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BRIAN FREEMAN IMMORAL (Immoral, 2005) Per Marcia La distanza percorsa dai morti all'inizio non appare. Il loro ritorno sembra possibile per molti anni ardenti. Emily Dickinson Prologo L'oscurità, nei boschi a nord, era diversa dall'oscurità in città. Lui se n'era dimenticato. La ragazza era invisibile, un fantasma sotto il cielo di mezzanotte, ma lui sapeva che era lì, vicinissima. Le afferrò il polso caldo. Il suo respiro era lieve e cadenzato. Lei era calma. Il suo profumo familiare gli riempì le narici ancora una volta. Una fragranza insolita e persistente di fiori primaverili. Lillà, forse. E giacinto. Ricordò quando gli bastava sentire quell'odore per eccitarsi. Gli erano mancati il suo profumo e il suo corpo. E adesso loro due erano lì, di nuovo insieme. Un nodo di paura gli strinse lo stomaco. Un'ondata di odio verso se stesso lo investì. Non sapeva se avrebbe avuto il coraggio per ciò che sarebbe venuto dopo. Quante fantasie aveva avuto su quella notte. L'aveva voluta, attesa, pianificata. Lei faceva così profondamente parte della sua vita che quando lui si guardava nello specchio riusciva quasi a vederla dietro di sé, come un corvo appollaiato sulla sua spalla. Ma dopo aver tanto atteso quel momento, adesso esitava. Un ultimo gioco, pensò. «Avanti, facciamola finita» sibilò la ragazza, tradendo impazienza. Lui detestava sentire anche solo un accenno di disapprovazione nella sua voce. Ma lei aveva ragione. Quel granaio abbandonato era un noto punto di ritrovo per gli amanti. Qualcuno sarebbe potuto venire a interromperli, rovinando tutto. Si sentì osservato, come se ci fosse qualcuno a spiarlo con occhi di lupo, nascosto dietro le betulle scheletrite. Fece un respiro profondo, cercando di
dominare le proprie paure. Non poteva più aspettare. Infilò la mano sinistra nella tasca del giaccone, accarezzando la lama con le dita. Era arrivato il momento di giocare. L'aveva aspettata nel punto più buio della strada, rabbrividendo e guardando continuamente negli specchietti retrovisori, mentre il nevischio si accumulava sul parabrezza. Era arrivato troppo presto. Ma il quartiere era tranquillo. Il suo orologio segnava le dieci. Ogni minuto passava con estrema lentezza. Lui era sulle spine. Sentiva le viscere sciogliersi. Per un attimo aveva pensato che forse lei non sarebbe venuta e che tutta l'attesa, tutti i sacrifici, sarebbero stati inutili. Malgrado il freddo, aveva cominciato a sudare dentro la macchina. Si era morso il labbro superiore. Più lui rimaneva lì a contare i secondi, più la paura aumentava. Sarebbe venuta? Poi lei era apparsa dal nulla, eterea sotto la luce di un lampione. Era bella da togliere il fiato. Lui aveva sentito i battiti del cuore accelerare e il sudore appiccicoso dietro il collo e sotto le ascelle farsi più copioso. Aveva la bocca secca, mentre la guardava avvicinarsi. Labbra rosse e piene, capelli neri lunghi fin sotto le spalle. Il freddo le coloriva le guance, che spiccavano sulla pelle di alabastro. Un unico orecchino d'oro ad anello le pendeva dal lobo sinistro e un braccialetto anch'esso d'oro le brillava al polso destro. Era alta e camminava a passi lunghi. Indossava un maglione bianco a collo alto, bagnato di nevischio, e jeans neri attillati. Lui immaginò che cosa si doveva provare a essere così forti e sicuri di sé. Gli sembrava quasi di sentire ciò che sentiva lei: il sapore della pioggia sulle labbra, il sibilo del vento nelle orecchie e quella impudica sensazione tra le gambe. Lei lo aveva individuato. Lui sapeva che non poteva vederlo dentro la macchina, ma si era sentito addosso il suo sguardo. Conosceva quegli occhi verdi come il mare, in cui desiderava fortemente immergersi. Lei avanzava dritta verso di lui. Lui sapeva che cosa fare: rimanere fermo, aspettare, lasciare che lei lo raggiungesse. Ma il suo cuore batteva forte. Aveva controllato che in strada non ci fosse nessuno, poi aveva aperto la portiera e l'aveva chiamata. La voce gli era uscita in un sussurro: «Rachel».
Ora, a chilometri di distanza, lei correva. Cercava di fuggire. Lui la prese per il maglione, ma lei riuscì a liberarsi. Lui scivolò, cercò di afferrarle il polso con la mano guantata, ma strinse solo il braccialetto, che cadde a terra, mentre lei si inoltrava di corsa tra l'erba alta. La seguì, a due passi di distanza. Lei era aggraziata e veloce come una gazzella. Lui si sentiva goffo, rallentato dalle scarpe grandi, dal fango e dai cespugli. Rachel acquistò vantaggio. Lui la chiamò per nome, supplicandola di fermarsi. Forse lei lo udì, o forse inciampò. Quando lui allungò le mani alla cieca, sentì sotto le dita la carne morbida della sua spalla. Strinse forte e le fu addosso. Rachel cercò di divincolarsi, con il fiato grosso, senza dire una parola. Lui la bloccò con un piede, intrappolandola, e la avvinse a sé. Le afferrò il maglione con una mano e sollevò l'altra, quella che teneva il coltello. Con la punta della lama tagliò la stoffa, più e più volte. Le sfiorò la pelle calda con le dita e avvertì il contatto con il suo seno che saliva e scendeva con il respiro. Appoggiò la punta del coltello sul suo petto, all'altezza del cuore. Sempre che lei ce l'avesse, un cuore. Rachel lottava, stando al gioco. In realtà voleva che lui lo facesse. Lui lo sapeva. Quel gioco mortale era guidato da lei. Da Rachel. Lui spinse forte. Dalle labbra di lei uscì un gemito soffocato. Qualcosa di bagnato scivolò lungo la lama. Nient'altro. E furono liberi. PARTE PRIMA 1 Jonathan Stride si sentiva un fantasma, immerso nella luce bianca dei fari che illuminavano il ponte. Sotto di lui, l'acqua limacciosa entrava nel canale a ondate, lanciando spruzzi sul cemento. Le onde si ripiegavano su se stesse, incuneandosi dal lago turbolento dentro il porto tranquillo. Alla fine dei moli, dove le navi scorrevano lungo il canale con la scioltezza di un filo che passa per la cruna di un ago, due fari gemelli mandavano lampi intermittenti verdi e rossi. Il ponte sembrava una cosa viva. Le auto che lo attraversavano producevano un rumore simile al ronzio di molti calabroni. Il marciapiede a nido d'ape vibrava sotto i piedi. Stride guardò in alto, come immaginava che avrebbe fatto Rachel, verso le forbici d'acciaio che si incrociavano sopra la
sua testa. L'ondeggiare quasi impercettibile del ponte gli diede le vertigini. Stava facendo quello che faceva sempre: mettersi nei panni della vittima, vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Rachel era stata lì venerdì sera, sola sul ponte. Poi, nessuno aveva più saputo nulla di lei. Stride si voltò verso i due adolescenti che, accanto a lui, battevano i piedi per il freddo. «Dove si trovava esattamente, quando l'avete vista?» Il ragazzo, Kevin Lowry, tirò fuori di tasca una mano carnosa. Sull'anulare brillava un grosso anello con un'onice e il simbolo della sua scuola. Tamburellò con le dita sul parapetto d'acciaio. «Proprio qui, tenente. Stava in equilibrio qui sopra, con le braccia allargate come Gesù Cristo.» Il ragazzo chiuse gli occhi, sollevò il mento e distese le braccia in fuori. «Così.» Stride aggrottò la fronte. Era un ottobre rigido, con violente folate di vento e raffiche di nevischio. Nessuno quella notte sarebbe potuto rimanere in equilibrio su quel parapetto largo sei o sette centimetri senza cadere. Kevin sembrò leggergli nel pensiero. «Era molto aggraziata, come una ballerina.» Stride guardò giù. Lo stretto canale era abbastanza profondo da consentire il passaggio di grosse navi cariche di ferro grezzo. Poteva risucchiare un corpo senza più lasciarlo andare. «Ma che diavolo ci faceva qui sopra?» chiese. La ragazza, Sally Lindner, parlò per la prima volta, in tono acido. «Era un'esibizione, come tutto ciò che lei faceva. Voleva attirare l'attenzione.» Kevin aprì la bocca per protestare, ma poi la richiuse. Stride ebbe la sensazione che si trattasse di un vecchio argomento di discussione, tra loro. Sally teneva Kevin sottobraccio e, mentre parlava, lo tirò un po' più vicino a sé. «E voi che cosa avete fatto?» chiese Stride. «Io sono corso qui sul ponte» rispose Kevin «e l'ho aiutata a scendere.» Stride notò una smorfia di disappunto sulla bocca di Sally, mentre Kevin descriveva il salvataggio. «Parlami di Rachel» disse a Kevin. «Siamo cresciuti insieme. Vicini di casa. Poi sua madre ha sposato il signor Stoner e si sono trasferiti nella zona residenziale della città.» «Fisicamente com'è?» «Be' ecco... è carina» rispose Kevin, lanciando un'occhiata nervosa a Sally. La ragazza alzò gli occhi al cielo. «Era bellissima, va bene? Capelli neri
lunghi, alta, snella, come da manuale. E una gran puttana. Difficile trovarne un'altra simile.» «Sally!» protestò Kevin. «È vero e tu lo sai. Dopo venerdì lo sai anche tu.» Sally distolse gli occhi da Kevin, ma non gli lasciò andare il braccio. Strinse le labbra, in un'espressione di rabbia repressa. Sally aveva un viso paffuto, incorniciato da riccioli castani che le ricadevano sulle spalle. Con la giacca a vento rossa e i jeans attillati era davvero carina. Ma nessuno l'avrebbe definita bellissima, come Rachel. «Che cosa è successo, venerdì?» chiese Stride. Sapeva solo quello che il capo della polizia Kinnick gli aveva detto al telefono due ore prima. Da venerdì Rachel mancava da casa. Era scomparsa. Proprio come Kerry. «Ecco, lei mi è praticamente saltata addosso» dovette ammettere Kevin. «Proprio davanti a me!» aggiunse Sally. «Brutta puttana!» Le sopracciglia di Kevin si unirono a formare una specie di bruco biondo. «Smettila! Non parlare così di lei.» Con un cenno, Stride stroncò la lite sul nascere. Poi, infilò una mano nella giacca di pelle consunta e tirò fuori il pacchetto di sigarette che teneva nel taschino della camicia. Lo fissò con aria stanca e disgustata, quindi ne estrasse una sigaretta e l'accese. Il fumo formò una nuvola intorno al suo viso. Stride avvertì una fitta ai polmoni e gettò il pacchetto rosso nel canale. Lo vide galleggiare per un attimo come una macchia di sangue, prima che la corrente lo trascinasse sotto il ponte. «Ora voglio sentire tutta la storia, in modo rapido e conciso. Okay?» Kevin si passò una mano tra i capelli biondi, dritti come alberi spogli e scheletriti. Aveva spalle larghe e muscolose, da giocatore di football. «Rachel mi ha chiamato sul cellulare, venerdì sera» disse. «Voleva incontrarci a Canal Park. Erano circa le otto e mezzo, credo. Una sera schifosa, il parco era quasi vuoto. Quando l'abbiamo vista era in piedi sul parapetto. Così siamo corsi sul ponte per farla scendere.» «E poi?» incalzò Stride. Kevin indicò un punto al di là del ponte, verso la penisola che si allungava come un dito tra il Lago Superiore da una parte e il porto di Duluth dall'altra. Stride aveva vissuto lì quasi tutta la vita, a guardare le navi da carico che si dirigevano verso il mare. «Siamo scesi tutti e tre alla spiaggia. Abbiamo parlato di scuola.» «Lei è una lecchina» intervenne Sally. «Dopo la lezione di psicologia, si mette a ripetere tutte le teorie del professore sulle famiglie disastrate. Dopo
la lezione di inglese, ti magnifica le poesie dell'insegnante. Dopo la lezione di matematica...» Stride la zittì con un'occhiata fredda. Sally chiuse la bocca e scosse la testa con aria di sfida. Stride fece cenno a Kevin di continuare. «Poi abbiamo udito la sirena di una nave» proseguì il ragazzo. «Rachel ha detto che voleva salire sul ponte mentre lo sollevavano.» «È proibito» disse Stride. «Certo, ma Rachel conosce il guardiano. Lei e suo padre erano soliti incontrarsi con lui.» «Suo padre? Intendi Graeme Stoner?» Kevin scosse la testa. «No, il suo vero padre. Tommy.» Stride annuì. «Continua.» «Bene, siamo tornati di nuovo al ponte, ma Sally si è rifiutata di salirci e ha proseguito verso la città. Io non volevo lasciare Rachel da sola, così sono rimasto con lei. È stato allora che... insomma, si è messa a pomiciare con me.» «Stava facendo uno dei suoi giochetti con te» disse Sally, in tono tagliente. Kevin si strinse nelle spalle. Stride lo vide allentare il colletto della camicia e notò l'espressione dei suoi occhi. Il ragazzo non avrebbe detto esattamente che cosa era successo sul ponte, ma si trattava di qualcosa che lo imbarazzava e lo eccitava al tempo stesso. «Non siamo rimasti qui a lungo» disse Kevin. «Forse dieci minuti. Quando siamo scesi, Sally non...» «Ero tornata a casa» intervenne Sally. Kevin disse, quasi balbettando: «Mi dispiace, Sal...». Allungò una mano per accarezzarle i capelli, ma lei si scostò. Prima che Stride intervenisse di nuovo a bloccare la lite, dal suo cellulare partì una versione polifonica di Chattahoochee di Alan Jackson. Estraendo il telefonino dalla tasca, riconobbe sul display il numero di Maggie Bei. «Sì, Mags?» disse, rispondendo alla chiamata. «Brutte notizie, capo. I giornalisti si sono impadroniti della storia e ci stanno assediando.» Stride aggrottò la fronte. «Merda!» Si scostò dai due ragazzi e, non appena fu abbastanza lontano da non sentire, notò che Sally cominciò a punzecchiare Kevin. «C'è anche Bird, là fuori, con gli altri sciacalli?» «Oh, sì, è quello che fa più domande.» «Per l'amor di Dio, non parlare con lui. E impedisci che qualunque gior-
nalista si avvicini alla famiglia Stoner.» «Nessun problema, la zona è stata isolata e l'accesso è bloccato.» «Qualche altra buona notizia?» «Si comportano come se questo fosse il caso numero due» riferì Maggie. «Prima Kerry, adesso Rachel.» «Me lo immagino. Comunque, neppure a me piacciono i déjà-vu. Senti, sarò lì tra venti minuti.» Stride chiuse il telefonino. Era inquieto, adesso. Le cose stavano prendendo una piega che non gli piaceva. Il fatto che la scomparsa di Rachel fosse stata data in pasto ai giornalisti cambiava la natura dell'indagine. Certo era necessario che il volto della ragazza venisse mostrato in televisione e sui giornali, ma Stride voleva controllare la storia, non farsi controllare da questa. Cosa impossibile, con Bird Finch che faceva domande. «Continua» disse a Kevin. «Non c'è altro» replicò il ragazzo. «Rachel ha detto che era stanca e voleva tornare a casa, così l'ho accompagnata fino al Maggiolino Insanguinato.» «Al cosa?» «Scusi, alla sua macchina. È un maggiolino Volkswagen e lei la chiamava Maggiolino Insanguinato.» «Perché?» Kevin gli rivolse uno sguardo vacuo. «Perché è rossa, suppongo.» «Okay. E l'hai vista salire in macchina e allontanarsi?» «Sì.» «Sola?» «Certo.» «E ti ha detto proprio che andava a casa?» «Sì.» «È possibile che mentisse? Che avesse un altro appuntamento con qualcuno?» Sally fece una risatina crudele. «Certo che è possibile. Anzi, è probabile.» Stride le lanciò un'occhiata dura e lei abbassò la testa. I riccioli le ricaddero sulla fronte. «Sai qualcosa, Sally?» le chiese poi. «Per caso, l'hai seguita per dirle di stare alla larga da Kevin?» «No!» «Allora, con chi pensi che possa essersi incontrata?» «Con chiunque» disse la ragazza. «Era una puttana.»
«Smettila!» esclamò Kevin. «Piantatela, tutti e due» intervenne Stride. «Com'era vestita?» «Jeans neri attillati, di quelli che per toglierli devi tagliarli con un coltello» disse Sally. «E un maglione bianco a collo alto.» «Kevin, hai visto qualcosa nella sua macchina? Dei bagagli? Uno zaino?» «No, niente del genere.» «Hai detto al signor Stoner che Rachel ti aveva dato un appuntamento.» Kevin si morse il labbro. «Mi aveva chiesto se volevo uscire con lei sabato sera. Sarei dovuto passare a prenderla alle sette. Ma lei non c'era.» «Era uno dei suoi giochetti» ribadì Sally. «Ti ha anche detto di chiamarmi, sabato, e di inventarti una balla? Perché è proprio questo che hai fatto.» Stride capì che, per quella sera, non avrebbe cavato altro dai due ragazzi. «Statemi a sentire. Qui non si tratta di chi ha baciato chi. Una ragazza è scomparsa. Una vostra amica. Devo andare a parlare con i suoi genitori, i quali in questo momento non sanno se la rivedranno mai più. Perciò, pensateci bene: c'è qualcos'altro che ricordate della serata di venerdì? Qualcosa che Rachel ha detto o fatto, qualcosa che potrebbe farci capire dove o da chi è andata, dopo essere salita in macchina?» Kevin chiuse gli occhi, nello sforzo di ricordare. «No, tenente, non c'è altro.» Sally aveva un'aria cupa. Stride si chiese se non nascondesse qualcosa. Ma tanto non avrebbe parlato. «Non so che cosa le sia accaduto» borbottò la ragazza. Stride annuì. «Bene. Ci terremo in contatto.» Gettò un'occhiata all'acqua scura del lago, al di là del canale. Non c'era nulla da vedere. Era tutto vuoto e cupo, come lui in quel momento. Mentre si allontanava dai due ragazzi, dirigendosi verso il parcheggio ebbe di nuovo quella sensazione. Déjà-vu. Un brutto ricordo. 2 Erano trascorsi quattordici mesi dall'umida sera d'agosto in cui Kerry McGrath era scomparsa. Stride aveva ricostruito la sua ultima notte così tante volte che poteva riguardarla mentalmente, come un film. Se chiudeva gli occhi, vedeva Kerry, con le lentiggini agli angoli della bocca e i tre orecchini d'oro al lobo sinistro. Udiva la sua risata, come nel video del suo
compleanno che aveva guardato decine di volte. Stride aveva mantenuto di Kerry un'immagine così intensa che era come se lei fosse viva. Ma lui sapeva che era morta. La ragazza esuberante che per lui era tanto reale era un orrendo mucchio di carne putrefatta da qualche parte, in mezzo ai boschi. Stride voleva solo sapere chi l'aveva uccisa e perché. E adesso, un'altra adolescente era scomparsa. Mentre aspettava a un semaforo, Stride voltò lo sguardo e si trovò a fissare il proprio riflesso sul vetro del finestrino. Occhi da pirata, diceva Cindy. Scuri, attenti, ardenti. Ma tutto ciò era prima. Kerry era stata uccisa da un mostro e, nello stesso periodo, un altro tipo di mostro si era portato via Cindy. La tragedia aveva spento la fiamma negli occhi di Stride e lo aveva reso di colpo più vecchio: lo vedeva nel proprio viso, scolorito e imperfetto. Una ragnatela di rughe gli attraversava la fronte. Capelli neri striati di grigio, corti ma disordinati, con un ciuffo ribelle. Aveva quarantun anni e se ne sentiva addosso cinquanta. Stride arrivò con il suo pick-up Bronco chiazzato di fango nella zona residenziale vicino all'università, dove abitavano Graeme ed Emily Stoner. Sapeva che cosa avrebbe trovato. Erano le undici di una domenica sera, un'ora in cui di solito il quartiere sarebbe stato immerso nel silenzio. Ma non quella notte. I lampeggiatori delle auto della polizia e i riflettori delle emittenti televisive illuminavano la strada. I vicini di casa oziavano in giardino, raccolti in piccoli gruppi di spie pettegole. Stride udì il cacofonico ronzio delle radio della polizia. La casa era circondata da un cordone di agenti in uniforme che tenevano lontani giornalisti e curiosi. Stride si fermò in doppia fila, accanto a un'auto della polizia. I giornalisti gli si affollarono intorno, lasciandogli appena lo spazio sufficiente per aprire la portiera. Stride scosse la testa e alzò una mano per ripararsi gli occhi dalla luce dei riflettori. «Per favore, ragazzi, lasciatemi in pace.» Si fece strada tra la folla, ma un uomo gli si parò davanti, facendo un segnale al proprio cameraman. «Abbiamo un serial killer in libertà, Stride?» tuonò Bird Finch, con la sua voce acuta e sgradevole. Il suo vero nome era Jay, ma tutti nel Minnesota lo conoscevano come Bird, una star del basket che ora conduceva un talk show scandalistico a Minneapolis. Stride, che pure era alto più di un metro e ottanta, dovette alzare lo sguardo per fissare il viso corrucciato di Bird. Quell'uomo era un gigante di quasi due metri, in doppiopetto blu con i gemelli ai polsini. Stride vide
un anello universitario sull'indice della manona che teneva il microfono. «Bel vestito, Bird» disse. «Sei venuto qui direttamente dal teatro?» Si udirono le risatine di vari giornalisti. Bird lo fissò con gli occhi accesi. I riflettori facevano scintillare la sua testa nera e calva. «C'è un pervertito che rapisce le ragazze di questa città, tenente. L'anno scorso lei aveva promesso giustizia alla gente di questa città. Noi stiamo ancora aspettando. Le famiglie di questa città stanno aspettando di avere giustizia.» «Se intendi candidarti alle elezioni, va' a tenere i tuoi comizi da un'altra parte.» Stride sganciò il distintivo dai jeans e lo sventolò davanti al volto di Bird, coprendo con l'altra mano l'obiettivo della telecamera. «Ora togliti dai piedi.» Bird indietreggiò di alcuni centimetri. Stride lo superò con una spallata. Il vocio continuò alle sue spalle. La folla dei giornalisti gli si attaccò alle calcagna, seguendolo sul marciapiede e fino al margine della zona offlimits segnata dal nastro giallo della polizia. Stride si chinò, passò sotto il nastro e si raddrizzò di nuovo. Fece un cenno al poliziotto più vicino, un ragazzo di ventidue anni con i capelli rossi a spazzola. L'agente lo raggiunse di corsa. «Sì, tenente?» Stride gli sussurrò all'orecchio: «Tieni il più lontano possibile questi stronzi». Il poliziotto sorrise. «Non si preoccupi, signore.» Stride avanzò attraverso il prato ben curato di Graeme Stoner. Rivolse un cenno di saluto al sergente capo Maggie Bei, la quale stava dando ordini con tono efficiente a un gruppo di agenti. Maggie era alta poco più di un metro e mezzo, compresi i cinque centimetri di tacco dei suoi stivali neri. Sembrava una nana davanti agli agenti, i quali però erano pronti a scattare non appena lei puntava un dito verso di loro. La casa si trovava in fondo a una stradina stretta, ombreggiata da alte querce che avevano già perso quasi tutte le foglie. Era una reliquia degli anni Venti, a tre piani, costruita con mattoni e legno di pino per sfidare gli inverni del Minnesota. Un sentiero curvo portava dalla strada fino a una porta massiccia. Sul lato est della casa c'era un garage doppio, quasi a picco su un burrone boscoso. Nel vialetto davanti al garage, Stride notò un maggiolino Volkswagen rosso vivo, che bloccava l'accesso a uno dei due box. L'auto di Rachel. Il Maggiolino Insanguinato.
«Benvenuto alla festa, capo.» Stride si voltò verso Maggie Bei, che l'aveva raggiunto. Maggie aveva i capelli nerissimi tagliati a caschetto, con una frangia fino alle sopracciglia. Era delicata come una bambola di porcellana cinese, con il viso espressivo, gli occhi a mandorla e la pelle ambrata. Indossava una giacca di pelle bordeaux, una camicia bianca e jeans neri da ragazzina. Aveva stile. Stride, invece, non spendeva molto in vestiti. Continuava a far risuolare i vecchi stivali da cowboy che indossava da quando aveva smesso l'uniforme per entrare nel Dipartimento Investigativo della polizia, molti anni prima. I suoi jeans sbiaditi avevano già nove inverni e ormai le monete gli cadevano dalle tasche bucate. La giacca di pelle era consunta e aveva un buco da proiettile su una manica, cui corrispondeva una cicatrice sul suo braccio. Il tenente spostò lo sguardo verso le finestre di casa Stoner e vide un uomo con in mano un drink che si dirigeva in una stanza sul retro. Colpito dalla luce del lampadario, il cristallo del bicchiere mandò un bagliore. «Allora, Maggie, che cosa abbiamo?» chiese. «Niente che tu non sappia già. Rachel Deese, diciassette anni, ultimo anno delle superiori alla Duluth High School. Il ragazzo, Kevin, dice di averla vista allontanarsi in macchina da Canal Park verso le dieci di venerdì sera. Da allora in poi, nulla. La sua auto è parcheggiata sul vialetto, ma nessuno l'ha vista arrivare a casa, né uscire a piedi. Tutto questo è successo due giorni fa.» «Controlla i bancomat sulla strada da Canal Park fino a qui» suggerì Stride. «Magari avremo fortuna con un video di sorveglianza.» «Già fatto» disse Maggie, inarcando le sopracciglia come per dire: "Mi credi stupida?". Stride sorrise. Maggie era la poliziotta più in gamba con la quale avesse mai lavorato. «Graeme è il patrigno, giusto? Che cosa sappiamo del padre naturale? Credo che si chiamasse Tommy.» «Buona pista. È venuta in mente anche a me. Ma l'uomo è morto.» «C'è qualche altra persona scomparsa? Il suo ragazzo o qualcosa del genere?» «Nessuna. Se Rachel è scappata di casa, l'ha fatto da sola o con qualcuno che non era della città.» «Chi scappa ha bisogno di un mezzo di trasporto» osservò Stride. «Stiamo controllando l'aeroporto e la stazione degli autobus, qui e nella zona di Superior.»
«I vicini hanno visto qualcosa?» Maggie scosse la testa. «Nulla di interessante, finora. Ma li stiamo ancora interrogando.» «Altre storie in cui la ragazza è stata coinvolta? Molestie, violenza sessuale o simili?» «Guppo ha controllato il database» rispose Maggie. «Nulla su Rachel. Risalendo indietro di qualche anno, si trova qualcosa su Emily e il suo primo marito, il padre di Rachel.» «Di che si tratta?» «Il padre era spesso ubriaco. C'è stata una chiamata per percosse, non seguita da denuncia. Picchiava la moglie, non la figlia.» Stride aggrottò la fronte. «Sappiamo se Rachel e Kerry si conoscevano?» «Il nome di Rachel non è mai venuto fuori, l'anno scorso» rispose Maggie. «Ma chiederemo in giro.» Stride annuì, con lo sguardo inespressivo. Si calò di nuovo nei panni di Rachel, ricreando la sua ultima notte e cercando di immaginare che cosa poteva esserle accaduto lungo la strada. Suppose che fosse arrivata a casa, visto che la sua auto era lì. E poi? Era entrata? C'era qualcuno ad aspettarla? Era uscita di nuovo? Faceva un freddo cane, venerdì sera, e nevischiava. Avrebbe dovuto usare la macchina. A meno che qualcuno non fosse passato a prenderla. «Andiamo a parlare con la famiglia» esortò Stride. Rimase un attimo in silenzio. Di solito, si affidava all'istinto di Maggie. «Che cosa ti dice la pancia, Mags? Scappata di casa, o peggio?» Maggie non esitò. «Con la macchina parcheggiata nel vialetto? Sembra qualcosa di peggio. Ricorda Kerry.» Stride sospirò. «Già.» 3 Stride suonò il campanello. Scorse un'ombra attraverso il vetro opaco e sentì un rumore di passi. La porta di quercia si aprì e apparve un uomo alto circa come lui, in maglione di cachemire scollato a V, camicia bianca e pantaloni marroni. Gli tese una mano. Nell'altra reggeva il bicchiere con il drink e faceva tintinnare il ghiaccio. «Il tenente Stride, giusto?» disse l'uomo. Aveva una stretta energica e il sorriso disinvolto di un uomo abituato ai ricevimenti del circolo sportivo.
«Kyle ci ha detto che sarebbe arrivato. Io sono Graeme Stoner.» Stride annuì in segno di intesa. Aveva recepito il messaggio. Kyle era Kyle Kinnick, il capo della polizia di Duluth, nonché il suo diretto superiore. Il padrone di casa voleva assicurarsi che capisse subito con chi aveva a che fare. Graeme aveva qualche accenno di rughe sulla fronte e agli angoli della bocca e Stride calcolò che dovesse essere più o meno suo coetaneo. Portava i capelli di un color castano scuro tagliati corti e indossava occhialini tondi dalla montatura d'argento. Il suo viso largo e liscio era privo di tratti particolari, come zigomi alti o mento sporgente. Anche a quell'ora di notte, la sua rasatura era perfetta. Di riflesso, Stride si passò una mano sulla guancia ruvida. Graeme gli toccò un braccio. «Andiamo nella veranda sul retro» disse. «In soggiorno non c'è privacy, con tutta quella gente lì fuori.» Stride lo seguì attraverso il soggiorno ammobiliato con divani raffinati e mobili antichi in noce. Graeme indicò i bicchieri dentro una vetrinetta. «Posso offrirle qualcosa da bere? Anche un analcolico, se vuole.» «No, grazie, sto bene così.» Graeme si fermò in mezzo alla stanza, leggermente a disagio. «Devo scusarmi per non essermi rivolto a lei prima, tenente. Quando Kevin è passato di qui, sabato sera, non ero davvero preoccupato per il fatto che Rachel non fosse tornata a casa. Kevin è sempre molto emotivo in tutto ciò che riguarda Rachel e ho pensato che stesse esagerando.» «Ma ora non è più di questa idea» osservò Stride. «Sono passati due giorni. E mia moglie mi ha ricordato quell'altra ragazza scomparsa.» Graeme lo condusse attraverso la sala da pranzo, poi in uno studiolo accogliente con un caminetto in pietra grigia e un tappeto bianco immacolato. Una parete era completamente vetrata e una portafinestra immetteva nel buio del giardino posteriore. Alcune applique di ottone sulle altre pareti illuminavano con discrezione la stanza. A destra della vetrata c'erano due poltrone reclinabili, di fronte al caminetto. Su una delle due era seduta una donna con in mano un bicchiere da brandy, pieno. Salutò Stride con un cenno del capo, senza alzarsi in piedi. «Sono Emily Stoner» disse piano. «La madre di Rachel.» Aveva qualche anno meno di Graeme. Stride notò che da giovane doveva essere stata molto carina, ma che il tempo non era stato clemente con lei. Gli occhi azzurri erano stanchi e un trucco pesante mascherava le oc-
chiaie. I capelli neri tagliati corti erano dritti e poco puliti. Indossava jeans e un maglione blu scuro. Vicino a lei era seduto un uomo sui quarantacinque anni che le teneva la mano. Aveva i capelli grigi pettinati in modo da nascondere la calvizie incipiente. Si alzò e strinse la mano a Stride, lasciandogliela umida di sudore. Il tenente cercò di asciugarsela sui pantaloni senza dare nell'occhio. «Buonasera, tenente. Mi chiamo Dayton Tenby. Sono il pastore della chiesa di Emily. Lei mi ha chiesto di starle vicino, stasera.» Graeme Stoner prese una sedia e si sedette accanto alla vetrata. «Sono certo che ha molte domande da farci. Le diremo tutto ciò che sappiamo, il che comunque non è molto. Se vuole, affrontiamo subito la parte spiacevole. Mia moglie e io non abbiamo nulla a che fare con la sparizione di Rachel, ma capisco che lei debba accertare le responsabilità della famiglia, in situazioni del genere. Siamo pienamente disposti a collaborare e anche a sottoporci al test della macchina della verità, se necessario.» Stride era sorpreso. Di solito era quello il compito più gravoso: far capire ai familiari che erano sospettati. «Per essere onesti, è proprio il tipo di procedura che intenderemmo seguire.» Emily lanciò uno sguardo nervoso al marito. «Non so...» «È la prassi, cara» la rassicurò Graeme. «Tenente, inoltri pure le sue domande ad Archibald Gale, che ci rappresenta in questa vicenda. Possiamo fare tutto domani, se vuole.» Stride fece una smorfia. Alla faccia della collaborazione! Archie Gale era il più temuto penalista nel Minnesota settentrionale e Stride aveva dovuto lottare più volte contro quel vecchio caprone, dal banco dei testimoni. «Ritiene necessario coinvolgere un avvocato?» chiese, in tono freddo. «Non mi fraintenda» rispose Graeme, sempre calmo e cordiale. «Non abbiamo nulla da nascondere, ma viviamo in un'epoca in cui sarebbe sconsiderato non farsi consigliare da un professionista.» «E adesso siete disposti a parlare con me, in assenza di Gale?» Graeme sorrise. «Archie sta tornando con un volo da Chicago. Ha acconsentito con riluttanza a lasciarci ricostruire i fatti senza di lui.» Riluttanza. Conoscendo Gale, quello probabilmente non era il termine giusto. Ma Stride intendeva approfittare dell'occasione. Forse sarebbe stata l'ultima opportunità di parlare con la famiglia senza l'avvocato. Tirò fuori di tasca un taccuino e una penna. Scostò una sedia girevole dalla scrivania e si sedette. «Quando avete visto Rachel per l'ultima volta?»
«Venerdì mattina, prima che andasse a scuola» rispose Graeme. «Ha preso la macchina?» «Sì, l'auto non c'era quando sono rincasato, venerdì sera.» «Ma non ha sentito Rachel rientrare, durante la notte?» «No, sono andato a letto alle dieci e ho il sonno pesante. Non ho sentito nulla.» «Che cosa ha fatto sabato?» «Ho passato quasi tutta la giornata in ufficio, come mi capita spesso.» «E lei, signora Stoner? È rimasta in casa?» Emily, che stava fissando il fuoco, ebbe un sussulto nel sentirsi rivolgere la parola. Bevve un lungo sorso di brandy e Stride si chiese quanto ne avesse già bevuto. «No» rispose la donna. «Sono tornata solo oggi nel primo pomeriggio.» «E dov'era?» Lei fece uno sforzo per concentrarsi. «Stavo rientrando in macchina da Saint Louis. Mia sorella si è trasferita lì parecchi anni fa. Sono partita per tornare qui sabato mattina, ma ero troppo stanca per continuare il viaggio e così ho passato la notte a Minneapolis e sono arrivata a casa poco dopo mezzogiorno.» «Ha parlato con Rachel, mentre era via?» Emily scosse la testa. «Non ha mai telefonato a casa?» La donna esitò. «No.» «Quando ha cominciato a preoccuparsi?» Fu il marito a rispondere. «Dopo che Emily è tornata, ancora non avevamo notizie di Rachel, così abbiamo cominciato a telefonare ai suoi amici.» «A chi, di preciso?» Graeme fece una serie di nomi, che Stride si annotò sul taccuino. «Abbiamo chiamato anche la scuola» aggiunse Graeme «e diversi locali e ristoranti suggeriti dagli amici di Rachel. Nessuno l'aveva vista.» «Ha un fidanzato?» chiese Stride. Emily alzò gli occhi e si scostò una ciocca di capelli dalla fronte. «Rachel cambia spesso ragazzo» disse con voce stanca. «Nessuno dura, con lei.» «È sessualmente attiva?» «Almeno da quando aveva tredici anni. Una volta l'ho sorpresa a letto con un ragazzo.»
«Ma non ha una relazione particolare con qualcuno?» Emily scosse la testa. «Avete già fatto controlli presso parenti o persone da cui potrebbe essere andata?» «Non abbiamo parenti, qui. I miei genitori sono morti e Graeme non è della zona. Ci siamo solo noi.» "Come si sono conosciuti questi due?" annotò Stride. «Signora Stoner, che rapporto ha con sua figlia?» Emily esitò un attimo. «Non siamo mai state molto unite. Quando era piccola, suo padre la viziava e io ero la strega cattiva.» Dayton Tenby aggrottò la fronte. «Questo non è vero, Emily.» «Be', era così che mi sentivo» ribatté lei, secca. Rovesciò un po' di brandy sul maglione e cercò di asciugarlo con le dita. «Dopo la morte del padre, Rachel si è allontanata ancora di più. Quando ho sposato Graeme, speravo che saremmo potuti diventare di nuovo una famiglia. Ma più lei cresceva, più le cose tra noi peggioravano.» «E lei, signor Stoner?» chiese Stride. «Com'è il suo rapporto con Rachel?» Graeme si strinse nelle spalle. «Subito dopo il matrimonio, c'è stato un periodo di relativa vicinanza, ma, come ha detto Emily, con il passare del tempo lei si è allontanata sempre di più.» «Abbiamo provato a riavvicinarci» disse Emily. «L'anno scorso Graeme le ha regalato quella macchina. Lei deve aver pensato che cercavamo di comprare il suo amore e in un certo senso era vero. Ma non ha funzionato.» «Rachel ha mai parlato di scappare di casa?» «È da molto tempo che non ne parla più» rispose Emily. «So che sembra assurdo, ma penso che rimanesse qui perché sapeva che così poteva farci soffrire di più. Le dava un crudele senso di soddisfazione.» «Ha mai manifestato tendenze suicide?» chiese Stride. «Mai. Rachel non si sarebbe mai uccisa.» «Perché ne è così certa?» «Rachel si piaceva troppo. Era sempre sicura di sé. Disprezzava solo noi. O meglio, me.» Emily scosse la testa. «Signor Stoner, è successo qualcosa durante l'assenza di sua moglie? Una discussione, una lite, qualcosa del genere?» «Non è successo nulla. Rachel mi ha ignorato, come sempre.» «Ha parlato di qualche nuova conoscenza?»
«No, ma anche se ne avesse fatta una, dubito che me l'avrebbe detto.» «Ha notato nel vialetto di casa o in strada qualche auto che non conosceva? Ha mai visto Rachel in compagnia di sconosciuti?» Graeme scosse la testa. «Può dirmi qualcosa di lei, signor Stoner? Lavora alla Range Bank, giusto?» Graeme annuì. «Sono vicepresidente esecutivo per le operazioni della banca in Minnesota, Wisconsin, Iowa e Dakota.» «Ha mai ricevuto minacce, a casa o al lavoro? Oppure strane telefonate?» «Non che io ricordi.» «Si è mai sentito in pericolo?» «Mai.» «L'ammontare del suo stipendio è noto a molti?» Graeme aggrottò la fronte. «Immagino che non sia un segreto. In quanto funzionario di banca, sono negli archivi della SEC e il mio stipendio è di pubblico dominio, ma non è tale da far parlare i giornali.» «E non ha ricevuto telefonate, né messaggi che possano indurre a pensare che Rachel sia stata rapita.» «No, nulla» confermò Graeme. Stride chiuse il taccuino. «Per il momento non c'è altro. Dovrò parlare ancora con voi, naturalmente, durante le indagini. Mi metterò in contatto con il signor Gale.» Emily aprì la bocca e la richiuse. Era evidente che voleva intervenire. «Vuole dire qualcosa?» le chiese Stride. «Ecco, è solo... Insomma, il motivo per cui siamo così preoccupati, il motivo per cui ho chiesto a Graeme di chiamare Kyle è...» «Kerry McGrath» mormorò Dayton. «Abitava qui vicino» spiegò Emily. «Frequentava la stessa scuola di Rachel.» Stride aspettò che Emily lo guardasse e sostenne il suo sguardo, con tutta la comprensione possibile. «Non voglio mentirvi» disse. «Cercheremo collegamenti con la scomparsa di Kerry. Sarebbe una negligenza da parte nostra, se non lo facessimo. Ma il fatto che ci siano analogie apparenti tra le due vicende, non significa che la scomparsa di Rachel abbia qualcosa a che fare con quella di Kerry.» Emily tirò su con il naso e annuì, ma i suoi occhi erano lucidi per le lacrime trattenute.
«Se avete domande da farmi, vi prego di chiamarmi» li esortò Stride, tirando fuori un biglietto da visita e posandolo sulla scrivania. Dayton Tenby si alzò e gli sorrise. «L'accompagno fuori, tenente» disse. Il pastore ripercorse con lui il cammino attraverso la casa. Era un uomo nervoso, effeminato, che sembrava intimidito dalla ricchezza dell'arredamento. Camminava come se temesse di lasciare tracce di sporco dove passava. Era alto meno di un metro e settanta, aveva il mento sfuggente, gli occhi piccoli e ravvicinati e il naso sottile. Probabilmente apparteneva al passato di Emily. Prima di Graeme. Accarezzandosi il mento, Dayton gettò occhiate incuriosite ai riflettori e alla folla. «Sembrano avvoltoi, vero?» osservò. «A volte, sì. Ma possono essere utili.» «Certo, lo immagino. È stato gentile a venire, tenente. Rachel è una ragazza difficile e mi dispiacerebbe moltissimo se le fosse accaduto qualcosa.» «Da quanto tempo la conosce?» chiese Stride. «Fin da quando era bambina.» Stride annuì. Prima di Graeme, aveva visto giusto. «Quando ha cominciato a manifestare dei problemi?» Dayton sospirò. «Come ha detto Emily, è stato dopo la morte del padre. Rachel amava moltissimo Tommy. Non è riuscita ad accettarne la perdita e ha cominciato a sfogare tutta la sua rabbia e il suo dolore contro la madre.» «Quanto tempo fa è successo?» Dayton spinse le labbra in fuori e fissò il soffitto. «Rachel aveva otto anni, mi sembra, quando è morto Tommy. Quindi deve essere stato circa nove anni fa.» «Mi dica, reverendo, lei che cosa ne pensa? È possibile che Rachel sia scomparsa di sua volontà? Che sia scappata di casa?» Dayton sembrava illuminato da una certezza divina. «Forse si tratta solo di un pio desiderio, ma è proprio quello che penso: credo che alla fine si scoprirà che, per tutto il tempo in cui l'abbiamo cercata, lei era nascosta da qualche parte e rideva di noi.» 4 Emily tracannò l'ultimo sorso di brandy e si raddrizzò sulla poltrona. Allungò il bicchiere vuoto verso Dayton, che stava tornando. «Ne voglio un altro.»
Dayton prese il bicchiere e andò a riempirlo in soggiorno. Emily aspettò che si fosse allontanato, poi si rivolse a Graeme senza guardarlo negli occhi. «Mi dispiace di non aver telefonato.» «Non preoccuparti. Come sta Janie?» «Sta bene» rispose Emily. «Avevo intenzione di chiamare.» «Ti ho già detto che non importa.» Emily annuì. «Credevo che ti saresti arrabbiato.» «Niente affatto.» «Ti sono mancata?» Graeme fece un gesto, come per allontanare quella domanda. «Che sciocchezza! Sai che mi sento perso senza di te. Ieri volevo andare a fare quattro passi in campagna e non sono neppure stato capace di trovare le mie scarpe da ginnastica.» «Le scarpe» mormorò Emily, scuotendo la testa. Nel bicchiere che le porse Dayton aveva versato una dose di brandy inferiore alla precedente. Emily lo prese e lo vuotò in un colpo solo, ignorando il bruciore in gola. Poi lo diede di nuovo a Dayton e si voltò, ma sapeva che lui aveva visto le lacrime. «Rachel lo fa per punirmi» disse. «Per lei è un gioco.» «Il suo problema forse riguarda più Tommy che te. Anche dopo tutti questi anni.» «Tommy» ripeté Emily, in tono amaro. «Emily, Tommy era suo padre» osservò Dayton. «Lei aveva otto anni e lo vedeva come un uomo infallibile.» «Certo, tutti amavano Tommy» dichiarò Emily. «E io ero sempre la stronza. Nessuno ha mai capito il male che Tommy ci ha fatto.» «Io l'ho capito» disse Dayton. Emily gli prese la mano. «Lo so, grazie. E grazie anche per essere venuto, stasera. Sarei crollata se non ci fossi stato tu.» Graeme si alzò. «Ti accompagno fuori, Dayton» disse, con una cortesia appena accennata. «Farò in modo che la stampa non ti tormenti.» Emily li guardò allontanarsi, ascoltando i loro passi e i rumori della folla quando Graeme aprì la porta. Poi la porta fu richiusa e in casa tornò un silenzio di tomba. Era sola. In quei giorni, si sentiva sempre sola, anche quando era con Graeme. Lui diceva le cose giuste, la trattava bene e la lasciava libera di vivere la sua vita. Ma non fingeva che ci fosse ancora della passione tra loro. Emily
si chiedeva se provasse qualcosa per lei. Aveva evitato apposta di telefonargli da Saint Louis. Voleva farlo arrabbiare, voleva che fosse lui a chiamarla. Se lui l'avesse chiamata, se avesse sentito la sua mancanza, perfino se l'avesse maltrattata, Emily sarebbe stata contenta. Ma Graeme non aveva bisogno di lei. Eccetto quando non riusciva a trovare le scarpe. E poi era tornata a casa e Rachel era scomparsa. Erano anni che si aspettava qualcosa del genere. A volte aveva perfino desiderato che sua figlia se ne andasse. Forse era l'unico modo per sospendere le ostilità e trovare un po' di pace. Non avrebbe mai creduto che si sarebbe sentita così svuotata, che sarebbe riuscita solo a pensare a tutte le occasioni mancate che le avevano tenute divise. Aveva accettato da tempo il fatto che Rachel non avrebbe mai capito quanto lei l'amava, nonostante tutto il veleno che le aveva fatto ingoiare per anni. Anche quando voleva smettere di volerle bene, Emily non ci riusciva. Scomparsa. E se non fosse scappata di casa? Se fosse finita come l'altra ragazza, portata via a forza? «Dove sei, piccola?» sussurrò. Emily udì dei rumori provenire dall'ingresso e capì che Graeme aveva aperto la porta per rientrare in casa. Non voleva vederlo. Non riusciva a sopportare tutto: il suo allontanamento da Graeme e il dolore per Rachel. Si alzò in fretta e corse verso le scale sul retro. Sentì i passi del marito che tornava nello studio. Immaginò che lui, vedendo la stanza vuota, capisse che lei se n'era andata. Emily non si aspettava che la seguisse e Graeme non lo fece. Di lì a poco, infatti, sentì il marito che ticchettava sulla tastiera del computer. Corse su per le scale, al piano superiore. Quella notte non avrebbe dormito nella loro camera da letto. A lui non sarebbe importato. Emily entrò nella stanza di Rachel. Nell'aria aleggiava ancora l'odore di sudore dei poliziotti che avevano perquisito scrivania e cassetti. Emily si sentiva un'estranea, lì. A dire il vero, quella stanza le era sconosciuta, perché raramente ci aveva messo piede quando la figlia era in casa. Era la fortezza privata di Rachel e a nessuno era permesso entrarci. Era un ambiente piuttosto spoglio. Le pareti color giallo chiaro erano prive di poster. I vestiti sporchi di Rachel erano ammucchiati in un angolo, dentro e fuori da un cesto bianco. Sulla scrivania c'erano alcuni libri di scuola, chiusi e aperti, con fogli di appunti che spuntavano dalle pagine.
Solo il letto era in ordine, perché era l'unico punto della stanza che la donna delle pulizie aveva il permesso di toccare. Emily si stese sul letto, sollevò le gambe e piegò le ginocchia contro il petto. Notò la foto sul comodino: Rachel nelle braccia del padre. Emily la girò, per non guardarla, ma si rese conto che sfuggire al passato non era così facile. Sul comodino, accanto alla radiosveglia, c'era un maialino rosa con gli occhiali da sole, ritto sulle zampe posteriori. Un souvenir della Fiera del Minnesota. Erano passati nove anni e Rachel lo teneva ancora accanto al letto. «Tommy» sospirò Emily. Tommy si caricò Rachel sulle spalle. Adesso lei era più alta di quelli che la circondavano e spalancò la bocca per la meraviglia vedendo tutta quella folla. C'erano decine di migliaia di persone, una massa sudata, vibrante, immersa nel calore di una sera di fine agosto. «È incredibile, papà!» gridò Rachel. «Non te l'avevo promesso?» disse Tommy. «Non è un bello spettacolo?» Sollevò in aria Rachel, la fece girare e la rimise a terra. «Possiamo andare sulle giostre, ora?» Emily rise. Sospettava che quella fosse l'ultima cosa che il marito avrebbe voluto fare. Per tutto il giorno, lei aveva guardato Tommy e Rachel immergersi totalmente nella fiera. Lui aveva mangiato di tutto, ingollando pezzi di formaggio fritto a mo' di pop-corn, annaffiati da bicchieroni di birra, e divorando hot dog spezzatino di maiale, cipolline, pannocchie di mais arrostite e imburrate, ravioli fritti e interi sacchetti di mini frittelle. Ora le giostre gli avrebbero rivoltato lo stomaco come un calzino. Ma Tommy non diceva mai di no a Rachel. Quando raggiunsero le attrazioni sulla corsia centrale era calato il buio e la fiera era un turbinio di luci, pieno di gente urlante. Rachel volle fare un giro su ogni giostra. Portò Tommy sull'anello di fuoco, sull'altalena gigante. Poi fu la volta della piovra, della valanga e del tornado. Emily provò un piacere segreto, notando che il volto di Tommy era diventato verde. Ci misero due ore per arrivare in fondo a una corsia e risalire quella successiva. Deviarono verso un gioco del baseball condotto da un imbonitore vestito da diavolo con una spilla che diceva: «Benvenuti all'inferno». L'uomo sorrise, rivelando due incisivi marroni e invitò Tommy a provare. «Se rompe tre piatti, vince il primo premio.» «Qual è il primo premio?» chiese Rachel.
Il diavolo indicò un orso di pezza gigante, grosso, morbido e alto quasi quanto Rachel. Lei spalancò gli occhi e tirò il padre per un braccio. «Lo vincerai per me, papà?» «Puoi scommetterci.» Il diavolo consegnò a Tommy tre palle. Tommy ne prese due nella mano destra e si preparò a lanciare la terza con la sinistra. «Sei ubriaco, Tommy» disse Emily. «E non hai un bell'aspetto.» Tommy lanciò la palla, centrando inpieno uno dei piatti di ceramica. Il piatto si ruppe in mille pezzi e la palla andò a sbattere con violenza contro la parete di alluminio. «Ce l'hai fatta, papà! Ce l'hai fatta'.» Tommy sorrise. Lanciò la seconda palla, spaccando un altro piatto. «Solo un altro e hai vinto, papà!» gridò Rachel. «Prepara un posto sul tuo letto per quell'orso, piccola» disse Tommy. Si preparò per il terzo lancio. La folla alle sue spalle osservava in un silenzio teso, aspettando un altro centro. Invece la palla gli cadde di mano, rimbalzando sul bancone e finendo a terra. Il diavolo rise. Le persone intorno lanciarono esclamazioni di disappunto. Tommy piegò le ginocchia e si afferrò il braccio, gridando. Aveva il volto rosso e contratto. Emily disse la prima cosa che le venne in mente e subito se ne pentì. «Cristo, Tommy, erano anni che non lanciavi una palla da baseball. Che cosa volevi dimostrare?» Rachel le rivolse un'occhiata rabbiosa. Tommy si morse un labbro così forte da farlo sanguinare. Rachel asciugò la goccia di sangue con la mano. «Mi dispiace, tesoro» disse Tommy. Il vecchio diavolo disse: «Non dimentichi il suo premio» e gli tese un maialino con gli occhiali da sole. Tommy lo diede a Rachel con un'aria imbarazzata, ma lei lo prese come se fosse ancora più bello del primo premio. «Mi piace tantissimo, papà!» esclamò. Lui si chinò e lei lo baciò sulle labbra. Emily avvertì una fitta di gelosia. «Credo che sia ora di tornare a casa» disse. Ma Rachel aveva altro in mente. Mentre vagavano in mezzo alle attrazioni, capitarono davanti a quella nota come "il sedile eiettabile": un sedile d'acciaio corazzato che veniva lanciato da una fionda gigante, con a bordo due passeggeri urlanti. Un microfono interno al sedile diffondeva le
loro grida per tutta la fiera. «Wow» disse Rachel, sottovoce. «Posso provare?» «Non mi pare una buona idea, Rachel» intervenne Emily. «Tuo padre non si sente bene e tu sei troppo piccola per una cosa del genere.» «A me non sembri troppo piccola, tesoro» disse Tommy. «E io mi sento benissimo.» «Avanti, Tommy, non essere stupido» lo redarguì Emily. Tommy strizzò l'occhio alla figlia. «Che cosa diciamo in un caso del genere, Rachel?» Rachel fissò la madre e cantilenò, con la sua vocetta da bambina: «Stronza, stronza, stronza!». Emily restò a bocca aperta. Tirò Tommy per un braccio e gli sussurrò all'orecchio: «Gliel'hai insegnato tu? Sei impazzito?». «Merda, Emily, è solo uno scherzo.» «Bene, fatevi pure il vostro fottuto giro su quella giostra» sibilò Emily, odiandosi per aver perso il controllo. Tommy fece finta di essere scioccato. «La mamma ha detto una parolaccia.» Rachel prese per mano il padre e si avviò trionfante con lui. Poi si voltò e disse tutta contenta: «Vaffanculo, mamma!». Emily la raggiunse e fu sul punto di darle uno schiaffo, ma poi si fermò all'improvviso e scoppiò in singhiozzi. Padre e figlia si allontanarono, ignorando il suo pianto. Emily si asciugò le lacrime e si diresse lentamente verso la zona riservata agli spettatori, preparandosi come sempre a fare il tifo per loro. Per il marito che la faceva sentire un insetto e per la figlia che aveva imparato dal padre a odiarla. Mentre venivano legati al sedile, un riflettore illuminò i loro volti. Rachel rideva, temeraria come sempre. Ma Tommy era pallido e il sudore gli imperlava la fronte. Emily si rese conto con orrore che il malessere di Tommy non aveva nulla a che fare con il cibo della fiera, né con un dolore muscolare. Aveva a che fare, invece, con suo padre, morto a trentasette anni, e con suo nonno, morto a trenta. «Non chiedermi di crescere, Emily» le aveva detto lui una volta, in un momento di sobrietà. «Aspettate!» gridò Emily, ma nessuno la udì. Le sensazioni della notte diventarono confuse. La musica e le voci le rimbombavano in testa. Gli odori la soffocavano. «Sta per avere un infarto!» gridò. Quelli intorno a lei risero, credendo
che fosse una battuta. Ping. Il cavo elastico sparò in alto il sedile eiettabile come una freccia. Il microfono trasmise le grida deliziate di Rachel. La sua sembrava un'eccitazione quasi sessuale. Tommy non fiatò. Il sedile rimbalzò su e giù per una trentina di secondi che sembrarono una vita. Poi Emily udì la folla mormorare. Le grida di Rachel si spensero. «Papà?» Emily ora vedeva chiaramente il marito, con la testa piegata di lato, gli occhi rovesciati come due uova sode e la lingua fuori. Lo vide anche Rachel e lanciò un urlo. «Papà! Svegliati, papà.» Emily scavalcò il recinto che delimitava la zona riservata agli spettatori. Gli uomini della giostra riuscirono ad afferrare il sedile e a riportarlo a terra e, mentre Emily correva verso di loro, slegarono Rachel che piangeva isterica, abbracciando il padre. Quando staccarono le cinture di sicurezza a Tommy, lui scivolò a terra, insieme a Rachel che continuava a ripetere il suo nome. In quel momento Emily si era resa conto di essere giunta a una svolta cruciale della sua vita. E una parte di lei, quella più segreta, si era convinta che il futuro sarebbe stato migliore. Per molti aspetti, la vita sarebbe stata più facile, con Tommy morto, anche dal punto di vista finanziario, visto che era lei a mandare avanti la famiglia con il suo lavoro e a pagare i debiti del marito. Ma, nella mente di Rachel, Tommy non era morto. Era rimasto congelato nella sua memoria. Era cominciato il giorno dopo la fiera, mentre tornavano in silenzio a Duluth. Le lacrime sul viso di Rachel si erano asciugate, lasciando il posto a un'incredibile ostilità. A un certo punto la bambina si era voltata verso la madre, con gli occhi freddi e aveva detto, con tremenda convinzione: «Sei stata tu». Emily aveva cercato di spiegarle che Tommy aveva il cuore debole, ma Rachel non aveva voluto ascoltarla. «Papà mi ha sempre detto che, se moriva, era perché tu l'avevi ucciso» aveva dichiarato. E così era cominciata la guerra. Emily, stesa sul letto di Rachel, prese in mano lo stupido maialino.
«Tesoro» disse, «che cosa ti ho fatto per farmi odiare tanto? Come posso farmi perdonare?» 5 Stride abitava in una zona chiamata Park Point, una lingua di terra tra l'estremità meridionale del lago e i porti di Duluth e Superior, nel Wisconsin, estesa quel tanto che bastava a ospitare due file di case ai lati della strada. C'era un solo modo per arrivare a Park Point: il ponte sollevabile sopra il canale. Quindi tutti coloro che vivevano lì dovevano organizzare la propria vita in funzione dell'andirivieni delle navi cariche di ferro. Stride non pensava al ponte mentre guidava meccanicamente, con gli occhi socchiusi, alle quattro del mattino. Quando udì il rauco suono della sirena, pensò che fosse uno scherzo della sua mente stanca. Abbassò il volume della canzone di Sara Evans e si mise in ascolto. Resosi conto che il ponte stava davvero per sollevarsi, accelerò, pur sapendo che non avrebbe fatto in tempo a passare. Contrariato, fermò il pick-up accanto al guardrail e spense il motore, chiedendosi quanto avrebbe dovuto aspettare. Scese, lasciando che l'aria fredda lo svegliasse. Prese un pacchetto di sigarette dal vano portaoggetti e se ne accese una. Aveva davvero poca forza di volontà, ma non gli importava. Fumando, ascoltò il cigolio dell'acciaio del ponte che si alzava. Quella era la sua vita. Era così da un anno, da quando il cancro si era portato via Cindy. La città, che era sempre stata la sua casa, aveva iniziato a sembrargli diversa, più cupa e minacciosa. Le cose familiari, come il ponte e l'odore del lago, erano consumate dai ricordi. Quando lui era giovane, Duluth era una città con un'unica industria, capitale della regione settentrionale dello Stato nota come Iron Range. Una città in cui miliardi di pezzi di taconite venivano rovesciati nelle stive di gigantesche navi, le quali, gravate dal carico, attraversavano il Lago Superiore dirette a nord-est. Una città dura, di minatori muscolosi e di marinai come suo padre. A Stride non sembrava di ricordare che, al tempo della sua giovinezza, la vita fosse migliore, ma si respirava un'atmosfera da piccola città, le persone affrontavano insieme gli alti e bassi dell'industria mineraria: più lavoro, meno lavoro, qualche sciopero. Per nove mesi all'anno, finché il lago non gelava, il ritmo della taconite governava la città. Treni e navi arrivavano e ripartivano. Il ponte si alzava e si abbassava. La materia prima del-
l'acciaio che sarebbe servito a costruire grattacieli, automobili e armi in tutto il mondo iniziava il suo viaggio dal Minnesota settentrionale e arrivava al mare nelle stive delle grandi navi. Ma l'industria della taconite andò in declino, schiacciata dalla concorrenza d'oltremare, e anche la fortuna di Duluth cominciò a scemare. Il ferro non dava più di che vivere. Così i saggi che governavano la città considerarono la sua posizione sul lago e dissero: «Facciamo venire i turisti». L'industria mineraria divenne una specie di attrazione turistica. Vicino al ponte si raccoglieva sempre una piccola folla di curiosi ogni volta che passava una nave. Non in quel momento, comunque. Non a quell'ora. Stride era solo. Tirava lunghe boccate dalla sigaretta e guardava lo scafo arrugginito di una nave strisciare sotto il ponte. Sulla nave c'era un uomo in piedi che fumava, anche lui solo. Sollevò una mano in un vago gesto di saluto e Stride gli fece un cenno di risposta. Quell'uomo avrebbe potuto essere lui, se la sua vita fosse andata come lui pensava da giovane. Stride risalì sul Bronco mentre il ponte si abbassava. Nell'attraversarlo, guardò la nave diretta verso il lago. Una parte di lui la seguì. Succedeva ogni volta. Era un po' anche per quel motivo che abitava lì. I residenti di Point, la "Punta", come veniva familiarmente chiamata, erano una tribù di romantici che sopportavano i venti, le tempeste, il ghiaccio e i turisti per il privilegio di una manciata di idilliache giornate estive, dove non c'era posto più bello al mondo in cui vivere. Condividevano una striscia di sabbia che ogni anno si restringeva di qualche centimetro a causa dell'erosione e che era separata dai minuscoli giardini delle case da erba stentata e alberi. Spesso, nelle domeniche di luglio, Stride si portava fuori una sedia a sdraio e rimaneva per ore seduto a guardare il traffico di barche a vela e navi da carico. La maggior parte delle case, a parte quelle che erano state abbattute e ricostruite da gente di fuori, erano vecchie e fatiscenti, continuamente sferzate dagli elementi. Stride rinnovava l'intonaco ogni primavera, usando sempre i migliori prodotti sul mercato, ma non riusciva mai a farlo durare oltre l'inverno. La sua casa, a solo mezzo chilometro di distanza dal ponte, era larga appena dieci metri, quadrata, con la porta d'ingresso e i due gradini esattamente al centro di un lato. A destra della porta c'era il soggiorno, con una finestra affacciata sul davanti. Separato dalla casa, sulla sinistra, c'era un garage per l'auto, alla fine della striscia di sabbia che fungeva da vialetto
d'accesso. Stride girò la chiave nella serratura, poi spinse la porta con la spalla ed entrò. Chiuse gli occhi, inspirando l'aroma muschiato del legno vecchio e il persistente odore delle chele di granchio cucinate due sere prima. Ma c'era dell'altro. Malgrado fosse passato un anno dalla morte di Cindy, lui ne percepiva ancora olfattivamente la presenza. Forse era solo per via del fatto che, avendo sentito quell'odore misto di sapone ai fiori e di profumo per quindici anni, lo ricordava così bene da trovarlo reale. All'inizio aveva cercato di eliminarlo e aveva tenuto le finestre aperte per giorni, in modo che l'aria del lago lo portasse via. Poi, quando l'aroma aveva cominciato a svanire, si era spaventato e aveva chiuso tutto, per paura di perderlo completamente. Stride entrò in camera da letto e svuotò le tasche sul comodino. Si tolse la giacca di pelle, lasciandola cadere a terra, e si gettò sul letto sfatto. Gli facevano male i piedi e non riusciva a ricordare se si era tolto le scarpe. Comunque non importava. Chiuse gli occhi e lei arrivò, come lui sapeva che avrebbe fatto. Nelle ultime settimane i sogni si erano diradati ma, quella notte, Stride si aspettava di esserne tormentato. Era su una statale, in un luogo imprecisato. Camminava lungo la strada deserta, fiancheggiata da betulle. Al di là della stretta striscia di asfalto, divisa in due corsie da una linea gialla, c'era Kerry McGrath, che gli sorrideva. Aveva il viso imperlato di sudore, perché aveva corso. Il petto si alzava e abbassava in respiri profondi. Lei gesticolava, invitandolo ad attraversare la strada. «Cindy!» gridava lui. Il sorriso sul volto di Kerry svaniva. La ragazza si voltava e cominciava a correre tra gli alberi. Stride cercava di seguirla, scendendo la scarpata e inoltrandosi nel bosco. Si sentiva le gambe pesanti. Aveva qualcosa nella mano destra. Abbassando lo sguardo, vedeva che era una pistola. Udiva un grido in lontananza. Correva sul sentiero, inciampando e tergendosi il sudore dagli occhi. O era pioggia? Attraverso le foglie sembrava filtrare dell'acqua, che trasformava il sentiero in fango e gli bagnava i capelli. Davanti a sé vedeva passare un'ombra, grande e minacciosa. Chiamava di nuovo Kerry per nome. «Cindy.» Tra gli alberi scorgeva qualcuno che lo aspettava, immobile.
Non era Kerry. Era Rachel, nuda, con le braccia alzate e le gambe aperte. La pioggia la inzuppava, gocciolando giù dai seni in rivoli che scendevano sull'addome e poi nella fessura tra le gambe. «Non mi troverai mai» diceva lei. Si voltava e fuggiva e il suo corpo veniva inghiottito dalla foresta. Stride rimaneva a guardarla mentre si allontanava. Poi la stessa ombra minacciosa di prima attraversava il sentiero e scompariva. Stride alzava la pistola. Chiamava Rachel. «Cindy.» Arrivava in una piccola radura, dove la terra era muscosa e bagnata. Un ruscello scendeva verso il lago, ma l'acqua che scorreva tra i sassi era rossa. I rumori e i fruscii della foresta aumentavano fino a diventare assordanti. La pioggia cadeva a scrosci. Lui vedeva Rachel al di là della radura. «Non mi troverai mai» diceva lei di nuovo. Guardando meglio, Stride si rendeva conto che non era più Rachel la figura in piedi di fronte a lui. Era Cindy, che tendeva le braccia verso di lui. Stride vedeva di nuovo l'ombra, che si muoveva dietro di lei. Un mostro. «Non trovi mai nessuno» diceva Cindy. Stride era sdraiato sul letto, con la faccia sepolta nel cuscino. Era mezzo sveglio e, un po' alla volta, riprese contatto con la realtà. Sentì un fruscio di carta e l'aroma del caffè. Aprì un occhio. Maggie Bei era seduta sulla sua poltrona in pelle, con le corte gambe sollevate, una ciambella sbocconcellata in una mano e una tazza sbreccata nell'altra. Aveva aperto a metà le tende e alle sue spalle si vedeva il cielo mattutino sopra il lago. «La tua caffettiera puzza» disse Maggie. «Da quanti anni è li? Dieci?» «Quindici» rispose Stride. Sbatté le palpebre, ma non si mosse. «Che ore sono?» «Le sei del mattino.» «È sempre lunedì?» «Temo proprio di sì.» Stride gemette. Aveva dormito solo novanta minuti. Del resto, Maggie non doveva aver dormito affatto, visto che indossava gli stessi jeans e la stessa giacca di pelle bordeaux della sera prima.
«Sono nudo?» chiese Stride. Maggie rise. «Certo. E hai un bel culo.» Stride sollevò la testa e si guardò. Era vestito. «Spero che tu abbia fatto del caffè anche per me.» Maggie gli indicò il comodino, dove su un tovagliolo erano posati una tazza di caffè fumante e una ciambella al cioccolato. Stride prese un sorso dell'uno e un boccone dell'altra. Si passò una mano tra i capelli, finì il dolce in due morsi e cominciò a sbottonarsi la camicia. Poi sfilò la cintura dai jeans. «Da qui in poi è un disastro.» «Come se non lo sapessi» ribatté Maggie, continuando a mangiare la sua ciambella con calma. «Sì, ti piacerebbe.» Stride scherzava, ma sapeva di essere su un terreno minato. Lui e Maggie lavoravano insieme da sette anni. Lei era un'immigrata cinese che, per aver partecipato ad alcune manifestazioni politiche all'università del Minnesota, non poteva più tornare a casa. Quando Stride l'aveva assunta, si era dimostrata un'allieva in gamba. In meno di un anno, aveva imparato il Diritto meglio di lui e aveva dato prova di possedere un notevole istinto per i dettagli sulla scena del delitto e per l'individuazione dei sospetti. Da allora, Stride l'aveva sempre voluta al proprio fianco. Con il passare del tempo, Maggie era sbocciata. Era diventata più spiritosa e disposta anche all'autoironia. Il suo viso aveva smesso di essere una maschera cupa e si era fatto più espressivo e lei aveva imparato a parlare inglese senza inflessioni, introducendo nella conversazione anche una sana dose di sarcasmo e qualche volgarità. E, strada facendo, si era innamorata di Stride. Era stata Cindy a farglielo notare. Aveva capito al volo i sentimenti di Maggie e lo aveva avvertito che, se non avesse fatto attenzione, avrebbe finito per frantumare il cuore di Mags in tanti pezzi di porcellana cinese. Quando Cindy era morta, Maggie aveva fatto il primo e unico tentativo di conquistare l'amore di Stride. Sei mesi prima, quando lui si sentiva più solo che mai, un freddo mattino di primavera, Maggie era entrata in casa ed era scivolata nel letto accanto a lui. Stride si era svegliato e non ricordava di aver mai visto tanto amore negli occhi di una persona. Era stato sul punto di cedere alla tentazione, perché aveva un tremendo bisogno di una donna e Maggie era affettuosa e disponibile. Ma poi si era ricordato dell'avvertimento di Cindy, aveva pensato ai pez-
zi di porcellana cinese e aveva rifiutato. In seguito Maggie l'aveva ringraziato, dicendo che aveva avuto ragione. La loro amicizia ne sarebbe uscita distrutta e la storia non avrebbe mai funzionato. Stride si era chiesto se lei ne fosse davvero convinta. «Com'è andata dagli Stoner?» chiese Maggie. Stride aprì la porta del bagno, continuando a svestirsi. Entrò nella doccia, rabbrividendo mentre l'acqua fredda si riscaldava lentamente. «La madre sostiene che non c'è nessuna possibilità che si tratti di suicidio» gridò a Maggie. «Tu che ne pensi?» «Le madri non credono mai che ci sia la possibilità di un suicidio» rispose lei. «In questo caso, comunque, direi che se Rachel avesse deciso di farla finita, si sarebbe sparata un colpo in testa davanti a loro, cercando di far schizzare più sangue possibile sui loro bei tappeti.» Stride sorrise. Maggie aveva già inquadrato Rachel: il tipo di ragazza che non si sarebbe nascosta per morire. «E che mi dici della madre e del patrigno?» chiese Maggie. «Conosci la regola: i familiari sono i primi sospettati.» «Hanno deciso volontariamente di sottoporsi al test della macchina della verità» disse Stride. «Però prima dobbiamo esporre le domande a Sua Santità Archie Gale.» Maggie simulò un conato di vomito. «Odio i genitori ricchi» sentenziò. «Chiamano sempre l'avvocato prima della polizia.» Stride prese un asciugamano, si asciugò i capelli, poi se lo drappeggiò intorno ai fianchi e tornò in camera da letto. «Dobbiamo stare attenti» disse. «Controllali tutti e due, ma con discrezione. Graeme mi ha fatto sapere che conosce bene K2.» «Sì, l'ha detto anche a me. Giocano a pallamano insieme. Anche se non riesco a immaginarmi K2 che gioca a pallamano. Di sicuro non su un campo regolamentare.» Stride rise. K2, come erano soliti chiamare tra loro il capo della polizia Kyle Kinnick, era alto all'incirca come Maggie. Perfino il sindaco a volte lo definiva un folletto. «Abbiamo avuto fortuna con una delle telecamere dei bancomat» riferì Maggie. «Nel video si scorge la macchina della ragazza passare a tutta velocità poco dopo le dieci.» «Un punto per Kevin. Era sola?» «Nell'auto non si vede nessun altro.» Stride si infilò un paio di Dockers marroni, una camicia bianca pulita e
un giaccone sportivo blu. «Ho bisogno di un altro caffè» decretò. Maggie lo seguì in cucina. Stride aprì una finestra: l'aria mattutina odorava di gelo e lui si sentì come trafitto da aghi di ghiaccio sul collo. «Apri sempre le finestre, quando fuori fa un freddo cane?» si lamentò Maggie. Stride si versò il caffè e si sedette al massiccio tavolo di cucina. Maggie gettò una rapida occhiata al lavello pieno di piatti sporchi, poi scostò una pila di giornali e una montagna di volantini pubblicitari e fece spazio alla sua tazza. «Vivi così?» chiese. «Come?» «Niente.» «Continuiamo» disse Stride. «Crediamo che la ragazza sia arrivata a casa, perché abbiamo una conferma videoregistrata che era diretta da quella parte e inoltre la sua macchina è parcheggiata sotto casa.» «Nell'auto non abbiamo trovato nulla di strano. Stiamo controllando le impronte, ma non mi aspetterei un granché.» «La domanda successiva è: Rachel è entrata in casa? Che cosa mi dici della sua stanza?» Maggie scosse la testa. «Sappiamo come era vestita quella sera. E in camera sua non abbiamo trovato abiti corrispondenti alla descrizione, quindi non si è cambiata. Abbiamo chiesto alla madre se mancava qualcosa, ma lei non è stata di grande aiuto. Comunque i cassetti erano pieni di capi di vestiario e oggetti personali. Se è partita da sola, voleva viaggiare leggera. E non era neppure in tenuta da jogging, come Kerry.» «Non hai trovato un diario?» chiese Stride. «Lo so, sto sognando.» «Stai sognando» confermò Maggie. «Ho controllato il suo computer. Pochissimi file personali. Ho avviato anche il browser, per vedere se aveva frequentato qualche chat, in cui magari poteva aver incontrato uno psicopatico. Ma nell'e-mail c'era solo roba riguardante la scuola e tra i siti preferiti non c'era niente di strano. Comunque, faremo esaminare il computer dai periti, nel caso fosse possibile recuperare qualcosa tra i dati cancellati.» «I vicini?» chiese Stride. «Qualcuno ricorda di aver visto gente sulla strada, quella notte. Ma era buio e nessuno ha saputo descrivere le facce. Due persone hanno visto ragazze a piedi, ma nessuna che somigliasse a Rachel. Un vicino ha notato un'auto sconosciuta parcheggiata a quattro isolati di distanza. Il testimone
non ricorda molti particolari: era una berlina a quattro porte scura, forse blu o nera. La targa potrebbe essere di un altro Stato. Abbiamo controllato le persone che abitano intorno al luogo in cui è stata vista la macchina. Nessuno possiede un'auto del genere e nessuno ha avuto visitatori da altri Stati.» «Interessante» disse Stride. «Peccato che ci sia solo qualche migliaio di turisti, in città.» «Già.» «Com'è andato il controllo dei trasporti pubblici? Un po' di fortuna, almeno li?» Maggie scosse la testa. «Niente. Dall'aeroporto di Duluth non ci sono stati voli in partenza dopo le dieci di sera di venerdì e fino a sabato mattina. In ogni modo interrogheremo il personale, per sicurezza. Stessa cosa alla Greyhound. Abbiamo controllato la stazione locale e quella del Wisconsin.» «Potrebbe essere scesa a piedi fino alla statale e poi aver proseguito in autostop» disse Stride. «Ci ho pensato. Abbiamo inviato un fax con la sua foto e i dati personali alla polizia e alle pattuglie stradali del Minnesota e di tutti gli Stati confinanti. Guppo ha preparato un'apposita pagina sul nostro sito internet. Abbiamo chiesto alla polizia dello Stato di controllare i fast food e le stazioni di servizio sull'interstatale. I mass media si sono buttati a pesce sulla notizia e grazie a Bird Finch almeno la sua foto sarà rapidamente su tutti i notiziari.» Stride immaginava la quantità di chiamate che avrebbero ricevuto. Durante le ricerche di Kerry McGrath erano arrivate circa duemila telefonate di gente che sosteneva di aver visto la ragazza dappertutto, da New Orleans a Fresno. Con la collaborazione di tutta la nazione, avevano controllato traccia dopo traccia e non erano arrivati da nessuna parte. «I pervertiti?» Maggie sospirò. «In città ci sono cinque persone colpevoli di crimini sessuali di terzo grado. E qualche decina di primo e secondo grado. Andremo a trovarli tutti.» «Okay.» Stride sentiva le tempie scoppiargli per il mal di testa, dovuto non solo alla mancanza di sonno, ma anche alla sensazione di déjà-vu. La scomparsa. Le ricerche. Gli indizi. Non era sicuro di avere la forza di rifare tutto da capo e di sopportare un'altra sconfitta. E inoltre stavolta avrebbe dovuto affrontare quell'inferno da solo, senza Cindy.
«Capo?» lo richiamò Maggie, notando che si era perso nei suoi pensieri. Stride fece un sorriso forzato. «Tutto bene. Senti, se la ragazza è scappata volontariamente, qualcuno deve averla aiutata. Oggi occupati tu di dirigere le ricerche e tienimi aggiornato contattandomi sul cellulare. Io andrò alla sua scuola a parlare con insegnanti e amici. Vediamo se riusciamo a scoprire che cosa le interessava.» 6 Dopo aver trascorso due ore dentro la scuola, Stride sentì il bisogno di una sigaretta. Il fumo per lui era un'abitudine costosa. Comprava un pacchetto, fumava una o due sigarette, poi si irritava con se stesso e gettava via il resto. Ma il giorno dopo gli tornava la voglia e comprava un altro pacchetto. All'interno della scuola era proibito fumare. Nell'atrio principale, tra file di estintori rossi, Stride vide un'uscita che conduceva sul retro e si diresse da quella parte. Attraversò una serie di porte e uscì all'aperto. Si lasciò alle spalle il parcheggio riservato agli insegnanti e un edificio separato che un cartello definiva «Centro tecnico» e arrivò in un campo da calcio deserto, stranamente pieno di gabbiani. Tirò fuori l'accendino e il pacchetto, fece uscire una sigaretta con un colpo del dito e cercò di accenderla controvento. Ci vollero diversi tentativi, ma alla fine ce la fece e il fumo gli riempì i polmoni come un vecchio amico. Si rilassò e sentì che una parte della tensione lo abbandonava. Poi cominciò a tossire. «Quella roba la ucciderà» disse una voce dietro di lui. Stride si sentì colpevole, come un liceale. Si voltò e vide una bionda attraente sui gradini metallici che conducevano a una porta sul retro del centro tecnico. Anche lei aveva una sigaretta tra le dita. Stride le sorrise, rassicurato. «Almeno moriremo contenti» osservò, avvicinandosi alla ringhiera della scalinata. «Mi chiedo sempre se sia meglio essere fumatori o alcolizzati» disse la donna. «Perché non entrambi?» «Ci ho pensato, ma non ho ancora fatto una scelta.» Aveva circa trentacinque anni, indossava un giubbotto di pile e pantaloni neri. Con il corpo atletico e i capelli a caschetto, sembrava un'ex ragazza pompon. Gli occhi azzurro chiaro brillavano in un viso sbarazzino con il
naso all'insù e le guance arrossate per il freddo. Aveva un'aria familiare e Stride glielo disse. «Ci siamo conosciuti l'anno scorso» spiegò lei. «Mi chiamo Andrea Jantzik. Insegno qui e Kerry McGrath era in una delle mie classi. Lei mi ha interrogata durante le indagini sulla sua scomparsa.» «Anche Rachel era una sua studentessa?» Andrea scosse la testa. «Aveva scelto biologia, non chimica. Peggy, la professoressa di biologia, mi ha parlato di lei stamattina. Prima non sapevo neppure chi fosse.» Stride tirò fuori di tasca il foglio accartocciato dove il segretario della scuola aveva scritto la lista delle materie di Rachel e i suoi voti. «Lei non era l'insegnante di inglese di Rachel, l'anno scorso?» «La persona cui lei si riferisce è Robin Jantzik. Insegnava inglese qui. Ma se vuole parlare con lui, deve cercarlo a San Francisco, dove si è trasferito con la sua nuova moglie.» «È il suo ex marito?» chiese Stride. «Sì.» «Mi dispiace. Si sentirebbe meglio se le dicessi che gli uomini sono tutti maiali?» Andrea rise. «Nulla che non sappia già.» Il sorriso cinico della donna diede a Stride l'impressione di guardarsi in uno specchio. Riconosceva le barriere che lei si era costruita intorno, proprio come aveva fatto lui. Poteva vederne il riflesso anche sul suo volto: le rughe intorno alla bocca, lo sguardo spento, il tentativo di ravvivare la pelle con un trucco un po' pesante. «È stato allora che ha ripreso a fumare?» chiese Stride. Lei fece una faccia sorpresa. «È così ovvio?» «A me è capitato qualcosa di simile, un anno fa» disse lui. «E ho ripreso a fumare.» «Io credevo di aver smesso, un anno fa. Invece no.» «Suo marito le ha mai parlato di Rachel?» Andrea scosse la testa. «No. Le lezioni di inglese sono affollatissime.» «Potrebbe indicarmi altri insegnanti o studenti che conoscevano la ragazza?» «Forse dovrebbe parlare con Nancy Carver. Lavora qui part-time come consulente degli studenti. Stamattina aveva molto da dire su Rachel, nella caffetteria.» «Per esempio?»
«Pensa che le ricerche siano una perdita di tempo.» «Ha detto perché?» Andrea scosse la testa in segno di diniego. «Questa donna aveva fatto da consulente a Rachel?» continuò Stride. «Non lo so. Nancy non fa parte dello staff permanente della scuola. Insegna all'università e qui fa volontariato con gli studenti problematici. Quasi tutte ragazze.» «Ha un ufficio nella scuola?» «È più esatto dire uno sgabuzzino. Al secondo piano. Ma l'avverto, lei si porta dietro uno strumento che Nancy non approva affatto.» «La pistola?» chiese Stride, perplesso. «Il pene.» Stride scoppiò a ridere e Andrea si unì alla risata. Si guardarono, consapevoli della sottile attrazione che deriva dalla complicità. Stride non ricordava l'ultima volta in cui si era sentito abbastanza rilassato da trovare divertente qualcosa. Per non parlare dell'ultima volta in cui aveva riso in compagnia di una donna. «Almeno ora sa che cosa l'aspetta.» «Grazie. Mi è stata di grande aiuto, signora Jantzik.» «Mi chiami Andrea e mi dia del tu. O non è permesso dal regolamento?» «È permesso. E tu chiamami Jonathan.» «Preferirei Jon.» «Va benissimo.» Stride esitò, senza sapere perché. Poi si rese conto che aveva voglia di dire qualcos'altro. Invitarla fuori a cena, chiederle qual era il suo colore preferito, rimetterle a posto la ciocca bionda che le era caduta sul viso. La potenza di quel desiderio lo stupì. Forse era perché da tanto tempo non provava nulla del genere. Si era sentito morto dentro e ora gli sembrava di tornare alla vita. «Ti senti bene?» chiese Andrea, con un'espressione preoccupata. Aveva un viso davvero grazioso. «Sì, grazie di nuovo.» La lasciò lì sui gradini. Il momento magico era passato. Ma non del tutto. L'ufficio di Nancy Carver era incassato in una specie di nicchia quasi invisibile dal corridoio. Girando l'angolo, Stride vide una porticina con il nome della donna inciso su una targa di legno appesa a un chiodo. Le foto
e i dépliant attaccati sulla porta promettevano di far venire un attacco isterico al Consiglio scolastico. C'erano ritagli di giornale sui pericoli dell'omofobia, illustrazioni esplicite, una brochure dell'incontro annuale della Società Americana delle Lesbiche Universitarie, con il nome della Carver in evidenza tra quello delle relatrici. C'erano anche parecchie foto di donne in equipaggiamento da campeggio scattate all'aperto. Stride riconobbe le Black Hills e alcune cascate che forse erano in Canada. Le immagini ritraevano per lo più adolescenti e ragazze e, accanto a loro, una quarantenne piccola e robusta, dai capelli corti e rossi e grossi occhiali dalla montatura nera. La quasi tutte le foto appariva con lo stesso abbigliamento: un maglione verde di pile e jeans sbiaditi. Stride osservò le foto con attenzione, ma in nessuna di esse riconobbe Rachel o Kerry. Stava per bussare, quando udì rumori soffocati all'interno dell'ufficio. Cambiando parere, abbassò la maniglia e spinse la porta, la quale andò a sbattere contro una parete sbieca, che rendeva angusto l'accesso. Nella stanza c'erano due persone. Un'adolescente bionda con il viso tondo e i capelli unti giaceva a occhi chiusi su una poltrona reclinabile blu che occupava quasi tutto lo spazio del minuscolo ufficio. Nancy Carver era in piedi alle sue spalle, anche lei con gli occhi chiusi dietro gli occhiali e le massaggiava la fronte con la punta delle dita. Al rumore della porta che sbatté contro la parete entrambe spalancarono gli occhi. La Carver allontanò di scatto le mani dalla testa della ragazza, la quale, invece di guardare Stride, si voltò a guardare lei. Nancy Carver si rivolse all'intruso con un'ira a stento trattenuta. «Come si permette di entrare in questo modo?» Stride assunse un'aria contrita. «Mi dispiace tanto. Avevo bisogno di parlare con lei e non ho pensato che potesse essere occupata.» La ragazza raddrizzò lo schienale della poltrona e si alzò in piedi evitando lo sguardo di Stride. «È ora che torni in classe. Grazie, Nancy.» «Di niente, Sarah» rispose la Carver, con dolcezza. «Giovedì sarò di nuovo qui.» Sarah afferrò una pila di libri dalla scrivania e uscì stringendoseli al petto. Pochi secondi dopo si era già dileguata lungo il corridoio. Stride si chiuse la porta alle spalle. Nancy Carver rimase immobile dietro la poltrona, fissandolo come se fosse uno scarafaggio. Gli occhiali facevano sembrare più grandi i suoi occhi castani. Era ancora più bassa di
quanto risultasse dalle foto, ma con un fisico muscoloso. «Che cosa vuole?» chiese. «Mi chiamo Jonathan Stride» cominciò lui, ma la donna lo interruppe con un gesto impaziente. «Sì, so chi è. È della polizia, sta indagando sulla scomparsa di Rachel e ora sta abusando del mio tempo» tagliò corto, andando a sedersi dietro la scrivania. «Mi dica qualcosa che non so.» Stride si guardò intorno. La scrivania era standard, piano in laminato bianco su una struttura di alluminio. Era ingombra di libri dagli oscuri titoli di argomento psicologico e di cartellette traboccanti di fogli. Il telefono era sommerso di post-it con appunti scarabocchiati. Oltre alla scrivania, alla sedia e alla poltrona reclinabile, nell'ufficio non c'erano altri mobili. Sul muro c'era un pannello di sughero, pieno di foto e articoli simili a quelli appesi sulla porta. Stride si sedette sulla poltrona, estrasse dalla giacca un taccuino e, dopo essersi tastato le tasche in cerca di una penna, lo aprì, voltando alcune pagine e facendo schioccare la lingua in modo irritante. Alla fine, alzò lo sguardo su Nancy Carver, che attendeva sulla sedia con la pazienza di una bomba innescata. «La mia collega mi dice che avrei bisogno di entrare in terapia» esordì Stride, in tono colloquiale. «Fa a tutti i suoi pazienti quel massaggio sul viso?» La Carver rimase impassibile. «Sarah non è una paziente.» «No? Avevo sentito dire che lei è una dottoressa, ma forse mi sono sbagliato. È una massaggiatrice?» «Ho una laurea e un master in psicologia, nonché una cattedra all'università del Minnesota. Ma qui, per le ragazze, sono solo Nancy.» «Capisco. Ma allora cos'era quel numero con Sarah?» «Sarah ha problemi a dormire e le stavo mostrando alcune tecniche di rilassamento. Questo è tutto. In ogni caso, non sono affari suoi.» Stride annuì. «Il rilassamento è un'ottima cosa. La mia collega dice che dovrei provare anche quello.» «Forse dovrebbe dirle anche di arrivare al punto più in fretta. Il suo giochetto è evidente e noioso, quindi perché non mi chiede quello che deve chiedermi e poi mi lascia tornare al mio lavoro?» Per la prima volta Nancy Carver sorrise, ma senza la minima traccia di calore. Stride le restituì il sorriso. «Giochetto?» «Proprio così. Senta, cercare di capire gli altri è il mio lavoro. Perciò
siamo onesti, va bene? Al di là delle sue conclusioni investigative, lei mi giudica un pezzo di carne. Ha concluso che non sono abbastanza attraente da costituire una grave perdita per la comunità eterosessuale, ma ha notato che ho un corpo atletico e, basandosi sul mio atteggiamento aggressivo, ha concluso che a letto probabilmente non sono male. Tutto questo la spinge ad avere fantasie su di me che faccio l'amore con altre donne e a chiedersi se ho rapporti sessuali con qualche ragazza di questa scuola. Così ha assunto questo atteggiamento provocatorio, nella speranza che io diventi insicura e le riveli qualche oscuro segreto.» «Sorprendente!» commentò Stride. «Adesso mi dica chi vincerà le World Series.» Nancy Carver si concesse un altro sorriso tirato. «Ho ragione, vero?» «Be', visto che è stata lei a intavolare l'argomento, glielo chiedo: ha rapporti sessuali con qualche ragazza di questa scuola?» «Io non faccio sesso con minorenni» rispose Nancy Carver, scandendo ogni parola. «Buona risposta. Non era quello che le avevo chiesto, ma è una buona risposta. Mi piacciono le foto che ha sulla porta. A quanto pare, accompagna spesso in campeggio le sue studentesse.» «Io li chiamo "ritiri di tirocinio femminista''.» «E ci sono anche minorenni, in questi ritiri?» «Sì, certo, con l'autorizzazione dei genitori.» «Rachel vi ha mai partecipato?» «No» rispose Nancy Carver. «E Kerry McGrath?» «Neppure. Non ho mai conosciuto Kerry. Vuole insinuare che io sia in qualche modo coinvolta nella loro scomparsa?» Stride scosse la testa. «Niente affatto. Sto solo cercando dei collegamenti.» «Quindi avrà pensato: "Perché non cominciare da un'attivista lesbica?".» «È davvero incredibile la sua capacità di leggere nel pensiero. In qualità di consulente, ha mai assistito una di queste due ragazze?» «Io non sono una consulente.» «Bene. Allora, poiché ha chiarito che non è neppure la massaggiatrice della scuola, le dispiacerebbe dirmi che cosa fa esattamente?» «Sono una mentore, o più semplicemente un'amica. Non c'è nessun rapporto professionale formale.» «Questo è davvero strano» commentò Stride. «Voglio dire, ha una laurea
e un master in psicologia, una cattedra all'università e sulla sua scrivania vedo un sacco di libri sull'argomento.» «Non è affatto strano. In realtà, potrei dire che il responsabile della mia presenza qui è lei.» «Io? In che modo?» Nancy Carver si sporse in avanti, con le mani giunte e gli occhi enormi fissi in quelli di Stride. «Vede, poiché non ha mai ritrovato Kerry McGrath, ha lasciato una quantità di studentesse traumatizzate, in questa scuola.» Stride si irrigidì. «Non la seguo.» «Allora glielo spiego meglio. Dopo la scomparsa di quella ragazza, lo scorso agosto, nella scuola si sono verificati problemi che coinvolgevano una serie di studentesse. Saltavano le lezioni, scoppiavano in lacrime all'improvviso, avevano comportamenti autodistruttivi. Allora ho offerto i miei servizi come assistente volontaria, non in senso professionale, ma solo come persona capace di entrare in relazione con loro e di parlare delle loro paure. L'amministrazione della scuola era talmente preoccupata che nessuno ha fatto storie sulle mie preferenze politiche e sessuali. E io ho scoperto che mi piace lavorare con le ragazze. Così l'impegno è diventato permanente, due pomeriggi alla settimana, e ho portato alcune di loro in ritiro nei boschi. Non sono la loro terapeuta, anche se ovviamente la mia esperienza professionale ha un certo peso. Mi considero solo un'amica, una donna con la quale altre donne si sentono libere di parlare.» «Ha avuto la possibilità di diventare amica di Rachel?» Stride la osservò, aspettando una reazione. Nulla. Nessun trasalimento, nessun tentativo di nascondere qualcosa. Solo quello sguardo fisso. «La conoscevo» rispose la donna, senza tradire alcunché. «La conosceva bene?» «Ci siamo incontrate solo alcune volte. Non era una delle mie visitatoci abituali. E, come ho già detto, non ha mai partecipato a nessun ritiro.» «Perché è venuta da lei?» Nancy Carver rimase a fissarlo in silenzio per qualche secondo, poi disse: «Non sono tenuta a dirlo». «Perché? Mi ha appena detto che non si tratta di rapporti professionali, quindi il segreto professionale non c'entra, giusto?» «Il segreto dipenderebbe da come Rachel percepiva il rapporto tra noi e dal fatto che mi considerasse o meno una terapeuta. Ma, a parte questo, la ragazza mi ha rivelato alcune cose solo a condizione che restassero stret-
tamente confidenziali. Mi ha fatto promettere che non le avrei rivelate a nessuno. E, se mi faccio la reputazione di una persona che tradisce i segreti, non potrò mai avere successo nel mio campo.» «Ma adesso la situazione è cambiata» disse Stride. «La ragazza è scomparsa. Se qualcosa che le ha detto può aiutarci a trovarla, lei ha il dovere di rivelarla.» Nancy Carver scosse la testa. «Temo che non sia affatto vero.» «Dottoressa Carver, Rachel potrebbe essere in serio pericolo» insisté Stride. «Io non so nulla che potrebbe contribuire al suo ritrovamento, mi creda.» «Oggi ha detto a varie persone in questa scuola che pensava che le ricerche fossero una perdita di tempo. Che cosa glielo fa pensare?» «Non avete ritrovato Kerry» rispose Nancy Carver. «Ha qualche ragione di credere che i due casi siano collegati?» «No, non intendevo dire questo. Non ho ragione di crederlo.» «Eppure sembra certa che non troveremo Rachel» ripeté Stride. «Non sono certa che lei voglia essere trovata.» Stride socchiuse gli occhi. Si alzò dalla poltrona e si chinò sulla scrivania, torreggiando sulla donna. «Se ha delle informazioni, dottoressa Carver, voglio conoscerle. Non mi costringa a chiedere un mandato d'arresto per lei.» Nancy Carver non fece una piega. Sostenne il suo sguardo e disse: «Faccia pure. Non può arrestarmi per aver fatto delle supposizioni e non può farmi dire quello che non so. Gliel'ho detto prima e glielo ripeto: non so dove si trovi Rachel. Non so che cosa possa esserle accaduto. Non ho informazioni che potrebbero contribuire al suo ritrovamento». «Ma crede che sia viva» insisté Stride. «Crede che sia fuggita di sua spontanea volontà.» «Ecco quello che penso: tra sei mesi Rachel Deese avrà diciotto anni. A quel punto, anche se la ritrovaste, non potreste riportarla a casa.» Stride scosse la testa. «Con il suo silenzio non l'aiuta. Se lei è scappata, se aveva un motivo per scappare di casa, devo saperlo. Senta, ho già parlato con la madre. So del perenne stato di guerra che c'era tra loro. Ma se Rachel è fuggita ed è sola, potrebbe incappare in guai seri. Non c'è bisogno che le dica che cosa succede alla maggior parte degli adolescenti che scappano di casa, quanti di loro finiscono a fare i vagabondi e quanti cadono nel giro della prostituzione.»
