MARY HOFFMAN LA CITTÀ DELLE STELLE (Stravaganza, City Of Stars, 2003)
RINGRAZIAMENTI
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MARY HOFFMAN LA CITTÀ DELLE STELLE (Stravaganza, City Of Stars, 2003)
RINGRAZIAMENTI
Grazie ai miei consulenti italiani, Edgardo Zaghini dello Young Book Trust e Carla Poesio di Firenze. Grazie anche a Graziella Rossi della contrada di Valdimontone per il suo aiuto e la sua gentilezza, a Roberto Filiani per le sue puntuali e-mail sul Palio, a Reuben Wright per avermi fatto compagnia in Piazza del Campo a luglio, a Frances Hardinge e Saint Galgano per un'inattesa passeggiata nel bosco e per la libellula nera, nonché a Eileen Walker per il materiale aggiuntivo sulla corsa d'agosto. La Terra in Piazza, di Alan Dundes e Alessandro Falassi, è stata fondamentale come opera di consultazione. Grazie anche al professor Luigi Bernabei di Santa Chiara e a Giuliana e Giorgio Citterio del Podere Vignali per avere fornito l'ambientazione perfetta in cui creare la Remora del sedicesimo secolo. A Bexy, la stella della città Sono stati conclusi trattati e alleanze che potrebbero impedire al cavallo migliore di vincere. Questa infatti non è una corsa come tutte le altre. Questa è una guerra. Se dunque la vittoria non può essere ottenuta con la velocità e la forza, dovrà essere o comprata o rubata. William Heywood, Palio e ponte, 1904 [...] Dalla torre cade un suono di bronzo: la sfilata prosegue [...] Il presente s'allontana e il traguardo è là: fuor della selva dei gonfaloni, su lo scampanio del cielo irrefrenato, oltre lo sguardo dell'uomo [...]
Eugenio Montale, Palio, 1939 Nella vastità della casa mi aggiravo come in un bosco incantato. Bosco senza draghi nascosti, pieno di liete meraviglie. Giuseppe Tornasi di Lampedusa, Ricordi d'infanzia, 1955 Prologo Il cavallo alato
Da giorni Cesare usciva dalle scuderie il meno possibile. Splendore, la sua giumenta preferita, era incinta e lui doveva starle vicino finché non avesse partorito. Dormiva addirittura sulla paglia, nella posta vuota vicino a quella della cavalla, con il risultato che i capelli castani gli stavano diventando biondi per le pagliuzze che vi restavano impigliate. Aveva cenato velocemente ed era subito tornato nelle scuderie, dove stava strigliando la giumenta grigia, fischiandole piano nelle orecchie. Nella penombra il manto di Splendore sembrava d'argento, e mentre Cesare lo spazzolava la cavalla soffiava verso di lui attraverso le narici. Era agitata e continuava a muoversi. Niente era più importante di Splendore. La famiglia di Cesare abitava vicino alle scuderie del Montone e il padre, Paolo, era il capostalliere di quel Duodecimo. Proprio Paolo gli aveva affidato la responsabilità di badare a Splendore e Cesare non voleva deluderlo. «Manca poco, bellezza mia» sussurrò, e la cavalla rispose con un sommesso nitrito, quasi annuendo con la testa bianca nella crescente penombra delle scuderie. Anche gli altri cavalli erano inquieti. Erano tutti di sangue arabo: al Montone interessavano solo esemplari da corsa. In una posta dall'altro lato, il giovane castrone sauro di nome Arcangelo si agitava nel
sonno e muoveva le orecchie a scatti, come se sognasse strepitose vittorie. Cesare si sistemò sulla paglia per dormire e anche lui sognò strepitose vittorie. Notte e giorno, sognava sempre la stessa cosa: essere il fantino del Montone nella Corsa delle Stelle e vincerla. Una piccola gatta grigia entrò dalla porta e attraversò le scuderie fino al giaciglio di Cesare. Lentamente e con molta cautela gli si insinuò nell'incavo del braccio e si mise a fare le fusa. Appena prima di mezzanotte, l'atmosfera nelle scuderie cambiò e Splendore si fece irrequieta. Nello stesso momento Cesare si svegliò e si accorse della presenza di suo padre: Paolo sapeva sempre dove e quando ci fosse bisogno di lui. Aveva con sé una torcia, che sistemò in una staffa ben alta nel muro affinché le scintille non dessero fuoco alla paglia. Cesare balzò subito in piedi facendo sloggiare la gatta, che andò a leccarsi sulla soglia irritata per quel trattamento. Alla luce tremolante della torcia, in silenzio, padre e figlio assistevano la giumenta che stava entrando in travaglio. Non era il suo primo parto e quindi tutto fu abbastanza facile. Tuttavia, non appena la puledra gli scivolò nelle braccia, Cesare indietreggiò di scatto, come se fosse stata incandescente. «Cosa c'è?» sussurrò Paolo. Tutta la scuderia sembrò trattenere il respiro. «Non lo so» rispose Cesare, sussurrando anche lui. «Non senti? Questa ha qualcosa di diverso. Quando l'ho presa ho sentito un guizzo, come un fulmine dal cielo.» Splendore voltò il bellissimo muso per leccare la sua puledra appena nata. La cavallina non era scura solo a causa del liquido amniotico. Era nera, nera come la notte che regnava all'esterno, dove le campane delle chiese cittadine battevano la mezzanotte. Si alzò incerta sulle zampe, cercando alla cieca il latte materno con la bocca, come qualsiasi altro neonato. La porta della scuderia, lasciata accostata da Paolo, venne mossa da un improvviso soffio di vento. Un raggio di luna illuminò la posta. Cesare rimase senza fiato. A quella luce argentea e al bagliore dorato della torcia, la puledra appena venuta alla luce gli sembrò una creatura magica. La cavallina dalle lunghe zampe succhiava la mammella della madre e si stava asciugando rapidamente all'aria calda della notte. Il mantello era di un nero lucido e si capiva che sarebbe diventata un cavallo da corsa di prima qualità. Ma non fu tutto. Mentre metteva alla prova i muscoli e prendeva confidenza con le zampe sottili, la puledra contrasse le spalle e
spiegò due piccole ali nere e bagnate, grandi quanto quelle di un giovane cigno. «Dia!» esclamò Paolo. «È toccato proprio a noi. Qui, nel Montone... è nato un cavallo alato.» Anche la gatta grigia si avvicinò per vedere meglio. Di colpo Cesare si accorse che tutti i cavalli della scuderia, compreso Arcangelo, erano svegli e guardavano la nuova puledra. Si sentì pervadere da un profondo turbamento: non sapeva se urlare di gioia o scoppiare a piangere. Capiva solo che era successa una cosa magnifica e che da quel momento la sua vita non sarebbe mai più stata la stessa. Capitolo 1 Famiglie
Il cavallo alato era coperto da un velo di polvere impalpabile. Stava in un angolo dell'affollata vetrina di un piccolo negozio di antiquariato. Fin da quando era arrivato, un mese prima, Georgia era passata a vederlo tutti i giorni tornando da scuola. Nel frattempo aveva messo da parte i soldi ed era quasi arrivata alla cifra scritta sul cartellino annodato al collo del cavallo. C'era voluto tutto quel tempo perché gran parte delle sue paghette serviva per le lezioni al maneggio, che in ogni caso si poteva permettere solo ogni due settimane. «Perché deve avere un hobby così caro?» Il suo patrigno, Ralph, si era lamentato con la moglie quando l'avevano equipaggiata con cap e pantaloni da equitazione. «Non può interessarsi delle cose che piacciono alle altre ragazze?» «E tu credi che quelle siano meno care?» aveva replicato la madre di Georgia con sarcasmo, in uno dei rari momenti in cui prendeva le parti della figlia. «Dovresti essere contento che non chieda vestiti nuovi tutte le settimane. O trucchi, cellulari, oppure di tingersi i capelli. E poi si paga le lezioni con i suoi soldi.» Lo aveva detto due anni prima, quando Ralph aveva sposato Maura e
portato suo figlio Russell a vivere con loro. Al solo pensiero di Russell, a Georgia si seccava la bocca e sudavano le mani. Meglio concentrarsi sul cavallo alato. Se si fosse davvero potuto trovare un esemplare così in natura, sarebbe stato facilissimo salire in cielo sulla sua groppa e volare via per sempre. Georgia chiuse gli occhi e immaginò il movimento di un cavallo sotto di sé, il momento in cui il passo diventa trotto, il trotto diventa piccolo galoppo e poi galoppo. E infine un ultimo cambio: come quando si mette la quinta su un'autostrada, ci sarebbe stato un passaggio senza scosse e un battito d'ali avrebbe sollevato cavallo e cavaliere da terra, per portarli dove nessuno avrebbe potuto raggiungerli. Un colpetto sulla vetrina le fece aprire gli occhi di scatto. Un ometto con gli occhiali e i capelli grigi la stava guardando dall'interno e le faceva cenno di entrare. Georgia riconobbe il proprietario del negozio: si chiamava Goldsmith, sempre che l'insegna scolorita si riferisse ancora a lui. Le fece un altro cenno e lei spinse la porta. Paolo sapeva che la cavallina nera doveva essere portata via dalla città il più presto possibile. Se si fosse sparsa la voce di quella nascita miracolosa, avrebbero potuto rapirla. Era stato un incredibile colpo di fortuna che fosse successo nella loro contrada, il Duodecimo del Montone, ma anche un ottimo presagio per la Corsa delle Stelle di quell'estate. Tuttavia per il capostalliere era fondamentale che rimanesse un segreto. «Non possiamo farla correre» spiegò a Cesare. «Non ci permetterebbero un vantaggio simile.» «Tanto non sarebbe pronta per quest'estate» disse Cesare. «È troppo giovane.» «Non è detto» ribatté suo padre. «Dicono che questi cavalli alati non siano come gli altri. Crescono più in fretta.» Padre e figlio stettero di guardia tutta la notte, asciugando puledra e giumenta con la paglia e dando loro un giaciglio pulito e acqua fresca. La cavallina nera sembrava davvero forte già poche ore dopo la nascita, ma i cavalli erano così comunque. Fra le tante cose di loro che piacevano a Cesare c'era proprio il modo in cui i piccoli cominciavano subito a camminare e a cavarsela. Non come i suoi fratellini e sorelline, che avevano bisogno di tutta l'attenzione della madre e che impiegavano anni e anni per crescere. Lui preferiva di gran lunga stare nelle scuderie con suo padre, in mezzo
all'odore caldo dei cavalli, piuttosto che nella loro casa affollata, sempre piena di bucato e di pentole di semolino che bollivano. E poi le scuderie erano l'unico luogo in cui riusciva a far parlare suo padre e a farsi raccontare meraviglie come quella del cavallo alato. «Succede più o meno ogni cento anni, qui a Remora» disse Paolo tutto contento. «È il primo che abbia mai visto... ed è arrivato qui, nel nostro Duodecimo. È la cosa più bella che potesse capitare al Montone.» «Ma come è successo?» chiese Cesare. «Conosciamo lo stallone. Hai fatto accoppiare Splendore con quel cavallo di Santa Fina... come si chiama... Alessandro. Non ha niente di speciale, non credi? Un gran cavallo, certo, che ha vinto la Stellata nel '68, ma un cavallo normale. Niente ali.» «Non è così semplice» disse Paolo lentamente, guardando pensieroso Cesare e soppesando con cura le parole. «Non c'è modo di prevedere l'arrivo di un cavallo alato solo studiando la sua genealogia. Succede in tempi incerti come quelli che stiamo vivendo, ed è un buon presagio per il Duodecimo in cui il puledro nasce, ma non garantisce il successo. E porta con sé anche dei rischi.» Decisero che avrebbero trasferito giumenta e puledra la notte seguente, per portarle a Santa Fina approfittando del buio. Roderigo, il proprietario di Alessandro, era una persona fidata e la cavallina sarebbe potuta rimanere nascosta finché non fosse cresciuta. Se si fosse sparsa la voce della sua esistenza, i loro rivali, soprattutto i Duodecimi dei Gemelli e della Signora, avrebbero fatto di tutto per rapirla e sottrarre al Montone quel presagio di buona fortuna. Meglio aspettare la fine della corsa di quell'anno. «Come la chiamiamo?» chiese Cesare. «Merla» rispose pronto suo padre. «Che possa sempre volare in alto.» Il negozio del signor Goldsmith era il luogo più disordinato e più interessante che Georgia avesse mai visto. Era un caos totale di mobili, addobbi, vestiti, armi, libri, gioielli e posate, tutti mischiati fra loro. C'era ancora più confusione dietro la cassa, dove un portaombrelli di ottone reggeva due spade, un archibugio, un parasole di seta verde e un paio di stampelle. La sedia del signor Goldsmith era incastrata fra pile traballanti di spartiti e libri sgualciti. Dalla sua postazione, il vecchio fissava Georgia. «Evidentemente ti piace qualcosa che ho in vetrina» disse. «Ti ho visto guardarlo quasi tutti i giorni a quest'ora. Allora, qual è il problema? Non hai abbastanza soldi? Forza, ragazzo, sputa il rospo!» Georgia si sentì arrossire. Era il suo problema di sempre, causato dai ca-
pelli cortissimi e dal fatto di essere piatta come un'asse da stiro. La imbarazzava soprattutto a scuola, perché le altre ragazze della sua classe erano invece decisamente ben fornite. Aveva cominciato a stare curva in avanti e portare maglioni larghi. Ultimamente usava la sua immagine da maschio come una scusa, come se non volesse sembrare femminile. Da qui il taglio di capelli e l'anellino d'argento nel sopracciglio destro. Il signor Goldsmith la guardava con aria interrogativa. «È il cavallo» disse Georgia. «Quello alato.» «Ah» annuì lui. «La mia piccola bellezza etrusca. Una copia, ovvio. È probabile che sia un souvenir di qualche museo italiano.» «Come? Non lo sa?» Georgia era sorpresa. «Non ne sono sicuro» rispose il vecchio. «Questa roba mi arriva nei modi più diversi. Credo che quello venga dalla casa di un'anziana signora, in Waverley Road. Aveva solo una pronipote impaziente di vendere tutto e prendersi i soldi. Ha portato qui scatole piene di ninnoli. Nessun mobile, purtroppo: per quelli ha trovato uno specializzato. Però c'era una coppia di bei candelabri che ha fruttato parecchio.» Georgia ricordava quei candelabri: li aveva visti in vetrina lo stesso giorno in cui era apparso il cavallo alato. Lei non andava mai direttamente a casa dopo la scuola; bighellonava sempre, curiosando nelle vetrine e facendo lunghe deviazioni. Non voleva trovarsi da sola con Russell prima che sua madre tornasse dal lavoro. «È molto bello» esclamò in fretta per distrarsi da quei pensieri. «Sembra vecchio.» «Tu non sei un ragazzo, vero?» disse improvvisamente il signor Goldsmith. «Scusa, ma non riesco a stare dietro alla moda di voi giovani.» «Non fa niente» replicò Georgia. «Avrei dovuto dirlo subito. Mi chiamo Georgia O'Grady. Vado a scuola alla Barnsbury Comprehensive, in Waverley Road. Penso di conoscere quella casa di cui parlava.» «E io sono Mortimer Goldsmith» disse il vecchio porgendole la mano. «Be', adesso che ci siamo presentati, prendiamo il cavallo dalla vetrina.» Si allungò verso la statuina e la posò nel palmo di Georgia. Era calda, come se fosse viva, per il sole che filtrava dalla vetrina. Georgia prese un fazzoletto di carta dalla tasca dei jeans e tolse delicatamente la polvere. Il signor Goldsmith la guardava. «Quanti soldi hai?» chiese piano, e quando Georgia accennò una cifra a cui mancavano due sterline per arrivare a quella scritta sul cartellino, le tolse il cavallo di mano e cominciò ad avvolgerlo nell'ovatta.
«Basteranno» disse. In quel momento Georgia sentì di aver trovato un amico. Quando tornò a casa, Russell era già rientrato e stava suonando CD di musica metal a tutto volume in camera sua, così Georgia riuscì ad arrivare nella propria stanza senza farsi notare. Chiuse a chiave la porta e tirò un sospiro di sollievo. Quello era sempre il momento più difficile della giornata. Quando Russell era in casa, Georgia non poteva mai sapere se sarebbe riuscita ad arrivare al sicuro in camera prima che si accorgesse di lei e cominciasse a tormentarla. Il lunedì andava bene perché lui giocava a calcio dopo la scuola e il martedì lei aveva ripetizione di matematica. Il venerdì c'erano le lezioni di violino, ma rimanevano il mercoledì e il giovedì, con due ore in cui evitare Russell tra l'uscita da scuola e il ritorno dei rispettivi genitori. Lui era più vecchio di due anni ed era anche due anni avanti a lei alla Barnsbury Comprehensive. Si erano detestati fin dal primo momento in cui si erano visti. «Se credi che io lasci che quella cretina di tua madre metta le grinfie su mio padre, ti sbagli di grosso» le aveva sibilato. Tuttavia Russell non aveva potuto impedire a Ralph di sposare Maura e nemmeno aveva avuto voce in capitolo quando tutti e due avevano venduto i rispettivi appartamenti e comprato casa insieme. Il fatto che entrambi i ragazzi fossero praticamente figli unici aveva complicato le cose. Russell aveva una sorella molto più vecchia, Liz, che era andata a vivere con la madre quando questa aveva lasciato Ralph, a cui era stato invece affidato il figlio. Da allora Russell era convinto che lui e suo padre fossero da soli contro il resto del mondo. Poi però il resto del mondo si era ridotto a Georgia. Russell tollerava Maura perché da quando stava con lei l'umore del padre era molto migliorato. Tuttavia non le aveva perdonato il fatto di essersi messa tra loro due. Non potendo prendersela con Maura, si rifaceva su Georgia. A lei, d'altra parte, sarebbe piaciuto avere un vero fratello maggiore. Ne aveva avuto uno più piccolo, ma era morto quando aveva solo pochi giorni, e non molto tempo dopo suo padre se n'era andato di casa. All'epoca Georgia era piccola e non ricordava bene nessuno dei due. Aveva solo un vago ricordo di sua madre che piangeva continuamente. Poi un giorno Maura se ne era fatta una ragione e aveva detto: «Basta così. Da adesso in avanti dobbiamo cavarcela da sole.» E così avevano fatto, finché non era arrivato Ralph. A Georgia non dava troppo fastidio. Voleva bene a Maura e sapeva essere molto spiritoso
quando era di buonumore. Però si preoccupava troppo per i soldi... e aveva portato con sé Russell. Georgia tolse il cavallo alato dal pacchetto e lo posò sulla cassettiera. Poi andò al computer e si collegò a Internet. Nel motore di ricerca scrisse Etrusco e poi: Etrusco cavallo alato. Il computer le disse che c'erano 987 corrispondenze. Georgia, che la sapeva lunga in quanto a ricerche in rete, guardò solo le prime cento. Tra i siti migliori ce n'era uno americano che mostrava un bellissimo bronzo dorato che era stato messo all'asta tre anni prima, ma non ancora venduto. Era lungo solo otto centimetri e simile a quello che aveva appena comprato. Il prezzo, però, andava dai duemila ai tremila dollari, molto di più di quanto avesse pagato lei. Un altro sito parlava di un vaso di bronzo proveniente da Monteleone, che chissà dov'era, con dipinto un carro trainato da cavalli alati. Purtroppo non c'erano illustrazioni, ma Georgia era in grado di immaginarlo. Riccardo, il capostalliere del Duodecimo dei Gemelli, attendeva un ospite illustre: Niccolò, Duca di Giglia e capo della potente famiglia dei de' Chimici. Alloggiava dal fratello minore Ferdinando, che era Papa e anche Principe di Remora. Remora era ufficialmente il centro della sempre più grande Repubblica voluta dai de' Chimici, ma era dalla città di Giglia, più a nord, che il Duca e i suoi eredi esercitavano il potere. Niccolò, pronipote del fondatore della dinastia, aveva cinque figli, quattro dei quali maschi, ed era l'uomo più ambizioso di tutta Talìa. Sotto la sua guida, la famiglia aveva allargato la propria influenza sulle principali città nel Nord del paese, la maggior parte delle quali era ora sotto il suo potere. Soltanto la città-stato di Bellezza, sulla costa nordorientale, resisteva fastidiosamente a ogni proposta di alleanza con lui o la sua famiglia, ma Niccolò aveva pronto un piano anche per i Bellezzani. Lì a Remora, comunque, era al sicuro. Percorrendo le poche centinaia di metri dal Palazzo Papale alle scuderie del Duodecimo dei Gemelli si era dovuto fermare una dozzina di volte per scambiare convenevoli con ricchi mercanti o per accettare l'omaggio di comuni cittadini che volevano baciargli la mano. Niccolò giunse alle scuderie di ottimo umore. Riccardo era molto orgoglioso: il Papa gli aveva fatto visita il giorno prima e ora ecco che il Duca di Giglia, considerato l'uomo più ricco di Talìa, veniva a ispezionare i cavalli. Il capostalliere tenne l'animale migliore per ultimo.
«E questo, Vostra Grazia, è il cavallo a cui faremo correre la Stellata.» Niccolò guardò il nervoso baio, che allargava le narici e sgroppava leggermente nella sua posta. Gli accarezzò il naso con la mano guantata e gli sussurrò qualcosa, poi si voltò verso Riccardo. «Com'è la concorrenza quest'anno?» «Vostra Grazia, sapete bene quanto in questa città tutti siano riservati riguardo ai propri cavalli» disse Riccardo con un certo nervosismo. Niccolò de' Chimici lo fissò con uno sguardo gelido. «Tu però non sei pagato solo per badare ai cavalli, ma anche per svelare questi riserbi, non è così?» «Sì, Vostra Grazia» mormorò il capostalliere. «E mi sarà ancora più facile ora che ho un nuovo stalliere. Mi è stato esplicitamente raccomandato dal nipote di Vostra Grazia, l'Ambasciatore a Bellezza. Messer Rinaldo mi ha detto che quest'uomo gli ha reso grandi servigi ed è famoso per la sua abilità nel fiutare i segreti.» Niccolò sorrise. Eccome se aveva sentito dei servigi resi da quell'uomo a Bellezza. Aveva tolto di mezzo la più fiera oppositrice della famiglia de' Chimici in quella città. Sebbene Rinaldo, il nipote del Duca, non fosse poi riuscito a sostituirla con una Duchessa ai suoi comandi, di certo la nuova sovrana di Bellezza, una ragazzina di nessun conto, non sarebbe stata difficile da influenzare. «Si intende di cavalli?» fu l'unica cosa che chiese a Riccardo. Mentre suo padre visitava la città, Gaetano de' Chimici era irrequieto. Alloggiava nel Palazzo Papale dello zio e non riusciva a capire perché Niccolò l'avesse portato lì. Di sicuro avrebbe preferito rimanere a Giglia a continuare i suoi studi all'università. Sospettava sempre di più che il padre lo tenesse all'oscuro dei veri motivi del viaggio. Sospirò. Non era facile essere un membro della più importante famiglia di Talìa. Suo padre era al centro di innumerevoli intrighi, sempre a tramare per diventare più ricco e più potente. A Gaetano quegli intrighi non interessavano proprio; voleva solo essere lasciato in compagnia dei propri libri e dei propri amici, che come lui si occupavano di pittura, scultura e musica. Non gli andava di essere coinvolto in piani per finanziare piccole guerre tra fazioni cittadine o per stringere alleanze con altre famiglie mercantili e principesche. Se fosse stato uno dei figli più vecchi le cose sarebbero andate diversamente, ma solo Falco era più giovane di lui e comunque non contava, per
quanto Gaetano e tutta la famiglia gli volessero molto bene. Fabrizio, il primogenito, avrebbe ereditato il Ducato di Giglia. Carlo sarebbe diventato Principe di Remora, dato che lo zio Ferdinando, in quanto Papa, non avrebbe avuto eredi. Beatrice senza dubbio sarebbe stata data in sposa a uno dei cugini: forse ad Alfonso, che era diventato Duca di Volana con la morte del padre Fabrizio. A lui che cosa poteva rimanere? Una volta era convinto che suo padre volesse fargli sposare una cugina, magari Caterina, la sorella di Alfonso. Da bambino Gaetano era stato molto affezionato a un'altra cugina, Francesca, il cui padre era Principe di Bolonia, ma recentemente aveva saputo che era stata data in sposa a un vecchio Bellezzano per assecondare qualche piano dinastico. Gaetano scosse la testa. Che razza di famiglia! Da qualche tempo, poi, temeva che suo padre volesse indirizzarlo verso la Chiesa. Lo zio Ferdinando non sarebbe vissuto per sempre e Niccolò stava già pensando a chi gli sarebbe succeduto come Papa. Carlo aveva già messo in chiaro che non aveva intenzione di abbracciare la carriera ecclesiastica e per esclusione restava soltanto lui. "Non voglio" si disse. "La Chiesa dovrebbe essere una vocazione, non una nomina politica. Perché non lasciano che mi dedichi ai miei studi? " Purtroppo conosceva bene la risposta. Tutti i de' Chimici dovevano collaborare al successo della dinastia. Anche le donne erano preparate ad andare in sposa dove decideva il capofamiglia. Le loro opinioni e preferenze non venivano tenute in considerazione. Non che per i figli maschi fosse diverso. Ricevere un principato, sposare una principessa, andare come ambasciatore in qualche città, prendere i voti... era tutto lo stesso. Gaetano pensava seriamente alla possibilità di diventare il primo de' Chimici in cinque generazioni a dire di no. "Le famiglie sono proprio assurde" pensò Georgia. "Non c'è un altro modo per vivere insieme?" In casa loro, l'atmosfera a cena era sempre tesa e lei non capiva perché sua madre ci tenesse ad avere tutti intorno a un tavolo. «È l'unico momento della giornata in cui possiamo sederci insieme come una famiglia e raccontarci che cosa abbiamo fatto» sosteneva. Per Georgia quell'idea aveva due grossi difetti. In primo luogo, quella non era una famiglia e non lo sarebbe mai stata. Anche se fosse arrivata a considerare Ralph come un padre, non avrebbe mai accettato Russell come
fratello. Secondo, Maura come cuoca faceva schifo. Ralph non era molto meglio e spesso l'importantissimo pasto familiare consisteva in pizza preconfezionata riscaldata o in pesce e patatine fritte comprati nella rosticceria all'angolo. Non che questo facesse differenza per Maura. Niente televisione o radio; Georgia e Russell dovevano apparecchiare con piatti e posate anche per cibi che si potevano mangiare con le mani; e tutti e quattro dovevano stare seduti per venti insopportabili minuti di cortesia formale e di schifezze che alla fine rimanevano sullo stomaco. Gli adulti facevano domande e gli adolescenti rispondevano: la "conversazione" era tutta lì. A cena, Georgia e Russell non si parlavano mai direttamente. Anzi, Georgia si rese conto che non si parlavano mai in presenza dei genitori. Quando erano soli, situazione che lei evitava il più possibile, Russell era molto più loquace, perché era il tipico bullo che aggredisce a parole. A volte Georgia l'avrebbe preferito un po' meno scaltro e un po' più manesco. Se l'avesse picchiata, in un certo senso sarebbe stato tutto più facile: con dei lividi da mostrare a sua madre, il fratellastro non avrebbe potuto passarla liscia. Ma le sue erano molestie alimentate dall'odio, che non lasciavano tracce visibili, però la distruggevano dentro. Russell si era appigliato alle paure e alle insicurezze più profonde di Georgia e le aveva trascinate allo scoperto, mettendole sotto l'implacabile riflettore del proprio sarcasmo. "Cozza" era l'insulto più tenero. Lui analizzava in dettaglio la mancanza di femminilità di Georgia, il suo essere poco attraente, la sua ossessione per i cavalli: «Lo sanno tutti cosa vuol dire, no? È un classico. Un sostituto del sesso. Tutte le donne appassionate di cavalli sono zitelle o cozze, proprio come te.» Russell continuava a sputare veleno e Georgia non sapeva come difendersi. Ovviamente lo aveva detto a sua madre in diverse occasioni, e una volta ne aveva perfino parlato a Ralph. Tutti e due però avevano sostenuto che esagerava, che doveva aspettarsi qualche presa in giro da un fratello maggiore e che era troppo sensibile. Dopodiché Russell era diventato ancora peggio, rinfacciandole la debolezza di essere corsa dalla mamma per farsi proteggere. Georgia si era chiusa ancora di più in se stessa, nascondendo la propria vulnerabilità, parlando a monosillabi, incapace di capire perché provocasse tanto odio in qualcuno con cui non aveva scelto di vivere. Dopotutto lei
aveva altrettanti motivi, o altrettanto pochi, per odiare lui. Il giorno in cui il cavallo alato entrò nella sua vita finì male. Georgia era riuscita a evitare di rimanere sola con Russell dopo la scuola, ma inorridì scoprendo durante la cena (un pasticcio di carne comprato al supermercato e piselli surgelati) che Maura e Ralph sarebbero andati al cinema. Succedeva circa una volta al mese, e dato che i film che piacevano a loro erano un po' intellettuali, spesso girati in bianco e nero, avevano smesso di chiedere a Georgia e Russell se volevano partecipare. Chiamare una baby-sitter era fuori questione, dato che i ragazzi avevano quindici e diciassette anni. Georgia si precipitò in camera ancora prima che uscissero. Subito si immerse nei compiti di biologia, ma a un certo punto dovette andare in bagno. Russell era sul pianerottolo. Se ne stava davanti alla porta del bagno, grosso e minaccioso, senza far niente in particolare. Georgia sapeva che sarebbe stato anche capace di impedirle di entrare fin quando non se la fosse fatta addosso e che ciò gli avrebbe dato nuovi ottimi spunti per prenderla in giro. Stava già progettando uno scatto verso il piccolo bagno in camera di Maura e Ralph, quando lui spostò la sua massa dalla porta e lei riuscì a entrare appena in tempo. Quando uscì dal bagno, lui era ancora lì e la seguì in camera. Non fu abbastanza veloce da chiuderlo fuori e così avrebbe dovuto sopportare la sua presenza finché non avesse deciso di andarsene. Era una delle situazioni peggiori che potesse immaginare. Per un po' lui non disse nulla e di colpo Georgia si rese conto di come Russell doveva vedere la camera. Non era come quella di altre quindicenni. Non c'erano poster di cantanti pop, di attori televisivi o di qualche bel calciatore straniero. L'unico poster, vecchio e malridotto, era quello di Everest Milton in una mostra di cavalli a cui Maura l'aveva portata quando aveva sette anni. Poi c'era una stampa incorniciata con due cavalli, uno nero e uno bianco, che correvano lungo un fiume in piena. Georgia sapeva che non era un granché come quadro, ma le piaceva lo stesso. Il cavallo alato era sulla cassettiera. «Sei proprio una ritardata, sai?» disse Russell in tono quasi affabile. «Vedi, le ragazze alla tua età di solito lasciano perdere questa cosa dei cavalli. A parte i casi umani giù al maneggio, ma quelle sono tutte fuori di testa.» Georgia non ce la fece più. «Non ci sei mai stato al maneggio! Non sai niente della gente che ci lavora!» Ribattere a Russell era sempre un errore. Sghignazzò. «E invece credo di
sì. D'altro canto, con chi altri potresti stare? Un ragazzo non ti guarderebbe neanche. O forse se fosse ubriaco e avesse fatto una scommessa...» Russell camminava per la stanza afferrando gli oggetti e rimettendoli giù a caso. Georgia si mosse piano piano fino a dare le spalle alla cassettiera per non fargli notare il cavallo alato. Avrebbe dovuto nasconderlo al più presto. Era troppo prezioso per lasciare che gli mettesse le mani sopra. «Sai, non è una cattiva idea» continuò. «Potresti investire un po' di soldi per fare ubriacare qualche mio amico e farti invitare fuori per scommessa. Sarebbe meglio che cavalcare, no?» Georgia strinse i pugni. Una rabbia feroce le stava crescendo dentro. Avrebbe voluto scagliarsi contro Russell e riempirlo di pugni, ma contro la sua stazza avrebbe fatto una figura patetica. Proprio in quel momento il telefono squillò e Russell andò a rispondere. Georgia sentì il tono disinvolto che usava quando parlava con gli amici. Poi scattò verso la porta e la chiuse a chiave. Le tremavano le mani. Di sicuro non sarebbe uscita un'altra volta per lavarsi i denti: meglio rischiare la placca. Cesare andò alle scuderie per dare il cambio della guardia al padre, portando con sé il pranzo. Carezzò il naso di Merla e sussurrò parole tranquillizzanti a Splendore. «Presto vi porteremo al sicuro. Nessuno ti toglierà la tua puledra.» Si appoggiò con la schiena a un palo e allungò le gambe sulla paglia. La gatta grigia spuntò dal nulla e gli si accoccolò in braccio, facendo le fusa e spingendo la testa verso la mano che stringeva pane e formaggio. Georgia se ne stava distesa supina al buio, con le lacrime che uscendo dall'angolo degli occhi le colavano verso le orecchie. Teneva stretto in mano il cavallo alato. Non era mai stata tanto infelice, nemmeno quando il suo fratellino era morto e suo padre se n'era andato e mamma piangeva sempre. Era troppo piccola: le sue preoccupazioni maggiori erano avere una fetta di torta per merenda o trovare un nome per la nuova bambola che mamma le aveva regalato quando Ben era nato. La sua vita era diventata un incubo. A scuola aveva pochi amici e la maggior parte delle ragazze che conosceva dalle elementari sembravano aver cambiato vita. C'era solo una nuova compagna, Alice, con cui forse poteva stringere amicizia. In un certo senso Russell aveva ragione: dal punto di vista delle relazioni sociali, Georgia era ritardata. Non veniva
invitata alle feste e sapeva che alcuni della sua classe nel fine settimana andavano al pub e in discoteca, posti in cui non l'avrebbero mai lasciata entrare, nemmeno se avesse provato a farsi dare più anni truccandosi e indossando minigonna, tacchi e top che lasciassero scoperto l'ombelico. Al buio, riuscì perfino a fare un sorriso a quel pensiero. In casa doveva inventarsi uno stratagemma dietro l'altro per evitare Russell, ma ora tenersi alla larga da lui non bastava più. La cercava sempre e non era contento se non la tormentava. Non poteva andare avanti così. Se sua madre non voleva aiutarla, non le sarebbe rimasto che scappare di casa. Georgia si addormentò con la statuetta del cavallo alato in mano, sognando di trovare un luogo dove i cavalli avessero le ali e dove lei potesse volare via per sempre dai suoi problemi. Fu la gatta a svegliare Cesare, che stava sonnecchiando. Si tese di colpo sul suo grembo alzandosi sulle quattro zampe, con il pelo dritto e un brontolio rabbioso nella gola. Lui vide subito che cosa l'aveva allarmata. Rannicchiato in un angolo c'era un ragazzo con gli occhi spalancati e terrorizzati. Cesare scattò in piedi stupefatto. Non avrebbe mai pensato che un nemico del Montone potesse mandare qualcuno a rapire Merla, tanto meno un ragazzo magrolino e spaventato come un coniglio. Poteva anche essere soltanto una spia, però. Cesare si fece avanti con i pugni alzati. «Che cosa vuoi?» chiese senza tanti complimenti. «Qui non c'è niente che ti riguardi. Vattene!» Georgia non capiva niente, a parte il fatto di trovarsi in una scuderia. Solo il calore e l'odore familiare e rassicurante dei cavalli la trattenevano dall'urlare. Non aveva idea di come fosse finita lì o di chi fosse quel ragazzo dai capelli castani. Sembrava nascondere alla sua vista qualcosa dietro le spalle. Le ricordò se stessa mentre nascondeva il soprammobile dalla vista di Russell. Aprì adagio la mano che stringeva la statuina. Il ragazzo sussultò e, mentre si avvicinava per osservare meglio, Georgia vide dietro di lui una creatura prodigiosa, che avrebbe potuto aver fatto da modello per il cavallino che teneva in mano: una bellissima puledra nera con due piccole ali piumate ripiegate sulle spalle. Capitolo 2 Una nuova Stravagante
Le due figure nelle scuderie erano immobili. Ognuna fissava con gli occhi sgranati un cavallo alato. Poi Cesare si rilassò leggermente. Lo strano ragazzo non sembrava costituire una minaccia, ma era evidentemente sbalordito alla vista della cavallina nera. Perché allora teneva in mano una statuina che la raffigurava? «Dove l'hai presa?» chiese. «Dove sono?» chiese Georgia contemporaneamente. Era una domanda talmente strana che Cesare si dimenticò della propria. Guardò meglio il ragazzo. Era davvero bizzarro. Tanto per cominciare, i suoi vestiti erano fatti di un materiale raffinato, come quelli che a Remora avrebbe indossato solo un ricco mercante; ma erano sformati, senza grazia e senza ornamenti, come se fossero stati cuciti dal più umile dei contadini. Però, come un giovane principe, portava argento prezioso alle orecchie e addirittura al sopracciglio, una cosa che Cesare non aveva mai visto in Talìa. Era un mistero. «Come sei arrivato qui, se non sai dove ti trovi?» chiese Cesare. Georgia scosse la testa. «Non lo so» disse. «Un attimo fa ero nel mio letto a Londra e adesso sono qui in questa scuderia. Ma non fa parte del maneggio dove vado di solito. Non conosco nessuno di questi cavalli. Specialmente quella. Ma è una vera meraviglia...» Cesare capì subito che quello strano ragazzo era un grande appassionato di cavalli. Lasciò che si avvicinasse alla cavallina: non le avrebbe certo fatto del male. «Però hai con te una sua statuina» disse. «Se davvero non sapevi che fosse qui, è una ben strana coincidenza che tu sia arrivato nel Duodecimo del Montone solo poche ore dopo la sua nascita.» «E infatti non lo sapevo» replicò Georgia. «Come avrei fatto? Cioè, i cavalli con le ali non esistono. Non sono veri.» «Lo sono qui a Remora» disse Cesare con orgoglio. «Nascono solo ogni cento anni, più o meno... e questa volta l'onore è toccato al Montone.» «Scusa, ma non capisco cos'è questo "Montone"» ribatté Georgia. «Non sei di Remora?» chiese Cesare.
