrita e astuto, bugiardo e corrotto come Albert Kressmann, Dieter Kleu e le ragazzette che ultimamente si vedevano in circolazione sulla Bachstrasse. Questo non significava certo che ci si potesse fidare di lui, Gerta lo sapeva benissimo. L'innocenza di cui parlava Trude era lungi dal corrispondere alla sua natura. L'anziana donna aveva visto Ben che spaventava sua madre, quel venerdì di maggio, presentandole i brandelli di carne e i feti di gatto, e ne aveva parlato a Illa von Burg. Si era addormentata vicino alla finestra ed era stata svegliata dai richiami di Trude, cosicché aveva avvicinato il binocolo e non aveva più perso di vista il Feldweg, controllando che lui ci fosse. Lo vide improvvisamente tra le more del suo giardino, e si meravigliò che non avesse risposto al richiamo della madre. Doveva essere rimasto nascosto lì per tutto quel tempo, pensò lei, altrimenti lo avrebbe certamente visto. Gerta era scesa da basso per mandarlo a casa. Eccolo là, accovacciato tra i rovi con quel corpo mutilato. Camicia e pantaloni erano strappati dalle spine, le mani e gli avambracci completamente graffiati, e lui stava rovistando con il coltello tra le viscere, mentre estraeva qualcosa dalle tasche e ne riempiva il corpo tagliuzzato. La schiena graffiata di Ben, che aveva tanto impensierito Trude, era opera di Gerta e della sua frusta. Solo così la vecchia era riuscita a convincere Ben a uscire dai cespugli, lasciando stare la carogna, e ad andarsene finalmente a casa con il suo coltello e un brandello di carne in mano. Gerta non aveva notato che aveva gli intestini nella tasca dei pantaloni. In quel mo-
mento, si era sentita molto soddisfatta. Ben le aveva ubbidito, e poi... a lei, i gatti non piacevano. Non riusciva a capire tutte le smancerie di Hilde Petzhold per quella bestiaccia. Aveva afferrato i resti dell'animale per la coda e l'aveva gettato nel Pozzo. Meno di tre mesi dopo che Gerta lo aveva sorpreso con la gatta morta, Ben si avvicinò nuovamente al Pozzo. Certamente la vecchia non voleva che gli accadesse qualcosa. Scese a fatica i gradini sbilenchi sulle gambe malferme per l'età e si avventurò nel giardino. Ben era scomparso. Si riparò gli occhi dal sole con la mano, scrutò faticosamente il giardino e finalmente notò un movimento nell'erba alta. Ben era steso bocconi accanto al Pozzo aperto. «Ehi!» gridò. «Vieni via da lì, fai presto.» Ben si rialzò e le si fece incontro. Vide che teneva in mano qualcosa, ma le sembrò una specie di manico, qualcosa di banale. Quando fu dinanzi a lei, a meno di due metri di distanza, dal manico scattò una lama. «Guarda un po'», disse Gerta sorpresa. «E quello da dove viene? È meglio che tu lo porti a tua madre, prima di tagliarti un dito.» Lui le agitò il coltello davanti agli occhi. Solo lo steccato basso e fatiscente del giardino li divideva. «Mettilo via», impose lei energicamente. «Non è un giocattolo. Non te l'hanno insegnato? Coltelli, forchette, forbici e corrente per i bambini non van bene per niente.» «Carogna», disse Ben. «Sta' attento a come parli», replicò Gerta. «O ti metto tuo padre alle calcagna. E allora altro che carogna, ti passa di certo la voglia di dire certe cose.» «Carogna», ripeté Ben, alzando la mano che teneva il coltello e fendendo l'aria come per colpire qualcuno. Gerta arretrò di qualche metro e, poco convinta, stese la mano intimandogli: «Dammelo». «Via le mani», rispose lui e nascose la mano dietro la schiena. Poi si avviò verso il fienile. Scuotendo la testa, Gerta guardò il ragazzo, finché non scomparve nella luce crepuscolare. Qualche secondo dopo, udì un grido infantile. Antonia Lässler era andata a far visita a Trude con la figlia Annette di quattro anni. Gerta non ci fece caso. Tornò a casa, salì le scale e si sedette nuovamente alla finestra. Rivide Ben dieci minuti dopo, e questa volta non era solo. Ben teneva un corpo sottobraccio. Vide che aveva i capelli biondi e un
vestitino costoso. Vide anche le gambe e le braccia che dondolavano prive di vita al ritmo del passo del ragazzo. Per un attimo ebbe la sensazione che il cuore smettesse di batterle in corpo. Questo è quanto raccontò in seguito a Hilde. Forse, in quel preciso istante, Gerta sentì la coscienza rimorderle, perché lo aveva lasciato andare via con il coltello; perché non aveva parlato a Trude della notte in cui era stata uccisa la ragazza dai capelli biondi, pur conoscendo bene l'istinto di emulazione di Ben e divertendosi spesso nel vedere come faceva l'idiota con Albert Kressmann. È difficile stabilire che cosa passò per la mente di Gerta in quell'istante. Non aveva certamente dubbi sull'identità del corpo minuto che Ben portava sotto il braccio: era la piccola Lässler. Non pensò di guardare con il binocolo. In fondo era pieno giorno, e comunque i suoi occhi ci vedevano abbastanza bene, nonostante l'età avanzata. Se lo avesse fatto, avrebbe certo constatato che sbagliava. Ben doveva aver rotto l'osso del collo alla piccola Annette, altrimenti lei si sarebbe ribellata a quella presa brutale, avrebbe gridato, scalciato, pensava Gerta. Non successe nulla del genere. La bambina non si mosse neppure allorché Ben la depose sull'erba. Il ragazzo si guardò attentamente intorno e, vedendo Gerta alla finestra, alzò una mano quasi volesse salutarla. Ma nella mano stringeva il coltello. La vecchia lo vide infierire con l'arma sul corpo, e colpire e colpire ancora. Lo vide strappare il vestitino dal corpo immobile e vide che si sdraiava sulla bambina. Vide persino i movimenti scandalosi che compivano i suoi lombi sul corpo. Dove e quando avesse visto tutto ciò, era fuori dubbio: la notte dell'omicidio, nel suo giardino. Ecco dove aveva imparato quelle nuove parole. Gerta aveva sentito l'omicida che, colpito in un punto delicato, sibilava ansimante: «Maledetta carogna, ti freddo io». Poi Ben si alzò, si accertò che Gerta fosse ancora al suo posto, afferrò una gamba del presunto cadavere e la lanciò verso il Pozzo facendola scomparire alla vista. Un paio di ore dopo, Hilde arrivò a casa di Gerta con la cena e trovò l'anziana donna immobile davanti alla finestra dello stanzino. Hilde salì le scale e si precipitò alla porta. «Non stai bene, Gerta?» «Ha ammazzato la bambina», disse la vecchia con tono monocorde. Hilde sul momento non capì che cosa intendeva dire. «La bambina dei Lässler», berciò l'anziana donna. «Ben l'ha pugnalata e l'ha gettata nel Pozzo, come ha fatto quel ragazzo domenica scorsa con
Maria.» «Tu sei matta», le disse Hilde. «Maria sta benissimo, nessuno le ha fatto del male.» «Ma io ho visto tutto», insistette Gerta. 22 AGOSTO 1995 Solo martedì la stampa riportò la notizia dell'esito negativo delle ricerche compiute, che non si erano limitate alla Fossa e al Boschetto. Parlando delle indagini, il giornalista responsabile della cronaca locale usava un tono di velata riprovazione per non essere stato informato del fatto né aver avuto sentore dell'accaduto. Finalmente la polizia di Lohberg era riuscita a rintracciare i due giovani con cui era salita in auto Marlene Jensen. Nell'articolo si riferiva che il fermo di Klaus P. e Eddi M. era dovuto esclusivamente alle dichiarazioni del giovane Dieter K. Certo si trattava di Dieter Kleu. E, in altre circostanze, la sua «azione audace», come la definiva il giornalista, sarebbe stata motivo di compiacimento. L'umiliazione subita da parte di Klaus e Eddi di fronte a Marlene continuava a rodere Dieter. Come suo padre Bruno anni prima, quando aveva giurato di vendicarsi di Paul Lässler, Heinz Lukka ed Erich Jensen per non aver conquistato Maria, anche Dieter non intendeva farla passare liscia ai suoi due rivali. Poiché suo padre gli aveva proibito di mostrarsi in pubblico finché avesse avuto segni visibili in viso, Dieter si appostò ogni sera nel parcheggio del Da capo. La discoteca era aperta anche nei giorni feriali e alla fine il sabato seguente la sua pazienza fu premiata. La sera prima delle ricerche, Klaus e Eddi andarono al Da capo, come se nulla fosse accaduto. Quella volta tentarono con Karola Jünger, una sedicenne che abitava nelle case di recente costruzione lungo il Lerchenweg. Anche Karola poco dopo l'una di notte salì sui sedili posteriori dell'auto con Eddi. Klaus si mise al volante e puntò verso il Feldweg, svoltando a sinistra davanti alla villetta di Lukka. E lo stesso fece Dieter, a fari spenti. All'altezza del prato delle mele recintato, l'auto si fermò. Il giovane Kleu si tenne a distanza di sicurezza, all'incirca dietro la casa di Lukka. Dovette pazientare un po', perché Karola non era restia a divertirsi con Eddi; quando però anche Klaus volle unirsi a loro, ne ebbe abbastanza. Dopo una violenta zuffa, la ragazza si ritrovò sul Feldweg. I ragazzi le tirarono dietro la
borsa, la giacca e altri capi d'abbigliamento, mentre l'auto sgommava via. Dieter raccolse la ragazza sconvolta e l'accompagnò alla stazione di polizia di Lohberg. Là riferì con enfasi quello che sapeva su Marlene Jensen e il fine settimana precedente. Il poliziotto di guardia informò a sua volta il capoufficio. Tramite il numero di targa dell'auto si risalì a Eddi perché l'auto era immatricolata a suo nome. Nessuno pensò di chiedere a Dieter perché non aveva tenuto a mente il numero di targa fin dall'inizio, cioè quando Marlene era salita a bordo dell'auto. Nessuno, del resto, pensò di informarne la procura federale in modo che la polizia criminale cominciasse finalmente a indagare sulla sorte di Marlene. Nonostante le circostanze allarmanti, il capoufficio pensava soprattutto al suo rapporto di amicizia con Erich Jensen, e quest'ultimo desiderava a tutti i costi evitare uno scandalo. Eddi fu prelevato da casa alle sei del mattino e poco dopo fu interrogato con Klaus. Entrambi, all'inizio, negarono di avere scambiato anche solo qualche parola con Marlene, ma, di fronte alle affermazioni dei testimoni, ammisero di averla riaccompagnata, non proprio davanti a casa, bensì in periferia. Era lei che aveva insistito, per evitare che il padre si accorgesse della sua fuga. Nel frattempo però un funzionario di polizia aveva esaminato l'auto di Eddi e, tra lo schienale e il sedile posteriore, aveva trovato parecchi capelli biondi e lunghi che corrispondevano a quelli di Marlene. Inoltre, sul fondo trovò due stellette di metallo strappate dai jeans della giovane Jensen. E il capoufficio aveva saputo da Maria che i jeans della figlia avevano quel tipo di applicazioni. I capelli, le stellette e la prospettiva di un secondo interrogatorio da parte di Erich Jensen ottennero il risultato voluto sui due ragazzi che finalmente ammisero di aver percorso con Marlene la stessa strada percorsa con Karola Jünger, e di aver fatto scendere la giovane Jensen dall'auto, come Karola. Non che le cose fossero andate proprio così, visto che Karola era stata letteralmente gettata seminuda dall'auto. Klaus dichiarò che si comportavano sempre così se la ragazza non ci stava e, per avvalorare quell'affermazione, fece alcuni nomi. La domenica, nessuno si prese la briga di verificare nomi e fatti, perché tutti gli uomini disponibili erano impegnati nelle ricerche. Solo il lunedì seguente furono sentite le ragazze coinvolte, e alcune rifiutarono di rilasciare dichiarazioni. I funzionari di polizia non riuscirono a parlare con la diciassettenne Svenja Krahl, perché era scomparsa dal mese di luglio. Nessuno si era pre-
occupato allora di denunciarla alla polizia, e nessuno lo fece in questa circostanza. Il patrigno di Svenja era un alcolizzato disoccupato; la ragazza aveva tre sorelle con cui divideva la camera. La madre riusciva appena a mantenere la famiglia facendo le pulizie, e da tempo sospettava che la figlia si drogasse. Più volte si era impossessata del magro stipendio della madre, così pensavano che la ragazza si fosse trasferita a Colonia. La polizia credette a quell'ipotesi. Il nome di Svenja Krahl non fu fornito alla stampa. Quando tornò dal lavoro la sera, Jakob trovò il giornale sul tavolo in cucina. Sua moglie non era in casa. Lo lesse con attenzione e sentì le spalle irrigidirsi. Se i dati forniti fossero stati confermati... Non sono molte le occasioni di incontro su un viottolo di campagna, la notte. Era necessario appostarsi di proposito. Nessuno avrebbe fatto una cosa del genere, se aveva un po' di sale in zucca, e chi l'aveva, se proprio sbavava per una ragazza, trovava altri modi per riuscire a esaudire i propri desideri. Solo qualcuno con un cervello di gallina si sdraiava nei campi di granoturco, di notte. E non certo per aspettare una ragazza, bensì perché aspettava un amico come Heinz Lukka, che gli diceva una parola buona e gli allungava una barretta di cioccolato. Tuttavia, l'avvocato non sempre era a casa durante il fine settimana. Lui stesso raccontava che, a volte, nel tardo pomeriggio di sabato si recava a Colonia, beveva una birra o un bicchiere di vino in un locale più elegante dell'osteria di Ruhpold e poi ordinava una cena raffinata. Se eccedeva un po' nel bere, non faceva ritorno a casa, pernottava in una stanza d'albergo. Lukka raccontava apertamente di quelle sue gite, anche se alle sue spalle si mormorava sul genere di albergo che frequentava. Forse, era un albergo a ore... Quando le luci in casa dell'amico Lukka erano spente, il figlio di Jakob andava in cerca di altre soluzioni. I graffi sulle mani e sugli avambracci dimostravano che si era infilato sotto il filo spinato e si era allontanato nel campo. Proprio nel punto in cui Klaus e Eddi scaricavano le loro vittime. Mentono, pensò Jakob. Chi non lo farebbe in una situazione del genere? Certo, magari non volevano fare del male alla figlia di Erich. Volevano divertirsi. Ed erano in due. Che cosa può fare una ragazzina così giovane, bloccata in macchina da due giovani robusti, in mezzo a un viottolo buio di campagna? Si potrebbe difendere solo minacciandoli sulle conseguenze. I due si spaventano, e succede il patatrac. Un incidente, certo, ma succede, e
la ragazza è morta. Che se ne fa del corpo, a quel punto? Chiunque conoscesse la zona avrebbe optato per la Fossa, un terreno ricoperto di detriti e vegetazione, oppure per il Boschetto. La polizia, tuttavia, non aveva trovato nulla. E non era molto probabile che due giovani presi dal panico avessero scavato così profondamente da ingannare anche il naso di un cane addestrato. Come si poteva supporre, del resto, che due giovani in cerca di divertimento andassero in giro con una pala? Pareva più probabile che se la fossero svignata, cercando di liberarsi della vittima in un altro posto. Trude aveva fatto sparire il giornale della domenica. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Con Ben era meglio essere prudenti. Attraversava un'età in cui la vista di una ragazza attraente poteva fargli venire in mente strane idee. Non che non sapesse che farsene, dei suoi pensieri. Magari, se avesse osservato Albert Kressmann mentre pomiciava con Annette Lässler nel mese di giugno, be', si sarebbe anche potuto nascondere nel pollaio per trafficare con se stesso. Trude lo aveva già sorpreso più volte in quell'occupazione e non aveva potuto trattenersi dal dargli un buffetto sulla mano. Si era sentita demoralizzata quando lo aveva visto nell'angolo, sul nudo pavimento, seduto in mezzo agli escrementi di galline. Era talmente occupato con se stesso che non l'aveva neanche notata. E Trude si chiedeva se lui sapesse come andavano le cose, se fosse stato in compagnia nel pollaio, anziché da solo. Era sicura che lo sapesse, perché aveva spiato più di una coppietta che amoreggiava. Com'era sua abitudine, Jakob si portò dietro il giornale del martedì per riporlo tra quelli vecchi mentre scendeva in cantina a cercare la moglie. Ma Trude non era in cantina, né nel porcile, neanche nel pollaio e neppure in giardino. Strano. Conosceva gli orari del marito e faceva sempre in modo di fargli trovare il pranzo pronto in tavola. Affamato, Jakob rientrò in casa e aprì il frigorifero. Trovò una ciotola di patate lesse che stavano marcendo. Molto strano. Non era nelle abitudini di Trude dimenticare in frigorifero patate pronte da arrostire. Jakob fece per gettare il contenuto della ciotola nel secchio, ma era colmo. Così prese la ciotola e il secchio, e si diresse verso la pattumiera. Alzando il coperchio vide che c'era il vaso di vetro che aveva gettato via la domenica precedente. Depose il secchio, prese il vaso e lo tenne controluce. Marlene Jensen portava un giaccone di jeans, e la stoffa che si trova-
va tra le immondizie e la muffa era abbastanza sporca. Quelli mentono, pensò Jakob, certo che mentono. Fece cadere il vaso nel bidone della spazzatura, ci rovesciò sopra le patate andate a male, prese il secchio e ci versò sopra anche quello. Ora non si vedeva più nulla. Tornò a casa, si fermò davanti alla porta e guardò verso la strada. Trude si avvicinava velocemente pedalando sulla sua bicicletta, lo raggiunse e scese senza fiato. «Sei già qui?» chiese, quasi fosse primo pomeriggio. «Sono quasi le otto», replicò Jakob. «Mi dispiace», si rammaricò lei, che pure pareva sollevata. «Sono stata da Antonia, poi ho fatto un salto da Heinz. Li hanno presi, hai letto?» «Sì. Ho anche letto che insistono nel dire che le hanno fatte scendere, le ragazze.» «Certo che lo dicono», disse la moglie. «Non ammetteranno con facilità come sono andati veramente i fatti. Heinz però pensa che negare non servirà a nulla.» «Ah, se lo dice Heinz...» brontolò Jakob, e rientrò in casa. Però questa volta si augurava che l'avvocato avesse ragione. Trude mise la bicicletta nel fienile. Si ritrovarono soli per cena. Ben non tornò a casa quella notte. Tutto procedeva nel solito modo. ANNI DIFFICILI Non fu difficile chiarire che Ben non aveva ucciso Annette Lässler nell'agosto dell'80. Appena mezz'ora dopo che la vecchia Gerta aveva comunicato quanto aveva visto a Hilde, questa si precipitò nella cucina di Trude, ma tentennò un po' prima di riferirle le affermazioni dell'anziana donna. Trude non sapeva che dire. Ben aveva strappato la bambola ad Annette e l'aveva gettata a terra, ecco perché Annette aveva gridato. Ben si era preso uno scapaccione sul didietro dalla madre, dopodiché era sparito nella sua stanza. Questo era ciò che Trude pensava. Era comunque sicurissima che Annette avesse lasciato la fattoria per mano a sua madre poco dopo le sei e che era viva e vegeta. Tuttavia, alla presenza di Hilde, telefonò subito ad Antonia per chiederle conferma dei fatti. Non appena l'amica ebbe lasciato la casa, Trude restò tremante per ore a pensare che Ben avrebbe potuto mettere le mani addosso a qualche altra bambina. Solo quando andò a letto, molto più tardi, ripensò al cadavere che la vecchia pazza aveva visto sotto il braccio di Ben.
Come avesse fatto a uscire di casa, non visto, con la bambola, era un mistero. Quando Jakob, che non sapeva nulla di quanto aveva detto Hilde, tornò a casa quella sera, si accorse del vuoto tra i cuscini. Non seppe mai che la bambola di Trude era già la terza che scompariva. Era troppo. La moglie insistette e pregò inutilmente perché non andasse in camera a svegliare Ben. «Lasciami, devo chiarire la cosa con lui, in tutta calma. Forse l'ha solo nascosta.» Neppure Trude ci credeva troppo, soprattutto dopo che Hilde le aveva riferito parola per parola il racconto di Gerta. «Deve imparare a distinguere tra ciò che è suo e ciò che non lo è.» Non imparò. Quando Antonia ricomparve come al solito, il sabato seguente, Ben si trasformò di nuovo in un energumeno, strappò la bambola dalle mani di Annette e in pochi secondi le aveva già staccato le gambe. «Non te la prendere, Trude», disse Antonia. «I bambini rompono sempre qualcosa. Annette ha fin troppe bambole. Una più, una meno, che importanza ha?» «Non è per questo», rispose la madre di Ben, esitante. Non poteva spiegare quale fosse il punto, neanche ad Antonia, con la quale di solito parlava di molte cose. L'amica non avrebbe tenuto per sé la cosa. E la polizia aveva già parlato con Bruno Kleu della trapezista scomparsa, Trude l'aveva saputo da Jakob. Ma non avevano potuto dimostrare niente e Bruno non si sarebbe fatto rovinare da uno come Ben. Così si limitò a dire: «Non capisco che cosa gli prenda. Non è mai stato così». Le cose peggiorarono ulteriormente. Ma fu colpa di Jakob. L'ultima domenica di settembre dell'80, poco dopo mezzogiorno, Lukka, a nome del consiglio comunale, venne a parlare a Jakob della necessità di recintare il prato delle mele. Bastava un recinto basso, disse l'avvocato. Solo per evitare che qualche ignaro passante finisse nel vecchio Pozzo di sabbia. Per le spese, Lukka avrebbe pensato a negoziare un prezzo di favore con Wilmrod. «Altro che prezzo di favore, non è necessario», dichiarò Jakob bruscamente. «Nessuno deve permettersi di calpestare il mio prato. È proprietà privata. Se pesco qualcuno sulla mia proprietà, peggio per lui. Il Pozzo non è una discarica. Credi che non sappia che ci buttano dentro l'immondizia, di notte? Continuano a schiacciarmi tutta l'erba.» Heinz ribatté che una vita umana era più importante della sua erba e poi c'erano anche bambini nel vicinato. Jakob avrebbe dovuto pensare al suo
stesso figlio, che era sempre in giro per il campo. «E non mi dire che non è vero, Jakob. Se ne va in giro anche la sera tardi. Lo vedo spesso, quando sono a passeggio con il cane.» Jakob non fece in tempo a rispondere. Sentendo la voce dell'avvocato, Ben era comparso nel vano della porta del soggiorno. «Eccolo qui, il mio amico», esclamò Heinz, frugandosi una tasca della giacca in cerca di una barretta di cioccolato. «Guarda che cosa ho qui per te. Mi vuoi aiutare? Vediamo un po' se insieme riusciamo a convincere tuo padre a fare in modo che il prato abbia il suo bel recinto.» «Non c'è proprio da convincere nessuno», replicò Jakob in malo modo. «C'è un cartello: DIVIETO D'ACCESSO. È sufficiente.» Ben prese il cioccolato, lo scartò, s'infilò la barretta in bocca e strofinò la fronte contro la manica della giacca dell'avvocato. Heinz gli accarezzò i capelli e sorrise. A quella vista, la rabbia di Jakob si trasformò in ira. Che un uomo come Lukka, che in gioventù si era macchiato di tali e tante nefandezze che le dita delle mani di Jakob non sarebbero bastate a contare, potesse ottenere qualcosa da suo figlio con un lusinghiero gesto di tenerezza, era troppo perché Jakob potesse sopportarlo. Ben non aveva mai passato la fronte sul braccio di suo padre. «Vai da tua madre», ordinò brusco a Ben. Il ragazzo lasciò la stanza, ma non si diresse in cucina, bensì verso le scale. Trude lo seguiva con la coda dell'occhio, ma non ci fece caso. Anche un attimo prima era in camera sua a incidere strane figure nelle bucce di patata con un chiodo curvo. Ben tornò da basso pochi minuti dopo con una bambola di Anita, ma Trude non lo vide perché era andata nel porcile con gli avanzi di cucina. Ben entrò nel soggiorno con la bambola e la mise in grembo a Heinz. «Mi vuoi regalare questa bambolina?» chiese l'avvocato. «Sei un caro ragazzo. Ma è tua.» «Carogna», disse Ben, riprendendosi la bambola e strappandole il vestito e una gamba. Poi la gettò sul pavimento e la calpestò. Tornando in cucina, Trude udì le grida provenire dal soggiorno. Lukka sedeva in poltrona con la bambola distrutta in una mano e la gamba rotta nell'altra e scuoteva la testa, desolato, mentre Jakob si stava avventando sul figlio. Lei corse verso il marito, cercò di fermare il braccio alzato e fu colpita al petto, tanto che perse l'equilibrio. Il padre di Ben era completamente fuori di sé.
«Jakob!» s'intromise Heinz. «Tu fatti da parte!» urlò Jakob. Ben strillava rotolandosi sul pavimento. Non appena si trovò vicino alle gambe di Heinz, le abbracciò con tutte le sue forze e pianse. Jakob cercò di allentare la presa del figlio e lo picchiò nuovamente; solo quando Trude lasciò la stanza piangendo, s'interruppe. «Non era proprio il caso», esclamò l'avvocato, controllandosi a fatica. Guardò i pezzi di bambola nelle sue mani e poi volse lo sguardo al ragazzo in lacrime sul pavimento. «Che ne sai tu di quello che è giusto o no?» urlò Jakob. «Ne riparleremo quando anche tu avrai dei figli. Lui deve imparare a non toccare le cose degli altri. Queste sono le bambole delle sue sorelle.» Per qualche giorno, Trude fece in modo che la camera delle figlie restasse chiusa a chiave, così Ben non poteva prendere le bambole. Ma lui riuscì a trovare una soluzione. C'erano molte belle case nuove sulla Bachstrasse. E c'era più di una bambina che giocava in giardino al sole con una bambola che era costata un piccolo patrimonio. Non appena una mamma si fece viva reclamando, la porta della camera delle figlie fu lasciata di nuovo aperta. Le vecchie bambole di Anita sparirono dal letto, una dopo l'altra. Ogni tanto si trovava una gamba, o un pezzo di stoffa in cortile, nel fienile o in giardino. Anche se Trude gli prometteva mari e monti, Ben non smetteva di prendersela con loro. E con le bambole sparivano i coltelli da cucina, grandi, piccoli, affilati o no: tutto ciò che aveva una lama scompariva. Jakob batteva il figlio come in passato, tirando fuori tutta la sua rabbia, la sua gelosia e la sua disperazione per trasferirla su Ben. All'ora di colazione minacciava il figlio nel caso avesse fatto sparire un'altra bambola, così il ragazzo sfuggiva alle sue botte non appena gli si presentava l'opportunità di farlo. Girovagava per il prato delle mele, strisciando carponi intorno al Pozzo come se cercasse la morte nelle sue profondità. Correva al prato comunale, talvolta arrivava fino al paese. Ogni tanto nei suoi vagabondaggi per le strade si ritrovava davanti al forno del caffè Rüttgers, dove sperava di ricevere qualche carezza gentile, e dove Sibylle Fassbender lo rimpinzava di torta finché non si decideva ad alzare il ricevitore per chiedere che qualcuno se lo venisse a riprendere, ma che, no, no, giurava e spergiurava che non aveva dato fastidio a nessuno. Era imbarazzante, ma nulla di tragico. Trude si struggeva dalla preoccu-
pazione che avesse con sé un coltello, che lo mostrasse ad altri e che con qualche azione maldestra potesse ferire qualcuno o se stesso e che per questo lo avrebbero rinchiuso. Oppure, Dio ci scampi e liberi, che facesse del male a una bambina invece che alle solite bambole. Durante i suoi vagabondaggi, Ben scoprì dove abitava Heinz Lukka. Un giorno trascorse metà del pomeriggio seduto sul muretto di pietra davanti alla farmacia, finché un'anima pietosa non lo prese e lo riportò a casa. L'anima buona in quel caso era Maria Jensen, che naturalmente lo raccontò subito a Erich, il quale a sua volta ne parlò in consiglio comunale. Si presentarono in due, una sera di ottobre, Jensen e Lukka. Il farmacista ostentava un tono amichevole e preoccupato, facendo tuttavia capire chiaramente come la pensava in proposito. Se Trude era sottoposta a una fatica eccessiva a causa dell'impegno con il figlio, forse sarebbe stato bene cercare un luogo sicuro dove farlo abitare. «Non sono affaticata, davvero», dichiarò lei. «Che c'è di male se Ben se ne va a spasso per il paese? Non è il solo. Anche Thea la settimana scorsa ha cercato Albert fino a sera. Il mascalzone esce da scuola e invece di tornare a casa prende l'autobus e se ne va a Lohberg. Ben non farebbe mai una cosa del genere.» «Non è la stessa cosa, Trude», intervenne Heinz. «Quando Albert attraversa la strada o sale su un autobus, sa quel che fa. E quando Albert è stato riportato a casa, Richard non lo ha aggredito come farebbe una bestia. Suo padre era solo felice che al ragazzo non fosse accaduto nulla.» Lo sguardo dell'avvocato si fissò su Jakob, poi cercò gli occhi della donna. «Trude», disse con serietà. «So che vuoi solo il bene di Ben e che cerchi di evitare di punirlo, se possibile. Ma ho visto di persona come lo tratta Jakob. Così non va. Questi sono maltrattamenti e non possiamo permettere che accadano. Avrei dovuto informare l'ufficio di assistenza dei minori. Non l'ho fatto, perché... Be', un istituto non sarebbe la soluzione migliore. Ma forse sarebbe meglio che lasciarlo qui.» «Non mi fare una cosa del genere, Heinz», implorò Trude. «E non farla a Ben. Se lo vuoi rinchiudere, allora tanto vale che tu lo uccida subito. Ha bisogno di correre. Non fa del male a nessuno.» «Trude» - la voce dell'avvocato si fece più insistente, mentre volgeva lo sguardo a Jakob, che digrignava i denti dalla collera -, «il problema non è che Ben potrebbe fare del male a qualcuno. Si tratta di fare in modo che nessuno faccia del male a lui. Forse è meglio che tu ne parli con tuo marito con tutta calma, se proprio vuoi tenere Ben qui da te. Un istituto sarebbe
costoso. Dico le cose come stanno. Non siete in grado di affrontare una spesa simile da soli. Ma prima che un ragazzo venga reso storpio, visto che è già abbastanza menomato, be', non starò qui a guardare senza fare nulla.» «Nemmeno io», affermò Jensen. I due si alzarono e si diressero alla porta. Trovarono l'uscita da soli. Quando la porta si chiuse alle loro spalle, Trude disse: «Heinz ha ragione. Se lo picchi ancora solo perché fa qualche cosa di cui non ha nessuna colpa, allora me ne vado anch'io con lui». Jakob sospirò. «Non ce n'è bisogno», rispose, alzandosi dalla poltrona. «Se hai qualche problema, sai dove cercare consiglio. Vai da Heinz. Sono sicuro che quell'ipocrita ti farebbe volentieri compagnia. Mi chiedo solo perché si dia tutto questo daffare.» Trude non si era mai accorta che Jakob non potesse soffrire Lukka e ancora a lungo la ragione di quell'astio le sarebbe rimasta ignota. Jakob andò all'osteria di Ruhpold e si ubriacò. Per giorni interi non le rivolse la parola. E Trude si rivolgeva a Ben con voce flautata. «Non andare in paese, Ben. Vai in giardino, vai sul prato del comune, ma non in paese. Se ti vedono da quelle parti, ti rinchiuderanno.» Era tutto inutile, poteva minacciarlo, implorarlo, seccarsi la gola a forza di parlare e la notte piangere tutte le lacrime che aveva: non appena ne aveva l'occasione, Ben scappava. Ormai non faceva più differenza, se il portone della fattoria era aperto o no. Anche dal Feldweg si arrivava in paese e lui lo aveva scoperto. E Trude non aveva cuore di rinchiuderlo in camera. Si sentiva irresistibilmente attratto dal caffè Rüttgers, dalla casa di Lukka o dalla scuola elementare che si trovava una strada più in là e che anche Albert Kressmann frequentava. Durante le lezioni vagava solo come un cane per il cortile della scuola. Quando iniziava la ricreazione, si mescolava agli altri bambini. Più di una volta una madre irritata si presentava all'ora di pranzo nella cucina di Trude, affermando che Ben aveva importunato il figlio. Solitamente erano bambine che Ben rincorreva per il cortile della scuola come pulcini spaventati. Non si seppe mai se Ben lo avesse fatto su istigazione di Albert Kressmann o di propria iniziativa. Ogni volta, Trude tentava di calmare le madri inferocite, giurando nel nome di Dio e della propria madre che riposava da anni nel cimitero di Lohberg che Ben non aveva cattive intenzioni, che voleva solo giocare. Quando i bambini correvano per il cortile della scuola, lui li rincorreva. E Trude si sentiva ipocrita e bugiarda per avere invocato sua madre e per ciò
che Gerta Franken aveva visto. Un pomeriggio, Thea Kressmann trovò Ben sulla piazza del Mercato. Raccontò che sedeva sulla panca e osservava con sguardo cupo la piazza deserta. Una volta, fu Antonia Lässler che lo riportò a casa da un parco giochi nel nuovo quartiere del Lerchenweg. Aveva preso la bambola a una bambina, poi aveva colpito la testa del giocattolo con una pietra e le aveva strappato il vestitino e le gambe. «Che devo fare?» chiese Trude. «Jakob lo ha già picchiato tante di quelle volte. Non posso dargliele anch'io sino a farlo morire.» Antonia non seppe consigliarla, la consolò solamente dicendole che anche altri non avevano vita facile con i propri figli. Lei non poteva lamentarsi. I suoi ragazzi erano a posto. E anche Annette non creava problemi. Toni e Illa von Burg avevano avuto fortuna con i loro figlioli. Uwe, il maggiore, se ne andava in giro con una moto terribilmente rumorosa e di rado riusciva a farsi bastare la paga mensile visto che aveva le mani bucate con le ragazze. Ma, si sa, bisognava capire un sedicenne per certe cose. Illa e Toni erano molto comprensivi. Anche Richard e Thea avevano i loro guai. Albert aveva grosse difficoltà nello studio, non veniva a capo delle tabelline, non imparava l'alfabeto e marinava la scuola o faceva il gradasso durante la ricreazione. Alcune mamme si erano lamentate perché il giovane Kressmann aveva picchiato le bambine più piccole, mentre non osava avvicinarsi ai maschi. Renate Kleu non osava più portare Dieter in paese perché, se non riusciva ad averle tutte vinte, diventava un ossesso. Dieter aveva frequentato l'asilo solo per due settimane: voleva tutti i giocattoli per sé, e aveva colpito più volte l'insegnante agli stinchi arrivando a morderle una mano, quindi dovette restarsene a casa. Trude annuì distrattamente alle parole dell'amica. A nessuno sarebbe venuto in mente di internare Albert o Dieter solo perché se ne andavano in giro per il paese, volevano tutto per sé, picchiavano le bambine più piccole e non sapevano scrivere né fare di conto o imitavano ciò che altri avevano mostrato loro. O perché erano stati puniti dal padre. Ben, invece... Più di una volta Lukka aveva interceduto per lui e lo aveva difeso, sostenendo contro ogni parere che era innocuo. Più di una volta Jakob se ne andò all'osteria di Ruhpold. Fu un anno terribile per Trude. Quando terminò, lei pensò che la paura e l'impotenza che provava non potevano andare oltre. Dentro di sé, era arrivata al colmo della sopportazione.
25 AGOSTO 1995 Jakob uscì di casa venerdì di primo mattino. Trude lo accompagnò come sempre alla porta e poi si recò nella stalla. Accudì i due maiali e le galline. Solo allora osò affacciarsi sulla porta della camera di Ben. Il letto era vuoto. Se lo aspettava. Scacciò il pensiero di Svenja Krahl e Marlene Jensen, e fissò la mente su Eddi e Klaus. Passò un panno sul vetro della finestra, per non dare l'impressione di cercarlo anche solo con lo sguardo. Se solo non ci fosse stata quella paura. E quella borsetta insanguinata. E quella pressione tra le gambe. Non era necessario che l'istinto gli ricordasse quel che era. Aveva solo tredici anni, quando la madre aveva scoperto quelle prime evidenti tracce nelle sue mutande. All'inizio di quello stesso anno, Jakob lo aveva colto in flagrante mentre guardava dal buco della serratura della stanza da bagno. Trude si stava strofinando la schiena nuda e voltava le spalle alla finestra. Ben era in ginocchio e mostrò il buco della serratura, da dove si poteva chiaramente vedere l'ombra scura sotto l'ombelico della madre. «Bene», disse Ben quando Jakob gli chiese che cosa andava cercando davanti alla porta del bagno. E Trude sapeva perfettamente il significato della parola «bene». Suo figlio faceva delle differenze nell'ambito delle sue limitate disponibilità lessicali. «Ben fatto» rappresentava una buona azione, un'opera riuscita, qualcosa per la quale sarebbe stato premiato o che lui avrebbe lodato a sua volta. Mentre «bene» era generico, universale: era una carezza sulla guancia o un bacio di sua madre; erano i pulcini, i topi morti e le bambole; erano le ragazze e le donne che erano gentili e amichevoli con lui. Alle altre gridava «carogna». «Bene» era la mano della madre che lo insaponava, facendogli il bagno. Ben non era in grado di lavarsi da solo e Jakob non aveva molto tempo a disposizione, così qualcuno doveva pur lavarlo. A Trude non dispiaceva doverlo lavare ancora come se fosse stato un bambino. Certo, bisognava fare attenzione alla sua facile eccitabilità. Quando, preoccupata, affrontò l'argomento con il marito, lui scrollò le spalle: «Non c'è molto da fare. Ha gli stessi impulsi che abbiamo tu e io. Solo che non sa controllarli. Prova con l'acqua fredda, forse servirà a qualche cosa». Una sola volta Trude aveva sperimentato su se stessa l'effetto dell'acqua. Era fredda e abbastanza spiacevole. Se Ben avesse capito il comportamento dei genitori, magari se ne sarebbe fatto una ragione. Ma come poteva capire, Ben? Jakob, del resto, non sapeva che altro consigliarle. Quando ci
fu l'episodio del bagno, si limitò a dire: «La prossima volta appendi un asciugamano sulla maniglia della porta. È l'età». E se, mentre se ne andava a zonzo, Ben avesse incontrato per caso una ragazza che era appena stata scaraventata fuori da un'auto da due giovanotti, magari seminuda e furibonda? Trude tentava accanitamente di riandare con la memoria a quella domenica mattina, quando Marlene era scomparsa. Ricordava Ben sempre allo stesso modo, la cintura nei pantaloni, una camicia a quadretti e una tuta da ginnastica cosparsa di macchie d'erba e di terra sulle ginocchia e sui bordi, le tasche piene di pietre, cocci, insetti e zolle di terra. Per quanto potesse ricordare, non vi erano altre macchie sui pantaloni. Trude era certa di non aver notato nessuna macchia di sangue. Succedeva spesso che Ben si ferisse e lei controllava con molta attenzione che non avesse ferite aperte, per paura che, frugando nella terra, s'infettasse. La donna nutriva un sacro terrore per il tetano, proprio come per la broncopolmonite. Il martedì, Ben era tornato con la camicia bagnata, se ne ricordava. I pantaloni, poi, erano di uno che aveva saltato per ore nelle pozzanghere. Gli spruzzi d'acqua arrivavano oltre le ginocchia. Strano, non aveva piovuto da diverse settimane. Dove potevano esserci ancora delle pozzanghere? Mentre rifletteva, rifece il letto con la biancheria pulita, poi si volse nuovamente verso la finestra. Lo vide finalmente avvicinarsi alla casa. Stava attraversando il campo di barbabietole di Bruno Kleu ed era ancora abbastanza distante. A ogni passo dondolava le braccia che parevano sempre un po' troppo lunghe e spingeva la testa in avanti mentre con lo sguardo rastrellava il terreno. Lo faceva sempre, come se ci fossero cose meravigliose da scoprire. Due volte si chinò a raccogliere qualcosa. La prima volta, s'infilò in tasca il bottino. La seconda, invece, non attribuì un gran valore all'oggetto; dopo averlo rigirato tra le dita per un po' esaminandolo attentamente, lo lasciò cadere. Poi alzò il capo e, per quanto molto lontano, vide la madre alla finestra; allora alzò le braccia, si mise a saltellare e poi trotterellò con passo leggero verso casa. Prima che fosse rientrato passando per la cantina, Trude aveva già apparecchiato la tavola. Gli lavò le mani e il viso e mentre gli spalmava di burro un paio di fette di pane, Ben si frugò le tasche dei pantaloni con espressione solenne, quindi depose sul tavolo tre margheritine ridacchiando con uno sguardo furbo.
«Sono per me?» chiese Trude. Ben annuì. «Bene», disse lei, «sono molto felice.» Il ragazzo diede un morso al suo pane e frugò nuovamente nelle tasche dei pantaloni. Questa volta appoggiò sul tavolo alcune piccole cose che Trude riconobbe solo dopo aver guardato attentamente: erano il cranio e il costato di un topolino di campagna. «Anche questi sono per me?» chiese. Lui scosse la testa, frugò ancora in tasca e ne estrasse una pietra con belle venature. La mise accanto alle margherite, poi raccolse gli ossicini e li rinfilò in tasca. Dopo colazione, Ben scomparve nella sua stanza. Trude lo sentì camminare avanti e indietro per un poco: probabilmente stava cercando un nascondiglio sicuro per i resti dell'animaletto. Dal ripostiglio delle provviste mancava di nuovo un vaso di vetro. Poco dopo le dieci squillò il telefono. Era Bärbel. Aveva sposato Uwe von Burg quattro anni prima e finalmente era incinta. Bärbel era preoccupata e Trude lo sapeva. Aveva fatto tutti i test possibili e immaginabili per essere certa di mettere al mondo un figlio sano. Quel giorno, telefonava alla madre solo per annunciarle una visita di Anita prevista per la domenica successiva. Anita viveva a Colonia da anni. Si era laureata in giurisprudenza e lavorava nella divisione legale di una società di assicurazioni, ed era diventata ancora più boriosa che in passato. Ricordava raramente di avere una famiglia e, quando accadeva, si recava solo a bere un caffè dalla sorella e dal cognato la domenica pomeriggio. Una fettina dj torta senza panna, anche se Bärbel aveva preparato una torta a base di uva spina. Per via della linea. E sempre per la linea non voleva figli: apparentemente lei non temeva tare ereditarie. «Se hai voglia, puoi fare un salto qui anche tu, o papà», disse Bärbel. Nessun cenno a Ben. Dopo aver riattaccato, Trude salì al piano di sopra fermandosi sulla soglia della camera del figlio. Era sdraiato sul letto e dormiva. Abbracciava la sua bambola di pezza come fosse una figlia. Ormai, non distruggeva più le bambole, da molto tempo; e vedendolo così, raggomitolato beatamente come un cagnolino nella sua cesta, Trude dimenticò tutto il resto. Restò immobile e silenziosa per un quarto d'ora, osservandolo mentre riposava. E in tutto quel tempo il suo cuore materno fu certo che Ben non avrebbe mai potuto colpire un essere umano con un coltello. Giurassero e
spergiurassero pure, Klaus e Eddi, di avere solo scaricato dall'auto le ragazze, lei avrebbe potuto mettere la mano sul fuoco per l'innocenza di Ben. Stava per lasciare la stanza, quando lo sguardo le cadde sul vaso di vetro. Era sulla finestra, dietro la tendina. E dentro non c'erano solo le ossa del topolino. Per non svegliare il figlio, andò in punta di piedi sino alla finestra e avvicinò il vaso agli occhi. Vide tre piccole patate, incise sulla buccia, e due foglie di piantaggine. Erano foglie fresche ed erano arrotolate come il tabacco. Dalle due estremità spuntava qualcosa. Trude ricordò di avere già visto qualcosa del genere, ma non riusciva a rammentare quando. Di colpo, il cuore le si arrestò per un attimo, poi ripartì all'impazzata quando il ricordo le affiorò alla mente. Era ancora una bambina, aveva sei o sette anni, quando suo padre si staccò un dito tagliando la legna. Lei era accanto al ceppo e vide il dito mozzato che volava via compiendo un arco ampio. Corse a raccoglierlo e vide l'estremità sanguinante e l'osso tagliato di netto. Lo vide allora come lo vedeva in quel preciso istante, solo che ora si trattava di due dita e di due estremità staccate di netto. Lentamente, nel suo cervello qualcosa si disinnescò, come se un uomo debole avesse tirato faticosamente una leva per arrestare le ruote di un ingranaggio, mentre il motore girava a vuoto. Giro dopo giro, nel suo cervello ronzava un «trovato» monocorde che permeava tutto quell'inutile ingranaggio. Trovato! Se Ben trovava là fuori ossa vecchie, mutandine e borsette insanguinate, perché non due dita? Chi aveva occhi di falco vedeva e trovava molte più cose di altri. Le parve che fosse passata un'eternità prima che le ruote del suo ingranaggio si rimettessero in moto e lei riuscisse ad aprire il coperchio del vaso. Estrasse le foglie di piantaggine con tutto il contenuto dal vaso e le infilò nella tasca del grembiule. Con il viso irrigidito guardò dalla finestra verso la Fossa. Che sciocchi! Il Boschetto, su cui avevano mandato i cani, era un terreno molto più aperto e visibile del vecchio cratere con le sue montagne di macerie. Ben dormì quasi fino all'una. Come sempre, si svegliò al profumo del pranzo che si spandeva per la casa. Dopo pranzo, le due ragazze Lässler tornarono dalla scuola di Lohberg e pedalarono verso la loro fattoria. Ben non aveva bisogno di un orologio, se ognuno rispettava le proprie abitudini a orari fissi. Pranzo all'una. Entrò in cucina, la testa massiccia incassata nelle spalle, tanto che il collo sembrava inesistente. I suoi occhi guizzavano velocemente dal tavolo
apparecchiato alle pentole sulla stufa. Si sedette e trangugiò tutto ciò che la madre gli aveva messo nel piatto. Poi si alzò. «Siedi», ordinò Trude. Ben restò in piedi accanto al tavolo, spostando il peso da un piede all'altro. «Siediti», ripeté lei tentando di dare un tono energico alla voce. Ma il battito del suo cuore interferì con le parole e Ben si accorse che le mancava la forza. «Non potrai più uscire», disse lei, e suonò come una preghiera. «Ho male qui.» Si batté il petto. «Tanto male. Non voglio stare sola. Tu sei il mio buon Ben, tu sei il migliore. Devi stare qui con me, ora.» Lui scosse il capo, si voltò verso la porta e trotterellò verso la scala della cantina. Trude volle seguirlo, ma le forze le vennero meno. La cucina era bella calda. Il fuoco ardeva da ore nella stufa che Jakob non avrebbe più voluto installare dopo il trasloco. Perché, del resto? Avevano il riscaldamento centrale in ogni stanza e anche in cucina c'era un nuovo fornello elettrico. Ma Trude aveva insistito per mantenere la vecchia stufa a carbone. Per i casi di emergenza, se fosse mancata l'elettricità. O se dovevano bruciare qualche cosa. Un paio di mutandine macchiate di sangue, una borsetta con sangue rappreso o due dita mozzate avvolte in foglie di piantaggine. Trude appoggiò il capo tra le mani e guardò fisso la stufa; poi spostò a fatica i cerchi pungendo con l'attizzatoio le braci roventi, finché quell'orrore non scomparve alla vista. Nel frattempo Ben aveva raggiunto il Feldweg a passo di trotto, accelerando sulla curva che lungo il filo spinato conduceva al prato delle mele, e si fermò solo nel campo di granoturco. Ai margini del campo rimase immobile per diversi minuti, poi avvicinò il binocolo agli occhi e spiò, attraverso i fusti, la villetta di Lukka. Non era sicuro che l'amico Heinz fosse in casa. Da fuori, era difficile capirlo. Quando era in casa, se lo vedeva usciva subito. Ma se Ben voleva restare inosservato, neppure Lukka riusciva a scorgerlo. Ben si accovacciò a terra, separò con cautela i fusti di granoturco e ci si addentrò, poi fece il giro della casa, disseppellì il coltello a serramanico da una buca nel terreno, lo infilò in tasca e osservò con il binocolo l'altro lato del Feldweg. In lontananza vide che da Lohberg stavano tornando le due ragazze, quelle che lo facevano impazzire. Era una febbre che né un ordine di suo padre né le preghiere dolenti della madre avrebbero potuto spegnere. Le ragazze si stavano avvicinando. Gli passarono accanto e lui ridacchiò tra sé e sé, perché apparentemente non lo avevano notato.
Quando si furono allontanate di almeno cento metri, Ben si rialzò, e le rincorse. Le raggiunse velocemente. Avrebbero dovuto sentirlo avvicinarsi, ma nessuna delle due si voltò. Lasciarono che giocasse al suo gioco preferito. Acciuffarle. Le raggiunse, allungò la mano verso la ragazza che pedalava più vicina e arruffò i suoi capelli folti e scuri. La ragazza bionda fermò la bicicletta quando l'altra fu costretta a farlo. La ragazza dai capelli scuri con gli occhiali da sole era la sorella minore di Ben. LA CASA SULL'ALBERO Nel gennaio dell'81 Trude non ebbe le mestruazioni. All'inizio non se ne preoccupò, perché stava per compiere quarantacinque anni e quindi era naturale che potesse succedere qualcosa del genere. Inoltre, negli ultimi mesi non aveva fatto spesso l'amore con Jakob. E poiché non restava incinta con facilità, non si preoccupò più di tanto di un fastidio che le veniva a mancare alla data prevista. Invece, era in ansia per il marito. Il suo astio verso Lukka lo faceva frequentare sempre più spesso l'osteria di Ruhpold. Jakob si era rifiutato recisamente di partecipare alla festa di fidanzamento dell'avvocato. In paese, quel fidanzamento era stato considerato un vero e proprio miracolo. Heinz aveva già compiuto cinquant'anni. Nell'ottobre dell'80 aveva conosciuto una donna, una persona gentile, solida e divorziata, come aveva raccontato a Trude; era il suo legale per le pratiche di divorzio e aveva una figlia di dodici anni, ma chi se ne curava? Forse Thea Kressmann, che era sempre stata del parere che Heinz fosse eternamente innamorato di una verginella diciassettenne di nome Maria. In febbraio, l'avvocato festeggiò la sua felicità tardiva con cinquanta ospiti, in un buon ristorante di Lohberg. L'osteria di Ruhpold, confidò a Trude, gli sembrava troppo provinciale e rustica. La madre di Ben avrebbe partecipato volentieri alla festa, ma, visto che Jakob rifiutava di intervenire, restò a casa con il marito. La felicità di Lukka non durò a lungo. Una domenica di marzo, solo tre settimane dopo la festa di fidanzamento in grande stile, la donna andò in paese con la figlia. Uscì di strada mentre percorreva la provinciale, andando a schiantarsi contro un albero, e morì nei rottami della propria auto, mentre la figlia, gravemente ferita, sopravvisse, ma dovette restare in ospedale per molti mesi. Per settimane girò voce che Richard Kressmann avesse provocato l'incidente della fidanzata di Lukka, perché nello stesso momento stava percor-
rendo quella strada per andare in ospedale a far visita al vecchio Igor. Richard era affezionato a quell'uomo più che alla bottiglia e il cuore del vecchio russo stava ormai cominciando a cedere. Igor morì quindici giorni più tardi. E quella stessa sera, Werner Ruhpold s'impiccò nella soffitta della sua osteria. Trude fu informata dell'incidente e del fatto che Kressmann era stato il primo ad accorrere sul luogo, tanto che aveva tenuto la mano della bambina gravemente ferita sino all'arrivo dell'ambulanza. Sentì dire anche che Heinz era disperato, e che il vecchio Igor se n'era andato serenamente nel sonno. Le dissero anche del cappio con cui Werner aveva posto fine all'attesa di Edith Stern. Tuttavia in quel momento aveva altri pensieri per la testa, cosicché non s'interrogò sui motivi per cui il vecchio Igor aveva tanto insistito per vedere Ruhpold prima di presentarsi all'Onnipotente. Thea Kressmann le raccontò il fatto chiedendosi che cosa ci fosse di tanto importante da discutere al punto che Werner aveva deciso di accompagnare Igor nell'aldilà. Trude si chiedeva ben altro. In febbraio e marzo non aveva avuto segni dal suo corpo. Quando, alla fine di marzo, Antonia la informò raggiante che aveva saputo dal medico di essere in attesa di un'altra figlia, un terribile sospetto si affacciò alla sua mente. Due settimane più tardi, il ginecologo le confermò quel sospetto. In un primo momento, Trude rimase paralizzata dalla notizia e si augurò che le capitasse quanto era capitato a Maria Jensen in novembre, durante la seconda gravidanza. Una caduta in casa, una forte emorragia, ricovero d'urgenza e fine del sogno. Jakob nutriva gli stessi sentimenti della moglie. Pensava alla loro età. Talvolta si considerava un nonno. E anche Trude non era più giovanissima. E se di nuovo... Il compleanno di Ben era passato da poche settimane, e sembrava quasi un monito. Non gli avevano fatto regali. Non sapevano come renderlo felice. «Regalategli una bambola», aveva proposto Anita. «Potreste regalargli anche un coltello, di sicuro gli piacerebbe.» E aveva riso, come possono ridere le ragazzine di diciotto anni che hanno un fratello debole di mente. Jakob non riuscì a controllarsi e colpì con il dorso della mano quella boccaccia sfacciata. Se ne pentì subito. Non avrebbe mai pensato di alzare le mani sulla propria figlia. Però non si scusò per il suo gesto, anche se il primo impulso era stato di farlo. Ma più che seguire il suo impulso, gli sembrò rilevante dimostrare a Trude che Ben era importante per lui quanto lo era per lei, che non gli avrebbe mai voluto male e che, data la nuova si-
tuazione, aveva tutte le intenzioni di assumersi qualche responsabilità in più per sollevare lei. Doveva esserci un modo per tenere Ben lontano dal paese e dagli altri bambini. Circolavano molte voci, soprattutto quelle messe in giro da Gerta Franken. Nel corso degli anni l'anziana donna aveva raccolto tante informazioni che cominciava a fare confusione: era fermamente convinta che l'assassino della trapezista e il testimone del reato fossero la stessa persona. Spesso sulla piazza del Mercato affermava che Ben strappava le bambole per non perdere l'allenamento. Da molto tempo la gente aveva smesso di ridere alle sue affermazioni. Per Jakob erano due le alternative: picchiarlo finché non avesse smesso di accanirsi sulle bambole - e si trattava di un'alternativa impossibile date le condizioni di Trude e le minacce di Lukka -, oppure offrirgli un'occasione stimolante, un diversivo, qualcosa che lo tenesse occupato. Spesso sua moglie aveva sottolineato il fatto che Ben l'aiutava volentieri in giardino, strappando più verdure di quante lei fosse in grado di piantarne, ma questo non l'aveva mai detto. Un giardino tutto per Ben, fu il primo pensiero di Jakob. Ma dove avrebbero potuto allestirlo? Il prato delle mele era troppo pericoloso. Il giardino di Gerta Franken sarebbe stato perfetto. Tutta quella vegetazione selvaggia alta mezzo metro, con un vecchio pero al centro e quel groviglio di cespugli di more completamente lasciati a se stessi: là Ben non avrebbe certo fatto danni. A meno che il diavolo non ci mettesse lo zampino, quel posto sarebbe stato certamente di suo gusto. E se avesse avuto un'occupazione innocente proprio sotto gli occhi di Gerta, la vecchia ne avrebbe a sua volta parlato in giro. Jakob ci pensò su per alcuni giorni, provò ad arrampicarsi sul pero e là gli venne l'idea della casa sull'albero. La vista era uno spettacolo. I campi di barbabietole e di frumento, di patate e di segale si estendevano a perdita d'occhio e nelle giornate serene si scorgeva, a occidente, il campanile della chiesa di Lohberg. Anche quel giorno, svettava nell'azzurro del cielo, come un indice spettrale. A oriente c'era il bosco, mentre a sud-est, oltre i campi, c'era la Fossa, il vecchio cratere con i ruderi di quella che era stata la fattoria dei Kressmann. Dal giardino non si poteva vedere la voragine causata dalle bombe, ma stando sull'albero i bordi della Fossa si stagliavano nei campi coltivati. Una scelta amplissima per gli occhi acuti di Ben. E il suo cervello confuso avrebbe potuto scoprire altre zone che valevano una perlustrazione. Inaspettatamente, Jakob si accordò in fretta con Gerta. La vecchia non
era interessata al giardino, e fino ad allora non aveva avuto nulla in contrario se Trude raccoglieva le sue more per fare un paio di vasetti di gelatina. Gerta era disposta ad affittare a Jakob il giardino in cambio di una sommetta mensile, purché Ben non si avvicinasse troppo e Jakob non ne parlasse in giro, altrimenti l'ufficio di assistenza sociale le avrebbe decurtato la pensione. Il giorno successivo, Jakob iniziò a sistemare il giardino per il figlio, strappando il grosso dei rovi che circondavano il pero. Potò i cespugli di more affinché Ben non si ferisse con le spine. Spiegò a Trude a grandi linee le proprie intenzioni e le raccomandò di tenere Ben lontano dal giardino per qualche giorno. Sera dopo sera, Jakob trasportò sul posto alcune assi robuste, uscendo di casa con martello e chiodi nelle tasche dei pantaloni, e prima di tutto costruì una piattaforma sull'albero. Terminato il lavoro, si piazzò al centro della piattaforma per saggiarne la solidità: si dondolò molleggiandosi sulle ginocchia, osò fare un paio di salti e si convinse così che il pavimento era in grado di sopportare il peso del figlio almeno per qualche anno. Costruì le pareti della casa in parte con altre assi e in parte con lamiere ondulate con le quali fece anche il tetto. Quando, dopo aver completato l'opera, Jakob la condusse fuori, Trude si commosse fino alle lacrime. Per un attimo restò immobile, ammutolita. Poi rivolse al marito uno sguardo colmo di gratitudine, prese la scala di corda intrecciata che Jakob aveva fissato a un ramo robusto e salì in cima all'albero. Con il ventre ormai ingrossato, Trude s'infilò a fatica nell'apertura, si accovacciò sulle assi e guardò attraverso le fessure sottili che Jakob aveva lasciato a bella posta tra le pareti e il tetto. Jakob sentì la sua voce che diceva: «È venuta molto bene, veramente. Da qui lui può Vedere tutto restando inosservato». Per rendere veramente allettante quel posticino destinato a Ben, Trude fece qualcosa di più. Nel fienile c'era un vecchio abbeveratoio rivestito di stagno. Con l'aiuto del marito lo collocò in un angolo riparato tra i cespugli di more, Jakob lo interrò per metà nel terreno, mentre Trude lo riempì d'acqua che rovesciò a secchiate. Ben ci si sarebbe divertito un mondo. Quando, il giorno dopo, lei accompagnò il figlio sul posto, Ben restò immobile, come colpito da un fulmine, mentre fissava i rami dell'albero a bocca aperta e teneva gli occhi spalancati dalla sorpresa. Poi corse all'abbeveratoio, saltellando e muovendosi senza sosta.
