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STEPHEN GALLAGHER IL TEATRO DELLE OSSA (The Kingdom Of Bones, 2007) Lei arriva, è mia, è dolce; fosse anche il più etereo passo; il mio cuore la udrebbe e batterebbe, fosse terra in un letto di terra, la mia polvere la udrebbe e fremerebbe, fossi morto e sepolto da un secolo, sobbalzerei e tremerei sotto i suoi piedi, e sboccerei in porpora e rosso. LORD ALFRED TENNYSON, Maud, parte I, sez. XXII FILADELFIA 1903 Uno La finestra dell'ufficio era aperta e Sebastian Becker dalla sua scrivania sentiva le pecore. Ancora una volta stavano facendo passare un gregge per il centro cittadino. Oakes, il contabile, per tutto il pomeriggio si era inventato dei buoni motivi per affacciarsi sulla strada. Adesso ne aveva trovato un altro. Sebastian posò la penna. Gli occhi gli dolevano. Reclinò la sedia all'indietro, sbadigliò, si stiracchiò, premette l'uno contro l'altro i palmi delle mani domandandosi, e non era la prima volta, se avesse bisogno di un paio di occhiali. Quando si accorse di ciò che stava facendo, camuffò lo sbadiglio meglio che poté. «Aspettate qualcuno, signor Oakes?» chiese. Oakes si voltò a guardare nell'ufficio. «Solo il ragazzo con la borsa da New York.» «Il ragazzo è venuto e se n'è andato» ribatté Sebastian. «Non c'è nulla che non possa aspettare fino a lunedì.» Oakes esitò un istante e si spostò dalla luce della finestra. Nella sala c'era quasi una decina di scrivanie, nessuna occupata, tutte ingombre di do-
cumenti accatastati. Allo schienale di una sedia era appeso un panciotto, da un'altra pendeva un cinturone. Mentre Sebastian sollevava di nuovo la penna, Oakes radunava dei raccoglitori, spostandoli qua e là, da un punto all'altro. Ormai le pecore erano fuori portata d'orecchio, il lamento angoscioso e quasi umano incalzato dal clangore impaziente di un tram bloccato dal loro passaggio. Oakes cominciò a riordinare le sedie. Malgrado il permesso di Sebastian, sembrava riluttante ad andarsene. «Signor Oakes...» lo incalzò Sebastian. «Il signor Bearce ha detto di essere scontento del mio lavoro...» disse Oakes. «Troveremo il modo di fargli cambiare idea» ribatté Sebastian. «Lunedì. Ora tornatevene a casa, signor Oakes.» «Se lo dite voi» esclamò lui, in cerca di ulteriori rassicurazioni. Sebastian si limitò a guardarlo, e Oakes se ne andò. Rimasto solo, e con una distrazione in meno, cercò di concentrarsi sul foglio che aveva di fronte. Nonostante Oakes avesse lasciato la stanza, la sua presenza continuava ad aleggiare negli uffici. Sebastian lo sentiva aggirarsi, disturbare qualche malcapitato, inventarsi le ultime, poche faccende da sbrigare, quasi l'edificio potesse assorbire la sua abnegazione e trasmetterla all'assente signor Bearce. La lettera per gli Affari Generali era un rapporto sui lavori contingenti dell'agenzia. Veniva compilata ogni quindici giorni per poi essere inviata a George Bangs a New York. Riguardava tutte le inchieste in corso e le eventuali nuove attività. Bangs raccoglieva informazioni da ciascuna filiale per poi consegnare la propria sintesi ai fratelli Pinkerton, i primi investigatori privati d'America. Sebastian era vice sovrintendente da un mese soltanto, o poco più. Il lavoro d'ufficio richiedeva attitudini di cui poteva disporre ma cui non gradiva ricorrere. Era un pomeriggio caldo di sabato e lui, come del resto tutta Filadelfia, era dell'umore tipico del fine settimana. Per giunta c'era la distrazione di quel telegramma che aveva riposto sotto l'angolo del registro di prima nota. Quel "riservato personale al signor Sebastian Becker" che, di tanto in tanto, catturava la sua attenzione. Finito che ebbe di scrivere, posò la lettera nel contenitore della posta in partenza, dove l'avrebbero recuperata le stenografe, e prese la giacca dallo schienale della sedia. Era indolenzito per tutta quell'immobilità protratta e gli occhi risentivano della troppa concentrazione. Sebastian Becker era un uomo di poco più di quarant'anni, non guastato
dal tempo; qualcuno lo reputava persino attraente, per esempio sua moglie. Quando lui si guardava allo specchio, scorgeva anzitutto i tratti del padre e qualche traccia di un dolore remoto. Ma, senza nulla togliere al genitore defunto, non si reputava affatto bello. Ripiegò il telegramma e lo mise in tasca. Quindi aprì il cassetto della scrivania ed estrasse un revolver Bulldog a doppia azione, arma in dotazione alla polizia. Prima di riporlo nella giacca, verificò le camere e ruotò il tamburo. «Qualche grana, signor Becker?» Si voltò. Il contabile lo scrutava dalla porta d'ingresso, mentre si infilava la giacca con noncuranza. «Nessun problema, signor Oakes» disse. Chiuse la finestra, e a quel punto lo seguì fuori dall'ufficio. Mentre scendevano le scale, Oakes riprese: «Qualche programma per domenica, signore?». «Ho promesso di portare la mia signora e sua sorella a Willow Grove» disse Sebastian. «Mia moglie ha sentito dire che al parco dirigerà Sousa.» «Non è propriamente musica per signore...» «La mia signora può rivelarsi una donna fuori del comune.» Il guardiano notturno attendeva accanto ai cancelli dell'edificio. Aveva già terminato l'ultimo giro prima della chiusura e faceva uscire le ultime persone alla spicciolata. Era un veterano di guerra e non parlava mai. Si diceva che le cannonate l'avessero reso un po' ritardato. Raggiunta Chestnut Street, é alzando la voce sopra lo stridio metallico dei cancelli, Oakes domandò: «Porterete il ragazzo?». Becker rispose: «Credo che lo porteremo». Una corsa in tram e una passeggiata di dieci minuti condussero Sebastian a casa. Abitava in un vialetto alberato nei pressi di una graziosa piazza, in una casa a schiera di mattoni con le persiane alle finestre e un giardino sul retro. Prima di entrare, si guardò intorno per vedere se qualcuno lo stesse osservando. All'estremità opposta del viale un ronzino stava trainando il carro di una fabbrica di birra, e non c'era altro. In quel quartiere tranquillo i forestieri non passavano inosservati. Allo scoccare delle otto si sentivano i primi movimenti di persiane e per le nove era tutto buio. Ma era quella la vita che desiderava. Vivevano lì da un mese. L'affitto era eccessivo anche per la paga di un sovrintendente, ma l'importante, per lui, era che la sua famiglia fosse sere-
na. Quando avevano traslocato dopo il miglioramento della sua situazione finanziaria, non aveva idea di quanto quella decisione fosse stata opportuna: il loro vecchio appartamento di Lehigh Avenue sorgeva nel cuore del quartiere irlandese e, alla luce delle notizie di quella mattina, non sarebbe stato un luogo sicuro in cui rimanere. Mentre si chiudeva la porta alle spalle, gli venne incontro la sorella della moglie, che stava attraversando l'atrio con le braccia cariche di fiori raccolti nel giardino. «Buonasera Sebastian» disse. «Salve Frances» le rispose. In quell'istante il soffitto cominciò a sussultare al suono dei bassi di una tuba tenore, i più gravi di una scala. La moglie di Becker, sotto molti aspetti, non era così fuori del comune come lui l'aveva definita. Esile, gli occhi scuri, pallida, lentigginosa, una bellezza raffinata... tutte caratteristiche attraenti ma nulla di sorprendente o di eccezionale. Era senz'altro fuori del comune, invece, vedere una donna come lei esercitarsi per venti minuti al giorno su un eufonio a quattro pistoni, solo ed esclusivamente per diletto. Sebastian inseguì il suono per le scale, sino al salotto che si affacciava sul retro della casa. Quando spalancò la porta, Elisabeth era lì, seduta accanto alla finestra, concentrata sul leggio. Non solo l'ottone dello strumento ma anche la sua figura rifulgeva d'oro nel sole del tardo pomeriggio. Il pavimento vibrava come il ponte di una nave e l'aria stessa pareva scossa al suono delle note più gravi. Ai suoi piedi, poggiato sui gomiti, il loro bambino era dimentico di tutto, fuorché del romanzo d'avventura che stava sfogliando. Il movimento attirò l'attenzione della moglie. Quando lo vide, senza perdere il ritmo, inarcò le sopracciglia in segno di saluto. Sebastian azzardò un sorriso, e una volta di più si meravigliò per la pazienza dei nuovi vicini. Ovviamente avevano discusso con loro di un eventuale, sporadico, disturbo. I vicini li avevano ringraziati per la premura, insistendo che non vi avrebbero badato. Ma, dopo una certa dose di Lohengrin, chiunque avrebbe cominciato a rimpiangere d'essersi mostrato tanto accondiscendente. Robert si alzò, abbandonando il romanzo. Corse verso di lui e, evitando l'abbraccio, gli assestò un pugno nella gamba con tutta la forza possibile, per poi svicolare e allontanarsi. Mentre il bambino scendeva le scale a passi affrettati, Sebastian sentì Frances rimproverarlo al piano di sotto. Elisabeth abbassò l'eufonio e lo posò con cautela, quindi attraversò la stanza per raggiungere il marito.
«Cosa gli prende?» domandò Sebastian. «Era convinto che saresti arrivato prima» rispose lei con tenera indulgenza. «Non ho mai detto che sarei arrivato prima.» «Lo so.» Elisabeth si alzò in punta di piedi per salutarlo con un bacio, appoggiandogli la mano sul petto per tenersi in equilibrio. Di colpo lui la sentì tendersi quando si accorse del revolver sotto la giacca, ma non la vide mutare espressione. «Che cosa succede?» gli disse soltanto, tornando ad altezza naturale. «Nulla» ribatté lui prontamente. «Pensavo che ai poliziotti inglesi non piacesse girare armati.» «Non sono più un poliziotto, e questa non è l'Inghilterra.» «Qualcuno ti sta cercando?» Valutò se mostrarle il telegramma, ma decise di non farlo. «Non hai motivo di preoccuparti, è una semplice precauzione.» «Contro che cosa? Possiamo ancora uscire?» Quasi tutte le donne di sua conoscenza avrebbero rivolto una domanda simile in gesto di sfida o mettendo il broncio. Tutte, non sua moglie. «Possiamo ancora uscire» la rassicurò. Due L'indomani, dopo la messa, e con il vestito della festa, Sebastian e famiglia salirono a bordo di un filobus per raggiungere il parco di Willow Grove. Lui indossava il completo scuro estivo e una paglietta, le donne abiti lunghi e leggeri, mentre Robert la marinara bianca. In ossequio ai timori di Elisabeth, Sebastian aveva nascosto il revolver nella cinta dei pantaloni dietro la schiena, in modo che la moglie non se ne accorgesse neppure se il movimento del bus li avesse spinti l'uno contro l'altra. Ma non aveva previsto la scomodità del revolver in chiesa, su quella panca dura su cui si era seduto; aveva reso la funzione una tortura più penosa del solito. In ogni caso, per quel giorno non si profilavano guai. Era solamente un uomo con famiglia, un volto in una folla immensa. Il parco di Willow Grove era stato inaugurato dalla Rapid Transit Company per offrire al pubblico pagante un buon motivo per viaggiare sulle linee dell'azienda, e quella politica a base di concerti gratuiti e attrazioni da luna park era presa a modello in ogni città. Brooklyn aveva il suo Steeplechase Park, Salt Lake
City il suo Saltair gestito dalla chiesa mormone. Ma Willow Grove, il paese delle meraviglie di Filadelfia, era all'avanguardia. Sousa, il Re della marcia, vi aveva portato la sua banda due anni addietro e ormai le sue visite stavano diventando uno degli appuntamenti più attesi dell'anno. Elisabeth adorava le bande musicali. Diceva di aver ereditato quella passione dal nonno materno, un soldato che si scordava di tutto quando sentiva una banda per strada. Seguiva i musicisti finché non smettevano di suonare, e a quel punto si ritrovava sperduto in una zona sconosciuta della città, incapace di orientarsi per tornare a casa. Giunti al capolinea, seguirono la folla in una galleria sotto i binari per poi riemergere nel parco. Frances portò con sé il bambino verso il viale principale del parco divertimenti, mentre Elisabeth prese il braccio di Sebastian e insieme raggiunsero il padiglione musicale. La sorella di Elisabeth ci sapeva fare con il bambino, non vi erano dubbi in merito. Abitava con loro per quel motivo, e ben si guadagnava lo stipendio d'istitutrice. Robert non frequentava scuole. Sebastian trovava il figlio difficile da comprendere. Aveva cominciato a parlare soltanto a cinque anni e ora aveva scarsi interessi all'infuori dei romanzetti d'avventura. All'inizio Sebastian li aveva risolutamente proibiti, giudicandoli inappropriati. Ma Robert non aveva altri stimoli, poiché era timido, indifferente alle amicizie, all'apprendimento, a meno che non si trattasse di un argomento che destasse la sua curiosità. Alla fine Elisabeth gli aveva consentito un romanzo nuovo ogni due settimane. Il bambino scendeva all'edicola con Frances e impiegava anche un'ora per sceglierne uno. Li conservava, li rileggeva, ne recitava interi brani a memoria. Frank Reade, Deadwood Dick, Buffalo Bill. Sapeva citarne i sommari a memoria, completi di numeri di pagina, era in grado di elencare tutte le inserzioni pubblicitarie nella quarta di copertina, e tutto questo per ciascuna uscita. Ciò malgrado, un insegnante - avevano giurato, a casa, di non menzionarne più il nome - aveva cercato una volta di persuaderli che il bambino potesse essere minorato. Intanto che Sebastian ed Elisabeth prendevano posto, la banda suonava The Belle of Chicago. Sebastian non nutriva predilezioni per alcun genere musicale, ma amava Elisabeth, e mentre la moglie guardava la banda, lui non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Aveva trentun anni, era molto più giovane di lui. Dopo un po', Elisabeth si accorse dei suoi occhi fissi su di lei. «Qualcosa non va?» gli domandò.
«Nulla» ribatté. «Ti annoi, vero?» «Ti pare possibile?» Elisabeth sorrise e volse lo sguardo al palco, dove i quaranta membri della banda di Sousa giravano pagina e si preparavano a riprendere a suonare. Quando alzò leggermente il mento per cogliere un effimero venticello, Sebastian sentì che il cuore gli si gonfiava in petto. «Una volta papà mi disse che mi avrebbe regalato un'orchestra perché potessi suonarci.» «L'eufonio?» «Il patto era che avrei dovuto imparare il violoncello. Ma fu prima che perdesse il suo patrimonio.» Era tipico del padre di Elisabeth. Quando i suoi rientravano ancora nel novero delle famiglie facoltose, avevano vissuto in una delle ampie dimore a nord di Market Street. Non il quartiere più esclusivo, giacché a nord di Market si insediavano i nouveaux riches. Elisabeth invece aveva trascorso gran parte dell'infanzia in una proprietà su North Sixteenth Street, proprio sotto la Columbia. Fra i vicini si annoveravano famiglie come gli Stetson e i Gimbel. Nonostante le origini umili, il padre di lei era di un'altezzosità eccessiva, e neanche la rovina finanziaria era riuscita a fargli abbassare la cresta. Aveva disapprovato Sebastian - troppo vecchio per Elisabeth, un immigrato, un cattolico non praticante dal cognome ebreo, un uomo dei Pinkerton pagato all'ora - e tuttora lo disapprovava. Soltanto Frances faceva la spola fra le due famiglie per portare le ultime notizie. Fino all'adolescenza Elisabeth era stata la principessa dei nuovi ricchi. Aveva avuto numerosi cavalli e una domestica personale. Una volta Sebastian l'aveva accompagnata davanti alla casa avita e aveva studiato l'edificio con soggezione, mentre lei gli si aggrappava al braccio e guardava altrove. Quella visita l'aveva profondamente colpito. D'un tratto, adesso, si trovò a domandarle: «Che cosa ti manca di più?». «Sono la donna più ricca della città» rispose lei. «Non c'è nulla che possa mancarmi.» La banda suonava Liberty Bell, la campana della libertà. Gli uomini battevano i piedi e le donne agitavano i programmi a tempo di musica. Quando la banda terminò l'esecuzione, Sousa si voltò per inchinarsi all'applauso. Era un omino snello e stempiato, con barba e pince-nez. E siccome si trattava di un concerto domenicale, indossava anche la divisa e i guanti
bianchi. Unendosi all'applauso, Elisabeth si protese verso Sebastian e disse: «Vorrei che mi raccontassi di più». «Non c'è nulla da raccontare» le rispose. «Non è per me,» ribatté «è per Frances e per Robert. Come posso metterli in guardia se non sono al corrente di nulla?» Sebastian distolse lo sguardo, prese fiato ed esalò un sospiro. Che cosa poteva fare? Andava contro il suo istinto, ma probabilmente Elisabeth aveva ragione. Disse: «Riguarda due fratelli... i fratelli di un ragazzo irlandese che ho contribuito a scovare. Si è sparsa la voce che il ragazzo stia per essere giustiziato». «E questi due fratelli ti stanno cercando?» «È sempre saggio tenersi in guardia.» «Ti stanno cercando?» ripeté. Non avrebbe voluto esitare. Fu solo un istante, ma bastò a tradirlo. «No» disse, rimpiangendo quel tentativo d'inganno nel momento stesso in cui vi dava voce. Elisabeth sollevò la mano: fra le dita, comparso come per magia, stringeva il telegramma del giorno precedente. Ciò significava che conosceva la verità sin dall'inizio. Intanto, sul palco, Sousa sollevava la bacchetta. Elisabeth alzò il sopracciglio e rimase in attesa. «Dovrei essere io il detective» le disse con aria dispiaciuta. «Non proteggerci fino a questo punto, Sebastian» ribatté lei. «Papà ci ha tenuto nascosto il peggio, ed è una cosa che detesto.» Poi, mentre la musica riprendeva, fece per alzarsi: «Credo di averne abbastanza di marce, per adesso. Andiamo a recuperare Frances». Il viale principale del parco divertimenti sorgeva oltre la fontana elettrica e i laghetti, con due ampi caroselli a ogni estremità. Al di là del viale era stato allestito il "Toboga", una giostra gigantesca, insieme ad altre attrazioni di una certa imponenza. Ogni anno si aggiungevano nuove giostre. C'era una gran folla e, in caso non riuscissero a trovarsi, Elisabeth aveva disposto d'incontrarsi al Lakeside Café. Di norma il bambino sceglieva il più grande dei due caroselli, incantato dal meccanismo che animava gli animali facendoli andare su e giù. Ma in quel punto non si vedevano né lui né Frances, e così Sebastian ed Elisabeth presero a ripercorrere lentamente il viale principale verso il luo-
go dell'appuntamento. Non c'era motivo di affrettarsi, mancava mezz'ora all'orario convenuto. Quasi tutte le attrazioni sul viale principale erano ospitate in strutture permanenti disposte a schiera, quasi a formare il ciglio stradale di una cittadina che si affacciava su un parco. Gli spazi liberi erano stati affittati agli imbonitori itineranti, attorno ai quali Sebastian percepiva un cambiamento di tono e d'atmosfera. I baracconi di passaggio risultavano più chiassosi, quasi volgari, e gli intrattenitori erano agghindati alla stessa maniera. Consapevoli di trovarsi a Willow Grove, si comportavano nel migliore dei modi, ma, nonostante gli sforzi, non riuscivano a disfarsi di quell'aria da bastardini da cortile cui avessero dato una ripulita e affibbiato un enorme nastro da mostra canina. Nondimeno, erano un'attrazione notevole. Le loro stamburate riuscivano a calamitare anche i cittadini più rispettabili che, per logica, ci si aspettava ne fossero dissuasi. Spudorata, corriva, rozza, la loro spettacolarità solleticava il lato primitivo di ciascuno. Scherzi della natura si esibivano fianco a fianco ad attrazioni tutte nuove. Più imponente di tutti, e più vistoso fra i baracconi, si stagliava il padiglione del pugilato, un tendone di tela sudicia, preceduto da un proscenio dipinto e innalzato su un'impalcatura provvista di pedana, da cui l'imbonitore sovrastava la folla. L'uomo non aveva il megafono, ma intonava il suo messaggio con una cadenza nasale e una parlata artificiosa che ricordava la sirena antinebbia di una nave. «Tre round!» stava dicendo. «Faaate tre round con il Campione Mascherato, viiincete cinque dollari e cooostringetelo a rivelare il suo volto davanti a tuttiii!» Il cosiddetto Campione Mascherato sostava alle sue spalle, paludato in un accappatoio sudicio e con il volto nascosto da uno straccetto, una calottina di maglia su cui erano stati praticati tre fori. Era alto, robusto ma visibilmente fuori forma. Stava scrutando la folla composta perlopiù da uomini, dando l'impressione di cercare degli sfidanti. «Maaai smascherato e maaai sconfitto» continuò l'imbonitore. «È tra voi l'uomo che riuscirà a farlo? Abbiamo degli uomini qui attorno? Io vedo solo un branco di femminucce.» Qualcuno protestò a gran voce e l'imbonitore continuò a scrutare i presenti, squadrandoli con espressione di sfida e superiorità. «Con te» gridò il Campione Mascherato, indicando qualcuno in mezzo alla folla e strillando con una voce da bevitore di whisky che arrivò a malapena sopra le loro teste. «Mi batterò con te!» E quando il suo primo, ca-
suale bersaglio alzò le mani e scosse la testa, lui ne scelse un altro, lo indicò e tornò a gridare: «Mi batterò con te!». Elisabeth diede una gomitata a Sebastian con un'occhiata scherzosa. «Avanti, Sebastian, dice che si batterà con te.» E per un istante, a onor del vero, era parso che il malconcio Campione Mascherato avesse scelto proprio Sebastian. Lui evitò accuratamente di incrociare il suo sguardo e rispose alla moglie: «Non mi pare proprio». Ma a quel punto il Campione era già passato oltre e provocava un altro sfidante. «Non ho mai assistito a un incontro di pugilato» disse Elisabeth. Sebastian si volse a guardarla, stupito. «E ne avresti l'intenzione?» Non rispose. Ma nel ricambiare lo sguardo una scintilla le balenò negli occhi, come per sfidarlo a rispondere a un'allusione che non aveva raccolto. Conosceva quello sguardo: di solito era l'inizio di qualcosa di più intimo. Ma non l'aveva mai visto manifestarsi a quel modo e mai in un luogo pubblico. Prima che Sebastian potesse dire alcunché, dalla folla si levò un boato di approvazione. «Abbiamo uno sfidante!» annunciò l'imbonitore. «Come ti chiami, ragazzo?» Subito Sebastian ipotizzò fosse un suo scagnozzo, ma il ragazzo che avanzava facendosi largo nella calca sembrava membro legittimo del pubblico locale. «Henry Keenan» gridò il giovane in risposta, porgendo il cappello al suo gruppo di amici e cominciando a sfilarsi la giacca. «E allora sali, Henry Keenan» grugnì l'imbonitore. Al primo cenno di uno sfidante, il Campione Mascherato aveva chinato la testa ed era di nuovo svanito attraverso i lembi del tendone. «Prendete posto all'interno, gente. Niente sputi, niente scommesse, niente invasioni del ring. E niente bambini, mi dispiace.» Elisabeth teneva ancora gli occhi fissi su Sebastian, seguitando a sfidarlo. Tutt'intorno la gente cominciava a farsi strada verso l'ingresso del tendone, una sgomitante fiumana in transito. Sebastian conosceva abbastanza della vita ed era certo che quello spettacolo non sarebbe stato ciò che lei immaginava. Ma come spiegarglielo senza dare l'impressione di trattarla come una bambina? Si limitò a chinare il capo come per dire: "Se è questo che vuoi!". E a quel punto cedettero e seguirono la corrente. L'interno del padiglione del pugilato pareva un sudicio tendone da circo
che ospitasse una fiera del bestiame. L'arena da combattimento era circondata da gradinate dall'aspetto traballante e, malgrado il pubblico numeroso, lui ed Elisabeth riuscirono a trovare posto al centro di una fila. Sebastian aveva temuto che la moglie potesse essere l'unica donna, ma si sbagliava. Il giovane sfidante, adesso in maniche di camicia, aveva ricevuto un paio di guantoni consunti che il compagno gli stava allacciando. All'angolo opposto del ring, il Campione Mascherato era solo e stava togliendosi l'accappatoio. Non aveva secondi; tutti gli aiutanti disponibili erano in mezzo al pubblico, intenti a spostarsi da una fila all'altra per raccogliere il denaro. Sfilandosi l'accappatoio, scoprì degli stivali alti, dei mutandoni e una camiciola di lana sotto un paio di calzoncini. Uno sguardo più dettagliato confermò la prima impressione di Sebastian: il fisico del pugile gli era parso possente e invece, a ben guardare, l'uomo risultava trascurato e non più nel fiore degli anni. C'era qualcosa di maldestro, di toccante, nella maniera in cui lisciava con gesti goffi le grinze dall'accappatoio prima di appenderlo fuori dal ring, quasi fosse un oggetto prezioso e dovesse tenerlo da conto. Forse anche quella maschera di maglia era l'unica che possedeva. Gli copriva tutta la testa, lasciando scoperti solamente gli occhi e la bocca. Al centro dell'arena l'imbonitore camminava a falcate solenni e ruotava su se stesso, concedendosi a ogni angolo del tendone per tener viva l'atmosfera per il tempo necessario ai preparativi. «L'uomo mascherato ha combattuto di fronte ai presidenti e alle teste coronate d'Europa» declamava. «Ha girato il mondo e non è mai stato sconfitto. Nutre un particolare disprezzo per i maschi della Pennsylvania che, a suo dire, sono il branco di zitelle più gracili che abbia mai incontrato.» I maschi della Pennsylvania risposero esattamente come dovevano, vocianti e furiosi, sicché l'atmosfera si fece ancora più carica. Era una strana visione: i ceti medi di Filadelfia fischiavano e urlavano come dei braccianti a un combattimento di galli. Sebastian volse lo sguardo alla moglie. Aveva il viso un po' arrossato, ma non sembrava tesa; si guardava intorno per non lasciarsi sfuggire nulla. Sebastian si era fatto un'idea precisa di come sarebbero andate le cose. L'uomo mascherato era un professionista che combatteva ogni giorno della sua vita, e diverse volte al giorno. Un giovane virgulto con i guantoni, sia pure vigoroso, aveva scarse possibilità di dargli del filo da torcere. Il professionista l'avrebbe tirata per le lunghe, offrendo al pubblico ciò per cui aveva pagato, rendendo verosimile il risultato dell'incontro, e a quel punto, con ogni probabilità, avrebbe messo il ragazzo al tappeto a metà del terzo
round. Il giovane sarebbe stato condotto fuori con onore, portandosi via qualche virile ammaccatura e una storiella da raccontare, mentre il Campione Mascherato sarebbe tornato sul palco per ricominciare daccapo. Questo a patto che il ragazzo non rivelasse un po' di talento, o non rappresentasse un'autentica minaccia. In tal caso sarebbe stato nel miglior interesse del Campione Mascherato mettere rapidamente lo sfidante al tappeto e stroncare sul nascere la sua fortuna. Gli spettatori non avrebbero apprezzato. Ma ci sarebbero stati altri spettatori. Era tutto pronto. «Tre round» gridò l'imbonitore fra gli schiamazzi della folla. «Regole di Londra.» Poi, a bassa voce, disse qualcosa che entrambi i contendenti dovettero protendersi per ascoltare. L'uomo mascherato annuì, e il ragazzo cominciò a saltellare impaziente. A quel punto l'imbonitore tornò ad alzare la voce. «Signori, cominciamo.» Scese dal ring e i due uomini si misero in posizione da combattimento. Adesso il frastuono nel tendone era assordante. I contendenti giravano in cerchio. Gli amici di Henry Keenan, appoggiati al bordo del ring, facevano più baccano di tutti. Il ragazzo azzardò qualche finta, e il pugile professionista non reagì. Neanche un sussulto. Quando all'improvviso il ragazzo sferrò un colpo, l'altro, più esperto, lo bloccò, dando quasi l'idea di non essersi mosso. I sostenitori di Keenan si fecero ancora più rumorosi. Sebastian lanciò un'altra occhiata a Elisabeth: sembrava trattenere il fiato. I combattenti continuavano a girare in tondo, il pugile mascherato si muoveva pesante come un manzo e lo sfidante diventava sempre più audace. L'azione del campione non era d'effetto, anche se personalmente Sebastian non avrebbe avuto il benché minimo interesse a tentare di mettere al tappeto un simile bestione. Quel pensiero sembrava non sfiorare Keenan; l'imperturbabilità e la lentezza del pugile professionista invitavano il ragazzo a far sfoggio di presunzione. Keenan si metteva in mostra e sprecava energie esibendosi per gli amici. Sferrò un paio di colpi infruttuosi che non misero in difficoltà il rivale, e poi un colpo fortunato alla testa che invece raggiunse lo scopo. L'uomo mascherato non vacillò, indietreggiò di un passo e serrò la guardia, spostandosi per un istante fuori portata. Ritrasse la testa nelle spalle come per proteggerla, quasi il pugno l'avesse realmente scosso. A lato del ring, la fazione di Keenan strepitava sempre più accesa. Sog-
ghignando, Keenan parve accorgersi dei sostenitori e si voltò per esultare del suo vantaggio immaginario. Non appena si volse, incrociò il guantone destro del combattente mascherato, che sbucò dal nulla come un masso sospeso e gli fece schizzare la testa di lato. Il sinistro lo colpì una frazione di secondo più tardi, e lo rispedì dall'altra parte. Uno dei due colpi, impossibile dire quale, gli ruppe il naso. Schizzò della saliva e il sangue cominciò a scorrere. Keenan vacillò, mantenendosi in equilibrio per un soffio. Agitando le braccia, dondolando sui talloni, sembrava sul punto di cadere. Il professionista si spostava insieme a lui, senza abbassare la guardia, pronto ad affibbiargliene un'altra dose. Volgendo lo sguardo a Elisabeth, Sebastian la vide sbiancare in volto. Era preoccupato ma provava anche sollievo. Sollievo che fosse ancora la donna che conosceva. Frattanto, sul ring, il Campione Mascherato assestava un altro colpo spietato, con calma e precisione. Henry Keenan girò su se stesso, barcollò e cadde su un ginocchio. Di lì a qualche istante l'imbonitore comparve sul ring, piazzandosi tra i due contendenti con la mano alzata. «Primo round!» dichiarò. Il professionista tornò lentamente al suo angolo, e il ragazzo fu sollevato di peso da un paio di amici. Intorno a Sebastian ed Elisabeth la folla si stava alzando in piedi e rasentava la frenesia. Solo quel mattino, a messa, gran parte di quei signori si era conformata al codice dei buoni cristiani; ora, con la temporanea deroga concessa dal rituale sportivo, parevano tutti una bolgia di pagani. Quando Elisabeth ricambiò il suo sguardo e azzardò un debole sorriso, lui ipotizzò che, con ogni probabilità, avesse visto abbastanza. Si guardò intorno, ma tra loro e l'uscita si frapponeva una massa impetuosa e ondeggiante. Tutti con il vestito buono e tutti che ululavano come cani aizzati dall'odore del sangue. Elisabeth si portò la mano guantata alla bocca, quasi avesse bisogno d'aria. «Signori,» disse l'imbonitore «cominciamo.» Henry Keenan, che si era in parte ripreso, uscì dal suo angolo con un grido di rabbia. Aveva la camicia insanguinata e gli occhi iniettati di follia. Il suo avversario era pronto a parare qualsiasi colpo. Ma a quel punto Keenan abbandonò le regole di Londra. Non sferrò pugni, si slanciò in avanti e diede una testata all'avversario.
Il pugile mascherato barcollò. L'imbonitore balzò sul ring e tentò d'intervenire, ma Keenan lo spinse via e approfittò del vantaggio. Il pugile aveva la guardia abbassata. Keenan gli sferrò un paio di calci, quindi prese a colpirlo alla testa, mentre i suoi amici gridavano per incoraggiarlo. L'imbonitore afferrò Keenan alle spalle, inchiodandogli le braccia e trascinandolo all'indietro. L'uomo mascherato era caduto su un ginocchio e lì restò, facendo qualche fiacco movimento ma senza riuscire ad alzarsi. Elisabeth si coprì gli occhi con la mano. Sebastian le sfiorò la spalla. Per quanto la calca fosse indicibile, doveva portarla via da lì. «Andiamocene» disse, e lei annuì. Si alzarono e, Sebastian in testa, si fecero largo verso l'uscita. Sul ring, intanto, il Campione Mascherato era riuscito ad alzarsi. Era aggrappato alla corda con entrambi i guantoni, ansimante e dolorante, mentre l'imbonitore bloccava ogni tentativo di Keenan di raggiungerlo. Gli amici dello sfidante stavano salendo sul ring per dargli man forte. La folla ululava e, da ogni parte del tendone, i lavoranti del luna park e i coraggiosi che avevano raccolto il denaro si facevano strada per raggiungere il centro della zuffa. Nessuno prestava attenzione a loro due e, siccome nessuno dava ascolto alle loro educate richieste, Sebastian abbandonò le buone maniere e cominciò ad aprirsi un varco a forza. Mentre raggiungevano il passaggio fra i sedili, Elisabeth quasi gli cadde addosso: «Non era come pensavo». «Lo so» disse lui, cingendola con un braccio per proteggerla dagli spintoni. «Ma a confronto di certe cose che ho visto, di ciò che le persone possono farsi a vicenda, posso assicurarti che non è nulla.» La situazione, intanto, volgeva al peggio. Gli amici di Keenan avevano messo le mani addosso all'imbonitore e lo stavano bloccando, mentre Keenan attraversava il ring per raggiungere il pugile mascherato. Per un brevissimo istante parve sul punto di attaccarlo; e invece gli mise una mano sulla spalla mentre con l'altra gli afferrò la maschera e gliela strappò con un gesto fulmineo. La folla lanciò un urlo. Con la maschera se ne andava anche il mistero che aveva celato finora. L'uomo si rivelò una malconcia nullità. Keenan tenne sollevato lo straccetto di maglia e lo esibì per tutto il ring quasi fosse la testa del nemico. Con o senza maschera, il combattente non sembrava turbato. Certo quello straccio non copriva una bellezza rimarchevole, poco ma
sicuro. I capelli cortissimi, color topo, una faccia che pareva marinata nel gin, vistose tumefazioni sotto gli occhi e allo zigomo. Il pugile restava passivo, i guantoni stretti alla corda, il petto ansante: forse aspettava che il rumore si placasse o di tornare in sé. Frattanto, nel passaggio fra i sedili, anziché aiutare Elisabeth, Sebastian si trovò a fissare la scena. Non poteva essere. Eppure... «Sayers!» mormorò. Tre Quell'uomo era un rottame ambulante. Più Sebastian osservava la scena, più se ne convinceva. Solo quando Elisabeth lo chiamò, ricordò di doversi occupare di lei e della sua incolumità. Quando uscirono all'aperto, videro sopraggiungere la squadra di sicurezza del parco. Willow Grove impiegava uno staff di venti persone per pattugliare la zona e mantenere l'ordine. Le misure erano strettissime: un individuo poteva essere scortato al cancello perché non indossava giacca e cravatta; inevitabile che una piccola sommossa come quella nella casa della Noble Art innescasse misure rigide. Lui ed Elisabeth non erano stati gli unici spettatori a fuggire e, nel riemergere alla luce del giorno sul viale principale, tutti batterono le palpebre quasi uscissero da un incubo. Non indugiarono e raggiunsero subito la sponda del lago. Ormai Frances e il bambino dovevano trovarsi lì. Elisabeth pareva inebetita e non fece commenti sullo spettacolo. In tutta sincerità, non disse nulla per dieci lunghi minuti, e anche più. Quando lo fece, si trattò di un laconico: «Eccoli». Sebastian era un vortice di pensieri, ma non lo dava a vedere. Si aspettava che Robert protestasse alla notizia che la giornata fosse bruscamente giunta al termine, invece il bambino restò in silenzio. Se Frances era perplessa, Elisabeth sembrava invece sollevata. Sebastian li accompagnò in direzione di Easton Road e fece salire tutti sul filobus in partenza che, era evidente, lui non avrebbe preso per tornare a casa con loro. Si trattenne sulla banchina. «Adesso non posso» disse a Elisabeth. «Ti spiegherò quando torno.» «Sebastian...» ribatté lei. «C'entrano forse qualcosa i fra...?» «No,» disse lui interrompendola «non c'entrano i fratelli irlandesi. È una faccenda molto più vecchia, una storia lunga.» «Non capisco» s'intromise la sorella. «Ho visto un mio conoscente, Frances» puntualizzò Sebastian, guardan-
do oltre la spalla di Elisabeth. «Devo tornare a cercarlo.» «Chi?» disse Elisabeth. «Dove?» «Una persona che conoscevo in Inghilterra. Per favore, non...» fece un gesto d'impotenza, indietreggiando mentre il conduttore segnalava la partenza del filobus. «Ci vediamo a casa.» Tornò al padiglione del pugilato, solo per scoprire che il tendone era stato svuotato e l'attrazione completamente smantellata. Una spranga sopra un paio di sedie fungeva da barriera temporanea per impedire l'ingresso. Sebastian la scavalcò, lasciandosi alle spalle il chiasso del viale principale. All'interno non c'era nessuno, non un'anima che potesse dargli le indicazioni che avrebbe voluto. Le gradinate erano vuote, le corde del ring giacevano sul pavimento. Adocchiò un'uscita all'estremità opposta del tendone e la raggiunse. Oltre l'uscita c'era un andito coperto, un tunnel di tela che collegava il tendone a un altro più piccolo. Un tappeto di giunchi fungeva da passerella. In fondo al tunnel, il lembo d'ingresso era sollevato e bloccato da un fermatenda. Attraverso le pareti di tela del passaggio si sentivano in lontananza il brusio dei cani e il vociare confuso del luna park. Il tendone più piccolo era stato allestito come una sorta di spogliatoio o sala trucco. Con un'asse e due barili era stato ricavato un tavolo, su cui campeggiava uno specchio con la cornice dalla doratura sbiadita. Un tempo, forse, quello specchio era stato opulento. Adesso era spazzatura recuperata, un rottame che aveva perduto oltre allo smalto dorato, anche qualche frammento, e somigliava parecchio all'uomo seduto di fronte. Se ne stava lì, su una sgangherata sedia di legno che pareva scampata a un falò, nell'accappatoio sudicio, proteso su un catino di smalto a piegare uno straccio zuppo, che poi tamponava con forza sulla tumefazione. Si era liberato dei guantoni ma aveva ancora le mani bendate per il combattimento. A un angolo dello specchio era appesa la maschera di lana. Anche quella vistosamente consunta. Sebastian si rese conto che non lo aveva sentito arrivare. Si schiarì la voce e disse: «Signor Sayers». Per un istante pensò che anche quel tentativo di richiamare l'attenzione non fosse andato a buon fine, invece la figura allo specchio posò l'impacco e si voltò lentamente. Ci volle un po' perché avvenisse il riconoscimento, e neanche allora lo sguardo dell'uomo cambiò un granché. Di sicuro nulla di eloquente, nessuna espressione di sorpresa. Buon Dio. L'ultima volta che aveva visto Tom
Sayers, quell'uomo era dritto come un fuso e straordinariamente aitante. Ora invece sembrava un vecchio ubriacone, e per di più depresso. «Ispettore Becker» disse, con quell'intonazione da ubriaco con cui l'aveva sfidato all'ingresso del tendone. «Non più ispettore» puntualizzò Sebastian. «Adesso sono americano, lavoro per i Pinkerton.» Tom Sayers rispose con un educato cenno del capo, una rispettosa deferenza che strideva con i modi di un tale scimmione. Disse: «Congratulazioni per aver avuto successo nella vostra nuova carriera». Il tono era quello di un uomo ben educato, cosa piuttosto inconsueta per un pugile da luna park. Sebastian gli girò intorno e prese la maschera dall'angolo dello specchio. Aveva mantenuto il piglio sicuro del poliziotto, quello che lo faceva sembrare di casa ovunque. Trattenne la maschera fra il pollice e l'indice, quasi fosse infetta. Poi disse: «A proposito di carriera. Questa sconfitta segna l'epilogo di un'altra delle vostre?». L'uomo di nome Sayers non scrollò le spalle, ma era evidente che non era tipo da accettare provocazioni. "Mi sono spinto troppo oltre per sentirmi insultato da qualcosa" sembrava dire quella faccia. "Ne ho viste troppe." Proseguì: «Stasera ce ne andremo. E domani ci sarà un altro pubblico. Mi rimetterò la maschera e tornerò sul ring. Chi potrà mai saperlo? Non importerà a nessuno». Sebastian gettò lo straccetto a terra. «Amico, siete troppo vecchio» disse. «Abbiate il buonsenso di accorgervene. Continuate così, e un giorno finirete al tappeto e vi raccoglieranno morto.» Sayers si tese a raccogliere la maschera. «È quel che mi aspetto, signor Becker» ribatté. «È quel che mi aspetto e prego con tutto il cuore che accada.» Lisciò la maschera e la ripiegò con cura. A quel punto alzò lo sguardo. «Perché siete qui?» chiese. «Non mi sono macchiato di alcun crimine in questo paese. E qualunque cosa pensiate io abbia commesso in Inghilterra, posso assicurarvi che sapete molto meno della metà della storia.» «Sono qui per conoscere il resto» ribatté lui. Sayers continuava a fissarlo. Sebastian notò un lieve tremito nelle mani, cosa di cui probabilmente Sayers non si rendeva neppure conto. «Ho atteso per quindici anni, Sayers. Sono arrivato a credere che poteste non essere il colpevole. A meno che,
adesso, non mi diciate che sbagliavo.» Sayers distolse lo sguardo. Abbassò gli occhi. Si fece passare la mano bendata fra i capelli a spazzola. Poi esalò un respiro pesante, come se il solo pensiero di quella sfida bastasse a frustrarlo. Sebastian si guardò intorno nel tendone e vide un'altra sedia spaiata accanto a un baule da viaggio. La raggiunse, la sollevò e la spostò, piazzandola di fronte a Sayers, poi si sedette. «Ebbene?» disse. MIDLANDS, INGHILTERRA AGOSTO-SETTEMBRE 1888 Quattro Fu in una notte d'agosto del 1888 che calò il sipario sull'ultima rappresentazione settimanale del Diamante purpureo, un'opera in due atti interpretata dalla compagnia teatrale itinerante di Edmund Whitlock. Il Lyric era un teatro di provincia, piccolo e affollato, e l'opera, che poteva essere rappresentata da sola o occupare la seconda parte di un cartellone di varietà, era una commedia sentimentale con un ruolo principale dal copione pieno di sproloqui antiquati, espressioni gergali e fesserie varie. Il capocomico, Edmund Whitlock, aveva affinato la sua interpretazione nel corso di oltre ottocento repliche, tutte in teatri e varietà simili a quello. Se possibile, l'aveva affinata fin troppo. Gli altri membri della compagnia notavano che in quei panni risultava atrocemente annoiato. E quando "il capo" si annoiava, la sua interpretazione poteva andare avanti a pieno ritmo ma la mente cominciare a divagare. Aveva acquistato l'opera da un autore e investito del denaro nell'allestimento, dunque era obbligato a tenerla in repertorio fin quando fosse rimasto uno sperduto teatro da visitare in una qualsiasi località delle isole britanniche. Ma quella sera gli era sfuggito un brano del dialogo nella seconda scena, e l'Attor Comico era stato costretto a intervenire con una prolungata improvvisazione. Se qualunque altro membro della compagnia avesse commesso un errore simile, l'avrebbe pagata molto cara. Ma Whitlock era il capo, quindi non ci sarebbero state conseguenze. I cinque attori comprimari entrarono in scena dalle quinte per raccogliere gli applausi, poi si spostarono ai lati perché Whitlock prendesse posto al centro del palcoscenico. Lui balzò fuori dal sipario e si pietrificò sul posto, quasi fosse sbigottito
da quell'inatteso grado di attenzione: un sessantenne in corsetto attillato, capelli tinti di nero, gote imbellettate, fresco - se così si può dire - dell'interpretazione di un eroe che aveva la metà dei suoi anni. Ma così indulgenti erano le luci della ribalta, e così potente l'incantesimo del teatro, che nessuno sembrava mai trovare la cosa quantomeno curiosa. Avanzò verso i riflettori, le mani giunte, sorridendo radiosamente al pubblico con umiltà e diletto. Le grida e i fischi d'incoraggiamento potevano continuare all'infinito. E non senza ragione. Nel retropalco, Tom Sayers si protese a sbirciare dalle quinte. Aveva una mano sollevata, pronta a dare il segnale a un coro che radunava il carpentiere della compagnia, due servi di scena, il galoppino adolescente e la sarta. Con batacchi, sonagli e fischietti, erano allineati dietro il sipario a dare all'accoglienza del capo quel sostegno in più che, alle volte, lui riteneva necessario. Whitlock alzò la mano per ottenere silenzio; Sayers abbassò la propria, e i lavoranti di scena smisero subito di far baccano e cominciarono a smontare il set. Mentre il pubblico si quietava, il capocomico concesse l'onore del proprio sguardo più penetrante e affettuoso a ogni angolo del teatro. Quella era una città mineraria e la sua vista si posava su colletti inamidati, dentature pessime e una gran quantità di brillantina. I volti delle donne erano quasi del tutto indistinguibili da quelli degli uomini. Agli occhi di un forestiero, i bambini sembravano ritardati e avevano l'aria vagamente criminale. «Amici miei» disse Whitlock con voce stentorea. «Amici miei. Cari, cari amici miei. Il calore e l'affetto che ci avete dimostrato questa sera assicurerà che il nome di...» A quel punto parve ammutolirsi per l'emozione, e Sayers sapeva perché. Ancora una volta il capo non era riuscito a memorizzare il nome della città in cui stavano recitando. In un'occasione, parecchio tempo prima, Sayers si era azzardato a suggerirglielo. La cosa aveva fatto venire giù il teatro, e lui non avrebbe mai ripetuto quell'errore. Trattenne il fiato. «...della vostra città resti scolpito per sempre nei nostri cuori.» Whitlock si piantò un pugno in petto, dove era custodito il suo cuore. «Il tempo che abbiamo trascorso insieme è stato magnifico. Questa sera dobbiamo lasciarvi... sì!» gridò repentino, prevenendo la protesta del pubblico. «Ma come dono d'addio, permetteteci di lasciarvi con una canzone all'italiana interpretata dal nuovo acquisto della nostra compagnia, la signorina Louise Porter.»
La claque guidò l'applauso mentre Louise, giovane soubrette della compagnia, avanzava per raggiungere Whitlock. Questi premette le labbra sulla mano guantata della signorina Porter e la presentò agli spettatori, mentre gli altri attori svanivano in silenzio dietro le quinte. La signorina Porter, rispetto al suo datore di lavoro, poteva anche risultare molto più gradevole alla vista, ma lui non lasciava dubbi su chi dei due fosse il personaggio principale. Dopo averle accordato il proprio sostegno, uscì di scena e la lasciò sola sul palcoscenico. La compagnia disponeva anche di un direttore musicale, che suonava il pianoforte e dirigeva i musicisti in forza ai vari teatri nelle date più importanti. Il teatro in questione era di dimensioni ridotte, ma vantava un ottimo pianoforte, che era persino accordato. La signorina Porter cominciò a cantare. Non appena Whitlock tornò dietro le quinte, fu accolto con un vassoio d'argento che recava un asciugamano pulito e un bicchiere di Porto. Il vassoio era retto da un servo di scena che svolgeva anche le mansioni di valletto personale del signor Whitlock, e che tutti conoscevano come il Taciturno. Era con Whitlock da tempi lontanissimi. Non era del tutto privo di favella, ma era originario di qualche luogo remoto dell'Europa e non parlava più del necessario. Sua moglie, inevitabilmente nota come la Muta, sembrava non spiccicare una parola d'inglese. Il bicchiere in mano, Whitlock passò a mezzo metro da Tom Sayers. Quest'ultimo stava supervisionando il trasloco degli attrezzi scenici, spuntando ogni articolo da un elenco sul suo taccuino rilegato in pelle. I servi di scena lavoravano in silenzio e quando il pubblico si fosse alzato per andarsene, il retropalco sarebbe stato completamente spoglio. Whitlock abbassò la voce e disse a Sayers: «Ho visto accoglienze più entusiastiche per la lettiga mortuaria nei sanatori. Quando ce ne andremo da questa bolgia dimenticata da Dio?». «C'è un treno speciale che parte a mezzanotte» gli rispose Sayers. «Amen, allora» ribatté Whitlock. Alzò il bicchiere come per rivolgere un brindisi e si allontanò a cercare il direttore del teatro. Sayers distolse momentaneamente l'attenzione dallo smantellamento delle scene per tornare in quel punto delle quinte da cui aveva sbirciato verso la ribalta. Lì c'era Louise. Lì c'era la sua canzone. E quello era il momento di debolezza serale di Tom Sayers. Sayers era il vice di Edmund Whitlock e si occupava di tutte le relazioni
d'affari che poteva avere una compagnia itinerante: prenotava le date, organizzava gli spostamenti, assumeva il personale, licenziava chi alzava il gomito o si comportava in maniera disdicevole. Sbrigava la corrispondenza e a volte si sobbarcava le mansioni di direttore di scena o di addetto al servizio bagagli. Per tutti era una spalla a cui appoggiarsi e per qualcuno una spalla su cui piangere. Era stato Sayers a leggere Il diamante purpureo e a raccomandarne l'acquisto a Whitlock, ed era stato sempre Sayers a trovare Louise quando l'ultima soubrette aveva abbandonato la nave a Leicester lasciandoli scoperti. Louise era una giovane donna che aveva scritto una lettera all'agenzia Bertram informandosi sulle possibilità di far carriera sul palcoscenico, senz'altra qualifica se non quella di saper cantare e recitare poesie. Inoltre, aveva un'idea limitata di ciò che comportava la vita teatrale. Sayers aveva compreso che, dopo la morte del padre, la sua famiglia viveva in ristrettezze economiche. Per una giovane cresciuta in una casa con tanto di cameriera, andare a servizio era fuori questione, e una vita da istitutrice o dama di compagnia non era tanto allettante. Dal tono della sua lettera all'agenzia era chiaro che il palcoscenico rappresentava una sorta di sogno fanciullesco ma, per quanto fosse inesperta, era disponibile a recitare e disposta ad accettare il salario di Whitlock. Da allora aveva cominciato a maturare, acquisendo una bellezza considerevole. Non certo l'ideale di ogni uomo, ma quanto bastava per la maggior parte degli esponenti del sesso maschile. Per chi apprezzava le donne grandi, grosse e sempre pronte a litigare, non sarebbe mai andata bene. Ma per un uomo come Sayers, ampiamente inesperto in fatto di questioni sentimentali, costituiva la perfezione. Ogni replica terminava con la canzone di Louise, e ogni sera Sayers si fermava dietro le quinte a guardarla. Era sempre la stessa storia: la linea aggraziata del collo, l'angolo della spalla, quel profilo, quando voltava il capo, che pareva rilucere nel buio. Abbacinato dal candore della pelle, avrebbe potuto contarle ogni capello. Quasi tutte le sere si tratteneva sino alla fine e si univa all'applauso. Ma quella sera non osava. C'era troppo da fare, e quando il rumore dei passi dietro le quinte lo riscosse dal suo sogno a occhi aperti, consultò rapidamente il taccuino e tornò al lavoro. Sayers raggiunse il magazzino, dove da un momento all'altro sarebbe dovuto arrivare il carro dei traslocatori. Alcuni fondali erano già sul posto,
piegati e accatastati, e quasi tutti gli attrezzi di scena erano stati numerati, avvolti nella tela da pacchi e riposti in canestri di vimini. Di lì a poco si sarebbero aggiunti le ceste dei costumi e i bagagli personali della compagnia. Era tutto buio finché le porte del magazzino non cominciarono ad aprirsi, e a quel punto uno spiraglio di luce sempre più ampio cominciò a rivelare i mattoni del vicolo dietro il teatro, illuminato a gas e battuto dalla pioggia. Il carro, puntuale, era fermo in attesa. Un carro a sponde alte, trainato da cavalli. Sotto le lampade a gas, la pioggia si abbatteva a dardi d'argento sui cavalli da tiro, che se ne stavano lì bardati, immobili e senza protestare. Un uomo in gabbana stava scendendo da cassetta e un altro era sul retro ad abbassare la sponda posteriore. Soddisfatto che tutto procedesse a dovere, Sayers risalì i gradini di ferro verso il corridoio dei camerini. In cima alla scala incontrò James Caspar, in procinto di scendere. Si era lavato via il trucco ma, per il resto, si era limitato a infilarsi un soprabito sul costume di scena così composto: cravattino nero e colletto rigido dalle punte rivoltate e marsina. Si scostò e, con grazia un po' affettata che aveva l'aria di una canzonatura, fece cenno a Sayers di passare. «Grazie, Caspar» disse Sayers. «Carrozze all'ingresso degli artisti fra venti minuti.» Caspar non fece commenti, e il suo sorriso non mutò. Era l'Attor Giovane della compagnia e, come Louise era stata "trovata" da Sayers, Caspar era la scoperta di Whitlock. Era molto scuro, molto lustro e molto bello. Come attore era scarso, ma si muoveva bene e attirava l'attenzione. Sayers aveva il fisico da atleta, eppure gli abiti non gli calzavano come invece donavano a Caspar, che vestiva come un principe in incognito. A volte Sayers si specchiava di sfuggita e, nel pesante abito a scacchi e con quelle massicce scarpe di cuoio, pensava di assomigliare a un villico che si era messo in ghingheri per un matrimonio. Sayers non vedeva motivi per invidiare Caspar. Ma nello stesso tempo non riusciva a farselo piacere. Sembrava pronto a lasciare l'edificio. «Caspar!» Sayers gridò il suo nome, ma era troppo tardi. James Caspar era già uscito dall'area di carico e si era infilato sotto la pioggia, sgattaiolando fuori come un gatto dalla porta della cucina. Era chiaro che aveva dei programmi tutti suoi per quell'ora scarsa di lì a mezzanotte. Ebbene, andasse pure. Caspar era padrone di sé. E se il fatto di essere
padrone di sé gli faceva perdere il treno speciale di mezzanotte, e quindi la loro prima data in una città mai raggiunta in precedenza... allora, di nuovo, che andasse. Nessuno era insostituibile. E sostituire James Caspar era un'occupazione che Sayers sarebbe stato più che felice di aggiungere ai propri incarichi. Di ritorno nel corridoio dei camerini, quando bussò alla porta, Sayers sentì l'applauso rivolto a Louise Porter. L'amavano tutti, quei deformi minatori e le loro mogli oberate di fatica. Tutte le commesse e gli spazzini, e gli operai là fuori. L'applauso riecheggiò nel retropalco, simile a quello di fantasmi di un'epoca superata. S'immaginò Louise rivolgere il suo unico inchino e indietreggiare attraverso il sipario sollevato dall'operaio di scena. Quando in risposta al suo bussare giunse un grido, spalancò la porta per trovare l'Attor Comico e Ricks, il Cattivo della compagnia, già vestiti da viaggio e intenti a togliersi le ultime tracce di cerone. «Carrozze all'ingresso degli artisti fra venti minuti» ripeté. «Fatevi trovare pronti.» «Carrozze!» disse l'Attor Comico. «Significa che il capo si è finalmente ricordato a cosa gli servono le tasche?» «Significa che abbiamo un treno che parte a mezzanotte e, se lo perdiamo, domani niente matinée.» Di solito la tappa in una città terminava il sabato sera, dunque la compagnia aveva a disposizione tutta la domenica per viaggiare. Ovunque nelle isole britanniche le stazioni come Crewe o la Exchange a Manchester brulicavano di attori e lavoratori del teatro che s'incrociavano sui binari e nelle sale d'aspetto per scambiarsi le novità in attesa delle coincidenze. E il pubblico accorreva per godersi lo spettacolo. Ma con quelle tappe infrasettimanali - dal lunedì al mercoledì in una città, dal giovedì al sabato in quella successiva - tutti andavano di fretta. E quando le date erano a parecchie miglia di distanza, come sovente capitava, c'era poco spazio per gli errori di organizzazione da parte del vice capocomico. Mentre Sayers chiudeva la porta del camerino e si voltava, fu costretto a indietreggiare per lasciar passare Arthur Steffens, il giovane galoppino della compagnia. Arthur aveva le braccia cariche di giornali e si muoveva a velocità sostenuta, come suo solito. Non essendo in posizione di rifiutare alcuna incombenza, ne sbrigava sempre cinque alla volta. Caspar si serviva di lui più di chiunque altro, e non lo trattava bene.
«Arthur» gli gridò Sayers. «Signor Sayers?» «Quando arriveranno le carrozze, non perdere tempo a cercare il signor Caspar. L'ho appena visto lasciare l'edificio.» «Nossignore. Voglio dire, sissignore. C'è qualcos'altro, signore?» «Se torna con il costume rovinato, puoi dirgli che si può scordare la paga.» Al pensiero di quel compito il ragazzo sembrò così costernato, che Sayers fu costretto a cedere e toglierlo dai guai. «Allora d'accordo, Arthur» esclamò. «Glielo dirò io. Va' pure.» Arthur lasciò il corridoio a passi affrettati, e Sayers procedette al camerino successivo. Senza aver organizzato la cosa, chissà come, raggiunse la porta nello stesso momento di Louise. «Signorina Porter» disse. «Signor Sayers» rispose lei. I loro convenevoli non erano del tutto seri. Era uno scherzo fra loro che ormai andava avanti da quasi un anno. Sayers accarezzava l'idea che la disinvoltura di Louise in quegli scambi di battute fosse indice di un sentimento più profondo. «Vi ho guardata cantare» le disse. «Come sempre. Penserei che la fortuna mi abbia voltato le spalle se non vedessi la mia piccola mascotte lì ferma.» Sayers si finse addolorato. «La vostra piccola mascotte?» disse. «Vi ringrazio, signora.» «Sai che ti prendo in giro. Sono andata bene?» «Sentivo i loro cuori straziarsi. Come fai?» «Non saprei dirlo» ribatté lei. «Devono essere tutte le enormi sofferenze che ho sopportato. Immagino che stasera ci aspetti di nuovo la terza classe.» «Ho prenotato uno scompartimento privato tutto per te.» «Oh, Tom» esclamò lei, sinceramente sorpresa. «Come ci sei riuscito?» «Mai chiedere a un mago di rivelare i propri trucchi.» «Dio ti benedica, Tom. Come farei senza di te?» «Non ho dubbi che un altro devoto servitore si affretterebbe a prendere il mio posto.» «Non ne troverei mai uno tanto devoto come te, Tom» disse, e a quelle parole parve fluttuare in camerino, seguita a ruota dalla sarta. I camerini erano angusti, con le pareti di mattoni a vista. Quello di Loui-
se Porter disponeva di una stufa e di un separé dietro cui poteva sfilarsi l'abito di scena. Mentre sedeva per togliersi le forcine dai capelli, la sarta le mostrò il vassoio argentato, un attrezzo di scena che pochi minuti prima aveva ospitato il Porto e l'asciugamano di Whitlock. Adesso recava diversi biglietti da visita stampati e una rosa rossa. «Per voi, signorina Porter» disse la sarta. «Giunti tramite il portiere, con i complimenti di vari signori.» Louise diede una scorsa ai biglietti con il più blando interesse. Signori? Lì? Ingegneri minerari, commercianti, nella migliore delle ipotesi. «Solo cinque?» disse con un rapido conto. «Come devo essere diventata vecchia e brutta.» E a quel punto, scuotendo la testa per far ricadere i capelli non più appuntati, si alzò per spostarsi dietro al separé. «Devo riservar loro il solito trattamento, signora?» domandò la sarta. «Di' al portiere di dare una fotografia a ognuno.» Nelle ultime date londinesi, Whitlock aveva spedito Louise da Window and Grove's, a Baker Street, a farsi fotografare per una cartolina illustrata. Aveva posato come Desdemona, un ruolo che non aveva mai interpretato. Whitlock le aveva detratto il costo delle stampe dal salario. Mentre lei si sfilava l'abito di scena e il primo strato di sottovesti che l'accompagnava, la sarta si diresse verso la stufa e, raccogliendo le molle per sollevare il coperchio, disse: «Tom Sayers si è fermato ad ascoltare la vostra canzone». «Sì» rispose Louise con l'occhio assente. «Non è tenero?» Con Sayers poteva anche scherzare sui servigi e la devozione, ma in tutta sincerità, di solito, il vice capocomico le passava di mente non appena scompariva dalla vista. «Ieri sera il signor Caspar ha fatto lo stesso.» Louise si fermò e fece capolino dal separé. «Davvero?» domandò. La sarta fece una smorfia di assenso e, le molle in una mano e il vassoio nell'altra, fece scivolare biglietti e fiore tutti insieme nel fuoco, prima di richiudere il coperchio della stufa con un gesto deciso. «Bene» disse Louise, e si ritrasse dietro il separé. Ma, prima di continuare a spogliarsi, rifletté un istante su quell'idea. Bene, davvero. I membri della compagnia cominciavano ormai a radunarsi attorno alla portineria del teatro, dove Sayers aveva affisso l'ordine di movimento e da dove li avrebbero raccolti le carrozze. Whitlock era entrato all'interno con
il portiere e stringeva ancora saldamente la sua cassaforte portatile. Di solito aveva a fianco il Taciturno, con il suo cranio rasato e ossuto, presenza minacciosa e deterrente per chiunque. Quando Whitlock vide Sayers dalla vetrata, gli fece cenno di entrare. Come tutte le portinerie era uno spazio angusto e molto intimo, e il portiere non era tanto contento di spartirlo. Whitlock chiese notizie di Caspar. «Non ha atteso le carrozze» gli rispose Sayers. «Sa dove andare?» Sayers fece un gesto d'impotenza. «Se ha letto l'ordine. Chi può dirlo?» Whitlock distolse lo sguardo, con aria meditabonda e non troppo compiaciuta. «Parlerò con lui sul treno» decise. «Sempre ammesso che ci salga» replicò Sayers. «Io non so dove sia andato.» Quando Sayers uscì dalla portineria fu bloccato dall'Attor Comico. Il vero nome dell'uomo era Gulliford, ma nel mestiere era noto come Billy Danson, "Largo d'abito e di sorriso". Aveva in mano la borsa da viaggio e stava leggendo l'ordine di movimento da sopra le teste degli altri. «L'elenco del treno dice che stai con me» esclamò. «Esatto.» «Ma tu prendi sempre uno scompartimento privato.» «Non stanotte» ribatté Sayers, e si allontanò per accertarsi che fossero arrivati i fondali e gli attrezzi di scena. Cinque A circa un miglio dal teatro sorgeva un'arena di tutt'altra natura: il mercato del bestiame cittadino con l'attiguo macello. Gli allevatori della zona guidavano le mandrie da una parte e i macellatori locali portavano via le carcasse pulite dalla parte opposta. Nel mezzo c'era un cortile grande come una piazza d'armi con un tombino centrale, una sala d'aste con i recinti coperti e un mattatoio con due aree di macellazione e un pozzetto di scolo. Nelle vicinanze sorgevano poche case, ma un saponificio e una conceria attingevano l'acqua allo stesso fiume dove successivamente scaricavano i rifiuti nocivi. Dopodiché il corso d'acqua scorreva in città, schiumando a ogni ansa e sbarramento. James Caspar aveva raggiunto il mattatoio a piedi, da solo. Nessuno l'a-
veva visto, la pioggia incessante aveva sgombrato le strade dagli spettatori usciti da teatro. Adesso era ancora più fitta e riluceva sull'acciottolato mentre lui volgeva lo sguardo all'estremità opposta del cortile. Era al riparo e nei recinti alle sue spalle si muovevano inquieti decine di animali, che percepivano nell'aria l'odore della propria morte, pur senza comprenderne il significato. Il cortile e gli edifici erano circondati da un alto muro di mattoni. Il cancello principale era aperto e al centro dell'arco sovrastante era appesa una lampada solitaria. Con quella fioca luce, Caspar riusciva a malapena a decifrare l'orologio da tasca. Era più tardi di quanto avrebbe voluto. Qualcuno stava varcando il cancello. Due figuri correvano piegati in avanti per ripararsi dalla pioggia, i pastrani sventolanti; fra loro c'era una presenza più minuta, che all'inizio gli era sfuggita. Il Taciturno la copriva con un lembo del pastrano sbottonato, simile all'ala di un pipistrello. Poco più indietro avanzava sua moglie, la Muta, affrettandosi per tenersi al passo. Caspar abbassò con uno scatto il coperchio dell'orologio e si ricompose: non era opportuno mostrarsi impaziente ma neanche nascondere il disappunto. Compito arduo. Mentre la moglie del Taciturno si avvicinava quel tanto che bastava a ripararsi dalla pioggia, l'uomo si parò di fronte a Caspar e scostò il lembo del pastrano, rivelando il compagno che proteggeva. «Bene bene,» disse Caspar «che cos'abbiamo qui?» Si spostò per vedere meglio nella luce fioca, seguito dal Taciturno. «Un ragazzo!» continuò Caspar. Il Taciturno lo fissava, gli occhi scuri si stagliavano sul volto scheletrico con sguardo apprensivo e insieme sottomesso. Il ragazzo restò immobile. Impossibile indicarne l'età esatta, ma era giovane. Aveva l'aria malnutrita, impacciata e cenciosa. I capelli fulvi gli erano stati tagliati di recente, forse da un tosatore nuovo del mestiere, a giudicare dalle chiazze scoperte e dalle croste che gli aveva lasciato. Teneva la bocca spalancata. Solo gli occhi parevano vivi, ed erano sgranati dal terrore. «Oh, bene» disse Caspar. «Temo che non abbiamo molto tempo. Come ti chiami?» Neanche un accenno di risposta. «Niente nomi» esclamò Caspar. «E questa cos'è?» Toccò la nuca del ragazzino con la mano guantata di bianco e la ritrasse, ispezionandosi i polpastrelli macchiati. La luce era troppo scarsa per essere certi della grada-
zione di colore, ma poteva essere purpurea. «Una sorta di tinta» osservò Caspar. «A che cosa serve? Per la tigna?» Ancora niente. Caspar prese il ragazzo per la spalla e si addentrò con lui nell'edificio, dov'erano state accese delle candele. «Allora qualcuno si preoccupa per te» disse. Il Taciturno e la moglie non li seguirono, la loro parte nello spasso di quella sera era conclusa. Caspar stringeva con forza il ragazzino, non per fargli male, ma per trattenerlo nel caso tentasse la fuga. «Ragazzo, ti piacerebbe per una volta in vita tua sentirti pulito?» disse. «Ti piacerebbe essere più pulito di quanto tu sia mai stato? Perché io posso fare qualcosa per te. È un'arte che ho perfezionato. Vieni.» Con la mano fece voltare il ragazzo, che vacillò, spostandosi dov'era guidato come un rigido manichino. Una rampa lunga, bassa e disseminata di paglia sudicia conduceva al piano superiore dell'edificio. I due piani del macello erano collegati tramite alcune botole, da cui pendevano delle catene. Mentre i due salivano, il chiarore delle candele si fece più intenso. Nel raggiungere la cima della rampa, si profilò alla vista lo spazio aperto del piano superiore e Caspar strinse la presa. Nella tasca del ragazzo tintinnarono degli spiccioli, e Caspar prese mentalmente nota di farli recuperare al Taciturno in seguito. «Ecco, ragazzo» esclamò. «Ecco quello che posso fare per te.» Il ragazzo lo guardò, e per la prima volta mostrò di comprendere. Cominciò a piagnucolare, e il piagnucolio si mutò in un grido. «Calma, calma» disse Caspar. In basso, il Taciturno e la moglie presero a battere con dei bastoni sui recinti per far muovere e muggire il bestiame, per sovrastare così eventuali rumori provenienti dall'alto. «Gridare non ti aiuterà» disse Caspar. «Ma posso farti vedere qualcosa in grado di farlo.» Sei Furono quasi obbligati a correre ma raggiunsero l'atrio della stazione a mezzanotte meno venti, appena in tempo per caricare il bagaglio nel vagone merci e le persone nei vagoni letto. L'addetto della stazione aveva aperto i cancelli dello scalo ferroviario per far accostare le carrozze al binario. I servi di scena trasferirono scarpe, attrezzi e ceste dei costumi con la massima efficienza, benché rallentati dai capricci e dalle rimostranze degli attori. Whitlock si spostava con quattro pesanti valigie, un baule da viaggio e
un cagnolino da salotto di nome Gussie. Era preparato a portare il cagnolino in braccio, invece toccò a Sayers organizzare il trasferimento dei bagagli del suo datore di lavoro in assenza del Taciturno, con gli attori a guardare dai finestrini del treno. Mentre Whitlock faceva passeggiare Gussie sul binario, sopraggiunse l'addetto della stazione. Era un uomo snello e baffuto, con un lungo soprabito marrone e una bombetta in testa. «Il signor Whitlock?» domandò. «Il signor Edmund Whitlock?» «Eccomi» rispose Whitlock con la solita consapevole grandeur. «Cooper, signore. Rappresentante teatrale della Midland Railway. Sono spiacente che alcuni suoi dipendenti manchino all'appello, signore, ma non posso trattenere oltre il treno.» Whitlock raccolse Gussie dal binario con una mano, e con l'altra fece segno di tacere. «Non dica un'altra parola, signor Cooper» ribatté. «La mente umana ha una capacità limitata, e io la riservo interamente ai classici.» Con quelle parole, s'infilò nel treno in compagnia del cane lasciando Cooper a trattare con altri. Se confidava che Sayers prendesse il suo posto, si sbagliava. Il suo vice aveva già fatto tutto quanto era in suo potere, con l'addetto delle ferrovie, e in quel momento si trovava in un altro punto della stazione. Sayers aveva individuato qualcuno dalla parte opposta dei binari. Possibile? Certo che sì. Lasciandosi alle spalle il treno e la compagnia, si precipitò verso il ponte di ferro che attraversava le rotaie, passando vicino alle travi del tetto dove ristagnavano tutto il fumo e il vapore. «Bram» gridò, prima ancora di essere a portata d'orecchio. «Bram Stoker!» Al suono del proprio nome, il corpulento irlandese in sosta al binario cinque si voltò. Era stato facile individuarlo, persino di notte e da lontano. Poco più di quarant'anni, ben oltre il metro e ottanta d'altezza, corporatura possente, capelli castani, barba rossiccia. Con uno sguardo di educata incertezza attese che Sayers scendesse dal ponte per raggiungerlo. «Perdonami, Bram» disse Sayers, cercando di riprendere fiato mentre si fermava di fronte all'uomo. Così come Sayers era l'uomo di Edmund Whitlock, Stoker era quello di Henry Irving. Sayers poteva anche essere al seguito di un piccolo e modesto circo equestre e Stoker dell'autorevole compagnia del Lyceum, ma senza dubbio, sotto sotto, erano come fratelli. O forse no. Sayers notò lo sguardo interrogativo negli occhi di Stoker,
mentre l'irlandese era intento a studiarlo. «Non mi riconosci?» disse Sayers. Stoker indugiò ancora un momento e ribatté: «Tu sei Tom Sayers. Il pugile professionista. Hai scritto e recitato in...». «Lotta sino all'ultimo.» «Nell'83 hai portato in giro la compagnia itinerante numero uno.» «Adesso sono il vice di Edmund Whitlock.» «E cos'hai fatto di male per meritartelo?» replicò Stoker in tono sardonico. «Ti chiedo un favore, Bram» disse Sayers, senza abboccare alla provocazione. «Tre membri della mia compagnia mancano all'appello, e non so dove siano. Tu hai qualche ascendente sull'addetto delle ferrovie?» «Per trattenere il tuo treno?» «Per un lasso di tempo qualunque.» Stoker confrontò il suo orologio con quello della stazione e promise di vedere che cosa si poteva fare. Mentre attraversavano il ponte di ferro, confidò a Sayers di essere diretto in Scozia per riunirsi al resto della compagnia del Lyceum, che era lì in cerca di scenari per una nuova rappresentazione del Macbeth. Aveva fatto tappa in quella città per discutere l'allestimento della tournée provinciale del Faust che l'avrebbe preceduta. In cerca di scenari! Sayers si meravigliò al solo pensiero. Quelli del Diamante purpureo erano stati scelti a buon mercato nel magazzino del Theatre Royal di Bilston, stracolmo di attrezzi e fondali di scena di compagnie fallite. Whitlock poteva anche non essere il più facile degli impresari, poteva anche non recitare nei migliori teatri, non essere ricevuto dalle case reali o non ottenere le onorificenze di importanti istituzioni, ma era a capo di una compagnia che operava in un campo professionale incerto. Rispettava le date stabilite e dava da vivere ad altri. Stoker, dal canto suo, poteva anche avere la grande fortuna di lavorare per un attore all'apice della carriera, ma bisognava ringraziare Edmund Whitlock, e le centinaia di suoi simili, se quella professione continuava a esistere. E probabilmente lui si sarebbe fermato a discuterne con Stoker, se non avesse avuto necessità tanto pressanti. Mentre Stoker andava a cercare Cooper, Sayers salì sul treno in attesa. In corridoio fu costretto a passare fra le borse da viaggio e una gabbia d'uccelli. Mentre si faceva largo verso lo scompartimento di Whitlock, Louise uscì per intercettarlo.
«Tom» disse. «Dov'è il signor Caspar?» «Nessuno lo sa» rispose Sayers, forse un po' troppo brusco. «E se gli fosse capitato qualcosa di male?» «A lui? Non credo davvero.» «Una cosa simile non era mai successa, non trovi?» Era già successa, pensò Sayers, a Sunderland, e, a suo parere, Caspar avrebbe dovuto essere licenziato su due piedi per quello sgarbo. E invece disse: «Non credo che sia opportuno discuterne. Ti prego di scusarmi, Louise». La ragazza si ritirò nello scompartimento - quello che avrebbe dovuto occupare lui e che invece le aveva ceduto - e lui bussò alla porta di Whitlock. «Chi è?» «Tom Sayers, signore.» Dopo un istante di silenzio, udì la porta sbloccarsi. Quando Whitlock lo fece entrare, notò le tendine accostate e la cassaforte portatile aperta. Sayers era il contabile della compagnia, ma Whitlock aveva l'abitudine di contare l'incasso da solo. Richiuse la porta dello scompartimento, bloccandola, e domandò: «Allora?». «In stazione c'è Bram Stoker» gli rispose Sayers. «Intercederà per noi con la compagnia ferroviaria. Credo che faranno attendere il treno ancora per un po'.» «Mi stai dicendo che l'uomo di Henry Irving è più influente di quello di Edmund Whitlock?» Sayers non riuscì a trovare una risposta pronta né diplomatica, ma poi si rese conto che Whitlock lo stava semplicemente prendendo per il naso. Per quanto l'impresario potesse essere vanesio, non era di certo stupido. «Signore» disse Sayers. «Posso parlare con franchezza?» Whitlock si sedette. Senza la tinta nera che sfoggiava in palcoscenico, i capelli erano d'una raffinata sfumatura argentea. Aveva gli occhi scuri, i lineamenti marcati e la schiena dritta come un fuso... ma poteva essere merito del corsetto, che pensava non si vedesse. «Si tratta di Caspar?» domandò Whitlock. «Ho taciuto abbastanza» rispose Sayers. «James Caspar sta diventando un problema sempre più serio per tutti. Non reputo saggio né desiderabile che le smanie di un solo attore continuino a mettere a repentaglio l'esistenza della compagnia. Siamo uomini di mondo, Edmund. Se lui vuole andare
a puttane, è affar suo. Ma adesso cominciano ad accorgersene anche le donne.» Whitlock si soffermò a riflettere. Quella notte sembrava stranamente logorato ed esausto. Sayers abbassò lo sguardo su di lui, domandandosi per la prima volta se le voci nel retropalco non avessero un certo fondamento. Se le dimenticanze del capocomico non fossero soltanto dovute all'eccessiva familiarità con la pièce. «Quando dici donne intendi la dolce e piccola Louise?» domandò Whitlock. «Da parte sua c'è un certo affetto segreto, non ti pare?» «Che cosa intendete?» «Per Caspar.» Per Caspar? Sayers non riusciva a immaginarsi un attaccamento meno opportuno. Eppure, non era difficile figurarsi l'ascendente che un uomo come Caspar poteva avere su una ragazza tanto giovane e impressionabile. Avvertì un senso di sgomento che si sforzò di non lasciar trapelare, e ribatté: «Ragione di più per dare un taglio alla faccenda». «Abbiamo bisogno di lui.» «Non esattamente. Domani potrei spedire un telegramma e avere un sostituto che conosce la parte alla perfezione per venerdì sera.» «No, Tom.» «Perché no?» «Ti prego di non chiedere spiegazioni.» Sayers stava per ribattere, ma in quel momento si udì del trambusto in corridoio. Whitlock si voltò a riporre la cassaforte, mentre Sayers uscì dallo scompartimento. I membri della compagnia si sporgevano dai finestrini. Ricks, l'Attor Comico e quasi tutti i servi di scena fischiavano e acclamavano. Un paio di persone si fece da parte per lasciargli spazio, e Sayers si affacciò insieme agli altri. All'estremità opposta del binario, da una nuvola di vapore, uscirono tre strani figuri barcollanti, quasi mancasse loro la terra sotto i piedi: uno, enorme e alato, simile a un Mefistofele volante, e due gargolle che lo sorreggevano ai fianchi. Poi, al diradarsi del vapore, la visione si fece più dettagliata: si trattava di Caspar, che allargava le braccia per reggersi, l'ampio soprabito svolazzante, le gambe dotate di vita propria mentre il Taciturno e la Muta cercavano di indirizzarlo verso il treno. La compagnia li incitò e l'Attor Comico aprì una porta per accoglierli. «Finitela con questo baccano» gridò Sayers. «Vi prego, pensate alla no-
stra reputazione.» Il Taciturno e la moglie condussero Caspar al treno e Ricks, aiutato dall'Attor Comico, lo afferrò per gli abiti tirandolo all'interno. L'avvertimento di Sayers era giunto troppo tardi: avevano attirato l'attenzione dei passeggeri delle altre carrozze. Gli operai della stazione si erano fermati a seguire la scena dal ponte e alcuni viaggiatori ritardatari erano usciti dalle sale d'attesa, richiamati dalla confusione. Issato sul treno, Caspar andò a sbattere sulla parete di legno e per il contraccolpo, per poco non ricadde sul binario, anche se il Taciturno e la moglie ora sbarravano l'uscita. Dalla piattaforma risuonò il fischio del capostazione e la porta si chiuse sbattendo dall'esterno. Mentre il treno si avviava, Sayers adocchiò Bram Stoker accanto al controllore delle ferrovie addetto alle compagnie teatrali. Avevano sforato di dieci minuti sull'orario di partenza. Nel passare, Sayers alzò la mano in segno di ringraziamento e vide l'altro ricambiare il gesto, quindi chiuse il finestrino e si voltò per occuparsi di James Caspar. Quasi tutti erano tornati in cuccetta, mentre Caspar era aggrappato a un corrimano da cui i suoi compagni silenziosi cercavano di staccarlo per accompagnarlo allo scompartimento. Sempre più infuriato, Sayers attraversò il corridoio verso di loro. Ma prima di riuscire a raggiungere il dissoluto Attor Giovane, si vide comparire davanti Louise Porter, che usciva dallo scompartimento. La ragazza gli volgeva le spalle e non si accorse della sua presenza, tutta concentrata sul giovane che, malgrado il movimento del treno, stava riuscendo più o meno a rimettersi in piedi. «Signor Caspar! Vi sentite male?» domandò senza un filo di ironia e con preoccupazione sincera. Caspar si tirò finalmente in piedi, scacciò le mani che lo sorreggevano e alzò un dito, quasi gli fosse appena balenata un'idea brillante e fosse sul punto di esprimerla. Ma, anziché dar voce ai suoi pensieri, si voltò e, vedendo la porta dello scompartimento aperta, la infilò con l'impeto di una quercia in caduta. Mentre scompariva alla vista, la porta si chiuse dall'interno e le tendine si serrarono con una rapidità che aveva dell'incredibile. Louise raggiunse la porta chiusa, chinò la testa in ascolto e alzò una mano per bussare. «Signor Caspar?» chiamò. Dall'altro capo della porta giunse un suono; qualcosa di più d'un colpo di tosse, non esattamente un conato di vomito. Il
Taciturno e la moglie si scambiarono un'occhiata e cominciarono a indietreggiare. Louise volse lo sguardo a Sayers, mentre questi la raggiungeva dicendo: «Vieni via, Louise. Ti prego». «Ma se avesse bisogno di un medico?» ribatté lei. «Lo ritengo improbabile.» La ragazza abbassò gli occhi e qualcosa attirò la sua attenzione. Sayers seguì il suo sguardo e vide una sorta di macchia rossa che si allargava. Era densa e dilagava lentamente. Sayers non sapeva che cosa dire. Ma non ebbe bisogno di dire alcunché, perché Louise roteò gli occhi nelle orbite e gli piombò addosso svenuta. Nel cadere, si voltò scalciando nell'aria; prima di rendersene conto, lui la teneva fra le braccia come per portarla in salvo. Era troppo sconcertato per muoversi, il corpo della ragazza era disteso e premuto quasi completamente contro il suo. Il fatto di averla fra le braccia, la testa di lei appoggiata sulla spalla, la calda fragranza dei suoi capelli accanto al viso... era come la prima volta che aveva ballato con una donna: la stessa soverchiante sensazione di un contatto fisico proibito, la stessa percezione del tempo che si dilatava. E siccome quel suo primo ballo era stato con una zia, la cosa lo colse del tutto impreparato. «Portala qui dentro!» risuonò per il corridoio la voce di Whitlock. Sayers si guardò alle spalle e vide il capo chiamarlo dalla soglia dello scompartimento. Si volse con estrema cautela, barcollando per il movimento del treno. Una delle scarpe di Louise cadde, e fu costretto a lasciarla dov'era. Spostandosi di fianco e stringendo a sé il corpo caldo della fanciulla, continuò ad avanzare a fatica. «Signora Wrigglesworth» riprese a gridare Whitlock e, mentre Sayers portava Louise nello scompartimento, la sarta comparve alle sue spalle. «Vada a prendere dei sali» ordinò Whitlock alla donna, che si dileguò in un lampo. Gussie fu spostato nel suo cestino e la signorina Porter adagiata sul sedile. Mentre la sarta dava dei colpetti sulla mano di Louise e Whitlock le agitava sotto il naso il flacone di sali di ammonio, Sayers rimase discosto. Era imbarazzato e a disagio, ma non scontento come avrebbe pensato. La sensazione che aveva provato con Louise completamente abbandonata fra le sue braccia non sarebbe svanita tanto presto. «Coraggio, bambina» disse Whitlock quando i sali la riscossero con un
sobbalzo. «Va tutto bene.» Louise batté le palpebre, inebetita, e Whitlock indietreggiò, mentre la ragazza si drizzava a sedere. «Non capisco» disse. «Il giovane signor Caspar si è comportato in modo alquanto disdicevole.» «Non è in fin di vita?» «No, ma credo che domattina preferirebbe esserlo piuttosto che sopportare l'emicrania che lo attanaglierà.» «E il sangue?» «Sangue?» «Sotto la porta.» «Ah. Sayers?» Whitlock alzò lo sguardo sul suo vice. «Vino rosso a buon mercato e Porto color rubino» suggerì Sayers seccamente. Non se la sentiva di giustificare Caspar. Che Louise vedesse quell'uomo com'era in realtà. Whitlock ribatté: «Non parliamo oltre di questa vicenda indelicata. Devo chiedervi di essere comprensivi». Si guardò intorno per abbracciare con lo sguardo Tom Sayers e la sarta. «Tutti voi» disse. «Non è una cosa di cui parlo sovente. Io conosco il padre di Caspar. Non entrerò nei dettagli, ma per un certo periodo sono rimasti separati. All'epoca Caspar era un ragazzo ribelle e un'anima perduta, niente più. Suo padre si era preso carico di redimerlo nel nome di Dio, ma morì che aveva appena cominciato. Io gli giurai di continuare la sua missione sino alla fine. Ho consacrato l'anima allo scopo.» Poi, fissando direttamente Sayers: «Non giudicare troppo severamente Caspar» disse. «Un giorno vedrai del buono in lui, come ho fatto io. Ci sono stati parecchi ostacoli da superare, e il cammino è ancora lungo.» «È una storia molto nobile, signor Whitlock» esclamò Louise, e Sayers ebbe un tuffo al cuore. Whitlock rispose al complimento con un leggero e aggraziato cenno del capo, mentre Sayers, il volto tirato, era riluttante a credere a una sola parola. Conosceva troppo bene la tecnica di Whitlock, ed era ancora meno convinto quando quel vecchio commediante sembrava al massimo della sincerità. Tuttavia non disse nulla. Qualche minuto più tardi Louise si era ripresa quanto bastava da tornare nel suo scompartimento. Sayers avrebbe voluto restare per avanzare le sue obiezioni a Whitlock, ma con uno sguardo minaccioso questi gli indicò di non volerne sapere. Almeno non lì, e non in quel momento.
