RICHARD LAYMON LA CARNE (Flesh, 1993) CAPITOLO PRIMO Alla guida del suo furgone, Eddie aveva la strada tutta per sé. Con...
25 downloads
874 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
RICHARD LAYMON LA CARNE (Flesh, 1993) CAPITOLO PRIMO Alla guida del suo furgone, Eddie aveva la strada tutta per sé. Con una sola eccezione: la bicicletta. Quando la vide per la prima volta dalla cresta della collina, la bici era sotto di lui, parecchio avanti. Da quella distanza, non poteva apprendere granché circa l'identità di chi la guidava. Sapeva, però, che non si trattava di un ragazzino. La bicicletta era uno di quegli aggeggi alti, dalla struttura aerodinamica; non di quelle su cui, solitamente, si vedono girare dei bambini. E chi vi montava sembrava grande abbastanza da poterla guidare senza difficoltà. Potrebbe essere un adolescente, pensò Eddie. Poteva essere una ragazza. Socchiuse gli occhi e si sporse verso il parabrezza. La parte inferiore del volante gli affondò nel ventre, colmando la piega tra i rotoli di grasso. Eh sì, potrebbe essere una ragazza, pensò. Eddie si asciugò la bocca col dorso della mano. Adesso aveva disceso già metà del pendio, e stava guadagnando velocità per ridurre la distanza che separava il suo furgone dalla bicicletta. I capelli castani del ciclista erano piuttosto lunghi. Ma questo non significava molto. C'erano un mucchio di uomini che portavano i capelli di quella lunghezza, e più lunghi ancora. Però era piuttosto raro che degli uomini girassero in succinti pantaloncini rossi. Eddie accelerò, accorciando la distanza. Abbastanza da vedere i suoi fianchi prorompere rigogliosamente da uno snello vitino. Sì, era una ragazza, altroché se lo era! Su entrambi i lati della strada si estendevano campi punteggiati qua e là da alberi. Niente case. Nessuno nei paraggi. La strada avanti, là dove s'incurvava e poi spariva, era assolutamente deserta. Eddie controllò gli specchietti laterali. Anche dietro la via era sgombra. "Ora!" disse. Premette a fondo il pedale dell'acceleratore.
La ragazza non si voltò a guardare indietro, ma di sicuro doveva aver sentito il rombo crescente del motore. La bicicletta si spostò verso destra, scivolò via dal centro della carreggiata e proseguì la corsa posizionandosi a circa un metro dal ciglio della strada. Eddie caricò. Lei era china sul manubrio e continuava a pedalare. La sua maglietta era così attillata che Eddie riusciva a vedere le piccole protuberanze degli anelli vertebrali. Un tratto di pelle nuda si scopriva tra l'orlo della maglietta e la fascia elastica dei pantaloncini. Il braccio sinistro si protese in fuori e fece cenno a Eddie di passare avanti. Nell'ultimo istante la ragazza si girò. Eddie le era abbastanza vicino da vedere che aveva gli occhi azzurri. Era molto carina. Puntò il furgone verso di lei. Mi piacciono quelle carine. L'urto fece slittare verso destra la ruota anteriore della bicicletta. Carine, giovani e tenere. Attese lo schianto sul parabrezza. Ma lei fu scagliata dalla parte sbagliata — in avanti e a destra. Adesso non era più sul sellino della bicicletta. Libratasi sopra di essa, le gambe scalciavano nell'aria, quando il furgone andò a sbattervi contro. Nessun problema, pensò Eddie. Non andrà lontano. Sarà mia. Oh, sì. I pneumatici di destra rimbalzarono sul bordo ghiaioso della strada, e lui stava per riportarsi sul piano della carreggiata con una rapida controsterzata, quando, inaspettatamente, si ritrovò sulla sella di un ponte. Prima non s'era neppure accorto che ci fosse. Intravide il cartello mentre sfrecciava via superandolo. Rio Weber. Aveva ben poco di un fiume. E il ponte — anch'esso piuttosto inconsistente. Solo che aveva un parapetto di cemento alto almeno un metro e venti. CAPITOLO SECONDO "Va tutto bene?"
"Ho l'aspetto di una a cui vada tutto bene?" Era seduta a terra con la schiena rivolta alla strada, la testa sollevata a guardarlo. Al di sopra del sopracciglio destro la pelle era scorticata fino all'attaccatura dei capelli. La zona abrasa era striata da rivoletti di sangue simili a fili di perle rosse. La cute era sporca, e qualche ciuffetto d'erba paglierina era appiccicato al vischioso impiastro della ferita. Jake si sedette accanto a lei sul margine del fossato. Le ginocchia e la parte anteriore della coscia destra della ragazza erano ridotte pressappoco nella stessa condizione della fronte. Il braccio destro le penzolava tra le gambe strosciando le nocche contro il terreno. L'altra mano lo sorreggeva a ogni scuotimento. Ma non sembrava che cercasse di tenerlo fermo. Sembrava piuttosto che la mano volesse calmarlo con un intento simile a quello per il quale si adagia una mano sul corpo di un cucciolo ferito. "Credi che sia rotto?" le chiese Jake. "Non ne ho idea." Jake tirò fuori un taccuino. "Potresti dirmi come ti chiami?" "Jamerson," disse lei. L'angolo della bocca ebbe una rapida contrazione. Jake prese nota. "E il nome?" "Celia." "Grazie." La ragazza girò di nuovo la testa per guardarlo. "Non dovrebbe far qualcosa per quello?" I suoi occhi guizzarono verso il furgone in fiamme, centocinquanta, o forse duecento metri più in là, alla sua sinistra. "L'autopompa sarà qui tra poco. C'è il mio collega a tener d'occhio la situazione." "Cosa ne è stato... del conducente?" "Non possiamo fare molto per lui." "È morto?" Uno shish kebab, così aveva commentato Chuck quando aveva visto i resti del conducente sporgere dal parabrezza. "Sì," disse Jake. "Ha cercato di investirmi. Intenzionalmente. Dico sul serio. Aveva tutta la strada a disposizione, io me ne stavo di lato, sul bordo della carreggiata. Gli faccio cenno di sorpassarmi, mi volto e lo vedo sterzare puntando direttamente su di me. Sorride e mi piomba addosso. Doveva andare sui sessanta all'ora." Il suo viso aveva un'espressione perplessa come se stesse ascoltando una bizzarra barzelletta e aspettasse da Jake la battuta finale.
"Quel tipo voleva uccidermi," aggiunse. "Ma ha sfasciato la bici al posto mio." Annuì verso la bicicletta che giaceva con le ruote contorte sul margine opposto dell'avvallamento. "Fatto sta che ho deviato rapidamente per scansarmi e ho perso il controllo della bicicletta finendo per aria. Probabilmente soltanto un attimo prima che lui ci sbattesse contro. Il furgone non mi ha neppure sfiorata. Ho capito soltanto che stavo atterrando nel fosso, poi ho sentito lo schianto. Bastardo. Gli sta bene. Andarsene in giro a cercare di... che cosa gli avevo fatto io?" "Lo conoscevi?" le chiese Jake. "Ho sentito parlare di canaglie simili, individui che se ne vanno in giro a aggredire ragazze per il semplice gusto di farsi una risata. Ehi, magari credeva che la cosa avrebbe divertito anche me." Cercò di ridere, ma riuscì soltanto a emettere un roco singulto stentato. "Avevi mai visto quell'uomo prima d'ora?" "No." "Non hai fatto niente che potrebbe averlo irritato?" "Ma certo, gli ho fatto il segno delle corna. Che vuol dire con questo? Sta' a vedere che adesso è colpa mia?" "Hai fatto qualcosa?" "No, dannazione. Non sapevo neppure che ci fosse. Mi sono accorta di lui soltanto quando era a un palmo dal mio sedere." "Sicché, da parte tua, non c'è stata assolutamente alcuna provocazione nei suoi confronti." "Esatto." "Hai detto di aver sentito lo schianto nel momento in cui sei caduta nel fossato. È così?" "Forse non ne avevo ancora toccato il fondo. Non saprei stabilirlo con precisione." "Cosa è successo dopo?" "Credo di essere svenuta. Sì, ne sono sicura. Poi ho sentito la vostra sirena. È stato allora che ho ripreso i sensi e..." "Ehi, Jake!" Jake si volse a guardare alle sue spalle. Chuck, armato di estintore, stava in piedi accanto al portellone posteriore aperto del furgone in fiamme e gesticolava verso di lui. "Sarà meglio che vada a vedere cosa vuole. Tu aspetta qui. L'ambulanza non dovrebbe tardare."
Celia assentì con un cenno del capo. Jake si alzò, scrollò via la polvere dalle natiche e risalì la scarpata per raggiungere il suo collega. "Da' un'occhiata qui," disse Chuck, indicandogli il suolo. Delle chiazze scure imbrattavano il pallido terriccio del margine stradale. Jake si accovacciò per guardarle più da vicino. "Per me quello è sangue," disse Chuck. "Già." "La ragazza è stata quassù?" "No, stando a quanto mi ha raccontato." "Dobbiamo appurarlo con certezza. Perché se lei non c'è stata quassù... capisci che significa?" Jake sentì una sirena in lontananza. Scorse una macchia di sangue sull'asfalto grigio della strada. L'autopompa, o l'ambulanza, in arrivo non era ancora visibile, così attraversò di corsa le due corsie. Chuck gli si avvicinò, senza liberarsi dell'estintore. "Com'è possibile sopravvivere a un incidente del genere?" disse. Jake scosse la testa. "Solo questione di fortuna." "Già, dev'essere così. C'è gente che riesce a scamparla persino negli incidenti aerei. Eccola." "L'ho vista." Una lucida striscia di sangue sopra uno stelo d'erba selvatica. Jake camminò sul tappeto erboso. Studiò il fossato e il campo che si estendeva oltre. Erano entrambi infestati dalle erbacce, cresciute in rigogliosa abbondanza grazie alle recenti piogge primaverili. La superficie ondulata del campo era punteggiata da gruppi di cespugli. Radi alberi erano disseminati intorno. Nessuno era in quei paraggi. Chùck portò le mani ai lati della bocca, e racchiudendola tra esse gridò, "Ehi! Ehi, laggiù!" Sebbene Jake gli fosse accanto, riuscì a stento a distinguere la sua voce nel clamore della sirena. Poi il suono si spense, e Chuck chiamò di nuovo. Jake udì il brontolio dei freni a aria compressa, il crepitio metallico e la voce di una radio. Si volse a guardare dietro di sé e vide il giallo smagliante dell'autopompa cittadina. "Come gli è saltato in mente di andarsene a passeggio? Dopo una botta come quella io sarei rimasto là inchiodato a aspettare i soccorsi."
"Forse è sotto shock e non si rende conto di ciò che sta facendo. Però è più probabile che voglia squagliarsela. La ragazza sostiene che stava pedalando per i fatti suoi quando il furgone ha tentato deliberatamente di ucciderla. Il che dimostrerebbe che il nostro amico non è propriamente quello che si dice un cittadino modello. Tu resta qui e tieni d'occhio la situazione. Voglio vedere se riesco a stanarlo." "Non ci metterai tutto il giorno, eh? Comincio a avvertire un certo languorino, e il fondo di riserva è a secco." Il fondo di riserva era la provvista di caramelle gommose alla frutta, patatine e altri dolciumi che Chuck non mancava mai di stipare nella macchina di servizio. "Sopravviverai," disse Jake, mollando una pacca al pancione di Chuck. Poi ridiscese nel fossato. Scrutò il terreno cercandovi altre tracce di sangue e risalì la scarpata dalla parte opposta. Sulla strada i pompieri stavano attaccando le fiamme con estintori chimici. Chuck stava raggiungendo Celia che adesso si era rimessa in piedi. La ragazza continuava a sorreggersi il braccio destro, e il busto era leggermente chino. Jake si domandò se fosse una delle studentesse dell'università. L'età era giusta, e probabilmente l'avrebbe conosciuta se fosse appartenuta alla popolazione locale. E poi, aveva quella tipica aria da saccente presuntuosa. Ho l'aspetto di una a cui vada tutto bene? Non avercela con lei, disse a se stesso. Malconcia com'era. Una gran bella figliola, nonostante le ammaccature. Per poco non si era fatta il suo ultimo viaggio. Jake distolse lo sguardo e continuò la sua perlustrazione. Erano in due nel furgone. Uno era rimasto ucciso, e l'altro se l'era svignata. Ovviamente il morto doveva essere il conducente, e il superstite doveva trovarsi nella parte posteriore del furgone, o altrimenti avrebbe sfondato il parabrezza come il suo compagno. Inoltre Celia non aveva accennato affatto alla presenza di un passeggero sul sedile laterale a quelle del guidatore. Se l'altro stava seduto dietro, allora non aveva nulla a che fare con l'incidente. No, c'entrava invece. Altrimenti sarebbe rimasto nelle vicinanze del furgone dopo l'impatto. Mentre camminava cambiando continuamente direzione, Jake scorse un
dente di leone dal gambo spezzato, i boccioli imbrattati di sangue. Si trovava pochi metri a nord del punto dal quale aveva risalito la scarpata. Collegò i due punti nella mente e tracciò la linea ideale attraverso il campo. Essa conduceva a una bassa collina un paio di centinaia di metri verso nordovest. La piccola altura era ombreggiata da un boschetto di eucalipti. Si diresse da quella parte. Il clamore di un'altra sirena si udì alle sue spalle. Doveva essere l'ambulanza. Buon tempismo, pensò. Controllò l'orologio da polso. Segnava le 3:20 del pomeriggio. Lui e Chuck avevano avvistato il fumo alle 3:08. Avevano raggiunto il luogo dell'incidente due minuti dopo e avevano dato immediatamente l'allarme. Sicché l'ambulanza aveva impiegato dieci minuti per arrivare là. Fortunatamente non c'era nessuno la cui vita dipendeva dalla tempestività dei soccorsi. Jake traversò a guado il fiume Weber, scrutando su e giù il sottile nastro d'acqua. Raggiunta l'altra sponda, vi sostò il tempo necessario a setacciare con gli occhi l'intera zona alla ricerca di altri indizi. L'erba era molto alta, fin quasi alle ginocchia, e non vi trovò alcuna traccia di sangue, né scorse tratti di fogliame calpestato. Forse il fuggiasco aveva cambiato direzione. Jake si volse a guardare dietro di sé ma riuscì a individuare solamente poche, debolissime testimonianze del suo passaggio. Beh, come battitore non sono proprio il numero uno, pensò. E se il tizio aveva preso qualche precauzione nel muoversi in quella zona, era possibile che avesse aggirato i tratti in cui l'erba era alta, preferendo le aree ricoperte da una vegetazione più rada. O forse aveva seguito il corso del fiumiciattolo. Forse l'ho già superato senza neppure accorgermene. Se si è disteso ventre a terra... Potrei trovarmelo addosso da un momento all'altro... Jake ruotò su se stesso. Nessuno. n suo sguardo si allungò sul campo, poi verso la strada. Il furgone mandava ancora fumo, ma non si vedevano più le fiamme. Chuck era in piedi vicino a Celia, e un infermiere dell'unità di soccorso ambulante si stava dirigendo verso di loro. Jake proseguì in direzione del poggio, ma cominciò a sospettare di aver perso il suo uomo. La cosa non gli andava giù. Malgrado il sangue versato,
appariva evidente che il fuggiasco non avesse riportato gravi lesioni. Qualche ferita, certo, ma non tale da immobilizzarlo. Un potenziale assassino. Jake non voleva lasciarselo scappare. Che razza d'individuo arriva a fare uno scherzetto simile — tentare di investire una ragazza sulla sua bici, una perfetta sconosciuta, e in pieno giorno? Naturalmente il suo uomo non era alla guida del furgone; doveva essere un complice, di questo Jake ne era sicuro. Forse non avevano affatto avuto intenzione di ucciderla; forse volevano soltanto che uscisse di strada, che l'urto la stordisse al punto da renderla docile e arrendevole, per portarsela via senza sforzo. Questo non era difficile da capire. Una donna bella, giovane, se la portano nel furgone, se la spassano con lei, poi la scaricano, morta, forse. Però, se i fatti si erano svolti effettivamente come li aveva descritti Celia, allora quei due avevano tentato di travolgerla col furgone. L'impatto non avrebbe mancato di ucciderla. E di ridurla in un'informe poltiglia. Strano comportamento per una coppia di stupratori itineranti. Volevano che morisse prima? Ripugnante. Oltre che inconsueto. Da quelle parti non se ne contavano molti di necrofili. E l'ipotesi che due di questi girassero in coppia era decisamente traballante. Ma non impossibile. Più probabilmente avrebbero lasciato la ragazza là dov'era. Assassini per il gusto del brivido. Rastrellano le strade a bordo di un furgone alla ricerca di vittime adatte. Se mi lascio scappare quel bastardo... Jake si girò lentamente percorrendo con lo sguardo l'intera estensione del campo. S'inerpicò quindi lungo il pendio e trascinandosi a fatica raggiunse la cima dell'altura. Compì un rapido circuito intorno agli alberi, ma non vi trovò nessuno. Dall'altra parte del poggio, il terreno degradava verso una stretta via al di là della quale i campi continuavano a estendersi. Qui gli alberi e la bassa vegetazione erano più fitti e rigogliosi offrendo numerosi nascondigli a chi desiderasse acquattarsi. Jake si soffermò a lungo a osservare la zona, poi, voltandosi, posò lo sguardo sul campo che aveva attraversato. Lo hai perso sul serio. Organizza una battuta di caccia; fai rastrellare la zona centimetro per
centimetro. Una mossa logica, ma poco pratica. Non era mica facile radunare di punto in bianco un numero di uomini tale da svolgere le operazioni con la dovuta perizia. Si appoggiò a un albero. Tirò un calcio a un sasso facendolo ruzzolare giù per il pendio per vederlo poi atterrare in una macchia di cespugli. Jake immaginò che il suo fuggiasco gridasse un sonoro "Ahi!" e se la desse a gambe. Stai sognando, Corey. Merda. Alzò gli occhi verso la strada secondaria. Portava unicamente all'Oakwood Inn. Il vecchio ristorante era chiuso da anni, ma una coppia di Los Angeles progettava di riaprirne i battenti. Una station wagon vi era parcheggiata davanti. I due coniugi dovevano essere là, a rimettere a posto il locale. Sarà bene che li metta in guardia. Il ristorante maledetto sembrava distare da lì non più di quattrocento metri. Stanco e scoraggiato — eroso dal senso di colpa per essersi lasciato scappare il bastardo — Jake si scostò dall'albero e s'incamminò giù per il pendio, guadando il fiume d'erba. Raggiunta la strada, la marcia divenne più agevole. Continuò, tuttavia, a muoversi con una certa circospezione, sebbene avesse abbandonato ogni speranza di stanare il sospetto. Sospetto un cazzo! Pensò. Questo qui è uno che ammazza chi gli capita davanti. E me lo sono fatto sfuggire. Può darsi che l'incidente, la perdita del suo compagno, lo abbia un po' svigorito. Già Dannazione. L'ho perso, e sarà colpa mia se... Il rombo distante del motore di un'automobile interruppe i pensieri di Jake. Era Chuck che stava venendo a prenderlo? Si girò e si accorse che il rumore proveniva dalla direzione dell'Oakwood Inn. Rammentò allora la station wagon. Di scatto voltò la testa e guardò avanti. Il tratto di terra sul quale sostava in quel momento era alquanto affossato e da quella postazione riuscì a scorgere soltanto la strada.
Il rombo crescente gli rivelò che la macchina stava arrivando a tutta velocità. E allora capì. Ma troppo tardi — avrebbe dovuto intuirlo nello stesso istante in cui aveva visto la macchina parcheggiata là, così vulnerabile, davanti al ristorante. Il tuo furgone è andato completamente distrutto, sei a piedi e sei ferito, avvisti un veicolo incustodito... Col cuore in tumulto, la bocca improvvisamente asciutta, Jake Corey sfoderò la sua calibro .38, piantò i piedi sui margini sbiaditi della linea gialla disegnata al centro della carreggiata, e, accosciatosi nella posizione di tiro, restò in attesa. Mirò alla sommità del dosso, cinquanta metri avanti a sé. "Vieni avanti, fottuto figlio di puttana." In quel momento Jake desiderò che le sue mani impugnassero una calibro .357 come quella che portava Chuck. Con un giocattolo simile avrebbe potuto fermare una macchina. Con la sua, invece, avrebbe dovuto puntare dritto al conducente. Non aveva mai sparato a nessuno. Ma sapeva che era giunto il momento. Non poteva permettere che quel bastardo la facesse franca. Sei confetti di piombo attraverso il parabrezza. Sarebbero bastati. La macchina apparve sulla sommità del dosso con la violenza di un'esplosione. Rimbalzò su degli arbusti sparsi quando si trovò sulla china e avanzò verso di lui a tutta velocità. Aspetta che ti sia quasi adosso, fagli saltare le cervella, poi tuffati di lato per salvarti la pelle. Il dito di Jake si serrò sul grilletto. Lo stridore dei freni. La macchina sbandò, slittò di coda e si arrestò a meno di cento metri davanti a lui. Jake non credeva ai suoi occhi. "Fammi vedere le mani!" gli urlò. L'autista, un ometto smilzo sulla trentina dall'aria spaventata fissò Jake attraverso il parabrezza. "Voglio vedere le tue mani, immediatamente! Afferra il volante, spicciati!" Le mani apparvero, e impugnarono la parte superiore del volante.
"Tienile là sopra!" Jake avanzò verso l'auto, e mentre si avvicinava teneva la rivoltella puntata contro la faccia dell'uomo. La testa si volse e gli occhi non lo abbandonarono mentre si dirigeva alla portiera del posto di guida. Nessun altro era nella macchina. Jake apri la portiera e arretrò di qualche passo. Accovacciandosi leggermente poté ottenere una visione completa del suo uomo. Che indossava una maglietta azzurra lavorata ai ferri. Sopra un paio di bermuda. E che non aveva neppure un graffio. "Che sta succedendo, agente?" "Metti le mani sulla testa e incrocia le dita." "Ehi, veramente..." "Fa' come t'ho detto!" Perché insisti? Chiese Jake a se stesso. È una sciarada. Non lo sai perché. Non ancora. Non per certo. L'uomo sollevò le mani e le posò sulla testa. "Okay, adesso scendi." Mentre l'altro eseguiva gli ordini Jake diede un'occhiata alla sua schiena. Neppure lì scorse tracce di sangue né segni di ferite. "Girati lentamente." Jake compì un movimento circolare con l'indice sinistro. L'uomo obbedì, e mentre quello girava Jake lo squadrò attentamente alla ricerca di rigonfiamenti sospetti. La maglietta aderiva alla pelle. L'unica protuberanza affiorava dalla tasca posteriore dei bermuda — il portafogli. Bene. Jake non aveva intenzione di borseggiarlo. "Vuole dirmi cosa sta succedendo?" Jake ripose l'arma nella fondina. "Potrebbe mostrarmi la patente, per favore?" L'uomo estrasse il portafogli, e con disinvolta rapidità liberò il documento dalla custodia di plastica. Evidentemente vantava un cospicuo curriculum di infrazioni al codice della strada. Jake prese il documento. La mano gli tremava, e ciò gli fece ricordare il braccio di Celia scosso da continue contrazioni. Esaminò la patente. Ronald Smeltzer. La foto corrispondeva alla faccia dell'uomo che gli stava davanti. Il suo domicilio era in Euclid Street a Santa Monica, California. "Grazie, Mr Smeltzer," disse, e gli restituì la patente. "Mi dispiace di averla fermata in quel modo." "Un cenno sarebbe stato sufficiente."
"Mi aspettavo qualcosa di diverso. Suppongo che lei sia il nuovo proprietario dell'Oakwood." "Proprio così. Adesso può dirmi cosa succede? Riconosco di averci messo una certa grinta quando sono partito dal ristorante, ma..." Si strinse nelle spalle. Era palesemente seccato, ma non mostrava segni di belligeranza. Jake apprezzò un simile atteggiamento. "Stavo giusto venendo a parlare con lei e con sua moglie — beh, veramente volevo mettervi in guardia. C'è stato un incidente sulla Latham Road." "Ci siamo chiesti cosa fosse successo. Abbiamo sentito le sirene." "E stava andando a indagare personalmente?" "No. Per la verità, siamo senza ghiaccio. Io e mia moglie. Abbiamo sfacchinato tutta la giornata per rimettere a posto il locale. Non abbiamo ancora il frigorifero. Dovrebbero consegnarcelo domani. E volevamo rilassarci un po' con un cocktail freddo, ma..." Alzò le spalle e assunse l'aria di uno che abbia la sensazione di apparire ridicolo. "Niente ghiaccio. Questo è quanto." "Sua moglie è rimasta al ristorante?" gli chiese Jake. L'uomo annuì. "Ha accennato alla sua intenzione di metterci in guardia. Su che cosa?" "Dubito che voglia lasciare sua moglie sola proprio adesso. Mi dia un passaggio fino al ristorante e le spiegherò come stanno le cose." Salirono tutti e due in macchina. Smeltzer compì un'inversione a U e cominciò a risalire il dosso a velocità moderata. "Acceleri un po'," gli disse Jake. "So che sa fare di meglio." Smeltzer premette l'acceleratore. Mentre la macchina correva verso il ristorante, Jake raccontò del tentato investimento di Celia Jamerson, del sangue rinvenuto dietro il furgone e della sua perlustrazione alla ricerca del passeggero ferito. Smeltzer ascoltò senza fare domande, limitandosi a scuotere la testa un paio di volte e a mormorare frequenti "Porca miseria!" L'auto si fermò con un sobbalzo ai piedi della scaletta del ristorante. Smeltzer aprì la portiera del suo lato. Nel medesimo istante, una porta si spalancò in cima alla scala. Una donna apparve nell'ombra. Uscì sulla veranda mentre Smeltzer e Jake scendevano dalla macchina. Il suo viso perplesso assunse rapidamente un'espressione preoccupata — probabilmente non appena s'accorse che Jake era un piedipiatti.
Aveva un bel paio di gambe. E indossava pantaloncini rossi. Oggi è il mio giorno fortunato, pensò Jake. Non faccio che incontrare belle donne in pantaloncini rossi. Il davanti della larga canottiera grigia dondolò piacevolmente quando lei scese giù per la scala. La canottiera era stata tagliata a metà della sua lunghezza originale. Sarebbe bastato tagliarla un tantino più su, pensò Jake, e avrebbe visto ciò che produceva quello stuzzicante dondolio. "Ron?" chiamò la donna, fermandosi davanti alla macchina. "Tesoro, questo è l'agente..." Smeltzer guardò Jake. "Jake Corey." "Ci siamo incontrati qui fuori. Beh, scontrati renderebbe meglio l'idea." Rivolse a Jake uno sguardo impacciato. "C'è qualche problema?" Jake lasciò che fosse Smeltzer a spiegarle. Sua moglie lo ascoltò assentendo con dei cenni del capo, ma non disse "Porca miseria" a ogni frase. Non disse nulla. Si limitò a annuire aggrottando le ciglia e a gettare continue occhiate a Jake, come se si attendesse che l'agente stesse là per interloquire interrompendo il rapporto di suo marito. "È tutto vero?" gli chiese infine. "Resoconto ineccepibile." "Lei sospetta che un assassino possa aggirarsi in questi paraggi?" "Oggi non ha ucciso nessuno, ma non si può dire che non ci abbia provato. Nessuno di voi due ha visto qualcuno?" La donna scosse la testa. "Ma siamo stati chiusi qui dentro a lavorare," precisò Smeltzer. "Se non sbaglio avete una casa in città, è così?" chiese Jake. Ricordava di aver sentito dire che avevano acquistato la proprietà degli Anderson. "Era lì che stavo andando," disse Smeltzer. "A prendere il ghiaccio." "È ovvio che la decisione spetta a voi, ma se fossi al vostro posto per oggi chiuderei la baracca e me ne tornerei a casa. Non vedo perché si debbano correre inutili rischi." Moglie e marito sì scambiarono uno sguardo. "Non saprei," le disse Smeltzer. "Tu che ne pensi?" "Dobbiamo rimettere a posto il locale prima che vengano a scaricarci le attrezzature." "Potremmo tornare domani sul presto." "Decidi tu," disse la donna. "Quel tizio potrebbe essere pericoloso."
"Come vuoi, Ron. Tocca a te decidere." "Tu preferiresti restare," disse Ron. "Ho detto questo?" "Io penso che sia più prudente sgombrare." "Okay. Allora è deciso." La donna sorrise a Jake. Era un sorriso falso. Come dire: Contento? Hai vinto tu. Ehi, signora, avrebbe voluto dirle lui, Scusami tanto, eh! Pensavo che forse poteva interessarti sapere che un figlio di puttana se ne va a zonzo da queste parti. Un fottuto bastardo che potrebbe considerarti decisamente il suo tipo. Perdonami. Smeltzer si rivolse a Jake. "Possiamo darle un passaggio?" "Sì, grazie. Uno strappo fin sulla strada mi farà comodo." "Bene. Ci sbrigheremo in un minuto. Sa, dobbiamo chiudere tutto." Smeltzer e sua moglie si diressero alla scala della veranda. Jake lanciò uno sguardo al posteriore della donna. Non lo trovò particolarmente interessante. La signora Smeltzer era un bel pacchetto, graziosamente infiocchettato, una confezione accattivante, ma Jake aveva la sensazione che, una volta aperto, quel grazioso pacchettino avrebbe rivelato un contenuto deludente. Ma ora basta con questi eccessi di libidine. La coppia era rimasta all'interno del ristorante più a lungo di quanto Jake si fosse aspettato. In un primo momento immaginò che il ritardo dipendesse da una rovente discussione sulla partenza fuori programma. Poi cominciò a preoccuparsi. L'uomo del furgone era lì dentro e li aveva catturati? Poco probabile. Ma Jake non scartò del tutto una simile eventualità. Contò fino a trenta, lentamente, nella sua mente. Non uscivano ancora. Si gettò a precipizio sulla scala, salì i gradini tre alla volta e allungò la mano sulla maniglia della porta. Che si aprì in quello stesso istante. "Ci scusi se ci abbiamo messo tanto," disse Smeltzer. "Sono dovuto andare al bagno." "Non c'è nessun problema." Jake fece dietrofront senza provare neppure a dare una sbirciatina alla moglie, e a passo spedito scese giù per gli scalini.
Da dietro sentì giungere la voce di lei. "E è proprio questa la cosa peggiore." "La prudenza non è mai troppa," sentenziò Smeltzer. "Naturalmente." CAPITOLO TERZO Solo poche lezioni erano ancora in corso e la Bennet Hall aveva un'acustica terribile, tant'è che ogni minimo rumore sembrava amplificarsi — specialmente sulle scalinate. Sicché Alison salì al terzo piano con eccessiva cautela, sorreggendosi saldamente al corrimano di legno per assicurare la massima stabilità al suo corpo in movimento. Alison sapeva di essere in anticipo. Ma non poteva farci nulla. Aveva cercato di non presentarsi prima delle quattro, fatto stava, però, che la lezione su Chaucer era finita alle due, e il martedì e il giovedì non aveva altri corsi da seguire. Non era mica facile trovare qualcosa da fare per due ore intere. Il cammino fino alla casa dove aveva alloggio durò solamente dieci minuti. E quando vi giunse non trovò nessuna delle due compagne di stanza. Peccato. Quattro chiacchiere con Celia o con Helen sarebbero servite a far passare il tempo più in fretta. Tentò di mettersi a studiare, ma non riusciva a concentrarsi. Non sul libro, almeno. Tutta la sua attenzione gliel'assorbiva l'orologio, la cui lancetta lunga sembrava impiegare dieci minuti per avanzare di una sola lineetta. Se soltanto fosse riuscita a farsi un sonnellino e a risvegliarsi alle quattro meno un quarto... Puntò la sveglia e si sdraiò sul letto. Sicuro, dormire sarebbe stata la cosa migliore. Chiuse gli occhi, incrociò le mani sulla pancia e ci si mise d'impegno. Naturalmente, non servì a nulla. Non riusciva neppure a rimanere ferma, figurarsi poi a dormire. Alla fine rinunziò all'impresa, infilò la divisa da cameriera nella borsa da aereo, vi aggiunse un paperback e uscì. Raggiunse la Bennet Hall alle 3:20. Era presto, e lo era anche per lei — con buoni quindici minuti di anticipo rispetto all'ora in cui normalmente arrivava il giovedì. E così occupò il suo solito posto su una panchina di cemento che circondava il poderoso tronco di una quercia, e cercò di leggere. E si mise a guardare uno scoiattolo che mangiava una nocciola. E una coppia di studenti più giovani, probabilmente matricole, che urlavano e lanciavano in aria un frisbee. E Ethel Vattelapesca che passeggiava verso
la biblioteca mano nella mano con Brad Bailey. Provò di nuovo a leggere. Finalmente erano le quattro meno dieci. Non poteva aspettare oltre. E poi, disse a se stessa, la lezione poteva finire un po' prima. Così entrò nella Bennet Hall e salì al terzo piano il più silenziosamente possibile. Il corridoio era deserto. Da uno degli uffici della facoltà giungeva il lento ticchettare di una macchina da scrivere frammisto a poche, fievoli voci provenienti dalla porta aperta di qualche aula. Si fermò vicino all'ultima aula a sinistra. Gli studenti non erano visibili, ma da quella posizione Alison poteva godersi una chiara e completa visione di Evan. Erano stati insieme soltanto la sera prima, eppure per Alison era come se fosse passato un mucchio di tempo. Troppo tempo. Tanto lungo da ferirle il petto con un cupo dolore. E quel dolore non l'abbandonò neppure adesso. Anzi, parve quasi acuirsi. Dai, pensò Alison. Lasciali andare. Evidentemente Evan non si era accorto del suo arrivo. Stava guardando avanti, e probabilmente i suoi occhi erano rivolti allo studente che gli stava chiedendo chiarimenti circa la minima lunghezza richiesta per una tesina di fine corso. "Dovrebbe essere," rispose, "come la gonna di una signorina — abbastanza corta da tener vivo l'interesse di chi ce l'ha davanti, ma abbastanza lunga da coprire le parti essenziali." Qualche studente ridacchiò. "Insomma, di quante pagine deve essere?" Evan inarcò un sopracciglio. Alison sorrise. Era così carino quando recitava la parte del pedante. "Come minimo quindici." "Dattiloscritte?" s'informò un'altra voce. "Certo. Inchiostro nero. Carta bianca del tipo 8 e 1/2 x 11. Doppia interlinea. Marginatura: 2 cm e 1/2. Se possibile, evitate di usare carta cancellabile — mi fa le dita appiccicose." Erano matricole. Probabilmente bastava che le sue labbra emettessero il più piccolo suono perché quelli prendessero appunti. Evan piegò le braccia. Stava in piedi davanti alla cattedra, e il bordo di questa gli premeva nelle natiche. Nel togliersi gli occhiali dalla montatura filiforme, chiese, "Ci sono altre domande?" E mentre aspettava, si pulì le lenti sopra un risvolto della giacca di velluto a coste. Senza gli occhiali, la sua faccia sembrava nuda e assumeva quasi un'aria fanciullesca. Inforcò di nuovo gli occhiali e tornò a essere il colto assistente universitario. "No?
Ecco il vostro lavoro a casa: leggete da pagina 496 a pagina 506 dell'Untermeyer e martedì venite in classe pronti a sbalordirmi con la vostra preparazione sul genio e la fosca arte di Thomas. Potete andare." Alison si allontanò dalla porta. L'uscita dall'aula non fu un disordinato fuggi fuggi. Gli studenti si prepararono con comodo a lasciare i banchi; alcuni uscirono da soli, altri in gruppetti di due o tre. Suonò la campanella. Altri ancora sgombrarono mentre Alison aspettava con impazienza. Fece capolino dallo stipite della porta e sbirciò dentro. Una ragazza nella quarta fila era ancora impegnata a ordinare i suoi libri sul ripiano del banco. Finalmente si alzò, sollevò al petto la pila pericolante e si avviò all'uscita. "Buon fine settimana, Mr. Forbes." Questi sorrise. "Passerò il fine settimana continuando a cercare donne nude in impermeabili bagnati." "Eeeh?" "Buon fine settimana, Dana, e anche buon venerdì." Alison entrò nella stanza. La ragazza le passò accanto e sparì. "Donne nude in impermeabili bagnati?" fece Alison. Evan sorrise. Fece scivolare un libro nella borsa. "Un verso preso a prestito da Dylan Thomas." "La tua amica Dana crederà che tu sia pazzo." "La pazzia è un requisito scontato in un professore d'inglese." Alison chiuse la porta e si gli si avvicinò. Lui fece scattare le chiusure della valigetta e girandosi verso di lei la fissò negli occhi. "Come sei stato?" gli sussurrò Alison, sentendosi stringere la gola. "Solo." "Anch'io." Si accostò a lui delicatamente e muovendo piano le braccia cominciò a carezzarlo sotto la giacca, la testa piegata all'indietro e le labbra in attesa della sua bocca. Lui la baciò, premendo a sé il corpo di lei, che si rincantucciò contro di lui. Era questo ciò che voleva, ciò che aveva desiderato intensamente fin dalla sera prima — stare di nuovo con lui. Se solo quell'incontro fosse potuto durare all'infinito. Se solo fossero potuti andare nel suo appartamento, stare insieme, fare l'amore, cenare, trascorrere insieme la serata e la notte... Ma non poteva essere così, e la consapevolezza di ciò era un amaro rammarico che offuscava la gioia di quell'abbraccio. Alison pose fine al bacio. Premette la bocca sul collo di Evan e si strinse forte a lui. Poi abbassò le braccia e fece scivolare le mani nelle tasche posteriori dei suoi calzoni di
velluto a coste. "È così bello," disse. "Il mio sedere?" "Stringerti." "Ci sono i vestiti di mezzo." "È bello lo stesso." "Sarebbe più bello star nudi sul pavimento." "Innegabile." "E allora? Perché no?" Le mani di Evan corsero al sedere di lei, si chiusero intorno alle sue natiche, e strinsero vigorosamente. "Neanche per idea." "Dammi almeno una ragione valida." "La porta non si chiude a chiave." "A parte questo." Alison gli sorrise. "Non è un motivo sufficiente?" "Un dettaglio irrilevante." "Dici sul serio?" "Varrebbe la pena correre il rischio." "Ehi, scordatelo." "Un vigliacco muore molte volte..." "E la prudenza è la miglior parte del coraggio." "Secondo me il fatto è che la signora non ha voglia di scopare." Alison si allontanò da lui con una risata. "Mi accompagni al lavoro?" "Beh, non lo so. Una buona azione va sempre ricambiata e..." Alzò le spalle. "Stai scherzando, vero?" "Non verrà nessuno qui dentro." "Come fai a saperlo?" Evan allungò una mano e le aprì il primo bottone della camicetta. Cominciò a aprire il secondo. Alison gli prese i polsi e spinse via le sue mani. "Ho detto di no. E l'ho detto sul serio. Non è né il momento né il luogo per farlo." Lui serrò le labbra in una stretta linea e un soffio d'aria gli uscì sibilando dalle narici. "Se vuoi così," mormorò. Alison lo guardò negli occhi. Lo sguardo di Evan, che prima le era sembrato così intenso e penetrante, era adesso desolatamente vuoto, come se qualcosa dentro di lui si fosse spento all'improvviso e ormai non riuscisse più neppure a vederla. Evan le volse le spalle. Aprì la borsa e ne tirò fuori un raccoglitore in
carta Manila imbottito di fogli. "Evan..." "Credo che resterò qui ancora per un po'. Ho dei compiti da valutare. E poi voglio vedere se verrà qualcuno nella prossima mezz'ora o giù di lì. Chiamala curiosità." Alison lo fissò, indugiando qualche secondo più del necessario. Rifiutava di credere che le stesse facendo questo. Poi si allontanò verso la porta. "Andiamo, Alison, non sarà mica una tragedia!" Lei non rispose. Uscì. Nel corridoio, e poi sulle scale, si aspettò che Evan la rincorresse per offrirle le sue scuse. Perdonami, è stata un'idea stupida. Non avrei dovuto neppure proportela. Ma mentre attraversava la porta principale capì che lui non la stava affatto rincorrendo. E così faceva sul serio, aveva davvero intenzione di rimanere là dentro. Cionondimeno, continuò a guardarsi alle spalle mentre percorreva il prato. Con quale coraggio poteva farle una cosa simile? Nelle ultime due settimane Evan l'aveva accompagnata al lavoro quasi tutti i giorni. Soltanto un paio di volte non l'aveva fatto, per via di una riunione o qualche altro impegno del genere. Ma stavolta — stavolta era solo per farle un dispetto. Voleva punirla. Perché non aveva voluto starci. Starci. Che parola sgradevole. O ci stai, o te ne vai. Per tutta la giornata aveva aspettato quell'incontro, contando le ore, i minuti. Stringersi e baciarsi nell'aula, passeggiare insieme fino al ristorante tenendosi per mano. Chiacchierare, scherzare, provare la gioia di stare insieme, semplicemente. E essere entrambi consapevoli che dopo lui sarebbe andata a prenderla al lavoro, che sarebbero andati a fare due passi nel parco o direttamente nel suo appartamento, e che lui sarebbe stato dentro di lei. E no, oggi no, ragazzi! Il marciapiede divenne una macchia informe e sfuocata. Si asciugò gli occhi, ma si inondarono nuovamente. Se per lui era tanto importante, forse... no, non dovrebbe essere così importante. Non è mica una tragedia! Beh, si vede che per lui lo è stata, una tragedia enorme.
Vuoi vedere che adesso sono io a avere torto solo perché non ho voluto farmi sbattere sul pavimento dell'aula. E tu eri convinta che ti amasse. Beh, ripensaci. Ti amava, oh certo — amava scoparti, ecco cosa amava. Maledetto. Alison si strofinò di nuovo gli occhi. Tirò su col naso, se lo asciugò, e si fermò sul cordolo del marciapiede. Gabby's era distante solo un isolato. Non voleva entrarci con le lacrime agli occhi. Non voleva andarci per niente. Non oggi. Voleva chiudersi in camera sua e restarci. Dormire, e dimenticare. Ma quando il semaforo si dispose al verde, scese dal cordolo e proseguì in direzione del ristorante. Forse Evan si sarebbe fatto vedere più tardi, sarebbe venuto a aspettarla all'orario di chiusura del locale, proprio come se niente fosse accaduto. Cosa avrebbe fatto lei allora? Oltrepassò le finestre del ristorante. Solo pochi tavoli erano occupati. Era ancora troppo presto per il pienone dell'ora di cena. Sperò in una serata movimentata, impegnativa abbastanza da non lasciarle il tempo di pensare. L'ingresso era all'angolo. Aprì una delle porte di vetro. Nel tirarla le sembrò più pesante del solito. Quando fu nel locale, forzò le labbra in un sorriso a Jean che stava avanzando verso di lei reggendo un vassoio di boccali da birra vuoti. "Hai fatto presto oggi," disse Jean. Un cenno del capo fu l'unica risposta che riuscì a darle. "Stai bene?" "Starò meglio." Jean le si avvicinò di qualche passo. "Se hai bisogno di sfogarti, fammi un fischio. Ho tirato su tre figlie, e stai certa che non sono state sempre rose e fiori. Basta che mi nomini un problema, e puoi scommettere che mi sono trovata a doverlo affrontare." "Grazie." "Adesso vai, ch'è meglio." Con un movimento quasi impercettibile, Jean volse la testa alla sua sinistra. Afferrando il messaggio, Alison guardò oltre la spalla sinistra di Jean. "Fa' attenzione che il Principe Azzurro non ti segua ai cessi." Il Principe Azzurro sedeva da solo all'ultimo tavolo. "Stai cercando di tirarmi un po' su, eh?"
Jean strizzò un occhio e le passò accanto, allontanandosi. Alison si ripromise di non guardare il Principe Azzurro, ma non poté resistere alla tentazione di lanciargli un'occhiata mentre si affrettava ai gabinetti. Lo vide chino sul tavolo, intento a stirarsi e torcersi una lunga e untuosa matassa di capelli neri che gli cascava sul viso. Un ritaglio di pelle biancastra si mostrava da un buco nella spalla della sua maglietta grigia. Quella maglietta sembrava l'avesse addosso da mesi e mesi. Una scodella di minestra vegetale era poggiata sul tavolo, direttamente sotto la sua faccia. Meno male che era toccato a Jean servirlo. Stava forse cercando di strapparsi qualcosa dai capelli per condire ulteriormente la minestra? Alison distolse lo sguardo, e mentre gli passava precipitosamente accanto fu investita da una zaffata del suo odore. Grazie a Dio non l'aveva vista. Entrò nel gabinetto e chiuse a chiave la porta. Beh, se non altro il Principe Azzurro era riuscito a distrarre la sua mente dal pensiero di Evan. Evan. Il tormento ricominciò. Se proprio ho voglia di star male, pensò, dovrei scambiare i miei guai con quelli del Principe Azzurro là fuori. Sperò che se ne fosse già andato quando lei avesse finito di cambiarsi. Si truccò lentamente. Poi appoggiò la gonna e la camicetta sulla porta del gabinetto e aprì la borsa di plastica. La maggior parte delle altre cameriere venivano al lavoro con indosso la divisa del ristorante. A Alison non piaceva indossarla per strada, men che mai nel campus. La minigonna di taffetà giallo era parecchi centimetri troppo corta e sul davanti vi era applicato un grazioso e accattivante grembiulino tutto orlato di trine. La camicetta a maniche corte dello stesso tessuto portava il suo nome cucito in rosso sul seno sinistro. La stoffa del completo, sottile abbastanza da essere trasparente, era stata ovviamente scelta da qualcuno che aveva inteso offrire alla clientela maschile un servizio extra. Alison indossò una corta sottoveste, poi la divisa. Piegò gli indumenti che aveva indossato fino a poco prima e aprì la borsa per riporveli. Vide allora lo spazzolino da denti e il negligé nero. Per dopo.
Per la serata con Evan. Poteva risparmiare di portarseli. Si morse il labbro inferiore e infilò la sua roba nella borsa, quindi ne tirò la cerniera. Uscì dalla toilette. Il Principe Azzurro se n'era andato. È il mio giorno fortunato, pensò. CAPITOLO QUARTO "In un certo senso ora mi sento più sollevato," disse Ron. "Non ti sentirai tanto sollevato domattina, mìo caro, quando dovremo alzarci alle cinque." Peggy sorseggiò il suo drink a base di vodka, attenta a non versarlo. Sdraiata sul divano con la schiena adagiata su un morbido cuscino, le gambe allungate e i piedi poggiati sul tavolino da caffè, non era nella posizione più adatta per bere. Ma era così piacevole. "Non credo che sia proprio necessario alzarsi così presto," obiettò Ron. "Sta' a sentire, allora, e rifletti. Quelli verranno alle dieci a scaricarci gli elettrodomestici e il pavimento della cucina dovrà essere sgombrato, pulito e incerato prima del loro arrivo." "Non ci vorranno mica cinque ore, no?" "Tu credi?" "Sicuramente tu lo sai meglio di me." Peggy annuì. Una gocciolina ghiacciata cadde dal fondo del bicchiere finendo sul tratto di ventre scoperto sotto l'orlo reciso della sua canottiera. Ebbe un lieve sussulto, poi strofinò il bicchiere sulla stoffa rossa dei pantaloncini sui quali affiorò una macchia scura. Bevve ancora. "Avremmo dovuto occuparci della cucina dopo pranzo," disse Ron. "Mio caro, avevamo programmato di farlo dopo cena — naturalmente non potevamo immaginare che il lungo braccio della legge, per così dire, sarebbe arrivato da noi a romperci i coglioni." "Quell'agente ha solo cercato di aiutarci." "Grazie mille, posso vivere benissimo senza questo genere d'aiuto." "Non eravamo obbligati ad andarcene." "Tu non vedevi l'ora di squagliartela, e lo sai bene." "In effetti continuo a pensare che abbiamo fatto la cosa più saggia. Perché ci saremmo dovuti sottoporre a un rischio quando potevamo benissimo evitarlo?"
"Già, perché?" mormorò lei. "Se lo vuoi sapere il tuo atteggiamento non mi va giù," disse Ron. "Peggio per te." Portò il bicchiere alla bocca e cominciò ad attingerne. "Maledizione, Peggy!" La mano di lei sobbalzò. Il liquido gelato traboccò, riversandosi giù per il mento. "Merda!" Peggy si drizzò a sedere. Il rivoletto le colò lungo il collo. Con la mano sinistra sollevò un lembo della canottiera e si asciugò la pelle bagnata. "Non c'era bisogno di gridare." La voce fuoriuscì roca e gli occhi fiammeggiavano. "Ora sono tutta impiastricciata. Cristo, Ron." "Mi dispiace," Peggy si tirò giù la canottiera per ricoprirsi i seni, bevve una sorsata del suo drink, poi depose il bicchiere sopra un sottobicchiere. "Scusami." Nel bagno, si pulì collo e mento con una spugnetta umida. Ron apparve nello specchio dell'armadietto dei medicinali. Le sue mani le carezzarono il ventre. "Mi dispiace," ripeté. "Anche a me," disse Peggy con voce sommessa. "Mi sono comportata in modo insopportabile. Ma volevo tanto che fosse tutto a posto entro stasera." Ron le sollevò la canottiera e le mani si chiusero intorno ai suoi seni. "Ero preoccupato per te," le disse. "Ecco tutto." "Lo so." "Se tu vuoi rimanere qui, torno io laggiù e comincio a dare una pulita al pavimento." "Da solo?" "Potrei portarmi il fucile," fece Ron. "Ho un'idea migliore. Prendi il fucile e andiamoci insieme." Seduto con la schiena appoggiata al tronco di un eucalipto, Jake Corey scrutava i campi col binocolo che aveva portato con sé da casa. Era sceso il crepuscolo, e aveva cominciato a soffiare un piacevole venticello; una vera benedizione dopo la calura pomeridiana che lo aveva impietosamente flagellato durante la lunga scarpinata a cui s'era sottoposto, dopo che aveva parcheggiato la macchina di servizio. Doveva aver marciato per tre chilometri e più, solcando l'erba in un sinuoso slalom, prima di giungere sul poggio e farne la sua torretta d'osservazione. "Non sprecare tempo," gli aveva detto Chuck al cambio di turno.
"Non ho niente di meglio da fare." "Stronzate. Dovresti uscire e darti un po' da fare, ti farebbe bene." Jake non era dell'umore adatto per dedicarsi al genere di attività a cui alludeva Chuck. Se non fosse andato lassù, avrebbe trascorso la serata da solo, nella sua casetta in affitto. A leggere, forse a vagare oziosamente tra i programmi della TV, e poi a nanna, più presto del solito. E a fargli compagnia ci sarebbe stato il senso di colpa per essersi lasciato sfuggire dalle mani il superstite del curioso incidente. Così, invece, stava almeno tentando di far qualcosa. Ormai quel tipo poteva essere lontano chilometri. Nulla toglieva, però, che potesse trovarsi ancora in quei paraggi. Il paesaggio campestre era tutt'altro che uniforme. Magari aveva trovato una depressione nel terreno e vi si era disteso a riposare e a aspettare. Pazientando finché non si fosse sentito sicuro di muoversi senza pericolo. Era questa l'ipotesi sulla quale contava Jake. E essa motivava la sua attesa in quella comoda posizione, ben occultata tra l'erba alta, il tronco dell'albero a riparargli la schiena. Da là studiava l'area sottostante attraverso le lenti del suo binocolo. Focalizzando in particolare la zona circostante il ristorante deserto. È là che saresti andato, pensò. Sei ferito. Sei rimasto per ore disteso nell'erba. Sei affamato e arso dalla sete. Sei sul punto di desiderare un bicchiere d'acqua più di qualsiasi altra cosa al mondo. Beh, c'è il fiume. Potresti dissetarti là. Sceglieresti comunque il ristorante. Non hai solo sete, sei anche affamato. E, dopotutto, quello è pur sempre un ristorante. Non sei di queste parti, non immagini neppure che sia chiuso da anni. Sai solamente che stasera non è aperto. E ne deduci che il giovedì è il suo giorno di chiusura. La fortuna è dalla tua parte. Entra, ci farai un banchetto. E quando te ne andrai, porterai con te una buona provvista, così sarai a posto per parecchi giorni. Dall'alto della collinetta Jake aveva una buona visuale del ristorante. Almeno per quel che riguardava la facciata anteriore e la parete meridionale. Quanto al retro e all'altra fiancata, potevano benissimo essere assaltate da un esercito senza che se ne fosse accorto. Non da dov'era. Forse quello è già dentro. Jake si rammaricò per non aver ispezionato il posto prima di insediarsi nella sua postazione di guardia. A quel punto, era riluttante a uscire allo
scoperto. Avrebbe atteso la completa oscurità. Che ormai non avrebbe tardato. I colori s'erano già quasi completamente offuscati; nel paesaggio intomo, i toni brillanti del verde e del giallo si stemperavano, spegnendosi nelle smorte sfumature del grigio. Pochi minuti e sarebbe stato buio. Come essere a un drive-in in attesa che cominci il film. Ora Jake era nella sua Mustang. Con Barbara. Dal suo lato il finestrino era completamente aperto. L'altoparlante agganciato al bordo dello sportello. Era quasi buio, quasi ora che iniziasse il film. Sciame di ragazzini sulle altalene, e sulla giostrina nel mini-parco sotto lo schermo. Barbara. Con la maglietta bianca, i pantaloncini bianchi, i calzini e le scarpe da tennis. Fresca e incantevole. La pelle bruna in contrasto con tutto quel nitore. Una capatina al banco dei rinfreschi. Di solito popcorn e pepsi durante la prima proiezione, poi un'altra spedizione nell'intervallo per un sandwich di gelato o un laccio di liquirizia. Di preferenza la liquirizia. Quante cose divertenti si facevano con quei lacci di liquirizia. Si scherzava a tirarseli addosso. A solleticarsi. A stuzzicarsi. Si poteva infilare in bocca ciascuno un'estremità del laccio e masticarla finché non si arrivava al centro. Finché non si incontrava la bocca di Barbara. La sua bocca profumata di ciliege. Il rombo del motore di una macchina fu un improvviso scossone che riportò di botto Jake alla realtà. Fu per lui come risvegliarsi da un delizioso sogno. Un bagliore di fari illuminò la strada che conduceva al ristorante. Poi apparve la macchina. E mentre questa passò sotto di lui, Jake vide che si trattava di una station wagon. Bestiale. Al diavolo i suoi avvertimenti. E addio al suo piano di ispezionare il posto. Seguì con lo sguardo i rossi fanalini di coda che danzavano nell'oscurità mentre l'auto beccheggiava a ogni cunetta della strada ondulata. All'accendersi degli stop, sollevò il binocolo. Si aprì una portiera, e, contemporaneamente, la luce interna illuminò l'abitacolo. Smeltzer e Smeltzer. Il dinamico duo. Ron aprì il portellone posteriore, e ne estrasse un fucile da caccia a dop-
pia canna. La portiera si chiuse. Jake abbassò il binocolo e guardò la eoppia mentre saliva la scala. Indugiarono qualche secondo sulla veranda, Ron presso la porta. Poi entrarono tutti e due. Dopo pochi istanti la luce apparve alle finestre. E ora? Che cavolo succede? Si chiese Jake. Che sono tornati a fare? Avevano dimenticato qualcosa? In tal caso, usciranno tra un minuto. A meno che, non ci sia qualcuno a aspettarli. Jake si accorse che stava trattenendo il respiro. Aspettava di udire un colpo di fucile, o un grido. Si alzò in piedi e s'incamminò giù per il pendio, in direzione della strada, l'orecchio ancora teso. Ma ciò che udì fu il battito del suo cuore, gli scrocchi del fogliame sotto gli stivali, il costante frinire dei grilli, il consueto pigolare degli uccelli. Può darsi che li lasci stare, pensò Jake. Che si sia nascosto. Dovrebbe aver sentito il rumore della macchina che si avvicinava. Chissà quanti ottimi nascondigli si possono trovare in un vecchio ristorante come quello. Sempre che sia davvero là dentro. Potrebbe benissimo essersi nascosto tra gli alberi oltre il ristorante. O magari tre, quattro chilometri lontano. Potrebbe trovarsi in qualunque altro posto. All'inferno! Vuoi vedere che giace nell'erba, morto a seguito delle ferite? Oppure se ne sta acquattato in un angolino buio dell'Oakwood Inn aspettando il momento propizio per piombare addosso a quei due. Dalla sommità di un dosso che innalzava di parecchio il piano della strada, Jake riusciva a vedere la station wagon e il ristorante. Ma degli Smeltzer nemmeno l'ombra. Non avevano dimenticato proprio niente, quegli idioti. Erano tornati per lavorare. Non era poi così sorprendente. Jake accelerò il passo. Che la donna fosse stata riluttante a lasciare il ristorante nel pomeriggio era apparso fin troppo evidente. Tra i due era Ron il più assennato. Ma anche il più debole. L'avvenente mogliettina doveva averlo convinto a non far sì che un particolare di nessunissima importanza, un'inezia come la possibilità che un assassino si aggirasse nei dintorni, potesse frapporsi tra loro e i compiti domestici che li attendevano. Paura? Basta portare il fucile. Tu monti la guardia mentre io spazzo via la polvere e i riccioli di lanu-
gine. "Che mossa scaltra, gente," mormorò Jake. Sperò che almeno fossero scaltri abbastanza da controllare attentamente porte e finestre. Sempre ammesso che le avessero chiuse a chiave prima di andar via (e Jake ricordava che erano rimasti nel ristorante abbastanza a lungo per chiudere tutto), il tizio, probabilmente, sarebbe stato costretto a forzare qualche apertura per potervi entrare. A meno che non si fosse già trovato all'interno prima che serrassero ogni accesso. Ben nascosto là dentro. E se invece lo sapessero? Il solo pensiero di una simile eventualità lasciò Jake sconcertato. Si bloccò sulla strada e fissò il ristorante. E cominciò a gingillarsi con quell'idea. No, non erano ostaggi — l'ipotesi non calzava. Possibile che stessero collaborando col tizio per una qualche ragione? Ma quale ragione? Soldi? Quel tipo è carico di quattrini e si è comprato il loro aiuto. La storia di Ron a proposito del ghiaccio mancante era sembrata sempre poco convincente. Ed erano rimasti là dentro un tempo interminabile con la scusa di dover chiudere tutto. Forse a parlamentare con il loro nuovo amico sul modo migliore di affrontare la situazione. Alla fine decidono di andar via insieme al piedipiatti. Sarebbero tornati nottetempo. Con un fucile. Un fucile per l'amico. Jake si rimise in marcia, aggrottando le ciglia nel guardare il ristorante. Cosa so io degli Smeltzer? domandò a se stesso. Quasi niente, fu la risposta. Diavolo, poteva darsi che il furgone si stesse dirigendo là quando qualcuno aveva avuto la brillante idea di investire Celia Jamerson. Una versione un po' troppo fantasiosa, non ti pare? Sto solo coprendo le basi. Guardare le cose da ogni possibile angolazione può evitarti spiacevoli sorprese. Ma tu credi davvero che siano diventati complici del fuggiasco? Forse la moglie. Già, non è da scartare. Ma Ron? Magari Ron è un attore eccezionale. Jake ne dubitava. Se ci sono dentro, allora devono esserlo tutti e due. O nessuno dei due. Il che è più probabile.
Man mano che si avvicinava al ristorante, Jake riteneva sempre più verosimile l'ipotesi che i due coniugi avessero semplicemente deciso di ignorare il rischio, di portarsi dietro un fucile a scopo di difesa e di fermarsi nel ristorante il tempo sufficiente a ultimare la pulizia dei locali. Tuttavia, per quanto remote, le altre possibilità rimanevano comunque plausibili e pertanto non le bocciò definitivamente, limitandosi a accantonarle. La prudenza non è mai troppa. Scelse di non bussare alla porta. Preferì, invece, salire silenziosamente gli scalini che portavano alla veranda e gettare un'occhiata furtiva da una delle finestre posta a destra dell'entrata. Non scorse nessuno. Il vano al di là della finestra sarebbe stato adibito a sala cocktail. Il lungo bancone del bar in legno scuro contornato da un poggiapiedi d'ottone copriva l'intera lunghezza della sala. Non c'erano sgabelli, ma una coppia di sedie pieghevoli e davanti a esso, pressappoco a metà della sua estensione, vi era un tavolo da gioco. Sul tavolo campeggiava una piccola collezione di bottiglie e bicchieri da cocktail. Ecco delle prove a tuo favore, pensò Jake. Avevano davvero avuto intenzione di prepararsi un drink. Evidentemente Ron non aveva mentito sul fatto di essere uscito per andare a prendere il ghiaccio. Jake scivolò fino all'altro lato della porta. Da quella posizione aveva una visuale completa della sala da pranzo principale. Priva di tavoli e sedie, appariva enorme. Nella parete di sinistra, rivestita da pannelli scuri, si aprivano una mezza dozzina di finestre. Negli spazi tra una finestra e l'altra erano appesi dei candelabri. Altri ve n'erano sulla parete destra e tra le finestre della parete posteriore. Ciascuno dei candelabri in ferro battuto sorreggeva tre candele finte — moccoli bianchi con in cima una lampadina elettrica accesa. Evidentemente, per gli Smeltzer l'illuminazione che producevano non era sufficiente. Difatti, sul pavimento era poggiata una lampada da tavolo che inondava di luce il legno duro del lucido parquet. Accanto alla lampada c'era un aspirapolvere. Una scopa era accostata a una scala a pioli, di quelle pieghevoli a libro. Sul pavimento c'erano anche una cassetta degli attrezzi aperta e un assortimento di stracci, bombolette e bottiglie di sostanze da utilizzare per pulire e lucidare. Jake immaginò che dall'altra parte della parete di destra vi fosse la cucina. Una porta dai battenti ad ala di pipistrello si apriva a metà di quella parete, e da essa si riversava la luce proveniente dalla stanza attigua. Jake scese dalla veranda e girò intorno al lato destro della costruzione, avvicinandosi a una delle finestre illuminate verso il retro.
Dall'interno giungeva una musica sommessa, e da ciò capì che la finestra doveva essere aperta. Avanzò verso di essa a passi felpati. Non si era sbagliato, la finestra era aperta. Era posta piuttosto in alto rispetto al livello del terreno, difatti il davanzale sporgeva in corrispondenza delle spalle di Jake. Puntellandosi con la mano contro la ruvida parete di legno, sbirciò dentro da un angolino. Sentì un debole odore di ammoniaca. In un angolo distante della cucina c'era Ron, chino su di un secchio e intento a strizzar via l'acqua sporca da una scopa di spugna con un lungo manico. Indossava un paio di jeans, ma non aveva la camicia. Questa pendeva dal banco vicino alla radio. Jake avvistò il fucile. Stava ritto, le canne appoggiate alla parete in un cantuccio probabilmente destinato a accogliere la cucina o il frigorifero. Non riuscì a vedere la moglie. Si abbassò sotto il davanzale e avanzò lungo la fiancata della costruzione; oltrepassò l'angolo e riprese a sbirciare attraverso una finestra posteriore. La moglie si trovava all'altra estremità della cucina, dove, in ginocchio, stava strofinando il pavimento. Aveva addosso i pantaloncini rossi. E nient'altro. Tenendo la schiena arcuata, si sorreggeva con una mano puntata a terra, mentre l'altra sfregava. I seni dondolavano mentre lavorava. Tutt'a un tratto Jake si sentì un voyeur. Si allontanò dalla finestra, accostò le spalle alla parete e fissò il campo buio e i boschi circostanti. Ora basta, pensò, basta con gli Smeltzer. Era più che ovvio che non stessero proteggendo il suo fuggiasco. Che fossero o no al sicuro — Dio solo poteva saperlo. Ma avevano liberamente deciso di correre il rischio, e se non altro avevano preso la precauzione di portarsi dietro un'arma da fuoco. Jake aveva fatto il suo dovere; li aveva avvertiti, e era andato persino a controllare di persona avvicinandosi di soppiatto al ristorante. Bussare alla porta per metterli nuovamente in guardia, questo no, non si sentiva proprio di farlo — specie dopo aver spiato la donna seminuda. Provò l'impulso di guardare ancora. Non fare lo scemo, Corey. Si allontanò. ***
"Lo hai sentito?" disse Peggy. "Sentito cosa?" "Spegni quella maledetta radio." Ron si trascinò dietro la scopa di spugna fino al bancone e spense la radio. Peggy lasciò andare la spazzola abrasiva. Si raddrizzò, si asciugò le mani bagnate sui pantaloncini e fissò il marito. "Io non sento niente," mormorò quello. Con gli occhi sgranati e la bocca semiaperta, aveva un'aria spaventata. Una gocciolina di sudore scivolò giù dall'ascella di Peggy. Questa accostò il braccio al fianco, strofinandovelo. "Forse te lo sei solo immaginato," disse Ron. "Io non ho immaginato un bel niente." La testa di Ron roteò e gli occhi sfrecciarono da una finestra all'altra. "Non veniva da là fuori," gli disse Peggy. Sollevando un braccio, additò la porta chiusa che dava accesso alla cantina. Il colorito si spense dal volto di Ron. "Stai scherzando," mormorò. E in un rauco bisbiglio, lei affermò, "Io ho sentito un rumore, maledizione, e veniva da là." "Oh, merda." "Non startene là impalato, prendi il fucile." Lo sguardo di Ron corse al fucile, poi tornò su Peggy. "Che specie di rumore era?" "Un tonfo, un rumore sordo, non lo so. Per amor di Dio, Ron..." "Okay, okay." Attraversò la cucina in punta di piedi, prese il fucile e lo imbracciò su un fianco tenendo le canne puntate contro la porta della cantina. Senza muoversi, Peggy guardò di lato. La sua canottiera stava piegata sul piano del banco, appena fuori della sua portata. Nuda fino alla vita si sentiva particolarmente vulnerabile. Guardò la porta della cantina, e strisciando sulle ginocchia molto lentamente si avvicinò al bancone. Scoprì che aveva paura di compiere movimenti bruschi. Incapace di staccare gli occhi dalla porta, sollevò un braccio e prese a esplorare a tentoni il ripiano del banco finché non ebbe trovato la canottiera. La tirò giù e accostatasela al ventre prese a tastarla finché non ne ebbe trovata la scollatura. Tutto questo, tenendo sempre gli occhi incollati alla porta. Infilò le mani nei giri delle maniche, alzò in alto le braccia e lasciò che la canottiera le scivolasse
addosso. Per un istante fu cieca. La tirò giù alla svelta, liberandosi il viso. Si aggrappò con una mano alla sommità del bancone e si alzò in piedi. "Usciamo di qui." "Vuoi dire: andiamocene a casa?" fece Ron. "Sì." "Stai scherzando." Il tono della sua voce costrinse Peggy a distogliere lo sguardo dalla porta della cantina. Lo guardò. Il volto di Ron era ancora pallido, ma un angolo della bocca gli si era contratto, come a forzarla in un sorriso amaro. "Non abbiamo finito di pulire il pavimento," le disse beffardo. "Ron." "Penso davvero che dobbiamo assolutamente finire il pavimento, non sei d'accordo? Altrimenti ci toccherà alzarci all'alba e..." "C'è qualcuno giù in cantina!" disse lei in un sibilo. "Guarda guarda adesso chi è la fifona." "Non ho mai detto che tu lo fossi." "Ma davvero? Eppure a me è sembrato che lo pensassi. O forse me lo sono solo immaginato." "Questo non è proprio il momento di fare... andiamocene e basta, okay?" "E tu ti lasci spaventare da un rumoretto? Dopo che mi hai costretto a tornare quaggiù?" "Se tu vuoi restare, resta pure. Ma dammi le chiavi della macchina." "E secondo te io cosa dovrei fare poi, tornare a casa a piedi? O passare la notte qui? No, grazie. Ho un'idea migliore. Andrò giù a perquisire la cantina, e quando tornerò su mi farai le tue scuse. Ripeterai con me, 'Ron non è un imbranato né un vigliacco.'" "Tu non sei un imbranato, e nemmeno un vigliacco. Adesso andiamocene. Ti scongiuro!" Ron le rivolse un sorriso compiaciuto. Poi avanzò baldanzosamente verso la porta della cantina, abbassò il fucile e afferrò il pomello con la mano sinistra. "Sei un idiota!" Peggy si precipitò avanti, pronta a agguantarlo e porre fine a quella follia, ma il piede nudo si posò su di un punto in cui il pavimento era bagnato, mandandola gambe all'aria. Atterrò pesantemente sul sedere. L'espressione beffarda abbandonò il volto di Ron. "Ti sei fatta male?" "Sopravviverò." "Tieni." Si frugò in una tasca dei jeans, ne estrasse il portachiavi e glielo
lanciò. Le chiavi finirono sul pavimento tra le sue ginocchia e produssero un tonfo seguito da un suono stridente. "Avviati e aspettami in macchina." Aprì la porta della cantina. "Io verrò a prenderti dopo che avrò controllato laggiù." "Non andarci. Lo so, pensi che sono pazza. Credi che sia stato solamente un sorcio, un ratto, o qualche altra dannatissima bestia, ma..." "Esatto." Ron premette un interruttore della luce e cominciò a scendere la scala della cantina. Peggy afferrò il portachiavi. Lo tenne ben stretto mentre ascoltava il trepestio dei piedi di Ron sugli scalini di legno. Con movimenti lenti e silenziosi tirò indietro le gambe e si sollevò sulle ginocchia. Il rumore dei passi di Ron cessò. "Ron?" chiamò. Lui non rispose. Peggy si alzò in piedi. Si trascinò fino al vano della porta e guardò giù. La cantina era illuminata, ma riusciva a scorgerne solo una piccola zona ai piedi della scala. Ron non era là. "Stai bene?" "Sì, tutto a posto." Si appoggiò allo stipite della porta. "Perché adesso non risali?" "Soltanto un minuto. Non ero mai sceso quaggiù. È una specie di... MERDA!" La violenza del grido fu una sferzata che irrigidì il corpo di Peggy e le tolse il respiro. Paralizzata sulla soglia, abbassò gli occhi. Le balenò nella mente il pensiero che se in quel momento avesse dovuto correre non ne sarebbe stata capace. Cercò allora di chiamarlo. Sembrò che la voce le si fosse congelata nella gola. Dio, oh Dio, cosa gli era successo! "Maledetto," disse Ron. Peggy si sentì sollevata, ma non abbastanza. Continuava a non poter parlare. Boccheggiò avida d'aria. Ron comparve in fondo alla scala. Le sorrise, sembrava piuttosto soddisfatto. "Avresti dovuto vederlo. Me lo sono visto zampettare davanti all'improvviso, come se fosse sbucato fuori dal nulla." Cominciò a salire. "Il ratto più dannatamente grosso che avessi mai visto. Naturalmente, devo ammetterlo, non avevo mai visto un ratto prima." Peggy indietreggiò barcollando, allontanandosi dalla porta. Con una mano si premeva il petto.
Si fermò quando il sedere andò a urtare contro il bancone. Racchiuse le mani intorno al bordo del ripiano aggrappandosi a esso per tenersi ritta. Ron raggiunse la sommità della scala. Si accigliò. "Stai bene?" Peggy trasse pochi, profondi respiri. "Tu... mi hai fatto squagliare dalla paura... gridando in quel modo." "Scusami, ma quella bestiaccia mi ha fatto trasalire." "Un ratto." "Un ratto. Non te l'avevo detto che non c'era niente di cui preoccuparsi?" Ron sorrise e sollevò il fucile. "Ehi, non scherzare con quel..." *** Jake Corey stava camminando al centro della strada. Per quella notte il suo compito era finito e così aveva scelto iì percorso più agevole per tornare alla sua macchina, piuttosto che attraversare i campi bui e impervi. Tutt'a un tratto, un colpo di fucile. Ruotò su se stesso e si lanciò nella corsa. Oh, Cristo. Lo sapevo. Oh, Cristo, non dovevo lasciarli rimanere. La sapevo, lo sapevo che stavo sbagliando, lo sapevo che lui stava là, lo sapevo che avrei dovuto obbligarli a andarsene. Quei maledetti idioti, li avevo avvertiti, cazzo, cos'altro dovevo fare, è già troppo quello che ho fatto per convincerli a sloggiare. Sapevano bene quello che facevano, diavolo se lo sapevano. Pensavano che a loro non sarebbe successo niente, magari a qualcun altro, si pensa sempre così. Forse è stato Ronnie a accoppare il bastardo e non il contrario, ci scommetto la testa che uno di quei due è già morto stecchito. Forse quando arriverò là saranno già morti tutti e due, maledizione, Jake, dacci sotto, corri, più veloce! Il ristorante era davanti a lui, una massa vibrante nel suo campo visivo mentre volava verso di esso. Oltre la macchina. Superati gli scalini, tre alla volta, lo scatto d'apertura della fondina, estratta la calibro .38, e ancora a tutta velocità quando la spalla si schianta contro la porta. Il legno si scheggia, cede, e la porta si spalanca. Nessuno.
Jake si precipitò alla porta a due battenti. Si tuffò tra quelli, capitombolò in cucina e fulmineo si drizzò nella posizione accosciata, l'occhio al mirino. Non fece fuoco. Non capiva cosa i suoi occhi stessero vedendo. La donna in pantaloncini rossi giaceva sul pavimento, faccia in su. Faccia in su? Lei non aveva una faccia. Un mento, quello sì, forse. Ron era chino sopra di lei, la faccia all'altezza del suo ventre. Nessun altro nella cucina. La porta della cantina era aperta. "Ron? Ron, da che parte è andato?" Ron sollevò la testa. Un brandello sanguinante della carne di sua moglie venne su con essa, stretto tra la morsa dei denti che tendevano e strappavano. Raddrizzò la schiena e ricambiò lo sguardo fisso di Jake. I suoi occhi erano calmi. E con calma la sua bocca masticava. Poi allungò un braccio dietro di sé, verso il fucile. Le pallottole di Jake Corey lo paralizzarono. CAPITOLO QUINTO Alison riempì due brocche di birra alla spina e le portò a un tavolo affollato di Sig. Due di essi erano laureandi: Bing Talbot e Rusty Sims. Qualche volta era uscita con Bing, durante il primo anno di studi. Aveva frequentato dei corsi insieme a lui e a Rusty, e sapeva che appartenevano alla stessa associazione studentesca, la confraternita dei Sigma Chi. Gli altri quattro, accalcati con loro nell'angusto spazio, erano sicuramente dei confratelli — gli si leggeva in faccia. Avevano già fatto fuori due brocche di birra e sei hamburger alla Gabby. Adesso si stavano dando da fare con le patatine al chili. Alison depose sul tavolo te due brocche piene. Uno dei Sig più giovani le fece un cenno. "Ehi, ehi!" Indicò il nome cucito sulla camicetta sul seno sinistro. "Come si legge là?" "Alison," fece lei. "E l'altra? Che nome le hai dato?" "Herbie," rispose . Disarmato, lo studente ridacchiò battendo i palmi sul tavolo. Alison fece per allontanarsi, ma Bing la trattenne per la gonna. Lei si fermò e abbassò gli occhi su di lui, sorridendogli. "La vuoi? Ti starebbe
bene." "Aspetta, aspetta," le disse lui, come se non avesse sentito quello che aveva detto. Gli altri, invece, l'avevano sentita di sicuro. Visto che si stavano sganasciando dalle risate, fischiando e schiamazzando a commento della sua osservazione. "Aspetta," ripeté Bing, lasciando andare la gonna. "Sai cosa disse la cameriera quando si sedette sulla faccia di Pinocchio?" E Alison: "Bugia! Bugia!" La foga di Bing si smorzò. "La sapevi già." "Perché non ti siedi qui con noi?" suggerì un ragazzo tutto pelle e ossa praticamente imprigionato in mezzo a due dei compagni meglio piantati. "Non c'è spazio." "Puoi sederti sulle mie ginocchia." "No, sulle mie!" "Le mie!" "Tireremo a sorte." "Non mi è permesso fraternizzare con i clienti," disse Alison. "Ohhh." "Confra-ternizza, allora," propose Rusty. "L'ho presa, l'ho presa!" Alison indietreggiò rapidamente mentre Bing tentava nuovamente di acchiapparla per la gonna. "Buon divertimento, ragazzi," disse, e si allontanò. "Ah, che incantevole derrière." Il tono era voglioso. Già, pensò Alison. È quasi ora di portar via il mio derrière da questa bettola. Alzò gli occhi all'orologio sul muro dietro il bancone. Mancavano due minuti alle dieci. Eileen, dietro il registratore di cassa, sollevò lo sguardo mentre Alison le si avvicinava. "Smonti?" "Sì." Eileen, che sotto la divisa aderente indossava indumenti rossi, lanciò un'occhiata alla comitiva dei Sig, poi tornò a guardare Alison. Sorrise. "Finalmente toccherà a me servire il tavolo sei." "Divertiti," le augurò Alison. Entrò in cucina, salutò Gabby e Thelma e prese la sua borsa. Quando uscì, Eileen era già diretta al tavolo numero sei. Alison andò alla toilette, intenzionata a cambiarsi indossando i suoi vestiti abituali, ma la porta era chiusa a chiave. Scrollò le spalle e se ne andò. Sarebbe tornata a casa con addosso la divisa. Poco importava. Al buio non
ci faceva tanto caso. S'incamminò lungo il marciapiede accompagnata dal tintinnio delle monete ricevute come mancia che aveva infilato nella tasca del grembiule. Compiuti pochi passi, si accosciò, aprì la borsa e ne tirò fuori la borsetta. Cominciò allora a trasferire manciate di spiccioli dal grembiule a una tasca laterale della borsetta. Era ancora impegnata nell'operazione quando qualcuno le si avvicinò. E si fermò davanti a lei. Alison riconobbe gli stivaletti logori. Il cuore accelerò i battiti. Alzò gli occhi su Evan. "Così," disse, "sei venuto lo stesso." "Non ho mai detto che non lo avrei fatto." "Non mi pare." Finì di svuotare il grembiule, riagganciò la patta della borsetta e la infilò nella borsa di plastica. Poi si alzò in piedi. "Posso portartela io?" "Se vuoi." Gliela porse. Evan finse che fosse terribilmente pesante, singulto di sorpresa e barcollò da un lato. "Accidenti! Mucho mance, eh?" Alison si scoprì incapace di sorridere. "Serata dura?" le chiese lui. "Pomeriggio duro." "Oh." Le prese la mano e cominciarono a camminare. "A proposito, non è entrato nessuno nell'aula. Ci sono rimasto fino alle cinque e passa." "Perciò sarebbe andato tutto liscio, è questo che vuoi dire?" "Sì. E sapevo che sarebbe stato così." "Buon per te." "Ehi, andiamo. Non lo abbiamo fatto, okay? Hai vinto tu. Qual è adesso la grande tragedia?" "Non c'è nessuna tragedia," mormorò Alison. Aspettarono all'angolo della strada che il semaforo desse il verde, poi cominciarono a attraversare. "Non sarò mica una canaglia solo perché desideravo fare l'amore con te?" "Non esattamente." "Diavolo, lo abbiamo fatto nel parco. E non era nemmeno buio. Che mi dici allora di domenica pomeriggio?" Alison ricordò i cespugli, il sole, la coperta sulla pelle, Evan su di lei. Le
sembrava fosse passato un secolo. "Io non riesco proprio a vedere la grande differenza," disse lui. "Un parco, un'aula." Salirono sul cordolo del marciapiede e s'incamminarono lungo il successivo isolato. Oltrepassarono negozi chiusi, un bar con la porta aperta dalla quale proveniva la musica di un juke-box e gli schiocchi delle palle da biliardo, e altri negozi deserti. "E allora, dov'è la grande differenza?" le chiese Evan. "Non c'è una grande differenza," disse Alison. "Non è questo il punto." "Non ti seguo." "Il problema non sta nella differenza tra il parco e la tua aula." "Non ho ancora afferrato." Alison alzò lo sguardo verso di lui. Lo vide accigliarsi. "Il punto è che tu mi hai scaricata." "Capisco." "Non mi ha infastidito il fatto che tu volessi fare l'amore. È stata la tua reazione al mio rifiuto che mi ha irritata." "Solo perché non ho voluto accompagnarti da Gabby's?" Dal suo tono sembrò che lo giudicasse un motivo insulso, troppo stupido per poter giustificare il malumore di Alison. "Più o meno," replicò lei. Raggiunsero l'angolo dove Summer Street si intersecava con la Central Avenue. L'appartamento di Evan si trovava quattro isolati a destra, appena passata la Summer. L'alloggio di Alison, invece, era più avanti, due isolati oltre la fine del campus, in una traversa della Central. Come aveva previsto, Evan la condusse verso destra. Lei non oppose resistenza. Il cuore le batteva forte. Prima aveva deciso che quella sera non sarebbe andata nel suo appartamento. Per la verità, aveva dubitato che lui sarebbe venuto a prenderla al lavoro, in ogni caso, se fosse venuto, gli avrebbe semplicemente detto di no. Era stato facile prendere quella decisione con Evan lontano e il confronto con lui rimandato a un futuro incerto. Ma Alison si accorse che non era altrettanto facile attenersi a essa al momento di darle una reale attuazione. E ogni passo di più avrebbe reso la cosa più complicata. Di là a poco si sarebbero ritrovati nell'appartamento di Evan.
"Aspetta," disse lei. Si fermò e divincolò la mano da quella di lui. Evan la guardò. "Non credo," disse Alison. "Cosa non credi?" "Stasera no." Nel fioco chiarore di un lampione stradale, Alison vide la sua fronte corrugarsi. "Non farai mica sul serio." "Sul serio." Un angolo della bocca di Evan si sollevò appena. Sembrò sorpreso, seccato, disgustato — come se avesse affondato un piede negli escrementi di un cane. "Insomma, cosa ti prende?" "Non mi è piaciuto quello che è successo oggi, questo è tutto." "Cristo," mormorò lui. "Qualcosa è cambiato. Mi ha fatto riflettere. Mi ha spinto a chiedermi se in fondo tutto ciò di cui ti importi veramente non sia solo il sesso." "È un'assurdità." "Dici? Io non lo so." "Naturale." "Quindi non ti dispiacerà se... ci asteniamo." "Tu stasera non hai voglia di fare l'amore," disse Evan con voce calma, come se stesse spiegando la situazione a se stesso. "Non si tratta di questo, non è una questione di voglia." "Però." "Però non lo farò." "Non ti ho accompagnato al lavoro e così adesso vuoi punirmi negandoti." "Non è questo il motivo." "No? Eppure così sembrerebbe." "Mi sto 'negando', se proprio vuoi metterla in questi termini, perché ho bisogno di capire che cosa c'è — che cosa c'è tra di noi a parte il sesso. Voglio dire..." Sentì la gola stringersi. "Mi mollerai, o cosa?" "Alison." "Lo farai?" Evan apparve confuso e amareggiato. Sollevò una mano su di un lato della sua testa e le carezzò delicatamente i capelli. "Sai bene che non lo farei." "Vorrei tanto esserne certa." "Io ti amo."
"Anche senza il sesso?" "Naturalmente. Dai, andiamo nel mio appartamento e assisterai a un prodigio di continenza." Le prese la mano. "No, a casa tua no. Sappiamo tutti e due come andrebbe a finire." "Ce ne staremo seduti a parlare. Parola d'onore." Sorrise. "A meno che, naturalmente, tu non dovessi cambiare idea, nel qual caso..." "Io me ne vado a casa," disse Alison. "Vieni con me?" "Ci sono le tue compagne di stanza!" Lei allungò una mano per riprendersi la borsa. "Non importa, vengo. Non posso permetterti di vagare da sola per queste strade — non con tutto quel bottino di mance." Ritornarono all'angolo e attraversarono Summer Street. "Un'altra cosa," disse Alison. "Vuoi dire che c'è dell'altro?" "Questo non vale solo per stasera." "Il voto di castità?" "Non avrebbe nessun senso una volta sola." "Ehi, ha molto senso per me." "Ovviamente." "Andiamo, sto solo scherzando." Percorsero un tratto di strada in silenzio. Poi, Evan le chiese, "Quanto conti di farla durare, approssimativamente, questa astinenza?" "Non lo so." "Una settimana, un mese, sessant'anni?" "Dipenderà da come andranno le cose." "Che cosa speri di ottenere di preciso con questa piccola manovra?" "Credevo di avertelo già spiegato." "Vuoi capire che genere di rapporto esiste tra noi al di là di quello sessuale." "Più o meno." Evan scosse la testa. "Perché non mettiamo la cosa ai voti?" Incoraggiata dal suo tono allegro, Alison disse, "Non è detto che debba essere così brutto. Continueremo a vederci. Non è così? Hai detto..." "Continueremo a vederci." "Troveremo altre cose da fare quando siamo insieme." "Basta con la scatola degli idioti." "Che vuol dire?" "Quando frequentavo il liceo ai miei venne la brillante idea che trascor-
ressi troppo tempo davanti alla scatola degli idioti — il televisore. Dicevano che nella vita c'era molto di più che guardare la tivù. E perciò me lo proibirono. Secondo loro dovevo ampliare i miei orizzonti e scordare la tele." "E lo facesti?" "Pressappoco. Lessi un mucchio di libri. Giocavo a carte — solitari. Passavo più tempo a studiare. Il mio profitto migliorò decisamente. Insomma, cominciai a variare le mie giornate dedicandomi alle attività più disparate." Alison sorrise. "Possiamo leggerci delle cose a vicenda. Giocare a carte, studiare..." "Strip poker?" Le strinse forte la mano. "C'è un effetto collaterale di cui non ti ho ancora parlato. La televisione diventò per me una vera ossessione. Non appena me ne capitava l'occasione, inventavo una scusa per andare a casa di qualche mio amico e là mi incollavo davanti al suo televisore. E a volte, di notte, sgattaiolavo giù in soggiorno mentre i miei dormivano. Allora accendevo il televisore e sedevo al buio davanti allo schermo col volume talmente basso che quasi non riuscivo a distìnguere le voci dal ronzio elettrico dell'apparecchio. Era un vero godimento. Come un affamato a un banchetto." "Caramelle rubate." "Precisamente." "E tu credi che l'astinenza sessuale possa produrre un effetto analogo?" "Per forza." "E cosa farai allora?" "Non mi lasci molte alternative. Non mi resterà che masturbarmi guardando le tue fotografie nell'annuario dell'università." "Evan!" Ridendo, Alison gli piantò il gomito nelle costole. Lui si sbilanciò e scese dal marciapiede. "Hai forse un'idea migliore?" le disse. "Docce fredde. Che ne pensi?" "Detesto le docce fredde." Le prese di nuovo la mano. "Mi è concesso tenerti per mano, vero?" "Non fare lo sciocco." "E baciarti?" "Vedremo." "Ah! Qual prezzo ci tocca pagare per i nostri errori tattici!" Giunti all'estremità meridionale del campus, si fermarono e attesero mentre una macchina si avvicinava a Spring Street. Quando ebbe svoltato
sulla Central Avenue, attraversarono. Passarono davanti alla birreria A&W dove Alison aveva incontrato Evan la prima volta. Ricordò quella sera piovosa, e si rivide dietro al bancone in attesa delle ordinazioni quando sentì quella voce intonare, "Come la notte, ella avanza circondata di bellezza." Si girò. Uno sguardo. Evan Forbes le rivolse un sorriso. "Parlare da soli è un sintomo di pazzia," lo informò lei. "Ah, ma io stavo parlando con te. Anche questo è un sintomo di pazzia?" "Potrebbe esserlo." Aveva visto qualche volta Evan nel campus, sapeva che apparteneva al gruppo dei giovani laureati in inglese che avevano ricevuto un incarico di assistentato all'università, e aveva notato il modo in cui l'aveva guardata la sera prima quando lo aveva servito da Gabby's. Lei prese il suo hamburger, le patatine e la birra alle erbe. "Ti dispiace se ti faccio compagnia?" "No, prego." Evan la seguì a un tavolo. "Non ordini niente?" gli chiese lei. Lui scosse la testa, le si sedette di fronte e prese una delle sue patate fritte. "Mangerò le tue." "Oh." Evan sgranocchiò con gusto la patatina. "Per la verità ho già mangiato. Ti ho vista quando sei uscita dalla biblioteca e ti ho seguita qui." Lei si sentì avvampare in viso. "Tutta questa fatica per scroccare una patatina fritta." Immersa nel ricordo, Alison si scoprì a sorridere. "Mi mangiasti tutte le patatine," disse. "Reazione nervosa. Le patatine mi impedivano di rosicchiarmi le unghie." "E probabilmente erano anche più saporite." Attraversarono i binari della ferrovia, superarono la lavanderia automatica dove Alison portava biancheria e vestiti sporchi una volta alla settimana e imboccarono Apple Lane. La casa del professor Teal era la terza a partire dall'angolo. La luce sulla veranda era accesa, ma le finestre del pianterreno erano buie. Quelle anteriori del piano di sopra erano illuminate, sicché Alison immaginò che almeno una delle sue compagne di stanza fosse in casa. Helen, probabilmente. Di sicuro Celia era ancora da Wally's a scatenare un
casino e a riempirsi di birra fino agli occhi. Una scala di legno si innalzava diagonalmente su di un lato della costruzione dando accesso al piano superiore. La luce sulla porta era spenta. Evan rimase al suo fianco mentre percorrevano lo stretto vialetto attraverso il cortile, anche se ciò significò camminare sull'erba rorida. Alison seguì il percorso lastricato fino alla facciata della villa. Insieme salirono la scala. Quando furono sul pianerottolo, Evan depose a terra la borsa di Alison. "Hai intenzione di invitarmi a entrare?" "Credo di no." Dall'interno si effondeva la melodia dolce e pacata di una canzone di Lionel Richie. "C'è una delle tue compagne a difesa della tua virtù." Alison gli strinse forte la mano. "Sono stanca. Desidero solo andare a letto." "Sans Evan." "Ti vedrò domani?" Lui annuì. "E adesso? Mi è concesso darti il bacio della buonanotte?" "Sia." Al chiaro di luna, Alison lo vide sorridere. Evan le sollevò la mano e se la accostò alla bocca, baciandone il dorso. "A domani, allora." Le lasciò la mano e si girò per andarsene. "Evan." Si volse a guardarla. "Sì?" "Non così," mormorò lei. "Addio, mia casta vergine." Alison si appoggiò allo stipite della porta e lo seguì con lo sguardo mentre scendeva la scala. Le assi di legno scricchiolarono sotto il suo peso. Giunto in fondo non deviò verso il vialetto lastricato, ma tagliò dritto per il prato in direzione del marciapiede. "Permaloso," gli gridò. Dopo un po' non lo vide più. Alison aprì la porta. Quando entrò, Helen fece capolino dalla sua camera da letto. "Puoi uscire allo scoperto," le disse Alison. "Via libera." "Che cosa è successo?" Ovviamente aveva sentito le sarcastiche battute di commiato. "Niente di grave, un piccolo diverbio." "Piccolo?" Con un bicchiere di coca in mano e un sacchetto di patatine
in bilico tra il braccio e il fianco, Helen raggiunse la poltrona dallo schienale reclinabile e vi si sedette. Addosso aveva l'accappatoio e un paio di calzettoni di colore rosso porpora, slabbrati e cascanti. "Ho sentito che stavate salendo la scala, così ho tagliato la corda. Ho pensato che l'avresti fatto entrare." "Eh no." Alison depose la sua borsa da aereo sul tavolino e si sedette sul divano. Scalciò via le scarpe e distese le gambe sui cuscini. Sedersi fu una sensazione grandiosa. Sospirò. "Vuoi una coca, o qualcos'altro?" "No, grazie." "Patatine?" Helen sollevò il sacchetto verso di lei. "Gusto cipolla e panna acida." "Sono troppo agitata per mangiare." "Ti sbagli. Sono proprio questi i momenti migliori per mangiare. Ti riempie quella sensazione di vuoto che hai dentro." "Se mi mettessi a mangiare ogni volta che mi arrabbio..." "Saresti una cicciona come me," disse Helen, e s'infilò una patatina in bocca. Alison scosse la testa. "Non sei mica tanto grassa." "Diciamo che non sono proprio pelle e ossa." Se solo Helen fosse stata carina di viso, pensò Alison, la si sarebbe potuta descrivere come una ragazza 'piacevolmente rotondetta'. Ma purtroppo non aveva neppure quello dalla sua. Anzi. Aveva una carnagione di un bianco pastoso, la fronte larga, due occhi sporgenti da folle dietro gli enormi occhiali rotondi, il naso all'insù che offriva una panoramica diretta nelle sue narici, labbra massicce e un collo così grosso da fagocitare qualunque tentativo di mento avesse potuto avere. "Ti va di parlarne?" le chiese Helen mentre mangiucchiava. "Evan ce l'ha con me perché non ho voluto scopare." "Logico. È un uomo. E un uomo è un cazzo ambulante in cerca di un buco stretto." "Molto carino, Helen." "Molto vero. Parola mia." "A te sono capitate brutte esperienze." "Vorresti dire che non ho ragione?" "Difficilmente potrei contestare la tua opinione," disse Alison, "visto come mi sento in questo momento." "In vita mia non sono mai uscita con uno che non mirasse unicamente a
infilarsi nelle mie mutande. Mai. E è quanto dire. Scusa, dammi un po' un'occhiata. Da come sono falla viene da pensare che non mi avrebbero toccata neppure con un palo di tre metri. E invece te ne piantano uno di quindici centimetri." Proruppe in una breve risata, sbuffando in aria frammenti di patatine. Alison aveva già sentito questo e altro in numerose occasioni da quando divideva il suo alloggio con Helen. La ragazza era amareggiata, e ne aveva tutto il diritto. Era stata ripetutamente trattata come un oggetto sessuale di cui avevano fatto uso e abuso molti uomini, compreso il suo patrigno. Prima di conoscerla, Alison aveva sempre immaginato che gli uomini stessero alla larga da donne con l'aspetto di Helen. Si era sbagliata. Chissà, forse Helen era riuscita a spiegarsi come mai fosse un bersaglio così frequente per gli uomini. Ad ogni modo, seppure lo aveva capito, non ne aveva mai parlato. Fatto stava, però, che ormai solo di rado accettava un appuntamento; poteva darsi, perciò, che fosse approdata alla stessa conclusione di Alison: e cioè che gli uomini vedevano in lei una preda facile — che una con la faccia e il corpo di Helen dovesse essere necessariamente arrapata — e che volentieri avrebbe allargato le gambe, grata per l'attenzione dimostratale. "Un momento, rimangio quello che ho detto," aggiunse Helen dopo che ebbe annaffiato di coca cola una bella manciata di patatine. "Una volta uscii con un tipo che non tentò di scoparmi. Si scoprì che era un omosessuale." "Io voglio un uomo che mi sia anche amico," disse Alison. "Allora trovati un finocchio." "Ma a me piace anche il sesso." "Allora perché ce l'hai su con Evan?" "Il mio rifiuto si è trasformato in una tragedia. Io non voglio che il sesso sia l'unica cosa. Forse non voglio neppure che sia la cosa principale." "Già, siamo in due a pensarla così. Un tempo speravo di risolvere la questione trovando un ragazzo con la faccia di chi avesse beccato in testa tante di quelle legnate con un bastone massiccio. Ma neppure questo funzionò. Quelli brutti sono altrettanto porci quanto i bei fustoni — se non di più." "E è questa la cosa peggiore," mormorò Alison. "Ma insomma tu e Evan vi siete lasciati?" "Non esattamente. Gli ho solo detto che dobbiamo astenerci per un po' e vedere come va."