Nel corso dell'estate, il patto concluso con Gerta si dimostrò una benedizione per tutti. Ben correva fuori di primo mattino e neppure il pranzo riusciva a riattirarlo in casa. Se il caldo si faceva torrido, si tuffava nell'abbeveratoio e si rovesciava l'acqua sulla testa e sul collo con entrambe le mani. Quando c'era più fresco, Ben se ne stava nella sua casa sull'albero, osservando dalle fessure la campagna circostante, oppure riordinava il giardino di Gerta. Sistemava le ortiche, i cardi e l'avena selvatica come faceva nell'orto di Trude. Non era più attratto dalla piazza del Mercato, né dal caffè Rüttgers, dalla scuola o dalle case nuove della Lerchenstrasse. Nessuno venne più a lamentarsi di lui. Ben perse interesse persino per le bambole di Anita. In cuor suo, Trude riprese fiato, provando una sorta di serenità, di gioia persino, al pensiero della creatura che doveva nascere. Talvolta si concedeva un'ora di tempo libero nel pomeriggio. Appurava che Ben fosse all'abbeveratoio a giocare, nella casa sull'albero o a trapiantare cardi. Gli spiegava, anche se lui non capiva, che sarebbe andata a far visita ad Antonia e che sarebbe tornata presto. Dopodiché s'incamminava per coprire i trecento metri che la separavano dalla fattoria dei Lässler. A volte le due amiche parlavano di ciò che succedeva in paese. Non che ci fosse molto da dire, se si escludevano gli avvenimenti dei primi mesi dell'81. Igor aveva avuto un funerale in pompa magna, tanto che ci si era chiesti se Richard credeva di dare sepoltura all'ultimo zar. Dopo il funerale, Kressmann si ubriacò per tre settimane di seguito. Quando gli giunse all'orecchio la voce che era stato lui a provocare la morte della fidanzata di Lukka, minacciò mezzo paese che li avrebbe denunciati per diffamazione, e intanto mise a disposizione della polizia la propria Mercedes perché venisse esaminata. Ovviamente non era stato possibile stabilire se Kressmann viaggiava sulla corsia sbagliata e quando finalmente la figlia dodicenne della defunta uscì dal coma, non fu in grado di fornire nessuna informazione sulla dinamica dell'incidente. In maggio a Richard fu comunque ritirata la patente. Pareva che guidasse con un tasso alcolico superiore al tre per mille. Era tornato a casa sano e salvo per miracolo. Sembrava che la polizia lo avesse colto sul fatto proprio sulla porta di casa... e in giro si diceva che una chiamata anonima avesse messo sull'avviso gli agenti. Alcuni ipotizzarono che fosse stato Lukka a denunciarlo, ma non c'erano prove. Forse, anche Toni von Burg avrebbe desiderato che Richard non potesse più circolare in auto. Così adesso era Thea ad accompagnare il marito all'osteria di Ruhpold.
Werner Ruhpold era stato sepolto in sordina e un suo cugino aveva rilevato il locale. Si chiamava Wolfgang e, secondo Jakob e Paul, era un uomo simpatico ed energico. Dopo la morte accidentale della fidanzata, Heinz Lukka aveva subito anche la perdita del proprio pastore tedesco. Dovette farlo sopprimere perché il cane aveva sbranato un gatto persiano e il padrone del felino lo aveva impallinato. Maria Jensen scoppiava improvvisamente in lacrime ogni volta che vedeva una donna incinta ed era costretta ad abbandonare precipitosamente la farmacia. Erich temeva che, dopo l'aborto del novembre precedente, cadesse in depressione, anche perché Antonia era ormai al suo quarto figlio; perciò, per precauzione, aveva fatto ricoverare la moglie per un paio di settimane. A Illa von Burg il ginecologo aveva trovato un nodulo al seno. Durante il ricovero in ospedale della moglie, Toni aveva continuato a ripetere all'osteria di Ruhpold che, se fosse stato maligno, lui se ne sarebbe andato con lei. Fortunatamente venne diagnosticato un tumore benigno. Trude, invece, amava parlare con Antonia soprattutto dei suoi programmi e auspici per il futuro. Sperava con tutta l'anima di dare al marito un figlio sano. In cuor suo, Jakob nutriva la speranza di essere proclamato re degli Schützen, magari non quello stesso anno, visto che Trude con il suo ventre gonfio non era una reginetta presentabile. Forse l'anno successivo, o quello dopo ancora, quando l'ultimo nato fosse stato svezzato, e se Ben fosse stato tranquillo e sereno. Quell'oretta trascorsa con Antonia la ripagava di tutte le preoccupazioni e le fatiche. Purtroppo, però, quel periodo non durò a lungo. Sul finire dell'estate, una sera Jakob controllò la casa sull'albero per accertarsi che la pavimentazione fosse a posto, e vi trovò alcuni brandelli di stoffa, apparentemente di un abitino di bambola. Accanto giacevano una gamba, un occhio di vetro e un coltello da cucina. Il padre di Ben aveva creduto che ormai fosse acqua passata. Mancavano la testa, il tronco, le braccia e la seconda gamba della bambola. Sul momento, Jakob non sapeva se piangere o sbattere la testa contro le pareti. Si precipitò a casa e, seguito dall'ignara Trude, ormai agli ultimi mesi di gravidanza, spalancò la porta della camera di Ben, s'avvicinò al letto del figlio e lo strappò al sonno agguantandolo per le spalle. Lo batté a lungo, finché la moglie non si riprese dalla propria immobilità e gli si gettò tra le braccia.
Ben si raggomitolò piangendo nell'angolo più lontano del letto. Jakob agitò il pugno contro quel fagotto piangente. «Vieni subito fuori di lì!» insistette con forza. «E dovunque tu l'abbia lasciata, adesso me la ridarai!» Finalmente Trude comprese di che si trattava. Aiutò Ben a vestirsi, lo precedette con una torcia fino al giardino di Gerta Franken e gli fece luce mentre il marito prendeva una pala nel fienile. Ben vagava piagnucolando e singhiozzando tra i cespugli e le ortiche. Non comprendeva ciò che il padre voleva da lui e cercò di salire sull'albero. Jakob lo riprese. Ben alzò una gamba per entrare nell'abbeveratoio. Jakob lo colpì ancora e si fermò solo quando Trude iniziò a singhiozzare ad alta voce. «La bambola», ansimò il padre di Ben. «L'hai rotta. Che ne hai fatto? L'hai sotterrata da qualche parte! E noi ne troviamo solo qualche pezzo. Questa storia deve finire!» Poi iniziò a spalare. Ben voleva andare verso il giardino di Gerta. Quando finalmente lo lasciarono fare, lui corse verso il prato delle mele, si fermò al Pozzo di sabbia e, con gli occhi gonfi di pianto, guardò in faccia suo padre; quindi, indicando il Pozzo aperto, singhiozzò: «Via le mani». «Sì», disse Jakob con rabbia, «qui non ci devi andare. Ma non siamo qui per questo.» Condusse il figlio nel giardino di Gerta, gli mise in mano la pala mentre Trude gli faceva luce. Passò un quarto d'ora prima che l'arnese incontrasse una certa resistenza nel terreno. Era solo una grossa pietra, quella che Ben estrasse alla luce della torcia. Il ragazzo fissò impaurito il padre e si abbassò quando Jakob gli si avvicinò. Ma questi stava solo guardando la pietra. La gettò tra i cespugli e intimò: «Spala ancora. Non voglio pietre, solo le bambole». Nella buca non trovarono nulla. Intimorito dalla presenza del padre, Ben scavò tutta la notte in mezzo ai cespugli. Il giorno seguente fece buchi dappertutto nel giardino di Gerta. Scavò intorno all'abbeveratoio tanto da farlo inclinare prima da una parte e poi dall'altra prima che sprofondasse nuovamente nel terreno. Trude sentì nuovamente il cuore batterle nel petto all'impazzata quando, la mattina dopo, vide il figlio strisciare dentro il fienile. Teneva la testa talmente incassata nelle spalle che pareva che Jakob gli avesse spaccato la schiena. Non appena iniziò a spalare nel tentativo di accontentare il padre, Trude, segretamente, pianse. 25 AGOSTO 1995
Per tutto quel venerdì Jakob si sentì a disagio. Era come se fosse intimamente legato a Trude, e percepiva le sue paure e le sue ansie. Tuttavia, se l'avesse vista mentre accendeva la stufa per far sparire le due dita mozzate, di sicuro sarebbe volato a casa a esigere una spiegazione. Avrebbe di sicuro cercato in tutti i modi di sapere da dove provenivano quelle due dita. E se avesse scoperto che Ben era l'autore di quella mutilazione, su un corpo vivo o morto, sarebbe certamente andato sino in fondo alla cosa, quali che fossero poi le conseguenze. Quella sensazione di disagio, che si era lentamente venuta a creare nel corso della settimana e che aveva ormai raggiunto il culmine, derivava in parte dai giornali. Un articolo di mercoledì affermava che Klaus e Eddi erano stati rilasciati perché le loro dichiarazioni erano state verificate e non c'era nessun riscontro di un eventuale crimine. Ma gran parte del disagio derivava dalla laconicità di Trude. Era stranamente distratta; quando sedevano in soggiorno la sera e lui le rivolgeva la parola, lei trasaliva come se l'avesse colpita a tradimento. Jakob si chiedeva a che cosa stesse pensando. Lui stesso continuava a ripensare agli articoli di giornale e alla scena cui aveva assistito quel lunedì sul Feldweg: Ben che abbracciava sua sorella, Ben che tentava di catapultarla per aria insieme con la sua bicicletta. Jakob amava suo figlio, anche se purtroppo, nei primi anni, aveva espresso quell'affetto a suon di botte, cosa che rimpiangeva con tutto il cuore. Era consapevole delle proprie responsabilità nei riguardi del figlio, lo amava sinceramente e profondamente, anche se non in modo viscerale come amava la figlia minore. Per Jakob la terza figlia era un dono del cielo. Tanja si faceva vedere molto di rado in casa dei genitori, ma ciò non diminuiva minimamente il suo tenero affetto per lei. Trude aveva bisogno di Ben che, con i suoi due metri di altezza e il suo quintale di peso, dipendeva ancora dalla madre per lavarsi le mani e il didietro. Jakob, invece, aveva bisogno di sognare che un giorno avrebbe affidato la fattoria che ormai non esisteva più alle giovani braccia di Tanja. Frequentava il ginnasio di Lohberg come aveva fatto sua sorella in passato e anche lei desiderava andare all'università, di cui parlava spesso in termini entusiastici. Agraria. In cuor suo, Jakob temeva che quel sogno non si avverasse, che qualcuno un giorno potesse distruggerlo. Stranamente, quei vaghi timori gli affioravano alla mente quando assi-
steva agli abbracci di Ben. Di quando in quando Tanja tornava a casa, raccontava della scuola, dello zio Paul e di zia Antonia o di un film che aveva visto al cinema. Se Ben si univa a loro, cosa che puntualmente accadeva, di solito le sorrideva e borbottava «bene», muovendo nervosamente le dita. Tanja era minuta ed effettivamente, a dispetto dei suoi quattordici anni, sembrava ancora una bimba. E Ben, quell'energumeno, la trattava come un sacco di patate. Centinaia di volte Jakob lo aveva ammonito con voce energica perché fosse più cauto: «Non così forte, Ben». Allora lei rideva. Era così spensierata, così fiduciosa e colma di amore fraterno, contrariamente alle altre due sorelle che evitavano Ben ancor più che nel passato. Lei no, lei amava quel gigante, lo idolatrava, gli saltava al collo e gli cavalcava la schiena; chissà, forse dipendeva dal fatto che non lo conosceva in altro modo. «Il mio Orso», diceva. «Il mio uomo dei boschi.» E aggiungeva: «Non ti preoccupare, papà, se mi fa male lo sgrido, allora smette subito». Un giorno lo avrebbe sgridato troppo tardi, forse quel giorno le avrebbe rotto qualche costola, quell'orso. Guai a lui, se mai fosse successo. Naturalmente da molto tempo Jakob sapeva che Ben abbracciava la sorella anche quando si trovava solo con lei, lontano dallo sguardo severo del padre, fuori, sul Feldweg. Forse proprio nel punto in cui era sparita Marlene Jensen. Anche se la polizia era convinta della colpevolezza dei due giovani, li aveva dovuti rilasciare per mancanza di prove. Qualcuno, però, cominciava a chiedersi: «E se avessero detto la verità?» Anche il commesso del reparto moquette e tappezzerie del magazzino Wilmrod che quel venerdì pranzò con Jakob gli fece proprio quella domanda. Nel mese di giugno Jakob aveva commesso l'errore di raccontargli dell'incontro di Ben con Albert Kressmann e Annette Lässler. Naturalmente aveva anche aggiunto i commenti di Paul, di Antonia e di sua moglie Trude. In mensa il commesso affrontò l'argomento, formulando alcune ipotesi sui pochi abitanti di quella zona solitaria: c'erano solo la fattoria dei Lässler, la villetta di Lukka, la proprietà di Jakob e poi unicamente prati e campi. Nemmeno l'illuminazione c'era, in quella zona. «Se penso allo stato d'animo di quella povera ragazza, abbandonata così al buio quando l'hanno buttata giù dall'auto», disse il venditore. «Che cosa avresti fatto tu, al suo posto?» «Sarei andato a casa», rispose Jakob. Il collega annuì pensosamente. «E quanto dista quella strada dalla far-
macia?» Jakob alzò le spalle. «Dipende da dove sei precisamente. Dalla casa di Lukka hai due possibilità: o torni sulla strada provinciale e da lì vai in paese, oppure scendi lungo il Feldweg.» «In ogni caso, è un bel pezzo di strada», obiettò il venditore. «Ma non mi hai detto che Lässler è suo zio?» Jakob annuì. «Allora si sarà diretta da lui.» «A quel punto era meglio andare da Lukka», ribatté Jakob, pur sapendo che l'avvocato probabilmente non era a casa. Ma giacché il venditore faceva delle semplici supposizioni, Jakob si azzardò a fare lo stesso. «Sono ottocento metri di meno e poi Lukka ha il telefono. Forse, l'avrebbe potuta persino accompagnare a casa. È pur vero che Lukka non sopporta suo padre, ma certamente avrebbe fatto un piacere a sua madre. Avrebbe dato un occhio della testa per lei.» «E Lukka non ha udito nulla?» «Come faccio a saperlo? Non avrà sentito nulla, se non è successo nulla. Quelli, dall'auto, non l'hanno mica scaraventata fuori.» «Però la polizia non ha potuto provare nulla», ribatté il commesso, aggiungendo: «Forse il tuo Ben sa che cosa è successo alla ragazza». Jakob sbocconcellò il suo pezzo di pane e trangugiò un lungo sorso di caffè, poi chiese con ira repressa: «Vorresti insinuare che Ben avrebbe potuto fare del male alla ragazza?» «Sciocchezze», esclamò il collega. «Se avesse quel genere di istinti, allora in giugno avrebbe tirato il collo al ragazzo Kressmann e si sarebbe avventato sulla figlia di Lässler. Io pensavo che avrebbe potuto notare qualcosa. Magari vedere i fari dell'auto da lontano, se fosse stato in giro fuori. O non era a spasso?» «Sì, era in giro», ammise Jakob con riluttanza. Aveva già commesso l'errore di parlare dei vagabondaggi notturni del figlio. «Bisognerebbe semplicemente chiedergli se ha visto qualcosa», concluse il venditore. «Certo, dovrebbe farlo uno del mestiere. Al tuo posto, cercherei di andare a fondo. Sarebbe una cannonata, Jakob, se il tuo Ben chiarisse il caso. Pensa a quel che scriverebbero i giornali.» Quelle chiacchiere diedero terribilmente sui nervi a Jakob. L'importante, secondo quanto asseriva il collega, era utilizzare i supporti giusti per aiutare Ben a comprendere quel che si voleva da lui. Prima di tutto era necessario mostrargli una fotografia di Marlene Jensen. Se poi si fosse appurato
che aveva visto la ragazza, bisognava cercare di fargli fare un disegno. Era incredibile vedere come gli handicappati mentali fossero in grado di creare immagini rivelatrici; di recente aveva letto un articolo su come riuscissero a esprimere i loro timori con forme e colori. Naturalmente poi gli esperti avrebbero dovuto fornire l'interpretazione corretta. Jakob incartò il suo panino mangiato per metà, riavvitò il termos del caffè e si alzò, dicendo che il suo intervallo era finito; non aveva nessuna intenzione di restare un momento di più ad ascoltarlo. Però aveva ascoltato tutto, e le parole del collega continuarono a tormentarlo per tutto il giorno: s'immaginava Ben che strisciava nel Boschetto, alla Fossa e si aggirava intorno alla casa di Lukka. Fargli fare un disegno, ridicolo! Solo l'idea di mettere una matita nelle sue mani massicce gli strappò un amaro sorriso. Non aveva mai notato quel che Ben riusciva a fare con le patate, per Jakob erano solo taglietti senza senso; ma mostrargli una fotografia... Sia lui sia Trude avevano messo da parte i giornali con le foto. Perché? Solo per abitudine? Decise che ne avrebbe parlato con la moglie. Forse pensavano che Ben avrebbe potuto riconoscere Marlene Jensen vedendo quelle foto? E se l'avesse riconosciuta, che cosa ci sarebbe stato di male? Probabilmente avrebbe detto: «Bene», vista la memoria che aveva, anche perché nel mese di novembre aveva incontrato Marlene al matrimonio del figlio maggiore di Paul e Antonia. Anzi, non l'aveva solo vista, Antonia gli aveva permesso di accarezzare i capelli della nipote. A Jakob non aveva fatto piacere. A uno come Ben bisognava porre dei limiti, e non era bene fargli vedere che in casi eccezionali quei limiti potevano essere superati. Ben non era in grado di fare differenza tra le eccezioni e la regola. Antonia aveva detto: «Non fare il difficile, Jakob. Ci sono qui io». Già, a novembre. Invece, quella notte d'agosto, Antonia era nel suo letto e dormiva beatamente, mentre sua nipote... Pur senza volerlo, Jakob ci pensava. Supponiamo che Klaus e Eddi dicessero la verità, pensava. Fermano l'auto e scaricano Marlene; la villetta di Lukka è lì all'angolo, una massa scura e isolata. Poi c'è il granoturco. Quella notte, Marlene non aveva certo voglia di essere amichevole. E se avessero fatto vedere a Ben una foto e lui avesse esclamato: «Carogna»? Jakob non riusciva a pensare oltre. Improvvisamente, all'idea di parlare con Trude si sentì schiacciato da un peso enorme. Ben aveva ventidue anni. A quell'età, Jakob lo sapeva bene per esperienza personale, a un ragaz-
zo non basta un gesto amichevole. C'è un istinto più forte che preme nei pantaloni. Come poteva accettare tutto ciò, la sua Trude? O Sibylle Fassbender, la pasticcera, che non aveva mai avuto per le mani un uomo e che per Ben avrebbe messo la mano sul fuoco? O Antonia, che non avrebbe mai capito che, con le sue opinioni flessibili, aveva in qualche modo provocato tutto ciò? UNA PROVA D'AMICIZIA Nella primavera del '69, quando Paul Lässler ruppe il fidanzamento durato dieci anni con Heidemarie von Burg, per sposare il mese stesso Antonia Severino, la gente in paese rimase di stucco. Chiunque dotato di buon senso si era chiesto che cosa ci trovasse Paul in quell'italiana tutto pepe, lui che era così ragionevole, flemmatico e che raramente si lasciava andare a grandi effusioni. Era pur vero che in Italia Antonia ci era solo nata e i suoi si erano trasferiti a Lohberg poco dopo la sua nascita. Inoltre, in tutti quegli anni era tornata in Italia solo tre volte, ma restava il fatto che era italiana. E si sapeva bene quanto i popoli del Mediterraneo fossero spensierati e di sangue caldo. E poi c'era la differenza di età: vent'anni. Perché non era andato a cercarsela all'asilo, già che c'era? fu il commento di molti. Inoltre Antonia, figlia di un gelataio, sapeva fare solo palline di gelato e metterle su coni wafer o in coppette di cartone colorato. E aveva fatto gli occhi dolci a una marea di ragazzi. Paul ci era cascato in pieno. Era andato a prendere sua sorella in gelateria tre volte e, da un giorno all'altro, aveva completamente dimenticato le sue responsabilità nei riguardi dei genitori e della fidanzata. Aveva dimenticato che una fattoria come la sua richiedeva una moglie responsabile che sapesse rimboccarsi le maniche senza indietreggiare davanti a lavori umili e faticosi. Purtroppo, il padre di Paul aveva già intestato la proprietà al figlio, perché il fratello di Paul era caduto in Russia e la piccola Maria era ancora troppo giovane. In paese pochi furono comprensivi nei riguardi di quel giovane, paziente e dal sangue freddo, che era stato colto da una passione improvvisa che non lo avrebbe lasciato mai più. Jakob era tra quelli; lui sapeva che Heidemarie von Burg temeva il matrimonio e le relative responsabilità come il
gatto rifugge l'acqua. Più di una volta Paul, un po' annebbiato dall'alcol, aveva confidato la sua pena all'amico Jakob. Heidemarie gli concedeva una passeggiata la domenica pomeriggio e, se nessuno vedeva, mano nella mano; di sera, alle nove, un casto bacio davanti alla porta di casa; di più non c'era stato tra lui e Heidemarie. Dopo dieci anni, anzi, quindici. Uscivano insieme anche prima di fidanzarsi e in quei cinque anni non avevano combinato niente di più. «Qualche volta penso che se la sia fatta cucire», ripeteva spesso Paul. «Di' la verità, Jakob, alla lunga non potrà durare.» E, ogni volta, Jakob annuiva. All'osteria di Ruhpold anche Heinz Lukka aveva dichiarato che, dovendo scegliere tra una prugna rinsecchita e una bella mela croccante dell'Eden, be', anche lui avrebbe fatto come Paul. In famiglia, all'inizio, solo Maria aveva condiviso la scelta di Paul. A diciassette anni, Maria preferiva una bella gelateria italiana a un allevamento di suini, anche per il vantaggio immediato che quel matrimonio le avrebbe offerto; e, effettivamente, ogni tanto ci scappava qualche coppa di gelato gratis. Il motivo per cui Paul aveva frettolosamente preparato le carte in comune fu chiaro il giorno del matrimonio: poco dopo, Antonia diede alla luce Andreas. E Paul andava orgoglioso di quel minuscolo fagottino che gli misero tra le braccia. Nessuno pensava che il piccolo sarebbe vissuto più di una settimana. Alcune voci sussurravano che il difetto cardiaco era diretta conseguenza della giustizia divina. Altre invece lo attribuivano alla nazionalità della madre. Gerta Franken e la madre di Jakob si chiesero se fosse ammissibile seppellire il figlio della colpa su un suolo benedetto. Andreas Lässler dimostrò a tutti coloro che erano interessati al suo destino di avere fuoco italiano nelle vene e di avere ereditato dalla madre uno spirito combattivo. Superò brillantemente l'operazione al cuore e si riprese in modo perfetto. Superato quell'ostacolo, Antonia dimostrò a tutti gli scettici che anche la figlia di un gelataio italiano era perfettamente in grado di destreggiarsi in un'azienda agricola. La sua unione con Paul era stata felice molto prima della cerimonia ufficiale e dopo il matrimonio nulla cambiò. Due anni dopo la nascita del primo figlio, Antonia diede alla luce il secondogenito, sanissimo, Achim. Quattro anni dopo venne una bambina, anche lei perfettamente sana. E Antonia non dimostrò solo di saper fare bambini. Tra la prima nascita e la seconda gravidanza, fece ristrutturare completamente il vecchio appar-
tamento e rimise a nuovo anche le stalle. Dopo la nascita di Achim, si prese cura anche della suocera, e con vera dedizione, quando questa fu costretta a letto da un tumore. Inoltre trascorreva le lunghe serate a discutere con il suocero, che stravedeva per lei: nessuno aveva mai osato contraddirlo con tale enfasi. Nell'ottobre dell'81 Antonia diede a Paul la seconda, sanissima figlia. La bimba fu battezzata con il nome di Britta. E solo una settimana dopo la sua nascita, Antonia dimostrò una volta di più che la figlia di un gelataio italiano aveva più cuore e cervello di ogni altro abitante del paese. Due settimane prima di Antonia e con quattro settimane di anticipo, Trude partorì nel suo letto, nel bel mezzo della notte. La bambina pesava tre chili ed era sana e robusta, come constatò il medico chiamato d'urgenza. Il giorno dopo, Trude era già in piedi. Jakob si premurò di farle trovare la colazione in tavola, ma ben presto si dovette occupare d'altro. E Ben premeva per andare nel giardino di Gerta Franken in pigiama, per continuare a scavare. Trude non riusciva a provare felicità per la nascita della terza figlia; Jakob, al contrario, era al settimo cielo: un'altra femmina, sì, ma rosea e rotondetta, con polmoni potenti e tutti i riflessi che un neonato normale presenta, ma che Ben non aveva avuto. Quella sera, all'osteria di Ruhpold, Jakob offrì da bere, brindando con i presenti alla salute dell'ultima nata. A una settimana dal parto, Trude si sentiva fiacca e debole; credeva di non essere mai stata così stanca in vita sua. Fu allora che Ben interruppe i suoi scavi sfrenati. Dopo aver allattato la neonata e averla messa nella culla, Trude dimenticò di chiudere a chiave la stanza da letto. Quasi l'avesse percepito, Ben rientrò in casa e salì le scale. In un primo momento, la madre pensò che volesse andare in camera sua; invece sentì cigolare una porta e si precipitò al piano di sopra. Arrivò appena in tempo: Ben teneva la creaturina tra le mani, e il corpicino dondolava sopra la culla con la testa rovesciata all'indietro. Trude gli strappò la bimba dalle mani, la rimise nel suo lettino e alzò il dito con fare minaccioso. «No, no! Non è una bambola, non puoi prenderla. Via le mani! Hai capito? Via le mani.» Dopo solo due settimane, la donna era certa che sarebbe crollata: Ben non la lasciava un secondo, le stava sempre accanto e, quando lei allattava,
palpeggiava il visetto minuscolo della neonata. Se le faceva il bagno, lui s'immergeva nella vasca fino alla vita, e strofinava le braccia, le gambe, il pancino e il sedere della piccola. Compresa la delicata testolina. Allo scadere della terza settimana, Antonia si presentò alla fattoria degli Schlösser. Ritta con la sua bambina in braccio nella stanza di Trude, osservò pensosamente Ben, che stava davanti alla culla con espressione eccitata, muovendo nervosamente le mani e mormorando: «Bene» in continuazione. Trude appariva pallida, magra e sfinita. «Devo sempre chiudere la porta», spiegò in un soffio. «Altrimenti la prende in braccio.» Raccontò che due giorni prima Ben, approfittando del fatto che lei era andata al portone per aprire al postino, aveva portato la bambina nel pollaio, mettendosela sotto braccio come faceva con le bambole. L'amica chiese esitando: «Non vuoi mandarlo via?» Lei scosse il capo. Antonia respirò profondamente, sfiorò Ben con lo sguardo, poi aggiunse risoluta: «Allora prendo io la bambina. Solo per i primi tempi. Se sei d'accordo». Trude fu d'accordo. All'inizio si recava alla fattoria Lässler ogni sera, si tirava il latte, rallegrandosi perché la figlia cresceva bene e ringraziando con lo sguardo Antonia che si schermiva da ogni dimostrazione di gratitudine. Jakob faceva visita ai Lässler e alla figlia minore ogni domenica pomeriggio. Quando Trude non ebbe più latte, prese l'abitudine di andarci anche alla sera. Questo giovò alla sua amicizia con Paul e il rapporto che si era un po' allentato a causa degli impegni familiari si rinsaldò nuovamente. I due amici parlavano dei tempi andati e dei sogni che avevano fatto. Ridevano di Heidemarie von Burg e della sua fobia per il talamo nuziale. Ricordavano con malinconia la sorellina, Christa. Riandarono con la memoria alla giovane Edith Stern, chiedendosi chi l'avesse sulla coscienza. Jakob aveva una sua teoria su Igor. A quel tempo, il russo aveva mentito, di sicuro per un motivo valido, e probabilmente sul letto di morte aveva desiderato lavarsi la coscienza dai rimorsi, perciò aveva chiamato Werner Ruhpold e gli aveva confessato tutto. In seguito era accaduto proprio ciò che con il loro silenzio Paul e Jakob avevano voluto evitare: Werner si era impiccato. Paul dubitava fortemente dell'ipotesi dell'amico. Igor era stato una pasta d'uomo, non uccideva neppure le mosche che lo infastidivano quando lavorava nei campi. Che avesse abusato di Edith Stern? Impensabile. Paul ri-
teneva piuttosto che Igor fosse andato al Boschetto e fosse arrivato troppo tardi. Aveva inventato la fuga di Edith per pura pietà. Semplicemente, non aveva voluto portarsi nella tomba il suo segreto. Paul avrebbe messo la mano sul fuoco che l'autore del misfatto era Wilhelm Ahlsen. Jakob non riusciva a crederci. Era improbabile che Ahlsen avesse sfondato il cranio a Edith in aperta campagna; l'avrebbe piuttosto trascinata per i capelli fino al paese, trionfante, prima di mandarla dove i suoi genitori, i fratelli e la famiglia Goldheim l'avevano preceduta. In seguito avrebbe fatto fare la stessa fine a Werner e a Igor. A quel punto era più probabile il vecchio Lukka, ipotizzava Jakob; se Heinz avesse scoperto il motivo per cui Werner portava con sé delle provviste durante le sue lunghe passeggiate, forse avrebbe riferito l'informazione al padre. Tuttavia il vecchio Lukka non era tipo da sporcarsi le mani con faccende poco pulite, rifletteva Paul; preferiva restare a guardare gli altri che agivano, soprattutto se si trattava di donne. Con la sua vecchia non aveva voce in capitolo, quindi si rifaceva sugli altri. Il vecchio Lukka avrebbe potuto dire ad Ahlsen che nel Boschetto c'era un lavoretto da fare per la gloria del Führer, e poi andare a raccontare a Werner ogni minimo dettaglio di ciò che era accaduto. Restava il giovane Lukka. Ma nessuno dei due ci credeva seriamente. A quel tempo Heinz aveva sedici anni. Era improbabile che avesse affrontato da solo una donna matura. Edith allora aveva già venticinque anni e un ragazzino non l'avrebbe spuntata facilmente. Heinz Lukka aveva coraggio solo come caposquadra della gioventù hitleriana, quando perseguitava i ragazzini che non volevano entrare a farne parte per mancanza di tempo. Ricordi che ragazzo mingherlino era? Ma le sparava grosse già allora. E ricordi la volta in cui lo beccarono mentre spiava Sibylle Fassbender che faceva il bagno? E proprio nella lavanderia dei von Burg. Allora Sibylle frequentava la loro casa ancora con regolarità, anche se la piccola Christa era morta di polmonite già da tempo. E ricordi che il vecchio von Burg lo aveva preso a scudisciate sul sedere nudo con la sua cintura? Non era più o meno nello stesso periodo? Una settimana prima che trovassimo Edith. Sì, proprio in quel periodo. Ricordi quando il vecchio Lukka diede in escandescenze minacciando il vecchio von Burg di informare la Gestapo? Come se quelli non avessero avuto di meglio da fare. E che Wilhelm Ahlsen pretese che il vecchio von Burg si scusasse pubblicamente la domenica mattina dopo la messa solenne? E il vecchio von Burg tenne quel discorso magnifico. Per evitare il de-
clino del Reich andava eliminata la decadenza morale della gioventù tedesca. I giovani non dovevano essere traviati da pensieri corrotti. Dovevano risparmiare le forze per il bene del Führer perché non trionfassero i nemici del popolo tedesco e la vittoria fosse nelle mani di coloro che l'avevano meritata a caro prezzo. Aveva sempre la risposta pronta, il vecchio von Burg. E quando parlava, bisognava ascoltare con attenzione per capire quel che diceva. Wilhelm Ahlsen ribolliva d'ira e per giunta dovette dargli ragione. Quelle serate erano preziose per Jakob. Aveva la figlia minore tra le braccia, il suo amico di fronte, i loro ricordi e le loro paure. Una volta Jakob disse che era veramente grato per l'arrivo della bambina, aggiungendo anche che non avrebbe avuto nulla in contrario ad avere un secondo maschio. «Capisco quel che provi», disse Paul comprensivo. L'amico lo fissò a lungo e scosse il capo. «Non credo. Tu sai per chi ti ammazzi di lavoro. Tra vent'anni, non dovrai preoccuparti più. Per me, invece, inizieranno le preoccupazioni. Che ne sarà di Ben quando noi non saremo più autosufficienti?» Jakob poi raccontò a Paul delle paure di Trude, di come si logorasse, tanto che tutto il resto passava in secondo piano. Era pur vero che le due maggiori avevano già la loro vita, ma la piccola... Perduto nei suoi pensieri, Jakob disse: «Prima o poi finirà come con le bambole?» «Sciocchezze», obiettò Paul. «Non crederai veramente che Ben non sappia distinguere un essere umano da un giocattolo. Jakob, non farti strane idee. È un agnellino. Antonia lo dice sempre, Ben è buono come il pane.» 25 AGOSTO 1995 Alle sei e mezzo, l'idea di affrontare con Trude l'argomento dei giornali e tutto il resto pesava come un macigno su Jakob. Sentiva ancora la voce di Paul risuonargli in testa: «Antonia lo dice sempre». Anche altri la pensavano così. Trude, naturalmente, e Sibylle. Hilde la pensava così in passato, mentre Illa continuava a pensarla così. Le donne possedevano un sesto senso per capire la vera essenza di un essere umano? Eppure anche il collega del grande magazzino, che era al corrente solo di ciò che lui gli aveva raccontato, era della stessa opinione. Jakob avrebbe voluto sprofondare dalla vergogna. Pensare certe cose del proprio figlio, di quello che poteva passargli per la testa, quando solo la
domenica precedente se n'erano andati serenamente a spasso insieme per i campi. E bastava che due estranei, due ragazzetti, negassero la verità, perché un padre arrivasse a dubitare del proprio figlio... Quando Jakob si avviò verso l'auto, erano le sette. Non era ancora pronto per fare ritorno a casa, presentarsi alla moglie e dirle, guardandola fissa negli occhi: «Dobbiamo parlare». Era evidente che dovevano parlare con tutta calma, ma lui aveva bisogno di un po' di tempo per fare il punto della situazione. Così entrò nell'osteria di Ruhpold, ordinò una birra, si fece passare il telefono da Wolfgang, il cugino di Werner, e chiamò Trude, avvisandola che avrebbe tardato un po', che non lo attendesse per cena. Dopodiché ordinò un'altra birra e, mentre la sorseggiava, rifletté sulla reazione della moglie al telefono. Trude non si era mostrata sorpresa né gli aveva chiesto che cosa ci facesse, a quell'ora, all'osteria di Ruhpold, proprio lui che da anni non la frequentava, soprattutto di venerdì, quando si riunivano i membri dell'associazione degli Schützen. Non aveva chiesto spiegazioni e, mogia e distratta com'era stata tutta la settimana, si era limitata a rispondere: «Va bene». Null'altro. Quella sera l'osteria era piena di gente, al banco c'erano diversi avventori e tre membri dell'associazione degli Schützen all'estremità opposta, in attesa dei loro compagni per spostarsi nella saletta riservata. Jakob non si curò di loro, ma rimase a fissare il suo bicchiere e con gli occhi della mente vide il vaso di vetro pieno di muffa, sporcizia e... il pezzetto di stoffa. Ecco che cos'era. Era quello, semplice. Fino a quel momento, pur sapendolo bene, aveva continuato a mentire a se stesso. Non si trattava solo dei giornali e delle smorfie di Ben quel lunedì. Era il pezzo di stoffa a preoccuparlo. La fretta con cui aveva capovolto il vaso... Bastava non guardare, non cercare di capire e si era certi di non perdere la serenità. In sala da pranzo, accanto alla mescita, i tavoli occupati erano sei. La porta era spalancata e la cameriera andava avanti e indietro senza sosta. Per distrarsi, per un po' la osservò portare i piatti di carne e verdure nella sala accanto. Tranne che per il pane che aveva sbocconcellato a colazione, Jakob non aveva mangiato nulla per tutto il giorno. Non aveva appetito, lo stomaco gli si era chiuso per tutte le paure e le congetture che gli frullavano in testa. Conosceva le reazioni di Trude quanto le proprie. Sapeva perfettamente che in tutti quegli anni lei gli aveva nascosto almeno la metà, se non di più, delle cose che, come padre, avrebbe dovuto sapere. Quando la moglie ta-
ceva qualcosa di serio, assumeva quel tono mogio e distratto che aveva tenuto per tutta la settimana e poi anche al telefono, poco prima. Fino ad allora le fonti di informazione di Jakob erano stati Richard Kressmann, Paul Lässler, Bruno Kleu o Toni von Burg. Era accaduto spesso in passato, se Ben si era comportato male in paese e se c'erano stati testimoni. Di solito le mogli erano al corrente e ne parlavano ai propri mariti. A volte, Richard Kressmann diceva: «Non sono cose che mi riguardano, Jakob, ho già abbastanza grattacapi con il mio stupido cane. Thea però mi ha raccontato...» Oppure Bruno Kleu, che con una smorfia ironica gli batteva sulla spalla chiedendogli: «Trude viene a letto con un casco d'acciaio? Eh, sì, perché con i preliminari violenti cui la sottoponi... Se fossi in te, Jakob, mi chiuderei a chiave in camera. Non bisogna esagerare con l'educazione sessuale. Ieri Ben ci ha dato una dimostrazione delle vostre prodezze a letto. Sembra che ci sia qualcuno che mi fa concorrenza. Ma se lui si scopa in serie tutte quelle bambole, mi chiedo quanti ragazzi minorati ci saranno in paese, tra vent'anni...» Toni von Burg lo aveva preso da parte: «Vorrei darti un consiglio, Jakob, e spero che ne farai tesoro. Chiudi la bocca alla gente prima che a tuo figlio succeda quel che è capitato a mia sorella. C'è tanta gente qui che è ancora legata al passato». Solo raramente Paul gli aveva posato una mano sulla spalla dicendo: «Stai un po' attento, Jakob. Si raccontano molte sciocchezze sul conto di Ben». Ormai, però, loro abitavano fuori del paese, Jakob lavorava sul carrello elevatore e incontrava di rado gli uomini del paese. E Ben non gironzolava più per il centro abitato. C'è qualcosa di nuovo nell'aria, pensò Jakob; ordinò una birra e scambiò qualche parola con Wolfgang Ruhpold. Il cugino di Werner aveva più o meno la sua età, e avevano simpatizzato, per quanto Jakob non fosse un cliente abituale. Cominciarono a parlare delle previsioni del tempo che annunciavano dei cambiamenti, quindi Jakob s'informò come sempre chiedendo: «Che si dice di nuovo in giro?» Wolfgang alzò le spalle in modo eloquente. Stando dietro un bancone dieci o dodici ore al giorno, se ne sentivano, di cose. Qualcuno, ogni tanto, si lasciava scappare una parola di troppo. Solo due giorni prima Heinz Lukka aveva detto: «Quel viavai davanti a casa mia comincia a darmi sui nervi: durante il fine settimana non riesco
quasi a chiudere occhio. Mi verrebbe voglia di barricare la strada d'accesso alla provinciale da sabato pomeriggio a lunedì mattina; o forse sarebbe sufficiente piazzarci davanti un bell'omone massiccio, con un binocolo al collo e una pala alla cintola». Toni von Burg, che era presente, aveva ridacchiato. Toni compariva raramente in birreria, per via della sua salute un po' cagionevole. Se si faceva vedere, beveva la sua birra senza perdersi in chiacchiere inutili. Da sempre, Toni era uomo di poche parole. Quel mercoledì, però, non riuscì a evitare un commento. «Strano: Heinz dice sempre che il fine settimana lo passa altrove. Perché dovrebbero dargli fastidio i giovani che se la spassano nei campi, se lui non è neanche in casa?» Wolfgang non aveva fatto in tempo a rispondere, perché Richard Kressmann, in piedi accanto all'avvocato, aveva cominciato improvvisamente a sbraitare. Si era bevuto una bella quantità di birra e pure qualche grappino, e ci aveva messo un po' a capire di che cosa stessero parlando. E come sempre, quando era alticcio, parlò a voce talmente alta che tutti gli astanti sobbalzarono. «Già, vuoi affidare la pecora al lupo?» gridò in direzione di Lukka. «Certo, ti piacerebbe stare a guardare un idiota che fa a pezzi le donne, eh? Hai preso da tuo padre. Hai idea di quanto abbia faticato Albert a staccarlo da Annette? Sono ben contento di aver fatto prendere lezioni di karatè al ragazzo: le cose non sarebbero andate così lisce, altrimenti.» Heinz si era dato una pacca sulla fronte e, ignorando volutamente il riferimento alle tendenze del padre, aveva chiesto: «Karatè?» Poi era scoppiato a ridere divertito. «Se Ben avesse voluto, il tuo ragazzo l'avrebbe fatto a pezzi prima ancora che Albert potesse dire 'be'. Non si dice 'be' nel karatè? Non sono molto esperto in quel tipo di disciplina. Però conosco perfettamente Ben. Se parli di un idiota, guardati allo specchio e lo vedrai. Ben probabilmente ha molto più sale in zucca di te, che ormai insieme con le birre ti sei bevuto il cervello. Forse Ben avrà esagerato un po', cosa che comunque non riesco a immaginare, ma certamente lo avrà fatto per liberare la figlia di Paul dalle grinfie di un imbecille.» «Imbecille?» urlò Kressmann. Pur avendo definito il figlio allo stesso modo, non tollerava che altri lo facessero. «Stai attento a quel che dici, o dovrò affidare i miei interessi ad altri. Non sei l'unico avvocato della zona. Ce ne sono altri e non gli bagni certo il naso, a quelli.» «E non ne ho nessuna intenzione», ribatté Lukka, tranquillo. «Se trovi qualcun altro che riesce a farti passare il test e farti restituire la patente, ac-
comodati. Sei tu che paghi.» «Giusto», replicò Richard. «Sono io che pago. E tu hai insultato mio figlio. So che andresti sulle barricate per quello scemo. Però tieni a mente questo: se succede ancora una cosa del genere, so bene quel che dovrò fare. È una vergogna che lo lascino andare in giro in quel modo, dovrebbero vietarglielo. Sono pronto a scommettere che era in giro quando la figlia di Erich è scomparsa. E se una ragazza gli passa sotto il naso, be', non so che cosa sarebbe capace di fare, quello, preferisco non pensarci. Lui sa che cosa ha nei pantaloni. E con la forza che ha, una non se la cava con qualche livido.» «Probabilmente tuo figlio sa benissimo che cos'ha nei pantaloni», obiettò Heinz. «Se fossi in te, non userei quel tono. Qualcuno potrebbe andare a fare un discorsetto al tuo Albert. Non sono certo l'unico cui aveva detto che gli sarebbe piaciuto giocare a nascondino con la figlia di Erich. E mi ha anche riferito che tu non saresti stato d'accordo, visto che a una farmacia preferiresti un quarto della fattoria Lässler. Vedi che succede quando i vecchi vogliono aver voce in capitolo e impongono ai giovani di frequentare o non frequentare questa o quella ragazza?» «Che intendi dire?» sbottò Kressmann. «Vuoi forse insinuare che mio figlio avrebbe...» «Io non insinuo nulla», lo interruppe l'avvocato. «Pensa solo a quel che aveva in mente Bruno quando Paul gli proibì di frequentare Maria. Quando un giovane si mette in testa una cosa, e poi non l'ottiene, sono guai grossi.» Wolfgang evitò di riferire a Jakob del litigio tra Richard e Heinz, e tacque anche l'osservazione di Toni; sapeva che Jakob riteneva Richard un amico e Heinz un nemico, e non avrebbe mai potuto supporre il contrario. Non c'era motivo di angustiarlo inutilmente per le affermazioni di un ubriaco. Inoltre, nessuno, tranne Richard, aveva collegato Ben con Marlene Jensen; accennò invece a un'altra persona, e a Jakob poteva parlarne tranquillamente perché non era un chiacchierone. Jakob ascoltò incredulo. Dieter Kleu sospettato! Non avrebbe mai pensato a lui. Non era un delitto che un ragazzo fosse perdutamente innamorato di una ragazza e facesse di tutto per conquistarla. Dieter, poi, aveva messo la polizia sulla via giusta per arrestare Klaus e Eddi, tanto che gli inquirenti di Lohberg avevano sorvolato sul fatto che non aveva la patente e si erano limitati ad ammonirlo in merito. Un redattore del giornale aveva persino fatto i complimenti al ragazzo perché era andato al posto di polizia senza curarsi delle conseguenze.
In paese, la gente mormorava. Wolfgang Ruhpold non fu da meno. Il comportamento di Dieter presentava alcune contraddizioni; per esempio, la targa dell'auto. Gli sembrava improbabile che Dieter non avesse lanciato uno sguardo sulla targa, quando Marlene era salita a bordo dell'auto di Klaus e Eddi. E poi perché il ragazzo non aveva riferito subito alla polizia quel fatto? Avrebbero potuto interrogare i due giovani la domenica stessa. Invece, Dieter era rimasto al Da capo ad aspettare. Aspettare che cosa? Non poteva pensare che Klaus e Eddi sarebbero tornati in discoteca, se avessero realmente ucciso Marlene. Allora si poteva ipotizzare che lui sapesse ciò che avevano fatto i due. Che Klaus e Eddi volessero solo spassarsela un po' e, di fronte a un rifiuto, avevano semplicemente aperto la portiera dell'auto. E veniva naturale chiedersi come facesse lui a sapere tutto questo. Ma non era tutto. Che cosa aveva fatto Dieter dopo aver collaborato con la polizia per fare acciuffare Klaus e Eddi? Un ragazzo che non sapeva tenere nulla per sé si era forse gloriato delle proprie azioni? No, anzi esattamente al contrario. «È venuto per un bicchiere», disse Wolfgang con voce pacata. «Sedeva al banco, ha bevuto un paio di birre e non aveva certo un atteggiamento da vincitore. I due ragazzi erano già sotto torchio, e le ricerche erano in corso da ore. Lui ne conosceva il motivo, ma non ne ha fatto parola né con Bruno né con Renate. I genitori sono caduti dalle nuvole quando hanno saputo quel che aveva fatto. E ora ti chiedo, Jakob, in gran confidenza, e che resti tra noi: uno che ha la coscienza pulita si comporta così?» Jakob alzò le spalle. «Be', non lo so. Tu avresti cantato vittoria, se ti avessero soffiato la ragazza sotto il naso e non l'avessi più vista?» L'oste piegò il capo pensosamente e riprese a parlare del suo sospetto, avvalorato dopo che, la domenica, Bruno aveva schiaffeggiato la moglie davanti al caffè Rüttgers. Alcuni avevano assistito al fatto, ma nessuno ne conosceva il motivo. In precedenza però avevano parlato di Dieter, che non era stato visto in paese per tutta la settimana. «È strano, vero?» incalzò Wolfgang. «La domenica di solito viene a bersi un bicchiere. E normalmente non si lascia scappare la riunione degli Schützen. Ma, scomparsa la ragazza degli Jensen, Bruno non si è più fatto vedere in giro. E domenica scorsa, aveva la faccia di chi ha appena finito una bella discussione. Non che ci fosse molto da vedere, ma per certe cose io ho occhio.» Wolfgang parteggiava per Ben e non per Dieter, anche a prescindere dai fatti. Conosceva entrambi. La domenica, ogni tanto Jakob si presentava nel
suo locale per una birra, dopo aver fatto una passeggiata nei campi con il figlio. Ben se ne stava con espressione beata al banco, succhiando dalla cannuccia la coca-cola che il padre gli aveva ordinato, e ridacchiando tra sé quando le bollicine di anidride carbonica gli salivano alle narici. Beato come un cherubino accanto al trono dell'Onnipotente, pensava l'oste. Al contrario, Dieter Kleu era una carogna. Era simile a suo padre, che in gioventù ne aveva fatte di cotte e di crude e che anche ora era da prendere con le molle. Wolfgang Ruhpold si era trasferito in paese solo dopo il suicidio del cugino, ma sapeva bene che Bruno Kleu nel '69 aveva quasi violentato la madre di Marlene Jensen, e nell'80 aveva obbligato una giovane artista a effusioni amorose, mettendola poi probabilmente a tacere per sempre. Chi avrebbe messo la mano sul fuoco per Dieter, che forse usava metodi simili a quelli del padre? Chi poteva escludere che il ragazzo avesse seguito la sera stessa Klaus, Eddi e Marlene, magari trovando la giovane Jensen esattamente come aveva fatto con Karola Jünger una settimana più tardi? Forse Dieter era convinto di apparire ai suoi occhi nella veste di eroe, e di potere quindi, dopo quella sorta di salvataggio, raggiungere il suo obiettivo. Avendolo Marlene trattato con indifferenza, il giovane si sarebbe preso con la forza ciò che desiderava, tentando in seguito di attribuirne la colpa a Eddi e a Klaus. E l'avrebbe fatto in modo maledettamente raffinato. «La polizia che ne pensa?» chiese Jakob. Wolfgang non ne era al corrente. Era sicuro che agli inquirenti non fossero giunte le voci a riguardo. Di Dieter Kleu si mormorava solamente. Nessuno voleva dire una parola di troppo, né cacciare nei guai un potenziale innocente. Inoltre, nessuno cercava la lite con Bruno. Erano solo voci. Allo stesso modo, si mormorava di Albert Kressmann. Tutti in paese sapevano che, quella notte, Albert aveva prima di tutto riaccompagnato a casa Annette Lässler, facendo poi ritorno a Lohberg. Thea aveva sparso la voce. E il giovane Kressmann non aveva raccontato solo a Heinz Lukka che avrebbe giocato volentieri a nascondino con la cugina di Annette. «I tempi quadrerebbero», osservò l'oste. «Albert era qui quella notte, verso le dodici e mezzo. Di solito il fine settimana, quando ritorna da Lohberg, accompagna a casa suo padre. Ma quel sabato spiegò che non aveva tempo, mise solo dentro la testa e disse a suo padre che doveva chiamarsi un taxi perché lui aveva ancora una faccenda da sistemare.» Wolfgang sghignazzò e ripeté con enfasi: «Una faccenda da sistemare. Per andare alla discoteca ci ha messo meno di dieci minuti. Però ha dichiarato di esserci arrivato poco dopo l'una e di non avere più visto la figlia di Erich. Strano,
ma è proprio con lei che è stato visto. Il ragazzo di Toni von Burg, come si chiama?» «Winfried.» «Precisamente», confermò l'oste. «Winfried era in discoteca quella sera e ha visto Albert entrare e parlare con la figlia di Erich, ma per poco. Poi lei è uscita con i due ragazzi di Lohberg. E qualche secondo dopo, anche Albert era scomparso.» «E tu che ne pensi?» chiese Jakob. Wolfgang fece spallucce. «Che devo pensare? Se è stato Dieter, è in giro libero come un uccello. Se Albert ha giocato a nascondino con la ragazza, l'ha nascosta proprio bene. Non si è trovato nulla finora. Ecco quel che penso.» Con un moto di tristezza, Jakob pensò che, se non erano stati né Dieter, né Albert, né Klaus e Eddi, allora era stato qualcuno che adesso girava liberamente per il paese. Una notte dopo l'altra. E se era qualcuno incapace di controllarsi, non appena gli si fosse presentata l'occasione lo avrebbe rifatto. E Ben: in quanto a saper nascondere qualcosa, probabilmente era molto più in gamba di Albert Kressmann. C'è qualcosa nell'aria, pensò Jakob, da un po' di giorni Trude si comporta in modo così strano... Fa sempre così, quando succede qualcosa. E se si fa anche solo un accenno, diventa una furia. Non permette che accada nulla a Ben. Ma si rende conto di quel che combina là fuori? Non può saperlo. Jakob non si accorse di annuire involontariamente. Wolfgang pensò che stesse confermando le sue supposizioni e si rivolse a un altro cliente. E Jakob vide galleggiare nella sua birra, tra minuscole ossa e pezzi di patata ammuffita, uno straccetto blu chiaro, sporco, che forse era appartenuto alla giacca di jeans di una ragazza. Mentre, disgustato, allontanava il bicchiere, alzò lo sguardo e immaginò di vedere nello specchio appeso sopra il banco la scena del risveglio mattutino dei suoi figli: Ben che sorrideva dolcemente e allargava le braccia, mentre la sorellina raggiante si lanciava verso di lui con un grido di gioia. Improvvisamente, lo specchio si oscurò. Nel cielo notturno, una ragazza dal viso di bambola correva attraverso un campo solitario. E un gigante, che rideva stupidamente, con mani enormi e una pala attaccata in vita, correva verso di lei. Con intenzioni innocenti e bonarie. Ma la ragazza non era sua sorella, non si lasciava sollevare in aria senza difendersi. Non gridava di gioia. Il gigante si spaventava, aveva paura. Sapeva di non poter toccare la ragazza, che sarebbe stato punito se lo avesse fatto. Non voleva che
qualcuno se ne accorgesse, voleva solo far smettere quel grido. E qualcosa aveva imparato nella sua vita, aveva imparato a seppellire una bambola in modo che non ne rimanesse neanche un lembo visibile. Jakob si riscosse dall'idea che le cose sarebbero potute andare in quel modo. Non poteva parlarne a Trude. Non poteva dirle della stoffa nel vaso di vetro. Non poteva spiegarle che Ben era diverso. Che aveva soffocato i pulcini per un semplice motivo: avere un po' di tenerezza. Tenerezza che, secondo Trude, Ben meritava. L'oste gli sostituì la birra, interrompendo il filo dei suoi pensieri e chiedendogli: «Puoi farmi un favore, Jakob? Quando torni a casa, potresti accompagnare una persona?» E indicò con la mano in direzione della sala da pranzo. Jakob seguì la mano con lo sguardo, osservò i visi delle persone sedute ai tavoli e scoprì un volto sconosciuto. Una donna sui vent'anni. «Ha chiesto di Werner e ha fatto un sacco di domande su Lukka», dichiarò Wolfgang. «Anche se ho rilevato il bar di Werner, non per questo sono al corrente dei suoi segreti. Né so assolutamente che cosa abbia fatto Lukka in passato. Lei adesso vuole andare a casa sua. È un po' lontana e in questo momento forse è un po' pericoloso. Ho una strana sensazione, preferirei che l'accompagnassi tu. Di solito Lukka è qui, il venerdì sera. Finora però non si è visto.» Ecco, tutto quadrava. Una strana sensazione. Anche Jakob la sentiva; non era semplicemente strana, lo solleticava e lo pungeva, come una spina nel cuore. Il padre di Ben annuì nuovamente, mentre osservava di nascosto la giovane. A terra, accanto alla sedia, c'era uno zaino voluminoso di perlon blu, e sulla spalliera una giacca impermeabile dai vivaci colori. La ragazza portava i capelli corti alla maschietta. La camicia a quadretti e i jeans le davano un aspetto ancor più sbarazzino. E il viso era minuto e delicato. Gli ricordava qualcuno. Ma non riusciva a capire chi. «La conosci?» domandò Jakob. Wolfgang scosse il capo. «Non è di queste parti. Ha uno strano accento. Prima che tu arrivassi, stavo giusto pensando che, se una come lei scomparisse, nessuno la reclamerebbe. Vado a dirle che l'accompagni.» Successe tutto molto in fretta. Prima ancora di rendersene conto, Jakob stava già caricando nel portabagagli lo zaino e la giacca. Uscì prudentemente dal parcheggio. Sentiva in corpo l'effetto delle quattro birre, e tutte quelle novità gli frullavano in testa.
Dieter Kleu e Albert Kressmann sospettati. Che cosa avrebbe detto Trude? Probabilmente questo l'avrebbe tranquillizzata, permettendole di affrontare la discussione con serenità. Jakob si sentiva la testa ovattata e lo stomaco piacevolmente caldo, e la lingua più sciolta del solito. Non era sua abitudine fare domande agli estranei. Ma non riusciva a liberarsi dall'impressione di avere già visto quella donna. E quando lei cominciò a parlare, chiedendogli se conosceva Heinz Lukka e se le poteva raccontare qualcosa a proposito dell'avvocato, quella sua voce cantilenante e dura gli piacque talmente che desiderò ascoltarla ancora. Lo distraeva. Iniziata la conversazione, la giovane si rivelò divertente e interessante. Jakob la sottopose a un fuoco di fila di domande. Da dove veniva? Non aveva mai conosciuto Lukka? Che cosa voleva da una persona del tutto sconosciuta? Perché non aveva cercato Lukka nel suo studio di Lohberg? Era meno scomodo che andarlo a cercare in paese e poi alla villetta. Invece di rispondergli, lei lo scrutò con la coda dell'occhio e gli chiese quanti anni avesse. «Sessantatré», rispose Jakob. Aveva vissuto quegli anni terribili, pensò la ragazza. Poi volle sapere se era nato in paese e se ricordava il nome Stern. Nonostante le quattro birre a stomaco vuoto, il rovello interiore, i sospetti nei riguardi del figlio, della moglie e di se stesso, Jakob d'un tratto capì. Voltò di scatto la testa, tanto che gli sfuggì quasi il controllo del volante, fissò il profilo della donna e la riconobbe: Edith Stern, risuscitata dal regno dei morti. «Non credo ai fantasmi», mormorò. La ragazza rise. Era una risata argentina che gli piacque tanto quanto la sua strana pronuncia. Non era un fantasma, c'era una spiegazione assolutamente razionale. Era la nipote di una cugina di Edith Stern e portava il suo nome in memoria di lei, anche se la pronuncia era diversa: alle orecchie di Jakob il nome suonò «Idis». Sua nonna, raccontò la ragazza, era emigrata negli Stati Uniti fin dagli anni '30, quando la situazione nel Paese stava precipitando. In seguito suo padre si era trasferito nella patria dei loro avi, in Israele. Lei aveva fatto ritorno nello Stato dell'Idaho due anni prima, perché non le piaceva la vita nei kibbutz e non condivideva la politica del governo israeliano nei riguardi dei palestinesi. «Lei forse capirà perché», commentò la ragazza, e riprese il racconto.