Per un attimo Stride pensò di avere vinto. Scorse un lampo di debolezza negli occhi di Nancy Carver. La donna sapeva che lui stava dicendo la verità. Ma poi sul suo sguardo calò la consueta maschera impenetrabile. «Mi dispiace, non so nulla che possa aiutarla. Qualunque cosa io abbia detto in giro è solo una mia opinione personale.» «E qual è la sua opinione personale?» chiese Stride. Nancy Carver si strinse nelle spalle. «Gliel'ho già detto: non la troverete mai.» 7 A circa quindici chilometri da Duluth, Heather Hubble girò a sinistra sulla statale 53 e imboccò una strada sterrata non segnalata. L'auto sobbalzava tra le buche e sul sedile accanto sua figlia Lissa, di sei anni, sobbalzava insieme all'auto. Era martedì, nel tardo pomeriggio. Heather voleva approfittare della luce radente e delle ombre lunghe del tramonto per fotografare il granaio abbandonato che si trovava a qualche chilometro da lì. Aveva aspettato che i colori dell'autunno cominciassero a spegnersi: le foglie da rosse erano diventate color ruggine; i gialli erano pallidi e verdognoli; molti alberi erano già quasi spogli. Era il momento perfetto. Anche il granaio, del resto, era in avanzato stato di decadenza e la composizione dell'immagine, nelle foto, sarebbe risultata migliore. «Mi piace questa strada, mamma» disse Lissa, saltando su e giù sul sedile. «È divertente.» Premette il naso contro il vetro del finestrino, guardando tra gli alberi. Il vento riempiva l'aria di foglie secche. «Quanto manca?» chiese poi. «Siamo quasi arrivate» rispose la madre. Dietro una curva il granaio apparve all'improvviso, nel campo alla loro sinistra. Heather lo trovava bello e romantico, ma in realtà era un relitto, che forse non sarebbe sopravvissuto a un altro inverno. Il peso della prossima neve avrebbe finito di sfondare il tetto, che aveva già ceduto in diversi punti, lasciando buchi frastagliati. L'intonaco rosso sulle pareti era sbiadito e scrostato. I vetri delle finestre erano stati rotti a sassate dai ragazzi e l'intera struttura sembrava inarcarsi verso l'interno. Heather pensò che, se fosse tornata in febbraio, probabilmente avrebbe trovato solo un mucchio di assi crollate coperte di neve. Svoltò sul vialetto invaso dalle erbacce, che in realtà era solo una pista
scavata dalle auto dei visitatori nel corso degli anni. Fermò la macchina, spense il motore e scese, seguita dalla figlia. «Non sono mai stata qui prima, vero, mamma?» chiese Lissa. «Non credo. Eri a scuola le volte in cui ci sono venuta.» «Posso dare un'occhiata in giro?» «Certo» rispose Heather. «Ma non entrare nel granaio. È pericoloso.» «Sembra un posto popolato da fantasmi» osservò Lissa. «Non credi?» «Potrebbe essere.» «Come mai lo conosci?» domandò la bambina. Heather sorrise. «Ci venivo da ragazza. Molti di noi ci venivano.» «E che cosa facevate?» «Esploravamo il posto, proprio come te.» Non era il caso di raccontarle che ci venivano per fare sesso. Quel granaio abbandonato era il luogo più famoso di Duluth per pomiciare. Tanto famoso che, in un certo periodo, a scuola girava perfino una lista d'attesa, per evitare che ci fossero troppe auto parcheggiate fuori allo stesso tempo. Heather aveva avuto il suo primo rapporto sessuale sul cassone di un pickup parcheggiato dietro il granaio, sotto le stelle. Si chiese se gli studenti usassero ancora quel luogo. C'erano, in realtà, parecchie tracce di pneumatici e varie bottiglie di birra vuote. Guardando meglio, forse si sarebbero trovati anche preservativi usati. Heather lanciò un'occhiata alla figlia. «Ah, non raccogliere nulla da terra, capito?» Lissa si incupì. «Ma così non è divertente!» protestò. Heather si ammorbidì. «Puoi raccogliere sassi e pezzi di legno, ma niente spazzatura, capito? Se non sai che cos'è, non toccare.» Lissa si strinse nelle spalle. «Va bene.» Madre e figlia si separarono. Heather si fermò a guardare la bambina che avanzava nell'erba, poi, convintasi che non c'erano pericoli, cominciò a sistemare il suo equipaggiamento e a cercare un angolo visuale soddisfacente. Quando ebbe trovato il posto giusto, vide Lissa sfrecciare dietro il granaio. «Sta' attenta, là dietro!» le gridò. La figlia rispose qualcosa che lei non riuscì a capire. Heather si inginocchiò, guardando nel mirino della macchina fotografica. L'immagine prendeva forma. Il sole alle sue spalle era vicino alla cima degli alberi. Heather sentì quel formicolio allo stomaco che la prendeva quando era sul punto di ottenere quello che voleva. Controllò di nuovo la
luce e aggiustò l'esposizione. Poi finalmente premette il bottone dello scatto, diverse volte. L'unico rumore era il ronzio della pellicola che si avvolgeva. «Mamma!» gridò Lissa da dietro il granaio. «Vieni a vedere!» «Tra un attimo, tesoro» rispose Heather. La bambina la raggiunse di corsa. «Guarda! Guarda! Guarda che cosa ho trovato.» «Lissa, la mamma ora ha da fare. Di che cosa si tratta?» Heather distolse lo sguardo dal mirino e vide che si trattava di un braccialetto d'oro. «Dove l'hai trovato?» «Dietro il granaio.» Heather assunse un'espressione severa. «Non ti avevo detto di non raccogliere niente?» «Sì, ma non è spazzatura, è un braccialetto.» «Un braccialetto che appartiene a qualcuno che probabilmente tornerà a cercarlo. Perciò vai a rimetterlo dove l'hai trovato.» «Vuoi dire che non posso tenerlo?» Heather sospirò. Lissa amava i gioielli. «No, non puoi tenerlo. È di un'altra persona. Ora va' a riportarlo dove l'hai trovato.» «Secondo me, chi l'ha lasciato non lo vuole più» sentenziò Lissa. «È tutto sporco.» «Allora perché lo vuoi tu?» Lissa non riuscì a trovare subito una risposta. Ci pensò su, poi disse: «Potrei pulirlo». «Potrebbe pulirlo anche la sua proprietaria. Obbedisci senza discutere.» Lissa si voltò e si incamminò a testa bassa verso il retro del granaio. Sollevata, Heather tornò a concentrarsi sulle foto. Accostò l'occhio al mirino e guardò. "Perfetto". Dietro il granaio, Lissa posò malvolentieri il braccialetto dove l'aveva trovato, cioè in una pozzanghera fangosa ai margini del prato. Le sembrava un'ingiustizia e riteneva che nessuno sarebbe venuto a cercarlo. "Ma la mamma ha detto di lasciarlo qui" mormorò tra sé. Se ne fece una ragione e continuò a esplorare. Aveva già messo insieme una nutrita collezione di sassi e di graziosi fiori blu, che aveva infilato nelle tasche del cappotto. Non si rese conto del passare del tempo. A un tratto, sollevò lo sguardo e notò, con sorpresa, che il sole era sceso dietro gli al-
beri. Proprio in quel momento udì la voce di sua madre: «Lissa, vieni! È ora di andare». Una volta tanto, Lissa non se lo fece ripetere. Si mise a correre attraverso il prato, in direzione del granaio, ma per tornare dalla madre dovette passare di nuovo accanto alla pozzanghera dove aveva lasciato il braccialetto. «Lissa!» chiamò di nuovo la madre. Lissa rifletté rapidamente. Voleva quel braccialetto e la persona che lo aveva lasciato lì meritava di perderlo, se era tanto distratta. Inoltre lei l'avrebbe pulito e lo avrebbe tenuto in serbo, nel caso in cui la proprietaria un giorno glielo avesse chiesto. Anche se era quasi sicura che quella persona lo avesse semplicemente gettato via. La mamma non capiva e poi non le piacevano i gioielli. Lissa si chinò, afferrò il braccialetto e se lo mise in tasca. «Arrivo!» gridò e corse dall'altra parte del granaio. PARTE SECONDA 8 Bird Finch camminava su e giù per lo studio, sollevando le lunghe gambe per non pestare i cavi tesi sul pavimento. Nessuno gli rivolgeva la parola. Avevano imparato da tempo che Bird non parlava durante i minuti che precedevano una diretta. Era come drogato dalle sue stesse emozioni e raccoglieva le forze. Quella sera gli ascolti sarebbero saliti di nuovo alle stelle. A tre settimane dalla scomparsa di Rachel era riuscito ad assicurarsi la prima intervista in diretta con Graeme ed Emily Stoner. Per la prima volta i due erano disposti ad affrontare l'argomento davanti alle telecamere. E non sarebbero stati soli. Con loro in studio ci sarebbero stati Mike e Barbara McGrath, dopo oltre un anno di inutili tentativi di ritrovare la figlia Kerry. Due famiglie addolorate sarebbero state con Bird, avrebbero sfogato le loro emozioni e avrebbero inviato un messaggio alla polizia: «C'è un assassino che rapisce le nostre ragazze. Trovatelo». Bird si fermò e incrociò le braccia sul petto. Sul set illuminato, Graeme ed Emily Stoner erano seduti su comode sedie, mentre i truccatori davano gli ultimi ritocchi ai loro visi. I McGrath E raggiunsero e Bird vide le due
famiglie scambiarsi saluti imbarazzati. «Due minuti» annunciò una voce da un altoparlante. Bird emerse dall'oscurità dello studio e attraversò il palco con la grazia di un felino. Si fermò, imponente come una torre nera, davanti ai suoi ospiti che lo fissavano dalle loro sedie. Lui sorrise, scoprendo i denti bianchissimi. Poi strinse loro la mano. «Voglio ringraziarvi per essere qui stasera» disse, con il tono composto e solenne che riservava sempre alle vittime di qualche disgrazia. «Posso immaginare quanto sia difficile per voi, ma è importante che la maggior parte degli abitanti di questo Stato ascoltino la vostra storia. E forse, se Dio vuole, la vostra voce raggiungerà le vostre figlie, o la persona che ve le ha portate via.» «È molto gentile da parte sua, signor Finch» disse Barbara McGrath. «Signori Stoner» continuò Bird «farò tutto il possibile per mettervi a vostro agio. Non pensate alla telecamera. Parlate con me, raccontatemi la vostra storia.» Bird si accomodò sulla sua solita sedia, si passò una mano sulla testa rasata e gettò una rapida occhiata al suo abito per assicurarsi che tutto fosse in ordine: tasche, fazzoletto e polsini. Si schiarì la voce e rivolse agli ospiti un sorriso di comprensione. La luce rossa si accese. «Buonasera, signore e signori» disse Bird. «Sono Jay Finch e stasera vi propongo un'intervista speciale con due famiglie di Duluth, Minnesota. Queste quattro persone si sono incontrate qui per la prima volta, stasera, ma condividono qualcosa che le accomuna.» La telecamera indietreggiò rivelando gli ospiti seduti sul palco. «Quindici mesi fa, Kerry McGrath, la figlia di Mike e Barbara McGrath, è scomparsa dalle strade di Duluth. Tre settimane fa, lo stesso terribile destino è toccato a Rachel Deese, figlia di Emily Stoner e figliastra di suo marito Graeme. Due adolescenti che frequentavano la stessa scuola e vivevano a pochi chilometri di distanza l'una dall'altra. Entrambe scomparse. Tutti noi preghiamo per la loro salvezza, tutti noi temiamo per la loro vita.» Il tono di Bird si indurì. «Gli uomini della polizia non ammettono che questi due crimini siano collegati. Dicono solo che entrambe le indagini sono in corso, ma non sembra che siano vicini alla soluzione di questi misteri. Nel frattempo, le famiglie di Duluth si preparano ad affrontare un'altra notte di sonni agitati. Ogni volta che una delle loro figlie esce per andare a scuola, si chiedono se tornerà a casa. Ogni volta che va a fare visita a
un'amica, telefonano per assicurarsi che sia arrivata. Questi sono gli effetti della paura. Questo è il prezzo del non sapere. E tutta Duluth si pone la stessa domanda: "Che cosa è successo?".» Bird fissò l'obiettivo della telecamera, per dare l'impressione di trovarsi nel soggiorno di ciascun spettatore. «Che cosa è successo? C'è un serial killer che insidia le adolescenti di Duluth? C'è qualcun altro in pericolo? Passerà un altro anno prima del prossimo crimine, o la pazienza del killer si è esaurita? È di nuovo in giro stasera, su un'auto solitaria e rallenta ogni volta che incrocia qualcuno?» Le parole gli bruciavano sulla lingua come caramelle dal sapore aspro. Bird percepiva la paura che stava diffondendo in tutto lo Stato, ma non si sentiva in colpa. Avere paura era necessario. «Non conosciamo la risposta a queste domande» disse Bird, piano. «Non sappiamo che cosa sia davvero successo in quelle due notti. Dio sa che tutti speriamo che Kerry e Rachel siano vive da qualche parte e che presto tornino dai loro genitori. Ma nel frattempo, i cittadini di questo Stato chiedono alla polizia delle risposte. Risposte che avrebbero dovuto ricevere già da molto tempo.» Bird si girò verso Barbara McGrath. «Adesso, ascoltiamo quello che hanno da dire le altre vittime di questi misfatti, le famiglie che soffrono nell'incertezza. Signora McGrath, nel profondo del cuore, lei crede che Kerry sia ancora viva?» Emily udì la risposta della donna, la quale disse quello che tutti si aspettavano: sì, Kerry era viva, lei se lo sentiva nel cuore, sapeva che si trovava da qualche parte e non avrebbe mai smesso di cercarla finché non l'avesse trovata. Poi Barbara McGrath, quell'estranea seduta accanto a lei, fissò la telecamera e parlò direttamente alla figlia. «Kerry, se mi stai ascoltando, sappi che ti vogliamo bene. Pensiamo a te ogni giorno e desideriamo che torni a casa.» L'emozione fu troppa e Barbara con un singhiozzo si nascose il viso tra le mani. Mike McGrath si chinò verso di lei e Barbara appoggiò la testa sulla sua spalla. Lui le accarezzò con delicatezza i capelli. Emily li fissò entrambi con un curioso distacco. Si sentiva lontana. Guardò Graeme e scoprì che anche lui stava studiando la coppia, con un'espressione impenetrabile sul volto privo di emozione. Emily si chiese se provasse quello che provava lei: invidia. Lei invidiava a quelle persone il loro dolore puro, privo di complicazioni e la loro capacità di trovare forza
e conforto l'uno nell'altra. Questo era il motivo per cui si era tanto opposta all'intervista: sapeva che avrebbe dovuto mentire su troppe cose. Avrebbe dovuto dire quello che la gente si aspettava, anche se non era ciò che lei provava. Avrebbe detto quanto le mancava Rachel, chiedendosi allo stesso tempo se era vero. Avrebbe preso la mano di Graeme per conforto e non avrebbe sentito nulla nella sua stretta inerte. L'unica persona che la capiva, che avrebbe potuto aiutarla, non era lì. Emily si sentiva aleggiare sopra il palco come un fantasma. Udì Bird Finch che le rivolgeva la parola, ma la sua voce era come un'eco in fondo a un tunnel. «Signora Stoner, c'è qualcosa che vuol dire a Rachel?» chiese Bird. Emily fissò la telecamera e la luce rossa lampeggiante e rimase senza parole. Era come se potesse davvero vedere Rachel, dall'altra parte dell'obiettivo e come se Rachel potesse davvero vedere lei. Non capiva che cosa stesse succedendo. L'ostilità era radicata in lei da tanto tempo che ancora non sapeva come vivere senza. Rachel se n'era andata, la guerra era finita. Era inimmaginabile pensare di volere davvero che tornasse. Oppure no? Era davvero meglio così? C'erano stati tanti giorni in cui aveva desiderato che Rachel scomparisse. Aveva fantasticato, pensando che, se quel peso le fosse stato tolto, la sua vita sarebbe stata migliore. Forse avrebbe potuto avere di nuovo un marito. Forse avrebbe potuto amare di più la figlia, da lontano. "Che cosa è successo?" «Signora Stoner?» disse Bird. Forse avrebbe dovuto dire a tutti la verità. Se avessero saputo quel segreto, magari l'avrebbero lasciata in pace. La verità era che Rachel era malvagia. Emily aveva un doppio lavoro da quando era morto Tommy e lentamente stava uscendo dai debiti e risalendo dal baratro in cui lui le aveva gettate. Dalle otto alle cinque faceva la cassiera alla Range Bank. Poi saltava in macchina e correva alla libreria del centro commerciale di Miller Hill, dove vendeva romanzi d'amore e numeri di «Playboy» fino alle nove di sera, l'ora di chiusura. Il mondo era una nebbia perenne, in cui lei si muoveva come drogata dallo stress e dalla mancanza di sonno. Tre settimane prima era rincasata con un terrier West Highland. Dopo anni in cui a casa regnavano il silenzio o la calma ostilità di Rachel, era piacevole avere intorno quel cagnolino che abbaiava e giocava. Emily l'a-
veva comprato per Rachel, ma la figlia lo aveva ignorato ed era toccato a lei portarlo fuori la sera e lanciargli il suo finto osso blu perché andasse a riprenderlo. Era stato allora che aveva notato una cosa sorprendente. Quel cagnolino bianco, con il pelo arruffato e le gambe corte, aveva spezzato la sua solitudine. Emily era contenta di tornare a casa la sera. Il cane l'accoglieva come se fosse la persona più importante del mondo. Gli piaceva dormirle in grembo ed Emily gli permetteva di salire anche sul letto. Durante i fine settimana lei lo portava a spasso, legato al guinzaglio, e lasciava che lui la trascinasse su e giù per la strada. Rachel non aveva voluto dargli un nome, così lei l'aveva chiamato Snowball, Palla di neve, perché era piccolo, bianco e veloce e il suo naso freddo al mattino sapeva d'inverno. Tornando a casa in macchina, una sera, anche se mezzo addormentata, Emily cominciò a sorridere alla prospettiva delle feste che Snowball le avrebbe fatto. Solo quando il suo pensiero cadde su Rachel, le comparvero rughe di preoccupazione sul viso e il sorriso svanì. Nel periodo immediatamente successivo alla morte di Tommy, aveva portato Rachel da uno psicologo, ma dopo poche sedute la bambina si era rifiutata di tornarci. Emily aveva parlato con gli insegnanti a scuola, con Dayton in chiesa. Tutti si erano mostrati comprensivi, ma nessuno era stato in grado di aiutarla. Rachel si rifiutava di superare il dolore per la morte di Tommy. Il suo unico piacere sembrava quello di continuare a punire sua madre. Emily parcheggiò nel vialetto davanti alla loro minuscola casa, due stanze da letto al piano di sopra e un giardino che da molto tempo nessuno curava più. Il vialetto d'accesso mostrava crepe profonde, nelle quali era spuntata l'erba. Dentro, si aspettava di sentire il rumore delle zampe di Snowball che le veniva incontro. «Snowball» chiamò, in attesa di udire l'abbaiare del cagnolino in lontananza. Probabilmente Rachel l'aveva chiuso nel giardino posteriore. Entrò in cucina, affamata. Prese un contenitore di plastica con dei broccoli già cotti e se ne mise qualcuno in bocca. Sentì Rachel che scendeva le scale. La figlia entrò in cucina senza salutarla, si lasciò cadere su una sedia e prese dal mucchio della posta un catalogo di «Victoria's Secret». Allungò una mano nel contenitore e prese un po' di broccoli. «Cerchi un Wonderbra?» chiese Emily, sorridendo. Rachel alzò gli occhi e la fissò con uno sguardo cattivo. Emily era troppo stanca per darse-
ne pensiero. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. «Comincia a fare freddo» disse. «Non dovresti lasciare Snowball in giardino.» Rachel voltò una pagina del catalogo. «Non è in giardino. È scappato qualche ora fa.» «Scappato? Come?» «Mi è passato tra le gambe quando sono entrata in casa.» Emily si rese conto di essere agitatissima. «E non l'hai cercato? Si è perso? Devo trovarlo!» Rachel alzò gli occhi dal catalogo. «È corso in strada e una macchina l'ha investito. Mi dispiace.» Emily si appoggiò alla porta, coprendosi la bocca con le mani. Sentì un vuoto enorme nello stomaco, poi un bruciore agli occhi e cominciò a singhiozzare in modo incontrollabile, con le lacrime che le colavano tra le mani. Corse fuori della cucina, senza fiato. Barcollò fino alla porta d'ingresso e sotto il portico, senza far caso al vento freddo. Lasciando la porta aperta, si avviò lungo il vialetto come ubriaca, finché le ginocchia le cedettero. Si accasciò sull'asfalto freddo contro la macchina ancora calda e chiuse gli occhi. Non sapeva quanto tempo fosse rimasta in quella posizione. Quando pensò di muoversi, l'auto era fredda e lei pure. Aveva le dita irrigidite e le lacrime le si erano congelate sulle guance. Era solo un cane, si disse. Eppure in quel momento, provava più dolore che se, tornando a casa, avesse trovato morta Rachel. Si mise a vagare senza meta. Sulla strada non c'era nessuna traccia dell'incidente. Cadde di nuovo in ginocchio e fissò davanti a sé con lo sguardo vacuo. La luce del lampione, vicino al bordo del marciapiede di fronte, era così fioca che a malapena riuscì a scorgere qualcosa. Era impercettibile, tuttavia in qualche modo attrasse la sua attenzione. Guardò meglio, attraverso un velo di lacrime e si sentì invadere dall'orrore. Sapeva di che cosa si trattava. Ma si rifiutava di crederci. Con un impeto improvviso, si alzò in piedi e attraversò la strada. Non voleva guardare, ma non riusciva a distogliere gli occhi da quella cosa sul ciglio della strada. Alla fine, la raggiunse e scosse la testa, ancora incredula. Anche dopo essersi chinata e aver raccolto quell'oggetto sporco, desiderò d'essersi sbagliata. Poi la sua mano si strinse a pugno. Il dolore diventò rabbia. Non aveva mai provato tanto odio. Non era solo Snowball. Erano anni di crudeltà che venivano a galla in un attimo cri-
stallizzato. Emily tremò, quasi travolta dall'ondata di rabbia dentro di lei. Strinse le labbra. Poi urlò un nome che diventò un lamento: «Rachel!». Riattraversò la strada di corsa e si precipitò in casa, sbattendo la porta con tanta rabbia da far tremare le pareti. Non le importava che i vicini la sentissero. Continuò a urlare il nome della figlia. «Rachel!» Entrò in cucina, dove Rachel stava ancora sfogliando con calma il catalogo. La ragazzina alzò gli occhi, per niente sconvolta dalle urla della madre. Non disse nulla. «Sei stata tu!» gridò Emily, con voce strozzata. «Sei stata tu!» Poi aprì il pugno e le mostrò la cosa che teneva in mano. Si trattava dell'osso blu del cagnolino. «Non è scappato» sibilò. «Sei stata tu a farlo uscire, hai aspettato che arrivasse una macchina e gli hai tirato questo perché lo andasse a riprendere. Lo hai ucciso tu!» «Non è vero» disse Rachel. «Non fare l'innocente» esplose Emily. «L'hai ucciso! Brutta stronza senza cuore, hai ucciso il mio cane!» Dopo aver resistito per anni, la barriera cedette di colpo. Emily sollevò Rachel dalla sedia, tirò indietro libraccio e la schiaffeggiò con forza. «L'hai ucciso tu!» gridò di nuovo. Poi le sferrò un altro manrovescio. «Come hai potuto farmi questo?» La schiaffeggiò ancora. E ancora. E ancora. Rachel aveva la guancia rossa come un peperone e segnata dall'impronta delle dita di Emily. Un filo di sangue le colava dalla bocca. Ma lei non si ribellò. Rimase a fissare la madre in silenzio, incassando colpo su colpo, finché la sua furia non si placò. A un tratto, Emily smise di picchiarla, fece un passo indietro, barcollando, poi si coprì il viso con le mani. La cucina piombò di nuovo nel silenzio. Emily si sentiva addosso gli occhi della figlia. Senza una parola, Rachel uscì dalla cucina. Lei la udì salire le scale, entrare in bagno e aprire il rubinetto. Aveva giurato a se stessa che non l'avrebbe mai picchiata, per quanto male potessero andare le cose tra loro. Invece l'aveva fatto. «Signora Stoner?» ripeté Bird Finch. «C'è qualcosa che vorrebbe dire a Rachel, in questo momento?» Emily fissò la telecamera con uno sguardo inespressivo. Gli occhi le si
riempirono di lacrime e il pianto eruppe, incontrollato. Per tutti, quello era il dolore di una madre privata della sua unica figlia. Non c'era bisogno che sapessero la verità. «Vorrei dirle che mi dispiace» singhiozzò Emily. «Mi dispiace tanto.» 9 Stride era solo nel suo angusto ufficio nel seminterrato del municipio. Era venerdì sera. La lampada cromata sulla scrivania gettava un piccolo cerchio di luce sui documenti che stava leggendo. Era tornato in ufficio sul tardi, per portarsi avanti con il lavoro sugli altri crimini avvenuti nelle settimane successive alla scomparsa di Rachel. Si trattava per lo più di liti domestiche, furti, effrazioni. Tutte cose che poteva delegare ai sette sergenti sotto la sua supervisione. Ma la montagna di carta cominciava a essere eccessiva, tanto da nascondere completamente il piano di legno macchiato della scrivania. Il quartier generale del Dipartimento Investigativo della polizia era tranquillo. La sua squadra era andata a casa. A Stride piaceva starsene in ufficio di notte, quando il silenzio era totale e il telefono non squillava. Doveva preoccuparsi solo del ronzio del cercapersone, che lo avvisava, come una zanzara molesta, delle brutte cose che accadevano in città. Stride non trascorreva molto tempo in ufficio, durante il giorno. Lo staff era esiguo e lui doveva seguire personalmente una parte delle indagini. Ma andava bene così. Gli piaceva il lavoro sul campo. E svolgeva la parte amministrativa del suo incarico nelle ore morte, quando non rischiava di essere interrotto. L'amministrazione cittadina non gli aveva certo assicurato una sistemazione lussuosa. I pannelli di gommapiuma sopra la sua testa erano macchiati di umidità, per via delle perdite dei tubi dell'acqua. La moquette industriale grigia puzzava di muffa. La stanza era grande quel tanto che bastava a farci stare una sedia in più per un ospite e questo era l'unico particolare che distingueva l'ufficio di un tenente da quello di un sergente. Stride non si era preoccupato di personalizzare l'ambiente con poster e foto di famiglia, come facevano quasi tutti. C'era solo un vecchio ritratto di Cindy attaccato con una puntina a un pannello di sughero e ormai seminascosto dalle ultime circolari della Sicurezza Interna. Era un luogo freddo e disordinato e Stride era contento di uscirne ogni volta che poteva. Sentì il rumore dell'ascensore poco lontano. Non succedeva quasi mai di notte. Significava che qualcuno stava scendendo dagli uffici del municipio,
al piano di sopra. Stride attese che si aprissero le porte e riconobbe immediatamente la figura da folletto di K2. «Buonasera, Jon» lo salutò Kyle Kinnick. Entrò nell'ufficio di Stride e aggrottò la fronte vedendo la pila di documenti sulla sedia in più. Stride si scusò e spostò le carte sul pavimento, in modo che il suo capo potesse sedersi. «Allora, pensi che sia morta?» chiese Kinnick, senza giri di parole. «Così sembra» rispose Stride. Era inutile cercare di indorare la pillola. «Nove su dieci non tornano a casa vive, a questo punto.» Kinnick allentò il nodo della cravatta. Indossava un abito grigio scuro, un po' troppo largo per il suo corpo minuto. Sembrava appena uscito da una riunione del Consiglio municipale. «Merda! Il sindaco non è affatto contento di questa storia, lo sai. Anche la stampa nazionale ha cominciato a darci il tormento. Vogliono sapere se si tratta di un serial killer, di qualcosa di appetibile anche per loro.» «Non ci sono prove che si tratti di un serial killer.» «Quando mai le prove hanno avuto importanza per quella gente?» borbottò Kinnick, ficcandosi un dito in un orecchio che sporgeva dalla sua piccola testa come una foglia di cavolo. Stride sorrise, ricordando l'imitazione di K2 che Maggie aveva fatto alla festa di San Patrizio. «Lo trovi divertente?» chiese Kinnick. «No, signore, mi scusi. So bene come si comportano i giornalisti. Bird mi sta addosso.» Kinnick sbuffò. Era brusco con i suoi tenenti ed era facilmente bersaglio di battute, ma a Stride piaceva. Era un poliziotto da ufficio, poco tagliato per il lavoro sul campo, ma difendeva fieramente il suo dipartimento con i funzionari cittadini e faceva in modo di incontrare tutti i gruppi di un certo rilievo, dal Rotary all'asilo infantile, e di parlare bene della polizia. Era leale verso la sua squadra e questo era ciò che contava per Stride. «Ti rendi conto che non abbiamo più molto tempo, vero?» fece presente Kinnick, indicando la scrivania traboccante con un movimento del piede calzato in una scarpa nera lucente. «Stai già lavorando troppo a questo caso.» Stride sapeva che era inutile ricordagli che era stato lui stesso a chiedergli di occuparsene personalmente. K2 era un calcolatore e un burocrate. E le autorità cittadine volevano liberarsi di quel caso. In fretta. «I delinquenti collaborano» disse Stride. «E non ci sono casi importanti che richiedano la
mia presenza.» «Ma sappiamo entrambi che siamo già fuori tempo per quanto riguarda la ragazza scomparsa e le probabilità che a questo punto l'indagine decolli sono molto scarse. Sono costretto a togliere il caso a te e a Maggie. Affida il proseguimento delle indagini a Guppo. Se troviamo qualcosa, sei di nuovo dentro.» «Questo non farà altro che dare a Bird altra benzina da gettare sul fuoco» protestò Stride. «È troppo presto. Ci conceda qualche altra settimana. Altrimenti daremo l'impressione di volercene lavare le mani.» «Credi che lo faccia volentieri?» chiese Kinnick. Si grattò la fronte e si passò una mano sui capelli grigi. «Stoner è un mio amico. Ma tu non hai fatto nessun progresso.» «Ho bisogno ancora di tre settimane. Ha detto lei stesso che il sindaco vuole vedere risolta questa storia. Se fra tre settimane non è emerso nulla, allora d'accordo, Guppo può prendere in mano l'indagine. Sta già seguendo anche quella su Kerry.» Kinnick scosse la testa e sospirò come se stesse per fargli una grande concessione. «Due settimane. E se ci capita qualche caso grosso, te ne tiro fuori prima. È chiaro?» Stride annuì. «Lo apprezzo. Grazie, signore.» Il capo si alzò in piedi e si avviò all'ascensore senza aggiungere altro. Le porte si aprirono e lo inghiottirono. Il meccanismo si azionò e lo riportò al quarto piano. Stride fece un respiro profondo. K2 non era sceso per togliergli il caso. Era troppo presto per un passo del genere. Era venuto per fargli sapere che il tempo stringeva. «Che cosa devo fare?» chiese Maggie. Fissò le tre carte, che sommate davano dodici. La carta scoperta del banco era un sei. Stride appoggiò la sigaretta su un portacenere, lasciando che il fumo salisse fino a fondersi con la nuvola grigia sopra il tavolo del black-jack. L'aria era satura. Gli bruciavano gli occhi, in parte per la mancanza di ventilazione e in parte perché era mezzanotte passata. Era sveglio da oltre diciotto ore. Era rimasto in ufficio finché Maggie lo aveva chiamato e lo aveva trascinato fuori. «Fermati» suggerì Stride. «Ma sono solo a dodici. Io penso che dovrei prendere una carta.» Stride scosse la testa. «Ci sono buone probabilità che il banco abbia un dieci. Se fa sedici, dovrà prendere un'altra carta ed è facile che sballi.» «Carta» disse Maggie, testarda. Il banco mise sul tavolo un re di cuori.
«Merda.» Stride aveva quattordici e segnalò con un gesto di non volere carte. Il banco scoprì la sua carta coperta, che era un fante. Poi ne prese un'altra. Era un dieci. «Bastardo» rise Maggie. Stride rise a propria volta. Il banco gli diede due fiches. Il piccolo casinò puzzava del sudore di un centinaio di persone stipate in stanze claustrofobiche. Vista la notte invernale, molti erano vestiti di flanella, ma lì dentro il calore generato dai corpi e dai termosifoni faceva sudare copiosamente. Anche il rumore era forte. Le slot-machine emettevano trilli elettronici e tintinnii di monete e di tanto in tanto il grido di qualcuno che aveva fatto jackpot sovrastava il brusio ovattato delle conversazioni. Giocavano da quasi un'ora e Maggie stava perdendo venti dollari. Stride invece ne stava vincendo quaranta. Prese due fiches e le spinse verso il centro del tavolo. «Stai vincendo» disse Maggie. «Perché non cavalchi l'onda? Se scommetti di più, vinci di più. Punti sempre due dollari, qualunque cosa succeda.» Poi fece una smorfia e schioccò la lingua. Prese dieci fiches e le mise nella zona delle puntate. «Niente palle eh, Stride?» «Parole grosse da parte di una che sta perdendo anche la camicia.» «Non tentarmi» disse lei, strizzandogli l'occhio. Avevano trascorso tutta la giornata a interrogare persone che conoscevano Rachel. Quella visita notturna al casinò sarebbe dovuta servire a dimenticare il caso che li ossessionava da tre settimane. Ma non era stato possibile. Il televisore sospeso sopra il bancone del bar trasmetteva l'intervista di Bird Finch. Non sentivano le parole, ma non ce n'era bisogno. Il linguaggio non verbale di Bird era più che esplicito. «Forse ha ragione» ammise Maggie. «Forse è davvero un serial killer.» Stride la guardò con la coda dell'occhio. Poi scosse la testa, poco convinto. «I due casi non sembrano simili.» «No? Oppure sei tu a non volere che lo siano? Due adolescenti, che abitavano a un paio di chilometri di distanza l'urta dall'altra. Entrambe scomparse senza lasciare traccia.» «È il metodo che non quadra» ribatté Stride. «Abbiamo detto che nel caso di Kerry si è trattato o di un pervertito venuto da fuori, o di un pirata della strada, no?» «Sì, però io non ho mai creduto alla storia dell'investimento. In genere i pirati della strada si limitano a scappare. Non si fermano a nascondere il
cadavere. Io credo che qualcuno l'abbia rapita.» «Va bene, lo penso anch'io. Ma riesci a immaginare lo stesso tizio che va a caccia nelle strade interne di Duluth, dove può essere visto dalle finestre di decine di case? Non quadra, ti dico. Uno che viene da fuori aspetta la sua occasione, cerca una ragazza sola in un posto isolato. Non se ne va su e giù per le strade dei quartieri residenziali. Il rischio è troppo alto.» L'uomo che teneva il banco del black-jack, un tipo con i capelli lunghi e i baffetti sottili, li squadrò con un'occhiata nervosa. Incrociò lo sguardo di Stride e si sforzò di assumere un'aria impassibile. «Quindi, secondo te, è solo una coincidenza?» Stride si strinse nelle spalle. «Duluth non è più una piccola città. Cose del genere possono succedere. Scommetto che la persona che ha rapito Kerry non è neppure più in questo Stato. Invece, per quanto riguarda Rachel, più vado avanti, più mi convinco che la risposta è dentro casa.» «Emily e Graeme hanno superato entrambi il test della macchina della verità» gli ricordò Maggie. «E anche dal controllo sul loro passato sono usciti puliti.» «Lo so, ma non m'importa» disse Stride. «C'è qualcosa di molto strano in quel triangolo. Emily e Rachel impegnate in una guerra senza esclusione di colpi e Graeme che si mette in mezzo all'improvviso. Voglio sapere perché e cosa è successo.» «Potremmo avere dei guai se diamo fastidio alla famiglia senza prove. Che cosa dirà K2?» «K2 vuole risposte. Parliamo di nuovo con quel pastore: Dayton. Qualcuno deve pur sapere che cosa succedeva in quella casa.» «Sì, questo mi sembra sensato.» Maggie sorseggiò il suo drink, aspettando le carte. L'ombrellino di carta nel bicchiere le sbatteva in continuazione sul naso. «Buonasera, tenente.» Stride non capì da dove venisse la voce. Era sospesa da qualche parte nel rumore generale, eppure vicina, come una musica. Si voltò e vide una donna che gli sorrideva. Indossava un soprabito di pelle nera lungo fino alla coscia, con cintura in vita. Aveva i capelli biondi arruffati dal vento e le guance arrossate. «Sono Andrea» disse. «Ti ricordi di me?» «Certo» rispose Stride, goffamente. «Certo che mi ricordo di te.» Maggie si spostò sulla sedia per osservarli entrambi. Incrociò lo sguardo di Stride e tossicchiò. Stride si ricordò che non aveva fatto le presentazioni
e, al tempo stesso, notò che Andrea, avendo capito che loro due erano insieme, si era istintivamente ritratta di un passo. «Scusatemi» disse Stride. «Andrea, questa è la mia collega, Maggie Bei. Siamo venuti a farci un paio di mani per rilassarci dopo una giornata di duro lavoro. Maggie, questa è Andrea Jantzik. Insegna nella scuola di Rachel.» «Molto piacere» disse Maggie. «Vuoi unirti a noi? Stride può insegnarti tutto quello che sa sul black-jack e cioè come vincere senza divertirsi.» Andrea sorrise, scuotendo la testa. «Oh, no, non voglio disturbare.» «Nessun disturbo.» Maggie esitò, poi concluse che non era il caso di fare troppi giri di parole. «Io sono la collega di Stride» chiarì. «Nient'altro.» «Ah» disse Andrea. Poi ripeté: «Ah». «Tra l'altro, stavo proprio pensando di tentare la sorte alle slot-machine. Ce n'è una che chiamano il Grande Maiale, che grugnisce quando fai jackpot. Mi piacerebbe sentire quel grugnito. Perché non prendi il mio posto?» «Dici sul serio?» chiese Andrea. Ma Maggie si era già alzata dalla sedia e ci stava praticamente spingendo sopra Andrea. Finì il suo drink in due sorsi, prese l'ombrellino e se lo mise in tasca. Poi rivolse un cenno di saluto a entrambi. «Divertitevi. Ti chiamo domani, capo.» Stride annuì e aggiunse, con un sorriso sarcastico: «Grazie tante, Mags». Lei gli strizzò l'occhio di nascosto, mentre Andrea si sedeva. Poi, prima di allontanarsi, si chinò a bisbigliargli all'orecchio: «Ti vuole, capo. Non lasciartela scappare». 10 Andrea si tolse il soprabito e lo appoggiò su uno sgabello lì vicino. Indossava una minigonna nera che le copriva appena le cosce atletiche fasciate dai collant neri. Sopra la gonna portava una camicetta di satin rosa, che scintillava sotto le luci del casinò. I due bottoni superiori erano slacciati, scoprendo un lembo di pelle nuda che saliva e scendeva con il ritmo del respiro. Il trucco era impeccabile, dal lucido tenue sulle labbra fino alla delicata ombra di matita intorno agli occhi. Al collo portava una catenina d'oro e gli orecchini di zaffiro mettevano in risalto il colore dei suoi occhi. Ma era evidente che lei non si sentiva a proprio agio con quel look provocante. Si sistemava continuamente la gonna, cercando invano di coprire
le gambe. Aveva un sorriso incerto e giocherellava con la catenina, facendo di tutto per non guardare direttamente Stride. Lui si rese conto che Andrea era nervosa. Non sapeva che cosa dire. Era passato troppo tempo da quando si era cimentato per l'ultima volta nella delicata danza del corteggiamento. Era stato con Cindy per così tanto tempo che non riusciva a farsi venire in mente nulla di intelligente da dire. L'ultima volta che si era trovato in una situazione del genere era stato al liceo e probabilmente non aveva detto nulla di intelligente neppure allora. L'uomo che teneva il banco si schiarì la voce e indicò le carte. «Sai giocare?» chiese Stride. Andrea scosse la testa. «No.» «Preferisci le slot-machine?» «Ecco, a dire la verità, non ho mai giocato d'azzardo» ammise Andrea. Si voltò a guardarlo per una frazione di secondo. «Qualche volta sono venuta qui o al Black Bear con Robin, ma sono sempre rimasta a guardare lui. Questa è la mia prima vera visita al casinò.» L'uomo con i baffetti sospirò. «Perché sei venuta?» chiese Stride. Andrea indicò con un cenno del capo la fila più vicina di slot-machine. Stride si voltò e vide due donne che fingevano di giocare, ma in realtà osservavano lui e Andrea, tra sorrisi e bisbigli. Riconobbe in una di loro una professoressa della scuola. «Le mie amiche» spiegò Andrea. «Sono venute a prendermi, hanno detto che è venerdì sera e che, in quanto divorziata e disponibile, devo mostrare la merce in pubblico. E questo posto è il massimo della vita notturna, a Duluth, se hai più di trent'anni.» «Be', sono contento che ti abbiano convinta.» «Sì, anch'io» disse Andrea. «Vuoi giocare?» chiese Stride. «Sarei felice di aiutarti a perdere un po' di soldi.» Andrea scosse la testa. «Il rumore qui dentro mi fa venire il mal di testa.» «Vuoi andare da qualche altra parte?» chiese Stride. «Conosco un posto in riva al lago dove preparano i migliori margarita della città.» «E la tua collega?» Stride sorrise. «Mags prenderà un taxi.» Stride guardò l'orologio. Era quasi l'una del mattino. Entrarono in Canal
Park, ancora intasato dalle auto che riempivano i parcheggi di tutti i bar e ristoranti. Stride prese la strada che portava al ponte sul canale. «Non ricordo che ci siano buoni bar sulla "Punta"» osservò Andrea. Stride le rivolse uno sguardo imbarazzato. «Ecco, in realtà quello che fa i migliori margarita della città sono io» ammise. «E il posto in riva al lago è casa mia.» «Ah» disse Andrea. La perplessità nel suo tono era percepibile. «Scusa, avrei dovuto dirtelo prima. Senti, non ho cattive intenzioni. Hai detto che ti dava fastidio il rumore e nella veranda di casa mia si sente solo lo sciabordio delle onde. Possiamo andare da qualche altra parte, comunque.» Andrea fissò fuori dal finestrino. «No, va bene. In fondo sono in compagnia di un poliziotto, no? Se provi ad allungare le mani, possono sempre chiamare... te.» Rise, adesso a proprio agio. «Sicura?» «Sì, ma sarà meglio che i tuoi margarita meritino la fatica.» Stride parcheggiò sulla striscia di sabbia che fungeva da vialetto d'accesso. La strada era buia e silenziosa. Scesero dalla macchina e Andrea rimase a guardare la casa e i cespugli scheletriti del giardino con un sorriso perplesso. «Non riesco a credere che tu viva sulla "Punta"» disse. «Probabilmente non riuscirei a vivere in nessun altro posto. Perché?» «È così... poco ospitale. Le tempeste qui devono essere tremende.» «Sì, lo sono» ammise lui. «Probabilmente nevica tanto da seppellirti.» «E a volte gli spruzzi d'acqua arrivano fino al tetto.» «Non hai paura? Io mi sentirei male. Avrei la sensazione che il lago voglia inghiottirmi.» Stride si appoggiò alla capotta dell'auto e fisso Andrea con uno sguardo pensoso. «Per quanto possa sembrare assurdo, a volte penso che le tempeste siano la cosa che mi piace di più, il vero motivo per cui abito qui.» «Non capisco» disse Andrea, confusa. Una raffica di vento improvvisa la fece rabbrividire. «Entriamo in casa.» Stride le passò un braccio intorno alle spalle per scaldarla mentre si avviavano verso la porta. Lei si lasciò stringere e provò una piacevole sensazione. Stride sentiva la sua spalla sotto il soprabito e i suoi capelli che gli sfioravano il viso. Si staccò da lei solo per cercare le chiavi in tasca.
Entrarono in casa. Il corridoio era buio e caldo. L'orologio del nonno ticchettava rassicurante. Dopo aver chiuso la porta, Stride si rese conto che Andrea si era messa un profumo leggero, forse acqua di rose, o qualcosa di simile. Era strano sentire il profumo di un'altra donna dentro casa. «Che cosa volevi dire, prima, Jon, quando parlavi delle tempeste?» Stride le prese il soprabito e lo appese nel guardaroba. In camicetta e minigonna, lei era chiaramente infreddolita. Dopo avere appeso anche la propria giacca di pelle, Stride chiuse l'anta dell'armadio. Andrea lo guardava. Entrambi erano poco più che ombre nel corridoio. «È come se il tempo rimanesse sospeso» rispose Stride. «È come se fossi risucchiato dentro la tempesta e potessi vedere tutto e tutti. Ci sono state volte in cui potrei giurare di aver sentito mio padre. E una volta l'ho perfino visto.» «Tuo padre?» «Lavorava sulle navi da carico. Fu spazzato via dal ponte durante una tempesta invernale, quando avevo quattordici anni.» Andrea scosse la testa. «Mi dispiace.» Stride annuì. «Hai freddo, vero?» «Sono vestita come una stupida, eh?» «Stai benissimo» disse Stride. Sentì l'impulso di prenderla tra le braccia e baciarla, ma resistette. «Grazie. Comunque sì, ho freddo.» «Vuoi un maglione e un paio di jeans? Purtroppo, la moda in questa casa non prevede altro.» «Oh, mi passerà. Qui dentro fa caldo.» Stride sorrise. «Ma io volevo suggerire di andare a sederci nella veranda.» «Nella veranda?» «È riparata e ho anche una stufetta.» «Mi congelerò il culo, Jon.» «Sarebbe un peccato, perché è un culo piuttosto carino.» Malgrado il buio, Stride capì che lei era arrossita. Entrarono in cucina. Lui accese la luce e si rese conto con imbarazzo del caos che regnava nella stanza. Il lavello era pieno di stoviglie, l'angolo da pranzo non veniva pulito da almeno tre giorni e sul tavolo, oltre ai bicchieri e ai piatti sporchi, c'era una quantità di appunti relativi alle indagini. «Carina» commentò Andrea, sorridendo. «Devi scusarmi per il casino. Non sono abituato ad avere ospiti. A parte
Maggie. E lei non ci fa caso. Avrei dovuto pensarci, prima di invitarti.» «Non preoccuparti, non c'è problema.» «Ma la veranda è pulita, giuro. Ti prendo una coperta. Puoi scaldarti i piedi vicino alla stufetta, rannicchiarti sotto la coperta e ti prometto una bella sbronza con i margarita più potenti che tu abbia mai bevuto.» «Affare fatto» approvò Andrea. Quando la caraffa di margarita fu quasi vuota, nessuno dei due fece più molto caso al freddo. Andrea era semisdraiata in una poltrona di vimini, con i piedi che spuntavano da una coperta colorata. Una stufetta davanti alla poltrona diffondeva un calore piacevole e lei aveva lasciato scivolare la coperta fino alla vita. Teneva in mano un bicchiere panciuto e ogni tanto tirava fuori la lingua per leccare una traccia di sale sull'orlo, poi beveva un sorso. Nella penombra Stride la guardava, seduto su una poltrona gemella, e trovava eccitante la sua lingua contro il vetro. L'unica luce proveniva da dentro la casa e proiettava lunghe ombre. Nei punti in cui i vetri non erano coperti dal ghiaccio, si riusciva a vedere l'acqua scura del lago, illuminata da una manciata di stelle e da una mezza luna pallida. Per alcuni, lunghi minuti, rimasero in silenzio l'uno accanto all'altra. Era tardi, ma erano entrambi sveglissimi, attenti ai suoni che li circondavano: lo sciabordio delle onde, il ronzio della stufetta, il soffio dei loro respiri. Una conversazione intermittente interrompeva di tanto in tanto il silenzio. «Sembri molto tranquilla riguardo al tuo divorzio» disse Stride a un tratto. «È una finta?» Lei lo fisso. «Sì.» Alcune strisce di pioggia chiazzarono i vetri. Era un'acqua densa, mista a neve. Il rumore della pioggia aumentò e il vento cominciò a fischiare intorno alla casa, facendo scricchiolare le assi. Stride prese la caraffa e riempì i bicchieri di entrambi. Andrea fece ruotare il cocktail nel bicchiere. Un sorriso triste le apparve sulle labbra. «Ero andata a Miami, a trovare mia sorella Denise che aveva appena avuto un bambino. Tornando a casa, ho trovato un biglietto di Robin. Diceva che aveva bisogno di stare da solo per un po' di tempo. Per scrivere. Per "ritrovare la parte creativa di sé". Non ha mai avuto il coraggio di chia-
marmi, neppure una volta. Mi ha mandato solo cartoline. Fottute cartoline. Yellowstone, Seattle. Scrive un sacco. Ma, a un certo punto del percorso, si è reso conto che con me non riusciva a essere se stesso. Che io soffocavo il suo genio. Perciò era meglio chiudere.» «Merda» mormorò Stride. «Gli ci sono volute cinque settimane e dieci cartoline per dichiarare finito il nostro matrimonio e dirmi che aveva trovato un'altra a San Francisco. Me l'ha scritto su una cartolina con sopra il fottuto Golden Gate.» «Mi dispiace» disse Stride. «Va bene così. Non è tanto lui che mi manca. Il fatto è che odio essere sola.» «A me mancano le piccole cose» osservò Stride, a bassa voce. «Ho freddo al mattino. A volte mi capita ancora di svegliarmi e di voltarmi per stringermi a Cindy. Lei si lamentava delle mie mani fredde, ma mi scaldava sempre. Ora non c'è più e così mi tocca congelare.» Sentì le proprie parole morire nel silenzio. Anche senza che Andrea lo dicesse, lui sapeva che lei desiderava che raccontasse di più. In macchina Stride aveva accennato alla morte di Cindy, ma solo di sfuggita, perché non voleva che la sua ombra oscurasse la serata. Andrea si era mostrata dispiaciuta e comprensiva, ma come chiunque altro non aveva idea di cosa dire o fare per confortarlo. Un piccolo dettaglio, come il ricordo del suo scaldarsi nel letto accanto a Cindy, era bastato a far venire a Stride la voglia di raccontare una quantità di altre storie. Ma rimase in un ostinato silenzio. Adesso nevicava forte. Il ghiaccio sui vetri impediva di vedere fuori. Stride notò che la caraffa era vuota. Guardò l'orologio, ma era troppo buio per riuscire a distinguere l'ora. «Hai mantenuto la promessa» disse Andrea. «Quale promessa?» «Quella di farmi ubriacare. Grazie.» Stride annuì. «Non c'è di che.» Andrea lo fissava. O almeno a lui sembrava che lo facesse, dal momento che la vedeva a malapena. «Dimmi una cosa» disse lei. «Vuoi scoparmi?» Era una di quelle domande che esigevano una risposta immediata. L'alcol che Stride aveva bevuto e la tensione che sentiva nella zona inguinale non lasciavano dubbi. Solo che a lui sembrava di tradire Cindy. «Sì» ammise.
«Ma?...» disse lei, avvertendo l'esitazione nella sua voce. «Ma sono ubriaco e non so se sarei... come dire, all'altezza della situazione.» «Sei un bugiardo.» «Sì.» «Non hai più fatto sesso da quando lei è morta, vero?» «È vero.» Andrea scivolò giù dalla poltrona di vimini. Stride non si mosse. La vide sollevare la gonna e abbassare i collant e le mutandine. Se li tolse del tutto e li gettò di lato. Era una bionda naturale, con una macchia stopposa di pelo pubico tra le cosce snelle. Si slacciò anche la camicetta e il reggiseno scoprendo il seno con i capezzoli eretti. Poi si chinò su di lui, abbassandogli la cerniera dei jeans e scoprì la sua erezione. «Sembra che tu sia all'altezza» disse. «Sembra di sì.» Andrea estrasse il pene dai pantaloni con qualche difficoltà. Con una mossa rapida della gamba gli montò a cavalcioni. Con una mano teneva dritto il sesso di Stride, con l'altra si aprì le labbra della vagina e calò su di lui. Sentendosi entrare dentro di lei, Stride gemette. «Ti piace?» «Mi piace.» «Bene.» Lui le accarezzò i capezzoli con la punta delle dita. «Più forte» disse lei. Stride glieli pizzicò, poi strinse i seni tra le grosse mani. Andrea gridò di piacere e si chinò a baciarlo, spingendogli la lingua tra le labbra. Le sue natiche salivano e scendevano. Stride cercò il clitoride con una mano e cominciò ad accarezzarlo con gesti circolari. La poltrona scricchiolò sotto il loro peso. Stride sentì che stava per venire. Un orgasmo rapido, bellissimo. E sembrava che anche Andrea stesse per averne uno. Gettò la testa all'indietro, con un sorriso selvaggio. Stride le prese un capezzolo in bocca e lei gli tenne ferma la testa con una mano. Lui leccò e morse il capezzolo e la sensazione di quel piccolo pezzo di carne in bocca gli fece superare il punto di non ritorno. Inarcò i fianchi e venne con la bocca chiusa sul capezzolo. Stranamente Andrea cominciò a ridere. «Dio» mormorò, quasi tra sé. «E quel bastardo diceva che a letto ero
fredda.» 11 «Allora?» chiese Maggie. Batté i piedi sul pavimento del pick-up di Stride per far cadere la neve dalle scarpe, poi incrociò le braccia e lo fissò, in attesa. «Allora cosa?» ripeté Stride, sorridendo. «Conosco quel sorriso!» esclamò Maggie, dandogli un pugno sul braccio. «È quello di un uomo che ha avuto una notte fortunata. Non te l'avevo detto? Avevo ragione, sì o no?» «Mags, per favore.» «Dài, capo, voglio tutti i particolari.» «Va bene, va bene. Abbiamo fatto tardi, ci siamo ubriacati e siamo finiti a letto. È stato bello. Sei soddisfatta?» «Io no, ma tu direi proprio di sì.» Stride le lanciò un'occhiata di traverso, poi uscì dal parcheggio sotto casa di Maggie. I pneumatici slittarono. Erano caduti solo quattro o cinque centimetri di neve, durante la notte: abbastanza per rendere pericolose le strade, ma non per far intervenire gli spazzaneve. Stride sbatté le palpebre. Aveva gli occhi arrossati. «E come ti senti?» chiese Maggie. Lui strinse il volante e frenò con delicatezza a uno stop. «Colpevole come un ladro, se vuoi saperlo.» «Ma non stai tradendo Cindy» lo rassicurò Maggie. «Lei sarebbe molto seccata se sapesse che hai aspettato tanto.» «Lo so» ammise Stride. «È quello che cerco di dirmi anch'io, ma il mio cuore non ci crede.» Aveva sognato Cindy, quella notte. E quando si era svegliato e per la prima volta in un anno aveva sentito un corpo caldo accanto a sé, lì per lì aveva davvero pensato che fosse lei. Mezzo addormentato com'era, aveva pensato che la tragedia dell'anno prima fosse un incubo e che, nella realtà, Cindy fosse ancora lì con lui. Poi aveva visto Andrea e aveva provato una fitta di dolore. Non era giusto. Andrea era carina e dolce. Il suo corpo nudo era eccitante. Ma lui aveva dovuto ricacciare indietro le lacrime. «Era la prima volta» disse Maggie. «Ora sei rientrato in campo. E diventerà sempre più facile.» «Forse. Domani sera Andrea e io ci rivedremo.»
Maggie fece un sorriso malizioso. «Ah, capisco. Una volta estratta l'arma dal fodero, non riesci più a smettere di sparare eh?» Stride le scoccò un'occhiata. «Sei davvero volgare, Maggie. Chi ti ha insegnato espressioni del genere?» «Tu.» «Sì, sì» disse Stride, ridacchiando. «State attenti, però» avvertì Maggie. «Tu stai elaborando il lutto e lei sta uscendo da un divorzio. È terreno minato.» «Da quando sei diventata un'esperta in campo sentimentale?» chiese Stride, pentendosi subito del tono acido che gli era uscito. «Diciamo solo che so qualcosa su come riprendersi da una caduta, va bene?» Stride non replicò e proseguirono in silenzio, diretti verso la zona sud della città. Passarono accanto al porto e attraversarono un reticolo di binari che portava dentro e fuori dalle banchine di carico. L'edilizia non era granché sviluppata, lì. Solo qualche bar senza finestre, negozi di alcolici e stazioni di servizio. Dopo un altro paio di chilometri si trovarono all'estrema periferia di Duluth, dove un gruppo di vecchie case sorgeva sul terreno vicino all'interstatale. Risalivano quasi tutte a prima degli anni Quaranta e a quell'epoca erano alloggi per gli operai, modesti ma confortevoli, mentre adesso erano edifici fatiscenti e la zona era il quartier generale degli spacciatori di Duluth. «Sposare Graeme è stato un bel salto di qualità per Emily» disse Maggie. «Mi chiedo come abbia fatto ad accalappiarlo.» «Be', il buon reverendo ha detto che Emily era un bel bocconcino, alcuni anni fa.» «Ha detto questo?» «Sto parafrasando. Ma Emily è ancora molto vicina a Dayton e lui sembra sapere più cose di chiunque altro su lei e Rachel.» «Ma ce le dirà?» chiese Maggie. «Ha accettato di vederci. È già qualcosa.» Stride percorse una serie di strade innevate, fiancheggiate da auto in sosta coperte di neve e simili a bianche collinette. La chiesa di cui Dayton era il pastore era una testa di ponte contro il crimine e il vandalismo. Il prato sul davanti era meticolosamente curato e contornato da siepi ben potate, incappucciate dalla neve. C'era un parco giochi per i bambini e un'altalena in legno di cedro. La chiesa era stata ridipinta di fresco.
Stride lasciò le prime tracce di pneumatici della giornata nel parcheggio immacolato. Quando scesero dalla macchina l'aria era fredda e frizzante. L'atrio della chiesa era gelido. Lui e Maggie si strinsero nelle giacche e si guardarono intorno. Stride notò una bacheca piena di volantini con la pubblicità di comunità di recupero per tossicodipendenti, seminari di prevenzione della violenza e servizi di consulenza per il divorzio. Al centro c'era la foto di Rachel, con sotto l'annuncio della sua scomparsa. «C'è qualcuno?» chiese Stride ad alta voce. Udì un movimento da qualche parte e una voce attutita. Pochi secondi dopo dall'oscurità di un lungo corridoio apparve Dayton Tenby. Indossava pantaloni scuri e un maglione grigio con toppe di pelle sui gomiti. Li salutò con un sorriso nervoso e con la sua stretta di mano sudata. Anche la fronte era coperta da una patina di sudore. Portava una penna dietro l'orecchio e sottobraccio aveva un blocco giallo coperto da una scrittura disordinata. «Scusatemi per non essermi fatto trovare qui ad attendervi» disse. «Stavo scrivendo il sermone di domani. Andiamo sul retro, dove fa più caldo.» Fece loro strada verso il suo piccolo appartamento, arredato con mobili di legno scuro e un grande quadro a olio di Gesù Cristo appeso sopra il caminetto. Il fuoco acceso creava un'atmosfera confortevole. Dayton si accomodò su una poltrona verde accanto al caminetto e posò il blocco giallo su un tavolino. Indicò loro un divano antico dall'aspetto scomodo. Stride e Maggie si sedettero. Lei si adattò perfettamente alla struttura del divano, mentre Stride fece fatica a trovare una posizione comoda. «Quando ci siamo conosciuti» cominciò Stride «lei si è detto convinto che Rachel fosse scappata. Lo pensa ancora?» Dayton assunse un'espressione perplessa. «È passato troppo tempo perché si tratti di un gioco infantile. Non lo direi mai agli Stoner, ma comincio a temere che si tratti di qualcosa di peggio.» «Che cosa, per esempio?» chiese Maggie. «Non lo so. Pensate che sia stata rapita?» «Non escludiamo alcuna possibilità» rispose Stride. «Per il momento, stiamo cercando di scoprire tutto quello che possiamo sui rapporti di Rachel con gli altri e sul suo passato. E poiché lei conosce la ragazza e la sua famiglia da molto tempo, abbiamo pensato che potesse aiutarci.» Dayton annuì. «Capisco.» «Lei sembra riluttante a parlare» osservò Maggie. Dayton intrecciò le mani in grembo. «Non si tratta di riluttanza. Sto cer-
cando di decidere che cosa posso e non posso dire. Ci sono cose di cui sono venuto a conoscenza nel mio ruolo di consigliere spirituale e che devono restare confidenziali. Sono certo che lo capirete.» «Vuol dire che è stato consigliere anche di Rachel?» chiese Stride. «Per un breve periodo, molto tempo fa. Ho lavorato molto di più con Emily. Lei e io abbiamo tentato per anni di risolvere il problema del rapporto con Rachel. Senza molto successo, devo dire.» «Tutto quello che ci può raccontare ci sarà d'aiuto» sottolineò Maggie. «Ho detto a Emily che sareste venuti» avvertì Dayton. «Immaginavo che sarebbe venuto fuori questo argomento. Emily mi ha dato il permesso di riferirvi liberamente le nostre conversazioni. Non ho il permesso di Rachel, ma date le circostanze sono certo che tacendo le farei un danno. Devo aggiungere però che Rachel mi ha detto molto poco che possa servire a far luce sulla sua anima.» «Cominciamo dall'inizio, magari» suggerì Stride. «Giusto. Be', sapete già che gran parte dei problemi tra Emily e Rachel risalgono a quando Emily era sposata con Tommy Deese, il suo primo marito. Lui ha scavato tra madre e figlia un solco che, dopo la sua morte, si è allargato ulteriormente. Io ho saputo tutto ciò solo in un secondo tempo. Conoscevo entrambi, ma nessuno dei due all'epoca venne a confidarsi con me.» «Vivevano da queste parti?» chiese Maggie. «Sì, proprio in fondo a questa strada.» «Rachel aveva molti amici?» chiese Stride. Dayton tamburellò le dita sul tavolino. «Non direi. L'unico forse era Kevin. Ha sempre avuto una cotta per lei, ma si è trattato di un amore a senso unico.» «Si riferisce allo stesso Kevin che era con Rachel a Canal Park, la notte della sua scomparsa?» chiese Maggie. «Sì. Kevin e la sua famiglia vivono ancora qui. Sono sicuro che lui diventerà un avvocato di successo, o il vicepresidente di una grande azienda. La sua unica debolezza è Rachel. Ha sempre voluto salvarla, ma a Rachel non interessava essere salvata. Per fortuna, ora Kevin sta con Sally, che è una brava ragazza. So che questo può sembrare duro da parte mia. Non ho nulla contro Rachel, ma credo che non sarebbe stata la persona giusta per Kevin.» Maggie annuì. «Dunque, lei non crede che Kevin possa avere qualcosa a che fare con la scomparsa di Rachel.»
L'espressione di Dayton era sinceramente stupita. «Kevin? Oh, no. È impossibile.» «Parliamo di Emily e Graeme» intervenne Stride. «Rachel provava rancore nei confronti di Graeme? O di Emily, perché aveva portato un altro uomo nella loro vita?» «Sareste portati a crederlo, vero?» disse Dayton. «Eppure, almeno all'inizio, sembrava che andassero d'amore e d'accordo. Credo che Rachel pensasse di usare Graeme contro Emily, mettendoli l'uno contro l'altra. E forse ci è riuscita. Il loro non è un matrimonio felice.» «Perché?» chiese Maggie. «Liti? Infedeltà?» Dayton alzò una mano. «Ho bisogno di un bicchiere d'acqua. Non posso permettermi di avere la gola irritata, prima del sermone. Vi posso offrire qualcosa?» Stride e Maggie scossero la testa. Dayton sorrise e uscì dalla stanza. Udirono i suoi passi sul pavimento, poi il rumore dell'acqua che scorreva nelle tubature. Il pastore tornò pochi secondi dopo, con in mano un bicchiere di plastica rossa. «Scusatemi» disse, rimettendosi a sedere. Sembrava più rilassato. «Dove eravamo rimasti?» «Emily e Graeme» rispose Maggie. «Sì, certo. Be', non credo che ci siano state violenze. Penso che si tratti del problema opposto: niente passione. Sembra che, semplicemente, i due non si amino.» «E allora perché si sono sposati?» chiese Stride. «Graeme è un uomo di successo e ritengo che Emily si sia lasciata attrarre dai molti zeri sulla sua busta paga. Quando una ha lottato tutta la vita per sbarcare il lunario, la possibilità di un'esistenza agiata è una forte tentazione.» «E Graeme?» chiese Maggie. «Senza offesa, ma Emily non sembra il tipo di donna per cui un pezzo grosso di una banca perderebbe la testa.» Dayton la guardò con un sorriso divertito. «Chi può dire con certezza che cosa scatena l'attrazione di una persona per un'altra? Emily è una bella donna. Rachel non ha preso la sua avvenenza solo da Tommy, a dispetto di ciò che Emily crede. Inoltre, molti uomini sono attratti da donne che hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro. E forse questo può essere stato il caso di Graeme.» A Stride Graeme non era sembrato affatto quel tipo di uomo. «Come si sono conosciuti?» chiese.
«Ah, è stata una cosa molto dolce, a sentire Emily» disse Dayton, a voce improvvisamente più alta. Il suo tono sembrava forzato. «Graeme era entrato alla Range Bank da un anno e la maggior parte del personale femminile gli aveva messo gli occhi addosso. Bello, sicuro di sé, con una posizione di alto livello e scapolo. Che cosa si poteva chiedere di meglio? Lui però sembrava indifferente. Emily me ne ha parlato un paio di volte, ma senza nemmeno sognarsi che potesse guardare lei. Non ha neppure provato a farsi notare e probabilmente questo ha giocato a suo favore. Forse Graeme è stato incuriosito da lei perché sembrava l'unica immune al suo fascino. In ogni caso, un giorno lui le si è avvicinato nel parcheggio della banca, dopo il lavoro, e l'ha invitata a bere qualcosa. Pare che l'avesse notata da tempo, senza mai avere il coraggio di abbordarla. Buffo, vero? Non si può mai sapere come vanno le cose.» «Eh, già» commentò Stride, lanciando un'occhiata a Maggie, che aggrottò la fronte. «Poco tempo dopo si sposarono» continuò Dayton. «Un colpo di fulmine.» Maggie scosse la testa. «E pochi anni dopo la passione è finita del tutto?» «Succede» rispose Dayton. «Lo vedo accadere fin troppo spesso.» Stride annuì. «Mi perdoni, padre, ma c'è qualcosa che non capisco. Graeme ha invitato Emily a bere qualcosa e fin qui niente di strano. Ma trovo difficile credere che i due abbiano scoperto di avere così tanto in comune da decidere quasi subito di sposarsi. So che può sembrare cattivo da parte mia, ma Emily ha cercato di intrappolarlo?» A disagio, Dayton si morse un labbro. «Non capisco che cosa intende dire.» Maggie sorrise. «Farlo cadere in trappola. Come lei sa, le donne sono abilissime nel manipolare gli uomini per piegarli ai loro voleri. È un'arte.» Dayton fece un sorrisetto nervoso. «Non credo che Emily abbia messo in atto un piano prestabilito. Era troppo abbagliata. Come ho detto, forse a causa del denaro non ha dato la giusta importanza al fatto che non provava una grande passione. Ma non credo che abbia ingannato Graeme intenzionalmente.» «Padre, noi dobbiamo sapere la verità» insisté Stride. «È ovvio che c'è qualcosa di più.» Dayton annuì. «È vero, però questo qualcosa non ha nulla a che fare con Rachel, perciò non vedo perché dovrei parlarne.»
«Se non abbiamo tutti i pezzi, non potremo mai ricomporre il puzzle» disse Maggie. «Capisco.» Dayton si asciugò il viso sudato. «Ecco, poche settimane dopo l'inizio della relazione con Graeme, Emily ha scoperto di essere incinta. È stato questo che li ha portati al matrimonio.» «Sono certo che Graeme ne fosse entusiasta» mormorò Stride. «Purtroppo no. Avrebbe voluto che Emily abortisse, ma lei si è rifiutata. Credo che lui avrebbe preferito troncare tutto, ma in una piccola città come Duluth un uomo nella sua posizione non può permettersi uno scandalo. Così l'ha sposata.» «E il bambino?» chiese Maggie. «Aborto spontaneo sei mesi dopo. Emily ha rischiato di morire.» «E Graeme non ha cercato di ottenere un divorzio consensuale?» «No» disse Dayton. «Sembrava essersi rassegnato a quel matrimonio. Inoltre, immagino, un divorzio gli sarebbe venuto a costare parecchio. Così ha lasciato le cose come stavano, ma solo per convenienza. Per un po' la cosa è andata bene anche a Emily. L'amore non sembra tanto importante, quando per anni hai dovuto lottare per sopravvivere.» «Per un po'?» disse Maggie. «Be', il denaro non cura la solitudine.» «E adesso come vanno le cose tra loro?» chiese Stride. «Questo è meglio che lo chieda a loro.» «Nel frattempo, Rachel era al centro di questo bel quadretto» osservò Maggie. Dayton sospirò. «Sì. Tre persone sotto lo stesso tetto e nessuna felicità tra loro. È terribile. Per questo ero così convinto che Rachel fosse fuggita. Aveva molte cose da cui fuggire.» «Rachel ha mai parlato con lei della possibilità di scappare di casa?» chiese Stride. «No, non si è mai fidata di me. Credo che mi considerasse un alleato di Emily e, dunque, un nemico.» «Le viene in mente qualcos'altro che possa gettare luce sulla sua scomparsa? Qualcosa che ha visto, o magari sentito, per sbaglio...» «No» rispose Dayton. «Vorrei davvero potervi aiutare.» Si alzarono tutti e tre in piedi e si strinsero la mano. Stride ebbe l'impressione che il pastore adesso non vedesse l'ora di liberarsi di loro. Li accompagnò nel freddo atrio della chiesa e li salutò di nuovo. Fuori, Stride e Maggie si fermarono un attimo per abbottonarsi le giacche e avvolgersi il
viso con le sciarpe. Il vento aveva già cancellato le loro impronte nella neve. «Che cosa ne pensi?» chiese Maggie. Stride socchiuse gli occhi contro il sole invernale. «Penso che ci meritiamo una pausa.» 12 Heather bevve un sorso di tè da una tazza sbreccata e la posò sul tavolo a una distanza di sicurezza, dove, anche se si fosse rovesciata, non avrebbe fatto danni. Poi sollevò con delicatezza le foto che aveva sviluppato poche ore prima in cantina. La prima nevicata le portava sempre qualche regalo. Aveva trovato un'enorme ragnatela tra due alberi dietro il cottage: i cristalli di neve che rivestivano ciascun filo la facevano sembrare un merletto. Aveva catturato l'immagine appena in tempo, perché, mentre lei stava scattando, un soffio di vento aveva distrutto la ragnatela. Una delle foto mostrava proprio l'attimo in cui si strappava. Heather si tolse i mezzi occhiali e li posò accanto a sé. Dallo stereo venivano le note finali di un concerto di Brahms. Chiuse gli occhi e si abbandonò alla musica. Quando l'ultima nota lasciò il posto al silenzio, Heather si rese conto di quanto fosse stanca. Aveva passato quasi tutta la giornata a scattare foto in giro nella neve, finché non si era ritrovata con le dita rattrappite e i piedi bagnati. Lissa era rimasta con lei tutto il tempo, ma il freddo non le aveva dato per nulla fastidio. Heather aveva continuato a raccomandarle di coprirsi il viso con la sciarpa e la bambina aveva continuato a scoprirselo ogni volta che lei distoglieva lo sguardo. Una volta tornate a casa, si erano fatte un bagno caldo insieme, ma Heather si sentiva ancora addosso un residuo di freddo. Era giunto per lei il momento di indossare la camicia da notte di flanella e di infilarsi sotto una montagna di coperte. Spense la luce e la casa piombò nel buio. C'era solo la luna che, riflettendosi sulla bianca coltre di neve fuori, mandava bagliori luminosi nel soggiorno. Heather percorse il corridoio in punta di piedi, per non svegliare Lissa. Aprì la porta della stanza della figlia e sbirciò all'interno. La bambina dormiva sempre con una piccola luce accesa. Heather entrò per rimboccarle le coperte e, mentre gliele sistemava intorno alle spalle, sentì qualcosa cadere dal letto sulla moquette. Raccolse l'oggetto e vide che si
trattava di un braccialetto d'oro. Heather non ricordava di averlo mai visto prima. Strano che la figlia non gliene avesse parlato. Conoscendo Lissa, ciò significava che l'oggetto doveva avere una provenienza che non si poteva rivelare. Heather uscì dalla stanza, portando con sé il gioiello, e si diresse verso la propria camera. Sistemò l'oggetto sul cassettone traballante e si chiese ancora una volta dove Lissa l'avesse preso. Poi si tolse la camicetta a scacchi e la gettò nel cesto della biancheria sporca. Si sfilò anche i jeans e indossò la camicia da notte. Una volta sotto le coperte, accese la radio, cercando un po' di musica. Ma era l'ora del notiziario. Le notizie erano deprimenti, come al solito. Una fattoria a sud della città era bruciata e un'anziana donna era morta nell'incendio. Di Rachel, la ragazza scomparsa, non si sapeva ancora nulla. I Trojans avevano perso una partita importante. Heather spostò lo sguardo sulla parete accanto al letto, dove teneva alcune foto incorniciate. Ne aveva appena aggiunta una del vecchio granaio, con il sole al tramonto, il cielo grigio acciaio all'orizzonte e il tappeto di foglie morte. Mentre fissava quello scatto, Heather si ricordò dove aveva già visto quel braccialetto. Rivide Lissa che le correva incontro, gridando di aver trovato qualcosa. Heather, concentrata sull'inquadratura, le aveva prestato poca attenzione, ma adesso ricordava bene che la bambina le aveva mostrato un braccialetto d'oro e lei le aveva detto di rimetterlo dove l'aveva preso. E poche settimane dopo eccolo di nuovo, nascosto nel letto di Lissa. «Piccola furbetta» disse ad alta voce. Si alzò dal letto e andò a prendere il monile. Non era molto pesante e non doveva essere particolarmente costoso. Immaginò che lo avesse perso qualche ragazza del liceo durante un incontro amoroso dietro il granaio. Guardando nella parte interna del braccialetto, vide che vi erano incise due lettere e un cuore. T♥R «T ama E». Heather pensò che R fosse un'avvenente studentessa e T un giocatore di football che aveva visto in quel braccialetto uno strumento per entrare nei jeans della ragazza. Ridendo tra sé, posò il gioiello sul comodino e spense la luce. Cercando di prendere sonno, continuò a rigirarsi da una parte all'altra.
Fino a pochi minuti prima non riusciva quasi a tenere gli occhi aperti e adesso nella sua mente turbinavano un sacco di pensieri. Liceo. Ragazze che pomiciavano dietro il granaio. Un'anziana donna che moriva in un incendio. Braccialetti d'oro. Amori giovanili. Passioni giovanili. Iniziali. Le rivide nella sua mente e spalancò gli occhi nel buio. Sotto le coperte, sentì un brivido lungo la schiena. Cercò a tastoni l'interruttore e strinse le palpebre quando la luce inondò la stanza. Guardò il braccialetto d'oro, senza osare toccarlo. «T ama R.» R. 13 In piedi sullo sterrato che conduceva all'area di ricerca intorno al granaio, Stride batté a terra i piedi infreddoliti e si irrigidì per contrastare il vento. La neve era diventata una poltiglia grigiastra, a causa degli andirivieni delle auto della polizia. Il freddo trafiggeva ogni lembo di pelle lasciato scoperto dalla sciarpa. Stride indossava anche un berretto di lana, sotto il cappuccio della giacca a vento, ma non bastava. Il termometro quel giorno segnava dieci gradi sotto zero. La natura non collaborava. E la fortuna di Stride neppure. Le ricerche erano cominciate a mezzogiorno. Adesso, cinque ore dopo, stava calando il buio e avevano trovato solo decine di tracce di pneumatici, vetri rotti, siringhe usate e immondizia di ogni tipo. Ogni elemento raccolto era stato inserito in un sacchetto di plastica e accuratamente etichettato in modo che si sapesse il punto esatto in cui era stato rinvenuto. Se la soffiata di Heather Hubble fosse arrivata solo un paio di giorni prima, avrebbero potuto effettuare le ricerche nel prato intorno al granaio con relativa facilità. Adesso, invece, gli indizi, ammesso che ve ne fossero, erano sepolti sotto alcuni centimetri di neve. Per ispezionare ogni quadrato della griglia di ricerca, gli uomini di Stride dovevano prima ripulirlo dalla neve, spostandola sul quadrato vicino che era stato già controllato. E, a ogni folata di vento, la neve tornava indietro. Era un lavoro lento e faticoso. Ma non avevano altra scelta che procedere un centimetro alla volta, in cerca di indizi anche minuscoli, come un capello rimasto impigliato da qualche parte. Il peggio, tuttavia, doveva ancora venire. Per il mattino successivo era
prevista un'altra forte nevicata, che avrebbe sepolto i boschi a nord della città sotto altri venti o trenta centimetri di neve. Se questo fosse accaduto, il terreno sarebbe rimasto invisibile fino ad aprile e allora sarebbe stato troppo tardi per rinvenire indizi importanti. Dovevano sbrigarsi. Stride aveva chiesto di portare dei riflettori, che in quel momento alcuni uomini stavano montando, in modo da poter continuare a lavorare tutta la notte. Ma anche così non c'era abbastanza tempo. Fra tutti i posti possibili, proprio quel granaio doveva essere coinvolto! In qualunque altra zona boschiva dei dintorni, avrebbero trovato solo corteccia di betulla e foglie morte. Lì invece sembrava di essere nel parcheggio di una discoteca. Chissà quante coppie di adolescenti avevano lasciato indizi irrilevanti, che tuttavia dovevano essere meticolosamente vagliati e schedati prima di essere scartati. Guppo gli comunicava via walkietalkie una lista ininterrotta degli strani oggetti che continuavano a rinvenire. Avevano cominciato dal punto in cui Lissa aveva trovato il braccialetto e si erano diretti lentamente verso l'esterno. Avevano già trovato un paio di mutandine da donna (troppo grandi per Rachel), un apparecchio per i denti, un giubbotto di salvataggio, un re di picche con una donna nuda dalla testa incoronata e nove preservativi usati. Stride sapeva che le probabilità di scoprire qualcosa che li portasse a Rachel erano minime. Ciò nonostante, provava un senso di eccitazione. Gli Stoner avevano identificato il braccialetto: era un regalo che Tommy Deese aveva fatto a Rachel. Nella sua deposizione, Kevin aveva già dichiarato che Rachel indossava un braccialetto, l'ultima volta che l'aveva vista a Canal Park. E ora quel gioiello rappresentava la prima vera prova di dove era stata Rachel dopo la sua scomparsa. Ma la soddisfazione professionale era mitigata da ciò che quella scoperta significava. Emily Stoner era impallidita quando aveva visto il braccialetto. Fino a quel momento, aveva nutrito la speranza che Rachel fosse scappata di casa di sua volontà, per farla soffrire. Ora quella speranza era svanita. «Lei non si sarebbe mai separata da quel braccialetto» aveva detto Emily. «Mai. Non se lo toglieva neppure per fare la doccia.» Poi era scoppiata in singhiozzi. «Mio Dio» aveva mormorato. «È morta.» Stride non aveva tentato di darle vane speranze. La verità era evidente. Per settimane avevano cercato una ragazza viva e si erano tuffati nel mistero della sua vita per capire dove e con chi potesse essersene andata. Ora sarebbe cominciata una ricerca diversa. Quella del suo cadavere.