"Cavolo!" "Cavolo?" "Scommetto che non si è entusiasmato troppo all'idea." "Non l'ha presa molto bene." "Guarda, guarda." "Se mi scarica per un motivo del genere, allora sarà meglio perderlo." "Non preoccuparti, non ti mollerà." "Non ci giurerei. Si è comportato in un modo così... dispettoso." "Sicuro. Il signorino già pregustava una bella scopata. Ohi, ohi, quale grande delusione! Ma vedrai che domani si sarà già convinto che tutto sommato avevi passato una brutta serata, e che sicuramente rinsavirai non appena lo rivedrai. Oh, e giusto per andare sul sicuro, si comporterà in maniera squisita, ti riempirà di coccole, vedrai." "E lo aspetterà un'altra delusione." "Quanto tempo conti di resistergli?" "Quanto basta a farmi capire cosa succede." "Vuoi sapere cosa penso?" le chiese Helen, scrollando via dall'accappatoio alcune briciole di patatine. "Cosa?" "Penso che hai avuto una brutta serata, che domani avrai smaltito la rabbia e farai l'amore col tuo ragazzo." "Stai dalla sua parte?" "Ti conosco. In questo momento ce l'hai a morte con lui, ma la rabbia ha il difetto di sbollire in fretta e tu sei un facile bersaglio. Prima ti accorgerai che ti dispiace per lui — poi ti sentirai in colpa per averlo ridotto in uno stato così miserevole. Allora farai tutto il possibile per tirarlo su. Domani sera a quest'ora sarai sotto le lenzuola insieme a lui." "Scordatelo." "Vedrai." Alison sentì un debole fruscio, come di passi strascicati. Qualcuno stava salendo la scala esterna. Molto lentamente. Helen smise di masticare e inarcò le folte sopracciglia. Il cuore di Alison cominciò a pulsare impetuosamente. "Sarà Celia," sussurrò. Helen scrollò la testa. "No-o. Wally's non chiude prima delle due." "Oh, Dio. Questo poi no." "Vuoi che dica che stai facendo la doccia, o inventi un'altra scusa." I passi si fermarono sul pianerottolo, davanti alla porta. "No, sarà meglio
che..." Una chiave scivolò nella serratura. Il corpo irrigidito di Alison si rilassò, riaffondando sul divano. Frammista al sollievo, affiorò una punta di delusione. Poi Celia entrò e Alison si drizzò di scatto. Il braccio destro di Celia era trattenuto da una fascia che dal collo le passava trasversalmente sul petto. Una benda le copriva il lato destro della fronte dal sopracciglio fino all'attaccatura dei capelli. "Ehi," fece Helen. "Che cosa è successo?" chiese Alison. "Sono stata investita, ecco tutto." Con la mano sinistra, Celia si scostò la giacca dalle spalle e la lasciò cadere assieme alla sua borsa sul pavimento accanto alla porta. "Un bastardo ha tentato di trasformarmi in una pizza all'asfalto." Si diresse al divano zoppicando, e ondeggiando anche un poco; evidentemente non era solo ferita, ma anche un po' brilla. Si adagiò accanto a Alison e con movimenti misurati sollevò le gambe sul tavolino da caffè, ve le distese e emise un gemito. "Tu e quella tua stupida bicicletta," la rimbrottò Helen. "Te l'avevo detto che saresti finita col culo per terra." "Dacci un taglio." "Stavi sulla tua bicicletta e un'auto ti ha investita. Dimmi che mi sto sbagliando." "Perché invece non mi dai da bere?" "Non hai già bevuto abbastanza?" "Calma il dolore." "Vado a prenderti qualcosa," si offrì Alison. "Che preferisci?" "Qualsiasi cosa tranne la birra. Non ce la faccio più neppure a guardarla. Bushnells. Portami la bottiglia, okay?" Alison si affrettò in cucina. Afferrò la bottiglia di whisky irlandese dalla credenza, prese un bicchiere e tornò nel soggiorno. Riempì il bicchiere a metà e lo porse a Celia. "Sei un'amica," disse questa. "Com'è successo?" le chiese Alison, sedendosi di nuovo. "Un bastardo ha cercato di mettermi sotto. Io stavo sulla Latham Road, la conosci? Tornavo dai Four Corners. E ecco che questo furgone mi viene addosso. Il tizio che lo guidava aveva una marea di spazio a disposizione, e invece ha sterzato direttamente verso di me. Contro di me. Quello voleva investirmi. Un pazzo, chissà. Insomma, io ho cercato di scansarmi e la
bicicletta ha slittato. Ecco perché sono tutta ammaccata." Si drizzò appena, sussultando, e bevve un sorso del liquore. Si riappoggiò al divano e rimase così sdraiata col bicchiere in grembo, sui pantaloncini da ginnastica. "Voleva investirti?" Helen sembrò scettica. "Puoi scommetterci le chiappe." "Ma perché qualcuno dovrebbe voler...?" cominciò Alison. "Perché è un fottuto testa di cazzo, ecco perché. Io non gli ho fatto niente. Niente." "Non ci giurerei," disse Helen. Celia la guardò con gli occhi in fiamme. "Ehi, che t'è andato storto? Ti si è rotto il vibratore?" "In effetti..." "Andiamo, Helen," intervenne Alison. "Piantala. Non vedi che è ferita, per amor di Dio?" "Sono disintegrata." Celia attinse ancora dal bicchiere. "Qualcosa di rotto?" chiese Alison. "Niente fratture. Solo distorsioni, slogature, contusioni, abrasioni e tutto un fottuto indolenzimento dalla testa ai piedi. Sono stata al pronto soccorso quasi per due ore. Però, in compenso, il medico era un bel macho. Uno che ci mette la passione nel suo mestiere. Mi ha controllata dappertutto, anche dove non ero ferita." "Non tutto il male vien per nuocere," osservò Helen. "Già. Probabilmente con lui non è finita qui." Sollevò il bicchiere, lo tenne fermo davanti agli occhi e fissò il liquido ambrato. "Volete sentire la parte migliore?" disse. Dal tono della voce non sembrò che la parte migliore l'avesse resa felicissima. Helen si accigliò. Celia continuava a fissare il whisky. La mascella si muoveva lievemente da una parte all'altra, strusciando il labbro inferiore sul taglio dei denti. "Il tizio che mi ha investito. . . si è fatto l'ultimo viaggio." "Cosa?" sbottò Alison. "Vuoi dire che è...?" "È crepato, ha tirato le cuoia, se n'è andato al Creatore. Il suo furgone è finito fuori strada dopo che ha cercato di uccidermi, e si è schiantato nel parapetto di un ponte. È morto sul colpo. Poi è finito arrosto." "Cristo Santo," mormorò Helen. "Il bastardo ha avuto quello che meritava," disse Celia, e vuotò il bicchiere. "Io non lo conoscevo neppure, mai visto. Che cosa gli ha preso allora, eh? Perché ha cercato di uccidermi? Non posso neppure andarmene a fare un giro in bicicletta senza che un pazzo cerchi di ammazzarmi. Ben gli
sta. Perché voleva farmi questo? Non mi conosceva neanche. Ma l'ha pagata, e come se l'ha pagata. Ah, come avrei voluto vedere la sua faccia quando si è trovato il muro davanti. Scommetto che era sorpreso..." Sorrise e il mento le tremò, poi cominciò a piagnucolare. Abbassò il bicchiere in grembo. Le cade di mano, e poche gocce di whisky colarono sui pantaloncini. Serrò gli occhi con forza e premette la testa contro il cuscino del divano. Scoppiò allora in singhiozzi. Alison posò una mano sulla coscia di Celia. "È passato," le sussurrò. "Ora va tutto bene." "Cristo." Celia tirò su col naso. "Quel tizio è finito arrostito." CAPITOLO SESTO Il ronzio della sveglia destò Jake di soprassalto. La zittì brutalmente e si sollevò su un gomito. Le dieci. Il che significava che aveva dormito sette ore. E allora perché si sentiva fiacco come un cadavere? Per via di ieri. Brontolando, mise giù dal letto le gambe e si sollevò a sedere, poi si stropicciò la faccia. Ieri. Un uomo carbonizzato che penzolava da un parabrezza. Una donna con la testa maciullata, frammenti d'ossa e materia cerebrale schizzati sul muro e sparsi tutt'intorno sul banco della cucina in una orribile minuzzaglia. Un uomo che sgranocchia la carne di lei. Un moto di nausea colse Jake a quel ricordo. Poi la nausea si trasformò in paura nel momento in cui la sua mente riprodusse al rallentatore l'immagine di Smeltzer nell'atto di prendere il fucile. Il brandello di carne che gli pendeva dai denti sventolava pigramente, sprizzando sangue mentre egli si girava e allungava il braccio. Jake pensò, Vuole prenderlo! Pensò, Fermalo! Sparò, e sentì la pistola sobbalzare, sentì gli scoppi rimbombargli nelle orecchie, sentì l'odore pungente del fumo, e guardò Smeltzer sussultare ogni volta che una pallottola colpiva nel segno. Rivide una pallottola squarciargli la gola e Smeltzer scaraventato all'indietro innaffiando Jake con fiotti di sangue, il brandello di pelle ancora serrato tra i denti. Rivide il suo corpo contrarsi convulsamente dopo che ebbe toccato il pavimento, e la pioggia di sangue abbattersi su di lui. Jake trasse un profondo respiro e si alzò in piedi. Ho dovuto farlo, disse a se stesso. A quest'ora sarei morto se non lo avessi fatto secco.
Non era una scusa, era la pura verità. E che fosse la verità lo aveva rammentato a se stesso tante di quelle volte dalla notte scorsa che ormai non ne poteva più di ripeterselo. Andò in bagno e aprì il rubinetto della doccia. Ne aveva già fatte di docce durante la notte, e aveva visto scorrere giù nel chiusino acqua rosa, rosa del sangue di Smeltzer. Era rimasto sotto il getto finché l'acqua calda non si era consumata. Allora aveva aspettato un'ora e aveva fatto un'altra doccia. Questa sarebbe stata la numero tre. Si pose sotto il getto caldo e prese a insaponarsi. Vide Smeltzer che alzava gli occhi su di lui tirando coi denti un ritaglio di carne dal ventre della donna. Vide la pelle cedere e lui cominciare a girarsi. Vuole prenderlo! "Spegnilo!" si comandò bruscamente. "Lo abbiamo visto, lo abbiamo già visto cento volte, mille grazie. Ma cos'è, un maledetto network?" Praticamente la stessa cosa, pensò. Quante volte avevano mandato in onda il filmato dell'attentato di Hinkley contro Reagan, o quello del Challenger che si libra leggiadramente nel cielo e poi salta in aria? E puntualmente, quando il filmato ricomincia tu speri che stavolta sia diverso, speri che abbiano riscritto il copione e che Hinkley saluti il Presidente anziché sparargli, e che il Challenger entri in orbita. Speri di gettarti a capofitto nella cucina del ristorante e ci trovi Smeltzer e signora occupati a strofinare il pavimento e ti guardano strabuzzando gli occhi come se tu fossi un mentecatto. Ma il copione non cambia mai. Ogni replica è identica alla precedente, non importa con quanto ardore tu desideri che sia diversa. E loro non stanno strofinando il pavimento. Lei giace sul pavimento e sul collo ha soltanto il mento. E Smeltzer è chino su di lei. Mio Dìo, cosa sta facendo! Oh, basta, non ne posso più. È il mio giorno libero, perché non si prende un giorno di libertà anche la mia memoria, eh? Tra un'oretta andrò a prendere Kimmy. Dovrebbe essermi d'aiuto. Tantissimo. Prima, però, voglio chiamare Applegate. Devo sapere quando conta di completare l'autopsia sul cadavere di Smeltzer — doveva essere imbottito di droga, probabilmente Polvere d'Angelo. Mi sembra quasi l'unica spiegazione logica per ciò che ha fatto. Mangiarla. Gesù! Polvere d'Angelo, non può essere altrimenti. Ma in che modo la Polvere d'Angelo si collega alla faccenda del furgone? I due fatti devono essere collegati in qualche modo. No? Finita la doccia, Jake si vestì e si preparò una tazza di caffè istantaneo. Poi compose il numero dell'obitorio. "Pronto, Betty? Sono Jake."
"Come te la passi, amico?" "Me la cavo." "Ho saputo di stanotte. È stata tosta, immagino." "Ho avuto momenti migliori." "Stasera sono libera, nel caso ti andasse un pochino d'amore." "Grazie per l'offerta," disse lui. Ciò che Betty definiva come un pochino d'amore era in effetti una faticosa sgroppata. Ventiduenne, uno schianto di bionda, era stata campionessa di ginnastica al liceo, e adesso le sue performance erano confinate alla camera da letto. Era davvero terrificante. I diversi incontri che Jake aveva avuto con lei si erano rivelati delle vere e proprie avventure, ma estremamente estenuanti, e dopo, in un certo senso, si era sempre pentito del tempo passato insieme a lei. Adesso fu lieto di avere un motivo valido e sincero per evitare Betty. "Temo che stasera non sia possibile. Questo è il mio week-end di turno con Kimmy." "Beh, fammelo sapere, nel caso..." "È già deciso. C'è Steve?" "Starà fuori tutta la giornata." "Stai scherzando." "Non con te, amico. Ha avuto una chiamata stamattina, subito dopo che ha preso servizio. Il dottor Willis — il coroner di Marlowe, eh? — voleva che desse un'occhiata a un cadavere che hanno trovato laggiù." "Abbiamo già i nostri di cadaveri." "Willis e Steve sono vecchi amici. E Willis ha attrezzato un circolo sportivo sul prato dietro casa. Sospetto che Steve non è andato laggiù solamente per una consulenza professionale. Si è portato le mazze da golf." "Magnifico. E domani è sabato." "Mi ha detto che avresti chiamato. E mi ha detto pure di riferirti che domani lo troverai senz'altro. Perciò telefonagli domattina di buon'ora e ti aggiornerà sul tizio che gli hai portato." "Okay." "Sei sicuro per stasera? A che ora va a nanna tua figlia?" "Lascia stare, non sarei molto brillante." "Lo saresti invece. Ma, ehi, fa' come vuoi." "Starò in contatto," le « isse. "Non te la prendere." "Neppure tu, Jake." Riattaccò. Quindici minuti dopo percorse con la sua macchina il vialetto circolare e
parcheggiò dietro una Porsche rossa con la simpatica targa BB'S TOY. BB's toy, pensò Jake, sarebbe assai più carina spiaccicata sopra un albero. Poi si sentì in colpa. Dopotutto lei era la madre di Kimmy. E Kimmy l'amava. Strani gusti la piccolina! Ma d'altra parte uno ama la madre che ha, anche se è una puttana. Salì sulla veranda anteriore. Una morsa gli serrò il petto e la bocca gli si seccò quando suonò il campanello. Le battute iniziali della Quinta di Beethoven fluttuarono dall'interno in uno scampanio ovattato. Harold Standish aprì la porta, indietreggiò e sollevò in alto le mani, dicendo, "Non sparare." Jake lo fissò. La scenetta di Harold era stata spassosa la prima volta, e cioè più di un anno prima. Ma lo scherzo era diventato meno divertente a ogni replica. Stamattina suscitò in Jake un desiderio pressante di tirare a Harold quei bei baffetti così diligentemente spuntati. "Scherzavo, Jako. Dai, entra. Kimmy è quasi pronta per la sua grande giornata. Mammina la sta preparando." Jake entrò nell'atrio lastricato di marmo. Harold si diresse verso il soggiorno. Camminava di sghembo e sorrideva, senza staccare gli occhi da Jake — timoroso, evidentemente, di volgergli la schiena. Eppure Jake non gli aveva mai rivolto parole aspre o astiose, né tantomeno lo aveva mai minacciato o aggredito. Ma Harold sapeva ciò che aveva fatto, e, più che ovvio, sapeva cosa meritasse. Ciò che invece Harold non sapeva era il fatto che Jake non lo aveva mai biasimato per quella situazione. La faccenda sarebbe stata diversa se lui avesse sedotto Barbara con sguardi penetranti e fascinose avances, ma Harold era un ometto sparuto e stempiato, col naso adunco come il becco di un tacchino e tutto il fascino che è proprio di un topo di campagna. E poi era così imbranato. Un imbranato che però guadagnava tanti bei dollaroni otturando denti a clienti danarosi. E non lui, ma Barbara, era stata la seduttrice. Non aveva lasciato Jake per un uomo. Lo aveva mollato per un seducente conto bancario e una serie di carte di credito con cifre da sogno. Harold era solo un bagaglio superfluo che viaggiava assieme alla mercanzia di valore. Se non fosse stato Harold, sarebbe stato un altro. Era Barbara quella che meritava di... "Gradisci un caffè, un pasticcino?" gli chiese Harold. "No, grazie."
Harold si sedette su una poltrona con lo schienale reclinabile, ma non vi si sdraiò. Rimase sul bordo del sedile, come se fosse pronto a schizzar via da un momento all'altro, e appoggiò sulle ginocchia le palme delle mani. "Allora," disse. Jake prese posto sul divano. "Allora, come vanno le cose nel mondo dei tutori della legge? Il crimine è sotto controllo?" "Ci proviamo." Evidentemente Harold non sapeva della notte scorsa. Jake se ne rallegrò. Harold annuì, come se stesse meditando sulla risposta. Occhi bassi, guardava il pavimento e sembrava innervosito dal silenzio. Temeva forse che Jake avrebbe colto l'occasione per tirare in ballo un argomento scottante, come quello dell'adulterio? Ah, ecco, doveva aver trovato qualcosa per distoglierlo. Inarcò le sopracciglia e guardò Jake. "Che ne pensi dell'iniziativa contro l'uso della pistola personale?" "Sono contrario." "Strano. Uno che fa un lavoro come il tuo, che vede continuamente le tragedie provocate dal possesso privato di armi da fuoco..." "Il mese scorso c'è stata una vedova di settantadue anni che si è svegliata e si è trovata in camera da letto uno sconosciuto con un coltello in una mano e nell'altra un cazzo in erezione. Gli ha sparato quattro colpi con una pistola che teneva sul comodino. Per conto mio, sono contento che avesse la pistola." "Ma le statistiche mostrano..." "Risparmiamele, Harold. Se vuoi che i delinquenti abbiano la meglio, beh, è affar tuo." Harold azzardò un sorriso di condiscendenza, poi, scrollò la testa e si alzò. "Vado a vedere cosa sta trattenendo le signore," disse, e si allontanò in direzione della porta del soggiorno. Era appena uscito, quando Barbara entrò. Jake si sentì afferrare da un moto di disgusto. Provava sempre un senso di disgusto quando la vedeva, ma stavolta fu peggio del solito per com'era vestita. "Kimmy è quasi pronta," gli annunciò. "Bene," mormorò lui, fissandola e domandandosi che cosa stesse cercando di fare. Indossava un kimono di seta blu. Il davanti era aperto scoprendo una lunga V di pelle nuda fino alla fusciacca che le cingeva la vita. Il lucido
tessuto scintillava formando piccole onde luminescenti a ogni oscillazione dei seni. Barbara si girò e volgendo a Jake le spalle attraversò il soggiorno. Il kimono era molto corto. Giunta a lato della tenda, alzò in alto le braccia per tirare la corda e l'indumento si sollevò al di sopra delle pallide curve delle natiche. La tenda si aprì lentamente. Lei abbassò le braccia, e la stoffa del kimono le accompagnò. "Davvero carino," disse Jake. Girandosi in un turbine, Barbara lo guardò con occhi fiammeggianti. Jake sorrise. Sentì la bocca irrigidirsi, il petto dolergli. "Qualche problema?" fece lei. Il sorriso di Jake si spense. "Sei fatta bene, donna." "Puoi giurarci." "Chi stai cercando di sedurre?" "Proprio nessuno, mio caro. Mi sembra di capire che non approvi il mio abbigliamento, è così? È un regalo di compleanno che il mio Harold mi ha dato in anticipo. Non è celestiale? E sulla pelle è qualcosa di stupendo." Fissando Jake, sorrise svogliatamente e socchiuse gli occhi. Sollevò le mani e cominciò a accarezzare il kimono. Le mani scivolarono delicatamente verso il basso, e strofinando la stoffa sui seni, disegnarono piccoli cerchi. "Stupendo," sussurrò Barbara. "Se Harold ti vedesse in questo momento." "Beh? Cosa credi che farebbe?" Il corpo si dimenò lievemente mentre continuava a massaggiarsi i seni. Il movimento aveva allentato il davanti del kimono allargandone la scollatura. Adesso era completamente aperto fino all'orlo. "Per amor di Dio!" disse Jake in un sibilo. Lei accennò un sorrisetto compiaciuto. "Cosa c'è? Ti stai eccitando?" "Mi eccita di più pulirmi uno stivale sporco di cacca di cane." Barbara sgranò gli occhi. Il viso divenne paonazzo e la schiena si irrigidì. Riaccavallò i lembi del kimono. "Bastardo," gli disse con voce tremolante, il mento scosso da tremiti. Stupito, Jake si accorse che stava per mettersi a piangere. Si girò furiosamente. "Kimmy!" gridò. "Porta qui le chiappe, subito!" "Barbara!" sbottò Jake. "Fanculo." Si precipitò fuori della stanza. Jake rimase a sedere sul divano, impietrito, irato e confuso. Cosa diavolo era successo? Che significava ciò che era appena accaduto?
Normalmente, quando veniva a prendere Kimmy, Barbara si atteggiava come se lui fosse uno zotico in visita: altezzosa, sarcastica, deliziata dall'opportunità di sbattergli in faccia lo stile di vita che aveva raggiunto scaricandolo per Harold. Ma oggi? Perché si era comportata in quel modo? Con Kimmy e Harold in casa, per di più. Harold doveva sapere che era vestita in quel modo. Cosa stava cercando di dimostrare? È chiaro come il sole, pensò. Stava cercando di dimostrare che è capace di eccitarmi. Hai visto come è scattata quando l'ho disprezzata. La bambola deve avere un problema di serie A. Dev'essere proprio a terra, o altrimenti non avrebbe fatto un numero come quello. Problemi con Harold? Oh, questo non sarebbe da deplorare. Accidenti, quanto mi dispiace. Mi si spezza il cuore, mia cara puttanella. Quei pensieri carichi di impietosa durezza fecero sentire Jake un po' colpevole. In fondo, si disse, un tempo l'aveva amata, e non era giusto augurarle disgrazia e sofferenza. E Kimmy? Se Barbara e Harold stavano attraversando un periodo difficile la bambina rischiava di subirne le conseguenze. E questo Jake non lo voleva. Se Kimmy doveva vivere con sua mare — e non esisteva alcuna alternativa concreta fintantoché Jake rimaneva scapolo — allora voleva che vivesse in una casa dove regnassero l'amore e la felicità. La situazione sarebbe stata tollerabile fin quando Jake fosse stato sicuro che Barbara si prendeva cura della bambina con amore e senso di responsabilità. Ma se l'episodio di quella mattina era un segno, un'indicazione, allora Barbara cominciava a non dimostrarsi più all'altezza della situazione. Forse non è nulla, pensò. Solo una crisi momentanea. Domani sarebbe stato il compleanno di Barbara. Avrebbe compiuto soltanto ventisette anni, ma Jake ricordava bene come la pensasse su quell'argomento. Più volte gli aveva detto che superato il ventunesimo anno sarebbe cominciata l'inesorabile discesa verso la vecchiaia. Evidentemente ne era sinceramente convinta. Ogni anno, dopo il ventunesimo, era piombata in un abisso di depressione ogni volta che si avvicinava la data del suo compleanno. Dev'essere questo, decise Jake.
Sfoggia la sua mercanzia davanti al suo ex marito per dimostrare a se stessa che ha ancora qualcosa di buono da mettere in mostra. E lui la schiaccia sotto il peso dell'umiliazione. Merda. Se non altro era tranquillizzante appurare che la depressione da compleanno e non qualcosa di più serio fosse la causa della sua bizzarra condotta. Sempre che le cose stessero veramente così. "Ciao, papà!" Jake scattò in piedi, improvvisamente rinfrancato mentre Kimmy gli andava incontro, sorridendo. Come sempre, quando non la vedeva da giorni, fu incantato dalla sua bellezza. Una magnifica bambina di quattro anni con gli occhioni azzurri e uno splendido sorriso. Ovunque andasse tutti si giravano a guardarla. Harold stava in piedi nel corridoio d'ingresso e reggeva la sua borsa da viaggio. Kimmy stringeva Clew, il suo gattino di peluche, in una manina. Sollevò le braccia e Jake la prese tra le sue. La baciò. "Come sta la mia bimbetta?" disse. "Io non sono una bimbetta, sono una ragazzina." "Oh, scuuuusami." Scostandosi e sorridendo, Kimmy piantò un dito su un bottone della camicia di Jake. "Ti sei sporcato, papà." "Davvero?" Jake abbassò gli occhi. Un ditino di Kimmy schizzò in alto e gli ammaccò il naso. "Oow! Me l'hai fatta!" Ridendo, la bambina s'infilò l'indice in bocca e cominciò a succhiarselo. Gli occhi bramosi luccicavano di birbanteria. Stava per arrivare un Wet Willy. "Oh, no, ti prego," disse Jake, allontanandola da sé con forza prima che riuscisse a ficcargli il dito nell'orecchio e torcerglielo. Lei ridacchiò e cercò di opporre resistenza, ma lui riuscì a liberarsi e la mise giù. Non in presenza di Harold, pensò. Poi si domandò, non senza una fitta di dolore, se desse anche a Harold i suoi famigerati Wet Willy. "Lo spettacolo lo facciamo fuori," le disse. Abbassò la mano verso di lei. Kimmy si agganciò saldamente al suo indice e si avviò tirandoselo dietro. "Divertitevi," augurò loro Harold mentre avanzavano verso di lui. Diede a Jake la borsa da viaggio. Sorrideva, ma il suo sorriso sembrava forzato.
"La riporterai domani?" Jake annuì. Uscirono. Uscire da quella casa lo risollevò. Sorrise a Kimmy. La bambina aveva il visetto imbronciato. "Non devo stare da te domani?" "Stavolta no. Domani è il compleanno della mamma." "Lo so questo." Lo guardò con aria infastidita. Non tollerava assolutamente che gli altri le dicessero cose che già sapeva. Estremamente umiliante. "Beh, vorrai essere qui per la festa, no?" "Hmm." "Sarà divertente." Aprì lo sportello del passeggero per Kimmy e prendendola in braccio la sistemò nel seggiolino di sicurezza. Mentre le agganciava la cintura, lei infilò Clew nella pettorina della salopette OshKosh B's Gosh lasciandone fuori la testolina grigia come quella di un cangurino nel marsupio di sua madre. Poi si ficcò l'indice in bocca. "Oh, no, non farlo!" "Sì invece!" Jake le agguantò il polso ma si lasciò sopraffare. La punta bagnata del dito si spinse forte nel suo orecchio e si torse. "Aaahi! Mi hai beccato!" Prima che potesse ripetere l'assalto, Jake schizzò fuori dalla macchina. Vi girò intorno a passo svelto e montò dietro al volante. Kimmy si preparò a gratificarlo di un altro Wet Willy. Si protese verso di lui sforzandosi di raggiungerlo, ma fu inutile. "Salvato dal seggiolino," gongolò lui. "Avvicinati." "Neanche per sogno. Mi hai preso per scemo?" "Ha-ha," disse lei, annuendo. "Cervellona." La macchina raggiunse la strada. "Allora, cosa ti va di fare oggi?" "Andiamo al cinema." "Vada per il cinema. Desideri vedere qualcosa in particolare?" Il visetto si fece voglioso. Dilatò gli occhi e sollevò le sopracciglia. "Peter Pan." "Abbiamo visto Peter Pan la settimana scorsa."
"Voglio davvero vedere di nuovo Peter Pan." "Certo, perché no. Può darsi che stavolta il coccodrillo riuscirà a mangiarsi il Capitan Uncino in un boccone..." Mangiarlo in un boccone. Ronald Smeltzer. Impossibile trascorrere l'intera giornata senza pensare a quella faccenda. "Possiamo mangiare al McDonalds?" "No." "Papà!" Agitò il pugno contro di lui, sorridendo sulle minuscole nocche. "E va bene, se insisti." "Papà, possiamo parlare un po'?" "Certo. Non è quello stiamo facendo?" Kimmy poggiò un gomito sul bracciolo imbottito del sedile e si protese verso di lui. Assunse un'espressione seria. "I coccodrilli non esistono, vero papà?" "Che cosa te lo fa pensare?" "Beh, perché è solo un film." "Questo non vuol dire che non esistano." "Dracula, i lupi mannari e le mummie non sono veri, l'hai detto tu. Perciò neppure i coccodrilli esistono veramente, no?" "Sei preoccupata, è così?" "Non è una cosa divertente." "I coccodrilli ci sono per davvero, ma non è il caso di preoccuparsi." "Io non voglio essere mangiata." Jake si sentì come se qualcuno gli avesse dato un calcio nello stomaco. "Beh, basta che tieni gli occhi bene aperti. Se vedi un coccodrillo che striscia verso di te, tu lanciagli una caramella e scappa. Sicuramente preferirà mangiarsi la caramella piuttosto che rincorrerti." "Non ne sono tanto sicura." CAPITOLO SETTIMO Dana Norris ritornò al suo tavolo in un angolo del circolo studentesco portandovi una tazza di caffè appena pagata. Rilesse la poesia, arricciò il naso e sospirò. Ma perché questo tizio non riusciva a scrivere della roba che avesse un significato?
"Salve." Alzò gli occhi e si trovò Roland in piedi davanti al tavolo. Roland il Ritardato. Ritardato non lo era veramente — anzi, era piuttosto intelligente, ma guardandolo nessuno lo avrebbe mai sospettato. I capelli neri, lisciati e impomatati, erano separati nel mezzo come quelli di Alfalfa nei vecchi film della serie Le simpatiche Canaglie. Quell'acconciatura, ci teneva a spiegare, era il suo modo personale di rendere omaggio a Zacherle, conduttore di uno spettacolo televisivo di horror che andava in onda a tarda notte. Oggi Roland indossava un giubbotto a quadroni dai colori sgargianti e, sotto di esso, una delle magliette modello sangue e budella del suo fornito campionario. Sulla maglietta color carne, dalla metà fino alla cintola, era raffigurata una ferita da taglio dalla quale si riversavano vividi fiotti di sangue e traboccanti interiora. "Posso farti compagnia?" chiese a Dana. "Veramente sto cercando di studiare." Annuendo, Roland scostò dal tavolo una sedia di plastica arancione e si sedette di fronte a lei. Dana abbassò gli occhi sul libro. "Che diavolo è la forza in uno stelo verde?" "A me fa pensare a uno stoppino zuppo di umori viscidi." "Mi sei di grande aiuto." Roland si protese verso di lei puntando i gomiti sulla tavola. "Hai saputo cosa è successo all'Oakwood Inn?" "Perché non vai a prenderti qualcosa da mangiare? Sembri un. .." "Cadavere?" suggerì lui. "Esattamente." "Grazie." Roland sorrise. I suoi dentoni storti sembravano in tutto e per tutto una di quelle dentiere di plastica che si possono trovare in un negozio di giochi alla vigilia di Halloween. Dana non riusciva proprio a capire come facesse Jason a sopportarlo come compagno di stanza, e ancor meno si capacitava di come quei due potessero essere amici. "A quanto pare," continuò lui, "non hai sentito niente." "Sentito cosa?" "Del massacro." "Ah, un massacro. Questo spiega quel luccichio nei tuoi occhi."
"È successo qui vicino, appena usciti dalla città. Sai, quel vecchio ristorante, l'Oakwood Inn. Una coppia di coniugi era venuta da L.A. per riaprirlo. Il posto era chiuso da anni — evidentemente le autorità lo avevano fatto chiudere dopo che una serie di clienti erano morti stecchiti. Avvelenamento da cibo." Le sottili sopracciglia nere ebbero un fremito. Ronald sembrava estasiato. "Così la notte scorsa i due stavano lavorando nel locale per sistemarlo e che ti capita da un momento all'altro? Il marito perde il lume della ragione e fa saltare in aria la testa di sua moglie, bombardandola con un fucile da caccia. Poi salta fuori un piedipiatti e accoppa il marito." "Favoloso. Esattamente il tuo genere." "Superbamente truce, eh?" "Peccato che tu non ti sia potuto trovare là a goderti lo spettacolo." "Già, beh, non sempre la fortuna è dalla nostra. Stamattina sono andato a farmi una capatina laggiù ma i piedipiatti non lasciano avvicinare nessuno." Si strinse nelle spalle. "Poco male. Probabilmente i cadaveri erano già stati portati via." "Più che probabile." "Però, ci tenevo molto a dare un'occhiata là dentro. T'immagini che macello? Una ragazza che becca una calibro dodici in piena faccia? Pezzi di cervello e schegge di cranio appiccicati alle pareti..." "Sei ributtante." "Comunque, penso che più tardi ci tornerò. Può darsi che i piedipiatti se ne siano andati. Ti dispiacerebbe prestarmi la tua Polaroid?" Dana lo guardò fisso. Sentì un'ondata di calore esploderle in viso. "Che cosa ti fa pensare che io possegga una Polaroid?" "So che ce l'hai. Allora?" "Quello stronzo. Ti ha fatto vedere le fotografie, è così?" "Certo. Siamo compagni di stanza." Dana si sentì la bocca secca. Sollevò il tazzone di caffè con una mano tremante e ne bevve un sorso. Aveva dovuto immaginare che Jason non avrebbe mantenuto la parola. A chi altro le aveva mostrate? A tutti i ragazzi dell'ostello? Lei avrebbe voluto bruciarle, ma Jason aveva promesso che le avrebbe custodite lui, che non le avrebbe mostrate ad anima viva. Si figurò Roland il Ritardato che se le studiava sbavandoci sopra. "Insomma?" insisté lui. "Me la presti o no?" "Ucciderò quello stronzo." Roland sogghignò. "Se lo fai, lasciami assistere." Ripensandoci, probabilmente Roland non si era eccitato nel vederle —
forse non le aveva trovate particolarmente interessanti dal momento che non mostravano cadaveri sventrati né arti segati. A meno che non vi avesse sopperito con la sua morbosa immaginazione. Il che sembrava decisamente plausibile. "Non hai mai consultato uno strizzacervelli per questo tuo problema?" gli chiese Dana. "Uno strizzacervelli? Uno psichiatra? A proposito, lo sai come fanno? Prima ti incidono il cuoio capelluto, così possono sbucciarti il cranio ben bene, poi..." "Piantala." La bocca di Roland si chiuse di botto. "Qual è il tuo problema? So che sei amico di Jason e perciò ho il dovere di essere gentile con te e di trattarti come un essere umano, ma quello stronzo non è qui, perciò scordatelo. Qual è il tuo problema, eh? Avanti, sono curiosa. Due sono le cose: o sei totalmente matto, cosa di cui dubito, o tutta questa ossessione per il sangue e le budella è una specie di gioco. E se si tratta di un gioco, allora avresti dovuto liberartene almeno cinque anni fa." Durante quell'aggressione, Roland aveva sollevato i gomiti dal tavolo e si era piantato saldamente sulla sedia. Sembrava stupefatto. Gli occhi minuscoli si erano dilatati, e il labbro inferiore pendeva aprendogli la bocca. "Tu lo sai perché sei così?" continuò Dana. "Ebbene, io mi sono fatta una mia idea in proposito. In sostanza si tratta di questo: tu hai paura." Roland si girò a guardarsi indietro, evidentemente per appurare se ci fosse qualcuno che potesse sentirli. Ma nessuno occupava i tavoli vicini. "Tu hai paura che nessuno si accorga che esisti se non vai in giro a recitare la parte dello strampalato. In questo modo, la gente si accorge di te. Gli altri sono costretti a notarti, anche se a loro non piace affatto ciò che notano. Questa è la prima cosa. Secondo: ti aggrappi a queste stronzate truculente perché in questo modo sdrammatizzi ciò che ti spaventa più di ogni altra cosa — la morte. Tu sbeffeggi il dolore e la morte per renderli irreali, perché la realtà ti terrorizza." Dana tacque. Si abbandonò sullo schienale della sedia e incrociando le braccia sotto i seni lo guardò con occhi infiammati. "Tu sei pazza," mormorò Roland. "Stanotte delle persone sono state realmente uccise in quel ristorante," disse, costringendosi a parlare con voce calma. "È successo davvero — se quello che mi hai raccontato è la verità."
"Sì, e..." "Reale, Roland. Non è uno di quei film splatter per i quali vai pazzo. E ti sei fatto sotto dalla paura, perciò devi difendere la tua fragile psiche minimizzando quanto è accaduto, così da poterlo dominare." "Sei una perfetta Sigmund Freud." "La verità è che sei andato laggiù prevedendo e sperando che i poliziotti ti cacciassero via. Sapevi che non ti avrebbero permesso di vedere i corpi — o i pezzi di cervello spiaccicati sul muro. Sei andato laggiù per una sola ragione: per poterti vantare di esserci andato. Fa parte del tuo copione, rientra nel ruolo del tuo personaggio, Roland lo strambo, e serve a attirare l'attenzione su di te. L'evento cruento perde la sua realtà e così non ti spaventa più." "Non è vero." "Ammettilo, hai paura della tua stessa ombra." "No, non è vero. Io volevo vedere i cadaveri. Non è colpa mia se..." "Sei un vigliacco, Roland. Un vigliacco." "Ci sarei entrato se..." "Sicuro. Se i piedipiatti non ti avessero smammato. Ci scommetto. Ehi, davvero! Voglio scommettere. Cento verdoni. Immagina quante graziosissime magliette e maschere potrai comprarti con cento verdoni." Un angolo della bocca di Roland si sollevò. "Scommetti cento dollari che non entrerò in quel ristorante?" "Sicuro." "Sei matta." "Ce li hai cento dollari per la tua parte?" Roland esitò. "Credevo che li avessi." "È una cifra." "Ho un affare da proporti. Se perdi, non dovrai darmi neppure un centesimo. Però la fai finita con questa mania del macabro. La smetti di indossare quelle stupide magliette e cominci a comportarti come una persona normale." Ronald si accigliò. "Non lo so. Il fatto è che..." "Non te la senti, eh? Vuoi tirarti indietro." "No." "Allora?" "Tutto quello che devo fare, per vincere, è entrare nel ristorante?" "Di notte," aggiunse Dana.
"Non c'è problema." "Ci vai stasera, e ci resti per tutta la notte. Da solo." Il sorriso di Ronald cominciò a vacillare. "Quanto alla mia Polaroid, puoi portartela." "Come farai a sapere che ci sono stato tutta la notte? Voglio dire, potrei filarmela di soppiatto. Non che lo farei, ma..." "Io rimarrò là fuori, nella mia macchina. E chissà, magari di quando in quando entrerò a controllare, giusto per essere sicura che ci sei ancora." "Affare fatto." "Verrò a prenderti alle nove, alle spalle del dormitorio." CAPITOLO OTTAVO "Forse mi ero sbagliata," disse Helen. "Eh?" fece Alison. "Nell'ultima mezz'ora non hai guardato Re Lear neppure una volta. Non hai fatto altro che fissare il telefono." "Pensavo che forse mi avrebbe chiamata," disse lei. "Anch'io. Si vede che lo avevamo giudicato male. Già mi figuravo il numero sensazionale che avrebbe inscenato per te, ma..." "Ignorarmi: è questo il suo numero sensazionale." Celia, distesa sul divano, scostò dalle orecchie la cuffia dello stereo e disse, "Mi sono persa qualcosa?" "Alison comincia a diventare inquieta." "Telefonagli tu, allora," le consigliò. "Non posso farlo." "Non può farlo," le fece eco Helen. "È stata lei a dettare le condizioni. La prossima mossa spetta a Evan." Celia mise i piedi giù dal divano evitando movimenti bruschi, e gemendo si drizzò a sedere. "Non avrai mica deciso di startene qui tutto il giorno a sperare che ti chiami," disse a Alison. "Devi fare qualcosa che ti distragga. Quanto a me, ho bisogno di uscire." "Perché non vai alla lezione delle due?" suggerì Helen. "Quel seminario è una rottura. E poi sono tre settimane che non salto una lezione. Ho bisogno di una pausa. Specialmente dopo quello che ho passato ieri." "Te l'avevamo detto che ti saresti pentita," sentenziò Helen, "di esserti iscritta al corso del venerdì pomeriggio."
"Non mi scocciare." Celia rivolse gli occhi a Alison. "E se ci facessimo un giretto al centro commerciale? Che ne dici?" Alison apprezzò l'idea. "Te la senti di arrivare laggiù?" "Una passeggiata mi farà bene, allontanerà certi pensieri." "Tu che dici, Helen?" le chiese Alison. "Vuoi venire con noi?" "No." "Dai," insisté Alison. "Ti stai trasformando in un eremita." "Stamattina ho seguito tre dannate lezioni. E questo sarebbe trasformarsi in un eremita?" Si alzò e andò alla finestra. "Comunque, sta per piovere." "Che vuoi che sia un po' di pioggia," disse Alison. "E poi, dovrei cambiarmi." "Ma perché? Esci così come stai," le disse Celia. Helen si volse e abbassò gli occhi su di sé considerando il suggerimento di Celia. Indossava un vestito da casa che sembrava una vecchia tovaglia da tavola, completa di macchie di cibo. Richiuse un bottone a pressione che si era aperto sotto i seni pesanti. "Beh, se mi mettessi sopra l'impermeabile..." "Sii seria," disse Celia. "No, non vengo." "Dai, forza," la pregò Alison. "Non vorrai passare l'intero pomeriggio chiusa in casa. Se ti metti l'impermeabile, nessuno si accorgerà di come sei vestita sotto. E comunque il vestito non è poi del tutto impresentabile." Helen guardò Celia. "A me non importa. Mettiti quello che vuoi. Purché usciamo." "Io sarò pronta tra un minuto," disse Alison. Mentre si allontanava in direzione del corridoio, sentì Celia che diceva, "Per amor di Dio, almeno mettiti un paio di mutande. Se per caso finisci con le chiappe per terra, ti si vedrà la bernarda." La risposta di Helen, se vi fu, fu silenziosa. Sorridendo, Alison cominciò a salire la scala che portava alla sua stanza sull'attico. L'illuminazione le permetteva a stento di vedere i gradini, così si affrettò verso la sommità lasciandosi guidare dal corrimano. La sua stanza non era molto più luminosa della scala. Senza darsi pena di accendere la lampada, si avvicinò all'unica finestra e guardò fuori. Un tempaccio. Decisamente brutto. Certamente un temporale si stava avvicinando, ma probabilmente avrebbe tardato ancora un poco. Magari comincerà a piovere, pensò, proprio quando starò andando da Gabby's.
Evan avrebbe potuto darle un passaggio. Sarebbe stato lieto di... Poi Alison rammentò. Il dolore cupo tornò a torturarle il petto. Che cosa ho fatto? È tutto a posto, disse a se stessa. Tutto okay. Se mi pianta per una cosa del genere, beh, tanto meglio. Attraversò la piccola stanza fino al cassettone e ne prese la tuta blu. L'aderente tuta felpata era soffice e comoda, l'ideale per un tempo simile. Il vero problema era infilarsela. Aveva spento il termosifone prima di uscire per le lezioni della mattinata, e adesso la stanza era gelida. Più in fretta che poté si tirò sulla testa la camicia di flanella, si liberò delle pantofole, spinse i jeans giù per le gambe e li allontanò da sé scalciando. E finalmente infilò i piedi nella tuta e la tirò su. Tremando, inserì le braccia nelle maniche. Poi tirò su la cerniera fino al collo, e sospirò di sollievo quando il gelo fu sparito. Indossò velocemente un paio di calzettoni di lana e calzò le sue Nike. Afferrò la giacca a vento dall'armadio, agguantò la cinghia della borsa e si affrettò di sotto. Helen, che la stava aspettando con il suo cappello da marinaio di tela cerata e i gambali ai piedi, sembrava pronta ad affrontare un tifone. "Eccomi," disse Alison. "Stiamo aspettando te, Celia!" gridò Helen da qualche remoto recesso del suo impermeabile-scafandro. "Un po' di pazienza," rispose Celia dalla sua stanza. "Sono un'invalida, ve lo siete dimenticato?" Apparve dopo alcuni secondi stringendo tra i denti un berretto con la visiera staccabile e intenta a sistemarsi meglio la fascia che le sosteneva il braccio. Aveva indossato un voluminoso maglione lavorato ai ferri che aveva comprato durante un viaggio in Irlanda. I comodi pantaloni di velluto a coste muniti di tasche capienti erano infilati negli stivali di pelle di serpente. "Ehi, sei uno schianto," commentò Alison. "Direi piuttosto che sono io quella che ha subito uno schianto," disse Celia, togliendosi il berretto dai denti e posandoselo in modo sbarazzino in testa sulle ventitré. "Dov'è il tuo impermeabile?" le chiese Helen. "Il mio impermeabile è un poncho. Non ci starei comoda conciata come sono." "Così finirai in ammollo." "Se pioverà, cosa di cui dubito, tu sarai asciutta per tutte e tre."
Una sferzata di vento fresco investì Alison quando aprì la porta. Chiuse i bottoni della giacca a vento. Giunta a metà della scala, si girò a guardare dietro di sé. Celia si reggeva il cappello con la mano illesa. "Non avrai freddo?" "Vuoi scherzare? Questo è un maglione di Aran." "Se lo dici tu." Helen, in cima alla scala, rivoltò l'ampia falda a gronda del cappello antipioggia. Apparve così la sua faccia, che sorrideva come se fosse piacevolmente sorpresa di trovarsi in compagnia delle altre. A tre scalini dal fondo, Alison saltò. Le ginocchia flesse assorbirono l'impatto. Sorridendo, Alison avanzò lungo il vialetto camminando all'indietro, senza voltarsi. "Mi piace questo tempo," disse, "rinvigo..." "Attenta!" Qualcosa le pungolò la schiena. Celia cominciò a ridere. Alison si girò di scatto e si ritrovò un bastone nodoso all'altezza della pancia. All'altra estremità del bastone c'era il Dr. Teal, con una borsa della spesa nell'altra mano. Questo ritirò il bastone poggiandoselo sulla spalla. Guardò il terzetto e le sopracciglia si sollevarono, increspandogli la fronte. "Pronte per la partenza, a quanto vedo. Giornata ideale per un'escursione." "Giornata impetuosa," replicò Alison. Era un uomo che apprezzava certe allusioni. "Occhio alla coda di Eeyore, mi raccomando," fece lui. "Vuole una mano con la spesa?" si offrì Alison. "Grazie per l'offerta, ma non voglio sottrarvi alla vostra spedizione. Procedete!" Sgombrò il vialetto di ciottoli facendosi di lato, sull'erba piegata dal vento, e agitando il bastone fece cenno alle ragazze di passare. Alison lo superò e si volse. Celia lo salutò sollevando appena il berretto. "Tu, mia cara, hai avuto tempi migliori." "Eh, sì, ho preso qualche botta." "Oh, lo apprendo con sincero dispiacere." "Dovrebbe vedere quell'altro, allora." Scuotendo la testa, l'anziano professore le diede delle pacche leggere sulla spalla mentre lei gli passava accanto. "Ci vediamo," lo salutò Helen. "Ci vediamo." Si sporse verso di lei e le disse qualcosa che Alison non riuscì a sentire. Poi girò intorno alla scala, si fermò accanto alla sua porta
laterale e appoggiò il bastone sul muro. Alison fece pòchi passi, poi attese che le altre la raggiungessero. "Che cos'ha detto?" chiese a Helen. "Boh! Una stupidaggine. Quel tipo diventa più matto ogni volta che lo incontro." "Ma cos'ha detto?" insisté Alison. "'Lascia che l'albatro viva'. Chissà poi che voleva dire." "Secondo me," disse Alison, "ha voluto dirti che gli è piaciuta la tua tenuta." Quando fu sul marciapiede, scorse un uomo all'isolato successivo. Camminava inclinando il corpo controvento e tenendosi stretta addosso la giacca marrone chiaro. Aveva i capelli castani come Evan. Alison sentì il cuore accelerare i battiti. Socchiuse gli occhi, aguzzando la vista. Dovranno proseguire senza di me, pensò. Capiranno. È tornato da me. Nonostante l'ultimatum. Aveva quasi abbandonato quella speranza, e, invece, Evan doveva aver deciso di sperimentare il nuovo regime. Fu contenta di aver indossato la tuta. Tra tutti i suoi vestiti, quello era proprio il capo preferito da Evan. La cerniera che correva giù, lungo tutto il davanti, lo faceva impazzire. Mentre avanzava nella sua direzione, Alison aprì i bottoni della giacca a vento e si abbassò la lampo di qualche centimetro. Sarebbero potuti andare da lei. Al calduccio e nel comfort della casa che, oltrettutto, sarebbe stata tutta per loro fino al ritorno di Celia e Helen. Sì, che idea strepitosa, pensò. L'occasione propizia per creare nuovi guai. D'altro canto, sarebbe stato un ottimo test. Se Evan fosse riuscito a resistere alla tentazione in circostanze simili... Adesso l'uomo era più vicino. E non somigliava più tanto a Evan. Girò all'angolo e esibì un profilo decisamente diverso — il naso era troppo lungo, il mento troppo debole. "Quel tipo somigliava un po' a Evan," disse Celia. Alison si strinse nelle spalle. Si sentiva ingannata, svuotata. "Evan può pure andare a farsi ammazzare," mormorò. Il tepore dello Shopping Center risultò assai piacevole. La giacca a vento di Alison era piuttosto leggera, e così non le procurava fastidio tenersela
addosso. Ma per Helen era tutto un altro affare. Provò una grande compassione per lei. La povera ragazza doveva sentirsi soffocare in quella specie di scafandro. Non rattristarti tanto per lei, si disse Alison. Se non fosse stata così pigra si sarebbe potuta mettere qualcosa di decente. Le tre ragazze s'incamminarono lungo lo spazio aperto, tenendosi accanto al lato sinistro. Mentre Celia e Helen guardavano nei negozi, Alison scrutava gli altri visitatori, molti dei quali erano studenti. Tra essi poteva esserci Evan. Al Contempo Casuals, Celia si fermò e osservò i manichini esposti vicino all'ingresso. "Voglio dare un'occhiata qui," disse, e così entrarono. Helen si tolse l'enorme cappello floscio. La faccia rotonda apparve madida e colorita. Aprì il gancio superiore dell'impermeabile. "Meglio che ti fermi là," l'ammonì Celia. "Faresti scattare l'allarme antilerciume." "Rimangiatelo," disse Helen. Ma lasciò chiusi gli altri ganci. Seguirono Celia nella parte posteriore del negozio, dove cominciò a passare in rassegna la corsetteria da notte. "Non vorrai comprarne un'altra," disse Helen. "No?" "Quante ne hai di quelle, venti? E comunque, vista la velocità con la quale passi da un ragazzo all'altro, nessuno di loro avrà mai la possibilità di vedertene addosso più di una." "Gelosa?" Helen scosse la testa. Celia prese a esaminare il campionario in tutta calma; prendeva un negligé con la sua gruccetta, lo studiava attentamente, ponderava per un po' e poi lo riappendeva. L'operazione doveva essere effettuata con una mano sola, sicché, dopo un poco, Alison prese ad assisterla ricollocando i capi scartati negli scomparti gremiti. Finalmente trovò qualcosa che sembrò piacerle. Si rivolse a Alison sollevando l'indumento. "Che te ne pare?" Era una camicia da notte che lasciava la schiena completamente scoperta. Cortissima, di uno scintillante blu reale, si legava dietro il collo con dei laccetti sottilissimi. Nel davanti si spalancava una audacissima scollatura. Le coppette erano di velo azzurro. "Non ti ci vedo proprio con un affare del genere addosso," osservò Helen.
"A me sembra carina." Alison si domandò se ce ne fosse un'altra uguale. Se Evan l'avesse vista con una cosetta come quella... Al diavolo Evan. "Io non la comprerei," disse Helen. "È naturale che non la compreresti." Storcendo un lato della bocca, Helen diede un colpetto con le dita al velo trasparente. "Questo non ti piacerebbe. E non ne faccio una questione di pudicizia. So perfettamente che vai ben oltre cose del genere." "E allora? A cosa ti riferisci?" "Al colore. Ti farà sembrare le tette malaticce. Ti va l'idea di presentarti con le poppe bluastre e i capezzoli rossi?" Celia inarcò le sopracciglia. Guardò Alison. "Non ci avevo pensato," ammise Alison. "Guarda un po' se ce n'è una uguale in nero," suggerì Helen. "Buona idea." Sorrise. "Grazie." "Fermo restando che, se t'interessa la mia opinione, faresti meglio a spendere i tuoi soldi in patate fritte." Alison tenne tra le mani la camicia da notte blu finché Celia, setacciando lo stand, non fu tornata con un negligé nero dell'identico modello. "Magnifica," esultò Celia. "Perfetta." Alison appese la gruccetta al cavalietto, poi la prese di nuovo e osservò l'indumento. Il blu era intenso, vivido e scintillante. Accarezzò la stoffa. Era liscia sotto le dita e aderiva alla pelle. Si chiese quale sensazione avrebbe provato indossandola sul corpo nudo, e come sarebbe apparsa lei con quella cosa addosso. Non aveva mai posseduto qualcosa di simile. Alzò gli occhi. Sia Helen che Celia la stavano fissando. Sorrise. "Poppe bluastre," la mise in guardia Helen. "Posso sopportarlo," disse. Celia sorrise. "Un piccolo accorgimento nell'eventualità che Evan si rifaccia vivo?" "Che fine ha fatto il tuo voto di castità?" incalzò Helen. "Questo non ha niente a che fare con quella storia," si difese Alison. "Ah no?" Mentre uscivano dal negozio con i loro acquisti, Alison si offrì di portare la borsa di Celia. "Già," disse Helen. "Levagliela di mano. Una cosa come quella deve pesare una tonnellata." "Forse avresti dovuto comprarne una anche tu," replicò Celia.
"Torniamo a casa?" chiese Helen, ignorando l'osservazione. "Siamo appena arrivate." Helen arricciò il labbro superiore. Era imperlato di sudore. Stava soffrendo, era evidente, pensò Alison, intrappolata com'era in quel pesante aggeggio. "Forse sarà meglio che andiamo," disse Alison. "Siamo sincere, amiche," disse Celia. "La povera Helen muore dalla voglia di andare a vedere i cuccioli e sciogliersi in teneri sguardi, per poi tuffarsi nella pasticceria. Mentre tu vuoi fare un giro d'ispezione in libreria, non è così?" "Non importa," disse Alison. "Temo che una di noi si stia squagliando." "Sto benissimo," mentì Helen, in palese disagio. Celia sorrise. "Ciambelle, barrette di zucchero d'acero, artigli d'orso, cannoli di cioccolato... ecco cosa l'ha rianimata." "Prenderei con piacere una coca," ammise. Proseguirono per il viale centrale dirette all'ala del centro commerciale dove erano ubicati i posti di ristoro. "Salve," disse qualcuno alle loro spalle. Si girarono. Alison si accorse che a salutarle era stato lo strambo. Benché non ne conoscesse il nome, né gli avesse mai parlato, lo aveva notato spesso gironzolare per il campus. Del resto, era impossibile non notarlo visto il suo strano abbigliamento e quella assurda pettinatura. Adesso aveva addosso uno sgargiante giubbotto e una T-shirt sulla quale era stampato un orrido squarcio dal quale straripavano sangue e budella. Una mano stringeva un sacchetto dello Spartan Sporting Goods. "Tu sei Celia Jamerson, vero?" chiese. "Ti ho vista in The Glass Menagerie. Sei stata grande." "Grazie,'' disse Celia. "Probabilmente tu non ti ricordi di me." "Tu sei l'amico di Jason, eh?" Lui sorrise, scoprendo i dentoni storti. "Sono il suo compagno di stanza, Roland. Comunque, mi stavo chiedendo se stai bene. Cosa ti è successo, hai avuto un incidente?" "Una piccola disavventura durante una passeggiata in bicicletta." "Accidenti, mi dispiace." Lo sguardo di Roland si spostò trasversalmente verso Alison e percorse viscidamente tutto il corpo di lei, poi ritornò su Celia. "Spero che non sia stato nulla di grave," disse.
"Beh, grazie. Passerà. Come sta Jason?" "Oh, benone. Tra un po' comincerà a provare per la recita di primavera. So che spera sulla tua partecipazione." "Non saprei. Le audizioni cominciano la settimana prossima. E io... così ammaccata..." "È terribile." Lo sguardo corse di nuovo a Alison, che provò l'impulso di stringersi addosso la giacca a vento. "Ora è meglio che vada. Ti auguro di riprenderti in fretta." "Grazie," disse Celia. "Ci vediamo." Roland si girò e si allontanò da loro. Alison si accorse che per tutto il tempo aveva trattenuto il respiro, quasi temesse di buscarsi una malattia per inalazione. "Che sogno," ironizzò Helen. "Che incubo," mormorò Alison. "Sento quasi il bisogno di farmi un bagno." "Eh, sì. Ci ha spogliate con gli occhi." Alison non lo aveva visto indugiare con lo sguardo su Helen, ma preferì tenere la bocca chiusa in merito. Celia alzò le spalle. "È stato carino da parte sua preoccuparsi per me." "Gioca bene le tue carte," fece Helen, "può darsi che ti chieda di uscire con lui. Ti piacerebbe indossare per lui la tua nuova camicia da notte?" "Dammi tempo, e saprò io per chi indossarla." Con Helen in testa, s'incamminarono verso la zona cibarie. Alison continuava a sentirsi un po' imbarazzata. Benché non vi fosse una grande somiglianzà tra loro, Roland per una qualche ragione le ricordava il Principe Azzurro, quello straccione sudicio e mezzo matto che aveva visto la sera prima da Gabby's. Si fermarono presso uno dei banchi di ristoro. Helen ordinò una coca cola e un hot dog. Alison e Celia presero una coca a testa. Trovarono un tavolo libero nel centro del viale di passaggio e si sedettero. Mentre infilava la cannuccia nel coperchio di plastica della bibita, Alison ebbe quasi la sensazione di sentirsi addosso gli occhi di Roland che la scrutavano lascivamente. "Che schifo," mormorò. "Quello," disse Helen, "dà un nuovo significato all'espressione 'brutto sporco e schifoso'." Celia sorrise. "Già, però il suo amico non è niente male." "È quello che faceva la parte del visitatore gentiluomo?" si informò Alison.
"Quello." "Se è così meraviglioso," disse Helen, mentre spremeva una grassa scia di mostarda sul suo panino, "come mai non lo hai aggiunto alla tua lista?" "Per amor dio Dio, è una matricola." "Non dovresti fermarti di fronte a una simile inezia." "Ti va di scherzare? Se circolasse la voce che me la faccio con una matricola non potrei mai perdonarmelo. Inoltre, sta già con una." "Aaaah, ecco," disse Helen. "Non è perché è una matricola. Un'altra gli ha già messo addosso gli artigli." "Dammi tempo. La getterebbe via come una patata bollente se solo lo degnassi di un mio sguardo." Helen addentò voracemente l'hot dog. La mostarda le colò lungo il mento. Pulendoselo con il dorso della mano, si rivolse a Alison con voce ovattata, "Non è adorabile tanta modestia?" "All'inferno," disse Alison, "probabilmente ha ragione." "Non che abbia intenzione di gratificare Jason di un mio sguardo," precisò Celia. "Come ho già detto, è solo una matricola." Helen leccò via la mostarda dal dorso della mano. "Però, potresti sempre vederti con lui in incognito. Con un paio di occhiali Groucho." "Dev'esserci qualcosa che non va nella sua personalità," osservò Alison, "se divide la stanza con uno strampalato come quello." Celia sorrise. "Non puoi giudicare una persona dai suoi compagni di stanza. Cacchio, guarda la mia." CAPITOLO NONO Roland aspettava, da solo. Come avrebbe voluto che Jason fosse lì, invece che al matrimonio di sua sorella. Avrebbero parlato della scommessa, ci avrebbero scherzato sopra. La faccenda non sarebbe sembrata tanto angosciante. Se Jason ci fosse stato tutto ciò non sarebbe neanche accaduto. Dana non lo avrebbe cacciato in quel casino. La puttana. Lo aveva sempre disprezzato, e lui lo sapeva. Ma fino a allora non lo aveva mai dimostrato chiaramente. Probabilmente era seccata per il fatto che Jason se ne fosse andato senza di lei. Il venerdì sera andavano sempre al cinema, poi parcheggiavano da qualche parte e scopavano.
Ma non quella sera. Niente bisboccia con Jason stasera, e ecco che se la prendeva con Roland. Si avvicinò alle finestre. La pioggia veniva giù a torrenti. Una macchina sbucò da Spring Street, e i fari tracciarono sentieri scintillanti sull'asfalto dell'area di parcheggio. Lo stomaco di Roland si contrasse. Tuttavia, quando l'auto si avvicinò all'entrata posteriore della Casa dello Studente si accorse che non si trattava di una Volkswagen. L'orologio sulla scrivania segnava le nove meno un quarto. Se Dana fosse stata puntuale, non sarebbe arrivata prima di altri quindici minuti. Quattordici. Lo stomaco rimase contratto. Quella puttana, perché mi sta facendo questo? Era forse per via delle fotografie? Era stato allora che si era inviperita, quando aveva capito che lui le aveva viste. Accosciatosi dietro la scrivania di Jason, Roland aprì il cassetto superiore, ne tirò fuori un fascio di riviste Penthouse e Hustler e estrasse la busta. La portò alla sua scrivania. Sedutosi, accese la lampada a collo d'oca. Tolse le dieci foto dalla busta e le distribuì sul piano della scrivania. Due erano sovraesposte. Un'altra, praticamente un primo piano scattato dallo spazio tra le ginocchia di lei, era sfuocata. Jason doveva essersi eccitato al punto da dimenticare di regolare la messa a fuoco. Ma ci aveva riprovato e con successo. Già, Dana dev'essersi incavolata parecchio quando ha saputo che le ho viste. Roland aprì l'astuccio che teneva agganciato alla cintura e estrasse il coltello a serramanico Buck. Facendo leva sul manico, tirò fuori la lama. Ne appoggiò quindi la punta sulla superficie lucida tra le cosce. "Che ne dici di questo, ti piace?" sussurrò con voce malferma. Fu assalito dall'impulso di spingervi dentro il coltello, ma non osò farlo. Jason avrebbe capito subito che era stato lui. Premendosi sul mento la parte piatta della lama, Roland rimase immobile a fissare le fotografie. E se le do a lei? Potrei togliermi dai guai. Ma in questo modo capirà che ho paura. Passerò la notte in quel fottuto ristorante e guadagnerò cento dollari. Una bazzecola. Chissà, magari sarà anche divertente. Divertente. Sai
quanto! Ma non aveva altra scelta. Se si fosse tirato indietro, Dana avrebbe detto a tutti che era un fifone e che quella sua aria da duro era tutta una montatura. Forse troverò il modo per fargliela pagare. Ripose le foto nella busta. Il debole colpo di un clacson lo fece sussultare. Scattò in piedi, vide il suo riflesso nel vetro della finestra e spense la lampada. Guardò fuori, nel buio, e scorse un Maggiolino accostato al cordolo del marciapiede. Era quello di Dana, sì, non c'era dubbio. La bandierina sull'antenna gliene diede conferma. Roland aprì la porta di vetro e avanzò verso la macchina a passi irregolari. Incurvò la schiena come se la pioggia fosse un pesante fardello. Le scarpe sguazzavano nelle pozzanghere sciabordando l'acqua sul lastrico intorno. Sulla testa aveva un berretto di lana a cono di colore scuro, e addosso una giacca a vento. Stringeva sul petto un sacco a pelo. Dana si protese sul sedile laterale per aprirgli la portiera. Dopo che fu salito, lasciò cadere il sacco a pelo sul pavimento tra i piedi, chiuse lo sportello e dimenandosi faticosamente si liberò le spalle dallo zainetto. "Una notte splendida per la tua avventura," osservò Dana. "Già. Peccato che non ci siano tuoni e fulmini." Ridacchiò. E il nervoso ghigno tradì la sua tensione. Il Maggiolino si staccò dal marciapiede e attraversò l'area di parcheggio. "Dovrai indicarmi la strada." "Gira a destra e prendi Spring Street. Poi ti dirò quando dovrai svoltare." Dana si fermò presso l'uscita del parcheggio, aspettò che alcune macchine le sfilassero rumorosamente davanti e imboccò Spring Street. Stava piovendo a dirotto. Si protese in avanti per vedere meglio. Roland non fiatava. Normalmente chiacchierava non-stop. "Paura?" chiese Dana. "Certo che ho paura. I tuoi tergicristalli non valgono una cicca." "Non dirmelo," mormorò Dana. Anziché spazzare l'acqua verso i lati, sembrava che la spalmassero sul parabrezza lasciandovi fastidiose strisce. "Non sono certo uscito stasera per essere ucciso in un incidente automobilistico." "Lo so. Sei uscito per essere ucciso in un ristorante stregato."
"Stregato. Questa è buona." "Non sei d'accordo? Non sei tu quello che disse a me e Jason che i fantasmi appaiono quando le persone tirano le cuoia troppo in fretta?" "Può darsi," disse lui. "Sicuro. Stavamo tornando a casa dopo che avevamo visto l'ultimo spettacolo di The Uninvite e tu dicesti che un fantasma si manifesta quando qualcuno non sa ancora di essere morto. Il suo spirito, o quello che sia, crede di essere ancora vivo. Non è così che ci spiegasti?" "Beh, è una teoria, comunque." "La notte scorsa quelle due persone sono morte sul colpo. Gli hanno fatto saltare la testa. Non c'è morte più improvvisa di questa. Perciò adesso i loro fantasmi si aggirano là intorno, non credi?" Roland non rispose. "Sul sedile posteriore c'è la mia macchina fotografica. Potresti scattare loro qualche foto." "Al semaforo gira a destra," disse lui con un filo di voce. Dana controllò lo specchietto retrovisore. La strada dietro di lei era oscura, così rallentò. Davanti, un camion per la raccolta dei rifiuti stava avanzando nella sua direzione. Socchiuse gli occhi contro il bagliore dei fari. Il camion passò velocemente e le ruote schizzarono spruzzi d'acqua sulla portiera e sul finestrino. Dana imboccò la curva, poi trasse un profondo respiro. La strada avanti era buia, rischiarata solo di quando in quando da qualche lampione stradale. Su entrambi i lati si ergevano delle case. Dana sapeva che quella strada conduceva fuori della città, ma non ricordava che ci fosse un ristorante lungo il rettilineo. "Tu non credi nei fantasmi," disse Roland. "Oh, ma tu sì. O fa parte anche questo della tua recita?" "Non ho paura dei fantasmi." "Ne hai mai visto uno?" "No." "Non ancora, eh?" "Se esistono, sono innocui. Non possono farti niente." "Come tagliarti la gola o roba simile?" chiese Dana, lanciandogli un'occhiata e sorridendo. "Non sarebbero in grado di impugnare un coltello. E nessun'altra cosa, se è per questo. Sono privi di sostanza. Tutto ciò che possono fare è apparire." "E trasformarti in un pazzo delirante."
"Solo se hai paura di loro." "Cosa che tu non hai, naturalmente." "Non ce n'è ragione." "A chi vuoi darla a bere?" Roland tacque. "Alla ragazza hanno fatto saltare la testa, giusto?" disse Dana. "Quindi questo significa che neppure il suo fantasma avrà la testa?" "Non ne sono sicuro." "Pensavo che tu fossi un esperto in materia." Dana non vide più costruzioni davanti a sé. Su entrambi i lati della strada si stendevano campi, punteggiati soltanto da radi alberi. "Ma dove cavolo si trova questo ristorante?" "Ci siamo quasi." "Strano posto per un ristorante, così fuori mano." "La stradina viene subito dopo la prossima curva. Dovrai girare a destra." "Non ne so granché di queste cose," continuò Dana, "ma scommetto che il fantasma della pupa non ha la testa. È solo un'ipotesi, naturalmente." "Comincia a rallentare." Un chiarore di fari apparve sulla cresta della collina a una buona distanza davanti a loro. Lo specchietto retrovisore era buio. Dana pigiò leggermente il pedale del freno, ma non scorse la strada secondaria. "Dove?" Roland la additò. Era una viuzza stretta e affossata che somigliava più a un vialetto privato che non a una strada. Dana rallentò fin quasi a fermarsi. Nello svoltare, i fari scivolarono sopra una grossa insegna di legno scuro. Tentò di leggere le parole intagliate, ma esse apparvero come una macchia confusa e indecifrabile tra i rivoli d'acqua che scrosciavano sul parabrezza. I tergicristalli, con il loro moto pendolare, non erano di nessun aiuto — soltanto un'ulteriore distrazione. I fari superarono l'insegna. Aguzzando gli occhi, Dana vide la pioggia che continuava a venir giù incessantemente, le scie luccicanti che i suoi fari tracciavano sul lastrico e il terreno che si innalzava su ciascun lato della stradina. "Hai portato i soldi?" chiese Roland. "Li ho in borsa." Dana gli sorrise. "Tanto non li avrai." "Li avrò, e come." "Sarà già una sorpresa se resisterai dieci minuti."
"Tu verrai dentro all'alba, giusto?" "Sbagliato. Tutti e due saremo tornati in città e staremo accoccolati nei nostri lettucci prima di mezzanotte." "Insomma, ammesso che non me la fili per la paura. Cosa che non farò. Verrai dentro all'alba?" "Resterò là fuori." "Vorrai vedere com'è fatto dentro, no?" "No." "Ti dico che entrerai lo stesso." "Scordatelo." I margini della strada erano scomparsi, e Dana capì che era entrata nell'area di parcheggio. Proseguì diritto. Sulle prime non scorse il ristorante, poi i fari scrutatori trovarono la scala, la veranda e la porta. La pallida striscia di un nastro della polizia correva da una colonna all'altra della veranda sulla sommità della scala. La porta era sprangata con delle assi incrociate. Dana fermò la macchina direttamente davanti alla scala e spense i fari. "Accidenti," disse. "Dov'è finito il ristorante?" "Come faccio a entrare là dentro?" Dana si chinò, la testa contro il volante, e allungò una mano per prendere qualcosa sotto di lei, tra le sue ginocchia. Le punte delle dita rastrellarono lo stuoino polveroso finché non ebbero trovato il girabacchino. Lo raccolse e lo consegnò a Roland. "Hai pensato proprio a tutto," mormorò lui. Torcendo il busto, Dana s'inginocchiò sul suo sedile e prese la macchina fotografica. "Scatta qualche bella foto," disse. "Specialmente alla ragazza. Il fantasma senza testa. Saranno foto grandiose, vedrai." Roland mise la macchina fotografica nello zaino. Si protese in avanti e sistemandoselo sulla schiena infilò, non senza difficoltà, le braccia nelle cinghie. Accostò a un fianco il sacco a pelo e afferrò il girabacchino. "Che ne diresti di accendere i fari finché non sarò entrato?" le chiese. "Perché no." I fari disegnarono tunnel di luce nella fitta oscurità. "Buon divertimento." "All'alba verrai dentro a chiamarmi," le disse. E non fu una semplice richiesta. "Io non metterò piede in quel posto." "Credo invece che entrerai." Roland aprì lo sportello e scese dall'auto. In piedi nella pioggia, si chinò, sporgendosi nell'abitacolo. "Ho le foto con me."
"Dammele," ordinò Dana bruscamente. "Potrai averle domattina. E se non verrai dentro con me non le rivedrai mai più. In compenso, le vedranno tutti gli altri." "Pezzo di merda!" Lui sbatté la portiera. Quando fu davanti alla macchina, Dana suonò il clacson. Lo strepito lo fece sobbalzare. Si girò a guardarla con occhi infiammati, poi arricciò le labbra snudando i denti deformi e si voltò, allontanandosi. Giunto in cima alla scala, spezzò il nastro sigillante della polizia e si avvicinò alla porta. Cominciò quindi a divellere le assi. Dana, furente, lo osservava col cuore in tumulto, mentre aliti sibilanti fuoriuscivano dalle narici. Immaginò se stessa precipitarsi dietro a Roland e sbattergli il cranio contro la porta fino a fargli perdere i sensi. Poi avrebbe frugato nelle sue tasche e avrebbe trovato le fotografie. Invece, rimase immobile. Con la fortuna che si ritrovava, quello schifoso l'avrebbe sentita arrivare alle sue spalle. Lavorando ancora d'immaginazione, vide Roland girarsi di colpo e spaccarle la testa con la sbarra. Non se la sarebbe cavata con uno come lui. È pur vero che è un imbranato, pensò, ma il suo equilibrio mentale lascia piuttosto a desiderare. Se lo figurò mentre trascinava il suo corpo nel ristorante. Quei pensieri cominciarono a spaventarla. Roland aprì la porta. Raccolse il sacco a pelo dal pavimento della veranda, lanciò un'occhiata a Dana, poi entrò. La porta si chiuse dietro di lui. Dana spense i fari. Si protese sul sedile accanto al suo e inserì la sicura. Allungò quindi la mano verso la chiave d'accensione, intenzionata a spegnere il motore. Ma cambiò subito idea, ingranò la retromarcia e lentamente spostò l'auto all'indietro. Accarezzò allora l'idea di andarsene. Sarebbe stata un'ottima lezione per quello schifoso. Abbandonato laggiù in perfetta solitudine. E appiedato. Per contro, se si fosse accorto che lei era andata via, avrebbe potuto decidere di stendere il suo sacco a pelo sulla veranda. Inaccettabile. Doveva trascorrere la notte là dentro. Era questa la condizione della scommessa. E la giusta punizione. Il prezzo che doveva pagare per la sua recita del cacchio. E per aver visto le fotografie.
Adesso le aveva con sé. D'un tratto Dana si rese conto di essere pericolosamente vicina al limite posteriore dell'area di parcheggio. Un colpo di freni fece arrestare la macchina con uno scossone. Inserì il freno a mano e spense il motore. Quando i suoi occhi si furono adattati all'oscurità, riuscì a focalizzarli sul ristorante: una tozza sagoma oscura, larga quanto il parcheggio, distante una cinquantina di metri, nera sotto la veranda semiaperta. Aveva un'aria sinistra e minacciosa. E Roland era là dentro. Dana sorrise. "Ti divertirai un mondo, sicuro," mormorò. Quando Roland chiuse la porta del ristorante, rimase immobile a scrutare l'oscurità. Non vedeva niente. Sentiva soltanto le pulsazioni del suo cuore e il frenetico susseguirsi dei suoi respiri accompagnati dallo scrosciare della pioggia. Non c'è nulla di cui aver paura, disse a se stesso. Ma il suo corpo non sembrava d'accordo. La sua mente sapeva ciò che voleva fare: gettare a terra il sacco a pelo, togliersi lo zaino dalle spalle e prendere la torcia elettrica. Ma non riusciva a muoversi. Avanti, sbloccati. Fa' quello che devi fare. Era sicuro, in cuor suo, che sarebbe andato tutto liscio, eppure una parte del suo io sapeva con certezza assoluta che qualcosa si nascondeva nell'oscurità, rannicchiata in un silenzioso agguato. Consapevole della sua presenza. In attesa. Una minima mossa, un impercettibile movimento, e la cosa gli si sarebbe avventata addosso. Lo stridio sommesso del motore della macchina di Dana sfondò la muraglia delle sue paure. Si girò e aprì la porta. La Volkswagen si stava allontanando. Se ne va? Là per là la cosa lo mise in allarme, poi lo riempì di sollievo. Se Dana se ne andava sul serio, non sarebbe stato necessario rimanere là dentro. Si sarebbe piazzato sulla veranda, perché no? Attento a rientrare prima del suo ritorno. Se fosse ritornata. E se al mattino non fosse tornata a prenderlo, poco male, si trattava solo di farsi a piedi qualche chilometro senza compromettere l'esito della scommessa. Lui avrebbe vinto. La macchina non invertì la marcia. Avvicinatasi al limite del parcheggio,
i fanalini rossi si illuminarono per qualche secondo. Si era fermata. Il motore tacque. E con esso, anche le speranze di Roland si spensero. Dana non se ne stava andando, stava semplicemente creando una rassicurante distanza tra lei e il ristorante. Evidentemente starvi troppo vicino la rendeva inquieta. Gli occhi di Roland indugiarono per un po' sulla macchina, ma essa sostò immobile. Lasciando aperta la porta per un'eventuale rapida fuga, lasciò cadere il sacco a pelo sul pavimento. Si liberò le spalle dallo zaino e ne tirò fuori la torcia. Volgendo la schiena alla porta, ne fece scattare l'interruttore. Il raggio potente s'irradiò all'istante. Lo fece oscillare da destra a sinistra. Le ombre danzarono e si contorsero, ma nessun'ombra assassina si avventò contro di lui. Roland prese fiato. Desiderò che il suo cuore rallentasse i colpi. Gli sembrava che un pugno gli martellasse l'interno del petto. Chiuse la porta e vi si appoggiò, piegandosi appena. Serrò le ginocchia per evitare che cedessero sotto il suo peso. Le rotule cominciarono a tremare, sussultando concitatamente, scosse da piccole contrazioni, quasi volessero scollarsi dalle loro sedi naturali e scoperchiarle. Roland si sforzò di ignorarle. Puntando la torcia davanti a sé, mosse alcuni passi fino a trovarsi in una posizione tale da poter vedere dietro l'angolo della parete. Questa correva lungo il lato destro della sala da pranzo principale. Qualcosa appena oltre l'angolo attirò la sua attenzione. Trattenne il respiro finché non ebbe identificato gli oggetti: una scala, una lampada e Un aspirapolvere. Sul pavimento, poco lontano, c'erano una cassetta per attrezzi, alcune bombolette, flaconi e stracci. Spostò da essi il raggio della torcia. Un disco luminoso all'estremità opposta della stanza lo fece trasalire, ma poi Roland si rese conto che si trattava semplicemente della luce irradiata dalla sua torcia e riflessa nel vetro di una finestra. Non si allarmò quando il riverbero apparve nelle altre finestre. A parte i pochi oggetti collocati vicino alla parete, la sala da pranzo era vuota. Fece scivolare il fascio luminoso attraverso la stanza, fino a proiettarlo sulla parete che si allungava di fronte a lui e verso destra. Pochi metri più in là scorse l'angolo di un bancone da bar con la forma a L. La scaffalatura dietro di esso era vuota. Né vi erano sgabelli davanti al banco, lungo il poggiapiedi d'ottone che correva per tutta la sua lunghezza.
Girandosi lentamente, Roland mandò il raggio sullo spazio che si apriva tra il bancone del bar e la parete anteriore del ristorante. Un tavolo da gioco accostato al muro, bottiglie e pochi bicchieri scintillanti sotto il tocco luminoso, due sedie pieghevoli presso il tavolo. Si accosciò, e il raggio della torcia illuminò lo spazio al di sotto del tavolo. Tornò eretto. Oltre il tavolo, all'estremità più distante della stanza, inquadrò un vano, e sopra l'apertura una scritta annunciava 'Toilettes'. Roland avanzò silenziosamente fino a che gli fu possibile indirizzare il cono di luce nello spazio nascosto dietro il bancone. Le mani tornarono allo zaino e ne trassero due candele che aveva comprato quel pomeriggio. Si avvicinò al tavolo e le accese. Lasciò che la cera colasse sul ripiano, poi collocò le candele nelle minuscole pozze. Si allontanò. Le due fiammelle irradiavano una quantità sorprendente di luce, tanto che il loro bagliore illuminava buona parte della zona cocktail. Rincuorato in qualche modo dalla luce, Roland proseguì la sua esplorazione, oltrepassando il tavolo. Notò la porta a due battenti dietro il bar, probabilmente destinata a consentire al barista l'accesso alla cucina. La cucina. Dove erano stati consumati gli omicidi. Gli spazi che si aprivano al di sopra e al di sotto dei battenti erano oscuri. Non li rischiarò con la torcia, imboccò, invece, il breve corridoio che conduceva ai gabinetti. Una piccola piastra d'ottone sulla porta davanti a lui diceva 'Donne'. La porta indicata per gli 'Uomini' era a destra. Bisognava controllarli entrambi — ne era consapevole — ma a questa prospettiva le gambe ripresero a tremargli e il cuore ricominciò il martellamento. Non voleva aprire quelle porte, non voleva fronteggiare ciò che poteva celarsi là dentro, in agguato, qualunque cosa fosse. Sarà peggio ancora, si disse, però, se non guardo. Così non saprò cosa affrontare. E potrei avere una brutta sorpresa più tardi. Passò la torcia nella mano sinistra, si asciugò il sudore che inumidiva la destra e afferrò il pomo della porta delle 'Donne'. Il pomo rifiutò di ruotare. Provò l'altra porta. Anche quello era chiuso a chiave. Per un attimo, ne fu lieto. Non avrebbe dovuto aprirle. Era un grosso sollievo. Poi si rese conto che le porte chiuse non erano certo garanzia di sicurezza. Probabilmente potevano essere aperte dall'interno. Puntò la torcia sul pomello della porta degli 'Uomini'. Aveva una serra-
tura. Gli era capitato qualche volta in passato di aprire la porta di un gabinetto inserendo un oggetto appuntito nella serratura e girandolo da una parte e dall'altra. Sollevò la patta di cuoio dell'astuccio che custodiva il coltello. La patta si aprì con uno schiocco. Cristo, che rumore! Chiunque si trovasse dietro la porta... Sta' calmo. ...lo avrebbe sentito. Non c'è nessuno in questo fottuto cesso. Roland fissò la porta. Immaginò un'improvvisa serie di colpi violenti sull'altra parte di essa Un brivido gelato gli fece accapponare la pelle lungo la schiena. Senza estrarre il coltello dall'astuccio, si allontanò. La luce delle candele era decisamente di conforto. Prese le sedie pieghevoli una alla volta e le portò presso l'entrata ai gabinetti, sotto la scritta 'Toilettes'. Accostò gli schienali uno all'altro così da creare una barriera che bisognava scavalcare o spingere via per farsi largo. Sistemò un bicchiere da cocktail su ciascun sedile, vicino al bordo esterno. Al minimo movimento della sedia i bicchieri sarebbero cauti. Compiaciuto per la genialità del suo dispositivo d'allarme, Roland ritornò al tavolo da gioco. Prese una delle bottiglie. Era quasi piena. Al lume della candela, vide che il liquore era chiaro. La girò fino a leggerne l'etichetta nel lucore tremolante. Gilby's Vodka. Mitica. Svitò il tappo di plastica, sollevò la bottiglia e si riempì la bocca. Inghiottì un sorso per volta. La vodka gli arse la gola e gli accese un fuoco nello stomaco. Quando la bocca fu vuota, inspirò profondamente, poi lasciò andare un lungo sospiro. Tracannando una poderosa quantità di liquore, si sarebbe annebbiato fino a perdere parte della lucida consapevolezza della sua situazione. Però sarebbe stato anche più vulnerabile. Un sorso ancora, poi richiuse la bottiglia. Accovacciatosi, si chinò sullo zaino e prese la macchina fotografica di Dana. L'aprì. La striscia dei flash era già inserita sulla parte superiore. Si alzò e trasse un altro profondo respiro. Gli faceva bene inspirare, riempirsi i polmoni. Non li sentiva più tanto contratti come prima. Si accorse che effettivamente non stava più tremando. Una leggera sensazione di vaghezza
gli pervadeva la testa. Era un effetto della vodka? Rivolse nuovamente la sua attenzione al tavolino, depose la macchina fotografica e bevve un'altra sorsata. Poi un'altra ancora. Raccolse la macchina fotografica e si portò all'estremità del bar. Sollevò il pannello facendolo scivolare sui cardini, lo spinse un po' indietro in modo da farlo rimanere sollevato e passò attraverso l'apertura. S'arrestò davanti alla porta dai battenti ad ala di pipistrello. Oltre, dilagava l'oscurità La cucina. "C'è..." Quasi disse 'qualcuno?' Ma la parola si rifiutò di uscire. Si pentì di aver parlato. La paura riaffiorò brutalmente al suono della sua voce, una stretta pastoia che gli serrava il petto. Sollevò la torcia orientandola al di sopra dei battenti. L'onda di luce si riversò sul pavimento della cucina, tremolante mentre si spostava da un punto all'altro. Roland annusò il sangue prima di vederlo. Conosceva bene il suo odore, poiché ne aveva raccolto il proprio in un vasetto di maionese e se lo era spalmato in faccia in occasione di Halloween per far inorridire gli studenti dell'ostello. Il suo sangue aveva quello stesso odore — metallico, un po' come le rotaie di un treno. Poi la luce trovò il sangue. Ve n'era un mucchio, sparso sul pavimento, verso il centro della cucina. Era scuro, marrone. Pallide sagome di nastro adesivo riproducevano la posizione dei corpi. Il gioco comincia a farsi serio, pensò. Merda. Fin troppo serio. Aveva fatto un grosso errore. Cosa ci faceva là? Era solo un idiota, uno stupido intruso in un luogo che non gli apparteneva. Abbassò la torcia. Di colpo, indietreggiò. Sentì la presenza di qualcuno avvicinarsi furtivamente e si girò fulmineo. Nessuno. Corse all'altro lato del bar. Non ho bisogno di tutto questo. Non ho bisogno di dimostrare niente, a nessuno. Non ho bisogno dei soldi di Dana. Presso la porta, ginocchia a terra, ripose nello zaino la macchina fotografica. Fai delle foto. Sicuro. Si alzò, sollevò lo zaino per una delle cinghie e infilò un dito della stessa mano a mo' di gancio nella cordicella del sacco a pelo.