«No, te l'ho detto. Abito a Londra, a Islington.» Poi, dato che il ragazzo continuava a guardarla stupefatto, aggiunse: «In Inghilterra. Sai... Europa, Terra, sistema solare, universo.» «In Anglia?» disse Cesare: «Ma adesso sei in Talìa. A Remora, la sua città più importante. Come hai fatto ad arrivare qui senza saperlo?» Cesare lo guardò più attentamente per capire se stesse mentendo, poi notò gli occhi gonfi e le tracce di lacrime sulla sua faccia e si vergognò. Qualcosa lo aveva reso profondamente infelice. Lui era solo un anno o due più vecchio di quel ragazzo, ma non ricordava di essere mai stato tanto infelice da piangere così. «Ti è successo qualcosa?» chiese goffamente. «Qualcuno ti ha fatto del male?» In quel momento Georgia si ricordò tutto. Le molestie di Russell, la sensazione di impotenza, il desiderio di fuggire in un mondo dove i cavalli volassero. Forse era tornata indietro nel tempo e nello spazio al luogo dove vivevano gli Etruschi. Come si chiamava... Etruria? Ma quel ragazzo aveva parlato di Remora e di Talìa, posti che lei non aveva mai sentito. Era stanca e chiuse gli occhi. Forse quando li avesse riaperti lui sarebbe scomparso, insieme alla prodigiosa cavallina e alla scuderia. Invece accadde che un uomo grosso e dai capelli grigi, così simile al ragazzo da dovere per forza esserne il padre, entrò nelle scuderie e la guardò meravigliato. «Chi è, Cesare?» chiese bruscamente. «Non lo so» rispose il ragazzo. «È arrivato... all'improvviso.» «Mi chiamo Georgia O'Grady» disse lei, rendendosi conto che Cesare non capiva di avere di fronte una ragazza. «Giorgio Gredi» replicò l'uomo. Georgia intuì di essere stata di nuovo scambiata per un maschio, ma non le venne dato il tempo per ribattere. «Io sono Paolo Montalbano, capostalliere del Duodecimo del Montone» aggiunse lui. «Mi pare che tu abbia già conosciuto mio figlio Cesare. E ora spiegaci che cosa fai qui.» In un'altra scuderia della città, a meno di un miglio di distanza, a un nuovo stalliere venivano presentati i cavalli affidati alle sue cure. «E questo è Benvenuto, che abbiamo scelto per la Stellata» disse Riccardo. Il nuovo stalliere gettò uno sguardo da intenditore verso il baio e gli grattò la testa tra le orecchie. Era contento di essere di nuovo in mezzo agli
animali: non gli era mai piaciuto vivere a Bellezza, dove nessuno cavalcava; una città effeminata e artificiale, piena di regole e con un'assurda venerazione per la propria sovrana. Enrico ne aveva abbastanza delle donne; molto meglio i cavalli. Il suo fidanzamento era finito disastrosamente. La promessa sposa era scomparsa in circostanze misteriose, ma lui ormai sospettava che fosse scappata con un altro uomo. Però il padre di lei gli aveva dato ugualmente metà della dote e il suo vecchio padrone, Rinaldo de' Chimici, lo aveva pagato profumatamente per i servigi resigli a Bellezza. Per essere sinceri, Enrico non avrebbe avuto bisogno di quel lavoro a Remora. Tuttavia era nel suo istinto fare la spia, e inoltre si stava avvicinando al cuore della famiglia de' Chimici. Il suo nuovo padrone era il Papa, lo zio di Rinaldo, membro del ramo principale della dinastia. Il compito di Enrico, che formalmente consisteva nel lavorare nelle scuderie dei Gemelli, era in realtà di assicurare, con ogni mezzo a disposizione, che il loro baio vincesse la Stellata. «Siamo a cavallo, davvero» disse piano a Benvenuto, e l'animale nitrì sommessamente. Quando Georgia arrivò a metà circa della sua storia, i Montalbano si accorsero che l'intruso era una ragazza. «Ma allora perché ti vesti come un maschio?» chiese Paolo. Georgia osservò quello che aveva indosso: pantaloni grigi della tuta e una T-shirt larga, il suo solito pigiama. Alzò le spalle. «Nel posto da cui vengo, sia i ragazzi che le ragazze portano questa roba» disse. «Le ragazze portano i calzoni?» esclamò Cesare incredulo. «E si acconciano in questa maniera?» «Non tutte» ammise lei, passandosi la mano nei capelli sparati. «Però tutte portano i pantaloni.» Poi ebbe un'intuizione. «Qui non è notte, vero?» Per tutta risposta, Paolo spalancò la porta delle scuderie e i raggi di luce si riversarono all'interno. Cesare sussultò. Georgia vide che lui e suo padre la stavano guardando a bocca aperta. «Che c'è?» chiese timorosa. Cesare indicò un punto alle sue spalle. «Non hai l'ombra» disse. Dopo la visita alle scuderie dei Gemelli, Niccolò de' Chimici attraversò
la città fino al Duodecimo della Signora. Il percorso lo portò nella terra di nessuno costituita dalla Strada delle Stelle, che andava dalla Porta del Sole a nord della città fino alla Porta della Luna a sud. Era un'ampia strada, larga abbastanza perché due carri trainati da cavalli potessero incrociarsi. A metà, nel centro di quella città pressoché circolare, si estendeva il Campo delle Stelle, una spaziosa piazza rotonda divisa in quattordici settori, dove ogni anno aveva luogo la Corsa delle Stelle. Niccolò si soffermò ai margini a contemplare l'attività frenetica del Campo. Nel suo centro esatto stava la fontana, con un parapetto circolare di pietra da cui si godeva la vista migliore della corsa. Dalla fontana, circondata da pesci di marmo che sputavano acqua e da ninfe, anch'esse di marmo, che reggevano anfore, si ergeva una snella colonna, poco più spessa di un palo. In cima vi era la statua di una leonessa che allattava due gemelli: Remo, che aveva fondato la città, e Romolo, che invece si era avventurato più a sud per dare origine alla rivale Romula. Il grandioso Palazzo Papale e le case intorno al Campo avevano eleganti balconi che dominavano la pista. Nel giro di poche settimane ognuno di quei balconi sarebbe stato addobbato con i colori del proprio Duodecimo: il bianco e il rosa dei Gemelli sul balcone papale, il verde e il viola per la Signora, il rosso e il giallo per il Montone... Al pensiero di quest'ultimo, Niccolò digrignò i denti. «Qualcosa di fresco per Vostra Grazia?» disse il proprietario di una bancarella avvicinandosi al Duca con un boccale di sorbetto al limone. Niccolò bevve avidamente, gettando all'uomo una quantità d'argento di molto superiore al costo del sorbetto. Poi si chiese perché fosse stato così incauto. Normalmente non mangiava o beveva niente al di fuori dei palazzi della sua famiglia, dove aveva degli assaggiatori per proteggersi dai veleni, ma con l'età stava diventando imprudente. Comunque aveva avuto fortuna: quella era solo una bevanda al limone. Poi attraversò il Campo e si tuffò in uno degli stretti vicoli sul lato opposto, che portavano alla via maestra del Duodecimo della Signora. «Sono stato di nuovo incauto» borbottò, guardandosi alle spalle. Fortunatamente nessuno l'aveva seguito e il Duca proseguì lungo Via della Donna fino alla piazza principale del Duodecimo, passando accanto a numerose statue che a volte ricordavano una dea orientale e a volte la dolce madre del Bambino nato per diventare il Re del mondo. Questa discrepanza non preoccupava Niccolò. Era un Talìano autentico ed era abituato a praticare, almeno esteriormente, due religioni allo stesso tempo.
Si sentiva più a suo agio nel Duodecimo della Signora che in qualsiasi altra parte di Remora. La contrada era gemellata con Giglia, proprio come ogni altro Duodecimo era gemellato con una delle città-stato del paese. Anche lì nella Città delle Stelle, dunque, c'era una piccola porzione della Città dei Fiori. Niccolò avrebbe scommesso sul cavallo della Signora, mentre la casa di suo fratello avrebbe naturalmente sostenuto i Gemelli. Quel loro Benvenuto era uno splendido animale. Meglio andare a visitare le scuderie della Signora per vedere quale cavallo avrebbero fatto correre i suoi. Paolo stava facendo sorseggiare a Georgia i resti della birra che Cesare si era portato per pranzo. Quando aveva notato di essere senza ombra, la ragazza era impallidita e si era lasciata cadere sulla paglia. «Che cosa vuol dire?» chiese. «Che non mi trovo realmente qui?» «In un certo senso» disse Paolo serio. «Vuol dire che sei una Stravagante.» Per Georgia la parola non significava niente, ma vide Cesare farsi quello che sembrava il segno della croce, come se gli avessero detto che lei era una strega o un demonio. «Che facciamo?» domandò il ragazzo. «Non possiamo consegnarla alle autorità.» «No di certo» rispose Paolo con calma. «Dovremo semplicemente parlarne con un altro Stravagante.» «E come facciamo?» chiese ancora Cesare, visibilmente preoccupato. «Non sono maghi potenti e pericolosi che abitano in città come Bolonia?» «Non necessariamente» disse il padre sorridendo. «Anch'io sono uno di loro.» A quella frase toccò a Cesare sedersi di colpo. Georgia non sapeva che cosa fosse uno Stravagante e non sapeva nemmeno come lei e quell'uomo dalle spalle larghe potessero esserlo entrambi, visto che lui aveva chiaramente un'ombra. Capiva però che l'affermazione di Paolo era stata uno shock per Cesare. «È ora che tu lo sappia» disse il capostalliere. «Era da un po' che pensavo di dirtelo. Due dei miei confratelli ci faranno visita fra qualche giorno e ci consiglieranno come comportarci con la giovane Georgia. Nel frattempo dobbiamo trovarle dei vestiti che non la facciano notare troppo.» Si voltò verso di lei. «Dovrai vestirti da ragazzo per via dei tuoi capelli, temo. Comunque sarà meglio che continui a passare per Giorgio mentre sei qui.»
«Va benissimo» disse in fretta Georgia. Non voleva pensare a cosa potessero indossare le ragazze in quel posto in cui chissà come era capitata. Dei sottogola, forse. Di sicuro dei corsetti. Il padre mandò Cesare a cercare dei vestiti, mentre lei andò a esaminare la cavallina alata. Poi mostrò a Paolo la statuina. «È incredibile, vero? Non può essere una coincidenza se sono finita qui.» «Infatti» disse lui. «Quello è un talismano. Tutti gli Stravaganti ne hanno uno. Sono la chiave per viaggiare tra i nostri mondi. Se fossi in te, però, lo terrei nascosto, specialmente qui a Remora. La città è una roccaforte dei de' Chimici e loro sono molto interessati alla Stravaganza.» «Scusatemi» ribatté Georgia. «Probabilmente penserete che sia molto ignorante, ma possiamo fare un passo indietro? Non so che cosa sia la Stravaganza, né che cosa c'entri col fatto che io mi trovi qui, né chi siano questi Dechimi o come si chiamano. E a proposito, quanto dovrò restare? A mia madre verrà un colpo se domattina non mi trova.» Si fermò. «Sempre che là non sia già mattina!» Paolo scosse la testa. «Non so rispondere a tutte le tue domande, ma ti dirò quello che conosco e quello che sospetto. Gli Stravaganti sono una Fratellanza di scienziati sparsi per tutte le città-stato di Talìa. Io sono l'unico a Remora. È un'attività pericolosa, così la maschero facendo anche il capostalliere. Nemmeno la mia famiglia sa che sono uno Stravagante... o almeno non lo sapeva fino a poco fa, quando l'ho detto a Cesare.» «Sembrava sconvolto» osservò Georgia. «Perché è pericoloso?» «Il primo Stravagante arrivò qui dal tuo mondo per errore» disse Paolo. «Fu il fondatore della nostra Fratellanza. Veniva da quella che tu chiami Inghilterra e noi Anglia. Era un filosofo naturale, un alchimista. Giunse qui a causa di un incidente alchemico che provocò un'esplosione nel suo laboratorio.» «Come si chiamava?» chiese Georgia, pronta a memorizzare il nome per poi cercarlo su Internet. «William Dethridge» rispose Paolo. «Almeno quello era il suo nome all'epoca. Arrivò in Talìa venticinque anni fa, quando i de' Chimici cominciavano a imporre il loro dominio su tutto il paese. Da allora ha addestrato alcuni Talìani all'uso dei talismani da lui portati, perché potessero viaggiare nel suo mondo. Questi hanno lasciato a loro volta dei talismani di Talìa nella tua Inghilterra, per permettere ad altri di compiere il viaggio al contrario.» «Talismani?» fece Georgia. «Come il mio cavallo alato? Viene da Ta-
lìa?» «Sì» rispose Paolo. «L'ho portato io stesso.» Stavolta fu Georgia a scuotere la testa. «Siete stato in Inghilterra?» ribatté incredula. «Nel mio mondo? Quando? E come? Il signor Goldsmith mi ha venduto il cavallo nel suo negozio di antiquariato. Ha detto che veniva dalla casa di una anziana signora in Waverley Road.» «Qualche mese fa c'è stata una grave crisi tra i de' Chimici e gli Stravaganti» raccontò Paolo, passandosi le mani fra i capelli grigi con aria preoccupata. «Ci sono molte cose che devo spiegarti e che devi imparare. Un nuovo arrivato è come un agnellino appena nato in mezzo ai lupi, specialmente perché sei stata portata dritta in uno dei centri di potere dei de' Chimici.» «Continuate a nominarli» lo interruppe Georgia. «Ma chi sono? E perché rappresentano una minaccia per gli Stravaganti?» «Sono una famiglia potente, la più potente in tutta Talìa» spiegò Paolo. «I membri della loro casata sono Duchi o Principi in quasi tutte le cittàstato nel Nord del paese. Dove non sono al potere hanno stretto alleanze con i sovrani. Qui a Remora, che era la capitale del grande Impero Remano, il secondogenito dell'attuale generazione dei de' Chimici è il Papa ed è anche il nostro Principe. Hanno ricchezze favolose e la loro ambizione non ha limiti. Vogliono dominare tutta Talìa. Hanno trionfato al Nord con una sola eccezione, e ora stanno rivolgendo le proprie attenzioni a Romula e Cittanuova al Sud. Una volta che tutte e dodici le città entrassero nella loro Repubblica, sicuramente la Repubblica diventerebbe Regno. E puoi immaginare a quale dinastia apparterrebbe il primo re.» Guardò Georgia aspettando una risposta. Lei parlò lentamente. «I de' Chimici? Scusate, ma proprio non capisco che cosa tutto questo c'entri con me. Non ne so niente di politica, e la vostra sembra anche molto diversa dalla nostra. Voglio dire, ma in quale secolo vivete?» «Nel Cinquecento» rispose Paolo. «Nel sedicesimo secolo. So che tu vieni da più di quattrocento anni nel futuro. Ricorda che ho visitato non solo il tuo mondo, ma anche il tuo tempo.» «C'è un'altra cosa» disse Georgia. «Questa vostra Talìa sembra essere una versione dell'Italia del mio mondo, a giudicare dai nomi. Ma come faccio a capire quello che dite se non ho mai preso neanche una lezione di italiano in vita mia?» «Gli Stravaganti capiscono sempre la lingua del paese in cui viaggiano» spiegò Paolo. «Finora però i passaggi sono avvenuti solo fra la tua Inghil-
terra e la nostra Talìa.» «Allora perché qui siamo centinaia di anni nel passato? Be', almeno nel mio passato. Mi spiace, ma ci sono ancora tante cose che non capisco. Avete detto che sono stata portata qui per un motivo, ma quale? Sono solo una ragazzina, perfino più giovane di Cesare, a quanto sembra. Come posso aiutare gli Stravaganti contro una famiglia ricca e potente? Non riesco neanche a controllare un solo membro della mia.» In quel momento Cesare entrò di corsa con una pila di vestiti. «Scusate se c'è voluto tanto» disse col fiatone. «C'era un ospite in casa. L'ho convinto a prendere un po' di vino con Teresa, ma dobbiamo nascondere Georgia. E non solo lei. Vuole vedere i cavalli.» «Chi è?» chiesero Paolo e Georgia contemporaneamente. «Il Duca Niccolò» disse Cesare. «Niccolò de' Chimici è nella nostra cucina. E arriverà qui a momenti!» Capitolo 3 Una città divisa
Il Duca Niccolò era rimasto colpito da Zarina, la cavalla da corsa della Signora. Era una focosa giumenta di tre anni, pronta a dare il massimo nella Stellata. Tuttavia il pensiero del Duodecimo del Montone continuava a tormentarlo e così aveva deciso d'impulso di visitare anche le loro scuderie. Proprio come la Signora era gemellata con Giglia e i Gemelli con la stessa Remora, il Montone era il Duodecimo gemellato con Bellezza, e il Duca intendeva fare in modo che il loro cavallo non creasse problemi per l'esito della corsa. Naturalmente non avrebbe permesso che questi sentimenti trapelassero. Per quegli umili stallieri era un onore ricevere la visita del grande Duca di Giglia e lui si dimostrò cortese, come si addiceva a un aristocratico fra i suoi sottoposti. Il capostalliere e suo figlio sembravano aver apprezzato l'onore. Erano tutti agitati per la sua presenza nelle scuderie e ansiosi di mostragli il proprio campione, quegli idioti. Se avessero avuto un po' di buon senso, gli
avrebbero detto che a correre sarebbe stato un altro cavallo. Bella bestia, quel loro Arcangelo, ma sgraziato. «Splendido, splendido!» continuava a ripetere lui con entusiasmo. «La Signora dovrà sforzarsi per batterlo, sebbene anche il nostro sia un ottimo cavallo.» «Certo, Vostra Grazia, ma siamo solo all'inizio» replicò Paolo educatamente. «Da qui al giorno della gara possono ancora accadere molte cose.» «È vero» disse il Duca. Era ormai stanco e non vedeva l'ora di tornare alle comodità del Palazzo Papale. Uscendo dalla stalla, però, si fermò a osservare la giumenta grigia con la sua puledra nera. Quest'ultima aveva una coperta addosso. «Che cos'ha la puledra?» chiese. «Una leggera febbre, Vostra Grazia» rispose Paolo. «Cerchiamo di essere prudenti, perché è nata soltanto la scorsa notte.» Niccolò annuì. «La prudenza non è mai troppa.» Uscendo dalle scuderie fece uno svogliato cenno di saluto, chinandosi leggermente dal momento che la sua testa sfiorava lo stipite della porta. Paolo lo accompagnò. Non appena i due furono usciti, un forte starnuto proveniente dall'alto fece correre Cesare su per la scala per raggiungere il fienile. Georgia aveva seguito tutto l'incontro da un varco nelle assi del pavimento. «Meno male che non hai starnutito quando il Duca era qui» disse il ragazzo. Poi entrambi si misero a ridere, sollevati dal fatto che il visitatore non avesse visto Georgia né avesse capito qualcosa riguardo alla cavallina. La testa brizzolata di Paolo spuntò dalla botola. «Via libera, ma c'è mancato poco» disse. «Prima portiamo Merla a Santa Fina, meglio è.» «Dobbiamo portare lei e Splendore fuori città» spiegò Cesare a Georgia. «Mio padre pensa che sia più sicuro. Se gli altri Duodecimi sapessero che cosa è successo qui, potrebbero cercare di rapirla.» Georgia si era infilata gli abiti da ragazzo mentre il Duca Niccolò era nelle scuderie. Lei e Cesare avevano più o meno la stessa taglia: o lui era piccolo per la sua età oppure i ragazzi talìani non erano alti quanto i loro equivalenti nel ventunesimo secolo. Paolo la valutò attentamente. «Ora sembri quasi un Remorano, anche se i tuoi gioielli d'argento contrastano con i vestiti da garzone di stalla.» «Be', io non sono Remorana» replicò Georgia. «E continuo a non capire niente della vostra città e di questa corsa che sembra così importante. E non avete finito di parlarmi degli Stravaganti.»
«Per quello ci sarà tempo dopo» disse Paolo. «Ora devi imparare a orientarti in città. Se stravaghi come l'ultimo visitatore che è giunto dal tuo mondo, dovrai tornare a casa al tramonto. Ti restano un paio di ore in cui Cesare può portarti a fare un giro per Remora. Ci penserà lui a spiegarti tutto sulla Stellata.» Nel Palazzo Papale, il Pontefice si tolse con cura il piviale di broccato argentato, rimanendo con una tonaca di seta rosa. Aveva una figura massiccia, anche se non era alto quanto il fratello Niccolò. E non era neppure altrettanto ambizioso. Apprezzava la bella vita, i vini pregiati e il cibo ricercato, il suo soffice letto e la sua biblioteca di manoscritti rari. Non avere una moglie e una famiglia non gli pesava. Preferiva decisamente un bicchiere di vino rosso bellezzano e una discussione teologica con i suoi cardinali alla preoccupazione di dover rendere felice una donna. Le uniche dame che frequentava erano le cognate e le nipoti. La sola cosa che preoccupava Ferdinando era la sua successione. Il nipote Carlo sarebbe diventato Principe di Remora, ma chi sarebbe stato Papa? Era impensabile che un ruolo tanto importante dovesse passare a qualcuno al di fuori della famiglia. Aveva sperato che la visita di un altro nipote, Gaetano, lasciasse presagire un suo interesse nella carriera ecclesiastica, ma per il momento il ragazzo si era dimostrato scontroso e non a proprio agio nel palazzo. La cosa lo preoccupava. In genere non pensava al fatto di essere solo un fantoccio manipolato dal fratello maggiore, più intelligente e spietato. Ovviamente era stato Niccolò a decidere che lui prendesse i voti, ed era stato il suo denaro ad assicurare la rapida ascesa di Ferdinando al titolo cardinalizio e infine al Papato. Trovava inquietante ricordare che il vecchio Papa, Augusto II, era morto proprio al momento giusto. D'altro canto il suo predecessore era avanti con gli anni e Ferdinando cercò conforto in quel pensiero. Essere il Principe della più importante città del paese e capo della Chiesa gli garantiva agi, perfino lussi, nonché rispetto, almeno in apparenza. Quando camminava per strada la gente si inginocchiava al suo passaggio. Ciononostante, Ferdinando era consapevole di non essere come i papi del passato, quando l'Impero Remano era al suo apice. Lo sguardo chiaro del giovane Gaetano glielo aveva ricordato. «La cena è servita, Santità» annunciò il servitore. Ferdinando si avviò verso la sala da pranzo. I suoi occhi si illuminarono
alla vista dei piatti e dei calici d'argento, su una tavola rischiarata da tante candele quante ce ne potevano essere sull'altare principale del Duomo di Remora. Intorno alla tovaglia candida sedevano solo lui, Niccolò e Gaetano, ma c'erano almeno una dozzina di servi pronti a occuparsi di ogni loro bisogno. Dopo una breve preghiera di ringraziamento recitata in Talìco, l'antica lingua di Remora e di tutta Talìa, i tre uomini si dedicarono al cibo. Ferdinando mangiò lentamente e con gusto, assaporando le pietanze preparate con cura. Niccolò mangiò poco, ma bevve molto. Gaetano divorò qualunque cosa gli venne messa davanti, come se avesse lavorato duramente nei campi per tutto il giorno invece di aver bighellonato per il palazzo rimpiangendo i suoi amici e i suoi libri. «Come hai passato la giornata, fratello mio?» domandò Ferdinando. «In maniera molto proficua» rispose Niccolò. «Ho visto il tuo campione Benvenuto, ho visitato la mia Zarina e poi mi sono recato al Montone.» Ferdinando alzò le sopracciglia. «E chi faranno correre quest'anno?» «Un bel castrone sauro di nome Arcangelo» disse Niccolò. «È un cavallo vivace e dalle ossa buone. Direi che hanno ottime probabilità.» Gaetano fece una specie di grugnito, poi finse che gli fosse andato di traverso il vino. «Saresti dovuto venire con me, Gaetano» disse affabile il padre. «Ti saresti divertito.» Effettivamente a Gaetano piacevano i cavalli, ed era uno dei migliori cavallerizzi della famiglia. Forse era merito del vino, ma sentiva che il suo fastidio per il padre e per Remora stava svanendo. «Senza dubbio» rispose con cortesia. «È tua intenzione visitare anche le scuderie? Se sì, domani potrei venire con te.» «È ciò che farò» disse Niccolò, che fino a un momento prima non ne aveva avuto la minima intenzione. «Non è male esaminare la concorrenza... e poi non vogliamo che gli altri Duodecimi si sentano trascurati, vero?» Georgia camminava lungo le vie di Remora a bocca aperta. Una cosa era essere informata da Paolo di trovarsi nel sedicesimo secolo, un'altra trovarsi in una città con strade acciottolate, senza macchine e con case talmente vicine che il bucato era steso da una parte all'altra della via e i gatti saltavano tra i tetti. In quello che Georgia stava imparando a riconoscere come il Duodecimo del Montone c'erano ovunque segni e simboli dell'animale. A ogni incrocio
c'erano statue di arieti con le corna ricurve e alcune case erano addobbate con vessilli rossi e gialli con l'immagine di un ariete rampante incoronato d'argento. A poca distanza uno dall'altro, lungo le vie, c'erano piccoli anelli di ferro che pendevano da riproduzioni della parte anteriore di un ariete con le zampe sollevate. «Che cosa sono?» chiese Georgia indicandone uno. «Attacchi per i cavalli» rispose Cesare. «E guarda in su.» Georgia alzò lo sguardo e a circa dieci metri d'altezza vide altri anelli simili. «Per i cavalli volanti» sussurrò Cesare. «Ce li hanno tutti i Duodecimi. Non si sa mai.» La guidò in una piccola piazza. Sul lato settentrionale sorgeva un'imponente chiesa e al centro c'era una fontana che il sole, riflettendosi sull'acqua, trasformava in un ventaglio scintillante. L'acqua usciva dalla bocca di un gigantesco ariete, le cui corna erano fatte d'argento. Altro argento luccicava dai tridenti dei tritoni che circondavano la vasca. «Quella è la Fonte d'Argento» spiegò Cesare. «Il Montone è alleato con la corporazione degli argentieri, che l'hanno decorata per noi. Ogni Duodecimo è alleato a una corporazione. La Signora con i pittori e i Gemelli con i banchieri, anche se dovrebbe essere il contrario. I de' Chimici sono banchieri e Giglia, la città della Signora, è il loro quartier generale. Però sono anche famosi per il patrocinio delle arti, quindi i pittori vanno bene.» «Non ti seguo» disse Georgia. «Pensavo che la Signora fosse una zona di questa città. Come può appartenere a un'altra?» Si sedettero sui seggi di pietra della fontana e Cesare spiegò pazientemente: «Ogni Duodecimo di Remora è alleato con una delle città-stato di Talìa. Solo il Duodecimo dei Gemelli sostiene Remora. La Signora sostiene Giglia e il Montone Bellezza.» «Come si chiamano gli altri Duodecimi?» chiese Georgia. «Ti ho sentito nominare solo quei tre.» «Il Toro, il Granchio, la Leonessa, la Bilancia, lo Scorpione, l'Arciere, il Capro, l'Acquario e i Pesci» recitò Cesare, contandoli sulle dita. Georgia ci pensò su per un attimo. «Ho capito» disse poi trionfante. «È lo zodiaco, vero? L'astrologia. Ma... perché la Leonessa? Da dove vengo io è il Leone.» «Solo una leonessa avrebbe potuto allattare i gemelli» spiegò Cesare in tono scontato. «Sai, Romolo e Remo.» «Nel mio mondo è stata una lupa» disse Georgia. «Ma perché non è al-
leato a Remora anche quel Duodecimo, allora?» «Quelli stanno con Romula.» Georgia scosse la testa. Le ci sarebbero voluti anni per capire quella città. «Andiamo al Campo» propose Cesare alzandosi. «Lì sarà più facile spiegarti.» Percorsero uno stretto vicolo e arrivarono nel luogo più straordinario che Georgia avesse mai visto. Sfociare nel Campo era come uscire di prigione: le fece venire voglia di gridare. Quello spazio era un cerchio enorme, aperto a un sole splendente, con case e palazzi sontuosi tutto intorno. Al centro stava un'elaborata fontana, da cui si ergeva una sottile colonna. La piazza stessa, pavimentata con mattoni sistemati a spina di pesce, era divisa in settori uguali delimitati da linee rette: sembrava un'arancia tagliata a metà orizzontalmente. Ognuno aveva al centro un segno zodiacale. «Vedi?» disse Cesare. «Dodici settori, uno per ciascun Duodecimo. E ogni contrada della città parte dal proprio. Noi ora siamo su quello del Montone.» Georgia contò. «Ma ci sono quattordici settori, non dodici» obiettò. «Quelli in più portano entrambi alla Strada delle Stelle» spiegò Cesare. «È una specie di territorio neutrale che va dalla Porta del Sole alla Porta della Luna. Vedi i segni di Sole e Luna in quei settori? Chiunque può percorrerla quando vuole.» «Perché, non puoi camminare nelle altre strade?» domandò Georgia incredula. «Dipende dal tuo Duodecimo» rispose Cesare. «Il Montone è alleato con la Leonessa e l'Arciere, ma è nemico dei Pesci. Loro sono il Duodecimo confinante con noi a sud-ovest ed è particolarmente pericoloso farci vedere lì.» «E come farebbero a scoprirti?» «Dai colori» disse semplicemente Cesare, indicando il fazzoletto che portava al collo. Era dello stesso giallo e rosso che Georgia aveva visto su uno dei vessilli nelle vie del Montone. Si rese conto che anche lei ne portava uno, un altro simbolo di appartenenza. Scosse di nuovo la testa. Erano come le gang di Los Angeles. «Non si può essere indipendenti?» chiese. «Voglio dire, non appartenere a nessun Duodecimo?» «Non appartenere a un Duodecimo?» esclamò Cesare allibito.«Ogni
Remorano è nativo di un Duodecimo. Se un bambino nasce in anticipo e la madre si trova in un'altra parte della città, lei si sarà comunque portata un sacchetto di terra del proprio Duodecimo da spargere sotto il letto, in modo che il bambino venga al mondo sul suolo natio.» Fino ad allora Georgia aveva immaginato i Remorani come simili a tifosi di calcio, ma in quel momento cominciò a capire che il sentimento era molto più profondo. «Bene» disse. «Avete due alleati fidati e un nemico. E gli altri otto?» «Oh, attraversare quei Duodecimi è abbastanza sicuro» spiegò Cesare. «Vuoi visitarne uno?» Attraversarono il Campo, che era pieno di bancarelle che vendevano cibo e bevande, ma anche vessilli e bandiere in un arcobaleno di colori. Georgia individuò quelli rossi e gialli del Montone e notò che ogni passante portava un fazzoletto da collo o qualche altro distintivo. Alcuni di quelli vestiti più riccamente sfoggiavano invece coccarde di seta. Blu e viola, verde e giallo, rosso e nero... Cesare li indicava e li attribuiva meccanicamente: Scorpione, Capro, Leonessa. Poi incrociarono un gruppo di giovani che portavano coccarde rosa e blu e che subito indicarono Cesare e Georgia cominciando a schernirli. «Svelta» sibilò Cesare. «Sono dei Pesci!» La trascinò in un vicolo sul lato del Campo opposto a quello da dove erano entrati. «Questo è territorio dell'Arciere. Qui non ci seguirebbero mai.» I ragazzi dei Pesci si infilarono vocianti in un vicolo vicino. «Sono entrati nello Scorpione» aggiunse Cesare tendendo le orecchie. «È uno dei loro alleati, naturalmente.» «Naturalmente» ripeté Georgia con sarcasmo. Lui le lanciò un'occhiata severa. «Questo non è un gioco. Devi imparare le regole se vuoi stare al sicuro qui a Remora.» Georgia notò che il Duodecimo dell'Arciere ricordava quello del Montone. Dappertutto c'erano le stesse statue, anche se queste rappresentavano un centauro con arco e frecce, la stessa piazza di fronte a una chiesa, con una fontana al centro. Cesare le spiegò che si chiamava Fonte Dolorosa. Poi fece un cenno a un paio di ragazzi che passavano sfoggiando i colori rosso e viola e quelli risposero al saluto. «Gente dell'Arciere» sussurrò. «Dolorosa» disse Georgia. «Perché un nome così triste?» Cesare alzò le spalle. «Non lo so. Quella è la chiesa di San Sebastiano. Forse la chiamano Dolorosa per via delle frecce.» «Aspetta un momento!» esclamò Georgia. «In ogni Duodecimo avete
chiese, santi e cose simili, ma tutto è sistemato secondo i segni dello zodiaco. Non è un problema? Voglio dire, nel mio mondo la Chiesa è contro l'astrologia, la considera un mucchio di chiacchiere astruse. Be', d'altronde i non credenti, che sono la maggior parte, pensano la stessa cosa della Chiesa.» Intuì che Cesare non aveva idea di che cosa lei stesse parlando. Così lasciò perdere e chiese: «A quale corporazione è alleato l'Arciere?» «Quella dei cavalieri» rispose Cesare entusiasta. «Abbiamo scelto bene i nostri alleati, vero?» «Ogni Duodecimo ha una scuderia?» chiese ancora Georgia. Di colpo pensò che si sarebbe potuta ambientare benissimo in quella città. «Naturalmente. Ognuno ha la sua scuderia e il suo capostalliere: è la persona responsabile per il cavallo che correrà la Stellata.» «È la corsa di cui parlava tuo padre, no?» «Sì, la Corsa delle Stelle. Quest'anno facciamo partecipare Arcangelo.» «Il grosso baio? È stupendo. E chi sarà il fantino?» «Io, spero» disse Cesare con modestia, anche se Georgia capì che faceva fatica a frenare l'orgoglio. «Si corre nel Campo» continuò. «Il Campo delle Stelle.» «Quella piazza rotonda che abbiamo appena attraversato?» domandò Georgia. «Ma è piccolissima! Cioè, è grande come piazza, ma non come pista. Quanto dura la corsa?» Cesare aveva l'aria offesa. «Almeno un minuto e mezzo.» Georgia capì che il ragazzo non scherzava. La corsa, che era tanto importante in quella straordinaria città, durava meno del tempo necessario a scrivere un SMS. Se voleva tornare lì, Georgia doveva però imparare a rispettare le loro usanze. E lei voleva tornare, eccome. Come se le avesse letto nella mente, Cesare alzò gli occhi al cielo. «Farà buio tra un'ora» disse. «Meglio rientrare al Montone.» Georgia si tirò a sedere di scatto sul letto. Era sudata e sua madre stava bussando alla porta. «Sbrigati, Georgia, o farai tardi a scuola» urlò Maura. «E preferirei che non chiudessi la porta a chiave.» "Cos'è successo?" pensò Georgia confusa. Le ci volle un po' a riabituarsi alla sua vita normale. La prospettiva di una giornata alla Barnsbury Comprehensive di colpo le sembrò insopportabilmente pesante. Si era distesa su un ruvido materasso nel pagliaio di Paolo e si era ad-
dormentata con la statuina del cavallo alato in mano. L'ultima cosa che ricordava erano. Paolo e Cesare che si preparavano a portare Merla a Santa Fina, che Georgia non sapeva dove fosse. «Devo ricordarmi di chiederglielo» borbottò andando verso la doccia, e di colpo si accorse che stava ancora stringendo il cavallino etrusco. Lo infilò svelta nella tasca dei pantaloni della tuta. Non voleva che Russell lo vedesse. Qualunque cosa significasse quella storia e dovunque si trovasse davvero la città di Remora, quella statuina era la chiave per tornarci. Capitolo 4 Un fantasma
Una carrozza si fermò fuori della casa del capostalliere del Montone. Ne scesero due passeggeri. Uno era rigido nei gesti e si muoveva con cautela. L'altro, molto più giovane, saltò giù con agilità e offrì il braccio a quello più anziano perché potesse appoggiarsi. L'affetto tra loro era evidente, tanto che qualcuno, vedendoli, avrebbe potuto scambiarli per padre e figlio. I due però non si somigliavano affatto. Il ragazzo era snello, con folti capelli ricci e neri, lasciati crescere secondo la moda talìana e legati morbidamente dietro con un nastro viola. I suoi abiti indicavano una ricchezza non ostentata. L'anziano aveva un aspetto robusto e vigoroso nonostante la difficoltà nei movimenti. Aveva i capelli bianchi e un'aria distinta: poteva essere un professore universitario, ma allo stesso tempo aveva le mani callose di chi è abituato a usarle per il proprio lavoro. I due, fermi sull'acciottolato di Remora nelle prime ore del mattino, si guardarono intorno con evidente curiosità. «Un'ulteriore città, Luciano... e finanche suggestiva» disse il più vecchio. «Ma che cosa direbbero se sapessero da quali lontane plaghe invero giungiamo?» Il giovane non ebbe tempo per rispondere, perché la porta della casa si aprì e apparve un uomo grande e brizzolato.