Sayers uscì dallo scompartimento di Whitlock, chiudendosi la porta alle spalle. Forse era inevitabile che Louise vedesse soltanto il meglio nelle persone. Se Caspar fosse stato un uomo più degno, pensava, la sua desolazione sarebbe stata più profonda; da come stavano le cose, doveva confidare nel fatto che la ragazza non ci mettesse molto a scoprire la vera natura di quel perdigiorno, e arrivasse alla giusta conclusione. E, per lo stesso motivo, sperava si accorgesse delle sue qualità. Alla fine le donne sceglievano l'uomo leale, succedeva sempre così sul palcoscenico. Adesso il corridoio era deserto e la sarta aveva recuperato la scarpa caduta a Louise. Tutti gli altri membri della compagnia si erano ritirati; a parte uno, all'estremità opposta del corridoio. Fuori dallo scompartimento di Caspar c'era la Muta, carponi sul pavimento. Aveva con sé diversi stracci e un secchio d'acqua, ed era intenta a pulire la chiazza per terra. Alzò gli occhi e incrociò lo sguardo di Sayers, senza cambiare espressione. Ondeggiava leggermente per il movimento del treno, ma il suo volto rimase imperturbabile. E mentre lui si voltava per raggiungere la cuccetta che avrebbe diviso con l'Attor Comico, la Muta abbassò la testa e tornò al lavoro. Sette La mattina successiva, verso le undici, cinque uomini, di cui solo tre in divisa da poliziotto, varcarono il cancello del mattatoio. Erano guidati dal sovrintendente Turner-Smith, un personaggio formidabile con i baffoni bianchi, una ferita di guerra e un bastone da passeggio. Nonostante l'invalidità, aveva un passo che gli altri faticavano a tenere. Il gruppo superò la zona di smistamento e raggiunse il macello. Dai recinti attigui si levava un mugghio, e nell'aria aleggiava un nauseabondo odore di letame. Il mercato del bestiame era attivo sin dalle prime luci dell'alba, ma dopo gli ultimi arrivi il cortile lastricato era stato spazzato e gran parte dello sterco spostato fuori le mura. Turner-Smith vide avvicinarsi qualcuno e cambiò direzione per andargli incontro. Quel qualcuno era un uomo di circa trent'anni, castano e vestito di scuro. Aveva la fronte spaziosa e gli occhi seri, castani come quelli delle donne spagnole.
«Allora, Becker» disse Turner-Smith. «Che cos'hai per me?» Sebastian Becker, il più giovane ispettore del dipartimento investigativo della polizia cittadina, si mise al passo del superiore e indicò la strada. «La persona con cui dobbiamo parlare è il capo macellatore, signore» disse Becker. «Ci aspetta al piano di sopra.» «Al piano di sopra? Il bestiame fa dunque le scale?» domandò TurnerSmith. «Chi avrebbe immaginato che esistessero degli animali così prodigiosi!» «C'è una rampa, signore. Il bestiame viene abbattuto su un piano e macellato su un altro. Magari potrei far portare di sotto le prove.» «Credo di poter reggere la salita. Saremo anche in un mattatoio, Sebastian, ma io non sono ancora pronto a diventare cibo per gatti.» «Nossignore.» Becker non arrossì, ma neanche sorrise. Fece strada lungo un corridoio intonacato, lasciando la sala delle aste per addentrarsi nel cuore del mattatoio assieme alla comitiva. Imboccando il corridoio, uno degli altri due investigatori lo urtò con una spalla e per un soffio non lo mandò a sbattere contro la parete. «Scusa, fratello» disse l'uomo senza guardarlo, e in tono per nulla contrito. Sebastian sapeva di essere poco apprezzato dai colleghi agenti. In polizia, per ottenere la promozione, bastava far passare gli anni in attesa del proprio turno, e tutta la passione che lui metteva nel lavoro non era certo ben vista. «Di nulla» replicò Sebastian. Mentre attraversavano l'edificio, nessuno li degnò d'attenzione. Lì il lavoro era duro, e veniva svolto con estrema rapidità. Era l'area di macellazione a dettare il ritmo. Il bestiame veniva portato riluttante dai recinti e, di norma, doveva essere trascinato con le corde e guidato con i bastoni: proprio mentre la comitiva passava, nel recinto di carico si stava dimenando minacciosamente un animale, circondato dai macellatori in calottina e grembiule di cuoio. Uno di loro stordì la bestia con una martellata e, mentre l'animale cadeva, un altro lo sgozzò con un coltello. Nel lasso di tempo che il gruppo di poliziotti impiegò a raggiungere la rampa, gli altri macellatori avevano agganciato i ceppi agli arti posteriori della carcassa, e la stavano issando con un argano a catena. Il sangue sgorgava copioso, fumando nell'aria densa e defluendo in un canale di scolo. Altrove, sullo stesso piano, alcuni uomini a petto nudo erano impegnati a estrarre i polmoni dalle carcasse mentre altri le scuoiavano, ammuc-
chiando vari strati di pelle, simili a lenzuola di gomma sanguinolente. Salendo sulla rampa assieme al gruppo, Sebastian si voltò e vide uno degli uomini in divisa premersi un fazzoletto al volto. Per uomini esperti come loro la vista era tollerabile, ma quell'odore non si era mai sentito. Volse lo sguardo a Turner-Smith e notò che il superiore non pareva affatto turbato. Sebastian intuiva perché, nell'assegnazione di quel caso, non aveva dovuto competere con nessuno. Una strana scoperta in un carnaio era un lavoro sporco che non prometteva alcuna gloria e, senza dubbio, i suoi colleghi investigatori si erano divertiti parecchio nel vederlo offrirsi volontario. Se non l'avesse fatto lui, probabilmente l'avrebbero indirizzato su quella strada, com'era loro abitudine. Se un indigente veniva trovato a faccia in giù in una fogna, lui poteva aspettarsi di passare una giornata intera in mezzo ai liquami, seguita da una settimana di commenti acidi sul presunto fetore che si portava appresso. Ci aveva fatto il callo ed era in grado di tollerarlo... se non facilmente, almeno senza lamentarsi. Per quanto lo riguardava, la morte di un poveraccio era sempre una tragedia, anche solo per il poveraccio. Ogni vittima aveva bisogno di qualcuno che ne accertasse l'identità, che ne registrasse il decesso o tracciasse la storia degli ultimi istanti della sua vita terrena. Anche chi moriva senza essere amato e senza nessuno. Soprattutto chi moriva senza essere amato. Questa volta Sebastian stava cercando qualcosa di particolare. Già qualche minuto dopo il suo arrivo, infatti, aveva intuito che quel caso costituiva qualcosa di più di una sgradevolezza di routine. Dopo un primo sguardo alle prove, aveva inviato un messaggio alla centrale della polizia, direttamente al grande Turner-Smith in persona. Turner-Smith - che sul carattere e sul curriculum di Sebastian sapeva anche più del diretto interessato - aveva accantonato tutti gli altri impegni per rispondere al messaggio. Alla centrale avevano inarcato le sopracciglia: era un fatto quasi senza precedenti. In cima alla rampa li attendeva il capo macellatore, un uomo barbuto con la testa avvolta in un fazzoletto alla maniera dei pirati. Sul grembiule portava una cintura, e infilato nella cintura un lungo coltello con la lama consunta dalle ripetute affilature, larga quasi quanto uno stocco. Sebastian spiegò: «Quando le carcasse sono state sventrate e scuoiate, vengono portate quassù per la macellazione». Ai taglieri lavoravano file e file di uomini e donne, i primi perlopiù mozzavano, mentre le seconde trinciavano. Il tanfo era anche più nausean-
te di quello del piano inferiore, e nell'aria aleggiava un vapore rossastro. Per tenere alla larga le mosche erano state appese delle pezze di mussola, ma senza sortire grande effetto. Una volta la mussola era color avorio, mentre adesso era tutta una chiazza marrone. «Le interiora vengono separate in queste vasche» disse Sebastian, rivolgendo un cenno al capo macellatore. Adesso si trovavano ai tavoli della tripperia, dove gli operai più infimi erano incaricati di raschiare via le feci e i vermi dalle interiora del bestiame. Il macellatore ordinò che fosse sgombrato un tavolo, e a quel punto versò un secchio sul ripiano, per farne ispezionare il contenuto ai visitatori. Il contenuto del secchio si sparse con un rumore denso e viscido, e non sembrava tanto diverso dalle viscere e dai vari organi sparsi a terra dappertutto. «Altre interiora?» disse Turner-Smith. «Non esattamente» ribatté Sebastian. «L'uomo che è in me conosce la propria carne. E mi dice che questi organi sono quasi sicuramente umani.» NORD-OVEST 1888 Otto Un altro giorno, un'altra città, un altro teatro. Al loro arrivo Whitlock e gli attori avevano raggiunto direttamente la locanda, mentre Sayers aveva organizzato il trasferimento degli attrezzi di scena al Prince of Wales. Avrebbero rimpiazzato uno spettacolo intitolato Ricordi della vecchia Irlanda, e quando Sayers raggiunse il teatro, trovò gli scenari allestiti a metà e vari membri della compagnia che ronfavano beati sotto il palcoscenico. Le cose andavano decisamente meglio alla locanda, dove Whitlock aveva già occupato la camera da letto padronale. La stanza sul bovindo era andata a Ricks e alla moglie - un'ex soprano che adesso interpretava ruoli di madri e dame shakespeariane - mentre tutti gli altri avevano posato le borse da viaggio nelle camere scelte per loro dalla signora Mack, la locandiera. I servi di scena, per loro scelta, erano stati per il momento sistemati nelle camere sopra un pub nei pressi del teatro. Prima della matinée c'erano parecchie ore da far passare, e la compagnia scelse di trascorrerle in vari modi. Qualcuno uscì a dare un'occhiata alla città, qualcun altro si radunò in salotto a parlare del più e del meno, altri ancora rimasero a leggere in solitudine. James Caspar, apparentemente in-
differente alla propria disgrazia, salì in camera e si gettò sul letto a dormire. Si svegliò qualche minuto prima di mezzogiorno, indossò un'ampia e logora vestaglia orientale e scese in cucina per chiedere del tè alla signora Mack. La locandiera non era donna che si lasciava incantare tanto facilmente, ma Caspar parve riuscirci. Mentre riportava il tè in camera, Gulliford, l'Attor Comico, lo udì sulle scale. Uscì per abbordarlo, ma arrivò troppo tardi: Caspar aveva già chiuso la porta della stanza. Gulliford la raggiunse e bussò. Quando Caspar rispose: «Entrate, se proprio dovete», l'uomo l'aprì ed entrò. La camera era disadorna: un letto in ferro, un tavolo e poco altro. Gli abiti di scena erano stesi ad asciugare sulle ante del guardaroba, davanti al quale Caspar era impegnato a rovistare nel baule da viaggio. Chiudendo la porta, Gulliford lo vide alzarsi con in mano un vasetto di vetro per conserve. L'aveva avvolto in un calzino per proteggerlo durante il viaggio. «Allora sei sveglio» disse Gulliford, mentre l'altro posava il vasetto sul tavolo e vi avvicinava una sedia. Caspar scoccò un'occhiata minacciosa all'Attor Comico e continuò le proprie faccende, muovendosi con lancinante lentezza, quasi gli dolesse ogni parte del corpo. Poi trasse di tasca una forchetta e la pulì sui risvolti della vestaglia. «Ho solo una domanda da farti» esclamò Gulliford, che piazzò le mani sul tavolo e si parò di fronte a Caspar perché non potesse ignorarlo. «Per quale motivo fai così?» disse. Il vasetto conteneva una specie di sottaceto conservato in un liquido scuro. Caspar aprì i fermagli che sigillavano il coperchio e pescò nel vasetto con la forchetta. «Faccio cosa?» «Noi siamo una compagnia modesta» ribatté Gulliford. «Posso capire che lavorarci non sia di tuo gradimento. Ma ti comporti come se disprezzassi il nostro mestiere.» Caspar staccò con la forchetta un pezzo del salsicciotto scuro. «Mi duole la testa» esclamò. «Vattene.» «E invece ascolterai quel che ho da dire.» «Qualche perla di saggezza dell'Attor Comico della compagnia?» «Quello è il mio ruolo, figliolo, non il mio rango. A quanto pare non conosci la differenza. Del palcoscenico mi sono dimenticato più cose di quante tu riuscirai mai a imparare. Non sei mai all'altezza del tuo mestiere e pronunci le battute come sali sui treni. Ebbene, sappi che ti ho inquadrato
e so a che gioco stai giocando.» Caspar smise di masticare. Si fece silenzioso e vigile. Gulliford continuò: «Sappiamo tutti e due che non esiste altro mestiere in cui si può salire sino al fior fiore della società partendo dalla fogna. E nonostante tutta la tua acqua di colonia francese, i tuoi modi altezzosi e il tuo bel corredo d'abiti, su di te sento decisamente odore di fogna, amico mio. Tu non ami affatto il palcoscenico. Ti piace solo recitare.» «Se sei scontento del mio lavoro, parlane con Edmund» ribatté Caspar con sussiego. «Edmund per te. Il signor Whitlock per noi altri. Non credere che non si sia notato.» «Non c'è niente da notare. Nessuno ha influenza su di me. Né io l'ho su qualcun altro.» «No. Ma sotto c'è qualcosa, e vi riguarda entrambi.» Gulliford tese la mano e gli prese dalla forchetta il boccone successivo, proprio sotto il naso. «Non so quale sia l'affare,» disse «e non mi interessa. Ma gradirei ricordarti che noi non siamo i gradini per la tua scalata. Questo non è semplicemente il mestiere con cui ci guadagnamo da vivere. È la nostra vita.» A quelle parole, addentò il boccone. Aveva un sapore orribile. Perplesso, dopo averci lottato per un istante, fu obbligato a sputarselo in mano e posarlo sul tavolo. «Licenzia il cuoco» disse e, con gli occhi ancora stretti dal disgusto, raggiunse la porta. «Qualcos'altro?» domandò Caspar. «Ho recitato la mia parte» rispose l'Attor Comico. «Ci vediamo alla matinée.» Caspar rimase da solo a contemplare il boccone sputato, e lo infilzò con la forchetta. Rivolto alla stanza altrimenti vuota, disse: «Sto per andare dove neanche t'immagini, amico mio». E a quel punto s'infilò in bocca quel raccapricciante sottaceto, gustandoselo come se fosse la cosa più naturale al mondo. Nove Sebastian fece il viaggio di ritorno nella carrozza del sovrintendente. Lungo il tragitto era impaziente di esporre a Turner-Smith i propri sospetti e condividere con lui le prime conclusioni.
Invece il superiore, guardando scorrere le strade cittadine dal finestrino laterale, la gamba malata tesa e il bastone sulle ginocchia, domandò: «Come se la passa tua madre di questi tempi, Sebastian? Sta bene?». Quella domanda fu una sorpresa. Sebastian non sapeva come rispondere, quindi si limitò a ribattere «Sì, signore» e ad aggiungere: «Non sapevo che la conosceste». «A dire il vero non ci siamo mai incontrati» esclamò Turner-Smith. «Ma mi ha scritto riguardo alla tua promozione.» «Le ha scritto?» Turner-Smith lo fissò con espressione quasi divertita, come se conoscesse già le risposte alle eventuali domande di Sebastian, e se la godesse un mondo nel vedere la reazione del giovane. «Disapprova il mestiere che hai scelto e mi ritiene personalmente responsabile della tua sicurezza.» «Me ne scuso» ribatté Sebastian. «Non sapevo di alcuna lettera.» «Non scusarti» replicò Turner-Smith. «Tu e lei non ne avete mai parlato?» «A essere sinceri, parliamo di rado.» La centrale di polizia e il tribunale per i reati minori erano attigui e collegati da un corridoio di sicurezza, così da scortare direttamente i detenuti dalle celle della prigione al banco degli imputati. Le sale aperte al pubblico si trovavano nella parte anteriore, gli uffici sul retro e le celle ai piani inferiori; stanze spartane, disadorne, con i soffitti alti: nonostante la presenza delle torce a gas e dei più moderni radiatori di ghisa, gli impiegati si lamentavano che, con le loro finestrelle, le celle erano gli unici ambienti caldi di tutto il palazzo. Di lato c'era il cortile della scuderia, nascosto alla strada da un muro alto e da un arco di pietra. Sebastian Becker e il sovrintendente Turner-Smith entrarono dal cortile e attraversarono il lungo corridoio centrale sino alle stanze del reparto investigativo. La notizia dell'arrivo di Turner-Smith li aveva preceduti: un uomo in divisa era pronto ad aprire la porta e l'ufficio era lindo e rassettato. Gli investigatori erano sull'attenti accanto alle scrivanie, mentre la gatta della polizia e i suoi micini appena nati erano stati nascosti in una credenza, confinati per tutta la durata della visita del sovrintendente. «Tornate al lavoro» disse Turner-Smith mentre seguiva Sebastian. «Questa non è un'ispezione.» Mentre l'uomo si lasciava cadere su una poltrona con un sospiro di sol-
lievo, Sebastian aprì un cassetto ed estrasse un pacco con il sigillo spezzato. Non recava alcun indirizzo, a parte le parole "Alla cortese attenzione della polizia". «È stato lasciato da ignoti» disse Sebastian, aprendolo e disponendone il contenuto sul tavolo di fronte al suo superiore. «Quando?» «In un momento imprecisato della mattinata di ieri. Il sergente in servizio ha trovato il pacco in sala d'attesa, ma non ha visto chi l'ha lasciato. Non c'erano lettere o messaggi ad accompagnarlo. A mio parere, la scrittura sembrerebbe quella di un bambino.» «O di un illetterato.» «Difficile a dirsi. L'ortografia è corretta. Ma la mano non è pratica.» Il pacco conteneva dei fogli di carta spessa e a buon mercato, su cui erano stati attaccati alcuni ritagli di diversi giornali. Emanavano ancora odore di colla. «Forse la grafia è stata camuffata» disse Turner-Smith, protendendosi con le mani sul pomolo del bastone da passeggio. Scrutò con attenzione i fogli senza toccarli. «Sono recensioni teatrali» disse Sebastian. «Lo vedo.» «E tutte della compagnia del Diamante purpureo. Tutte tratte da giornali di città e cittadine diverse sull'itinerario della loro tournée.» «E a quanto pare, fra tutte queste recensioni, non ce n'è una positiva» disse Turner-Smith. Non occorreva leggerle da cima a fondo per capirne il succo: alcune parole poco lusinghiere attiravano l'attenzione ed erano piuttosto eloquenti. Sempre più interessato, aggiunse: «Ogni recensione sembra abbinata a un articolo di cronaca nera tratto dalle stesse pagine». Sebastian disse: «Osservi le date, signore». Turner-Smith le osservò. «Non sono le stesse.» «Ma c'è una certa concomitanza. Le recensioni sono tutte delle prime serate. Mentre sembra che ciascun omicidio per mutilazione coincida con la fine di una tappa. Tre giorni, quattro giorni, forse anche una settimana dopo. Varia.» «E dunque?» Sebastian disse: «La compagnia del Diamante purpureo ha chiuso al Lyric ieri sera. Hanno già fatto armi e bagagli e lasciato la città per il loro prossimo impegno». «Lasciandoci dei resti umani da trovare per oggi.»
«Quindi lo schema regge.» «Se esiste uno schema. Sono sicuro che potremmo stilare una lista di indigenti e trovatelli morti per ogni tappa e città toccata dalla compagnia...» «Sissignore. Ma tutti smembrati? Scuoiati? Sventrati?» «Non sono in disaccordo con te. Anzi, credo che tu possa aver ragione. Sembrerebbe opera di un interno, Sebastian. Qualcuno nella compagnia ci sta segnalando i propri sospetti.» «Lo supponevo, signore, ma non potevo esserne sicuro.» «Il punto è, ispettore Becker, dove sono le recensioni positive? Mostrami una tournée in grado di sopravvivere a recensioni come queste. Quelle lusinghiere si trovano nella cartella stampa di qualcuno, e qui abbiamo quelle scartate, quelle che nessun artista vorrebbe ricordare.» «Certo, signore. Adesso capisco.» «Ti stai rivelando un investigatore niente male. Questo te lo riconosco, Becker.» «E io lo riconosco al mio maestro.» Dopo aver studiato le pagine per un altro istante, Turner-Smith si alzò con l'aiuto del bastone. «Me ne occuperò io» disse. «Dove si trova adesso la compagnia?» Sebastian aveva già contattato la direzione del Lyric e aveva ricevuto conferma della notizia via telegrafo. «Nel Lancashire» disse. «Al teatro Prince of Wales di Salford.» «Ti risparmierò Salford,» disse Turner-Smith con un sorriso «e andrò a indagare di persona. Ma non preoccuparti. Mi accerterò che tu abbia pieno riconoscimento per questa tua intuizione.» «Non ne dubito. Si riguardi laggiù, signore.» Turner-Smith alzò il bastone da passeggio e, con uno strattone, lo ruotò per aprire l'asta in due, rivelando parte della lama nascosta all'interno. «Non aver paura per me» disse Turner-Smith. «Conosco Liverpool Street da vecchia data.» Dieci Il teatro Prince of Wales metteva in scena un cartellone di varietà, e Il diamante purpureo era stato inserito nella seconda parte dello spettacolo. Nella prima, si esibivano la troupe dei Lupi Siberiani di Felix, Nelly Farrell, alias "Fulgida stella di Erin", Medley l'Imitatore, e gli Avolo Boys, i "prodigi della musica". Erano a corto di un comico nella prima parte, e co-
sì Gulliford aveva colto l'occasione per riesumare il suo vecchio numero e l'abito largo con cui calcava le scene. Con sgomento aveva scoperto che l'abito non era più tanto largo come una volta. Ma alla prima matinée se la cavò bene, perciò la direzione lo assunse a doppio turno per tutta la serie di rappresentazioni. La sera di venerdì ci fu il migliore pubblico della settimana. Le porte si aprirono alle diciotto e lo spettacolo ebbe inizio mezz'ora più tardi. Una volta che la pièce era allestita in un nuovo teatro, Sayers poteva fare ben poco, per quanto fosse sempre pronto a mettere una pezza a eventuali problemi. A volte, quando dietro le quinte tutto filava liscio, si spostava in fondo alla platea a seguire lo spettacolo per qualche tempo. Come aveva sagacemente ricordato Bram Stoker, in passato Sayers era stato un attore. Quando un incidente gli aveva stroncato la carriera sportiva, era salito sul palcoscenico a rappresentare il suo incontro più celebre. Non si poteva dire fosse un attore nato, ma era all'altezza di mettere in scena la propria storia. Era stato un pugile popolare e, nei teatri di varietà, aveva ottenuto un successo tale da saldare i debiti e scoprire una nuova fonte di reddito. Al momento, dopo aver gestito la propria troupe, amministrava quelle degli altri. Benché provasse di tanto in tanto una fitta d'invidia per chi sembrava di casa sotto i riflettori, sapeva che il suo talento drammatico era già stato sfruttato sino in fondo. Dal fondo della platea, Sayers ascoltò Nelly Farrell cantare che una pecora nera non guasta mai il gregge. Era un'interprete di bel canto dai lineamenti marcati e i capelli corti, e il suo cavallo di battaglia erano le canzoni comiche irlandesi, quasi l'esatto opposto di Louise Porter. Dopo aver seguito un paio di strofe, Sayers girò i tacchi e si spostò nel bar, dove una folla più ridotta, bicchieri alla mano, assisteva allo spettacolo fra le colonne della sala. Quella sera si sentiva inquieto. Succedeva spesso quando tutto era in ordine ed era rimasto poco di cui occuparsi. Con la mente sgombra dalla solita mole di minuzie pratiche, tendeva a pensare a se stesso e finiva per arrovellarsi su argomenti scomodi. Come per esempio la sua attuale occupazione: per quanto sarebbe durata? I vecchi pugili sembravano appartenere a due categorie: quelli che riuscivano a investire il denaro delle vittorie in un alberghetto o in una birreria, e gli eterni sfidanti che restavano troppo a lungo sul ring, agognando un successo che non arrivava mai.
Per come la vedeva lui, non rientrava in nessuna delle due categorie. E non gliene venivano in mente altre di cui poter far parte. «Tom?» udì, e girò la testa. Una donna dietro il bancone del bar l'aveva chiamato per nome e lo stava fissando. Il volto gli parve subito familiare, ma per un istante si sforzò di collocarlo con esattezza. «Lily?» disse, spostandosi al bancone. «Lily Collins?» «Lily Haynes, adesso» ribatté lei, alzando una mano per mostrargli una fede nuziale consunta che sembrava vecchia di almeno due generazioni, o passata per un banco dei pegni, o forse anche tre. «Come stai, Tom?» «Quel fortunello del vecchio Albert» rispose Tom. «Sto benissimo.» Lily Collins. Erano cinque o sei anni che non la vedeva. Si appoggiarono al bancone per poter conversare senza essere disturbati da chi seguiva lo spettacolo, anche se, ogni volta che la gente del bar si univa in un coro, farsi sentire diventava un'impresa ed erano costretti a interrompersi. Lily era andata in tournée con la prima compagnia di Sayers e in Lotta sino all'ultimo aveva interpretato Hester Chambers, la fidanzata campagnola abbandonata dall'avversario di Tom. Era entrata in teatro come ballerina, e all'epoca era così snella e minuta da poter passare per una diciassettenne, nonostante fosse da una decina d'anni e rotti nel mestiere. Albert Haynes si esibiva come acrobata in un terzetto e, ogni volta che i loro impegni coincidevano, era palese a tutti che fossero destinati a fare coppia. Da allora Lily si era fatta più prosperosa, ma aveva ancora la stessa luce negli occhi. «E dimmi, adesso sei fuori dal giro?» domandò Tom. «Albert si è preso l'influenza ed è rimasto sordo da un orecchio» rispose lei. «Dopodiché non riusciva più a stare in equilibrio. Non che stia male, in sé. Ma prima si reggeva su una mano sola, mentre adesso devo tenerlo d'occhio quando fa le scale.» Dopo una pausa occupata dal coro fragoroso, gli raccontò che si erano sposati e che avevano investito i loro risparmi in un pub di Langworthy Road. Lo gestiva Albert, e Lily portava a casa altro denaro lavorandoci per tre sere a settimana. «Vieni a trovarci» disse lei. «Quando vuoi. Non preoccuparti se siamo impegnati. Per te troveremo sempre del tempo, Tom.» «Ci verrò.» «Non dirlo soltanto.» «Verrò sul serio.»
Lo stava fissando con aria strana. Non guardava tanto lui, quanto dentro di lui. Sayers aveva sempre ritenuto Lily Collins una di quelle donne con la dote straordinaria d'intuire se gli altri erano sinceri. Erano amiche preziose. Ma una donna che riesce sempre a capire quando un uomo mente a se stesso può risultare una compagna difficile. «Davvero, come te la passi, Tom?» disse. «Sei felice? Dimmi di sì.» Lui lasciò perdere ogni finzione. «Credo che con il tempo lo sarò» rispose. «Bene» esclamò Lily, alzando la voce per competere con il coro finale della Fulgida stella di Erin. «Probabilmente, è quello che vogliamo tutti. Sapere che cosa ci rende felici e sentire di essere sulla strada giusta per diventarlo. Tutto il resto sono solo ricordi.» Finito il numero di Nelly Farrell, il bar fu invaso da un'ondata di clienti, e con degli sbrigativi arrivederci e delle altrettanto sbrigative promesse, Lily fu costretta ad abbandonare Sayers per tornare al lavoro. Medley l'Imitatore comparve in scena saltellando per cominciare la sua esibizione, e Sayers sgattaiolò nel foyer diretto nel retropalco. Quando giunse a destinazione, Medley era già uscito di scena e gli Avolo Boys erano in palcoscenico per cercare di rimediare al danno. «Sporchi materialisti di Salford» imprecò Medley mentre si scostava da Sayers, con la giacca che grondava uova marce. «Se non canti o non capitomboli sul sedere, non vogliono saperne di te.» Sayers si accertò che i servi di scena del Diamante purpureo fossero pronti a una chiamata anticipata, e tornò in sala trucco per avvertire anche gli attori. Erano quasi tutti pronti. Come poteva ben immaginare, l'unico assente era James Caspar. I camerini si trovavano a lato dell'edificio, con i finestroni affacciati sul vicolo che separava il teatro dal pub attiguo. Sayers salì le scale, sperando quasi di non trovare Caspar. In quel caso Whitlock sarebbe stato obbligato a cancellare la rappresentazione o a mandare a chiamare un sostituto, libro alla mano. Per la compagnia sarebbe stato un disastro e la più grave manchevolezza professionale immaginabile. Ma per Sayers, l'allontanamento permanente di Caspar valeva pure una notte di sofferenza. Suo padre si era preso carico di redimerlo nel nome di Dio, ma morì che aveva appena cominciato. Io gli giurai di continuare la sua missione sino alla fine. Ho consacrato l'anima allo scopo.
Sayers non credeva a una sola parola. Doveva esserci una spiegazione più plausibile per l'ascendente che Caspar esercitava sul capo. E Sayers avrebbe accolto di buon grado qualsiasi motivo determinasse l'abbandono dello "scopo". Giunto in cima alle scale dei camerini, esitò. La porta della stanza di Caspar era aperta, e l'uomo non era solo. Sayers lo intravide nello specchio del camerino, un vetro così vecchio e dozzinale che l'immagine di Caspar sembrava riflessa in una finestra sudicia. Era in costume di scena, ma aveva il colletto rigido ancora slacciato. Sayers lo udì schioccare le dita e dire con tono imperioso: «Fermacolletto». «Sissignore.» Era la voce di Arthur, il galoppino. Mentre si spostava ad allacciargli il fermacolletto, Arthur bloccò per un istante la visuale di Sayers. Udì Caspar domandare: «Dov'è la mia cartella stampa?». «Ci sto ancora lavorando, signore» rispose Arthur. L'allacciatura del colletto sembrava una lotta. Qualche istante più tardi, Caspar esclamò: «Sei lento, vero, bugiardello?». «Sissignore.» «Lento di mano, lento di comprendonio. Penso che chiederò a Edmund di licenziarti. Non ti piacerebbe?» «Nossignore.» «Nossignore» lo imitò Caspar in tono di scherno. «Esci di qui.» «Sissignore.» Arthur uscì dal camerino quasi si fosse alzato dalla poltrona del dentista, e per poco non urtò Sayers in cima alle scale. Il ragazzo doveva averlo visto comparire dal nulla perché indietreggiò con un sobbalzo, terrorizzato come un cervo al rumore di uno sparo. «Per favore, Arthur, avverti il signor Caspar che si va in scena» esclamò Sayers. «Sì, signor Sayers» rispose il ragazzo, con aria un po' addolorata al pensiero di dover girare i tacchi e tornare al cospetto di chi aveva appena fuggito. «Lascia stare» disse Sayers. «Gli darò io la chiamata.» «Non è necessario» ribatté James Caspar dalla soglia del camerino, mentre Arthur scendeva le scale a perdifiato. Caspar si lisciò il colletto ad ala, tirò verso il basso il panciotto bianco e si aggiustò i polsini. Era affilato come il rasoio di un barbiere.
«Pare che i vostri servigi non siano richiesti, signor Sayers» esclamò, avanzando. Sayers fu costretto a farsi da parte per lasciarlo passare. Mentre scendeva dietro a Caspar diretto al palcoscenico, gli vennero in mente almeno una decina di risposte, ma era troppo tardi per usarne anche solo una. Il Prince of Wales aveva la sua fossa orchestrale, e così il direttore musicale della compagnia lasciò da parte il piano e scelse la bacchetta per l'ouverture. Si trattava di un brano scritto appositamente per la pièce e non conteneva un solo accordo originale: in altri termini, era un'accozzaglia di temi classici e melodie già note. Un'accozzaglia del tutto riuscita, però: non c'era nota che non fosse stata sperimentata, testata e che non fosse libera da diritti d'autore. Si confaceva all'umore di ogni pubblico: se è questo il genere che vi piace, sembrava dire, ecco quello che fa per voi. Per gli attori della compagnia era una sorta di metronomo inconscio che li guidava ai propri posti e li preparava psicologicamente all'esibizione. Quando udivano la melodia da dietro le quinte, si libravano alle loro entrate come fantasmi del palcoscenico. Il sipario si alzava sull'Attor Comico nei panni del maggiordomo, impegnato in un monologo da sottoscala per presentare a grandi linee la vicenda. A quel punto entrava in scena Louise, e la trama d'amore si avviava al pieno svolgimento. Dopodiché entrava Whitlock, nel ruolo dell'investigatore in incognito, di solito accolto dal pubblico con un caloroso saluto. In quella serie di rappresentazioni Sayers aveva percepito l'irritazione del capo nell'accorgersi che l'Attor Comico riceveva la sua stessa accoglienza all'inizio dello spettacolo. Questo perché l'avevano già visto nella prima parte, nei panni di Billy Danson dalle braghe larghe. Il capo si era tuttavia reso conto che tutto ciò andava a beneficio del risultato complessivo della pièce e non aveva operato alcuna modifica. Mentre Louise sostava fra le quinte ad attendere la sua battuta, James Caspar comparve alle sue spalle, fluttuando quasi nell'oscurità. Lei non lo vide avvicinarsi; piuttosto percepì di colpo la sua presenza e rimase atterrita. La prima battuta di Caspar era prevista di lì a dieci minuti e sarebbe dovuto entrare in scena dalla parte opposta. Le si avvicinò per poter parlare sottovoce senza farsi sentire dal retropalco. «Scusate se vi ho colto di sorpresa» disse, carezzandole l'orecchio con il respiro. Louise ebbe un leggero fremito. «Signor Caspar» mormorò in risposta. «Non c'è nulla di cui dobbiate
scusarvi.» «Volevo chiedervi una cosa.» «Sì?» «La vostra canzone di stasera... potreste cantarla per me?» Lei non sapeva come ribattere. Lui parve accorgersi della sua confusione e non insistette per ottenere una risposta. Quando Louise riuscì a ricomporsi, Caspar era di nuovo scomparso nell'ombra. Nel bar in fondo alla sala, il sovrintendente della polizia Clive TurnerSmith sostava in mezzo a un gruppo di sconosciuti e osservava il sipario alzarsi sul Diamante purpureo. Era arrivato a teatro troppo tardi per vedere il primo numero dell'Attor Comico, e rimase disorientato dalle grida di giubilo che accoglievano la scena di un maggiordomo in grembiule, impegnato a lucidare l'argenteria nella cucina di una casa di campagna. Nutrendo scarso interesse per la pièce in sé, decise di scrutare il pubblico. Tutta gente comune, uscita per un onesto intrattenimento serale e niente più. Uno o due individui che, fosse stata quella la sua zona di competenza, avrebbe avuto la tentazione di tener d'occhio. Mentre il maggiordomo si lanciava in uno di quei monologhi in stile "Oh, me misero!", parlando fra sé ma in realtà rivolto al pubblico, TurnerSmith si accorse che qualcuno lo toccava sulla manica. Si voltò e vide al suo fianco un uomo con la testa rasata e il volto scheletrico, in mano lo stesso biglietto che lui aveva inviato dietro le quinte una decina di minuti prima. Era stato aperto, e qualcuno vi aveva scritto sopra un messaggio di risposta. Turner-Smith lo prese, lesse lo scritto, quindi ripiegò il biglietto e se lo infilò in una tasca interna. «Attenderò nella sala interna del bar qui accanto» disse. «Non fatene parola con nessun altro. Intesi?» L'uomo tacque, ma chinò la testa in segno di assenso. Turner-Smith lasciò la platea e attraversò il foyer, uscendo sulla strada attigua al botteghino del teatro. Era giunto a Manchester poco più di un'ora prima. Senza informare nessuno del suo arrivo, aveva preso un taxi per raggiungere Salford, sulla riva opposta del fiume. Aveva compiuto lo stesso viaggio vent'anni prima quando, in qualità di maresciallo preposto, era sulle tracce di un disertore che aveva ucciso un sergente negli alloggi militari per poi rifugiarsi a casa. Ricordava ancora quel tugurio di quattro stan-
ze pieno di bambini in cui aveva dovuto affrontare la madre del disertore, una donna più temibile di molti uomini del suo reggimento. Negava di aver visto il figlio, quando in realtà lo stava nascondendo nella latrina del cortile di un vicino. Quello stesso pomeriggio, mentre gli uomini di Turner-Smith si erano messi alla sua ricerca, il ragazzo era fuggito ed era annegato. Il fiume Irwell separava Manchester dalla vicina cittadina di Salford e un annegamento come quello impegnava due squadre di poliziotti muniti di aste, una per sponda, pronte a spingere il cadavere verso la riva opposta perché se ne occupasse la forza di polizia vicina. Liverpool Street era un'ampia arteria trafficata, con enormi marciapiedi di pietra e le rotaie del tram che solcavano l'acciottolato. Di fronte a lui, una ragazzina di dieci o undici anni spingeva una vecchia carrozzina carica di legna da ardere. All'esterno dell'alberghetto attiguo si vedevano parecchi bambini seduti sui gradini o sui cordoli dei marciapiedi. I più piccoli giocavano sotto la custodia dei fratelli più grandi, tutti in attesa dei genitori che stavano passando la serata al pub. Turner-Smith saltò a piè pari la rumorosa anticamera per la più rispettabile sala interna, dove i drink provenivano dall'altra parte dello stesso bancone, ma quel penny di differenza garantiva un ambiente più rispettabile con sedili imbottiti, boiserie di mogano e servizio ai tavoli. Si sedette da solo a un tavolo da tre e ordinò un bicchiere di Madeira. Pagò il drink e disse al cameriere: «Mi raggiungerà un signore di nome Sayers proveniente dal teatro. Faccia in modo che mi trovi quando arriva, per favore». Il cameriere chinò la testa e si accomiatò. Turner-Smith posò il bastone sui sedili accanto a sé, allungò la gamba malata e si adagiò allo schienale, in attesa. Al tavolo dietro di lui era seduta una comitiva di agenti di commercio; origliò per qualche tempo le loro conversazioni, ma ben presto si accorse che cominciava a divagare con i pensieri. I figli dei poveri erano dappertutto. Uscito dalla stazione, era stato accolto da una marea di piccoli mendicanti che aveva visto disperdersi all'avvicinarsi di un poliziotto. Era come se l'espansione delle città innescasse una sorta di reazione gassosa: raggiungendo un certo volume di prosperità si produceva un volume persino maggiore di povertà. E, come risultato, grandi opere pubbliche, imponenti edifici comunali e schiere di miserabili tuguri si affastellavano fianco a fianco sotto lo stesso, sudicio cielo. Poco dopo diede un'occhiata all'orologio da tasca. Aveva indirizzato il biglietto al proprietario della compagnia del Diamante purpureo, ma al messaggio aveva risposto un certo Sayers, impegnandosi a incontrarlo du-
rante il secondo atto dell'opera. Da quel momento era trascorsa più di mezz'ora. Accorgendosi di un'ombra sopra di lui, alzò lo sguardo e il cameriere disse: «È arrivato il signore». «Sono Tom Sayers» esclamò il visitatore, prendendo posto alla parte opposta del tavolo. Il cameriere indugiò un istante, ma il nuovo arrivato scosse la testa. Quando il cameriere si fu allontanato, l'uomo fissò in volto TurnerSmith domandandogli: «Che cosa posso fare per voi, sovrintendente?». «Speravo di parlare con il signor Whitlock.» «Io sono il vice di Edmund Whitlock e mi occupo di tutte le questioni pratiche della compagnia. Se non posso esservi utile io, probabilmente non c'è niente da fare.» Turner-Smith valutò chi aveva di fronte, e decise di poter parlare da gentiluomo a gentiluomo. Era più probabile che avessero interessi comuni, e non contrastanti. «Date un'occhiata a queste carte, per favore, signor Sayers» disse, piazzandogli di fronte una delle pagine incollate in cui si suggeriva un collegamento fra gli indigenti massacrati senza ragione e gli spostamenti della compagnia teatrale per tutto il paese. Il suo interlocutore iniziò a leggere, poi alzò lo sguardo: «Qualcuna delle nostre recensioni meno lusinghiere». «Le date, signor Sayers. Osservi le date.» L'uomo riprese a leggere, per poi adagiarsi sul sedile con l'aria di chi getti la spugna in una discussione già vinta in partenza. «Tutto ciò è alquanto rivelatore» disse. E Turner-Smith, che durante quella pausa aveva avuto l'opportunità di studiare l'ospite con maggiore attenzione, disse: «Per caso avete il cerone in faccia, signor Sayers?». L'uomo gettò le pagine sul tavolo. «Ah» disse. «Mi avete scoperto.» Turner-Smith afferrò il bastone-spada sotto il tavolo, attento a non rivelare le proprie intenzioni. «Sul cartellone non figurate fra gli attori» osservò. «Verissimo» sorrise l'uomo. «Arguisco che siete un investigatore troppo abile per me, sovrintendente.» Qualche istante più tardi l'uomo si alzò e lasciò la sala interna del pub. I quattro agenti di commercio seduti al tavolo accanto stavano ridendo a squarciagola, e nessuno notò la sua uscita. Uno di loro bevve un sorso dal
boccale e si appoggiò allo schienale della panca, per poi sputare su tutto il tavolo. L'entusiasmo dei colleghi si attenuò, mentre quello dell'uomo svanì in un lampo. «Che accidenti è? Qualcosa mi ha infilzato!» disse, voltandosi a vedere di che cosa si trattava. Si radunarono tutti a dare uno sguardo più attento alla sua scoperta. Dallo schienale imbottito della panca su cui era seduto, spuntavano due centimetri e mezzo di lama aguzza. «Signore benedetto, Jack» commentò quello con i baffi da tricheco. «Ti hanno messo a sedere su una di quelle Vergini di Norimberga.» «Vergine di Norimberga un corno!» esclamò l'uomo ferito. Si alzò a scrutare il tavolo attiguo, dove sedeva l'uomo dai capelli bianchi e lo sguardo severo che, tre quarti d'ora prima, era arrivato zoppicando con il bastone. Gli rivolgeva la schiena e aveva la testa china. Al momento il bastone era smembrato in due. L'asta cava era poggiata sul tavolo accanto al bicchiere vuoto, e l'altra metà, quella composta da lama e manico, gli era stata conficcata nel torace e l'aveva inchiodato sul posto come un insetto. In poco più di dieci passi James Caspar raggiunse la parte opposta del vicolo e varcò l'ingresso degli artisti. Il Taciturno gli chiuse la porta alle spalle e lo seguì in un tragitto tortuoso dietro le quinte, verso il palcoscenico. Mentre camminava, Caspar si sfilò giacca, cravatta e colletto, lasciandoli cadere e poi raccogliere al Taciturno dietro di lui. Vennero via anche i gemelli ai polsini e le maniche si slacciarono, allentandosi. I due salirono cinque gradini e varcarono una porta, trovandosi di fronte i cordami di scena e le luci della ribalta. Caspar si passò la mano fra i capelli e se li scompigliò, come si addiceva a un personaggio condannato ingiustamente alla fine del primo atto e che adesso veniva riportato alla vita e all'onore grazie al rimarchevole intuito e al generoso impegno di un investigatore sessantenne con le gote imbellettate e il corsetto. In scena Whitlock aveva già dato a Caspar la battuta che arrivava alla fine di un discorso lungo una pagina rivolto a una lamentosa Louise e destinato a montare un roboante climax. Di norma, faceva alzare in piedi tutto il teatro, accompagnando il momento in cui l'amato creduto perduto veniva restituito alla fanciulla con un discorso infiorettato. Non vedendo tracce di Caspar, l'Attor Comico aveva preso fiato ed era
sul punto d'improvvisare per coprire il vuoto di scena. Ma prima che potesse intervenire, Caspar balzò sul palcoscenico, non tanto entrando dalle quinte, quanto catapultato sul palco. Si disfece del mantello con cui era stato scorto fuori dalla finestra nelle vesti di un misterioso mendicante a metà del secondo atto - tutto parte del brillante piano dell'investigatore per ingannare il vero colpevole e costringerlo a rivelarsi - e aprì le braccia per accogliere Louise. Lei gli corse incontro urtandolo come un treno in corsa e, mentre il pubblico esultava per il loro abbraccio, Whitlock si allontanò lentamente dalla coppia per piazzarsi in fondo al palcoscenico in vista della successiva agnizione. Sayers era tornato in fondo alla platea, dove si era fermato poco prima. Mentre gli astanti applaudivano e fischiavano di approvazione, si sentiva un masso al posto del cuore. Il motivo era una breve conversazione che aveva avuto con Louise nell'intervallo fra i due atti. Era andata così: «Tom!» «Che cosa c'è?» «Devo domandarti una cosa.» «Tutto quello che vuoi.» «Tu credi che a James, al signor Caspar, io possa piacere?» Silenzio. «Tom?» «Ma tu piaci a tutti, Louise.» Più tardi, nel lasciare il teatro al termine dello spettacolo, gli attori si trovarono di fronte a un notevole dispiego di poliziotti nei pressi del pub attiguo. Sulla strada erano parcheggiati due cellulari e l'edificio era circondato da parecchi uomini in divisa, impegnati a far sgombrare i curiosi. Avevano piazzato delle lanterne per illuminare la zona e al momento stavano entrando nel pub con una barella e delle lenzuola. Un reporter del «Salford Chronicle» parlava con la gente per strada, cercando di distinguere la realtà dalla fantasia nei vari resoconti, e ottenendo i più vividi da chi non si era trovato neanche lontanamente vicino al fattaccio. Era stata una lite per una donna; era opera di una banda di Regent Road; erano morte due persone; erano stati massacrati tutti i clienti del pub. Un ubriaco aveva commesso una pazzia con un coltello. Dei marinai erano venuti alle mani con la gente del posto. Era stata la cosiddetta Banda di Buffalo Bill, giovinastri della
zona spinti alla violenza efferata dall'irragionevole passione per i romanzetti d'avventura. Sayers si impegnò a portare via le donne il più celermente possibile. Caspar non si vedeva da nessuna parte. Undici Prima di andare a prendere il treno, Sebastian Becker decise di passare in chiesa, cosa che non faceva da diverso tempo. Il portone non era serrato, ma il cielo era ancora buio - albeggiava appena - e Sebastian giudicò che, almeno per un po', avrebbe avuto il posto tutto per sé. Entrò, si chiuse il portale alle spalle e il rumore del chiavistello di ferro riecheggiò come uno sparo sino al soffitto a volta. Forse stava commettendo un errore. Si guardò intorno e avvertì di nuovo quel profondo terrore sacro che lo assaliva da bambino, quel terrore che gli aveva lasciato un segno a suo avviso indelebile. Le chiese cattoliche erano le stesse in tutto il mondo. Fosse una cattedrale a Colonia o una missione in California, in sostanza, non cambiavano mai. Candele e arredi dorati, penombra e mistero. E sofferenza. Sempre sofferenza. In ogni icona, in ogni inno sacro e in ogni preghiera; e quella sofferenza era sempre inflitta da un Dio che parlava latino, ed era subita da un Cristo che non assomigliava a nessun ebreo che Sebastian avesse mai incontrato. Quasi che il Cristo autentico non fosse stato all'altezza delle mire della chiesa, e ne avessero creato uno tutto loro. S'inginocchiò per breve tempo nella navata laterale e si fece il segno della croce. Non ebbe difficoltà a ricordarsi la sequenza dei gesti, anche se avrebbe voluto tralasciarla. Ma non vedeva come: la dottrina era troppo radicata in lui e, in caso avesse compiuto quell'omissione, sapeva che sarebbe rimasto raggelato, incapace di continuare finché non vi avesse rimediato. Una volta terminato, prese posto in prima fila, dove sedevano i fedeli. L'altare era circondato da lampade a olio che ardevano per tutta la notte. Dietro l'altare, in una cornice decorata, troneggiava un magnifico dipinto rinascimentale che lui riusciva a vedere a malapena. Dinanzi al dipinto brillava una croce d'oro o d'ottone, impossibile dirlo da quella distanza. La fissò quasi con gesto di sfida, rifiutandosi di pregare e persino di conside-
rarne l'eventualità. Allora perché si trovava lì? Era scosso per la notizia della sera precedente. Non solo Turner-Smith era morto, ma era stato assassinato. Quando cercava di assimilare quell'idea, sentiva le viscere aggrovigliarsi come un nido di serpenti. Sarebbe dovuto toccare a lui seguire quella pista. A quell'ora Turner-Smith sarebbe stato ancora vivo. Ma se poi avesse subito la stessa sorte del superiore? A meno che, comportandosi in maniera differente, la cosa non avesse avuto un altro esito. Ma forse il suo mentore era morto perché aveva scoperto qualcosa che si sarebbe rivelato vitale ai fini dell'inchiesta. Il successo e il sacrificio di Turner-Smith erano legati a doppio filo, e avrebbe significato negarli entrambi, se Sebastian avesse sostituito il suo superiore e fosse sopravvissuto. Se invece avesse compiuto la stessa scoperta e fosse morto al posto suo... Nel considerare quell'eventualità, Sebastian ebbe la prova di non avere la stoffa del santo. Ci sarebbe stato un funerale. Un funerale della polizia, con tutti gli onori. Le strade cittadine sarebbero state bloccate per il corteo, e la gente sarebbe accorsa perché tutti quei cavalli piumati di nero e gli uomini in divisa erano uno spettacolo. Eppure per lui era difficile immaginarsi un funerale senza pensare alla bara bianca della sorella, così piccola, che era stata portata a braccia da un solo addetto delle pompe funebri. Era accaduto qualche giorno prima che lui compisse nove anni e, all'epoca, non aveva attribuito un gran significato a quella morte. Ma il dolore... quello era presente ovunque si voltasse, terrificante e oppressivo. La casa coperta di drappi neri, le stanze al piano inferiore affollate di gente avvilita. Lui non osava quasi parlare. A quanto pareva, la madre riteneva un affronto il solo fatto di vederlo vivo, quindi si era tenuto il più possibile lontano da lei. Si era azzardato a domandarsi se, con il passare del tempo, quella piega che avevano preso gli avvenimenti potesse garantirgli l'affetto della madre tutto per sé. Ma quando il suo nono compleanno era passato inosservato, e così il compleanno seguente, ciascuno preceduto e rattristato da quel più tetro anniversario, era giunto alla conclusione che non solo la sorella morta era ancora amata, ma che lo era più di lui. Perché sua madre aveva sentito la necessità di scrivere quella lettera a Turner-Smith? Era forse indice di una preoccupazione che, con lui, non aveva mai lasciato trapelare? L'esperienza di una vita gli suggeriva di no.
Era semplicemente la sua maniera di lasciare il segno nelle vicende del figlio. Aveva sempre reagito a ogni suo progetto o proposta indicandone il potenziale fallimento. Si riteneva in diritto di esprimere la sua opinione. «Pregare è una dote come un'altra, Sebastian» esclamò una voce dietro di lui. Sebastian si voltò e vide padre Alexander, parroco da diciotto anni, attraversare la navata per raggiungerlo. Doveva trovarsi in un altro punto della chiesa ed essere entrato da una porta laterale. «Non posso dire di averti visto affinarla un granché, negli ultimi tempi.» «Ieri sera Turner-Smith è stato assassinato» ribatté Sebastian. «Turner-Smith?» «Il mio sovrintendente.» «Che Dio abbia pietà della sua anima. Com'è accaduto?» «Le circostanze sono poco chiare. Sto per andare laggiù armato di quel che so, e se c'è qualcuno da arrestare, lo arresterò. Se esiste un Dio, possa egli guidare la mia mano.» Il sacerdote inarcò le sopracciglia, sorpreso. «Se, Sebastian?» Sebastian si alzò. «Un'altra volta, padre» disse. Dodici Benché la sua locanda si trovasse in una via costellata di pensioni, la signora Mack non esponeva cartelli o insegne, né la pubblicizzava in alcun modo. Una locandiera per gente di teatro non tollerava di mischiarsi con gli avventori comuni, che avrebbero potuto aspettarsi degli orari normali. No, le persone di teatro e di spettacolo rincasavano tardi, e per lo più dormivano fino a metà mattina. Si aspettavano di cenare a orari inconsueti e quindi di restare in compagnia per un'ora o due, discorrendo di un mondo noto solamente a chi esercitava la loro professione. E all'epoca, secondo molti, la loro non era una vita rispettabile. Sempre in movimento, stringevano poche amicizie nei luoghi che visitavano e si lasciavano andare solo con i propri simili. La gente di spettacolo era simile a una grande famiglia allargata, e in quella famiglia era spesso la locandiera a fare le veci materne; offriva alloggio e accoglienza, aveva un occhio particolare per i più giovani, ed esigeva decoro da chiunque alloggiasse sotto il suo tetto. In sua presenza, persino il più scapestrato beone che si tratteneva oltre l'orario di chiusura dei bar appariva mansueto come un bravo figliolo.
La signora Mack era una leggenda vivente. Esisteva anche un signor Mack, ma sul suo conto non c'era molto da dire. Erano passate le dieci di mattina del sabato quando Tom Sayers si svegliò. Di norma era uno dei primi ad alzarsi ma, non riuscendo a dormire, la notte precedente aveva preso a prestito una chiave dalla cucina ed era uscito a farsi una passeggiata al chiaro di luna. Già non era il tipo da temere aggressioni a un'ora qualunque, e a quel punto era così tardi che persino i più malintenzionati erano già sotto le coperte. Si era spinto sino al grande fiume che separava le due circoscrizioni... ristagnante, luccicante, sporco e nero come il petrolio. Era uscito a passeggiare con la mente confusa e al ritorno non si sentiva certo più sereno. Gli riecheggiavano ancora in mente le parole di Lily. A quanto pareva, secondo lei la felicità non esisteva di per sé. Si trattava piuttosto di capire che cosa rendeva felici, e di sapersi sulla strada giusta per diventarlo. Tutto ciò ammettendo che la felicità fosse la meta, e non il viaggio. E allora lui dove stava andando? Quasi tutti i suoi coetanei, in un modo o nell'altro, avevano già cominciato a sistemarsi. Mogli, figli, una certa forma di reddito fisso. Ma non Tom Sayers. Lui svolgeva tutte le mansioni di un uomo d'affari e tuttavia faceva la vita di uno zingaro, sempre in movimento, mettendo da parte ben poco. Aveva qualche risparmio e pagava l'affitto di una casetta a Brixton dove alloggiava nelle date londinesi, ma niente di più sostanzioso. Da qualche tempo accarezzava l'idea di togliersi dalla strada e, chissà, di mettersi a fare l'impresario personale di una schiera di clienti selezionati, occupandosi esclusivamente dei loro affari. S'immaginava in un ufficio di Covent Garden, con le locandine incorniciate in sala d'attesa e una segretaria. Uno o due artisti al di fuori della compagnia avevano espresso il desiderio che si dedicasse a quell'attività, nei frangenti in cui li aveva aiutati a risolvere dei guai personali. Eppure, quando si permetteva d'immaginare come potesse essere quella nuova vita, c'era una sola cliente a comparire in scena con una certa costanza. Louise. Nei momenti come quello, provava dolore soltanto a pensarla. Riviveva mentalmente l'istante in cui gli era caduta fra le braccia. Aveva cristallizzato quei pochi attimi di confusione e ne aveva fatto un matrimonio d'anime, lento, leggiadro e perpetuo. In quel suo mondo immaginario, James Caspar non faceva alcuna apparizione. L'aveva stralciato dal copione.
Un giorno o l'altro, come ovvio, la tournée del Diamante purpureo si sarebbe conclusa, anche solo perché in Inghilterra non sarebbe rimasto più nessuno a non aver visto la pièce. E, una volta giunta a conclusione, era difficile dire che cosa sarebbe potuto accadere: Whitlock avrebbe investito denaro in un altro spettacolo, formando una compagnia da quella precedente? Sarebbe tornato al buon vecchio Shakespeare (ma non un'altra volta il suo Romeo, Dio ce ne scampi, non il suo Romeo)? O magari avrebbe acquistato quel cottage nel Kent per finire i suoi giorni in maniera più tranquilla? In un modo o nell'altro, si sarebbe creato un certo scompiglio. Con un po' di fortuna, Caspar sarebbe andato per la sua strada. E quello, pensava Sayers, sarebbe stato il momento giusto per offrire a Louise di occuparsi di lei personalmente. Prima di allora, affrontare la questione non sarebbe stato opportuno. Inquieto, aveva trascorso un'altra ora, o forse due, sdraiato sul letto a fissare il chiaro di luna che filtrava dalle tende, e alla fine Morfeo si era impietosito e l'aveva chiamato fra le sue braccia. Occupava una stanza nell'abbaino, raggiungibile dopo tre rampe di scale. La finestra era in realtà un lucernario e, fra il portacatino e il suo baule da viaggio, c'era ben poco spazio a disposizione. Aveva appeso lo specchio da barba a un gancio su una trave del tetto leggermente inclinato. Scostò le coperte e si sedette sul lato del letto. Si prese il volto fra le mani e iniziò a massaggiarselo, cercando di assumere più o meno un'aria desta. In quel momento udì qualche colpo discreto alla porta. Molto discreto. Quasi muliebre. Fu preso dal panico. Di qualunque cosa si trattasse, non era preparato. Dormiva in mutande, e le sue mutande erano l'emblema della durevolezza della lana non sbiancata e delle sue doti di rammendatore. «Sì?» disse. Gli rispose una voce maschile. «Signor Sayers?» ma lui non la riconobbe. «Chi è?» domandò, afferrando i pantaloni appesi per le bretelle all'estremità del letto. A tutta risposta la porta si spalancò. Prima che lui potesse reagire, due poliziotti attraversarono la stanza e gli si avventarono addosso. Lo agguantarono per le braccia e lo tennero fermo mentre un altro uomo con i gradi di sergente, si avvicinava alle loro spalle con le manette pronte. Lo misero in piedi, e quando lui cominciò a opporre resistenza, lo fecero voltare,
strattonandolo, inchiodandolo alla parete. L'urto gli mozzò il fiato, concedendo agli aggressori qualche istante di supremazia. Ignorando le sue proteste, gli uomini in divisa gli ammanettarono i polsi, il tutto in presenza di un uomo con gli occhi scuri sulla trentina, entrato per ultimo nella stanza. «Attenti a quelle mani» li mise in guardia il nuovo arrivato, più giovane degli altri. «Era un pugile professionista, una volta.» Chiaramente, quell'uomo, che non era in divisa ma dava ordini a chi la portava, era l'artefice del tutto. Sayers si azzardò a dargli uno sguardo da sopra la spalla del sergente. «Signore!» disse. «Tutto questo è oltraggioso!» L'uomo in borghese non rispose subito. Quando il sergente ebbe terminato di ammanettarlo, esclamò: «Frugate nella sua roba». Solo allora si piazzò davanti a lui e lo squadrò da capo a piedi, per poi fissarlo negli occhi. «Voi osate parlarmi di oltraggio?» disse in tono pacato. «Vi prego di non mettermi alla prova in questa maniera, signor Sayers. Vado fiero del mio autocontrollo in servizio, e non vorrei perderlo con uno come voi.» Sayers strinse i pugni e agitò le manette in aria. «Spiegatevi,» disse «e spiegatemi queste!» «Sono l'ispettore detective Sebastian Becker» ribatté l'uomo in borghese. «E voi sapete benissimo perché mi trovo qui. Fingete pure d'ignorarlo se questa è la vostra unica linea di difesa. Non vi salverà certo dal cappio del boia.» «Signore...» intervenne il sergente, e tutti si voltarono a guardarlo. La minaccia del boia da parte di Becker era servita soltanto a confondere maggiormente Sayers. Si sentiva come un attore che avesse varcato la porta del palcoscenico sbagliata nel bel mezzo dell'esibizione di un'altra compagnia. Chinando la testa per capire quale nuova rivelazione lo attendesse, si accorse della presenza di altri poliziotti sul ballatoio davanti alla stanza. Con qualche difficoltà, il sergente aveva aperto il suo baule da viaggio. Come sempre era poggiato a terra su un lato, in modo da aprirsi come un guardaroba viaggiante. A sinistra ospitava dei cassetti e degli scomparti poco profondi, a destra offriva spazio per appendere i completi di lana, cotone e lino. Ma gli abiti erano stati staccati dagli appendini e giacevano ammassati in fondo al baule, e nello spazio che occupavano in precedenza campeggiava qualcos'altro. Una volta, a Londra, in occasione di una mostra di oggetti curiosi, Sa-
yers aveva ammirato un modellino anatomico in cera di un torso femminile, dalla clavicola al pube. Il ventre era munito di coperchio estraibile, a rivelare il feto in gestazione all'interno. L'anatomia del nascituro era perfettamente formata, ma non particolarmente attendibile, perché il feto aveva le sembianze di un omuncolo di proporzioni adulte accartocciato su se stesso. Ed era così che, nel baule di Tom Sayers, era stato piegato, stipato e capovolto il cadavere massacrato del quindicenne Arthur Steffens. Sebastian Becker si accovacciò accanto al corpo e lo esaminò con attenzione. Non toccò nulla finché non arrivò alla testa, quindi s'inginocchiò e, con estrema delicatezza e lieve disgusto, estrasse qualcosa dalle mascelle socchiuse della vittima. Era un pezzo di carta, appallottolato e infilato in bocca al ragazzo. Il decesso era avvenuto da tempo sufficiente perché il corpo fosse già rigido, e Becker impiegò qualche tempo a rimuovere la carta senza strapparla. Sayers sentì cedergli le gambe. I poliziotti che lo trattenevano ai fianchi si accorsero che veniva meno, e lo tennero in piedi. Aveva la mente svuotata ed era talmente angosciato dalla scoperta del cadavere del ragazzo che, per un istante, aveva smesso d'interrogarsi sulla propria condizione. Sempre accovacciato su un ginocchio, Becker aprì il foglio stropicciato, lo lisciò e lo dispose sul pavimento, studiandolo per qualche istante. Poi disse: «L'ultima volta che ho visto questa carta, era in mano al sovrintendente Turner-Smith». Alzò lo sguardo su Sayers, che non trovò nulla da ribattere. «Non fate l'innocente, Sayers» esclamò il detective, alzandosi. «Clive Turner-Smith è il nome dell'uomo che avete assassinato ieri sera, poco prima di tornare qui e togliere di mezzo il suo informatore.» Volse lo sguardo all'agente che tratteneva Sayers. «Fallo vestire» disse. «E che nessuno tocchi il ragazzo. Avvertirò il medico della polizia.» Gli permisero d'indossare i pantaloni e gli stivali, ma si rifiutarono di togliergli le manette e così fu costretto a gettarsi sulle spalle camicia, giacca e panciotto. In quell'umiliante stato di disordine, fu spinto fuori sul ballatoio, dove tentò d'infilarsi nei pantaloni almeno i lembi della camicia, riuscendovi solo a metà. La locanda era affollata di poliziotti, da non riuscire neanche a contarli. Dalle finestre ne vedeva altri all'esterno, simili a un esercito ostile da cui non aveva difficoltà a immaginarsi accerchiato. Mentre scendeva le scale
scortato, gli uomini appostati sui ballatoi trattenevano gli ospiti e li obbligavano a restare in camera, per poi lasciarli uscire dopo che lui era passato. A quel punto, quelli si radunavano alla balaustra di ogni piano e si affacciavano nella tromba delle scale per vederlo. In corridoio, al piano terra, sostava Edmund Whitlock. Una volta tanto il vecchio attore drammatico era sinceramente addolorato; aveva gli occhi lucidi e arrossati, e gli tremavano le mani mentre piegava e ripiegava il fazzoletto. «Grazie per la collaborazione, signor Whitlock» disse Becker, mentre gli passavano accanto. Whitlock parve non udire il detective. Stava guardando dietro di lui, stava guardando Sayers. «Oh, Tom» disse, in tono d'impotenza. «Che cos'hai fatto? Per te provo solo una gran tristezza.» «Io non ho fatto niente» protestò Sayers, ma un colpo alla schiena lo spinse in avanti. Giù in strada, accanto ai poliziotti che erano impegnati a respingere una folla di curiosi, lo attendeva un cellulare trainato da cavalli, privo di finestrini, con un solido telaio chiodato e il portello posteriore aperto, pronto per lui. Sayers volse lo sguardo alla locanda, un palazzo alto e stretto con i gradini davanti alla porta e la ringhiera che arrivava al marciapiede. Alla finestra del salotto era affacciata Louise Porter, una maschera cerea d'incredulità in volto. Dietro di lei, James Caspar. Mentre lui li fissava, Caspar posò una mano sulla spalla di Louise con aria premurosa e si protese a mormorarle qualcosa all'orecchio. Nonostante la distanza e la vetrata che li separavano, gli parve che il gesto di Caspar non avesse tanto lo scopo di confortare Louise quanto di far ingelosire lui. Gli uomini che lo scortavano scambiarono quell'istante di titubanza per un atto di ribellione. Lo ghermirono per le braccia, lo costrinsero a salire i gradini posteriori del cellulare e ve lo spinsero in malomodo. Poi sbatterono la porta e la chiusero con un lucchetto. Tredici Il cellulare, piuttosto angusto, ospitava due semplici panche, una per lato. Dopo l'avvio incerto della vettura, e ostacolato dalle manette a reggersi altrimenti, Sayers si aggrappò con i piedi alla panca opposta.
Non vedeva quasi nulla. La luce filtrava solo dalle fessure del tettuccio e dall'unico finestrino sbarrato sopra lo sportello, da cui sentiva i ragazzini rincorrere la vettura e gridare qualcosa che non riusciva a capire. Mentre il cellulare avanzava traballando, Sayers cercò disperatamente di attribuire un significato a quell'ultima mezz'ora. Invano. Non c'erano dubbi che la sua situazione fosse disastrosa. Da principio si era creduto vittima di un terribile equivoco che si sarebbe chiarito con un'indagine più accurata, ma evidentemente non era così. Non c'erano equivoci che potessero spiegare la morte di Arthur Steffens o la presenza del cadavere nella sua stanza; non potevano avercelo piazzato per un semplice errore umano. Era un atto di deliberata e duplice malvagità, per l'assassinio in sé e per l'attribuzione della colpa. Sayers aveva visto per l'ultima volta Arthur vivo a teatro. Non alloggiava nella locanda della signora Mack, ma con i servi di scena al pub di Cross Lane. Qualcuno doveva averlo assassinato e averne trasportato il corpo nella stanza dell'abbaino in un lasso di tempo compreso tra la fine dell'esibizione serale e il suo ritorno dalla breve passeggiata notturna. E questo gli suggeriva che solo qualcuno appostato all'interno della locanda avrebbe potuto cogliere quell'opportunità. L'istinto lo indirizzava verso James Caspar, ma purtroppo non c'erano indizi a confermarlo. Le abitudini dissolute di Caspar e la loro antipatia reciproca non provavano nulla; avrebbe potuto parlarne con i poliziotti sperando d'indurii a scoprire qualche nuovo elemento schiacciante, ma era alquanto improbabile che si dessero tutto quel disturbo. Erano convinti di avere in pugno il loro uomo. Udì il postiglione gridare ai cavalli e si accorse che la vettura rallentava per svoltare. A quel punto i sobbalzi divennero ancora più intensi e fu obbligato ad aggrapparsi con maggior forza per non cadere su un fianco. Non avrebbe mai immaginato che le manette potessero essere un tale tormento. Il disagio fisico si poteva anche tollerare, ma il fatto di essere vincolato gli scatenava dei continui attacchi di panico, che era costretto a tenere a bada. Il cellulare si arrestò. Per un po' non accadde nulla e nessuno venne a parlare con lui. Si spostò allo sportello per guardare dalle sbarre e si scoprì nel cortile di una stazione di polizia cinto da un muro di mattoni. Vide che uno stalliere aveva staccato i cavalli dalla vettura e che, all'estremità opposta del cortile, un vecchio guardiano chiudeva il cancello da cui erano entrati. Il guardiano aveva perduto una gamba, ma si muoveva rapido e capace con l'aiuto di una stampella di legno.
Tornò a sedersi e di lì a poco vennero a prenderlo. Udì sganciare il lucchetto e vide un uomo in divisa sbirciare attraverso le sbarre, per controllare, nel caso il prigioniero avesse deciso di opporre resistenza. Nel cortile lo attendevano sei uomini corpulenti e dall'aria esperta. Assieme al loro sergente, il più corpulento di tutti, avevano i manganelli pronti e, per un istante, mentre lo conducevano all'ingresso della stazione di polizia, pensò che l'avrebbero malmenato. Invece lo circondarono e, fra spintoni e urlacci, lo scortarono al tetro edificio di mattoni rossi che si affacciava sul cortile. Nell'ora successiva, lo sottoposero a una perquisizione accurata e lo fotografarono. Gli sganciarono le manette, e riuscì finalmente ad abbottonarsi la camicia e a indossare il panciotto. Si spostò dove gli dissero di spostarsi, si fermò dove gli dissero di fermarsi. Resistette sempre all'impulso di obiettare o ribellarsi, sapendo che nessuna delle due cose gli avrebbe giovato. Avrebbe dovuto mantenere il controllo finché non gli avessero concesso l'opportunità di parlare. Prima di quel momento, qualsiasi protesta o indignazione da parte sua sarebbe stata solo una perdita di tempo. Non lo lasciarono mai solo o incustodito e infine l'accompagnarono in una stanza in cui l'attendevano Sebastian Becker e due uomini molto più anziani che avevano tutta l'aria di essere suoi superiori. Entrambi avevano una camicia dal colletto alto, la barba e gli occhi severi. Nella stanza sedeva anche un segretario, pronto a prendere nota di tutto ciò che lui avrebbe detto, mentre il sergente robusto visto in cortile sostava appena fuori la porta. La stanza aveva mura spoglie di mattoni intonacati e una finestra troppo alta da raggiungere e troppo stretta da utilizzare come via di fuga, se mai qualcuno ci avesse provato. Gli diedero il permesso di prendere posto su una sedia, gli elencarono le accuse a suo carico e, finalmente, gli concessero la possibilità di parlare. Dopo aver comunicato la data di nascita e altri dettagli della sua vita di cui poteva essere sicuro, cominciò a parlare con la consapevolezza che, da quel momento in avanti, qualunque cosa avesse detto avrebbe costituito un'importante testimonianza nei giorni a venire. Esplicito o evasivo, freddo o tremebondo, avrebbe messo nero su bianco il suo carattere di fronte al mondo intero. «Sono stato un pugile professionista per sette anni» disse. «Mi stavo allenando a Chesham in vista di un match con Charles Wainwright, ma fui aggredito e colpito al braccio con una spranga di ferro. Un tentativo per sabotare l'incontro, ne sono certo. Ma fecero troppo bene il loro lavoro,
perché non riuscii più a combattere del tutto. Mi ero fatto prestare mille sterline dal marchese di Reddesley come anticipo sull'incontro, e dovevo restituirle. Scrissi uno sketch sulla boxe e radunai una piccola compagnia per interpretarlo nei teatri di varietà. In qualità di pugile godevo di una certa popolarità, e riuscii a ripagare il debito. Ma la gente dimentica in fretta, così mi diedi all'amministrazione delle compagnie. E da allora ne ho amministrate diverse fra cui, negli ultimi due anni, quella di Whitlock.» I due uomini più anziani restarono seduti con aria del tutto inespressiva, mentre Sebastian Becker ascoltava con attenzione, quasi fosse in cerca di un particolare significato o di un'illuminazione che non arrivava, che non sapeva trovare. «Io non vi capisco, Sayers» esclamò. Chiaramente, non si riferiva alla storia, che sembrava aver capito a sufficienza: era l'uomo in sé che non riusciva a inquadrare. «Ci sono tante cose che io non capisco in questa situazione, ispettore Becker.» «La vostra è per caso sete di sangue? Qualcosa che non potete più soddisfare sul ring, e che siete stato costretto a riversare sul prossimo? Ho visto omicidi per lucro. Per vendetta. Per rabbia o per passione. Ma mai prima d'ora ho visto commettere un omicidio tanto crudele e disumano per semplice amore di mostruosità.» «Io non ho fatto del male a nessuno.» «Una volta, sul ring, avete accecato un uomo.» «Mi sono battuto secondo le regole. Quell'uomo conosceva i rischi.» «Che cosa ho di fronte agli occhi, Sayers? Siete un'aberrazione? O siete qualcosa di terribile e nuovo?» «Avete di fronte agli occhi un uomo innocente, ispettore Becker.» «Non capite che adesso può aiutarvi solo la collaborazione? Verrete impiccato comunque, come ovvio. Non c'è nulla che possa cambiare la vostra sorte. Ma ci sono diverse strade per arrivare alla forca.» «Voi parlate di forca. Nella mia stanza avete trovato un ragazzo a cui non ho torto un capello e che non sono stato io a piazzare nel mio baule, e parlate di delitti contro persone di cui non so nulla e che non ho mai incontrato. In vita mia non avevo mai udito il nome di Clive Turner-Smith finché non l'ho sentito pronunciare dalle vostre labbra.» «Durante il secondo atto della rappresentazione di ieri sera gli avete dato appuntamento nella sala interna del pub attiguo al teatro. Aveva ancora il
vostro biglietto in tasca quando l'avete trafitto con la sua stessa lama.» «Io non ho avuto per le mani alcun biglietto. E non ho mai lasciato il teatro.» «La sala interna del pub dista qualche metro dall'ingresso degli artisti, e in quel lasso di tempo nessuno vi ha visto dietro le quinte.» «Ero andato a seguire la commedia in fondo alla platea.» «Dov'erano tutti concentrati sugli attori in scena. Molto comodo da parte vostra.» «Domandatelo a Lily Haynes, lavora al bar. Lei mi ha visto, ha parlato con me.» «Non nella seconda parte della serata. Ammettetelo, Sayers. Smettetela di mentire. Comportatevi da uomo e non da quella creatura spregevole cui vi siete ridotto. La scia di sangue che vi siete lasciato alle spalle coincide esattamente con gli spostamenti della vostra compagnia. Pensavate forse che prendendo di mira poveri e derelitti in luoghi diversi, i vostri crimini sarebbero passati inosservati? Un ragazzo di quindici anni ha scoperto la vostra vera natura. E le prove che ha fornito v'incrimineranno.» Dopodiché raccolse la pagina incollata di ritagli che aveva preso dal cadavere nella locanda e la mostrò a Sayers. Di colpo, l'istinto e la ragione giunsero di pari passo. «Caspar» mormorò Sayers. «Il signor Caspar è rimasto in palcoscenico per tutta la serata. Ci sono settecentocinquanta spettatori muniti di biglietto a testimoniarlo. Quanti potrebbero farlo per voi? Uno. Che avete strangolato e infilato in un baule assieme al vostro secondo abito più elegante.» «In nome di Dio, Becker, non rifiutatevi di darmi retta o sarà commessa una terribile ingiustizia!» «Non nominatemi Dio, Sayers. Se Dio esiste, voi siete al servizio di tutt'altro padrone. Mi pare di capire che non intendete confessare.» Si alzò. Il segretario smise di scrivere, e cominciò a riporre registro, penna e calamaio. Uno dei due superiori mormorò qualcosa che l'ispettore non riuscì a udire, quindi lasciò la stanza con il collega. Sebastian Becker si piazzò di fronte a Sayers. Si accucciò leggermente per guardare negli occhi il pugile, come se cercasse qualcosa. «Aiutatemi, Sayers» disse. «Non può cambiare la vostra sorte, ma aiutatemi a capire. Lily Haynes vi ritiene incapace di fare del male, e chiaramente si sbaglia. Ma può un uomo che ispira un tale grado di lealtà negli amici essere capace di azioni come le vostre? Come può un demonio esse-
re in qualche modo umano, Sayers? O un uomo essere in realtà un demonio?» «Mi fareste spiegare ciò che non so» ribatté Sayers. «Ve lo ripeto ancora una volta, sono innocente. Non sono stato io a commettere quelle azioni. Richiamate il vostro segretario, e ve lo dirò di nuovo.» Sebastian Becker si raddrizzò e disse: «Avete ucciso un poliziotto in servizio, vale a dire un fratello per tutti noi. Ma noi non siamo delle bestie come voi, Sayers. Affronterete sicuramente il castigo assoluto, ma con voi non useremo le maniere forti. Il vero banco di prova della giustizia si rivela in momenti come questo». Sayers ebbe l'impressione che quelle parole, benché rivolte a lui, fossero invece indirizzate all'uomo in divisa accanto alla porta. «Sergente,» disse l'ispettore «portatelo di sotto.» Quattordici Mentre attraversavano il corridoio, allontanandosi dalla sala degli interrogatori e diretti alle celle, il sergente gli stringeva con forza il braccio. Non era soltanto un'efficace forma di restrizione, ma dava modo al sergente d'intuire le intenzioni dell'uomo in sua custodia. Ogni impulso di scattare in avanti o di ribellarsi si sarebbe palesato nel preciso istante in cui l'idea prendeva forma. Sayers capiva l'inutilità di un simile tentativo: da qualunque punto di vista la considerasse, la sua situazione appariva disperata. Aveva bisogno di amici fuori di lì, un bisogno urgente. Pensò a Edmund Whitlock, il suo datore di lavoro, e quasi nello stesso momento abbandonò ogni speranza di ricevere aiuto da parte sua. Ce l'aveva ancora davanti agli occhi, rammaricato e in lacrime nel corridoio della locanda. Nonostante avesse interpretato tanti sovrani ed eroi, quell'attore non era un uomo leale. Era chiaro che l'aveva giudicato colpevole basandosi sulle apparenze, come avevano fatto in molti. Ed era improbabile che Whitlock fosse suo alleato... specie se ciò comportava voltare le spalle a James Caspar. Sayers non riusciva ancora a capire le ragioni del potere che il giovane esercitava sul vecchio, ma ne aveva osservato gli effetti nel corso dei mesi. In presenza di Caspar, l'attore di norma intollerante diveniva permissivo, e perdonava le colpe del suo protégé in maniera quasi imbarazzante. L'ascendente del più giovane era simile alla stretta del sergente; oltre a vincolare, dava anche potere. Il sergente lo costrinse a fermarsi di fronte a una porta blindata massic-
cia e grigiastra, diversa da quelle delle celle. Batté due colpi e, di lì a qualche secondo, gli rispose il rumore di una chiave che ruotava nella toppa, dopodiché la porta si spalancò lasciando filtrare la luce del giorno. Senza tante cerimonie, Sayers fu costretto a varcarla con uno spintone e incespicò sulla soglia, ritrovando l'equilibrio solo all'esterno. Si trovò in una recinzione interna alla stazione di polizia, una sorta di gabbia da zoo che aveva tutta l'aria di un'area di ricreazione per i detenuti. Era a cielo aperto, ma le ombre a terra indicavano la presenza di un tetto di sbarre. All'estremità opposta della recinzione attendevano tre uomini disposti in fila, che si sfilarono casco e giubba e si arrotolarono le maniche della camicia. Quando Sayers volse lo sguardo al sergente in cerca di una spiegazione, lo vide slacciarsi il cinturone che indossava sopra la giubba. Intanto, il secondino che aveva aperto la porta la stava richiudendo a chiave dietro di loro. «Capisco» disse Sayers. «Niente maniere forti» ribatté il sergente in tono cortese. «Ma tu sei uno sportivo, quindi abbiamo pensato che avresti apprezzato uno scontro amichevole.» A quel punto si sfilò la giubba rivelando, sotto la camicia e le bretelle, il petto possente e il ventre massiccio di un uomo brutale per natura. Brutto come il peccato, era uno di quegli uomini che non hanno necessità delle maniere forti o dell'illegalità per irradiare un'aria minacciosa. «Volete battervi con me?» domandò Sayers. «Una volta eri il celebre Tom Sayers» rispose il sergente. «Considerala una dimostrazione privata delle tue doti pugilistiche.» Il secondino che aveva chiuso la porta prese giubba e casco del sergente e li portò all'altro capo della gabbia, passando accanto agli altri tre uomini, meno robusti del sergente ma pur sempre degli attaccabrighe nati. All'esterno, i carri della polizia erano stati spostati in modo che non si vedesse ciò che accadeva nel recinto. Il secondino posò la giubba e il casco nel mucchio con gli altri, dopodiché varcò un cancello e si appostò di vedetta in cortile. Con il batticuore, e senza neanche riflettere, Sayers assunse una postura più vigile. «E quali regole seguirà questo scontro amichevole?» domandò. «Quelle di Newton Street» rispose il sergente, distogliendo lo sguardo. Sayers stava per replicare, ma aveva frainteso le intenzioni dell'uomo. Il sergente tornò indietro con il gomito alzato, colpendo con tutta la forza
possibile il braccio di Sayers. Sayers vacillò all'indietro, stringendosi il braccio appena sotto la spalla. Il dolore fu improvviso e immane. Era lo stesso braccio, e quasi lo stesso punto, colpito dalla banda che l'aveva reso invalido, stroncandogli la carriera. All'epoca, l'avevano costretto nell'angolo di un vicolo per poi sopraffarlo. Riuscì a non gridare, ma gli occhi si velarono di lacrime e per qualche istante ne rimase accecato. Se gli uomini l'avessero aggredito in quel momento, tutto sarebbe stato perduto. E invece restarono in disparte a seguire la scena, sogghignando. Sayers lasciò andare il braccio e aprì e richiuse la mano, cercando di mantenere un'espressione composta e di non stringere ulteriormente gli occhi, per non mostrarsi debole. «Credo di aver afferrato i capisaldi» disse. Adesso intuiva che cosa avevano in mente. Volevano vantarsi d'aver sfidato il celebre campione di pugilato e di averlo battuto, ma non erano affatto interessati a uno scontro equo. Potevano anche mascherarla da sfida sportiva ma, alla resa dei conti, si trattava di pura giustizia sommaria per la morte di uno di loro. Se la mattina successiva il magistrato avesse chiesto informazioni sul suo conto, gli avrebbero detto che aveva dato in escandescenze, o che aveva tentato la fuga. Cinque testimoni avrebbero confermato. In caso di necessità, se ne sarebbero trovati altri. «Avrete almeno la dignità di attaccarmi uno alla volta, anziché in gruppo?» domandò. «Certo» ribatté il sergente, e si spostò al centro del cortile per essere il primo. Sayers alzò i pugni e ruotò leggermente le spalle per rilassarle. Avvertiva ancora un dolore lancinante al braccio, e sapeva che avrebbe dovuto proteggerlo. Non aveva paura, nonostante le possibilità di cavarsela fossero scarse. Se avesse dato filo da torcere ai suoi aguzzini, quelli si sarebbero avventati su di lui come cani. Ma da professionista qual era stato un tempo, si focalizzò esclusivamente sul proprio scopo. Il sergente assunse la posizione di combattimento, parodiando quella di Sayers con gesti smaccatamente femminei. Sayers si sentiva un fuscello rispetto a quella massa di carne in maniche di camicia che aveva di fronte. Chiaramente, ai suoi tempi, il sergente ne aveva prese e date parecchie e non aveva bisogno di convenevoli o smancerie. All'improvviso, l'uomo si mosse. Senza girare in tondo, senza saggiare le difese dell'avversario, si limitò ad avanzare verso di lui per colpirlo. Sayers gli assestò un jab del tutto inefficace, perché aveva cercato di caricare e
indietreggiare nel contempo. Il sergente non si arrestò, bensì gli si avventò contro. Cinse Sayers con un braccio e gli sferrò un pugno a lato della testa, un colpo di striscio con le nocche. Doloroso, ma non tanto da provocare danni gravissimi. Sayers si divincolò e aggirò il sergente piazzandosi alle sue spalle, mentre l'altro si voltava per tornare a fronteggiarlo. «Che cos'hai, pappamolle?» disse l'omone. «Preferisci fartela con vecchi e bambini?» Era come combattere contro uno scimmione o un orso. Se fossero stati sul ring, il sergente sarebbe stato cacciato a suon di fischi o squalificato nel giro di un round o due. Ma quell'uomo non si trovava lì per battersi secondo le regole. Era lì per schiacciare e fare a pezzi Sayers, per la gioia di tutti. Sayers si mantenne fuori portata, e azzardò un paio di finte a cui il sergente non abboccò. Quando il poliziotto tentò di sferrargli un pugno, lui si chinò e gli assestò un paio di colpi al corpo che il sergente parve a malapena sentire. Mentre continuavano a girarsi intorno, fu il sergente a provare una finta. Sayers reagì a sproposito, scatenando le risate degli uomini che seguivano la scena. Uno prese a gridare, zittito subito da un altro. L'uomo di vedetta all'esterno della recinzione si volse a guardarli con aria inquieta. Sayers intravide un'opportunità e assestò un gancio. Ma il poliziotto si limitò ad afferrargli il pugno nella sua mano enorme, bloccandolo a mezz'aria. In preda a un dolore lancinante, Sayers tentò di liberarsi dalla morsa del sergente, che rideva mentre gli stritolava le ossa della mano. "Le regole di Newton Street" pensò Sayers. E contrariamente a ogni istinto, alzò la gamba e sferrò un calcio con il tacco dello stivale nel ginocchio dell'avversario. Avvertì distintamente il nervo che si lacerava e la rotula slogarsi. Di colpo il sergente gli lasciò andare la mano, disegnando un'enorme "O" con la bocca e strabuzzando gli occhi. Non emise alcun suono. Sayers ne approfittò per calibrare la mossa successiva con precisione scientifica. Assestò alla mascella del sergente un uppercut destro talmente forte che la bocca gli si chiuse con un sonoro schiocco, e a quel punto gli sferrò un gancio che parve addirittura deformargli il volto. Il sergente sembrò esitare a mezz'aria. Poi crollò al suolo. Prima che l'uomo toccasse terra, gli altri erano già addosso a Sayers. Assestò un colpo al primo, ma senza riuscire a fermarlo. Gli altri due
l'afferrarono per le braccia, ma Sayers la sapeva troppo lunga per farsi trattenere. Colpì uno alla bocca dello stomaco, togliendogli il fiato e sferrò una testata all'altro. Quello senza fiato era fuori gioco, ma gli altri tornarono all'attacco. Sayers ghermì quello più vicino e lo sbatté con violenza contro le sbarre della gabbia, per poi scagliarlo contro il collega quando questi tentò di afferrare Savers per la camicia e trascinarlo via. Cozzarono spalla contro spalla come due quarti di manzo appesi alle catene. Uno cadde in ginocchio sputando sangue perché si era morsicato la lingua, l'altro si accasciò dopo uno dei destri di Tom Sayers. Quattro uomini erano a terra, ma solo uno aveva perso i sensi. E adesso si accingeva a entrare in gioco anche il secondino appostato di vedetta. Mentre quest'ultimo varcava il cancello, Sayers lo accolse con l'unico colpo che sapeva sicuro e decisivo: un diretto a nocche nude in mezzo agli occhi, simile al colpo di una mannaia, doloroso da assestare quasi quanto da ricevere. Quasi, perché chi lo riceveva sperimentava l'oblio immediato e la libertà da tutti gli affanni. L'uomo sobbalzò per il contraccolpo e il manganello che brandiva cadde tintinnando sul selciato. Adesso, alle spalle di Sayers, il cancello che dava sul cortile della stazione di polizia era aperto. Non esitò. Scavalcò l'agente a terra, varcò di corsa il cancello e si trovò in mezzo ai carri che coprivano la vista del recinto esterno. Sino a quel momento, era stato un uomo integerrimo, ma capiva che in futuro per lui, fidarsi della legge avrebbe voluto dire guai. Lo avrebbero mandato a morte per delle azioni che non aveva commesso. Dinanzi a lui campeggiavano le scuderie, dove lo stalliere era impegnato con due cavalli, e alla sua sinistra svettavano l'edificio principale e l'arco di pietra da cui si usciva sulla strada. I cancelli si stavano aprendo, e il carro che l'aveva portato dentro era pronto a uscire di nuovo. Mentre lui correva per raggiungerlo, dall'area di ricreazione alle sue spalle si levò il suono stridulo di un fischietto, poi di altri due. Nel frattempo, il guardiano con una gamba sola teneva aperto il cancello per far passare il cellulare della polizia. Frapponendosi tra il guardiano e il cellulare, Sayers sfruttò le sponde alte del veicolo come copertura, nella speranza di uscire non visto. Ma, udendo i fischi dei poliziotti, il postiglione si voltò e lo scorse subito. Al grido allarmato di «Prigioniero in fuga!», si protese su un fianco e sferrò un colpo di scudiscio a Sayers. Questi si accucciò e alzò un braccio per proteggersi, ma lo scudiscio era troppo corto e vibrò nell'aria senza colpir-
lo. Mentre il cellulare continuava a muoversi sull'acciottolato, Sayers si accorse di trovarsi a qualche centimetro scarso dalle ruote e che, fra la vettura e la guardiola del cancello, c'era uno spazio di circa mezzo metro. Il postiglione strattonò con forza le redini per chiudergli quella via di fuga e tagliargli la strada, ma i cavalli, sorpresi e confusi dalla mossa improvvisa, incespicarono nelle tirelle e piegarono di lato anziché uscire in strada. Il cellulare sbandò pericolosamente e ruotò su se stesso, urtando con un gran fracasso la fiancata contro la guardiola. Sayers fu costretto a gettarsi all'indietro per non restare schiacciato. Il veicolo vacillò e rimase incastrato nell'angolo del cancello, una ruota sollevata da terra e i cavalli in preda al panico. Sayers si accucciò per strisciare sotto la vettura, mentre il guardiano aggirava il cellulare da dietro. Per essere un uomo con una gamba sola, si spostava a velocità sorprendente. Il guardiano gridava dietro a Sayers, il postiglione gridava dietro ai cavalli, e i cavalli s'impennavano nelle tirelle minacciando di sfasciare la vettura per liberarsi. Gli zoccoli si abbattevano sul selciato sprizzando scintille, e il massiccio cellulare dondolava avanti e indietro, simile a un armadio incastrato sulla soglia di una porta. Sayers raggiunse la strada e, nel momento in cui appoggiò una mano a terra per non cadere, avvertì una duplice fitta al braccio: l'uomo di vedetta gli aveva sferrato un violento pugno nello stesso punto colpito con il gomito dal sergente. Mentre si alzava, anche il postiglione tornò all'attacco con lo scudiscio e questa volta lo colpì alla schiena, lacerandogli la camicia, il panciotto e quindi la carne. Sayers si trovava vicinissimo ai cavalli e, per un soffio, non perse l'equilibrio e non cadde sotto gli zoccoli; ma riuscì a uscire di corsa, lasciandosi alle spalle il loro trepestio. Non aveva idea di dove si trovasse: una via di una città sconosciuta, con i tram, le carrozze e la folla tipica del sabato pomeriggio. Un uomo che correva in maniche di camicia avrebbe attirato l'attenzione, poco ma sicuro; soprattutto se aveva un braccio ferito e la camicia strappata sulla schiena. Ma non poteva certo fuggire in maniera più discreta: sapeva di doversi allontanare il più possibile dalla stazione di polizia. Avrebbe dovuto dileguarsi nelle strade secondarie prima che dessero l'allarme. Schivando i passanti sul marciapiede, si buttò nella strada con un balzo. Dalla parte opposta, vide dei venditori ambulanti spingere dei carretti e ipotizzò che nelle vicinanze ci fosse un mercato.