Merda, le candele. Con i due fagotti che gli penzolavano sul fianco, si precipitò al tavolino. Mentre soffiava sulla prima candela, l'occhio si posò sulle sedie che aveva posto all'ingresso dei bagni a barriera della sala. Stessero pure là. Che gli fregava. Spense la seconda candela. Seguì il raggio della torcia fino alla porta. L'aprì. La brezza notturna, intrisa di pioggia, gli sferzò il viso con violenza. Fissò la macchina di Dana tra gli scrosci d'acqua — un piccolo oggetto oscuro in attesa in fondo all'area di parcheggio. La bandierina di plastica appuntata all'antenna ondeggiava al vento. Sarà già una sorpresa se resisterai dieci minuti. La puttana, non rinuncerà mai alla sua vendetta. Lo racconterà a tutti. Diventerò lo zimbello dell'università. Roland chiuse la porta con un calcio. "Resto qui!" gridò. "Fanculo!" Avanzò fino a portarsi vicino al bar. Srotolò il sacco a pelo, si tolse berretto e giacca a vento e si sedette sul morbido sacco imbottito di piume. Dovevo farlo fin dal primo momento. Non dovevo andare a ficcare il naso in ogni angolo. Dovevo comportarmi così come avevo stabilito. Infilò una mano nello zaino e prese a frugarvi a fondo. Scartò le candele e la macchina fotografica, finché le dita non toccarono l'acciaio. Le manette tintinnarono quando le tirò fuori. Agganciò una manetta intorno al polso sinistro, e l'altra la fece passare intorno al poggiapiedi di ottone del bar. Collocò la torcia sotto l'ascella sinistra e ne diresse il raggio verso il tavolino. Su questo lanciò la chiave delle manette, che urtò contro una delle bottiglie e cade sul ripiano. Fuori portata. Ora vedremo chi ha fifa, pensò. Vedremo chi passerà la notte. CAPITOLO DECIMO Era quasi l'ora di smontare, e fuori da Gabby's la pioggia non accennava a diminuire. Alison si allontanò dalla finestra. Fu contenta di essersi fatta prestare l'impermeabile di Helen; se fosse andata al lavoro con addosso la
sua giacca a vento si sarebbe inzuppata fino al midollo. Non se Evan viene a prendermi, pensò. Difficile. Chissà, potrebbe sempre farti una sorpresa. Del resto, ieri sera si è fatto vivo quando meno te lo aspettavi. Alison si portò al tavolo che si era appena liberato. Infilò la mancia nella tasca del grembiule e cominciò a sgombrare il tavolo dai piatti e dai bicchieri sporchi. Se davvero gli importa di me, pensò, verrà a prendermi. Lo vede, no?, che sta piovendo a dirotto e sa che dovrò tornarmene a casa a piedi a meno che non ci sia lui a darmi un passaggio. Se stasera verrà a soccorrermi accorcerà di molto il cammino verso il mio perdono. Dovrebbe capirlo. Dopo che ebbe pulito il piano del tavolo, sollevò il pesante vassoio e lo portò in cucina. Forse si farà vedere, pensò. In tal caso potrebbe attenderlo una sorpresa. Quel pomeriggio, prima di uscire di casa, Alison aveva messo lo spazzolino da denti e la camicia da notte nuova in fondo alla sua borsa da aereo. Poi li aveva tirati fuori di nuovo. Non le sarebbero serviti a niente, seppure Evan si fosse presentato da lei. D'altra parte, non aveva mica cambiato idea sulla decisione di non andare a letto con lui. Era sciocco, dunque, prepararsi per una cosa che non sarebbe accaduta. Poi aveva ripensato alla notte del venerdì scorso. Lui era venuto da Gabby's dopo aver visto un film all'Imperial, aveva preso una birra mentre aspettava che lei finisse il turno e poi, insieme, erano andati a piedi al suo appartamento. Alison non aveva previsto di trascorrervi la notte. Che sensazione meravigliosa l'essere incapaci di costringersi ad andare! Impotente contro la voglia di restare, aveva fatto l'amore con lui fin quasi all'alba. Era la prima volta che passava con lui l'intera notte. Sarebbe stato splendido avere un'altra notte come quella... Non l'avremo, s'era detta. Troppe cose sono cambiate. Malgrado ciò aveva rimesso nella borsa lo spazzolino e la camicia da notte. Non si può mai dire. Forse tutto tornerà improvvisamente a posto. Alison voleva che tutto tornasse a posto. Mentre svuotava i piatti sporchi nella cucina di Gabby's, immaginò Evan che veniva da lei. "Non potevo resistere più a lungo lontano da te," le avrebbe detto. "Ho tentato di starti lontano per punirti, ma è stato più forte di me. Ho riflettuto a lungo, Alison. Certo, vorrei tanto far l'amore con te.
Non c'è niente che desideri di più, perché fare l'amore ci rende l'uno parte dell'altro, come se, per brevi istanti, diventassimo una sola persona. Ma posso sopravvivere senza farlo, se è necessario. Ho scoperto che la cosa più importante, ti giuro, è semplicemente stare insieme a te. Mi basta guardarti negli occhi, sentirti ridere, stringerti la mano per essere felice." E forse, a quel punto, lei lo avrebbe seguito nel suo appartamento. Mentre lui l'avrebbe aspettata sul divano, lei avrebbe chiuso la porta della camera da letto e il suo corpo sarebbe scivolato nella serica morbidezza del suo negligé... "Al!" Sussultando, si voltò. Gabby, in piedi davanti al grill, la stava guardando da sopra la spalla. "E vai, su. Buon fine settimana." "Grazie," rispose Alison. "Anche a lei." Nel retro della cucina, recuperò le mance dalla tasca del grembiule e le passò nella borsetta. Portò a compimento la difficile impresa di indossare il pesante impermeabile di Helen, dopodiché si mise lo strano cappello e sollevò da terra la borsa. "Ci vediamo lunedì", salutò, e oltrepassò il battente oscillante della porta. Il tavolo che aveva appena finito di sparecchiare non rimase libero a lungo. Evan vi si sedette. Il suo braccio cingeva Tracy Morgan. Morgan. Mangia-organi Morgan, Armonica-a-bocca Morgan, nota anche come Tracy il Rimorchiatore per motivi che Alison non aveva mai compreso a fondo. Alison sentì raggrinzirsi fin dentro l'anima. Evan, quasi avesse percepito la sua presenza, si voltò a guardarla. Gocce di pioggia punteggiavano i suoi occhiali. Un angolo della bocca si contrasse, sollevandosi. Alison si gettò a precipizio verso la porta, l'aprì con una spallata e si tuffò barcollando nell'incessante diluvio. Lo sguardo corse obliquo alla finestra del locale. Dietro il vetro illuminato, Evan la stava guardando e calmo accarezzava i lunghi capelli biondo-rame di Tracy. CAPITOLO UNDICESIMO Roland aveva comprato le manette quel pomeriggio al negozio di articoli
sportivi Spartan Sporting Goods e le aveva pagate ventiquattro dollari e cinquanta. Fin dalla settimana prima, quando le aveva viste la prima volta, gli era venuta voglia di comprarsele. Fissando quei bracciali scintillanti attraverso la custodia trasparente, si era eccitato al pensiero delle cosette carine che avrebbe potuto farci. Non che le avrebbe mai fatte realmente, quelle cosette. A ogni modo, il solo possederle sarebbe già stato piacevole, così come poteva esserlo possedere una piccola collezione di coltelli pur senza avere in mente il proposito reale di andare in giro a sgozzare donne. Quel giorno si era comprato il coltello Buck. Non era stato affatto imbarazzante comprarlo. La gente compra coltelli per il campeggio, per la pesca, per la caccia. Ma se uno non fa il piedipiatti, a cosa gli servono delle manette? Cos'avrebbe pensato il commesso? Sarebbe stato come comprare un pacchetto di preservativi. Roland non aveva mai comprato preservativi, pur desiderandoli. E non aveva comprato neppure le manette. Fino a quel giorno. Quando Dana lo aveva sfidato a passare la notte nel ristorante, lui si era immediatamente ricordato delle manette e in quel momento si era convinto che avrebbe vinto la scommessa. Le manette sarebbero state la sua garanzia di vittoria. La sua dose di coraggio, o la totale assenza di esso, non sarebbero state per nulla determinanti una volta che si fosse ancorato a qualcosa di solido all'interno del ristorante. E così, avrebbe vinto a ogni costo. Galvanizzato dalla prospettiva di intascare cento dollari e di salvarsi la faccia vincendo la scommessa, era ritornato al negozio. Cionondimeno, non aveva saputo impedirsi di arrossire mentre sbirciava nel vetro del bancone. "In che posso servirla?" gli aveva chiesto il commesso. E lui, a occhi bassi: "Vorrei vedere le manette." "Nere o nichelate?" "Nichelate." Accovacciatosi, l'uomo aveva aperto la parte posteriore del banco e vi aveva allungato dentro una mano. Era un tipo tarchiato, i capelli castani lunghi ai lati della testa, quasi a compensare la calvizie che aveva depredato la sommità del capo. Aveva deposto le manette sul banco. Roland le aveva prese tra le mani. Erano pesanti. "Acciaio temprato di prima qualità. La catena resiste fino a una trazione della forza di seicento chili."
Annuendo, Roland aveva strattonato le due manette in direzioni opposte e la catena che le collegava si era tesa. "Bene," aveva detto. "Quanto costano?" "Ventiquattro e cinquanta. Le occorre la custodia?" "No, non credo." "Ha bisogno di altro? Abbiamo un ottimo sconto sul coltello tipo Combat serie Navy MK.3. Solamente quarantanove e novantacinque. Un vero capolavoro di coltello. Ne vuole vedere uno?" Roland aveva scosso la testa. "No, prendo queste per ora." "Contanti o carta di credito?" E questo era stato tutto. Niente domande imbarazzanti, osservazioni maliziose. Sollevato, Roland era uscito dal negozio con il suo acquisto. E aveva visto Celia. Ecco, proprio il tipo di ragazza su cui avrebbe volentieri provato le manette. Anche l'altra non gli dispiaceva — quella con la tuta a pelle. Nel guardare quest'ultima, aveva immaginato di bloccarle le mani dietro la schiena e ammanettargliele, e poi di tirar giù quella invitante cerniera fino a fargliela scendere sotto la vita. Oh, sì l'una o l'altra, vanno bene tutte e due. Un paio di manette ai polsi, e le avrei a mia completa disposizione. Ma non era per questo che Roland aveva comprato le manette. Non avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa simile. Non sono pazzo, aveva detto a se stesso. Se le aveva comprate, era solo per via della scommessa. Con esse, niente gli avrebbe impedito di vincere... sempre che nel ristorante vi fosse stato un solido appiglio al quale agganciare uno dei due bracciali d'acciaio. Il che era più che certo. La maniglia di una porta. Un tubo. Qualsiasi altra cosa, purché ben fissa e resistente. Un'idea brillante. Ma ora, seduto nell'oscurità, impastoiato al poggiapiedi d'ottone, Roland non era più tanto sicuro che fosse stata un'idea brillante. Poteva succedere qualcosa, un qualche evento accidentale a seguito del quale sarebbe dovuto uscire. Come l'avrebbe messa in tal caso? Se scoppiasse un incendio, per esempio. Meno male che aveva spento le candele. Il ristorante non andrà a fuoco, si confortò. Non preoccuparti. Ma non poteva impedirsi di essere preoccupato. Ipotesi: Dana appicca l'incendio per costringerlo a uscire e quindi a per-
dere la scommessa. Possibile? No, non sarebbe arrivata a quel punto. Anche se, tutto sommato, un po' pazza lo era. Quella volta al cinema, quando lui aveva allungato un braccio per prendere una manciata di popcorn da Jason e accidentalmente le aveva sfiorato il seno, lei gli aveva gettato addosso la coca cola. E quell'altra volta ancora, quando erano andati al drive-in, lei lo aveva fatto ficcare nel bagagliaio della macchina di Jason per entrare senza biglietto, e dopo aveva convinto Jason a lasciarlo lì dentro per quasi un'ora. Le sto davvero sullo stomaco, pensò Roland. Ma non darà fuoco al ristorante. Sarebbe troppo, una follia, persino per Dana. Forse. Più realistico era ipotizzare che se la squagliasse. Nemmeno. Voleva le fotografie. E sarebbe entrata a prendersele. Questo non significa che mi darà la chiave. Quando mi troverà ammanettato a questa sbarra, deciderà di prendersi le foto e filarsela. Se non peggio. La bocca di Roland divenne improvvisamente secca. Gli parve che una mano fredda gli avesse avviluppato lo stomaco. lo sarò alla sua mercé. Oh, merda, cosa vorrà farmi? Non si trattava di stabilire se Dana gli avesse fatto qualcosa — il punto era cosa gli avrebbe fatto. Hai tutta la notte a disposizione per immaginarlo. Perché non ci ho pensato prima di incatenarmi a questo fottuto poggiapiedi? Provò a strattonare la manetta che gli imprigionava la mano sinistra. Si udì uno stridulo sferragliare e i bordi della manetta affondarono dolorosamente nella carne del polso. Una trazione della potenza di seicento chili. Soltanto questa avrebbe spezzato la catena, così gli aveva spiegato il negoziante. Roland tastò il pavimento lungo il suo fianco. Trovò la torcia, la raccolse e ne spedì il raggio sul tavolo da gioco. Le bottiglie luccicarono. La chiave era lì sopra, fuori vista. Il tavolo si trovava a non più di tre metri verso la sua sinistra. La mano sinistra si spostò un poco in avanti facendo scivolare la manetta lungo la sbarra metallica. Il movimento produsse un terribile stridore che lo fece rabbrividire. Ma non si mosse. Facendola scivolare lungo la sbarra avrebbe avuto la possibilità di avanzare obliquamente fino ad avvicinarsi
considerevolmente al tavolo. Allora, forse, avrebbe potuto agganciare un piede intorno a una delle gambe del tavolo e tirarselo verso di sé. Per poi prendere la chiave. Val la pena di tentare, pensò. E la scommessa? Nessun problema. Sogghignò. Voglio solo riavere la chiave, e da qui non mi muovo. Una bazzecola. Sì, una bazzecola, giacché si era accorto che il ristorante non lo spaventava più tanto. Ciò che realmente gli faceva paura era la consapevolezza che Dana, all'alba, sarebbe venuta da lui e lo avrebbe trovato ammanettato. Riavrò quella maledetta chiave, disse a se stesso. Con una leggera torsione del busto aggirò il sacco a pelo. E mentre la schiena sfregava contro il legno levigato del bar, la mano sinistra strusciava la manetta lungo il poggiapiedi d'ottone, accompagnata da quell'orribile, stridulo sferragliare. Un rumore che gli faceva male ai denti. Un rumore che lo tormentava come lo sgraffiare di unghie sulla superficie di una lavagna. Si fermò per riposarsi. Il silenzio fu un gradevole lenimento. Ancora un poco avanti, e... Roland udì qualcosa. Un tonfo leggero, come di una corda che cadesse sul parquet da una buona altezza. Proveniva da... dove? Laggiù, verso destra. La torcia di Roland era orientata nella direzione del tavolo. Il cuore luminescente del raggio tremò. Roland si mise in ascolto. Sentì il battito del suo cuore, la pioggia, e nuli'altro. Che cosa poteva mai produrre un rumore simile? Un serpente? Un serpente scivolato giù dal banco del bar? Un brivido lo percorse per tutto il corpo facendogli accapponare la pelle. Come poteva entrare un serpente lì dentro? Diavolo, quel posto era deserto da anni. Poteva viverci lì dentro. Oppure era stata Dana a mettercelo. Capacissima di farlo. Poteva averlo comprato in un negozio di animali. La puttana.
Dana aveva comprato un serpente per spaventarlo e costringerlo a uscire, mentre Roland aveva comprato le manette per costringersi a restare. Ma, se le cose stavano così, e cioè, se Dana aveva comprato la bestia, voleva dire che non era pericolosa. Non vendono mica serpenti velenosi? No? Roland doveva vederlo — vedere cos'era, e dov'era. Forse la luce lo metterà in fuga, pensò. Fece oscillare il raggio obliquamente, intenzionato a ispezionare il pavimento verso destra. Il raggio luminoso gli passò davanti e si era già spostato prim'ancora che egli si fosse reso effettivamente conto di aver visto qualcosa tra i suoi piedi. Il raggio di luce tornò di colpo in quel punto. Roland si ritrasse con un movimento convulso. La parte posteriore della testa andò a urtare contro la sbarra metallica. Un fiotto d'urina gli spruzzò sulla coscia, gli riempì i jeans mentre ritraeva le gambe concitatamente. La cosa si muoveva velocemente. Si contorceva sinuosamente con un moto diagonale eome quello di un serpente a sonagli, e era diretta al suo piede destro. Solo che non era un serpente a sonagli. Non era affatto un serpente. Roland alzò il piede destro dal pavimento, allontanandolo dalla testa della bestia, e, nello stesso istante, scagliò il sinistro contro di essa. Il tallone colpì la cosa e la spedì lontano, facendola scivolare mollemente sul parquet. Quella tornò alla riscossa. La sua carne era viscida e giallognola, avvolta in un reticolo di vene rosse e blu. Gli occhi possedevano la grigia espressione ottusa della più cinica e insensibile freddezza. La testa — o la bocca, giacché potevano dirsi tutt'uno — emetteva umidi risucchi quando si appiattiva, per poi riallargarsi, spalancandosi mostruosamente. Roland sollevò le gambe più in alto che poté. Stava continuando a urinare, e il getto zampillava contro l'interno dei jeans, rimbalzando e spruzzandogli i genitali, e da qui colandogli lungo le natiche. Il tallone destro si abbatté nuovamente, scagliando un poderoso affondo, ma stavolta mancò il bersaglio e la gamba ritornò frettolosamente in aria. La creatura non cercò di saltare per raggiungere il piede sollevato. Invece, schizzò fulminea in avanti e morse la parte posteriore della sua gamba, subito a destra dell'inguine. Roland sentì la gola contrarsi, pronta a esplodere in un urlo di dolore, e di orrore.
Ma non vi fu dolore. Soltanto una calda pressione, un lieve pizzicore, fonte di un fremito delizioso che si irradiò in tutto il suo corpo. Afferrò la cosa, ma non cercò di strapparla via da sé. La trattenne, invece, con delicatezza. Era calda e possente sotto le dita. Ben presto fu sparita, lasciando un buco della grandezza di un quarto di dollaro nella gamba dei jeans. E nella sua gamba. La ferita non preoccupò Roland. Aprì il bottone in vita, si abbassò la lampo e si rannicchiò sul fianco sinistro. La sua mano scivolò nel didietro dei jeans. Non portava mutande. Il dorso della mano strusciò contro il tessuto denim intriso di liquido; il sedere era bagnato. La creatura si mosse dentro di lui, appena sotto la sua pelle. Premette una mano sul piccolo rilievo che creava sotto lo strato della cute, e poté sentirla scivolare sinuosamente, aprendosi varchi nel suo corpo. La pelle tornava a appiattirsi dopo che essa era passata. La sentì dirigersi verso la spina dorsale. Flettendo il braccio all'indietro alla massima angolazione possibile, la carezzò attraverso la pelle finché non fu troppo in alto perché potesse raggiungerla. Portò la mano alla nuca giusto in tempo per sentire la pelle sollevarsi sotto il suo palmo. Pochi secondi, e la cosa cessò di muoversi. Roland fu colto da un improvviso sussulto — fu un piacere così violento che si dibatté e gemette per esserne liberato. CAPITOLO DODICESIMO Alison appese l'impermeabile e il cappello grondanti di pioggia all'attaccapanni presso la porta del Wally's Saloon. Fortunatamente le toilettes si trovavano lì vicino, a un lato dell'ingresso; si sarebbe potuta togliere di dosso la divisa da cameriera senza dover passare tra la folla dei bevitori. Si spogliò in uno dei piccoli bagni. Si tolse anche lo slip e il reggiseno. Accovacciatasi, tirò fuori la tuta dalla borsa. Sul fondo c'era la camicia da notte. La vista della stoffa blu reale le provocò uno spasimo violento, come se una forza immane stesse spremendo e strizzando tutti gli organi del suo corpo, dalla gola alle budella. Quel bastardo. Oh, quel bastardo. Andasse pure a farsi fottere. Chi aveva bisogno di lui.
Infilò i piedi nella tuta, tirò la soffice stoffa lungo le gambe, spinse le braccia nelle maniche e alzò la lampo. Ripose reggiseno, slip e divisa nella borsa e uscì. Si sporse verso uno specchio, avvicinandosi a esso. Il cappello antipioggia le aveva ammassato i capelli corti. Passò le dita tra le ciocche, scrollò un po' la testa e tornarono a posto. Aveva gli occhi ancora un poco arrossati per aver pianto quando era uscita da Gabby's. In compenso, la camminata sotto la pioggia le aveva colorito le guance, di un rosato splendore. La tuta aderiva ai seni, e i capezzoli eretti premevano sotto la stoffa, tendendola. Si chiese se non sarebbe stato preferibile rimettersi il reggiseno. Voleva davvero presentarsi al bar in quel modo? Al diavolo, perché no? Ma certo, bisognava pur dare ai ragazzi qualcosa da guardare. E poi, era così piacevole sentirsi carezzare i seni nudi dal soffice tepore della stoffa. Tremò mentre abbassava la cerniera. Nello specchio vide la pelle candida sotto lo sterno pulsare al ritmo del suo cuore. Fissò l'immagine riflessa dei suoi occhi. Vuoi farlo davvero? si chiese. Sì, maledizione. Questo gioco si può fare in due. È una pazzia. No, non lo è. Evan non mi vuole, qualcun altro mi vorrà. È ciò che si merita quel bastardo. Ma la zip era davvero troppo bassa. Bastava che si fosse chinata appena e chiunque si fosse trovato vicino a lei avrebbe saziato la sua curiosità con una sbirciata panoramica. Si decise allora a tirarla su di qualche centimetro, dopodiché uscì dalla toilette con la borsa che le ondeggiava a un fianco. Come al solito, Wally's era pieno come un uovo e invaso da un frastuono assordante. Era 1''abbeveratoio' dell'università e Alison conosceva la maggior parte dei clienti. Incontrò e salutò alcune amiche mentre si dirigeva al bar. Qualcuno le chiese dove fosse Evan, e lei rispose, "Ha da fare." Il che rispondeva, pensò, alla pura verità. Scansò Johanna Penson di ritorno dal bar con una brocca di birra. Johanna la vide e le sorrise. "Ehilà, tutto bene?" "Insomma." "Dov'è il tuo innamorato?" "Non è uscito per paura della pioggia. Hai visto Celia?"
"Era qui fino a poco fa. Se n'è andata con Danny Gard e un altro. Ci vediamo." Johanna passò oltre, insinuandosi tra la calca. Alison si piazzò dietro un ragazzo in attesa di ordinare. Si accorse che aveva contato sulla presenza di Celia lì. Il sostegno di un'amica sarebbe stato molto gradito. D'altro canto, immaginava quale sarebbe stata la reazione di Celia. "Tu non vuoi farlo veramente, amica mia. Non è da te. Stai soffrendo, sicuro, ma non risolverai un bel niente andando col primo che ti sorriderà. Credimi, te ne pentirai." E allora? Me ne pentirò! Tu vuoi semplicemente ripagarlo con la stessa moneta, disse a se stessa. Stai scendendo al suo livello. Forse prenderò solo qualche birra, e me ne andrò a casa. Chi stai cercando di imbrogliare? Uffa, stiamo a vedere che succede, okay? Obiezioni? Il ragazzo davanti a Alison si fece da parte sgombrandole il passo, e lei si mosse fino a raggiungere il banco del bar. "Un boccale di birra alla spina. Anzi no, me ne dia una brocca." Poggiò la borsa sul banco e ne trasse la borsetta mentre il barista eseguiva l'ordine. Dopo che ebbe pagato si fece passare la cinghia della borsa sulla testa per avere le mani libere. Con la borsa a tracolla, prese la brocca e il boccale gelato e si allontanò. Avanzare in quella calca era un'ardua impresa. Alison annuiva, sorrideva, diceva 'ciao' a persone che conosceva, e 'scusa' agli sconosciuti, e intanto si infilava a fatica tra di loro, attenta a non far urtare la sua brocca colma né a urtare contro quelle degli altri. Finalmente scorse un tavolo libero vicino alla parete frontale. Era un tavolino tondo con due sedie. Vi posò il carico e si sedette fronteggiando la moltitudine di avventori. Aveva appena versato un po' di birra nel boccale e ne stava bevendo la prima sorsata, quando vide un ragazzo camminare verso di lei, sorridendo nervosamente. Ehi, non ha perso tempo quello, pensò. Il cuore accelerò le pulsazioni man mano che il giovane le si avvicinava. Lo aveva visto qualche volta aggirarsi per il campus, ma non sapeva come si chiamasse. Era alto e snello, con un viso da ragazzo e un pallido, striminzito tentativo di baffi. Non volendo apparire interessata a lui, Alison abbassò lo sguardo sulla sua birra. Non sono sicura che mi vada a genio, pensò.
"Scusa?" disse lui. Lei alzò gli occhi. Sorrise. "Ciao," disse. Lui diede un colpetto sullo schienale della sedia libera. "È seduto qualcuno qui?" Lei scosse la testa. "Ti dispiace se la prendo?" Sentendosi immensamente stupida, scosse di nuovo la testa. "Grazie," fece lui. Alison lo guardò mentre portava la sedia a un tavolo vicino, dove andò a raggiungere una coppia di amici. Si sentì il viso in fiamme. "Eccezionale," mormorò. Tutto ciò che voleva era quella maledetta sedia. E adesso io sono rimasta senza, così se un ragazzo vuole davvero farmi compagnia non avrà dove sedersi. Forse farei meglio a andarmene. Non posso mica lasciare tutta questa birra. Potrei dare la brocca a qualcuno, fargli un piccolo omaggio. O versarla sulla testa di quello scemo. Invece, bevve la quantità che aveva versato nel boccale, lo riempì di nuovo e raccomandò a se stessa di non alzare troppo il gomito. Tutta questa faccenda, pensò, è già abbastanza balorda senza l'aiuto di una bella sbronza. Vacci piano. Attinse ancora dal boccale, sorseggiando lentamente. All'estremità opposta della sala, proprio dietro la pista da ballo, un enorme schermo televisivo pendeva dal soffitto. Trasmetteva video musicali, e il volume era così alto da far impazzire chi si trovasse vicino agli altoparlanti. Evan non si era mai mostrato insofferente a quel frastuono immane che, invece, esasperava Alison. Lei, però, soffriva in silenzio, tollerandolo non di rado, esclusivamente per fargli piacere. A Evan piaceva molto guardarla ballare — ogni volta sembrava che stesse sul punto di allungare una mano e strapparle i vestiti di dosso. Cosa diavolo ci fa lui nei miei pensieri? E se venisse qui? Alison guardò verso l'ingresso. Supponiamo che si presenti qui con quella Morgan la Macina-organi e che mi veda seduta da sola in questo angolo a fare fottutissimamente tappezzeria. Sai quanto sarebbe carino?
Un'altra buona ragione per sloggiare in fretta. Riempì di nuovo il boccale. Meglio agire con calma. Alison volse nuovamente lo sguardo allo schermo gigante. In quel momento la protagonista del video era una donna con un perizoma e un ridottissimo top di pelle di leopardo. E, in quella tenuta, si contorceva e si dimenava al ritmo della musica. Aveva la pelle tinta di un blu scintillante (lo stesso colore della mia camicia da notte, pensò Alison, quella che Evan, lo stronzo, non avrà mai la fortuna di vedermi addosso). Un serpente si avviluppava intorno alla gamba blu della sinuosa danzatrice. La testa del serpente sparì dietro la coscia, per poi riapparire nella fenditura dell'inguine. L'animale proseguì la sua viscida ascesa, scivolandole su per un fianco, strofinando il corpo grasso sul perizoma mentre lei continuava a dibattersi in visibile estasi. Signore, pensò Alison. Bevve un sorso di birra, senza distogliere gli occhi dallo schermo. Il serpente si attorcigliò intorno al torso nudo della donna, risalendolo in un moto circolare. La testa sgusciò da sotto un'ascella. Strisciò flessuosamente sui seni. La coda stava ancora titillando il seno sinistro quando la testa apparve a un lato del collo. La donna continuava a contorcersi e a strofinarsi i fianchi e il ventre (in luogo, pensò Alison, delle zone del suo corpo che avrebbe preferito strofinarsi se i produttori del video non si fossero fatti scrupolo di compiere un ulteriore passo, sconfinando così nel territorio della pornografia). Poi volse il viso verso la testa del serpente e protese le labbra lucide e carnose. "Scusa?" Alison sussultò. Un giovanotto le stava davanti, spostato appena alla sua destra. Si stupì di non essersi accorta che si fosse avvicinato. "Mi dispiace di averti fatto trasalire," disse. "Nessun problema." "Quello sì che è un video, eh?" Alison si sentì arrossire. Aveva la bocca asciutta. Bevve un altro sorso di birra. "Decisamente originale," replicò. "Sei qui con qualcuno?" "Hmm, no." "Ti dispiace se ti faccio compagnia?" Ad Alison non sembrò una fisionomia familiare. Aveva un'aria più ma-
tura rispetto agli altri studenti, e con quei pantaloni larghi e il maglione bianco girocollo era decisamente meno trasandato degli altri. I capelli neri erano curati nel taglio e nell'acconciatura. Al posto della solita birra, la mano reggeva un bicchiere da cocktail — probabilmente un martini. La tipologia sembrava palese: uno studente della facoltà di giurisprudenza. "Un ragazzo si è portato via l'altra sedia," disse lei. "Nessun problema." Si allontanò. Fu di ritorno pochi secondi dopo con una sedia che sistemò di fronte a lei. "Io sono Nick Winston," si presentò, e le offrì la mano. "Alison Sanders." Poi, "studente di legge?" gli chiese, stringendogli la mano. "Come hai fatto a indovinare?" "Ne hai l'aria." "Da vecchio, vuoi dire?" le chiese, sogghignando. Io preferisco gli uomini maturi, pensò lei. Ma si trattenne dal dirlo. "Diciamo che hai un'aria più composta rispetto a noi altri," spiegò. "Ti stai specializzando in psicologia?" "Cosa te lo fa pensare?" "Ne hai l'aria," disse lui. "Nevrotica?" "Introspettiva." "No-o, non sono introspettiva, solamente depressa." "Ahi. E cosa, se posso permettermi, può deprimere una ragazza bella e ovviamente intelligente come te?" "'Mi vedo morta nella pioggia'." "Ah, è l'inglese la tua materia." Alison sorrise. "Giusto." "Ma è vero?" "Cosa?" "Che ti vedi morta nella pioggia?" "No-o. Un capriccio estemporaneo. Semplice voglia di citare Hemingway." "Non ti pare che la sua visione del mondo sia piuttosto immatura?" L'opinione che Alison si stava costruendo sul suo interlocutore, Nick Winston, si abbassò di un grado. "Cosa intendi per immatura?" "Beh, mi riferisco in particolare ai suoi ritratti femminili. Somigliano molto alle fantasie di un adolescente. Maria, per esempio."
"Io adoro la scena del sacco a pelo." Nick sollevò un sopracciglio. "Beh, quella." Alison si scoprì di nuovo a arrossire. "Volevo solo dire che, insomma, è molto romantica." "Romantica, sì forse, ma idealizzata fino al limite del ridicolo. Hai mai provato a avere un rapporto in un sacco a pelo?" "Può darsi." "Ah, diventiamo ritrosi." Alison si strinse nelle spalle, e bevve. Quando posò nuovamente lo sguardo su Nick si accorse che la stava fissando dritto negli occhi. Ehi, sembra proprio che stiamo bruciando le tappe, pensò. In cosa diavolo mi sto cacciando? "Comunque, se ti è capitato, dev'esserti sembrato piuttosto limitante, oltre a soffrire per la durezza del terreno. In poche parole, credo che tu convenga sul fatto che l'esperienza sia stata nel suo complesso appena al di sopra dei limiti della tollerabilità." Per me non fu affatto così, pensò. Ma questi sono affari miei, mio caro Nick. "Secondo me uno spazioso letto matrimoniale king-size è l'ambiente ideale per incontri di questo genere, non sei d'accordo?" "Se non sbaglio stavamo discutendo di Hemingway." "Infatti lo stiamo facendo. E volevo spiegarti la mia teoria in base alla quale la scena del sacco a pelo nel romanzo Per chi suona la campana presenta una visione falsa e idealizzata del..." "Io la trovo splendida." Gli angoli della bocca di Nick si sollevarono. "Sinceramente sono poco convinto che sarebbe così splendido nel pieno di un temporale." "Se avessi una tenda..." "Purtroppo non ho né tenda né sacco a pelo. In compenso ho una Trans Am che potrebbe trasportarci comodamente al mio appartamento." "Dove, senza dubbio, hai un magnifico letto king-size." Nick alzò il bicchiere e ne trasse un sorso, fissando, intanto, Alison al di sopra del bordo di vetro. Lei ebbe la sensazione che fosse uno sguardo ben studiato e più volte sperimentato. Posò il drink e si protese verso di lei. Incrociò le braccia sul tavolo e guardò Alison negli occhi con ferma intensità. "Ebbene sì, effettivamente possiedo un letto matrimoniale king-size. Che lo usiamo o no, comunque, è interamente a tua disposizione." "Grazie."
"Mi rendo conto che ci siamo appena conosciuti, e posso capire una certa esitazione da parte tua nel concederti a certi scambi... di intimità. Non vorrei mai che tu ti sentissi in qualche modo forzata da me in tal senso." "Non lo so quanto mi interessi, Nick." Non lo sai? ripeté a se stessa il quesito. Non era esattamente ciò che stavi cercando? Forse. O forse no. "Andiamo a casa mia. Un drink ci toglierà il freddo di dosso, e ascolteremo un po' di buona musica. Tutto qui, a meno che, naturalmente, tu non insista per qualcos'altro." "Capisco. Sarai un perfetto gentiluomo." Nick alzò le spalle con elaborata ostentazione. "Naturalmente, se tu preferissi che non lo fossi, allora..." "Non ho detto questo." "Ah, ma hai dei dubbi." "Diciamo che non è esattamente nel mio stile precipitarmi nell'appartamento di un uomo che ho conosciuto da circa cinque minuti." "E non è esattamente nel mio stile chiederlo dopo cinque minuti." Bevve un altro piccolo sorso del suo cocktail. Poi depose di nuovo il bicchiere. E la guardò negli occhi. "In tutta sincerità, Alison, c'è qualcosa di... speciale in te. L'ho sentito nel momento stesso in cui ti ho vista seduta qui..." "A bocca aperta davanti al video erotico," aggiunse lei. "Non è stato per questo. Il fatto è che quando ti ho vista è stato come se io e te non fossimo stati estranei, come se ti conoscessi già da un tempo incalcolabile." Figuriamoci, dubitò lei. Poteva essere una bella frase, peccato che sia così trita. Trita o non trita... e se lo ha pensato davvero? "Voglio conoscerti meglio," disse lui. "Non..." "Un paio di drink, niente di più. Un po' di musica, quattro chiacchiere. Cominceremo a conoscerci l'un l'altro. Cosa ci perdi?" Già, che ci perdo ? Giusta osservazione. "Se hai paura che possa saltarti addosso, o roba simile..." Scosse la testa, sorridendo alla ridicola eventualità. "Non si tratta di questo." "Cosa, allora?" "Non lo so."
"Facciamo una prova. Concediamoci una possibilità." "Dammi un po' di tempo per pensarci su. Nel frattempo, ne approfitto per andare alla toilette. Torno subito." E vedrai come sarò conciata, pensò. Si allontanò dal tavolo portandosi dietro la borsa da aereo. Purtroppo, aveva un bisogno pressante di andare al bagno. Per tornare a casa avrebbe dovuto marciare per buoni quindici minuti. E nelle sue condizioni, non ci sarebbe mai arrivata senza prima esplodere. Corse difilata ai bagni. La tuta non facilitava l'operazione, ma finalmente riuscì a liberarsi e uscì dal gabinetto. Si portò a uno dei lavabi. Lentamente si lavò le mani. Potresti anche andarci con lui, pensò. D'altronde, non è per questo che sei venuta qui stasera? Il cuore le batteva così forte da farle dolere il petto. Scordatelo. Prendi la tua roba e taglia la corda. Nello specchio al di sopra del lavabo gli occhi apparvero dilatati da un'ansia frenetica. Si asciugò le mani con una tovaglietta di carta e poi si avviò verso la porta. L'aprì. Nick stava in piedi davanti all'attaccapanni. Indossava un impermeabile di gomma e un cappello da tennis. Sorrise quando la vide. "Tutto in ordine?" le chiese. Oh, Dio. Annuendo, sganciò l'impermeabile-scafandro di Helen dall'attaccapanni. Nick glielo resse mentre si inoltrava nei suoi recessi. Si mise il cappello. Nick aprì la porta del locale e lei ne uscì. Stava ancora piovendo, e forte. Nick le prese la mano. Attraversarono insieme lo spiazzo adibito a parcheggio, Nick in testa, guidandola nell'aggirare le pozzanghere. Raggiunsero la sua macchina, e lui, dopo averle lasciato la mano, si chinò sulla portiera dal lato del passeggero, pronto a aprirla. "Nick," disse Alison. "Sì," rispose lui, senza voltarsi a guardarla. "Credo di no." "Cosa?" Lasciò perdere la portiera. Si girò verso di lei e la guardò accigliato. "Cos'hai detto?" le chiese nel fragore del temporale. "Non vengo a casa tua. Non stasera. Comunque grazie per l'invito. Mi dispiace."
"Hai la macchina?" "Cosa?" "La macchina. Sei venuta qui con la macchina?" "No." "Allora sali. Ti accompagno io." "Ti ho detto..." "Sì, sì, ho capito. A casa tua. Non vorrai andartene a piedi in quest'iradiddio." Voltatosi, si chinò e fece scattare la sicura dello sportello, quindi lo aprì per lei. Alison esitò. "Deciditi. Vuoi salire o no?" "Okay. Va bene. Grazie." Salì e Nick le chiuse la portiera. Lei si tolse il cappello e si aprì l'impermeabile. E adesso? si domandò. Nick scivolò dietro il volante e accese il motore. Il suo sguardo penetrò l'oscurità, raggiungendola. "Era tanto tempo," osservò, "che non mi andava buca." Il tono suonò divertito, per nulla adirato. "Mi dispiace. È stata una brutta serata." "Colpa mia," disse lui. "Avevo avvertito la tua riluttanza, e ho voluto insistere ugualmente. Avrei dovuto ritirarmi in buon ordine, lo capisco solo adesso." Accese i fari anabbaglianti e mise in azione i tergicristalli, dopodiché fece uscire l'auto dallo spazio occupato procedendo in retromarcia. "Devo dire, però, a mia parziale discolpa, che mi sono lasciato condizionare dalla studiata reticenza che spesso le ragazze ostentano. Alle donne piace giocare. Si divertono a fingere di non volere una cosa, mentre in realtà la desiderano da morire." Si avviò lentamente verso la strada. "Devono provare una sorta di bizzarro piacere nell'osservare gli uomini accanirsi nella lotta per conquistare il loro consenso." "Sì, a volte è così," concordò Alison. "Credo di averlo fatto anch'io. Non è sempre un gioco, però. A volte succede di non sapere veramente cosa si vuole. Una cosa o l'altra, non fa differenza." Nick le lanciò un'occhiata. "È così che ti sei sentita, stasera?" "Praticamente." Fermò la macchina al limite dell'area di parcheggio. "Da quale parte?" "A destra." Aspettò che una macchina gli passasse davanti, poi si portò sulla strada. "In effetti mi stai dicendo che forse un approccio diverso avrebbe potuto funzionare."
Alison sorrise. "Può darsi." "Avrei dovuto giocarmi bene le partita." "Forse." "Maledizione," mormorò. "Non ne sto mettendo a segno una." Alison scoprì che Nick cominciava a piacerle un po' di più. Smesso quell'atteggiarsi da sfrontato, sembrava una persona del tutto diversa. "Forse la prossima volta che starai alla battuta ti andrà meglio," gli disse. Lui sospirò. "Al prossimo incrocio, gira a sinistra." Nick annuì. Dopo che ebbe svoltato, disse, "Comunque sia, sono contento di averti conosciuta. Anche se ho combinato un pasticcio colossale." "Non è colpa tua. Sono stata io." "No. Tu sei in gamba. Dio mio, neppure io sarei andato con uno che si fosse comportato come me." "Puoi lasciarmi qui," disse lei. Nick accostò l'auto al marciapiede, la fermò e inserì il freno a mano. Protendendosi in avanti, sbirciò fuori del finestrino dal lato di Alison. "È lì che abiti?" "Al piano di sopra. Con un paio di amiche. Grazie infinite per il passaggio." "Figurati. Mi fa piacere che... abbiamo potuto scambiare due chiacchiere. Dio solo sa perché, ma in fondo preferisco che le cose siano andate in questo modo." "Anch'io." Alison si protese verso di lui e fece scivolare le dita dietro la sua testa. La sua testa: una macchia dai contorni confusi nella fitta oscurità, una macchia che si avvicinò a lei. La bocca di Alison si appoggiò delicatamente su quella di lui, poi si staccò dolcemente. "Ci vediamo," sussurrò. "Okay?" "Okay." "Il tuo numero è nell'elenco degli studenti?" gli chiese. "Sì." "C'è anche il mio. Mi chiamerai?" "Puoi scommetterci." Poi Alison scese dalla macchina e si allontanò a lunghi passi sotto la pioggia. Era stata a un passo dal cedere, e lo sapeva. Era felice di non averlo fatto. Si sentiva sola, e ferita, ma si sentiva più forte. Aveva perso Evan. Forse aveva trovato un nuovo amico, ma questo non contava quanto la consapevolezza di aver vinto contro se stessa.
Come sarebbe stato bello adesso tornare a casa, dove non c'erano il buio e la pioggia, ma la luce e un tetto caldo e asciutto. CAPITOLO TREDICESIMO Rannicchiata sul sedile posteriore della sua Volkswagen, Dana si svegliò per l'ennesima volta. Stavolta le si era addormentato il braccio destro. Prima erano stati una gamba, una natica, un piede. Quale che fosse la sua posizione, inevitabilmente in una parte del suo corpo la circolazione finiva col bloccarsi. Adesso era distesa sul fianco con le ginocchia piegate, la testa appoggiata sul braccio destro a mo' di cuscino. E così ora il braccio aveva perso ogni sensibilità. Si drizzò a sedere con qualche difficoltà. Scrollò il braccio, storcendo la bocca in una smorfia quando il torpore si mutò in un doloroso formicolio. Era come se mille aghi fossero confitti nella sua carne. Il tormento non durò a lungo e dopo un po' il braccio tornò a essere quasi normale. Allungò una mano sul pavimento e prese l'orologio da viaggio. Premette un pulsante posto sulla parte superiore, illuminandone il quadrante. I numeri digitali segnavano le 2:46. Aveva programmato la sveglia alle 3.00. Non le sarebbe servita. Quando l'aveva inserita, non aveva previsto che si sarebbe regolarmente svegliata ogni quindici o venti minuti. Spostò di lato un piccolo interruttore per disattivare la sveglia, e rimise a terra l'orologio. Pioveva ancora pesantemente, e il fragore degli scrosci d'acqua martellava la macchina senza posa. Né quel diluvio accennava a smettere. Potrei andare adesso, pensò. Cominciò a tremare. Sarà favoloso, si disse. Le seccava uscire sotto la pioggia, ma non poteva assolutamente perdere quell'occasione preziosa. E del resto, si era già presa tutto quel disturbo, cosa poteva contare un po' di pioggia? Mi bagnerò dalla testa ai piedi... Ma spaventerò a morte quel bastardo di Roland. Oltretutto, visto che Roland aveva resistito così a lungo senza uscire dal ristorante, c'era il rischio che se lo avesse lasciato in pace quello ce l'a-
vrebbe fatta a tener duro fino al mattino. Dana non voleva perdere la scommessa. Non tanto per i soldi, no, lo spirito vero di quell'avventura era umiliare e distruggere Roland. Se non fosse fuggito dal ristorante come un forsennato in preda al terrore... Lo faccio. S'infilò a fatica il poncho di plastica, tirò il cappuccio sulla testa e scese dalla macchina. Chiuse la portiera senza far rumore. La pioggia picchiettò sonoramente sul tessuto di plastica mentre si dirigeva verso la parte anteriore dell'auto per aprirne il bagagliaio. Si mise in tasca il cacciavite e il berretto di lana, e afferrato il sacchetto da due chili e mezzo se lo accostò al ventre, tenendolo ben stretto sotto il poncho per evitare che si bagnasse. Richiuse quindi il bagagliaio e s'incamminò verso il ristorante. Se Roland sta guardando fuori da una finestra, pensò, allora sono fregata. Quella ipotesi, però, era improbabile. Se a quell'ora era sveglio, di sicuro si era nascosto in un armadio — tramortito dalla paura. Ma la paura che ha provato finora, pensò Dana, non è neppure la metà di quella che lo attende tra pochi minuti. Percorse l'area di parcheggio procedendo in diagonale. Era compiaciuta di se stessa. Aveva recitato bene la parte quando aveva fatto credere a Roland di aver paura del ristorante, così lui non avrebbe mai sospettato un giochetto come quello che stava per fargli. Giunta all'angolo del parcheggio, attraversò un tratto di terreno ricoperto da un manto d'erba alta, dirigendosi verso il muro del ristorante. L'erba era bagnata, e ben presto lo furono anche i piedi nelle leggere scarpe da corsa e gli orli dei jeans. Camminando rasente alla parete, avanzò verso il retro della costruzione, abbassandosi sotto le finestre. Lungo questo lato del ristorante non c'erano porte, ma ne trovò una nella parte posteriore. La sezione superiore della porta si ripartiva in quattro riquadri di vetro. Dana salì silenziosamente gli scalini di legno e premette il viso su uno dei vetri. Dentro era buio. Assai più che all'esterno, ma riuscì a distinguere il grigio pallido dei mobili e del pavimento i cui contorni si delineavano appena grazie al tenue lucore proveniente dalle finestre. Dana capì che si trattava della cucina. Era lì che gli omicidi erano pre-
sumibilmente avvenuti. Non vide Roland. Nella scelta del posto in cui trascorrere la notte la cucina non sarebbe mai potuta essere in testa all'elenco delle preferenze di Roland. Ovunque, ma non in cucina. Dana depose a terra il sacchetto, ponendoselo tra i piedi. Provò a girare il pomo della porta. Inutile. Introdusse allora il cacciavite nella fessura tra il battente e lo stipite in corrispondenza della serratura, e prese a scalfire il legno. Allargò la fenditura, scrostando schegge di legno. Continuò per un poco a far leva e a scalfire. Finalmente la linguetta della serratura scivolò all'indietro e lei poté, con cautela, aprire la porta. Raccolto il sacchetto, entrò nella cucina. I rumori della tempesta giunsero ovattati quando ebbe richiuso la porta. Anche l'aria cessò di essere fresca. Lì dentro stagnava un odore pesante e sgradevole. Immobile, Dana si mise in ascolto. Udì il lieve ticchettio dell'acqua che gocciolando dal poncho finiva sul pavimento. Nient'altro. Oltre al battito del suo cuore. E quello Roland non l'avrebbe sentito. Ovviamente lui non era nella cucina. La pioggia che si abbatteva sul tetto provvedeva validamente a coprire ogni rumore che Dana avesse potuto produrre. Fintantoché fosse stata cauta, beninteso. Si tirò il poncho giù dalla testa molto lentamente. Il materiale plastico produceva deboli fruscii. Lo depose sul pavimento. Si fermò e tese l'orecchio. Reggendosi in equilibrio su un piede per volta, si tolse scarpe e calzettoni. Si scoprì a tremare e a digrignare i denti. Di eccitazione, non di paura. Povero Roland, avrà un arresto cardiaco. Non sarebbe affatto un peccato. Dana aprì il bottone in vita e abbassò la cerniera dei jeans. Infilando i pollici sotto gli elastici delle mutandine, tirò giù contemporaneamente tutti e due gli indumenti, sfilandoseli dalle gambe. Poi si liberò del maglione. Trasse un profondo, tremulo respiro. Questo sì che ti piacerà, Roland, vecchio mio. Volevi vedere il mio corpo, eccoti servito. Quello vero stavolta, non delle insignificanti fotografie.
Spero che gradirai lo spettacolo. Dana si accosciò e aprì il sacchetto. Ne versò una manciata di farina. La polvere sembrava quasi iridescente. Se ne cosparse la pelle da una spalla all'altra. Strascichi di essa le scivolarono sui seni. Passò a stenderla sul braccio sinistro e notò che le era venuta la pelle d'oca. Si riempì l'altra mano e cosparse di farina il braccio destro. Poi se ne versò in entrambe le mani e cominciò a spargerla sul petto e sul ventre. I capezzoli erano rigidi. Nel toccarli sentì un'onda di calore irradiarsi in tutto il corpo. Strofinò la farina sulle cosce. Le mani, scivolose, sentivano le piccole protuberanze dei pori sotto il sottile strato di polvere, e sentirono la fluida umidità che irrorava la zona dell'inguine. Con le mani di nuovo piene, si infarinò i piedi, gli stinchi e le ginocchia. Poi si raddrizzò. Era bianca dalle spalle ai piedi, a eccezione dei punti in cui lo strato di farina si era assottigliato per via della posizione accovacciata. Prese altra farina dal sacchetto e se la sparse sulle cosce, sui fianchi e sul ventre. Svuotò le mani spalmandone il resto sui seni. Si guardò di nuovo. Un fantasma. Roland avrebbe avuto un attimo di smarrimento: doveva avere un'erezione o un attacco di cuore? Il pavimento intorno ai piedi di Dana era punteggiato di bianco. Si strofinò forte le mani, per rimuovere la farina che vi era rimasta appiccicata. Rimasero bianche. Le portò dietro la schiena e le sfregò sulle natiche. Servì a staccare buona parte della polvere. Voltandosi verso il mucchietto dei vestiti, Dana piegò il busto all'altezza della vita per evitare di imbrattare la perfetta incipriatura, e estrasse il berretto di lana dalla tasca dei jeans. Era blu notte, ma nell'oscurità sembrava nero. Tenendolo a una buona distanza dal suo corpo, lo tastò in cerca dei fori per gli occhi che aveva praticato quel pomeriggio. Quando li ebbe trovati, se lo infilò sulla testa, tirandoselo giù fino al mento. Poi, raccolse i capelli sulla nuca e occultò anche quelli nello scuro cappuccio. Come le sarebbe piaciuto vedersi per giudicare l'effetto. Forse domani sera. Lo avrebbe rifatto, ma nella stanza di Jason. Lui aveva uno specchio a tutt'altezza. Magari la farina gliel'avrebbe spalmata lui. E lei avrebbe ricambiato il favore. Poi, avrebbero fatto l'amore. C'era solo un problema, poteva darsi che Jason non si sarebbe particolarmente entusiasmato all'idea che lei avesse sfilato nuda come un neonato sotto il naso di Roland.
Vedremo se oserà lamentarsi, quello stronzo. È stato lui a far vedere le foto a Roland. Dana inspirò, fremente, attraverso la fibra del berretto. Era giunto il momento di far provare a Roland il grande brivido della sua vita. Iniziò a camminare attraverso la cucina. Compiuti pochi passi, un piede atterrò su qualcosa di appiccicoso, qualcosa di simile alla vernice non ancora bene asciutta. Aggricciò il naso. Non avevano pulito il pavimento dopo il pasticciaccio della notte prima. Si spostò da un lato e aggirò la pozza, ma il piede continuava a produrre rumore ogni volta che lo sollevava dal linoleum. Con la schiena rivolta alle finestre, la sua visuale era pressoché nulla. Come giocare a mosca cieca. Protese le mani e finalmente toccò una parete. Rasentandola, avanzò lentamente finché non si imbatté in una porta. Quando l'aprì, una spira di corrente fresca le avvolse la schiena. Strano. Aggrappandosi allo stipite della porta, portò avanti il piede destro e sentì il pavimento terminare. Scalini? Forse una scala che scendeva nella cantina o in un ripostiglio seminterrato. Roland poteva essere laggiù. Impossibile. Dana chiuse la porta e continuò a avanzare seguendo la parete. Non fece che pochi passi e trovò un altro stipite. La mano lo superò e toccò il legno. Listarelle di legno. Una porta a persiana, o roba simile. Vi si pose davanti e spinse delicatamente. I cardini cigolarono appena. Non importa. Lo senta pure. Diamo a Roland qualcosa da pensare. Tenendo fermo il battente della porta, Dana varcò la soglia. Il fianco urtò qualcosa che scricchiolò e dopo un attimo sparì, per poi tornarle addosso, schiaffeggiandola dall'ascella al fianco. Pur non potendo vedere, intuì cosa fosse accaduto: si era imbattuta in una porta a due battenti oscillanti e aveva aperto un solo lato prima di accingersi a oltrepassarla. Stavolta Ronald doveva aver sentito il rumore. Un'altra piccola dose? Considerò l'ipotesi di emettere gemiti strazianti come fosse un'anima in pena. La scartò. Forse gli spiriti non gemono. E poi, Roland avrebbe potuto subodorare l'origine di quei lamenti.
Dana passò attraverso i battenti, ne accompagnò pian piano il movimento facendoli combaciare e rimase immobile. Si trovava adesso in una stanza molto grande. Forse Roland era lì. E la stava cercando. Agghiacciato dal terrore. Ci siamo. Il cuore di Dana galoppava furiosamente. Fremiti di eccitazione le scuotevano il corpo. Stille di sudore le scivolarono lungo i fianchi, solleticandola. Un appannato lucore grigiastro penetrava dalle molte finestre che si aprivano nelle tre pareti, tuttavia, vaste zone della stanza erano immerse nel buio più totale. Dana guardò il suo corpo attraverso i fori sfilacciati del cappello. La farina conferiva alla sua pelle una cupa tonalità grigiognola, non il fulgore latteo che avrebbe desiderato. Beh, poteva andare. Anzi, forse era meglio così. Chiara tanto da essere visibile, ma solo come un'apparizione incorporea dai contorni sfumati. Ciò che si vede e non si vede: ecco cosa spaventa realmente. A proposito, come cammina un fantasma? si domandò. Probabilmente non camminano affatto. Nei film normalmente aleggiano nell'aria. Gli zombie, invece, quelli avanzano barcollando con le braccia tese. Dana sollevò le braccia come se le protendesse per agguantare la sua prossima vittima e, con le gambe rigidamente tese, fece alcuni lunghi passi verso il centro della stanza. Merda, questo non è uno zombie, è Frankenstein. Frankenstein è lo scienziato, stupida, non il mostro. Sì, Roland. Smise di incedere rigida e impettita e mutò la sua andatura in un avanzare lento e vacillante. Perfetto. Uffa, ma dove ti sei ficcato, Roland? Se sei troppo terrorizzato per urlare, almeno fammi sentire un lamento, che so, un sospiro strozzato. Te ne stai rannicchiato in un angolo e ti sei bagnato i pantaloni, è così? Dana si voltò lentamente, scrutando il buio alla ricerca della sagoma ingobbita di. Roland nella grigia penombra presso le finestre o nella piena oscurità delle zone nere. Qui non c'è, decise. Seppure io non fossi riuscita a vederlo, ormai lui mi avrebbe vista sicuramente. E avrebbe fatto qualcosa — si sarebbe messo a gridare o se la sarebbe data a gambe.
Dana si volse verso la zona anteriore del ristorante, abbassò le braccia per un istante per arrestare il fluire dei rivoli di sudore che le stavano scendendo lungo i fianchi, poi sollevò di nuovo le braccia e riprese a avanzare strascicandosi studiatamente. Più in là, a sinistra, la stanza sembrava diramarsi. Dana scorse la vaga forma di quello che poteva essere un bar. Probabilmente si nasconde là dietro. Avanzò di qualche passo in quella direzione, poi fu sopraffatta da una furiosa eccitazione che l'arrestò. Il sacco a pelo di Roland. Il sacco della mummia. Un'estremità di esso, oscura e rigonfia, si intravedeva nel lucore fosco della finestra anteriore. Io non lo vedo, ma lui sì, lui mi vede. Se sta guardando da questa parte. Se è sveglio. Per alcuni secondi Dana non seppe costringersi a muoversi. Rimase inchiodata là dov'era, tremante, col fiato sospeso, con la sensazione che le gambe l'avrebbero abbandonata da un momento all'altro. Niente paura, incoraggiò se stessa. Vedrai, abboccherà. Lo stronzo desidererà di non essere mai nato. Forza, prendilo, s'incitò. Si trascinò barcollando verso il sacco a pelo. Le gambe sembravano fatte di liquido caldo, ma non cedevano. Emise un roco gemito. Questo attirerà la sua attenzione. Quando cessò di lamentarsi, lo sentì. Sentì i suoi respiri brevi e rapidi. Altroché se è sveglio. Ormai lo sovrastava, non più di un metro la separava da lui; Dana sbirciò verso il basso ma ancora non riusciva a focalizzare la sua figura avvolta dall'oscurità. Un momento, forse quella era una faccia — quella macchia, quella forma confusa, ovale. Allora Roland si stava sollevando per sedersi. Flettendo il busto, Dana allungò le braccia verso di lui. Un grido lacerante le fece esplodere i timpani. Ogni muscolo nel corpo di Dana sembrò scattare, e lei si raddrizzò di schianto, scaraventandosi all'indietro. Le braccia tagliarono l'aria nel tentativo di conservarla in equilibrio, ma lei si sbilanciò ugualmente e cadde. Il sedere urtò pesantemente sul pavimento.
Un raggio di luce le trafisse gli occhi. Se li schermò con una mano. "Toglimi quella luce dalla faccia." Il raggio si abbassò. Dana si tolse il cappello. Adesso il raggio indugiava sul suo petto, spostandosi da un seno all'altro. Poi discese, striandole di luce il ventre e brillando tra le gambe. Lei serrò le ginocchia, bloccandolo. La luce ritornò sui seni. Se li coprì con un braccio e usò l'altro per puntellarsi mentre si alzava. Il petto si gonfiava nello sforzo di trattenere il respiro. "Allora," disse ansimando, "ti ho spaventato o no?" Per tutta risposta, la luce si spostò verso il basso. Roland era seduto sul suo sacco a pelo con le gambe distese. Il cavallo dei blue jeans sbiaditi era coperto da una macchia scura. Dana sogghignò. "Te la sei fatta sotto." "Me ne voglio andare," fece Roland con voce malferma. "Diavolo, sei già andato." "Hai vinto tu, okay? Hai vinto. Liberami." Orientò il fascio di luce verso un tavolo da gioco lì vicino sul quale erano poggiate delle bottiglie. "La chiave è là sopra." "La chiave?" Il raggio si mosse ancora, e stavolta puntò alla sua mano sinistra. Una manetta la fissava a una barra metallica posta ai piedi del bar. "Cristo Santo," mormorò Dana. "La mia assicurazione. Per questo sapevo che avrei vinto." "Ti sei ammanettato?" "Prendi la chiave, okay?" Ecco perché Roland aveva insistito tanto che lei fosse andata a prenderlo nel ristorante all'alba — così avrebbe potuto aprirgli le manette. "Dove sono le mie fotografie?" gli chiese Dana. "Nello zaino." "Dammi la torcia." Roland non fece discussioni. La depose sul pavimento e la spinse verso di lei. Le scivolò fino ai piedi. Dana si drizzò a sedere, si allungò in avanti e l'afferrò. Ginocchia a terra, puntò il raggio di luce su Roland. Il volto scarno, pallido come la morte, sembrò ancora più cadaverico del solito. Socchiuse gli occhi, e si girò per sfuggire al bagliore. Adesso Dana puntò la torcia verso l'inguine di Roland. "Te la sei fatta sotto," disse. "Hai creduto davvero che fossi un fantasma?"
"Non lo so," farfugliò lui. Dana ridacchiò. Strisciò quindi fino allo zaino, vi frugò dentro e tirò fuori una busta. Dentro vi erano le fotografie. Le sfogliò una per una, contandole. C'erano tutte e dieci. Posò la busta sul pavimento e prese la macchina fotografica dello zaino. "Cosa stai facendo?" le chiese Roland. "Voglio immortalare questo momento per i posteri." Si alzò in piedi, e, fronteggiandolo, si sistemò la torcia tra le cosce posizionandola in modo tale da inquadrare i jeans bagnati. Accostò la macchina fotografica a un occhio. "Di' 'cheese'." Scattò. Per tre volte la luce intensa del flash lampeggiò nel buio. "Adesso togliti i pantaloni." Lui scosse la testa. "Vuoi che ti lasci qui?" Roland si aprì i jeans con la mano libera e li tirò giù fino alle ginocchia. "Non credi nell'utilità delle mutande?" Dana scattò tre volte, poi raccolse le fotografie che erano cadute sul pavimento. Le infilò nella busta e la mise nello zaino insieme alla macchina fotografica. Poi vi ripose anche il berretto di lana, raccolse lo zaino e fece scivolare le braccia sotto le cinghie. Indirizzò il raggio della torcia su Roland, che intanto si era tirato su i pantaloni e stava chiudendo la cerniera. "Adios." "Liberami," disse lui, socchiudendo gli occhi contro la luce. "Mi credi pazza?" "Eravamo d'accordo così. Hai promesso. Dai, liberami." Non fu una supplica. Il tono era perfettamente calmo. Dana rifletté sulla cosa. Intendeva sul serio lasciarlo lì. Ma ciò avrebbe significato tornare il giorno dopo o mandare Jason a liberarlo. In più, Roland avrebbe finito col vincere la scommessa. Cento dollari buttati nel gabinetto. "Non m'importa delle fotografie," disse lui. "Puoi tenertele." "Ehi, quale straordinaria concessione. Vorrei proprio vedere come faresti a riprendertele." "E allora? Dov'è il problema? Prendi la chiave." "Forse. Adesso mi vesto, e tu non muoverti da lì, capito?" "Molto divertente." Dana si allontanò. Con l'aiuto della torcia il ritorno in cucina fu assai facilitato. Il piede inzaccherato aveva lasciato chiazze di sangue sul linoleum. Arricciò il naso alla vista della pozza nella quale era casualmente fi-
nita. Servendosi del cappello, cominciò a strofinarsi il corpo per ripulirlo dalla farina. Il numero aveva certamente funzionato. Roland era morto di paura. Se l'era fatta nei pantaloni. Strano che non avesse cercato di nasconderglielo; aveva adirittura fatto luce sulla vergogna come se niente fosse. E poi, con una tranquillità terrificante si era lasciato fotografare. Si era persino tirato giù i pantaloni senza protestare eccessivamente. Dopo l'apparizione del fantasma senza testa, niente più poteva spaventarlo. Forse era sotto shock, o qualcosa di simile. Sì, probabile. E, come se non bastasse, era atterrito dall'idea che lei se ne andasse lasciandolo lì, solo e ammanettato. Ecco perché era così docile, sapeva che gli conveniva collaborare. Senza la chiave era inchiodato lì. Fregato, e lo sapeva bene. Dana mandò la luce sul suo corpo. La maggior parte della farina era andata via, ma la pelle era ancora ricoperta da una sottile patina di polvere bianca. A casa avrebbe dovuto fare una doccia. Quando fu vestita, infilò in una tasca posteriore dei jeans la busta con le fotografie. Indossò il poncho e prese lo zaino di Roland. Il sacchetto di farina aperto rimase sul pavimento. La stanza che occupava nella Casa dello Studente era priva di angolo cottura, sicché non avrebbe saputo che farsene della farina. La lasciò lì, e tornò nella zona cocktail. Roland stava ancora là, seduto con la schiena appoggiata al bar e le gambe distese, larghe sul pavimento. Sembrava che non si fosse mosso di un millimetro da quando lei si era allontanata. "Allora," disse Dana. "Credo che tu sia pronto a andare." Roland annuì. "Ehi, non voglio che il sedile della mia macchina si sporchi di pipì." "Mi siederò sul sacco a pelo." "Ho un'idea migliore. Che ne diresti di una passeggiatina a piedi fino al campus?" "Sta piovendo." "Sì, farai una bella doccia. Ti ci vuole proprio."
"Dammi la chiave." Dana si avvicinò al tavolo. "Lo sapevo che non avresti resistito tutta la notte," disse. La piccola chiave delle manette luccicò. La prese. "Però, quella delle manette è stata un'idea carina. Avresti vinto sicuramente se non fossi venuta. Invece hai perso, altroché se hai perso. Ho sempre saputo che eri un fifone, e credo che lo sapessi anche tu, altrimenti non ti saresti ammanettato. Vero? Tu sapevi che non avresti avuto il fegato di resistere tutta la notte." Svitò il tappo di una bottiglia di vodka. La chiave era abbastanza piccola da passare attraverso il collo della bottiglia. Ve la lasciò cadere. La chiave sprofondò nel liquore con un lieve sciacquio. Un attimo dopo tintinnò sul fondo. Dana riavvitò il tappo, stringendolo con tutta la sua forza. "Fatti un favore," gli suggerì. "Beviti la bumba finché non arrivi alla chiave. Ti aiuterà a sopportare meglio la passeggiata fino a casa." Gli lanciò la bottiglia in grembo. Giunta alla porta, Dana si voltò e sorridendo gli disse, "Salute." La porta si chiuse con un urto violento. Nell'oscurità della sala, Roland infilò la bottiglia tra le gambe e serrandola forte ne svitò il tappo. Si tirò su la maglietta e versò la vodka sulla pancia finché la chiave non gli cadde sulla pelle nuda. Gettò via la bottiglia. Poi recuperò la chiave e aprì la manetta che gli imprigionava il polso. Avanzando a passo svelto sotto la pioggia, Dana era giunta a pochi metri dalla sua macchina quando calcolò che ormai Roland doveva essersi liberato delle manette. Avrebbe impiegato ancora un poco a recuperare il sacco a pelo. Ma Dana si voltò ugualmente. Roland! La faccia stravolta di un folle, correva all'impazzata verso di lei, la testa gettata all'indietro e la bocca spalancata, le braccia mulinanti come se stesse cercando di nuotare e non di correre. La mano destra impugnava un coltello. Dana schizzò verso la macchina. Aveva fatto troppo in fretta, pensò. Cosa voleva fare con quel coltello? Dov'è la chiave? Già inserita. Fortunata. Non dovrai perdere tempo a cercarle. Afferrò la maniglia della portiera e tirò con forza. Ma le dita scivolarono
dalla maniglia e ricordò che prima era uscita dal lato del passeggero. Girò intorno alla macchina. Roland l'aveva quasi raggiunta. "Okay, puoi venire con me!" Lui si fermò. Gli angoli delle labbra si sollevarono. "Dai, Roland, andiamo." Roland agguantò il davanti del poncho di Dana, la tirò verso di sé con un possente strattone, e le piantò il coltello nel ventre. Roland estrasse il coltello e spinse Dana all'indietro senza mollare il poncho. La fece abbassare sull'asfalto e lei vi si sedette, gemendo mentre si teneva il ventre. Roland si sedette sulle gambe di lei. Le sferrò un pugno sul naso e Dana cadde mollemente sull'asfalto, battendovi la testa. Rimase cosciente, ma non oppose resistenza. La pioggia le sferzava il viso. Sbatté le palpebre, boccheggiando. A cavalcioni su di lei, Roland le sollevò il davanti del poncho dal ventre e vi conficcò il coltello, squarciando la fibra di plastica fino alla gola. "Ti preg..." singhiozzò lei. Roland le tagliò il davanti della maglietta e ne scostò di lato i due lembi. La pioggia sciacquò via il sangue accumulato sul ventre, ma altro sangue sgorgava dalla ferita. Il petto si gonfiava e si sgonfiava sotto i suoi respiri affannosi. Roland fissò i seni. E gettò via il coltello. Si chinò su di lei e allungò le mani fino a chiuderle sui suoi seni. Erano bagnati e scivolosi, caldi sotto la pelle madida. Le baciò la ferita nel ventre. Ne succhiò il sangue. Dana urlò e s'irrigidì sotto di lui quando la morse. Restò viva a lungo. Meglio ancora. Il cuore continuava a pulsare quando Roland glielo strappò dalla cavità toracica. Era già sazio, perciò non ne mangiò molto. Ficcò nel petto quello che ne era rimasto e strisciò verso la testa. La scotennò, le spaccò il cranio col girabbacchino e ne raccolse il cervello caldo e gocciolante. La parte migliore. CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Roland ritornò al campus poco dopo il sorgere del sole. Lasciò la macchina di Dana parcheggiata nel cortile alle spalle della Casa dello Studente e si affrettò nell'atrio. Salì di corsa al piano di sopra, percorse il corridoio silenzioso e entrò nella sua stanza senza essere visto — buon per lui, visto che, a parte la giacca a vento, non aveva niente addosso. Lasciò cadere lo zaino sul pavimento, si tolse la giacca a vento e la esaminò attentamente per individuare eventuali macchie di sangue. Era stato molto attento a non macchiarsela sapendo che avrebbe dovuto indossarla per far ritorno al dormitorio una volta sbarazzatosi degli altri indumenti. Questi erano rimasti con Dana, ficcati nel sacco della mummia e nascosti in mezzo ai cespugli una decina di chilometri a sud del ristorante. La giacca a vento risultò immacolata al minuzioso esame interno e esterno. Roland la lasciò cadere sullo zaino, e passò a controllare se stesso. La pioggia aveva fatto un ottimo lavoro nel ripulirlo. Se non fosse stato per i grumi di sangue coagulato presenti sotto le unghie di tutte le dita, sarebbe stato perfetto anche lui. Indossò l'accappatoio, raccolse tutto ciò che gli occorreva per la doccia e, messosi in tasca la chiave della stanza, si avviò lungo il corridoio a passo spedito. La stanza da bagno era silenziosa. Si assicurò che i gabinetti fossero tutti vuoti, dopodiché depose tutto l'occorrente per la doccia sopra una panca nello spogliatoio della zona docce e si avvicinò ai lavabi sovrastati da specchi. Si tolse l'accappatoio e, giratosi, guardò la parte posteriore del proprio corpo. Sul polpaccio vi era una crosta di sangue secco di forma circolare nel punto in cui la cosa serpentiforme lo aveva morso per penetrare in lui. Da quel punto, un livido bluastro si estendeva verso l'alto, attraversandogli diagonalmente la natica destra per raggiungere la colonna vertebrale, e poi procedere verticalmente su per la schiena fino alla nuca. I capelli neri, pensò, erano abbastanza lunghi da coprire quella zona quando era vestito. Si avvicinò di più allo specchio e rabbrividì quando il bordo freddo del lavabo entrò in contatto con la parte posteriore delle gambe. Si girò di lato rispetto allo specchio e con una torsione del collo riuscì a vedere una piccola protuberanza affiorare sulla nuca, allungandosi fino a metà della spina dorsale. Le dita di Roland sfiorarono la pelle distesa della nuca. L'escrescenza gli sembrò più grossa di quanto apparisse alla vista. La carezzò. La cosa si
contorse lievemente inviandogli un dolce fremito di piacere — solo un barlume dell'estasi che gli aveva donato quando s'era cibata di lui. Temendo che qualcuno potesse entrare e sorprenderlo, Roland si appoggiò l'accappatoio sulle spalle e ritornò nella zona-spogliatoio. Posò l'accappatoio sulla panca, prese la spugna, il sapone, lo shampoo e lo spazzolino da denti e entrò nel vano della doccia. Il getto caldo ebbe un effetto meraviglioso sulla pelle infreddolita. Si insaponò e si strofinò. Poi si lavò i capelli. Dopo che si fu sciacquato constatò che il grosso del sangue era scomparso dalle unghie. Ne restavano ancora scarsi residui. Usò lo spazzolino da denti per eliminare anche quelli. Tornato in camera, Roland si pose davanti al cassettone e si pettinò i capelli portandoli tutti avanti come faceva sempre prima di separarli al centro. Stavolta tirò la riga di lato. Lo faceva apparire più normale. Bene. Adesso non ci teneva più ad attirare l'attenzione su di sé con l'espediente dell'eccentricità. Ora voleva mescolarsi alla tribù degli studenti, confondersi nella massa. Almeno fino a quando non fosse giunto il momento di trovare un nuovo furgone... e via! No. Tempo al tempo. Un cambiamento improvviso avrebbe attirato su di lui un'attenzione ancora maggiore. Per il momento doveva rimanere tutto tale e quale, tutto come sempre. Roland annuì e spostò la riga al centro, al posto di sempre. Indossò un paio di jeans e di calzini puliti e una maglietta gialla con una fitta serie" di fori da proiettili stampati sul davanti, come se fosse stato crivellato da una raffica di mitra. La maglietta, però, era troppo scollata. Indossò allora una camicia sopra di essa — una camicia sportiva di colore nero col colletto alto abbastanza da occultare la zona posteriore del collo. Roland sbadigliò. Moriva di sonno. Ancora un paio di cosette... e poi avrebbe avuto tutto il tempo per dormire. Tolse le manette e la chiave dallo zaino e le nascose nel cassettone sotto un paio di calzettoni. Prese poi la busta con le foto. La busta era tutta imbrattata da impronte insanguinate. "Avevi perso un po' del tuo sangue freddo, Roland, vecchio mio," sussurrò. L'aprì. Le foto non erano macchiate. Le separò, riponendo quelle di Dana in una busta nuova, che rimise al suo posto nel cassetto di Jason. Sfogliò le altre fotografie e sogghignò. A Dana sarebbero piaciute. Ro-
land con i jeans bagnati di piscio. Roland nudo dalla vita alle ginocchia. Si sarebbe divertita un mucchio, servendosene per umiliare Roland. Roland? Io. Si accigliò, stupito e perplesso per aver pensato a se stesso chiamandosi per nome. Strappò la busta e le foto in tanti minuscoli frammenti e, tornato nella stanza da bagno, le gettò in un water e scaricò lo sciacquone. Ritornò in camera sua, si sdraiò sul letto e si addormentò. La porta si chiuse con un urto rumoroso che lo svegliò di botto. Si drizzò a sedere e si stropicciò il viso mentre Jason lanciava una ventiquattrore sull'altro lettino e riappendeva il vestito. "Com'è stato il matrimonio?" gli chiese Roland. "Niente male. Lo sposo è un perfetto idiota, ma questi sono affari di mia sorella. Ragazzi, mi sono preso una sbronza!" Si sedette sul suo lettino e fece una brutta faccia. "Cosa cavolo succede?" "Eh?" "Ho visto la macchina di Dana giù nel parcheggio." "Già." "Dov'è?" Jason abbassò un po' la testa. "Si è nascosta sotto al letto? Te la stavi scopando, eh?" "Oh, certo." "Che ci fa la sua macchina qui fuori?" "È una storia lunga." "E allora? Sputa." Jason aprì la borsa da viaggio, prese una fiaschetta da mezzo litro e bevve un sorso. "Un ricordo del party," mormorò. "Probabilmente non le è successo niente," disse Roland. "Eh? Che significa 'probabilmente'?" Roland si alzò. Sfogliò il giornale, aprendolo alla pagina in cui era riportata la notizia degli omicidi all'Oakwood Inn, e lo porse a Jason. "Leggi questo." Mentre aspettava, Roland lanciò un'occhiata all'orologio. Quasi mezzogiorno. Aveva dormito circa sei ore e si sentiva bene. Jason alzò gli occhi. "Ebbene? Cos'ha a che fare questo con Dana?" "Ieri sera siamo andati laggiù. Al ristorante." "Per cenare?" Jason guardò il giornale. "Chi lo ha aperto?"
"No, non era aperto. Era chiuso, deserto." "E allora che ci siete andati a fare?" "Dana si era messa in testa che io fossi un pauroso. Mi ha sfidato a passare la notte nel ristorante. Ha scommesso cento dollari che non ce l'avrei fatta." Un largo sorriso rischiarò il volto di Jason. "Sì, non mi meraviglia. Io non c'ero e lei ha pensato di sfruttare l'occasione per prendersela con te." "Non mi può soffrire." "No, ti sbagli. Si diverte a stuzzicarti ogni tanto, ecco tutto." "Sarà. Comunque, io le ho detto che avrei passato la notte lì dentro e che avevo più coraggio di lei." "Mossa errata, amico." "E alla fine ci siamo andati tutti e due laggiù. Il primo a spaventarsi e a filarsela avrebbe perso la scommessa." Jason scosse la testa lentamente. "Cristo, e pensare che mi sono perso tutto questo. E poi? Come è andata a finire? Tu te la sei squagliata con la sua macchina e lei è rimasta lì, vero?" "Veramente, c'è dell'altro." Jason bevve un altro sorso dalla fiaschetta. "Verso mezzanotte abbiamo sentito un rumore. Un urto, una specie di tonfo. Mi ha fatto morire di paura." "Ci scommetto." "Ero pronto a mollare tutto e andar via e Dana mi ha detto di avviarmi, e di dire addio ai cento dollari. Così sono rimasto. E lei è andata a ispezionare il posto per scoprire la causa del rumore." Jason cominciò a assumere un'aria preoccupata. "E tu hai lasciato che si allontanasse da sola?" "Gliel'ho detto di non andare." "Potevi andare con lei." "Comunque, fatto sta che da allora non l'ho più vista. Io ero rimasto presso la porta d'ingresso, vicino al bar. La sentivo gironzolare, e dopo un po' mi ha chiamato per dirmi che aveva trovato la cantina. Credo che sia scesa di sotto. Ho aspettato un sacco di tempo, Jase, ma lei non tornava mai." "E così te la sei squagliata lasciandola lì." "No. Non allora, comunque. Sono andato nella cucina. Era... è lì che quelle due persone sono state ammazzate. C'era del sangue. Un lago." "Non potevi sperare di meglio," mormorò Jason. Ma nel suo tono non
c'era traccia di umorismo, solo fastidio e preoccupazione. "Beh, era decisamente disgustoso. A ogni modo, ho trovato una porta aperta sopra una rampa di scalini che scendevano giù in cantina. Ho fatto luce laggiù con la torcia, ma non ho visto Dana. Allora l'ho chiamata diverse volte. Non mi ha risposto. Alla fine ho deciso di scendere. Ero spaventato a morte, ma mi ero convinto che dovevo trovarla. Ho cominciato a scendere i primi scalini quando ho sentito qualcuno ridere. Una risata fredda, malvagia. È stato soltanto allora che me la sono data a gambe." Jason era rimasto a bocca aperta, e guardava Roland con occhi sgranati, iniettati di sangue. "Sono corso fuori e ho preso la macchina. Aveva lasciato le chiavi dentro. Di primo impulso ho pensato di andare a chiamare la polizia, poi mi sono reso conto che a ridere in quel modo poteva essere stata Dana." "Ti era sembrata lei?" "Dio, chi lo sa! Quando ho sentito ridere, mi è sembrato che fosse un uomo. Poi ho cominciato a pensarci su, e mi sono convinto che era stata Dana. Lo aveva fatto per farmi fuggire da lì. Capisci? Per vincere la scommessa. Al che mi sono detto: adesso io sto qui, chiuso nella sua macchina e lei ha vinto i cento dollari facendomi scappare con quel suo fottuto scherzetto. Allora mi sono incazzato e ho pensato che meritasse una piccola lezione: me ne sarei andato con la macchina lasciandola lì, appiedata. E così ho fatto." "Gesù." Roland alzò le spalle. "Si tratta solo di pochi chilometri. Sarebbe tornata a piedi. Probabilmente a quest'ora è già a casa." Jason si alzò senza aggiungere una parola e uscì dalla stanza. Roland si avvicinò alla porta e lo guardò allontanarsi nel corridoio — diretto a uno dei telefoni pubblici collocati vicino all'uscita. Roland tornò a sedersi sul suo lettino e rimase in attesa. La sua storia era stata convincente, pensò. Cancellò il sorriso dalle labbra in tempo per accogliere Jason con un'espressione seria. "Ho parlato con Kerry. Dana non è ancora tornata. Mi è sembrata preoccupata." "Forse Dana si è messa in marcia sul tardi. Te l'ho detto, sono alcuni chilometri. Se vuoi, possiamo andarle incontro con la macchina e darle un passaggio." "Andiamo."
La macchina di Jason era a corto di benzina, così suggerì di prendere la Volkswagen di Dana. Jason chiese a Roland di guidare. Dopodiché si lasciò cadere sul sedile del passeggero e chiuse gli occhi. "Avvertimi quando saremo arrivati," disse. Desiderò di non essersi abbandonato a quella sfrenata gozzoviglia. Tutto quello champagne al ricevimento, poi il pranzo con i suoi — e giù cocktail, altro champagne, e brandy per completare il quadro. Una gran baldoria al momento, ma adesso era tormentato da un mostruoso mal di testa e aveva lo stomaco in subbuglio, come se avesse mangiato delle uova marce. Tutto il corpo sembrava vibrare di una drogata eccitazione. Non dovevo andarci, pensò. Sarei stato con Dana, e non sarebbe successo niente di tutto questo. Cosa credevano di fare quei due, andando in un ristorante deserto e maledetto come quello? Facile immaginarlo. Dana voleva divertirsi a stuzzicare l'equilibrio mentale di Roland. Non lo aveva mai potuto soffrire. Quanto a Roland, magari nutriva qualche remota speranza di scoparsela. Un sogno impossibile per l'amico. Nemmeno se fosse stato l'unico uomo sulla terra avrebbe avuto una possibilità di riuscirci. Dana lo odiava visceralmente. Vuoi vedere che Dana lo aveva respinto e lui si era incavolato al punto da violentarla? Quel pensiero aumentò il ritmo dei battiti del cuore di Jason, rimbombandogli nella testa con fitte lancinanti. Roland poteva essere un po' strambo, si disse, ma non sarebbe mai stato capace di fare una cosa simile. Poteva saltargli in mente, questo sì, ma non avrebbe avuto il coraggio. Specialmente con Dana. Però la cosa poteva essere iniziata con un piccolo litigio. Dana s'incattivisce, lo offende malignamente a colpi di lingua, quella sua lingua mordace, Roland perde i lumi e scatena l'offensiva. Se le ha fatto del male, lo ammazzo. Jason si strofinò le tempie. Ricordò una conversazione che aveva avuto una volta con Roland. Era notte fonda e, svegli tutti e due, si erano messi a parlare nell'oscurità della stanza. Brani di quella conversazione si insinuarono di forza nella sua mente. Jason: "Se potessi scopare con una ragazza del campus, chi sceglieresti? Esclusa Dana." Roland: "Io non voglio scopare con Dana." Jason: "Oh, sicuro."
Roland: "Gesù, non lo so." Jason: "Dinne una, una qualunque. Chi sarebbe?" Roland: "Mademoiselle LaRue." La sua insegnante di francese. Jason: "Stai scherzando. Quella è una puttana." Roland: "È un gran pezzo di fica." Jason: "È una puttana. Cosa sei, uno stakanovista?" Roland: "Prima la legherei. Fisserei la corda a una trave o a un altro qualunque appiglio, così sarebbe appesa davanti a me. Poi tirerei fuori il coltello e le taglierei via i vestiti. Una volta nuda, comincerei a farle dei ricamini col coltello." Jason: "Pervertito. Ho detto 'scopare' non 'torturare'." Roland: "Oh, certo, poi ci arriverei a quello. Alla fine. Ma prima vorrei divertirmi un po' con lei." Jason: "Divertirti? Hai la mente sconvolta, amico. Non c'è scampo, sei un pervertito." Semplici fantasie, si disse Jason. Roland era un fifone imbranato. Non avrebbe mai fatto realmente una cosa del genere, non con Mademoiselle LaRue, né con Dana, o con chiunque altra. Tutte chiacchiere, e solo quelle. Buon per lui. Aprì gli occhi e guardò Roland. "Ci siamo quasi," disse questo. "Ho scrutato la strada mentre guidavo. Strano che non l'abbiamo incontrata. Ma sai, potrebbe darsi che si sia incamminata poco dopo che noi due siamo partiti. Forse ci è solo sfuggita." O forse è nel ristorante, legata e appesa a una trave, nuda e tagliuzzata... "Prega Dio che non le sia successo niente," mormorò Jason. "Oh, sì, speriamo," disse Roland. "Continuo a pensare a quella risata che ho sentito nella cantina. Ammesso che non fosse stata Dana?" Le labbra di Roland si serrarono in una stretta linea. Assunse un'espressione affranta. "Se le è accaduto qualcosa è tutta colpa mia. Sarei dovuto andare laggiù. Dovevo farlo." Davanti a loro, sulla destra, un cartello segnalava la direzione in cui si trovava l'Oakwood Inn. Roland rallentò e svoltò in una stradina che si allungava di fronte al cartello. "E se c'era qualcuno laggiù?" aggiunse. "Un maniaco, un individuo pericoloso che l'ha aggredita? Forse si aggira qui intorno aspettando che arrivi qualcuno per..."
"Hai visto troppi film splatter," gli disse Jason. "Queste cose accadono sul serio però. Nella vita vera. Pensa a Psycho e a Texas Chainsaw Massacre. Si basavano tutti e due su fatti realmente accaduti. Pensa a cosa faceva quel tizio nel Winsconsin, quell'Ed Gein. Si vestiva con la pelle delle sue vittime — le indossava come fossero indumenti." "Ehi, piantala. Non voglio sentire queste cose." "Tutto il vicinato lo riteneva una persona per bene, un uomo così amabile e generoso. Faceva a tutti quanti deliziosi omaggi di carne. Ciò che i vicini non sapevano, era che quella carne era carne umana." "Per Cristo, vuoi chiudere il becco!" "Voglio solo farti capire che non sono solo trovate cinematografiche. Porcherie simili accadono davvero." Roland fermò la macchina davanti al ristorante. Spense il motore. Accigliato, guardò Jason. "Avrei fatto bene a portarmi il coltello," sussurrò. "Sai, probabilmente non c'è nessuno lì dentro, però..." "Aspetta in macchina se hai paura." Jason aprì la portiera e scese. Si diresse senza indugio alla scala della veranda. Salì gli scalini due per volta. Ora sono proprio a posto. Ci mancava giusto che Roland tirasse in ballo quella merda e facesse capire di aver paura che un pazzo si nasconda nel ristorante. Quando fu davanti alla porta, Jason esitò. Non c'è nessuno lì dentro, si disse. Tranne Dana, forse. Magari lei stava lì con le mani poggiate sui fianchi e una smorfia in viso. "Ah! Ecco la mia corsa finalmente. Ce ne avete messo di tempo a arrivare, razza di imbecilli. Se avete pensato per un solo istante che me la sarei fatta a piedi, allora siete proprio fuori di testa." No, Dana non era lì dentro. Forse il suo corpo. Nudo e penzolante, tutto sfregiato. Forse a quest'ora è già al campus. Riderà a crepapelle quando saprà che siamo venuti qui. La nostra missione di salvataggio. Non riderà affatto. È morta. Jason si guardò indietro. Roland lo stava raggiungendo, così lo aspettò. Si strofinò le mani sudate sui jeans. Cercò di inspirare profondamente, ma sotto i polmoni una strozzatura impediva loro di espandersi a sufficienza. Roland salì sulla veranda. Si accovacciò e raccolse dal pavimento una tavola di legno irta di chiodi a entrambe le estremità. Vi erano parecchie di
quelle assi tutt'intorno. Evidentemente erano state adoperate per barricare la porta. "Perché non ne prendi una anche tu?" sussurrò Roland. Jason scosse la testa. Non gli serviva armarsi, a meno che non credesse che vi fosse un pericolo lì dentro; e lui non voleva crederlo. Spinse la porta e essa si aprì. Un alito d'aria fresca spirò dall'interno, investendolo e facendogli accapponare la pelle. Fece un solo passo avanti. La luce che penetrava dalla porta e dalle finestre era sufficiente a fargli scorgere la zona cocktail alla sua destra e l'ampia sala da pranzo a sinistra. Si diresse alla sala da pranzo. Sembrava vuota, a eccezione di una scaletta, una cassetta per attrezzi aperta, vasetti e bombolette, un aspirapolvere e una scopa, il tutto ammucchiato vicino alla parete destra. Nulla si mosse. "Dana!" chiamò. E la voce suonò sorda, come se avesse gridato quel nome nel cavo di una grotta. Non vi fu risposta. Davvero ti aspettavi una risposta? chiese a se stesso. Guardò verso destra. Sul pavimento, davanti al lungo bar vi era una bottiglia di vodka, vuota. Se l'erano scolata Dana e Roland? Forse si erano ubriacati. Forse era cominciato così. Poteva chiedere a Roland della bottiglia. Ma non voleva risentire la sua voce — non voleva che chiunque altro risentisse la sua voce. Con Roland al suo fianco, entrò nella sala da pranzo. Nella parete, passata la scala a libretto, si apriva una porta a due battenti — di quelle che avevano sempre i saloon nei film western. L'attraversò e si ritrovò nella cucina. Il pavimento di linoleum era disseminato di orme, una dozzina forse. Macchie color ruggine lasciate da un piede sinistro, scalzo. Un piede piccolo. Il piede di Dana? Le orme partivano dalla pozza di sangue secco presso il lato opposto della cucina e si sbiadivano man mano che si avvicinavano al punto in cui sostava Jason. Vicino alla pozza di sangue un sacchetto di farina. Una patina di polvere bianca ricopriva il pavimento dietro il sacchetto. "Che cos'è questo?" bisbigliò Jason. "Il sangue appartiene a quei due che sono stati ammazzati giovedì notte." Cristo, pensò Jason, non spetta alla polizia far pulire in questi casi? Se non lo fanno i poliziotti, chi allora? "E la farina? Che significa?"
"C'era già quando siamo venuti," rispose Roland, parlando sottovoce come Jason. "Le orme?" "Non lo so." "Non c'erano?" "Credo di no." "Dana le aveva le scarpe?" "Certo. O comunque le aveva l'ultima volta che l'ho vista." Roland indicò la porta aperta puntando la tavola di legno nella sua direzione. "La cantina è laggiù." Jason si diresse verso la porta camminando lentamente, appoggiando delicatamente punte e tacchi per ridurre al massimo lo scalpiccio. Una precauzione questa che sapeva essere inutile, giacché se ci fosse stato qualcuno lì sotto lo aveva di certo sentito chiamare il nome di Dana e forse aveva anche udito il sommesso scambio di battute avvenuto in cucina. Si chinò a sbirciare la ripida scala di legno. Era buio come l'inferno laggiù. Sperò che il ristorante fosse fornito di elettricità, poi ricordò di aver visto una lampada e un aspirapolvere insieme alla scala e alle altre cose nell'altra stanza. Premette un interruttore posto sul muro accanto alla porta. Una luce si accese di sotto. "Vuoi che resti quassù a fare la guardia?" gli chiese Roland. "Far la guardia per che cosa? Andiamo." Jason cominciò a scendere. Gli scalini cigolarono sotto il suo peso. Immaginò che uno di essi cedesse, facendolo sprofondare. Peggio ancora, si figurò nella mente che qualcuno si nascondesse dietro la scala, pronto a afferrargli una caviglia allungando una mano tra le assi. A un certo punto si fermò e abbassò la testa al di sotto del soffitto. Da lì poteva vedere buona parte della cantina Direttamente davanti a lui vi erano parecchie serie di scaffali vuoti, alcuni destinati a contenere bottiglie e altri lasciati così, evidentemente, per stipare altre provviste del ristorante. Più in là, verso sinistra, uno spazio cospicuo e file di tubi che correvano lungo il soffitto, una caldaia vicino alla parete opposta. Di Dana nessuna traccia. Né di chiunque altro. Per quel che poteva vedere. Discese precipitosamente il resto degli scalini e andò a guardare dietro la rampa. Nessuno vi si nascondeva.