«Maestro!» disse, guardandoli raggiante. «Ben arrivato! Sono lieto di vedervi... e anche vostro figlio.» I due si abbracciarono con affetto; poi il capostalliere strinse fra le robuste braccia anche il ragazzo. «Devi conoscere il mio Cesare. Avete più o meno la stessa età. Entrate, entrate, forza. Teresa vi preparerà una bella colazione.» Georgia passò la maggior parte della giornata in una specie di stordimento. Quando Russell a colazione le diede della svampita non ci fece nemmeno caso. Per la prima volta da anni aveva qualcosa a cui pensare che distoglieva la sua attenzione da lui. Già mentre si trovava là Georgia era consapevole che la Città delle Stelle le sarebbe sembrata un sogno una volta tornata nel proprio mondo. Però sapeva di non aver sognato. In quel luogo poteva anche non aver avuto un'ombra, ma era là fisicamente, aveva bevuto birra e mangiato pane e olive prima di andare a dormire nel fienile. Aveva temuto che le ci volessero ore per addormentarsi, soprattutto sapendo che durante la notte Cesare e Paolo avrebbero portato via la cavallina alata e sua madre. Le sarebbe piaciuto fermarsi e prendere parte a quell'avventura, ma Paolo le aveva spiegato che se fosse rimasta in Talìa di notte, nel suo mondo sarebbe stata mattina e l'avrebbero ritrovata a letto priva di sensi. «I tuoi genitori ti crederebbero malata e si spaventerebbero» aveva detto. «Devi tornare. Ti basterà addormentarti tenendo ben stretto il talismano.» Aveva avuto ragione. Georgia era caduta subito in un sonno profondo. Risvegliarsi in camera sua fu uno shock. Tutto sembrava rumoroso e sgradevole: la radio che diffondeva notizie e previsioni del tempo a tutto volume, ma anche il tostapane e il bollitore, e Maura che controllava che tutti avessero il necessario per la giornata. Quando il cellulare di Ralph squillò, Georgia quasi cadde dalla sedia per lo spavento. Nonostante i rumori, però, di colpo quell'ambiente le sembrò vuoto, un'accozzaglia di eventi e di attività senza senso e senza scopo. Si rese conto che la struttura formale e le molteplici regole di Remora, come anche l'ossessione della città per i cavalli, l'avevano fatta sentire a suo agio come non le capitava più nel suo mondo. "È ridicolo" rifletté. "Ho passato là solo un pomeriggio e non so neanche se potrò mai tornarci." Tuttavia non riusciva a smettere di pensare ai Duodecimi, al Campo delle Stelle, al cavallo alato, a Cesare. Era come essere innamorati non di una persona, ma di un luogo. Fu una folgorazione. Cesa-
re le era simpatico, era carino e aveva due anni più di lei. In teoria, anche se la cosa sarebbe stata assurda quanto innamorarsi di un giovane in un dipinto del Rinascimento, Georgia avrebbe dovuto prendersi una cotta per lui, ma non era successo niente. Semplicemente era stato bello passare un po' di tempo con un ragazzo che non la odiava. Forse avere un fratello vero doveva essere così. Georgia trascorse la pausa pranzo in biblioteca, usando il computer della scuola per cercare "Talìa", "Remora", "de' Chimici" e "Stellata" su Internet. Non trovò niente, neanche usando varianti dei nomi. Lasciò perdere il computer e provò con un dizionario di mitologia greco-romana, dove lesse che Romolo e Remo erano figli gemelli di Rea Silvia e del dio Marte. La loro nascita era stata un disonore e lo zio della madre li aveva gettati in un fiume, per poi usurpare il regno del loro nonno. Dopo essere stati salvati e nutriti dalla lupa - l'unico elemento della storia che Georgia conoscesse già - erano stati cresciuti da pastori e una volta adulti si erano impossessati dei propri beni. Poi avevano deciso di fondare una città, ma non riuscendo a mettersi d'accordo sull'ubicazione, ognuno ne aveva fondato una propria. Quando Romolo alzò un muro di confine alto pochi centimetri, Remo lo scavalcò in segno di disprezzo e il fratello, accecato dalla rabbia, lo uccise. C'erano molte altre notizie su Romolo, compreso il fatto che dopo la morte fosse diventato una divinità perché nessuno sapeva che cosa ne fosse stato del suo corpo. Ciò che colpì veramente l'attenzione di Georgia, però, fu una piccola nota a piè di pagina secondo cui i gemelli avevano discusso se chiamare la città Roma o Remora. Georgia si lasciò andare attonita contro lo schienale. Allora in Talìa il diverbio si era risolto in modo opposto: Remo aveva fondato la città che lei aveva appena visitato e che aveva avuto per la storia di Talìa lo stesso ruolo che Roma aveva avuto per l'Italia. "Ciò significa che in Talìa Romolo non ha ucciso Remo" pensò. Dopo la scuola andò a trovare il signor Goldsmith al negozio. Lui fu felice di vederla. «Già di ritorno?» disse. «Spero che tu non abbia riportato indietro il cavallo.» «No, anzi» rispose Georgia, che lo teneva in una tasca dei jeans. «Mi piace tantissimo. Solo che vorrei saperne di più.» «Chiedi pure» la invitò il signor Goldsmith. «Prima però fammi preparare il tè.»
«Okay, ma non posso fermarmi molto» acconsentì Georgia. «Ho la lezione di violino.» Gaetano e suo padre stavano effettuando il giro di visite alle scuderie di Remora. Dovunque andassero, i Remorani erano onorati della visita, anche se un po' allarmati. Ogni scuderia mostrò orgogliosa i propri cavalli da corsa, i grigi e i sauri, i neri e i bai, i roani e i pomellati. Lasciarono la Bilancia per ultima, in quanto la Signora e la Bilancia erano rivali. Già avevano avuto qualche difficoltà nel Duodecimo del Toro: Niccolò e suo figlio erano i signori di Giglia, la città della Signora, ma avevano anche rapporti stretti con Remora, e i Gemelli erano nemici giurati del Toro. A Remora le inimicizie e le alleanze erano vecchie di secoli. Giacomo, il capostalliere della Bilancia, salutò il Duca e il giovane Principe con cordialità. Dopotutto, anche se la Signora era rivale, i Gemelli erano uno dei loro alleati. In più, per uno strano caso, la corporazione della Bilancia era proprio quella dei chimici. «Questo è il nostro destriero per la Stellata, Vostra Grazia» disse. «Si chiama Corvo.» Gaetano provò subito simpatia per quel cavallo nero. Era altero e nervoso come tutti i migliori cavalli remorani, ma era anche bellissimo, e aveva lineamenti forti e decisi. Gli sarebbe piaciuto cavalcarlo. Naturalmente la cosa era fuori questione e il Duca cercò di terminare la visita il più in fretta possibile. «È fatta, dunque» disse al figlio. «Ora le ho visitate tutte e il nostro dovere è stato assolto. Che cosa ne pensi di quest'ultimo cavallo?» «Davvero bello» rispose Gaetano. «Peccato solo che non vincerà.» Niccolò gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Hai il dono della profezia, ora? Ricordati che uno dei più antichi adagi di Remora dice: "Non c'è un vincitore finché la corsa non è terminata."» «Sì, sarà stato vero quando fu inventato, quando la Stellata si correva lealmente e senza sotterfugi» replicò Gaetano. «Prima che venisse truccata per favorire la nostra famiglia.» Erano tornati nel Campo e l'avevano attraversato per rientrare nel settore della Signora. Perfino il Duca di Giglia non voleva rimanere in territorio nemico un minuto più del necessario. Niccolò aggrottò la fronte. Non era quello il genere di conversazione che voleva tenere in pieno giorno, soprattutto così vicino al Duodecimo della Bilancia.
«Spostiamoci in un luogo neutrale» suggerì, guidando il figlio verso la Strada delle Stelle. Camminarono sul lato della via a ridosso del Capro, fino a una piazzetta vicino alla Porta della Luna in cui si trovava una piccola locanda. «Quaggiù non mi riconosceranno» disse Niccolò. «Così potremo discorrere in pace.» Il locandiere portò due boccali di vino e un grande vassoio di paste, a cui solo Gaetano dedicò attenzione. «È chiaro che qualcosa ti turba» disse Niccolò, osservando con attenzione il figlio che contemplava i dolci. «Vuoi parlarmene?» «È questa città» disse Gaetano evasivamente, masticando un boccone di pasta frolla. «È falsa. Tutto è diviso in maniera precisa e mandato avanti secondo regole rigide, che però vengono subito infrante quando arriva questa importantissima corsa. Allora vince il Duodecimo che può corrompere di più.» Il Duca si guardò intorno con circospezione. Anche in territorio neutrale c'erano cose che era meglio evitare di dire o, quanto meno, era preferibile dire a voce bassa. «Sai bene quanto questa città creda ai presagi e ai portenti» mormorò. «Se la Signora o i Gemelli non vincessero, sembrerebbe come un segno dell'indebolimento del nostro potere.» «Però potrebbero anche vincere il Toro, lo Scorpione o il Capricorno» obiettò Gaetano. «La nostra famiglia domina tutte le loro città. La Bilancia, perfino, visto che anche Bolonia sta con noi.» Niccolò fece un sospiro. Certo, il fatto che Remora covasse al suo interno queste antiche alleanze feudali era esasperante. Tuttavia la tradizione che voleva ogni Duodecimo alleato a una delle dodici città-stato era antica di secoli, più antica della famiglia de' Chimici, e pertanto non poteva essere cambiata dall'oggi al domani. Doveva comunque ammettere che i suoi cittadini avevano una lealtà assoluta nei confronti di Remora quando se ne allontanavano. Quelli che si trovavano in un luogo straniero si sedevano a bere insieme anche se appartenevano a Duodecimi rivali. All'interno della città, però, regnava una sorta di pazzia per tutto l'anno, da una Stellata all'altra. Si sentiva soprattutto nelle settimane precedenti alla corsa, quando le strade diventavano tanto più pericolose quanto più erano vicine al Campo. Uscire dai confini del proprio Duodecimo il giorno della Stellata sarebbe stato un suicidio. Andando verso l'esterno, vicino alle quattordici porte di Remora, gli abitanti erano invece più tranquilli, ed
era lì che sorgevano le scuderie. Era stato un Papa a decidere di ridisegnare la città secondo lo zodiaco nel tentativo di ingraziarsi una popolazione interessata più all'astrologia che alla Chiesa. Per rinominare tutte le vie e le piazze e per ideare gli stemmi, i motti e i vessilli di ogni Duodecimo c'erano voluti decenni, e nel frattempo quel temerario Papa era morto. I Remorani si erano però abituati con grande naturalezza al nuovo sistema, anche perché nell'antichità la città era già stata divisa sommariamente in dodici parti e le alleanze erano state strette da tempo. Tutto ciò che dovette fare Benedetto, il Papa successivo, fu costruire la larga via maestra neutrale e il famoso Campo. I cittadini pensarono al resto. Volendo, un altro Papa avrebbe potuto modificare di nuovo la città. Niccolò pensò al fratello, seduto nel lussuoso palazzo nel Campo delle Stelle, di fronte al settore dei Gemelli. Col tempo avrebbe potuto emanare editti per vietare manifestazioni eccessive di lealtà verso città diverse da Remora. Niccolò sì ritrovò a fissare gli occhi del figlio sopra a un vassoio di paste vuoto. Un moto di fastidio attraversò i suoi tratti aristocratici. Forse la carriera ecclesiastica sarebbe stata davvero adatta per quel suo insaziabile figliolo. Un giorno avrebbe potuto rivaleggiare con Ferdinando in quanto a pancia. Il Duca Niccolò era comunque bravo a nascondere le proprie emozioni. «Scusami» disse ad alta voce. «Stavo pensando a ciò che hai detto.» «Ciò che più mi turba, però, è il motivo per cui mi hai portato qui» borbottò Gaetano. «Non sarebbe ora di dirmi che cosa hai in mente?» «Ma certo» disse Niccolò. «Vorresti sposare la giovane Duchessa di Bellezza?» «Non so molto sugli Etruschi» disse Mortimer Goldsmith reggendo un'elegante tazza colma di tè al bergamotto. «È un argomento più adatto ad archeologi e antropologi. Io mi interesso di storia più recente e mi trovo meglio con Chippendale e Sèvres. Altro tè?» «No, grazie» rispose Georgia. Trovava che quel tè odorasse di dopobarba e sapesse di sciacquatura di piatti. «Ma erano una specie di antichi italiani, no?» «Oh, sì, però non si sa nient'altro di certo. Non hanno lasciato letteratura, solo qualche iscrizione.» «E statuine di cavalli alati» aggiunse Georgia. «Sì. E anche qualche urna e poco altro. Ce n'è una al British Museum, se
la memoria non mi inganna» disse l'antiquario. «O al Victoria and Albert? Sono sicuro di averne vista una da qualche parte.» Georgia aveva passato diverse domeniche in quei luoghi. «Era il British Museum o quello a South Kensington?» chiese per sicurezza. «Sono abbastanza sicuro che fosse al British Museum» disse alla fine il signor Goldsmith. «Decorazioni su un'urna di bronzo, più o meno del sesto secolo avanti Cristo. Però quei cavalli non erano alati. Erano impegnati in una corsa in cui venivano cavalcati a pelo.» Georgia si ripromise di andare al British Museum per controllare e anche di chiedere a Paolo se la Stellata venisse corsa senza selle. «Mi spiace, ma devo scappare» disse poi alzandosi. «Grazie per il tè. È stata una conversazione molto piacevole.» «Il piacere è stato mio» rispose il signor Goldsmith, facendo un piccolo inchino. Notando la tazza lasciata quasi piena aggiunse: «Per la prossima volta mi procurerò del tè Darjeeling. E anche biscotti al cioccolato. Scusa, ma non mi capita spesso di avere dei giovani come ospiti.» Georgia dovette correre alla lezione di musica, con la custodia del violino e la borsa degli spartiti che le sbattevano sulle gambe. Non suonò molto bene il suo pezzo, perché non riusciva a concentrarsi. Non vedeva l'ora di tornare a casa. «Non riesco a crederci» disse Luciano. «Un altro Stravagante? E così presto? Dobbiamo dirlo a Rodolfo. Avete ancora lo specchio, Dottore?» «Invero è nella mia bisaccia» disse Dethridge. «Lasciamo tuttavia che il signor Paolo ci delucidi oltre.» «È stato mio figlio a passare più tempo con lei... ah, sì, questa volta è una ragazza.» Si trovavano nel confortevole soggiorno della casa di Paolo e Teresa, che sorgeva nella parte ovest della città, vicino alla Porta del Montone. I visitatori avevano fatto una colazione abbondante, con panini freschi, marmellata di fichi e scodelle di caffellatte. I figli più piccoli del capostalliere giocavano nel cortile sorvegliati da Teresa, che stava dando da mangiare alle galline e raccoglieva le uova per una frittata da preparare per pranzo. Cesare e Luciano avevano fatto presto a familiarizzare. Sapendo che Cesare aveva conosciuto qualcuno proveniente dal suo mondo, in Luciano ogni soggezione era scomparsa. Pensarci gli dava una sensazione strana: ormai a Talìa si sentiva a casa, ma non riusciva a dimenticare di essere
stato un ragazzo del ventunesimo secolo, e l'idea di poter incontrare una persona proveniente dal suo tempo lo turbava e lo entusiasmava allo stesso tempo. Perfino il Dottor Dethridge, che era arrivato dallo stesso mondo seppure da un'epoca diversa, era stato colpito dalla notizia. «Tornerà?» chiese Luciano. «Se potrà, sono sicuro di sì» rispose Cesare. «Era molto interessata al cavallo alato.» Naturalmente la frase sollevò varie domande e i Montalbano dovettero raccontare della cavallina nera, della visita del Duca Niccolò e della spedizione notturna a Santa Fina per nascondere Merla e sua madre. «Non mi aggrada affatto che un tale figuro stazioni in città» disse il Dottor Dethridge. «Il Duca ha intenzioni nefande, temo.» «Ufficialmente sta facendo visita a suo fratello, il Papa» intervenne Paolo. «Però ne approfitta anche per controllare i cavalli delle scuderie avversarie.» «Ma tanto è tutta scena, vero?» chiese Luciano. «Rodolfo ci ha detto che ogni anno la corsa viene truccata in modo che vinca uno dei favoriti dei de' Chimici.» «È quello che succede di solito» ammise il capostalliere. «Ma è anche vero che di solito in città non nasce un cavallo alato. Spero che questo fatto porti fortuna al Montone.» «La Duchessa di Bellezza!?» esclamò Gaetano con un'espressione stupita. «Ma perché?» Suo padre sospirò. «Ci vorrà un grande sforzo per insegnarti la diplomazia. Perché tu possa diventare Duca, naturalmente, e per portare Bellezza alla ragione.» «Per portarla alla famiglia, vorrai dire» ribatté Gaetano, prendendo tempo. L'idea però non gli dispiaceva. Come Duca di Bellezza avrebbe di certo avuto molto tempo a disposizione per i suoi libri e la sua musica. «Com'è?» chiese. «Molto carina» rispose Niccolò seccamente. «E facile da controllare quanto Zarina, direi.» A Gaetano ci volle qualche momento per ricordarsi che Zarina era la focosa cavalla grigia della Signora. La cena consisteva in pesce e patate fritte, seguiti da gelato. Normalmente era la combinazione preferita da Georgia, ma quella sera non aveva proprio fame. Voleva solo finire in fretta i compiti e andare a dormire presto.
Nemmeno Russell riuscì a turbarla più di tanto. «Compiti il venerdì sera?» fu tutto quello che riuscì a sibilarle contro. «Oltre che una sfigata, stai diventando anche una secchiona.» Georgia non gli fece presente che l'indomani era uno dei sabati in cui sarebbe andata a cavallo. Voleva solo non attirare l'attenzione su di sé. La serata però sembrò durare in eterno. Matematica, inglese, francese e poi a letto, ma non ci fu verso di dormire. Aveva nella tasca dei pantaloni della tuta il cavallo alato e nella mente un'immagine chiara del fienile a Remora, però il sonno non voleva arrivare. Forse perché era troppo in ansia, o forse per la musica metal che arrivava a tutto volume dalla stanza di Russell, attigua alla sua. «Ti prego» implorò con tutta la forza che aveva. «Fammi arrivare alla Città delle Stelle.» Luciano camminava nervosamente su e giù per la stanza. «Scommetto che ha qualcosa a che fare con la visita di Arianna qui a Remora» disse. «Non so quanto voi sappiate della mia stravagazione, ma secondo Rodolfo sono stato portato a Bellezza per salvare la precedente Duchessa. Forse questa ragazza del mio mondo è destinata a sventare un piano contro Arianna. Siete a conoscenza che siamo qui perché lei è stata invitata alla Stellata, vero?» «Siamo tenuti ad apprendere quanto più ci è consentito sulla città, nonché sui suoi costumi e maniere durante questa gara di cotanta importanza» confermò Dethridge. «E scommetto che anche il Duca trama qualcosa» aggiunse Luciano. «Non può essere una coincidenza che sia qui proprio quando ci siamo noi.» Qualcuno bussò leggermente alla porta. Paolo andò ad aprire, mentre Luciano continuava a camminare su e giù. «Credo che per lei non sia affatto sicuro venire qui» disse. «Da ciò che sappiamo, questa città sembra un covo di vipere. Voglio dire, è il centro del potere dei de' Chimici, no?» I suoi passi lo avevano portato proprio di fronte alla porta. Rimase a bocca aperta quando vide la figura snella con i capelli corti e l'anellino d'argento al sopracciglio. L'effetto su Georgia non fu meno drammatico. Aveva riconosciuto il ragazzo con i capelli neri. Aveva visto la sua fotografia solo poche ora prima, a casa dell'insegnante di violino.
«Non ti avevo promesso due nuovi Stravaganti, Georgia?» disse Paolo sorridendo. «Lucien!» esclamò lei... e sparì. Capitolo 5 L'ombra del dubbio
Georgia si svegliò di soprassalto nel suo letto a Londra con il cuore che le batteva forte, ma non era mattina. La casa era buia e silenziosa e lei si sentiva una gran confusione in testa. Sognare una città che aveva cavalli alati, anche se non si trattava effettivamente di un sogno, era accettabile; ma trovarsi faccia a faccia con qualcuno che si sapeva morto era tutta un'altra cosa. Rimase distesa al buio, tenendo stretto il cavallo alato e aspettando che il suo cuore rallentasse e la mente si schiarisse. Una parte di lei voleva tornare subito a Remora, ma l'altra era ancora atterrita. Quello che aveva visto a casa di Paolo era senza dubbio Lucien. Sarebbe stato impossibile non riconoscerlo, anche nei suoi abiti talìani del Cinquecento. Sapeva tutto di Lucien Mulholland. Quando era arrivata alla Barnsbury Comprehensive, lui era un anno più avanti e lo aveva incontrato un paio di volte andando a lezione di violino da sua madre. Ma era stato soltanto all'inizio dell'anno scolastico precedente che aveva cominciato a sentirsi attratta da lui. Russell si sbagliava su di lei: le interessavano i ragazzi... almeno uno. Georgia però non era solo infelice, era anche timida, e aveva sviluppato un'immagine mascolina per nascondere e proteggere i propri sentimenti. Se Lucien si era mai reso conto di questi sentimenti non lo aveva dato a vedere. Entrambi suonavano nell'orchestra della scuola e per lei era una sofferenza fargli da secondo violino senza poter stringere un vero rapporto con lui. L'essere entrata nell'orchestra, però, non solo dava a Georgia più occasioni per vederlo, ma significava anche che quando andava a casa sua potevano fare due chiacchiere. A poco a poco aveva capito che anche lui era timido. Non aveva la ragazza, e almeno quella era una buona cosa.
Ma proprio quando sperava che potessero diventare amici e che magari un giorno lui avrebbe ricambiato i suoi sentimenti, Lucien si era ammalato. Distesa al buio, Georgia rivisse l'anno precedente, con l'angoscia di sapere che la malattia peggiorava, che era costretto a saltare settimane di scuola per fare la chemioterapia e che aveva perso tutti i suoi bei capelli. La madre smise di dare lezioni e Georgia non ne ebbe più notizie, se non quelle che trapelavano dalle voci che giravano a scuola. In estate, per qualche settimana si era illusa che lui si stesse rimettendo e che in autunno sarebbe tornato guarito. Lo aveva perfino rivisto quando aveva ripreso le lezioni di violino. Sembrava in un certo senso più vecchio e un po' distaccato, ma non ostile, solo soprappensiero. Georgia era decisa a dirgli quanto le piacesse, ma proprio allora erano arrivate notizie terribili che avevano distrutto ogni sua speranza: Lucien era tornato in ospedale, poi era entrato in coma e quindi era morto. Era andata al funerale come un automa, incapace di credere di avere perso per sempre l'unico ragazzo che le fosse mai piaciuto. Solo vedendo il dolore dei genitori e sentendo la voce di Tom, il migliore amico di lui, incrinarsi per le lacrime mentre leggeva una poesia, Georgia aveva capito che Lucien se n'era davvero andato. E ora eccolo ricomparire in Talìa, bello e sano come quando sedeva di fronte a lei nell'orchestra e Georgia osservava i suoi capelli arricciarsi sul colletto della camicia. Com'era possibile? Si chiese se Talìa non fosse un mondo creato dal proprio inconscio perché lei potesse rifugiarvisi. Cavalli, addirittura alati... e ora la risurrezione di un ragazzo per il quale aveva avuto una cotta tremenda. Che fare? Rivedere Lucien sarebbe stato doloroso: era bastata un'occhiata a farglielo capire. Ma come poteva rinunciare ad andare in Talìa? Georgia abbassò gli occhi verso il piccolo cavallo nero che teneva in mano. Doveva esserci un motivo per cui era entrato nella sua vita. Evidentemente doveva fare qualcosa di preciso in quel posto, altrimenti non avrebbe stravagato proprio lì. Era successo lo stesso a Lucien? Perché era lì? Aveva a che fare con la sua morte? Georgia era impaurita. Nella breve esperienza a Remora aveva osservato l'azione come uno spettatore a teatro. Invece vedere Lucien lì l'aveva trascinata sul palcoscenico e costretta a partecipare allo spettacolo. Capì che da quel momento, se fosse tornata in Talìa, avrebbe avuto un ruolo attivo in qualunque evento si stesse compiendo. E capì anche che sarebbe stato pericoloso.
In casa di Paolo regnava il caos. Luciano era pallido come un lenzuolo, Cesare era visibilmente terrorizzato e sia Paolo che Dethridge erano molto perplessi. «La conosci?» chiese Paolo. Luciano ebbe appena il tempo di rispondere di sì che Georgia era tornata. Essendo l'unico ad aver capito che cosa fosse successo, la fece accomodare su una sedia e chiese a Paolo di portarle qualcosa da bere. La ragazza sedette in silenzio, mandò giù qualche sorso di un forte vino rosso e lasciò che si prendessero cura di lei, godendosi la sensazione di avere l'attenzione di Lucien su di sé per la prima volta. Però si sentiva un po' confusa e non capiva perché fosse tornata nella stessa situazione che aveva abbandonato tanto precipitosamente. Le ci erano volute ore per riaddormentarsi; l'unico modo, secondo Paolo, per stravagare di nuovo in Talìa era addormentarsi tenendo in mano il talismano e pensando a Remora. Prima dello spavento alla vista di Lucien, era stato tutto molto più facile. Adesso invece era come se qualcuno avesse premuto il tasto di pausa e la scena si fosse fermata al momento in cui lei era sparita. «Se stravaghi due volte nello stesso periodo di tempo, come nello stesso giorno o nella stessa notte, torni in Talìa solo qualche momento dopo essertene andata» le spiegò Luciano. «Ma perché ha voluto andarsene?» chiese Cesare, guardando Georgia con sospetto, come se fosse un fantasma. «Credo sia svenuta quando mi ha visto» disse Luciano. «E sicuramente teneva in mano il talismano. Se perdi i sensi in Talìa mentre stringi il tuo talismano, ritorni nel nostro mondo anche se non stai pensando a casa. È una specie di misura di sicurezza.» Si era messo a parlare direttamente a Georgia. Lei annuì, visto che la spiegazione aveva abbastanza senso. «Georgia viene dallo stesso luogo da cui venivo io» continuò Luciano. «Andavamo alla stessa scuola. Sapeva che ero morto.» Poi la guardò e le disse: «Avrai pensato di aver visto un fantasma.» Georgia annuì di nuovo, ancora incapace di parlare. «Posso vedere il tuo talismano?» le chiese poi. Lei aprì la mano destra. Aveva stretto il cavallo così forte che le ali le avevano provocato dei tagli sulle dita. Lasciò che Luciano prendesse la statuina e la esaminasse. «Sembra proprio la nostra Merla» osservò Cesare.