Tre mesi prima sua nonna era morta e le aveva lasciato un pacchetto di lettere. Il mittente era Werner Ruhpold. Si era informato, a intervalli regolari, sulla sorte della sua amata Edith. L'ultima lettera risaliva al mese di marzo dell'81. Aveva probabilmente scritto e imbucato la lettera poco prima di togliersi la vita nella soffitta del suo locale. Edith continuò a parlare senza sosta e Jakob, nelle condizioni in cui era, faticava a seguirla. Guidava lentamente, cercando di concentrarsi per non perdere una parola di conferma o di smentita sulle supposizioni che lui e Paul avevano fatto in passato. Igor di Kressmann! Nessuno sapeva pronunciare il suo vero cognome, per cui tutti lo chiamavano come si faceva con il cane di Lukka o con il toro di Kleu, ma non in modo spregiativo. Jakob aveva sempre nutrito dei dubbi su Igor, mentre Paul non aveva mai dubitato e aveva visto giusto, giudicando bene il russo. Igor non era un assassino, anche se poteva essersi autoaccusato nel suo ultimo colloquio con Werner Ruhpold. Igor era stato un testimone, come Paul aveva immaginato. Il russo aveva voluto fare uscire Edith dal suo nascondiglio e, d'accordo con la madre di Richard, voleva portarla alla fattoria dei Kressmann. Là c'era abbastanza posto per nasconderla e una bocca in più da sfamare non avrebbe destato sospetti, visto che erano molto numerosi. Invece si era dovuto nascondere in una buca perché non uccidessero anche lui. Fu costretto ad assistere, impotente, alla spaventosa scena e infine non poté far altro che seppellire il corpo martoriato di Edith Stern. L'aveva sepolta a mani nude, e per lunghi anni si era portato dentro quel segreto. Solo sul letto di morte si era convinto di essere stato un criminale come gli assassini di Edith. Se Werner Ruhpold avesse saputo della sua morte, forse avrebbe sposato un'altra donna, avrebbe avuto dei figli e una vita felice. Così, lo fece chiamare. E aveva fatto tre nomi: Heinz Lukka, l'istigatore dell'azione, e altri due, autori materiali dell'assassinio. Jakob ricordava i due giovani. Uno di loro era stato fucilato dagli americani nell'aprile del '45. In mezzo al paese, e con grande orrore della popolazione, perché il ragazzo non aveva fatto altro che eseguire l'ultimo ordine del Führer: aveva difeso il monastero, aprendo il fuoco con un vecchio fucile d'assalto sui carri armati americani che si avvicinavano, sordo a qualsiasi esortazione delle madri terrorizzate. Nella sua cieca ubbidienza, quel ragazzo aveva portato con sé anche un sergente. Gli americani erano andati per le spicce. Il terzo nome fatto da Werner nella sua ultima lettera era inciso sulla tar-
ga di un monumento ai caduti. Non era più possibile interrogare i boia, neppure per chiedere loro che cosa si provava a sfondare il cranio di una donna inerme solo perché un bellimbusto di sedici anni riteneva che fosse dovere di ogni cittadino agire in quel modo. «Mio Dio», mormorò Jakob sconvolto al ricordo della testa di Edith, con i capelli intrisi di sangue rappreso e il viso gonfio. «Mio Dio, non immaginavo una cosa del genere. Sapevo che Lukka si era dato da fare, a suo tempo, e con grande piacere. Ma ho sempre pensato che giocasse più che altro a fare il comandante. Pensandoci bene, lo ha fatto anche in quel caso.» Prima di arrivare al bivio, Jakob le raccontò come lui e Paul Lässler avessero taciuto per tutto quel tempo, ma che recentemente lui ne aveva parlato a suo figlio perché in paese era appena scomparsa una ragazza e, in ogni caso, suo figlio non avrebbe potuto parlarne a nessuno. Alla fine le domandò: «Non crede che sia una situazione pericolosa? E poi, che cosa vuole dire a Lukka?» Edith Stern ancora non lo sapeva. In realtà, aveva pensato semplicemente di mostrargli le lettere. Poi, in qualche modo, le cose sarebbero andate come dovevano. In ogni caso, non desiderava essere accompagnata fin sulla porta di Lukka, non voleva mettere in imbarazzo l'avvocato. Arrivato all'incrocio, Jakob le mostrò la strada in discesa dicendole: «Lui abita là dietro, ma ci sono ancora due chilometri di strada». La ragazza rispose che avrebbe fatto volentieri il resto della strada a piedi, così avrebbe avuto tutto il tempo per pensare a che cosa dire. In realtà, voleva solo conoscere quell'uomo, quell'ex caposquadra della gioventù hitleriana che a soli sedici anni faceva delle distinzioni tra gli esseri umani e che da cinquant'anni era una colonna della società cristiano-democratica. «La posso accompagnare, se vuole», propose Jakob. «Non mi fermerò proprio davanti a casa sua. Non vedrà l'auto. È meglio che lei non attraversi i campi da sola.» Anche se gli pesava ammetterlo, insistette che era meglio così, visto che era scomparsa un'altra ragazza... Edith Stern rise. «So come difendermi dagli uomini», replicò. Jakob scese con lei dall'auto, le porse lo zaino e la giacca a vento, e rimase a guardarla per qualche minuto, mentre scendeva sulla via, nel crepuscolo. Il padre di Ben percorse gli ultimi seicento metri fino al fienile con la testa che gli scoppiava. Tutti i pensieri gli si affastellavano confusi nella mente: Edith Stern, i giornali buttati, Dieter Kleu, Albert Kressmann e l'ipotesi che fossero sospettati ingiustamente; Heinz Lukka, Igor di Kres-
smann, Werner Ruhpold, quella paura latente e le sue responsabilità di padre; quella sensazione di disagio che lo rodeva. Decise che avrebbe parlato con Trude il giorno dopo, con tutta calma. Finalmente si sentì più tranquillo, era completamente sobrio e pronto alla lotta. Le cose non potevano precipitare se avesse aperto il discorso citando l'esempio dei sospetti ingiustificati su Dieter Kleu e Albert Kressmann. Bastava affrontare il problema nel modo giusto. Trude sapeva bene che Ben veniva giudicato con un metro differente. Se Dieter Kleu voleva ottenere qualcosa a tutti i costi, andava bene. Se Albert Kressmann metteva le mani addosso a una ragazza in un viottolo di campagna, tutti ridevano sotto i baffi. Albert aveva l'età adatta, era suo diritto. Ben non aveva quel diritto. Né quello, né tanti altri. DOMENICA IN ALBIS, DOMENICA COLORATA Il 1981 fu un anno sfortunato e di forti preoccupazioni. Tuttavia, negli ultimi giorni, Jakob e Trude Schlösser furono gratificati da alcune ore di felicità. Alla fine di dicembre arrivò una lettera dall'ufficio parrocchiale. Richard e Thea Kressmann ne avevano ricevuto una simile il giorno precedente. E Thea, c'era da aspettarselo, saltò in macchina e si precipitò da Trude, per informarsi con falsa partecipazione se anche lei avesse... E le mise il foglio di carta sotto il naso. La lettera iniziava ampollosamente: il piccolo Kressmann aveva raggiunto l'età per essere accolto nella comunità cristiana, cenando al desco del Signore. Seguiva l'invito a presentare il bambino affinché partecipasse alla prima santa comunione. Il bambino era Albert. Nonostante la fitta che le attraversava il costato e arrivava fino al cuore, Trude riuscì a osservare con tono pungente: «Nella comunità cristiana? Perché, Albert non è stato battezzato?» Ben era stato battezzato, ma Trude pensava che non sarebbe stato invitato alla mensa del Signore, esattamente come non lo avevano desiderato a scuola. Dunque forse si era sbagliata. Il giorno dopo il postino recapitò una busta simile a quella che le aveva mostrato Thea. Trude immaginava già il suo Ben davanti all'altare, con un abito blu scuro, una camicia bianca e un farfallino blu scuro, una candela accesa in mano e sotto il braccio il libro delle preghiere rilegato in oro; circondato da bambine in abiti lunghi e bianchi con le coroncine in testa.
Trude strinse le labbra per alcuni secondi, per non cedere alle lacrime, commossa all'idea. Non osava aprire la busta. Lo fece Jakob, la sera. Dopodiché rifletterono a lungo su come organizzare la festa di Ben. Come potevano fare in modo che se ne stesse tranquillo al suo posto durante la funzione, senza dimenarsi e combinare qualche guaio con la candela accesa e, soprattutto, senza agguantare una mezza dozzina di ostie dal calice? L'invito a Ben era solo dovuto a un madornale errore della segretaria della parrocchia che era di Lohberg e non conosceva gli abitanti del luogo. Trude era al colmo della felicità quel primo di gennaio dell'82, mentre andava all'ufficio parrocchiale con Ben (vestito di tutto punto con i pantaloni della domenica e una camicia nuova) e gli prospettava la gioia che li aspettava. Non tanto la visita in parrocchia, quanto piuttosto il caffè Rüttgers che sarebbe seguito subito dopo. A patto che si comportasse bene, ubbidisse, non desse fastidio né al parroco né alla segretaria, che non conosceva, e che non disturbasse con parolacce, urla selvagge e con quel suo continuo sgambettare. Contagiato dal crescente nervosismo della madre ma felice all'idea dei dolci, Ben si sforzava di fare passi regolari e, ogni volta che sollevava un piede, spingeva in avanti il petto. «Ora smettila», disse Trude. «Cammina come si deve!» E gli strattonò il braccio. Ben, afferrando il senso di quel gesto, tornò, sollevato, al suo consueto trotterellare. Davanti alla porta dell'ufficio parrocchiale Trude gli passò la mano tra i capelli, controllò ancora una volta il viso e pensò che era veramente un bel ragazzo. Molto alto e robusto per la sua età, ma con tratti del viso regolari. I capelli scuri erano mossi, con la scriminatura ordinata, e nessuno avrebbe mai supposto che là sotto c'era una testolina piena di idee confuse. Il corridoio dell'ufficio era in penombra, c'erano due file di quattro sedie disposte contro la parete, di cui sei già occupate da mamme e bambini che erano stati invitati dal parroco. Erano libere due sedie, giuste giuste. Trude ignorò gli sguardi scandalizzati delle madri e quelli curiosi o impauriti dei bambini, e l'improvviso silenzio al suo arrivo. Ben chiarì con un «psst» percettibile che sapeva come ci si doveva comportare. Trude lo spinse su una sedia vuota, gli sedette accanto prendendogli la mano e aspettò. Nel corso della mezz'ora che seguì, tutti coloro che attendevano scomparvero uno dopo l'altro dietro la porta. Non appena ne uscivano, ricompa-
riva il parroco o il giovane addetto parrocchiale e chiamava la madre successiva. Trude presentò la lettera all'addetto parrocchiale, che guardò con fare scettico prima Ben e poi l'invito, e infine si rivolse all'anziano parroco. Questi comparve immediatamente e, rivolgendo a Ben uno sguardo benevolo e dolce, gli accarezzò i capelli pettinati per bene e affermò: «Dunque, anche tu vorresti partecipare alla festa». Ben si appoggiò un dito alle labbra e sibilò un po' più forte di prima: «Psst». E, con quello, la questione fu risolta. Il parroco era disponibile a far partecipare Ben alla prima comunione, per quanto non la domenica in Albis e non con Albert Kressmann e gli altri bambini. Si sedette accanto a Trude, le pose una mano sul braccio e dichiarò, con lo stesso tono che Erich Jensen aveva usato per consigliarle il ricovero in un istituto, che sarebbe stato meglio fare la comunione a Ben la domenica successiva, da solo. La partecipazione sarebbe stata più sentita. E non si sarebbe eccitato troppo. «No!» esclamò Trude con decisione. «O la domenica in Albis, o niente. Gli abbiamo già insegnato a comportarsi bene. Gli insegnerò a non dire 'psst'. Forse è stato un errore, dirglielo, ma ce la faremo. Ha così poche gioie. Che vita è la sua, altrimenti? Per una volta, sarà in fila con gli altri. Se non è possibile altrimenti, starò seduta io vicino a lui. Ma non sarà necessario. Lo lasci provare insieme con gli altri e vedrà che ce la farà. Lui imita tutto ciò che gli si fa vedere. Sa tenere la candela accesa, l'ho già fatto esercitare. È anche in grado di stare fermo e zitto. Se sa che avrà in premio un pezzo di torta, ubbidisce perfettamente.» «Ma non si tratta di un pezzo di torta.» Il parroco era sconcertato. «Dove andremo a finire, se per estorcere un comportamento devoto a un ragazzino davanti all'altare del Signore dobbiamo promettere beni terreni e materiali di questo tipo? Dove va a finire il senso di tutta la cerimonia?» «Ah, perché lei crede che gli altri capiscano molto di più?» chiese Trude. «A loro interessa solo la bicicletta nuova o qualcos'altro.» Il parroco non le rispose. Un'ora dopo Trude stava seduta nel retro del caffè. Mentre Sibylle consolava Ben con una fetta di una torta gelato alla crema per il mancato incontro con il Signore, Trude, in cuor suo, piangeva silenziosamente. Il caffè che Sibylle le aveva servito era intatto sul tavolo. Ben guardava incerto la madre e, reso insicuro dal suo atteggiamento, cominciò a dimenarsi. Osservò di sottecchi Sibylle, poi scivolò dalla sedia
e si avvicinò a Trude. Le appoggiò una mano sulla spalla, come aveva visto fare spesso a suo padre, e le chiese compunto: «Male?» «Sì», rispose lei. «Fa molto male. Ma avrai la tua bella domenica in Albis, faremo in modo che sia così. Dovessi rivolgermi al papa in persona.» Sibylle la abbracciò. «Lascia perdere, Trude. Ti arrabbi solamente e non ottieni nulla. Faremo a modo nostro. La festa la faremo qui. E non sarà bianca, ma colorata. Per lui sarà ancora più bello. E inviteremo tutti quelli che amano Ben e che quel giorno non festeggiano nulla. Sarà una bella festa. Ci penso io.» La stessa sera, benché la sconsigliassero, Trude scrisse una lettera pungente al vescovo. Ma alla fine non arrivò al papa, perché il vescovo appoggiò in pieno il parroco. Pareva che Ben avrebbe avuto una bella giornata di gioia. Sibylle mantenne la sua promessa. La domenica in Albis del 1982 il caffè Rüttgers non aprì i battenti e alle due e mezzo, mentre i comunicandi inghiottivano velocemente l'ostia per passare nei tempi previsti al ringraziamento e alla devozione, nel caffè iniziarono i festeggiamenti. Le sorelle Rüttgers e Sibylle avevano fatto del loro meglio. La sala del locale era decorata con ghirlande, stelle filanti, lampioncini e palloncini colorati. I tavolini erano stati riuniti in un unico grande tavolo su cui erano state messe le candele, i piattini colorati e i bicchieri di carta per i bambini e i piatti di porcellana per gli adulti. Al centro del tavolo spiccavano le torte di panna, di crema e di frutta, cosicché ci si poteva servire da soli. Tutti coloro che erano stati invitati alla festa in onore di Ben erano già arrivati: Paul e Antonia Lässler con i loro quattro figli, la nipote Marlene e la piccola Tanja Schlösser, Otto e Hilde Petzhold, Renate Kleu con Dieter e il piccolo Heiko di due anni. Bruno si era scusato per un impegno improvviso di cui neppure Renate era al corrente. Toni e Illa von Burg invece erano intervenuti con i due figli, visto che non correvano il rischio di incontrare Thea. Infatti, nello stesso momento, Richard e Thea stavano festeggiando la comunione del loro Albert. Anita si era rifiutata di partecipare alla festa prendendo a pretesto un lavoro importante per la maturità, che avrebbe richiesto tutta la giornata. Bärbel invece si era presentata volentieri non appena aveva saputo che i von Burg avevano convinto i propri figli a partecipare. Bärbel non faceva mistero della simpatia che provava per il diciassettenne Uwe von Burg. Purtroppo però non aveva grandi speranze perché lui
usciva ogni domenica con una ragazza diversa. Poteva permettersi il lusso di scegliere, cosa che faceva puntualmente, e fino ad allora aveva ignorato gli sguardi sognanti che la giovane Schlösser gli rivolgeva quando s'incontravano casualmente. Bärbel, però, non si era data per vinta. Trude aveva già detto più volte che c'era tempo. Quel giorno, si era messa un po' di profumo in più e il rossetto in modo più marcato del solito, tanto che Jakob aveva commentato che si era agghindata giusto giusto per una domenica colorata. Erich e Maria Jensen non erano stati invitati. Non avrebbero avuto riguardo per Ben. E in ogni caso Erich non sarebbe comunque potuto intervenire, perché doveva discutere alcune questioni importanti con i compagni di partito. Maria aveva annunciato con settimane di anticipo che quel giorno doveva sistemare l'assortimento di creme di bellezza della farmacia e aveva pregato Antonia di portare con sé la piccola Marlene, quel pomeriggio. Heinz Lukka non creava problemi, perché stava trascorrendo una breve vacanza. Mancava anche Gerta Franken, la quale si offese a tal punto per essere stata esclusa che nelle sue ciance arrivò a definire Ben un macellaio. Trude avrebbe voluto invitare l'anziana vicina di casa, se non altro per zittirla una volta per tutte, ma Jakob si era rifiutato categoricamente, borbottando qualcosa che alle orecchie della moglie era suonato come: «Un toccato a tavola basta e avanza», tanto che lei, punta sul vivo, aveva reagito esclamando: «Ma ti pare una cosa da dire?» Non appena tutti ebbero preso posto a tavola, Trude lesse ad alta voce la lettera del vescovo che, con frasi fiorite, ribadiva che uno come Ben non aveva diritto di partecipare alla festa domenicale in chiesa. Antonia affermò che un comportamento del genere era inaccettabile, da parte non solo di un anziano parroco, ma soprattutto di un vescovo. Un essere umano è quello che è, e forse una testa vuota combina meno guai di tante teste piene. Con il suo comportamento ineccepibile, Ben le diede ragione: rimase seduto composto e in silenzio a capotavola. In un primo momento, tutte quelle persone lo avevano infastidito, ma dopo che ciascuno lo ebbe salutato sorridendogli e senza dar mostra di respingerlo, Ben con fare timoroso ridusse in poltiglia la sua fetta di torta di panna, poi s'infilò le cucchiaiate in bocca e alzò la testa ridacchiando solo una volta, quando Trude gli accarezzò i capelli. Ci volle un'ora buona per terminare caffè, cioccolata e torte. Poi, dato
che Ben si era comportato bene, era stato così dolce e ubbidiente, e visto che aveva guardato i bambini piccoli con occhi anelanti, dicendo: «Bene» e: «Via le mani», gli fu permesso di giocare una mezz'oretta con la sua sorellina e con Britta Lässler. Antonia e Jakob tennero d'occhio Ben che aveva gesti affettuosi e impacciati. Antonia gli adagiò perfino la figlia minore tra le braccia, facendogli vedere con quanta cautela doveva accarezzarle le guance, poi lo accarezzò sul viso e in un attimo di grande commozione lo strinse brevemente a sé. Infine Trude lo accompagnò al tavolo dove erano stati sistemati i doni. C'erano tanti pacchettini ben confezionati, ma Ben non sapeva che cosa farne e si limitò a guardarli mentre sua madre lo teneva per mano con fermezza. Ben voleva tornare da Antonia e prendere la piccola Britta. «No», disse Trude decisa. «Hai giocato abbastanza. Adesso apriamo i regali. E poi ringrazierai come ti ho insegnato a fare.» Prese il primo pacchetto, aprì la Busta del biglietto di auguri che accompagnava il dono, e lesse ad alta voce, evidentemente commossa e con gli occhi umidi: «Caro Ben, i migliori auguri di Otto e Hilde Petzhold per la festa in tuo onore». Hilde rise vergognosa, guardandosi intorno, e Otto si accese un sigaro per nascondere l'imbarazzo. Trude nel frattempo aveva aperto il pacchetto e aveva messo un libro di figure di cartone rigido tra le mani del figlio. In quel momento avvenne il primo disastro. Tutti avevano riflettuto attentamente su quel che dovevano regalare a Ben. Era un gesto di buona volontà, magari anche uno sfoggio della propria situazione finanziaria, ma, soprattutto, doveva dare gioia a Ben. Hilde aveva scelto proprio quel libro perché riteneva che il cartone fosse sufficientemente solido per far fronte agli eventuali pugni di Ben, e perché quelle pagine riportavano il suo soggetto preferito: i gatti. Neri e bianchi, piccoli, grandi e tigrati. In copertina c'era un gatto tigrato che si leccava le zampe anteriori. Non appena vide la figura, Ben scattò: corse a tavola e sbatté il libro sul piatto mezzo vuoto di Hilde, poi diede un pugno alla copertina mandando rumorosamente in frantumi il piatto, e gridò: «Via le mani! Carogna!» Trude avvampò in viso. Era passato tanto tempo, ormai. Jakob però diceva spesso: «Ha una memoria da elefante». Con voce che tremava un po', gli intimò: «Ora torna subito qui, Ben, va tutto bene. Il libro è tuo, Hilde non te lo vuole portare via». «Via le mani», gridò lui, ringhiando come un cane, poi prese il libro e lo
morsicò con forza. Lo rimise sul piatto rotto e acchiappò la forchetta da dolce di Hilde. Fortunatamente non c'erano coltelli sul tavolo. Ben colpì il libro con tale violenza da piegare i denti della forchetta e ammaccare il cartone del libro all'altezza dell'addome del gatto. Tutti lo osservavano, infastiditi e incuriositi al tempo stesso. Solo Illa von Burg, che conosceva la fine che aveva fatto la gatta incinta di Hilde, chinò il capo. E Jakob squadrava sua moglie con sospetto, mentre lei, paonazza in viso, scartava in fretta il pacchetto seguente senza neppure guardare di chi fosse. Tirò fuori una palla di gomma rossa e disse con voce cantilenante: «Guarda, Ben, anche questa è per te». Ben abbandonò il libro di gatti, ma solo perché Dieter si era precipitato verso la palla, che Trude teneva sospesa al di sopra della testa. Il piccolo Kleu, che si affannava per prenderla, le piantò i pugni nello stomaco e le tirò un calcio nello stinco destro. Trude gridò più per la sorpresa che per il dolore. A quel punto Ben fece il giro del tavolo e, acchiappato Dieter per il collo, lo sollevò da terra e brontolò nuovamente: «Via le mani!» Jakob si alzò in fretta e separò i due bambini, poi affibbiò uno schiaffo al figlio pretendendo che porgesse immediatamente le sue scuse. Ma fu Renate a scusarsi, fiancheggiata da Antonia che riteneva che Dieter dovesse rendersi conto che non tutto era suo e che non doveva colpire gli stinchi delle persone per affermare la propria volontà. Nel frattempo Bärbel aveva fatto in modo che Uwe von Burg capisse che lei era l'unica ragazza disponibile quel pomeriggio e che con i suoi quindici anni non era poi così giovane. Approfittando della momentanea confusione, i due sparirono per andare a fare una passeggiata, prima che qualcuno potesse impedirglielo. Per tranquillizzare gli animi, Sibylle prese per mano Ben che singhiozzava e lo portò al forno. Là gli servì un'altra fetta di torta dimenticando, nell'eccitazione del momento, di mettere via il coltello con cui l'aveva tagliata. Nel frattempo Trude aveva constatato che l'oggetto della contesa, cioè la palla, era un regalo di Bruno e Renate. Cercò di giustificare a sua volta il piccolo Dieter che probabilmente aveva visto la madre avvolgere la palla nella carta e non comprendeva il motivo per cui dovesse appartenere a Ben. Quando Sibylle rientrò in sala con Ben, i cocci del piatto e la forchetta erano stati fatti sparire e si aprirono gli altri regali. Le sorelle Rüttgers gli regalarono una scatola di pasticcini fatti in casa e alcuni pulcini di plastica con applicazioni di piume avanzate dalle decora-
zioni pasquali. Il regalo piacque a Ben. Con uno sguardo timoroso rivolto a Jakob, s'infilò in tasca i pulcini e in bocca due dolcetti. Dopodiché si recò con la scatola da suo padre affinché Tanja potesse assaggiare i dolci, e questo, secondo Antonia, era segno della sua bontà d'animo. Infine offrì le praline a Marlene, ad Annette e alla piccola Britta, senza negare la scatola a Heiko. Non volle offrire nulla solo a Dieter. Lo fece Jakob al suo posto. Da Paul e Antonia ricevette una scatola di costruzioni. L'intenzione era buona, ma non ebbe il successo sperato. Maria Jensen offrì a Ben una somma di denaro. Sibylle Fassbender aveva messo sul tavolo una scimmia di peluche meccanica, che ballava battendo due piatti. Faceva un baccano d'inferno, tanto che Ben, per lo spavento, le diede un colpo violento, poi rimase nascosto dietro la schiena di Trude finché non fu ben certo che la scimmia girava solo su se stessa. Toni e Illa von Burg avevano scelto un gioco di logica che consisteva nel far passare delle forme geometriche dentro i buchi corrispondenti. Mentre Sibylle mostrava a Ben il pezzo da inserire nel buco, Toni von Burg confidò a Paul Lässler con espressione triste e occhi stranamente accesi che la sorella Christa, che certamente Paul ricordava, molti anni prima aveva giocato per ore intere con quello stesso gioco. Toni parlava come se avesse avuto una sola sorella e senza alcun astio per il fatto che l'altra si era ritirata in convento quando Paul aveva rotto il fidanzamento. Mentre Andreas e Achim Lässler, annoiati, facevano rotolare la palla sul pavimento e mentre Annette toglieva dalla scatola di Ben gli ultimi due dolcetti per darli alla cuginetta, mentre Uwe von Burg e Bärbel Schlösser tornavano dalla loro passeggiata con i visi rossi dall'eccitazione e Renate Kleu mostrava al figlio minore le figure di gatti sul libro, Ben infilò tutti i pezzi nei fori corrispondenti, chiuse la scatola e lasciò il tavolo dei festeggiamenti senza che nessuno se ne accorgesse. Tutti erano occupati a fare qualcosa. Jakob coccolava la figlia minore che raramente aveva occasione di tenere in braccio; Sibylle Fassbender chiacchierava con Toni e Illa von Burg dei giochi innocenti dei bambini. Paul Lässler, felice per la conversazione avuta con Toni, cullava la sua piccina addormentata e teneva d'occhio gli altri due figli e Dieter Kleu, affinché non scoppiasse un'altra lite per il possesso della palla. Antonia si stava occupando delle macchie di cioccolata sul vestito della nipote. Trude stava aiutando le sorelle Rüttgers a sparecchiare la tavola.
Bärbel e Uwe von Burg si tenevano la mano sotto il tavolo e si guardavano negli occhi. Il fratello minore di Uwe e Annette Lässler, in un angolo tranquillo, osservavano la scena e se la godevano un mondo. Hilde e Otto Petzhold sussurravano tra di loro della forza immensa con la quale Ben aveva piegato la forchetta e della gatta tigrata di Hilde che era sparita due anni prima senza lasciare alcuna traccia. Nessuno ci fece caso, quando Ben aprì la porta che conduceva al forno. Il coltello da torta era sul tavolo. Ben tornò indietro prima che la sua assenza fosse notata. Solo quando Hilde Petzhold lanciò un grido, Jakob vide quel che stava succedendo. Tenendo in mano il coltello, Ben si diresse verso Dieter Kleu, che accanto alla madre strappava il libro di gatti. Ben alzò la mano, colpì la pancia del gatto tigrato e due dita di Dieter. «Via le mani», disse. Ma non gli fece molto male. Solo due ferite da taglio che furono ricucite poco dopo al pronto soccorso dell'ospedale civile di Lohberg. E nessuno comprese il motivo per cui né Bruno che non aveva visto nulla dell'incidente e che dovette affidarsi a quanto gli riferì la moglie né Renate Kleu mossero alcun rimprovero a chiunque. Alcuni giorni dopo, quando Thea Kressmann le chiese spiegazioni a riguardo, Renate dichiarò perfino: «Non è stato niente di grave. Finalmente qualcuno gli ha insegnato che non può ottenere tutto ciò che vuole». 25 AGOSTO 1995 Quel venerdì sera, Jakob arrivò a casa solo alle nove e mezzo. Contrariamente al solito, Ben era seduto a tavola con Trude, chino sopra un piatto ancora mezzo pieno di cibo. Trude gli teneva una mano sul braccio e gli parlava, ma ammutolì non appena Jakob entrò in cucina, e lui fece in tempo a cogliere al volo la fine della frase: «... mio caro». «Questa sì che è una sorpresa», disse Jakob. Trude alzò gli occhi e dichiarò, quasi scusandosi: «È stato fuori finora e non ha mangiato nulla. Gli ho appena scaldato la cena. È ancora calda. Ne vuoi anche tu?» Jakob annuì e in qualche modo si sentì sollevato. Diede una pacca sulla spalla a Ben che sussultò. «Allora», disse in tono esageratamente gioviale, «ti sei dato da fare parecchio, fuori, e, per cambiare, oggi te ne andrai a letto.»
Jakob si sedette. E mentre Trude gli riempiva il piatto, cominciò a raccontarle di Edith Stern e della sua delicata missione. Gli fece un piacere immenso poter rendere noti gli antichi delitti di un cittadino stimato come Heinz Lukka proprio a Trude, che credeva ciecamente che non ci fosse uomo migliore nel paese. Era un argomento abbastanza vasto, giacché Jakob dovette spiegare prima di tutto il motivo per cui non si era mai lasciato sfuggire nulla sul destino crudele della prima Edith Stern. Dieter Kleu, Albert Kressmann e i giornali se li sarebbe tenuti in serbo per il giorno dopo. Quel racconto sconvolse Trude, tanto che dopo cena non riordinò, ma si limitò a mettere nell'acquaio i piatti sporchi, il cucchiaio di Ben e coltello e forchetta di Jakob, dicendo distrattamente: «Li laverò domani mattina», e seguì il marito nel soggiorno, dove si accomodò in una poltrona. Jakob notò che sedeva su un angolo quasi pronta a balzare via, ma non si soffermò a pensare perché, si sistemò comodamente nella seconda poltrona e continuò il suo racconto su Edith Stern e sulla scoperta incredibile dell'estate del '44. Trude sentiva un chiodo trapanarle le tempie. Tutto in lei rifiutava di credere a ciò che il marito le diceva. Proprio Heinz Lukka! La persona cui lei si rivolgeva quando voleva aprire il suo cuore, per chiedere un consiglio, per ottenere la conferma che Ben era buono d'animo. Alcuni giorni prima era stata sul punto di raccontargli della borsetta di Svenja Krahl, dei graffi sulle mani del figlio e dei polpastrelli sbucciati. Stava per chiedergli se anche lui avesse sentito un'auto in quella notte di luglio, quando aveva riferito di aver sentito gridare una ragazza. Poi non lo aveva fatto, perché... Anni prima gli aveva raccontato del gatto di Hilde. E lui come aveva reagito? Aveva riso. Aveva riso piano e bonariamente, dicendo: «Trude, non sta scritto da nessuna parte che Ben abbia macellato quella bestia. Io non ci credo. Chi ti dice che non li abbia trovati, quegli intestini?» «Tutti quei graffi, il coltello a serramanico», aveva risposto Trude. «Era un coltello molto prezioso. Il manico era di madreperla.» A quel punto, Heinz non aveva più riso, limitandosi a sorridere con fare pensoso. Infine aveva detto: «D'accordo, forse la bestia si era ribellata, ma non mi sarei preoccupato più di tanto, se fossi stato in te. Anche se Ben l'avesse veramente fatto e se fosse saltato fuori, sarebbe stato considerato solo un danno a cose e non sarebbe stato certamente il primo ragazzino che fa cose del genere. Chiedi in giro, vedrai che i ragazzini fanno di tutto, vanno a scuola e aggrediscono i compagni con il coltello. Un gatto al confronto mi sembra quasi una cosa innocente. E poi, anche noi in passato non
eravamo angioletti». Alcune delle espressioni usate da Heinz avevano colpito Trude. Danno a cose! Non era l'espressione adatta per quella crudeltà. E poi dire bestia, bestia per una creatura che aveva sofferto terribilmente. L'ultima frase, poi, la colpì come una frustata. Anche noi in passato non eravamo angioletti! A quanto pareva, non lo erano stati di certo. Trude era senza parole, mormorò che non avrebbe mai supposto una cosa del genere di Heinz. Pur essendo accaduta mezzo secolo prima, restava comunque terribile. Disse che le rimordeva la coscienza per aver chiesto più volte consiglio e aiuto a lui. Ora non sapeva più come avrebbe potuto guardarlo in faccia. Un assassino! Jakob si rese conto che quella notizia l'aveva colpita più di quanto avrebbe supposto. Pensava che avrebbe reagito con sdegno, con comprensione e approvazione per il marito, ma non certo che sarebbe impallidita violentemente balbettando in modo sconnesso. «Be', non è proprio un assassino», cercò di calmarla. «Non ha ucciso materialmente Edith Stern.» «Vuoi forse giustificarlo?» chiese Trude esterrefatta. «No!» Jakob scosse la testa. «Per l'amor del cielo, certo che no. Ti ho sempre detto che Heinz è un bastardo e che di lui non c'è da fidarsi. Non te l'ho forse detto centinaia di volte?» «Ce l'avevi con lui solo per via di Ben», osservò lei. Lui scosse di nuovo il capo. «No, non per quello. Mi chiedevo solo: perché si dà tanta pena per il ragazzo? Mi dice come devo educare mio figlio e, credimi, non l'ho mai picchiato volentieri, Dio mi è testimone. Solo che era l'unico modo per togliergli il vizio di fare certe cose o per fargliele fare, lo sai bene. Ed ecco che arriva uno che mi dice che non può stare lì a guardare. E lui che cosa ha fatto a quel tempo? Non è stato solo a guardare, ha perfino dato un ordine. E quanti altri ordini sarebbe stato capace di dare se le cose non fossero cambiate? L'avrebbe fatto fuori con un'iniezione, come ha fatto Wilhelm Ahlsen con la piccola Christa. Se ne sarebbe occupato lui di persona, il tuo caro, buon Heinz. E non mi quadrava quel cambiamento di centottanta gradi nel suo modo di fare.» «Forse un giorno se n'è pentito», obiettò Trude. Era senza respiro. «Forse voleva cercare di redimersi in questo modo. Può darsi. A quel tempo, era veramente molto giovane. E quando è cresciuto e ha raggiunto l'età della ragione, forse si è reso conto di aver commesso un delitto.» «Forse», concesse Jakob con un sorriso infelice. «Chi vuoi giustificare?
Ti rendi conto di quel che fai?» «No», rispose Trude angustiata. «Non lo voglio giustificare. È solo perché... Insomma, se a un certo punto si è pentito, se si è reso conto e l'ha riconosciuto, allora si dovrebbe...» S'interruppe, non sapendo come esprimere il suo pensiero. Lukka doveva essersi pentito a un certo punto, doveva e basta. Doveva essersi reso conto che aveva commesso un grave delitto nell'impartire l'ordine di uccidere Edith Stern. Probabilmente si era pentito profondamente, desiderando che non fosse mai successo. E poiché non era possibile cancellare il passato, si era occupato benevolmente di Ben. Un Pater, Ave e Gloria. Doveva essere così. Perché in caso contrario... Forse Heinz aveva comprato con cioccolato e amicizia l'affetto di Ben per uno scopo ben preciso. Per un proprio interesse segreto lo aveva difeso, nonostante tutti i sospetti, contro tutti, facendo in modo che restasse a casa sua. Perché, se Lukka era rimasto quello che era, doveva trovare qualcuno che eseguisse i suoi ordini. Fu una mazzata per Trude. Forse Heinz, come suo padre, non amava fare cose sporche di persona, ma gli piaceva stare a guardare. Questo pensiero le aveva attraversato la mente, mentre raccontava all'avvocato della gatta di Hilde. Una borsetta insanguinata! Due dita mozzate! E Heinz che diceva: «Ben fatto. Ben. Adesso devi seppellirle bene». Signore, aiutaci, pensò Trude. Non questo! Nessun uomo può fare una cosa del genere, addestrarsi un assassino su misura. Nutriva ancora un filo di speranza che una simile mostruosità non fosse vera. «Heinz ha cercato di darti una mano», disse a Jakob. «Ti ha procurato il posto da Wilmrod.» Il sogghigno del marito si spense con un'alzata di spalle. «Posso in ogni caso dire quello che penso.» «Ovviamente», ribatté lei, cercando di sentire se provenivano rumori dalla scala. Prima che Jakob rientrasse, per più di un'ora aveva tentato di convincere Ben a restare in casa, dicendogli che, se fosse rimasto, avrebbe avuto un grande gelato e una fetta di torta. Lei stava male e aveva molta paura quando lui usciva. Lui era il suo buon Ben, il migliore. A quanto pareva, era riuscita a convincerlo. Poco prima delle undici, lei e Jakob salirono al piano di sopra. Trude lanciò uno sguardo nella camera di Ben: era a letto, la bambola di pezza stretta tra le braccia, immobile, anche quando lei accese per un attimo la luce. Pensò che stesse dormendo, e chiuse la porta, un poco tranquillizzata, ma certamente non del tutto sollevata.
In camera da letto, Jakob continuò a raccontare. Benché avesse voluto rimandare all'indomani la novità su Dieter Kleu e pur sentendosi stanchissimo, le riferì a grandi linee le notizie ricevute nell'osteria di Ruhpold riguardo al figlio di Bruno, e le spiegò il motivo per cui Wolfgang Ruhpold lo aveva pregato di accompagnare la giovane Edith Stern. Trude rispose appena. Quando aprì bocca, disse qualcosa riferendosi a Heinz Lukka, ma era talmente confusa che Jakob non riuscì a comprendere il suo pensiero. Di una cosa fu certo, però: la propria voglia di vendetta si era spinta troppo oltre. Non voleva che Trude fosse così mogia e taciturna. Lui voleva solo scuoterla, niente più. Ben non dormiva. Li udiva parlare nella camera di fronte, e aspettava, cercando, nell'ambito delle sue possibilità limitate, di risolvere il suo dilemma. Aveva compreso quasi tutto quello che la madre aveva detto e non voleva che lei soffrisse o avesse paura. Quello che non capiva era come mai il benessere della madre dipendesse dalla sua permanenza in camera sua. Se lei fosse stata lì con lui e gli avesse detto che le doleva la testa o l'avesse pregato di carezzarle i capelli per farla stare meglio, o di massaggiarle la nuca, solo la nuca e non troppo forte, quello lo avrebbe capito. Ma così... Sapeva che a volte gli adulti dicevano parole false. Quasi tutti quelli che conosceva lo facevano. Erano poche le persone che facevano eccezione, e sua madre non era tra queste. Gli aveva detto molte cose che si erano dimostrate subito errate. Che solo a lei era permesso uccidere, o al massimo a suo padre, per esempio. Anche altri uccidevano, e non venivano battuti per questo. Solo lui veniva sempre picchiato. Era irrequieto. Le voci dei suoi genitori che filtravano dalla camera creavano un brusio continuo nelle sue orecchie. Quando finalmente fu tutto silenzio, non ce la fece più. Si alzò e scese da basso. La bambola rimase sul letto. Non lasciò la casa subito, prima andò in cucina. Era mezzanotte passata, la finestra della cucina era buia, il cielo si era rannuvolato. Sapeva perfettamente dov'era il suo coltello, però non era certo di riuscire a trovarlo. Perciò prese il coltello nell'acquaio e passò il pollice sulla lama. Non era affilata. Infilò comunque il coltello nella tasca dei pantaloni e poi scese in cantina, indossò gli stivali di gomma, fissò la pala in vita con il moschettone e s'incamminò. Appena fuori, corse all'incrocio e piegò a sinistra. Si fermò al prato delle mele. Gli alberelli ad altezza d'uomo con le cime basse e cespugliose, l'er-
ba alta e le buche profonde del vecchio cratere: la loro presenza si intuiva, più che vedersi veramente. Nel terreno, a intervalli regolari, erano stati piantati dei pali di legno più alti di lui, sui quali era stato fissato il filo spinato, dieci giri in tutto; e tra un giro e l'altro c'erano circa venti centimetri, troppo pochi per poterci strisciare sotto senza ferirsi. L'amministrazione cittadina aveva fatto recintare il prato e l'orto di Gerta Franken non appena la famiglia Schlösser aveva traslocato. La natura aveva fatto il resto. Le aiuole un tempo curate non si distinguevano ormai più dai terreni confinanti. Più di una volta, quel filo spinato era stato il suo peggiore nemico. Mani insanguinate, pantaloni e camicie strappati, il viso preoccupato di sua madre e le domande del mattino dopo, cui lui non era in grado di rispondere. Perché andava sempre su quel prato? Altri andavano al cimitero per ricordare i loro cari, oppure guardavano le fotografie. Lui non ne aveva bisogno. Lui si stendeva sul prato e le immagini erano tutte nella sua testa, e molto più nitide di una fotografia. L'erba aveva trattenuto perfino il loro sapore, il loro profumo. Nella sua testa, la piccola carovana stava ancora percorrendo la Bachstrasse, Althea Belashi stava ancora volteggiando sul trapezio, si faceva ancora ammirare per la sua abilità sul dorso del pony. E lui sedeva davanti a lei, sentiva il contatto del suo corpo flessuoso contro la schiena. L'odore dei cavalli si mescolava al suo profumo, al suo calore e alla sua pelle di velluto. Nella testa di Ben, a tutta quella bellezza faceva seguito la notte dei grandi misteri, quando lei scomparve nel grande buco e non riapparve più per tanto tempo. Ma poi era ritornata. A novembre l'aveva rivista, al matrimonio di Andreas Lässler. E in quella notte d'agosto l'aveva incontrata di nuovo. E ora lei era là dove suo padre voleva che lui seppellisse le bambole. Lui preferiva vederla sul trapezio, sentirla contro la sua schiena. A volte riusciva a strisciare sotto il filo spinato senza ferirsi o senza strappare la camicia. Dipendeva solo dal punto in cui tentava di passare. In alcuni punti, il terreno era un po' più profondo e il filo un po' meno teso. Se si stendeva piatto contro il terreno e strisciava carponi, ce la faceva. Tenendosi piegato strisciò lateralmente lungo il recinto e si fermò nel punto che gli parve più adatto. Subito gli s'infilarono due spine nel palmo della mano sinistra; Ben inspirò, portò la mano alla bocca e succhiò i graf-
fi, restando fermo per qualche secondo a fissare il filo, deluso e diffidente. Poi, fece un tentativo in un altro punto. Appena si fu rialzato, dimenticò la mano dolorante e la buca nel prato. Vide il cono di luce sul campo, dietro la casa del suo amico, e ritornò sul viottolo. Corse per quattrocento metri, raggiunse il granoturco, abbandonò il viottolo, attraversò il campo fino a quando non vide il retro della casa e la finestra illuminata. Stava quasi per alzare le braccia per salutare, perché il suo amico lo vedesse e gli portasse un pezzo di cioccolato. Ma poi la vide, e dimenticò il suo desiderio di dolciumi. I capelli corti della ragazza lo ingannarono per pochi secondi. Le spalle delicate e il seno tondo nella camicetta a quadretti gli fecero capire ben presto chi era. «Bene», bisbigliò, avvertendo l'eccitazione crescente. Lei sedeva in poltrona, davanti c'era un tavolino basso che nascondeva le gambe e il basso ventre. Accanto alla poltrona c'era uno zaino, e sopra una giacca. L'amico Lukka si trovava nella stanza, in piedi davanti a un armadio, riempiva un bicchiere e glielo porgeva. Quando la giovane alzò la testa per bere, sorrise in direzione della finestra, un sorriso malinconico e sperduto, quasi fosse rivolto a lui. «Bene», ripeté Ben in un sussurro, chinandosi, cosicché solo gli occhi spuntavano dalle pannocchie di granoturco. Aveva fatto bene, perché in quell'istante l'amico Lukka si avvicinava alla finestra, diceva qualcosa e guardava fuori. Era meglio che adesso non lo vedesse. Lei fece il gesto di alzarsi. Prese la giacca con una mano, la infilò nella cinghia dello zaino e trattenne uno sbadiglio. A Ben piacquero molto tutte quelle macchie gialle rosse e verdi sulla stoffa della giacca, esattamente come gli piacque la ragazza. Con i capelli corti e scuri, non rappresentava il tipo di ragazza o di donna che aveva rappresentato per lui Marlene Jensen. Assomigliava più alla sua sorellina. Adesso lei stava raccogliendo lo zaino, sbadigliando di nuovo. Ben tastò il coltello nella tasca dei pantaloni. «Via le mani», ansimò, quasi afono per l'eccitazione. Poi strisciò lentamente dietro le pannocchie di granoturco in direzione della casa, verso la finestra illuminata. LA COLPA DI BÄRBEL Il sogno di Bärbel si avverò proprio quella domenica in Albis del 1982. Con un semplice espediente riuscì a ottenere ciò che fino ad allora non era
riuscito a nessuna ragazza. Dopo la passeggiata del pomeriggio, qualche bacio, le mani allacciate di nascosto sotto il tavolo del caffè Rüttgers e gli sguardi languidi, al momento di congedarsi, Bärbel dichiarò a Uwe che era meglio lasciarsi da buoni amici giacché non era intenzionata a fare sul serio. Fino a quel momento, il ragazzo non aveva neanche lontanamente pensato a stare davvero con qualcuno, ma è pur vero che nessuna ragazza gli aveva mai parlato in quel modo. Insistette per invitarla la domenica seguente alla gelateria di Lohberg e per andare a passeggio la sera dopo, per vedere se proprio non aveva speranza. Bärbel chiese consiglio ad Anita su come comportarsi e si attenne scrupolosamente alle indicazioni della sorella maggiore: «Fallo correre». Funzionò. Fino al mese di giugno, Bärbel camminò come in sogno. Uwe non mancò all'appuntamento neppure una sera e ogni volta sperava che fosse quella buona. Anita chiedeva regolarmente notizie su come procedeva la storia, quello che Uwe aveva detto o fatto sulla strada che portava al Boschetto. Forniva a Bärbel le istruzioni sul comportamento da tenere, senza nasconderle che da un contadinotto come Uwe non si sarebbe mai aspettata tante attenzioni e promesse d'amore così appassionate. Dopo le prime settimane, in cui era corso avanti e indietro senza ottenere molto, Uwe von Burg si convinse di non poter più vivere senza Bärbel Schlösser, e glielo confessò, al calar della sera, su una coperta stesa sull'erba del prato delle mele, visto che durante le lunghe passeggiate la ragazza aveva sempre trovato il modo, con grande disinvoltura, di evitare gli attacchi diretti di Uwe. Alla dichiarazione del ragazzo fece seguito un abbraccio appassionato interrotto da sospiri e gemiti. Ad alcuni metri di distanza stava sdraiato Ben, nascosto dall'erba accanto al Pozzo aperto, sognando a occhi aperti il pomeriggio trascorso al circo e la notte successiva. Mentre baciava Bärbel, Uwe le alzò la gonna e infilò una mano sotto l'elastico delle mutandine. La ragazza si divincolò, gli afferrò il polso, spostò il corpo, agitò le gambe e ansimò un soffocato: «No, no». Ben non era il solo bambino che interpretava i toni e i gesti di un abbraccio come un'aggressione. La prima volta che gli era capitato di vedere una cosa del genere si era trattato di una vera aggressione e di una lotta furibonda, cui aveva assistito appiattito sul terreno, impaurito e sorpreso al
tempo stesso, senza però sentire la necessità di intervenire per accorrere in aiuto. Non sapeva neppure chi dovesse aiutare: Althea Belashi, che lottava per la vita con le unghie e con i denti, o il suo aggressore, che gridò e s'inarcò quando fu colpito da un calcio in un punto sensibile del corpo. A quel tempo Ben non era in grado di distinguere tra il bene e il male. Non conosceva neppure la differenza tra la vita e la morte. Per lui esistevano solo movimento e immobilità. C'erano cose che non si muovevano mai da sole e altre che lo facevano e poi smettevano improvvisamente. Come le galline che aveva acchiappato per sua madre, come tutti i pulcini, i bruchi e gli insetti che non si muovevano più dopo che lui li aveva presi in mano. Il fatto che anche un essere umano potesse smettere di muoversi per scomparire poco dopo nel ventre della terra era un'esperienza nuova che poteva valere per sempre. Perché da allora anche il circo era scomparso per sempre. Anche se non era in grado di ragionare come gli altri, Ben riusciva comunque a collegare l'incidente di quella notte a ciò che non era più avvenuto in seguito. Sua madre l'aveva definito con il termine «via». E «via le mani» rappresentava qualcosa di brutto, di proibito. E ora Bärbel era là che si dimenava e sgambettava pronunciando le stesse parole che aveva urlato Althea Belashi nel suo terrore. Ben aveva diviso i suoi familiari in «bene» e «male». Il padre rappresentava solo il dolore. Anche Anita, se nessuno la vedeva, lo picchiava spesso quando lui le si avvicinava troppo. Non avrebbe mosso un dito per la sorella maggiore. Per sua madre, invece, si sarebbe fatto picchiare dal padre centinaia di volte, anche se di quando in quando lei gli faceva male. Bärbel rappresentava chi gli dava una caramella o una carezza ogni tanto. Per lei alzò la pietra da terra. Uwe von Burg sentì un dolore improvviso alla schiena e subito dopo qualcosa gli colpì la nuca. Si alzò, stordito, e una voce accanto a lui gridò: «Via le mani!» Uwe si tastò prudentemente la nuca dolorante e sentì l'umidità appiccicosa sotto i polpastrelli. «Quello scemo mi ha fatto un buco in testa», esclamò, scosso e sorpreso al tempo stesso. Era un po' troppo, pensò Uwe: pur con tutto l'amore e la passione che provava, non desiderava farsi spaccare la testa per una ragazza che, a quanto pareva, era troppo giovane per lui. Salutò Bärbel che ancora non capiva bene che cos'era successo. Lei lo guardò, confusa, poi si alzò e cercò di trattenerlo. Ma Uwe non ne volle
più sapere, si avviò verso il Feldweg, balzò in sella alla sua moto e partì. E Ben, ridacchiando incerto, la testa reclinata, le chiese: «Ben fatto?» In quel preciso istante, una parola di apprezzamento, una carezza sul viso avrebbero evitato la terribile estate di tredici anni dopo. Di questo sono certa. Ma non desidero anticipare gli eventi, né attribuire la responsabilità di tutto ciò che accadde in seguito a una ragazza di quindici anni. Considerando che Trude aveva fatto scomparire prove determinanti nella stufa; che la polizia di Lohberg non ritenne necessario informare la procura dello Stato della scomparsa di Marlene Jensen; che nessuno si prese la briga di scoprire se Svenja Krahl fosse effettivamente scomparsa dall'ambiente dei drogati di Colonia, ebbene, tenendo conto di tutte queste circostanze, sarebbe ingiusto attribuire ogni colpa a Bärbel. In parte, tuttavia, non la posso assolvere. La sua reazione spianò la via agli eventi successivi. Appena Bärbel si rese conto del motivo per cui Uwe era scappato in fretta e furia, si scagliò contro il fratello. La sua collera era esattamente proporzionale al dolore per l'abbandono improvviso del suo innamorato. Quando lo affrontò sembrava Jakob. All'inizio, Ben subì i colpi senza un lamento, poi cercò di evitarli e alzò le braccia sopra la testa, per proteggersi. Teneva ancora la pietra in mano e la mano alzata dava l'impressione che avrebbe potuto colpirla in qualsiasi momento. Così anche Bärbel cercò un'arma: vide un bastone nell'erba e con quello continuò a colpire il fratello. Quando finalmente si fermò, Ben non era più in piedi, giaceva bocconi accanto alla coperta e non si mosse neppure quando la sorella scappò, singhiozzando. Giacque più di un'ora in stato di semincoscienza, dolorante, accanto alla coperta di lana sul bordo del Pozzo. Non soffocò nel proprio sangue solo grazie alla posizione. Il naso e la lingua sanguinavano abbondantemente, le palpebre erano così gonfie che coprivano quasi completamente i bulbi oculari. Il mento, la fronte e le tempie erano graffiati e sulla guancia destra spiccava una profonda ferita causata dalla pietra di un anellino che Bärbel aveva trovato in un distributore di chewing-gum e che portava al dito in segno di fedeltà al suo ragazzo. Bärbel si rifugiò nel fienile, si gettò sulla paglia e pianse, disperata, ripetendo il nome di Uwe e maledicendo al tempo stesso quell'idiota che le aveva fatto tutto ciò, augurandogli la peste suina o qualche altra morte orribile con tutto l'ardore dei suoi quindici anni. Dopo le dieci, al buio, Trude andò a cercare Ben nel fienile, scovò nella paglia la figlia in lacrime e cercò di scoprire che cosa avesse provocato il
suo stato. Dalle parole tronche: «Uwe... se n'è... andato», la donna concluse che il figlio di Illa e Toni si fosse comportato con Bärbel esattamente come con tutte le altre ragazze. Allora, convinta che avere una missione da compiere fosse un antidoto infallibile contro il dolore, incaricò Bärbel di aiutarla nella ricerca di Ben. La figlia ubbidì, controvoglia, tacendo quanto aveva fatto al fratello. Insieme, perlustrarono il giardino chiamando il bambino a voce alta, ma senza ricevere risposta. Trude controllò anche la casa sull'albero, e i suoi richiami attirarono l'attenzione di Gerta Franken che ricominciò a osservare con il binocolo. Dalla sua finestra aveva visto la scena delle bastonate e fu allora testimone di un altro atto mostruoso che, due giorni più tardi, raccontò a Illa von Burg. Ben giaceva bocconi nell'erba alta del prato delle mele, e sua madre non lo vide. Trude pensava che, conoscendo i pericoli del Pozzo, lui non vi si sarebbe mai avvicinato troppo; quindi, credendo che potesse trovarsi nel prato comunale, si avviò risolutamente verso il Feldweg. Bärbel invece si diresse al prato delle mele, perché sapeva dove si trovava Ben, e lui infatti era ancora là. Quando Bärbel si avvicinò al fratello, questi prese a strisciare sulla pancia, trascinandosi dietro la coperta, per allontanarsi nel timore che lei lo picchiasse di nuovo, e così si avvicinava sempre più al Pozzo. E la sorella non fece nulla per fermarlo, o per richiamare l'attenzione della madre, la quale, nel frattempo, era già sul Feldweg e non poteva né vedere né sentire nulla. Ben si sporse con le spalle e con la testa, e poi con il torace, sul bordo del Pozzo. Lo spostamento di peso fece cedere il terreno friabile. Bärbel rimase immobile a guardare. Ben scivolò, insieme con zolle di terra e sporcizia, nelle profondità del Pozzo, senza emettere un solo suono. La coperta cadde ondeggiando lentamente dietro di lui. Il Pozzo in origine era profondo dodici metri, ma con il tempo vi era caduta dentro una gran quantità di detriti. I calcinacci della vecchia casa, l'armatura del tetto, i mattoni del vecchio fienile, mobili vecchi ormai scartati. Spesso di notte gli abitanti del paese arrivavano in macchina e si disfacevano di oggetti ormai inutili gettandoli nel Pozzo. Da qualche parte, tra quelle macerie, c'erano anche alcune bambole rotte, i resti di Althea Belashi e, sopra tutto quanto, rami di alberi, cespugli di ortiche e cardi secchi. Solo due settimane prima Jakob ne aveva scaricata una carrettata, cercando di fare un po' di pulizia, perché da lì a poco avrebbe dovuto mietere.
Dopo soli tre metri, quindi, la caduta di Ben s'interruppe e alle ferite causate da Bärbel si aggiunsero alcune escoriazioni e qualche contusione. La coperta di lana gli si adagiò sopra, nascondendolo al chiarore del cielo stellato. Preoccupata, Trude fece ritorno a casa dopo un quarto d'ora, seguita lentamente da Bärbel. Riprese le ricerche dopo le undici, accompagnata dal marito. Corse con una potente pila verso il pollaio, illuminò ogni angolo del fienile, perlustrò l'ampia strada tra il giardino e il prato, sempre chiamando il nome del figlio, pregando e implorando. Jakob diede ancora un'occhiata alla casa sull'albero, rimase a osservare per interi minuti il Feldweg nelle due direzioni e poi convinse la moglie a seguirlo verso casa. Se avessero perlustrato anche il paese ed Erich Jensen ne avesse avuto notizia, Ben avrebbe perso la sua libertà. Avrebbero lasciato la porta della cucina spalancata sperando nel suo ritorno. Sarebbe tornato a casa da solo. Jakob aveva probabilmente ragione, ma non bastò a tranquillizzare Trude. Una grande angoscia l'attanagliava, e un sesto senso le faceva presagire qualcosa di grave. Poco dopo si coricò, ma non riuscì a riposare a causa di quel tremore continuo al cuore. All'alba, era di nuovo in piedi. E via di nuovo verso il pollaio, nel fienile, in giardino, alla casa sull'albero. Da lassù notò la terra smossa di fresco nel Pozzo. Corse al prato delle mele, si stese bocconi e strisciò fino ai margini della voragine, per poter guardare sul fondo. All'inizio non scorse nulla, i raggi del sole erano ancora obliqui e il fondo del Pozzo era troppo buio. Improvvisamente le sembrò di udire un fruscio, e si sentì stringere il cuore. Quante volte suo marito aveva detto: «Tutto ciò che finisce là dentro va perduto. Non ci si può entrare per recuperare nulla. Si verrebbe travolti immediatamente». Trude chiamò, e ci fu una risposta. Era solo un debole lamento. «Dio del cielo», sussurrò lei. Poi disse ad alta voce: «Non avere paura, sono qui. Ti tiro fuori di lì. Stai solo fermo, o scivolerai ancora più giù. Hai capito? Non ti muovere, che non ti arrivi in testa qualcosa». Là intorno non c'era anima viva, nessuno che potesse sentirla, tranne Gerta Franken, che però non fece nulla, anche perché comunque non aveva il telefono. Trude dovette rientrare in casa per chiamare Jakob. L'azione di recupero richiese tutta la mattinata, fu molto complicata e tutti in paese vennero a saperlo. In un primo momento, Jakob tentò di trarre in salvo il figlio con l'aiuto di Paul e Bruno ai quali aveva telefonato.