La tensione si alleggerì un poco. Sebbene la cantina disponesse di numerosi possibili nascondigli, Jason dubitava che qualcuno, vivo o morto, si trovasse laggiù. Ci sono io solo, pensò. E Roland. Malgrado ciò, diede inizio all'ispezione. Roland lo tallonava mentre percorreva gli spazi tra una scaffalatura e l'altra. Roland. Dietro di lui. Brandiva quell'asse irta di chiodi. E probabilmente io sono l'unico a sapere che ieri sera è stato qui con Dana... Se era stato Roland a... Gli parve quasi di sentire la spinta ferrea dei chiodi che gli perforavano il cranio. Si voltò. Roland, con l'asse appoggiata sulla spalla, inarcò le sopracciglia. "Vuoi andare tu avanti per un po'?" bisbigliò Jason. Il labbro superiore di Roland si sollevò agli angoli. "Grazie lo stesso." "Se vado io avanti, è meglio che abbia l'arma." "Potevi prendertene una anche tu." "Polemica inutile." "E se dovesse servire? Che cosa userei io?" "Non preoccuparti per questo, capito? Qualunque cosa accadesse, è preferibile che la tenga io." Roland socchiuse gli occhi. Per un istante, Jason ebbe quasi la certezza che Roland stesse per scaraventargli in testa l'asse chiodata. Non oserebbe, pensò. Non se siamo faccia a faccia. Sa che non può competere con me. Sono più grosso, più forte, più veloce. Di una buona misura. "Credo che tu abbia ragione," concesse Roland, e porse l'asse a Jason. Ripresero la perlustrazione. Ora che si trovava in possesso dell'arma, Jason si interrogò su se stesso. Doveva essere impazzito per sospettare in Roland l'intenzione di ucciderlo. Roland aveva più fifa di lui a stare in quel postaccio. No, non aveva sfiorato Dana neppure con un dito. Era sicuro, invece, in quella sua mente distorta, che un maniaco uscito da un film horror fosse sceso laggiù quella notte e avesse fatto su Dana uno dei suoi numeri più spettacolari. E se Roland avesse ragione? No, andiamo. Nessuno l'aveva aggredita. Dana era sola laggiù e era stata lei stessa a ridere per spaventare a morte Roland e costringerlo a scappare. Probabilmente in quel momento si tro-
vava già nella Casa dello Studente. È morta, sussurrò insinuante una voce nella mente di Jason. Ma lui non trovò il suo corpo nella cantina. Non trovò sangue. Né alcuno dei suoi vestiti. Non trovò segni di colluttazione. Non trovò assolutamente nulla che potesse suggerire che Dana fosse stata nella cantina, né tantomeno che vi fosse stata assassinata. Fu contento di emergere da quel luogo. Ne chiuse la porta e si appoggiò a essa. "Che pensi?" gli chiese Roland. "Non lo so." "Perché non andiamo via di qua?" Senza attendere risposta, Roland si avviò alla porta posteriore della cucina e l'aprì. D'un tratto si fermò. "Ehi." "Cosa?" "Da' un'occhiata qui." Jason si affrettò a raggiungerlo. Roland stava tastando il margine della porta. Sul lato esterno, in corrispondenza della serratura a scatto, il legno era scalfito e scheggiato. "Qualcuno l'ha forzata," concluse Jason. "Non io e Dana. Noi siamo entrati dalla porta principale." "Cristo." Roland, in un sussurro: "Allora c'era qualcun altro." Jason buttò via l'asse e oltrepassò la soglia. Una vasta distesa di terreno ondulato, ammantato d'erba, si allungava oltre il retro del ristorante, estenendosi fino al limite di una foresta. Scese dalla veranda e s'incamminò attraverso l'erba alta e gli arbusti selvatici di quello che un tempo era stato un prato. Il margine del prato si confondeva con l'inizio del terreno erboso, e a differenziarli vi era solo la diversa pendenza del suolo, poiché mentre il prato era pianeggiante, il campo si elevava in un piccolo poggio. E su questo s'inerpicò Jason. Roland lo seguì sull'altura e gli si affiancò mentre, schermandosi gli occhi contro il sole, scrutava la zona. "Che facciamo adesso?" disse Roland. "Cerchiamo tra l'erba?" "Non lo so." C'erano acri e acri da setacciare, e poi la foresta. L'idea di poter trovare Dana laggiù sembrava al tempo stesso angosciante e inutile. Se è nell'erba, pensò Jason, allora è morta. "Forse quel tipo ha un nascondiglio nel bosco," suggerì Roland. "Una capanna, o qualcosa di simile, capisci? Quell'Ed Glein di cui ti stavo parlando prima..." "Non la troveremo mai," disse Jason.
"Forse..." Roland s'interruppe. Jason lo guardò. "Forse cosa?" Roland alzò le spalle. "Probabilmente è un'idiozia. Ma se torniamo al campus e lei non si è ancora fatta viva, e cominciamo a sospettare sul serio che sia stata rapita da un pazzo..." "Andremo al posto di polizia." "No, merda! Penserebbero che io abbia a che fare con la sparizione. Sono stato l'ultimo a vederla ieri sera. Accuseranno me e non metteremo mai le mani addosso al bastardo che le ha fatto questo. Lei potrebbe essere ancora viva, capisci? Se l'ha presa un pazzo, può darsi che la tenga con sé viva. Può darsi che non voglia ucciderla finché non avrà... finché non si sarà divertito con lei. Mi segui?" "Quel tipo ti somiglia parecchio." disse Jason. Roland si lasciò sfuggire una risata nervosa. "Già. Io conosco i miei polli. Merda, io non farei mai una cosa simile, però! Riesco solo a pensarlo, ecco tutto. Ma questo ci offre un vantaggio, giusto? Io posso provare a immaginare le sue possibili mosse. Perciò mi è venuta quest'idea." "Quale idea?" "Come fare a prenderlo. E come fare a trovare Dana." "Davvero? Sentiamo." CAPITOLO QUINDICESIMO "Come te la passi, amico?" "Oh, bene," rispose Jake dall'altro capo del telefono. Per la verità non stava affatto bene, si sentiva alquanto depresso. Dopo quella telefonata, avrebbe riportato Kimmy da sua madre. "È tornato Steve?" "Certo. Vuole parlarti. Aspetta un secondo." Alcuni istanti, e Steve Applegate venne al telefono. "Jake? Ho finito il lavoro su Smeltzer. Voglio che tu venga qui." "Hai scoperto qualcosa di interessante?" "Interessante? Beh, sì, interessante. Quanto ci metti a raggiungermi?" "Quindici, venti minuti." "Chiamo Higgins. Meglio che lo metta al corrente della faccenda." Il Capo? "Cosa diavolo hai scoperto?" "Curioso, eh? Bene, allora sbrigati a venire qui. Ora telefono a Higgins." Senza aggiungere altro, Steve riattaccò. Jake mise giù il ricevitore.
Kimmy se ne stava accoccolata in un angolo del divano a guardare la televisione. The Three Stooges. Curly si esibì in uno spettacolare saluto militare per schivare l'assalto di Moe intenzionato a ficcargli due dita in un occhio, sbeffeggiandolo poi con un impertinente "nyar-nyar-nyar!" "Tesoro," la chiamò Jake. "Su, andiamo." "Davvero?" "Ah! Adesso diventiamo insolenti?" sbottò lui. "Ah, sì?" Si lanciò verso la bambina e lei, gli occhi sgranati, incollò le braccia sui fianchi. Jake vi ficcò sotto le dita affondandogliele nelle costole. Kimmy si contorse e scoppiò a ridere. "Ora ti faccio vedere io! Fai la monella con me, vero?" Rotolandosi sulla schiena, la bambina prese a scalciare allontanandolo da sé. La suola della sua scarpetta Rose Pedal picchiò ripetutamente sulla coscia di Jake. "Aaahiii!" Tenendosi forte la gamba, si allontanò barcollando e si lasciò cadere sul pavimento. Kimmy lo guardò dall'alto del divano sogghignando con aria soddisfatta. "Ecco cosa succede," sentenziò "a scherzare con Shera." "Gesù mio, hai ragione. Mi hai sconquassato." Kimmy agitò un pugno minaccioso. "Ne vuoi ancora un po'?" "No, grazie." Jake si rimise in piedi. "Però adesso dobbiamo andare davvero." La gioia svanì dal suo visetto. "Dobbiamo proprio?" "Temo di sì, amore. La mamma ti aspetta, e poi devo andare a lavorare." "Vengo a lavorare con te, okay?" "Non credo sia possibile." "Non accenderò la sirena, te lo prometto," lo assicurò, guardandolo con aria contrita e speranzosa. "Te lo giuro, davvero. Non posso venire con te?" "Mi dispiace, tesoro. Non oggi. Inoltre, non prenderò la macchina di servizio." "Voglio venire lo stesso." "Non ti piacerebbe il posto in cui vado. Devo andare a vedere un tizio che ha tirato le cuoia." "Oh, yuck. Davvero?" "Già." Kimmy fece allora una smorfia che — così venne da pensare a Jake — avrebbe fatto uno a cui avessero messo un piatto pieno di scarafaggi direttamente sotto il naso. "Sta' attento a non toccarlo," gli consigliò.
La macchina si fermò dietro alla BB's Toy, Jake ne scese e aprì la portiera a Kimmy. Che lo guardava con occhi tristi. Dopo che la cintura di sicurezza le fu sganciata, lei non si strappò le cinghie dalle braccia per precipitarsi fuori della vettura. Restò ferma lì, seduta. "Forza, fammi vedere un sorriso," disse Jake. "Dai, oggi è il compleanno della mamma. Vorrà vedere un sorriso su quel brutto muso che hai." "Non mi sento bene." "Cos'hai? Stai male?" "Non sono felice." "Perché non lo sei?" "Mi stai mandando via." "Mi dispiace." "No, non t'importa niente." Jake la prese in braccio sollevandola dal seggiolino. Lei gli si avvinghiò addosso, stringendo braccia e gambe intorno a lui. "Vedrai, ti divertirai un mondo oggi," le disse Jake mentre la portava verso casa. "No invece." "E io tornerò venerdì, così avremo due giornate lunghe lunghe per stare insieme come sempre." Kimmy si strinse ancora più forte a lui. Jake sentì il corpicino scuotersi, e capì che stava piangendo. Non schiamazzava come un marmocchio bizzoso, ma piangeva sommessamente, tirando su col naso, singhiozzando quietamente nell'orecchio di suo padre. "Oh, amore mio," sussurrò Jake. E faticò non poco per impedire a se stesso di piangere. La macchina di Jake entrò nel cortile accanto all'Obitorio di Applegate. La città di Clinton non era grande abbastanza da giustificare la presenza di un obitorio cittadino, ma Steve (il cui fratello possedeva un'impresa di pompe funebri occupandosi così dell'aspetto commerciale della faccenda) aveva lavorato per dodici anni come medico legale presso l'Ispettorato di Medicina Legale di Los Angeles — abbandonando l'incarico quando il suo capo era stato licenziato per concussione — e ora esercitava la professione nella sua città natale. Certo, quello delle autopsie non era un mercato fiorente lì a Clinton, ma il 'volume d'affari' bastava comunque a soddisfare Steve. Un'autopsia era richiesta per prassi ogniqualvolta vi fosse un decesso avvenuto a seguito di un incidente, un suicidio o un omicidio, e qualora la morte di un individuo
fosse un evento decisamente aldilà di ogni previsione da parte del medico del defunto. Un esame necroscopico era anche richiesto tutte le volte che un cadavere era destinato alla crematura anziché alla sepoltura. Sicché, tutto sommato, una cittadina tranquilla come Clinton forniva a Steve materiale sufficiente per tenerlo in esercizio costante. Tre nuovi clienti nella sola giornata di giovedì, considerò Jake tra sé e sé mentre scendeva dalla macchina. Per Steve dev'essere stato come tornare a L.A. Jake entrò nell'edificio passando per una porta sul retro dalla quale si accedeva direttamente all'ufficio di Betty. Questa, alle prese con la macchina da scrivere, alzò gli occhi dalla tastiera e sorrise quando lo vide. "È un po' che non ci si vede," disse, facendo oscillare la sedia girevole. Spostandola all'indietro, sollevò le braccia e le incrociò sulla nuca — una posa quella che sembrava studiata apposta per attirare l'attenzione di Jake sui seni. Il lavoro di Betty non richiedeva contatti con la gente, e così lei poteva vestirsi come più le andava a genio. Ora indossava una maglietta sulla quale campeggiava lo slogan 'Fammi Felice'. La T-shirt aderiva piacevolmente ai seni procaci dai capezzoli eretti e puntati verso Jake attraverso la fibra sottile. "Ti trovo bene," disse Jake. "Si vede," fece Betty, guardando fisso nell'inguine di lui. Jake non abbassò gli occhi a guardarsi, ma sentì un caldo turgore espandersi da quelle parti. "Bene," disse, "Steve mi sta aspettando." "Ehi, quanta fretta. Higgins non è ancora arrivato." Betty alzò gli occhi, guardandolo in viso. Gli occhi le si allargarono un poco. "E allora? Come vanno le cose?" "Quali cose?" "Hai una nuova amichetta?" Jake scosse la testa. "Hai fatto voto di castità?" "Ho avuto un mucchio da fare, tutto qui." Un sorrisetto incurvò le labbra di Betty. "Beh, se ti capita di avere un po' di tempo libero, tieni presente che ho appena comprato un lenzuolo di gomma e una favoloso flacone formato gigante di quegli olii che ti fanno scivolare tutto così meravigliosamente. Sai, potremmo spalmarcelo a vicenda. Dovresti vedere che effetto fa su di me al lume di candela." Per Jake non fu difficile immaginarlo. Sporse le labbra secche e soffiò.
"Lo terrò a mente," disse. "Nel caso ti disimpegnassi un pochino..." "Già." Betty annuì. E gli occhi tornarono all'inguine di Jake. "Beh, se ti va, potrei occuparmi un po' di quello anche subito, non mi dispiacerebbe proprio. Ci sono un sacco di stanze vuote qui intorno. Che ne dici?" "Vuoi scherzare." Jake sapeva bene che Betty non stava scherzando. "Siamo in un obitorio," le rammentò. "Esattamente il posto adatto per prendersi cura di cadaveri, proprio come quello che sto guardando in questo momento." Spostò indietro la poltroncina girevole che scivolò sulle rotelle, e si alzò in piedi. Aveva una minigonna di pelle nera. Le gambe nude erano slanciate e leggermente abbronzate. . "Sei pazza," mormorò Jake. Si sentì scosso intimamente. Gli stava davvero succedendo tutto ciò? In quell'istante si aprì la porta sul retro e entrò Barney Higgins, il Capo del Dipartimento di Polizia di Clinton. Gli occhi di Betty rotearono verso il soffitto. Si rivolse quindi a Higgins. "Ehilà, Barn." "Ciao, Betts." L'ometto tarchiato sbatté le palpebre e, con uno schiocco di lingua, "Cos'hai sotto la maglietta?" "Ne so quanto te, Barn." "Dove hai preso quelle graziose cosine? Vorrei ordinarne un paio per mia moglie." Rise e diede una pacca sulla spalla di Jake. "Diamoci una mossa, a casa mi aspetta un poker di fuoco." Si rivolse a Betty. "Dov'è Apple, nella sua bottega di macelleria?" "B-1" rispose Betty. "Buon divertimento, ragazzi." Uscirono da una porta laterale e cominciarono a scendere una rampa di scale che conduceva al seminterrato. "Ma tu l'hai guardata bene?" fece Barney. "Betty ? Altroché!" "Roba di prima scelta. Porca miseria. Con quella sì che me lo farei un pokerino coi fiocchi. Roba di classe!" "Sì, è davvero uno schianto." Ai piedi della scala Jake aprì una porta antincendio. Dall'altra parte del corridoio c'era la B-l, la sala dove si effettuavano le autopsie. Sentì lo stomaco contrarsi quando vi si avvicinò e aprì la porta. Dall'interno proveniva un continuo e lamentoso ronzio, simile allo stridore del trapano di un dentista.
Steve Applegate, con un mozzicone di sigaro stretto tra i denti, stava lavorando a qualcosa che guardava con occhi socchiusi tra le volute di fumo. Ciò che stava facendo, qualunque cosa fosse, aveva comunque a che fare con la testa di una donna nuda distesa sopra uno dei tavoli. E aveva a che fare anche con il seghetto circolare, colpevole di quello strepito. Jake preferì guardarsi le scarpe mentre percorreva il lucido linoleum. La sega tacque. "Chi hai qui?" chiese Barney. "Mary-Beth Harker. Probabilmente si tratta di un aneurisma cerebrale." "La figlia di Joe Harker?" "Esatto." "Oh, merda. Merda. Quando è successo?" "Questa notte." "Merda. È la sua unica figlia." Jake sentì un flusso gelato percorrergli il corpo come la sferzata di una raffica di vento. Kimmy. Dio, e se fosse successo a Kimmy? Com'era possibile che un uomo continuasse a vivere dopo che alla sua bambina fosse accaduta una cosa simile? Si girò e si diresse verso un altro tavolo. Il corpo distesovi era coperto da un lenzuolo blu. "Questo è Smeltzer?" domandò senza voltarsi. "È lui, Ronald. Più tardi passerò a esaminare l'altra Smeltzer, Peggy." Io ho ucciso quest'uomo, si disse, confermando a se stesso la sua colpa. Voleva sentirsi colpevole di quell'atto, voleva che il senso di colpa lo sommergesse e portasse via il terrore di immaginare la sua Kimmy morta. Io ho ucciso quest'uomo. È morto per causa mia. La memoria riattivò il replay della scena. Ecco. Smeltzer alza la testa, strappa un lembo di pelle dal ventre di sua moglie, si gira al rallentatore per prendere il fucile. "Non ho mai visto niente di simile," disse Steve, sottraendo Jake al ricordo. Scostò il lenzuolo. Smeltzer era a faccia in giù. Le pallottole di Jake gli avevano lasciato cinque fori d'uscita sulla schiena e gli avevano squarciato un lato del collo. "Un buon lavoro," commentò Barney, osservando le ferite. Jake stava guardando un'incisione che, partendo dalla nuca, percorreva l'intera lunghezza della colonna vertebrale di Smeltzer, per poi proseguire sulla natica destra e giù ancora, lungo la gamba fino al lato esterno della caviglia. La pelle che contornava l'incisione incruenta dell'ampiezza di un centimetro e mezzo si presentava di un colore grigio-bluastro. "E questo
cos'è?" chiese Jake. "Una specie di enigma," disse Steve. Con la punta del sigaro indicò la ferita al lato della caviglia. "Ne sai qualcosa tu di questa?" chiese a Jake. Lui scosse la testa. "Stamattina, quando l'ho spogliato, l'ho trovata insieme all'ematoma — quello scolorimento che vedi lì. Francamente mi ha lasciato alquanto sconcertato. Di solito un livido è causato da un trauma che non lacera ma lesiona i capillari sottocutanei. Così mi sono chiesto che cosa avesse potuto colpire quest'uomo in modo tale da seguire le curve del suo corpo in questo modo." "Un oggetto flessibile." "Una frusta," suggerì Barney. "Un tubo di gomma, forse." "Anch'io ho pensato a cose del genere. Il problema è che l'epidermide non mostra alcun segno, nessun trauma, cosa che ci si aspetta quando si è colpiti da quel tipo di oggetti. E la ferita alla caviglia mi ha insospettito. Così ho praticato un'incisione in quella sede e ho seguito il percorso dell'ematoma fino al collo. Ciò che ho trovato è stata una disgiunzione della larghezza di due centimetri tra le fasce e..." "Senti, risparmiami il gergo tecnico, per favore," protestò Barney. "Per tutta la lunghezza della contusione il tessuto connettivo tra la pelle e la muscolatura sottostante era scollegato. Praticamente, come se un tratto di pelle largo pressappoco due centimetri e mezzo fosse stato forzatamente sollevato dall'interno." "Dove vuoi arrivare?" chiese Barney. "Qualcosa è entrato nel corpo di quest'uomo passando dalla caviglia e è risalito fino al collo scavandosi una galleria." "Vuoi dire qualcosa di vivo?" "È esattamente quello che penso." "Balle." Steve picchiettò leggermente sul sigaro facendo cadere la cenere alla sua estremità che finì dentro un canaletto di scolo posto ai piedi del tavolo. "Ho rilevato un trauma considerevole alla base del cervello. Sembrerebbe sbocconcellato, come se qualcosa vi si fosse insinuato addentandolo." Jake fissò il cadavere. "Stai dicendo che qualcosa ha scavato un tunnel nel suo corpo e gli ha morso il cervello?" "Certamente è così che appare all'esame." "Gesù," mormorò Jake. "Okay," disse Barney. "E dove sarebbe questo coso?"
"Sparito." "Sparito? Dove?" "Avvenuto il decesso, si è infilato nell'esofago penetrandovi attraverso la parete posteriore, è giunto nello stomaco e mordendone una parete ha tagliato in linea diretta fino al colon. Ha proseguito di là, fuoriuscendo infine dall'ano." "Non può essere, stai scherzando." Steve gettò il sigaro nel canaletto metallico di drenaggio e fece pressione fino a spegnerlo. Poi si chinò e raccolse un paio di mutandine boxer rivoltate. La parte posteriore era sporca di sangue e feci. Barney aggricciò il naso. Steve raccolse allora un paio di blue jeans, anch'essi alla rovescia. Lungo la gamba destra era visibile una stretta riga che si riduceva man mano che si avvicinava all'orlo inferiore. "Sto scherzando?" ripeté. Barney scosse lentamente la testa da una parte all'altra. "Che cosa può aver fatto un lavoro simile?" chiese Jake. Steve si strinse nelle spalle. Un angolo della bocca si sollevò. "Un serpente ambizioso?" "Ma non farmi ridere," fece Barney. "Non ho la più pallida idea di cosa abbia potuto fare tutto questo, però una cosa è certa, si tratta di qualcosa che ha almeno la forma di un serpente." "Non ho mai sentito di serpenti che ti fanno una roba come quella." "E chi l'ha mai sentito?" concordò Steve. "Smeltzer era vivo quando quel coso gli è entrato in corpo?" chiese Jake. "Sì, senz'alcun dubbio." "Come fai a dirlo?" "La quantità di emorragia subdurale e la quantità di sangue sul calzino destro lo dimostrano indiscutibilmente. Dal grado di coagulazione della ferita alla caviglia direi che quel coso è entrato in lui pochi minuti prima che morisse." "E ha lasciato il suo corpo dopo la morte? Da cosa lo deduci?" "Anche in questo caso è il volume emorragico a rivelarmelo. Molto scarso nelle zone corrose durante il viaggio d'uscita." "Siamo praticamente nella fottutissima 'zona crepuscolare'," fu il commento di Barney. "Quali sono le tue conclusioni?" fece Jake. "Non so che dire."
"Stiamo parlando," disse Jake, "di un tìzio che ha fatto saltare la testa a sua moglie con uno schioppo a doppia canna e poi ha cominciato a mangiarla. E tu stai dicendo che pochi minuti prima che sparasse a sua moglie questa specie di serpente gli è entrato in una gamba e si è scavato un tunnel fino a mordergli il cervello?" "Pare proprio di sì." "E dopo che io gli ho sparato... se n'è andato." "Non è che l'hai visto per caso, eh?" disse Barney. "Non sono rimasto a lungo in zona. Ho dato una rapida occhiata nel ristorante per assicurarmi che non ci fosse una terza persona. Poi sono tornato subito in macchina per chiamare la centrale. In tutto ci ho messo una quindicina di minuti. Deve averne approfittato per uscire da Smeltzer e dileguarsi." "Più veloce della luce!" ironizzò Barney. "Potrebbe trovarsi ancora all'interno del ristorante," suggerì Jake. "Ho già fatto controllare qui intorno," disse Steve, "e ho fatto anche perquisire il furgone che ha trasportato qui Smeltzer. Non volevo che quel coso trivellasse me." Barney si spostò di lato, allungò una mano verso i calzoni bianchi di Steve e prese tra le dita un angolino della stoffa di una gamba. Sollevò il tessuto scoprendo la caviglia del medico. "Ho già controllato da me," lo rassicurò Steve, sollevando entrambi gli orli al di sopra dei calzini. Barney si accovacciò per un'ispezione ravvicinata, poi si rivolse a Jake. "E tu?" "Ho fatto tre volte la doccia dopo..." "Ottima garanzia d'igiene, ma... Alzati un po' i pantaloni." Jake li sollevò fino alle ginocchia. Barney restò accovacciato a esaminare le gambe. Le scrutò minuziosamente, poi abbassò i calzini di Jake fino alle caviglie. "Okay, almeno adesso sappiamo che nessuno di voi due vorrà farsi uno spuntino con le mie budella." Jake annuì. "A quanto pare non sono il solo a pensare che sia stato quel coso serpentiforme a mandare Smeltzer fuori di testa." "Sembrerebbe assurdo, eppure fila. Assolutamente plausibile." "Temo che non ci siano altre spiegazioni," disse Steve. "Sembra una follia, me ne rendo conto, ma c'è la concreta possibilità che si tratti di questo... una creatura che si sostiene attraverso un rapporto di tipo simbiotico con l'organismo umano che la ospita. Un parassita. Ma essa non si limita a
trarre il nutrimento dall'organismo ospitante — riesce anche, in qualche maniera, a controllare le sue abitudini alimentari." Barney fece un sorrisetto furbo. "A meno che Smeltzer non avesse già l'abitudine di mangiare sua moglie." "In poche parole," concluse Jake, "abbiamo a che fare con una creatura serpentiforme che ha la capacità di annidarsi nel corpo di un individuo, di controllarne la volontà e costringerlo a cibarsi di carne umana. È questo che abbiamo detto, ho capito bene?" "Forse," disse Barney. "Fino a poco fa non mi risultava che fossi impazzito." "Se c'è un altro modo per interpretare questa situazione," replicò Steve, "sarò felicissimo di ascoltarvi." "Non c'è dubbio. Sto avendo un fottutissimo incubo e voi due siete solo fantasmi della mia immaginazione." "Nessuno di voi, presumo, ha mai sentito di una faccenda simile, è così?" "Vuoi scherzare?" "Ho sentito parlare di cannibalismo," disse Jake, "ma mai di un serpente che si insinua dentro di te e ti trasforma in un cannibale." "Signori, credo proprio che ci troviamo di fronte a un caso senza precedenti." Steve estrasse un sigaro intero da una tasca della giacca bianca, lo spogliò della pellicola protettiva e con un morso ne staccò un'estremità. Sputò il batuffolo di foglie secche nel canaletto di scolo ai piedi del tavolo necroscopico. Leccò tutto il corpo del sigaro e se lo ficcò in bocca, poi lo accese. "Ieri sono dovuto andare a Marlowe su richiesta di un collega, Herman Willis. Giovedì pomeriggio è stato rinvenuto il corpo nudo di una ragazza di ventidue anni. Era stato sotterrato in un campo appena oltre il limite orientale di Marlowe. Poteva benissimo restare lì per anni senza che nessuno lo scoprisse, solo che un ragazzino è andato per caso a giocare da quelle parti col suo cagnolino. È stato il cane a scoprire la tomba. Il ragazzo è corso a casa a procurarsi una pala, credendo, evidentemente, di aver trovato un tesoro sepolto. Ha scavato per un po', poi è fuggito via gridando." "Dev'essere stato un vero shock." "Adesso viene la parte interessante: il corpo era stato smangiucchiato. Buona parte della pelle era stata strappata, porzioni di muscoli divorate..." Il sigaro nella mano di Steve tremolava. "Su tutto il corpo erano presenti segni di morsi, alcuni superficiali tanto da lacerare solo la pelle, altri, più
profondi, tali da asportare bocconi di carne. Il torso era stato squartato, il cuore strappato e rosicchiato parzialmente. La testa... era stata scotennata. Il cranio spaccato con un corpo contundente, probabilmente una grossa pietra. Il cervello mancava." "Senti che maionese," mormorò Barney. "Willis non aveva mai visto niente del genere. Credo che mi abbia chiamato più per un sostegno morale che non per il mio giudizio professionale. A ogni buon conto, i segni lasciati dai denti e i campioni di saliva testimoniano che l'assalitore è umano." "Stai dicendo che la ragazza è una vittima di quel coso." "Di uno che 'ospita' quel coso." "A quando risale la morte di questa ragazza?" chiese Jake. "A mercoledì, intorno alla mezzanotte. Willis ha potuto stabilire l'ora del decesso con assoluta precisione, basandosi su quanto è stato rinvenuto nello stomaco della vittima. L'avevano vista in una pizzeria locale verso le otto di quella sera. Secondo i tempi di digestione, il grado di decomposizione della pizza..." Barney urtò l'anca del cadavere disteso davanti a lui col dorso della mano. "Dov'era Ronald Smeltzer mercoledì sera?" "Dubito che sia opera di Smeltzer," disse Jake. Il cuore gli batteva forte. "Il furgone, quello che ha cercato di investire Celia Jamerson, veniva dalla direzione di Marlowe. Giovedì pomeriggio. Qualcuno, qualcosa, è uscito da quel furgone, qualcosa di vivo. C'era del sangue sull'asfalto dietro il portellone posteriore. Ne ho seguito le tracce fino al campo, ma non sono riuscito..." Scosse la testa. "Il punto in cui il furgone si è schiantato contro il parapetto sul ponte distava solo poche centinaia di metri dal ristorante. Supponiamo che le tracce che ho cercato di seguire fossero state lasciate da quella specie di serpente. E se avesse raggiunto il ristorante e avesse attaccato Smeltzer durante la notte?" Jake si rivolse a Steve. "Ce l'hai qui quel John Doe? L'uomo che guidava il furgone?" "Da questa parte." Seguirono Steve fuori dalla stanza e lungo il corridoio, poi all'interno di un'altra stanza nella quale erano allineate una dozzina di celle frigorifere. Il medico controllò le etichette sui cassetti, e infine scelse quello da aprire. Apparve un corpo coperto da un lenzuolo. Jake fu grato per l'aroma che si effondeva dal sigaro di Steve, sebbene non bastasse a smorzare il lezzo di carne e capelli bruciati. "Se preferisci non vederlo," disse Steve, "credo di sapere cosa stiamo
cercando." Jake, che aveva già visto il cadavere carbonizzato penzolare dal parabrezza del furgone, non ambiva affatto a una nuova, particolareggiata visione. Tuttavia, al tempo stesso, non voleva fare la figura dello schifiltoso davanti a Barney, sicché preferì tacere. "Vediamolo," ordinò Barney. Steve tirò via il lenzuolo. Jake fissò il bordo del cassetto di alluminio. Malgrado i suoi occhi non fossero focalizzati sul cadavere, egli lo vide ugualmente. Una sagoma nera, vagamente foggiata come un essere umano. "Dovrò girarlo," disse Steve. "Ce la fai da solo?" chiese Barney con una voce che tradì la sui riluttanza all'idea di doverlo aiutare. "Nessun problema." Jake alzò cautamente gli occhi su Steve e notò che portava guanti chirurgici. Lo vide chinarsi sul cadavere e sentì uno sgretolio cartaceo. Poi sentì se stesso gemere. "Ehi, l'amico è ridotto proprio male," mormorò Barney. "Attento che non ti si sbricioli tra le mani." Steve sorrise rigidamente serrando il sigaro tra i denti. Sollevandolo e tirandolo, riuscì faticosamente a rivoltare l'ammasso nero ponendolo bocconi. Quando ebbe finito, sembrava che qualcuno gli avesse strofinato del carbone sul davanti della giacca bianca. "Avevi ragione, Jake." Gli occhi di Jake si lasciarono guidare dal dito di Steve che indicava gli anelli grigi della colonna vertebrale del cadavere visibili dalla nuca al tratto mediano della schiena. "Sembrerebbe che la creatura si fosse posizionata esattamente come nel corpo di Smeltzer," disse Steve. "Ma non è sgattaiolata via per la stessa uscita," aggiunse Barney. "Con tutto questo pastìccio, non è possibile stabilire con certezza cosa sia successo, ma probabilmente deve aver imboccato un'uscita d'emergenza sfondando direttamente la pelle della vittima." "Deve avere una forza mostruosa," disse Jake, "per fare una cosa simile." "Già," fece Barney. "E per aprire lo sportello posteriore di un furgone." "Probabilmente si era aperto in seguito all'impatto," disse Jake. "Già, può darsi." "Farò fare un calco dei denti di quest'uomo e preleverò un campione del
suo sangue," annunciò Steve. "Poi farò una scappata a Marlowe. Vi chiamerò da lì e vi farò sapere se i dati corrispondono. Personalmente, scommetto di sì." "Telefonami a casa," disse Barney. "Ho una partita di poker da non perdere." "Se questo è veramente l'uomo che ha ucciso la ragazza a Marlowe," disse Jake, "allora sarà una conferma alla validità della nostra teoria." "Secondo me non abbiamo bisogno di conferme." "Già," convenne Barney. "E così abbiamo un serpente che va a ficcarsi nelle persone e le trasforma in cannibali. Ci credete?" Jake si allontanò dal cadavere. Si appoggiò alla fila di cassetti nella parete, si spostò appena da un lato per evitare che una maniglia gli urtasse contro la schiena e incrociò le braccia. "Il mostro ha ucciso mercoledì. Giovedì pomeriggio ha tentato di ammazzare Celia Jamerson, e ha avuto successo con Peggy Smeltzer giovedì notte. Sembrerebbe che faccia una nuova vittima ogni giorno." "Dacci oggi la nostra vittima quotidiana," disse Barney. "Oggi è sabato. Chissà se ha preso qualcuno ieri." "Non può farlo da solo," disse Barney, "altrimenti che bisogno avrebbe di arrampicarsi nel collo della gente?" "Sarà necessario controllare tutti quelli che sono entrati nel ristorante giovedì notte, e chiunque sia entrato in contatto col corpo di Smeltzer." "Il caso è tuo, Jake. Dacci dentro. Agisci da solo, per il momento, e stiamo a vedere cosa accade. Solo noi tre sappiamo, e continuerà a essere così. Se la gente lo venisse a sapere si scatenerebbe un'iradiddio, un inferno incontrollabile. Ci affidiamo a te, Jake, sei la nostra task force. Lavoraci finché non lo avrai inchiodato. Mi terrai al corrente." "E Chuck?" "Lo terrò occupato finché non avrai finito. Voglio che sbrighi questa faccenda da solo. È l'unico modo che abbiamo per evitare di far trapelare la notizia." "Sei sicuro che sia giusto tenere la cosa segreta?" disse Steve. "Se la gente saprà quale pericolo corre, potrà prendere delle precauzioni." "Scoppierà il finimondo. Oppure diranno che a noi manca qualche rotella. O tutte e due le cose." "Mi rendo conto di tutto questo, eppure..." "Tieni aperti i frigoriferi, Apple. Se non incastriamo quel bastardo di un serpente entro due giorni, faremo sapere al mondo intero quello che sta
succedendo. Contento? Darai una conferenza stampa. Ma facciamo un tentativo prima di far sapere alla gente che sta tra i piatti scelti del menu del nostro amico." CAPITOLO SEDICESIMO Alison non sapeva perché fosse lì. Era uscita di casa dopo pranzo e aveva cominciato a vagare senza una destinazione precisa, assecondando solamente la voglia di star fuori e da sola. Il suo vagabondare senza meta l'aveva spinta alla fine di Summer Street, e da lì l'appartamento di Evan era perfettamente visibile. La sua storia con Evan era ormai un capitolo chiuso, ma guardò ugualmente verso il marciapiede opposto, dov'erail suo palazzo, come se volesse autopunirsi. Vide le due finestre al secondo piano, le finestre delle stanze di Evan. Le tapparelle erano aperte. Allora era in casa? E con lui c'era Tracy Morgan? Oppure era solo e vedendola passare sarebbe sceso a raggiungerla? Evan non scese a raggiungerla. Così Alison aveva proseguito per la sua strada, sopraffatta da un tremendo senso di vuoto interiore. Senza capirne il motivo, si era ritrovata laggiù — nel bosco che fiancheggiava, sovrastandolo, Rio Clinton. Il torrente era in piena e i flutti correvano impetuosamente infrangendosi sugli isolotti rocciosi. Di tanto in tanto si vedevano rami d'alberi trascinati dalla corrente — vittime della tempesta della notte scorsa. Alison discese prudentemente il ripido argine. Giunta sulla sponda del torrente, notò una roccia dalla sommità piatta, una roccia che le risultò particolarmente familiare. Durante gli anni trascorsi a Clinton, specie quando era ancora una matricola e nel pieno di una profonda crisi depressiva, aveva passato molto del suo tempo su quella roccia, sostandovi in piedi, talora seduta, e qualche volta con i piedi nudi immersi nell'acqua. Le aveva dato anche un nome: per lei era la Roccia Solitària. Era lì che si rifugiava per stare da sola quando aveva il morale a terra. Tutto questo se l'era dimenticato. Era stata lì parecchie volte negli ultimi mesi, probabilmente aveva visto la Roccia Solitària e magari ci era anche salita sopra, ma senza ricordarsi che per lei quel posto aveva avuto un significato così speciale. Se ne ricordò adesso. Salì sulla superficie piana e vi si sedette, tirò su le ginocchia e le accostò al corpo, cingendole con le braccia.
Si sta bene qui, pensò. Non mi meraviglia che un tempo ci venissi sempre. Sentì il rumore di una macchina che stava attraversando il ponte, un rombo assai simile al fragore dell'acqua che scrosciava tumultuosamente. Guardò verso il ponte, ma un gruppo di alberi oltre la curva del torrente lo celava alla vista. Guardò dalla parte opposta e vide solo il flusso incessante girare intorno a una roccia. Una fitta vegetazione di alberi e cespugli tappezzava entrambi gli argini. Alison non scorse nessuno, ma si domandò se vi fossero delle coppie di innamorati appartati nei recessi tra le rocce o in mezzo al fogliame, coppie di ragazzi che facevano l'amore. Laggiù, proprio dietro quella curva lei e Evan... Era una piccola ansa isolata, una sacca soleggiata contornata ai due lati da rocce alte fino alla cintola e aperta sul torrente a un'estremità. Un folto intrico di rovi delimitava l'altra estremità, proteggendoli da chiunque volesse spiare in fondo al declivio. Potevano essere scorti dall'argine opposto, ma laggiù non ci andava mai nessuno. Si sedettero sulla coperta che Evan teneva sempre nel bagagliaio della sua macchina. Mangiarono dei cracker Ritz cosparsi di formaggio piccante. Bevvero del vino bianco dalla piccola otre di Alison, premendo la sacca per schizzare il vino direttamente in bocca, spruzzandoselo l'una nella bocca dell'altro, ridendo a ogni colpo mancato. E quando la camicetta di lei fu zuppa, se la tolse e si sdraiò sulla coperta. Evan, inginocchiato tra le sue gambe, le spruzzò il vino fresco sul collo, sul petto, sui seni. Le gocciolò sulla pelle, solleticandola. Le risate cessarono. Evan puntò ai capezzoli, il getto sottile ne colpì il primo, spargendosi sull'aureola, poi irrorò il secondo. E lui la leccò. Un'altra piccola pozza di vino sgorgò dalla conca dell'ombelico, e mentre Evan succhiava da essa, le aprì i jeans. Tutto ciò era avvenuto domenica pomeriggio. Domani sarebbe stata una settimana. Com'era possibile che le cose tra loro fossero precipitate così in fretta? Non idealizzare quell'incontro, ammonì se stessa. Era stato magnifico, divertente, eccitante, incredibile. Ma non propriamente giusto. Lei aveva in programma un semplice picnic sul fiume. Non aveva mai pensato di fare l'amore con lui, laggiù, dove qualcuno poteva apparire all'improvviso e sorprenderli. Ma quando Evan le aveva impregnato la camicetta di vino, aveva capito cos'aveva in mente e lo aveva accontentato. Lo aveva fatto per Evan, non per se stessa. Perché non voleva deluderlo. E questa, tra tutte le possibili ragioni, non era certo la migliore.
Cavolo, però in quel momento non ti è dispiaciuto così tanto, pensò. Poco dopo, però. Se ci si pente di quel che si è fatto, ci si pente presto, prim'ancora di aver avuto il tempo di rivestirsi. Se invece non ci sono ripensamenti, anche di questo se ne è subito consapevoli. C'erano state delle occasioni in cui Alison non aveva provato il minimo rimorso dopo averlo fatto. Non di recente, comunque. Non con Evan. Forse mai da quando Jimmy l'aveva lasciata, l'estate dopo il diploma. Jimmy. Era stata la sua mancanza, più di ogni altra cosa, a condurla così spesso alla Roccia Solitària durante il primo anno d'università. Specialmente dopo quella lettera che cominciava, "Terrò sempre caro in me il ricordo di ciò che abbiamo provato insieme, ma..." Ma più di mille chilometri lo separavano da lei, e si era innamorato di Cynthia Younger, sua compagna al corso di antropologia. Seduta sulla Roccia Solitària, col sole che le riscaldava la testa e le spalle, Alison non sentì la mancanza di Jimmy. Da un bel po' aveva smesso di provare dolore e amarezza al ricordo di lui. Passò invece in rassegna i suoi ricordi di Jimmy e il modo in cui la sua vita si era dipanata da allora. I ragazzi con i quali era uscita. Quelli che aveva frequentato con serie intenzioni. Quelli con cui era andata a letto. Ed erano quattro, pensò, anzi, solo tre senza considerare Tom. Tom non bisognava contarlo, perché era successo una volta sola e erano stati entrambi ubriachi. Sicché, dopo Jimmy ce n'erano stati tre: Dave, Larry e Evan. E con nessuno di essi era stata sinceramente convinta di aver fatto la cosa giusta. Era stato bello, sì, ma non giusto. Non meraviglioso. Non senza che quei serpeggianti sensi di colpa si insinuassero nella sua coscienza, turbandola. Si chiese come si sarebbe sentita a farlo con Nick Winston, il ragazzo che aveva conosciuto la sera prima da Wally's. Ripensando a Nick, Alison non provò il desiderio di rivederlo. Un ragazzo simpatico, sì, ma... Il sedere cominciava a farle male. Cambiò posizione, abbassando le gambe e incrociandole. Piegò un poco il busto all' indietro premendo i palmi sulla roccia, e puntellandosi con i gomiti restò in quella posizione, con la schiena sollevata dalla superficie rocciosa. Alzò il viso, volgendolo al sole. Il calore le diede una sensazione meravigliosa. Immaginò di andare nel luogo appartato dov'era stata con Evan, di togliersi i vestiti, e sentire la carezza del sole su tutto il corpo. Nemmeno per idea, pensò.
Si protese in avanti e si sollevò la gonna scoprendo le gambe. Si sbottonò la camicetta, e alzandone le due falde anteriori, le legò sotto le costole. Poi si abbandonò di nuovo all'indietro, sorreggendosi sulle braccia rigide. Era ancora più bello, sentire il sole sul petto, sul ventre e sulle cosce. Il sole, e la dolce carezza del vento leggero. E così mi è andata buca più di una volta, pensò. Beh, non è poi la fine del mondo. Ho ventun anni, e non sono da buttare. Non vedo perché una roba simile dovrebbe buttarmi giù. Sto meglio senza Evan, meglio sola che insieme a un ragazzo che non sia quello giusto per me. Donati a chi pensi davvero che ti meriti, e non mentire a te stessa quando non sei convinta che sia l'uomo giusto. Questa è la cosa più importante. Più tardi, quando Alison andò via di lì, non passò per Summer Street. Si sentiva serena, e non sentiva il bisogno di punirsi o tormentarsi passando davanti alla casa di Evan. Attraversò il bosco e vide alcune coppie che passeggiavano. Scorse qualche coppia di innamorati appoggiati a un albero nell'intimità dell'ombra, e provò solo un attimo di tristezza. Quando giunse a casa, trovò Celia addormentata sul divano con la cuffia dello stereo appoggiata alle orecchie. Dalla porta chiusa della camera di Helen giungeva il ticchettio ovattato di una macchina da scrivere. Si avvicinò alla porta e bussò. "Sì," rispose Helen. Alison l'aprì. Helen spinse un po' indietro la sedia, la girò e guardò Alison da sotto una visiera verde trasparente. "Non è successo niente di eccitante mentre ero fuori?" "Solo Celia che si lagnava continuamente per i suoi dolorini e doloretti, ma dubito che lo si possa definire eccitante." "Ha telefonato qualcuno?" chiese poi. Che me ne importa? si domandò immediatamente. No, non m'importa. Ma si sentì un po' delusa quando Helen scosse la testa. "Nessuno. Il tuo pubblico deve avere altro da fare." "Tanto meglio." "Credevo che fosse finita con Evan." "Infatti. Ero solo curiosa, tutto qui." "Danny Gard ha telefonato a Celia; voleva uscire con lei stasera. Avresti dovuto sentire come si lamentava la poverina." Helen contorse il viso in una smorfia di dolore, e, scimmiottando l'amica, "No, non posso. No, stanotte sono stata così male, una sooofferenza mooostruosa. Forse la settimana prossima. Forse tra un mese. No, tu non c'entri, sono iiiio. Sto così
male. Quasi non riesco a muoooooovermi." "Non è possibile che Celia passi in casa un sabato pomeriggio," disse Alison. "Figurati. Sta solo aspettando un'offerta migliore. Si vede che non si è divertita un granché con Danny ieri sera." "È un tipo così volgare. L'ultima volta che l'ho visto era impegnato in una gara di rutti con Lisa Ball." "È uno dei Sig," disse Helen, come se ciò spiegasse ogni cosa. Alison annuì. "Per lui il massimo del divertimento è dar fuoco alle scorregge." Sogghignando, Helen disse, "Lo sai per esperienza personale?" "L'ho sentito pontificare..." Lo squillo improvviso del telefono interruppe le sue parole. Alison si sentì stringere dentro. "Vado io," mormorò, e si affrettò nel soggiorno. Speriamo che non sia Evan, pensò. La mano tremò quando sollevò il ricevitore. "Pronto?" "Celia?" Grazie a Dio. "Un attimo, prego," disse. Celia, distesa ancora sul divano, aveva gli occhi chiusi. Evidentemente la musica che fuoriusciva dagli auricolari aveva coperto il suono del telefono. Alison si chiese se stesse dormendo. Helen apparve sulla soglia della sua stanza. Inarcò le sopracciglia folte. Alison coprì con la mano il microtelefono. "È per Celia." "Un ragazzo?" "Già." "Scopri di chi si tratta." "Chi la cerca, scusa?" chiese Alison alla persona all'altro capo del telefono. "Jason Banning." "Grazie. Solo un momento." Coprì di nuovo il microtelefono. "È Jason, l'attore, il compagno di stanza di quella cimice schifosa." "La matricola." Alison annuì, depose il ricevitore e corse al divano. Scosse leggermente la spalla di Celia, e questa aggrottò le ciglia, farfugliando qualcosa, ma non aprì gli occhi. Alison le scostò l'auricolare da un orecchio. "Ehi, dormigliona, servizio sveglia telefonica." "Eh?" "C'è un tuo ammiratore al telefono."
Una palpebra si sollevò a fatica. "Cosa? Chi è...?" "Jason." Celia dischiuse anche l'altra palpebra. Guardò obliquamente Alison. "Jason? Jason Banning?" "Proprio lui." "Maledizione," mormorò. "Vuoi che gli dica che non puoi venire al telefono?" "Vuoi scherzare." Si tolse la cuffia e brontolando si sollevò lentamente a sedere. "Dio mio, già mi sento eccitata a morte." Alison le avvicinò l'apparecchio telefonico. Lo sistemò sul tavolino da caffè e porse il ricevitore a Celia. "Ciao, Jason," disse Celia, con voce allegra e cordiale, mostrandosi tutt'a un tratto in forma smagliante. Alison guardò Helen, e questa scosse la testa, sogghignando. "Sì, un bastardo mi ha investita... No, non sto troppo male. Beh, non sono uno splendore a guardarsi, però... No, sai, tu non mi hai vista, altrimenti... Sì? Figurati, anche a me farebbe piacere vederti... Stasera?... No, non ho impegni dai quali non posso liberarmi..." Helen, che continuava a dondolare la testa, alzò gli occhi al cielo. "Sarebbe magnifico. A che ora?... D'accordo. Magnifico, eccezionale. Ci vediamo allora." Porse il ricevitore a Alison che lo depose per lei. "Sei sicura di poter andare a un appuntamento?" "Mi porta al Lobster Shanty, altroché se me la sento." "Caspita," disse Alison. Il Lobster Shanty era il ristorante più elegante di Clinton. "Sarà davvero emozionante," commentò Helen, "uscire con una matricola." "Un fusto di matricola," corresse Celia. "Adesso se la fa coi poppanti." "Fanculo." Si sdraiò di nuovo sul divano e incrociò le caviglie. "E poi, ha ventun anni, come noi." "Certo." "Davvero." "E cos'ha fatto, è stato bocciato per tre anni?" "Dopo il liceo si è messo a lavorare. Ha fatto il modello, spot pubblicitari, e roba simile." "E la sua ragazza?" fece Alison. "Non avevi detto che usciva già con una?"
"Già. Si vede che finalmente si è accorto del grosso errore." "Forse gli piacciono le storpie," suggerì Helen. "Voi due mi fate crepare dal ridere." "Siamo solo invidiose," le disse Helen. "Magari potessimo andare anche noi al Lobster Shanty con una matricola." "Adesso lo richiamo," disse Celia. "Forse può piazzare una di voi due con Roland." "Io non sono egoista, lo lascio volentieri a Alison." Celia girò la testa sul cuscino e sorrise ad Alison. "Facciamo un'uscita a due coppie, come ai tempi del liceo." "Perdonatemi, ma mi viene già da vomitare." "Beh, Roland non sarà un fusto e un viveur come Evan, però, ehi!, è sabato sera, non vorrai startene sola di sabato sera, eh?" "Senza contare," aggiunse Helen, "che sarà tutto un bollore per te." "Tutto un turgore," corresse Celia. "Visto come ti ha squadrata ieri..." "Ti ha spogliata con gli occhi..." Il pensiero fece rabbrividire Alison. "Mi piacerebbe uscire con te, Celia, ma mi è giunto all'orecchio che Roland ha altri progetti. Per stasera ha già in programma un ménage a trois." Helen sbuffò. "Ha-ha-ha," ridacchiò Celia. Alison scoccò un'occhiata a Helen. "Crede che stia scherzando. Non trovi che questa faccenda sia un tantino strana? Jason non ha mai invitato Celia a uscire con lui — nonostante lei fosse così bella e intelligente — e quando la invita a cena? Proprio il giorno dopo l'incontro casuale al centro commerciale con Roland, il suo compagno di stanza." Helen si accarezzò il polposo labbro inferiore e annuì. "È davvero una strana coincidenza." Celia sogghignò. "Ve lo dico io come andrà a finire. Quando Roland si presenterà al ristorante, io gli darò la chiave di casa dicendogli che ci sono due mie amiche arrapatissime che stanno morendo dalla voglia di gustarsi un bocconcino della sua adorabile persona." Ammiccò a Helen. "E gli consiglierò di portare delle patatine." "Allora, che te ne pare?" chiese Celia. Alison, distesa sulla poltrona reclinabile, depose l'evidenziatore giallo nel margine interno del testo di Chaucer su cui stava studiando da due ore.
Alzò gli occhi. "Non male." Celia si era tolta la bendatura dalla fronte. Una fascetta di seta blu le cingeva il capo, nascondendo l'abrasione. Annodata sopra l'orecchio sinistro, i due capi scendevano fin quasi sulla spalla. Dai lobi pendevano dei grossi orecchini a cerchio. "Somigli a Lon John Silver," disse Alison. "Carino, no?" "Effettivamente, stai benissimo." "Non si direbbe che sono tutta scassata, vero?" "Solo dalla tua fama," disse Helen, che arrivava dalla cucina con un boccale colmo di birra e una lattina di arachidi. Allungò la lattina verso Celia. "No, grazie, mi conservo lo stomaco per la cena." "Dov'è finita la benda?" le chiese Helen. "Non vado al Lobster Shanty con una benda appesa al collo." Sollevò rigidamente il braccio dal fianco. "Ho messo una fascia elastica al gomito. E anche sulle ginocchia." "Strano vederti con un vestito che le copra," disse Helen. "Ho fatto il possibile." L'abito lungo aveva le maniche che la coprivano fino agli avambracci, mentre la gonna scendeva fin sotto le ginocchia, coprendole le fasciature, ma non occultandole completamente. Alison le notò per il modo in cui la stoffa lucida aderiva strettamente a ogni centimetro del suo corpo. Tre fasciature apparivano sotto il vestito, e nient'altro. Celia abbassò gli occhi, guardandosi. "Avrei preferito qualcosa di più scollato," disse, toccandosi la pistagnina che le cingeva la gola. "Con un vestito di cellophane si sarebbe visto di più," disse Helen, e si lasciò cadere sul divano. "Vuoi?" disse, lanciando un'arachide a Alison, che l'afferrò a mezz'aria e se la gettò in bocca. "Lo so, è un problema," disse Celia, "Ma non so proprio come rimediare." Si girò da un lato e fece un passo. La gamba destra, nuda fino alla caviglia, apparve da una fenditura nell'abito. Una fascia elastica marrone avvolgeva il ginocchio. "Ho provato a togliermela, ma il ginocchio mi fa davvero un male boia senza di questa." "Potresti metterti una tuta," suggerì Alison. "Sei impazzita!" fiammeggiò Helen. "Il fatto è," disse Alison, "che lui sa benissimo che sei ferita. Non vedo che problema ci sia se per caso vedrà le fasce."
"Tanto le vedrà tutte comunque," fece Helen, "quando avrai gettato il vestito sul pavimento." "Non getterà il vestito sul pavimento," disse Alison. "Roland glielo appenderà per benino." "Davvero carine. Che ore sono?" Helen guardò l'orologio al polso. "Le sei e venti." "Bene. Verrà a prendermi alle sette meno dieci. Credo che berrò un po'..." "Anch'io vorrei ubriacarmi," osservò Helen, "se dovessi mostrarmi in pubblico vestita in quel modo." "Se tu ti mostrassi in pubblico vestita così," ribatté Celia, "sarebbe il pubblico a volersi ubriacare." Si rivolse poi a Alison, sorridendo. "Ti porto qualcosa da bere?" "Sì, grazie. Quel che prendi per te andrà bene." Celia andò in cucina. "Dio, sta d'incanto," bisbigliò Helen. "Non ho neppure il dieci per cento di quello che ha lei..." Scosse la testa e sospirò. "Si vive male per poi morire." "Ordiniamoci una pizza dopo che Celia sarà uscita." Helen inarcò le sopracciglia folte. "Beh, in fondo non si vive poi così male." Dopo pochi minuti Celia ritornò reggendo un vassoio con la mano sinistra. Due tumbler vi stavano sopra in equilibrio. "Doppio gimlet alla vodka," annunciò mentre Alison prendeva uno dei bicchieri. "Sarai sbronza prim'ancora che arrivi quello," disse Helen. "Solo qualcosina per calmare il dolore. E poi è lui che guida." Depose cautamente il vassoio sul tavolino, si adagiò sul divano e sollevò il bicchiere. Alison bevve un primo sorso. Il liquore eramolto forte. Guardò Celia con espressione accigliata. "Te la senti proprio di uscire? Sicuro?" Con gli occhi fissi nel bicchiere, Celia scrollò una spalla. "Non posso certo rinunciare a vivere solo perché un bastardo mi ha buttato per aria." "Forse hai bisogno di un po' di tempo." "Standomene seduta a pensarci?" "Credo che ti abbia colpito parecchio." "A me lo dici?" "Emotivamente, intendo." "Alison ha ragione," intervenne Helen. "Non puoi far finta che non sia
successo niente. Per poco non sei rimasta uccisa, e quel tizio è morto. Non è roba da poco." "Me la sto cavando, okay? Che state cercando di fare voi altre, rovinarmi l'appetito?" Bevve ancora. "Starò bene, vedrete. E starò ancora meglio dopo un paio di drink e una cena a base di aragosta con un ragazzo simpatico a cui piaccio e che è davvero un bel macho pur essendo una matricola. Apprezzo la vostra preoccupazione, ma ora piantatela, okay? Sto benissimo." "Buono il tuo cocktail," disse Alison. "Tra poco saremo in due a stare benissimo." "Sì, con una piccola differenza. Io starò con un incantevole maschio e tu starai con Helen. Mangiati il fegato." "Ehi," fece Alison, "Così mi deprimi." Un'arachide le rimbalzò sulla fronte e finì a tuffo nel suo drink. Nel giro di qualche secondo riaffiorò, galleggiando sulla vodka. La prese, e sorridendo se la mise in bocca. Aveva perso il sale. Pescò allora un cubetto di ghiaccio e lo studiò attentamente. "Ehi, no," implorò Helen. "Andiamo, con quello potresti ferire qualcuno." "Hai ragione. Come ho potuto pensarlo?" Lo lanciò quindi addosso a Helen. Strillando, Helen incurvò le spalle e si dimenò sulla sedia. Sussultò quando il cubetto le atterrò in grembo. La mano diede un involontario strattone, e una lingua spumosa di birra traboccò dall'orlo del boccale, frangendosi sul seno. "Hi-ah!" "Ops," disse Alison. "Caspita!" esclamò Celia. "Quasi quasi telefono subito a Jason e annullo l'appuntamento. Con i vostri numeri, sicuramente me la spasserò di più se resto." Helen sistemò la lattina di arachidi tra le ginocchia. Rabbuiandosi si guardò il vestito, scostando dalla pelle la stoffa bagnata. Indossava lo stesso abito stinto, macchiato e informe che aveva addosso il giorno prima, quando erano andate al centro commerciale. O un altro, forse, pensò Alison, che sembrava uguale a quello. Ne aveva parecchi così. Difficile distinguerli. Annusò un lembo della stoffa bagnata. "Decisamente migliorato," osservò. "Se ne sono andati," annunzio Alison dalla poltrona reclinabile. La porta della camera da letto di Helen si aprì lentamente e lei si guardò
intorno come per accertarsi che vi fosse via libera prima di avventurarsi fuori. Quando se ne fu convinta, si avvicinò a Alison. "Allora, com'era Jason?" "Sembrava uscito da una pubblicità di dopobarba." "Beh." Helen si sfregò il naso col dorso della mano. "Dev'essere uno stronzo. Tutti quelli che escono con lei sono degli stronzi, te ne sei accorta?" "Non saprei," disse Alison. "È così. E vedrai che un giorno o l'altro se ne pentirà." "Spero di no." "Tu prova a frequentare continuamente dei personaggi spregevoli, per forza prima o poi..." "Che tipo di pizza vogliamo prendere, al salame, salsiccia?" "Ho dei menu nel cassetto della scrivania." "Va' a prenderli." CAPITOLO DICIASSETTESIMO Jake stava ancora tremando quando scese dalla macchina. Con la torcia nella mano sinistra e il machete infilato sotto il braccio, si diresse al bagagliaio. La punta della chiave mancò diverse volte il foro della serratura prima che riuscisse a inserirvela. Girò la chiave, e il portellone si aprì. Vi ripose la torcia e il machete, accanto alla tanica di benzina, poi lo richiuse con forza. Giunto sulla veranda anteriore di casa sua, si afferrò saldamente la mano destra con la sinistra così da tenerla ben ferma mentre inseriva la chiave nella serratura. Entrato, chiuse anche la serratura di sicurezza, e sistemò la catena nell'apposita scanalatura. Benché la luce serale penetrasse ancora attraverso le finestre, compì un giro completo del soggiorno accendendo ogni lampada e lampadario. E durante l'ispezione, si sorprese a controllare ogni finestra e a scrutare dietro i mobili. "Nervi d'acciaio," mormorò. Entrato in cucina, pigiò l'interruttore della luce. Ispezionò le finestre e la porta posteriore per accertarsi che fossero ben chiuse. I pantaloni di cuoio che indossava erano troppo stretti per consentirgli di accosciarsi, così piegò il busto all'altezza della cintola e aprì un mobile dal quale trasse una bottiglia di bourbon. Una goccia di sudore gli colò giù dal mento, finendo sulla punta di uno stivale.
Si avvicinò al lavello, e strappò un grosso pezzo di carta assorbente dal rotolo. Si tamponò quindi la faccia e i capelli bagnati, scomposti in sottili ciuffetti fibrosi. Poi si riempì un bicchiere di bourbon. Ingoiò alcune sorsate e sospirò quando il calore del liquore si irradiò dentro di lui. Portando il bicchiere con sé, percorse il corridoio, accendendo tutte le luci al suo passaggio, e entrò infine in camera da letto. Accese la luce anche lì, e si guardò intorno. Le tende erano chiuse. Il guardaroba era aperto, esattamente come lo aveva lasciato. Bevve un'altra sorsata, passò oltre il guardaroba e vi guardò dentro. Si portò allora all'altro lato del letto, e fu colto dall'impulso di abbassarsi ginocchioni e di sbirciarvi sotto. Non fare il cretino, pensò. Ora sei a casa. Non sei in quel maledetto ristorante, sei a casa e non c'è niente sotto il letto, a parte qualche ricciolo di lanugine. Oltretutto in quella tenuta non sarebbe stata un'impresa da poco. Jake mandò giù un altro sorso di bourbon, dopodiché depose il bicchiere sul ripiano del cassettone. Abbassò la lampo del giubbotto di cuoio e si tolse l'indumento. La camicia azzurra, scurita dal sudore, era appiccicata alla pelle. Provò a sbottonarla, ma le dita gli tremavano terribilmente, così, dopo che ebbe aperto il primo bottone, se la scollò dal corpo e la tirò sulla testa. Sganciò la fibbia della cintura dalla quale pendeva la rivoltella e la gettò sul letto. La pistola custodita nella fondina rimbalzò quando atterrò sul materasso. Non la perse d'occhio un istante mentre si sbottonava i pantaloni e se li tirava giù fino alle ginocchia. Sedutosi sul letto, sollevò la patta di cuoio e liberò la rivoltella dalla custodia. La piazzò vicinissima alla gamba destra, poi si chinò e si sfilò gli stivali. I calzini erano praticamente incollati ai piedi. Se ne liberò. Poi abbassò i pantaloni attillatissimi fino alle caviglie e li scalciò via. Nel chiarore della lampada le sue gambe apparivano lucide per il sudore. I peli erano ammassati. Jake si strofinò la pelle appiccicosa degli stinchi, poi girò le gambe e scrutò i polpacci. Niente buchi della grandezza di un quarto di dollaro. Beh, naturale che non ve ne fossero. Niente avrebbe potuto trapassare gli stivali e i calzoni di cuoio. Non senza che lui se ne accorgesse. Si alzò in piedi. Le natiche sudate avevano lasciato chiazze umide sul tessuto celestino del copriletto. Si calò le mutandine inzuppate e se le sfilò
dai piedi. Okay, sono un cretino, decise. Armatosi della pistola, si mise carponi. Sollevò l'orlo pendulo del copriletto e sbirciò nello spazio oscuro sotto il letto. Un paio d'occhi ricambiarono il suo sguardo. Gridò. Puntò fulmineo la canna della pistola contro i due occhi. Fu sul punto di premere il grilletto quando si rese conto che chi lo stava fissando da là sotto, era Cookie Monster, il pupazzetto di Kimmy. Allungò un braccio e lo tirò fuori, per poi premerselo su di una guancia. Dio onnipotente, e se gli avessi sparato? In fondo era solo un animale di peluche, se ne rendeva conto. Ma, come ogni cosa che apparteneva a Kimmy, in un certo qual modo era molto di più. In parte era Kimmy stessa, come se la bambina vi avesse alitato dentro un po' della sua vita. Le sembrava quasi di sentirla brontolare a bassa voce, "Io voglio Cookie!" Jake sentì un groppo strozzargli la gola. "L'hai scampata bella, Cookie," sussurrò. Si tirò su. Col paffuto pupazzetto blu in una mano e la pistola nell'altra, si diresse verso la porta. Voleva riportare Cookie Monster nella stanza di Kimmy, ma poi cambiò idea. Lo posò sul comodino, accanto al telefono. Il lato del guardaroba che prima apparteneva a Barbara aveva ancora uno specchio a tutt'altezza applicato sulla parte esterna dell'anta. Jake la chiuse e guardò la sua immagine riflessa. Lo sapresti se ti avesse preso, pensò. Potrebbe annullarne il ricordo, però. Se ha il potere di trasformarti in un cannibale... Non aveva ferite sulle gambe. Lo scroto era raggrinzito, quanto al pene, sembrava che volesse scomparire del tutto. Si fece scivolare una mano tra le gambe, controllando entrambi i lati dello stretto sacco cutaneo e dietro di esso. Passò allora a ispezionare l'ombelico e rabbrividì alla visione immaginaria del suo dito capace di affondarvi dentro trovando un cunicolo aperto. Ma anche l'ombelico era a posto. Il resto della parte anteriore del suo corpo sembrava in ordine; soltanto la cicatrice da taglio sotto il capezzolo destro sembrava un po' più bianca del solito. Si girò, e prese a guardarsi da sopra una spalla, poi dall'altra. Perquisì la piega tra le natiche sudate. È tutto a posto, si disse, a meno che quel coso maledetto non si sia infilato attraverso il sedere. No, non poteva farlo senza passare per i pantalo-
ni di cuoio, e lì non ci sono buchi. Persuaso che la creatura non lo aveva invaso, Jake bevve un altro sorso di bourbon. Il bicchiere era quasi vuoto. Tornò allora in cucina, portandolo con sé assieme alla rivoltella. Dopo che lo ebbe riempito di nuovo, aprì un cassetto e prese un capiente sacchetto di plastica trasparente, di quelli usati per conservare cibi nel surgelatore. Si domandò se per caso non fosse ammattito. Beh, tanto nessuno lo avrebbe mai saputo, disse a se stesso. Se lo faceva sentire più tranquillo, allora perché non farlo? Ridicolo, un poliziotto spaventato come un bambino. Infilò la pistola nel sacchetto di plastica e lo richiuse, sigillando accuratamente gli orli a chiusura ermetica. Ciò fatto, Jake andò a chiudersi nella stanza da bagno. Esaminò minuziosamente il pavimento, le pareti e il soffitto, il lavabo e la vasca. Poi aprì il rubinetto della doccia. Un paio di sorsate riempirono l'attesa che l'acqua si regolasse alla giusta temperatura. Depose poi il bicchiere sul sedile del water e entrò nella vasca. Chiuse infine la porta di vetro appannato della cabina per la doccia. Al di sopra del portasapone incassato nel muro c'era un supporto metallico su cui andava poggiata la spugna. Infilò tra la parete piastrellata e il supporto metallico il sacchetto di plastica che conteneva la pistola, lo posizionò incastrandolo in modo tale che non rischiasse di cadere, poi prese la saponetta e cominciò a lavarsi. Il getto caldo e potente gli diede una piacevole sensazione. Jake disse a se stesso che non poteva esserci un posto più sicuro: la porta era chiusa a chiave, aveva ispezionato a dovere la stanza da bagno, era chiuso nella cabina della doccia, e la rivoltella era lì a portata di mano. Niente poteva minacciarlo. Poi notò il mulinello d'acqua saponata che colava giù per il tubo di scarico. Un brivido gli percorse la schiena facendogli accapponare la pelle. Sei pazzo, si disse. Lì sotto c'è una vaschetta metallica di drenaggio, niente può venir su. Si mise in ginocchio. Infilò la punta di un dito nel chiusino e riuscì a spingerlo dentro soltanto fino alla prima nocca che toccò l'ostruzione. Okay, nessun problema. Stammi a sentire, amico mio, qui c'è un solo problema: la tua testa. Aveva passato ben due ore da solo a setacciare quel dannato ristorante.
Se quel coso immondo voleva proprio prendersela con lui, e beh, aveva avuto tutto il tempo di farlo quando era là. No, non si era fatto la sua bella tana dentro di lui. Probabilmente aveva già trovato un nuovo alloggio — poteva essersi annidato in chiunque fosse entrato nel ristorante tra giovedì notte e quel pomeriggio. E adesso un qualche bastardo scalognato se ne andava in giro con quell'inquilino appollaiato sulla schiena, in cerca di cibo. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. La nostra vittima quotidiana. Il vecchio Barney, lui poteva permettersi il lusso di scherzarci sopra. Ma se fosse tornato lui lì dentro, a quest'ora sarebbe stato il primo a preoccuparsi dei chiusini. Jake rimase sotto la doccia finché l'acqua non cominciò a raffreddarsi. Poi uscì dalla cabina, si asciugò, bevve un altro sorso di bourbon e tolse la pistola dal sacchetto di plastica. In camera da letto si pettinò e indossò un accappatoio. Si trasferì quindi in soggiorno, senza mai separarsi dal drink e dalla rivoltella. Seduto sul divano, incrociò le gambe per sollevarle dal pavimento. Adagiò in grembo la pistola. Sollevò l'apparecchio telefonico dal tavolino e compose il numero di casa di Barney. Fu Barney stesso a rispondere, dicendo, "Higgins." "Sono Jake." La voce non suonò alterata. "Applegate ti ha fatto sapere qualcosa?" "Certo. Avevi ragione su quel John Doe, l'uomo del furgone. Sangue e arcate dentarie corrispondono alla perfezione. E a te com'è andata?" "Ho fatto controllare tutti quelli che si sono trovati sulla scena del delitto giovedì notte. Nessun portatore." "Come hai fatto a appurarlo con sicurezza?" "Perquisizione integrale." "Devono averla gradita. Hai spiegato il motivo?" "Ci sono andato maledettamente vicino. Ho detto che Smeltzer era affetto da una parassitosi contagiosa. Sono stati molto disponibili alla collaborazione." "Potevi dire che avevo organizzato una campagna per la circoncisione." Jake ignorò la battuta. "Quando ho finito con loro, sono andato all'Oakwood Inn. Qualcuno è stato lì dentro. Sia la porta anteriore che quella inferiore sono state forzate. In più, ho trovato un sacchetto di farina sul pavimento della cucina." "Un sacchetto di cosa?" "Farina. Quella che si usa per cucinare, sai."
"Qualcuno si è messo a fare pasticcini?" "Ne dubito. Il forno manca. C'erano anche delle orme. Qualcuno è finito col piede in una pozza di sangue e ha lasciato delle tracce. Un piede nudo. Diciamo, misura sette. E qualcuno si è scolato una bottiglia di vodka che gli Smeltzer avevano lasciato nella zona bar." "Tu cosa ne pensi?" "Potrebbe essere opera di un barbone. Però la misura delle orme mi fa pensare che una ragazza sia stata lì dentro. Forse una coppia di studenti del college ha dato una festicciola privata." "Nessuna traccia del nostro vecchio amico, il caro Cannibale Strisciante?" La pelle delle cosce e della fronte di Jake sembrò farsi rigida e contratta. "Hai cercato, no?" "Ho cercato. Sono stato più di due ore a frugare dappertutto. Ho controllato ogni centimetro di quel posto." "Senza risultato, eh?" "Non l'ho trovato..." "Sta per arrivare un 'ma', o mi sbaglio?" "Sì. Ma." Jake si sentì mancare il fiato. Fu colto da un lieve capogiro. Si raddrizzò e si riempì i polmoni. "Giù in cantina, dietro la scala, ho trovato mezza dozzina di uova." "Uova?" "Proprio." "Come le uova di gallina?" "No, non come quelle di gallina." Barney fischiò piano nel ricevitore. "Le sue uova?" "Io... sì, credo di sì. Erano trasparenti. Sembravano... sembravano quasi dei fagioli gelatinosi, ma di consistenza morbida. Erano rosse, ma trasparenti. Si vedeva ciò che contenevano. E in ognuna di esse c'era un piccolo... una specie di vermiciattolo." "Dei vermiciattoli grigi." Vi fu un lungo silenzio, poi Barney disse, "Dove sono adesso, queste uova?" "Ancora là." "Stai dicendo che le hai lasciate laggiù?" "Le ho schiacciate sotto i piedi." "Sei impazzito? Merda!" "Cos'avrei dovuto fare? Prelevarle come prova?"
"Le avremmo sottoposte a dei test, ci avremmo studiato sopra. Forse avremmo scoperto..." "Lo so. Lo so questo. È che in quel momento... ho perso il controllo sui miei nervi, Barney." Seguì un altro lungo silenzio. "Va tutto bene adesso?" gli chiese Barney in tono sommesso. "Mi sto riprendendo." "Tu non sei uno che si fa prendere dal panico facilmente." "Ti sbagli." "Non avrei dovuto mandarti lì da solo. Mi dispiace. Sei sicuro di star meglio?" "Sì, non preoccuparti." "E così hai spiaccicato i piccoli bastardi." "Sì. Mi dispiace." "Beh, forse è meglio. Credo che sia necessario evitare qualsiasi rischio." Jake lo sentì sospirare. "Sicché la mammina non c'era, eh?" "Io penso... che possa trovarsi ovunque, ma c'è una buona possibilità che abbia lasciato il ristorante insieme a chi si è introdotto lì dentro." "Gli studenti venuti a far bisboccia." "È solo un'ipotesi." "Non hai idea di chi fossero?" "Con ogni probabilità uno degli intrusi doveva essere una ragazza, e dubito che si sia azzardata in quel posto da sola. Dev'esserci andata in compagnia di un ragazzo. Possiamo rilevare le impronte sulle maniglie delle porte e sulla bottiglia di vodka. La bottiglia l'ho già prelevata, perciò possiamo controllare al più presto. Ma non credo che approderemo a qualche risultato. Abbiamo tremila studenti all'Università di Clinton, e circa altri cinquecento frequentano il liceo. E nei nostri archivi abbiamo le impronte di un paio di dozzine di quei ragazzi." "Che ne diresti di una perquisizione 'integrale' di ogni ragazzo della città? Potrei darti una mano personalmente con le ragazze." "Già, certo. Vorrei che fosse possibile. Oppure potremmo prendere le impronte a tutti. Per ora è l'unico sistema che abbiamo per cercare di incastrare quell'essere infernale." "Tuttavia, nulla garantisce che il come-cavolo si sia annidato in uno dei ragazzi," disse Barney. "Come-cavolo?" "Quel fottuto come-cavolo-si-chiama. Potrebbe aver lasciato il ristorante
prima che i ragazzi si facessero vivi. Hai qualche nuova mossa in mente?" "Non ancora. Forse un appostamento al ristorante. Sono più che convinto che la bestia se ne sia andata, ma c'è pur sempre la possibilità che i ragazzi ritornino." "Difficile. Adesso riposati un po'. Il nostro amico si è trovato un nuovo padrone di casa, forse tra un po' prenderà il volo e la smetterà di darci noia. Oppure continuerà a bazzicare nei paraggi e fra un giorno o due avremo una denuncia di scomparsa o troveremo un cadavere, e allora, forse, saremo più fortunati." "In un caso o nell'altro," aggiunse Jake, "dovremo rendere pubblica la faccenda." "Dovevi proprio ricordarmelo," mormorò Barney. "Se non lo avessi fatto io, ci avrebbe pensato Applegate." "Già. Abbiamo affrontato l'argomento quando mi ha chiamato. Aspetteremo fino a mezzogiorno di martedì, dopodiché, se non saremo riusciti a incastrarlo, daremo una conferenza stampa. E allora tu, io e lui, diventeremo immediatamente delle celebrità — il trio di coglioni che ha gettato nel panico l'intera nazione. Sai che spasso. Sarà meglio che prendiamo quel bastardo prima d'allora." "Detesto l'idea di aspettare senza poter fare nulla." "Inutile sprecare tempo, non hai nessuna pista da seguire. Tanto vale conservare le energie e cercare di distrarre la mente." "Già." Jake riattaccò e finì il suo bourbon. Andò in cucina per prepararsi da mangiare, e stava pelando una patata sul lavello quando si accorse di aver lasciato la pistola sul divano. Non andò di là a prenderla. Per una qualche ragione, paure e nervosismo si erano dissipati. Forse grazie al bourbon. Più probabilmente parlare con Barney lo aveva rincuorato — parlare di quella creatura e delle sue uova, e dell'irruzione nel ristorante. Specie di quest'ultima. Non aveva dubbi, non più, che la creatura avesse trovato una nuova tana umana. Non si aggirava furtivamente all'ombra dei suoi passi in attesa dell'occasione propizia per introdursi dentro di lui. Non s'era acquattata nella pattumiera, pronta a erompere dalla montagna di bucce di patate per schizzargli addosso e addentargli il collo. La creatura immonda se ne stava appollaiata sulla spina dorsale di un giovane che era andato a cercare un po' di divertimento nel posto sbagliato. Jake si chiese se quel giovane cominciasse ad aver fame.
CAPITOLO DICIOTTESIMO "È stata una cena deliziosa," disse Celia mentre uscivano dal ristorante. "E tu sei una persona deliziosa." "Ne sono felice," disse Jason. Celia gli passò un braccio intorno alla schiena, premette il suo corpo a quello di lui e lo baciò. Erano in piedi sotto il portico illuminato, ma l'addetto al parcheggio non era nelle vicinanze. Non si vedeva nessun altro. Jason si offrì all'abbraccio, sentendo il calore umido della sua bocca, la soffice pressione dei suoi seni, il ventre di Celia aderire al suo. Si stava eccitando, e sapeva che lei poteva sentirlo. Celia si mosse sinuosamente, strofinandosi su di lui. Una mano di Jason le carezzò la schiena, scivolando in un massaggio discendente, che trovò una superficie perfettamente levigata, nulla che interrompesse quella soffice sericità, neppure una fascia sottile alla vita. Carezzò i fermi promontori delle natiche. Jason pensò a Dana e si sentì in colpa. Lo sto facendo per te, le disse nella sua mente. Già, per me, eh? la sentì quasi rispondergli. Ti sei eccitato, bastardo. Chi potrebbe fare la spia? chiese a se stesso. Dana potrebbe essere già morta. Gesù, non pensarlo neppure. Una macchina imboccò il vialetto carrabile del ristorante, la videro e si separarono. Jason prese Celia per la mano e la guidò verso il marciapiede. "Ti piacerebbe andare da qualche parte?" Le chiese. "Certo." "Conosco un posticino intimo, davvero carino." "Più è intimo, più mi piacerà," disse, e gli urtò un fianco. Barcollò un poco, poi si girò e disse, "Oh, merda! Aspetta un momento." Con un calcio si liberò delle scarpe dai tacchi alti. Si chinò sul busto senza flettere le ginocchia e le raccolse. Jason osservò il modo in cui l'abito aderì alle natiche. Il pensiero di Dana gli impedì di accarezzargliele. Celia si raddrizzò con le scarpe tra le mani. "Camminare su queste è già un'impresa quando sei sobria." "Vuoi dire che non lo sei?" "Non completamente," fece lei, scandendo le parole lentamente e con ostentata precisione. "Né sono completamente sbronza." Gli rivolse un sorriso obliquo. "E tu? Sei già cotto?"
"Solo un peu ubriaco." Giunsero alla macchina. Jason aprì la portiera dal lato del passeggero, aiutò Celia a entrare nell'abitacolo, poi raggiunse il lato di guida. Quando aprì la portiera si accese la luce interna. Il braccio sinistro di Celia era appoggiato sullo schienale, tendendo sul seno la stoffa lucida del vestito, sospinta in fuori dal capezzolo ritto. La gamba sinistra si era trovata un comodo varco attraverso la fenditura che si apriva in un lato dell'abito. A parte una fascia elastica color carne che le cingeva il ginocchio, la gamba era nuda fino all'anca. La stoffa riposava in molli drappeggi nella parte interna della coscia. Se quell'angolino di stoffa si sposta un po' più a destra, pensò Jason, allora vedrò uno spettacolo niente male. Celia sorrise come se sapesse cosa stava pensando. "Che fai? Sali o resti lì?" "Eccomi." Jason si sedette al volante e chiuse la portiera. La luce si spense. Inserì la chiave d'accensione e fece partire la macchina. La mano di Celia trovò la sua nuca e prese a massaggiargliela. "Sei teso?" gli disse. "Un po', credo." La macchina si staccò dal marciapiede. "Come mai?" fece lei, massaggiandogli i muscoli del collo. "Non sarò io a metterti in agitazione?" "Più che agitato, direi che sono eccitato," disse Jason. "Mmmm." Ma sono anche agitato, pensò. Cristo. Le cose non stavano andando secondo i piani. Doveva farla ubriacare, e questo in parte gli era riuscito; Celia era già cotta a puntino. Ma il piano non prevedeva che lui si eccitasse. Doveva recitare il ruolo stabilito dal canovaccio ordito da Roland per salvare Dana. Tutto qui. Recitare una parte. Fingersi affabile e interessato mentre la rimpinzava di squisitezze gastronomiche e la riempiva di bumba fino a cuocerle il cervello e renderla totalmente indifesa. Lei è proprio come la volevo, pensò. Ma io no. Le cose avevano iniziato a mettersi male fin dal momento in cui l'aveva vista. Dana non era mai stata così bella. Sentendosi un traditore, aveva cercato di respingere quel pensiero. Cionondimeno, per tutta la serata non aveva saputo trattenersi dal paragonare le due ragazze e nel confronto Dana era risultata perdente. Celia era decisamente una favola, assai più bella di Dana. E lo ascoltava, sembrava interessarsi sinceramente a ciò che lui di-
ceva. Non era presuntuosa. Era anche più intelligente e spiritosa di Dana, a volte risultava persino disarmante, ma le sue battute, anche quelle più maliziose, erano sempre improntate a un gradevole umorismo, prive di quella malizia che talora rendeva il sarcasmo di Dana odioso. Celia possedeva un calore, una dolcezza, che erano totalmente estranei all'altra ragazza. Durante la cena, Jason si era scoperto sempre più attratto da Celia. E quanto più lei lo attirava, tanto più lui si sentiva avvelenato dal senso di colpa. Stava tradendo Celia usandola in quel modo; stava tradendo Dana desiderando di scambiarla con Celia. "Quel semaforo è..." Rosso, pensò Jason. Ma era troppo tardi per fermarsi, e così attraversò a razzo l'intersezione. La mano di Celia abbandonò il collo di lui. "Sarà meglio che ti concentri sulla guida," disse. "Se ti fermano in questo stato..." "Già." All'isolato successivo guardò lo specchietto retrovisore. "Va tutto bene?" "Sì." "Hai qualcosa in mente?" "Te." "Me. Lo so, sei sopraffatto dalla mia bellezza e dal mio fascino," disse Celia in tono scherzosamente declamatorio. Jason sorrise. "Già, il tuo fascino e la tua bellezza." "E l'attesa di quel che verrà ti dà le vertigini." "Sei molto percettiva." "Ma cos'è veramente? Insomma, ha qualcosa a che fare con Dana?" Jason si sentì un tonfo nel petto. "Voi due andavate così d'amore e d'accordo, e tutt'a un tratto lei esce di scena e appaio io. Ne vuoi... ne vuoi parlare? Non sarà per caso una manovra tattica studiata apposta per darle la pariglia o per farla ingelosire, eh?" Una manovra, già. Fu grato che l'oscurità gli avvolgesse il viso accaldato, diventato probabilmente scarlatto. "No, niente di tutto questo," disse. "Ci siamo lasciati, ma non è stata lei a scaricare me. L'ho mollata io. Non la sopportavo più, è una tale stronza. Non capisco cosa trovassi in lei prima." Scusami Dana, pensò. Fanculo, immaginò la risposta secca di lei. È tutto vero quello che hai detto, parola per parola. Per te non sono mai stata più di cagna in calore.
Ma, sincerità per sincerità, tu per me non eri più di un pisello duro. La macchina di Jason deviò sulla Latham Road. "Alla fine ho capito," disse, "che avevo bisogno d'altro. Voglio dire, un rapporto di coppia non può essere scopare e basta." "Sono due cose completamente diverse," disse Celia. "Non lo so. Io voglio almeno che la persona che sta con me mi piaccia, e a volte mi capitava addirittura che lei mi desse fastidio. Era così dura, volgare, meschina... non come te. Tu sei davvero dolcissima." "Sì, sono un angelo." "In confronto a lei, lo sei certamente." Perché allora ti sto portando laggiù ? Io non devo a Dana un bel niente. Oltretutto, potrebbe essere già morta (spero quasi... No!) e non dovrei parlare di lei in questo modo, pensare quelle cose di lei — anche se è la verità. Devo fare il possibile per lei. Questo almeno glielo devo. È un piano stupido. Non funzionerà mai. Perciò, se non succede niente, riporto Celia a casa e così non saprà mai che è servita da esca. E se, per caso, dovesse funzionare, ugualmente non ci sarà danno per nessuno. Inchioderemo il bastardo, e lui ci porterà da Dana... Ci condurrà al suo corpo, appeso nudo a una trave, mutilato e morto... Ma in ogni caso, nulla accadrà a Celia. Portala in un altro posto. Dimentica tutta la faccenda. In un motel, magari. Sarebbe bello. Non farle questo. "Guarda lassù," disse Celia, "è proprio lì che quel tìzio ha cercato di investirmi." "Vuoi darci un'occhiata?" Celia scosse la testa. "Già non lo sopporto a questa distanza. La mia bicicletta è ancora là. Non sono neppure tornata a recuperarla." "Vogliamo andare a prenderla? Potremmo metterla sul sedile posteriore." Di' sì, pensò. Andiamo a prendere la bicicletta, e al diavolo l'Oakwood. "È troppo scassata. E seppure si potesse riparare, non la vorrei ugualmente. Me ne compro una nuova, se proprio mi viene voglia di pedalare di nuovo." "Sei sicura?" "Sì." Jason rallentò, abbassò il braccetto della freccia e imboccò la stradina che portava all'Oakwood Inn. Guardò Celia. Lo stava fissando.
"Dove stiamo andando?" gli chiese in un sussurro. "C'è un parcheggio laggiù. Sarà deserto." "Questo è il posto dove quelle due persone sono state uccise giovedì notte." Jason annuì. "Sì. Ho letto la notìzia. Se preferisci un altro posto..." "No." Fu tutto ciò che Celia disse. Senza aggiungere spiegazioni di sorta. "Immagino che non dovremmo preoccuparci di essere disturbati," disse Jason. "Chi vuoi che venga in un posto come questo dopo ciò che è successo?" "Qualche amante del brivido." La strada scomparve, Jason girò verso destra. Con una manovra circolare esaminò alla luce dei fari l'intera area di parcheggio. Non c'erano altre macchine. I coni luminosi incontrarono un angolo del ristorante e si mossero lungo la facciata oscura. Lampi di luce si riflessero nelle finestre. Quando illuminarono la porta, Jason fermò la macchina. "Va' più vicino," bisbigliò Celia. "Sei...? D'accordo." Lasciò che la macchina avanzasse lentamente fin quasi alla scaletta della veranda. Poi la fermò, spense il motore e inserì il freno a mano. Lasciò i fari accesi. Celia si sporse in avanti, una mano appoggiata al cruscotto, e scrutò attraverso il parabrezza. "Com'è strano," sussurrò. "Cosa?" "Trovarsi così vicino al posto dove è successo. Spegni i fari, okay?" Jason eseguì. Celia fissò l'oscurità. "Credi che potremmo entrare?" domandò. Così facile. Lei voleva entrare. E va bene, facciamola finita. "Non lo so," mormorò Jason. "Hai paura?" gli chiese lei. La voce suonò un po' contrariata. "Sì. E tu no?" Celia non rispose. Si lasciò andare sullo schienale. Guardando Jason, gli prese una mano e se la posò sulla coscia nuda. "Senti, ho la pelle d'oca." La mano di Jason si mosse delicatamente verso l'alto. Sì, sentiva la pelle accapponata. Doveva essersi depilata, ma nella parte alta della coscia le piccole protuberanze dei pori erano un po' ispide al contatto. La mano curvò verso la parte interna. E lì la pelle era liscia, incredibilmente liscia e vellutata. La stoffa dell'abito gli sfiorò il margine del palmo. Un centimetro, due forse... pensò.
Me lo lascerà fare, lo so, non mi fermerà. No, non puoi gingillarti con lei... se il piano deve andare avanti. Allora, sai cosa? All'inferno il piano, è un piano idiota. E se invece Dana è viva, prigioniera in qualche posto, e un maniaco la sta violentando, torturando, e questa è la sua unica possibilità di salvezza? Non puoi cancellarla così dalla tua vita. Dannazione, che devo fare? Tolse via la mano dalla gamba di Celia. "Sì," disse, "hai la pelle d'oca. Cos'è? Paura o freddo?" "Beh, a essere sincera ho una fifa negra," disse lei. Jason scorse il lampo bianco dei suoi denti. "Fifa negra?" "Trovi che quest'espressione sia un po' razzista? Il fatto è che questa situazione, mi ha fatto venire in mente quei vecchi film degli anni trenta in cui quel nero, Willy, entrava in una casa stregata e strabuzzava gli occhi, tremando come una foglia." "Boh, non lo so," disse Jason. "Però credo di avere proprio la cosa adatta a farti passare la fifa." "Se devo essere sincera, questa sensazione di agitazione non mi dispiace affatto. Questo brivido interno è quasi sensuale, sai?" "Beh, forse questa aumenterà... quel tuo brivido interno." Piegandosi al di sotto del volante, allungò una mano sotto il sedile e ne tirò fuori una bottiglia di champagne. "Ecco," disse Celia. "Questa sì che si chiama classe." Jason annuì e cominciò a rimuovere la sottile carta stagnola dalla sommità della bottiglia. Quella dello champagne era stata un'idea di Roland. Una garanzia, così l'aveva definita. Una volta imbottita della bumba frizzante, non avrebbe avuto difficoltà a farla entrare nel ristorante. E, nell'ipotesi più ottimistica, la bambola sarebbe caduta in catalessi. A quel punto l'avrebbe trasportata in braccio. Di quella garanzia di successo, Jason non aveva alcun bisogno. Ma voleva prender tempo, per pensare, per decidere. Se entriamo sul serio, si disse, sarà tutto più facile se lei sarà totalmente fuori uso. Mentre srotolava il sigillo metallico, Celia si girò dall'altra parte. Allungò di lato il braccio sinistro e aprì il finestrino. Poi si volse di nuovo di fronte a lui. "Stappa il sughero fuori dal mio finestrino."
"Non vorrei colpirti." "Quando sono in vena, riesco a prenderlo tra i denti." "Adesso non sei in vena?" "È buio, e sono un po' brilla. Perciò, cerca di mancarmi." Jason strappò il filo metallico che ingabbiava il tappo, si strinse saldamente la bottiglia sul petto e cominciò a svitare il sughero. La torsione produsse fievoli cigolii. Puntò la bottiglia davanti al viso di Celia e diede al sughero la girata finale. Con uno schiocco sordo il tappo dardeggiò davanti al suo naso e prese il volo fuori del finestrino. La sentì ridere mentre, concitatamente, accoglieva nella sua bocca la spumeggiante eruzione, e parte della schiuma traboccante gli inondava le mani e la camicia. Inalò la spuma gassosa e tossì. "Stai bene?" Stette bene qualche istante dopo. Jason bevve un sorso di champagne e passò la bottìglia a Celia, che la sollevò ben in alto e piegò la testa all'indietro. Lui osservò il lavorio della sua gola mentre tracannava. Poi, con un sospiro, lei gli restituì la bottiglia. "Squisita," disse, e si voltò verso di lui. Si spostò lateralmente sul sedile facendovi scivolare sopra la gamba. Il ginocchio incontrò la gamba di Jason. La parte interna della coscia era ora bene in mostra. Jason seguì con gli occhi la pallida striscia di pelle e intravide la macchia d'ombra sotto l'orlo del vestito. Poi sollevò di nuovo la bottiglia. Inghiottì un sorso, serrò le labbra e finse di bere ancora prima di passare nuovamente la bottiglia a Celia. "Hai ancora i brividi?" le chiese. "Signorsì. Più che mai." Celia bevve. "Non hai portato crackers e formaggio?" "Accidenti, temo di non averci pensato." "Forse ce ne sono là dentro," disse lei, e con un cenno del capo indicò l'Oakwood. Poi bevve ancora. "In fondo quello è un ristorante." "Non è possibile che tu abbia ancora fame." "Altroché se ho fame." Dal tono in cui lo disse, Jason capì che non stava parlando di cibo. Gli occhi di Celia corsero oltre lo schienale del sedile. "C'è una coperta lì dietro," disse. Jason annuì. "Prendila e seguimi." Prima che lui potesse obiettare, la gamba di Celia scivolò giù dal sedile. La ragazza gli volse la schiena e aprì la portiera. "Ehi, che stai facendo?" le chiese Jason mentre scendeva dall'auto.