«È al sicuro?» chiese Georgia. «L'avete portata via?» «Sì» rispose Paolo. «Lei e Splendore sono a Santa Fina, dove speriamo che i de' Chimici non possano trovarla. È rischioso ugualmente, perché purtroppo hanno una residenza estiva anche lì, ma mentre sono in visita in città non vi soggiorneranno. E poi possiamo fidarci di Roderigo.» «Potrei andare a vederla?» chiese Georgia. «Direi di sì» rispose Paolo. «Non è lontano. Puoi andare e tornare nel giro di qualche ora.» Luciano le restituì la statuina. «Tienila al sicuro» disse. «I de' Chimici sarebbero interessati al tuo cavallo alato tanto quanto a quello vero.» «E alla pulzella stessa, io credo, se pulzella è» intervenne Dethridge, che osservava da un po' gli abiti maschili di Georgia con una certa perplessità. «Nel suo mondo è una ragazza, ma qui in Talìa deve comportarsi da ragazzo» spiegò Paolo. «Ah» fece Dethridge. «È un travestimento. Comprendo. Usiamo anche noi tale espediente in molte rappresentazioni nei teatri della nostra cittade.» «Ma perché parla così?» sussurrò Georgia a Luciano. Lui sorrise. «L'hai notato anche tu, vero? È perché viene dal nostro mondo e dall'Inghilterra, ma dall'epoca elisabettiana, quattro secoli e mezzo fa. Permetti che ti presenti il Dottor William Dethridge, fondatore della Fratellanza degli Stravaganti. Qui in Talìa si chiama Guglielmo Crinamorte ed è una persona molto importante nella città di Bellezza.» Dethridge fece un inchino. «Qui il mio nome sembra essere Giorgio» disse Georgia. «Anch'io sono stato ribattezzato» raccontò Luciano. «Ora sono Luciano Crinamorte. Il Dottore e sua moglie Leonora sono i miei genitori adottivi.» Distolse subito lo sguardo da Georgia, che però aveva intuito qualcosa. «Non capisco» disse. «Io sono una Stravagante da un altro mondo, o almeno così dice Paolo. Se n'è accorto perché non ho l'ombra. Però tu e il Dottor Dethridge ce l'avete evidentissima, eppure venite dal mio stesso mondo, anche se da secoli diversi. Mi spiegate perché?» Rinaldo de' Chimici era molto contento di trovarsi di nuovo a Remora. Il suo soggiorno a Bellezza era stato difficile: lui non era un uomo coraggioso, e in certi momenti aveva avuto proprio paura. Aveva odiato quella città, i suoi maleodoranti canali, l'allegria ingiustificata dei suoi abitanti e l'assenza di cavalli. Più di tutto e di tutti aveva odiato la Duchessa, intelli-
gente, bellissima e tanto migliore di lui nell'arte della diplomazia da averlo fatto sentire un ragazzino inesperto. Però si era vendicato. La temuta Duchessa di Bellezza era stata tolta di mezzo e anche se Rinaldo non era riuscito a sostituirla con una donna della sua famiglia, la figlia che le era succeduta era solo una ragazzina e non poteva certo tenere testa a suo zio, il Duca Niccolò. Rinaldo si avviò verso le scuderie dei Gemelli. Non sapeva cosa gli avrebbe riservato il futuro, ma nel frattempo non c'era niente che desiderasse di più di una bella galoppata. Alla morte del padre, due anni prima, suo fratello maggiore Alfonso era diventato Duca di Volana e a Rinaldo non era rimasto molto da fare. Non avendo un altro titolo da ereditare o alcun ruolo evidente da ricoprire, era finito a Remora e si era stabilito in una delle numerose stanze del palazzo di suo zio Ferdinando, fino a quando il Duca Niccolò non lo aveva mandato a Bellezza come suo ambasciatore. Rinaldo si sentiva a casa nel Duodecimo dei Gemelli proprio come nel tetro castello di famiglia a Volana, molte miglia a nord-est. Vi aveva fatto tappa al ritorno da Bellezza per salutare Alfonso e la sorella minore Caterina, ma non aveva più sentito alcun legame con quel luogo. Il fratello era preso dall'idea di sposarsi e si chiedeva se il Duca avesse in mente una moglie per lui. E Rinaldo aveva il compito di scoprirlo. Forse avrebbe dovuto suggerire la loro cugina Francesca, colei che avevano candidato a Duchessa di Bellezza, ma che poi era stata sconfitta. I de' Chimici tendevano a sposarsi fra loro e Niccolò avrebbe potuto gradire l'idea. Una delle missioni di Rinaldo a Remora era fare sì che lo zio Ferdinando annullasse il primo matrimonio di Francesca con un Consigliere bellezzano molto più vecchio di lei, un matrimonio che Rinaldo aveva combinato in fretta e furia perché altrimenti Francesca non avrebbe potuto presentarsi come candidata all'elezione. «Buona giornata, Eccellenza» lo salutò il capo-stalliere dei Gemelli. «Ho un destriero sellato e pronto per voi. È Bacio, la giumenta baia.» «Perfetto!» esclamò Rinaldo guardando affettuosamente il cavallo. Era il suo preferito nelle scuderie dei Gemelli. «È in ottima forma, vero?» disse alle sue spalle una voce ben nota. Rinaldo trasalì. Quando vide chi aveva parlato ebbe un moto di disgusto. A Bellezza Enrico era stato una compagnia indesiderata di cui il giovane Ambasciatore non era riuscito a liberarsi. Nessuno dei due aveva voluto rimanere in quel-
la città dopo l'assassinio della Duchessa. Anche se non c'erano prove che li collegassero al reato, i de' Chimici e i loro affiliati erano diventati i principali sospetti. Rinaldo non era riuscito a negare a Enrico un lavoro a Remora e lo aveva raccomandato a entrambi gli zii: al Papa come stalliere esperto e al Duca Niccolò come spia senza scrupoli. Tuttavia, la sola vista di quell'uomo lo inquietava. Aveva commesso un omicidio a sangue freddo, che probabilmente non era stato l'unico: anche se glielo aveva ordinato lui stesso, Rinaldo guardava il sicario con orrore, sapendo che Enrico non avrebbe esitato a tagliare la gola nemmeno al proprio padrone, dietro un'adeguata ricompensa. «Ehm... ti stanno trattando bene qui?» gli chiese con nervosismo, impaziente di andarsene a fare una cavalcata sulle colline. «Benissimo» rispose Enrico. «È bello essere di nuovo fra i cavalli. Sono molto più fidati degli uomini, se capite ciò che intendo.» Rinaldo capì, eccome. Quello spione aveva motivo di essere risentito: la sua bella fidanzata era sparita e lui si era messo in testa che il vecchio padrone conoscesse qualcosa al riguardo. Rinaldo aveva incontrato la ragazza solo una volta e non sapeva nulla di cosa le fosse accaduto; in realtà la sua sorte era stata molto diversa da come sospettava Enrico. Belle o meno, le donne all'Ambasciatore non interessavano, e a parte la propria sorella e le cugine, gli erano abbastanza estranee. In ogni caso, l'ultima cosa che voleva era che Enrico gli portasse rancore, dato che quell'uomo poteva essere molto pericoloso. «Ottimo, ottimo!» disse distrattamente. «Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa.» Poi portò Bacio nel cortile e se ne andò sotto lo sguardo inquisitore di Enrico. «Da dove comincio?» chiese Luciano. Lui, Cesare e Georgia avevano lasciato Paolo e il Dottor Dethridge a discutere tra loro e, varcata la Porta del Montone, si erano incamminati sulla strada che dalle mura portava a ovest. I due giovani avevano il compito di passare la giornata continuando a istruire Georgia su Remora e scambiandosi informazioni. «Be', per prima cosa, come sei arrivato qui?» chiese lei. Erano seduti sul muretto di una fattoria appena fuori della città. «Oggi sono arrivato in carrozza, ma immagino che non sia questo che vuoi sapere» disse Luciano sorridendo. «Vengo da Bellezza, la città in cui ho stravagato la prima volta lo scorso maggio.» Il sorriso svanì. «Adesso
vivo lì.» I tre giovani rimasero in silenzio per un po'. Cesare aveva una certa soggezione di quel ragazzo elegante, che pur essendo un anno più giovane di lui aveva visto così tante meraviglie. Luciano era uno Stravagante, ma Cesare non aveva ancora capito del tutto il significato della parola. Gli avevano detto che Luciano era l'apprendista del signor Rodolfo, il più insigne Stravagante di Talìa, e che viveva a Bellezza con il Dottor Crinamorte, il fondatore della Fratellanza. Nelle ultime ore, poi, si era rivelato non solo proveniente da un altro mondo, ma anche amico della misteriosa ragazza con l'aspetto da maschio e senza ombra. «Nel nostro mondo non c'è niente come Bellezza» continuò Luciano. «Sembra Venezia, ma quello che a Venezia è d'oro, a Bellezza è d'argento. Qui non danno molto valore all'oro, sai? È l'argento il metallo più prezioso. Bellezza richiama turisti da tutto il mondo, non solo da Talìa, per il suo incredibile splendore. Appena ci sono arrivato, mi sentivo di nuovo bene. Mi erano ricresciuti i capelli ed ero forte, come prima di avere il cancro.» Si fermò, tirò un respiro profondo e poi riprese la sua storia. «È impossibile spiegarti tutto in un giorno. Ho passato mesi a fare da apprendista a Rodolfo. È la persona più straordinaria e intelligente che conosca. Mi ha insegnato cosa significhi essere uno Stravagante. Si aspettava che arrivassi, perché aveva lasciato lui il mio talismano nel nostro mondo.» «Qual era il tuo talismano?» chiese Georgia con curiosità. Un'espressione addolorata passò sul viso del ragazzo. Georgia capiva che questo nuovo Luciano non era esattamente il Lucien che ricordava. Sembrava più vecchio, quasi segnato dall'esperienza. Aveva detto di non essere malato in Talìa, eppure era come se si fosse ripreso da una grave malattia nel corpo, ma non ancora nello spirito. «Era un taccuino che veniva da Bellezza, ma ora non posso più usarlo» disse il giovane. Si alzò e si mise a camminare su e giù di fronte al muretto. «Come vedi, ho un'ombra. Continuo ad essere uno Stravagante, ma adesso viaggio da questo mondo al tuo. L'ho fatto solo poche volte e mi è stato molto difficile.» «È per via di... come dire... di quello che ti è successo nel nostro mondo con la malattia?» chiese Georgia, sentendosi stupida e indiscreta già nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole. La sua curiosità però era forte. «Sì» rispose Luciano. «Come sai, in quel mondo, che non è più il mio,
sono morto.» Cesare lo guardò con un timore reverenziale. Non riusciva a credere a ciò che gli aveva appena sentito dire. «È quello che è successo anche al Dottor Dethridge?» chiese svelta Georgia per dissipare la tensione. «In un certo senso» rispose Luciano. «Stravagò a Bolonia, la sua città in Talìa, per sfuggire a una condanna a morte in Inghilterra. Più avanti si accorse di avere un'ombra anche qui e ne dedusse di essere morto nel suo vecchio mondo.» «Perché trovi che il Dottore parli in modo strano?» Cesare domandò a Georgia. «Per me suona normale.» «Per noi invece usa un linguaggio antiquato» rispose Georgia. Subito dopo guardò Luciano per cercare una spiegazione, ma lui si limitò ad alzare le spalle. «Noi per te parliamo in maniera normale?» chiese a Cesare. «Perché non parliamo né italiano né talìano, eppure qui capiamo tutto e ci facciamo capire.» Georgia cambiò discorso. «Che cosa hai fatto a Bellezza oltre a imparare la stravagazione?» «All'inizio ero stato scelto dalla Duchessa per diventare un mandoliere, che è come un gondoliere a Venezia, ma poi Rodolfo mi ha preso con sé e ho imparato a fabbricare fuochi d'artificio. Ho visitato le isole, mi sono tuffato nel canale, ho lottato con un sicario, ho ricevuto un mucchio d'argento, ho subito un mandato d'arresto, mi sono ubriacato, sono stato rapito, ho aiutato a far eleggere una nuova Duchessa, ho ballato con lei durante il Carnevale...» La sua espressione era cambiata di nuovo e Georgia sentì il cuore stringersi. «Quanti anni ha la nuova Duchessa?» domandò. «Più o meno la mia età. Un mese o due più vecchia» disse Luciano con tono disinvolto. Georgia lo riconobbe: era lo stesso tono con cui lei chiedeva a Vicky Mulholland come stava Lucien quando andava a lezione di violino. «È incredibile!» esclamò Cesare. «Hai avuto molte più avventure di me e io sono quasi un anno più vecchio. Io non ho mai fatto altro che cavalcare e aiutare mio padre nel Duodecimo. Tu invece hai conosciuto tutte e due le Duchesse di Bellezza. In confronto, la mia vita qui è noiosa.» «Ho paura che non rimarrà noiosa per molto» disse Luciano torvo. «Non puoi essere il figlio di uno Stravagante in una delle città più importanti per
i de' Chimici e non essere in pericolo.» «Fino a ieri non sapevo che mio padre fosse uno Stravagante» ribatté Cesare. «E ancora non so che cosa voglia dire.» «Neanch'io lo so... e dovrei essere uno di loro!» osservò Georgia. «Uno Stravagante è qualcuno che viaggia fra mondi diversi, o almeno fra il mondo di Georgia e il nostro» spiegò Luciano. Si voltò verso Cesare e aggiunse: «Il viaggio può avvenire in entrambe le direzioni, ma il talismano, l'oggetto che permette allo Stravagante di compierlo, deve provenire dal mondo che non è il suo.» «Ma tu hai detto di essere tornato nel mio mondo dopo che... be', lo sai» disse Georgia. «Adesso hai un talismano che viene da lì?» «Sì» affermò Luciano, ma non aggiunse altro. «Perché pensate di essere stati scelti?» domandò Cesare, un po' timidamente. «In qualche modo dovete essere molto speciali.» Luciano e Georgia fecero una smorfia contemporaneamente. «Per niente, nel mio caso» disse Luciano. «Neanche nel mio» fece Georgia. «A meno che...» aggiunse Luciano. Ma subito si fermò, confuso. «Cosa?» chiese Georgia. «Ho avuto molto tempo per pensarci» continuò lui riluttante. «Mi sono chiesto se il mio talismano non mi avesse cercato proprio perché nel mio mondo ero comunque spacciato. Voglio dire, sono rimasto bloccato qui perché i de' Chimici mi avevano rapito e non ho potuto stravagare a casa in quanto ero senza talismano, ma credo che sarei comunque morto nel mio mondo. Sai, il cancro era tornato.» Georgia annuì. «Dunque mi sono chiesto se le due cose non fossero collegate, se non fosse successo perché stavo già morendo. E di conseguenza... scusa se ti faccio una domanda del genere, ma nel tuo mondo tu stai bene?» Capitolo 6 L'ultimogenito
«Sei sicura che non ti stai ammalando?» chiese Maura quando Georgia
fece il quarto sbadiglio durante la colazione. «No, mamma. Sto bene, davvero» rispose lei. «È solo che non ho dormito molto la scorsa notte.» Era vero. Lucien l'aveva avvisata. «Quando stravagavo tutte le notti, poi a casa ero sempre stanchissimo» aveva detto. «Almeno però io avevo la scusa di essere malato.» Georgia era ragionevolmente sicura di non avere problemi di salute, e pensava di aver rassicurato sia Lucien che se stessa al riguardo. «Non sarebbe meglio saltare la lezione di equitazione per oggi?» disse Russell, fingendo una preoccupazione da buon fratello. Georgia gli lanciò un'occhiata velenosa. «Non sarebbe meglio non suonare la tua "musica" fino a tardi?» ribatté. «È quella che mi ha tenuta sveglia.» «Su, su, non litigate, voi due» intervenne Ralph, che detestava qualsiasi tipo di disaccordo a tavola. Georgia indossava già i pantaloni da equitazione e gli stivali. A volte, se era fortunata, Ralph o Maura la accompagnavano in macchina al maneggio, ma il viaggio era lungo e portava via tutta la mattina, perché dovevano restare ad aspettarla. Così il più delle volte, come quel giorno, prendeva la metropolitana fin quasi al capolinea, portando con sé cap e frustino. Dato che erano accessori difficili da nascondere, regolarmente durante il viaggio qualche spiritoso chiedeva: «Dov'è il cavallo?» per poi ridere fragorosamente del proprio umorismo. Quel giorno quasi non ci fece caso, ma tenne comunque il conto per abitudine. «Solo tre» borbottò prendendo l'autobus dalla stazione al maneggio. «Devo essere fuori forma.» L'odore familiare delle scuderie le fece subito venire in mente Remora, dove i cavalli, con o senza ali, venivano trattati quasi come divinità. Aveva passato la maggior parte della notte precedente - o del giorno, se si ragionava in termini talìani - a parlare con Lucien e Cesare dei de' Chimici, di Bellezza e della stravagazione. Era impaziente di tornare a scoprire altre cose su quella corsa di cavalli che sembrava dominare i pensieri dei cittadini... e di rivedere Lucien. Anche se proprio lui le aveva suggerito di non stravagare ogni notte per non sentirsi troppo stanca. Poi l'aveva avvisata del fatto che il portale che immetteva dal suo mondo al mondo talìano era notoriamente instabile. Lui, Dethridge e il misterioso Rodolfo, che per Luciano era evidentemente un grande eroe, stavano lavorando alla sua stabilizzazione, ma saltando anche una settimana avrebbe potuto scoprire di
essersi magari persa solo un giorno in Talìa. Poteva però rinunciare anche soltanto a un'occasione di vederlo? Il buon senso le diceva che non aveva nessuna possibilità di conquistare Luciano. In quel mondo non era morto, ma anche se lei avesse stravagato in Talìa e ci fosse rimasta per sempre - ipotesi che non era certamente nei suoi piani dubitava di poter diventare qualcosa di più di un'amica. Pensando all'espressione di Luciano mentre parlava della giovane Duchessa di Bellezza divenne improvvisamente triste. Da quanto aveva capito, la Duchessa si chiamava Arianna ed era la figlia della precedente Duchessa e di Rodolfo. Lucien era diventato suo amico molto prima che lei scoprisse le proprie origini, quando era solo una ragazzina che viveva in un'isola della laguna bellezzana. Poi però sua madre era stata assassinata e la verità era emersa. «Georgia!» gridò una voce, svegliandola dal suo sogno a occhi aperti. «Hai intenzione di cavalcare o vuoi startene lì impalata nel cortile tutta la mattina?» Era Jean, che gestiva il maneggio: una delle poche persone a cui Giorgia era affezionata. «Scusa...» mormorò. A parte la servitù, Falco de' Chimici era solo. Aveva il palazzo a completa disposizione. La residenza estiva dei de' Chimici a Santa Fina, a circa dieci miglia da Remora, era la più sontuosa fra tutte le ville dei Duchi di Giglia. Era stata costruita da Alfonso, il secondo Duca e nonno di Falco, che si era sposato solo a sessantacinque anni perché troppo occupato a fare soldi. Nonostante l'età, Alfonso aveva generato quattro figli: il primo, Niccolò, a sessantasette anni e l'ultimo, Jacopo, ora Principe di Bolonia, un decennio più tardi. Il Duca era morto all'età di ottantasette anni, molto prima che Falco nascesse, lasciando il titolo a un Niccolò appena ventenne. Renata, la moglie di Alfonso, era molto più giovane di lui, e Falco la ricordava vagamente: minuta e coi capelli bianchi, si trascinava per il palazzo appoggiandosi a un bastone, allegra, piena di interessi e fiera dei suoi splendidi figli e nipoti. "Perfino di me" pensò Falco zoppicando lentamente e dolorosamente da una stanza all'altra con l'aiuto di due bastoni. Era comunque un pensiero inusuale, perché a Falco non piaceva compatirsi. Era l'adorato figlio ultimogenito di una famiglia ricca e influente, nonché il più bello del suo ra-
mo. Il Duca suo padre, tenendolo in braccio pochi minuti dopo la nascita, stava già tramando per conquistare o acquistare nuovi principati affinché quel suo bellissimo bambino potesse ricevere un degno titolo. Falco aveva tre fratelli maggiori, ognuno a suo modo molto dotato. Fabrizio e Carlo erano entrambi belli e intelligenti. Il primo era certamente adatto ad essere l'erede del padre, dato che si interessava di politica e diplomazia e tutti i giorni passava diverse ore a discutere col Duca. Il secondo era più orientato verso gli affari, proprio come il fondatore della dinastia. Già da piccolo costruiva castelli con mattoncini di legno e voleva che i fratelli pagassero per poterli usare. Il fratello che Falco preferiva era Gaetano, il più vicino a lui come età. Gaetano non era affatto bello: anzi, era decisamente brutto, con un grosso naso e una bocca larga e storta. Si diceva che somigliasse al nonno Alfonso, il costruttore del grande palazzo. Era però il più intelligente dei quattro e il più interessato alle biblioteche di Santa Fina e del Palazzo Papale dello zio. Era anche il più simpatico. Gaetano sapeva cavalcare, tirare di scherma e inventarsi i giochi più fantasiosi. Falco aveva passato i momenti più felici della sua infanzia proprio con Gaetano a Santa Fina, vivendo le avventure che questi immaginava, fatte di cavalieri, fantasmi, tesori nascosti, parenti pazzi tenuti segreti, testamenti perduti e misteriose mappe. A volte Beatrice, la loro sorella maggiore, veniva convinta a impersonare le principesse prigioniere e le regine guerriere ideate dalla fantasia di Gaetano, ma spesso lo stesso Falco, che aveva tratti delicati e grandi occhi scuri, accettava di farsi avvolgere in scampoli di mussola o di broccato per recitare i ruoli femminili. Le sue avventure preferite, però, erano quelle in cui si usavano le spade. I due fratelli combattevano su e giù per le scale del palazzo, dall'imponente curva di marmo dello scalone centrale alle misteriose diramazioni delle scale di legno che portavano agli alloggi della servitù. Duellavano sotto i pesanti lampadari della sala da ballo, riflessi dagli specchi che rivestivano le pareti. Finivano addirittura nelle cucine del palazzo, rovesciando pentole e spaventando le serve. Nonostante Gaetano fosse quattro anni più vecchio di Falco, i due si equivalevano quanto a bravura, e finivano sempre per crollare esausti, ridendo e ansimando, nello stesso momento. Era stato bellissimo, ma tutto era finito due anni prima. Gaetano aveva compiuto quindici anni e ben presto avrebbe cominciato a frequentare l'università di Giglia, mentre il fratello avrebbe continuato ad essere istruito
dal tutore Ignazio. I due ragazzi avrebbero avuto ancora tutta un'estate per la scherma e i giochi, se non fosse stato per l'incidente. Falco ci stava pensando proprio in quel momento, mentre saliva con grande sforzo una delle scalinate su cui si era arrampicato in passato. Raggiunse la grande loggia ad archi che sovrastava l'entrata principale del palazzo e respirando con affanno si appoggiò al parapetto per contemplare la campagna. Da lì non si vedevano le scuderie e Falco ne era contento. Non cavalcava dal giorno dell'incidente: non voleva farlo e non sapeva neanche se sarebbe stato possibile. Non avrebbe sopportato l'umiliazione di dover essere issato goffamente sul dorso di bestie sulle quali un tempo saltava agile e leggero. Era troppo orgoglioso. Per il suo quindicesimo compleanno, Gaetano aveva ricevuto in dono un nuovo cavallo, un nervoso castrone grigio di ottima razza, chiamato Caino. Falco aveva pregato il fratello di farglielo cavalcare, ma lui gliel'aveva stranamente negato. «È troppo grande per te» aveva detto. «Aspetta di crescere ancora un po'.» Falco si era molto arrabbiato e aveva deciso di vendicarsi. Aveva atteso la fine del grande pranzo di compleanno. Dopo che la tavola era stata sparecchiata, gli ospiti si erano ritirati per un sonnellino nelle stanze ai piani superiori, dove faceva più fresco. Anche Gaetano era andato a sonnecchiare sui suoi manoscritti in biblioteca. Falco, invece, si era recato nelle scuderie e aveva sellato Caino. Era stata una follia. Gli stallieri stavano mangiando, i cavalli erano sonnolenti nel caldo del primo pomeriggio e il grigio non conosceva quel ragazzo che lo stava portando fuori. Tuttavia si era lasciato montare: aveva appiattito le orecchie solo una volta ed era sembrato rassicurato dalle mani sensibili del suo cavaliere. Caino però non aveva gradito uscire sotto quel sole cocente e presto aveva cominciato a irritarsi. Aveva rallentato il passo e quando il ragazzo lo aveva spronato si era messo a correre a tutta velocità attraverso i campi. Falco aveva paura. Sapeva che Gaetano sarebbe andato su tutte le furie se avesse stancato troppo il suo nuovo destriero, ma stranamente non temeva per la propria incolumità. A un certo punto Caino aveva visto sulla strada un muretto piuttosto alto e aveva contratto le zampe posteriori per saltarlo. C'era quasi riuscito, ma proprio in quel momento un uccello si era levato in volo spaventandolo e il cavallo si era ribaltato, schiacciando il ragazzo.
Prima che un garzone di stalla si accorgesse della scomparsa del grigio era passata solo mezz'ora. Lo stalliere aveva avvisato Niccolò, che aveva interrotto bruscamente il riposino pomeridiano. «Quel ragazzo è stato uno stupido a uscire con questo caldo» aveva brontolato con irritazione. «Ma forse era impaziente di provare il suo regalo.» «No, Vostra Grazia» aveva replicato lo stalliere. «Il vostro servitore mi ha detto che il signorino Gaetano è nella biblioteca.» Quando li avevano trovati, il cavallo era già morto, con gli occhi rovesciati e il bellissimo muso chiazzato di sangue e di bava. Aveva il collo rotto. Ci erano voluti cinque uomini per spostare il cadavere e liberare Falco. Il Duca, disperato, aveva insistito per riportare lui stesso a palazzo il corpo inerte del suo ultimogenito. Il ragazzo sembrava respirare a malapena. Il medico di Santa Fina, mandato subito a chiamare, lo aveva trovato in condizioni disperate. Per tre giorni Falco era stato fra la vita e la morte. Poi, il quarto giorno, il suo corpo martoriato si era ripreso, ma per lui era iniziata una vita di sofferenze. Le costole rotte, i tagli e i lividi erano guariti col tempo, anche se la cicatrice sulla guancia non sarebbe mai sparita. Però la gamba destra era stata fatta a pezzi e nemmeno tutta l'abilità del medico con stecche e bendaggi era riuscita a ridare a Falco la leggerezza e l'agilità dei movimenti. Ci aveva messo due anni per tornare a camminare con i bastoni, e ogni passo gli costava ancora fatica e dolore. Appoggiato al parapetto, si reggeva il mento con un'esile mano e ricordava l'angoscia dei suoi genitori. La madre era morta di febbre da un anno, dando a Falco un ulteriore dolore. Il ragazzo sapeva che il padre gli voleva bene, ma era un affetto che non avrebbe mai potuto accettare pienamente, perché aveva troppa vergogna di quel suo corpo ormai rovinato. Gaetano era ancora talmente tormentato dal senso di colpa che quasi non riusciva a guardarlo in faccia. Non poteva fare a meno di pensare che l'incidente non sarebbe mai accaduto se non avesse respinto la richiesta del fratello. Tuttavia né Falco né il resto della famiglia lo accusavano. Falco si riteneva il solo responsabile. Non riusciva a perdonarsi di aver causato la morte di quel bellissimo cavallo e sentiva che le sue ferite erano meritate. A volte pensava che la perdita della compagnia di Gaetano fosse la più dura delle punizioni che doveva sopportare. "Chissà dov'è Gaetano adesso" pensò.
E come per magia, un cavaliere apparve improvvisamente sulla strada polverosa che conduceva a Remora. Falco capì subito che era l'amato fratello, perché nessun altro stava in sella in quel modo. Ai vecchi tempi sarebbe corso di sotto, all'ingresso, per gettargli le braccia al collo. Ora però, anche volendo, non avrebbe potuto farlo. Rimase dov'era, chiedendosi perché Gaetano stesse arrivando lì con tanta fretta. Dopo la cavalcata, Georgia si sentì molto meglio. Non era più stanca, ma euforica. Era giovane, in forma, piena di salute e quella sera avrebbe rivisto Lucien. Se necessario, avrebbe passato tutta la domenica a letto. Nemmeno la faccia beffarda di Russell che l'attendeva a casa le avrebbe fatto passare il buonumore. Non appena tornata si preparò un bagno molto caldo con schiuma al profumo di jojoba. Sentiva Russell brontolare fuori della porta, ma una delle regole imposte da Maura diceva che Georgia doveva fare un bagno caldo dopo il maneggio. Rimase nell'acqua finché non divenne fredda, aggiungendone di calda e fantasticando su Remora. Con un sussulto si rese conto che si stava addormentando. Uscì in fretta dalla vasca e si asciugò vigorosamente. Infilò l'accappatoio sopra la biancheria intima e gettò i pantaloni da equitazione nel cestino del bucato, togliendo prima dalla tasca la statuina, che era protetta da un foglio di plastica a bolle. Era stato scomodo tenerla lì durante la cavalcata, ma non voleva staccarsene. Soprattutto se Russell era nei paraggi. Gaetano salì i gradini di marmo a due a due. Il servitore alla porta gli aveva detto dove si trovava Falco. Senza esitare, corse da lui e lo abbracciò come non faceva da due anni. «Fratello mio!» disse con il fiato corto. «Dovevo assolutamente vederti. Nostro padre vuole che io mi sposi!» Falco si commosse. Era di nuovo come ai vecchi tempi, quando loro due si confidavano tutto. Ricambiò affettuosamente l'abbraccio di Gaetano, fissando il suo viso preoccupato. «Chi è la ragazza?» chiese. «Non sembri entusiasta della cosa.» «Oh, di quello non m'importa» rispose Gaetano in un tono molto più amaro di quanto le parole suggerissero. «Non ho mai pensato di poter avere voce in capitolo. Però sospettavo che nostro padre volesse piuttosto farmi intraprendere la carriera ecclesiastica.» «E sei deluso?» domandò Falco sorpreso.
«No, no» disse Gaetano, passeggiando nervosamente per la loggia. «È che la decisione non riguarda solo me. Sembra che ora nostro padre voglia che sia tu il prossimo Papa in famiglia!» Falco rimase intontito. D'improvviso fu tutto chiaro. Lui non era più il bellissimo ultimogenito, degno di portare una corona o di imparentarsi con un'altra delle dinastie principesche di Talìa. Nessuna ragazza si sarebbe interessata a uno storpio, e allora poteva benissimo venire relegato alla Chiesa e a una vita di celibato. Sarebbe invecchiato senza conoscere la carezza di una donna. Alla morte dello zio Ferdinando, sarebbe stato già un cardinale papabile e un conclave truccato lo avrebbe eletto al Soglio pontificio. Falco voleva bene al padre, ma non si faceva illusioni su di lui. Niccolò avrebbe sistemato ogni cosa e se anche fosse morto prima di Ferdinando avrebbe fatto sì che Fabrizio portasse avanti il piano. A soli tredici anni, Falco ebbe la sensazione che il proprio destino fosse già stato deciso. In parte non gli dispiaceva: sarebbe diventato un grande studioso ecclesiastico, nonché un esperto di vini, e avrebbe scritto trattati filosofici. Riusciva anche a immaginarsi in quei ruoli. Però come adolescente non poteva ancora accettare che la sua vita fosse già pianificata in quel modo. Gaetano sembrava affranto. «Non posso permettere che ti succeda, dobbiamo pensare a un'alternativa. La persona che dovrei sposare è la nuova Duchessa di Bellezza. È solo una ragazzina, più giovane di me. Nostro padre me ne ha mostrato un ritratto: è molto bella.» «Sono sempre belle nei ritratti, vero?» osservò Falco. Gaetano fece uno dei suoi grandi sorrisi e aggiunse: «Ascoltami. Questa Duchessa... il Reggente, suo padre, è Rodolfo Rossi, un mago potente. Nostro padre mi ha detto che è uno Stravagante.» Falco sgranò gli occhi. «E che cosa sarebbe?» Gaetano esitò. «Non lo so di preciso. So solo che nostro padre e altri ne sono molto affascinati. Gli Stravaganti conoscono ogni sorta di segreti, però sembra che tra loro e la nostra famiglia ci sia rivalità. Nostro padre non chiederebbe mai il loro aiuto.» «Per cosa?» domandò Falco. «Per te. Se il progetto va avanti e io sposo questa ragazza, chiederò a suo padre di aiutarti. Sono sicuro che ha le capacità per farti guarire. Così non dovrai più essere Papa e potrai fare tutto ciò che vorrai.» A Falco spuntarono lacrime di gioia. Non per la possibilità che lo Stravagante di Bellezza potesse curarlo: a questo non credeva minimamente.
Le lacrime erano per il fatto che Gaetano fosse di nuovo suo amico. L'arrivo di Georgia alle scuderie del Montone era atteso e un cavallo era già stato sellato per lei. Cesare le sorrise. «Andiamo a trovare Merla» disse. «Vuoi che ti aiuti a montare?» "A cavalcare sia di giorno che di notte mi verranno i muscoli come Schwarzenegger" pensò Georgia. «Dov'è Luciano?» chiese poi, mentre Cesare montava sul proprio cavallo. «Lo incontreremo là.» Si avviarono al passo fino alla Porta del Montone, e la attraversarono. Trottarono lungo le mura cittadine, passando la Porta del Toro e quella dei Gemelli, fino a giungere all'ampia strada che dalla Porta del Sole si dirigeva a nord. Davanti al Duodecimo dei Gemelli accelerarono, ma un'ombra a cavallo scivolò fuori dalla porta e li seguì. Non subito dietro, ovviamente, ma lasciando che carri e altri viaggiatori si ponessero in mezzo. Come spia, Enrico era troppo scaltro per farsi notare. Capitolo 7 Un arpa suona a Santa Fina
Santa Fina fu una rivelazione. Georgia considerava Remora, con le sue strette strade acciottolate e le piazze piene di sole che si aprivano all'improvviso, il luogo più stupefacente che avesse mai visto. Santa Fina però sembrava consistere solo di chiese e torri. La chiesa principale, che si affacciava sulla piazza del mercato, era costruita come una fortezza, con un'ampia rampa di scale che conduceva al portale, sempre piena di preti, pellegrini e turisti che le salivano e scendevano continuamente. Georgia intuiva che quella cittadina sulle colline era più antica dell'attuale Remora. «Cosa stai pensando?» chiese Cesare mentre erano fermi nella piazza del mercato, circondati dall'attività quotidiana di Santa Fina.
«Non riesco a credere che sia vero» rispose Georgia. «È come il set di un film.» «Non so cosa significhi» disse Cesare, con la fronte leggermente corrucciata. «Ma capisco quando dici che non sembra vera. Tanti pensano così di Santa Fina.» Svoltarono per una strada laterale e cavalcarono al passo per un labirinto di vicoletti, uscendo infine a ovest della città, dove c'era un vasto complesso di scuderie, molto più grandi e imponenti di quelle del Montone. Luciano li aspettava nel cortile. Sembrava un po' imbarazzato. «Sono arrivato in carrozza» disse. «Non so cavalcare.» Guardò Georgia con ammirazione e lei si sentì avvampare. «È facile» disse. «Ti posso insegnare io.» Luciano indietreggiò leggermente con aria allarmata. «Oh, no, i cavalli non mi piacciono per niente. Mi spaventano.» Cesare rise. Ecco finalmente qualcosa che lui sapeva fare e il bel giovane Stravagante no. Smontò da cavallo e accompagnò Georgia nelle scuderie, dove si sentiva quasi di casa. Roderigo, il capostalliere di Santa Fina, era un uomo grosso e allegro che diede un caloroso benvenuto ai tre giovani e mostrò loro dove potevano lasciare i cavalli. Non appena questi furono sistemati e rifocillati di cibo e acqua, Roderigo portò Cesare, Georgia e Luciano sul retro dello stabile. Era chiaro che pensava di avere di fronte tre maschi e che era molto divertito dall'inesperienza di Luciano con i cavalli. «Qui ne abbiamo una che non ti spaventerebbe, eh?» disse, dando una pacca sulla spalla a Luciano. «Dalle ancora qualche settimana e ti porterà dappertutto, senza doverti neanche preoccupare di saltare muretti o steccati. Poi potresti passare a un cavallo normale. Un giovane come te ha bisogno di un destriero, altrimenti come fa a seguire la carrozza della sua amata? O a portarle tesori da città lontane?» «Io vivo a Bellezza» replicò Luciano. «Lì non abbiamo cavalli.» «Ah, questo spiega tutto» disse Roderigo. «Venire a Remora dalla Città delle Maschere è un po' come salire su una barca per un ragazzo di campagna. Ci vuole tempo per abituarsi. Ma prima che tu torni a Bellezza ti avremo insegnato a cavalcare.» Girarono intorno alla fattoria dove viveva Roderigo e arrivarono sul retro, a quello che sembrava un granaio. Uno degli stallieri sedeva all'esterno, tagliuzzando un pezzo di legno con un coltello. «Tutto bene, Diego?» domandò il capostalliere mentre entravano.