Poi si aggiunse anche Otto Petzhold che consigliò di chiamare i vigili del fuoco, ma nessuno gli diede ascolto. Quando il terriccio cominciò a sprofondare sempre più, anche Paul fu dell'avviso che le corde e i pali non sarebbero stati sufficienti, e che così Jakob rischiava la vita. Bruno propose di entrare nel Pozzo al posto del padre di Ben. Con una corda legata in vita, disse, avrebbero potuto recuperarlo anche se fosse sprofondato. Era solo terriccio molle, era difficile soffocare in poco tempo. Tutti ritennero che la proposta di Bruno fosse una follia, il suo solito atteggiamento da uomo forte della situazione. Trude non la pensava così. Ai sospetti che si teneva dentro da due anni se ne aggiunse un altro. Bruno Kleu cercava di eliminare un testimone scomodo in modo elegante. Avrebbe potuto perfino affermare che aveva cercato di salvare Ben rischiando la sua stessa vita e facendo tutto il possibile. Il povero ragazzo però gli era scivolato via, oppure non era riuscito ad afferrarlo, o qualcosa del genere. Senza dire niente a nessuno, Trude tornò in casa, sollevò la cornetta del telefono e chiamò il soccorso. Venti minuti dopo, i vigili del fuoco volontari arrivarono da Lohberg. Resero stabile l'apertura con lunghe corde e con tavole, e poi un volontario, assicurato a una corda, venne calato con un argano. Passò un'ora prima che Ben fosse ricoverato nel pronto soccorso dell'ospedale. Trude gli rimase accanto, tenendogli la mano, mentre un medico lo visitava e prescriveva le radiografie. Non aveva fratture, solo contusioni e slogature, e poi ematomi e ferite dappertutto. Tutti attribuirono le ferite alla caduta nel Pozzo, e non certo ad altre cause. Gli fasciarono il torace, la testa, le braccia e le gambe, gli misero la borsa del ghiaccio sugli occhi e un largo cerotto sul naso e sulla guancia. Quando il medico lo lasciò, Ben giaceva come una mummia sul lenzuolo. Trude gli sedette accanto, lo accarezzò delicatamente sui pochi centimetri di pelle nuda e tentò di scoprire com'era finito nel Pozzo, se proprio chi aveva cercato di soccorrerlo era colui che precedentemente lo aveva gettato là dentro. Udì solo un apatico: «Via le mani». In un primo momento pensò che nessuno lo avesse spinto giù. «Sì, sì», disse, annuendo tra le lacrime. «Quante volte ti ho detto di non avvicinarti al Pozzo? Vedi cosa succede quando non mi dai ascolto? Poteva andare molto peggio di così. Che cosa ci facevi lì?» «Carogna», sussurrò Ben.
Inorridita, Trude si mise una mano davanti alla bocca, poi si piegò verso il figlio, affinché nessuno potesse udire, e chiese: «Bruno ti ha gettato lì dentro? Ti ha gettato lui? Parla». Lui non rispose. Esausto dal dolore, dalla paura e dalla confusione, chiuse gli occhi. 26 AGOSTO 1995 Erano solo le cinque del mattino quando Trude si alzò. Non era riuscita a chiudere occhio dopo che Jakob le aveva raccontato tutte quelle cose a proposito di Heinz Lukka. Il marito dormiva più profondamente del solito, per via delle quattro birre bevute, e non la sentì quando si alzò per andare in camera di Ben. Un'occhiata: il letto era vuoto. Trude richiuse la porta, andò in bagno e infine scese da basso. Si sedette stancamente al tavolo della cucina, la testa confusa dal noto senso di panico. Heinz aveva veramente fatto una cosa del genere? Aveva addestrato un assassino a forza di parole amichevoli e barrette di cioccolato? Allora là fuori non si trovava mai nessuna prova perché c'era una mente raziocinante che faceva in modo che non si scoprisse mai nulla? Forse l'avvocato faceva sparire i cadaveri portandoli via in auto? E forse non si era accorto che Ben ogni tanto teneva qualche oggetto per sé? Trude restò a rimuginare fino alle sei, il pensiero del letto vuoto opprimente come un macigno sulle spalle. Poi fece uno sforzo, preparò la colazione e svegliò Jakob. «Fai piano», gli disse. «Ben dorme ancora.» Quando, alle sette, il marito se ne andò, lei si diresse al pollaio, spinta dalla speranza di trovarci Ben. Il pollaio era sempre stato il rifugio del figlio, il luogo dove aveva avuto inizio il mistero della sua vita, quando aveva scoperto un tenero corpicino coperto di piume e le prime botte. Le speranze di Trude furono deluse. Trovò solo alcune uova: erano cinque, ancora calde, a terra accanto alla porta. Le raccolse nel grembiule e proseguì la sua ricerca. Il pollaio era in penombra, ma gli occhi di Trude si abituarono in fretta. E altrettanto in fretta lei trovò una bambola di stoffa in un nido. Addosso alla bambola notò un lembo di tessuto colorato. Tenendo il grembiule con le uova con una mano, con l'altra raccolse la bambola e osservò la stoffa con la fronte aggrottata. Era gialla, un giallo definito dai cataloghi di moda «giallo neon», con pois rosa. Erano mutandine, infilate sopra il vestitino cucito al corpo della bambola. Dimentica delle uova, Trude lasciò andare il grembiule, sfilò le mutandine alla bambola che ripo-
se nel nido, si alzò e, arrivata sulla porta, osservò bene alla luce del giorno la sua scoperta. Erano pulite, a parte qualche escremento di gallina qua e là. Le avvicinò al naso: si sentiva ancora un leggero profumo, o forse era odore di sapone da bucato. Non c'erano tracce di sangue, nulla di sospetto. Il battito cardiaco di Trude rallentò la sua corsa impazzita, ritornando lentamente alla normalità. Lei corse in casa, entrò in cucina, gettò le mutandine vicino alla stufa, e vide le stoviglie della sera prima, due piatti, un cucchiaio e una forchetta. Mancava il coltello! Era sicurissima di non averlo lavato la sera prima, di non averlo messo sotto chiave. Un errore imperdonabile, ma con tutto quel che Jakob le aveva raccontato su Heinz Lukka... Restò paralizzata, mentre brividi caldi e freddi le percorrevano la schiena. Il suo sguardo andava dalla forchetta alla stoffa gialla sul pavimento. In casa nessuno aveva, né mai aveva avuto, mutandine simili. Poco dopo, alcuni vecchi giornali bruciavano nella stufa, compreso quello che Jakob aveva portato in cantina e di cui avrebbe voluto discutere nel pomeriggio. Quando Trude si piegò sulla stufa per affidare le mutandine al fuoco, il visino d'angelo di Marlene Jensen si stagliò per un attimo contro le fiamme, per oscurarsi subito dopo, incenerendosi come un simbolo. Trude sfregò indecisa il tessuto tra le dita, poi, come se le mutandine l'avessero scottata, le lasciò cadere. Bruciarono in un baleno. Quel colore così sgargiante, i pois vivaci: chi poteva portare un indumento del genere? La madre di Ben rimise a posto i cerchi della stufa e si sedette a tavola. «Avrà avuto al massimo vent'anni», aveva detto Jakob. «E, soprattutto, non ha voluto che l'accompagnassi fin sulla porta di Lukka.» Erano così sventate, le ragazze moderne, si sentivano forti e non avevano la più pallida idea di quel che poteva capitare loro. Un uomo come Heinz Lukka non poteva essere così stupido da spingere un amico addestrato sulle tracce di una giovane che tutti, nell'osteria di Ruhpold, sapevano sarebbe andata da lui. Sarebbe stato il primo a essere interrogato. Sempre che qualcuno cercasse la ragazza. Wolfgang aveva detto a Jakob: «Se una come lei sparisse...» E con quello che Edith Stern aveva raccontato a Jakob si poteva escludere che la famiglia fosse al corrente del suo viaggio. Il cuore di Trude palpitò per molti secondi senza energia, pompando disperatamente nelle vene contratte dalla paura quel mezzo litro di sangue che risaliva in alto, goccia dopo goccia. Ebbe un capogiro, ma si fece for-
za. Erano solo mutandine. Probabilmente Ben aveva stanato un'altra volta una coppietta che si era dileguata tanto in fretta da abbandonare l'indumento intimo. Una coppietta, probabilmente abitanti del paese, su una coperta al limitare del bosco; lo facevano in tanti. Era più comodo che sui sedili di un'auto. Naturalmente avevano riconosciuto Ben quando era apparso. All'inizio si erano spaventati, ed era naturale. Ma avevano anche capito subito che non era una presenza minacciosa. Solo fastidiosa. Allora avevano preferito filarsela, dimenticando, nella fretta, le mutandine. Le cose dovevano essere andate proprio così. Trude controllò la stufa, trovò un po' di cenere e la sbriciolò con l'attizzatoio. Poi salì le scale, prese com'era sua abitudine un panno dal bagno, andò in camera sua e si mise a lucidare i vetri con moto circolare, con gli occhi fuori delle orbite. In lontananza si vedeva una leggera nuvola di polvere. Una mietitrebbia attraversava il campo di frumento di Richard Kressmann vicino al Boschetto. Un vento leggero spingeva la polvere in direzione sud-est, verso la Fossa. Sulla strada che collegava la Fossa al Boschetto stava passando una Mercedes chiara. Albert Kressmann passava sempre vicino alla fattoria dei Lässler, anche se la strada non era asfaltata, per controllare il ritmo di lavoro dei suoi uomini. Sulla via del ritorno, di solito faceva una breve visita a Paul e Antonia. Talvolta si fermava alla Fossa per controllare che tutto fosse rimasto come cinquant'anni prima. Albert si atteggiava a proprietario terriero e la Fossa, comunque, era di sua proprietà. Di Ben, neppure l'ombra. Trude si domandò quando aveva lasciato la casa. I suoi occhi indagatori scrutavano tutta la zona della Fossa. Si augurava che Ben non incontrasse Albert prima che si avesse la certezza che tutti quelli che erano stati in giro di notte fossero tornati a casa, sani e salvi. Proprio ai margini della Fossa le parve di scorgere, tra quel verde e quel giallo, una macchia colorata. Fu solo un attimo; subito dopo scomparve nella discesa. E il giovane Kressmann era già sulla via del ritorno. La mano destra di Trude continuava a compiere ampi cerchi sul vetro. Il cuore ebbe una contrazione dolorosa: eccola di nuovo, quella sagoma, che sorgeva dai cespugli radi e scavalcava i bordi della Fossa. Non poteva essere Ben: lui aveva una camicia a quadretti su sfondo blu e la tuta blu. Ma la figura era ormai un po' più vicina e si stava allontanando dalla Fossa. E la postura, quello strisciare piegata, era inconfondibile.
Trude interruppe le sue pulizie insensate e arretrò di un passo, affinché Albert non la notasse. Il figlio di Richard era stato all'osteria di Ruhpold, la sera prima? Aveva fatto caso a Jakob mentre questi faceva salire in auto la giovane americana? Probabilmente sì. L'associazione degli Schützen si riuniva ogni venerdì sera all'osteria. E Albert era membro dell'associazione, come suo padre. Mentre Trude stava in piedi a mezzo metro dalla finestra, con lo sguardo che correva dal campo di barbabietole alla Mercedes, una ridda di pensieri le turbinava nel cervello. Ebbe un barlume di speranza. Nel momento in cui Edith Stern andava verso la casa di Lukka, Ben era seduto a tavola; e più tardi era sdraiato tranquillamente nel suo letto: l'aveva visto lei, mite e innocente, con la bambola tra le braccia. A quel primo barlume seguì un fulmine. Di notte, improvvisamente, era uscito di casa. Edith Stern doveva aver fatto ritorno al paese, prima o poi. Ebbe un'altra illuminazione: sicuramente la ragazza aveva pregato Lukka di chiamarle un taxi, oppure lui l'aveva riaccompagnata. La voce robusta di Jakob obiettava: «Non voleva assolutamente che l'accompagnassi. Mi sono offerto due volte, l'ho anche avvertita. Lei ha riso». Forse Albert Kressmann non si era accorto di lei, ma per Ben era diverso. Il sole aveva inondato ormai tutta quella parte della casa e i raggi obliqui colpivano la camera attraverso la finestra aperta. La sagoma variopinta nel campo di barbabietole sollevò entrambe le braccia, fece energici cenni di saluto, saltellando e ballando mentre gridava qualcosa. A lei arrivò solo un debole suono. Certo neppure Albert aveva udito, però poteva averlo visto! Trude vide la Mercedes che si fermava e il giovane che scendeva, alzava un braccio e ricambiava il saluto, immaginando che i salti di gioia di Ben fossero rivolti a lui. Ora lei doveva intervenire in fretta: si avvicinò alla finestra e, sporgendosi fuori, agitò un braccio e salutò gridando con tutta la forza che aveva, ben sapendo che Albert non avrebbe sentito neanche una parola: «Su, Ben, svelto! Avevo detto mezz'ora, solo mezz'ora!» Suo figlio si avvicinò. Quella macchia colorata sulle spalle che cos'era? Sembrava che Ben si fosse legato qualcosa al collo, uno scialle o... Uno zaino e una giacca, aveva detto Jakob, una giacca di quelle colorate e sgargianti. Trude riaccese la stufa, per ogni evenienza. Era proprio una giacca di tessuto pesante, impermeabile, quella che vide sulle spalle di Ben non ap-
pena varcò la soglia della cucina. Superato il primo momento di panico, riflettendo con calma, lei cambiò idea. Albert doveva aver certamente notato quella macchia colorata sulle spalle di suo figlio. Era meglio non correre rischi. Passò nuovamente al contrattacco, alzò la cornetta del telefono e chiese a Wolfgang Ruhpold notizie della ragazza americana: era poi tornata all'osteria? Non era tornata! Quando il dolore le sferzò inaspettatamente il braccio sinistro, Trude passò il ricevitore alla mano destra, cercando di riprendere fiato, e dichiarò che Ben era stato fuori per un quarto d'ora e aveva trovato una giacca. Forse non era la giacca dell'americana, ma, se la ragazza l'avesse reclamata, Trude l'aveva tenuta da parte. Jakob avrebbe potuto portarla all'osteria, o all'ufficio oggetti smarriti di Lohberg. Forse la giacca apparteneva a qualcuno in città. Lei riuscì persino ad accennare una risatina. «La gente che se ne va a passeggio qui in giro ha altre cose cui pensare oltre ai propri indumenti.» Wolfgang rise e le promise che avrebbe chiesto in giro e avrebbe appeso un avviso alla finestra. Compiuto quel primo passo, Trude stese la mano con decisione. «Dammela.» Ben scosse il capo e, stringendosi addosso le maniche della giacca che gli pendevano sul petto, si addossò alla parete e assunse un'espressione di sfida. Lei ripeté la sua richiesta con tono insistente: «Dammi subito quella maledetta roba! Da dove arriva? L'hai trovata? O l'hai portata via a qualcuno? Te l'ha regalata qualcuno?» Sotto quella raffica di domande, lui curvò la schiena per farsi piccino, per sfuggire all'ira della madre e non perdere il suo nuovo tesoro. La voce di Trude non lasciava intendere nulla di buono. Per soddisfare almeno in parte la sua richiesta, riassunse in una sola parola una parte della notte precedente. «Amico», disse. Lei capì: era stato a casa di Heinz Lukka. Deglutì, sentendosi la bocca asciutta. «Hai... avuto il cioccolato?» Ben negò con la testa. «Perché no? Non hai fatto il bravo? Oppure Heinz non ti ha visto? L'hai certamente chiamato per farti dare qualche dolcetto.» Lui scosse ripetutamente la testa. «Bene», disse. «C'era qualcuno da Heinz, quando sei arrivato?»
Ben allora annuì, dicendo: «Carogna». Anche Trude annuì più volte. Annuì per disperazione, per quella conferma, per il panico che l'assaliva. Carogna! Quell'unica parola le diceva tutto. Lo vide come se l'avesse accompagnato quella notte. La giovane americana era ancora da Heinz quando Ben si era avvicinato alla casa. Lui l'aveva vista e... Lei sapeva come tenere lontani gli uomini, aveva detto a Jakob. Non certo con modi gentili. «Quella donna ti ha trattato male?» chiese Trude. «L'hai spaventata? Sai che non devi farlo! Le hai portato via la giacca? Certamente non te l'ha regalata. Non puoi tenerla. Ora dammela.» Vedendo che Ben scuoteva caparbiamente la testa e stringeva le maniche della giacca, lei tentò con le lodi e le lusinghe. «Tu sei il mio buon Ben, sei il migliore. Fai il bravo, dammi la giacca. Ti darò qualcosa di buono, un bel gelato. Poi, nel pomeriggio, andremo da Sibylle a mangiare la torta. E lunedì andremo in città in autobus. Ti piace viaggiare in autobus. Andremo ai grandi magazzini. Se questa cosa colorata ti piace, te ne comprerò una.» Non fu facile per Ben, ma si staccò, seppure a malincuore, dalla giacca, la porse alla madre e di nuovo si appiattì contro la parete. La sua espressione ostinatamente imbronciata avrebbe fatto quasi sorridere Trude, ma più tardi, se mai ci fosse stato motivo per ridere ancora. Esaminò il tessuto, verificò se c'erano strappi o macchie di sangue, cosa non semplice in quel groviglio di colori. Tuttavia la giacca era pulita, come le mutandine trovate nel pollaio. Non era danneggiata né c'erano macchie al di fuori di quelle di colore del tessuto. Lei portò l'indumento variopinto nell'ingresso, lo appese al guardaroba, rientrò in cucina e si mise a tagliare il pane. Poi lo spalmò di burro e ci appoggiò sopra alcune fette di salsiccia, mentre Ben si accomodava a tavola. Fece ogni movimento meccanicamente, come una macchina ben oliata. La sua mente era affollata da infinite immagini. Una giovane di ritorno in paese. Una serata tiepida, lo zaino sulle spalle, la giacca sul braccio. Sente dei passi alle sue spalle, oppure scorge un'ombra imponente davanti a sé. Jakob avrebbe dovuto avvisarla che Ben andava in giro di notte, che era innocuo e gentile, purché si fosse garbati con lui. Allora non si sarebbe spaventata, non avrebbe preso a correre e non avrebbe perduto la giacca nella folle corsa. Trude si voltò verso il tavolo e, per la prima volta da quando lui le aveva consegnato la giacca, lo sguardo le cadde sulla schiena di Ben. Il piatto con i panini le scivolò di mano e si frantumò sul pavimento. La schiena di
suo figlio non era a quadretti, aveva un colore uniforme, fosso scuro. «No», urlò Trude, scuotendo violentemente la testa. «No!» Sulle spalle la camicia era pulita, la macchia iniziava un po' più in basso e la stoffa era rigida di sangue rappreso. Anche la cinghia che portava in vita era scura di sangue. Ci vollero più di cinque minuti perché Trude si riprendesse dall'orrore di quella scoperta. Allora lo prese per un braccio e lo fece alzare. Lo trascinò in corridoio, su per le scale, in bagno. Continuava a tenerlo per il braccio, mentre faceva scendere l'acqua nella vasca. Tanto avrebbe dovuto ugualmente fare un bagno. «Che cosa hai fatto?» chiese con un filo di voce tremante, mentre l'acqua scrosciava nella vasca. Aveva la gola secca e le parole uscivano a fatica. Questa volta non era solo il cuore che le incendiava il petto. «Chi ti ha mai permesso di fare una cosa del genere? Ti ho detto mille volte che non devi toccare le ragazze. Non sei stato tu! Non puoi essere stato tu. Non questo! Dove ti sei conciato così? Parla! Di' qualcosa di sensato! Come hai fatto a conciarti così la schiena? Che cos'è questa porcheria?» Le dita di Trude strapparono la cinghia, armeggiarono sui bottoni della camicia. Ne strappò due che rotolarono sul pavimento. Finalmente gli tolse la camicia di dosso. Gli tirò giù i pantaloni insieme con le mutande e gli ordinò: «Entra nella vasca!» Poi corse alla porta con i vestiti, scese le scale ed entrò in cucina. Il fuoco si era spento di nuovo. Tenendo sempre i vestiti sotto braccio, Trude si precipitò in cantina e prese alcuni vecchi giornali. Le dita non le ubbidivano: spezzò tre fiammiferi mentre li sfregava per accenderli, finché non accese il quarto e diede fuoco alla carta. Infilando i pantaloni nella stufa, la fiamma morì. Erano troppo pesanti, troppo. «Lui non fa male a una mosca», sussurrò Trude, infilando nella stufa anche la camicia e balbettando: «Lui ha intenzioni buone. Non è capace di fare del male a nessuno». Per molti minuti rimase a fissare con lo sguardo offuscato la camicia piena di sangue rappreso e il focolare nero di fuliggine. Poi, finalmente, dopo aver tratto un respiro profondo e tremante, accese il quinto fiammifero, tenne la fiamma accanto alla stoffa e aspettò che attecchisse, osservando la camicia che si anneriva, prima di prendere fuoco. Quelle fiammelle luminose furono l'ultima cosa che Trude ricordò in seguito. Non seppe mai esattamente che cosa vide o fece. Certamente aveva lavato Ben e gli aveva fatto indossare abiti puliti, giacché successivamente
suo figlio fu trovato sul letto con indosso una tuta pulita. Ricordò alcune immagini fugaci di ferite piccole e grandi, di graffi superficiali ed escoriazioni. E ricordava una voce che ripeteva più volte: «Sì, lo so che ti fa male. Ma passerà in fretta. Stai fermo, bisogna farlo. Ti sei ferito tante volte contro il filo spinato, proprio così». C'era un coltello, un coltello piccolo con una lama leggermente ricurva e tagliente. Preso nella credenza della cucina e passato e ripassato sulla schiena di Ben con le sue stesse mani. Infine lavato sotto l'acqua. E c'era un secondo coltello, quello del servizio di posate con la lama ondulata, che serviva solo a tagliare il pane, completamente annerito e bruciato dal fuoco, tolto dalla stufa e gettato in fondo al bidone della spazzatura. CAMBIAMENTI Trude non seppe mai esattamente che cosa fosse successo nel giugno dell'82 nel prato delle mele. I tempi in cui Gerta Franken trascorreva i pomeriggi sulla panchina della piazza del Mercato erano ormai acqua passata. Le gambe non la reggevano più, era bloccata in casa, e raccontò tutto solo a Illa von Burg. La quale non ritenne giusto accusare una ragazzina di quindici anni di aver voluto uccidere il proprio fratello, caricando di un ulteriore peso una famiglia con gravi problemi. Illa fece in modo che, da quel momento in poi, Bärbel lasciasse in pace il fratello. Già durante il ricovero di Ben in ospedale, Illa ebbe un lungo, approfondito colloquio con Bärbel, durante il quale si fece promettere, in cambio del suo silenzio, che la ragazza non avrebbe mai più toccato il fratello neppure con un dito. In un primo momento, sembrò che la sorella di Ben non avrebbe mai più avuto l'occasione di mantenere la sua promessa. Erich Jensen mosse mari e monti per fare ricoverare Ben in un istituto non appena fosse guarito. Violazione dell'obbligo di sorveglianza con gravi conseguenze per la salute: Erich non avrebbe potuto trovare un'argomentazione migliore. Dopo essere stata al capezzale di Ben all'ospedale, Trude si recò per ben due volte nello studio di Heinz Lukka, lo pregò e lo scongiurò di trovare il modo per fare tornare Ben a casa. Data la situazione, l'avvocato non poteva fare molto. Fu proprio Bruno Kleu che riuscì a distogliere il farmacista dal suo proposito. Non rivelò a Trude quali argomenti avesse usato e Trude non riuscì neppure a capire bene il motivo per cui Bruno era intervenuto a favore di
Ben. Le sue motivazioni le erano abbastanza indifferenti, tuttavia ai suoi occhi contò il fatto che lo fece, giacché in seguito non temette più per Ben e dubitò persino che Bruno avesse avuto a che fare con la scomparsa della trapezista. Ma la cosa si poteva vedere anche diversamente. In un istituto, un educatore esperto forse avrebbe dato un'interpretazione dei giochi con le bambole di Ben, magari cercando di approfondire la questione. Gli Schlösser ricevettero solo un'ingiunzione del comune che ordinava una recinzione sicura del terreno e una fattura dei vigili del fuoco. Jakob pagò a malincuore, acquistò alcune assi di legno e svariati metri di rete metallica con cui costruì una specie di cono che stese sul Pozzo. Non si sognava nemmeno di recintare il suo podere come un campo di prigionieri. Trude lo implorò per giorni e giorni, ma tutto fu inutile. Ben si riprese dalle ferite fisiche, ma non da quelle psicologiche. Quindici giorni in un ambiente estraneo, con quel continuo viavai di visi conosciuti: quando se ne andavano, lui si sentiva abbandonato. Di solito poi arrivava qualcuno che gli infilava un ago nel braccio perché iniziava a smaniare. Quella era una punizione peggiore delle percosse di Bärbel e delle ore passate nel Pozzo. Ben diventò introverso e diffidente. Quando finalmente Trude se lo riportò a casa, lui non l'abbandonava neanche un attimo. Se erano in cucina, lui sedeva in un angolo e rimuginava cupo tra sé e sé. Se Jakob tornava a casa a mezzogiorno oppure di sera, lui alzava il capo brevemente, ammiccava per salutare come un animale in cerca di un po' di affetto e si avvicinava ancor più a Trude. Anita se ne andò di casa nel mese di luglio, dopo aver passato l'esame di maturità, e affittò una camera a Colonia in attesa di essere ammessa all'università. Quando Bärbel rientrava da scuola, Ben si attaccava al grembiule della madre e non la lasciava, tanto che voleva seguirla anche nella stanza da bagno. Se Trude si recava in paese, lui le camminava accanto, tenendole la mano e fissandola in volto come per accertarsi che fosse ancora presente. Sibylle Fassbender era stata informata dell'accaduto da Illa von Burg e riteneva quell'evento foriero di drammatiche conseguenze. «Non mi fa piacere dirlo», affermò Sibylle. «Ma chi aizza un cane gli insegna a mordere. Picchia un bambino, e quello diventerà un violento. Era un ragazzo così caro. Speriamo che non cambi, che non gli venga in mente un bel giorno di reagire. Potrebbe prendersela con qualcuno che non c'entra. Di solito succede così.»
Già nel mese di agosto, i timori di Sibylle si dimostrarono fondati. Trude ne ebbe la prova, con sua grande sorpresa, un giorno molto afoso di agosto, quando si recò come il solito a fare spese con Ben. Davanti al supermercato, Ben si staccò dalla mano della madre. Lei si sentì sollevata, pensando che finalmente il figlio avesse superato il trauma e non volesse più dipendere da lei. Non notò una ragazzina di circa dodici anni che si trovava per strada, a qualche metro di distanza da loro. Quando uscì dal negozio, suo figlio si stava rotolando sul marciapiede. Sotto di lui c'era la ragazzina, quasi soffocata dalle poderose braccia di Ben. Trude fece appena in tempo a evitare che le mordesse il naso. Il pomeriggio stesso, una madre inferocita si presentò alla fattoria, minacciando di chiedere un risarcimento e altri provvedimenti. Trude riuscì con grande fatica a calmare la donna offrendole una ricompensa, per evitare che Jakob fosse informato dell'accaduto. Ma non fu l'unico incidente. Due giorni più tardi, Trude si trovava in giardino mentre Ben stava accoccolato ai margini del prato. Sul Feldweg, una ragazzina si stava avvicinando in sella a una bicicletta. Ben si alzò e si mise a gambe larghe in mezzo alla via. Prima che sua madre potesse reagire, lui aveva già fatto cadere di sella la ragazzina, buttandola a terra. Anche se Trude intervenne velocemente, la gonnellina leggera era già in brandelli. Trude cercò di calmare la ragazza in lacrime, diede un paio di sculacciate a Ben, poi mise mano al portafoglio, sperando che quell'ennesimo episodio non giungesse alle orecchie di suo marito. Jakob non era più quello di una volta. Le avversità di tutti quegli anni, il suo insuccesso durante le operazioni di salvataggio che riteneva un fallimento personale, i provvedimenti, gli ammonimenti e infine l'ingiunzione del comune e la spesa per l'intervento dei vigili del fuoco lo avevano alquanto abbattuto. Talvolta appariva assente e fissava Ben con lo sguardo perso nel vuoto. Trude capiva quel che gli passava per la testa: pensava che non avrebbero avuto tutti quei problemi se Ben fosse stato in un istituto. In tal caso avrebbe potuto riportare a casa la figlia minore guardando al futuro con qualche speranza. A Jakob non bastava più andare a trovare la figlia da Paul e Atonia e aveva azzardato un paio di osservazioni sul fatto che un buon istituto non sarebbe stata una cattiva soluzione. C'erano persone qualificate in grado di insegnare a chi non capiva nulla alcune utili regole fondamentali. Sembrava di sentire Erich Jensen. Ogni parola colpiva Trude come una pugnalata al cuore.
Nella primavera dell'83, allorché Jakob insistette per riprendersi Tanja, Trude si trovò a dover fronteggiare una fatica improba. Fino a quel momento era riuscita, con la sua assoluta dedizione e parecchi gelati di vaniglia, a rendere ancora gradevole per suo figlio la casa sull'albero con l'abbeveratoio. In autunno e durante le miti giornate invernali, Ben restava sempre sul pero oppure scarabocchiava sul sottile strato di ghiaccio dell'abbeveratoio. Era impensabile presentargli in casa una ragazzina, che per di più era la preferita di Jakob. Per evitare il peggio, Trude comprò una bambola. Da tanto tempo Ben non ne aveva più; Anita non aveva più la sua camera da letto e anche sul letto di Bärbel non ce n'erano più da quando Jakob si era rifiutato di sostituire le vecchie. Ora non fece obiezioni. La bambola era bella, un po' più grande della figlia minore, con un vero faccino da bambina e con tanti capelli. Costò un piccolo patrimonio. Trude credeva di distrarre Ben in quel modo, ma sbagliava di grosso. Ben sedette per una mezz'oretta sul pavimento della cucina tenendo in grembo la bambola, esaminando il vestito, poi alzò la gonna e, vedendo le mutandine di pizzo, sogghignò. Poi guardò verso Trude. Lei gli vide un'espressione scaltra sul viso. Non appena sollevò il dito minacciosamente e il solito: «Via le mani!» risuonò in cucina, Ben tirò velocemente la gonna sopra le gambe della bambola e giocherellò annoiato con gli occhi movibili. Una mezz'ora, il tempo che Jakob impiegò per andare a prendere Tanja per quella domenica da Paul e Antonia. Non appena suo padre varcò la soglia della cucina con la bambina in braccio, Ben abbandonò il suo gioco e, prima che Trude se ne rendesse conto, fu in piedi di fronte a Jakob, ridacchiando verso il visino tondo della bambina; poi tese incerto la mano e accarezzò i capelli della sorellina. Jakob sorrise, colmo di orgoglio paterno. «Più tardi», disse. «Se starai buono, potrai giocare un po' con lei.» Il padre andò in soggiorno e sedette in poltrona con Tanja in grembo. Ben lo seguì fin sulla porta e si appoggiò allo stipite senza staccare lo sguardo dalla piccina. Un'ora più tardi Jakob ricordò la promessa fatta al figlio: batté con la mano il posto accanto a sé e con tono in parte diffidente, in parte gioviale, disse: «Su, ora vieni. Siediti qui accanto a me e la potrai tenere». Ben non si era mosso dal suo posto fino ad allora. In tre balzi aggirò il tavolo, si lasciò cadere accanto a Jakob sulla poltrona e gemette quando il padre gli mise in grembo la bambina. Trude trattenne il respiro. Sotto lo
sguardo severo del padre, tuttavia, premette le labbra sulle guance della bambina, accarezzò con la punta delle dita i morbidi capelli e le posò la guancia sul capo. Tanja era stata docile con Ben fin dal primo istante. Dopo che Trude aveva mostrato a Ben come tenerla, la piccola si lasciò prendere in braccio senza opporre resistenza. Anche se Ben fu molto maldestro, Tanja non si lamentò. Era abituata alla rude tenerezza di Andreas e Achim Lässler, i suoi fratelli maggiori. E, a differenza dei ragazzi Lässler, Ben non protestò quando lei gli tirò i capelli. Nel pomeriggio, Ben ebbe il permesso di portarla a spasso per il cortile. Jakob aveva da fare nel porcile, ma restò nelle vicinanze. Trude controllava dalla finestra della cucina; udendo il cicaleccio della figlia minore e il borbottio soddisfatto di Ben, la morsa d'acciaio che le attanagliava il petto si allentò. Quando la sera Jakob mise la bambina in auto e partì, Ben rimase accanto al portone agitando in continuazione la mano. Poi andò in cucina, da Trude, si sedette per terra e si dedicò nuovamente alla nuova bambola. Dopo quel primo tentativo senza incidenti, ogni fine settimana la bambina tornava regolarmente a casa. Nell'estate dell'83, Jakob sistemò una stanza per la figlia minore, nella speranza che, con il tempo, sarebbe tornata a casa per sempre. Trude riuscì a dissuaderlo. La bimba era bene accudita da Paul e Antonia. Cresceva bene, era serena in compagnia di Britta Lässler, una compagna di gioco che a casa non avrebbe avuto. A casa c'era solo Bärbel che rifiutava categoricamente di fare la babysitter e che effettivamente aveva poco tempo a disposizione. Era molto impegnata a rispondere agli annunci per un posto di apprendista e a presentarsi ai colloqui di assunzione e, quando tornava a casa, non era molto disponibile, visto che le facevano sempre capire che avrebbe potuto ottenere un posto solo con un diploma. Certo, c'era Ben, ragionava Trude, gentile e dolce con la sorella, ma sempre troppo imprevedibile. Con il cuore spezzato, Jakob rinunciò alla figlia e si adattò a portarla a casa solo per il fine settimana o per uno o due giorni durante la settimana. Quando lei era a casa, al mattino metteva nel suo cestino un pannolino di scorta, due fette di pane bianco con marmellata e una bottiglia di tè, e se la portava dietro. A mezzogiorno la riportava a casa per il sonnellino pomeridiano. Il pomeriggio lei giocava in cortile mentre mandavano Ben alla sua casa sull'albero, con raccomandazioni, barrette di cioccolato e un bel gelato di vaniglia.
Lui, però, sulla casa non ci restava. E ogni volta che si avvicinava alla sorella, Trude sentiva di nuovo la morsa al cuore. Non riusciva a scordare le parole di Sibylle, e le ragazzine aggredite da Ben sembravano confermarle. E Tanja, quella creaturina così indifesa... Trude scopava il cortile finché non c'era più neppure una pagliuzza in giro, stava alla finestra, mentre dietro di lei cresceva la montagna di biancheria da stirare, e correva fuori in continuazione per evitare che Ben portasse la sorella nel fienile. Ben si prese scariche di botte e sgridate a non finire, tanto che la sera, sua madre aveva il braccio dolorante. A fine giornata, Trude colmava nuovamente Ben d'affetto, sapendo che la vita non gli offriva molto. Per ogni percossa lo risarciva con un dolciume, per ogni sgridata riceveva in seguito una carezza. E anche qualche lacrima, perché Ben non riusciva a collegare gli avvenimenti. Non era possibile spiegargli perché non poteva fare questo o quello. Se anche gli altri lo facevano centinaia di volte, a lui non era permesso. 26 AGOSTO 1995 Jakob tornò a casa poco prima delle tre. Il pranzo non era pronto e Trude sedeva al tavolo della cucina, lo sguardo fisso davanti a sé. Nel passare davanti al guardaroba Jakob notò la giacca appesa. La sua voce suonò sorpresa lì per lì: «E quella da dove viene?» Dovette ripetere la domanda tre volte, prima che Trude alzasse la testa. Lo guardò come se avesse visto un fantasma. Poi dichiarò con voce incolore: «Ben l'ha trovata nel prato delle mele. È passato di nuovo sotto il filo spinato. Non chiedermi della sua schiena, tutta graffiata e ferita. La camicia l'ho dovuta buttare, era tutta strappata, non valeva neanche la pena di rammendarla. E insanguinata, naturalmente». «Trovata», disse Jakob lentamente, senza badare a quanto la moglie aveva detto d'altro. Trasse un lungo respiro, si avvicinò al tavolo e restò accanto a lei. «E quando?» Trude alzò precipitosamente le spalle. «Stamattina, verso le dieci. Dopo colazione se n'è andato un po' in giro.» Jakob si fece più insistente, ma lei si attenne a quella versione. No, Ben non era uscito di notte! Parola d'onore, sulla tomba della sua povera mamma! Era nel suo letto. Glielo aveva detto la mattina. Se Jakob avesse guardato, avrebbe potuto verificare di persona. Probabilmente, aveva esaurito ogni energia vagabondando il giorno prima. Trude aveva dovuto svegliarlo per la prima volta in vita sua.
Era uscito solo dopo colazione, ma non era rimasto fuori a lungo. Evidentemente perché si era ferito contro il filo spinato. Trude continuava a fissare l'ingresso mentre parlava. La giacca pendeva dal gancio dell'attaccapanni. Jakob aveva l'impressione che quel gancio gli si conficcasse nella schiena. Sedette di fronte a Trude, le prese le mani, si schiarì la voce e disse: «Le cose possono essere andate diversamente. Tu non c'eri. Non mi vorrai dire che sei andata con lui sul prato». Immediatamente dopo aggiunse: «Te ne volevo già parlare ieri». Trude non lo guardò. Jakob non distolse lo sguardo dal suo viso, e cercò di scorgervi un sussulto, un guizzo, una reazione qualsiasi che gli indicasse che non si era irrigidita del tutto nelle ultime ore. Non riuscì neppure a capire se lei lo stesse ascoltando. Scegliendo attentamente le parole, le spiegò con cautela quanto gli era passato per la mente dal giorno prima. I giornali! Il sospetto che, segretamente, entrambi nutrissero dei dubbi sul loro figlio. Se le cose stavano così, un motivo doveva esserci. Le parlò con grande sincerità. «In tutti questi anni, hai sempre temuto che Ben potesse abusare di Tanja. Mi hai fatto impazzire, così ho finito per crederci anch'io. Ma lui non le ha mai fatto niente. Anche lunedì non l'ha toccata, l'ha solo presa tra le braccia, come sempre. E io pensavo: se gli passa davanti una ragazza e lui fa qualche tentativo, le cose non andranno così lisce. Sai come succede. Lo sgridano e lo trattano male.» Finalmente accadde ciò che Jakob sperava; Trude annuì. Lui le strinse le mani con maggior forza e la rassicurò dicendole: «Non credo che abbia fatto del male alla figlia di Erich». Quindi, aggiunse la frase che più temeva. «Ma c'è un lembo di stoffa nel vaso di vetro che ho trovato domenica in camera sua. Era sporco, forse era blu. E il giornale diceva che lei aveva una giacca blu. Non ti ho detto nulla perché non volevo che ti preoccupassi. Ma ho pensato: chissà cosa ti portava sempre a casa? Tu non mi dici mai niente. Ha portato altro, oltre a questo pezzo di stoffa?» Trude scosse il capo senza profferire parola. Jakob annuì con gravità. «Forse», aggiunse lentamente, «dovremmo parlare con Heinz. Chiedergli almeno quando se n'è andata Edith, voglio dire la signorina Stern. Forse lui sa dove voleva andare. Perché non lo chiami al telefono?» Trude scosse ancora la testa con foga, ridendo istericamente. «Io? Chiamalo tu. E che cosa farai se ti dirà che si tratta solo di danno a cose?» Jakob non comprese il significato della sua osservazione e non le chiese
cosa intendesse dire. Percepì il profondo respiro di Trude mentre lei dichiarava: «La signorina Stern avrà perduto la sua giacca. Ben non può averle fatto nulla di male, perché non è stato fuori. Lo so perché non ho chiuso occhio tutta la notte e lo avrei certamente sentito, se fosse uscito. Alle cinque ero già in piedi e lui era nel suo letto. Te l'ho detto quando ti ho svegliato. Perché non hai controllato? Non dovremmo stare qui a discutere in questo modo». Tacque per un attimo, solo il suo respiro gravava nell'aria. Infine Trude chiese: «Sei proprio sicuro che questa sia la giacca della signorina Stern?» Jakob annuì, poi aggiunse: «Assolutamente sicuro! Anzi, mi chiedo come sia finita sul prato. È recintato. Solo un matto come Ben s'infilerebbe sotto il filo spinato». «Che ne sappiamo?» obiettò Trude. «Se uno ha qualcosa da nascondere forse è ancor più matto di Ben.» Tacquero entrambi, ognuno perduto nei propri pensieri. Trude vedeva dinanzi a sé la camicia, rigida per il sangue rappreso. Si chiedeva se nel peggiore dei casi non avrebbe potuto affermare che Ben le aveva raccontato di averla ricevuta in dono da Heinz Lukka. Qualcuno avrebbe potuto obiettare che quello che diceva Ben non era comprensibile; che dimostrassero che una mamma non era in grado di capire suo figlio dopo vent'anni! Jakob valutò quanto lei gli aveva appena detto. Di fronte a lui vedeva solo Trude e la sua espressione di ghiaccio. «C'è qualcosa che non va, Trude», disse. «Sei parecchio strana da diversi giorni. Non credere che non me ne sia accorto. Non sono cieco, Trude. Stai con lui tutto il giorno, lo vesti e lo cambi. C'è qualcosa che sai e che io dovrei forse sapere?» Non ebbe alcuna risposta, neppure un cenno del capo. Se Trude avesse scosso la testa, tutti i pensieri che le affollavano la mente sarebbero diventati ancor più confusi. Era già abbastanza difficile cercare di riordinarli. Pensava seriamente di poter incolpare Heinz Lukka? Sarebbe stato come consegnare direttamente Ben al boia. Se Ben avesse solo visto qualcosa, che cosa poteva dimostrare a Jakob? Uno che vede qualcosa non si riempie di sangue la camicia. Il silenzio ostinato di Trude innervosì Jakob, rendendolo aggressivo. Involontariamente picchiò il pugno sul tavolo della cucina gridando: «Cristo santo, come faccio a parlarti se te ne stai lì muta?» Trude non fece alcun gesto. Jakob attese per un minuto intero una reazione qualsiasi. Non avendo ottenuto alcuna risposta dalla moglie, continuò con la raffica di domande: «Come fai a sapere che ha trovato la giacca
sul prato? Se è andato in giro da quelle parti, non è comunque detto che tu abbia ragione. Potrebbe averla trovata anche sulla strada». «Forse l'ha trovata per strada», concesse Trude. Jakob annuì con veemenza. «Vedi, intendo dire proprio questo. Non puoi dire una cosa qualsiasi solo perché hai paura. È così che si creano i sospetti. C'è sempre qualcuno che può accorgersi che menti. Io perlomeno me ne accorgo. E se la signorina Stern portava la giacca sotto il braccio...» S'interruppe, fissò il guardaroba, quasi che la giacca potesse rispondere. Poi intimò: «Fallo scendere». Trude sgranò gli occhi con orrore, tanto che Jakob reagì: «Non mi guardare in quel modo», borbottò distogliendo lo sguardo. «Voglio solo andare a fare una passeggiata con lui. Forse mi farà vedere dove ha trovato quel coso. Sarebbe già qualcosa.» Trude non accennò ad alzarsi. Jakob si diresse verso la porta brontolando: «Allora lo vado a prendere io». Lei si alzò di scatto. «Vado io.» Lo superò velocemente mentre lui scuoteva il capo, perplesso. Jakob salì lentamente le scale dietro la moglie e la seguì nella camera di Ben. Lui giaceva bocconi sul letto, la testa verso la finestra. Quando Trude entrò, girò il capo. L'espressione sofferta del suo volto commosse stranamente il padre. «Vieni, su», disse con tono gentile, «andiamo a passeggio.» Le sue parole non ottennero alcun effetto. Ben girò il viso dall'altra parte. «Che cosa c'è?» chiese Jakob. «Non ne hai voglia?» «Gli farà male la schiena», intervenne Trude cupamente. «Bah.» Jakob sorvolò su quanto aveva detto Trude e tenne lo sguardo fisso sul letto e sull'ampia schiena del figlio. La camicia fresca di bucato non lasciava trasparire nulla. «Ben non è delicato e poi non deve certo camminare sulla schiena.» Andò verso il letto, afferrò la camicia, la sfilò dai pantaloni alzandone in alto i lembi. Fissò per un momento i cerotti stringendo le labbra. «Sono un bel po'», disse a Trude guardandola. «Non è così stupido da continuare a strisciare per terra ferito in questo modo. Deve avere avuto i suoi buoni motivi.» Trude non ebbe alcuna reazione. Jakob infilò la camicia nei pantaloni, afferrò il braccio di Ben e ripeté: «Dai, vieni, andiamo a fare una passeggiata». «Vengo anch'io», disse Trude.
Mentre Ben si avviava all'incrocio precedendoli con passi strascicati, il senso di paura che attanagliava Jakob si dileguò. Alla sua mente si affacciarono nuove ipotesi collegate alla schiena di Ben. Certamente non era stata una donna a conciarlo così. Avrebbe avuto il viso, le mani e le braccia feriti. E, d'altra parte, la giacca che Jakob aveva esaminato attentamente prima di lasciare la casa era perfettamente in ordine. Forse, Ben l'aveva veramente trovata per terra da qualche parte. In un primo momento Jakob escluse che fosse successo qualcosa di grave a Edith Stern. Ma lui non sapeva nulla di Svenja Krahl. Restava Marlene Jensen. E restavano le ferite di Ben, causate da cosa? Come avrebbe fatto Jakob a pensare che quelle ferite fossero dovute a ben altra causa? Non avrebbe mai potuto considerare l'ipotesi che Trude le avesse inferte al figlio, anche se non gli era sfuggito che Ben cercava di evitare di stare troppo vicino a sua madre. Jakob era troppo immerso nei suoi ragionamenti per considerare quel fatto. Ammettendo che il collega del magazzino avesse ragione, che Ben avesse visto o udito qualcosa durante la famosa notte in cui Marlene era scomparsa. Ammettendo che ci fosse qualcosa sul prato, e che per quello Ben aveva voluto passare sotto il filo spinato. Forse, era meglio avvertire la polizia. Jakob si girò per parlarne a Trude. Ma, guardandola, si bloccò. La moglie teneva gli occhi fissi su Ben, trotterellando a piccoli passi accanto a lui, stanca e smunta, così sfinita e spossata. Agli angoli degli occhi qualcosa brillò, poi una lacrima le scese sul viso. Jakob si schiarì la voce e guardò davanti a sé, per vedere che direzione prendeva Ben, che nel frattempo aveva raggiunto l'incrocio e si era fermato, voltandosi verso il padre. «E adesso? Dove si va?» chiese Jakob. «Dove hai trovato la giacca?» Ben allora si voltò e s'incamminò nella solita direzione, il prato delle mele. Strano, rifletteva Jakob, che la polizia non avesse controllato quel prato. O forse l'avevano fatto? Il giornale affermava che erano stati perlustrati tutti i dintorni del paese. Allora si sarebbero dovuti occupare del prato, prima di tutto. E se non avevano trovato nulla, forse domenica non c'era nulla da trovare. Se adesso ci fosse stato qualcosa... Aveva dato un passaggio a Edith in auto, l'aveva fatta scendere e lei aveva proseguito a piedi. Due chilometri in solitudine, due chilometri al buio. Se non fosse mai arrivata alla villetta di Heinz Lukka...