Bloccato per un istante al centro della carreggiata fra due tram in transito, si spostò di fianco finché non ebbe la strada sgombra, quindi continuò nella direzione da cui provenivano gli ambulanti. Quindici Nello stesso momento, Sebastian Becker usciva dalla centrale di polizia. Indossava il soprabito in vista del viaggio di ritorno e reggeva la borsa che si era portato per un eventuale pernottamento. Ma aveva assolto alla svelta il compito della giornata, e non aveva necessità di trattenersi oltre, soprattutto se aveva modo di arrivare a casa per metà serata con il treno che sarebbe partito di lì a mezz'ora. La mattina successiva Sayers sarebbe comparso di fronte al magistrato per essere rinviato a giudizio, e a quel punto sarebbe stato possibile istruire un processo contro di lui. Discutendo con gli assistenti degli avvocati, Sebastian aveva appreso che si trattava di una procedura complessa. Sayers era stato geniale nel perpetrare i crimini in località distinte e amministrate da diversi corpi di polizia, rendendo impossibile intuire un collegamento fra i delitti. Era stato un ragazzo di quindici anni a condurre le forze dell'ordine alla verità: Arthur Steffens. Il suo nome sarebbe stato ricordato con tutti gli onori. Anche se ormai Sebastian poteva fare ben poco per lui, questo almeno avrebbe potuto garantirlo. Oltre a portare il suo assassino alla pubblica forca. Giudicava inutile tentare ancora di comprendere quell'uomo. Per ciò che aveva fatto non potevano esserci attenuanti. E, forse, alcune azioni erano impossibili da spiegare, e a commetterle erano individui impossibili da comprendere. L'ingresso della stazione di polizia era imponente, con le doppie porte e un'ampia rampa di scale che conduceva al marciapiede. Sebastian stava scendendo con gli occhi fissi sui gradini, quando un movimento attirò la sua attenzione. Alzò lo sguardo e vide un uomo attraversare la strada di corsa per poi arrestarsi al passaggio di un filobus. In quello stesso istante, un altro filobus in transito nascose l'uomo alla vista. Sebastian fissò la scena incredulo, in attesa che la seconda vettura si spostasse. "Ma guarda un po'," si disse "per strada in maniche di camicia quando tutti gli altri, persino gli artigiani più infimi, sono vestiti decorosamente". Mentre l'uomo controllava la strada prima di ripartire di corsa,
Sebastian ne studiò il volto con maggiore attenzione. O era Tom Sayers, o era il suo fantasma. Ma Sebastian Becker non credeva ai fantasmi. Lasciò cadere la borsa da viaggio e urlò «Prendetelo!» a uno che stava salendo le scale per entrare nell'edificio, poi balzò sul marciapiede e quindi sulla strada. Un onesto cittadino in bicicletta lo vide e, credendolo in fuga dalla stazione di polizia, cercò d'intervenire. Sebastian lo scostò con gesto brusco e si slanciò nel traffico alle calcagna di Sayers, diretto verso un mercato rionale. Nell'attraversare la strada, Sebastian udì i fischi dei poliziotti e intuì che si apprestavano a organizzare un inseguimento; ma a quel punto Sayers sarebbe potuto svanire nel nulla... gli sarebbe bastato procurarsi un soprabito e confondersi tra la folla. Ma solo i malviventi più esperti avevano una tale presenza di spirito. Sayers era forse uno di loro? Quando Sebastian raggiunse il marciapiede opposto, Sayers non si vedeva più da nessuna parte. Ma lui sapeva dove era diretto e si mosse in quella direzione; i passanti che lo vedevano sopraggiungere, il soprabito scuro e svolazzante come il manto di un cavaliere, gli cedevano il passo in tutta fretta. Un'operaia che poco prima doveva aver visto passare Sayers, gridò: «Da quella parte! È fuggito da quella parte!». E gli indicò una strada costellata di magazzini. Sebastian vi si inoltrò. Nell'angusta stradina si trovava un mercato di scarpe, ed era affollata con bancarelle improvvisate coperte con tendoni impermeabili. Gli edifici laterali di mattoni fuligginosi erano così alti da lasciar intravedere solo una striscia di cielo, sprofondando così il mercato in un'opprimente penombra. Inoltre, limitavano il ricambio d'aria rendendo ancora più forte il lezzo di cuoio usato. Nell'avanzare, Sebastian veniva rallentato dalla gente che era costretto a spingere ed evitare, ma quando azzardò uno sguardo sopra le teste dei passanti fu ricompensato da quella che gli parve un'apparizione fuggevole della sua preda. Sì, era lui. Anche Sayers veniva rallentato. Farsi largo fra le bancarelle era come annaspare in un fiume in piena. Sebastian vide Sayers voltarsi a guardare e, dall'espressione degli occhi, gli parve si fosse accorto di lui; o forse non l'aveva affatto individuato ed era solo l'ansia di essere inseguito. In ogni caso, lo vide addentrarsi nella calca, in una direzione che poteva solo immaginare. Poco più avanti c'era una strada laterale, e ipotizzò che il pugile professionista la stesse raggiungendo.
All'angolo sorgeva un pub, e Sebastian si fermò a parlare con dei bambini sulla soglia. «Per caso è appena entrato un uomo?» chiese, e loro lo guardarono come se parlasse una lingua straniera. Lasciandosi alle spalle i magazzini e il mercato, Sebastian si trovò in un quartiere dall'aria squallida e vetusta. Edifici di tre piani con le finestre rotte rattoppate con ogni genere di materiale: strisce di lenzuola, carta da pacchi, la tesa di un vecchio cappello. In generale le case davano l'impressione di essere stracolme di abiti e stracci. I vetri rimasti erano così sudici da sembrare assi di legno verniciate. Sebastian non aveva idea di dove si trovasse il fuggiasco, ma nel silenzio della strada, sentiva qualcuno correre dinanzi a lui. Anche lui partì di corsa. Ma gli costò caro, e dovette rallentare facendo qualche passo prima di slanciarsi di nuovo. Non era un pappamolle, ma non era abituato a una simile fatica fisica protratta per un tempo così prolungato. Lo sforzo, unito all'eccitazione dell'inseguimento, si stava facendo sentire sempre di più. Cominciava a essere spossato e gli girava la testa. Se fosse riuscito a mettere le mani su Sayers, poteva solo sperare che lui fosse altrettanto stremato. La strada proseguiva in un ponte, e Sayers non si vedeva da nessuna parte. Sebastian rallentò e riprese a camminare. Adesso aveva i polmoni doloranti e la saliva era un fuoco corrosivo alla base della lingua. Persino i denti avevano preso a fargli male, e l'andatura era incerta. Giunto sul ponte, Sebastian si mise in ascolto, ma udiva soltanto il suo respiro irregolare rombargli nelle orecchie. Non riusciva a calmarlo, quindi lo trattenne per un istante. Sotto di lui, stava abbaiando un cane. Raggiunse il parapetto del ponte e si protese a guardare. Si aspettava di vedere la ferrovia, e invece si trovò affacciato sulla darsena di un canale nascosto, che tagliava il centro della città. Il canale e la sua alzaia si curvavano alle spalle dei magazzini, acqua sporca in una gola costruita dall'uomo. Da sotto il ponte Sebastian vedeva spuntare le code di un certo numero di chiatte. Si spostò dal parapetto e si voltò dall'altra parte. Le ruote ferrate di un carro in transito fecero vibrare l'acciottolato sotto i suoi piedi. Stava cominciando a pensare che, forse, era il caso di tornare al pub ed esaminarlo con maggiore attenzione. Non aveva preso nota del nome. Si sapeva che nelle soffitte di alcuni di quei locali c'erano pali e corde tra le quali si potevano tenere incontri di pugilato illegali. I pugili più vecchi erano riveriti e tenuti in grande considerazione, mentre il compito dei più
giovani era la semplice forza bruta. In quella città, uno come Sayers poteva anche essere un forestiero, ma trovarsi comunque ben accetto se si faceva riconoscere. Sebastian si spostò sul parapetto opposto. Il bordo del ponte era composto di pannelli di ferro chiodato, una parodia dell'architettura classica assemblata con la grossolana sicurezza dell'attuale epoca industriale. La cima del parapetto si allargava a fungere da corrimano ed era lucida per l'usura. Sebastian si affacciò sulla parte più ampia della darsena, dov'era radunata un'autentica flotta di chiatte incatenate a formare un'unica enorme zattera. Erano di ogni età e dimensione... Sebastian non aveva idea se attendessero un carico (molte erano vuote), fossero state raccolte lì per essere riparate (gran parte sembrava averne bisogno), o fossero semplicemente degli spazi abitabili (anche se non c'erano segni di vita, sui ponti era steso il bucato e da diversi comignoli usciva il fumo). Sul ponte di una chiatta era legato il cane che aveva sentito prima. Era piccolino e chiazzato, come il cane di Pulcinella. Strattonava la corda, continuando ad abbaiare contro quel passante solitario, che adesso aveva fatto qualche metro sull'alzaia. Era Sayers. Il pugile camminava - zoppicava, a dire il vero - con un braccio teso lungo un fianco, come se gli dolesse. Aveva un'aria fiaccata e stanca, ma ben lungi dalla rassegnazione; pareva aver rallentato solo perché credeva di aver corso quanto bastava da scongiurare la cattura. Circa un chilometro più avanti campeggiava un altro ponte stradale, ma l'unico modo per raggiungerlo era passare per un pontile vicino alla casa del sorvegliante della chiusa, sull'altra sponda del canale. A quanto Sebastian riusciva a vedere, la sua preda si era intrappolata da sola sull'alzaia. Si guardò intorno cercando la via per scendere. Tramite un cancello di ferro, raggiunse un'angusta scaletta di mattoni grigiastri a cielo aperto e chiusa ai lati, che lo condusse nello spazio ombreggiato sotto il ponte. Strano. Era come se la città fosse scomparsa e lui fosse entrato in un mondo diverso. Qualcosa sferragliava sopra il ponte, ma tutti i rumori cittadini di superficie erano scomparsi. Sull'acqua c'erano gli uccelli e ai margini dell'alzaia crescevano fiori di campo. Dinanzi a lui c'era sempre Sayers, sempre arrancante, sempre ignaro. Si stringeva il braccio ferito con l'altra mano, quasi potesse spremere via il dolore. Sebastian prese coraggio e scattò in avanti, spostandosi il più silenzio-
samente possibile. Se fosse riuscito a cogliere di sorpresa Sayers, meglio ancora. Poteva anche essere un pugile professionista, ma era ferito e aveva corso a perdifiato, e lui era determinato ad affrontarlo, incurante di ogni rischio. Come aveva fatto Sayers a fuggire dalla prigione? La disperazione poteva condurre gli uomini ad azioni estreme. Sebastian sapeva di un detenuto balzato dal banco degli imputati e fuggito dal tribunale dopo un salto di due metri e mezzo, dopo aver steso due agenti della corte e un soldato di passaggio che si era unito all'inseguimento; o di quel ladro che aveva scalato tre piani di un edificio in un condotto di aerazione - talmente angusto che si pensava non potesse passarci neanche un gatto - per poi attraversare il tetto del tribunale e scendere a terra da un tubo di scolo. Non si sarebbe stupito se, per assicurarsi la libertà, Sayers avesse ucciso di nuovo. Avrebbe dovuto muoversi con cautela. Ma non osava tirarsi indietro. Sayers continuava ad avanzare zoppicando, sudicio e lacero, stringendosi il braccio, uno spettacolo penoso. Sebastian ridusse la distanza fra loro e continuò ad avvicinarsi senza farsi notare, finché il cane sulla chiatta non riprese ad abbaiare. Sayers si voltò e vide il suo inseguitore. A quel punto parve riacquistare le forze. Sebastian scattò in avanti e Sayers si soffermò un istante a vagliare le proprie opzioni, quindi si mise a correre. Sebastian aveva pensato di aver intrappolato il suo uomo sull'alzaia, mentre adesso si rese conto del proprio errore. Su quel lato del canale, infatti, non esisteva accesso al successivo ponte stradale. Prima del ponte, tuttavia, c'era una serie di chiuse sormontate da una palancola, una trave di ferro larga qualche centimetro. Sayers la raggiunse e l'attraversò di corsa. Sebastian giunse solo qualche istante più tardi, e cominciò a percorrerla prima che Sayers avesse raggiunto l'altra sponda. Le chiuse erano imponenti. Su quel lato, si vedevano spuntare dall'acqua solo le estremità superiori. Ma guardando oltre, Sebastian notò che il livello dell'acqua dall'altra parte si era abbassato, rivelando la fossa profonda della chiusa. Sotto di lui c'era una parete di quattro metri e mezzo di solido legno, necessaria a trattenere il peso enorme dell'acqua del canale alle loro spalle. Nel punto in cui le chiuse s'incontravano disegnando una "V", l'acqua sprizzava dalle minime fessure sotto una pressione terrificante. La palancola era né più né meno un'asse fissata sotto il bordo di ciascuna
chiusa. C'era un corrimano, tinto di bianco. Attraversarla richiedeva una certa cautela, ma non dava la sensazione di pericolo. Nel punto d'incontro centrale delle chiuse, Sebastian perse l'equilibrio e cadde. Finì maldestramente nel canale, e quindi sott'acqua. Il trauma peggiore fu l'improvviso calo di temperatura: Sebastian non aveva paura dell'acqua e sapeva nuotare. Ma il soprabito gli si avvolse attorno al corpo e si fece sempre più pesante, ritardando la sua risalita in superficie. L'acqua era scurissima, e l'unica cosa che riusciva a vedere erano i riflessi di luce in superficie. Mentre stava cominciando a domandarsi se quella sarebbe stata l'ultima cosa che avrebbe visto, riemerse con la testa e poté prendere fiato. Era addosso alla chiusa e tese le mani per tirarsi su. Ma qualcosa non andava. Qualcosa gli tratteneva le braccia sott'acqua. Riusciva ad alzarle solo a metà. Era bloccato, trascinato verso il fondo da creature degli abissi. Prese a dibattersi. Era il suo soprabito, quel maledetto. Gli era scivolato a metà delle braccia e lo trascinava giù. Ma neanche il peso combinato del soprabito e dell'acqua poteva trascinarlo con tale forza. Armeggiò per liberarsi dell'indumento, ma parve soltanto imbrigliarsi di più, e la trazione su di lui, se possibile, parve aumentare. Poi capì. Non era solo il peso dell'indumento impregnato d'acqua a tirarlo sotto. Il soprabito era stato risucchiato in una delle fessure fra le chiuse. Puntò il piede sul legno e si dimenò per liberarsi. Prima d'immergersi di nuovo con la testa fu costretto a prendere fiato e a trattenerlo, ma tutti i suoi sforzi furono vani. Quando smise di tentare, non tornò a galla. Si fermò a pochi centimetri dalla superficie. Ed era sempre risucchiato sott'acqua. Iniziò a lottare, non in maniera organizzata, ma in preda al panico, con gesti frenetici e privi di scopo. Esalò aria in una marea di bolle. Era semplice, bastava solo sfilare le braccia dalle maniche, ma più lui si sforzava più sembrava peggiorare la situazione. Senza volerlo, inghiottì acqua a pieni polmoni. Il riflesso di sputarla lo indusse soltanto a respirarne altra. Sgomento, si rese conto che non soltanto stava per affogare, ma che il suo corpo era complice dell'operazione. La sua volontà non contava più. Poi qualcosa lo afferrò per i capelli e lo strattonò «verso l'alto. Era scosso da un attacco di tosse, e non riusciva a vedere. «Non riesco a tenervi» disse Sayers. «Aggrappatevi a qualcosa.»
Sebastian non poteva rispondere, né liberare le mani. Scosse la testa. Il che, date le circostanze, fu un errore. «Dio onnipotente» imprecò Sayers, lasciandolo. Sebastian riprese a sprofondare sott'acqua, ma solo quanto bastò a Sayers per cambiare presa e afferrarlo per il colletto della camicia. «Non agitatevi» gli disse Sayers. «Riflettete. Usate la mano destra per sfilare la manica sinistra.» Facile a dirsi. Un po' meno a farsi. Tastò attorno a sé, e le dita intorpidite dal freddo si strinsero sul tessuto, senza però riuscire a trattenerlo. Anche quando lo ghermì, quello non veniva. Ma Sayers lo stava tirando verso l'alto e, fra la sua trazione dall'alto e il risucchio dal basso, Sebastian sentì di colpo le braccia liberarsi dalle maniche e si trovò a galla. Con una mano Sayers l'afferrava per il colletto e con l'altra si teneva aggrappato al fragile corrimano, sporgendosi completamente sull'acqua, con un grave rischio per sé. Restando accucciato, si spostò guidando Sebastian sino alla sponda del canale quasi sospingesse un tronco. Sul lato posteriore della chiusa c'era una corta scala di ferro fissata nel legno. Sebastian non aveva neanche la forza di aggrapparsi ai pioli. Ve lo appese Sayers, e lui si abbarbicò. Sayers si chinò per dire: «So che cosa credete. Credete che io stia fuggendo dalla forca. E avete ragione. È così. Ma non perché sono colpevole. Io non sono colpevole, ispettore Becker. E in un modo o nell'altro giuro che ve ne convincerò». Sebastian non aveva neanche la forza di azzardare una risposta. Poi l'altro se ne andò. In seguito Sebastian venne a sapere che, passando, aveva bussato alla porta della casa del sorvegliante della chiusa dicendogli che nella darsena c'era un uomo in difficoltà. Il sorvegliante aveva tirato fuori Sebastian e lo aveva coperto di improperi per la sua incoscienza. A quel punto, Tom Sayers non si vedeva più da nessuna parte. Sedici Dalla signora Mack non si cenava presto, ma venivano cucinati i cibi degli ospiti, se questi li portavano in cucina. Intorno alle cinque, imbandiva in sala da pranzo un tè pomeridiano, a base di pane e burro e qualche sporadica fetta di torta ai pinoli. Anche se non era un granché, di norma, era apprezzato dalla gente di teatro. Un mestiere che aveva ben poche cose per cui essere raccomandato, tranne il provvidenziale pasticcio di carne di
maiale al terzo atto. Quel giorno, però, avevano tutti scarso appetito. Difficile dire cosa avesse traumatizzato di più la compagnia, se la morte violenta del loro galoppino, o l'arresto di Tom Sayers. Si era parlato di cancellare la matinée, ma Whitlock non voleva saperne. Lo spettacolo continuò; tutta la troupe si esibì in maniera efficiente ma come in preda a uno stato di trance, e in seguito tornò alla locanda in silenzio. Nella sala da pranzo alle cinque e dieci si trovavano solo Edmund Whitlock e James Caspar: il primo dava da mangiare dei pezzi di torta ai pinoli a Gussie, il secondo camminava avanti e indietro per la stanza. La sala poteva essere opprimente - con le pesanti tende di pizzo, i mobili scuri e la collezione degli orridi ninnoli della signora Mack in ogni angolo disponibile e su ogni ripiano immaginabile - ma quando era ravvivata dalla compagnia e dalla conversazione si trasformava. Per il momento, tuttavia, gli unici rumori erano il ticchettio dell'orologio a pendolo e l'ansimare del cagnolino fra un bocconcino e l'altro. Caspar si fermò, osservò per qualche tempo lo spettacolo, e disse: «In Cina i cani li mangiano». Whitlock spezzò un altro pezzo di torta e lo tenne sollevato fra pollice e indice. Il cagnolino si paralizzò, osservandolo intensamente, quindi lo addentò a mezz'aria quando Whitlock lo avvicinò alla sua portata. Negli ultimi mesi l'umore del capocomico si era fatto particolarmente cupo. L'avevano notato tutti, ma nessuno sapeva perché. A parte forse Gulliford, l'Attor Comico, che credeva di sapere riconoscere a prima vista un uomo malato. «Contieniti, James» disse Whitlock. «Per quanto tempo? Se non lo catturano non possono impiccarlo.» «Fra meno di tre settimane saremo di ritorno a Londra. Se non riuscirai a frenare i tuoi appetiti sino ad allora, non farai altro che discolparlo.» Caspar prese una sedia da sotto il tavolo e si accomodò, piazzando un gomito sulla migliore tovaglia di pizzo della signora Mack e appoggiando il mento sulla mano. Seguì ancora per qualche istante l'esibizione del cane, quindi disse: «Potrei unirmi alle ricerche». «No.» «Ma qualcosa devo pur fare. O diventerò pazzo.» «Se devo essere sincero, non credo proprio, James» ribatté Whitlock. «Non fare il bambino.» «Miss Porter non mi ritiene un bambino» esclamò.
«Del bambino hai la scarsa educazione» disse spazientito Whitlock, sempre concentrato sul cane che si ingozzava con quello che restava della torta. «È stata una certa inclinazione all'oscuro a portarti qui. Ma il significato più profondo di tutto ciò ti sfugge ancora.» Caspar balzò di nuovo in piedi per l'irritazione. «Per quale motivo,» disse «quando mi lamento di qualcosa, ricevo sempre una predica?» «E allora tu smettila di lamentarti. E trovati qualcosa di utile da fare.» «E come?» domandò Caspar. «Tu mi hai appena proibito di togliermi ogni soddisfazione.» Pulendosi le mani dalle briciole, Whitlock alzò lo sguardo su Caspar e illustrò ciò che intendeva. «Impara a essere astuto, James» disse. «È del tutto possibile distruggere qualcosa d'innocente, senza lasciare pubblicamente tracce.» La stanza più luminosa della casa era il salotto, che si affacciava sulla strada. In quella stanza la signora Mack teneva lustro il pianoforte e i cuscini sprimacciati; era il suo fiore all'occhiello, con le tende sontuose accostate come al varietà e tanti di quei cimeli da rifornire un museo. C'erano stampe incorniciate alle pareti e statuine di porcellana sulla mensola del camino. Ogni tavolo aveva il suo centrino, e ogni centrino il suo vaso o la sua statuetta. Accanto alla finestra, su una poltrona dallo schienale alto, sedeva Louise Porter, intenta a studiare un copione. Era la più avvilita di tutti per gli eventi della giornata, e cercava distrazione nel suo mestiere. L'angosciava pensare a quanto tempo aveva trascorso con Tom Sayers, senza sospettare minimamente della sua natura. Quei continui piccoli favori, quelle bonarie prese in giro dall'aria tanto innocente... adesso tutto assumeva una luce nuova e sinistra. Quanto era stata inconsapevole di essere così vicina al pericolo? Adesso le veniva la pelle d'oca al solo pensiero. Sayers era un mostro e lei era stata oggetto delle sue attenzioni. Ed era stata lei a permetterlo... l'aveva persino incoraggiato, con i suoi modi innocenti. E a quale fine tremenda avrebbe potuto condurla tutto ciò, se i crimini di quell'uomo non fossero stati scoperti in tempo? Con la sua convincente dissimulazione dimostrava di essere il migliore attore di tutta la troupe. Eppure, la sua era una strana angoscia. Le dava il batticuore, ma non la rendeva insicura. Ben lungi dall'intimorirla, sembrava accrescerne la sicurezza di sé. Ieri sapeva pochissimo del mondo; oggi, si sentiva in grado di
affrontare tutto ciò che poteva offrire. E interpretare delle parti migliori sarebbe stato un ottimo inizio. Spesso si sentiva svantaggiata quando sentiva parlare gli altri attori, che accennavano sommariamente a quella scena nel Sogno o alla scena dei gioielli nel Faust. Quasi tutti erano andati in tournée o avevano recitato per anni in compagnie stabili. A meno che lei non volesse restare prigioniera di quell'unica pièce finché Whitlock l'avesse messa in scena sino a esaurimento, la migliore occasione di ampliare la sua esperienza professionale risiedeva nella lettura. Teneva il testo vicino a sé, aiutandosi con un paio di occhiali dalle lenti piccole e la montatura metallica che appartenevano a una defunta zia. Aiutando a rassettarne le stanze dopo il funerale, Louise aveva ceduto alla tentazione di provarsi quegli occhiali ed era rimasta sbalordita dal loro effetto. Lei voleva solo specchiarsi per vedere come stava, e non aveva certo immaginato fino a che punto la sua vista fosse più carente del dovuto. Adesso erano un suo colpevole segreto. Non solo per il fatto di averne bisogno, ma anche per l'imbarazzante impulso che l'aveva indotta a scoprirlo. Al debole cigolio dei cardini della porta, sbirciò da sopra il libro. Vedendo Caspar fermo sulla soglia della stanza, si sfilò rapida gli occhiali e li nascose dietro le cortine. Caspar parve non notarlo. Era troppo occupato a tenere gli occhi bassi. «Signor Caspar» disse lei. Caspar alzò una mano. «Non sapevo che ci fosse qualcuno» ribatté. «Perdonatemi.» «Vi prego, non sentitevi in dovere di andarvene.» Caspar scosse la testa dispiaciuto. «Non vorrei imporvi la mia presenza» disse, e fece per andarsene tirandosi dietro la porta del salotto. «Aspettate!» replicò Louise, accantonando il libro, e lui si fermò. «Vi prego, spiegatevi.» Lui fece per parlare, ma poi sospirò e scosse la testa. «Che cosa posso dirvi, Louise?» esclamò. «Mi vergogno di essere un uomo come Sayers.» «Voi non avete commesso i suoi crimini.» «Ma dispero.» «Perché?» Caspar attraversò la stanza e prese posto sulla poltrona di fronte alla sua. Chinandosi per sedersi sul bordo, disse: «Perché tutto è contaminato dalle sue passioni primitive e perverse. Che cosa penserete adesso guardandomi?».
Louise valutò quelle parole e scelse le proprie con enorme cautela. «Penso che esistano passioni e appetiti né disgustosi né innaturali» disse. «E che rendono gloria a Dio e a come voleva che fossimo.» Caspar la fissò con aria sempre più meravigliata, quasi avesse acceso una luce inattesa nel buio in cui lui si dibatteva. «Vorrei poterci credere» disse. Lei si fece audace. «E io vorrei potervi persuadere» ribatté. A quelle parole, Caspar riuscì in qualche modo a darle la netta impressione di essere un uomo pronto alla persuasione. In tarda serata, Sayers si trovò un posto nella struttura di ferro sotto uno dei tanti ponti cittadini, dove nessuno poteva avvicinarsi a lui di soppiatto, né potevano scovarlo le lanterne della polizia metropolitana. Guardava i tetti della città attraverso le travi e i piloni; le strade illuminate a gas, i comignoli lontani, la coltre di fumo che copriva il cielo e oscurava per sempre le stelle. Si raggomitolò in un cappotto che puzzava della birreria da cui l'aveva rubato, e cercò di accantonare ogni inclinazione allo sconforto o all'autocommiserazione per concentrarsi sui problemi più seri che aveva di fronte. Per lo meno, la mano non aveva nulla di rotto. A quanto poteva capire, il dolore al braccio non era dovuto a una nuova ferita ma a una recrudescenza della vecchia. E, come tale, destinato a svanire. Ma che cosa fare di sé? Dove andare? In quella città non aveva amici a parte Lily Haynes, e lui non aveva intenzione di rovinarle la nuova vita con i problemi che lo affliggevano. Sapeva che doveva andarsene, magari raggiungere Londra; eppure aveva un buon motivo per non decidersi a partire. Aveva paura per Louise. Nella compagnia c'era un pazzo, e lei gli gravitava attorno. Sayers non aveva dubbi che adesso, in catene, avrebbe dovuto esserci James Caspar e non lui. Quell'uomo uccideva i poveri per diletto. Ed era ovvio che il giovane Arthur aveva notato quella serie di fatali coincidenze nei mesi trascorsi a caccia di recensioni sui giornali locali, subendo nello stesso tempo gli incessanti soprusi di Caspar. Passare quell'informazione alla polizia era stata la sua vendetta. Ma ahimè, quel gesto gli si era ritorto contro. Becker aveva parlato di un biglietto inviato dietro le quinte da Clive Turner-Smith. Si presumeva fosse stato ricambiato con un messaggio scritto da Tom Sayers... il messaggio che aveva portato il sovrintendente alla
sua fine. Ma lui quel biglietto non l'aveva visto. Il che significava che l'aveva intercettato un altro rispondendo a nome suo. Possibile che Caspar avesse una tale influenza su Whitlock da indurlo a passare il biglietto al suo Attor Giovane anziché al suo vice? Alla base di una scelta simile poteva esserci una sola ragione... Whitlock doveva aver intuito l'importanza dell'arrivo di Turner-Smith. E ciò significava che doveva essere già al corrente dei crimini di James Caspar. Ripensando a quella scena lacrimevole nel corridoio della locanda, Sayers era incline a pensare di aver sottovalutato il proprio datore di lavoro. Forse era un attore più capace di quanto si potesse immaginare vedendolo recitare sul palcoscenico. Per Caspar non sarebbe stato impossibile presentarsi all'appuntamento al posto suo, pensava Sayers. Era fuori scena per quasi tutto il secondo atto del Diamante purpureo, a parte un'apparizione nei panni di una misteriosa figura incappucciata fuori da una finestra. A quell'apparizione il pubblico gridava sempre, per poi rallegrarsi quando il mistero veniva svelato... ma siccome in quel momento aveva il volto coperto, quasi chiunque avrebbe potuto fargli da controfigura. Poteva lasciare facilmente il teatro per venti minuti per poi tornare a prendere la sua battuta. E più tardi, una volta tornato dalla signora Mack, doveva solo cogliere il momento opportuno per nascondergli nel baule il galoppino massacrato. Il ponte sopra di lui cominciò a traballare, attraversato da una possente locomotiva. Prima si udì il rimbombo che si diffuse per tutto l'arco della campata metallica, poi si riversò all'esterno una nuvola di fumo e scintille da sembrare fatata. All'umidità e alla fuliggine si aggiunse un odore familiare, di carbone e vapore e lunghi viaggi e luoghi da raggiungere, di impegni e ordine e obiettivi. Sopra di lui, a qualche metro soltanto, c'era la vita che aveva perduto. Da qualche parte oltre il suo campo visivo, suonavano i rintocchi dell'orologio municipale. Di lì a poco avrebbe preso il via il secondo spettacolo del Diamante purpureo. Lui appoggiò la testa contro la muratura e chiuse gli occhi. Aveva cercato di avvicinarsi alla locanda, ma non era riuscito ad andare oltre l'angolo della strada. Da lì aveva visto un poliziotto appostato all'esterno, così si era alzato il bavero e aveva continuato a camminare senza fermarsi. Ed era successo lo stesso a Liverpool Street; il teatro era circondato dagli agenti, e al termine della matinée erano arrivati i taxi per portare a casa le donne,
In un modo o nell'altro doveva metterla in guardia. Lei non avrebbe voluto ascoltarlo, ma lui avrebbe dovuto farsi capire. Dopo tutto, anche nella sua presunta disgrazia e nel suo esilio forzato, era il più devoto dei suoi servitori. Se alla matinée l'atmosfera era strana e ovattata, alla sera la notizia degli eventi mattutini si era sparsa per tutta la città. Alle sette, il teatro era stracolmo e l'atmosfera elettrica. Era chiaro che la compagnia del Diamante purpureo era divenuta un'attrazione notevole e morbosa. Durante l'ouverture Gulliford si aggirava dietro le quinte truccato da Billy Danson, con l'aria agitata e quasi troppo afflitta per continuare. Il direttore di scena locale fu costretto addirittura a spingerlo fuori dalle quinte quando l'orchestra intonò la musica del suo ingresso in scena, ma alla fine si fece coraggio, e uscì sul palco. In seguito avrebbe detto che, una volta lì, gli era parso di aver assunto il controllo di una gigantesca entità dalle mille teste; di non aver mai visto un pubblico simile, o esercitato un tale potere dal palco. Lo stesso numero portato avanti da vent'anni, che aveva ricevuto applausi educati a Whitehaven e che era stato accolto in un silenzio di tomba a Glasgow, andò via come pane per gli affamati. Sì, erano affamati, erano pronti, e avrebbero afferrato e scosso e divorato qualunque cosa lui avesse voluto gettar loro in pasto. «Meglio tener pronti scopa e secchio, Charlie» disse al direttore di scena, lasciando il palcoscenico dopo la sua canzone comica in un tripudio di applausi. «Stanno bagnando le poltrone.» Quindi saltellò di nuovo sul palcoscenico a prendere un'altra chiamata, più come una vedette di primo piano che non come un attore di seconda categoria. L'atmosfera rimase calda per tutta la prima metà dello spettacolo, e quando si alzò il sipario sulla scena di apertura del Diamante purpureo, il benvenuto più clamoroso fu seguito dal silenzio più teso mentre tutti si sforzavano di seguire ogni sfumatura e sviluppo della storia; anche se bisogna dire che in quel dramma le sfumature erano pochine, e molto distanziate fra loro. In ogni modo, poteva pure non essere arte con la "a" maiuscola ma, dannazione, era artigianato di prima qualità. Caricato dalle notizie del giorno, il pubblico serale era accorso aspettandosi forse un grand guignol anziché un dramma di intrighi e misteri. In tal caso, non aveva alcuna importanza, perché gli spettatori accolsero l'effettiva trama della pièce con non meno
entusiasmo. Whitlock era all'apice dell'ampollosità. Nella scena clou, anche se sulla carta il suo discorso era indirizzato al patrigno interpretato dal Cattivo, si rivolse al pubblico e declamò: «Che tutti i presenti in questo teatro siano testimoni! Ogni uomo, donna, bambino sino al più piccolo pargolo in braccio! Questo ragazzo è, in verità, il figlio che avete perduto molto tempo fa, nonché l'uomo più indicato a portare il vostro nome di quanto voi potreste desiderare!». E il Cattivo replicò: «Sì! Prima non lo sapevo, ma adesso lo so!». James Caspar, nei panni dell'uomo accusato ingiustamente, si trovava in fondo al palcoscenico con Louise Porter alias Mary d'Alroy, e il Cattivo si rivolse a lui dicendo: «Parla, ragazzo mio, dimmi come riparare al male che ti ho fatto». «Io non chiedo nulla, signore,» ribatté Caspar «se non la mano della vostra figliastra, per scambiare la mia ritrovata libertà con una più dolce prigionia, e per rendere più completa la mia felicità.» «Non posso parlare per lei» ribatté il Cattivo, dando modo a Whitlock di riprendere in mano la situazione. «Allora che sia lei a parlare per sé» gridò con una voce che fece rabbrividire il pubblico e tintinnare i lampadari. «Voi che cosa dite, Mary? Lo trovate sincero?» Tutto il teatro parve trattenere il fiato mentre Louise si rivolgeva a Caspar, quasi la felicità personale di ciascun spettatore pagante dipendesse dalle sue successive parole. Caspar la prese per le braccia e la strinse, fissandola con aria implorante. Era un'azione del tutto nuova e non prevista dal copione, ma parve così naturale e veritiera che lei non ne rimase sorpresa né confusa. «Con tutto il mio cuore» disse, e il teatro esplose. Per un po' fu impossibile continuare. Ruggirono, batterono i piedi, gridarono di gioia e fischiarono di approvazione. Mai la compagnia aveva conosciuto tale accoglienza. Quelli sul palco dovettero restare immobili in scena per un minuto o forse più. Louise fissò Caspar negli occhi, a corto di fiato per l'emozione, il cuore che batteva forte. Continuò a batterle forte per tutto il discorso di chiusura di Whitlock finché, sostando fra le quinte in attesa della chiamata per cantare, si accorse di una presenza e notò James Caspar alle sue spalle. Quando lui le sussurrò all'orecchio, le accarezzò il collo con il respiro, agitandole qualche ciuffo di capelli ribelli.
Mentre le diceva sottovoce: «Adesso mi rendo conto che esistono passioni e appetiti né disgustosi né innaturali. E che rendono onore a Dio e a come voleva che fossimo», fu scossa da un delizioso brivido. Ma poi si voltò a guardarlo e scoprì che era di nuovo svanito nell'ombra. Quando Louise cantò la sua canzone, sembrava che sui posti in platea aleggiasse una nube di commozione. Persino i poliziotti in divisa in fondo al teatro si stavano asciugando gli occhi. A metà dell'esibizione si trovò a pensare al giovane Arthur Steffens, trasportato dalla locanda all'obitorio, e quasi le si mozzò la voce. Alle donne non era stato permesso vedere la salma. Quando raggiunse il resto della compagnia dietro le quinte, quasi tutti si aggiravano come assordati da una esplosione. Dopo i tristi eventi mattutini, non si sarebbero mai aspettati di provare quell'intensa sensazione di fervore condiviso. Quasi l'atmosfera che permeava tutto il teatro, davanti e dietro il sipario, fosse una potente combinazione di euforia e terrore; nel bel mezzo della morte, erano stretti nella morsa più palpitante della vita. Il teatro era stato costruito meno di dieci anni prima, ma le strutture del retropalco sembravano quelle di un edificio molto più vecchio. Con due spettacoli a sera per sei sere la settimana, più le matinée e gli spettacoli di beneficenza, il deperimento e il logorio erano di ordinaria amministrazione. Se la direzione doveva spendere del denaro, faceva in modo di investirlo dove se ne vedevano i risultati. Qualcuno aveva portato via il separé dal minuscolo camerino di Louise, e così il carpentiere del teatro le aveva montato una tenda d'angolo dietro cui cambiarsi. Smettendo i panni di Mary d'Alroy - un robusto abito da lavoro scambiato per una raffinata toilette da chiunque si trovasse a più di tre metri di distanza - udì aprirsi e chiudersi la porta del corridoio. La tenda fu attraversata da un'ombra gettata dalla lampada a olio sopra la specchiera. «Signora Wrigglesworth?» disse Louise. «Mi pare di aver sentito cedere una cucitura sotto il braccio sinistro, durante lo svenimento.» Fece passare dalla tenda l'abito, che le fu preso. «Qualcosa dall'ingresso degli artisti stasera?» disse slacciandosi il corsetto e lasciando cadere la prima delle due sottogonne che davano forma all'abito. Non vi fu risposta, e così esclamò: «Signora Wrigglesworth?» facendo capolino dalla tenda.
C'era James Caspar. Indossava ancora il costume di scena ed era da solo nello stanzino, a non più di un metro di distanza da lei. Sulle sue mani tese era poggiato il pesante abito di Mary d'Alroy, simile a un corpo annegato e trasportato a riva. «Signor Caspar!» disse lei. E poi: «James!». Caspar aveva il volto cupo. «Mandatemi via» ribatté lui. «Sarebbe il caso che lo facessi.» «Allora fatelo.» Nessuno dei due si muoveva. «La signora Wrigglesworth sarà qui da un momento all'altro» disse Louise. «Credo di no» replicò Caspar. «Credo che al momento stia cucendo addosso al signor Whitlock la sua attillatissima giacca di seta portafortuna. Dice di volersi sentire al meglio mentre tratta con la direzione.» Li separava solo la tenda leggera che lei stringeva, e la sottoveste che le pendeva dalle spalle. Che di per sé era quasi un nonnulla; tagliata dritta per l'effetto décolleté e attaccata a due sottili spalline. Di fronte a lui si sentiva completamente nuda. «Allora?» disse Caspar. «Allora» replicò lei. Si rese conto di non volerlo mandare via; non doveva necessariamente mandarlo via: e nulla, a parte la consuetudine, le convenzioni e la disapprovazione del mondo, la obbligava a mandarlo via. L'unico suo pensiero era l'imbarazzo che avrebbe provato se gli altri della compagnia avessero saputo di quella sconvenienza. E poi naturalmente c'era Dio... ma con lui non era già scesa a patti? «È stata...» disse, cercando parole che corrispondessero ai suoi sentimenti e quindi, non trovandole «una giornata alquanto insolita.» Lui si voltò e, con cautela, poggiò l'abito di Mary d'Alroy sullo schienale della sedia vicina. Realizzato in origine per il ruolo della Ernestine di Amante in prestito, era stato acquisito dal Theatre Royal come parte della giacenza del Bilstock e modificato su misura. «È una serata come nessun'altra» disse lui. «Che cosa ne dite, Mary? Mi trovate sincero?» «Signor Caspar!» protestò lei. Ma ormai il cuore le batteva forte come prima sul palcoscenico. «Allora mandatemi via.»
In qualsiasi altro giorno e in qualsiasi altra circostanza, Louise avrebbe dovuto comportarsi come ci si aspettava dal suo sesso; laddove i giovanotti osavano troppo, toccava alle fanciulle farli rinsavire e indurli al decoro. Ma quello non era stato un giorno come tutti gli altri. Era stato un giorno gravido di consapevolezza sulla brevità della vita e sull'immediatezza della sua potenziale fine. Un giorno che aveva impartito una semplice lezione: tutto è appeso a un filo, e tutto ciò che non si ha coraggio di afferrare, giusto o sbagliato che sia, va perduto. Louise accostò la tenda e uscì. «Chiudi la porta,» sussurrò «e non parlare più.» Diciassette Louise era del tutto priva di esperienza, ma non una completa sprovveduta. Tre estati trascorse con i cugini in una fattoria in campagna le avevano dato parecchio da meditare sugli aspetti della natura. L'osservazione l'aveva aiutata a rispondere agli interrogativi sollevati e mai chiariti dall'arte classica: tutte quelle ninfe e quei pastori dovevano avere qualcosa in mente quando si appartavano... ma fu l'aia a fornire qualche suggerimento di che cosa si trattasse con esattezza. Non era rimasta sorpresa per la propria incertezza, bensì per quella di Caspar. Laddove se lo aspettava audace, lui era esitante. Laddove l'aveva creduto esperto, era parso innocente. Chiaramente non era proprio l'uomo di mondo che lei presumeva. Lungi dall'essere una delusione, non riusciva a immaginare nulla che potesse renderglielo più caro. Fu un accoppiamento frettoloso, ma effettivo. Ed era quasi sgomenta dal proprio desiderio che andasse in porto. In seguito, sdraiata sul pavimento del camerino alla luce fioca della lampada a olio, e avvolta nei lembi della tenda che aveva staccato dal binario per usare come letto di fortuna, alzò gli occhi sulle ombre del soffitto e pensò: "Dunque adesso sono perduta". Il pensiero la divertì tanto che, per un istante, fu scossa da una risata silenziosa. Se fosse stata davvero perduta, l'avrebbe senz'altro saputo in fondo al cuore; e il suo cuore non le diceva nulla di simile. «Che cosa c'è?» domandò Caspar accanto a lei, rompendo per la prima volta il loro silenzio. «Stavo pensando che sono una donna perduta» ripeté lei ad alta voce,
soffocando l'impulso di ridere di nuovo, quasi non fosse opportuno farsi sentire dall'esterno. «Perdonami» disse lui, e fece per alzarsi. «No!» ribatté lei, balzando di colpo a sedere e allungandosi verso di lui. «Non capisci.» «Capisco eccome» disse l'uomo, aggiustandosi l'abito. «Non posso restare. Parliamone in tutta franchezza domani.» Per un istante accostò l'orecchio alla porta prima di sbloccarla poi, dopo averla aperta quanto era necessario, sgattaiolò fuori. Louise fu lasciata sola in sottoveste, avvolta in un copriletto improvvisato sul pavimento di un camerino, il costume di scena sparso attorno a lei e gli abiti per tornare in albergo appesi dietro la porta. La sua euforia si protrasse per qualche tempo, ma in solitudine cominciò ad affievolirsi. Che ora era? Quando terminava lo spettacolo serale il teatro si svuotava in fretta, e lei non sentiva più alcun rumore provenire dai corridoi esterni. Si alzò, raccolse e radunò le varie cose. Mancava di organizzazione. Chinandosi per prendere una cosa, ne sentiva un'altra scivolarle dalle braccia. Ma per quanto fosse tardi, non poteva lasciare la Stanza in disordine. L'indomani era domenica e significava un altro giorno di marcia, anche se al termine dell'esibizione di quella sera si era sparsa la voce di un altro ingaggio. Forse era quello il motivo per cui Whitlock incontrava la direzione del teatro nel suo abito migliore. Si vestiva per interpretare l'uomo d'affari, e con ogni probabilità intendeva negoziare un miglioramento nei termini del contratto. Compito che, in circostanze più normali, sarebbe toccato a Tom Sayers. Louise non sapeva che cosa pensare del prolungamento della rappresentazione. Non era poi così lontano dall'approfittarsi di una tragedia ed era una sensazione spiacevole. Ma la compagnia doveva pur guadagnarsi da vivere, e anche lei; senza lo stipendio, non aveva altri mezzi di sostentamento. Suo padre era morto lasciando la madre senza denaro né proprietà, ma con notevoli debiti. La signora Porter, abituata prima a comandare dei domestici tutti suoi, aveva preferito lavorare nelle cucine di una canonica che finire nell'ospizio per i poveri. Anziché seguirla a servizio, Louise aveva scelto di calcare le scene. La madre era preoccupata soprattutto della moralità del mondo che lei si era scelta. Come se nessuna cameriera fosse mai stata sedotta nel sottoscala, o nessun uomo di chiesa si fosse mai preso qualche distrazione!
E poi aveva scoperto che gli attori apprezzavano molto la chiesa; sembravano considerarla un campo affine alla loro arte. Nel silenzio del teatro, scese sino all'ingresso degli artisti. Si era vestita in fretta e furia e aveva ammassato i vari capi del costume nel cesto del teatro, pronto al trasporto. Qualcuno aveva fatto il giro per spegnere le lampade a gas, quindi lei reggeva quella a olio del suo camerino per farsi luce mentre camminava. Stava cominciando a temere che l'avessero chiusa dentro, invece il portiere la stava aspettando. «Il signor Caspar è uscito?» gli domandò. «Secoli fa» disse il portiere. «Stavo aspettando per chiudere.» «Scusatemi» ribatté Louise. «Ho perso la cognizione del tempo.» Il portiere non disse nulla e la sua espressione, quasi del tutto nascosta dietro dei baffoni enormi che gli invecchiavano il viso giovane, lasciava trasparire ben poco. Ma lei era convinta che dovesse aver intuito il suo segreto, e cercò di non arrossire mentre ne evitava lo sguardo. Gli porse la lampada a olio e uscì nel vicolo attiguo al teatro, mentre il portiere si fermava a spegnere le luci restanti per poi seguirla con il suo voluminoso mazzo di chiavi. Stava piovendo. Il lastricato del vicolo era lustro e lucente, e rifletteva le luci delle finestre del pub attiguo, pieno zeppo di clienti alquanto rumorosi... con ogni probabilità, quasi tutti si erano trasferiti lì dal teatro al termine dello spettacolo. Qualcuno le aveva detto che il proprietario aveva chiuso la saletta interna del bar e chiedeva un penny per entrare a vedere la scena del crimine. In fondo all'andito vide sostare un poliziotto con la mantellina da pioggia, e dietro di lui una carrozza a due ruote che l'aspettava per ricondurla alla locanda. Ringraziò il poliziotto della pazienza, e accampò la scusa di essere stata costretta a cercare un braccialetto perduto. Lui disse che non aveva alcuna importanza. Fece sloggiare un paio di passanti che indugiavano a guardare, e le diede il braccio per farla salire sulla vettura. In quel tipo di carrozza la cassetta del cocchiere si trovava in alto, alle spalle del passeggero, e lei si voltò a gridargli: «Perdonatemi, non ricordo l'indirizzo esatto. È la locanda della signora Mack. La conoscete?». L'uomo non parlò ma, per tutta risposta diede un colpo di frusta al cavallo, e mise inaspettatamente in moto la vettura. Lei fu colta di sorpresa e cadde malamente sul sedile; anche se era imbottito, per un istante si sentì mancare il fiato.
Immaginò che dovesse essersi irritato perché l'aveva fatto aspettare tanto a lungo. In ogni caso, non era quella la maniera. Procedevano a rotta di collo, quasi la strada sotto le ruote ferrate fosse una spiaggia sabbiosa, e non il lastricato o le rotaie del tram di una città industriale. Sballottata avanti e indietro, fu costretta ad aggrapparsi a una delle cinghie laterali; a essere sinceri, temeva che alla successiva rotaia, o sbandata e al successivo sobbalzo su un marciapiede potesse essere scaraventata fuori dalla vettura. «Cocchiere!» gridò alle sue spalle. «Che cosa state facendo? Rallentate, per favore!» Ma che lui l'avesse sentita o meno, non rispose. Mentre tagliavano per Liverpool Street, cominciò ad avere l'impressione che andassero a quella velocità perché il cocchiere non aveva pieno controllo delle redini. Lo sentiva gridare al cavallo, senza grandi risultati. Non rallentarono ai successivi incroci e riuscirono a malapena a sterzare quando si trovarono di fronte un tram notturno; lei ne udì il furente scampanellio mentre se lo lasciavano alle spalle, addentrandosi in vie più buie e meno popolate. Inutile dire che quella non era la strada per la locanda della signora Mack. Erano diretti in un quartiere di edifici industriali alti e bui, e viadotti ferroviari. Un treno sferragliava in alto mentre loro sferragliavano in basso, e all'ombra di un arco di mattoni illuminato da un unico lampione, il cocchiere riuscì finalmente a riprendere il controllo del cavallo e a farlo fermare. Louise avrebbe voluto saltar giù dalla carrozza prima che potesse ripartire, ma non riuscì a mettere in atto le sue intenzioni; restò pietrificata sul sedile e aggrappata alla cinghia della vettura, che cominciò a dondolare mentre il cocchiere fissava le redini e smontava da cassetta. Stava venendo a parlare con lei. Proprio il momento ideale per preoccuparsi della sua salute! A furia di scossoni poteva già essere morta, o scaraventata fuori in qualche angolo. La carrozza si inclinò quando il cocchiere mise il piede sul gradino e si alzò per guardarla in viso. «Louise» disse, abbassandosi la sciarpa da vetturino che gli copriva la parte inferiore del volto. «Sono io. Non aver paura. Tutto ciò che hai sentito dire non è vero.» Lei fissò l'uomo inorridita. Alla luce di quell'unico lampione, si palesò la sua identità. Tom Sayers. Lo credeva fuggito da tempo e invece adesso le stava accanto, e non c'era nulla che potesse proteggerla da lui.
«Stai lontano da me» si azzardò a dire, ma l'uomo salì in carrozza per raggiungerla sul sedile. Lei indietreggiò il più possibile finché non fu fermata dal bracciolo. L'uomo non parve neanche notare che lei si ritraeva, e continuò ad avvicinarsi dicendo: «Caspar è un degenerato, Louise. È lui l'autore di tutti i crimini di cui sono accusato, è stato lui a tendermi questo tranello. Non è un angelo che tu puoi salvare e soggiogare. È una bestia». «Voglio tornare indietro» disse lei. «Mi hai mai visto infrangere una promessa, Louise? O rimangiarmi la parola data? O dire una bugia quando la verità era scomoda? Riflettici bene adesso, perché è importante.» Aveva modi così appassionati, che lei non osava quasi azzardare una risposta. «Mai» disse lui. «Non è vero?» Lei annuì, con troppa foga. «Allora adesso ascoltami. Se mi permetterai di portarti via da quell'uomo e mi prometti che non tornerai da lui, verrò con te in una qualunque stazione di polizia della regione.» «Te ne supplico, Tom» azzardò lei a quel punto. «Per favore, lasciami andare.» «Non hai sentito nulla di ciò che ho detto?» «Sì» ribatté lei. «E mi credi?» Lei cercò di rispondere, e di dire ciò che lui poteva voler sentirsi dire. Ma era troppo tardi. Si era già reso conto che lei non gli credeva. «E allora, Louise?» le domandò. «Ti ho mostrato la verità. Che altro devo dire?» «Tom» esclamò lei. «Tutto il mondo sa che cos'hai fatto. Non vedi che ho paura di te?» Era chiaro che l'ex campione di pugilato non aveva considerato quell'eventualità. Per la prima volta, sembrava vedere la situazione con gli occhi di lei, quasi non fosse mai riuscito a immaginare che potesse crederlo colpevole. Finora. Sul volto dell'uomo si disegnò un'espressione di sgomento. Si ritrasse, alzando le mani per mostrarle che non voleva farle del male. «Capisco» esclamò. «Io avevo pensato che tu potessi...» ma non continuò la frase.
Disse invece: «Louise, qualunque cosa tu possa pensare di me in questo momento, per l'amicizia che una volta ci legava, promettimi che almeno ti terrai alla larga da lui». «Come posso promettertelo?» rispose lei. «Io lo amo.» Lui stava per dire qualcos'altro, ma si interruppe. Era come se le parole di lei si fossero posate prima di esplodere, cambiando di colpo, e per sempre, il suo mondo. Qualunque altra cosa avesse pensato di dirle, adesso non avrebbe contato più nulla. Girò la testa di lato, si guardò le mani e si strofinò distrattamente la fronte per un istante. Poi parve ricordare dove si trovava e fece per scendere dalla carrozza. Louise sprofondò leggermente... per la tensione e la paura era rimasta premuta contro la fiancata della carrozza, sollevandosi di qualche centimetro dal sedile. Avvertiva un senso di nausea e di debolezza. Era tardi, e avrebbe dovuto girare sola al buio per trovare soccorso, anche se non era nulla paragonato a ciò che avrebbe potuto affrontare altrimenti. Cercò di farsi forza per scendere dalla carrozza, ma sapeva che non avrebbe azzardato un solo movimento finché Sayers non se ne fosse andato; lo sentiva là fuori, camminare su e giù e farneticare ad alta voce nell'eco dell'arco del viadotto, parole che lei non riusciva a distinguere ma che lo confermavano un folle, come suggerivano le sue azioni. Era solo sicura di aver sentito un "no" angosciato all'inizio, poi ripetuto in tono sprezzante, quindi pronunciato di nuovo con determinazione mentre la carrozza tornava a dondolare sulle ruote; a quel punto capì che si era lasciata sfuggire l'occasione prima ancora di rendersene conto, e che Sayers stava di nuovo salendo in cassetta. Si domandò se ci fosse ancora tempo per un incauto balzo verso la salvezza, ma nell'istante in cui fece per muoversi la frusta tornò a sferzare il cavallo, che spiccò il volo come Pegaso. Louise non poté fare altro che tenersi aggrappata alla cinghia. Per un istante accarezzò la flebile speranza di aver toccato in qualche modo il cuore di Sayers, e che la stesse riportando alla luce e alla vita e alla salvezza della locanda. Ma mentre galoppavano nell'oscurità sempre più nera, lasciandosi alle spalle anche le fabbriche e le officine del gas, capì che le sue speranze erano infondate. Al bancone pubblico della stazione di polizia che serviva il distretto di Knott Mill a Manchester, un risentito vetturino esponeva il proprio reso-
conto al sergente notturno, osservandolo annotare scrupolosamente i dettagli sul registro delle denunce. Il sergente aveva la mano precisa, ma lenta. Del resto, le notti potevano essere molto lunghe. C'era di rado motivo di affrettarsi. «Ha preso qualcos'altro?» disse il sergente. «Cos'altro c'era da prendere?» disse il vetturino. «Mi ha preso carrozza, cavallo, cappello e sciarpa.» «Che aspetto aveva?» «Non lo so.» «L'avete visto, vero?» «Mah, che cosa posso dire? Ordinario.» Con quelle parole, il vetturino si indicò lo zigomo. «Con una vistosa escoriazione proprio qui.» Per qualche ragione, quelle parole attirarono l'attenzione del sergente. «Davvero?» «Davvero.» «Restate qui» disse il sergente, e scomparve nel retro. Il vetturino appoggiò il gomito al bancone e si guardò intorno. Dietro di lui c'era una panca di legno, su cui sedeva un gruppo ben assortito di loschi figuri che sembravano radunati lì per un motivo oscuro. Nessuno era pulito, e quasi tutti erano sdentati. Due sembravano reduci da una rissa, forse persino tra loro. Tutti sedevano in silenzio. Nessuno aveva l'aria abbastanza intelligente da annoiarsi. Il sergente ricomparve con una copia sgualcita dell'ultima edizione del «Manchester Evening News», che sbatté sul bancone di fronte al vetturino. Il giornale era aperto e piegato sull'articolo relativo all'arresto per omicidio e alla fuga sensazionale dell'ex campione di pugilato Tom Sayers, negli ultimi tempi membro della compagnia teatrale viaggiante di Edmund Whitlock. Il pezzo a tre colonne era corredato da un'incisione di Sayers ai tempi degli incontri di boxe, petto nudo, pugni sollevati, capelli impomatati, peso poggiato sul piede posteriore. Il vetturino guardò la foto e quindi guardò il titolo sulle colonne vicine. «Santo cielo!» esclamò. «Seguitemi» disse il sergente. Diciotto Sebastian fu svegliato di buon ora da qualcuno che bussava con insistenza in qualche punto della casa, e quindi da un parlottio in strada proprio
sotto la sua finestra. Quando scese dal letto a lui non familiare e si affacciò, intravide due uomini in divisa fermi sulla soglia a parlare con il suo padrone di casa. Lasciò la finestra, prese i pantaloni e li indossò in tutta fretta. Un paio di minuti più tardi, stava scendendo le scale, vestito come chi ha per sarto il banco dei pegni. Era a casa di Thomas Bertorelli, un agente del dipartimento investigativo presso cui alloggiava. I Bertorelli erano al momento senza pensionanti, ed erano lieti di arrotondare le entrate. Il loro letto degli ospiti era bitorzoluto, le coperte pesanti, la stanza opprimente; la signora Bertorelli era giovane e una pessima cuoca. Sebastian si era sentito a casa. Mentre scendeva le scale, Bertorelli si guardò intorno. La casa era troppo piccola per avere un atrio. Le scale scendevano al centro dell'abitazione fra la stanza davanti e quella sul retro, così ampie da lasciare in mezzo un breve corridoio. La porta principale dei Bertorelli si apriva direttamente sulla strada. Bertorelli attese che Sebastian si fosse avvicinato per poter parlare sottovoce. «Ieri notte una delle attrici non è tornata alla locanda. Pare che Sayers l'abbia rapita su una carrozza rubata» disse. «E il nostro agente appostato a teatro?» «Non l'ha riconosciuto.» Sebastian riuscì a trattenere un'imprecazione. «C'è di più» disse Bertorelli, accennando con il capo agli uomini in attesa. «Stiamo radunando un gruppo d'assalto. I due sono stati localizzati.» «Dove?» «Appena fuori città, nella sala d'attesa di una stazione secondaria. Sayers crede di poter continuare a farci fessi superando i confini. Ma noi li prenderemo prima che i poliziotti metropolitani della contea s'infilino gli stivali.» «Quest'attrice,» disse Sebastian «l'ha seguito di sua spontanea volontà o no? Intendo dire, la donna è sua vittima o sua complice?» «Secondo il datore di lavoro, Sayers nutriva per lei un affetto non ricambiato. Pensaci, Sebastian. La ragazza non si trova in una bella situazione.» Nel giro di qualche secondo Sebastian era già pronto a mettersi in marcia. Bertorelli s'infilò il soprabito e tenne la cravatta in mano, per annodarsela in un secondo momento.
Prima che Sebastian lasciasse l'atrio, la giovane moglie di Bertorelli comparve dalla cucina e gli mise qualcosa tra le mani; lui abbassò lo sguardo e vide che era una fetta di pane, generosamente spalmata di burro e marmellata. «Grazie» disse con sincero apprezzamento, quindi imboccò la strada con il marito al seguito degli uomini in divisa. Era un'ampia strada acciottolata costeggiata da case a terrazze. Cinque anni prima c'erano solo campi e prati, ma dopo la costruzione del cotonificio e delle stamperie locali, poco meno di tre ettari di terreno erano scomparsi sotto mattoni e pietre. In fondo a quella strada c'era un'altra traversa, e a ogni angolo sorgevano negozi e pub. Mentre i quattro uomini procedevano rapidi, avvistarono un carro da trasporto della polizia. Aveva i portelli posteriori spalancati, e gli agenti già seduti sopra gridavano e li chiamavano. Il carro rallentò, ma senza fermarsi del tutto. Sebastian e gli altri furono costretti a salire sulla vettura in movimento. Delle mani lo afferrarono per le spalle e lo tirarono in fretta all'interno. Non attesero che fossero seduti; appena tutti furono a bordo, i cavalli vennero spinti al trotto e Sebastian dovette aggrapparsi alla spalla di un uomo per non cadere. Tutti si scostarono per fare posto agli altri, e lui si lasciò cadere sulla panca con la sua colazione miracolosamente intatta in mano. Adesso che erano tutti sul carro, l'agente a capo del cosiddetto "gruppo d'assalto" spiegò che cosa ci si aspettava da loro. Nel carro, oltre a sé e a Bertorelli, Sebastian contò dieci uomini. Uno aveva l'occhio pesto, e almeno due sfoggiavano altri segni di percosse. A parte il capo, tutti gli agenti si erano presentati in disordine e non sbarbati, cosa che avrebbe sollevato una marea di critiche in condizioni di servizio normali. Il capo aveva la barba folta e scura e la riga in mezzo. «Un segnalatore ferroviario stava andando al lavoro in bicicletta di prima mattina» disse. «Nel viottolo dietro la stazione, è passato accanto a una carrozza e a un cavallo incustoditi. La carrozza era vuota e il cavallo pascolava fra le erbacce sul ciglio della strada. L'ha trovato insolito. Una carrozza privata abbandonata sarebbe già stata una stranezza, ma una carrozza cittadina, così lontana dalla città... insomma, quando ha raggiunto il casello di segnalazione, ha telegrafato alla centrale per riferirlo. Quando ci è arrivata la notizia, l'abbiamo rispedito a controllare il numero di targa della carrozza. E a quel punto il capostazione gli ha detto che in sala d'attesa c'erano un uomo e una donna, già presenti al suo arrivo. La
targa della carrozza corrisponde a quella rubata da Sayers.» «Si nascondono? O hanno intenzione di viaggiare?» domandò Sebastian. «Nessuno sa dirlo.» L'agente estrasse l'orologio da tasca. «Secondo l'orario domenicale, il primo treno dovrebbe passare all'incirca adesso. Ho ordinato al segnalatore di trattenerlo finché non arriviamo noi.» Viaggiavano in direzione ovest, verso le città cotoniere e le comunità di minatori che segnavano il margine di diffusione dello sviluppo urbano. Lì il futuro stava arrivando tutto d'un colpo, canali e ferrovie, fabbriche e aziende che spuntavano dalla terra verdeggiante come macchine da guerra di un qualche invasore. Era come se lo stesso spazio fosse occupato da due diverse realtà: era come se una persona vivesse nei bassifondi della città e si recasse alla sua giornata di dodici ore attraversando i campi fra le mucche al pascolo. Nell'ultima parte del viaggio, Sebastian divise la colazione con Bertorelli, e fece attenzione a non macchiarsi gli abiti nuovi. I suoi si erano rovinati quando era caduto in acqua. Avevano dato un'occhiata nel deposito dei costumi di scena senza trovare nulla di adatto a lui, ed ecco perché al momento indossava il vestito della domenica di uno sconosciuto, preso a un banco dei pegni dietro l'angolo. Del tutto appropriato, visto che era domenica mattina e presto le campane della chiesa avrebbero cominciato a suonare. L'uomo con l'occhio pesto incrociò lo sguardo di Sebastian, e sogghignò. «Non vi preoccupate» disse. «Questa volta se ne buscherà tante quante ne ha date.» «Non capisco» ribatté Sebastian. Il capo, seduto nell'angolo opposto del carro con le braccia conserte, esclamò in tono brusco: «Mi è giunta voce che qualcuno di questi ragazzi ha pensato bene di portare Sayers nel cortile per tentare la fortuna in un incontro di boxe. E la sfida è stata più competitiva di quanto si aspettavano.» «Il nostro ospite non approva» ribatté uno degli altri, notando l'espressione di Sebastian. «Il nostro ospite dovrebbe ricordare che si trova molto lontano da casa sua» mormorò un altro. Il segnalatore li attendeva in fondo al viottolo. Aveva lasciato il suo apprendista nel casello a presidiare le leve di scambio e ad ascoltare i messaggi, mentre lui se ne stava lì con la sua bicicletta a controllare la strada. I poliziotti scesero dal carro, e il capo ebbe un breve consulto con il ferro-
viere per poi voltarsi a chiamare Bertorelli. «Prendi quattro uomini e segui il segnalatore» disse. «Vi mostrerà un sentiero che attraversa i binari e conduce dall'altra parte della stazione. Una volta sul posto, disperdetevi in modo da accerchiare Sayers. Qualunque cosa succeda, adesso è in mano nostra. Perciò non mettete in pericolo la donna.» Quindi si rivolse a Sebastian. «Voi restate vicino a me» disse. Bertorelli e i suoi uomini attraversarono i binari e scomparvero nel bosco sul lato opposto. Gli agenti in divisa impugnarono i manganelli e il capo estrasse un piccolo revolver, che verificò e caricò. Sebastian non aveva armi. Invitati al silenzio, si misero in marcia sul viale in fila per uno: il capo in testa, Sebastian dietro di lui, e gli agenti in divisa di seguito. L'unico rumore era il canto degli uccelli. Dopo circa duecento metri, raggiunsero la carrozza abbandonata e il cavallo al pascolo. Il cavallo non li degnò di attenzione. Gli avevano tolto le tirelle, ma non se n'era andato in giro. Il sole del mattino splendeva fra i rami sopra di loro, uno scenario di assoluta serenità bucolica. Oltre la stazione sorgeva uno steccato dipinto di bianco. L'edificio di quella stazioncina di campagna era di legno tinteggiato, e aveva un'aria vagamente alpina con quel tetto profilato d'intagli e i tendoni sui binari. Le sale d'attesa e la biglietteria erano ospitate in un unico lungo edificio, e una passerella di ferro portava a un secondo binario all'estremità opposta della ferrovia. Mentre il capo e gli altri agenti procedevano a varcare il cancello all'estremità opposta, Sebastian rimase indietro. Per adesso non doveva ancora accadere nulla; dovevano dare tempo a Bertorelli e ai suoi uomini di appostarsi, in caso Sayers tentasse di attraversare i binari e dileguarsi fra i campi e nei boschi. Sebastian non era certo soddisfatto di ciò che aveva sentito durante il viaggio. Giustizia sommaria, violenza contro un detenuto... e poi? Linciaggi pubblici e ordalie? Era una condotta degna del Medioevo, e lui non vi avrebbe preso parte. Non importava che fosse molto lontano da casa. Se fosse riuscito ad arrestare Sayers prima che lo raggiungesse qualcuno degli altri agenti, l'avrebbe fatto. Rimasto solo, scavalcò lo steccato, con cautela e senza far rumore. Salì su un'aiuola per raggiungere l'angolo dell'edificio e sporgersi a vedere che
cosa succedeva sul binario. Quando lo fece, raggelò udendo delle voci vicine. «È in ritardo» sentì dire a Sayers. Sebastian azzardò uno sguardo, sporgendosi di un paio di centimetri e pronto a ritrarsi. Il campione di pugilato era sul bordo del binario, intento a fissare le rotaie che si curvavano inoltrandosi nelle campagne oltre il casello di segnalazione a circa mezzo chilometro di distanza. La giovane attrice era accanto a Sayers; lui la tratteneva per il braccio vicina a sé, come per impedirle di scappare. Sebastian pensò di averla già vista nella locanda, ma non poteva esserne sicuro. Unica cosa certa, era pallida come una morta. Le parole della donna furono una sorpresa per lui. «Ti prego, Tom» la sentì dire. «Lasciami parlare per te. Posso raccontare la tua storia alla polizia. Forse posso convincerli come tu hai convinto me.» A quel punto Sayers ribatté qualcosa che Sebastian non riuscì a udire. «E invece adesso so che è vero» disse lei. «Il colpevole è James Caspar e ha costretto il nostro datore di lavoro a stringere un patto segreto con lui. Posso Spiegare ogni cosa. Non mi permetterai di parlare in tua difesa?» «Come posso farlo?» rispose Sayers. «Sapendo in quale pericolo ti metterei? No, Louise. Preferisco vederti in salvo.» «Ma adesso mi hai avvertito del pericolo» disse lei. «Saprò come proteggermi.» In quel momento, si udì un suono lungo la ferrovia. Il fischio di un treno. Poi la locomotiva in avvicinamento fu segnalata da un pennacchio di fumo bianco che si spostava nel cielo azzurro. Quasi subito dopo, si profilò alla vista la vettura. In seguito avrebbero saputo che l'apprendista segnalatore aveva preso in parola il suo capo, sul fatto di "trattenere il treno sino all'arrivo della polizia". Guardando dalla finestra del casello e vedendo degli uomini in divisa radunati al cancello settentrionale della stazione, l'aveva preso come un invito ad azionare il segnale e a lasciar passare il treno. Per Sebastian era una sgradita complicazione, ma non necessariamente disastrosa. Adesso avevano in pugno Sayers. Anche se fosse riuscito a salire sul treno, loro avrebbero potuto convergere e acciuffarlo lì. Ma Sebastian non aveva alcuna intenzione di lasciarlo salire a bordo. Sayers gli voltava le spalle, gli occhi fissi sulla locomotiva che entrava in stazione.
Sebastian si fece coraggio e si apprestò a uscire dal nascondiglio. Se fosse riuscito a giungere alle spalle di Sayers non visto, avrebbe potuto inchiodargli le braccia. A quel punto sarebbero accorsi il capo e gli altri agenti, e tutto sarebbe finito in fretta, senza ricorrere alla violenza e senza spargimenti di sangue. «Ti prego, Tom» disse la donna. Sayers la guardò. «Mi credi davvero sincero?» ribatté. «Tom» esclamò lei. «Non conosco uomo più sincero al mondo.» Sayers parve accorgersi di farle male al braccio. Adesso Sebastian aveva lasciato il nascondiglio, ma Sayers non l'aveva ancora visto. «Perdonami» disse Sayers alla ragazza, lasciando la presa. A quel punto, senza alcun preavviso, lei gli diede un brusco spintone e lui vacillò all'indietro, e perse l'equilibrio. Cadde sul binario, dritto di fronte al treno in arrivo. Diciannove A Sayers parve di cadere con grazia, ma di atterrare malamente. La massicciata si trovava un metro e mezzo circa sotto il binario, una buia fossa di pietrisco misto a olio e carbone. Solo i binari erano puliti, e ridotti al nudo metallo dall'usura. Atterrò con il viso a pochi centimetri dalle traversine; rotolò per un secondo nel tratto compreso fra i binari, quindi sprofondò nell'oscurità inondato di vapore, nel fracasso assordante dell'acciaio sull'acciaio quando la locomotiva gli passò sopra. Inevitabilmente, atterrò sul braccio ferito. Avrebbe potuto gridare e nessuno l'avrebbe sentito. Cercò di raggomitolarsi il più possibile per non rischiare di toccare le ruote; erano enormi, e avrebbero mozzato con estrema facilità qualsiasi parte del corpo fosse finita sotto di loro. Sopra di lui passarono l'assale e il telaio, sputando grasso e vapore mentre il treno rallentava sino a fermarsi. Prima la locomotiva, subito dopo il carro scorta con il carbone e, infine, a un po' più di distanza dal suo corpo, il primo vagone passeggeri. Il vapore continuava a mulinargli tutt'attorno, spinto dalla pressione sulle rotaie e sotto la carrozza. Lui era rimasto illeso sotto il treno, ma non era stata qualche dote particolare a salvarlo dalla decapitazione o dalla mutilazione: era stata pura fortuna. Sentiva voci, grida, confusione incalzante. E con gli occhi della mente vide l'espressione sul volto di Louise, catturata nella sua memoria come
dal lampo di un fotografo. La sua era stata tutta una commedia. In quelle ultime dodici ore aveva recitato per salvarsi la vita; o, quanto meno, così doveva aver pensato. L'aveva indotto con l'inganno a credere di averla convinta. Lui aveva pensato di averla quasi conquistata e invece, sin dal primo momento, lei aveva giocato con la sua fiducia in attesa dell'occasione propizia. Strisciò carponi sotto il vagone passeggeri e si trovò all'aperto, al centro della massicciata. Adesso il treno si frapponeva fra lui e il binario. Per il momento, non poteva tornare indietro. Da là sotto, la carrozza sembrava enorme, un muro invalicabile. Stavano gridando il suo nome. Chi conosceva il suo nome? Ed erano fischi di poliziotti quelli che sentiva? Sayers si voltò e attraversò la seconda fila di rotaie vuote sino alla banchina opposta. Vi salì sopra spiccando un salto e arrampicandosi, quasi sempre usando il braccio buono. Mentre si alzava, udì delle grida di risposta dal bosco vicino. Loro erano lì, e lui era circondato. Quasi. Si guardò alle spalle, e vide delle facce incuriosite fissarlo dai finestrini del treno. Con ogni probabilità le persone sul binario ipotizzavano che fosse là sotto, maciullato o moribondo. Ma presto avrebbero appreso la verità, e sarebbe bastato correre a spalancare i portelli delle carrozze per arrivare a lui. Non c'era tempo da perdere. Louise, per lui, era perduta. Non restava altro che correre. E così attraversò di corsa l'intera massicciata, saltò uno steccato di paletti e si trovò nella sterpaglia dall'altra parte, per poi discendere un terrapieno sino a raggiungere un campo aperto. Doveva dimenticarla. Doveva dimenticarsi di quello sguardo. Adesso doveva pensare solo a se stesso. Altrimenti lo avrebbero catturato. Si fermò un istante a scrutare il paesaggio. Alle sue spalle c'erano la stazione e il bosco. Davanti a lui i campi aperti. All'estremità opposta del campo più vicino si estendeva una strada carreggiabile che più avanti incrociava il terrapieno della ferrovia, valicandolo tramite una galleria di mattoni. Sayers partì per raggiungere la galleria, correndo con tutto il fiato che aveva per non farsi vedere. La strada era accidentata e fangosa, la galleria più alta di una casa ma a malapena più larga di un carro. Nei pochi secondi che impiegò ad attraversarla sentì riecheggiare i propri singhiozzi irregolari sino alla volta.