Stride udì la portiera del furgone che sbatteva, poi dei passi nella neve alle sue spalle. Si voltò e vide arrivare Maggie, con un berretto di lana nera, paraorecchie di pelliccia e un cappotto rosso di lana che le arrivava fino alle caviglie. Avanzava nella neve con gli stivali dal tacco squadrato. Non portava la sciarpa, ma la pelle ambrata del suo viso non sembrava rovinata dal vento sferzante. Si fermò accanto a lui, osservando i poliziotti al lavoro con scope, radio e sacchetti di plastica. «Perché non torni dentro il furgone, invece di restare qui a congelarti le palle?» disse Maggie. «Nel furgone c'è Guppo, no? Mi sento più al sicuro qui.» Maggie arricciò il naso. «Mi sono assicurata che non avesse portato verdure crude e ho aperto di un dito il finestrino, per far circolare l'aria.» «No, grazie. E comunque tra poco mi tocca affrontare il circo mediatico. È quasi l'ora del notiziario.» Le auto della polizia avevano bloccato la strada per una trentina di metri. Al di là del blocco, c'erano almeno due dozzine di giornalisti in attesa, con telecamere e riflettori portatili. Stride non udiva molto di ciò che dicevano, per via del vento. Guardò l'orologio. Le cinque meno dieci. Aveva promesso loro un'intervista in diretta, in apertura del notiziario. «Venivi qui da ragazzo?» chiese Maggie. «Come?» Maggie rise. «La donna che ha trovato il braccialetto ha detto che questo è un noto luogo di ritrovo per chi vuole pomiciare.» Stride scrollò le spalle. «Io portavo le ragazze in strade sterrate più belle e più sicure, dalla parte del lago.» «E chi veniva qui, allora?» «Le ragazze facili.» «È un commento sessista passibile di denuncia?» lo prese in giro Maggie. «Se riuscivi a convincere una ragazza a fare un romantico giro in riva al lago, allora avevi una buona possibilità di arrivare alla "seconda base".» «E che cosa significa "seconda base"?» chiese Maggie, passandosi la lingua sui denti. «Non giochiamo a baseball, in Cina. Significa tette, capezzoli, o che altro?» Stride la ignorò. «Ma se le proponevi di venire qui al granaio e lei accettava, la scopata era garantita. D'altra parte, non facevi una simile proposta
se non sapevi esattamente con che tipo di ragazza avevi a che fare. Altrimenti ti beccavi un bel ceffone.» «Ti è mai capitato?» «Ricordo che una volta accennai al granaio con Lori Peterson» disse Stride. «E lei mi gettò in faccia una Coca-Cola.» «Ben fatto» approvò Maggie. «Questo significa che Rachel era una ragazza facile?» Stride si morse il labbro inferiore. «Così dicono tutti.» «Solo che non abbiamo trovato neppure un ragazzo che abbia ammesso di essere andato a letto con lei.» «Già, è interessante, vero? D'altra parte, ammetterlo significherebbe entrare subito nella lista dei sospettati.» «Quindi tu pensi che fosse venuta qui con qualcuno?» chiese Maggie. «Forse» rispose Stride. «Aveva lasciato Kevin prima delle dieci, dicendo di essere stanca. Mi sembra che Rachel non fosse il tipo di ragazza che si stanca così presto, soprattutto il venerdì sera.» «Quindi, probabilmente doveva vedere qualcuno. Qualcuno che è passato a prenderla a casa.» Stride annuì. «Lei e lui vengono qui per fare sesso, ma qualcosa non va per il verso giusto. E a un tratto il fidanzatino si trova con un cadavere tra le mani.» «Presumiamo che sia morta?» Stride sospirò. «Sì, lo presumiamo.» «E chi è il misterioso sconosciuto? Un compagno di scuola?» «Dobbiamo cominciare da lì, Mags. È giunto il momento di parlare di nuovo con tutti i potenziali ragazzi di Rachel.» Maggie gemette. «Un'intera giornata di colloqui con diciassettenni in piena tempesta ormonale, convinti di essere un dono di Dio per chiunque abbia una fica. Certo che mi affidi proprio i lavori migliori, capo!» «Vèstiti per l'occasione, Mags. Così riuscirai a farli parlare di più.» «Non ho un granché da mettere in mostra nella scollatura.» «Oh, sono certo che ti farai venire qualche idea.» Maggie gli sferrò un pugno sul braccio, si voltò e tornò nel furgone. Stride sorrise e si incamminò verso la folla dei giornalisti, prendendo il walkie-talkie con la mano guantata e portandoselo all'orecchio sotto il cappuccio. «Che cosa c'è di nuovo, Guppo?» chiese. «Che razza di posto è questo, tenente?» fu la risposta di Guppo. «Stiamo
trovando più porcherie qui di quante mi aspetterei di trovarne in un bordello di New York. Doveva capitarci proprio questo immondezzaio come scena del delitto?» Stride udì rumori in sottofondo, poi la voce di Maggie. «Guppo, sei proprio un figlio di puttana. Sono rientrata nel furgone da soli cinque secondi, porca miseria, e dovevi farmi questo?» Stride ridacchiò. «Dille di smettere di lamentarsi, Guppo, e chiedile come intende vestirsi domani per andare al lavoro.» Udì una scarica, poi la voce di Maggie: «Vaffanculo, Stride». Stride riprese la comunicazione. «Guppo, abbiamo qualcosa che possa suggerire un collegamento con Rachel?» «Tutto e niente. Non possiamo saperlo finché questa roba non sarà analizzata. Ci sono parecchi oggetti che fanno pensare a sesso, droga e rock and roll, ma senza impronte digitali siamo nel campo delle congetture.» «Niente bigliettini con la confessione dell'omicidio legati intorno a un sasso?» «Non ancora, ma le ricerche continuano.» Guppo ruttò. «Va bene» disse Stride e chiuse la comunicazione, rimettendo il walkietalkie nella tasca della giacca a vento. Si avvicinò alle auto della polizia e parlò brevemente con due agenti che avevano l'ingrato compito di tenere a distanza giornalisti e curiosi. Al di là del nastro giallo che recintava la zona off-limits c'era una scena da incubo. Stride socchiuse gli occhi, mentre una serie di riflettori lo illuminavano. Il brusio della folla divenne un ruggito. Stride indicò con il dito un cronista televisivo che conosceva. «Il tuo staff può occuparsi delle luci?» L'uomo annuì e Stride continuò: «Allora, ci organizzeremo così: un gruppo si occuperà di illuminarmi e tutti gli altri terranno flash e lampadine spenti, d'accordo? Se qualcuno urla, me ne vado. Se vorrete chiedere qualcosa, alzerete la mano. Quando vi darò la parola, farete una sola domanda». «Quando sei stato eletto presidente, Stride?» chiese Bird Finch, in prima fila. Stride fece un ampio sorriso. «Bird Finch ha già fatto la sua domanda. Fatelo spostare in fondo alla fila.» I giornalisti risero e alcuni di loro cercarono di spingersi davanti a Bird, ma il muscoloso ex campione di basket non si spostò di un millimetro e rivolse a Stride un sorriso gelido. Stride sentì i riflettori scaldargli il viso. Era la prima volta in tutta la giornata che provava un po' di calore. Ma aveva ancora i piedi gelati. «Sie-
te pronti?» chiese. «Farò una breve dichiarazione, poi risponderò alle vostre domande.» Vide la luce rossa accendersi su una dozzina di telecamere e, nonostante il divieto, alcuni flash scattare. «Ecco quello che sappiamo, fino a questo momento» disse. «Stamattina presto abbiamo ricevuto una telefonata: una donna dichiarava di avere un braccialetto che forse era collegato alla scomparsa di Rachel Deese. Siamo andati a prenderlo e la madre di Rachel lo ha identificato come appartenente alla figlia. Crediamo che la ragazza lo avesse al polso la notte della sua scomparsa. Secondo la testimonianza della donna che lo ha trovato, il braccialetto era dietro questo granaio. Per ora stiamo effettuando una ricerca a tappeto in una zona di circa cento metri quadrati intorno al punto in cui è stato rinvenuto il braccialetto. Questo è tutto ciò che posso dirvi.» Tre persone simultaneamente gridarono delle domande. Stride le fissò senza rispondere. Bird Finch alzò una mano. Alto com'era, con il braccio sollevato, sembrava la versione nera della Statua della Libertà. "Meglio toglierselo di torno in fretta" pensò Stride. «Sì, Bird?» disse. «Ora crede che Rachel sia morta?» chiese Bird Finch, calcando sulla parola ora abbastanza da suggerire che Stride era stato un irresponsabile per non aver capito quello che tutti gli altri già sapevano. «Non intendo fare congetture su argomenti come questo.» Prima che qualcuno potesse alzare la mano, Bird sparò un'altra domanda nel silenzio. «Ma ora state cercando un cadavere, sì o no?» «Al momento stiamo cercando degli indizi. È un lavoro lungo, che durerà ancora molte ore. Il prossimo passo sarà una conseguenza di quello che troveremo qui, sempre che troviamo qualcosa. Ma ci vorranno settimane prima di avere i risultati dell'analisi di tutti i reperti.» Si alzò una mano. Bird aveva aperto la strada e gli altri ci si infilarono in massa. «Quando la ricerca qui sarà finita, vi allargherete nei dintorni, giusto? Sperate di trovare un cadavere?» «Non lo spero affatto» ribatté Stride. «Comunque sì, abbiamo in progetto di setacciare i boschi circostanti, in cerca di altri indizi.» «C'è una nevicata in arrivo. Questo rallenterà il vostro lavoro?» «Sì» rispose Stride. «Siamo nel Minnesota e qualunque ricerca è più difficile, in questo periodo dell'anno.» «Pensate di ricorrere alla collaborazione di volontari per le ricerche?» «Certo, tutto l'aiuto che ci sarà offerto sarà gradito. Domani sul nostro
sito internet spiegheremo in che modo i volontari possono aiutarci e dove devono recarsi. Non vogliamo che la gente si metta a setacciare i boschi da sola, rischiando così di compromettere le indagini. Se qualcuno vuole aiutarci, deve lasciare a noi il compito di coordinare gli sforzi di tutti.» Altre mani si alzarono. «Avete trovato altri indizi che confermano la presenza di Rachel in questa zona?» «Non ancora» rispose Stride. Un'altra mano. «Avete sospetti?» «No.» Bird Finch non aspettò che gli venisse data la parola. «Indagate su questa scomparsa da tre settimane e non avete neppure un sospettato?» «Gli indizi raccolti finora non suggeriscono nessuna persona in particolare.» «Avete controllato maniaci sessuali e violentatori?» chiese un giornalista di Minneapolis. «Abbiamo interrogato tutte le persone coinvolte in reati sessuali della zona. Ma non abbiamo trovato indizi che permettano di collegare qualcuno di loro alla scomparsa di Rachel.» Di nuovo Bird. «Ora siete più propensi a vedere un collegamento con la scomparsa di Kerry McGrath? Anche quello è un crimine per cui sembrano non esserci sospettati.» «Non abbiamo stabilito nessun collegamento. Non neghiamo che possa essercene uno, ma finora niente suggerisce che le due sparizioni siano collegate.» «Questa svolta nel caso vi incoraggia a pensare che scoprirete ciò che è accaduto a Rachel?» Stride non riuscì a vedere la donna che aveva posto la domanda. Scorse solo il suo braccio alzato. Esitò a rispondere, soppesando le parole. «Sì, direi di sì. Adesso abbiamo un luogo preciso e questo forse ci porterà delle risposte. Vorrei rivolgere un appello ai telespettatori: se qualcuno di voi si trovava in questa zona, nella notte in cui Rachel è scomparsa, e ha visto o udito qualcosa, per favore ci chiami. Sappiamo che Rachel è stata qui. Ora vogliamo sapere come ci è arrivata e che cosa è successo.» Stride indicò un'altra mano alzata. «Quanto tempo resterete qui?» chiese una giornalista del quotidiano di Saint Paul. «Forse tutta la notte» rispose Stride.
E così fu. Ogni volta che un gruppo di agenti finiva di passare al setaccio un quadrato della griglia di ricerca, i sacchetti con i reperti venivano portati nel furgone, dove Stride e Maggie li esaminavano uno per uno, prima di sistemarli nelle scatole. Non videro nulla che suggerisse un collegamento con Rachel, ma il laboratorio avrebbe detto loro di più. Stride guardò l'orologio. Erano quasi le quattro del mattino. Sul pavimento del furgone giaceva un cartone di pizza quasi vuoto, a parte due fette che nessuno aveva mangiato. Era strano che Guppo le avesse lasciate lì. Maggie sedeva di fronte a Stride, con i gomiti sulle ginocchia, il viso tra le mani e gli occhi chiusi. Stride, stanco e infreddolito, pensava ad Andrea. L'aveva chiamata per annullare il loro appuntamento ed era stato contento di avvertire una nota di delusione nella sua voce. Del resto era deluso anche lui. Non sapeva se era per la voglia di sesso o solo per il piacere di trovarsi di nuovo vicino a una donna, ma era ansioso di vederla. Andrea era molto attraente. Non era come Cindy, ovviamente, ma nessuna poteva esserlo. Lei era diversa e lui non doveva fare l'errore di confrontarla con un fantasma. Sobbalzò quando l'altoparlante del furgone si mise a gracchiare e pensò che doveva essersi addormentato per alcuni secondi. «Sta cominciando a nevicare» riferì uno degli agenti che stavano fuori. «Che bella notizia, porca puttana!» commentò Stride. Si alzò in piedi. Aveva i muscoli indolenziti e la schiena bloccata. Di solito la sera faceva un po' di stretching, ma ultimamente l'aveva saltato spesso e adesso ne subiva le conseguenze. Gli doleva anche il braccio, che molti anni prima era stato colpito da una pallottola. Con il freddo tutto peggiorava. Guardò attraverso il lunotto posteriore del furgone. Alla luce dei riflettori che erano stati montati, osservò enormi fiocchi di neve cadere lentamente a terra. Visti così, a uno a uno, sembravano piccoli e innocui. Ma tutti insieme avrebbero presto sepolto l'area delle ricerche. «Come la vedi?» chiese Maggie. «Brutta» rispose Stride. Fissò le ombre del bosco e cercò di nuovo di immaginarsi la scena di quella sera. Un'auto che si fermava dietro il granaio. Rachel sul sedile del passeggero. Nessuno intorno. Come aveva fatto il braccialetto a finire a terra? Di certo non avevano fatto sesso fuori, visto che era una serata fredda. Forse erano semplicemente scesi per guardare i boschi, come stava fa-
cendo lui adesso. Poi il ragazzo aveva tirato Rachel per mano verso la macchina e il braccialetto era scivolato a terra. E poi? O forse le cose si erano messe male già dentro l'auto e lei aveva cercato di fuggire. Lui l'aveva seguita e nella lotta lei aveva perso il braccialetto. Lui l'aveva picchiata. Strangolata. Ma che cosa aveva fatto del corpo? L'aveva trascinato nei boschi? Oppure l'aveva caricato in macchina, portandolo da qualche altra parte? L'altoparlante riprese a gracchiare. «Qualcuno ricorda che cosa indossava Rachel quella notte?» chiese uno degli agenti dall'esterno. Stride e Maggie si guardarono. Lei rispose: «Jeans neri. Maglione bianco a collo alto». Dall'altra parte ci fu silenzio, poi: «Ha detto un maglione bianco?». Stavolta fu Stride a rispondere: «Esatto». Un'altra pausa, più lunga. «Bene, forse abbiamo trovato qualcosa.» Il pezzo di tessuto triangolare era lungo circa quindici centimetri, con gli orli strappati. Nonostante il fango che lo copriva, si vedeva che era bianco. Lungo un lato, dove era stato strappato via dal maglione, c'era una macchia rossastra che aveva inzuppato le fibre. 14 A Emily sembrava di impazzire. Da quando aveva picchiato Rachel, quella notte terribile, era la prima volta che sentiva di aver perso il controllo. Le sembrava di andare alla deriva, sola, senza alcuna speranza di salvezza. Camminava avanti e indietro freneticamente sul tappeto, prendendosi il volto tra le mani e stringendolo in una morsa. Aveva i capelli sporchi, gli occhi sbarrati, il respiro affannoso. Provava un dolore pulsante alla testa, come un tumore che si espandeva. «Vorrei mostrarle questo braccialetto» aveva detto il poliziotto. Lei l'aveva guardato e aveva urlato. Emily non avrebbe mai creduto che quel giorno sarebbe arrivato. La madre di Kerry le aveva detto, durante il talk show, che aveva paura del giorno in cui un poliziotto sarebbe venuto a bussare alla sua porta, con un'espressione cupa. Ma Emily non credeva che ciò la riguardasse. Era convinta che Rachel fosse viva. Un giorno sarebbe andata a rispondere al telefono e avrebbe udito la sua risata di scherno.
Lo aveva creduto fino al momento in cui aveva visto il braccialetto. Adesso sapeva che Rachel era morta. Qualcuno l'aveva uccisa. Era come se la polizia le avesse tolto il terreno da sotto i piedi. Molte ore dopo Emily era ancora in preda alla disperazione. I rumori della casa le rintronavano nella testa. La caldaia ronzava, pompando aria calda. I rami delle piante, fuori, sbattevano contro i vetri delle finestre. Le assi scricchiolavano, come sotto il peso di un fantasma invisibile. E il rumore peggiore di tutti era il ticchettio dei tasti del computer di Graeme, il quale lavorava a pochi metri di distanza da lei, indifferente alla sua agonia. Tap, tap, tap. Lei non avrebbe mai creduto che sarebbero arrivati a quel punto. E, cosa anche peggiore, sapeva di essere stata lei la causa di tutto. «Sono incinta» disse Emily. Poi aspettò la reazione di lui, seduta sul divano del soggiorno, con le mani in grembo, in preda alla tensione. Graeme era sulla poltrona di fronte, con un drink in mano. Era il secondo, dopo cena, e lei gli aveva più volte riempito il bicchiere di champagne mentre mangiavano le costolette al forno. Ora, mentre si rilassavano sul divano, Emily aveva sputato il rospo. «Avevi detto di prendere precauzioni» ribatté Graeme. Emily trasalì. Non erano le parole che avrebbe voluto sentire. Niente amore, niente eccitazione. Solo un accenno di recriminazione. «Prendo la pillola» dichiarò. «Ma nessun contraccettivo è sicuro al cento per cento. È stato un incidente. È stata la volontà di Dio.» «Non credo che siamo pronti per questo» disse lui. «Nessuno è mai pronto» replicò Emily. «Voglio dire, non credo che dovremmo tenerlo.» Emily sentì le lacrime salirle agli occhi, come una marea. Aveva il respiro pesante. Variò con voce tremante. «Non ucciderò il mio bambino» balbettò. Graeme rimase in silenzio. «Non lo farò» ripeté Emily. «Come puoi chiedermi una cosa del genere? È anche figlio tuo.» Si alzò dal divano, girò intorno al tavolino e andò a inginocchiarsi davanti a lui, prendendogli le mani. «Non vuoi dare una casa al nostro bambino?» gli chiese.
Lui rimase come stranito per alcuni interminabili secondi, con lo sguardo fisso al di là delle spalle di Emily. Poi annuì. Emily sentì che un sorriso di sollievo le si allargava sul viso. Gettò le braccia al collo di Graeme e lo tenne stretto. «Sposiamoci, allora» disse, coprendolo di baci. «Sposiamoci subito. Questo fine settimana.» Graeme sorrise. «Va bene. Faremo un giro sulla costa e cercheremo una chiesetta in qualche villaggio. Possiamo portare anche Rachel.» Una nuvola passò sul volto di Emily. Nell'eccitazione del momento, aveva quasi dimenticato la figlia. Ma si sentiva forte, fiduciosa. Quella era la cosa giusta da fare. Per se stessa. Per Graeme. Anche per Rachel. Forse sarebbero stati di nuovo una famiglia. Una famiglia che non avrebbe più dovuto preoccuparsi dei soldi. «Sì, facciamolo» approvò. Poi cominciò a sbottonarsi la camicetta. Gli occhi di lui la seguivano in ogni movimento e, quando la stoffa si aprì, le sue mani le afferrarono i seni. In quel momento il cercapersone di Graeme emise un suono acuto, che invase la stanza. Sobbalzarono entrambi. Emily cadde seduta a terra e i seni le uscirono dal reggiseno. Graeme si alzò, staccò il cercapersone dalla cintura e lo guardò. «Devo andare.» Emily si ricompose, lisciandosi i capelli e richiudendosi la camicetta. Si strinse nelle spalle e sorrise. «Va bene.» Lo accompagnò alla porta e rimase a guardarlo, mentre usciva dal vialetto in auto. Si fermò sulla soglia di casa finché la macchina non scomparve dalla vista, godendosi il vento della notte sul viso. Rientrò in casa, canticchiando tra sé. «Eri proprio ridicola, con il culo per terra e le tette fuori» disse una voce. Rachel era seduta in cima alla breve scalinata che portava al piano di sopra. Indossava un paio di shorts molto corti, un top nero che le metteva in risalto i seni e aveva i capelli bagnati e la pelle lucida, come se fosse appena uscita dalla doccia. «Ci stavi spiando?» Rachel si strinse nelle spalle. «Graeme mi aveva vista. Non ho voluto rovinare il tuo grande momento.» Quella sera Emily non aveva intenzione di farsi risucchiare dalle catti-
verie di Rachel. Si diresse in cucina, voltandole le spalle. «I tuoi soliti, vecchi trucchi, eh?» le gridò dietro la figlia. Emily si fermò. «Che cosa vuoi dire?» Rachel fece una smorfia, imitando la voce della madre. «Prendo la pillola, caro. È stato un incidente. È stata la volontà di Dio.» «E allora?» disse Emily. «Allora, come le chiami queste?» Rachel aprì una borsetta, rivelando un blister pieno di piccole pillole verdi. Non ne mancava neppure una. «Sembrano contraccettivi, no? Che cosa è successo, mamma, ti sei dimenticata di prenderle, ultimamente?» Emily si coprì la bocca con le mani, impallidendo. Poi si riprese, cercando in fretta una soluzione. «Tu non capisci.» «Davvero?» ribatté Rachel. «Capisco che sei una puttana manipolatrice, proprio come pensavo. Proprio come papà ha sempre detto.» Emily non fiatò. Rachel aveva ragione, lei aveva ingannato Graeme. Ma lo aveva fatto per un bene più grande, per loro due. Per avere finalmente un po' di sicurezza economica. Per non dover più lavorare. Non stava cercando di intrappolare Graeme. Voleva solo aiutarlo a capire che lei lo amava. «Immagino che dovrei ringraziarti» infierì Rachel. «Probabilmente hai usato lo stesso trucco anche con papà. Per questo mi hai messo al mondo, vero? Sapevi che da sola non saresti mai riuscita a tenere papà con te.» Emily si morse un labbro. Avrebbe voluto urlare, dire che non era vero. Ma la sua esitazione convinse Rachel del contrario. «Stai diventando prevedibile» commentò la figlia. «Lo dirai a Graeme?» Immaginava la risposta. Rachel non avrebbe perso quell'opportunità di pugnalarla al cuore e di mandare a monte tutti i suoi piani. Ma Rachel la sorprese. «Perché dovrei farlo?» rispose. «Per la prima volta, penso che abbiamo qualcosa in comune.» Poi si voltò e scomparve nella sua stanza. Emily avrebbe voluto che le lasciassero il braccialetto. Era riuscita a dargli solo un'occhiata, dentro il sacchetto di plastica in cui era conservato, poi il poliziotto se l'era rimesso in tasca. Gliel'avrebbero restituito dopo il processo. Se mai avessero scoperto che cosa fosse successo a Rachel. Continuò a camminare avanti e indietro. Più si premeva le mani sulle
tempie come per farne uscire il mal di testa, più il dolore peggiorava. La realtà era troppo terribile da sopportare. Aveva bisogno di qualcuno che la stringesse forte a sé, che le dicesse che tutto si sarebbe sistemato, che la lasciasse piangere tra le sue braccia. Si fermò e fissò il marito con una rabbia muta. Lavorava al computer come se lei non fosse nella stanza. Ignorava i suoi gemiti, le sue lacrime, il rumore dei suoi passi sul tappeto. Tap, tap, tap. Sua figlia era morta e lui si divertiva con i fogli di calcolo. Come aveva potuto Emily ingannarsi così? Come aveva potuto credere di amarlo, o pensare che lui potesse amare lei? Fissò la schiena di Graeme, chiedendosi ancora una volta come fossero potati arrivare a quel punto. Rachel era morta e lei riusciva solo a pensare che tutta la sua vita era un grande vuoto, a cominciare dal suo matrimonio. Era tutto finito. Il suo silenzio finalmente attirò l'attenzione del marito. Graeme si voltò e incrociò il suo sguardo. Lei sapeva di avere gli occhi da pazza. Non riusciva a tenere a freno il dolore che le esplodeva dentro. Il tappo era saltato. Tremava. «Emily, siediti» la esortò Graeme. «Rilassati.» Era incredibile come lui riuscisse sempre a dire la cosa sbagliata. Lei adesso sentiva di odiare il suono della sua voce. Il suo tono calmo, privo di enfasi. Non lo sopportava più. «Rilassarmi?» sibilò. «Mi stai dicendo di rilassarmi?» Si fissarono negli occhi. Lui sembrava fissare qualcos'altro. Era paziente e tranquillo. Un estraneo. «So come ti senti» le disse, con il tono di chi si rivolge a una bambina isterica. Emily si portò le mani al viso. Chiuse gli occhi, ma le lacrime rotolarono ugualmente lungo le guance. «Non sai come mi sento, perché tu non hai sentimenti! Te ne stai lì seduto, mi sorridi, fai finta che siamo una coppia innamorata. E in ogni momento so che non provi nulla per me.» «Adesso parli in modo irrazionale.» «Irrazionale?» Lei strinse la mano a pugno e poi l'aprì. «E come mai? Che cosa mi ha fatto diventare irrazionale?» Lui non rispose. Emily scosse la testa, incredula. «Rachel è morta, lo capisci? E morta.» «Hanno trovato il suo braccialetto. Questo non significa nulla.» «Significa tutto, invece» ribatté Emily. «Ora non ho più Rachel. E non ho più te. Anzi, non ti ho mai avuto.»
«Emily, per favore.» «"Per favore" che cosa, Graeme? "Per favore, vai via?" "Per favore, non molestarmi con i tuoi problemi"?» Lui rimase in silenzio. «Perché mi hai sposata?» mormorò Emily. «Avresti potuto darmi del denaro. Non avrei detto a nessuno che il bambino era tuo. Avrei lasciato la città, se me lo avessi chiesto. Perché mi hai sposata, se non provavi nulla per me?» Graeme si strinse nelle spalle. «Non mi hai lasciato altra scelta.» Emily lo udì appena. Ma Graeme aveva ragione: era stata tutta colpa sua. «Avrei dovuto abortire» disse. «Sarebbe stato tutto più facile. Un semplice intervento chirurgico. Molto meglio che perdere il bambino sei mesi dopo, in un lago di sangue. Questo avrebbe sistemato tutto, vero, Graeme? Non avresti avuto bisogno di sposarmi. Non avresti avuto bisogno di sposare nessuno e avresti potuto continuare a giocare con il tuo computer e a divertirti con le tue telefonate alle linee erotiche senza doverti nascondere.» Graeme alzò la testa di scatto. Stavolta Emily aveva toccato un nervo scoperto. Lui la fissò, con l'aria perfino un po' spaventata. Bene! «Credevi che non lo sapessi? Una notte ti ho visto, qui nello studio, che ansimavi nel telefono con il cazzo in mano. Ti ho sentito dire a quella ragazza quanto desideravi scoparla. È molto meglio che dover fingere che ti piaccia scopare con me.» Emily alzò gli occhi al cielo. «Tutti voi sareste stati più felici, senza di me. Tu, Tommy, Rachel. Non ho fatto altro che rovinarvi la vita. Se solo avessi abortito, allora...» Cadde in ginocchio. Poi, a quattro zampe, si mise a martellare il pavimento con il pugno chiuso. Infine rotolò sulla schiena, si tirò le ginocchia al petto e le circondò con le braccia. «Dio sapeva quello che faceva. Non voleva che partorissi di nuovo. Guarda che casino ho combinato con la prima figlia.» Vide Graeme inginocchiarsi accanto a lei, con una espressione preoccupata. Era falsa, come ogni altra cosa nella loro vita. «Non toccarmi! Non toccarmi! Non fingere, capito? Non fingere!» «Emily, perché non vai di sopra? Prendi una pillola per dormire. È stata una giornata terribile e ti vedo molto provata.» Emily rimase dove si trovava. Fuoco e rabbia si erano spenti dentro di lei. Avevano vinto, avevano vinto loro: Tommy, Rachel e ora Graeme. Lei
aveva combattuto finché aveva potuto, ma non era valsa la pena di sopportare tutto quel dolore e quell'infelicità. Poteva quasi vederli, in piedi accanto a lei. Tommy e Graeme. Rachel sulla porta, di nuovo bambina. «Prendi una pillola» ripeté Graeme, ancora inginocchiato vicino a lei. Non era un sogno, l'aveva detto davvero. Emily sorrise. Graeme aveva ragione, naturalmente. Aveva sempre ragione, era sempre così equilibrato. Lei sarebbe andata di sopra e lui non l'avrebbe seguita. Era ora di dormire. Dormendo, avrebbe dimenticato tutto. E tutti. Si alzò in piedi e si avviò. Con l'immaginazione vide Tommy e Rachel ancora lì. Udì l'eco delle loro risate. «Va bene» disse. «Avete vinto.» "Una pillola" pensò. Ne avrebbe presa più d'una. 15 «Devi avere freddo» disse il barman, gettando un'occhiata alle gambe nude di Maggie. La gonna di pelle le arrivava a metà coscia e, quando si sedeva, doveva tenere le gambe incollate per evitare di mostrare al mondo le mutandine rosa. Sopra la gonna indossava una camicetta senza maniche. Il cappotto di lana rossa era posato sullo sgabello accanto a lei. Sì, aveva freddo. «Che cosa prendi?» chiese il barman, sorridendo. «Un bel tè caldo?» Maggie gli restituì il sorriso e ordinò una birra media alla spina. Quando l'uomo le mise davanti il bicchiere appannato, chiese. «Che cosa sei, una modella?». Maggie scoppiò a ridere. «Questa è bella! Sono una poliziotta.» «Certo, come no» ribatté il barman. Maggie girò il bavero del cappotto sullo sgabello e fece brillare sotto gli occhi del barman il distintivo che vi era attaccato con una spilla. «Okay, hai vinto. Ma non c'è una regola per cui i poliziotti non bevono in servizio?» «Chi ha detto che sono in servizio?» In realtà, lei lo era, ma aveva bisogno di bere qualcosa. Sorseggiò lentamente la birra. Era lunedì sera e il bar era mezzo vuoto. Per tutto il giorno Maggie aveva sopportato le occhiate concupiscenti dei ragazzi e non aveva
concluso niente. Nada. Zero. Non aveva trovato nessuno disposto ad ammettere di aver scopato con Rachel, dietro quel famoso granaio. Tutti loro avevano un sacco di cose da dire ogni volta che Maggie accavallava le gambe, ma ogni volta che lei faceva il nome di Rachel tacevano immediatamente. Nessuno desiderava diventare un bersaglio per la polizia. Maggie si accorse che c'era un adolescente dall'aria nervosa in piedi accanto a lei. «Lei è la signorina Bei?» chiese Kevin Lowry. Maggie lo squadrò rapidamente: era un ragazzo massiccio, con i capelli biondi cortissimi. Indossava la tipica divisa da cameriere di ristorante, con jeans neri e maglietta rossa tesa sull'addome muscoloso. Kevin, di rimando, squadrò rapidamente il corpo di Maggie, indugiando sulle gambe. Si accomodarono a un tavolino ad angolo, lontano dal fumo e dal rumore. Maggie si portò dietro la birra e chiese a Kevin se volesse una bibita, ma il ragazzo scosse la testa. Sembrava a disagio. Maggie si rilassò, chinandosi verso di lui con i gomiti sul tavolo. «Non mordo» disse, sorridendo amabilmente. Kevin rispose con un sorriso che scomparve quasi subito. «Come sta la signora Stoner?» chiese. «Le ultime notizie dall'ospedale dicono che si rimetterà presto.» «Mi dispiace per quello che è successo. Per lei è stata dura.» «A causa di Rachel?» chiese Maggie. Kevin si strinse nelle spalle. «A volte. Genitori e figli hanno sempre qualche problema.» «Ma loro due ne avevano più del dovuto, dico bene?» L'ombra di un sorriso. «Forse.» «Perché credi che lei abbia preso quelle pillole?» «Penso che non riuscisse più a sopportarlo.» «A sopportare cosa?» «Tutto.» Maggie aspettò che il ragazzo la guardasse. «Mi hanno detto che tu e Rachel eravate molto intimi e che tu avresti potuto essere il ragazzo ideale per lei, ma lei non ti ha mai apprezzato. Deve essere frustrante, no?» Kevin sospirò. «Per me Rachel è sempre stata una specie di fantasia. Non ho mai creduto davvero che tra noi potesse esserci qualcosa.» «E allora che mi dici dell'altra notte?» chiese Maggie, in tono tagliente. «Ci hai detto che ti è saltata addosso.» «Quello non era nulla. Lei sa essere crudele.»
«Credi che avesse un appuntamento con qualcun altro, quella sera? Con un altro ragazzo?» «Forse. Rachel usciva con parecchi ragazzi. Ma non ne abbiamo parlato.» Maggie annuì. «Sai una cosa strana? Oggi ho avuto colloqui con decine di ragazzi a scuola, e non ne ho trovato neppure uno che abbia ammesso di essere uscito con Rachel.» «Che notizia sorprendente!» ironizzò Kevin. «Hanno tutti paura. Sanno che cosa avete trovato al granaio.» «Quindi mentono.» «Certo» disse Kevin. «Scommetto che Rachel usciva con tutti loro.» Maggie sentì amarezza nella sua voce. «Anche con te?» «Ho già detto di no.» «Tranne quella notte» disse Màggie. «È strano, non trovi? Ti salta addosso e quella notte stessa scompare.» Lesse un'ansia improvvisa nello sguardo di Kevin. «Che cosa intende dire?» «Hai detto che Rachel ti aveva dato un appuntamento per sabato sera. Ma quando ti sei presentato a casa sua hai scoperto che non c'era.» Kevin annuì. «Sei sicuro che quell'appuntamento non fosse per venerdì sera? Non ti sei messo d'accordo per passare da lei più tardi?» «No!» esclamò Kevin, alzando la voce. «Sicuro?» «Sì, sono andato a casa mia. La polizia ha già parlato con i miei genitori. Lei sa che non ho mentito.» Maggie sorrise. «So anche che i ragazzi sono molto bravi a sgattaiolare fuori di casa senza che i genitori se ne accorgano. Senti, se Rachel avesse voluto scappare, tu l'avresti aiutata, vero? Avresti fatto tutto ciò che lei ti avesse chiesto.» Kevin si morse il labbro inferiore, senza dire nulla. Si guardò intorno, come in cerca di una via di fuga. «Allora, l'hai aiutata a fuggire?» incalzò Maggie. «No» insisté lui. «Sei comunque passato da casa sua, quella notte? Per vedere se aveva un altro appuntamento? Ti capisco, Kevin; Tu l'hai sempre amata. Lei è la tua fantasia proibita. E all'improvviso comincia a giocare con te. Questo deve
averti fatto arrabbiare.» Kevin scosse vigorosamente la testa. «No? Non sei andato a casa sua per aspettarla? Per cercare di convincerla che perdeva tempo con gli altri? Non erano adatti a lei. Eri tu quello giusto. Ma Rachel ti ha respinto.» Kevin adesso era arrabbiato. «Non l'ho rivista, quella sera. Non sono andato a casa sua.» «Però devi ammettere che ne avresti avuto motivo.» «La smetta» disse Kevin. «Forse siete andati a fare un giro in macchina. Per parlare. E forse siete finiti al granaio. Forse la conversazione ha preso una piega sgradevole.» Kevin strinse i pugni. «È una menzogna.» «Abbiamo trovato sangue e preservativi sulla scena del delitto, Kevin. Che cosa scopriremo, quando avremo i risultati dell'esame del DNA?» Kevin si alzò, tremante di rabbia. «Scoprirete che io non c'entro. Perché non ero lì!» Anche Maggie si alzò. Gli toccò un braccio, ma lui lo ritrasse. Lei cercò di convincerlo a guardarla negli occhi. «Siediti, Kevin. Adesso so che non eri lì. Ma per esserne sicura ho dovuto provocarti un po'. Chi è colpevole non reagisce come hai fatto tu. Dài, siediti.» «Non avrei mai fatto del male a Rachel» disse Kevin. «Lo so, ma qualcuno gliene ha fatto. Perciò, se non sei stato tu ad andare a casa sua, chi c'è andato?» Kevin scosse la testa. «Non crede che glielo riferirei, se lo sapessi?» «Non ricordi qualcosa che lei ha detto? Non hai sentito qualche pettegolezzo, a scuola? Da quanto ho capito, quel granaio è un ritrovo molto popolare. Devono pur girare delle storie, tra voi ragazzi.» «Ah, certo, il granaio lo conoscono tutti. E molti ne parlano. Ma chi può sapere che cosa è reale e che cosa è inventato? Spesso sono solo chiacchiere.» «Ma tu sei sicuro che Rachel ci andasse» disse Maggie. «No, non ne sono sicuro. Ma credo che ci andasse.» «Perché?» Kevin allargò le braccia, esasperato. «Raccontava di fare sesso continuamente.» «Erano solo chiacchiere?» chiese Maggie. «O lo faceva davvero?» «Non lo so. Non ha mai fatto nomi.» Con la coda dell'occhio, Maggie notò una ragazza paffuta dai capelli ca-
stani sulla soglia del bar. Teneva le mani sui fianchi e girava la testa scrutando ogni tavolo come un uccello da preda. Quando scorse Kevin, un sorriso le apparve sul volto. Poi vide anche Maggie, esaminò il modo in cui era vestita e aggrottò la fronte. Si diresse verso di loro con passo deciso. «Ciao, Kevin» disse, ad alta voce. Kevin alzò gli occhi, sorpreso. «Sally!» Si alzò di scatto e la baciò sulle labbra. «Sono venuta a cena con i miei» disse Sally. «Paula mi ha detto che eri qui. Era un po' seccata.» Poi aggiunse, in tono ostile: «E questa chi è?». «Ti presento la signorina Bei. È della polizia.» «Della polizia?» ripeté Sally, sollevando le sopracciglia. Maggie si alzò e le tese la mano. La ragazza la strinse, poco convinta. «Abbiamo già parlato con la polizia» disse. «Lo so» replicò Maggie. «Kevin mi stava appunto dicendo che non conosce nessuno dei ragazzi di Rachel. Pensiamo che qualcuno sia andato a casa sua dopo il suo incontro con voi. Chi potrebbe essere, secondo te?» «Non lo so. Per Rachel nessuno era speciale. Lei usava le persone e poi le gettava via.» «Allora molti dovevano avercela con lei» disse Maggie. «Nessuno vi ha mai dato l'impressione di essere ossessionato da Rachel? Lei si è mai lamentata di qualcuno che non la lasciava in pace?» «Lamentata?» ripeté Sally. «Mai.» «Okay, lasciamo perdere Rachel, per il momento. E le altre ragazze, a scuola? Non parlano mai di ragazzi che creano loro problemi?» Kevin si grattò il mento e guardò Sally. «Che ne pensi di Tom Nickel? Karin diceva che continuava a mandarle strani messaggi. Un'autentica testa di cazzo.» Sally scrollò le spalle. «Sì, ma è stato due anni fa. Tom si è diplomato l'anno scorso.» «Però frequenta l'università del Minnesota ed è ancora in zona.» «Immagino di sì.» Maggie annotò il nome nel suo taccuino. «Qualcun altro?» «Quasi tutti i ragazzi della scuola sono degli idioti» rispose Sally. «Io sono stata fortunata.» Passò un braccio intorno alla vita di Kevin e lui la baciò sui capelli. «E c'è qualche ragazza che ha avuto una brutta avventura, al granaio?» Aveva toccato un nervo scoperto. Durò una frazione di secondo, ma Maggie colse lo sguardo di Sally.
L'atteggiamento della ragazza cambiò completamente e all'arroganza subentrò la paura. Poi l'istante passò. Sally si voltò a dare un bacio a Kevin, senza guardare Maggie. Quando si girò di nuovo verso di lei, sul suo viso era calata una maschera. «Io non frequento ragazze che vanno al granaio» disse. Maggie annuì. «Capisco.» «Kevin!» gridò una voce dalla soglia del bar. Una cinquantenne con l'aria seccata agitò un fascio di menu verso di loro. «C'è molto da fare. Ho bisogno di te subito, mi hai sentito? Subito!» Kevin si voltò verso Maggie. «C'è altro? Devo andare.» Maggie scosse la testa. Kevin baciò Sally e scappò via. Sally fece per seguirlo, ma Maggie la trattenne leggermente per un braccio. «Posso rubarti solo un altro minuto?» chiese. Sally si sedette controvoglia sulla sedia lasciata vuota da Kevin. Maggie bevve un sorso di birra, senza distogliere lo sguardo da lei. Posò il bicchiere sul tavolo e mise una mano su quella della ragazza, che la guardava, improvvisamente confusa e spaventata. «Vuoi parlarmene ora, Sally?» chiese Maggie, piano. La ragazza cercò di mostrarsi sorpresa. «Non capisco. Parlarle di che cosa?» «Avanti» la esortò Maggie. «Kevin non è più qui e non ci sono neppure i tuoi genitori. Ci siamo solo noi donne. A me puoi dirlo.» «Non so di che cosa sta parlando.» Maggie le strinse forte la mano. «Ti è successo qualcosa. Quando ho menzionato il granaio sei quasi svenuta. Sei stata lì, lo so. Senti, non ti sto giudicando. Ma se, quando eri al granaio, qualcuno ha cercato di approfittare di te, devo saperlo.» Sally scosse la testa. «Non è andata così.» «Non devi inventare scuse con me. Sono una donna anch'io e so come possono essere gli uomini.» «Non voglio creare guai a nessuno» ribatté Sally. «Non ho mai pensato che fosse una cosa importante. Voglio dire, l'avevo quasi dimenticato. E anche quando ho sentito che era stato trovato il braccialetto di Rachel al granaio, non mi è venuto in mente che potesse esserci un collegamento.» «Raccontami che cosa è successo» la incalzò Maggie. Sally sospirò. «Non l'ho mai detto a Kevin, né a nessun altro.» «A me puoi dirlo. Io posso aiutarti, lo sai.» Maggie osservò il turbinio di emozioni che passava sul viso della ragaz-
za. «Crede davvero che possa essere importante?» chiese Sally. «È troppo assurdo.» Maggie avrebbe voluto strapparle le parole di bocca, ma si limitò ad accarezzarle una mano e ad aspettare. «Circa sei mesi fa» cominciò Sally, sul punto di scoppiare a piangere «stavo facendo un giro in bicicletta da quelle parti. A volte vado là in macchina, poi la parcheggio e proseguo in bicicletta sulle strade secondarie. Non c'è mai nessuno la domenica mattina, così ho pensato che sarebbe andato tutto bene.» Maggie si chinò in avanti. Oh, Dio, non si trattava di un ragazzo, ma di uno psicopatico. Cristo, Cristo, Cristo. Pensò a Kerry McGrath e cercò di comunicare il messaggio con lo sguardo. È una cosa stupida da fare, ragazza mia. «E poi?» chiese. «Mi si è rotta la catena della bicicletta e c'è stato qualcuno che mi ha dato un passaggio.» «Qualcuno?» Sally annuì. «Un uomo. Lo conoscevo, perciò non ho avuto paura.» «Sei salita in macchina con lui di tua spontanea volontà?» chiese Maggie. «Sì, la mia auto era parcheggiata a parecchi chilometri di distanza.» «E lui ci ha provato con te?» Sally esitò. «Più o meno. Be', non proprio. Ma si è fermato al granaio.» Una serie di campanelli presero a squillare nella testa di Maggie. Sentì che le veniva la pelle d'oca, una cosa che succedeva sempre prima di una svolta importante in un caso. Finalmente stavano per arrivare delle risposte. «Che cosa è successo, Sally?» La ragazza deglutì e abbassò lo sguardo sulle mani. Tutt'a un tratto sembrò una bambina. Maggie pensò a come fosse strano che quegli adolescenti che si fingevano adulti ridiventassero improvvisamente fanciulli, non appena si grattava un po' la patina superficiale. «Parlavamo e basta. Lui mi diceva che ero carina, che si vedeva che ero in gran forma... Era molto... serio. Tutto è cominciato in modo innocuo, ma poi le cose sono cambiate.» «In che senso?» «Ecco, ci stavamo avvicinando alla strada che portava al granaio. Lui mi ha chiesto se ci ero mai stata e io gli ho risposto di no. Allora ha comincia-
to a stuzzicarmi e a insistere che saremmo dovuti andare a vedere se c'era qualcuno che pomiciava. E poi ha svoltato davvero in quella strada. Allora ho avuto paura.» «E hai detto qualcosa?» Sally scosse la testa. «No, ero troppo spaventata.» «Insomma, lui ti ha portata al granaio» disse Maggie. «Sì. Si è fermato sul retro. Io ero pronta a scappare, ma lui non ha fatto nulla. Continuava a parlare, dicendo cose senza importanza. Era come se stesse decidendo se provarci o no.» «Avevi paura che ti violentasse?» chiese Maggie. «Non so che cosa ho pensato, in quel momento. Era tutto molto strano.» «Ma non è successo nulla?» «No» rispose Sally. «È arrivata un'altra auto e lui è ripartito subito. Era come se non volesse essere riconosciuto. Per il resto del viaggio non ha detto quasi nulla. Mi ha riportato alla mia macchina e mi ha lasciato lì. Questo è tutto.» «Non c'è stato nient'altro?» Sally scosse la testa. «No. Come ho detto ero certa che ci avrebbe provato. Ma dopo ho pensato che forse avevo avuto paura per niente.» Maggie le prese una mano. «Ora è importante che tu mi dica chi era quel tizio.» «Sì» disse Sally. «Avevo già pensato di dirlo, ma... non credevo che fosse importante. Ero convinta di essermi immaginato tutto, capisce? In fondo, lui non mi ha fatto nulla.» «Ora non lo pensi più, vero?» «Non lo so. Davvero non lo so.» «Bene» disse Maggie. «E qualcuno vi ha visti insieme? Hai riconosciuto la macchina che è arrivata dopo di voi?» Sally scosse la testa. «Siamo ripartiti così in fretta!» «Ora dimmi, Sally: chi era quell'uomo? Non permetterò che ti faccia del male.» Sally si piegò in avanti e le sussurrò un nome all'orecchio. Maggie estrasse subito il cellulare dal cappotto e compose il numero di Stride. 16 Lunedì sera, uscendo dall'ufficio, Stride fece un salto all'ospedale, ma
scoprì che Emily Stoner era stata dimessa un'ora prima ed era tornata a casa insieme a Dayton Tenby. Stride non era rimasto sorpreso dal tentato suicidio della donna. Sapeva che il momento in cui un genitore o un coniuge scopre la verità dopo aver passato settimane o mesi a sperare in un miracolo era il più difficile e a rischio. La realtà a volte era troppo dura da sopportare. Preferì non passare a casa degli Stoner. Non aveva nulla di nuovo da riferire e immaginava che i medici avessero raccomandato a Emily di rimanere a letto. Stride aveva già comunicato telefonicamente a Graeme la scoperta del pezzo di tessuto insanguinato che poteva forse essere collegato a Rachel. Si diresse allora verso casa. Le strade erano coperte di neve. Aveva nevicato tutto il giorno. Le ricerche al granaio proseguivano, ma a un ritmo lentissimo. Gli uomini di Stride lavoravano con i baffi irrigiditi dal ghiaccio e i piedi semicongelati. Scavavano, grattavano e maledicevano la neve. In collaborazione con un gruppo di volontari era iniziata anche la ricerca del cadavere di Rachel nei boschi circostanti. Bucavano lo strato di neve con bastoni da sci e, dovunque sentissero qualcosa di insolito, cominciavano a scavare. I progressi venivano comunicati via radio a Guppo, nel furgone, e lui aggiornava la griglia di ricerca sul computer portatile. Stride nutriva poche speranze di successo. L'ampiezza della superficie boschiva giocava a favore degli assassini. C'erano migliaia di chilometri quadrati in cui nascondere un cadavere. La maggior parte delle volte le vittime scomparivano e non venivano mai più ritrovate. Come Kerry McGrath. Erano da qualche parte in quei boschi, sepolte o semplicemente abbandonate lontano dalle strade, alla mercé degli animali. Stride rabbrividì, pensando a Rachel. Oltre a quel pezzo di tessuto, non avrebbero trovato nient'altro che provasse la morte della ragazza. Estrasse il cellulare. La batteria era quasi scarica e lui aveva lasciato sulla scrivania quella di riserva. Ma ormai era vicino a casa. Fece il numero della segreteria telefonica e ascoltò i messaggi. Il primo era di Maggie e risaliva alle due del pomeriggio. Era breve e dolce: «Capo, sei uno stronzo». Stride rise, immaginando l'esito dei colloqui con i ragazzi del liceo. Il secondo messaggio era del laboratorio di analisi e risaliva a un'ora prima. Confermava che il sangue sul tessuto era umano e apparteneva al gruppo AB, lo stesso di Rachel. I risultati dell'esame del DNA dovevano
ancora arrivare. L'ultimo messaggio era arrivato alle otto di sera, meno di cinque minuti prima. Stride si aspettava che fosse il rapporto finale di Maggie, ma non era così. «Ciao, Jon» diceva una voce nervosa. «Sono Andrea. Avevo voglia di sentire la tua voce. Può sembrare stupido, lo so. E forse può sembrare stupido anche dirti che mi manchi. Ma è la verità: mi manchi. Comunque, sono ancora a scuola. Ho una montagna di compiti da correggere e sto lavorando nel laboratorio di chimica. Ho pensato molto a noi, oggi, e a quello che è successo venerdì. So che non sei padrone del tuo tempo, in questo periodo, ma spero di vederti presto. Mi piacerebbe molto. Va bene, adesso sono riuscita a fare la solita figura da scema, ma non è una novità. Chiamami appena puoi. Ciao, Jon.» All'incrocio successivo, Stride invertì la marcia e si diresse al liceo. Entrò nel parcheggio, posteggiò proprio accanto alla scuola e si mise a camminare velocemente sulla neve. Ne erano caduti almeno altri cinque centimetri, dall'ultima volta che erano passati a pulire le strade. La porta dell'edificio era chiusa. Stride bussò alla finestra, ma nelle vicinanze non c'era nessuno che potesse sentirlo. Imprecò. Accostò il viso al vetro freddo, senza riuscire a vedere alcunché. Tirò fuori il cellulare. La batteria si era esaurita del tutto. Stride imprecò di nuovo e fece il giro dell'edificio, procedendo in mezzo all'erba coperta di neve. Era giunto in prossimità dell'ingresso posteriore, quando scorse Andrea uscire da una porta in fondo al corridoio. Indossava i pantaloni di una tuta da ginnastica, che mettevano in risalto le sue gambe lunghe, scarpe da jogging e un maglione largo scollato a V. Lei non lo vide. Era diretta verso un distributore automatico nel corridoio. Inserì una banconota, prese una lattina di Diet-Coke, l'aprì e bevve un lungo sorso. Stride bussò forte alla porta. Andrea si voltò e lo vide. Un largo sorriso le illuminò il volto. Corse verso di lui ridendo e schizzando la bibita sul pavimento. Posò a terra la lattina, si asciugò le mani sui pantaloni e continuò a correre verso la porta. L'aprì, prese Stride per la mano e lo tirò dentro. Mentre la porta si richiudeva, lasciando fuori il vento, Andrea afferrò Stride per la nuca con le dita appiccicose e lo baciò sulla bocca. Lui per un attimo fu troppo sorpreso per reagire, poi l'abbracciò e rispose al bacio. «Sono felice che tu sia venuto» disse Andrea. «Ho quasi finito. Perché non mi tieni compagnia e poi andiamo a cena da qualche parte?»
«Perfetto» rispose Stride. Rientrarono abbracciati nel laboratorio di chimica. «Non ci metterò più di mezz'ora» disse Andrea. «Si tratta di quiz a scelta multipla. Non devo pensare, ma solo segnare le risposte sbagliate e dare un voto.» «E come sono i risultati?» chiese Stride. «Be', ho visto di meglio. Il livello di attenzione dei ragazzi cala di anno in anno ed è difficile mantenerli interessati alla materia.» «Nemmeno io ho mai avuto un debole per la scienza.» «Davvero? Credevo che un investigatore amasse risolvere i misteri scientifici.» Mentre parlava, Andrea faceva scorrere gli occhi su un compito, segnando gli errori con una penna rossa. «Le analisi scientifiche sono pane per i denti dei tecnici di laboratorio» disse Stride. «Io mi preoccupo dell'arte del possibile.» «Che cosa significa?» «Quasi tutte le azioni umane lasciano una traccia di qualche tipo. La gente si sposta, mangia, fa benzina, va in bagno, dorme. E si lascia dietro frammenti di pelle, capelli, impronte digitali, liquidi corporei. Tutte queste cose possono essere rintracciate e analizzate, sempre che sia possibile separarle le une dalle altre in modo da consentire di arrivare alla persona che si cerca.» Andrea sorrise. «Che ti piaccia o no, Jon, questo sembra proprio un procedimento scientifico. Non credo che tu abbia dormito, durante le lezioni.» «Se fossi stata tu la mia professoressa, non avrei dormito di sicuro.» Lei arrossì e abbassò lo sguardo sui compiti. Per qualche minuto, gli unici rumori furono lo scricchiolio della penna sui fogli e il fruscio delle pagine. Stride si guardò intorno, poi tornò a fissare Andrea, che stava sistemando una ciocca bionda dietro l'orecchio. Le maniche del maglione erano arrotolate, scoprendo le braccia sottili, ma forti. Lei percepì lo sguardo di lui e alzò gli occhi. Si fissarono senza dire nulla. Stride si chiese che cosa vedesse lei, quando lo guardava. Sapeva, perché Cindy glielo aveva ripetuto molte volte, che le donne lo trovavano attraente, ma non aveva mai capito perché. Non aveva né la pelle liscia, né i lineamenti regolari e sembrava piuttosto un marinaio che è passato attraverso troppe tempeste, come suo padre. Ogni volta che andava dal barbiere, vedeva cadere sul pavimento sempre più capelli grigi. Aveva dolori alle ossa e la ferita gli faceva quasi più male adesso che quando gli avevano
sparato, otto anni prima. Stava invecchiando. Ma sotto lo sguardo sincero di Andrea si sentì più giovane di diversi anni. Lei si copri la bocca con entrambe le mani, senza smettere di fissarlo, poi disse: «Sono un po' imbarazzata». «Perché?» chiese Stride, perplesso. Andrea rise. «Spero che tu non creda che me ne vado in giro per i locali a rimorchiare uomini con i quali passare la notte.» «Ah, quello che è successo è colpa mia» ammise Stride. «Tu eri ubriaca. Non avrei dovuto permetterlo.» «Eravamo ubriachi entrambi» disse lei. «E volevamo farlo. Non devi sentirti in colpa. Ma, il giorno dopo, ho avuto paura di aver commesso un terribile errore.» «Invece non l'hai commesso» la rassicurò Stride. «Vuoi sapere una cosa orribile? Ho provato una certa irritazione quando mi hai detto che tua moglie era morta.» Stride la fissò. «Non capisco.» «Cindy è morta e non c'è nulla che tu possa fare al riguardo. Non ne hai colpa e puoi ancora sentirti bene con te stesso. Una possibilità che, invece, mio marito mi ha tolto.» Stride scosse la testa. «È colpa sua, non tua. Da quello che mi hai detto, sembra proprio un bastardo egoista.» «Lo è, ma a volte mi manca ugualmente. Penserai che sono una stupida.» «Benvenuta nel club» disse Stride. «Senti, che ne pensi di andare a cena, adesso? Ho una fame da lupo e da Briar Patch fanno bistecche alte due dita che si sciolgono in bocca. E la birra è ghiacciata.» Andrea annuì. «Buona idea. Per oggi ho lavorato abbastanza. Vado a lasciare questi compiti in ufficio e usciamo.» Mentre percorrevano il corridoio deserto, Stride udì un rumore lontano, come il rimbalzare di un pallone da basket, ma intorno a loro non c'era nessuno e la notte fuori dalle finestre era come lo sbadiglio di una creatura gigantesca. Salirono al secondo piano e si trovarono in un altro corridoio vuoto e buio. Andrea aprì una porta e accese la luce. L'ufficio era pieno di scrivanie di metallo, armadietti e scaffali traboccanti di libri di testo. Andrea si diresse verso la scrivania più vicina alla finestra, aprì l'ultimo cassetto e vi fece scivolare dentro la pila dei compiti. Sulla parete accanto alla scrivania Stride notò la foto di un uomo e immaginò che si trattasse dell'ex marito di
Andrea. «Sono pronta» annunciò lei. Spensero le luci e Andrea chiuse a chiave la porta. Mentre si dirigevano verso le scale, Stride vide una striscia di luce filtrare da sotto la porta di uno degli uffici in fondo al corridoio. Si fermò. «Che cosa c'è?» chiese Andrea. «Nulla» rispose lui, ma all'improvviso sentì un'ondata d'ansia. Con gli anni, aveva sviluppato una specie di sesto senso, che lo avvisava quando qualcosa non andava per il verso giusto. «Quella luce viene dall'ufficio di Nancy Carver?» domandò. Andrea sembrò notare la luce per la prima volta. «Direi di sì.» «So che ti sembrerà strano, Andrea, ma aspettami qui, okay? Voglio controllare una cosa.» «Come vuoi.» Stride si avvicinò in silenzio alla striscia luminosa. Proveniva proprio dall'ufficio di Nancy Carver, la cui porta era socchiusa. Stride si mise in ascolto, ma non udì alcun rumore provenire dall'interno. Tossì ostentatamente, aspettandosi una reazione, ma l'ufficio restò immerso nel silenzio. Si avvicinò alla porta e sbirciò dentro la stanza. Riusciva a scorgere solo un angolo della scrivania e il braccio di una donna fino alla spalla. La donna sembrava seduta. «Buonasera» disse Stride, ad alta voce. La donna non si mosse. Stride si incuneò nell'apertura e spinse la porta, che sbatté contro il muro. Poi si affacciò sulla soglia. Nancy Carver era seduta alla scrivania, immobile. Lo fissava con gli occhi rossi di pianto. L'arroganza del loro primo incontro era sparita. Aveva le guance incavate e i capelli in disordine. Guardava attraverso di lui come se fosse trasparente. Lui rimase così sorpreso dal suo aspetto che impiegò alcuni secondi per notare la pistola sulla scrivania, a poca distanza dalle dita della donna. «Che diavolo è quella?» disse, lanciandosi verso l'arma. Si aspettava che Nancy Carver cercasse di prenderla per puntarla contro se stessa o contro di lui, ma la donna non si mosse. Rimase a guardarlo, mentre lui afferrava la pistola e ne svuotava il caricatore sul pavimento. I proiettili rotolarono qua e là. Stride si appoggiò alla parete, ansimando, con l'arma in mano. «Vuole dirmi che diavolo sta succedendo?» Avrebbe voluto aggiungere: "Perché due donne coinvolte nella vita di Rachel cercano di togliersi la vita?" ma non disse nulla.
Nancy Carver scosse la testa, con aria assente. «Avrei potuto fermarlo» sussurrò. Stride si chinò sulla scrivania. «Chi avrebbe potuto fermare?» Lei alzò gli occhi e incrociò il suo sguardo. «Credevo che lei fosse fuggita» disse. Stride attese, in silenzio. La donna cominciò a piangere. «Invece è morta. E io avrei potuto fermarlo. Io sapevo tutto.» «Devo andare» disse Stride ad Andrea. Erano seduti sul suo Bronco, nel parcheggio. La radio trasmetteva una canzone di Patty Loveless. «Ci vediamo domani?» «Non posso prometterti nulla.» «Perché non vieni a dormire da me, domani? Non importa a che ora arrivi. È stato bello dormire accanto a te, venerdì.» «Probabilmente arriverò tardi e non sarò molto di compagnia.» Andrea sorrise. «Lascerò una luce accesa.» Poi aprì la portiera e, mentre scendeva, un po' di neve le cadde sui capelli. Soffiò un bacio verso Stride, e corse verso la propria macchina. Lui la guardò salire a bordo, poi l'interno dell'auto si illuminò per un attimo alla luce di un accendino e Andrea partì, con un ultimo gesto di saluto. Stride guidò verso casa, prestando meno attenzione del necessario alle strade scivolose. I tergicristalli si muovevano con un ritmo monotono e ipnotico. "Io sapevo tutto". Provava una rabbia sorda all'idea che Nancy Carver avrebbe potuto confermare i loro sospetti una settimana prima. Forse avrebbero potuto fare qualcosa di più. Sarebbero stati più vicini alla soluzione. E se Emily Stoner fosse morta, senza venirlo a sapere? O chissà, forse lei lo aveva sempre sospettato. C'erano momenti in cui tutto sembrava un gioco, un rompicapo da risolvere. E c'erano momenti in cui Stride detestava dover sapere tutto ciò che sapeva sul lato oscuro del cuore umano. Attraversò il ponte diretto alla "Punta", proseguì per due isolati e si fermò nel vialetto. L'auto di Maggie era parcheggiata in strada e in casa c'era una luce accesa. Evidentemente lei lo stava aspettando. Meglio così, una telefonata risparmiata. Stride aveva bisogno di Maggie. Li attendeva una
lunga serata in ufficio. Entrò in casa. Maggie era in cucina, con i piedi su una sedia. Stava mangiando un sandwich al formaggio e leggendo il giornale. «Non hai risposto a quel dannato cellulare» disse subito. «Si è scaricata la batteria. Scusami.» «Sono qui da più di un'ora.» «Sei fortunata che sia rincasato da solo» disse Stride, chiedendosi come fare a spiegarle che, d'ora in poi, avrebbe dovuto essere più discreta nell'introdursi in casa sua. Sapeva che Andrea non avrebbe capito il tipo di rapporto che c'era tra loro. Lanciò un'occhiata alla gonna che lasciava le cosce di Maggie quasi completamente scoperte. «Niente male» commentò. «Sto congelando» ribatté lei. «Ed è colpa tua.» «Ne sarà valsa la pena, se hai saputo qualcosa di utile dai ragazzi.» Maggie sorrise. «Dai ragazzi no. Ma è venuto fuori che stiamo andando nella direzione giusta: quella della famiglia.» Stride si sedette di fronte a lei. «Graeme?» Maggie annuì. «È stata Sally a dirmelo. Sembra che Graeme l'abbia portata a fare un giro al granaio, l'estate scorsa.» «L'ha violentata?» «No, sono stati interrotti. Ma lei è convinta che lui avrebbe voluto farlo.» «C'è dell'altro» disse Stride. «Indovina un po'? Rachel ha raccontato a Nancy Carver che andava a letto con Graeme. Ha detto che era accaduto alcune volte, poi lei aveva cercato di tirarsene fuori, ma Graeme voleva di più.» Maggie lo fissò a bocca aperta. «Merda. Pensi che Emily lo sospetti?» «Ne sono certo, ma credo che non lo ammetterebbe neppure con se stessa.» «Graeme è un osso duro» osservò Maggie. «Tutti i controlli su di lui sono risultati negativi. Ha superato perfino il test della macchina della verità. Sarà difficile inchiodarlo.» «Già. Del resto questo spiega perché abbia sposato Emily. Probabilmente voleva Rachel fin dall'inizio. E la ragazza, dal canto suo, ha pensato che scopare con Graeme sarebbe stata una bella vendetta contro la madre. Quei due erano fatti l'uno per l'altra.» «Ma come possiamo provarlo?» chiese Maggie. «Abbiamo il racconto di Nancy Carver. È un inizio.» «È solo una cosa che lei sostiene di aver sentito. Non reggerà mai in tri-
bunale.» Stride annuì. «Lo so, ma servirà a farci avere un mandato.» 17 Stride fece giurare alla squadra di mantenere il silenzio, mentre si preparavano alla perquisizione, ma fu inutile. Mentre le auto della polizia parcheggiavano davanti a casa Stoner, Bird Finch andò in onda, dipingendo Graeme Stoner come un dottor Jekyill/Mr. Hyde, che aveva sedotto e poi ucciso la figliastra. Stride lo sentì alla radio e spense il notiziario, disgustato. Maggie, seduta accanto a lui, scosse la testa. «Come cazzo ha fatto a saperlo?» Stride si strinse nelle spalle. «Andiamo» disse. Si avviarono verso la porta di casa, seguiti da uno sciame di poliziotti in divisa. Stride chiamò a sé un agente. «La notizia è già di dominio pubblico» disse. «Stanno per arrivare giornalisti a frotte. Non devono avvicinarsi, capito? Fai circondare la zona con il nastro giallo e tienili lontani. Lo stesso vale per i vicini curiosi.» L'agente annuì e si diresse verso una delle auto, facendo cenno a tre uomini di seguirlo. Stride sussurrò a Maggie: «Seguiamo la perquisizione da vicino, Mags. Ogni cosa dovrà essere fatta secondo il regolamento e alla presenza di testimoni. Niente casini. Lui può contare su Archie Gale e tutte le nostre azioni verranno passate al setaccio». «Sarà tutto firmato, sigillato e consegnato» disse Maggie. «Puoi contarci, capo.» Stride non ebbe bisogno di suonare il campanello. Mentre saliva i gradini, Graeme Stoner spalancò la porta, con una rabbia gelida negli occhi. «Buonasera, tenente» disse. «Vedo che ha portato degli amici.» «Signor Stoner, abbiamo un mandato che ci autorizza a perquisire la casa in cerca di prove collegate alla scomparsa e al possibile omicidio di Rachel Deese.» «L'avevo capito. Ed è una normale prassi della polizia quella di calunniare un cittadino prima di avere qualunque prova? Il mio telefono ha già cominciato a squillare, grazie a Bird Finch. Ho chiamato Kyle per sporgere reclamo.» Stride si strinse nelle spalle. I contatti che Graeme aveva nel Municipio
non gli sarebbero serviti, in quel momento. «Rimarrò con lei, mentre i miei uomini effettueranno la perquisizione.» Graeme girò sui tacchi e si diresse in soggiorno senza voltarsi. Stride lo seguì e Maggie riunì gli agenti nell'ingresso, impartendo istruzioni. Guppo avrebbe guidato una squadra nel seminterrato. Lei si sarebbe occupata delle stanze al piano di sopra. Avrebbero lasciato per ultimi il pianterreno, l'esterno e le auto. «Ogni cosa dovrà essere fatta secondo il regolamento» raccomandò Maggie, ripetendo le parole di Stride. «Rimanete sempre in coppia. Trovate indizi, fotografateli, imbustateli ed etichettateli. È chiaro?» I poliziotti, tutti alti trenta o quaranta centimetri più di lei, annuirono con rispetto e si avviarono. I loro passi rimbombarono come un tuono sui gradini. Nella veranda, Stride avvertì il gelo che emanava dalle due persone che vi si trovavano. Emily Stoner era seduta sulla stessa poltrona dell'altra volta, accanto al caminetto. Aveva un aspetto fragile, scolorito. Il suo corpo si era come rinsecchito e i capelli le ricadevano in disordine sul viso. In poche settimane era invecchiata di anni. Non si mosse, non parlò, ma seguì con lo sguardo tutti i movimenti di Graeme, che andò a sedersi sulla poltrona di fronte. Anche l'altra volta Stride aveva notato una certa tensione tra loro, ma ora Emily aveva sentito le notizie, come tutti gli altri. Ora fissava il marito con l'aria di pensare che l'uomo che aveva di fronte e con il quale aveva condiviso il letto e la vita per cinque anni era un mostro. Stride se lo aspettava. Fu sorpreso, invece, dal comportamento di Graeme. Non era certo la prima volta che si trovava davanti a un criminale nei momenti che seguivano la scoperta della verità. Molti dichiaravano con rabbia la propria innocenza, negando fino all'ultimo. Altri crollavano e confessavano, liberandosi del peso della colpa che si portavano dentro. Ma Stride non aveva mai visto nessuno calmo e sicuro come Graeme. Era furioso, ma estremamente controllato. E aveva sul viso un'espressione di divertito distacco, come se la perquisizione non fosse altro che una perdita di tempo. Stride non sapeva come interpretare quell'atteggiamento. Di solito era convinto di poter leggere la colpa o l'innocenza di un uomo nel suo sguardo. Ma Graeme era una maschera. «Lei ha distrutto la mia reputazione in questa città» esordì Graeme, con
uno sguardo duro. «Spero che il suo ufficio abbia abbastanza soldi per pagare i danni, quando vi citerò in giudizio.» Stride lo ignorò e si rivolse a Emily. «Signora Stoner, la prego di accettare le mie scuse. Speravo di poterle dare questa notizia in un modo meno traumatico. So quello che ha passato.» Emily annuì, in silenzio. Continuava a fissare il marito, cercando di vedere la verità nei suoi occhi, proprio come Stride. Ma il volto di Graeme non rivelava nulla. «Signor Stoner» disse Stride. «Devo leggerle i suoi diritti.» Graeme sollevò un sopracciglio. «Sono in arresto?» «No, ma è un indiziato in questa indagine. Voglio essere certo che lei conosca i suoi diritti, prima di andare avanti.» Stride procedette con la lettura, mentre Graeme lo guardava con manifesto disgusto. «Sapendo che non è obbligato a farlo, è disposto a rispondere ad alcune domande in assenza del signor Gale?» Una scrollata di spalle. «Non ho nulla da nascondere.» Stride fu sorpreso da quella reazione. I sospettati ricchi non parlavano mai. Decise di approfittare di quel colpo di fortuna. «La fuga di notizie riguardo a questa situazione è stata davvero riprovevole, signor Stoner, e me ne scuso. Non so come una cosa del genere sia potuta succedere.» Stride non voleva cominciare subito con le domande difficili, rischiando che Stoner capisse che era meglio chiudersi nel silenzio. Voleva farsi strada poco alla volta verso i particolari più scabrosi. Ma qualcosa negli occhi dell'uomo gli fece capire che lui era perfettamente consapevole della sua strategia. «Le suggerisco di scoprirlo, tenente.» Stride annuì. «Tuttavia capirà che alcuni particolari emersi dalle indagini sollevano parecchi interrogativi. Vorremmo conoscere la sua versione della storia. Questo è il motivo per cui sono qui.» «Sì.» «Lei andava a letto con Rachel?» Nella veranda scese un silenzio pesante. Emily sembrò trattenere il fiato, in attesa della risposta. Stride vide la rabbia offuscare il volto di Graeme. Non c'era senso di colpa nella sua espressione. Solo disprezzo. L'atteggiamento sicuro di quell'uomo indusse Stride a chiedersi se non stessero facendo un grosso errore. Oppure Graeme era un attore consumato? «È una domanda molto offensiva. E la risposta è no. Mai. Non sarei mai
andato a letto con la mia figliastra, tenente. Non è mai successo.» «Rachel ha detto di sì, invece» ribatté Stride. «Non ci credo. Rachel non aveva certo buoni rapporti con noi, ma non posso credere che abbia diffuso una menzogna così ripugnante.» «Rachel ha raccontato a una consulente della scuola, Nancy Carver, che avete cominciato a fare sesso insieme poco dopo che lei ha sposato sua madre.» Stride sentì Emily trasalire. Graeme la guardò per un attimo, poi tornò a fissare il tenente. «Nancy Carver? Non mi sorprende. Sa che quell'impicciona mi ha perfino telefonato per farmi domande? Ma non mi ha mai accusato apertamente di nulla. Ritengo che sia la Carver a dover subire un'indagine, Stride. È evidente che si tratta di una lesbica. A suo tempo ho anche chiamato la scuola per protestare.» Stride prese un appunto sul suo taccuino. Voleva controllare se c'era davvero stato un reclamo contro Nancy Carver. «Perché Rachel avrebbe inventato una cosa del genere?» «Non credo che l'abbia fatto. Per me è stata la Carver a inventarsi tutto.» «Rachel l'ha detto anche a un'altra persona» mentì Stride. Stavolta scorse un lampo di esitazione nello sguardo di Graeme. Ma fu solo un attimo. «Mi è difficile crededo. Ma se davvero lo ha fatto, posso solo pensare che avesse dei problemi. Magari nutriva qualche fantasia su di me. O forse cercava di separare me ed Emily.» «Ma non siete mai andati a letto insieme?» «No, gliel'ho già detto.» «Non l'ha mai toccata e non ha mai avuto nessun contatto sessuale con lei?» «Ovviamente no.» «E Rachel non l'ha mai toccata.» «Non sono Bill Clinton, tenente» ribatté Graeme. «Niente sesso significa niente sesso.» Stride annuì. Un diniego definitivo sarebbe stato loro d'aiuto in tribunale, se avessero potuto trovare le prove di un rapporto tra Graeme e Rachel. Ma si trattava di un "se" piuttosto ingombrante. Stride dubitava che Stoner sarebbe stato così deciso, sapendo che esistevano prove contro di lui. Oppure stava dicendo la verità. «Conosce un'amica di Rachel di nome Sally Lindner?» chiese Stride.
Graeme aggrottò la fronte. «Mi sembra di sì. È la ragazza di quel Kevin, se non sbaglio. Perché?» «Le ha mai dato un passaggio?» «Non ricordo» rispose Graeme. «Forse.» «Forse?» Graeme si grattò il mento. «Sì, forse le ho dato un passaggio, un giorno. La sua bicicletta era rotta. Ma è successo vari mesi fa e sinceramente non ricordo bene se si trattava di lei o di un'altra.» «Dove l'ha presa a bordo?» «Da qualche parte a nord della città. Ero andato a visitare una delle nostre filiali.» «E dove l'ha portata?» «L'ho riportata alla sua auto.» «Durante il viaggio vi siete fermati da qualche parte?» «Non che io ricordi» disse Graeme. «Sally dice che lei l'ha portata al granaio abbandonato.» «Al granaio? No di sicuro! L'ho portata nel punto in cui aveva lasciato la macchina. Questo è tutto, tenente.» «Ne è sicuro? Davvero non è passato da quel granaio?» «Non ci sono passato» rispose Graeme, deciso. «Allora perché Sally sostiene il contrario?» Graeme sospirò. «Come faccio a saperlo, tenente? Forse è stata Rachel a chiederle di mentire.» «Rachel?» disse Stride. «Perché avrebbe dovuto farlo?» «Rachel è una ragazza complicata» rispose Graeme. Maggie indicò uno schedario a tre cassetti in legno di quercia. «Tu comincia da lì. Io penso alla scrivania.» L'agente, un venticinquenne allampanato con il viso brufoloso, annuì masticando un chewing-gum. Si chiamava Pete e aveva lavorato in un servizio di sicurezza privato, prima di entrare in polizia. A Maggie piaceva il suo atteggiamento sicuro, ma il ragazzo aveva molto da imparare. Una volta aveva commesso l'errore di scoppiare una bolla di chewing-gum con le dita guantate, durante un sopralluogo. Maggie gli aveva quasi staccato la testa e gli aveva letto il trattamento che la legge riserva a chi contamina la scena di un crimine. Da allora Pete aveva smesso di fare le bolle, ma continuava a masticare gomma rumorosamente, solo per darle fastidio. Poiché era proprio quello
che avrebbe fatto anche lei, Maggie non lo rimproverava. Si trovavano nell'ufficio di Graeme al piano di sopra. Era tutto organizzato in modo impeccabile. Sulla grande scrivania di quercia c'erano monitor del computer e tastiera, una piccola scelta di libri ordinati per argomento e due file di cd, che Maggie si fermò a osservare. Una fila rifletteva i gusti musicali di Graeme, che sembravano propendere per le sinfonie di Mahler. L'altra fila comprendeva dischi con il timbro della Range Bank e la scritta «Riservato». «Dovremo chiedere a Guppo di esaminare questi cd e l'hard disk» disse Maggie. «Etichettali, così ce li portiamo via.» Pete rispose con un grugnito di assenso e immerse le mani nel primo cassetto dello schedario. Maggie si guardò intorno nella stanza, cercando di immedesimarsi nei gusti di Graeme. Le pareti erano rivestite di carta da parati blu scuro con pagliuzze dorate, che richiamavano il color oro della moquette. In giro erano appesi vari acquerelli, quasi tutti paesaggi, che all'occhio inesperto di Maggie sembrarono fatti da un professionista e molto costosi. I mobili principali erano la scrivania e l'elaborata sedia in pelle. Poi c'erano lo schedario, una libreria a parete piena di volumi rilegati e una poltrona eccessivamente imbottita con un divano abbinato. In un angolo della scrivania c'era anche una sottile lampada di ottone. Era una stanza opulenta e sterile, ricca di soldi e povera di personalità. Lo stesso valeva per la camera da letto padronale: il tipico ambiente elegante in cui era difficile immaginare che qualcuno potesse vivere davvero. Maggie e Pete avevano trascorso quasi due ore lì e nel bagno, in cerca di segreti, ma non avevano trovato nulla. Niente preservativi né pillole anticoncezionali, niente gingilli erotici né cassette porno. Maggie si chiese quando fosse stata l'ultima volta che Emily e Graeme avevano fatto sesso. Ma la cosa aveva poca importanza. La domanda a cui bisognava invece trovare risposta era se Graeme e Rachel avessero fatto sesso. Finora non era emerso assolutamente nulla che convalidasse le affermazioni di Nancy Carver. Maggie ebbe un brivido. Cercò di immaginarsi Rachel sola con Graeme in quella casa. Lo facevano nella camera da letto padronale? Oppure nella camera di lei? Sul pavimento del bagno? Lui le stava sopra o voleva che fosse lei a cavalcarlo? La prendeva da dietro? La costringeva a inginocchiarsi e a succhiarglielo? Le prove. Ecco la parte difficile. Graeme era al sicuro nel suo diniego
purché Rachel non riapparisse mai; in genere, infatti, rimanevano poche tracce a provare che due persone avevano avuto rapporti sessuali. In quel caso c'erano solo le confidenze di Rachel a una persona. Nulla che potesse reggere in tribunale. «Che cosa c'è in quello schedario, Pete?» chiese Maggie. L'agente scrollò le spalle. «Dichiarazioni dei redditi. Documenti vari. Garanzie. A quanto pare, il nostro uomo conserva tutto.» «Controlla ogni cosa e metti le dichiarazioni dei redditi in una scatola. È meglio farsene una copia.» Maggie si concentrò sulla scrivania. Prese in mano un libro dopo l'altro e gli diede una sfogliata prima di rimetterlo a posto. Aprì i cassetti uno alla volta, ne esaminò il contenuto e controllò che non ci fosse nulla attaccato con il nastro adesivo sul fondo. Accese il computer. Non aveva tempo di esaminare l'hard disk nel dettaglio (quello era compito di Guppo), ma voleva almeno controllare le email e i siti che Graeme aveva visitato su internet. Per evitare di alterare qualcosa accidentalmente, per prima cosa stampò una lista dei file presenti sull'hard disk, che poi provvide a copiare per intero e a riversare nel portatile che aveva con sé, ottenendo una riproduzione speculare del computer di Graeme. Cliccò quindi sull'icona di Explorer e scoprì subito che la cronologia dei siti visitati era stata cancellata. Anche la cartella «Preferiti» era vuota. «Interessante» commentò Maggie, ad alta voce. «Sembra che Graeme abbia fatto pulizia.» «Come?» chiese Pete. «Non ci sono i siti visitati. Eppure Graeme è il direttore della sezione ecommerce della sua banca. Che senso ha tutto ciò? Lui non vuole che si sappia in quali siti naviga.» Maggie aprì Outlook. La casella di posta elettronica era vuota. Nessun messaggio nella posta arrivata, né in quella inviata; nessun messaggio salvato. Era come se Graeme non avesse mai inviato un'e-mail da quel computer. Qualcosa non quadrava. Forse l'uomo aveva una casella di posta su un server pubblico, tipo Yahoo o Hotmail, dove avrebbe potuto ricevere e mandare e-mail senza lasciare tracce sul suo computer, ma scoprirlo sarebbe stato assai più difficile. Il suo walkie-talkie gracchiò e Maggie se lo portò all'orecchio. «Sì?» Era Guppo. «Nel seminterrato abbiamo finito.»
«Trovato qualcosa?» «Tutto pulito. Perfino gli attrezzi da giardino sembrano nuovi. Non credo che lui passi molto tempo quaggiù.» «Dannazione!» commentò Maggie. In mancanza di prove che Rachel e Graeme facevano sesso, sperava di trovare qualche indizio dell'omicidio. Ma, in realtà, era evidente che Rachel non era stata uccisa in casa. Era più logico che lei e il suo assassino fossero andati al granaio, dov'era successo qualcosa che si era concluso con la morte di Rachel. «Bene, Guppo, tu e Terry occupatevi del minivan che è qui fuori. Controllate ogni centimetro, sollevate i tappetini, passatelo ai raggi ultravioletti per cercare tracce di sangue, capelli, fibre, sperma, impronte digitali. Qualunque cosa. Voglio sapere se Rachel è stata lì dentro.» «Okay.» Il walkie-talkie gracchiò di nuovo. Stavolta era Terry. «Maggie, vuoi davvero che vada a chiudermi nel furgone con Guppo? È stato già abbastanza brutto qui nel seminterrato.» Maggie rise. «Ehi, io l'ho sopportato per ore, al granaio. Non sperare in un trattamento di favore, Terry. Esci e mettiti all'opera.» Agganciò di nuovo il walkie-talkie alla cintura. «Mi metterò a cercare nella libreria» disse poi, lanciando un'occhiata disgustata alla parete piena di volumi. «Il computer è pulito?» «In apparenza, sì. A quanto pare, Graeme è un maniaco dell'ordine. Spetterà a Guppo fare una ricerca più approfondita.» «Hai cercato anche tra le immagini?» chiese Pete. «Hai presente? Gif, Jpeg eccetera. Forse ci sono foto porno nascoste da qualche parte.» Maggie annuì e lanciò una ricerca sul portatile, per trovare tutti i file con il nome di Rachel. Pensò che così fosse troppo facile e, infatti, aveva ragione: la ricerca non produsse risultati. Provò, allora, con tutti i file che iniziavano per R, ma i risultati furono troppi. Tentò con una serie di parole chiave, tipo "sesso", "scopate", "porno", ma non ebbe miglior fortuna. Poi le venne in mente di cercare tutti i file creati o modificati durante le due settimane prima e dopo la morte di Rachel. Ne trovò alcuni e li controllò lentamente, ignorando i file di sistema e aprendo quelli di testo o i fogli di calcolo. Avevano tutti l'aria di documenti di lavoro, pieni di particolari su fondi comuni, transazioni on line, consuntivi. Maggie procedette sistematicamente, anche se era convinta che quella ricerca non sarebbe stata più produttiva delle altre. Graeme era troppo furbo.
Poi la vide. Fargo4qtr.gif.: un'immagine creata due giorni prima della scomparsa di Rachel. Il nome la faceva sembrare un file di lavoro, ma si trovava nella directory sbagliata. Inoltre in nessuno degli altri file di lavoro di Graeme erano state trovate immagini. Maggie mosse il cursore del mouse e cliccò due volte sull'icona, trattenendo il fiato. Trascorsero un paio di secondi, mentre il computer caricava l'immagine, e poi sul monitor apparve una foto a colori. «Oh, mio Dio!» esclamò Maggie. Pete si materializzò alle sue spalle e commentò: «Merda!». Era una foto incredibile. Maggie si considerava strettamente eterosessuale, ma fissando quell'immagine si passò la lingua sulle labbra. Rachel era nuda, in un bosco, con alberi sfocati sullo sfondo. Pioveva e la sua pelle era lucida d'acqua. Gocce le imperlavano i seni e rivoletti scendevano fino all'inguine e poi a terra. Lei aveva le ginocchia piegate e una mano tra le gambe con due dita affondate nella fessura, ma fuori dalla vista. L'altra mano era sul seno destro e stringeva il capezzolo tra le dita. La bocca era aperta in una smorfia di piacere e gli occhi verdi spalancati fissavano l'obiettivo del fotografo. Maggie si rese conto che Pete, dietro di lei, ansimava. «Spero proprio che non sia morta» disse l'agente. «Darei non so che cosa per scoparmela!» «Piantala» tagliò corto Maggie, acida, e cliccò su «Stampa». L'immagine della ragazza che si masturbava nel bosco cominciò a uscire lentamente dalla stampante. «Figlio di puttana» mormorò. La veranda era immersa nel silenzio. Emily e Graeme erano seduti nelle due poltrone reclinabili. Emily fissava davanti a sé, con le mani in grembo. Graeme esaminava un documento attraverso i suoi mezzi occhiali, ignorando Stride. Quando il tenente aveva finito le domande, Graeme si era semplicemente messo al lavoro, come se non avesse nulla di cui preoccuparsi. Stride sapeva che tanta calma era, almeno in parte, simulata, perché l'insinuazione fatta sul suo conto sarebbe bastata da sola a distruggere la reputazione di quell'uomo. Ormai, comunque andassero le cose, Graeme Stoner a Duluth era finito. Rimaneva solo da sapere se sarebbe stato libero di andarsene altrove, oppure se avrebbero trovato le prove per metterlo in galera. Con il passare delle ore l'attesa si faceva sempre più stancante. Stride udì
Guppo e Terry salire le scale e uscire dalla porta d'ingresso. Immaginò che Maggie li avesse mandati a perquisire il minivan. Aveva preferito spegnere il walkie-talkie piuttosto che far sentire agli Stoner quello che si dicevano. Fissò il viso di Graeme. Il banchiere doveva essere consapevole del suo sguardo, ma non fece una piega. Sarebbe stato interessante vedere la battaglia di Dan Erickson in tribunale per farlo condannare. Sempre che fossero riusciti ad arrivarci, in tribunale. Passò altro tempo. Stride udì un rumore di passi, si voltò e vide Maggie entrare nella stanza con un foglio in mano. Stavolta Graeme alzò gli occhi, con sincera curiosità. Maggie sussurrò all'orecchio di Stride: «Da' un'occhiata a questa». Stride guardò la foto e rimase allibito alla vista della ragazza nuda. Dovette fare uno sforzo per ricordarsi che si trattava di un'adolescente scomparsa e probabilmente morta. Alzò gli occhi a fissare Graeme. Finalmente sentì di avere un vantaggio su di lui. «Mi dica, signor Stoner, possiede una macchina fotografica digitale?» chiese. Graeme annuì. «Certo.» «Avremo bisogno di portarla via con noi» disse Stride. «Riconosce questa foto?» Passò il foglio a Graeme e, per la prima volta, vide la sua calma granitica sgretolarsi. La mano dell'uomo tremò. Emily riuscì a scorgere l'immagine e si coprì la bocca per soffocare un grido. «Dove l'avete trovata?» chiese Graeme, facendo del suo meglio per mantenere un tono pacato. «Sul computer, nell'ufficio al piano di sopra» rispose Stride. «Non so come ci sia finita. Non ho mai visto prima quest'immagine.» «Davvero?» chiese Stride. «Non ha scattato lei questa foto?» «Certo che no. Le ho detto che non avevo idea che fosse sul mio computer. Deve avercela messa Rachel. Per farmi uno scherzo.» «Uno scherzo?» ripeté Stride, inarcando le sopracciglia. «Un bello scherzo davvero! Non sa dove e quando sia stata scattata?» «Assolutamente no.» Maggie lo fissò con uno sguardo freddo. «Questo file è stato creato sul suo computer due giorni prima della scomparsa di Rachel.» «Che bella coincidenza!» disse Stride.