«Sì, tutto tranquillo» rispose il giovane. Si capiva che stava di guardia a qualcosa e che quell'incarico lo annoiava. L'interno del granaio era buio e polveroso. Un cavallo nitrì nell'ombra. Georgia si avvicinò. Quando i suoi occhi si adattarono all'oscurità, riuscì a vedere una bellissima giumenta dal manto grigio chiaro. «Ciao, Splendore» disse affettuosamente Cesare, e la cavalla mosse la testa come se l'avesse riconosciuto. «È stupenda» mormorò Georgia, che la notte in cui aveva visto la cavallina alata non aveva fatto troppo caso alla madre. «Aspetta di vedere la puledra» disse Roderigo con orgoglio. «Tranquilla, Splendore. Puoi fidarti di noi, bella mia.» A Georgia sembrò che la giumenta esitasse un po', guardando attentamente lei e Luciano come per accertarsi che fossero amici. Era evidente però che si sentiva a suo agio con Cesare e Roderigo. Si fece leggermente da parte e Georgia rimase senza fiato. Sia lei che Luciano sapevano che cosa aspettarsi, ma vederla era comunque stupefacente, nonostante per Georgia fosse la seconda volta. Luciano non riusciva a credere ai propri occhi. La puledra nera aveva il profilo incerto di un giovane animale che sta ancora crescendo, ma era perfettamente formata. Sulla schiena era ripiegato un paio di lucide ali nere, quasi irreali. Nemmeno Cesare riuscì a nascondere la propria meraviglia. «Quant'è cresciuta!» esclamò. «Mio padre aveva ragione quando diceva che questi cavalli alati diventano grandi più in fretta degli altri.» Le ali erano cresciute in proporzione. Le piume erano meno lanuginose di quanto non lo fossero alla nascita. Mentre la guardavano, Merla le alzò e le spiegò con la stessa naturalezza con cui incurvò il collo. Era qualcosa che lasciava stupefatti. «Quanto ci vorrà prima che voli?» chiese Cesare. «Poco, ormai» rispose Roderigo. «Ma dobbiamo farla uscire solo di notte. Non possiamo rischiare che qualcuno la veda.» «Ti porto fuori» disse Gaetano. «Sei stato troppo tempo chiuso nel palazzo.» «E come?» chiese Falco. «Sai che non posso cavalcare.» Pece alcuni passi a fatica, in modo che il fratello non potesse vedere la sua espressione. «Puoi sedere davanti a me» suggerì Gaetano con delicatezza. «Non ti di-
spiacerà, vero? Potremmo scendere in città e comprarci della granita.» Falco di colpo sentì il bisogno di vedere qualcos'altro al di fuori di quel grande palazzo. Le sue speranze stavano riprendendo forza. Forse un giorno avrebbe ripreso a condurre una vita quasi normale. Se non altro poteva cominciare andando in città con il fratello. «Va bene» disse, ricevendo in premio uno dei grandi sorrisi di Gaetano. Enrico lasciò che il cavallo passeggiasse tranquillo per le stradine laterali di Santa Fina. Aveva visto dove i giovani del Montone avevano svoltato e sapeva che sarebbe stato facile rintracciarli. La sua mente irrequieta era concentrata solo in parte sul compito odierno. Il lavoro per il Papa consisteva anche nello spiare i rivali dei Gemelli. Così aveva deciso di cominciare dal Montone, ma non si aspettava risultati immediati. Enrico era metodico. Dopo il Montone, che era avversario dei Gemelli per via della rivalità fra Remora e Bellezza, avrebbe spostato la propria attenzione sul Duodecimo del Toro, loro nemico tradizionale. Poi si sarebbe informato sulle scuderie della Bilancia, da sempre ai ferri corti con la Signora. E naturalmente avrebbe tenuto gli occhi aperti anche nello stesso Duodecimo della Signora. Era sì al soldo del Papa e del Duca, ma una spia poteva sempre trovare ulteriori ingaggi, ed Enrico era avvezzo a servire più padroni. A Remora era nel suo elemento. Come Rinaldo, il suo vecchio padrone, anche lui aveva mal sopportato l'assenza di cavalli a Bellezza, e inoltre detestava quella città che gli aveva portato via la fidanzata. Non solo: gli piacevano le antiche alleanze e rivalità di Remora, e apprezzava le qualità necessarie per truccare la grande corsa annuale. Era il tipo di attività in cui lui era particolarmente abile. Poi si accorse di essere finito fuori della città e di trovarsi di fronte a un grande complesso di scuderie. "Interessante" pensò. "Credo proprio che al mio cavallo serva una sosta." Georgia e i due ragazzi uscirono storditi dalle scuderie. Avevano deciso di fare un giro per la cittadina e di tornare più tardi a riprendere i cavalli. Per tutto il tragitto Georgia ripensò a ciò che aveva visto, e senza accorgersene si ritrovò nella piazza con l'enorme chiesa. Notò che Luciano era affascinato quanto lei da Santa Fina. Arrivando da Remora, la carrozza, troppo grande per quelle stradine, aveva aggirato la cittadina, e così lui si era perso quello straordinario spettacolo. Pur essendo
ormai un Talìano, non poteva fare a meno di vedere Santa Fina con gli occhi di un ragazzo del ventunesimo secolo e l'avere accanto Georgia intensificava quella sensazione. «Che cosa ne pensi?» chiese la ragazza. «Mi ricorda Montemurato, dove ho conosciuto il Dottor Dethridge» disse Luciano. «Anche lì c'è un sacco di torri, ma intorno alle mura. E anche lui lavorava in una scuderia.» C'erano molte cose che Georgia non sapeva della nuova vita di Lucien. Erano tante le domande che avrebbe voluto fargli, ma di fronte a Cesare si sentiva in imbarazzo. Fu proprio Cesare a interrompere i suoi pensieri. «Dovreste vedere l'interno della chiesa. È famosa per i suoi affreschi.» I tre giovani salirono i ripidi gradini fino alla facciata disadorna del tempio. Passarono dal sole splendente a un buio denso come quello nel granaio di Roderigo. Un buio senza l'odore dei cavalli a renderlo caldo e amichevole. La chiesa sapeva di incenso ed era debolmente rischiarata da grandi candele vicino all'altare. Quando i loro occhi si furono abituati all'oscurità, videro che le pareti erano coperte di affreschi. Georgia riconobbe alcuni episodi della vita di Gesù. Improvvisamente, però, notò una cappella laterale in cui le raffigurazioni avevano soggetti non religiosi: Leda e il cigno, Andromeda e il serpente marino... e Pegaso che volava attraverso nuvole dipinte. Lo fece notare a Cesare e Luciano. Sul pavimento c'era un intarsio circolare di marmo che somigliava al Campo delle Stelle. Lungo il bordo mostrava i segni dello zodiaco ed era diviso come la grande piazza, anche se non conteneva i settori del Sole e della Luna. Georgia pensò che sarebbe stato decisamente fuori luogo in una chiesa in Inghilterra, ma a Santa Fina sembrava naturale. Rimasero silenziosi, un po' intimoriti dall'atmosfera. Alla fine uscirono in un fresco chiostro che circondava un riquadro erboso, con una fontana in mezzo. Da qualche parte, oltre il chiostro, Georgia sentì distintamente provenire il suono di un'arpa. Il viaggio non fu tremendo quanto Falco aveva temuto. Aveva lasciato che Gaetano lo sollevasse con le sue forti braccia e lo sistemasse sul davanti della sella, da dove si era tenuto alla criniera del cavallo. La sua gamba destra penzolava inerte, ma il ginocchio sinistro si era alzato e istintivamente aveva premuto contro il fianco dell'animale. Falco aveva tuffato
il viso nel pelo ruvido della criniera aspirando forte: era bello essere di nuovo in sella. Subito dopo Gaetano si era seduto dietro di lui e gli aveva passato le mani intorno alla vita per tenere le redini. I bastoni erano stati legati dietro la sella. Cavalcarono così, lentamente, fino alla cittadina di Santa Fina. La trovarono piena di vita: nella piazza del mercato i venditori elogiavano ad alta voce le proprie merci esposte sulle bancarelle, i clienti tiravano animatamente sul prezzo, i cani abbaiavano, gli uccelli volavano intorno alle numerose torri e dalla grande chiesa arrivava il canto delle litanie. Girarono intorno alla piazza e passarono un arco sul lato opposto. Si stavano dirigendo verso quello che anni addietro era stato uno dei loro posti preferiti: una piccola bottega dietro la chiesa, dove una donna soprannominata la Mandragola preparava deliziose granite. Gaetano smontò e legò il cavallo a un anello di ferro nel muro, poi aiutò Falco a scivolare lungo il collo dell'animale e lo resse finché non ebbe di nuovo in mano i bastoni. Mentre sedevano di fronte alla bottega, mangiando a grandi cucchiaiate i cristalli di albicocca e melone ghiacciati, il suono di un'arpa si sparse nell'aria calda e immobile. «Devo essere in paradiso» disse Falco al fratello. «Sento gli angeli.» Enrico si mise subito a proprio agio nelle scuderie di Roderigo. I suoi occhi scrutavano ovunque. Aveva identificato facilmente i destrieri e aveva notato i due cavalli da carrozza dei ragazzi che stava seguendo, con le coccarde bellezzane sulle redini appese nella posta. La sua disinvoltura e familiarità con gli equini gli assicurarono un trattamento amichevole da parte degli stallieri, ma quando uno di questi se ne andò e un altro apparve da dietro la fattoria, il sesto senso di Enrico si ridestò. "Sembra un cambio di guardia" pensò continuando a chiacchierare con gli altri lavoranti. Poi fece tutto il possibile per essere gentile con Diego, il nuovo arrivato. «Hai l'aria di chi ha avuto una mattinata faticosa» gli disse alla fine. «Vieni, ti offro da bere.» In una piazzetta dietro ai chiostri della chiesa, un giovane era seduto a suonare l'arpa. Aveva capelli lisci e neri che gli arrivavano oltre le spalle e un'espressione concentrata. Non utilizzava alcuno spartito e una piccola folla gli si era raccolta intorno, attratta dalla purezza della melodia. Una giovane donna stava alle sue spalle: non appena l'ultima cascata di note
cessò e cominciarono gli applausi, si mosse veloce tra i presenti reggendo un vecchio cappello di velluto verde che presto si riempì di monete. Ai margini della folla, tre ragazzi che portavano i colori del Montone remorano si frugarono nelle tasche. Dal lato opposto della piazza altri due ragazzi, più riccamente vestiti, chiesero alla donna se l'arpista poteva suonare ancora. Il più giovane dei due aveva una gamba storta e si reggeva faticosamente su due bastoni. Lei si chinò verso il musicista, che sedeva tenendo gli occhi chiusi, incurante della gente che aveva intorno. «Vorresti suonare ancora, Aurelio?» gli sussurrò. «C'è un ragazzo invalido che ti vuole ascoltare.» Il giovane annuì, aprì gli occhi e poggiò di nuovo le mani sulle corde. Tutti nella piazza fecero silenzio, perfino due uomini che stavano bevendo fuori di una taverna nell'angolo più lontano. Aurelio suonò un brano ancora più melodioso. Tutti gli ascoltatori erano come incantati. Cesare immaginava di condurre Arcangelo alla vittoria e di reggere il drappo della Stellata, fra gli applausi e le grida del suo Duodecimo. A Luciano la musica riportò alla mente la madre e le lunghe serate della sua infanzia. A Georgia parlò in maniera tormentosa di amori non corrisposti. A Gaetano ispirò una visione femminile, un miscuglio fra la cugina Francesca che ricordava bene e la Duchessa bellezzana che poteva solo immaginare. Per Falco fu come un'estasi: quello era un giorno che avrebbe ricordato per il resto della vita. Suo fratello era tornato, aveva cavalcato di nuovo, aveva riassaporato la granita della Mandragola e ora stava ascoltando i suoni del paradiso. Dopo due anni aveva ricominciato a vivere. Perfino Enrico si commosse. «Mi ricorda la mia Giuliana, che ho perduto per sempre» sussurrò a Diego asciugandosi gli occhi con la manica. Anche il giovane stalliere si sentì coinvolto dall'atmosfera: non aveva una ragazza, ma se l'avesse avuta avrebbe pensato a lei in quel momento. L'incantesimo durò ancora per qualche minuto dopo che Aurelio ebbe finito di suonare. Al secondo giro il cappello raccolse molte più monete. Gaetano parlò alla giovane e questa lo accompagnò dall'arpista, che stava seduto immobile con le braccia lungo i fianchi. La maggior parte dei presenti, vedendo che non sarebbe stata suonata altra musica, cominciò ad allontanarsi. I tre del Montone, però, erano rimasti come ipnotizzati. «È stato sublime. Spero tu voglia venire a suonare per mio zio» disse
Gaetano. Poi si tolse dal dito un anello con sigillo e lo diede al silenzioso musicista. «Presentati con questo in qualsiasi momento al Palazzo Papale di Remora e farò in modo che tu e la tua amica veniate trattati come re.» Cesare afferrò il braccio di Luciano. «I de' Chimici!» sibilò. L'incantesimo si era spezzato. «Oppure vieni quest'estate al Palazzo Ducale di Giglia, se preferisci» aggiunse Gaetano. «Il Duca è mio padre e potrebbe renderti famoso.» «Potresti invece venire a Bellezza» intervenne Luciano, facendo un passo avanti. Georgia fu sorpresa. Non era più il ragazzo dagli occhi sognanti che lei conosceva, ma un ricco cortigiano, pronto a tenere testa a uno di quei de' Chimici. «So che alla Duchessa piacerebbe ascoltare la tua musica» continuò Luciano. «Io sono un apprendista del suo Reggente e padre, il Senatore Rossi, e sono sicuro che lui approverebbe questo mio invito.» L'arpista si alzò in piedi. Era molto alto. La giovane gli prese l'anello. «Ringrazio entrambi, ma io suono soltanto per me stesso. Fama e denaro non mi interessano.» Cesare guardò il cappello con aria interrogativa, ma Aurelio sembrò non accorgersene. Quando voltò il viso verso di loro, i ragazzi capirono che i suoi occhi azzurri non vedevano. Diede la mano alla giovane perché lo accompagnasse fuori dalla piazza. Lei, che invece aveva notato l'occhiata di Cesare, si portò un dito alle labbra. Georgia capì in un attimo che Aurelio non sapeva della colletta e che la ragazza, sorella o forse fidanzata, non voleva che ne venisse a conoscenza. «Non andartene» disse Gaetano. «Non volevo offenderti. Almeno vieni con noi a palazzo per ristorarti un po'.» Aurelio rimase in silenzio, ma si voltò verso la giovane come se aspettasse di sentire la sua opinione. «Ci sono posti più vicini dove ristorarsi. Sarei onorato se foste miei ospiti» ribatté Luciano con fermezza. Non sapeva perché si sentisse così interessato a quel musicista, ma non aveva intenzione di lasciare che i de' Chimici glielo portassero via. Luciano e Gaetano rimasero a guardarsi di traverso. Falco si era avvicinato a loro zoppicando. Con Georgia e Cesare, i giovani avevano formato un capannello nel mezzo della piazza. «Un po' di cibo e una bevanda non mi dispiacerebbero, Raffaella» disse Aurelio. La ragazza aveva spostato le monete e l'anello dei de' Chimici in una bi-
saccia che teneva in vita e aveva messo il cappello in mano ad Aurelio. «Allora lascia che uno di questi gentili signori ce li offra» rispose. «Preferirei che lo facessero entrambi. Quando viene negato loro lo stesso bottino, due rivali possono diventare amici» disse Aurelio. Poi si schiacciò il cappello sulla chioma nera, incurante dell'effetto che le sue parole avevano provocato. «Ecco qualcosa di veramente raro!» esclamò Enrico rivolto al suo nuovo amico. «Che cosa?» chiese Diego. «Tre del Montone e due della Signora che si incamminano insieme. Anche se a dire la verità non sembrano molto soddisfatti!» «Potere della musica» disse Diego. «Ma Montone e Signora non sono avversari.» Enrico sbuffò. «Si vede che non vivi a Remora! I Pesci e la Bilancia sono i loro nemici tradizionali, ma la Signora non va d'accordo con Bellezza, che è gemellata col Montone. Ho visto io stesso in quella città il ragazzo con i capelli ricci. È un grande favorito della nuova Duchessa.» «Be', quelli della Signora sono de' Chimici. Addirittura i figli del grande Duca» osservò Diego per non essere da meno. Enrico sobbalzò. «Davvero? Che coincidenza! Io stesso lavoro per il Duca. E di quali tra i giovani Principi stiamo parlando?» «Quei due non sono veri Principi, e difficilmente avranno mai un principato» spiegò Diego. «I loro titoli sono solo onorifici. Gaetano studia all'università di Giglia, mentre il povero Falco... be', lui chissà dove finirà.» «È quello con i bastoni? Che cosa gli è successo?» chiese Enrico. E prima che l'altro rispondesse aggiunse: «Senti, che ne dici se prendiamo qualcos'altro da bere?» Capire quando smettere di seguire le persone e mettersi comodo a raccogliere informazioni da poter usare in seguito era la tattica di Enrico come spia. Se avesse potuto vedere il gruppo nella taverna vicino al museo cittadino, si sarebbe convinto di aver fatto la scelta giusta. Nessuno parlava. Luciano e Gaetano avevano gareggiato per ordinare cibo e bevande e ora tutti stavano in silenzio mentre aspettavano di essere serviti. Aurelio sedeva calmo in mezzo a loro, la sua arpa avvolta in una sacca e appoggiata al muro. Sembrava non notare la tensione intorno a sé. «Mi piacerebbe sapere chi sono questi signori» disse. E aggiunse: «Non la loro posizione nella società, ma soltanto i loro nomi.»
«Naturalmente» disse Gaetano. «Io sono Gaetano de' Chimici e qui c'è anche mio fratello minore, Falco.» Aurelio si voltò verso il posto occupato dal ragazzo. «Sei tu quello invalido» disse piano. «E io sono Luciano Crinamorte, con i miei amici Cesare e Giorgio» si intromise Luciano. «Io sono Aurelio Vivoide e lei è Raffaella» disse il musicista. «Siamo Manoush.» Tutti gli altri rimasero sbalorditi, ma Aurelio non aggiunse altro e sembrò accontentarsi di sedersi e attendere il cibo. Poi Gaetano prese una decisione. Si voltò verso Luciano e disse: «Se ho sentito bene, lavorate per il Senatore Rossi. È vero che è uno Stravagante?» Georgia, stufa di essere ignorata, non poté trattenersi. «Non c'è bisogno di andare fino a Bellezza per trovare uno Stravagante» disse. «Io stesso sono uno di loro.» Capitolo 8 I Manoush
«Georgia!» esclamò Luciano, così sconvolto da quell'incauta rivelazione da dimenticarsi che doveva farla passare per un ragazzo. «Quella parola non andrebbe usata con leggerezza» disse Aurelio. «Non dovrebbe neanche essere pronunciata, se non in privato e tra amici fidati. Tu non sai niente di me. Se ciò che dici è vero, io e questi altri giovani potremmo rappresentare un pericolo per te.» Aveva ragione. Georgia si rese conto di essere stata troppo avventata. Chissà quali rischi aveva attirato su Luciano e i suoi amici. Si sentiva malissimo, ma le arrivò un aiuto proprio da chi non se lo sarebbe mai aspettato. «Non siate troppo severo con lui» disse Gaetano, che evidentemente non aveva notato l'errore di Luciano. «So che la mia famiglia è in qualche modo in lotta con... con quelli che avete nominato. Ma a me non interessa. Mio padre non mi ha detto niente al riguardo, perché secondo lui non sono abbastanza importante per la politica. L'unico motivo per cui voglio cono-
scere uno... uno di quelli è per capire se è in grado di fare qualcosa per mio fratello.» La possibilità che Gaetano fosse una brava persona pur essendo un de' Chimici sfiorò la mente di Luciano. Credeva a ciò che il giovane nobile aveva appena detto, perché si capiva che voleva molto bene al fratello. Falco era un bel ragazzo, dall'aria intelligente e chiaramente molto infelice. Luciano si rendeva conto degli svantaggi di vivere nel sedicesimo secolo. Nemmeno una famiglia ricca quanto i de' Chimici poteva far curare un figlio vittima di un incidente tanto grave. E lui sapeva bene cosa volesse dire avere una malattia incurabile. In quel momento arrivarono i servitori con vassoi stracolmi. Tutti erano affamati e si gettarono sul cibo. Sorprendentemente, l'animosità sembrò svanire una volta soddisfatto l'appetito, ma Georgia era ancora a disagio. «Parlaci dei Manoush» disse ad Aurelio. «Hai ragione, non so niente di te. Sono tante le cose che non so di Talìa.» «Tanto per cominciare, noi non siamo Talìani» affermò Aurelio. Raffaella annuì. Somigliava molto all'arpista. Era alta e aveva gli stessi capelli neri, acconciati però in trecce elaborate in cui passavano coloratissimi nastri. Entrambi portavano abiti lunghi e morbidi, con alcune toppe, ma ricamati con seta che un tempo era stata sgargiante. Raffaella aveva perfino dei frammenti di specchi cuciti intorno all'orlo e sulle maniche. La loro pelle era leggermente più scura di quella di Cesare o dei de' Chimici, e le sciarpe leggere e i copritunica ricamati che indossavano conferivano un che di esotico. Se Georgia all'inizio non l'aveva notato, era perché a lei tutti i Talìani sembravano esotici. In Aurelio e Raffaella, tuttavia, c'era qualcosa di diverso. «Veniamo dall'Oriente, ma non abbiamo una patria» disse la donna. «Vaghiamo da un luogo all'altro e in questo siamo simili a coloro che abbiamo deciso di non nominare.» «Siete in molti?» domandò Falco. «Moltissimi» rispose Aurelio. «Tanti quanti i granelli di sabbia sulla spiaggia.» «Non molti in Talìa, però» aggiunse Raffaella. «Noi due stiamo andando verso la Città delle Stelle e altri arriveranno nelle prossime settimane.» «Per noi è un luogo di pellegrinaggio» spiegò Aurelio. «È legata alla nostra Dea, anche se i suoi cittadini non lo sanno.» «Ora capisco chi siete!» esclamò Cesare. «Noi vi chiamiamo Zinti, il popolo nomade. Siete qui per la Stellata, vi ho già visto altre volte.»
«In realtà non ci interessa la vostra corsa di cavalli» disse Aurelio. «Solo per caso coincide con la nostra festa, che è molto più antica. La vostra non è l'unica città che celebri quel giorno, ma alcuni di noi la preferiscono alle altre. Ci troviamo bene.» Si voltò in direzione di Georgia. «Non ti devi preoccupare. Non ci importa la politica di Talìa, né di qualsiasi altro paese. Non avendo una patria, non ci curiamo delle dispute dei governanti. Come girovaghi, però, siamo interessati agli altri viaggiatori, da qualunque luogo o tempo arrivino. Durante i nostri viaggi incontriamo molta gente, e da tutti ci sforziamo di imparare qualcosa. Nell'ultima città in cui siamo stati, Raffaella e io abbiamo fatto amicizia con un uomo appartenente a quel gruppo di cui parlava il signor Gaetano. La città era Bolonia e quell'uomo era saggio ed erudito.» «Esattamente» disse Gaetano. «È proprio quello che ho sentito dire. Però sono cresciuto con la convinzione che quegli individui fossero potenti e pericolosi, che conoscessero segreti utili a Talìa, ma rifiutassero di usarli per il bene comune.» Luciano fece per interromperlo, ma Gaetano gli fece segno di pazientare. «Lo so, lo so. Non ci credo più.» Si rivolse a Falco. «Mi dispiace dirlo, ma credo che nostro padre abbia messo in giro quell'idea perché vorrebbe conoscere anche lui quei segreti. E non penso che intenderebbe usarli per il bene di Talìa.» Intorno al tavolo tutti tacquero. Luciano aveva cambiato opinione nei confronti del giovane de' Chimici. Si rendeva conto di quanto fosse difficile per Gaetano ammettere quei sospetti. Anche Falco stava lottando contro i propri sentimenti: voleva bene al padre, ma sapeva quanto potesse essere prepotente. D'altronde aveva appena sentito che il Duca aveva già deciso il suo futuro, senza tenere in alcun conto le sue aspirazioni. Le emozioni di Cesare erano altrettanto confuse. Era difficile essere allo stesso tempo Remorano e del Montone: tradizionalmente legato a Bellezza, il Montone diffidava dei de' Chimici, ma questa era la prima volta che Cesare ne incontrava uno. Normalmente gli stallieri, anche quando erano figli di onorati capostallieri, non socializzavano con i figli dei Duchi. Georgia si sentiva completamente spaesata. Sapeva a malapena chi fossero i de' Chimici e perché ce l'avessero con gli Stravaganti, e non capiva che cosa pensare dei misteriosi Manoush. Aurelio aveva detto che non stavano dalla parte di nessuno, ma era possibile? A Remora tutti sembravano sicurissimi della propria appartenenza e della propria lealtà. «Credetemi, non sto tentando di scoprire niente che possa servire ai
complotti della mia famiglia» continuò Gaetano. «La sola cosa che voglio sapere è... se il segreto del Senatore Rossi potrà aiutare mio fratello.» Luciano ripensò al suo primo incontro con Rodolfo, nel giardino pensile a Bellezza. «I de' Chimici aiuterebbero solo i de' Chimici» aveva detto lo Stravagante. Avevano discusso di come la famiglia che dominava sul Nord di Talìa volesse usare l'arte della stravagazione per sfruttare la medicina e le armi moderne. Però, dopo aver sentito quel giovane desiderare sinceramente una cura per il fratello, la cosa suonava diversamente. «Non posso parlare dei segreti di Rodolfo» disse. «Posso però dirvi che è una delle persone più intelligenti e potenti che conosca e sarà qui fra poche settimane. Di certo saprete che la Duchessa è stata invitata alla Stellata e che arriverà accompagnata dal suo Reggente. Il mio padre adottivo e io siamo venuti da Bellezza per fare in modo che il loro soggiorno a Remora sia sicuro. Mi perdonerete se vi ricordo che la madre della Duchessa è stata assassinata nella sua stessa città. Quindi dovremo essere molto prudenti quando lei si troverà in un luogo su cui regnano i suoi... i suoi avversari.» Gaetano dovette trattenersi perché aveva bisogno dell'aiuto di quell'arrogante giovane bellezzano. «Sono certo che Sua Grazia sarà al sicuro qui come in qualsiasi altra città di Talìa» disse sdegnosamente. «E noi non siamo suoi avversari. Non siamo coinvolti nell'assassinio di sua madre e ne siamo rimasti scossi come tutto il resto del paese. Anzi, mio padre manderà me a scortarla fin qui, e vi posso garantire che dedicherò ogni mia attenzione alla sua sicurezza e al suo benessere.» A Luciano quella novità non piacque molto. Aveva creduto a Gaetano quando aveva detto di non sapere niente dell'assassinio, ma si chiese come avrebbe reagito se avesse saputo che la Duchessa non era affatto stata uccisa e che invece viveva agiatamente a Padula, da dove teneva d'occhio la figlia e la città su cui regnava. Alla fine disse soltanto: «Allora potrete incontrare il mio maestro di persona e parlargli direttamente di vostro fratello.» Gaetano non si accontentò. Guardò Georgia e le chiese: «E voi? Se siete davvero ciò che dite di essere e non vi state soltanto dando delle arie, forse potreste rivelarci qualcosa.» Una signora di mezza età, molto bella e ben vestita, sedeva nel giardino interno di una casa signorile ai margini di Padula. L'abito di raso verde aveva un taglio ampio alla moda bellezzana e i capelli erano acconciati in maniera elaborata. In attesa della sua ospite, faceva scorrere fra le dita il
filo di rubini che portava al collo. Un servitore alto e dai capelli rossi fece accomodare in giardino un'altra donna. Era un po' più anziana e molto più robusta, ma anche lei sembrava benestante. Le due si abbracciarono come vecchie amiche, sebbene si conoscessero da poco più di un anno. «Silvia!» disse l'ospite. «Sei più bella e giovane che mai.» L'altra rise. «Apparire così è sempre stata la mia specialità, non ricordi? Qui però devo riuscirci con le mie forze. Guido, per favore, di' a Susanna di portare fuori i rinfreschi.» Sedettero a un tavolo di pietra sotto un pergolato. Silenzioso e pieno di fiori, il giardino aveva l'aria di un piccolo rifugio, e le due donne ne erano consapevoli. A Bellezza avevano vissuto momenti pericolosi ed emozionanti: Silvia era ormai al sicuro, ma non era chiaro se dovesse considerarsi una vincitrice o piuttosto un'esule. «Non ti annoi mai qui?» le chiese l'ospite. «Non capisco a cosa ti riferisci, Leonora. Ho l'occorrente per il ricamo, le opere di bene da seguire e un orto da curare. Sto addirittura pensando di comprare un uliveto con un frantoio. Rodolfo non te l'ha detto? Sono sempre impegnata.» L'arrivo della cameriera con un vassoio di dolci e limonata evitò a Leonora di dover rispondere. Guido, il servitore, si sistemò vicino al cancello: era evidente che non lasciava mai la padrona da sola troppo a lungo. Le due donne non avevano problemi a parlare in presenza dei servi. Susanna lavorava per Silvia da molti anni. Quanto a Guido, era devotissimo alla padrona, nonostante l'avesse incontrata per la prima volta proprio nel momento in cui aveva tentato di ucciderla. Lei aveva curato a proprie spese il padre di quello che doveva essere il suo assassino. Il vecchio era morto serenamente nel proprio letto un mese prima, ma nell'ultimo anno di vita non gli erano mancati né medici né cure. «Quali notizie mi porti dalla città?» chiese Silvia. «Come si comporta la nuova Duchessa?» «Fa onore a te e a Rodolfo» disse Leonora. «E pure a me, anche se sono solo una zia.» Silvia annuì soddisfatta. «E tuo marito, il buon Dottore?» «Sta bene, per quanto ne so. Al momento è in viaggio con Luciano. Che caro ragazzo!» «E che conforto per te avere un figlio da amare, quando non ci speravi più» disse Silvia. Parlava con il cuore, dato che anche lei aveva appena
riallacciato i rapporti con sua figlia dopo quindici anni. «So che non potremo mai rimpiazzare i suoi veri genitori. Gli mancano tanto! Però noi gli vogliamo bene davvero» disse piano Leonora. «E spero sia al sicuro a Remora» aggiunse ansiosa. «Sono certa di sì» confermò Silvia. «E farà in modo che anche Arianna sia al sicuro. Hai intenzione di raggiungerli per la corsa?» «No, io...» Leonora si fermò di colpo vedendo una strana luce negli occhi dell'amica. «Silvia! Non starai pensando di... È troppo pericoloso!» «E perché? Ci saranno quattro Stravaganti a proteggermi, per non parlare di Guido.» «Ma la città pullulerà di de' Chimici» protestò Leonora. «Ti riconosceranno di sicuro!» «Non vedo come» disse Silvia, alzandosi in piedi e mettendosi a passeggiare nervosamente su e giù per il giardino. «Senza la mia maschera non mi riconosce nessuno. Sai bene quante volte sono stata a Bellezza negli ultimi mesi. E se non mi riconoscono lì, figurati a Remora.» «L'Ambasciatore potrebbe farlo» obiettò Leonora. «E anche il Duca.» «Allora dovrò soltanto stare lontano da quei due, non credi?» All'ultimo piano di un alto palazzo affacciato su un canale, un uomo vestito di nero stava guardando in uno specchio, ma non per vanità. Quelli che vedeva riflessi non erano il suo viso rugoso e i suoi capelli neri screziati d'argento, ma il viso molto più vecchio e i capelli molto più bianchi del suo amico e maestro William Dethridge. «Ossequi, Mastro Rodolfo!» disse il Dottor Dethridge. «Sono lieto di vedere che il vostro specchio funziona anche qui a Remora.» «Sono stato assente negli ultimi due giorni» spiegò Rodolfo. «È un sollievo sapere che state bene. E il ragazzo?» «Similmente bene, ma ho altro da aggiungere» disse il Dottore. Rodolfo si mise comodo sulla sedia per ascoltare. «Il novello Stravagante è giunto» disse Dethridge. «Ed è una donzella.» «Una ragazza?» chiese Rodolfo. «Ed è arrivata dal signor Paolo?» «Sì, tre volte ormai. Oggidì si trova con Cesare, il di lui figlio, nella cittade di Santa Fina. Luciano li accompagna.» «La ragazza è al sicuro? È al corrente dei pericoli? Come si chiama?» «Ella è salvaguardata per quanto possibile in cotale nido di vipere» disse Dethridge abbassando la voce. «Il giovine Cesare e Luciano le stanno illustrando tutto ciò che sanno sui perigli. Il suo nome è Giorgio o qualcosa di
consimile. Luciano la conosceva fin da prima.» «E che cosa dice Paolo a proposito della città?» chiese Rodolfo. «Crede che Arianna debba accettare l'invito alla corsa?» «Egli giudica che non presenziare sarebbe un affronto, e che i de' Chimici lo adopererebbero come scusa per muoverle guerra.» «Voi che cosa ne pensate?» «Non abbiamo sinora avuto tempo per investigare. Concedeteci qualche altro giorno e vi informeremo.» «Va bene, ma presto dovrò dare una risposta al Duca» disse Rodolfo. «Vorrei essere lì a Remora con voi. Mi piacerebbe conoscere la ragazza.» «Vi devo avvertire che rassomiglia piuttosto a un garzone» aggiunse Dethridge. «Un garzone che apprezza i destrieri.» A Santa Fina il gruppo era restio a dividersi. Gaetano voleva che i Manoush tornassero con lui al palazzo dello zio, Luciano voleva portarli da Paolo e Falco voleva lasciare la vuota residenza estiva e seguire il fratello e quegli estranei a Remora. «Grazie, ma noi non dormiamo al coperto» disse Aurelio. «I Manoush dormono sempre sotto le stelle. Ma se ci accompagnate a riprendere le nostre coperte, viaggeremo con voi fino in città. Anche noi ci stiamo andando. Se possiamo accamparci in uno dei vostri cortili, che sia del Montone o del Papa, per noi basterà.» Georgia si chiese se anche Raffaella fosse così ligia alle regole dei Manoush. Si ricordava che la ragazza, facendo finta di niente, si era intascata tutto l'argento raccolto con l'esibizione di Aurelio. Luciano e Gaetano erano impegnati in animate trattative su dove dovessero andare e con quali mezzi. Georgia sbadigliò. Faceva fatica a pensare che nel mondo da cui veniva in quel momento stava dormendo in camera sua. Alla fine si accordarono per trovarsi un'ora dopo alle scuderie di Roderigo. Gaetano avrebbe riportato Falco a palazzo per prendere dei vestiti di ricambio e dire alla servitù che sarebbe andato a fare visita allo zio al Palazzo Papale. Poi avrebbe condotto il fratello alle scuderie e lo avrebbe fatto salire sulla carrozza di Luciano perché viaggiasse più comodamente verso la città. Gaetano li avrebbe preceduti a Remora per sistemare le cose con lo zio. Con grande sorpresa di Georgia, anche i Manoush sarebbero andati in carrozza con Luciano. A quanto pareva, tutto ciò che poteva agevolare il
viaggio era concesso, anche se il più delle volte si spostavano a piedi. Da quando Arianna era Duchessa, il rispetto per sua madre non aveva fatto che aumentare. Il suo era un lavoro duro. Tanto per cominciare, c'era il fastidio di dover essere vestita dalla servitù e di dover cambiare diversi abiti al giorno. Quando era una normalissima ragazza e viveva a Torrone, un'isola della laguna, non si cambiava in un mese tanto quanto ora faceva in un giorno. Aveva dovuto arrendersi a complicata biancheria intima, con più lacci e ganci di quanti ne avesse mai visti, nonché a un'acconciatura perfino più complessa, che necessitava di forcine e spesso di fiori o gioielli. La infastidivano soprattutto le maschere, ma avendo compiuto sedici anni avrebbe dovuto portarle comunque, anche se non fosse diventata Duchessa. La libertà di movimento che aveva goduto nelle isole era finita per sempre. Di conseguenza si era adattata al ruolo. Così la giovane Duchessa aveva guadagnato fama di grazia e di dignità oltre che di avvenenza, una fama che avrebbe sorpreso molto quelli che l'avevano conosciuta quando era un maschiaccio. Arianna aveva dovuto anche imparare l'arte della diplomazia ed era diventata un'esperta di politica, interna ed estera. Rodolfo era un maestro esigente. Il fatto che fosse un padre affettuoso, la cui vita era completamente cambiata da quando aveva scoperto l'esistenza di una figlia, non contava. Era anche il Reggente di Bellezza, ed era sua precisa responsabilità assicurarsi che Arianna fosse adatta al ruolo che le era stato assegnato. D'altronde questo faceva parte dei patti. Arianna aveva accettato di candidarsi all'elezione a Duchessa dopo averci pensato a lungo e averne discusso con la sua famiglia originaria. Credeva di sapere a che cosa sarebbe andata incontro, ma nel corso degli ultimi mesi si era chiesta spesso se avrebbe acconsentito conoscendo fino in fondo i doveri di una Duchessa. Ora aveva molta più comprensione per sua madre. Capiva che si fosse potuta stancare di presiedere continuamente le riunioni del Consiglio e del Senato, e di ascoltare ogni mese le petizioni all'udienza del popolo. Non c'era da stupirsi che avesse evitato numerose occasioni pubbliche ricorrendo a una sostituta. Quella però era una cosa che Arianna aveva deciso di non fare mai. Due mesi prima aveva celebrato il suo primo Sposalizio col Mare, lasciandosi calare nell'acqua puzzolente del canale finché non le aveva coperto le cosce e tutta la gente aveva gridato: «Sposati!» I festeggiamenti
erano continuati tutta la notte. Bellezza aveva smesso il lutto per la precedente Duchessa ed era incantata dalla nuova, che aveva appena assicurato prosperità alla città per un altro anno. Per tutta la cerimonia, però, Arianna aveva pensato allo Sposalizio dell'anno prima, a cui aveva assistito dalla barca da pesca dei suoi fratelli. All'epoca voleva diventare un mandoliere e aveva passato la notte accucciata nella loggia della grande basilica d'argento della Maddalena. Quest'anno invece si era affacciata alla stessa loggia, tra le due coppie di arieti in bronzo, salutando con la mano il suo popolo giù nella piazza, prima di tornare a palazzo per un sontuoso banchetto. L'anno prima aveva trovato Luciano in quella piazza, con l'aria confusa e sperduta. Quest'anno lui sedeva al suo fianco, vestito di velluto e d'argento. L'anno prima pensava che i suoi genitori fossero un semplice guardiano di museo e una tranquilla casalinga. Ora invece sapeva che sua madre e suo padre erano la precedente Duchessa e l'attuale Reggente, che le sedeva all'altro fianco per guidarla nelle formalità dell'evento. In giornata aveva visitato una scuola per orfanelle, ascoltato petizioni di cittadini per problemi che andavano da una disputa su una fornitura di farina a un contratto di matrimonio fra cugini, pranzato con un Principe dell'Europa orientale e ricevuto una missione diplomatica dall'Anglia per discutere un accordo commerciale. Aveva anche incontrato l'ammiraglio della flotta di Bellezza, che sospettava che i paesi che confinavano a est con la laguna stessero progettando un'invasione. Finalmente era giunto il momento di farsi svestire dalle cameriere e sprofondare nel suo morbido letto. Barbara, la cameriera personale, le stava spazzolando i capelli quando qualcuno bussò alla porta. Era Rodolfo. «Mi spiace disturbarti, mia cara, ma oggi non abbiamo avuto neanche un momento per parlare. Sei troppo stanca per concedermi qualche minuto?» «Certo che no» disse Arianna, congedando la cameriera. Era sempre un sollievo poter stare sola con suo padre, lontano dalle preoccupazioni della propria carica. Rodolfo si sedette su una delle seggiole ricamate che erano appartenute a Silvia, la precedente Duchessa. Dal proprio palazzo, che era adiacente, lui le faceva spesso visita nelle sue stanze private per mezzo di un passaggio segreto. Da un anno quel passaggio era ancora più segreto, ma non era stato chiuso. Sarebbe potuto servire di nuovo in caso di emergenza. Sia lui che Arianna erano ben consapevoli che per tutti Silvia era stata assassinata. Il fatto che lei ora vivesse in incognito a Padula non significava niente.
Nell'attentato era comunque morta una donna e il pericolo incombeva sempre su una Duchessa. «Ho due notizie» disse Rodolfo, mentre Arianna continuava a spazzolarsi i capelli da sola. «Bene. Una riguarda Luciano?» «Hai indovinato» rispose suo padre sorridendo. «Il Dottor Dethridge mi ha contattato oggi tramite uno dei miei specchi. Entrambi sono arrivati sani e salvi a Remora e hanno già alcune avventure da raccontare.» «Avventure» disse Arianna con nostalgia. Poi il suo viso sì rabbuiò. «Ma non sono in pericolo, vero?» «Non più di chiunque di noi in un caposaldo dei de' Chimici» rispose Rodolfo. «E questo mi porta alla seconda notizia, che temo sarai molto meno lieta di sentire. Oggi ho ricevuto una missione diplomatica da parte del Duca Niccolò.» «Oh! A proposito della Stellata, immagino» fece Arianna. Sapeva benissimo di dovere una risposta all'invito del Papa, ma avevano deciso di aspettare finché Luciano e Dethridge non avessero appurato che accettare non comportava rischi. «Non stavolta, mia cara» disse Rodolfo. «Lo scopo di questa missione era chiedere la tua mano per conto del figlio del Duca. Pare che Gaetano de' Chimici ti voglia sposare.» Capitolo 9 Scritto nelle stelle
Avevano passato parecchio tempo a Santa Fina e perciò sarebbero arrivati a Remora molto tardi. Georgia doveva tornare a casa in meno di un'ora. Lei e Cesare avrebbero cavalcato con Gaetano, anche se Luciano non ne era contento. Sapeva di che cosa fossero capaci i de' Chimici, e anche se i due fratelli cominciavano a essergli simpatici riteneva fosse troppo presto per fidarsi di loro. Non erano ancora a conoscenza che anche lui, Dethridge e Paolo erano Stravaganti, ma Gaetano non si sarebbe dimenticato
quanto affermato da Georgia, e di sicuro avrebbe cercato di carpirle altre informazioni. Alle scuderie, prima che il gruppo si dividesse, Luciano prese Cesare da parte. «Sii prudente» gli disse. «E se quello porta di nuovo la conversazione sugli Stravaganti, non lasciare che Georgia riveli qualcos'altro.» Cesare annuì. Non aveva intenzione di mettere in pericolo suo padre. «Conosco i de' Chimici» disse. «Fidati di me.» I tre cavalieri andarono di buon passo verso Remora. Non ci fu occasione per parlare fino a quando non rallentarono di fronte alla Porta del Sole, attendendo il proprio turno per entrare in città attraverso quel varco affollato. Gaetano portò il suo cavallo a fianco di quello di Georgia. «Mi piacerebbe farvi visita domani. Alloggiate nel Duodecimo del Montone?» Georgia aveva imparato la lezione e si voltò verso Cesare come per chiedergli consiglio. Lui alzò le spalle. Il giovane nobile sarebbe comunque passato per vedere i Manoush: questo era già stato deciso. Georgia poteva scegliere di non esserci, ma non avrebbe potuto evitarlo per sempre, se voleva continuare a venire in città. E quello ormai sembrava il suo destino. «Sì» disse dopo una pausa. «Troverete Luciano e me a casa del capostalliere, ma non credo di poter fare niente per aiutarvi.» «Credetemi, non sono interessato ai segreti della vostra Fratellanza» replicò Gaetano avvicinandosi in modo che Cesare non potesse sentire. «Voglio solo aiutare mio fratello. Tutto qui.» «È proprio brutto, vero?» disse Arianna con molta più calma di quanto non provasse. Stava guardando la miniatura di Gaetano de' Chimici che un messo aveva portato da Remora. Poi aggiunse: «E dev'essere anche peggio di quanto non sembri qui. Il ritrattista di corte deve essersi sforzato per renderlo al meglio.» Rodolfo la guardò e disse: «Non stiamo considerando seriamente la proposta.» «Ma cosa dobbiamo fare?» chiese Arianna. «Non possiamo ignorarla e non possiamo neanche offenderli con un rifiuto secco.» «Stai davvero ragionando come una Duchessa» osservò Rodolfo sorridendo. «È una situazione spinosa, ma la risolveremo. Manderanno Gaetano qui per scortarti alla Stellata.» Arianna sgranò gli occhi.