Non riuscirono a scoprire nulla. Jakob tentò due volte di ottenere un'indicazione dal figlio, ma fu tutto inutile. Finché non se ne rese conto, e rinunciò. Non aveva senso tutto ciò, Ben non capiva che cosa dovesse cercare. «Avremmo dovuto portare la giacca», constatò Jakob quando raggiunsero il filo spinato. «Almeno Ben avrebbe avuto un riferimento.» Non si chiese perché non ci avesse pensato prima, non pensò che probabilmente non si voleva far vedere con la giacca in mano prima di aver trovato lui stesso una spiegazione plausibile al perché fosse finita in mano sua. Camminò lungo il filo spinato, ispezionò il terreno retrostante e alla fine del recinto riconobbe: «Non sembra che qui sia passato qualcuno ultimamente». Il filo spinato era integro, se ci fosse stata la polizia l'avrebbero sicuramente tranciato. Trude non reagiva, immersa com'era nei suoi pensieri cupi, così Jakob si soffermò ancora sulla vegetazione selvaggia che costeggiava il recinto. I cespugli di more che invadevano ormai da tempo quello che era stato il giardino di Gerta sembravano impenetrabili. Solo il vecchio pero svettava in quella selva. Osservando dal viottolo, pareva che nessuno ci avesse messo piede. Jakob tornò sui suoi passi, con una ridda di pensieri in testa. Ricordando l'espressione impenetrabile di Trude il panico l'aveva assalito, immaginando che forse, la notte, qualcuno si fosse incontrato sul viottolo. Pensava alla silenziosa soddisfazione che provava quando passeggiava con Ben per i campi. In lungo e in largo, non c'era anima viva, solo la terra sotto i piedi. Quella terra che li aveva nutriti tanti anni. Sopra le loro teste, solo le nuvole o il sole e, dinanzi a lui, la larga schiena di Ben. Un ragazzo così silenzioso, di poche pretese, che si accontentava di un pezzo di pane. Quando correva per i campi precedendo suo padre esprimeva al meglio la sua soddisfazione. La stessa soddisfazione che trasmetteva a Jakob, quando non c'era in giro nessun altro. Ora non riusciva a provarla, forse per via di Trude. «Dovevamo restare in paese», disse, sentendosi impotente. «Avrei dovuto costruire io stesso un muro intorno al prato e al giardino e mettere una serratura di sicurezza al portone. Lui non sarebbe mai più uscito, e oggi non staremmo qui a romperci la testa su tutta questa storia.» NUOVE FATTORIE
Nella primavera dell'84 Jakob fu interpellato ufficialmente per la prima volta. Il consiglio comunale di Lohberg prometteva mari e monti, pace e libertà, e faceva appello al suo buon senso, alla sua comprensione e al suo amore per la patria. Otto Petzhold aveva capitolato già sei mesi prima, vendendo il suo podere sulla Bachstrasse a un architetto di Lohberg e i suoi cinquanta iugeri di terra a Richard Kressmann. Con quanto aveva ricavato si era comprato una casetta ai piedi dell'Eifel. Per lui era stato semplice. Aveva da badare solo a sé e alla moglie ammalata. Otto non aveva figli. Jakob, al contrario, ne aveva quattro. Anche se non si aspettava molto aiuto da nessuno di loro. Anita studiava a Colonia e non trovava mai il tempo per tornare a casa. Di tanto in tanto chiamava per lamentarsi che i soldi non le bastavano. I libri erano talmente cari... Se poi Jakob protestava contro quelle richieste esose, ricordandole che anche gli altri familiari avevano le loro necessità, lei tirava in ballo le privazioni subite, l'amore materno che le era stato negato e argomenti simili. Non ci si doveva aspettare molto, da Anita. Bärbel stava tentando una seconda volta di conseguire il diploma alla Realschule per ottenere un posto di apprendista, possibilmente in un ufficio, dove non c'erano sporcizia, letame e soprattutto idioti. Ogni volta che aveva un'ora libera, correva nella cucina di Illa von Burg per raccontarle com'era stata gentile con il fratello negli ultimi giorni. In realtà stava solo cercando di convincere la suocera potenziale della sua bontà, della sua buona volontà, e del fatto che il figlio maggiore non avrebbe potuto trovare una moglie migliore. Oppure prendeva l'autobus per Lohberg e andava fino alla gelateria italiana in cerca del suo perduto amore. Uwe von Burg, infatti, era più spesso a Lohberg che non a casa sua. Bärbel raccontava a tutti che in futuro sarebbe andata a lavorare in una fattoria. Non c'era cosa migliore che essere padroni di se stessi. Però senza vacche e maiali, solo un bell'allevamento di polli e la casa da accudire, ecco ciò che le piaceva. C'era da sperare che Ben se ne stesse il più possibile in cima alla casa sull'albero, perlomeno così non importunava nessuno. E la figlia minore di Jakob, il suo tesoro, che divideva con l'amico Paul e che sperava di avere tutta per sé un giorno, appena fosse stata abbastanza grande da frequentare l'asilo, aveva solo due anni e mezzo quando i consiglieri comunali presentarono un esposto contro di lui. Due mesi prima era morta Gerta Franken. Se ne accorsero solo un paio
di giorni dopo; anche Trude si era chiesta più volte come mai non aveva più visto la vicina alla finestra della sua stanzetta. Trude andò da lei e già nel vestibolo un odore acre le fece presagire quello che avrebbe trovato in camera da letto. Dopo che Hilde Petzhold si era trasferita nell'Eifel, nessuno si era più preoccupato di portare un piatto di minestra nella catapecchia. Illa von Burg aveva sospeso le visite a Gerta mesi prima. Non sopportava più le malignità della vecchia. Per anni, Illa si era alternata settimanalmente con Hilde per portare cibo e un pranzo caldo alla donna. Ma non era più disposta a sopportare i pettegolezzi della vecchia sul paese, o ad ascoltarla mentre le diceva che suo suocero aveva iniziato a protestare contro i nazisti solo quando il Reich gli aveva portato via la figlia minore. Fino ad allora, il vecchio von Burg aveva gridato: «Heil, mein Führer» esattamente come tutti gli altri. L'anno prima che Gerta morisse, Illa non andava più d'accordo con la vecchia. Anche Hilde Petzhold aveva detto che la Franken era proprio una vipera. Trude non aveva considerato l'eventualità di assistere la vecchia donna. Faceva affidamento sulle sorelle misericordiose del monastero, che provvedevano ai rifornimenti con un servizio a domicilio. A quanto pareva, però, avevano escluso Gerta Franken, anche se Erich Jensen aveva assicurato che se ne sarebbe occupato personalmente. Probabilmente se n'era dimenticato, occupato com'era tra tutte le riunioni del consiglio, il partito e il suo lavoro in farmacia. In paese si sussurrava che Gerta Franken era morta di inedia. Il medico stabilì che la causa della morte era stata l'età e ritenne superfluo citare nel certificato di morte una ferita alla testa. Il becchino non vi attribuì alcuna importanza. Nessuno versò una lacrima. Parenti non ce n'erano, cosicché buona parte degli abitanti del paese fu sollevata da quella dipartita. Gli altri, coloro cioè che abitavano nella zona residenziale sulla Lerchenstrasse, erano solo interessati ai propri affari e a quel che accadeva nelle dirette vicinanze, dove non sempre tutto andava nel migliore dei modi. Nella casa dove abitava Toni von Burg c'era la famiglia Mohn, la cui figlia, Ursula, era fonte di maldicenze. Trude ne aveva sentito parlare sovente. Ursula Mohn era poco più grande di Ben e troppo robusta per la sua età. La gente diceva che non avesse alcun pudore: in mezzo alla strada si levava il pullover perché i passanti potessero ammirare il suo petto acerbo; nel vano scale importunava gli uomini che tornavano dal lavoro, e nella lavanderia faceva lo stesso con le
signore che stendevano la biancheria. Nella Lerchenstrasse nessuno sapeva che Gerta Franken aveva inveito contro il parroco in chiesa, avvertendo tutti che Ben era un pericolo per la comunità. L'amministrazione comunale provvide alla sepoltura, incassò come compensazione dell'assegno sociale la proprietà di Gerta la quale comprendeva, oltre alla catapecchia fatiscente, anche il giardino ormai incolto. Già due giorni dopo la sepoltura arrivò una scavatrice. La sera stessa, sul posto, rimaneva solo una montagna di macerie. Il giorno dopo, anche le macerie erano scomparse. Senza neanche consultare Jakob, l'ultima cava di sabbia fu riempita, prendendo così due piccioni con una fava. Avevano tutti una fretta indiavolata. Per anni, la casa di Gerta Franken era stata come un pugno in un occhio. Allora la proprietà fu divisa in due lotti che furono dichiarati edificabili, e si trasformarono così in un notevole introito per le casse comunali. Il lotto che confinava con la Bachstrasse fu immediatamente venduto a un consigliere comunale che era stato più veloce di Heinz Lukka e forse anche più previdente. Si fece costruire una piccola villa con piscina nel giardino mettendosi al riparo, con un muro ad altezza d'uomo, da occhi indiscreti e dalla giungla retrostante. Il lotto posteriore, cui si accedeva dal Feldweg e al cui centro si trovava il vecchio pero con l'abbeveratoio, non trovò nessun acquirente. Forse tutta quella selva spaventava la gente e se l'amministrazione comunale avesse provveduto a spianare anche quella zona, sarebbe stato facile venderlo. Nessuno, però, ci aveva pensato. Il podere fu urbanizzato collegandolo alla rete fognaria e idrica. Fu lasciata la conduttura dell'acqua in superficie perché l'eventuale acquirente fosse in grado di iniziare subito i lavori: venne messo un rubinetto e poi dimenticato. L'amministrazione comunale aveva un'altra preoccupazione: Jakob Schlösser! Era l'unico podere rimasto. Richard Kressmann viveva con la famiglia al centro della sua proprietà ormai da anni. Bruno Kleu aveva deciso spontaneamente di seguire l'esempio di Richard. Nei campi in aperta campagna, nessuno osservava con sospetto Bruno quando lasciava la sua abitazione di sera, né quando vi faceva ritorno di notte. Paul Lässler si era deciso a trasferirsi, dopo che aveva avuto la conferma che l'amministrazione comunale si sarebbe sobbarcata una parte dei costi per la rete idrica e fognaria, se avesse costruito la fattoria in mezzo ai campi. Un artista benestante, che voleva ristrutturare un fienile per farne uno studio di pittura, era interessato al suo podere sulla Bachstrasse. Paul fece un affare. Toni von Burg, con i suoi tacchini e il suo allevamento ultramo-
derno di galline ovaiole, non arrecava alcun disturbo, dato che si trovava ai margini della città. Quando Jakob sentiva nominare quel buco di paese chiamato città, gli si rizzavano i capelli sulla testa. Tutti ormai erano diventati megalomani, da quando qualche piccola industria si era stabilita nella zona innalzando il reddito con le entrate fiscali. Quelle stesse entrate venivano gettate dalla finestra per acquistare a Lohberg un cubo di vetro e cemento, il nuovo municipio con la sala civica. Per una piscina scoperta e una coperta. Per una palestra più ampia del ginnasio, dove si allenavano solo tre società sportive. Lohberg era cambiata: avevano edificato un centro commerciale che rese necessaria la costruzione di una circonvallazione; aveva le sue zone pedonali, i parchi giochi e un nuovo asilo con cucina dietetica per i bambini e, soprattutto, gli impianti igienici, mentre, in paese, nella scuola elementare pioveva dal tetto e quando c'era brutto tempo non si poteva fare ginnastica perché la costruzione provvisoria non era agibile per il rischio di crolli. Inoltre Erich Jensen continuava a sostenere che un'azienda agricola non corrispondeva più all'immagine cittadina. Erich non diceva ad alta voce quello che veramente lo disturbava: un ragazzo che di tanto in tanto sfuggiva al controllo della madre. Che se ne andava per la strada gridando «carogna» alle ragazze. Aveva appena undici anni, ma era alto quasi come suo padre. Si diceva in giro che recentemente avesse perfino aggredito Heinz Lukka. L'avvocato, in qualità di consigliere comunale, aveva avuto un colloquio con il direttore della scuola elementare, per discutere dell'eventuale costruzione di una piccola palestra. Terminato il colloquio, stava aprendo la portiera della sua auto, quando Ben gli si avventò contro. Per poco, l'anziano avvocato non cadde a terra. Thea Kressmann li aveva visti e la sera stessa lo aveva raccontato al marito, e il giorno dopo andò in giro a dirlo a tutti. Heinz Lukka si era fatto una bella risata. Aggredito! Che sciocchezza! Ben lo aveva visto e con il suo modo impetuoso di esprimere la propria gioia aveva attraversato la strada e gli era saltato al collo. D'accordo, un po' violentemente, ma senza alcuna cattiva intenzione. Come si poteva negare al ragazzo una gioia e il suo bisogno di esprimere tenerezza? E poi, che cosa significava che inveiva contro le ragazze? Semmai era proprio il contrario, affermava Heinz Lukka. Bastava che il poveretto saltasse fuori da qualche parte che subito veniva apostrofato con un: «Fila, idiota!» Non aveva il diritto di replicare allo stesso modo, in fondo? Non faceva niente
di più. Tuttavia anche Heinz Lukka tentò di convincere Jakob a trasferirsi, adducendo argomenti come la tranquillità di un campo in aperta campagna e i suoi stessi piani per il futuro. Dal momento che gli avevano soffiato la proprietà della Bachstrasse sotto il naso e quel lotto inselvatichito non lo soddisfaceva, aveva messo gli occhi sul prato comunale. Era certo che avrebbe potuto ottenerlo. Che se ne faceva la città di un prato? Così, una sera Heinz si presentò a casa di Jakob con alcuni progetti per cercare di forzargli la mano. Jakob diede un'occhiata ai progetti, si fece spiegare come l'avvocato immaginava la sua casa futura. Il soggiorno esposto a meridione, con un camino e una grande terrazza. La palestra con gli attrezzi in cantina, con pavimento e pareti piastrellati fino al soffitto e una doccia. Jakob si chiese in cuor suo se a Heinz non avesse dato di volta il cervello per farsi venire certe idee alla sua età. O forse credeva che con la fascia addominale e gli attrezzi avrebbe potuto trasformare un nano da giardino in un Ercole? Jakob continuò ad ascoltare Lukka che gli diceva che il comune avrebbe allargato e asfaltato per Paul e Antonia la stradina stretta sui campi che portava alla provinciale. Anche per Jakob e Trude avrebbero costruito una strada tutta per loro, una nuova magari, oppure avrebbero rimesso a nuovo quella già esistente. Jakob non cedette. E non potevano cacciarlo con la forza. Lui non si faceva intimidire come Trude, che spesso l'aveva invitato a riflettere sulla proposta. Le richieste di Trude diventarono sempre più insistenti, anche se usava sempre la metà delle argomentazioni di cui avrebbe potuto servirsi. Era pur vero che Ben se ne stava accoccolato per la maggior parte del tempo sul suo pero oppure giocava nell'abbeveratoio, ma se lei non lo controllava ogni dieci minuti o non lo rabboniva con dolciumi e gelati, lui spariva. Era vero quel che si diceva in paese: Ben correva dietro a tutte le ragazze e le apostrofava urlando con tutta la voce che aveva: «Carogna». Dava fastidio, ma tutto sommato era innocuo. Le cose cambiavano quando gli capitava sottomano un coltello. E riusciva a trovarne sempre uno, anche se Trude pensava di averli messi tutti sotto chiave. Allora agitava il coltello davanti a tutti i ragazzini sbraitando: «Via le mani! Freddo!» Dopodiché piovevano le proteste, perché lo si definiva un pericolo pubblico. Quando ciò accadeva, Trude si consumava la voce a forza di spiegare che non aveva cattive intenzioni, che voleva avvertire i bambini di non toccare i coltel-
li perché lui stesso si era già ferito più volte. Nel frattempo aveva imparato a mentire sul figlio con una tale convinzione da convincere persino se stessa. Che cosa avrebbero fatto, quando Ben fosse arrivato all'adolescenza? Non potevano castrarlo come si castra un gatto. Sarebbe certamente stato meglio se avessero abitato fuori del paese. Sul finire dell'estate dell'84 Trude fece un ultimo tentativo per convincere Jakob. Quel giorno era andata a trovare la figlia minore e Antonia alla fattoria dei Lässler. Ci era andata con Ben, che ormai non lasciava mai solo, ma non lo disse al marito. Parlò d'altro. Paul e Antonia avevano costruito una casa meravigliosa, così luminosa, spaziosa e moderna. Tutto intorno non c'era anima viva cui arrecare fastidio. Mentre Trude beveva un caffè con Antonia in soggiorno, i bambini giocavano nel cortile. Andreas e Achim sfrecciavano sulle biciclette nuove di zecca attraversando le pozzanghere lasciate dalla pioggia della notte precedente, gridando di gioia quando il fango faceva spruzzi dappertutto. Accanto al garage, Annette giocava con l'amica al concorso di bellezza. C'erano una radio a tutto volume e le due bambine, vestite solo con un costumino succinto. Le piccole Britta e Tanja sguazzavano sul terrazzo in una piscina gonfiabile colma fino all'orlo; di tanto in tanto andavano nel cortile con i secchielli pieni d'acqua e li rovesciavano nelle pozzanghere, facendo a gara, con i maschi, a chi schiamazzava più forte. Insomma, facevano un baccano d'inferno, e nessuno si lamentava. Nell'arco di tutto il discorso che fece Trude, ricordando al marito i vantaggi di una fattoria in aperta campagna, non citò mai il nome di suo figlio. Ben aveva fatto la spola tra le ragazzine accanto al garage e le bambine in piscina, correndo avanti e indietro e gridando con tutta la forza «carogna» e «bene», mentre fendeva l'aria con le braccia. Trude si limitò a dire a Jakob che solo se c'era brutto tempo Antonia faceva avanti e indietro in auto tra la fattoria e la scuola, per i bambini, perché di solito andavano a scuola in bicicletta. E Ben non sapeva andare in bicicletta. 26 AGOSTO 1995 Tornarono alla fattoria verso le cinque e mezzo. Jakob sentiva lo stomaco che borbottava. Finalmente Trude si mise a cucinare. Aveva appena rot-
to le uova nella padella, che Ben era già seduto a tavola. Restò in cucina anche Jakob, perché desiderava sfruttare l'occasione per parlare con calma di tutto. Soprattutto di ciò che gli era passato per la testa durante quell'inutile passeggiata. Forse dovevano parlare alla polizia e lasciare che uno del mestiere interrogasse Ben. Ma qualsiasi cosa le dicesse, Trude non gli rispondeva, gli lanciava solo sguardi eloquenti. Jakob era sicurissimo che lei gli nascondesse qualcosa di serio. Percepiva un tremito interiore, come una corda tesa tra il cuore e lo stomaco. Nella sua mente sfilavano immagini di bambole da collezione, giovani donne, un binocolo e una pala pieghevole, un lembo di stoffa in un vaso di vetro e la giacca variopinta! C'erano da chiarire tutte quelle cose, prima che Trude esaurisse le sue ultime energie. Prima di scervellarsi ancora, voleva scoprire se Edith Stern era arrivata a casa di Lukka, quanto si era fermata da lui e dove era andata poi. Appena finito di mangiare, Jakob prese il telefono e si rivolse prima di tutto a Wolfgang Ruhpold che non fu di grande aiuto, ma che a sua volta gli raccontò della chiamata di Trude lo stesso mattino. Jakob allora tirò fuori la vecchia Mercedes dalla rimessa e si avviò da Lukka. Fu questione di minuti. Jakob cercò di prepararsi qualche frase; a Lukka non avrebbe fatto piacere sapere che lui era informato del vero motivo per cui Edith Stern era andata a trovarlo. Quando si fermò davanti alla sua casa, aveva sì e no preparato una frase d'esordio. Heinz Lukka non fu sorpreso di vederlo. Lo fece accomodare nell'enorme soggiorno sulla poltrona davanti al camino e ascoltò Jakob che gli raccontava di aver dato un passaggio, la sera prima, a una giovane americana che aveva intenzione di fargli visita. Poiché veniva da fuori e non sapeva dove passare la notte, lei aveva accettato di andare da Trude e Jakob a dormire. Jakob mentì, lo sguardo fisso sul pavimento, le mani allacciate che dondolavano tra le gambe divaricate. Lui e Trude avevano aspettato la giovane americana fino a mezzanotte; Jakob era stato sul punto di telefonargli, ma poi non lo aveva fatto, perché aveva pensato che Heinz le avesse offerto di dormire da lui o che forse la donna avesse preferito, chissà per quale motivo, lasciare al più presto il paese. In tal caso, non voleva disturbare Heinz nel bel mezzo della notte. Ben, però, quel mattino aveva trovato una giacca. E quando era tornato a casa, Jakob l'aveva subito riconosciuta. A quel punto Lukka lo interruppe, sorridendo stancamente. «Non ti preoccupare, Jakob. Quando dici che voleva lasciare il paese al più presto, hai
ragione e lo sai anche tu. La signorina Stern ti aveva spiegato ciò che voleva da me. Perlomeno, mi ha detto che ti aveva informato in proposito. E ha anche aggiunto che tu le hai raccontato la tua versione.» Jakob si sentì vagamente sollevato. La sua affermazione era stata un po' azzardata, anzi aveva persino pensato di dirgli che aveva accompagnato Edith fino al campo di granoturco, che distava solo cento metri dalla casa di Lukka. Tuttavia, non avrebbe saputo cosa ribattere se Lukka si fosse mostrato sorpreso perché nessuno si era presentato alla sua porta. Non rispose, incassando ancor più la testa nelle spalle per l'imbarazzo, e Lukka sospirò. «È stata una situazione spiacevole. Non avrei mai pensato che mi sarebbe caduta addosso una cosa del genere. Dopo più di cinquant'anni.» Emise un suono che pareva un riso amaro, oppure un singhiozzo. «Quel periodo maledetto ti resta appiccicato fino alla morte. È vero, allora, quello che ho sentito dire: che avevi trovato Edith?» «Insieme con Paul», confermò Jakob. «Perché non avete denunciato il fatto?» Jakob scrollò le spalle. «Tu perché non l'hai denunciato? Ti avrebbero certamente decorato.» Heinz si scurì in volto. Dopo alcuni istanti volle sapere: «Era solo questo che ti premeva, oppure Ben ha veramente trovato la sua giacca?» «L'ha trovata», disse Jakob. «Sennò non sarei venuto qua.» «Strano», osservò Lukka aggrottando la fronte. «Di solito Ben non va verso la strada provinciale. Lei voleva andare a Lohberg. Le ho offerto di accompagnarla, ma ha rifiutato. Non ha voluto neppure che le chiamassi un taxi. Erano solo quattro chilometri, ha detto, ed era abituata a camminare.» Jakob annuì lentamente. «Sì, lo ha detto anche a me. Dovremmo comunque avvertire la polizia.» «Di cosa?» chiese l'avvocato in tono sorpreso. «Che Ben ha trovato la sua giacca? Non credi che la polizia abbia altre cose di cui preoccuparsi in questo momento? Non hanno ancora la più pallida idea di dove si trovi la figlia di Maria.» Jakob tacque. E Heinz incalzò: «La signorina Stern non ha indossato la giacca, l'ha infilata nello zaino, sotto una cinghia. E aveva fretta di andarsene di qui. All'inizio ha persino corso, neanche avesse avuto il diavolo alle calcagna». «Allora l'avrà veramente persa», commentò Jakob. Lukka sembrava non capire. «Che cos'altro potrebbe essere accaduto, al-
trimenti?» La voce divenne pressante. «Jakob, stai forse pensando che Ben gliel'abbia potuta rubare?» Jakob non reagì e Heinz annuì con amarezza. «Che cosa pensi veramente di lui? Non è stato qui, Jakob», lo rassicurò. «L'ho accompagnata alla porta e sono stato a guardarla andarsene. E non ho visto tuo figlio. Se fosse stato qui, mi avrebbe visto e sarebbe passato da me. Viene sempre, quando mi vede.» «Non penso che Ben abbia fatto nulla di male», obiettò Jakob, irritato. «È stato nel suo letto tutta la notte. Trude aveva male al cuore e non riusciva a stare sdraiata, così girava per casa e l'ha controllato un paio di volte.» Heinz annuì di nuovo e ridacchiò sprezzante. «E allora, se le cose stanno così, che cosa hai pensato? I due che hanno accompagnato Maria sono di nuovo liberi. Ma non credo che se ne andassero in giro da queste parti e passassero proprio al momento giusto per tirare su una giovane americana; be', non lo credo proprio.» Quasi senza volerlo, Jakob gli raccontò quanto aveva sentito dire la sera prima nell'osteria di Ruhpold. Heinz ascoltò, divertito e interessato. «Ma guarda un po'», osservò infine. «Dieter Kleu. Che cosa dire: talis pater, talis filius? Ma quel ragazzo non ha ancora diciotto anni. Penserei piuttosto a Bruno, semmai. Quello l'ho visto più di una volta andare di notte alla Fossa o al Boschetto. E allora ti chiedo: che cosa ci fa là fuori di notte, quello? Guarda crescere le sue barbabietole? Probabilmente in questo momento non ha per le mani nessuno che gli faccia trascorrere qualche oretta gradevole, finito il lavoro. E per non far pensare a Renate che perde l'esercizio, si fa un paio di giri qui intorno. Magari, se gli passasse davanti qualcosa di piacevole...» Aveva un tono sprezzante e Jakob pensò che non era un argomento su cui scherzare. Si accomiatò, abbastanza tranquillizzato, ma anche ben deciso ad agire. Anche se la giacca fosse scivolata cento volte dallo zaino senza che Edith se ne fosse accorta, tacere il fatto che Ben l'aveva trovata era come nascondere qualcosa. E non era necessario, visto che Bruno Kleu se ne andava in giro per i campi di notte. Jakob lasciò la casa di Lukka e si diresse alla fattoria dei Lässler. Tutta la famiglia stava bevendo il caffè in soggiorno. Jakob avrebbe preferito parlare da solo con Paul, ma nessuno accennò a lasciare la stanza. Jakob raccontò concisamente chi aveva incontrato all'osteria di Ruhpold e quel che Ben aveva trovato la mattina.
Paul scosse più volte la testa. «Edith Stern», mormorò sconcertato. «Non è possibile. E Heinz, che cosa ha detto?» Jakob raccontò tutto, tralasciando le attività notturne di Bruno Kleu. L'amico ascoltò senza battere ciglio, poi chiese di nuovo della giacca. «Perduta», commentò, riflettendo. «E tu, ci credi?» «Non so più che pensare», ammise Jakob. «E non liquiderei la cosa così, come fa Heinz.» «Credi che sia successo qualcosa a quella donna?» chiese Antonia. «No», disse Jakob. «Vorrei solo sapere dov'è andata a finire. Forse dovremmo chiedere a Lohberg, alla stazione.» «A quest'ora non trovi nessuno», dichiarò Paul. «E nessuno probabilmente l'avrà vista. Lo sportello è chiuso, il sabato. Dovresti chiamare la polizia.» «Heinz pensa che non sia necessario.» Paul sogghignò, preoccupato. «Heinz pensa e Trude dice. Ora ti voglio dire una cosa, Jakob. Non ci scommetterei nulla, su quello che Heinz pensa e Trude dice. Hai visto con i tuoi occhi Ben nel suo letto per tutta la notte? No! Ecco perché sei preoccupato. Perché sai benissimo che non credi a tutto quel che Trude ti dice.» Prima che Jakob potesse ribattere, Paul trasse un lungo respiro guardando la moglie, quasi a chiedere il suo tacito sostegno. «Non ho niente contro Ben, Jakob. Anche Antonia però ritiene che sarebbe meglio trattenerlo a casa per un po'. Gioca a prendersi con le ragazze, le rincorre e le butta quasi per terra. E se lo facesse con degli estranei... Noi lo conosciamo da sempre. E non fa nulla di male. Ma non sappiamo quel che si agita dentro di lui. E... Be', io le mie due ragazze le ho avvertite. Preferisco che si tengano alla larga da lui per il momento. Non vorrei trovare una di loro nello stato in cui è stata trovata Ursula Mohn otto anni fa.» Le mie due ragazze! Fu una staffilata al cuore per Jakob. Una delle due era sua figlia. E Ursula Mohn, che Paul citava... Era troppo. «Che cosa c'entrava lui con quella storia?» esclamò Jakob con veemenza. «Nulla. Dovresti saperlo meglio di me.» «Io so qualcosa meglio di te», replicò Paul, poi tacque incontrando lo sguardo ammonitore di Antonia. LA DECISIONE DI ANTONIA Trude aveva sempre fatto di tutto per tenere Ben lontano dai guai e il re-
sto del mondo lontano da lui. Non aveva avuto molto successo. Per anni Antonia aveva assistito in silenzio a quegli sforzi e aveva pensato spesso che, pur con tutta la buona volontà, la madre di Ben commetteva grossi errori. Talvolta Antonia si chiedeva come sarebbe diventato Ben, se a suo tempo si fosse offerta di tenerlo con sé per un po' al posto della sorellina appena nata. Se fosse cresciuto con i suoi figli maschi, Ben avrebbe trovato in loro un esempio. Andreas e Achim non erano certo agnellini, tuttavia il contatto con loro sarebbe stato più salutare di quello con due sorelle ostili. Anche Paul sarebbe stato un padre migliore di Jakob, il quale, nella sua impotenza frustrata, si lasciava andare spesso alla collera. E Antonia non lo avrebbe tenuto nascosto per vergogna o per paura. Riflettendo a questo proposito, spesso veniva assalita dai sensi di colpa. Fu in tale stato d'animo che, nella primavera dell'85, propose a Trude: «Perché non lo porti da me di pomeriggio? Non mi disturba averlo qui intorno. E a te fa comodo per due motivi: non sta in paese e sta con gli altri bambini. È importante, Trude. Non puoi tenerlo nascosto agli altri per tutta la vita. Deve imparare». «Non so», fu la risposta della madre di Ben, incerta e sorpresa dalla proposta. «Non posso darti tutto questo disturbo. Non avresti un attimo di tregua.» «Lascia fare a me», obiettò l'amica, sollevata per aver finalmente preso una decisione concreta. «Me la caverò. Non ti devi preoccupare per le due piccole. Lo vedi anche tu: Ben non torcerebbe loro un capello. Anche i maschi se la caveranno. Parlerò con Annette, le dirò di non sgridarlo se le sembra che si comporti da sciocco. Vedrai, Trude, se nessuno gli fa del male, è innocuo come un agnellino. E forse dimenticherà quello che ha subito finora.» Antonia non aveva mai saputo chi avesse provocato la caduta di Ben nel Pozzo e la sua successiva degenza in ospedale. Osservando il suo comportamento, aveva tratto delle conclusioni e si era spinta molto vicina alla verità. Giacché Ben manifestava la sua collera nei confronti delle ragazzine, ne dedusse che fosse stato aggredito e gettato nel Pozzo da una di loro. Ma certamente non avrebbe mai pensato alla dolce Bärbel, ingenua com'era. La proposta di Antonia era allettante, Trude dovette ammetterlo. Sarebbe stato un sollievo poter disporre di alcune ore di tranquillità, durante le quali non avrebbe dovuto correre avanti e indietro come era costretta a fare adesso; ore durante le quali lo sapeva al sicuro presso persone che amava e
che lo accoglievano a braccia aperte. Nel maggio dell'85 Trude lo accompagnò per la prima volta a trascorrere un pomeriggio alla fattoria dei Lässler; e in seguito divenne una consuetudine. Cercava sempre di fermarsi da loro una o due ore, per vedere come si comportava il figlio e perché non creasse problemi ad Antonia. All'inizio soffrì nel vedere quanto poteva essere diverso Ben con i Lässler. Tranquillo, dolce, paziente, una testa vuota dalla vista di falco e dal temperamento di un vecchio cavallo da tiro. Il piano di Antonia funzionava a meraviglia. Una volta Ben sedette accanto ad Andreas al tavolo della cucina e guardò affascinato come smontava e rimontava la radio a transistor di Annette. Quando cadde una minuscola vite per terra, fu Ben a trovarla sotto la credenza. Un'altra volta attraversò il porcile con Achim e lo osservò mentre dava il mangime ai maiali. Achim trascinava i sacchi pesanti sul pavimento, mentre Ben se li gettava allegramente sulle spalle. Con Tanja e Britta poi era sempre delicato. Annette e l'amica, invece, rappresentavano il nervo scoperto di Ben. Non appena gli si avvicinavano, lui iniziava ad agitarsi e a dare in escandescenze. Con il tempo, la situazione cambiò. Ogni volta che si comportava da selvaggio, le ragazze lo ignoravano e, non appena smetteva, loro, su indicazione di Antonia, gli davano un dolcetto. In fondo era un ragionamento psicologico spicciolo: imparare a comportarsi educatamente grazie a una lode o a un premio. Ben imparò, come qualsiasi altro bambino. Verso sera, Andreas e Achim lo riportavano al podere dei genitori, e Ben si fermava tra la vegetazione selvaggia accanto al giardino di Gerta, saliva nella casa sull'albero e spiava dalle fessure finché non vedeva scomparire in lontananza i due ragazzi. Poi trascorreva un po' di tempo cercando di imitare tutto ciò che aveva visto fare nella fattoria durante il pomeriggio. Nel fienile aveva trovato un vecchio secchio che, riempito all'abbeveratoio, usò per portare l'acqua e innaffiare le piante selvatiche. Curava i suoi cardi come altri fanno con le rose. Nel prato delle mele raccolse tutti i frutti caduti a terra e li seppellì, tanto che nella primavera dell'86 erano germogliati molti getti di melo. Marcirono tutti, perché lui li annegò letteralmente nell'acqua. Jakob se lo portò nei campi più volte nella speranza che forse, se dovutamente istruito, sarebbe stato possibile fargli imparare un lavoro di qualche utilità. Ma fu fatica sprecata: qualsiasi occupazione richiedeva l'uso di macchine e Ben le temeva più delle botte del padre. Dopo alcuni tentativi inutili, Jakob finì per lasciarlo a casa. Così Ben si
ritirava nel suo regno e vi trascorreva la mattinata, finché Trude non gli proponeva di trascorrere il pomeriggio alla fattoria dei Lässler, a patto che restasse in giardino e lei non fosse costretta ad andarlo a cercare in paese. Quella promessa sortiva il suo effetto. Finché Trude non lo veniva a chiamare per il pranzo, Ben non osava neppure mettere un piede nel Feldweg. Proprio quella nuova sensazione di tranquillità convinse Jakob che una fattoria in aperta campagna sarebbe stata una soluzione giusta. Inoltre, una decisione presa senza costrizione, liberamente e senza la pressione da parte della giunta e dei cosiddetti buoni amici, era una decisione che aveva un suo valore. Nell'estate dell'86 Jakob firmò il contratto per una solida casa unifamiliare che comprendeva fienile e edifici annessi: con la garanzia che i lavori sarebbero stati eseguiti al più presto e che entro l'inizio dell'inverno la struttura avrebbe già avuto il tetto. I lavori procedevano a ritmo serrato e Jakob si sentiva pieno di slancio. Ben a spasso per i campi, in casa solo lui e Trude, e forse, chissà, per un paio di giorni oppure per sempre, ci sarebbe stata anche la piccola Tanja. Prima del trasloco, Bärbel avrebbe affittato una camera ammobiliata a Lohberg, per non essere troppo lontana dal posto di lavoro; era apprendista contabile negli uffici del magazzino Wilmrod. Una volta terminate le occupazioni di casa e nella stalla, Trude andava spesso a seguire i lavori, e ogni volta si portava dietro Ben. Se ci andava in auto, lui le sedeva accanto. Gli piaceva andare in auto con lei, ma solo per percorsi brevi. Se lo faceva sedere davanti, non si agitava. Se andava in bicicletta, lui le trotterellava accanto. Allora lei percorreva la strada che, passando per il Boschetto e la Fossa, conduceva alla fattoria dei Lässler, lasciandolo poi gironzolare all'aperto perché si abituasse ai dintorni. Solitamente, Ben correva in mezzo alla casa in costruzione e trasportava dei sassi da una parte all'altra del cantiere; poi, a mani nude, spiaccicava la malta dove non doveva oppure camminava sul pavimento posato di fresco finché il capomastro non lo scacciava. Infine correva sul campo, esplorando territori dove non aveva mai osato avventurarsi. Se vedeva Jakob, Paul e Bruno lavorare in un campo, stava nei dintorni e scavava con la pala che Trude gli aveva regalato per il suo compleanno; faceva dei buchi sul limitare del campo e puntualmente li ricopriva. Allorché gli uomini tornavano a casa la sera, lui li seguiva a debita distanza dietro la mietitrebbia o il trattore e con loro faceva ritorno in paese. Traslocarono nell'aprile dell'87. Per Trude fu l'inizio di una nuova vita. Non aveva più vicini, tutti gli elementi di disturbo erano stati eliminati.
Ben era come lei aveva sempre sognato che fosse: il ragazzone che si dimenava ridendo sul pavimento se la madre gli faceva il solletico e che la sera strofinava la guancia contro la sua spalla; e che un paio di pomeriggi la settimana andava alla fattoria dei Lässler. Spesso ci andava con la scatola delle costruzioni sotto il braccio, quella che Toni e Illa gli avevano regalato per la sua festa. Non sapeva contare fino a tre, però mostrava alla sorellina e a Britta come spingere le figure di legno nei fori. Dopo aver trascorso un pomeriggio con Ben, Antonia disse più di una volta a Paul: «Questa è stata la cosa migliore che io potessi fare. Avrei dovuto pensarci molto prima e non si sarebbe arrivati a questo punto. Che nessuno mi venga a dire che è cattivo. È un agnellino, basta solo trattarlo con gentilezza». Antonia fu molto felice quando, nel maggio dell'87, Trude e Jakob realizzarono finalmente un loro sogno. Al tiro a segno, Jakob non aveva colpito l'uccello per puro caso: tutto era stato organizzato e deciso fin nei minimi particolari. Diventare re degli Schützen non significava solo festeggiare la vincita di un premio ambito, bisognava potersi permettere una festa piuttosto costosa. Ma gli Schlösser avevano risparmiato, limitandosi nelle spese per la nuova casa. Fu soprattutto merito di Trude. Rinunciò a una moderna cucina componibile e a una nuova camera da letto; si accontentò dei vecchi rivestimenti per i divani del soggiorno, risparmiò e tenne Ben sempre occupato. Per ogni bocciolo di cardo, per ogni coccio che le portava dai campi, lei lo abbracciava. «Sono proprio contenta che tu abbia pensato a me. Sei il mio buon Ben, il migliore.» Quando veniva lodato, Ben avvampava fino alle orecchie e il giorno seguente ripartiva alla ricerca di qualche altro tesoro per la madre. Talvolta la nostalgia lo assaliva e allora correva alla fattoria dei Lässler, saltellava come un caprone selvaggio con Tanja o Britta sulla schiena, giocava con loro a nascondino o faceva qualsiasi cosa gli venisse in mente. Mentre Trude provava il vestito di reginetta che avrebbe indossato alla festa, Ben stava accucciato accanto al letto di Antonia, con il cuore palpitante, aspettando con impazienza il momento in cui una voce infantile avrebbe gridato: «L'ho trovato!» Trude si chiedeva se avrebbe dovuto portarlo con sé sulla carrozza aperta o piuttosto lasciarlo da Antonia, e intanto Ben esplorava la Fossa, rovistava tra le macerie e trovava un piccolo oggetto sudicio che, dopo che l'ebbe rigirato tra le dita e strofinato sui pantaloni, si rivelò prezioso. Era
l'anello di fidanzamento della madre di Richard Kressmann. Ben non lo sapeva, lo vedeva solo brillare al sole e di sicuro sarebbe stato lodato per la sua scoperta. Fu così. Trude mise da parte l'anello per restituirlo al legittimo proprietario e, quando lo fece, Richard si commosse. In premio, Trude decise di concedere il giro in carrozza a Ben, gli prese le misure e il giorno successivo ordinò un vestito anche per lui per la festa. Un venerdì pomeriggio dell'agosto dell'87, Andreas Lässler s'incontrò con Sabine Wilmrod nel Boschetto. Sabine aveva un anno di più del figlio maggiore di Paul ed era l'unica figlia di un uomo benestante; sfoggiava già la sua piccola utilitaria e decise di tornare a casa passando per la nuova fattoria degli Schlösser, mentre Andreas se ne andava a zonzo sul Feldweg, costeggiando la Fossa sino a casa. Durante il percorso, Sabine notò il movimento di molte persone nei dintorni, tutte in stato di evidente agitazione. Un'ambulanza veniva verso di lei e un megafono invitava la popolazione ad aiutare nelle ricerche della sedicenne Ursula Mohn, descritta come una giovane indifesa, incapace persino di fornire il proprio nome. Chi avesse visto la ragazza doveva trattenerla e mettersi in contatto o direttamente con la famiglia Mohn, residente nel Lerchenweg, o con la polizia di Lohberg. Come ebbe a raccontare in seguito Thea Kressmann, la signora Mohn che non osava più far circolare da sola per il paese la figlia dopo che si erano verificati alcuni spiacevoli incidenti - quel pomeriggio si era recata dal medico con Ursula. Mentre la madre veniva visitata, la ragazza era rimasta in sala d'aspetto con un gioco di pazienza ma, poco dopo, aveva lasciato la sala, senza che nessuno dei presenti l'avesse trattenuta. La signorina all'accettazione in quel momento stava telefonando e non si accorse di chi aveva lasciato l'ambulatorio. Due passanti riferirono di averla vista seduta su una panchina nella piazza del Mercato poco più tardi, con la camicetta aperta sul seno. Nessuno sapeva dove fosse andata dopo la ragazza, né se fosse salita su un'auto o se qualcuno le avesse rivolto la parola. Quando Andreas Lässler raggiunse la Fossa erano le otto passate da qualche minuto e le ricerche di Ursula avevano già avuto inizio da un paio d'ore. Il ragazzo notò una sagoma china, intenta a rovistare tra le macerie. Scese nella Fossa per riportare a casa Ben e, avvicinatosi, vide che si stava dando da fare intorno al corpo senza vita di una ragazza. Terrorizzato, Andreas corse via e in soli dieci minuti raggiunse la casa
dei genitori. Voleva precipitarsi da Antonia, ma incappò in suo padre davanti alla porta, gli si gettò tra le braccia e balbettando, visibilmente sotto shock, spiegò quel che aveva visto. «Ben è nella Fossa. Con una ragazza. Nuda. Credo che sia morta.» Come ebbe a constatare Paul Lässler poco dopo, Ursula Mohn non era morta, anche se era coperta di sangue. A prima vista, lui contò una quindicina di ferite di arma da taglio. In realtà erano molte di più. Il corpo era cosparso di foglie di varie piante e non appena Paul, con molta cautela, ne sollevò una, scoprì sotto un'altra ferita. Il polso era ancora percettibile, il respiro regolare, anche se debole. Non ritenne necessario rianimarla e, viste le ferite che aveva, esitava a fare alcunché. Ben si accucciò accanto a Ursula; teneva in mano un mazzetto di piantine. La pala giaceva abbandonata più in là, tra le erbacce. Guardò con attenzione le mani tremanti di Paul e poi una delle ferite. «Male», disse. «Già», confermò l'uomo con voce strozzata, poi si rialzò da terra guardandosi intorno. Non vide nessun indumento. A circa dieci metri di distanza c'era della terra smossa, dove era stata scavata una buca poco profonda. La lunghezza corrispondeva a quella di un corpo umano. Paul chiuse dolorosamente gli occhi per un momento, poi guardò la pala pieghevole a terra e, indicando la fossa, chiese: «Hai scavato tu quella buca?» Ben non rispondeva mai con un sì o con un no. Se gli si faceva una domanda, annuiva oppure scuoteva il capo. Ma anche Paul, esattamente come Trude tanti anni prima, aveva ormai compreso che non era importante la domanda, quanto il tono con cui la si faceva; perciò aveva tentato di dare un tono neutro alla domanda, ma da Ben non ottenne nessuna reazione. Il ragazzo alzò le piantine, batté le foglie e disse: «Ben fatto». «Alzati», gli intimò Paul. «Hai un coltello?» Ben si alzò in piedi e scosse la testa. «Via le mani», disse, aggiungendo con voce sommessa: «Carogna». L'uomo annuì. «È un agnellino, basta solo trattarlo con gentilezza», diceva sempre Antonia. E se non lo si trattava con gentilezza? Paul pensò a tutte le ragazze che Ben inseguiva per il paese sbraitando, e davanti alle quali aveva agitato un coltello. Posò lo sguardo sul corpo insanguinato, diede ancora un'occhiata alla pala e alla buca, e si rivolse nuovamente a Ben. Faceva fatica a esprimersi usando il suo linguaggio e lo fece solo nella speranza di ottenere una risposta comprensibile. «Hai con te un via le mani? Hai fatto male a
carogna?» Ben fece nuovamente un segno di diniego, però questa volta più energico e insistito, notò Paul. Emise anche un suono gutturale, socchiudendo gli occhi come aveva visto fare ai gatti. «Amico», disse. «Sì, sono tuo amico», dichiarò Paul, sentendosi la bocca impastata. «Fammi vedere nelle tasche.» Si sentì un verme: comportarsi in quel modo era contrario alla sua natura, soprattutto pensando alle conseguenze che ne potevano derivare, se avesse trovato qualcosa. Ben si lasciò perquisire con pazienza. Paul non trovò nessun coltello. Trovò solo un gioco di pazienza, un oggettino di plastica da pochi soldi, di quelli che si trovavano nelle buste sorpresa delle fiere. Era una scatoletta trasparente, sul cui fondo era fissato un cartoncino bucherellato incollato alla base. Bisognava far entrare nei tre buchi tre piccole sfere argentate. Due sfere rappresentavano gli occhi di un gatto, la terza la punta del naso. Paul non diede importanza al gioco. Con evidente sollievo, Ben si riprese la scatoletta. «Ben fatto», disse poi, muovendo con attenzione la mano finché una sfera non entrò al posto giusto. Alcuni minuti dopo Antonia arrivò in auto alla Fossa. Andreas era a casa e stava aspettando la polizia e il medico del pronto soccorso. Era stato istruito dalla madre su ciò che doveva dire e ciò che doveva tacere. Antonia utilizzò il tempo che le restava prima dell'arrivo degli inquirenti per far sparire nel portabagagli dell'auto la pala di Ben, tentando di convincere contemporaneamente Paul che stava agendo per il meglio. «Non è stato lui, Paul! Non farebbe mai una cosa del genere! Guarda: ha perfino cercato di fasciarla con queste foglie.» Suo marito non voleva assolutamente mentire alla polizia. Se Ben non aveva ferito la ragazza, sostenne, la polizia lo avrebbe constatato da sola. «E se invece non lo fanno?» ribatté Antonia. «Potrebbero rivalersi su di lui solo perché non trovano nessun altro. Hai idea delle chiacchiere che ci sarebbero in paese se Ben fosse coinvolto in questa faccenda? Pensa a Trude. Vorresti farle una cosa simile?» Certo che Paul non voleva, però non riusciva a dimenticare quel suono gutturale di Ben. Cercava di imitare il rumore di un motore? Forse aveva sentito o visto un'auto? «E se anche fosse?» ribatté Antonia. «Credi che sia in grado di descrivere un'auto con il numero di targa? Andreas potrebbe dire di aver visto qualcosa. Anzi, meglio ancora, tu. Sì, facciamo così. Tu hai visto un'auto dall'altra parte, mentre stavi correndo qui.»
Paul cedette, come sempre quando Antonia prendeva una decisione. La aiutò a trascinare sul sedile anteriore un Ben recalcitrante; e, partita la moglie, tolse dal corpo di Ursula Mohn tutte le foglie e le sparpagliò sul terreno. In seguito proprio quel particolare delle foglie sporche di sangue ci mise di fronte a un enigma. Ma non brancolammo a lungo nel buio: pareva che la ragazza ferita fosse andata in giro per la Fossa; anzi, sembrava probabile che Ursula avesse tentato di sfuggire al suo aggressore. La ragazza handicappata e gravemente ferita costituì il caso che mi condusse in paese per la prima volta. Contrariamente a quanto sarebbe accaduto nell'estate del '95, nel mese di agosto dell'87 esisteva il corpo del reato. Noi, cioè il collega Dirk Schumann e io, fummo informati immediatamente. Poco dopo le nove di sera giungemmo alla Fossa; nello stesso momento, Ursula Mohn si trovava sul tavolo operatorio e Ben nella vasca da bagno. Solo nove anni dopo seppi che Trude aveva infilato in lavatrice la tuta insanguinata di Ben. Fortunatamente Jakob era ancora fuori quando Antonia accompagnò a casa Ben e spiegò la situazione alla madre del ragazzo. Allora non sapevamo che Ben era stato alla Fossa. Nel 1987 non sapevo neppure della sua esistenza. Le affermazioni di Andreas e Paul Lässler erano scarse, tuttavia non c'era motivo di metterle in dubbio. Il ragazzo raccontò spontaneamente del suo appuntamento con Sabine Wilmrod e del percorso fatto sulla via del ritorno lungo la Fossa. E, come Antonia aveva preteso, Paul riferì del rombo di un motore. Eravamo partiti dal presupposto che Andreas con il suo arrivo avesse messo in fuga l'autore dell'aggressione. Poteva essere fuggito, non visto, tra le montagne di macerie e la sterpaglia. Poi aveva aspettato nella sua auto, finché Andreas non era stato abbastanza lontano. Trovammo gli abiti della ragazza il giorno successivo, sotto la terra smossa della buca poco profonda. Non trovammo mai l'arma del delitto, né l'autore dell'aggressione. Sulla base delle dichiarazioni fatte e dei riscontri sul luogo del crimine, la situazione ci apparve in questi termini: l'aggressore aveva visto Ursula Mohn nella piazza del Mercato e l'aveva fatta salire in auto senza farsi notare. Era uscito dal paese e si era avvicinato alla Fossa da dietro, cosicché l'auto non era visibile e non si sarebbero notate le impronte degli pneumatici. Il viottolo retrostante, infatti, si trovava in condizioni peggiori delle
strade che tutti percorrevano normalmente. L'aggressore poteva rischiare solo se fosse passato davanti alla fattoria dei Lässler, sia all'andata sia al ritorno. Effettivamente, Antonia non aveva sentito nessuna auto. Era in casa, presa nelle sue occupazioni. Nel tardo pomeriggio Paul e Achim Lässler erano impegnati nel porcile e non avevano notato nulla. Nessuno avrebbe fatto comunque caso a un'auto di passaggio. A circa un chilometro di distanza, sarebbe stato impossibile udire le grida di Ursula; inoltre, nessuno quel giorno aveva lavorato nei campi vicini alla Fossa. Non c'erano testimoni! Solo qualcuno che conoscesse bene le abitudini della gente del luogo e che conoscesse bene la zona poteva sfruttare quell'occasione propizia. Date le dichiarazioni di Paul e di suo figlio, non prendemmo neppure in considerazione l'eventualità che Ursula fosse arrivata da sola nei dintorni della Fossa e che solo allora avesse incontrato il suo aggressore, anche se, in puri termini di tempo, le sarebbe stato possibile arrivare a piedi sul posto; tra il momento della scomparsa della ragazza e il momento in cui fu ritrovata, erano trascorse parecchie ore. Nessuno citò la scatolina di plastica con cui Ursula aveva giocherellato nell'ambulatorio e che quella stessa sera riempì di sorpresa Trude. È da escludere che Ben avesse semplicemente trovato il gioco. Da solo, non avrebbe mai capito che bisognava far entrare le sfere nei forellini. Spesso, però, i piccoli dettagli sfuggono alla memoria, mentre le menzogne, se credibili, vanificano gli sforzi degli inquirenti. Quando Antonia, molti anni dopo, rivelò la verità, le chiesi esterrefatta: «Che cosa pensava di ottenere con tutto ciò?» «Non volevo che Trude si agitasse», mi rispose. «C'erano state tante chiacchiere. Pensavo che se Ben avesse avuto a che fare con la polizia...» E poiché lasciò la frase a metà, le chiesi: «E le ragazze del paese, a loro non ha pensato?» Antonia tacque, facendo un gesto sconsolato, e poi iniziò a piangere. La vedo ancora di fronte a me. 26 AGOSTO 1995 Mentre Jakob tentava di scoprire dove fosse andata a finire l'americana dal nome carico di presagi, Trude sedeva al tavolo di cucina. Le riusciva difficile pensare. Dopo che il marito era uscito, Ben si era rintanato nella
sua stanza e si era steso bocconi sul letto con il viso girato verso la finestra. Trude ora sapeva perché evitava la sua presenza. Se non si fosse sentita così svuotata, forse avrebbe pianto. Sperava solo che lui un giorno le perdonasse quelle ferite sulla schiena, come sempre aveva fatto, perché altrimenti chi gli avrebbe spalmato le sue fette di pane, o lavato il sedere, o abbottonato la camicia? Trascorso un po' di tempo, quella sensazione si attenuò e Trude, passando per la cantina, uscì, infilò gli stivali di gomma, prese il forcone del letame e andò nel porcile per distrarsi con il lavoro. Ormai, rispetto al passato, non aveva più molto da fare nella stalla, con due soli maiali. Erano animali affezionati come cani, si strusciavano contro le sue gambe e la spingevano con il muso. Trude strofinò loro la schiena grassa, prima all'uno e poi all'altro, dando libero corso alla sua disperazione. «Deve aver caricato qualcosa sulle spalle», disse a se stessa e ai maiali. Qualcuno con la sua voce rispose: «Certo che deve averlo fatto. Era un corpo che sanguinava forte». Le pareva che nella stalla ci fosse qualcun altro, oltre a lei e ai maiali. Le stava sempre alle spalle, cosicché lei non lo poteva vedere. E usava la sua voce. Doveva essere la sua coscienza. «Non credo», obiettò allora Trude alla sua coscienza. «Doveva essere qualcosa di più piccolo. Se avesse portato la donna sulle spalle, sarebbe stato sporco anche davanti e sulle braccia. Ma era pulito, come i suoi pantaloni. E la giacca non si è sporcata. Quando se l'è messa sulle spalle, forse la camicia era già asciutta.» Nel frattempo caricò la paglia sporca sulla carriola e poco dopo si recò nel fienile per prendere dal soppalco la paglia pulita. Paul non aveva nulla in contrario se usava la sua. Nella sua nuova, moderna porcilaia non ne aveva praticamente più bisogno. Dopo che ebbe salito la scala a pioli, notò sul tavolato accanto all'abbaino una macchia scura. Comprese di che si trattava solo dopo aver sollevato un cumulo di paglia: eccolo là sotto, uno zaino di perlon blu scuro intriso anch'esso di sangue rappreso, come la camicia di Ben. Trude dimenticò completamente i due maiali e il pavimento di cemento. Quello zaino, rigido di sangue rappreso, metteva la parola fine a ogni sua speranza. Era grosso, ma non abbastanza da trasportarvi un corpo umano, perlomeno non integro. A pezzi però sì, pensò Trude sentendo una morsa che le stringeva la gola, mentre si vedeva circondata da dita mozze, gambe e tronchi staccati e organi eviscerati. Un macellaio, un carnefice, un Haarmann!
Si ricordò la filastrocca che cantavano da bambini. Non rammentava la vicenda, accaduta prima che lei nascesse. Sapeva solo ciò che le era stato raccontato. Cose terrificanti: ragazzini e giovanotti passati nel tritacarne e poi insaccati come salsicce. Ne avevano fatto una filastrocca con cui schernivano i loro compagni di gioco. «Aspetta, aspetta un pochino, poi Haarmann viene anche da te. Con la sua mannaia in mano picchierà alla tua porta.» Mannaia! Dita mozzate! Ancora una volta, il suo cuore di madre volle crederlo innocente. Mozzate, non tagliate, ne era assolutamente certa; la vista delle ferite le aveva ricordato il dito di suo padre, che era stato mozzato di netto. Ben aveva tutt'al più un coltello. Certo, per quello si poteva anche usare un coltello più grosso. Ma la notte prima lui aveva un coltello da tavola con sé, di quelli con la lama ondulata e arrotondata in punta. Trude ritenne impossibile che suo figlio con quella lama avesse potuto fare a pezzi un corpo per poi trasportarlo in uno zaino. Trude ignorava che da quindici anni Ben aveva un coltello a serramanico che talvolta teneva nascosto proprio sotto la paglia del soppalco, oppure fuori, in una buca nel terreno. In tutti quegli anni, lei non aveva mai visto l'arma che, con molta probabilità, aveva ucciso Althea Belashi e che Ben aveva trovato nel giardino di Gerta o, forse, nel Pozzo. Sebbene avesse solo sette anni, a quel tempo Ben comprendeva perfettamente che la madre gli avrebbe sequestrato immediatamente quel suo tesoro, se l'avesse visto. Trude si chinò, afferrò una bretella coperta di impronte digitali - esattamente come lo era stata alcune settimane prima la borsa di Svenja Krahl e, come un automa, si trascinò dietro lo zaino irrigidito. Ancora non sapeva bene che cosa avrebbe fatto, mentre entrava in casa e saliva verso la camera del figlio. Poi il resto venne da sé. Aprì la porta, guardò in direzione del letto con occhi colmi d'affetto e disse: «Tu sei sempre il mio caro Ben. Sei il migliore. Fammi vedere dove hai messo quel che c'era qui dentro». E intanto tese davanti a sé la mano che stringeva lo zaino. «Se lo farai, avrai qualcosa di buono in premio. Una fetta di torta da Sibylle e un grosso gelato. Vieni, non ti farò del male, stai tranquillo. E non te lo porto via. Non lo voglio. Voglio solo vedere dov'è.» Lui voltò la testa dall'altra parte e non ci fu verso di convincerlo. Per riuscire a farlo alzare, Trude dovette andare a prendere un gelato di vaniglia dal congelatore. Ne approfittò per ficcare lo zaino sotto una montagna di vecchi indumenti destinati alla raccolta di abiti smessi. Non c'era tempo
per bruciarlo. Ben si mise a correre davanti a Trude, il cono di gelato stretto in mano, non in direzione della Fossa, come supponeva lei, ma verso il prato delle mele. Lei ansimava annaspando, mentre lo rincorreva lungo il filo spinato, pensando che si sarebbe fermato per strisciarvi sotto. Invece Ben arrivò all'ultimo palo, si fermò e si voltò verso la madre. Vedendola dietro di sé, si spinse prudentemente contro la recinzione e dopo alcuni metri entrò nella fitta vegetazione di rovi che nel passato costituivano il giardino di Gerta. Trude riusciva a scorgere solo la testa del figlio sopra gli arbusti. Si dirigeva verso il pero. Ho sbagliato a dargli subito il gelato, pensò. «No, no», esclamò, premendosi il petto dolorante con entrambe le mani. «Torna qui, non devi arrampicarti sull'albero.» Dalla tasca del grembiule estrasse una barretta di cioccolato alle nocciole perché lui tornasse sul viottolo. «Andiamo alla Fossa», gli disse. «Così mi fai vedere dove sei stato stamattina, dove trovi tutte quelle belle cose.» Ben mangiò il cioccolato, poi tornò indietro di corsa sino alla fattoria, e proseguì. Per più di due chilometri. Trude era allo stremo, continuava a fermarsi per riprendere fiato. Ben allora si fermava e ricominciava a correre solo quando vedeva la madre dietro di sé. Raggiunsero i margini della Fossa dopo più di un'ora. Ben si voltò a guardarla, impaziente. Trude percorse arrancando gli ultimi metri e si arrestò sul ciglio della Fossa, mentre Ben scendeva lungo la scarpata. Lei riprese fiato, poi chiese: «Dove l'hai sepolto?» Perché lui capisse ciò che voleva vedere, aggiunse: «Dov'è la... carogna? Era nello zaino. Dove l'hai messa?» Ben, in piedi a circa quindici metri da lei, accanto a una montagna di macerie ricoperte di muschio, la guardava da sotto in su. Sembrava che volesse dire qualcosa; invece, si rimise in movimento e risalì nuovamente il pendio. Iniziò a percorrere il sentiero che conduceva alla fattoria dei Lässler. Trude lo seguiva, annaspando disperatamente in cerca di un po' d'aria. Vide la vecchia Mercedes di Jakob davanti alla casa dei Lässler. Pensò di fermarsi da Antonia per riprendere fiato e farsi riaccompagnare a casa da Jakob. Ma poi avrebbe dovuto spiegare dov'era stata e che cosa aveva cercato... Riprese a correre. «Non correre così, Ben», ansimò. «Non ce la faccio più.» Ancora cento metri, poi duecento; Ben l'aspettava scrutandola preoccupato. «Male?» le chiese.
«Sì, un po'.» Trude si massaggiò il costato, dove sentiva le fitte e un bruciore insistente. «È il cuore. Ma ora va meglio. Solo non riesco a correre come te. Quanto ci vuole ancora? Dove mi stai portando?» «Carogna», le rispose. Trude restò immobile, il cuore aveva perso un battito. Sentì una vertigine pervaderle il cervello e serrò gli occhi: intorno le danzavano una borsa, due dita mozzate, uno slip giallo fosforescente e lo zaino blu, impregnato di sangue. Dietro al costato quel pulsare sordo ricominciò, la testa le ronzava come se fosse in piena tempesta. Carogna! Mancavano quattrocento metri al granoturco. Ben correva, lei lo seguiva con i piedi che sembravano di piombo, nel capo quell'orribile fruscio, il ronzio continuo. Improvvisamente, trasalì: la Mercedes di Jakob le si era fermata accanto. Non l'aveva sentita arrivare. Non appena si fu ripresa dallo spavento, salì nell'auto, grata di non dover continuare a correre e soprattutto di non aver dovuto vedere ciò che il figlio voleva mostrarle. Domani, pensava Trude, oppure lunedì, quando mi sentirò meglio e Jakob andrà a lavorare, proveremo ancora. Non riuscirono a convincere Ben a salire in auto. Suo padre guidò lentamente davanti a lui, accertandosi nel retrovisore che li seguisse, poi chiese a Trude che cosa stesse facendo là fuori. «Pensavo che forse mi avrebbe fatto vedere dove ha trovato la giacca», spiegò la donna. Jakob la incalzò: «E te l'ha fatto vedere?» Lei scosse il capo con decisione, poi rispose: «Non ha capito assolutamente che cosa dovesse farmi vedere». Il pensiero che Ben si potesse fermare, dando così modo a suo marito di controllare la zona, l'attanagliava come una morsa. Jakob guardò velocemente nello specchietto retrovisore, vide che Ben gli trotterellava dietro con il solito passo e allora svoltò nella strada ampia accanto alla casa di Lukka. Le raccontò del suo tentativo, miseramente fallito, di scoprire qualcosa. Mentre spiegava che tutta la famiglia Lässler era riunita per il caffè, udì il respiro affannoso di Trude. «Che hai?» le chiese. Lei era certa che Annette avesse parlato con Albert della visita di Jakob e del motivo che lo aveva condotto là. Albert aveva visto Ben con la giacca. «Mi viene in mente adesso», sussurrò a voce così bassa che Jakob non riuscì quasi a sentirla. «Quando lui è uscito stamattina... forse non ha trovato la giacca per strada. Quando è tornato, credo che tornasse dalla Fossa.»
«Tu credi?» esclamò lui aspramente. «È di lì che stavi tornando. E non mi venire a raccontare che non ha capito che cosa dovesse farti vedere! Maledizione, non mi raccontare storie! Mi hai mentito anche questo pomeriggio, ammettilo! Non era a letto, era fuori. Torniamo subito laggiù.» La voce di Jakob era aumentata via via di volume. Guardando nello specchietto, schiacciò bruscamente il pedale del freno. Dietro di loro non c'era anima viva. «Maledizione», imprecò. «Dove diavolo è andato a finire?» Trude sentì il cuore balzarle in petto; un pensiero le attraversò il cervello. Non adesso! Lui innestò la retromarcia e arretrò fino all'incrocio, ma riusciva a vedere solo le quattro strade. Di Ben, neanche l'ombra. «Non è possibile», sibilò. «Dov'è andato?» Nel granoturco, pensò Trude, lei è nel granoturco! Dalla terrazza, Heinz lo può vedere comodamente, senza neppure infangarsi le scarpe. Dio ci scampi! Se la tira fuori adesso, non potrò sopportarlo. Ben si era veramente addentrato nel granoturco, stava saltellando sul posto e spuntava a ogni salto con il capo e le spalle dalle pannocchie, gesticolando e gridando: «Amico!» Jakob e Trude lo udirono, esattamente come Lukka. La finestra del terrazzo era spalancata, Heinz uscì all'aperto, fece un cenno di saluto a Ben e, poi, udito il motore diesel, si voltò verso l'angolo della casa e vide l'auto di Jakob all'incrocio. Quindi si diresse lentamente verso di loro. Quando raggiunse la Mercedes, Jakob abbassò completamente il finestrino e gridò: «Forza, Ben, muoviti». «Lascialo qui», obiettò l'avvocato. «Sono già fuori anch'io. Può stare un po' da me.» «Non può», replicò Jakob. «Ho qualcosa da fare con lui. E non deve schiacciare il granoturco.» «Schiacciare», ripeté Heinz ridendo. «Non ne ha schiacciato neppure una pannocchia, credo.» Il sorriso si spense. «Hai saputo qualcosa della Stern?» chiese. Il padre di Ben fece un cenno di diniego e Trude sentì nuovamente quella morsa che le opprimeva il petto. Heinz volse lo sguardo al di sopra del tetto dell'auto, verso la strada provinciale. «Neanch'io», disse. «Credevo avesse preso una stanza a Lohberg per trascorrervi la notte, ma ho fatto un giro di telefonate e non è stata vista da nessuna parte. Certamente potrebbe essere andata alla stazione ad attendere il primo treno, quello delle sei e qualche minuto. Pensi ancora di avvertire la polizia? Credo che non sia il
caso di fare un dramma per una giacca smarrita. Probabilmente la ragazza sarà già in volo su qualche aereo.» Trude ascoltava lui e le risposte di Jakob senza capire una parola. Vedeva solo Ben che usciva dal granoturco, vedeva quello zaino intriso di sangue nascosto nel fienile. Se avessero trovato del sangue sulle sue mani, o sulle scarpe... «Non ce la faccio più», mormorò. «Mi manca l'aria...» La frase terminò in un rantolo. Jakob la guardò, spaventato. Era mortalmente pallida. Le labbra erano bluastre. «Scusa, Heinz», si affrettò a dire. «Devo accompagnare Trude a casa.» «Certo, certo.» Heinz si chinò verso il finestrino e, quando vide la donna, anche lui s'impaurì: Trude aveva lo sguardo fisso sul campo di granoturco. «Muoviti, Ben», ripeté Jakob per la seconda volta, facendo avanzare l'auto a passo d'uomo, senza staccare gli occhi dalla moglie. Ogni suo respiro sembrava l'ultimo. Faceva mancare il fiato anche a Jakob che, senza più preoccuparsi dello specchietto retrovisore, pensava solo con terrore che Trude potesse crollare o, peggio, morire. IL CROLLO Dopo che nell'agosto dell'87 Ursula Mohn rischiò di morire dissanguata e sepolta viva nella Fossa, il sogno di Trude di danzare da reginetta al ballo degli Schützen si dissolse come neve al sole. Tutti subodoravano quanto era accaduto, anche se non c'erano testimoni a conferma dei fatti. Thea Kressmann fece in modo che tutti, in paese, fossero messi al corrente: Ben, quel pomeriggio, non era stato alla fattoria dei Lässler, sotto la sorveglianza di Antonia. Antonia mentì spudoratamente, persuadendo il marito e il figlio maggiore a seguire il suo esempio. Richard Kressmann, a nome dell'associazione degli Schützen, fu dell'avviso che, date le circostanze, sarebbe stato impossibile far sfilare Trude e Jakob nella carrozza aperta per tutto il villaggio, soprattutto se in mezzo a loro ci fosse stato il figlio. Richard assunse con discrezione la carica di Jakob, e Jakob diede le dimissioni. Ormai era solo questione di tempo; prima o poi, Trude sarebbe crollata sotto il peso dei suoi sensi di colpa. Ma si prese del tempo. Quando ciò accadde, le chiacchiere relative ai due probabili assassinii e alle profezie di
Gerta erano già cessate. Nessuno ricordava l'anziana donna che forse con le sue parole aveva voluto solo dare sfogo al suo gran dolore, e neppure la madre di Ben collegò mai i fatti alle sue maldicenze. Quell'autunno, Trude aveva compiuto cinquantun anni, e il suo metabolismo continuava a funzionare come un orologio, puntualmente, ogni quattro settimane. Non si era mai potuta permettere di fare tante storie semplicemente perché era donna, né avrebbe mai pensato di mettersi a letto con un attacco di emicrania come faceva Maria Jensen. Non aveva tempo per i crampi all'addome di Thea Kressmann, né si lamentava mai di un leggero malessere, come quelli che accusavano Antonia e Renate Kleu. Accettava la sua condizione di donna senza pensarci troppo. Nel novembre dell'87, tuttavia, il ciclo fu abbastanza irregolare. I primi giorni, tutto andò come al solito. Passò la prima settimana, senza un minimo accenno d'interruzione. Iniziò la seconda settimana e Trude cominciò ad accusare una certa stanchezza. Il ciclo si fermò all'inizio della terza settimana, ma dopo quindici giorni ricominciò con maggiore virulenza. Lei aveva l'impressione che sarebbe morta di emorragia. Si tormentò sino al febbraio dell'88, preoccupandosi perché le forze l'abbandonavano. La stanchezza non la lasciava più. Non appena scendeva dal letto, si sarebbe coricata nuovamente per poter dormire. Solo alla fine di febbraio, su insistenza di Antonia, Trude fece uno sforzo supremo e fissò un appuntamento con il ginecologo di Lohberg. Non che fosse d'accordo. «Non posso stare in ospedale tre o quattro settimane.» Hilde Petzhold aveva avuto una degenza simile, Trude lo ricordava bene. Un raschiamento, alcuni giorni di attesa per il referto, e poi la difficile operazione. Infine, Otto aveva venduto la fattoria. «Ora non drammatizzare», le disse Antonia. «Probabilmente è una questione ormonale. Ti prescriveranno qualche pillola e la cosa finirà lì.» Le cose non andarono proprio in quel modo. Era necessario che rimanesse in ospedale almeno due settimane, disse il medico. Non più di una settimana, replicò Trude, mentre con Jakob cercava una soluzione. In qualche modo faremo, rispose suo marito, senza riflettere. Era il momento giusto. Il terreno era ancora gelato, quindi c'era poco da fare all'aperto. Se fosse successo in primavera, allora sarebbe stato diverso. Ma ora, diceva Jakob ridendo per dimostrarle che non era una situazione così tragica, se la sarebbe cavata benissimo. Fu un lunedì di fine febbraio: Trude, con il cappotto sul braccio e una valigia in mano, s'infilò in un taxi. Accennò un ennesimo saluto a Ben, che
era in piedi accanto a Jakob sulla porta di casa e guardava con sospetto l'auto. Il padre gli cingeva le spalle con un braccio per dimostrargli che non sarebbe restato solo. Trude gli aveva spiegato nei minimi dettagli che aveva male e che doveva andare dal medico per qualche giorno, ma che avrebbe fatto ritorno molto presto. E ogni sera il padre gli avrebbe dato un grosso gelato. Ma doveva fare il bravo e restare sempre accanto a lui. Sembrava che lui avesse capito. Non appena il taxi fece per allontanarsi dal cortile, tuttavia, Ben si divincolò dal padre e si avventò sull'auto in corsa, come punto da un calabrone. «Via le mani!» gridò. Jakob lo rincorse, ma non riuscì a stargli dietro. Trude batté sulla spalla del conducente e lo pregò di accostare perché lei potesse salutare il figlio e spiegargli che doveva restare con il padre. Ma non ci fu nulla da fare: qualsiasi cosa lei dicesse, non sortiva nessun effetto. Fu un commiato straziante: Ben che, afferrata la madre per il polso, cercava di trascinarla fuori dell'auto e scuoteva la testa con l'espressione disperata di chi si vede sull'orlo dell'abisso più terribile della terra, mentre continuava a mormorare «via le mani» e «male». Trude lo lasciò fare, accarezzandogli la testa ricciuta che gli aveva fatto appoggiare sul proprio petto perché non scorgesse le sue lacrime, mentre gli sussurrava: «Ho solo un po' male. Ma torno presto, te l'ho promesso. Sono solo pochi giorni. Ora fai il bravo». Jakob, che nel frattempo li aveva raggiunti, tagliò corto. Con parole ferme gli fece lasciare il braccio di Trude, poi lo trattenne finché l'auto non fu scomparsa. Ben trotterellò accanto al padre verso casa, mormorando tra sé e sé «carogna». «Non voglio più sentire certe parole», lo redarguì Jakob duramente. «La mamma non è una carogna. Non ti sta abbandonando.» Ben si rintanò nel pollaio. Neppure il piatto di uova strapazzate che il padre usò per ricondurlo in casa fu di grande aiuto. Rientrò, si sedette a tavola con sguardo cupo e ingurgitò la pietanza. Jakob si occupò del bestiame, poi cercò tra le provviste di Trude una tavoletta di cioccolato alle nocciole e tre barrette, se le infilò in tasca e, per distrarlo un po', attirò Ben all'aperto con un gelato di vaniglia. Fu la loro prima passeggiata insieme. E fu la prima volta che Jakob parlò a suo figlio come fosse un suo pari, una persona che poteva consigliarlo ed essergli d'aiuto. «Non pensare di essere l'unico a sentire la sua mancanza, l'unico che teme per lei», esordì.