"Devo andare lì dentro." "Sei impazzita?" "Sì." Chiuse la portiera. Jason aprì la sua e saltò giù. Oltre il tettuccio della macchina, vide la figura immobile di Celia stagliarsi contro il chiarore lunare, la schiena arcuata, la bottiglia sollevata mentre attingeva da essa. "Io non ci voglio andare là dentro," le disse. Celia abbassò la bottiglia. "Dai, sarà come farsi un viaggio." "Potrebbe essere pericoloso." "La coperta," disse lei. Agitò la bottiglia verso di lui, poi si diresse alla scala della veranda muovendo passi stentati, ondeggiando e zoppicando leggermente. Jason afferrò la coperta dal sedile posteriore e si affrettò a raggiungerla. Celia lo aspettò presso la porta dell'Oakwood Inn. Dopo un'ennesima sorsata, porse a Jason la bottiglia. "Prima le signore," disse in un tremolante sussurro. Poi aprì la porta. Agganciandosi al gomito di Jason, lo condusse dentro e chiuse la porta. "Dio, è buio pesto qui dentro." "Ho dei fiammiferi," sussurrò Jason. Il cuore gli martellava nel petto. "No, niente fiammiferi puzzolenti," disse lei con un accento messicano. "Non vuoi vedere co...?" "Mi piace l'oscurità." Il braccio sinistro si avvolse intorno a Jason, che lasciò cadere la coperta e rispose all'abbraccio, premendole sulla schiena la bottiglia di champagne che teneva nella mano destra. Celia aveva caldo, ma il corpo le tremava. Quando si baciarono, Jason si accorse che persino il mento era scosso da fremiti. La lingua di lei gli entrò nella bocca. La mano destra di Celia gli carezzava il sedere mentre la sinistra gli sfilava la camicia dai calzoni e vi scivolava sotto, esplorandogli la schiena. Delicatamente, Jason staccò la bocca da quella di lei. Il viso di Celia era una pallida forma dai contorni confusi con dei fori neri al posto degli occhi e della bocca. Quell'immagine gli suscitò una sgradevole impressione. "Devo sbarazzarmi della bottiglia." "Scolatela." "Non ne voglio più." "Da' qua." Jason portò avanti lo champagne. La mano di Celia si chiuse sulla sua, poi gli prese la bottiglia. Un istante dopo, sentì il liquido gorgogliare nella gola di lei. Le sue braccia penetrarono il buio e si tesero verso la regione invisibile che si estendeva sotto la cupa immagine del viso di
Celia. Una mano trovò una spalla, l'altra un'ascella. E quando ebbe identificato ciò che stava toccando, per Jason non fu difficile localizzare i seni. Su di essi si chiusero le sue mani. Celia cessò di ingoiare e mandò un gemito. Un breve e rapido respiro giunse quando lui le strinse delicatamente tra le dita i capezzoli rigidi. La bottiglia di champagne urtò il pavimento con un tonfo che fece sussultare Jason. "Ah!" singulto Celia. "Mi dispiace," si scusò lui in un bisbiglio. "Non importa." Una mano si posò con decisione sulla patta dei pantaloni di Jason, facendolo sussultare nuovamente, per il desiderio. Sentì una leggera pressione sui pantaloni, poi il sibilo della lampo che si abbassava. Voleva poter avere il tempo di pensare. La desiderava, certo. Ma non voleva averla lì. Voleva portarla fuori da quel dannato posto, ma, al tempo stesso, desiderava sentire le sue dita fresche su di lui, e voleva infilare la mano in quel magnifico spacco del vestito, per risalire dolcemente lungo la calda distesa vellutata della sua pelle, su, fino alla vetta di quella splendida coscia. E poi, nudi, avrebbero disteso la coperta... ma il piano non prevedeva questo. Non era così che procedeva il piano. Adesso siamo qui, e dobbiamo fare quanto avevamo stabilito. Le mani di Celia non esplorarono l'interno dei suoi calzoni, si cimentarono invece con la cintura. Jason la sentiva respirare affannosamente mentre le massaggiava vigorosamente i seni. "Aspetta," ansimò in un roco sussurro. "Cosa?" fece lei. "Devo andare al bagno." "Dammi i fiammiferi. Io intanto preparo il nostro posticino." "Me ne servirà uno per trovare il gabinetto." Jason prese dalla tasca la scatoletta dei fiammiferi, ne staccò uno e lo sfregò fino a accenderlo. Il bagliore gli ferì gli occhi. Celia li socchiuse, abbacinata anch'essa. Jason le consegnò la scatola dei fiammiferi, si diresse quindi verso il vano in fondo al bar, dove si trovavano i gabinetti. Girò intorno al tavolo da gioco. Il fiammifero cominciava a scottare sulle punte delle dita, così lo spense. Brancolando nell'oscurità con le mani che tastavano l'aria, avanzò lentamente. Dietro di lui, una nuova fiammata, un fiammifero acceso. Compì a passo spedito il resto del percorso fino ai gabinetti e quando vi fu giunto si voltò indietro a guardare. Celia stava in piedi a mezza strada tra la porta d'in-
gresso e l'angolo del bar, a gambe divaricate, guardava la coperta sul pavimento. Barcollò e quasi cadde quando si chinò per raccoglierla. La scrollò con una mano fino a spiegarla. Poi, con estrema lentezza, sollevò il fiammifero all'altezza del viso e vi soffiò sopra, spegnendolo. E svanì. Jason restò immobile a fissare l'oscurità, aspettando la fiammata di un altro fiammifero. Che non giunse. Alla fine si voltò di nuovo e proseguì tentoni, rasente alla parete. Trovò la porta della toilette degli uomini. Girò la maniglia, entrò e fece scattare l'interruttore della luce. Roland, seduto sul water, lo guardò, sorridendogli. CAPITOLO DICIANNOVESIMO "Sta andando tutto bene?" bisbigliò Roland. Jason scosse la testa. Roland additò la lampo aperta. "Quella mi dice che non sei solo." "Lei è qui." Si tirò su la chiusura lampo e riagganciò la cintura. Poi si appoggiò alla porta del gabinetto. Trasse un profondo respiro e si stropicciò la faccia. "Ho dei dubbi, Ro." "Cosa intendi dire?" "Celia è una ragazza adorabile. Mi sembra una carognata servirci di lei in questo modo." "Ma tu vuoi aiutare Dana, non è vero?" "Naturale. Non sarei qui se non avessi voluto. Ciò non toglie che sia un'idea stupida. Quante sono le probabilità che quel bastardo torni qui stanotte?" "Ieri, però, c'è venuto," puntualizzò Roland. "E ha fatto buona caccia. Perché quindi non dovrebbe tornare sperando in un'altra facile preda?" "È una follia." "Quando verrà, lo prenderemo." Jason scrollò la testa. Si scostò dalla porta e si diresse al lavabo, dove aprì un rubinetto. "Non voglio correre il rischio che lei ci senta," disse. "Dov'è adesso?" "Vicino alla porta d'ingresso. Stava sistemando la coperta." Jason si gettò dell'acqua sul viso, si asciugò col davanti della camicia e tornò verso la porta, riprendendo la posizione di poco prima. "L'hai fatta ubriacare?" chiese Roland. "Praticamente demolita." "Perfetto."
"Mi sento un pezzo di merda." "Non le accadrà niente." "Se quello viene..." "Lo blocchiamo. E ci porterà da Dana." "Se si farà vivo sul serio, allora Celia verrà a sapere che l'ho usata." "E che te ne importa? Non potrà farti niente per questo. Non l'hai mica rapita. È venuta qui di sua spontanea volontà." "Non intendeva certo passare la serata facendo da esca." "Sei un osso duro, sai? E va bene, s'incazzerà a morte. Ma tu troverai Dana. Ne vale la pena, no?" "Credo." Roland si alzò. "Adesso sarà meglio uscire da qui," disse, e chiuse il rubinetto del lavabo. "Non vorrei che il nostro signor maniaco se la stia spassando con lei mentre noi ce ne stiamo qui a chiacchierare. Tu torna da lei, ma sta' zitto. Non dire niente. Perché il nostro piano funzioni, lei deve essere completamente fuori combattimento." "Era già bell'e cotta quando l'ho lasciata." "Eccitata?" "Sì, e impaurita." "Se è sveglia, fartela. Servirà a calmarla. Non appena si sarà addormentata, torna qui. Non sarà un'esca allettante se ci sarai tu insieme a lei." "Non lo so," mormorò Jason. "Cosa non sai?" "Tutta questa faccenda. Forse la riporterò a casa, e manderò tutto a monte." "Non fare lo scemo." "Ro, è una ragazza adorabile. Mi piace." "Vuoi abbandonare Dana alla deriva?" Il viso di Jason si contrasse, come se uno spasmo improvviso gli avesse attorcigliato le budella. Questa frase lo ha colpito, pensò Roland, abbandonarla alla deriva. "Vedrò come si mettono le cose," mormorò Jason. Roland gli fece cenno di allontanarsi dalla porta, poi spense la luce e girò lentamente la maniglia. La serratura scattò senza il minimo rumore. I cardini rimasero silenziosi quando aprì delicatamente la porta. Sorrise. Aveva pensato a tutto. Prima, quando aveva aperto la serratura con la punta del coltello, aveva cosparso d'olio lubrificante i cardini, la maniglia e il saliscendi. I piedi nudi incedevano muti sul pavimento di legno duro. Sentiva i pas-
si di Jason dietro di lui, ma non facevano troppo rumore. Tastando la parete con una mano, trovò il varco che si apriva nella sala bar e si fermò. Jason gli posò una mano sulla spalla. La luce nel gabinetto aveva alterato la capacità visiva che Roland aveva acquisito stando a lungo al buio. A eccezione delle aree grigie vicino alle finestre, tutto sembrava nero. Si mise in ascolto, ma sentì solo il battito del suo cuore e il respiro concitato di Jason, vicinissimo al suo orecchio. Sembrava un velocista che avesse appena compiuto una volata. Il suo alito sapeva di liquore. Roland si girò di lato, con le spalle al margine del varco d'ingresso. Trovò la camicia di Jason e la strattonò leggermente. Jason lo superò e si avviò attraverso la sala. Sta andando tutto magnificamente, pensò Roland. Sperava che Celia fosse ancora sveglia, che Jason se la scopasse. In tal caso, si sarebbe avvicinato furtivamente per godersi lo spettacolo da un posto in prima fila. Certo, non ci sarebbe stato nulla da vedere, ma tanto da sentire. E con un po' di fantasia, avrebbe immaginato tutto il resto. L'aveva studiata attentamente ieri, al centro commerciale — lei e la sua amica, quella carina. Magari ci fosse stata lei stanotte. Ma questa non era da meno. Anzi, era stupenda. Chissà, forse l'amica di Celia non avrebbe abboccato al trucco dell'appuntamento, e a lui quella trovata piaceva da morire. Una trappola geniale. Che risate. Le persone si lasciavano manipolare con tanta facilità, che spasso. Basta lavorarsele un poco, una lavatina di cervello, e ti fanno tutto quello che vuoi. Allora? Come va, Jason, vecchio amico mio? Sei pronto a montarla? Dai, fottitela. Roland rise piano, se ne accorse in tempo, e serrò forte le labbra. Sentì dei passi leggeri. Jason stava ritornando. "È in coma profondo," annunciò Jason in un sussurro. Merda. Addio spettacolo. "Perfetto," disse Roland. "Dove ci nascondiamo? Forse dovremmo avvicinarci il più possibile a lei. Uno di noi due potrebbe aspettare dietro il bancone del bar, che ne dici?" "Buona idea." "Hai portato le manette?" "Le ho qui." Roland diede una pacca a una tasca anteriore dei jeans.
"E il mio martello? Dove l'hai messo?" Roland non rispose. "Ce l'avevi quando ti ho portato qui." "Sto pensando." "Io quello non lo affronto disarmato." "Devo averlo lasciato al cesso," disse Roland. "Sì." "Bene, vai a prenderlo. Cristo." Roland ritornò al gabinetto. Entrò e chiuse silenziosamente la porta. Accese la luce. Il martello a granchio era appoggiato al muro accanto al water. Di proposito lo aveva messo lì, fuori vista, in modo tale da dover ritornare a prenderlo quando Jason si fosse accorto di non essere armato. Lo raccolse dal pavimento. Sul manico era ancora attaccata l'etichetta col prezzo. Lo avevano comprato quel pomeriggio in un negozio di ferramenta: doveva servire a Jason, contro il maniaco-fantoccio costruito da Roland. Roland s'infilò nella cintura il manico di legno. Aprì la patta del fodero del coltello, prese l'arma e ne estrasse la lama. Con un leggero click tornò al suo posto. Con la faccia alla porta del gabinetto, Roland spense la luce. Aprì la porta. "Jase?" chiamò con un sonoro bisbiglio. "Lo hai trovato?" "Sì, ma vieni qui." Ascoltò il fruscio delle scarpe di Jason sul pavimento di legno. "Che vuoi?" "Vieni qui un minuto, dobbiamo parlare." Jason entrò e chiuse la porta. "Che c'è?" "Comincio a aver paura." "Oh, per Cristo..." "No, sul serio." Allungò la mano sinistra, trovò la spalla di Jason e l'afferrò saldamente. "Non ho mai creduto veramente che quel tizio si sarebbe fatto vivo, ma adesso non ne sono più così sicuro. E se venisse davvero? Saremo in grado di tenergli testa? Insomma, quello potrebbe ucciderci." "Calmati, Ro. Mio Dio. Siamo in due, e in più abbiamo a nostro favore l'elemento sorpresa, a parte il fatto che quello non verrà comunque. Aspetteremo un paio d'ore, dopodiché io riporterò Celia a casa e..." Roland affondò il coltello nella pancia di Jason. L'impatto lo scaraventò contro la porta. Roland fece ruotare la lama ferocemente, la estrasse e vibrò un nuovo affondo. Una morsa gli imprigionò il polso. Con uno stratto-
ne violento estrasse il coltello, sottraendo la mano insanguinata alla stretta di Jason. Prima che riuscisse a sferrare un nuovo attacco, un pugno al torace lo spinse poderosamente all'indietro. Barcollò nel buio e cominciò a cadere. Il bordo di qualcosa — il lavabo? — gli urtò il sedere. I piedi scivolarono in avanti sulle mattonelle bagnate. Stava continuando a precipitare. Gettò le braccia all'indietro e riuscì ad aggrapparsi al lavabo con entrambi i gomiti, e puntellandosi con essi cercò strenuamente di riguadagnare il controllo sulle gambe. Ma i piedi non gli obbedivano, e scivolavano inesorabilmente, trascinandolo via. La luce si accese. Vide Jason in ginocchio, una spalla contro la porta. Tutt'intorno all'interruttore della luce il muro era imbrattato dalle impronte di mani insanguinate, quasi che Jason avesse ritenuto indispensabile accendere la luce, per vedere cosa stava accadendo. Lo vide girare la testa e guardarlo. Il suo volto aveva il colore di ceneri secche. Gli occhi fuori dalle orbite, la bocca incredibilmente spalancata, al punto tale che le labbra si erano lacerate e da esse colavano rivoli di sangue che rigavano i lati del mento. Il pavimento tra Jason e Roland era coperto per buona parte da una pozza rossa che si allargava a vista d'occhio. Roland, le gambe tese, vi affondava dentro i talloni. Puntellandosi ancora sul bordo del lavabo, piegò le ginocchia e ritrasse le gambe finché non furono direttamente sotto di lui. Si issò con molta cautela. La mano sinistra sul bordo del lavabo lo aiutò a conservare l'equilibrio. Jason agguantò la maniglia della porta e fece per alzarsi. I piedi gli scivolarono di sotto. Atterrò sul sedere sollevando spruzzi di sangue. Roland passò il coltello nella mano sinistra. Estrasse il martello dalla cintura e avanzò lentamente, senza osare sollevare i piedi, facendoli scivolare invece, pattinando sulle mattonelle sdrucciolevoli. Jason lo guardò, la bocca dilatata dal terrore. Sollevò una mano per ripararsi dall'assalto. Roland colpì, e il martello si abbatté sulla parte posteriore del polso. Il braccio si afflosciò di lato. Impiegando tutta la sua forza, scaraventò il martello sulla testa di Jason. Vi affondò solo di un centimetro e mezzo. Lo sollevò e scorse una rientranza della grandezza di una monetina, colma di capelli ammassati. Il sangue cominciò a riempire il foro. Roland affondò di nuovo, provando a colpire nel medesimo punto, ma il martello, leggermente fuori bersaglio, intaccò una mezza luna di cranio dal bordo del primo buco, sollevò un rapido zampillo di sangue e penetrò in profondità. Roland lasciò il martello confitto nel cranio di Jason. Si allontanò un po-
co per ammirare la sua opera. Jason era seduto sul pavimento con la schiena appoggiata alla porta, le gambe tese e larghe, le braccia penzoloni lungo i fianchi. I pantaloni e la metà inferiore della camicia erano inzuppati di sangue. La testa grondante pendeva in avanti, il mento contro il petto. Il martello gli stava in testa come il bizzarro cappellino di una festa il cotillon di un allegro party. Sebbene Jason non si muovesse, la quantità di sangue che straripava da sotto il martello rivelava che non era ancora morto. Certe persone non muoiono facilmente, pensò Roland. Quel pensiero lo stupì. Dopotutto Jason era solo la sua seconda vittima, e Dana non era stato un problema. Ma lui sapeva che ce n'erano state altre — e alcune assai dure da uccidere. Non è poi un gran mistero, si disse. I ricordi di altri omicidi gli erano trasmessi, evidentemente, dal suo amico. Sorrise e strofinò il rigonfiamento sulla nuca. Lo sentì contorcersi appena, e una tenue onda di piacere si propagò per tutto il corpo. Dai, fa' quello che devi, incitò se stesso. Pattinando sul pavimento, si fece più vicino a Jason. Sorreggendosi al pomo della porta, si accosciò e con un taglio netto recise la gola dell'amico. Si alzò, estrasse il martello dall'insolita sede, e tornò a infilarselo sotto la cintura. Ripose quindi il coltello nel fodero di cuoio. Ma non si preoccupò di chiudere il bottone a pressione sulla pattina del fodero. Una mano affondò dentro una tasca anteriore dei jeans e ne tirò fuori le manette. Il peso del corpo di Jason teneva chiusa la porta del gabinetto. Roland l'aprì e il cadavere ruzzolò su un fianco. Spenta la luce, Roland uscì e richiuse la porta. I piedi strisciavano sul pavimento, ma, a mano a mano che avanzava, si fecero meno scivolosi. Si fermò sotto l'architrave dell'ingresso ai gabinetti, aspettando che i suoi occhi si abituassero all'oscurità. E mentre aspettava, si sentì pervadere da esitanti palpiti di piacere. Era il suo amico a inviargli quelle tremule pulsioni, preannunzio dell'estasi delirante che tra pochi minuti sarebbe esplosa in lui, sopraffacendolo in un parossistico godimento. Si leccò le labbra secche e si domandò per quale ragione non gli avesse dato una bella scossa, il segnale di partenza, il via che lo avrebbe portato sul corpo di Jason, per devastarlo e saziarsene. Se lo domandò, e immediatamente apprese la risposta. Jason si trovava casualmente sulla sua strada — era un ostacolo, non l'autentico bersaglio.
Un piccolo aiuto e avrebbe resistito alla tentazione, serbando il meglio per dopo, per quando avrebbe scatenato su Celia tutta la sua selvaggia passione. Perfettamente logico, pensò, e fu gratificato da un lieve fremito. Tu non lo sai, pensò. Merda, forse lo sai, invece, sì, forse lo sai. Questa è roba mìa, esattamente il mio genere. Ho sempre desiderato esperienze simili, ma non ho mai avuto il fegato di provarci, finché non sei arrivato tu. Non ho bisogno delle tue scosse per caricarmi. Però quelle scosse sono grandiose. Sì, sì. E tra poco ne proverò una bestiale. Il cuore gli pulsava con tonfi pesanti, la bocca era secca, il respiro tremante, il pene gli si stava indurendo. Era quasi il momento. Adesso metteva a fuoco alcuni oggetti nell'oscurità: la forma confusa del tavolo da gioco con sopra le bottiglie e i bicchieri, la lunga superficie piatta del bar, e un angolo di un oggetto scuro — forse la coperta di Jason — sul quale cadeva un barlume della luce grigia di una finestra. Non riuscì a scorgere Celia. Doveva essere lì. Addormentata sulla coperta. Né la sentiva. Il battito del suo stesso cuore e il ritmo del suo respiro era tutto ciò che le sue orecchie percepivano. Dev'essere lì, a meno che non ci abbia sentiti nel cesso, pensò. Non abbiamo fatto molto rumore. Jason a stento ha emesso un suono. Non c'era stato granché da sentire, tranne, forse, un paio di tonfi. Ma se Celia era sbronza sul serio, doveva essere già approdata nel mondo dei sogni durante la loro 'discussione'. Roland toccò il fodero del coltello. La patta era libera. E sotto, l'impugnatura d'ottone del manico del coltello era appiccicosa al tatto. Lasciò il coltello nella custodia. Per il momento non ne avrebbe avuto bisogno. Adesso gli servivano soltanto le manette. Strofinando vigorosamente le mani sul didietro dei jeans, le ripulì il più possibile del sangue che le imbrattava. Reggendo una manetta con la mano destra, e lasciando che l'altra dondolasse dalla catena che le univa, prese a avanzare. I piedi nudi producevano leggeri scricchiolii ogniqualvolta li sollevava dal pavimento. A ogni passo il cuore pompava con energia crescente, e il respiro si faceva più aspro. Il sudore gli faceva bruciare gli occhi, e gli colava lungo i fianchi. Camminava un po' curvo, per alleviare la pressione
del pene eretto contro i jeans aderenti. Sorrise. Sì, era eccitato, e lo era pur senza aver ricevuto nuovi incitamenti dal suo amico. Quelli dovevano ancora arrivare. Si arrestò ai piedi della coperta. Non riusciva ancora a vedere Celia. E se se ne fosse andata? Poi la sentì. Respirava lentamente, e i suoi respiri erano molto lunghi. Roland si accosciò. Allungò cautamente una mano finché non incontrò la coperta. Sentì qualcosa di consistente sotto la soffice trama — probabilmente una gamba — e intuì che Celia doveva essersi coperta dopo che si era sdraiata. Ginocchioni, Roland si spostò verso il fianco di lei. Una mano tastò il pavimento in cerca dell'orlo della coperta, lo trovò e lo sollevò. Quando le scostò la coltre dal corpo, Celia farfugliò qualcosa ma non si svegliò. Adesso la vedeva, a dispetto dell'oscurità. Era nuda, e un fioco lucore bastò a tingere la sue pelle di una vaga sfumatura grigiastra. Era distesa sulla schiena. Le gambe leggermente allargate, nude, con la sola eccezione delle fasce più scure che le avvolgevano le ginocchia. Il braccio destro, a pochissimi centimetri dal ginocchio di Roland, giaceva lungo il fianco. Il gomito fasciato lievemente piegato, e la mano riposava con le dita contratte sulla sporgenza dell'anca. L'altro braccio sollevato, il gomito in fuori, la mano sotto la testa, a mo' di guanciale. Roland fissò la piccola macchia oscura tra le gambe. Non era un cespuglio lussureggiante come quello di Dana. Si vede che Celia si depilava anche lì, pensò. Lo sguardo si posò sui seni. Collinette dai contorni sfuocati, punteggiate nel mezzo da protuberanze più scure, che si innalzavano e ricadevano al ritmo del suo respiro. Roland protese la mano sinistra e toccò il seno a lui più vicino. Era così incredibilmente liscio. Sembrava di velluto. E anche il capezzolo. Ma questo sembrò contrarsi al suo tocco, inturgidendosi e erompendo, durissimo. Il respiro di Celia mutò. "Ehi, ciao," sussurrò con voce roca. "Perché ci hai messo tanto tempo?" Roland le strizzò il seno, poi ritrasse la mano. Oh, Dio! Stava bruciando dal desiderio! Gli stimoli giunsero puntuali, scosse devastanti, onde che si levavano e si frangevano dentro di lui, scuotendolo indicibilmente. "Jason?" disse Celia.
"Jason non c'è. Jason..." e improvvisamente la voce di Roland divenne uno strido lacerante, "AVEVA UN APPUNTAMENTO CON LA MORTE!" Le agguantò il polso e vi chiuse intorno una manetta. Prim'ancora che Celia potesse lottare o urlare, Roland fece scattare la manetta intorno al suo stesso polso, il sinistro. CAPITOLO VENTESIMO Alison si svegliò. C'era la luce del sole sul suo letto. Una calda brezza alitava dalla finestra aperta e profumava d'erba e fiori. Un uccello rauco emetteva strida aspre, quasi fosse disturbato dall'amabile cinguettio dei suoi vicini. Una gioiosa melodia si dipanava dalle campane di una chiesa lontana. Alison immaginò una congregazione di fedeli innalzare cori — "Nella gioia, osanna, osanna, ci incontreremo su quella splendida sponda..." Pervasa da una sensazione di benessere, si stiracchiò sotto il lenzuolo. Lo scostò poi da una parte e per un istante si stupì nel vedersi indosso la camicia da notte nuova, il negligé blu. Aveva deciso di conservarla per un'occasione speciale. Beh, forse, in un certo senso, quella notte aveva avuto per lei un significato speciale. Ricordò quando era salita nella sua camera sull'attico dopo aver giocato al Trivial Pursuit e dopo aver visto The Howling in tivù insieme a Helen. Ricordò di essersi seduta alla scrivania a fissare le istantanee di Evan attaccate alla bacheca, e il senso di vuoto e solitudine che l'aveva invasa quando s'era chiesta cosa stesse facendo lui in quel momento. Probabilmente era a letto con Tracy Morgan. Il bastardo. Desiderando trovare un modo per ferirlo, aveva staccato tutte le foto e aveva cominciato a strapparle in mille pezzi. In una di esse, lei gli stringeva la mano. Gliel'aveva scattata Celia, quella. Due settimane fa sul prato dietro Bennet Hall. Evan indossava una maglietta con il logo "I poeti lo fanno con ritmo". Aveva un'espressione stupida perché Celia, anziché chieder loro di dire cheese, se n'era uscita con, "Dite 'Io sono un abile linguista'." Quando aveva finito di strappare quella foto e aveva osservato i minuscoli frammenti fluttuare tristemente nel cestino, le lacrime le avevano già riempito gli occhi. Allora non se l'era sentita di distruggerne altre, ne aveva fatto un mazzetto e, sistematovi intorno un elastico, lo aveva gettato nel primo cassetto della scrivania. Tormentata da un cupo dolore, si era tolta i vestiti e aveva aperto il cas-
settone per prendere una delle solite camicie da notte. Ma la nuova, blu e luccicante, aveva attratto la sua attenzione. Non c'era ragione di conservarla, non aveva nessuno per cui conservarla. Poteva benissimo godersela. E così l'aveva indossata, sospirando quando se l'era sentita scivolare sulla pelle. Si era asciugata gli occhi e aveva contemplato la propria immagine riflessa nello specchio. I seni erano chiaramente visibili attraverso il corpetto di voile trasparente. Una scrollata di spalle, e i laccetti che sorreggevano il corpetto erano scivolati giù. Mangiati il fegato, Evan, aveva pensato in quel momento. Impazziresti se mi vedessi con questa, ma non mi vedrai mai. Peggio per te, stupido. Il ricordo di tutto ciò le rinnovò parte della sofferenza che l'aveva angosciata la sera prima, rubandole un poco del piacere suscitato in lei dalla dolcissima sensazione di svegliarsi in un letto baciato dal sole con la brezza che le carezzava il corpo. Alison si alzò e andò alla finestra. Fuori lo scenario era incantevole. Doveva fare qualcosa, trovare il modo di partecipare a quella gioia. Aveva vissuto domeniche splendide prima di conoscere Evan, e potevano esserlo ancora. Una lunga passeggiata era certo l'ideale in una giornata come quella. Poteva andare al Jack-in-the-Box a prendere uno di quei deliziosi involtini al formaggio, uova e salsiccia. Studiare, nemmeno a pensarci. Poteva comprarsi un tascabile all'edicola — un buon thriller piccante. E dopo sarebbe andata nel cortile dell'università col libro e la radio a trascorrere un paio d'ore distesa al sole. Però, per un bagno di sole sarebbe stato meglio andare al parco, sì, giù al torrente. Là avrebbe trovato una perfetta privacy. Ma figurarsi quanta bella gente nel cortile del college in un giorno come quello. Beh, un momento. Voleva stare da sola? O preferiva stare in compagnia, e magari fare qualche nuova conoscenza? Ci sarebbero stati un mucchio di ragazzi al college. Inutile fare programmi, avrebbe deciso sul momento. Percorse l'intero spazio della camera da letto, e le piacque il modo in cui la camicia da notte aderiva alla sua pelle. Tornò a star bene. Com'era quel racconto di Hemingway? Un ragazzo, probabilmente Nick Adams, andava a dormire col cuore a terra perché aveva rotto con la fidanzata. L'aveva vista con un altro? A ogni modo, il significato della storia era nell'ultima frase. Lui era andato a coricarsi straziato dal dolore, e il mattino dopo era stato sveglio almeno mezz'ora prima di ricordarsi che aveva il cuore a pezzi. Grandioso.
Nick Winston non sapeva quello che diceva, quando aveva eccepito sulla grandezza di Hemingway. Forse stasera avrebbe fatto un salto da Wally's. Forse avrebbe rivisto Nick. Voglio davvero rivederlo? Si sfilò la camicia da notte dalla testa, la piegò accuratamente e la ripose al suo posto nel cassettone. Passò del deodorante sulle ascelle. Un bagno sarebbe stato niente male. Nel pomeriggio, magari, dopo aver finito di prendere il sole. Indossò un paio di mutandine, si avvicinò all'armadio e scelse un prendisole giallo. Indossatolo, infilò i sandali. Prese la borsa con la tracolla dal ripiano del cassettone e uscì dalla stanza. Quando fu in fondo alla scala che dava accesso all'attico, entrò nella stanza da bagno. Usò il water, si lavò, lavò anche i denti, si spazzolò i capelli e uscì alla svelta. Trovò Helen seduta a gambe incrociate sul tappeto del soggiorno col giornale spiegato davanti a lei, una scatola di ciambelle cosparse di zucchero al velo poggiata in grembo, sulla camicia da notte rosa alquanto sbrindellata, e un tazzone di caffè sul pavimento, vicino, a un ginocchio. "Salve," la salutò Helen, alzando gli occhi su di lei. "-giorno." "Stamattina sei tutta pimpante." "E tu come stai in questo splendido mattino?" "Bella giornata, eh?" '"Dio è nel suo Cielo, tutto va bene a questo mondo'." "Perbacco, che ti ha preso? Un visitatore notturno si è infilato nel tuo letto?" "Non ho avuto tanta fortuna." Helen sollevò la scatola che aveva in grembo e la porse a Alison. "Una ciambella?" "Ti ringrazio, ma faccio un salto da Jack-in-the-Box a prendermi un involtino alla salsiccia. Vuoi venire?" Helen scosse la testa, sballottando le guance. "No, meglio di no. Devo ancora vestirmi." "Beh, potresti metterti l'impermeabile lì sopra." "Ha-ha-ha." Addentò una ciambella, e una pioggia di briciole e di polvere bianca si abbatté sulle rotondità scoperte dei seni e tra essi. "Celia non si è ancora svegliata?"
Helen si strinse nelle spalle. Masticò ancora per qualche secondo, poi bevve un sorso di caffè. "Potrebbe essersi già svegliata come potrebbe non esserlo, comunque sia, che sia già sveglia o no, sicuramente non lo è qui." "Vuoi dire che non è ancora rientrata?" "Sembrerebbe che la nostra amichetta abbia trovato una dimora più accogliente di questa per passarvi la notte." "Oh, promette bene per lei." Helen alzò gli occhi al soffitto. "Risparmiami, ti prego." "E così a quanto pare tra lei e Jason ha funzionato bene," osservò Alison. "Non è detto. Potrebbero essere rimasti coinvolti in un incidente stradale." Alison ignorò la battuta. "Spero proprio che ne venga fuori qualcosa di buono." "Non c'è dubbio che ne sia venuta fuori una bella orgia." "No, dico sul serio. A Celia piace fingere di divertirsi a passare da un ragazzo all'altro, ma ha cominciato a comportarsi così solo dopo che Mark l'ha lasciata." "Già, è da allora che ha iniziato a scoparsi ragazzi a destra e a manca." "Sarebbe bello se riuscisse a legarsi seriamente a qualcuno." "A una matricola?" "Evidentemente Jason deve avere qualcosa dalla sua," disse Alison, "o altrimenti non ci avrebbe passato la notte assieme. Quasi mai resta fuori con un ragazzo per tutta la notte." Ghignando, Helen disse, "Credi che siano rimasti nella sua stanza con el strambo, Roland? Ci pensi? Il massimo della goduria." "Il massimo del vomito." "Forse Roland si è unito al festino. Un bel sandwich di manzo con loro due a fare da pane e Celia da carne." "Helen, tu devi essere affetta da gravi turbe psichiche." "Pensaci, invece." "Sono sicura che non sono andati nella stanza di Jason. Non se doveva andarci quel lercio individuo. Forse si sono fermati in un motel, o sono semplicemente rimasti in macchina in qualche posto ben isolato." Oppure hanno spiegato un sacco a pelo in un campo, pensò, come Robert Jordan e Maria. Una notte così calda sarebbe stata l'ideale per un cosa simile. "Quando tornerà," disse Helen, "ci racconterà tutto sicuramente." Ciò detto, si ficcò in bocca l'ultimo pezzo di ciambella e sfogliò il giornale in cerca della pagina dei fumetti.
"Ci vediamo più tardi," la salutò Alison. Helen annuì in risposta. Alison giunse alla porta d'ingresso e l'aprì. Un vaso di vetro pieno di giunchiglie gialle troneggiava sul pianerottolo di legno. Una busta vi stava appoggiata. Alison fissò i fiori dal colore abbagliante, poi gli occhi fissarono la busta. Rabbuiandosi, si accarezzò le labbra. Probabilmente non sono per me, pensò. Ma il cuore le batteva forte. Accovacciatasi, raccolse la busta. Su di essa era scritto il suo nome. Con mani tremanti ne strappò un'estremità e tirò fuori i fogli che conteneva. Ondeggiarono con un lieve fruscio quando li spiegò. Tre pagine dattiloscritte. E alla fine dell'ultima pagina, la firma di Evan. Carissima Alison, sono un essere spregevole, un verme, una larva. Se sputerai su questa mia e getterai nel gabinetto i fiori, lo avrai fatto a pieno diritto. Se, invece, stai ancora leggendo, lascia allora che ti dica con certezza assoluta che non riuscirai a detestarmi più di quanto mi detesti io stesso. Non vi sono scuse per il mio comportamento di venerdì sera. Farmi vedere in compagnia di Tracy da Gabby's è stata un'azione vile e puerile. Cosa posso dire? Il dolore del tuo rifiuto mi aveva reso cieco e desideravo punirti. È stato un gesto insulso e spregevole. Stai certa, però, che la manovra si è ritorta contro di me. Il tormento che la mia azione può averti causato, per quanto grande, è pur sempre inferiore a quello che ho provato io stesso. Consentimi anche di mettere bene in chiaro la mia assoluta mancanza di interesse nei confronti di Tracy. L'unica ragione per la quale l'ho invitata a uscire con me è stata la speranza che il vederci insieme avrebbe suscitato la tua gelosia. Di lei non m'importa minimamente. Sebbene possa trovarlo difficile da credere (a causa della sua ben meritata reputazione e della tua convinzione che nella mia testa non ci sia altro che il sesso), ti giuro che tra noi non c'è stato il più piccolo scambio di intimità. Ho evitato persino di baciarla quando ci siamo separati. Ho passato da solo nel mio appartamento la notte scorsa, disperato, a desiderare di stare con te ma incapace di trovare il coraggio di telefonarti o di venire a casa tua. Non ho fatto altro che pensarti, ricordare il tuo viso, la tua voce, il modo in cui ridi. Ho ripensato a tutti i bei momenti vissuti insieme, e no, non solo al sesso, (sebbene non riuscissi a evitare di pensare
anche a quello — specialmente alle sensazioni meravigliose che proviamo quando siamo uniti così dolcemente, come se fossimo un solo corpo). Ho anche passato qualche momento a contemplare le tue fotografie sugli annali, ma poi mi è risultato insopportabile guardare delle immagini di te, fisse, inanimate, e sapere che forse ti avevo perduta per sempre. Quando mi sono addormentato, ti ho sognata. Ho sognato che venivi nella mia stanza, ti sedevi sulla sponda del letto e mi prendevi la mano. Nel sogno, io cominciavo a piangere e a chiederti di perdonarmi. Ti dicevo che non avevo mai avuto intenzione di farti del male, che ti amavo e avrei fatto qualunque cosa per ottenere il tuo perdono. Tu non hai detto nulla, ma ti sei chinata e mi hai baciato. Allora mi sono svegliato, e non sono mai stato così infelice di risvegliarmi da un sogno. Ho trovato il cuscino bagnato di lacrime. (Mi rendo conto che tutto ciò può sembrarti patetico, ma voglio che tu sappia tutto, non importa quanto possa sembrarmi imbarazzante alla luce del giorno.) E così ora, alle tre del mattino, svegliatomi dal quel sogno, mi sono alzato dal letto e mi sono seduto davanti alla macchina da scrivere perché tu sappia ciò che provo. So per certo che sperare in un facile perdono è cosa vana. Il sogno è stato solo frutto della fantasia, il desiderio ardente di una mente angosciata. Capisco di averti trattata in maniera brutale e abominevole, e che probabilmente preferisci non vedermi mai più. Non ti biasimo per questo. Se non vorrai aver più nulla a che fare con me, suppongo che imparerò ad accettarlo. Suppongo che non mi resterà altra scelta, se non da liberarmi di questi affanni mortali con la lama d'un pugnale sguainato. (Dimentica che ti ho detto questo. Non credo di essere disperato a un punto tale, benché dei pensieri morbosi mi siano balenati nella mente assieme a questi versi.) Forse non ti recapiterò questa mia lettera. Forse la brucerò, non so ancora. Mi manchi, Alison. Vorrei che tutto tornasse come prima, che si potesse tornare indietro, al pomeriggio di giovedì quando ho dato inizio a questo mio stupido, disgustoso comportamento. Ma là vita non funziona in questo modo. Non si possono cancellare le cose brutte, indipendentemente da quanto lo si possa desiderare. Ti amo. Spero che tu non mi odi. Senza di te sono infelice, ma è tutta colpa mia e so di meritare questa in-
felicità. Se deve finire così, sia pure come tu vuoi. Ti auguro una vita felice, Alison. Con tutto il mio amore, Evan Alison si sentì intontita, come se un lieve torpore le avesse avvolto la mente. Ripiegò la lettera, la ripose nella busta e raccolse il vaso con le giunghiglie. Lo portò dentro casa e chiuse la porta con un colpetto del posteriore. "Che succede?" grido Helen dall'interno. Alison scosse la testa. Non si arrischiò a parlare; la voce avrebbe finito col tremare e sarebbe scoppiata in lacrime. "Ah, benissimo, fiori. Te l'avevo detto che avrebbe aperto gli occhi." Alison salì in camera sua, depose il vaso sul cassettone e si sedette sul letto. Tirò fuori dalla busta i fogli e li lesse nuovamente. Evan accennava a un sogno. Ma questo era come un sogno. Quasi non riusciva a credere che lui le avesse scritto una lettera di quel tenore. Intrisa di angoscia, di disperazione. Persino una minaccia, nell'allusione a Amieto, di suicidio — che subito aveva ritrattato ma che, cionondimeno restava lì, scritta. Alison disse a se stessa che doveva sentirsi al settimo cielo. D'altra parte, non era questo che aveva voluto? Che lui si pentisse e la implorasse di tornare con lui? Ma Alison non si sentiva al settimo cielo. La lettera l'aveva turbata, sì, recava in sé qualcosa di inquietante. Possibile che lei significasse così tanto per Evan? Voleva significare così tanto per lui? Dal tono della lettera, Evan le sembrava quasi ossessionato. Si sdraiò sul letto, la lettera stretta sul ventre, gli occhi fissi al soffitto. Con un calcio si liberò di un sandalo, ne sentì il tonfo sul pavimento, poi scalciò via l'altro. Si sentiva stremata, come fosse appena ritornata da una interminabile, estenuante scarpinata. Trasse un profondo respiro. Sembrò che i polmoni le tremassero mentre espirava. Lo rivolevi, no? Ecco, è tuo. Se lo vuoi. Dovrai fare qualcosa. Qualcosa. Probabilmente Evan se ne sta seduto nel suo appartamento a fissare il telefono, ad aspettare, a chiedersi se quando hai letto la lettera ti sei mes-
sa a sghignazzare oppure hai pianto. E, quasi certamente, a darsi dello stupido per essersi aperto a te in quel modo. È crudele farlo aspettare. Dovrei scendere in questo preciso istante e telefonargli. Oppure andare direttamente da lui. Fare come nel sogno. Aprire la porta senza dire nulla, baciarlo solamente. Un momento, vacci piano. Forse non voglio affatto tornare con lui. Cosa devo fare? Fingere di non aver ricevuto i fiori e la lettera, fare come se nulla fosse accaduto. Alison restò distesa, a interrogarsi. Si sentiva stordita, confusa, fiduciosa ma anche un tantino spaventata. Si coprì il viso col guanciale. Era bello stare al buio, e la soffice pressione del cuscino era piacevole. Dopo, pensò. Dopo farò qualcosa. CAPITOLO VENTUNESIMO Roland non riusciva a capire. Aveva tolto le manette prima di scaraventarla giù per la scala della cantina, e non gliele aveva rimesse perché lei non aveva più la forza di lottare. Quanto a lui, era necessario che avesse libere entrambe le mani. Come mai, dunque, adesso che aveva finito, improvvisamente si ritrovava di nuovo ammanettato a lei? Non aveva senso. Sapeva per certo di non aver applicato le manette dopo. Era stata lei a farlo? No. Eh-eh. Lei era morta. E come aveva fatto, allora? Sentì un lieve fremito di paura. Mentre affondava la mano nella tasca dove teneva la chiave, si domandò vagamente come mai fosse vestito. Non aveva lasciato gli abiti di sopra? La chiave non c'era. Non preoccuparti, la troverai. Devi trovarla. Lottando contro il panico che minacciava di sopraffarlo, frugò in tutte le tasche. La chiave era scomparsa. Non è possibile che mi stia succedendo questo, pensò. Fortunatamente aveva acceso la luce prima di seguire Celia giù in cantina. La lampadina mandava solo un fioco lucore giallastro, ma doveva bastare. Ginocchioni, scrutò il pavimento di cemento. Pozze di sangue dilagavano tutt'intorno a lui. Forse la chiave si trovava sotto il sangue? La ma-
no cominciò a cercare attraverso lo strato fluido. Con la coda dell'occhio, vide Celia sogghignare. No. Si voltò a guardarla direttamente. Scotennata, il cranio sfondato (e il cervello asportato, non dimentichiamolo), aveva gli occhi chiusi, la faccia — una maschera di sangue, e stava sogghignando. Le palpebre le si sollevarono. "TU SEI MORTA!" urlò Roland con voce stridula. La mascella di lei crollò e la lingua dondolò fuori. La chiave delle manette giaceva vicino alla punta della lingua. Roland allungò una mano per prenderla. I denti di Celia si serrarono di scatto sulle sue dita. Urlando di dolore, Roland tirò via la mano con un violento strattone. Il sangue fiottò dai monconi di tre dita recise. Orripilato, la vide masticare le sue dita. D'improvviso la cantina divenne buia. Sentì la scala cigolare. "Chi c'è?" gridò Roland. Non gli giunse risposta, ma Roland sapeva chi era. Lo sapeva. Cominciò a piagnucolare. "Lasciami in pace!" gridò. "Vattene!" Cantilenando beffardamente, una voce intonò nell'oscurità, "Nooonoooo. Credo proprio di noooo." La voce di Dana. "Adeeessooo tuuuu moooriraaaiiii," si unì Jason. Le voci provenivano dalla sommità della scala della cantina, ma qualcosa afferrò il davanti della camicia di Roland (la mano di Celia?) e lo tirò con forza. Roland cadde in avanti. Sopra di lei. E le sue gambe gli si avvinghiarono intorno. Le mani (perché una di esse non era più ammanettata?) gli agguantarono i capelli e lo costrinsero ad abbassare la faccia. Giù, sulla faccia di lei. Che gli premette la bocca sulla sua. E soffiò. Nella bocca di Roland piombarono la molle poltiglia e le ossa smangiucchiate delle sue dita semi-masticate. Roland cominciò a tossire. E si svegliò, ansimando, avido d'aria. Per un istante, credette di essere ancora nel sogno. Ma la lampadina mandava ancora il suo lucore dal soffitto della cantina. E lui non era sul corpo di Celia, ma stravaccato sul pavimento a gambe
larghe, accanto a esso. Sollevò in fretta le mani. Benché entrambe fossero scosse da violenti tremiti, nessuna era ammanettata e le dita c'erano tutte quante. Un'occhiata verso la scala. Nessuno. Naturalmente. Soltanto un incubo. Roland si sollevò a sedere, staccando la schiena nuda dal pavimento. Si guardò intorno e raccolse il coltello, ma non scorse le manette. Poi ricordò di averle lasciate di sopra, insieme ai vestiti. Brontolando si alzò in piedi a fatica. Sentiva il corpo freddo e contratto. I muscoli indolenziti. Era stata una pazzia, addormentarsi laggiù. E se avesse dormito per tutta la notte? Confidava, tuttavia, di aver dormito soltanto per un'ora, due al massimo. Aveva ancora tutto il tempo di sgattaiolare via di là protetto dallo scudo del buio. Salì la scala della cantina alla velocità massima che i suoi muscoli irrigiditi gli consentissero, e aprì la porta. Il chiarore del giorno gli trafisse gli occhi. Indietreggiò, schermandosi il volto. Disgustato, vide se stesso raggrinzirsi e dissolverei in polvere come fosse un vampiro. Desiderò fuggire via dalla luce, precipitarsi laggiù, nella rassicurante penombra della cantina. Ma il tepore era gradevole. Immobile, ingobbito nel vano della porta, gli sembrò che il gelo profondo gli evaporasse dalle ossa, e come il freddo diminuiva, così pure si smorzava il suo panico. Che fregatura osservò tra sé e sé. Però, non è poi la fine del mondo. Considerala una sfida. Bene. Abbassò gli occhi sul suo corpo. Il corpo nudo era purpureo e punteggiato da scuri grumi di sangue coagulato. Una sfida. Non sentiva più freddo, ma dentro di sé era scosso da tremiti profondi, come fosse sul punto di scoppiare in lacrime. Se qualcuno mi vede conciato così... Devo escogitare qualcosa. Oh, Dio, come ho fatto ad addormentarmi? Come ho potuto dormire fino al mattino? Si strofinò la faccia appiccicosa, esalò un sospiro tremante e si diresse alla porta della cucina. Prima di aprirla, scrutò la sala da pranzo. Si mise in ascolto, e, convintosi di essere solo nel ristorante, s'infilò tra i battenti o-
scillanti. Vicino alla parete anteriore, assieme alla scala, all'aspirapolvere, la cassetta degli attrezzi e i prodotti di pulizia, trovò alcuni stracci e asciugamani vecchi. Gli stracci erano sporchi, ma due degli asciugamani sembravano puliti a un grado ragionevole. Li prese con sé. Si avvicinò a una finestra e guardò fuori. Il cuore ebbe un sussulto quando vide la macchina nell'area di parcheggio. Era solo la macchina di Jason. Si allontanò dalla finestra. La maglietta, i pantaloni e le manette erano sul pavimento vicino alla coperta spiegazzata. L'abito di Celia, accuratamente piegato, era poggiato sul banco del bar. Roland raccolse la T-shirt. Era una delle sue preferite, arancione, con lo slogan 'Fidati di me' stampato sotto una faccia mostruosa, dipinta a tinte forti. Il sangue secco ne aveva indurito la fibra. Stava lì lì per buttarla di nuovo a terra, quando gli venne un'idea. Perché non indossare i vestiti sporchi di sangue? Probabilmente non avrebbe avuto nessun problema a tornarsene nella sua stanza alla Casa dello Studente con quella roba addosso. Vista la sua reputazione, chiunque, vedendolo, avrebbe pensato a un altro dei suoi numeri. Ma qualcuno poteva notarlo mentre si recava al campus. Al di fuori del college, la città di Clinton ignorava la sua predilezione per i comportamenti bizzarri. Mugugnando, "Merda," mise giù la maglietta. I capelli e il corpo sporchi di sangue poteva lavarseli, questo lo sapeva. Qui non sussisteva alcun problema. Ma aveva pur bisogno di vestiti. Quelli di Jason erano ridotti ancor peggio dei suoi. Solo l'abito di Celia non era imbrattato di sangue. Ma indossare quello era assolutamente fuori discussione. Bisognava trovare una via d'uscita, e che fosse ragionevole. Se avesse avuto la testa sul collo, si sarebbe spogliato prima di cimentarsi con Jason. Si sentiva in trappola. Doveva esserci una via d'uscita. Bisognava pensare. Concentrarsi. Dove c'è un problema, c'è anche una soluzione. Doveva esserci. Problema: Non posso andar via di qui con i vestiti sporchi di sangue. Non posso andar via nudo. Non posso indossare il vestito di Celia. Perché è un problema? Perché se vengo notato dalle persone sbagliate, potrei finire dietro le sbarre. Soluzione?
Ovvio. Non farti vedere. Resta qui. Fino alle tre del mattino, sì, più o meno. Potrebbe venire qualcuno. Come l'uomo che era venuto ieri. Roland rabbrividì. L'uomo che era venuto ieri. Quell'uomo sapeva. Roland si trovava nel ristorante solo da una decina di minuti quando aveva sentito il rumore di una macchina e si era precipitato alla finestra. Dalla macchina era sceso un uomo con un paio di stivali e vestiti di cuoio, un uomo che portava una pistola alla cintura e impugnava un machete. La vista dell'uomo aveva inviato una scarica glaciale lungo la spina dorsale di Roland. All'istante la mente gli si era affollata di ricordi. Ricordi di altri uomini, in altre epoche, abbigliati con indumenti protettivi e armati di lame affilate: asce, falci, sciabole, lunghi coltelli. Altri uomini che sapevano, proprio come costui. Confuso e terrorizzato, Roland era fuggito dalla porta posteriore, rintanandosi nel campo alle spalle del ristorante. Nascosto tra l'erba alta, aveva aspettato finché l'onda di panico non si era ridimensionata. Poi, strisciando lungo il campo e aggirando il ristorante aveva raggiunto un punto dal quale poteva vedere l'area di parcheggio. Chi era quell'uomo? Un cortez. Cosa diavolo è un cortez? si era chiesto Roland, e d'un tratto immagini di carneficine gli erano turbinate nella mente: soldati barbuti armati di spade e asce da guerra che massacravano indiani sotto un cielo vermiglio di sangue. Una strana piramide sullo sfondo. Immagini apparse e svanite con la stessa fugace repentinità. Quel Cortez, pensò Roland. Mio Dio. Ricordò di aver letto un articolo sul National Geographic alcuni anni prima. I suoi genitori erano abbonati a quella rivista, e lui ne aveva sempre sfogliato i numeri cercandovi fotografie di indigene a seno nudo. Ma quel particolare articolo aveva attratto la sua attenzione, e così lo aveva letto. Riguardava gli aztechi, la loro usanza di offrire in sacrificio al dio del sole non soltanto il cuore delle loro vittime, ma anche della loro consuetudine di mangiare i guerrieri catturati. Il bocconcino più prelibato era il cervello, e questo era sempre riservato agli alti sacerdoti. L'autore dell'articolo sosteneva la teoria secondo cui culture primitive come quelle degli aztechi si votassero al cannibalismo perché carenti di
proteine e sprovvisti di mandrie. Quello studioso si sbagliava — Roland lo aveva capito adesso, e sorrise. Altroché se si sbagliava. Gli aztechi avevano anch'essi un caro amico appollaiato sul collo. E Cortez, con i suoi conquistadores, ne fece carne tritata. Perciò quell'uomo giunto al ristorante brandendo un machete era sicuramente un Cortez. Uno che sapeva, e che perciò minacciava l'esistenza del suo amico — e di Roland stesso. Disteso tra l'erba, Roland aveva capito perché temeva tanto quell'uomo. Doveva ucciderlo, ma non aveva provato l'impulso di eliminarlo immediatamente. Meglio restare nascosto. Quando l'uomo se n'era finalmente andato, Roland era entrato nel ristorante, scendendo direttamente in cantina. Dietro la scala aveva scoperto una macchia, materia vischiosa che imbrattava il pavimento. E tremante di collera e di dolore, aveva capito ciò che il Cortez aveva fatto. Lo avrò, aveva promesso allora a se stesso. E poi, No, è troppo pericoloso. Meglio creare distanza da uno che sa. Bisognerà lasciare la città. Non stasera, però. Stasera resterò per Celia. E la sua amica? Voglio anche quella. Vedremo. L'amica di Celia valeva di sicuro un piccolo rischio. Ricordò quando l'aveva vista al centro commerciale — quel viso adorabile, innocente, quella tuta a pelle con la chiusura lampo che scendeva là giù sul davanti, la stoffa aderente sulle collinette dei seni. Una rapida ondata di piacere caldo si propagò in lui, dono dell'amico che gli riposava sul collo. Roland si sottrasse alle sue divagazioni e tornò al presente, ritrovandosi in piedi nella grande sala, sovrastando la coperta e i vestiti insanguinati abbandonati sul pavimento. Il pene turgido si rattrappì rapidamente non appena il suo proprietario tornò a confrontarsi con la situazione balorda nella quale si era ficcato. Se fosse rimasto lì in attesa dell'oscurità, avrebbe rischiato un ritorno del Cortez. Troverò qualcosa, si ripromise. Spianò la coperta, vi gettò nel mezzo la maglietta, i jeans e l'abito di Celia, l'arrotolò e la portò con sé ai gabinetti. Lì dentro l'aria era infestata dal puzzo di sangue e feci. Con una scrollata, srotolò la coperta facendone cadere i vestiti, poi la distese sul cadavere di Jason.
Al di sopra del lavandino c'era uno specchio. A eccezione della pelle biancastra intorno agli occhi, come se durante la notte avesse portato occhialoni da motociclista, la faccia di Roland era tinta di sangue che, seccatosi, aveva acquistato una tonalità marroncina. Alcune ciocche di capelli erano incollate sulla fronte. Un pezzetto di qualcosa gli si era attaccato a un sopracciglio. Lo scrostò da lì, ma esso si appiccicò al dito. Lo colpì allora con l'unghia del pollice e lo vide schizzar via e finire sul muro sotto lo specchio. Girò la manopola del rubinetto, si chinò sul lavandino e cominciò a pulirsi, utilizzando uno degli asciugamani a mo' di spugna. Non gli piaceva il rumore prodotto dall'acqua che scrosciava — lo rendeva sordo a altri rumori. Poteva arrivare una macchina, parcheggiare, e qualcuno poteva coglierlo di sorpresa, abbrancandolo da dietro... Chiuse il rubinetto. Si mise in ascolto e intanto si raddrizzò abbastanza da vedere la sua immagine riflessa nello specchio. Faccia e collo erano puliti. Riaprì il rubinetto e riprese a lavarsi. Stavolta, però, si allontanò un poco dal lavabo e imbevendo l'asciugamano d'acqua calda, prese a versarsela addosso. L'acqua gli colò lungo il corpo, sciacquando via il sangue. Si strofinò la pelle vigorosamente, strizzò l'asciugamano per ripulirlo dei residui rosei e lo bagnò di nuovo, ripetendo l'operazione. Ben presto si ritrovò coi piedi immersi in una pozza d'acqua e sangue, ma col risultato che la parte anteriore del suo corpo era pressoché immune da tracce. Chiuse di nuovo il rubinetto e tese l'orecchio. Represse l'impulso di avventurarsi nella zona bar per una sbirciata all'esterno da una delle finestre anteriori, e fece scorrere l'acqua ancora una volta. Si accinse allora a lavarsi la schiena. Impresa questa ben più difficoltosa. I ristoranti dovevano disporre di docce, rifletté, per occasioni come quella. Sogghignò. Quando suppose di aver ripulito buona parte della pelle imbrattata, avanzò sguazzando sul pavimento allagato fino a che ebbe quasi raggiunto la porta. Da lì, si guardò indietro da sopra una spalla. La distanza dallo specchio gli consentì di vedere riflessa la sua immagine fin sotto le natiche. La lividura giallo-verdastra correva lungo la colonna vertebrale, deviando diagonalmente sulla natica destra. Non scorse però macchie di sangue. Si servì dell'altro asciugamano per asciugarsi. Ora che era ben pulito e asciutto, fece molta attenzione a non scivolare sulle mattonelle inzaccherate. Avanzò pattinando lentamente mentre assolveva le rimanenti incom-
benze. Appoggiato l'asciugamano su di una spalla, si trattenne ancora pochi minuti davanti al lavabo a ripulire il coltello e le manette. Recuperò le scarpe e i calzini poggiati nello spazio dietro il water, e li portò, assieme al coltello e alle manette, presso la porta dei gabinetti. Apertala, gettò il tutto sul pavimento di legno della sala. Accosciatosi accanto al corpo di Jason, scostò da un lato la coperta che lo ricopriva e prese le chiavi della macchina da una tasca dei calzoni dell'amico. La mano tornò a sporcarsi di sangue, suscitandogli un certo disappunto. Roland trovò il portafogli di Jason in una tasca posteriore, ne tolse quindi il tesserino universitario e la patente di guida. Accertatosi che nel portafogli non fosse rimasto alcun documento che potesse servire a identificare il suo proprietario, gettò i documenti nel water e scaricò lo sciacquone. Raccolse i jeans dal pavimento. Il giorno prima, alla Casa dello Studente, si era tolto dalle tasche qualsiasi cosa potesse servire a identificarlo. (Sapeva che lo Squartatore dei Bassifondi era stato catturato perché quell'idiota aveva perso il portafogli, patente e tutto il resto, su di una collina mentre fuggiva in seguito a un'irruzione.) Prese la chiave delle manette dalla tasca destra anteriore e stava per gettare di nuovo a terra i jeans quando si accorse che in fondo le loro condizioni non erano poi così disastrose. Erano bagnati per essere stati abbandonati sul pavimento. Strati di sangue vi si erano incrostati. Ma erano pur sempre dei blue jeans. Restò ancora un poco davanti al lavabo strofinandoli con acqua bollente, scrostandovi il sangue e poi strizzandoli. Quando li scrollò e li distese per riesaminarli, giudicò che le macchie non fossero particolarmente evidenti. Uscì dalla toilette portandoli con sé. Si appoggiò alla parete presso la porta e si pulì i piedi. Infilò quindi i jeans bagnati e li tirò su. Ce l'hai fatta, amico. In una calda giornata soleggiata come quella, nessuno si sarebbe insospettito nel vedere un ragazzo a torso nudo. E nessuno, a parte il Cortez, avrebbe reagito alla contusione che gli percorreva la schiena. Roland indossò i calzini e le scarpe. Ripiegò la lama del coltello e ripose l'arma nel fodero sulla cintura. Infilò in una tasca anteriore dei jeans le chiavi della macchina di Jason, le manette e la loro chiave. Tutto sistemato. Era sul punto di uscire quando ricordò che aveva lasciato la bomboletta
spray dell'olio lubrificante dietro il water. Sopra c'erano le sue impronte. Al diavolo, pensò. Ho già messo le scarpe. Non ci torno là dentro. Oltretutto le sue impronte erano disseminate in tutto il ristorante. Bell'affare. La zona antistante il bar sembrava in ordine. C'erano delle macchie sul pavimento, ma non quantità considerevoli di sangue. Si tirò l'asciugamano da sopra la spalla, e si trattenne alcuni minuti a strofinare i punti imbrattati, poi gettò l'asciugamano dietro il banco del bar. Raccolse la bottiglia di champagne vuota e la depose sul tavolo da gioco. Aveva dimenticato qualcosa? Probabilmente. E cosa importava? Seppure avessero scoperto i corpi quel giorno stesso, sarebbe occorso un po' di tempo per identificarli. Non avrebbero avuto indizi sull'artefice di quel lavoretto finché non avessero scoperto chi fossero Jason e Celia. Ma allora, Roland sarebbe stato già lontano. Roland si chiuse alle spalle la porta principale, vide la macchina di Jason e ritornò dentro il ristorante. A passo spedito raggiunse la sala da pranzo e si accovacciò accanto alla cassetta degli attrezzi. L'aprì e vi scorse una fornita serie di cacciavite. Prese il più grosso e uscì di nuovo. Bastarono pochi minuti per rimuovere la targa anteriore e quella posteriore dall'automobile di Jason. Le portò verso il limite del parcheggio e le gettò tra l'erba. Ritornò poi alla macchina. Aprì il bagagliaio, guardò dentro e lo richiuse. Aprì una portiera posteriore e esaminò il sedile e il pavimento. Tutto a posto. Si sedette al volante. Il calore dell'abitacolo gli suscitò una piacevole sensazione. Sul pavimento, davanti al sedile del passeggero, c'era la borsetta di Celia. L'aprì e trovò il suo portafogli. Anziché perdere tempo a perquisirlo, se lo ficcò direttamente in una tasca posteriore dei jeans. Trovò il portachiavi della ragazza, e intascò anche quello. Ispezionò il resto del contenuto della borsetta, assicurandosi che non vi fosse rimasto nulla che valesse a identificarne la proprietaria. Esaminò lo scomparto portaoggetti. Il nome di Jason risultava da un talloncino col numero di immatricolazione della vettura. Roland lo prese e se lo infilò in tasca. Adesso sembrava proprio che non vi fosse altro da fare. Sempre che non avesse scordato qualcosa, la macchina di Jason era ormai completamente priva di ogni elemento che avesse potuto contribuire a
una rapida identificazione del suo proprietario o del passeggero salito a bordo la notte scorsa. Roland mise in moto e si allontanò dall'Oakwood Inn. Il pomeriggio precedente aveva parcheggiato il maggiolino di Dana in una strada residenziale e aveva proseguito a piedi per l'ultimo paio di chilometri fino al ristorante. Adesso tornò lì, nel luogo in cui aveva lasciato la macchina. E la trovò, accostata al cordolo di un marciapiede tra due ville stile ranch che a giudicare dall'aspetto dovevano essere costate un occhio della testa. Sul lato opposto della strada, un orientale con la testa protetta da un casco stava spingendo una moto-falciatrice sopra una coppia di tavole di legno che venivano giù dalla coda del suo sgangherato camion per la raccolta dei rifiuti. A parte questa presenza, il vicinato sembrava deserto. Roland piegò per una stradina secondaria e parcheggiò in fondo all'angolo. Infilò la borsetta di Celia sotto il sedile anteriore. Poi abbassò la sicura di ogni portiera e scese. A passo svelto raggiunse l'auto di Dana. La sicura non era inserita, così come lui l'aveva lasciata. Cercò sotto il sedile di guida e trovò le chiavi. Il motore rispose senza problemi e la macchina si allontanò. Ce l'hai fatta, pensò. Ce l'hai fatta sul serio. Lasciò andare un profondo sospiro, abbassò il finestrino e poggiò il gomito sul bordo dello sportello. L'aria tiepida alitò nell'abitacolo, carezzandolo. Gli piaceva quel quartiere. Non aveva alcuna fretta di tornare al campus, e percorse a velocità moderata i vialetti immersi in quella pace rilassante. In quella zona le case dovevano costare un capitale, pensò. E all'interno, probabilmente, erano più belle di quanto avesse mai potuto immaginare. Non ora, ma qualche altro giorno, si sarebbe dedicato a una simpatica famigliola e avrebbe trascorso un po' di giorni in una di quelle splendide abitazioni. Meglio farlo in occasione di una vacanza, quando il papà non è atteso al lavoro e i bambini non devono andare a scuola. Questo sì che si chiamava godersi la vita! Una bambina stava in piedi all'angolo davanti a lui. Un autentico splendore. Non poteva avere più di quattro o cinque anni. Una nuvola di capelli biondissimi aleggiava nella brezza, tanto biondi da sembrare bianchi. Indossava una camicetta rosa e una gonnellina verde cedro, molto corta sopra le ginocchia. Una borsetta a forma di Minnie le pendeva da una spalla sorretta da una tracolla. Nonostante il segnale di stop obbligasse gli automobilisti a fermarsi, la
bambina restava in attesa senza tentare di attraversare la strada. Era sola. Una calda vibrazione scosse il corpo di Roland. Rallentò mentre si avvicinava allo stop e si guardò intorno. Non vide nessuno, c'era soltanto lei, la bambina. No, pensò. È una pazzia. Portarla all'Oakwood. Troppo rischioso. Ma Roland aveva il fiato sospeso e bruciava dal desiderio. Tutt'a un tratto non gli importò più nulla del rischio che avrebbe corso. Si avvicinò lentamente al marciapiede, si fermò e abbassò il finestrino. La bambina sgranò gli occhi. Erano di un azzurro incredibilmente intenso. "Ciao," le disse Roland. "Mi dispiace di importunarti. Scommetto che i tuoi genitori ti hanno detto di non parlare mai agli estranei. Ma il fatto è che mi sono perso. Sai dov'è Latham Road?" La bambina aggrottò le ciglia come se si stesse concentrando al massimo sul problema. Alla fine sollevò il braccio destro. Un peluche scolorito apparve nella manina. Sembrava un gattino. Lo scosse verso est. "Da quella parte, ne sono arcisicura," disse. "Come si chiama il tuo gattino?" le chiese Roland. "Clew." "È carino." "Clew è una gattinà." "Anch'io avevo una gattina, si chiamava Celia. Aveva dei bellissimi occhi verdi. Di che colore sono gli occhi di Clew?" "Azzurri." "Me la fai accarezzare un po'?" "Beh..." "Sai, sono terribilmente triste, perché la mia micetta, Celia, è stata investita proprio ieri." Il faccino della bimba si rabbuiò. "È morta?" "Sì, purtroppo." "Era tutta spiaccicata?" "Sì. È stato terribile." "Mi dispiace." "Mi farebbe tanto bene, sai, se tu mi lasciassi accarezzare un pochino la tua Clew. Soltanto per un secondo, okay?"
"Beh..." "Ti prego. Poco, poco, sì?" La bambina scrollò le piccole spalle. Oh, era stupenda, così giovane e tenera. Roland pulsava di desiderio. CAPITOLO VENTIDUESIMO Jake, alla guida della macchina di servizio, percorreva le strade di Clinton, e si sentiva assolutamente impotente. In quel modo non sarebbe approdato a nulla. Poco prima aveva portato la bottiglia di vodka alla centrale, ne aveva rilevato le impronte digitali asportando i reperti migliori con del nastro di cellophane e fissandole su di un cartoncino etichettato. Aveva quindi passato un po' di tempo a confrontare le impronte con quelle dei ragazzi e dei pochi studenti del college schedati negli archivi del dipartimento di polizia. Non si era aspettato di trovare alcuna corrispondenza, e difatti non ne aveva trovata nessuna. Per ora niente da fare, non gli restava che far girare le ruote della sua macchina e aspettare. Due erano le ipotesi: o la creatura e l'essere umano che la ospitava avevano preso il volo in cerca di pascoli più verdi trasferendosi in un'altra giurisdizione, o erano ancora in zona pronti a colpire di nuovo. Di conseguenza, bisognava solo aspettare una denuncia di scomparsa o il ritrovamento di un cadavere. Allora per qualcuno sarebbe stato già troppo tardi. Però, c'era sempre la possibilità di avere un po' di fortuna. Jake odiava l'attesa. Voleva a ogni costo fare qualcosa. Ma cosa? Da dove si parte quando non si deve proseguire lungo un sentiero già in parte battuto? L'Oakwood Inn. Nella macchina di servizio faceva un gran caldo, ma a dispetto di ciò un brivido scosse Jake dietro il collo, raggelandolo. Non c'era ragione di andare laggiù, si disse per l'ennesima volta. Aveva già perquisito a fondo il ristorante il giorno prima. La creatura aveva lasciato lì le sue uova. Sì, ma... Sì, ma... sì, ma. Affronta la realtà, Corey, sai benissimo che dovresti andarci, probabilmente ci saresti dovuto rimanere per tutta la notte, pianto-
nando il ristorante. Quando Barney ti ha detto di non andarci, non te lo sei fatto ripetere due volte: non aspettavi altro, perché ti spaventa a morte l'idea di tornarci. Non c'è niente da scoprire laggiù. Certo, bravo, continua a dirtelo. Non stai facendo altro che perdere tempo. La creatura ha lasciato lì le sue uova. Potrebbe tornare a controllarle. Io non voglio andarci. Oltretutto, non ho l'abbigliamento adatto e non ho neppure il machete. Basta con le scuse. No, quel coso non è più in giro, si è ficcato nel corpo di qualcuno. Probabilmente. Non ha senso andare lì. Non c'è. Se non c'è, di cos'hai paura, allora? Mentre Jake rimbeccava se stesso, la sua macchina stava compiendo il giro di un isolato. Tornò sulla Central Avenue, girò a sinistra e prese la direzione di Latham Road. Okay, decise, vado a darci un'occhiata. Non concluderò nulla, ma almeno lo avrò fatto e la pianterò di mettermi sotto accusa. Percorse la strada che fiancheggiava il campus. Molti studenti erano lì all'aperto: alcuni passeggiavano lungo i vialetti; altri erano seduti sulle panche sotto gli alberi, a leggere o a chiacchierare; due ragazzi si lanciavano un frisbee; alcune studentesse, in bikini o altre succinte tenute, erano sdraiate su una coperta o un telo da spiaggia e prendevano il sole. Jake accostò al marciapiede e fermò la macchina. Difficile trovare in tutto quello sciame di giovani, sia ragazzi che ragazze, una schiena che non fosse nuda. Dall'ampio varco tra Bennet Hall e Langley Hall, riuscì a gettare lo sguardo sul cortile lastricato all'interno del campus. Un numero ancora maggiore di studenti era assembrato laggiù — quasi tutti i ragazzi a torso nudo, e tutte le ragazze in costume da bagno o in prendisole. Jake considerò l'ipotesi di scendere dalla macchina e farsi un giretto tra gli studenti. Sì, come no, la scartò subito. In divisa. Va' a casa, mettiti un paio di pantaloncini e poi torna qui. Mescolati alla folla dei ragazzi, controllali da vicino e fai qualche domanda. Non sembrava un'idea malvagia. Una manovra per evitare di andare all'Oakwood Inn? Se uno di quegli studenti avesse avuto il bernoccolo rivelatore sul collo non lo avrebbe di certo sfoggiato nel campus. Forse no, però questo avrebbe circoscritto l'ambito di ricerca. Sarebbe bastato esaminare i pochi che
indossavano una maglietta. Sempre che la creatura si nascondesse tra loro. D'altronde cosa ci perdeva a compiere una piccola indagine sul campo? Stai perdendo tempo. Muoviti. Agisci. Jake sospirò, controllò lo specchietto laterale e si allontanò dal marciapiede. Tornerò in pantaloncini, decise, ma dopo che avrò dato un'occhiata a quel ristorante maledetto. Non c'è niente di meglio da fare, e poi chissà? Potrei scoprire qualcosa di nuovo. Non appena ebbe imboccato Latham Road, cominciò a tremare. Il cuore accelerò i battiti. Il volante divenne viscido sotto le dita sudate. Desiderò che Chuck fosse con lui. Avere un compagno al suo fianco lo avrebbe fatto sentire meglio. E poi l'umorismo di Chuck riusciva sempre a impedire che la tensione si facesse troppo pesante. Barney non avrebbe dovuto escluderlo dalla missione. D'altra parte, cosa sarebbe cambiato se una persona in più fosse stata a conoscenza della faccenda? Perché diavolo non viene Barney in persona a farmi compagnia? Per chi mi ha preso, per il Ranger Solitario? Calmati. Prova a pensare a qualcosa di piacevole. Per esempio? Per esempio Kimmy. Non poter essere stato con lei ieri. Grandioso. Proprio un pensiero piacevole. Dovevi lavorare ieri, lo sai. Passato oggi, dovrai aspettare solo quattro giorni e sarà venerdì, e lei starà di nuovo con te. Quattro giorni. Sembra un'eternità. E se tutta questa merda non fosse ancora finita? Martedì vuoteremo il sacco, dopodiché me ne laverò le mani. Se entro venerdì non si fosse risolto nulla, non sarò io a dovermene occupare. Jake lanciò un'occhiata verso destra mentre superava Cardiff Lane. Al ritorno, forse, sarebbe passato alla villa. Non erano molte le probabilità di vederla, però. Se era fuori, sarebbe stata sicuramente nel cortile posteriore, dietro la palizzata di legno di sequoia. Potrei fare un salto dentro. Barbara odia le visite a sorpresa, ma questa non me la negherà. Dopotutto ieri ho rinunciato alla giornata che mi spettava per far sì che Kimmy fosse a casa per il suo compleanno. Potrei fare un giro con Kimmy. Non c'è molto traffico in questa zona. Le farei accendere la sirena e i lampeggianti. Impazzirebbe di gioia. Le dico, 'Non accendere la sirena.' Lei fa quella faccia birbante e allunga la mano verso il pulsante.
Il sorriso e il buonumore di Jake si dissolsero all'istante quando vide il cartello indicatore dell'Oakwood Inn. Imboccò la stretta stradina. A Kimmy, pensò, questa strada piacerebbe un mucchio. Con tutti questi dossi e avvallamenti sembra di essere su di un otto volante. Correndo un pochino, si sarebbero sentiti sfuggire la macchina di sotto dopo ogni dosso, e quei sobbalzi l'avrebbero fatta ridere a crepapelle. Ma di tutte le strade del mondo, quella era l'unica dove non l'avrebbe mai portata. Per nessuna ragione. Dalla cima di un poggio, Jake avvistò il ristorante e sentì un vuoto nello stomaco, la sensazione di sprofondare. Ma non lo divertì, come avrebbe divertito la sua Kimmy. Lo attanagliò, invece, in una morsa di nausea che non lo abbandonò, ma s'intensificò man mano che si avvicinava al ristorante. L'area di parcheggio era deserta. Cosa ti aspettavi di trovare, si domandò, una festa da ballo? Pressappoco. Aveva sperato — se ne rese conto — di trovarvi almeno una macchina: la macchina del ragazzo (o forse della ragazza) che aveva un ospite sulla schiena. Entra, e può darsi che lo trovi giù in cantina inginocchiato sulla poltiglia delle uova distrutte. Una debolissima speranza. Non avrebbe mai scommesso su una fortuna simile. Fermò l'auto vicino alla scaletta della veranda. Si asciugò le mani sudate sui pantaloni e fissò la porta. Non c'è nessuno, pensò. Che ci vado a fare lì dentro? Per vedere se era cambiato qualcosa da ieri. Forse qualcuno era entrato dopo che lui era andato via. Jake si strofinò una manica sulle labbra. Sei venuto fin qua, si disse. Non fartela sotto proprio adesso. Solo una controllatina e poi via. Cercò di inghiottire. Gli sembrò che la gola si fosse irrigidita al punto da essersi paralizzata. Se non altro puoi entrare per bere. Dal rubinetto della cucina, magari. Vide Peggy Smeltzer giacere sul pavimento della cucina, un corpo senza testa, Ronald che le strappava la carne dal ventre. Vide il modo in cui la sua pelle parve tendersi elasticamente quando Ronald alzò la testa. Fallo e basta, si ordinò. Aprì la portiera e mise fuori la gamba sinistra. Stava sul punto di alzarsi dal sedile, quando la radio si mise a fischiare e gracchiare.
Sharon, la centralinista, chiamò con la sua voce piatta, "Unità due, unità due." Jake sollevò il microfono e premette il pulsante. "Unità due." "Chiama in centrale." "Ricevuto." Jake riappese il microfono al gancio. Ricordò che nel ristorante c'era il telefono. Ma aveva provato a usarlo giovedì notte e aveva scoperto che non era collegato alla linea. Neppure adesso avrebbe funzionato. "Peccato," mormorò. Ingranò la retromarcia e si allontanò dal ristorante. Tre chilometri prima, sulla Latham Road era passato davanti a una stazione di servizio della Shell. Lì c'era un telefono pubblico. Invertì la marcia e uscì dal parcheggio a tutta velocità, sentendosi sollevato in parte, ma gravato, adesso, da una nuova preoccupazione. Il messaggio dalla centrale poteva significare soltanto una cosa: nuovi sviluppi del caso. Ogni altra notizia sarebbe stata smistata a Danny nell'unità uno. Pigiò a fondo l'acceleratore. La macchina sfrecciò sulla strada impervia, volando sui dossi (sobbalzi da luna park per Kimmy) e picchiando forte sull'asfalto là dove il livello si abbassava di colpo. Stiamo volando, pensò Jake. Volando via da quel posto maledetto. Ma verso cosa? Forse verso qualcosa di più terribile ancora. Frenò, rallentò fin quasi a fermarsi alla confluenza sulla Latham, si accertò che non stessero arrivando macchine, poi si lanciò. Una macchina davanti a lui. Accorciò in pochi secondi la distanza da essa e attivò la sirena e i lampeggianti. La macchina accostò e la superò di volata. Pochi secondi, e Jake avvistò la stazione di servizio. Con una pacca sopra una tasca anteriore dell'uniforme si assicurò di avere spiccioli. Le monete tintinnarono. Naturale che le avesse. Si era premunito prima di uscire di casa, sapendo che avrebbe dovuto telefonare a Barney se avesse ricevuto quel genere di messaggio. La procedura era sembrata eccessiva a Jake, ma Barney aveva insistito nel dire che per tenere la cosa segreta bisognava evitare di usare la radio. Per una qualche ragione, Jake aveva pensato che non avrebbe avuto necessità di usare gli spiccioli quel giorno. Mi ero sbagliato, osservò. Beh, se non altro la chiamata è arrivata giusto in tempo. Merda. Probabilmente qualcuno ha tirato le cuoia e a te importa soltan-
to di essere stato salvato dall'Oakwood. Percorse a razzo la strada, tagliò di netto per la piattaforma sollevata della stazione e premette il freno a tavoletta. La macchina si fermò con un notevole scossone accanto alla coppia di telefoni pubblici. Jake spense la sirena, posizionò in folle la leva del cambio, e, lasciando il motore acceso, aprì la portiera. Corse ai telefoni frugandosi in tasca in cerca di una moneta da un quarto di dollaro. Sull'apparecchio di destra si leggeva la scritta 'fuori servizio'. "Merda," mormorò Jake. Afferrò il ricevitore dell'altro telefono e lo appoggiò all'orecchio, aspettando di udire un segnale. Che giunse, indicandogli che l'apparecchio funzionava. Da come gli tremava la mano, capì che avrebbe avuto delle difficoltà a inserire la moneta nella fessura. Così, appoggiò di forza la moneta sulla piastra metallica, il più vicino possibile alla fessura, e facendola scivolare lateralmente, ne premette energicamente il taglio contro la superficie piatta finché non riuscì a farvela cadere dentro. Un tintinnio si udì attraverso l'auricolare. Compose il numero più in fretta che poté. Il primo segnale di chiamata non era giunto al termine quando Barney rispose. "Jake, può darsi che non significhi niente. Non voglio che tu ti precipiti a trarre conclusioni." Quel tono non era da Barney. Troppo teso, eccessivamente misurato, e poi non pronunciava le parole con la sua solita cadenza da criminale incallito. Brutta storia, pensò Jake. Brutta davvero. No, non voglio sentire! "Barbara ha chiamato in centrale. È preoccupata per Kimmy. Sembra che la bambina manchi di casa dalle 13.00 circa." Jake guardò l'orologio sul polso. Per un attimo non ebbe la più pallida idea sul perché lo stesse guardando. Poi si rese conto che voleva sapere che ora fosse. Le due e trentacinque. Kimmy era scomparsa da... "Jake?" Non rispose. Kimmy era sparita da... le 13.00 era l'una, giusto? "Probabilmente si è messa a girellare nei dintorni di casa," disse Barney. "Sai come sono i bambini. Non c'è assolutamente nessuna ragione per sospettare che ciò abbia qualcosa a che fare con... quell'altra faccenda. Jake?" "Sì. Ora vado." "Tienimi informato." Jake riagganciò. Con la mente offuscata da una densa coltre di nebbia,
ritornò alla, macchina di servizio. E ripartì. Kimmy. Sta bene, non le è successo niente, pensò. Deve star bene. Se n'è andata a gironzolare, tutto qua. Forse si è persa. Vide Roland Smeltzer nella cucina del ristorante, in ginocchio, i denti che strappavano la carne dal ventre, ma non era la moglie di Smeltzer a essere dilaniata e divorata, era Kimmy. Con uno stridulo 'NO!' lo uccise sul colpo. Kimmy sta bene. Nessuno l'ha presa. È andata solo a fare una passeggiata. Mancava da più di un'ora e mezza. Vide Harold Standish aprire la porta, alzare giocosamente le mani e invocare, "Non sparare." E vide se stesso piantargli una pallottola in fronte e fargli saltare il cervello, sì a quello stronzo. Barbara che si precipita fuori, col kimono di seta blu. E grida, "Non è colpa nostra!" Tre pallottole le trapassano il petto. Poi Jake si ficca la canna in bocca e preme il grilletto. È così che andrà a finire, fottuti pezzi di merda, pensò. Sarà esattamente così, se è accaduto qualcosa a Kimmy. Ora calmati, è meglio. Fanculo. Bastardi, perché non la stavate sorvegliando? Infilò il vialetto carrabile fermandosi dietro la BB's Toy, resistendo all'impulso di sbatterci contro. In un istante fu fuori della macchina, dirigendosi difilato verso l'ingresso della villa. La mano destra stringeva saldamente l'impugnatura in noce della sua Smith & Wesson calibro 38. Sollevò con uno strappo la patta della fondina. Che cosa sto facendo? Allontanò la mano dalla pistola e la serrò in uno stretto pugno. La porta della casa si aprì prima ancora che suonasse il campanello. Barbara, pallida e con gli occhi arrossati, gli si gettò addosso e gli strinse le braccia intorno al corpo. Jake la spinse via da sé. Lei parve sorpresa, ferita, accusatrice: "Okay," disse Jake. "Com'è successo?" Barbara scosse la testa. "Non lo so," rispose poi con voce piagnucolosa. "Era seduta sulla soglia. Eravamo appena tornati dal Lobster Shanty, avevamo pranzato lì, e per tutto il viaggio di ritorno non aveva fatto altro che frignare perché non le avevo voluto comprare un gelato. Aveva già man-
giato della torta al cioccolato, non volevo che poi si sentisse male. Non guardarmi in quel modo!" "Mi dispiace," mormorò Jake, trafiggendola con occhiate di fuoco. Non gli dispiaceva affatto di guardarla in quel modo. L'avrebbe volentieri agguantata per il davanti della camicetta scaraventandola contro lo stipite della porta. Un gelato. Kimmy voleva un gelato e Barbara aveva recitato la parte della Mamma Padrona negandoglielo. E adesso lei era scomparsa. Barbara tirò su col naso e se lo asciugò col dorso della mano. "E così ha continuato a tenere il broncio per tutta la strada, e quando siamo arrivati qui si è piantata sulla scaletta della veranda e non ha voluto saperne di entrare in casa. Allora l'ho lasciata lì fuori. Insomma, tu lo sai com'è Kimmy. Cosa dovevo fare io? Trascinarla dentro per le orecchie? Così l'ho lasciata lì. Immaginavo che sarebbe entrata dopo un paio di minuti. Ma quando ho visto che non l'ha fatto, sono uscita a prenderla e lei non c'era più. Mi dispiace. Dio, è anche mia figlia!" "Glielo scriveremo sulla lapide, 'La mamma non volle comprarmi il gelato'." "Sei uno stronzo!" sbottò Barbara, e si avventò contro di lui, le dita contratte pronte a graffiargli la faccia. Jake le afferrò un polso e lo strinse saldamente. Quando vide l'altra mano guizzare verso di lui, diede al polso una rapida torsione e lei cadde all'indietro. Il sedere urtò il pavimento di marmo dell'atrio. Coprendosi il volto con le mani, rotolò su un fianco e vi rimase, rannicchiata in posizione fetale. Jake entrò, chiuse la porta con un calcio e restò lì fermo, in piedi davanti a lei. "Dov'è quel testa di cazzo che hai sposato?" "Lui... sta cercando Kimmyyyyy." Jake abbassò gli occhi, fissandola. Barbara stava singhiozzando così violentemente che tutto il corpo ne era scosso. "Adesso sì che sarai felice. Non ti è bastato sbarazzarti di me, dovevi... la volevi morta, è così? Doveva essere una gran rottura per te, averla sempre tra i piedi. Bene, forse adesso ti sei tolta l'impiccio per sempre. Sarai contenta." Barbara si raggomitolò ancor più strettamente. Perché ora non la prendi anche a calci? chiese Jake a se stesso. E tutt'a un tratto fu scosso da un moto di disgusto. Cosa sto facendo? pensò. Kimmy è fuori e forse non le accadrà niente se la trovo in tempo e io invece sto qui a tormentare questa donna che un tempo ho amato.
Sentì come se una terribile oscurità si fosse dissolta, rischiarandogli la mente. Si accosciò e posò una mano sopra la spalla nuda di Barbara. Ella ebbe un sussulto. "Dai, forza," le disse. "Scusami." Barbara continuò a singhiozzare. "Non potevi prevederlo," le disse, accarezzandole il braccio. "Lo so che ami Kimmy. So che non faresti mai nulla che potesse farle del male." "Io... mi ucciderei," disse Barbara in un singulto. "Kimmy sta bene. Era arrabbiata e probabilmente ha deciso di fuggire via di casa. Sai come sono fatti i bambini." Jake si accorse che stava replicando gli insulsi luoghi comuni propinatigli da Barney. "Forse è andata a casa di qualche amichetta." Barbara scosse la testa. "Noi... no. Abbiamo telefonato a tutti." "Non le accadrà niente, vedrai. La troverò. Te lo prometto." "Tu pensi... che qualcuno l'abbia rapita." Era esattamente ciò che Jake pensava. Qualcuno aveva preso Kimmy — qualcuno che aveva una bestia immonda annidata in un cantuccio sulla sua schiena. "Non ci affrettiamo a trarre conclusioni," disse. "Sono sicuro che Kimmy sta bene. Hai controllato dappertutto qui in casa? Potrebbe essere tornata e non te ne sei accorta, e..." "Abbiamo guardato dappertutto. Nella sua stanza, negli armadi... dappertutto." Barbara rotolò sulla schiena. Si asciugò le guance bagnate con le palme aperte e si abbandonò, lasciando che le braccia le cadessero flaccidamente sul pavimento. Fissò il soffitto. Non singhiozzava più, ma respirava a gran fatica. Il davanti della camicetta verde le si era sfilato via dalla corta gonna, attorcigliatasi intorno alle cosce. Aveva l'aspetto di una donna che avesse appena subito un'aggressione, solo che non sanguinava e non aveva contusioni. Non visibili, almeno, pensò Jake. Le prese una mano e gliela strinse appena, delicatamente. Lei gli gettò un'occhiata, poi distolse rapidamente lo sguardo. "L'abbiamo cercata ovunque," disse. "Ho fatto il giro del vicinato, ho chiesto a tutti. Nessuno l'ha vista. Poi Harold è uscito in macchina a cercarla più lontano." Tirò su col naso, e usò l'altra mano per asciugarsi nuovamente gli occhi bagnati. "Ho continuato a pensare che sarebbe tornato da un momento all'altro con Kimmy. Ho continuato a pregare. Ma lui è tornato senza di lei. È stato allora che abbiamo telefonato alla polizia. Harold mi ha detto di farlo. Lui... è stato tanto caro. Ho sempre pensato che fosse così stupido, ma è stato così buono con me."
"Cosa indossava Kimmy?" "Una camicetta a maniche corte. Rosa. Una gonna verde. Calzini rosa e scarpe nere. E... la collanina che le hai regalato tu. Quella con il fermaglio di perline. E aveva Clew. E la borsetta a forma di Minnie. Durante il pranzo ha messo Clew nella borsetta, e ogni tanto vi sbriciolava dentro qualche pezzetto di cracker... per Clew." La voce di Barbara vacillò. "Era così... così bella." "Torno subito," disse Jake. Nel soggiorno, usò il telefono per chiamare in centrale. Barney gli disse che si era già messo in contatto con tutti gli agenti che non erano in servizio. Li aveva allertati e erano pronti a dare una mano nella ricerca. Jake gli fornì la descrizione di Kimmy. "Siamo tutti con te," gli disse Barney. Jake lo ringraziò e riattaccò. Barbara era ancora sul pavimento dell'atrio, ma adesso era seduta, con le ginocchia sollevate, le braccia intorno agli stinchi. Jake le si accovacciò accanto. "Tra pochi minuti," le disse, "l'intero dipartimento cercherà la nostra Kimmy. La troveremo. Non preoccuparti, okay?" Barbara rispose annuendo svogliatamente. "Te la riporterò, vedrai." Lei abbassò la fronte, poggiandola sulle ginocchia. CAPITOLO VENTITREESIMO Alison si accorse che una certa agitazione si stava impossessando di lei, un'agitazione che aumentava man mano che si avvicinava a casa sua. Aveva sperato che Evan si fosse fatto vivo mentre lei era distesa a prendere il sole sul prato del cortile interno del college, risparmiandole così l'onere di doverlo chiamare. In quel modo sarebbe stato decisamente più facile. Naturalmente, Evan non aveva fatto la minima apparizione laggiù. Probabilmente aveva trascorso tutto il pomeriggio nel suo appartamento, a aspettare che il telefono squillasse. Devo chiamarlo subito, pensò Alison mentre saliva la scala esterna. Rimandare servirà solo a peggiorare le cose. Quando fu in cima alla scala, trovò la porta di casa aperta. Entrò e si tolse gli occhiali da sole. Lo schermo del televisore stava trasmettendo un film horror dove una ragazzina correva attraverso un bosco, inseguita da un maniaco. Helen sta-
va dormendo sul divano, e aveva indosso soltanto le mutandine e un reggiseno bianco. Le mutandine erano così vecchie che la stoffa intorno all'elastico che le sosteneva si era quasi completamente consumata, sicché l'indumento, scarsamente sonetto, cascava su di un fianco mostrando una fetta di pelle che somigliava a un pezzo di impasto crudo. Alison si avvicinò al televisore e lo spense. "Ehi, che stai facendo?" "Credevo che stessi dormendo." "Stavo solo facendo riposare gli occhi." Alison riaccese la tivù e si spostò dallo schermo. "La porta era spalancata," disse. "Meno male che sono entrata io, e non qualche matto dalla strada." "Volevo far entrare un po' di venticello. Nel caso non lo avessi notato, qui dentro fa più caldo che tra le cosce di una baldracca." "Ha telefonato qualcuno?" "Ti riferisci al ragazzo del tuo cuore? No, non ha chiamato. Sospetto che dovesse toccare a te questa mossa." "Non c'è dubbio," disse Alison, e le parve che la morsa che le imprigionava lo stomaco si fosse stretta ancor oltre. "Celia non è ancora tornata?" "Evidentemente non riesce a saziarsi della carne di quella matricola." "Ha telefonato o altro?" "Niente." Alison si accigliò. "Spero che sia andato tutto bene." "Ormai le starà sanguinando." "È un mucchio di tempo che è uscita." "Potenza dell'amore. Non era questo che auspicavi per lei?" "Certo," disse Alison. "Da un momento all'altro la vedremo entrare zoppicando. Allora, ti decidi o no a telefonare a Evan?" "Voglio lavarmi prima." "Sì, sì, tu continua a rimandare, e quello si scorderà persino chi sei." "Oh, non credo." Sorridendo, Alison si allontanò. Salì in camera sua, prese l'accappatoio e saltellò di nuovo giù per la scala. Nella stanza da bagno, appese l'accappatoio alla porta e si liberò dell'abbondante maglietta che aveva indossato come copricostume. Il bikini era umido per il sudore e macchiato d'olio abbronzante. Intenzionata a indossare di nuovo il bikini prima di portare in lavanderia il carico dei panni sporchi, se lo lasciò addosso quando si mise sotto la doccia.