«Come ho detto, deve avercelo messo Rachel. Forse per darmi un addio bizzarro, prima di scappare di casa.» Stride fece un passo verso di lui. «Ma Rachel non è scappata di casa, vero, signor Stoner? Lei l'ha portata al granaio abbandonato, quella notte. Per fare sesso, come tante altre volte. Che cosa è successo quella volta? Lei ha detto di no? Ha cercato di fuggire? Ha minacciato di raccontare tutto a sua madre?» «Graeme» supplicò Emily, con voce flebile. «Ti prego, dimmi che tutto questo non è vero.» Lui sospirò e disse: «Certo che non è vero». «Sappiamo che Rachel è stata al granaio quella notte, signor Stoner. Sappiamo, inoltre, che prima è tornata a casa e che lei era qui. Vorrebbe dirci che cosa è successo?» Graeme scosse la testa. «Non l'ho sentita entrare. Credo che non dirò altro, fino all'arrivo del signor Gale.» Sembrava confuso. Stride fu contento di vedere che quell'uomo non era immune da errori, che anche lui si lasciava dietro delle tracce e che non sapeva come reagire quando le sue menzogne venivano smascherate. «Continua a cercare, Mags» disse poi a Maggie. Lei stava per tornare di sopra quando il suo walkie-talkie gracchiò. Nel silenzio si udì la voce di Guppo. «Maggie, Stride, venite qui. C'è un residuo di sangue sul pavimento del minivan, sotto un tappetino e anche su un coltello dentro una scatola di attrezzi.» Maggie spense immediatamente la radio, ma era troppo tardi. Emily urlò. Stride e Maggie la guardarono, avvertendo una nota di lacerante dolore nella sua voce. Pallida, la donna si alzò di scatto dalla poltrona e fissò con orrore Graeme, il quale rimase seduto, con uno strano sorriso sul volto, come un gatto che ha mangiato il canarino. Stride si fece avanti, pronto a sostenere Emily se fosse svenuta. Emily gemette, si accasciò a terra e vomitò. PARTE TERZA 18 Il Kitchi Gammi Qub di Duluth, meglio noto come Kitch, era il tentativo
di emulare gli eleganti club cittadini del New England. Era un edificio di cinque piani in mattoni rossi, circondato da giardini ben curati che, con il tepore della primavera, si riempivano di fiori ed era munito di ampie tettoie e di una bella veranda. Ai piani alti c'erano accoglienti biblioteche, con mobili antichi in legno di ciliegio, eleganti poltrone e tutti i giornali di Minneapolis e di New York impilati su tavolini dai piedi a zampa di leone. Era il luogo dove i politici e gli investitori andavano a sorseggiare un brandy, mentre gestivano gli importanti affari della città. Il portiere, un norvegese ultraottantenne di nome Per, che lavorava al Kitch da tempo immemorabile, scattò sull'attenti all'arrivo di un uomo alto e robusto, che fischiettava una canzone di Frank Sinatra, come faceva sempre da quando Per lo conosceva. Era sui cinquantacinque-cinquantasei anni, grande e grosso e con un passo energico. Aveva i capelli grigi e mossi, tagliati con cura ma molto radi nella parte superiore della testa, il viso largo e florido, gli occhi azzurri taglienti dietro gli occhialini da gufo e un pizzo sale e pepe. Indossava un completo gessato color antracite, con camicia bianca e gemelli d'oro. Dal taschino della giacca occhieggiava un fiore e un aroma di colonia gli aleggiava intorno. «Buonasera, signor Gale» lo salutò Per, spalancando la porta. «Per, è sempre un piacere vederti» contraccambiò Archibald Gale, con voce tonante. «Che splendida giornata di primavera, eh?» «Oh, certo, signor Gale. Immagino sia qui per un altro caso importante, vero?» «Vero, Per, verissimo.» «Dico sempre a tutti che lei è il migliore.» «Che questa frase arrivi anche alle orecchie della giuria» commentò Gale. Diede al portiere una leggera pacca sulla spalla ed entrò nel club, mentre la porta di quercia si chiudeva dolcemente alle sue spalle. Guardò l'orologio: le 16,45, un quarto d'ora prima del suo appuntamento con Daniel Erickson, il Pubblico Ministero della contea. Gale faceva sempre così. Arrivava in anticipo, si sedeva in una delle biblioteche con un bicchiere di whisky di puro malto e aspettava la sua preda. Era indiscutibilmente uno dei più abili penalisti dello Stato, ma si diceva che vincesse la maggior parte delle sue cause al Kitch, prima del processo. I suoi innocenti consigli e le sue oscure allusioni finivano per snervare gli avversari a tal punto da indurli a rivedere la propria strategia e a presentarsi in tribunale con argomentazioni confuse. La tattica di guerra psicologica
di Gale era ormai tanto nota che spesso i suoi avversari rifiutavano il tradizionale invito a una chiacchierata amichevole al Kitch la sera prima del processo. Ma Dan Erickson aveva un ego troppo forte per sottrarsi alla sfida. Così era anche più divertente. Gale aveva avuto a che fare con molti avvocati ambiziosi nella sua carriera e si divertiva a smantellarne l'arroganza. Daniel era più duro degli altri. All'inizio, quando Trygg Stengard, il precendete Pubblico Ministero della contea, aveva assunto Erickson, Gale aveva dato al vecchio amico e avversario il consiglio di stare attento al suo nuovo numero due. Ma Stengard era una di quelle persone che amavano i giovani ambiziosi. «Spero che sarai tu ad ammorbidirlo un po', Archie» gli aveva detto. «Prendilo a calci in culo due o tre volte, gli farà bene.» E Archibald Gale lo aveva fatto. Non era rimasto sorpreso di constatare che Daniel era calmo ed efficace in tribunale e aveva fatto un buon lavoro come Pubblico Ministero, dopo la morte di Stengard. Però, aveva perso due cause importanti, entrambe per mano di Gale. Il processo di Graeme Stoner sarebbe stato per Daniel la rivincita o la sua definitiva umiliazione. Gale sapeva che lui era fiducioso e aveva ragione di esserlo. Anche in assenza di un cadavere, le prove indiziarie erano più che sufficienti a mettere i giurati contro un imputato che era ancora più arrogante del suo accusatore. Se Daniel fosse riuscito a convincerli che Stoner scopava davvero con la figliastra, sarebbe stato quasi impossibile per Gale evitargli la galera a vita. Ma Gale amava le sfide. E aveva qualche asso nella manica. Salì in ascensore che cigolò sotto il suo peso. Di solito saliva a piedi per tenersi in forma, ma stavolta non voleva rischiare di arrivare senza fiato all'incontro con Daniel. Il vecchio ascensore si fermò con uno scricchiolio, Gale scese e si diresse lungo il corridoio verso la biblioteca Ojibwe, con vista sul lago. Margaret emerse dalla cucina e Gale si chinò e le sfiorò il collo con un piccolo bacio. L'anziana donna rise e arrossì. «Il suo bicchiere di Oban è già sul tavolino, signor Gale.» «Oh, Margaret, sei troppo buona con me. Fuggiamo insieme un giorno, vuoi?» Margaret rise di nuovo. «Sa che cosa beve il signor Erickson?» «Bombay gin con molto ghiaccio. Mettilo sul mio conto. Credo che dopo il primo ne vorrà subito un altro.»
Margaret sorrise, come se condividesse con lui un piccolo segreto, e tornò in cucina. Gale si mise a proprio agio. Guardò fuori dalle finestre, diede una scorsa ai titoli dello «Star Tribune» che aveva già letto e infine si sedette su un divano del 1920, scaldando il suo bicchiere di Oban nel palmo nella mano. Era calmo, come sempre, prima di un processo. Altri avvocati diventavano inquieti, lui invece era concentrato. Sentiva quasi fisicamente le pulsazioni rallentare e il cervello entrare in sintonia con il caso che aveva davanti. Cinque minuti dopo, Dan Erickson irruppe nella biblioteca, tenendo in mano un bicchiere di gin e facendo tintinnare il ghiaccio. Qualche goccia di liquore schizzò fuori e finì sulla moquette. «Ciao, Daniel» lo salutò Gale. «Mi sembri un po' nervoso.» Daniel si fermò e sorrise. «Tutt'altro. Non vedo l'ora di cominciare. L'ultima volta mi hai battuto, Archie.» «E anche la volta precedente, se non ricordo male» precisò Gale, sorridendo. «Be', stavolta non succederà.» Invece di sedersi, Dan si mise a passeggiare tra le finestre e il caminetto. Indossava un abito blu scuro e scarpe nere lucide e aveva i capelli biondi meticolosamente pettinati. Benché basso di statura, era attraente e in forma. Gale sospettava che nelle ultime settimane avesse frequentato un centro di abbronzatura artificiale per impressionare la giuria. «Ah, ma il giudice Kassel mi ha già dato ragione su Nancy Carver.» Dan si strinse nelle spalle. Prese una statuina di porcellana sulla mensola del caminetto, se la passò un paio di volte da una mano all'altra e la rimise a posto. «La testimonianza della Carver non può essere confermata. Sapevo che non saremmo riusciti a farla arrivare in tribunale.» «Già, ma così diventa molto più difficile far credere che Rachel e Graeme andassero a letto insieme.» «Oh, per quello abbiamo abbastanza prove» ribatté Dan. «Stoner è un pervertito, Archie. Non ti stai facendo molti amici, qui, dopo aver accettato il suo caso.» Gale bevve un sorso impercettibile di whisky. «Sì, ho già ricevuto le solite lettere intimidatorie e varie minacce di morte. Non è un'ironia della sorte che la gente minacci di uccidermi perché difendo un uomo sospettato di omicidio?» «Be', sarà solo sospettato, ma non è certo un angelo.» Dan andò alla finestra, guardò per qualche secondo il traffico del lunedì su London Road e
tornò al centro della stanza. «Siediti, mi fai girare la testa» lo esortò Gale. Dan sorrise, tamburellando le dita sulle tasche. «Aspetta, Archie, il bello deve ancora venire.» «Sembri molto sicuro di te» osservò Gale. «È logico. Stoner è incastrato. E tu lo sai.» «Oh, se fossi in te controllerei più attentamente alcuni testimoni. Potresti scoprire che hanno altre storie da raccontare.» Un lampo di preoccupazione attraversò il viso di Dan, ma fu subito rimpiazzato da un ampio sorriso. «Sei davvero una vecchia volpe. Riesci a mentire quasi meglio di me.» Gale ridacchiò. «È un gran complimento, detto da te. Ma non sto mentendo. Considerala una cortesia professionale.» «Sì, certo. Senti, puoi arrampicarti sugli specchi come ti pare, ma stavolta non ce la farai. Avevi un'unica possibilità, cioè rinviare la causa davanti a un'altra Corte, e ti è andata male. In ogni modo, non mi importa un accidente di non poter far salire Nancy Carver sul banco dei testimoni per dichiarare che Rachel scopava con il paparino. La giuria lo sa già. Ovviamente fuori da questa stanza negherei tutto.» «Sì» ammise Gale con un sospiro. «Sono rimasto deluso per il mancato cambiamento di sede. Sospetto che il giudice sapesse che il caso andava trasferito, ma penso che in realtà ci tenesse a seguirlo di persona. Quella donna è un po' come te.» Dan si chinò e infilò le dita in una ciotola di cristallo piena di frutta secca assortita. Scelse un grosso pezzo di noce brasiliana e se lo mise in bocca. «Su questo punto, hai ragione» disse, sgranocchiandolo. «In realrà, dovresti sapere che ho avuto una breve relazione con Catharine.» Gale inarcò le sopracciglia. «Sei andato a letto con il giudice? Non è un po' troppo, per vincere un processo?» «È stato molti anni fa. Lei non era ancora un giudice e io non ero il Pubblico Ministero della contea.» «Ma lei era già sposata, no?» Dan si strinse nelle spalle, masticando un anacardo, e non rispose. «Potrei chiedere che il giudice venga sostituito» disse Gale. «Potresti, ma non lo farai.» «Come fai a esserne tanto sicuro?» «Questo non sarà certo l'ultimo caso che discuterai davanti a Catharine e
non credo che tu voglia passare per quello che ha messo in piazza i suoi panni sporchi. Inoltre, chiedendo un altro giudice potrebbe andarti peggio. Sai che lei riserverà a Stoner un trattamento equo. Più di quello che merita.» «Per come conosco la tua reputazione» replicò secco Gale «il fatto di aver avuto una storia con lei potrebbe anche ritorcertisi contro.» «Oh, non esagerare.» «Allora perché me ne hai parlato?» chiese Gale, in tono innocente. «Lo sai benissimo, Archie. Ora non potrai dire che non lo sapevi. Ti ho dato un motivo per chiedere la sostituzione del giudice e tu l'hai respinto. Se, dopo la condanna di Stoner, avessi scoperto che Catharine e io avevamo avuto una relazione, avresti potuto chiedere l'annullamento della sentenza.» «Sì» disse Gale. «Ma è una preoccupazione inutile, perché Stoner non verrà condannato.» «Avanti, Archie. Se fossi in te, gli consiglierei di dichiararsi colpevole e di appellarsi alla clemenza della Corte. Abbiamo il sangue di Rachel nel suo minivan, sul suo coltello, sul luogo del delitto. L'esame del DNA lo conferma. Non riuscirai ad averla vinta sul dottor Yee, per quanto riguarda le prove scientifiche. Non ci è mai riuscito nessuno.» Gale si strinse nelle spalle. Aveva avuto a che fare con Yee parecchie volte. «Lo so. Se il Dottor Incrollabile dice che quello è il sangue della ragazza, è il sangue della ragazza.» «Adesso, aggiungi al sangue le prove di una relazione incestuosa di Stoner con Rachel» infierì Dan «e, inoltre, il fatto che lui non ha un alibi e che è un ricco e arrogante figlio di puttana... La giuria lo odierà.» Gale scosse la testa. Vuotò il bicchiere e si alzò dal divano con un grugnito. Si lisciò il pizzo. «Credimi, Dan, hai scelto il caso sbagliato da trasformare in un numero da circo.» «Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire che tu, Bird Finch e i giornalisti in generale avete già dichiarato colpevole il mio cliente, ma quello è un verdetto che non conta. Dopo che avrò affrontato la giuria, lo assolveranno in meno di un'ora.» Dan arrossì. «Perché c'è il grande Archibald Gale a difenderlo?» «Perché tu non hai in mano nulla, Dan, neppure un cadavere. E sai bene quante sono le probabilità di ottenere una condanna per omicidio senza un cadavere.» «Non ci sono stati problemi con il Gran Giurì.»
Gale sbuffò. «Qui stiamo parlando della giuria del processo, Daniel.» «Correrò il rischio» disse Dan. «La giuria non premierà certo Graeme Stoner per come ha nascosto il cadavere. Puoi gettare loro fumo negli occhi, Archie, e Dio sa se sei bravo in questo, ma i giurati arriveranno alla giusta conclusione, quando dimostrerò che tipo d'uomo è Stoner.» Gale si avvicinò a Dan, sovrastandolo con la sua mole, e gli posò una manona paterna sulla spalla. «Senti, non voglio umiliarti in aula. Perché non ci mettiamo d'accordo? Lascia cadere le accuse. Dichiara che non ci sono prove sufficienti e che aspetterai fino a quando emergeranno elementi determinanti. Stoner lascerà la città. Qui è comunque un uomo finito. E tutti dimenticheranno questa storia.» Dan si mise in bocca l'ultimo pezzo di noce brasiliana, poi si ripulì le mani. Il suo sguardo era freddo, duro. Puntò un indice contro Gale. «Non pensare di intimidirmi. Stoner è un uomo finito, sì, ma perché finirà in galera per il resto dei suoi giorni. È un assassino e io lo farò condannare.» «Sei davvero sicuro che sia colpevole?» «Per favore, Archie» gemette «qui siamo tra noi. Non crederai davvero che sia innocente?» Gale si strinse nelle spalle, senza rispondere. «Bene, credo che non abbiamo altro da dirci» concluse Dan. «Ci vediamo in tribunale.» «Certo» replicò Gale, sorridendo. «Ma non dire che non ti ho avvertito.» 19 Gale si avviò a piedi lungo la strada secondaria per evitare la folla serale. Aveva un passo rapido e atletico per un uomo così grosso. Quando scorse il Radisson Hotel, a un paio di isolati di distanza, vi si avvicinò con circospezione. Entrò nella hall senza dare nell'occhio e si diresse verso gli ascensori. Quello era sempre il momento più rischioso. Essendo un tipo riconoscibile, Gale temeva che qualche giornalista del quotidiano locale, che aveva sede a pochi isolati da lì, potesse trovarsi in quel momento al bar dell'hotel per un aperitivo. Prese l'ascensore, diretto al settimo piano, uscì e imboccò le scale, scendendo a piedi di tre piani. Riprese l'ascensore e stavolta sbarcò all'undicesimo piano. Dopo essersi accertato che il corridoio fosse deserto, lo percorse fino in fondo e bussò cinque volte alla porta di una delle suite.
Un'ombra comparve dietro lo spioncino. Poi Graeme Stoner aprì. «Avvocato» disse. «È sempre un piacere.» E si spostò per lasciar entrare Gale, poi chiuse a chiave la porta. «Bird Finch è convinto che tu sia ancora a Minneapolis» gli comunicò Gale. «Meno male, altrimenti l'albergo sarebbe sotto assedio.» Gale era riuscito a ottenere la libertà su cauzione per Stoner, ma luì non poteva tornare a casa. La pubblicità intorno al suo arresto lo metteva in pericolo. E comunque, anche se fosse stato al sicuro, quella non era più casa sua, dato che Emily aveva chiesto il divorzio. Come se non bastasse, la banca lo aveva licenziato, anche se Gale era riuscito a negoziare per lui un accordo vantaggioso, in cambio della sua disponibilità ad andarsene senza fare causa. «Allora, che cosa dice Dan Erickson?» chiese Graeme. Gale soffocò una risata. «È sicuro di sé come non mai. Vuole la tua testa.» Graeme si strinse nelle spalle. «Tipico di Danny. Sai, ogni tanto uscivamo insieme. Lo consideravo un amico. Ma per lui le amicizie sono importanti solo finché gli sono utili. Posso offrirti qualcosa da bere?» Gale scosse la testa in segno di diniego. «Bene, spero che non ti dispiaccia se io invece mi servo un drink» disse Graeme, passando in rassegna le bottiglie nel mobile bar e versandosi un bicchiere di brandy. Quindi si sedette in una comoda poltrona accanto alla finestra. Fuori, il cielo era di quel blu intenso che precede il buio della sera. Graeme indossava una camicia da golf marrone e pantaloni in tinta. Il suo computer portatile, sulla scrivania, emanava una debole luce. Gale, una volta, gli aveva chiesto che cosa facesse per passare il tempo e Graeme gli aveva risposto che, negli ultimi cinque mesi, aveva incrementato del 20 per cento il suo pacchetto azionario. Quel periodo era una specie di vacanza per lui. Gale, sempre in piedi, studiò attentamente il proprio cliente. Graeme era rimasto impassibile perfino quando lo aveva chiamato al telefono, il giorno della perquisizione in casa sua, e, senza tradire la minima emozione, aveva dichiarato la propria innocenza e si era scusato con lui per aver parlato con la polizia in sua assenza, spiegandogli di averlo fatto perché sapeva di essere innocente e di non aver nulla da nascondere. Che fosse davvero così o no per Gale non faceva differenza: la sua linea di difesa non cambiava. Ma una curiosità morbosa lo spingeva a chiedersi
quale fosse la verità. Nella sua carriera aveva avuto a che fare con molti bugiardi e di solito li riconosceva subito. Graeme, però, era diverso: o era sincero, oppure era il più abile mentitore in cui Gale si fosse mai imbattuto. Purtroppo lui aveva notato che, in genere, quanto più il suo cliente era bravo nel dire bugie, tanto più era probabile che fosse colpevole. Gale, peraltro, sapeva come convincere la giuria del contrario. Ma qual era la verità? Gale doveva ammettere che l'accusa disponeva di prove indiziarie convincenti. Gli indizi raccolti nel minivan e al granaio erano tutti contro Graeme, anche se non c'era nulla di specifico che lo collegasse a entrambi i luoghi. E, benché l'accusa non avesse (per quanto ne sapeva lui) prove di una relazione sessuale tra Graeme e Rachel, gli elementi che portavano in quella direzione erano abbastanza forti da influenzare una giuria di inflessibili scandinavi contrari alle telefonate alle linee erotiche e alla promiscuità con le diciassettenni. La verità? Gale non sapeva che cosa pensare. Avrebbe senz'altro potuto trovare delle falle nell'accusa e aveva una lista di altri sospettati di cui, davanti alla giuria, avrebbe potuto facilmente indicare il coinvolgimento nella scomparsa di Rachel. Ma nulla di tutto ciò gli permetteva di dichiarare Graeme innocente. Gale semplicemente non sapeva se lui lo fosse oppure no. E la cosa lo metteva un po' a disagio. Difendere clienti colpevoli non gli dava fastidio. Difendere clienti innocenti gli dava piacere. Trovarsi nell'ambiguità era un'esperienza nuova per lui. Graeme lo guardò e sorrise, come se gli avesse letto nel pensiero. «Ti senti come se stessi ballando con il diavolo, eh, avvocato?» Gale andò a sedersi di fronte a lui. «La giuria davanti a cui comparirà la tua anima sarà completamente diversa, Graeme. Adesso, preoccupiamoci di quella che incontreremo domani in tribunale.» «Touché» disse Graeme. «Allora, che cosa hai saputo da Danny? Lo hai setacciato a dovere?» Gale scrollò le spalle. «Ha in mano davvero un bel caso, considerato che non c'è un cadavere. E lui è bravo davanti alla giuria.» «Ma non quanto te» osservò Graeme. «No» ribatté Gale, tranquillo. «Non quanto me.» «Bene, ti pago proprio per la sicurezza di cui dai prova. Ma dimmi sinceramente come stanno le cose, senza preoccuparti di indorarmi la pillola.» «D'accordo» disse Gale. «Il cuore del processo è costituito dalle prove materiali. Sono notevoli. E tu hai avuto una pubblicità così negativa che la
maggior parte dei giurati ti saranno ostili per principio, a prescindere da ciò che dichiareranno ufficialmente. Entreranno in aula convinti di avere a che fare con un pervertito figlio di puttana.» «Allora che cosa facciamo?» «Le prove servono a portare i giurati sull'orlo della scarpata. Daniel lo sa e vuole che loro attraversino il ponte e vadano dall'altra parte. Io, invece, voglio che guardino giù e decidano che il ponte non è abbastanza solido.» «Bella immagine» commentò Graeme. «Suppongo che ci sia dell'altro.» Gale annuì. «C'è la teoria dello spauracchio.» «Ah, questa mi piace.» «Già. Instillare il dubbio nei giurati non basta. Bisogna anche fornire loro alternative plausibili. Se tu sei l'unico possibile colpevole, ti condanneranno, a dispetto di prove insufficienti.» Graeme vuotò il bicchiere e si versò un'altra dose di brandy. «Ma tu mi hai assicurato che abbiamo delle alternative.» «Credo di sì.» In realtà, Gale riteneva che l'una o l'altra delle persone che aveva intenzione di presentare come imputate potesse essere davvero colpevole. Tuttavia c'era qualcosa nel sorriso di Graeme che lo disturbava. Quell'uomo non gli piaceva. «Però non vuoi dirmi che cosa hai scoperto» continuò Graeme. «Non mi sembra giusto.» «Meno sai, meglio è» ribatté Gale. «Allora dimmi almeno una cosa, sinceramente. Credi che, nel giro di poche settimane, sarò libero di andarmene in Colorado, oppure sarò costretto a trasferirmi in un albergo molto meno confortevole di questo per il resto della vita?» Gale gli lanciò un'occhiata. «Non amo fare scommesse, Graeme. Non so se tu sia innocente o meno e non mi interessa. Il fatto è che non è semplice provare un omicidio senza un cadavere. E in questo caso, io penso che le prove indiziarie non saranno sufficienti. Credo che dovranno assolverti.» «Anche se i giurati sono convinti che io sia un pervertito figlio di puttana?» sorrise Graeme. «Quello è un problema superabile.» Graeme annuì, soddisfatto. «Sono felice di sentirtelo dire. Ma ci sarà almeno una persona che rimarrà amaramente delusa.» Gale pensò che poteva essercene più d'una. «Chi?» «Rachel.»
Gale lo fissò a lungo. «Quindi, tu pensi che lei sia viva.» «Ne sono sicuro.» «E gli indizi rinvenuti nel minivan e al granaio?» «Tutti messi li apposta.» «Per incastrarti?» «Esatto.» «E perché Rachel avrebbe voluto una cosa del genere?» chiese Gale. «È una ragazza complicata.» Gale si rese conto di quanto detestava il sorriso sulla faccia di quell'uomo. Ogni volta che cominciava a convincersi che il suo cliente era davvero innocente, sul suo volto appariva quel ghigno, accompagnato da un lampo cattivo nello sguardo. «Come fai a essere così sicuro? Non potrebbe averla uccisa qualcuno che poi ha cercato di incastrarti?» «Questo è un dubbio ragionevole, perciò risponderò di sì.» «Ma non lo pensi» concluse Gale. Graeme scosse la testa in segno di diniego. «Credi che sia un piano messo a punto da Rachel?» chiese Gale. «Prove contraffatte solo per mandarti in galera?» «È proprio quello che penso.» «Sai che c'è una cosa che potrebbe mandare tutto in malora e farti finire in prigione?» «Ah, sì? E di che cosa si tratta, avvocato?» «Dell'eventualità che Daniel riesca a convincere la giuria che tu scopavi davvero con la ragazza.» «Sarà difficile dimostrare una cosa che non è mai accaduta» osservò Graeme. Il suo viso era seminascosto dalle ombre della stanza. Gale riusciva a distinguere solo il suo sguardo, impassibile. Il tono di voce di Graeme dava, come sempre, l'idea che lui fosse sincero e il linguaggio non verbale era perfetto. Niente in lui suggeriva che stesse mentendo. Ma Gale si rese conto che non gli credeva. Non gli credeva affatto. Il suo cliente era colpevole. Fu quasi un sollievo. Ora poteva difenderlo. «Spero che sia vero» disse. «Se hai fatto sesso con lei e Daniel riesce a provarlo sarai nei guai.» Graeme sorrise. 20
Il porto di Two Harbors era appena visibile: una macchia lunga e stretta che interrompeva la linea degli alberi, dietro e sopra i quali il cielo era azzurro e limpido. Ma all'orizzonte una massa di nuvole scure cresceva come un cancro. Il vento sollevava le onde e cullava la barca come un giocattolo. Stride spinse la leva del gas e il motore ruggì, ma la velocità della barca sembrò non aumentare. La burrasca li avrebbe raggiunti ben prima che riuscissero a rientrare. Stride si sentiva uno stupido per esser finito in trappola così. Si era lasciato tentare dal bel tempo di quella domenica mattina e dall'offerta di Guppo di prestargli il motoscafo ereditato da uno zio e aveva convinto Andrea ad andare con lui. Di solito trascorrevano il tempo libero in città: concerti, teatro, cene con colleghi di Andrea, la quale era felice di esibire il suo uomo davanti alle donne che si erano dimostrate così compassionevoli quando aveva divorziato. Ma Stride voleva condividere con lei anche i propri interessi, come per esempio le gite in barca sul lago. Il pomeriggio, però, era stato disastroso. Malgrado il sole primaverile, il freddo era intenso. Stride aveva provato a pescare, ma una raffica di vento gli aveva spezzato la canna. Andrea aveva vomitato, per effetto dei continui su e giù della barca tra le onde, e così avevano trascorso due ore in cabina, raggomitolati sotto le coperte, in un silenzio interrotto solo dalle ripetute scuse di Stride e dai deboli sorrisi di Andrea. Nel frigo c'erano una bottiglia di vino, ancora intatta, e un picnic che avevano appena toccato. Quando Stride le aveva proposto di tornare a casa, aveva visto sul volto di Andrea la prima autentica espressione di entusiasmo della giornata. E adesso erano finiti in una tempesta. Non poteva andare peggio. Sperava che Andrea rimanesse chiusa in cabina e non vedesse la massa scura che avanzava verso di loro nel cielo. Stride cercò di aumentare la velocità, ma il motore era già al massimo. Presto avrebbe dovuto rallentare, se voleva mantenere il controllo della barca. Le nuvole ormai avevano raggiunto il sole calante, a ovest, e proiettavano lunghe ombre sull'acqua. L'aria si era fatta più fredda. Stride indossava guanti, giacca di pelle e un berretto da baseball dei Twins. Le orecchie scoperte erano gelate e le guance rosse e intirizzite. Sentì le mani di Andrea cingerlo alla vita, poi lei si spostò al suo fianco. Stride si chinò a baciarla. Era pallida e aveva le labbra fredde. Quando Andrea vide la tempesta in arrivo, guardò Stride. Lui finse che la situazione fosse sotto controllo.
«Quanto manca al porto?» Stride si strinse nelle spalle. «Forse un'ora.» Andrea tornò a guardare le nuvole nere con aria diffidente. «Non hanno un bell'aspetto.» «Niente di che. Però ci bagneremo. Perché non torni di sotto?» Andrea non voleva la verità. Voleva solo essere rassicurata. Cindy lo avrebbe guardato negli occhi, avrebbe scoperto che mentiva e lo avrebbe tormentato fino a farsi rivelare quello che aveva nel cuore. La verità era che Stride era nervoso e pieno di pensieri. Era preoccupato per l'imminente burrasca, perché non andava in barca da più di un anno e le sue capacità di marinaio erano un po' arrugginite. Inoltre era preoccupato per il processo, che sarebbe cominciato il giorno dopo. La giuria era già stata scelta. Infine, era preoccupato per Andrea. Non riusciva a capire se loro due stavano cercando a tentoni la via verso l'amore, oppure stavano solo coprendo l'uno il dolore dell'altra. La loro vita sessuale si era raffreddata. Le prime settimane erano state un'esplosione di passioni represse. Andrea gli aveva detto che era un amante meraviglioso e delicato. Adesso invece facevano l'amore di rado. Andrea lasciava che fosse lui a prendere l'iniziativa, lo baciava, si lasciava amare, ma era stranamente distaccata. Non partecipava più come all'inizio. Stride cominciava a capire, anche se non glielo avrebbe mai detto, perché il suo ex marito le rimproverava di essere fredda a letto. Andrea sembrava aver paura di lasciarsi andare. O forse aveva solo paura e basta. Stride continuava a chiedersi se provava i sentimenti giusti. Ma erano domande stupide. La cosa importante era che adesso il suo dolore era diventato sopportabile. E nella sua vita era entrato qualcosa di bello. Gli piaceva la sensazione del corpo di Andrea accanto al suo. Gli piaceva come lei lo faceva sentire. Voleva stare in sua compagnia. La guardò, notò la sua espressione nervosa, ma anche l'emozione che provava per lui. Stride desiderava avvolgercisi dentro. «Stai pensando al processo, vero?» chiese Andrea. Lui non ci stava pensando, ma rispose ugualmente di sì. «Che cosa dice Dan della giuria?» «Che non potevamo sperare di meglio» rispose Stride. «È convinto di vincere.» «E tu?» Stride scrollò le spalle. «Vorrei che avessimo trovato prove più concrete.
Ma Stoner è furbo.» «Non capisco. C'è il sangue di Rachel nel minivan e sulla scena del delitto. Non è abbastanza?» «Per qualche avvocato difensore sarebbe anche troppo, ma io ho già avuto a che fare con Archie Gale. Sarebbe capace di convincere la giuria che sono stato io a uccidere Rachel.» «Pensi che sosterrà che si tratta di prove contraffatte?» Stride scosse la testa. «No, in questo caso non funzionerebbe. Non credo neppure che proverà a contestare l'esame del DNA. Il dottor Yee è troppo in gamba. Ma non c'è un cadavere e non abbiamo nessuno che abbia visto Rachel e Graeme insieme la notte della scomparsa della ragazza. Infine, nessuno può provare che lui faceva sesso con Rachel. La testimonianza della Carver è stata respinta.» «Tu sei certo che lui sia colpevole?» chiese Andrea. «Mi è già capitato di sbagliarmi. Ma tutti gli indizi accusano Graeme. Solo che non sono sicuro che riusciremo a provare la sua colpevolezza e detesto dover pensare che quel bastardo possa farla franca perché è più furbo e ricco di noi. Ho la brutta sensazione che, in questa storia, ci sia un pezzo mancante. E se lo penso io, figuriamoci Gale. Lui è capace anche di trovarlo, quel pezzo.» «Che cosa manca?» «Non lo so» rispose Stride. «Il caso è solido, ma continuo a pensare che ci sia una parte della storia che ignoriamo.» Scrutò il cielo. Le nuvole li avevano quasi raggiunti e l'azzurro era scomparso, per lasciare il posto a un grigio quasi nero. Le onde alte si frangevano contro la prua, investendoli di spruzzi. La barca sussultò, si sollevò fuori dall'acqua e poi ricadde di botto. Andrea perse l'equilibrio e si afferrò al braccio di Stride. Lui diminuì il gas, rallentando il più possibile. La tempesta si abbatté su di loro con una furia peggiore di quella che Stride si era aspettato. Furono investiti da scrosci di pioggia così violenti da pungere la pelle come uno sciame di api. Stride era accecato. Cercò di aprire gli occhi, ma, anche così, non riusciva a vedere nulla. L'orizzonte era scomparso. L'unica realtà era la massa nera che li avvolgeva e la pioggia martellante. Stride premette il bottone che liberava l'ancora. Voleva assicurarsi che la barca non si rovesciasse. Cominciarono a spostarsi in cerchio, mulinando in balia delle onde. La barca si inclinò fortemente a sinistra e lui e Andrea dovettero afferrarsi alla barra di ottone del parapetto per non essere spinti
fuori bordo. Poi la barca si raddrizzò, ma cominciò a girare su se stessa senza controllo. Stride fece del suo meglio per tenere la prua in direzione delle onde, ma era uno sforzo inutile. Adesso rischiavano di affondare. Pensò che se la barca fosse affondata, per lui sarebbe stato meglio annegare. Altrimenti Guppo l'avrebbe ucciso. Ma non affondarono. A un tratto Stride notò che le onde erano meno alte. La pioggia diminuì e un pezzo di cielo fece capolino tra le nuvole. La barca si agitava ancora come impazzita, ma l'elica faceva di nuovo presa. Pochi secondi dopo smise di piovere all'improvviso e le nuvole cominciarono a diradarsi. Il vento si attenuò, come se la tempesta avesse succhiato via tutta l'energia dall'atmosfera. Stride riuscì a scorgere la terra, poi diede un'occhiata all'orologio e si accorse che erano passati solo venti minuti dall'inizio di tutto quello sconquasso. «È finita» disse. «Guarda.» Andrea si guardò intorno, titubante. Vide il cielo di nuovo sereno e la tempesta che si allontanava sul lago. Allentò la stretta intorno alla vita di Stride e sentì che le ginocchia le cedevano e stava per venire meno. Stride l'afferrò, impedendole di cadere. «Perché non vai in cabina?» suggerì. «Stenditi a riposare. Presto saremo a casa.» Lei gli rivolse un debole sorriso. «Tu sì che sai come far divertire una donna.» «Non faremo mai più nulla del genere» disse Stride. Andrea si stirò come un gatto, rilassando i muscoli tesi. «Ho dolori dappertutto» disse. Lo fissò negli occhi e gli accarezzò una guancia. «Tu stai bene?» «Sì.» «C'è qualcosa che ti tormenta» disse Andrea. Stride scrollò le spalle. «È il processo, te l'ho detto. Mi capita sempre.» Lei non sembrava convinta. «Si tratta di me?» Lui lasciò il timone e le prese il viso tra le mani. «Tu sei la cosa migliore che mi sia capitata da molto tempo a questa parte.» Era la verità. «Non lo so, Jon. Credi che due persone ferite abbiano una possibilità?» «In quale altro modo possiamo guarire?» chiese lui. Andrea gli prese una mano e lo fissò, seria. «Ti amo, Jon.» Stride attese qualche secondo di troppo, ma poi disse: «Ti amo anch'io».
21 Quando arrivarono a Duluth, Stride si fermò per la notte a casa di Andrea, come faceva spesso. Non stavano mai a Park Point. Doveva ammettere che il materasso di Andrea era più comodo del suo, vecchio di dodici anni, e anche il suo caffè era migliore. Ma c'erano volte in cui Stride sentiva la mancanza della rude solitudine di casa sua. A volte gli mancavano il contatto dei piedi sulle assi di legno gelato, l'odore e il rumore del lago, che dalla finestra di Andrea era solo una macchia lontana. Quella notte si addormentò subito, ma fece un brutto sogno. Era di nuovo sulla barca, con Andrea che lo teneva stretto, stavolta però lui non riusciva a trattenerla e lei scivolava in acqua, gridando. Stride si svegliò, con il respiro affannoso. Si sentì sollevato nel constatare che Andrea dormiva tranquilla accanto a lui, ma era troppo agitato per riaddormentarsi subito. Cominciò a pensare al processo. Dan era sicuro della vittoria, ma Stride aveva visto troppe volte Archibald Gale estrarre il coniglio dal cappello. E poi, c'era qualcosa che ancora lo disturbava, la sensazione di essersi lasciato sfuggire un particolare. Voleva che Graeme venisse condannato e, se là fuori c'era qualcosa che avrebbe permesso di chiudere il caso, Stride voleva sapere di che cosa si trattasse. Era la stessa sensazione che lo tormentava in ogni indagine. Stride voleva sempre saperne di più. Ma, come gli ricordava Maggie, dopo ogni delitto c'erano un sacco di pezzi sparsi: il loro compito era di trovarne il più possibile e di affidarli al Pubblico Ministero e alla giuria, che avrebbero risolto il rompicapo. Dan era contento della giuria, composta da otto donne e quattro uomini. Delle donne, quattro erano sposate, con figli di età comprese tra i quattro e i venti anni. Due erano divorziate e due erano giovani e single. Degli uomini, uno era nonno e vedovo, un altro era single e gay, un terzo era sposato senza figli e l'ultimo era uno studente universitario. Erano riusciti a non includere nel gruppo un uomo di mezza età con figlie adolescenti. In altre parole, un soggetto molto simile a Graeme. Dopo aver completato la scelta dei giurati, il venerdì, Dan aveva invitato Stride a bere una birra per festeggiare e aveva passato due ore a vantarsi del suo imminente successo su Gale, il quale si era mostrato sorprendentemente poco combattivo nella scelta della giuria. L'unica sua vittoria era
stata quella di ottenere dal giudice Kassel l'isolamento temporaneo dei giurati, per proteggerli dalle inevitabili pressioni mediatiche. Stride aveva brindato con Dan, ma aveva continuato a essere preoccupato. Se la giuria andava così bene per l'accusa, perché Gale non si era opposto? Lui, che notoriamente non risparmiava, non aveva assunto nessun consulente per la scelta dei giurati. Perché? Dan aveva dissipato dubbi e timori. «Gale non è un superuomo, Jon. Semplicemente, stavolta non ce l'ha fatta. Credeva di poter gestire la scelta della giuria e non ci è riuscito. Fine della storia.» Ma Stride non era convinto. Si alzò muovendosi piano, per non svegliare Andrea. Nudo, andò alla finestra. La città era illuminata da migliaia di luci, che finivano dove cominciava la distesa scura del lago. Stride aprì appena i vetri. Abituato al freddo, faceva fatica ad adattarsi al calore della casa di Andrea. L'aria della notte era piacevolmente fresca. Stride sapeva che quel caso significava per lui più di quanto fosse disposto ad ammettere. Per questo voleva maggiori prove, per essere sicuro che Graeme non potesse sfuggire di mano alla giustizia. Era come se, avendo fallito con Cindy e con Kerry, non potesse sopportare l'idea di fallire anche con Rachel. Stavolta doveva farcela. Rimase a fissare l'orizzonte per quasi mezz'ora, lasciandosi accarezzare la pelle dalla brezza. Quando udì Andrea muoversi nel sonno, chiuse la finestra e tornò a letto. Faticò a rilassarsi, ma alla fine si addormentò. Era una mattinata bellissima, con un sole abbagliante, il cielo blu e un vento leggero che soffiava dal lago. Camminando verso il tribunale, Stride si mise gli occhiali da sole, sperando di confondersi nella folla e di riuscire a entrare nell'edificio senza subire l'assalto della stampa. Il tribunale sorgeva in Priley Drive, una stradina senza uscita dietro First Avenue, al centro di un'area verde circondata da un vialetto. Alla destra dell'edificio c'era il municipio e alla sinistra il tribunale federale. Di solito era un posto tranquillo, dove fermarsi a mangiare un panino durante la pausa pranzo, seduti su una panchina vicino a una fontana gorgogliante, con la bandiera americana che sventolava in alto. Ma quel giorno non lo era. La folla riempiva tutto il vialetto fino alla strada, che a sua volta era intasata di furgoni delle televisioni private. I cameramen erano intenti a ri-
prendere i giornalisti da diversi angoli visuali, in modo da far vedere anche l'assalto dei curiosi e dei dimostranti. Il traffico era bloccato in tutti gli isolati circostanti. Stride vide diversi suoi agenti sui gradini del tribunale intenti a respingere a fatica la folla. Un gruppo di giornalisti si affollava intorno a Dan Erickson, che urlava risposte alle loro domande. C'era un rumore assordante, accentuato dal continuo suonare dei clacson delle auto bloccate in coda. Decine di donne inneggiavano a squarciagola, esibendo cartelli di protesta contro la pornografia. Le preferenze di Stoner in fatto di intrattenimento per adulti avevano avuto un notevole risalto mediatico e i gruppi che combattevano la pornografia consideravano quel processo come un'opportunità per attirare l'attenzione sul problema. Caos. Il processo Stoner era l'evento più importante a Duluth negli ultimi anni e nessuno voleva perderselo. Stride si fece largo tra la folla, chiedendo permesso ed evitando di incrociare lo sguardo dei giornalisti. Di solito non girava mai in giacca e cravatta e questo gli permise di arrivare inosservato nell'atrio del tribunale. Sulle scale c'era un andirivieni continuo. Stride salì i gradini a due a due. Quando giunse al quarto piano, guardò fuori dalla finestra e vide la folla dei giornalisti convergere su Archibald Gale, che stava arrivando in quel momento. Due poliziotti stazionavano davanti alle massicce porte dell'aula. Riconobbero Stride e lo lasciarono entrare. Tutti gli altri avevano un lasciapassare del tribunale, oppure uno degli ambìti pass per visitatori che erano stati estratti a sorte. L'aula era imponente, con lunghi banchi per gli spettatori e parapetti di legno scuro intagliato. Stride vide Emily Stoner seduta in prima fila dietro il tavolo dell'accusa e intenta a fissare il tavolo della difesa come se Graeme fosse già li. Aveva gli occhi rossi di pianto. Stride andò a sedersi accanto a lei. Emily abbassò lo sguardo, senza dire una parola. Dan Erickson, davanti a loro, stava sussurrando qualcosa all'orecchio della sua assistente, una bella bionda di nome Jodie. Stride sospettava che i due andassero a letto insieme, anche se l'amico non lo aveva mai ammesso esplicitamente. Si chinò in avanti e gli diede un colpetto sulla spalla. Dan si voltò e sollevò i pollici in segno di approvazione. Le sue dita si muovevano freneticamente e tutto il suo corpo era percorso da un fremito. Dan era carico. «Allora, il momento è arrivato» gli disse Stride.
Dan rise. «Sono pronto.» Si rimise a parlare con Jodie, sfiorandole una spalla con la mano. Poi la mano scese a stringerle una coscia. Sì, i due andavano a letto insieme. «Quell'uomo è un porco» bisbigliò una voce. Stride si voltò e vide Maggie seduta accanto a lui, che fissava la schiena di Dan con occhi di ghiaccio. Dopo il suo fallito tentativo con Stride, l'anno prima, Maggie aveva avuto una breve relazione con Dan, finita male quando era saltato fuori che lui scopava con altre due donne. Lo sguardo di Maggie diceva che lei non l'aveva perdonato. «Però è carino» disse Stride, non resistendo alla tentazione di provocarla. «Sei un porco anche tu.» «Oink» grugnì Stride. «Come sta la professoressa?» «Per un pelo non siamo annegati, ieri pomeriggio. A parte questo, sta bene.» «È salita in barca con te di sua volontà?» chiese Maggie. «Molto divertente. Non dirlo a Guppo. Ha rischiato di perdere la sua barca e il suo capo in un colpo solo.» «Oh, il capo non sarebbe stato una grave perdita. Quanto alla barca, se la sarebbe fatta rimborsare dai tuoi eredi.» Il brusio dentro l'aula salì di tono. Stride e Maggie voltarono la testa e videro Archibald Gale fare il suo ingresso da star del cinema. Indossava un abito blu scuro a tre pezzi dal taglio impeccabile, con un fazzoletto che occhieggiava dal taschino e gli occhialini d'oro che brillavano sotto la luce delle lampade. Stride rimaneva sempre impressionato da come Gale riusciva a sembrare leggero, nonostante la stazza imponente. Pareva planare tra la folla. Si fermò brevemente a stringere la mano ad alcune persone, poi si diresse al suo tavolo, posò la borsa di pelle rosso scuro e andò a sussurrare qualcosa all'orecchio di Dan. Stride non udì le parole, ma le capì dal movimento delle labbra. «Non dire che non ti avevo avvertito, Daniel.» Non appena vide Gale, l'Ufficiale Giudiziario aprì una porta laterale e fece entrare in aula Graeme Stoner, scortato da un agente e vestito in modo altrettanto impeccabile del suo avvocato. Aveva lo stesso atteggiamento che Stride gli aveva sempre visto: tranquillo, sicuro, con lo sguardo leggermente divertito. Non fece una piega vedendo la sua quasi ex moglie. Le
rivolse un sorriso e poi si immerse in una conversazione a bassa voce con Archibald Gale. Emily invece sembrava non poter staccare lo sguardo da lui. Era come se avesse visto un fantasma che odiava con tutta l'anima. Alle nove precise, l'Ufficiale Giudiziario chiese ai presenti di alzarsi in piedi. Il giudice, la quarantenne Catharine Kassel, entrò in aula. La toga nera le nascondeva la figura snella. Aveva avuto la nomina due anni prima e la rivista «Law & Politics» l'aveva definita «il giudice più sexy del Minnesota». Con i lineamenti fini ed eleganti e i capelli biondi ben pettinati, Catharine corrispondeva in pieno a quella definizione. Ma in aula i suoi occhi grigi potevano diventare di ghiaccio e molti avvocati la temevano. Il giudice Kassel si sedette, poi scrutò la folla con uno sguardo diffidente. «Ricordo a tutti» disse in tono fermo «che non ho intenzione di tollerare dimostrazioni di alcun tipo durante il processo. Chiunque violerà questa regola sarà immediatamente accompagnato fuori e non potrà rientrare. Spero di essere stata chiara.» Nell'aula scese un silenzio assoluto. Il giudice sorrise. «Mi fa piacere constatare che ci siamo capiti.» Fece un cenno all'Ufficiale Giudiziario. La porta si aprì ed entrarono i giurati, i quali si guardarono ansiosamente intorno mentre si sedevano ai loro posti. Il giudice Kassel li salutò in tono cordiale, per metterli a loro agio. Quegli uomini e quelle donne avrebbero trascorso i successivi giorni all'Holiday Inn del centro, separati da amici e familiari. Stride lesse nel loro sguardo la speranza che il processo finisse in fretta. Il giudice concesse alla giuria un minuto per sistemarsi, poi diede inizio al processo con i preliminari di rito. Quindi invitò Dan Erickson a fare la sua dichiarazione d'apertura. Dan si alzò senza fretta e, prima di cominciare, guardò negli occhi ciascun giurato. Prese l'ingrandimento di una foto scolastica di Rachel, con i lunghi capelli di un nero brillante e le labbra dischiuse in un sorriso enigmatico. Lo guardò, poi, tenendolo delicatamente tra le mani, lo fece vedere alla giuria. «Questa è Rachel Deese» disse. «Una bella ragazza di diciassette anni, con tutta la vita davanti a sé. Purtroppo, appena un mese dopo che questa foto è stata scattata, Rachel è scomparsa. Le prove rinvenute nelle settimane successive ci portano a una triste conclusione: questa bella ragazza è
stata assassinata.» Dan abbassò lo sguardo, scuotendo tristemente la testa. «Vorrei che il vostro compito fosse più facile. Vorrei che quel venerdì sera dello scorso ottobre ci fosse stato un testimone oculare e che ora si trovasse qui e ci raccontasse come si sono realmente svolti i fatti. Ma, come sapete, di solito gli omicidi non avvengono in pubblico. Si tratta di affari privati.» Dan si voltò lentamente a guardare Graeme Stoner, inducendo la giuria a fare altrettanto. Poi continuò: «Ma se gli assassini mantengono i loro segreti, come possiamo condannarli? Spesso, come in questo caso, ci serviamo di quelle che vengono definite "prove indiziarie". Si tratta di fatti che, presi nel loro insieme, portano a una conclusione inequivocabile sulle azioni dell'imputato e sulla sua colpevolezza. Vi farò un esempio: un uomo viene pugnalato a morte in casa sua. Non ci sono testimoni dell'omicidio. Nessuno ha visto l'assassino. Non ci sono prove dirette. Ciò nonostante, troviamo le impronte digitali di un altro uomo sull'arma del delitto. Poi scopriamo che l'uomo in questione non ha un alibi per la notte del delitto e, infine, rinveniamo sulle sue scarpe tracce di sangue corrispondente a quello della vittima. Tutte queste sono prove indiziarie che ci fanno comprendere la verità sul crimine commesso.» Dan fece una pausa e guardò i giurati per assicurarsi che avessero capito. «In questo processo voi vedrete una quantità di prove indiziarie sull'omicidio di Rachel Deese. Sarete convinti, oltre ogni ragionevole dubbio, che l'uomo seduto al tavolo degli imputati, Graeme Stoner, ha ucciso questa splendida ragazza e ne ha nascosto il cadavere. E chi è quest'uomo?» chiese Dan Erickson, puntando un indice ossuto contro l'imputato. «In questo processo noi gli toglieremo la maschera che indossa davanti al mondo e vi mostreremo una persona diversa. Una persona che tiene una foto della figliastra, nuda, nel suo computer. Una persona che nutre fantasie sessuali sulle adolescenti. Una persona con un oscuro segreto: Graeme Stoner aveva rapporti sessuali con Rachel.» Dan fece un'altra pausa, concedendo ai giurati il tempo di riflettere sulle sue parole. Lasciò che guardassero Graeme e si chiedessero che cosa si nascondesse dietro la sua espressione impassibile. Non importava che Graeme fosse vestito come un uomo d'affari irreprensibile. Dan voleva che vedessero la mente malvagia che si nascondeva dietro quella facciata. «Riguardo a Rachel» riprese «sarò sincero con voi. Non sappiamo dove si trovi il suo cadavere. C'è una sola persona che lo sa ed è seduta qui, al
tavolo degli imputati. Forse vi chiederete come facciamo a sapere che è stato commesso un omicidio, se non possiamo mostrarvi un cadavere. La difesa vi dirà che, dal momento che non c'è un cadavere, si può ritenere che Rachel sia ancora viva.» Dan scosse la testa. «Si può davvero? Certo, come si può credere che Elvis Presley sia ancora in vita. Ma voi non siete qui per decidere che cosa è possibile e cosa non lo è. Siete qui per giudicare dei fatti, al di là di ogni ragionevole dubbio. Perciò ricordate questo: quando vedrete le prove che abbiamo raccolto, vi renderete conto che l'unica conclusione ragionevole è che Rachel è stata uccisa e che il suo corpo giace da qualche parte nei boschi del Minnesota. Forse non la troveremo mai. Questa è la tragica realtà. Ma il fatto di non sapere dove l'assassino ha nascosto il cadavere non cambia il fatto che Rachel è morta. Ve ne convincerete presto. «Ripercorreremo insieme i suoi passi. Vi mostreremo un video in cui la ragazza è in macchina e sta tornando a casa, venerdì sera. È sorridente, tranquilla. Ha un appuntamento con un ragazzo per la sera dopo. Ma questa stessa ragazza non verrà più vista. Abbiamo trovato un frammento macchiato di sangue del maglione a collo alto che lei indossava e che aveva comprato solo qualche giorno prima. Il frammento è stato rinvenuto in una zona boschiva pochi chilometri a nord della città. Per terra è stato trovato anche un braccialetto dal quale lei non si sarebbe mai separata volontariamente. Queste sono le ultime cose che sappiamo di Rachel.» Erickson lanciò un'occhiata severa a Graeme Stoner, poi si voltò di nuovo verso la giuria. «E che cosa collega queste due scene? La ragazza in macchina, viva e sorridente, e il frammento di tessuto insanguinato trovato a vari chilometri di distanza? Ecco, Rachel stava tornando a casa, quella sera. E a casa c'era solo Graeme Stoner, perché sua madre non si trovava in città. Fuori c'era il minivan di Graeme Stoner chiuso a chiave. Lì dentro sono state trovate le prove che collegano queste due scene. Tracce di sangue di Rachel e le impronte digitali della ragazza sulla lama di un coltello insanguinato. Fibre dello stesso maglione a collo alto indossato quella sera. E le impronte digitali di Graeme Stoner sullo stesso coltello. «Questo è ciò che intendo mostrarvi nel corso del processo. Fatti. Prove. Sangue e fibre non mentono. Il mio compito è quello di presentare a voi questi fatti e di descrivervi quello che abbiamo scoperto. «La difesa, invece, ha un compito diverso» spiegò Erickson alla giuria. «Cioè quello di indurvi a trascurare i fatti o a darne spiegazioni ampiamen-
te improbabili. Il signor Gale è un vero mago in questo, un mago non dissimile da quelli che potete vedere esibirsi a Las Vegas. Persone capaci di convincere il pubblico che la loro assistente sta davvero levitando sul palcoscenico. Ma voi e io sappiamo che si tratta solo di un trucco. Di un'illusione.» Erickson guardò i giurati, uno per uno, con espressione seria. «Non lasciatevi ingannare. Non rinunciate al vostro buonsenso. Il signor Gale proverà a incantarvi con le sue arti magiche, ma io voglio che voi consideriate soprattutto i fatti. E vedrete che i fatti vi condurranno all'unica conclusione possibile: quella notte terribile in cui Rachel è scomparsa, l'ossessivo rapporto che Graeme Stoner aveva con la figliastra è degenerato nella violenza e nell'omicidio. Forse non sapremo mai esattamente che cosa è successo tra loro, né il motivo per cui è successo. Ma una relazione incestuosa è così piena di malvagità che può esplodere in ogni momento. Nessuno ha visto in che modo la violenza si è perpetrata. Ma la violenza c'è stata. Ed è proprio questo che i fatti vi mostreranno.» Archibald Gale si alzò in piedi, si tolse gli occhiali e li posò sul tavolo. Guardò Graeme Stoner, sorrise, poi rivolse la sua attenzione alla giuria. Si avvicinò al banco, tastandosi le tasche, come in cerca di qualcosa. «Speravo di sorprendervi estraendo un coniglio, ma, a quanto pare, ho dimenticato tutti i miei trucchi da mago in albergo.» La folla degli spettatori soffocò una risata e un sorriso apparve anche sul viso di vari giurati. Gale si grattò il pizzo, poi scrutò lentamente l'aula. Era abilissimo nel creare suspense. Non importava davvero quali fossero i fatti. Importava chi riusciva a raccontare alla giuria la storia più convincente. E Gale, con il suo aspetto imponente e il suo talento drammatico, ci riusciva spesso. «Sono stato molte volte in quest'aula, nel corso degli anni» cominciò. «In questa città si sono celebrati diversi processi che hanno attirato l'attenzione della stampa. Ma non ricordo di avere mai visto una folla e un interesse simili. Qual è la ragione di ciò, secondo voi?» Lasciò alla giuria il tempo di riflettere sulla domanda, poi continuò: «Il fatto è che qui abbiamo un mistero e tutti vogliono sapere il finale della storia. Una ragazza è scomparsa. Che cosa le è successo? Qualcuno le ha usato violenza, oppure è scappata di casa, come decine di migliaia di altri adolescenti? Se le è successo qualcosa, di che cosa si tratta esattamente? E di chi è la colpa? Del patrigno, come sostiene l'accusa? Oppure c'era un'al-
tra persona, nella vita di Rachel, che provava rabbia e gelosia nei suoi confronti, fino ad arrivare a perdere il controllo delle proprie emozioni e a ricorrere alla violenza? O, ancora, è possibile che Rachel sia stata vittima di un serial killer che imperversa in questa città e che è ancora a piede libero?». Gale annuì, pensieroso. «Vorrei potervi promettere che, quando avremo finito, saprete che cosa è successo a Rachel, ma non posso farlo, per la semplice ragione che non lo sa nessuno. Non lo sa Graeme Stoner e non lo sa neppure il signor Erickson. Tutto quello che avrete in mano, alla fine, saranno domande e dubbi. Ma va bene così. Capisco che desideriate scoprire la verità, ma il vostro compito, in quest'aula, non è quello di scegliere il finale di un giallo.» Gale piegò la testa di lato. «So che cosa state pensando. "Eccolo qui, il mago che prova a incantarci." Non è quello che vi ha detto l'accusa? Vi ha detto che io avrei cominciato a distorcere i fatti, cercando di convincervi a rinunciare al buonsenso per seguire la fantasia. Invece no. Non vi sto chiedendo di fidarvi di me sulla parola. La differenza è che il signor Erickson intende mostrarvi alcuni fatti, io voglio che li vediate tutti. Solo così potrete rendervi conto che Graeme Stoner è innocente dell'omicidio di cui è imputato e solo così potrete mandare alla polizia il messaggio di rimettersi al lavoro per scoprire che cosa è davvero accaduto a questa ragazza strana e infelice.» Gale si sporse in avanti e si aggrappò alla ringhiera del banco della giuria. «Il signor Erickson vi ha chiesto di prestare attenzione alle prove. Ve lo chiedo anch'io. Vi chiedo di osservare bene i fatti, in modo da vedere anche quello che l'accusa non vi dirà. «L'accusa non vi dirà che Graeme era nel suo minivan con Rachel, la notte in cui lei è scomparsa, perché non ha prove che lo dimostrino. «L'accusa non vi dirà che il minivan degli Stoner era nelle vicinanze del granaio, la notte in cui Rachel è scomparsa, perché non ha prove che lo dimostrino. «L'accusa non vi dirà che Rachel è morta, perché l'accusa non lo sa. «E non vi dirà che può provare che Graeme Stoner aveva rapporti sessuali con la figliastra, perché non può farlo. «Ma l'accusa cercherà di convincervi a fare un salto. Vi presenterà alcuni fatti non connessi tra loro e li metterà insieme per farvi credere quello che non può provare. Queste non sono prove, né indiziarie né d'altro tipo. Sono finizioni, congetture.»
Stride sentì un vuoto allo stomaco. Bang. Bang, bang. Gale prendeva a pugni tutti i punti deboli del caso. Ovviamente aveva ragione. Loro non potevano provare nulla. Potevano solo mettere sul tavolo i pezzi del rompicapo e sperare che la giuria fosse abbastanza intelligente da risolverlo. «Ma c'è di più» continuò Gale. «Vedrete anche che l'accusa, nel suo zelo di trovare un finale semplice per il giallo, ha ignorato molte possibili soluzioni. Io temo che il signor Erickson sia il tipo d'uomo che, quando smonta e rimonta il motore della macchina, scopre che gli sono avanzati dei pezzi e li getta via concludendo che probabilmente non sono importanti.» Gale strizzò l'occhio alla giuria, poi sorrise a Dan. «Diamo un'occhiata insieme a questi pezzi avanzati» disse. «Un'altra ragazza, di nome Kerry McGrath, che viveva a un paio di chilometri di distanza da Rachel e frequentava la sua stessa scuola, è scomparsa un anno prima di lei e non è mai stata ritrovata. Le circostanze della sua scomparsa sono molto simili a quelle della scomparsa di Rachel. La polizia sa che Graeme Stoner non ha nulla a che fare con la sparizione di Kerry McGrath, eppure preferisce ignorare la possibilità che un serial killer dia la caccia alle ragazze di questa città. «Pezzo avanzato: la notte in cui è scomparsa, Rachel si è comportata in modo strano. Perché? Sapeva qualcosa? Doveva vedere qualcuno? Pensava di scappare di casa? «Pezzo avanzato: chi altro era con Rachel, la notte in cui è scomparsa? Chi altro sarebbe stato contento, se lei fosse sparita per sempre? «Pezzo avanzato: qual era la vera origine dell'infelicità di Rachel? Si trattava del suo rapporto con il patrigno? No. Era il rapporto terribile, amaro, violento, che aveva con sua madre. Ricordate questo aggettivo: violento.» Stride guardò Emily e vide una lacrima scenderle lungo la guancia. La donna chinò la testa e cominciò a piangere in silenzio. Gale continuò. «Domande e dubbi. Ne avrete parecchi, alla fine di questo processo. Ma non avrete dubbi riguardo a quello che dovete fare, e cioè dichiarare il mio cliente non colpevole del crimine di cui è stato ingiustamente accusato.» Gale sostenne per alcuni secondi lo sguardo dei giurati. Poi tornò al suo tavolo e si sedette. Stride esaminò i volti degli uomini e delle donne della giuria. La partita per il momento era pari. Palla al battitore.
22 Stride prese posto al banco dei testimoni. Era una cosa che aveva fatto centinaia di volte, tanto che la sedia gli risultava ormai familiare, come se avesse preso la forma del suo corpo. Guardò negli occhi i giurati. I giurati di Duluth credevano nella polizia. Poteva leggerlo nei loro sguardi. Duluth non era una grande città, dove talvolta la polizia veniva considerata una nemica dai cittadini. Stride sentì che osservavano i suoi lineamenti irregolari, le striature di grigio nei suoi capelli, il suo fisico solido e concludevano che potevano fidarsi di lui. Dan lo presentò e poi lasciò che Stride parlasse degli anni trascorsi nella polizia e della sua esperienza di delitti e scene di delitti. Solo dopo che la giuria ebbe fatto conoscenza con lui, Dan spostò il discorso su Rachel e Stride spiegò come aveva saputo della scomparsa della ragazza e, quindi, condusse i giurati, passo dopo passo, attraverso la ricostruzione dell'ultima notte di Rachel. Parlò del video della banca, che attestava il passaggio dell'auto di Rachel poco dopo le dieci. Dan mostrò la videocassetta alla giuria, poi sollevò l'ingrandimento di un fotogramma del video e, per quanto l'immagine fosse sgranata, tutti poterono constatare che si trattava di Rachel. Sorrideva. Aveva l'aria contenta. Dan ricordò alla giuria che quella era l'ultima immagine che avevano di Rachel Deese. «Tenente, che cosa indossa Rachel in questa foto?» «Un maglione bianco a collo alto» rispose Stride. Dan tornò al tavolo dell'accusa e prese un reperto dentro una busta di plastica trasparente. «Può identificare questo oggetto?» Stride annuì. «Si tratta di uno scontrino trovato dentro il sacchetto di un negozio, sul pavimento della stanza di Rachel. Lo abbiamo rinvenuto durante l'indagine iniziale.» «È lo scontrino di che cosa?» «Di un capo di vestiario acquistato la domenica prima della scomparsa di Rachel: un maglione bianco a collo alto.» «Avete trovato un maglione corrispondente a questa descrizione durante la perquisizione in camera di Rachel?» «No.» Dan annuì. «Tenente, per favore, ci racconti come è stata condotta la ri-
cerca di Rachel.» «Abbiamo diramato la descrizione della ragazza in tutto lo Stato. I miei agenti hanno parlato con tutti i vicini nel raggio di dodici isolati intorno a casa Stoner. Abbiamo controllato la stazione degli autobus, l'aeroporto, la stazione ferroviaria e tutte le società di taxi presenti a Duluth e a Superior. I nostri colleghi poliziotti nel resto dello Stato hanno controllato le stazioni di servizio e i centri commerciali lungo tutte le strade di grande scorrimento, distribuendo la fotografia di Rachel e parlando con gli impiegati. Abbiamo dedicato alla ricerca di Rachel una pagina del nostro sito internet e faxato informazioni a tutte le centrali di polizia della nazione. Questi sforzi hanno generato centinaia di piste, che sono state metodicamente seguite dai nostri agenti e dagli agenti di altri Stati. Disponevamo di eccellenti fotografie di Rachel da mostrare ai testimoni. Abbiamo effettuato centinaia di colloqui. Ciò nonostante, sembra che Rachel non sia stata vista assolutamente da nessuno, dopo il momento in cui la sua immagine è stata catturata dalla telecamera della banca. Da nessuno e da nessuna parte.» «Quale conclusione ne avete tratto, tenente?» «Abbiamo cominciato a ritenere poco probabile che Rachel potesse essere scappata di casa. Nessuno l'aveva vista viva, dopo quel venerdì sera. Inoltre, fin dall'inizio ci era parso strano che Rachel fosse fuggita lasciando a casa la macchina. È insolito che un'adolescente che possiede un'auto rinunci al suo unico mezzo di trasporto. E, come ho detto, abbiamo controllato tutti i mezzi di trasporto pubblici, senza trovare nessuna prova che la ragazza se ne fosse servita.» «Avete considerato la possibilità che fosse stata rapita da uno sconosciuto?» Stride annuì. «Abbiamo interrogato tutti i colpevoli di reati sessuali nel raggio di centocinquanta chilometri da Duluth. Abbiamo indagato su tutti quelli che non avevano un alibi certo per quel venerdì sera e non abbiamo trovato prove che si trovassero a Duluth o nelle vicinanze. Nessuno ha riconosciuto una di queste persone o le loro auto nella zona in cui Rachel abitava.» «In base alla sua esperienza, ci sono altri elementi di questa scomparsa che la inducono a scartare l'idea di un sequestro?» «Sì. Praticamente tutti i sequestri da parte di sconosciuti si verificano in zone rurali o isolate. È molto insolito che una ragazza venga rapita in una strada cittadina vicino a casa sua. I maniaci sessuali non vogliono rischiare di essere identificati mentre sono in attesa della loro preda in una zona po-
polata. Inoltre le grida o i tentativi di resistenza da parte della vittima potrebbero attrarre l'attenzione dei vicini. Di solito, è l'occasione a generare il rapimento a sfondo sessuale: una strada solitaria, una vittima sfortunata. Poiché noi sappiamo che Rachel quella sera è arrivata a casa, come testimonia la sua auto parcheggiata nel vialetto d'accesso, sappiamo che si trovava in un quartiere piuttosto frequentato.» Dan tornò al tavolo dell'accusa e bevve un sorso d'acqua. Non voleva mettere sotto pressione la giuria. Stride stava presentando uno scenario complesso ed era importante che i giurati riuscissero a seguire bene la catena di prove e conclusioni. «In seguito, avete trovato prove o indizi di che cosa poteva essere accaduto a Rachel?» chiese poi. «Sì.» Stride raccontò della telefonata di Heather Hubble, che aveva portato alla scoperta del braccialetto di Rachel e alla successiva ricerca a tappeto condotta nelle vicinanze del granaio dove era stato trovato l'oggetto. «Quella ricerca ha portato al ritrovamento di altre prove della presenza di Rachel in quel luogo?» «Sì, abbiamo trovato un pezzo di tessuto bianco con alcune macchie scure, che sono risultate essere di sangue umano.» Dan mostrò di nuovo la busta contenente il reperto. Poi chiese: «In che modo questa scoperta è stata significativa?». «Ritenevamo che, la sera della sua scomparsa, Rachel indossasse un maglione bianco a collo alto acquistato durante il fine settimana precedente. Quel pezzo di tessuto corrispondeva alle caratteristiche del maglione. Lo abbiamo fatto analizzare dal BCA di Minneapolis.» Il BCA, Bureau of Criminal Apprehension, era un ufficio investigativo che collaborava con la polizia del Minnesota. Dan non aveva altre domande da fare sul maglione. Dopo Stride, sarebbe salito sul banco dei testimoni il dottor Charles Yee, noto nei tribunali dello Stato come il Dottor Incrollabile, e avrebbe illustrato gli aspetti scientifici dell'indagine. Yee aveva confrontato il tessuto rinvenuto con quello di un altro maglione a collo alto dello stesso fabbricante, concludendo che coincideva con la marca e lo stile del maglione indossato da Rachel. Il test del DNA aveva permesso di identificare il sangue sul tessuto come appartenente a Rachel. «A quel punto, tenente, la natura della ricerca è cambiata in qualche modo?» «Sì, abbiamo concluso che Rachel era morta e abbiamo cominciato a
cercare il suo cadavere.» «Ma non lo avete trovato.» Stride scosse la testa. «No, abbiamo controllato parecchi chilometri quadrati di bosco, intorno a quel granaio abbandonato, avvalendoci anche dell'aiuto di squadre di volontari. Purtroppo ci sono troppi posti dove nascondere un cadavere.» «Ciò nonostante, lei è convinto che Rachel sia morta?» «Obiezione» protestò Gale. «Il testimone non ha alcuna conoscenza diretta del fatto che la ragazza sia viva o morta.» Dan scosse la testa. «Sto solo chiedendo al tenente una conclusione basata sulla sua grande esperienza in indagini di omicidio.» Il giudice Kassel storse la bocca. «Obiezione respinta» disse. «Il testimone risponda.» «Sì, sono convinto che Rachel sia morta» dichiarò Stride. «È l'unica spiegazione ragionevole che concorda con le prove in nostro possesso.» «Facciamo un passo indietro, tenente. Oltre a quel pezzo di tessuto insanguinato, avete trovato altre prove sulla scena del delitto?» Gale si alzò in piedi. «Vostro Onore, l'accusa ha definito un luogo come scena del delitto senza avere alcuna prova definitiva che un delitto sia stato commesso.» Il giudice Kassel annuì. «La difesa ha ragione, signor Erickson.» Dan riformulò domanda. «Avete trovato qualcos'altro, nelle vicinanze del luogo in cui è stato rinvenuto quel pezzo di tessuto?» «Sì» disse Stride. «C'erano parecchie impronte sovrapposte, nella zona dietro il granaio in cui di solito si fermano le auto. Lì non abbiamo trovato nulla di utile. Ma a meno di un metro dal punto in cui è stato scoperto il tessuto, abbiamo trovato varie impronte parziali di una scarpa da ginnastica numero quarantacinque. E abbiamo trovato anche le impronte di una scarpa numero trentanove. Dan esibì le fotografie delle impronte, seguite dalle ricostruzioni dei passi. «Siete riusciti a identificare la marca delle scarpe numero quarantacinque?» «Sì, grazie alla struttura della suola e all'ovale presente al centro. Si tratta di impronte di una scarpa Adidas modello 954300. Scarpe di questo tipo si vendono in tre negozi dell'area di Duluth.» Dan prese un foglio di carta dal tavolo e lo presentò come prova alla giuria. Poi si voltò verso Stride. «Può dirci che cos'è questo, tenente?»
«È la copia di un assegno staccato da Graeme Stoner, quattro mesi prima della scomparsa di Rachel, in un negozio chiamato Sports Feet, per un acquisto di importo pari a ottantacinque dollari.» «Quanti negozi di questa catena ci sonò a Duluth?» «Uno, nel centro commerciale di Mill Hill.» «Questo negozio vende il modello Adidas che ha lasciato quelle impronte?» «Sì. E il prezzo delle scarpe, all'epoca in cui è stato staccato questo assegno, era di ottantacinque dollari.» Dan annuì, serio. «Mi dica, tenente. Durante la perquisizione in casa del signor Stoner, è stato trovato un paio di scarpe Adidas?» «No.» «Nessun paio di scarpe da ginnastica?» «Abbiamo trovato un paio di Nike comprate di recente e usate pochissimo.» Dan esibì la copia di un altro assegno firmato da Graeme Stoner. «Ci parli di quest'altro assegno, per favore.» «Riguarda anch'esso un pagamento effettuato al negozio Sports Feet di Duluth, per un importo pari a settantotto dollari. L'assegno porta la data del fine settimana successivo alla scomparsa di Rachel. Settantotto dollari è il prezzo del modello di scarpe Nike trovate nella stanza da letto del. signor Stoner.» «Il signor Stoner, quindi, ha comprato un altro paio di scarpe da ginnastica quattro mesi dopo l'acquisto del primo paio?» «Sì» confermò Stride. «E che numero erano le Nike del signor Stoner?» chiese Dan. «Quarantacinque. Come quelle che hanno lasciato le impronte vicino al granaio.» «Un'ultima domanda sulle scarpe, tenente. Avete appurato che numero di scarpe portava Rachel?» «Trentanove. Corrisponde alle dimensioni delle altre impronte trovate vicino al granaio.» Dan fece una pausa per guardare i giurati e accertarsi che avessero afferrato il significato di tutto quello che Stride aveva detto. Stride lesse nei loro occhi l'impatto prodotto dalla sua testimonianza. Tutte quelle coincidenze non piacevano ai giurati proprio come non piacevano a lui. «Durante le indagini» riprese Dan «avete ottenuto un mandato per la perquisizione di casa Stoner?»
«Sì» rispose Stride. «Ci dica che cosa avete trovato durante quella perquisizione.» «Il primo elemento significativo è stato scoperto nell'hard disk del computer del signor Stoner. Si tratta di una foto di Rachel.» Dan prese un ingrandimento della foto, lo presentò come prova e lo mostrò a Stride, senza che i giurati potessero vederlo. «È questa la fotografia di cui parla?» Stride annuì. «Sì.» Dan si avvicinò ai giurati e lentamente girò la foto in modo che potessero vederla. Ci fu un mormorio di sorpresa. Stride notò che involontariamente i quattro uomini della giuria si erano chinati in avanti. Era impossibile non avere una reazione sessuale davanti a quell'immagine. «Durante la perquisizione, tenente, sono stati trovati altri indizi di natura sessuale?» «Sì. In un cassetto dello studio del signor Stoner, abbiamo trovato parecchie riviste pornografiche.» «Di che tipo di riviste si tratta?» chiese Dan, tenendo lo sguardo fisso sulla giuria. «Sono pubblicazioni con foto esplicite di modelle truccate per sembrare adolescenti.» Dan tornò al tavolo dell'accusa e ripose la foto. Lui e Stride avevano parlato della possibilità di lasciarla esposta su un cavalletto per tutta la durata della testimonianza, ma avevano concluso che sarebbe stato un elemento di distrazione per gli uomini della giuria e forse anche per le donne. Dan prese alcune copie delle riviste trovate in casa di Graeme e le distribuì ai giurati, i quali le sfogliarono con aria disgustata. Dan concesse loro alcuni minuti per esaminarle. Un tempo sufficiente per farsi un'idea della loro natura perversa, ma non per lasciarsene desensibilizzare. Poi si riprese le riviste ed estrasse un foglio dalla sua pila di reperti. Lo consegnò a Stride. «Può dirci di che cosa si tratta?» «È un tabulato delle telefonate in uscita da casa Stoner.» «Che cosa rivela?» «C'è una serie di chiamate a linee erotiche. In media due o tre al mese per oltre un anno. Si tratta di numeri "caldi" specializzati in sesso con adolescenti. In pratica, le donne che rispondono al telefono stimolano nei clienti la fantasia di fare sesso con ragazze molto giovani.» «Grazie, tenente. Ora torniamo alla perquisizione in casa Stoner. Avete perquisito anche un minivan di proprietà del signor Stoner?»
«Sì. Il minivan si trovava nel garage accanto alla casa. Lo abbiamo sempre visto lì durante le nostre visite in casa Stoner.» «Quando lo avete perquisito, il minivan era chiuso?» «Sì, il signor Stoner ce ne ha fornito la chiave.» «Che cosa avete scoperto al suo interno?» «Abbiamo esaminato con estrema attenzione i tappetini sul retro. Abbiamo trovato molte piccole macchie che sembravano di sangue e, inoltre, diverse fibre somiglianti a quelle del maglione di Rachel. Abbiamo inviato tutto il materiale al BCA.» Il dottor Yee avrebbe provveduto a fare il collegamento per la giuria: le fibre corrispondevano a quelle del maglione che Rachel indossava la notte della sua scomparsa e il sangue rinvenuto nel minivan e sul coltello coincideva con quello di Rachel. «Avete trovato fibre e macchie di sangue nel retro del minivan chiuso a chiave di Graeme Stoner?» ripeté Dan. «Sì» rispose Stride. «Avete trovato qualcos'altro?» Stride annuì. «In una scatola di attrezzi, abbiamo trovato un coltello da caccia con la lama lunga quindici centimetri.» Dan andò al suo tavolo e ne tornò brandendo un coltello in modo minaccioso. «È questo il coltello che avete trovato?» «Sì.» Dan si avvicinò ai giurati con il coltello, facendone scintillare la lama sotto le luci. «Avete rinvenuto qualche indizio su questo coltello?» chiese a Stride. «Abbiamo trovato tracce di sangue sulla lama. Abbiamo inoltre trovato due impronte digitali corrispondenti al pollice e al medio di Rachel.» «E queste impronte erano sul manico?» «No, erano sulla lama.» Dan si girò di scatto verso di lui, apparentemente confuso. «Sulla lama?» «Sì, le impronte digitali di Rachel erano sulla lama del coltello, a indicare una postura difensiva.» «Obiezione» sbraitò Gale. «Accolta» stabilì il giudice Kassel. «Tenente, può mostrarci com'erano distribuiti impronte e sangue sulla lama del coltello?» Dan si avvicinò al banco dei testimoni e porse il coltello a Stride, il quale lo girò in modo che la lama si trovasse di fronte al
palmo della sua mano. Poi piegò le dita sul coltello. «Così.» Restituì l'arma a Dan. «Bene» disse Dan. «Ora, facciamo finta che io l'aggredisca.» E, in un attimo, si piegò sul banco dei testimoni, avvicinando la lama del coltello al viso di Stride. Il tenente reagì immediatamente, cercando di allontanarla con la mano. Il suo palmo e le sue dita assunsero esattamente la stessa posizione mostrata poco prima alla giuria. Gale si alzò di scatto, incollerito. «Questa è una messinscena studiata, Vostro Onore. Rachel avrebbe anche potuto semplicemente raccogliere il coltello caduto a terra. Il piccolo show del signor Erickson è irrilevante e ingannevole.» Il giudice Kassel annuì e rivolse un'occhiata severa a Dan. «Obiezione accolta. Ordino alla giuria di non tenere conto di questa dimostrazione inscenata dal Pubblico Ministero e dal testimone. Signor Erickson, non voglio altre scene del genere in quest'aula, è chiaro?» «Sì, Vostro Onore» rispose Dan. Ma la giuria aveva comunque ricevuto il messaggio. «Bene, tenente, un'ultima cosa. Sono state trovate altre impronte, sul coltello?» «Sì, sul manico abbiamo trovato impronte digitali corrispondenti a quelle dell'imputato.» «Oltre a quelle fin qui menzionate, avete trovato altre impronte?» «No» rispose Stride. «Grazie, tenente, non ho altre domande.» 23 «Buongiorno, tenente» esordì Gale. Si alzò in piedi, restando dietro il suo tavolo, e guardò Stride con espressione triste. «Mi sembra che non ci siamo più incontrati, dopo la morte di sua moglie. Mi è dispiaciuto molto.» Stride non disse nulla. Gale era davvero uno spudorato. Dietro la sua compassionevole osservazione si nascondeva un messaggio per la giuria: forse la capacità di giudizio del tenente era offuscata dal dolore, che gli aveva fatto trascurare alcune cose. «Rachel non è stata la prima adolescente scomparsa in questa zona, giusto?» «Giusto.»
L'avvocato si tolse gli occhiali. «Un'altra ragazza, di nome Kerry McGrath, è scomparsa poco più di un anno fa, è vero?» «Sì» disse Stride. «Kerry aveva la stessa età di Rachel?» disse Gale. «Sì.» «Frequentava la stessa scuola?» «Sì.» «Abitava a circa due chilometri di distanza da Rachel?» «Sì.» Gale scosse la testa. «Si tratta di analogie importanti, tenente. Lei le definisce coincidenze?» Guardò la giuria con aria costernata, come a dire: "Potete credere a quest'uomo? È forse cieco?". «Non abbiamo nessuna prova che i due casi siano collegati» rispose Stride. «Eppure li avete considerati abbastanza simili da cercare prove che potessero implicare il signor Stoner anche nella scomparsa di Kerry, è vero?» Stride si strinse nelle spalle. «Abbiamo raccolto e confrontato tutte le prove materiali che abbiamo rinvenuto nei due casi. Si tratta di una procedura standard.» «Sta di fatto che non avete trovato assolutamente nulla a conferma che il mio cliente fosse implicato in qualche modo nella scomparsa di Kerry.» «Esatto» ammise Stride. Gale annuì. «Niente sangue?» «No.» «Niente fibre?» «No.» «In realtà, il caso della scomparsa di Kerry McGrath è ancora insoluto, è vero?» «Sì.» Gale allargò le braccia, con gli occhiali tra le dita della mano sinistra. «Abbiamo due adolescenti scomparse in circostanze molto simili. Non è possibile, tenente, che qualche maniaco, uno dei tanti già condannati per reati sessuali che vivono nel Minnesota settentrionale, abbia sequestrato sia Kerry McGrath sia Rachel Deese? Non è possibile che entrambe siano state vittime di un serial killer? Questa teoria non è altrettanto plausibile come quella che punta a incolpare il mio cliente?» Stride scosse la testa. «No, questo non è ciò che le prove in nostro possesso indicano.»
«Ah, le prove» disse Gale, sorridendo ai giurati. «Sì, ci arriveremo tra un attimo. Ma prima guardiamo le cose da un punto di vista diverso, tenente. Lei non ha la sicurezza matematica che Kerry McGrath sia morta.» «No.» «Invece, è sicuro che Rachel sia morta.» Stride annuì. «Nel suo caso, abbiamo rinvenuto prove aggiuntive.» «Qualche goccia di sangue. Un pezzetto di tessuto.» «Ma era il sangue di Rachel. Il maglione di Rachel.» Gale si sfregò il pizzo, pensieroso. «Avete trovato abbastanza sangue da supporre che qualcuno sia morto dissanguato?» «No.» «Non c'era neppure abbastanza sangue da provare che avesse avuto luogo un delitto, dico bene?» Stride fissò Gale con calma. «Dubito che Rachel si sia tagliata mentre si depilava.» «Ma non lo sa per certo. La ragazza potrebbe aver allungato la mano nella scatola degli attrezzi, essersi ferita con il coltello e macchiare di sangue il tappetino del furgone e i propri vestiti. È possibile, no?» «Solo se si decontestualizzano le prove. Abbiamo trovato sangue e fibre anche al granaio.» «Ma queste prove non bastano ancora a stabilire che qualcuno è morto. Giusto?» «Nient'affatto. Anzi, io ritengo che sia proprio questa la conclusione cui le prove conducono.» Gale sollevò un sopracciglio grigio e spesso. «Questa è la sua opinione. Mi dica, tenente, sa quanti adolescenti scappano di casa ogni anno?» «Migliaia.» «Decine di migliaia, in realtà» precisò Gale. «Rachel era felice in famiglia?» «No, non lo era.» «Di fatto, il suo è il classico profilo dell'adolescente che scappa di casa. O no?» «Io direi di no. I ragazzi che scappano di casa non si lasciano dietro tracce come quelle da noi rinvenute. Sangue. Fibre appartenenti al maglione che Rachel indossava la sera della sua scomparsa.» «E se la ragazza non volesse essere cercata?» chiese Gale. Stride esitò, perdendo per un attimo la compostezza. «Che cosa?» «Vede, se Rachel avesse preso la sua macchina, tutti avrebbero saputo
che era scappata di casa e la polizia l'avrebbe cercata in tutto il Paese. Ma supponiamo che Rachel volesse scomparire senza che l'odiata famiglia e la polizia si mettessero a cercarla. Non potrebbe essersi ferita un dito per lasciarsi dietro falsi indizi che facessero pensare a una sua brutta fine?» Stride scosse la testa. «Non ha molto senso. Se voleva fingere di essere stata uccisa, avrebbe lasciato prove più evidenti. Di fatto, noi l'abbiamo cercata in tutto il Paese. Rachel non aveva modo di sapere che avremmo trovato quegli indizi nel minivan e tanto meno quelli al granaio.» «Ed eccoci al punto.» Gale si drizzò in tutta la sua altezza e scrutò prima Stride, poi la giuria. «Parliamo di questo granaio, tenente. Si tratta di un posto dove i ragazzi vanno a fare tutte le cose che i genitori non permettono loro di fare in casa, dico bene?» «Sì.» «Ha un'idea di quanti adolescenti si recano lì ogni settimana?» «No.» «Capisco. Be', sa quante volte la polizia è stata chiamata perché intervenisse in quel granaio nell'ultimo anno?» Stride scosse la testa. «Non lo so.» «Sarebbe sorpreso se le dicessi che è stata chiamata trentasette volte?» «No, non lo sarei.» «E sarebbe sorpreso se le dicessi che ci sono state otto incriminazioni per violenza sessuale relative a quel granaio, negli ultimi cinque anni?» chiese Gale. La sua voce si era fatta dura. I suoi occhi erano due punti azzurri. «È possibile.» «Più che possibile, è reale, tenente. Quello è un luogo pericoloso, sì o no?» «Può esserlo» ammise Stride. «Ci sono adolescenti che violentano altri adolescenti e la polizia sembra non fare nulla al riguardo.» «Effettuiamo periodiche retate al granaio» disse Stride. «Ma i ragazzi continuano a tornarci.» «Ha detto la parola giusta, tenente: ragazzi. Quello è un posto dove i ragazzi fanno cose proibite. Ora, il fatto che gli indizi riguardanti Rachel siano stati trovati lì, non suggerisce che nella sua scomparsa possa essere implicato un altro ragazzo?» «Abbiamo indagato su questa possibilità, ma abbiamo finito per scartarla» rispose Stride.
«Se non sbaglio, si tratta della prima pista che ha seguito. Appena è stato trovato il braccialetto, ha mandato qualcuno a parlare con i ragazzi della scuola di Rachel, vero?» «Sì.» Gale annuì. Si mise in bocca la stanghetta degli occhiali, poi bevve un lungo sorso da una lattina di Coca-Cola. Si pulì le labbra con il fazzoletto e si asciugò il sudore dalla fronte. «Quale numero di scarpe porta, tenente?» Quell'uomo era in gamba, pensò Stride. Si chiese come avesse fatto a scoprirlo. «Quarantacinque.» «Capisco. Quindi potrebbe essere stato lei a lasciare quelle impronte al granaio. Dico bene?» «Obiezione!» esclamò Dan Erickson. Il giudice Kassel scosse la testa. «Respinta.» «Io non possiedo un paio di scarpe corrispondenti alle impronte trovate al granaio. Mentre Graeme Stoner ha comprato scarpe di quel tipo solo quattro mesi prima della scomparsa di Rachel e adesso quelle scarpe sono sparite.» «Ma lei sa quante paia di scarpe di quella marca, numero quarantacinque, sono state vendute l'anno scorso nel Minnesota?» «No» ammise Stride. «Più di duecento. Non potrebbe essere stato uno dei duecento individui che le hanno comprate a lasciare tali impronte?» «Sì, ma nessuno di loro è il patrigno di Rachel. E nessuno di loro è anche proprietario di un minivan in cui è stato trovato il sangue di Rachel.» «Ma, a parte quelle impronte, che potrebbero essere state lasciate da centinaia di altri uomini, non avete nulla che provi la presenza del mio cliente al granaio quel venerdì notte.» «No.» «E non sapete quando sono state lasciate quelle impronte, vero?» «No.» Gale fece una pausa, per dare alla giuria il tempo di assimilare questo scambio di battute. Poi riprese: «Ora passiamo al minivan, tenente. Per lei è molto rilevante il fatto di aver trovato le impronte del mio cliente sul coltello». «Sì.» Gale scrollò le spalle. «Ma si tratta del suo minivan e del suo coltello. Non è logico aspettarsi di trovarvi le sue impronte digitali?»
«Se qualcun altro avesse toccato il coltello e lo avesse pulito, non avremmo trovato impronte di nessun tipo.» «A meno che chi lo ha toccato non avesse i guanti» sottolineò Gale. «È possibile» ammise Stride. «Ma in questo caso è molto probabile che le impronte sarebbero state confuse. Invece erano molto chiare.» «Non potrebbe essere stata Rachel a lasciare deliberatamente le sue impronte sul coltello, sapendo che ci sarebbero state anche quelle di Graeme Stoner?» Stride scosse la testa. «Non abbiamo nessuna prova che l'abbia fatto.» «Ma non c'è neppure nessuna prova che non l'abbia fatto. Comunque c'è ancora qualcosa che vorrei dire sul minivan. Nessun testimone ha visto Graeme Stoner alla guida di quel veicolo il venerdì in cui Rachel è scomparsa, vero?» «È vero.» «Quindi non possiamo sapere per certo se il minivan è andato da qualche parte, quella notte, vero?» «Non sono d'accordo. Le fibre trovate nel furgone corrispondono a quelle trovate vicino al granaio. Anche il braccialetto di Rachel è stato trovato al granaio. E sappiamo che, quel venerdì sera, Rachel indossava il braccialetto e il maglione al quale appartengono le fibre. Basta collegare i punti, signor Gale.» Gale sorrise, con un lieve battito degli occhi, che Stride interpretò come un cenno di apprezzamento. Un punto per l'accusa. Ma Gale non aveva ancora finito. «Ammettendo che qualcuno abbia fatto salire Rachel su quel minivan, tenente, come fa a sapere che si trattava proprio di Graeme Stoner?» «Il minivan è suo ed era chiuso a chiave.» «Ah, chiuso a chiave. Capisco. Quindi nessun altro avrebbe potuto prenderlo.» Stride annuì. «Non senza collegare i cavi per avviare il motore. Inoltre, se è stato qualcun altro a prendere il minivan, sarebbe dovuto arrivare a casa di Rachel con la propria auto. È ridicolo pensare che un assassino parcheggi la propria auto per strada, rapisca una ragazza, rubi una macchina diversa, vada al granaio per commettere l'omicidio, poi torni indietro a recuperare la propria auto.» «A meno che l'assassino non sia arrivato a piedi» suggerì Gale. «O magari volando» ribatté Stride. I giurati risero. Il giudice Kassel rivolse a Stride uno sguardo tagliente.