«Vogliono che abbiate l'opportunità di conoscervi» aggiunse Rodolfo. «Devi sfruttarla.» Il Duca Niccolò fu contento di rivedere il suo ultimogenito e di notare che i due fratelli erano tornati in ottimi rapporti. Gli altri due maschi e la femmina erano rimasti a Giglia e a Niccolò piaceva stare con i suoi figli. Era particolarmente ben disposto verso Gaetano, che non aveva fatto obiezioni al piano del matrimonio con la Duchessa di Bellezza e che ora gli aveva pure portato il suo figliolo prediletto. Una volta partiti da Giglia, il Duca aveva sperato che Falco andasse a vivere con lui nel Palazzo Papale, ma forse per l'imbarazzo con Gaetano o forse perché adorava le grandi e solitarie distese di Santa Fina, il più giovane aveva deciso di rimanere lì. Naturalmente Niccolò avrebbe potuto ignorare la volontà di Falco, che era solo un ragazzino. Dall'incidente, però, il Duca era talmente roso dal rimorso che non poteva negare al ragazzo niente che gli facesse piacere. E ora eccolo qui, di sua scelta, riconciliato con il fratello e sorridente. Niccolò aveva la sensazione che un brutto periodo fosse giunto alla fine, anche se non nutriva particolari speranze di un vero miglioramento per la salute di Falco. «Devi assolutamente ascoltare Aurelio, padre» stava dicendo Gaetano. «Ho tentato di convincerlo a venire qui, ma dice che non si esibisce per denaro. Però sono certo che prima o poi suonerà e tu devi ascoltarlo. Ti farà sentire come se fossi in paradiso.» «Sì, fa' il possibile per ascoltarlo» aggiunse Falco, mentre il suo viso delicato si accendeva di gioia al ricordo. «Suona davvero come un angelo.» «Scusate, ragazzi» rispose Niccolò, sforzandosi di far tornare la propria attenzione su ciò che i figli stavano raccontando. «Ditemi di nuovo chi è questo musicista.» «Si chiama Aurelio» spiegò Falco pazientemente. «Lui e sua sorella sono Manoush. Non hanno voluto venire qui perché non dormono nelle case, ma potremo far loro visita nel Duodecimo del Montone.» Il Montone! Tutto sembrava portare i pensieri di Niccolò in quella direzione. Lo tormentava l'impressione che gli fosse sfuggito qualcosa durante la sua ultima ispezione nelle loro scuderie. Doveva mandare la spia di Ferdinando a indagare meglio. E poi non gli andava il fatto che il Montone avesse rapporti con gli Zinti. A Niccolò quella tribù non piaceva: ci doveva essere qualcosa di sbagliato in persone che non davano importanza alla proprietà e non possedevano terre.
«È perché tutti gli Zinti devono essere concepiti sotto le stelle» disse. «Anche le loro donne che non sono sposate dormono fuori, nel caso che un incontro fortuito porti a una nuova vita. Estremamente stupido, visto che espone al rischio di violenze molto più del dormire al sicuro in casa.» Falco sembrò scosso e Niccolò si chiese se non fosse giunto il momento di menzionare il suo piano per l'ultimogenito. Meglio che accettasse una vita di celibato prima di aver sperimentato la forza del desiderio. Georgia passò quasi tutta la domenica a letto. «Te l'avevo detto che si stava ammalando» disse Russell, aggiungendo a bassa voce: «O forse è già malata... nella testa.» «Non preoccuparti» disse Georgia alla madre. «Sto bene. Ho solo passato una brutta nottata. Mi porto a letto i libri e faccio un po' di compiti.» Appoggiata su diversi cuscini e circondata da libri e quaderni, passò invece gran parte della mattina a cercare di disegnare una mappa approssimativa di Remora. Tracciò una specie di cerchio su un foglio a righe e lo divise in due verticalmente con una linea, lungo la quale scrisse Strada delle Stelle. Indicò la Porta del Sole a nord e quella della Luna a sud e disegnò un altro piccolo cerchio a metà della via centrale per rappresentare il Campò che aveva attraversato con Cesare. Poi tracciò delle linee attraverso il cerchio più grande fino a dividerlo in dodici parti. Sapeva dove si trovavano i Duodecimi del Montone e dei Gemelli e più o meno anche dove avevano evitato i Pesci entrando nell'Arciere. Situare le altre sezioni, però, fu più difficile. Allora recitò sottovoce una vecchia filastrocca che ricordava da quando era bambina: L'Ariete, il Toro, i Gemelli nel cielo, e vicino al Cancro il Leone fiero, la Vergine e la Bilancia. Scorpione, Sagittario e Capricorno, l'Acquario che al fiume sempre fa ritorno e i Pesci dalla lucente pancia. L'unica vera differenza tra i segni dello zodiaco talìani e quelli che Georgia conosceva era che a Remora il Leone era la Leonessa e che i Remorani si riferivano sempre alla Vergine come "la Signora". Quando ebbe finito, le fu chiaro che Remora riproduceva una mappa astrologica del cie-
lo, con il Duodecimo del Montone a sinistra rispetto al centro, nella parte ovest della città. "Bene, così dovrei riuscire a ricordarmela" pensò. Paolo le aveva detto che non doveva portare niente in Talìa a parte il talismano e gli abiti che aveva al momento della stravagazione. Al suo arrivo si era sempre ritrovata vestita con gli indumenti da ragazzo talìano, ma sopra a ciò che indossava per la notte. Non avrebbe potuto portare la mappa con sé, ma l'averla disegnata la fece sentire meglio. Su un altro foglio scrisse tutto ciò che sapeva di ciascuno dei Duodecimi, però c'erano grosse lacune, perché conosceva meglio il Montone che non gli altri. Il loro avversario sono i Pesci, scrisse, e i loro alleati sono l'Arciere e la Leonessa. Di colpo capì perché. Georgia non credeva nell'astrologia, ma leggeva sempre l'oroscopo sul giornale, come anche il resto della sua famiglia. Si ricordò che una volta Maura le aveva detto che i segni dello zodiaco si dividevano in terra, fuoco, acqua e aria, tre per ogni elemento. «Siamo tutte e due segni d'aria» le aveva spiegato. «Tu dei Gemelli e io della Bilancia.» «Oh, no» disse ora Georgia. «Sono dei Gemelli! Dalla parte dei de' Chimici!» Pensandoci su un attimo, però, si rese conto che ciò non aveva senso. Per quanto i Remorani fossero attaccatissimi al proprio Duodecimo, non potevano certo far nascere tutti i loro bambini sotto il rispettivo segno. Tuttavia aveva ragione riguardo allo schema delle alleanze. Non appena si ricordò che Ariete, Leone e Sagittario erano segni di fuoco, divenne ovvio che Leonessa e Arciere fossero alleati del Montone. Bastò un quarto d'ora per stabilire gli alleati degli altri Duodecimi. Per gli avversari fu più difficile, ma si ricordò che cosa aveva detto Cesare dei Gemelli e della Signora. «Gli avversari sono opposti, come fuoco e acqua» mormorò. «Quindi anche terra e aria devono essere opposti. E l'avversario di un Duodecimo sembra essere l'opposto più vicino in città... Montone e Pesci, Toro e Gemelli, Granchio e Leonessa...» «Non puoi startene zitta quando studi?» gridò Russell, battendo coi pugni sulla porta mentre passava. «A proposito di avversari!» sibilò Georgia. Lei e Russell lo erano, senza dubbio. I Duodecimi di Remora avevano una tradizione secolare, ma loro
due avevano accumulato così tanto rancore solo negli ultimi quattro anni da essere quasi al loro livello. "Ma chi sono i miei alleati qui?" pensò Georgia, e subito sorrise al pensiero di Mortimer Goldsmith, con i suoi occhiali a mezzaluna. Certo che contro Russell l'antiquario non avrebbe potuto fare granché. Le inimicizie e le alleanze a Remora erano complicate dallo strano attaccamento che ogni Duodecimo aveva per un'altra città. Georgia non riusciva a capire. Come si poteva vivere in una città ma essere alleato di un'altra? Era come vivere a Londra ma considerarsi di Liverpool. Pensandoci, però, si poteva essere di Londra e tifare per il Liverpool, il Manchester United o l'Aston Villa. Si ricordava di aver immaginato i Duodecimi, all'inizio, come gruppi di tifosi rivali. Tuttavia la cosa era molto più seria. Aveva visto la paura di Cesare, che non era certo un codardo, quando quelli dei Pesci li stavano seguendo. Aveva notato il pugnale alla cintola di Gaetano. Anche Luciano ne portava uno, nonostante fosse il ragazzo più mite che avesse mai conosciuto. Talìa era un luogo pericoloso in un'epoca pericolosa, e Remora sembrava essere la sua città più pericolosa. La tensione sarebbe probabilmente salita durante la Stellata, ma anche così Georgia preferiva i rischi della città talìana a quelli del dividere una casa con Russell. I Manoush srotolarono le loro coperte nel cortile principale delle scuderie del Montone. Avrebbero dormito sull'acciottolato, ma sembravano comodi come se si fossero sistemati su materassi di piume. Molto ospitale e un po' perplessa, Teresa corse a prendere altri cuscini e coperte, che furono gentilmente accettati ma non usati. Georgia era salita nel granaio appena prima del tramonto, così si perse lo spettacolo del ragazzo alto e cieco e della sua compagna che tendevano le braccia verso occidente per salutare il sole che tramontava oltre le mura della città. I due recitarono sommesse preghiere nella loro lingua e più tardi la casa si addormentò al dolce suono di note pizzicate delicatamente sull'arpa. Cesare si alzò presto e li vide poco dopo il loro risveglio, questa volta con i visi rivolti al sole nascente, verso la zona della Signora e della Bilancia, inginocchiati a cantare quello che sembrava un saluto a un viaggiatore che faceva ritorno. Non ne capiva le parole, ma la gioia sui loro volti era evidente. Cesare era orgoglioso che fossero nel suo Duodecimo e nella sua casa.
Aurelio non fece obiezioni a fare colazione in cucina, e Teresa era ansiosa di dimostrare come la sua famiglia trattasse gli ospiti. Era felice di avere i Manoush alla sua tavola insieme agli amici venuti da Bellezza. Raffaella offrì il proprio aiuto per accudire i piccoli: tre bambine e due maschietti, gemelli, che gattonavano dappertutto. Erano i fratellastri e le sorellastre di Cesare, figlio del primo matrimonio di Paolo. La madre era morta quando lui era molto piccolo e da dieci anni suo padre era sposato in seconde nozze con Teresa. Cesare prese uno dei gemelli da sotto il tavolo e se lo sistemò sulle ginocchia. Era Antonio, il più vivace dei due. Il piccolo allungò le braccia paffute verso il suo viso facendo gridolini di gioia e lui gli sorrise. «Volete che suoni?» chiese a un tratto Aurelio. Senza aspettare la risposta, Raffaella gli portò l'arpa e subito le note melodiose si propagarono per la cucina. Georgia sentì l'arpa nel momento in cui tornò nel granaio. Gli ultimi suoni che aveva udito prima di addormentarsi a Londra erano stati la batteria martellante e le chitarre a tutto volume che piacevano a Russell. Quando entrò dalla porta della cucina, notò che i bambini sembravano sognare. Cesare le sorrise da sopra la chioma arruffata della piccola Emilia e Georgia ricambiò. Quella era una vera famiglia. Vide il suo stesso malinconico pensiero riflesso negli occhi di Luciano, che accarezzava i riccioli dell'altra bambina, Marta, e un'espressione identica sul viso del Dottor Dethridge, che teneva in braccio Stella. Ancora una volta si chiese se avrebbe mai saputo la vera storia di ciò che era successo ai due e che cosa avessero dovuto lasciarsi alle spalle per vivere in Talìa. La musica cessò e l'incantesimo si ruppe. Paolo vide Georgia e si alzò per prenderle un piatto e una tazza. «Buongiorno» disse Aurelio rivolto alla nuova arrivata. «Hai dormito bene?» chiese lei. «Ottimamente. Dormo sempre bene quando non c'è niente che mi separi dalla luna e dalle stelle. E tu?» Georgia si chiese se lui avesse capito che andando nel granaio la sera prima stava per stravagare verso un altro mondo. Quel giovane cieco sembrava conoscere qualcosa sugli Stravaganti, ma avrebbe mai scoperto che lei era uno di loro se il giorno prima non si fosse rivelata? E sapeva che nella stanza c'erano altri tre appartenenti alla Fratellanza? «Non molto bene» rispose con sincerità. Presto i gemelli si addormentarono sulle ginocchia di Paolo. Fecero tutti
colazione in silenzio. Georgia pensò che rischiava di mettere su peso mangiando pane e marmellata subito dopo aver cenato nel proprio mondo. Teresa era una cuoca migliore di Maura: anche il pasto più semplice era fresco e genuino. Georgia aveva valutato a lungo se stravagare di nuovo quella notte, visto che non avrebbe potuto recuperare il sonno lunedì, ma era troppo attratta da Remora e dai nuovi amici. E poi voleva rivedere Luciano... anche a rischio di addormentarsi a scuola. Si udì un colpo imperioso alla porta. Paolo posò i gemelli nella loro culla e aprì. Sulla soglia c'era il Duca di Giglia con Gaetano e Falco. Una splendida carrozza adornata con lo stemma dei de' Chimici era ferma nel cortile. «Ossequi, Capitano» disse Niccolò, usando l'appellativo che ad essere precisi spettava a Paolo solo nella settimana della Stellata. Era un segno di cortesia. «E ossequi alla graziosa padrona di casa» aggiunse. «Mi scuso per aver di nuovo imposto la mia presenza così presto, ma i miei figli mi hanno parlato dei vostri ospiti ed ero impaziente di conoscerli anch'io.» I suoi occhi corsero intorno alla tavola. Era chiaro quali fossero gli Zinti, con i loro abiti esotici dai colori sgargianti. Ignorò Georgia, prendendola per un ennesimo membro della numerosa famiglia di Paolo, ma non riuscì a capire chi fossero Dethridge e Luciano. I loro abiti mostravano che i due non avevano legami con le scuderie. «Senza dubbio» disse Paolo «la vostra attenzione è stata attratta dalla musica degli Zinti... o Manoush, come preferiscono essere chiamati. Sono Raffaella e Aurelio Vivoide.» I due nomadi fecero una riverenza verso il Duca, che con un cenno della mano indicò che potevano sedersi. «Ed ecco altri due insigni ospiti venuti da Bellezza» continuò il capostalliere. «Il Dottor Guglielmo Crinamorte e suo figlio Luciano.» Seguirono numerosi inchini e poi il Duca presentò i figli alla compagnia. La sua mente lavorava febbrile, cercando di capire che cosa ci facessero i due Bellezzani in quelle scuderie. Il cognome non gli diceva niente, ma qualcosa in loro non gli era nuovo, e come già altre volte ebbe la sensazione che gli sfuggisse qualcosa di quanto stava succedendo al Montone. Nel corso delle presentazioni, Falco si era tenuto appoggiato ai bastoni osservando la famiglia con invidia, proprio come aveva fatto prima Georgia. Lei si accorse della sua infelicità, e ne fu commossa. Il giovane Principe si trascinò fino a sedersi su una panca vicino ad Au-
relio. «Vorresti suonare di nuovo?» gli chiese piano. «Abbiamo parlato tanto di te a nostro padre.» Aurelio si rabbuiò e Georgia intuì che stava per obiettare, ma Raffaella gli sussurrò qualcosa e lui cambiò idea. «Non verrò al vostro palazzo» disse cortesemente a Niccolò. «Non voglio mancarvi di rispetto, ma il mio non è un popolo di menestrelli. Noi suoniamo solo per passione. Tuttavia apprezziamo gli amanti della musica e il figlio di Vostra Grazia è uno di loro. Se il signor Paolo permette, suonerò nel cortile e siete tutti invitati ad ascoltare.» Niccolò sapeva che discutere sarebbe stato inutile. I de/ Chimici uscirono nel cortile, dove Cesare e Teresa prepararono sedie e panche per tutti. Mentre Aurelio suonava, Luciano fece un cenno a Georgia e Cesare. Tutti e tre si recarono nelle scuderie. «Che cosa ne pensate dei de' Chimici?» chiese. «Io credo che i due giovani non siano come il padre» disse Cesare. «Ma non so se possiamo fidarci» obiettò Luciano. «Loro due sembrano a posto, ma il Duca Niccolò è quello che ha ordinato di uccidere la madre di Arianna, ne sono sicuro.» «Però non ci sarebbe niente di male a presentarli al vostro Rodolfo, no?» chiese Georgia. «Tanto non sarà comunque in grado di fare qualcosa per Falco.» «Che sia chiaro» affermò Luciano. «Se c'è qualcosa che Rodolfo può fare, il fatto che Falco sia un de' Chimici non gli impedirà di aiutarlo.» Tra i molti passanti che si fermarono ad ascoltare l'arpista che suonava nel Duodecimo del Montone, nessuno notò una figura bassa e robusta avvolta in un mantello blu. Enrico aveva seguito Niccolò e i suoi figli fin dal Palazzo Papale. Era una buona occasione per controllare le scuderie del Montone. Si mescolò tra il pubblico nel cortile senza dare nell'occhio e arrivò sul retro del complesso per dare un'occhiata ai cavalli. Avvicinò l'occhio a un foro nella parete di legno e vide tre giovani del Montone intenti a discutere: i due che aveva seguito a Santa Fina e un terzo, che doveva essere quello che era con loro nella piazza quando avevano incontrato il musicista. Era l'apprendista del Senatore Rodolfo di Bellezza, la spia lo sapeva bene, ma vederlo così da vicino gli riportò alla mente pensieri spiacevoli. Enrico fece rapido la "mano della fortuna", con pollice e mignolo della mano destra uniti e le altre tre dita tese, con cui si toccò la fronte e poi il
petto. Era ciò che i Talìani facevano per scacciare la sfortuna. «Dia» sussurrò e cominciò a sudare freddo. Quel ragazzo aveva qualcosa di soprannaturale. Anche se Enrico lo aveva avuto prigioniero e sapeva che era fatto di carne e ossa, c'era qualcosa di inspiegabile in lui. All'inizio era senza ombra e poi, proprio quando lui e il suo padrone di allora, Rinaldo de' Chimici, erano stati sul punto di rivelare che tipo di creatura fosse, l'ombra era tornata. Enrico non riusciva a spiegarselo e ciò lo infastidiva. Era una spia, ed era suo compito sapere quanto più possibile su chi stava seguendo. Luciano lo aveva beffato, e lui non sopportava di fallire. Nella sua mente collegò subito il ragazzo a un altro mistero inquietante: la scomparsa di Giuliana, la sua fidanzata. Tolse l'occhio dal foro e vi appoggiò l'orecchio. Stavano parlando del Senatore Rodolfo, e questo era già interessante. Perché il suo apprendista avrebbe dovuto chiacchierare di lui con due stallieri? I tre sembravano molto amici. «Sembra che il Duca abbia fatto l'abitudine a farci visita» disse uno di loro. «Grazie al cielo Merla è al sicuro a Santa Fina» disse un'altra voce più giovane. «Gli piacerebbe sapere della sua esistenza, eh?» disse una terza voce, che Enrico riconobbe come quella di Luciano. Aveva sentito abbastanza. Il suo istinto gli aveva detto che Santa Fina nascondeva un segreto e ora sapeva di avere ragione. Era arrivato il momento di andare a trovare il suo nuovo amico Diego. Capitolo 10 La storia di Luciano
Fu un sollievo quando il Duca Niccolò lasciò le scuderie del Montone, anche se diede ai figli il permesso di rimanere. «Se la cosa non vi reca disturbo» disse al capo-stalliere, che ovviamente
non poteva obiettare. «Non mi aggrada vedere i figli del nostro antagonista associarsi con i nostri giovani» confessò Dethridge a Paolo quando il Duca se ne fu andato. Aveva lasciato la carrozza per Falco e si era incamminato deciso verso la città per curare i propri affari. Il capostalliere scosse la testa e disse: «Magari è proprio questo che ci riserva il futuro. Porse le vecchie rivalità finiranno. Non ho sentito niente di male riguardo a quei due ragazzi.» «O forse stanno nondimeno compiendo la volontà del loro genitore e potrebbero scoprire molto più del dovuto dai nostri giovani» obiettò Dethridge. Anche i Manoush avevano raccolto le loro cose ed erano pronti a partire. «Vi ringraziamo per la vostra gentile ospitalità» disse Aurelio a Paolo e Teresa. «Ora però andiamo perché dobbiamo incontrare vecchi amici in città.» Entrambi si inchinarono, toccandosi la fronte con le mani giunte. Poi dissero qualcosa nella loro lingua, che tradussero come: «Pace alla vostra casa e alla vostra famiglia: che possiate voi stare in salute e i vostri nemici finire in rovina.» Quindi se ne andarono, come uccelli colorati diretti a sud. «Strana gente... ma mi sono piaciuti» disse Teresa. «I Manoush sono sempre i benvenuti qui» aggiunse Paolo. «Ci ricordano i vecchi tempi, quando il mondo era migliore.» Il Duca aveva voluto ricompensare Aurelio per la musica, ma Gaetano gli aveva sussurrato qualcosa e l'argento era stato dato invece a Raffaella. Luciano non fu sorpreso del fatto che i due de' Chimici volessero rimanere: sapeva che Gaetano era deciso a scoprire altri dettagli sugli Stravaganti. Però si sentì anche un po' a disagio per l'amicizia che stava nascendo tra i figli di quella potente famiglia e la gente del Montone. «Venite a fare una gita con noi» propose Gaetano. «Sempre se tuo padre è d'accordo, Cesare. Abbiamo la carrozza e mio fratello potrà stare più comodo.» Paolo diede il permesso e i cinque giovani salirono nella carrozza dei de' Chimici, con i cavalli piumati e i rivestimenti di velluto. A Luciano sembrò davvero strano andare in giro con persone che aveva imparato a considerare nemici. Cesare, poi, era stato abituato fin dalla nascita a temerli e a non fidarsi di loro. Georgia invece non aveva di queste preoccupazioni. In Talìa tutti le ave-
vano detto che i de' Chimici erano malvagi e pericolosi, e lei stessa capiva che il Duca era una persona da cui era meglio stare alla larga. Ma Gaetano e Falco, nonostante gli abiti eleganti e i modi compiti, erano semplicemente dei ragazzi. E in ogni caso erano meglio di Russell e dei suoi compari. «Va' verso sud» ordinò Gaetano al cocchiere. La carrozza si avviò sull'acciottolato del Montone, costeggiò il Campo e prese l'ampia Strada delle Stelle in direzione della Porta della Luna. Gaetano si piegò in avanti per parlare con Georgia. «Abbiamo bisogno del tuo aiuto» disse, andando subito al sodo. «Se mio fratello non guarisce, verrà costretto alla carriera ecclesiastica.» Non specificò da chi, ma era ovvio. «E tu non sei d'accordo?» chiese Georgia a Falco. Il ragazzo era pensieroso. «Non proprio» disse lentamente. «Preferirei andare all'università come Gaetano e studiare filosofia, pittura e musica.» Georgia cercò di immaginare come fossero le università nella Talìa del sedicesimo secolo. Falco non aveva una sedia a rotelle, quindi presumibilmente i Talìani non conoscevano né quelle né roba simile. Senza poter camminare normalmente, avrebbero dovuto portarlo a lezione in braccio. «C'è qualcosa che gli Stravaganti possono fare per aiutare mio fratello?» le domandò Gaetano. «Lo hanno visitato i migliori medici di Talìa, ma non hanno potuto fare niente. Solo una conoscenza superiore come quella di voi filosofi naturali potrebbe dargli una possibilità di guarigione.» Georgia non sapeva che dire. Non era neanche lontanamente un filosofo, ma quel giovane nobile la stava trattando come una studiosa erudita. Poteva immaginare che il misterioso Rodolfo o il Dottore elisabettiano o perfino Paolo, che aveva un'aria naturale di autorità, fossero persone del genere. Forse anche Lucien, che in fin dei conti era inspiegabilmente arrivato in un altro mondo, poteva avere capacità insospettabili. Lei però era solo una quindicenne il cui unico potere era quello di spostarsi da un mondo all'altro. Come avrebbe potuto aiutare quel ragazzo dai grandi occhi scuri e dalla gamba spezzata? Falco la stava guardando. Poi di colpo si voltò verso il fratello e disse: «Non credo che lei possa fare qualcosa per me.» Georgia si sentì avvampare. «Lei?» disse Gaetano. «Lo Stravagante è una donna?» Luciano le venne in aiuto. «Qui in Talìa deve farsi passare per un uomo. Gli Stravaganti cercano di non attirare l'attenzione su di sé.» Entrambi i de' Chimici si voltarono verso di lui, ansiosi di fargli doman-
de. «Anche tu sei uno Stravagante?» domandò Gaetano. «Allora è questo che stai imparando dal Reggente!» «Ti prego» disse Falco. «Se sai qualcosa, diccelo. Gli Stravaganti possono guarire quelli come me?» Un uomo col mantello blu seguì il Duca quando se ne andò dal Montone. Arrivato al Campo delle Stelle, Niccolò si girò per fronteggiare il suo pedinatore, rilassandosi quando vide chi era. «Mi auguro che di solito tu sia più discreto» disse a Enrico. «Altrimenti non vali niente come spia.» «Certamente, mio signore» rispose Enrico. «Naturalmente non stavo pedinando Vostra Grazia, non avrei una tale presunzione. Volevo soltanto raggiungervi e riferirvi delle notizie.» Il Duca Niccolò alzò un sopracciglio. Non si faceva illusioni su quell'individuo, perché suo nipote gli aveva detto tutto quello che c'era da sapere su di lui. «Il Montone vi sta nascondendo un segreto, mio signore» continuò Enrico. Ora aveva la completa attenzione del Duca, che aveva sospettato che lì si stesse tramando qualcosa. «Li potrà aiutare nella corsa?» chiese. «È più che probabile. Il segreto è a Santa Fina. Vi sto andando ora per cercare di scoprire di più.» «Avvisami non appena sai qualcosa. E se ti serve aiuto o se hai bisogno di un posto in cui nessuno ti noti, va' al mio palazzo» disse il Duca. Poi scarabocchiò qualcosa su un pezzo di carta. «Da' questo al mio maggiordomo. Ti farà avere tutto ciò che chiedi.» Luciano si era deciso. «Se vi racconto che cosa mi è successo, dovete giurare tutti e due di non dire niente a nessuno, in particolare a vostro padre» disse. Ci fu un breve silenzio, mentre Gaetano lottava contro i sentimenti di lealtà alla propria famiglia. I due fratelli si guardarono e poi annuirono contemporaneamente. «Lo giuriamo» affermarono entrambi. Con grande sorpresa degli altri, Gaetano fece fermare la carrozza, in modo che tutti e due potessero inginocchiarsi davanti a Luciano e offrirgli i propri pugnali. Falco riuscì solo a chinarsi in avanti e piegò la gamba
buona, col viso contratto dal dolore. I due fratelli recitarono solennemente insieme: Per la stirpe della Città dei Fiori, che la sua gloria non finisca mai, sincero è il giuramento che ci esce dai cuori, o le nostre vite in cambio tu avrai. Poi invitarono Luciano a prendere i pugnali e a fare loro dei piccoli tagli sui polsi. "Vogliono diventare fratelli di sangue" pensò erroneamente Georgia. I due giovani nobili tesero verso Luciano i polsi, macchiati da piccole gocce di sangue, esortandolo ad appoggiarvi le labbra. Georgia ebbe un brivido, ma Luciano non esitò. Non appena lui ebbe assaggiato il sangue versato volontariamente dai de' Chimici, sentì Cesare rilassarsi al suo fianco. L'atmosfera nella carrozza era completamente cambiata. «Riparti!» ordinò Gaetano rinfoderando il pugnale che Luciano gli aveva restituito. Il cocchiere spronò i cavalli. Avevano passato la Porta della Luna e si stavano dirigendo verso sud, ma nessuno all'interno faceva caso all'itinerario. A quel punto non c'era dubbio che i de' Chimici non avrebbero rivelato niente di ciò che sarebbe stato detto loro. Georgia si rese conto che stava per ascoltare per la prima volta la verità su quello che era successo a Lucien. «Ero uno Stravagante da un altro mondo, come Georgia» cominciò. «In quel mondo ero molto malato, ma non come Falco. Avevo una malattia che lentamente mi stava distruggendo.» Gaetano annuì. «La conosciamo. La chiamiamo la malattia del granchio, perché afferra e distrugge gli organi.» Luciano continuò: «Quando cominciai a stravagare qui, o meglio a Bellezza, che è la mia città, mi sentii completamente guarito.» Lo sguardo di Falco si illuminò e Gaetano restò senza fiato. «Significa che Falco guarirebbe se andasse nel tuo mondo?» «Non credo» disse Luciano. «Potrebbe stare meglio, ma dubito che le sue ossa rotte si aggiusterebbero. Forse si sentirebbe più forte... ma comunque non durerebbe, una volta tornato qui.» Fece una pausa, poi riprese il racconto. «In Talìa stavo sempre bene, ma nel mio mondo peggioravo. Poi fui im-
prigionato a Bellezza. Per chi stravaga è notte nell'altro mondo quando in Talìa è giorno. Se uno di noi si ferma qui per la notte, là verrebbe ritrovato di giorno immerso in un sonno profondo da cui non può essere risvegliato. Da prigioniero non fui in grado di ritornare nel mio mondo e per tutto quel tempo il mio corpo sembrò in coma... sapete, come quando uno respira ancora, ma per il resto sembra morto.» «Sì» disse Gaetano. «La chiamiamo "morte vivenda". Spesso avviene dopo una caduta da cavallo, ma quasi sempre le vittime muoiono davvero di lì a poco.» Luciano annuì. «Fu così anche per me. Presto il mio corpo non fu più in grado di respirare da solo.» «E così sei morto?» chiese Falco, con i grandi occhi scuri che sembravano riempirgli il viso. Luciano esitò. Scegliendo con prudenza le parole, disse: «Io vengo da un tempo lontano nel futuro, dove i medici possono mantenere i pazienti in vita con delle macchine. Non so di preciso che cosa sia successo a me, ma credo che mi abbiano fatto respirare così per qualche tempo. Poi si devono essere convinti che anche il mio cervello era morto e hanno spento le macchine.» Nella carrozza ci fu un lungo silenzio; Georgia si accorse di trattenere il respiro. Lucien sembrava distrutto. «In ogni caso» riprese in fretta «a un certo momento capii di essere vivo qui, ma morto nel mio mondo. Da quel giorno, quasi un anno fa, sono diventato un cittadino di Talìa sotto la protezione del mio maestro, il Reggente. Ora vivo con i miei genitori adottivi, il Dottor Crinamorte e sua moglie.» «E non puoi tornare nel tuo mondo?» chiese Falco. «Non a lungo» disse Luciano. «Ora questa è l'unica vita che posso condurre.» «E questi medici del futuro... potrebbero aiutare mio fratello?» domandò Gaetano, concentrandosi su quello che per lui era l'aspetto più importante di tutta la storia. «Te l'ho già detto, non lo so» rispose Luciano. «Tu che cosa ne pensi, Georgia?» «Non conosco molto di medicina» disse lei con sincerità. «Potrebbero operarlo e farlo camminare con meno sforzo. E anche se non ci riuscissero, potrebbe avere una sedia a rotelle per spostarsi più facilmente.» Si interruppe. «Ma non ha molto senso che vi dica queste cose, vero?»
«Puoi portare qui i medici?» chiese Gaetano. Luciano e Georgia scossero la testa. «Anche se potessimo, da soli non farebbero granché» disse Luciano. «Avrebbero bisogno delle loro attrezzature» spiegò Georgia. «Sale operatorie, elettricità, anestetici, strumenti e medicinali.» «Allora c'è una sola cosa da fare» disse Falco calmo. «Devo andarci io. Dovete aiutarmi a stravagare.» I capostallieri di Remora si erano incontrati per discutere gli accordi che sarebbero stati conclusi fra i Duodecimi per la Stellata. Erano riunioni fra alleati, secondo l'appartenenza agli elementi: fuoco con fuoco, aria con aria e così via. Quindi Paolo ospitava nel Montone l'incontro fra i tre segni di fuoco ed era seduto in una taverna con i suoi colleghi dell'Arciere e della Leonessa. In altre taverne si stavano svolgendo riunioni simili. Come capostalliere dei Gemelli, Riccardo ospitava gli altri segni d'aria, la Bilancia e l'Acquario. Emilio, della Signora, intratteneva quelli di terra, il Toro e il Capro. Infine Giovanni, dello Scorpione, stava portando da bere a quelli d'acqua, i Pesci e il Granchio. Questi ritrovi annuali erano ispirati da antiche tradizioni di rivalità. La prima preoccupazione per i Duodecimi era bloccare i cavalli degli elementi opposti. I fantini d'acqua avrebbero ostacolato quelli di fuoco e i fantini di terra quelli d'aria. All'interno di queste contese generiche, però, ognuno avrebbe riservato un'ostilità particolare per il proprio avversario storico, come i Pesci per il Montone o il Toro per i Gemelli. C'erano poi le alleanze fra città, che mettevano per esempio i Gemelli e la Signora contro il Montone. Tutto sommato erano pochi i cavalli che un fantino avrebbe potuto considerare neutrali una volta che la corsa fosse iniziata. Ognuno di loro portava i colori del Duodecimo, ma quando la gara raggiungeva il culmine intorno al Campo c'era comunque bisogno di una mente pronta per ricordarsi tutte le strategie che erano state studiate. La pianificazione, in ogni caso, poteva arrivare solo fino a un certo punto, perché l'ordine in cui i cavalli prendevano posizione alla partenza veniva tirato a sorte subito prima della corsa. Nonostante ciò, fino ad allora i Duodecimi alleati avrebbero meditato sulle tattiche e fatto di tutto per trovare informazioni utili sui cavalli e i fantini rivali. Così quella sera l'argomento più discusso in tre dei quattro gruppi fu l'arma segreta del Montone. Paolo si fidava ciecamente dei suoi alleati
della Leonessa e dell'Arciere: ognuno di loro sarebbe stato contento di un vantaggio per gli altri due. Alla fine raccontò di Merla. «Sia lodata la Dea!» fu la reazione degli altri due capostallieri. Naturalmente conoscevano la leggenda del cavallo alato e come tutti a Remora sapevano che tali creature, sebbene rare, erano possibili. Non ne avevano mai vista una, ma c'era sempre qualcuno, anche solo il bisnonno di un amico, che se ne ricordava un esemplare, e tutti credevano nel potere benefico di un tale prodigio. Tuttavia non sarebbero stati tanto fiduciosi se avessero saputo che sia Riccardo che Emilio stavano raccontando ai Duodecimi dell'aria e della terra che il Montone aveva un segreto. Lo avevano appreso da Enrico, la spia che lavorava nelle scuderie dei Gemelli, ma che condivideva equamente le proprie informazioni con gli uomini del Papa e quelli del Duca. Enrico non sapeva ancora di preciso quale fosse questo segreto, ma di sicuro la risposta era a Santa Fina e presto l'avrebbe scoperta. I Duodecimi dell'acqua non sapevano ancora niente, ma era solo una questione di tempo. A causa della rivalità con Bellezza, qualcuno dei Gemelli o della Signora avrebbe passato l'informazione a uno di loro, preferibilmente ai Pesci. La gara di quell'anno si profilava particolarmente dura per quelli del Montone, con tre quarti della città a complottare contro di loro. Cesare, che attendeva la conferma della propria nomina come fantino del Montone, era ignaro dei pericoli in agguato. Era rimasto molto colpito dall'affermazione di Falco. Luciano provava emozioni contrastanti. Era evidente che il giovane de' Chimici non comprendeva bene che cosa stesse dicendo, che non aveva idea dei pericoli della stravagazione. Anche se i medici del vecchio mondo di Luciano avessero potuto curarlo, non sarebbe stato possibile farlo in una visita sola. Il piano non avrebbe mai potuto funzionare, a meno che Falco non rinunciasse per sempre, volontariamente, alla sua vita in Talìa. E solo Luciano sapeva che cosa ciò significasse. Tutti lo guardavano, aspettando che dicesse qualcosa. Gettò una rapida occhiata a Georgia. Lei magari avrebbe potuto capirlo meglio degli altri, ma era ancora una novizia nell'arte della stravagazione. Fu Falco a parlare. Si voltò verso il fratello e disse: «C'è una sola cosa da fare, Gaetano. È una scelta difficile, ma è ciò che ho deciso: andrò nel mondo del futuro e rimarrò a vivere lì.»