Il getto caldo e sferzante le donò una splendida sensazione. Si girò lentamente sotto di esso. Il bikini, bagnandosi, le aderì alla pelle. Le piaceva il modo in cui le premeva sui seni, sull'inguine e sulle natiche, e se lo lasciò ancora addosso mentre faceva lo shampoo. Lo strofinò con le mani insaponate per pulirlo. Stasera, pensò, saranno le mani di Evan a toccarmi. E il voto di castità? Che fine hanno fatto tutte quelle tue belle intenzioni? Beh, vedremo. Se farai l'amore con lui ti ritroverai esattamente al punto di partenza. Non scoprirai mai se tra voi c'è qualcosa di più. Cercherò di resistere. Mentre sciacquava via lo shampoo dai capelli, Alison, nei suoi pensieri, paragonò quella situazione a una festa dove si sa per certo che si alzerà il gomito. Bisognava decidersi prim'ancora di iniziare se ci si voleva ubriacare o no. Se si va alla festa impreparati, succede che un bicchiere tira l'altro e senza nemmeno accorgersene, in quattr'e quattr'otto, ci si ritrova saturi come una spugna. O, come nella fattispecie, ci si ritrova nuda a letto. Il che, come ipotesi, non era neppure tanto male. Alison si slacciò il top del bikini e si scostò dai seni il tessuto che vi si era dolcemente incollato. Sollevò il reggiseno avvicinandolo all'effusore della doccia. Il getto d'acqua lo investì, distendendolo. Dopo qualche secondo, volse la schiena verso il possente scroscio e torse il reggiseno, strizzandone via l'acqua in eccesso. Poi appese l'indumento sulla barra di sostegno della tendina. Non pensava di essersi scottata al sole, ma quando si tolse il reggiseno del costume si accorse che la pelle aveva assunto una lieve colorazione rosata che sembrava quasi le fosse stata spruzzata addosso, disegnando una precisa linea di demarcazione che andava da un seno all'altro. Oltre la linea, la pelle sbiancava, pallidissima al confronto. Veramente carine, pensò. Tette che sembrano gli occhi di un matto. Non credo che Evan se ne lamenterà. Ma Evan non dovrà mica vederle, no? Uffa, deciditi e falla finita. Deciderò più tardi. Se lo faccio adesso, ho scarsissime possibilità di scegliere la via dell'astinenza. Sciolse i laccetti sui fianchi. Davanti, il triangolino di stoffa era di di-
mensioni così ridotte che il peso dei laccetti bagnati fu sufficiente a farlo cadere. Alison si staccò la parte posteriore dalle natiche e fu nuda. Sciacquò il pezzo di sotto del bikini, lo strizzò e lo appese accanto al top. Prese quindi una scivolosa saponetta e incominciò a insaponarsi il corpo. Se stasera vedrai Evan, pensò, lui si aspetterà che tu gli vada incontro. Che gli vada incontro, bella espressione. Peccato che tu non sia qui adesso, Evan, vecchio mio. Non dovresti faticare molto per avermi. Cavolo, non dovresti faticare affatto. Sarai pure l'uomo sbagliato, ma in caso di necessità fai bene il tuo gioco. Basta che mi sorprendi dopo che sono stata a prendere il sole per qualche ora. Forse il sole è un afrodisiaco. O forse è la pelle spalmata d'olio solare a eccitarti, il suo odore. O probabilmente lo startene sdraiata, quasi nuda, col sole che ti arroventa la pelle, penetrando oltre la stoffa del bikini, e la carezza del vento che di tanto in tanto ti lambisce il corpo. Dovrei scriverci un tema su questo argomento, la prossima volta che il professor Blaine ci chiederà di comporre un brano descrittivo. Si ecciterebbe come una bestia. E si sfogherebbe su dì me, se gliene dessi anche la più piccola opportunità. È il professore più arrapato che abbia mai visto. Dai, non disprezziamo gli arrapati. Ma liquidiamo la faccenda prima di fare il gran passo telefonando a Evan. Che ne diresti del vecchio trucco della doccia fredda? No grazie, preferirei rimanere eccitata. Ma in casa faceva un caldo insopportabile. Se nop si fosse costretta alla tortura della doccia fredda, non avrebbe neppure finito di asciugarsi che avrebbe cominciato a sudare copiosamente, grondando poi per un mucchio di tempo. Con una risatina, Alison girò il rubinetto dell'acqua calda. Il getto divenne fresco, poi gelido, tanto da farle stringere forte i denti. Sentì la pelle accapponarsi all'istante. Si sottopose alla gelida sferza con la schiena rigida, le natiche ben strette, i pugni pressati sulle guance. Dopo un po', il diluvio gelato cominciò a non essere più tanto insopportabile. Si voltò, rabbrividendo. Finalmente, abbassò la testa sotto lo spruzzo dell'effusore, e si sentì come se qualcuno le avesse rovesciato sulla testa una brocca d'acqua ghiacciata. Quando uscì dalla doccia, avvolgersi nel telo di spugna le diede una sensazione voluttuosamente meravigliosa. Se lo strinse intorno al corpo, assaporandone avidamente il tepore e la morbidezza. Aveva appena cominciato
a asciugarsi i capelli, quando un colpo sulla porta la fece sussultare. "Telefono," annunciò Helen. Ad Alison parve che il respiro le fosse stato improvvisamente risucchiato. "Chi è?" "Sono Helen, chi vuoi che sia?" "Molto spiritosa. Chi è al telefono?" "Indovina-indovinello. Tre possibilità." "Oh, Gesù," mormorò Alison. "Sbagliato. Ti restano altri due tentativi." "Digli che arrivo subito." "Posso dirgli che lo richiamerai." "No!" Alison si avvolse l'asciugamano intorno alla testa e si precipitò verso la porta. Afferrò l'accappatoio dall'attaccapanni e se lo gettò addosso. La soffice ciniglia le aderì sulla pelle bagnata. Helen si fece da parte sgombrandole il passo, lasciando che si affrettasse nel soggiorno. "Ehi, rallenta. Non credo che riattaccherà senza averti sentita." Alison continuò a strofinarsi i capelli mentre si dirigeva al telefono nel soggiorno. L'ultimo tratto lo percorse arcuando la schiena per asciugarsi le gambe. Affannava un poco quando infine raggiunse il telefono. "Pronto?" "Ciao," disse Evan. In quella sola, unica parola Alison percepì una tensione e una spossatezza che sembravano assolutamente estranee a una persona quale era Evan. "Come stai?" gli chiese lei, sforzandosi di celare con una calma voluta il tremito che la scuoteva interiormente. Gocce d'acqua le colarono lungo le gambe. Si sedette. L'accappatoio assorbì i rivoletti d'acqua. "Sto bene, credo," rispose Evan dopo un un momento di pausa. "Contavo di chiamarti tra cinque minuti," disse lei. "I fiori sono molto belli." "Sono contento che ti siano piaciuti." Alison cercò di pensare a cosa avrebbe dovuto dire a proposito della lettera. Ma si sentiva la mente intorpidita. Si strofinò le cosce bagnate con l'asciugamano. Helen giunse dal corridoio, sorrise e congiungendo le punte del pollice e dell'indice disegnò una O di approvazione, poi entrò nella sua stanza e chiuse la porta. Il silenzio calò nel soggiorno. Devo dire qualcosa della lettera, pensò Alison. "Immagino che tu abbia letto la mia... lettera di scuse."
"Sì." "Che ne pensi?" Ad Alison parve che una forza le stesse spremendo i polmoni strizzando fuori tutta l'aria. Arcuò la schiena, e soltanto così riuscì a trarre un respiro soddisfacente. "Non lo so," fu tutto ciò che seppe rispondere. "Sono stato così stupido. Su tutto. Avrei dovuto rispettare la tua decisione. Ero soltanto... amareggiato e confuso. Ma ciò non mi giustifica. Non ci sono giustificazioni." "Una crisi di follia temporanea?" Evan fece una flebile risata. "Vengo da te, se vuoi." Alison stentò a credere di averlo detto. Non era stato il frutto di una decisione, almeno non coscientemente. "Davvero?" Evan sembrò risuscitato alla vita. "Stasera?" "A che ora?" "Oh, Dio, Alison. Non riesco a crederci." "Beh, vedremo come andrà." "Sarà stupendo, te lo prometto. Va bene verso le cinque?" "D'accordo." "Preparerò qualcosa di eccezionale per la cena. Prenderò dello champagne. Sarà grandioso. Sei una persona incredibile, lo sapevi questo?" "Però niente discussioni, niente battibecchi, intesi? Sarà solo una cena amichevole, parleremo e vedremo come andrà." "Mi sei mancata da morire." Alison si sentì stringere la gola. "Anche tu mi sei mancato. Tanto. Ci vediamo alle cinque." "Vuoi che ti venga a prendere?" "No. Grazie, comunque. Verrò a piedi. Devo fare prima un salto alla Baxter Hall." "Gli alloggi delle matricole?" "Devo parlare un secondo con un ragazzo. Non preoccuparti, non ti ho scaricato per una matricola. O per chiunque altro, per la verità." "Bene, mi fa piacere saperlo. Non che ti biasimerei se lo avessi fatto, visto il modo in cui ti ho trattata." "Adesso basta con le scuse, d'accordo? Ricominciamo tutto da capo, da questo momento, ripartiamo da zero. Tutto quel che è stato è acqua passata sotto i ponti, o sopra la diga, o dove cavolo sia." Come acqua scivolata sui tuoi seni, pensò, e con l'asciugamano si strofinò il collo e i seni umidi.
"Per me va benissimo," approvò Evan. "Okay. Ci vediamo tra poco." "Se ce la fai a venire prima delle cinque, sarà ancora meglio." "Vedremo." "Stammi bene, Al," si congedò infine Evan. "Anche tu. Ciao." Alison riattaccò, si abbandonò sullo schienale della poltrona e si avvolse nell'accappatoio. Un attimo dopo, si aprì la porta di Helen. "Hai afferrato tutto quanto?" le fece Alison. "Afferrato cosa?" replicò Helen. "E allora? Qual è il verdetto?" "Vado a cena da lui stasera." "Goal! Un punto a favore dell'amore e del sentimento." "Non sono sicura di questo, a ogni modo, ci vado lo stesso." "Cos'era quella storia su Baxter Hall?" "Allora stavi origliando sul serio." "No. Chi, io? No-oo. Ma non ho potuto fare a meno di acchiappare una parola qua e là. Credi che Celia sia lì?" "Non lo so. Ma credo che ci farò un salto a controllare. Probabilmente non la troverò, ma può darsi che qualcuno sappia dirmi qualcosa." "Hai intenzione di passare da Roland?" Alison aggricciò il naso. "È il compagno di stanza di Jason. Chi meglio di lui potrebbe sapere che fine hanno fatto?" "Oh, sarà così divertente incontrarlo." "Già, divertente come i conati secchi." "Perché non gli telefoni, invece? Ti risparmierai la nausea." "Non importa, e poi è sulla strada per andare da Evan." Helen abbassò le folte sopracciglia. "Tu non credi che sia successo qualcosa di brutto, eh?" "Comincio a essere un po' preoccupata, tu no?" "Celia non è una bambina." "Manca da un mucchio di tempo ormai." "Vuoi che venga con te per sostegno morale?" "Dovresti vestirti." Nessuna delle due sorrise. "No, non importa," disse Alison. "Me la caverò." "Cerca di non trovarti da sola con lui, però. Resta fuori della stanza". "Sì, me ne ricorderò." Si tirò su dalla poltrona. "Adesso sarà meglio che mi dia una mossa."
Alison salì in camera sua. Si sedette alla scrivania, aprì il cassetto e prese le foto di Evan. Abbiamo vissuto momenti meravigliosi insieme, pensò mentre guardava le fotografie. Forse non è finita. Forse sarà un nuovo inizio, e da questo momento in poi sarà tutto splendido. Speriamo. Ma non contarci. Appuntò di nuovo le foto sulla bacheca e rimase per un po' a fissarle. In una lui le teneva la mano. In un'altra si stavano baciando. In una terza, erano seduti sopra una coperta sull'erba dietro una quercia. Evan sembrava molto compiaciuto. Sebbene la foto non lo mostrasse, Alison ricordava che la mano destra di Evan era infilata nella parte posteriore dei suoi calzoncini, dentro le mutandine, voluttuosamente compressa sul suo sedere. Poco dopo che la foto era stata scattata, erano andati nell'appartamento di lui e avevano fatto l'amore sul pavimento del soggiorno. L'unica volta in cui Alison era stata sopra di lui, a cavalcioni sul suo ventre, china in avanti, puntellandosi sulle braccia tese, mentre Evan le massaggiava e le premeva i seni, glieli succhiava accompagnando le contorsioni di lei, possentemente penetrata. Quel ricordo inviò a Alison un brivido caldo. Stasera non dovrai farlo, raccomandò a se stessa. Fosse pure solo per stasera. Una sera senza sesso, non importa con quanto ardore lo desideriamo entrambi. Altrimenti, non saprai mai se tra noi c'è più di quello. Il sesso è come un nodo che ci lega insieme, pensò. Devo scioglierlo, una volta soltanto, solo per vedere se ci separeremo. Solo per scoprire se c'è un altro nodo nella corda che ci lega l'uno all'altra — il nodo dell'amore vero. CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO Jake oltrepassò la scuola elementare dove il prossimo autunno Kimmy avrebbe frequentato l'asilo se... no, non pensarlo neppure, ammonì se stesso. Morire prim'ancora di... Basta! Si sfregò la fronte. Si sentiva così dannatamente stanco. Se soltanto avesse trovato il modo di allontanare quei pensieri. Quando alla centrale di polizia aveva incontrato gli altri sei agenti per
organizzare le ricerche, tutti avevano saputo incoraggiarlo con ottimistiche rassicurazioni, ma i loro occhi li avevano traditi. Anch'essi si aspettavano il peggio, e per di più ignorando ciò che solo Barney sapeva, e cioè l'autentica portata del pericolo incombente. Jake vide una bambina sull'altalena del campo da gioco della scuola. Sentì una scossa al cuore. Frenò bruscamente. Da quella distanza, la bambina somigliava moltissimo a Kimmy. Un uomo era in piedi dietro l'altalena, spingendola. La piccola indossava dei blue jeans e una maglietta bianca. Kimmy, invece, si supponeva che indossasse una gonna verde e una camicetta rosa. Ma Jake rammentò un articolo letto sul giornale a proposito di una ragazzina scomparsa in un centro commerciale. Sua madre mise subito in allarme il servizio di sicurezza del centro, e così tutte le uscite furono immediatamente bloccate. La bambina fu riconosciuta da sua madre quando i rapitori cercarono di portarla via superando il posto di blocco. Solo che non sembrava più una bambina. Dopo che l'avevano afferrata, i due uomini l'avevano trascinata nei gabinetti, avevano gettato il suo vestito nel contenitore dei rifiuti, le avevano infilato addosso un paio di jeans e una camicia da ragazzo, le avevano tagliato i capelli cortissimi e le avevano piazzato in testa un berretto da baseball. L'uomo che sta spingendo la piccola sull'altalena... È suo padre, pensò Jake. Forse, o forse no. Effettivamente la bambina era alta quanto Kimmy, aveva la carnagione chiara e i capelli che sembravano quasi bianchi. L'uomo la spingeva sempre più in alto, e quando volava in avanti, i capelli fluttuavano dietro di lei. Quando invece si librava all'indietro, le chiome svolazzavano sul suo visetto. Osservando l'uomo e la bambina, sperando fino allo spasimo della disperazione, Jake si portò lentamente alla strada successiva. Girò a sinistra. Era più vicino adesso, e poteva ancora trattarsi di Kimmy. Non prenderti in giro, si disse. Alla successiva intersezione, voltò di nuovo a sinistra. L'altalena era ora davanti a lui, oltre il marciapiede e dietro una staccionata foggiata a mo' di catena. Jake riusciva a scorgere solo la schiena della bambina. Ti prego. Superò le altalene. Si guardò alle spalle e vide la bambina librarsi verso di lui, fendendo l'aria. I capelli volarono via dal suo viso e le speranze di
Jake crollarono disastrosamente. Si allontanò a tutta velocità. Okay, non era Kimmy. Ma io la troverò. La troverò. E se non sarò io, la troverà un altro dei nostri. Otto uomini la stanno cercando, considerando anche Harold e Barney. Uno di noi... Dove sei, tesoro? Dove? Jake si trovava a almeno un chilometro e mezzo lontano dalla casa di Kimmy. Non poteva aver camminato per un tratto così lungo. Ma lui aveva setacciato in lungo e in largo ogni strada, ogni vialetto, espandendo man mano l'area di perlustrazione seguendo un percorso circolare il cui raggio si allargava a ogni nuovo giro. Era passato un bel po' di tempo. Sarebbe potuta arrivare fin laggiù, sì, non c'erano dubbi. Imboccò una stradina che tagliava attraverso il centro dell'isolato. Giunto in prossimità della fine della strada, una Pinto rossa accostò al marciapiede. Un tipo allampanato con una camicia a scacchi ne scese, si portò una mano al volto e si tirò il lungo naso. L'uomo era lontano da Jake, e non portava la divisa, ma quel modo di tirarsi il naso ne rivelò inequivocabilmente l'identità. Mike Felson. Naturale, pensò Jake. Sono nel suo settore di ricerca. Mike parve non accorgersi del collega in ricognizione. S'incamminò verso la porta chiusa di un garage e, superatala, sollevò il coperchio di un contenitore della spazzatura. Vi sbirciò dentro. Riabbassò il coperchio, si avvicinò al bidone successivo e scoperchiò anche quello. Jake emise un gemito. Stringendosi forte il ventre, sbatté con violenza la fronte contro il bordo superiore del volante. E intanto continuava a gemere, incapace di impedirselo. Sollevò la testa di qualche centimetro e la sbatté forte sul volante. E ancora. CAPITOLO VENTICINQUESIMO Roland chiuse bruscamente il libretto degli assegni. All'inizio del semestre i genitori gli avevano dato la somma di 350 dollari in aggiunta a quanto avevano dovuto sborsare per le tasse scolastiche, il fitto della stanza e il vitto. Della cifra che gli sarebbe avanzata dopo l'acquisto dei libri necessari, avrebbe potuto disporre a suo piacimento: per prendersi qualche svago, cibo extra, indumenti (coltelli e manette, pensò lui, sogghignando), e via
dicendo. Attualmente gli erano rimasti sul conto 142 dollari e 55 centesimi. L'indomani mattina avrebbe prelevato l'intero capitale dalla banca e l'avrebbe usato per finanziare la sua fuga. Per la verità non sembrava un bel gruzzolo. Roland si alzò, si avvicinò alla scrivania di Jason e vi si sedette. Trovò il libretto degli assegni di Jason nel primo cassetto. Sfogliò le cedole finché non ebbe trovato l'ultima somma che Jason aveva avuto a suo attivo, dopodiché andò avanti sottraendo l'ammontare approssimativo dei diversi assegni che Jason aveva emesso da allora. Stando ai suoi calcoli Jason doveva disporre attualmente di circa 400 dollari. Questo sì che era un bel gruzzolo. Roland avrebbe dovuto esercitarsi a riprodurre la firma di Jason... Pezzo di scemo, hai buttato la sua patente nel gabinetto dell'Oakwood. Te l'eri scordato? E non solo. Non hai neppure preso il contante che aveva nel portafoglio. Si domandò se vi fossero dei soldi nella borsetta di Celia. L'aveva lasciata nella macchina di Jason. Tornare a prenderli? No, troppo rischioso. Chinandosi, aprì l'ultimo cassetto in basso della scrivania di Jason. Sollevò le riviste Penthouse e Hustler, tolse la busta che conteneva le istantanee di Dana (perché non portarle via come un souvenir?) e frugò sotto altre riviste finché non beccò il nascondiglio di Jason. Le banconote erano ripiegate a metà e legate da un elastico, formando così un mazzetto. Roland tirò fuori il gruzzoletto. Benché il suo spessore fosse alquanto incoraggiante, scoprì che la maggior parte delle banconote erano da un dollaro, sicché, in totale, il bottino ammontava a soli 87 dollari. Trasferì soldi e busta sulla sua scrivania e infilò il contante nel portafogli. Una foto 8x10 incorniciata era poggiata a un angolo della scrivania. Era una sua foto, riprodotta sviluppando la negativa di una fotografia scattata nel giorno di Halloween. Era una foto spettacolare che lo mostrava avvolto in un mantello da vampiro noleggiato per l'occasione. Le zanne di plastica erano ben visibili, e la bocca e il mento erano sporchi di sangue. Roland picchiettò sulla busta delle istantanee e la bocca gli si aprì in un largo sogghigno nell'attimo in cui un'idea gli balenò nella mente. Estrasse la sua fotografia dalla cornice, prese le istantanee di Dana dalla
busta, poi si munì di forbici e colla prelevate dal suo cassetto. Ritagliò Dana in tanti pezzetti. Un simpatico passatempo, decisamente simpatico, pensò con convinzione. Incollò frammenti del suo corpo sulla foto del vampiro. In breve la sua faccia sordidamente ghignante fu incorniciata da parti del corpo macabramente fluttuanti. Un'opera d'arte, commentò tra sé e sé quando ebbe finito. Dovrei darle un nome. La chiamerò 'Sogni privati'. Sorrise largamente, compiaciuto dell'idea. Mentre raccoglieva i ritagli di carta, qualcuno bussò alla porta. Il cuore sembrò scuotergli il petto. Roland infilò in fretta e furia le foto nel cassetto della scrivania. "Chi è?" chiese. "Alison Sanders. Sono la compagna di stanza di Celia Jamerson." "Solo un momento," rispose lui. Il polso gli batteva a gran velocità. L'amica di Celia. Una delle due ragazze che erano con lei al centro commerciale? Che fosse proprio quella sventola con la tuta attillata? Afferrò i jeans e se li infilò in un batter d'occhio. Accovacciatosi, richiuse la valigia sul pavimento e la cacciò sotto il letto. Si precipitò all'armadio, scelse una camicia sportiva e se la tirò addosso. Con le dita che gli tremavano, chiuse un paio di bottoni prima di aprire la porta. Sì, era lei, la ragazza con la tuta, e sembrava più bella ancora di come la ricordava Roland. Doveva aver preso il sole fino a poco prima, perché il viso possedeva una luminosità che rendeva sfolgorante il bianco degli occhi e dei denti. Finanche lì, tra le ombre del corridoio, i capelli brillavano come oro. Indossava una camicetta a maniche corte, di colore azzurro polvere. Era abbottonata fino alla gola. Le bretelle del reggiseno si intravedevano sotto il tessuto leggero. Una tasca le copriva ciascun seno. La camicétta era ben infilata nella cintura dei calzoncini bianchi con gli orli risvoltati a metà della coscia. I calzettoni, alti alle ginocchia, si intonavano alla camicetta azzurrina. Calzava scarpette bianche da ginnastica. Una mano reggeva la tracolla di una borsa di cuoio. E la borsa dondolava, sfiorandole il lato del polpaccio. "Perché non mi fai una fotografia?" disse Alison. "Dura di più." Cal Taber passò di lì proprio in quel momento. Rise alla battuta di Alison, si voltò indietro e disse, "Conservane un po' per me, Roland." Il dito
medio, eloquentemente proteso verso di lui, fu la risposta di Roland. "Davvero carino," commentò Alison sotto voce. "Scusa. Alcuni di questi ragazzi sono dei veri porci. Vuoi entrare?" "Va bene anche qui. Sai dove sono Celia e Jason?" Prova all'Oakwood Inn, pensò Roland. Poi, accigliandosi, scosse la testa. "Non lo so. L'ultima volta che ho visto Jason, stava uscendo di qui per andare a prendere Celia. Voleva portarla al Lobster Shanty." "Da allora non hai saputo più niente di lui?" "No." Roland si chiese se Alison indossasse sempre la camicetta abbottonata fin lassù, in maniera così castigata. Immaginò di strapparle un bottone alla volta con il suo coltello, fino a aprirgliela completamente. Alison socchiuse gli occhi sospettosamente. Mi ha letto nel pensiero? si chiese Roland. "Sicché non hai idea di dove potrebbero trovarsi?" chiese. "Beh, non proprio, però...Forse. Non voglio che tu mi consideri un ficcanaso, ma..." "Non preoccuparti di ciò che penso io." "Ieri pomeriggio ho notato che Jason aveva una paio di numeri di telefono sulla scrivania. Lui non era presente, e io ero un po' curioso, e così li ho chiamati tutti e due. Per un capriccio, capisci. Uno era quello del Lobster Shanty. Quando ho fatto l'altro numero, mi ha risposto la reception di un motel di Marlowe. Suppongo che Jason pensasse di portarcela." "E perché allontanarsi fino a Marlowe?" "Questo dovresti chiederlo a Jason. Io non ne ho idea. Quando è uscito si è portato la ventiquattr'ore." "Comunque è molto strano il fatto che non siano ancora ritornati." Roland sorrise. "Si vede che se la stanno spassando." L'allusione non sembrò divertire Alison. "Sono sicuro che non c'è motivo di preoccuparsi. Probabilmente li vedremo arrivare tra un po' — a meno che non decidano di star fuori un'altra notte." "Già," mormorò Alison. Dalla sua espressione trapelava un marcato scetticismo. Merda, pensò Roland. Avrei dovuto dirle che Jason aveva telefonato dicendo che si sarebbero fermati ancora là. Avrebbe potuto telefonare a Alison più tardi e dirglielo. Ma gli avrebbe creduto? Beh, in fondo cosa importava? Alison non avrebbe avuto il tempo di creargli dei problemi.
"Io non mi preoccuperei," insisté Roland, "a meno che non saranno tornati entro domattina. Jason ha una lezione alle dieci. Sono sicuro che non mancherà." Alison annuì. "Mi telefoni se Jason si fa sentire? Probabilmente non mi troverai a casa, ma puoi lasciare il messaggio a Helen. Vuoi segnarti il mio numero?" "È nell'elenco degli studenti, no?" "Sì." E c'è anche l'indirizzo. "Sta bene, se avrò notizie, ti chiamerò." "Grazie." Alison si allontanò. Roland la osservò mentre camminava lungo il corridoio. La stoffa dei pantaloncini bianchi subiva una moderata trazione a ogni suo passo, aderendo delicatamente alle rotondità delle natiche. Alison fece per voltarsi e gettare un'occhiata dietro di sé, così Roland arretrò prontamente e richiuse la porta. Si lanciò verso il letto e in un baleno s'infilò le scarpe, allacciandone in fretta le stringhe. Tastò sotto il davanti della camicia penzolante sui calzoni e trovò il fodero del coltello agganciato alla cintura, si toccò poi una tasca per assicurarsi di avere la chiave della stanza. Quando riaprì la porta, Alison era già scomparsa oltre il corridoio. Roland chiuse la porta e percorse di corsa il corridoio. Si gettò a capofitto giù per le scale. "Ehi, rallenta, segaiolo," sbottò Tod Brewster quando Roland scartò pericolosamente di lato per schivare lui e la sua ragazza sul pianerottolo. "Che tuffo," sentì dire alla ragazza. A tre scalini dal fondo, saltò giù. Dalle porte di vetro davanti a sé, vide Alison fuori sul vialetto che costeggiava l'ala nord del fabbricato. Aspettò nell'atrio finché lei non scomparve oltre l'angolo. Poi la seguì. Si tenne a una certa distanza da Alison mentre questa attraversava la zona mediana del campus, per prendere poi il viale che delimitava il lato ovest del cortile interno. Dei ragazzi stavano giocando a touch-football sul prato. Malgrado l'ora tarda, c'erano parecchie ragazze in giro, molte delle quali in bikini, alcune intente a leggere, altre che sembravano dormire, alcune riunite in gruppetti a chiacchierare, e altre ancora, in numero più esiguo, che guardavano la partita di football. A tratti si vedeva qualche coppia distesa su di una coperta. Una di queste era aggrovigliata in un appassionato abbraccio. Una ragazza, sola nei pressi del vialetto, aveva il reggiseno
del costume slacciato e stava seduta con le gambe distese sorreggendosi sui gomiti, tutta presa nella lettura di un libro. Roland rallentò per fissare la pallida pelle in mostra a lato dei seni. La visione destò in lui un palpito di eccitazione. Chissà chi è, si domandò. Scordatela. Hai altri progetti per stasera, e non appena li avrai realizzati... via!, si parte verso nuove strade. Non c'è tempo per quest'altra, anche se sapessi chi è. Qui intorno l'aria comincia a scottare. Se davvero non vuoi correre rischi, devi andartene subito e mollare Alison. No, questo non posso farlo. Assolutamente. Prima voglio Alison, poi prenderò il volo. Però, che peccato lasciarmi dietro tutto questo ben di dio. Non ci pensare. Il mondo è pieno di deliziosa carne, giovane e squisita. Giunta alla fine del cortile, Alison girò a sinistra e proseguì lungo il tratto ombreggiato tra Doheny Hall e il Gunderson Memorial Theatre. S'incamminò direttamente verso la strada, e sul ciglio, attraversò. Roland restò a spiarla nascosto da un albero finché la vide scomparire dietro l'angolo dell'isolato. Si precipitò allora verso l'altro lato della strada. Quando ebbe raggiunto l'angolo, Alison era soltanto a una ventina di metri davanti a lui. Se in quel momento si fosse voltata... Indietreggiò rapidamente e si abbassò, riparandosi dietro la siepe che delimitava il prato della sede dell'associazione studentesca Alpha Phi. Attese alcuni secondi, poi sbirciò da dietro i cespugli. Alison si era fermata a metà dell'isolato. Stava guardando lateralmente verso un punto in alto. La vide sollevare la tracolla della borsa sulla spalla. Arcuò la schiena e sembrò inspirare profondamente. Si toccò il primo bottone della camicetta per poi scendere fino alla cintola e farvi scivolare tutt'intorno le dita, come per accertarsi che l'indumento fosse ordinatamente infilato nei pantaloncini. A questo punto, scese dal marciapiede. Roland ripartì, affrettandosi dietro di lei. La vide. Era ora nel cortile interno di un vecchio palazzo dai muri di mattoni color ruggine tappezzati d'edera. Si fermò a osservarla e la vide salire una rampa di scale fino a raggiungere un ballatoio che correva lungo il piano superiore. Superò due porte e si fermò davanti alla terza. Anziché bussare o aprirla con una chiave, Alison indietreggiò da essa e andò a appoggiarsi alla ringhiera in ferro battuto del ballatoio. Abbassò la
testa. Per un attimo, rimase immobile. Poi, scostandosi dalla ringhiera, sollevò un braccio e con una torsione del busto si guardò il didietro dei pantaloncini. Lo lisciò un paio di volte con brevi e rapidi colpetti e finalmente si avvicinò alla porta e bussò. Un uomo l'aprì. Era più alto di Alison, probabilmente almeno un metro e ottanta. Indossava un paio di calzoni larghi e una maglietta aderente, lavorata ai ferri. Pur distante, Roland riuscì a scorgere la sua costituzione robusta e atletica. Ventre piatto, torace ampio, collo possente e braccia muscolose. Non esattamente il tipo a cui rompere le scatole. L'uomo scomparve alla vista e Alison entrò nell'appartamento. La porta si chiuse. E adesso? si chiese Roland. Vado su e ci provo? Non fare cazzate. Aspetto che esca e la blocco mentre sta tornando a casa? Se il tizio è un gentiluomo la riaccompagnerà lui. Inoltre, voglio trovarmi con lei in un luogo chiuso, al sicuro da intrusioni. Voglio godermela a lungo. Torna a casa, decise, e cerca il suo indirizzo nell'elenco. Sì. Roland si strofinò sulla camicia le mani sudate e tremanti. "Torna presto a casa, Alison," bisbigliò. Poi si allontanò alla svelta. CAPITOLO VENTISEIESIMO Jake scorse una ragazzina bionda su di un triciclo dietro il cancello alla fine del vialetto d'accesso di una villa. Indossava una camicetta bianca. Kimmy? Riusciva a vederne solo la schiena. E cosa ci farebbe Kimmy lì dentro, sopra un triciclo? Beh, poteva essere la casa di una sua amichetta. Barbara aveva detto di aver telefonato a tutti quelli che... La parte destra dell'avantreno della macchina di servizio s'impennò, sollevandosi sul livello della strada. Jake si costrinse a distogliere lo sguardo dalla bambina. Affondò il pedale del freno, ma non fece in tempo, e la macchina andò a sbattere contro il tronco di una quercia. L'impatto lo sbal-
zò in avanti. La cintura di sicurezza scattò e trattenendolo per la spalla e il petto, lo respinse verso il sedile. Il fracasso fece voltare la bambina che lo guardò da sopra la spalla. Non era Kimmy. Fumo o vapore cominciarono a fuoriuscire dal cofano. Jake spense il motore e sganciò la chiusura della cintura di sicurezza. Tremando, aprì la portiera e scese dall'auto per vedere cosa era successo. Scosse la testa. Stentava a crederci. Assorto nel guardare la bambina, aveva lasciato che la macchina deviasse priva di controllo. La ruota anteriore destra era salita sull'angolo del viale carrabile e lui era andato a cozzare contro un albero sul tratto erboso tra il marciapiede e il cordolo di bordura. Barcollò fino al muso della macchina che fumava, sibilando. La nuvola bianca che si levava dalla griglia rientrata e tutt'intorno al cofano puzzava di gomma e di bagnato. Jake non ebbe bisogno di aprire il cofano per capire cos'era successo: aveva rotto il radiatore. Si lasciò cadere sul sedile di guida e allungò una mano verso il microfono della radio. "Grazie per il passaggio," mormorò, e scese dall'unità uno. "Cerca di riposarti un poco prima di ricominciare le ricerche," gli suggerì Danny. "Certo." Chiuse la portiera. La radiomobile si allontanò. Jake risalì il vialetto diretto alla sua Mustang, e mentre camminava si frugò nella tasca in cerca delle chiavi. Si sentiva spossato e nauseato. Una cefalea pulsante gli martellava la testa. Aveva un urgentissimo bisogno di urinare. Muovendosi sulle gambe malferme, girò sui tacchi e ridiscese il vialetto carrabile, attraversando il prato in direzione della porta d'ingresso. Si trascinò dentro casa. Benché fuori indugiassero gli ultimi lucori dell'imbrunire, l'interno dell'abitazione era immerso nell'oscurità. Accese una luce nel soggiorno. Dopo che ebbe usato il bagno, mandò giù tre compresse di aspirina. Si stropicciò la nuca rigida. Guardò la sua immagine riflessa nello specchio dell'armadietto dei medicinali, e notò che il suo aspetto corrispondeva perfettamente a come si sentiva. Aveva i capelli in disordine. Gli occhi arrossati sembravano innaturalmente spenti. Un pallore grigiastro gli scoloriva il volto. Sotto le braccia la camicia dell'uniforme era macchiata di sudore. Si lavò la faccia, poi andò in camera da letto. Incominciò a spogliarsi
degli indumenti umidi. Ieri pensavi di essere in un brutto guaio. Pensavi che perlustrare l'Oakwood Inn fosse un brutto guaio. Ignoravi il vero significato di un brutto guaio. Si liberò dei calzini bagnati e della biancheria intima e gettò ogni cosa sul pavimento. Prese indumenti puliti dal cassettone, e sapendo che sarebbe caduto se avesse tentato di indossarli stando in piedi, si sedette sul letto, indossò la biancheria pulita, poi i calzini. Si alzò di nuovo, gemendo. Andò all'armadio per prendere una camicia pulita. Se la infilò, cercò di abbottonarla, ma subito rinunciò all'impresa. Tolse da una gruccetta un paio di pantaloni marroni di velluto a coste e portò anche questi sul letto. Vi si sedette e se li tirò su per le gambe. Ieri non era niente, pensò. Ieri era la tua dannata immaginazione che si ostinava a fare lo straordinario. Ricordò quando aveva controllato se sotto il letto ci fosse quella specie di serpente e per poco non aveva sparato a Cookie Monster. Io voglio Cookie! Sentì un bruciore agli occhi e le lacrime gli offuscarono le immagini. Volse la testa verso il comodino dove aveva poggiato Cookie dopo che per un pelo non gli aveva piantato una pallottola in mezzo agli occhi. Quegli occhi che sembravano due biglie. Il peluche non c'era più. Jake sapeva di averlo lasciato lì. Controllò il pavimento intorno al comodino. E in un baleno fu in piedi, il dolore e la spossatezza trascinati via da un'ondata impetuosa di speranza. In piedi, a tirarsi su i pantaloni per poi schizzar via dalla sua stanza, scapicollare lungo il corridoio, schiacciare un interruttore della luce e trovare Cookie Monster sul lettino di Kimmy, accoccolato a un lato del collo di Kimmy, trattenuto lì dalla sua minuscola manina. E allora Jake cadde in ginocchio, le braccia avvinghiate alla schiena calda di lei, la faccia affondata nella sua spalla. "Barbara, è qui. Sta bene." "Oh, mio Dio!" Per lunghi momenti, Barbara non aggiunse altro. Jake la sentì piagnucolare. Poi, finalmente, trovò una dose sufficiente di autocontrollo per chiedergli, "Dov'è'?" "Qui. A casa mia." "Dove l'hai trovata?"
"Proprio qui. Sono tornato a prendere la macchina, e..." "È impossibile. Sono chilometri." "Poco meno di cinque, credo." "Oh, maledetto! Perché non hai guardato là prima?" "Ci avevo pensato. Solo... mi era sembrato... è così lontano. Non credevo neppure che sapesse la strada per arrivarci, figuriamoci sospettare che avrebbe potuto percorrere a piedi una distanza tale. Stento ancora a crederci. Ma è proprio qui." "Riesci a immaginare quello che ho passato fino a questo momento?" "Ora è tutto finito. Kimmy è salva." "Fammi parlare con lei." "Dorme." "Svegliala, maledizione!" "Lo farò tra un poco." "ORA!" "Calmati. Devo chiamare in centrale per far interrompere le ricerche. Poi la sveglierò. Avrà una fame da lupo. Le comprerò qualcosa da mangiare e te la riporterò tra un'ora o giù di lì. Bevi qualcosa intanto. Cerca di ritrovare il controllo. Non voglio vederti in preda a una crisi isterica quando la riavrai." "Una crisi isterica? Chi è isterica? Io me la vedevo già morta in chissà quale canale e lei se ne va a fare una fottuta visita a sorpresa al suo fottuto Paparino!" "Devo telefonare alla centrale," ripeté Jake. "Ci vediamo tra poco." Riattaccò. Dopo che ebbe fatto la seconda telefonata, Jake ritornò nella camera di Kimmy. La piccola stava ancora dormendo. Le si inginocchiò accanto e le accarezzò la testa. I capelli erano umidi. Le mise una mano sulla schiena. Sotto la stoffa della camicetta la pelle era molto calda. Sentì il ritmico sollevarsi e abbassarsi del suo respiro. Russava lievemente. Jake le solleticò un orecchio. Senza svegliarsi, Kimmy calmò il prurito grattandosi con la testa azzurra del suo peluche. Jake sorrise. Aveva un groppo alla gola, ma ora stava decisamente meglio. Poco prima si era sentito a pezzi. Fortunatamente durante tutta quella tempesta Kimmy aveva dormito. Cavolo, i bambini riuscivano a dormire in qualsiasi circostanza. Le posò una mano sulla spalla e la scosse delicatamente. "Svegliati, te-
soro," disse. La scrollò ancora una volta. "Ciao. C'è qualcuno in casa? Kimmy?" La bambina brontolò e si rotolò sul fianco, volgendo la schiena a Jake. "Attacco ascellare," annunciò lui, e le ficcò le dita sotto il braccio. Kimmy si dimenò sottraendosi all'assalto e affondò il viso nel cuscino. "Attacco al sederino!" Kimmy allungò una mano verso le natiche e con una pacca allontanò la mano di suo padre dal suo sederino, poi rotolò fino a fronteggiarlo. "Non è carino," protestò. "Mi dispiace tanto. Vuoi andare da Jack-in-the-Box?" "Mi compri le nachos?" "Certo. Andiamo." "Non c'è bisogno di farmi tanta fretta." "Se non ce ne andiamo alla svelta, potrebbe venire la mamma a prenderti per portarti a casa, e addio alle patatine nachos." Kimmy si drizzò a sedere. Cercò sotto il cuscino e trovò Clew. "La mamma è arrabbiata con me?" "Non mi sorprenderebbe. Tutti e due ci siamo preoccupati terribilmente per te. Hai fatto una cosa molto pericolosa." "Sono stata molto attenta." "Andiamo." Jake le prese la mano. La bambina saltò giù dal letto, si voltò a guardare Cookie Monster come se stesse decidendo se portarselo via, poi lasciò che Jake la conducesse con sé attraverso la stanza. "Posso rimanere qui stanotte?" "Credo di no. La mamma vorrà che tu stia a casa tua." "Non è anche questa casa mia?" "Sicuro che lo è." "Tu non vuoi che io resti con te?" "Ne sarei superfelice. Ma questa non è la serata adatta. Inoltre, sto lavorando a un caso molto importante." "Qualcuno ha tirato le cuoia?" chiese Kimmy, sorridendogli. "Proprio così." Usciti di casa, Jake la prese in braccio e la mise a sedere nel seggiolino per i bambini. Si affrettò quindi verso il lato di guida, avviò il motore e accese i fari. Mentre si allontanava dal vialetto, si rivolse a Kimmy dicendole, "Abbiamo frugato in ogni angolo della città per trovarti. Tutto il dipartimento di polizia si è messo a cercarti." "Questo significa che sono nei guai?"
"Per questa volta non ti metteremo in prigione. Primo reato. Però, se lo rifarai, temo che finirai in gattabuia. Perché lo hai fatto?" "La mamma è stata cattiva." "Perché non ha voluto comprarti il gelato?" "No, perché mi ha gonfiata." "Che significa 'ti ha gonfiata'?" "Mi ha dato un cazzotto. Proprio qui." Fece urtare la testolina grigia di Clew sul braccio. "Mi ha fatto male sul serio. Non si devono picchiare le bambine, sai." "E così sei scappata perché ti ha picchiata?" "Tu non mi hai mai picchiato." "Soltanto perché so che le buscherei da te se ci provassi." Jake le sorrise, ma si sentiva ribollire il sangue. Kimmy non mentiva mai. La puttana le aveva dato un pugno. E non aveva avuto neppure il fegato di ammetterlo. "Sicché ti sei arrabbiata perche ti ha picchiata, e hai deciso di farmi una visita? Come hai fatto a trovare la mia casa? E come hai fatto a entrare?" "Oh, lo sapevo dove si trova. Hai lasciato una finestra aperta, sono entrata da lì." "E hai fatto a piedi tutta la strada?" "Certo. I piedi si sono stancati, però." "C'era un mucchio di gente che ti cercava. Strano che nessuno ti abbia trovata." "Beh, sai, mi nascondevo. Sono brava a nascondermi." "Che cosa facevi? Ti riparavi dietro un cespuglio ogni volta che si avvicinava una macchina?" "Non sempre c'erano dei cespugli. Qualche volta mi sono nascosta dietro un albero o dietro una macchina." "Molto astuta." "Beh, il fatto è che mi ha un po' spaventata l'uomo della gattina. Lui non ce l'aveva lì con sé, la gattina, perché era stata uccisa, ma voleva accarezzare Clew e io sono corsa via." "Cosa?" fece Jake. Mio Dio, pensò, qualcuno ha davvero cercato di rapirla. "Papà, devi ascoltarmi quando parlò la prima volta. Io non ripeto." "Ti stavo ascoltando," assicurò Jake. "Hai detto che un uomo voleva accarezzare Clew."
"Ma era solo una scusa. Voleva afferrarmi e portarmi via nella sua macchina." Il cuore di Jake accelerò i battiti. "Te lo ha detto lui?" "No." "E allora, cosa ti fa pensare che volesse acchiapparti?" "She-ra non si lascia ingannare da nessuno." "Quando è successo questo?" "Oggi." "Dopo che ti sei allontanata dalla casa di mamma?" "Beh, sì, naturale." "Guidava una macchina?" "Sì." "E si è fermato vicino a te mentre venivi a casa mia?" "Sì." "Che cosa ti ha detto?" "Te l'ho già detto." "Riavvolgere il nastro, prego." Kimmy fece un suono simile a un ronzio. "Okay, fatto." "Cosa ti ha detto quell'uomo?" "Che una macchina gli aveva ucciso la sua gattina e era molto triste. Però io non ci credo. E tu?" "Non lo so." "Io non ho voluto dargli Clew. Sono scappata via." "Ti ha inseguita?" "Veramente sono fuggita verso una casa, capisci." "Sei stata davvero in gamba. E lui cos'ha fatto?" "Si è allontanato in fretta." "Che aspetto aveva?" "Vuoi metterlo in prigione?" "Potrei farlo." "Bravo." "Ma ho bisogno di sapere com'era fatto, altrimenti non riuscirò a trovarlo." "Forse dovresti sparargli. Credo che sarebbe una buona idea." "Quanti anni aveva?" "Mah!" "Era più giovane di me?" "Sì, ma era un adulto."
"Sembrava abbastanza grande da poter essere uno studente del college?" Kimmy si strinse nelle spalle. "Più o meno era come George." George era il ragazzo di Sandra Phillips, la babysitter di Kimmy prima della separazione dei genitori. A quei tempi George era agli ultimi anni del liceo. "Che aspetto aveva?" "Beh, non aveva la camicia." E con una vocetta maliziosa, aggiunse, "Gli ho visto le tette." "Hai visto anche la sua schiena?" E aveva un rigonfiamento, come se avesse un serpente sotto la pelle? si chiese in silenzio. Kimmy scosse la testa. "Di che colore aveva i capelli?" "Neri." "E gli occhi?" "Non lo so" disse lei, con una punta di impazienza. "Siamo quasi arrivati da Jack-in-the-Box?" "Un altro paio di isolati. Era magro, grasso?" "Oh, magro." "Portava gli occhiali?" "No." "Occhiali da sole?" "Paaapaaaaà." Kimmy sospirò pesantemente. "Uffa, sono stanca." "Vuoi che gli spari, o no?" "Va bene..." "Che tipo di macchina aveva?" "Oh, questo è facile. Era uguale alla macchina della mamma." "Una Porsche?" "Cos'è una Porsche?" "La macchina che le ha comprato Harold." "Ah, quella. Ha-ha. Era uguale alla sua vecchia macchina. Forse era proprio la sua vecchia macchina." "Era uguale in tutto? Colore, e tutto il resto?" "Sì. Però c'era una cosa sopra." "Che genere di cosa?" "Una bandierina a punta." "Di che colore?" "Rosso-arancio." "Come il tuo pastello?"
"Sì, naturalmente." "E dov'era questa bandierina? Incollata su di un finestrino, o..." "Era su quel coso." La bambina allungò un braccio fuori dal finestrino e indicò l'antenna della radio di Jake. "Perfetto, tesoro. Sarà veramente di grande aiuto. Ricordi qualche altra cosa dell'uomo o della sua macchina?" "Non credo. La sua gattina si chiamava Celia. Ma io non ci credo che avesse davvero un gatto, e tu? Penso che abbia inventato la storia della gattina per convincermi a dargli Clew e poi afferrarmi. Scommetto che voleva farmi del male. Ma io sono stata più furba di lui, vero?" "Sicuro, amore." Qualche momento dopo, la macchina di Jake entrò nell'affollato parcheggio di un Seven-eleven. "Ehi, mi avevi promesso Jack-in-the-Box." "Devo fare una telefonata." I posti del parcheggio che si trovavano vicino ai telefoni pubblici erano occupati, e così dovette parcheggiare nel settore opposto. "Vuoi telefonare alla mamma?" "No. Vuoi che lo faccia io?" "No!" "Devo telefonare alla polizia." Slacciò la cintura di Kimmy e lei balzò giù dal sediolino di sicurezza e seguì Jake, scendendo dal lato di guida. Lui le prese la manina e la condusse attraverso l'area di parcheggio. "Devo riferire a Barney tutto quello che mi hai detto sul tipaccio nella Volkswagen." Gli occhi di Kimmy si dilatarono per l'eccitazione. "Sul serio?" "Sì-sì. Lo acciufferemo, vedrai." "Possiamo mangiare prima di acciuffarlo? Sto morendo di fame." "Mangeremo non appena avrò fatto la telefonata." "Beh, allora spicciati, ragazzo." CAPITOLO VENTISETTESIMO Roland parcheggiò la Volkswagen di Dana presso il cordolo del marciapiede a metà dell'isolato, e scese dalla macchina. Si mise in cammino prendendo la direzione dalla quale era venuto e superò due fabbricati. Nel bagliore dei lampioni stradali contollò l'indirizzo che aveva copiato dall'elenco degli studenti: 364 B Apple Lane.
E lui era sulla Apple Lane. La luce sulla veranda della casa dirimpetto rivelava il numero civico dell'abitazione impresso sulla porta principale. Era il 364. La B dell'indirizzo indicava senza dubbio che Alison occupava un appartamento dello stabile, ubicato in una sezione separata della proprietà oppure in un annesso ammobiliato posto sul retro. La luce brillava dalle finestre del pianterreno e da quelle del piano di sopra. Chiunque abiti nel corpo principale della costruzione, pensò Roland, dev'essere in casa. Sarà bene che non me lo scordi. Un vialetto conduceva direttamente alla porta principale, ma il tratto lastricato piegava verso destra. Roland tagliò in diagonale attraverso il prato. Salì quindi su una delle pietre del lastrico presso l'angolo della costruzione e da lì scorse una scala di legno che saliva fino al secondo piano. In cima alla scala c'era una porta illuminata da una sola lampadina. Vasi di piante adornavano la ringhiera. Alle ragazze piace avere delle piante come quelle, pensò. Sul muro della costruzione, ai piedi della scala, era applicata una cassetta per la posta. Roland vi si avvicinò. L'indirizzo sulla cassetta era 364 B. Cominciò a salire lentamente la scala. Sentì delle voci, si fermò e si voltò. Il suono giungeva da una finestra aperta. Benché questa affacciasse sulla scala, era troppo distante per potervi vedere all'interno. Rimase in ascolto alcuni secondi. Le voci avevano una cadenza innaturalmente regolare — e c'era musica in sottofondo. Provenivano senz'altro da un televisore. E così c'era Helen, come Alison aveva detto. Guardava la tele. Da sola? Poteva essere in compagnia del suo amico. Possibile. Dovrò muovermi con prudenza, pensò Roland. Giunto alla sommità della scala, tirò fuori dalla tasca anteriore dei jeans un sacchetto di plastica. Un robusto contenitore traslucido, di quelli usati per i cestini dei rifiuti. Lo aveva preso dalla sua stanza durante i preparativi per le attività in programma per quella notte. Sicuro che il rumore della televisione avrebbe impedito a Helen di sentire il fruscio che avrebbe prodotto armeggiando col sacchetto, lo spiegò e vi soffiò dentro. Il sacchetto si riempì del suo fiato, espandendosi. Prese le chiavi che aveva tolto dalla borsetta di Celia, scelse quella che gli sembrava più confacente alla serratura della porta di casa e la inserì si-
lenziosamente nella toppa. Prese tra i denti l'orlo del sacchetto per liberarsi l'altra mano, poi, usandole tutte e due, fece ruotare lentamente la chiave e il pomello. Aprì piano la porta. I suoni provenienti dal televisore si amplificarono. Un buon odore aleggiava nell'appartamento. Popcorn. Dal punto in cui si trovava con la faccia schiacciata sulla fessura che aveva aperto tra lo stipite e il battente, riusciva a vedere solo un angolo del soggiorno. Nessuno in vista. Aprì la porta ancora un poco e varcò la soglia. Vide la sommità della sua testa sopra lo schienale del divano. Aveva i bigodini. La disposizione dei mobili gli facilitava le cose. Se il divano fosse stato addossato a una parete non avrebbe potuto avvicinarsi a lei di soppiatto sorprendendola da dietro. Ma tra il divano e la parete c'era un ampio spazio, concepito evidentemente per far sì che si potesse attraversare la stanza senza esser costretti a passare davanti a chi vi fosse seduto. Roland considerò se fosse il caso di chiudere la porta. Decise che era meglio non rischiare di fare un rumore che avrebbe potuto disturbarla, e la lasciò aperta di qualche centimetro. Prese il sacchetto con entrambe le mani e tenendolo aperto, avanzò lentamente sul tappeto. Un alito di vento fece oscillare leggermente il sacchetto. Sarà una sciocchezza, pensò. A meno che non ci sia un ragazzo disteso sul divano con la testa sul suo grembo. Poi fu vicino abbastanza da appurare che nessun altro era lì. Sul cuscino accanto a Helen riposava una zuppiera bianca piena di popcorn. La sua mano vi si tuffò e ne pescò una manciata. Helen indossava un accappatoio rosso. Aveva le gambe distese con i piedi poggiati sul tavolino basso posto davanti al divano. L'accappatoio pendeva, aperto, rivelando le cosce bianche e grasse. Peccato che sia una tale scrofa, si rammaricò Roland. Sarebbe tutta un'altra cosa se fosse come Celia o come Alison. Non mi dà nessun brivido. Sollevò il sacchetto. Un tonfo improvviso si udì di lato. Roland si voltò a guardare. La porta si era chiusa, sbattendo. Anche Helen si voltò a guardare, e la sua testa si girò abbastanza da ve-
dere la porta, poi roteò ancora un poco e si piegò all'indietro. Gli occhi le uscirono dalle orbite quando vide Roland. Fiocchi di popcorn semimasticato sprizzarono fuori dalla sua bocca, e alcuni si sparsero all'interno del sacchetto mentre Roland glielo abbassava sulla testa. Helen si lanciò in avanti. Roland le piantò un braccio sulla faccia per bloccare il sacchetto. Cingendole la testa, fu trascinato da lei sullo schienale del divano. Helen scagliò un braccio all'indietro e gli agguantò ciocche di capelli, tirandoglieli energicamente. Il dolore gli infiammò il cuoio capelluto. La spalla di Helen andò a urtare il piano del tavolino, e Roland ne colpì la superficie con un fianco, facendo cadere il bicchiere di Helen. Questa si dibatteva e scalciava, e la violenza della colluttazione scaraventò Roland sopra un lato del tavolino. Il peso fece sollevare l'altra estremità e Roland scivolò sul pavimento, trascinando Helen nella caduta e ritrovandosela di schianto sopra di lui. Inchiodato al pavimento sotto il corpo di lei che si dimenava concitatamente, Roland tirò forte il sacchetto che s'incollò sulla faccia di Helen. Con l'altra mano fece scattare la chiusura del fodero dov'era riposto il coltello. No! Niente sangue! La mano libera si avventò allora su Helen. L'accappatoio si era aperto. Roland afferrò un seno e glielo torse brutalmente. Lei strillò nella plastica che le copriva la bocca. Roland lasciò andare il seno, e le sferrò un energico pugno in pieno ventre. Bissando subito con un secondo diretto. Il corpo di Helen si irrigidì spasmodicamente a ciascun assalto. Poi sembrò cedere a un irrefrenabile tremito. Roland la sentì emettere dei suoni simili a dei conati, e il sacchetto pulsò sulla sua mano, caldo e molle. Capì allora che stava vomitando e combatté contro l'impulso di tirar via la mano. Premette invece il sacchetto con vigore ancora maggiore sulla bocca di Helen, il cui corpo vibrava ormai in preda a vere e proprie convulsioni. Si contorceva sovrastandolo nello sforzo immane di divincolarsi, finché non ricadde. Roland rotolò con lei, ma gli sfuggì la presa sul sacchetto di plastica. Il vomito straripò sul tappeto in un'onda fluida. La mano di Helen scivolò nella poltiglia quando lei cercò di puntellarsi per alzarsi in piedi. Roland avanzò carponi montandole sulla schiena. Ora lei tossiva e boccheggiava sotto di lui. Ma respirava, e sicuramente quel tanto che le bastava a rimanere viva. E mentre lui le stava addosso a cavalcioni cercando di recuperare la presa sul sacchetto, Helen si sfilò dalla testa il cappuccio mortale.
Roland avvolse le dita intorno al suo collo viscido e tentò di strangolarla. Le serrò la gola, spremendola con ferocia, e intanto lei riuscì a sollevarsi, reggendosi sulle mani e sulle ginocchia. Piagnucolando, cominciò a strisciare mentre Roland la cavalcava. In quel momento le dita di Roland persero parte della loro feroce energia. E un tremito di paura sorprese lo strangolatore. Mollando la presa, smontò dalla schiena di Helen, mosse pochi passi vacillanti e, ritrovato l'equilibrio, le sferrò un calcio nella pancia piantandole nella carne la punta della scarpa con una forza tale da farla rovesciare su di un fianco. Helen si serrò il ventre tra le braccia risucchiando l'aria stentatamente. Aveva perso gli occhiali. La faccia era scarlatta là dove non era impiastricciata dal vomito. Roland oscillò avanti e indietro in una macabra danza, puntando al bersaglio migliore. Per un istante si chiese che effetto avrebbe avuto piantare un tiro da cannoniere in una di quelle mastodontiche mammelle. Simpatico, ma non letale, e invece lui doveva liquidare quella faccenda al più presto. Quel mammut lo aveva già sfiancato più del necessario. Puntò alla gola. Il calciò mancò il bersaglio, ma le squassò una mascella e scaraventò Helen spalle a terra. Roland saltò, sollevando alte le ginocchia e sganciando giù i piedi con uno slancio possente, schiacciandole la pancia e le braccia incrociate con tutto il peso del suo corpo. Il fiato esplose da lei in una penosa eruzione che le fece sollevare il busto da terra. Roland rimbalzò giù da lei. Piroettando per acquistare slancio, fece della testa il suo nuovo obiettivo. Il calcio ne colpì un lato. Le braccia di Helen si afflosciarono sul pavimento. Roland sferrò un altro calcio contro la sua testa per essere sicuro. Meglio abbondare. Poi recuperò il sacchetto di plastica. Si sedette sul soffice cuscino dei suoi seni, le infilò sulla testa il sacchetto e lo mantenne ben chiuso intorno al collo. E mentre sedeva là, si augurò che Alison si trattenesse parecchio nell'appartamento del suo ragazzo. Ci avrebbe messo un bel po' di tempo a ripulire tutto quanto. La scrofa aveva combinato un gran casino. CAPITOLO VENTOTTESIMO
Avevano quasi finito di mangiare e Alison cominciava a essere alquanto turbata dal pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere una volta lasciata la tavola. Volendo posporre il momento della verità, chiese a Evan del caffè e lui si alzò per prepararlo. Non preoccuparti eccessivamente, disse a se stessa. Finora è andato tutto bene. Ragionevolmente bene. Era stata colta da una terrìbile agitazione mentre si recava all'appartamento di Evan. Era stata persino sul punto di fare marcia indietro. Ma poi, in qualche modo, aveva trovato il coraggio di bussare alla sua porta. Quasi quasi s'era aspettata di trovarsi davanti un Evan con gli occhi da folle, in preda alla disperazione. Se quella era stata la sua condizione quando le aveva scrìtto la lettera, beh, aveva avuto il tempo per riprendersi. L'uomo che le aveva aperto la porta era apparso composto e allegro. Forse fin troppo allegro. "Ah, la belle dame sans merci," l'aveva salutata. "Varca la soglia avec merci." "Sarà meglio," disse Alison. "Entra, entra." Non aveva tentato di abbracciarla o di baciarla. Era rientrato in casa, sorridendole. "Sei favolosa." "Nemmeno tu hai un brutto aspetto." "Sei stata al sole." "Ho passato qualche ora nel cortile del college." Evan aveva alzato un bicchiere dal tavolo davanti .al divano. Era vuoto, a eccezione dei cubetti di ghiaccio scioltisi fino a diventare piccole pepite trasparenti. "Cosa posso offrirti? Ti va un margarita? Oggi si beve messicano." "Perfetto." Alison aveva inspirato profondamente, assaporando gli aromi che si effondevano nell'appartamento. "Farò in un minuto. Mettiti comoda." Evan si era allontanato oltre gli scaffali di libri che tappezzavano la parete, era passato intorno al tavolo nella piccola zona pranzo ed era scomparso in cucina. Il tavolo era stato sgombrato della macchina da scrivere, delle pile di libri e dei mazzi di fogli che solitamente lo invadevano. Era stato apparecchiato per due, e al centro faceva spicco una candela rossa con la punta affusolata e lo stoppino ancora intatto. Alison aveva sentito il rumore del miscelatore. Si era avvicinata a una poltrona e vi si era accomodata.
In quella stanza, piccola com'era, la distanza tra la poltrona e il divano sembrava abissale. Non è questo il modo di ricominciare da capo, pensò Alison. Evan non ha una malattia contagiosa. Si era spostata sul divano. Un ventilatore oscillante era poggiato su di una sedia pieghevole proprio davanti a lei. Una brezza tiepida soffiava dall'apparecchio, oscillando da una parte all'altra. L'aria smossa era gradevole sul suo viso umido. Si era protesa in avanti. Il bottone superiore della camicetta le premeva sulla gola. Lo aveva aperto. Arcuando la schiena, aveva allungato un braccio dietro di sé e si era scostata dalla pelle la stoffa che vi era aderita. Fuori non faceva così caldo, aveva osservato. I nervi. Incontrare Roland, poi venire qui. Non può che andar meglio, s'era detta. E poi, come fai a esserne così sicura? Va già meglio. Ho affrontato Roland, Evan si sta comportando bene, e il ventilatore è magnifico. Alison si era guardata intorno nella stanza. C'era stata tanre volte e non c'era niente di diverso, eppure niente sembrava uguale. Poteva benissimo trovarsi sul set di un film, ingegnosamente costruito perché sembrasse l'appartamento di Evan. E lei poteva essere un'attrice nella parte di Alison — una parte che non sapeva bene come recitare. Un copione, quello sì le sarebbe stato d'aiuto. Evan era ritornato con un margarita in una mano e una scodella di tortilla chips nell'altra. Dopo aver deposto bicchiere e scodella sul tavolino davanti ad Alison, era andato di nuovo in cucina, ritornandone con un altro margarita e una ciotola di salsa rossa. Deposti anche questi, si era seduto sul divano accanto a lei. Accanto, ma a non meno di cinquanta centimetri da lei. Buon segno, aveva pensato Alison. Non ha intenzione di fingere che tutto sia uguale a prima. Tutti e due avevano alzato i bicchieri. "A un nuovo inizio," aveva brindato Evan. Cin-cin coi bicchieri, poi avevano bevuto. Alison gli aveva chiesto come stesse procedendo il suo lavoro, e lui gliene aveva parlato con entusiasmo, confidandole la speranza che nutriva di sviluppare il suo studio sull'immaginifico del volo in Finnegan's Wake in un vero e proprio libro che avrebbe consolidato la sua posizione come studioso di Joyce e avrebbe contribuito ad assicurargli la carica di assisten-
te per alcuni anni. E mentre lui le parlava, Alison aveva immerso nella salsa i pezzetti di tortilla, li aveva mangiati e aveva bevuto il suo drink. Di tanto in tanto aveva fatto commenti o posto domande. Quando infine Evan aveva finito di spiegarle il suo progetto, Alison gli aveva chiesto se avesse avuto qualche esito positivo dalle università alle quali aveva presentato domanda per un posto di assistente alla cattedra di letteratura inglese. Lui l'aveva guardata in modo strano. "Vuoi dire da giovedì a ora?" "Mi sembrava fosse passato di più," aveva detto lei. "Sembrano settimane. Dio, è bello riaverti qui." Non correre, aveva pensato lei. Sono qui, ma non mi hai ancora riavuta. Evan aveva riportato in cucina i bicchieri vuoti, e mentre era via Alison aveva affondato un altro stuzzichino nella salsa, se lo era portato alla bocca accompagnandolo con l'altra mano piegata di sotto per evitare che le colasse addosso, e l'aveva mangiato. Ora basta ingurgitare questa roba, aveva pensato, e si era leccata dalle dita una goccia di salsa rossa. Evan era ritornato coi bicchieri di nuovo pieni. Alison cominciava a sentirsi già un po' intorpidita dopo il primo margarita. Questo bevilo più lentamente, si era raccomandata. Se continui di questo passo con la bumba e la tortilla sarai sazia e sbronza prima di cena. "Mediocri i tuoi margarita," aveva detto. "Aspetta di assaggiare le mie enchiladas." Evan si era seduto accanto a lei. Accanto, e stavolta soltanto a una trentina di centimetri di distanza. Andiamo bene, aveva pensato Alison, siamo già più vicini di prima. Tuttavia, non quanto lo eravamo di solito, ma cominciamo a migliorare. "Cos'hai fatto in questi giorni," aveva chiesto a Evan. "Non molto." Lei non aveva nessuna intenzione di dirgli che aveva trascorso gli ultimi giorni pensando a lui, spesso con amarezza, talora con desiderio. "Una sera sono andata da Wally's," gli aveva detto. "Hai avuto fortuna?" "Non ci sono andata per quello," aveva risposto lei, poi aveva bevuto un sorso del suo drink. "Ho visto un video così 'orginale'. Una donna che ballava con un serpente. L'hai visto tu?" "Sì, alla televisione, su MTV. Lady Blu che faceva 'Strisciami addosso'." "Molto originale," aveva ripetuto Alison. "Erotico."
"Ieri sera io e Helen abbiamo giocato al Trivial Pursuit. Cercavo di capitare sulle caselle Arte e Letteratura ogni volta che potevo. Le ho dato una di quelle batoste!" "A quanto pare il tuo sabato sera è stato migliore del mio." Continuiamo a sconfinare in territori che preferisco evitare, aveva pensato Alison. "Devo aver messo su un paio di chili. Tra tutte e due abbiamo fatto fuori una busta di patatine e una di tacos. Senza contare una confezione di birra da sei bottiglie. Se continuo a trascorre il sabato sera con Helen, prima o poi diventerò come lei." "Impossibile. Potresti ingrassare di cinquanta chili e continueresti a essere bellissima." "Oh, certo." "La tua mamma potrebbe prenderti a randellate fino al giorno del giudizio, ma non riusciresti mai a somigliare a Helen." Alison aveva riso, poi aveva scosso la testa. "Dai, è la mia migliore amica." "Non sono stato io a iniziare." "È una ragazza eccezionale. Non è colpa sua se ha quell'aspetto" "Se ci tenesse, potrebbe truccarsi, darsi un'aggiustatina." "Non servirebbe a molto," aveva risposto Alison, pentendosene subito. "Cioè, parrucchieri, estetisti, bei vestiti e robe simili fanno ben poco. Merda, continuo a dire cose che non voglio dire." Evan si era messo a ridacchiare sommessamente. "No, no, naturale." "A ogni modo, ci siamo divertite da morire. Poi oggi ho fatto una lunga passeggiata e ho preso una copia del nuovo Travis McGee. Con lei ho passato buona parte del pomeriggio. MacDonald è grandioso da leggere mentre stai distesa al sole." "Cos'avevi addosso?" "Il bikini bianco." "Ah." Alison aveva bevuto un altro sorso, e anche il secondo margarita stava finendo. "Mi piacciono tutti i MacDonald," aveva detto. "MacDonald John D.; McDonald Gregory; McDonald Ross; McDonald Ronald." "Mi piaci da morire con quel bikini bianco." "La cena è quasi pronta?" "Ah, vado a controllare. Riempio di nuovo i bicchieri?" "Per me no, grazie." "Nessun problema. Cena con champagne. Ti avevo promesso lo cham-
pagne, ricordi?" Evan si era alzato, lasciando sul tavolino il suo bicchiere vuoto. Si era poi diretto alla cucina, camminando lentamente, quasi misurando i passi per conservare un'andatura regolare. Al che Alison si era chiesta quanti bicchieri si fosse scolato prima che lei arrivasse. Non preoccuparti di questo, s'era detta. Assicurati che tu sia perfettamente lucida. Aveva adagiate le spalle sullo schienale del divano e aveva sospirato. Finora tutto bene. Aveva sospirato ancora; era gradevole sospirare. D'un tratto s'era sentita piacevolmente leggera e voluttuosamente fiacca. Finalmente s'era sentita sollevata d'un pesante fardello. Era di nuovo con Evan, e sembrava che le cose andassero per il verso giusto. Sì, proprio bene. Non aveva neppure afferrato la sua battuta su McDonald. Troppo impegnato a figurarsela in bikini. Poteva forse biasimarlo? Aveva riso piano, poi aveva chiuso gli occhi. "Ehi, Bella Addormentata." Alison aveva aperto gli occhi. La stanza era buia ad eccezione del debole chiarore soffuso da una candela. La candela era sul tavolo nella zona pranzo. La cena era servita. Evan stava in piedi davanti a lei. "Capisco che secondo la migliore tradizione," aveva detto, "la principessa debba essere svegliata con un bacio. Cionondimeno, contenendomi in maniera rimarchevole, non ho approfittato del tuo stato di sopore." Alison si era drizzata a sedere. "Quanto ho dormito?" "Oh, un'ora, forse." "Gesù." Non le era sembrato possibile. "Mi dispiace." "Non c'è bisogno che ti scusi. Sei bellissima quando dormi. Se è per questo, lo sei anche da sveglia." "Spero che la cena non si sia rovinata." "Sono sicuro di no. In effetti, l'ho appena portata in tavola." "Ho il tempo di andare al bagno?" "Fai pure." Alison si era allontanata nella stanza in penombra, e passando per il breve corridoio, aveva raggiunto la stanza da bagno. Il fatto di essersi addormentata l'aveva fatta sentire alquanto imbarazzata, d'altro canto, però, il ri-
poso le aveva restituito la piena lucidità. Aveva acceso la luce, usato la toilette e, al lavabo, aveva bevuto qualche sorsata d'acqua contenendola tra le mani congiunte a conca. Si era poi osservata attentamente nello specchio. Una patina rosacea sembrava velarle gli occhi. I capelli erano a posto. Il bottone centrale della camicetta s'era sganciato dall'asola. Lo aveva rimesso in ordine, si era lavata le mani e era uscita dal bagno. La luce in cucina era accesa. Le enchiladas disposte sul suo piatto fumavano e avevano un aspetto meravigliosamente invitante. Evan aveva spostato dal tavolo la sedia perché lei vi si accomodasse. Sedutasi, le aveva riempito il bicchiere di champagne. Poi, prima di prendere posto anche lui, aveva spento la luce. "Ti ricordi quando mangiammo gli spaghetti?" le aveva chiesto. "Avevi addosso la camicetta buona, quella bianca, e non volevi schizzartela di sugo, così te la togliesti." "Evan." "Eri incantevole al lume di candela. La pelle dorata, i capezzoli bruni." "Smettila." "Scusami," aveva mormorato lui. Poi aveva abbassato la testa, aveva infilzato un'enchilada con la forchetta e aveva preso a mangiare. Ad Alison, invece, l'appetito era scomparso, malgrado ciò aveva preso un primo boccone della pietanza. Inghiottire era stata un'ardua impresa. Aveva poi subito annacquato il cibo con lo champagne. Per un po' erano rimasti in silenzio. Non è giusto, s'era autoaccusata. Cos'ha detto di tanto grave o pericoloso? Quella sera erano stati d'incanto, e non poteva essere un reato ricordarla, menzionarla. "Ottimo," aveva osservato, riferendosi al cibo. Evan aveva alzato gli occhi dal piatto. "Prova a spalmarci su un po' di panna acida." "Non ti dispiacerà se lo faccio." Così Alison aveva preso una cucchiaiata di panna acida e ne aveva cosparso le sue enchiladas. "Meno male che me la tolsi la camicetta," aveva aggiunto. "Quella sera mi sbrodolai tutta." Evan aveva sorriso. "Di proprosito, immagino." "Sì. Dopotutto, non sono una sudiciona." "No, anzi." Avevano ripreso a mangiare, e adesso il cibo era diventato più gustoso. La panna fresca aveva aggiunto un aroma piccante alle enchiladas. Alison aveva bevuto dell'altro champagne e Evan le aveva prontamente riempito il
bicchiere. "Sei davvero un cuoco eccezionale," gli aveva detto. "Ho le mie specialità. Una delle quali è la mousse al cioccolato, ma credo che la riserveremo per dopo. Diamo al nostro stomaco il tempo di digerire tutto questo." "Potremmo fare quattro passi quando abbiamo finito," aveva suggerito Alison. "Sì, forse," aveva risposto lui, in un tono non troppo entusiasmato da quella prospettiva. "Mi sono procurato una cassetta di To Have and Have Not. Ho pensato che forse ti avrebbe fatto piacere vederla al videoregistratore. Hemingway. Bogart e la Bacall. Che ne dici? Grandioso, no?" "Mi piacerebbe," aveva detto Alison. "Sono passati tanti anni dall'ultima volta che l'ho visto." "Ero certo che l'avresti gradito, mia cara," aveva aggiunto lui con studiato sussiego, alterando la voce e arricciando il labbro superiore. Avrebbe acceso il vieoregistratore e si sarebbe seduto con lei sul divano. Di lì a poco un braccio le avrebbe circondato le spalle. Torneremo direttamente dov'eravamo rimasti giovedì scorso, nella Bennet Hall, prima dell'ultimatum, prima del suo appuntamento con Tracy Morgan, prima dei fiori e della lettera. E forse non sarebbe neanche tanto male, aveva riflettuto Alison. Perché ostacolarlo? Che senso ha? Ma dove vanno a finire gli ultimi tre giorni se cedi stasera? Alla fine non avrai capito nulla di ciò che t'interessa scoprire. Altroché. Avrò scoperto che qualunque cosa si faccia, si finisce sempre a letto. Non doveva andare così, maledizione. A quel punto, Alison aveva conficcato la forchetta nell'ultimo pezzetto che le era rimasto nel piatto. Troppo tardi, bambina. Aveva quindi masticato, inghiottito e bevuto il resto dello champagne. Evan aveva alzato la bottiglia. "Vuoi finirlo tu?" "No, grazie." Aveva vuotato la bottiglia nel suo bicchiere e aveva tracannato in fretta quel che era rimasto dello champagne. "Gradirei un po' di caffè, se ne hai." "Sicuro, nessun problema."
Evan portò due tazze di caffè nel soggiorno e le depose sul tavolino davanti al divano. Accovacciatosi, inserì la cassetta nel videoregistratore posto sullo scaffale sotto il televisore. Quando fece per rialzarsi, incespicò. Avanzò barcollando di alcuni passi, ritrovò poi l'equilibrio e si voltò verso Alison, sorridendole. "L'ho fatto apposta," le disse. È bell'e sbronzo, pensò lei. Camminando con cautela, Evan si diresse in cucina. Frattanto, Alison si alzò dal divano e accese una lampada. Nello stesso istante la luce in cucina si spense. Era di nuovo seduta quando lui ritornò nella stanza. Camminava in maniera irregolare, ondeggiando. In una mano stringeva una bottiglia di whisky, nell'altra una lattina di panna montata. "Che ne dici di un Irish coffee?" le chiese, e si abbandonò pesantemente sul divano accanto a lei. Accanto a Alison, lontano da lei non più di sette-otto centimetri. "Lo preferisco nero," fece lei. "Bene. Che non si dica che ho tentato di stordirti col liquore. Quando tutto sarà scritto e il fatto narrato, non si dica che Evan tentò di annebbiare la mente della bella dama con alcol, oppio o stregoneria." "Sei ubriaco," disse Alison. "Semi-ubriaco." E parlando da un lato della bocca in una buona imitazione di W.C. Fields, aggiunse, "Era bionda, magnifica, uno schianto, e mi spinse a bere; è l'unica cosa di cui le sono grato." Alison bevve un sorso di caffè. "Vomita, e me ne vado a casa." "Vomita, e il mondo vomita con te..." Lasciò sul tavolo la bottiglia di whisky. Bevve invece un sorso di caffè. Poi fece partire il film. Alison restò a sedere sul margine del divano, protesa in avanti, finché ebbe vuotato la tazza. Poi adagiò le spalle al cuscino dello schienale. Si sfilò le scarpe e appoggiò i piedi sul bordo del tavolino. Gli occhi fissarono il video nello spazio tra le ginocchia. Ma non riusciva a seguire il film. C'era Evan a occupare la sua mente. E avvertì che neppure lui stava seguendo la vicenda sullo schermo. Abbandonato sul divano accanto a lei, con le gambe tese e larghe sotto il tavolino, il braccio sinistro era così vicino a quello di Alison da trasmetterle, pur senza toccarla, il calore che ne promanava. La mano di Evan riposava sulla sua coscia. Le cifre rosse e luminose dell'orologio digitale del videoregistratore segnavano le 9:52.
Sono quasi venti minuti, pensò Alison, che siamo seduti qui sopra come due manichini. Fu colta dall'impulso di cambiare posizione, ma non si mosse. Un pur piccolo movimento avrebbe potuto innescare qualcosa. Cose da pazzi. Abbassò i piedi sul pavimento, si raddrizzò e si stiracchiò, arcuando la schiena. Roteò quindi la testa per rilassare i muscoli del collo. "Lascia fare a me," si offrì Evan. Una mano si allungò sul collo di lei e prese a massaggiarglielo. Le dita di Evan solcavano e ammorbidivano i muscoli irrigiditi donandole una sensazione stupenda. Alison si girò volgendogli la schiena e fece scivolare una gamba sul sedile imbottito. Ci siamo, pensò. Entambe le mani di Evan erano sulle sue spalle e sul collo, e strofinavano, premevano, carezzavano. Allentavano la tensione. Alison chiuse gli occhi e lasciò che la sua testa cedesse, abbandonandosi sul petto. Le mani continuavano a massaggiarla, rendendola fiacca e pigra. Lavoravano alacremente sui lati nudi del collo, sotto il colletto della camicia. Bello. Perché non lasciare che sia più bello ancora? Alison sganciò un bottone dall'asola. Le mani di Evan discesero dal collo e, continuando a massaggiare, allargarono l'area di pelle scoperta. Alison sentì che qualcosa si allentava, e capì, vagamente, che il bottone centrale si era sganciato da solo. Evan cercò di aprire ancora oltre la camicetta, ma questa non cedeva. Allora Alison la tirò via dai pantaloni e così essa si aprì, scoprendole le spalle. Il movimento dolcemente rilassante delle mani possenti di Evan la fece ondeggiare sinuosamente. Si sentiva impotente, incapace di sollevare la testa, di aprire gli occhi o di protestare quando lui le fece scivolare giù dalle spalle le bretelle del reggiseno. Ora le mani avevano cessato di massaggiare, scivolavano invece sulla sua pelle nuda, carezzandola dal collo alle spalle. Evan si fermò un istante. Il cuscino del divano si mosse leggermente sotto Alison e lei intuì che Evan stava cambiando posizione. Voleva mettersi sulle ginocchia? Sì. Dal suo respiro, appurò che si trovava ora più in alto. Le carezzò le spalle, le mani si introdussero delicatamente sotto la camicetta e dentro le maniche per carezzarle le braccia, e scivolare poi su e giù, fino alla clavicola, poi al petto e infine, anziché giungere ai seni e sfiorarli attraverso la stoffa sottile del reggiseno, correre agli ultimi bottoni della camicetta. L'indumento scivolò lungo la schiena di Alison i cui polsi rimasero in-
trappolati nelle maniche. Ma lei non fece alcuno sforzo per liberarli. Le mani di Evan indugiarono per un po' sulla schiena e sui fianchi ora nudi. Poi sganciarono il reggiseno. Le labbra di lui le baciarono un lato del collo, e la morsero appena facendola sussultare di piacere. Il cuore di Alison accelerò il passo, e il desiderio allontanò il senso di svogliata fiacchezza. Evan le carezzò i fianchi. Le mani si mossero sotto le sue braccia, scivolarono sotto il reggiseno e si chiusero dolcemente intorno ai suoi seni. I capezzoli si irrigidirono, premendo nei palmi di lui. Alison allungò le mani all'indietro e prese a strofinargli le cosce attraverso la morbida stoffa dei pantaloni. Lui le premette i capezzoli. Un tremito rovente vibrò nel corpo di lei. Alison trattenne il fiato. Sollevò una mano per giungere al pene, e carezzarglielo attraverso i calzoni, ma quando essa lo trovò il contatto fu diretto. La mano si posò sul pene nudo e rigido, e si ritrasse all'istante. Evan ridacchiò sommessamente. "Sorpresa," sussurrò. Da quanto tempo stava così, col pene segretamente in mostra mentre la carezzava? Ad Alison sembrò un gesto abietto, spregevole, quasi da pervertito. Ma Evan continuava a strofinarle e stringerle i seni... cosa importava, in fondo, se era scattato un po' prima del segnale di partenza? Mi ha risparmiato la fatica, pensò Alison. Sollevò di nuovo la mano e lo accarezzò. Poi si volse verso di lui. Evan si reggeva sulle ginocchia. E mentre si slacciava la cintura, lei si liberò le mani dalle maniche della camicetta. Abbassò gli occhi a guardarsi. Il reggiseno pendeva dai suoi seni come fosse una sottilissima sciarpa. Cominciò a abbassarsi la bretella sul braccio sinistro e scorse una macchiolina rossa sulla stoffa bianca semitrasparente di una coppetta spiegazzata. Restò a fissare la macchia rossa. Sembrava uno schizzo della salsa nella quale avevano immerso gli stuzzichini alla tortilla prima di cenare. Devo essermi sporcata... Ma è sul reggiseno. Quando era andata in bagno, dopo che si era svegliata, aveva trovato il bottone centrale della camicetta aperto. Dopo che si era svegliata. Evan, nudo dalla vita alle ginocchia, sollevò la maglietta per sfilarsela dalla testa. In quel momento le copriva la faccia. Alison gli sferrò un pugno nella pancia. Un getto d'aria sfiatò dalla bocca di lui e il suo corpo si
piegò in due all'altezza della cintola. Alison schizzò via dal divano giusto in tempo per evitare di essere schiacciata dal corpo di Evan, che incassato il colpo, era crollato sui cuscini del sedile. Infilò furiosamente i piedi nelle scarpe. Dietro di lei, Evan respirava a gran fatica. "Sei uno stronzo," mormorò. Tremando dalla rabbia, cacciò il reggiseno nella borsetta. "Sei un lurido porco. Sei venuto a palparmi mentre dormivo!" Si girò in un turbine, fronteggiandolo. Evan stava in ginocchio, la fronte schiacciata sul sedile del divano. "Che schifo. Che schifo!" Ficcò una mano nella manica della camicetta. "Roba da malati, ecco cos'è questo." "Mi dispiace," disse lui in un singulto. "Sudicio bastardo." Faticò per trovare l'altra manica, poi finalmente vi gettò dentro il braccio e si tirò sulla spalla la tracolla della borsetta. Con le dita tremolanti, provò a abbottonarsi la camicetta mentre si precipitava verso la porta. "Alison!" Alison aprì la porta con un violento strattone e si girò a lanciare un'occhiata a Evan. Era ancora sul divano, il sedere all'aria. "Non te ne andare!" gridò lui. "Ti scongiuro!" Alison uscì sbattendo la porta. CAPITOLO VENTINOVESIMO Gli ho dato quel che si meritava, disse Alison a se stessa mentre percorreva lesta il marciapiede. Quel che si meritava. Oh, sì, certo. Forse avrà mal di pancia per un po', e magari gli resterà anche un livido, ma domattina starà di nuovo in piena forma, e tu invece no. Come ha potuto farmi una cosa simile? Com'è possibile che non mi sia svegliata? Probabilmente ha solo infilato la mano per una toccatina veloce, niente di più. Già, come no. Una toccatina qua, una palpatina là. Se si fosse pulito la mano sporca di quella maledettissima salsa, non me ne sarei mai accorta. Ma che cazzo stava facendo mentre mi palpeggiava? Stava mangiando? Alison sentì il rombo di un motore. Un bagliore di fari illuminò l'asfalto alla sua sinistra. Una macchina avanzò lentamente davanti a lei, accosto al
marciapiede. "Perdonami!" le gridò Evan dal finestrino aperto dal lato del passeggero. "Per favore, possiamo almeno parlarne?" Alison continuò a camminare. La macchina di Evan procedeva affiancandola. "Lascia almeno che ti accompagni a casa. Non possiamo lasciare tutto così." "Oh, sì che possiamo." "Io non ho fatto niente!" "No?" Alison attraversò il tratto erboso e scese giù dal cordolo del marciapiede. Evan fermò la macchina. Lei passò davanti ai suoi fari e si diresse alla portiera del lato di guida. Il finestrino era abbassato. Agguantò il bordo della portiera e guardò Evan nell'auto. "Non hai fatto niente? Per te non è niente, eh? Come chiami tu palpeggiarmi una tetta, per non nominare altre cose che potresti avermi toccato?" "Io non sapevo che stavi dormendo, maledizione! Sono tornato dalla cucina e mi sono seduto vicino a te, e tu mi hai guardato! Hai aperto gli occhi quando mi sono seduto, e mi hai fatto uno sguardo tranquillo, come per dirmi che tutto era a posto. Così ti ho messo un braccio sulle spalle. Non mi hai detto di allontanarmi e ho pensato che ti piacesse. Ho pensato che tutto era tornato a posto tra noi. È stato allora che ti ho messo la mano nella camicetta. Non sapevo che stavi dormendo. Non ti sei comportata come una che stesse dormendo. Mio Dio, ti ho sentita gemere quando... ti ho toccata." "Non ti credo," mormorò Alison. Ma in lei la rabbia si era mutata in confusione. E se Evan stava dicendo la verità? Abbassò la testa. La presa sulla portiera della macchina sembrava costringerla a star ritta. "Pensavo che fossi sveglia. Non avrei mai fatto quelle cose se non avessi pensato che eri sveglia." "Quali cose, esattamente?" "Sul serio non ricordi niente?" "Vuoi dire che non ti sei limitato a... toccarmi il seno?" "No." Alison emise un grugnito. "Sembrava che ti piacesse." "Cristo." "Respiravi affannosamente, quasi ti contorcevi..." "Mio Dio, io non..."
"Poi improvvisamente ti sei messa a russare. Non riuscivo a crederci. Insomma, per me è stato uno shock. E comunque rifiutavo di credere che tu stessi dormendo. Poi ho pensato: e se fosse vero! E se ti fossi svegliata all'improvviso e mi avessi trovato addosso a te? Allora ti ho abbottonato la camicetta più in fretta possibile e ho deciso che la cosa migliore era fingere che non fosse accaduto niente, a meno che non fossi stata tu la prima a tirare in ballo la questione. Cosa che non hai fatto." "Sarebbe rimasto il tuo piccolo, oscuro segreto." "È stato un errore, Alison." "Già, eh-eh." "Avevo intenzione di parlartene, l'avrei fatto dopo. Immaginavo che sarebbe stato più sicuro dirtelo una volta che tutto si fosse aggiustato tra noi. Cavolo, probabilmente avresti trovato la cosa persino divertente." "Da morire dal ridere." "Capisco che tu possa essere terribilmente seccata. Mi rendo conto di come può apparirti tutto questo. Ma guarda la cosa da un'altra angolazione: se non avessi notato la macchia sul reggiseno a quest'ora staremmo facendo l'amore. Non è così?" "Probabilmente," concesse Alison. "Perciò, quel che ho fatto... non è stato poi così grave, solo il momento era quello sbagliato. Se fosse successo prima di giovedì o dopo stasera, non ci avresti fatto neppure caso." "Fai caso a un omicidio se pianti una pallottola nella testa di qualcuno che è già morto un minuto prima." "Che diavolo c'entra con noi un omicidio?" "Sto solo mettendo in chiaro il mio punto di vista. A proposito dell'importanza del tempo." "Ti ho detto che mi dispiace, Alison. Ti ho spiegato che c'è stato un equivoco. Credevo che fossi sveglia." "E dimmi, io ho cominciato a spogliarti?" Evan non rispose. "Non sarebbe stato di routine se io avessi partecipato attivamente al tuo piccolo banchetto 'arraffa-e-zitto'?" "Pensavo che tu ti stessi rilassando al piacere che provavi. Allo stesso modo in cui ti sei rilassata senza far nulla quando ho cominciato a massaggiarti." "Sicuro," fece lei. Si sentiva così stanca. "Voglio solo che tu capisca. Voglio che torni con me. Stava andando tut-
to alla grande, Alison. Proviamo ancora una volta, lo dobbiamo a noi stessi." "No." Alison scosse lentamente la testa, facendola oscillare da una parte all'altra. "È finita. Chiuso." "Ne riparleremo domani, d'accordo?" "Buonanotte, Evan." Si allontanò dalla portiera della macchina, indietreggiò di pochi passi, barcollando, e si stropicciò il viso. "Domani," ripeté Evan. "Va' via," mormorò lei. La macchina si allontanò lentamente. Alison rimase sulla strada, immobile per un po'. Poi, finalmente, si costrinse a muoversi. Strascicò i piedi sull'asfalto e riuscì a salire sul marciapiede. Doveva superare ancora parecchi isolati per giungere a casa. Si sentiva spossata, esaurita. Anziché proseguire lungo il marciapiede lastricato, s'incamminò sull'erba, e la fresca rugiada non tardò a trapelare attraverso le scarpe. Desiderava sdraiarsi, chiudere gli occhi e dimenticare, ma non sull'erba bagnata. Si avvicinò a una panchina di cemento che circondava il tronco di una quercia, poco distante da Bennet Hall. Scelse il punto più lontano dalla strada, dove non l'avrebbero vista, e vi si sedette. Incrociò le mani sotto la testa e lasciò che le gambe penzolassero dal bordo del sedile circolare. Chiuse gli occhi. Perfetto, pensò. Se Evan torna a cercarmi, non mi vedrà quaggiù. Il cemento le faceva male al dorso delle mani e alle scapole, così usò la borsetta a mo' di guanciale e incrociò le mani in grembo. Adesso era molto meglio. Qualcosa si mosse rumorosamente tra le foglie al di sopra della sua testa. Scoiattoli, pensò. Si rammaricò di non avere con sé un maglione. Una coperta sarebbe stata ancora meglio. Con una coperta, sarebbe rimasta lì tutta la notte. Evan ne ha una nel bagagliaio della sua auto. La sua coperta per le scopate all'aperto. Merda, l'ha usata parecchio con me. Mai più. Credeva che fossi sveglia. Sì, come no. Il gelo del cemento s'infiltrò attraverso la sottile membrana di stoffa della camicetta e dei pantaloncini e parve insinuarsi nella pelle stessa. Un freddo alito di vento le sfiorò le braccia e le gambe nude. Le smosse i capelli. Odorava di fresco e di rorido. Il tepore l'avrebbe invece accolta nella sua stanza sull'attico.