Gale aspettò che tornasse la calma, poi chiese: «Avete scattato delle foto a casa Stoner, dopo la scomparsa di Rachel, vero?». «Si tratta di una procedura standard» rispose Stride, chiedendosi dove volesse andare a parare l'avvocato. Gale prese una foto dal suo tavolo e la posò su un cavalletto davanti a Stride, in modo che anche la giuria potesse vederla. «Questo è un particolare ingrandito di una di quelle foto. Lo riconosce?» Stride guardò attentamente l'immagine. «Sì.» «L'ingrandimento mostra un tavolo nell'ingresso di casa Stoner, accanto alla porta d'entrata. Dico bene?» «Sì.» Gale infilò la mano in una tasca della giacca, ne estrasse una penna d'oro e la puntò verso un oggetto sul tavolo. «Riconosce questo oggetto, tenente?» «Sì, è un portacenere di cristallo.» Ora Stride sapeva dove voleva andare a parare l'avvocato. «E che cosa c'è dentro il portacenere, tenente?» «Un mazzo di chiavi.» «Per l'esattezza, si tratta delle chiavi di casa e del minivan del signor Stoner, vero?» «Credo di sì.» «Le chiavi del minivan. In un portacenere su un tavolo accanto alla porta d'ingresso.» «Sì» confermò Stride. «Chiunque fosse passato di lì avrebbe potuto prenderle. E poi prendere anche il minivan. E Rachel.» Stride scosse la testa. «In base alle prove raccolte, la conclusione non è ragionevole. Secondo lo scenario da lei prospettato, l'assassino avrebbe dovuto sapere che Rachel era in casa, andare da lei a piedi, indossare guanti, sapere che le chiavi del minivan si trovavano lì e indossare scarpe da ginnastica della stessa marca e numero di quelle di Graeme Stoner. Questo sembra proprio uno dei numeri di magia di cui si parlava prima, signor Gale.» «Niente battute, tenente» intervenne il giudice Kassel. Stride annuì e si scusò. Ma aveva temporaneamente sviato il ragionamento di Gale. Sperava che i giurati non si confondessero nella ragnatela di possibilità assurde che l'avvocato continuava a tessere. Gale rivolse un caldo sorriso al giudice Kassel. Poi, passandosi una ma-
no tra i capelli grigi, si girò verso Stride. «Bene, tenente. Ora parliamo della famosa relazione tra il mio cliente e la figliastra. Non avete nessuna prova reale a sostegno di questa teoria, vero? Niente sperma o liquidi vaginali?» «Sono sicuro che entrambi lavassero la loro biancheria» rispose Stride. «Nessun testimone?» «Di solito non si fanno cose del genere in pubblico» disse Stride, con un accenno di sorriso. Gale non sorrise. «Prenderò la sua risposta come un no, tenente. Lei si è anche molto preoccupato delle fantasie sessuali del signor Stoner. È vero, gli piace un tipo di pornografia particolarmente disgustosa.» Gale sospirò. «In altre parole, è un uomo. Ma nessuna delle riviste trovate in casa sua è illegale, vero?» «No» disse Stride. «Chiunque può comprare le stesse riviste sul corso principale di Duluth.» «Credo di sì.» Gale prese il tabulato delle telefonate che Dan Erickson aveva esibito e lo sventolò in aria. «E per quanto riguarda queste telefonate erotiche... be', senza offesa, tenente, ma se un uomo facesse davvero sesso con delle adolescenti, perché dovrebbe pagare cinque dollari al minuto per averne una simulazione telefonica?» «Quelle telefonate dimostrano la propensione dell'imputato per il sesso con le minorenni» disse Stride. «Lei sa quanti altri uomini di Duluth hanno chiamato quegli stessi numeri negli ultimi sei mesi?» «No.» «Io sì. Quasi duecento, inclusi un paio che credo appartengano alla polizia, tenente. Avete indagato anche su di loro?» «No.» Gale annuì. «Certo che no. Perché sappiamo tutti che si tratta di fantasie, le quali non hanno nulla a che fare con il modo in cui una persona si comporta. Giusto?» «Questo dipende dal contesto. E dalla persona.» «Ma lei non conosce il contesto relativo a quelle persone, vero?» «No.» «No, non lo conosce. Di fatto, l'unica prova materiale che suggerisce una relazione di tipo sessuale tra Rachel Deese e il mio cliente è quella fotogra-
fia trovata sul computer in casa sua. Dico bene?» «Si tratta di una foto molto allusiva» sottolineò Stride. «Non ne dubito» ribatté Gale. «Ma non avete nessuna prova che il signor Stoner l'avesse mai vista prima, vero?» «Era sul suo computer.» «Sì, ma anche Rachel aveva accesso a quel computer. Potrebbe essere stata lei a inserire la foto sull'hard disk.» «Di nuovo, non abbiamo nessun indizio che suggerisca un'idea del genere.» Gale agitò una mano, come a voler scacciare una mosca. «Ma non avete neppure indizi che consentano di scartarla, giusto? Chi sa per certo che cosa pensano queste adolescenti? Magari lei voleva fare uno scherzo al patrigno. Forse voleva metterlo in imbarazzo. O voleva provocare una lite tra lui e sua madre. Non possiamo saperlo per certo, vero?» «No» rispose Stride. «Mi dica, tenente: quando è stata caricata quella foto sul computer del signor Stoner?» «I dati relativi al file indicano che è stata caricata il sabato prima che Rachel scomparisse.» «E quando è stato l'ultimo accesso al file?» «Quello stesso giorno.» Gale fece un passo indietro e fissò Stride a bocca aperta. Ovviamente conosceva benissimo l'ultima data di accesso al file, visto che aveva potuto esaminare tutte le prove. Ma recitava a beneficio della giuria la parte di chi aveva scoperto quella scioccante notizia proprio allora. Andò a prendere la fotografia ingrandita di Rachel e la mise sotto gli occhi dei giurati, lasciando che fossero catturati dal suo potere erotico. «Quello stesso giorno? Tenente, lei dice che quest'uomo, ossessionato dalla figliastra e nel pieno di una torrida relazione sessuale con lei, carica questa incredibile fotografia sul suo computer e poi non le dà più neppure un'occhiata?» Gale agitò una mano davanti al viso, come per farsi aria. «Mio Dio, tenente, se questa foto fosse sul mio computer, credo che non riuscirei a lavorare.» Dan Erickson scattò in piedi. «Obiezione.» Gale alzò le mani, in un gesto di resa. «Come non detto, come non detto.» Poi rivolse a Stride un sorriso cattivo. «Ora, tenente, siamo realistici. Questa foto si trova sul computer del signor Stoner e lui per intere settima-
ne non la guarda neppure una volta. Forse è stato lui a mettercela. Forse è dotato di incredibile forza di volontà. Ma non è più logico supporre che ignorasse la presenza di quella foto sul suo computer?» 24 Come primo testimone del secondo giorno del processo, Dan chiamò Emily Stoner. Lei aveva i capelli neri pettinati in un caschetto corto, un rossetto chiaro, una collana di perle con orecchini abbinati. Il vestito blu scuro con il colletto bianco fasciava il suo corpo e, guardandola, Stride si rese conto di come poteva essere stata alcuni anni prima. L'unico segno che rivelava la sua età erano gli occhi, che non riuscivano a nascondere l'esaurimento e la disperazione. Emily si alzò, si avvicinò tacchettando al banco dei testimoni e prestò giuramento. Non cercò Graeme con lo sguardo e, come Stride notò, lui fece altrettanto con lei. Lo notò anche Gale e si affrettò a dare una piccola gomitata al suo cliente, il quale cambiò subito espressione. Aveva perso la moglie, in seguito a quelle false accuse, e doveva mostrarsi addolorato. Emily si sedette, con le mani in grembo. Lanciò una rapida occhiata alla giuria, poi distolse lo sguardo, nervosamente. Era una persona attraente e piacevole, ma a Stride sembrava instabile. Gli eventi degli ultimi mesi avevano ingrandito le crepe nella sua anima. Forse non aveva tentato il suicidio per la seconda volta, pensò Stride, solo per avere la possibilità di testimoniare contro Graeme e farlo condannare. «Signora Stoner, so che questa è una prova difficile per lei» esordì Dan. Emily fece un respiro profondo e chiuse un attimo gli occhi. Poi raddrizzò la schiena e si preparò a raccontare la sua storia. «Va tutto bene» assicurò. «Come ha conosciuto Graeme Stoner?» chiese Dan. «Facevo la cassiera alla Range Bank. Lui è entrato in quella banca come dirigente. Veniva da New York, era single, attraente e ricco. Tutte le donne dell'ufficio gli andavano dietro. Io non facevo eccezione.» «Lui mostrava di interessarsi a lei?» «All'inizio no. Mi passava davanti senza guardarmi, come se non esistessi. Faceva lo stesso anche con le altre donne: le ignorava.» «E poi, che cosa è successo?» chiese Dan. «Un giorno Rachel è venuta in banca. Indossava pantaloncini troppo
corti e un top attillato. Io l'ho sgridata e ci siamo messe a litigare nell'atrio. Graeme ci ha viste, ma non ha detto nulla. Quel giorno stesso mi ha invitata a cena per la prima volta.» Dan ricapitolò quanto dichiarato da Emily, alzando il tono della voce. «Il giorno in cui Graeme l'ha avvicinata è stato lo stesso in cui ha visto lei e Rachel in banca?» «Sì.» «Dopo averla ignorata per mesi?» «Sì.» «Lui aveva mai visto Rachel, prima?» chiese Dan. «Credo proprio di no. Era molto raro che Rachel venisse in banca.» «Okay. Quindi avete cominciato a frequentarvi. Quale è stata la reazione di Rachel, vedendo un uomo in casa?» «Era cordiale con lui.» «Tempo dopo, lei ha sposato Graeme. Dopo il matrimonio, ha notato qualcosa di particolare nel rapporto tra Rachel e Graeme?» Emily fece un altro respiro profondo. «Facevano qualcosa insieme, solo loro due. Uscivano a scattare foto nei boschi e tornavano molte ore dopo. Graeme le faceva molti regali. Vestiti, cd e cose del genere.» «Quali erano i suoi sentimenti al riguardo, signora Stoner?» «All'inizio ero contenta. Ero felice di avere di nuovo una famiglia. Ma poi ho cominciato a notare che Graeme passava sempre più tempo con Rachel e sempre meno con me. Era diventato distante, freddo. Era come se non volesse più avere un rapporto con me e io non riuscivo a capirne il motivo.» Dan rivolse un lungo sguardo alla giuria, poi disse piano: «Signora Stoner, ha mai avuto ragione di credere che suo marito avesse una relazione sessuale con sua figlia?». Negli occhi di Emily apparve un lampo di rabbia. «I segni c'erano, ma io non li vedevo. Non volevo vederli. Ripensandoci adesso, ricordo molte cose che avrebbero dovuto far squillare un campanello d'allarme nella mia mente.» «Per esempio?» «Ecco, una volta, mentre sistemavo le borse della spesa nel retro del minivan (era un lunedì e il giorno prima Graeme e Rachel erano andati a fare un'escursione), ho trovato un paio di mutandine di mia figlia.» «E che cosa ha fatto?» «Ho chiesto spiegazioni a Graeme e lui mi ha detto che Rachel era sci-
volata attraversando un ruscello e si era bagnata i vestiti.» «Ne ha parlato anche con Rachel?» «No, mi sono limitata a lavare le mutandine e a metterle via.» «Può farci qualche altro esempio?» chiese Dan. «Una volta li ho visti baciarsi. Ero già a letto e ho sentito Rachel e Graeme salire le scale. Lei rideva piano. C'era la luce accesa nel corridoio. Ho sentito Rachel augurare la buonanotte a Graeme, poi l'ho vista mettergli le braccia al collo e baciarlo. Sulla bocca. Non è stato un bacio casto.» «Lei ha parlato di questo episodio con Graeme o Rachel?» «No, ho fatto finta di dormire. Non sono stata capace di affrontare la questione.» Dan fece una pausa, lasciando ai giurati il tempo di assimilare le parole di Emily. «Questa relazione intima tra suo marito e Rachel è durata a lungo?» Emily scosse la testa. «No. Due estati fa, mi sono accorta che tra loro era cambiato qualcosa. Rachel era diventata fredda e indifferente verso di lui. Non ho notato nulla che potesse aver determinato questo cambiamento. Nessuna lite, nessuna discussione. Lei lo ha messo al bando da un giorno all'altro. Graeme ha cercato di riconquistarla. Era quasi patetico. Le ha perfino comprato una macchina nuova, ma non è cambiato nulla. Da allora in poi, Rachel ha cominciato a trattarlo come trattava me. Come un nemico.» «Obiezione» intervenne Gale. «Accolta» disse il giudice Kassel. «Signora Stoner, perché non ha raccontato tutto questo alla polizia, subito dopo la scomparsa di Rachel?» chiese Dan. «Cercavo di convincermi che era impossibile che Graeme fosse coinvolto. Cercavo deliberatamente di ingannarmi, come se tutto ciò che avevo visto non significasse nulla. Inoltre, forse era troppo umiliante pensare che una cosa tanto orribile avvenisse sotto i miei occhi senza che io mi accorgessi di nulla.» Gale fece di nuovo obiezione, che venne di nuovo accolta. Ma ormai la giuria aveva sentito e Dan era pronto a concludere. «Sappiamo che lei ha sempre avuto un rapporto difficile con sua figlia. Dopo quanto è successo, sente di volerle ancora bene?» Il volto di Emily si animò e Stride vide per la prima volta una traccia di passione nel suo sguardo stanco. «Certo» rispose. «Ho sempre amato Rachel con tutta l'anima e l'amo ancora. So quanto ha sofferto, ho fatto di tutto per avvicinarmi a lei. Non ci sono mai riuscita e questo mi ha consuma-
ta dentro. Il più grande rimpianto della mia vita sarà sempre quello di non aver saputo trovare un modo per superare la distanza che ci separava.» Dan sorrise. «Grazie, signora Stoner.» 25 Stride immaginava che Gale avrebbe trattato la madre della vittima con i guanti, ma si sbagliava. Nell'atteggiamento dell'avvocato non c'era traccia di comprensione. «Il fatto è, signora Stoner, che il suo rapporto con Rachel era pessimo» esordì. «È vero?» «Non era molto buono, l'ho già detto.» «Non era molto buono? Signora Stoner, Rachel diceva continuamente di odiarla.» «Sì, l'ha detto, alcune volte.» «La chiamava "stronza" e "puttana"» insisté Gale. «A volte.» «Distruggeva i suoi oggetti personali, solo per farle dispetto.» «A volte.» «Le faceva cose disdicevoli, solo per farla soffrire.» Emily annuì. «È vero.» Poi aggiunse, con rabbia: «Come, per esempio, fare sesso con mio marito». «O come fuggire di casa e rovinare il suo matrimonio?» ribatté Gale. «Non è fuggita.» Gale alzò le grosse braccia al cielo. «Come fa a esserne sicura? Rachel non era abbastanza intelligente e astuta da architettare tutto questo?» «Obiezione» intervenne Dan. Gale si strinse nelle spalle. «Ritiro quello che ho detto. Signora Stoner, per sua stessa ammissione, lei non ha parlato con nessuno dei suoi... cosiddetti sospetti, finché non ha saputo dalla polizia che suo marito era indagato, vero?» «Cercavo di negare a me stessa la verità» disse Emily. «Davvero? La verità è che non credeva che Rachel e suo marito avessero una relazione.» «No, all'epoca non lo credevo.» «E il solo motivo per cui ora lo crede è perché sembra accordarsi con il piccolo romanzo giallo ideato dal signor Erickson, no?» «No, non è vero.»
«Ah» disse Gale, in tono incredulo. «Tutto quello che ha detto finora riguarda lei e Rachel. Non Graeme. Ci ha parlato di come Rachel si prendeva gioco di lei. Di come la tormentava, di come la faceva soffrire.» «Era un rapporto difficile» ribadì Emily. «Così difficile che una volta lei ha picchiato sua figlia, vero, signora Stoner?» Emily sembrò rattrappirsi e abbassò lo sguardo. «Sì» mormorò. «Parli più forte. Era in collera e ha picchiato a sangue sua figlia. È vero o no?» «È successo una volta sola.» Gale scosse la testa. «Oh, lei ha usato violenza contro Rachel una volta sola e quindi è tutto a posto, no?» «No! Mi è dispiaciuto così tanto!» «Sua figlia l'ha tormentata al punto da farle perdere il controllo, vero?» Dan si alzò in piedi. «Vostro Onore, il signor Gale sta molestando la testimone.» Il giudice Kassel annuì. «La smetta, signor Gale.» Gale cambiò direzione. «Se Rachel l'avesse portata all'esasperazione, lei l'avrebbe picchiata di nuovo, vero?» «No.» Gale abbassò la voce e continuò, con calma glaciale: «In realtà, non è forse lei l'unica ad avere un movente per uccidere Rachel?». Emily spalancò gli occhi. «No!» «No? Dopo essere stata umiliata da sua figlia per tanti anni?» «Non le avrei mai fatto del male.» «Ma ci ha appena detto il contrario.» «È successo molto tempo fa» gemette Emily. «L'ho fatto una volta sola e poi mai più.» «Ne è sicura?» la incalzò Gale. «Non ha regolato i conti con Rachel una volta per tutte, durante quell'ultimo fine settimana?» «No, no, certo che no! Non ero neppure in città!» «E dov'era?» chiese Gale, paziente. «A Saint Louis, da mia sorella.» «Venerdì sera? La notte in cui Rachel è scomparsa?» «Sì.» Nella testa di Stride cominciarono a squillare campanelli d'allarme. «Ma non sabato sera» ribatté Gale. «Sabato sera lei non si trovava a Saint Louis, vero?»
Emily scosse la testa. «No, mi sono fermata in un albergo lungo la strada. Ero stanca, avevo guidato tutto il giorno.» «E in quale albergo ha alloggiato?» chiese Gale. «Non ricordo. Da qualche parte a Bloomington.» «Potrebbe trattarsi dell'Airport Lakes Hotel?» «Forse. Davvero non ne ricordo il nome.» Gale prese un pezzo di carta dal suo tavolo. «Questa non è la copia di una ricevuta a suo nome da parte dell'Airport Lakes Hotel di Bloomington per quel fine settimana?» Emily impallidì. «Sì.» «Bene» disse Gale, aggrottando la fronte. «Allora abbiamo un problema, dico bene?» Emily rimase in silenzio. Gale sollevò il foglio. «Perché da questa ricevuta risulta che lei si è registrata in quell'albergo venerdì sera e non sabato. È vero?» «Figlio di puttana» mormorò Stride. Maggie gli disse all'orecchio: «Maledizione, la sorella l'ha coperta! Ha giurato che Emily era a casa sua venerdì sera». Seduta al banco dei testimoni Emily taceva. Gale allargò le braccia, con la ricevuta nella mano sinistra. «Allora, signora Stoner?» «Deve esserci un errore» disse Emily, con voce rotta. «Un errore?» ripeté Gale in tono sprezzante. «Le hanno fatto pagare due notti invece di una sola e lei non l'ha notato? Dobbiamo chiamare a deporre l'impiegato che l'ha registrata?» Emily si guardò intorno freneticamente, come se cercasse un nascondiglio. Stride notò che il suo sguardo si fissava soprattutto in una direzione. Verso Dayton Tenby, seduto a pochi metri di distanza. Stride lanciò un'occhiata al pastore e lesse il panico anche nei suoi occhi. Emily crollò. «Va bene, lo ammetto. Ero lì, quel venerdì sera. Sabato mattina sono andata a fare shopping al Mall of America. Sapevo che Graeme si sarebbe irritato, se glielo avessi detto, allora ho mentito. Non mi sembrava una cosa importante.» «Risposta molto opportuna!» disse Gale. «Ma, in realtà, lei avrebbe potuto facilmente andare e tornare da Duluth in macchina, quella sera, vero?» «Non l'ho fatto» rispose Emily. Gale sorrise. «Si è registrata in albergo ed è ripartita. Sarebbe arrivata a Duluth appena dopo le dieci, no? Più o meno quando Rachel stava tornando a casa.»
«No, non è quello che è successo.» Gale sospirò. «No? Ci dica, signora Stoner, che cosa le ha fatto Rachel, quella notte? Che cosa le ha detto? È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?» «No, no, no.» Dayton Tenby si chinò in avanti e si mise a parlare in modo concitato all'orecchio di Dan. «Lei conosceva quel granaio, vero?» insisté Gale. Emily non rispose. «Deve rispondere sì o no. Sapeva che cos'era quel granaio e dove si trovava?» «Sì.» «C'era stata anche lei, no?» «Molti anni fa.» «Ma c'era stata. Sapeva che posto era.» «Sì.» La voce di Emily sembrava un'eco senza vita. «Lei aveva il movente e l'occasione per uccidere Rachel. Aveva già usato violenza contro di lei. Sua figlia la trattava come spazzatura.» Emily lo fissò. «Io non ho ucciso mia figlia.» «Ha mentito alla polizia. Ha mentito a suo marito. Ha mentito alla giuria. Come possiamo essere sicuri che non stia mentendo anche adesso?» Sulle guance di Emily cominciarono a scorrere le lacrime. «Non sto mentendo.» Gale si strinse nelle spalle. «È tutto, signora Stoner, non ho altre domande.» Dan si alzò in piedi. «Signora Stoner, per favore, ci dica che cosa ha fatto quel venerdì sera, quando ha dichiarato di trovarsi a casa di sua sorella.» «Sono andata a fare shopping» rispose lei. Dan colse il suo sguardo riluttante e ammorbidì il tono. «Non può più nasconderlo, signora Stoner. È il momento che la verità venga fuori. Ora, per favore ci dica: dov'era quel venerdì sera?» Stride vide Emily fissare Dayton. Il reverendo annuì leggermente. Emily fece un respiro profondo e si voltò verso la giuria. Sembrava essersi ripresa. «Ero in quell'hotel di Bloomington, proprio come risulta dalla ricevuta, ma non ero sola e non volevo che mio marito o chiunque altro venisse a saperlo.»
Dan annuì. «Chi c'era con lei?» «C'era... cioè, ho incontrato Dayton. Dayton Tenby. È il mio pastore da anni.» Ora le parole le uscivano di bocca in un torrente inarrestabile. «Non ci siamo trovati lì con l'intenzione di avere una relazione. Lui era a Minneapolis per una conferenza. Io volevo parlargli. Abbiamo cenato e poi... abbiamo finito per trascorrere il fine settimana insieme. È stato molto bello. Io però mi sentivo in colpa e confusa e non volevo danneggiare la carriera di Dayton. Anche se la colpa era solo mia, sapevo che la cosa avrebbe potuto nuocergli.» «È rimasta con lui tutto il tempo?» chiese Dan. «Sì.» «Durante quel fine settimana, ha avuto qualche opportunità di recarsi di nascosto a Duluth?» Emily scosse la testa. «Certo che no. E assurdo. C'era una sola persona a casa con Rachel, quella notte, e si tratta di Graeme.» 26 «Ho guardato il notiziario, stasera» disse Andrea, dopo aver bevuto un lungo sorso di Chardonnay dal suo bicchiere. «Tutti gli esperti fanno previsioni su chi vincerà e chi perderà, ma stavolta nessuno sembrava davvero convinto. Perfino Bird non ha osato sbilanciarsi.» «Non credevo ci fosse qualcosa su cui Bird non avesse un'opinione» disse Stride. «Che cosa dice Dan?» chiese Andrea. «Secondo lui, stiamo vincendo.» «E che cosa ne pensa Gale?» «Secondo me, pensa di vincere.» «E allora? Siamo al punto di prima.» Stride rise. «Penso che vinceremo noi. Ma io sono un inguaribile ottimista.» Andrea, ormai quasi ubriaca, scosse la testa. «Tu, un ottimista? Non credo proprio.» «Be', se non sono ottimista e penso che vinceremo, allora vinceremo di certo.» «Ne è convinta anche Maggie?» «Maggie?» ripeté Stride. «Lei odia Dan. A volte penso che sarebbe contenta che assolvessero Stoner solo per la soddisfazione di vedere Dan col
culo per terra. Comunque, secondo lei, per il momento siamo pari e credo che abbia ragione.» Andrea restò in silenzio per qualche secondo, poi disse: «Credo di non piacerle troppo neppure io». Stride si strinse nelle spalle. «Ti ho già detto che cos'è successo con Maggie. Penso che lei provi ancora qualcosa per me, anche se si rifiuta di ammetterlo, e probabilmente è un po' gelosa. Ma è un problema suo.» «Maggie ritiene che io non sia la donna giusta per te.» «Te lo ha detto?» «No» rispose Andrea. «Le donne sanno queste cose senza bisogno che qualcuno gliele dica.» «Be', preoccupiamoci di noi e lasciamo che Maggie si preoccupi di se stessa. Okay?» Andrea annuì. Bevve l'ultimo sorso, poi vuotò il fondo della bottiglia nei bicchieri di entrambi, rovesciando alcune gocce di vino sul tavolino di vetro e asciugandole con un dito. Stride era seduto accanto a lei nel soggiorno. Dalla vetrata di fronte al divano si vedevano la città e il lago al crepuscolo. Andrea passò un dito sulla cicatrice che gli segnava il braccio, sotto la polo verde a maniche corte. «Non mi hai mai parlato di come ti sei fatto questa ferita» disse. «È successo molti anni fa.» «Dimmelo lo stesso» incalzò lei. «È stato un tentativo di suicidio» disse Stride. «Ma ho sbagliato mira.» «Jo-na-than» disse lei, scandendo le sillabe. «Non mandi mai a dormire il tuo morboso senso dell'umorismo?» Stride sorrise. «Va bene, è stato un incidente di caccia.» «Davvero?» «Sì, solo che da cacciatore sono diventato preda.» «Sei impossibile! Per favore, dimmi la verità. Mi interessa davvero.» Stride sospirò. Quella era una parte della sua vita che non amava riportare alla luce, perché gli ci era voluto un anno intero, con l'aiuto di Cindy e di uno psicologo, per superarla. «Alcuni anni fa» disse «mi sono trovato coinvolto in una disputa familiare. Prima avevamo una casetta a ovest di Ely e la coppia che possedeva la villetta accanto... Be', un giorno il marito è andato fuori di testa. Era un mio buon amico, gli volevo bene, ma era un uomo fragile, un veterano di guerra. Ha perso il lavoro e la testa nello stesso tempo. Sua moglie mi ha
telefonato una sera, dicendo che il marito girava per casa con una pistola in mano, minacciando di uccidere lei e i bambini. Io lo conoscevo e sapevo che probabilmente faceva sul serio. Ma non ho chiamato i rinforzi. Avevo paura che, se l'avessi fatto, ci sarebbe scappato il morto. Così sono andato a parlargli, da solo.» «E che cosa è successo?» «Sono entrato in casa e lui mi ha puntato contro la più grossa pistola che avessi mai visto. Me la sono trovata proprio davanti agli occhi. A quanto pareva, non voleva parlare. Allora ho parlato io e dopo un po' mi è sembrato che si stesse calmando. L'ho convinto a lasciar uscire i bambini e, qualche minuto dopo, anche la moglie. Siamo rimasti soli, lui e io. Credevo di avercela fatta. Dovevo solo evitare che si suicidasse. Ma l'avevo sottovalutato. Si è portato la pistola alla tempia e io ho urlato. Mi sono lanciato in avanti, cercando di fermarlo. Lui mi ha puntato la pistola al petto e ha fatto fuoco, senza preavviso. Io mi sono spostato di lato e il proiettile mi ha attraversato la spalla, gettandomi a terra. In quel momento lui si è ficcato la pistola in bocca e si è fatto saltare mezza testa, mentre io gli gridavo di non farlo.» Andrea gli accarezzò il viso. «Mi dispiace. Non so che cosa dire.» «Vedi quello che succede quando mi fai ubriacare?» disse Stride. «Finisco per dire cose che ti fanno star male.» «È colpa mia, sono stata io a insistere. Ma sono contenta che tu me l'abbia raccontato.» «Bene, ora cambiamo discorso, è meglio. Vuoi che apra un'altra bottiglia?» Andrea scosse la testa. «Devo andare a scuola, domani. Non credo che ai ragazzi piacerebbe vedermi in preda ai postumi di una sbronza.» «Secondo te, com'è che non ci siamo messi insieme, a scuola?» chiese Stride. Era il tipo di domanda che uno poteva fare dopo parecchi bicchieri di vino. «Non sarà perché quando io ero al primo anno tu eri già diplomato da un pezzo?» «Ah, sì, forse. Tanto, credo che non mi avresti degnato di una seconda occhiata.» Andrea scosse la testa. «Te ne avrei data una seconda e anche una terza.» «Non credo» disse Stride. «Ero uno di quei tipi solitari e un po' cupi. Tu invece dovevi essere una ragazza pompon estroversa, socia di tutti i club
studenteschi, con un sacco di corteggiatori.» Andrea rise. «Ragazza pompon, sì. Socia del club di scienze, sì. Corteggiatori, no.» «Ma dài.» «Davvero! Molti mi chiedevano di uscire con loro, ma di solito non si andava oltre il primo appuntamento.» Andrea si prese i seni tra le mani. «Quando capivano che non sarebbero riusciti a mettere le mani su questi, il loro interesse svaniva.» «Be', è come spegnere le candeline senza mangiare la torta» osservò Stride. «Oh, non cominciare con queste stronzate maschiliste. Sono certa che tu eri un perfetto gentiluomo, al liceo.» Stride rise. «Non esiste un gentiluomo di sedici anni.» «In ogni caso, sei stato fortunato» disse Andrea. «Hai trovato l'anima gemella sui banchi di scuola. È lì che hai conosciuto Cindy, vero? Durante l'ultimo anno del liceo.» «Sì.» «E non hai avuto dubbi?» chiese Andrea. Stride fece un sorriso nostalgico. «No, non ho avuto dubbi. È stato amore a prima vista.» Lei gli si strinse contro sul divano. Il gatto che dormiva in grembo a Stride apri gli occhi, indispettito per essere stato svegliato. «Che cosa ti piaceva di più in lei?» Stride guardò in lontananza. Nella sua mente Cindy non era più un nitido primo piano, ma un ritratto a figura intera sempre più sfocato. «Non mi permetteva di essere un solitario» rispose. «Mi prendeva in giro, violava tutte le mie difese. Era la persona più spirituale che abbia mai conosciuto. Non troppo religiosa e tuttavia spirituale. Riusciva a farmi vedere sotto una luce nuova tutte le cose che amavo. Il lago, i boschi... Quando guardavo le cose attraverso di lei, tutto era più bello.» Il gatto aveva ripreso a dormire. Stride guardò Andrea, rannicchiata contro la sua spalla. Stava piangendo. Il mattino dopo, Dan chiamò a testimoniare Kevin Lowry. Kevin era il testimone perfetto. Un adolescente dalla faccia pulita, un po' a disagio in giacca e cravatta. Vagò con lo sguardo sul pubblico, fermandosi prima sulla giuria e poi su Emily Stoner, cui rivolse un sorriso di
comprensione. Lei non reagì. Dan ricapitolò brevemente gli inizi del rapporto tra Rachel e Kevin, per poi arrivare a Graeme. «Kevin, abbiamo sentito una testimonianza secondo la quale la relazione di Rachel con Graeme ha subìto un improvviso cambiamento. Prima loro due erano molto vicini, poi hanno smesso di esserlo. È una cosa che hai notato anche tu?» Kevin annuì. «Sì, era impossibile non notarlo. Circa due anni fa, Rachel è cambiata. Non voleva più nemmeno avvicinarsi al signor Stoner. Diceva di odiarlo.» «Ti ha detto anche perché lo odiava?» «No. Una volta gliel'ho chiesto e lei... insomma, l'ha definito con un termine abbastanza forte.» «Puoi dirci di quale termine si tratta?» Kevin sembrò a disagio. «Ha detto che era un "fottuto pervertito".» «Hai potuto osservare il comportamento del signor Stoner, durante quel periodo?» chiese Dan. «Quando li vedevo insieme, lui era molto gentile con lei, come sempre. Però, non so... era come se calcasse la mano con la gentilezza. Per esempio, all'inizio dell'anno scolastico, le ha comprato una macchina nuova.» Stride aggrottò la fronte. C'era qualcosa che lo disturbava, ogni volta che pensava all'auto di Rachel. Eppure l'avevano perquisita attentamente, senza trovare nulla. «Rachel è stata contenta del regalo?» Kevin scosse la testa. «No. Cioè, la macchina le è piaciuta, eccome! Prima guidava la vecchia auto della madre. Però parlava del signor Stoner con sarcasmo. Diceva che aveva dovuto comprargliela per forza, perché non aveva scelta.» «Ti ha spiegato che cosa intendesse dire con questo?» «No.» «Ed era proprio quella la macchina che Rachel guidava, l'ultima volta che l'hai vista?» «Sì.» «Bene, Kevin, parliamo di quella sera. Raccontaci che cosa è accaduto.» Kevin descrisse gli eventi nello stesso modo in cui li aveva raccontati a Stride. «Per favore, parlaci dello stato emotivo di Rachel. Come ti sembrava?» «Normale. Contenta. Niente affatto sconvolta, o strana.»
«Come in una serata qualunque?» «Sì.» «Ora parlaci del giorno dopo, Kevin.» «Ecco, Rachel mi aveva chiesto di uscire con lei, sabato sera. Ma, quando sono passato a prenderla a casa sua, era scomparsa.» «Hai parlato con l'imputato?» «Sì, gli ho detto che avevo un appuntamento con Rachel, ma lui mi ha risposto di non averla vista quel giorno e di non sapere dove si trovasse.» «E dov'era l'auto di Rachel?» «Era parcheggiata davanti a casa. Non riuscivo a capire dove potesse essere andata, senza macchina.» Dan annuì. «E l'hai detto al signor Stoner?» «Certo, gli ho detto che era davvero strano. Non era da lei. Gli ho chiesto anche se non fosse il caso di chiamare qualcuno.» «E lui che cosa ha risposto?» Kevin rivolse un'occhiata dura a Graeme. «Ha detto che non c'era motivo di preoccuparsi e ha aggiunto che, probabilmente, Rachel si stava prendendo gioco di me, come faceva con tutti.» «Quando Rachel ti ha dato quell'appuntamento, ti sembrava che scherzasse?» «No, parlava sul serio. Pensavamo di uscire insieme.» «Che cosa ha detto Rachel, prima di lasciarti?» «Che andava a casa, perché era molto stanca.» «Ha accennato alla possibilità di andare da qualche altra parte o di vedere qualcun altro?» «No.» «Sembrava ansiosa, sconvolta, preoccupata?» «No.» «Quindi, ripetiamolo, per te quella era una serata come le altre.» Kevin annuì. «Sì.» «Grazie, Kevin.» Gale si alzò in piedi. «Kevin, hai definito quel venerdì una serata come le altre» disse, con una sfumatura di incredulità nella voce. «Lo confermi?» «Certo.» «Bene. Vediamo un po', allora: tu hai detto che quando hai visto Rachel, lei era in piedi sul parapetto del ponte.»
«Sì.» «Pioveva e tirava vento.» «Sì.» «Lei sarebbe potuta precipitare giù e morire.» «Penso di sì.» Gale inarcò un sopracciglio. «Pensi di sì? Kevin, tu eri terrorizzato e sei corso a salvarla.» «È vero.» «Che tu sappia, Rachel era mai salita prima sul parapetto del ponte?» chiese Gale. «No.» «E perché, proprio quella sera, si trovava lì sopra, rischiando di morire?» «Non lo so» rispose Kevin. «Hai detto» continuò Gale «che Rachel ti ha fatto delle avance, quella sera. Giusto?» «Sì.» «Davanti alla tua ragazza?» Kevin aggrottò la fronte. «Be', Sally non era sul ponte.» «Ma poteva vedervi, no?» «Immagino di sì.» «Rachel si era mai comportata così con te, prima?» Kevin scosse la testa. «No.» «Quindi, proprio quella sera, lei fa delle avance al suo più vecchio amico, un ragazzo che conosce da sempre, per la prima e unica volta?» «Sì» rispose Kevin, a voce bassissima. «Bene. Ora parliamo dell'appuntamento. Era la prima volta che Rachel ti chiedeva di uscire?» Kevin annuì. «Sì.» «La prima volta in assoluto?» «Sì.» «Proprio quella sera, Rachel ti chiede per la prima e unica volta di uscire con lei.» «Esatto.» Gale sorrise. «Quindi, non era affatto una serata come le altre.» Kevin esitò. «Penso di no.» «Perché Rachel si comportava in modo così strano?» «Non lo so.» «Bene, Kevin. Parliamo d'altro. Tu conoscevi Kerry McGrath, vero?
L'altra ragazza che è scomparsa quasi due anni fa.» «Obiezione!» urlò Dan, scattando in piedi. «La domanda della difesa è irrilevante ed esula dall'ambito di questo interrogatorio.» Il giudice Kassel picchiò il martelletto sul tavolo e Stride pensò che avesse colto con piacere l'opportunità di farlo. «Si calmi, signor Erickson.» Il giudice fissò Gale. La sua bella bocca aveva una piega dura, ma lo sguardo era intrigante. «Ora, signor Gale, mi dica che senso ha questa domanda. Perché sono incline ad accogliere l'obiezione del Pubblico Ministero, a dispetto della sua irruenza.» Gale sapeva di aver risvegliato il suo interesse. E quello della giuria. «Spero che la Corte avrà la pazienza di ascoltarmi, Vostro Onore. Voglio analizzare alcuni fatti che hanno una parte vitale nella mia linea di difesa. I testimoni dell'accusa hanno affermato che non c'è nessun collegamento tra la scomparsa di Kerry e quella di Rachel. Io intendo mettere in dubbio queste conclusioni e questo è senz'altro rilevante. Il signor Erickson ha aperto la strada, ponendo al teste domande sulla sua relazione personale con Rachel. Credo di avere il diritto di scoprire se il teste avesse una relazione personale con un'altra ragazza, scomparsa in circostanze simili.» Le labbra del giudice Kassel si distesero in un sorriso quasi impercettibile. Forse le piaceva il dramma, pensò Stride, oppure assaporava la possibilità che Gale avesse un asso nella manica con cui mettere in imbarazzo Dan. «Avremo pazienza, signor Gale. Ma sia breve. Molto breve.» «Grazie, Vostro Onore» disse Gale. Poi, nel silenzio che seguì, tutti i presenti fissarono Kevin, che sembrava molto a disagio nel banco dei testimoni. Gale ripeté la domanda. «Certo, la conoscevo» rispose Kevin. «Eravamo nella stessa classe.» «Siete mai usciti insieme?» «No» disse Kevin. «Le hai mai chiesto di uscire con te, ricevendo un rifiuto?» «No» rispose Kevin, in un sussurro. «Vostro Onore» supplicò Dan. «Signor Gale, la nostra pazienza sta terminando» intervenne il giudice Kassel. Gale sparò la sua domanda subito. «E Kerry ti ha mai chiesto di uscire con lei?» Dan si alzò per fare obiezione, ma prima che aprisse la bocca Kevin la-
sciò andare un sospiro e rispose: «Sì». Dan tornò lentamente a sedere. La giuria e il pubblico trattennero il fiato. Il giudice Kassel depose il martelletto e si accomodò meglio sulla sedia. «Quando ti ha chiesto di uscire con lei?» chiese Gale. «La settimana prima della sua scomparsa.» Un mormorio serpeggiò nell'aula. Stride guardò Maggie, la quale gli restituì uno sguardo confuso. Avevano rivoltato il caso McGrath come un calzino e il nome di Kevin non era mai venuto fuori. Non risultava che i due fossero mai usciti insieme. Un attimo dopo, capirono. «Tu che cosa le hai risposto?» chiese Gale. «Le ho risposto di no, perché stavo già con Sally.» «Quindi non siete mai usciti insieme?» Kevin scosse la testa. «No.» «E Kerry come l'ha presa?» «Bene, direi. Non ci sono stati problemi.» «E Sally? Come ha preso il fatto che un'altra ragazza ti avesse chiesto di uscire?» «Era piuttosto seccata, ma io le ho detto di lasciar perdere e non ne abbiamo più parlato.» «E una settimana dopo, Kerry è scomparsa, proprio come Rachel.» Kevin deglutì. «Sì.» «A quanto pare, non hai molta fortuna con le ragazze che ti chiedono di uscire, eh, Kevin?» Dan urlò la sua obiezione di nuovo e stavolta il giudice Kassel l'accolse, ordinando alla giuria di ignorare la domanda. Gale sollevò le braccia in segno di resa, poi disse in tono tranquillo: «Non ho altre domande, Kevin». Prima che il ragazzo potesse alzarsi, Dan era già in piedi «Chiedo di controinterrogare il teste, Vostro Onore.» Il giudice Kassel annuì. «Faccia pure.» «Kevin, per favore, dì alla Corte dove ti trovavi la notte in cui Kerry McGrath è scomparsa.» «Ero in Florida, a Disney World, con i miei genitori.» «E la notte in cui è scomparsa Rachel, che cosa hai fatto, dopo averla lasciata a Canal Park?» «Sono andato a casa.» «E lì hai visto i tuoi genitori?»
Kevin annuì. «Abbiamo guardato un film in televisione fino a dopo mezzanotte.» «Grazie, Kevin.» «Che cazzo era quella storia?» chiese Dan, addentando un sandwich. «Una parte vitale della sua linea di difesa?» Stride giocherellava con una graffetta. «È ovvio, no? Vuol cercare di presentare Sally come una serial killer gelosa. Chiunque fa gli occhi dolci al suo ragazzo, scompare.» «Ma tu hai detto che è impossibile, perché Sally ha un alibi.» Stride annuì. «Ce l'ha. Non so dove Gale voglia arrivare con questa storia, ma è evidente che pensa di poter giocare con la giuria.» «Be', se togliamo Sally dalla nostra lista, non possiamo inchiodare Graeme al granaio. E comunque ci penserà Gale a chiamarla a testimoniare, facendo così sembrare che noi abbiamo qualcosa da nascondere. Questo significa che tra mezz'ora Sally sarà seduta al banco dei testimoni. Perciò, ditemi: è possibile che la ragazza sia colpevole? Devo preoccuparmi?» Maggie scosse la testa. «No. Io le ho parlato. È sicuramente molto gelosa, ma non ce la vedo a rapire ragazze in mezzo alla strada, ucciderle e far sparire i cadaveri. Inoltre, la storia di Graeme che l'ha portata al granaio non se l'è inventata. Secondo me diceva la verità.» «Allora perché Gale sembra pensare che Sally sia il passaporto per la libertà di Graeme?» chiese Dan. «Sappiamo dov'era Sally quando Kerry è scomparsa?» «No» disse Stride. «Il suo nome non è mai venuto fuori durante le indagini.» «Sappiamo di certo che non era con Kevin» intervenne Maggie «visto che lui era in Florida, come il tuo controinterrogatorio ha messo in evidenza.» Prima che Dan esplodesse, Stride intervenne: «Non è stata lei, Dan. Ma puoi scommettere il culo che Gale ha già controllato e che la ragazza non ha un alibi per quella notte. O magari non si ricorda dove si trovava e con chi. Cristo, è successo due anni fa. Da' una possibilità a Sally. Se ha convinto Maggie, convincerà anche la giuria». Dan chiuse di scatto la sua borsa, lanciando un'occhiata cattiva a Maggie. «Okay. Non cambieremo la nostra strategia. Ignoriamo il problema di Kerry McGrath. Secondo me, siamo in vantaggio. Se i giurati dovessero emettere il verdetto adesso, sono certo che sarebbe una condanna. Ma se Gale riesce a confonderli con un altro falso indiziato, potrebbero comincia-
re a dubitare. Ora lasciate che vi parli chiaro: se perdiamo questo processo, il vostro lavoro per i prossimi dieci anni sarà quello di pulire la merda di piccione dalle statue dei giardini pubblici. Perciò vi conviene augurarvi di avermi fornito elementi sufficienti a sbattere quel pervertito dietro le sbarre.» Stride e Maggie si scambiarono un'occhiata. Pensavano entrambi la stessa cosa. Che diavolo aveva in mente Gale? O, peggio, era loro sfuggito qualcosa? 27 Jerry Gull non ce la faceva più. Aveva bisogno di un bagno. Disperatamente. E tra lui e Duluth c'erano ancora molti chilometri di strade deserte. Aveva tracannato caffè per quattro ore, durante il seminario a Hibbing, poi era uscito dall'hotel senza usare il bagno. Jerry aveva la fobia dei bagni pubblici e di solito non li usava. In condizioni normali, sarebbe arrivato a casa in tempo, ma aveva perso un'ora per andare a recuperare Brunswick. Brunswick era il cane di Arlene, la sua ragazza. Un terranova che pesava più di lui e che, ritto sulle zampe posteriori, era probabilmente anche più alto di lui. Arlene era stata sposata per breve tempo e, dopo il divorzio, la custodia del cane era stata affidata all'ex marito, il quale possedeva una casa in campagna nei dintorni di Hibbing. Jerry non aveva mai visto Brunswick, ma aveva commesso l'errore di parlare ad Arlene del suo seminario a Hibbing e lei gli aveva strappato la promessa di portarle Brunswick per un lungo weekend in casa di sua sorella. Ecco il motivo per cui quella specie di alce nero era stravaccato sul sedile posteriore della Toyota Corolla di Jerry. Il caffè aveva cominciato a fare effetto quasi subito. Jerry aveva cercato di non pensarci e di aumentare la velocità. Non se la sentiva di confrontarsi con la propria fobia dei bagni pubblici fermandosi in qualche fast food lungo la strada, e, inoltre, temeva che, se lui fosse uscito dalla macchina, Brunswick sarebbe potuto scappare. Cominciò ad agitarsi sul sedile, sforzandosi di tenere le gambe unite. Si trovava in mezzo ai boschi, lontano dalla città. Anche il cane, in qualche modo, gli rendeva più difficile resistere allo stimolo. Sentiva sul collo il suo fiato caldo e puzzolente e preferiva non pensare alla quantità di bava
che doveva avere sulla spalla della giacca. Il cane gli sfregava il muso contro la guancia, rifiutandosi di lasciarlo in pace. In quella macchina, semplicemente, non c'era abbastanza spazio per Jerry, la sua vescica e Brunswick. A un tratto, come per miracolo, Jerry vide quello che faceva al caso suo: una strada sterrata che si addentrava nel bosco. Sembrava una di quelle scorciatoie da cacciatori, dove non passa quasi mai nessuno. Jerry svoltò e la Corolla prese a sobbalzare tra le buche. La testa di Brunswick cominciò a ciondolare, schizzando bava dappertutto, perfino sugli occhiali di Jerry, il quale se li pulì con la manica della giacca, gemendo per il disgusto. Dopo circa un chilometro e mezzo, Jerry si fermò in un punto in cui le betulle sul ciglio della strada erano fitte e non c'era anima viva. Scese di corsa dall'auto e, mentre si dirigeva verso gli alberi, cercò di aprire la cerniera dei pantaloni e di estrarre il pene dalle mutande più in fretta che poteva. Alla fine, riuscì a fare pipì, inzuppando il terreno con un getto di urina che sembrava infinito. Per il sollievo, gli vennero le lacrime agli occhi. Poi, quando stava per finire, qualcosa di grosso e pesante lo colpì alle spalle, facendogli perdere l'equilibrio. Jerry vacillò, si girò e atterrò di schiena sul terreno che aveva appena innaffiato. Nel frattempo, il suo pene continuò a fare il suo lavoro, spruzzandogli di pipì i pantaloni, la camicia, la cravatta e perfino il viso. Jerry urlò, così schifato da non riuscire a capire, lì per lì, che il responsabile di quello scempio era Brunswick, il quale adesso si era lanciato al galoppo nella foresta. «Brunswick!» gridò lui, con tutto il fiato e la rabbia che aveva in corpo. Si alzò in piedi, guardandosi i vestiti fradici. Non credeva ai propri occhi. Che incubo! E la parte peggiore era che il cane era scappato: se si fosse perso, Arlene non glielo avrebbe mai perdonato. Per un attimo Jerry pensò seriamente di risalire in macchina, allontanarsi e non tornare mai più a casa. Poi udì in lontananza un forte latrato. Brunswick non se n'era andato per sempre, ma non era neppure vicino. Forse si trovava a un centinaio di metri di distanza, nel fitto del bosco. Jerry lo chiamò di nuovo e rimase in attesa di sentire il rimbombare delle sue zampe che colpivano con fragore il terreno e ne annunciavano il ritorno. Niente da fare. Un altro latrato. Jerry sospirò e cominciò a inoltrarsi nel bosco, continuando a chiamare
il cane, il quale rispondeva a intervalli, guidandolo verso di lui. Jerry era sporco e bagnato e puzzava. I rami gli graffiavano la pelle e i vestiti e il fango gli inzaccherava le scarpe. Per aggiungere la beffa al danno, cominciò a piovere. «Brunswick!» chiamò ancora Jerry, spazientito. Un altro latrato. Jerry si indirizzò nel punto da cui esso proveniva e finalmente scorse tra le fronde il terranova che scavava freneticamente nella terra morbida. «Finalmente» mormorò. Si avvicinò piano al cane per non spaventarlo e rischiare di farlo allontanare di nuovo. Ma Brunswick continuò a scavare, imperterrito. Evidentemente aveva trovato qualcosa di interessante e, di tanto in tanto, cercava di spingere il suo testone nel buco che aveva prodotto. Jerry allungò una mano e lo afferrò per il collare. «Sei un cane cattivo» disse, accarezzando il folto pelo nero. Brunswick finalmente diede segno di aver notato la sua presenza e alzò la testa di scatto, spruzzandolo di bava. Aveva in bocca una cosa lunga e bianca. «Che cosa hai trovato?» chiese Jerry. Allungò una mano a prendere l'oggetto e Brunswick, dopo aver opposto una leggera resistenza, lo lasciò andare. Jerry ci mise un minuto buono a capire che cos'era. Poi, con paura crescente, guardò nel buco, per vedere quello che il cane aveva trovato. «Porca puttana!» esclamò. 28 Sally sembrava ancora più giovane, seduta al banco dei testimoni. Era vestita sobriamente: felpa di cotone bianca a girocollo e gonna blu. La felpa era abbastanza larga da non mettere in risalto il seno della ragazza. I capelli erano tirati indietro e legati. Niente trucco, né gioielli, a parte un orologio d'oro. Stride la guardò. Si sbagliava? L'ombra del dubbio gli attraversò il viso. E se si fossero davvero sbagliati? Sally era gelosa e possessiva. Era possibile che la sua gelosia l'avesse spinta all'omicidio? Due volte? Era semplicemente assurdo.
«Sally» esordì Dan «vorrei che raccontassi alla giuria un episodio che ti è capitato la scorsa estate. Puoi parlarcene?» Sally annuì, seria e composta. «Era una domenica mattina di luglio. Sono andata in macchina a nord della città, lungo una strada di campagna, lì ho scaricato la bicicletta e ho cominciato a pedalare.» «Per quanto tempo?» chiese Dan. «Per un'oretta, direi. Ascoltavo musica con il mio iPod e non guardai troppo l'orologio. A un certo punto, la catena della bicicletta si è rotta e io mi sono dovuta incamminare verso la macchina, lontana una quindicina di chilometri.» «Sei arrivata alla macchina a piedi?» Sally scosse la testa. «No, un minivan mi è passato accanto lungo la strada e l'uomo al volante ha accostato e ha suonato il clacson per richiamare la mia attenzione. Era Graeme Stoner, il patrigno di Rachel.» «Conoscevi bene il signor Stoner?» Sally scrollò le spalle. «La nostra era una conoscenza superficiale. Ero stata qualche volta a casa di Rachel con Kevin, il mio ragazzo.» «Continua pure, Sally.» «Il signor Stoner mi ha offerto un passaggio fino alla mia macchina.» «Hai accettato?» «Sì, ero stanca e quel passaggio mi è sembrato un colpo di fortuna. Dopo che sono salita a bordo del minivan, siamo rimasti fermi per alcuni minuti. Il signor Stoner sembrava non avere alcuna fretta di ripartire. Era una situazione un po' strana. Mi ha fatto un sacco di domande. Domande personali.» «Raccontaci che cosa ti ha chiesto.» Sally esitò. «Ha detto che mi aveva visto spesso con Kevin e ha voluto sapere se era il mio ragazzo.» «E tu che cosa gli hai risposto?» «Gli ho detto che, sì, Kevin era il mio ragazzo. Allora lui mi ha domandato, con uno strano sorriso, se lui e io stavamo attenti.» «Che cosa intendeva dire, secondo te?» Gale si alzò in piedi. «Obiezione, Vostro Onore. Anche supponendo che questa conversazione abbia avuto luogo davvero, la teste non è in grado di leggere il pensiero.» «Obiezione accolta» stabilì il giudice Kassel. «Ma si astenga dalle supposizioni la prossima volta, signor Gale.» Gale tornò a sedersi, con un sorrisetto.
«Ti sei sentita a disagio, Sally?» proseguì Dan. «All'inizio no, ma poi ho cominciato a preoccuparmi. Eravamo lì fermi da almeno cinque minuti e lui non faceva altro che farmi domande. Allora ho lasciato cadere qualche allusione al fatto che il tempo passava e che dovevo tornare a casa. Finalmente il signor Stoner ha acceso il motore e siamo partiti. Ma andava a bassissima velocità.» «Ha continuato a parlarti, mentre guidava?» «Sì, mi ha detto che ero carina, che gli piacevano i miei capelli, che avevo una pelle molto bella. E mi guardava. Ma non in faccia, capisce?» «Di' alla giuria che cosa guardava, Sally.» Sally lanciò un'occhiata nervosa ai giurati. «Il mio seno. Ho cercato di tenere le braccia incrociate sul petto, per coprirlo, ma era una posizione ridicola. Allora mi sono girata un po' di lato.» «Come ti sei sentita?» «Molto a disagio.» «Lo hai detto al signor Stoner?» Sally scosse la testa. «No. Volevo solo arrivare alla mia macchina e scendere da quel minivan.» «Che cosa è successo, poi?» chiese Dan. «Il signor Stoner mi ha chiesto se ero mai stata al granaio.» Un mormorio percorse l'aula e il giudice Kassel dovette ricorrere al martelletto per ristabilire il silenzio. Stride vide che gli occhi di tutti i giurati erano puntati su Sally. «Continua, Sally» la esortò Dan. «Il signor Stoner mi ha detto di aver sentito dire che c'era un posto lì vicino dove i ragazzi andavano a pomiciare e ha voluto sapere se ci ero mai stata con Kevin.» «Qual è stata la tua risposta?» «Gli ho detto che non c'ero mai stata. Lui è sembrato molto sorpreso e ha creduto che scherzassi. Ma io non ci ero mai stata davvero.» «Dove vi trovavate, in quel momento?» «A un incrocio. Sapevo che il granaio era da quelle parti. Tutti sanno dov'è. Il signor Stoner si è fermato lì.» Dan si chinò verso di lei. «Tanto per essere chiari, Sally, si tratta dello stesso granaio dove sono stati trovati il braccialetto e il sangue di Rachel?» «Sì, è lo stesso posto.» «Poi che cosa è successo?» «Mi ha chieso se il granaio era in fondo a quella strada e io ho risposto
che credevo di sì. Poi, con uno scintillio negli occhi, mi ha domandato se credevo che in quel momento ci fosse qualche coppia intenta a pomiciare.» «E tu?» «Gli ho detto che non lo sapevo e che dovevo proprio tornare alla mia macchina.» «Lui che cosa ha fatto, allora?» Sally fece una smorfia. «Ha detto che dovevamo andare a vedere. Ha insistito. Poi, all'improvviso, è partito in direzione del granaio. Io ero davvero spaventata.» «Che cosa hai pensato che sarebbe successo?» «Obiezione» intervenne Gale. «È un invito a fare congetture.» «Vostro Onore» ribatté Dan «sto chiedendo alla teste come percepiva la situazione e non che cosa passasse nella mente dell'imputato.» Il giudice Kassel rifletté un secondo. «Consento la domanda. La teste può rispondere.» «In realtà, non so che cosa ho pensato» disse Sally. «Ero solo spaventata a morte. Da come lui parlava, avevo paura che ci avrebbe provato con me.» «Ti ha portata al granaio?» Sally annuì. «Sì, ha parcheggiato sul retro. Io ero pronta a darmela a gambe. Voglio dire, avevo proprio paura. Non c'era nessuno in giro e lui continuava a guardarmi e a dirmi che ero carina.» «Ti ha toccata?» «No. O almeno, non ne ha avuto il tempo. Eravamo lì da un paio di minuti, quando è arrivata un'altra macchina dietro di noi. In vita mia non sono mai stata così felice come in quel momento.» «Che cosa ha fatto il signor Stoner?» «È partito come un razzo, non appena l'altra macchina è apparsa all'orizzonte, e in pochi secondi eravamo già lontani.» «Ti ha detto qualcos'altro?» Sally scosse la testa. «No, neanche una parola. È tornato sulla strada principale, stavolta a velocità più contenuta, e qualche minuto dopo abbiamo raggiunto il punto in cui avevo lasciato la macchina. Lui mi ha fatto scendere e se n'è andato. Sono stata molto contenta che fosse tutto finito.» «Hai raccontato questo episodio a qualcuno?» chiese Dan. «No. Perlomeno, non allora. Ero imbarazzata e mi sentivo una stupida. Ho cercato di convincermi che avevo frainteso, ma in realtà le cose sono andate proprio come ho detto.»
«Non ho altre domande, Sally, grazie.» Dan si voltò verso Gale. «La teste è a disposizione della difesa.» "Adesso cominciano i fuochi" pensò Stride. Poi fece per chinarsi a sussurrare qualcosa all'orecchio di Maggie, ma si accorse che lei era andata via. 29 Gale si tolse gli occhiali, li infilò nel taschino della giacca e rivolse a Sally un sorriso da vecchio zio. «Non ti tratterrò a lungo, Sally» disse. «Ho solo poche domande da farti.» "Tutte balle" pensò Stride. «E così, pedalavi in bicicletta su una strada di campagna, a parecchi chilometri di distanza dalla città» ricordò Gale. «Non avevi paura?» «No» rispose Sally. «È una cosa che faccio almeno una volta al mese.» Gale aggrottò la fronte. «Eppure, solo alcuni mesi prima, una ragazza della tua scuola era stata rapita mentre faceva jogging lungo strade isolate. Questo non ti preoccupava?» «Obiezione!» esclamò Dan. «Quello che la teste pensava o non pensava sull'argomento è irrilevante.» «Vostro Onore» ribatté Gale «per decidere se questo episodio ha avuto luogo davvero, la giuria deve sentire tutto il contesto.» Il giudice Kassel annuì. «Obiezione respinta. La teste risponda alla domanda.» Sally scrollò le spalle. «Forse avrei dovuto preoccuparmi, ma non ci ho pensato.» «Quindi non eri preoccupata che la persona che aveva rapito Kerry potesse rapire anche te?» «Obiezione» esclamò di nuovo Dan. «La teste ha già risposto a questa domanda.» «Accolta.» «Bene, Sally, tu sostieni che il signor Stoner ti ha offerto un passaggio mentre tornavi indietro a piedi spingendo la bicicletta, vero?» «Sì.» «E questo fatto è stato molto traumatico per te.» «Sì.» «Però non ne hai parlato con nessuno.»
«No. Per lo meno, non allora.» «Proprio con nessuno? Con i tuoi genitori, Kevin, un insegnante?» «No. Ero spaventata. Inoltre mi ero convinta di aver esagerato.» «Hai esagerato. In altre parole, ti sei resa conto di essere giunta a una conclusione sbagliata.» Sally esitò. «Non sapevo che cosa pensare. Ero contenta che tutto fosse finito e non volevo creare problemi al signor Stoner.» «La prima volta che hai parlato a qualcuno di questo presunto episodio è stata quando la polizia ti ha interrogata, vero?» «Sì.» «Ma non era la prima volta che la polizia ti interrogava, vero?» «No.» «In realtà, la polizia aveva già parlato con te parecchie volte, prima che tu all'improvviso decidessi di raccontare questa storia, vero?» «Ero spaventata, gliel'ho detto.» «Rispondi sì o no, Sally.» «Sì.» E, prima che Gale potesse fermarla, aggiunse: «Solo quando ho saputo degli indizi trovati dalla polizia al granaio ho capito che poteva essere importante». «Non ti era venuto in mente di raccontare tutto, fino ad allora?» «No.» Gale cambiò direzione. «Tu sei innamorata del teste che abbiamo sentito prima, Kevin, vero?» Dan si alzò immediatamente in piedi. «Questo è irrilevante, Vostro Onore, ed esula dall'ambito di questo interrogatorio.» Il giudice Kassel storse la bocca. «No. Consento la domanda.» Sally rispose con un sorriso. «Sì, siamo molto legati.» «Kevin è un bel ragazzo. Scommetto che, di tanto in tanto, qualche altra ragazza gli mette gli occhi addosso.» «Kevin ama me.» «E non guarda mai le altre?» «No.» «No? Ma loro ci provano lo stesso. Kerry McGrath lo aveva fatto, no?» Dan scattò in piedi. «Stessa obiezione di prima, Vostro Onore.» «Allora, signor Gale?» chiese il giudice. «Vostro Onore, queste domande mirano a stabilire la credibilità della teste.» «D'accordo. Obiezione respinta.» Il giudice Kassel fissò l'avvocato di-
fensore con aria impaziente. «Ma mi aspetto di constatare molto in fretta la pertinenza delle sue domande.» «Kerry aveva chiesto a Kevin di uscire?» tornò alla carica Gale. «Lui mi ha detto che una volta l'ha fatto.» «E la cosa non ti ha dato fastidio?» «Kevin ha detto di no a Kerry» rispose Sally. «Mi avrebbe dato fastidio se le avesse detto di sì.» «E non eri arrabbiata con Kerry per aver invaso il tuo territorio?» chiese Gale, sorridendo. «No.» «Davvero? Non le hai detto nulla?» Sally esitò. «No.» «Non sembri molto sicura, Sally.» «Be', forse le ho detto che doveva lasciar perdere Kevin. Tutto qui.» «E come gliel'hai detto? In modo educato e femminile, o le hai buttato lì qualcosa del tipo: "Lascia stare il mio ragazzo o ti strappo i capelli?".» Sally spalancò gli occhi. Cominciava finalmente a capire. Stride poté quasi leggere il messaggio che si faceva strada nel suo cervello. "Sta cercando di inchiodarmi." «Obiezione» intervenne Dan. «Vostro Onore, sono confuso. Chi è l'imputato, qui? E di quale delitto si occupa questo processo?» Il giudice Kassel sospirò. «Signor Gale, sono confusa a mia volta. Vorrebbe spiegarci la pertinenza di queste domande? Sono stata fin troppo paziente.» Dan si fece avanti e parlò prima che Gale potesse aprire bocca. «Vostro Onore, possiamo discutere della cosa a porte chiuse? Con il dovuto rispetto, non vorrei che l'avvocato della difesa facesse entrare dalla finestra ciò che lei ha proibito di far entrare dalla porta.» «Vostro Onore, questa è un'osservazione offensiva» ribatté Gale. Il giudice Kassel fissò a lungo entrambi gli avvocati, poi annuì. «Dieci minuti di pausa. Andiamo pure, signori.» Seduta dietro una scrivania di noce ben attrezzata, Catharine Kassel si chinò in avanti, appoggiando i gomiti sul piano di legno. Gale era seduto di fronte a lei e Dan passeggiava avanti e indietro. «Allora, Archie?» chiese il giudice. «Parliamo di pertinenza.» Gale allargò le braccia, come se la spiegazione fosse ovvia. «Vostro Onore, sto cercando di dimostrare che esiste una teoria alternativa e ragione-
vole per la sparizione di Rachel e le mie domande puntano a dare credibilità a tale teoria. Inoltre, darò ai giurati ragione di credere che la teste ha inventato completamente la storia che il signor Stoner l'ha portata al granaio. Il suo racconto non è confermato da nessun altro, perciò la giuria deve fidarsi solo della sua parola. E io ho il diritto di metterla in dubbio.» «Vostro Onore» intervenne Dan, irritato «quello che la teste ha detto o non ha detto a Kerry McGrath non ha niente a che vedere con la sua attendibilità. Il signor Gale cerca di screditare la teste avvalendosi di insinuazioni diffamatorie e suggerendo l'idea assurda di un suo coinvolgimento nella scomparsa di Kerry. Non ci sono prove a sostegno di questa teoria. Il signor Gale vuole solo confondere la giuria. È una cosa indegna.» Gale scosse la testa. «Ho già stabilito un nesso indiziario tra le due ragazze scomparse. Entrambe avevano chiesto allo stesso ragazzo di uscire con loro, poco prima di sparire per sempre. E c'è di mezzo una fidanzata gelosa. Ho il diritto di esaminare questo nesso, perché contribuisce a creare un ragionevole dubbio sul fatto che il mio cliente sia coinvolto nella seconda scomparsa e invalida l'attendibilità della teste.» «Non invalida un bel niente» ribatté Dan. «L'unico modo per far credere che Sally si sia inventata l'episodio del granaio è quello di suggerire che sia lei ad aver ucciso le due ragazze scomparse. Questo è assurdo. Il cosiddetto nesso indiziario è solo una coincidenza. Quanti altri studenti e insegnanti di quella scuola hanno avuto a che fare con le due ragazze poco prima che scomparissero? Non abbiamo assolutamente nulla che colleghi questa testimone con la scomparsa di Kerry e Rachel. Sono solo congetture.» «Signor Gale» disse il giudice Kassel. «Lei ha qualche prova di ciò che dice, oltre a una serie di coincidenze e di pii desideri?» Gale annuì. «Credo di sì, Vostro Onore. Almeno sulla scomparsa di Rachel.» Il giudice aggrottò la fronte, giocherellando con una penna. «Meno male, visto che questo processo riguarda proprio Rachel. E su Kerry McGrath?» Gale esitò. «Nessuna prova diretta, Vostro Onore.» Il giudice Kassel lo fissò con uno sguardo severo. «Allora le proibisco di continuare con questa linea di interrogatorio. Si sposti sul caso di cui ci stiamo occupando. Ordinerò alla giuria di non tenere conto dei riferimenti a Kerry McGrath emersi durante l'interrogatorio di entrambi i testi di oggi. E non voglio più sentire il nome di Kerry McGrath in questo processo, è chiaro? Non voglio che la Corte sia presa in giro.»
«Non credo che ciò sia avvenuto, Vostro Onore.» «Avete sentito quello che ho detto. Ora torniamo in aula.» I dieci minuti di pausa passati nell'aula del tribunale non avevano giovato a Sally. Al suo atteggiamento determinato si era sostituito il disagio di un'adolescente confusa che non sapeva che cosa le sarebbe successo di lì a poco. Stride si chiese se non fosse proprio quello lo scopo di Gale nel tirare in ballo Kerry: indebolire Sally in modo da poterla poi colpire. L'avvocato della difesa abbandonò l'atteggiamento da vecchio zio. Fissò Sally con uno sguardo severo, ma lasciò passare alcuni lunghi secondi, prima di rivolgerle la parola. Stride fu distratto dal ritorno di Maggie e, dopo che lei si fu seduta accanto a lui, le sussurrò all'orecchio: «È successo qualcosa?». Maggie annuì. Si guardò intorno, per controllare che non ci fossero giornalisti a portata d'orecchio. «Guppo mi ha chiamata sul cercapersone. Sta andando a controllare qualcosa a nord della città. Dice che potrebbe essere importante.» Dal tavolo della difesa, Gale cominciò a parlare, in tono freddo e tagliente. «Sally, dove abiti?» Sorpresa, la ragazza gli diede il suo indirizzo. «Dove si trova casa tua, rispetto a quella di Rachel?» «A circa un chilometro e mezzo di distanza, direi.» «Quindi ci si può andare a piedi?» «Certo.» «Tu sei mai andata a piedi da casa tua a quella di Rachel?» Sally annuì. «Sì, un paio di volte.» «E sei entrata anche in casa sua?» «Sì, un paio di volte. Con Kevin.» «Che tipo di automobile hanno i tuoi genitori?» Dan si alzò. «Obiezione. Pertinenza.» Il giudice Kassel sospirò. «Respinta. Ma il tempo stringe, signor Gale.» «Rispondi, Sally» incalzò Gale. «Un minivan Chevrolet.» «Simile a quello degli Stoner?» «Credo di sì.» «Tu hai mai guidato il minivan dei tuoi genitori?» Sally annuì. «Sì.»
«Quindi conosci i comandi.» «Obiezione» intervenne Dan. «La teste ha già risposto.» «Accolta. Prosegua, signor Gale.» «Bene, Sally, parliamo dell'ultima sera in cui tu e Kevin avete visto Rachel. Eravate tutti e tre insieme a Canal Park?» «Sì.» «Puoi dirmi com'eri vestita, quella sera?» Sally esitò e lanciò un'occhiata nervosa a Dan, il quale si girò verso Stride, confuso. «Non ricordo com'ero vestita.» Gale annuì. «Forse posso rinfrescarti la memoria.» Prese gli occhiali nel taschino, li indossò e sfogliò i suoi appunti. «Camicia a quadri rossa, jeans e giacca a vento rossa. È possibile?» «Forse» rispose Sally. «Davvero non me lo ricordo.» «Ma possiedi vestiti come quelli descritti?» «Sì.» Gale la fissò, incrociando le braccia sul petto. «Non sei rimasta a Canal Park con Rachel e Kevin per tutto il tempo, vero?» «Me ne sono andata verso le nove e mezzo.» «E che cosa hai fatto, dopo?» «Sono andata a casa.» «Ti sei fermata da qualche parte?» Sally scosse la testa in senso di diniego. «No, sono andata direttamente a casa.» Gale sfogliò di nuovo i suoi appunti. «E poi sei uscita di nuovo?» «No.» Gale le rivolse un sorriso freddo. «Ne sei proprio sicura?» «Sì» rispose Sally. «Allora, dimmi, perché sei andata a casa presto? Perché non sei rimasta con Kevin? Lui è il tuo ragazzo, no? Perché lo hai lasciato solo con Rachel?» Sally fece un sorriso tirato. «Ero stanca.» «Avanti, Sally. Conosci la deposizione di Kevin, no? Lui ci ha detto che Rachel gli ha fatto delle avance sul ponte.» Sally non disse nulla. Si morse il labbro evitando lo sguardo di Gale. «Tu li hai visti insieme, vero? Hai visto quello che facevano?» «No.» Gale inarcò le sopracciglia. «No? Il tuo fidanzato era sul ponte con una bella ragazza e tu non gli hai prestato attenzione? Te ne sei andata e ba-
sta?» «Ero stanca, gliel'ho detto» ripeté Sally. «Io direi piuttosto che eri furiosa. Il tuo ragazzo ti tradiva davanti ai tuoi occhi. Quella stronzetta senza cuore lo stava baciando e accarezzando proprio perché tu potessi vederli.» Gale fece una pausa a effetto. «Sei andata via infuriata e umiliata, Sally, sì o no?» Sally sbatté le palpebre. Una lacrima le scivolò lungo la guancia. «Mi sentivo ferita» disse. «Allora li hai visti.» Sally annuì. «Ed eri in collera con loro.» «Non con Kevin» sbottò lei. «Ma con Rachel sì.» Sally aggrottò la fronte. «Era come se gli avesse fatto un incantesimo. Lo faceva con tutti i ragazzi. Ma di loro non le importava nulla. Li usava e basta.» «E questo ti faceva arrabbiare, vero?» chiese Gale. «Rachel era crudele. Sapevo che stava giocando con Kevin. Sapevo che non aveva un vero interesse per lui.» «Ma Kevin che cosa provava per lei?» Sally arrossì. «Niente di importante. Solo una cotta. Lui ama me.» «Eppure, Sally, lui ti avrebbe lasciata in un secondo, se avesse avuto una possibilità con Rachel, vero?» «No!» gridò Sally. «Ma è ciò che ha fatto quella notte. O no?» «No!» «Allora, che cosa è successo?» chiese Gale. «Che cosa ha fatto Rachel, quella notte?» Sally abbassò lo sguardo. «L'ha baciato.» «Che altro?» «Non lo so.» «Avanti, Sally. Hai già detto di averli visti. Che cosa ha fatto Rachel con il tuo ragazzo, proprio davanti ai tuoi occhi?» Sally esitò. «Gli ha infilato una mano nei pantaloni.» «Lei era lì che pomiciava con il tuo ragazzo e tu te ne stavi da sola sul marciapiede?» «Sì.» «E credi che lei stesse solo giocando con lui? Che non facesse sul se-
rio?» «Sì! Lei era così. Non le importava nulla di lui.» «Ma a Kevin importava di lei. È stato sempre segretamente innamorato di Rachel e tu lo sapevi. E, in quel momento, la ragazza dei suoi sogni si stava dando a lui. Hai avuto paura che Kevin ti lasciasse, vero?» «Lui non lo farebbe mai.» «Però sappiamo che Rachel gli aveva dato un appuntamento per la sera dopo e che lui per andarci ha disdetto un appuntamento con te. È vero?» Sally si morse il labbro. Si guardava intorno come per cercare una via di foga. «Mi ha telefonato e mi ha detto che non poteva venire.» «Ed era tutta colpa di Rachel.» «Sì!» «Quindi, dopo averli visti insieme sul ponte, sei andata a casa.» «Sì.» «Non volevi affrontarli?» «No, non in quel momento. Non riuscivo neppure a guardarli.» «Puoi ripetermi che ora era?» «Circa le nove e mezzo.» Gale si tolse gli occhiali e ripose i suoi appunti. Pensando che lui avesse finito, Sally fece il gesto di alzarsi, ma Gale si voltò di nuovo verso di lei, costringendola a rimettersi a sedere, e la fissò a lungo accarezzandosi il pizzo con la mano. «Che cosa hai fatto quando sei arrivata a casa?» «Ho parlato per qualche minuto con i miei genitori, poi sono andata a letto.» «Hai telefonato a Kevin?» «No.» «Hai telefonato a Rachel?» «No.» «Dev'essere stato difficile per te dormire, arrabbiata com'eri.» «Non me lo ricordo» disse Sally, protendendo il labbro inferiore. Cominciava ad assumere un atteggiamento combattivo. «La tua stanza da letto è al primo piano?» chiese Gale. «Sì.» «Quindi, se tu avessi voluto, saresti potuta uscire senza che i tuoi genitori se ne accorgessero.» «Ma non l'ho fatto» ribatté Sally. «Non sei andata a casa di Rachel, per affrontarla e dirle quello che pen-
savi di lei?» «Obiezione» disse Dan. «La teste ha già risposto alla domanda.» «Accolta.» Gale tentò un approccio diverso. «Va bene, Sally, vediamo di essere chiari a questo proposito. Hai visto Rachel quella notte, dopo essere tornata a casa?» Prima che Dan potesse fare di nuovo obiezione, Sally, con gli occhi sbarrati, gridò: «No!». Diversi giurati si chinarono in avanti. Dan guardò Sally con diffidenza, poi lanciò a Stride un'occhiata interrogativa e ostile. Stride si chinò a sussurrare all'orecchio di Maggie: «Ma che diavolo succede? Dove vuole andare a parare Gale?». Maggie era impallidita. «Credo che mi ucciderai, capo.» «Perché?» «I vestiti della ragazza» bisbigliò Maggie. Gale aspettò che nell'aula tornasse la calma. Poi, in tono pacato, chiese: «Sally, spiegaci una cosa: se più tardi, quella stessa notte, non sei andata ad affrontare Rachel e non sei uscita dalla tua camera, come mai sei stata vista per la strada, a pochi isolati di distanza dalla casa di Rachel, alcuni minuti dopo le dieci?». Un forte brusio si levò nell'aula e il giudice Kassel dovette battere il suo martelletto sul tavolo per ristabilire l'ordine. Sally sembrò farsi più piccola. «È impossibile» obiettò. «Non ero io.» Gale sospirò. Estrasse un foglio dai suoi appunti e si avvicinò al banco dei testimoni. «Sally, questo è un rapporto della polizia relativo alla notte in cui Rachel è scomparsa. Riporta un colloquio con una certa signora Carla Duke, che vive a quattro isolati dagli Stoner. Ti dispiace leggere il paragrafo evidenziato, per favore?» Sally prese il foglio come se scottasse. La sua voce era quasi impercettibile. «Ho visto passare una ragazza, pochi minuti dopo le dieci, ma non assomigliava affatto a quella che state cercando. Aveva una massa di capelli castani e indossava i jeans e una giacca a vento rossa.» Gale le tolse di mano il foglio. «Sembri proprio tu, Sally.» «Ma non ero io» mormorò lei. «Figlio di puttana!» mormorò a propria volta Stride. «E noi come abbiamo fatto a non notare quel particolare?» «Stavamo cercando persone che avessero visto Rachel» rispose Maggie. «Non altre ragazze.»
Gale scosse la testa, incredulo. «Una ragazza vestita come te, con i capelli come i tuoi, vicino alla casa di Rachel la notte in cui lei è scomparsa, poco dopo che ti aveva umiliato davanti al tuo ragazzo. Eppure non eri tu.» Sally stava per crollare. «No.» «Io dico che menti, Sally» ribatté Gale, secco. «Obiezione!» urlò Dan. Kassel annuì. «Accolta.» Gale non se ne preoccupò. «Se chiamassimo a testimoniare la signora Duke, credi che ti riconoscerebbe?» «Obiezione!» urlò di nuovo Dan. «È un invito a fare congetture.» «Accolta.» Ma il messaggio cominciava a passare. «Che cosa hai detto a Rachel?» chiese Gale. «L'hai avvertita di stare alla larga da Kevin?» «Non l'ho vista.» «È venuta lei ad aprirti? E le chiavi del minivan erano accanto alla porta. Siete uscite insieme a fare un giro?» «No!» «Sei stata vista, Sally. Kevin saprà che sei stata tu. Devi dire la verità, a lui e a tutti noi. Per l'ultima volta: sei andata a casa di Rachel, quella notte?» «Obiezione» ripeté Dan. «La difesa sta tormentando la teste, Vostro Onore.» Ma il giudice Kassel, che stava fissando Sally come tutti i presenti, scosse lentamente la testa. «Respinta. Per favore, risponda alla domanda, signorina.» Sally guardò il giudice, poi Gale, poi la giuria. Deglutì e si passò una mano tra i capelli, torcendo una ciocca tra le dita. Le lacrime cominciarono a scorrerle sulle guance. Poi, con un sospiro ammise: «Sì, ci sono andata». Nell'aula scoppiò un pandemonio, che il giudice tentò invano di calmare. Le parole che Sally pronunciò subito dopo furono quasi sommerse dal frastuono: «Ma non l'ho uccisa io. Non l'ho uccisa io». Gale aspettò che tornasse la calma, poi concluse: «Sally, hai mentito per tutto il giorno. Perché ora dovremmo crederti?» «Controinterrogatorio, Vostro Onore.» Dan non aveva scelta. Non poteva lasciare la giuria a domandarsi che
cosa fosse accaduto dopo. Doveva tirare fuori la verità dalla bocca di Sally. «Dicci che cosa hai fatto quella notte, Sally» iniziò, con voce suadente. Adesso Sally sembrava ansiosa di parlare. «È vero, sono uscita di nascosto dalla mia camera. Ero furiosa. Rachel era crudele a giocare in quel modo con Kevin, senza che le importasse nulla di lui. Volevo dirle che si stava comportando con lui in modo meschino e cattivo.» «E com'è andata?» chiese Dan. «La sua macchina era già li quando sono arrivata e perciò ho pensato che fosse in casa.» «E poi?» «Mi sono avvicinata alla porta. Volevo parlare con Rachel.» «E le hai parlato?» Sally scosse la testa. «No.» «Perché? Rachel era già scomparsa?» «No, non è questo. Stavo per suonare il campanello, ma non l'ho fatto.» «Perché?» Sally lanciò a Gale un'occhiata trionfante. «Ho sentito delle voci all'interno. Ho riconosciuto quella di Rachel. Gridava e sembrava davvero fuori di sé. Ho sentito anche la voce del signor Stoner. Inveiva contro Rachel. Ho capito che stavano litigando di brutto, così me ne sono andata.» Graeme Stoner si chinò verso Gale e gli mormorò concitatamente qualcosa all'orecchio. Perfino Dan sembrava stupito. Fissò Sally a lungo, poi disse solo: «Non ho altre domande». Stride scosse la testa. Che casino spaventoso! Gale si alzò di nuovo. Se le ultime rivelazioni di Sally l'avevano preoccupato, non lo dava a vedere. Eppure, nel caso in cui la giuria avesse creduto alla ragazza, Graeme Stoner sarebbe stato inchiodato. «Sally, Sally, Sally» disse, in tono gentile. «Tra tante bugie, che cosa conta una in più?» «Obiezione.» «Accolta.» Gale scrollò le spalle. «Vuoi farci credere che avevi informazioni di cruciale importanza per questo caso e non le hai rivelate a nessuno fino a questo momento?» «Avevo paura» ribatté lei.
«Di che cosa, Sally?» chiese Gale, con un'espressione stupita. «Di lui. Del signor Stoner.» «Anche dopo che è stato arrestato?» «Be', sì» balbettò Sally. «Eppure non eri tanto spaventata da tenere per te l'episodio del granaio. Visto che hai raccontato alla polizia quella storiella, avresti potuto riferire anche il resto, Sally, o no?» «Non ero sicura che mi avrebbero creduto.» «E quindi hai mentito. Ottima strategia.» «Non volevo che i miei genitori sapessero che ero uscita di nuovo» si difese Sally. «E non volevo che lo sapesse Kevin. Avevo paura di quello che avrebbero potuto pensare.» «Avrebbero potuto pensare che eri stata tu a uccidere Rachel.» «No!» gridò Sally. «Non è così!» «Il fatto è che non hai parlato a nessuno di questa lite tra Rachel e il signor Stoner perché non è mai avvenuta, vero? L'hai inventata adesso.» «No, non è vero!» «No? Avanti, Sally, hai appena ammesso di essere andata a casa di Rachel quella notte, dopo aver mentito per mesi su questo punto. Che cosa è successo davvero?» «Obiezione» intervenne Dan. «La teste ha già risposto.» «Respinta» disse il giudice Kassel, in tono severo. Era un vero disastro. Neppure il giudice credeva più a Sally. «È andata come ho detto» disse la ragazza. «Li ho sentiti.» Gale sospirò. «Davvero? E che cosa dicevano?» «Non sono riuscita a distinguere le parole.» «Capisco. Hai sentito solo le voci, è così?» «Sì.» «Quindi, furiosa e umiliata com'eri, dopo aver camminato per un chilometro e mezzo per affrontare Rachel, te ne sei andata senza averla vista, solo perché hai sentito delle voci.» Sally annuì. «Sì.» «E non hai mai parlato di questa cosa con nessuno? Eri in possesso dell'indizio più importante in un'indagine per omicidio e non hai detto nulla per paura che i tuoi genitori ti sgridassero per essere uscita di nascosto?» «No, non è così.» Gale era ormai inarrestabile. «Sally, puoi dirci una sola ragione per cui dovremmo crederti?»
Sally aprì la bocca, poi la richiuse. Si passò la lingua sulle labbra secche e rimase in silenzio. «Ho finito, Vostro Onore» disse Gale. 30 Stride non voleva uscire e neppure Maggie, ma mentre se ne stavano schiacciati in mezzo alla folla nell'aula, dopo che il giudice Kassel aveva dichiarato chiusa la seduta per quel giorno, Guppo chiamò di nuovo Maggie sul cercapersone e lei si fece largo a spintoni verso l'uscita. Stride e Dan rimasero indietro, per evitare l'assalto dei giornalisti. Gale era già fuori e sicuramente stava dicendo che la testimonianza di Sally apriva la strada per l'assoluzione. Ma i giornalisti avrebbero voluto vedere anche Dan e Stride. «Avete perso?» avrebbe chiesto loro Bird Finch. Che cosa avrebbero potuto rispondere? Avevano perso e lo sapevano entrambi, anche se formalmente il processo era ancora aperto. Emily Stoner era dietro di loro, con un'espressione confusa e sconvolta. Era sola. Dayton Tenby le era rimasto accanto tutto il giorno e adesso era andato a prendere la macchina per portarla sul retro del tribunale, da dove le guardie avrebbero fatto uscire Emily, salvandola così dall'assalto medianico. La signora Stoner non aveva ancora detto una parola e Dan aveva finto di non vederla. Ma Stride sapeva che era lei l'unico motivo per cui Dan si era trattenuto dall'esplodere. «Mi hai detto che la ragazza aveva un alibi» disse Dan, a labbra strette. «Ce l'aveva, infatti.» «Eppure una testimone interrogata dai tuoi stessi uomini ha fatto crollare quell'alibi come un castello di carte.» Stride sospirò pesantemente. «Senti, Dan, che senso ha scusarsi adesso? Abbiamo fatto un casino, è vero. Avremmo dovuto accorgercene e, invece, ci è sfuggito.» «Dimmi perché» sibilò Dan. «Solo per farmi contento.» «Abbiamo interrogato centinaia di testimoni, nei primi due giorni. Cercavamo qualcuno che avesse visto Rachel. La testimonianza di una donna che aveva visto una ragazza non corrispondente alla descrizione di Rachel lungo la strada non ci ha fatto drizzare le antenne.» «Perché no?» Stride scosse la testa. «Sally non era nemmeno sospettata. Cristo, conti-
nua a non esserlo. Non sono disposto a credere neppure per un secondo che abbia qualcosa a che fare con l'omicidio di Rachel. Non ci sono prove materiali di nessun tipo contro di lei.» «Forse è solo troppo intelligente per te» disse Dan. «No. Se si fosse trattato davvero di un delitto passionale, ci sarebbero tracce disseminate dappertutto. Fammi tornare al banco dei testimoni, domani. Posso far notare che non abbiamo trovato impronte digitali, fibre o capelli che ci permettessero di collegare Sally al minivan o al granaio. Non è stata lei.» «Non hai niente di nuovo» ribatté Dan. «Non posso chiamarti a ripetere quello che hai già detto.» Emily si schiarì la voce. I due uomini si voltarono a guardarla. Era pallida. «Scusatemi, non capisco» disse la donna. «Sembrate pensare che questo sia un punto a nostro sfavore. Non dovrebbe essere il contrario? Voglio dire, Sally ha finalmente rivelato il nesso di cui avevate bisogno. Ha sentito Graeme e Rachel che litigavano, quella notte. Questo significa che erano insieme.» Dan annuì. Il suo sguardo si fece meno duro e anche il tono si ammorbidì. «Temo che non sia così semplice, signora.» «Ma perché?» chiese Emily. «Quello che ha detto Sally dovrebbe essere sufficiente a ottenere una condanna.» Dan le prese una mano tra le sue, guardandola negli occhi: «Il punto è: la giuria le crederà? Gale ha sollevato forti dubbi sulla credibilità di Sally. Sappiamo che ci ha raccontato una menzogna, sostenendo che non era andata a casa di Rachel quella notte. La giuria probabilmente penserà che ora mente di nuovo, per nascondere qualcos'altro». «È questo che pensate anche voi?» Dan sospirò. «Non so più cosa pensare, Emily. Mi piacerebbe poter credere alla ragazza. Quello che ha detto concorda con gli indizi in nostro possesso. Se Sally ce ne avesse parlato subito, ora avremmo già vinto, senza alcun dubbio. Ma in queste circostanze, ho paura che la sua rivelazione, invece di avvantaggiarci, ci danneggerà.» «Com'è possibile?» La voce di Emily aveva assunto un tono lamentoso. «Ecco, nella mente dei giurati può farsi strada un ragionevole dubbio. Possono essere così preoccupati del fatto che Sally abbia mentito da non essere più assolutamente sicuri che Graeme sia colpevole.» «Ma lui è colpevole» ribatté Emily, con calore. «È stato lui, lo so.»