Quel tono triste spinse Ben a restare accanto al padre. Se in un primo momento lo aveva seguito con espressione disperata, ben presto il suo volto mostrò una certa attenzione. Di tanto in tanto Ben annuiva, dando a Jakob la sensazione di essere capito, come se il figlio provasse la sua stessa preoccupazione per Trude e un senso di timore. E se si fosse trattato di qualcosa di grave? Anche la madre di Paul aveva avuto quei sintomi all'inizio. E ne era morta. Che ne sarebbe stato di lui e di Ben? «Tutte quelle chiacchiere hanno fatto ammalare tua madre», disse Jakob. «Vorrei chiudere la boccaccia di Thea con le porcherie che va raccontando in giro. Avremmo dovuto rigirare la frittata e denunciarla per diffamazione. Forse lo farò. Me ne frego dei soldi di Richard. Non sono così povero da non potermi permettere un buon avvocato. Ma uno in gamba, non come quel leccaculo di Lukka. Quello va bene per Richard.» «Amico», intervenne Ben. Jakob scosse energicamente il capo. «Balle. Lukka è un pidocchio. Fa il gentile, poi, non appena gli volti le spalle, lancia il sasso e nasconde la mano. Te ne ha già tirati parecchi di sassi, e un giorno ci inciamperai sopra. Se un uomo ha buon cuore e non fa del male a nessuno, non c'è bisogno di raccontarlo in giro. I fatti parlano da sé. Se uno lo fa, e Lukka lo fa spesso, la gente comincia a dubitare. Che quello non mi venga a raccontare che tu gli piaci.» Jakob stava affrontando il suo argomento preferito; gli parlò in lungo e in largo delle umiliazioni che gli erano state inflitte da un cittadino benpensante che in realtà era solo un pidocchioso. Così giunse a parlare di Thea Kressmann e delle sue affermazioni su Ben, che a suo dire aveva ferito la ragazza handicappata del Lerchenweg. «Ma ti pare», proseguì Jakob. «C'è una bella differenza tra fare un buco nella pancia di una bambola e farlo a una persona, soprattutto se comincia a perdere sangue e a urlare. Sai che ne penso? Non dovrei dirlo, ma tanto non ci ascolta nessuno. Se la ragazza fosse stata anche violentata, oltre a tutto il resto, nessuno avrebbe mai pensato a te. Non ne saresti capace. Non ancora, alla tua età, sei troppo giovane.» L'uomo guardò di sottecchi il figlio: aveva appena compiuto quindici anni ed era già più alto di lui. Aveva le spalle un po' più larghe, le mani un po' più forti. Ma il viso era quello di un bambino, i contorni erano delicati. Gli occhi, ombreggiati da lunghe ciglia ricurve, nascondevano uno sguardo mansueto. Gli sovvenne l'osservazione di Bruno Kleu: «Se ci dà dentro con le bambole, in serie...» Già. Le chiacchiere non sarebbero state molto diverse, se Ursula Mohn fosse stata violentata.
Jakob sospirò, poi continuò: «C'è qualcosa che non mi quadra. Perché uno dovrebbe assalire una ragazza, ferirla e colpirla come pazzo d'ira senza farle assolutamente nient'altro? Capisco bene che qualcuno abbia pensato a te. Ma ci saranno anche uomini più vecchi che non sono più in grado di... di farlo e questo li rende furiosi. Allora scaricano la loro rabbia in quel modo. Bisogna essere proprio pieni d'odio per conciare in quel modo una povera creatura indifesa». Tornarono a casa compiendo un ampio giro nella campagna ormai buia. Jakob aveva lasciato accesa la lampada accanto all'ingresso e, quando la vide brillare davanti a sé, si sentì un po' sollevato. Preparò la cena, poi si fecero compagnia per un po' a tavola, in cucina. Varcata la soglia di casa, Ben era tornato il Ben di sempre. I suoi occhi irrequieti vagavano per la stanza, scivolando sul tavolo e sulla credenza, sul viso del padre, tornando sempre alla porta. «Una settimana, non di più», disse Jakob. «L'ha promesso. Domani mattina l'opereranno e nel pomeriggio andremo a farle visita. Dovrai essere molto bravo. E la prossima settimana a quest'ora saremo di nuovo qui, noi tre. Anche se non sarà perfettamente in gamba, l'importante è che sia di nuovo tra noi.» Poco prima delle dieci, Jakob lo accompagnò al piano di sopra e lo immerse per una mezz'ora nella vasca da bagno. Quello era uno dei tanti sistemi di Trude per fargli passare il malumore. Ebbe effetto anche su Jakob, che si era accomodato sulla tavola della tazza a fumare una sigaretta. Infine lo asciugò, provocandogli un attacco di riso quando gli strofinò un lembo dell'asciugamano tra le dita dei piedi. Dopo che lo ebbe messo a letto, Jakob si convinse di avere la situazione sotto controllo. Si coricò anche lui, ma restò sveglio chiedendosi come si sentiva Trude in quel momento; e con quel pensiero nella mente, si addormentò. Si svegliò verso le tre del mattino, sentendo sbattere una porta. Fuori, si era levato un forte vento. Era la porta d'ingresso che sbatteva, quella che Jakob aveva chiuso e Ben riaperto, dimenticandola socchiusa quando era uscito di casa. A girare una chiave nella serratura l'aveva imparato alla fattoria dei Lässler. E molto probabilmente aveva collegato le ferite sanguinanti con la Mercedes chiara, sperimentando per la seconda volta che c'era chi non faceva differenza tra un essere umano e una bestia, e che una ragazza non valeva più di una gallina o di un gatto.
Ben era innocente nei riguardi di Ursula Mohn, di tutti i pulcini morti nelle sue mani, di tutti i bruchi e gli insetti che erano finiti, privi di vita, nelle sue tasche. Colpevole era solo la forza delle sue mani che la mente non sapeva guidare né frenare, perché per lui un tale dispositivo non esisteva. La sua mente era come un labirinto dove nessuno riusciva a trovare la giusta via per giungere alla meta. Lui, perlomeno, non ne era capace. Girava perennemente in tondo, spinto da desideri, impulsi e timori diffusi. Desiderava tenerezza, non aveva mai desiderato altro. E forse l'aveva ricevuta solo da quelle morbide piume sulle guance, dallo strisciare e formicolare di quelle minuscole bestioline sulla sua mano. Lui ne era il custode, il collezionista, il cacciatore che partiva alla ricerca di gioie e di piacere. Invece, quante volte aveva ricevuto in cambio solo sofferenze. Al centro di quel suo labirinto c'era una stanza luminosa: la sua memoria. Lì custodiva tutte le esperienze, le avventure e le contraddizioni che lo riguardavano. Nulla era catalogato, ma tutto gli era accessibile. E su tutto incombeva la maggiore contraddizione della sua vita: la madre, sua custode e rovina. E ora sua madre era salita su quell'auto, portatrice di sangue e di distruzione. Aggravava il tutto quella valigia che aveva con sé. Nella stanza luminosa c'erano già delle valigie. Una l'aveva portata via Anita; la seconda, Bärbel. Le sorelle non erano ritornate, le valigie neppure. Non che ne avesse sentito molto la mancanza, ma erano scomparse. Che il padre spiegasse e parlasse pure. Di notte, non aveva più resistito nel suo letto ed era uscito per cercare la madre nei posti dove per esperienza sapeva di poterla trovare. Corse subito alla Fossa. Non c'era. Poi corse al prato delle mele e s'infilò, tremante di freddo nel suo pigiama leggero, sotto il filo spinato, strisciando fino al Pozzo, ormai chiuso da tempo. Non sembrava che ci fosse stato gettato qualcuno dentro. Ma non si poteva sapere. Quelli facevano spesso cose che lui non si aspettava e che avrebbe ritenute impossibili. Agli occhi di Ben noi eravamo esseri stravaganti, i distruttori, coloro che non comprendeva né intuiva. Coloro che non lo capivano, anche se lui usava le parole giuste. Erano diversi i motivi per cui Ben non osava usare altri vocaboli. Durante i primi anni di vita, sotto la ferrea disciplina della nonna, nessuno si era mai preso la briga di dirgli che un letto era un letto e un tavolo era un tavolo. In seguito, quando lo scoprì da solo, lui non si fidò più delle parole.
Molte erano sbagliate, troppe; non era in grado di catalogarle, mentre altre gli creavano dubbi circa la loro appartenenza. Come faceva a chiamare mamma sua madre, se Albert Kressmann usava la stessa parola per chiamare Thea, Dieter Kleu per Renate e alla fattoria dei Lässler lo stesso nome valeva per Antonia? Giacque buona parte della notte bocconi sull'erba ghiacciata, invocando la madre e tentando di frantumare le zolle dure e fredde a mani nude. Poi ci rinunciò, si addentrò strisciando sotto lo steccato nel giardino di Gerta Franken, che vero giardino non era stato mai. Frugò tra i cespugli spinosi, vagando tra la sterpaglia, gemendo e ripetendo il suo: «Bene?» nella notte, mentre il padre, a sua volta, esplorava la zona in cerca di lui. Era un'impresa vana. Jakob non sapeva neppure in quale direzione si fosse mosso il figlio, cosicché, mentre Ben incespicava nella Fossa, lui si dirigeva verso l'incrocio, pensando che avesse preso la stessa direzione del taxi di Trude. Il vento infuriava sibilandogli nelle orecchie, rendendo le grida di Jakob quasi grottesche, ma lui continuava a sgolarsi, muovendo la torcia davanti a sé e opponendo resistenza alle raffiche. Si precipitò quindi alla Fossa e al Boschetto, ma senza esito. Era molto preoccupato per Ben, che indossava solo un pigiama di flanella leggera. Lui stesso, nonostante la fatica fisica e la giacca ben imbottita, stava tremando di freddo. Morirà di freddo, era il suo pensiero costante. Lo trovò solo verso le cinque del mattino, sotto il pero. Batteva i denti, intirizzito e tremante. Lo aiutò a rialzarsi, gli mise la giacca sulle spalle e a casa gli fece fare subito un bagno bollente e lo ficcò a letto. Mentre Trude era stesa sul tavolo operatorio, Antonia si chinava sulla fronte di Ben chiedendo un termometro e dicendo che sarebbe stato meglio chiamare il medico di famiglia. Costui si limitò a prescrivere supposte antipiretiche e impacchi sui polpacci. Jakob vegliò il figlio per un giorno e una notte; di tanto in tanto si appisolava per qualche minuto, ma veniva svegliato da Ben che si voltava nel letto, lamentandosi e gemendo, o gridando improvvisamente: «Via le mani! Carogna!» Solo la mattina seguente Jakob poté telefonare per informarsi sulle condizioni di Trude. La quale, pur sentendosi ancora un po' fiacca, andò personalmente a rispondere, senza lamentarsi del fatto che il giorno prima aveva aspettato invano una visita. Chiese solo di Ben e di come Jakob se la fosse cavata con lui. «Benissimo», rispose il marito con voce monocorde per la stanchezza.
«Proprio bene. Gli ho fatto fare il bagno già due volte. Credo gli sia piaciuto.» Antonia si fece viva poco prima di mezzogiorno, per informarsi di Ben e posare sul tavolo della cucina una minestra. Quando gli propose di prendere Ben con sé, Jakob rifiutò a malincuore. «Non posso chiederti una cosa simile. Me la caverò. Ha la febbre alta, è vero, sragiona, ma...» Fu sollevato, quando Antonia insistette. L'aiutò a caricare in auto il ragazzo mezzo addormentato e andò a sdraiarsi sul divano per mezz'ora. Infine si recò da Trude, in ospedale. Non c'era ormai più tutta quella fretta di farla uscire da lì. Trude restò dieci giorni in ospedale invece della settimana prevista, si riprese perfettamente e ogni giorno mandava tramite Jakob saluti e ringraziamenti a Paul e Antonia. Quando finalmente fece ritorno a casa, anche Ben stava bene e Antonia era certa più che mai che lui non avesse nulla a che fare con l'aggressione di Ursula ed era convinta di aver agito per il meglio tenendogli lontana la polizia. 26 AGOSTO 1995 Non appena Jakob ebbe lasciato la fattoria dei Lässler, nel soggiorno dell'amico ci fu una discussione. A tredici anni, Tanja Schlösser non era più una bambina. Aveva capito perfettamente che suo fratello era sospettato di una cosa terribile, anche se non lo si diceva apertamente. Fintanto che suo padre era stato presente, aveva ritenuto che fosse lui a dover difendere Ben. Ma Jakob, dopo la sua violenta replica, non aveva più aperto bocca. Quando uscì lentamente dalla stanza, con le spalle cadenti e la testa incassata, tanto che sembrava più basso di quasi mezzo metro, Tanja saltò in piedi per corrergli dietro, per scuoterlo e confrontarsi con lui con tutto l'impeto e l'innato senso di giustizia della gioventù. Antonia comprese le emozioni della figlia adottiva e la trattenne. «Lascialo in pace, tesoro. Non è facile per i tuoi genitori. Non lo è mai stato. Per un po' dovrebbero tenere in casa Ben, perlomeno la notte.» «Ma lui non fa niente di male», protestò Tanja. «Lo so», disse Antonia. «Lo sanno in molti, purtroppo però non tutti.» «E che cosa sapete voi, che il papà non sa?» Fissò in viso Paul. «Cos'è successo a Ursula Mohn otto anni fa, quando l'hai trovata?» Paul scosse il capo, guardando la moglie. «Te l'avevo detto che sarebbe stato un errore.»
Antonia scrollò le spalle. Forse suo marito aveva ragione. Ormai non si poteva più sapere se Ben con i suoi quattordici anni di allora sarebbe stato considerato un indiziato dagli inquirenti, o forse solo fermato, perché mancava un colpevole. Ormai, non aveva più nessuna importanza. Per alcuni, in paese, Ben era colpevole allora e lo era ancora, solo quello contava. Ben non era Bruno Kleu che reagiva a un sospetto minacciando una scazzottata. Non era Richard Kressmann, che alla minima chiacchiera si precipitava alla polizia e consultava un avvocato. Non era neppure Toni von Burg, che sorrideva alle illazioni sul suo conto circa il presunto omicidio di Wilhelm Ahlsen. Si era limitato a dire: «Se avessi avuto del cianuro, l'avrei vuotato volentieri nella birra di Ahlsen. Peccato che non abbia pensato di procurarmene». Ben era solo Ben, non sapeva usare le parole a propria difesa. La settimana precedente, andando in paese, Antonia aveva avuto modo di raccogliere più di una voce che ricordava che Ursula Mchn era stata più fortunata della figlia di Erich. Gradualmente, il paese si divise in due fazioni. Una sospettava di Bruno Kleu, non di suo figlio Dieter, che aveva solo tre anni quando Althea Belashi era scomparsa. L'altra fazione puntava su Ben per via di Ursula Mohn. Erich e Maria Jensen erano tra questi, Antonia lo sapeva e sapeva anche il perché. Otto anni prima, Paul aveva commesso l'errore di accennare alla sorella che la versione dei fatti avvenuti alla Fossa non corrispondeva alla verità. L'aveva fatto in perfetta buona fede, solo per porre fine alle chiacchiere. Naturalmente Maria aveva raccontato tutto a Erich e lui ne aveva riso. «Ben ha cercato di fasciare la ragazza? Ma chi ha messo quell'idea in testa a tuo fratello? Sua moglie, immagino. Quelli non sono tutti giusti. Sai che cosa avrebbe finito per fare Ben, se non fosse arrivato Andreas? L'avrebbe sepolta, quella povera ragazza, aveva già iniziato l'opera. Lui e la sua maledetta mania di scavare!» Se non fosse avvenuto un miracolo, se quelle voci si fossero sparse troppo, Erich avrebbe gridato più forte di chiunque altro. Non aveva mai capito che, se da un lato Jakob riempiva di botte suo figlio, riducendogli in poltiglia la poca materia grigia di cui disponeva, come diceva Erich, d'altro canto rifiutava di rinchiudere Ben in un istituto, dove secondo lui sarebbe dovuto finire sin dal suo quattordicesimo anno d'età. L'espressione preferita del farmacista era quella di omicida per spirito di emulazione, un concetto che anche Thea applicava al caso di Ben.
Erich non aveva preso in considerazione la giovane trapezista. Non sapeva che Ben aveva assistito alla sua morte, esattamente come non ne sapeva nulla Antonia. Solo Gerta aveva visto tutto, in quella lontana notte di agosto. Ma, a suo tempo, nessuno le aveva dato credito e ormai non era più possibile chiederle la verità. Erich aveva sempre pensato alle galline che Ben aveva visto sventrare più di una volta. In fondo, viveva da sempre in una fattoria, non in una sacrestia. A Ben bastava assistere a un gesto per ripeterlo automaticamente. Erich e Thea, un bel connubio! Era un vero peccato che in passato il farmacista avesse ritenuto che non erano fatti l'uno per l'altra. Antonia pensava che andassero perfettamente d'accordo e che insieme avrebbero potuto fondare perfino un nuovo partito. Così Maria avrebbe scelto Bruno, anzi, meglio ancora, Heinz Lukka, che era un suo grande ammiratore. Heinz non era come Bruno, lui non avrebbe mai preso una sbandata. Non avrebbe mai tradito sua moglie, né si sarebbe mai sognato di chiudere a chiave in camera sua figlia per un quattro in matematica, come aveva fatto Erich. Avrebbe probabilmente accompagnato Marlene tre volte la settimana a Lohberg, aspettando pazientemente nel parcheggio del Da capo che la figlia si sfogasse ballando. L'avrebbe portata in palmo di mano, come avrebbe fatto con Maria. La differenza d'età? Che importanza potevano avere alcuni anni? Antonia non aveva mai rimpianto il suo matrimonio con un uomo che aveva vent'anni più di lei. Anche un uomo più giovane poteva essere insidioso, soprattutto se si occupava di politica e faceva passare le proprie opinioni per socialdemocratiche. La comunità doveva occuparsi di quelli come Ben, certi casi non dovevano pesare solo sui genitori. Erich Jensen aveva fatto imbestialire sua cognata più di una volta, con quel genere di affermazioni. Talvolta lei gli aveva replicato: «Sii felice che Trude se lo tiene in casa. Con il deficit che avete nelle casse comunali...» Erich riusciva comunque ad avere la meglio, quando le contrapponeva le sue ragioni. I costi relativi al ricovero in un istituto non ricadevano sul comune, bensì sulla regione, affermava il farmacista, giocando il suo asso nella manica. Era necessario avere pietà di una povera donna affaticata che non era esattamente in buona salute, come lui ben sapeva. Era lui a venderle i farmaci per il cuore, per la pressione e lo spray alla nitroglicerina. Era necessario comprendere quel padre collerico sull'orlo della disperazione a causa delle stramberie del figlio. E, non ultimo, era necessario compatire quella povera creatura che non sapeva distinguere il Bene dal Male, che
aveva diritto a vivere una vita serena, ordinata, custodito dietro solide mura, e che i cittadini responsabili dovevano salvaguardare dai danni che poteva causare a sé o ad altri quando disponeva di assoluta libertà correndo nei campi, nei prati e nei boschi della zona. Jensen non voleva neanche prendere in considerazione l'ipotesi che nei prati e nei boschi potesse esserci stato qualcun altro. Eppure, appena poteva, era il primo a mettere in giro maldicenze su Bruno Kleu. In quel caso, però, si sarebbe tagliato la lingua prima di farlo. Bruno si sarebbe potuto vendicare, e sarebbe scoppiato uno scandalo. Erich Jensen sapeva molto bene che nell'ottobre del '69 Lukka aveva fatto tutt'altro che impedire uno stupro nel giardino di Gerta Franken. Antonia sapeva benissimo che Maria a quel tempo era innamoratissima di Bruno e che non era mai cambiato nulla. Ecco perché Maria aveva un motivo plausibile per dissuadere la figlia dal frequentare Dieter Kleu. Chi si sarebbe voluto ritrovare tra le braccia un nipotino nelle condizioni di Ben, un giorno? Nei primi anni di matrimonio, Maria aveva avuto le stesse difficoltà di Trude. Non riusciva a restare incinta, quindi passava da un medico all'altro, sottoponendosi a tutti gli esami possibili per sentirsi dire, alla fine, che tutto era perfettamente a posto. A quel tempo, Erich si era rifiutato di ricorrere a esami che avrebbero permesso di stabilire se la causa era lui. Maria in seguito pensò che il marito avesse fatto quegli esami. Era già incinta per la seconda volta, anche se quella gravidanza finì con violente contrazioni, una forte emorragia e un intervento d'urgenza. Pareva che Maria fosse caduta prima di avere le contrazioni. Antonia, però, non aveva mai creduto a quella versione dei fatti. La severità di Erich nei riguardi di «sua» figlia era la conseguenza di una sua ipotesi, o forse di una certezza. Antonia non poteva ammettere che un uomo adulto facesse pagare a una ragazzina i tradimenti della madre e che si rivalesse su Ben, invece di rifarsi sull'uomo che gli aveva messo le corna e che, oltretutto, aveva esercitato una certa pressione nei riguardi di Ben dopo che era caduto nel Pozzo, mentre si discuteva di un suo eventuale ricovero in un istituto. Erich era stato colui che aveva indotto Paul ad avvertire «i suoi due ragazzi» di essere prudenti. E non dopo che Marlene era scomparsa, bensì già in giugno, quando gli era giunta all'orecchio la notizia che Ben aveva messo le mani addosso ad Annette. «Vi avevo detto che quello, prima o poi, vi faceva qualche brutta sorpresa. Pensa, se non ci fosse stato Al-
bert...» «In quel caso non sarebbe successo proprio niente di niente», aveva risposto Antonia al cognato. «Solo tu puoi credere una cosa del genere», aveva obiettato Erich. «Ha gli stessi impulsi di un uomo, non puoi negarlo.» Lei non negava l'evidenza dei fatti. Certamente Ben aveva degli impulsi, ma che si fosse messo ad accarezzare il seno di Annette nella Mercedes di Albert Kressmann, mentre questi si dava da fare un po' più in basso, era forse da collegare con il suo istinto di emulazione. Antonia era certa che Ben non avrebbe allungato una mano se Annette, che ben conosceva, e Albert non avessero ripetuto come spesso facevano: «Dai, Ben, fallo». Paul non era riuscito ad accettare una possibilità del genere e al pensiero aveva reagito con un moto di disgusto. Non era possibile spiegare quei particolari a una ragazzina di tredici anni che si sarebbe gettata nel fuoco per il fratello. Da quel poco che Antonia si lasciò scappare e dalle tante verità che tacque, Tanja dedusse solo che in paese si cercava uno scemo che facesse da capro espiatorio. Come Trude faceva da anni, anche Tanja dichiarò, con voce squillante e pestando i piedi con forza: «Ben non è pericoloso, anche se stessi chiusa in camera sola con lui per una settimana. Anche se avesse tre coltelli, lui non mi farebbe nulla, né a me né a nessun'altra ragazza». «Lo so», ripeté ancora Antonia con voce suadente. «No! Se tu lo sapessi, non diresti che la mamma lo deve rinchiudere in casa. È la cosa peggiore che gli si possa fare. Siete tutti così crudeli!» Tanja lasciò la stanza di corsa; Antonia cercò di trattenerla nuovamente, ma fu Paul a intervenire dicendole: «Lasciala in pace. Sai come gli è affezionata. Non è facile questa situazione, neanche per lei». Anche Paul non aveva vita facile. In tutti quei lunghi anni non aveva mai visto Ben fare del male a chicchessia, semmai aveva sentito fare qualche chiacchiera in paese. Il più delle volte aveva scosso il capo pensando che la gente ha sempre bisogno di uno spauracchio, di un babau; che poi fosse Wilhelm Ahlsen, Bruno Kleu o Ben, non aveva grande importanza. L'importante era che ci fosse qualcuno che facesse venire i brividi. Tuttavia Paul era arrivato a un punto in cui c'erano troppi se e ma che si accavallavano. Troppi punti oscuri. Il viso sparuto di sua sorella, quello amareggiato e precocemente invecchiato di suo cognato, la stanza ormai vuota della nipote scomparsa. Quando, alcuni giorni prima, si era ripetu-
tamente raccomandato con sua figlia perché fosse prudente, Britta gli aveva risposto: «Non ti preoccupare, papà. Quando andiamo a scuola, Ben è già lì che ci aspetta. Finché non siamo sulla strada provinciale, lui ci protegge. E quando torniamo, è in mezzo al granoturco. Cosa pensi che farebbe Ben, se qualcuno si avvicinasse a noi?» Paul dubitava che Ben potesse mettere le mani addosso a chiunque molestasse una ragazza. Non era un buon cane da difesa. Albert, per esempio, lo aveva insultato e spaventato senza che lui reagisse. Era il granoturco che opprimeva Paul. Ben non ci trascorreva solo la mattinata e il pomeriggio, giacendo con occhi vigili e orecchie ben tese, registrando tutto quel che accadeva nei viottoli e nei sentieri, ma anche la notte. Paul lo sapeva. E dove sarebbe andata una ragazza che viene buttata fuori di un'auto nel bel mezzo della notte, se gli zii abitano nei dintorni? Marlene sarebbe sicuramente andata da loro, era fuori discussione, pensava Paul. Purché i due ragazzi che erano stati rilasciati a Lohberg avessero affermato la verità. Paul non riusciva più a raccapezzarsi. Se Ben fosse stato alto un metro e cinquanta, invece di quei due metri, e se fosse pesato trenta o quaranta chili di meno e se al posto di andarsene in giro con quello stramaledetto coltello e la pala e il binocolo avesse vagabondato con un secchiellino e una paletta, nessuno avrebbe mai sollevato alcun dubbio sul suo conto. Il paese non era alla ricerca di un capro espiatorio. Cercava una giovane donna, anzi due, o meglio, a essere ancor più precisi, tre. Nessuno però considerava Svenja Krahl, e la visita di Edith Stern era passata quasi inosservata. Nessuno pensò di informare la polizia dei giri notturni che Bruno Kleu faceva e di cui parecchie persone erano al corrente, oltre a Lukka. Nessuno segnalò al posto di polizia di Lohberg che Albert Kressmann avrebbe giocato volentieri a nascondino con Marlene Jensen. Nessuno fece notare agli inquirenti che Dieter Kleu, quella notte, avrebbe avuto un motivo valido per seguire l'auto di Klaus e Eddi. Nessuno nominò ufficialmente Benjamin Schlösser, che non era come tutti gli altri, giocava volentieri con i coltelli e scavava buche profonde che nessuno avrebbe ritrovato in seguito. Mentre Paul rifletteva, Tanja, che divideva la sua stanza con Britta, stava buttando a caso alcuni abiti nella cartella di scuola che aveva svuotato da libri e quaderni. Comparve alcuni minuti dopo nell'ingresso con la cartella sulle spalle, seguita da Britta che la pregava: «Ti prego, resta da noi». Tanja si eresse in tutta la sua statura nel riquadro della porta, come la dea dell'ira, e dichiarò con enfasi: «Io torno a casa. La mia famiglia ha bi-
sogno di me». Il tono solenne era un po' esagerato, ma scusabile, considerata l'età. Fino a quel momento, la famiglia di Tanja era composta da Paul e Antonia, Andreas e Achim, Annette e Britta. Lei non si era mai chiesta quale fosse lo stato d'animo di suo padre ogni volta che veniva a trovarla per poterla prendere tra le braccia. A modo suo voleva bene a Jakob, che allentava senza brontolare i cordoni della borsa per offrirle un cinema in più o che aggiungeva dieci marchi per la gelateria, dove Tanja non aveva mai sborsato neanche un soldo, visto che chiamava nonno colui che in realtà era il nonno di Britta, ma che gioiva di quella dimostrazione d'affetto. Così Tanja metteva da parte tutti quei biglietti da dieci marchi per destinarli a spese più importanti, come quei jeans che Antonia aveva definito ultracari: al padre avrebbe potuto dire che glieli aveva acquistati lo zio Paul. Jakob non aveva mai preteso nulla, era stato sempre e solo il papà della domenica, non aveva zone d'ombra. Non provava gli stessi sentimenti per sua madre, forse perché non gliene aveva dato motivo. E non aveva alcun rapporto con le sorelle maggiori. Mentre con Ben... Aggiunse, con un lampo negli occhi: «E se papà me lo permette, dormirò in camera con Ben». «Non ti mando da sola», le disse Paul. «Se proprio ci tieni ad andare, ti accompagno con l'auto.» Lei gli rispose con un sorrisetto di sfida: «Non ho bisogno della guardia del corpo, Ben è mio fratello». Ciononostante, Paul si alzò e la seguì. Le lasciò un vantaggio di una trentina di metri, visto che continuava a girarsi e a fissarlo con occhi irosi. Non aveva preso la bicicletta, era un regalo di Paul e Antonia. Irritata com'era, desiderava tirare una linea di demarcazione tra le due famiglie. Sulla strada non c'era anima viva oltre a lei. Paul fece vagare lo sguardo e i suoi pensieri. Si preoccupava del granoturco, e non solo per via di Ben. Le ultime settimane di caldo opprimente avevano fatto accartocciare le foglie. Le pannocchie iniziavano a perdere i granelli. Una pessima annata, dicevano Richard, Bruno e Toni von Burg. Un'estate maledetta, da tutti i punti di vista. All'inizio del campo di granoturco, la strada curvava leggermente. Paul perse momentaneamente di vista Tanja, così allungò il passo raggiungendo la parte posteriore della proprietà di Heinz Lukka. La villetta toglieva la visuale sull'ampia strada. Ma sentì la voce di Tanja, meno nervosa di pri-
ma. Stava salutando Heinz, con il suo modo noncurante e leggero. Lui ricambiò il saluto con fare accattivante: «Buongiorno a te, signorina. Sei in giro da sola, oggi?» La sua risposta suonò vagamente impertinente: «No, lo zio Paul mi sta seguendo. Pensa che io abbia bisogno di una guardia del corpo». Paul proseguì, svoltando all'angolo. Entrambi avevano udito i suoi passi e guardavano nella sua direzione. «Eccoti», disse sorridendo l'avvocato, appoggiato al manico di un rastrello che stava usando in giardino. Dopo un breve scambio di battute con Heinz sulla calura insopportabile, Paul proseguì il cammino con la ragazza. «Ti sei calmata un po'?» le chiese. Lei rise, imbarazzata. «Non ho nulla contro di voi. Penso che sia giusto che io passi qualche giorno con Ben.» Raggiunta la fattoria dei genitori di Tanja, Paul si fermò. «Allora vai», disse. «E stai attenta, mi raccomando.» «Stai tranquillo!» Aveva di nuovo quell'espressione arrogante. Ma non intendeva esserlo. Si alzò in punta di piedi e gli stampò un bacio sulla guancia. «Vieni dentro un momento, papà sarà certamente contento.» «Non oggi», replicò Paul. «Un'altra volta.» La seguì con lo sguardo, osservandola attentamente mentre correva alla porta: il viso grazioso, incorniciato dai capelli scuri, le braccia abbronzate e la curva morbida delle spalle. La cartella le ballonzolava sul fianco. A quella bambina non doveva succedere niente. Si sarebbero tormentati tutta la vita per non aver fatto tutto il possibile per evitarlo. Era ora che qualcuno parlasse apertamente con la polizia. Tornando a casa, Paul costeggiò il Boschetto e la Fossa, riflettendo sul da farsi, soppesando l'amicizia che lo legava agli Schlösser, le sue idee e le congetture altrui. Tutto in lui rifiutava anche solo l'idea che un uomo come Bruno Kleu, che aveva lavorato per anni al suo fianco, con cui aveva riso, sudato, bevuto birra e caffelatte, potesse aggredire delle ragazze indifese che incontrava sole per strada. Era vero che lui stesso era dovuto intervenire due volte per rimetterlo a posto perché ronzava troppo intorno a Maria, ma a quel tempo Bruno aveva diciotto anni e poi ne avevano riso insieme. Paul non sapeva che in seguito Bruno l'aveva spuntata con sua sorella. Ma, di certe cose, lei parlava solo con Antonia. Una volta, però, Bruno fece una strana osservazione: «Ma sì, Paul, alla lunga anche Maria mi sareb-
be venuta a noia. Invece, così, di tanto in tanto, posso programmarmi uno sfogo». Uno sfogo! Paul era sconcertato. Programmarsi? Sembrava facesse riferimento a una rissa, non a una scappatella. Non riusciva a convincersi che un bonario zoticone che sedeva al suo tavolo chiedendo solo un po' di amicizia potesse trasformarsi in una bestia solo perché una ragazza era stata poco gentile con lui. Antonia, tuttavia, non aveva mai insegnato a Ben a non reagire agli sgarbi. Era giunto il momento di rivolgersi alla polizia. Non al comando di Lohberg, Erich si sarebbe messo di mezzo un'altra volta. Doveva intervenire la polizia criminale, pensava Paul. Loro avrebbero potuto controllare se Edith Stern era veramente sulla via del ritorno. Paul non desiderava certo accusare nessuno, né mettere i bastoni tra le ruote a Renate Kleu e ai suoi figli oppure a Jakob e Trude; semplicemente, desiderava che si chiarisse la situazione. Quando finalmente trovò la forza di parlare, il terreno gli mancò sotto i piedi. TEMPO DI PACE Paul si era spesso domandato in base a quali fatti concreti Thea avesse potuto sostenere che Ben era stato l'aggressore di Ursula Mohn. Forse qualcuno dei Kressmann aveva girovagato per la Fossa o sulla strada che conduceva laggiù, quel pomeriggio? Antonia aveva sempre pensato che Thea avesse percepito l'eccitazione che regnava in paese e che si fosse inventata tutto semplicemente perché desiderava partecipare al ballo degli Schützen nella veste di reginetta al posto di Trude. Fu così che anche Paul si convinse di questa versione, anche perché nessuno intervenne. Lui era sempre stato sicuro che nessuno avrebbe mosso un dito, in paese, né a favore né contro Ben, se si fosse trattato di rinchiuderlo. Era oggetto di chiacchiere che erano già cessate nella primavera dell'88, quando Trude era stata operata. Le cose andavano sempre allo stesso modo quando si trattava di sparlare di qualcuno. A Richard Kressmann fu ritirata definitivamente la patente. Albert fu espulso dal ginnasio con gran clamore. Thea aveva da badare ai fatti suoi, in quel momento. Suo figlio non era certo una cima, restava da vedere se sarebbe riuscito a cavarsela almeno alla scuola tecnica. Bruno Kleu continuava imperterrito a tradire la moglie; l'ultima fiamma pareva che fosse una ragazza di Lohberg, appena ventenne. E mentre lui si
dava da fare nei letti di tutta Lohberg, il suo toro da monta riuscì a fuggire dalla stalla e, prima che fosse riacciuffato, provocò tutta una serie di danni. In seguito, il figlio Dieter fu scoperto a rubare in un supermercato. Una prova di coraggio, disse qualcuno. Bruno aveva intenzione di dare una bella lezione al proprietario, magari di notte, anche perché questi aveva proibito a Dieter di rimettere piede nel negozio. Chi ne faceva le spese era solo Renate, che non poteva più mandare il suo maggiore a prendere una confezione di panna da caffè. Toni e Illa von Burg non avevano problemi né tra loro né con i figli. Persino Uwe, quel birbone, aveva smesso di girare per Lohberg ogni domenica con una ragazza diversa sul sellino posteriore della sua moto. Si era rappacificato con Bärbel, le era fedele e l'accompagnava nella gelateria, al cinema, oppure, esaurita la paga settimanale, semplicemente a passeggio. Ma quel che Uwe gradiva di più era starsene con Bärbel nella camera ammobiliata di lei. Il condominio sul Lerchenweg, invece, era solo fonte di seccature. Non appena si liberava un appartamento, ecco che l'amministrazione comunale avanzava pretese. Era sempre alla ricerca di abitazioni per gli assistiti e per i rifugiati politici; così, senza nemmeno consultare Toni, facevano occupare un appartamento di tre stanze a otto persone. Con rapidità fulminea si era sparsa la voce che si trattasse di zingari. E non c'erano solo le otto persone nell'appartamento. Per intere settimane, i parcheggi riservati agli inquilini furono bloccati da una schiera di roulotte. Il comando di polizia di Lohberg fu subissato di denunce per furti e scassi. Ci furono anche alcune denunce per molestie sessuali, una situazione intollerabile. In seguito, si liberarono altri appartamenti, ma chi teneva alla propria incolumità se ne andava. E Toni ne fece le spese. Anche l'allevamento di pollame gli creava dei grattacapi. I tacchini non riuscivano a decollare. La vendita di uova aveva subito un arresto. La gente voleva cibi naturali, ma pagando al massimo quindici o venti Pfennig per unità. Pareva che Toni stesse trattando con un grossista e che avrebbe forse allevato anche le oche e le anatre per Natale e forse persino i caprioli. Erich e Maria Jensen non erano oggetto di maldicenze. Non trapelava nulla sulla loro vita privata. Il loro matrimonio era considerato esemplare, mai che ci fosse una parola di troppo. Quel che avveniva tra le quattro mura della loro casa non lo sapeva neppure Thea Kressmann. Da sempre, Erich era attivamente impegnato in politica. Pareva che aspirasse a una carica nel Landratsamt, mentre puntava a diventare deputato nel Bundestag.
Maria viziava sua figlia, teneva in ordine la tomba di famiglia e ogni anno acquistava un'auto nuova con cui accompagnava Marlene a lezione di danza, di equitazione o in un negozio di abbigliamento per bambini che aveva appena aperto a Lohberg. Le sue serate solitarie le trascorreva a teatro, all'opera e cose simili, si diceva. Nessuno era in grado di verificare se veramente andasse in direzione di Lohberg e se poi prendesse l'autostrada. In ogni caso, la farmacia andava a gonfie vele, in barba a quell'uccello di malaugurio di Thea Kressmann. Maria non sapeva neanche come spendere tutto il denaro di Erich. Heinz Lukka, al contrario, sapeva bene come spendere i suoi onorari. Tre volte l'anno partiva per le vacanze, soprattutto per la Thailandia. Gli piacevano la cultura e il cibo di quei posti, il clima era gradevole e, come spesso raccontava, era possibile acquistare qualche oggetto d'arte antico a prezzi molto vantaggiosi. Nell'osteria di Ruhpold si rideva alle spalle di Heinz. Oggetti d'arte antichi, in Thailandia? Che lo andasse a raccontare sulla tomba di sua madre. Chiunque avesse un po' di sale in zucca sapeva che cosa si poteva acquistare a buon prezzo in Thailandia. Richard Kressmann affermava, tuttavia, che Heinz non aveva bisogno di quel genere di cose. Aveva una fidanzata, una donna molto attraente che lo rendeva felice. Probabilmente trascorreva le vacanze con lei, ma non ne parlava in giro perché sapeva come andavano le cose in paese; nessuno gli perdonava nulla, tantomeno una donna così. Richard non la conosceva personalmente, ma sua moglie l'aveva incontrata più volte. Thea aveva visto l'auto della donna ogni venerdì sera, quando passava davanti alla casa di Lukka per andare dai Lässler, dove Andreas le spiegava come risolvere i complicati compiti di matematica di Albert. Una magnifica auto e una splendida donna, raccontava Thea a chiunque incontrasse. Al massimo sulla trentina. E l'auto era una Corvette, come le aveva detto Albert, perché lei non conosceva il modello. Albert non era molto bravo in matematica, ma le auto le conosceva. Collezionava figurine di auto particolari che incollava su un album. Una Corvette, dunque. E gli abiti, appariscenti ma molto eleganti. Heinz Lukka aveva buon gusto, bisognava riconoscerlo. Thea era già sicura che prima o poi avrebbe appeso a un chiodo la sua toga e avrebbe abbandonato la professione per stare con quella signora. Ma come al solito Thea non aveva visto giusto. La triste realtà fu ben diversa, perché Heinz Lukka non
aveva molta fortuna in amore. In gioventù sua madre gli aveva sempre rovinato tutto. Il suo grande amore, Maria Lässler, aveva scelto Erich Jensen. La fidanzata di Lohberg aveva trovato la morte sulla strada provinciale. Probabilmente, gli incontri che faceva in Thailandia non sarebbero stati presentabili in patria. La signora della Corvette scomparve altrettanto velocemente com'era apparsa. Thea Kressmann aveva visto quella splendida auto un venerdì sera di settembre dell'89. E il sabato pomeriggio successivo, due giovanotti si presentarono a casa di Lukka. Nessuno seppe mai cosa successe effettivamente, neppure Thea. Ma le conseguenze saltarono agli occhi di tutti. Ufficialmente si seppe che Heinz Lukka era stato aggredito e picchiato selvaggiamente da due sconosciuti. Gli rubarono una grossa somma in contanti e alcuni oggetti antichi che aveva portato dai suoi viaggi, compreso un Budda di giada, di questo Thea era certisssima. Per molte settimane se ne parlò in paese. Le ipotesi fiorirono, cosicché ci si dimenticò di Ben, tranne quando lo si vedeva la domenica nel caffè Rüttgers con Trude o quando s'infilava nel retro della pasticceria con Sibylle Fassbender, dove lei lo baciava e vezzeggiava sino a farlo arrossire fin sopra le orecchie; allora saltava fuori la questione di Ben, e di Ursula Mohn. Dopo che la figlia si fu ripresa, i genitori di Ursula avevano rinunciato al loro appartamento e si erano trasferiti altrove. Ormai, anche Ben si vedeva raramente in paese. Solo Paul lo vedeva aiutare Achim a trasportare i pesanti sacchi di mangime o giocare con le due ragazzine. E Bruno Kleu, quando Ben spalava sul limitare del bosco o trapiantava ortiche nella Fossa. 26 AGOSTO 1995 Jakob non riuscì ad andare alla Fossa con Ben com'era nelle sue intenzioni. Le gravi condizioni di Trude ebbero il sopravvento. Jakob accompagnò il figlio al piano di sopra e lo chiuse a chiave nella sua camera. Poi si sedette accanto al divano tenendo la mano di Trude e insistendo perché lei lo autorizzasse a chiamare il medico. Trude rifiutò, si spruzzò in bocca lo spray alla nitroglicerina e lo implorò: «Lasciami solo qui stesa. Andrà meglio tra poco». Dopo qualche tempo, si sentì veramente meglio, così si trascinò in cucina per preparare la cena, benché il marito si fosse offerto di sostituirsi a lei. Jakob portò a Ben un piatto di fette di pane e un bicchiere di latte e chiuse la porta a chiave non appena lasciata la stanza.
Stavano ancora cenando quando suonarono alla porta di casa. Era la figlia minore. Seppure felice di rivederla, Jakob non poté fare a meno di chiedersi che cosa avessero detto Paul e Antonia dopo che se n'era andato dalla fattoria. In quel momento non era possibile trascorrere un'ora serena con la figlia, né Jakob, nonostante tutte le insistenze della ragazzina, le permise di dormire con il fratello. Trude salì al piano di sopra e mise le lenzuola pulite nel letto della camera che era stata pensata per Bärbel, ma che la figlia non aveva mai occupato. Poi scese da basso e con un'occhiata fece capire a Tanja che era ora di andare a letto. La ragazzina fece le sue rimostranze, era ancora così presto. Dagli zii Paul e Antonia, il sabato sera poteva restare alzata più a lungo. Jakob, tuttavia, appoggiò Trude. Dovevano discutere di cose che non erano adatte alle orecchie di una bambina. Tanja protestò vivacemente. Quale bambina? Lei aveva già tredici anni e stavano parlando di suo fratello. Questo non aveva importanza, dichiarò Jakob energicamente. Tanja si ritirò imbronciata, ma non andò nella sua camera. Contravvenendo agli ordini del padre, girò la chiave nella serratura, aprì la porta della camera di Ben e, ammiccando con aria da cospiratrice, esclamò quasi allegramente: «Allora, uomo dei boschi, ti hanno rinchiuso?» Ben stava alla finestra; con la stessa aria complice, le fece segno di avvicinarsi. Poi, con un cenno ampio della mano, annuì con sussiego e dichiarò a voce bassa: «Via le mani. Carogna». A quel punto lei abbassò la voce e si accoccolò nell'incavo della sua spalla. «Non temere», gli disse, «starò attenta, parola d'onore.» Trude e Jakob discussero con calma; per la prima volta Jakob sentì parlare del fatto che, otto anni prima, nella Fossa suo figlio aveva soccorso con i suoi modi goffi ma benevoli Ursula Mohn; Ben, nello stesso istante, raccontava alla sorella, sempre con le stesse parole, di Svenja Krahl, Marlene Jensen e Edith Stern. Moglie e marito finirono per discutere anche dei giornali bruciati, di Heinz Lukka, di Bruno e Dieter, di Albert Kressmann e del loro figliolo che non sapeva esprimersi e che prima o poi sarebbe stato rovinato dal suo stesso silenzio. Trude tacque a Jakob i fatti importanti, si limitò a dirgli solo ciò che già sapeva o che quanto meno sospettava. E rifiutò categoricamente di fare interrogare Ben da uno psicologo. «Che cosa potrebbe scoprire di più?» chiese. «Se neppure noi siamo in grado di sentirgli dire qualcosa di sensato.»
Quando finalmente andarono a letto, era quasi l'una di notte. Jakob restò sveglio a lungo, pensando alle parole di Paul: «Io le mie due ragazze le ho avvertite». Di guardarsi anche da Bruno Kleu? Pensò a sua figlia, nella stanza accanto. «Non preoccuparti, papà, se mi fa del male, strillo...» Avrebbe fatto lo stesso con Bruno Kleu? Certo, Bruno non usava la forza per farsi avanti con una ragazza. Non ne aveva bisogno. Jakob era sconcertato. In quella ridda di pensieri, si addormentò. Anche Trude giaceva sveglia nel letto, rigirandosi in continuazione. Vedeva davanti a sé lo zaino insanguinato della giovane americana, un paio di mutandine che le erano appartenute, due dita mozze probabilmente di Marlene Jensen, la borsetta di Svenja Krahl e le mutandine di una sconosciuta. E poi un osso, che forse era appartenuto a una gamba della prima Edith Stern, o forse a qualcuno la cui scomparsa non era mai stata denunciata. La domenica mattina, Trude si sentiva come se avesse attraversato un fiume di sangue. Jakob, invece, si sentiva più fiducioso. Forse grazie alla presenza della figlia, o grazie al tono allegro con cui Tanja aveva annunciato a colazione i suoi piani per i giorni seguenti. «A mezzogiorno Ben mi verrà a prendere sulla strada provinciale. Ne abbiamo già parlato. Sa dove mi deve aspettare. E poi, nel pomeriggio, andrò a passeggio con lui in paese. Non dobbiamo tenerlo nascosto, in questo momento, papà. Dobbiamo dimostrare a tutti che è buono e gentile. Così tutte quelle chiacchiere cesseranno.» Dopo aver fatto colazione, Jakob uscì per andare alla Fossa, esplorò tutta la zona fino a mezzogiorno e non trovò nulla di importante. Per Trude, invece, i secondi trascorrevano lenti, prima di diventare minuti e poi ore, ore interminabili. Lo zaino insanguinato, pieno di dettagli. Quei dettagli si trovavano là fuori, da qualche parte. Chiunque ci poteva incespicare sopra: allora sarebbero arrivati fino a lei, senza alcun dubbio. Poco dopo mezzogiorno giunse in bicicletta Britta Lässler per lasciare a Tanja i libri e i quaderni di scuola per il giorno seguente. Voleva convincere l'amica e sorella adottiva a tornare a casa. Trude la fece entrare e chiamò la figlia che si trovava nella camera di Ben e che poco dopo scese da basso, seguita dal fratello. Le due ragazze salirono al piano superiore, nell'altra camera. Ben, che le aveva seguite speranzoso, fu lasciato sulla soglia. «Siediti lì da bravo, Orso», lo istruì la sorella indicando il pavimento. «Quando avremo finito di parlare, giocheremo un po' con te.» Mentre rigovernava le stoviglie in cucina, Trude sospirò: «Non fa un
passo fuori di casa, se lei è qui. Dovevamo riportarla a casa prima». «Dovevamo, dovevamo», ribatté Jakob. «Dovevamo fare tante cose, ma non le abbiamo fatte. Quel che conta è che lei è qui, ora.» Britta si trattenne fino alle otto, cercando di convincere l'amica, supplicandola, pregandola, e, infine, piangendo. Tanja fu irremovibile. «Tu hai due fratelli, io ne ho uno solo. Lui ora ha bisogno di me.» Davanti alla porta, Britta fu assalita ancora dal pianto, cosicché Tanja si decise: «Ti accompagno ancora per un pezzo, così ne possiamo riparlare». Com'era prevedibile, Ben si mise a seguirle, accarezzò prima la capigliatura scura della sorella e poi quella bionda di Britta. Cinse poi le spalle di Britta con fare consolatorio, mentre con una mano prendeva il manubrio della bicicletta e l'aiutava a spingerla. «Ora non continuare a piangere in questo modo», implorava intanto Tanja. «Non starò via per molto.» Britta insisteva nel dire che non si era mai sentita così abbandonata come la notte precedente. Al primo bivio, si salutarono nuovamente. Tanja non voleva proseguire per non cambiare idea a causa delle lacrime di Britta. Un'altra stretta di mano, un altro abbraccio: ora piangevano entrambe e Tanja inveì: «Maledizione!» Poi si girò e tornò a passi veloci alla casa dei genitori. Ben stava lì, indeciso. Seguì la sorella con lo sguardo, ma restò immobile. Quando Britta si rimise in movimento, le si affiancò. Il pomeriggio era stato caldo, mentre ora la serata era tiepida. Nei giardini lungo la strada alcuni si godevano l'ultimo sole. Fuori c'erano molte persone che videro Ben con Britta Lässler e che in seguito fornirono quell'informazione. Quel pianto stridulo innervosiva Ben, e lui insisteva a cingerle le spalle con il braccio, ma la ragazza se lo scrollava di dosso mentre gli diceva, tra un singhiozzo e l'altro, che lui non ci poteva fare niente, anzi, a dire il vero, era tutta colpa sua. Se si fosse comportato decentemente non sarebbero arrivati a quel punto. Ben annuiva come se fosse d'accordo, le diceva: «Bene», come aveva sempre fatto, mentre s'informava con dolcezza: «Male?» Stavano avvicinandosi lentamente al filo spinato, scomparendo allo sguardo di coloro che erano nei giardini. Alcune persone, tuttavia, erano a passeggio, come Nicole Rehbach, una giovane donna che solo nel mese di maggio si era trasferita in paese lasciando un appartamento d'affitto a Lohberg. Nicole si stava dirigendo con una sedia a rotelle verso di loro e vide
Ben stringere il manubrio della bicicletta con una mano mentre con l'altra cercava di afferrare il braccio della ragazzina nel momento in cui arrivarono al campo di granoturco. A causa di quella sedia a rotelle, la giovane donna fino ad allora non si era interessata né delle chiacchiere di paese né di altro. Suo marito, Hartmut, era originario del paese. I suoi genitori abitavano sulla Bachstrasse ed erano imparentati alla lontana con Thea Kressmann. La nonna di Hartmut era cugina del padre di Thea. Non che avessero contatti con la parentela. Anzi, Nicole non ne sapeva nulla. Non che avrebbe fatto una gran differenza, se anche l'avesse saputo. Aveva problemi personali che facevano passare in secondo piano tutto il resto. Si era sposata poco più di sei mesi prima e, dopo tre settimane, all'inizio di marzo, il marito aveva avuto un incidente con la moto. Aveva riportato una brutta frattura al braccio che era rimasto rigido e gli era stata amputata la gamba destra, dal ginocchio in giù: ma non erano queste le ferite peggiori. Nicole Rehbach ancora non sapeva come avrebbe potuto continuare a vivere con un uomo che uomo non era più. Quella sera, neppure sapeva chi le stesse di fronte, né s'intromise quando vide Britta con Ben. Ben stava cercando di spingere Britta sul bordo sinistro della strada. Lei si liberò dalla sua stretta attaccandolo con ira: «Lasciami! Restiamo sulla strada. Papà ha detto di starci sempre in mezzo, così si riesce sempre a scappare!» Ben le afferrò di nuovo il braccio con maggior forza e scosse violentemente il capo. «Via le mani», disse, chinandosi verso di lei e sfiorandole l'orecchio con le labbra. «Amico», disse. Le sue labbra sfiorarono la guancia di lei. «Piantala, idiota», singhiozzò Britta. «È colpa tua se pensano male di te. Non puoi essere mio amico. Tu non potrai mai avere neanche un'amica.» Si liberò nuovamente dalla sua stretta. E fece un errore decisivo. Gli spinse con forza il pugno sul petto, cercando di colpirlo, singhiozzando forte e gridando: «Vattene, idiota!» Immediatamente, Ben lasciò andare il manubrio della bicicletta, che cadde a terra. Britta la rialzò, gettò la testa all'indietro e, passando davanti a Nicole Rehbach, si avviò verso la casa di Lukka. La giovane donna continuò a spingere il marito nella sua sedia a rotelle, ma si voltò più volte per vedere che cosa succedeva. Ben inseguì Britta e, titubante, gridò: «Carogna» un paio di volte, alzando il tono della voce.