Un'altra buona ragione per non muoversi. Non riuscirei a muovermi, neppure se volessi, pensò Alison. E non voglio. Al diavolo. Al diavolo tutto e tutti. Okay, tranne gli scoiattoli. A meno che non me ne cada uno in faccia. E tranne la mamma e il babbo. E Celia e Helen. E la pizza. E John D. MacDonald e Ronald McDonald. Quello stronzo non ha afferrato neppure la mia battuta. Vaffanculo. Vaffanculo, Evan Forbes. E Roland Comecazzosichiama. E perché no, anche il Professor Blaine, visto che tutti e due sembrano così vogliosi di strapparmi i vestiti di dosso. E chi altro? Tutti? Tutti i maschi del mondo? Helen ha ragione, non sono altro che cazzi ambulanti in cerca di un buco stretto. Okay, la maggior parte. Alison si accorse che stava tremando e battendo i denti. Si avvolse il petto con le braccia. Resta qui, pensò, e domattina ti troveranno congelata come il leopardo sul Kilimanjaro. Si fermeranno intorno a te, sgomenti e impauriti e diranno, "Che ci fa qui?" Poi qualche figlio di puttana ti ficcherà una mano nella camicetta. Un'inezia come il rigor mortis non può mica impedire una toccatina a buon mercato. Stai diventando matta, Alison. Si sfregò il viso. Le braccia non le cingevano più il petto e così, indifesa, il vento le lambì il corpo rubandole il calore dalla pelle sotto la camicetta. Il tepore nella stanza sull'attico, il letto morbido... Ora basta. Si alzò in piedi e s'incamminò verso casa. Le finestre al secondo piano erano buie, ma la luce in cima alla scala era stata lasciata accesa. Alison, ancora tremante, si affrettò su per la scalinata e aprì la porta chiusa a chiave. Entrò, e il tepore le sembrò meraviglioso. Helen deve aver bruciato dell'incenso, pensò. Un debole profumo di pino aleggiava nell'aria, indugiandovi a dispetto della brezza che alitava dalle finestre aperte. Dalla fessura sotto la porta della camera di Helen non trapelava neppure un filo di luce. Alison s'era aspettata di trovare Helen sveglia, in attesa, impaziente di ricevere un dettagliato resoconto degli eventi e degli sviluppi della serata.
D'altro canto, bisognava tener presente che erano sicuramente passate le undici, e con una lezione alle otto l'indomani mattina, aveva probabilmente deciso di reprimere la sua curiosità e ritirarsi. Muovendosi nel fioco lucore che filtrava dalle finestre, Alison percorse il corridoio e entrò nella stanza da bagno. Si lavò il viso, i denti e usò il water. Sostò un istante nel vano della porta, fissò bene la direzione da prendere, poi spense la luce e avanzò trasversalmente nel corridoio buio, verso la scala. Salì lentamente, guidata dal corrimano che scivolava sotto le sue dita. La sua stanza, lassù in cima, rischiarata appena dal grigio lucore soffuso dall'unica finestra, sembrava quasi illuminata a giorno dopo il buio della scalinata. Le tendine aperte tremolavano lievemente, smosse dalla brezza. Da quella distanza, Alison non riusciva a sentire su di sé quel leggero alitare del vento, e il caldo nella stanza le sembrò soffocante, assai peggio di quanto aveva previsto. Non c'è via di mezzo, considerò tra sé e sé. O si gela o si suda. Depositò la borsa sul pavimento, attenta a non intralciare il passaggio verso il bagno in caso di bisogno. Si tolse quindi la camicetta e la lasciò cadere a terra. Si sbottonò i pantaloncini e li abbassò assieme alle mutandine, tirando fuori i piedi da entrambi gli indumenti. La stanza era ancora intollerabilmente calda, adesso però, riusciva a avvertire sulla pelle nuda qualche timido refolo di vento. Si voltò un istante a guardarsi alle spalle e indietreggiò fino all'anta dell'armadio, addossandosi a essa. La porta si chiuse rumorosamente, e lei sussultò priva di fiato, scioccata sia dall'improvvisa mancanza dell'appoggio, sia dall'acuto fragore. Trasse un profondo, stentato respiro. Urtò la porta con le natiche. Adesso era chiusa completamente. La levigata superficie di legno verniciato era fresca sulla pelle. Sorreggendosi a essa, allungò una gamba e si sfilò la scarpa e la calza. Ripeté l'operazione con l'altra gamba. Avvicinatasi al cassettone, aprì un tiretto e fece correre la mano sui capi di biancheria che vi erano riposti. Le dita scivolarono sul tessuto velato della camicia da notte nuova. Era più leggera delle altre, e in una notte calda come quella sarebbe stata quanto di meglio. Alison la prese, si allontanò con essa oltre l'estremità del letto e si fermò davanti alla finestra.
Un soffio di vento penetrò e le lambì la pelle. Soltanto poco prima, l'aria fresca l'aveva raggelata fin dentro le ossa. Adesso, il suo tocco leggero le donò un refrigerio voluttuosamente meraviglioso. Vagando alla deriva sul territorio del suo corpo, le si avvolse intorno alle cosce in fresche spire, le scivolò tra le gambe, le carezzò il ventre, le lambì i seni e le conche delle ascelle. Alison si lasciò cadere dalle mani la camicia da notte. Sollevò le braccia, e posando le dita sugli stipiti della finestra, allargò le gambe e chiuse gli occhi. La soffice, leggera carezza del vento fu su di lei. CAPITOLO TRENTESIMO Roland sentì il rumore dello sciacquone, dopodiché contò lentamente fino a sessanta. Rifece la conta un'altra volta, e un'altra ancora. Poi la sua mente cominciò a divagare. Immaginò Alison nella sua camera sull'attico; Alison che si svestiva e si sdraiava sul letto. Nella sua fantasia non la vedeva coprirsi col lenzuolo, ma protetta soltanto dalla giacca del pigiama, unico indumento che si figurava indossasse. Vide se stesso in piedi sopra di lei, intento a sbottonarle con cauta delicatezza la giacca del pigiama, e aprirgliela infine per scoprire la pelle nuda, pelle d'avorio nella luce fioca della finestra. E si vide tendere una mano per toccarla e scoprire Alison improvvisamente obesa, scoprire che non era Alison, ma Helen, morta, che lo guardava sogghignando malignamente. Roland sussultò, e urtò con la fronte contro le molle del letto. Abbassò la testa verso il pavimento. E trattenne il respiro, in ascolto, aspettandosi quasi di udire Helen mugugnare qualcosa o rivoltarsi sul materasso sopra di lui, destata dallo scossone. Non essere ridicolo, richiamò se stesso. È morta e stecchita. Ma io sto proprio sotto di lei. Tese l'orecchio e non sentì nulla. Però Helen aveva gli occhi aperti. Li vedeva quegli occhi, mostruosamente sgranati. Helen sapeva che lui stava sotto il suo letto. Ormai erano già passate diverse ore da quando Roland si era infilato in quello stretto spazio, sovrastato dal cadavere di Helen, lontana da lui non più di cinquanta centimetri. E che la sua mente si schierasse contro di lui proprio adesso che l'attesa volgeva al termine era estremamente sleale. L'orecchio teso continuava a non percepire alcunché.
Ma Helen stava ascoltando mentre i suoi occhi di cadavere fissavano il soffitto, e lei sì, sentiva Roland nascosto sotto il suo letto — le sue rapide pulsazioni, il respiro tremante. "Sei morta," bisbigliò lui. Helen rotolò su se stessa, si sollevò su mani e ginocchia e aprì nel mezzo il materasso, lacerandolo con le dita arcuate. Prese a strappare grossi batuffoli d'imbottitura e apertasi un tunnel nel materasso, fissò Roland sotto di lei. Snudò i denti, ringhiò e cacciò una mano nel buco, aggredendo la faccia di lui. Non è vero, non sta accadendo, si rassicurò Roland. Ma tremava e ansimava. Doveva uscire da lì sotto. Gli pareva che schiere di ragni brulicassero sul suo corpo. Si scagliò di lato, ma riuscì a frenare l'agitata manovra appena in tempo per evitare di sporger fuori dal telaio del letto. Lassù lo stava aspettando Helen. E lo avrebbe agguantato non appena fosse uscito allo scoperto. Con un soffocato piagnucolio schizzò fuori all'aperto e rotolò via dal letto. Si drizzò a sedere. Nella luce grigia e velata della finestra Helen era una massa immobile sotto il lenzuolo. Roland si alzò senza staccare gli occhi da lei. E continuò a fissarla mentre avanzava obliquamente verso la porta della camera. Giuntovi, l'aprì, uscì e la richiuse. Quindi si allontanò. Non trovandosi più in presenza del cadavere, le sue paure si dissiparono lentamente per lasciar posto a un miscuglio di rabbia e imbarazzo per essersi lasciato torturare dalla sadica immaginazione. Perché, si domandò, il suo amico gli aveva consentito di perdere il controllo in quel modo vergognoso? Senza dubbio sarebbe stato in suo potere arginare quel torrente di orridi pensieri — bastava che gli avesse ricordato Alison per procurargli un fremito di piacere e alleviargli quel tormento. Godeva forse della sua sofferenza? O più semplicemente non gli importava? Roland toccò la protuberanza sulla nuca. Sto facendo tutto questo per te, pensò. Poi fu sopraffatto da un sentimento di vergogna. Lo doveva al suo amico se le sue fantasie segrete si erano trasformate in realtà; egli lo aveva condotto in una nuova vita, più bizzarra e più eccitante ancora dei suoi più sordidi sogni. La paura era una sua debolezza, non aveva nessun diritto di accusare l'amico. Scosso forse dalla forza rassicurante di quei pensieri, o forse soltanto per
ricordare a Roland ciò che lo attendeva di lì a poco, l'amico gli inviò un lieve fremito di piacere che gli fece vibrare dolcemente tutto il corpo. Quanto tempo era passato? Bastava? Roland voleva che Alison si addormentasse prima di salire da lei. Altrimenti si sarebbe messa a gridare. Quando era salito a esplorare la sua camera, dopo che aveva ripulito il soggiorno, aveva notato che la finestra era aperta. Nella stanza faceva un gran caldo, e sicuramente non l'avrebbe chiusa. Con la finestra aperta un grido sarebbe stato sentito da un passante o anche dalle persone che abitavano di sotto. Non c'era scampo, Roland doveva sorprenderla mentre dormiva. In tal modo avrebbe evitato urla e colluttazione. Andò al divano, vi si sedette e rimase in attesa. Centellinò il piacere di quell'attesa. La notte scorsa con Celia era stato incredibile. Ma Alison, oltre a essere bella da togliere il fiato, possedeva una sorta d'innocenza accattivante, una qualità estremamente seducente, irresistibile, di cui Celia era priva. Sarebbe stata... sconvolgente. Oh, sì, sarebbe stato un sogno. Tutta la notte con lei. Ma occorreva aspettare. Si abbandonò sul divano, incrociò le mani dietro la testa e fissò lo schermo oscuro del televisore. Richiamò alla memoria un'immagine di Alison nel centro commerciale, Alison con la tuta attillata, la chiusura lampo che aveva desiderato tirar giù. Aveva un sacchetto in mano quel giorno. Anche Celia lo aveva. Si chiese cos'avessero comprato. Roland sogghighò. Qualunque cosa avessero comprato, sarebbe costata loro molto cara. Sarebbe costata la loro vita, e anche quella di Helen. Se non le avesse viste al centro commerciale... Ne avrebbe scelta qualcun'altra, non le Tre Moschettiere. Una bambola cresciuta abbastanza da poterla dividere con un amico. Un borbottio nello stomaco. Un desiderio pulsante nel corpo. Roland si contorse, ansimò, finché la brama pulsante non si sopì. Okay, rispose nel pensiero. Messaggio ricevuto. Si protese in avanti e si tolse scarpe e calzini. Si tolse anche la camicia e la gettò sul tavolo. Ritto, estrasse il coltello dal fodero e lo appoggiò sulla camicia spiegata. Prese poi le manette da una tasca anteriore dei jeans, e scavando nell'altra tasca anteriore, ne tirò fuori un rotolo di nastro adesivo, appiattito e logoro. Si toccò la chiave delle manette che gli dondolava sul petto, appesa a
una sottile catenina. Con le mani scosse da tremiti violenti, strappò una striscia di nastro adesivo lunga una quindicina di centimetri e la recise dal rotolo servendosi del coltello. Se ne incollò sul mento un'estremità, e sembrò adorno di una strana barba. Si calò i jeans e se li sfilò dai piedi. Stavolta non avrebbe avuto il problema dei vestiti sporchi di sangue. Li avrebbe lasciati laggiù per indossarli di nuovo dopo aver fatto la doccia. Avrebbe lasciato la casa perfettamente immacolata. Sto imparando, constatò. Sto diventando esperto. Si sedette di nuovo sul divano, raccolse i jeans dal pavimento e ne sfilò la cintura dai passanti. Vi sistemò nuovamente il fodero del coltello e indossò la cintura, lenta sui fianchi. Ripiegò il coltello e lo ripose nella custodia. Adesso avrebbe avuto le mani libere per ammanettarla e tapparle la bocca col nastro adesivo. Era bello sentirsi sul ventre il cuoio fresco della cintura e il peso del coltello sul fianco. Un selvaggio nudo. Un cencio attaccato alla cintura, e ecco pronto un perizoma. Meglio così, decise. Una mano scivolò lungo il pene turgido, poi raccolse le manette. Roland girò intorno al divano, muovendo passi silenziosi sul tappeto. I tonfi del suo cuore in tumulto erano l'unico suono che percepiva. Cominciò a tremare, e a ogni passo il tremito si faceva più intenso. Non aveva freddo; e non aveva paura. Fremeva per l'eccitazione, scosso da deliziosi brividi anticipatori del piacere imminente. Ai piedi della scala, passò le manette alla mano sinistra. La destra si chiuse sul corrimano. Lentamente cominciò a salire. La scala era immersa nella più nera oscurità, ma una macchia grigia stemperava il buio sulla sommità della rampa. Uno scalino scricchiolò sotto il suo peso. Roland si arrestò e si mise in ascolto. A ogni pulsazione cardiaca la gola produceva uno strano schiocco secco. Inghiottì, e lo schiocco cessò. Ricominciò a salire. Dopo pochi scalini gli occhi furono in linea con il pavimento della stanza sull'attico. La coperta, un cumulo informe, giaceva ai piedi del letto. Il lenzuolo di sopra pendeva da un lato del materasso,
quasi sulla sponda, tuttavia ancora sul letto, pronto a essere tirato su nel caso Alison avesse sentito freddo nel cuore della notte. Roland era ancora troppo in basso per poter scorgere Alison. Salì. E sembrò che il letto si abbassasse. La vide. Alison, distesa sulla schiena. Si accosciò, così da non poterla più vedere. In quella posizione superò gli ultimi scalini. Procedendo su gomiti e ginocchia, avanzò lungo il tappeto. Si fermò vicino alla sponda del letto. Ascoltò il respiro lento e sommesso di Alison finché ebbe la certezza che stesse dormendo. Allora si alzò e la guardò. Era immersa in un bagno di luce lunare. La camicia da notte sembrava lumeggiata da una patina d'argento a eccezione della zona che rivestiva i seni. Lì non c'era l'argenteo luccicore, ma una nuda trasparenza. Vi si scorgeva la pelle vellutata dei seni, la carne bruna dei capezzoli. Roland si leccò le labbra secche. Quasi si sentì nella bocca quei capezzoli, ne assaporò il gusto. Il guanciale di Alison premeva contro la testiera, come se lo avesse trovato troppo caldo sotto la testa e lo avesse sospinto via. Il viso era rivolto verso la finestra. Alcuni ciuffi di capelli riposavano arricciati sul pallido orecchio. Il braccio sinistro era disteso verso Roland, la mano sul ciglio del materasso, la palma in su, le dita arcuate. L'altro braccio era adagiato vicino al fianco destro. Le gambe, lunghe e nude, erano distese e allargate, i piedi flessi verso l'esterno. La camicia da notte argentata dal raggio lunare aderiva alle cosce. Roland si chinò, carezzò la stoffa scivolosa tra le gambe, ne prese un lembo tra le dita e lo sollevò, tirandolo su con estrema delicatezza. Un caldo fiotto di piacere lo invase e gli tolse il respiro. Rabbrividì in uno spasmo di desiderio, strattonando leggermente il tessuto prima di lasciarselo scivolar via dalle dita. Alison emise un gemito. La testa si girò. Roland, fremente e rapito, ma vigile a dispetto dell'estasi che lo aveva inondato, scattò fulmineo afferrandole la mano sinistra. La manetta si chiuse intorno al polso. Il braccio di Alison sussultò, strappando l'altra manetta alla presa di Roland. Ansimando, lei rotolò verso l'altra sponda del letto. L'agguantò per la spalla e il fianco impedendole di rotolare, e la tirò con forza fino a farla tornare supina. Si gettò su di lei, e montò a cavalcioni sui suoi fianchi. Alison si dibatteva, contorcendosi sotto di lui. Roland le afferrò la mano destra, minacciosamente diretta contro la sua faccia, e la schiacciò sul materasso. La mano sinistra gli serrava la gola, agguantò an-
che questa e cercò di inchiodarla sul materasso. La testa di Alison oscillava da una parte all'altra, e mentre Roland lottava per bloccarle le mani, una ginocchiata lo colse nella schiena. L'impatto lo fece grugnire. Con un feroce strattone le abbassò la mano imprigionata dalla manetta, la bloccò sotto il ginocchio per liberarsi la mano destra e con questa le sferrò un diretto in pieno viso. Alison s'irrigidì sotto di lui e cessò di lottare, ansimando e piagnucolando sommessamente. Roland si staccò il nastro adesivo dal mento e lo incollò sulla bocca di lei. Alison fu costretta a risucchiare l'aria freneticamente attraverso le narici e ciò mutò il suono del suo respiro in un concitato sibilo intermittente. Adesso doveva ammanettarle l'altro polso. Ma Alison non lottava più, e Roland sentiva tra le cosce i soffici promontori dei suoi seni. Vi posò sopra le mani. La stoffa leggera aveva la consistenza di una rete, e la pelle ardeva sotto di essa. Alison non respirava più a fatica. Il frenetico sibilare delle narici s'era smorzato. Adesso era quieta e silente. Roland le strinse i seni. La mano destra di lei si levò lentamente dal letto. Sospettoso, Roland la osservò, pronto a scattare. La vide posarsi sulla sua mano e premergliela più forte ancora sui suoi seni, tenendovela ferma. Sotto di lui, Alison si dimenò appena, gemendo. Mio Dio, pensò Roland. Che sta succedendo? Le piace? La mano di Alison si mosse verso l'alto, risalendo lungo il braccio di Roland, carezzandoglielo, chiudendosi delicatamente sulla spalla di lui. Gli accarezzò i capelli a lato della testa. Gli sfiorò la guancia. L'urlo lacerante scagliò una raffica di chiodi nelle orecchie di Alison. La mano di Roland le ghermì il polso e lo strappò via, costringendolo verso il materasso, e estraendo dall'orbita oculare il pollice di lei, che schioccò all'infuori producendo un umido risucchio. Roland non cercò di bloccarle il polso, si portò invece una mano al viso e oscillò sopra di lei. Le ginocchia di Alison schizzarono in alto. Roland ruzzolò sul materasso tra le gambe di lei. Alison lo bersagliò di calci, spingendolo via. Un ultimo, violento calcio sul corpo di Roland, e poi giù dal letto. Si strappò il nastro adesivo dalla bocca e indietreggiò senza voltarsi. Nel chiarore lunare il corpo nudo di Roland sembrava grigio e cadaverico. Si dibatteva, agguantandosi la faccia; affondava i talloni nel materasso e sollevava il bacino mentre strillava ferocemente. Alison si girò, voltandogli le spalle turbinosamente. Afferrò il corrimano
della ringhiera e si gettò a capofitto giù per la scala buia. Giunta al piano di sótto, tentò di dare l'allarme chiamando Helen, ma un bisbiglio strozzato fu il massimo che la sua voce poté produrre. Corse attraverso il corridoio, oltrepassò l'angolo, spalancò la porta di Helen e colpì poderosamente l'interruttore della luce. "Helen!" Sotto il lenzuolo, Helen non si mosse. Alison si precipitò verso di lei. "Presto! Dobbiamo... Roland è di sopra... mi ha aggredita!" Tirò giù il lenzuolo e scoprì Helen che fissava il soffitto con occhi spenti dietro gli occhiali storti. Il viso gonfio era pieno di graffi e lacerazioni. Croste di materiale organico secco le impiastricciavano il mento. Alison le strinse la pelle livida grigio-bluastra della spalla. "Helen!" Le scrollò la spalla. La testa di Helen dondolò leggermente. I seni enormi tremolarono. "Helen, svegliati!" Alison lasciò andare la spalla. La pelle restò infossata là dove vi si erano pressate le dita. Confusa, Alison si fece indietro. Roland aveva ucciso Helen. No. Era solo uno scherzo, una qualche sorta di macabra burla. Helen non era morta. Non era possibile, non Helen. Era uno scherzo. È morta. Camminando a ritroso, Alison attraversò la porta. Lanciò uno sguardo al corridoio oscuro. "BASTARDO!" gridò. E udì una sequela di rapidi tonfi sulla scala dell'attico. Il frenetico trepestio fu la miccia che fece esplodere in lei un terrore incandescente che la catapultò repentinamente verso la porta. Alison l'aprì, si scaraventò fuori e, sbattendola, scapicollò giù per la scala esterna. Il legno verniciato degli scalini era rorido di rugiada e viscido sotto i suoi piedi nudi. Rallentò, temendo una caduta che avrebbe regalato a Roland una possibilità di catturarla. A quattro scalini dal fondo, spiccò il salto. Si lanciò nella fredda aria notturna, e la camicia da notte si sollevò, gonfiandosi. Atterrò vacillando sulle pietre del lastrico e l'erba che le circondava. Si guardò indietro. Roland non era sulla scala. Spostandosi in diagonale, vide che la porta del piano superiore era ancora chiusa. Corse allora alla porta del Professor Teal, oltre la scala. La cucina era buia dietro i riquadri di vetro. Provò a girare la maniglia. La porta era chiusa a chiave, prese quindi a colpire ripetutamente il legno duro e la raffica di pugni la scosse sui cardini. "Dottor Teal!" gridò. E poi, "Al fuoco.
AL FUOCO!" Continuò a martellare la porta. La cucina era ancora buia. Una leggera torsione della mano destra bastò a farle afferrare il battente. Lo strinse come fosse un tirapugni e sfondò il vetro. Allungò dentro la mano, attenta a non ferirsi il braccio sulle acuminate lame di vetro, e girò il pomello. Ritirò lentamente il braccio tenendo la porta socchiusa. Gettò di nuovo un'occhiata verso la scala di legno. Roland non c'era. Aprì la porta completamente. Le schegge di vetro disseminate sul pavimento tintinnarono e sgraffiarono quando l'anta della porta strusciò sopra di esse. Sorreggendosi allo stipite, Alison varcò la soglia, tendendo una gamba alla sua massima estensione prima di posare il piede per terra. Non avvertì frammenti di vetro sotto la pelle. Caricando su di esso tutto il peso del suo corpo, si diede slancio per entrare in casa. Si tuffò, e si trovò a una buona distanza dalla porta. Chinandosi, ne sfiorò il bordo con le dita e la sospinse, chiudendola. Una luce improvvisa accecò Alison. Socchiudendo gli occhi al bagliore, si voltò. Piantato nell'atrio, il bastone da passeggio brandito come un randello, c'era il Dottor Teal. I capelli bianchi erano scompigliati, e indossava un pigiama a strisce, largo e cascante. Accigliandosi, sbatté le palpebre e fece per muovere le labbra. "Spenga la luce," comandò Alison con un secco bisbiglio. L'uomo non fece domande. Pigiò l'interruttore. Alison si allontanò, e voltandogli le spalle prese a fissare fuori della porta a vetri. Nessuna traccia di Roland. "Ha ucciso Helen," disse. "Lui... l'ho ferito, ma è lassù." "Oh, buon Dio." Alison sentì un lieve ticchettio. Si voltò a guardare da sopra la spalla. Il bastone del Dottor Teal era imprigionato tra le ginocchia dell'uomo. Questi aveva in una mano il pallido ricevitore del telefono a muro e stava girando il disco combinatore. "Polizia, c'è un'emergenza," disse, la voce ferma e vibrante come se stesse dietro un leggio in una sala gremita di studenti affascinati. Aspettò pochi secondi, poi aggiunse, "C'è stato un omicidio al 364 di Apple Lane, e il bastardo è ancora qui con noi. Venite immediatamente." Riagganciò. "Spostati dalla porta," ordinò. Alison arretrò, riluttante a staccare gli occhi dai vetri. Si fermò quando la mano del professore si posò gentilmente sulla sua spalla.
"Ora va tutto bene, mia cara. Non ti farà del male. La polizia arriverà tra breve, ne sono certo." "Ha ucciso Helen," disse lei. La voce venne fuori stridula, e le lacrime le allagarono gli occhi. Il Professor Teal le diede delle pacche affettuose sulla spalla. "Resta qui." Si allontanò da lei, dirigendosi verso la porta, col bastone che gli oscillava al fianco come una mazza da baseball. Il vetro scrocchiò sotto le pantofole. Aprì la porta con delicatezza. "Forse non dovrebbe," sussurrò Alison. Ignorandola, il professore si sporse in fuori. La testa si girò da una parte all'altra, rientrò poi attraverso l'apertura e si volse verso Alison. "Hai detto di averlo ferito?" le domandò l'uomo. "Gli... ho cavato un occhio." "Ben fatto. Forse hai messo quella carogna ko. Gli ridurrei la testa in poltiglia se... e Celia?" "Non è a casa." "Dio sia ringraziato." "Non ne sono certa, ma... credo che abbia ucciso anche lei la notte scorsa." "Mio Dio, no." "È andata a un appuntamento con il suo compagno di stanza e non è più tornata." "Due delle mie ragazze. Due delle mie dolci, care... la pagherà cara, oh se la pagherà cara..." Il professore spalancò la porta e uscì. "No!" gridò Alison. Lo rincorse, saltò oltre la zona irta di schegge di vetro e atterrò sul lastricato fuori della porta. Il Professor Teal era già ai piedi della scala. "Resta dentro," le disse. "Aspetti che arrivi la polizia," gridò lei. "La prego!" Ignorandola, l'anziano professore s'inerpicò a passo spedito su per la scala. Alison sfrecciò verso la rampa e piazzatasi al di sotto di essa, infilò le mani tra due scalini e afferrò una caviglia del vecchio. "Lasciami!" "Ucciderà anche lei!" "Questo è da vedersi." Scrollò il piede per cercare di liberarlo. Alison perse quasi la presa. Avvolse l'altra mano intorno all'ossuta caviglia del professore e vi si aggrappò saldamente. Uno stridore di freni. Alison sbirciò attraverso la fenditura tra i due sca-
lini e vide una macchina della polizia fermarsi di botto nel roteare vorticoso di luci rosse e blu. Ne discese un uomo che si lanciò di corsa oltre il muso dell'auto. Estrasse la pistola dalla fondina mentre si precipitava attraverso il prato, nella direzione di Alison. "Hai vinto," disse il professore. Alison non si fidò di lui, e continuò a bloccargli la caviglia finché il poliziotto non si arrestò di colpo e, accosciatosi, puntò l'arma contro di lui, gridando, "Non una mossa, fottuto bastardo, o ti faccio saltare il cervello !" "Non è lui!" gridò Alison. Uscì da sotto la scala. Il Professor Teal si voltò lentamente. "Io sono il proprietario di questa casa," disse. "Abbiamo tutte le ragioni per credere che l'assassino si trovi al piano di sopra." "Chi ha ucciso?" "La mia amica," disse Alison. "E ha cercato di ammazzare anche me." "È armato?" chiese il poliziotto tarchiato. "Non lo so. Non mi pare." "È ancora lassù?" Senza attendere la risposta, l'agente cominciò a salire. Il Professor Teal si fece da parte per lasciarlo passare e venne giù mentre il poliziotto proseguiva verso la sommità della rampa. Alison affiancò il professore e gli mise un braccio intorno alla schiena. "Stupido vecchio orso," disse. Lui sorrise tristemente. Entrambi trasalirono nell'attimo in cui un colpo di pistola squarciò il silenzio della notte. La testa di Alison scattò lateralmente. Vide Roland in cima alla scala, le braccia in fuori. Il poliziotto si afflosciò sulla ringhiera, cadde all'indietro e urlando in preda al terrore, precipitò nel vuoto, fendendo l'aria col suo agitarsi concitato. L'urlo zittì di colpo all'impatto col terreno. Per un istante sembrò che l'uomo si stesse esibendo in una bizzarra verticale, con le gambe che scalciavano verso il cielo. Poi crollò. Giacque sulla schiena, scosso da convulse contrazioni. Aveva un coltello confitto nel petto. In cima alla scala, Roland si girò lentamente. Non era più nudo. Indossava un paio di jeans e una camicia aperta. Il lato sinistro della faccia scintillava, solcato da un rivolo rosso che fiottava dall'orbita oculare vuota. Un rosso fiume che fluiva sulla camicia e sul petto nudo. Con una lentezza da zombie, sollevò la mano sinistra e la studiò attentamente fissandola con l'unico occhio. La pallottola del poliziotto non lo aveva mancato del tutto.
Alison vide la mano completamente monca del dito indice. Il medio penzolava da un brandello di carne, oscillando come un pendolo. Lo afferrò con l'altra mano, lo strappò via e lo scagliò contro Alison come un dardo spuntito. Atterrò sull'erba ai suoi piedi. Roland cominciò a scendere la scala. Il Professor Teal spinse via Alison e muovendosi quasi casualmente si avvicinò ai piedi della scala. Sollevò quindi il bastone, pronto a colpire Roland non appena lo avesse avuto a tiro. Alison si precipitò verso il poliziotto. Sembrava morto. Richiamò alla niente l'immagine della sua caduta. Impugnava la pistola? Non lo sapeva. Ora, però, non ce l'aveva. Setacciò alla svelta il terreno tutt'intorno in cerca della rivoltella. Dove diavolo era finita? Alzò gli occhi alla scala giusto in tempo per vedere Roland che saltava giù. Si tuffò da uno scalino posto in alto rispetto al Professor Teal. Il vecchio abbassò lesto il bastone verso il corpo in picchiata. Mancò la testa di Roland e si abbatté sulla sua spalla. Roland atterrò il vecchio con un colpo possente. Alison estrasse il coltello dal petto dell'agente, si voltò in un turbine e si gettò a capofitto verso i due uomini che lottavano sull'erba. Roland vibrò un pugno sul naso del professore. Si allontanò rotolando su se stesso. Adesso era sdraiato sulla schiena e si puntellava sul braccio destro per issarsi. Sollevò la mano ferita come se segnalasse a Alison di fermarsi. Alison gli si avventò addosso. Roland cadde all'indietro, cercò di respingerla piantandole in faccia dita e monconi di dita. Alison pugnalò, affondando la lama con forza. Roland strillò. Poi la sua mano destra piombò sull'orecchio di lei con la potenza d'una bastonata. Stordita dall'impatto, Alison si sentì scaraventare via dal corpo di lui. Vide Roland agguantare il manico del coltello. La lama gli era penetrata nel capezzolo sinistro, ma non era discesa in profondità. Una costola doveva averne ostacolato il percorso fatale. Strattonando energicamente l'arma, Roland se ne impossessò. La mano dilaniata corse verso Alison. Lei rotolò, scattò in piedi e fuggì. Volò in direzione della strada. L'erba rugiadosa era viscida, ma lei vi corse sopra, volando, slanciando avanti le gambe in lunghissime, rapide falcate, mulinando le braccia. La manetta libera all'estremità della catena le sferzava le nocche, le fustigava l'avambraccio, talora le colpiva il fianco o il seno.
Sentiva Roland ansimare e piagnucolare dietro di lei. Non molto distante da lei. Non osò voltarsi a guardare. Deboli fiocchi bianchi sbuffavano dal tubo di scarico, ormai esausto, della macchina della polizia. Un piede balzò sul marciapiede. L'altro atterrò nell'erba dall'altra parte. Saltò via dal cordolo e scapicollò oltre il muso della macchina. Si girò quindi a scoccare un'occhiata dietro di sé. Roland spanciò sul cofano e vi scivolò sopra, i denti ferocemente snudati, la mano storpiata tesa verso di lei, il coltello stretto nell'altra mano. Con una rapida virata, Alison schivò la mano annaspante. Due dita le sfiorarono il ventre. Arretrando sulle gambe malferme, afferrò la maniglia della portiera dal lato di guida. Aprì la portiera con un violento strattone, balzò dentro e la richiuse mentre Roland, dibattendosi, scivolava giù dal cofano. Il finestrino era aperto. Si affrettò a alzare il vetro. Roland barcollò verso di lei. Il vetro del finestrino continuava a sollevarsi. Roland vibrò una netta pugnalata. La lama del coltello incontrò il vetro e scivolò giù con un aspro stridore come di unghie graffianti sulla superficie di una lavagna. Alison disinserì il freno a mano. Roland aprì la portiera. Alison gridò, "No!" Com'era possibile che non avesse inserito la sicura? Afferrò la leva del cambio, ingranò la prima e schiacciò a tavoletta l'acceleratore. La macchina partì a razzo. Roland urlò. La portiera urtò pesantemente contro il telaio. Alison sterzò bruscamente per scansare una Volkswagen parcheggiata davanti. Guardò lo specchietto laterale. Roland giaceva sull'asfalto faccia a terra, mezzo isolato dietro di lei. CAPITOLO TRENTUNESIMO Jake entrò nella cabina della centralinista, accennò un saluto a Martha che lo contraccambiò con un'occhiata severa, poi si rivolse alla ragazza. Era seduta su una delle sedie di plastica che appartenevano alla sala d'attesa fuori del piccolo spazio appartato dove avvenivano la ricezione e lo smistamento dei messaggi. Evidentemente la sedia era stata portata lì dentro per far sì che la ragazza non rimanesse ad aspettare da sola. Con en-
trambe le mani reggeva una tazza di plastica piena di caffè. Il lato sinistro del viso era rosso e gonfio. Sopra una camicia da notte blu, indossava il vecchio cardigan marrone di Martha. Alzò gli occhi dal caffè quando Jake le si avvicinò. "Io sono Jake Corey," si presentò lui. "Sono incaricato di condurre le indagini su quanto è avvenuto." Lei annuì. "Ti dispiace seguirmi da questa parte?" La ragazza gettò un'occhiata a Martha, che assentì con un cenno del capo, quasi ad autorizzarla. Poi si alzò. Jake aprì la porta e la mantenne aperta per lei. Camminava rigidamente, gli occhi bassi a fissare il caffè come fosse estremamente preoccupata di non versarlo. Doveva avere almeno vent'anni, ma sembrava una bambina ferita e spaventata. Jake chiuse la porta e si pose al suo fianco. "Dove stiamo andando?" gli chiese la ragazza. "Laggiù." Con un gesto le indicò l'ufficio di Barney. "Non possiamo parlare in presenza di Martha." La ragazza camminò al suo fianco. "Stai bene?" le chiese Jake. "Sì." Jake aprì la porta di Barney e premette l'interruttore della luce. Luci fluorescenti si accesero in alto davanti a loro. Seguì la ragazza nella stanza. "Siediti al posto del capo," le disse. "Dietro la scrivania?" "Starai più comoda." Lei girò intorno alla scrivania, depose la tazza sul tampone di carta assorbente e si sedette. La poltrona imbottita sbuffò e cigolò. Si tirò più avanti come se volesse ripararsi dietro la grande e protettiva scrivania. Le mani si chiusero intorno ai lati della tazza. Jake prese posto su una sedia pieghevole di fronte a lei. "Tu sei Alison?" "Sì. Alison Sanders." "Il Dottor Teal mi ha raccontato quello che hai fatto. Sei una signorina davvero molto coraggiosa." "Lui sta bene?" "Benone. È sconvolto, naturalmente." "Il poliziotto... è morto?" "Sì."
"Mi dispiace." "Anche a me," mormorò Jake. "Non lo avete preso, vero." Non fu una domanda. "Non ancora. Ma lo prenderemo." "Si chiama Roland," disse Alison con voce bassa e ferma. "Non conosco il suo cognome, ma so che occupa la stanza 240 della Baxter Hall nel campus." Jake prese un blocchetto per appunti dalla tasca della camicia. Annotò rapidamente il nome e il numero della stanza. "Era un tuo amico?" Lei scosse la testa. "Lo conoscevo solo di vista. È una matricola." "Hai un'idea sul perché abbia... fatto questo?" "Non lo so." Alison si strofinò la fronte. "Ha a che fare in qualche modo con... ieri sera il suo compagno di stanza è uscito con Celia. Celia Jamerson. Abitava con..." "Celia Jamerson?" chiese Jake, sorpreso. Vide la ragazza snella seduta sul bordo della strada, ferita e sanguinante, che si reggeva il braccio tremolante. "Un furgone ha tentato d'investirla giovedì?" Alison annuì. "Ieri sera è uscita con il compagno di stanza di Roland e non è più tornata a casa. Oggi pomeriggio sono andata alla Casa dello Studente per chiedere notizie a Roland. E è stata l'unica volta in cui ho parlato con lui. Mi ha detto che erano andati in un motel di Marlowe, ma non gli ho creduto." Incrociò lo sguardo di Jake con occhi stanchi e consapevoli. "Io credo che Roland l'abbia uccisa. Forse ha ucciso anche Jason. È così che si chiama il suo amico. O forse Jason era d'accordo con lui... ma ne dubito." "Che cosa è successo dopo che hai parlato con Roland?" "Sono andata a casa di un mio amico. Abbiamo cenato. Poi sono tornata a casa. A piedi. Le luci erano tutte spente. La porta della stanza di Helen era chiusa. Ho pensato che fosse andata a dormire, ma... Credo che allora fosse già stata uccisa. Forse Roland era lì, nascosto da qualche parte. Sono salita nella mia camera e sono andata a letto. Lui mi ha svegliata. Mi ha messo una manetta, e un pezzo di nastro adesivo sulla bocca. Era nudo. Ho pensato che avesse intenzione di violentarmi, capisce. Sono più che sicura che volesse farmi questo, oltre a uccidermi, altrimenti non si sarebbe preso il disturbo di ammanettarmi e tapparmi la bocca. A ogni modo, abbiamo lottato e io...l'ho accecato a un occhio." La mano destra abbandonò la tazza col caffè. Alison sollevò il pollice e prese a fissarlo. "Mi sono lavata," mormorò. "Martha mi ha fatto lavare. Ha anche trovato una chiave che a-
prisse la manetta. E mi ha dato il suo maglione. È molto gentile." "Hai detto che Roland era nudo." "Indossava una cintura. E nient'altro." "Hai notato qualcosa di strano, di particolare, nel suo aspetto?" Alison guardò Jake inarcando le sopracciglia. "Vuol dire qualcosa come un tatuaggio, una voglia?" "Ti è capitato di guardargli la schiena? O di toccargliela?" "Credo di no. Perché?" "Mi chiedevo soltanto se per caso avesse una specie di lividura lungo la colonna vertebrale, o un rigonfiamento." "Non lo so. Non che l'abbia notato. Perché?" "È una storia lunga. Meglio non affrontarla adesso. Cosa è successo dopo che gli hai cavato l'occhio?" "Sono scappata. Sono corsa di sotto a dare l'allarme a Helen. Ma lei era..." Alison afferrò tra i denti il labbro inferiore. Scosse la testa. "Poi sei uscita?" "Sì. Sono scesa di sotto e sono entrata nella cucina del Dottor Teal rompendo il vetro della porta. Lui è venuto fuori ad aiutarmi." "Okay, bene. So già quel che è successo da questo punto fino a quando sei corsa alla macchina della polizia. Ho avuto da lui un resoconto dei fatti." "Questo è tutto, allora. Roland è quasi riuscito a prendermi , ma io sono scappata via con la macchina... e l'ultima volta che l'ho visto, giaceva per terra, là in strada. Sono venuta qui alla stazione di polizia e ho detto a Martha quello che era successo. Lei ha mandato una macchina e un'ambulanza sul posto e ha telefonato a qualcuno." "Ha avvertito il capo. Lui ha chiamato me, e io sono corso là. Puoi descrivermi questo Roland?" "Sui... diciotto, credo. Molto magro. Sul metro e settanta. Capelli neri. Gli manca l'occhio destro e due dita della mano sinistra, e ha una ferita di coltello sul capezzolo sinistro." "Non andrà lontano in queste condizioni." "Non credo." "Hai notato se aveva una macchina?" "Non saprei. C'era un maggiolino VW parcheggiato sulla strada vicino alla casa. Per poco non ci sono finita contro con la macchina della polizia. Forse non era suo, ma..." "Un maggiolino giallo con una bandierina attaccata all'antenna?" incalzò
Jake, eccitato, turbato. "La bandierina non l'ho notata, ma sono sicurissima che la macchina fosse gialla." "Mio Dio," mormorò Jake. "Cosa?" "Era lui. Ha cercato di rapire mia figlia questo pomeriggio." Un angolo della bocca di Alison si sollevò di scatto. "Sua figlia?" "È scappata via." "Gesù. Sta bene?" "Sì, bene. La cosa non l'ha lasciata indifferente, ma sta bene." "Quanti anni ha?" "Quattro e mezzo. Vive con sua madre." Jake si chiese perché avesse aggiunto quel particolare. Si alzò. "È ora di mettermi sulle tracce di quel bastardo, Alison. Hai un posto dove andare?" "A casa," disse lei. "No, non credo." "Beh, il professore ha una stanza in più al piano di sotto." "Le possibilità che Roland si rifaccia vivo laggiù sono quasi inesistenti, in ogni caso, finché non lo avremo preso..." "Vuol dire che dovrò sparire per un po' di tempo?" "Giusto per metterti completamente al sicuro." "Non so. Potrò prendere una stanza in un motel. Però non ho la borsa con me." "Sarò lieto di ospitarti a casa mia. Io non ci starò comunque." "Grazie, ma..." "È un posticino accogliente. Nel frigo troverai da bere e da mangiare. E in questo modo io saprò dove ti trovi e non dovrò preoccuparmi per te." Alison accennò un sorriso stentato. "Sarebbe preoccupato per me?" "Sì." "È gentile," disse lei in un bisbiglio. Jake si sentì arrossire. "Beh, sei anche il testimone principale." Alison prese la tazza col caffè. Era ancora piena. Uscirono dall'ufficio di Barney e tornarono nella cabina di Martha. "Alison viene con me," disse Jake. Alison posò la tazza sulla scrivania di Martha. "Grazie per il maglione," disse. "E per l'aiuto." "Nessun problema, tesoro," disse Martha. Alison cominciò a sbottonarsi il cardigan.
Martha sollevò una mano. "Tienilo. Ti raffredderai." Sorridendo, aggiunse, "E non vorrai che a Jake vengano strane idee per la testa. Non che non sia un perfetto gentiluomo... Me lo manderai quando non ne avrai più bisogno." Alison la ringraziò nuovamente. Si allontanarono e, usciti all'aperto, si diressero alla macchina di Jake. Alison prese posto sul sedile del passeggero. Jake si avviò alla portiera del lato di guida e intanto scrutò l'area circostante. Non vide automobili in transito sulle strade vicine. Né vide Volkswagen parcheggiate. Salì a bordo e avviò il motore. "Non hai notato nessuno dietro di te mentre ti dirigevi alla stazione di polizia?" le chiese. "No. E ci ho fatto caso con attenzione. Temevo che m'inseguisse." "Visto com'era conciato quando sei fuggita, probabilmente non può inseguire più nessuno. Potrebbe benissimo essere già morto o moribondo." "Lo spero," mormorò Alison. "Io preferirei trovarlo vivo," disse Jake. Se è già crepato, pensò, probabilmente non troverò mai quel fottuto serpente. Non sa che farsene di un uomo morto. Se la squaglierà in quattr'e quattr'otto e si rifarà vivo nel corpo di qualcun altro. Così saremo punto e a capo. Mentre guidava, Jake non perdeva di vista lo specchietto retrovisore. La strada dietro di lui sembrava sgombra, ma Roland poteva seguirlo da lontano con i fari spenti. Jake deviò in una strada secondaria, spense le luci e accostò al marcipiede. "Aspetteremo un po' qui," annunciò. "Bene." Spense il motore. Sorrise a Alison. "Sono sicuro che non ci sta seguendo. È una semplice precauzione." Lanciò una rapida occhiata alle sue gambe nude. La camicia da notte era davvero molto corta. Le mani aperte della ragazza erano posate sulle cosce, come per impedire che si sollevasse. Improvvisamente Jake fu cosciente di trovarsi da solo in macchina con una giovane donna molto attraente che senza dubbio, a eccezione della succinta camicia da notte e del maglione di Martha, era praticamente nuda. E la stava portando a casa sua. La consapevolezza della situazione suscitò in lui una calda sensazione che minacciava di diventare qualcosa di più. Controllati, ammonì se stesso. L'ultima cosa di cui ha bisogno è farsi l'idea che tu ti stai eccitando.
Eccitando? Scordatelo, Corey. Si sfregò sui pantaloni le mani sudate e controllò lo specchietto laterale. "Sembra tutto in ordine," disse. Benché fosse certo che Roland non li stava seguendo, decise di raggiungere casa sua prendendo la circumvallazione esterna. Sapeva di dover correre a casa, scaricarla lì e iniziare il più presto possibile la battuta di caccia per prendere Roland. Ma Jake non era impaziente di prendere Roland. E non era impaziente di separarsi da Alison. La ragazza era silenziosa. Jake si chiese cosa le stesse passando per la mente. Niente di piacevole, probabilmente. Quella notte aveva visto l'inferno. Alla maggior parte delle persone non capitava di dover affrontare una prova di quella portata. E se capitava, talvolta non riuscivano a superare il devastante trauma emotivo. "Deve sembrarti tutto molto duro in questo momento," disse. Alison si girò verso di lui. "Sono viva," disse. "Mi sento molto fortunata." "Ci è voluto più della semplice fortuna." "Non so, comunque, se me la merito questa fortuna. Perché proprio io? È così che devono sentirsi i superstiti di un incidente aereo. Quasi colpevoli di essere ancora vivi... quando tanti altri non lo sono più." "Credo di sì," disse Jake. "Hai delle lezioni domani?" "Probabilmente le salterò. Non credo che resisterei seduta in un'aula." "Meglio così. Spero che allora sarà tutto finito, in caso contrario voglio che tu non ti muova. Io e te saremo gli unici a sapere dove ti trovi, e vorrei che la cosa restasse così fino a nuovo ordine, okay? È l'unico modo che abbiamo per essere certi che tu sia al sicuro." "Non ho nessuno a cui dirlo," fece lei. "E tuoi genitori? Dove sono?" "Nella Contea di Marin." "Puoi telefonare a loro se vuoi." "Non c'è motivo di metterli in agitazione. Si preoccuperebbero fino all'isteria." "Hai un fidanzato?" Liscio, pensò Jake. L'hai buttata giù così senza pudore. Si vergognò un poco di se stesso. "Abbiamo litigato," disse Alison. "Proprio stasera, per la verità. È stata una serata favolosa." Dopo pochi secondi di silenzio, aggiunse, "Forse dovrei telefonargli domani mattina, fargli sapere che sto bene."
"Bene. Solo non dirgli dove ti trovi." "Può scommetterci." Jake vide la sua casa davanti a loro. Decise di fare il giro dell'isolato prima di accompagnarvi Alison. Solo per precauzione, spiegò a se stesso. "Non crede che qualcuno possa aver mandato Roland?" chiese Alison. "No, niente di simile. Però potrebbe mettersi in contatto con qualcuno. Se nessuno sa dove sei, nessuno potrà dirglielo." "C'è qualcosa di più in questa faccenda, è così?" Jake esitò, poi rispose, "Sì." "E ha qualcosa a che fare con la schiena di Roland." "Sei perspicace," disse Jake, sorridendole. "E non dev'essere cosa da poco, se ha paura a dirmelo." "È una storia lunga," disse Jake. "E siamo quasi arrivati a casa." "Forse è qualcosa che dovrei sapere." Jake non rispose. Svoltò oltre l'ultimo angolo, controllò ancora l'area circostante per assicurarsi che non vi fossero Volkswagen in vista, poi imboccò il vialetto d'accesso di casa sua. Alison premette sulle cosce l'orlo della camicia da notte mentre scendeva dall'auto, per essere sicura che non si sollevasse, scoprendola. Jake chiuse la portiera dopo che lei fu scesa. Percorse a ritroso il cortile con una mano poggiata sulla rivoltella custodita nella fondina, e intanto girava lentamente la testa scrutando l'isolato come se si aspettasse che da un momento all'altro Roland sgusciasse dall'oscurità, caricandoli. Tuttavia, non sembrava nervoso. Solamente prudente. Con lui Alison si sentiva protetta. Non gradiva l'idea che da lì a qualche minuto sarebbe rimasta sola. Jake aprì la porta di casa. Alison lo seguì all'interno. Le luci erano già accese, le tende chiuse. Il tepore della casa fu piacevole dopo il freddo della notte. "Fa' come se fossi a casa tua," le disse Jake. "La cucina è lì in fondo." Le fece strada. Alison cominciò a sbottonarsi il maglione, ma si arrestò non appena si rese conto di quello che indossava sotto. Jake accese la luce in cucina. "Cibo, bibite analcoliche e birra sono nel frigorifero. Serviti pure." Le indicò poi un mobile. "La roba pesante è lì dentro, nel caso ne sentissi il bisogno." "A che ora va di solito a dormire sua figlia?" "Oh, Kimmy non..." Rise piano. "Quanto prendi all'ora?"
"La mia tariffa è cinque dollari all'ora. Ma per Kimmy, servizio gratuito." "Meno male, visto che non c'è." Uscirono dalla cucina. "Il divano," annunciò, andandovi davanti. "Dove mi stenderò io quando sarò ritornato. Il televisore." Si chinò sul tavolino, raccolse il telecomando e accese e spense la tivù, dimostrativamente. Accennò un sorrisetto un tantino imbarazzato. Alison lo seguì nella stanza da bagno. Jake accese la luce. "Se vuoi puoi fare il bagno, la doccia, o darti una rifrescata," disse e arrossì leggermente. "Ne approfitterò," assentì Alison. "In questo armadietto troverai asciugamani e tutto ciò che ti occorre." Jake annuì quando passarono davanti a una porta buia. "La stanza di Kimmy. Il suo tettino è troppo piccolo per te." Aprì lo sportello di un armadio per la biancheria e da uno dei ripiani prese un paio di lenzuola piegate e una federa. Entrò quindi in camera sua. Accese la luce. Il letto era disfatto. Alison intuì che stava dormendo quando aveva ricevuto la telefonata. Si avvicinò al letto. "Vuoi darmi una mano a rifarlo?" le chiese. "Me ne occuperò io dopo," disse Alison. "Beh..." "Nessun problema," fece lei. "Avrò qualcosa da fare quando se ne sarà andato." Era una piccola bugia. Alison non aveva intenzione di occupare il suo letto, costringendolo a dormire sul divano quando sarebbe tornato dopo aver dato la caccia a Roland. Jake depose le lenzuola e la federa sulla sponda del letto. Entrò nel guardaroba e ne uscì con un fucile da caccia tra le mani. "Hai mai sparato con uno di questi?" chiese a Alison. Lei annuì. "Sono andata a caccia d'anatre con papà diverse volte. Beh, parecchie volte." Jake le porse il fucile. Era un fucile a retrocarica calibro .12. Aprì l'otturatore quel tanto che bastò a scorgere una cartuccia nella camera di caricamento, poi lo richiuse. "Ce ne sono altre tre nel caricatore," disse. "Okay." "Tienilo a portata di mano. Però non spararmi quando tornerò a casa." Alison sorrise. Il viso di Jake sbiancò all'improvviso. "Che c'è?"
"Forse non ti ho dato un buon consiglio." Jake si sedette sulla sponda del letto e alzò gli occhi verso Alison, accigliato. "Devi chiudere a chiave la porta della camera prima di coricarti. Se cercherò di entrare con la forza, usa il fucile." "È impazzito?" "Non credo che accadrà nulla di simile, tuttavia... Quando tornerò qui domani mattina puntami contro il fucile e chiedimi di torgliermi la camicia. Poi da' un'occhiata alla mia schiena. Se vedrai un rigonfiamento lungo la spina dorsale come se avessi un serpente sotto la pelle, allora spara. Cerca di colpire quella massa in rilievo. Se la mancherai, probabilmente una creatura dall'aspetto di un serpente uscirà dal mio corpo non appena sarò morto e potrebbe attaccare te." Alison fissò Jake. Il poliziotto diceva sul serio. "Gesù Cristo," mormorò. "'L'Invasione dei Divoratori di Cadaveri'," disse Jake. "Ma stavolta non è un film. Questa specie di serpente si annidava nella schiena dell'uomo che ha cercato di investire Celia. Si è trasferito nel corpo di Ronald Smeltzer all'Oakwood Inn nella notte di giovedì, e subito dopo Smeltzer ha sparato alla moglie facendole saltare la testa. E adesso sono sicuro che il mostro si trovi nel corpo di Roland. Si tratta di una specie di parassita capace di dominare la mente di chi lo ospita e trasformarlo in un assassino. È del tutto plausibile che possa penetrare dentro di me una volta liquidato Roland. Certamente farò di tutto per evitarlo, ma... semmai dovessi tornare qui con quell'essere appollaiato sulla mia schiena, allora farai un favore sia a me che a te se mi sparerai senza perdere tempo. E cerca di uccidere anche quel coso. O almeno, fai in modo che non si avvicini a te." Alison era intontita. Jake si alzò. "Stai bene?" Lei lo fissò. Jake le si avvicinò e le posò le mani sulle spalle. "Mi dispiace, dovevo dirtelo." Il peso del fucile le fece abbassare le braccia. Jake glielo tolse di mano, la prese delicatamente per un gomito e la condusse lungo il corridoio in direzione del soggiorno. La guidò verso il divano. Alison vi sprofondò. Appoggiò il fucile accanto a lei, si allontanò e tornò dopo poco. "Forse questa ti aiuterà," disse, e le piazzò in una mano un boccale di
birra ricoperto di bianca spuma. Aprì una busta di patatine e la sistemò sul cuscino accanto alla sua coscia. Alison sentì gli aromi invitanti della birra e delle patatine. Dal profumo capì che erano patatine al gusto 'panna acida e cipolla'. Tra le preferite di Helen. Alzò gli occhi verso Jake. Lui abbozzò un debole sorriso, ma gli occhi erano tristi. "Andrà tutto bene," disse. Poi si accosciò davanti a lei. "Alison." "Sì?" "Sembri molto turbata." "Starò meglio," rispose lei, quasi automaticamente. "Tra un po'." "Quello che ti ho appena detto, è un segreto. Capito? Lo sarà almeno fino a martedì. Allora la cosa diverrà pubblica." "Nessuno ci crederà." "Ma tu credici." "Vorrei tanto non doverci credere." Jake le posò una mano sul ginocchio. "Dormi bene." Alison premette una mano su quella di lui. "Stia attento," gli disse. "Torni sano e salvo." CAPITOLO TRENTADUESIMO Il corridoio del secondo piano del dormitorio delle matricole era deserto. Solo poche delle luci fluorescenti erano rimaste accese per la notte, e il freddo, desolato chiarore che effondevano acuiva la tensione e il senso di disagio che attanagliavano Jake. Strisce di luce brillavano sotto alcune delle porte. Note di musica provenivano da una delle stanze, e dal bagno, lo scrosciare di una doccia. Jake si fermò davanti alla porta di Roland. Dalla fessura sulla soglia non trapelava alcuna luce. Prese il portafogli e aprì lo scomparto per le banconote da cui trasse una sottile custodia di plastica. Da questa fece scivolar fuori un grimaldello e una chiave torsiometrica. Gli strumenti da scasso erano un regalo di Chuck, il quale gli aveva impartito lezioni in materia al prezzo di una confezione da sei bottiglie di birra. Jake non aveva mai sfiorato l'idea di utilizzarli per un'irruzione illegale. Cionondimeno, negli ultimi due anni li aveva sempre tenuti nel portafogli, principalmente per far piacere a Chuck, ma anche per servirsene nell'even-
tualità che fosse rimasto chiuso fuori di casa. Ultimamente aveva forzato la serratura di casa sua parecchie volte, esclusivamente per accontentare Kimmy che ci andava pazza. La pratica recente gli fu di notevole aiuto. In meno di un minuto la serratura della porta di Roland scattò e Jake aprì delicatamente la porta di un paio di centimetri. Mise via gli strumenti da scasso. Non si aspettava di trovare Roland nella stanza. Non aveva trovato nessuna VW gialla parcheggiata nel cortile della Casa dello Studente, inoltre Roland doveva aver immaginato che Alison gli avrebbe dato il suo indirizzo. Per contro, bisognava considerare che il giovane era ferito, e avrebbe potuto cercare rifugio ovunque, persino nella sua stessa stanza. Jake estrasse la pistola, si coprì le spalle addossandosi al muro e aprì la porta con una spinta decisa. Essa si spalancò, fermandosi con un urto. Jake si mise in ascolto, ma non udì alcun suono. Allungò la mano oltre lo stipite e trovò l'interruttore della luce. Un'onda di luce si riversò nel corridoio. Entrò di slancio nella stanza. Non vide nessuno. Al centro della stanza, sul pavimento di linoleum, c'era un tappeto sfrangiato di colore marrone chiaro. Jake non scorse tracce di sangue né sul pavimento né sul tappeto. Addossati a ciascuna delle due pareti più lunghe, due letti singoli. Uno era in ordine, l'altro disfatto. Oltre la testiera di ciascun letto una scrivania con una sedia dallo schienale dritto. Sulla parete opposta alla porta, file di scaffali che da una certa altezza salivano verso il soffitto, e tra essi, due finestre. Jake chiuse la porta. Venne a trovarsi tra due pannelli di legno che capì essere i lati di due armadi gemelli. Se Roland era nella stanza, allora si stava nascondendo. Sotto il letto, o dentro uno degli armadi. Spalle alla porta, Jake si gettò a terra reggendosi su mani e ginocchia. Una valigia era riposta sotto ciascun letto. Esclusi questi, rimanevano soltanto gli armadi. Jake si rimise in piedi. Si lanciò in avanti con uno scatto fulmineo e roteò su stesso, fronteggiando gli armadi. La pistola corse rapida dall'uno all'altro. Tutti e due avevano le porte scorrevoli aperte, il che sottraeva alla
vista metà del loro interno. Jake si avvicinò all'armadio posto alla sua sinistra, si abbassò e sbirciò tra gli abiti appesi. Nessuno vi si nascondeva. Si spostò presso l'altro armadio. Qui le grucce erano vuote, facilitando l'ispezione dello scomparto in penombra. Assicuratosi che non vi erano pericoli nella stanza, rinfoderò l'arma. Se quest'ultimo era l'armadio di Roland, dov'erano finiti i suoi vestiti? Dunque Roland era già stato lì, aveva radunato tutte le sue cose e se l'era squagliata? Sembrava decisamente poco probabile che una persona nelle sue condizioni tornasse a prendersi i vestiti prima di tagliare la corda. E non c'erano tracce di sangue. Ricordandosi delle valigie, Jake si accovacciò accanto al letto più vicino e tirò fuori la valigia. Non era chiusa con un lucchetto. L'aprì. Era piena di vestiti piegati. La maglietta che vi stava in cima aveva una scritta impressa sul davanti. La prese, la spiegò con una scrollata e lesse, "I DEMONI MANGIACADAVERI VOGLIONO SOLO DIVERTIRSI". Jake lasciò cadere la maglietta e spinse la valigia sotto il letto, dov'era prima. Appariva ovvio che Roland avesse programmato un viaggio. Squagliarsela dalla città prima che l'atmosfera si fosse fatta troppo calda. Battere le strade come quel John Doe a bordo del furgone, uccidere ogniqualvolta se ne fosse presentata l'opportunità, lasciarsi alle spalle uno strascico di corpi smangiucchiati in tombe a fior di terra. Ma non era ritornato a prendersi la valigia. Non ancora. Non tornerà, decise Jake. Ha perso un occhio, forse il pollice di Alison gli ha procurato lesioni al cervello, ha due dita mancanti grazie alla pallottola di Rex Davidson. Ha una ferita da coltello nel torace, seppure superficiale. Come minimo deve trovarsi in stato di shock e indebolito dall'emorragia. L'ultimo pensiero che gli possa balenare in mente è quello di tornare qui a prendersi la valigia. Ammesso che, a questo punto, sia ancora in grado di pensare. Ammesso che non sia già morto. Jake si sedette sulla sponda del letto. Sulla parete di fronte a lui c'era il poster dell'attrice Heather Locklear. Prese a fissarne le gambe nude e snelle e la sua mente divagò alla deriva, approdando all'immagine di Alison. Forse lasciarla sola non era stata un'idea sensata. È al sicuro, tranquillizzò se stesso. Di questo puoi esserne certo. E se tornassi da lei?
La cosa migliore che puoi fare per lei è prendere Roland. Prima che muoia e che quel maledetto serpentoide trovi casa nella schiena di qualcun altro. La fotografia incorniciata di una famiglia era poggiata sulla mensola al di sotto del poster. Il giovane nella foto doveva essere Jason, il compagno di stanza di Roland, il ragazzo scomparso con Celia. Forse Roland tiene qui una sua foto, pensò Jake. Gettò un'occhiata dietro di sé. Il muro era tappezzato di fotografie macabre che sembravano ritagliate da riviste. La maggior parte dei soggetti ritratti non risultò familiare a Jake, riconobbe però Janet Leigh nella scena della doccia tratta dal film Psycho. Un altro era Freddy, l'assassino col cappello di feltro e un guanto dalle dita irte di lunghe lame, in Nightmare on Elm Street. Un grassone ripugnante con una motosega tra le mani ghignava poco più sopra. C'era anche un gruppo di zombie decomposti, uno dei quali stava sgranocchiando un braccio segato. Jake scosse la testa. Il serpentello non poteva scegliersi un soggetto più compatibile di quello. Pura coincidenza? Ricordò che stava cercando di procurarsi una fotografia di Roland. Sapere che faccia aveva sarebbe stato d'aiuto. Si alzò e gironzolò fino in fondo alla stanza. La scrivania era sgombra, a eccezione di un paio di forbici e una bottiglietta di colla. Si lasciò cadere sulla sedia e aprì il cassetto centrale. Rimase a fissarne il contenuto. Aveva trovato la sua foto di Roland. E ne fu disgustato. Porzioni di corpi fluttuavano intorno alla faccia atteggiata in una sordida espressione: una girandola di seni, torsi, natiche, vagine, e, in minor quantità, braccia e gambe. Non erano ritagli di riviste. Lo spessore della carta era quello delle istantanee. La sola parte dell'anatomia della ragazza che non incorniciava la testa di Roland, era il suo viso. Forse è Celia Jamerson, pensò Jake. Una goccia di sudore piovve sull'occhio sinistro di Roland. Jake l'assorbì passandovi sopra la manica, poi si asciugò la faccia. Tolse la fotografia dal cassetto. Sotto vi era riposta la cornice. Sicché Roland non l'aveva rimessa nella cornice una volta realizzata quell'opera maniacale. Il cestino per la carta straccia si trovava a metà strada tra le due scriva-
nie, accostato al muro. Jake vi si accovacciò davanti. Il fondo del sacchetto di plastica bianca era cosparso di ritagli. Lo capovolse, si sedette sul pavimento e prese a esaminare i ritagli di carta. Molte delle foto non comprendevano il volto della ragazza. Evidentemente, il fotografo si era curato maggiormente di riprendere le parti più in basso — e queste erano state asportate tutte quante, ritagliate lasciando spesso intatte le membra. Jake trovò tre fotografie che mostravano il volto della ragazza. In tutte e tre la ragazza era la stessa. E non era Celia. Non era morta. Almeno non al momento in cui aveva posato. Sorrideva lascivamente; si leccava le labbra. In una si succhiava il dito medio. Jake s'infilò nella tasca della camicia una delle tre foto, raccolse gli altri monconi di foto e li gettò nuovamente nel cestino. L'indomani mattina si sarebbe procurato un mandato di perquisizione. La stanza sarebbe stata fotografata e setacciata centimetro per centimetro; ogni oggetto sarebbe stato esaminato e catalogato, ogni superficie minuziosamente osservata e le eventuali impronte prelevate, un aspirapolvere avrebbe risucchiato ogni capello, pezzetto di stoffa e altre particelle di materiali tali da costituire possibili indizi o prove per incriminare Roland. Jake prese con sé la foto 8x10 e uscì dalla stanza. Allontanatosi da Baxter Hall, Jake pattugliò le strade intorno al campus, cercando il maggiolino giallo con la bandiera sull'antenna, senza, peraltro, aspettarsi veramente di trovarlo, e desiderando, invece, di tornare a casa per assicurarsi che Alison non fosse in pericolo. Sapeva, però, che il suo dovere era stanare Roland. Doveva perlustrare prima le strade nei dintorni del campus, e poi l'Oakwood Inn. Il solo pensiero di andare laggiù e di entrare nel ristorante buio lo gettava in preda al panico. Intanto, più setacciava quelle strade, più si convinceva che il ristorante fosse l'unico posto in cui Roland poteva essersi nascosto. La creatura maledetta sembrava avere un'affinità con quel luogo. Era lì che aveva deposto le sue uova. Jake sapeva che stava solo perdendo tempo. Deviò per Summer Street, che costeggiava il campus a nord. Ecco cosa faccio, decise, vado a casa e indosso il mio bell'equipaggiamento prima di andare laggiù. Non ci vado all'Oakwood senza gli
stivali e i pantaloni di cuoio. Roland potrebbe essere morto. E il mostro in circolazione. Così avrò anche la possibilità di vedere Alison. Si domandò se si fosse già addormentata. Lanciò un'occhiata a una strada laterale e scorse una Volkswagen presso il cordolo del marciapiede. Il piede affondò sul freno. Controllò lo specchietto retrovisore. Nessuno dietro di lui. Procedette in retromarcia, si fermò e osservò l'automobile. Era parcheggiata sotto un lampione, ma la luce era spenta, e la macchina era immersa nell'oscurità. Jake non riuscì a distinguerne il colore. Ma sull'antenna sventolava una bandierina. È lei. Col cuore in tumulto, Jake sterzò, invertendo la direzione di marcia. Avanzò direttamente verso la macchina. I fari puntati su di essa la illuminarono. Gialla. C'era qualcuno al posto di guida. Jake guardò oltre il parabrezza. E restò agghiacciato. L'uomo nella VW non si muoveva. Il lato sinistro della faccia era nero nel bagliore dei fari. Doveva essere Roland. Jake aprì la portiera della sua macchina. Si accosciò dietro di essa, estrasse la rivoltella e prese la mira. "Scendi dalla macchina!" gridò. Roland non si mosse. Jake ripeté il comando. Roland restò immobile. Era morto? Privo di sensi? O fingeva di esserlo? Jake uscì allo scoperto. Con la rivoltella puntata contro Roland, avanzò lentamente. Cercò di non distogliere lo sguardo da Roland, ma un impulso irresistibile attirava i suoi occhi verso l'asfalto. Si rammaricò di non aver messo gli stivali. Pur protette dai calzini, le caviglie gli sembravano nude. Si ricordò del machete nel bagagliaio della sua macchina. Si arrestò e valutò se fosse il caso di tornare indietro a prenderlo. Il paraurti anteriore della VW non distava da lui più di due metri. Fissò l'oscurità sotto di esso. Poi gli occhi corsero a Roland. L'occhio destro era aperto. Pareva che lo stesse guardando. Quest'uomo è morto.
Quel fottuto serpente può essere in qualsiasi posto. Sotto la macchina, per esempio, a aspettare che mi faccia più vicino. Vicino abbastanza per... Un formicolio gli fece accaponare la pelle sulla nuca. Jake indietreggiò. Camminando obliquamente, senza voltarsi, raggiunse la parte posteriore della macchina e affondò una mano in tasca in cerca delle chiavi. Trovò quella che apriva il bagagliaio. A tentoni, la inserì nella serratura e la fece girare. Il bagagliaio si aprì di scatto, occludendogli la visuale. Agguantò alla svelta il machete e riabbassò subito il portellone. Roland non si era mosso. E nessuna viscida creatura serpentiforme stava strisciando sull'asfalto verso di lui. Col machete nella mano destra e la pistola nella sinistra, Jake balzò sul cordolo e avanzò verso la portiera del lato del passeggero della Volkswagen, finché giunse abbastanza vicino da vedere che i finestrini erano chiusi. Sfrecciò allora verso il centro della strada. Neppure i finestrini del lato di guida erano aperti. Fosse Roland vivo o morto, comunque il serpente era ancora dentro la macchina. Sì, probabile. O dentro Roland, o si aggirava nell'abitacolo, intrappolato. Jake si avvicinò al finestrino del guidatore e sbirciò all'interno. Intravide il buco aperto, occupato prima dall'occhio sinistro di Roland, e distolse subito lo sguardo. Roland aveva le spalle appoggiate allo schienale del sedile, il davanti della camicia insanguinato, la testa reclinata leggermente all'indietro sul poggiatesta. La sua posizione impediva a Jake di controllargli la nuca. I fari puntati sul maggiolino lasciavano in ombra gli spazi inferiori all'interno dell'auto. Se la creatura era sui sedili o sul pavimento, Jake non l'avrebbe vista. C'era un solo modo per scoprire se era ancora annidata sulla spina dorsale di Roland: aprire la portiera, spingerlo in avanti, e guardare. Niente da fare. Neanche per sogno. Jake rimise la pistola nella fondina. Senza perdere d'occhio Roland, camminò a ritroso verso la sua macchina, vi s'infilò un istante, giusto il tempo per prendere un pacchetto di fiammiferi dal cruscotto, poi ridiscese. Andò di nuovo al bagagliaio e prese la tanica piena di benzina. Versò il combustibile sul cordolo accanto alla Volkswagen, sull'asfalto
dietro la macchina e vicino al lato del guidatore, poi oltre la sezione anteriore, completando il circolo. Prese quindi a cospargerne la macchina, innaffiandola col liquido pungente e disegnando scie che si congiungevano all'anello di benzina che circondava l'auto. Infine si accovacciò e gettò dell'altro liquido nello spazio sotto il telaio. Si fermò quando sentì che la tanica era quasi vuota. Voleva conservare un po' di benzina per sé. Tanto per precauzione. Tappò di nuovo la tanica, poi si affrettò sulla carreggiata, saltò oltre il circolo bagnato e depose la tanica dietro di lui. Si piegò sulle gambe, accese un fiammifero e lo accostò all'asfalto bagnato. Una bassa fiamma bluastra sfumata di rosso e arancio si allungò nelle due direzioni opposte. Incrociò tracciati intersecanti e si srotolò verso la macchina. Jake raccolse la tanica e si fece indietro. Quando ebbe raggiunto il lato opposto della strada, la macchina era già una pira divampante. Ne sentiva il calore lambirgli i vestiti e la faccia. Il rogo illuminò la notte, scintillando sulle foglie degli alberi vicini, fiammeggiando sui muri e sulle finestre del palazzo alle sue spalle, balenando sul cofano e sul parabrezza della macchina di Jake. Un'altra automobile, parcheggiata dietro la VW sembrava distante abbastanza da non rischiare di venirne danneggiata. Jake si chiese se gli convenisse spostare la sua macchina. O la sua persona. Sibili e scoppietii si levavano dalle fiamme. Poi uno schiocco secco e acuto fece sobbalzare Jake. Udì un rumore di vetro frantumato sull'asfalto. "Cristo," mormorò. Si catapultò in avanti finché non incontrò la barriera di fuoco. Schermandosi gli occhi, scrutò tra le fiamme l'ampio squarcio cuneiforme apertosi nel finestrino del guidatore. Non ne uscì nulla. Sotto i suoi occhi, intanto, le fiamme avvilupparono Roland. Lingue di fuoco serpeggiarono intorno al suo corpo, sorsero dal suolo e s'inerpicarono fino al suo viso, incendiandogli i capelli. Jake ebbe un conato di vomito quando la faccia si annerì e prese a gorgogliare, ribollendo. Poi il fumo denso celò l'orrore. Jake udì voci distanti esplodere in allarmati "Al fuoco!". E altri finestrini andare in frantumi. Si precipitò allora intorno alla macchina e brandendo il machete trapassò
le fiamme col suo sguardo abbagliato e controllò uno dopo l'altro i finestrini infranti. Spirali di fumo si sprigionavano dalle aperture. Ma nient'altro ne venne fuori. Non ancora. Il serbatoio della macchina esplose con un boato ovattato. Jake incespicò all'indietro quando fu investito dall'onda rovente. Un aculeo di vetro gli sfiorò una guancia. Un altro gli pugnalò la coscia. Lo estrasse. La macchina stava ancora dondolando per l'impatto. L'inferno. Il bastardo è finito arrosto, pensò Jake. Arrosto. È spacciato. Per la prima volta si accorse che un gruppetto di persone stavano osservando la scena dalla parte opposta della strada. Si voltò. Altre erano sul prato antistante il palazzo condominiale. Mosse un passo verso due giovani, probabilmente due studenti. Uno indossava un accappatoio, l'altro solo un paio di mutandine. Entrambi indietreggiarono. Non c'è da stupirsi, pensò Jake. Non sono in divisa, ho in mano questo bel po' di machete. "Sono un poliziotto," gridò. "Uno di voi due telefoni ai pompieri." "Li ho già chiamati io," disse una moretta in pigiama. "Spero che non ci sia nessuno dentro la macchina." "Nessuno vivo," disse Jake. "Com'è iniziato?" chiese il ragazzo in boxer. Jake scosse il capo. Poi si allontanò. Il fuoco stava ancora divampando ferocemente. Parecchi degli spettatori sul lato opposto della strada stavano avanzando poco alla volta per una visione migliore. Quando Jake si precipitò in strada alcuni di essi arretrarono e una giovane coppia fuggì addirittura, la ragazza tra urla isteriche. Evidentemente non avevano afferrato che si trattava di un agente della polizia. O non se la sentivano di fidarsi di un uomo che, piedipiatti o no, corresse verso di loro brandendo un machete. "State tutti lontani," gridò Jake. "I pompieri stanno per arrivare." "C'è qualcuno nella macchina!" gridò un uomo, indicandola. "State indietro," intimò Jake. Una donna si allontanò, si piegò sul busto e vomitò. "Fatevi tutti indietro, forza, tornate sul marciapiede. Fate spazio alle autopompe." Una coppia ignorò l'ammonimento. I due stavano in piedi vicino alla tanica di benzina di Jake. La stavano guardando con espressione accigliata mentre si scambiavano commenti sottovoce. La ragazza indossava la giac-
ca di un pigiama, il ragazzo i pantaloni dello stesso pigiama. La ragazza si accovacciò e allungò una mano sulla tanica. Oh, merda, pensò Jake. "Non toccarla,'' ordinò seccamente. "È una prova. Il colpevole dell'incendio potrebbe aver lasciato le sue impronte." Bravo, si complimentò con se stesso. E poi, Ma che pezzo di scemo sei, perché non hai rimesso la tanica nel bagagliaio? Mentre la ragazza si allontanava, Jake fece scivolare la lama del machete nel manico della tanica, la sollevò e la trasportò verso la sua macchina. Meglio non lasciarla in vista. Non sarebbe stato altrettanto facile darla a bere ai ragazzi del corpo dei vigili del fuoco, e lui avrebbe certamente passato un brutto quarto d'ora a cercare di spiegare in maniera plausibile perché aveva dato fuoco a un veicolo con un sospetto ancora a bordo. La tanica e il machete erano già al sicuro dentro il bagagliaio quando Jake sentì le sirene. I pompieri presero d'assalto la macchina con gli estintori chimici. Sfondando la barriera di fuoco, estrassero la carcassa di Roland dal sedile e la trascinarono sulla strada. Due uomini la irrorarono, avvolgendola con la nebbia chimica degli estintori, poi la lasciarono lì e si unirono ai compagni per debellare l'incendio della macchina. Jake guardò il cadavere. Stava ancora fumando. Una carcassa carbonizzata e informe che a stento conservava vaghe tracce di sembianze umane. Se non fosse stato a guardare quando avevano estratto il corpo dalla macchina, non avrebbe saputo dire se fosse disteso faccia in su o faccia a terra. Jake sapeva che la carcassa giaceva faccia in su. Faccia. Non aveva una faccia. Né le orecchie, o i genitali. La superficie era una crosta nera punteggiata di schiumosi grumi bianchi, residuo degli estintori. Secrezioni fluide sbavavano da fessure nella crosta. Quando lo strepito degli estintori cessò, Jake udì lo sfrigolio che si levava dal cadavere. Lo stesso sfrigolio che accompagna un arrosto di costolette. L'odore, però, era diverso. Jake si allontanò di qualche passo, lottando per non vomitare. Comparve allora un pompiere che stese una coperta sul cadavere. Il fumo esalò da sotto la coperta. Jake non distolse lo sguardo.
Quando giunse il furgone del coroner il fuoco era stato spento e la macchina era ormai solo un relitto incenerito. Gli uomini rimasero a bordo del furgone, a fumare sigarette, a aspettare, secondo le istruzioni, l'arrivo di Applegate. Steve non tardò a farsi vivo sulla sua Lincoln Continental. Ne scese. Indossava una tuta da ginnastica e portava con sé la valigetta da medico. Raggiunse subito Jake. "Che sta succedendo?" "Questo è il nostro uomo," disse Jake, accennando con la testa al cadavere coperto. "Qualche ora fa ha ucciso una ragazza e ha tentato di far fuori anche la sua compagna di stanza. Ha ucciso Rex Davidson. Ci sono buone possibilità che avesse addosso il serpente quando ha commesso i delitti." "Oh, fantastico," borbottò Steve. "Lasciami indovinare: vuoi che mi esibisca in un'operazione di chirurgia esplorativa 'in diretta' per stabilire se è dentro di lui."' "Risposta esatta," disse Jake. "Merda." Steve si avvicinò al furgone e parlò con gli uomini a bordo attraverso il finestrino aperto. Quelli scesero. Protetti da guanti, scoprirono il corpo e lo sollevarono, infilandolo in un apposito sacco. Ne chiusero la cerniera. Un uomo prese una barella con le gambe pieghevoli dal retro del furgone. Depositarono il sacco coi resti carbonizzati sulla barella, la spinsero fino al furgone e ve la caricarono. "Devo esibirmi in un 'assolo'?" chiese Steve, rivolgendosi a Jake. "O posso contare sul piacere della tua compagnia?" "Non ti mollerò." "Saggia decisione. Congratulazioni. Fumati un sigaro." Accesi i sigari, Jake seguì Steve nel retro del furgone e chiuse gli sportelli. Le luci rimasero accese. Il fumo dei sigari fu aspirato dai fori dello sfiatatoio posto nel soffitto. Steve s'inginocchiò a un lato del sacco contenente il cadavere, Jake ai suoi piedi, spalle alle portiere. Estrasse la rivoltella. "Sì," approvò Steve. "Stavo per suggerirtelo." "Probabilmente la creatura è morta," bisbigliò Jake. "Se è dentro di lui." "Sarei d'accordo con te se fosse rimasta tra l'epidermide e la colonna vertebrale. Ma supponiamo invece che quando la situazione ha cominciato a surriscaldarsi il nostro amico si sia fatto un viaggetto nello stomaco del tizio. Ha attraversato lo stomaco di Smeltzer, è ovvio perciò che non ha
problemi a superare la barriera degli acidi gastrici." "Quest'uomo è stato tra le fiamme almeno un quarto d'ora," gli fece notare Jake. Steve inarcò un sopracciglio. "Bruciate di fuori, crude di dentro. È così che preferisco le bistecche ai ferri." Jake guardò Steve socchiudendo gli occhi alle spirali di fumo che si levavano dai sigari accesi. "Sicché, se quel coso si è rifugiato in profondità, c'è la possibilità che sia rimasto incolume?" "Molto probabilmente sano come un pesce." "Merda," borbottò Jake. Col sigaro imprigionato tra i denti, Steve aprì la sua valigetta e s'infilò un paio di guanti da chirurgo. Abbassò quindi la cerniera del sacco. A dispetto del sistema di ventilazione del furgone e dell'aroma che si effondeva dai sigari, il puzzo che esalò dal cadavere carbonizzato soffocò Jake. Spalancò la bocca in un conato di vomito e strabuzzò gli occhi, ma continuò a osservare con vigile attenzione l'apertura del sacco e a stringere con mano ferma la rivoltella. Steve sembrò immune da reazioni di ripulsa. Si chinò sui resti. Con la punta di un dito inguantato, stuzzicò un cratere apertosi pochi centimetri al di sopra dell'inguine. "Hanno sparato a quest'uomo?" chiese, le parole pronunziate in maniera alterata per via del sigaro piazzato tra i denti. "Solamente a una mano." "Questo potrebbe essere il foro d'uscita della creatura." "Non può averlo fatto il fuoco?" Steve alzò le spalle. Spinse il dito nell'orifizio. La superficie carbonizzata al centro del cratere si sbriciolò, e il dito affondò in profondità. Sondò tutt'intorno, poi, "No," sentenziò. Riestrasse il dito. Afferrò allora l'estremità opposta del sacco, lo sollevò e lo tirò verso di sé. Il corpo rotolò fuori della custodia, urtando con la faccia sulla barella. Ne caddero abbondanti scaglie nere. Jake passò la rivoltella alla mano sinistra e ve la lasciò il tempo necessario a asciugarsi la destra sopra una gamba dei pantaloni. Gli occhi di Steve indugiarono sulla schiena del cadavere. Poi il medico trasse un bisturi dalla valigetta. Volse gli occhi alla canna della pistola di Jake. "Cerca di non beccarmi le mani se ci troveremo di fronte un visitatore inatteso. Mi sono di grande utilità." "E il foro d'uscita sull'altra parte?" "Se era un foro d'uscita."