«Molti dei giurati lo pensano, ne sono sicuro. Il punto è: ne saranno sufficientemente convinti da condannarlo?» La realtà sembrò finalmente farsi strada nella mente di Emily Stoner. «Mi sta dicendo che quel figlio di puttana potrebbe essere assolto?» «Temo proprio che sia possibile» rispose Dan, con voce roca e rabbiosa, come se anche lui avesse visto la verità in quel momento. Stride alzò lo sguardo, udendo il colpo sordo della porta dell'aula che sbatteva. Vide che Maggie era tornata e gli faceva cenno di raggiungerla nel corridoio. Avendo letto l'urgenza nei suoi occhi, Stride lasciò Emily e Dan, senza dire una parola, e si avvicinò alla collega. «Abbiamo trovato un cadavere» disse lei, senza fiato. «Guppo è sul posto.» «Rachel?» «Non c'è modo di saperlo. Si tratta solo di ossa. Il figlio di puttana ha cercato di bruciare il corpo. Potrebbe essere Rachel. Potrebbe essere Kerry. Potrebbe anche essere qualcun altro.» Stride chiuse gli occhi. Un mese prima, questa sarebbe stata una notizia importante. Tre mesi prima, sarebbe stata importantissima. Una delle teorie migliori di Gale, quella secondo cui Rachel era ancora viva, si sarebbe sciolta come neve al sole. «Dov'è avvenuto il ritrovamento?» chiese. «A nord della città, a pochi chilometri di distanza dal granaio. Se avessimo esteso la nostra ricerca di un altro paio di chilometri forse l'avremmo trovato noi.» «Guppo ha fatto bloccare l'accesso alla zona?» «Certo. Il medico legale è già sul posto.» «E che cosa dice?» chiese Stride. «Non molto, per ora. Ha detto solo che la struttura dello scheletro corrisponde a quella di una ragazza adolescente. Per il resto dobbiamo ricorrere all'esame del DNA e dei denti, oppure sperare che effettuando una ricerca approfondita nei dintorni salti fuori qualcos'altro.» «Bocche cucite con la stampa, per ora» ordinò Stride. «Riferirò la cosa a Dan, poi tu e io andremo sul posto.» Stride si voltò verso Dan, che stava ancora parlando con Emily, e si chiese come fare a dargli una simile notizia davanti alla madre della ragazza. Fece un respiro profondo e disse a Maggie di aspettarlo. Tornando verso Dan ed Emily, vide che i due lo stavano osservando. Non c'era un modo delicato di dire una cosa del genere.
«Abbiamo trovato un cadavere nei boschi, a nord della città» riferì. Emily spalancò gli occhi e si coprì la bocca con una mano. «Oh, no!» «Merda!» esclamò Dan e ripeté l'imprecazione varie volte. Emily si accasciò su una sedia. Rimase in quella posizione per alcuni secondi, poi si fece coraggio e chiese: «E lei? È Rachel?». «Non lo sappiamo ancora» rispose Stride. «Mi dispiace. Ci sono soltanto ossa, perciò ci vorrà tempo per identificare il cadavere.» «Quanto tempo?» chiese Dan. «Dovremo aspettare l'analisi del DNA, a meno che non emerga qualcosa dall'esame dei denti. In un modo o nell'altro, ci vorrà qualche settimana.» Dan scosse la testa. «Non possiamo aspettare qualche settimana. Non abbiamo neppure qualche giorno.» Stride annuì. «Lo so.» «Che cosa significa?» chiese Emily. «Il processo è quasi finito» rispose Dan. «Senza una identificazione precisa del cadavere, non possiamo sottoporre l'argomento alla giuria. I nostri sospetti non sono prove.» «Ma adesso abbiamo il suo cadavere» ribatté Emily, in tono supplichevole. «Non potete lasciare che quell'uomo continui a fingere che Rachel sia ancora viva davanti alla giuria.» «Purtroppo, però, non sappiamo se si tratta davvero di Rachel» le ricordò Stride, con gentilezza. «È assurdo» dichiarò Emily. «Non posso crederci. Mio Dio, non possono lasciarlo andare ora. Bisogna prorogare la scadenza del processo, devono darvi il tempo di provare che si tratta di Rachel.» «La decisione spetta al giudice» disse Dan. Ma Stride sapeva ciò che Dan stava pensando: non c'era più tempo. 31 «Un rinvio?» Il tono del giudice Kassel era salito di un'ottava. «Signor Erickson, mi dica che questo è un esempio del suo affascinante senso dell'umorismo.» Dan allargò le braccia. «Mi rendo conto che si tratta di una cosa insolita, Vostro Onore.» «Insolita?» intervenne Gale. «Io direi oltraggiosa.» I due uomini erano chini sul banco del giudice. Dietro di loro l'aula strapiena era percorsa dal brusio di decine di voci. Il giudice Kassel batté il
martelletto, ma il frastuono non si calmò. Graeme Stoner sedeva da solo al tavolo della difesa, con un'espressione impassibile. Emily stavolta si era seduta proprio dietro di lui, come se volesse fargli sentire la sua presenza. Graeme l'aveva notata quando si era accomodato al suo posto e non si era girato neppure una volta. Ma era evidente che si sentiva addosso lo sguardo perforante della ex moglie. I giurati, chiusi in camera di consiglio, non erano presenti, mentre Dan chiedeva la proroga. Erano tra le pochissime persone nello Stato del Minnesota a non avere consapevolezza del titolo a caratteri cubitali sul giornale: È IL CORPO DI RACHEL? «Nessuno avrebbe potuto prevedere una cosa del genere» disse Dan. «Ma nell'interesse della giustizia, dobbiamo avere il tempo di analizzare i resti.» «Il signor Erickson prima non sembrava preoccupato della mancanza di un cadavere, Vostro Onore» disse Gale. Il giudice Kassel fissò Dan dall'alto dal suo scranno. «Questo è vero.» «Si sentiva sicuro di poter vincere anche senza nessuna prova che la ragazza fosse davvero morta» continuò Gale. «Ha avuto la sua possibilità.» «Non ho ancora finito» puntualizzò Dan. «Sì, Vostro Onore, ma non ha nulla di nuovo da aggiungere. Niente prove, niente testimoni.» Dan scosse la testa. «Gran parte della linea difensiva del signor Gale era strutturata in modo da dare ai giurati l'impressione che Rachel fosse ancora viva. Se ora possiamo provare in modo conclusivo che le insinuazioni dell'avvocato Gale erano false, la giuria deve saperlo.» Il giudice incrociò le braccia sul petto. «Signor Gale?» «Tutta la situazione è pregiudizievole» disse Gale. «I giurati hanno ascoltato le testimonianze e le hanno bene impresse nella mente. Concedere all'accusa il tempo di lasciare che la memoria si offuschi è ingiusto e irragionevole. Se dovesse emergere che quel cadavere non è collegato a questo caso, sarebbe poi troppo tardi per riparare il danno. Inoltre non abbiamo nessuna idea di quanto ci vorrà per un'identificazione conclusiva, ammesso che sia possibile.» «Archie, una proroga conviene anche a te» disse Dan. «Vostro Onore, anche se sono in isolamento, i giurati potrebbero aver saputo del cadavere. È facile che notizie del genere trapelino, in un modo o nell'altro. E concluderanno che si tratta di Rachel. Questo influenzerà la loro decisione. Dobbiamo permettere loro di decidere in base ai fatti e non alle allusioni.»
Il giudice Kassel gli rivolse un debole sorriso. «È molto premuroso da parte sua, signor Erickson, ma il fatto è che i giurati non verranno a sapere di nessun cadavere, se non ci sarà la proroga. Appena lei mi ha dato la notizia, ieri sera, ho fatto bloccare tutte le chiamate in entrata e in uscita dalle loro stanze. Non hanno la televisione e stamattina sono stati condotti in tribunale sotto scorta. Non lo sanno ora e non lo sapranno tra un giorno o due, quando dovranno deliberare, se prenderemo le giuste precauzioni. Sono disposta anche a far sgombrare l'aula, se necessario.» «Potrebbe dichiarare nullo il processo» suggerì Dan «e ricominciare tutto da capo.» Gale aprì la bocca per dire qualcosa, ma il giudice Kassel lo fermò con un gesto. «Nessun annullamento, signor Erickson. In questo processo non c'è nulla di sbagliato.» «Vostro Onore, l'accusa non dovrebbe essere penalizzata solo perché l'imputato è stato così bravo a nascondere il cadavere che noi abbiamo trovato solo adesso.» «Avete trovato un cadavere» lo corresse Gale. «Non necessariamente il cadavere. E anche se dovesse trattarsi di Rachel, non c'è nessuna nuova prova che possa collegare il signor Stoner al cadavere o alla scena del delitto. Non aggiunge nulla di significativo agli elementi che già si possiedono.» «Questo non lo sappiamo ancora» ribatté Dan, accalorandosi. «Non abbiamo finito di ispezionare il luogo del ritrovamento.» «Signor Gale, eviti di saltare a conclusioni affrettate» disse il giudice Kassel. «Lei ha ricavato un grande vantaggio dall'incapacità dell'accusa di produrre un cadavere. Non può dichiarare privo di significato il fatto che ora sia riuscita a trovarne uno.» «Hanno scelto loro di cominciare il processo in assenza di un cadavere» ribadì Gale. «Se questa scoperta fosse stata fatta tra una settimana, il signor Stoner sarebbe già stato assolto.» «Questo è irrilevante, Vostro Onore» disse Dan. «Forse, ma è vero che la sua ansia di portare il signor Stoner davanti alla giuria sembra essere diminuita, ora che si sta per decidere del suo destino.» Il giudice Kassel storse la bocca e alzò una mano per impedire agli avvocati di controbattere. «Mi piacerebbe saperne di più su questa scoperta e su quanto potrebbe volerci prima di avere delle risposte.» Poi scorse Jonathan Stride seduto in terza fila e gli fece cenno con un dito di avvicinarsi.
Alzandosi in piedi, Stride si sentì addosso gli occhi di tutti. Non si era preparato. Non aveva dormito e aveva i vestiti sporchi di fango. Aveva trascorso la notte nel bosco, alla luce delle torce elettriche, in compagnia di venti agenti, alla ricerca di prove e indizi. Sapeva che si trattava di uno sforzo inutile. Dopo sei mesi di pioggia, neve e ghiaccio, non poteva essere rimasto nulla in grado di legare Graeme Stoner al luogo in cui era stato trovato il cadavere. Niente impronte, niente fibre, niente sangue. Solo un cadavere che non era molto più di un mucchio di ossa. Ma un cadavere c'era. Il punto era: di chi si trattava? Stride spinse il cancelletto di legno e raggiunse Dan e Gale davanti al giudice Kassel. La donna notò i vestiti sporchi e le borse sotto gli occhi. «È stata una lunga nottata, vero, tenente?» «Molto lunga, Vostro Onore» rispose Stride. «Spero che lei riesca a tenere gli occhi aperti il tempo sufficiente a rispondere a qualche domanda.» Stride sorrise. «Farò del mio meglio.» «Grazie. Prima di tutto, chi ha raccontato del cadavere al signor Finch e agli altri giornalisti? È già un problema dover gestire questo ritrovamento in pieno processo, ma sentirne la notizia trasmessa in tutto lo Stato è un problema ancora maggiore. Siamo davvero fortunati che i giurati non ne abbiamo saputo nulla.» «Mi dispiace molto, Vostro Onore» disse Stride. «Vorrei poterle dire come fa Bird ad avere queste informazioni, ma non ne ho idea.» «Va bene. In fondo, Finch sta facendo il suo lavoro» concesse il giudice Kassel. «Ora, tenente, mi dica esattamente che cosa avete trovato. È sicuro che si tratti di resti umani?» «Sì, il medico legale lo ha già confermato.» «Sesso?» «Femminile.» Il giudice annuì. «Nessun altro particolare utile all'identificazione? Potrebbe trattarsi di Rachel, di Kerry o di un'altra ragazza?» «Purtroppo non è rimasto nulla da identificare. Né vestiti, né effetti personali. Il corpo era parzialmente bruciato. Dobbiamo aspettare l'esame del DNA sulle ossa.» «E quanto tempo ci vorrà?» Stride scosse la testa. «Mi piacerebbe poterle dare una risposta definitiva, Vostro Onore, ma il fatto è che potrebbero volerci un paio di giorni come un paio di settimane.»
«E non avete trovato indizi rilevanti nelle vicinanze?» «No. Continueremo a cercare, ma non sono molto ottimista. È passato troppo tempo.» «Ma la chiave di tutto» intervenne Dan «è l'identificazione del corpo, Vostro Onore. Se si tratta davvero di Rachel, l'impatto sul processo è enorme.» «Se, se, se» disse Gale. «Se questo, forse quello. Niente prove, ma continueremo a cercare. Forse giorni, forse settimane, forse mai. Il signor Stoner non dev'essere tenuto in attesa, mentre la polizia e l'accusa bloccano tutto con vaghe promesse di prove che per il momento non ci sono. Vostro Onore, qui c'è solo fumo, ma niente arrosto.» Il giudice Kassel sospirò. «Sono d'accordo.» Dan si aggrappò al banco con entrambe le mani. «Vostro Onore, solo qualche giorno. Ci dia sino alla fine della settimana per confermare l'identità della ragazza. Se per allora non avremo nulla, concluderemo il processo.» «Ma intanto il ricordo delle testimonianze si sarà indebolito nella memoria dei giurati» osservò Gale, sprezzante. «Dobbiamo concludere adesso o mai più.» «Possono farsi rileggere tutte le testimonianze quando vogliono» ribatté Dan. «Oh, per favore» disse Gale. Kassel interruppe il battibecco. «Signori, basta così. Signor Erickson, capisco la sua posizione e detesto procedere con la possibilità che molto presto emergano prove cruciali. Ma in questo momento lei ha soltanto teorie e speranze. Ha deciso di iniziare questo processo senza un cadavere perché era convinto di poter ottenere una condanna e adesso deve tenere fede a quella decisione.» Il giudice riaccese il microfono e picchiò il martelletto per ristabilire il silenzio in aula. Poi parlò rivolta a tutti i presenti. «La mozione di rinvio è stata respinta. Il processo continua.» «Vostro Onore» disse Dan «chiedo che sia messa agli atti la deposizione della dottoressa Nancy Carver, che parlava di una relazione sessuale tra l'imputato e Rachel Deese, visto che la dichiarante non è disponibile come testimone.» «Richiesta respinta. C'è altro, signor Erickson?» Dan strinse i pugni. «Nient'altro, Vostro Onore.» «Bene. Che entri la giuria.»
Girandosi per tornare al suo posto, Stride lesse negli occhi di Dan una rabbia, una freddezza nei suoi confronti, che non aveva mai visto prima. Era come se il futuro di Dan fosse rimasto sepolto nella fossa da cui avevano riesumato il cadavere e il Pubblico Ministero ne desse tutta la colpa a Stride. «Hai sbagliato tutto fin dal primo giorno» sussurrò Dan. Stride non rispose. Non ne ebbe il tempo. C'era qualcosa che non andava. Il brusio che aveva seguito la decisione del giudice si era trasformato in qualcos'altro. La gente era confusa, si alzava in piedi, gesticolava. Qualcuno stava urlando. Era Maggie, in terza fila, che chiamava Stride e cercava di farsi strada a spintoni verso il corridoio centrale. Anche altri si misero a gridare. Stride vide Graeme Stoner scattare in piedi come per una scossa elettrica e poi appoggiarsi al tavolo per riprendersi. Aveva gli occhi sbarrati per la sorpresa. Aprì la bocca, come se fosse sul punto di mettersi a ridere, ma poi ebbe un sussulto al petto e dalle labbra gli colò un rivolo di sangue. Sbatté le palpebre. Guardò le gocce sulla camicia bianca, come ciliegie nella neve. Sorrise. Poi un altro sussulto al petto e il rivolo diventò un fiume. Il sangue gli usciva dalla bocca e dal naso, gli colava sul vestito e finì per inzuppare le carte sul tavolo, raccogliendosi infine in una pozza ai suoi piedi. Gli occhi di Graeme si fecero vitrei e si rovesciarono all'indietro nelle orbite. Per alcuni secondi lui rimase in piedi, poi crollò sul tavolo, con la testa che penzolava oltre il bordo, vomitando un torrente di sangue. Dan Erickson e Archibald Gale lanciarono un grido e fecero un passo indietro. Stride fece per precipitarsi nella direzione di Stoner, ma scivolò nella pozza di sangue. Recuperò l'equilibrio e proseguì. Maggie arrivò prima di lui. Spinse da parte le persone che le sbarravano la strada, paralizzate dall'orrore, e scavalcò quelle che erano finite a terra urlando, nel tentativo di fuggire da lì. Emily Stoner, in prima fila, sembrava a propria volta paralizzata. Fissava il corpo sanguinante del marito. Maggie le afferrò il braccio teso e glielo sollevò, tenendolo puntato verso l'alto. Emily sembrò non accorgersene. Alla fine arrivò anche Stride, oltrepassò il cadavere di Graeme Stoner e
strappò il coltello insanguinato dalla mano di Emily. L'aula era una bolgia. 32 Le finestre della biblioteca al piano superiore del Kitch erano chiuse, a causa del temporale mattutino. Gale sorseggiava un caffè, guardando fuori. Dan Erickson era seduto su un divano, con davanti un piatto di uova e salsiccia e un gran bicchiere di succo d'arancia. «Sai che lo avrebbero assolto» disse Gale, con un sorriso e uno sguardo ammiccante. Dan affondò la forchetta nel tuorlo, che si sparpagliò sul piatto. «Non esserne tanto sicuro. Hai sentito che cos'hanno detto i giurati nell'intervista rilasciata a Bird: ritenevano che Sally non c'entrasse nulla ed erano convinti che Graeme fosse colpevole.» «Mi sembra che abbiano detto "probabilmente colpevole" e questo in aula sarebbe diventato ragionevole dubbio. Inoltre avevano tutti avuto l'opportunità di vedere la tua conferenza stampa della settimana scorsa. Un Pubblico Ministero infuriato che denuncia le accuse infondate mosse a una ragazza innocente. Ma in aula non saresti riuscito a dimostrarlo.» Il volto di Gale fu illuminato dal bagliore di un lampo. «Questa è la tua opinione» replicò Dan affabilmente. Gale scosse la testa. «Non riesco a credere che Emily sia potuta entrare in aula con un coltello.» «C'erano i metal detector. Ma lei ha chiesto di entrare dalla porta posteriore, per evitare la stampa. Chi avrebbe potuto immaginare che aveva perso la testa?» «Vuoi davvero sostenere che è stata una sorpresa, Daniel?» disse Gale. «Ma fammi il piacere! Sono quasi convinto che tu volessi che succedesse qualcosa del genere. Che cos'hai ottenuto per lei?» «Omicidio preterintenzionale di secondo grado. Tre anni, minima sicurezza.» «Un buffetto sulla mano, in sostanza» commentò Gale. «Piantala. Quell'uomo aveva ucciso sua figlia. Ora che non siamo più in aula puoi dirmelo. Non credi davvero che Graeme fosse innocente, vero?» «Non so se fosse innocente. Non so se fosse colpevole. E neppure tu lo sai.» Dan si pulì le labbra con il tovagliolo e si alzò, lisciandosi la giacca. Pre-
se il bricco del caffè e se ne versò una tazza. «Be', comunque la scoperta che Sally era andata a casa di Rachel è stata un bel colpo. Come ci sei arrivato?» «È ovvio che non hai mai avuto figli adolescenti» rispose Gale, ridendo. «Vede un'altra ragazza che salta addosso al suo ragazzo e se ne va semplicemente a casa a dormire? Impossibile.» «E la storia di Kerry McGrath?» «Una volta scoperto che Sally era andata a casa di Rachel, quella notte, ho cominciato a cercare collegamenti. Quando Kevin ha ammesso che Kerry gli aveva chiesto di uscire con lei, ho pensato che fosse troppo bello per essere vero.» Dan si strinse nelle spalle. «Il padre di Sally ha controllato l'agenda e ha detto che tutta la famiglia era andata a vedere una commedia, quella sera. Les Miz. Abbiamo avuto conferma dell'acquisto dei biglietti.» «È il tipo di prova che un padre può produrre per togliere la figlia dai guai» disse Gale. «Non è stata lei, Archie.» «Come vuoi. Ma in questa storia c'è ben più di quello che è venuto fuori in tribunale.» Un tuono fece tremare i vetri. Gale scrutò pensieroso il cielo scuro. «Ora che Graeme è morto, forse non lo sapremo mai» osservò Dan. Gale si accarezzò il pizzo. «Oh, non è detto. Magari Rachel tornerà e ci racconterà tutti i segreti. Come un fantasma.» Stride ascoltava il tamburellare della pioggia sui vetri e vedeva un bagliore dietro le palpebre chiuse, ogni volta che un fulmine squarciava il cielo. Le travi di quercia della veranda gemevano sotto le raffiche di vento. L'aria aveva un odore dolce, appena inacidito da un sentore di muffa proveniente dai boschi. Quando i tuoni l'avevano svegliato, alle quattro del mattino, si era portato le coperte in veranda, aveva acceso la stufetta e si era messo a sonnecchiare ascoltando il temporale. Nella stanza da letto, la sveglia aveva suonato due ore prima. Ma il cielo era così scuro che sembrava ancora notte. L'indagine e il processo continuavano a tormentarlo. Per lui quello non era un caso chiuso. Non aveva cambiato idea su Stoner, si rifiutava di credere che fosse innocente. Ma forse mentiva a se stesso, forse cercava conferme per non ammettere che si era sbagliato fin dall'inizio. Scacciava i suoi dubbi come zanzare, ma pochi minuti dopo tornavano a ronzargli nel-
le orecchie. Ogni volta più forte. Pensò alla cartolina. L'aveva trovata nella cassetta delle lettere quando era tornato a casa. Continuava a guardarla. E a sentire le zanzare. Il pavimento di legno cigolò. Stride aprì gli occhi e vide Maggie in piedi sulla soglia, con i capelli, la faccia e i vestiti gocciolanti. Sembrava minuscola e vulnerabile. «Ho visto che vendi la casa» disse. Stride aveva esposto il cartello alcuni giorni prima. Chiuse di nuovo gli occhi e scosse la testa, seccato con se stesso. «Te l'avrei detto, Mags. Davvero.» «Vi sposate, vero? Tu e la professoressa.» Stride annuì. Era successo la settimana prima, a cena. Quando ci pensava, Stride non ricordava più bene chi lo avesse chiesto all'altro. Avevano cominciato sobri e depressi e avevano finito diverse ore dopo, ubriachi e promessi sposi. «Mi dispiace, Mags» disse Stride. Lei estrasse una mano dalla tasca e gli puntò contro un indice a mo' di arma. «Sei fuori, capo? Stai commettendo un errore terribile.» «So che la cosa ti turba» ammise lui. «Certo che mi turba vedere un amico che si infila a testa bassa in un casino. Ti avevo avvertito di non lasciarti prendere la mano, no? Tutti e due uscite da una catastrofe emotiva. Come può funzionare? Cindy mi ha sempre detto che tu eri la persona meno attenta alle proprie emozioni che avesse mai conosciuto.» «Lascia stare Cindy» tagliò corto Stride. «Perché? Lei in quello che stai facendo c'entra parecchio. Te lo ripeto, capo: stai commettendo un errore. Non farlo.» Stride scosse la testa. «Tra me e te non avrebbe mai funzionato, Mags. Me l'hai detto tu stessa.» «Credi che sia gelosa?» Maggie alzò gli occhi al cielo, come per chiedere un aiuto divino. «Incredibile!» Scese un silenzio imbarazzato. Gli unici rumori erano il rombo del temporale e lo sgocciolio del soprabito di Maggie sul pavimento della veranda. «È così sbagliato che due persone che hanno bisogno l'una dell'altra si sposino?» «Sì, e l'errore è proprio questo. Dovrebbero essere due persone che si amano.» «Smettila, stai solo cercando di confondermi.»
«No, non è questo. O sei innamorato, o non lo sei. O credi che l'altra persona sia quella con cui vuoi passare il resto della vita, o è meglio che non la sposi.» «Credevo che saresti stata contenta per me» disse Stride. «Vuoi che sorrida e che ti dia una pacca sulla spalla?» La voce di Maggie era stridula di rabbia. «Vaffanculo, non lo farò. Non posso credere che me l'avresti chiesto.» Stride non disse nulla. Rimase ad ascoltare il rumore del respiro affannoso di Maggie. Lei scosse la testa e sospirò, riprendendo il controllo delle proprie emozioni. «Senti, se è davvero quello che vuoi, fallo pure. Ma se non ti avessi detto ciò che pensavo, non me lo sarei mai perdonata.» Stride annuì. «Bene, Mags, adesso l'hai detto.» Si scambiarono una lunga occhiata, che equivaleva a un addio senza parole. Non un addio definitivo. Un addio al loro rapporto così com'era adesso. «Ero venuta a dirti che il cadavere non è quello di Rachel» riferì Maggie, assumendo il tono sbrigativo di quando era sul lavoro. «Abbiamo ricevuto i risultati dell'esame del DNA. Si tratta di Kerry.» Stride imprecò sottovoce, pensando a quella dolce ragazza innocente. Lui l'aveva persa, così come aveva perso Cindy. Si sentì invadere dalla rabbia per essersi lasciato sfuggire un assassino. E poi pensò: non era Rachel. E sentì di nuovo le zanzare ronzargli nell'orecchio. «Ho trovato una cosa nella posta, ieri» disse piano. Indicò con un cenno del capo la cartolina sul tavolino. Maggie la guardò. Raffigurava un animale grigio, con le orecchie lunghe e uno strano corpo, in mezzo al deserto.«Che cavolo è?» «Un conitilope» disse Stride. «In parte coniglio, in parte antilope.» Maggie fece una smorfia. «Che cosa?» «È uno scherzo» disse Stride. «Una chimera. È un animale che non esiste. La gente manda cartoline con sopra il conitilope per vedere quanto sei credulone.» Maggie allungò la mano verso la cartolina. «Toccala solo sui bordi, per favore» le raccomandò Stride. Maggie si fermò con la mano a mezz'aria e rivolse a Stride un'occhiata strana, come se avesse percepito qualcosa di orribile. Poi sollevò con cautela la cartolina e la girò. Il messaggio era scarabocchiato con un inchiostro
rosso, sbavato dalla pioggia: «Lui meritava di morire». «Merda» commentò, fissando Stride e scuotendo la testa. «Non può essere stata lei a mandarla. Non può essere stata Rachel. Quella ragazza è morta.» «Non lo so, Mags. Dipende da quanto siamo creduloni.» Maggie diede un'occhiata al francobollo. «Las Vegas.» Stride annuì. «La città delle anime perdute» disse. PARTE QUARTA Tre anni dopo 33 Jerky Bob viveva in una roulotte parcheggiata lungo una strada secondaria qualche chilometro a sud di Las Vegas. Come molti vagabondi della zona era apparso dal nulla. Un giorno la roulotte era arrivata, agganciata a un camioncino che, dopo averla depositata lì, si era dileguato verso la città. Il giorno dopo era apparso un cartello scritto a mano. C'era scritto: Jerky Bob Regali new age Poesia sensitiva Carne secca Bob aveva separato con una tenda un'estremità della roulotte, in corrispondenza dell'entrata posteriore, ci aveva piazzato un tavolino traballante e una cassa e si era messo in affari. Aveva appeso al soffitto dozzine di campane a vento, aveva inchiodato alla parete un pezzo di metallo e ci aveva attaccato sopra calamite a forma di piramide. Aveva riempito gli scaffali di incensieri, candele profumate e poesie scritte a mano su fogli tipo pergamena arrotolati e legati con nastri rossi. Ma i suoi clienti abituali non venivano per le calamite e le poesie, ma per la carne secca: manzo, pollo e tacchino, aromatizzati in vari modi e conservati in scatole da scarpe dentro un vecchio frigorifero. La maggior parte di quei clienti erano camionisti. Era bastato che se ne fermassero un paio, per pura curiosità, perché si spargesse la voce tra tutti i camionisti del sud-ovest. «Vai a Las Vegas? Passa da Jerky Bob.» Arrivavano a tutte le ore, sette giorni su sette. Se Jerky Bob dormiva, lo svegliavano e lui ven-
deva loro la carne secca. Bob guadagnava tanto che, se fosse riuscito a risparmiare, sarebbe potuto tornare in città e aprire un vero negozio, in regola con le norme sanitarie e con il fisco, invece di volare basso per sfuggire al radar del governo. Ma i soldi non duravano a lungo in mano a Bob. Per metà finivano nelle slot-machine e per l'altra metà in bottiglie di gin, che lui poi gettava nel deserto dietro la roulotte, dove brillavano come diamanti in un campo. Bob si era suicidato un anno prima, ma il suo corpo non se n'era ancora accorto. I camionisti ne parlavano. Un anno prima, Bob aveva l'aria abbastanza normale, per essere uno che viveva da solo nel deserto, ma sembrava invecchiare di mese in mese. Non si radeva, limitandosi a tagliare ogni tanto le ciocche di barba troppo lunghe. I capelli gli scendevano sporchi fino alle spalle. La pelle era grigia e avvizzita e gli occhi si erano infossati. Mangiava quasi solo la sua carne secca, diventando sempre più magro. Non faceva mai il bucato e indossava quasi sempre gli stessi jeans e la stessa maglietta. A un certo punto la puzza si era fatta così forte, che alcuni dei suoi clienti si rifiutavano di entrare nella roulotte. Gli dicevano che anche la carne secca cominciava a puzzare. Bob si limitava ad aprire una finestra e a lasciare che l'aria secca del deserto spazzasse via un po' di quel tanfo. Non lo lasciavano entrare più nei casinò, perciò andava in un bar a mezzo chilometro di distanza, sulla statale, dove giocava a videopoker finché il barista non sopportava più il suo lezzo. Allora lui comprava un'altra bottiglia di gin, andava a casa, la beveva e crollava addormentato. Quando poi al mattino un camionista lo svegliava a colpi di clacson, gettava la bottiglia vuota nel deserto. La notte prima ne aveva bevute due. O forse non era la notte prima, ma quella ancora prima. Non se lo ricordava. Non ricordava molto. Alla Tv dissero che era mercoledì, ma lui non ricordava quando aveva iniziato a bere. L'ultimo cliente era passato durante il pomeriggio e la sera, qualunque sera fosse, Bob aveva cominciato a bere, un bicchiere dopo l'altro. E adesso era mercoledì. Bob sospirò. Doveva pisciare. Si alzò, appoggiandosi alla parete per non perdere l'equilibrio. La roulotte gli girò intorno per qualche secondo, poi si fermò. Bob vide alcuni scarafaggi che correvano sul pavimento. Si chinò a raccogliere le due bottiglie vuote e ci guardò dentro. C'era un residuo di liquore sul fondo di ognuna e Bob se lo scolò. Era così intossicato che quelle poche gocce gli provocaro-
no un conato e lui dovette fare uno sforzo per non vomitare. Si guardò intorno in cerca dei sandali, li individuò sotto una sedia e se li infilò. Aprì la porta centrale della roulotte con una ginocchiata e rimase colpito dalla luce del giorno. Nudo, Bob scese i gradini arrugginiti e si trovò nel deserto. Il sole era incandescente, come un fuoco giallo che bruciava sopra le dune. Bob strizzò gli occhi, inspirando a fatica l'aria bollente. Cominciò a pisciare. Il getto di urina trasparente sollevò una nuvoletta di polvere e formò una piccola pozza. Bob continuò a pisciare al centro della pozza, incurante delle gocce che gli schizzavano sui piedi. L'urina era schiumosa e puzzava di gin. Di lì a pochi secondi, la pozzanghera sarebbe svanita, prosciugata dal sole. La pisciata finì. Bob gettò via una delle due bottiglie, guardandola brillare al sole prima di frantumarsi a terra. Vide le schegge schizzare in ogni direzione. Ripeté il rituale con la seconda bottiglia, ascoltandola sibilare nell'aria e poi il rumore del vetro infranto. C'erano centinaia di bottiglie rotte, là fuori. Era la miniera privata di Bob. I vetri si coprivano rapidamente di polvere, ma quelli più recenti riflettevano il sole come raggi laser. Bob fissò il deserto attraverso le palpebre socchiuse. Era ora di tornare dentro la roulotte, dove non c'era nessun sollievo dal calore, ma dove almeno il sole non bruciava. Si era scottato tanto spesso che sulla pelle gli erano comparse piccole piaghe purulente che non guarivano mai del tutto. Ma Bob indugiava. Qualcosa aveva attirato il suo sguardo. Fissò i cespugli battuti dal vento e le yucche simili a palme nane. Tutto era al proprio posto. Le dune erano le stesse e le bottiglie rotte brillavano come sempre, al pari di diamanti. Eppure... c'era qualcosa fuori posto. Bob vedeva i riflessi del sole, ma non provenivano dalla miniera di bottiglie. I riflessi che avevano attirato il suo sguardo erano lontani. E brillavano, facendogli l'occhiolino da sotto un cespuglio. Di che cosa si trattava? Bob aggrottò la fronte. Senza sapere perché, si mise a camminare nel deserto verso quel bagliore. Voleva sapere che cosa fosse. E più si avvicinava, più affrettava il passo, finché si ritrovò quasi a correre. Nudo e stanco, arrivò ansimando al punto da cui proveniva lo scintillio. Poi si fermò e guardò a terra.
I diamanti che con i loro riflessi avevano catturato il suo sguardo erano in realtà brillantini su un corpo di donna steso nella polvere a faccia in su. Era nudo, come Bob. Un cadavere senza età, raggrinzito sotto il sole, con gli occhi sbarrati e duri come biglie di vetro, i capelli biondi ingrigiti dalia polvere e la bocca aperta da cui usciva una fila di scarafaggi del deserto. Era difficile riconoscere in quel corpo qualcosa che una volta era stato umano. Bob si inginocchiò. La donna lo fissava, con una specie di sorriso sulle labbra scolorite. Bob allungò una mano per toccarla, piano, come se lei potesse svegliarsi all'improvviso e afferrarlo. Ma la donna non si mosse. La sua pelle sembrava carta vetrata sotto le dita. Poi Bob colse un guizzo sul suo viso e rimase a bocca aperta per lo spavento. Non poteva essere viva! Rimase a fissarla finché un grosso scarafaggio le uscì dal naso, muovendo le antenne. Bob saltò all'indietro, poi si alzò e corse via. Non andò verso la roulotte, ma verso la strada. Mentre correva perse i sandali e il terreno duro del deserto gli tagliò i piedi. Ma continuò a correre, senza rallentare, senza voltarsi indietro, come se il fantasma della ragazza lo stesse inseguendo. 34 Serena Dial, del dipartimento della polizia metropolitana di Las Vegas, portò gli occhiali da sole sulla punta del naso e guardò il cadavere. «Bello» disse, senza rivolgersi a qualcuno ia particolare. In realtà, la scena non aveva niente di bello. Serena odiava i cadaveri trovati nel deserto. Sembravano mummie incartapecorite e, se il ritrovamento avveniva dopo che erano già passati gli uccelli e gli animali, erano privi degli occhi e con la carne a brandelli: il genere di visione che tende a ricomparire negli incubi. Di solito, comunque, si trattava di uomini con un coltello piantato nella schiena o trafitti da un proiettile. A parte il sangue, nulla di troppo difficile da digerire. Almeno il cadavere sembrava un cadavere. Quello, invece, era diverso. Che si trattasse inequivocabilmente di una donna era molto facile da stabilire. Il sole aveva effetti tremendi su chi aveva la sventura di morire nel deserto, ma, per quel che se ne sapeva, non faceva sparire il pene. I seni,
invece, tendevano ad avvizzirsi. Tranne in quel cadavere, che, come Serena ebbe modo di notare, aveva ancora un bel paio di tette e inoltre sembrava brillare sotto il sole. Molto interessante. Serena si mise carponi ed esaminò il corpo da vicino senza toccarlo. Partì dai piedi, risalì lungo le gambe, indugiò più di quanto desiderasse sul sesso, poi osservò l'addome, i seni e infine il viso e le labbra, che sembravano pronte a dare un macabro bacio. Serena si alzò in piedi, sganciò dalla cintura un registratore digitale e dettò alcuni appunti. Il vento le arruffò i capelli, neri e folti. Serena aveva un corpo statuario e chi non era pratico di Las Vegas e si imbatteva in lei per la prima volta di solito la prendeva per tutt'altra persona. Così lei aveva cominciato a portare il distintivo bene in vista, in modo da evitare le avance. Era alta quasi un metro e ottanta, snella e ben proporzionata. Quel giorno indossava una canotta bianca infilata dentro a un paio di jeans sbiaditi. Era forte e muscolosa, grazie a un intenso allenamento sportivo, e perennemente abbronzata, per via del suo lavoro per lo più all'aperto. Serena aveva trentacinque anni, gli occhi verdi, di solito nascosti dietro le lenti ambrate degli occhiali da sole, e una bocca piccola e ben fatta. Non sembrava una ragazzina, né lo era mai sembrata. Fin da adolescente aveva avuto l'aspetto della persona adulta e molto bella che aveva adesso, e solo recentemente l'età aveva cominciato a essere adeguata all'immagine che lei esibiva da sempre. Nei momenti d'ozio, a volte Serena si chiedeva come sarebbe diventata con l'avanzare dell'età. Forse la ragazza ai suoi piedi si era chiesta la stessa cosa, ma non avrebbe mai avuto una risposta. E forse era meglio che non potesse vedersi, ora. «Età» disse Serena, tenendo il registratore vicino alla bocca. «Bisogna aspettare il medico legale, ma penso ventuno o ventidue anni al massimo. Causa della morte: sembra sia stata colpita alla testa con un oggetto contundente. Sulla parte posteriore del cranio c'è del sangue rappreso e l'osso sembra sfondato. Capelli: neri, tinti di biondo.» Serena esaminò il punto dove giaceva il cadavere. «Non è stata uccisa in questo posto. Non c'è abbastanza sangue sul terreno. Il corpo è stato trascinato qui e abbandonato. La donna è nuda, ma non presenta segni evidenti di violenza sessuale, lividi nella zona pelvica, unghie spezzate, graffi o altre ferite. Comunque, l'ultima parola spetta al medico legale. A quando risale la morte? Non è possibile dirlo e mi chiedo se il medico riuscirà a stabilirlo con precisione. Comunque, direi per lo
meno un paio di giorni. Il rigor mortis è passato da un pezzo. Siamo stati fortunati che gli avvoltoi non siano arrivati per primi.» Le venne un'idea e premette delicatamente con un dito un seno della ragazza. «Naturalmente» disse tra sé, alzandosi in piedi. Serena continuò a dettare appunti nel registratore. «Orecchie bucate, ma niente orecchini. Né orologio. Né anelli. Unghie delle mani e dei piedi smaltate di rosso. Tracce di trucco sul viso. Brillantini su buona parte del corpo.» Sentì un rumore di passi e una voce disse: «Hola». «Attento a dove metti i piedi, Cordy» disse Serena, senza voltarsi. In realtà, la cosa aveva poca importanza. Non era la prima volta che lei effettuava ricerche nel deserto e sapeva che la probabilità di trovare indizi era minima. Per questo i gangster della vecchia Vegas lasciavano i morti a marcire nel deserto del Mojave. Cordy si finse offeso. «Ehi, pensi che sia un novellino?» Cordero Elias Angel era da sei mesi il collega con cui lei condivideva il lavoro. Serena si era fatta la reputazione di persona con cui era difficile lavorare e quindi i suoi collaboratori cambiavano spesso. Ma Cordy sembrava intenzionato a rimanere. Parlava chiaro, faceva quello che gli si diceva di fare e non ci aveva mai provato con lei. A Cordy le donne piacevano piccole, bionde e molto giovani e Serena non possedeva nessuno di questi tre requisiti. Inoltre, Cordy era sei anni più giovane di lei e quindici centimetri più basso. Tra loro non c'era nulla di romantico. Data la sua avvenenza, Serena era piena di corteggiatori. Ma ogni volta che si era lasciata coinvolgere in una storia era finita presto. Il suo modo di fare brusco spaventava gli uomini. Serena non faceva sesso da anni e dichiarava a se stessa di non sentirne la mancanza. Cordy, al contrario, aveva una vita sociale molto attiva. Nel breve tempo che avevano trascorso insieme, Serena lo aveva visto con sei donne diverse, di età compresa tra i venti e i ventitré anni. Nessuna durava oltre le prime acrobazie a letto. Per almeno due di loro era stata la prima volta, o così le aveva raccontato Cordy. Serena aveva trovato la cosa disgustosa e glielo aveva detto. Lui aveva sogghignato e lei aveva preferito lasciar perdere, piuttosto che riportare alla luce vecchi fantasmi. Cordy era basso ma attraente, e vestiva in modo impeccabile. Quel giorno indossava una camicia a fiori di Tommy Bahama e pantaloni neri di seta. Portava i capelli scurissimi pettinati all'indietro con il gel, aveva la pelle olivastra, che faceva sembrare i denti bianchissimi, e gli occhi marroni dal-
lo sguardo rapace. Serena indicò la roulotte con il pollice. «Allora, che cosa ti ha raccontato?» «È un vecchietto patetico. Be', in realtà, non tanto vecchio, ma rovinato. Passa le notti scolando bottiglie di gin, che poi getta fuori.» Serena guardò la distesa di vetri rotti dietro la roulotte. «Ricordati di dire alla Scientifica di studiare bene quei vetri. Se l'uomo che ha trascinato qui il cadavere si è tagliato, forse troveremo qualche traccia di sangue. «Va bene» disse Cordy. «Probabilmente tra qualche mese troveremo anche Jerky Bob in avanzato stato di decomposizione nella sua roulotte» osservò Serena. «È stato lui a chiamare?» Cordy scosse la testa. «Ha trovato il corpo ed è uscito di testa. Si è messo a correre nudo sulla statale. Quando l'hanno fermato, ha cominciato a blaterare di un cadavere che era vivo.» «Conosceva la ragazza?» Cordy scosse la testa. «No, dice di non averla mai vista prima. Ha scoperto il cadavere quando è uscito a pisciare.» «E per quanto riguarda i tempi? Quell'uomo ha idea di quando il corpo può essere stato trascinato qui? Ha visto o sentito qualcosa?» «Non ha sentito nulla. Nada. È rimasto privo di sensi per almeno due giorni, forse tre. E quindi la cosa potrebbe essere avvenuta in qualunque momento.» Serena sospirò. «Ottimo.» «Insomma, non abbiamo molto da cui partire.» «Immagino che tu abbia già cercato tracce di sangue nella roulotte.» «Certo» rispose Cordy. «Jerky Bob aveva i piedi che sanguinavano per aver corso scalzo, ma non c'era abbastanza sangue da far pensare che lì dentro fosse stata sfondata la testa a qualcuno. E credimi, la roulotte non è stata di sicuro pulita. A meno che la causa della morte non sia stata l'asfissia per tanfo, la ragazza non è morta lì dentro. Ti consiglio di assaggiare la carne secca, comunque. Me ne ha dato un pezzo, credo fosse tacchino. Niente male, se non ti dà fastidio l'odore.» «Se mentre torniamo in città ti verrà un attacco di diarrea e dovrai fermarti per strada, rimpiangerai di aver assaggiato quella roba.» «Sono messicano» disse Cordy, battendosi il petto. «Stomaco di ferro, abituato al peperoncino più piccante.» Serena scosse la testa. «Salmonella, tesoro. Non colpisce solo i grin-
gos.» «Sai, volevo controllare che non nascondesse nulla nel frigorifero e non avevo un mandato. Ora so che in quelle scatole da scarpe c'è solo carne secca.» «Ah, adesso mi hai impressionata» disse Serena. «Davvero.» Lanciò un'altra occhiata al cadavere. Avrebbe voluto coprirlo e restituire a quella ragazza un po' di dignità. A Las Vegas i crimini insoliti non mancavano e lei aveva smesso da un pezzo di sorprendersi. Una volta, aveva effettuato una perquisizione completa su una sospettata per scoprire, dopo averla fatta denudare, che in realtà si trattava di un travestito e per di più superdotato. Un'altra volta aveva indagato sulla morte di un nano che due adolescenti in cerca di emozioni forti avevano messo su una specie di letto di Procuste e allungato fino alla morte. Un'altra volta ancora, aveva arrestato un uomo che camminava nudo nel centro della città, con due capre al seguito. Aveva visto stranezze, stupidaggini, orrori di ogni genere. Ma, una volta ogni tanto, le capitavano casi che, secondo il suo istinto, promettevano di rivelare qualcosa di profondo, interessante e oscuro. Davanti a quel cadavere, avvertì proprio questo genere di sensazione. Ma c'era anche dell'altro. Serena provava un dolore particolare ogni volta che doveva occuparsi dell'omicidio di una giovane donna. Era troppo facile ricordare la sua adolescenza a Phoenix e pensare che, se le cose avessero preso una direzione diversa, anche lei sarebbe potuta diventare un cadavere nudo abbandonato nel deserto. «Come ti chiami, tesoro?» mormorò Serena a bassa voce, fissando la ragazza. «A quanto pare, sono arrivati i rinforzi» l'avvertì Cordy indicando la strada, dove sopraggiungevano auto della polizia e ambulanze. «Dimmi che non ce ne staremo qui per cinque ore mentre loro rovistano sotto i sassi.» Serena scosse la testa. «No, faremo bloccare l'accesso alla scena del delitto e passeremo la palla a Neuss. Un pomeriggio al sole gli farà bene. Parleremo con il medico legale per vedere se ha notato qualcosa che a me è sfuggito, poi tu e io ce ne andremo a vedere se riusciamo a identificare questa ragazza.» «Ti dispiacerebbe dirmi come pensi di identificare un corpo che nessuno riconoscerà?» «Per prima cosa, tu ti occuperai di farci mandare via fax dal dipartimento tutte le denunce di persone scomparse nelle ultime due settimane.»
«Ah, le vuoi in un volume rilegato o su cd-rom?» «Ho detto due settimane, Cordy, non due anni. E comunque sarei sorpresa se riuscissimo a identificarla così.» «Perché?» «Sospetto che frequentasse ambienti dove scomparire non è un grosso problema» rispose Serena. «Capisco. E poi che cosa facciamo?» «Poi facciamo una visitina in qualche locale di strip-tease.» Cordy ululò. «Questo è pane per i miei denti, mama. Credi che lei fosse una spogliarellista? Spero che fosse più bella di com'è adesso. Se vedi una cosa del genere togliersi i vestiti, mi sa che torni a casa dalla moglie per sempre.» «Piantala, Cordy.» «Okay, ma mi sfugge qualcosa. Che elementi hai per ritenere che fosse una spogliarellista o una ballerina di lap dance?» Serena scrollò le spalle. «Ha le tette rifatte. Per questo non si sono avvizzite sotto il sole. Il pube è depilato, tranne che per una strisciolina verticale di pelo. Ci sono resti di brillantini sul petto e sulle cosce e un piccolo cuore tatuato sul seno sinistro. Mettendo insieme il tutto, ne emerge una ragazza che si contorceva intorno a una pertica di ottone.» «Bene. Questo restringe l'area di ricerca a circa quattrocento locali. Senza parlare dei servizi su richiesta.» «Ho detto spogliarellista, non prostituta. Le puttane non si preoccupano di mettersi i brillantini, tesoro, né di gonfiarsi le tette. Quelle sono cose che servono a fare spettacolo. Cominceremo con i locali più noti, sperando che lei fosse abbastanza in gamba da lavorare in uno di questi.» Cordy sorrise. «Il capo sei tu e, se mi ordini di passare la giornata a parlare con belle donne che si spogliano nei locali, be', io obbedisco.» 35 Gli occhi di Serena si adattarono lentamente alla penombra del club. L'aria era fumosa e vagamente profumata. Da altoparlanti nascosti usciva una musica rock a tutto volume, che faceva vibrare il pavimento. Le pareti dell'angusto atrio erano rivestite di legno scuro. Una porta rossa imbottita immetteva nel locale e accanto alla porta c'era un podio sopra il quale era appeso un dipinto erotico cinese. Appena lei e Cordy entrarono, un gigante in abito grigio emerse dalla porta rossa e si avvicinò a loro sorridendo. A-
veva i capelli biondi e ricci e folti baffi. Gettò a Cordy un'occhiata priva di interesse e squadrò Serena da capo a piedi. «Per te ingresso gratuito, dolcezza. Per Dudley Moore, qui, sono ventiquattro dollari e novantacinque.» Il gorilla sorrise a Cordy e a Serena sembrò di vedere il fumo uscire dalle orecchie del collega. «Non siamo clienti» disse lei, mostrando il distintivo. «Siamo della polizia. Stiamo indagando su un omicidio.» Il sorriso svanì, sostituito da un'espressione fredda e indifferente. «Chi è stato ucciso?» chiese l'uomo, stringendosi nelle larghe spalle. «È quello che stiamo cercando di scoprire. Si tratta di una donna senza nome, trovata nel deserto con la testa sfondata. Pensiamo che lavorasse in un club come questo.» Cordy estrasse dalla giacca una foto e la mise sotto gli occhi di Superman. «Riconosce questa ragazza?» Serena vide l'uomo impallidire leggermente e i suoi lineamenti tendersi in una smorfia involontaria. «E quando lavorava? negli anni Quaranta?» «Se le capita di stendersi nudo al sole nel deserto per alcune ore, usi una crema protettiva» ironizzò Serena. «La riconosce?» «No.» «Qualcuna delle vostre ragazze è scomparsa ultimamente?» L'uomo scoppiò in una risata tonante. «Volete scherzare? Le ragazze qui vanno e vengono, ogni settimana, ogni giorno. Questo non è esattamente il genere di lavoro in cui si fa carriera, sapete?» «Parliamo di questi ultimi giorni» puntualizzò Serena. Detestava gli uomini come quello che aveva davanti, sfruttatori che usavano le ragazze e poi le ributtavano sulla strada una volta che avevano perso valore. «La risposta è no.» «Avete avuto qui una ragazza con un cuore tatuato sul seno sinistro?» «Un cuore? Abbiamo draghi, gattini, ritratti di boy-friend, filo spinato, girasoli e Dwight Yoakam, il cantante country. Niente cuori.» «Ne è certo?» L'uomo sorrise. «Li ho visti tutti.» «Non le dispiace se facciamo quattro chiacchiere con le ragazze, vero?» «Avete un mandato?» «Non abbiamo bisogno di un mandato per parlare» rispose Serena.
«D'altra parte, se dovessimo tornare con un mandato e ci capitasse di scoprire qui dentro droghe di qualsiasi genere...» «Sbrigatevi» disse l'uomo, con un'espressione dura. «Ah, alcune delle ragazze sembrano molto giovani, ma sono tutte sopra i diciott'anni. Ho controllato i loro documenti.» «Certo» disse Serena. A sedici anni lei entrava nei club senza problemi, con una carta d'identità falsa. Quelli erano tempi brutti. Spinsero la porta rossa e si trovarono dentro il locale. Era quasi identico agli altri sette che avevano già visitato. La musica era assordante. Una larga passerella, con una serie di lucide pertiche che arrivavano fino al soffitto, occupava il centro della sala. Tutt'intorno c'erano stretti banchi con sgabelli squadrati. L'azione principale si svolgeva sulla passerella, ma c'erano anche tre palchi più bassi, circondati da panche. Lungo le pareti erano sistemati dei séparé foderati di velluto. Il resto della sala era pieno di tavoli e tavolini da cocktail. L'aria puzzava di birra e di ferormoni e in tutto il locale aleggiava una nuvola di fumo. Serena contò una trentina di persone che andavano dagli studenti in Tshirt ai vecchi signori in abito scuro, con in mezzo un assortimento di ubriachi e pervertiti. Alcuni urlavano e cercavano di avvicinarsi alle ragazze e di toccarle fino a dove potevano senza farsi buttare fuori dal club. Altri erano seduti a bocca aperta, con un sorriso ebete sul volto. Altri ancora sorseggiavano bevande e fissavano lo spettacolo con gli occhi socchiusi. Erano quelli di cui avere paura, quelli che non tradivano alcuna emozione. Serena provò la stessa sensazione di claustrofobia che l'aveva assalita negli altri locali. Involontariamente abbassò lo sguardo, aspettandosi quasi di vedere il proprio corpo esposto, e si chiese come sarebbe stato scambiare il posto con le ragazze in passerella. A parte un paio di cameriere, lei era l'unica donna lì dentro che indossasse qualcosa di più delle mutandine. Non c'era da stupirsi che non attirasse l'attenzione, se non fosse stato per qualche uomo che le indirizzò lo stesso sguardo lascivo riservato alle ragazze nude sulla passerella. Serena provò un'ondata di nausea. Scrutò i volti delle ragazze, cercando di vedere oltre i loro sorrisi finti. Avevano l'età scritta in fronte. Più erano truccate, più cose avevano da nascondere. Nella penombra del club funzionava, anche perché non erano certo le loro facce ciò che interessava alla maggior parte degli uomini. Ma Serena poteva guardarle negli occhi e leggere i loro segreti. Quello era un locale di alto livello, con ragazze giovani, non ancora consumate dall'alcol
e dalle droghe. Una ragazza lì poteva ancora sognare di diventare ricca, come Jenna Jameson. Ma Serena aveva visto troppe facce distrutte su corpi ancora giovani. Poi anche il corpo cedeva e cominciava la spirale discendente. Si ricordò di quando era arrivata in città con un'amica, anche lei sedicenne, in fuga da Phoenix e aveva trovato lavoro in un casinò. L'amica invece era finita in un locale di lap dance, dove aveva cercato di trascinare anche lei, perché si guadagnava di più. Ma Serena aveva già visto troppi uomini nella sua vita e aveva rifiutato. L'amica aveva affittato un bell'appartamentino, aveva fatto un paio di film porno, poi aveva preso l'AIDS ed era morta in modo orrendo a ventidue anni. A volte Serena si sentiva in colpa per essere sopravvissuta. Da uno dei palchi bassi si levò un'ondata di fischi e urla. Serena e Cordy si avvicinarono e videro che da un buco al centro del palco erano apparse un paio di braccia nere, che si muovevano in modo sensuale a ritmo di musica. La ragazza emerse lentamente, a mano a mano che la piattaforma mobile saliva da sotto il palco. Dopo le braccia, apparve un viso perfetto seguito da un corpo statuario. La ragazza doveva avere appena diciotto anni ed era bellissima. Una novellina, come Serena capì al primo sguardo. Era ancora, in qualche modo, eccitata dal fascino ipnotico che esercitava sugli uomini, dai loro gemiti rochi. Si divertiva e gli uomini lo capivano. Non c'era niente di meglio di una ragazza che cercava davvero di farli arrapare, senza limitarsi a una serie di movimenti meccanici. Tutti i presenti apprezzavano la differenza. Qualcuno gridò: «Lavender!». La ragazza si voltò verso l'uomo che aveva gridato e gli sorrise con le labbra carnose, strizzandogli l'occhio, senza smettere di danzare. Ormai era emersa quasi del tutto dal buco. Indossava un corsetto rosso che conteneva a fatica i seni e un perizoma. L'addome piatto era nudo. Le gambe, lunghe e lisce, erano ulteriormente slanciate da tacchi a spillo color rosso sangue. «Tira dentro la lingua e chiudi la bocca» disse Serena a Cordy. «È difficile, mama, è molto difficile» sussurrò lui. Cordy osservava ipnotizzato la ragazza che slacciava i bottoni del corsetto uno alla volta, scoprendo il seno prosperoso. «Che cosa c'è, Cordy? Credevo che a te le donne piacessero basse e bionde.» «Una buona salsa è fatta con molti tipi di peperoncino» rispose Cordy. «E questo che cos'è, un proverbio messicano?»
«No, è la mia nuova filosofia di vita.» Lavender esibì i suoi giganteschi capezzoli, duri come proiettili, poi si portò le mani a coppa sui seni e dalla folla si levò un urlo. «Avanti, dongiovanni, andiamo dietro le quinte.» Serena trascinò quasi a forza Cordy nel retro del locale, dove c'era un'altra porta imbottita, con la scritta "Ingresso consentito solo al personale". Davanti alla porta stazionava un nero enorme, con lo sguardo cattivo. Serena gli spiegò che dovevano parlare con le ragazze e lui fissò a lungo i loro distintivi, prima di farsi da parte. Mentre passavano, Cordy disse all'uomo: «Chissà se le ragazze strilleranno, vedendo un uomo negli spogliatoi». Serena rise. Il nero no. Scesero una rampa di scale ed entrarono nello spogliatoio, che era un alveare di attività, pieno di ragazze in diversi stadi di nudità. Alcune si stavano sistemando i seni dentro costumi attillati e si preparavano a entrare in scena. Altre erano intente a truccarsi davanti a specchi illuminati. Tre che avevano finito il turno si stavano rivestendo per andare via. Una di loro rivolse a Cordy un sorriso invitante, che lui si affrettò a ricambiare. Serena cominciò da queste ultime. Una era già vestita, la seconda era in reggiseno nero e jeans e la terza, una rossa naturale, era completamente nuda. «Vorremmo rivolgervi qualche domanda» disse Serena. Le ragazze, che stavano ridendo e chiacchierando animatamente, zittirono di colpo. Una di loro manifestò la propria indifferenza con una scrollata di spalle. La rossa si girò in modo da esibire completamente il proprio corpo nudo, fino al ciuffetto di peli tra le gambe, poi fissò Cordy e sorrise, sfidandolo a guardarla nel punto proibito. Lui resistette, ma era evidente che si trattava di uno sforzo immane. Serena spiegò il motivo della loro presenza lì e fornì una descrizione sommaria della ragazza morta, citando il cuore tatuato sul seno. Quando sentirono la parola "omicidio", le ragazze cambiarono atteggiamento. Esercitavano un'attività che attirava parecchi maniaci e pervertiti e ogni volta che una di loro ci lasciava la pelle, si chiedevano chi fosse stato e se loro sarebbero state le prossime della lista. «Allora» disse Serena «la conoscete?» Le tre si scambiarono un'occhiata. «Qui le ragazze vanno e vengono» rispose la rossa, accarezzandosi un seno. «Voglio dire, quella descrizione si adatta ad almeno un centinaio di
ragazze che lavorano in club come questo.» «Avete mai visto quel tatuaggio?» Tutte e tre scossero la testa. Era stata la stessa storia tutto il giorno. Le ragazze vanno e vengono, nessuno ci fa troppo caso e tante sono giovani e si tingono i capelli. Serena e Cordy interrogarono brevemente le altre ragazze presenti nello spogliatoio, ricevendo risposte dello stesso tipo. Stavano per andarsene, quando Cordy indicò la piattaforma mobile che scendeva dal palco, con sopra Lavender in equilibrio per non cadere. La ragazza aspettò di arrivare al livello del pavimento, scese e la piattaforma risalì di nuovo. Lavender era completamente nuda, tranne che per un laccio intorno alla vita, dove erano infilate numerose banconote, e per le scarpe con i tacchi a spillo. Attraversò la stanza, facendo ballonzolare i seni, si fermò davanti a un distributore automatico di bibite, estrasse un dollaro dal laccio e prese una Diet-Coke. Stappò la lattina, bevve un lungo sorso e, solo allora, sembrò accorgersi di Cordy e Serena. «Che cosa volete, voi due?» chiese. «Sono della polizia» le spiegò la rossa, che nel frattempo si era vestita. Ora indossava un top attillato e pantaloni di pelle. «Stanno cercando una ragazza scomparsa.» «Noi siamo tutte scomparse» disse Lavender. Cordy non finse di non guardarla, anzi, incrociò il suo sguardo, poi lentamente abbassò gli occhi sul suo corpo nudo, soffermandosi sui punti più interessanti. Lavender sorrise, divertita. «Gli altri pagano per vedere. Credi che per i poliziotti sia gratis?» «Se ti lasci invitare a cena, non sarà gratis» rispose Cordy. «Che ne dici?» Serena alzò gli occhi al cielo. Lavender rise. «Vedo che hai le palle. Hai anche un uccello, per caso?» «C'è solo un modo per scoprirlo» rispose Cordy. Lavender guardò Serena. «Voi non siete una coppia, vero? A me non piacciono le storie a tre.» «Siamo solo colleghi di lavoro» disse Serena, dando una gomitata a Cordy. «E dopo oggi forse non lo saremo più.» «Come ti chiami?» chiese Lavender a Cordy. Serena capì che la ragazza mostrava interesse per lui. Era strano vedere all'opera il fascino magnetico di Cordy. Lei non lo avvertiva, ma molte altre donne evidentemente sì. «Chiamami Cordy.»
«Sono un bel po' più alta di te, Cordy. Non vorrei farti del male per sbaglio.» La ragazza sorrise. «Non preoccuparti, quando sarai legata non potrai fare del male a nessuno» scherzò Cordy. «Va bene, ora basta, ragazzi» intervenne Serena. «No mas, Cordy, capito?» «Venerdì sera?» continuò Cordy, come se nulla fosse. Lavender si strinse nelle spalle, a mo' di tacito assenso. «Okay, passa a prendermi qui alle otto. Abbiamo sei ore, prima del mio turno successivo.» Serena sospirò. «Molto romantico. Nel frattempo, noi stiamo cercando di scoprire chi è la ragazza morta.» «Le ragazze qui vanno e vengono» disse Lavender. «Lo so. Questa era alta circa un metro e sessantotto, capelli neri tinti di biondo, tra i diciassette e i venticinque anni. Dev'essere scomparsa qualche giorno fa.» «Potrebbe essere chiunque» decretò Lavender. Cordy allungò un dito a sfiorare il capezzolo sinistro di Lavender. «Aveva un cuore tatuato proprio qui.» Il ragazzo ci sapeva indubbiamente fare. A volte Serena si sentiva una specie di robot, che osservava tutto il sesso che ribolliva in città senza provare alcuna voglia di partecipare. Sapeva che gli altri poliziotti la chiamavano Barb, abbreviazione non di Barbara, ma di barbed wire, filo spinato. La ragazza con un recinto intorno e un cartello di divieto d'accesso. Serena sapeva che era colpa sua. Ogni volta che le piaceva un uomo, riusciva solo a ferirlo. Invidiava a Cordy la sua disinvoltura. Faceva sembrare tutto semplice. «Un cuore?» disse piano Lavender. Serena le lesse nello sguardo e, per la prima volta da quando avevano cominciato la ricerca, sentì le pulsazioni accelerare. «La conoscevi?» chiese. Lavender si morse il labbro inferiore. «Forse. Nell'ultimo club dove ho lavorato c'era una ragazza con un tatuaggio del genere. Anche la descrizione fisica corrisponde.» «Come si chiamava?» «Christi. Christi Katt. Ovviamente è un nome falso. Neppure io mi chiamo Lavender.» «E qual era il locale?» chiese Cordy. «Il Thrill Palace. Sulla Boulder.»
Serena lo conosceva. «Sai dove abitava la ragazza?» «Aveva un miniappartamento in un residence dalle parti dell'aeroporto. Aspetta, come si chiamava? Ah, sì. Vagabond Apartments. Credo che affittino a settimana, se non addirittura a giornata.» «Che cosa ricordi di lei?» «Non molto. Parlava poco. Veniva, faceva il suo numero, se ne andava. Noi ragazze tendiamo a fare gruppo, lei invece se ne stava per i fatti suoi.» «Quando l'hai vista per l'ultima volta?» chiese Serena. «Quando ho lasciato quel club» rispose lei. «Circa un mese fa.» Cordy estrasse con riluttanza la foto dalla tasca. «Potrebbe essere lei?» Lavender le lanciò appena uno sguardo e chiuse gli occhi. Poi li riaprì e provò a guardare di nuovo. «Merda, che schifo! Nessuno merita di finire così. Nessuno.» «Ti sembra lei?» Lavender teneva gli occhi socchiusi. «Potrebbe essere. Non lo so. Come si fa a dirlo? Christi era davvero bella, niente a che vedere con questa... cosa. Merda, era sexy quasi quanto me. Se questa è lei... be'... merda» disse scuotendo la testa. «Grazie, Lavender» le disse Serena. «Ci sei stata di grande aiuto.» Cordy le strizzò l'occhio. «Gracias. Ti vedo venerdì.» «Tu mi hai già vista, furbetto» replicò la ragazza. «Venerdì sarò io a vedere te.» 36 Uscirono dalla I-15 all'altezza di Tropicana Avenue e si fermarono al semaforo rosso all'incrocio con Las Vegas Boulevard. Alla loro destra c'era il finto castello inglese dell'Excalibur Hotel e a sinistra la ricostruzione di Manhattan del New York-New York. Le barche in miniatura che circondavano una copia della Statua della Libertà spruzzavano getti d'acqua. Serena osservò le orde di turisti che uscivano dai locali nell'aria afosa della sera e si concedevano una pausa prima di tornare dentro a sperperare il loro denaro. Erano tutti accaldati e sudavano. Anche se il sole era già tramontato dietro le montagne, c'erano ancora almeno trenta gradi. Scattò il verde, partirono e svoltarono a sinistra all'altezza di Koval Lane. Poi girarono a destra e quasi immediatamente gli alberghi e i negozi eleganti lasciarono il posto a un quartiere sporco, fatto di casupole con le sbarre alle finestre. Era il quartiere multietnico della città, popolato da neri,
messicani, indiani e immigrati da una dozzina di altri Paesi, che lavoravano negli alberghi e nei casinò. Non era una zona particolarmente malsicura, a differenza di altre in cui avevano luogo la maggior parte dei crimini cittadini, le donne potevano ancora camminare sole per la strada e i bambini giocavano nel giardino davanti casa, stuzzicando gli scorpioni con bastoncini di legno. Poco meno di un chilometro più giù, trovarono il residence Vagabond Apartments. Era un edificio su due piani con decorazioni in stucco, che assomigliava a un motel. Gli appartamenti al pianterreno davano direttamente sul parcheggio, quelli al piano superiore si aprivano su uno stretto ballatoio con la ringhiera arrugginita. Tutte le finestre avevano le tende tirate e le porte scrostate erano chiuse da pesanti lucchetti. Per un momento, fissando quell'edificio, Serena si sentì riportata al tempo della sua adolescenza e all'appartamento di Phoenix e fu scossa da un brivido. Gli occhi spenti di sua madre, che la fissavano; la lucertola tatuata sul petto dell'uomo; l'acqua marrone della doccia: tutte immagini che le lampeggiarono come flash nella mente. Serena fece un respiro profondo e archiviò il passato. «Strano» disse. «Avrei pensato che la ragazza vivesse in un posto migliore di questo. Avrebbe potuto permetterselo, se lavorava al Thrill Palace.» A meno che fosse alcolizzata o tossicodipendente. «Forse si nascondeva» ipotizzò Cordy. Serena si strinse nelle spalle. «Troviamo il gestore.» L'appartamento più vicino, al pianterreno, fungeva da ufficio e la porta, che immetteva in un piccolo atrio pieno di cassette delle lettere, era aperta. Un uomo basso e pelato, in pantaloncini e a torso nudo, ne stava uscendo in quel momento, sfogliando la sua posta. Serena notò che sotto la pila di lettere, bollette e pubblicità teneva una copia di «Penthouse». L'uomo non alzò lo sguardo. Serena e Cordy entrarono nell'atrio dell'appartamento. Da un lato c'erano le cassette delle lettere, dall'altro distributori automatici di bibite e snack. In fondo c'era un bancone con un campanello e, dietro, una porta chiusa sulla quale era appeso un calendario di donne nude. Sul banco c'erano fogli sparsi del quotidiano locale e un piatto di carta con residui di cibo. Cordy premette il pulsante del campanello, che risuonò dietro la porta chiusa, ma nessuno si presentò a riceverli. Ci provò di nuovo, tenendo premuto il pulsante finché udirono un rumore di passi. La porta si aprì e ne uscì un ragazzo sui vent'anni, con orecchini a entrambe le orecchie, capelli lunghi e basettoni. Era alto, con il viso lungo e
foruncoloso e il mento sporgente. Come l'uomo che avevano incrociato prima, era in pantaloncini e a torso nudo. «Sì?» disse, con scarsa affabilità. Probabilmente non era solo, pensò Serena, udendo dei rumori nell'appartamento. «Vogliamo una suite, muchacho» disse Cordy. «Perché non ci fai vedere la piscina e i campi da tennis?» «Che cazzo volete?» Serena sorrise. «Gestisci tu questo posto?» «Sì, e allora?» «Siamo della polizia. Abita qui una donna di nome Christi Katt?» «Sì, e allora?» ripeté il ragazzo. «Allora è meglio che lasci perdere questo tono e ci dai la chiave del suo appartamento.» Cordy sorrise. «La piscina ce la mostrerai dopo.» «Molto divertente» disse il ragazzo. «Okay, appartamento 204. La ragazza sta qui da circa un anno, lavora nei locali e per le linee erotiche ed è molto più carina del resto dei nostri inquilini.» Poi si guardò nervosamente alle spalle, evidendentemente preoccupato che la persona dentro l'appartamento l'avesse sentito. «Quando è stata l'ultima volta che l'hai vista?» chiese Serena. «Non mi ricordo. Direi qualche giorno fa.» «Non negli ultimi due giorni, comunque.» «No.» Cordy si avvicinò alle cassette delle lettere e trovò la numero 204. «C'è un bel po' di posta, qui dentro.» «Be', e io che cos'ho detto? Forse in questi giorni è andata a stare da qualcuno.» «L'hai vista in compagnia di qualcuno, negli ultimi tempi? Un fidanzato, un'amica, chixanque.» Serena fissò il ragazzo negli occhi, cercando di scoprire se avrebbe mentito. «Se ne stava per i fatti suoi» rispose lui. «Nessuno è mai venuto a chiedere di lei?» «Solo voi.» «Che macchina ha?» «Una vecchia Chevy Cavalier rossa.» Serena lanciò un'occhiata a Cordy, il quale uscì e tornò pochi secondi dopo. «È qui» disse. «Hai notato se la macchina è entrata o uscita dal parcheggio, negli ultimi
giorni?» «Non ci ho fatto caso.» «Va bene, ora dacci la chiave dell'appartamento.» Il ragazzo esitò. «Non avete bisogno di un mandato, o roba del genere? Christi se la prenderà con me, se viene a sapere che vi ho fatti entrare così.» "Christi non se la prenderà più con nessuno" pensò Serena. Sorrise al giovane. «Dammi la chiave e non preoccuparti.» Lui si strinse nelle spalle e sparì nel retro dell'appartamento. Serena udì una voce femminile. Poco dopo il ragazzo ricomparve con in mano una chiave, legata con un elastico a un bastoncino. «Ricordatevi di restituirmela prima di andare via, capito?» disse, in tono duro. Poi tornò nell'appartamento, sbattendo la porta. «Diamo prima un'occhiata alla macchina» disse Serena. Uscirono e si diressero verso il parcheggio. La Cavalier rossa era parcheggiata sul lato della strada. Sbirciarono dentro, facendosi schermo con le mani. L'auto era chiusa a chiave e sembrava vuota. Non c'era neppure un pezzo di carta per terra o sui sedili. Christi Katt sembrava una ragazza ordinata. Serena vide una bambina indiana di circa otto anni, dai capelli lunghi e neri, che camminava verso l'ufficio con le mani dietro la schiena. Indossava un vestitino bianco con un colletto orlato di blu e un paio di infradito. Serena le fece segno di avvicinarsi. «Ciao» la salutò. «Sai di chi è questa macchina?» La bambina annuì. «Certo. Di una signora molto carina. Abita al piano di sopra.» «E in questi giorni l'hai vista?» chiese Cordy, sorridendo. «Sì, domenica. Lei stava andando al lavoro. Poi non l'ho più vista.» Era mercoledì sera. «Era con qualcuno, quando l'hai vista?» La bambina ci pensò su, poi scosse la testa in segno di diniego. «E non l'hai vista tornare?» «No, ma la notte sono uscita a guardare le stelle e l'auto era qui.» «Che ora era?» La bambina si strinse nelle spalle. «Tardi.» «E da allora l'auto è stata sempre qui?» «Sì.» «Grazie, tesoro.»
Serena e Cordy salirono le scale, cercando di evitare le cartacce sparse un po' dappertutto. Cordy bussò alla porta numero 204, ma non ottenne risposta. Lui e Serena si guardarono intorno sul ballatoio, per vedere se avevano attirato l'attenzione di qualcuno, ma il posto sembrava deserto. «Guanti» disse Serena. Cordy annuì ed estrasse dalla tasca della giacca un piccolo pacchetto, dal quale entrambi sfilarono un paio di guanti di lattice. «Sai che alcuni crepano per questi?» osservò Cordy. «Per i guanti?» «Allergia al lattice. È come per le noccioline. Può provocare le convulsioni.» «Forse è colpa del sale.» «Sui guanti?» «No, sulle noccioline. Apri quella fottuta porta, Cordy.» Cordy inserì la chiave nella serratura e la fece girare. Poi spinse la porta, che si aprì sull'appartamento buio. Entrò, trovò l'interruttore della luce e lo premette con la punta della chiave. Poi diede un'occhiata intorno a sé e disse: «Abbiamo fatto centro». Serena entrò a propria volta e vide subito la macchia rosso scuro, di circa sessanta centimetri di diametro, al centro della moquette. «Chiamo la Scientifica» disse Cordy estraendo il cellulare. Serena annuì. «Fai anche venire qualche agente in uniforme per interrogare i vicini. Dobbiamo sapere quando la ragazza è stata vista l'ultima volta, se era con qualcuno, chi frequentava eccetera. E quando avremo finito qui, andremo al Thrill Palace. Ah, dì alla centrale che facciano una ricerca al computer su Christi Katt. Chissà che non venga fuori qualcosa.» «Bene» approvò Cordy. Mentre lui era occupato al telefono, Serena diede un'occhiata all'appartamento. Era piccolo, con un soggiorno, dove era avvenuto l'omicidio, un minuscolo cucinino e una camera da letto visibile attraverso la porta aperta. Il mobilio era scarso e di poco valore, probabilmente comprato nei negozi dell'usato o nei grandi magazzini. C'erano un divanetto a due posti, un piccolo televisore, uno stereo portatile, un tavolo e alcune sedie scompagnate. La moquette grigia era consunta. Serena accese il suo registratore digitale. «L'appartamento è piuttosto spoglio, privo di oggetti personali. Niente fotografie, niente poster. Niente che possa dare un'idea della personalità della ragazza. Qui dentro non c'è una storia.» Poi passò nel cucinino. «Niente calamite sul frigo, quasi niente
cibo in dispensa, a parte qualche confezione di cereali, pasta e minestre in scatola. Sembra che la ragazza sia appena arrivata in questo appartamento, mentre il gestore dice che abita qui da un anno.» Serena notò sul lavello un pesante vaso di vetro, lavato e lasciato lì ad asciugare. Tornò in soggiorno e si mise a esaminare gli scaffali. «Trovato qualcosa?» chiese Cordy. «Forse. C'è un vaso sul lavello. Scommetto che si tratta dell'arma del delitto. Guarda, su questo scaffale c'è un cerchio nella polvere proprio delle dimensioni della base del vaso. Christi e il suo assassino sono qui, in piedi. Lei si volta, lui afferra il vaso e le spacca la testa.» «Mmm» disse Cordy. «Non ci sono segni di colluttazione. Secondo me uno: lei conosceva l'assassino; due: il delitto è nato da un impeto passionale. Rabbia. Soprattutto, gelosia.» «Su che cosa ti basi per dirlo?» Cordy si toccò una narice con il dito. «Ne sento l'odore.» Serena rise. «Certo. Ora va' ad annusare la stanza da letto. Vediamo se troviamo qualcosa lì.» La camera era una specie di scatola quadrata di tre metri e mezzo per lato. Sulla parete c'erano un armadio e la porta che immetteva nel bagno. Il letto matrimoniale occupava quasi tutto lo spazio, insieme a un comodino e un tavolino da trucco. Come nel resto dell'appartamento, le pareti erano spoglie. «Niente copriletto.» «Forse aveva caldo.» «O forse l'assassino l'ha usato per portare via il cadavere.» Serena entrò nel bagno. C'erano il water, un lavandino e la doccia con una tenda di plastica rosa. Non notò tracce visibili di sangue nel lavandino e nella doccia, ma quelli della Scientifica avrebbero condotto un'indagine più approfondita. Nell'armadietto sopra il lavandino trovò oggetti da toilette di vario genere, ma, con sua sorpresa, non vide anticoncezionali di alcun tipo. O gli uomini di Christi avevano con sé i preservativi, o la vita sessuale della ragazza doveva essere eccitante più o meno come quella di Serena. In camera da letto, Cordy stava esaminando il cassetto superiore del comodino. «Qualcosa di interessante?» chiese Serena. Cordy scosse la testa. «Non molto. Scatole di fiammiferi con la pubblicità di due locali di strip-tease. Potrebbero essere posti in cui lei ha lavorato e quindi sarà meglio controllarli. A parte questo, niente lettere, cartoline,
bigliettini d'amore, scontrini fiscali, estratti conto della carta di credito. Niente di niente. Questa Christi era una señorita molto riservata.» «I miei cassetti sono un vero casino» osservò Serena. «Dieci anni di stronzate. Frugandoci dentro qualcuno potrebbe scrivere la mia biografia.» «Niente del genere per Christi Katt, comunque. Non sappiamo neppure il suo vero nome.» «Continua a cercare. A proposito, hai trovato preservativi?» «Perché, sei rimasta senza?» Serena sospirò. «Cordy, come ti senti? Sembri pallido. Potrebbe essere l'allergia al lattice. Rispondimi, prima di cadere in preda alle convulsioni.» «Niente preservativi» disse Cordy, ridacchiando. Serena ispezionò l'armadio. Non ci volle molto. Sul pavimento c'erano alcune paia di scarpe con i tacchi alti e sugli appendiabiti camicette, gonne e abiti. Una mensola ospitava due pile di magliette e jeans. Frugando nelle tasche dei pantaloni, Serena trovò una certa quantità di spiccioli e gomme da masticare. Si girò, scuotendo la testa. «Questa ragazza è un vero mistero. Per caso, hai trovato un portafoglio, un mazzo di chiavi?» «Nada» rispose Cordy. «Questo è interessante. Dove sono, allora?» «Forse li ha presi l'assassino.» «Può essere» disse Serena. «Diciamo che Christi è in casa, con il portafoglio e le chiavi in tasca. L'assassino bussa e lei lo fa entrare. O lo conosce, o non se ne sente minacciata. Grave errore. I due parlano, forse litigano, lei gli volta le spalle e lui l'ammazza. Poi, siccome si tratta di un assassino pignolo, lava il vaso, elimina le impronte digitali (se siamo fortunati, non l'ha fatto, ma non ci scommetterei) e avvolge il cadavere nel copriletto, per non rischiare di lasciare tracce di sangue lungo il percorso. Aspetta finché fuori è buio, trasporta il cadavere nella sua macchina, si allontana e raggiunge il deserto, dove lo abbandona.» «Sì» disse Cordy. «Solo che il cadavere era nudo. Posso capire che l'assassino le abbia preso il portafoglio e le chiavi. Ma perché le ha tolto anche i vestiti? Forse è un necrofilo che ha voluto farsi un ultimo tango orizzontale con lei dopo averla uccisa?» «Non è da escludere. I pervertiti qui non mancano di certo. La Scientifica ci dirà se c'è stato un rapporto sessuale. Ma il fatto che la ragazza fosse spogliata fa pensare comunque che il sesso c'entri qualcosa. A meno che lei non fosse in compagnia di un ragazzo e si trovasse già nuda.»
«Ma qui non ci sono preservativi, giusto?» «Giusto. In pratica, non abbiamo nessuna traccia della vita di questa ragazza, e tuttavia qualcuno ce l'aveva con lei, tanto da ucciderla. Ottimo. Spero almeno che avesse qualche amico al Thrill Palace o in uno degli altri locali.» «Non scommetterci, mama» disse Cordy. «No, certo che no. Senti, controlla il tavolino da trucco, tanto per non tralasciare nulla. Io voglio dare un'altra occhiata al soggiorno, prima che arrivino gli altri.» Serena lasciò Cordy nella stanza da letto e ispezionò di nuovo l'appartamento, soffermandosi a controllare il pavimento e le pareti. Nel cucinino, guardò dentro il secchio della spazzatura sotto il lavello, trovandovi fondi di caffè, bucce d'arancia e una vecchia guida dei programmi televisivi. Nel soggiorno esaminò i cd accanto allo stereo portatile, aprendone le custodie una per una, senza trovare nulla di interessante, a parte il fatto curioso che Christi sembrava amare il jazz. Anche Serena aveva avuto una passione per il jazz, nei suoi primi anni a Las Vegas, poi era cresciuta e aveva cominciato ad apprezzare la musica country. Il jazz era per i guai. Il country era per la vita. Sentì Cordy emettere un fischio. «Che cosa c'è?» chiese. Cordy non rispose. Serena tornò nella stanza da letto e trovò il collega seduto a gambe incrociate sul pavimento. Il materasso era stato spostato e appoggiato a terra. Accanto a Cordy c'era una pila di giornali e lui ne stava leggendo uno, con lo sguardo ipnotizzato. «Avresti dovuto aspettare la Scientifica, prima di toccare quella roba» disse Serena. Poi si lasciò sopraffare dalla curiosità. «Hai trovato qualcosa di interessante?» Cordy posò a terra il giornale. «Da quanto tempo quel cadavere si trovava nel deserto, secondo te?» «Da alcuni giorni, perché?» «Perché se è così abbiamo un problema.» 37 Stride udì Andrea che scivolava fuori dal letto per andare al lavoro. Era martedì e dovevano essere le sei del mattino. Aprì gli occhi senza muover-
si e la vide, nella penombra della stanza, mentre si sfilava la camicia da notte e si toglieva le mutandine. Aveva messo su qualche chilo, in quei tre anni, ma era ancora attraente. «Ciao» la salutò Stride. «Ciao» rispose Andrea, senza guardarlo. «Puoi ripetermi come ti chiami?» Lei scosse la testa. «Non è divertente, Jon.» «Lo so. Scusa.» La sera prima, lui e Maggie avevano interrogato un indiziato per una faccenda collegata al traffico di droga gestito da una gang asiatica. Erano mesi che Stride rientrava a notte fonda. «Una telefonata ogni tanto mi farebbe piacere» disse Andrea. «Sono tre notti di fila che non so niente di te. Non ci sei mai, per me.» «Questo caso...» cominciò Stride. «Non voglio saperlo. Se non fosse questo, sarebbe un altro caso.» Stride annuì, senza rispondere. Andrea aveva ragione. Lui stava seguendo personalmente parti dell'indagine che avrebbe dovuto affidare ad altri. Perfino K2 se n'era accorto e gli aveva chiesto senza mezzi termini se stava cercando una scusa per non tornare a casa. Stride aveva risposto di no, ma non ne era affatto sicuro. «Come sta Denise?» chiese lui. «Mi sembra che non ci vediamo da allora.» «Infatti, è così. Non mi hai mai chiesto nulla. Ti interessa davvero? Non sai più niente di me, né di quello che faccio.» Andrea attese, con le mani sui fianchi. Stride non disse nulla. Lei si voltò e si infilò in bagno, chiudendo la porta. Stride sentì scorrere l'acqua della doccia. I problemi erano cominciati l'anno prima. Per due anni erano stati abbastanza bene insieme, evitando di parlare di quello che non andava tra loro. Ma poi i motivi di tensione erano venuti a galla, a cominciare dalla questione dei figli. Andrea ne voleva, Stride no. Si sentiva troppo vecchio per fare il papà. Quando i figli sarebbero stati abbastanza grandi da lasciare la famiglia, lui avrebbe avuto più di sessant'anni. Andrea, però, non aveva mollato. Diciotto mesi dopo il matrimonio, aveva smesso di prendere la pillola, con il consenso riluttante di Stride. Avevano fatto l'amore in qualunque momento, al punto che il sesso tra loro non aveva più nulla di romantico. Ma non era successo nulla. Stride aveva cercato di mostrarsi deluso, ma in realtà era sollevato. Sapeva che cosa pensava Andrea: se lei avesse fatto un figlio con il primo marito, lui forse
non l'avrebbe lasciata e la sua vita sarebbe stata perfetta. E adesso lei aveva paura di perdere anche Stride, se non fosse riuscita a rimanere incinta. Stride le aveva ripetuto che la cosa non aveva la minima importanza, ma Andrea aveva finito per assumere un'espressione triste che ormai le era rimasta impressa sul viso. Lei e Stride cominciavano a comportarsi come due estranei. L'acqua nella doccia smise di scorrere. La porta del bagno si aprì e Andrea comparve nuda e gocciolante sulla soglia. Si mordeva il labbro inferiore e, malgrado la penombra, Stride riuscì a vedere che aveva pianto. Si fissarono a lungo in silenzio. Fu come se lei gli avesse letto nel pensiero. «Dobbiamo parlare» disse. Stride sapeva che cosa stava per succedere. Lo avvertì nel tono della sua voce. Divorzio. Rimaneva solo da capire chi dei due avrebbe pronunciato per primo quella parola. «Mi dispiace» disse lei, piano. «Dovrei essere io a dirlo» ribatté Stride. Poi allargò le braccia e lei gli andò vicino. Stride l'abbracciò, nuda e bagnata com'era, e lesse l'ansia nei suoi occhi arrossati. Le prese il viso tra le mani ed entrambi cercarono di sorridere, per scacciare il dolore. La vicinanza del corpo nudo di Andrea suscitò in lui un'istintiva reazione. Si spostò, desiderando penetrarla, ma lei si voltò sul letto, tirandoselo sopra. Stride avrebbe voluto baciarla. Andrea girò il viso di lato, allargando allo stesso tempo le gambe e sollevando le ginocchia. Non si mosse, aspettando che lui la penetrasse. Il rapporto fu rapido e insoddisfacente. Quando tutto finì, restarono entrambi immobili per diversi minuti, l'uno sopra l'altra. Poi Stride sentì una leggera pressione delle mani di Andrea e seppe che doveva spostarsi. Rotolò di lato, lei gli diede un bacio leggero e si alzò in fretta, prima che lui potesse toccarla. Andò in bagno a lavarsi, si vestì e se ne andò, lasciandolo solo. Stride era nel pieno di un sogno inquietante quando squillò il telefono. Aprì gli occhi, guardò l'orologio e grugnì, mentre afferrava il ricevitore. Le nove e mezzo e lui avrebbe dovuto avere una riunione un'ora prima. «Va bene, sono in ritardo» mugugnò. «Denunciami, se vuoi.» Si aspettava una risposta sarcastica di Maggie. Invece, dopo un breve silenzio, udì una risata roca. «Sei il tenente Stride? Hai l'aria di esserti appena svegliato.»