Il fratello lo strinse fra le braccia con le lacrime agli occhi. «No» disse. «Non te lo permetterò. Non puoi lasciarci. Che cosa faresti senza la nostra famiglia? Senza di me?» «Preferisco vivere una vita vera altrove» replicò Falco «anche se dovrà essere senza di te, fratello mio, che finire i miei giorni in questo stato.» Poi si rivolse a Luciano e Georgia. «Che cosa devo fare ora?» Capitolo 11 Il rullo dei Tamburi
Per Georgia il lunedì passò come in un sogno. Aveva raggiunto un punto in cui la normale vita quotidiana le sembrava innaturale. La sua mente era sempre a Remora, con le sue storie e i suoi intrighi. Il fatto di avere un bel po' di sonno arretrato non aiutava di certo. Dopo l'annuncio di Falco, Luciano aveva preso tempo dicendo che avrebbero dovuto rifletterci. Georgia ne era stata sollevata, perché si sentiva completamente spaesata e l'atmosfera si era fatta molto tesa. La carrozza si era fermata e li aveva fatti scendere in un luogo chiamato Belle Vigne, una collina erbosa ai cui piedi sorgeva un piccolo villaggio. Sulla sommità, secondo Gaetano, c'erano i resti di un insediamento rassenano. Georgia alla fine aveva intuito che ciò voleva probabilmente dire "etrusco" e le sarebbe piaciuto vederlo, ma anche la salita più lieve era troppo ripida per Falco. I giovani si erano sdraiati sull'erba e si erano messi a chiacchierare. «Com'è Bellezza?» domandò Gaetano a Luciano. «Dovrò andarvi presto per scortare la giovane Duchessa.» «È la città più bella del mondo» rispose lui semplicemente. «Ah, ma non è mai stato a Giglia, vero, fratello?» replicò Gaetano. Falco annuì e Cesare aggiunse: «E la mia città? Sono sicuro che nessuna è all'altezza di Remora.» «È ovvio che ognuno preferisca la propria città» disse Luciano con diplomazia, e Georgia cercò di immaginare come sarebbe stato provare lo
stesso sentimento per Londra. «Bellezza è fatta d'argento e fluttua sull'acqua» continuò Luciano. «Piccoli canali attraversano la città, che in realtà è un insieme di più di cento isolette. Alla sua gente piace viverci: ogni scusa è buona per fare festa. E amano anche la loro Duchessa. Erano sconvolti quando l'ultima sovrana è morta.» Poi si bloccò, dato che quello era un argomento spinoso da affrontare con due de' Chimici. «E com'è la nuova Duchessa?» chiese Falco. Georgia scorse Gaetano portarsi un dito alle labbra. «È molto giovane» rispose Luciano. «È ancora una ragazza. Ma assomiglia a sua madre ogni giorno di più. È molto fiera della sua città.» «È bella quanto si dice fosse sua madre?» domandò Gaetano con noncuranza. Georgia drizzò le orecchie, ma Luciano annuì semplicemente, senza entrare nei dettagli. Poco dopo erano tornati tutti a Remora. Lungo la strada nessuno aveva parlato molto, ma quando i tre erano stati lasciati alle scuderie del Montone, Falco aveva ribadito: «Non dimenticate quello che ho detto. Verrete a trovarmi domani?» Rifiutare era stato impossibile. Paolo si trovava alla riunione dei capistallieri e Cesare aveva delle faccende da sbrigare. Per Georgia poteva essere un'occasione perfetta per passare un po' di tempo da sola con Luciano. Voleva sapere di più sulla sua storia e scoprire quale parte avesse avuto il talismano in ciò che era successo. Lui però le aveva detto che non doveva rimanere a Remora per il resto del pomeriggio, ma stravagare prima. «Ricordo com'è stato per me» aveva detto con un sorriso. «So che dici di stare bene, ma anche la persona più sana ha bisogno di dormire.» Così era tornata, rimanendo per un po' sveglia ad ascoltare i piccoli rumori della casa che dormiva, prima di cadere in un sonno profondo e senza sogni. Fu risvegliata da sua madre. Il resto della giornata fu un disastro. Georgia non riusciva a concentrarsi sulle lezioni. Anche in inglese, che era sempre stata la sua materia preferita, non fu in grado di rispondere nemmeno alle domande più facili. Per fortuna Alice, la sua nuova compagna, le diede una mano. Le due ragazze pranzarono insieme e Georgia scoprì con grande gioia che anche
Alice era appassionata di cavalli e ne aveva addirittura uno, a casa di suo padre nel Devon. Alla fine della giornata erano diventate amiche. Anche se il lunedì era il giorno in cui Russell giocava a calcio, Georgia non andò subito a casa, ma decise di fare di nuovo visita al signor Goldsmith. Lui fu felice di vederla e le offrì una tazza di tè decisamente migliore dell'altra volta. Ancora prima di accorgersene, Georgia aveva mangiato quattro biscotti al cioccolato. «Scusi» disse. «Non ho dormito molto la scorsa notte e quando sono stanca mi abbuffo.» «Sì, mi sembri un po' strana» convenne il signor Goldsmith. «Non vorrei essere indiscreto, ma ti senti bene?» Georgia, che aveva spesso pensato a lui come a un alleato, decise che poteva accordargli fiducia. «Conosce una città italiana dove tutti gli anni fanno una particolare corsa di cavalli?» Con sua grande sorpresa, la risposta fu positiva. «Vuoi dire Siena?» disse l'antiquario. «Ogni estate fanno una corsa chiamata Palio. Due volte, credo.» «Continui» disse interessata Georgia. «Mi racconti del Palio.» «Be', Siena è in Toscana, vicino al luogo da cui probabilmente viene l'originale del tuo cavallino. La città è divisa in parecchie zone, credo diciassette, e i cavalli vengono fatti correre intorno a una piazza nel centro della città. È una tradizione vecchia di secoli e la città stessa ha ancora un'atmosfera medievale. Poche macchine, strade strette e quasi nessun edificio moderno, almeno non in centro.» "Allora è così" pensò Georgia. "Se la Bellezza di Luciano è la nostra Venezia, Remora dev'essere Siena." «Lo ha mai visto?» gli chiese. «Il Palio? No, ma sono stato a Siena più di una volta» disse il signor Goldsmith. «È un posto bellissimo. Piacerebbe anche a te che ami i cavalli.» Subito si misero a chiacchierare di equitazione e Georgia gli parlò delle scuderie di Jean. Alla fine era di umore decisamente migliore. Quando arrivò a casa, decise che il signor Goldsmith era davvero un amico. Diego fu contento di vedere Enrico, anche perché al momento le sue mansioni erano piuttosto noiose. Era abituato a stare tutto il giorno in pie-
di, preferibilmente all'aperto, a badare ai cavalli, a cavalcarli e ogni tanto a portarli in città o verso pascoli più lontani. Ultimamente invece era stato quasi sempre di guardia alla cavallina nera. Era una meraviglia, non c'era dubbio, ma non capiva perché dovesse essere tenuta segreta. Diego era nato e cresciuto a Santa Fina. Aveva visto la Stellata un paio di volte da ragazzo, ma le politiche di Remora non lo interessavano. Lui preferiva corse più lunghe, dove si poteva scommettere sul risultato e avere qualche possibilità di guadagnare. Non gli piaceva il modo in cui i Remorani organizzavano la gara: con tutti quegli accordi sottobanco, per un normale scommettitore era troppo difficile vincere. Enrico era d'accordo. «Sono tutti pazzi giù in città» disse in tono amichevole per attaccare discorso, mentre si metteva comodo su una balla di fieno accanto a Diego. «E anche molto riservati» aggiunse, lanciando una veloce occhiata allo stalliere. «È il modo di fare dei Remorani» annuì Diego. «Se potessero, terrebbero segreti anche i nomi delle loro madri, nel caso agli avversari tornasse utile.» «Secondo te sono tutti così?» chiese Enrico. «O certi sono peggio degli altri? Che mi dici del Montone, per esempio?» «Ah, il Montone» fece Diego con aria misteriosa. «Te ne potrei raccontare su quelli...» «Perché no?» disse Enrico. «Così il mio padrone mi starebbe un po' meno addosso. È convinto che abbiano un asso nella manica per la Stellata di quest'anno.» Diego esitò, poi alzò le spalle. La cavallina che tenevano segreta non c'entrava niente con la corsa. Certo, cresceva più in fretta dei normali puledri e il giorno della Stellata sarebbe stata abbastanza grande per gareggiare, ma al fantino del Montone non avrebbero mai permesso di montare un cavallo alato. Che male c'era a parlarne col suo nuovo amico? «Ce l'hanno, eccome» ammise. Quando Georgia tornò alle scuderie del Montone non c'era traccia né di Cesare né di Luciano, ma Paolo la stava aspettando. «Dobbiamo parlare del motivo per cui sei qui e della nostra Fratellanza» le disse accompagnandola in casa. «Cominci a orientarti a Remora?» «Sì, abbastanza» disse Georgia. «Voglio dire, ci sono ancora diverse cose che non capisco, anche se Cesare mi ha spiegato tutto molto bene. A casa mi sono fatta una specie di mappa per ricordarmi tutti i Duodecimi. È
una città complicata, eh?» «È complessa, certo... e non solo per il modo in cui è fatta. Di sicuro Cesare ti avrà detto delle rivalità fra Duodecimi.» «Sì, sto cercando di ricordarmi anche quelle.» Sai, i de' Chimici le sfruttano a proprio vantaggio. Erano seduti, da soli, in cucina. Georgia si chiese dove fosse il resto della famiglia, ma poi Paolo spiegò che Teresa aveva portato i bambini a trovare la nonna materna nella Leonessa. Georgia non osò chiedere degli ospiti bellezzani. «Ieri avete detto che forse era arrivato il momento di far finire le vecchie rivalità» disse. «Credete che sia una cosa giusta essere amici con i Principi de' Chimici?» «Penso di sì» rispose Paolo. «Non credo che vogliano approfittare di voi.» Fissò Georgia e lei si rese conto che quell'uomo grande e forte, con le mani callose e l'odore delle scuderie sugli abiti, era probabilmente tanto astuto e intelligente quanto lo stesso Duca Niccolò. «Devo dirvi una cosa» cominciò Georgia. «Quei due, Gaetano e Falco, sanno di me e anche di Luciano.» E aggiunse: «Glielo ha detto lui, ma solo perché io sono stata stupida e ho rivelato il segreto.» Paolo rimase per un attimo in silenzio. «E come credi che useranno questa notizia?» chiese alla fine. «Sono sicura che non lo diranno al padre» rispose prontamente Georgia. «Hanno fatto un giuramento solenne sui loro pugnali e hanno fatto assaggiare il proprio sangue a Luciano.» Ripensando alla scena, rabbrividì. «Allora credo che tu abbia ragione» disse Paolo. «Resta però da vedere come useranno questa informazione.» Georgia non gli raccontò che Falco aveva intenzione di andare nel suo mondo. Nei giorni seguenti si sarebbe spesso chiesta se avesse fatto bene. In quel momento le sembrava troppo presto, e comunque non era stato ancora deciso niente di definitivo. «Le cose con i de' Chimici stanno precipitando» disse poi il capostalliere. «Hanno preso il potere in quasi tutte le città del Nord. Come sai, Bellezza è l'unica che si oppone, e questo è uno dei motivi per cui il Duca ha invitato la giovane Duchessa alla Stellata. Non sappiamo di preciso che cosa voglia fare e in ogni caso sarà ben protetta, ma dobbiamo stare tutti in guardia. Sicuramente pensa sia facile convincere una giovane inesperta dei vantaggi di allearsi con la sua famiglia.» «E lei non è una giovane inesperta?» chiese Georgia. Era l'occasione
buona per scoprire qualcosa di più sulla rivale. «Non direi proprio» sorrise il capostalliere. «Trovo improbabile che la figlia di Silvia, Duchessa di Bellezza per un quarto di secolo, e di Rodolfo, personaggio fra i più importanti nella nostra Fratellanza, non sia dotata di grande caparbietà e astuzia.» «L'avete mai incontrata di persona?» chiese Georgia. «No, ma conosco entrambi i genitori» rispose Paolo. «E come diciamo qui in Talìa, il frutto non cade mai lontano dall'albero.» «Lo diciamo anche noi» esclamò Georgia, pensando per la prima volta a ciò che quell'espressione significava veramente. Se non si potevano avere albicocche dai meli, allora anche i figli non potevano essere molto diversi dai genitori. Lei però non si sentiva simile a sua madre. Tanto per cominciare, a Maura non piacevano i cavalli. Forse Georgia aveva ereditato la passione da quel padre che praticamente non aveva conosciuto. E Russell? Tutto sommato Ralph era una brava persona, forse lui aveva preso dalla madre. O forse c'entrava il modo in cui era stato trattato da bambino. Di colpo Georgia si sentì confusa. In un certo senso Remora, con le sue rigide divisioni e distinzioni, era più facile da capire. «Perché credete che io sia qui?» domandò poi. «Non lo so» ammise Paolo. «Quando portiamo un talismano nel tuo mondo, non sappiamo da chi verrà trovato e che cosa questa persona sarà chiamata a fare. Rodolfo era convinto che Luciano fosse stato portato qui per salvare la Duchessa, ma come sai il ragazzo ha pagato un prezzo molto alto.» Georgia annuì. «E alla fine non è riuscito a salvarla, no? I de' Chimici l'hanno uccisa lo stesso.» Ci fu silenzio, poi Georgia udì una vibrazione arrivare dalla strada. «Che cos'è?» chiese. «A certe tue domande è più facile rispondere che non ad altre» disse Paolo. «Sono i tamburini del Montone che fanno le prove per la Stellata. Da oggi fino al giorno della corsa li sentirai spesso. Vieni, andiamo a fare una passeggiata, così te li farò vedere.» Non appena furono fuori, il rullo dei tamburi si fece più forte. Georgia riconobbe la strada acciottolata che portava alla piazza con la fontana d'argento. Quando vi arrivarono rimase senza fiato. La Piazza del Fuoco era piena di bandiere che roteavano: gialle e rosse, con l'immagine di un ariete incoronato d'argento. Due robusti giovani sventolavano i loro vessilli in complicate figure, a tempo con l'insistente battito di un tamburino.
Nelle settimane seguenti, con i figuranti e gli sbandieratori di tutti i Duodecimi che provavano giorno e notte, il rullo di quei tamburi si sarebbe insinuato nella testa di Georgia a tal punto da farglielo sentire dovunque fosse, a Remora o a Londra, a letto o a scuola, addormentata o sveglia. Era il suono della Stellata. Ogni Duodecimo aveva una propria compagnia di giovani, incaricata di organizzare uno spettacolo all'interno del corteo che si sarebbe svolto intorno alla piazza prima della corsa. Paolo spiegò a Georgia che i tamburini e gli sbandieratoti stavano alla testa di ciascuna compagnia e che era un grande onore essere scelto per farne parte. «Cesare è uno di loro?» «No. Quest'anno Cesare è il nostro fantino, per la prima volta. Però ha partecipato al corteo l'anno scorso.» Le bandiere e i tamburi lasciarono la piazza per addentrarsi nelle strette vie del Duodecimo, con il suono che diventava più debole o più forte a seconda del loro percorso attraverso il Montone. Parecchi bambini li seguivano correndo, attratti dal rumore e dai colori, ma Paolo e Georgia rimasero seduti sulle panche di pietra intorno alla fontana. Era uno spettacolo meraviglioso: il sole splendente, il cielo blu, il lieve sciabordio dell'acqua nella fontana e le pittoresche stradine tutto intorno. «Continuate a nominare la Fratellanza, e tutti gli Stravaganti di cui ho sentito parlare sono uomini» disse a un tratto Georgia. «Voi, il Senatore Rodolfo, il Dottor Dethridge, Luciano... Sono io l'unica donna?» «No» rispose Paolo. «A Giglia c'è una Stravagante che si chiama Giuditta Miele, una scultrice. E ce n'è almeno un'altra a Bolonia, ma non ne conosco il nome. Tu però sei la prima Stravagante donna a viaggiare dal tuo mondo al nostro. Ammetto che all'inizio ero sorpreso, soprattutto perché, senza offesa, a me sembri più uno dei nostri ragazzi. Ma i talismani non scelgono a caso, e ci portano sempre le persone di cui abbiamo bisogno.» I Manoush erano nel Duodecimo della Leonessa: non alle scuderie, ma in una casa lì vicino, dove viveva un'anziana donna di nome Grazia. Cosa insolita per una Manoush, Grazia aveva sposato un Remorano rinunciando alle proprie usanze. Tuttora si alzava all'alba col viso rivolto verso il sole, che salutava poi a ogni tramonto, ma si era adattata a dormire all'interno e ad abitare stabilmente in un luogo. Ormai vedova, nonostante i capelli bianchi era ancora alta e bella. Nei primi anni di matrimonio aveva dormito col marito in una branda nella loggia di casa, per fare in modo che i suoi bambini fossero concepiti sotto
le stelle. I quattro figli e le tre figlie erano ormai cresciuti e avevano a loro volta dei bambini. Tutti, a parte una delle figlie, avevano adottato le usanze dei Manoush. Aurelio e Raffaella portavano a Grazia notizie dei suoi figli da varie zone di Talìa, e questo faceva di loro i benvenuti ogni volta che passavano da Remora. Il Duodecimo della Leonessa era gemellato con Romula, che non era stata ancora raggiunta dalle mire dei de' Chimici. Era lì che Grazia aveva conosciuto suo marito, mentre entrambi erano di passaggio. Nella Città del Drago era nato l'amore fra la bellissima giovane Manoush e l'uomo che veniva dalla tana della Leonessa. Un amore tanto potente da trattenerla fra le pareti di una casa anche dopo la morte del marito. Nonostante dormisse all'interno dell'abitazione, osservava ancora le grandi festività della sua gente, e tra queste l'imminente Festa della Dea era certo la più importante. Per lei la Stellata non significava nulla, anche se nel giorno della corsa avrebbe sostenuto la Leonessa e sperato che il loro cavallo vincesse. Ma per allora lei e i suoi ospiti Manoush avrebbero già vissuto il momento saliente della festa. Sarebbero rimasti alzati tutta la notte a venerare la Dea che regnava sopra il cielo stellato, e avrebbero poi atteso nel Campo il sorgere del sole per salutare il consorte della Dea mentre i suoi raggi salivano nella volta celeste, inondandola della luce dell'alba. «Fantastica!» esclamò Enrico. Amava i cavalli e quando Diego gli mostrò la miracolosa cavallina nera dapprima ne notò soltanto la delicata bellezza e le straordinarie ali. Poi però i suoi istinti peggiori presero il sopravvento e il suo pensiero corse immediatamente alla ricompensa che avrebbe ottenuto raccontando al Duca Niccolò di quella meraviglia. E una ricompensa ancora maggiore gli sarebbe arrivata una volta catturata la cavallina per la Signora. Oppure per i Gemelli. Dipendeva da chi gli avrebbe offerto di più. Capitolo 12 Un cerchio di carte
Quando Cesare tornò alle scuderie, Georgia scoprì dove era stato tutta la mattina: aveva cavalcato Arcangelo sulla pista di allenamento, fuori Remora. «È in gran forma» disse entusiasta il ragazzo, asciugando il cavallo con la paglia. «Credo davvero che ce la possiamo fare.» «Se la Dea vuole» esclamò in fretta Paolo, facendo il gesto che Georgia aveva già visto e che assomigliava vagamente al segno della croce. «Perché invocate la Dea?» chiese. «Voglio dire, avete una chiesa in ogni Duodecimo e festeggiate i santi, ma tutti quelli che ho incontrato a Remora, e non solo i Manoush, sembrano credere in una religione più antica.» «Noi Talìani siamo superstiziosi di natura» spiegò Paolo. «Ci rifacciamo a un passato in cui tutti i popoli del Mar di Mezzo adoravano una dea. Allorché arrivò la nuova religione, con Nostra Signora e suo Figlio, per noi fu naturale unirle. È la donna coronata di stelle, che protegge la nostra città e non si cura di quale nome usiamo per riferirci a lei.» La spiegazione non chiarì molto le idee a Georgia, che preferì cambiare argomento. «Raccontatemi qualcos'altro sulla corsa» propose. «Come funziona? Non sempre vince il cavallo migliore, vero?» «No» ammise Cesare. «E nemmeno il miglior fantino, anche se ovviamente ogni Duodecimo vorrebbe avere entrambi.» «In una forma o nell'altra corriamo la Stellata da circa trecento anni» aggiunse Paolo. «E non c'è motivo per pensare che non la correremo ancora per altrettanto tempo.» Georgia ripensò a quello che il signor Goldsmith le aveva detto riguardo al Palio. Se Remora era davvero l'equivalente di Siena, quella bizzarra corsa di cavalli si sarebbe disputata anche più di quattro secoli dopo. «Come sai, tutti i Duodecimi hanno scuderie proprie e ogni anno scelgono un cavallo che prenderà parte alla Stellata» continuò Paolo. «Possono averlo allevato loro o comprato altrove, ma è sempre il migliore che possano permettersi. Anche il fantino viene scelto dal Duodecimo.» «Non sempre è un suo abitante, come me, ma è il migliore che trovano» aggiunse Cesare, impaziente di far sapere a Georgia che non era stato prescelto solo in quanto figlio del capostalliere. «Fra poche settimane metteranno la terra nel Campo, che diventerà una pista» disse Paolo. «Diversi cavalli e fantini correranno al chiaro di luna e alla fine ogni Duodecimo prenderà la propria decisione su chi parteciperà
alla gara. Non tutti sono già sicuri della scelta come lo siamo noi.» E lanciò uno sguardo orgoglioso a suo figlio e ad Arcangelo. «Mi piacerebbe assistervi» confessò Georgia, e subito si fermò, confusa. Padre e figlio la stavano osservando con la stessa espressione dispiaciuta. «Ma non posso, vero? Cioè, non posso stare qui a Remora di notte.» «Però potrai vedere le prove» ribatté subito Cesare. «E comunque sarai qui per la corsa, vero?» «Dipende dall'ora» disse Georgia. Poi guardò Arcangelo e si ricordò un'altra cosa. «Voi montate a pelo?» chiese. «Sì» rispose Cesare. «Usiamo le redini, ma non la sella.» «Come facevano i nostri antenati Rassenani» aggiunse Paolo. «Erano cavalieri e corridori bravissimi e cavalcavano sempre a pelo.» "Allora erano davvero gli Etruschi di Talìa" pensò Georgia. Poi disse: «Io non ho mai cavalcato a pelo, ma mi piacerebbe provare.» «Vieni con me questo pomeriggio» propose Cesare. «Per oggi non monterò più Arcangelo, ma abbiamo tanti altri cavalli.» «Davvero?» esclamò Georgia, con gli occhi che brillavano. Subito però si ricordò della sua promessa a Falco. «È solo che Luciano e io dobbiamo fare visita ai de' Chimici prima che io torni a casa.» «Ci sarà tempo anche per quello» disse Cesare. «Parlane a Luciano. Sarà qui a momenti. La carrozza è più lenta di un cavallo.» «Era alla pista di allenamento con te?» chiese Georgia. «Credevo che i cavalli non gli interessassero.» «C'era anche il Dottor Crinamorte» aggiunse Cesare. Le ruote della carrozza risuonarono sull'acciottolato delle scuderie. «Ah, si parla del diavolo e spuntano le corna» disse Paolo. Luciano balzò giù dalla carrozza per aiutare il padre adottivo. Georgia notò che stava meglio dall'ultima volta che lo aveva visto. Gli occhi erano vivaci e il corpo agile e scattante, come se fosse pronto per un'avventura. Anche William Dethridge era rimasto entusiasta delle corse. «Ah, quale meraviglioso spettacolo!» esclamò dando a Paolo una pacca sulle spalle. «Vostro figlio è un vero prodigio. Tale e quale un centauro.» «Credi che verranno?» chiese Falco al fratello per la quindicesima volta. «Hanno dato la loro parola» rispose Gaetano, come tutte le altre volte. In cuor suo, però, sperava che i giovani Stravaganti trovassero un modo per non mantenere la promessa. Sapeva che non erano entusiasti del piano di Falco, ma neanche lui era riuscito a far cambiare opinione al fratello. Re-
stava poco tempo: presto sarebbe partito per la sua missione a Bellezza e aveva il terrore che durante la sua assenza Falco potesse convincere gli Stravaganti ad aiutarlo. «Che arrivino o meno, devi rinunciare a questa tua idea» disse con tutta la delicatezza possibile. «È una follia. Perché lasciare la vita che conosci e tutti quelli che ti vogliono bene per andare in un altro mondo, dove sarai sempre un estraneo? Non sai nemmeno se i medici del futuro saranno in grado di aiutarti. Nemmeno Luciano e Georgia ne sono certi.» «Che cosa vorresti, allora?» chiese Falco amaramente. «Che rimanessi qui e diventassi come lo zio? Solo che io, se arrivassi alla sua mole, avrei bisogno di farmi trasportare per il Palazzo Papale dai servi. I bastoni non mi reggerebbero.» «Ci sarà un modo per non sottostare ai piani di nostro padre» insistette Gaetano. «Potresti venire a vivere a Bellezza con me e la mia Duchessa.» «Ho sentito che lì non hanno cavalli» obiettò Falco con le labbra che gli tremavano. «Ma ci sarò io a volerti bene e a prendermi cura di te» replicò Gaetano abbracciandolo. «Chi lo farebbe nel mondo degli Stravaganti?» «Georgia si prenderà cura di me» disse Falco, testardo. «Partirò comunque, Gaetano. Ma non costringermi a farlo senza il tuo consenso.» Gaetano tenne stretto a lungo il fratello, poi lo guardò negli occhi e sospirò. «Molto bene» disse. «Se hai deciso e se non c'è nulla che io possa dire o fare perché tu cambi idea, allora mi dovrò rassegnare. Ma mi mancherai tanto, molto più che non in questi due anni! Non cresceremo più insieme, ma ti immaginerò sempre al mio fianco, come quando eravamo piccoli e giocavamo con le spade in questo palazzo.» Entrando nella stanza, il Duca Niccolò non notò l'umore triste dei due fratelli. Lui, per contro, era euforico. «Ho avuto notizie dal Reggente, Gaetano» disse, con un guizzo negli occhi scuri. «Sono pronti a considerare la tua proposta. Devi partire subito per Bellezza!» Nella sua stanza, William Dethridge prese da una tasca della giacca un pacchettino avvolto in seta nera. Lo aprì e allargò il tessuto su una cassettiera nell'angolo. Poi mischiò le carte che aveva in mano e cominciò a posarle sulla seta in cerchio e in senso antiorario. La prima carta a uscire fu la Principessa di Uccelli, subito seguita dal Principe di Serpenti. Dethridge fece una pausa, poi continuò. «Tali sarebbero la pulzella che stravaga e uno dei giovini nobili della Si-
gnora» mormorò. Altre carte si aggiunsero al cerchio: Due di Pesci, il Mago, Due di Salamandre, Due di Uccelli, il Cavaliere. «Ah! Tal sarebbe il giovine Cesare.» Poi la Torre, Due di Serpenti, gli Astri Mobili e la Principessa e il Principe di Pesci. Dethridge posò la dodicesima carta nel centro del cerchio. Era la Dea. Studiò lo schema: era insolito avere così tanti trionfi e figure. Inoltre tutti i numeri erano dei due e il Dottore non aveva idea di che cosa ciò volesse significare. Però la Principessa di Pesci rappresentava chiaramente la giovane Duchessa di Bellezza e fu contento di vederla vicino al proprio Principe. Era anche per leggere il futuro di Arianna che il vecchio Dethridge aveva consultato le carte. Chiaramente gli Astri Mobili indicavano la corsa, ma perché Cesare era vicino alla Torre? Ed era positivo il fatto che la Dea fosse nel centro, a controllare tutto? Decise di parlarne a Paolo e di comunicare con Rodolfo tramite gli specchi. Non sapeva chi di loro rappresentasse il Mago, ma prima gli Stravaganti si fossero riuniti, meglio sarebbe stato. «Se n'è andato? Come sarebbe a dire?» disse Luciano. Per lui e Georgia era stato difficile varcare la soglia del Palazzo Papale. Era un edificio arioso ed elegante pieno di marmi e specchi, ma a loro era sembrato di entrare nel covo del nemico. Dopo quasi un anno passato a Bellezza, Luciano si era abituato allo sfarzo, ma Georgia si sentiva goffa e fuori posto, fin troppo consapevole dei rozzi abiti che indossava. Il valletto del Papa evidentemente l'aveva presa per uno dei servi di Luciano, e la cosa l'aveva fatta sentire ancora peggio. Quando li fecero entrare in una piccola anticamera, dove Falco sedeva alla finestra, lo sguardo del ragazzo si accese. Salutò entrambi calorosamente e subito comunicò che suo fratello era già in viaggio. «È partito per Bellezza un'ora fa. È andato a conoscere la Duchessa.» «Perché tanto presto?» domandò Luciano, sospettoso. Falco sospirò. «Posso anche dirvelo, tanto si saprà subito quando si sposeranno.» Georgia vide Luciano impallidire e subito dopo diventare paonazzo per la rabbia. «Come sarebbe?» domandò. «Chi è che si sposa?» Falco fu colto alla sprovvista. «Ma Gaetano e la Duchessa, no?» disse nervosamente. «Il Reggente ha ricevuto la nostra proposta e mio fratello è andato a parlarne alla Duchessa prima di accompagnarla qui per la Stella-
ta.» «Mai!» sbottò Luciano. «Arianna non sposerebbe mai un de' Chimici. Dev'esserci un errore!» «E perché non dovrebbe?» replicò Falco. «Siamo una delle famiglie più antiche di Talìa e abbiamo stretto alleanze con Duchi e Principi in tutto il Nord. Anzi, la mia famiglia regna di diritto in sei città.» «Ragione di più per non fare di Bellezza la settima» ringhiò Luciano. «Andiamo, Georgia: venire qui è stata una follia. Non ci possono essere rapporti fra noi e i de' Chimici. Come vedi, pensano solo al proprio tornaconto.» «Aspettate!» gridò Falco, vedendo che Luciano stava per trascinare via Georgia. Lei era sconvolta: lo sfogo di Luciano non lasciava dubbi riguardo ai suoi sentimenti per Arianna. Già quello era stato un duro colpo, ma vedendo il viso affranto di Falco si rese conto che non potevano andarsene così. «Un momento, sono certa che Luciano non voleva offendere la tua famiglia» disse al giovane Principe. «E sono anche certa che se c'è stato un fraintendimento si risolverà. Ma una Duchessa dovrebbe comunque considerare una proposta simile, no?» aggiunse poi rivolta a Luciano. «Voglio dire, io non faccio parte di questo mondo, ma da quello che ho visto di Talìa se un membro di una casata nobile chiede di sposarne un altro non puoi semplicemente dirgli di andare a quel paese.» «N-no, credo di no» mugugnò Luciano. «Se vi può consolare, non penso che Gaetano la voglia sposare» disse Falco agitato. «Secondo me preferisce nostra cugina Francesca. Quando erano bambini dicevano sempre che da grandi si sarebbero sposati.» Luciano rise amaramente. «Francesca de' Chimici? Credo che si sia già sposata per assecondare i piani della tua famiglia, se è la ragazza che Rinaldo de' Chimici aveva opposto ad Arianna per l'elezione a Duchessa.» «Anche Rinaldo è mio cugino» disse Falco con tono altero. «Non mi piace molto, ma fa comunque parte della mia famiglia e nessuno può scegliersi i parenti.» «È vero» ammise Georgia. «Proprio nessuno. Sii obiettivo, Luciano. Se ci pensi, Falco non ha colpa di quello che fanno i suoi parenti.» «Ma Gaetano obbedirà agli ordini di vostro padre, vero?» chiese Luciano. «Non lo so» rispose Falco, più calmo. «Io per esempio non lo farò.» Dopo qualche secondo di un silenzio carico di tensione, Luciano sembrò
riprendere il controllo di se stesso. «È vero che abbiamo acconsentito ad aiutarti, ma la cosa non mi piace per niente. Non so neanche se ciò che vuoi fare è possibile; certamente è pericoloso. E dovrai lasciare la tua famiglia per sempre. Non so se tu sia in grado di capire davvero che cosa significa.» «Non ho quasi pensato ad altro fin dalla nostra gita a Belle Vigne» disse Falco. «Pensarci è un conto» osservò Luciano. «Farlo è molto diverso.» «La mia esperienza sarà diversa dalla tua, perché tu sei rimasto bloccato qui accidentalmente, mentre io ho scelto di passare nell'altro mondo» spiegò Falco. «Questo è vero» ammise Luciano. «Ma voglio che tu ci pensi bene. Non sarà come un incantesimo che può essere annullato. Se arriverai nel mio vecchio mondo... e ancora non sappiamo se potrai farlo... sarai peggio di un esule in uno strano paese. Tieni presente che io conoscevo già bene Bellezza prima di rimanere qui per sempre. Tu arriverai in un mondo talmente diverso che non so neanche se riesci a immaginarlo. Un mondo in cui la velocità di un cavallo al galoppo è considerata lenta, dove puoi andare da un capo all'altro di Talìa in poche ore o parlare con qualcuno dall'altra parte del mondo tramite una macchina.» «Ma è proprio perché il tuo mondo ha tali meraviglie che voglio andarci!» esclamò Falco. «Per me sono quasi magie. Se tutto si può fare così velocemente, perché non potrebbero farmi tornare come prima?» «Sì, magari potrebbero» disse Luciano. «Ma poi? Non saresti più in grado di tornare qui. Non avresti più i tuoi amici e la tua famiglia. Almeno io conoscevo qualcuno a Bellezza, ma tu dovrai ricostruirti una vita fra estranei. E pensa all'effetto che avrebbe sulla tua famiglia. Io so quello che hanno sofferto i miei genitori.» Si interruppe di colpo, incapace di continuare. «Per la mia famiglia sarebbe meglio perdermi» affermò Falco. «So che mi vogliono bene tutti, anche mio padre, ma ogni volta che mi guarda vedo compassione nei suoi occhi, il ricordo di ciò che ero. Ho già detto addio a Gaetano. Lui è l'unico a sapere ciò che voglio fare. È stato difficile, ma ti ho già detto che ho deciso. Voglio che voi due mi aiutiate a stravagare nel mondo di Georgia.» «Una cavalla con le ali?» disse il Duca Niccolò. «È assurdo. È una favola per bambini.»
«Potrei mai mentirvi, padrone?» replicò Enrico. «L'ho vista con i miei occhi, ed è una puledra talmente bella che non ne trovereste una simile neanche in capo al mondo.» «E dici che si trova nel Montone?» Il Duca intuì subito cosa questo avrebbe implicato. I Remorani erano superstiziosi, e se si fosse sparsa la voce che al Montone era capitato un tale evento, l'opinione pubblica avrebbe potuto muoversi in loro favore e rendere più difficili gli accordi segreti con i fantini degli altri Duodecimi. Quelli del Montone avrebbero senza dubbio tenuto nascosto il loro portafortuna fino a pochi giorni prima della corsa. «È nata nel Montone, sì, ma è stata portata a Santa Fina con la madre ed è lì che si trova ora» disse Enrico. Il Duca Niccolò si ricordò della cavallina nera con addosso una coperta e imprecò sottovoce. Era stato lui stesso a pochi passi dal segreto, eppure adesso doveva farsi raccontare da un sudicio spione ciò che aveva avuto sotto il naso. «Basta un ordine e potrà essere vostra, mio signore, insieme a tutta la fortuna che può portare.» «E sei sicuro che non sia una finzione?» insistette il Duca. «Che so, le ali di qualche uccello attaccate a un puledro?» «L'ho vista volare ieri notte» raccontò Enrico. «Ha fatto diversi giri sopra il cortile delle scuderie, quando Roderigo pensava non ci fosse nessuno a parte Diego, il suo fedele stalliere. Ma Diego è mio amico e mi ha fatto nascondere dietro ad alcune balle di fieno. Sì, la tengono legata a una lunga corda, ma se la fune si impigliasse a un ramo e si spezzasse? La puledra potrebbe scappare chissà dove, no? Non sospetterebbero nemmeno che sia stata rubata.» Niccolò sapeva che era vero. Chiunque a Remora conosceva le storie sui cavalli alati. Tuttavia sentire che ne era nato uno nel suo tempo e proprio nel Duodecimo alleato ai suoi più accesi rivali lo mise a disagio. Non gli andava che accadessero cose su cui non aveva controllo. C'era solo un modo per riprendere quel controllo prima che la voce si spargesse. «Quanto argento vuoi?» chiese. «Ti servirà un talismano» disse Luciano. Aveva pronunciato per la prima volta quella parola in presenza di un de' Chimici e Georgia si rese conto di cosa ciò significasse. Avrebbero davvero mandato Falco nel suo mondo.