Era agitato, e biascicava parole incomprensibili. Nicole credette di sentire: «...ogno». All'inizio pensò che lui avesse bisogno della bicicletta. Le faceva pena, quel ragazzo. Pur essendo apparentemente normale, aveva un comportamento inconfondibile. Le grida di Ben fecero accorrere sulla porta di casa l'avvocato. «Ehi, ehi, ehi», disse Lukka con dolcezza, guardando Ben e ridendo. «Chi urla così forte? Di solito non lo fai.» Poi si rivolse a Britta. «Hai dei dispiaceri, signorinella?» Sempre sorridendo, ma con espressione molto seria, aggiunse: «Non dovresti piangere a quel modo in sua presenza. Lo rendi nervoso». Ben si era fermato non appena si era aperta la porta. Cominciò a saltellare, guardando ora Heinz, ora Britta con espressione eccitata. Apriva e chiudeva le mani come un bambino che vuole afferrare qualcosa. Gridò forte e chiaro, tanto che Nicole capì perfettamente: «Via le mani, amico!» «Ma certo», replicò Heinz Lukka. «Tu sei mio amico e devi lasciare in pace le ragazze. Lo sai anche tu, vero? Sono sicuro che non volevi fare del male a Britta. E nessuno farà del male a te. Vai a casa, Ben. Vai da tua madre.» Il ragazzo continuò a saltellare, scuotendo la testa con forza e gridando: «Via le mani!» L'avvocato scrollò le spalle, a disagio, chiedendo alla ragazzina: «Come mai è così agitato? Non l'avevo mai visto in questo stato. Gli hai fatto qualcosa?» Britta alzò le spalle e arricciò le labbra. Nicole Rehbach, che nel frattempo si era fermata, si rivolse a Lukka esclamando: «Lui l'ha baciata sulla guancia. Lei lo ha insultato e lo ha picchiato». «Non t'immischiare», intervenne brontolando il marito. «Dai, voglio andare a casa.» «Tante grazie», esclamò Lukka di rimando. «Me ne occupo io.» Si rivolse a Britta con tono di rimprovero: «Non devi fare così. Se lo picchi, si arrabbia, come chiunque. Vieni dentro un momento, così si calmerà sicuramente». «Via le mani!» inveì Ben nuovamente. La giovane donna pensò che si sarebbe avventato sul vecchio. In seguito, affermò: «Non ho capito subito, anche se era evidente. Lui voleva la ragazza, non la bicicletta. Aveva gridato più volte che il vecchio non doveva toccare la piccola. Non si era espresso in questi termini, ma io l'ho inteso così. E pensai che l'uomo reagisse in modo strano».
Britta era indecisa e guardava un po' impaurita Ben che continuava a saltellare, battendosi le braccia sul corpo. Ebbe un attimo d'indecisione, poi appoggiò la bicicletta allo steccato del giardino di Lukka. E quando seguì Heinz verso la porta di casa, Ben andò su tutte le furie. Si avvicinò a balzi alla giovane coppia, gesticolando freneticamente, e gridò: «Carogna! Via le mani!» Nicole Rehbach a quel punto si spaventò. Si allontanò il più velocemente possibile, spingendo la sedia a rotelle. Ben li rincorse per un tratto di strada: la donna udiva i passi alle sue spalle, ma non osava girarsi. Solo dopo aver lasciato il filo spinato dietro di sé, vedendo che c'erano diverse persone nei giardini, si fermò e si voltò: il gigante impazzito era scomparso. Pensò che avesse fatto il giro della casa. A suo marito non piacque che lei rivolgesse la parola a un'anziana signora che si trovava in giardino. Insisteva nel dire che non erano affari loro. Tuttavia, essendo appena passati dietro la villetta del vecchio signore, avevano notato che la porta-finestra sul terrazzo era aperta, e Nicole Rehbach si chiese che cosa sarebbe successo se quel colosso fosse entrato di là: che cosa avrebbero potuto fare, un uomo gracile e una ragazzina contro quel bestione? L'anziana donna in giardino le disse: «Non si preoccupi, Lukka se la cava bene con lui, sa come trattarlo. E poi Ben non entra mai in casa di Lukka, e men che meno passando dalla terrazza. Lukka gli ha fatto perdere quell'abitudine molti anni fa». IL CANE DI LUKKA Heinz Lukka, che aveva dovuto far sopprimere il suo cane pastore, aveva esitato a lungo prima di procurarsi un nuovo compagno. Come aveva spiegato più volte a Thea Kressmann, era giunto alla conclusione che forse i disturbi comportamentali del cane non erano dovuti solo agli spazi ristretti della casa d'affitto. Forse, aver lasciato solo l'animale durante il giorno aveva influito in qualche modo. Anche il trasloco nella casa nuova e spaziosa non aveva cambiato la situazione. Di giorno, Heinz era nel suo studio di Lohberg, quindi poteva dedicare al cane un'ora di mattino e le sue serate. Dopo aver subito l'aggressione brutale nel settembre dell'89, tuttavia, si procurò un robusto bullterrier, già addestrato e meno sensibile del cane pastore. Era un animale brutto e aggressivo, che Heinz lasciava libero in casa,
quando era assente. Ogni volta che passava di lì, Antonia Lässler lo vedeva. Correva da una finestra all'altra digrignando i denti. Non abbaiava mai, sembrava che aspettasse solo il momento adatto per affondare i denti nelle carni di qualcuno. Antonia affermava spesso: «Mi aspetto che sfondi il vetro da un momento all'altro. Quel cane è un killer». Paul accennò più volte a Heinz del pericolo potenziale che rappresentava, ma, ogni volta, questi lo rassicurava in proposito. Il cane era chiuso in casa, le porte e le finestre sbarrate, quindi non poteva succedere proprio nulla. E non successe nulla. A poco a poco, i timori di Antonia svanirono e il bullterrier di Lukka diventò parte dell'arredamento di cui non ci si occupava più. Ogni tanto, passando davanti alla finestra, qualcuno sussultava vedendosi comparire davanti il suo muso, come nella primavera del '90, quando Paul, recandosi a controllare il granoturco giovane, si prese uno spavento tremendo, nel vedere comparire improvvisamente il cane che ringhiava sulla terrazza. Tuttavia bastò un breve richiamo di Heinz Lukka perché il cane caracollasse immediatamente verso casa. «Gli ubbidisce perfettamente», disse in seguito Paul alla moglie. Una sera del giugno del '90, Ben lasciò la fattoria dei Lässler poco dopo le sette. Aveva giocato fino a quell'ora con i bambini, accanto al garage. Tornato a casa da una mezz'ora, Heinz Lukka si trovava nello studio e stava terminando di stilare un documento che non era riuscito a finire nel pomeriggio. Il cane era sdraiato sotto la scrivania. La porta d'ingresso era aperta, come quella che dava sul soggiorno, e la porta-finestra del terrazzo era spalancata, perché era una serata tiepida. Ben, quel giorno, aveva vagato per la Fossa prima di andare alla fattoria dei Lässler e aveva trovato un ratto adulto che ormai non dava più segni di vita. Antonia non si era mostrata entusiasta della cosa, e gli aveva ordinato di gettarlo nel bidone della spazzatura, cosa che lui aveva fatto. Ma prima di fare ritorno a casa, ripescò il suo tesoro. Sulla strada verso la villetta di Lukka, prese in mano il ratto morto. Aveva un odore leggermente acre, ma non gli dava fastidio. Avvicinandosi alla casa, infilò il ratto in tasca. Camminava lentamente, spiando la terrazza attraverso i fusti di granoturco: vide la porta aperta e in lui si risvegliò la speranza di ottenere una barretta di cioccolato. Ben non temeva il bullterrier. Era cresciuto in mezzo agli animali e solitamente non mostrava alcun timore neppure nei riguardi del toro da monta
di Bruno Kleu. Se non conosceva una specie, si teneva a debita distanza. Era ciò che aveva fatto inizialmente anche con il cane di Lukka. L'avvocato gli aveva ripetuto spesso come si doveva comportare con l'animale. Ben non aveva compreso tutto, ma i risultati che vedeva erano evidenti. L'amico Lukka era il padrone e il cane gli ubbidiva. «Seduto!» e il cane si sedeva. «Piede!» e lui stava attaccato alla gamba di Lukka. «Zitto!» Il cane non ringhiava neppure. Entrando in casa, bisognava fare attenzione a evitare movimenti bruschi, bisognava parlare a voce bassa e non ritirare la mano se il cane l'annusava. Ben aveva imparato perfettamente. Sapeva perfino che al cane piaceva essere grattato sulla testa, ma solo da parte del padrone. Arrivò sulla terrazza, si avvicinò lentamente alla porta aperta e chiamò a voce bassa: «Amico!» Raggiunse la porta e avanzò nel soggiorno spazioso. Il cane gli venne incontro dall'ingresso. Ben allungò la mano nella sua direzione, come gli aveva insegnato Lukka. Era la mano che aveva tenuto il ratto. Improvvisamente, il bullterrier l'azzannò. Ben gridò e ritrasse di scatto la mano e così facendo il dolore, causato dai denti aguzzi che gli erano penetrati nella carne, aumentò. Il ragazzo colpì istintivamente il naso del cane di taglio con la mano libera. Fu un colpo violento. Nonostante l'addestramento, il bullterrier mollò la presa e scrollò la testa, stordito. Ben fissava con terrore la mano ferita e il sangue che gocciolava sul folto tappeto. Sibilò: «Amico!» con tutto il fiato che aveva. Ma l'amico Lukka non compariva a impartire l'ordine. Il cane gli si avventò addosso e lo fece cadere. Ben alzò istintivamente un braccio per proteggersi il viso e la gola. I denti del cane gli affondarono nella spalla, lacerandogli la pelle e le carni. Ben non riusciva a gridare né a piangere per il dolore. Restava steso sul pavimento, rigido e muto dal terrore, mentre davanti ai suoi occhi danzavano scintillanti puntini. Nessuno veniva in suo soccorso. Non si udiva alcun rumore, lo stesso cane era silenzioso. Chiunque avrebbe colpito il cane con le ultime forze che gli restavano, o avrebbe agito d'impulso. Ben si comportò in modo apparentemente assurdo. Abbassò il braccio con cui si era protetto la gola e cinse il corpo dell'animale con entrambe le braccia, come per un intimo abbraccio. Contemporaneamente schiacciò i pugni contro la colonna vertebrale. Nessuno aveva mai intuito quanta forza possedessero le sue mani, perché non ne aveva mai fatto uso.
Un attimo, e si udì uno scricchiolio. Il cane guaì; i denti lasciarono le carni di Ben, mentre le zampe anteriori si affannavano a cercare un appoggio e quelle posteriori ciondolavano, molli. Ben riuscì a liberarsi dal peso di quel corpo e si rimise in piedi. Pieno di ripugnanza e di collera, osservava il cane che si contorceva gemendo sul pavimento. Allora alzò il braccio e colpì di taglio la nuca del cane con la mano sana. Il gemito si arrestò immediatamente. «Via le mani!» urlò Ben. Un'ora e mezzo più tardi, Heinz Lukka diceva a Jakob e Trude: «Mi dispiace terribilmente. Ero nel garage, stavo prendendo alcuni documenti in auto e non ho sentito nulla. Quando sono entrato in casa... Mio Dio, come mi spiace. Il medico ha detto che sono solo ferite superficiali. Guarirà in fretta». Ben, con la spalla e la mano bendate, era seduto sul divano, accanto a Trude. «E il cane?» s'informò Jakob. «Insomma, se l'ha fatto una volta, lo farà ancora.» «No», disse Heinz Lukka. «Non farà più del male a nessuno. Ben gli ha spezzato l'osso del collo e la spina dorsale.» Questo, Ben non lo sapeva. Ma da quel giorno non varcò mai più la soglia di casa di Lukka. E questo qualcuno lo sapeva, come l'anziana signora in giardino che aveva tranquillizzato Nicole Rehbach. 27 AGOSTO 1995 Erano quasi le dieci di sera. Trude aveva mandato Tanja di sopra, dicendole di lavarsi i denti e di andare a dormire. A quel punto, lei decise che bisognava andare in cerca di Ben. Jakob aveva insistito per farlo, visto che aveva saputo dalla figlia minore che suo figlio aveva accompagnato Britta ancora per un pezzo di strada, probabilmente fino a casa. Jakob temeva una reazione da parte di Paul, se avesse visto sua figlia in compagnia di Ben. I timori di Trude, invece, erano di ben altra natura. Fuori la notte incombeva, ancora poco e sarebbe stato buio. Jakob si munì di una potente torcia elettrica per ogni eventualità, anche se nei campi non sarebbe stata di grande aiuto. Tanja scese da basso per dare al padre il bacio della buonanotte, e baciò anche la madre sulla guancia, frettolosamente. Jakob si avviò alla porta. Sentendo squillare il telefono, ritornò sui suoi passi. Era Paul, che s'informava con tono forzatamente leggero su quando la
piccola si sarebbe decisa a tornare a casa. Trude vide Jakob mordersi le labbra e sbiancare. Il pomo d'Adamo gli andava su e giù. Poi chiuse gli occhi, rispondendo con voce strozzata: «Non è ancora tornata? Ma se è uscita alle otto...» Trude non udì altro. Non pensava che l'angoscia potesse raggiungere simili livelli di intollerabilità. Ma forse il massimo era già stato raggiunto e in quel momento lo stava semplicemente superando, per scendere a capofitto verso la fine. E alla velocità di un meteorite nello spazio. A destra e a sinistra neanche un sole, neanche i buchi neri, solo stelle filanti, abbaglianti, luminose e infinite. Quando finalmente Trude riuscì a riaversi da quella visione, Jakob aveva riappeso l'apparecchio da un po' e le stava di fronte, nell'ingresso, il viso terreo, raschiandosi la gola e cercando di tirare fuori la voce. Poi disse ciò che Trude aveva già compreso. «Britta non è tornata a casa. Paul vuole mettere insieme una squadra di uomini per cercarla, adesso, subito; forse si fa ancora in tempo a salvare il salvabile.» Jakob si girò in direzione delle scale, dove si trovava Tanja che fissava i genitori con occhi sgranati e increduli, sussurrando: «Ma Ben è andato con lei». «Vai in camera tua», le intimò il padre. «E chiudi la porta dall'interno. Spingi davanti l'armadietto e incastra la sedia tra l'armadietto e il letto. E qualsiasi cosa accada, aprirai solo se ci sono io. Io e nessun altro. Mi hai capito?» Piena di orrore, Trude non riusciva neppure ad aprire gli occhi. Teneva la testa ciondoloni e osservava le sue dita e tutti quei brandelli di carne insanguinata che si accumulavano ai suoi piedi, sull'orlo del baratro. Improvvisamente, vide la trave. Nel fienile c'erano molte travi. Ben avrebbe dovuto... L'avrebbero rinchiuso dove altri si sarebbero occupati di lui. Sapeva ciò che doveva fare. Jakob stava passando da una stanza all'altra, abbassando le tapparelle, poi scese in cantina, chiuse tutte le finestre e fissò le inferriate. Poi, sempre in cantina, chiuse a chiave la porta che Ben utilizzava per rientrare in casa. Trude sentiva scattare i chiavistelli, girare le serrature una dopo l'altra, e vedeva solo oscurità e vuoto. Quando Jakob rientrò nel corridoio, lei uscì furtivamente dietro di lui, all'aperto, lo guardò mentre chiudeva la porta e riuscì faticosamente a far entrare un po' d'aria almeno nella parte superiore dei polmoni. «No, non avrebbe mai fatto una cosa simile! Non quello! Una ragazza di
Lohberg che non conosceva. La figlia di Erich, che lo aveva aggredito a male parole. La giovane americana, che lo aveva probabilmente maltrattato. Forse, chissà, è possibile. Ma non Britta! L'ha tenuta tra le braccia appena nata. Britta cavalcava sulla sua schiena, per lui è una sorella.» Non sapeva neanche se aveva pensato o parlato ad alta voce. Jakob non reagì. Si allontanò camminando pesantemente, e lei gli andò dietro. Nel frattempo, Antonia aveva tolto il ricevitore di mano al marito e chiamato gli altri al telefono. Le mani di Paul tremavano talmente che non riusciva nemmeno a premere i numeri sulla tastiera. Andreas era già per strada con sua moglie e il suocero; si era fermato alla discoteca di Lohberg e aveva informato il fratello dell'accaduto. Achim radunò alcuni amici al Da capo e partirono con diverse auto. Richard Kressmann e Toni von Burg assicurarono che sarebbero accorsi immediatamente con tutte le persone disponibili. Antonia doveva solo ripetere a tutti la stessa frase: «La nostra Britta non è rincasata». Non era in grado di aggiungere molto. Bruno Kleu non si trovava in casa. Renate promise di avvertirlo, non appena fosse arrivato. Nel frattempo, arrivarono i due figli. Nell'osteria di Ruhpold c'erano altri sette uomini che si avviarono verso i campi con Wolfgang Ruhpold. In casa di Heinz Lukka nessuno rispose alla chiamata e lo stesso avvenne nell'appartamento sopra la farmacia. Erich Jensen e Heinz Lukka, infatti, stavano partecipando a una seduta del consiglio comunale. Maria non era in casa. Mentre metà del paese si avviava alla ricerca di Britta Lässler e a nessuno era venuto in mente di avvisare la polizia, Trude stava perdendo le ultime forze che le restavano in corpo. Pur con grande fatica, seguì Jakob a piccoli passi in direzione della Fossa, esattamente là dove Ben l'aveva condotta il giorno precedente. Di Ben, neppure l'ombra. Jakob puntò il fascio di luce della torcia sulle macerie invase dal muschio e ispezionò il terreno che aveva già osservato attentamente la mattina, in cerca di qualcosa di diverso o di qualche indizio. Mezz'ora dopo, il gruppo era aumentato: arrivarono Toni, Uwe e Winfried von Burg, Andreas Lässler e sua moglie Sabine. Andreas aveva con sé una vanga, iniziò quindi a scavare nello stesso punto dove otto anni prima era stata scavata la fossa per Ursula Mohn. Gli altri perlustrarono la sterpaglia. Nessuno badava a Trude, che vagava tra le macerie, senza ragionare né pensare. Poco dopo, giunsero Richard e Albert Kressmann, anche loro con una
pala e un'asta. Richard era abbastanza sobrio e verificò con l'asta se il terreno era stato dissodato da poco. Albert osservò invece il mucchio di pietre, facendo notare a Jakob alcune tracce fresche sulla montagna di rovine: erano talmente minuscole che il padre di Ben non le aveva notate neppure. Uwe von Burg e Andreas Lässler si unirono a loro e insieme impiegarono venti minuti per sgomberare le pietre ricoperte dalla vegetazione e aprirsi un varco nell'ingresso della vecchia cantina con il soffitto a volta. Andreas e Albert s'infilarono sotto una trave messa di traverso, mentre Jakob, con il fiato sospeso, si aspettava da un momento all'altro un grido di orrore o disgusto. Trovarono molte cose sotto la volta, soprattutto detriti. Su uno scaffale mezzo fradicio c'erano alcune pentole di alluminio ammaccate, e dentro vecchie posate, cocci di statuine di porcellana, pezzi di legno e un'enorme quantità di ossa. Tutto era perfettamente catalogato e suddiviso. Le ossa perlopiù erano appartenute a topi di campagna, mentre quelle un po' più grosse erano forse di ratto. Non c'erano assolutamente resti umani. I giovani ricominciarono a togliere altre pietre dal mucchio. Senza alcun risultato. Toni von Burg, Jakob e Richard Kressmann controllarono la parte opposta della discesa alla Fossa e la strada che conduceva là. Alle quattro del mattino la maggior parte di loro si avviò al Boschetto per aiutare i volontari. Jakob prese Trude sottobraccio e seguì il gruppo. Richard Kressmann si sedette ai margini della Fossa per riprendere fiato, mentre Albert continuava a scavare sempre sul posto. Il gruppo di Wolfgang Ruhpold aveva iniziato le ricerche dalla fattoria dei Lässler. Gli uomini si erano divisi. Quattro di loro erano scesi verso il Boschetto e perlustravano lentamente il bosco. Gli altri, aiutati da potenti torce, stavano controllando tutto il percorso che Britta Lässler aveva probabilmente fatto. 28 AGOSTO 1995 Fino alle sei del mattino, circa trenta persone batterono sistematicamente il bosco. Jakob volle restare con loro perché era fermamente convinto che prima o poi Ben sarebbe saltato fuori. Doveva pur essere da qualche parte. Trude vagava come un'ombra. «Dovresti accompagnarla a casa», consigliò Uwe von Burg al suocero. «Non si regge più in piedi.» E Toni aggiunse: «Non preoccuparti per Ben, Jakob. Se lo vedo, te lo riporto a casa». Jakob ci mise più di un'ora a riaccompagnare Trude, tenendola sotto-
braccio. Lei continuava a mormorare tra sé e sé, e lui non capiva nulla di quel che diceva; la sorreggeva perché continuava a inciampare. Non appena svoltarono all'entrata della fattoria, videro Ben seduto sugli scalini di casa. Giocherellava con il suo coltello a serramanico, facendo scattare fuori la lama, poi dentro, poi di nuovo fuori. E davanti a lui, a terra, c'era la bicicletta di Britta. «Bene, via le mani», disse Ben, agitando la lama. Trude gridò, poi iniziò a gemere. Jakob la fece sedere accanto a Ben sugli scalini e strappò il coltello dalle mani del figlio, digrignando i denti. «Dov'è la ragazzina?» gli chiese. «Dov'è Britta?» «Carogna», disse Ben. Jakob alzò la mano e lo colpì con il pugno. Lo colpì finché Trude non gli si parò davanti. I gemiti del figlio si erano fatti striduli. «Basta! Basta! Lo ammazzerai!» «E farei bene!» esclamò Jakob. Ben era seduto sullo scalino. A ogni colpo, la schiena ferita era andata a cozzare contro lo spigolo; il viso era tagliato in due punti, un rivolo sottile di sangue gli scendeva dal sopracciglio sinistro, lungo la tempia. Anche il naso sanguinava e il labbro era spaccato. Ora, pensò Jakob, sembra proprio il diavolo. Abbandonò il figlio e aprì la porta di casa. Una parte di Trude si alzò, accompagnò Ben in cucina, lo fece sedere su una sedia, prese un panno pulito e iniziò a tamponargli le ferite con acqua fredda. Quante volte aveva fatto quei gesti, in tutti quegli anni? Quanti bernoccoli, quanti lividi e quante ferite si era portato a casa? E quante botte, quanti calci e morsi e graffi aveva dovuto subire? L'altra metà di Trude restò davanti alla porta, sollevò da terra la bicicletta di Britta, saltò in sella e se ne andò. E mentre pedalava con forza, mentre il vento le scostava i capelli dal viso, gelandole i pensieri, qualcosa nel suo essere si fuse con il telaio, la ruota e il manubrio penetrando nel metallo, nella gomma e nel passato per scoprire quel che la ruota avesse visto nelle ultime ore. Il granoturco! Tra i raggi della ruota si era infilato un pezzetto di foglia secca. Nella sua ira impotente, nella sua disperazione, Jakob non aveva notato quel particolare. La metà di Trude che stava in cucina, chiese: «Non vuoi chiamare la polizia?» «No», rispose Jakob. «Non ne vale più la pena, adesso. Se lui ha fatto
del male alla bambina, che senso ha farlo rinchiudere?» Trude chiuse gli occhi, appoggiandosi al bordo del tavolo. Jakob verificò la lunga lama del coltello. Non c'erano macchie di sangue, solo alcune tracce di ruggine. S'infilò il coltello in tasca, salì al piano di sopra e fece uscire Tanja, che stava battendo violentemente contro la porta della camera. Ritornarono entrambi in cucina. Jakob restò sulla soglia e osservò con espressione dura Trude che medicava Ben. Piena di orrore, Tanja si precipitò accanto alla sedia, s'inginocchiò, appoggiò il capo sulla gamba del fratello e lo accarezzò. «Mio povero Orso, cosa ti hanno fatto?» «Vieni via di lì», le intimò Jakob. Poiché lei non si mosse, entrò in cucina, la prese per un braccio e la spinse da parte. Poi, guardando Ben, gli disse in tono pacato: «Se hai fatto del male alla piccola, se solo le hai torto un capello, io e te ce ne andremo a fare un lungo viaggio». Trude non ebbe alcuna reazione. Tanja emise un grido, esprimendo la sua indignazione con un tono che il padre non le conosceva. «Sei completamente pazzo. Che stupidaggini dici?» Jakob non reagì. Controllò la camicia del figlio, i pantaloni, gli guardò attentamente le mani. Non erano più imbrattate del solito. E la sua pala pieghevole era in cantina. La sera precedente non l'aveva portata con sé, quando aveva accompagnato sua sorella e Britta. Era possibile che avesse tentato di recuperarla la notte, ma le porte e le finestre erano chiuse. «Dov'è la bambina?» chiese di nuovo. «Amico», biascicò Ben tra le labbra gonfie e il naso ostruito dal sangue. Tanja continuava a inveire contro il padre: che la smettesse con quelle sciocchezze, che si occupasse piuttosto di quelli che l'avevano conciato in quel modo. «È stato lui», disse Trude con voce priva di espressione. «È lui che lo ha sempre picchiato in quel modo terribile. È solo colpa sua. Sibylle diceva sempre che, se picchi un cane, quello azzannerà tutti. Lui lo ha reso così.» Non aveva neanche finito la frase, che Tanja si lanciò sul padre colpendolo con i pugni. La sorpresa di Jakob fu tale che sul momento non riuscì a fermarla. Subito dopo le bloccò i polsi e, inspirando profondamente, le spiegò quello che era stato fatto nelle ultime ore e ciò che aveva trovato fuori della porta. Un silenzio profondo calò sulla cucina. Tanja scoppiò in lacrime. «Sarei dovuta andare con lei.» Poi accusò Jakob. «Perché non l'hai accompagnata? Lo zio Paul non mi ha lasciato veni-
re qui da sola.» Voleva precipitarsi dallo zio Paul, perché ora era lui ad avere più che mai bisogno di lei, ma prima volle parlare con Ben, perché lui sapeva certamente quel che era accaduto a Britta. «Dov'è? Eri con lei.» «Carogna», borbottò Ben nuovamente. «Lo senti?» commentò Jakob con amarezza. Tanja lo ignorò. Forse lei era in grado di comprendere suo fratello più di tutti gli altri; i bambini hanno un loro linguaggio, e la fantasia di una tredicenne è sconfinata. Guardò in faccia Ben con gli occhi sgranati e le labbra tremanti. Poi, improvvisamente, lo colpì con i pugni sul petto, gridando con voce stridula: «Perché non sei stato più attento? Perché l'hai lasciata sola? Adesso quel porco ha ucciso anche Britta». Trude l'attirò a sé, la prese tra le braccia e la cullò finché i singhiozzi non cessarono. Nel frattempo Jakob portò Ben al piano superiore, chiuse a chiave la porta e si mise la chiave in tasca per evitare che la moglie si facesse venire qualche strana idea. Ma, con la mente, Trude stava già pedalando in bicicletta. Andava e tornava dal campo di granoturco, passando davanti ai campi e sul retro dei giardini. Avanti e indietro, senza sosta. Jakob le tolse dalle braccia Tanja senza che lei se ne accorgesse. Con il cuore greve, Jakob riaccompagnò la figlia minore alla fattoria dei Lässler. Voleva andarsene subito, almeno per dare una mano a quelli che stavano ancora cercando là fuori. Ma Antonia, che era restata a casa sperando ancora che Britta tornasse, lo pregò di trattenersi almeno per bere una tazza di caffè. Jakob si accomodò, avvertendo un vago languore allo stomaco e un dolore alle ossa, soprattutto alle mani. Antonia gli portò la colazione sul tavolo e si sedette accanto a lui e a Tanja. Era talmente tranquilla che Jakob non riusciva a capacitarsene. Nulla, nel tono della voce, faceva trasparire la preoccupazione o il dolore, mentre s'informava se Ben la notte o la sera precedente fosse stato fuori. Jakob poté solo annuire, il boccone gli si era fermato in gola. Tanja invece le snocciolò in un attimo tutto ciò che sapeva. «Non è vero quel che dice papà, Antonia. Ben è tornato a casa non appena loro erano usciti. Ha chiamato, ma non potevo farlo entrare, papà mi aveva chiuso a chiave in camera. Gli ho detto di sedersi davanti alla porta e credo che mi abbia ubbidito. Sicuramente non è più uscito. Non ha fatto nulla a Britta. Lo conosci, lui non ci ha mai toccato.» «Sì», sussurrò Antonia, annuendo. Fece una pausa, poi continuò, perduta nei suoi pensieri: «Quante volte è stato qui a giocare con voi. Era sempre
dolce, qualsiasi cosa gli faceste. E, se lo mandavate via, lui ubbidiva. Forse, lei lo ha mandato via. Paul le aveva detto di tenerlo a distanza». Jakob riuscì finalmente a deglutire, inghiottì ancora un sorso di caffè e disse con voce roca: «Ha portato a casa la bicicletta di Britta, Antonia». Quello parve sconvolgerla: una smorfia di dolore le contrasse il viso, ma per poco. Jakob l'osservava con ammirazione. «Mettila nel fienile, Jakob», gli disse subito dopo. «Anzi, no. Fai in modo che lui la riporti dove l'ha trovata. Forse ci fornirà un indizio.» Tanja non sapeva se Ben era tornato a casa con la bicicletta, dopo le dieci. Quando l'aveva sentito chiamare, si era affacciata alla finestra: la sua camera era sul retro, accanto a quella di Ben. Lui aveva fatto un giro intorno alla casa, e poi era tornato indietro quando lei gli aveva intimato di sedersi davanti alla porta e di aspettare lì. Tanja non sapeva se Ben era realmente restato là tutta la notte. Non appena Jakob se n'era andato, Trude aveva portato la bicicletta di Britta sul soppalco del fienile. E poiché, in un primo momento, a nessuno era venuto in mente di cercare qualcosa da lei o di farle delle domande, ebbe il tempo per bruciare lo zaino insanguinato. L'atmosfera in paese si era fatta rovente. Alcuni dicevano apertamente che Ben doveva essere ammazzato a bastonate, come un cane rognoso. Altri avevano notato l'assenza di Bruno Kleu durante le ricerche, tanto che persino in presenza dei figli discutevano dell'albero robusto e della corda con cui si doveva impiccarlo. Il passato ritornava. Anche allora avevano sparlato di nascosto degli Stern e dei Goldheim che se ne stavano nelle loro case eleganti, commercianti di bestiame o negozianti di biciclette che toglievano il pane di bocca agli altri. Ne dicevano di cotte e di crude anche sulla piccola Christa von Burg, cui il padre, pur con tutti i soldi e le proprietà che aveva, non riusciva a cancellare quel sorriso ebete dal viso. Nessuno, tuttavia, avrebbe mai denigrato la piccola Christa, gli Stern o i Goldheim di fronte a Wilhelm Ahlsen o alla polizia. Così, nessuno pensò di parlare apertamente di Ben, di Bruno o addirittura di Albert Kressmann, che ormai da solo, perché il padre stava sonnecchiando sui margini della Fossa, continuava a scavare, quasi volesse scoprire una seconda cantina. Solo Heinz Lukka fece quel che andava fatto. Il vecchio avvocato, quel lunedì, era andato al suo studio poco dopo le otto. Alle dieci aveva un appuntamento in tribunale. Appena tornato allo
studio, verso l'una, fu informato dalla sua segretaria che una certa signora Lässler aveva chiamato già due volte al telefono, pregandola di richiamarla con urgenza. Heinz Lukka rimase sconvolto quando Antonia gli spiegò il motivo della telefonata. «Per l'amor del cielo», disse Heinz. «Non è possibile, è passata da me proprio ieri sera; aveva litigato con Ben. Credo che fosse per la bicicletta. Lui era abbastanza agitato. Allora io l'ho fatta entrare in casa e ho rimandato lui a casa sua. Non avevo molto tempo a disposizione, perché avevo una riunione ed ero già in ritardo. Quando siamo usciti di casa, la bicicletta era scomparsa. Suppongo che sia stato Ben. Le ho offerto di accompagnarla a casa, ma lei voleva cercare la bicicletta.» «Hai visto qualcuno sulla strada?» chiese Antonia. «No, non quando siamo usciti di casa», rispose Heinz. «Prima c'era una donna con un uomo su una sedia a rotelle. E comunque Ben non era da nessuna parte. Hai avvisato la polizia?» «Quelli non possono fare molto più degli uomini là fuori», obiettò Antonia. «Non è vero», la contraddisse Heinz Lukka. «Loro hanno altri mezzi, i cani, gli elicotteri, che so. Dovresti avvertirli.» Visto che Antonia non rispondeva, Heinz aggiunse: «Due ragazzine della stessa famiglia non sono una semplice coincidenza, Antonia. E, a questo punto, non credo più che la figlia di Maria sia scappata. Piuttosto, ci dev'essere qualcuno che vi odia terribilmente. Bisogna fare in modo che a Lohberg si decidano ad avvertire la polizia criminale. O vuoi che me ne occupi io?» Terminato il colloquio, Heinz Lukka pregò la segretaria di cancellare gli appuntamenti del pomeriggio e del giorno seguente. Poco dopo, lasciava lo studio per andare al comando di polizia. Pensava di ottenere di più presentandosi di persona che non con una telefonata. Informò anche la stampa, per fare più pressione sugli inquirenti. Heinz Lukka tralasciò di dire che Britta Lässler era accompagnata da Ben, e che lui, visto che Ben dava in escandescenze, l'aveva fatta entrare in casa sua. Immediatamente, il capoufficio si recò di persona alla fattoria dei Lässler, dove incontrò solo Antonia e Tanja Schlösser. Antonia gli spiegò che dalla sera precedente mezzo paese stava cercando la figlia, ma fino a quel momento senza alcun esito. Tanja dichiarò di aver accompagnato Britta fino all'incrocio, tralasciando di spiegare al funzionario che intendeva dire il bivio per la fattoria degli Schlösser. Di conseguenza, il funzionario di poli-
zia immaginò che Britta fosse scomparsa negli ottocento metri che separavano la casa di Lukka da quella dei suoi genitori. Cosicché, una sola fu la sua conclusione: che ci volesse un'auto. Lunedì, poco prima delle tre, fui avvisata. Di Ben, nessuno fece parola. Ho impiegato anni a mettere insieme tutti i fatti. Quando avviai l'istruttoria, Ben era sdraiato sul letto, nella sua camera chiusa a chiave, stanco e abbattuto, confuso e spaventato. Trude era seduta in cucina, non mangiava, non beveva, non pensava, oscillava pericolosamente sul baratro. Antonia aveva fatto in modo che la polizia non la importunasse. Da quanto Antonia aveva affermato, il capoufficio del comando di polizia aveva concluso che Tanja Schlösser fosse alla fattoria dei Lässler solo perché Trude, la madre, era stata colpita da un attacco di cuore dopo aver saputo della scomparsa di Britta e riteneva che Trude si trovasse in ospedale. Jakob, invece, era ancora fuori casa. Dalla fattoria dei Lässler non aveva fatto ritorno a casa, né aveva fatto ciò che Antonia gli aveva chiesto. C'era in giro troppa gente per costringere Ben a spingere la bicicletta per tutta la zona. Questo era solo uno dei motivi. Fino al primo pomeriggio, Jakob partecipò attivamente alle ricerche. Non appena arrivarono i primi uomini in uniforme, andò dritto al magazzino Wilmrod. Chiese di restare a casa martedì, ma gli concessero solo un pomeriggio di libertà. Il lunedì sera, tornò a casa con il cuore greve, controllò brevemente Trude che sedeva immobile a tavola, verificò che Ben si trovasse nella sua camera e partì alla volta della fattoria dei Lässler. Sempre commosso per l'atteggiamento composto di Antonia, sperava in altrettanta disponibilità da parte del marito. Ma Paul era inavvicinabile. Jakob accarezzò con lo sguardo la figlia che sedeva sul divano, accanto all'amico. «Vorrei riportarla a casa», disse. «Perché Trude non resti sola in questo momento. Non sta bene. E io domani mattina dovrò tornare al lavoro.» Paul mise un braccio intorno alle spalle di Tanja e l'attirò a sé. «Lei resta qui finché non torna la mia piccina. Mi sembra giusto, ti pare?» «Non puoi farlo», ribatté Jakob. «Posso fare molto di più», dichiarò Paul. «Senti, ti faccio una proposta. Se farai in modo che Ben venga messo in un istituto, potremo discutere ancora. Heinz è stato qui nel pomeriggio e ha messo la mano sul fuoco per
lui. Se Ben non sarà più qui e questi fatti continueranno a ripetersi, allora anch'io sarò in grado di ammettere che non farebbe del male a nessuno. Ma se non succederà più nulla, avremo fatto ciò che andava fatto molto tempo fa.» «Non dargli retta, Jakob», intervenne Antonia. «Credo che Heinz abbia ragione. Ci dev'essere qualcuno che ci odia mortalmente, per farci una cosa simile. Ben non sa che cosa significhi odiare. Ti ha fatto vedere dove ha trovato la bicicletta?» Jakob non seppe risponderle, scosse solo il capo e se ne andò. ANTONIA E I SUOI PECCATI Se quanto accadde a Britta fosse accaduto quattro anni prima, nessuno avrebbe provato pietà per Paul e Antonia. Quello fu l'anno in cui Jakob mise in vendita il suo bestiame, affittò le sue terre e salì per la prima volta sul carrello elevatore del magazzino Wilmrod. Fu un anno difficile per Jakob. La cooperativa fondata con Paul e Bruno, che aveva funzionato bene per molto tempo, era stata sciolta. L'esempio di Toni von Burg aveva fatto scuola. Lo slogan era: specializzarsi. Persino Richard Kressmann ci aveva preso gusto, si era disfatto di tutti i suoi capi di bestiame e ormai si dedicava solo all'agricoltura. I suoi dipendenti perlomeno adesso avevano il fine settimana libero. Paul si specializzò nei maiali da ingrasso e coltivava solo granoturco da foraggio. Bruno invece concentrò la propria attività sui prodotti caseari e sulle barbabietole da zucchero. Solo Jakob faceva ancora un po' di tutto. Non aveva la possibilità di fare investimenti, e anche un'azienda ultramoderna avrebbe avuto bisogno di più di due mani. Da solo com'era, non ce l'avrebbe fatta. Nell'inverno tra il '90 e il '91, Jakob e Trude erano stati d'accordo nel decidere che non aveva più senso continuare la loro attività in quel modo. Jakob era ancora robusto, e in quanto a capacità lavorative poteva ancora tener testa a un trentenne. Ma anche un trentenne non ce l'avrebbe fatta, se fosse stato solo. Furono due mesi lunghissimi; avevano fatto calcoli soppesando la situazione, per rendersi conto alla fine che quel che restava, a conti fatti, sarebbe bastato solo a comprare poco o niente. In febbraio, una sera, Jakob parlò a Wolfgang Ruhpold del futuro incerto che li aspettava. Heinz Lukka, seduto accanto a lui, disse: «Non serve a nulla nascondere la testa nella sabbia. M'informerò, forse posso darti una
mano». Heinz Lukka non aggiunse altro per non dare a Jakob false speranze. Wilmrod era in debito con l'avvocato per aver avuto alcune facilitazioni grazie al suo intervento e soprattutto per avergli spianato la strada per il terreno del cantiere edile nella zona industriale. Due giorni dopo, era cosa fatta. Lukka passò dalla casa di Jakob una sera sul tardi, per dirgli che avrebbe potuto ottenere un posto di lavoro, e gli spiegò a quali condizioni. Non che potesse arricchirsi, però avrebbe avuto modo di mantenere la famiglia, e quello era ciò che contava. Fin dalla settimana successiva, Jakob iniziò la sua nuova vita, scandita e regolare. Non aveva più bestiame da accudire, estate e inverno, nei giorni feriali e in quelli festivi. Basta con il grano che un anno marciva per via della pioggia, mentre l'anno successivo bruciava per il troppo sole e la mancanza d'acqua. Basta con le patate che un anno erano di qualità così pessima che i clienti si lamentavano, e l'anno dopo erano talmente abbondanti da non rendere nulla. Tuttavia Jakob non era poi tanto soddisfatto. Gli mancava il cielo azzurro sulla testa, ogni volta che alzava gli occhi al soffitto del magazzino Wilmrod. Neppure il salario del primo del mese lo riconciliò con le parole di ringraziamento che aveva dovuto dire a Lukka. Trude, invece, rifiorì un poco. Così Jakob si convinse di aver agito per il meglio. Nel mese di settembre fecero tre settimane di ferie, le prime in cui Jakob avrebbe potuto dormire quanto voleva al mattino. Non che lo facesse, c'era sempre qualcosa da fare e da sistemare nella casa. Il mattino presto, si dava da fare e poi andava da Paul a chiedergli se aveva bisogno di una mano. Così trascorse la prima settimana. All'inizio della seconda, mentre lavoravano a fianco a fianco nella porcilaia, Paul gli disse: «Invece di sgobbare qui da me, dovresti andartene qualche giorno con Trude. Le farebbe certamente bene. E anche a te». Quella proposta non veniva da Paul. Era stata Antonia che aveva osservato che, dopo tutti quegli anni difficili, Trude si meritava un po' di riposo, e anche Jakob, naturalmente. Per quanto riguardava Ben, poi, era un agnellino. La colazione al mattino, un pranzo, una cena, un letto per la notte: per il resto, aveva solo bisogno della sua libertà. Dopo colazione, correva al Boschetto. Dopo pranzo, lo attirava la Fossa. Nel pomeriggio, prima o poi, si faceva vivo alla fattoria dei Lässler. Si sedeva a tavola con i bambini mentre facevano i compiti, e passava i polpa-
strelli sul ripiano del tavolo, quasi volesse scrivere o fare di conto anche lui. Rifiutava sempre fogli e matite. Non era uno scolaro, lui, era il custode. Se Antonia veniva a controllare i compiti dei figli, lui ridacchiava ammiccando verso di lei, preoccupato che lo mandasse via perché disturbava i bambini e desideroso di ottenere la sua benevolenza. Più tardi correva dietro ai bambini nel cortile, spingendo le carrozzine delle bambole da un punto asciutto all'altro per evitare che le inzaccherassero. E quando preparavano una bevanda effervescente nelle pentoline delle bambole o facevano sciogliere nei piatti un poco di gelato di vaniglia, lui si sedeva buono buono sugli scalini di casa, aspettando che gli facessero sorseggiare la bevanda o leccare dai piatti il gelato sciolto, ormai mescolato a qualche granello di sabbia. Talvolta lo mandavano dietro l'angolo di casa: lui era il papà che doveva andare a lavorare nella porcilaia e poteva avvicinarsi a loro sugli scalini solo quando Tanja gridava: «Ora puoi riposare, Orso, adesso è l'ora di cenare per gli uomini!» Finché non lo chiamavano, lui gironzolava dietro la casa. Annuiva e mormorava tra sé e sé sulle cose della vita. Buono, ecco che cos'era, riusciva solo a pensare Antonia. Un gigantesco bambino di diciotto anni che giocava alle bambole e si lasciava comandare a bacchetta da due bimbette. Perché Trude non avrebbe potuto godersi un po' di libertà, lei che non l'aveva mai conosciuta in vita sua? Libera da ogni preoccupazione, da ogni dovere. Jakob tornò a casa la sera stessa e riferì alla moglie la proposta di Antonia: Trude in un primo momento non ci credette, non voleva neanche considerare quella possibilità. Jakob tuttavia stava già pregustando l'idea e le ricordò il ricovero in ospedale, quando le cose tra Ben e Antonia erano filate lisce. Tre giorni più tardi, Jakob caricava due valigie in macchina. Una settimana nella Foresta Nera, in una pensioncina, camera doppia con acqua corrente e prima colazione inclusa. Trude fece le sue raccomandazioni ad Antonia, prima di partire, le diede consigli, istruzioni e il numero di telefono della pensione, se mai ce ne fosse stato bisogno. Salendo in auto, lei prevedeva che Ben l'avrebbe trattenuta, prendendola per un braccio, che avrebbe fatto il diavolo a quattro. E invece lui rimase tranquillo sulla porta di casa, in mezzo alle bambine; era raggiante, come una mattinata chiara di primavera, e le fece un cenno con la mano solo quando Antonia glielo ricordò. Ciononostante, Trude non riuscì a godersi veramente quella vacanza. Si
chiedeva cento volte al giorno che cosa stesse facendo Ben in quel preciso istante. Chiamò tre volte Antonia, la sera. E ogni volta, l'amica le rispondeva ridendo e in poche parole le riferiva la giornata e i passatempi di Ben. Giocava, mangiava e dormiva. E se lei gli affidava un coltellino da cucina, naturalmente sempre sotto stretto controllo, e una patata, lui ne incideva la buccia facendo strani ghirigori. Che cosa dovessero rappresentare, non si capiva, ma Antonia trovava che fossero belli. Nei primi giorni nessuno seppe dell'opera buona di Antonia. Se le cose fossero rimaste così, nessuno si sarebbe preoccupato. Infatti nessuno sapeva che Trude e Jakob erano nella Foresta Nera. Antonia commise però l'errore di andare nella gelateria del padre, una domenica pomeriggio, con tre dei ragazzi. Il padre si sedette al loro tavolo e Toni e Illa von Burg si unirono a loro. Due tavoli più in là, sedeva Thea Kressmann con il figlio. Antonia raccontava dei giorni precedenti, di come Ben fosse stato buono: bastava trattarlo con gentilezza, rivolgendogli ogni tanto una parola buona o un gesto gentile. Di come si facesse coccolare, quasi fosse un vecchio gattone. Ci mancava solo che facesse le fusa. Soprattutto la mattina, quando scendeva dal letto, morbido come un piumone, si fermava sulla porta della cucina aspettando che lei si voltasse e gli aprisse le braccia. Allora si avvicinava, con un sorriso vergognoso, si lasciava abbracciare e baciare sulla fronte, e le appoggiava la testa nell'incavo del collo. Era una vergogna, disse Antonia, che per tutta la vita gli fosse stato negato l'amore. Toni von Burg osservava Ben con uno sguardo malinconico, mentre annuiva ad Antonia e ricordava la sorellina cui era stata negata la vita. Se fosse stato per lei, aggiungeva intanto Antonia, e se Paul fosse stato il padre di Ben, lei avrebbe preteso che lo accompagnasse in una di quelle case. Avrebbe dovuto fare una scelta oculata, certo, perché Ben fosse trattato con dolcezza e non liquidato frettolosamente. Fu un attimo. Si sparse la voce di come la pensava Antonia. E ogni persona di buon senso scrollava la testa con disappunto. Questi mediterranei, passionali e superficiali! Non avevano in testa altro che porcherie. Portare Ben in certe case! Solo Antonia poteva farsi venire idee del genere. Non ci sarebbe stato da sorprendersi se magari un giorno gli avesse infilato nel letto una delle sue figlie. In paese, tutti si aspettarono che una disgrazia del genere si verificasse, prima o poi. Ma non si verificò, non quell'anno. 29 AGOSTO 1995
Un giorno e una notte, poi fu di nuovo giorno. Trude era rimasta seduta a tavola per tutta la notte. Jakob si era sdraiato sul divano del soggiorno per restarle accanto, nel caso lei avesse avuto bisogno di qualcosa. Non aveva pensato a mettere una sveglia, perciò si era presto addormentato e, quando si svegliò, erano già le nove. Prese il giornale e lo mise sul tavolo, davanti alla moglie. Il viso sorridente di Britta li fissava in prima pagina. Così giovane e così innocente. Finalmente, Trude reagì. «Posso almeno portargli la colazione?» chiese. «Non ha mangiato nulla da ieri.» Ben aveva piagnucolato per tutta la notte, picchiando timidamente alla porta di tanto in tanto e un paio di volte aveva chiamato: «Amico» e «Via le mani» e «Ben fatto». Poteva voler significare che le sue intenzioni erano buone, che sapeva ciò che gli era proibito e che aveva cercato di fare la cosa giusta. Oppure, poteva significare qualcosa di completamente diverso. Trude lo aveva sentito, ma non era potuta intervenire. «E va bene», concesse Jakob. «Che non esca, però.» Posò la chiave sul tavolo, ripiegò il giornale e se lo mise sotto il braccio. Avviandosi alla porta, dichiarò: «Tornerò dopo mezzogiorno. Gli farò vedere la foto. Vedremo quel che succederà». Trude restò seduta al tavolo, e sentì il rombo del motore diesel che si allontanava velocemente, perdendosi in lontananza. E fu allora che quella fiamma incendiò il suo corpo e le penetrò le vene come un fulmine arrivandole al cervello con un calore insopportabile. Non restò neppure la paura, solo una calma ardente, asciutta e polverosa. Trude andò al fienile, salì sulla bicicletta e sprangò la porta perché nessuno, in sua assenza, potesse inciampare nella bicicletta di Britta. Poi si recò in paese. C'era un chiosco all'inizio della Bachstrasse. Acquistò un'altra copia del giornale, tornò a casa e si risedette a tavola, osservando il viso sorridente della ragazzina in prima pagina, provando una sensazione di calma, come se tutto il calore si fosse raffreddato fino al punto di diventare un blocco di ghiaccio. Fissò a lungo il viso di Britta senza provare nulla, poi preparò una ricca colazione per Ben e la portò di sopra insieme con il giornale. Il ragazzo giaceva sul letto e dormiva. Sentendo girare la chiave nella serratura, si svegliò e, quando vide la madre entrare con il piatto in mano e un sorriso sulle labbra, sorrise a sua volta. Si mise seduto e afferrò velocemente il primo panino. Trude gli sedette accanto, sull'angolo del letto, sempre tenendo il giorna-
le sotto il braccio. Ben spazzolò via tutto il cibo in un attimo. Lei gli allontanò i capelli dalla fronte mormorando: «Mio povero ragazzo. Avrai certamente sete». Nonostante il divieto di Jakob, lo fece scendere in cucina. Jakob non contava più. C'erano solo lei e lui, una donna e il frutto che il suo corpo aveva espulso nel mondo. Forse non era buono, ma non era neppure cattivo e nessuno aveva il diritto di ucciderlo, neanche il suo stesso padre. Ben trangugiò due bicchieri di latte e subito dopo si diresse alla porta. «No, no», si affrettò a dire Trude. Lui si fermò. «Tra poco», disse lei. «Tra poco uscirai. Ora vieni un momento qui e fai molta attenzione. Stai attento a quel che ti dico.» Ben ritornò al tavolo e la fissò con attenzione. Lei batté due dita sulla foto della ragazzina. «Questa è Britta», disse cauta. «Tutti noi le vogliamo molto bene. Ho sempre pensato che anche tu le volessi bene. Se le hai fatto del male, non sei stato buono. Tu le hai fatto del male?» «Amico», rispose Ben. «Sì», disse Trude, «tu sei suo amico. E sei anche amico di Antonia, vero? Tu vuoi bene ad Antonia?» «Bene», rispose Ben. «Sì», riprese Trude. «Antonia va bene. Ma ora Antonia è triste e piange perché Britta non c'è più. Se Britta non ritorna, anch'io piangerò. Vuoi che pianga?» Ben scosse la testa come se avesse inteso ogni singola parola. Con un profondo respiro, Trude attinse alle ultime forze rimaste sotto quello strato polveroso di calma e proseguì: «Tanti hanno già cercato Britta, ma non l'hanno trovata. Tu trovi sempre delle belle cose. Me ne hai portate tante: una borsetta, una giacca e la bicicletta di Britta. Hai fatto bene. Sono sempre contenta, quando mi porti qualcosa di bello. E adesso mi porti Britta, vero?» Trude continuava a segnare con il dito il viso sul giornale. «Tu sei il mio buon Ben, tu sei il migliore. Avrai un bel gelato, se me la porterai. Ma devi fare in fretta, stando attento che nessuno ti veda.» Non c'era nessuno nelle vicinanze che avrebbe potuto vederlo. Nel frattempo, i volontari avevano sospeso le ricerche. L'ipotesi da noi formulata, che Britta fosse stata caricata in un'auto, si era risaputa in giro e corrispondeva ai riscontri della ricerca. Nessuno ormai pensava di trovare la ragazzina nei dintorni del paese. Non appena Ben fuggì all'aperto passando per la cantina, Trude salì nella
camera del figlio. Avrebbe voluto accompagnarlo, ma le sue gambe, la testa e il cuore non erano più in grado di reggere quella fatica. Andò alla finestra, ma non riuscì a scorgerlo. Poco prima di mezzogiorno, il campanello della porta squillò. Trude scese faticosamente le scale, pronta a dichiarare ai poliziotti che il marito era al lavoro e suo figlio fuori. C'era solo Tanja, invece, con il viso bagnato di lacrime. Antonia l'aveva mandata a casa perché potesse parlare con Ben. Trude sedette in cucina con la figlia. «L'ho fatto uscire», le spiegò. Non avevano mai avuto molto da dirsi, ma il pensiero di Ben le aveva riavvicinate un poco. La ragazzina riprese a piangere, per Britta e per suo fratello. «Se fossi andata con loro... Non capisco perché lui non l'abbia accompagnata a casa.» Di sotto, una porta sbatté. Trude sospirò leggermente. «Eccolo. Ora vai, è meglio.» Tanja però insisteva, voleva parlare assolutamente con lui. «Fammi provare, mamma. Antonia pensa che lui sappia qualcosa. E io lo capirò certamente. Io capisco tante cose di lui. Quando dice 'carogna', per esempio. Pensate sempre che inveisca contro qualcuno. Non è così. Lui intende dire che qualcuno è morto, o che, se non si fa attenzione, può succedere qualcosa.» Non appena Ben entrò in cucina, Tanja balzò dalla sedia, gli andò incontro e vide che teneva un fagotto in mano. Era un sacco di plastica, sporco. Trude conosceva quel tipo di sacchi. In paese, alcuni li utilizzavano per i rifiuti biologici. Anche lei ne aveva un rotolo in cantina, quindi pensò che Ben ne avesse preso uno, uscendo. Non c'era molto, nel sacco, solo un oggetto rotondo, come una palla. «È meglio che tu vada, ora», ripeté Trude allungando la mano verso il sacco. «Parlerai domani con lui.» Tanja scosse il capo, chiedendo con la fronte aggrottata: «Che cos'hai lì, Orso?» Lui rise tra le labbra gonfie. «Bene», disse. Poi si avvicinò al tavolo con il sacco. Trude lo sapeva, nel sacco non c'era una palla. Non gli aveva chiesto di cercarne una. E sul giornale, c'era solo il viso di Britta. Ben infilò la mano nel sacco ed estrasse la testa. Il sorriso di Britta era ormai spento, afflosciato e intriso di sangue. Trude non udì il grido della figlia. Non vide che Tanja fuggiva incespi-
cando dalla cucina con Ben alle calcagna, non udì la porta chiudersi alle loro spalle. Vedeva solo quel viso afflosciato e insanguinato e il proprio sangue che le invadeva le vene del cervello. Sollevò la testa prendendola delicatamente per i capelli, la infilò di nuovo nel sacco e andò in giardino. Prima che Jakob tornasse a casa, Trude scavò una buca, vi adagiò il sacco, lo coprì con un po' di terra e vi piantò sopra alcuni cespi d'insalata avvizzita. Era passata mezz'ora e lei aveva appena terminato, quando Jakob tornò alla fattoria. LE NOZZE Gli abitanti del paese considerarono Marlene Jensen la prima vittima di quelle terribili settimane estive. Solo Trude sapeva di Svenja Krahl e, in ogni caso, non con certezza. Ormai nessuno ricordava più Althea Belashi. E nessuno immaginava che nel mese di novembre del '94 a Ben era accaduto un miracolo. Suo padre aveva visto risuscitare Edith Stern dalla morte, e lui fu premiato per aver atteso così a lungo la sua trapezista. La vide improvvisamente alle nozze di Andreas Lässler e Sabine Wilmrod, lei, che quindici anni prima era stata così gentile con lui e che era scomparsa nelle viscere della terra. La festa si svolse nel salone dell'osteria di Ruhpold. Gli sposi avrebbero preferito festeggiare in sordina, ma si sarebbe potuto pensare che il magazzino Wilmrod non rendesse abbastanza, e, poiché il matrimonio era stato organizzato dal padre della sposa, erano state invitate tutte le persone influenti. Eccezion fatta per Heinz Lukka, che era in vacanza. Jakob aveva esitato molto prima di accettare l'invito: dopotutto, lui era solo un magazziniere. Ma Wilmrod era un uomo in gamba che non dimenticava di avere iniziato dal nulla, con chiodi e viti, nel piccolo negozio di ferramenta ereditato dal padre. Wilmrod, a differenza di molti, non ricordava di continuo ai propri dipendenti che era lui il capo. La sera beveva spesso una birra con il procuratore. Ma era un altro paio di maniche, secondo Jakob. Wilmrod probabilmente non aveva mai pensato che un giorno avrebbe condiviso il pranzo di nozze dell'unica figlia con uno dei suoi magazzinieri. Jakob aveva quasi l'impressione di prendersi troppa confidenza. Durante la funzione, rimase a testa china accanto a Ben, senza neppure notare quanto accadeva. Trude sedeva alla destra di Ben tenendo una mano sulla gamba del figlio che si agitava di continuo. Non era il massimo per lui se-
dere immobile in un banco di chiesa. Il nuovo parroco parlò abbastanza a lungo, lentamente, sottolineando ogni parola che pronunciava con ampi gesti, mentre i chierichetti facevano oscillare avanti e indietro l'incenso, tanto che tutto l'altare era avvolto nel fumo. Persino la sposa si muoveva irrequieta sulla poltroncina. Certe solennità possono risultare un po' esagerate. Trude si accorse che Ben non era agitato per via della cerimonia. Sedevano in uno degli ultimi banchi nella navata sinistra. Due file di banchi davanti a loro, sedevano Erich e Maria Jensen con la figlia Marlene. Ben non guardava verso l'altare che era nascosto alla sua vista da una larga colonna, ma fissava le spalle esili dinanzi a lui, i capelli ben pettinati che s'inanellavano in morbide ciocche bionde sulle spalle di Marlene. Ogni tanto la ragazza, annoiata, girava la testa di lato e Ben, scorgendo il suo profilo, faceva un lungo sospiro che arrivava fino alle orecchie di Trude. Lei si girò più volte, sussurrandogli: «Sii buono, è quasi finita. Poi ci sarà una bella torta». E Ben di rimando, senza staccare lo sguardo dai lineamenti delicati, rispondeva in un soffio: «Bene». Trude comprese subito chi attirava la sua attenzione e anche lei fu colta dalla sorpresa, rammentando il corpo gracile che volteggiava sulle loro teste. Ricordava il viso grazioso della giovane trapezista e ricordò anche che si era avvicinata a Ben per ringraziarlo del fragoroso applauso e che lo aveva portato sulla pista e gli aveva stampato un bacio su entrambe le guance. Trude si scrollò di dosso quel ricordo: era stato tanto tempo prima, almeno quindici anni. La madre di Ben non sapeva che nella mente di suo figlio il tempo non esisteva, esisteva l'oggi, e il passato continuava a esistere anche se era trascorsa un'ora o un giorno. Per lei, Marlene Jensen era una ragazza attraente con una notevole somiglianza con qualcun altro. Lui era un giovanotto di quasi ventidue anni che, come affermava giustamente Jakob, aveva più sensibilità di altri, senza però essere in grado di gestirla in alcun modo. Quello era il momento tanto temuto da Trude: che lui potesse scoprire di avere dei sentimenti. Trude aveva riposto le sue speranze nei bambini, che lo avevano sempre distratto da tutto il resto. Poco dopo le undici, l'unione era stata suggellata. Andreas Lässler condusse la giovane moglie sul portale della chiesa. I genitori e gli ospiti li seguirono lentamente. Fuori, li aspettava una carrozza con un tiro di quattro cavalli bianchi, ornata a festa con ghirlande e pennacchi. Nessuno ri-
cordava le coperte impolverate e i manifesti variopinti che avevano fatto pubblicità al circo. Solo Ben li vedeva, in quella stanza luminosa che era la sua memoria. Se qualcuno si fosse preso la briga di osservare con una lente quel che incideva sulla buccia di una patata, non avrebbe più potuto definirlo un idiota. A occhio nudo non si vedevano che incisioni confuse, semplicemente perché lui voleva far stare tutto su una buccia sola. Marlene Jensen si avvicinò ai cavalli e accarezzò il collo a uno di loro. Ben fece un balzo, quasi volesse saltare in sella, e afferrò la criniera del cavallo con entrambe le mani, con tanta forza che Trude fece fatica a staccargliele. Marlene salì quindi su un'auto con i genitori. E Ben dietro, con i propri genitori che faticavano a tenere il suo passo. Data l'avversione di Ben per la Mercedes, Trude e Jakob avevano lasciato l'auto a casa. Ma Ben non fece difficoltà nel salire sull'auto di Paul e Antonia, che possedevano una familiare. Trude non aveva mai pensato che la sua riluttanza avesse a che fare con l'auto; semplicemente, pensava che non salisse volentieri con il padre, perché rifiutava di stare con lui in spazi ristretti. Entrando nel salone di Ruhpold, videro che quasi tutti i posti erano occupati. Ogni posto era contrassegnato da un cartoncino con il nome. Gli Jensen sedevano a un'estremità del tavolo nuziale. Sui lati erano stati apparecchiati altri tavoli, perché non c'era spazio per tutti gli ospiti. Jakob trovò il suo nome a uno di questi. Senza opporre resistenza, Ben si lasciò condurre al suo posto. Poi stette seduto, silenzioso e raccolto, con lo sguardo rivolto all'estremità del tavolo lungo. Neppure una volta guardò in direzione degli sposi, né di Tanja o di Britta. Trude era disarmata. Povero Ben! Una ragazza così bella e viziata, intrisa fino al collo di arrogante bellezza. Trude fece del suo meglio per distrarlo, con sfogliatine, una zuppa, un arrosto e svariati tipi di gelati e budini. Ma non servì a molto. Dopo pranzo, tentò con una passeggiata, ma lui la seguì di buon grado solo perché anche Marlene era uscita a sgranchirsi le gambe. L'accompagnava un giovanotto, parente dei Wilmrod, che Trude non conosceva. Forse era un po' più giovane di Ben. A Trude parve uno sciocco. Bevvero il caffè al loro tavolo: Ben sbriciolò la sua fetta di torta, e ci volle una mezz'ora prima che terminasse di portare alla bocca tutte le briciole, dato che non staccava gli occhi da Marlene Jensen. Dopo il caffè, gli ospiti cominciarono a girare tra i tavoli. Dopo qualche
esitazione, Jakob andò al tavolo del banchetto, si avvicinò a Paul chiacchierando del più e del meno. Antonia venne da Trude e, cercando di non farsi notare, verificò che il nastro di velluto che Ben portava al posto della cravatta non fosse troppo stretto. Anche Antonia aveva notato il suo sguardo malinconico e invitò le due ragazzine a occuparsi un po' di Ben. Ma non ci fu nulla da fare, non servirono a nulla le carezze, né gli inviti. Stava là seduto e fissava Marlene. Quella sera fu offerta una cena fredda, Trude gli riempì il piatto di manicaretti facendo attenzione che non s'impiastricciasse tutta la camicia di maionese, e intanto si rendeva conto che c'erano cose che lei non poteva fare per lui. Ben non aveva sentimenti diversi da Albert Kressmann, che sotto il tavolo accarezzava le gambe di Annette Lässler e contemporaneamente divorava con gli occhi Marlene Jensen. Aveva lo stesso desiderio di Dieter Kleu che cercava di farsi notare da Marlene facendo la voce grossa. Né aveva meno cuore di Achim Lässler, che subito dopo cena andò a prendere la sua ragazza. Non provava voglie diverse da Bruno Kleu, che di nascosto osservava Maria. Non provava meno amore di Uwe von Burg, mentre chiedeva a Bärbel di sposarlo. E non provava sentimenti diversi da quelli di Andreas Lässler mentre pregustava la sua prima notte di nozze. Trude non aveva mai visto suo figlio sotto quella luce. Che fosse in grado di stare seduto per ore su una sedia, ricordando e meravigliandosi che colei che era stata così gentile con lui ora non gli rivolgesse né una parola né un sorriso. A Marlene non era sfuggito che Ben non le staccava gli occhi di dosso. Chiunque altro l'avrebbe lusingata, ma Ben decisamente no! Avvertì suo padre, il quale fece un cenno di diniego; in fondo, non era proibito guardare una ragazza. Se anche lo faceva per ore, non era un delitto. Non era possibile proibire qualcosa del genere, e comunque Erich trovava più indisponenti gli sguardi che Bruno lanciava a Maria. Dopo cena, gli sposi aprirono le danze con un valzer. Il farmacista fu costretto a invitare sua moglie per evitare che Bruno si prendesse la libertà di farlo prima di lui. Anche Jakob avrebbe desiderato concedersi un giro di danza, ma Trude non osava lasciare Ben, e lo fece solo per dieci minuti, quando Antonia le diede il cambio. Dalla pista da ballo, i due videro Antonia che sussurrava qualcosa a Ben e poi lo accompagnava dalla nipote. «Puoi darle una carezza», disse Antonia.