Stride chiuse gli occhi. «È proprio così, infatti. E non ammetterò di essere Stride prima di essermi fatto un caffè. Perciò perché non facciamo finta che tu abbia sbagliato numero?» «Sarebbe un peccato. Una donna di nome Maggie mi ha detto che sei un mago del sesso telefonico.» Stride rise, confuso, ma anche intrigato. «Maggie non sa nulla della mia vita sessuale. Con chi sto parlando?» «Mi chiamo Serena Dial, del dipartimento della polizia metropolitana di Las Vegas. Ho delle notizie relative a un vecchio caso, tenente, ma non credo che ti piaceranno.» Las Vegas. Stride si destò di colpo. Erano passati tre anni, ma capì subito che si trattava di Rachel. Sentì il suo nome risuonargli nelle orecchie e rivide la ragazza in quell'incredibile fotografia. Dopo un lungo silenzio disse: «Immagino l'abbiate messa al sicuro in cella». «È al sicuro, ma all'obitorio.» «Rachel è morta?» Stride non poteva accettarlo. Si era sempre immaginato che, se qualcuno l'avesse chiamato da Las Vegas, sarebbe stato per dirgli che Rachel era ancora viva. A volte si era immaginato perfino che sarebbe stata lei stessa a chiamarlo. «È stata uccisa e lasciata nel deserto. So che questo ti causerà dei problemi.» Stride si chiese se non stesse ancora sognando. «Quando?» «Pochi giorni fa, per quello che ne sappiamo» rispose Serena. "Allora era davvero ancora viva" pensò Stride. Almeno fino a pochi giorni prima. «Sai come è successo? Chi l'ha uccisa?» «Non ancora» rispose Serena. «Ma se vieni a prendermi all'aeroporto questa sera, forse possiamo lavorarci insieme.» «Stai venendo qui?» «La pista conduce a Duluth, tenente.» 38 Maggie dichiarava apertamente a chiunque salisse in macchina con lei che il suo corpo non era fatto per guidare un fuoristrada. Era costretta a stare seduta su un elenco del telefono per riuscire a vedere oltre il volante e aveva dovuto mettere dei supporti ai pedali per riuscire a raggiungerli con i
piedi. Prima di sposare Eric Sorenson, due anni prima, Maggie aveva una piccola Geo Metro. Ma Eric, un ex campione olimpionico di nuoto, non riusciva a entrarci e così il primo acquisto dopo il matrimonio era stato una macchina in cui lui potesse stare seduto senza ritrovarsi le ginocchia in bocca. A Stride non piaceva girare in auto con Maggie. Lei non era mai stata molto abile nella guida e le modifiche di fortuna apportate a quel grosso fuoristrada per renderlo compatibile con la sua struttura fisica non aiutavano di certo. Inoltre Stride sospettava che lei guidasse con meno attenzione del solito quando era con lui, solo per fargli dispetto. Doveva trattenersi dal pigiare un freno immaginario o dal gridare ogni volta che sfioravano un ostacolo. Era giovedì sera. Il volo da Las Vegas, via Minneapolis, doveva atterrare di lì a mezz'ora circa. Mentre Maggie e Stride risalivano Miller Hill in direzione dell'aeroporto, l'aria che entrava dai finestrini aperti si fece più calda. Il semaforo davanti a loro divenne rosso. Maggie suonò il clacson e passò ugualmente, senza rallentare. «È stata viva in tutto questo dannato tempo» disse. «Archie Gale ci sguazzerà.» Stride annuì stancamente. «Dan non sarà affatto contento quando scoprirà di aver cercato di far condannare un uomo per un omicidio che non era stato commesso. Credo che la notizia non gioverà alla sua campagna elettorale.» «Gliel'hai già detto?» chiese Maggie. «Non ancora. Ho chiesto a K2 il permesso di aspettare fino a domani e Serena Dial si è dichiarata d'accordo. Terremo la notizia sotto chiave finché non potremo comunicarla a Emily.» Maggie aggrottò le sopracciglia. «Spero che Emily non crolli del tutto, sapendo che il marito era innocente.» «Innocente per quanto riguarda l'omicidio» precisò Stride. «Ma sono ancora convinto che Graeme andasse a letto con Rachel.» «La questione è: che cosa è successo davvero?» «Qualcuno deve aver aiutato Rachel a sparire» rispose Stride. «È impossibile che abbia lasciato la città da sola. Avremmo trovato le sue tracce. Forse qualcuno l'ha portata in macchina fino a Minneapolis. Lì Rachel si è travestita in qualche modo ed è salita su un pullman, mentre il suo accompagnatore tornava a Duluth e se ne stava zitto e buono.»
«E gli indizi trovati al granaio?» «Qui sta il problema. Rachel deve essere stata al granaio, quel venerdì sera.» Stride si passò la mano sul mento, fissando fuori dal finestrino una lunga fila di fast food e negozi di alcolici. «Vediamo un po'. Rachel quella sera torna a casa. Approfittando del fatto che Emily è fuori città, lei e Graeme vanno insieme al granaio, si sistemano nel retro del minivan e si danno da fare.» Maggie aggrottò la fronte. «Perché il granaio? Perché non in camera da letto, visto che non c'è nessuno in casa?» «Chi lo sa? Forse il granaio è il loro posto. Forse Graeme non le ha detto che cosa aveva in mente. In un modo o nell'altro, lui la porta lì. Ma qualcosa va storto. Forse stavolta Rachel lo respinge e a lui la cosa non piace. O forse fanno qualche gioco perverso con il coltello e a un certo punto Graeme perde il controllo. Rachel riesce a scendere dal minivan, Graeme le corre dietro. Lottano, lei perde il braccialetto e il maglione si strappa. Lui la riporta a forza nel minivan.» «E poi che cosa succede, visto che non l'ha uccisa?» chiese Maggie. «Non so. Forse Graeme torna in sé. Non si è mai spinto tanto in là e si spaventa. Oppure succede come con Sally. Arriva un'altra macchina e lui taglia la corda. Finge che sia stato un errore, riporta Rachel a casa e le chiede di dimenticare tutto.» Un'auto tagliò loro la strada. Maggie pigiò sul pedale del freno, poi si spostò sulla corsia di sinistra e sorpassò, lanciando al guidatore uno sguardo assassino. «Ma quando arrivano a casa» disse una volta rientrata sulla corsia di marcia «Rachel se la fa sotto dalla paura.» «Come me adesso» commentò Stride. «Senti, sei stato tu a insegnarmi a guidare così. Poi che cosa succede? Rachel è spaventata. Non ne può più di quel gioco.» «Allora chiama un amico e gli dice: "Portami via di qui". E scompare.» «Ma perché non ha preso la sua macchina?» chiese Maggie. «Perché non si è portata dietro dei vestiti?» Stride si morse un labbro. «Forse è in preda al panico. Forse non vuole essere trovata e sa che l'auto sarebbe una traccia. Non vuole restare in quella casa neppure il tempo necessario per fare i bagagli. Forse pensa che Graeme ci riproverà e non entra neppure in casa con lui.» Maggie uscì dalla strada principale e imboccò la statale per l'aeroporto. Accelerò e il cruscotto cominciò a vibrare. «Se tutto questo è vero, signifi-
ca che durante il processo qualcuno sapeva che Rachel era viva e non si è fatto avanti, pur sapendo che Graeme era innocente.» «È vero» ammise Stride. «Ma se Rachel gli aveva raccontato quel che era successo al granaio, forse questo qualcuno pensava che Graeme meritasse la condanna.» «E perché Graeme non ha spiegato come sono andate in realtà le cose?» Stride rise. «Scherzi? Se avesse ammesso di aver fatto sesso con la ragazza sarebbe stato fregato. Sono sicuro che Gale glielo aveva spiegato. Nessuno avrebbe creduto alla sua storia. Era molto meglio non dire una parola di quanto era successo.» «Va bene. Allora chi è l'amico misterioso?» «Non lo so» disse Stride. «Da quello che ho capito, Rachel non aveva amici. Almeno, non amici di cui si fidasse.» «A parte Kevin.» Stride annuì. «Sì, a parte Kevin. Ma non mi pare il tipo capace di starsene zitto e buono. Non è il mentitore incallito capace di recitare la commedia in tribunale.» «E Sally? Sappiamo che nascondeva qualcosa. E sappiamo pure che quella notte si è recata a casa di Rachel. Immagino che non le dispiacesse affatto l'idea che Rachel scomparisse per sempre e la smettesse di insidiare il suo Kevin.» «Questa è una teoria interessante» disse Stride. «Credi che dovremmo parlare con lei?» «Sì» rispose Stride. «Rachel non tornerà e Stoner neppure. Forse stavolta Sally dirà la verità.» Maggie svoltò in direzione dell'aeroporto e proseguì lungo la strada che portava al terminal. Una volta arrivata, parcheggiò e lei e Stride scesero, esponendo il contrassegno della polizia sul cruscotto. Entrarono nel terminal semideserto attraverso le porte girevoli e, mentre salivano al piano superiore, si immersero nell'ascolto della musica country diffusa dagli altoparlanti. Stride riconobbe la voce di Vince Gill. Avevano ancora un po' di tempo prima dell'arrivo di Serena e così Stride inserì un quarto di dollaro in un flipper dove una ragazza dal seno enorme puntava una pistola verso il giocatore, dicendo: «Colpiscimi!». Da ragazzo se la cavava piuttosto bene con quel gioco, ma evidentemente il flipper non rientrava tra le abilità che non si dimenticano, come andare in bicicletta o nuotare. Perse la prima palla quasi subito. La seconda rimbalzò un po' in alto, regalandogli qualche migliaio di punti, prima di scivolare lungo il
corridoio di sinistra. Con la terza palla Stride si lasciò prendere dal ritmo, muovendo i fianchi mentre spingeva i tasti. Maggie andò a prendere una Coca-Cola da un distributore automatico e poi rimase a guardare il collega giocare. «Questa poliziotta di Las Vegas crede che Rachel sia stata uccisa da qualcuno di Duluth?» Stride si strinse nelle spalle, senza distogliere lo sguardo dal flipper. «Ha detto solo che la pista conduce qui.» «Serena Dial» disse Maggie. «Al telefono sembrava sveglia. Scommetto che è anche bella.» «Che cosa te lo fa pensare?» «È di Las Vegas. Lì le donne sono tutte splendide.» «Mai stato a Las Vegas» commentò Stride. «Dovresti muoverti un po', capo.» «Be', la mia idea di vacanza è starmene da solo in una foresta e non in mezzo a migliaia di persone.» Si distrasse e quasi perse la palla, riuscendo a recuperarla all'ultimo secondo. «Da solo?» «Sai che cosa intendo.» Un rombo di motori risuonò nel terminal. Un aereo in atterraggio. Stride distolse lo sguardo un attimo per seguire una hostess di terra che si dirigeva verso l'uscita 1 e in quel momento di distrazione la pallina scivolò via. Partita terminata. Stride e Maggie si diressero verso l'area degli arrivi. «Come la riconosceremo?» chiese Maggie. «Tireremo a indovinare.» Riconoscere Serena non fu un problema. Tutti i suoi compagni di viaggio erano i tipici abitanti del Minnesota, vestiti in modo da confondersi con l'ambiente senza attirare l'attenzione. Serena Dial spiccava tra loro come un calice di cristallo in mezzo a una fila di bicchieri di carta. Capelli neri e lucidi, pantaloni di pelle azzurri che aderivano alle lunghe gambe come una seconda pelle. A mo' di cintura portava una specie di catena d'argento che le pendeva tra le gambe. Sopra i pantaloni indossava una Tshirt bianca corta, che lasciava scoperto l'addome piatto. L'impermeabile di pelle nera le arrivava alle caviglie. «Wow!» esclamò Maggie. Stride non ricordava di aver mai visto una donna più attraente. Pensò che se Rachel fosse sopravvissuta, sarebbe potuta diventare un tipo del ge-
nere. Serena si fermò e scrutò le persone in attesa da dietro le lenti ambrate degli occhiali da sole. Individuò immediatamente Stride e Maggie e si diresse verso di loro con un sorriso. Tutti gli sguardi erano puntati su di lei, ma lei sembrava non accorgersene. «Stride?» chiese. Con i tacchi era alta quasi quanto lui e lo guardò dritto negli occhi. «Sono io» confermò Stride, contraccambiando lo sguardo. «Questa è la mia collega, Maggie Bei, che racconta balle su di me al telefono.» «Maggie Sorenson» precisò Maggie. «Stride si dimentica spesso che sono sposata.» Poi, notando il modo in cui lui e Serena si guardavano, aggiunse: «E, a quanto pare, si dimentica di essere a propria volta sposato». Stride le scoccò un'occhiata cattiva e lei gli fece una linguaccia. «Mi piace la tua uniforme» osservò Maggie rivolta a Serena. «La indossano tutte le poliziotte di Las Vegas?» Serena si tolse gli occhiali da sole e squadrò Maggie da capo a piedi. Sorrise. «Solo quelle con le tette, dolcezza.» Maggie scoppiò a ridere. «Mi piace» disse, rivolta a Stride. Stride guardò di nuovo Serena, senza cercare di dissimulare il proprio interesse. Quando lei gli restituì lo sguardo, sentì una specie di scarica elettrica. «Adesso sei nel Minnesota, Serena» disse. «C'è un codice di abbigliamento.» «Intendi noioso?» «Esatto.» «Be', voi due non sembrate tanto noiosi» disse Serena. Maggie rise di nuovo. «Aspetta di conoscerci meglio.» Si avviarono alla scala mobile. Molte teste si girarono a guardare Serena. Stride e Maggie la seguivano a distanza di due passi. Maggie gli sussurrò: «Vuoi che vi lasci soli?». «Piantala» rispose Stride. Al pianterreno recuperarono la valigia di Serena, una Samsonite rigida dello stesso colore dei suoi pantaloni di pelle. Stride la caricò sul carrello, grugnendo per lo sforzo. «Cristo santo, ti sei portata dietro il cadavere?» Serena rise. «Oh, scusa, non è una prassi corretta qui?» Uscirono dal terminal. L'aria fuori era ancora calda, ma una brezza scendeva dalle colline. Serena si rimise gli occhiali da sole e fece un respiro profondo. «Che bello! Aria fresca. Sembra inverno.»
«Be', in inverno qui è un po' più fresco di così» osservò Stride. «Qualche decina di gradi in meno» aggiunse Maggie. Serena annuì. «Sì, ho cercato il Minnesota su internet e mi sono fatta l'idea che sia il frigorifero della nazione. Ma adesso è piacevole. Da noi ora ci sono più di quaranta gradi. Se volete sapere com'è l'aria a Las Vegas, accendete il forno e ficcateci dentro la testa per qualche minuto.» «Io mi sono sposata a Reno» disse Maggie. «Davvero? Mi piace Reno. Amo le montagne. Continuo a dirmi che un giorno me ne andrò dal deserto.» «Sei sposata?» chiese Maggie. Serena scosse la testa. «No.» Raggiunsero il fuoristrada di Maggie. Serena salì sul sedile posteriore e si sporse in avanti per chiacchierare. Stride avvertì il suo gomito sfiorargli il collo, sentì il suo profumo e notò che aveva l'alito dolce. Era un po' troppo consapevole di tutto ciò che riguardava quella donna e si sentiva a disagio. «Sei assolutamente certa che il cadavere che avete trovato nel deserto sia quello di Rachel Deese?» chiese Maggie. Serena annuì. «Direi proprio di sì. Le impronte digitali corrispondono a quelle che avete caricato sul vostro server. Inoltre un testimone ha identificato una sua foto presa dai giornali. Mi dispiace, so che questo vi mette in una situazione imbarazzante.» «Oh, ci siamo abituati» rise Maggie. «Lo sa qualcun altro, oltre a voi?» Stride scosse la testa. «Solo noi due e il nostro capo. Non voglio fughe di notizie. Vorrei prima avvisare la madre. Se raccontiamo la cosa in giro, in un batter d'occhio sarà sui giornali e in televisione.» «Già, immagino che qui sarà una notizia bomba. Ho letto i giornali. Un caso davvero strano. Se fossi stata al vostro posto, anch'io avrei pensato che era morta.» «Grazie» disse Stride. «In ogni modo» riprese Serena «dopo averlo detto alla madre credo che dovremmo riaprire il caso e interrogare di nuovo gli amici della ragazza e tutti i suoi conoscenti.» Stride si voltò, trovandosi a pochi centimetri di distanza dal viso di Serena. «E in che modo questo può contribuire a risolvere un caso di omicidio a Las Vegas?» Serena si tolse gli occhiali e Stride la guardò negli occhi verdi. Quando
l'aveva vista scendere dall'aereo, aveva pensato che fosse più giovane, mentre da vicino si rese conto che doveva avere più di trent'anni. Per lui era comunque giovane, ma gli piaceva la sensibilità matura che le si leggeva negli occhi. Serena sorrideva spesso, eppure nel suo sguardo Stride lesse anche una certa diffidenza. Si domandò se dipendesse dal fatto che anche Serena avvertiva quella sorta di magnetismo sessuale tra loro due. Si rese conto che lei non aveva risposto alla domanda. «Allora, Serena?» la sollecitò Maggie, lanciando a entrambi un'occhiata in tralice. «Immagino che conosciate la Range Bank» disse Serena. «Certo» rispose Stride. «Io ho il conto lì, come almeno metà degli abitanti di Duluth. Che cosa c'entra la Range?» Serena gli si fece ancora più vicina. «La Scientifica ha trovato nell'appartamento di Rachel un pezzo della ricevuta di un bancomat della Range Bank. Questo significa che Rachel è tornata qui di recente, oppure che ha ricevuto una visita da qualcuno di qui.» 39 Stride passò a prendere Serena al motel venerdì mattina poco dopo le nove. Bussò alla porta e lei venne ad aprire con i capelli umidi. Indossava un paio di jeans sbiaditi, una maglietta aderente blu scuro e stivali da cowboy. «Ciao, Stride» disse con un sorriso. «Entra, sono quasi pronta.» La doccia che lei aveva appena fatto aveva lasciato l'aria della stanza umida e profumata. Lo specchio accanto al televisore era ancora appannato. Stride vide la valigia aperta sul cassettone. Il letto matrimoniale occupava quasi tutto lo spazio disponibile. «Scusa per la stanza» disse. «L'estate qui è stagione turistica.» Serena scrollò le spalle. «Non c'è problema.» Si sedette sul bordo del letto per infilarsi dei minuscoli orecchini d'argento. Le dita sembravano accarezzare le orecchie. Stride non riusciva a distogliere gli occhi da lei. Serena se ne accorse, alzò lo sguardo e dopo un lungo momento lo abbassò di nuovo, nervosa. «Ho telefonato alla madre di Rachel» riferì Stride, per rompere il silenzio. «Possiamo passare da lei prima.» «Le hai già detto il motivo della visita?» Stride scosse la testa. «No, le ho detto solo che volevo parlarle. Ma cre-
do che sospetti qualcosa.» Serena si alzò. Erano così vicini che Stride sentì una gran voglia di baciarla. «Meglio andare» disse. Uscirono e salirono sul Bronco di Stride. I sedili erano mezzo sfondati, il cruscotto era pieno di Post-it con appunti relativi a varie indagini. Nell'apposito sostegno c'era un bicchiere di carta con un avanzo di caffè e sul pavimento erano sparpagliati fogli del quotidiano di Duluth. Serena notò l'imbarazzo di Stride e sorrise. «Non preoccuparti, mi piacciono le macchine con l'aria vissuta. Da quanto è lì quel caffè?» «Da troppo tempo.» «C'è uno Starbucks da queste parti?» «Non ancora. Il massimo che abbiamo è McDonald's. Vuoi che ci passiamo?» «Sì, grazie.» Presero due caffè fumanti e Stride buttò via il bicchiere con l'avanzo. Serena sorseggiava il suo caffè con un gomito fuori dal finestrino. La brezza le scompigliava i capelli. Stride ogni tanto si voltava a guardarla e un paio di volte lei contraccambiò lo sguardo. Non parlarono molto. Banchi di nebbia riducevano la visibilità lungo la strada e Stride dovette accendere i fari per riuscire a procedere. In cima alla collina, vide Serena protendersi per cogliere gli scorci di lago visibili attraverso la foschia. «Incredibile!» esclamò. «Quando vivi nel deserto per molto tempo, ti dimentichi dell'acqua e degli alberi.» «Mai stato nel deserto» disse Stride. «Dovresti andarci, una volta. È bello, a modo suo.» «Tu sei di Las Vegas?» chiese Stride. «No, di Phoenix.» Gli occhi verdi di Serena si fecero distanti e Stride capì di aver toccato un nervo scoperto. «Mi sono trasferita a Las Vegas a sedici anni» continuò lei. «Con un'amica.» Stride si chiese da che cosa scappasse, ma Serena non diede altre spiegazioni. Si diressero a sud, verso il quartiere in cui vivevano Emily e Dayton Tenby. Si erano sposati mentre lei era ancora in prigione. Emily era stata rilasciata con la condizionale sei mesi prima. «Sto congelando» disse Serena, sfregandosi le braccia. «Ho un maglione nel bagagliaio. Se vuoi, posso prestartelo.» Serena annuì. «Fumi? Qui c'è odore di sigarette.»
«Fumavo» rispose Stride. «Ho smesso l'anno scorso. Ma l'odore è rimasto.» «È stato difficile smettere?» Stride annuì. «Sì, ma ho visto un collega morire di cancro. Aveva solo una decina d'anni più di me. Questo mi ha spaventato abbastanza da indurmi a trovare la forza di smettere.» «Buon per te» disse Serena. Stride trovò la casa di Dayton ed Emily senza difficoltà. Parcheggiò, scese e prese un maglione color ruggine dal bagagliaio. Serena se lo infilò e rimboccò le maniche, lasciando scoperti gli avambracci. «Grazie» disse, sfiorandogli un braccio. Quando suonarono il campanello, Emily venne ad aprire subito. Stride si sarebbe aspettato che la prigione l'avesse invecchiata e invece constatò che sembrava più giovane che all'epoca del processo. Il trucco era curato e gli occhi azzurri avevano perso quell'aspetto spento ed erano di nuovo brillanti. Indossava un paio di pantaloni marroni e una camicetta di cotone bianca. «Buongiorno, tenente» disse. «È passato molto tempo dall'ultima volta.» «Sì. Ha un bell'aspetto, signora Tenby.» «Mi chiami Emily, per favore.» «Certo. Le presento Serena Dial, del dipartimento della polizia metropolitana di Las Vegas.» Emily inarcò le sopracciglia. «Las Vegas?» Serena annuì ed Emily assunse un'espressione preoccupata. Poi li invitò a entrare. «Dayton è in soggiorno. Mi dispiace che non siate riusciti a trovarci, ieri sera. Abbiamo sentito il vostro messaggio quando siamo tornati, ma era tardi. L'aereo è atterrato con due ore di ritardo.» «Eravate in vacanza?» «In parte vacanza, in parte lavoro, almeno per Dayton. C'era un convegno nazionale della nostra Chiesa a San Antonio, sul lungofiume. Ci siamo presi qualche giorno in più e siamo stati via tutta la settimana.» Li condusse in soggiorno. Dayton Tenby si alzò dal divano e venne a stringere loro la mano. Aveva perso quasi tutti i capelli e i pochi che restavano erano completamente grigi. Era anche ingrassato abbastanza da perdere l'aria macilenta che aveva quando Stride l'aveva conosciuto. Indossava pantaloni con la piega, camicia bianca e gilè nero. Emily e Dayton si sedettero su un piccolo sofà, mano nella mano. Stride
e Serena si accomodarono di fronte a loro, sul divano. Stride notò che il matrimonio aveva fatto bene a entrambi. Malgrado i dieci anni di età che li separavano, sembravano felici. «Ci tengo a dirle, tenente» disse Emily «che non mi pento di ciò che ho fatto. Sto pagando il mio debito con la società, ma se dovessi rifarlo, lo rifarei.» Stride esitò un attimo, prima di dire: «Capisco». «Immagino che non siate qui per una visita di cortesia» intervenne Dayton. «Di certo avete qualche notizia da darci.» «È vero» confermò Stride. «E si tratta di una notizia che potrebbe sconvolgervi.» «L'avete trovata» disse Emily. «Sì, ma non nelle circostanze che forse lei si aspetta. All'inizio di questa settimana Serena Dial è stata chiamata nel deserto appena fuori Las Vegas, dove era stato trovato il corpo di una ragazza. Si tratta di Rachel, temo.» Stride fece una pausa, poi continuò: «Era morta solo da alcuni giorni. A quanto pare, Rachel era davvero viva, negli ultimi tre anni». «Viva?» sussurrò Emily, spalancando gli occhi. «Per tutto questo tempo?» Stride la vide stringere forte la mano di Dayton e poi appoggiargli la testa sulla spalla, chiudendo gli occhi. «Com'è morta?» chiese Dayton. «È stata assassinata» rispose Serena. «Mi dispiace.» Dayton scosse la testa. «Oh, no.» Emily si raddrizzò, sfregandosi gli occhi. Prese un fazzoletto di carta da una scatola sul tavolino e si soffiò il naso, facendo del suo meglio per ricomporsi. «Mi state dicendo che Graeme non aveva ucciso mia figlia?» «Sì» rispose Stride. «Oh, mio Dio» mormorò lei, voltandosi verso Dayton. «Io l'ho ucciso e lui non era colpevole. Rachel era viva.» «Non l'aveva assassinata, ma questo non significa che fosse innocente» commentò Dayton. «Lo so. Ma chissà che risate dev'essersi fatta Rachel, ovunque si trovasse. Mi ha ingannata, spingendomi a uccidere Graeme.» «Avete idea di che cosa sia successo?» chiese Dayton. «Chi l'ha uccisa?» «Stiamo ancora indagando» rispose Serena. «So che questo è un momento difficile per voi, ma devo chiedervelo: avevate un motivo qualun-
que per credere che Rachel fosse ancora viva? Ha mai cercato di contattarvi?» Dayton ed Emily guardarono Stride. «Solo la cartolina che lei ci ha mostrato» disse Dayton. Stride raccontò a Serena della cartolina da Las Vegas che aveva ricevuto poco dopo la fine del processo. «Avete seguito la pista?» chiese Serena. «Fin dove potevamo. Niente impronte sulla cartolina, niente tracce di DNA sul francobollo. Ho contattato la polizia di Las Vegas, chiedendo se potevano fare qualche indagine, ma non mi sono sembrati molto inclini a usare le loro risorse per cercare una diciottenne scappata di casa, che poteva essere morta, oppure no, e poteva trovarsi a Las Vegas, oppure no.» «Probabilmente anch'io avrei fatto lo stesso» disse Serena. «Io ho fatto delle indagini, invece» annunciò Dayton. Stride e Serena lo fissarono, sorpresi. Dayton lanciò un'occhiata a Emily per chiederle il permesso di parlare e lei annuì. «Quella cartolina mi è sembrata uno scherzo tipico di Rachel. Un modo di prenderci in giro. Mi sono convinto che fosse viva. Emily era in prigione e non volevo che la pista si raffreddasse. Così sono andato a cercarla.» «A Las Vegas?» chiese Stride. «Sì, per una settimana. Quando lei mi ha detto che la polizia del luogo non cooperava, ho deciso di fare un tentativo da solo. Per Emily. Lei meritava di sapere la verità.» «Come si è mosso?» chiese Serena. «So che a voi sembrerà ingenuo» disse Dayton. «Ho preso una foto di Rachel e ho fatto il giro di tutti i casinò, chiedendo ai sorveglianti se qualcuno l'aveva vista. Supponevo che lavorasse in una casa da gioco. Ho girato tutta la città e anche i dintorni.» «E l'ha trovata?» chiese Stride. Dayton scosse la testa. «No. Non c'era traccia di lei. Nessuno l'aveva vista. Dopo una settimana ho cominciato a pensare che forse era tutto un errore e che a spedire la cartolina non fosse stata Rachel.» «È mai più tornato a Las Vegas, in seguito?» chiese Serena. «No.» «Dopo di allora, avete avuto qualche altro motivo di pensare che Rachel fosse viva?» chiese Stride, guardandoli entrambi negli occhi. «Comunicazioni di qualunque tipo, telefonate...» «Niente di niente» disse Emily. «A dire la verità io, a differenza di Da-
yton, non ho mai creduto che fosse viva.» «Perché?» chiese Serena. Un sorriso ironico apparve sulle labbra di Emily. «Ero convinta che, se Rachel fosse stata viva, avrebbe trovato un modo per gettarmi in faccia il fatto che mi trovavo in prigione.» Stride annuì. «È giunto il momento di ringraziarvi e di togliere il disturbo.» Si alzò e Serena fece altrettanto. «Come dobbiamo fare per riavere il corpo di Rachel?» chiese Dayton. «Farò in modo che qualcuno vi chiami» rispose Serena. «Non subito, però. Si tratta di omicidio e c'è un'indagine in corso. Ma lasciate che vi dia un consiglio. Quando il corpo di Rachel arriverà, sarà meglio che non lo guardiate. È stato abbandonato nel deserto e il deserto non tratta bene i resti umani.» Emily deglutì. «Capisco.» Si strinsero la mano e Dayton li accompagnò alla porta. Serena fece un sorriso di comprensione. «Mi dispiace tanto per la brutta notizia. Spero che almeno la vostra vacanza sia andata bene.» Dayton esitò prima di rispondere. «Oh, certo, grazie.» «Mi piace molto il lungofiume di San Antonio» continuò Serena. «Dove avete alloggiato?» «Il convegno era allo Hyatt.» «E avete avuto la possibilità di dare un'occhiata anche ai dintorni della città?» «No, abbiamo visitato solo l'Alamo e cose del genere.» «Capisco» disse Serena. Mentre si voltava per uscire Dayton le toccò una spalla. «Posso chiederle un'ultima cosa?» Serena annuì. «Sapete che cosa faceva Rachel? Dove lavorava, voglio dire. Penso che, forse, se avessi cercato un po' più a fondo...» «Lavorava in un locale di strip-tease» rispose Serena, senza cercare di indorare la pillola. Dayton si passò la lingua sulle labbra secche. «Ah, in posti del genere non sono andato.» 40 «Gli credi?» chiese Stride, mentre tornavano in città. Guardando fuori
del finestrino, notò che nuvole scure si stavano ammassando nel cielo a sud-est. Si preparava un temporale estivo. «Se mente, lo fa molto bene» disse Serena. «E tuttavia io sono piuttosto scettica quando si tratta di uomini e ragazze adolescenti.» «In altre parole, se un prete sembra troppo buono per essere vero, probabilmente è troppo buono per essere vero.» «Non è solo questo, Jonny.» Non diede ulteriori spiegazioni e Stride si domandò quali segreti nascondesse. Non aveva mancato di notare che lei l'aveva chiamato Jonny, in modo così naturale, quasi intimo. Gli sembrava che la voce di Andrea non avesse mai avuto tanta carica emotiva nel pronunciare il suo nome. Ricordava invece una simile intimità con Cindy, all'inizio. Si rese conto che da quando Serena era arrivata lui aveva deliberatamente evitato di pensare ad Andrea. Stride non era il tipo d'uomo capace di tradire la moglie, ma in quel momento voleva farlo. Lo voleva con tutto se stesso. «Sei mai stata sul lungofiume di San Antonio?» «Mai» rispose Serena, con un sorriso astuto. Stride rise forte. «Sei fantastica» disse, sperando che lei cogliesse la sfumatura allusiva nella sua voce. Le sembrò di vederla arrossire. «Chiederò a Maggie di controllare» continuò. «Così vedremo se hanno davvero partecipato a quel convegno.» «Anche se si sono iscritti, potrebbero essere andati e tornati da Las Vegas in un giorno. E nessuno se ne sarebbe accorto.» «Faremo un controllo presso le compagnie aeree e verificheremo le carte di credito.» Prima che lei potesse dire qualcosa, il cellulare di Stride si mise a squillare. Appena lui rispose, la voce di Dan Erickson disse: «Dobbiamo parlare». «Lo so» ribatté Stride. «Hai ricevuto il mio messaggio?» «Certo che l'ho ricevuto. Siete certi della notizia?» «Sì.» «Merda» sibilò Dan. Poi tacque. Stride poté quasi udire gli ingranaggi che giravano nella mente dell'amico. «È una cosa incredibile. Comunque non voglio parlarne al telefono.» «Vuoi che passi dal tuo ufficio?» «Niente affatto. Non devi neppure avvicinarti al mio ufficio. Vediamoci nel parcheggio del liceo tra un'ora.» «Non dovremmo stabilire una parola d'ordine per riconoscerci?»
«Molto divertente. Arriva puntuale.» Stride chiuse la comunicazione e rispose alla muta domanda di Serena. «Dan Erickson era il Pubblico Ministero nel processo contro Graeme Stoner per l'omicidio di Rachel» spiegò. «La notizia che Rachel era viva fino a pochi giorni fa non gli ha fatto molto piacere.» «E perché quest'atmosfera da cospirazione tra voi?» «Dan aspira alla carica di Procuratore Generale. Il fatto di aver processato un uomo per l'omicidio di una ragazza che non era morta potrebbe imprimere quella che si chiama "accelerazione negativa" alla sua campagna.» Serena aggrottò la fronte. «Fai attenzione, Jonny, un politico del genere è capace di attribuire a te tutte le colpe e farti licenziare, per salvarsi il culo.» «Sì, sarebbe proprio nello stile di Dan» confermò Stride. "Mi ha chiamato di nuovo Jonny". «E non t'importa?» Stride guardò fuori del finestrino. Cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia. «È strano, ma credo proprio di no.» Stride lasciò Serena alla centrale e imboccò la strada che portava al parcheggio della scuola. I tergicristalli gemevano per lo sforzo di spazzare via i torrenti di pioggia che colpivano il parabrezza. Stride era proteso sul volante per vedere meglio l'asfalto alla luce dei fari. Da qualche parte nel cielo estivo splendeva il sole, ma a Duluth sembrava notte fonda a causa delle nuvole nere gonfie di pioggia. Stride si diresse in fondo al parcheggio, dove individuò la Lexus blu notte di Dan con i vetri oscurati e vi parcheggiò di lato. Dan aveva lasciato i fari accesi e il motore avviato. Quando Stride aprì la portiera, la pioggia lo inzuppò in un istante. Cercò di infilarsi alla svelta nella macchina di Dan, ma la trovò chiusa. Bussò forte al finestrino, sentì un clic e finalmente riuscì ad aprire la portiera e a entrare, portandosi dietro una raffica di pioggia. «Buongiorno» mugugnò Stride, scuotendo le braccia per far scivolare via l'acqua dalle maniche. «I sedili sono di pelle» fece osservare Dan, seccato. L'interno dell'auto aveva il profumo della moglie di Dan, ovvero il profumo dei soldi. La Lexus e tutto il resto appartenevano a Lauren, come Stride sapeva bene, ma Dan ostentava volentieri quegli status symbol. All'anulare sinistro portava una fede con un grosso rubino e al polso un Ro-
lex d'oro. L'abito blu sembrava fatto su misura e gli calzava a pennello. In sottofondo c'era la musica trasmessa da una stazione radiofonica locale. Dan allungò una mano e spense l'autoradio. Per un attimo si udì solo il ticchettio della pioggia sul tettuccio dell'auto. «Per il momento, i mass media ignorano la notizia» disse Dan. «Facciamo in modo che continuino così.» Stride scosse la testa. «Impossibile. È una notizia da prima pagina, lo sai. Il massimo che possiamo sperare è di riuscire a tenerla nascosta ancora un paio di giorni. Ma forse è una speranza eccessiva. Basta che una gola profonda parli.» «Chi ne è al corrente?» «La polizia di Las Vegas e diversi poliziotti di Duluth. Più Emily e Dayton Tenby.» «Avresti dovuto parlare con me prima di informarli.» «Cristo, Dan, Emily è la madre della ragazza» protestò Stride. Dan sospirò. «Raccontami che cosa è successo.» Stride gli riferì della scoperta del cadavere di Rachel nel deserto e dei possibili collegamenti dell'omicidio con Duluth. «Ma non sappiamo ancora che cosa sia accaduto a Las Vegas» continuò. «E non sappiamo neppure che cosa è accaduto tre anni fa, quando Rachel è scomparsa. È ovvio solo che Stoner non l'ha uccisa.» «Ci sono piste da seguire?» «Finora no. Stiamo rileggendo i file della prima indagine e pensiamo di rintracciare tutte le persone coinvolte, per interrogarle di nuovo.» Dan aggrottò la fronte. «Quanta più è la gente con cui parli, tanto più è facile che la notizia trapeli.» «Lo so. Ma qui abbiamo a che fare non solo con una vecchia storia, ma anche con un'indagine in corso. Qualcuno ha ucciso Rachel meno di una settimana fa e voglio sapere chi è stato. L'unico motivo per cui non abbiamo rilasciato una dichiarazione alla stampa è che quando parlerò con le persone coinvolte voglio sfruttare l'elemento sorpresa.» «Ottimo» disse Dan. «Davvero eccellente. I repubblicani ci andranno a nozze.» «Ho fiducia in te, Dan. Sei bravo con le parole e sono certo che te la caverai.» Dan gli rivolse uno sguardo tagliente. «Se è una battuta, non è divertente. Guarda che penso di attribuire tutta la responsabilità del fallimento della prima indagine a te e alla tua squadra.»
Due punti per Serena. Stride annuì. «Abbiamo commesso degli errori, non lo nego. Ma la decisione di andare al processo senza un cadavere è stata tua.» «Ma tu mi hai detto che Stoner era il nostro uomo, che era stato lui.» «Era quello che pensavo. Lo pensavamo tutti. Ma le prove contro di lui erano deboli e te l'ho detto fin dall'inizio.» Dan scosse la testa. «Comunque non ci sfideremo a duello in pubblico per stabilire di chi è la colpa, è chiaro? Mi aspetto che tu dica a tutti che siete stati voi a fare casino e che io ho agito in buona fede basandomi su informazioni sbagliate ricevute dalla polizia. Avevate già fallito con il caso di Kerry McGrath ed eravate così disperatamente intenzionati a risolvere il caso di Rachel che avete aggirato l'ostacolo della mancanza di prove certe.» C'era della verità nelle parole di Dan. Stride ricordava molto bene la propria ossessione di trovare l'assassino di Rachel e di assicurarlo alla giustizia. Probabilmente aveva sacrificato parte della propria obiettività perché era convinto che Stoner fosse colpevole. Ciò nonostante, era stato Dan a decidere di andare in tribunale senza un cadavere e a dispetto delle circostanze avverse. «Mi prenderò la mia parte di colpa» disse Stride. «Ma non tutta.» «Non hai scelta.» «È un ultimatum?» chiese Stride. «Prendila come ti pare, ma se cerchi di tirartene fuori ci saranno delle conseguenze. Non lascerò scelta neppure a K2.» «Bene, allora dovrò pensare bene a quello che faccio. Hai altri consigli amichevoli da darmi?» Dan non rispose. Stride aprì la portiera e scese dall'auto, lasciando entrare la pioggia. Quando il sedile del passeggero e il bel vestito di Dan furono ben inzuppati, richiuse la portiera e rimase in piedi sotto il temporale, mentre la Lexus si allontanava. 41 Serena era seduta da sola nella sala conferenze del municipio e si stava consumando gli occhi su una pila di carte ingiallite. Pagina dopo pagina, i verbali delle indagini raccontavano la storia della scomparsa di Rachel. La ragazza cominciava a diventare una persona reale. Succedeva sempre, ma
stavolta per Serena era come guardarsi allo specchio. Rachel avrebbe potuto essere la sua sorella gemella. Aveva perfino i capelli neri e gli occhi verdi, come lei. Serena ripensò alla propria madre, la quale diceva di lei che era la sua "gemella cattiva" perché si assomigliavano tanto. Ma era sua madre la cattiva, che aveva venduto al diavolo se stessa e la figlia per pochi grammi di polvere bianca. Serena capiva il veleno che c'era nel cuore di Rachel. Non ebbe bisogno di leggere molto per sapere che uomo fosse Graeme e a che gioco giocavano lui e Rachel. Anche lei aveva provato la stessa sete di vendetta. L'unica differenza tra lei e Rachel era che lei era sfuggita a quella sorte, seppure per il rotto della cuffia. Serena guardò l'orologio. Le sei passate. Si sentiva sola e triste e aveva voglia di bere qualcosa di forte. Quello era un sintomo pericoloso. Maggie era uscita mezz'ora prima sotto la pioggia per andare a prendere da mangiare per entrambe. Stride era disperso. Aveva chiamato nel primo pomeriggio per dire che si trovava sulla scena di una rapina in banca, dall'altra parte della città, e se la stava vedendo con i federali. Serena avrebbe voluto averlo vicino, ma al tempo stesso preferiva che se ne stesse lontano. Quando udì un rumore di passi in corridoio, sentì il suo cuore accelerare i battiti. Fece uno sforzo per assumere un'aria calma e disinteressata. Ma non era Stride. Era Maggie, con l'impermeabile gocciolante e, tra le mani, un cartone di pizza e una bottiglia da due litri di Diet-Coke. Le sorrise e disse: «Consegna speciale. La pizza è alla salsiccia, perciò niente stronzate su pizze vegetariane o altre stranezze che mangiate all'Ovest». Serena rise e aprì il cartone. Il profumo della mozzarella e della salsiccia piccante si diffuse nella stanza. Maggie riempì di Coca due bicchieri di plastica, poi prese una fetta di pizza e si sedette, inclinando la sedia all'indietro fino ad appoggiare lo schienale contro il muro. In quella posizione i suoi piedi non toccavano terra. «Allora, hai risolto il caso?» chiese. «Penso ancora che Graeme sia l'assassino» rispose Serena con un sorriso. «Eh, già, era tutto più facile in quel modo. Novità da Stride? Guppo ha chiamato dicendo che il capo stava tornando qui.» «No, qui Jonny non si è ancora fatto sentire.» Serena prese una fetta di pizza e la posò sul tavolo senza addentarla.
Maggie bevve un lungo sorso di Coca e fissò Serena con aria preoccupata. «Stai bene?» «Certo, perché?» «Occhi rossi. Lacrime. Che cosa è successo?» «Ah, nulla» disse Serena. «Mi sono messa a pensare al passato. C'è qualcosa in questo caso che mi colpisce da vicino.» «Succede a tutti noi, qualche volta.» «Anche a un osso duro come te?» la prese in giro Serena. «No, io sono una roccia. Avanti, mangia la pizza. È buonissima.» Serena prese in mano la sua fetta e le diede un morso. Si rese conto all'improvviso di avere una gran fame e pochi secondi dopo si servì di nuovo. Ci bevve sopra un intero bicchiere di Coca, ruttò rumorosamente e scoppiò a ridere. «Notevole» commentò Maggie. «Lo fai anche su richiesta?» Serena rise di nuovo, seguita a ruota da Maggie; poi, accaldata, si soffiò il naso con un tovagliolino di carta. «Sei troppo forte» disse a Maggie. «Grazie» rispose Maggie, imitando la voce di Elvis Presley. «Grazie di cuore.» «Oh, per favore, non farmi ricominciare.» Serena si scostò una ciocca di capelli dalla fronte, chiuse gli occhi e inclinò anche lei la sedia contro il muro. «Dimmi una cosa» disse Maggie. Serena era molto tranquilla, con le difese abbassate. «Spara.» «Ho visto male, o tra te e Stride all'aeroporto è davvero scoccata la scintilla?» Serena raddrizzò la sedia di colpo e aprì gli occhi. Maggie la fissava con un largo sorriso sul viso ambrato. «Che cosa?» «Non fare l'innocente con me, ragazza mia. Sai che lui ti vuole. Stride non riuscirebbe a nasconderlo neppure se si travestisse da Babbo Natale. E mi sembra che tu non sia indifferente alla cosa.» «Maggie, lui è sposato. E ci siamo appena conosciuti.» Maggie prese un'altra fetta di pizza. «Chiamalo matrimonio, se vuoi, ma è finito da molto tempo, anche se nessuno dei due lo ammette. E poi, che c'entra quando l'hai conosciuto? Io ci ho messo solo un giorno a innamorarmi di Stride.» «Tu?» Maggie annuì. «Già. Mi è durata anni.»
«E com'è finita?» «Non è mai cominciata. All'epoca lui era sposato con la sua anima gemella. Poi lei è morta e io mi sono fatta avanti. Ma lui e io siamo fatti per essere amici, non amanti. Per fortuna, alla fine, ho conosciuto Eric, che è riuscito a fare breccia nella mia barriera di cinismo. E io ho notato con una certa soddisfazione che la cosa ha reso Stride un po' geloso.» Serena accennò un sorriso. «Devo ammettere che sono attratta da lui.» «Allora, buttati.» «Non è così semplice. Mi chiamano "Filo Spinato" non senza ragione. Ho grossi scheletri nell'armadio.» «Non riuscirai a spaventarlo» disse Maggie. «Vedremo.» «Vuoi andare a letto con lui, sì o no?» «Sì, ma non lo farò. Punto e basta.» «Credevo che a Las Vegas tutti avessero un'intensa vita sessuale» disse Maggie. «Io ce l'ho, ma da sola.» Maggie scoppiò a ridere. «Be', se funziona, va bene anche così. Ma posso assicurarti che quando trovi l'uomo giusto, non c'è palliativo che tenga.» Serena fece una smorfia, poco convinta. «Ci siamo appena conosciuti» ripeté. «Fa' come ti pare» concluse Maggie, con una scrollata di spalle. «Ma c'è una cosa che mi fa incazzare: io ho cercato per anni di eccitare Stride, senza riuscirci, e a te è bastato scendere da quel fottuto aereo per averlo ai tuoi piedi. Le tue tette non sono poi un granché.» «Col cazzo che non lo sono» ribatté Serena. Quando entrò nella sala conferenze del municipio, Stride capì che qualcosa era cambiato e che Maggie e Serena erano diventate amiche durante il pomeriggio. Posò l'impermeabile bagnato sullo schienale di una sedia, poi si sedette con un grugnito di stanchezza e sollevò i piedi sul tavolo. «FBI» annunciò. «Fottute Balle Improbabili.» «Oh, ma è così bello brillare della loro luce riflessa» sentenziò Maggie. Stride annuì. «Sono contento che la pensi così, perché ho detto a K2 che la prossima volta farai tu da baby-sitter ai federali.» «Grazie tante» disse Maggie. «Com'è andata con Dan Erickson?» chiese Serena. Stride raccontò loro delle minacce di Dan.
«Ti ho sempre detto che è uno stronzo» fu il commento di Maggie. «E hai sempre avuto ragione» ammise Stride. Poi spiegò a Serena: «Maggie e Dan hanno avuto una breve relazione, qualche anno fa, ma è finita male. Pare che lei abbia cercato di dargli fuoco». «Che esagerazione!» sbottò Maggie. «Si è trattato solo di un'accidentale bruciatura di sigaretta su un giaccone Burberry.» «Accidentale?» disse Stride. «Ma se tu non fumi.» Serena rise. «Voi due mi piacete.» «Avete scoperto qualcosa, durante la mia assenza?» chiese Stride. «Oh, sì ma le nostre scoperte riguardano un caso diverso» rispose Maggie, strizzando l'occhio a Serena. Serena le lanciò uno sguardo inceneritore, arrossì violentemente e si mise a leggere un foglio sulla scrivania. «Quale caso?» domandò Stride. «La mente contorta di Jonathan Stride» spiegò Maggie. Stride sorrise. «Ti fai pagare a ore o a cottimo?» «In entrambi i casi, sono troppo cara per te.» «Meno male. E, a parte questo, avete fatto un po' di lavoro di indagine, mentre io servivo il cappuccino a quelli dell'FBI?» Serena posò il foglio, di nuovo padrona di sé. «Niente che ci abbia fornito delle risposte, se è questo che vuoi sapere. Ma almeno adesso conosco il caso.» «Bene. Torniamo alla scomparsa di Rachel» disse Stride. «Sono pronto a scommettere che se riusciamo a scoprire che cosa è accaduto allora, sapremo anche perché è stata uccisa.» «Tre anni fa ci siamo sbagliati di grosso» fece notare Maggie. «Ma adesso sappiamo cose che allora voi ignoravate» replicò Serena. «Per esempio?» chiese Stride. «Sappiamo che Rachel era viva.» Stride annuì. Si versò un bicchiere di caffè tiepido. Il condizionatore emetteva un forte ronzio. «È vero. E che altro sappiamo?» «Che Rachel è stata al granaio, quella notte» disse Maggie. «Ne siamo sicuri?» intervenne Serena. «Le prove non potrebbero essere contraffatte?» «Credi che un misterioso sconosciuto sia andato lì con un contagocce e abbia spruzzato in giro un po' del sangue di Rachel?» ribatté Maggie. «No, Rachel è stata lì ed è stata anche nel minivan di Graeme. Le fibre del maglione combaciavano.»
«E non si tratta solo di Rachel» intervenne Stride. «Al granaio abbiamo trovato anche le impronte di Graeme. Impronte di un paio di scarpe che lui aveva comprato, ma che poi erano sparite. Secondo me, erano lì entrambi. Poi tra loro deve essere successo qualcosa che ha spaventato Rachel, inducendola a fuggire.» «Tuttavia sappiamo che Graeme non l'ha uccisa» disse Serena. Stride le illustrò la teoria alternativa secondo cui Rachel, quella notte, aveva chiesto aiuto a qualcuno per fuggire. Serena si scostò una ciocca di capelli dagli occhi e bevve un lungo sorso di Diet-Coke. «Non è male» disse «ma non ci spiega il motivo per cui una persona di Duluth l'abbia uccisa tre anni dopo.» «Magari è stato Dan» scherzò Maggie. «Se Rachel è fuggita, chi l'ha aiutata?» chiese Serena. «Dayton? Il fatto che lui sia andato a Las Vegas a cercarla è un po' sospetto.» Stride scosse la testa. «Dayton ed Emily erano a Minneapolis, quel venerdì sera. Era la prima volta che andavano a letto insieme.» «A meno che Rachel non abbia chiamato la madre» fece notare Serena. «Credo che Emily sia l'ultima persona che Rachel avrebbe chiamato» replicò Stride. Maggie storse la bocca. «Tutto ci riporta a Sally. Sappiamo che ha visto Rachel, la notte in cui lei ha lasciato la città, e che ha mentito al riguardo. Sono certa che non sarebbe stata per niente contenta se, dopo tutti questi anni, Rachel fosse tornata a Duluth per fare un salutino a Kevin.» Stride tirò fuori il cellulare. «Sally e Kevin convivono in un appartamento dalle parti dell'università. Prima ho provato a chiamarli, ma non mi ha risposto nessuno.» Compose di nuovo il numero. Dopo cinque squilli rispose una voce femminile. «Sally?» disse Stride. Poi ascoltò, aggrottando la fronte. «Sa dov'è? Sono un suo amico e ho bisogno di parlarle.» Attese la risposta, mormorò un arrivederci e chiuse la comunicazione. «A quanto pare, Kevin e Sally saranno di ritorno stasera sul tardi. La persona che mi ha risposto è la vicina che si prende cura del loro gatto. Sono andati a fare un viaggio in macchina. Indovinate dove? Al Grand Canyon.» «Bene, bene» disse Maggie. «Prendendo la I-15 da lì in sei ore si arriva a Las Vegas» aggiunse Serena.
42 Attraversando con Lavender l'atrio del Bellagio, sotto i giganteschi fiori di vetro che decoravano il soffitto, Cordy non mancò di notare con piacere le occhiate invidiose di cui era fatto oggetto. Erano una coppia attraente, in tono con l'ambiente di lusso. Cordy indossava una camicia nera di seta senza collo, una catena d'oro e un abito di lino marrone. Le scarpe erano lucidate a specchio e i capelli lisciati con il gel diffondevano una gradevole fragranza. Lavender indossava una tutina attillata rossa, con aperture ovali situate in punti strategici in modo da scoprire generose porzioni di pelle color ebano e confermare a tutti coloro che la fissavano che lei non indossava né reggiseno, né mutandine. Se fosse stata nuda non avrebbe potuto attrarre di più l'attenzione. Entrando nel ristorante giapponese dell'albergo, Cordy notò almeno una dozzina di nomini d'affari nipponici che fissavano Lavender attraverso una nube di fumo di sigarette. Lei rispose alle occhiate, flirtando con lo sguardo mentre prendeva posto al tavolo. «Com'è?» chiese Cordy. Non ebbe bisogno di precisare che cosa intendeva dire, perché Lavender capì benissimo. L'attenzione. Le occhiate. «Mi piace» rispose lei, con un lieve sorriso. Aveva la voce roca e una traccia di accento da strada. «Sono la regina, ho il potere.» Si passò la lingua sulle labbra carnose e Cordy sentì che gli sfregava la caviglia con un piede, sotto il tavolo. Si avvicinò un cameriere, un giapponese appassito e privo di espressione. Lavender ordinò una serie di piatti che Cordy non conosceva. Ika, maguro, uni. «Che cosa abbiamo preso?» chiese, quando il cameriere si fu allontanato. «Tonno. Seriola. Ricci di mare. E altro.» «Ricci di mare? La sola idea mi fa vomitare.» «Fidati» lo rassicurò Lavender. Cordy indicò con un gesto del pollice gli uomini d'affari agli altri tavoli. «Senza offesa, Lav, perché lavori in quel locale? Voglio dire, potresti benissimo vivere su un'isola con uno di quei tipi laggiù.» «Se quello che faccio non ti piace dimmelo subito, okay? Non farmi perdere tempo.» «No» protestò Cordy. «Non si tratta di questo.»
Lavender gli puntò contro un dito. «Le uniche persone che si umiliano, lì dentro, sono gli uomini che sbavano tutte le sere. Io sono quella che ha il controllo. Loro mi adorano. E non c'è niente di male in questo. In quanto al perché lo faccio, è semplice: s-o-l-d-i.» «Ti chiedo scusa» disse Cordy. «Non preoccuparti, è una domanda che mi fanno tutti. Ma è meglio che superi il problema, altrimenti la nostra serata finisce qui.» Il cameriere tornò con un vassoio nero laccato, sul quale erano elegantemente disposti rotolini di pesce misto a riso avvolti in un anello di alghe. Cordy scoprì che il sushi gli piaceva e gli piaceva ancora di più che fosse Lavender a imboccarlo con i bastoncini. Lei mangiava di gusto, ficcandosi in bocca un rotolino dopo l'altro e sorridendogli a bocca piena mentre lo masticava e lo mandava giù. A Cordy non era mai successo di eccitarsi con una semplice cena. Quando ebbero finito lei ordinò del sakè e anche questa fu una sorpresa per Cordy. Il liquore, servito in minuscoli bicchierini, era caldo, inebriante e andava giù facilmente. Lui e Lavender ne scolarono due microcaraffe, poi lui chiese il conto e pagò, reprimendo una smorfia di disappunto quando vide la cifra. Uscirono dal ristorante tenendosi per mano e passarono attraverso il casinò seguiti dagli sguardi dei presenti. Il tocco delle dita di Lavender nel palmo della sua mano impediva a Cordy di pensare con chiarezza. «Come mai non esci con la tua avvenente collega?» chiese Lavender. «Chi? Serena? Lei è un'amica e basta. E poi non è il mio tipo.» Lavender gli diede una leggera gomitata. «Non è il tuo tipo? Ha qualche anno più di te, ma è ancora molto bella. Davvero non ci hai mai provato con lei?» Cordy si strinse nelle spalle. «Mi ha messo in riga dal primo giorno. Tutti nella polizia conoscono la sua reputazione. Un uomo le chiede di uscire e lei gli taglia le palle. Si è circondata di filo spinato.» «Perché?» chiese Lavender. Cordy scosse la testa. «Non me l'ha detto.» Fece scivolare una mano sul fondoschiena di Lavender, accarezzandole la pelle nuda attraverso l'apertura ovale della tuta. «Ti va di giocare?» «Intendi giocare al casinò o scopare?» «In fondo è la stessa cosa, no? Si finisce sempre fottuti.» Lavender rise, gettando la testa all'indietro. «Mi piaci, sai? Mi piaci proprio.»
«Anche tu mi piaci. Senti, ho cinquecento dollari nel portafoglio. Lasciami giocare finché li perdo o li raddoppio. Poi andiamo a casa tua.» Lavender lo prese per il mento e gli diede un bacio sulle labbra, spingendo la lingua in profondità. «Non metterci molto.» Cordy la condusse nella zona delle slot-machine. Di solito lui giocava cinque dollari alla volta ai tavoli di blackjack, da Sam's Town. Quella sera però non aveva voglia di sedersi a un tavolo e di calarsi nel ritmo di una partita. Sentiva che la sua fortuna era alle stelle e si portava dietro Lavender come un amuleto. Scelse un videopoker Triple Play, a cinque dollari per ogni mano. Avrebbe vinto o perso abbastanza in fretta, poi si sarebbe dedicato al clou della serata. Durante i dieci minuti successivi vinse trecento dollari, poi perse una serie di mani una dietro l'altra. Ne recuperò due e fu di nuovo in attivo, ma ben lontano dal raddoppio che si era prefissato. Sentì la solita febbre che lo assaliva e l'unica cosa che gli impediva di perdersi nel gioco era la sensazione delle dita di Lavender che gli accarezzavano l'inguine. Tra i bip della macchina e il tormento dell'erezione, la sua mente volava. Udì la voce di Lavender come se provenisse da lontano. «Allora, avete scoperto che cosa è successo a Christi?» «Merda!» Cordy aveva una coppia d'assi, ma non gli era uscito il terzo. «Che cos'hai detto?» «Christi. La ragazza che è stata uccisa. Avete scoperto chi è stato?» Cordy vinse e perse altri settantacinque dollari nelle due mani successive. «Come? No, non ancora. Serena adesso è nel Minnesota.» «Nel Minnesota?» Cordy annuì. «Sì. Christi era di quelle parti. Sembra che qualcuno di lì sia venuto a trovarla qui a Las Vegas.» Cordy puntò di nuovo il massimo e trattenne il fiato. Picche. Quattro quinti di colore. «Avanti, bellezza, dammi un'altra carta di picche.» Lavender non guardava il monitor. Infilò una mano tra le gambe di Cordy e percorse con un dito il profilo della sua erezione. «Questa è per me o per le carte?» Cordy non rispose. Tenne le quattro picche, poi premette il bottone e trattenne di nuovo il fiato. «Merda!» Lavender sospirò e tolse la mano. Si fissò le unghie smaltate. «Mi rendo conto del perché non gioco.» «Eh?» disse Cordy. «Niente. Sai, non avrei detto che è stato qualcuno di fuori a uccidere
Christi. Avrei scommesso sul suo uomo. Era un tipo che dava i brividi.» «Sì!» urlò Cordy, vedendo tre re. «Avanti, ora, dammi un poker. Dammi un poker.» Premette il bottone con una preghiera silenziosa. La macchina voltò le carte restanti: tre, asso, sette, nove, re. «Sììì!» urlò Cordy. «Sì! Questo volevo!» Afferrò Lavender e la baciò con foga. Lei rispose al bacio con entusiasmo. Quando si districarono Cordy vide che aveva raddoppiato il suo denaro. Incassò, gustandosi il suono delle monete da cinque dollari che scendevano dalla macchina. Riempì due secchielli di plastica, li mise uno sull'altro e attraversò il casinò, con il denaro da una parte e Lavender dall'altra, sentendosi il padrone del mondo. Allo sportello consegnò i secchielli alla cassiera, aspettò che le monete venissero contate e si leccò le labbra vedendo che l'incasso superava i mille dollari. Solo allora il suo cervello riprese il controllo dei pensieri. Cordy sentì il sangue raffreddarglisi nelle vene e si voltò verso Lavender, teso, mentre le fantasie di sesso e soldi si dileguavano. «Hai detto che la ragazza aveva un uomo?» 43 Stride e Serena sedevano in silenzio nel Bronco, sotto un lampione spento, di fronte alla residenza universitaria in cui si trovava l'appartamento di Sally e Kevin. I finestrini aperti lasciavano entrare il fresco della sera, oltre ad alcune gocce di pioggia. Erano lì da un'ora. Avrebbero potuto benissimo aspettare il mattino dopo per parlare con i due ragazzi, ma Stride voleva sfruttare l'elemento sorpresa ed evitare che Kevin e Sally avessero il tempo di preparare le risposte. Inoltre, così aveva una valida scusa per non tornare a casa. Quella era la triste verità. Era fortemente attratto da Serena e preferiva stare con lei, anziché con Andrea, sua moglie. Serena era una silhouette nella penombra, sul sedile accanto, ma Stride sapeva che lei avvertiva su di sé il suo sguardo, captava le sue sensazioni, le chiamava in silenzio. «Parlami di Phoenix» disse Stride a un tratto. «Del tuo passato.» Serena scosse la testa. «Non ne parlo mai.» «Lo so, ma mi piacerebbe che ne parlassi a me.» «Perché ti interessa il mio passato?» chiese lei. «Non mi conosci neppu-
re.» «Appunto. Voglio conoscerti.» Serena non rispose subito. Il suo respiro era rapido e nervoso. «Che cosa vuoi davvero, Jonny? Venire a letto con me?» Stride rimase per un attimo senza parole. «Come posso rispondere?» disse poi. «Se dico di no, sai che sto mentendo. Se dico di sì, sono solo uno stupido poliziotto in cerca di una scopata.» «Non saresti il primo.» «Lo so. Quello che posso dire è questo: adesso io dovrei essere a casa e non qui con te. Non sono il tipo che tradisce la moglie, eppure sono qui.» «Dimmi tu una cosa» disse Serena, girandosi verso di lui nel buio. «Maggie dice che il tuo matrimonio è finito. Che in realtà era già finito tre anni fa. È vero?» Stride era stanco di fingere. «È vero.» «Non mentirmi, Jonny» insisté lei. «Non sono una donna facile. Non sai quanto è raro che io parli in questo modo con un uomo, soprattutto se l'ho appena conosciuto.» «Credo di saperlo e non ti sto mentendo.» «Dimmi perché è finita, tra voi.» Stride faticò a trovare le parole. «Abbiamo entrambi dei fantasmi che ci tormentano. Lei è stata lasciata dal primo marito e io non sono riuscito a colmare il vuoto.» «E del tuo fantasma che cosa mi dici? Come si chiama?» Stride sorrise. «Cindy.» «Ti ha spezzato il cuore?» Ormai era passato abbastanza tempo e Cindy non era più una ferita aperta, ma un dolore sordo in fondo all'anima. Stride raccontò di come l'aveva persa e fu come se stesse parlando di qualcosa di remoto, di una tragedia successa a un altro. Serena lo ascoltò in silenzio, poi gli prese la mano. Per alcuni secondi l'abitacolo fu un piccolo universo a parte, racchiuso in una bolla. «Davvero vuoi che ti racconti la mia storia?» chiese Serena. «Sì.» Lei fece un evidente sforzo per superare la paura e la diffidenza. «Quando avevo quindici anni, a Phoenix» attaccò alla fine, a bassa voce «mia madre cominciò a fare uso di droga e presto divenne una tossica. I soldi finirono e noi perdemmo la casa. Mio padre ci abbandonò. Mi abbandonò.» Il suo tono era piatto, come svuotato di ogni emozione. Stride si rese
conto che tra loro stava succedendo qualcosa di profondo, che Serena gli aveva permesso di entrare in un mondo fino a quel momento riservato solo a lei. «Andammo ad abitare a casa del suo pusher e si può dire che io divenni lo strumento con cui mia madre si pagava le dosi. Quell'uomo faceva i suoi comodi con me e lei rimaneva a guardare, istupidita e indifferente.» Stride avvertì un impeto di rabbia e si sentì improvvisamente protettivo nei confronti di Serena. «Rimasi incinta» continuò lei. «Andai in una clinica da sola e abortii. Non tornai mai più a casa. Sapevo che se fossi tornata li avrei uccisi, tutti e due. Parlo sul serio. Avevo anche perso del tempo a progettare l'omicidio. Ma non intendevo rinunciare alla mia vita a causa di quello che mi avevano fatto. Così, con un'amica, presi il pullman per Las Vegas. Avevo sedici anni ed ero sola. Accettai lavori di merda nei casinò e mi iscrissi a una scuola serale. Così diventai poliziotta.» «Molte ragazze nella tua situazione sarebbero finite male.» «Lo so. Come Rachel.» «Sei incredibile» disse Stride. Serena scosse la testa. «Non sono un angelo. Posso essere una vera stronza, soprattutto con gli uomini. Ho trascorso la maggior parte della mia vita a tenerli lontani.» «E perché con me non lo fai? Oppure è quello che stai facendo?» «Sì, è quello che sto facendo, Jonny. E lo faccio per te.» Stride non disse nulla. In un appartamento vicino si accese una luce e i loro volti ne furono illuminati per un attimo. Stride si trovò a fissare le labbra pallide di lei. Serena aprì leggermente la bocca. Esitante, incerta, si chinò verso di lui. I capelli lunghi ricaddero in avanti. La luce si spense e loro ritornarono invisibili mentre si baciavano. Poi Serena si scostò e rimasero in silenzio per un'ora, senza bisogno di dire nulla. La Malibu color fragola arrivò intorno a mezzanotte. Kevin e Sally si caricarono gli zaini sulle spalle e si incamminarono su per le scale dell'edificio. Stride toccò Serena su una spalla, scesero dal Bronco e seguirono i due giovani. Stride bussò alla porta dell'appartamento, al terzo piano. Venne ad aprire Kevin, stanco e con gli occhi arrossati. Guardò Stride con sospetto, ma poi lo riconobbe. E, in quello stesso momento, capì anche perché il poliziotto
si trovava lì. «È per Rachel, vero?» chiese. Stride annuì. «Ti chiedo scusa per la visita a sorpresa, Kevin. Sì, è per Rachel. Abbiamo trovato il suo cadavere.» Kevin fece un passo indietro, scostandosi dalla porta, mentre le lacrime gli salivano agli occhi. Era diventato un bel giovane, con i capelli biondi ondulati e la pelle abbronzata. Entrando nell'appartamento, Stride presentò Serena, senza precisare che veniva da Las Vegas, poi fece scorrere lo sguardo sui mobili di seconda mano e notò immediatamente che mancava qualcosa. Gli zaini non c'erano. «Dov'è Sally?» chiese. Kevin alzò lo sguardo, confuso. «Come? Ah, è scesa a fare il bucato.» «Il bucato!» esclamò Serena, voltandosi e uscendo di corsa. Stride la seguì, lasciando Kevin imbambolato sulla soglia. Scesero i gradini a due a due fino al seminterrato e sbucarono in un corridoio buio e ronzante di macchinari. Stride distinse il tipico rumore della lavatrice. Spalancarono una porta e irruppero nella lavanderia. Sally era seduta a gambe incrociate su un divano consunto e leggeva una copia di «People». Quando la porta si aprì, sbattendo contro la parete, spalancò gli occhi per la sorpresa e lo spavento. Stride vide che i due zaini giacevano vuoti sul pavimento, mentre due lavatrici stavano lavando via ogni prova. Imprecò a bassa voce e staccò entrambe le macchine. «Che cavolo succede?» chiese Sally, con voce tremante. Stride la fissò a lungo. Era dimagrita e si era fatta più bella. Indossava un top rosa, calzoncini bianchi molto corti e un sandalo al piede sinistro. L'altro sandalo era per terra davanti al divano. «Ti ricordi di me?» chiese Stride. Sally lo fissò, socchiudendo gli occhi. Poi si rilassò appena un po'. «Sì, mi ricordo, ma voglio ancora sapere che cosa sta succedendo.» «Ti pare normale rientrare a casa a mezzanotte da un lungo viaggio e precipitarsi a fare il bucato?» chiese Serena. «Sì, certo» rispose Sally. «Non voglio roba sporca e puzzolente in casa. Ora vi decidete a dirmi che cosa volete?» «Rachel è morta» rispose Stride, a bruciapelo. Vide quello che voleva vedere: un lampo di confusione sul viso di Sally. Era il primo segno rivelatore di ciò che era davvero accaduto quando Ra-
chel era sparita. Sally era sorpresa di sentire che era morta. Questo significava che, quando era scomparsa, Sally sapeva che era viva. Ma significava anche che non era stata lei a ucciderla. Mentre Sally assimilava la notizia, Stride vide anche qualcos'altro. La ragazza non riuscì a reprimere un accenno di sorriso e un'espressione di sollievo e di soddisfazione finì per dipingersi sul suo viso. «Dove l'avete trovata?» «A Las Vegas» rispose Stride. «Questa è Serena Dial della polizia di laggiù. Rachel è stata assassinata lo scorso fine settimana.» «Assassinata?» «Proprio così» intervenne Serena. «È stato bello il viaggio al Grand Canyon?» Sally annuì lentamente, cominciando a capire. «Ah, ci sono! Voi pensate che siamo stati a Las Vegas e che l'abbiamo vista.» «E non è così?» «Non avrei mai permesso che Kevin si avvicinasse a Rachel» rispose Sally, in tono tagliente. Squadrò Serena dall'alto in basso. «Non mi piacciono né il gioco d'azzardo, né tutte le altre cose che si fanno in quella città. Non ci siamo andati.» «Dice la verità» intervenne una voce maschile. Kevin era apparso sulla soglia. Evidentemente aveva sentito tutto. «Non riesco a credere che per tutti questi anni Rachel fosse viva.» «È una coincidenza davvero strana, Kevin» disse Stride. «Quando lei è stata uccisa, voi eravate a poche ore di distanza da Las Vegas.» «Ma non ci siamo andati» ripeté Sally. «È vero» confermò Kevin. Stride e Serena si scambiarono un'occhiata, arrivando alla medesima conclusione. I due ragazzi dicevano la verità. «Dovremo controllare ugualmente i vostri vestiti e la macchina» fece presente Stride. «Mi dispiace.» «Troverete solo polvere e insetti» disse Sally. «Presumo che diciate la verità» spiegò Stride. «Ma noi dobbiamo capire se c'è un collegamento tra la scomparsa di Rachel tre anni fa e la sua uccisione a Las Vegas. Questo significa che adesso è ancora più importante di prima sapere che cosa è realmente accaduto quella notte.» Sally si incupì e distolse lo sguardo. Stride si rese conto che non avrebbe ottenuto alcuna risposta, finché il ragazzo era presente. «Kevin, puoi lasciarci soli con Sally per un paio di
minuti?» Sally spalancò gli occhi. Non voleva rimanere lì da sola, ma Kevin sembrava distante, di nuovo sotto l'incantesimo di Rachel; uscì dalla stanza come un robot, senza neppure guardare la fidanzata. Serena chiuse la porta e Stride si appoggiò a un'asciugatrice vuota, fissando Sally sul divano. La ragazza incrociò le braccia sul petto e rivolse a entrambi uno sguardo di sfida. «Rachel è morta, Sally» disse Stride. «Adesso non c'è più bisogno di mantenere il segreto.» Sally chiuse gli occhi. «Siamo solo noi, ora» continuò Stride. «Non c'è il giudice, non c'è la giuria e non c'è neppure Kevin.» «Non so di che cosa sta parlando.» «Lo sai benissimo, invece. In tribunale hai mentito. Non hai affatto udito Rachel e Graeme che litigavano, quella notte. Te lo sei inventato. Ormai non importa più, Sally. Nessuno ti arresterà per aver giurato il falso, ma noi dobbiamo sapere la verità.» «Rachel è morta e noi vogliamo sapere perché» intervenne Serena. Sally scrollò le spalle. «Allora pensavate che fosse morta. Adesso è morta davvero. Che cosa è cambiato?» «Sappiamo che quella notte sei andata a casa sua. Sei stata vista sulla strada.» «E allora?» ribatté Sally. «Mi sono avvicinata, non l'ho trovata e sono tornata a casa. Fine della storia.» «Se questo è vero, perché hai mentito, dicendo che avevi sentito Rachel litigare con Graeme?» Sally esitò. «Ho avuto paura. Quell'avvocato stava cercando di accusarmi, facendo credere che fossi stata io a ucciderla. Una cosa completamente assurda. Inoltre ero convinta che Graeme fosse colpevole. Cristo, lui e Rachel non facevano che litigare! Dopotutto, non ho mentito poi tanto.» «Il problema è che stai mentendo di nuovo, Sally» disse Serena. «Non riuscirai a fregare me, che sono una donna.» Stride si inginocchiò sul pavimento, accanto al divano. Era quasi all'altezza del viso di Sally. «Tu sapevi che Rachel era viva.» «Questo è ridicolo» ribatté lei. Ma le tremò la voce. «Sei stata tu ad aiutarla a fuggire» incalzò Serena. «No!» «Allora raccontaci che cosa è successo quella notte, Sally.» Stride le po-
sò con gentilezza una mano sulla spalla. «Senti, io so com'era Rachel. So come riusciva a manipolare la gente.» Sally lo fissò. «No, non lo sa» sussurrò. Imbacuccata nella giacca a vento, Sally strinse i pugni e batté i piedi. I suoi riccioli sobbalzarono. Aveva una sola cosa in mente: l'immagine di Rachel e Kevin sul ponte. Rachel che baciava Kevin. La mano di Rachel che scivolava in mezzo alle gambe di Kevin. E la cosa peggiore di tutte: il sorriso cattivo che Rachel le aveva rivolto, girandosi per assicurarsi che lei stesse guardando. Non le bastava averle rubato il ragazzo. Doveva anche umiliarla. Sally sapeva di non poter competere con lei. Finora si era salvata solo perché Rachel non si era mai interessata a Kevin. Ci giocava, flirtava con lui. Ma nient'altro. Fino a quella sera. Nella sua stanza, Sally bolliva di rabbia. Non riusciva a togliersi quella scena dalla testa. Una parte di lei avrebbe voluto mandare al diavolo tutti e due, lasciando che Kevin scoprisse quanto sarebbe stato felice tra le braccia di quella troia. Se lui voleva farsi distruggere, lei non sarebbe intervenuta. Che provasse come era bella la vita, sotto il tallone di Rachel! Ma Sally non poteva lasciarlo. Non era colpa di Kevin. Lui era come una mosca intrappolata nella ragnatela di Rachel. Decise di chiarire le cose con Rachel, una volta per tutte. Si calò in silenzio dalla finestra della sua stanza e corse in strada, con il corpo teso come una molla. Non fece quasi caso a dove camminava, né al freddo che trasformava in vapore il fiato che le usciva dalla bocca. Pensava solo a quello che avrebbe detto a Rachel. Si ripeteva il discorso sottovoce, scegliendo le parole, i toni e le espressioni. Ma quando si ritrovò sul marciapiede davanti alla casa della rivale, tutta la sua determinazione svanì e lei si bloccò. Rachel era in casa. Sally aveva pensato che lei fosse ancora fuori con Kevin e aveva stabilito che l'avrebbe aspettata, il che avrebbe reso le cose più facili: l'avrebbe colta di sorpresa, mentre scendeva dalla macchina e non si immaginava certo di trovare lì Sally. Ma l'auto di Rachel era parcheggiata nel vialetto e a Sally non rimaneva altro da fare che avvicinarsi alla porta e suonare il campanello. Cercò di farsi coraggio, ricordandosi delle due figure sul ponte. Rachel e Kevin. Il bacio. La seduzione. Il sorri-
so. Troia. Sarebbe bastato suonare il campanello, lei avrebbe aperto e Sally avrebbe scatenato tutta la furia repressa che le bolliva dentro. Avrebbe urlato, l'avrebbe schiaffeggiata. Le avrebbe mostrato che non tutte le ragazze erano disposte ad arrendersi davanti a lei. Ma Sally era come paralizzata. Il cervello le diceva di avvicinarsi alla porta, ma i piedi rimanevano piantati sul marciapiede. Non era sicura di poter affrontare Rachel, a dispetto di tutta la rabbia che provava e di quello che Kevin significava per lei. Dentro la casa, la luce al pianterreno si spense. "Ecco" pensò Sally. "Sta andando a letto. È troppo tardi." Poi udì un debole rumore e si rese conto che qualcuno stava aprendo la porta d'ingresso. Sally dimenticò del tutto i suoi propositi e si appiattì contro una siepe. Riusciva ancora a vedere la casa, nella luce pallida del lampione. La persona che uscì dalla porta era Rachel, vestita come poche ore prima. Scrutò furtivamente la strada avvolta nel buio e rimase ferma per almeno un minuto. Voi percorse in fretta il vialetto d'accesso, tenendo in mano una grande borsa di plastica. Sally si rese conto che Rachel era diretta dalla sua parte e che l'avrebbe senz'altro vista. Avrebbe voluto sparire dietro la siepe, sperando che lei non la notasse, ma sapeva che non poteva perdere quell'unica occasione: doveva agire subito o mai più. Sally deglutì, poi uscì sul marciapiede e si piazzò davanti a Rachel. «Dobbiamo parlare» le disse, maledicendosi per il tremolio nella voce. Sembrava una bambina spaventata. Rachel la vide e si bloccò, dapprima sorpresa, poi sprezzante. «Oh, merda» imprecò. «Che cazzo ci fai tu qui?» Sally tossì. «Voglio parlare con te» disse debolmente. «Di Kevin.» Rachel controllò la strada con lo sguardo. Erano sole. Avvicinò il viso a quello di Sally, fin quasi a toccarlo. «Non sai in che cosa ti stai cacciando» sibilò. «Rovinerai tutto.» Sally era confusa. Non l'aveva mai vista così. «Come? Che cosa vuoi dire?» Rachel le afferrò un polso e lo torse finché non vide apparire sul viso diSally una smorfia di dolore.«Stammi bene a sentire: tu non mi hai vista qui, stasera. È chiaro?»
«Non capisco» gemette Sally. «Mi fai male.» Decisamente, le cose non stavano andando secondo i suoi piani. Sally non capiva di che diavolo parlasse Rachel, ma l'espressione che le vide negli occhi la spaventò. «Ti farò ancora più male, se non mi ascolterai» disse Rachel. «Sei una piccola deficiente, Sally, ma sei abbastanza intelligente per capire due cose. Primo, Kevin non mi interessa affatto. Te lo puoi tenere, con i miei migliori auguri. Secondo, sai benissimo che potrei portartelo via in qualunque momento, se ne avessi voglia.» «Non è vero» protestò Sally. Rachel rise. «Kevin farebbe qualunque cosa per me. Gli ho fatto una sega, lì sul ponte. Ti è piaciuto lo spettacolo, Sally? Ti è piaciuto guardare mentre facevo venire il tuo ragazzo?» «Smettila» supplicò Sally. «Per favore.» «Va bene. Sono contenta di vedere che ci siamo capite. Ora stammi bene a sentire: torna a casa e dimentica questa conversazione, capito? Non ha mai avuto luogo e tu non mi hai vista. Ti faccio una promessa, Sally: se dirai a qualcuno che ci siamo incontrate stasera, io tornerò e farò in modo che Kevin non ti guardi più. E non mi importa se lo sposerai domani, perché io me lo scoperò il giorno dopo e lui ti lascerà immediatamente.» Sally non disse nulla. Non sapeva che cosa fare. Rachel si fece ancora più vicina. Passò una mano sui capelli di Sally e glieli tirò per tenerla ferma, quando lei fece per allontanarsi. «Ci siamo capite, Sally?» «Io non ho capito che cosa sta succedendo.» «Non importa. Dimmi solo che credi a quello che ho detto. Sai che potrei portarti via Kevin in un secondo, vero?» Sally annuì. «Bene» concluse Rachel. Poi sorrise e con la mano libera accarezzò la guancia di Sally. Quindi si chinò su di lei e la baciò sulla bocca. Sally si sentì male. «Ricordati: nemmeno una parola.» Stride ascoltò la storia di Sally con orrore crescente. Poi scosse lentamente la testa. «Ti rendi conto di tutti i guai che ci avresti risparmiato, se avessi detto queste cose quando era il momento?» chiese. Sally si strinse nelle spalle. «Lei non conosceva Rachel, signor Stride. Parlava sul serio. Se avessi detto a qualcuno di averla vista, avrebbe fatto
di tutto per portarmi via Kevin. So di che cosa era capace. E, a quanto pare, tre anni fa ero l'unica a saperlo.» «E per tenerti Kevin eri disposta a lasciare finire in prigione Graeme Stoner, pur sapendo che era innocente?» Un lampo di rabbia attraversò lo sguardo di Sally. «Innocente? Col cazzo. La storia del passaggio che mi ha dato sulla sua macchina è vera e, se non fosse arrivata un'altra auto, al granaio, sono certa che mi avrebbe violentata. E poi voi sapete che faceva sesso con Rachel.» «Ma perché hai mentito sul banco dei testimoni?» chiese Stride. «Ho dovuto pensare in fretta» rispose Sally. «Ho immaginato di mandare un messaggio a Rachel, ovunque lei fosse: io rispetto il patto, rispettalo anche tu.» Serena la fissò negli occhi. «Non ti avrebbe fatto piacere il suo ritorno, vero?» Sally non esitò. «No, non mi avrebbe fatto piacere. Per me era morta e basta. Ma se credete ancora che io sia andata a Las Vegas per completare l'opera, vi sbagliate. Rachel ha rispettato il patto: non è mai tornata.» «Non hai mai avuto sue notizie?» «Mai. Secondo me state cercando nel posto sbagliato. Provate a tornare a Las Vegas e a indagare sulle persone cui lei ha distrutto la vita là. Una come Rachel non cambia. Potete scommettere che ha fatto i suoi soliti giochetti anche a Las Vegas.» «Hai idea di che cosa contenesse la borsa di plastica che aveva con sé?» chiese Stride. Sally scosse la testa. «No.» «E non aveva nient'altro?» «Niente. Solo i vestiti che indossava. Gli stessi di quando eravamo a Canal Park, quella sera.» «Il maglione bianco a collo alto?» chiese Stride. «Sì.» «Era strappato da qualche parte?» «Non ci ho fatto caso» rispose Sally. «E il braccialetto?» chiese ancora Stride. «Ce l'aveva?» Sally chiuse gli occhi, cercando di ricordare. «Sì, ce l'aveva, me lo ricordo bene.» Stride annuì, esaminando mentalmente le varie possibilità. «Ha detto in che modo avrebbe lasciato la città? Stava andando a un appuntamento con qualcuno?»
Sally scosse la testa. «Non lo so. Davvero. Non ha detto che stava andando via.» Ma doveva essere quella la sua intenzione, pensò Stride. Era accaduto qualcosa, al granaio, che l'aveva spinta a cambiare i suoi piani? Perché lei era stata al granaio, quella notte. Il braccialetto lo testimoniava. Sally aveva incontrato Rachel davanti a casa e più tardi lei era finita al granaio, lasciandosi dietro degli indizi che incriminavano Graeme Stoner. E poi era scomparsa. «Devi aver ripensato a tutta la faccenda, dopo» disse a Sally. «Ti sarai pur fatta un'idea.» «Sono rimasta stupita, come tutti» ribatté la ragazza. «Ho pensato che Rachel avesse chiesto un passaggio a qualcuno e lo avesse indotto a non dire nulla con le sue arti da seduttrice. Oppure che avesse convinto qualche compagno di scuola ad accompagnarla alle Città Gemelle del Minnesota, Minneapolis e St. Paul.» «Ma tu non l'hai aiutata? Davvero non sai nient'altro?» «No. E ora vorrei andare da Kevin.» Stride annuì. «Va bene.» Sally si alzò dal divano e uscì in fretta, lasciando Stride e Serena soli nella lavanderia. «A che cosa stai pensando, Jonny?» chiese Serena. Stride fissava le lavatrici, domandandosi se Guppo sarebbe stato contento di essere tirato giù dal letto nel cuore della notte per prelevare una borsa gigante di vestiti sporchi e bagnati. «Sto pensando che Rachel è morta, ma sta ancora giocando con noi.» 44 «Cominci ad annoiarmi, tesoro» disse Lavender, risentita. «Non credevo che avremmo trascorso la serata a parlare. Mi ero immaginata una bella cenetta e una bella scopata, se proprio vuoi saperlo.» Cordy le prese il viso tra le mani e la baciò. Poi le accarezzò dolcemente un seno, attraverso una delle aperture ovali. «Anch'io mi ero immaginato la stessa cosa. Ma devo sapere, capisci?» Lei gli mise una mano sopra la sua, aumentando la pressione sul seno. «Così almeno sai che cosa ti perdi» disse. Cordy emise un gemito soffocato. «Solo altre due o tre domande.» Lavender sospirò e tolse la mano.
Erano seduti nella macchina di Cordy, nel parcheggio del Bellagio. L'auto era una PT Cruiser nera che lui aveva comprato due anni prima con la più grossa vincita che avesse mai realizzato. Cordy la trattava come una figlia e la parcheggiava in modo che fosse al riparo da ammaccature e scalfitture varie. Gli interni in pelle odoravano di salsa e sigari, le sue altre grandi debolezze dopo il sesso e il gioco d'azzardo. Cercò di concentrarsi, cosa difficile con il petto di Lavender a pochi centimetri dalla faccia. «Parlami ancora dell'uomo di Christi» disse. «L'ho visto una volta sola, come ti ho già detto e ripetuto!» esclamò Lavender. «Sì, e ogni volta che ne riparliamo affiora qualche particolare in più» disse Cordy. «È così che funziona.» Lavender alzò gli occhi al cielo. «Era una sera caldissima, proprio come ora. Christi e io eravamo al club e danzavamo nello stesso turno. Christi era brava, sai? Il lavoro non le piaceva, almeno non quanto piace a me, ma era davvero in gamba. Comunque quella sera, circa un anno fa, dopo lo spettacolo questo tizio è venuto dietro le quinte e si è trattenuto con noi per un po'. Non ha detto come si chiamava, ma ricordo che Christi lo ha definito un suo vecchio fidanzato. È stato buffo.» «In che senso?» Lavender fece una risatina. «Perché non era un modo di dire. Quell'uomo era davvero vecchio.» «Che età poteva avere?» chiese Cordy. «Non so. Quaranta. Cinquanta. Vecchio.» «Com'era fisicamente?» «Non me lo ricordo. Un tipo normale.» «Capelli scuri o chiari?» «Scuri, credo. Forse un po' grigi. Non me lo ricordo.» «Altezza?» «Abbastanza alto» rispose Lavender. Cordy capì che non stava ottenendo alcun risultato. «E non l'avevi mai visto prima? Christi non te ne aveva mai parlato?» Lavender scosse la testa. «No.» «E, dopo quella volta, l'hai più rivisto?» «No» ripeté lei. Cordy provò a seguire un'altra linea. «Prima hai detto che era un tipo che dava i brividi In che senso?»
Lavender aggrottò la fronte. «Parlava poco. Christi lo ignorava e a lui la cosa non piaceva. Sembrava che volesse restare solo con lei, mentre era evidente che Christi voleva il contrario. Avevano l'aria di due persone in lotta, capisci? Inoltre lui aveva uno sguardo così penetrante! Se Christi non mi avesse detto che era un fidanzato, lo avrei preso per un maniaco. Ne vediamo parecchi, qui. Comunque era innamorato pazzo di Christi.» «Come lo sai?» «Be', mio caro, eravamo nello spogliatoio di un locale di strip-tease. Le ragazze, tutte bellissime, erano per la maggior parte nude. Io stessa lo ero, proprio davanti a lui, e lui non ha fatto una piega. Non ci ha neppure guardate. Vedeva solo Christi.» Cordy cercò di immaginare un uomo che non reagisce davanti a Lavender nuda. Impossibile. «Ricordi di che cosa hanno parlato?» «No. Lui se ne stava seduto per i fatti suoi e ogni tanto sussurrava qualcosa a Christi. Ma lei parlava soprattutto con noi. Si prendeva gioco di lui, credo. Lo ignorava. Voleva farlo incazzare.» «È mai venuto qualche altro spasimante di Christi, al club?» «Mai. Lui è stato l'unico. Perciò me lo ricordo. Christi era una solitaria, non dava corda a nessuno.» «Davvero? Perché?» «Come ti ho detto, quella sera Christi parlava con noi ragazze, ma si è trattato di un fatto eccezionale. Di solito arrivava, faceva il suo numero e se ne andava. Alcune di noi pensavano che fosse presuntuosa, altre, invece, che si vergognasse di quel lavoro.» «E tu che cosa pensavi?» chiese Cordy. «Christi non si vergognava. Se ti vergogni non puoi essere così in gamba. Credo che, semplicemente, non ci considerasse persone. Per lei non esistevamo. Quando ho provato a parlarle della mia idea, mi ha lasciato finire e poi mi ha sbattuto la porta in faccia.» «Quale idea?» Lavender sorrise. «Un sito internet. Sex show on line. Christi era perfetta per un lavoro del genere e avrebbe guadagnato un sacco di soldi. Ma lei mi ha risposto che per nulla al mondo si sarebbe mostrata su internet. Il che era piuttosto bizzarro, dato che si esibiva nuda dal vivo tutte le sere. Comunque non ho insistito.» «Ti ha dato delle spiegazioni?» «No, mi ha solo detto che la cosa non le interessava. Punto e basta.»