Era sbigottito. Singhiozzava? Di nuovo all'aria aperta, si fermò e cercò di ricomporsi. Così non andava. Si asciugò gli occhi con la manica e cominciò a camminare lentamente finché il respiro non si stabilizzò. Adesso si trovava su una stradina cintata, e dinanzi a lui c'era un crocevia. Si mise a correre con cautela. Non aveva idea di quanto potessero essere vicini i suoi inseguitori. Raggiunto il crocevia, piegò a destra. Dopo un po' la stradina cominciò a salire e quando lui vide che culminava nell'aia di una fattoria, la lasciò per tagliare dalla brughiera. Da un'altura, si fermò a guardare la vallata che si era lasciato alle spalle. Si aspettava di vederla brulicante di uomini schierati in una lunga fila, intenti a inerpicarsi in tutta rapidità su per i pendii, al suo inseguimento. E invece non c'era nessuno. Per via degli alberi non riusciva a scorgere la stazione ferroviaria, ma distingueva i binari e i campi che aveva attraversato. Laggiù, molto più in basso, si muoveva una sparuta manciata di uomini, una dozzina o forse anche meno, figurine minuscole che procedevano a rilento dalla parte sbagliata. A quella visione si sentì leggermente risollevato e si volse per riprendere a camminare. Dopo due ore o forse più, aveva il fiato sempre più corto e gli girava la testa. Bevve da un ruscello e fu assalito dalla fame. Da più di un giorno non mangiava nulla, a parte una tortina che aveva acquistato con dei penny trovati nella tasca del cappotto rubato. La giornata intanto trascorreva, il cielo tornò a oscurarsi e, qualche tempo dopo, cominciò a piovere. Quando s'imbatté in un casale abbandonato, si mise al riparo in attesa che la pioggia cessasse. Il vecchio casale non aveva più porte né finestre, e neanche parte del tetto. Ma le travi erano intatte, come gran parte dei piani superiori; tanto bastò a tenerlo all'asciutto. Era disabitato da anni, e sembrava utilizzato solo dalle pecore. In quello che era stato il salotto, qualche agricoltore aveva scaricato, come mangime invernale, un sacco di rape. Ormai erano quasi tutte marce. Sayers ne trovò una sana e azzardò un morso, ma la risputò subito. Forse bollendola un'ora o due sarebbe diventata commestibile. Ma lui non aveva niente con cui bollire l'acqua e, nel caso, nulla per accendere un fuoco. Il panorama era del tutto desolante. Se Sayers aveva un piano, era quello di spostarsi verso sud. Là dove era adesso di sicuro aveva pochi amici, e il clamore delle accuse a suo carico
di certo non si sarebbe placato in breve tempo. Avrebbero continuato a guardare con sospetto ogni forestiero solitario. Più fosse andato distante, più si sarebbe allontanato dai pensieri della gente comune. Se fosse riuscito a spingersi sino a casa sua a Brixton senza farsi notare, avrebbe recuperato un po' di denaro e qualche oggetto di valore nascosti sotto le assi del pavimento. Il gruzzolo di Tom Sayers. Dopo un po' la pioggia cominciò a farsi meno insistente. Quando infine cessò, scrutò il cielo e decise che, se non avesse lasciato la brughiera subito, vi sarebbe rimasto bloccato per tutta la notte. Non era una prospettiva allettante. E neanche quella di rubare cibo e dormire all'addiaccio, ma era preferibile che non restare lì dov'era. Si era reso conto che le pecore non usavano quel casale solo per mangiare e ripararsi... Ci sarebbe voluto un bel po' per liberarsi dell'odore. Si alzò il bavero e prese a risalire la collina scegliendo un'altra stradina oltre il cancello di un muro di cinta. Era un sentiero ben battuto che, dopo un tratto, lo portò in vista di un villaggio: qualche fila di case, dietro cui svettava la torre di una miniera di carbone. Dalle dimensioni, sembrava un villaggio cresciuto attorno a una miniera di proprietà di una sola famiglia, un villaggio che non poteva espandersi oltre; i minatori del carbone vivevano in casette rustiche con moglie e figli, e un emporio, una scuola e una cappella metodista assolvevano ampiamente alle loro necessità. Era troppo sperare in un letto per la notte. Anche se gliene fosse stato offerto uno, sarebbe stato troppo rischioso. Ma forse avrebbe potuto lavorare per mangiare, prima di sgusciare nell'oscurità a cercarsi un granaio o qualcosa di simile. Doveva pur correre qualche rischio, altrimenti sarebbe morto di fame. E, con ogni probabilità, mostrare la faccia in quel posto non era più pericoloso che altrove. Con quell'idea in mente entrò nel villaggio minerario passando dalla periferia, superando file e file di fazzoletti di terra e piccionaie dietro una delle strade. Nel villaggio c'erano un emporio, un pub e una piazza principale. La cappella era l'edificio più imponente della piazza e vi svettava di fronte un monumento. Sayers non avrebbe mai saputo quale tragedia o calamità commemorasse quel monumento, ma si fermò quando vide tutti quegli uomini radunati lì intorno. Davanti a lui brulicava un esercito di poliziotti e ispettori speciali. Alcuni erano senza casco, e quasi tutti avevano in mano delle tazze di tè. Erano
stati allestiti dei tavoli improvvisati per servirli. Le donne del posto porgevano dei tramezzini e parecchi minatori come volontari, in basco e fazzoletto di seta, si davano da fare anche loro, armati di bastoni e manici di piccone. Un uomo era seduto a fianco dell'abbeveratoio pubblico, intento ad arrotolarsi le mollettiere alle caviglie. Alle spalle di tutti si apriva l'ingresso della sala della trivella, con le porte spalancate e le luci accese all'interno. Ne uscivano alcuni poliziotti impegnati a studiare ordini scritti, mentre dei funzionari in giacca marrone e bombetta portavano dentro scatoloni e fasci di mappe legate con il nastro. Senza accorgersene, Sayers era finito in un posto che, nel corso delle ultime ore, si era trasformato in un campo base per una caccia all'uomo: la sua. Erano tutti così impegnati dalle attività relative a quella caccia che nessuno aveva ancora notato la sua presenza. Un pensiero perverso gli attraversò la mente. Avrebbe osato farsi largo tra la folla per prendere dei tramezzini? Purtroppo no. Quello non era un romanzo di avventura. Erano a rischio la sua libertà e la sua vita. Indietreggiò all'ombra di un muro e, attento a non compiere mosse affrettate che potessero attirare l'attenzione, si voltò per andarsene. Nel giro di tre o quattro falcate, era di nuovo al riparo dalla vista. Stava imparando: non correva. Tornò a superare la zona dietro le case. D'improvviso, mentre passava accanto alle piccionaie, parecchi uccelli presero a sbattere le ali spaventandolo. Si diede un'occhiata alle spalle, ma nessuno l'aveva seguito. Aveva creduto di essere in salvo. E invece non lo era. Quegli uomini alla stazione erano stati solo l'inizio. La mente si arrovellava su quel pensiero. Non era un criminale, e non poteva cominciare a pensare come tale. Le campagne inglesi potevano anche essere vaste, ma i suoi inseguitori disponevano di mappe, uomini, e metodo, mentre lui non aveva niente. Il suo unico pensiero era quello di continuare ad allontanarsi. Nel giro di un'ora o anche meno, avrebbe fatto buio. La ricerca poteva anche fermarsi per la notte, lui no. Se avesse gettato la spugna, l'avrebbero impiccato. Prima che ciò accadesse poteva anche trascorrere qualche tetra settimana di attesa, ma prima o poi sarebbe successo. Degli sconosciuti gli avrebbero legato mani e piedi, messo un sacco in testa, una corda sul sacco, e quindi l'avrebbero fatto cadere con tale violenza da spezzargli l'osso del collo. Lui avrebbe potuto raccontare la sua storia quanto voleva, e loro l'avrebbero ignorata, proprio
come aveva fatto Louise. E quando avessero scaricato i suoi resti in terra sconsacrata, Dio si sarebbe girato dall'altra parte. Per Tom Sayers, la speranza nella giustizia non era affatto una speranza. Adesso era tornato nel punto da cui aveva avvistato per la prima volta il villaggio minerario. Dopo qualche istante si fermò e si voltò a controllare se era inseguito. Mentre la luce del giorno svaniva in un blu sempre più profondo, alle finestre cominciavano a comparire delle calde luci. Le luci di casa. La casa di qualcuno, anche se non la sua. Quelle luci distanti iniziarono a offuscarsi; era sempre più stremato, i suoi sensi non erano più desti. Quella gente doveva aver battuto le campagne circostanti per tutto il pomeriggio; era stata la pura incoscienza a proteggerlo mentre penetrava nelle loro linee. O forse Dio non ce l'aveva proprio con lui come aveva immaginato. Possibile? Rincuorato da quel flebile barlume di speranza, si voltò per ripartire. Ma non poteva. Gli sbarrava la strada un cavallo bianco. Batté le palpebre per liberarsi da quell'allucinazione, ma il cavallo non se ne andava. In sella c'era James Caspar. Erano comparsi dal nulla. Non li aveva sentiti avvicinarsi. «Sei lì fermo da dieci minuti» disse Caspar. «Pensavo non ti muovessi più.» Dieci minuti? Esagerava. Era sicuro d'essersi fermato per qualche secondo al massimo. Ma si era fatto notevolmente buio. D'improvviso non era più sicuro di nulla. Restò immobile, disorientato e probabilmente esausto, mentre Caspar si avvicinava sul suo bianco destriero. Era impeccabile nel suo pesante completo di tweed da cavallo, come se il costume per la parte fosse un elemento significativo nello spettacolo di quella caccia all'uomo. Ed era anche un cavaliere sorprendentemente abile, faceva compiere al cavallo dei piccoli passetti laterali come in una gara di dressage, senza quasi dare l'idea di guidarlo. «Mi sono offerto volontario per collaborare» disse. «Che altro può fare un buon cittadino? Edmund si è offerto di assoldare una muta di cani per scovarti.» Abbassò una mano sulla spalla del cavallo. «Ma non credo che ce ne sarà bisogno, e tu?» Tornò a raddrizzarsi e, da una fondina da sella vicino alla gamba, estrasse un fucile dall'aria pregiata. Sayers non si mise a correre. Non fece un solo movimento. Era come se, alla fine, avesse esaurito tutta la paura e la forza. Caspar allungò il braccio
e gli puntò contro il fucile da meno di un metro e mezzo di distanza. Era un'arma bellissima, con il calcio in noce verniciato e il castello con le incisioni a fiorami. La canna era ferma, e gliela puntava in mezzo alla fronte. «Potrei portarti al villaggio e consegnarti alla polizia» disse Caspar. «Ma chi può dire che non ti lasceranno scappare di nuovo? Sono del tutto inefficienti.» Senza cambiare mira rivolse qualche invisibile cenno al cavallo, che fece due passi laterali, avvicinandosi di più. «Stavo giusto pensando a un appellativo per definirli e, sai, mi è appena venuto in mente» continuò Caspar, tendendosi un po' in avanti. Sayers sentì premergli sulla fronte il freddo anello metallico della canna del fucile, che gli spinse leggermente indietro la testa. «Decerebrati!» disse Caspar in tono raggiante, e premette il grilletto. Oltre al sussulto del cavallo, fu il movimento iniziale del dito di Caspar sul grilletto a segnalare le sue intenzioni. Sayers reagì nello stesso istante. Diede un colpo alla canna verso l'alto e l'arma fece fuoco sopra la sua testa. Ne percepì il calore e, per qualche istante, rimase del tutto assordato. Nel silenzio, vide il cavallo bianco impennarsi e girare su se stesso mentre Caspar si sforzava di controllarlo, con il fucile che adesso faceva da zavorra. Sayers sentì la terra tremare sotto i piedi, mentre il cavallo scalciava nel tentativo di disarcionare il cavaliere, per poi tornare a impennarsi, questa volta gettandolo al suolo. Quando Caspar si staccò dalla sella non si limitò a cadere, ma sfrecciò verso terra come se volasse. Rimbalzò, rotolò su se stesso e rimase immobile. Il tutto senza alcun rumore. Sayers andò a raccogliere il fucile caduto. Il cavallo bianco era indietreggiato a una certa distanza e si era fermato, scuotendo la criniera e aggirandosi con aria disorientata. Caspar, altrettanto stordito e disorientato, era ancora a terra ma stava cercando di muoversi. Sayers si portò una mano a un orecchio, pensando di scoprirvi del sangue, e invece comprese che stava per tornargli l'udito. Caspar, a quanto pareva, se l'era cavata molto peggio. Sayers gli girò intorno a debita distanza. Era rotolato su se stesso e stava cercando di strisciare. Ma era piegato a metà, in una posizione preoccupante e orrenda a guardarsi. «Caspar!» disse Sayers, accucciandosi di fronte a lui. Nonostante le ferite, Caspar stava riuscendo a trascinarsi in avanti. Uncinava la terra con le dita. «Caspar,» continuò lui «hai la schiena spezzata. Non muoverti, peggiorerai la situazione.»
Ma Caspar sembrava non sentire. A dire il vero, sembrava non accorgersi più della presenza di Sayers. Come se per lui contasse solo tornare strisciando al villaggio minerario. Si muoveva con spasmi acuti e improvvisi, le unghie si spezzavano sulle pietre, il corpo deformato si trascinava come un peso morto. Sayers fu costretto a indietreggiare mentre Caspar riusciva a darsi un'altra spinta e ad avanzare. «Caspar» ripeté in tono d'impotenza. Era dibattuto fra il sollievo per la caduta del nemico e lo sgomento per le sue condizioni. Mentre si contorceva, Caspar diceva qualcosa. Alle orecchie malconce di Sayers le parole giungevano indistinte, ma il tono era supplichevole. Le ripeteva di continuo. «Cartaphilus!» sembrava implorare. «Ahasuerus!» gridava con la voce di chi è stato abbandonato o tradito. «Che cosa?» domandò Sayers. «Che cosa stai dicendo, Caspar?» «Salathiel!» Ghermì di nuovo la terra e fece un altro possente sforzo per trascinarsi in avanti. Quel tentativo parve scemare prima di essere portato a termine. Caspar non era morto del tutto, ma come un macchinario alla fine della carica, si limitò a fermarsi. Rimase sdraiato a terra con l'espressione immutata e gli occhi spalancati. Sayers posò il fucile. Con cautela, quasi potesse tornare a far fuoco senza volerlo. Giù, al villaggio minerario, dovevano senz'altro avere udito quella prima esplosione, e difficilmente l'avrebbero ignorata. Se si fosse trattenuto lì, tutto sarebbe finito nel giro di pochi minuti. Un altro delitto capitale da aggiungere alla sua lista di crimini. Ma che cosa poteva fare? Aveva corso per due giorni e una notte e, per giunta, dopo essersi battuto per fuggire dal carcere. Non poteva più correre. Avrebbe potuto provarci, ma quelli l'avrebbero raggiunto in meno di due chilometri. A meno che non ci fosse un'altra soluzione. Qualcosa di ovvio che gli sfuggiva. Alzò lo sguardo dal cadavere di James Caspar e lo posò sul cavallo bianco che si agitava scontento a qualche decina di metri sulla stradina, tutto sellato e pronto a galoppare. «Ehi, amico» disse. «Perché non vieni qui?» Tese una mano rassicurante all'animale mentre si avvicinava. LONDRA
DICEMBRE 1888 Venti «La fede,» disse una volta Bram Stoker «si trova più spesso a teatro che non in chiesa.» E in quell'ultimo decennio del diciannovesimo secolo, Londra non offriva tempio delle arti più illustre del Royal Lyceum, che sorgeva poco lontano dall'arteria dello Strand. Preso in affitto dal capocomico Henry Irving una decina d'anni prima, era ormai la cosa più vicina a un teatro nazionale di quanto la nazione avesse mai visto. Era il sabato sera dell'ultimo dell'anno, nonché la prima del Macbeth di Irving. Era la seconda volta che interpretava quel ruolo, ed era la rappresentazione per cui, qualche mese prima, aveva portato la sua compagnia a nord del confine in cerca di scenari e atmosfere adatte. Stoker sostava al centro della platea vuota e chiamava tutte le maschere per nome, ricevendo l'eco delle loro risposte dalle postazioni che occupavano sui diversi piani del teatro. Questo perché tutti sapessero riconoscere la sua voce, in caso avesse dovuto impartire istruzioni in situazioni di emergenza. Ma in quell'enorme e buio spazio d'attesa, quella voce esprimeva qualcosa di ulteriore: come in un rituale, pareva evocare un mistero trascendente. Al termine dell'ispezione del teatro, Stoker si spostò nell'atrio superiore. Indossava l'abito da sera, ed era sua consuetudine, in occasione di ogni prima del Lyceum, piazzarsi in cima allo scalone rivestito di tappeti e salutare i più prestigiosi patrocinatori della serata man mano che salivano. Alle diciannove e trenta in punto, le porte di Wellington Street si aprirono ed entrarono loro: elegantissimi, ingioiellati, animati dall'eccitazione di una prima. All'esterno del teatro, i tre bracieri del portico in stile corinzio gettavano una luce baluginante sulla folla in attesa e sulle carrozze in arrivo. La rumorosa galleria e l'ancor più rumorosa platea cominciarono a riempirsi. Nella prima galleria e nei palchi, i londinesi illustri, perbene, o semplicemente di natali fortunati presero posto sotto l'alto soffitto dorato della sala. «Signor Archer» disse Stoker. «Signor Stoker» ribatté il critico del «World». «Ho sentito dire che, finalmente, il vostro datore di lavoro comincia ad ascoltare il consiglio che
continuiamo a dargli tutti.» «Dovreste sapere che il signor Irving ascolta tutte le opinioni sincere» rispose Stoker con diplomazia. Archer era stato fatto entrare a teatro per un paio d'ore durante una prova serale, e gli avevano sentito dire sul conto di Irving: «Che cosa posso dire della sua camminata? Quello non è camminare!». Era vero che il principale di Stoker era un eroe teatrale dall'aspetto alquanto improbabile. Con le sue gambe filiformi, il viso lungo e le labbra sottili, senza contare una dizione ricercata al punto da risultare eccentrica, Irving poteva somigliare di più a uno stravagante parroco di campagna che non a un Benedick o a un Amleto. Eppure sul palcoscenico irradiava una forza vitale che non si vedeva sin dai tempi di Keane, una presenza scenica da cardiopalma che calamitava sempre l'attenzione. Sceglieva i propri ruoli con cura e allestiva le opere con un'astuta combinazione di intelligenza e spettacolo, che faceva ribollire il sangue, mentre gratificava la mente. Lo stile di Irving non incontrava il gusto di tutti, ma strappava rispetto anche ai suoi critici più restii... fra cui, in qualche occasione, George Bernard Shaw, che deplorava l'artificiosità di Irving, ma non mancava mai ai suoi spettacoli, invaghito com'era del fascino della sua Prima Attrice, Lady Ellen Terry. Come Shaw, Stoker era un protestante originario di Dublino ed era stato condotto sull'altra sponda del mare d'Irlanda dalla passione per il teatro. Funzionario statale e critico dilettante con alle spalle qualche racconto pubblicato sui giornali, aveva incontrato e stretto amicizia con Irving durante la tournée irlandese dell'attore. Quando gli era stato offerto un incarico nella nuova avventura del Lyceum, Stoker aveva abbandonato tutto e si era trasferito a Londra con la nuova moglie. E da allora era il devoto luogotenente di Irving. Alle diciannove e quaranta attaccò l'ouverture. Solo per quella sera, Sullivan dirigeva una partitura da lui composta. Una decina di minuti più tardi il teatro era pieno e il sipario si alzò. Stoker scese al botteghino a dare un'occhiata agli incassi, quindi diede uno sguardo dietro le quinte, dove il solito esercito di comparse di Irving si stava radunando per la prima grande scena di gruppo. Dopodiché si spostò in silenzio in fondo alla prima galleria e, senza essere visto, osservò per qualche tempo il pubblico. Sul palcoscenico, in uno scenario che ricreava il tipico salone principale di uno dei castelli di pietra pieni di spifferi che avevano visitato, Lady Ma-
cbeth alias Lady Ellen Terry stava leggendo la lettera del marito alla luce di un fuoco. In alto, nel solito palco che occupava in occasione di una prima, era seduta la moglie separata di Irving, che irradiava le consuete ondate di ostilità verso il palcoscenico. Stoker scrutò il pubblico in cerca di sua moglie Florence; eccola lì, seduta con il collega di Sullivan, suo accompagnatore per la serata. Fu a quel punto che il capo maschera comparve al suo fianco a richiedere la sua attenzione. Si ritirarono nel corridoio dietro la prima galleria, e la maschera disse a bassa voce: «Pare ci sia un intruso, signore. Localizzato dietro le quinte». Stoker annuì e rispedì l'uomo alle sue mansioni, per poi tornare alla porta di servizio e quindi recarsi nel retropalco. Il Lyceum era oggetto di rigorosi controlli, ma a volte, per via delle tante persone che lavoravano dietro le quinte, era possibile che penetrassero intrusi. Alcuni reporter di certi giornali creavano particolari problemi. Ma se erano a caccia di prove di qualche sconvenienza fra il capocomico e la sua Prima Attrice, le cercavano nel posto sbagliato. Dopo un rapido consulto sottovoce con un paio di servi di scena, si diresse al guardaroba dei costumi, giù nel seminterrato. Al momento, gran parte dei sipari e dei fondali del Lyceum erano stoccati nelle arcate dei viadotti ferroviari sull'altra sponda del fiume, ma restavano comunque parecchi mantelli, sedie, calici, e gioielli di Strass. C'erano armi, armature, c'era il timone di una nave proveniente dal Vanderdecken. E stand su stand di costumi per tutti, da Digby Grant a Robespierre. Stoker scese in silenzio la scala di ferro, appoggiandosi al corrimano. Era vigile, ma non impaurito. Era dalla parte del giusto, inoltre c'era la sua prestanza fisica ad assicurare che nessun intruso avesse qualche dubbio in merito. Per una doppia assicurazione, si era munito di una pesante caviglia di legno presa dalla galleria di manovra del teatro, una cortesia dei servi di scena. Dall'alto, attutita dallo spessore del pavimento del teatro, giungeva la musica dell'orchestra di trenta elementi, che eseguiva il preludio - scritto e diretto da Sullivan - del secondo atto. Sotto di lui, in mezzo all'intrico di tubature del gas nei recessi del seminterrato, intravedeva un bagliore, segno che qualcuno aveva acceso una lampada. Che lui non riusciva a vedere. Scorgeva per lo più le ombre che gettava sulle pareti. Giunse in fondo alla scala e si diresse verso la fonte di luce, spostandosi con cautela al buio. Di sopra non sarebbe dovuto arrivare alcun rumore; il preludio sarebbe
terminato da un momento all'altro e, siccome non si recitava l'Amleto, i fantasmi nello scantinato non erano richiesti. Il piede urtò in qualcosa. Fece un balzo all'indietro, quindi si accucciò e tastò davanti a sé. Sul pavimento era ammucchiato qualcosa, forse uno dei costumi caduti dallo scaffale accanto a lui. Lo raccolse con cautela, tenendolo fra pollice e indice, e lo sollevò alla fioca luce. A quanto pareva, si trattava di biancheria intima estremamente sudicia. Stringendo gli occhi, la lasciò cadere e si pulì la mano sul fianco. Il suo sesto senso gli diceva che quel sudiciume non era sporcizia di scena. Un vagabondo, dunque. Intenzionato a rubare. E nessuno rubava al capo. Stoker scostò con un calcio gli indumenti sudici e girò a larghe falcate attorno allo scaffale, dove c'era più luce. La lampada era piazzata accanto a un elaborato specchio a figura intera, appannato con la cera per esigenze di scena. Qualcuno ne aveva pulito una chiazza al centro per riflettersi. Di fronte allo specchio sostava un uomo, intento ad annodarsi la cravatta. Nel farlo, cambiava posizione e fletteva leggermente le spalle, come per godersi la vestibilità degli abiti che indossava. Era sbarbato e aveva i capelli umidi, pettinati di fresco. In tono così perentorio da sfidare il coro al piano superiore, Stoker disse: «Quelli che indossate sono costumi di scena, signore. E questo non è né un negozio di abiti usati né un bagno pubblico». L'uomo sobbalzò per la sorpresa, e si volse. «Perdonami, Bram» disse. «Avevo un bisogno disperato di riacquistare un po' di dignità. Non è certo la mia condotta usuale.» Stoker sbirciò con maggiore attenzione nella luce pessima. «Tom Sayers?» domandò. L'uomo confermò di essere la persona in questione. «Mezz'ora fa non mi avresti riconosciuto» disse. Anche adesso Stoker lo riconosceva a malapena. Era sconcertato dall'aria deperita e affamata che aveva assunto l'ex pugile dall'ultima volta che si erano incontrati. «Che cosa stai facendo?» «Sono latitante, Bram. Avrai sentito le accuse.» «Dubito che ci sia un solo teatrante che non le abbia sentite. Nelle sale trucco d'Inghilterra non si parla che di te.» Mentre pronunciava quelle parole, Stoker si volse a guardare la scala. Sayers notò il gesto e alzò subito le mani, come per mostrare di non avere cattive intenzioni.
«Non far venire altri, Bram, te ne prego. Sei uno degli uomini più leali che abbia mai conosciuto. E ti sto implorando di dimostrarmi un po' di quella lealtà, almeno finché non avrai ascoltato la mia versione. So che non siamo amici. Ma non siamo forse colleghi, tu e io?» Stoker lo squadrò da capo a piedi. L'abito era passato di moda da qualche anno, ma Sayers era stato fortunato a trovarlo. Gran parte della giacenza del Lyceum era per il repertorio classico, o per le opere a sfondo storico. «Come sei riuscito a sopravvivere?» gli domandò. «La notte nei fossati, qualche incontro di pugilato per denaro nelle fiere. Da quando sono in città, ho dormito per terra nella zona di Minories. Se c'è qualcuno a Londra che può aiutarmi a sbrogliare la matassa, sei tu. E se tu non mi aiuti... allora impicchino pure un uomo innocente. Quanto può interessargli se anche l'ultima speranza l'ha abbandonato?» Stoker scrutò il fuggitivo per un istante, quindi alzò lo sguardo. Il secondo atto era in corso; non si distingueva alcuna parola, ma Stoker udiva la peculiare calata e cadenza di Irving nel pronunciare il discorso del pugnale. Irving non interpretava Macbeth come un uomo tormentato dal dubbio o come un uomo buono reso malvagio da una intempestiva profezia. Lo interpretava come un emissario del male, un uomo da sempre determinato a usare la violenza per arrivare alla corona. Per lui, le streghe si erano limitate a spalancare una porta che lui stava già cercando. «Resta quaggiù» disse Stoker. «Dopo l'uscita del pubblico ci sarà una cena privata sul palco. Immagino tu sia affamato... Ti porterò qualcosa da mangiare appena posso. Non fare rumore finché non vengo da te.» LONDRA GENNAIO 1889 Ventuno Intorno alle due e mezza di una fredda mattina invernale, Tom Sayers si svegliò senza un motivo particolare. Faceva troppo freddo per alzarsi, ma lui gettò indietro le coperte e si levò comunque, sperando di scuotersi di dosso la malinconia e quindi, dopo uno sguardo alla luna e qualche minuto al silenzio della notte, tornare nel tepore del letto e riprendere sonno. Era in un albergo che non serviva alcolici, il General Gordon, che sorgeva all'angolo della strada principale di Spitalfields. Quando si affacciava
dalla sua finestra al secondo piano, guardava attraverso la "A" di legno dorato dell'insegna dell'hotel, che abbracciava tutta la facciata dell'edificio. Era registrato sotto il nome di John Thurloe, ebanista in cerca di impiego. Aveva chiesto informazioni su una stanza da prendere in affitto, e gli era stata offerta "parte di una stanza"... il che, come aveva presto scoperto, significava che era sua ma doveva lasciarla libera alle sette del mattino, quando il letto veniva occupato da una ragazza che lavorava tutta la notte in un forno. Alle sette di sera, lei usciva per andare al lavoro e lui poteva tornare nella stanza. Non c'era la luna. Solo una nuvola fitta, nera e bassa che incombeva sui tetti delle case; un po' più basse, e sarebbe scesa sulle strade diventando nebbia. Quelle erano case squallide, schiere e schiere di case squallide: la città dell'atroce monotonia, l'East End londinese. Quella notte, a teatro, Stoker era stato cauto nei suoi confronti, ma non l'aveva tradito. Tre ore di tensione erano culminate nel sollievo. Lui non si sarebbe stupito se il vice capocomico fosse tornato insieme alla polizia anziché con mezza pagnotta di pane, una dignitosa fetta di prosciutto e sei patate calde avvolte in un tovagliolo. Mentre s'ingozzava di cibo e lo irrorava con la birra, gli aveva raccontato la sua storia. Presto aveva appreso che Bram Stoker non solo l'aveva preso in parola, ma che nei giorni successivi aveva trovato il modo di fare il suo nome con parecchi conoscenti comuni. Direttori di teatri di varietà, attori, agenti teatrali... Nessuno sapeva qualcosa di particolare per poterlo dichiarare innocente, ma tutti, senza eccezione, si erano detti sbigottiti della sua presunta colpevolezza. Non era certo un processo pubblico ma - unito a quanto Stoker aveva visto fare a James Caspar quella notte sul binario della stazione delle Midlands - aveva sostenuto la storia del fuggitivo facendo pendere la bilancia a favore del suo personaggio. Caspar barcollava, era in stato d'incoscienza, in condizioni indecenti, e vomitava sangue... Lui si rendeva conto che quello di Stoker era un mondo senza mezzi termini, dove chi era sincero era puro, e chi era corrotto era dannato. Grazie a Dio. Come si aspettava, la morte di Caspar era stata aggiunta all'elenco dei suoi crimini. E c'era anche chi aggiungeva lui all'elenco dei sospetti per quella recente serie di massacri di prostitute dell'East End, anche se all'epoca degli omicidi lui mendicava cibo e rabbrividiva nell'Oxfordshire. Avrebbe potuto trovarsi un nascondiglio più sicuro, ma aveva cercato
invano un posto meno costoso a Londra. Stoker gli aveva permesso di portare via degli abiti dalla giacenza del Lyceum e gli aveva dato del denaro per evitargli di morire di fame, ma lui non poteva certo aspettarsi che l'irlandese gli offrisse un impiego. Una domenica mattina di buon'ora si era recato nella sua casa londinese, solo per trovarci dei nuovi inquilini... Aveva già pagato l'affitto sino a metà anno ma, a quanto pareva, alla luce dei suoi presunti crimini, il padrone di casa non si era sentito in dovere di onorare l'impegno. Quella era solo una piccola ingiustizia da aggiungere alle altre, eppure per lui era stata la più amara. Sulla strada di fronte al suo albergo stava passando una pattuglia della polizia. Dopo gli omicidi di Whitechapel le pattuglie nell'East End erano aumentate, anche se correva voce - una fra le tante - che l'assassino fosse noto alla polizia e che si fosse annegato. Volse le spalle alla finestra e tornò a letto. Come al solito, cercò di non pensare alle lenzuola. In quel regime a due turni, non venivano cambiate. E quello era un albergo relativamente rispettabile; al livello più infimo della scala esistevano locande con un regime a tre turni dove gli occupanti si davano il cambio ogni otto ore e le lenzuola erano lasciate così com'erano. Rabbrividì, mise la faccia sotto le coperte e poi, a poco a poco, cominciò a scaldarsi con il fiato mentre il calore si diffondeva nel suo giaciglio. Più tardi, quel giorno, avrebbe incontrato Stoker, nel lasso di tempo compreso fra la sua attività di vice capocomico al Lyceum e quel paio d'ore che trascorreva a casa prima dello spettacolo serale. Stoker aveva qualcosa d'interessante da fargli ascoltare, diceva il suo biglietto. Dall'East End al centro città avrebbe dovuto farsi una lunga camminata, ma avrebbe messo a frutto la mattina e risparmiato del denaro. Non sapeva quanto sarebbero durati i suoi fondi, o quale nuova svolta avrebbe preso la sua vita. Qualcosa prima o poi doveva succedere. Le cose dovevano cambiare in un modo o nell'altro. Perché la vita che faceva adesso... che cos'era? Senza casa, senza amore, senza amici... senza neanche il nome con cui era nato. Quella non era vita. Nel primo pomeriggio, accanto all'inferriata che cingeva il British Museum a Great Russell Street, Sayers attendeva la comparsa di Stoker. Questi si presentò a piedi poco dopo le due e un quarto, grande e grosso come un orso e tutto contrito. Sayers era nervoso, ma cercò di non lasciarlo trapelare.
«Vieni» disse Stoker, passandogli con la stretta di mano un cartoncino quadrato mentre si avviavano ai gradini d'ingresso. «Prendila e mostrala fingendo che sia tua. È una copia della mia. L'ho fatta fare al nostro attrezzista, e ci ho scritto un nome per te.» Era la tessera da lettore che era richiesta per entrare in biblioteca. Attraversarono il museo fino al cortile aperto nel cuore dell'edificio, dove sorgeva la sala di lettura circolare. Stoker fu riconosciuto e non ebbe bisogno di mostrare il cartoncino. E siccome Sayers era con Stoker, la sua tessera contraffatta fu accettata senza un'ispezione accurata. La sala era una vasta e ariosa cupola, grande quasi quanto il Pantheon di Roma; le scrivanie dei lettori si irradiavano verso l'esterno da un bancone centrale, simili ai raggi della ruota di un carro. Mentre Sayers seguiva Stoker, notò che ogni posto delle lunghe scrivanie era numerato. In alcuni casi i posti erano occupati da vecchi che sembravano averci fatto le ragnatele. C'era uno studente giovane e diligente che scorreva con fervore un'alta pila di riviste; un uomo dai capelli rossicci e il ventre prominente che respirava rumorosamente mentre leggeva; altri posti erano gremiti di cataste di libri, ma il lettore era assente. Sayers non poteva non domandarsi che cosa volesse fargli vedere Stoker, per averlo portato lì. Avevano percorso metà circonferenza della sala, quando l'irlandese piegò verso l'interno e lo condusse da uno studioso che lavorava da solo. Tenendo la voce adeguatamente bassa, Stoker gli disse: «Posso presentarti il mio grande amico, il signor Hall Caine?». Questi alzò lo sguardo su Stoker, quindi su di lui. Aveva più o meno trentacinque anni, la calvizie incipiente come Shakespeare e la barba come Cristo. L'uomo gli rivolse un cenno affermativo del capo e lui gli offrì la mano. La stretta che ricambiò la sua era fiacca e leggermente umida. «Caine conosce solo lo stretto necessario della tua storia» disse Stoker. «Quanto al resto, si fida del mio onore come io mi fido del tuo.» Gli fece cenno di scostare una sedia da un posto non occupato e ne prese una anche lui. «Ho alcune idee da proporvi» ribatté Caine. «So che Bram non le approverà tutte.» «Tu racconta la tua storia, vecchio mio» esclamò Stoker. «Lascia giudicare noi.» Sayers conosceva Caine di nome, ma non aveva letto nessuna delle sue opere. L'amico romanziere di Stoker aveva preso appunti su carta senza ri-
ghe, in una grafia così minuscola che Sayers stentava a credere che riuscisse a leggerla lui stesso. Aveva lavorato sodo su una pila di testi di varie epoche. Quasi tutti, fra le pagine, avevano delle schede di richiesta volumi a fungere da segnalibri. Chiuse il libro che stava consultando, lo scostò e, facendo correre il dito sulle righe che aveva scritto, lesse ad alta voce: «Cartaphilus. Ahasuerus. Salathiel». Guardò Sayers. «Voi dite che queste parole sono state pronunciate dalla bocca di un moribondo?» «Così le ho sentite io.» Caine prese un altro dei volumi e lo aprì, prima a una pagina segnata poi a un'altra. «Negli ultimi mesi,» esclamò «Bram e io abbiamo profuso tempo, energie e immaginazione nel tentativo di trovare un ruolo adatto a Irving. I nostri temi hanno per lo più a che fare con l'occulto. L'Ebreo Errante, l'Olandese Volante e l'Amante Demoniaco... questi sono gli argomenti oggetto delle nostre costanti meditazioni. Le parole che avete sentito da Caspar sono tutti nomi con cui è conosciuto l'Errante.» Sayers doveva avere uno sguardo assente. «Un uomo che baratta la sua anima in cambio di lunga vita e conoscenze proibite» disse Stoker. Adesso Caine aveva trovato il brano che stava cercando. «Nella prima versione della leggenda,» disse «aveva il nome di Cartaphilus, che offese nostro Signore sulla via del Calvario e fu condannato a errare sino al giorno del giudizio. Nelle versioni più recenti, invece, si trattava di un uomo che aveva stretto un patto scellerato in cambio di fortuna e lunga vita. Nel 1547 apparve ad Amburgo con il nome di Ahasuerus. Salathiel venne più tardi. Circa settant'anni fa il chierico di Dublino Charles Maturin trascrisse la storia di Melmoth l'Errante.» Sayers, da uomo concreto qual era sempre stato, osservò: «Forse, allora, la spiegazione della vostra leggenda è proprio questa: non esiste un uomo che possa vivere in eterno. Quel ruolo ha un interprete diverso per ogni epoca». «Siete più vicino alla verità di quanto pensiate, signor Sayers» ribatté Caine, e ruotò il libro per mostrarglielo. La pagina recava l'incisione di un vecchio appoggiato a un bastone, che passava accanto a Cristo crocefisso in una valle stretta e profonda, sotto un cielo tempestoso. Cristo abbassava lo sguardo, il vecchio lo alzava su di lui; fra i due non sembrava correre buon sangue.
«Gli spagnoli lo chiamano Juan Espera en Dios, Giovanni che aspetta Dio» disse Caine. «Si dice sia stato visto a Parigi nel 1644 e a Newcastle nel 1790. A essere sinceri, alcuni avvistamenti dell'Errante risalgono al 1228. Ma i nomi spesso differiscono e le descrizioni a volte cambiano. In Melmoth l'uomo errante troviamo una possibile spiegazione: nel patto demoniaco c'è una clausola di recesso. Se l'Errante riesce a reclutare qualcuno che prenda il suo posto prima che la sua lunga vita si concluda, può evitare il suo destino. Alla fine tutti gli uomini muoiono, ma il ruolo dell'Errante diviene realmente eterno.» «Qualcuno che prenda il suo posto?» domandò Sayers. «E come?» «Prendendo su di sé il fardello della dannazione certa dell'Errante.» Stoker non era soddisfatto della piega che stava prendendo la discussione. «Melmoth è un personaggio di finzione» disse. «Tutti i personaggi di finzione hanno la loro autenticità.» «E si raccontano al pubblico attraverso stratagemmi. I demoni attraverso le botole e i contratti di sangue. Roba per la platea e la galleria.» «E che cosa sono questi stratagemmi,» incalzò Caine «se non simboli esteriori di una vita interiore? Pensaci, Bram. Voltare consapevolmente le spalle a Dio. Gettarsi nelle tenebre e nella dannazione certa. Un gesto simile non darebbe forse vita a quell'anima colpevole descritta dalle leggende?» «Abbracciare la dannazione?» gli fece eco Stoker. «Volontariamente? E per quale ragione ipotizzabile?» «Vantaggi. Ribellione. Disprezzo di se stessi. Ogni cuore ha la propria.» «No» esclamò Stoker. «Nessuno può vivere per sempre.» «A nessuno è richiesto» ribatté Caine. «È qui che voglio arrivare io.» A mano a mano che il dissenso fra i due amici si faceva più appassionato, cresceva anche il volume. Stavano attirando l'attenzione dei presenti, e non in senso amichevole. Sayers si alzò. «Vi sono grato, signore» disse ad Hall Caine, chinando il capo in segno di riconoscimento delle sue ricerche. «Vi ho dato qualche illuminazione?» «Ho una gran paura di sì.» Nel parco cittadino nel cuore della vicina Bedford Square, Sayers camminava con una tale energia nervosa che Stoker aveva difficoltà a stargli dietro. Camminava senza seguire una direzione precisa, né uno scopo particolare. Era in preda all'agitazione, che lo gettava di qua e di là come una
fiamma baluginante. «In me si sta muovendo qualcosa, Bram» disse. «Per me era sensato. Riesco a figurarmelo: respingere la volontà di Dio in cambio di una ricompensa. Che dono deve sembrare all'inizio! E che maledizione dev'essere alla fine!» «Non era il genere d'illuminazione che avevo in mente io» ribatté Stoker. «Caspar era un male della natura, Tom. Tutto il resto è pura fantasia.» «Non Caspar, Bram. Anche se non ho dubbi che, quando la sua iniziazione fosse stata completa, avrebbe rilevato il patto del suo maestro.» Si fermò e volse lo sguardo a Stoker. «I poteri di Edmund Whitlock stanno svanendo» disse. «L'hanno notato in molti; persino Gulliford sosteneva che fosse malato. Credo che si tratti di qualcosa di più. Credo che stia morendo, e ne sia consapevole.» «E allora?» Sayers fece un passo per avvicinarsi a Stoker e lo afferrò per le braccia, dandogli una scrollata come a ribadire il suo pensiero. «Non capisci?» domandò. «È Whitlock! Il demonio è Whitlock! Ed è in quelle mani diaboliche che ho lasciato Louise!» FILADELFIA 1903 Ventidue A quel punto della sua lunga storia, il pugile suonato s'interruppe, e Sebastian cominciò a pensare che non avrebbe continuato più. Fuori dal tendone qualcuno stava litigando: a quanto pareva, non appena il parco avesse chiuso bisognava togliere i paletti e smantellare l'attrazione. I tabelloni esterni potevano anche promettere uno spettacolo di Noble Art, ma la verità era che presto tutto era degenerato in rissa e baruffa. Dovevano sloggiare e, in futuro, Willow Grove si sarebbe accontentata delle sue attrazioni più rispettabili. Sayers rimase in ascolto per qualche istante, quindi disse: «Presto mi chiameranno. Dobbiamo smantellare tutto». Ma non si mosse. «E così, dopo tutto il tempo che era passato, e tutto ciò che era accaduto... nutrivate ancora dei forti sentimenti per la signorina Porter?» domandò Sebastian.
Il pugile nell'accappatoio sudicio volse lentamente il capo e fissò l'investigatore. Poi tornò a distogliere lo sguardo. «Sapevo che cos'avrebbe dovuto fare un uomo nella mia situazione» disse. «Andarsene, chiudere il cuore, dimenticare la vita che faceva prima e cercare di rifarsene un'altra altrove. Ma sapevo anche che cosa avrebbe significato: vivere tormentato per il resto dei miei giorni. Un uomo senza radici e senza uno scopo, con il cuore e la mente legati a un passato segreto che non avrei mai potuto discutere né rivelare. E non era tutto. Perché andarmene, a quel punto, avrebbe significato abbandonare Louise al suo destino.» «Quella donna vi ha gettato sotto un treno.» «Il che dà la misura di quanto l'avessero fuorviata. Non commettete errori, ispettore Becker, io avevo gli occhi aperti. Tutte le mie illusioni romantiche erano ridotte a brandelli. Ma potete immaginare il mio sgomento quando scoprii che l'ossatura di quelle illusioni era forte come sempre. In quelle prime settimane dopo che raggiunsi Londra,» continuò Sayers «vidi Louise una sola volta. Fu Bram a organizzare tutto. Poteva anche non condividere le mie certezze ma, fin dal giorno in cui mi confidai con lui, fu per me una roccia. Non avrei potuto desiderare un amico migliore. Nessun uomo d'onore avrebbe mai offerto consapevolmente rifugio a un criminale, ma lui non vedeva alcuna malvagità in me. Si rendeva conto che il mio era un inferno dei vivi. E pensava che vederla mi avrebbe dato sollievo. La morte di James Caspar aveva costretto Whitlock a cancellare le restanti date della tournée per tornare in anticipo a Londra. Anziché sciogliere la compagnia, ingaggiò un nuovo Attor Giovane e accettò tutte le date che riusciva a trovare in città con breve preavviso. Una di queste era al Middlesex Music Hall di Drury Lane. Non so se ci siete mai stato... Una volta si chiamava Mogul Saloon, perciò è arredato come un palazzo turco. Dovetti agire con cautela perché molti artisti nei cartelloni di varietà potevano conoscermi di vista. Quella sera si esibiva Nelly Farrell, che era stata con noi nello spettacolo a Salford. Daltry, Higgins e Selina Seaforth presentavano un numero comico di pugilato che io avevo contribuito a mettere in scena. James Fawn interpretava uno sketch da ubriaco. Una volta gli avevo prestato due sterline e da allora mi evitava. Non potevo rischiare di farmi riconoscere, quindi restai in fondo alla galleria a guardare lo spettacolo. Il diamante purpureo andava in scena a metà serata, e non stava riscuotendo successo. Il sostituto di Caspar era un
ragazzo inesperto, con i baffi di crespo. C'era una nuova scena con una pipa di terracotta, ma non funzionava. Caspar non era stato un grande attore, è vero, ma aveva il physique du rôle e gli bastava star fermo. Tutta la compagnia sembrava priva di brio. Spiccava solo Whitlock, che interpretava la sua parte con una sorta di furia repressa, come se volesse avventarsi sugli spettatori da un momento all'altro. E quasi temendo che lo facesse, il pubblico accolse le prime scene in silenzio. Di lì a poco, tuttavia, qualcuno gridò qualcosa d'irrispettoso, e per il resto dell'opera fu tutto un "Datti una mossa, Edmund" e "Facci vedere come balli". Ogni volta che Louise era in scena, la osservavo con attenzione. Avevo occhi solo per lei. Non voglio muoverle una critica dicendo che, come attrice, è naïve; voglio solo dire che lascia trapelare l'anima. La sua natura traspare dai ruoli che interpreta. E invece quella sera io vedevo una donna con la testa altrove. Snocciolava le battute e i movimenti, ma la sua non era esattamente un'interpretazione... era piuttosto un'onesta, ma non entusiastica, lettura della parte. Cominciai a temere la sua canzone sul finale. Sperai che Whitlock l'avesse tagliata. Il pubblico si rallegrò, ma non era una reazione positiva. C'era una nota di derisione. Avrei voluto andarmene alla calata del sipario, ma non ci riuscii. Mi sarebbe parso un tradimento. Whitlock la chiamò in scena, la introdusse con una brevissima presentazione e la lasciò sul palco, sola e priva di sostegno. Sembrava fragilissima e io dovetti aggrapparmi alla balaustra davanti a me per impedirmi di saltare su e chiamarla a gran voce. Nonostante la mia apprensione, il pubblico si comportò bene. Solo quando lei incespicò cominciarono i mormorii. Mormorii che crebbero sino a diventare un brusio turbato, allorché cercò di riprendere il filo di una canzone che doveva aver cantato in scena più di un centinaio di volte. Il direttore musicale della nostra compagnia si trovava nella fossa orchestrale con i musicisti del teatro. Mentre dirigeva, lo vidi leggere le parole della canzone sullo spartito, cercando di suggerirgliele. Ma non credo che quello di Louise fosse un semplice vuoto di memoria. Dopo un po', l'uomo che chiamavamo il Taciturno aprì il sipario e la prese per un braccio. La condusse fuori scena e lei lo seguì come una bambina. L'orchestra intonò qualcosa di allegro e il direttore di scena diede un colpo di martello e cominciò a magnificare il numero successivo come se nulla fosse successo. Io uscii di corsa in Drury Lane e mi appostai a sorvegliare l'ingresso de-
gli artisti. Non riesco a dirvi come mi sentivo. Era come se qualcosa si stesse gonfiando dentro di me, sino al punto di esplodere. Avrei voluto andare da lei, ma non osavo. Ricordavo il suo terrore l'ultima volta che ero comparso. Dopo un po' lei uscì con Whitlock e salirono su una carrozza insieme. Lui le cingeva le spalle con il suo soprabito. Riuscii a seguire la carrozza a piedi... abbastanza a lungo da scoprirla diretta verso Marylebone High Street. In quella zona Whitlock possedeva degli appartamenti da tempo immemore, e li occupava mentre la compagnia non era in tournée. Quando era a casa, il Taciturno e sua moglie gli facevano da domestici. Mi recai lì il giorno successivo, destreggiandomi per tenere d'occhio l'edificio senza attirare l'attenzione. Non osavo avvicinarmi troppo, ma non riuscivo neanche a tenermene lontano. Dovevo sapere se Louise era sua ospite e se stava bene. Vidi il Taciturno uscire al mattino e tornare in meno di mezz'ora. Non vidi tracce di Louise sino al pomeriggio, quando una carrozza accostò di fronte all'edificio, e io attesi che lei e Whitlock scendessero a prenderla. Lui indossava un completo scuro, lei era velata. Il loro viaggio fu breve: attraversarono Wimpole Street ed entrarono in Henrietta Place; mi fu facile non perdere di vista la carrozza. Entrarono in un palazzo con una targa d'ottone accanto alla porta, uno fra i tanti... Erano le vie che ospitavano le residenze private e gli ambulatori dei medici più facoltosi. Ancora prima di raggiungere la porta e leggere il nome sulla targa, ebbi un presentimento. Era la casa di un medico arcinoto negli ambienti teatrali. L'avevo sentito nominare da parecchie attrici che lo consultavano per le loro "irregolarità", termine usato in tono tanto allusivo da farmi pensare a un codice che sottintendesse qualcosa di più. Poi alla fine, senza interrogarmi oltre, capii l'antifona: anche se era uno specialista nei disturbi di petto e voce, il medico svolgeva un'attività secondaria relativa alle gravidanze scomode. Whitlock la stava costringendo a quel gesto, di questo ne sono sicuro. Altrimenti Louise non avrebbe potuto continuare ad assolvere lo scopo che lui aveva in mente. Non mi trattenni per vederli uscire. Non riuscivo a tollerarlo.» A quel punto Sayers guardò Sebastian. L'investigatore non si era mosso, né si era accorto di aver fatto rumore. «So come potreste giudicarmi» riprese Sayers. «Uno di quegli uomini che adorano un certo genere di donna e si credono degli antichi cavalieri, degli eroi ai propri occhi e quindi, immaginano, anche agli occhi di lei.
C'è stato un periodo in cui tutto ciò poteva essere vero. Quel periodo si concluse mentre mi aggiravo per le strade nelle ore successive alla mia scoperta. Non lasciai la porta dell'abortista in preda alla rabbia, né alla gelosia. Cominciai a capire la vera natura dei miei sentimenti quando mi resi conto che non piangevo per il mio dolore, ma per il suo. Ho imparato che un uomo che fa dono della propria devozione alle donne non si rende conto di quanto quel dono diventi presto stancante. Per le donne la mera devozione è un balocco... bello da ricevere, ma da chiudere poi in un cassetto e dimenticarsene. Mi sarebbe stato tanto facile immaginarla insozzata, farne oggetto della mia rabbia o persino scacciarla dai miei pensieri. E invece, in quelle ore successive alla scoperta, arrivai a rendermi conto che non esisteva nulla che non potessi perdonarle.» Sayers s'interruppe per qualche tempo. Giunse le mani ferite e vi appoggiò le labbra senza alzare lo sguardo, e Sebastian cominciò a domandarsi se la sua storia fosse giunta a una prematura conclusione. Ma poi Sayers proseguì. «Per un certo periodo non la rividi. Ero sempre più a corto di denaro e fui costretto ad accettare un impiego occasionale da un grossista di frutta al porto, per non essere scacciato dal mio albergo e non mettermi a fare la vita cui molti erano costretti... allontanati dalla polizia di notte e addormentati nei parchi pubblici di giorno. Una volta alla settimana m'incontravo con Bram Stoker, a meno che non fosse impegnato fuori città con Irving. Fu Bram a mostrarmi l'articolo sul "The Era" che annunciava il ritiro dalle scene della signorina Louise Porter. Non vi sarebbero state esibizioni d'addio né serate di beneficenza. Da quel momento in poi restò quasi sempre con Whitlock, che divenne il suo tutore. Pur non appartenendo al fior fiore della società, in molti eventi mondani Whitlock era un ospite ambito. È questa la cosa peculiare della nostra professione: si può essere anche figli di ambulanti, ma basta interpretare qualche ruolo da sovrano che quel ruolo ti rimane appiccicato. Una volta ho persino visto un clown parlare con una duchessa, ed era la duchessa a rendersi ridicola. Whitlock si faceva accompagnare ovunque da Louise e, da come la vestiva e la presentava, la si sarebbe potuta scambiare per una principessa straniera o per la donna più altolocata della sala. Era diafana e bellissima, e parlava di rado. Vecchi libertini e giovanotti si contendevano le sue attenzioni; Stoker diceva che era sempre attorniata da uomini ai quali però pre-
stava un ascolto distratto e guardava come attraverso un vetro offuscato. Questo li induceva a vederla come una sorta di glaciale divinità e a contendersi ancor più le sue attenzioni. Stoker diceva di vederla in maniera diversa. A suo parere era come un'anima morta.» Sayers esitò. Prima parve sul punto di dire qualcos'altro; poi invece sembrò aver concluso e fece per alzarsi. «Il resto?» disse subito Sebastian. «Il resto lo conoscete. C'eravate anche voi.» «Solo per parte dell'accaduto. Dio santo, Sayers, non potete interrompervi proprio adesso. Sono tornato qui per questo.» All'esterno gridarono un nome. Anche se il nome non era il suo, Sayers alzò comunque lo sguardo, allarmato. «Hanno bisogno di me» disse. «Non me ne importa» ribatté Sebastian. «Se adesso vi perdo di vista, svanirete con il circo e io non conoscerò mai la verità.» «Ne conoscete gran parte.» «Io voglio conoscerla tutta.» Sayers trasse un sospiro di rassegnazione e prese a radunare le sue poche cose dal tavolo improvvisato. «Allora dobbiamo spostarci altrove» esclamò. «O quelli ci smonteranno il tendone attorno.» Alzò il coperchio del baule da viaggio; in cima c'erano diversi completi squallidi ma funzionali. «Voi dite che, dopo averla convinta ad abortire, lui era diventato il suo tutore,» esclamò Sebastian, alzandosi dalla sedia «e che lei assolveva un certo scopo per lui. Credete che in cambio sia divenuta la sua amante?» Sayers, che stava riponendo i suoi pochi gingilli per estrarre gli abiti da viaggio, s'interruppe come se quella fosse un'ipotesi inattesa e non l'avesse mai presa in considerazione. «No» disse. «Allora...» «C'è sotto molto di più» ribatté Sayers. «Lo stregone aveva perduto il suo apprendista. Aveva preparato Caspar a subentrargli nel ruolo dell'Errante, ma adesso Caspar non c'era più. Gli serviva una nuova copertura, e il tempo stringeva. Il suo patto con le tenebre stava per scadere. A giudicare dalla sua crescente disperazione, non mi sarei stupito se i medici gli avessero dato i giorni contati.» Sayers lasciò cadere il coperchio del baule con uno schianto.
«Louise non era la sua amante» disse. «Era l'esca.» LONDRA MARZO 1889 Ventitré Nei sedici acri di Forest Hill a sud-est di Londra sorgeva Surrey House, la residenza del commerciante di tè quacchero Frederick Horniman. Sua dimora avita, era arrivata a ospitare tanti oggetti, libri e quadri raccolti nel corso dei viaggi. Qualche mese prima Horniman ne aveva aperta un'ala al pubblico, dietro appuntamento, per poter mostrare le sue collezioni agli interessati. Sayers e Stoker furono accolti al cancello da un uomo dalla stazza robusta e dall'aria famelica. Indossava un cappotto di velluto marrone, e Stoker lo presentò con il nome di Samuel Liddell Mathers. «Avete la mano del pugile!» disse Mathers mentre stringeva quella di Sayers, che lanciò un'occhiata di disagio a Stoker. «Anch'io faccio qualche tiro di boxe la sera» aggiunse Mathers. Stoker ricambiò lo sguardo scrollando le spalle e inarcando le sopracciglia, come per dire: "Non l'ha saputo da me". Risalirono il viale sino a raggiungere una casa squadrata ricoperta d'edera. Era vetusta, irregolare e confortevole. Mathers li condusse a un ingresso laterale ed estrasse una chiave per farli entrare. La casa era quasi interamente al buio, e il mobilio era coperto da teli... La famiglia Horniman non era in casa. I due seguirono la loro guida nelle cucine sino a una porta che si apriva su una scala, e quella a sua volta li condusse giù nello scantinato. La casa disponeva di corrente elettrica, ma non così lo scantinato, e Mathers si fermò ad accendere una lanterna per illuminare il percorso dinanzi a loro. Mentre scendevano disse: «Questo posto è pieno sino a scoppiare. Qui si custodiscono i quadri che non interessano a nessuno». «Abbiamo il permesso di stare qui?» gli domandò Sayers. «Io sono amico della figlia. Apparteniamo tutti e due a un piccolo ordine di cristiani cabbalisti. Bram ci consulta ogni tanto, ma rifiuta di unirsi a noi. Non è vero, Bram?» Stoker, in coda alla comitiva, rispose: «Lo sai che i miei interessi sono del tutto accademici».
«Ah, davvero?» ribatté Mathers. «Quello che stiamo per vedere potrebbe minare la tua obiettività.» A quel punto ammiccò rivolto a Sayers. Aveva passato la lanterna a Stoker mentre frugava in una catasta di dipinti privi di cornice e addossati alla parete. Sapeva che cosa stava cercando e impiegò qualche tempo a trovarlo. Infine, estrasse un dipinto montato su cartone e protetto da un ampio foglio di carta, che l'uomo sollevò, scostandolo all'indietro. Era un primo piano realizzato a carboncino e olio, con ogni probabilità l'abbozzo preliminare di un ritratto teatrale a figura intera. «Il ritratto è datato 1775» disse Mathers. «Il nome dell'attore non è riportato, ma non ha l'aria familiare?» «Potrebbe essere benissimo lui» ribatté Sayers, scrutando più attentamente e costretto a spostarsi per non togliere la luce. «Anzi, Bram, credo proprio che sia lui.» «Il suo ultimissimo errore, immagino» esclamò Mathers. «Un Errante impara presto a non consentire la diffusione della propria immagine.» Sayers aveva di fronte agli occhi lo schizzo di Edmund Whitlock, più giovane ma non meno autoritario e cinico. Aveva i capelli castani e il volto più teso e senza rughe. A distanza di un secolo, la libertà di mano dell'artista dava adito all'ipotesi di una semplice rassomiglianza fisica. Ma di primo acchito, in quel volto, Sayers aveva riconosciuto il suo ex datore di lavoro. Stoker, che sembrava aver sperato in qualcosa di più convincente, era chiaramente meno persuaso. «Una somiglianza» convenne. «Sei stato tu a condurmi sino a questa soglia» disse Sayers. «Non puoi varcarla con me?» «Nell'animo sono una creatura razionale» ribatté Stoker. «Ho sempre riposto la mia fiducia nella scienza e nella natura.» «Eppure pubblichi fiabe. E hai degli amici,» disse, accennando con lo sguardo a Mathers «che, se potessero, evocherebbero il diavolo. E fai di tutto per convincere Irving a interpretare Faust e l'Olandese Volante.» «Nessuno può convincere Irving a fare nulla» replicò Stoker. «Con gli amici si può essere in disaccordo, e non si deve per forza credere ai fantasmi per apprezzare una buona storia di fantasmi. Sono preparato a credere che Whitlock pianifichi la propria vita in base ai simboli in cui ripone la propria fede. Ma qui... qui siamo a un punto in cui degli uomini sono indotti a chiamare in causa la storia per sostenere l'impossibile.»
Mathers, che aveva ispezionato la targhetta sul ritratto prima di riporlo nella catasta con gli altri, si inserì nella conversazione domandando: «Ma tu credi nel male, Bram?». «Come astrazione, sì.» «E cosa credi sia esattamente?» «Un termine che definisce una particolare condizione dell'animo umano.» «Non una forza in sé? Dotata di vita e sostanza propria?» «No.» «Il mio parere meditato è che il male sia vivo» esclamò Mathers. «Che il male si muova. Che trovi dei luoghi in cui manifestarsi quando ne ha la possibilità. Una creatura può svuotarsi, divenendone ricettacolo. Noi abbiamo un'espressione per definire quel genere di persona. Noi li chiamiamo... i senza Dio.» «Ma come può una creatura senza Dio sfidare le leggi stesse della natura?» domandò Sayers. «Accettando l'idea di essere maledetta, perduta, invisibile al Creatore» disse Mathers. «Le azioni malvagie sono gli strumenti dell'affermazione rituale. Il male entra nel vuoto da cui è stata scacciata l'anima umana. E, come ovvio, nel vuoto...» «...non può esserci decadenza» continuò Sayers, nel tono meravigliato della scoperta. «Whitlock invecchia lentamente» disse Sayers in tono emozionato, mentre percorrevano London Road verso la stazione di Forest Hill. «Ma invecchia. È fatto di carne e sangue come tutti noi, Bram. Se gli tagliassero la testa, sfreccerebbe all'inferno come una cometa.» «Speculazioni» ribatté Stoker. «Pensaci, Bram. Non può sfuggire alla dannazione per sempre. Ma può sfuggirla inducendo un'altra anima perduta a prendere il suo posto. Quell'anima doveva essere Caspar. E dunque ne cercherà un'altra.» «E tu credi di poterlo fermare?» «Non me ne importa nulla di Whitlock o del suo futuro! Io penso solo a Louise in quella nefasta compagnia! Andrei all'inferno io stesso per metterla in salvo.» A quelle parole, Stoker gli prese il braccio e lo fermò per poterlo guardare negli occhi. «Odori di gin» disse l'irlandese. «Edmund Whitlock non è che un uomo
come tutti gli altri, sedotto da una leggenda. Stai molto attento, Tom.» Sayers liberò il braccio. In un silenzio imbarazzato, i due proseguirono verso il loro treno. Ventiquattro Non appena ricevette il telegramma di Edmund Whitlock, Sebastian Becker chiese un permesso e salì sul primo treno per Londra. In quel periodo Whitlock aveva liquidato la compagnia del Diamante purpureo e interpretava uno sketch con quattro personaggi, di un quarto d'ora, intitolato Lui lo sapeva bene. Aveva ripreso quel numero vecchio di una quindicina d'anni perché non era costoso da mettere in scena e gli dava modo di riutilizzare gli attrezzi e i costumi dell'ultima produzione. Aveva venduto i fondali e il resto dei materiali del Diamante purpureo e aveva impiegato i proventi per liquidare la troupe. Qualcuno riteneva quella dello sketch una scelta bizzarra. Era una pièce comica ambientata in un negozio di tessuti, senza canzoni né donnine. Quattro attori comici in gamba avrebbero potuto giostrarsela, ma Whitlock invece aveva avviato dei provini cui si era presentato ogni genere di personaggio equivoco proveniente dai margini crepuscolari del mondo teatrale. Dei tre che aveva scelto, uno aveva lo sguardo losco del detenuto in libertà vigilata - non proprio adatto a interpretare il garzone di un commerciante di tessuti - mentre un altro era guardato con sospetto da tutte le ragazze del coro. Nessuno sapeva dire perché, ma se per caso quell'uomo entrava in una stanza dove c'era una ragazza da sola, quella trovava subito una scusa per andarsene. E così lo sketch, per com'era recitato, era solo passabile. Qualcuno ipotizzava che Whitlock avesse fatto un enorme passo falso nella vita e che fosse disperato, mentre altri sostenevano che non avesse alcun bisogno di denaro. Si diceva disponesse di proprietà, e che avesse fatto soldi a palate come capocomico da tempo immemore. Sebastian lo incontrò durante il primo spettacolo al Gatti's Music Hall di Westminster Bridge Road. La troupe ridotta di Whitlock interpretava lo sketch in tre teatri nella stessa serata; dal Gatti's sarebbero passati al Canterbury, quindi al Camberwell Palace, e poi di nuovo al Gatti's per lo spettacolo finale. Il Gatti's disponeva solo di due camerini dietro il piccolo palcoscenico, uno per gli uomini e uno per le donne, quindi s'incontrarono nell'ufficio del direttore.
Whitlock era tutto truccato e indossava il grembiule di un commerciante di tessuti, il suo costume per lo sketch. «Fra una decina di minuti andranno in scena le Sorelle Coulson» disse. «Fino ad allora sono a vostra disposizione.» «Il vostro telegramma diceva che avevate delle lettere da mostrarmi» ribatté Sebastian. «Infatti.» Il capocomico frugò nel panciotto sotto il grembiule ed estrasse un fascio di carte assortite e dall'aria alquanto dozzinale. «Le tengo sempre con me. Non voglio che le veda la signorina Porter.» «Non erano indirizzate a lei?» «Sì, ma io ho riconosciuto la grafia. Quindi le ho intercettate. È già abbastanza angosciata di suo, senza dover sopportare i deliri di un pazzo.» I minuti passarono sull'orologio da parete nell'ufficio del direttore, mentre Sebastian leggeva la prima lettera e poi la successiva. «Dev'essere stato sgradevole per voi leggere una simile serie di accuse nei vostri confronti» commentò di lì a poco. «Sono stato recensito da Shaw» disse Whitlock. «Quelle lettere non sono nulla, credetemi.» Sebastian alzò lo sguardo. «Avete le buste?» Whitlock fece un cenno dispiaciuto. «Non c'erano francobolli,» ribatté «ma basta il contenuto a indicare che Sayers si trova qui a Londra. Se fossi in voi, ispettore, indagherei nei pub nei pressi di St. Martin's Lane.» «E perché, signore?» «Sono rifugio della confraternita della boxe. E annusando la carta di quelle lettere dovreste intuire che sono state scritte su un tavolo macchiato di birra. Qui siete ben lontano dalla vostra giurisdizione, ispettore Becker. Vi suggerisco di dividere la taglia con i vostri fratelli della polizia metropolitana. Altrimenti quanto sperate di poter fare?» «Tanto quanto mi consentirà la mia tenacia, signor Whitlock. Queste devo tenerle io, per studiarle ancora prima di decidere che cosa sia meglio fare.» «Come desiderate» esclamò Whitlock. «Io sento di aver fatto il mio dovere.» Sebastian infilò le lettere nel cappotto. «Potete starne certo, signor Whitlock» ribatté. «Lo prenderò.» «Allora sono sicuro che potremo tutti dormire sonni tranquilli.» Whitlock si alzò e gli tese la mano. «Ditemi, ispettore. Che cosa credete esattamente di inseguire? Un uomo, o un demonio?»
«Non credo ai demoni» disse Sebastian Becker, ricambiando la stretta dell'attore. Whitlock gli trattenne la mano e lo guardò in faccia per un lasso di tempo quasi imbarazzante. Poi esclamò: «Mi pare giusto». E lasciò la presa. Un ragazzo entrò nell'ufficio del direttore annunciando: «Signor Whitlock, le Sorelle Coulson stanno lasciando il palco». «Dovete scusarmi» disse Whitlock. «Vi auguro tutto il successo che meritate.» «Dove si trova adesso la signorina Porter?» «È ospite nei miei appartamenti» disse Whitlock, mentre seguiva il ragazzo fuori dalla porta. «Non ha più il cuore per esibirsi.» Fece una pausa. «Né per nient'altro oramai» aggiunse, e quindi lasciò la stanza. L'attore se n'era andato senza lasciargli un indirizzo, ma Sebastian impiegò pochi minuti a trovare ciò di cui aveva bisogno fra i documenti del direttore. Whitlock era ancora in scena quando Sebastian lasciò il teatro e s'incamminò verso la stazione di Waterloo, sperando di prendere una carrozza che lo riportasse sull'altra sponda del fiume. Forse Whitlock si aspettava che andasse dritto ai ritrovi dei pugili di St. Martin's Lane anziché cercare la signorina Porter che, del resto, non sapeva nulla delle lettere che Sayers le aveva indirizzato. Ma Louise Porter era un elemento essenziale nel mistero del campione di pugilato. In tutto ciò che aveva fatto finora, quell'uomo aveva dimostrato di curarsi più del bene di lei che non della propria sopravvivenza. In tutto ciò che aveva fatto, ovvero tutto tranne l'uccisione dell'innamorato di lei. La governante di Whitlock tacque, finse di non capire nulla di quanto diceva Sebastian, e parve determinata a non riceverlo finché dall'interno non si udì provenire il grido di una giovane donna, che lei capì a sufficienza. Louise Porter lo accolse nel salotto, quello spazio poco sfruttato, ultradecorato ed eccessivamente lindo che la famiglia vittoriana destinava all'unico scopo di suscitare sensazione. Era vestita di nero. Non erano gramaglie formali: si muoveva e parlava proprio come una fresca vedova. Sebastian le chiese di guardare una delle lettere. Importava poco quale scegliesse; dicevano tutte più o meno la stessa cosa, Lei ne scorse una, poi un'altra. Pareva non esserne sorpresa.
«Queste sono le più innocue» disse lei. «Ce ne sono state altre. Queste non riportano l'affermazione più bizzarra.» «Il signor Whitlock ritiene che non sappiate nulla delle lettere» ribatté Sebastian. «Pensa di averle intercettate tutte.» «Tutti vogliono proteggermi» replicò lei. «Allora, quale sarebbe l'"affermazione più bizzarra"?» «Tom Sayers vorrebbe farmi credere che il mio ex datore di lavoro e attuale protettore sia un demonio in veste umana. Un individuo che ha voltato le spalle a Dio e che adesso, mentre si avvicina alla fine dei suoi giorni, cerca di evitare la giusta punizione. Dice che il mio defunto fidanzato si apprestava a prendere il suo posto. Voglio domandarvi una cosa, ispettore Becker. In questo preciso istante Edmund Whitlock corre da un teatro di varietà all'altro, in costume di scena, per interpretare una pièce da niente davanti a un branco di ubriaconi. Il meglio che possa sperare è che ridano delle sue pagliacciate. E non è in buona salute. Se questa è una ricompensa di lunga vita e buona sorte, io lo vedo un affare alquanto svantaggioso.» «Tom Sayers è pazzo da legare.» «Lo impiccheranno comunque quando lo cattureranno?» «Non posso dirlo. In tal caso come la prendereste voi?» Lei volse lo sguardo alla finestra. Le tende erano scostate e, attraverso il merletto, s'intravedeva un lampione esterno. «Dovrebbero risparmiargli la vita» disse. «Mi ritiene degna d'essere salvata. Quale miglior prova che ha perso la ragione?» «Potete dirmi qualcosa di più?» domandò Sebastian. Lei abbassò lo sguardo. «L'inferno non è un posto caldo» rispose. «È un posto dove il ghiaccio diventa cenere.» Sebastian restò in attesa, ma lei non aveva altro da dire. Confuso e lievemente turbato, si alzò. «Allora,» disse «vi ringrazio e vi auguro la buonanotte.» Lei suonò il campanello per farlo accompagnare fuori dalla donna silenziosa. In un'altra stanza da qualche parte, un cagnolino prese ad abbaiare al suono del campanello. Louise Porter si portò una mano alla testa e assunse l'aria di chi è depresso senza speranza. «Tom Sayers non capisce» esclamò. «Anche se il signor Whitlock fosse un demonio, a me non interesserebbe. M'interessa ben poco, di questi tempi.»
«Mi dispiace molto, signorina Porter.» Di fatto Sebastian non era riuscito a trovare altro da dirle. Nell'attesa della governante, vi fu qualche istante d'imbarazzo. Abbassando lo sguardo sul tavolino laterale accanto al gomito della donna, Sebastian notò un fascio di cartoncini freschi di tipografia. Notò la parola "discrezione" scritta con grafia infiorettata. Obbedendo all'impulso che lo ispirava, raccolse il cartoncino in cima alla pila e se lo fece scivolare sotto la manica all'ingresso della donna silenziosa. Lo teneva ancora in mano quando uscì in strada. Sotto il lampione, alzò lo sguardo verso la finestra del salotto, ma non vide nessuno. Sollevò il cartoncino alla luce. Era un invito formale che recitava: «Alla presenza della signorina Porter. Riservato a signori di scelta discrezione». Era tutto. Sotto campeggiava un orario - mezzanotte, di lì a due giorni - e un indirizzo abbreviato. Signori di scelta discrezione. L'espressione pareva circondata da un'aura di decadenza. Quasi di degenerazione. Strano, pensò. Molto, molto strano. Frattanto al Lyceum, era ancora rappresentata la cosiddetta "opera scozzese". Pur nel complesso positiva, l'accoglienza dei critici era stata tiepida; William Archer aveva scritto che Irving era riuscito a «contenere quella peculiare gestualità ed espressività che di solito gli sfuggiva di mano». La Lady Macbeth di Ellen Terry era stata accolta con elogi altrettanto fiacchi, e girava voce che l'attrice avesse in mente di lasciare la parte. Ma, come sapeva Bram Stoker, quella voce era falsa. Sera dopo sera la reazione dei critici era contraddetta dal clamore del pubblico e l'affluenza sfidava la capacità del teatro. Ellen Terry giurava di non spostarsi di un millimetro dall'interpretazione del ruolo. Sargent stava per chiederle di ritrarla in costume, con i folti capelli rosso scuro e l'abito tempestato di vere ali di scarabeo, con i loro bagliori blu e verdi. Le prevendite erano assai numerose, persino per gli standard del Lyceum. Quando lasciò il teatro a tarda sera, dopo un altro pienone, Stoker non si diresse a Chelsea nella sua casa di Cheyne Walk. Percorse invece quel mezzo miglio sino a St. Martin's Lane, e lì cercò un cortile nei pressi di Leicester Square. Pagò sei pence al portiere di un circolo sportivo della zona, e ricevette un gettone metallico da scambiare al bar con una birra o un liquore. Intenzionato a non approfittare di nessuno dei due, Stoker salì
le scale sino alla sala al piano di sopra. Al bar era seduto il proprietario dal naso rotto con i suoi amici dal collo taurino, tutti ex pugili. Spesso nella prima parte della serata, quando la sala era piena, due di loro si sfilavano la camicia e indossavano i guantoni per boxare un po', per poi fare la colletta tra i presenti. Alle pareti erano appesi dei ritratti di pugili scomparsi da tempo: Bill Neate con il suo passo pesante; Bob Gregson, il campione del Lancashire; Jack Randall contro Ned Turner. Assieme a quei ritratti era appesa anche una stampa del proprietario con l'aria giovane, fiera e provocatoria, mentre la sua attuale versione più vecchia e persino più brutta, tracannava gin a qualche metro di distanza. In mezzo a quella compagnia, era evidente che Tom Sayers, seduto da solo a un tavolo distante dal bar, non era rimasto sfigurato come gli altri, grazie alla brevità della sua carriera da pugile. Aveva il naso dritto e la fronte priva di cicatrici. Le orecchie avevano ancora il loro aspetto normale e non quello di funghi bitorzoluti. Alzò subito gli occhi all'ingresso di Stoker. Quest'ultimo non dubitava che Sayers avesse già pronta una via di fuga, anche se, a guardarlo, avrebbe avuto qualche difficoltà a utilizzarla: era impegnato a scrivere una lettera; aveva delle carte sparse sul tavolo e accanto un bicchiere e una bottiglia. Il bicchiere era sporco e la bottiglia mezza vuota. Sayers era paonazzo, e lo sguardo che ricambiò al suo visitatore era incerto. «Tom» disse Stoker in tono avvilito, indicando la bottiglia come per dire "E questo pensi che ti aiuti?". «Lo so, Bram, lo so» ribatté Sayers. «Ne ho bevuti solo uno o due, giusto per calmare i nervi.» Stoker non aveva bisogno di spiegazioni. Il gin leniva il dolore. Era il rimedio per chi faceva una vita tale da non avere altri rimedi. «Le lettere sono una perdita di tempo, Tom» disse Stoker spostando una sedia per accomodarsi. «Tanto non riesco a fargliele avere» ribatté Sayers. «Do istruzioni al garzone del pub di consegnarle nelle mani di Louise, ma Whitlock le intercetta.» «Ha preso in affitto l'Egyptian Hall per una serata.» Stoker gli fece scivolare di fronte il cartoncino stampato. Il pugile si sforzò di metterlo a fuoco al lume della candela. «Conosco la struttura di quel teatro» continuò Stoker. «Maskelyne l'ha rimaneggiato per i suoi spettacoli di magia. Non è facile arrivare nel retro-
palco.» Sayers avrebbe capito a che cosa alludeva. Quasi tutti i più celebri illusionisti preparavano così i loro luoghi di esibizione: vi spedivano una squadra di carpentieri per rivestire di pannelli il retropalco, inscatolandolo a tutti gli effetti. Con il palco cintato, nessuno poteva accedere alla zona protetta per ficcare il naso nei loro armamentari o per carpire i trucchi del mestiere. Con gli occhi sempre fissi sul cartoncino, Sayers domandò: «E chi sarebbero questi "signori di scelta discrezione"?». «Giovanotti altolocati che hanno già dilapidato patrimoni. Sono il motivo per cui Whitlock ha sfoggiato Louise nelle occasioni mondane di tutta la città.» Sayers annuì. «Allora ho ragione. Ha in mente di reclutare il suo nuovo Caspar. Non si tratta solo di trovare un libertino o un dissoluto; di quelli ce ne sono a bizzeffe, e non servono. No, lui cerca un Caligola dei giorni nostri, uno che possa comprendere appieno l'entità della scelta che ha di fronte. Louise è l'esca attaccata al suo amo. Che cosa possiamo fare, Bram?» Stoker diede uno sguardo alla bottiglia di gin. «Con la mente stordita da quello? Niente. Preferivo la tua compagnia quando potevi permetterti solo metà pernottamento in un albergo senza alcolici.» Sayers alzò le mani, come se invitasse una folla al silenzio. «Non giudicarmi, Bram» esclamò. «Te ne prego. Tu non puoi sapere. E prego che tu non sappia mai.» Stoker stava per dire qualcos'altro, ma poi cambiò idea. Si alzò e lasciò sul tavolo l'invito, con il gettone da sei pence. «Che Dio sia con te, Tom» esclamò, prima di voltarsi e tornare alle scale. Venticinque Due notti più tardi, a un'ora in cui quasi tutti si apprestavano ad andare a letto, Louise scese in strada, dove la attendeva una carrozza. Il Taciturno le aveva precedute sul posto, e adesso la moglie accompagnava Louise. Avrebbero fatto salire Edmund Whitlock all'ingresso degli artisti del Gatti's per poi procedere verso la loro destinazione notturna. L'Egyptian Hall si trovava a Piccadilly, e dagli ultimi sedici anni era la casa del mistero d'Inghilterra. La facciata dell'edificio di quattro piani era
quella di un tempio antico e dava l'idea di essere stata scolpita nella pietra della valle del Nilo. L'architrave sopra l'ingresso era sorretto da due poderose colonne, e su di esso campeggiavano due monumentali statue. Un'illusione di stucco e cemento. Ai lati di quel lastrone dell'antico deserto si susseguiva una schiera di cupi edifici vittoriani. All'interno l'edificio ospitava due teatri. Uno dei due era stato occupato da Maskelyne e Cooke per uno spettacolo di tre mesi a base di magia e illusionismo che, a una quindicina d'anni dal debutto, non dava ancora segni di volersi interrompere. L'altro era usato per le mostre o, di tanto in tanto, per uno spettacolo. Qualche minuto prima di mezzanotte la carrozza si fermò davanti al teatro. Edmund Whitlock scese e si voltò per offrire il braccio a Louise. Agli occhi di un osservatore distratto le sale sarebbero apparse chiuse e buie; ma un guardiano notturno attendeva per farli entrare. Louise camminava con gli occhi bassi, senza guardare né a destra né a sinistra. Raggiunsero direttamente il retropalco, dove il Taciturno li attendeva per condurli in platea. Era un teatro intimo, con un palcoscenico ridotto e una passerella che si estendeva dalla ribalta sino al lato opposto della fossa orchestrale. Le luci erano accese e il sipario era alzato; Maskelyne stava allestendo un nuovo spettacolo, e dunque i fondali erano per metà smantellati lasciando intravedere la parete posteriore del teatro. In platea c'era circa una dozzina di persone, tutti uomini e tutti seduti per conto proprio, anche se qualcuno conversava ad alta voce da una fila all'altra. Tacquero quando Whitlock condusse Louise al centro del palcoscenico, dove l'attendeva una sedia. L'uomo vi lasciò la ragazza seduta e si spostò verso le luci della ribalta. «Signori» disse, facendo risuonare la voce sino al soffitto a volta. «Benvenuti. Prima di questa sera ho parlato a turno con ciascuno di voi.» Louise restava seduta sul palco con lo sguardo abbassato. Il giorno precedente Whitlock l'aveva portata a Bond Street per farle prendere le misure di un abito nuovo che le modiste avevano confezionato nottetempo. I capelli le erano stati appuntati ad arte dalla Muta, che aveva un talento per certe cose. Aveva il volto incipriato e il pallore naturale mitigato da un lievissimo accenno di belletto. Louise notò il Taciturno sgusciare fuori dall'ombra delle quinte, per poter scrutare la platea. «So che siete interessati» proseguì Whitlock. «So che sarete discreti. E
conosco il fascino che la signorina Porter esercita su tutti voi. Questa notte offrirò a un uomo l'opportunità d'inseguire quel fascino fino in fondo.» Sentendo citare il proprio nome, Louise alzò lentamente la testa per guardare Whitlock. Vide stagliarsi il suo profilo alle luci della ribalta e, più avanti, la soffusa penombra della platea. Quegli uomini laggiù non erano altro che ombre nelle ombre, i volti eclissati dal bianco acceso delle camicie da sera. «Sappiate che non vi nascondo nulla» diceva Whitlock. «Sono dannato. Ho vissuto un'esistenza lontana da Dio ed è stata... meravigliosa. Sgravarmi la coscienza è la libertà più grande di tutte. Cristo era crocefisso, e io non provavo nulla per il suo dolore. La colpa non m'incatena. Dio non è il mio Signore. Io non ho signore.» Dalla platea una voce gridò: «E il castigo finale?». «Evitabile» ribatté Whitlock. «Porgendo il dono a un altro, come adesso io faccio con voi.» Louise udì un uomo vicino alla ribalta dire: «Alla fine arriva sempre il conto». Ma Whitlock aveva una risposta pronta. «È vero, signore,» esclamò «ma io ho scelto la vostra compagnia perché ciascuno di voi è in grado di passare il conto a qualcun altro.» Quelle parole provocarono qualche risatina nervosa, e Whitlock ne approfittò per volgere la schiena ai presenti e raggiungere Louise. Lei alzò gli occhi per guardarlo. «Abbiamo terminato, Edmund?» gli domandò. «Solo un altro po'» rispose lui. «Alzati.» Le offrì la mano che non le serviva, e lei si alzò. L'uomo sorrise e, per circa un secondo, Louise vide un muscolo della guancia fremergli in maniera incontrollata. Ben lungi dal tenere sotto controllo la situazione, sembrava in preda a un quieto terrore. Quando tornò a rivolgersi alla platea con lei, quel segno rivelatore era scomparso, mascherato dallo sfoggio di sicurezza dell'attore. «Ecco la vostra entratura, signori» disse. «A lei, o con lei, potete fare tutto. Non se ne cura. Non c'è nulla nel suo cuore.» Inaspettatamente la schiaffeggiò in volto, con forza. La testa ondeggiò, ma Louise non cadde. Un paio di giovani in platea si alzarono. Ogni impulso di protestare fu sedato quando spostarono l'attenzione sul Taciturno a lato del palcoscenico: nel vuoto del teatro era impossibile non sentirlo armare il revolver. Dopo aver predisposto l'arma, la tenne con la canna puntata verso l'alto, pronta ad abbassarla e fare fuoco, se necessario.