"Grandioso." "Pronto?" Jake posizionò lentamente il dito sul grilletto. "No, ma va' avanti lo stesso." Steve premette la lama del bisturi sulla nuca, ve la fece penetrare e poi scivolare verticalmente verso il basso. "Gesù," mormorò Jake, mentre osservava la crosta di pelle che si raggrinziva lungo i margini dell'incisione. Nulla schizzò fuori dal taglio nella schiena. Steve riportò la lama alla nuca. Inserì la punta nella fessura e la rigirò tutt'intorno. "Credo proprio che avessimo ragione," disse. Sorrise a Jake. "Bada solo che non gli sbuchi fuori dal culo." "Grazie." Messo da parte il bisturi, Steve usò entrambe le mani per allargare l'incisione. Lo strato esterno di nero si crepò e si sfaldò producendo un suono simile a quello delle foglie secche quando vengono calpestate. Steve vi affondò dentro tutte le dita della mano destra. Dopo che ebbe esaminato l'interno della ferita per alcuni secondi, disse, "Non c'è dubbio, la creatura era qui. Riesco a sentire una netta separazione tra lo strato epidermico inferiore e le fasce muscolari." Riprese il bisturi e fece scorrere la lama lungo il resto della spina dorsale. Esplorò ancora con le mani. "Sì," confermò. "E così stava dentro di lui, e ora se n'è andato," disse Jake. "Già, a quanto pare., Si è salvato passando attraverso l'apertura nello stomaco. È la mia opinione professionale. Naturalmente la creatura potrebbe trovarsi ancora dentro di lui... acquattato in silenzio, per così dire. Non lo sapremo per certo se prima non avrò compiuto un'autopsia completa. Lo farò rimettere nel sacco dai ragazzi e lo terremo in frigo. Poi ti chiamerò quando sarà il momento e tu verrai come un fulmine per assistere al grande evento. Però, come ti ho già detto, a questo punto sono quasi certo che non si trovi dentro di lui." "Se non c'è," disse Jake, "la creatura è un mucchietto di cenere dentro la macchina oppure... oppure no." "E sta cercando una nuova casa," disse Steve. "O l'ha già trovata," aggiunse Jake. CAPITOLO TRENTATREESIMO
Lo squillo di un campanello svegliò Alison. Sollevò il viso dal cuscino e girò la testa. Dopo un momento di confusione, realizzò che stava sdraiata sul divano nel soggiorno di Jake. Le lampade erano accese. Dalle tende non filtrava alcuna luce, sicché capì che non s'era ancora fatto giorno. Il campanello suonò di nuovo. Alison scostò le lenzuola e si drizzò a sedere. Una bretella della camicia da notte scivolò giù da una spalla. La rimise a posto. La porta d'ingresso era aperta di pochi centimetri, la catena di sicurezza inserita e ben tesa. Jake, si ricordò, le aveva raccomandato di barricarsi in camera da letto. Ma lei, non volendo privarlo del suo letto, aveva scelto di dormire sul divano. E tuttavia aveva preso le precauzioni da lui suggeritole, infatti aveva agganciato la catena di sicurezza per impedirgli di entrare mentre lei dormiva. "Chi è?" chiese Alison. "Jake." Una cintura con una pistola custodita nella fondina oscillò attraverso l'apertura e cadde sul pavimento. "Ora mi allontano. Tu prendi il fucile, togli la catena, poi tirati indietro e tienimi sotto tiro." "Solo un minuto." Alison prese il maglione che aveva poggiato sul tavolino e se lo infilò alla svelta, abbottonandolo solo al centro perché non si aprisse sui seni. Il fucile da caccia stava ritto, appoggiato al tavolino. Lo prese e si avvicinò alla porta. La spinse, chiudendola. Abbassò gli occhi su se stessa. La camicia da notte era terribilmente corta. Avvampò in viso. Me l'ha già vista addosso, pensò. Cavolo, mi ha visto solo con questa. Fece scorrere la catena fino all'estremità del binario, la lasciò cadere e aprì la porta. Jake era in piedi sul prato. Scosse la testa. "Così non mi tieni sotto tiro." Alison alzò le spalle e sollevò dal pavimento il calcio del fucile. Strinse l'arma con tutt'e due le mani e si allontanò, ma senza puntarla contro di lui. Jake entrò in casa e chiuse la porta. Un miasma di fetide esalazioni entrò con lui. Più di due metri li separavano, e malgrado ciò Alison sentì puzzo di benzina, di fumo di sigaro, di sudore e un tanfo dolciastro e ripugnante che non riconobbe. Gli abiti e la faccia di Jake erano sporchi di fuliggine. Una gamba dei pantaloni beige era incrostata di sangue secco e uno strappo si apriva all'al-
tezza della coscia. "Che cosa le è successo alla gamba?" "Vetro volante. Niente di grave." Si tirò la camicia fuori dai pantaloni, la sbottonò e se la tolse. Poi si girò. Alison si avvicinò a lui. Il puzzo si fece più pungente, ma la schiena del poliziotto era okay. Allungò la mano sinistra e fece scorrere le dita lungo la schiena. Non sentì alcuna protuberanza. La pelle di Jake era fresca e umida. "A parte la puzza," gli disse, "è tutto a posto. Cosa è successo?" Jake si voltò di fronte a lei. "Ho trovato Roland. È morto. Era già morto quando l'ho trovato." Alison annuì. Sentì un moto di nausea, e non riuscì a capire se fosse una conseguenza del tanfo stomachevole che mandava Jake o se a suscitarlo fosse stata la notizia della morte di Roland. L'ho ucciso io, pensò. È un bene che sia morto. L'ho ucciso io. È stata legittima difesa. Meritava di morire dopo quello che ha fatto a Helen... e che forse ha fatto a Celia. "È morto per la ferita all'occhio?" mormorò. "Aveva una brutta ferita allo stomaco quando l'ho trovato. Sospetto che sia stata quella a dargli il colpo di grazia." "Una ferita allo stomaco? Sicché non sono stata io a ucciderlo?" "Non sei stata tu." "Dio ti ringrazio." "Sarà meglio che faccia una doccia prima che mi svieni tra le braccia. Sei pallida come un lenzuolo." Alison annuì. "Ma cos'è questo tanfo?" "Ho trovato Roland nella sua macchina, parcheggiata in una strada secondaria dalle parti del campus. Non volevo rischiare di imbattermi nel... ti ricordi, quella specie di serpente di cui ti ho parlato." "Dubito che riuscirei a dimenticarmene." "Beh, ho cosparso di benzina la macchina di Roland e le ho dato fuoco. Con lui dentro." "Cristo." "L'idea era di uccidere il serpente. Dopo, ho chiesto al coroner di sottoporre Roland a un immediato esame necroscopico per vedere se lo avevamo beccato." Jake scosse la testa. "Non era dentro di lui. Pensiamo che sia uscito dallo stomaco. Ciò spiegherebbe la ferita che probabilmente lo ha stroncato. La creatura sapeva che Roland non aveva più molto da campare,
non gli serviva più." "È uscito dal suo corpo... come il mostro in Alien?" "Una cosa del genere. La nostra speranza è che Roland si trovasse dentro la macchina quando è successo. Tutti i finestrini erano chiusi. Perciò, se il mostro era intrappolato nella macchina, a quest'ora dovrebbe essere morto anche lui. Ho esaminato quel che è rimasto della macchina, ma non ho trovato tracce della creatura. Questo, però, non significa granché. Potrebbe esserne rimasto solamente un mucchietto di cenere." "Cosa bisogna pensare, allora? Che sia morto, o no?" "Presumiamo che sia vivo finché non sarà accertato il contrario." "E se è vivo davvero?" "Allora cercherà un altro individuo nel quale rintanarsi, e noi saremo tornati al punto di partenza. Mi dispiace tanto. Vorrei poterti dire che è tutto finito." "Ma forse lo è." "Scommetterei un mese di stipendio che quel maledetto coso è morto. Ma non ci scommetterei la tua vita." Si stropicciò la camicia sulla faccia, spargendo fuliggine e sudore. "Adesso devo proprio farla quella doccia." Passò oltre Alison e si diresse al corridoio. Alison sentì lo scrosciare dell'acqua e solo allora si rese conto di non essersi mossa da quando Jake si era allontanato. Si trascinò dietro il fucile fino alla porta e lo appoggiò al muro. Riagganciò la catena di sicurezza. Le fetide esalazioni ammorbavano ancora la stanza. Andò in cucina a cercare delle candele, e ne trovò alcune in un cassetto. Ne accese tre, fece colare la cera sciolta su dei piattini di carta e ve le sistemò sopra, ben ritte. Portò quindi le candele nel soggiorno e le posò sul tavolino da caffè. Sedutasi sul sofà, appoggiò le spalle allo schienale e distese i piedi sul tavolino, tra due candele. Si domandò se Jake sarebbe tornato lì dopo la doccia. Magari avrebbero preso un drink insieme. Anche lui aveva avuto una notte da incubo: dar fuoco a Roland, vederlo squartare sotto i suoi occhi. Quel puzzo abominevole, la cosa peggiore... E si era persino scusato con lei per non averle portato notizie migliori. Forse non avrebbe gradito la vista delle candele. Potevano ricordargli quel che era stato poco prima. Alison annusò l'aria. Gli odori sgradevoli sembravano smorzati. Soffiò sulle candele e le riportò in cucina. Poi andò alla porta d'ingresso. L'aprì quel tanto che le bastò a sbirciare fuori, la richiuse, tolse la catena di sicu-
rezza e la spalancò. La brezza aveva un profumo meraviglioso. Le scompose i capelli. Era fresca e piacevole sul suo corpo. Si aprì il maglione. Il soffio della brezza la carezzò attraverso la camicia da notte, le lambì le gambe nude. Le diede lo stesso piacere che le aveva donato qualche ora avanti, quando davanti alla finestra della sua camera aveva offerto il suo corpo nudo al bacio del vento. Ma il piacere svanì all'istante, soffocato dal ricordo atroce di quando s'era svegliata trovandosi Roland addosso. Chiuse la porta con un gemito. Si appoggiò a essa, la testa sulle braccia incrociate. "Alison?" Si voltò. Jake stava sulla soglia del soggiorno, indossava un accappatoio. "Va tutto bene?" le chiese. "Mica tanto. E lei?" "Sto meglio." "Stavo solo facendo entrare un po' d'aria fresca." Alison vide lo sguardo di Jake scivolare sul suo corpo, per poi risalire al viso. Giusto in tempo per vederla arrossire. "Beh, ora è meglio andare a nanna," disse Jake. "Non vuoi proprio fare cambio? Sono sicuro che il mio letto sarebbe molto più comodo per te." "Il divano andrà benissimo. Davvero." "Come vuoi." Jake si strofinò il mento. "A domani mattina, Alison. Dormi bene, mi raccomando." "Sì. Altrettanto." Jake si allontanò. Alison abbassò gli occhi sulla camicia da notte. Gli hai dato un bel po' di roba da vedere, pensò. E se n'è accorto anche lui, ma non l'ha trovato divertente. Meno male. Sarebbe stato imbarazzante se lo avesse interpretato come una specie d'invito. Era una specie d'invito? si domandò. Perché non mi sono preoccupata di coprirmi col maglione prima di voltarmi? Penserà che l'ho fatto di proposito. Scommetto che proprio per questo se n'è andato così in fretta. È entrato nella stanza, forse voleva fare due chiacchiere, mi ha vista così, e ha optato per una rapida ritirata. L'ho spaventato. Non illuderti, pensò. Se n'è andato perché ha avuto una giornata lunga e difficile, ed è stanco. Probabilmente, in un caso o nell'altro, non ha dato alcuna importanza né a me né alla mia camicia da notte. Si tolse il maglione. Restò dov'era a piegarlo lentamente, contemplando
il corridoio. Probabilmente Jake era già a letto. Alison si mosse silenziosamente nella stanza, spegnendo le luci. Non occorreva lasciarle accese ora che Jake era lì. Era un sollievo sapere che fosse in casa, a pochi secondi da lei. Alison si distese sul divano e tirò su le lenzuola. Non doveva scappar via in quel modo, pensò. Dovevamo rimanere a parlare un po'. Immaginò di percorrere il corridoio oscuro fino alla stanza di Jake. Di chiedergli se stesse dormendo, e dirgli che non voleva restare sola, non ancora. Perché non t'infili nel suo letto giacché ti trovi? Sicuro. Hai appena scaricato Evan perché il suo unico interesse era scopare e adesso sei eccitata al punto da voler andare a letto con un uomo che conosci appena. Non è vero. Non sono eccitata. Non lo farei mai. Perché cavolo ci sto pensando, dopo tutto quello che è successo stanotte? A cosa preferiresti pensare in alternativa — a Helen, per esempio? Vide Helen distesa sul suo letto, gli occhiali storti... E fu come essere afferrati dalla morsa possente di pugni glaciali. Sussultò, ansimando. I suoi occhi vagarono nell'oscurità. Quando Jake si svegliò, la sua stanza risplendeva di luce. Socchiuse gli occhi al bagliore e lanciò un'occhiata alla sveglia sul comodino. Quasi le dieci. Ma di quale giorno? Lunedì. Rotolò sull'addome e spinse la faccia nel soffice tepore del guanciale. Devi alzarti, pensò. Devi — cosa? Devi ritornare dove hai trovato Roland, fare un giro di controllo nella zona, parlare con la gente lì intorno. Per quale motivo? Per scoprire se hanno visto qualcosa. Un serpente nell'erba. Merda. Sembrava così inutile. Però, devi pur fare qualcosa. Assicurati che la creatura sia morta, ecco cos'hai da fare. Perché se non è morta, Alison... Alison è qui. Sta dormendo sul divano. E io solo nel mio letto. Che virtù. Congratulazioni, Corey. Ti sei lasciato sfuggire la tua grande occasione. Non sarebbe stata una cosa giusta. Significava approfittare di lei. Lo so, rispose a se stesso. Figurati se non lo so. Stanotte ho preso sonno ripetendomi quanto sarebbe stato sbagliato... e quanto sarebbe stato me-
raviglioso. Seppure fossimo rimasti stretti l'uno all'altro, senza fare di più, sarebbe stato bellissimo. Ricordò quanto piccola e vulnerabile gli fosse sembrata Alison seduta dietro la scrivania di Barney, con le mani strette attorno alla tazza di caffè come fosse un talismano capace di allontanare da lei ogni male. La ricordò seduta nella sua macchina, la camicia da notte che a malapena le copriva le gambe. E quando lui aveva finito di fare la doccia e l'aveva vista col maglione sbottonato. Il pene di Jake stava spingendo fastidiosamente contro il materasso. Rotolò sulla schiena per alleviare la pressione. Ma che carino, pensò. Il valente cavaliere dall'armatura scintillante ha una bella erezione. Scusami, Alison. Alison. Bel nome. Alison Sanders. Si domandò se la ragazza stesse ancora dormendo. Sarebbe stato bello vederla dormire sul divano, probabilmente avrebbe avuto l'aria innocente e serena di una bimba. Beh, certo non poteva intrufolarsi di soppiatto nel soggiorno per guardarla. Cos'avrebbe pensato se si fosse svegliata in quel momento? Vai a preparare il caffè e portane una tazza a lei. Ce ne staremo un po' seduti a parlare. Alison avrà un'aria assonnata, i capelli scompigliati. Forse sarà avvolta nel lenzuolo, così nessuno dei due proverà imbarazzo per via della camicia da notte. Perché non le porti il tuo accappatoio? In questo modo capirà che le tue intenzioni sono assolutamente oneste. Jake scostò il lenzuolo da un lato. Rotolò giù dal letto e si alzò in piedi. Indossava i pantaloni del pigiama, il torso era nudo. Benché l'erezione si fosse ridotta, il davanti dei pantaloni sporgeva ancora. Si diresse verso il cassettone, intenzionato a indossare la giacca del pigiama prima di avventurarsi fuori dalla stanza, e si arrestò bruscamente ai piedi del letto. Alison stava dormendo sul pavimento. Giaceva rannicchiata su di un fianco, un guanciale sotto la testa, i piedi nudi che sporgevano fuori del lenzuolo tirato fino a coprirle le spalle. Jake rimase a fissarla, sbigottito dalla sua presenza. A meno che non fosse una sonnambula, Alison doveva essere andata lì di proposito, desiderando il conforto di trovarsi vicino a lui. Doveva essere stato penoso per lei restare sola nell'altra stanza. Aveva sentito il bisogno di un amico. E così era entrata furtivamente nella sua stanza, e si era accoccolata sul pavimen-
to per stargli vicino in segreto. Sarei dovuto rimanere con lei, pensò Jake. Avrei dovuto capirlo. Si accosciò davanti ad Alison. Ciocche di capelli le pendevano su un lato del viso. La bocca era aperta, l'angolo inferiore sepolto nel guanciale. L'espressione serena che aveva nel sonno ricordò a Jake la sua piccola Kimmy. Ma Kimmy non aveva mai avuto la guancia e la mascella gonfie e livide come Alison. Una lividura sul braccio l'aveva avuta, però, pensò Jake. Gliel'aveva fatta vedere la sera prima quando erano andati da Jack-in-the-Box. Avrei dovuto regalare a Barbara una bella lividura sul suo braccio. Ci provi un'altra volta a far del male a Kimmy, e ci sarà una sentenza del tribunale. Quella puttana. Come ha potuto picchiare in quel modo sua figlia? Com'è possibile che una persona qualunque faccia del male a una bambina come Kimmy? O a una ragazza come Alison. Quello che lo ha fatto è morto. Un ammasso di carne bruciata. Quel bastardo ha fatto la fine che si meritava. L'ha presa a pugni, ha cercato di violentarla e di ucciderla. Jake tese una mano e le sfiorò delicatamente i capelli, scostandoglieli dal lato gonfio e arrossato del viso. Li fece scivolare dietro l'orecchio. "Buon giorno," disse Alison, con voce bassa e un po' roca. Girò la testa e rotolò piano all'indietro finché il sedere andò a toccare il bordo del letto. Sorrise pigramente a Jake — ma solo col lato destro del viso. La parte sinistra, brutalmente castigata, si mosse appena. "Non volevo svegliarti," disse Jake. "E non l'ha fatto. Ero già sveglia da un po'." "Facevi la parte del morto, eh?" "Un pochino. Troppo malridotta per muovermi." "È duro il pavimento," disse Jake. "L'ultimo dei miei problemi. Mi sento come se fossi stata investita da un carrarmato." "Hai l'aspetto di una che sia stata investita da un carrarmato." Il lato destro delle labbra si sollevò scoprendo i denti. "Sono tanto orribile?" "No, non direi. Tutto sommato, sei molto carina. Hai dormito bene laggiù?" "Tutto sommato, non troppo male. Lei russa, lo sa?"
"Mi dispiace." "Oh, a me non dispiaceva, anzi. Mi ricordava continuamente che non ero sola." "Se tu... sarei rimasto sul mio lato del letto, capisci. Con le mani a posto. Specialmente se non mi fossi svegliato." Alison sorrise appena con la metà del viso ancora mobile. Poi il sorriso si dissolse e lo guardò fisso negli occhi. "Non si sa mai," disse. "Non si sa mai. Ti va di fare colazione?" "Certo." "Puoi infilarti il mio accappatoio. È sulla sedia vicino alla porta." "Grazie." Jake si alzò e andò al cassettone. Ne prese la giacca del pigiama. Con le spalle rivolte ad Alison, la indossò e l'abbottonò. Poi tornò a guardarla. Era seduta a gambe incrociate, il lenzuolo disteso in grembo e sulle ginocchia. Abbracciava il cuscino per coprirsi i seni. "Se ha in mente qualcosa di più elaborato di un caffè istantaneo o di un succo di frutta sarei lieta di cimentarmici. Così avrei la possibilità di fare anch'io qualcosa di utile." "Ti faccio sapere che hai davanti un ottimo cuoco. Non ho mai bruciato niente..." Fino a stanotte, pensò. "Okay, mi fido," disse Alison. "Ma darò una mano. Altrimenti a cosa serve una donna?" disse, e un lampo di malizia le brillò negli occhi. "Ti comprerò uno spazzolino da denti. Ti occorre altro?" "Non mi dispiacerebbe avere un vestito," disse Alison, sorseggiando il caffè. "Mi sento quasi come una convalescente a gironzolare per casa con la camicia da notte e...il tuo accappatoio," aggiunse, rivolgendosi a lui in termini più confidenziali. "Potrei fare un salto a casa tua a prenderti qualcosa," propose Jake. "Quanto tempo conti di tenermi qui?" "Il più a lungo possibile." Alison inarcò un sopracciglio. "Comunque almeno fino a domani," disse Jake. "Era Roland che voleva uccidermi," disse lei. "Non che mi dispiaccia particolarmente stare qui a ciondolare per casa — hai un bel pavimento. Ma ora lui è morto, ed è l'unico che minacciava la mia vita. Perciò, seppure quel serpente fosse ancora vivo, non c'è motivo di pensare che voglia trovare proprio me."
"Spero che tu abbia ragione. Ma la creatura era nel corpo dell'uomo che guidava il furgone quando ha cercato di uccidere Celia, ed era in Roland quando lei è scomparsa. Può darsi che sia una semplice coincidenza. D'altro canto, potrebbe darsi che sia la creatura a scegliere i bersagli indipendentemente dal soggetto che la ospita." Alison storse la bocca. Quella teoria non le fu certo di conforto. "E così devo restare al riparo finché non l'avrete trovata." "Finché, in un modo nell'altro, non sarà stata distrutta." "Okay." "Mi dispiace." "Lo sapevi che passi un mucchio di tempo della tua vita a scusarti per cose di cui non hai nessuna colpa?" "Mi dispiace," ripeté, sorridendo. Quel sorriso piacque ad Alison. Non lo aveva visto sorridere molto fino a quel momento. "Quando tornerai, devo puntarti di nuovo il fucile contro e controllarti la schiena?" "Già." "Quanto meno avrò una valida scusa per farti togliere la camicia." Jake bevve un ultimo sorso di caffè, posò la tazza sul tavolo e si pulì la bocca con un tovagliolo. "Ora sarà meglio che vada." Lasciarono la tavola. Alison lo precedette verso la porta d'ingresso. "Non porti la divisa?" "Di solito sì." "Mi piacerebbe vederti in uniforme, qualche volta. Scommetto che sei uno schianto. Un vero piedipiatti." "Che ieri ha sfasciato la macchina di servizio," aggiunse lui. "Cosa da niente." "Già. Per questo non ho messo l'uniforme. Non mi va di guidare in divisa la mia macchina personale." "A che ora tornerai?" Jake scosse la testa "Non ne ho idea. Dipende da come andranno le cose." "Beh, posso prepararti la cena?" "Non voglio farti morire di fame. Facciamo così, se non sarò tornato per, diciamo... le sette, allora comincia pure a mangiare senza di me." "D'accordo." Jake le passò davanti e aprì la porta. "Stai attento," disse lei.
"Anche tu. Per qualunque problema — se vedi qualcuno aggirarsi qui intorno in maniera sospetta, o qualsiasi altra cosa strana — telefona alla stazione e chiedi di Barney. Lo troverai lì, e lui è al corrente dell'intera faccenda." "Va bene." "Sai dove trovare tutto ciò che può servirti?" "Me la caverò, Jake. Non preoccuparti." Annuendo, Jake esitò sulla soglia, come fosse riluttante ad andarsene. Poi si decise e fece per allontanarsi, ma Alison gli toccò il braccio. Lui la guardò negli occhi. Alison avanzò verso di lui, si accostò al suo corpo e lo abbracciò, piegando la testa all'indietro. Jake la cinse con le braccia. Stringendola a sé delicatamente, la baciò sulla bocca. E quando allontanò le labbra dalle sue, le prese la testa tra le mani, e lei premette la guancia sul collo di lui. "Ora devo proprio andare," disse Jake in un sussurro, mentre le carezzava i capelli. "Lo so." Alison lo strinse forte, poi si staccò da lui. "Ci vediamo più tardi," disse. Lui la fissò. La baciò ancora una volta, e se ne andò. Alison rimase sulla soglia a guardarlo, finché la macchina non si fu allontanata lungo la strada. Chiuse quindi la porta e girò la chiave. Fece scivolare la catenina di sicurezza nell'apposita scanalatura. Poi Alison appoggiò le spalle alla porta, chiuse gli occhi e assaporò la sensazione, ancora viva in lei, che aveva provato sentendo il corpo di Jake contro il suo, le labbra di Jake sulla sua bocca. CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO Jake riferì a Barney tutto quanto era accaduto la notte precedente, dopodiché ritornò alla sua macchina. Scollò dalla fotografia di Roland tutte le aggiunte che vi aveva fatto e ciò lo fece sentire un po' colpevole, perché così facendo stava danneggiando delle prove. Ma Roland era morto, non ci sarebbe stato alcun processo contro di lui, e Jake non voleva mostrare in giro la foto con quel carosello di nudità intorno alla testa del ragazzo. Quando ebbe finito di ripulire la fotografia, ripartì, dirigendosi al luogo dove aveva incendiato la Volkswagen. La macchina era stata trainata via, lasciando soltanto chiazze nere e mucchietti di cenere. Jake cominciò a cercare lì in mezzo, spargendo la ce-
nere con le scarpe. Per la verità, non sapeva con certezza cosa sperasse di trovare. Il corpo carbonizzato del mostro? I minuscoli resti del suo scheletro, se mai ne aveva uno? Non trovò nulla, e cominciò a ispezionare l'area circostante, scrutando l'asfalto, la striscia d'erba che separava il marciapiede dal cordolo di bordura, esaminando il marciapiede stesso. Lo scorso giovedì la creatura aveva lasciato tracce di sangue sull'asfalto di Latham Road, dietro il furgone in fiamme, e altro sangue aveva lasciato sull'erba dall'altro lato della strada. Oggi, non c'erano tracce di alcun tipo. Jake si disse che con ogni probabilità la creatura era morta all'interno della Volkswagen. Forse avrebbe fatto bene a recarsi al deposito delle auto in demolizione e a esaminare a dovere i resti dell'abitacolo della macchina distrutta. La luce scarsa della notte scorsa poteva aver fatto sì che gli fosse sfuggito qualcosa. Inoltre, quando aveva esaminato la macchina, era stato estremamente teso e impaziente di ritornare a casa. Doveva assolutamente perquisirla di nuovo, minuziosamente e alla luce del giorno. Con la fotografia in mano, si diresse al condominio all'angolo per iniziare l'inchiesta porta a porta. Alison riattaccò il telefono dopo che ebbe finito di spiegare a Gabby che non sarebbe andata a lavorare per alcuni giorni. Lui aveva sentito alla radio la notizia degli omicidi avvenuti durante la notte e di come lei si era salvata per un pelo. Era stato molto comprensivo e le aveva detto che poteva prendersi tutto il tempo di cui aveva bisogno. Adesso doveva fare un'altra telefonata. Questa non sarebbe stata altrettanto facile. Tuttavia, non poteva esimersi dal farla. Sbagliò a comporre il numero e riattaccò prima di sentire il segnale. Aveva male allo stomaco. Il cuore le palpitava forte. I battiti accelerati le facevano pulsare il viso contuso. Il sudore le colava lungo i fianchi. Si alzò, si tolse l'accappatoio di Jake e si sedette di nuovo sul divano. E compose il numero di Evan. Un solo squillo. "Pronto?" La voce suonò tesa. "Ciao. Sono io." "Alison. Mio Dio. Stai bene?" "Hai saputo di stanotte?" "Naturalmente, so tutto. Cristo. Stai bene?" "Un po' squassata, ma sto bene."
"Mio Dio, non posso crederci. Potevi morire. Ho cominciato a sentirmi male non appena ho sentito la notizia. Non sono neppure andato a lezione. Avresti dovuto chiamarmi." "Ti ho chiamato. Adesso." "Sono stato sulle spine, non sai quanto. Un inferno." "Mi dispiace. Neppure per me è stato uno spasso." "Chi era? Chi è stato?" "Una matricola. Si chiamava Roland." "Lo conoscevi bene?" "No, lo avevo incontrato un paio di volte." "Ce l'aveva proprio con te, oppure...?" "Credo di sì." "Perché? Insomma..." "Credo che volesse violentarmi e uccidermi." "Gesù Cristo. Ti ha... toccata?" "Non mi ha stuprata." "Dio sia ringraziato. E tu, da sola, ce l'hai fatta a respingerlo?" "Già." "Cristo, è colpa mia. Dovevo esserci io lì da te. Se tu avessi lasciato che ti accompagnassi a casa... non dovevi andartene, sai. Quella faccenda è stato un errore, un equivoco, come ti ho già spiegato. Dovevi rimanere a casa mia. Niente di tutto questo sarebbe successo." "A Helen sarebbe successo in ogni caso," disse lei. "E seppure avessi trascorso tutta la notte con te, prima o poi sarei dovuta tornare a casa." "Dovevi rimanere." "Beh, non l'ho fatto." "Dove sei adesso?" "Al sicuro." "Beh, questo lo so — il tizio è morto, giusto? Al notiziario hanno detto che è morto in un incendio." "Già." "Dove sei allora?" "Non devo dirlo a nessuno." "Che stupidaggine. Chi ti ha detto questo?" "Un poliziotto." "Merda. Quale sarebbe l'idea geniale?" "Crede che io sia ancora in pericolo." "Non riesco ad afferrare. Il bastardo è morto, no? Dov'è allora il perico-
lo?" "Senti, intendo fare come mi è stato detto." "Ah! E da quando?" "Non fare il cretino, Evan." "Ho bisogno di vederti." "Non è possibile." "Alison. Dobbiamo parlare." "Stiamo parlando." "Faccia a faccia." "In questo momento non me la sento di sottopormi a un confronto." Alison lo sentì sospirare. Evan tacque lungo, e fu lei a interrompere il silenzio. "Volevo solo farti sapere che sto bene. Ho creduto che fosse mio dovere informarti." Quando Evan parlò di nuovo, la sua voce sembrò quella di un uomo stremato. "Te lo giuro, Alison, ieri sera non lo sapevo che stavi dormendo quando... ti ho toccata. Io ti amo, Alison. Quando penso a quello che stava per succederti stanotte, mi sento morire. Ti prego, ho bisogno di vederti. Ti scongiuro. Dimmi dove sei. Verrò da te, e parleremo. Parleremo soltanto, te lo prometto." "Ti telefonerò io tra un paio di giorni." "No, ti supplico, Alison, sono distrutto. Non ho chiuso occhio tutta la notte. Non faccio altro che pensare a te. Ti prometto che non ti creerò alcun problema. Voglio solo vederti, stare un po' con te. Ti supplico." Alison chiuse gli occhi e si lasciò andare sullo schienale del divano. Era peggio di quanto si fosse aspettata. Evan sembrava a pezzi, un uomo disperato. È colpa mia, pensò. Io l'ho ridotto così. "Forse possiamo incontrarci da qualche parte," disse alla fine. "Ti va bene da Wally's?" Evan non disse nulla. "Ehi, va tutto bene?" Alison sentì un fievole squillo, come di un campanello. "Stanno suonando alla porta?" chiese. "Sì," bisbigliò Evan. Il suono si udì nuovamente. "Vai a vedere chi è." "Non m'interessa," bisbigliò. "Non puoi essere tu, quindi non m'interessa." "Riattacco."
"Non posso andare alla porta. Non ho niente addosso. Sono appena uscito dalla doccia." Il campanello squillò ancora. "Probabilmente è solo un venditore." Dopo qualche secondo, disse, "Okay, se n'è andato." "Stavo dicendo che potremmo vederci da Wally's." "È sempre pieno di gente." "Se ti sta bene, quest'è l'idea. Non crearmi difficoltà." "Cristo, Al. D'accordo. Da Wally's. A che ora?" "Che ore sono adesso?" "Quasi mezzogiorno." "Ho bisogno di un po' di tempo per prepararmi e venire fin lì." "Passo a prenderti." "Grazie lo stesso. Ti sta bene all'una e mezza?" "D'accordo. Ti offrirò il pranzo." "Splendido. Ci vediamo allora." Alison riattaccò. Non voleva vedere Evan. Ci sono cose, pensò, che vanno fatte. Non sarebbe stato così brutto. Sarebbe stato terribile. Dirgli che era finita, dirglielo in faccia, e fargli capire che stavolta era davvero l'ultima. Sarà terribile, ma non durerà per sempre. Sarà solo un momento, poi passerà e io tornerò qui, e prima o poi verrà anche Jake. Jake. Continua a pensare a Jake, e il resto non sembrerà più tanto brutto. Stasera lui sarà qui. Così non risolverò un bel niente, pensò Jake. A più della metà delle porte dove aveva bussato, nessuno gli aveva risposto. Gli inquilini assenti dovevano essere a lezione o al lavoro. Delle persone con cui era riuscito a parlare, parecchie erano andate al cinema, ad assistere all'ultimo spettacolo, e, comunque, la maggior parte aveva dichiarato di ignorare completamente l'intera faccenda. Nessuno aveva ammesso di conoscere l'identità del giovane nella foto, benché tre studenti fossero più che certi di averlo visto al campus di tanto in tanto. Nessuno aveva visto, durante la notte o quel giorno stesso, qualcosa che somigliasse a un serpente. Nessuno aveva visto o sentito qualcosa di strano a parte il clamore suscitato dall'incendio dell'auto.
Un'inchiesta inutile, dunque, ma Jake non voleva arrendersi. Aveva bussato a tutte le porte di tutti i condomini su quel lato dell'isolato, escluso soltanto quello che si trovava all'angolo. Era improbabile, pensava, che a una tale distanza dalla scena del misfatto qualcuno avesse potuto notare qualcosa. D'altronde, cosa gli costava provare anche lì? Poi avrebbe attraversato la strada e avrebbe ricominciato dall'altro lato. Ai primi due appartamenti del pianterreno non venne nessuno a aprirgli. Giunto davanti al terzo, sentì della musica dall'interno. Suonò il campanello. Venne ad aprirgli una donna poco meno che trentenne. Alta quanto Jake, una fascetta di spugna intorno ai capelli neri, sopracciglia folte che quasi si congiungevano nel mezzo, zigomi sporgenti, labbra carnose, mascella imponente, spalle ampie. I seni generosi premevano contro la stoffa di un top che sembrava fatto con due bandanas legati assieme. Il ventre piatto e abbronzato, striato da righe di sudore. I fianchi larghi quanto le spalle. Anziché indossare dei pantaloncini, portava un affare che ricordò a Jake la benda oculare di un pirata guercio: una striscia nera, appoggiata di sghimbescio sui fianchi, un triangolino di raso nero insufficiente a coprire la zona pubica completamente rasata. "Mi dispiace disturbarla," disse Jake. "Sono un agente di polizia." Le mostrò il portafogli aperto. La donna diede un'occhiata al distintivo, ignorò la carta d'identità, e si leccò un po' di sudore dall'angolo della bocca. "Entri, si tolga dalla corrente," gli disse. Jake entrò nell'appartamento. Malgrado vi fosse il ventilatore acceso e le finestre spalancate, il caldo era più asfissiante che all'esterno. La donna si voltò, e Jake la osservò mentre camminava in direzione dello stereo. Una strisciolina sottilissima ripartiva al centro le natiche, lasciando nude le due rotondità lisce e perfette che si flettevano al suo incedere. Si mostrava in quella tenuta con la stessa disinvoltura di una donna che indossasse gonna, giacca e cappotto. Jake si augurò che s'infilasse qualcosa per coprirsi un poco. La donna abbassò il volume dello stereo, e si girò di nuovo. "Vuole un po' di tè ghiacciato?" "No, grazie." "Io sono Sam. Samantha Summers. Forse questo lo sa già." Jake scosse la testa. "Jake Corey," le disse. "Sto facendo delle indagini nel vicinato a proposito di un episodio verificatosi questa notte."
"Allora non è venuto a beccare me, eh?" "Per che cosa?" Le labbra carnose si arcuarono in un sorriso. "Proprio non so. Corruzione della mentalità seria e pudica dei minori?" "Ha fatto molto in quel senso?" "Alcuni giurerebbero di sì. Sono professore associato di filosofia all'università." Stai scherzando, pensò Jake. E poi, Perché io non ho mai avuto un professore così? "Quasi quasi mi iscrivo," disse. "Lo faccia. L'aiuterò ad aprire la sua mente all'imponderabile." "Sto benissimo senza l'imponderabile." Sam si sedette sul tappeto davanti a lui. Si sdraiò, incrociò le mani dietro la testa e cominciò a fare delle flessioni. Le gambe divaricate, un gomito toccava il ginocchio opposto, la schiena si riabbassava sul pavimento, poi si rialzava e ripeteva l'operazione con l'altro gomito. "In che posso aiutarla?" chiese a Jake senza interrompere l'esercizio. Potresti aiutarmi fermandoti, pensò Jake. "Ha visto questo studente ieri sera?" le chiese, e le mostrò la foto di Roland tenendola ferma sopra le sue ginocchia per la durata di tre flessioni. Si sforzò di tenere gli occhi sul retro della fotografia. "Dracula," fece lei. "Forse credeva di esserlo. È morto." Sam si fermò. Prese la foto dalla mano di Jake e incrociò le gambe. "Morto?" "A quanto ci risulta ha ucciso almeno due persone. Forse di più. Quando l'ho trovato, stanotte, era morto." "Certo, io l'ho visto. Era passata l'una. Forse erano già le due." "Ne è sicura?" "Non è uno di cui mi possa dimenticare facilmente. Mi faceva incavolare come una bestia quando si metteva alle mie costole nel campus. Il suo nome era qualcosa come Rupert o..." "Roland. Dove lo ha visto?" "Ero uscita a correre. Faccio otto chilometri ogni notte." "All'una?" "Mi piace la notte." "Dov'era?" "In fondo all'isolato. Un giovane lo stava aiutando a salire in macchina."
Quelle parole colpirono Jake come un pugno nello stomaco. "Sembrava completamente andato. Ho immaginato che fosse ubriaco. Ne vedo un mucchio ridotti così da queste parti. Sembra che questi studenti non reggano affatto tutto il liquore che tracannano." "E c'era qualcuno con lui? Sa chi era?" Le sopracciglia folte si abbassarono. "Non conosco il suo nome. Ma so che è un laureato del dipartimento d'inglese con un assistentato da insegnante." "Sa dove abita?" Sam scosse la testa. Restituì la foto a Jake. "Devo trovarlo subito. È urgente." "È implicato negli omicidi?" "Ne dubito. Ma Roland aveva... una malattia. Devo assolutamente trovare questo ragazzo prima che contagi qualcuno." "Se avessi un annuario scolastico." "Non ce l'ha?" "Temo di no." "Resta in casa per un po'?" "Mi tratterrò." "Sarò di ritorno tra un quarto d'ora." Il Professor Teal non venne ad aprirgli la porta, così Jake fiancheggiò velocemente la casa e salì la scala. Spezzò il nastro apposto dalla polizia, si servì del grimaldello e entrò. Una delle tre ragazze, pensava, doveva avere un annuario. Poi ricordò che durante la rapida ispezione della notte scorsa, aveva notato che un'intera parete dell'attico era tappezzata di scaffali pieni di libri. Doveva essere la stanza di Alison; la ragazza aveva raccontato di essere corsa giù ad avvertire Helen. In cima alla scala dell'attico, Jake restò impietrito a fissare il letto in disordine. È qui che è successo. Si è svegliata e ha lottato con Roland. È qui che sarebbe stato ritrovato il suo corpo straziato se... oh, ha dato a quel bastardo ciò che meritava. Non era cosa facile immaginare che la stessa ragazza che aveva trovato rannicchiata ai piedi del suo letto quel mattino fosse stata animata da una ferocia selvaggia, tale da indurla a ferire qualcuno così seriamente. La sua borsetta era sul pavimento accanto ai piedi di Jake. Dovrei portargliela, pensò. E anche dei vestiti.
C'erano degli indumenti sparsi sul tappeto vicino alla borsetta: scarpe da corsa bianche, coperte per metà da calzettoni, una camicetta azzurra sgualcita, un reggiseno dalle coppe trasparenti, pantaloncini bianchi con le mutandine ancora infilate dentro, a indicare che i due indumenti erano stati tolti contemporaneamente. Jake raccolse la borsetta e restò lì immobile, a fissare i vestiti. Meno di dieci minuti prima era stato con Sam. Strabiliante Sam, con quei bandanas e il perizoma. Ma non aveva fatto a Jake neanche un millesimo dell'effetto che aveva prodotto in lui la sola vista degli indumenti di Alison abbandonati sul pavimento. Per amor di Dio, disse a se stesso, questo non è proprio il momento di eccitarsi. Riluttante, distolse lo sguardo. Raggiunse il letto, vi posò la borsetta, e cominciò a esaminare gli scaffali della libreria. Nel giro di pochi secondi trovò tre annali — volumi sottili che si innalzavano di qualche centimetro al di sopra degli altri libri. Li tirò giù. Sulla copertina di ciascuno, stampata in rilievo, si leggevano il titolo, Summit, e l'anno. Il più recente recava la data dell'anno precedente. Jake si accigliò. Voleva l'edizione corrente. Poi si rese conto che con ogni probabilità il Summit dell'anno in corso non era stato ancora pubblicato. Speriamo che quel ragazzo vi sia stato inserito l'anno scorso, pensò. Gettò i libri sul letto. Inginocchiatosi, allungò una mano sotto il letto, vi trovò una valigia e la tirò fuori. Non dovresti, rimproverò se stesso. Dovresti correre da Sam a portarle i libri. Ci vorrà solo un minuto. Se non lo faccio adesso, dovrò tornare apposta. La verità è che ti piace mettere le mani tra le sue cose, sussurrò una vocetta interiore che gli risultò alquanto fastidiosa. Portò la valigia fino al cassettone di Alison, la depose sul pavimento e l'aprì. Nel primo cassetto in cima c'erano camicie da notte, mutandine e reggiseni. Radunò una manciata di mutandine, sforzandosi di non focalizzare la sua attenzione su quei capi di biancheria, e le mise in fretta e furia dentro la valigia. Fu tentato di non prenderle reggiseni, poi si sentì colpevole di quell'idea, e ne scelse due da riporre in valigia. Nel cassetto successivo trovò calzettoni, collant e sottovesti. Prese dei calzettoni. Magliette da gin-
nastica, T-shirts, calzoncini da ginnastica e una tuta erano nel cassetto che seguiva. Scelse una T-shirt, un paio di calzoncini rossi e la tuta. Nel cassetto in fondo erano riposti golf e maglioni di lana. Non perse tempo con questi. Dall'armadio scelse un prendisole senza maniche, due camicette e un paio di blue jeans sbiaditi. Si avvicinò quindi agli indumenti che giacevano sul pavimento. Desiderò vederla con quei pantaloncini bianchi. Li raccolse e li scrollò finché le mutandine non caddero a terra dall'apertura di una gamba. Le guardò fluttuare nell'aria e toccare infine il pavimento. Fu fiero di se stesso per non averle neppure sfiorate. Reggendo in una mano i pantaloncini, raccolse le scarpe e tornò alla valigia. Si chiese se ci fosse qualche altra cosa di cui potesse aver bisogno, e scrutò intorno, scorrendo con gli occhi ogni angolo della stanza. Scorse la bacheca sul muro oltre la scrivania. Vi erano delle foto attaccate sopra. Non avrà bisogno di quelle, disse a se stesso. Lascia perdere. Ma Jake voleva vederle, voleva vedere Alison. Si avvicinò alla scrivania. Alison era presente nella maggior parte della fotografie, ma non era sola. Con lei c'era un ragazzo. Sempre lo stesso. In una, la stava spingendo sopra un'altalena. In un'altra erano seduti su di una coperta all'ombra di un albero. In un'altra ancora, si stavano baciando. Jake sentì uno spasmo allo stomaco. Il ragazzo era molto attraente, a dispetto degli occhiali, e sembrava anche in ottima forma. Ecco cosa si guadagna a ficcare il naso, pensò Jake. Tuttavia, si sentì subito meglio quando ricordò ciò che Alison gli aveva detto a proposito della loro separazione avvenuta la scorsa notte. Quel ragazzo era stato scaricato. Ben fatto. Jake sollevò la valigia, raccolse la borsetta di Alison e gli annali e si precipitò di sotto. Dopo che era stata a mollo nella vasca per circa un'ora, Alison si senti un pochino meglio. L'acqua calda aveva rilassato i muscoli tesi. Ma non era servita, purtroppo, ad alleggerire la tensione più profonda, quella fredda sensazione di nausea che le attanagliava le budella. Se solo ci fosse stato un modo per spegnere la mente, far cessare i pensieri.
O per cambiare canale. Sbarazzarsi del programma orribile a cui prendevano parte Roland e Helen, Celia e il poliziotto morto, e Evan. Sintonizzarsi sul canale Jake. La trasmissione di Jake era confortante, talvolta eccitante. Tutte le altre la facevano star male. Alison uscì dalla vasca, grondante, e cominciò ad asciugarsi con un soffice telo da bagno. Sarebbe stato tutto meno spiacevole se solo fosse riuscita a evitare di pensare a Evan. Devi andare. Devi farla finita. Non ho niente da mettere addosso. Ad Alison piaceva cullarsi su quella scusa, ma aveva tutto il tempo di valutare il problema ed escogitare una soluzione. Appese l'asciugamano bagnato a una barretta e uscì dalla stanza da bagno. L'aria nel corridoio fu fresca sulla pelle. Nella stanza di Jake le finestre erano aperte, e una piacevole brezza penetrava da esse. Si avvicinò al guardaroba, scelse una camicia a scacchi e la indossò. Abbottonata, somigliava a un vestito. Un vestitino largo e corto, ma comunque sufficiente allo scopo. Arrotolò le maniche fino ai gomiti. Poi trovò una cintura e se la strinse intorno alla vita. Sulla parte interna della porta del guardaroba di Jake vi era uno specchio a tutta altezza. Tutto sommato, la camicia non somigliava affatto a un vestito. Sembrava ciò che era, una camicia da uomo. La tirò un poco dalla cintura, accomodandosela perché scendesse più morbida. Ritornata in bagno, si pulì i denti servendosi di un dito su cui aveva spalmato un po' del dentifricio di Jake. Infine andò in cucina. Sulla parete accanto al telefono c'erano una penna e un blocchetto per appunti. Ne strappò un foglio e lo portò sul tavolo. "È questo," disse Sam. Jake si sentì squassare il petto. "Ne è sicura?" "Li ho guardati bene, tutti e due. Non c'è alcun dubbio. È lui il ragazzo che stava aiutando Roland a salire nella sua macchina." La donna fece scivolare un dito lungo la pagina e il dito si arrestò sotto il nome. "Evan Forbes." L'ex fidanzato di Alison. L'uomo nelle fotografie sulla bacheca.
Non c'è bisogno che ti preoccupi, cercò di rincuorarsi Jake. Si sono lasciati. Ma Alison aveva detto che gli avrebbe telefonato, per fargli sapere che stava bene. E se gli avesse detto dove si trovava? "Ho bisogno di fare una telefonata." "Faccia pure." Jake fece il numero di casa sua. Ascoltò il segnale. Il telefono stava squillando. Dai, rispondi. Forza, Alison. Alza quel dannato ricevitore! Contò quindici squilli prima di riattaccare. "Ha un elenco?" Sam uscì precipitosamente dalla stanza. Vi tornò di corsa, stringendo una rubrica telefonica, che subito lanciò a Jake. Questi sfogliò in fretta le pagine. Forbes era nell'elenco. Jake riconobbe l'indirizzo: il condominio davanti al quale, la notte scorsa, aveva trovato parcheggiata la macchina di Roland. Ci era già stato, aveva bussato a tutte le porte. "Grazie, Sam." Corse via. Un calcio alla porta. Fragore di legno scheggiato. La porta spalancata. Il tappeto ai suoi piedi incrostato di sangue secco. CAPITOLO TRENTACINQUESIMO Alison percorse interamente la L dell'area di parcheggio di Wally's cercandovi la macchina di Evan. Non c'era. Né la vide parcheggiata in strada. Era uscita di casa all'una, prevedendo di impiegare mezz'ora per raggiungere il bar. Pur non avendo l'orologio, stimò che non fossero passati più di venti minuti, sicché era in anticipo. Per evitare il più possibile di dare nell'occhio, si allontanò dal parcheggio dirigendosi verso uno degli olmi che fiancheggiavano la strada. L'erba era fresca e soffice sotto i piedi nudi. L'ombra gradevole. Adagiò la schiena al tronco di un albero e inspirò profondamente, tremando. Era scossa da un intenso fremito. Poteva persino vedere le gambe tremare. Tese davanti a lei, le ginocchia serrate per sorreggerla contro l'albero, le cosce premute insieme. Dall'orlo
della camicia fino alle rotule, la pelle vibrava sui muscoli vacillanti. E mentre Alison era intenta a osservare il proprio tremito, un soffio di vento le sollevò un angolo della falda posteriore della camicia. La riabbassò sulle natiche e tenne ferma sulle cosce la falda anteriore. Le palme aperte avvertirono rapidi sussulti attraverso la stoffa. Sta' calma, si ordinò. Non c'è ragione di essere così tesa. Devo solo parlare un po' con Evan. Non sto mica per subire un'estrazione dentale senza l'anestesia? Forse Evan è già dentro. Potrebbe essere venuto a piedi. Io sto qui fuori per un'ora a consumarmi dalla tensione e magari lui è lì dentro a bere e a pensare che l'ho preso in giro. Comunque sia, io non ci vado là dentro. È già troppo che me ne stia qui fuori vestita in questo modo — svestita in questo modo. Per lo meno non mi sono imbattuta in nessuno che mi conosca. Wally's, invece, persino a quell'ora, era sicuramente pieno zeppo di studenti, e tra quelli ce n'erano di certo un mucchio che la conoscevano. Quasi a conferma di questa sua teoria, una station wagon rallentò davanti all'ingresso dell'area di parcheggio e cominciò a girare. Alison riconobbe Terri Weathers attraverso il finestrino del passeggero. Fortunatamente, Terri stava guardando dall'altra parte. Alison si spostò rapidamente verso l'altro lato dell'albero. Dovevo restare a casa, ecco cosa dovevo fare. Sentì la macchina scricchiolare sulla ghiaia e fermarsi. Le porte si chiusero rumorosamente. Sentì uno scalpiccio di passi che si allontanavano, poi il fruscio sonoro di un'altra auto in arrivo. La testa di Alison scattò verso sinistra. A risalire la strada era la Granada blu di Evan. Accostò al marciapiede di fronte a lei e si fermò. Sporgendosi al di sopra del sedile laterale, Evan le aprì la portiera. "Sei in anticipo," le disse. Mantenendosi le falde della camicia con tutte e due la mani, Alison salì in macchina. Sentì la tappezzeria rovente sotto il sedere nudo. Sollevandosi un poco, fece scivolare il lembo posteriore della camicia sotto di lei. I suoi occhi evitarono di incrociarsi con quelli di Evan. "Cosa diavolo hai addosso?" "L'unica cosa che ho trovato." "Ma cos'è questa, una camicia da uomo?" Ora Alison si volse di fronte a Evan. Aveva i capelli ordinatamente pettinati e indossava abiti leggeri, appropriati alla temperatura afosa: camicia a colori sgargianti stile hawaiano, shorts bianchi e sandali. Stava proprio
bene, non fosse stato per il colorito giallastro e gli occhi iniettati di sangue. Occhi nei quali brillava un vitreo sguardo febbrile. Ad Alison non piacque il modo in cui la fissavano attraverso gli occhiali, studiandola. "Fammi una fotografia giacché ti trovi." "Vorrei bere qualcosa," mormorò lui. "Restiamo qui. Davvero non me la sento di entrare. Sai che frastuono, e poi..." "Non hai fame?" "Mi faranno domande. Su stanotte. Hai detto che ne hanno parlato alla radio." "Terribile," disse Evan. "Stanotte." Gettò un'occhiata al viso di lei. "Sei conciata maluccio, eh?" "Già." "Sei bellissima lo stesso, però." "Sicuro." "Sul serio. Giammai una vile lividura potrà sciupare la bellezza di un fiore così leggiadro." "Grazie." "Prendiamo almeno qualcosa da mangiare, okay? Potremmo andare a un drive-up, così non dovrai preoccuparti se incontri qualcuno." "Non possiamo parlare qui?" "Io sto svenendo dalla fame, Al. Davvero. Non ho mangiato niente da stamattina." Sorrise amareggiato. "Non avevo fame. Ma adesso mi sento già molto meglio. Avendoti qui. Mi sembra di essere risuscitato." "Va bene. Prendiamo qualcosa da mangiare," acconsentì Alison. "Grandioso." Mise in moto e si allontanò. La porta d'ingresso della casa di Jake non era chiusa dalla catena di sicurezza. Jake entrò, e percepì l'assenza di Alison. Chiamò il suo nome mentre si affrettava da una stanza all'altra. Nella stanza da bagno, trovò l'accappatoio e la camicia da notte di Alison appesi a un gancio. In cucina, un biglietto. Era appoggiato sul tavolo, piegato in due perché si reggesse ritto: Caro Jake, sono dovuta uscire per incontrare il mio ex ragazzo. So che dovevo rimanere in casa, ma lui ha bisogno di vedermi. Sono sicura che non mi accadrà niente, visto che ci incontreremo da
Wally's. Ci sarà un mucchio di gente intorno, perciò ti prego di non preoccuparti. Probabilmente sarò ritornata prim'ancora che tu trovi questo biglietto, ma ho pensato di lasciarti comunque un messaggio nel caso ti capitasse di tornare prima del previsto, chiedendoti cosa mi fosse accaduto. Ti prego, non preoccuparti. Tornerò il più presto possibile. Credimi, sono la prima a volerlo. Ma questa era una cosa che dovevo fare. Alison Raggelato e confuso, Jake scattò verso il telefono in cucina e chiamò il servizio informazioni sull'elenco abbonati. Ottenne il numero di Wally's, chiamò e chiese di far chiamare Alison Sanders dall'altoparlante. "Sembra che non sia qui," gli dissero dopo una lunga attesa. Riattaccò e corse alla macchina. Il biglietto non indicava a che ora fosse uscita per andare al bar. Forse erano passati solo pochi minuti. O molte ore. Se era andata a piedi, poteva darsi che fosse ancora per strada. Jake cercò di immaginare il percorso più probabile e lo seguì. Scrutò tra i pedoni sui marciapiedi. E se Evan fosse andato a prenderla con la macchina? No, il biglietto diceva che si sarebbero incontrati da Wally's. Il che significava che era andata a piedi. A meno che non avesse chiesto a qualcuno, a un'amica, di darle uno strappo. Possibile. Poteva aver telefonato a un'amica, chiedendole di portarle qualcosa da indossare e di accompagnarla al bar. Magari l'amica sarebbe rimasta con lei. Alison non c'è da Wally's. Allora forse è ancora per strada. Ti prego, fa' che sia così Potrebbe essere che ci sia già stata e sia andata via. Può darsi che stia tornando a casa. Inutili, sciocche speranze. Evan ha quel bastardo sulla schiena e non lascerà andar via Alison. Forse Evan non è il ragazzo con cui deve incontrarsi. È lui, invece. Forse, però, non ha la creatura dentro di sé. Cos'era allora quel sangue sul pavimento nel suo appartamento? Roland, mezzo morto, dev'essersi trascinato fino alla porta di Evan. E quando Evan ha aperto, il mostro è schizzato fuori dalla pancia di Roland e lo
ha assalito. Si è impadronito della sua volontà e lo ha indotto a trasportare Roland, morto o moribondo, giù nella Volkswagen. Sam li ha visti, e ha pensato che Roland fosse sbronzo. Perché non c'era del sangue sul marciapiede? La bestia è astuta. Forse ha fatto in modo che Evan bendasse le ferite prima di portare fuori Roland. Il fuoco ha poi distrutto le bende. Sì, Evan ha la bestia dentro di sé. E Evan ha Alison. Evan porse a Alison i sacchetti contenenti le bibite, i cheeseburger e le patatine fritte. Lei si li adagiò in grembo, lieta di aver addosso qualcosa che la coprisse oltre alla falda della camicia. Malgrado le frequenti sbirciate in quella direzione, Evan si era comportato correttamente durante il percorso. La tremarella di Alison si era calmata, benché fosse ancora impaurìta all'idea di dovergli dire che tra loro era definitavamente finita. Avrebbe posposto quel momento il più a lungo possibile. Evan si allontanò dalla finestra del drive-up, ma anziché sterzare davanti al ristorante per girarvi intomo fino al parcheggio, proseguì dritto e si immise sulla strada. "Non mangiamo nel parcheggio?" gli chiese Alison. "Mi sembra squallido. Troviamo un posto più carino. Potremmo fare un picnic." "Evan." "Non preoccuparti. Sarò un perfetto gentiluomo." Le sorrise. Un angolo della bocca gli tremò. "Niente più toccatine, a meno che non sia tu a cominciare. Sono un po' tardo nell'apprendere, ma alla fine ho capito la lezione. Ho già messo troppo a repentaglio il nostro rapporto. Ed ecco cosa ho ottenuto: sei convinta che io sia una specie di maniaco sessuale. Beh, non è così. Vedrai. Da questo momento in poi, mani a posto. Considerami un eunuco." Troppo tardi, pensò Alison. "Sono andato così vicino alla possibilità di perderti, ieri sera. Il mio comportamento da villano, poi... l'aggressione. Ho capito quanto conti per me, Alison, ho capito come sarebbe se non ti vedessi mai più. Ti amo tanto, Alison. Non farò mai più nulla che possa farti dubitare di me." "Vedremo come andrà oggi," disse lei. "Un test. Ho sempre superato i miei test a pieni voti."
Alison si adagiò sullo schienale. Gli credeva. Lo spuntino sarebbe andato liscio. Oggi avrebbe fatto il sacrificio, sapendo che era la sua ultima possibilità. Fa' il bravo ragazzo e vedrai che in futuro avrai tante altre occasioni per rifarti. Questo era quello che pensava lui. E Evan non aveva la facoltà di leggerle nel pensiero, ignorava, perciò, che seppure si fosse comportato nella maniera più squisita di questo mondo, ormai non c'era più nulla da fare. Quando lo avrebbe capito, sarebbe già finito tutto. Evan sterzò su Latham Road. "Dove stiamo andando?" chiese Alison. "Un po' fuori città. Facciamo un picnic, no? Come ai vecchi tempi. Ma niente scherzetti." "Di che si tratta?" chiese il gestore del bar. "Poco fa ho chiamato chiedendo di Alison Sanders," disse Jake. "Già. Non c'era." "La conosce?" "Non di nome. Forse se la vedessi..." Scuotendo la testa, Jake fece per andarsene. "Ha detto Alison Sanders?" Jake si voltò verso un giovane snello seduto sullo sgabello al banco accanto a lui. Stava consumando un martini. Sembrava più anziano degli altri studenti. "La conosci?" "L'ho conosciuta poche sere fa. Sei un suo amico?" Jake gli mostrò il distintivo. "Sono anche un amico. Devo trovarla al più presto. Ha detto che sarebbe venuta qui." "Sì, è venuta. Verso l'una e mezza, le due meno un quarto. Stavo giusto arrivando. Per la verità, ero venuto con la speranza di vederla." Si strinse nelle spalle. "Era in compagnia. L'ho intravista mentre saliva nella macchina di questa persona." "Non hai visto con chi era?" "Non ho guardato chi fosse al volante." "Sei riuscito allora a staccare gli occhi da Alison quel tanto che bastava a notare il tipo di macchina?" sbottò Jake, senza curarsi di nascondere il fastidio. "Una quattro porte blu scuro. Non sono bravo con le marche. Non era un'utilitaria, di questo ne sono sicuro. Aveva una forma piuttosto squadrata, sul tipo di una Mercedes. Naturalmente non era una Mercedes."
"Numero di targa?" "Non ci ho fatto caso. Non stava accadendo niente di sospetto, perché avrei dovuto guardare la targa?" "Hai visto la macchina allontanarsi?" chiese Jake. "Era ancora ferma presso il marciapiede quando sono entrato qui." "Ed era circa l'una e quarantacinque?" "Più o meno." Jake controllò l'orologio al polso. Le due e dieci. Si precipitò fuori dal bar, strizzò gli occhi al bagliore improvviso della luce del giorno e corse verso la strada. Guardò verso entrambe le direzioni. Non vide nessuna macchina blu. Si appoggiò di fianco a un albero. Venti maledetti minuti. Se avesse fatto più in fretta. Grugnì, e sbatté con violenza il gomito nel tronco dell'albero. Evan rallentò. Come fece per girare, Alison intravide un cartello sull'altro lato della stretta traversa. L'Oakwood Inn. Mi sta portando all'Oakwood. Alison si sentì sprofondare, cadere sempre più giù, precipitare in un abisso. Sta succedendo davvero, pensò. Oh, Gesù, allora è vero. È la creatura che vuole me. Ho sistemato Roland. Posso farlo anche con Evan. Gesù, sto per morire. No, forse Evan è capitato qui per caso, ha preso la prima strada che gli è sembrata interessante. "Guarda lì," disse Evan. "Un ristorante." Alison annuì. "Sembra deserto." "È chiuso," disse Alison, la voce un sussurro stentato. "È qui che sono state uccise quelle persone." "Davvero?" Evan parve sorpreso. "Bene allora, credo che non darà noia a nessuno se ci serviamo del parcheggio." Sterzò verso la facciata del ristorante. Alison sollevò dal grembo i sacchetti col cibo. Si protese in avanti e li posò sul pavimento, in mezzo alle gambe.
Evan fermò l'auto a non più di un metro dalla scaletta della veranda. "Sicché è successo qui," disse. "Chissà se si può entrare. Potrebbe essere un'esperienza affascinante, non ti pare? Esplorare la scena del delitto." "Potremmo provarci dopo che abbiamo mangiato." Alison lo guardò in viso, direttamente. Fissò i suoi occhi intensi, iniettati di sangue. "Cosa c'è che non va?" fece lui. "Sono stata così disgustosamente ingiusta con te, Evan. Tutte quelle stupide assurdità. Non volere che tu... Mi sembra tutto così insulso e insignificante adesso. Il fatto è che stanotte per poco non sono stata uccisa. Questo genere di esperienza fa sì che una persona... mi ha fatto riflettere su ciò che è importante e ciò che non lo è. E ho capito che tutto ciò che conta davvero è voler bene a un'altra persona. Amare un'altra persona. Allora mi sono chiesta perché ho sottoposto te e me a tutta questa... questa farsa ridicola. Mi perdonerai?" Gli mise una mano sulla spalla. "Stai scherzando," disse Evan, e si lasciò sfuggire una risatina nervosa quasi impercettibile. "Questo fa parte del test, o cosa...?" "Dimentica tutte quelle stupidaggini. Non c'è nessun test. Voglio che tra noi torni tutto com'era prima." "Davvero? Davvero?" Alison lo trasse delicatamente verso di sé. Liberatosi del volante, Evan si girò dalla sua parte. Lei lo baciò sulla bocca, e con le braccia gli cinse la schiena. Il rigonfiamento sotto la camicia sembrò immenso. Il gemito di disperazione di Alison dovette suonare all'orecchio di Evan come la voce della passione. Una mano si chiuse sul seno di lei e lo strinse forte. L'altra mano di Evan risalì lungo la coscia. Alison aprì le gambe. Rabbrividendo alla sua carezza, mormorò, "Mi sei mancato tanto, mi è mancato tanto sentirti dentro di me." Lo accarezzò sui pantaloncini, e sentì sotto le dita il pene enorme e duro. Evan si contorse al piacere del suo massaggio, emettendo rochi respiri. "Prendo la coperta, caro. È nel bagagliaio?" Lui annuì. Alison tolse la chiave dall'accensione. "Porta il cibo," disse. "Mangeremo dopo." "Come sei diversa," disse lui. "Sono stata un'idiota. Non avrei mai dovuto rovinare quello che c'era tra di noi. Ma adesso è tutto passato." Scese dalla macchina. Si portò dietro il bagagliaio.
Attraverso il lunotto, vide Evan chinarsi a raccogliere i sacchetti col cibo. Si girò di scatto e impiegando tutta l'energia di cui era capace, lanciò le chiavi della macchina nel campo d'erbacce che fiancheggiava il parcheggio. Poi partì. Schizzò via di volata sull'asfalto bollente, diretta alla strada principale, oltre lo stretto sentiero. Fu com'era stato durante la notte, quando era scappata via da Roland, ma stavolta la sua meta non era una macchina della polizia a pochi metri da lei. Alison poteva sperare soltanto di mantenersi a distanza da Evan e raggiungere Latham Road. Forse, lì, una macchina di passaggio si sarebbe fermata a aiutarla. Intanto, non era ancora neppure uscita dall'area di parcheggio. Le braccia pompavano incessanti. Le gambe si allungavano alla massima estensione. I piedi nudi schiaffeggiavano l'asfalto. Alison sapeva che stava correndo veloce. Sentiva i capelli svolazzare dietro di lei, le falde della camicia sventolare rumorosamente. E sentiva anche lo scalpiccio delle scarpe di Evan alle sue spalle. In passato l'aveva inseguita più volte, sempre per scherzo, e sempre l'aveva acchiappata facilmente. Ma Alison non aveva mai corso così, scappando da lui. Non aveva mai corso così in tutta la sua vita. Adesso non sentiva soltanto lo scalpiccio delle scarpe, ma anche il suo respiro concitato. Mi sta raggiungendo! Mento basso, braccia che battevano come stantuffi, cercò di imprimere al moto delle gambe una velocità ancora maggiore. Oltrepassò l'ingresso del parcheggio, e uscì sulla stradina che conduceva alla Latham. Evan le stava dietro a stretto raggio. "Lasciami in PACE!" gli gridò. Poi un colpo, come una poderosa schiacciata, tra le scapole. Alison scaraventata in avanti, in una folle danza di braccia mulinanti e gambe martellanti a un ritmo selvaggio. Il suolo svanì da sotto i suoi piedi e lei incontrò l'asfalto, in un impatto violento che le tramortì palme e ginocchià. L'urto le stroncò braccia e gambe. Le tolse il respiro. Arrestò la sua corsa con uno scivolone finale. Incapace di respirare, con la pelle che le bruciava, incominciò a rimettersi in piedi.
Un calcio di Evan la mutilò dell'appoggio di un braccio. Atterrò malamente su di un fianco. Evan agguantò il braccio offeso e lo tirò. La sollevò. Se la caricò su una spalla e invertì la marcia. Puntò dritto al parcheggio, ritornando sui suoi passi. CAPITOLO TRENTASEIESIMO Jake sedeva nella sua macchina nel parcheggio di Wally's, la fronte sul volante. Piantala di startene seduto qui senza far niente, disse a se stesso. Trovala, dannazione! Già, come no! E dove vado? Non voglio che muoia! Prova a casa di Evan. Non la porterebbe lì. Manca l'intimità di cui ha bisogno per fare quello che ha in mente. Mangiarsela. Dio! Spremiti le meningi! L'appartamento è escluso. Deve portarla in un posto isolato, dove non deve preoccuparsi che il vicinato senta qualcosa, dove può divertirsi con lei in santa pace per tutto il tempo che vuole. Un campo, forse, o un edificio abbandonato. E quale edificio abbandonato potrebbe mai scegliere, eh, Corey, pezzo d'idiota? A quest'ora potevi essere già lì! La spalla di Evan sobbalzava contro il ventre di Alison mentre lui saliva furiosamente la scala della veranda. Si fermò davanti alla porta. Un braccio si scostò da Alison, ma l'altro rimase bloccato come una sbarra sulla piega interna delle ginocchia, inchiodandole le gambe al suo corpo. Aperta la porta, Evan la trasportò dentro. La porta si chiuse con un boato. Pochi passi, poi una leggera flessione del busto per scaricare il fardello. Alison si accorse che stava cominciando a cadere, sicché, non appena scivolò via dalla spalla di Evan, allungò lesta una mano e lo afferrò alla nuca, aggrappandosi. Per un istante riuscì a tenersi. Poi Evan assestò un colpo preciso che allontanò il braccio. Non allentò la presa sulle gambe finché la schiena di Alison non sbatté pesantemente sul pavimento. La testa la seguì,
picchiando forte sul legno duro. Evan si chinò su di lei. Le aprì la camicia strappandola nel mezzo, ne allargò le due metà del davanti e indietreggiò di qualche passo. I suoi occhi la fissarono intensamente. La bocca si aprì. Ansimava, affamato d'aria. Alison giaceva lì, stordita dal colpo, ansante anche lei. Avrebbe voluto chiudersi la camicia, ma non riusciva a sollevare le braccia. "Bella," disse in un singulto. "Ti ho presa adesso, eh? Bella fica ingannatrice." Evan ebbe un sussulto improvviso. Chiuse gli occhi, strizzandoli con vigore, e il viso si contorse in una smorfia. La schiena gli si irrigidì e lui si dibatté convulsamente, come fosse posseduto da un'estasi terribile. Si contorceva e gemeva. Gocce di saliva gli colarono giù per il mento. Si strofinò il pene attraverso la patta rigonfia dei pantaloni corti. Alison lo guardava. Era fuori di sé, rapito nella sua frenesia. Adesso, decise la sua mente semiintorpidita. Prima che ritorni in sé. Muoviti! Trovò la forza di rotolare. Puntò le mani e le ginocchia brucianti sul pavimento e si tirò su. Evan le afferrò le caviglie e strattonò le gambe con violenza. Il ventre di Alison sbatté sul pavimento. Senza mollarle le caviglie, gliele incrociò e le storse selvaggiamente. Alison piroettò ritrovandosi distesa sulla schiena. "Oh, tu non andrai da nessuna parte. Che festa sarebbe senza di te." Evan fece un passo indietro. Si asciugò il mento viscido col dorso di un polso. Poi si sbottonò la camicia. Se la scrollò giù dalle spalle e essa fluttuò fino a terra. Un tampone di garza fissato da un cerotto gli copriva un tratto di cute immediatamente a sinistra dell'ombelico. Una striscia di pelle purpurea si dipartiva dal margine della medicazione e proseguiva trasversalmente sull'addome e intorno all'anca. Una custodia nera era agganciata alla cintura. Alison guardò la sua mano dirigersi verso la custodia e aprirne la patta. Da essa Evan trasse un coltello a serramanico. Ne fece uscire la lama che si bloccò rigida con uno scatto metallico. Fissando Alison con gli occhi socchiusi, Evan leccò il dorso piatto della lama. "Questo sapore aveva Celia? Sì, credo di sì. Una carne piccante, ma tenera." Leccò voluttuosamente l'altro lato della lama. Inginocchiatosi, si chinò sopra Alison. La lama fresca e bagnata le strofinò la coscia. Evan la rigirò e asciugò l'altro lato sulla pelle di lei. Poi, con un rapido scarto del polso, la tagliò. Alison sussultò. "Oh, ti ha fatto male?
Quanto mi dispiace. Povera, povera Alison." Passò sull'incisione il dorso della mano e ve lo strofinò sopra. Quando la ritrasse, la mano era cosparsa di sangue. Lo leccò e sospirò. Alison sentì il sangue gocciolare lungo l'interno della coscia. Evan si alzò. Girando il busto senza muovere le gambe, gettò il coltello dietro di sé. Cadde sul pavimento con un tonfo leggero. "Dopo avremo molto tempo per quello," disse. "Prima voglio aprirti con qualche altra cosa." Sganciò la fibbia della cintura. Sbottonò in vita i pantaloncini bianchi e abbassò la lampo. I calzoncini caddero intorno alle caviglie. Sotto indossava degli slip rossi che sul davanti sporgevano considerevolmente sotto la spinta dell'erezione. I pollici scivolarono sotto l'elastico che li sorreggeva sulle anche. Alison sferrò un calcio che andò a colpire lo stinco sinistro di Evan. Questi si sbilanciò e barcollò all'indietro agitando le braccia, i piedi aggrovigliati nei calzoncini. Cominciò a cadere. Alison gli si avventò addosso, spingendolo sul pavimento. Poi, issandosi su mani e ginocchia, si alzò in piedi, vacillando. Davanti a lei c'era il bar. Piantò le mani sul bordo del banco e si aggrappò tenacemente a quell'appiglio. Si girò alla svelta. Evan si era liberato dai calzoncini. Stava accosciato, e da quella posizione, caricò per abbrancarla. Alison schivò l'offensiva scartando verso destra. Davanti a sé, in linea diretta, c'era la sala da pranzo principale, e in fondo, alla fine di una lunga distesa di pavimento sgombro, una finestra. Sfondarla con un tuffo attraverso i vetri? Questo sì poteva ucciderla sul serio. Ma meglio la finestra che Evan. Troppo lontana, comunque. Evan era già vicinissimo dietro di lei. I tonfi delle scarpe sul pavimento... il respiro sibilante... Alison svicolò dietro l'angolo. Ci mise un istante a mettere a fuoco il piccolo assembramento di oggetti sul pavimento: bombolette, stracci, cassetta degli attrezzi, aspirapolvere, scala a pioli. Un istante ancora per chiedersi se poteva scavalcarli con un salto. Nuovo assalto di Evan. Una violenta testata sul posteriore. Le braccia di lui intorno alle sue cosce. L'affondo la travolse, catapultandola in avanti e a terra. Alison gridò all'ennesimo impatto. Le bombolette si capovolsero. Una se la ritrovò sotto l'anca, un'altra le premeva contro il ventre. I bordi esterni della cassetta degli attrezzi aperta affondarono nel petto. Il seno sinistro fin
dentro la cassetta, schiacciato sopra una fresca superficie d'acciaio. Evan si staccò da lei con una torsione, e prese a trascinarla per le caviglie. A quella trazione il seno appoggiato sulla cassetta degli attrezzi cominciò a essere graffiato dal bordo della cassetta stessa, e così Alison agganciò il braccio sinistro intorno a essa. La cassetta prese a scivolare con lei lungo il pavimento. Evan smise di trascinarla. L'agguantò per i fianchi e ringhiando per lo sforzo o per la collera, la sollevò dalla cassetta, la spostò da un lato e la lasciò cadere. Alison si abbracciò il ventre e piegò la testa per evitare che il viso si schiantasse sul pavimento. L'impatto fu meno doloroso di quanto s'era aspettata. Per alcuni istanti non accadde nulla. Alison restò lì a giacere, ansimando. Evan era poco lontano, ma fuori visuale fintantoché non avesse girato la testa dalla parte opposta. Lo sentì avvicinarsi. Una mano si chiuse sulla sua spalla destra. Un'altra le serrò l'anca dello stesso lato. Le due mani strattonarono Alison costringendola a rotolare sul fianco. E lei rotolò, sul fianco, sulla schiena, e continuò a rotolare, spiegando le braccia incrociate sul ventre quando venne a trovarsi sul fianco sinistro, sollevandosi, fronteggiando Evan, nudo, accosciato sul pavimento. Evan, che stava fissando i suoi seni e non la sua mano destra, non il cacciavite che aveva preso dalla cassetta degli attrezzi. E che spinse con forza dentro di lui. Lo colpì appena sotto lo sterno. Penetrò in profondità. La violenza del colpo fece ruzzolare Evan all'indietro. Ginocchia all'aria, strabuzzò gli occhi verso il soffitto. La bocca era contratta in uno spasimo estremo. Mandava risucchi lamentosi, lottando per respirare. Una mano tremante tirò il cacciavite. Lo stelo aguzzo cominciò a scivolare fuori, ma era ancora profondamente confitto nella carne quando la mano ebbe un sussulto spastico che le fece strappare bruscamente di lato il cacciavite. Il corpo di Evan guizzò in uno spasmo feroce. Puntellandosi con i talloni piantati contro il pavimento, estrasse lentamente l'arnese dalla carne sollevando il bacino sempre più in alto, accompagnando così lo strazio dell'operazione. Mentre osservava le spasmodiche contorsioni, Alison aveva cominciato a alzarsi. Era ancora sul pavimento, sorreggendosi su un braccio teso, e stava piegando le gambe per issarsi, quando Evan completò la dolorosa estrazione. Lo vide contorcersi, ripartire alla carica, intenzionato a ripagarla
con la stessa moneta. Lei arretrò, schivandolo. Il braccio di Evan, armato del cacciavite, fendette l'aria mentre il fianco colpiva il pavimento. La punta del cacciavite s'infisse nel legno a due centimetri dal fianco di Alison. Questa arretrò ancora, allontanandosi ulteriormente. Girandosi, strisciò fino alla cassetta degli attrezzi. Si guardò alle spalle e vide che Evan stava tentando di strappare il cacciavite dal pavimento. Disteso, ventre a terra, si dibatteva per estrarre l'arnese. Alison prese un martello dalla cassetta. Evan stava ancora contorcendosi sul pavimento. Tornò ad avvicinarsi a lui. Le braccia e le gambe di Evan scosse da contìnue contrazioni, vibrarono selvaggiamente contro il pavimento come se stesse cercando di alzarsi. "Sta' giù," ordinò Alison in un singulto. Sollevò il martello sulla sua testa. "Sta' giù se non vuoi che ti sfondi il cranio." Fissò la singolare lividura che si snodava dal fianco risalendo lungo la schiena. La pelle sbiadita sulla colonna vertebrale, per tutto il tratto fino alla nuca, sporgeva di quasi due centimetri e mezzo. È quel coso, pensò Alison. Ricordò le parole di Jake. Se Evan muore, il mostro uscirà fuori da lui. E cercherà di entrare in me. Beh, non è morto ancora. Il cacciavite cadde dalla mano di Evan. Cercò di riprenderlo, ma le dita malferme mancarono il bersaglio, facendolo rotolare via. Alison si alzò in piedi. Tutto il suo corpo tremava selvaggiamente, e le gambe minacciavano di venir meno. Pronta a cadere, indietreggiò barcollando verso la scala, lasciò cadere il martello e afferrò uno dei pioli più alti, sorreggendosi. Evan continuava a contorcersi sul pavimento, ma le convulsioni erano ora meno violente. Per raggiungere la porta principale, Alison doveva oltrepassare il suo corpo, girandovi intorno. E doveva farlo adesso, adesso che lui non era in condizione di fermarla. Abbandonò il piolo al quale si era aggrappata, mosse un solo passo e sussultò, irrigidendosi, paralizzandosi alla vista del fiotto di sangue che esplose improvvisamente dalla nuca di Evan. La creatura eruppe dal getto vermiglio, emerse sinuosamente dalla carne di Evan, schizzò fulminea oltre la scapola, cadde sul pavimento e con la rapidità del lampo sfrecciò verso i piedi di Alison.
Questa scattò all'indietro, urtando la scala. Sollevò un tallone che si posò sul primo piolo. Serrò entrambe le mani intorno alle sbarre laterali dietro di lei e salì. La scala ondeggiò. Aveva salito soltanto due pioli quando la creatura raggiunse i piedi della scala. Gli occhi sgranati su quella mostruosità, Alison salì di un altro piolo, e vi restò paralizzata, singultando disperatamente. La creatura si arrotolò lentamente in una orribile spirale. Somigliava a un serpente, ma quella sua carne viscida e ondulata fece pensare a Alison a un segmento di intestino di una sessantina di centimetri. Nei punti in cui il sangue di Evan era stato asportato dallo strusciare sul pavimento, il corpo della creatura appariva di un malsano colore giallino, avvolto in un reticolo di vene. Un'estremità sorse dal centro della spirale. Non tanto una testa, quanto piuttosto un'apertura. Un tubo da giardino irto di denti. L'apertura si chiuse appiattendosi, e Alison scorse i globi grigi e opachi degli occhi. Occhi che sembravano guardarla intensamente, che sembravano desiderarla. Alison si sentì un formicolio sulla pelle. Si guardò. La camicia aperta pendeva da una spalla. Non si era mai sentita così nuda, così esposta, così vulnerabile. Desiderò con tutte le sue forze abbottonarsi la camicia e coprirsi tra le gambe con una mano, ma restò impietrita, aggrappata ai lati della scala. La creatura si tese verticalmente, srotolandosi, e metà della sua lunghezza atterrò sul primo piolo della scala. L'estremità inferiore si contorse e con un scatto istantaneo l'intera lunghezza del corpo della creatura si distese sullo scalino di alluminio. Piagnucolando, Alison salì più su. La macchina di Jake sfrecciò sulla cresta del dosso e il parcheggio dell'Oakwood Inn apparve poco lontano. Una macchina blu era parcheggiata vicino alla porta principale del ristorante. Ti prego! Fa' che sia arrivato in tempo! La macchina di Jake volò oltre il dosso e atterrò, sobbalzando pesantemente sul pendio digradante. Dio, fa' che sia arrivato in tempo! urlò la sua mente. Ti prego. Ci aveva messo così tanto ad arrivare laggiù! Aveva guidato alla massima velocità possibile, sfrecciando attraverso gli incroci incurante dei semafori rossi o dei segnali di stop. Due volte aveva rischiato di scontrarsi
con altre vetture, evitando le collisioni per un pelo. Eppure ci aveva messo tanto ad arrivare! Cinque minuti? Qualcosa in più. Oh, Dio, ti prego. Fa' che non le sia successo niente. La creatura continuava ad avanzare. Avanzava verso di lei. Alison saliva più su, e quella faceva lo stesso, oscillando da un piolo all'altro con abilità via via crescente. Alison si sedette sulla sommità della scala, si aggrappò ai bordi della minuscola piattaforma e continuò a fissare il mostro tra le ginocchia. Singhiozzava, e attraverso le lacrime la creatura appariva come un'abominevole presenza itterica dai contorni confusi. La vide posarsi mollemente sul piolo successivo. Con un acuto gemito di disperazione, Alison staccò cautamente le mani dai bordi della piattaforma e si alzò in piedi. Le braccia distese per tenersi in equilibrio, salì all'indietro un piolo, poi un altro ancora. Adesso era in piedi sulla sommità della scala. Ondeggiò mentre la scala traballava da una parte all'altra. Quando il dondolio diminuì, allargò i piedi e piegò appena le ginocchia per temersi ferma. Sbirciò di sotto e vide la creatura salire sul piolo dove solo pochi secondi prima c'erano stati i suoi piedi. Un altro piolo ancora e il mostro sarebbe giunto a un passo dalla vetta. Da lei... Alison sentì il rombo del motore di una macchina. Una macchina! Stava arrivando da lei! Sì, doveva essere così! In qualche modo Jake aveva immaginato... Dio, speriamo che sia Jake! Si precipiterà qui dentro e spedirà il bastardo all'inferno! I freni stridettero. L'angolo della parete le impediva di vedere la porta d'ingresso. "AIUTO!" gridò. Poi abbassò gli occhi. La creatura era già allo scalino successivo. L'anello della sua bocca si chiuse in una piatta incisione e gli occhi grigi, fluidi di muco, sembrarono insinuarsi lascivamente tra le sue gambe mentre la testa si sollevava. Alison saltò. Tese in fuori la gamba destra e scalciò col piede sinistro, sperando di far rovesciare la scala. Cadde. Cadde per un tempo interminabile. Cadde verso il corpo di Evan. I piedi colpirono il pavimento. Le ginocchia si piegarono.
Capitombolò in avanti e le mani spiegate schiaffeggiarono la schiena di Evan. La mano sinistra scivolò sul sangue. Nel momento in cui si stava schiantando su di lui, qualcosa le atterrò flaccidamente sulla schiena. Qualcosa di lungo, e serpeggiante. Mentre saliva all'impazzata la scaletta della veranda, Jake sentì un urlo selvaggio. Spalancò la porta. Venendo dallo sfolgorante bagliore di quel pomeriggio assolato, il ristorante gli sembrò immerso nel buio. Girò di scatto la testa da una parte all'altra. Non vide nessuno, solo un coltello ritto, la lama infissa nel pavimento vicino ai suoi piedi. Ma sentì qualcuno singhiozzare. Poi una rapida successione di passi. Alison eruppe dall'angolo della sala, il viso sfigurato dal panico. Artigliava l'aria con una mano come se volesse afferrare Jake. L'altro braccio era sollevato, il gomito in alto accanto alla testa, la mano allungata sulle spalle. La camicia aperta svolazzava dietro di lei, fluttuando come un mantello mentre lei correva. Jake si gettò da un lato per avere una visuale completa dietro Alison, ma nessuno la stava inseguendo oltre l'angolo. "È sopra di me!" gridò Alison. "Dentro di me!" Roteò davanti a lui. La grassa cosa giallastra in fondo alla sua schiena si dimenava da un lato all'altro, simile a una grottesca coda malposta. Jake lasciò cadere la rivoltella. Afferrò quindi la spalla di Alison per bloccarla. Con la mano sinistra acchiappò la creatura maledetta e tirò. La mano scivolò sulla carne viscida e flaccida. L'agguantò di nuovo. Vi avvolse intorno la sua mano e la sentì insinuarsi più profondamente nel corpo di Alison. Serrò il pugno intorno alla bestia e strattonò con furia. Alison urlò per lo spasmo lancinante e barcollò all'indietro. La creatura non veniva fuori. "NO!" gridò Jake. Spinse Alison sul pavimento. Le strappò la camicia dalle spalle e la gettò di lato, poi si lasciò cadere sul corpo che si dibatteva disperatamente. Seduto sulle sue natiche, estrasse il coltello piantato nel legno del parquet. Agguantò la bestia, serrò la mano sinistra intorno al corpo flaccido e limaccioso e lo tirò energicamente. Esso si tese e si assottigliò per la trazione, ma continuò a penetrare dentro Alison. Il bubbone sottocutaneo era già lungo sette centimetri e cresceva a vista d'occhio.
Jake pugnalò Alison nella schiena. Lei gridò, s'irrigidì, affondò le unghie nel pavimento. La punta della lama entrò nella bocca del tunnel, colpendo la testa del bubbone. Jake fece attenzione a non spingere la lama in profondità. Un centimetro e mezzo, non di più. Sangue e sciropposi fluidi giallastri fluirono dal taglio. La lama discese lungo la pelle di Alison, incidendola longitudinalmente fino al foro creato dalla bestia. Strappò quindi la creatura dalla schiena di lei. "TI HO PRESO!" fu un urlo trionfale. Piangendo, Alison rotolò sulla schiena e attraverso il velo delle lacrime vide Jake balzare in piedi. Una mano stringeva il coltello insanguinato. Nell'altra c'era la bestia. Jake si voltò, e la creatura scudisciò l'aria come fosse una frusta. Materia gialla sprizzò dal corpo squarciato. La scagliò contro la parete vicino alla porta. Vi lasciò una chiazza grondante. La sollevò in alto e la scaraventò sul pavimento. La calpestò, schiacciandola con un piede, poi con entrambi, vi saltò sopra finché non fu una piatta poltiglia informe. Si chinò su di essa e la infilzò con la lama del coltello, sollevandola da terra. La portò con sé oltre la porta d'ingresso. "Jake?" Lui non rispose. Alison alzò la testa e le spalle. Strisciò fino alla soglia, sussultando al dolore che s'irradiava dalla schiena martoriata. Sostenendosi agli stipiti della porta si sollevò sulle ginocchia. Tenendosi saldamente, osservò Jake che correva verso il retro della sua macchina, la piatta carcassa oscillante e grondante al suo fianco. Alison stava male, ed era ancora terrorizzata. Sentiva il sangue scorrerle lungo la schiena, sulle natiche, colarle fin sulle gambe. Non voleva restare sola. Pensa a me, Jake. Ho bisogno di te, supplicò nella sua mente. E poi, Merda, non comportarti come una bambina. Ti ha salvato la pelle, no? Ora lasciagli finire quello che sta facendo. Jake prese una tanica rossa di benzina dal bagagliaio della sua macchina. Portò la carcassa maciullata poco lontano, la gettò a terra e la cosparse di benzina. Vi vuotò sopra la tanica. Una pozza si raccolse sull'asfalto. "Aspetta!" gridò Alison. Si alzò, afferrando i lembi della camicia che si strìnse addosso. Uscì sulla veranda, barcollando.
Jake le fece cenno di allontanarsi, ma lei scosse la testa. Posò allora la tanica sull'asfalto e si precipitò verso di lei. Saltò sulla veranda e le cinse la schiena con un braccio. "Alison," disse. Lei gli si aggrappò. Sorretta da Jake, discesa la scaletta. Si lasciò condurre alla macchina. Si appoggiò alla portiera del lato di guida, poi si lasciò scivolare e restò accosciata mentre Jake correva alla chiazza di benzina nell'area di parcheggio. Accese un fiammifero e lo accostò alla benzina. Pallide fiamme si levarono mentre lui tornava da Alison. Si accosciò accanto a lei. Alison gli posò una mano sul ginocchio. Jake la guardò. "Cosa è successo a Evan?" "L'ho ucciso." Jake annuì e volse lo sguardo al fuoco. Spire di fumo nero e untuoso sorsero dai resti della creatura. Alison sentì schiocchi e sfrigolii. E quando il vento leggero soffiò via il sudario di fumo, vide una macchia nera gorgogliare sull'asfalto. La mano di Jake si posò dietro la testa di Alison e le carezzò dolcemente i capelli. Restarono a guardare il rogo fino a quando la fiamma languì e si spense. CAPITOLO TRENTASETTESIMO Jake si chinò sul tettino e la baciò. Le carezzò la testa. "Notte-notte, tesoro. Vuoi che ti metta un disco?" "Non ora," disse Kimmy, inarcando un sopracciglio. "Non siamo pronte. Siamo occupate." "Occupate, eh? Bene, bene..." Le lanciò un'occhiata torva e si leccò le labbra. "Un pochino di maionese," mormorò. "No!" Kimmy ingobbì una spalla e si premette Clew sull'orecchio. "Niente frullato, dico sul serio." "Ma ho fame." "Prenditi del popcorn, e conservamene un poco." "Vedremo." Kimmy si rivolse a Alison, che stava seduta sul tettino accanto a lei. "Me ne conserverà un poco, vero?" "Certo," disse Alison. Kimmy guardò Jake con alterigia. "Alison si assicurerà che non te lo pappi tutto."
"Buonanotte, tesoro," disse Jake sorridendo, e uscì dalla stanza. Alison sollevò il libro aperto che aveva in grembo. "Dunque, dov'eravamo? Vediamo, Pooh e Piglet stavano seguendo le tracce del Woozle sulla neve." Cominciò a leggere, ma Kimmy posò una manina sulla pagina, coprendo il paragrafo. Alzò la testa e guardò Alison negli occhi. "Starai sempre qui?" le chiese. "Non lo so." "Beh, tutta la tua roba è qui." "Sì." Alison appoggiò una mano sulle spalle della bambina. "Credo che resterò finché la mia roba starà qui. Va bene così?" "Penso di sì," rispose la piccola, accigliandosi e annuendo. "Perché, sai, mi piace come leggi. Leggi molto meglio di papà. E sai un'altra cosa? Quando papà mi portava al cinema e io dovevo fare pipì..." Si coprì la bocca e sussultò un poco. Spinse una spalluccia contro Alison, piegò la testa all'indietro, le scostò la mano e sussurrò, "Mi portava nel gabinetto sbagliato e c'erano degli uomini che facevano la pipì nei lavandini! Che maleducati!" "Nei lavandini?" "Sì!" "Beh, credo che non dovrò più lasciare che ti porti al cinema senza di me." "Mai più senza di te." Alison chiuse il libro. "Adesso sarà meglio che ti lasci dormire. Dobbiamo alzarci di buon'ora per andare allo zoo." "Pensi che riusciremo a vedere un Woozle?" "Non si sa mai." Alison si alzò. Ripose il libro sullo scaffale mentre Kimmy scivolava tra le lenzuola. Alison le rimboccò la coperta, poi s'inginocchiò accanto al lettino. Kimmy infilò Clew nello scollo della camicia da notte. "Vuoi dire la preghiera?" le chiese Alison. Kimmy sorrise. "No, dilla tu. Quella dell'altra volta. Quella dei fantasmi." "Forse tu ne sai una più bella. Non voglio influenzarti." "Voglio quella dei fantasmi," insisté Kimmy. "E va bene, come vuoi." Alison chiuse gli occhi e incrociò le mani sul materasso. "Dai demoni e dai fantasmi, dalle bestie con le zampe lunghe e dalle creature della notte, proteggici, oh Signore." "Brava," disse Kimmy.
"Dormi sodo." Alison fece per alzarsi. "Ti sei dimenticata di baciarmi." Alison si chinò su di lei. Le braccia di Kimmy si avvolsero intorno al suo collo e la tirarono giù con un poderoso abbraccio. Vista la foga di quell'abbraccio, Alison si aspettò un bacione dalla forza travolgente. Invece, le labbra di Kimmy si appoggiarono sulle sue e vi indugiarono con una tenerezza tale da farle venire le lacrime gli occhi. "A domattina, amore," le disse mentre si alzava. "Non dimenticarti di conservarmi i popcorn." "Niente paura. Vuoi che ti metta il disco?" "Lato due." Alison girò il disco e accese lo stereo. Regolò la lampada sul tavolo di Kimmy affievolendone la luminosità, poi si volse a guardarla distesa nel suo lettino, con Clew infilato nello scollo della camicia da notte e un braccio intorno a Cookie Monster. La salutò con un cenno della mano e uscì dalla stanza. Dall'ingresso del soggiorno, vide Jake sul divano. Un'enorme zuppiera colma di popcorn troneggiava sul cuscino accanto a lui. Due bicchieri di coca cola erano poggiati sul tavolino all'altezza delle ginocchia. Invece di raggiungerlo, Alison si diresse in cucina. Da un cassetto prese uno dei tazzoni di Kimmy, uno di quelli che utilizzava per i cereali all'ora della colazióne. Sopra vi erano disegnati Charlie Brown e Snoopy. Portò il tazzone nel soggiorno, si chinò sulla grossa zuppiera e cominciò a raccoglierne manciate di popcorn. "Accidenti, ti ha ammaestrata a dovere," disse Jake. "Io mantengo sempre la parola data." Riportò la ciotola in cucina, la poggiò su di un mobile e tornò nel soggiorno. Cominciava a sentire caldo con l'accappatoio addosso. Jake la guardò mentre se lo toglieva. Sotto indossava una camicia da notte rossa di jersey che aveva comprato quel giorno stesso allo spaccio dell'università. "Che ne pensi?" chiese, girandosi verso di lui. "Carina. Ma ho una certa predilezione per il negligé blu." "Evoca brutti ricordi." "A me no." "Vuol dire che lo indosserò una volta ogni tanto." Sollevò la zuppiera col popcorn e si sedette accanto a Jake. La camicia da notte era molto corta. Sentì la tappezzeria del divano sulla pelle nuda. Un vuoto allo stomaco. Per un istante scivolò di nuovo sul sedile della macchina di Evan, la falda
della camicia troppo corta per coprirle le natiche. "Che succede?" le chiese Jake. Era così lesto a notare ogni suo minimo cambiamento d'umore. "Un piccolo flashback." "Mi dispiace." Alison gli sorrise. "Non è colpa tua." "Detesto vederti turbata." "Lo so." Adagiò in grembo la zuppiera. Era calda sulle cosce nude. "Hai un'aria così sconsolata quando ti scusi con me. Prendi un po' di popcorn." Una larga mano affondò nella zuppiera e portò via una manciata di popcorn. "Cos'hai preso per stasera?" "Halloween e The Hills have Eyes." "Fantastico!" "Scommetto che li hai già visti." "Naturalmente," disse Alison. "Alla videoteca hanno anche commedie brillanti, sai." "Non sono mai divertenti come si pensa." Jake sogghignò, scosse la testa e si lasciò cadere del popcorn in bocca. "Straordinario," disse, dopo aver masticato qualche istante. "Davvero non ti secca guardare questo genere di cose? Dopo quello che è successo?" "I film sono solo finzione." "Questi sì che possono provocarti dei flashback." "Succede infatti. A volte. Ma qualsiasi cosa può farlo. Sono passate soltanto tre settimane." "Tre settimane da favola," disse Jake. "Sì." Alison guardò Jake sgranocchiare dell'altro popcorn. Ne prese una manciata, ne mise un poco in bocca e sobbalzò. "Ow!" Jake la guardò, sbigottito. "Scotta. Non lo si può mangiare." Adesso la guardò perplesso. Alison sollevò la zuppiera, si protese in avanti e l'appoggiò sul tavolo. "Meglio farlo raffreddare un pochino, non ti pare? Non vorrei che ci bruciassimo la lingua mentre guardiamo i film." "Oh. Giusto." Jake arrossì un poco. Alison si tirò la camicia da notte sopra la testa. Fronteggiandolo, cominciò a sbottonargli la giacca del pigiama. Jake inghiottì quanto rimaneva del
popcorn. La guardò fisso negli occhi. Poi il suo sguardo vagò più in basso, indugiando sul suo corpo nudo. Alison guardò le mani di lui muoversi lentamente verso di lei fino a sfiorarle i seni con dita tremanti. La mano che poco prima aveva tenuto il popcorn era un po' scivolosa e granulosa per via del sale. "Ops," sussurrò, scusandosi. Ritirò la mano e la strofinò sui pantaloni del pigiama lasciandovi una macchia d'unto. L'olio e il burro rimasti sul seno di Alison brillavano alla luce della lampada. "Sarà meglio che lecchi via quei residui," gli disse. E Jake obbedì. Mentre la lingua di lui roteava e leccava, Alison gli sfilò la giacca dalle braccia. Singulto e arcuò la schiena quando lui succhiò. Poi la bocca di Jake andò alla bocca di lei e le braccia le avvolsero il corpo. Alison si abbandonò sullo schienale del divano e distese le gambe sotto il tavolino. Jake spinse la lingua nella bocca di lei. Alison strattonò la cintola del pigiama. I bottoni a pressione si aprirono con scatti sonori e lei tirò giù l'indumento finché non sentì il suo corpo nudo contro di sé, la sua virilità liscia e dura. La lingua di Jake lasciò la sua bocca. Le baciò le labbra, il mento, il lato del collo. Le mani esplorarono la sua pelle, le carezzarono le scapole, scivolarono più giù, si chiusero sulle sue natiche, risalirono ancora. Non si avvicinarono però alla linea mediana della schiena, là dov'era la spina dorsale. Alison gli afferrò delicatamente i capelli, allontanando piano la sua testa da lei. Lo guardò negli occhi. "Tu non mi tocchi mai...lì." Le sopracciglia di Jake si sollevarono leggermente. "Dov'era lui." "È vero," mormorò Jake. Alison sentì il pene raggrinzirsi sulla sua coscia. "Ti disgusta?" "No. Dio, no. Niente di te mi disgusta." "Era dentro di me." "Adesso non c'è niente lì dentro. Ho visto il medico pulire la ferita, e..." "Ma hai paura di toccarmi lì." "No, non è vero." "Hai paura di contrarre qualcosa?" "Non voglio farti male."
"La ferita è guarita. C'è soltanto la cicatrice." "Vuoi che la tocchi?" "No, se tu non vuoi." "Non si tratta di questo," mormorò lui con aria affranta. "Cos'è allora?" "Sono stato io a fartela. Ti ho accoltellata, ti ho aperto la carne. Ti ho ferita, e quando vedo la cicatrice o la tocco, mi torna in mente il tuo grido di dolore, e ti rivedo sussultare e affondare le unghie nel pavimento. Mi ritorna in mente il dolore che ti ho provocato." "Vuoi dire che ti senti in colpa? È questo? Senso di colpa?" "Diciamo di sì." "Cavolo, tu mi hai salvato la vita." Alison premette la guancia a quella di Jake e lo strinse forte. "Spesso la guardo nello specchio. È qualcosa di speciale, Jake. È il segno di te che sei entrato in me e mi hai strappata dal corpo quell'incubo mortale." Le punte delle dita di Jake tremarono sulla carne della ferita di Alison. Ne seguirono delicatamente l'estensione. Solleticavano, e lei si dimenò. "Ti fa male?" "No. E questo fa male?" Jake gemette. "Basta con queste chiacchiere inutili," disse Alison. "Il popcorn si sta raffreddando e abbiamo ancora due film da vedere." "Cosa sarei io," le chiese Jake, "il 'prossimamente'?" Alison rise e sollevò una gamba sul fianco di lui. FINE