Marlene sorrise infastidita, ma non osò fare obiezioni per non rischiare di perdere la simpatia della zia. Protestò molti mesi dopo, quando Ben capitò sulla sua strada. AGOSTO 1995, L'ULTIMO GIORNO Il collega Dirk Schumann e io fummo coinvolti nella vicenda poco prima della sua conclusione, ma per noi si trattava dell'inizio. Fu un lunedì, come ho già accennato, esattamente diciassette giorni dopo la scomparsa di Marlene. Mi ero occupata un po' della storia del paese quando era stato archiviato il caso di Ursula Mohn, nel settembre dell'87, ma senza alcun esito. Avevo sentito parlare della vecchia vicenda di Althea Belashi e conoscevo le dichiarazioni di Maria Jensen, Heinz Lukka e Bruno Kleu. Quindici anni prima, le dichiarazioni di Bruno erano state messe a verbale nel modo seguente: «Sì, è vero, ho parlato brevemente con quell'artista sulla piazza del Mercato. Avevo un appuntamento a Lohberg e lei mi chiese se potevo darle un passaggio. Voleva andare alla stazione. Avrei dovuto fare una piccola deviazione. Però lei volle passare prima dal prato comunale, perché aveva lasciato là la sua valigia. Io l'ho aspettata sulla strada provinciale, credo per una decina di minuti. Poi me ne sono andato perché avevo un appuntamento e non volevo arrivare in ritardo». Le dichiarazioni di Bruno Kleu si dimostrarono inconfutabili, anche perché l'«appuntamento» di Bruno confermò che si era effettivamente recato da lei. E non fu mai rinvenuto il corpus delicti. Nel caso dell'aggressione di Ursula Mohn, invece, avevo interrogato più volte Bruno, in quanto era il maggiore indiziato. E se anche avessi saputo dell'esistenza di Ben, probabilmente non avrei comunque ipotizzato che fosse stato lui l'autore delle ferite inferte alla ragazza. Il medico legale che effettuò la perizia su di lei affermò che l'autore dell'aggressione aveva cognizioni di anatomia. Alcune ferite di punta erano alquanto profonde, ma nessuna era tale da mettere la vittima in pericolo di vita. «Chi ha fatto una cosa del genere voleva che la ragazza gridasse», aveva dichiarato il perito. Tali affermazioni escludevano Ben sia per il passato sia per il presente. Ben non aveva nozioni di anatomia, e le grida solitamente lo spaventavano. Bruno Kleu poi conosceva la zona come le sue tasche, sapeva perfettamente come superare la fattoria dei Lässler senza essere visto. E se anche qualcuno l'avesse notato, un suo passaggio aveva comunque una spiega-
zione plausibile, visto che possedeva dei terreni. Avevo fatto esaminare la sua auto, quella stessa Mercedes che un giorno avrebbe usato Jakob, ma senza alcun esito. Avevo organizzato un confronto tra Ursula Mohn e Bruno dopo che la ragazza si era ripresa, ma lei non aveva reagito alla vista di lui, né aveva fornito alcuna dichiarazione interessante. Forse, se avessimo parlato con lui, Ben avrebbe potuto esserci d'aiuto, allora. La sua reazione violenta alla vista del taxi che portava Trude in ospedale nel febbraio,dell'88 indica che lui aveva perlomeno visto l'auto che aveva portato Ursula Mohn alla Fossa. Nel 1987, in paese c'erano numerose Mercedes. Quella di Toni von Burg, color amaranto, e quella di Erich Jensen, blu scura. Alla fattoria dei Kressmann ce n'erano due, di cui una beige. Lukka e Bruno Kleu avevano una Mercedes bianca. Probabilmente, il gioco di pazienza con il muso del gatto sarebbe stato ancor più determinante dell'auto. Se Ben aveva realmente trovato quella scatolina di plastica nella Fossa, come poteva sapere che le piccole sfere di metallo andavano messe proprio in quei tre buchini? Non possiamo ragionevolmente escludere che Ben ci potesse arrivare da solo, ma è più probabile supporre che qualcuno volesse distrarlo con il gioco, e doveva essere qualcuno che aveva una grande confidenza con Ben. Se avessimo avuto occasione di interrogarlo, forse avremmo compreso Ben esattamente come riusciva a comprenderlo la sua sorellina. Ma come ho già detto, neppure sapevo che esistesse. Né venni a conoscenza delle chiacchiere che giravano su Bruno e sulla trapezista. Eppure, quel lunedì, appena fui avvisata della scomparsa di una ragazzina di tredici anni, il mio primo pensiero andò a Bruno; e solo incidentalmente seppi che anche la cugina diciassettenne della scomparsa mancava da casa, ma forse a causa di problemi familiari. Nessuno ammetteva di aver trascurato un solo particolare, nessuno mi parlò di Svenja Krahl. A discolpa degli inquirenti di Lohberg, devo ammettere che perlomeno di Edith Stern non sapevano nulla. Esattamente come otto anni prima, andai sul posto con Dirk Schumann. Bruno Kleu ci stava già aspettando. Era molto mogio e non volle fornire indicazioni su dove e con chi avesse trascorso la domenica sera. Sequestrammo nuovamente la sua vettura e lo portammo a Lohberg. Non che Dirk e io avessimo molto da fare, in paese. Le ricerche di Britta Lässler erano ancora in pieno svolgimento, tre pattuglie di poliziotti e molti volontari stavano ancora setacciando i dintorni, quel lunedì pomeriggio.
Speravamo che Bruno confessasse spontaneamente, e soprattutto in fretta, dove si trovava la ragazzina. Invece, lui continuava a ripetere: «Cristo santo, perché mai avrei dovuto abusare di una bambina? È follia pura». Lo interrogammo ininterrottamente fino a tarda sera. Martedì mattina ricominciammo. La notte trascorsa in cella aveva reso Bruno Kleu un po' più malleabile. «Non ho la più pallida idea di dove possa essere la piccola dei Lässler», esordì. «Ma non è l'unica persona scomparsa. Chiedete un po', in paese. Venerdì sera, una ragazza americana si è presentata all'osteria di Ruhpold, voleva andare da Lukka, e da allora nessuno l'ha più vista in giro. Albert Kressmann ne ha parlato a tutti. Perché non andate a chiedere a Lukka? Se c'è qualcuno che deve nutrire un odio speciale per la famiglia Lässler, quello è proprio lui.» Non seppi come gli fosse giunto all'orecchio quanto l'avvocato aveva detto sul conto di Antonia Lässler. Del resto, non m'interessava; non era Lukka a essere sospettato. In primo luogo, lui aveva avvisato la polizia, e d'altra parte domenica sera stava partecipando alla riunione del consiglio comunale. «Non voglio affermare che sia stato lui», disse Bruno. «Dico solo che, con Maria, Lukka è rimasto a bocca asciutta, invece io no. Ecco perché, a mio parere, dovreste andare a parlare con Erich Jensen di... sua figlia. E chiedetegli pure com'è morta Gerta Franken.» Il tono delle sue parole mi colpì. Tuttavia non feci in tempo a chiedergli che cosa intendesse e chi fosse Gerta Franken, perché Bruno, passandosi le dita tra i capelli, riprese: «Se Maria mi avesse accennato a qualcosa, in passato, sarei intervenuto immediatamente con mio figlio. Ma solo due giorni fa lei mi ha detto che ho una figlia e che per poco non ne ho avuta una seconda. Anche l'aborto che ha avuto: anche quella era una bambina. Prima o poi, io, a Erich gli rompo il muso, credetemi». Poco dopo, Bruno confessò di avere imbrogliato un po' le carte, quindici anni prima. Althea Belashi non era andata con lui alla stazione, né lui aveva intenzione di andare a Lohberg. Era rimasto a chiacchierare con la trapezista nella piazza del Mercato, perché nessuno notasse che stava aspettando un segnale da Maria. Erano d'accordo in questi termini: lui passava in piazza e lei, dalla finestra, gli faceva segno se era libera di uscire o no. Quella sera, lui aveva interpretato il segnale in senso positivo, perciò aveva preceduto Maria alla Fossa, accompagnando Althea fino al prato comunale. Ma probabilmente Maria aveva mal interpretato la conversazione di Bruno con la ragazza e non si era presentata all'appuntamento, anzi, con la
sua dichiarazione, l'aveva messo nei guai. Così, lui aveva mentito, parlando della stazione, e aveva dato cinquecento marchi alla cameriera di un alberghetto per crearsi un alibi e risparmiarsi quel che stava vivendo in quel momento. «Maria è sempre stata difficile. Non ero buono da sposare, voleva un uomo dai modi raffinati. Però ogni tanto voleva qualcosa di meno fine, e allora c'ero io», spiegò Bruno quasi rassegnato, e aggiunse: «Erich è sempre impegnato con la politica. E se io mi guardo un po' intorno, scoppia il finimondo. Se solo sospetta che io abbia fatto l'amore con mia moglie, Maria va fuori dei gangheri». «Domenica sera, lei era con la signora Jensen?» gli chiesi. Bruno scosse il capo con forza e dichiarò: «Maria giurerà e spergiurerà di essere stata a casa a piangere. È vero, ha pianto, ma dove lo abbia fatto, non riguarda nessuno». Sorrise stancamente. «E ora voglio un avvocato. Senza alibi, credo di averne bisogno. Uno qualsiasi, basta che non sia Lukka, perché quello mi farebbe marcire qui con grande piacere, e io voglio tornarmene oggi stesso a casa mia.» Verbalizzammo le dichiarazioni di Bruno all'incirca nello stesso momento in cui Ben posava sul tavolo di cucina la testa di Britta. Mentre Trude piantava i cespi avvizziti d'insalata, Ben rincorreva la sorella minore, costeggiando il Feldweg. Tanja non piangeva, piena di orrore e di disgusto; aveva smesso di urlare, mormorava solo incomprensibili frasi mozze. Gli occhi sgranati, vedeva dinanzi a sé solo la testa di Britta, che con lei aveva vissuto per tredici anni, dormendo nel letto accanto al suo e con la quale aveva condiviso sogni e progetti per il futuro. Ben cercò due volte di prenderla per un braccio, e due volte lei lo scacciò: «Vattene! È colpa tua. Dovevi stare con lei». Singhiozzando, aveva accelerato il passo, lasciandosi indietro il fratello di qualche passo. Rallentò solo quando raggiunsero il granoturco e lo superò per raggiungere la casa di Lukka. Heinz era in giardino, in mano teneva le cesoie per le rose. La vide arrivare, con Ben alle calcagna. Vide l'espressione di terrore sul viso della ragazzina, così abbandonò il giardino, arrivò al sentiero e l'accolse tra le braccia. «Su, su», le sussurrò dolcemente. «Non stai cercando di sfuggire a tuo fratello, vero?» Confusamente, la ragazzina balbettò frasi smozzicate, di cui si capivano
solo poche parole: «Ha portato alla mamma la testa di Britta». Heinz Lukka chiuse gli occhi, turbato, poi, ripresosi, disse: «E tu ora vuoi andare dallo zio Paul a raccontarglielo. Ma non è il caso che tu lo faccia. Meglio lasciar fare alla polizia». Parlando, la condusse attraverso il giardino, verso la porta di casa. In quel preciso istante, nel momento in cui la porta si chiudeva alle spalle di Lukka, Jakob stava entrando nel proprio fienile con la vecchia Mercedes. Per tornare a casa, aveva fatto un ampio giro e si era convinto che la via fosse libera: avrebbe finalmente potuto fare quel che Antonia gli aveva chiesto, cioè fare in modo che Ben riportasse la bicicletta dove l'aveva trovata. Salì le scale e vide la porta aperta. La camera di Ben era vuota. Entrando in casa, non aveva visto Trude. Pensò che gli fosse andata incontro, ma, nello scendere le scale, la vide davanti al tavolo della cucina che puliva e fregava con uno straccio bagnato il ripiano. Jakob si sentì esplodere. Forse era collera, o disperazione, chissà. Non le fece caso, chiese solo dov'era la bicicletta e, alla risposta di lei, sbottò: che le era venuto in mente? Perché aveva fatto uscire Ben? Che cosa doveva succedere ancora perché lei rinsavisse e si comportasse finalmente da adulta? Trude si fermò per un attimo, spostò i capelli dalla fronte e dichiarò con dolcezza: «È un essere umano anche lui. Una bestia non porta a casa dei cardi per regalarli alla mamma. Non dovevi colpirlo solo perché ha trovato la bicicletta». «E il coltello?» gridò Jakob. «Ha trovato anche quello? L'ha solo trovato?» Non ebbe risposta. Si rese conto che Trude era sfinita. Trasse un lungo respiro, e riprese: «È molto che è via?» «No», disse lei, continuando a strofinare il ripiano del tavolo. Jakob alzò gli occhi al soffitto, cercando di mantenere quel poco controllo di sé che gli restava. «Quando l'hai fatto uscire?» In tono piatto, Trude disse che aveva portato la colazione a Ben, dopodiché lo aveva lasciato un po' libero nel cortile e intorno alla casa. Era arrivata Tanja, aveva giocato un po' con lui e poi era tornata da Antonia. Così Ben aveva accompagnato la sorella. Non dovevano preoccuparsi che le succedesse qualcosa per strada. Jakob fremeva, nello sforzo di ascoltarla con calma. Trude aveva il viso privo di espressione, le mani si muovevano instancabili sul tavolo, le spal-
le curve, i capelli scarmigliati, gli occhi che brillavano di follia: tutto in lei contraddiceva quel che gli stava dicendo. Lui uscì incespicando dalla cucina, attraversò l'ingresso e si precipitò sulle scale. Non prese l'auto dal fienile, si diresse verso il bivio. Prima ancora di arrivarci, era già senza respiro, sentiva una fitta ai fianchi e vedeva puntini luminosi davanti agli occhi. Rallentò il passo, fissando la strada. Non c'era anima viva. E se avessero avuto ragione? Trude, o Antonia. Certo, avrebbe potuto trovare la bicicletta, e anche lo stramaledetto coltello che sembrava essere stato all'aperto per lungo tempo. Jakob non sapeva nient'altro. Né aveva fatto caso a che cosa Trude stesse pulendo sul ripiano. Che avessero ragione o no, c'era solo una soluzione possibile: Ben doveva essere rinchiuso dove poteva essere sorvegliato. Solo per poco, per la sua stessa incolumità e anche per la loro serenità. Il tempo di chiarirsi le idee, per poter dimenticare quei pugni alzati e lo sguardo afflitto di chi li aveva incassati. Trude doveva capire. Non sarebbe stato facile spiegarle, non nello stato in cui si trovava adesso. Ma anche Jakob non aveva vita facile. Dentro di sé, aveva una bilancia: su un piatto, il terribile sospetto e i sensi di colpa derivanti dalle sue responsabilità di padre; sull'altro, un barlume di speranza. Finché il piatto della speranza non fosse arrivato a pendere dalla sua parte, finché lui non fosse stato in grado di guardare verso quelle ampie spalle senza nutrire sospetti, ebbene, fino a quel momento Ben doveva scomparire dalla sua vista, perché non succedesse un'altra disgrazia. Arrivò alla villetta di Lukka e la superò, pensando all'amico Paul. Forse, se gli avesse aperto il suo cuore, gli sarebbe stato di aiuto, in qualche modo. Jakob piegò nello stretto passaggio costeggiando meccanicamente e velocemente la proprietà di Lukka. Non aveva ancora raggiunto il granoturco, quando udì la voce, un insensato balbettio intervallato da esclamazioni concitate. Si bloccò, come colpito da un fulmine a ciel sereno. Girò a sinistra, attraversò il prato che circondava la terrazza e salì a quattro a quattro gli scalini. La porta-finestra era chiusa, il vetro rotto. Solo alcuni pezzi di vetro erano attaccati al telaio. Heinz Lukka giaceva sul pavimento davanti al camino. Le mani, le braccia, la camicia e i pantaloni erano intrisi di sangue, e la testa girata di lato in modo innaturale, il viso quasi sulla schiena. Jakob comprese subito che era morto. Ai piedi di Lukka giaceva Tanja, la corta gonnellina bianca im-
brattata di sangue, la camicetta sottile ridotta a uno straccetto color carminio. Ben era in piedi accanto alla sorella, i capelli ricci che spiovevano sugli occhi. Gesticolava in modo inconsulto, a terra davanti a lui un coltello insanguinato. La bocca non riusciva a stare dietro ai suoi pensieri, ma Jakob conosceva le parole, le conosceva tutte: amico, via le mani, bene, male, amico, carogna, ben fatto? Le sentì in una frazione di secondo, senza che la sua mente facesse a tempo a registrarle. Udì se stesso gridare, fece un balzo verso il camino e afferrò l'attizzatoio, poi saltò all'indietro e, alzando il braccio, gridò: «Adesso basta! Una volta per tutte!» L'attizzatoio fendette l'aria. Ben vacillò un momento tra i due corpi. Infine, crollò a terra. E Trude strofinava il ripiano del tavolo, senza pensare, né provare nulla, senza neppure distinguere nulla. Ogni tanto, un velo grigio le offuscava la vista e l'udito. Ogni tanto, al velo sulle orecchie si alternavano rumori che andavano e venivano. Erano lontani, lontani. Sirene che tacevano di colpo. Seppe che era successo qualcosa. Ripose lo straccio e sedette su una sedia. Dovette sostenere il capo con la mano mentre con l'altra si premeva il petto. Quel fuoco arrivava a bruciarle le spalle, s'irradiava sul braccio sinistro, paralizzandolo. Ma la sua mente era lucida. E Trude capì improvvisamente: Jakob si era diretto alla fattoria dei Lässler, ormai doveva essere arrivato e aver saputo che cosa aveva trovato Ben. Le sirene che udiva erano per Paul e Antonia, forse anche per Jakob. Sotto la cenere, covava un briciolo di buon senso, non molto più di quanto ne avesse Ben. Ma c'era come una forza invisibile che la spingeva fuori. Non poteva abbandonare suo figlio al suo destino, non fino a che avesse avuto un po' di forza nelle mani o nelle gambe. Trude si trascinò nel fienile, salì sulla Mercedes, ignorando quel bruciore nel petto e ansimando per la fatica. Da tempo immemorabile ormai non si era più seduta al volante a causa dei suoi problemi di cuore. Ora non poteva fare diversamente, non avrebbe potuto usare la bicicletta per impedire che avvenisse il peggio, non avrebbe potuto prendere Ben e fuggire con lui, via, via, lontano, nel fienile, dove c'erano tutte quelle travi... Accecata da quel velo grigio, bruciata dal dolore, la mano sinistra bloccata nel grembo, Trude guidò fino al bivio, piegò nell'ampia via fino all'in-
crocio successivo. Là, non c'era modo di passare. C'era un posto di blocco: tre ambulanze, due auto della polizia e l'auto del medico del pronto soccorso. La porta di casa di Lukka era spalancata. Trude scese dall'auto. Aveva l'impressione di camminare su montagne di ovatta che si affacciavano sull'orlo dell'inferno. Lukka, il suo comandante e il suo boia: quel pensiero l'attanagliava come una morsa. Giunse alla porta che si apriva sul soggiorno. Spalancata anche quella. Nell'ampia stanza, un pullulare confuso di persone, chi accucciato sul pavimento, chi di fianco alla porta sul terrazzo, e, poi, le bare. In quegli interminabili secondi, Trude dimenticò il fuoco interiore che la divorava, mentre cercava di capire che cosa fosse accaduto. E poi vide il gracile corpo di sua figlia attorniato da tre uomini inginocchiati, che trafficavano con delle garze, vide borse colme e altri oggetti. Davanti al camino giaceva una salma coperta. E accanto a questi, un altro corpo: Trude non distingueva bene chi fosse, anche intorno a lui c'erano due sanitari e un medico, ma sapeva chi era, l'avrebbe riconosciuto anche nel buio più assoluto e anche sepolto sotto un mucchio di vecchie ossa. Il fuoco nel petto le tolse definitivamente il respiro, la colpì alla schiena come una scure, violentemente, le spinse lontano le gambe e la fece crollare a faccia in giù, sul prezioso tappeto. Un artiglio d'acciaio penetrò nel muscolo pulsante che era il suo cuore e lo schiacciò. Una parte morì sul colpo, e per Trude tutto finì in quel momento, con un ultimo, violento moto di dolore. I GIORNI E LE SETTIMANE SUCCESSIVI Grazie a Thea Kressmann, la notizia di quanto era accaduto in casa di Lukka si riseppe in un battibaleno. Nel caffè Rüttgers, il giorno seguente, ci si ricordò il monito di Gerta Franken che purtroppo nessuno aveva mai preso seriamente. Thea espresse il suo dolore per il triste destino di quell'onesto cittadino che era stato Heinz Lukka, che aveva riposto la sua fiducia in Ben e che aveva pagato con la vita il suo tentativo di essere d'aiuto. Espresse anche il suo rispetto per Jakob che, consapevole della propria responsabilità, aveva fracassato la testa al figlio affinché quel mostro non dovesse essere rinchiuso in un istituto, e a carico delle casse dello Stato, per giunta.
Thea non citò il destino capitato a Trude che, colpita da infarto, lottava tra la vita e la morte. Ma era giusto commiserare una madre che avrebbe dovuto sapere di aver protetto per anni una bestia, difendendola da ogni possibile attacco? E dire che con uno così si erano frequentati per anni, sedendo persino allo stesso tavolo. Non servì a molto l'intervento di Sibylle Fassbender, che venne fuori dal retro per ricordarle che certa gente avrebbe fatto meglio a tenere la bocca chiusa, prima che qualcuno ricordasse loro con quante altre persone si erano seduti allo stesso tavolo. Thea s'interruppe solo per un momento, balbettando indignata: «Che sfacciataggine!» prima di ritornare sull'argomento. Le cose non sarebbero dovute arrivare a quel punto. Lei aveva avvertito Trude fin dal mese di giugno, quando quella bestia si era avventata su Albert e Annette. E Trude che cosa aveva fatto? Nulla. Non ci si poteva fare più nulla. C'era solo da sperare che la sorellina di Ben ce la facesse e che il cielo desse una mano a far crepare Ben in seguito alla frattura del cranio. A quel punto, Sibylle entrò in pasticceria con gli occhi pieni di lacrime, prese un grosso coltello da torte, ritornò alla porta del retro e la minacciò: «Ancora una parola e ti spacco la testa. Hai capito? Non puoi aspettare che la polizia abbia chiarito il caso? C'è qualcun altro di mezzo». «Non essere ridicola», la contraddisse Thea. «Heinz aveva sessantasette anni. Perché un uomo di quell'età avrebbe dovuto assalire delle ragazzine?» Per i primi giorni, nessuno dubitò della versione fornita da Thea. C'era chi si chiedeva come facesse a essere così informata. Innervosiva tutti con quei dettagli, come se lei avesse assistito al fatto. In realtà, lei non era presente allorché trovammo la testa di Britta Lässler e mettemmo al sicuro la sua bicicletta, perché non c'erano curiosi in giro. La situazione che avevamo trovato nella villetta di Lukka inizialmente non era chiara: c'erano due persone gravemente ferite, un morto, un coltello insanguinato e un padre distrutto che si assumeva ogni responsabilità. «Avrei dovuto farlo rinchiudere in un istituto quando ha cominciato a distruggere quelle bambole», ripeteva Jakob. A quel punto ordinammo la perquisizione della fattoria Schlösser. Trovammo immediatamente delle prove: la bicicletta nel fienile e la testa sepolta in giardino accusavano Ben. Inoltre, Lukka aveva un alibi per domenica sera; poco dopo le nove, si era presentato nella sala consiliare. Stando alle affermazioni di Nicole Rehbach, l'avvocato aveva invitato Britta in ca-
sa alle otto e mezzo circa. Il tragitto fino a Lohberg richiedeva almeno dieci minuti. E non aveva molto tempo a disposizione, se doveva aspettare che quel gigante scalmanato si fosse levato di torno. E tutto era avvenuto abbastanza in fretta. La testimonianza di Nicole Rehbach pesava a sfavore di Ben. La donna continuava a ricordare che si era girata dopo poco e non aveva visto più nessuno sul sentiero. Era abbastanza certa di non aver più visto la bicicletta di Britta davanti alla casa di Lukka. Tutto coincideva con quanto Lukka aveva detto ad Antonia. La bicicletta era certamente in mezzo al granoturco, lo provava quel pezzetto di foglia secca attaccata ai raggi, che anche Trude aveva notato. Ipotizzammo che Ben avesse nascosto la bicicletta di Britta per evitare che lei gli sfuggisse nuovamente. Avrebbe dovuto solo aspettare, al massimo cinque o dieci minuti. E poi? Dov'era stata trascinata Britta? Dov'era stata uccisa? Che ne era stato di Edith Stern, dopo che aveva lasciato la casa di Lukka? Come si era impossessato della sua giacca, Ben? Dov'era Marlene Jensen? E quel lembo di stoffa che Jakob aveva citato, quello nel vaso di vetro, apparteneva veramente alla giacca di Marlene? Di Svenja Krahl, che aveva dato il via al macabro balletto di quell'estate, ancora non sapevamo nulla. Tuttavia, eravamo a conoscenza delle dichiarazioni fornite da Klaus e Eddi, che affermavano di essersi fermati sempre all'altezza del filo spinato. E Bruno Kleu, che ci era stato di grande aiuto nella sua prima confessione, aveva dichiarato che il prato delle mele era sempre stato il rifugio preferito di Ben, fin dalla più tenera età. Distava solo cinquecento metri dalla proprietà di Lukka. Controllammo lo steccato del prato e, a un solo metro di distanza dal sentiero, proprio sul lato che confinava con il vecchio giardino di Gerta Franken, scoprimmo un punto in cui il filo spinato era stato staccato e riattaccato più volte. I ganci che lo fissavano al palo di legno erano talmente allentati che io stessa riuscii ad aprirli. Feci richiesta di un cane sulla base di quanto Kleu aveva affermato: «Se Ben ha seppellito la ragazza, avrete bisogno di una lente d'ingrandimento». Non ne avevamo avuto bisogno per la testa, e dovevamo supporre che Ben l'avesse sepolta nel giardino della madre. Il cane ci portò fino a un avvallamento del terreno, tra gli alberi di melo. Non era interessato ad altre zone, certamente non a quelle invase dalla sterpaglia e dai rovi. In una buca poco profonda giacevano tre sacchi per la spazzatura blu, simili a quelli che otto anni prima erano stati preparati per
Ursula Mohn. Contenevano i resti di Britta Lässler, appena ricoperti da un po' di terra e da qualche erbaccia. E Bruno Kleu commentò: «Questo non è da Ben. L'ho osservato troppo spesso scavare nella Fossa o nel Boschetto. Prima di iniziare, sollevava ogni zolla e alla fine rimetteva tutto al suo posto, fino all'ultimo filo d'erba». Non si trattò più di stabilire se Ben avesse lasciato solo provvisoriamente il cadavere sul prato per poi tornare in seguito a seppellire il resto nella fattoria paterna. Grazie alle risultanze dell'autopsia, fui in grado di avallare l'opinione di Kleu. I medici legali stabilirono che Britta Lässler era stata uccisa solo lunedì pomeriggio; in quel momento, Ben era chiuso a chiave nella sua camera, mentre Heinz Lukka, dopo aver fatto la sua apparizione al comando di polizia, si trovava in casa. Inoltre, i rilievi scientifici effettuati dalla squadra criminale nella villetta di Lukka fornirono sufficienti capi d'accusa contro l'avvocato deceduto.» La scientifica mise al sicuro due bottiglie: una trovata nel frigorifero, l'altra nel mobile bar del soggiorno. Contenevano kirsch, coca-cola e un potente narcotico a effetto rapido. Nella lavastoviglie si trovò persino il bicchiere da cui aveva bevuto Britta. Nel garage di Lukka fu trovata una pala con tracce di terra. Gli esami di laboratorio dimostrarono senza ombra di dubbio che quella terra proveniva dal prato delle mele. In quella zona, infatti, la composizione del terriccio si differenziava notevolmente dal resto della regione, perché, anche se i pozzi di estrazione erano ormai esauriti da tempo, la terra presentava ancora una notevole percentuale di sabbia. La cantina attrezzata di Lukka, con il pavimento di piastrelle e le pareti lavabili, a tutta prima dava l'impressione di essere perfetta: il pavimento scintillante, le pareti immacolate. Invece, esaminandola con lampade speciali, scoprimmo infinite tracce di sangue. Nascosti tra manubri e attrezzi vari, rinvenimmo strumenti chirurgici che fecero rivoltare lo stomaco anche ai nostri collaboratori più cinici. Lo stesso Heinz Lukka ci fornì alcuni indizi. Benché fosse imbrattato di sangue un po' ovunque, non riportava nessuna ferita evidente, presentava solo la frattura dell'osso cerebrospinale e dello ioide. Le ferite di Tanja erano state causate dal coltello trinciante che era stato rinvenuto accanto al cadavere di Lukka. Sul manico c'erano solo le impronte di Lukka, mentre alcune altre impronte, confuse e insanguinate, erano state rilevate anche
sulla lama. Ben aveva ferite sul palmo delle mani e sui polpastrelli, oltre che sul gomito e sulla spalla destra: di conseguenza il caso era assolutamente chiaro ai miei occhi. Il sostituto procuratore fu perfettamente d'accordo. Benjamin Schlösser aveva tentato di salvare la sorella minore, prima irrompendo nella stanza dopo aver sfondato con spalle e gomito il vetro della porta-finestra, e poi cercando di strappare a Heinz Lukka il coltello. E poiché non c'era riuscito, aveva preso l'avvocato per il collo. Nessuno poteva sapere se avesse intenzione di uccidere Lukka o se fu la forza incontrollata delle sue mani a provocarne la morte. Io però mi sentivo in grado di formulare un giudizio sul suo comportamento dopo la scomparsa di Britta. Ben doveva conoscere i pericoli cui andavano incontro le ragazzine e le donne che si recavano a casa di Lukka, perciò aveva osservato attentamente la situazione e aveva visto che Lukka era andato via di casa una seconda volta. Ecco perché aveva cercato di far avvicinare i genitori alla casa del vecchio avvocato, proprio per tentare di trarre in salvo la ragazzina. Britta Lässler sarebbe stata salvata, se Ben avesse trovato qualcuno a casa, oltre alla sorella chiusa in camera. Sarebbe stata tratta in salvo, se Jakob quel lunedì non avesse aggredito di nuovo suo figlio. E nel primo pomeriggio, quando andammo a prelevare Bruno Kleu, Britta Lässler era ancora viva e avremmo fatto in tempo a salvarla. Se solo ci pensavo, mi sentivo rabbrividire. Il caso era ufficialmente risolto, per quanto riguardava Tanja e Britta. Restava da chiarire come fosse andata a finire nelle mani di Ben la testa di Britta; forse, il ragazzo aveva notato qualcosa, riteneva Bruno. «Quando Trude lo ha lasciato uscire, martedì, sicuramente è andato difilato al prato», ipotizzò. «Era il suo solito giro. Scommetto che ha notato subito che tre cardi erano stati spostati. Dovevate vederlo come si preoccupava della vegetazione nella Fossa durante la battuta.» Gli interrogativi erano molti. Perché Heinz Lukka aveva aggredito la sorella di Ben? Perché nel caso di Britta Lässler aveva aspettato così a lungo, prima di ucciderla? Che cosa credeva di ottenere dalla sua visita al posto di polizia? Pensava forse che Ben non avrebbe mai potuto dire a nessuno dov'era finita la piccola Lässler? In fondo, c'era una testimone. Heinz Lukka aveva voluto giocare al gatto e al topo con gli inquirenti di Lohberg? «Prego, incompetenti che siete, ecco l'uomo che dovete interrogare. Accompagnatemi a casa e facciamola finita.»
Ero certa che anche Marlene Jensen e Edith Stern erano state sue vittime. Ma non c'erano prove. E, come sempre nei casi di omicidi efferati, la stampa soffia sul collo alla procura mentre l'opinione pubblica pretende una soluzione rapida del caso. L'avevamo, ma solo per il caso Lässler. Il procuratore, ansioso di chiudere il dossier, mi disse: «Se Lukka ha ucciso anche le altre due ragazze, probabilmente ha portato via i cadaveri con la sua auto, perché in entrambi i casi aveva più tempo a disposizione. Ormai, purtroppo, non c'è più modo di interrogarlo. Faccia quel che può con l'aiuto del ragazzo. Anche se dubito che sia in grado di esserle di grande utilità. E sempre che sappia qualcosa degli altri casi». «Deve sapere», risposi. «Per quale motivo si sarebbe comportato da selvaggio, altrimenti?» Le lesioni alla testa di Ben si rivelarono meno gravi di quanto Thea Kressmann avesse auspicato. Due giorni dopo l'operazione, il ragazzo aveva ripreso conoscenza, ma da allora aveva fissato con timore tutti i visi sconosciuti che lo avvicinavano; era confuso e piagnucolava, se qualcuno andava troppo vicino al suo letto. «Amico, via le mani, bene, carogna.» Nessuno capiva le sue parole, né riusciva a trovare il modo di calmarlo e consolarlo. Neppure io. Non potevo chiedere consiglio alla madre, né sapere da lei come andava trattato: Trude si trovava nel reparto rianimazione di una clinica di Colonia e stava lottando tra la vita e la morte. I medici le avevano indotto uno stato di coma artificiale. Jakob, poi, non era di grande aiuto. Passava tutte le mattine al capezzale della moglie, mentre i pomeriggi li trascorreva accanto alla figlia minore, la cui vita era anch'essa appesa a un filo. La sera si consolava nell'osteria di Ruhpold, scoppiando a piangere di quando in quando mentre sussurrava: «Come farò a guardarlo ancora negli occhi? Come farò ad affrontare Paul? Non potrò mai riparare in qualche modo». Wolfgang Ruhpold lo rincuorava ogni volta con gentilezza, dicendogli: «Non ti disperare, Jakob. Tutti commettiamo degli errori. Tu hai valutato la situazione in modo errato. Poteva succedere anche a me». Pensai che se Ben mi avesse incontrato con accanto un viso conosciuto, forse avrei avuto un po' di fortuna. Suo padre però non prometteva nulla di buono. Sarebbe stata una tortura per entrambi e, certamente, non c'era bisogno di essere un po' deboli di mente per temere la persona che ti aveva spaccato il cranio in due. Preferii non chiedere nulla ad Antonia Lässler. Bärbel von Burg trovò una scusa data la gravidanza in corso. Il dottor Anita Schlösser non aveva
più incontrato il fratello da anni e dubitava che lui potesse anche solo riconoscerla. Illa von Burg era disposta ad aiutarmi, se in qualche modo la sua presenza avesse avuto qualche effetto, ma obiettò: «Non ho grande confidenza con lui. E sicuramente non sarà in grado di aggiungere molto a ciò che ha detto finora. E poi, quando inizia a dare in escandescenze perché vuole andare a casa, be', non lo reggo proprio». Ben non era precisamente in grado di dare in escandescenze. La seconda volta che lo andai a trovare, ero insieme con Uwe e Toni von Burg. Avevo portato con me una foto di Marlene Jensen. Il ragazzo non fece caso a suo cognato e a Toni von Burg. Gettò brevemente lo sguardo alla foto, mi guardò e disse: «Carogna». Quando finalmente, tramite l'ambasciata americana, ricevetti una foto di Edith Stern, cercai una terza volta di ottenere dei lumi con il sostegno di uno psicologo. Il risultato fu identico. Ma poiché Ben pronunciava il suo «carogna» sempre guardando nella mia direzione, lo psicologo giunse alla conclusione che il ragazzo si sentisse oppresso dalla mia presenza e che esprimesse ciò che provava nei miei riguardi. Il giorno in cui Sibylle Fassbender si annunciò, mi ero ormai rassegnata a non risolvere il caso di Edith e Marlene. Sibylle aveva saputo da Illa che Ben aveva ripreso conoscenza e che io cercavo qualcuno di cui lui si fidasse. Un venerdì pomeriggio a metà settembre, passai a prenderla al caffè Rüttgers e poi andai a Lohberg. Sibylle aveva con sé un vassoio di fette di torta ed entrò nella camera con un sorriso che certo non esprimeva il suo stato d'animo del momento. Ben era seduto sul letto; non appena la vide entrare, la bocca gli si aprì in un sorriso. Conosceva anche me, ormai, però non mi degnò né di un sorriso né di un insulto. «Ecco il mio caro Ben», esclamò Sibylle. «Prima di tutto, un bell'abbraccio. E poi c'è una bella fetta di torta.» Sibylle lo prese tra le braccia e io vidi come lui le strofinava il viso sulla spalla. Quando lei lo lasciò, si toccò il capo e disse: «Male». «Sì, poverino», lo consolò Sibylle, «tuo padre ti ha picchiato un'altra volta. E tu sei stato così buono. Tu che hai fatto sempre bene.» Quelle lodi lo rassicurarono, così si buttò sulla torta. Non rispose alle mie domande, neppure quando fu Sibylle a porgliele. Chiedeva solo in continuazione: «Bene?» E Sibylle a spiegargli che Trude, Tanja e Antonia erano malate, malate come lui. Ma che sarebbero state meglio tra un po' e allora sarebbe tornato a casa anche lui.
Tornammo in paese senza aver concluso nulla. «Che ne sarà di lui?» chiese Sibylle. Non ero in grado di risponderle. «Jakob non se lo riporterà a casa», disse lei. «Non se la sente, dopo quel che gli ha fatto. E se Trude muore...» Trude non morì. Verso la fine di settembre i medici che l'avevano in cura mi autorizzarono a parlarle brevemente. Avevo già messo a verbale le dichiarazioni di sua figlia, due giorni prima. Tanja non era in grado di fornire indicazioni su quanto realmente era accaduto. Ricordava solo che Ben aveva posato la testa sul tavolo, e che subito dopo aveva rincorso lei. Questa novità mi colse di sorpresa. Ma Trude ormai sapeva che l'innocenza di Ben era stata provata. Parteggiò per Ben, così come aveva fatto per anni con Jakob. «Ben portava spesso a casa degli oggetti», mi disse. «Fuori scavava in continuazione. E quando trovava qualcosa, se lo teneva. Due anni fa, mi ha portato un osso vecchissimo...» «Signora Schlösser», la interruppi, «qui non si trattava di un vecchio osso, era la testa di una bambina che stavano cercando in tutto il paese, con ansia.» «E lei, che ne avrebbe fatto se fosse stata al mio posto?» chiese Trude. «Nemmeno lei avrebbe chiamato la polizia, se lui fosse stato suo figlio e se non fosse stato capace di dirle dove trovava tutte quelle cose. Sarebbe stata certa, come lo ero io, che tutti avrebbero pensato che lui era il colpevole. Se mi deve punire per questo, allora lo...» «Ha trovato qualcos'altro oltre al vecchio osso e alla testa?» «Solo la giacca dell'americana», disse Trude. «E abbiamo fatto tutta la strada con lui, ma non siamo riusciti a farci indicare dove l'aveva trovata.» Rinunciai definitivamente a risolvere il caso in toto. Nessuno aveva intenzione di perseguire Trude per quanto aveva fatto in giardino. Il procuratore attribuì il suo comportamento allo shock subito. EPILOGO Non parlarono durante il tragitto. Jakob fingeva di concentrarsi sul traffico. Non voltò la testa neppure una volta. Il giorno precedente, Trude era stata finalmente dimessa dalla clinica. Era completamente guarita, ma scarna e ossuta in viso, pallida e triste, tanto che Jakob non aveva potuto dirle nulla, aveva solo osato lanciarle un breve sguardo di sfuggita. Eppure
era stato così contento del suo ritorno a casa. Nelle ultime settimane, quasi ogni sera, aveva parlato del futuro con Wolfgang Ruhpold, davanti a un bicchiere d'acqua minerale. Aveva negli occhi sempre la stessa immagine. La tavola apparecchiata, quattro piatti, quattro tazze, quattro cucchiaini e quattro coltelli. E Trude che diceva: «Non mettere troppo burro sul pane, Ben». Poi Tanja diceva: «Devo andare, Orso, o arrivo tardi a scuola. Mi accompagni per un tratto?» Le cose non erano mai andate così, né mai, forse, sarebbero andate in quel modo. Due giorni prima, quando finalmente Jakob era riuscito ad andare a trovare Tanja dai Lässler, Paul aveva lasciato subito la stanza. «È distrutto», lo aveva giustificato Antonia, ma poi improvvisamente aveva gridato: «È colpa tua, Jakob. È solo colpa tua. Se fossi andato con lui, invece di picchiarlo...» E anche lei si era precipitata fuori. Tanja si era accoccolata accanto al padre, sottile e pallida e leggera come una piuma. «Io te l'avevo detto, papà. Te l'ho sempre detto, non fa del male a una mosca. Per favore, papà, quando la mamma tornerà a casa, sicuramente vorrà andarlo a trovare subito. Io devo andare a ringraziarlo. Se non fosse arrivato...» E poi le lacrime, i singhiozzi disperati che assordavano le orecchie di Jakob. «Fammi venire con te, papà, per favore.» Ma le sue preghiere furono inutili. Più avanti! Più avanti, forse, quando avesse trovato il coraggio di guardare in faccia l'Orso in presenza della figlia. Quando, il giorno precedente, Trude era tornata a casa, aveva posato la valigia e gli aveva chiesto: «Perché non lo hai ancora fatto tornare a casa?» Non aveva aggiunto molto di più, solo che stava bene e che in futuro avrebbe dovuto riguardarsi e prendere regolarmente le sue medicine. Adesso sedeva accanto a lui, ed entrambi tacevano. Jakob non riusciva a spiegarsi. Aveva commesso molti errori e si era reso subito conto che soprattutto quell'ultimo era stato un errore. L'aveva sempre saputo, in tutti quegli anni, che di Heinz Lukka non ci si poteva fidare. Nelle ultime settimane, Erich Jensen era stato così gentile, amichevole e comprensivo. Dopo che Ben era guarito, ci si era chiesti che cosa fare di lui. Non era possibile trattenerlo in ospedale, perché i posti letto erano necessari. Così, Erich aveva detto: «Jakob, tu lavori tutto il giorno. Non puoi lasciarlo qui solo. Non sta ancora abbastanza bene da andarsene in giro. Pensa alla sua
salute, Jakob. Pensa, se dovesse cadere là fuori, nei campi, senza nessuno che possa soccorrerlo». Ben soffriva ancora di disturbi di deambulazione, i medici avevano già informato Jakob. Non che lui dovesse necessariamente lavorare, ma non voleva darla vinta a Erich Jensen. Teoricamente, avrebbe potuto accompagnare Ben nei suoi vagabondaggi, gli avrebbe potuto fare il bagno, ma solo teoricamente. Così, aveva ceduto. Erich si era impegnato a trovargli un istituto accogliente, dove Ben potesse stare il più possibile all'aria aperta. Ma se Erich l'avesse avuto tra le grinfie... Inizialmente, gli era parsa una soluzione adeguata. Una cosiddetta comunità alloggio aperta, in un ambiente luminoso e caldo, con cinque uomini, di cui tre autosufficienti, che avrebbero aiutato gli altri residenti quando non era presente l'assistente, che trascorreva con loro solo la giornata. Jakob aveva subito pensato che per quegli uomini la presenza di Ben sarebbe stata un po' faticosa; ne aveva accennato, ma Erich aveva negato. Successe l'inevitabile, Ben fuggì tre volte. Così si disse che quello non era il luogo adatto al ragazzo. Prima ancora che Jakob potesse intervenire, Erich aveva già messo di mezzo il pretore. Non appena giunsero all'istituto, Trude s'irrigidì. Scese dall'auto, Jakob dietro di lei, e si avviò al portone chiuso tra mura. Lui c'era già stato, sapeva quel che l'aspettava. Superato il portone, un po' d'erba, qualche albero. Sbarre alle finestre. E all'interno, solo sbarre, sbarre dappertutto, tanto che anche Jakob si sentì chiudere lo stomaco. Il reparto casi gravi si trovava al secondo piano. Alcune figure scarmigliate e scomposte scivolarono lungo il corridoio. Trasudavano idiozia pura. Il viso di Trude era una maschera di pietra. Con gli occhi della mente vedeva le spalle quadrate in camicia a quadretti attraversare il campo di barbabietole di Bruno Kleu, verso la Fossa. Ben non si trovava in corridoio, era a letto. Per una frazione di secondo il viso di Trude si rischiarò, poi ritornò di ghiaccio. Suo figlio era fissato al letto con cinghie di cuoio. I capelli erano ispidi, il viso gonfio, quasi grasso. Dormiva. Jakob lanciò uno sguardo veloce oltre le spalle di Trude, si schiarì la voce e aggiunse: «Vedo di trovare il medico. Così ci metteremo d'accordo su quando venirlo a prendere». «Lo portiamo via subito», esclamò Trude. «Non resterà qui un minuto di più.» Ma le cose non erano così semplici. C'era un provvedimento del giudice
e, nel frattempo, anche i medici si erano fatti un'idea del caso. Ben era stato giudicato un soggetto violento. Era necessario sedarlo in continuazione. Avevano tentato due volte di lasciarlo girare per il corridoio, ma aveva quasi distrutto le inferriate. C'erano voluti tre infermieri per ridurlo all'impotenza. E poi, non si poteva dimenticare che aveva ucciso un uomo. «Quello non era un uomo», obiettò Jakob. «Era un mostro sanguinario. Inoltre, Ben ha agito per legittima difesa. Se non gli avesse rotto l'osso del collo, probabilmente avrebbe accoltellato la nostra piccina, e anche lui.» Per i medici le valutazioni della polizia avevano solo un valore marginale. Come si poteva parlare di legittima difesa nel caso di una persona che non aveva i mezzi per valutare la situazione? Anche Trude volle dire la sua. Non riusciva a sopportare oltre la vista del viso pallido di Ben, così, accarezzandogli i capelli stopposi, gli sussurrò: «Tu sei il mio buon Ben, tu sei il migliore. Ti tiro fuori di qui, te lo prometto. Fosse l'ultima cosa al mondo». Udì i discorsi che facevano al marito, rifiutandosi di dimettere Ben. «Non è detta l'ultima parola», intervenne. «Ben è perfettamente in grado di valutare una situazione. Non avete visto le sue mani? Ha afferrato la lama del coltello per fermare Lukka. Se Lukka gli avesse dato il coltello spontaneamente, forse sarebbe ancora vivo. Il fatto che Ben faccia il diavolo a quattro non mi sorprende. Lo farei anch'io. Vuole solo uscire. Non ha mai voluto niente di più.» Sulla via del ritorno, il viso di Trude aveva ripreso un po' di colore. All'inizio il rossore sulle guance era dovuto alla rabbia impotente, ma lo fu per poco. Tacque per un istante, ripensando alla faccenda. Poi dichiarò: «Se Erich pensa di averla fatta franca, sbaglia di grosso. Avremo certamente bisogno di un buon avvocato, quando dirò tutto alla polizia. Ma ora che sono tornata, anche Ben deve tornare dove sta volentieri». E Jakob avrebbe fatto meglio a non chiedersi continuamente che sarebbe successo se avesse parlato; fin dal '45, quando tutto era finito e si poteva parlare liberamente, quando tutti, e soprattutto Werner Ruhpold, avrebbero dovuto sapere che Edith Stern non era mai arrivata nell'Idaho. Questo però Trude non lo disse. Quando espose al marito le sue intenzioni, lui cercò di farle cambiare idea, dicendosi completamente contrario. Continuò a implorarla per tutta la notte: non sarebbe servito a nulla, neanche a Ben. Ma lei fu irremovibile. Il giorno seguente, Trude mi chiamò per propormi un accordo. La sua libertà in cambio di quella del figlio. Non aveva ancora consultato un avvo-
cato, il quale, con molta probabilità, l'avrebbe sconsigliata, dicendole che non aveva senso mettersi in serie difficoltà. La polizia non era competente per la dimissione di Ben dalla clinica del Land. Quando Trude se ne rese conto, era ormai troppo tardi. Mi aveva già raccontato della borsa di Svenja Krahl, delle due dita, dello zaino insanguinato e del fatto che lei aveva chiesto a Ben di portarle la testa. Mi aveva raccontato anche di Althea Belashi e del fatto che, se la giovane artista non fosse morta quindici anni prima, Marlene Jensen poteva essere ancora viva. «Me ne sono accorta in novembre, durante la festa di nozze», disse Trude. «Marlene assomigliava veramente molto alla ragazza del circo. E allora forse Ben ha pensato che non doveva scomparire una seconda volta. Ma lei non avrebbe certamente suonato alla porta di Lukka e sarebbe andata sicuramente da Paul e Antonia, se Ben non avesse cercato di trattenerla. Le avrà certamente ripetuto 'carogna', come fa da quindici anni con tutte le ragazze. E la parola che usa per dire che qualcuno è morto, e 'amico' è la parola che usa per assassino. La mia piccina mi ci ha fatto arrivare. Voleva solo avvertirle, e noi non lo abbiamo capito.» Trude era convinta che i cadaveri delle ragazze uccise dovessero trovarsi nei dintorni. «Se Lukka li avesse trasportati con l'auto, l'avrebbe fatto anche con Britta, e non avrebbe perso per strada qualcosa», disse. «Ben non avrebbe potuto portare a casa tutto.» L'enormità delle dichiarazioni della signora Schlösser ci colpì. Il procuratore era fuori di sé: «Questa è distruzione reiterata di prove. Non posso ignorarlo, è reato, è favoreggiamento. Ci saranno conseguenze penali. Ma provi solo a pensare se quella donna avesse dato l'allarme non appena suo figlio aveva portato a casa la borsa: era luglio. Se ci fossimo attivati allora, forse la vittima sarebbe stata una sola. Ora invece sono quattro. Pensi alle famiglie: non accetteranno supinamente un fatto simile». Trude si rendeva perfettamente conto della situazione in cui si era messa. Avrebbe potuto ritirare le proprie dichiarazioni, prove a suo carico non ce n'erano. La figlia maggiore le procurò un avvocato penalista in gamba, che la consigliò con insistenza di smentire quanto aveva affermato. Lei rifiutò. «Quelle ragazze devono avere una degna sepoltura, se Ben sa dove sono...» All'inizio di marzo, quando, su pressioni del procuratore, finalmente il giudice dispose le dimissioni di Ben dalla clinica, Jakob rifiutò di accoglierlo in casa, perché non era ancora pronto a confrontarsi con il figlio.
Trude mi chiamò. «Se lei fosse così gentile da venire, signora Halinger, potremmo fare subito un tentativo con Ben.» Trude voleva stringere i tempi, si era già preparata una valigetta, ed era certa che l'avrei arrestata, non appena fossero state rinvenute le salme. Era molto composta, quando andai a prenderla, e molto sollevata, quando le dichiarai che nel suo caso la custodia cautelare non era applicabile, e che sarebbe potuta restare a casa sua fino all'udienza. Nel corridoio del secondo piano camminava ancora dritta, ma quando gli fu di fronte... Durante la sua prima visita in clinica, Ben non si era accorto di lei e Trude aveva evitato altre visite, per risparmiargli lo strazio del commiato. Il ragazzo non vedeva sua madre da sette mesi. Quando la vide, le balzò incontro, la strinse con entrambe le braccia, balbettando almeno venti volte: «Bene». La gioia di Ben permise a Trude di ritrovare il suo autocontrollo. Quando finalmente la lasciò, lei gli sfiorò una guancia con una carezza e disse: «Ora andiamo a casa con l'auto. Ma dovrai essere molto buono». Rimase tranquillo sul sedile posteriore insieme con la madre, continuando ad accarezzarla sul viso, premendosi la mano di lei sulla guancia e infine appoggiandole sulla spalla la testa. Li vidi nello specchietto retrovisore, e mi accorsi che Trude lottava per trattenere le lacrime. Ben mi accettò come una signora gentile o perlomeno annuì, quando Trude gli fece la domanda opportuna. Era disposto a rendermi felice, visto che lo avrei accompagnato a casa. E, come ringraziamento, mi fece fare una figuraccia. Ci accompagnò realmente alla tomba delle ragazze scomparse. Si trovavano a circa trenta metri dal punto in cui avevamo recuperato i resti di Britta Lässler. Nel vecchio giardino di Gerta Franken, sotto il vecchio abbeveratoio presso il pero, era stata scavata una fossa di un metro e mezzo di profondità poi ricoperta con cura. Dentro, c'era quel che restava di Svenja Krahl, Marlene Jensen e Edith Stern. Solo trenta metri! E noi non avevamo prestato attenzione a quella selva spinosa, neanche avevamo considerato la possibilità che qualcuno negli ultimi anni ci fosse andato. Mai, in precedenza, mi ero sentita così incompetente, mai, prima di allora, mi ero resa conto dei limiti di una persona raziocinante e logica che si attiene ai fatti e a ciò ohe vede e sente. Tuttavia, con l'aiuto di Ben, avevo raggiunto il mio obiettivo. Era evidente che Heinz Lukka non aveva potuto seppellire i cadaveri in quel luo-
go e, in questo senso, l'autore era Ben. Ma neppure per un attimo mi chiesi in quale situazione avrei lasciato Ben. Non avevo la più pallida idea dei complessi rapporti interpersonali esistenti e ancora non pensavo all'eredità di Lukka. FINE