«Che cosa dici, Louise?» domandò Whitlock. «Grazie, Edmund» rispose Louise. L'uomo tornò a rivolgere lo sguardo agli spettatori. «Ebbene?» li sfidò. «Cerco un uomo che non abbia paura. E gli offro il mondo.» L'uomo appena oltre la ribalta si alzò. «Non è per me» esclamò, e fece per uscire. Un istante più tardi, altri due o tre cominciarono a seguirlo. «Come desiderate, signori» gli gridò dietro Whitlock, cercando di far buon viso a quella sgradita reazione, ma non riuscendo a nascondere l'angoscia crescente per quel piano che gli stava fallendo dinanzi agli occhi. «Questo non è un premio per tutti.» «Voi avete paura, signore» ribatté uno di loro. «Non fate buona pubblicità al vostro affare.» «Se la dannazione è un premio di tale portata,» gridò un altro «come mai Irving è al Lyceum e voi invece vi arrabattate per raccattare un penny? A chi ha venduto l'anima lui? Io me ne vado là!» Alcuni risero. Un altro disse: «Il vostro non è un dono, signore, è un fardello. Sarei ben felice di prendere la signora. Ma di voi non so che farmene». Adesso, dappertutto si sentivano rumori di persone che si alzavano e lasciavano la platea. Delle sagome scure si spostavano tra le file come fantasmi, dirette ai corridoi e alle uscite. Whitlock perse il controllo. Prese Louise per il braccio e la trascinò con forza verso la ribalta dove, con un brusco strattone, le strappò il davanti dell'abito nuovo. In un solo movimento, le squarciò bustino, sottoveste e tutto. La violenza di quel gesto le fece quasi perdere l'equilibrio. Afferrò il tessuto lacerato e se lo strinse al petto. Era imbarazzata, ma non opponeva resistenza. «Un uomo!» ringhiò Whitlock rivolto a chi se ne andava. Era un grido da tragedia, teso a scuotere e a ispirare, ma non faceva che tradire la sua disperazione. «Un uomo con del sangue vero nelle vene!» E dal fondo della sala una voce domandò: «Si può ispezionare la mercanzia?». Con l'improvvisa concentrazione di un lupo che individua l'agnello più debole nel caos di un gregge in preda al panico, Whitlock concentrò tutta l'attenzione sull'uomo alto che si spostava nel corridoio centrale. O forse era l'interesse per l'unica gomena raggiungibile, da parte di un uomo che
stava annegando. Vestito come gli altri, non più riconoscibile degli altri nell'ombra, l'uomo alzò una mano per schermarsi gli occhi dal bagliore delle luci del palcoscenico. «Un'ispezione?» domandò Whitlock. «Ma naturalmente.» Spinse Louise in avanti e lei fece un paio di passi incerti verso la passerella che, partendo dalla ribalta, superava la fossa orchestrale e culminava sulla prima fila di poltrone. Ritrovando l'equilibrio e stringendosi al petto il bustino strappato con un filo di dignità ritrovata, Louise giunse sino in fondo alla passerella. Qui si fermò, imbarazzata ma con il portamento eretto, per presentarsi all'ispezione. Sola, fiancheggiata dal buio della fossa orchestrale, guardò dinanzi a sé e attese. Se quell'uomo era interessato o meno, a lei non importava. Dalla platea, l'uomo domandò a bassa voce: «È proprio quello che volete, signorina Porter?». «No, signore» rispose lei. «Ma è quello che merito.» A quel punto lei lo guardò. L'uomo era sotto di lei con il volto sollevato, una mano gli schermava ancora gli occhi. Lei capì che quel gesto mirava soprattutto a nascondere le fattezze dello sconosciuto agli occhi degli altri. Lo vide lanciare un'occhiata in direzione del Taciturno, ancora armato e in cerca di guai. Poi l'uomo le tese l'altra mano, come per invitarla a chinarsi a prenderla e farsi aiutare a scendere dal palcoscenico. «Tom?» disse con voce bassa e spezzata. «Vieni» ribatté lui, a voce abbastanza alta per farsi sentire da lei. «Hai visto la vera natura di quell'uomo e ormai conosci il suo scopo. Non vedi che dicevo la verità?» Per chi sostava in platea e nelle ali, Louise non dava alcun segno di averlo riconosciuto. Mantenne l'espressione assente, e parlò a malapena. «Vattene» gli disse. «Vattene di qui, prima che sia troppo tardi. Dimenticati di me.» «E come posso?» «Devi. Lui mi possiede. Sono perduta. Vattene, Tom. Salvati.» Sayers fece per dire qualcos'altro. Ma in quel momento, cominciò la sparatoria. Cominciarono a volare le schegge, e i proiettili martellarono le poltrone intorno a lui. Il Taciturno aveva fatto un passo avanti e preso la mira, e
stava svuotando il revolver in direzione di Tom Sayers. Lui capì di essere stato riconosciuto e si gettò a terra. Sul palco, Louise non si mosse. Batté a malapena ciglio mentre in teatro riecheggiava una raffica di colpi di pistola. Chi aveva quasi lasciato la sala si gettò a terra o si precipitò alle uscite; chi era ancora seduto balzò via dalle poltrone. Dilagava il panico, ed era difficile capire come mettersi in salvo. Sayers si accorse che un uomo si stava arrampicando sul palcoscenico. La sparatoria cessò di colpo così com'era iniziata: le camere del revolver si erano svuotate. Sayers non era stato sfiorato, ma un grido sempre più acuto dalla parte opposta della platea indicava che almeno una pallottola aveva intercettato un bersaglio umano. Sul palcoscenico, Whitlock aveva afferrato Louise e la stava trascinando verso le quinte. Dall'alto si udì un rimbombo. Sayers alzò lo sguardo e vide calare il sipario di sicurezza; qualcuno nel retropalco aveva sganciato il contrappeso, e le cinque tonnellate di asbesto e metallo stavano piombando giù come una ghigliottina. Sayers spiccò un salto da un lato della passerella e balzò sul palcoscenico. «Sta calando il sipario tagliafuoco» gridò per avvertire chiunque fosse a portata d'orecchio. Una volta che il sipario tagliafuoco fosse sceso del tutto, non sarebbe stato possibile raggiungere il retropalco dalla platea. E chiunque si trovasse nel posto sbagliato mentre calava sarebbe stato schiacciato, o peggio. Un secondo dopo che lui vi passò sotto, il "ferro", com'era chiamato in gergo teatrale, si abbatté sul palcoscenico scuotendone le assi, con un rimbombo che riecheggiò fin negli scantinati. La polvere si sollevò dal legno come da un tappeto battuto. Se, come aveva detto Stoker, il palcoscenico era stato blindato per i numeri di magia, allora Whitlock e i suoi scagnozzi avevano una sola via d'uscita. Ma dove era localizzata? Sayers non aveva mai recitato all'Egyptian Hall né vi aveva mai portato una compagnia, quindi poteva solo usare l'intuito. Optò per l'ala sinistra del palcoscenico, tentando di ricordare la pianta dell'edificio che aveva visto all'ingresso. Quando raggiunse il retropalco, trovò la porta di servizio chiusa, e il corpo del Taciturno steso inerte davanti. Su di lui incombeva un altro uomo, lo sguardo abbassato sul corpo mentre sbarrava le uscite del palcoscenico impugnando il revolver del Taciturno. Sayers non lo riconobbe finché non alzò gli occhi e parlò. «Mio Dio, Sayers» esclamò Sebastian Becker. «Ditemi in che cosa sono
finito.» Sebastian era entrato con il biglietto che aveva rubato dagli appartamenti di Whitlock, e aveva preso posto a lato della platea. Non sapeva che cosa aspettarsi. Quando aveva visto Whitlock avanzare e offrire per scopi immorali la sua giovane pupilla come una schiava all'asta, era rimasto sbigottito. Non aveva mai saputo che esistessero cose simili... se non nelle pagine dei romanzi proibiti. I ceti più bassi potevano forse vendere le mogli e schiaffeggiarle in pubblico, ma quelli non erano dei bruti, erano degli uomini con la camicia pulita e un patrimonio personale. Aveva esitato a entrare in azione finché non era cominciata la sparatoria, e a quel punto era stato chiamato al dovere. Mentre gli altri erano in preda al panico, lui era avanzato lungo le file di poltrone e al momento opportuno era salito sul palcoscenico. Quando era calato il sipario di sicurezza, lui si trovava già nel retropalco. Il suo primo scopo era stato quello di cogliere di sorpresa l'uomo con la pistola e disarmarlo. L'uomo stava cercando il suo padrone e non era riuscito a vedere lui, che non aveva corso rischi e l'aveva steso con un pugno. Adesso Sayers gli disse: «Se eravate presente al discorso di Whitlock, non c'è bisogno che vi racconti altro. È fuggito da questa parte?». «Nessuno mi è passato accanto.» «Allora devono essersi intrappolati da soli, e stanno cercando un'altra via d'uscita.» «Credo di sì.» Sebastian frugò nel cappotto dell'uomo dal cranio rasato, in cerca di altre munizioni; non trovandole, si alzò e s'infilò il revolver nella cintura dei pantaloni. Sayers non aveva atteso. Era già partito in cerca di Louise, la donna che una volta l'aveva spinto sotto un treno e che da allora era sempre più indifferente al proprio destino. Esisteva uomo più dedito al proprio scopo? Sebastian tese l'orecchio e lo sentì chiamare il nome di lei; udì anche qualcos'altro, sotto i suoi piedi... un rumore sordo, come di una porta che sbatteva in qualche altra zona dell'edificio, ma proveniente dal basso. «Sayers» gridò. «Sono nel sottopalco!» Ma Sayers non riusciva a sentirlo o forse stava già scendendo là sotto. Nel retropalco, dietro i fondali, c'era una sezione del pavimento sollevata. Era una botola squadrata di poco più d'un metro di lato, con una scala che scendeva nel buio sottostante. Senza esitazioni, Sebastian la infilò.
Il sottopalco era illuminato: qualche lampadina elettrica gettava un fioco bagliore giallastro, sufficiente per spostarsi ma niente più. La parte inferiore del palcoscenico era un intrico di travi di legno e putrelle incrociate, quasi il pavimento soprastante fosse stato costruito per reggere un peso di gran lunga superiore al necessario. «Sayers!» gridò su per la scala. «Mi hai sentito? Whitlock sta cercando di raggiungere la fossa orchestrale!» In risposta alla sua voce udì un fruscio; potevano essere i topi, perché il movimento che attirò la sua attenzione proveniva da tutt'altra direzione. Laggiù c'era Whitlock, che si arrampicava sulle travi. Non riusciva a passarci in mezzo. Chi aveva sigillato il teatro per proteggere i misteri del soprapalco si era altrettanto premurato di proteggere gli ulteriori segreti del sottopalco. Il pavimento del palcoscenico sopra di loro era una griglia di botole quadrate che l'illusionista poteva sollevare per entrare o uscire di scena da uno dei tanti apparati magici. Whitlock stringeva Louise e se la trascinava dietro: il suo unico trofeo, la sua ultima risorsa, la sua esca. Ma lei lo rallentava; il nuovo abito era così voluminoso da impigliarsi quasi ovunque. Sebastian si mise al loro inseguimento e subito batté la testa su una sporgenza più bassa delle altre. Il colpo era di striscio e non troppo violento, ma sufficiente a disorientarlo per qualche istante. Impiegò quei pochi secondi di capogiro e smarrimento per estrarre la pistola vuota dalla cintura dei pantaloni. «Whitlock!» gridò alzando l'arma. La tenne puntata come per fare fuoco. Un uomo avrebbe potuto metterci un bel po' ad arrampicarsi fra le travi del sottopalco per raggiungere un fuggitivo; una pallottola ben mirata avrebbe fatto lo stesso viaggio senza ostacoli. Questo se avesse avuto una pallottola. Invece la pistola era scarica. Ma Whitlock non lo sapeva per certo. Vide Whitlock girare la testa e guardare l'arma da fuoco. Con uno strattone terrorizzato, il capocomico spostò Louise sulla linea di tiro in modo da farsi scudo con lei, che fu costretta ad aggrapparsi a una delle travi per non cadere. «Siete un codardo, signore» gli gridò Sebastian. «Vi nascondete dietro una donna! Arrendetevi. Non avete via d'uscita!» Ma con quella mossa Whitlock mirava solo a guadagnare qualche istante. Aveva già in mente una via d'uscita, e in quel momento Sebastian intuì quale fosse il suo piano. Una botola nel pavimento celava un macchina di movimentazione con pulegge e contrappesi. Whitlock palesò il proprio
scopo salendo sulla piattaforma al centro della botola. «Sayers» gridò Sebastian, sperando che il pugile, ovunque si trovasse, fosse avvertito in tempo da impedire a Whitlock di tornare alla porta di servizio. «È sulla botola!» A quel punto il capocomico sganciò i contrappesi, che sollevarono all'istante la piattaforma e il suo occupante verso il palcoscenico. Sayers aveva sentito ogni chiamata del poliziotto, a cominciare dalla prima, ma non era riuscito a rispondere. Non osava distogliere l'attenzione dalla Muta, che adesso era davanti a lui e brandiva una delle spade truccate di Maskelyne; da qualsiasi parte lui cercasse di schivarla, si trovava sempre la lama di fronte. Sapeva che era affilata. L'aveva già tagliato una volta. La donna era balzata fuori da una fila di casse di legno e attrezzature da illusionista, parandosi di fronte a lui mentre stava setacciando il magazzino di scena dietro le quinte. Prima d'ora non le aveva mai prestato attenzione; ai tempi del Diamante purpureo era la modesta assistente della sarta. Lui le pagava lo stipendio ogni settimana, ma aveva ben poco da dirle. Se gli avessero domandato che impressione avesse di lei, l'avrebbe descritta come una donna dalla carnagione scura, che rifuggiva ogni compagnia e non guardava mai nessuno negli occhi, un'umile lavoratrice avvolta in così tanti strati di abiti vecchi che ne rendevano indefinibili le forme. Si era sfilata il soprabito, in modo da muoversi più comodamente, e lo fissava negli occhi. Vedendola come se fosse la prima volta, si rese conto che era ben lontana dalla vecchia megera ricurva che s'immaginava. Non era giovane, ma aveva il fisico forte e prestante e si muoveva con grazia non comune. Brandiva la spada con mano sicura. Il suo scopo era palese: era lì per far guadagnare tempo al suo padrone. Avrebbe tenuto lui impegnato finché Whitlock non si fosse messo in salvo, e se lui non si fosse lasciato trattenere, lei lo avrebbe abbattuto. Aveva provato a disarmarla, e di conseguenza adesso sanguinava copiosamente. L'aveva costretto a indietreggiare sul palcoscenico, e lui non osava voltarle le spalle: In quel caso, lei l'avrebbe finito con una stoccata. Sentiva Becker gridare sotto di lui, ma era impossibile capire che cosa dicesse. Lo udì gridare il nome di Whitlock, e poi il suo... Stava cercando di avvertirlo di qualcosa. Ma lui non osava distogliere lo sguardo dalla Muta, e questa non spostava lo sguardo da lui. Dopodiché avvenne un fatto inatteso... quasi sotto i loro piedi si udì un
rimbombo di pesi e pulegge. Nessuno dei due avrebbe voluto abbassare lo sguardo, ma lo fecero entrambi. Lui conosceva bene quel rumore. Era la macchina di movimentazione della cosiddetta star trap. La star trap, la "botola a stella", consentiva la più spettacolare - e potenzialmente più pericolosa - entrata in scena che un artista potesse compiere. Con l'aiuto di un lampo di polvere di magnesio, dava l'impressione che un attore apparisse dal nulla. Una piattaforma munita di massicci contrappesi spingeva in scena l'attore dal sottopalco attraverso una botola a foggia di stella. I pannelli della botola scattavano verso l'alto, aprendosi come petali di un fiore. Una volta che il corpo dell'attore era passato, i pannelli tornavano a posto nascondendo il punto d'uscita. Una botola ben congegnata faceva il suo lavoro in circa mezzo secondo, Mezzo secondo bastò a malapena a Sayers per piazzare il piede su uno dei pannelli. Il pavimento sobbalzò. Sayers sentì un corpo urtare a tutta forza contro la botola e poi ricadere di nuovo di sotto. Qualcuno dei pannelli appuntiti scattò verso l'alto. Persino quello che lui teneva premuto si mosse di qualche centimetro. E poi più nulla, finché la Muta cominciò a gridare. Ventisei «Cartaphilus!» gridò rivolta al pavimento. «Salathiel!» E avrebbe gridato ancora se Sayers non avesse approfittato della sua distrazione per metterla al tappeto assestandole un diretto. In uno dei recessi segreti e ignobili del suo animo si era sempre domandato che effetto facesse colpire una donna, come quando la mente tende a baloccarsi con i tabù da cui dovrebbe rifuggire. Come dissacrare il crocefisso, o dissezionare una fata. Era l'idea che non si poteva accarezzare, la soggezione provata di fronte a una porta che non si osava aprire. Eppure, quando fu il momento di arrivare al dunque, non ebbe alcuna difficoltà. Reagì come avrebbe fatto con un uomo armato che l'avesse ferito con una lama e minacciasse la sua vita. Solo quando la donna piombò sul pavimento, quando la lama le cadde dalla mano tintinnando, riconobbe che era una cosa sbagliata. Ma a quel punto lei era a terra, e lui era salvo. Cercò di scardinare le lamine della botola, ma il carpentiere di scena aveva fatto bene il suo mestiere ed erano troppo serrate. Gli spettatori in platea non avrebbero notato tracce di macchinari. Sayers raccolse la spada
dal palco. La Muta si muoveva leggermente, ma al momento non costituiva una minaccia. Facendo leva con la punta della lama, forzò uno dei raggi della stella e riuscì a sollevare gli altri aprendo completamente la botola. Quando abbassò lo sguardo, la prima cosa che vide fu il corpo di Edmund Whitlock steso sulla macchina di movimentazione. La piattaforma si era incastrata a metà e gli arti dell'uomo erano sospesi dai bordi. C'era poco sangue, ma a guardarlo sembrava si fosse spezzato il collo. Sayers s'insinuò nell'apertura e, piazzando i piedi con cautela in modo da mettersi a cavalcioni del corpo, si abbassò sulla piattaforma. Con un carico di due uomini adulti, questa scese lentamente nelle guide. Una volta raggiunta la leva di sgancio dei contrappesi, Sayers la bloccò. Whitlock era morto, adesso non c'era alcun dubbio. Ma dov'era Louise? L'ultima volta che l'aveva vista era insieme al capocomico. Si guardò intorno nella penombra del sottopalco, ma l'unico volto che riuscì a scorgere fu quello di Sebastian Becker. Il poliziotto era seduto a terra a qualche metro di distanza, la schiena appoggiata a un possente pilone di legno. C'era fuliggine e polvere ovunque, ma lui sembrava non curarsene. Stava fissando il corpo disteso di Whitlock. «Dov'è Louise?» domandò Sayers. «Becker, dov'è?» Becker non rispose finché Sayers non si arrampicò fra le travi e lo raggiunse dov'era seduto. A quel punto il poliziotto si accorse di lui, senza però distogliere l'attenzione dal cadavere. «Non so che cos'ho visto» disse. «Avete visto un uomo fare la fine che si meritava appieno» ribatté Sayers. «Ma che cos'è successo a Louise? Era con lui?» «È andata da lui» disse il poliziotto. «Lui l'ha spinta da parte, ma lei è andata da lui. Gli ha tolto il sangue dal viso, e l'ha usato per rigare il proprio. Come lacrime. Io l'ho chiamata. Mi sarei avvicinato di più, ma lei mi ha lanciato un avvertimento.» «Contro che cosa?» «Non saprei dirlo. Ma mi ha fatto fermare dov'ero. Gli ha preso il volto fra le mani e ha posato le labbra sulle sue. Non so se fosse morto, o moribondo. Ma lei ne ha tratto l'ultimo respiro e lo ha fatto suo.» Poi, distogliendo lo sguardo dal capocomico morto, Sebastian Becker si girò a guardare Tom Sayers. «Non è stato qualcosa di fisico» disse. «Né di materiale. Non so che cosa ho visto. Ma posso giurarvelo, Sayers. Lo giurerò sino al giorno della mia morte. Ho visto succedere qualcosa. Giuro che qualcosa è passato da
lui a lei.» Mentre Tom Sayers si insinuava nel sottopalco dalla botola, Louise lo abbandonava passando dalla scala. Aveva il cuore sereno e la mente chiara. Per la prima volta dopo molte settimane, adesso sentiva che la sua vita aveva una forma e uno scopo. Quale forma e quale scopo, non lo sapeva ancora. Percepiva semplicemente la presenza di un significato, dove prima non ce n'era alcuno. E questo la pervadeva, la colmava. Quasi avesse cominciato ad avere un'esatta percezione del suo posto nel grande schema delle cose, che partiva dal centro del suo essere sino ad arrivare oltre il sole e le fredde stelle. Mentre raggiungeva la porta di servizio, si trovò di fronte il Taciturno e la moglie. Avevano entrambi un aspetto pietoso. Difficile dire chi dei due sorreggesse l'altro. Li fermò, esclamando: «Ascoltatemi. Whitlock è morto. Io ho messo a nudo la mia anima di fronte a Dio e mi sono offerta alla dannazione al posto suo. Credo che Dio abbia visto le condizioni della mia anima, e abbia accettato la mia offerta. Sono già all'inferno. Che Whitlock trovi la pace. Come Dio mi è testimone, non sarò redenta per ciò che ho fatto. Ho aperto il mio cuore al fardello dell'Errante. Mi guiderete e servirete come servivate lui?». Loro la fissarono. Ma lei non dubitò che comprendessero. Il Taciturno lasciò la moglie e fece un passo verso Louise. La stava studiando, guardandola negli occhi come in cerca di un segno. Lei restò in attesa e glielo permise. L'abito era indecentemente strappato e anche sudicio, mentre le guance erano rigate del sangue che si stava seccando. Ma lei se ne restava ferma lì, ritta e fiduciosa e del tutto priva di vergogna. Dopo qualche tempo il Taciturno si volse a guardare la moglie, che attendeva il suo parere. Quando il marito annuì, parve quasi rinvigorirsi e crescere di qualche centimetro. Gli occhi della donna s'illuminarono e le guance avvamparono di vita. «Venite» disse l'uomo a Louise, facendo strada fuori dal teatro. FILADELFIA, RICHMOND E OLTRE 1903
Ventisette Quando la mattina del mercoledì Elisabeth Becker scese di buon'ora per preparare la colazione a tutta la famiglia, non si aspettava di trovare un ospite già seduto a tavola. Soprattutto non uno con l'aria del detenuto in fuga. E sembrava anche tale da come sedeva, con la testa bassa e le braccia attorno al piatto, come se qualcuno potesse allungare la mano e rubargli il cibo. Indossava i pantaloni e il panciotto di un abito a scacchi che dava l'impressione d'essere stato sgargiante; adesso invece era sbiadito, e con il colore aveva perso anche la forma. Elisabeth si arrestò sulla soglia. L'uomo doveva averla udita restare senza fiato per la sorpresa, perché alzò lo sguardo su di lei. Si era appena servito una porzione gigante di frittelle con sciroppo di mais, e si sforzava di ingoiarle per poter parlare. «Vi prego» disse lei, alzando una mano. «Continuate pure. Non scomodatevi.» E a quel punto indietreggiò nel piccolo corridoio e, nello spostarsi, urtò contro il marito. Stava per dire qualcosa, ma Sebastian le fece cenno di trattenersi per un istante e la spinse più avanti in corridoio. Da quel punto il visitatore s'intravedeva ancora, ma potevano parlare con maggiore riservatezza. «Sebastian,» disse «chi è quell'uomo?» L'uomo al tavolo era sempre più a disagio. Cercava di comportarsi come prima, ma sapeva chiaramente che stavano parlando di lui. Si era raddrizzato sulla sedia e aveva tolto i gomiti dal tavolo, quasi fosse consapevole della necessità di fare buona impressione. «Si chiama Tom Sayers» rispose Sebastian. «Ha passato la notte qui?» «L'ho fatto dormire sul divano.» «Perché?» «Non ha un posto dove andare.» Non era esattamente la risposta che si sarebbe aspettata. Tornò a guardare l'uomo. Lui si spostò a disagio sulla sedia. «È l'uomo del tendone della boxe!» esclamò lei. «Sì è lui» ribatté Sebastian, guadagnandosi un'occhiataccia. «Sebastian» disse lei, con un inequivocabile tono allarmato. «È una persona che conoscevo in Inghilterra» replicò Sebastian. «Abbiamo una faccenda in sospeso. Sin dai vecchi tempi.» «Sembra un criminale. Lo è?»
«A volte le apparenze ingannano.» Tornarono in cucina, e Sayers si alzò. Sebastian fece le presentazioni. Elisabeth disse a Sayers che era il benvenuto in casa loro e insistette che si sedesse a continuare la colazione. Quando Sayers ebbe terminato le frittelle, si offrì di lavare la padella, ma Elisabeth gliela prese di mano. Spedì l'ex pugile e il marito fuori in giardino, dove avrebbero potuto sedersi a parlare mentre il resto della famiglia faceva colazione. Non era tanto un giardino vero e proprio quanto invece un cortile lastricato di mattoni, ma ospitava un paio di aiuole e, d'estate, una siepe di calicanto accanto alla porta. Avevano una pompa dell'acqua e una mangiatoia per uccelli, ed Elisabeth avrebbe piantato anche un ciliegio se tosse riuscita a farcelo stare. «Avete una bella casa» disse Sayers. «Grazie» rispose Sebastian. «Va un po' oltre i nostri mezzi, ma io faccio del mio meglio per tenermela stretta.» Sayers era seduto su una panchina di ferro battuto e Sebastian su una sedia che si era portato dalla sala da pranzo. Proseguirono la conversazione che erano stati costretti a sospendere la notte precedente. Sayers aveva già raccontato a Sebastian che quella sera, uscendo dal teatro, aveva raggiunto di corsa gli appartamenti di Marylebone arrivando tuttavia troppo tardi, o forse Louise e i due servitori non vi erano mai tornati. Aveva atteso ore e ore per strada, a sorvegliare l'edificio. Dopo qualche tempo aveva sentito abbaiare il cagnolino di Whitlock. Ma non sapeva che fine avesse fatto Louise, dopo quella notte. «E così, alla fine, Whitlock non ha rispettato il patto» disse Sebastian. «Dove sia la sua anima adesso, non è dato saperlo.» «Inseguire Louise è stato come dare la caccia a un fantasma» ribatté Sayers. «Ha cambiato nome. Immagino che abbia cambiato aspetto. A Yarmouth, ho saputo che era fuggita nel Continente. Per un certo periodo ho perso le sue tracce prima di ritrovarle in questi lidi. Di tanto in tanto vengo a sapere qualcosa di più. Mi sono unito a quello sgangherato spettacolo di boxe perché ho sentito che si era trasferita qui nell'Est. È qui da qualche parte. Lo so.» «Le date ancora la caccia dopo tutti questi anni? Il confine fra dedizione e ossessione è labile, Sayers. È facile superarlo.» «Probabilmente avete ragione. Ma quella notte all'Egyptian Hall, ho vi-
sto bene com'è cambiata. Il tempo trascorso con Whitlock ha spazzato via tutte le sue illusioni. Adesso ha capito di non avere alcuna ragione di temermi o disprezzarmi. E invece, ha cominciato a disprezzare se stessa.» «E di conseguenza ha abbandonato tutto ciò che era decoroso per scegliersi una vita di decadenza morale. Non l'hanno confermato le vostre indagini? Si ritiene perduta.» «Potrà anche ritenersi tale, ma ciò non lo rende vero. Quella che ho visto io era una donna degna di essere salvata. È riuscita a perdonare me, ma non a perdonare se stessa. Ditemi, ispettore. È forse segno di un'anima perduta?» «Chiamatemi Sebastian» disse il padrone di casa. «O Becker, se proprio dovete. Non sono più ispettore.» «Credo che sia vincolata alla sua scelta solo per la vita che adesso conduce e per la compagnia che frequenta. I servitori di Whitlock potranno anche cercare d'insegnarle lo stile di vita dei dannati. Ma io credo che la sua natura mitighi gli eccessi del demonio che quelli la indurrebbero a diventare.» «La natura si può sconfiggere» osservò Sebastian. «Una volta ho avuto a che fare con un uomo che si era annegato. Si era infilato delle pietre in tasca per assicurarsi che il suo desiderio di morire prevalesse sul suo istinto di sopravvivenza. Se lei è determinata a vedersi dannata, non c'è nulla che voi possiate fare per impedirglielo.» «Per saperlo devo trovarla» ribatté Sayers. Sebastian continuò a raccontare le proprie esperienze negli strascichi di quella memorabile serata all'Egyptian Hall. Aveva commesso il grave errore di raccontare la sua storia alla polizia metropolitana nei minimi dettagli, senza neanche pensare a come potesse essere accolta. Con il senno di poi, capì che avrebbe dovuto censurarsi. All'inizio gli agenti l'avevano ascoltato attentamente, come un loro pari grado. Poi avevano cominciato a scambiarsi delle occhiate. Quindi si erano spostati in un'altra stanza a discutere di ciò che avevano sentito. Il suo resoconto era stato giudicato insoddisfacente. Nessuno degli altolocati testimoni si era mai fatto avanti. Il guardiano notturno che aveva fatto entrare gli spettatori confermava la loro presenza, ma i cartoncini d'invito non recavano nomi. Quando lui aveva finalmente avuto il permesso di tornare a casa, era stato sospeso dal servizio con mandato di comparizione in tribunale.
Nei giorni precedenti l'udienza era tornato in chiesa. Non aveva pregato, ma aveva trascorso diverse ore a discutere di miti e miracoli con padre Alexander. Padre Alexander poteva anche insegnare al prossimo che Cristo era risorto, ma non amava discettare se una persona intelligente dovesse ammettere che un corpo putrefatto potesse invertire il processo di decadenza, guarire dalle proprie ferite e rialzarsi in piedi. Per il sacerdote, Dio non si manifestava nei prodigi impossibili, ma nel fatto stesso di crederli possibili. Tutto ciò gli era stato di scarso aiuto. La disponibilità a credere nei miracoli poteva anche rendere santo il credente, ma non rendeva certo veri i miracoli. Il tribunale aveva raccomandato le sue dimissioni dalle forze dell'ordine per motivi riportati nel registro della polizia quali «contraddizioni e assenza di equilibrio nella testimonianza». Il suo nuovo sovrintendente aveva convinto l'ispettore capo a emendare il tutto e correggerlo in: «per motivi di salute». La dizione originaria gli avrebbe impedito di trovare un lavoro come quello, la sua seconda vita. Il carattere di un agente della Pinkerton doveva essere irreprensibile, poiché solo chi vantava rigorosi principi morali e sane abitudini poteva entrare in servizio. Per Sebastian giunse il momento di recarsi in ufficio, e Sayers andò a ringraziare la padrona di casa. Lui era impacciato, lei era gentile, e sua sorella e il bambino sedevano in silenzio imbarazzato mentre quel rozzo sconosciuto occupava spazio nella loro stanzetta familiare. A quel punto tornò da Sebastian ed entrambi raggiunsero a piedi la fermata del tram, con cui si spostarono in città. La giornata era calda, e i finestrini della vettura erano abbassati per lasciar entrare un po' di venticello. Sayers sedeva con il gomito sulla sporgenza del finestrino e rifletteva ad alta voce: «Un agente della Pinkerton». «È come fare il poliziotto» ribatté Sebastian. «Salvo che la gente ti rispetta e ci si guadagna da vivere.» «Se entrassi nel vostro ufficio e vi chiedessi di trovare Louise per me, potreste farlo?» «Voi potreste permettervi la spesa?» Sembrava del tutto improbabile. Chiaramente Sayers non se la passava bene e gli anni non erano stati clementi con lui. L'abuso di alcol e i regolari pestaggi nei tendoni del pugilato avevano avuto il loro effetto. A essere
sinceri, nelle poche ore in cui erano stati insieme, Sebastian non l'aveva visto bere, ma con ogni probabilità l'astinenza si sarebbe fatta presto sentire. «L'ho inseguita su e giù per tutto il paese» disse Sayers. «Sa che la sto cercando. Una volta le sono arrivato vicino tanto così» e avvicinò il pollice e l'indice fin quasi a toccarsi. «Sapete dove vive?» s'informò Sebastian. «Recita, canta... A Pittsburgh dava lezioni di danza. Quando le fa comodo è una vedova. Tiene d'occhio l'alta società. Credo che le piacerebbe sistemarsi da qualche parte. Ma per una ragione o per l'altra è costretta sempre a spostarsi.» Il tram raggiunse la solita fermata di Sebastian, e si fecero largo fra i passeggeri in attesa di scendere dalla vettura. «Sayers,» disse Sebastian sul marciapiede, mentre si dirigevano agli uffici della Pinkerton «vi sono grato per aver risposto alle domande che mi tormentavano da più di dieci anni. Ma la vita che voi ancora conducete è quella che io mi sono lasciato alle spalle. E io non ho alcuna intenzione di tornare a quella vita.» «Con la moglie e la casa che avete,» ribatté Sayers «sarei sbalordito di sentirvi dire il contrario. Avete tutto ciò che io invidio.» «Allora cercate di comprendere. Vedrò che cosa posso trovare negli archivi dell'ufficio. Sarete nostro ospite per un giorno o due, vi offriremo qualche buon pasto, vedremo se è possibile dare una sistemata a voi e una lucidata alle vostre scarpe. Se vi occorre del denaro...» «Non prenderò del denaro da voi» esclamò Sayers. «Ma vi sarò grato dell'ospitalità. E se negli archivi della Pinkerton troveremo qualcosa che possa farmi avvicinare a Louise, mi metterò in viaggio e non sentirete più parlare di me. Dovrò pagare i vostri datori di lavoro per le informazioni? Potrebbe essere un problema.» «Io sono il vice sovrintendente. Da me si aspettano che segua dei nuovi casi. E non sempre un caso si trasforma in moneta sonante. È fisiologico, finché rimane nei limiti del ragionevole.» Il veterano di guerra a guardia dell'edificio si era portato una sedia sul marciapiede fingendo di sovrintendere a una consegna, mentre in realtà prendeva solo una boccata d'aria. Dicevano che avesse assistito al massacro di Antietam. Adesso invece si limitava a guardare scorrere la vita. «In caso qualcuno dovesse chiedervelo, siete un cliente» disse Sebastian a Sayers, precedendolo nell'atrio d'ingresso.
Ventotto Il trafiletto in un angolo di pagina 17 dell'«Echo», rivista di società, letteratura e teatro del Sud, recitava: «Martedì pomeriggio p.v. la signorina Mary d'Alroy, la graziosa e minuta attrice che si è conquistata tanti ammiratori qui da noi con la sua interpretazione di Agnes Lane e con le letture delle opere della signora Wood, terrà un ricevimento informale per le signore e i bambini del suo pubblico sul palcoscenico dell'Accademia di Musica. Il ricevimento avrà luogo subito dopo la matinée. Tali eventi sono spesso attesi con grande entusiasmo da chi desidera stringere la mano alla bella diva e scambiare con lei una parola fugace». Louise aveva usato il nome di Mary d'Alroy a Richmond qualche anno prima, e l'aveva riesumato al suo ritorno. In quella zona del Sud degli Stati Uniti era ormai a buon punto per diventare un'interprete di tutto rispetto con un passato verificabile... o che poteva essere sostenuto dalle fonti locali, quanto meno. Altrove, in quella vasta nazione, si era spostata sotto altri nomi, altrettanto affermati. Era sempre una vita pericolosa. Un uomo di San Antonio l'aveva riconosciuta a Chicago, e lei aveva dovuto imbastirgli una storia. Qualsiasi altro mestiere sarebbe stato più sicuro da portare avanti, ma lei doveva sbarcare il lunario e mantenere due servitori, e non conosceva altro modo. Non sapeva cucire, o cucinare, o svolgere altre attività pratiche femminili. E il palcoscenico offriva vantaggi come nessun altro mestiere; chi, se non un certo genere di teatrante, poteva arrivare in una città nuova, tenere una condotta decorosa e un programma di letture edificanti e, nel giro di pochi giorni, entrare in familiarità con le signore delle migliori famiglie cittadine? Il sottotitolo dell'«Echo» metteva insieme società, letteratura e teatro, e così faceva Louise nello stile di vita scelto. Dopo la matinée il pubblico si spostò nel foyer. Mentre veniva sistemato il palcoscenico, le spettatrici munite di biglietto per il ricevimento si radunarono nel salotto delle signore al piano della galleria, quindi furono condotte nel retropalco e fatte passare dalle quinte. Louise attendeva sul palcoscenico insieme alla presidentessa del club femminile di Richmond, che aveva tenuto un breve discorso di benvenuto. Chi non aveva mai attraversato le luci della ribalta era adeguatamente e-
mozionato e soggiogato dall'esperienza. Alcuni bambini scrutavano nella platea vuota tutte quelle file di poltrone dal parterre sino alla piccionaia, provando un po' di paura del palcoscenico, mentre popolavano il teatro con l'immaginazione. Louise ringraziò per l'accoglienza, raccontò un paio di aneddoti sui suoi viaggi, recitò un altro brano di Tennyson che sosteneva le fosse stato affidato dal poeta in persona, quindi sollecitò le domande dei presenti. Di norma le domande erano prevedibili, e le risposte circostanziate. «Che cosa vi ha portato sulle scene?» «Da bambina ho assistito a drammi di Shakespeare.» «Vostro padre ha sollevato obiezioni sulla vostra scelta di calcare il palcoscenico?» «Non era nella posizione di farlo. È stato lui a portarmi a vedere Shakespeare.» Era vero ben poco; non aveva visto Shakespeare fino a diciassette anni, e suo padre era morto prima che lei si avvicinasse al palcoscenico. A dire il vero, era stata la scomparsa del padre a indirizzarvela. Senza la sua morte, probabilmente si sarebbe limitata a esibirsi nei vari salotti suonando il pianoforte e cantando, finché un giovane di belle speranze non avesse capitolato chiedendole di sposarlo. E si sarebbe ritrovata una famiglia con molti figli da tirare avanti. Guardò quei bambini - tirati a lucido, intimoriti, annoiati - e, come faceva spesso, rifletté su ciò che le mancava. Il suo bambino, se fosse vissuto, avrebbe avuto... Ma a quel punto, come sempre faceva, troncò quella riflessione sul nascere. «Vi tratterrete a Richmond a lungo?» domandò una delle presenti. «Fin quando Richmond vorrà trattenermi» disse Louise. «Per quanto io adori girare il mondo e incontrare nuova gente, questa vita non è paragonabile al fatto di avere una casa propria. In un certo periodo ho pensato che tutto questo potesse aspettare, e che non avesse alcuna importanza. Adesso, con il passare del tempo, trovo invece che ne abbia sempre di più.» Le invitate parvero soddisfatte. Dopo le domande, la Muta portò in palcoscenico della limonata fresca per i bambini, e tutti ebbero la possibilità di muoversi e conversare. Louise si spostava fra i presenti, rivolgendosi alle donne come se parlasse a delle sorelle, ed entusiasmandosi davanti a ogni bambino che le veniva presentato, come fosse di una bellezza straziante o il prodigio che la
madre riteneva. Si trovò di fronte la donna che le aveva domandato del padre. Aveva con sé una bimbetta di cinque o sei anni, con i capelli fulvi. «Ha una domanda da rivolgervi» esclamò la madre. «Ma a me non vuole dirla.» «Come si chiama?» «Alice.» Louise si abbassò all'altezza della bambina, e disse: «Bene, Alice. Oh Alice, where art thou». E, dopo quell'omaggio alla canzone di Ascher, continuò: «Che bel nastrino. Che cosa vuoi domandarmi?». La bambina, che aveva il naso all'insù, le lentiggini e un'aria infinitamente dolce, parlò senza guardarla e con voce così sommessa che Louise fu costretta a chinare la testa di lato per capire le sue parole. Quello che udì fu: «Il mio papà dice che le attrici sono tutte delle... sottane». «Delle sottane?» ripeté Louise, momentaneamente confusa e cercando di non sembrarlo. E sarebbe rimasta tale, ipotizzando di aver udito un semplice nonsense infantile, se non fosse stato per la reazione della madre, che arrossì, prese per mano la bambina, e disse: «Perdonatemi». Per poi trascinare via la figlia. Se ne andò così di fretta che la bambina non riusciva quasi a starle dietro, sballottata per il braccio nelle gonne di qualcun'altra. Louise si raddrizzò e, per qualche istante, chi le stava vicino smise di conversare, intuendo che qualcosa non andava; ma nessun altro aveva sentito le parole della bambina, e il sorriso pacato di Louise ricomparve non appena si rivolse a un'altra persona. Il ricevimento si protrasse per un'altra mezz'ora. Louise firmò qualche copia del programma con il proprio nome - o, meglio, con quello di Mary d'Alroy - e rispose amabilmente a qualche altra domanda del tipo: «Avete visto La cura del suo mal al Bijou?» («Uno degli svantaggi di recitare è l'impossibilità di vedere recitare gli altri»). Non scorgeva la donna con la bambina dai capelli rossi, e immaginò che se ne fossero andate in anticipo. Louise terminò il ricevimento ringraziando tutti e lasciò il palcoscenico fra educati applausi. Mentre gli ospiti sgombravano, scese nell'ufficio del direttore a decidere la propria percentuale dell'incasso. Il Taciturno la raggiunse fra le quinte e la seguì al piano di sotto. Il prezzo del biglietto d'ingresso era di cinquanta centesimi, gratis per i bambini. Sottraendo la percentuale per il teatro e il
costo del rinfresco, non restava granché. Louise firmò per accettare la somma, quindi diede il borsellino in custodia al Taciturno. Mentre lasciavano insieme l'ufficio del direttore, gli disse: «Voglio una carrozza di qualità. Una da signora, e anche qualcosa di più». L'uomo annuì e si allontanò. Non aveva ancora fatto due passi che lei lo fermò. «Non troppo di più» gli raccomandò. Sapeva che non era necessario calcare la mano, bensì suscitare sensazione, ma senza scadere nella volgarità. Quelle persone dovevano ritenerla loro pari per natura, e lei disponeva solo di qualche bene selezionato per calarsi nei panni del personaggio. Tornò sul palcoscenico deserto a radunare le proprie cose. La Muta aveva rassettato e spazzato, e l'avrebbe attesa alla carrozza. Louise prese dal leggio la sua copia delle opere di Tennyson. Aveva utilizzato quel testo con la raffinata rilegatura verde e la copertina dorata in parecchie letture, Tennyson presente o meno. Conosceva ogni brano a memoria, quindi non doveva sforzare la vista o farsi vedere con gli occhiali. Alzando la voce, ma non lo sguardo, esclamò: «Volete farvi avanti, o preferite nascondervi nell'ombra finché non sarete sicuro che me ne sono andata?». La sua voce risuonò per tutto il teatro vuoto, ma non si udirono risposte. «Sì, voi» disse. «Nel palco dodici.» Il palco dodici era quasi a livello del palcoscenico, solo leggermente più in alto. Era lungo e profondo, e foderato con una spessa tenda di velluto. Dopo qualche istante, qualcosa si mosse nell'ombra, quindi si fece avanti un uomo sui trentacinque anni. «Credo che mi dobbiate cinquanta centesimi» osservò Louise. «Ho riservato il palco per tutta la stagione» ribatté il giovane, senza alcun imbarazzo. «Non copre il prezzo del biglietto?» «No, se non dà da mangiare a me.» L'uomo si frugò in tasca ed estrasse un dollaro d'argento. Con l'altra mano afferrò la ringhiera d'ottone del palco e lo scavalcò atterrando sul palcoscenico, non con l'eleganza che forse aveva in mente. Louise restò in attesa, mentre l'uomo camminava verso di lei tendendole la moneta. «Avete da cambiare un dollaro?» le domandò. Lei gli prese di mano la moneta quindi ribatté: «Ve ne sarò debitrice. Perché vi nascondevate?». «Mi è parso di capire che il ricevimento fosse riservato alle donne e ai
bambini del vostro pubblico» rispose. «Avrei potuto indossare l'abito più elegante, ma non credo che l'avrei data a bere a nessuno.» Lei lo squadrò da capo a piedi. Era longilineo e sciolto nei movimenti. Aveva i baffi folti e un mento piuttosto debole. Sembrava del tutto sicuro di sé. Gli disse: «La prossima volta che vorrete spiarmi, signor...». «Patenotre. Jules.» Lei sbiancò nell'udire la pronuncia di quel nome, scandito nella più pura dizione americana e quindi irriconoscibile per un europeo. «Vorrebbe essere francese?» domandò lei. «La mia famiglia è originaria della Louisiana.» «Bene, la prossima volta che sentirete l'impellenza di spiare una donna, mio caro signore della Louisiana, palesate la vostra presenza. A nessuno piace essere osservato a propria insaputa.» «Ma voi sapevate che ero presente sin dall'inizio.» «Poco importa dal momento che voi speravate che non lo sapessi. Non erano quelle le vostre intenzioni? E a mio parere, sono dei traffici strani.» «Certa gente si nutre di traffici strani. Che cosa c'entravano le sottane?» Louise terminò di radunare i libri e li tenne stretti a sé in un fascio, come una maestrina. «Credo di poterlo intuire dalla reazione della madre» rispose. «Con ogni probabilità la bambina ha sentito di sfuggita il padre dire che le attrici sono tutte delle puttane.» Il giovane ci rifletté, per nulla sconcertato dalla sua schiettezza. «E voi conoscete il padre?» domandò con tono innocente. Lei gli lanciò un'occhiata in tralice. «Parlate in maniera alquanto audace,» osservò lei «per essere un uomo che preferisce guardare di nascosto.» «Eppure quando parlo in maniera audace, voi non vi offendete.» Lei si volse a guardarlo dritto in faccia. «Che cosa volete da me?» domandò. «Una ciocca di capelli? La mia firma sul vostro programma?» «Mi accontenterei di un bacio» ribatté lui. «Per cinquanta centesimi? replicò lei. «Adesso sì che mi offendo. Vi auguro una buona giornata.» L'uomo la guardò attraversare il palcoscenico e allontanarsi da lui diretta fra le quinte. Appena la raggiunse, le gridò: «Quando vengo a riscuotere?». Lei si fermò e si volse a guardarlo. «A riscuotere che cosa?» Lui tornò a far sfoggio d'innocenza. «Il resto del mio dollaro» disse. «Se non ho il bacio, voglio il mio denaro.»
«Dove è rintracciabile di solito, Jules Patenotre?» «Ho degli appartamenti al Murphy's Hotel.» «Allora è lì che verrò a trovarvi» rispose lei, lasciandolo sul palcoscenico. Ventinove Tutte le filiali della Pinkerton ospitavano un settore penale. Disponevano di archivi di documentazione, di uno schedario di foto segnaletiche e di risorse per risalire a un certo genere di reato. I dati presenti nell'ufficio di Filadelfia non erano paragonabili a quelli dei dipartimenti penali di New York e Chicago, ma garantivano un adeguato resoconto delle attività locali. La stanza era mal ventilata e aveva il soffitto alto; da qualche parte volava una mosca. «Questo potrebbe corrispondere» disse a un tratto Sebastian, estraendo un documento per leggerlo più attentamente. «Come?» Seduto su una poltrona girevole, le mani sulle ginocchia, Sayers sembrava a disagio. Lì dentro era fuori posto, e lo sapeva. Sebastian lesse per qualche istante e rispose: «È uno dei nostri casi irrisolti. Una donna ci ha assunto per cercare il marito. Quarantadue anni. Proprietario di una azienda che produce strumenti ottici e scientifici. Felicemente sposato, cinque figli, ed è scomparso senza ragione o preavviso». «La gente scompare spesso. Non basta.» «Aspettate. Abbiamo chiuso il caso quando un contadino ha ritrovato il suo cadavere. All'inizio hanno ipotizzato che fosse caduto da un treno. È rimasto steso accanto ai binari per un mese finché il contadino non è passato di lì. Dopo che gli animali e gli insetti avevano banchettato con il cadavere, era impossibile accertare quali fossero le cause della morte. Ma nel giro di un mese il nostro agente ha scoperto delle nuove informazioni sul suo conto, che la famiglia avrebbe preferito non sapere.» Sayers ruotava sulla poltrona da una parte all'altra. Si fermò. «Non ditemelo» esclamò. «Aveva una doppia vita.» «Gli piaceva il varietà. Meglio ancora le ragazze del coro.» «Louise Porter non è una ragazza del coro» osservò il pugile professionista. «Uso il termine in maniera approssimativa.» «Come fanno tutti.» «Intendo giovani attrici d'ogni genere. Prendeva un palco al teatro di
Keith o al vecchio Trocadero, e mandava dei biglietti all'ingresso degli artisti. Ogni tanto gli andava bene.» «Louise segue una procedura particolare» ribatté Sayers. «L'ho vista affinarla nel corso degli anni. Arriva in una città nuova, a volte con una lettera di presentazione indirizzata a qualche esponente dell'alta società. Tutto ciò le fa ottenere un invito in questo o quel salotto, dove canta, recita e spesso desta sensazione fra gli uomini. Può darsi che affitti una sala per tenere una lettura, ma mai un teatro. Continua a fregiarsi del titolo di attrice, ma non fa mai parte di una compagnia. Non osa.» Sebastian tenne sollevato il documento, come se rappresentasse una prova. «La moglie di quest'uomo era nel comitato del Circolo dei Filomusi.» «Di che cosa si tratta?» «È un club femminile. Arte, musica, poesia. Per quanto ne sappiamo noi, alcuni dei loro ricevimenti potrebbero aver avuto luogo nella tenuta dell'uomo.» Sayers rifletté su quell'ipotesi. In effetti, sembrava porre la questione sotto una luce diversa. «Allora dite che non si sa com'è morto?» domandò. Sebastian dovette esaminare il documento più a fondo per trovare una risposta. Lesse per qualche tempo quindi, con gli occhi ancora fissi sulla carta, esclamò: «Secondo i nostri contatti in polizia, nel cadavere sono stati trovati degli aghi. Una dozzina. Tutti raggruppati. Conficcati in parti del corpo in cui non dovrebbe andare alcun ago. Tutto il resto poteva anche decomporsi, ma non certo gli aghi. Alla famiglia non è mai stato detto». Sayers chiese di vedere il documento. Prima di porgerlo, Sebastian si accertò che nessuno attraversasse la stanza, ma non c'era anima viva. A Bearce non sarebbe piaciuto vedere un estraneo leggere delle carte riservate, potenziale cliente o meno. Sayers lesse e commentò: «Credo possa essere una prova dell'attività di Louise». «Attività?» «Negli ultimi quattordici anni ho appreso parecchio sul conto del nostro sesso, Becker. Ci sono uomini che sostengono di amare l'innocenza quando invece vogliono divorarla come cani. E ci sono cittadini rispettabili e altolocati, che sognano in segreto di ricevere dolore e umiliazione per mano di altri. Di una padrona, o di un'amante. Subire tutto ciò, per loro, è un'estasi quasi intollerabile. Quasi tutti restano nelle lande sicure del so-
gno. Ma qualcuno si spinge sino al loro limite. E giunti a quel limite, c'è sempre la possibilità che qualcosa vada storto.» «Ed è Louise a trovare questi uomini?» «Non ha bisogno di trovarli lei. Sono loro a cercare un qualche segnale e, a quanto pare, lo trovano. La inseguono. Quasi tutto ciò che so l'ho appreso dal caso di un uomo di San Francisco. Era sopravvissuto alle attenzioni di Louise, ma aveva subito delle lesioni. Il fatto che avesse dato il proprio consenso all'accaduto non aveva alcun valore legale. Scoppiò uno scandalo, e lei fu costretta a smettere di usare il proprio nome.» «Buon Dio» esclamò Sebastian che, sino a quel momento era certo di aver visto quasi tutto ciò che c'era da vedere della natura umana. «Non capite ciò che sta facendo, Sebastian?» domandò Sayers. «Sta seguendo alla lettera il patto dell'Errante senza esserne del tutto fedele allo spirito. Dispensa sofferenze, è vero, ma solo a chi le cerca di proposito. E se ci scappa il morto, non è tanto per intenzione di Louise quanto invece per la sfortuna della vittima.» «Una simpatica distinzione» commentò Sebastian in tono aspro. «Come sono certo concorderebbero le vedove.» Accanto all'edificio dell'ufficio postale sorgeva la torre quadrata del «Philadelphia Record», il quartier generale del quotidiano. Restarono in attesa nell'atrio mentre Sebastian faceva mandare un messaggio ai piani superiori. Poi, qualche minuto più tardi, un membro della redazione scese, salutò Sebastian come un vecchio amico, e li condusse entrambi nelle sale degli archivi. Sugli scaffali erano accatastate le copie recenti del giornale. Quelle più vecchie erano rilegate in enormi volumi che, per essere consultati, dovevano prima essere recuperati per mezzo di una scala scorrevole e poi adagiati su appositi leggii. Loro erano interessati alle edizioni uscite nelle settimane precedenti alla scomparsa dell'uomo poi trovato morto. Sebastian non era del tutto sicuro di cosa stessero cercando, mentre Sayers sembrava averne un'idea più precisa. «Eccone uno» suggerì Sebastian, leggendo un annuncio ad alta voce. «Signorina M.S. Lyons. Impartisce lezioni fuori città, a ogni ora del giorno.» Sayers alzò gli occhi dalle pagine che stava scorrendo. «Un'insegnante di danza?» disse. Non sembrava convinto.
«Voi avete detto che in precedenza aveva provato qualcosa del genere» azzardò Sebastian. «No, non credo» ribatté Sayers. «Io sto controllando le pagine mondane...» Fece scorrere l'intera colonna in un secondo o due. Sebastian si rese conto che non leggeva, ma che dava un'occhiata generale al testo in blocco per soffermarsi sui dettagli necessari. Era in quel modo che gli attori mandavano a memoria le battute così rapidamente? Non tanto imparando le parole quanto assorbendo il senso di un'opera teatrale, e quindi riformulandone il testo? Le dita di Sayers si arrestarono sulla pagina. «Eccola» disse con tono eccitato. Sebastian si spostò accanto a lui, e cominciarono a leggere insieme. Era un breve annuncio in una pagina mondana, relativo a un pranzo letterario che si sarebbe tenuto al Rathskeller Café and Ladies Dining Room del Betz Building a Broad Street. La relatrice ospite sarebbe stata la nota attrice e récitateuse... «Signora Louise Caspar» lesse ad alta voce Sebastian. «È come se vi rigirassero il coltello nella piaga, immagino. Mi dispiace, Sayers.» «Non badateci» ribatté Sayers. «Fate come me.» La pagina mondana era corredata da due sole fotografie, e nessuna delle due era di Louise. Sebastian lesse il pezzo ad alta voce, quindi esclamò: «Non vedo citato il Circolo dei Filomusi». «Dal nome si evince che lei si trovava in città. Questo per me è più che sufficiente. E guardate la data. La pista è fresca.» Esaminarono altre copie, senza però trovare ulteriori riferimenti. Mentre lasciavano la sede del «Record», Sebastian disse: «Ci servono altre informazioni, e ci sono altri giornali». «Non perdete tempo con i giornali» ribatté Sayers. «Trovatemi una decina di signore che abbiano del tempo libero, dei club e dei circoli letterari. Il giro delle letture e delle biblioteche private. Sono questi gli ambienti che lei frequenta per trovare la selvaggina.» Si fermarono a un Automat per prendere caffè e tramezzini dai distributori automatici. Era presto per pranzare, e non erano ancora affollati di impiegati usciti dall'ufficio. A dispetto, o forse a causa, delle emozioni mattutine, Sayers sembrava avere un salutare appetito. Rispetto al giorno precedente, aveva un colorito più sano, gli occhi più luminosi. I tagli sulla testa
stavano cominciando a guarire... anche se, per il momento, continuava ad avere l'aria di un attaccabrighe da bar strappato al suo elemento naturale e scaraventato alla luce del giorno. «Poniamo il caso che la troviate» esclamò Sebastian. «A quel punto?» Sayers era stranamente silenzioso. «Non credo ci abbiate mai pensato» proseguì Sebastian. «Ci ho pensato» ribatté Sayers. «Ho evocato quella scena nella mia mente migliaia di volte. Ma finché non verrà quel preciso momento... non ho idea di che cosa succederà.» Anziché tornare negli uffici della Pinkerton, dove le loro discussioni potevano essere ascoltate suscitando qualche interrogativo, rimasero di fronte ai grandi magazzini Wanamaker fingendo di studiarne le vetrine. Sebastian decise di essere audace. «Voi bevete, Sayers.» Il pugile accolse quelle parole senza mostrare imbarazzo o diffidenza. «Così dicono» ammise. «Non vi aiuterà ad andare da nessuna parte.» Con un sorriso ironico, Sayers rispose: «È molto difficile per un uomo rinnegare quel che gli ha fatto compagnia nei giorni più duri, facendoli passare più in fretta». «Comunque sia. Se vorrete trattenervi a casa mia, non è il caso che restiate tre giorni senza radervi e abbiate l'alito che sa di gin.» «Posso farmi radere senza problemi» esclamò Sayers. Trenta Per il resto del pomeriggio Sayers girò per la città mentre Sebastian Becker tornò in ufficio a controllare qualche nome e mandare qualche messaggio. Alcuni teatri della Eighth Street mettevano in scena un ininterrotto programma di varietà e Sayers aveva accarezzato l'idea di passare un'ora o due seduto nelle poltrone economiche. Ma non aveva avuto il cuore o l'energia di sborsare denaro al botteghino. Pensava già di aver visto tanti cantanti comici, ballerini di tip tap e acrobati malfermi in vita sua da averne abbastanza fino alla fine dei suoi giorni. E inoltre non riusciva a pacificarsi la mente. Cercava Louise in ogni donna che gli passava accanto sul marciapiede. Finì per sedersi su una panchina di Rittenhouse Square fra tutte quelle bambinaie e le loro carrozzine, finché non si accorse che un poliziotto a cavallo lo teneva d'occhio
facendo un po' troppo spesso il giro dei giardini. A fine giornata tornò a casa con Becker e quella sera cenò con la famiglia. Elisabeth Becker gli chiese della sua vita al luna park, e dei tempi in cui calcava le scene. La donna conversava per educazione, ma lui riuscì presto a convincerla che non era il bruto che poteva sembrare, e che quella rissa a Willow Grove non era ordinaria amministrazione nei baracconi. In ogni caso confessò che, forse, le sfide del luna park non erano poi così eque come le facevano apparire; spesso allo sfidante venivano dati dei guantoni da duecento grammi, mentre il pugile di casa era in grado di sferrare pugni più vigorosi grazie a dei guantoni che pesavano la metà. «Che cosa affascinante» ribatté lei, con l'aria sinceramente ammaliata dai trucchi del mestiere. «Sì, signora» esclamò Sayers. «Come vedete, non è un semplice sport, è una scienza.» «Così, Elisabeth, se mai dovessi incontrare Thomas Edison,» intervenne Sebastian in tono secco «ti batterà in uno scontro diretto, non v'è dubbio.» Una volta assodato che Sebastian non aveva introdotto in casa una sorta di aggressivo bestione, l'atmosfera si rilassò. Frances, la sorella di Elisabeth, non rivolse quasi la parola a Sayers, ma lo guardò con gli occhi sgranati per tutta la sera, quasi si tenesse dentro qualcosa che era pronta a lasciarsi sfuggire. Anche Robert fissava, ma il tavolo. Gli avevano proibito di leggere l'ultimo romanzo durante i pasti, ma lui non se ne separava. Se non lo teneva in una o nell'altra mano, lo teneva sotto il braccio finché non aveva di nuovo una mano libera. Sayers ne scorse il titolo e disse: «Sapevi che una volta Buffalo Bill ha portato il suo spettacolo Wild West in Inghilterra?». Era come se avesse schioccato le dita per far uscire il bambino dalla trance; l'attenzione di Robert passò dal tavolo all'ospite, senza soluzione di continuità. «Due volte» ribatté il bambino, le prime parole che pronunciava in tutta la serata. «Una volta nel 1893, e di nuovo nel '97, quando incontrò la regina. E ci torna quest'anno.» «Quest'anno? Ma guarda, io pensavo di dirti qualcosa che non sapevi, e invece sei stato tu a dirmi qualcosa che non sapevo io.» Sayers gli tese la mano. «Stringila. Forza, non è un trucco.» Il bambino fissò la mano tesa e, incerto, la prese e la strinse, come se stesse strattonando il cordone di un campanello. «Adesso,» esclamò Sayers quando il bambino lasciò la presa «puoi dire
a tutti i tuoi amici che hai stretto la mano che ha stretto quella di William F. Cody.» A quel punto ci fu un momento di soggezione. Una soggezione intima, che Robert tenne tutta per sé; ma era comunque una visione consolante. In tarda serata Sayers girò al largo durante un'accesa discussione fra Sebastian ed Elisabeth, che si protrasse per un'ora o forse più. Quando Sebastian tornò in salotto da solo, gli rivolse un cenno del capo. «Che cos'avete detto alla vostra famiglia?» domandò Sayers. «Che ci sono due fratelli irlandesi che vogliono ammazzarmi, e che la vostra presenza in casa per qualche giorno sarà per noi un'ulteriore misura di sicurezza.» «Mi pare ragionevole.» «Perché, guarda caso, è vero.» Sebastian lanciò uno sguardo alla porta, quasi ci fosse il rischio che Elisabeth entrasse prima che loro terminassero di parlare. «Ed è anche vero che, sabato, i fratelli sono stati arrestati sul treno per Boston. Ho visto il comunicato quando sono tornato in ufficio. Ma mi serviranno come scusa.» Quella notte Sayers tornò a dormire sul divano. Il mattino seguente, Elisabeth gli disse: «Signor Sayers, mi scuso per il disagio. Vi ho fatto preparare la stanza di mia sorella, potrete usarla per il resto del vostro soggiorno da noi. Frances si trasferirà in camera di Robert». «Non so che cosa dire» ribatté lui. «Mia sorella l'ha ceduta di sua spontanea volontà. Oserei dire che avrete attorno più nastri e merletti di quanto non siate abituato, ma credo che starete comodo.» «Grazie.» «Non limitatevi a ringraziarmi» esclamò lei, assumendo di colpo un'espressione così seria che Sayers reagì come se gli avesse inaspettatamente mostrato la lama di un coltello. La donna lanciò un'occhiata dove tutti e due sapevano si trovava il marito e aggiunse: «Se dovesse capitargli qualcosa, riterrò responsabile voi. Non penserete davvero che creda c'entrino gli irlandesi? Non so che cosa ci sia fra voi due. Ma se gli succede qualcosa, che Dio vi aiuti». Con ogni probabilità era stata quella stretta di mano a proposito di Buffalo Bill ad aver prolungato il soggiorno di Sayers. I Becker erano preoccupati per il figlio, non c'era alcun dubbio. L'intelligenza di Robert era in-
negabile, e le sue emozioni erano intense; ma di rado esprimeva l'una o manifestava le altre, e perciò era incompreso da quasi tutti fuorché dai suoi familiari. Al Friend's Asylum di Oxford Township, circa otto chilometri a nord di Filadelfia, c'era un nuovo medico. Era stato raccomandato ai Becker come un illustre specialista nei disturbi emotivi. Da più di un mese Elisabeth attendeva l'appuntamento, che cadeva proprio quel pomeriggio. Sebastian li portò alla stazione. Meno di un'ora dopo la partenza della famiglia, un carro trainato da due cavalli accostò nel vialetto esterno di casa Becker. Era un carro da fiera, ma la vistosa decorazione sui pannelli laterali era così sbiadita che la tinta quasi non si distingueva dalla polvere che lo ricopriva. Il tiro era guidato da un ragazzino sui quindici anni. Accanto a lui era seduto un uomo molto più maturo, nerboruto e con i baffi da tricheco che gli davano un'aria perennemente malinconica. Aveva in mano un telegramma, che aveva confrontato con i nomi delle strade che avevano superato. Mentre il ragazzino reggeva le redini, l'uomo scese dal carro e Sayers uscì per andargli incontro. Sebastian aveva accompagnato la famiglia alla stazione e Sayers era rimasto a casa seduto in veranda, ad attendere l'arrivo dei suoi bagagli. L'uomo si chiamava Axel Hansen, e insieme al fratello era proprietario del tendone di pugilato. Suo fratello era l'imbonitore e il nonno del ragazzino alle redini del carro. Axel Hansen e Tom Sayers sollevarono insieme il baule da viaggio dal retro del carro e lo trasportarono davanti casa, per poi tornare a prendere la valigia. Con l'ingaggio a Willow Grove troncato, e nessun altro all'orizzonte, i fratelli avevano cercato di trovare un altro posto in città dove piantare le tende. Non ci erano riusciti e così lo spettacolo si spostava. Una volta trasportati tutti i bagagli accanto alla veranda, Axel Hansen disse: «Allora, Tom, siamo stati bene, su questo puoi scommetterci». «Sì» convenne Tom. Axel frugò in fondo alla tasca dei voluminosi pantaloni ed estrasse una bottiglia di whisky Green River, ancora sigillata. Sollevandola, esclamò: «Credo che, prima di lasciarci, ti sia dimenticato di metterla in valigia». «Sai bene che non me ne sono dimenticato, Axel» ribatté Sayers. «E apprezzo il pensiero. Ma al momento avere davanti agli occhi un liquore forte non è la cosa migliore per me. Perché tu e i ragazzi non lo aprite stasera e brindate alla mia salute?»
Axel lo scrutò con i suoi occhi azzurri e lucidi. A volte gli occhi azzurri sono freddi, e danno l'aria da duro a chi li possiede. Quelli di Axel sembravano sempre sull'orlo delle lacrime. «Stai smettendo?» gli domandò. «Credo che potrei farcela.» Per nulla offeso, Axel ripose la bottiglia nel suo nascondiglio ed esclamò: «Allora, che Dio benedica te, Tom, e chiunque viaggi con te. Spero che un giorno tu possa trovare quello che cerchi». I due uomini si abbracciarono in mezzo al marciapiede, poi Axel tornò sul carro. «Ci sarà sempre un posto per te» gli gridò dal sedile. «Lo so» ribatté Sayers, e alzò la mano in segno di addio mentre il carro partiva per ricongiungersi agli altri baracconi dello spettacolo che stavano lasciando la città. Quando girarono l'angolo, Sayers si sedette sul suo baule in attesa del ritorno della famiglia. Il medico era stato con Robert non più di due minuti, quindi l'aveva affidato agli assistenti per i test e gli esami, che avrebbero richiesto quanto restava del pomeriggio. Elisabeth non intendeva lasciare il figlio, quindi lei e Frances si trattennero mentre Sebastian tornava. Quando giunse a casa dall'ospedale, vedendo Sayers sulla soglia con i bagagli, si sentì un padrone di casa scortese. Ma Sayers era un estraneo per la sua famiglia e poco meno di un estraneo per lui, perciò non aveva ritenuto opportuno dargli libero accesso in casa. Aprì la porta con la chiave, quindi trasportò il baule all'interno e poi su per le scale, sino alla camera di Frances, che era stata sgombrata degli oggetti più personali per fungere da stanza degli ospiti. «Due volte alla settimana viene una donna a raccogliere i panni sporchi» gli disse Sebastian. «Se avete qualcosa da lavare, è la vostra occasione.» «Posso anche aver vissuto nei carrozzoni e dormito con le mutande addosso,» ribatté Sayers «ma una delle tante cose che ho imparato in viaggio è come lavare una camicia a fondo.» Sebastian l'osservò aprire il baule e, nel giro di qualche minuto, disporre quei pochi oggetti che avrebbero reso suo un angolo qualunque. Una spazzola per capelli, qualche ricordino, una foto da attaccare allo specchio... la foto era una carte de visite teatrale della compagnia del Diamante purpureo. «Intuisco che non abbiate altri completi da mettervi» disse Sebastian.
«Questo è il migliore che ho» rispose Sayers, e bastava dare un'occhiata nel baule per avere la prova che non mentiva. «Non offendetevi, Sayers,» ribatté Sebastian «ma se volete dare la caccia a Louise nell'alta società dovremo rendervi un po' più presentabile.» «Prima le cose essenziali» esclamò Sayers. «Ho bisogno di un bagno pubblico e di un barbiere.» Si guardò le mani rovinate. «So per esperienza che il primo passo per avere un aspetto da umano è cominciare a sentirsi tale.» C'era un barbiere a due isolati a piedi, e un bagno pubblico a sole due fermate di tram. Sebastian fece per offrire del denaro a Sayers, ma lui lo fermò. In una tasca segreta del baule custodiva una mazzetta di banconote. I suoi fondi di emergenza. Così Sebastian lo mandò per la sua strada, attese una decina di minuti e salì al piano di sopra a effettuare un'accurata perquisizione del baule e della valigia del pugile, attento a notare dove si trovava ogni cosa per rimettere tutto come l'aveva trovato. Nel baule c'erano due Bibbie rubate che Sayers aveva usato per conservare i ritagli di giornali di tutto il paese, appiattendoli fra le pagine. Tutti i ritagli di San Francisco si trovavano nell'Ecclesiaste. Il Primo Libro dei Re raccontava la storia di una vecchia pista che aveva seguito fin nello stato di Washington. Nel libro di Giobbe c'era una lista di tutte le mense gratuite di Denver. Non avrebbe certo familiarizzato con Sayers, ma gli avrebbe offerto il sostegno necessario a rimettersi in marcia con uno scopo da seguire. La ricomparsa del pugile nella sua vita aveva ridestato tutta l'inquietudine riguardo alle scene cui aveva assistito in passato. Uomo d'indole razionale, aveva visto il proprio mondo stravolto da qualcosa di apparentemente soprannaturale. Voleva che il suo mondo tornasse a essere razionale. E se era minimamente possibile che la ricerca della verità portasse alla luce la prova decisiva dell'esistenza dell'occulto... ebbene, nessuno era ateo se non per mancanza di un'alternativa più convincente. Ma un vecchio ritratto nel seminterrato di un museo non provava nulla. Aveva imparato dalla chiesa che i creduloni erano disposti ad ammettere qualunque cosa pur di sostenere una fede. Edmund Whitlock era mortale. Louise Porter non era nient'altro che umana. Tutto il resto, aveva concluso Sebastian, era psicologia umana, tramandata nei secoli per mezzo di storie prodigiose. Negli Atti degli Apostoli, Sebastian trovò due ritagli di giornale ingialliti
e piegati, entrambi con una nota a margine che li indicava appartenere a un'edizione del «Norwich Mercury» del 1891. MISTERIOSA SCOMPARSA DI UNA BAMBINA Rapita dai Rows Ricercati un uomo e una donna Il primo ritaglio riferiva della scomparsa di una bambina nella città costiera inglese di Great Yarmouth e degli esiti delle prime ricerche. Eliza Sewell, di otto anni, abitante in uno di quegli stretti passaggi medievali noti come i Rows, era stata mandata per commissioni dalla madre, che le aveva affidato in custodia la sorellina di quattro anni. Il negozio di liquori distava meno di dieci minuti a piedi, ma lei non l'aveva mai raggiunto né era tornata a casa. Lasciata a se stessa, la bambina più piccola era entrata nell'abitazione di una vicina, senza raccontare l'accaduto. Aveva giocato con la figlia della donna e nessuno aveva dato l'allarme se non a metà serata, quando il figlio maggiore l'aveva riportata a casa. Quelle dei Rows erano delle comunità molto strette: la gente poteva affacciarsi alle finestre e toccare letteralmente la casa dei vicini. In tantissimi si erano offerti volontari per partecipare alla ricerca. La bambina di quattro anni era riuscita a dire soltanto che Eliza era stata avvicinata da una donna, e che si era allontanata con lei. In un'altra zona della città, un pittore di insegne aveva visto una bambina dai capelli castani camminare verso il porto con una donna, che corrispondeva alla descrizione, e a un uomo. Secondo le parole del pittore, la donna sembrava una strega, con strati e strati di abiti cenciosi. L'uomo aveva la faccia smunta e la testa rasata. La ricerca si era concentrata attorno al porto, e si era temuto il peggio. Diversi marinai con la testa rasata erano stati trascinati fuori dai pub, e uno svedese che non parlava l'inglese gettato per strada e malmenato. RITROVATA SANA E SALVA LA PICCOLA ELIZA Trovata nella piazza del mercato dalla guardia notturna Il mistero della "Donna in lacrime" Il secondo ritaglio di giornale riprendeva la storia un paio di giorni più tardi. Eliza era stata trovata dalla pattuglia notturna della polizia. Vagava nella piazza del mercato deserta alle due di notte. A quel punto, per la stampa e l'opinione pubblica, era divenuta la "piccola Eliza" e in ogni cor-
tile e bar ci si interrogava sulla sua sorte. Il reporter si era mantenuto sul vago, ma Sebastian lesse fra le righe che la bambina era stata trovata scalza e nuda. Sotto il titolo ELIZA RACCONTA LA SUA STORIA, era riportato il resoconto della bambina. Anche se aveva otto anni ed era priva di istruzione, Eliza sembrava esprimersi con quella retorica infiorettata tipica di un redattore attempato di un giornale di provincia. Una donna aveva fermato le due bambine alle porte della chiesa di St. Joseph. Conosceva Eliza per nome. Diceva di essere una sarta, a cui la nonna della bambina aveva commissionato un vestito per la prossima processione di Pentecoste, per il quale doveva prenderle le misure. Sua madre ne era al corrente, aveva detto. Sua sorella sarebbe tornata a casa, e tutte e due avrebbero ricevuto un penny per essere state buone. Quando si era voltata per andarsene con la donna, Eliza aveva visto un uomo muoversi dietro di lei. La donna le aveva spiegato che era un amico della nonna, e le aveva mostrato i penny. Si erano incamminati verso il porto ed Eliza ricordava di essere passata davanti al pittore di insegne, che stava dipingendo delle lettere a foglia d'oro su una vetrina. L'avevano portata in un posto vicino alle navi attraccate e l'avevano fatta salire su una scala sino a raggiungere uno stanzone scuro in soffitta, dove, secondo Eliza, si vedevano le travi enormi che sorreggevano il tetto. Ad attenderli c'era una signora bellissima. La signora le aveva sorriso dicendo che l'uomo aveva due penny, uno per lei e l'altro per la sorella. E lei li avrebbe avuti quando avesse provato l'abito nuovo. Lei non vedeva abiti nuovi e non voleva svestirsi, ma la donna con cui era venuta aveva cambiato atteggiamento e aveva parlato in tono brusco, così lei si era spaventata. E aveva obbedito. Poi la signora bellissima le aveva chiesto se le piaceva essere pulita. Lei aveva detto che era pulita. Ogni venerdì sera faceva il bagno. La signora era parsa turbata dalle sue parole e aveva preso a carezzarle i capelli senza guardarla. Poi aveva detto all'altra donna di restituirle gli abiti. A quel punto le cose avevano preso una brutta piega. L'uomo aveva preso la signora per il braccio e l'aveva trascinata via. Avevano cominciato a discutere sottovoce, tutti e tre, e la signora bellissima era scoppiata in lacrime. Nessuno aveva notato Eliza sgattaiolare via. Era scesa al piano inferiore e, udendo qualcuno sulle scale, si era nascosta sotto dei sacchi. Era
scesa la donna più giovane, la cosiddetta signora bellissima. Non aveva smesso del tutto di piangere, ma in quel momento aveva il viso stravolto e arrossato. Aveva in mano un bastone appuntito o una sorta di picca, e andava da una stanza all'altra chiamando Eliza. Lei era troppo terrorizzata per rispondere. Sentiva i topi nei sacchi tutt'intorno. Quando la giovane donna era scomparsa dalla vista, lei era uscita da sotto i sacchi per nascondersi dietro una specchiera. Ma la giovane donna era tornata sui suoi passi: aveva udito i topi e li aveva scambiati per Eliza. Aveva preso a conficcare la picca nei sacchi, senza mai smettere di singhiozzare, e aveva continuato a conficcarla e conficcarla finché non erano arrivati l'uomo e la donna. Le avevano strappato la picca di mano, e l'uomo con la testa rasata aveva spostato i sacchi in cerca di un cadavere, senza però trovarne alcuno. Dopodiché avevano lasciato perdere. Quando avevano portato via la giovane donna, erano stati costretti a sorreggerla. Eliza aveva atteso per diverse ore, quindi aveva trovato il modo di uscire dalla casa, vagando per le strade deserte sino alla piazza del mercato. Al momento, diceva l'articolo, era in corso una caccia serrata ai tre adulti. Sebastian ripose i ritagli nella Bibbia come li aveva trovati. Chiaramente qualcosa era andato storto. La bambina non avrebbe dovuto sopravvivere alle attenzioni di Louise Porter, e meno ancora riuscire a raccontare tutto fornendo una sua descrizione. Il Taciturno e la moglie - che non era poi così muta, se era stata sempre lei a parlare - avevano deciso la sorte della bambina in una maniera così spietata da rasentare l'incredibile. Louise aveva tentennato, e avevano dovuto costringerla a forza a portare a termine la faccenda. Ma una volta che aveva cominciato, aveva subito perso il controllo. Sayers poteva idealizzarla come voleva. Ma agli occhi di Sebastian, le mancava un solo gesto efferato per diventare un altro James Caspar. Sebastian prese la carte de visite dallo specchio. Era stata maneggiata parecchio, ma conservata con cura. Era l'immagine di Louise Porter nei panni di Desdemona, con in calce il suo nome, il ruolo che interpretava e l'indirizzo dello studio fotografico di Baker Street. Aveva i bordi consunti e risaliva a una quindicina d'anni prima, ma Sebastian dubitava che dopo di allora si fosse fatta ritrarre. Non riusciva a decidere se sembrava di una sconvolgente giovinezza o di
una sconvolgente vecchiezza. Negli ultimi quindici anni il mondo era notevolmente cambiato, e una fotografia in seppia come quella aveva l'aura di un'altra epoca. Tutti i ritratti di quei tempi - persino quelli dei neonati gli sembravano di gente trapassata. Che aspetto poteva avere Louise adesso? Aveva superato i trenta già da un po'. Dio santo, era praticamente una vecchia! A meno che, naturalmente, la vita non rispecchiasse la leggenda, e lei fosse cambiata in maniera impercettibile. Udì dei colpi alla porta. Svelto, Sebastian rimise le cose del pugile come le aveva trovate e scese al pianterreno. Sulla soglia c'era il signor Oakes, il contabile dell'ufficio, con un pacco incartato e legato con il cordino. «Ha chiamato il signor Bearce da Chicago» disse. «Mi ha detto di consegnare le chiavi dell'ufficio e dirvi che domani ve lo lascia in custodia. Ho colto l'occasione per portarvi questo.» Mostrò il pacco. «Allora avete ricevuto il mio messaggio, se è ciò che penso.» «L'ho ricevuto ed è quello che pensa, signore. Ho fatto come mi avete chiesto.» Sebastian lo invitò a entrare precedendolo in cucina, dove estrasse un coltello dal cassetto. «Spero vada bene» esclamò Oakes. «Tutte le altre erano uniformi o vestiti importabili.» Ogni filiale della Pinkerton custodiva una scorta di travestimenti per i suoi agenti operativi. A dire il vero, a quei tempi erano più un elemento simbolico che non parte integrante dell'attività quotidiana dell'agenzia, ma capitava ancora che un agente dovesse spacciarsi da operaio o da tramviere, con la necessità di avere a portata di mano gli abiti adatti alla parte. Sebastian infilò il coltello sotto il cordino e lo tagliò, quindi scartò il pacco sul tavolo della cucina. L'involto conteneva un paio di scarpe di cuoio e, sotto, un completo ripiegato più o meno con cura. Il completo era appartenuto a un agente temporaneo di nome Epps, che si era infiltrato in una compagnia di costruzioni come addetto alla manutenzione delle caldaie per verificare eventuali scorrettezze da parte dei dipendenti. Era stato scoperto e malmenato, e aveva lasciato il lavoro senza mai più tornare. Doveva averne buscate proprio tante per scoraggiarsi fino a quel punto; a giudicare dai suoi abiti, aveva più o meno la stessa taglia e corporatura di Tom Sayers. «Va benissimo, signor Oakes» disse Sebastian. Si sentiva un po' in col-
pa. Oakes stava sgarrando per compiacerlo, e anche se lui gli aveva promesso di dire una buona parola sul suo lavoro al temuto signor Bearce, finora non aveva fatto niente di simile. «Ho controllato in tutti gli alberghi come avete richiesto.» Per il contabile non era stata un'impresa, come poteva sembrare. Ormai quasi tutti gli alberghi del centro avevano il telefono. «Una certa signora Louise Caspar ha alloggiato al Walton, ma l'ha lasciato quasi due settimane fa.» Sebastian inarcò un sopracciglio. Il Walton di Broad Street era uno degli alberghi più lussuosi della città. La facciata esterna era quella di un grandioso palazzo bavarese. L'atrio interno, da solo, ricordava la cupola di una reggia rinascimentale. Per il resto, Sebastian poteva solo immaginare. Visto il suo reddito, non avrebbe mai potuto andare oltre l'atrio. «Sono stati in grado di dirvi dov'è andata?» domandò al contabile. «Avrebbero tanto voluto saperlo» ribatté Oakes, e continuò spiegando che se n'era andata senza pagare il conto e senza un indizio di dove poterla rintracciare. Lui aveva parlato con il portiere, il facchino e il personale che aveva prestato servizio nella sua camera. «Ben fatto, signor Oakes» esclamò Sebastian. «Grazie, signore.» «Siete un autentico detective.» «Adesso mi state prendendo in giro, signore» ribatté. «Ma accetto il complimento.» Trentuno Bram Stoker era seduto allo scrittoio di un ufficio a lui non familiare nel Theatre Royal della londinese Drury Lane, intento a trascrivere gli ultimi conti del Dante di Irving. Anche se la compagnia del Lyceum non esisteva più e Irving non era più locatario del teatro di Wellington Street, Stoker era uno degli ultimi rimasti nella cerchia dell'attore. Udì qualcuno avvicinarsi in corridoio. Qualche istante più tardi, Belmore, l'assistente del fedelissimo direttore di scena di Irving, bussò all'uscio aperto per attirare la sua attenzione. Quando Stoker gli rivolse un cenno, Belmore entrò nella stanza e gli posò una busta sulla scrivania. «Chiedo scusa, signor Stoker» disse. «Indirizzata a voi e consegnata a mano.» Stoker prese la busta. In effetti era indirizzata a suo nome. La tenne fra pollice e indice, come per saggiarne consistenza e valore.