«Capisco. Senti, Lav, devo trovare questo vecchio fidanzato. Christi è un bel rompicapo. Nel suo appartamento non c'è niente di personale e, da come tu l'hai descritta, sembra quasi che lei non avesse neppure una vita. L'unica traccia che abbiamo è quell'uomo.» Lavender si strinse nelle spalle. «Ti ho detto tutto ciò che mi ricordavo e non so come aiutarti a trovare quel tizio. Forse potresti parlare con le altre ragazze che erano lì quella sera. Qualcuna di loro dovrebbe essere ancora in città e può darsi che si ricordi qualcosa di più.» Cordy annuì. Era una possibilità, anche se la speranza di successo era pressoché nulla. «Bene, dovrai lasciarmi un appunto con i loro nomi.» «Forse anche qualcun altro di quelli che lavorano al club lo ha visto: buttafuori, baristi, cameriere. Io ho lasciato il locale non molto tempo dopo e magari lui è tornato quando non c'ero più.» «Sì, è un punto di partenza. Farò un elenco e da domani comincerò a controllare.» «Mi dispiace, tesoro» disse Lavender. «Sembri deluso.» «Lo sono. Questa poteva essere una svolta decisiva e, invece, temo che sarà solo un vicolo cieco.» Lavender sorrise. «So come farti dimenticare la delusione.» Si passò la lingua sulle labbra e allungò la mano verso la cerniera dei pantaloni di Cordy. La tirò giù senza sforzo. «Lo vuoi un pompino, tesoro?» Cordy era già pronto. «Oh, certo.» Lavender frugò nei pantaloni con dita esperte. «Ecco un bel dessert» sussurrò. Si piegò in avanti e Cordy chiuse gli occhi, in attesa della deliziosa sensazione della bocca che si chiudeva sopra la sua erezione, ma non successe nulla. Lavender si raddrizzò e Cordy aprì gli occhi, fortemente deluso. «Che cosa c'è che non va?» gemette. Lavender lo fissò con lo sguardo scintillante. «Forse ho una sua foto.» «Di chi?» «Dell'uomo misterioso. Del vecchio fidanzato.» Cordy sentì scendere l'erezione e salire l'adrenalina. «Una foto? Merda.» «Sì, quella sera abbiamo giocherellato con la mia Polaroid, facendo smorfie e fotografandoci a vicenda le tette e il culo. Me ne ricordo perché Christi non si lasciava riprendere e, ogni volta che ci provavo, girava la schiena. Però è possibile che quel tizio sia finito sullo sfondo di qualche foto.»
«Hai conservato quelle immagini?» chiese Cordy. «Credo di sì, nel mio appartamento. Ho un cassetto pieno di foto del genere.» Cordy accese il motore e strinse il volante della Cruiser. «Dove abiti?» chiese. Lavender gli diede l'indirizzo e Cordy partì a razzo, sgommando e rischiando di sbandare. «Non correre» disse Lavender, con un ampio sorriso. «Perché?» Ridendo, Lavender indicò il pene di Cordy ancora fuori dai pantaloni. «Se ti ferma la polizia, come pensi di giustificarti?» 45 Stride non aveva ancora voglia di tornare a casa. Quando giunse all'incrocio con la strada che portava al motel di Serena, puntò verso il lago, seguendo un itinerario che una volta, molto tempo prima, gli era abituale. Non si chiese dove stesse andando. Lo sapeva, perché il cuore lo spingeva in quella direzione. «Scendiamo in riva al lago» suggerì. «Per me va bene» approvò Serena. Attraversarono Canal Park e, passato il ponte, arrivarono alla "Punta". Stride era di nuovo nel luogo che più di ogni altro gli dava la sensazione di casa. Anche di notte, alla luce dei lampioni, scorgeva i segni del passare del tempo. Alcuni alberi erano cresciuti, altri erano scomparsi. Alcune case erano state costruite, altre erano state abbattute. Stride non era più stato da quelle parti, ma la vita aveva seguito il proprio corso senza di lui. Rallentò passando davanti alla sua vecchia casa. Per la strada non c'era nessuno. Si fermò e abbassò il finestrino. «Questa era la nostra casa» disse. «Mia e di Cindy.» «Mi piacerebbe vivere in un posto così» osservò Serena. La casa aveva un bell'aspetto. I nuovi proprietari l'avevano ridipinta di giallo, facendola sembrare più luminosa. Inoltre dovevano avere il pollice verde, a giudicare dai fiori che abbellivano il giardino. L'erba e le siepi erano ben tagliate. Il vialetto era stato lastricato e c'era perfino un'altalena per i bambini. Le luci erano tutte spente. Forse erano fuori, o dormivano. O magari erano sdraiati a letto, svegli, e ascoltavano lo sciabordio delle onde, come
facevano lui e Cindy. Stride ripartì e seguì la strada deserta fino al parco all'estremità della "Punta". Scese dall'auto e Serena lo seguì. Si presero per mano e si inoltrarono in mezzo agli alberi lungo un sentiero sabbioso, fino al lago. Quando emersero dalla macchia, il cielo si aprì in una profusione di stelle. La distesa d'acqua davanti a loro era nera e rumorosa. Le onde si frangevano a riva. La stretta spiaggia era deserta e buia. Serena sorrise, contenta, e trascinò Stride verso il bagnasciuga, dove di tanto in tanto erano costretti a fare un balzo all'indietro per non bagnarsi i piedi. Lei girò lentamente lo sguardo tutt'intorno a sé, assorbendo il paesaggio con gli occhi. Indicò la striscia di case che si allungava verso la città. «Perché sei andato via da qui?» chiese. «Ad Andrea non piaceva questo posto» spiegò Stride. «E poi c'erano troppi ricordi.» «E ti fa male essere qui, adesso?» Stride scosse la testa. «No, per niente.» Serena si allontanò dall'acqua, cercando un punto asciutto. «Sediamoci e rimaniamo qui per un po', Jonny.» Lui si chinò e prese una manciata di sabbia. «È ancora umida per il temporale.» «Non importa.» Stride glielo lesse negli occhi: per lei, quello era un atto di estrema fiducia. Quanto a lui, ormai non poteva tornare indietro, né aveva intenzione di farlo. Serena si tolse le scarpe, si sbottonò i jeans e se li tolse, rivelando le gambe lunghe e snelle. Poi, alzò le braccia, scoprendo la pancia, e si sfilò con un solo gesto il maglione che Stride le aveva prestato e la maglietta. I seni tendevano il tessuto del reggiseno. Si inginocchiò nella sabbia e allungò le mani verso Stride. «Ti congelerai» disse lui. «Allora scaldami.» Stride si tolse, a propria volta, scarpe e pantaloni, ma tenne addosso la camicia. Si sedette accanto a lei Le loro gambe si toccavano e la sabbia non sembrava affatto fredda. Serena lo abbracciò, infilandogli le mani sotto la camicia. Si baciarono con foga, ritrovandosi stesi a terra. Stride abbassò una spallina del reggiseno di Serena, le scoprì un seno e si chinò a succhiarne il capezzolo. Sentì un gemito soffocato di piacere.
Poi scoprì l'altro seno e lo baciò. La mano di Serena si infilò nei suoi boxer, accarezzandogli l'erezione, e gli tirò fuori il pene, nell'aria fredda. «Presto» sussurrò lei. E, mentre Stride le sfilava le mutandine, lo attrasse a sé e gli prese il volto tra le mani. Lui le coprì di baci le labbra, il viso e il collo. Serena aprì le gambe e gliele allacciò intorno alla schiena. Stride sentì il pene sfiorare il monte di Venere. «Non ho...» mormorò. Serena capì che alludeva al preservativo. «Non preoccuparti» disse, con una vena di tristezza nella voce. «Non corro il rischio di rimanere incinta.» Stride, per un attimo, ebbe paura di aver rovinato tutto. Ma un secondo dopo affondò in lei, trovandola pronta ad accoglierlo. Entrambi emisero un gemito di piacere. Lei gli strinse le dita intorno al collo, avvinghiandosi a lui, e lui penetrò in lei così profondamente che i loro corpi si fusero in uno solo. Il rumore delle onde ruggiva nelle loro orecchie. Serena tenne gli occhi aperti per tutto il tempo. Stride non si era mai sentito così nudo e così intimamente legato a un'altra persona. A un tratto Serena buttò indietro la testa e si lasciò sfuggire un grido e un sorriso nello stesso momento, mentre un fremito le scuoteva il corpo. Stride chiuse gli occhi e si lasciò andare. Serena si era infilata la maglietta, lasciando nuda la parte inferiore del corpo. Stride, steso accanto a lei sulla sabbia, le accarezzava delicatamente le gambe e il monte di Venere. Serena era appoggiata sui gomiti e fissava il cielo. «Ti senti in colpa?» gli chiese. «No, anche se dovrei.» «Bene.» «Posso chiederti una cosa?» disse Stride. Serena fece una smorfia, indovinando la domanda. «Ho aspettato troppo per l'aborto» spiegò «e le cose non sono andate per il verso giusto. Non posso avere figli.» «Ti dispiace molto?» chiese Stride, pensando ad Andrea. «Dipende dai periodi. A sedici anni, dopo tutto quello che avevo passato, non riuscivo neppure a immaginare che una donna potesse desiderare dei figli. Poi, verso i ventisette, ho attraversato un periodo in cui piangevo in continuazione e mi sono messa a bere parecchio. Per un pelo non sono
stata sbattuta fuori dalla polizia. Tale madre, tale figlia, hai presente? Poi, però, ho trovato una strizzacervelli in gamba, che mi ha aiutata a superare il momento nero. Oggi il rimpianto va e viene. In fondo, ho vissuto la mia vita e non mi sembra di essermi persa qualcosa per non avere avuto bambini.» «Lo stesso vale per me» disse Stride. «Senti» disse Serena «per quanto possa sembrarti strana, devo farti una domanda: sono stata brava?» «Come?» «Sono stata brava a fare l'amore? Le cose non sono sempre andate come oggi e so che è stato per colpa mia. Il mio vissuto tornava a galla e creava casini.» «Non c'è bisogno che ti risponda, vero?» Serena sorrise, sollevata. «No, credo di no.» Le carezze di Stride si fecero più insistenti. Serena le assecondò con movimenti del bacino. «Fammi venire di nuovo» gli disse. Ma, tutt'a un tratto, una musichetta elettronica fuoriuscì dai jeans di Serena, interrompendo Stride sul più bello. Scoppiarono a ridere entrambi. Stride allungò la mano verso i pantaloni di lei, ne estrasse il cellulare e glielo porse. «Pronto?» disse Serena, rispondendo alla chiamata, e un attimo dopo aggiunse: «Cordy, non potevi scegliere un momento peggiore». Stride udì una voce concitata dall'altra parte del ricevitore. «Rallenta, Cordy» suggerì lei. «Che diavolo stai dicendo?» Benché Stride non potesse sentire le parole dell'interlocutore di Serena, vide gli occhi di lei accendersi di interesse, a mano a mano che ascoltava. «Sei sicuro che si tratti di lui?» chiese Serena. «Se ti sbagli faremo la figura dei fessi.» Stride sentì salire il tono della voce dall'altra parte. Cordy era sicuro. «Accidenti a lui!» esclamò Serena. «Manda qualcuno a tenerlo d'occhio, ma senza spaventarlo. Osservate solo quello che fa. Io torno domani.» A quelle parole Stride si lasciò sfuggire un sospiro di tristezza. «Ottimo lavoro, Cordy» concluse Serena. «Sono certa che tu e Lavender troverete il modo di festeggiare degnamente.» Chiuse il telefonino e fissò Stride. «Forse stiamo davvero cercando nel posto sbagliato» disse. «In che senso?» «Sembra che Christi, cioè Rachel, avesse un uomo. Cordy ha trovato una
sua foto, scattata nel club dove la ragazza lavorava. L'uomo era sullo sfondo. Cordy l'ha riconosciuto.» «Come ha fatto?» «È un volto noto. Per quanto adesso abbia i lineamenti devastati, Cordy è sicuro che sia lo stesso vecchio ubriacone che ha trovato il cadavere di Rachel. Direi che l'indagine prende tutt'altra direzione, a questo punto.» «La uccide e si limita ad abbandonare il cadavere dietro la sua roulotte?» chiese Stride. «Quel tizio non ha tutte le rotelle a posto, soprattutto quando è ubriaco. Forse il fatto che Christi l'avesse mollato lo ha mandato completamente fuori di testa.» «E così il tizio va a casa di Christi» disse Stride, pensoso «e cerca di convincerla a tornare con lui. Lei lo manda al diavolo e lui l'ammazza colpendola in testa con un vaso di vetro. Poi si porta via il cadavere, lo abbandona nel deserto a pochi metri dalla roulotte in cui vive e si prende una bella sbronza.» «È possibile» disse Serena. Stride scosse la testa. «E la ricevuta del bancomat? Il collegamento con Duluth?» «Forse mi sono sbagliata» rispose Serena, concentrata nello sforzo di mettere insieme i pezzi del rompicapo. «Forse Duluth è una falsa pista.» «Non ti sei sbagliata» insisté Stride. «Per me c'è ancora qualcosa che non sappiamo.» Serena si protese verso di lui e lo baciò sulle labbra. «Vieni con me.» «Come?» «Eri presente quando il caso è stato aperto, Jonny, ed è giusto che tu lo sia quando verrà chiuso. Anche se quel tizio non ha ucciso Rachel, deve comunque sapere qualcosa. Vieni con me a interrogarlo.» Stride si alzò in piedi e cominciò a rivestirsi. «Va bene» accettò. «Ma prima devo fare una cosa.» «Parlare con tua moglie?» Lui annuì. «Mi sento responsabile» disse Serena. «No, la responsabilità è mia.» Stride non temeva più tanto l'idea del divorzio. Andrea aveva già preparato la strada. Ora si trattava di percorrerla. «Domani forse troveremo le risposte che cerchiamo» osservò Serena. Stride non ne era così sicuro. Sapeva che a Las Vegas c'era un mistero,
ma non aveva pensato neppure per un minuto che la verità potesse essere laggiù. La verità era a Duluth e avrebbe aspettato che lui tornasse per svelarsi. 46 Durante i tre anni di matrimonio, Stride e Andrea si erano ritagliati un momento tutto per loro, il sabato mattina. Era un'abitudine cui erano rimasti fedeli, a parte un paio di fine settimana all'anno, quando Andrea andava a trovare la sorella Denise a Miami. Anche quando si trovava nel pieno di un'indagine, Stride cercava di tenersi libero il sabato mattina. Di solito andavano a Canal Park, facevano colazione in un locale in riva al lago e si portavano il giornale da leggere. Oppure facevano un po' di jogging lungo il sentiero del liceo e poi si rifocillavano con i dolci di una pasticceria scandinava. Quelli erano i momenti in cui Stride aveva davvero la sensazione che loro due fossero marito e moglie. Ma adesso era sabato mattina e lui stava facendo la valigia, preparandosi a prendere un volo per Las Vegas via Minneapolis. Era un segnale d'allarme. Andrea se ne stava in un angolo della stanza da letto, con le braccia conserte e la bocca piegata all'ingiù. La rabbia che aveva manifestato quando lui le aveva detto del viaggio si era già dissolta in amarezza. Non aveva voluto sentire le sue spiegazioni e Stride, dal canto suo, non aveva un granché da dirle. «Non farlo» mormorò Andrea, per l'ennesima volta. «Non andare, Jon. Non lasciarmi sola.» Stride gettò alcune paia di calzini nella borsa da viaggio. «Devo andare, te l'ho già detto.» «Ma perché?» replicò lei. «Ormai questo caso non è più un problema tuo. Perché non puoi semplicemente lasciar perdere?» Che cosa poteva rispondere? Doveva scoprire la verità su Rachel, svelare il mistero che lo tormentava da anni. Ma era inutile negare che c'era anche un altro motivo, del quale non aveva parlato alla moglie. Voleva capire se la sua relazione con Serena aveva davvero un futuro. Sì, perché il suo matrimonio era finito. Andrea sembrò leggergli nel pensiero. «Mi vuoi lasciare, lo so. Mi è già successo una volta, riconosco i sintomi.» Lui si voltò a guardarla. «Va bene, forse è così.» «È questo il modo in cui affronti i problemi?» chiese lei. «Fuggendo?
Sono mesi che ci comportiamo come estranei. Torni tardi, non mi chiami mai. Dove sei stato stanotte?» «Lascia perdere» rispose lui. «Perché? Credi che non sappia di te e Maggie?» «Tra me e Maggie non c'è niente, te l'ho già detto. E non voglio parlarne.» «Parlandone, forse potremmo trovare una soluzione» insisté Andrea. «Cristo, tutto quello che riesci a fare è tagliarmi fuori. Ti chiedo di non partire, di restare con me.» Stride ripensò a quello che gli aveva detto Maggie tre anni prima. «Sì, ma tu non mi ami, non mi hai mai amato.» «Non è vero!» «Non fingere» gli disse Stride. «Sono stufo di finzioni.» Andrea lo guardò con un'espressione di sfida. «Ti chiedo di rimanere qui e di provare a risolvere il problema che c'è tra noi.» Stride comprese il messaggio: "Sei mio marito, fallo per me". Avrebbe voluto accontentarla, ma ci aveva provato per anni, senza riuscirci. «Mi dispiace, devo andare.» Andrea gemette, coprendosi la bocca con una mano. «Vuoi il divorzio, vero?» Stride chiuse gli occhi. «Tu no?» «No!» esclamò lei. «Non lo voglio e non lo vorrei mai!» «Tu non sei felice» disse Stride. «Io non sono felice. La risposta è una sola.» «Possiamo sistemare tutto, se resti qui e ne parliamo. Ma tu riesci solo a pensare di andartene.» Stride le prese le mani. «Non possiamo sistemare niente, Andrea. È meglio per tutti e due se proviamo a rifarci una vita.» Andrea si allontanò di scatto e i capelli biondi le ricaddero sul viso. Si prese la testa tra le mani, poi afferrò una bottiglia di profumo dal cassettone e la tirò contro il muro. Il vetro si ruppe e nella stanza si diffuse un aroma dolciastro. Andrea fissò le schegge di vetro sul pavimento, con uno sguardo assente. Stride le passò un braccio intorno alle spalle, ma lei si scostò. «Vattene, allora» gli disse. «Mi dispiace.» Andrea lo fissò, con uno sguardo duro. «Non è vero. Hai già deciso quello che è importante per te. Allora va' pure a cercarlo. E quando lo tro-
vi, spero che ti chiederai perché lo volevi tanto.» 47 Stride si trovava sulla statale, al margine del bosco. Era di nuovo lo stesso sogno, in cui rincorreva una ragazza senza riuscire a trovarla, ma stavolta, dopo averla rincorsa e aver sentito la sua risata canzonatoria in lontananza, la raggiungeva. Era Rachel, immersa in una pozza di sangue in mezzo a una radura. Intorno a lei c'erano Cindy, Andrea e Serena, che fissavano il cadavere. Tutte e tre avevano le mani macchiate di rosso. «Chi è stato?» gridava Stride. Tutte e tre le donne, una dopo l'altra, puntavano l'indice contro di lui. Stride si svegliò di scatto. Serena era seduta accanto a lui e leggeva la rivista della compagnia aerea. «Un brutto sogno?» «Sì, come fai a saperlo?» «Hai gridato il nome di Rachel.» Stride rise. Si passò una mano sul viso e tra i capelli. «Davvero?» «No, sto scherzando. Però, avevi l'aria di chi si trova in un posto in cui non vorrebbe trovarsi.» Lui si chinò a baciarla. «Invece, sono esattamente dove voglio essere.» L'aereo aveva cominciato la discesa. Stride allungò il collo per guardare fuori dal finestrino, ma da dove lui era seduto la città non era visibile. Scorse solo il riflesso di molte luci. Quando, dopo l'atterraggio, l'aereo si girò in direzione del terminal, Stride poté afferrare con lo sguardo lo scintillio di una torre dorata, piegata verso di lui come un boomerang. «Mandala Bay» spiegò Serena. «Stupefacente, eh?» Scesero dall'aereo e, non appena entrarono nell'aeroporto, Stride dovette fermarsi, abbagliato dalle luci e dai colori che brillavano dappertutto. Sorrise, pensando a come doveva essersi sentita Serena all'impatto con il tranquillo aeroporto di Duluth. Indubbiamente, Las Vegas era un altro mondo. Nell'area di recupero bagagli, un uomo si staccò dalla folla e si mosse verso di loro. Serena lo abbracciò, ma senza eccessiva enfasi. Poi fece le presentazioni. «Jonathan Stride, questo è Cordy Angel, il mio collega.» Stride gli strinse la mano. «Piacere. Hai fatto proprio un bel colpo trovando il nesso tra il cadavere e l'ex fidanzato.»
«Be', sono un investigatore straordinario» ribatté Cordy, strizzandogli l'occhio. «Bastardo fortunato è una definizione più calzante» corresse il tiro Serena. Cordy si voltò verso di lei. «Stiamo pedinando il vecchio. Oggi pomeriggio presto è partito in macchina ed è andato al negozio di alcolici, dove ha comprato del gin. Poi è tornato alla roulotte e non ne è ancora uscito.» Serena aggrottò la fronte. «Merda. Probabilmente domani sragionerà. Avrei preferito che tenesse almeno un piede nel mondo reale.» «Non credo che ci trascorra molto tempo.» «Possiamo sempre fargli passare la sbronza al commissariato» disse Serena. «Hai ottenuto il mandato?» Cordy annuì. «Abbiamo il permesso di smontare la roulotte pezzo per pezzo. Ma poiché sono già stato lì dentro una volta, non sarò io a farlo.» «Hai scoperto qualcos'altro sulla relazione tra questo tizio e Rachel?» intervenne Stride. «O, forse, dovrei dire Christi.» Cordy si lisciò i capelli neri. «Nada. Il suo cosiddetto negozio è privo di licenza. Lavender l'ha incontrato solo una volta e dice che Christi non le ha mai parlato di lui. È uno di quei vagabondi che arrivano qui dal nulla. Ce ne sono parecchi a Las Vegas.» «Be', deve pur essere arrivato da qualche parte per riuscire ad aggiudicarsi una ragazza come Christi» disse Serena. «Andremo lì con una squadra domani mattina presto. Puoi accompagnarci a casa mia?» Cordy sollevò un sopracciglio. «Agli ordini.» Stride evitò di incrociare lo sguardo di Cordy, il che probabilmente equivaleva a un'ammissione di colpa agli occhi del poliziotto. «Mai stato a Las Vegas?» chiese Cordy. Stride scosse la testa. «È la prima volta.» «La prima volta qui è come perdere la verginità» sogghignò Cordy. Stride, sul sedile posteriore della PT Cruiser di Cordy, fissava a bocca aperta la serie di enormi casinò su entrambi i lati del Las Vegas Boulevard. Cordy non avrebbe voluto passare di là, ma Serena aveva insistito per mostrare la città a Stride. Avanzavano a passo d'uomo nel traffico del sabato sera. A sinistra, indicò Serena, c'era il Monte Carlo. A destra l'Aladino. Davanti il Bellagio, il Paris, il Bally's. Le dimensioni dei vari edifici erano impressionanti. Stride non aveva mai avuto tanto caldo in vita sua. Appena fuori dall'ae-
roporto il calore gli era piombato contro come un incendio, risucchiandogli l'ossigeno dai polmoni. Benché fosse notte, la temperatura non doveva essere molto inferiore ai trenta gradi e a ogni respiro, Stride si sentiva in bocca la sabbia del deserto. Per fortuna, la macchina di Cordy era dotata di un potente impianto di aria condizionata. «La più bella città del mondo» disse Cordy, con orgoglio. «Chi vorrebbe vivere in un posto diverso? Questo è il massimo, amico.» «Intendi dire che qui vivono degli esseri umani?» chiese Stride, a metà tra il serio e il faceto. «Dài, Jonny» mormorò Serena, voltandosi verso di lui. «Sai che cosa fa andare avanti questa città?» chiese Cordy, dando un colpo di clacson a una Limousine che gli aveva tagliato la strada. «Oh, merda, non la storia delle tette» gemette Serena. Come se non l'avesse sentita Cordy continuò: «Las Vegas è una città di tette, amico». Stride rise. «Come?» «Tette! Qui se ne vedono più che in qualsiasi altro posto. È questo che rende Las Vegas speciale e le dà carattere. Non sono il gioco d'azzardo, gli alcolici o gli otto milioni di stanze d'albergo, ma è il fatto di camminare per strada e vedere una marea di tette che ti ballano davanti agli occhi. Di tutte le forme, di tutte le dimensioni. Coperte di cotone, lycra, nylon, di qualunque cosa, purché attillata, trasparente e provocante. Le donne vengono qui a mostrare le tette e gli uomini sono sempre così arrapati che fanno fatica a camminare.» «Cordy è una specie di sociologo delle tette» spiegò Serena, in tono asciutto. «Mi sbaglio, forse? Dimmi se mi sbaglio.» Prima che Serena potesse ribattere, tre donne sui vent'anni, due bionde e una bruna, attraversarono la strada approfittando della paralisi del traffico. La bruna passò davanti alla Cruiser e gli occhi di Stride si fissarono d'istinto sul suo petto. La ragazza indossava una maglietta scollata, da cui i seni sembravano voler balzare fuori. Cordy suonò il clacson e alzò i pollici. La ragazza gli sorrise, muovendo la lingua in modo lascivo. Serena sospirò. «Non ho detto che ti sbagli.» «Bene. La ragione per cui in questa città tante spogliarelliste riescono a pagarsi gli studi è che gli uomini sono così arrapati osservando le donne per la strada da essere disposti a pagare qualunque cifra per vedere che cosa c'è sotto i vestiti.»
Dopo aver superato il Flamingo, il traffico si fece più scorrevole. Serena indicò un'altra serie di enormi resort, che andavano dal Caesar's a sud fino allo Stardust a nord. Mentre passavano davanti al Mirage, il finto vulcano dell'hotel-casinò entrò in azione, lanciando in aria una colonna d'acqua, vapore e fuoco. La folla si fermò a guardare. Stride non aveva mai visto una città così pulsante di vita. Era elettrizzante osservare il flusso di gente che entrava e usciva dalle case da gioco e sgomitava per attraversare la strada. Cordy aveva ragione: c'erano tette ballonzolanti dappertutto e odore di sesso, sigarette e soldi. Comunque, a mano a mano che si spostavano verso nord, Stride notò che l'aura dorata dello Strip si perdeva rapidamente. I grandi casinò lasciavano il posto a pornoshop e sale massaggi, bar con macchine da videopoker, motel con le insegne al neon fulminate. I turisti sui marciapiedi erano pochi; i più erano abbastanza furbi da non avventurarsi in quei quartieri. C'erano prostitute a ogni angolo, con i capelli tinti e il trucco pesante. Sulle soglie delle case dormivano barboni. «Niente vulcani, qui» mormorò Stride. Serena scosse la testa. «Questa zona viene chiamata Naked City, la città nuda. C'è la Stratosphere Tower, ma tutt'intorno ci sono più omicidi e spacciatori di droga che in qualunque altra parte della città.» Dopo un altro paio di chilometri, lasciarono lo Strip e svoltarono sulla Charleston, prendendo a ovest. Lì la città somigliava a una normale zona di prima periferia: centri commerciali, fast food e hard discount. Dieci minuti dopo raggiunsero il complesso residenziale in cui abitava Serena. Un gruppo di villette a due piani, bianche con i tetti rossi, recintate e chiuse da un cancello. Serena fece un cenno al guardiano, il quale aprì il cancello con il telecomando e li fece passare. Cordy, evidentemente pratico del luogo, percorse un incredibile labirinto di vialetti e incroci, fermandosi davanti a una villetta nella parte posteriore del complesso. «Casa, dolce casa» annunciò. Stride e Serena presero i bagagli. Dall'asfalto saliva un calore che il vento secco non riusciva a mitigare. Stride sentì l'impulso di asciugarsi la fronte, ma si rese conto che in quel clima così arido non si sudava. «Ci vediamo qui domani mattina, alle nove» disse Serena a Cordy. «Avvisa la Scientifica di raggiungerci sul posto alle dieci.» Cordy strizzò l'occhio a Stride. «Sei sicuro di voler rimanere qui? Potrei portarti a visitare alcuni locali.» «Buonanotte, Cordy» lo salutò Serena.
«Accidenti, mama, come puoi chiedergli di stare in questo mortorio? È la sua prima volta a Las Vegas, merita di divertirsi un po'.» «Si divertirà, non preoccuparti» disse Serena. 48 Stride, ormai sveglio, guardava Serena dormire, alla luce del sole che filtrava dalle tapparelle. Era sdraiata a pancia in giù, con il viso parzialmente coperto dai capelli e le braccia sotto il cuscino. La morbida protuberanza del suo seno destro, premuto contro il materasso, era appena visibile e la curva della schiena scendeva fino alla base della spina dorsale per risalire in corrispondenza delle natiche. Una gamba era sotto il lenzuolo, l'altra sopra. Serena si girò, scoprendo entrambi i seni, e aprì lentamente gli occhi. «Che ore sono?» chiese con voce assonnata. «Quasi le otto e un quarto.» Serena gemette. «Merda! Cordy sarà qui tra poco.» Stride cercò di accarezzarle i seni, ma lei gli diede un buffetto sulla mano. «Stai buono, tenente. Abbiamo solo cinque minuti per fare la doccia.» «Posso farcela, in cinque minuti.» «Silenzio.» Serena scese dal letto e si infilò in bagno. Da dietro la porta chiusa gli urlò: «Prepara il caffè, per favore». «Va bene.» Stride scese nudo al piano di sotto. Aprì tutti gli armadietti, finché non trovò il barattolo del caffè. Con qualche difficoltà riuscì a far funzionare la caffettiera scandinava di Serena, poi tornò di sopra. Serena era seduta sul letto e si stava avvolgendo un asciugamano intorno ai capelli. Gocce d'acqua brillavano sulla sua pelle nuda. «So quello che hai in mente» buttò là. «Ma ti ho detto che non c'è tempo.» «Come fai a sapere che cosa ho in mente?» Lei puntò lo sguardo sulla zona inguinale di Stride e lui fece altrettanto. «Oh.» «Già: oh. Ora vai a fare la doccia. Forse ti conviene usare l'acqua fredda.» Quando Stride emerse dal bagno, la camera era vuota, ma pochi secondi dopo Serena tornò, con due tazze di caffè fumanti. Era vestita solo a metà e indossava una maglietta scollata sopra le mutandine.
«Dobbiamo sbrigarci, Jonny. Cordy è sempre puntuale.» «Quindi, se vogliamo combinare qualcosa, dobbiamo fare in fretta?» «Adesso devi solo pensare a vestirti» disse lei. Poi fissò di nuovo le parti basse di Stride, piegando la testa di lato. «Riesci davvero a farlo in cinque minuti?» Nell'auto di Cordy ripresero gli stessi posti della sera prima, Serena davanti e Stride dietro. Uscirono dalla città, presero la I-15 e attraversarono il deserto. Stride era eccitato. Da qualche parte davanti a loro c'era un uomo che aveva conosciuto Rachel dopo la sua scomparsa. Un uomo che l'aveva vista nella sua nuova vita. C'erano domande che attendevano una risposta da ben quattro anni e forse quell'uomo avrebbe potuto svelare il mistero. Avrebbe potuto anche essere l'uomo che aveva ucciso Rachel, abbandonando il suo cadavere nel deserto. Serena aveva preso la sua Sig Sauer 9 mm, infilandola in una fondina nascosta sotto la sahariana blu. Anche Stride si era portato la Ruger. Cordy uscì dalla strada principale e indicò una roulotte malandata, a tre o quattrocento metri di distanza. «Lui vive lì» disse a Stride. «È stato trovato qui il cadavere?» chiese Stride. «Sì» rispose Serena. Cordy parcheggiò davanti alla roulotte, lasciando il motore acceso. «Lasciaci soli con lui cinque minuti, okay?» disse Serena. Lei e Stride scesero. La roulotte era grigia, incrostata di sporco e sabbia. Una specie di sentiero conduceva dalla strada fino all'ingresso. Stride rimase colpito da una strana cacofonia portata dal vento, un suono privo di ritmo, una nenia tintinnante come se migliaia di bambini stessero giocando con dei campanelli. «Che diavolo è questo rumore?» chiese. «Campane a vento» rispose Serena. «In quantità.» Serena salì i gradini e bussò sulla fiancata di alluminio della roulotte. Non ci fu risposta. Solo il tintinnio delle campane a vento. Sulla porta era scritto a mano: «Sempre aperto». Serena lanciò un'occhiata a Stride, poi si strinse nelle spalle e spinse la porta. Il rumore delle campane a vento dentro era assordante. Una finestra aperta creava una corrente d'aria che faceva sbattere l'uno contro l'altro i pezzi di vetro in una danza multicolore. Serena andò a chiudere la finestra e finalmente il rumore si ridusse a un tintinnio in sottofondo. Fu allora che una voce disse: «Allora, alla fine ci siete arrivati.»
Serena e Stride si voltarono di scatto. Bob era seduto a un tavolino, davanti alla tenda che separava il cosiddetto negozio dal resto della roulotte. Davanti a lui c'era una scatola di metallo con il coperchio sollevato. Bob indossava T-shirt e pantaloncini, entrambi troppo larghi per il suo corpo scheletrico. Ai piedi portava un paio di vecchie scarpe da ginnastica. Aveva occhi da maniaco, piccoli e intensi, come due buchi neri. Guardò i due poliziotti, soffermandosi in particolare su Stride, come se avesse scorto nel suo viso qualcosa di strano e inaspettato. La sensazione fu reciproca, perché anche Stride, fissando Bob, pensò per un attimo di conoscerlo. Ma quell'uomo era un perfetto sconosciuto per lui. «Come ti chiami?» chiese Stride. Bob si strinse nelle spalle. «Il mio nome è scritto sull'insegna.» «Anche se non vuoi dircelo, non sarà difficile scoprirlo» gli fece presente Serena. «Ah, sì? Non ho documenti, non pago le tasse e nessuno mi ha mai preso le impronte digitali. Come pensate di scoprire qualcosa su di me?» «Sembri molto furbo» disse Serena. «Mi aspettavo un vecchio ubriacone.» Bob aggrottò la fronte e indicò il retro della roulotte. «Il gin è lì, nel caso in cui io sparisca dalla scena.» «In che senso?» chiese Serena. Bob si sfregò la barba lunga, poi fece con il pollice e l'indice il gesto di puntarsi una pistola alla tempia e sparare. «Vuoi ucciderti? Perché?» Bob si voltò verso Stride e gli rivolse un sorriso amaro. «Tu lo sai.» «Come posso saperlo?» «Sei un uomo. Qual è la ragione per cui un uomo fa qualunque cosa?» «Una donna» rispose Stride. Serena si avvicinò all'uomo. «Stai parlando di Christi?» La rabbia di Bob svanì, lasciando il posto alla malinconia. «Tu le assomigli» disse, con voce rotta, guardando Serena. «Aveva gli occhi verdi, come te. Ma era fredda come un serpente. Mi ha distrutto. Guardatevi intorno. Guardate la mia vita. Eppure, se potessi riavere lei, sopporterei volentieri di nuovo tutto questo inferno.» «Ci tenevi davvero tanto? Era così brava?» chiese Serena. «Non era brava. Era malvagia.» «Che cosa ti ha fatto?» insisté Serena. «Ti ha respinto?»
Bob esplose in una risata selvaggia. «Se solo fosse così semplice! È come avere le chiavi del palazzo, finché un giorno qualcuno cambia la serratura. E tu ti rendi conto che hai abbandonato tutto, hai distratto la vita tua e di altri, per una fantasia.» «Quando l'hai vista per l'ultima volta?» Bob agitò la mano in un gesto d'impazienza. «Non perdiamo tempo. Vuoi chiedermelo? Allora chiedimelo e basta.» Stride sapeva a che cosa si riferiva. «Hai ucciso Rachel?» «Qualcuno doveva farlo» rispose Bob. «Ma sei stato tu?» chiese Stride. «Volete che confessi, vero? Così sarebbe tutto più semplice.» «Vogliamo solo sapere che cosa è successo.» Bob spazzò via uno scarafaggio dal tavolo. L'insetto scappò a rifugiarsi al di là della tenda. «No, è meglio di no. Sapete già tutto quello che c'è da sapere.» «Ma non sappiamo il motivo» disse Stride. Bob rise. «Per lei era un gioco. Distruggeva le persone. Ma a volte capita che arrivi qualcuno che distrugge te.» «Credo che sia meglio continuare questa conversazione da un'altra parte» disse Serena, allungando la mano verso le manette. «Perché non vieni al commissariato con noi? Ti darai una ripulita e potrai fare un pasto decente.» Bob spalancò gli occhi. «Non sarà così semplice» ruggì. La sua velocità li colse di sorpresa. Tuffò una mano nella scatola di metallo, poi balzò in piedi con un urlo, puntando il braccio in alto. Stride vide l'oggetto che aveva in mano. Un revolver Smith & Wesson con canna di dieci centimetri. Stride e Serena fecero un salto indietro, sbattendo contro le campane a vento, che fecero un rumore indiavolato, cadendo sul pavimento e andando in frantumi. Stride si gettò a terra, tagliandosi una mano con una scheggia di vetro. Infilò la mano insanguinata nella giacca e afferrò la Ruger, poi, rapidissimo, tolse la sicura e si sollevò su un ginocchio, mirando al petto di Bob. A un metro di distanza, Serena aveva fatto quasi gli stessi gesti e teneva la sua automatica puntata con entrambe le mani. Bob non si mosse. Li fissava con uno strano ghigno di trionfo, spostando gli occhi dall'uno all'altro come in una partita di ping-pong. Il revolver gli tremò nella mano.
«Che cosa aspettate?» chiese. «Non vogliamo farti del male» disse Serena. «Metti giù la pistola.» «Io voglio andarmene» disse Bob. «E voi mi aiuterete.» Le sue dita si strinsero sul calcio della pistola. Bob abbassò il braccio. «Sto per sparare» annunciò Serena. «No!» disse Stride. «Aspetta!» Non voleva che la sua unica finestra sulla verità si chiudesse. Bob non aveva alzato il cane del revolver. Non era pronto a sparare. Ma gli puntava la pistola in faccia. Stride fissò il buco nero della canna. La vecchia ferita sul braccio pulsava, ricordandogli un altro sparo, un altro dolore. «Bob, non spararmi» disse Stride. «Metti giù la pistola e stavolta sarai tu a vincere, non lei.» Bob scosse la testa. «Lei vince sempre.» Stride mise la sicura alla Ruger, poi la posò lentamente a terra. «Jonny, che cazzo fai?» sibilò Serena. «Non sparerò, vedi?» disse Stride a Bob. L'uomo rimase in silenzio, esitante. Tin, tin, tin, facevano le campane a vento. «Non sono io che sto facendo questo» disse Bob alla fine. «È lei. È sempre lei.» Stride scosse la testa. «Non puoi più incolparla di nulla, Bob. È morta. Stavolta sei solo tu. È davvero questo che vuoi?» La mano con la pistola tremò. Bob fece un lungo sospiro e il suo corpo scheletrico sembrò incavarsi ancora di più. Lasciò ricadere il braccio, con la pistola puntata verso il pavimento. Stride si sentì invadere da un'ondata di sollievo. «Ora posala sul tavolo, lentamente, va bene?» A un tratto, però, il volto di Bob si contorse in una smorfia di panico. Lui spalancò la bocca e fece un passo indietro. Guardava qualcosa dietro le spalle di Stride. «È lì!» urlò. «Lei è lì!» «Jonny, sta perdendo la testa» disse Serena. Stride sapeva che era vero. Bob si stava disintegrando. «Non c'è nessuno qui» fece notare Stride con decisione. «Sei morto!» urlò Bob. Digrignando i denti, alzò la pistola con mano tremante e armò il cane con il pollice. «Fermo!» gridò Serena.
Stride contrasse i muscoli, aspettando di sentire lo sparo e il dolore, ma Serena fu più veloce nello sparare e Bob cadde all'indietro. La pistola gli scivolò di mano. Bob atterrò sul pavimento con un tonfo sordo e gli occhi pieni di terrore. Dalle labbra gli usciva una bava insanguinata. Braccia e gambe erano scosse da spasmi. Serena gli andò vicino. Bob aveva ancora abbastanza forza da sollevare la testa e contemplare il proprio petto sfondato. Sorrise. Cercò di parlare, ma le parole gli morirono in gola, la mascella ricadde e gli occhi fissarono i due poliziotti senza vederli. La porta della roulotte si spalancò. «Cordy!» gridò Serena. «Chiama un'ambulanza!» Ma entrambi sapevano che Bob sarebbe morto prima di arrivare in ospedale. E il mistero sarebbe morto con lui. Stride, seduto sul sedile posteriore dell'auto di Cordy, con la portiera aperta e le gambe fuori, senti per la prima volta da mesi la voglia di accendersi una sigaretta. Un rivolo di sudore gli colava lungo la spina dorsale. Alcuni metri più in là, due investigatori degli Affari Interni, freddi come rettili malgrado il caldo implacabile, interrogavano Serena riguardo alla sparatoria. Lei rispondeva impassibile, senza tradire emozioni. Ma Stride sapeva che il contraccolpo doveva ancora arrivare. Arrivava sempre, anche tra i poliziotti con più anni di servizio. Togliere la vita a un'altra persona, guardarla morire per mano tua era devastante. Poteva mandare un poliziotto in terapia. Qualcuno dava le dimissioni. E poi c'erano le domande, le supposizioni. Persone che non erano presenti, che non avevano vissuto quei momenti terribili, si sentivano in diritto di interrogarti e di mettere in dubbio le tue parole. Stride non poteva fare altro che aspettare il proprio turno per raccontare com'era andata. Un colpo preciso. Inevitabile. Quando era arrivata l'ambulanza, Bob era già cadavere. Due infermieri l'avevano coperto con un lenzuolo e ora lo stavano trasportando fuori della roulotte su una barella. La brezza del deserto agitava un angolo del lenzuolo come una bandiera bianca. Stride, fissando una gamba di Bob e la vecchia scarpa da ginnastica che aveva al piede, ebbe la sensazione che il mondo si fermasse, come un carillon che avesse esaurito la carica.
Si aspettava quasi che il cadavere si rialzasse, puntando contro di lui un dito scheletrico e ridendo come per un gioco di prestigio ben riuscito. Ma non si trattava di un gioco di prestigio. Stride conosceva bene la forma della suola di quella scarpa e l'ovale rosso al centro. Dopo quattro anni, la riconobbe istantaneamente. Bob indossava le scarpe di Graeme. Stride rimase impietrito, mentre il suo cervello cercava freneticamente di afferrare la realtà che gli stava davanti. E un attimo dopo, capì. Era stata tutta una messinscena. Rachel aveva rubato le scarpe di Graeme, portandole via in una borsa di plastica. E quell'uomo, che ora giaceva sotto il lenzuolo, le aveva indossate. Lui era a Duluth quella notte. Stride balzò fuori dall'auto e corse verso la barella, facendo sobbalzare gli infermieri. Abbassò il lenzuolo e fissò la faccia di Bob, con gli occhi ancora spalancati. «Ehi, che diavolo sta facendo?» protestò un infermiere, trattenendolo per una spalla. Stride si liberò con uno strattone e si chinò sul cadavere. L'odore di sangue, morte e sporcizia gli colpì le narici. Fissò il viso di Bob, in cerca della verità. "Io ti conosco". Si girò e vide Serena con la coda dell'occhio. Sentì che lei riusciva a leggergli nel pensiero e a percepire la sua paura. Ma, grazie a Dio, non disse nulla, non reagì e distolse lo sguardo da lui per evitare che i due investigatori si voltassero. Una voce alle spalle di Stride disse: «Ehi, tutto bene?». «Cordy!» sibilò Stride, trascinando il giovane in disparte. «Hai detto che c'era una vecchia foto, scattata prima che Bob assumesse questo aspetto. Ce l'hai?» «Certo, certo. Lavender me l'ha data. Pensavo che ci potesse servire per incastrarlo.» «Fammela vedere.» Cordy estrasse dalla tasca dei pantaloni una foto in un involucro di plastica trasparente. Stride gliela tolse di mano. Il riflesso del sole gli impediva di vedere bene attraverso la plastica e così strappò l'involucro e lo gettò via. «Ehi, cazzo, non puoi...» disse Cordy, ma si interruppe quando vide l'espressione di Stride. Lui teneva la foto come se temesse di scottarsi. «No, no, no» mormorò. Non riusciva a credere ai propri occhi. Si sentì
sprofondare. 49 Stride, sempre più impaziente, bevve un sorso di caffè ormai freddo da un bicchiere di polistirolo e fissò i turisti che, al di là della vetrata, si dirigevano verso la fila delle auto a noleggio. Il rombo di un altro aereo in atterraggio fece tremare le pareti, mentre le ombre della sera si allungavano ogni minuto di più. La porta a vetri sbatté e un'addetta della società di autonoleggio entrò. Veniva dal parcheggio, era sudata e teneva in mano un portablocco di plastica. «Quanto manca?» chiese Stride. La donna si fermò, con le mani sui fianchi. «Le sembro una veggente? Le ho già detto che dovevano arrivare due ore fa.» «I ragazzi sanno come comportarsi?» chiese Stride. «Non voglio che puliscano la macchina prima che noi l'abbiamo esaminata.» «Una Cavalier rosso mattone. Targa del Texas.» Recitò il numero di targa. «Appena arriva voi sarete i primi a vederla. Perciò calmatevi e aspettate.» Poi scomparve nel retro, al di là del bancone. Serena era seduta accanto a Stride, su una sedia di metallo, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia. I capelli neri le ricadevano sul viso. Si alzò stancamente e si mise alle spalle di Stride, cominciando a massaggiargli il collo. Si chinò e gli disse all'orecchio: «Sai che non è necessario». «Lo è. Devo sapere.» Serena sospirò. «Come vuoi.» Naturalmente, aveva ragione lei. Era meglio andare via. Quando l'auto fosse arrivata, Stride sapeva che cosa avrebbero trovato. E, una volta scoperta la verità, avrebbe rimpianto di non aver lasciato morire il mistero con Bob, nel deserto. Ma non poteva fermarsi. La foto lo aveva guidato fin lì, dal deserto all'aeroporto, alla società di autonoleggio. La pista era così ovvia che si chiese se non fosse stata lasciata apposta. Serena gli prese dalle mani il bicchiere di polistirolo e bevve un sorso di caffè. Fece una smorfia. «Che schifo.» Stride sorrise.
«Così va meglio» disse lei. «Senti, non devi preoccuparti per me» spiegò Stride. «È tutto a posto. Tu hai già i tuoi problemi.» «Per il fatto che ho ucciso un uomo, intendi? Perché ho appena trascorso sei ore con quelli degli Affari Interni, rivivendo la scena almeno cinquecento volte? Normale amministrazione.» «Sì, certo.» Serena si strinse nelle spalle. «Mi faranno parlare con uno strizzacervelli. Sarà come ai vecchi tempi. Piangerò più tardi.» Abbassò gli occhi a guardarsi le scarpe, ancora macchiate di polvere e sangue. «Vuoi la verità, Jonny? È stato facile. Troppo facile.» Stride non disse nulla. L'addetta emerse dall'ufficio, con un walkie-talkie all'orecchio. «La vostra auto è appena arrivata. Uno dei ragazzi la sta portando qui.» Stride sentì un nodo allo stomaco per la tensione. «Qual è la routine, quando torna una macchina? Passano l'aspirapolvere, lavano i tappetini...» «Esatto.» «Anche il bagagliaio?» La donna scrollò le spalle. «Se qualcuno ci vomita dentro. Il che a volte succede.» «Ed è sicura che questo sia il primo noleggio, da quando è tornata, lo scorso fine settimana? Nessun altro cliente l'ha presa nel frattempo?» «Nessuno.» Un inserviente parcheggiò la Cavalier davanti all'ufficio, lasciando il motore acceso e la portiera aperta. Stride e Serena si infilarono i guanti di lattice e uscirono. Stride aveva in mano una torcia alogena che aveva preso dall'auto di Serena. La puntò subito sul sedile posteriore della Cavalier. L'autò era pulita. Niente spazzatura, niente cartacce. Stride si inginocchiò e puntò la torcia sotto i sedili. Niente. Poi lui e Serena passarono una mezz'ora studiando il tessuto del sedile posteriore, un centimetro alla volta. Ancora niente. Stride si rialzò. «Controlliamo il bagagliaio.» «Probabilmente il cadavere era avvolto in un copriletto» gli ricordò Serena. «Quello che mancava dal letto.» «I copriletti lasciano tracce» rispose Stride. Non ci volle molto. Aprirono il bagagliaio, Stride accese la torcia e individuò quasi subito una macchia marrone grande come una moneta da mezzo dollaro. Serena si chinò per guardare da vicino.
«Potrebbe essere sangue» disse, calma. E aggiunse: «C'è anche qualcos'altro». Infilò una mano in tasca e ne estrasse un paio di pinzette, che usò per prelevare qualcosa incastrato nel bordo metallico del bagagliaio. Fece un passo indietro e sollevò le pinzette alla luce del sole. Stride vide un capello biondo, che terminava in una radice nera. «Forse non significa nulla» disse Serena. «Tanta gente qui si tinge i capelli.» Ma sapevano entrambi che non era così. «Devo andare» annunciò Stride. L'addetta gridò dalla porta, agitando il portablocco: «Allora, mi restituite la Cavalier o no? Devo saperlo, altrimenti qualcuno resterà a piedi!». Stride e Serena si scambiarono una lunga occhiata. Lui sapeva che lei poteva prendere solo una decisione: sequestrare la macchina, chiamare la Scientifica, insacchettare le prove e far crollare il mondo addosso a Stride. Serena distolse lo sguardo, chiuse il portabagagli e fece un cenno d'assenso alla donna. «La prenda pure.» 50 Stride trovò Andrea nel suo ufficio, intenta a correggere compiti. La scuola era immersa nel silenzio e la porta della stanza era aperta. Andrea non lo aveva sentito arrivare e continuò a lavorare, con la testa bionda china sui fogli. Stride ricordò la prima volta che era andato in quell'ufficio. Allora erano due persone ferite, sole. Lui era davvero convinto che avrebbe potuto aiutarla, ma l'amarezza di Andrea non era mai svanita, neppure dopo il matrimonio. Avevano fatto un errore. Ma Stride non avrebbe mai immaginato quanto l'avrebbe pagato caro. «Ciao, Andrea» la salutò. Lei alzò gli occhi. Stride si aspettava di vedere una espressione di rabbia o di tristezza. Invece non c'era nulla, come se in quei pochi giorni fossero diventati due estranei. «Bentornato» disse Andrea, senza emozione. «Non credevo di rivederti così presto.» Sembrava invecchiata, ma forse era solo la mancanza di trucco sul viso. Indossava una vecchia felpa e aveva i capelli tenuti indietro da due mollette e i mezzi occhiali sul naso.
«Allora, hai scoperto tutto?» chiese, con un'ombra di risentimento nella voce. «Ne valeva la pena?» Stride entrò nell'ufficio e si sedette sulla sedia di fronte alla scrivania. «Lui è morto, Andrea.» Lei fece un respiro profondo e si scostò dalla scrivania. Si tolse gli occhiali, con uno sguardo colmo di orrore, ma non disse nulla. Aspettò che fosse lui a pronunciare il nome del morto. Stride annuì. «Robin» disse. Stride avrebbe quasi voluto che lei mentisse, che si fingesse sorpresa di sapere che Robin, il suo ex marito, era l'amante di Rachel. Ma Andrea si limitò a chiudere gli occhi. «Quello stupido bastardo» disse. «Come è successo?» Stride le spiegò brevemente l'accaduto. Andrea non fece drammi. Solo una lacrima le scese dall'occhio destro, rigandole la guancia. Stride rimase in silenzio per alcuni secondi, poi la rabbia che covava dentro di sé ebbe la meglio. «Tu sapevi» disse. «Tu sapevi tutto e non mi hai mai detto nulla. Mi hai lasciato andare a Las Vegas, sapendo quello che avrei trovato.» «Ti avevo detto di non andarci» ribatté Andrea, asciugandosi la guancia. «Sei stato tu a insistere.» «Perché è il mio lavoro!» esclamò Stride. Si alzò, chiuse la porta dell'ufficio, sbattendola, e tornò a fissare Andrea. «Da quanto tempo lo sapevi? Già da quando ci siamo conosciuti? Le indagini erano a un punto morto, non sapevamo che pesci pigliare e tu sapevi che Robin era fuggito con Rachel.» «No, allora non lo sapevo!» si difese Andrea. «Lui mi aveva lasciato mesi prima della scomparsa di Rachel. Glielo aveva suggerito lei, capisci? Così non ci sarebbe stato nessun collegamento. E gli aveva detto di tornare a prenderla in autunno.» «Allora quando l'hai saputo? E come?» Andrea abbassò lo sguardo. «Robin mi ha scritto il mese scorso.» «E ti ha parlato di Rachel?» «Come no!» Andrea storse la bocca, come se avesse ingoiato qualcosa di acido. «Lei era citata in continuazione. Rachel, Rachel, Rachel. Come l'aveva sedotto, usato e poi gettato via. Quello stronzo patetico era ossessionato da lei.» «Dov'è la lettera?» Andrea esitò. «L'ho bruciata.»
«Perché?» Stride sospettava che se avesse aperto il cassetto della scrivania, l'avrebbe trovata lì. «Non so perché» rispose Andrea. «L'ho fatto e basta. Volevo cancellare Robin dalla mia mente, dimenticare quello che mi aveva fatto.» Stride scosse la testa, incredulo. «Stai mentendo. Dici che Robin era ossessionato? E tu? Mio Dio, ti ha lasciata per fuggire con una diciassettenne e tu lo ami ancora.» Andrea non negò. Serrò la mascella, in atteggiamento di sfida. «Spiegami una cosa, Andrea» insisté Stride. «Robin ti scrive una lettera, rivelandoti tutta la verità su lui e Rachel. E tu che cosa fai? Corri da lui. Vai a strisciare ai suoi piedi, a Las Vegas, cercando di riprendertelo.» A questo punto, Stride vide paura negli occhi di Andrea. «Io non...» cominciò lei. «Non insultare la mia intelligenza» la interruppe Stride. «Mi credi proprio stupido? Prima mi supplichi di non andare. Io vado ugualmente e trovo il tuo ex marito trasformato in un barbone alcolizzato che vive in una roulotte. Qual è stato il mio primo pensiero, secondo te? Sono andato all'aeroporto. Ho chiamato la società della tua carta di credito. So che quando sei andata da tua sorella, la settimana scorsa, hai preso un volo da Miami per Las Vegas.» «Non è come pensi» disse Andrea. «Non volevo che tornasse con me. Ma avevo paura. Nella lettera parlava di suicidio. Non potevo starmene qui senza fare nulla. Per questo sono andata a Las Vegas. Per parlargli.» «Non mi interessa perché ci sei andata» tagliò corto Stride. «Non sono qui per parlare di te e Robin.» Il silenzio tra loro si caricò di tensione. «Voglio parlare di quello che è successo tra te e Rachel» disse Stride. La osservò come faceva con i sospettati, registrando ogni minimo movimento del viso. E vide quello che si aspettava. Colpevolezza. «Voglio sapere perché l'hai uccisa» disse. Andrea rimase calma. «Devo chiamare un avvocato?» «Credi che voglia arrestarti? Non mi conosci, Andrea. Per la polizia di Las Vegas, Rachel è stata uccisa da un vagabondo di nome Jerky Bob. Caso chiuso.» «E come fai a essere sicuro che non sia andata proprio così?» Stride sospirò, disgustato. «Piantala, Andrea. Robin si sarebbe tagliato le
mani, piuttosto che fare del male a Rachel, lo sai. E tu ti sei lasciata dietro una pista larga un chilometro. Ho rintracciato l'auto che avevi noleggiato. C'erano capelli e sangue nel bagagliaio. Dopo averla uccisa sei andata ad abbandonare il cadavere nel deserto.» «Volevo che lui la vedesse» disse lei, in tono amaro. «La desiderava tanto e così gliel'ho portata.» «Dimmi tutto» disse Stride. «Voglio sapere la verità.» Andrea annuì, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio e mordendosi un labbro. «Non volevo che andasse così.» Si alzò e uscì da dietro la scrivania. Invece di guardare lui, contemplò le foto sulla parete. Di lei e Stride. Di lei e Robin. Le teneva ancora adesso. I suoi vestiti odoravano di tabacco. Aveva ripreso a fumare. «Quella lettera mi ha distrutto, Jon» disse piano. «Sapevo bene che tu e io eravamo in crisi e me ne stavo facendo una ragione. E poi è arrivata la lettera di Robin e ho scoperto la verità su quello che è successo tre anni fa. Dovevo vederlo. Non sono andata lì per vedere lei, Cristo! Non mi è mai neppure passato per la mente.» Si voltò finalmente a guardare Stride. «Tu sei stato lì. Hai visto com'era ridotto per colpa di Rachel.» «Era ridotto così per colpa sua» ribatté Stride. «No, non è vero. Robin è sempre stato un debole e Rachel l'aveva capito. L'ha usato. Robin mi ha raccontato che lei leggeva le sue poesie, gli diceva che era un genio. Lo aveva convinto che erano fatti l'uno per l'altra e lui le aveva creduto. Ma era solo un'altra menzogna. Morto Graeme, Rachel si è liberata di Robin senza pensarci due volte. Non ha più avuto bisogno di lui e l'ha lasciato da un giorno all'altro. Gli ha spezzato il cuore. Robin ha cominciato a bere. Non gli era rimasto più nulla per cui vivere.» «Dimmi di Rachel» intervenne Stride. «Sì, va bene. Come ti ho detto, non avevo intenzione di vederla. Robin mi aveva detto dove lavorava, ma non pensavo di andarci. Non ero lì per lei. Robin e io abbiamo parlato per un paio d'ore, se possiamo definirlo parlare. Era completamente andato. E io non riuscivo a sopportarlo.» «Così sei andata da Rachel.» «No. Davvero non volevo vederla. Stavo andando verso l'aeroporto, per tornare a casa, ma continuavo a pensare a lei, a quello che aveva fatto a Robin e a me. Mi sono ritrovata davanti a quel locale. Volevo solo capire com'era, guardarla negli occhi. Appena è uscita sul palco, ho capito che era lei. Robin non aveva mentito. Era bellissima. E fredda come il ghiaccio.» «Allora mi sono resa conto che vederla non era abbastanza. Volevo che
mi guardasse negli occhi, che ammettesse tutto il male che ci aveva fatto. Ho aspettato nel parcheggio, poi l'ho seguita. Quando sono arrivata al suo appartamento, per poco non ho rinunciato. Che cosa puoi dire a una persona che non conosci e che ti ha rovinato la vita? Poi ho pensato a Robin che marciva in quella roulotte e mi è tornata la rabbia.» «Rachel ti ha riconosciuta?» chiese Stride. «Certo. Immediatamente. Si è messa a ridere e mi ha chiesto se ero venuta per Robin. Ha detto che, se avessi voluto, avrei potuto riprendermelo. Sapeva tutto delle indagini, di me e di te. Le sembrava divertente. "Ho trovato un marito per te e un assassino per lui" ha detto. E ha aggiunto che avremmo dovuto ringraziarla.» Andrea era sul punto di crollare. «Non so che cosa è successo. Voglio dire, non stava andando come avevo immaginato. Rachel non aveva nessun rimorso, nessuna vergogna. Mi guardava con quegli orribili occhi verdi, come se fossi un insetto con cui giocare per un po' prima di schiacciarlo.» Stride notò che le tremavano le mani. Andrea stava per perdere il controllo. Ma lui voleva sapere. «Che altro ha detto?» chiese. «Ha mentito!» gridò Andrea, stringendo i pugni. «Ha detto un sacco di bugie.» «Su cosa?» «Su tutto! Le ho detto che non aveva il diritto di fare quello che aveva fatto. Robin mi amava.» Andrea strinse gli occhi, in uno sguardo quasi da rettile. «E sai che cosa mi ha risposto? Che Robin mi avrebbe lasciata comunque. Era stato semplicissimo sedurlo, perché lui non sopportava più di fare l'amore con me. Le aveva detto che era come scopare con un cadavere. Come se tra le gambe avessi una cosa morta.» «Che figlio di puttana!» mormorò Stride. «Allora ho capito che non stava mentendo, che era tutto vero. Ero io quella che aveva mentito a se stessa per anni. Non mi ero mai sentita così piena di rabbia e lei se ne stava a fissarmi sorridendo, come se per lei la rovina della mia vita fosse un gioco. Come se tutto quello che mi aveva portato via non significasse nulla.» «E che cosa hai fatto?» chiese Stride, piano. «C'era un vaso su uno scaffale. L'ho preso e l'ho fatto oscillare. Volevo gettarlo a terra, romperlo in mille pezzi. Ma non l'ho gettato. Mi sono resa conto di aver colpito qualcosa. Avevo gli occhi chiusi. Non ho capito subi-
to quello che avevo fatto. Poi ho sentito il tonfo sordo di lei che cadeva a terra...» Stride aveva sentito troppe storie del genere da persone che aveva arrestato, da avvocati difensori che volevano commuovere la giuria. Non gli facevano più nessun effetto. Ma stavolta il cuore gli si gonfiò di amarezza. «...Era morta. L'avevo uccisa. Non potevo crederci.» «Rachel è morta molto tempo fa» mormorò Stride. Andrea lo fissò con uno sguardo supplichevole. «Non mi sarei mai aspettata che tu venissi coinvolto di nuovo in questa storia, Jon. Devi credermi. Pensavo che nessuno avrebbe scoperto il collegamento con Duluth.» Se fossero stati in tribunale, lei sarebbe stata giudicata colpevole. Non c'erano zone grigie, in quella storia. Eppure Stride credeva che Andrea non fosse del tutto responsabile dell'accaduto. Come non lo era Robin. E dava un po' di colpa anche a se stesso. Per quello, forse, sapeva che non avrebbe mai rivelato il segreto. Chi ne avrebbe ricavato soddisfazione? «E adesso che cosa succederà?» chiese Andrea. Era la stessa domanda che si era posto Stride. «Ora dovremo convivere con questo segreto.» «So quanto è difficile per te lasciar perdere» mormorò Andrea. «La verità è che non è affatto difficile» rispose Stride. «Questo dovrebbe farmi capire qualcosa.» Ora voleva solo andarsene, rimanere solo con il suo senso di colpa. Ma doveva dirle ancora una cosa, offrirle una piccola verità cui aggrapparsi per sopravvivere. «Robin sapeva che eri stata tu a uccidere Rachel» disse, aprendo la porta per uscire. «Ma ha cercato di convincerci che era lui l'assassino. Lo ha fatto per te, Andrea.» Stride si rese conto che non aveva un posto dove andare. Si sentiva un estraneo nella sua città. Finì sul ponte sopra il canale, nel punto in cui Rachel era salita sul parapetto, durante la sua ultima notte in città. Prima di tornare a casa a lasciare indizi nel furgone di Graeme e a rubargli le scarpe. Prima di incontrare Robin e di andare con lui al granaio, per la loro piccola messinscena. Inseguimento nel prato. Maglione fatto a pezzi. Ferite sulla pelle. Sangue. Tessuto. Indizi. "Io sono stato solo una pedina nel loro gioco" pensò Stride.
Fissò l'acqua scura, che si muoveva appena nonostante la brezza fredda. Strinse il bordo del parapetto con entrambe le mani, immaginando Rachel che ci stava sopra in equilibrio. Se una raffica di vento l'avesse spinta giù nel canale, quella notte, la vita di Stride sarebbe stata molto diversa, oggi. Gli sembrava strano che Rachel non avesse lasciato neppure una traccia, se non quelle che voleva lasciare. A meno che la cartolina non fosse un messaggio per lui. Lui meritava di morire. Stride si voltò e mentre guardava l'andirivieni di auto tra la città e la "Punta", ricostruì la cronologia degli eventi. Tutto era cominciato in settembre, quando Rachel aveva dato inizio al suo piano, nella classe in cui insegnava Robin. Ho trovato un marito per te e un assassino per lui. Finalmente, la confusione che Stride aveva avuto in testa cominciava a sollevarsi, come la nebbia sul lago. Udì uno stridore di pneumatici e vide una Volkswagen rossa con una ragazza dai capelli neri al volante passargli accanto a tutta velocità. Per un attimo a Stride sembrò di aver visto Rachel, malgrado fosse certo della sua morte. Ma quella non era l'auto di Rachel. Non era... Il Maggiolino Insanguinato. Finalmente Stride vide attraverso la nebbia. E capì. Rachel gli aveva mandato messaggi fin dall'inizio. 51 A trecento metri d'altezza, sulla cima della Stratosphere Tower, la temperatura era piacevolmente più fresca che al livello della strada. Appena Stride uscì sul belvedere, sentì la sgradevole vibrazione della torre che ondeggiava nel vento. Non aveva mai avuto paura dell'altezza, ma su quella specie di trespolo vertiginoso si sentì girare la testa. «Prova a cercarla sulla torre» gli aveva consigliato Cordy. Serena una volta aveva detto a Cordy che quando non riusciva a dormire, a volte saliva sulla Stratosphere Tower e passava qualche ora a osservare Las Vegas dall'alto. Durante le tre settimane in cui Stride era stato via si erano sentiti al telefono, ma lui si chiedeva che cosa sarebbe successo quando si fossero rivisti. Se ci sarebbe stata ancora passione tra loro. Temeva che i giorni che avevano passato insieme non avessero lasciato traccia nella mente di Sere-
na. Guardando il panorama di Las Vegas, Stride si chiedeva anche se sarebbe riuscito a farsi piacere quella città così diversa da tutto ciò che conosceva. Lui era una creatura dei boschi e non si sentiva a suo agio in quella giungla al neon. Ma di una cosa era sicuro: non voleva più vivere a Duluth. Aveva fatto il suo tempo, lì, guadagnandosi già la pensione, e adesso aveva l'occasione di rompere definitivamente con il passato. Ad aiutarlo a prendere quella decisione era stata anche la notizia recentissima che Maggie era rimasta incinta e che il marito l'aveva finalmente convinta a dare le dimissioni dalla polizia. L'idea di dover lavorare a Duluth senza di lei era fuori discussione. Stride scoprì che poteva avvicinarsi al parapetto e guardare giù senza che gli venissero le vertigini. Si spostò sulla destra, ritrovandosi a contemplare la parte orientale della città, libera dalle luci scintillanti dei casinò. Poi, facendo il giro, vide a sud lo Strip, che si spingeva nel deserto come un raggio laser un po' curvo. Dapprima notò solo una profusione indistinta di colori, ma un po' alla volta emersero i particolari. Il bagliore verde smeraldo dell'MGM Grand, il profilo della Torre Eiffel del Paris. Stride era così assorbito dal panorama che gli ci vollero alcuni secondi per accorgersi che non era solo. Serena era a pochi metri da lui e lo guardava sorridendo. Indossava jeans neri e un maglioncino bianco a collo alto. Era vestita quasi come Rachel la notte della sua scomparsa. E aveva lo stesso fascino. Stride provò un moto di comprensione per Robin, Graeme, Kevin e chissà quanti altri, rendendosi conto di come doveva essere stato facile per Rachel sedurli. Serena aveva su di lui un potere molto simile. "Qual è la ragione per cui un uomo fa qualunque cosa?" aveva chiesto Robin. "Una donna." Serena si avvicinò e gli mise le braccia intorno al collo, appoggiando la guancia fresca alla sua. Stride le accarezzò i capelli. Gli venne spontaneo abbracciarla, come se l'avesse fatto per anni. Nessuno dei due sembrava volersi staccare dall'altro e rimasero a lungo immobili, stretti nella brezza notturna. «Sei tornato» disse lei, con un accenno di sorpresa nella voce. «Te l'avevo detto, no?» «Sì, ma in questa città le promesse non valgono molto.» Stride si staccò da lei e la guardò. «Eri molto bella in televisione» disse. Serena rise. «E tu sei così affascinante!»
Due Tv locali di Minneapolis avevano mandato alcuni giornalisti a Las Vegas per un servizio sulla morte di Rachel e loro avevano intervistato Serena e Cordy, avevano effettuato riprese esterne e interne del locale di strip-tease in cui aveva lavorato Rachel e avevano trasmesso in diretta immagini del deserto in cui era stata parcheggiata la roulotte di Robin, ora rimossa. Non avevano però trovato nessuna foto di Jerky Bob da mandare in onda. Nel corso delle indagini, Stride aveva fatto in modo che l'unica fotografia disponibile andasse perduta. Così era stata Serena a fornire una descrizione dell'uomo. Aveva detto che era un vagabondo, un uomo venuto dal nulla, come ce n'erano tanti a Las Vegas. Persone dalla mente instabile, che a volte perdevano il controllo. Quello in particolare aveva sviluppato un'ossessione per Rachel, che l'aveva portato fino all'omicidio. «Hanno ripreso le tue parole, sai?» disse Stride. «Il titolo in prima pagina del giornale di Duluth era: "Rachel uccisa dall'uomo venuto dal nulla".» «Mi piace.» «Che cosa importa, allora, se non è vero?» mormorò lui. «Ne abbiamo già parlato» disse Serena. «Dovevi proteggere Andrea.» Stride si appoggiò con cautela al parapetto, studiato in modo da impedire agli aspiranti suicidi di buttarsi di sotto, e guardò in basso. Stavolta sentì le vertigini. Serena gli si avvicinò, posandogli una mano sulla schiena. «Non potevi fare altro» disse piano. «Lo so, ma mi dispiace averti coinvolta. Hai dovuto mentire per me.» «È stata una mia scelta» ribatté lei. Gli posò un dito sulle labbra, per impedirgli di proseguire. «È una storia chiusa, ormai, Jonny.» «Non proprio» disse Stride. Fece un respiro profondo, preparandosi a raccontarle il resto. Si sentiva in colpa per non aver scoperto la verità molto prima. Anche se alla fine non faceva alcuna differenza. Serena lo fissò, in attesa. «C'è ancora il rapporto tra Rachel e Graeme» disse Stride. «Tra loro a un certo punto è accaduto qualcosa che li ha resi nemici giurati.» «Sappiamo che Rachel faceva sesso con Graeme» disse Serena. «Lei voleva smettere e lui no. È una cosa che è successa anche a me, Jonny. Se Graeme l'ha violentata, o ha cercato di farlo, di sicuro lei ha maturato un desiderio di vendetta.» «Lo so, ma è stato Graeme il primo a vendicarsi.»
Graeme guardò la sua mano tremare, mentre sollevava il bicchiere di brandy alla luce. Poi bevve un sorso, sperando che l'alcol gli avrebbe calmato i nervi. Sentì il liquore bruciargli nella gola e nel naso. Bevve un altro sorso. Ma il tremito delle dita non si fermò. Il desiderio aumentava. Emily era a St. Paul per un ritiro di preghiera. Rachel era nella sua stanza, in attesa, sapendo che lui sarebbe andato da lei. Graeme posò il bicchiere e salì le scale in punta di piedi, attento a non fare il minimo rumore. Si fermò davanti alla camera della figliastra. Da sotto la porta filtrava una lama di luce. Immaginò la ragazza sul letto, con la testa sul cuscino. Ripensò a tutte le volte che avevano fatto l'amore. Abbassò piano la maniglia e spinse la porta. Era chiusa a chiave. «Rachel» disse piano. «Sai quanto ho bisogno di te.» Nessuna risposta. Lei lo aveva sentito, ma non diceva una parola. «Siamo fatti l'uno per l'altra, Rachel» insisté Graeme. «Non puoi non saperlo. Siamo due facce della stessa anima.» Il silenzio dall'altra parte della porta cominciava a fargli perdere il controllo. Graeme strinse e aprì i pugni, con il respiro ansimante. «Apri la porta, Rachel» disse di nuovo, con un tremito nella voce. «Ti prometto di non farti alcun male. Ma devo parlarti.» Quella promessa era una menzogna, lo sapevano entrambi. Se lei avesse aperto la porta, lui non sarebbe riuscito a trattenersi. Aveva bisogno di toccarla, di entrare dentro di lei, a qualunque costo. Il pensiero del corpo nudo di Rachel lo faceva fremere di desiderio. «Rachel!» gridò, ormai pieno di rabbia. Cominciò a picchiare il pugno contro la porta. «Ho bisogno di te!» Diede una spallata alla porta. Era disposto a sfondarla, pur di entrare. Ma la porta di quercia massiccia non cedette. «Fammi entrare!» urlò Graeme. Appoggiò l'orecchio alla porta, in ascolto. La voce di Rachel, quando si fece udire, era così vicina che lo fece sobbalzare. Lei era dall'altra parte della porta, separata da lui solo da pochi centimetri di legno. «Ti lascerò entrare, se vuoi, Graeme» disse la ragazza. La sua voce era melliflua e priva di qualunque emozione. «Se vuoi violentarmi, puoi farlo.» «No, non lo farò» mormorò lui. «Okay, Graeme, capisco. So che hai i tuoi bisogni.» «Sì» disse lui. «Sì, ho bisogno di te, voglio che tutto torni come prima.» «Ti sto dicendo che puoi avermi.»
Graeme osava appena respirare. Il pensiero di fare di nuovo l'amore con lei gli toglieva il fiato. «Dici davvero?» «Sì, ma lascia che ti spieghi che cosa succederà dopo.» Qualcosa nel tono di Rachel gli fece accapponare la pelle. «Se tu entri in questa stanza e mi tocchi di nuovo, un giorno di questi prendo un coltello da macellaio e ti taglio le palle. Poi ti faccio a fette il cazzo. Questa è una promessa. Mi hai capito? Non passerai più una sola notte in questa casa senza chiederti quando lo farò. E non pensare che i medici potranno riattaccarti il tuo giocattolino. Dopo averlo tagliato lo butterò nel cesso e azionerò lo sciacquone.» Graeme cadde in ginocchio. Era terrorizzato e la nausea gli torceva lo stomaco. «Mi credi, Graeme?» chiese Rachel. «Credi che lo farò?» Graeme cercò di parlare, ma le parole gli morirono in gola. «Non ti ho sentito, Graeme.» «Sì, sì, ti credo!» Era vero. «Allora dimmi, vuoi davvero entrare?» Graeme corse giù dalle scale, senza risponderle. Si sentiva distrutto. Rachel gli aveva dimostrato ancora una volta che era lei a comandare. Andò nello studio e cominciò a passeggiare avanti e indietro. Purtroppo era ancora molto eccitato. Il pene era duro come un sasso e il desiderio di lei era così forte che pensò di tornare di sopra e scoparla, fregandosene delle conseguenze. Ma sapeva che Rachel non mentiva. Gli avrebbe fatto esattamente quello che aveva promesso. Si sentiva inesorabilmente attratto verso un buco nero. Diceva di volersene tirare fuori, ma la verità era che voleva fare l'amore con lei, ne aveva bisogno, avrebbe fatto qualunque cosa per averla. Cercò di calmarsi, ma le dita cominciarono a tremargli di nuovo, le ascelle gli sudavano e il cuore gli martellava nelle orecchie. Sentiva qualcosa agitarsi nell'anima, una figura nascosta che si stava svegliando. "No, per favore" supplicò. Ma il mostro dentro di lui non lo ascoltava. Giocava con lui come con un burattino. Lo faceva muovere, gli diceva cosa fare... "Vai" disse il mostro. La sua voce non era mostruosa. Era molto simile a quella di Graeme. Quel mostro gli assomigliava. Era così... immorale. Graeme prese le chiavi e uscì. In una sera d'agosto l'oscurità non sa-
rebbe dovuta scendere così presto, ma la coltre di nuvole a ovest rendeva il deh quasi nero. Il vento faceva scricchiolare i rami delle querce. Graeme arrivò quasi fino al garage accanto alla casa, prima di rendersi conto che la porta era bloccata dall'auto di Rachel parcheggiata sul vialetto. Imprecò. Alzò gli occhi verso la stanza della ragazza e la vide alla finestra, intenta a osservarlo con un sorriso gelido. Quell'unico sguardo bastò a fargli accelerare il polso. Graeme fece una smorfia di rabbia e sferrò un calcio al paraurti dell'auto, così forte da lasciare un'ammaccatura. Cominciò a piovere. All'improvviso gli venne un'idea e alzò di nuovo lo sguardo verso la finestra. Sorrise e Rachel si fece seria. Gli aveva letto nel pensiero. Tornò in casa di corsa, salì le scale ed entrò ansimando nella propria camera da letto. Frugò nei cassetti di Emily, rovesciando scatole di cosmetici e gioielli. Finalmente trovò quello che cercava. La chiave di riserva di Emily. La prese e corse di nuovo fuori, sbattendo la porta. Rachel non era più alla finestra. Graeme cercò con dita febbrili di introdurre la chiave nella serratura dell'auto, ma la fece cadere. La raccolse, riuscì a infilarla e finalmente la portiera si aprì. Graeme si guardò intorno. In giro non c'era nessuno. "Vai" ruggì il mostro. "Va' a caccia." Graeme strinse il volante con le mani sudate. La pioggia sottile bagnava il parabrezza. Graeme prese una serie di strade secondarie. Dentro l'auto, impregnata dell'odore di Rachel, il suo bisogno si faceva ogni minuto più forte. Il ricordo di quando lui e lei facevano sesso insieme era forte e vivo. Graeme sentiva quasi la sensazione della pelle della ragazza sotto le dita. "Va' a caccia." Si diresse a ovest. Dopo cinque chilometri, si trovò in una zona deserta, circondata solo da betulle su entrambi i lati della strada. Ormai era buio e la pioggia cadeva a scrosci. Graeme si spostò sul margine della strada. I fari illuminarono una ragazza che faceva jogging. Graeme frenò appena in tempo e sterzò bruscamente per evitarla. Vide un lampo di paura negli occhi della ragazza, mentre si gettava di lato. Lui si fermò e scese dall'auto, lasciando il motore acceso. Corse vicino alla ragazza, che si stava rialzando. Nel buio non riusciva a vederla bene in faccia. Notò solo che aveva più o meno la stessa età di Rachel e i capel-
li castani legati in una coda di cavallo. Indossava un paio di short e un top sportivo. «Mi dispiace tanto» si scusò Graeme. «Stai bene?» La ragazza provò a camminare. «Credo di sì. Probabilmente si tratta solo di una storta.» Adesso Graeme riusciva a vederla meglio. Era molto attraente e aveva un'aria così dolce e vulnerabile mentre si appoggiava sulla gamba buona, con i capelli in disordine e i vestiti inzuppati di pioggia! «Vieni, ti accompagno a casa» disse Graeme, tendendole la mano per aiutarla a camminare. Sorrise, rassicurante. Si odiava per ciò che stava facendo. "Non sono io" pensava. "È il mostro. Non è la stessa cosa." Lei si appoggiò al suo braccio. Graeme rabbrividì, avvertendo il contatto con il suo corpo che odorava di pioggia e sudore. Aprì la portiera posteriore, gettando allo stesso tempo un'occhiata alla strada deserta. «Siediti dietro, così puoi tenere la caviglia sollevata» disse. La ragazza entrò e si sistemò, appoggiando la gamba destra sul sedile e lasciando già l'altra. Graeme percorse con lo sguardo i polpacci e le cosce muscolose, soffermandosi sull'inguine. La ragazza sorrise, timida. «Sto bagnando dappertutto.» «Oh, non preoccuparti» la rassicurò Graeme. La fissò un secondo di troppo e lei rise, nervosa. Un lampo di diffidenza le attraversò lo sguardo. Graeme ebbe paura che lei gli leggesse dentro, comprendendo le sue intenzioni. Chiuse la portiera posteriore e andò a sedersi al posto di guida. Si voltò e sorrise, rassicurante. «Devo prima passare in un posto, poi ti accompagno in città. Va bene?» «Certo» rispose la ragazza, mordendosi però il labbro inferiore. Stava già cominciando a porsi delle domande, ad avere paura. "Tranquillizzala" disse il mostro dentro di lui. «Mi chiamo Graeme» si presentò. «E tu?» «Kerry» rispose lei, strizzandosi via l'acqua dai capelli. «Kerry McGrath.» Serena aveva lo sguardo perso in lontananza, oltre la città. Stride sapeva che la sua mente era concentrata su Graeme. Graeme in caccia, come una tigre. Graeme che piombava su una ragazzina innocente, la cui unica colpa era stata di uscire a correre nel posto sbagliato al momento sbagliato. «Sei sicuro?» chiese Serena.
Stride fece un respiro profondo e annuì. «Graeme ha ucciso Kerry e Rachel lo sapeva. Quello è stato l'inizio.» «Ma dopo la scomparsa di Rachel la tua squadra ha passato al setaccio il minivan di Graeme. È strano che non sia emerso nulla.» «Il fatto è che abbiamo guardato nel posto sbagliato» disse Stride. Serena aggrottò la fronte, confusa, poi capì e mormorò, disgustata: «Quel figlio di puttana ha usato la macchina di Rachel». «Esatto» disse Stride. «È quella la cosa a cui non abbiamo mai pensato. Mentre ascoltavo le testimonianze, al processo, avevo la sensazione che ci fosse qualcosa che non avevo capito. Ma non sono mai riuscito a fare il collegamento. Kevin ed Emily hanno detto che Graeme aveva comprato a Rachel una nuova macchina per sostituire quella vecchia passatale dalla madre. Ma non ho riflettuto abbastanza sul fatto che Graeme l'aveva comprata subito dopo la sparizione di Kerry. E come aveva battezzato Rachel la nuova macchina? Il Maggiolino Insanguinato. Lei sapeva e aveva intenzione di fargliela pagare. A modo suo.» «Avete rintracciato la macchina?» «Sì. I nuovi proprietari abitano a Minneapolis. L'abbiamo passata al setaccio e abbiamo trovato un capello e tracce di sangue. Il DNA corrisponde a quello di Kerry. Abbiamo anche trovato tracce di sperma di Graeme. L'ho detto ai McGrath. Li ha consolati un po' sapere che giustizia era già stata fatta, sia pure in modo anomalo. Perlomeno adesso sanno che l'assassino di Kerry non l'ha passata liscia.» «Ce ne sono state altre?» chiese Serena. «Sai com'è. I tipi come lui non si limitano a farlo una volta sola. Stiamo indagando sulla scomparsa di altre adolescenti che potrebbero riportarci a Graeme.» Serena ebbe un brivido e si sfregò le braccia, come per togliere una macchia. «Non credo che ci sia tanta differenza tra me e Rachel» disse. «Anch'io sono stata violentata. Anch'io volevo vendicarmi.» «Rachel non era del tutto innocente» le ricordò Stride. «Giocava una partita pericolosa.» «Non giudicarla troppo severamente, Jonny. Finché non ti trovi da solo con il mostro, non sai che cosa farai.» Rabbrividì di nuovo e si voltò di scatto. «Avverto una presenza» disse. «Io non credo ai fantasmi» ribatté Stride. Ma era vero? Per quanto ne sapeva lui, potevano essere circondati da fantasmi, che si
accalcavano su quella stretta piattaforma. C'erano spiriti buoni, come Cindy, che gli sussurrava la sua approvazione perché si era innamorato di Serena, e spiriti né buoni né cattivi, come Rachel, che sorrideva sarcastica vedendo i profondi cambiamenti che aveva portato nella vita di Stride. Forse c'erano anche spiriti malvagi, come Graeme, che facevano venire la pelle d'oca a Serena, spaventandola come quando, da piccola, si trovava sola con il mostro. Stride prese Serena per il mento, facendole sollevare il viso, e la fissò negli occhi verdi. Con il dorso della mano le accarezzò una guancia. Voleva essere forte per lei, un uomo capace di far svanire i suoi incubi, un uomo a cui lei potesse scegliere di appoggiarsi oppure no, liberamente. L'espressione di lei si addolcì e la paura scomparve. In quel momento Stride seppe che erano soli, sul tetto del mondo, senza nessuno spirito intorno. «Non ci sono fantasmi» disse Stride, in tono deciso. Voleva che lei gli credesse. Serena sorrise. «So che non ho il diritto di chiedertelo» disse «ma mi farebbe piacere se ti fermassi qui, per un po'.» «Farebbe piacere anche a me.» Lei lo baciò con passione. Sotto di loro, la città brillava di luci. «Benvenuto a Las Vegas, tesoro» mormorò. Ringraziamenti Molte persone hanno dato il loro contributo affinché questo libro diventasse una realtà. Ad Ali Gunn di Londra e alla sua squadra alla Curtis Brown - Carol Jackson, Tally Garner, Stephanie Thwaites e molti altri - un grazie per la passione con cui hanno sostenuto il mio libro e la mia carriera. Grazie anche a Deborah Schneider di New York Tutti voi avete cambiato la mia vita. Marion Donaldson, della Headline, e Jennifer Weis, della St. Martin's Press, sono state le editor più appassionate e competenti che uno scrittore potesse desiderare. Robert Bond, il migliore avvocato di Londra nel campo delle opere dell'ingegno, è l'uomo che conosce tutti. Grazie, Robert. Alison, se non te l'ho detto prima, quel tuo foglio di calcolo è una grande idea. Lo scrittore Ron Handberg e il suo editor Jack Caravela mi sono stati di grande aiuto in un momento cruciale dell'editing. Sono molto grato ai miei fantastici amici della Faegre & Benson e in
particolare agli avvocati e ai membri dello staff che hanno letto il manoscritto e mi hanno incoraggiato. Siete una squadra fantastica. Ai miei amici e lettori nelle Città Gemelle - Tony Carideo, Jay Novak, Lynn Casey e molti altri - va un grazie per l'incoraggiamento e le buone idee. Un grazie speciale a due dei miei mentori: a Joyce Bartky, che mi ha detto di sedermi in un angolo e scrivere, e al compianto Tom McNamee, la cui saggezza e i cui consigli hanno cambiato la mia carriera portandomi dove mi trovo ora. Grazie a Barb e Jerry per essersi presi cura di Disney quando noi dovevamo assentarci. A Janean, per aver letto tutti i miei precedenti lavori e per aver atteso con pazienza (più o meno) una copia di questo. A Janice, per i consigli e le intuizioni. A Keith e Judy, due pazzi inglesi. Siete tutti amici meravigliosi. Gli abitanti di Duluth mi perdoneranno per le turpi vicende che ho ambientato nella loro bella città (Quanto agli abitanti di Las Vegas, sono certo che ci sono abituati). Infine, la cosa più importante: devo il mio successo a mia moglie Marcia, la quale negli oltre vent'anni che abbiamo trascorso insieme ha sempre creduto in me e alla mia famiglia: genitori, fratello, cugini, zii e zie che tifano per me, alcuni anche sorridendomi dall'alto, come Bea, Frank, Jo e Neal. Se volete saperne di più sulle storie dietro i personaggi di questo libro, visitate il mio sito internet: www.bfreemanbooks.com dove troverete qualche flashback. Già che ci siete, mandatemi un'e-mail per dirmi se il libro vi è piaciuto. Farò del mio meglio per rispondere a tutti. Attraverso il sito internet potete anche inviare informazioni sul libro ai vostri amici. E potete registrarvi nella mia mailing list, in modo da ricevere notizia di quando il mio prossimo libro sarà in libreria e leggerne una piccola anteprima. Nel 2006, Jonathan Stride e Serena Dial torneranno in Vegas Baby Il nuovo thriller di BRIAN FREEMAN FINE