«A occhio e croce, un'altra richiesta di biglietti omaggio» disse. «Strano che la gente possa essere tanto generosa nelle lodi al principale e tanto tirchia nel pagare il biglietto.» «Sì, signore.» Belmore uscì, e Stoker aprì la busta ed estrasse il biglietto che conteneva. Non era una richiesta di posti gratuiti. Né era un appello rivolto a lui perché proponesse a Irving qualche apparizione in pubblico... Una richiesta comune, avanzata da chi di solito ipotizzava che l'attore si sarebbe sobbarcato di buon grado tutte le spese e disagi solo per l'onore di essere invitato. No, niente di tutto questo, era un biglietto di Samuel Liddell Mathers. Stoker non vedeva Mathers da anni. Dopo quella notte nel seminterrato della residenza di Horniman insieme a Tom Sayers, si erano incontrati di rado, e non di recente. Sapeva che il sedicente mistico aveva ottenuto un impiego a tempo pieno come assistente bibliotecario della collezione, ma aveva litigato con la direzione e l'impiego non era durato. Secondo le ultime notizie che Stoker aveva ricevuto sul suo conto, risiedeva a Parigi. Aveva aggiunto il cognome MacGregor al proprio, ed era stato visto girare in bicicletta per la capitale francese in kilt. Nel biglietto chiedeva a Stoker qualche minuto del suo tempo, quando fosse stato più comodo. Un ragazzo avrebbe atteso per portare la risposta. Stoker la scrisse subito in calce al messaggio e la infilò nella busta tagliata con cura, che fece portare giù in strada. Terminati i conti, chiuse a chiave il registro e prese il cappello. Doveva parlare con il direttore del Criterion in merito ai preparativi della cena che avrebbe seguito la rappresentazione di quella sera. Era una spesa che lui aveva consigliato di non sostenere, ma Irving aveva insistito. Nonostante le critiche discordi, bisognava fare in modo che il Dante fosse un successo. Come al solito, anziché prendere il tram, Stoker scelse di andare a piedi. Da Drury Lane tagliò per il mercato di Covent Garden, affollatissimo alle prime luci dell'alba, un mortorio a metà pomeriggio. I canali di scolo erano disseminati di frutta guasta e foglie, e qualche ambulante era impegnato a gettare via gli scatoloni. Mentre Stoker percorreva il viale di Long Acre passando accanto ai mobilieri e ai carrozzai che lo costeggiavano, rifletté sul fatto che rendere il Dante un successo non sarebbe stata opera facile. Era un'impresa immane, con cinquanta attori e più di cento comparse a popolare i gironi infernali. Ed era anche un'opera mediocre in tredici interminabili scene, sorretta esclusivamente dalla sua spettacolarità e da ciò che restava dell'attrattiva di Irving; ma lì nella capitale, anche quella non era
più come una volta. Quando Irving era stato nominato cavaliere, circa otto anni prima, l'onorificenza era parsa conferire una certa continuità a quell'epoca d'oro. Con il senno di poi, in realtà, aveva segnato l'apice cui era seguito il declino. Un incendio disastroso nelle arcate del viadotto ferroviario di Southwark aveva distrutto vent'anni di scenari e attrezzi di scena, spazzando via il repertorio delle produzioni della compagnia e tutti i futuri proventi che avrebbero fruttato. Senza assicurazione e indebitato fino al collo, Irving aveva ceduto la gestione del Lyceum a un sindacato di categoria. Si stava stancando, e la sua salute cominciava a peggiorare. Eppure, anziché riposare sugli allori, adesso era costretto a lavorare per sopravvivere. A Piccadilly, fra le colonne bianche e gli specchi dorati delle ariose ed elaborate sale da pranzo del Criterion, Stoker discusse i preparativi per la serata con il direttore del ristorante. Questi pose delle domande di scarsa importanza, e lui fu in grado di rispondere a tutte. Quando ebbero terminato, Stoker estrasse l'orologio da tasca e guardò l'ora. A quel punto ringraziò il direttore e lasciò lo spazioso locale, scendendo una breve rampa di scale per emergere a Piccadilly Circus. Al centro della piazza sorgeva lo Shaftesbury Memorial, un'elaborata fontana di bronzo con una statua alata della Carità cristiana. Sui gradini del monumento, circondato dal traffico, attendeva Samuel Liddell Mathers. Non aveva ancora visto Stoker, e non sapeva da quale direzione sarebbe giunto. Ed era così che Stoker voleva. Voleva poter dare un'occhiata a Mathers per valutarne le condizioni. Come notò con sollievo, Mathers era vestito in maniera più o meno normale. Con abiti troppo pesanti per il clima, forse, dato che la giacca era tanto spessa da sembrare un tappeto persiano - e forse da quello era stata ricavata, a guardarla bene - ma niente di troppo imbarazzante. Alzò una mano per attirare l'attenzione di Mathers, e dopo averne incrociato lo sguardo, attese che attraversasse il traffico per raggiungerlo. Si salutarono, quindi s'incamminarono insieme per Coventry Street in direzione di Leicester Square. «Come sta Mina?» domandò Stoker. A un esame più attento, la giacca di Mathers era quasi sdrucita. E Mathers pareva scheletrico in quella giacca. «Sta bene» rispose. «E anch'io.» «Ho seguito i tuoi avvicendamenti.» «Allora probabilmente, quando hai visto il mio biglietto, hai pensato fossi venuto a Londra per chiederti denaro o sovvenzioni. Permettimi di
assicurarti che non si tratta di questo.» «Ed è meglio così» ribatté Stoker. «I giorni di gloria sono finiti, Mathers. La compagnia del Lyceum non esiste più. Mi addolora dirlo, ma il principale è un leone in gabbia.» «Se solo avessi accettato di unirti a noi nei primi anni» esclamò Mathers. «Allora, chissà. L'esito sarebbe potuto essere differente per tutti e due.» Ma Stoker non voleva neanche sentirne parlare. «Vuoi dire che insieme avremmo potuto allontanare la sfortuna con la magia?» domandò. «Sii serio, amico mio. Non ho alcuna inclinazione a impelagarmi con gli adepti di qualsiasi ordine. Meno che mai con gente che litiga di continuo su come chiamarsi e come organizzarsi. Se non si tratta di denaro o di altre forme di sovvenzione, di che cos'hai bisogno, allora?» Mathers abbassò gli occhi sull'asfalto. «Crowley mi ha tradito» esclamò, in tono cupo. «Questo è esattamente il comportamento cui alludo» ribatté Stoker. Alick Crowley, o "Aleister", come adesso si faceva chiamare, aveva conquistato una certa notorietà negli ambienti londinesi prima di trasferirsi a Parigi per raggiungere Mathers in qualità di allievo. «Gli ho mandato un vampiro astrale per abbatterlo» disse Mathers. «Lui ha contrattaccato con Belzebù e un esercito di demoni.» A Stoker parve che il traffico intorno a loro si riducesse al silenzio e tutto il suo mondo perdesse colore. Si arrestò sui suoi passi e Mathers si arrestò con lui. Stoker si volse a dargli uno sguardo più attento. Mathers era palesemente serio in quello che stava dicendo. Ma aveva gli occhi cerchiati, piccoli, infossati nel cranio: o era pazzo o era affamato. Gli occhi luccicavano come se fosse febbricitante. Pareva un uomo alla deriva, perso in un mondo straniero e del tutto irraggiungibile. «Un vampiro astrale» ripeté Stoker. «Ci battiamo a colpi di magia.» Ed era chiaro che ci credeva pure. Stoker lo fissò. Mathers non era esattamente un suo amico intimo, ma lui lo conosceva bene e da molti anni. Adesso il suo atteggiamento era tenace, onesto, del tutto sincero. Era una vista straziante. «Come pensi che possa aiutarti, Mathers?» domandò Stoker. «Non farlo» lo avvertì Mathers. «Non fingere di non credere. Ho letto il tuo libro.» Frugò in quella sua giacca enorme e, da qualche capace tasca
interna, tirò fuori l'angolo di un romanzo rilegato in tela gialla. «Lo liquidano come romanzo di sensazione» disse. «Ma io so quanto sia vicino alla verità.» «Dracula è un'opera di finzione.» «Tutte le opere di finzione hanno la propria autenticità» disse Mathers, facendo eco senza volerlo all'affermazione di un altro romanziere nella sala di lettura del British Museum, tanti anni prima. «Tu hai rintracciato l'Errante. L'hai trovato. Non cercare di negarlo.» Indicò il libro. «L'avventura che racconti in quest'opera... adombra ciò che hai visto realmente. Dove si trova lui adesso?» «Chi?» «L'Errante. Quello vero. Ho una proposta da fargli.» «No» ribatté Stoker. «Non chiedermi questo.» «Una volta ti ho aiutato, Bram. Forse persino più di quanto tu possa sapere. Credevi che la tua buona sorte fosse tutto merito tuo?» Strano che Mathers parlasse di buona sorte, quando agli occhi di Stoker tante sue speranze non avevano colto nel segno. Aveva dato tutta la sua vita per Irving, e si riteneva uno dei suoi più intimi confidenti; e invece Irving aveva venduto il Lyceum al sindacato senza dirgli nulla finché non era stato raggiunto l'accordo. Quanto poi all'opera su cui aveva investito tutte le sue speranze di una seria reputazione letteraria... be', Mathers aveva ragione, lo definivano un romanzo di sensazione, ben fatto nel suo genere ma con scarsi meriti duraturi, un libro cui gli editori avevano affibbiato la rilegatura più scadente e che non avevano fatto nulla per promuovere presso il pubblico. Persino Irving - e la sua opinione contava per lui più di quella di chiunque altro - lo riteneva pessimo. Se esisteva una prova che la sua vita non era stata migliorata da nessuna magia, era proprio quella. «La vita è stata abbastanza buona con me» disse. «Avrei potuto apprezzarla di più. Ma non ho mai desiderato niente più di ciò che ho meritato.» «Non mi aiuterai, Bram?» gli domandò Mathers, in tono implorante. Stoker trasse un respiro profondo, e abbassò lo sguardo. Quindi disse: «Passa dall'ingresso degli artisti alle otto, quando il sipario è già stato alzato. Avrò qualcosa per te». Lasciò Mathers a Leicester Square e tornò a piedi verso Drury Lane. Era abbastanza sicuro di sapere perché Mathers voleva la conferma di un fondo di verità dietro l'esistenza dell'Errante, e perché voleva sapere dove poteva trovarsi l'attuale detentore del titolo. Mathers era un uomo deluso, la sua
vita completamente rovinata. Non aveva impiego, e con ogni probabilità non era in grado di lavorare. Lui e sua moglie vivevano quasi in povertà a Parigi. Era stato espulso dall'organizzazione che aveva contribuito a fondare. Il suo protégé era ormai suo nemico. La sua reazione era la risposta naturale di un uomo disperato: datemi solo l'occasione, e pagherò qualsiasi prezzo in cambio dell'opportunità di ribaltare la mia vita. Qualsiasi prezzo. Perché, nella sua posizione, doveva ritenere di non aver niente da perdere. Quanto poteva costare cedere la propria anima, se quell'anima era già morta? Adesso Stoker aveva raggiunto Drury Lane, e dall'altra parte della strada sorgeva il Theatre Royal. Non era il Lyceum, poco ma sicuro. Vantava uno spazioso palcoscenico e un'ottima capacità di posti a sedere, ma le proporzioni esterne erano poco eleganti e prive di ogni simmetria o maestosità. Rientrato in quell'ufficio a lui non familiare, ripose il cappello sul gancio e tornò a sedersi allo scrittoio. Oggi non avrebbe avuto tempo di stare a casa: c'era ancora parecchio da fare prima dell'esibizione serale. Irving aveva in mente di esordire con il Dante nella sua ottava tournée americana, e aveva chiesto a Stoker di preparare una summa delle migliori recensioni da telegrafare in anticipo. Ma prima, Stoker estrasse un foglio di carta bianco e prese la penna. «Mio caro amico,» scrisse «se riponevi tanta fiducia nelle mie parole, adesso accetta questo mio consiglio. Dimenticati di quelle teorie. Non potresti trovarvi nulla di ciò che immagini. Che Dio sia con te. Bram.» Allegò alla lettera cinque sterline, e sigillò il tutto in una nuova busta. Vi scrisse il nome di Mathers e la portò all'ingresso degli artisti, dove l'affidò al portiere in attesa che fosse recuperata. Diede istruzioni di non lasciar entrare Mathers e di non essere mandato a chiamare, nemmeno se Mathers lo chiedeva. Se avesse rifiutato di andarsene, si sarebbe dovuta chiamare la polizia. Gli pareva un gesto da vigliacchi. E qualsiasi difetto o debolezza avesse Stoker, la vigliaccheria non faceva parte della sua natura. Ma non vedeva altri modi di procedere. Nella migliore delle ipotesi avrebbe dovuto interpretare l'amico insensibile e traditore. Nella peggiore, avrebbe potuto cedere e dire a Mathers tutto ciò che voleva sapere. E questo sarebbe stato, nel senso più stretto del termine, imperdonabile. Tornò nel suo ufficio preso a prestito e si dedicò alle date americane della tournée.
Trentadue Negli appartamenti d'angolo al secondo piano del Murphy's Hotel, il giovane noto come Jules Patenotre stava contemplando le proprie scarpe. Dopo averle disposte tutte in fila, stava cercando di decidere quale paio indossare. Il cuoio era stato lustrato sino a luccicare. Non da lui, ovvio. Due volte la settimana faceva salire il lustrascarpe e lo guardava lucidarle. Osservarlo lo distraeva. La mente di Jules Patenotre aveva la tendenza a divagare e, se lui non la teneva a freno, quella trovava inattesi tormenti con cui intrattenerlo. La vita d'albergo faceva per lui: le sue richieste erano soddisfatte al semplice squillo di un campanello, ed era sollevato dall'incombenza di mantenere un personale domestico tutto suo. Occupava quelle stanze da più di due anni, sin da quando l'incendio dell'hotel Jefferson aveva distrutto i suoi appartamenti e tutte le sue vecchie scarpe. Non era morto nessuno, ma l'albergo era stato devastato. Adesso lo stavano ricostruendo e, se per caso fosse bruciato anche quello che occupava ora, avrebbe potuto tornare là. Quando udì bussare alla porta, prese una rapida decisione e s'infilò un paio di English Oxford. Che delle altre scarpe se ne occupasse la cameriera. Adesso si sarebbe aspettato che la persona che aveva bussato entrasse con il passe-partout. E invece no, il che suggeriva che non era qualcuno dell'albergo. Ma lui non aspettava nessuno. Era imbarazzante... Uno degli svantaggi di non disporre di valletti o servitori per trattare con gli intrusi. Andò ad aprire la porta di persona. Nel corridoio dell'hotel sostava un uomo con il cappello fra le mani. Aveva l'aria slava. I capelli erano rasati, ma s'intravedeva la crescita grigia. «Allora?» domandò Jules dopo qualche istante di attesa. «Avete bussato alla mia porta. Volete decidervi a parlare?» «Signore» ribatté l'uomo, e parve interrompersi lì. Jules lo studiò per un istante, e a quel punto lo riconobbe. «Voi siete l'uomo di Mary d'Alroy» lo incoraggiò Jules. «Vi ho visto all'Accademia della Musica.» «Sono stato mandato a informarvi.» Jules restò di nuovo in attesa. «Di che cosa?» domandò. «Che la signorina d'Alroy...» «...è una meravigliosa padrona? Molto leale da parte vostra.»
L'uomo ritentò. «Che la signorina d'Alroy...» «...è stata scoperta a intrattenere rapporti carnali con una scimmia?» A quelle parole, Jules vide l'uomo arrossire. «Perdonatemi» esclamò. «Continuate.» «Che la signorina d'Alroy mi ha detto di dirvi che offre quanto cercate.» «Ah» disse Jules. Si guardò a destra e sinistra, per vedere se qualcuno potesse ascoltarli di nascosto. Pareva di no. Senza il barlume di un sorriso e con voce leggermente più bassa, continuò: «E come dovrei fare per ottenerlo, allora?». «Questo non posso dirlo. Ma se volete seguirmi, vi condurrò da lei.» «Oh. Una gita di piacere. Devo portare del denaro? O magari, oggi, la signorina d'Alroy è in vena di filantropia.» «Ogni dono che vorrete fare sarà gradito. Ma soprattutto dovrete favorire una cortesia alla signora.» «Porterò del denaro, allora. Nel caso preferisca la cortesia in moneta sonante.» L'uomo chinò la testa con gesto di conferma servile. Jules sentì affievolirsi il piacere di dileggiarlo. Quell'uomo ce la stava mettendo tutta. «È difficile per voi, non è vero?» domandò Jules. «Disapprovate la vostra padrona?» L'uomo non disse nulla. «Tutti siamo costretti a fare qualcosa che non ci piace» proseguì Jules. «A volte per via delle circostanze. E a volte quando ci viene richiesto dalla nostra natura. Ma prendete coraggio dal mio esempio. Se un peccato rimane un segreto... può considerarsi veramente un peccato? Attendete qui.» Indicò una sedia accostata a un tavolo laterale con un vaso di fiori freschi, dalla parte opposta del corridoio. «Accomodatevi pure, se volete.» L'uomo era ancora in piedi quando Jules uscì un quarto d'ora più tardi, vestito di tutto punto e pronto a partire. Mentre scendevano la scala per raggiungere l'atrio, Jules disse: «Precedetemi e attendetemi fuori. Quando mi vedrete uscire dall'albergo, incamminatevi senza voltarvi. Io vi seguirò». Giunsero nell'atrio come due perfetti sconosciuti. L'uomo silenzioso si apprestava già a uscire dall'ingresso principale, quando Jules si avvicinò al bancone. «Buongiorno, signor Patenotre» disse il portiere. «Buongiorno, Charles» rispose Jules. «Mi occorre la mia cassetta.» «Certo, signore.»
L'impiegato frugò sotto il bancone ed estrasse il registro di sicurezza per farglielo firmare. Dopodiché gli porse una chiave agganciata a un ampio anello. Jules portò la chiave nel caveau attiguo al bancone, dov'erano custodite le cassette di sicurezza dei clienti. La camera era angusta, ma garantiva riservatezza agli ospiti dell'albergo, che potevano accedere ai loro oggetti di valore senza esporli in pubblico. Nella camera c'era una fila di sportelli metallici, ciascuno provvisto di due serrature. La chiave dell'ospite ne apriva una, ma un ladro non poteva utilizzarla senza la firma per avere la chiave maestra dell'hotel, che apriva l'altra serratura. Jules ruotò le due chiavi, aprì lo sportello, ed estrasse il lungo e piatto vassoio. La camera era reputata antincendio, e Jules la preferiva a qualsiasi banca. Una banca imponeva degli orari a cui attenersi; lui preferiva di gran lunga un posto che rispettava i suoi. Mentre contava qualche banconota, si accorse di avere la vista offuscata e le mani leggermente tremanti. Si interruppe fino a ricomporsi. Era solo per l'aspettativa, lo sapeva, ma era irritato con se stesso. Il suo corpo era un servo ribelle, e spesso lo disgustava. Lasciò la chiave dell'albergo in portineria e uscì in strada. L'uomo mandato da Mary d'Alroy sostava a breve distanza, accanto alla vetrina di un negozio sotto un tendone a strisce. Vide Jules avvicinarsi e rivolgergli un cenno affermativo del capo. A quel punto l'uomo si volse e si avviò, seguito da Jules. Camminò per poco più di un chilometro e mezzo. Trovarono i marciapiedi affollati finché non svoltarono a nord di Broad Street, nella zona che ospitava per lo più dei bar. Quelle strade erano quasi deserte. Per la maggioranza degli uomini di Richmond era troppo presto per uscire a farsi un bicchiere. Quanto alle donne rispettabili di Richmond, non si sarebbero mai fatte vedere in quei paraggi. Con le loro ampie gonne a campana, le maniche a sbuffo e i parasoli per proteggere l'incarnato privo di belletti, diafano e affascinante, le donne di Richmond tendevano a vivere secondo le convenzioni del Sud. Quanto meno in apparenza. I due svoltarono in una strada occupata da edifici sbarrati con delle assi e destinati alla demolizione. A occhio e croce, il terreno era stato acquistato da una compagnia ferroviaria. Avevano già costruito una nuova stazione a Main Street, e lo sviluppo non si sarebbe certo arrestato lì. Si trattava per lo più di magazzini a pochi piani e di palazzine di uffici, ma in fondo alla
strada, il botteghino devastato e la pensilina ridotta all'osso, sorgeva il guscio vuoto di un teatro di varietà. Vi entrarono passando per un vicolo laterale traboccante di rifiuti, e l'uomo dal cranio rasato chiuse la porta alle loro spalle. A quanto vedeva Jules, gli interni erano stati svuotati di gran parte del mobilio e degli oggetti di valore, ma erano comunque asciutti e intatti. Giunti in fondo alla platea deserta, salirono per raggiungere una serie di uffici sopra l'atrio. Si trovarono in un ampio salone con un caminetto spento. Quando entrarono, si alzò una donna, l'altra cameriera di Mary d'Alroy. Dopodiché, sulla soglia di una porta, comparve Mary d'Alroy in persona. Indossava una semplice sottoveste di lino color avorio. Aveva i capelli raccolti e le braccia scoperte. Da come si presentava, avrebbe dovuto camminare a piedi nudi sulla sponda di un fiume anziché sulle assi del pavimento di quel tugurio. «Fareste meglio a entrare» gli disse, voltandosi. Lui la seguì nella stanza. «Chiudete la porta» aggiunse. Lui obbedì, guardandosi intorno. C'era odore di polvere depositata da tempo e di crine di cavallo. La luce filtrava da un lucernario e dalle fessure tra le spesse assi di legno inchiodate alle finestre. In un angolo campeggiava un materasso, sollevato di qualche centimetro dal pavimento, grazie a un tavolaccio di legno. Accanto c'erano una sedia, un tavolo non coordinato alla sedia e, sul tavolo, una brocca d'acqua e un catino. Riconoscendo a prima vista un'occupazione abusiva, Jules osservò: «Adesso capisco perché mantenete riservato il vostro indirizzo». La donna che si faceva chiamare Mary d'Alroy ignorò il commento. «Prima di cominciare,» ribatté «dovete fare una cosa per me.» Il suo tono cominciò a stimolarlo interiormente. «Ordinatemelo.» «Ho detto prima di cominciare» lo corresse lei. «Carta e penna. Laggiù, sul tavolo.» Lui si spostò al tavolo, notando che la donna aveva già predisposto dei fogli di carta da lettera pregiata e una penna stilografica. «Voi occupate degli appartamenti al Murphy» gli disse. «Immagino che soggiornare da loro vi soddisfi.» «Volete una lettera di raccomandazione?» «Voglio trasferirmi in un posto migliore di questo. Ma i direttori d'albergo sono gente sospettosa.»
«Signorina d'Alroy, con il vostro fascino sapreste allontanare un cane dal carro del macellaio. Non riesco a immaginare che un direttore possa cacciarvi via.» «Scrivetemi quella lettera» ribatté lei. «Poi discuteremo del motivo per cui siete qui.» Lui sollevò la sedia, si accomodò, prese la penna e meditò per qualche istante prima di cominciare a scrivere. Dopo aver riportato la data sul foglio, scrisse in tutta rapidità e senza esitazione. Una volta terminata la lettera, la lesse ad alta voce. «A chi di dovere. Vi prego di usare ogni cortesia alla signorina Mary d'Alroy durante il suo soggiorno in albergo. La signorina è amica intima della famiglia Patenotre, originaria di Iberville, in Louisiana.» «E la firma?» «Se siete contenta dell'enunciato.» Aggiunse la sua firma completa. A quel punto la donna gli prese di mano la lettera e la lesse da sé. «Tutto ciò è molto solenne» commentò. «E devo dire che ne sono onorata. Tutta la famiglia Patenotre?» Lui fece un ampio gesto con la mano. «Ce l'avete di fronte» ribatté. «Nessun altro parente in vita?» «Un tempo la nostra famiglia possedeva una delle più grandi piantagioni di tutto il Mississippi. Duecento schiavi e milleduecento ettari di terreni. Dopodiché la guerra... la liberazione degli schiavi, i raccolti incendiati, e solo le vedove e i bambini rimasti a vederli bruciare. Io sono l'ultimo discendente della dinastia. A quel punto, avevo due scelte: potevo trascorrere il resto dei miei giorni indebitato come mio padre, cercando di tenere in piedi qualcosa impossibile da tenere in piedi; o potevo fare come ho fatto, ovvero vendere tutto il possibile, ipotecare il resto e cominciare a spendere quanto restava del patrimonio. Quando finirà finirà, e così tutti noi.» «Storia triste.» «Dovreste ascoltarla con un violino in sottofondo.» Lui era ancora seduto e lei gli stava accanto. Nel chinarsi a riporre la lettera sotto un libro verde, gli sfiorò la spalla. Impossibile sbagliarsi, sotto la sottoveste era nuda. Un istante più tardi, gli parve di sentir formicolare ogni centimetro della pelle. «Dev'essere dura portarsi sulle spalle la delusione di tante generazioni» gli disse lei. «In piedi.» Lui si alzò, strisciando la sedia sulle assi del pavimento. «Procurarvi dolore vi aiuta?» «Mi calma» ammise lui.
«Fatemi vedere.» Lui esitò per un istante, poi si tolse giacca e panciotto e li appoggiò sulla sedia alle sue spalle. Si tolse i gemelli dai polsini e il fermacolletto, e si sbottonò la camicia. Si sfilò le bretelle che gli reggevano i pantaloni, e si spogliò della camicia e della canottiera facendosele passare dalla testa. Restò immobile con le mani lungo i fianchi, senza incrociare gli occhi di lei, sapendo che lo stava studiando, percependone lo sguardo come il solco di un vetro arroventato sulla pelle. Gli stava guardando le cicatrici. Alcune erano fresche e non ancora guarite. «Sotto, ne ho molte di più» le disse. «Mostratemele.» «Per favore» ribatté lui. «Prima chiudete la porta.» Non c'erano chiavi, ma la porta era munita di chiavistello. Lei attraversò la stanza, fece scorrere il chiavistello, tornò a guardarlo; e a quel punto lui si era spogliato del tutto, tranne i calzini. «Avete freddo?» gli domandò. «No» rispose lui. Stava rabbrividendo, ma non per il freddo. Lei tornò da lui e cominciò a girargli attorno per un'ispezione più accurata, quasi facesse l'inventario di ogni segno e cicatrice, notando ogni oggetto, appuntito o meno, che lui era riuscito a infilarsi sottopelle e che vi era rimasto conficcato. Non era un Adone, ma aveva una muscolatura forte ed era snello. Non poteva sfuggirle la prova fisica della sua eccitata aspettativa. «Come avete fatto a capire di me?» Da dietro, lei rispose: «A quanto pare i simili si riconoscono. Chi può dire quali siano i segnali?». «Non è questa la spiegazione. I miei istinti non sempre colgono nel segno. A Iberville pagai una donna per frustarmi. Quando arrivammo al dunque, lei disse che era una cosa disgustosa da chiedere a una cristiana. Quella donna fu uno dei motivi che mi costrinsero a lasciare la città.» «Solo uno dei motivi?» «Quello principale.» Lei si fermò e, con delicatezza, gli fece correre un dito su un livido che gli attraversava il ventre, proprio sopra l'osso pubico. «E adesso siete qui» proseguì lei. «A mettere di nuovo a rischio ogni cosa. Che cosa vi piace di più, il dolore o il pericolo?» «Voi non siete affatto come lei» ribatté lui. «Non credo che mi denuncereste.»
«Ma anch'io sono una cristiana. Credete di meritarmi?» «Se sì, sarò dannato» le rispose. «Ottimo» esclamò lei, per poi tornare seria. «Vi piacerebbe essere pulito?» disse. «Pulito davvero, per la prima volta in vita vostra? Vi piacerebbe essere più pulito di quanto siate mai stato prima d'ora? Io posso fare qualcosa per voi. Inginocchiatevi.» Lui impiegò un istante a capire che gli aveva dato un ordine. Si inginocchiò. Lei raggiunse il materasso e, voltandogli la schiena, si sfilò la sottoveste in un solo, fluido movimento. Il corpo che aveva denudato era longilineo, snello e tondo nei profili, diafano e immacolato, candido e liscio come marmo levigato. Piegò la sottoveste e si tese per riporla in un posto sicuro. Non si stava spogliando per suscitare un effetto erotico. Si svestiva per lavorare. Si voltò a guardarlo. Aveva il corpo di una Venere d'alabastro, tonico, teso e privo di imperfezioni. Lui sentì il petto serrarsi al punto da respirare a fatica. «Dovete sapere una cosa» gli disse lei. «Dovete capire che la prossima ora guasterà tutte le altre. Forse addirittura per sempre. Potete tornare indietro adesso, prima che sia troppo tardi.» «No» ribatté lui, e il suono quasi non uscì. «Benissimo, allora» proseguì lei, e per un istante si voltò a raccogliere qualcosa da terra accanto al letto basso, qualcosa che aveva riposto per non farlo vedere. «Volevate pagarmi per un bacio?» gli disse. «Allora baciate questo.» Attraversò la stanza verso di lui. Trentatré Quando Sayers tornò dal barbiere e dal bagno pubblico, Sebastian fu subito colpito dal cambiamento. Anche se per i capelli del pugile si poteva fare ben poco - gli erano stati tagliati cortissimi per esigenze di ring - una bella rasatura e una spuntatina alle basette cominciavano a fare la loro figura. Senza dubbio, quando gli fossero ricresciuti i capelli, avrebbe cominciato a somigliare più a un essere umano che a un bestione. E non era tutto. Il viso si era sgonfiato e i tagli cominciavano già a guarire. In quel frangente Sebastian non se n'era accorto, ma quando si erano incontrati nel tendone di pugilato, il pugile era annebbiato dall'abuso di alcol. Non era ubriaco, bensì nello stato funzionale del bevitore incallito.
Senza l'influsso dell'alcol, si era fatto più vigile. Gli occhi si erano schiariti, aveva la mano ferma, e non strascicava più il passo. Da quando era loro ospite, non toccava liquori, e se stava soffrendo per questo, se lo teneva per sé. Nel complesso, era come se la sensazione di avere un nuovo scopo l'avesse fatto tornare il Tom Sayers di una volta. Sebastian gli ripeté quanto riferito dal contabile. «Se n'è andata senza pagare il conto» disse. «Oakes si è premurato di citare il nome della Pinkerton e quelli dell'hotel l'hanno messo in contatto con il loro detective. Da quanto è riuscito a determinare, Louise ha spedito i due servitori a prenderle i bagagli dall'ingresso posteriore dell'albergo e lei è uscita dalla porta principale come fosse un giorno qualunque. Il portiere si è ricordato di averle chiesto se desiderava una carrozza, ma lei ha risposto di no.» Chiaramente avvezzo ai metodi operativi di Louise, Sayers rispose: «Un portiere d'albergo conosce tutti i vetturini. Per lui sarebbe stato un gioco da ragazzi rintracciare il cocchiere e scoprire dove l'avesse portata». «In effetti l'albergo ha individuato il trasportatore che ha raccolto i suoi bagagli all'ingresso di servizio. Ha dovuto consegnarli al porto per farli caricare su un piroscafo diretto a Richmond. E lì si sono perdute le tracce. Sulla lista dei passeggeri di quel giorno o dell'indomani non c'era nessuna signora Caspar.» Sayers passeggiava avanti e indietro per la stanza. Si fece passare la mano sui capelli cortissimi. «Richmond» disse. «Le sono arrivato tanto vicino e già mi è sfuggita. Ma non avevo mai seguito una traccia così forte.» «Immagino che vi metterete al suo inseguimento» osservò Sebastian. «Credo di sì» rispose Sayers. «Ma non alla cieca. Dovrò formulare un piano. Non preoccupatevi, Sebastian. Non dovrete avere a che fare con me ancora per molto.» Quando udirono Elisabeth e Frances tornare con il bambino, Sayers attese per salutarli. Quindi raccolse il pacco con gli abiti nuovi e si ritirò nella sua stanza, lasciando la famiglia alle proprie faccende. Elisabeth non dava segni di aver notato il miglioramento nell'aspetto di Sayers. Aveva altre cose per la mente. Dal momento in cui varcò la porta, Sebastian intuì che il pomeriggio non era andato per il meglio. Aveva il volto teso. Frances le gironzolava intorno con aria inquieta, quasi fosse in presenza di un ordigno instabile. A bassa voce, Elisabeth mandò Robert nel salotto sul retro di casa. Lui si precipitò a raggiungerlo e
Frances colse l'occasione per seguirlo. Sebastian notò che il bambino aveva in mano cinque nuovi romanzi. «Che cos'ha detto il medico?» domandò Sebastian, paventando la risposta. «Ha offerto a Robert un posto per vivere fra i pazzi» disse, e poi la sua rabbia degenerò. «Lui non è pazzo!» esclamò. «E non è né handicappato né ritardato. Perché nessuno di loro se ne rende conto? Non voglio che lo portino via. Voglio solo che abbia una vita normale. I presupposti per una vita normale ci sono tutti. Ha solo bisogno di qualcuno che lo aiuti a metterli insieme.» Avrebbe detto altro ma, al rumore di un'asse del pavimento, ricordò che in casa c'era un estraneo. Sayers aveva ripreso a camminare avanti e indietro, formulando i suoi piani. Elisabeth fece un gesto di disperazione, quindi distolse lo sguardo. «Almeno domattina Sayers se ne andrà» disse Sebastian sottovoce. «Con le notizie che gli ho appena riferito, non avrà bisogno di sollecitazioni.» «Il signor Sayers è nostro ospite» ribatté Elisabeth. «Digli che può restare quanto desidera. Non vorrei metterlo in imbarazzo.» La cena fu alquanto sotto tono. Robert fu congedato presto, ma lui si trattenne a tavola a leggere, dimenticandosi di ciò che lo circondava, perduto nelle lande inconoscibili della sua peculiare immaginazione. Per una volta, Elisabeth glielo permise. Da parte sua, Sayers disse ben poco. Anche la sua mente sembrava del tutto altrove. Più tardi, quella sera, quando tutti si erano già ritirati e la casa era stata chiusa, Sebastian si mise a letto e vide che da sotto la porta di Sayers filtrava ancora la luce. Si sdraiò accanto a Elisabeth, sapendo che non era addormentata. «Che cosa possiamo fare per lui, Sebastian?» gli domandò infine. «Mantenerlo felice. Continuare a guardarci intorno.» «Che cosa ne dici di Londra?» «Forse. In fin dei conti.» Non gli venne in mente altro da dire. Quando la mattina successiva Sebastian scese al pianterreno, Frances era già in cucina. Robert sedeva a far colazione ma era ancora in camicia da notte, con i piedi nudi che gli dondolavano dalla sedia. Aveva già letto tutti i suoi nuovi romanzi e li stava rileggendo.
«Il signor Sayers ci ha già lasciato?» domandò Frances. «Ci ha già lasciato?» ribatté Sebastian. «Non credo.» «La porta non era serrata e il suo cappotto non c'è più.» Sebastian raggiunse la stanza di Sayers e bussò alla porta. Dopo aver atteso per qualche istante senza ottenere risposta, guardò all'interno. Il baule da viaggio del pugile c'era ancora, ma era al centro della stanza e completamente chiuso. L'armadio era stato sgombrato delle sue cose e il letto era stato liberato di lenzuola e coperte, che erano piegate con cura in fondo al letto. Sul baule da viaggio rovesciato c'era un foglio di carta da lettera. Sopra, a caratteri cubitali, campeggiavano le parole "Da recapitare a" e sotto: «Sentiti ringraziamenti per la vostra gentilezza, che Dio vi benedica tutti quanti. Cercate di non pensare male di me. Quel che faccio è soltanto a mio rischio e pericolo». Doveva essersene andato prima dell'alba. E doveva anche essersene andato piuttosto in sordina, perché la casa era piccola e le pareti non erano spesse. Con ogni probabilità aveva tenuto in mano gli stivali sino alla porta di casa per non far rumore sulle scale. Bene, non c'era altro. Sebastian tornò in cucina. «A quanto pare, riavrai la tua stanza, Frances» disse. «Riporremo il baule del signor Sayers in cantina finché non lo manderà a prendere.» «Oh» ribatté Frances. Ma non sembrava tanto lieta della prospettiva di una casa senza più Tom Sayers. A quel punto sopraggiunse Elisabeth, e Sebastian le diede la notizia. «Richmond?» domandò. «E che cosa si aspetta di trovare a Richmond?» «La Madonna o la Medusa,» ribatté Sebastian in tono criptico «dipende dall'umore della donna. Non ne parliamo.» Rifiutò la colazione. Avrebbe preso qualcosa al distributore automatico. Doveva arrivare in ufficio prima di tutti gli altri; Bearce era partito per Chicago lasciandogli le chiavi in custodia. «È una forma di promozione?» «Io direi piuttosto un compito ingrato» le rispose. Ma lei aveva ragione. Era indice di maggiore fiducia da parte dei suoi datori di lavoro. Il guardiano notturno aveva la responsabilità di aprire le porte principali dell'edificio, ma chi teneva le chiavi aveva la responsabilità degli uffici. Archivi, registri, cancelleria... persino la cassaforte che custodiva i bilanci dell'attività e i registri più riservati. Si abbottonò il gilet, s'infilò il soprabito e raggiunse la scrivania. Quan-
do alzò il coperchio, le chiavi non c'erano. Spostò qualche oggetto. Aprì uno o due cassetti. Ma sapeva dove le aveva lasciate. Nessun altro in casa usava la scrivania. Robert sapeva di non dover toccare le carte del padre, per non parlare del revolver Bulldog che a volte lui lasciava nell'ultimo cassetto chiuso a chiave. «Che cosa cerchi?» gridò Elisabeth dall'altra stanza. «Niente» gridò lui in risposta. A quanto pareva c'era una sola spiegazione plausibile, e non gli piaceva affatto. Per scrivere il messaggio, Sayers aveva avuto bisogno di carta. Ed era lì che l'avrebbe cercata. «Quel che faccio è soltanto a mio rischio e pericolo» aveva scritto. Sebastian abbassò il coperchio con più forza di quanto non intendesse e s'incamminò in città. Trentaquattro Quando Sebastian arrivò, il palazzo di Chestnut Street era aperto ma ancora piuttosto silenzioso. Salì le scale sino a raggiungere gli uffici dell'agenzia Pinkerton. Se il responsabile delle chiavi era in ritardo, gli impiegati dovevano attendere fuori in corridoio. Se non si fosse presentato, avrebbero dovuto chiamare il custode dell'edificio con i duplicati. Il caso del responsabile delle chiavi senza le chiavi... insomma, non era contemplato dal sistema. Non c'era ancora nessuno in attesa. Sul pannello di vetro della porta era inciso il nome dell'agenzia. Sebastian si fermò di fronte e tese l'orecchio, ma non udì nulla. A quel punto tentò la porta. Avrebbe dovuto essere chiusa a chiave. E invece si aprì. Entrò. «Sayers?» gridò, ma da come la voce riecheggiava nelle stanze intuì che non avrebbe trovato nessuno. Né una presenza, né un'anima viva da alcuna parte. Aveva sperato di acciuffarvi Sayers, ma lui era venuto e se n'era già andato. Sebastian andò dritto al reparto penale nell'archivio. Altra porta che avrebbe dovuto essere chiusa a chiave, e non lo era. E anche i casellari con i registri avrebbero dovuto essere chiusi a chiave e non lo erano. Senz'altro c'erano degli spazi vuoti da cui mancavano alcuni documenti e interi dossier. Quello dell'uomo con gli aghi nel ventre, tanto per cominciare. Senza un elenco, era difficile determinare con certezza che cosa fosse
stato preso. A quel punto, Sebastian udì delle voci. Uscendo dall'archivio, incrociò due stenografe dirette nella loro stanza in fondo al corridoio. Chiacchieravano animatamente, sveglie e vigili come due passerotti. Per quanto le riguardava, avevano trovato l'ufficio aperto per loro come al solito. S'interruppero per dare il buongiorno a Sebastian, quindi proseguirono. «Buongiorno» gli gridò dietro in ritardo. Persino la sala di stenografia era aperta. Sayers doveva essere passato dappertutto. Quando Sebastian raggiunse la sua scrivania, trovò le chiavi mancanti posate accanto alla targhetta di legno con il suo nome. Guardandosi attorno con aria colpevole, aprì il primo cassetto e le fece sparire dalla vista. Solo quando ebbe chiuso il cassetto, il cuore smise di martellargli e il petto serrato cominciò a rilassarsi. La perdita di qualche dossier... non era poi una tragedia. Se Sayers li avesse chiesti, avrebbe ottenuto risposta negativa; ma, a dirla tutta, era improbabile che si sentisse la mancanza di quei documenti. I vecchi dossier esaurivano la propria utilità, come i vecchi impiegati. Se Sayers aveva preso solo quelli, non sarebbe stata una gran perdita. Era un gesto scorretto, ed era questo a renderlo furioso; aveva accolto Sayers in casa, e lui aveva abusato della sua ospitalità. Ma il danno effettivo era lieve. Mai fidarsi di un ubriaco o di un uomo ossessionato, pensò fra sé. Per quanto Sayers sembrasse affidabile, di fatto era tutte e due le cose. Mentre arrivavano altri impiegati, Sebastian scostò la sedia, trasse un respiro profondo e prese dalla scrivania la prima delle pratiche che gli erano arrivate durante la sua assenza dall'ufficio. Accantonato il panico iniziale, non era poi la giornata disastrosa che aveva minacciato di essere. Lo attendevano delle lettere di potenziali clienti che meritavano solo delle risposte standard. C'era un cablogramma di richiesta informazioni da parte di un agente in California. C'era la domanda di Oakes per il risarcimento della tratta tramviaria del giorno precedente. Questo avrebbe dovuto aspettare: solo il signor Bearce poteva autorizzare un pagamento in contanti, da attingere dagli irrisori fondi dell'ufficio, Sebastian si bloccò. Quindi si alzò. Si spostò nell'ufficio vuoto di Bearce e girò intorno alla scrivania del direttore per raggiungere la cassaforte. Era un poderoso armadio di ferro e ottone, più vecchio dell'edificio che lo ospitava. Richiedeva la chiave più grande e, quando lo sportello si spalancò, lo fece con la solennità dei can-
celli di Babilonia. «L'ha preso» disse Sebastian alla moglie in tono fosco. «La cassaforte era vuota. Tutti i contanti presenti in ufficio, compreso il denaro con cui paghiamo gli informatori.» «Sai di quanto si tratta?» domandò Elisabeth. «Milleduecento dollari e qualche spicciolo. Bearce ne tiene conto in un registro distinto perché non saltino fuori i nomi degli informatori.» Milleduecento dollari. Mentre riflettevano sulle conseguenze del furto di Sayers, regnava un silenzio costernato. Erano seduti sul letto di Frances. Dopo aver cercato per quasi tutto il giorno di rintracciare Sayers alla stazione, oltre a chiedere informazioni in tutti gli uffici delle compagnie di navigazione, Sebastian era tornato a casa ed era andato dritto nella stanza della cognata. Lì aveva forzato il baule del pugile e l'aveva frugato nella speranza di trovare qualche indizio sui progetti dell'uomo. Dopo aver mantenuto la calma per ore, adesso aveva ceduto all'ansia. Non sapeva di preciso quando Elisabeth fosse comparsa sulla soglia. Sapeva solo che l'aveva osservato per qualche tempo prima di avvicinarsi e interrompere i suoi sforzi con mano delicata, incalzandolo a dirle che cosa non andava. «La tua fiducia è stata tradita» disse adesso Elisabeth. «Dubito che lui l'abbia preso anche solo in considerazione» ribatté Sebastian. «La sua ossessione è il suo unico orizzonte.» «Quanto tempo passerà prima che si scopra l'ammanco?» «Due giorni. Tre al massimo.» «Qualcuno potrebbe aver visto entrare Sayers?» «Non è questo il punto» esclamò Sebastian. «Io sarò ritenuto comunque responsabile.» Milleduecento dollari. Tom Sayers poteva aver pensato di prendere il denaro dall'agenzia senza mettere in conto le eventuali conseguenze per il padrone di casa. Ma quando fosse tornato Bearce e si fosse scoperto l'ammanco di cassa, Sebastian sarebbe stato chiamato a risponderne. E dare la colpa a Sayers non lo avrebbe aiutato. Abbassò lo sguardo sui libri e gli abiti che aveva sparso per tutto il pavimento. Non c'era nulla di utile. «Non so come comportarmi» esclamò. «Abbiamo messo via quasi ottocento dollari» ribatté Elisabeth. «E abbiamo i titoli a mio nome da prima che ci sposassimo... adesso ne valgono
circa duecento. Potremmo cambiarli in contanti, o potrei ipotecarli.» «A che scopo?» «Per rimettere a posto l'ammanco prima che lo scopra qualcun altro.» «Non è una soluzione, Elisabeth» esclamò Sebastian. «Quel denaro è il nostro futuro.» «Se tu dovessi perdere l'impiego e la reputazione,» osservò Elisabeth «non avremo nessun futuro. Prendi i nostri risparmi, rimetti il denaro in cassaforte e a quel punto insegui Sayers per riprendere ciò che ha rubato. È partito da qualche ora soltanto, e sai che è andato a Richmond. So che puoi trovarlo. Ha rubato ai Pinkerton. Ti pare forse astuto?» «Non funzionerà» commentò Sebastian. «Non riusciremo a raccogliere una somma sufficiente.» «C'è Frances. So che ha del denaro da parte. Gliene parlerò.» «No» replicò Sebastian in tono d'impotenza, e si prese la testa fra le mani. Era un disastro. Ma come aveva fatto ad arrivare a quel punto, e soltanto in una manciata di ore? In cuor suo malediceva Tom Sayers e malediceva il momento in cui aveva deciso di tornare nel tendone del pugilato, quando avrebbe potuto andarsene tanto facilmente. Milleduecento dollari erano più di quanto aveva guadagnato nell'ultimo anno. Per un'azienda non era certo un patrimonio, ma era una somma che poteva creare o distruggere una famiglia. E adesso avrebbero chiesto a Frances di intervenire. Sapeva perché lei accantonava parte di quel magro stipendio che riuscivano a versarle. Anche se non aveva un fidanzato né l'immediata prospettiva di averne uno, stava risparmiando per il matrimonio. Sebastian conosceva il valore di ciò che possedeva. Era sopravvissuto a una rigida educazione e a una giovinezza senza amore, e non aveva mai dato per scontate le sue fortune attuali. Un tempo era stato ambizioso e bramoso di successo. Adesso la sua vita era modesta, ordinaria, e ricca di piccole gioie... un tesoro meno spettacolare, ma per lui più prezioso. «In questa casa dipendiamo tutti da te» riprese Elisabeth. «E Dio ti benedica, Sebastian, ci hai fatto vivere un'esistenza decorosa. Ma adesso permettici di sostenerti, o tutto ciò per cui hai lavorato andrà sprecato.» Lo costrinse a guardarla. «Vai a riprenderti quel denaro, Sebastian» disse. «Inseguì quell'uomo. Di' a quella gente che cosa devi dire e fai quel che devi fare.»
Trentacinque Tom Sayers viaggiò sulla Pennsylvania Railroad sino a Washington, e lì prese il treno per Richmond. I convogli diretti a sud vantavano tre carrozze, un vagone ristorante, quattro vetture pullman e due vagoni bagagli. Per qualche tempo Sayers si aggirò irrequieto avanti e indietro per i corridoi. Nella sua carrozza c'erano un paio di famiglie e un gruppo di sette o otto uomini d'affari. Gli uomini sembravano conoscersi tutti, e passavano il tempo giocando a carte e parlando di politica. Indossavano completi di media qualità e parlavano a voce troppo alta. All'esterno i campi lasciarono il posto ai boschi della Virginia. Sayers si rese conto di innervosire i facchini con il suo andirivieni. Così si accomodò per mezz'ora, e cominciò invece a smaniare sul sedile. Quando un addetto entrò ad annunciare il pranzo, si spostò nel vagone ristorante, prese un tavolo e ordinò una bistecca. Almeno per il momento, poteva permettersi di vivere dignitosamente. Essere spiantato e incassare ogni giorno dei cazzotti per guadagnarsi il pane non era certo la maniera di mantenersi presentabile per Louise. Ogni giorno che passava, si sentiva sempre meno un pugile suonato e sempre più il Tom Sayers dei vecchi tempi. Si domandava se i Pinkerton avessero già scoperto l'ammanco. Senza dubbio Sebastian doveva essere infuriato con lui. All'arrivo del suo piatto, si trovò ad abbassare lo sguardo sul cibo senza molto entusiasmo. Sotto certi aspetti, continuare a desiderare la propria meta era più facile che non compiere un passo tanto decisivo per raggiungerla. La vita di tutti i giorni poteva continuare e la meta restare un sogno sicuro e distante. Non ci sarebbe stata affatto quell'incertezza che provava adesso; nessuna paura di poter compiere una mossa sbagliata o prendere una pessima decisione, distruggendo per sempre le proprie speranze. Guardò fuori dal finestrino. Si trovavano su un ponte che attraversava un fiume ampio e calmo. Al passaggio del treno, uno stormo di uccelli spiccò il volo dall'acqua. Lo sosteneva un pensiero. Il pensiero di quella notte, quando Louise dal palcoscenico aveva abbassato lo sguardo dicendogli di dimenticarla. Era finalmente arrivata a comprendere la verità su di lui. Se solo adesso lui avesse potuto farle vedere la verità su se stessa... Non era perduta. Lui non riusciva a crederci. Maltrattata, manipolata, fuorviata... questo sì. Ma mai meritevole di essere dannata. Fino ad allora
tutte le prove indicavano che i suoi passi verso l'inferno non erano altro che giochi di dolore consensuali, rappresentazioni del male che tuttavia non ne avevano la sostanza. Vittima dell'ingiunzione di infliggere dolore, Louise cercava quelli che il dolore rendeva felici. Tutto ciò avrebbe potuto cambiare, ovviamente; l'incidente con la bambina a Yarmouth era indice di una prospettiva assai più oscura. Quella notte la bambina era sopravvissuta solo per pura fortuna. Louise poteva anche aver assunto il ruolo dell'Errante e averlo adattato a sé, ma procedeva con la guida e gli insegnamenti del Taciturno e della sua altrettanto silenziosa moglie. Loro servivano l'Errante, non chi ne prendeva il posto. Non sprecavano occasione per spingerla sempre più vicina all'orlo del baratro e, se fosse giunta l'opportunità, per gettarla dentro. Louise non era pura. Ma chi lo era? Sayers prese il coltello e tagliò la bistecca. Per essere un uomo che non aveva appetito, da quel momento in poi l'aggredì con il giusto impegno. Il treno giunse a Richmond nelle prime ore della sera, attraversò il fiume James in vista delle vecchie acciaierie Tredegar, ed entrò nella stazione di Main Street sfiatando una gran nuvola di vapore. Sayers scese dalla carrozza con la sua valigetta, s'incamminò verso l'atrio della stazione e uscì in strada. Il palazzo della stazione era recente e svettava sui binari rialzati, simile a un castello di mattoni. Sotto l'edificio erano allineati i taxi a cavallo in attesa dei passeggeri. Da dove cominciare? Conosceva ben poco di Richmond. Sapeva solo che negli ultimi decenni la città era stata largamente ricostruita e che, come la stazione, era in gran parte nuova; e che quasi tutta la parte nuova, come la grande Monument Avenue, tradiva l'ossessione per ciò che era andato perduto. L'ex capitale della Confederazione era stata messa a ferro e fuoco quando le sue truppe erano state evacuate prima dell'avanzata dell'Unione. Tanto per cominciare aveva bisogno di un posto dove alloggiare. A Main Street, si mise a cercare i cartelloni teatrali. Se fosse riuscito a trovare la strada per il quartiere dei teatri, avrebbe potuto individuare i locali che lo servivano. Non quelli dove cenava o beveva il pubblico, ma quelli più tranquilli, frequentati dalla gente di spettacolo. Di norma, Sayers era in grado di riconoscere per istinto un ritrovo di artisti da un locale destinato al pubblico ordinario. In uno qualunque di quei ritrovi, avrebbe giocato in casa e avrebbe potuto attaccare discorso con qualche servo di scena o attore di varietà in pausa
fra uno spettacolo e l'altro. Avrebbe potuto sapere dove si trovavano le stanze ammobiliate più convenienti e come funzionava la scena locale. Magari avrebbe anche potuto sapere qualcosa di Louise; arrivata anche lei fresca fresca in città, doveva essere impegnata a farsi strada quanto lui... anche se, ne era sicuro, non proprio negli stessi ambienti. Le sue indagini lo portarono a Broad Street e nei vicoli circostanti. Un salone dall'aria promettente si fece sempre più promettente quando lui vide uscirne due musicisti, il cappotto di tutti i giorni sugli abiti da orchestrale. L'ingresso del locale era anonimo e situato in un punto poco trafficato: facile non notarlo, se non si avevano dei buoni motivi per farlo. Una volta entrato, Sayers tentennò. Qualcosa non andava per il verso giusto. Quella sala era occupata sia da bianchi sia da neri, che bevevano fianco a fianco in tutta serenità. Gli era parso di capire che la guerra avesse liberato gli schiavi ma che le razze fossero tenute ancora ben distinte. Che il mondo dello spettacolo di Richmond, dietro le quinte, fosse un terreno comune in cui non esisteva segregazione? Poi si rese conto che non era niente di tutto questo, come ovvio. Si fermò a un tavolo e disse: «Scusatemi. Voi siete per caso i Trovatori di Black Patti?». L'uomo seduto al tavolo con il cerone nero in viso scosse la testa. «I Menestrelli di Al Fields» ribatté. Sayers si spostò al bar, con i suoi intagli ricercati e le sputacchiere in corrispondenza delle staffe poggiapiedi. Davanti al bancone sostava un cameriere nero in camicia bianca immacolata, gilet e grembiule; era appoggiato al corrimano di ottone e parlava con il barista. Mentre Sayers si avvicinava, il barista smise di parlare e il cameriere si allontanò per raccogliere le ordinazioni e i vuoti. Sayers posò la valigia accanto a uno sgabello del bar e ordinò una birra. Gli fu servita in un bicchiere di cristallo massiccio. Ne bevve un sorso e tornò ad appoggiare il bicchiere sul bancone. Doveva essere più cauto. Quel sorso sembrava avergli aperto una porta in fronte. La birra portava sempre a un whisky e un whisky tirava sempre l'altro. Erano le prime note di una protratta melodia che, una volta cominciata, l'avrebbe allettato sempre più sino a farlo finire, con ogni probabilità, a faccia a terra in un vicolo. Una volta, la continenza era stata una delle possibili alternative. Adesso non più. Adesso, a quanto pareva, le sue sole alternative erano l'astinenza o l'esatto opposto.
Volse le spalle al bar e scrutò la sala. Fu colpito da una donna seduta a un tavolo accanto alla parete posteriore. Quando lui era entrato non era sola, ma adesso sì. Vedere una donna non accompagnata era già insolito di per sé, ma quella era anche ridotta male per via dell'alcol. Sayers immaginò fosse una prostituta, che era lì a lavorarsi i clienti. Anche il cameriere sembrava di quella idea, perché si fermò a parlarle. Lei prese a scuotere la testa. Il cameriere alzò gli occhi e incrociò lo sguardo con il barista bianco. Il barista lasciò il bancone, e il cameriere si fece da parte mentre l'altro portava a termine il chiassoso compito di gettare fuori la donna. Gli astanti ignorarono quella scenata, o fecero di tutto per fingere di ignorarla. Sayers studiò il pavimento finché il cameriere e il barista non rientrarono nel locale dal vicolo, scrollandosi la polvere di dosso. Il cameriere rispose a una chiamata da un tavolo vicino e il barista tornò al proprio posto. Sayers lo vide adocchiare il bicchiere quasi intatto e quindi chiamarlo con un cenno. «C'è qualcosa che non va nella birra?» gli domandò, mentre lui si avvicinava. «Niente affatto» ribatté Sayers. «Scusate se cambio del tutto discorso, ma sono lieto che gestiate un locale decoroso.» «E io sono lieto che la cosa sia apprezzata» replicò il barista. «Potete starne certo» esclamò Sayers. «Con tutti quei teatri appena dietro l'angolo, immagino sia frequentato da molti artisti.» «Un po'» ammise il barista. «Anch'io lavoro in quel campo» proseguì Sayers. «Sto cercando un posto dove alloggiare che abbia le lenzuola pulite e una direzione che non si dia pensiero o troppa briga per gli orari degli ospiti. Lo conoscete per caso?» «Può darsi» rispose il barista. «Pensate di prendere solo una birra?» «Datemi un whisky,» disse Sayers «e versatevene uno anche per voi.» Una volta pagati i whisky, vide il barista allungare le mani sotto il bancone e porgergli un volantino. Sayers lo inclinò alla luce e lo lesse. Era il volantino di una pensioncina con tariffe ragionevoli. La gente di teatro era particolarmente gradita. A quel punto Sayers ringraziò e scese dallo sgabello del bar. Raccolse la borsa da viaggio. «E i whisky?» «Tutti e due per voi» ribatté Sayers, e se ne andò.
Quando Sayers uscì dal saloon, la prima cosa che vide nel vicolo fu la prostituta cacciata fuori dal locale. Era caduta, e non riusciva ad alzarsi. La si vedeva sin dal fondo del vicolo, ma nessun passante si era lasciato commuovere per andare ad aiutarla. Sayers la raggiunse. L'alzò in piedi e la guidò fino al lato opposto del vicolo, dove erano accatastate delle casse. Tre erano dell'altezza giusta per fare da sedile. Mentre lui l'aiutava a sedersi, le bottiglie vuote nelle casse tintinnarono l'una contro l'altra. «Devi andare a casa» le consigliò Sayers. «Portamici tu.» «No.» «Maledizione a te se pensi di trovare di meglio.» «Non stavo pensando niente di simile.» Sayers le si sedette accanto e la osservò ricomporsi gli abiti e darsi un contegno. Difficile dire cosa fosse più sciatto. «Già» ribatté la donna in tono sprezzante. «Tu hai un cuore d'oro. Ma questo non mi turba. Tutti hanno un cuore d'oro.» «Tu ce l'hai?» «Una volta sì.» «Anch'io.» Lei iniziò a fissarlo. Contrariamente alla moda, aveva un trucco pesante. Anziché renderla più affascinante, ne accentuava i tratti volgari e il pessimo stato della pelle. Sayers non si azzardò neppure a indovinarne l'età. Immaginava che avesse fatto una vita dura e, con ogni probabilità, sembrava molto più vecchia di quanto non fosse in realtà. «Scusami» disse lei in tono circospetto. «Stavi facendo il gentiluomo. Ti sei fermato ad aiutarmi e io ti ho insultato.» «Io non ho sentito insulti» osservò Sayers. «Ti insultavo nella mia mente. Solo che a volte, quando bevo, non riesco a farlo con la lingua.» Ridacchiò. Il riso l'addolcì, ma non di molto. «Se smetti di bere,» disse Sayers «potresti attirare più clienti.» «Se non bevessi, i clienti non riuscirei ad affrontarli affatto.» Era difficile obiettare. «Devi averne viste tante» osservò Sayers. «Quello sì» ribatté lei, lo sguardo perso nel vuoto. Era come se stesse cominciando a prendere forma un'idea grandiosa, simile a una nave che avanzava nella nebbia. Un secondo dopo, si sollevò leggermente e lasciò andare un peto, facendo crepitare i vuoti in tutte e tre le casse su cui sedevano. Era come se, di colpo, la nave immaginaria avesse suonato il corno
da nebbia. Per qualche istante, nel vicolo, risuonò il tintinnio della campana di un filobus di passaggio, che sovrastò la flatulenza come un colpo di cimbali e lo sollevò dall'incombenza di commentare. Lei tornò ad accomodarsi come se niente fosse. Intuendo di avere un'occasione ideale e nulla da perdere, Sayers domandò: «Posso farti una domanda che offenderebbe quasi tutte le donne?». «Domanda pure» ribatté lei. «Scommetto cento dollari che non riesci a offendermi. Se mi dai tu il centone.» «Non posso,» replicò lui «ma permettimi di domandarti questo. Ci sono certi uomini in cerca di determinati piaceri.» «Le checche?» «Non le checche. Alludo agli uomini che provano piacere subendo punizioni corporali. Sai dirmi dove potrei trovarli in questa città?» «Vuoi farti picchiare? Posso farlo io.» «Non è per me. È complicato da spiegare.» «Ci scommetto» commentò lei. Poi trasse un respiro profondo, si sistemò e cominciò a rifletterci seriamente. «Se vuoi trovare degli uomini con certi appetiti,» disse «devi cercarli nei ritrovi per ricchi. Se ne metti insieme un branco quelli tornano bambini. E, da bambini, quei ricchi... insomma, l'unica donna che li toccava era la loro tata quando li sculacciava. E adesso che sono uomini adulti, è quella la loro idea di paradiso.» «Di quali ritrovi stai parlando?» «I circoli sportivi. Salvo che nel loro sport non ci sono solo cavalli e fucili. Questa era facile. Dammi un dollaro e chiedimi qualcos'altro.» «D'accordo» ribatté lui, e gliene diede due. «Supponiamo che una donna porti un bambino in grembo, e qualcuno la spinga a stroncare prematuramente la vita del bambino. Immagino che per lei sia un duro colpo. Quanto credi possa impiegare a pacificarsi interiormente?» La donna trasalì. Sembrava quasi che lui avesse appena cominciato a esprimersi in una lingua straniera, e che lei non se ne fosse accorta e si stesse sforzando di interpretare le parole in termini comprensibili. «Intendo dire che...» esordì Sayers, ma lei lo interruppe a metà frase. «Ho sentito che cos'hai detto.» Con un balzo improvviso in avanti, tornò in piedi. Si alzò anche lui. «Ho sentito che cos'hai detto e vattene all'inferno!» Fece per assestargli un ceffone, ma lui non fu davvero costretto a evitar-
lo, perché la donna lo mancò di un bel pezzo e perse l'equilibrio. Le afferrò il braccio per non farla cadere ma lei lo scacciò, con gesto violento. Si aggrappò invece alle casse per ritrovare l'equilibrio da sola quindi, con enorme fatica, sollevò quella in cima e gliela scagliò contro. Lui balzò all'indietro e la cassa si schiantò sul selciato ai suoi piedi; l'asse del coperchio si staccò e i vetri rotti volarono dappertutto. Adesso lei gridava e singhiozzava nel contempo, vomitandogli addosso una marea di imprecazioni che lui non aveva mai sentito uscire di bocca a una donna. In fondo al vicolo la gente si fermava a guardare. Le casse più in basso erano aperte e la donna cominciò a estrarre le bottiglie vuote gettandogliele contro. Aveva disegnato in volto una maschera di belletto, furia e tragedia. «Perdonami» disse invano Sayers e, per tutta risposta, si vide arrivare addosso una bottiglia seguita da altri insulti. Lui indietreggiò e la evitò, arretrando di un altro passo verso la salvezza. La donna era simile a una creatura selvaggia. Ovviamente era stato lui a dare il via a tutto, ma non aveva idea di come fermarlo, e se c'era modo di fermarlo. Qualcuno lo stava trascinando via. Era il cameriere del locale alle loro spalle. La porta era aperta e la gente era affacciata a seguire la scena. L'uomo gli prese la borsa da viaggio e lo ricondusse in cima al vicolo. «Le ho solo fatto una domanda» disse Sayers. «Spero abbiate avuto la vostra risposta» ribatté il cameriere. Sayers si guardò indietro. «Credo di sì» esclamò. Trentasei Il direttore posò la lettera di raccomandazione e disse: «Chiunque goda di una tale considerazione da parte del signor Patenotre è il benvenuto in questo albergo». «Sono portata a pensare che sarà lieto di saperlo» ribatté Louise. «Ho due servitori.» «Ho una graziosa stanza per loro nella nostra dépendance. Immagino che possano dividerla, vero?» «Credo proprio di sì. Sono sposati da tempo immemorabile.» «Benissimo, allora» esclamò il direttore. «Quanto avete intenzione di trattenervi con noi?» «Difficile dirlo con certezza. La mia idea è quella di trovare un posto più
stabile, ma... sapete com'è.» Il direttore si alzò e girò intorno alla scrivania. Aveva un ufficio sontuoso e rivestito in legno, ma con una luce fioca da agenzia di pompe funebri. Lei si alzò, prese la mano che l'altro le tendeva e strinsero il patto come due uomini. L'uomo le restituì la lettera e disse: «Vi prego di considerarci la vostra casa a Richmond finché ne avrete necessità. Di solito annunciamo gli arrivi con qualche rigo sul "Dispatch"». «In questo caso, preferirei di no» ribatté Louise. «Non è sempre la cosa più saggia per una donna che viaggia da sola.» «Vi capisco perfettamente. Posso fare qualcos'altro per voi?» «Un posto per custodire i miei ninnoli sarebbe gradito.» «Vi farò avere una cassetta di sicurezza. Quando passate in portineria fermatevi a ritirare la chiave.» Declinò l'aiuto di un facchino e salì nella stanza del secondo piano, dove il Taciturno e la moglie l'avevano preceduta con i suoi bagagli. Nell'atrio era in mostra il progetto d'espansione dell'albergo prevista per il prossimo futuro. Anziché l'attuale palazzetto a pochi piani, il disegno dell'architetto raffigurava quattro grandi torri di sette e dodici piani, una passerella che collegava due isolati prospicienti di Eighth Street e una bandiera del Murphy che sventolava orgogliosa sul tetto di ciascuna torre. Perciò, nonostante le parole del direttore, non era opportuno affezionarsi troppo a quel posto. Lì, come del resto ovunque, tutto scorreva rapido, come un fiume che trascinava verso un nuovo domani tutto ciò che incontrava sul suo corso. Nel mondo in cui lei era cresciuta i valori erano costanti, e si poteva contare sul fatto che non sarebbero cambiati. Adesso, a quanto pareva, non si poteva contare più su nulla. La Muta era da sola nella suite. Le aveva aperto il baule e appeso già qualche abito nell'armadio. Lei raggiunse il baule, intenzionata a disporre i pochi oggetti familiari sulla specchiera come le era sempre piaciuto. Ma la Muta abbassò il coperchio del baule e lo tenne chiuso con la mano. Louise indicò il soffitto. «Le stanze di Patenotre?» Un cenno affermativo del capo. Louise la lasciò, e salì al piano superiore. In corridoio trovò il Taciturno in attesa. Aveva già forzato la serratura della suite di Patenotre per lei. «Il consueto avvertimento?» gli domandò. S'insinuò nella suite chiudendosi la porta alle spalle. Come sempre, sen-
tiva la pressione costante delle loro aspettative e la lieve umiliazione della loro disapprovazione. Sin dall'inizio l'avevano trattata come un sergente navigato tratta un giovane ufficiale inesperto, con deferenza venata di disprezzo. No, anzi; sino al fallito massacro della bambina che le avevano procurato si erano trattenuti. Dopodiché l'idillio era finito. Ma a quel punto, era troppo tardi per cambiare. Il viaggio era ormai avviato. Sapeva di non essere la loro allieva più diligente. E sapeva dove portava quel viaggio. E se la prospettiva appariva fosca... insomma, non se l'era forse cercata? Si guardò intorno. Il salotto era stato rassettato. Aveva quella tipica aria troppo ordinata e intatta. Raggiunse lo scrittoio e tentò i cassetti, che non erano chiusi a chiave. All'interno trovò dei documenti personali, dei conti non pagati, e qualche lettera di scarsa importanza. C'era qualche articolo strappato da giornali e riviste, che accennava per lo più alla contea natale di Patenotre in Louisiana. Trovò qualche monetina sparsa, ma niente banconote o oggetti di valore. Non si premurò di lasciare le cose come le aveva trovate. Anzi, raggiunse il divano e diede dei colpetti a un paio di cuscini, per dare l'idea che si fosse seduto qualcuno. A quel punto si udirono due colpi alla parere, a un secondo di distanza l'uno dall'altro. Louise attraversò la stanza in silenzio e s'infilò in camera da letto, chiudendosi alle spalle la porta. Non era provvista di serratura, bensì di saliscendi che lei fece scattare. Quindi restò in attesa e in ascolto. Dopo meno di un minuto, udì la porta del salotto aprirsi e chiudersi. Poi il rumore dei cassetti che venivano chiusi, e quello dei cuscini raccolti e sprimacciati. Quando il pomello della porta del bagno ruotò e la porta si scosse contro il saliscendi, Louise fece un passo indietro. Non era nervosa. Udì la cameriera dall'altra parte della porta gridare: «Signor Patenotre? Volete che vi rifaccia il letto, signore?». Louise finse di sbadigliare, emettendo un suono che poteva appartenere a chiunque - a un uomo, a una donna, persino a un animale - e che poteva significare qualsiasi cosa. Sempre ad alta voce, la cameriera rispose: «Scusate il disturbo, signore». E se ne andò. Qualche istante più tardi, lei udì la porta esterna chiudersi. Guardò il letto. Era ancora fatto dal giorno precedente. Jules Patenotre non era tornato nei suoi appartamenti la notte precedente, né ci sarebbe più tornato. Ma per il momento le conveniva che non ne fosse notata la scom-
parsa. Scostò le coperte, scompigliò le lenzuola e diede una botta al cuscino, per dare l'impressione che nel letto avesse dormito qualcuno. Quindi frugò in camera. Scarpe. Che cosa se ne faceva un uomo di tutte quelle paia? Da principio pensò a un colpo di fortuna quando, in fondo all'armadio dietro le scarpe, trovò una cassetta chiusa grande più o meno come una custodia per pistole. Louise non aveva le doti di scassinatore del Taciturno, ma andò comunque a prendere il tagliacarte in salotto e forzò la serratura. La somiglianza con una custodia per pistole non era una coincidenza. La cassetta ne conteneva infatti due. Oltre a una collezione di cartoline oscene e qualche libro. Ne prese uno e lesse il titolo: Dell'utilità della flagellazione in medicina e nei piaceri del matrimonio. Apparteneva a un'edizione in trecento copie pubblicata da un editore che non aveva altro recapito se non "Parigi". Lasciò il contenuto della cassetta come l'aveva trovato. Il danno al coperchio non era evidente. Negli appartamenti di Jules Patenotre non aveva trovato nulla di utile, ma con lui non aveva ancora finito. Prima di andarsene, si guardò per l'ultima volta intorno. Per una settimana o due avrebbe fatto venire il Taciturno e la moglie a mettere in disordine le stanze, confondendo così ogni apparente collegamento fra il suo arrivo e la scomparsa del suo protettore. Non importava se la chiave della camera restava in portineria, finché i portinai non ne tenevano conto. Tornò giù nell'atrio. «Credo che il direttore mi abbia promesso una cassetta di sicurezza» disse all'impiegato in servizio. «Eccola, signora» rispose lui, estraendo un registro da sotto il bancone. «Se posso avere una vostra firma nel nostro registro di sicurezza.» «Come funziona?» «Vi spiegherò io.» Lei firmò Mary d'Alroy, e l'uomo la condusse nella stanzetta attigua all'atrio, quella che ospitava le cassette di sicurezza. Quindi le insegnò come si usavano le due chiavi per aprire lo sportello della sua cassaforte privata. «Questa la tenete voi» illustrò l'uomo, mostrandole la chiave con la targhetta più piccola. «Apre la vostra cassetta e nessun'altra. Questa seconda chiave è la chiave maestra dell'albergo. Per aprire le cassette sono necessarie entrambe.» Dopodiché la lasciò sola. Non appena l'uomo se ne fu andato, lei frugò
nella sua pochette ed estrasse la chiave che aveva trovato nella tasca del cappotto di Jules Patenotre. La provò in tutte le cassette, fino a trovare la serratura corrispondente. A quel punto estrasse la chiave maestra dell'albergo dallo sportello della propria cassaforte e la usò per aprire la seconda serratura di Patenotre. Estrasse il lungo vassoio e alzò il coperchio metallico. Adesso andava meglio. C'era una cospicua somma di denaro, sia in banconote sia in monete d'oro. Ma la sua non fu una reazione di cupidigia o di piacere, bensì di sollievo. Trasferì il tutto nella sua cassetta. C'era un'altra chiave, grande, che non sapeva cos'aprisse. La prese comunque. C'erano dei gioielli, ma li lasciò stare. Potevano essere identificati. E quel rischio superava di gran lunga il loro eventuale valore... che, in tutta onestà, non sembrava poi tanto. Non era un'esperta, ma ai suoi occhi erano dei pezzi di pregio affettivo, e non dei cimeli di famiglia. C'erano anche delle carte, documenti legali... probabilmente le ultime testimonianze di un casato ormai estinto. Stava per lasciare anche quelli, ma prima gli diede una scorsa nel caso riguardassero azioni o titoli. Senza gli occhiali per vedere da vicino, dovette sforzarsi un poco. Ma quello che vide la indusse a infilare tutti gli incartamenti nella pochette per una successiva e più attenta lettura. Era nel caveau da circa cinque minuti. Quanto bastava. Tornò a spingere nella parete le due cassette, ne chiuse i massicci sportelli, le serrò entrambe, quindi riportò la chiave maestra dell'albergo al bancone della portineria. «Avete un sistema molto ingegnoso» disse all'impiegato porgendogli la chiave. «Ci piace pensarlo infallibile» rispose lui. «Buongiorno a voi, signora.» Lei lesse il suo nome sul cartellino. «Anche a voi, Charles» disse, e tornò nella sua suite. Trentasette Era un gran bel club per soli uomini, poco ma sicuro. Ospitato in una dimora vittoriana in stile italiano, era protetto da lussuose cancellate di ferro nel bel mezzo della East Franklin, nel centro della città. Tutto l'edificio era a disposizione dei suoi membri, fra cui si annoveravano parecchi autorevoli e influenti personaggi di Richmond. Le regole di accesso al club erano complesse, elitarie, e per la maggior parte non scritte.
Era riservato ai soli uomini. Era noto che le donne rispettabili della città, nel passare accanto all'edificio di ritorno dalla chiesa, si voltassero dall'altra parte; fare altrimenti non era ritenuto degno di una signora. Del club non si parlava, ed era sottinteso che qualunque cosa accadesse dietro le sue mura restava fra quelle mura. Era un posto dove i ragazzi potevano comportarsi da ragazzi. E fra i ragazzi c'erano banchieri, capitani d'industria, militari e un numero significativo di ricchi sfaccendati della città. Con un frac preso a prestito dal negozio di costumi Bijou tramite un compagno pensionante, Tom Sayers varcò il cancello di ferro del club. Gli avevano consigliato di marcare il suo accento inglese, per dare l'idea di essere un gentiluomo, e di ricordare di togliersi il cappello, altrimenti avrebbero potuto capire che non lo era. Il portico era illuminato da torce fiammeggianti su ciascun lato. Un domestico nero in livrea stava per aprire la porta e, non riconoscendolo come membro regolare, esitò. Ma lui aveva ricevuto dei consigli anche in vista di quel momento. «Sono ospite del giudice» disse. A quanto pareva, gli avevano scelto un ottimo protettore. «Il giudice Crutchfield?» domandò il portiere con una sfumatura di apprensione che rasentava l'allarme, e scattò quasi per farlo entrare. Lui poteva solo sperare che il servitore non dicesse nulla, nel caso il giudice si fosse presentato davvero quella sera. Fu introdotto in un atrio con il pavimento di marmo e una scala sinuosa, e salì al secondo piano trovandosi in una galleria sormontata da una cupola di vetro istoriato. Un altro domestico gli prese il cappello. E adesso dove andare? Non poteva mostrarsi esitante. Scelse la serie di porte più vicina, e si trovò in un salone vuoto e grande come una palestra. Ma poteva andare anche bene per un ballo o per un banchetto. Varcando un'altra serie di porte si trovò nelle sale da pranzo, che erano spartane e virili, con sedie di legno duro e semplici tovaglie di lino bianco. Nella sala da biliardo c'erano cinque tavoli e la corrente elettrica, e vi si accedeva passando sotto un arco protetto da una tenda. Quattro tavoli erano occupati da giocatori, e per qualche tempo si fermò a seguire una partita. Nessuno lo apostrofò o diede segno di accorgersi della sua presenza. Infine, raggiunse la sala del bar, che si rivelò quella più vivace del club. Era una stanza buia con un grande caminetto, piena di fumo di sigari e di uomini eleganti. Qualcuno era adagiato sui divani, ma quasi tutti erano in piedi e, raccolti in gruppetti di due o tre, discutevano a gran voce come chi
è convinto di aver ragione su qualsiasi argomento. Sopra il caminetto campeggiava il blasone del club, uno stemma di legno con scudi, picche ed elmetti, e un quadrante d'orologio al centro, del tutto fuori luogo. L'aria era viziata e la sala sgradevolmente calda. Anziché restare sulla soglia ad attirare l'attenzione, si aprì un varco tra la folla. Senza volerlo, urtò il braccio di un omone rivolto a un gruppetto di ascoltatori. L'uomo aveva in mano una birra, e ne versò qualche goccia. Si guardò intorno. «Guardate dove camminate, signore» esclamò. «Sono spiacente» ribatté Sayers; ma lo sconosciuto non era pronto a lasciar correre tanto facilmente. «Lo credo bene!» disse. «Comportatevi in maniera più civile o sparite dalla mia vista. Non m'importa di chi siete ospite.» Aveva la testa piccola e tonda e il petto possente, e portava un completo color avorio da piantatore e i baffi incerati. Prima che Sayers potesse riprendere la parola, uno straniero s'intromise fra loro. «Ho assistito alla scena, ed è stato un incidente, signor Burwell» disse lo sconosciuto. «Posso assicurarvi che non c'era la volontà di offendere né c'è stata offesa.» Trascinò via Sayers. «Grazie, ma non dovevate portarmi via di peso» esclamò Sayers appena furono fuori portata d'orecchio. «Lo vedo quando un uomo cerca la lite.» «E io mi accorgo quando un uomo è pronto a rispondere alla provocazione» ribatté lo sconosciuto. «Calvin Quinn, per servirvi. Non credo di avervi mai visto, vero?» Quinn era un uomo magro più o meno della sua stessa età ma con un completo decisamente migliore. Sayers gli disse il proprio nome e aggiunse: «Sono in città solo da un paio di giorni». «Bene,» replicò Quinn «se c'è qualcuno cui volete essere presentato, fatemelo sapere. Qui sono in rapporti quasi con tutti. Sono un avvocato. Voi in che ramo siete?» Sayers ritenne più opportuno non citare alcuna professione. Sin da quando aveva undici anni aveva fatto una marea di lavori - apprendista muratore, pugile, attore, vice capocomico, magazziniere, raccoglitore di frutta, scavatore, lavorante di luna park - e nessuno in grado di guadagnargli molto rispetto in un posto come quello. Quindi si limitò a rispondere: «Ho avuto una vincita inaspettata. Ecco di cosa vivo al momento». «Ah» esclamò Calvin Quinn, e parve farsi più interessato. «Allora, che
cosa ne pensate di noi?» «Non posso dire di essermi trattenuto quanto basta per farmi un'opinione» rispose Sayers, volgendo lo sguardo al brusio che aumentava alle sue spalle. Adesso l'uomo che aveva cercato di provocarlo se l'era presa con un bel giovanotto dalla fronte spaziosa e i basettoni. «Be',» disse Quinn «non fatevi un'opinione basandovi su uno come quello. Lui è Henry Burwell. Arrabbiato, ricco e scorbutico nato. È non è una miscela salutare.» Vedendo quella faccia rubizza e aggressiva avventarsi sul viso del giovane, Sayers si ricordò di un battagliero lottatore turco con cui una volta aveva diviso il carrozzone. Nelle mattine invernali il forzuto si denudava il petto e si accaniva su un barile d'acqua ghiacciata, urlando così a squarciagola da svegliare tutto l'accampamento mentre gettava sulla pelle nuda litri e litri di acqua gelata. Beveva parecchio e quando si ubriacava voleva sempre sfidare qualcuno a braccio di ferro. A quanto pareva, era un tratto comune degli uomini di quella stazza e temperamento: più invecchiavano, più diventavano cattivi e determinati a trovare ogni scusa per dimostrarlo in scontri inutili. «Perché è arrabbiato?» Quinn poté solo scrollare le spalle. «E chi lo sa? Il carattere non lo scegliamo noi. Per lui ogni sconosciuto è una preda. Appena individua un viso che non gli è familiare esplode.» «Qualcuno dovrebbe fermarlo.» «Fermarlo? Ma se la gente fa di tutto per portare qui i peggiori nemici in attesa dei fuochi d'artificio! Avete fatto bene a non cascarci. Allora, cosa vi porta a Richmond? State cercando d'investire un po' di denaro di quella vincita? In tal caso, ho tutti i contatti che vi occorrono.» Era per quel motivo, allora. Con ogni probabilità, Quinn si faceva avanti con ogni sconosciuto in cerca di un'eventuale prospettiva d'affari. In fondo, i contatti di quel genere erano lo scopo principale di simili circoli. «Sto cercando una persona» ribatté Sayers, frugando nella giacca presa a prestito. Estrasse la fotografia di Louise. «È arrivata qualche settimana fa da Filadelfia. Per caso l'avete vista?» Quinn prese la fotografia e la studiò educatamente. Parve quietarsi sempre più. «È una vecchia fotografia» disse Sayers. «Potrebbe essere cambiata.» L'avvocato la restituì. «Temo di non conoscerla» ribatté. «È un'attrice?» «Calcava le scene inglesi. In un'altra vita.»
«Il nome non mi dice nulla.» «Il nome potrebbe essere diverso, adesso.» «Che cosa misteriosa.» Fu a quel punto che l'alterco alle spalle di Sayers si fece così rumoroso da indurre tutta la sala a zittirsi e ascoltare. «A quanto pare, credete di insultare impunemente chi è migliore di voi» stava quasi gridando il bellicoso Henry Burwell. «Io non ho insultato nessuno» protestò il giovane, alzando la voce a sua volta. «Non ho mai incontrato un uomo così pronto a offendersi.» «Sistemeremo la faccenda» disse Henry Burwell, e diede una spinta al giovane facendolo barcollare contro i suoi amici. Quella mossa determinò l'unica evoluzione possibile dello scontro. «Volete una lezione?» domandò il giovane, ritrovando l'equilibrio con l'aiuto degli amici. «L'avrete.» Era come se qualcuno avesse dato un segnale. Si spalancarono le porte della sala da ballo attigua, e tutto il club cominciò a lasciare il bar. Sayers fu sospinto da un'onda umana. Quando raggiunse la porta, aveva perso di vista il suo interlocutore. C'era qualcosa d'inquietante nella rapidità con cui si svolsero i preparativi. Estrassero una corda, la fecero passare nei ganci posti sui quattro piloni di legno agli angoli della sala da ballo, e i presenti si radunarono attorno a quel ring improvvisato. Burwell affidò la giacca ai suoi secondi e si arrotolò le maniche, prima ancora che il giovane e gli amici si rendessero conto di che cosa stava succedendo. Degli aiutanti entusiasti li spinsero verso uno degli angoli appena formati, e tutti presero a gridare consigli. «Chi ha preso i guantoni?» domandò un amico del giovane. «I guantoni?» gridò in risposta Henry Burwell. «Solo le donne si battono con i guantoni!» E da un uomo vicino a Sayers si sentì dire: «Questa è stata la miglior cosa da quando al teatro dell'opera hanno fatto lottare i negri nudi». Sayers si guardò attorno. Alcuni membri del circolo stavano sogghignando mentre altri esprimevano il loro disappunto, anche se non facevano nulla che potesse interferire con l'oggetto della loro irritazione. Aveva già visto quel fenomeno: la gente condannava una cosa, e nello stesso tempo si accertava di non perdersene nulla. Anzi, la cercava in ogni sua forma per poterla disapprovare completamente. Lanciò un'occhiata al giovane nel ring improvvisato; adesso era rimasto in panciotto e camicia con le maniche arrotolate e stava porgendo l'orolo-
gio a catena in custodia a un amico. Aveva i fianchi stretti e le spalle larghe, un fisico snello e prestante; avrebbe potuto benissimo riservare qualche sorpresa al bruto locale, spingendolo a pensarci due volte prima di lanciare una sfida come quella in futuro. E se non fosse andata così... chi era lui per giudicare? Il tutto non era poi tanto differente da come aveva sbarcato il lunario per almeno cinque degli ultimi dodici anni. Lo sfidante provocato, lo scontro impari, il pugno del knock out. L'unica vera differenza era che lui non aveva ricavato alcun piacere dalle sue vittorie, ma solo il denaro a fine giornata. «Direi che l'avete scampata per un pelo» disse Sebastian Becker accanto a lui. Trentotto Nel pronunciare quelle parole, Sebastian afferrò il braccio di Sayers e lo strinse con forza. Sayers lo guardò sbigottito. «Sebastian?» disse. «Che cosa ci fate qui?» «Non chiamarmi Sebastian» ribatté l'ex poliziotto passando per disprezzo al "tu". «Hai rubato in casa mia.» «A te non ho rubato nulla!» «Avresti rovinato il mio buon nome se io avessi avallato il tuo crimine» esclamò Sebastian, alzando la voce per sovrastare il chiasso intorno a loro. «E con quello che ci è voluto per coprirti ho quasi mandato in rovina la mia famiglia, maledizione. Ridammi quello che hai preso, e subito.» Dopodiché fece girare Sayers e cominciò a spingerlo verso le porte. Fra tutti quei signori, Sebastian sapeva di saltare all'occhio con il suo abito stazzonato dal viaggio e le scarpe impolverate. In quei due giorni aveva dormito a malapena, ed era sostenuto da una miscela a base di forte caffè nero e indignazione. Aveva trascorso le ultime dodici ore passando al setaccio ogni pensione presente nel pubblico registro, finché non ne aveva trovata una in cui avevano riconosciuto la descrizione di Tom Sayers. Era stato un altro pensionante a indirizzarlo al club. Quando i servitori avevano cercato di negargli l'ingresso, la forza della sua reazione era stata persino più convincente delle sue minacce. Era entrato nel preciso istante in cui tutti si spostavano dal bar alla sala da ballo. Aveva individuato Sayers quasi subito e si era fatto largo fra i presenti per avvicinarlo. «Aspetta, Sebastian, per favore» disse Sayers.
«Così vuoi restare a guardare il combattimento?» domandò Sebastian. «Non credo proprio. Consolati al pensiero che sarà già concluso prima che raggiungiamo la strada. Non senti che cosa dicono tutti?» «Riguardo a cosa?» «Quelle cicatrici sulla mano destra dell'uomo.» Sayers si volse a guardare Burwell. La mano e l'avambraccio dell'omone erano leggermente deformati. La mano era coperta di rigonfiamenti, l'avambraccio segnato da una vecchia e slabbrata cicatrice a saetta. Non sembrava in grado di poter combattere. «Stritolata dalla ruota di un carro» disse Sebastian. «Il chirurgo gli ha fissato le nocche con delle placche di metallo Monell. A quanto pare, in questa sala lo sanno tutti. A parte il suo avversario.» Sayers tornò a osservare la scena. Il giovane si riscaldava, allargando le braccia come un uccello e stirando i muscoli del petto e delle spalle. Non aveva idea di cos'avesse di fronte. «È una disgrazia» osservò Sayers. «Non è affar tuo» ribatté Sebastian, mentre i due avversari si mettevano in posizione da combattimento. «Adesso la tua unica preoccupazione sono io.» Raggiunsero le doppie porte della sala da ballo, ma quando Sebastian cercò di aprirle, non ci riuscì. Qualcuno lo vide provarci e gridò: «Quando c'è una sfida le porte sono sempre sbarrate». Sebastian fece dietro front, trascinando Sayers come fosse un bambino pestifero troppo cresciuto. Scrutò sopra le teste degli spettatori strepitanti, cercando un'altra via d'uscita. Nel ring, intanto, i due uomini si stavano girando attorno. Il giovane tentò un jab. Burwell lo bloccò e rispose assestandogli un ceffone. Quindi un altro. «Combatti da uomo!» protestò il giovane. «Combatti da uomo» lo imitò Burwell, schernendolo con voce effeminata, e tornò a schiaffeggiarlo. Il giovane rispose all'istante con un altro jab, e colse Burwell di sorpresa. Glielo appioppò sulla bocca, spaccandogli il labbro. Sebastian adocchiò una possibile via d'uscita. Avrebbe dovuto attraversare le sale da pranzo, aggirando la folla dall'esterno. Con un gemito di frustrazione, strattonò Sayers per rimetterlo in marcia. Burwell fintò due volte, quindi sferrò un solo destro al volto del giovane. Quella mano, quel ceppo deformato che celava un carico di acciaio inossi-
dabile, si abbatté come un sacco di chiodi su una blocco di carne. Sebastian non era un esperto, ma anche lui era in grado di dire che, in quel momento, lo zigomo era probabilmente rotto. Il combattimento era ormai finito, ma il giovane continuava a lottare, quasi accecato dal dolore e sferrando colpi a vuoto come un ubriaco, mentre l'altro continuava a giocare con lui. Ma Sebastian aveva altre preoccupazioni. Mentre si spostavano, si avvicinò all'orecchio di Sayers. «Dove l'hai messo?» gli domandò. «E quanto ne manca?» Adesso Burwell aveva afferrato il giovane per la camicia e lo sbatacchiava da una parte all'altra, per poi girarlo e lasciare la presa, così da farlo sbilanciare e cadere a terra. Il baccano dei membri del club era assordante. Difficile vedere da sopra le teste degli spettatori quanto avvenne in seguito ma, a quanto pareva, Burwell si era abbassato su un ginocchio, inchiodando il ragazzo con la mano sinistra e colpendolo in faccia con la destra finché l'arbitro non si era mosso per intervenire. «Calmati» esclamò Sayers. «Ce l'ho ancora quasi tutto. E lo riavrai. Non c'è bisogno di trattarmi così.» Adesso l'uomo sul ring stava sfidando il pubblico. Senza preavviso, Sayers diede uno strattone e liberò il braccio dalla stretta di Sebastian. Di lì a un secondo non c'era più, si stava tuffando tra gli spettatori. Sebastian lo seguì in quella marea di corpi, e si trovò subito spinto da una parte all'altra mentre la folla infuriava. A qualche metro di distanza c'era Sayers, diretto al ring. Quello che era parso un tentativo di fuga, adesso, cominciava a sembrare qualcos'altro. Sayers era più robusto di lui, e più capace a farsi largo. Sebastian, invece, non riusciva a passare. Adesso Sayers era giunto al centro della sala e si stava chinando sotto la corda per entrare nel ring, sotto lo sguardo deliziato di Henry Burwell. «Oh, no» disse Sebastian, e sentì il cuore precipitargli come un secchio pieno d'acqua in un pozzo. Vide Sayers gettare la giacca sulla corda, senza perdere tempo ad arrotolarsi le maniche della camicia. Il giovane era stato trasportato via dal ring dagli amici, che stavano chiedendo se c'era un medico. Ma gli spettatori attorno, sembravano più interessati a incitare il nuovo sfidante. Con ogni probabilità, quasi tutti ritenevano Sayers un pazzo. Un uomo che entrava nel ring senza sapere cosa aveva di fronte era solo uno stupido. Ma uno che ci si buttava rabbiosamente dopo aver visto che cosa gli sa-
rebbe toccato... insomma, un uomo così meritava tutto quanto il destino aveva in serbo per lui. «Vieni, allora» gridò Burwell a Sayers, alzando la voce in mezzo al baccano della folla. Perdeva un po' di sangue dal labbro spaccato, ma per il resto era illeso. Persino la cera dei baffi teneva ancora. «Sii uomo. Vendica il tuo amico.» Sebastian non riusciva a raggiungere il ring. Nessuno aveva intenzione di cedere il proprio posto. Smise di provarci e si fermò, impotente, a osservare l'evolversi della scena. L'arbitro prese le redini della situazione, e la sfida cominciò. All'inizio Sebastian pensò che Sayers fosse perduto, destinato a cadere nel giro di un minuto. Si misero in posizione da combattimento e lui incassò subito un paio di colpi violenti al corpo. Poi le cose peggiorarono. Lui sferrò qualche pugno, ma debole. Burwell lo bloccò senza difficoltà e gliene assestò un altro al fianco. Sayers indietreggiò per ricomporsi, ma le cose non si mettevano bene. L'età e gli anni di maltrattamenti dovevano aver lasciato il segno. Per qualche motivo perverso, l'astenersi dal bere sembrava non avergli per niente giovato. In passato l'effetto anestetizzante dell'alcol doveva aver giocato a suo favore. Un altro scambio inefficace, un'altra ritirata. Sayers aveva commesso un terribile errore. Il combattimento era cominciato da soli due minuti e l'ex pugile era sempre più malfermo. Aveva una sola possibilità di sopravvivenza: tenersi lontano dalla portata di Burwell. Ma l'omone si stava irritando: non era divertente rincorrere lo sfidante per tutto il ring. Anche gli spettatori non erano soddisfatti, e alcuni membri del club cominciavano a protestare e fischiare. Sebastian approfittò di un'occasione propizia e riuscì a raggiungere la corda, da cui prese a chiamare Sayers. Ma Sayers parve non udirlo. Vacillò e incespicò mentre Burwell lo spingeva verso un angolo dove sarebbe rimasto intrappolato. Dal volto di Burwell era svanito il sorriso. Bisognava chiudere la faccenda, nella maniera più rapida e brutale possibile. Sebastian cercò di entrare nel ring, ma più di una mano lo afferrò e lo tirò indietro. Udì gridare: «Non si fa» da chi aveva attorno. Sayers era intrappolato nell'angolo, sbilanciato, la guardia abbassata. Era un bersaglio facile. Burwell prese la mira. Si assicurò che tutti vedessero ciò che stava per fare. Arretrò oltre la spalla il pugno dalle nocche come noci, poi lo fece partire con tutta la forza. Sebastian non poteva fare nulla. Chi lo tratteneva l'aveva lasciato andare,
ma ormai non poteva più cambiare la situazione. Ma fra la partenza del pugno e il suo arrivo, accadde qualcosa. Sayers scattò verso l'alto, e si piegò su un fianco in modo che il pugno in arrivo gli passasse sopra la spalla senza colpo ferire. Le nocche metalliche di Burwell cozzarono dritte contro il pilone di legno, lacerando la pelle e schizzando sangue. Gridò di dolore. Sayers, che adesso aveva il viso a pochissimi centimetri da quello di Burwell, disse ad alta voce in modo che tutti sentissero: «E non sono neanche suo amico». Le placche di metallo si erano incastrate nel legno. Burwell non poteva liberare la mano senza rischiare di squarciarsela. E in quel momento Sayers lo assalì con precisione quasi scientifica. Dovette sferrare tre colpi per spaccarglielo, ma a forza d'insistere il naso cedette. Poi continuò a far schizzare la testa di Burwell da una parte all'altra finché l'uomo non liberò la mano dal pilone e indietreggiò barcollando. Per miracolo, non cadde. Mentre Burwell se ne stava lì immobile, le braccia penzoloni, il corpo ondeggiante, il sangue che colava sul pavimento di legno da una mano distrutta per la seconda volta, Sayers gli girò attorno. Quindi sferrò all'omone un pugno secco, che lo stese lì dov'era. Una volta che Burwell fu al tappeto, non si mosse. Tutti esultarono. I secondi del bullo entrarono nel ring per occuparsi del loro campione caduto. A quel punto la corda fu abbassata e gli spettatori si spinsero in avanti. Sayers alzò una mano, cercando di farsi sentire. Quelli nelle immediate vicinanze si fermarono ad ascoltare il loro nuovo eroe. Gli altri non gli prestarono attenzione. Qualcuno gli passò la giacca. Lui frugò all'interno per estrarre una cartolina che Sebastian riconobbe come la fotografia tanto amata dal pugile, quella di Louise Porter. La tenne sollevata per farla vedere a tutti. La folla cominciò a quietarsi. Dopodiché cominciarono i guai veri e propri. Trentanove Sebastian trascinò Sayers nella sala da pranzo e si voltò per chiudere la porta, solo per scoprire che due uomini li avevano seguiti e che della porta si stavano già occupando loro. Dall'altra parte, intanto, continuavano a schiamazzare. Dalle cucine, esitanti e preoccupati, cominciarono a uscire i
camerieri e il personale del club. I due membri del club si voltarono e si lasciarono cadere contro la porta. Ridevano a crepapelle e quasi faticavano a respirare. L'avvocato della Virginia era paonazzo e il suo compagno più basso era quasi sull'orlo delle lacrime. «Ben fatto, signore» disse Calvin Quinn mentre si sforzava di ricomporsi. «Ben fatto. Avete conquistato il cuore e l'anima di tutti gli uomini in sala, per poi chiedere loro dove trovare una prostituta.» «Non è quello che ho detto!» protestò Sayers. «Ma così l'hanno inteso tutti. Venite, prima che buttino giù la porta.» C'era da credergli, perciò Sebastian li seguì. I quattro uscirono in fretta dal portico e si trovarono sulla East Franklin, per poi incamminarsi alla luce dei lampioni verso i vasti giardini circostanti il municipio. Quando furono a debita distanza dal club, rallentarono. «Oh, mio Dio» disse Quinn, riprendendosi finalmente. E il suo compagno esclamò: «Grazie a Dio non ho trovato nessun idiota che accettasse la mia scommessa. Adesso avrei fatto la figura del fesso». «Sylvester ha trovato un gonzo e ha perso un centone» ribatté Quinn, dopodiché si rimisero in marcia. Per tutto il tempo Sayers era parso distratto e Sebastian non aveva fatto un sorriso. Adesso, tuttavia, quest'ultimo disse: «Credo che ci siamo allontanati quanto basta, signori. Dobbiamo ringraziarvi del vostro aiuto, e congedarci. Il signor Sayers e io abbiamo degli affari da sbrigare». «E non possono aspettare?» domandò Quinn, volgendo lo sguardo a Sayers. «Non potete tirarvi indietro proprio adesso.» E il suo compagno esclamò: «Vi stiamo portando dalla donna che cercate». Attraverso strade deserte che non erano le più sicure dopo il calar del sole, i quattro uomini raggiunsero il teatro di varietà abbandonato. Di notte sembrava un rudere e incombeva sulla strada, biancastro come un teschio al chiaro di luna. Nel foyer trovarono qualche mozzicone di candela consunta e il compagno di Quinn scovò una lanterna. Quei due sembravano sapersi orientare. Quinn si fermò al centro del foyer e gridò: «Signorina d'Alroy!». Ma non vi fu risposta. Attraversarono la platea, gettandovi delle lunghe ombre. Lo sconosciuto
li guidò sino alle stanze sopra il foyer. Sayers lo seguiva a ruota, senza conoscerne il nome. Sebastian stava alle costole di Sayers. «Non pare tanto promettente» osservò Quinn. Procedettero sulle scale e si trovarono nello stanzone con il caminetto. C'era odore di cibo avariato e parevano non esserci dubbi che quell'occupazione abusiva fosse abbandonata da qualche giorno. Sebastian Becker si accucciò davanti al caminetto e raccolse un po' di cenere. Vide i resti bruciacchiati di pagine di giornale dedicate al teatro. «Resta aggrappata a quel che conosce» rifletté ad alta voce. Sayers si volse verso lo sconosciuto, fermo sulla soglia. «Viveva davvero in questo posto?» gli domandò. «Non lo usava solo per gli incontri?» «Non posso dirlo con certezza. Ma così a me sembrava.» A un improvviso rumore proveniente dalle stanze attigue, Sebastian e Quinn impugnarono i loro revolver. Sebastian si spostò alla porta e gridò: «Vi avverto! Siamo armati! Chiunque siate, fatevi vedere!». Quindi l'aprì con un calcio, facendo saltare il saliscendi. Chiunque ci fosse dall'altra parte sarebbe stato colto di sorpresa e in posizione di svantaggio, ma la loro lanterna non rivelò alcuna presenza. Avanzarono con cautela nella stanza, soffocando qualche colpo di tosse per la polvere sollevata dal gesto violento di Sebastian. C'era un tavolo, una brocca rotta a terra, un tavolaccio nell'angolo. Lo sconosciuto in coda al gruppo disse: «Questa era la sua stanza. I servitori dormivano là dietro». Il rumore riprese. «Ci sono i topi nelle pareti» commentò Sayers. Raggiunse uno dei tramezzi ormai privo di intonaco, e picchiò sulle assi di legno. Dall'altra parte si udì subito una fuga precipitosa. Cadde dell'altra polvere e un paio di squittii confermarono l'ipotesi. Mentre si avvicinava al tramezzo con gli altri, Sebastian chiese a Sayers di tenere sollevata la lanterna. «Guarda le assi» esclamò. «Che cos'hanno?» «Sono vecchie. Ma non quanto i chiodi.» Sayers guardò più attentamente. I chiodi non erano nuovi, ma il metallo delle teste era levigato. Erano stati ribattuti di recente. Verificò le assicelle: erano salde. Porse la lanterna a Quinn e raggiunse il tavolo. «Che cosa stai facendo?» domandò Sebastian.
«State indietro.» Sayers sollevò il tavolo e lo portò verso la parete. Sebastian intuì le sue intenzioni e afferrò l'altro lato del tavolo, aiutando a vibrarlo contro le assi. Il bordo anteriore urtò nel legno e lo scheggiò verso l'interno. Il legno non era marcio, altrimenti sarebbe stato un lavoro facile. Ma grazie allo squarcio in un'assicella, riuscirono a staccarne i pezzi per poi passare a quella vicina. Nella nicchia retrostante era stato avvolto qualcosa. Quinn e lo sconosciuto osservarono i due uomini darsi da fare, e scoprire una tela stazzonata. «È un fondale di scena» disse Sayers. «Dipinto.» Lo afferrarono e cercarono di estrarlo dallo squarcio nel legno, ma era pesante e irrigidito dalla tempera con cui era stato dipinto. Nonostante i loro forti strattoni, la tela restava incastrata nella parete. A quel punto staccarono altre assicelle per allargare l'apertura e ci riprovarono, afferrando ciascuno un lato della tela. Sayers si volse a guardare Quinn e l'altro uomo: erano immobili e intimoriti. Sebastian disse: «Al tre. Uno, due...». Al tre strattonarono con forza il fondale, e finalmente la parete cedette. Ma con il fondale uscì anche il cadavere incastrato nella nicchia retrostante. Era nudo, ed era di un uomo. Cascò fuori in una nuvola di polvere bianca, piombando sul pavimento come fosse stato gettato da un carro. E rimase lì steso, tutto raggomitolato, in una nube d'intonaco che gli mulinava attorno. Quell'odore che avevano sentito entrando nella stanza... non era cibo avariato. Era quello. Sebastian prese la lanterna per osservarlo meglio. Data la posizione del cadavere, era impossibile determinare l'altezza dell'uomo da vivo. Aveva i capelli arruffati e impolverati, e i lunghi baffi erano nelle stesse condizioni. La bocca era spalancata e la mascella gli toccava il petto, quasi fosse morto cercando di cantare la nota più bassa della sua vita. Era rimasto dietro la parete quanto bastava perché la pelle cominciasse a disseccarsi e a ritirarsi; e, in questo mutamento fisiologico, le carni avevano cominciato a espellere una varietà di oggetti appuntiti che vi erano stati conficcati. Non parevano avere altro scopo, se non quello di provocare un continuo disagio. Il cadavere, inoltre, aveva anche subito l'assalto dei topi. Sayers volse lo sguardo ai due uomini. A quanto pareva, nessuno dei due si aspettava una cosa simile. «Riconoscete quest'uomo?» domandò.
Tutti e due continuarono a fissarlo. Nessuno rispose. Sebastian esclamò: «Qualcuno lo riconoscerà». Quaranta Sebastian si era allontanato solo da qualche minuto, quando Calvin Quinn e il suo amico senza nome si scambiarono un'occhiata e se la filarono. Solo Tom Sayers restò in attesa insieme al cadavere dello sconosciuto. Alla luce della lanterna, setacciò le stanze in cerca di ulteriori tracce di Louise. Invano. Poco dopo Sebastian tornò con un gruppo di poliziotti. Mostrò loro il corpo e spiegò la situazione meglio che poteva. Nonostante le proteste dell'uomo della Pinkerton, gli agenti arrestarono Sayers. Mentre lo stavano portando via, Sebastian gridò: «Svelto, Sayers. Dov'è il mio denaro?». Sayers, in manette per la seconda volta in vita sua, si voltò a guardarlo e rispose: «Tirami fuori da questo guaio e te lo dirò». Lo portarono nel carcere di Richmond, dove passò la notte in cella con gli ubriaconi, i ladri e i barboni che la guardia notturna aveva raccolto nel suo turno di servizio. Lo arrestarono come sospetto, poiché era stato trovato accanto al cadavere di un uomo assassinato e non era riuscito a fornire un resoconto soddisfacente. Rimase seduto con la schiena alla parete sul duro pavimento di una cella comune, e non chiuse occhio. Sperava che Becker potesse comparire, per farlo rilasciare in un modo o nell'altro, ma le ore passarono senza alcuna novità. Il mattino successivo, furono tutti messi in catene e portati in processione strascicante sino a un carro che li avrebbe condotti in tribunale. Il tribunale di Richmond, a guardarlo dall'esterno, faceva pensare al capriccio gotico di un folle re bavarese. I prigionieri in ceppi furono condotti nel seminterrato, dove si trovava la corte competente per i reati minori. Sayers fu rinchiuso in una cella sul retro della sala con tutti i suoi sodali notturni. Ma non c'era alcun sodalizio fra loro. Quando il commesso del tribunale ordinò a tutti di alzarsi, Sayers si rese conto che il giudice che presiedeva la corte altri non era che l'uomo di cui aveva usato il nome la sera precedente, nome che aveva suscitato tanta soggezione nel portiere. Il giudice John Crutchfield si rivelò un uomo magrolino con le labbra
sottili e il cravattino nero. Si dedicò alle attività del giorno con spaventosa, seppur incostante, efficienza. Dopo aver letto le imputazioni a carico del primo detenuto chiamato di fronte a lui, alzò lo sguardo e gli domandò: «Da dove vieni, negro?». «Dalla Carolina del Nord, signore» replicò il detenuto. «L'avevo immaginato» esclamò il giudice. «Trenta giorni.» Ci sarebbe voluto un po' di tempo prima che toccasse a Sayers. Finora, non aveva avuto modo di consultare un avvocato. L'unico che conosceva da quelle parti era Calvin Quinn. Ma dubitava che Quinn fosse pronto a farsi avanti. Sayers aveva un buona ragione per temere l'inchiesta. In Inghilterra era ancora ricercato. La stessa informazione che avrebbe potuto salvarlo dalle attuali accuse l'avrebbe condannato per quelle precedenti. L'aula del tribunale di Crutchfield era simile a una piazza del mercato con un continuo andirivieni di persone. Il corridoio esterno era rumorosissimo, e anche se quella sala era più tranquilla, restava sempre un frenetico zoo. Il giudice sembrava in grado di restare concentrato sul caso che aveva di fronte senza perdere di vista quanto gli accadeva intorno, a portata di vista o appena oltre. Tom Sayers udì chiamare il proprio nome, e l'agente in servizio lo spinse a farsi avanti. Si sedette di fronte al giudice, impegnato a leggere degli appunti. «Che cos'abbiamo qui?» domandò, rivolto al cancelliere. La corte apprese che l'uomo trovato dietro la parete era stato identificato come Jules Patenotre, originario della Louisiana. Lì possedeva una vasta tenuta, ma viveva da solo a Richmond occupando degli appartamenti al Murphy's Hotel. Non si sapeva con certezza quando fosse scomparso nel nulla: le cameriere sostenevano di averlo visto in giro, mentre in portineria dichiaravano che non aveva ritirato la chiave della stanza da diversi giorni. In quel momento il giudice John guardò Sayers e domandò: «Allora, che cos'avete da dire in merito?». Prima che Sayers potesse parlare, dalla parte opposta dell'aula si udì un tramestio e una voce gridare: «Sono qui per parlare in veste di legale del detenuto, Vostro Onore». Sayers si guardò attorno, sorpreso. E non era l'unico: quasi tutte le teste in aula si stavano voltando insieme a lui. Solo gli altri detenuti non mostravano alcun interesse. Nella galleria riservata al pubblico c'era un omone barbuto, con un completo di tweed e il cappello in mano.
«Vi ho visto sgattaiolare qui dentro un'oretta fa» ribatté il giudice. «Chi diavolo sareste voi?» «Abraham Stoker, signore. Amico di vecchia data del detenuto. Quanto alla mia qualifica, sono diventato avvocato a Londra, in Inghilterra.» «So dove si trova Londra. Qui siamo a Richmond, in Virginia, e voi siete nella mia aula. Spero non vogliate rovinarmi la mattinata con una marea di argomentazioni legali.» «No, a meno che me lo chiediate voi, Vostro Onore» ribatté Stoker. «Per quanto ne so io, il mio cliente ha semplicemente scoperto un cadavere e ha atteso l'arrivo della polizia. Non ci vedo alcun reato.» Bram Stoker? Sayers era inebetito, e trovava difficile accettare ciò che aveva di fronte. La notte insonne in cella non aveva giovato alla sua forza di concentrazione. Dalla parte opposta rispetto a Stoker, notò Sebastian Becker; anche lui aveva tutta l'aria di aver passato una notte in bianco. Il giudice stava studiando Stoker. «Ci siamo già incontrati» disse. «Non è vero?» «Sì, signore» ribatté Stoker. «Il Men's Club ha dato una cena in onore di Sir Henry Irving in occasione della sua ultima tournée americana. E io ero con lui all'epoca.» A quelle parole, il volto del giudice s'illuminò. «Voi siete l'uomo di Irving!» disse. E poi con un pizzico di delusione: «E siete anche avvocato?». «Sì, signore.» «Be', nessuno è perfetto. Che cosa sapete dirmi di questo caso?» «Niente di niente, Vostro Onore. Sono in città da meno di un'ora e non ho avuto modo di consultarmi con il mio cliente. Ma conosco l'imputato, e posso affermare con certezza che quest'uomo non è un criminale.» Il giudice John inarcò le sopracciglia. «È così che fanno gli avvocati inglesi?» disse. «Si alzano, dicono di non sapere un bel niente della faccenda, ma giurano che il loro cliente è innocente?» «Io sono avvocato per aver superato l'esame di avvocatura, ma non ho mai indossato la toga.» «Vale a dire?» «Non ho mai praticato.» «Così va meglio. A questo mondo gli avvocati bastano e avanzano, e in quest'aula ne vedo anche troppi.» Il giudice studiò i propri appunti. «Sayers» disse. «Secondo queste carte, quando vi hanno portato in cella
avevate addosso quasi duemila dollari.» «In una cintura portafoglio» esclamò Sayers. Non osò guardare Sebastian Becker. «Me l'hanno presa in carcere.» «Vorreste dirmi come ve li siete procurati?» «No, signore.» Crutchfield alzò lo sguardo, inarcò le sopracciglia e sgranò gli occhi azzurri con innocente stupore, che Sayers capì sarebbe stata un'idiozia credere sincero. «No?» domandò il giudice. Ma Sayers rimase fedele alla sua parola. «Preferisco non parlarne, signore. Non ne ho il diritto? Credo sia scritto nella vostra Costituzione.» «Nella mia aula,» esclamò Crutchfield «i vostri diritti sono quelli che decido io. Al momento non volete chiarire la vostra posizione, benissimo. Ma la chiarirete prima o poi. Fisso la vostra cauzione a mille dollari. Cancelliere, portatelo fuori di qui.» Bram Stoker e Sebastian Becker uscirono insieme dall'aula. Mentre dal seminterrato salivano nell'atrio di quattro piani - in tinta marrone, crema e oro - del tribunale, Stoker disse: «Il nostro giudice John è un po' particolare. Ma almeno Sayers ha di che coprire la cauzione». «Non è denaro suo, signor Stoker» ribatté Sebastian. «È mio.» «Vostro?» «Perché credete che l'abbia inseguito fin qui da Filadelfia?» «Non riesco a credere che l'abbia rubato a voi» disse Stoker. «È cambiato così tanto?» «Non l'ha rubato a me. L'ha rubato ai Pinkerton, e io ho dovuto mettere a posto l'ammanco per non pagarne le conseguenze. Non ho dubbi che non volesse danneggiare la mia famiglia, ma il danno l'ha fatto comunque. È per via di quella sua ossessione. Lo rende cieco a tutto il resto. Più Louise Porter affonda, più lo trascina con sé. Vedremo se un periodo in prigione lo calmerà.» «Non avrete intenzione di lasciarcelo, vero?» «Sì.» Un tintinnio di catene annunciò l'arrivo dei detenuti che, trascinando i piedi, salivano le scale per raggiungere il carro. Era stato trattato il caso di ciascuno, e nessuno sembrava più contento di prima. Sebastian squadrò gli uomini, quindi domandò alla guardia che avevano accanto: «Dov'è Tom Sayers?». «L'inglese?» ribatté la guardia. «Ha pagato la cauzione e il giudice ha
firmato l'ordine di scarcerazione. Se n'è andato da un pezzo.» Quarantuno Calvin Quinn non fu difficile da trovare. L'indirizzo del suo studio legale nella sede della Camera di Commercio era sulla guida telefonica, assieme a un numero di tre cifre. Sebastian usò un telefono a gettoni nel retrobottega di un emporio. Fu Quinn a rispondere, ma quando seppe di che cosa si trattava, troncò la conversazione. Così Sebastian attese fuori del suo ufficio a fine giornata, e seguì la sua carrozza che tornava nella casa di Church Hill. Sebastian suonò il campanello della porta e fece un passo indietro, notando un movimento a una finestra. Ma non arrivò nessuno. Tornò a suonare, e continuò finché non aprì la porta uno dei servitori neri di Quinn. «Il signor Quinn dice che se non ve ne andate chiamerà la polizia» esclamò l'uomo. Sebastian rispose: «Riferite al signor Quinn che se non parlerà con me, la chiamerò io». Qualche minuto più tardi, era nello studio di Quinn. L'avvocato lasciò la porta dello studio leggermente socchiusa e Sebastian si accorse che in corridoio si aggirava almeno un servitore, forse per cacciarlo via se richiesto. Quinn era già al corrente dell'arresto di Sayers. Ed era quello il motivo della sua agitazione. Non aveva alcun desiderio di far sapere che era stato lui a condurli al teatro di varietà, o di spiegare in pubblico perché ne conoscesse l'uso come luogo di convegni per i cultori del vice anglais. Sebastian gli riferì la scena in aula, e gli eventi successivi. «Mi sono precipitato nella sua pensione» disse Sebastian. «Ma mi è sfuggito per una manciata di minuti.» «E i vostri mille e duecento dollari?» «Li ho perduti» si limitò a rispondere Sebastian. «Ha pagato la cauzione e il denaro non c'è più. E il suo è un duplice furto. Perché ha rubato anche i risparmi della mia famiglia, la speranza di una cura per mio figlio e la dote di una giovane donna. Tutto per inseguire quella folle prostituta flagellatrice.» «Aspettate qui» disse Quinn, alzandosi per chiudere la porta dello studio. Poi si volse a guardare Sebastian. «Perché siete qui?» domandò. «Volete forse del denaro per rimpiazzare il vostro? Non mi farò ricattare.»
«Non mi insultate» esclamò Sebastian. «Non prenderò neanche un penny. Ma voi mi aiuterete.» Proseguì la sua spiegazione, dicendosi convinto che la morte di Jules Patenotre era collegata ad almeno altre due simili avvenute in precedenza: una a San Francisco e l'altra a Filadelfia. E la donna che adesso si faceva chiamare Mary d'Alroy era legata a ciascuna di quelle morti. Nel citare il nome di Jules Patenotre, Sebastian aveva notato Quinn cambiare espressione. «Lo conoscevate» disse. «Lo conoscevo di nome» ribatté Quinn. «Patenotre era in procinto di ottenere un prestito per una tenuta in Louisiana; aveva frazionato la vecchia proprietà di famiglia e viveva dei proventi. Aveva già preso a prestito del denaro. Ma gli acquirenti non arrivano sempre al momento del bisogno, quindi usava la piantagione per sicurezza, ogni volta che i fondi scarseggiavano. Liquidava i prestiti quando vendeva altri terreni. Diceva sempre che la casa era l'ultima cosa da cui si sarebbe separato.» «La sua cassetta di sicurezza al Murphy's Hotel è stata svuotata» disse Sebastian. «Dalla nostra cosiddetta Mary d'Alroy, credo, dopo la morte dell'uomo. Di lei la polizia non sa ancora nulla, e voglio che continui così.» «Intendete proteggerla? Perché?» «Non intendo proteggerla» rispose Sebastian. «Voi dovrete agire per me. Contattate tutte le autorità competenti e negoziate una taglia su quella donna. Se non potrò riavere il mio denaro da Sayers, otterrò l'equivalente grazie a lei. E non posso farlo se la polizia la trova prima di me.» «Come farete a sapere dove cercarla?» «Credo si possa cominciare localizzando la tenuta di Patenotre» ribatté Sebastian. NEW ORLEANS DICEMBRE 1903 Quarantadue Il suo appuntamento era per le sette in punto di quella sera. Alle sei e mezza lasciò l'hotel St. Charles seguita dal Taciturno a qualche passo di distanza. Si stava lasciando alle spalle il Quartiere Francese per inoltrarsi in una
zona della città ancora più vecchia. Molte di quelle case erano state in origine dimora delle famiglie creole, e qualche loro discendente continuava ad abitarvi. Gli anni d'oro erano passati da tempo e gli edifici erano ormai fatiscenti. La strada era costeggiata di case a schiera, dove i proprietari si nascondevano dietro le balconate vuote e le finestre in frantumi. Trovò l'indirizzo, una porta anonima in una parete di mattoni intonacati. Quando bussò con il batacchio di ferro, ne udì la strana eco dall'altra parte. In attesa della risposta, si rivolse al Taciturno. «È solo un primo incontro» disse. «Non so quanto durerà.» L'uomo chinò la testa e si spostò sull'altro lato della strada, dove le ombre della sera cominciavano già a creare dei recessi oscuri nei vani delle porte inchiodate, grigi di ragnatele. L'aria era fresca, ma non spiacevole. Anche se era dicembre, sembrava una serata primaverile in Inghilterra. Raggiunto il lato opposto della strada, il Taciturno si voltò. Parve quasi scomparire a poco a poco mentre indietreggiava nel buio. Louise udì muovere i chiavistelli e, volgendosi alla porta, si ricompose. L'uscio si aprì e di fronte a lei comparve una donnina nera con un abito di lino immacolato e un foulard in testa. «Sono la signorina Mary d'Alroy e devo vedere la signora Blanchard» disse Louise. «Sono attesa.» La domestica si fece da parte, e Louise entrò. Ma anziché accedere direttamente alla residenza, si trovò in un ampio corridoio lungo una quindicina di metri. Era lastricato, simile al passaggio sotto un castello; a metà del corridoio, dal soffitto a volta, pendeva una lanterna di ferro legata a una catena. All'estremità opposta, un arco si apriva su una corte interna con le palme e una fontana. Dopo quell'anonima strada esterna, la corte era un piccolo paradiso. Un luogo di assoluta riservatezza, ricco di aiuole, vasi sospesi e panchine. Oltre alle palme, c'erano felci e oleandri e anche un variopinto pappagallo in gabbia. La corte non era molto esposta al sole, un vantaggio nelle calde estati della Louisiana. Assai meglio l'ombra e una brezza costante. Sulla corte si affacciavano delle terrazze con le ringhiere di ferro lavorato a filigrana e, sul lato opposto, si apriva un altro arco che conduceva a una scalinata, da cui si accedeva ai piani superiori della casa. La domestica fece salire Louise, introducendola in uno spazioso salotto che occupava tutta la larghezza dell'edificio, con un lato aperto sulla corte. Le finestre affacciate sulla strada erano chiuse, e in quel punto della sala
erano state accese alcune candele. «Avverto la signora che siete arrivata» disse la donna, spostandosi al piano superiore. Nell'attesa, Louise ispezionò la stanza. Solitario, al centro della sala, campeggiava un pianoforte di palissandro. Il pavimento era di legno lucidato, nero come la pece. Le pareti erano semplicemente intonacate di bianco. Da una ricercata rosa di stucco sul soffitto pendeva un lampadario. Osservando la casa nel suo insieme, le venne da pensare all'opera di un maestro d'ascia: una struttura così robusta da rasentare la grezza materialità, ma plasmata dal carpentiere secondo i dettami del buon gusto e dell'eleganza. A parte il pianoforte, c'erano due divani e qualche altro mobile in mogano. Louise raggiunse il pianoforte. Era un Broadwood di fattura londinese, con ogni probabilità il modello Drawing Room Grand. Che viaggio doveva aver fatto, immaginò Louise, imballato nel legno di bosso e legato con le corde per attraversare l'oceano, quindi risalire il fiume con il battello a vapore, per poi essere scaricato sulla diga e affrontare l'ultimo traballante viaggio su un carro per arrivare sin lì. Come avevano fatto a trasportarlo al secondo piano? Con ogni probabilità, facendolo passare dalla terrazza che si affacciava sulla strada, tramite un paranco. E adesso erano lì, lei e il pianoforte. Due europei in esilio, lontanissimi da casa. Non si sedette a suonare. Sapeva farlo, ma non bene. Era per quel motivo che si era quasi sempre guadagnata da vivere con la recitazione... era molto più semplice affittare una sala convegni o un ostello della gioventù per leggere dei brani tratti dai Miserabili e dal Mulino sulla Floss. Affittare un pianoforte e reclutare qualcuno per suonarlo comportava delle complicazioni, che comportavano ulteriori rischi. In ogni caso, aveva scoperto di non essere capita al Sud. A Filadelfia, il suo accento era un pregio professionale. Lì, invece, le chiedevano di ripetere le parole, e non solo per il piacere di sentirla parlare. Da parte sua, non riusciva ad adattarsi all'accozzaglia di lingue del posto, alle parole francesi storpiate dalla pronuncia americana. Così era tornata agli spartiti e agli esercizi vocali. Si esercitava ogni mattina. Ovunque trovasse da mettere a bollire un pentolino, respirava del vapore. Aveva pensato di poter sempre contare sulla propria voce, se necessario. E invece nelle ultime settimane aveva scoperto che, come ogni altra dote, non andava trascurata. Avrebbe voluto
tenerla in esercizio; ma nel corso degli anni, per un motivo o per l'altro, non aveva messo in pratica le sue intenzioni. Nel canto se la cavava bene. Se avesse insistito, avrebbe cantato meglio che mai. Ma cominciava a rendersi conto che non avrebbe più cantato come una volta. Poco male, finché poteva riempire una sala e compiacere un pubblico. Più piccola era la sala, più era facile raggiungere i due scopi. La cosa migliore erano i ricevimenti privati: non solo le davano modo di incontrare e ammaliare i suoi ascoltatori anzitempo, ma lasciavano meno tracce nella memoria pubblica. Potevano anche non fruttare un granché ma, per una volta, grazie al contenuto della cassetta di Jules Patenotre, il denaro non era un problema immediato. Al momento, per lei era più importante cercare e incontrare persone utili e influenti. Qualcuno stava scendendo le scale. Era la signora Blanchard. Si muoveva lentamente, una mano sulla ringhiera di mogano e l'altra sul braccio della cameriera. Prima di quel giorno, Louise l'aveva incontrata una sola volta, e solo per breve tempo; era stato uno dei suoi figli a trasmetterle quell'invito e a occuparsi dei preparativi iniziali. La donna era anziana e fragile, e muoversi le richiedeva una tale concentrazione da rendere impossibile intuirne il carattere dallo sguardo. Poteva essere gentile, torva, impaziente... qualsiasi cosa: da una dolce vecchina a una terrorizzante matriarca. Aveva i capelli raccolti, e indossava un abito intero di cotone di un gradevole color lavanda. Louise si aggirò imbarazzata nella stanza e le due donne raggiunsero uno dei divani, dove la signora Blanchard si abbassò con cautela. Nel frattempo, alzò lo sguardo sulla domestica e disse: «Sophie, per favore fa' venire Euday». «È al piano di sotto» rispose Sophie. La signora Blanchard fece quei pochi ultimi centimetri per accomodarsi e poi, finalmente, riuscì a rivolgere tutta l'attenzione a Louise. «Allora, signorina d'Alroy» disse. «Che cosa gradite?» «Magari un bicchiere d'acqua?» ribatté Louise. «Prendete un cordiale» esclamò la signora Blanchard. «Oggi l'acqua non è tanto dolce.» Sophie le lasciò, e seguì qualche istante di silenzio. Louise si guardò intorno domandando: «Posso presupporre che questa sia la stanza in cui mi esibirò?».
«Presupponetelo pure» ribatté la signora Blanchard. Aveva uno sguardo di pietra, ma i modi sembravano calorosi. Era come se la vecchiaia le avesse spento il volto e indebolito gli arti, impedendole di rivelare la propria personalità se non in dettagli infinitesimali. «Come trovate casa mia?» le domandò. «La trovo bellissima» rispose Louise. «Credo che lo sia tutta la città.» «Ah, potete ben dirlo» ribatté la signora Blanchard. «Ma non avete visto la vecchia New Orleans.» «Immagino che i tempi siano cambiati.» «Eh, sì. Questa era la città più ricca d'America, e lo sapete anche voi. Avevamo il cotone e avevamo il fiume. Poi è venuta la guerra del signor Lincoln, dopodiché le ferrovie. Adesso è una delle città più povere. Possiamo ancora darci un tono, ma non è più come un tempo. Gira della gente raccapricciante. La sera faccio chiudere il cancello da Sophie.» «Eppure,» esclamò Louise «in questa parte del mondo c'è un'atmosfera accogliente. Qui ho la sensazione di sentirmi a casa.» «E a voi questa sensazione mancava?» «Da quando ho lasciato casa mia? Credo di sì. Me ne sono andata molto tempo fa.» «Siete una giovane bellissima» osservò la signora Blanchard. «Non sono giovane» ribatté Louise. «Ma vi ringrazio.» «E cantate come un angelo. Mi date l'impressione di ritenere vuoto il vostro cuore. Ma vi sbagliate.» «Davvero?» domandò Louise, ignara di aver dato quell'impressione. «Sì» rispose la signora Blanchard. «La gente può mentire. Agli altri e a se stessi. Ma io vi ho sentito, e vi garantisco che la musica fa sempre scoprire la natura della persone.» A quel punto Sophie tornò con un vassoio che recava un bicchiere di cordiale per Louise. La seguì nella sala un giovane nero in completo marrone e camicia dal colletto alto. Teneva in mano una bombetta marrone, e non aveva più di ventisei o ventisette anni. La signora Blanchard disse: «Euday, questa è la signorina d'Alroy. Canterà per il ricevimento di questo fine settimana. Avete portato la vostra musica, signorina d'Alroy?». «Sì» rispose Louise, prendendo la cartella che aveva con sé. «Temo che le pagine siano piuttosto consumate.» Il giovane tese la mano per prendere la cartella e ribatté: «Si dà il caso che, a mio parere, la buona musica non abbia mai difetti, signora».
L'uomo portò la cartella al pianoforte. Mentre si sedeva ed estraeva le pagine manoscritte, la signora Blanchard esclamò: «Ieri ho fatto venire l'accordatore». «Vi ringrazio, Miz Blanchard.» Mentre il giovane scorreva i pezzi di Louise, la signora Blanchard proseguì: «Quando Euday aveva dieci anni, sua madre è venuta alla mia porta a chiedermi se avevo bisogno di una donna delle pulizie. Cercava una casa con un pianoforte, per dare modo al figlio di esercitarsi mentre lei lavorava». Sapendo che il giovane era a portata d'orecchio e non riuscendo a parlare come se lui non ci fosse, Louise alzò la voce per fargli capire che era rivolta anche a lui dicendo: «Avete imparato da solo?». «Così dice alla gente in quei postacci in cui suona la sera. No, non ha imparato da solo.» La signora tornò ad alzare la voce. «Non dovresti vergognarti della tua educazione musicale classica.» Euday sorrise, senza alzare gli occhi dalle partiture. «No, signora» disse. «Signorina d'Alroy?» «Sì?» Adesso l'uomo alzò lo sguardo. «Avete scritto qualcosa sull'Ultima rosa d'estate. Vi è utile se vi traspongo la chiave?» «Se siete in grado di farlo.» «Sono in grado di farlo.» L'uomo continuò a scorrere le pagine, e la signora Blanchard domandò: «Preferite che me ne vada mentre vi esercitate?». «Per me è indifferente.» «Allora, me ne resterò seduta qui tranquilla. Voi dimenticatevi della mia presenza.» L'evento in questione era un ricevimento pomeridiano con amici e familiari. In tutta la città si sarebbero tenuti dei festeggiamenti analoghi, privati e pubblici, per celebrare il centenario dell'acquisto della Louisiana, il patto territoriale del secolo... di quello passato, o di qualunque altro. I francesi avevano infatti ceduto gran parte di un continente per una miseria. Tra i festeggiamenti previsti vi erano una rassegna navale sul Mississippi, un ballo storico alla French Opera House, e una cosiddetta "gran messa pontificale" nella cattedrale di St. Louis. Quello in casa Blanchard sarebbe stato un ricevimento più raccolto. Cordiali, chiacchiere e canzoni demodé per gente demodé. Louise avrebbe cantato in salotto e un quartetto avrebbe suonato in cortile fra il gelsomino
e il mirto. Euday si rivelò un esperto nel suonare, a prima vista, e un pianista diligente. L'unica delusione fu il pianoforte, un ottimo strumento che stava perdendo l'intonazione. Il suono di quel pianoforte era come ogni altra cosa in città: esuberante, distorto e leggermente scordato. La decadenza tropicale ne permeava il legno, così come ogni altra cosa in quell'angolo di mondo, dove la doratura era sempre scrostata, la boiserie sempre scheggiata, i colori sempre opachi. Verificarono ogni pezzo, aggiustando il tempo e regolando la dinamica quando necessario. Euday rivolse delle domande pertinenti e anticipò molte risposte. Suonava con uno stile unico, di cui Louise non aveva mai avuto esperienza: laddove altri picchiavano sui tasti, lui pareva fluttuarvi senza fatica. Impiegarono poco più di un'ora. Quando ebbero terminato, Louise si rivolse alla signora Blanchard che, fedele alla sua parola, non aveva aperto bocca per tutto il tempo. «Spero che approviate la selezione» disse Louise. «La selezione è ottima» rispose la signora Blanchard. «Che cos'era l'ultima? Non l'ho mai sentita.» «È italiana. La cantavo le prime volte che calcavo le scene. Quando ero in Inghilterra.» Dopo aver radunato le partiture, Euday gliele restituì. «Sono vostre» disse. «Non avete bisogno di tenerle?» domandò lei. «Basta che le portiate quel giorno» ribatté. «Al momento credo di averle imparate.» Le augurò una buona serata. La signora Blanchard lo ringraziò, poi gli chiese di far salire Sophie mentre usciva. Dopo che l'uomo ebbe lasciato la stanza, Louise disse alla signora Blanchard: «Devo chiedervi una cosa». «Vale a dire?» «Mi è stato offerto l'usufrutto di una proprietà. Si tratta di una casa su un appezzamento di terreno fuori città. Non l'ho mai vista, e non so neanche se sia abitabile. Mi sarebbe utile il giudizio di qualcuno che la veda per me e dica se vale la pena di prenderla.» La signora Blanchard ci rifletté un istante. «Ho un nipote banchiere» esclamò. «Vi andrebbe bene?» «Sono sicura di sì, se siete voi a raccomandarlo.»
La signora Blanchard non sembrava del tutto soddisfatta della propria scelta. «Ci rifletterò ancora un po'» disse. «Dove alloggiate? Al St. Charles?» «Per adesso.» «Inviatemi le carte dettagliate. Chiederò a qualcuno di esaminarle e vi manderò a chiamare.» Quando Louise uscì in strada e le chiusero la porta alle spalle, il Taciturno comparve dietro di lei nel giro di pochi secondi. Tornata all'hotel St. Charles si vide consegnare una busta insieme alla chiave. «Chi l'ha lasciata?» domandò. «Quando è arrivata non ero presente, signora» rispose l'impiegato al bancone. Lei non l'aprì su due piedi, ma la portò al piano superiore per leggerla nella sua stanza. Non le piacevano le sorprese. La busta conteneva un biglietto di carta spessa color crema intestato con un lussuoso stemma, e recitava: «Il governatore della Louisiana richiede l'onore della presenza della signorina Mary d'Alroy alla celebrazione del centesimo anniversario del passaggio della Louisiana dalla Francia agli Stati Uniti». La grafia del testo prestampato era elegante, un po' meno lo era la grafia con cui avevano aggiunto a mano il suo nome nell'apposito spazio. Quell'invito l'avrebbe ammessa al ballo storico alla French Opera House, previsto per il sabato sera. La serata comprendeva uno spettacolo di gala con una serie di tableaux allegorici in chiusura. Si sventagliò con il cartoncino, riflettendo. Un gesto di cortesia da parte di uno dei suoi nuovi conoscenti. Lei non aveva un abito elegante adatto. Ma poteva esserci gente influente, ricca, annoiata, di ogni varietà e inclinazione. Dalla morte di Jules Patenotre non aveva inflitto dolore ad anima viva. Il pensiero la nauseava, ma non come una volta. Neanche lontanamente. La prima volta le aveva dato gli incubi per settimane. Ma la ripetizione del gesto ne aveva smussato l'effetto, sino a non suscitarle quasi più alcun orrore spirituale. Lei dava a quelle persone ciò che desideravano, e così faceva del suo meglio per soddisfare i termini del patto non scritto dell'Errante. Se doveva dispensare dolore, l'avrebbe fatto solo con chi lo cercava. E quando non si offriva nessuno, lei restava in attesa.
Ma se l'attesa fosse diventata troppo lunga? Avrebbe accettato l'invito, e sarebbe andata al ballo. Sola e anonima, avrebbe girato fra i presenti. Fra i cercatori di piaceri di quella strana, corrotta e godereccia città, avrebbe trovato qualcuno che aveva necessità affini alle sue. Non sarebbe stato difficile. A quanto pareva, i simili si riconoscevano sempre. E in caso di conseguenze indesiderate, come la morte di Jules Patenotre... ebbene, nelle notti come quelle c'erano sempre delle vittime, da scoprire e raccogliere al mattino insieme alle bandierine cadute e alle perle sfilate. Qualcuno aveva speso fior di denaro per quel biglietto. A quanto intuiva lei, il prezzo era alto per tenere alla larga la gente volgare. Qualcuno desiderava vederla al ballo. Forse, un simile aveva riconosciuto un simile. Sabato avrebbe cantato. E domenica sera si sarebbe unita alle danze. Quarantatré Venerdì mattina udì bussare alla porta della sua camera d'albergo e il facchino gridare: «C'è una carrozza che vi attende, signora». Lei aprì la porta. Non le piaceva che il personale sbandierasse i suoi affari a tutti. «Scendo subito» disse. Questa volta fu la Muta a seguirla come un'ombra. La strada di fronte all'albergo era ampia e lastricata, con le rotaie dei tram e una posta per i cavalli. A qualche metro di distanza, l'attendeva una carrozza. In cassetta, accanto al cocchiere, era seduto l'uomo che l'aveva accompagnata al pianoforte qualche giorno prima. Quando la vide, scese e le aprì lo sportello della carrozza. Lei esitò sul marciapiede, incerta. «Prego, Miz d'Alroy» disse Euday. «Salite.» Louise si rivolse alla Muta. «È una carrozza a due posti» disse. «E dobbiamo andare a prendere il nipote della signora Blanchard.» La Muta non si mosse. «Pare che tu abbia la mattinata libera» riprese Louise. «Sfruttiamola al meglio tutte e due.» Salì in carrozza e si accomodò sul sedile di cuoio, imbarazzata. Quella carrozza aveva visto giorni migliori, ma era ancora una vettura che indicava l'importanza del suo passeggero. Euday tornò a sedersi accanto al coc-
chiere. Un colpo di frusta e partirono. Louise arrischiò uno sguardo alle spalle e vide la Muta ferma sul marciapiede, che li osservava allontanarsi. Qualche minuto più tardi cominciò a rilassarsi. Nessuno li guardava con interesse particolare mentre passavano. Attraversarono il Vieux Carré e, dopo qualche piazza, imboccarono delle strade a lei sconosciute. Da principio si aspettava che si fermassero a prendere il suo consulente lungo il tragitto. Ma dopo che i negozi e le palazzine di uffici lasciarono il posto ai depositi, e i depositi a schiere e schiere di orride baracche di legno con le finestre cascanti e le verande marce, si rese conto che, di lì a poco, sarebbero stati fuori città. «Euday» gridò davanti a sé. «Dov'è il nipote della signora Blanchard?» Il giovane si voltò solo a metà. «Miz Blanchard mi ha reputato un consulente migliore per voi. Solo che non è il caso di farlo sapere a tutta la città. Non so se mi spiego.» D'improvviso ricordò qualcosa, e frugò nella giacca. «Tenete» disse, estraendo dei documenti che lei riconobbe. «Voglio che li mettiate al sicuro. Li ho esaminati per voi.» Glieli tese. Erano gli atti della tenuta di Jules Patenotre. Lei li aveva fatti recapitare a casa Blanchard dal Taciturno, affidando a sconosciuti il patrimonio che aveva rubato. Ma qualche rischio bisognava pur correrlo. Rispetto a quelli che aveva corso in vita sua, quello non era nemmeno il più grosso. Infilando le carte al sicuro nella borsa, disse: «Senza offesa, Euday, ma come fa un pianista a essere un consulente migliore di un banchiere?». «Io non mi guadagno da vivere con la musica» ribatté lui. «Sono un contabile. Quando un banchiere non trova più il vostro denaro, tocca al contabile scoprire dove l'ha messo. Perciò, se ci riflettete bene, con me fate un affare migliore. L'unico inconveniente per voi è la faccenda dei neri e dei bianchi. Capite?» «Sto cominciando adesso» rispose lei. «Ma se avete un impiego regolare, perché siete qui invece che a lavorare?» «L'ufficio è chiuso» disse. «Per la festività.» «Allora potreste far festa.» «Per me non significa nulla» disse Euday. Durante quello scambio, il cocchiere era rimasto chino sulle redini, senza inserirsi nella conversazione né curandosene. La livrea che indossava sarebbe stata bella su un uomo più prestante e in forma. Invece, quello sembrava sfuggito a una carestia travestito da cocchiere. Euday si protese
in avanti per dirgli qualche parola e, al bivio successivo, l'uomo tirò le redini e piegò a sinistra, imboccando un ampio viale di querce cariche di muschio. Dopo un paio di miglia avvistarono il fiume, e più tardi tornarono ad avvistarlo: la strada era più o meno diritta mentre il fiume era sinuoso e appariva e spariva tra la vegetazione. Patenotre aveva detto che la piantagione della sua famiglia sorgeva sulle sponde del Mississippi. Terreno pianeggiante, fertile e facile alle inondazioni. Per tutta River Road, costeggiarono delle antiche dimore in vario stato di conservazione. Quasi tutte quelle più grandi erano in stile neoclassico, magioni di legno secolari costruite a immagine e somiglianza di templi di pietra millenari. I piantatori di zucchero le avevano costruite negli anni precedenti alla guerra. La loro era un'economia fiorentissima, che doveva la sua vitalità esclusivamente alla fatica degli schiavi. Dopo una pietra miliare, si trovarono su un lungo viale un tempo sterrato, che adesso era ricoperto d'erba alta fin quasi al mozzo delle ruote. I cavalli avanzavano a fatica, trainando la carrozza come una chiatta su un canale di vegetazione, e tracciando un solco netto al centro della strada. In fondo al viale sorgeva il cancello di una casa. Sembrava più o meno intatta. Il tetto aveva perso qualche tegola rossa e la vernice bianca si stava scrostando, ma il profilo era ancora intatto e la balconata non troppo cascante. Era alta due piani e larga il corrispettivo di otto stanze, con degli edifici esterni di servizio. Mentre la carrozza si fermava di fronte alla casa, un cane randagio si alzò precipitoso dal portico e si fece loro incontro abbaiando. «Non scendete finché non l'ho cacciato via» disse Euday. «Potete lasciarlo anche stare» ribatté Louise. «Non sta facendo niente di male.» «Portano tutte le malattie possibili e immaginabili.» Si guardò intorno per cercare dei sassi, ma non ne trovò. Trovò invece un bastone e lanciò quello. L'animale lo schivò, poi si voltò a prenderlo e lo portò a breve distanza da dov'era accucciato prima, rosicchiandolo per scheggiarlo. Il cane aveva le gambe lunghe e snelle; pareva una sorta d'incrocio fra un segugio e uno spaniel. Euday provò a scacciarlo più in là, ma l'animale si limitò a spostarsi di qualche metro, tornò ad accucciarsi e continuò imperterrito. Louise era scesa dalla carrozza e si stava avvicinando alla casa. Le fine-
stre sbarrate dalle assi davano all'edificio un aspetto cupo. L'ingresso principale era chiuso con una catena, che era assicurata da un lucchetto. Estrasse le chiavi che aveva preso da Jules Patenotre. Con una aveva potuto aprire la cassetta di sicurezza, al cui interno aveva trovato l'altra, quella più grande. La chiave trovata nella cassetta corrispondeva alla serratura, ma non ruotava. Si fece da parte per far provare Euday e, con un rumore di vecchie ossa cigolanti, lui riuscì a far scattare la serratura del lucchetto. Lo sganciò dalla catena e la scostò. Quindi spalancò le porte più che poteva. Louise si fermò sulla soglia. La casa era scura, ma non buia. Anche se le finestre erano inchiodate con le assi, il grande lucernario a cupola che sovrastava la scala principale creava un perpetuo crepuscolo al centro della casa, che svaniva a poco a poco nell'ombra se ci si spostava più in là. Fece qualche passo avanti. Si era aspettata di trovare un rudere. Invece quella casa era solo trascurata, e, paragonata ad alcuni posti in cui era stata costretta a nascondersi - il teatro di varietà a Richmond o quella drogheria abbandonata nell'Oregon, tanto per citarne un paio - era più che abitabile. In alcuni punti era caduto l'intonaco e l'aria era stantia, ma non c'era nulla che non potesse essere fissato, camuffato o ignorato. Dietro di lei, Euday disse: «Molte di queste case sono state incendiate». Lei si volse, e lo vide fermo a guardare in tralice la cupola. «In guerra?» gli domandò. «La gente non ha atteso l'arrivo dei soldati. Hanno trascinato fuori dai depositi tutte le balle di cotone e le hanno portate sulla diga per incendiarle. Poi hanno appiccato il fuoco alle navi in banchina e hanno tagliato gli ormeggi per lasciarle in balia della corrente. Mio nonno si ricorda delle imbarcazioni che bruciavano sul fiume. Provate a pensarci. Era come veder passare le navi del diavolo.» «Vostro nonno era uno schiavo?» «No, signora. Mio nonno era un uomo libero.» Dall'atrio centrale Louise passò sotto un ampio arco per trovarsi in una delle sale per i ricevimenti, abbastanza spaziosa per poterci ballare. Le assi che chiudevano le finestre lasciavano filtrare lame di luce che, posandosi sul pavimento e sulle pareti, evidenziavano strani dettagli: una cornice di stucco, della carta da parati cascante e annerita dalla muffa, il marmo rosa d'un raffinato caminetto che si sarebbe rivelato in tutto il suo splendore solo quando le finestre fossero state liberate dalle assi.
Euday non la seguì nella stanza, ma dall'arco di ingresso disse: «Pare che il mobilio non ci sia più». «Il mobilio è stato venduto» rispose lei, e la voce echeggiò negli spazi vuoti. «Ho tutte le ricevute. Potrei vedere se è possibile riacquistarlo. Se non è stato rivenduto.» E avrebbe potuto anche farlo. Aveva tanto il denaro quanto i documenti. I mobili erano stati venduti per una sciocchezza. Bastava che i suoi domestici, con le loro sottili pressioni e i loro sguardi minacciosi, li avessero reclamati e l'avrebbe avuta vinta lei. Louise continuò a spostarsi di stanza in stanza, ed Euday salì al piano superiore. Lo sentiva sopra di lei, bussare sulle pareti e camminare sulle assi del pavimento. Da qualche traccia trovata sul retro dell'edificio, intuì che era entrato qualcuno. C'erano dei tizzoni di un fuoco ormai spento da tempo, e delle ossa di animali sparse che erano state cotte sulla fiamma e poi spolpate. Ma non c'era altro. Qualcuno si era accampato in casa e se n'era andato. Nel retrocucina, scoprì la finestra rotta da cui erano entrati. Nella stanza trovò del guano di uccelli e delle piume di piccione. Non riusciva ad allontanare l'immagine che le aveva evocato Euday. Mentre ripercorreva la casa a ritroso, continuava a pensare al passaggio sul fiume delle navi in fiamme. Vederle comparire da dietro l'ansa senza una rotta, senza una guida, fiammeggianti. Un Olandese Volante dopo l'altro. Ardenti di bagliori giallastri dall'albero maestro alla linea di galleggiamento, che illuminavano con la loro scia di calore chi le guardava passare... e mentre la corrente le sospingeva, altre ancora se ne profilavano alla vista. Nella loro divampante maestosità, dovevano aver evocato qualcosa di più grande. Le navi del diavolo, già. Un'occhiata nell'abisso. Louise non trovò altre tracce di intrusione. Chiunque fosse entrato quell'unica volta, aveva trovato ben pochi motivi per trattenersi. Era un posto che incuteva un certo timore reverenziale, e non c'era nulla da rubare. Tornò nell'atrio e uscì dalla porta principale. Euday aveva trovato un'uscita sulla galleria del secondo piano, e stava scendendo le scale esterne reggendosi al corrimano. «Pare che la pioggia non sia entrata» le disse. Louise indietreggiò di qualche passo dalla casa e la osservò. «Posso pensare di viverci» osservò. «Ha ancora bisogno di qualche lavoretto.» «Ho della gente che può occuparsene.»
Intuì che lui era quasi del tutto d'accordo, ma che non aveva fretta di impegnarsi senza aver visto di più. «Fatemi dare un'occhiata alla cisterna» le disse. Mentre l'uomo andava a controllare la riserva idrica, lei girò intorno alla casa e nei terreni sul retro. Uno steccato rotto rivelava la presenza di un orto, ma era impossibile accedervi per via dei cespugli selvatici e delle erbacce che vi crescevano. Gli edifici esterni non se l'erano cavata come la casa padronale. C'erano una latrina e una piccionaia e, oltre il giardino, l'ossatura di un edificio che una volta poteva essere stata una dépendance per gli ospiti o il capanno di un sorvegliante. Adesso non aveva più il tetto. A un centinaio di metri dalla casa padronale, coperte dagli alberi e attraversate da un'ampia strada sterrata, c'erano due file di baracche per gli schiavi. Erano di legno, con il tetto spiovente e la veranda, sollevate da terra grazie a piccoli pilastri di mattoni. Il legno non era stato tinteggiato e con il passare degli anni si era ricoperto di una patina argentea. Sentì qualcosa muoversi dietro di lei e si voltò. Il cane l'aveva seguita. Manteneva le distanze ma sembrava attendere una sorta di indicazione, un segnale che gli desse il permesso di avvicinarsi. Ma Euday aveva ragione: i cani randagi portavano tutte le malattie possibili. Il cane avrebbe dovuto cercarsi altrove la compagnia umana che desiderava. «Via» disse. «Vattene.» Ma il cane non obbediva. Seguendo la strada sterrata nel tornare alla casa padronale, passò accanto al cimitero degli schiavi. O perlomeno accanto a quello che ne rimaneva. Era una radura circondata da un gruppo di alberi, dove si distinguevano dei tumuli disposti in fila come le case degli schiavi e segnalati con delle pietre. Non c'era altro: solo le pietre. Qualcuna era stata sbozzata in una forma approssimativa, ma nessuna recava iscrizioni. Euday la raggiunse lì. «Avete notato che le tombe sono tutte rivolte a oriente?» le domandò. Non l'aveva notato, ma era così. «Per quale motivo?» ribatté. «In modo che le loro anime potessero volare a casa, in Africa.» S'incamminarono per tornare. Il cane li seguiva alla solita distanza. Indietreggiò un poco quando Euday cercò di spaventarlo per farlo andare via, ma l'animale non parve intimorito. «Voi non siete nato in Africa» disse Louise. «Allora, quale sarà la casa dove volerà la vostra anima?» «Ovunque siano i miei parenti» ribatté Euday. «E così la vostra.»
«I miei non ci sono più» esclamò lei. «Anche i miei, quasi nessuno» disse Euday. «Ma non importa. La casa è chi amiamo e chi ci ama. Vivo o morto che sia. Per me è il proprio paese.» Il cocchiere stava ancora aspettando davanti alla casa. Aveva rifocillato e abbeverato i cavalli e stava riponendo la sacca del cibo in uno scomparto fra le ruote della carrozza. Se fosse venuta a stabilirsi in una zona tanto lontana dalla città, avrebbe dovuto comprarsi un mezzo di trasporto tutto suo. Quanto a saper mantenere un calesse e occuparsi di un cavallo, avrebbero dovuto imparare a farlo il Taciturno e la moglie. «Allora, che cosa ne pensate?» domandò a Euday. «Credete che sia conveniente riaprire la casa?» «Ci vorrà parecchio tempo e denaro per rimetterla a posto com'era.» «Non sto parlando di rimetterla a posto com'era. Solo di riaprirla per viverci così com'è.» Euday volse lo sguardo alla casa e, riluttante, si sbilanciò a dare un parere. «Ebbene» disse. «Non vedo perché no. Per prima cosa dovrete far togliere dai vostri domestici gli uccelli morti dalla riserva di acqua potabile. A meno che non vogliate infettarvi con la febbre gialla e raggiungere quelli là dietro.» Pronunciò queste ultime parole accennando con il capo in direzione del cimitero. Poi entrò ad assicurare la finestra rotta, e chiuse la casa. Mentre scendevano le scale verso il viale, promise di mandarle in albergo un elenco di osservazioni. Riguardo per esempio alle riparazioni necessarie, ai costi e alle tasse da prendere in considerazione. Le suggerì anche di far correggere gli atti per mettere la proprietà a suo nome. Aveva modo di dimostrare il trasferimento? «Ho questa» disse, ed estrasse una lettera. Adesso avevano raggiunto la carrozza. Fermandosi a lato della vettura, Euday aprì la lettera e la lesse ad alta voce. «A chi di dovere. Vi prego di usare ogni cortesia alla signorina Mary d'Alroy durante il suo soggiorno. La signorina è amica intima della famiglia Patenotre, originaria di Iberville, Louisiana.» Euday la ripiegò e gliela restituì. «Basterebbe a soddisfare un avvocato?» gli domandò lei. «Credo di sì» ribatté l'uomo. «A patto che scegliate quello giusto.» Quarantaquattro
Non c'erano specchi nella stanza, ma ce n'era uno sul ballatoio esterno. A quell'ora del giorno nella tromba delle scale c'era luce a malapena per vedere da vicino, così Sayers prese lo specchio dalla parete del ballatoio e se lo portò in camera. Aveva una cosiddetta chambre garnie all'ultimo piano di una casa gestita da una donna di colore su Dauphine Street. Ed era una chambre molto poco garnie. Seppur sommariamente ammobiliata, la camera era sua per quindici dollari al mese, luce a gas e riscaldamento esclusi. Lo specchio non era uno specchio vero e proprio, ma il vetro di una finestra con un lato dipinto di nero e incorniciato. Sayers si scrutò davanti e di profilo, osservando con aria critica come gli stava il frac. Nel vetro si vedeva esile e privo di consistenza, ma riteneva di essere passabile. Indossava il frac con cui era fuggito da Richmond dopo la notte in cella: non aveva avuto modo di cambiarsi finché non era stato al sicuro fuori città. Ancora una volta aveva tradito la fiducia di qualcuno: l'abito doveva essere restituito al Bijou dopo l'utilizzo. Anche se in tribunale aveva visto Stoker parlare a suo favore, nella sua caccia a Louise aveva deluso tante persone che avrebbero potuto non riservargli la medesima benevolenza. Non immaginava che il frac gli sarebbe tornato di nuovo utile. Ma quella era la sera del ballo del governatore. Per una volta Louise era stata facile da localizzare. E in maniera quasi assurda. La New Orleans Transfer Company attendeva tutti i treni e i piroscafi che entravano in città per raccogliere e recapitare i bagagli nelle residenze private e negli hotel a venticinque centesimi al pezzo. Sayers si era recato negli uffici della compagnia, spacciandosi per un inglese che aveva raggiunto in città la sorella, la quale avrebbe dovuto trovare un posto dove alloggiare per tutti e due, e dalla quale invece non aveva ricevuto alcun messaggio. Un po' di destrezza per estorcere il nome che Louise stava usando, senza far capire di non saperlo, ed eccola lì... Mary d'Alroy all'hotel St. Charles. Mary d'Alroy? Dopo Richmond, sarebbe stato più sicuro per lei cambiare identità. Ma era possibile che non sapesse del ritrovamento di Jules Patenotre. Il suo primo istinto era stato quello di correre al St. Charles e farsi vede-
re da lei. Ma l'istinto era mescolato a un tremendo e inatteso timore di quel momento. E poi non era il caso. La fretta poteva rivelarsi fatale... e nel senso letterale del termine, se ci fosse stato il Taciturno. Così, si era trovato invece una stanza di fronte all'albergo di Louise. Il tempo passava. Non si incontravano da molti anni. Che sottile ironia se lei gli fosse passata accanto e non si fossero riconosciuti! Poteva accadere. Nel suo cuore e nella sua memoria, era sempre la Desdemona della fotografia che portava con sé. Infine, la vide. Stava rientrando all'albergo. Era stata una questione di pochi secondi; lei era comparsa sul marciapiede e poi, con un fruscio delle lunghe gonne, era entrata nell'hotel e scomparsa di nuovo. Come lui aveva previsto, aveva alle costole il Taciturno, la pistola nella cintura dei pantaloni che gli deformava il cappotto. Il fatto che l'avvistamento fosse stato breve era irrilevante. Fosse durato un secondo o un'ora, il suo sconvolgimento sarebbe stato altrettanto profondo. Era cambiata poco. Non era magra come un tempo; ma c'era da aspettarselo, non era più una ragazza bensì una donna adulta. Lui aveva impiegato un istante a far coincidere le due versioni di Louise, mentre la seconda si sovrapponeva alla prima e la sostituiva; e quando le porte dell'albergo si erano chiuse dietro di lei, l'immagine mentale che lui ne aveva era già stata riveduta e corretta. Si sentiva scosso. Aveva fatto bene a non provare ad affrontarla. Non avrebbe avuto alcuna speranza. E invece adesso, superato quel momento, avrebbe potuto prepararsi. Quella sera, ancora nuovo della città, era andato a giocare. Era al verde, a parte una banconota da cinque dollari per le emergenze che aveva tenuto nella scarpa tanto a lungo da dimenticarsene quasi. A New Orleans il gioco d'azzardo non era più permesso né autorizzato, ma continuava ancora. In segreto, nei dintorni di Canal Street, e alla luce del sole a Bucktown e lungo la diga di Carrollton. Sayers aveva imparato a giocare dalla gente del circo. A mezzanotte aveva quasi sessanta dollari, una cambiale che sapeva non avrebbe mai riscosso, e un biglietto per il ballo del governatore, che un giocatore di carte aveva puntato quando aveva finito i contanti. Il mattino successivo, aveva spedito trenta dollari per posta alla famiglia Becker. A quel punto aveva cancellato il nome del proprietario del bigliet-
to per il ballo e ci aveva scritto "Mary d'Alroy", per poi consegnarlo in forma anonima al St. Charles. Il che l'aveva portato a questo. A quella sera. La sera del ballo del governatore. Tolouse Street, che costeggiava la French Opera House era intasata di carrozze e di cavalli nervosi. Nel sontuoso e antico edificio stavano entrando uomini e donne con l'abito delle grandi occasioni. Sul marciapiede opposto si era radunata una gran folla, solo per vedere chi arrivava. Sayers raggiunse l'ala del teatro che ospitava gli uffici e i camerini. All'ingresso degli artisti si aggregò a una fila di attori e di impiegati del teatro. Alcuni addetti di sala avevano la camicia inamidata e il frac come lui. La fila procedeva a rilento mentre il portiere controllava i nomi sotto gli occhi di un poliziotto privato. Quella sera, alla French Opera House, giravano parecchi oggetti di valore e nessuno voleva che uscissero dal teatro in mano a qualche furfante. Sayers era sulla lista degli impiegati; non avendo un biglietto suo, si era registrato come cameriere. Il fatto che non avesse alcuna esperienza era irrilevante. Appena fosse entrato in teatro, aveva in mente di sgattaiolare via e unirsi a chi faceva baldoria. E così fu. Una volta giunto nel retropalco, anziché andare a prendere vassoio e grembiule, trovò la porta di servizio ed entrò in platea. Non poté non fermarsi a contemplarla. La platea del teatro dell'opera era ovale e di un'ampiezza straordinaria. Il teatro vantava cinque ordini di palchi che salivano sino al soffitto e alla sua alta cupola di pannelli decorati. Sayers non aveva mai visto niente di simile. Dovevano esserci più di duemila posti a sedere. Oltre a essere dorati, gli arredi erano anche cremisi e bianchi, e c'erano decorazioni floreali ovunque. Sopra le poltrone era stata allestita una pista temporanea, per trasformare la platea in una sala da ballo. Stava suonando un'orchestra, ed erano già cominciate le danze. C'era un tale sfoggio di gioielli da poter finanziare una piccola guerra. Gli uomini indossavano tutti un abito da sera di gran lunga migliore del suo, a parte quei pochi con le divise militari, così sfarzose da potersi qualificare come abiti eleganti. Le donne indossavano piume vere, e luccicavano. Gioielli al collo, diamanti ai polsi, gemme fra le alte acconciature. Mentre le coppie danzavano, gli passavano accanto in un fruscio di taffettà e seta pregiata. Sayers cominciò ad aggirarsi per la pista da ballo, osservando tutte le
donne mentre passava. Dopo quella fuggevole apparizione di Louise all'ingresso del St. Charles, sapeva che l'avrebbe riconosciuta. E questa volta sarebbe stato preparato. L'ultima volta che l'aveva vista, era rimasto senza fiato per un istante e il cuore gli si era quasi fermato. Eppure, non la vedeva da nessuna parte. In fondo alla platea c'era un ampio foyer utilizzato soprattutto per fare due passi fra un atto e l'altro. Adesso si riempiva continuamente di nuovi arrivati. Entrando, la gente individuava amici o gruppi di amici, o altri su cui voleva soltanto fare colpo. Sayers si rendeva conto di girare da solo. Persino gli uomini più giovani cacciavano a gruppi di due o tre. Provò una fitta d'invidia per tutte quelle persone: per anni non aveva conosciuto altra compagnia se non quella della gente dei luna park, e anche loro si erano limitati ad accettarlo anziché accoglierlo. Quando infine la localizzò, fu perché era un punto fisso in tutta quella movimentata allegria. Era accanto a una colonna, la mano guantata a coprire un colpetto di tosse. L'effetto che quella donna aveva su di lui era sempre potente. Senza distogliere gli occhi da lei, si spostò dove poteva osservarla. Louise. Louise, Louise, Louise. E nessuno si frapponeva tra loro. L'abito che indossava era adeguato all'occasione, ma piuttosto semplice. Sembrava in attesa di qualcuno, e lui utilizzò quel pretesto per trattenersi ancora un poco. Lei si comportava come chi si trova in mezzo a persone sconosciute, attenta a chi la circondava, un breve sorriso a chiunque incrociava il suo sguardo. Lui si domandava chi stesse aspettando e, dopo qualche minuto, la vide spostarsi. Per qualche tempo la osservò guardare gli altri danzare e, quando la vide di nuovo spostarsi altrove, concluse che era sola e che non stava aspettando nessuno. Era tutta una posa. Cambiava posto per non rivelare a tutti che non aveva nessuno con cui parlare e nessun luogo particolare dove stare. Stava finalmente trovando il coraggio di avvicinarla quando un uomo le chiese di ballare. La vide accettare con grazia, ma non prima di aver dato un'eloquente occhiata in giro e dietro al suo aspirante partner, come per accertarsi che non ci fossero testimoni. Dopodiché scomparvero sulla pista da ballo, e per qualche tempo la perse di vista. Circa un quarto d'ora più tardi la ritrovò. Di nuovo sola. La danza non
era stata altro che una danza. L'incontro, chiaramente, non aveva avuto seguito. Osservarla era quasi doloroso per lui. È stata questa la tua vita, Louise? La tua ricompensa per il fardello dell'Errante? Era una sorta di strana predatrice che attendeva di essere richiesta. Non poté trattenersi oltre, e si fece avanti sino a raggiungerla. Si posizionò nel suo campo visivo, e restò in attesa che lei lo notasse. Quarantacinque Louise studiava con aria distratta la folla attorno a sé. Per un istante lo fissò dritto negli occhi. Poi spostò lo sguardo. Non lo aveva riconosciuto. Sayers si fece avanti. La vide accorgersi che qualcuno si stava avvicinando, ricomporsi e accennare un sorriso educato. Poi, quando le fu più vicino, le vide svanire il sorriso nell'istante in cui lo riconobbe. «Tom» disse infine, quando lui le giunse di fronte. Nessuna parola sembrava adeguata a quel momento, così lui si limitò a ribattere: «Noto che la tua vista non è migliorata». Lei era impallidita. «Dimmi che è solo un'incredibile coincidenza.» Lui scosse la testa per assicurarle che non era così. Per un istante lei assunse un'espressione assente, quindi esclamò: «Sei stato tu a mandarmi l'invito». «Altrimenti come avrei fatto a trovarti senza guardie del corpo?» le rispose. Poi per rassicurarla aggiunse: «Sono qui da solo». La donna lo studiò con attenzione. Lui intuì che stava cercando di valutare le implicazioni della sua presenza. «Come mi hai trovato?» gli domandò. «Hai presente Mary d'Alroy, la parte che interpretavi nel Diamante purpureo? Tanto valeva lanciarmi un segnale. Sono stato a Richmond. Hanno trovato l'uomo che è morto laggiù. Non preoccuparti, non ti denuncerò. Ma lo farà un agente della Pinkerton, se ne avrà occasione.» «A quanto pare, mi hai messo con le spalle al muro» disse, guardandosi attorno quasi si sentisse in trappola. «Non capisci» ribatté lui. Nessuno si curava di loro, ma qualcuno nelle vicinanze avrebbe potuto ascoltare di sfuggita i loro affari. «Ho da dirti parecchie cose» riprese lui. «Possiamo spostarci altrove?» Le scale dell'ingresso dietro il foyer portavano in ogni punto dell'edificio. I vari ordini di palchi erano stati chiamati alla francese, da Les loges
per la prima galleria sino a Le paradis in cima al teatro. Salirono al piano superiore e trovarono una relativa intimità nella prima galleria. In basso continuavano le danze, e qualche coppia era salita a riposare e corteggiarsi. Di fronte a loro si apriva il grande palcoscenico del teatro dell'opera, con il suo fondale dipinto e illuminato a rappresentare un cielo stellato. Lei era tesa e vigile, ma sembrava essersi ripresa dall'iniziale sconcerto nel vederlo. Si accomodarono su un paio di poltrone in un settore vuoto ma, nel sedersi, videro che la prima galleria cominciava a riempirsi. La gente stava salendo dal piano inferiore per attendere i tableaux. «Ti trovo bene, Tom» gli disse. «Sì?» ribatté lui, non troppo convinto. «Sì. Sono lieta che non ti abbiano impiccato.» «Mai quanto me.» Lei sorrise, giusto per un istante, poi tornò seria. «Allora, dimmi, Tom» proseguì. «Perché sei qui?» Lui esitò e abbassò lo sguardo sulle coppie impegnate nelle danze. Ciascuna si muoveva per conto proprio ma, viste dall'alto, si fondevano tutte in un unico vortice, simile a un fiume che incontra una roccia sommersa. «C'è una cosa che devi sapere» le disse. «Se mi hai inseguito per mezzo mondo per dichiararmi il tuo amore,» ribatté lei «non farlo. Con me è sprecato. Non potrò mai meritarlo.» «Pensavo fossimo grandi amici, un tempo» esclamò lui. Al ricordo le fremette la guancia. «Il mio devoto servitore» disse. «So che all'epoca avevo un piccolo posto nel tuo cuore,» ribatté lui «ma non ero James Caspar. Credi ancora che io te l'abbia portato via?» Lei distolse lo sguardo, indirizzandolo verso il palcoscenico. «No» rispose. «So esattamente che cos'ero per lui. E che cosa mi avrebbe fatto, se gliene avessi dato l'occasione. Adesso non conta più.» «Sono qui a dirti che puoi tornare nel mondo. Se tu lo vuoi.» «Credimi, Tom» ribatté lei. «Ci sono parecchie cose che non puoi sapere.» «Tu pensavi di sposarti. Lui ti ha sedotto prima del matrimonio. Tu non ci hai visto niente di male e non hai provato alcuna vergogna. Ma nelle settimane successive alla sua morte, hai scoperto di aspettare un bambino. E Whitlock ti ha costretto ad abortire.» Lei parve sul punto di negarlo, ma lui proseguì: «Ti ho visto, Louise. Quella sera ti ho seguito. Ti ho visto entrare in casa del medico, e se tu mi
sollecitassi potrei dirti esattamente che cos'è avvenuto all'interno». Lei lo fissò. «L'hai sempre saputo?» «Cosa credi che avrei fatto? Che ti avrei ritenuto una donna rovinata e ti avrei voltato le spalle? Caspar era determinato a distruggerti per suo diletto. E Whitlock continuò l'opera perché tu potessi assolvere al suo scopo. Ma tu non sei rovinata, Louise. Tu credi di essere dannata al punto da trascendere ogni perdono. So tutto della vita che hai fatto da allora. Ma se riesco a rialzarmi da sotto un treno e perdonarti... Se posso affrontare la perdita del mio nome e della mia reputazione e perdonarti... se posso vivere nello squallore senza amare nessun'altra e perdonarti ancora... Non devi amarmi, ma ti chiedo la semplice cortesia di provare almeno a perdonare te stessa.» Lei aprì la bocca per parlare. Ma lui si rese conto che era smarrita. Distolse lo sguardo e si portò la mano alle labbra. Cercò di prendere fiato ma non riuscì a trarre un respiro abbastanza profondo. Il suo colorito era allarmante. Quando lei cominciò a vacillare, lui la prese subito fra le braccia, come aveva fatto sul treno in corsa tanti anni prima. Adesso lei era un po' più florida, e lui un po' meno energico. Non importava. Cercando di allontanarla dalla vista degli altri, la portò nello stretto corridoio che conduceva ai palchi. Aprì una porta ed entrò con lei fra le braccia, posandola su una delle quattro sedie decorate che trovò nel palco. Quei palchi erano fra i più intimi del teatro. Complice una grata, erano schermati da tutti gli altri nella prima galleria. E, sciogliendo la corda guarnita di nappe che fermava una tenda di velluto, era anche possibile isolarsi del tutto. Dopo qualche minuto Louise cominciò a riprendersi e lui le disse: «Non mi stupisco che tu sia svenuta. Perdonami, ma ho dovuto allentarti il busto». «L'abito è di una taglia in meno» ammise lei. «L'ho noleggiato.» «Il mio l'ho preso da Wardrobe» ribatté Sayers. «Sono entrato come cameriere.» «Siamo proprio due patetici imbroglioni.» Poi, quando quell'idea fu recepita, riprese: «Mi hai allentato il busto? Una volta ti imbarazzava solo guardarmi negli occhi». «La vita nei luna park può far perdere l'innocenza a un uomo» rispose
lui. «Una vigilia di Natale ho tirato fuori da un fiume tre donne nude e ubriache.» «Che cosa stavano facendo?» «A sentire loro, stavano giocando a schizzarsi. Per me, invece, stavano affogando. O morendo assiderate. Fai tu.» «Ti hanno ringraziato?» «Con insulti che non avevo mai sentito. Due di loro avevano marito. Siamo stati cacciati dalla città.» Lei sospirò e abbassò gli occhi. «Se non fosse stato per me avresti ancora la tua vecchia vita» disse. «Vorrei meritarti.» «Vecchia vita, nuova vita, fa lo stesso» ribatté Sayers. «Nulla resta immutato. Ma ti rendi conto di quello che mi stai dicendo? Come si concilia quello che dici con la creatura senz'anima che credi di essere?» Di sotto, il valzer terminò e l'orchestra intonò un inno patriottico. L'attenzione di tutti cominciò a spostarsi sul palcoscenico. «Ho mantenuto il nome di Mary d'Alroy per via di un documento che dovevo usare» disse Louise. «Avevo accarezzato lo sciocco desiderio di smettere di girovagare e trovarmi un nuovo posto nel mondo. È questa la pena della maledizione dell'Errante. Non è l'impegno che si prende in un momento di disprezzo per se stessi. È quando quel momento è passato e ci si rende conto di essere andati troppo lontano sulla strada che si è scelta per poter tornare indietro.» «Immagina che quella strada non esista. Un mio amico sostiene che il patto dell'Errante sia una costruzione della mente umana. Una costruzione che in passato rispettavamo, ma che ormai ha fatto il suo tempo.» «E qual è l'utilità per noi, Tom? Noi siamo figli del nostro tempo.» «Quale tempo? Io vivo per il futuro. Tu vivi per il passato. Hai ragione, Louise. Siamo proprio due patetici imbroglioni.» In basso si accesero le luci del palcoscenico in vista del primo tableau. Il pubblico applaudì. Sayers diede a malapena un'occhiata. C'erano delle navi, delle onde e Napoleone. Mentre da sotto risuonavano le grida di giubilo, lei disse: «Credo che io sapessi già della corruzione di James Caspar quando me ne sono innamorata. Poi, quando è morto, ho semplicemente continuato a precipitare. Non vedevo alcuna via d'uscita. E sono arrivata a ritenermi un'anima perduta». «Perduta per chi, Louise?» le domandò. «Certo non per me. In tutti questi anni non c'è stata una sola ora in cui non ti abbia pensato.» «Ho stroncato delle vite.»
«Intenzionalmente? Non credo. Sii sincera, Louise. Citami un uomo che tu abbia, di fatto, assassinato.» Lei osservò a lungo il palcoscenico. La sua espressione non lasciava trapelare che cosa le passasse per la mente, ma lui non voleva interromperla. In basso, davanti al pubblico, marciava l'esercito francese. Da qualche parte c'entravano anche la Spagna e lo Spirito d'America, sotto un enorme stendardo sventolante. «So come funzionano quei giochi» le disse. «So come avviene la morte di quelle persone. Nessuno la cerca di proposito. Ma a volte capita. Il piacere sta nel rischio. E il rischio è loro.» «Tom» ribatté lei. «Ti ho già detto che non posso amarti. Credo che dentro di me sia morta ogni possibilità d'amore. Ma vorrei che non fosse così.» A quel punto lo fissò. Lui comprese quello sguardo. Anche se era vero che non aveva amato nessun'altra, la sua vita non era stata del tutto priva di compagnie femminili e di sporadiche esperienze. «Che cosa stai dicendo?» Lei chiuse gli occhi per un istante, quasi cercasse nei recessi della memoria, ed esclamò: «Che possono esistere passioni e appetiti né disgustosi né innaturali, ma che rendono gloria a Dio e a come voleva che fossimo». Poi riaprì gli occhi. «Qui?» domandò lui. Lei si guardò intorno nel palco e rispose: «Perché no?». «No, Louise» ribatté lui. «Non così.» «Non c'è niente di male.» «Sì, se non provi nulla per me.» «Per l'appunto. Non mi ha mai amato nessun altro. Non posso dire che cosa potrei provare.» Sul palcoscenico, l'attore che interpretava James Monroe aveva in mano una pergamena arrotolata che rappresentava il trattato. Louise si alzò e sganciò la corda di seta per liberare la tenda di velluto del palco. Poi tirò completamente la tenda, schermando la scena non solo dalla prima galleria ma anche dal resto del teatro. Quella vasta sala si ridusse di colpo a un piccolo spazio privato. Adesso erano illuminati solo dalla luce che filtrava dai bordi della tenda di velluto e dal ventaglio di luce gialla che giungeva da sotto la porta alle loro spalle, quella di accesso al corridoio. E lei era lì, ombra fra le ombre. «Aspetta» esclamò lui. Si alzò e si spostò in fondo al palco per abbassare
il saliscendi della porta. Poi si rivolse a lei, dicendo: «Louise, dovresti sapere che mi è impossibile rifiutarti. Ma non fare tutto questo solo per ricompensarmi e poi andartene». «Non è mia intenzione, Tom» ribatte lei. «Ho cercato di spegnere la mia anima. Tu mi fai pensare che viva ancora. Riportami indietro. Se c'è qualcuno in grado di farlo questo sei tu.» Si sfilò i guanti, quindi portò le mani sull'allacciatura dell'abito a noleggio. «Aiutami a slacciarlo» disse. Lui riusciva a malapena a trattenere il tremito delle mani. Qualche istante più tardi, l'abito scivolò sul pavimento del palco. «Ho sognato questo momento in molti modi» le disse. «Lo so» ribatté lei. Mentre lui si sfilava la finanzieria, vide che le cuciture cedevano. Dall'altra parte della porta si udirono dei passi pesanti; qualcuno in corridoio tentò di aprire la porta per poi spostarsi a provare altrove, fra voci sommesse e risolini. «Ti prego,» le disse «non offenderti per il tatuaggio. Un momento di follia del periodo in cui bevevo.» «Per adesso credo che abbiamo parlato troppo» ribatté lei. Cominciò a spiegarle come aveva fatto il tatuatore cinese a sbagliare a incidere il suo nome. Ma sembrava aver perduto la facoltà di parola mentre lei si sfilava dalla testa l'ultima sottoveste, per poi tendere il braccio e lasciarla cadere a terra. Non era poi così buio e lei riluceva, diafana e bianca come il chiaro di luna. Il braccio teso e poggiata su un piede, pareva sapere con esattezza l'effetto che avrebbe fatto quella posa su di lui. E lui l'apprezzò tanto a fondo che pensava di poter svenire. Il parquet del palco del teatro dell'opera era duro. Ma non aveva alcuna importanza. Quarantasei Frattanto, all'angolo fra Bourbon e Toulouse Street, Sebastian Becker entrò in un saloon a bersi un boccale di birra e ad ascoltare un po' di musica, e si rese subito conto che il locale che aveva scelto non era rispettabile. Il settore riservato alle signore non accompagnate era poco più di una sala di esposizione per il bordello che sembrava operare ai piani superiori. Respinse un paio di approcci, declinò quello di un venditore ambulante che
cercava di rifilargli un libretto, terminò in fretta la birra e se ne andò, lasciando un nichelino al bar. La giornata era stata un fiasco completo. Un giorno di festa nazionale non era il momento migliore per arrivare in città. Aveva trovato gli uffici chiusi, e nessuno gli aveva dato spiegazioni. Dato il livello dei festeggiamenti della serata, temeva che non sarebbe andata meglio la mattina successiva. Una volta Elisabeth si era detta interessata a visitare New Orleans, ma lui si era mostrato riluttante a portarcela. Quella città aveva il colore e il romanticismo che lei s'immaginava, ma era del tutto sconcertante. I quartieri che, con ogni probabilità, lei avrebbe apprezzato di più erano proprio quelli da cui bisognava tenere lontana una donna. Il retaggio creolo del Vieux Carré stava svanendo in fretta, per lasciare il posto a una strana immoralità nuova di zecca. La città era simile a un mondo capovolto. I peccati erano commessi nel più compito dei modi. I postriboli si trovavano in dimore e saloni raffinati e venivano pubblicizzati come "circoli sportivi"; le loro tenutarie erano "intrattenitrici", le ragazze erano le loro "pensionanti", e il loro commercio veniva portato avanti alla luce del sole e nel più ricercato decoro. All'esterno del quartiere vecchio, le attività della cosiddetta "Crescent City" o città della mezzaluna - nomignolo che si era guadagnata New Orleans per la forma a mezzaluna dell'ansa del Mississippi su cui sorge - erano simili a quelle di ogni altra città. Avevano aperto i grandi magazzini e cominciavano a innalzarsi i primi grattacieli. Ma a suo parere, era la città vecchia, quel continuo ballo senza maschera e disinibito, a monopolizzare l'attenzione. Aveva saputo che, ogni Mardi Gras, sulle sue strade si svolgeva un carnevale. Ma come fare ad accorgersene? Camminando tra la folla della notte, ascoltando musiche diverse provenienti da ogni bar e sala da ballo davanti ai quali passava, gli sembrava che carnevale fosse tutto l'anno. E tutto ciò calzava a pennello con Louise Potter: un posto dove una puttana, flagellatrice, strangolatrice e torturatrice poteva svolgere le sue perverse attività accanto al commercio regolare, senza attirare attenzione. La folla più numerosa era radunata fuori dalla French Opera House. Una marea fluttuante di persone, che si riduceva di continuo per la gente che entrava nelle taverne e che si riaffollava subito di nuovi volti usciti dagli stessi locali. Erano lì per veder passare l'alta società, per individuare i cittadini influenti e ammirarne gli abiti costosi. Quelle che sfilavano di fronte
a loro erano persone che non avrebbero mai conosciuto, che facevano una vita solo lontanamente immaginabile. E immaginarsi quella vita era il loro intrattenimento serale. Un folto gruppo si era radunato sul marciapiede a osservare gli arrivi, e uno meno numeroso, adesso, si tratteneva per guardare le partenze. Quel pomeriggio Sebastian si era recato all'ufficio del telegrafo. Aveva spedito un telegramma a casa, quanto meno per far sapere a Elisabeth che stava bene. Ma non aveva accennato ai vari intoppi, o alla loro situazione sempre più fosca. La folla attorno a lui mostrò un improvviso interesse quando un portiere in divisa aprì una delle porte del teatro dell'opera. Stavano uscendo alcune persone. Niente di particolare. Ma quel movimento attirò comunque la sua attenzione su qualcosa che altrimenti gli sarebbe sfuggita. O piuttosto, su qualcuno. Un uomo camminava ad ampie falcate sulla banchina di legno rialzata ai margini della folla, i pugni stretti ai fianchi, l'andatura di un gorilla e lo sguardo inquieto fisso sulle porte in cerca della sua padrona; e aveva un aspetto che lui ricordava fin troppo bene. L'aveva visto per l'ultima volta da Maskelyne, molti anni prima, fare fuoco con un revolver con cui, per fortuna, non si era dimostrato molto abile. Testa rasata, cranio ossuto, e non molto cambiato da allora. Il cosiddetto Taciturno di Whitlock. Parve accorgersi di essere osservato, perché volse lo sguardo e si accorse di lui nello stesso istante. Sebastian distolse gli occhi. Troppo tardi? Dubitava che il Taciturno l'avrebbe riconosciuto dopo tutto quel tempo. Ma il fatto di essere osservati suscita sempre sospetti. Azzardò un altro sguardo. Adesso era il Taciturno a guardare lui. Maledizione! Tornò a distogliere subito gli occhi, ma con ogni probabilità era troppo tardi. Il secondo sguardo l'aveva tradito. Abbandonò ogni tentativo di nascondere le proprie intenzioni e s'incamminò verso il Taciturno. Questi si staccò dalla folla e cominciò ad attraversare la strada. Sebastian cercò di cambiare direzione per intercettarlo, ma non avrebbe funzionato. L'uomo era troppo lontano e troppo troppo distante da lui. Adesso aveva raggiunto le porte del teatro e vi stava entrando. Dopodiché lui non vide cosa accadde, ma quando entrò nel foyer scorse un uomo in divisa steso sul pavimento e un gruppo di persone eleganti balbettare sconcertate, quasi uno spirito maligno fosse appena passato in mezzo a loro. Non vedeva traccia del Taciturno; in cima alle scale rivestite
di tappeti le porte della platea stavano ancora sbattendo. O forse era solo frutto della sua immaginazione o del modo in cui in seguito aveva rievocato quella serata. Sebastian afferrò il braccio della maschera più vicina e gli fece chiamare il direttore del teatro. Quando questi comparve, Sebastian mostrò le credenziali della Pinkerton e gli disse che stava inseguendo l'uomo appena entrato nell'edificio. Un poliziotto privato del teatro aveva tentato di sbarrargli la strada e naturalmente aveva avuto la peggio. «Credo che stia cercando di raggiungere e avvertire la sua padrona,» disse Sebastian «anche lei è una donna pericolosa. Per la sicurezza dei vostri ospiti e dei loro beni di valore, affidatemi due dei vostri uomini e lasciatemi entrare. Vi prometto il minimo disagio.» Con quell'uomo a terra sanguinante, non incontrò obiezioni da parte del direttore. Prima di entrare, scambiò la giacca con una delle maschere per dare meno nell'occhio. Gli furono assegnati due dei dipendenti più robusti. Il resto del personale si disperse per tutto il teatro a cercare segni di guai. I tableaux con i relativi discorsi erano terminati, ed erano riprese le danze. Mentre entrava ai margini della sala a ferro di cavallo, alzò lo sguardo sulla vastità dell'interno del teatro e si rese conto che la ricerca non sarebbe stata impresa da poco. Faceva caldo. Gli uomini e le donne che ballavano erano tutti accaldati quanto entusiasti, e le luci sembravano circondate da un alone di foschia rosata. Si fece largo fra la gente ai bordi della pista da ballo, ignorando chi danzava ma studiando con attenzione i volti di chi guardava le danze. I due impiegati del teatro lo seguivano a ruota, in attesa di istruzioni. Dopo aver scrutato gli spettatori del ballo, alzò lo sguardo sulla prima galleria. L'allestimento della temporanea pista da ballo aveva alzato il livello del pianterreno del teatro, sicché i palchi del proscenio erano all'altezza di Sebastian e il margine inferiore della prima galleria si trovava appena sopra. Una maschera stava facendo dei segnali per richiamare l'attenzione. Altre maschere in punti diversi del teatro avevano visto il collega e si stavano spostando per raggiungerlo. L'uomo indicò l'estremità opposta della prima galleria dove uno dei palchi era chiuso dalla tenda. Era l'unico. Sebastian si rivolse all'uomo dietro di lui. «I palchi devono restare chiusi così?»
«Di solito, no» rispose l'uomo. Fu un bene che avesse con sé le sue due guide, altrimenti si sarebbe perduto nel giro di un minuto. Lo condussero alle scale e allo stretto corridoio che correva dietro i palchi. Il corridoio seguiva il profilo curvo della prima galleria. Sul posto c'erano già tre maschere, ma il direttore del teatro doveva ancora arrivare. La parete posteriore dei palchi era poco robusta, e ancora di più lo erano le porte numerate che ospitava. Raggiunsero tutti la porta desiderata e a quel punto Sebastian l'aprì con un calcio. Non era serrata e volò contro la parete, da cui rimbalzò con uno schianto simile a uno sparo. Dal corridoio filtrava una luce fioca, che illuminava qualche sedia in disordine e un vecchio abito gettato a terra. Da sotto l'abito spuntava un braccio. Sebastian si abbassò su un ginocchio e scostò il frac. Era stato steso sul corpo nudo sul pavimento, a mo' di lenzuolo. «Sayers!» Sayers era supino, il corpo pallido, il viso scuro. A lato del petto nudo era tatuato un cuore cui era intrecciata la parola Louse. E c'erano anche altri dettagli sorprendenti, ma per il momento Sebastian non li notò. Per il momento, tutto ciò che riuscì a rilevare fu una corda di seta guarnita di nappe, legata due volte attorno al collo di Tom Sayers e stretta con forza. Quarantasette All'angolo di Tulane Avenue con Johnson Street, sorgeva l'Hotel Dieu. Come si doveva spesso spiegare ai turisti, non si trattava affatto di un hotel, ma di un ospedale privato gestito dalle dame di carità. Avviato con cinque pazienti soltanto e cresciuto sino a occupare quasi un'intera piazza cittadina, era stata l'unica istituzione nel suo genere a mantenersi operativa per tutta la guerra civile. Dopo averlo gestito ancora per qualche anno come ospedale per i marinai, le dame avevano deciso di espanderlo ulteriormente e avevano sopraelevato l'edificio sollevandolo con dei martinetti, con i pazienti ancora dentro. L'ospedale serviva sia i turisti sia i cittadini senzatetto. Per chi poteva permettersi di pagare, le tariffe raggiungevano anche i cinque dollari al giorno, che comprendevano però pasti, medicine e costo della terapia.
Uno dei medici più illustri della città era presente al ballo del centenario ed era stato chiamato in soccorso dell'uomo ferito. Frattanto, Sebastian aveva tolto la corda dal collo di Sayers, ma non era riuscito a sentire alcuna pulsazione. Il medico aveva prestato servizio nella guerra ispano-americana, come chirurgo dell'esercito. Una volta aveva salvato un uomo dopo un'impiccagione sommaria. Esaminò la trachea di Sayers in cerca di eventuali lesioni da schiacciamento e lo fece alzare. Il colorito di Sayers cominciò subito a migliorare. Il medico determinò la presenza di una pulsazione, benché debole. La pressione sulle vene giugulari gli aveva fatto salire il sangue al cervello, provocando una rapida perdita dei sensi e quindi una lenta riduzione della respirazione. Ancora qualche minuto e ci sarebbe stata l'asfissia fatale. Il danno poteva già essere troppo grave. Mandarono a chiamare un'ambulanza a cavallo. Sayers fu trasferito all'Hotel Dieu e il medico tornò al ballo al teatro dell'opera. Sebastian seguì l'ambulanza all'ospedale e restò per qualche tempo in attesa, ma era tardi e le dame di carità dissero chiaro e tondo che non lo volevano intorno. Aveva frugato nelle tasche di Sayers e sapeva dove alloggiava. Raggiunse la stanza ammobiliata e trascorse un'ora a passare al setaccio abiti e bagagli. Non trovò nulla che gli desse qualche indicazione. E, come ovvio, non rimaneva nulla del suo denaro. Ma almeno adesso aveva un posto dove passare quel che restava della notte. Il mattino successivo Sebastian cominciò le sue indagini. Nel pomeriggio tornò all'ospedale, saltando su un filobus che vide fermarsi a Canal Street. La carrozza era affollata e fu costretto a stare accanto a un uomo con un sudicio completo color vaniglia, che lo urtava ogni volta che la vettura ripartiva. Ogni volta chiedeva scusa a Sebastian, e ogni volta che la vettura si rimetteva in moto gli finiva di nuovo addosso. Mentre Sebastian saliva le scale che conducevano al reparto maschile dell'ospedale, incrociò due uomini che scendevano. Uno aveva la pistola nella cintura, e assieme al compagno sembrava diretto da qualche altra parte. Parlavano di corse di cavalli. Sayers era in un letto all'estremità del reparto. Era alzato a sedere e appoggiato ai cuscini, e sembrava stremato da uno scontro immane da cui era sì scampato, ma che lo aveva lasciato quasi senza vita. Non si mostrò sor-
preso quando vide avvicinarsi Sebastian. Un'infermiera gli illustrò le sue condizioni. Poteva bere, ma non mangiare. Gli erano stati somministrati dei farmaci per ridurre la pressione sanguigna e gli era stato proibito di alzare la voce oltre un sussurro. Non appena l'infermiera fu fuori portata d'orecchio, Sebastian disse: «Ho visto due uomini andarsene. Sembravano detective. Sono stati qui? Hanno parlato con te?». Sayers annuì. Sebastian prese una sedia vuota dal letto vicino e si sedette. «Che cosa sei riuscito a dirgli?» Sayers scosse la testa, e alzò la mano per fare un gesto risoluto. Niente. «Quella ha cercato di strangolarti e poi ti ha lasciato lì a morire» esclamò Sebastian. «Non proteggerla. Ormai si è spinta oltre la tua protezione. Mi rendo conto che c'è in ballo più di quanto io possa mai sapere. Ma non puoi più tirarla per le lunghe.» Sayers abbassò lo sguardo. «Ieri sera al teatro dell'opera,» riprese Sebastian «quando ti abbiamo fatto sedere, ho visto quelle vecchie cicatrici che continui a coprire. E ne ho viste anche di nuove, a malapena guarite. È stato qualcuno a fartele? O ho motivo di credere che te le sia procurate da solo?» Savers non alzò gli occhi. «E nella stanza,» continuò Sebastian «ho guardato nella tua borsa. Scusami, ma sembrava che non te la saresti cavata. Ho trovato i rasoi.» Sayers non si mosse. «Tom» esclamò Sebastian. «Questi sono affari tuoi. Posso capire che è un territorio oscuro. Non fingerò di capire neanche la metà di quello che ho visto. Ma non cercherò neanche di giudicarti. La tua strada è stata dura. Non riesco neanche a immaginare cosa dev'esserci voluto per sostenerti nel tuo cammino. Ma io dico che ogni strada deve arrivare alla sua fine.» In quel momento Sayers alzò la testa e cominciò a fissarlo. Aveva gli occhi di un uomo che si era affacciato nelle tenebre e vi aveva visto un posto per sé. «Stamani ha lasciato il St. Charles» continuò Sebastian. «Ma so dov'è diretta. Ha in mente di riacquistare il mobilio della casa padronale dei Patenotre.» Sebastian si alzò e abbassò lo sguardo su Sayers. «Tu hai avuto la tua possibilità con lei» esclamò. «Adesso è mia.»
Quarantotto In quel vecchio quartiere della città le case erano state costruite sopra i negozi a livello stradale. Molti negozi erano stati chiusi con le assi, e persino gli appartamenti occupati parevano vuoti. Il negozio di mobili fu facile da individuare per via delle sedie a dondolo sulla banchina esterna e le sagome polverose alle vetrine. Aveva le porte spalancate sulla strada, come quelle di un saloon. Louise scese dalla carrozza a nolo. «Puoi lasciarmi qui» disse al Taciturno. «Torna all'hotel a prendere il resto dei bagagli, e vieni a prendermi quando avete caricato tutto. A quel punto dovrei aver chiuso la faccenda.» L'uomo non aveva ancora imparato a far voltare cavallo e carrozza per strada usando solo le redini, perciò scese e prese il cavallo per farlo girare. Era un grigio pezzato, e sembrava non apprezzare il Taciturno. Quanto a lui, il sentimento era reciproco. Alcuni suoi conoscenti di New Orleans le avevano suggerito che, se progettava di sistemarsi in città, poteva liberarsi del Taciturno e della moglie e assumere dei servitori di colore più capaci e meno costosi. Quanto poco capivano. Non aveva idea di come Edmund Whitlock fosse entrato in contatto con quei due, o quando. Né sapeva che cosa li legasse a lei, o perché. Una volta aveva cercato di sollevare l'argomento con il Taciturno. Sapeva che lui parlava bene inglese e che lo capiva altrettanto bene. E così la moglie. Ma quando aveva cercato di interrogarlo, la sua comprensione della lingua si era fatta misteriosamente meno sicura. Varcò la soglia del negozio e si trovò in un lungo e profondo stanzone. Al centro vide una stretta corsia, in mezzo a torri di scrittoi e tavoli accatastati. Dal soffitto, a intervalli di qualche metro, pendevano dei lampadari di stile sempre diverso, alcuni avvolti in un sacco. A metà strada campeggiava un ufficio a vetri e, a fianco, una scala aperta che si snodava verso il piano superiore. Era un ufficio del tutto spartano: una scrivania, dei registri, delle fatture su un infilzacarte e un orologio a parete che, con ogni probabilità, proveniva da una stazione ferroviaria. Non c'era nessuno, ma sulla scrivania c'era un campanello d'ottone che lei suonò. Quella mattina aveva pagato il conto dell'albergo. Pagava sempre quando aveva denaro, e se la svignava solo quando era necessario. Se le face-
vano credito, soggiornava nei posti migliori, altrimenti, si accampava in quelli peggiori, premurandosi di non farlo sapere a nessuno. Negli ambienti in cui si muoveva, l'apparenza era tutto. Stava per rientrare nell'ufficio a suonare di nuovo il campanello quando udì dei passi provenienti dal piano superiore. Qualche istante più tardi, dalla scala scese un uomo corpulento dai capelli rossi, intento a infilarsi una giacca su un lungo grembiule marrone indossato sopra panciotto e cravatta. A quanto pareva, nella fretta di rendersi presentabile, si era dimenticato del grembiule. «Sono la signorina d'Alroy» disse Louise. «Sono qui per il mobilio dei Patenotre.» «Perdonatemi, ma non ero pronto a ricevervi» ribatté il direttore del negozio. Era un uomo sui quarant'anni, di chiare origini irlandesi, con degli occhi azzurri più chiari di quelli dei border collie. Aveva uno sguardo inquietante, ma modi abbastanza cortesi. «Non avevate specificato una data...» disse. «Mi conveniva anticipare i miei progetti» lo interruppe lei. «Posso vedere che cosa resta invenduto?» «Certo. Scusatemi» ribatté l'uomo e, volgendole le spalle, s'infilò le dita in bocca per fare un fischio assordante verso il fondo del negozio. Lo accompagnò con un altrettanto lacerante: «Henry! Vieni un po' giù!». Tornando a guardarla come se niente fosse, continuò: «Ve lo mostrerà Henry. Alcuni dei pezzi più belli sono stati venduti subito, ma credo che troverete ancora quasi tutto. Oggigiorno non sono in molti a voler riaprire le case grandi. Quasi tutte le vecchie famiglie le vendono e le chiudono. Se avete bisogno di qualcos'altro, guardatevi intorno. Probabilmente lo troverete. Venite da me in ufficio quando avete terminato». Henry era un uomo di colore dai capelli grigi e dall'età indefinita e indossava un grembiule marrone simile a quello del capo. La condusse in fondo al negozio dove, girando e rigirando, si trovò di fronte delle stanze inattese e ulteriori antichità, tesori, o semplicemente della vecchia robaccia appartenuta a centinaia di famiglie decadute, di vario ceto sociale e ricchezza. Attraverso un cortile si accedeva a un altro edificio, più vecchio, ancora meno illuminato e più stipato di mobili. Ma la sala in cui si trovarono era molto più luminosa delle altre e così spaziosa che, ai suoi tempi, doveva essere stata sede di pubbliche adunanze. Tutt'attorno alla stanza correva anche una galleria superiore che ospitava tre file di poltrone. Le poltrone non c'erano più e, a quanto pareva, tutti i
pezzi rotti delle altre sale erano stati scaricati lì. In basso, al pianterreno, tutti i mobili più grandi erano stati accatastati. «Quali sono?» domandò Louise. «Tutti quelli con il biglietto verde» le rispose Henry, facendosi da parte mentre lei osservava più attentamente il bottino invenduto dei Patenotre. Le merci con il biglietto verde occupavano più di una corsia. Alcuni pezzi più costosi e fragili erano stati avvolti nella tela da sacco prima dello stoccaggio. C'erano dei lunghi tappeti, arrotolati e legati con una cordicella. Casse da tè colme di porcellane protette da trucioli di legno e vecchie pagine accartocciate del «Daily Picayune». Letti a baldacchino smontati nelle loro varie componenti di legno. Specchi, dipinti e persino ritratti di famiglia, un posto nella storia preconfezionato, senza nessun sopravvissuto a reclamarlo. Di colpo capì quale posto le ricordava. Il deposito del Theatre Royal di Bilston, il cimitero degli attrezzi di scena delle compagnie fallite dove Edmund Whitlock aveva scelto i fondali per Il diamante purpureo a prezzi vantaggiosi. Volse lo sguardo a Henry. «Se io prendessi tutto, potreste consegnarlo a casa mia?» Henry cambiò posizione, senza rispondere nulla ma dandole in qualche modo l'impressione che dicesse di sì, che potevano. A quel punto non c'era più molto da fare, se non tornare dal proprietario per fissare un prezzo. Dalle ricevute sapeva quanto aveva pagato il proprietario per tutto il mobilio, e sapeva che, con ogni probabilità, avrebbe dovuto guadagnarci. Forse sarebbe partito da una cifra vergognosamente alta. Ma con gli affari stagnanti, lei si aspettava che non la spennassero. Non aveva osato sperarlo, ma tutto si stava sistemando al meglio. Con una casa arredata dignitosamente, avrebbe potuto rintanarsi su River Road e guardare al futuro come non aveva mai fatto prima. Una vita da nomade fatta di fughe continue e camere in affitto si poteva tollerare per qualche tempo, ma lei cominciava a stancarsene sempre più. Una giovane donna priva di legami e con tutto il tempo per divertirsi avrebbe potuto non pensare al futuro. Ma lei non si riteneva più una giovane donna. Voleva credere che Tom Sayers avesse ragione. Che davvero non esistessero Erranti, ma solo esseri che credevano nella propria dannazione, viva solo nella loro mente, e che cercavano la maniera di definirsi mentre il mondo cambiava attorno a loro. Se tutto ciò era vero, allora lei avrebbe potuto staccarsi da loro. Se non
era troppo tardi. Vide Henry raddrizzarsi, come se avesse appena visto qualcuno avvicinarsi. Prima che lei potesse guardarsi in giro, una voce alle sue spalle disse: «Signorina Porter». Non si voltò subito. Esitò sulle prime, quindi si voltò lentamente, come se il nome non significasse nulla per lei. All'estremità opposta della corsia sostava un uomo. Aveva un completo marrone e le spalle larghe; le mani leggermente discoste dai fianchi gli conferivano un'aria tesa e di sfida. Non le pareva di conoscerlo. Era sulla quarantina, bruno e cominciava a ingrigirsi. «Mi dispiace» gli disse. «Credo che mi scambiate per un'altra.» «Ci siamo già incontrati. Tramite Tom Sayers.» «Tom chi?» domandò lei. «Non lo conosco.» «Allora chi avete incontrato al teatro dell'opera ieri sera?» «Davvero non so di chi stiate parlando» esclamò lei, volgendogli la schiena. Girò intorno alla corsia successiva. Lui attraversò una fila e ricomparve all'estremità opposta. «È sopravvissuto alle vostre attenzioni» disse l'uomo. «In caso siate interessata.» «Perché?» domandò lei. «Che cosa gli è accaduto?» Adesso la stava facendo preoccupare. Sayers aveva nominato un uomo della Pinkerton. Il Taciturno aveva parlato di uno sconosciuto che mostrava interesse. Poteva essere lui? «Avete avuto troppa fretta di lasciarlo» le disse quell'uomo. «L'ho raggiunto in tempo. La corda stava cominciando a soffocarlo.» Lei si fermò a guardarlo. Fisso. Non riusciva a ricordare se l'avesse già visto oppure no. Provò per l'ultima volta a fare la gnorri. «Ve l'ho detto, mi scambiate per un'altra. Io mi chiamo Mary d'Alroy.» «Sayers potrà anche essere sopravvissuto. Ma altri non l'hanno fatto. Perché non facilitate le cose a tutti e due?» Era un accento inglese? O era del New England? Era lì da così tanto tempo da non riuscire più a determinarlo con certezza. «Non conosco nessun Tom Sayers» gli rispose. «E non conosco voi. Mi chiamo Mary d'Alroy. Sono qui per arredare la mia casa. Adesso andatevene.» Tornò a incamminarsi verso l'ufficio. Lo sconosciuto la seguiva. Cominciava a perdere la calma e a sentirsi braccata. Lei era forte, e a-
vrebbe potuto sorprenderlo nel caso cercasse di trattenerla. Ma avrebbe voluto che ci fossero il Taciturno o la moglie. Di norma, trovava oppressiva la loro stretta sorveglianza e approfittava di ogni occasione per restare sola. Chi avrebbe potuto aspettarsi dei guai in un negozio di mobili? Il piccolo ufficio era vuoto. Premette il campanello di servizio con un gesto così brusco che lo incastrò. Tornò a premerlo e restò con le mani aggrappate alla scrivania, gli occhi bassi. Lui le comparve di nuovo alle spalle; non aveva intenzione di cedere. «Avete in mente di sistemarvi?» le domandò. «Sapete di non poterlo fare. Non siete forse l'Errante? Non potete fermarvi mai.» Adesso basta. Aveva superato il limite. Ruotò su se stessa e lo guardò con aria infuriata. Lui era avanzato alle sue spalle, ma lei lo fece arrestare sui suoi passi. Sul volto dell'uomo si disegnò un'espressione sbigottita, e abbassò gli occhi. Un istante più tardi, lei ne seguì lo sguardo. Per qualche motivo, la base dell'infilzacarte del bancone gli si era conficcata al centro del petto, sopra lo stomaco. Alzò lo sguardo su di lei, e tornò ad abbassarlo. Louise si rese conto di essere stata lei a conficcarglielo. La rapidità e la drammaticità della sua reazione avevano sorpreso persino lei. «Ecco...» disse lui, esitante e senza convinzione. «Vedete cos'avete fatto?» Ancora incredulo, prese la base di legno e se la estrasse dal petto. L'infilzacarte parve uscire facilmente e senza dolore, così come era entrato. Alcune fatture macchiate di sangue caddero a terra, sparpagliandosi. La guardò negli occhi. Lei non sapeva cosa dire. Non aveva progettato di commettere quel gesto. Ma non si poteva negare che l'avesse commesso. «Mi dispiace» gli disse. Lui vacillò e cadde. Al piano di sopra, qualcuno stava camminando. Il proprietario sarebbe arrivato da un momento all'altro, aspettandosi di chiudere l'affare. In basso, di fronte a lei, lo sconosciuto si stava raggomitolando, come per proteggere dall'aria la ferita al petto. Stava alzando le ginocchia, curvando le spalle. Il sangue si spargeva sotto di lui. Quando diede un colpo di tosse, la pozza raddoppiò di dimensioni. Era inutile che lei restasse. L'infilzacarte aveva perforato qualche organo
vitale e l'uomo era spacciato. Avrebbe potuto pentirsene, ma al momento non c'era nulla che poteva fare per lui. L'uomo della Pinkerton. O chiunque potesse essere. Il mobilio nel negozio, la casa dei Patenotre su River Road, il focolare e il futuro su cui aveva messo gli occhi... Ormai per lei era tutto perduto. Non provava quasi alcuna delusione. Come se sapesse da sempre che tutto quello non sarebbe mai stato possibile e che sarebbe stato solo temporaneo. Se non fosse stato quello, sarebbe stato qualcos'altro. Magari prima, magari poi. Ma di sicuro sarebbe arrivato. Si guardò intorno in cerca dell'uomo di nome Henry. Aveva visto l'accaduto? Era corso a dirlo a qualcuno? Poco importava se l'aveva fatto. A lei non restava che abbandonare i propri sogni e andarsene. Qualcuno stava scendendo le scale. Prima che arrivasse, fu costretta a scavalcare l'uomo steso a terra per uscire dall'ufficio. Era vero quel che dicevano, stava pensando Sebastian. La mente resta chiara, e tutto il resto diventa freddo. Ma come facevano a saperlo? Non c'era dolore. Il ghiaccio diventava cenere. Si accorse vagamente che la donna se ne era andata, che qualcun altro era arrivato, e poi altri ancora. Ma solo vagamente. Qualcuno si protese sopra di lui e gli gridò qualcosa, ma lui non vi prestò attenzione. La sua attenzione era un bene sempre più prezioso, e lui non voleva sprecarla. Si sentì spinto in avanti e poi indietro. Qualcuno gli stava frugando nelle tasche. Parvero trovare ciò che stavano cercando, perché a quel punto tutti cominciarono a gridare un nome. Poteva essere stato il suo. Difficile esserne certi. Non stava ascoltando. L'attenzione gli serviva per le cose importanti. Per le cose che doveva portare con sé. La moglie che non aveva mai pensato di meritare. La vita che avevano costruito insieme. La danza dei granelli di polvere alla luce del sole della loro camera da letto la domenica mattina d'estate. L'odore dei libri. Il sapore dell'acqua fredda. Si era spesso domandato come sarebbe stato quel momento. Non avrebbe dovuto preoccuparsi. Le ultime priorità pensavano da sole a se stesse. Steso sul pavimento dell'ufficio, con la gente che gridava sopra di lui e la luce che piano piano svaniva, Sebastian Becker ricordò quel raro sguardo di soggezione negli occhi del figlio, quando aveva stretto la mano che, una volta, aveva stretto quella di Buffalo Bill.
Quarantanove Tom Sayers seppe dell'accaduto da un'infermiera che cercava dei volontari per donare sangue per una trasfusione, ma all'inizio non si rese conto che Sebastian Becker era il caso d'emergenza in questione. Solo quando un raffronto incrociato aveva confermato la sua idoneità e l'avevano trasportato in barella per sottoporlo al prelievo, aveva scoperto l'identità del destinatario. Lui non era l'unico donatore. In fila c'erano altri cinque volontari, tutti abili, non infetti e necessari a far superare l'operazione a Becker. Dopodiché lui riferì al personale medico tutto ciò che sapeva del loro paziente. Il che era poco, a parte l'indirizzo di casa di Sebastian e il nome della moglie, ma sufficiente a poter spedire un telegramma. Dovette trattenersi in ospedale. Becker restava in pericolo di vita, e c'era possibilità che lui fosse riconvocato. Il sangue non poteva essere prelevato e stoccato, ma richiedeva una trasfusione diretta. Quando cercò di alzarsi dopo il secondo prelievo, per poco non svenne. Lo misero su una sedia a rotelle e lo riportarono al suo letto, dove dormì per quindici ore di fila. Una delle dame di carità lo avvertì dell'arrivo di Elisabeth Becker. Era venuta sin da Filadelfia da sola, un viaggio epico che comportava più di due giorni di tragitto massacrante. Dopo ciò che lui aveva fatto alla loro famiglia, Sayers non osava affrontarla. Oh Dio... se Becker fosse morto adesso, lei sarebbe tornata a casa portando con sé un marito cadavere. Una volta un ragazzo che lavorava con loro era rimasto ucciso per strada, la testa mozzata da un cavo sospeso, e la mamma, vedova, era venuta al tendone per riportarsi via il corpo. Tutti avevano seguito il carro funebre sino alla stazione, e lui ricordava ancora la visione del carro bagagli con la bara a bordo. Era di ebano nero con le maniglie d'argento, sollevata dal bancale su due solidi trespoli e fissata con le funi per non farla scivolare. Accanto c'era una sedia vuota. Se quello fosse stato il suo dono ai Becker, dopo tutti gli altri danni perpetrati dalla sua cieca ossessione... allora che il Signore se lo prendesse subito, perché in terra non aveva fatto altro che male. In ogni caso, non dovette disturbarsi ad andare a cercare Elisabeth Becker. Fu lei a trovare lui. Si stava vestendo per andarsene, ma lo sforzo lo stava stremando. Alzò lo sguardo, e lei era lì. «Come sta?» le domandò. Stava guarendo, ma la voce non era ancora la sua.
«Risparmiatemi la vostra preoccupazione.» «Mi rincresce moltissimo.» «Il vostro rincrescimento non significa nulla per me, signore» disse. «Avevo una casa, un uomo perbene e una famiglia con un futuro. E adesso ho questo.» «È tutta colpa mia» disse Sayers. «E che possiate non essere mai perdonato per questo» ribatté lei, voltandogli la schiena. Cinquanta Dopo aver lasciato l'ospedale, Sayers s'incamminò per River Road. Prese un tram sino al capolinea e da lì si avviò per la campagna. Pur chiedendo un passaggio a un carro, impiegò quasi tutta la giornata per raggiungere la piantagione Patenotre. L'erba sul lungo viale era schiacciata, e in alcuni punti era stata sradicata lasciando intravedere la terra. Avvicinandosi alla casa, vide che il cancello era aperto. Quando lo varcò e si fermò di fronte all'ingresso, abbassò lo sguardo e notò di essere seguito da un cane. L'animale gli andò dietro mentre girava intorno alla casa in cerca di un ingresso. Quando salì le scale esterne sino alla galleria superiore, scoprì che qualcuno aveva dimenticato di chiudere a chiave una delle porte. Il cane lo seguì, poi partì in esplorazione da solo. Sentiva il rumore delle sue unghie sul parquet mentre trotterellava in giro per casa; di tanto in tanto lo incrociava in un corridoio o sul ballatoio. Il giro della casa fornì poche indicazioni. Era vecchia e senza vita. Scese lo scalone principale sotto la cupola di vetro, e non percepì altre presenze se non la sua e quella del cane. Quando giunse il momento di andarsene, il cane si mise in attesa alla porta. Lasciò la casa dall'ingresso principale, e s'incamminò sui terreni retrostanti. Lì, accanto a una fila di baracche, incontrò un giovane nero di circa vent'anni. Indossava abiti comodi da bracciante, e teneva un cavallo per le briglie. Il giovane si fermò a guardarlo finché non fu a distanza di voce. «Qui non c'è nessuno» disse il giovane. «Be', ci sei tu...» «Ma voi non state cercando me.»
«E chi sto cercando?» «Forse la donna che sono venuti a cercare gli uomini dello sceriffo? Neanche loro l'hanno trovata.» S'incamminarono insieme lungo il sentiero. «Perché ti sei fatto quest'idea?» gli domandò Sayers. «Perché qui non c'è nessuno da cercare.» Sayers guardò il cavallo. Era un grigio pezzato. «È tuo?» gli domandò. «Perché?» ribatté il giovane. «La donna che sto cercando ha noleggiato una carrozza e un cavallo come quello. Da allora nessuno li ha più visti.» «Non saprei» esclamò il giovane. «Questo è mio.» «Hai i documenti per dimostrarlo?» «I cavalli non leggono» disse il giovane. «Continuate pure a cercare. Ma non sprecate tempo qui. Cercate lungo il fiume.» Sayers lo guardò in tralice. «Sì?» «Sì. Dietro l'ansa successiva. A cinque o sei miglia. Cercate una chiesa gialla. Io farei così.» «Grazie» disse Sayers. Gli restavano una o due ore di luce. Piegò verso l'esterno della tenuta su River Road, tenendosi lontano dalla strada e continuando per sentieri e stradine sterrate. Poco dopo aver lasciato la proprietà dei Patenotre, trovò in un viottolo i resti di un carro bruciato. Fra le ceneri restava solo il telaio di ferro. Ma era stato incendiato di recente; c'era ancora odore di bruciato, e ci sarebbe voluta la pioggia per lavarlo via. Si aspettava di perdere la compagnia del randagio una volta superati i confini del suo territorio, invece il cane restò con lui. Si teneva a breve distanza nel caso avesse dovuto voltarsi di colpo e correre via, ma per il resto sembrava lieto di aggregarsi. Quasi tutte le case della zona erano bruciate proprio come il carro, oppure erano state abbattute o avevano perduto il tetto. Di tanto in tanto se ne vedeva una abitata ancora da una famiglia, ma parevano sopravvissuti accampati sulle rovine di una civiltà più antica. Le case mostravano tutti i segni dell'abbandono; spuntavano le assi e c'era un viavai di capre e polli. La terra che attraversava era ancora lavorata, ma le grandi proprietà erano state divise in poderi più piccoli. Dove una volta sorgevano ricchezze, adesso non si andava oltre la sussistenza. Mentre faceva buio, si sistemò per la notte nel rudere abbandonato della
casa di un custode. Accese una fiamma nel focolare vuoto, quindi estrasse le provviste che aveva portato con sé. Per un po' non vide il cane, ma poi questi tornò portando un animale morto. Si accucciò a sbranarlo mentre lui mangiava. Ormai era troppo buio per vedere che cos'avesse preso. Il cane aveva i conati di vomito per le ossa e i nervi del suo pasto; li espelleva tossendo per poi riprendere a masticarli, e infine ci si strozzava di nuovo. Tutto quel lavoro non sembrava infastidirlo. Dopodiché Sayers si avvolse nella coperta su cui era seduto e cercò di dormire, con lo zaino come cuscino. Il sonno fu uno strano viaggio. Gli parve di ruzzolare da una qualche sporgenza e precipitare in profondi crepacci di insensibilità, per poi essere risollevato da una forza che si alzava. Era arrivato così vicino a svegliarsi che, per un istante, ritrovò i sensi; ma non la facoltà di muoversi. In uno di quei brevi episodi, si accorse che il randagio era seduto sulla soglia della casa in rovina, lo sguardo alzato alla luna piena. Il cane volse il capo per guardarlo, e lui tornò a precipitare negli abissi. Cinquantuno Quando Sebastian Becker si svegliò nel letto d'ospedale per la seconda volta nella giornata, si trovò di fronte lo stesso viso che aveva lasciato in sogno. Veglia e sonno, vita e morte; in quel momento i due stati parvero confondersi e diventare uno solo. «Salve» disse Elisabeth. «Salve a te» cercò di rispondere lui, riuscendovi solo in parte. Lei tese le mani e gli lisciò qualche ciocca di capelli appiccicata alla fronte dal sudore. Lui richiuse gli occhi per un istante, per assaporare di più il suo tocco. «Come ti senti?» gli domandò. «Molto bene» rispose, aprendo gli occhi. Questa volta emise più o meno il suono che voleva, e la frase era comprensibile. «È la morfina» disse lei, azzardando un sorriso con gli occhi lucidi. «Non abituartici troppo.» Assunse un improvviso tono di protesta quando lui cercò di flettere le spalle e alzare la schiena dal letto. La fasciatura era troppo stretta. Gli pareva troppo stretto anche il torace, e aveva la sensazione di aver incassato un pugno di una forza incredibile nello stomaco.
Ma grazie alla morfina, non sentiva dolore. Quando gli avrebbero sospeso l'oppiaceo, avrebbe avuto ben altre sensazioni. Ma fino ad allora... Si adagiò sul materasso. Per quanto il movimento fosse stato lieve, lo sforzo l'aveva stremato. Prese fiato e disse: «Ho avuto la possibilità di ottenere la taglia, Elisabeth. Era dritta davanti a me e l'ho mancata. Mi è sfuggita. Ho deluso tutti». «Sebastian,» ribatté lei in tono di avvertimento «non dirlo. Non voglio ascoltare.» «Ma abbiamo perduto tutto.» «Hai conservato il tuo nome. Hai ancora la tua reputazione. E, per Dio, anche se sei arrivato a un soffio dal perderla, hai ancora la vita. Tuo figlio ha un padre e io un marito. Che cosa può reggere il confronto? Tutto il resto, possiamo ricostruirlo.» «Non so come.» «Non preoccuparti di come. Siamo gli stessi di allora. Quello che ci è riuscito una volta, possiamo di nuovo ottenerlo. Lascia che sia Sayers a inseguire quella creatura tormentata, se proprio deve, e lascia che sia Sayers a pagare le conseguenze della sua caccia. Adesso non fanno più parte della nostra vita.» Una delle dame di carità giunse a controllare le fasciature di Sebastian, ed Elisabeth si allontanò per qualche minuto. Quando tornò, lo studiò con una certa preoccupazione e disse: «Ti stanca la mia presenza, Sebastian? Devo andarmene? Non devi preoccuparti. Non sarò lontana». Lui scosse la testa e le prese la mano. Elisabeth tornò a sedersi accanto a lui e continuò: «Ho parlato con il signor Bearce. È un uomo molto gentile». Un istante di pausa, e aggiunse: «Devi sforzarti di non ridere, Sebastian. Potresti farti qualche danno». «Scusami» ribatté lui. «Non appena guarirai,» riprese lei «troveremo una casa meno costosa dove abitare. Zitto» aggiunse, prima che lui potesse obiettare. «Il signor Bearce ti terrà il posto. Me l'ha promesso. E magari anch'io potrei trovare un impiego.» «Un impiego? Tu?» «Sono sicura di saper fare qualsiasi cosa per guadagnarmi da vivere.» «Forse Sousa ha bisogno di un'eufonista.» «Io stavo pensando a un lavoro da commessa ai grandi magazzini Gim-
bel» ribatté lei. «Ho avuto spesso a che fare con quelle donne. Ho visto che cosa fanno. Sì, signora, no, signora. Non sarà poi tanto difficile, no?» «Prima di tutto,» disse lui «dobbiamo ripagare Frances.» «Frances comprende. Non ha rimpianti.» Cercò di stringere la mano che le teneva, usando la poca forza che riuscì a radunare. «Quanto sono fortunato» disse. Lei ricambiò la stretta con forza sufficiente per entrambi. «Quanto siamo fortunati tutti e due» ribatté. Cinquantadue In mezzo a un canneto sorgeva una vecchia chiesa di legno. Era stata tinta di giallo, e da lontano sembrava intatta. Solo quando Sayers si fece più vicino capì lo stato reale dell'edificio. Del tetto era rimasta solo l'intelaiatura, e le arcate vuote delle finestre ricordavano un teschio. Non vi pregava nessuno da tempo. Ma qualcuno vi si era trasferito. Vide il Taciturno e, nello stesso istante, il Taciturno vide lui. Sayers stava attraversando il campo verso la chiesa, in aperta campagna. Il Taciturno stava pompando l'acqua e s'interruppe, posò la mano sul manico della pompa, osservando Sayers avvicinarsi sempre più. Di lì a poco, sua moglie, la cosiddetta Muta, uscì e si fermò sulla veranda. Tutti e due continuarono a fissarlo, e nessuno dei due si mosse mentre si avvicinava. Sayers si era così abituato alla presenza del cane randagio che adesso avvertiva che non era più con lui. Si era spostato a un centinaio di metri dall'edificio, in un punto dove, per ora, sembrava felice e contento. Mentre Sayers si avvicinava, il Taciturno tolse la mano dalla pompa e si raddrizzò. «Lei è dentro?» domandò Sayers al Taciturno, ma lui continuò a fissarlo. Notò che l'uomo non si sbarbava da giorni e che aveva gli abiti logori. Sua moglie, ancora presso la chiesa, non aveva un aspetto migliore. Una volta era flessuosa, ora era ingrassata. Di tutti, era quella più cambiata nel corso degli anni. «Dov'è?» esclamò Sayers, e l'uomo rivolse lo sguardo all'edificio. Parve guardare la moglie in cerca di istruzioni. Sayers la vide rispondere con un movimento quasi impercettibile. Se non era una scrollata di spalle, il significato era più o meno lo stesso. Mentre copriva gli ultimi metri per raggiungere la chiesa, Sayers non in-
contrò alcun ostacolo, ma si accorse che il Taciturno aveva abbandonato la pompa dell'acqua e lo stava seguendo. La Muta si fece da parte mentre lui entrava nell'edificio. Ricordava gli occhi della donna. Quelli non erano cambiati. Scuri e intensi, erano fissi su di lui. Non era una di quelle semplici chiese con una sola navata. Ai suoi tempi, doveva essere stata straordinaria. Era un gioiello, con una balconata, corrimani e pannelli di legno minuziosamente decorati. Una volta aveva ospitato un autentico organo a canne, ma era stato portato via. Mancavano alcune panche e, a quanto pareva, per qualche tempo vi avevano tenuto degli animali che, con i loro escrementi, avevano insozzato il pavimento. Sayers salì una scala fino alla cantoria e, in una stanza retrostante, trovò Louise. Una delle vecchie panche era finita sin lassù e lei ci si era seduta sopra, a gambe divaricate. Aveva l'aria malata e gli occhi scavati. Sul pavimento di fronte a lei c'era un catino pieno d'acqua. Aveva i capelli raccolti e la camicetta più o meno bianca. La gonna era ordinaria e gli stivaletti impolverati. Si stava sciacquando la faccia e non aveva niente per asciugarsi le mani. Si deterse il viso sulla manica. Non parve sorpresa di vederlo. «Tom» disse. «Sei aggiornata con le notizie?» «Mi stanno cercando» ribatté lei. «Lo so.» Il Taciturno e la Muta arrivarono alle sue spalle e fiancheggiarono Louise. Louise abbassò lo sguardo, del tutto scoraggiata. «Ci hai provato, Tom» esclamò. «E per un istante sei quasi riuscito a farmelo credere. Ma poi ho dovuto distruggere tutto. Questa volta non ho scuse.» «Non so che cosa ti abbiano detto questi due,» ribatté Sayers «ma Sebastian Becker non è morto.» Louise alzò la testa. Il Taciturno era alla sua sinistra. Sayers estrasse il revolver Bulldog dalla giacca e gli sparò un colpo al petto. Ruotò su se stesso per mirare sulla Muta e tornò a fare fuoco. Questa volta alzò il tiro e sulla parete schizzarono sangue e cervella. La donna stava già cominciando ad afflosciarsi prima ancora che il marito toccasse terra. Louise era pietrificata, al centro, le mani a mezz'aria, gli occhi che si
spostavano a destra e a sinistra quasi avesse il terrore di muovere la testa. Il Taciturno si stava contorcendo ed emise un gemito sgradevole. Sayers lo raggiunse e gli sparò alla testa. L'uomo ebbe uno scatto con tutto il corpo e poi cessò di muoversi. Sayers tornò davanti a Louise, e continuò come se niente fosse. «Ecco fatto» disse. «Qualcosa in meno di cui preoccuparti. Considerala la fine di un'epoca. Uscirai da questo posto senza voltarti indietro. Sai che cosa dice il Vangelo. Va' e non peccare più.» «No!» Si era arrotolata le maniche per lavarsi. Lui si protese in avanti e le afferrò il polso. Era snello e nodoso, aveva le dita lunghe e forti. Erano le mani di una donna adulta e non di una ragazza delicata. Le unghie erano mangiucchiate. «Guardati» disse. «Non sei perduta. La tua colpa ti sta divorando. Più resterai lontana dal mondo, peggio sarà.» Lei scostò le braccia. «Sono una distruttrice» ribatté. «Non sei una distruttrice» esclamò lui. «E non sei neanche un'Errante. Guardaci. Su una cosa avevi ragione: tu e io siamo figli del nostro tempo. E ormai abbiamo una sola strada davanti.» Si protese e le toccò la guancia, rigata da una lacrima. «Se l'amore può redimere,» le disse «allora sappi che sei già stata redenta molte volte.» Trasferì la lacrima sulla propria guancia, come una volta lei aveva fatto con il sangue di Edmund Whitlock. «Che cosa stai facendo?» gli domandò. «Sei amata» disse Sayers. «Per tua stessa confessione. Io no.» Lei balzò in piedi e quasi ricadde sulla panca cercando di allontanarsi dalla sua portata. «Tom» disse. «Non farlo.» «Troppo tardi. Vieni.» Louise non si mosse. Lui l'afferrò per le spalle e la voltò verso la soglia. La fece passare accanto ai cadaveri dei suoi servitori di un tempo. Mentre la indirizzava alle scale della cantoria e la faceva scendere, lei non oppose resistenza. Lasciandosi guidare, si limitò a dire: «Non dovevi. Non dovevi farlo». Nella navata il cane di Sayers attendeva con lo sguardo alzato sulla cantoria. Osservò i due scendere le scale strette, tortuose e disagevoli. Sayers condusse Louise alla porta della chiesa. Qui si fermò e la voltò per guardarla in viso. La tenne a distanza per poterla fissare negli occhi, e
la studiò per l'ultimissima volta. «Ti libero» disse Sayers. «Adesso è tutto su di me.» Quindi la spinse fuori dalla porta. «Vai.» Cinquantatré Venerdì primo gennaio 1904, l'attore e cavaliere inglese Sir Henry Irving ricevette un biglietto nel suo albergo di Washington. Il vice capocomico Bram Stoker aprì la posta e la lesse come al solito, inoltrando il biglietto al suo padrone. Proveniva dalla Casa Bianca, ed era un invito a partecipare al ricevimento del presidente, in tarda mattinata. Da oltre un secolo, il primo giorno dell'anno, era consuetudine del presidente degli Stati Uniti ricevere tutti gli ufficiali governativi di stanza nella capitale, assieme a tutti gli ambasciatori e a quei privati cittadini che volevano mettersi in fila per porgere i propri omaggi al capo dello stato. L'invito specificava di farsi trovare all'ingresso privato sul retro della Casa Bianca. Da lì, lui e Stoker furono condotti alla Sala Blu, dove Irving si vide assegnare un posto alle spalle degli ufficiali del corpo dei Marines. Il ricevimento segnava l'avvio ufficiale della stagione mondana e, siccome il presidente doveva stringere quasi settemila mani, godeva di misure di protezione speciali. L'edificio pullulava di agenti dei servizi segreti e ulteriori squadre di polizia. Nessuno poteva avvicinarsi al presidente tenendo le mani in tasca o nascoste in altro modo. Non appena il presidente Roosevelt vide Irving e Stoker, si fermò lungo la fila a conversare con loro per qualche minuto. Con grande gioia di Stoker, il presidente ricordava il suo nome fin dai tempi in cui l'aveva invitato a dividere lo scanno in un'udienza disciplinare del dipartimento di polizia di New York. Chi fu costretto ad aspettare in coda, si spazientì molto. Altri si domandarono se l'astuto Roosevelt non avesse colto l'occasione giusta per fermarsi qualche istante e concedere così una tregua al suo vigore presidenziale. Speciali attenzioni verso uno specifico ufficiale o un certo ambasciatore potevano essere ritenute indice di imparzialità, ma un insigne attore era al di sopra di tali considerazioni. Quando la conversazione dovette concludersi, Irving e Stoker furono invitati a raggiungere amici e familiari di Theodore Roosevelt oltre il cordone di velluto.
Vi restarono per circa un'ora. Irving fu trattato con il massimo riguardo. Le occasioni come quella aiutavano i due uomini a superare la sensazione che quell'ottava tournée americana fosse solo l'ombra di quelle grandiose del passato; Irving fu vezzeggiato e festeggiato come sempre e l'impresa avrebbe dato i suoi profitti, sebbene il costoso fallimento del Dante aveva allontanato ogni idea di trionfo. La dedizione di Stoker per il suo datore di lavoro non si era mai affievolita. Ma a volte, mentre procedevano a tappe forzate spostandosi in trentatré città nel giro di cinque mesi, con l'attore sessantaseienne che interpretava solo ruoli che aveva creato una trentina d'anni prima, Stoker avvertiva una sporadica fitta di malinconia. Non poteva non domandarsi se tutto ciò non fosse una semplice resa dei conti per quel momento in cui, fermo sul binario di una stazione, aveva giudicato il proprio destino di gran lunga superiore a quello dell'uomo di Edmund Whitlock. Leggendo i giornali del mattino successivo, Stoker scoprì che il ricevimento del presidente era stato relegato nelle pagine interne dalle cronache del devastante incendio di un teatro a Chicago. Circa seicento persone erano morte nel disastro dell'Iroquois Theater, dove il personale non era addestrato, il sipario tagliafuoco di asbesto si era bloccato nei binari di legno e le porte d'uscita con l'apertura verso l'interno si erano intasate o bloccate. Parecchi spettatori erano stati calpestati. Alcuni fra quelli che non si erano fatti prendere dal panico e non erano fuggiti erano periti nei loro sedili. Un trapezista era morto, bloccato a un'altezza vertiginosa sopra il palcoscenico. Stoker, che non era mai riuscito a tollerare la vista di un edificio in fiamme, si era dibattuto fra l'orrore e il fascino nei confronti dell'accaduto. Si era domandato anche se vi sarebbero state ripercussioni sul programma del tour. Molti teatri erano stati chiusi per un'ispezione di sicurezza. Fra le lettere di quel giorno c'era una voluminosa busta indirizzata a suo nome, in ritardo perché già reinoltrata tre volte. L'aprì, e trovò una dozzina di fogli di carta sottilissima vergati, fronte e retro, della grafia più fitta che avesse mai visto. Non più dotato della vista di un tempo, prese una lente d'ingrandimento. La lettera non era firmata, ma riconobbe il suo autore dalle righe di apertura. Per un'ora Stoker accantonò gli affari del principale, e lesse e rilesse la storia riportata su quelle pagine. Una volta terminato, estrasse la sua agenda e cominciò a studiare la ma-
niera di rubare qualche altro giorno alla tournée che l'avrebbe impegnato da lì fino al mese di marzo. Non era un'impresa facile. Stoker era praticamente responsabile di tutte le questioni relative agli spostamenti della compagnia, oltre a essere il tuttofare del principale ventiquattr'ore al giorno. Ma le stesse capacità con cui mandava avanti il suo lavoro entrarono in gioco per scovare del tempo dove sembrava non essercene. E così avvenne che un giorno di quello stesso mese Bram Stoker giunse da solo nella cittadina di Iberville, in Louisiana, e noleggiò un taxi a cavallo che lo portò sino a un crocevia in vista di una lontana chiesa gialla. Il sentiero che un tempo conduceva alla chiesa adesso era stato arato. Fece attendere il cocchiere - aveva impegnato il taxi per tutta la giornata - e s'incamminò nel canneto verso l'edificio. Ancora prima di raggiungere la chiesa, sentì le mosche. Ronzavano in una nuvola sopra il corpo di una donna che giaceva a una decina di metri dalla porta della chiesa. Il viso non si vedeva, era stesa con la faccia nella polvere. Stoker estrasse un fazzoletto e si coprì naso e bocca mentre le passava accanto. Gli avambracci nudi erano stati sbranati dagli animali. La porta della chiesa non era serrata. L'interno era più fresco, ma c'era cattivo odore. Ai piedi della scala della cantoria vide il cadavere di un uomo morto da tempo; sembrava una bambola di stracci. Non era stato trascinato lontano come la donna. Era stato lasciato contro una colonna, e quindi alzato a sedere con le gambe allungate di fronte a sé. Aveva il mento abbassato sul petto, ma Stoker notò che le gengive si erano ritratte dai denti e che gli occhi si erano incavati nel cranio. Aveva ancora una sua morbosa umanità. Sembrava potesse ancora alzarsi e parlare. «Quassù, Bram» gli disse una voce proveniente dalla cantoria. Salì la scala, cercando di non trarre dei respiri troppo profondi. Nella stanza retrostante la cantoria, trovò Tom Sayers seduto su una sedia, dietro un tavolo spoglio. Di fronte a lui campeggiava un revolver Bulldog a doppia azione. A terra, ai piedi del tavolo, era sdraiato un cane. «Allora, Tom» disse Stoker, adocchiando il revolver. «Che cosa significa quello?» «Non so dirlo con certezza, Bram. Averlo a portata di mano pare calmarmi.» «Progetti forse di usarlo contro qualcuno?»
«A volte mi viene in mente.» Stoker lo studiò. Sayers non incrociava il suo sguardo, il che rendeva tutto più facile. La pelle dell'ex pugile era grigiastra e imperlata di sudore. Sembrava non vedere la luce del sole da secoli. Stoker era pronto a credere che fosse rimasto in quella stanza, su quella sedia, per giorni e giorni, solo ed esclusivamente in attesa che arrivasse qualcuno a parlare con lui. Una sorta di infernale stanza degli interrogatori, presidiata per tutta l'eternità. «Che cos'è successo a quei due là sotto?» domandò Stoker. «Davano fastidio a una signora. Sono stato costretto a difenderla.» Stoker prese la seconda sedia e si accomodò. «Ho svolto le indagini che mi hai chiesto» gli disse. «Le autorità locali stanno ancora cercando Mary d'Alroy. La settimana scorsa Louise Porter si è imbarcata per l'Inghilterra usando il proprio nome.» Stoker sospirò. «Tom...» «Non dormo» lo interruppe bruscamente Sayers. «Non riesco a mangiare. Questa faccenda dell'Errante, Bram. Ha un fondo di verità che non ti puoi immaginare.» «Non potresti limitarti a...» «Negarne la realtà? No, pensavo che forse ci sarei riuscito. Ma non si può intraprendere qualcosa perché ci si crede, e poi decidere di smettere di crederci. Con il credo viene l'obbligo di fare del male. L'impulso si dirigerà verso l'esterno o verso l'interno. Ma da qualche parte deve comunque dirigersi. È un'entità di mia creazione. Ma di cui io non sono padrone.» Stoker aveva ancora gli occhi fissi sul revolver. Sayers non lo stava toccando, ma l'aveva a portata di mano. Stoker aveva la canna rivolta verso di sé e vedeva le punte dei proiettili nelle camere, quindi non aveva dubbi che fosse carico. «Hai bisogno di denaro?» gli domandò. «No.» «Di medici?» Sayers scosse la testa. «Allora cosa vuoi che faccia?» esclamò Stoker. «Devi avermi fatto venire qui per uno scopo. Per favore non chiedermi di trovarti un successore. Non puoi passare tutto questo ad altri. Dev'esserci un'altra maniera.» Adesso Sayers lo guardò negli occhi. «Una maniera di non veder continuare il male?» domandò. «Ne esiste solamente una. Estirparlo da questo mondo una volta per tutte.» Stoker stava cominciando a capire. «Hai intenzione di andartene,» disse
«e portarlo con te.» Senza distogliere lo sguardo da Sayers, Stoker tese le mani e, rapido, gli allontanò il revolver in modo che non potesse raggiungerlo. «No, Tom» disse. «Se l'Errante è una creatura della mia mente, morirà con l'ultimo che crede nella sua esistenza.» «E se con quel gesto spedissi la tua anima all'inferno?» «Ci sono già. Aiutami, Bram. Fammi quest'ultimo favore.» Ecco perché Sayers non aveva reagito quando gli aveva preso l'arma. Sin dall'inizio voleva che la tenesse lui. «Tom, ammiro il tuo coraggio» gli disse. «E la portata della tua proposta. Ma rendermi complice di un uomo che allontana per sempre la propria anima da Dio? No. Non chiedermelo.» Sayers si alzò dalla sedia. «Per me è un rischio, Bram, ma è calcolato.» Girò intorno al tavolo. Il cane alzò la testa interessato, ma non si mosse dalla sua posizione. «Lei non mi ama, questo lo so» continuò Sayers. «Ma deve sapere che cos'ho fatto per lei, e con il passare del tempo, quando il suo cuore si placherà, forse arriverà ad avere di me un ricordo diverso. Ovunque sarò, se mai dovesse arrivare quel giorno, io lo saprò.» Adesso i due uomini erano faccia a faccia. Stoker impugnava il revolver. Sayers ci mise le mani sopra. Si udì un rumore secco mentre toglieva la sicura. «Te lo giuro, Bram» disse. «Questo è l'unico modo. Se non finisce qui oggi, continuerò domani in città.» Si alzò la canna al petto. Non era l'incombenza che Stoker si aspettava. Ma che cosa poteva fare? «Dio ti benedica, Tom» esclamò. «Un'ultima cosa» disse Sayers. «Quando tutto sarà finito, voglio andare a casa.» Cinquantaquattro In una mattina di primavera dell'anno 1911 - la stessa mattina in cui, per puro caso, al molo di Southampton attraccava il transatlantico a vapore che portava in Inghilterra Sebastian Becker e la sua famigliola allargata - una donna e una bambina attraversavano la torre d'ingresso del Western Cemetery di Highgate, un incrocio tra le mura di un castello e le finestre di una cattedrale. Passando fra viali di lapidi e mausolei, procedettero verso la ter-
razza superiore. Il cimitero londinese di Highgate, sulla collina omonima, non è sempre stato quel luogo di decadenza romantica che è divenuto oggigiorno. All'epoca era una dignitosa città dei morti, un'azienda privata tenuta in ordine dalle cure costanti di una squadra di giardinieri paesaggisti. Le tombe che oggi sono avviluppate dall'edera rampicante si stagliavano nette sulla collina. Le cripte oggi fatiscenti e chiazzate di muffa erano in origine solide e linde, come banche di provincia che custodivano un patrimonio in spoglie mortali. Le statue rilucevano della purezza del marmo nuovo. Le urne traboccavano di fiori, ignare che un giorno sarebbero state colme di terra e muschio. I sentieri curati del cimitero si snodavano dalle catacombe interrate del Lebanon Circle all'alta terrazza che si affacciava su Londra sino all'East End. La donna sapeva dove andare. La bambina no, e la fissava. Il posto era affascinante e insieme inquietante. Quasi avesse sognato un giardino di giocattoli e case di bambola, svuotato di vita e colore. Il sentiero s'inerpicava per una salita erbosa. Poi, quando la strada di ghiaia tornò a spianarsi, passarono accanto a una serie di monumenti, tutti frutto di una morbosa immaginazione. Donne piangenti di pietra, torce pietrificate, ardenti di fiamme scolpite. Angeli marmorei che spiegavano le ali e alzavano le braccia, quasi la loro maestosità fosse stata pietrificata da una maledizione a metà dell'estasi. La bambina non sapeva perché era lì. Aveva in mano un mazzolino di fiori che la madre le aveva dato prima di uscire di casa, e che lei sospettava avrebbe dovuto presto lasciare. Non importava. Se ne stava stancando. La madre sembrava aver trovato ciò che cercava. La tomba presso cui si fermarono era lungi dall'essere la più grande o la più opulenta, ma era una delle più intriganti. Un plinto era stato innalzato a poco più di mezzo metro da terra, e su di esso poggiava un sepolcro di granito con i lati e il coperchio inclinati. Il marmista aveva cercato di avvicinarsi alle finezze classiche ma l'effetto complessivo era grezzo, simile a una vasca da bagno rovesciata. Ai piedi del sepolcro giaceva un cane di pietra di razza indefinita. Aveva la testa poggiata sulle zampe e lo scultore era riuscito a infondergli un'aria di enorme afflizione. La bambina lo guardò e pensò a quanto fossero tristi i suoi occhi... anche se, come ovvio, non aveva degli occhi a tutti gli effetti. Il corpo era liscio e muscoloso. Aveva paura a toccarlo, per timore che si rivelasse non di sola pietra.
Sopra il cane, all'estremità della tomba, era intarsiato un tondo con l'incisione in rilievo del profilo di un uomo, simile a quello di un re su una moneta. «Chi è sepolto qui, mamma?» domandò la bambina. «Un uomo buono» rispose la madre. «Il migliore che abbia mai conosciuto.» La bambina fissò il profilo in rilievo. Chiunque fosse, ormai apparteneva alla storia. Alla storia appartenevano persone d'ogni genere. Nessuna di loro era del tutto reale. La madre le disse di posare i fiori, e lei li mise sul plinto. La donna spostò il mazzolino al centro e lo girò dall'altra parte. Poi indietreggiò e restò ferma a lungo senza dire nulla. La bambina spostava il peso da un piede all'altro, finché il tocco silenzioso della madre sulla spalla la fece fermare. Non si mosse più. E se, ogni volta che si fosse mossa, avesse dovuto smettere e ricominciare ad attendere? Sarebbero rimaste lì per sempre. Così si era messa a osservare un uccello. Venne e se ne andò più volte. Una di queste, aveva un ramoscello nel becco. Si domandava se era lecito prendere un po' di fiori dalle tombe che ne avevano molti e metterli sulle tombe che non ne avevano. Infine, la madre disse: «Vieni». E la prese per mano. Scesero verso la torre d'ingresso. La bambina si guardò alle spalle una volta sola, prima che il monumento non si vedesse più. La madre non disse nulla, e neanche lei ruppe il silenzio, per timore di parlare a sproposito. Sentiva che non era il momento. Era stata una strana gita. Aveva dovuto mettersi il vestito più bello, e non aveva mai saputo perché. Negli anni successivi, di tanto in tanto, la madre le avrebbe chiesto se si ricordava di quel mattino. Ma lei stava crescendo in fretta, e capitavano di continuo cose nuove. Fingeva sempre di conservare quel ricordo, ma in realtà era svanito presto. Ricordava quella sensazione di angoscia mista a fascino che aveva provato attraversando quella necropoli cinta da inferriate. Quella sensazione non la lasciava mai. Ma per il resto... era cresciuta accettando il fatto che, riguardo alla madre, esistevano dei misteri che lei non avrebbe mai potuto sperare di comprendere. Se mai si ricordava lo scopo di quella visita, era solo nei termini più vaghi. Lo considerava semplicemente un altro di quegli strani ricordi di bambina.
Come quello del giorno in cui aveva lasciato dei fiori a un cane. Fonti e ringraziamenti Gli appassionati di storia forse sapevano già della reale esistenza di Tom Sayers, muratore e campione di pugilato a mani nude divenuto celebre negli anni Cinquanta dell'Ottocento. Dopo aver rappresentato un numero teatrale itinerante basato sulle sue conquiste sportive, morì all'età di trentanove anni, ritiratosi dalle scene. Sayers tornò a vivere nell'immaginazione dello scrittore della Amalgamated Press Arthur S. Hardy, che lo fece risorgere e ne creò il mito sulle pagine di un settimanale di racconti intitolato «The Marvel». Prima di lavorare nel campo della narrativa d'appendice, Hardy (il cui vero nome era Arthur Joseph Steffens, nato il 28 settembre 1873) era stato uno sportivo e un capocomico, e aveva cominciato a scrivere nel suo camerino in attesa delle chiamate in scena. Sayers il muratore divenne Sayers il gentiluomo contemporaneo, il campione di pugilato a mani nude divenne un pugile che combatteva secondo le regole del marchese di Queensberry, l'interprete di numeri da circo divenne un serio attore di pièce e di sketch sulla boxe al teatro di varietà. La scrittura di Hardy era fresca e vitale, e la sua narrativa alimentata dalle certezze morali dell'epoca. I ringraziamenti devono quindi cominciare da lui; da Eric Fayne, redattore del The Story Paper Collector's Digest; e da tutti gli altri "vecchi ragazzi" di entrambi i sessi che una volta accolsero nella loro compagnia un tredicenne, fan entusiasta di Sexton Blake. Secondo le ultime verifiche, esistono almeno quattro biografie principali di Bram Stoker. La prima in ordine cronologico, scritta dall'ex cacciatore di fantasmi Harry Ludlam, creò lo stampo per quelle seguenti. Ordinata e utile, riferisce gran parte dei fatti fondamentali senza cercare di infiorettarli o interpretarli. La successiva, scritta da Daniel Farson (pronipote di Stoker), è dispersiva e infarcita di particolari, ma contiene ulteriore materiale di seconda mano e qualche utile scorcio di vita familiare. L'opera di Barbara Belford propone un'ottica accademica, qualche nuova scoperta e un approccio psicologico moderno; sono riconoscente alla professoressa Belford anche per avermi concesso una cortese e incoraggiante corrispondenza. Il testo altrettanto valido di Paul Murray affronta l'argomento da un'angolazione più personale. La biografia dell'attore Henry Irving, pietra miliare scritta dal nipote
Laurence, cita Stoker solo occasionalmente, ma fornisce un resoconto mensile della sua vita lavorativa. Assieme alle Personal Reminiscences of Henry Irving scritte dallo stesso Stoker, tale documentazione ci aiuta a mettere a fuoco la personalità di un infaticabile scrittore e uomo di teatro che, altrimenti, potrebbe essere ricordato più che altro come devoto luogotenente della natura. Una volta delineato il progetto, sono stato aiutato nelle ricerche preliminari da Richard Dalby, collezionista e bibliografo assoluto di Stoker. Oltre ad avermi concesso una generosa parte del suo tempo e consentito l'accesso alla sua collezione, Richard mi ha fornito le fotocopie del pamphlet di Stoker A Glimpse of America, nonché di Snowbound, una (allora) quasi irreperibile antologia di racconti con protagonista una troupe teatrale itinerante. Nel frattempo Snowbound è stata ripubblicata dalla Desert Island Books. Scott Meek e Archie Tait, all'epoca in forza alla Zenith Productions, si sono aggiudicati un'opzione sui diritti cinematografici che ha sovvenzionato gran parte delle successive ricerche. Un altro generoso corrispondente è stato il defunto Leslie Shepard della dublinese Bram Stoker Society, con ulteriore assistenza da parte del dottor Albert Power, suo segretario-tesoriere, e di David Lass del Bram Stoker Club. A New York ho avuto la gradita opportunità di conoscere la dottoressa Jeanne Keyes Youngson e il suo museo privato di cimeli. Presidentessa del Count Dracula Club e della Bram Stoker Memorial Association, la dottoressa Youngson mi ha concesso la gioia di farmi tenere in mano l'Oscar tributato al suo defunto marito Robert Youngson, antologista del film muto Days of Thrills and Laughter (e sì, le statuette sono pesanti come sembrano). Il dottor Michael David Chafetz, uno dei miei più vecchi amici, si è preso carico di organizzare i contatti per le ricerche in suolo americano. Il mio primo contatto a Filadelfia è stato quello con la dirompente Sharon Pinkenson del Philadelphia Film Office. Sempre a Filadelfia, ringrazio Richard Tyler della commissione storica e il personale della Historical Society of Pennsylvania. Leslie Mars si è presa cura di me al Rosenbach Museum, dove ho goduto del raro privilegio di poter scorrere gli appunti di lavoro di Bram Stoker per Dracula. A Richmond sono stato guidato dall'acume ultraefficiente di Catherine Councill del Virginia State Film Office e della sua collaboratrice Marcie Kelso, talmente prese dalle mie necessità da superarmi quasi in entusia-
smo. I miei ringraziamenti vanno anche a Laura Oaksmith e a LuAnne Brannen del Metro Richmond Motion Picture and Television Office; a Roy Proctor per avermi tenuto compagnia a cena e per la sua cronologia della scena teatrale di Richmond dal 1890 al 1910; a Miles Rudisill del Byrd Theater e a Doug Selzer dell'Empire. Sempre in Virginia, un grazie va a Kathy Walker Green della Governor's Mansion, a Teresa Roane del Valentine Museum, a Kip Campbell e Carolyn Parsons della Virginia State Library and Archives e a Frances Pollard, responsabile bibliotecaria della Virginia Historical Society. In Louisiana la mia gratitudine va a Konita Berthelot della Louisiana Film Commission di Baton Rouge e al suo collega Phil Seifert, che per due piacevoli giorni mi ha accompagnato a esplorare le piantagioni e le vecchie case padronali lungo il Mississippi. Ulteriori ringraziamenti vanno a Jessica Travis della Historic New Orleans Collection e al personale della Howard Tilton Library del campus della Tulane University. Tornando in patria, ringrazio Marian J. Pringle, responsabile bibliotecaria della Shakespeare Birthplace Trust, e Cristopher Sheppard, della Brotherton Collection alla Leeds University Library. Per la consulenza e i consigli raccolti in corso d'opera, ringrazio Julia Kreitman, Howard Morhaim e Kate Menick, Shaye Areheart e Anne Berry, Abner Stein, e infine Mike Moorcock, per la spinta decisiva che, nel corso degli ultimi tre o quattro anni, mi ha condotto inaspettatamente fin qui. Uno speciale cenno del capo va a "Scary Gary", che, in fase di avvio del progetto, mi ha inviato fotocopie tratte dal suo materiale d'archivio sulle stranezze e le bizzarrie d'ogni secolo. Ovunque tu sia, Gary... grazie. Ma resta lì dove sei. Sei già fin troppo vicino. D'accordo? FINE