«Dove posso trovarne uno?» Falco non chiese nemmeno che cosa volesse dire quella parola. «Dovrà portartelo Georgia» spiegò Luciano. «Dev'essere un oggetto che arriva dal suo mondo. Poi, quando sarai pronto per stravagare, dovrai tenerlo in mano e addormentarti in Talìa pensando a quell'altro mondo. Ti sveglierai in Anglia... cioè, in Inghilterra... nel ventunesimo secolo, anche se nessuno sa che cosa potrà succederti dopo. Ma di quello dovrà occuparsi Georgia.» Entrambi i ragazzi la guardarono come se lei fosse in grado di risolvere qualsiasi problema. «Be', che tipo di oggetto dovrebbe essere?» chiese. «Il mio è un cavallino e Luciano ha detto che il suo era un taccuino, ma venivano tutti e due da Talìa. Non so cosa dovrò cercare in Inghilterra.» «Posso vedere il cavallino?» chiese Falco. Georgia tirò fuori dalla tasca la statuetta e gliela mostrò. «Un cavallo alato!» disse il giovane de' Chimici entusiasta. «Li avevano i Rassenani. Non sarebbe meraviglioso vederne uno?» Georgia e Luciano si scambiarono un'occhiata. Per sviare il discorso, Luciano disse: «Il talismano di Rodolfo viene dall'altro mondo. È un anello d'argento che gli ha portato il Dottor Dethridge.» Nella mente di Georgia cominciava a formarsi un'idea. «Credevo di non poter portare niente dal mio mondo a parte il mio talismano» disse. Luciano alzò le spalle. «Sì, quella è la regola, ma il Dottor Dethridge ha portato quelli di Rodolfo, di Paolo, di Giuditta Miele e di tantissimi altri che stravagano da Talìa. È uno dei nostri compiti. Stanno addestrando anche me, e un giorno sarò abbastanza esperto da lasciare talismani per nuovi Stravaganti da quel mondo a questo. È una grossa responsabilità.» «Calma, calma!» esclamò Georgia. «Vuoi dire che il Dottor Dethridge, che ha inventato l'arte della stravagazione, è l'unico che abbia mai portato dei talismani dal mio mondo a questo, che stanno ancora addestrando te per farlo e nonostante ciò tu ti aspetti che io prenda qualcosa e lo porti a Falco, così, senza problemi? Non manderà all'aria il continuum spaziotemporale o qualcosa del genere?» Luciano le sorrise. Lei capì che avrebbe fatto qualsiasi cosa, se solo glielo avesse chiesto così. «Verrà usato solo una volta, se Falco è davvero convinto di voler essere "traslato", come dice il Dottor Dethridge. Sarà come un biglietto di sola andata.»
«Aspetta un attimo» obiettò Georgia. «Non è il talismano che deve trovare la persona giusta? Voglio dire, i nostri ci hanno trovato e ci hanno portato dove servivamo. È possibile semplicemente dare qualcosa a Falco e sperare che gli serva per stravagare?» Luciano aveva un'aria molto seria. «Non possiamo esserne sicuri» disse. Si rivolse a Falco: «Capisci? Decidere che vuoi andare nel nostro mondo è una cosa, ma che il viaggio sia fattibile è un'altra. Devi essere consapevole che anche se Georgia ti porterà un oggetto, questo potrebbe non riuscire a farti lasciare Talìa.» Falco annuì. «Sono pronto a correre il rischio» dichiarò. «Non dovremmo chiedere il parere di qualcuno?» suggerì Georgia. Sapeva di avere già perso un'occasione per parlarne con Paolo. «Del Dottor Dethridge, per esempio. Oppure potresti provare a contattare Rodolfo.» L'espressione di Luciano si indurì. Non credeva che Arianna potesse prendere seriamente in considerazione il matrimonio con un de' Chimici, ma il fatto che né lei né Rodolfo lo avessero avvisato della proposta lo aveva ferito. Li immaginava intenti a governare Bellezza e a prendere decisioni importanti senza di lui. Si sentiva escluso ed era arrabbiato. «No» disse. «Ce la faremo da soli. Dopotutto siamo entrambi Stravaganti.» «E fra poco lo sarò anch'io» esclamò Falco con il suo bellissimo sorriso. «Almeno per un po'. Farò un meraviglioso volo e poi rinuncerò alle mie ali. E Georgia si prenderà cura di me.» Il martedì Georgia dovette rientrare prima da scuola perché era esausta. Sua madre si preoccupò talmente che lei decise di non stravagare per un paio di notti. Non ne poteva più di sentirsi così debole e inoltre mancavano solo pochi giorni alla fine del terzo trimestre. Durante le vacanze sarebbe stato tutto più facile. Ma aveva fatto i conti senza Russell. Quando stravagava ogni notte era sempre stata estremamente attenta al cavallo alato, passandolo dagli indumenti che indossava durante il giorno a quelli della notte e viceversa senza mai perderlo di vista. Il martedì sera, però, era distrutta e lo aveva dimenticato nella tasca dei jeans, nel cestino del bucato, in bagno. E il mercoledì mattina era sparito. Capitolo 13 Il corteggiamento
Georgia era sconvolta. All'inizio cercò di convincersi che l'avesse preso sua madre, ma i jeans erano ancora nel cestino e non nella lavatrice. Maura era già uscita, lasciandole un biglietto in cui le raccomandava di telefonare alla dottoressa per un appuntamento urgente. La casa era tranquilla e silenziosa. Anche Ralph era andato al lavoro e Russell era a scuola. Georgia sedeva sul bordo della vasca con i jeans spiegazzati in grembo. Doveva essere stato per forza Russell a prenderlo. Sapeva che non sarebbe servito a niente, ma provò lo stesso a entrare nella sua camera: la porta era chiusa a chiave. Era la prova che il cavallo alato doveva essere in quella stanza. Scese le scale completamente traumatizzata e si riempì una scodella di cereali, perché temeva di svenire se non avesse mangiato qualcosa. Mandare giù il cibo fu molto difficile. Poi telefonò alla dottoressa, che le disse di poterla visitare solo a mezzogiorno. Si fece una doccia veloce, con un turbine di pensieri nella mente. Che cosa avrebbe fatto se Russell si fosse rifiutato di renderle la statuina? Peggio ancora, se l'avesse buttata via oppure rotta? Stare lontana da Talìa per qualche giorno non era un problema, ma se non fosse stata mai più in grado di tornarvi, di rivedere Remora, Cesare, Paolo e Luciano? E cosa ne sarebbe stato di Falco? Negli ultimi giorni, Georgia aveva pensato spesso a lui. Aiutarlo era sicuramente pericoloso e probabilmente sbagliato, ma si stava convincendo che fosse quello il suo ruolo in Talìa, il motivo fondamentale per cui il talismano era arrivato a lei. Non credeva di essere destinata ad essere un vero Stravagante, come lo era Luciano. Non pensava neppure di avere un talento particolare, o addirittura l'interesse a imparare le misteriose arti della Fratellanza. Invece sentiva che la sua specifica missione in Talìa era aiutare Falco. Non era ancora sicura del perché, ma questo era quello che doveva fare. Senza il talismano, però, non avrebbe potuto combinare niente. Era terribile. Quanto ci avrebbe messo Paolo a capire che non stava tornando in Talìa perché non poteva stravagare? E le avrebbe portato un altro talismano?
Georgia non aveva idea se ciò fosse permesso o addirittura possibile. Poi capì che sarebbe impazzita se fosse rimasta in casa un minuto di più. «Sua Altezza il Principe Gaetano di Giglia!» annunciò il valletto della Duchessa. Gaetano fu accompagnato in un'ampia sala da ricevimento, le cui lunghe finestre si affacciavano sul canale. Al lato opposto c'era un palco di legno che sorreggeva un elaborato trono di mogano. Accanto a questo, su un seggio molto meno elaborato, sedeva un uomo vestito di velluto nero e dai capelli scuri screziati d'argento. Era evidentemente il Reggente Rodolfo, padre e consigliere della giovane Duchessa, nonché potente Stravagante. Alla vista di uno dei più grandi nemici di suo padre, Gaetano sentì il cuore battergli così forte da non riuscire a concentrarsi sulla giovane che sedeva sul trono. «Bellezza vi dà il benvenuto, Vostra Grazia» disse quest'ultima con voce dolce. «Confido che vi sia stato fornito un degno alloggio nel Palazzo dell'Ambasciatore. Posso presentarvi mio padre, il Senatore Rodolfo Rossi, Reggente della città?» Rodolfo fece al giovane de' Chimici l'onore di alzarsi, di avvicinarsi di qualche passo e di inchinarsi. Gaetano ricambiò l'ossequio e poi avanzò per inginocchiarsi davanti alla Duchessa e baciare la mano che lei gli porgeva. Quando gli venne permesso di alzarsi, si trovò a guardare due divertiti occhi viola dietro a una maschera d'argento. La Duchessa era bellissima, e lo si intuiva nonostante la maschera. Era alta e slanciata, con folti capelli castani raccolti in una complicata acconciatura che rivelava la forma perfetta della testa e il collo lungo e candido, su cui ricadevano piccoli ricci che si erano sciolti dall'acconciatura. E che occhi! Grandi, splendenti e di un colore insolito che si intonava con le ametiste scure che adornavano i capelli e il collo. Per un attimo gli venne in mente Luciano. "Beato lui, se lei ricambia i suoi sentimenti" pensò. Poi si ricordò perché era lì. Si ricompose e il resto dell'udienza trascorse fra convenevoli e pasticcini, che un servo portò e sistemò su un tavolino basso e tondo di ottone, insieme a un vino frizzante che Gaetano non aveva mai assaggiato prima. La conversazione cadde su Remora e sulla Corsa delle Stelle. «Proprio a Remora, Vostra Grazia, ho incontrato un vostro amico» disse Gaetano alla Duchessa. Poi, voltandosi verso Rodolfo: «E anche vostro,
presumo. Un giovane di nome Luciano.» Un leggero rossore si diffuse sul volto della Duchessa, appena sotto la maschera. «Certo» disse il Reggente. «È mio apprendista e parente alla lontana. Sta bene? E avete conosciuto anche il suo padre adottivo, il mio buon amico Dottor Crinamorte?» «Sì, stanno entrambi bene» rispose Gaetano. «Li ho incontrati nel Duodecimo del Montone, nella casa del capostalliere, insieme a Giorgio, un amico di Luciano.» A questa notizia Rodolfo non tradì alcuna emozione e il discorso si spostò sull'imminente viaggio verso Remora. In quella prima occasione non fu fatto cenno al motivo implicito della visita del giovane Principe. Gaetano tornò nell'alloggio che era stato di Rinaldo pensando che gli sarebbe piaciuto sposare quella Duchessa. Ma lei lo avrebbe voluto? Era chiaro a chi andasse la sua preferenza. Tuttavia, forse anche lei non aveva scelta. Il signor Goldsmith accolse Georgia con piacere, ma il suo sorriso si tramutò ben presto in un'espressione preoccupata. «Ma come mai non sei a scuola? Non stai bene? Non hai una bella cera.» Georgia scoppiò in lacrime. L'antiquario le diede il suo fazzoletto bianco e la fece accomodare nel piccolo ufficio sul retro del negozio. Attaccò alla porta il cartello con scritto CHIUSO, per non essere disturbato. Portò a Georgia del tè, scusandosi di essere rimasto senza biscotti. La bevanda calda la fece sentire meglio. Non piangeva spesso, solo quando Russell era particolarmente cattivo. «Ora devi dirmi che cosa c'è che non va» disse il signor Goldsmith. «Si tratta di Russell, il mio fratellastro» spiegò Georgia. «Credo che mi abbia rubato il cavallo.» La sua espressione era così addolorata che l'antiquario capì che non era il caso di minimizzare, anche se la statuina era solo una copia venduta in qualche museo e quindi in teoria non impossibile da sostituire. «Oh, cielo!» esclamò. «Mi spiace. Ma cosa ti fa pensare che l'abbia preso lui?» Georgia gli raccontò del difficile rapporto con il fratellastro. «Quel cavallo mi serve» concluse. «Non posso spiegarle il motivo, anche perché non mi crederebbe, ma devo riaverlo per poter mantenere una promessa. E mi serve proprio quello, non un altro uguale.»
Il signor Goldsmith si accorse che la ragazzina era disperata, anche se non aveva idea del perché il cavallo alato fosse diventato tanto importante per lei. «Allora dovremo fare in modo che Russell lo restituisca, no? Non credo serva a molto chiederglielo gentilmente: sta solo cercando di farti stare male. Non sarebbe il caso di dirlo prima ai tuoi genitori? Di sicuro gli sarà più difficile mentire a loro.» Georgia ammise che forse aveva ragione, e in quel momento si accorse che mancava un quarto a mezzogiorno e che doveva sbrigarsi se voleva arrivare in tempo all'appuntamento con la dottoressa. Il Dottor Dethridge sistemò le carte nello schema che aveva ottenuto nell'ultima lettura. Aveva meditato a lungo sul significato e aveva deciso di mostrarlo a Rodolfo. Usò il suo specchio a mano per riflettere le carte e vi sbirciò a intervalli finché non vide il vecchio allievo guardare verso di lui. «Ossequi, Mastro Rodolfo!» disse l'anziano studioso. «Come giudicate un simile schieramento?» «Penso sia davvero notevole, mio vecchio amico» rispose Rodolfo osservando attentamente le carte. «Io stesso ho avuto la medesima lettura con la luna nuova.» «La Dea non appare in luna novella senza giusta causa» osservò Dethridge. «Forse si sta interessando ai nostri affari» suggerì Rodolfo. «Dobbiamo dunque augurarci che si prenda interesse per il nostro beneficio» disse Dethridge. Quando il giorno dopo Georgia non si fece vedere a Remora, Luciano non si preoccupò. Dopotutto le aveva consigliato lui stesso di prendersi una pausa. Falco però fu evidentemente dispiaciuto quando lo Stravagante bellezzano arrivò da solo al Palazzo Papale. «Ci sono cose di cui possiamo discutere anche se Georgia non è presente» disse Luciano. Ma Falco si limitò ad annuire e a Luciano sembrò di vederlo asciugarsi una lacrima. Ecco qualcosa che non si era aspettato. La volontà di Falco di essere traslato nel mondo moderno era forse influenzata dal desiderio di stare vicino a Georgia? Era un argomento troppo delicato da affrontare direttamente e il ragazzo decise di passare ai dettagli pratici. «Ci sono preparativi che vanno effettuati da entrambe le parti» disse con l'efficienza di un uomo d'affari. «Georgia può sistemare le cose relative
alla tua nuova vita e portarti un talismano, ma tu devi decidere come fare ad andartene di qui. Ti rendi conto che se stravagherai nel mio vecchio mondo e rimarrai là di notte, durante il giorno qui il tuo corpo sembrerà addormentato, vero?» «Sì» disse Falco. «Me lo hai già detto. E se rimango là, qui sembrerà che io sia in "morte vivenda", finché un giorno morirò davvero. Quanto tempo credi che ci vorrà?» Luciano scosse la testa. Era stupefatto dalla calma con cui quel ragazzo parlava del proprio destino. «Non saprei dirlo. Per me ci è voluta qualche settimana, ma come ti ho detto ero tenuto in vita artificialmente. Potrebbero bastare anche pochi giorni. Il fatto è che dovrà esserci un qualche motivo per il tuo stato. Non vogliamo che tuo padre sospetti qualcosa.» «Chiederò di andare a Santa Fina» suggerì Falco. «Posso dire che ora che Gaetano è a Bellezza voglio tornare alla residenza estiva fino alla corsa. Da lassù sarà più facile fuggire: i servi non sono vigili quanto mio padre.» «Ma dovrà esserci comunque un motivo» insistette Luciano. «Ho pensato anche a quello» ribatté Falco. «Credo che la cosa più semplice sia fingere di volermi uccidere.» Luciano rimase pensieroso per tutta la strada che lo riportava al Montone, ma ogni preoccupazione per Falco fu spazzata via quando vide la carrozza ferma fuori delle scuderie. William Dethridge gli stava facendo cenni da un finestrino. «Affrettati, giovine Luciano. È giunta notizia da Santa Fina. La maraviglia è volata via!» Quella sera Gaetano tornò al palazzo della Duchessa per un grandioso banchetto. Era l'ospite d'onore, seduto alla destra di Arianna, mentre Rodolfo le stava alla sinistra. Il giovane de' Chimici fu però sorpreso di scoprire che l'altra persona accanto a lui era sua cugina Francesca. «I miei saluti, cugino» disse lei, sorridendo del suo evidente stupore. «Non sapevi che ora sono una cittadina bellezzana?» Gaetano era confuso. Aveva sentito le voci su Francesca, ma non si aspettava di incontrarla in città. Era anche più bella di quanto se la ricordasse, con lucenti capelli neri e sfavillanti occhi scuri. Prese la mano che lei gli porgeva e la baciò, chiedendole come stava. Nonostante il proprio bicchiere fosse ancora intatto, Gaetano si sentì come se avesse bevuto troppo
vino rosso bellezzano. «Vedo che gradite la riunione di famiglia» disse una voce scherzosa alle sue spalle. Gaetano si rese conto con orrore di avere voltato la schiena alla Duchessa. «Perdonatemi, Vostra Grazia» disse girandosi svelto verso di lei e arrossendo fino ai capelli. «Ero talmente sorpreso di trovare qui mia cugina da aver dimenticato le buone maniere.» In quel momento Gaetano ebbe l'inquietante impressione che quella bellissima ragazza sapesse tutto di lui e della sua infatuazione giovanile per Francesca, e che li stesse facendo incontrare di proposito. Ma perché avrebbe dovuto? Per mettere alla prova la sua determinazione? Per ricordargli che la base di un matrimonio doveva essere l'amore? Dietro di lei vide Rodolfo che lo osservava con la stessa espressione. Per il resto del banchetto Gaetano si dedicò alla Duchessa, ma fu sempre conscio della presenza accanto a sé dell'affascinante cugina. Francesca era sposata? E se sì, dov'era suo marito? E perché era lì? L'indomani avrebbe avuto un'udienza privata con la Duchessa, durante la quale si sarebbe proposto formalmente. Entrambi conoscevano lo scopo della sua visita e si chiese quale ne sarebbe stato l'esito. Avrebbe dovuto dichiararle amore eterno? Immaginò lo sguardo beffardo che lei gli avrebbe rivolto. Il Duca non gli aveva dato alcun consiglio su come corteggiarla. Quando la Duchessa si alzò, il resto dei commensali fece altrettanto. Lei li precedette in un'altra sala, in cui alcuni musicisti stavano già suonando. La Duchessa chiese a Gaetano di scusarla, perché doveva parlare con l'ammiraglio della flotta bellezzana. Il giovane si ritrovò solo. Francesca era seduta a un tavolino dal lato opposto della sala e lui si sentì spinto a sedersi accanto a lei. Di sicuro non ci sarebbero state obiezioni se avesse fatto compagnia a sua cugina, anche perché non conosceva nessun altro. «Cosa vorresti dire, allora?» sbottò Ralph. «Che Russell ti ha rubato un giocattolo? Fa un po' ridere, non credi?» Georgia digrignò i denti. «Non è un giocattolo» spiegò di nuovo, cercando di mantenere la calma. «È un soprammobile che ho comprato da un antiquario con i miei risparmi.» «Non importa che cos'è» intervenne Maura con quel suo tono "cerchiamo di essere imparziali". «Ralph, sarai d'accordo con me che Russell deve rispettare le cose degli altri.» Quel mercoledì sera erano tutti e quattro seduti intorno al tavolo della
cucina. Georgia aveva richiesto una riunione di famiglia e Maura aveva subito capito che si trattava di qualcosa di importante. «E chi dice che ho preso io il suo stupido cavallo?» disse Russell ferocemente. «Perché l'avrei fatto? Magari l'ha messo da qualche parte e se l'è dimenticato.» «Lo dice Georgia» affermò Ralph. «E secondo lei lo hai fatto per farla arrabbiare.» Russell alzò le spalle. Fu una mossa sbagliata, che infastidì entrambi i genitori. «Allora, lo hai preso tu?» chiese suo padre. Ci fu silenzio. Georgia trattenne il respiro. Se Russell avesse negato, avrebbe potuto chiedere di far perquisire la sua camera? Ralph avrebbe acconsentito? Da ciò che sarebbe successo dipendeva tutto il suo futuro a Remora. Roderigo era fuori di sé dal rimorso. La puledra alata era fuggita dopo essere stata affidata a lui. Chiamò Diego perché ripetesse la storia della scomparsa ai due visitatori. Il figlio del capostalliere del Montone era già a Santa Fina per passare al setaccio i dintorni in cerca di tracce della cavallina nera. «La corda si è impigliata in un albero» disse Diego con aria smarrita. Aveva già dato la sua versione diverse volte ed era sinceramente convinto di aver assistito a un incidente, ma sotto sotto lo tormentava il pensiero di non aver mantenuto segreta l'esistenza della puledra come avrebbe dovuto. «È successo la notte scorsa» continuò. «L'avevo fatta uscire come al solito. La stavo facendo volare quando la corda si è impigliata in un albero in fondo al recinto e si è rotta. Prima che potessi fare qualcosa la cavallina era già scappata.» «Ho mandato i miei uomini a cercarla dappertutto» disse Roderigo. «Sono sicuro che fra poco la ritroveremo. Tornerà senz'altro a casa da sua madre.» «Se nessuno la trova prima di noi»obiettò Luciano. «Dobbiamo recarci dalla madre» disse Dethridge, e i due Stravaganti andarono alle scuderie per vedere Splendore. La cavalla era immobile nella sua posta. «Non ha mangiato» disse Roderigo scuotendo la testa. Dethridge si avvicinò alla giumenta grigia, la carezzò dietro un orecchio e poi le sussurrò qualcosa. Splendore mosse la testa e sembrò aver capito
ciò che il vecchio Dottore le aveva detto. «Era solo uno scherzo» borbottò Russell scontroso. «Gliel'avrei ridato.» «Va' a prenderlo subito» replicò Ralph con severità. Mentre Russell era assente, suo padre si scusò con Georgia. Era evidentemente molto sollevato dalla confessione del figlio, ma mai quanto Georgia. In quel momento era disposta a perdonare a Russell qualsiasi cosa, purché le restituisse il talismano. Cambiò opinione non appena il fratellastro rientrò in cucina e lei vide che cosa teneva in mano. «Mi spiace» disse lui fingendo di essere pentito. «Sembra che si sia rovinato un po'.» Sul palmo di Russell, accanto al cavallino etrusco, c'erano due alette spezzate. L'incontro decisivo fra Gaetano e la giovane Duchessa ebbe luogo non nelle sale ufficiali del Palazzo Ducale, ma nel giardino pensile del Reggente. Alfredo, il domestico di Rodolfo, accompagnò il giovane de' Chimici fino a quella che sembrava una meravigliosa oasi sospesa sulla città. Gaetano notò immediatamente che il Reggente non sembrava essere nei paraggi. Almeno l'udienza sarebbe stata privata. La Duchessa sedeva su una panca di pietra e gettava dei semi a un magnifico pavone. Era vestita con un semplice abito di seta verde e anche la maschera era di seta. Non portava gioielli e i capelli erano sciolti sulle spalle. Dimostrava la sua età: era un anno più giovane del Principe, ma già sovrana di un'importante città-stato. Improvvisamente a Gaetano dispiacque per lei. Al suo saluto, lei si alzò e il pavone scappò via, facendo poi sentire il suo verso in lontananza. «Buona giornata, Vostra Grazia» disse. «Spero che la cena di ieri sia stata di vostro gradimento.» «Assolutamente» rispose Gaetano, nonostante non ricordasse nemmeno una delle portate. «Spero anche che vi abbia fatto piacere rivedere vostra cugina» continuò la Duchessa. «Dubitavo che avrebbe accettato il mio invito. Forse sapete che si era candidata contro di me all'elezione ducale.» «Così mi è stato riferito» disse Gaetano, a cui Francesca aveva raccontato tutti i dettagli la sera prima. «Sono sicuro che Vostra Grazia capirà che
non fu un'idea di mia cugina.» «Oh, non sua, ma qualche altro vostro cugino c'entra, eccome» precisò la Duchessa. «La vostra famiglia ha diversi progetti per Bellezza, vero?» Era un linguaggio poco diplomatico, ma Gaetano si era reso conto che quello non sarebbe stato un corteggiamento convenzionale. La franchezza gli sarebbe stata più utile di qualsiasi finzione. «Vostra Grazia» disse «credo che voi sappiate perché sono qui. Mio padre ha scritto al vostro per proporre un'alleanza fra le nostre due famiglie. Dovrei chiedere la vostra mano.» «Ed è così che lo fate?» rispose la Duchessa inarcando un sopracciglio. «Non dovreste inginocchiarvi e dichiararmi amore eterno?» «Come posso?» replicò Gaetano. «Io non vi conosco e se non conosco una persona non posso amarla o fingere di amarla. Però mi è stato insegnato a obbedire a mio padre e se voi acconsentite, accetterò di buon grado questo matrimonio. E se ci sposeremo farò di tutto per essere un buon marito e rendervi felice.» La Duchessa sembrò rilassarsi. «Siete sincero, Principe, ed è una cosa che mi piace molto di voi. Ma se dovete concludere un affare è meglio che prima ispezionate la merce.» Cominciò a slacciarsi la maschera. «E durante il nostro corteggiamento, se è di questo che si tratta, preferirei ci chiamassimo con i nostri nomi di battesimo. Il mio è Arianna.» «Il mio è Gaetano» disse il giovane de' Chimici. Guardando il viso della nemica di suo padre, scoprì che gli piaceva davvero molto. «È rotto» disse Georgia, in preda a un attacco di nausea. «Be', te l'ho detto, mi spiace» fece Russell. «È stato un incidente.» «Era avvolto nella plastica a bolle» ribatté lei. «L'hai tolta tu.» «Si può aggiustare» intervenne Maura, ansiosa di sistemare le cose. «Le posso incollare in modo che non si veda. Sembrerà nuovo.» «L'hai fatto apposta perché sapevi che per me è importante» gridò Georgia. «E perché mai?» replicò Russell quasi con gentilezza. «Non capisco perché questa stupidaggine sia tanto importante per te. È solo un soprammobile e hai già un sacco di cavallini di ceramica. Una cosa abbastanza infantile, direi. Magari c'entra quel tipo un po' viscido... quel vecchio di cui sei tanto amica.» Maura e Ralph drizzarono le orecchie. «Chi sarebbe, Georgia?» «È quel vecchio del negozio di antiquariato» spiegò Russell. «Lei ci va
sempre a prendere il tè. Mi sorprende che glielo lasciate fare. I miei amici dicono che è un pervertito.» Capitolo 14 Ali
La discussione sembrò andare avanti per ore, e Russell se la svignò ridendo sotto i baffi. Georgia riusciva quasi a sentirlo mentre pensava: "Missione compiuta." Era riuscito a spostare la tensione da sé a Georgia, che ora era sospettata di avere un'amicizia poco chiara con un vecchio sporcaccione. Al confronto avere rotto un soprammobile era una sciocchezza. Non per Georgia. Lei sapeva che Russell l'aveva fatto apposta. Sapeva anche che il signor Goldsmith non era come lo aveva descritto il fratellastro. Rispose distrattamente alle domande di Maura e Ralph, preoccupata che il talismano funzionasse ancora una volta riparato. «Sentite, perché non venite a conoscerlo?» disse alla fine, esasperata. «È un signore assolutamente a posto. Parliamo degli Etruschi e della corsa di cavalli a Siena. Non c'è niente di brutto in questo, no?» Maura sospirò. «A volte comincia così, Georgia. Un pedofilo può circuire la sua potenziale vittima facendole regali e sembrando innocuo.» «Il signor Goldsmith non è un pedofilo!» sbottò lei. «E non mi ha fatto dei regali. Mi ha solo offerto dei biscotti. Ma mi ascoltate o no quando parlo? Ho risparmiato e mi sono comprata il cavallino. E adesso Russell l'ha rotto e voi non gli dite niente. Il signor Goldsmith è mio amico. È praticamente l'unico che ho!» "Almeno in questo mondo" pensò. Niccolò riportò Falco alla residenza estiva con la propria carrozza. Lo rattristava doversi di nuovo separare dal suo ultimogenito, ma se questo poteva rendere felice il ragazzo l'avrebbe fatto volentieri. In effetti Falco sembrava molto più allegro e chiacchierava felice col padre del viaggio di Gaetano a Bellezza e della visita ufficiale della Duchessa in occasione del-
la Stellata. «Credi che le piacerà Gaetano?» chiese. «Non vedo perché non dovrebbe. È molto simpatico.» «Che lui le piaccia o meno non ha importanza» disse il Duca. «L'importante è che le piacciano gli altri termini dell'offerta.» Falco conosceva troppo bene suo padre per avere bisogno di domandargli quali fossero quei termini. «Credi che sia impaziente di venire a vedere la corsa?» chiese invece. «Come potrebbe non esserlo?» replicò Niccolò. «A Remora è il momento più importante dell'anno. Quando era piccolo Falco non si era perso una sola Stellata. Dall'incidente, però, non se l'era più sentita di vedere dodici giovani forti e sani correre intorno al Campo su magnifici cavalli.» «Lascerai che ti riporti a Remora per la corsa, vero?» disse Niccolò. «Hai detto che quest'anno l'avresti vista e sono sicuro che ti farebbe bene. Starai sul palco con i tuoi fratelli, me, tuo zio e i nostri ospiti d'onore.» «Sì, ci sarò» rispose Falco, ma aveva il cuore gonfio di tristezza sapendo che forse non sarebbe più stato in Talìa per il giorno della corsa. Ospite inattesa, Raffaella arrivò a casa di Paolo proprio mentre Cesare, Luciano e il Dottor Dethridge tornavano da Santa Fina. I tre non avevano buone notizie da portare, e la Manoush sembrava conoscere già i loro guai. «Mi ha mandata Aurelio» dichiarò semplicemente. «Mi ha detto che potevate avere bisogno d'aiuto.» «E come ha fatto?» chiese Paolo. «Vede cose che altri non vedono, pur non vedendo le cose che altri vedono» disse Raffaella. «Diglielo pure» suggerì Luciano. «Possiamo fidarci dei Manoush.» «Una nostra preziosa cavalla è sparita» spiegò Paolo. «È un animale molto speciale. Ha solo una settimana, ma è più grande di un normale puledro della sua età e ha il dono del volo.» Raffaella si irrigidì. «Uno zhou volou?» disse con rispetto. «Ne avete uno?» «Ne avevamo uno» ribatté Cesare con amarezza. «Era nata nel Montone» disse Paolo «ed era di buon auspicio per noi. Ora è cambiato tutto. Qualcuno potrebbe averci rubato quella fortuna.» «Allora porterà male a loro» affermò Raffaella. «Con il vostro permesso, spargerò la voce fra la nostra gente. Abbiamo parenti dappertutto in questa regione e qualcuno potrebbe aver visto qualcosa.»
«Come fate a conoscere questo tipo di cavallo?» chiese Luciano. «Conosciamo ogni tipo di cavallo» replicò Raffaella. «Lo zhou volou è un buon presagio anche per noi.» Cesare esitò. «Perdona la mia domanda, ma se la vostra gente tiene in così gran conto il cavallo alato, lo riporterebbe al Montone?» Raffaella gli lanciò uno sguardo severo. «Non siamo ladri di cavalli. Neanche di quelli normali. Il cavallo alato è per noi una creatura sacra e lo restituiremmo ai suoi legittimi custodi.» «Scusami» mormorò Cesare. «Mi fido di voi, ma sono preoccupato per Merla. L'ho aiutata a nascere.» «Capisco» disse Raffaella. «Sarei preoccupata anch'io.» Rubare la puledra alata non era stato facile. A mezzanotte, mentre Diego lasciava che la cavallina rafforzasse le ali volando sul cortile delle scuderie, Enrico si era di nuovo nascosto fra i cespugli. La corda era più lunga del solito ed effettivamente tendeva a impigliarsi nei rami. In una di quelle occasioni, Enrico era strisciato fuori dal suo nascondiglio e aveva tagliato la fune di cuoio, tenendo poi stretta la parte ancora legata alla puledra. Questa aveva tirato ancora più forte per opporsi a un minore raggio di movimento, e ciò aveva reso più difficile portarla via dalle scuderie. Enrico aveva dovuto guidarla da parecchi metri più in basso, finché non era arrivata sopra a un campo. Solo allora aveva potuto richiamarla delicatamente fino a terra. Per tutto il tempo era stato anche impossibile vederla contro un cielo privo di stelle. La cavallina aveva piegato le ali forti e nere, poi aveva cominciato a tremare. Allora Enrico le aveva sussurrato piano in un orecchio per calmarla e le aveva gettato sul dorso una coperta per nascondere le ali. Ormai si era perfettamente ambientato a Santa Fina. Con il biglietto del Duca aveva ottenuto libero accesso alla residenza estiva, dove alloggiava in una stanza comodissima con a disposizione cibo e bevande a volontà. Aveva portato di nascosto la cavallina in una posta nelle scuderie, dove aveva fatto subito amicizia con Nello, lo stalliere del Duca. Nello conosceva bene il carattere del suo padrone, così quando uno strano personaggio si era presentato nel cuore della notte con un cavallo evidentemente rubato non aveva fatto una piega, nemmeno vedendo di che tipo di cavallo si trattava. Gli altri servi erano stati ugualmente discreti nei riguardi del nuovo ospite. Quando c'erano di mezzo gli affari del Duca, era meglio non fare troppe domande.
Enrico poi esplorò il palazzo, stupefatto dal numero delle stanze e dall'imponenza degli scaloni. «Dia!» esclamò. «Non pensavo che questi de' Chimici fossero così ricchi.» Quel giorno la residenza estiva fremeva di attività. Era arrivato un messaggio con cui il Duca avvisava che avrebbe riportato lì il suo ultimogenito per qualche settimana. La servitù voleva molto bene a Falco per via del suo buon carattere e della menomazione. Il cuoco era indaffaratissimo a preparare i suoi piatti preferiti, mentre le cameriere pulivano la sua camera e spolveravano tutte le sale in modo che il Duca non avesse niente da ridire. Quando la carrozza apparve sulla strada che arrivava da Remora, Enrico stava osservando dalla loggia sopra l'entrata principale. Decise di non farsi vedere finché il Duca non avesse sistemato il figlio nei suoi alloggi. Si diresse di nuovo verso le scuderie per controllare il prezioso bottino. In realtà voleva evitare di incontrare Falco: Nello gli aveva raccontato dell'incidente ed Enrico, che non ci avrebbe pensato su due volte prima di accoltellare qualcuno, rimaneva sempre turbato dalle malattie e dai difetti fisici, specialmente nei ragazzi. Georgia era sdraiata sul suo letto. Teneva in mano la statuina rotta e le lacrime le bagnavano le guance. Era come se nelle ultime ventiquattro ore il mondo le fosse crollato addosso. Per la milionesima volta si disse che il martedì notte avrebbe fatto meglio a stravagare, invece di temere per la propria salute. Ora non sapeva se sarebbe mai stata capace di ritornare in Talìa. Russell era riuscito nel suo intento e aveva insinuato dubbi ignobili su un'amicizia innocente. Quanto lo odiava! In quel momento al piano di sotto Maura e Ralph stavano discutendo di lei. Pensò a Gaetano, a Cesare e a Luciano, a come la trattavano affettuosamente e con rispetto. E anche a Falco. Ultimamente lo aveva sorpreso a guardarla con un'espressione che andava oltre l'affetto. Poi c'era anche la sua nuova compagna Alice. A scuola avevano preso l'abitudine di pranzare insieme e qualche volta si erano incontrate anche dopo le lezioni. Era bello avere di nuovo un'amica. A parte Russell, la vita di Georgia stava decisamente migliorando. Ora però si sentiva in trappola, incapace di sfuggire alla tensione del dover dividere una casa con qualcuno tanto odioso. E se le false insinuazioni di Russell avessero funzionato, non sarebbe nemmeno più potuta andare a trovare il signor Goldsmith.
Improvvisamente desiderò essere un de' Chimici, con il denaro e il potere necessari per far eliminare i propri nemici. In quel momento non avrebbe esitato a mandare un sicario in camera di Russell. Poi inorridì al pensiero. Era quello ciò che si provava ad essere come il Duca? Allora li distingueva solo il fatto che lui aveva denaro e potere, mentre lei no? Georgia si vergognò profondamente. Qualcuno bussò alla porta. «Sono io, Georgia» disse piano Maura. «Posso entrare?» «Mio signore» bisbigliò una voce alle spalle del Duca. Solo con un enorme sforzo di volontà Niccolò riuscì a non sussultare e a voltarsi lentamente. «Ah» disse poi, sibilando fra i denti quando vide di chi si trattava. «Stai migliorando.» «Perdonate se vi ho spaventato, Vostra Grazia, ma pensavo foste in procinto di partire e non volevo che ve ne andaste prima di aver visto ciò che ho da mostrarvi» disse Enrico. Accompagnò il Duca alle scuderie, fino alla posta più lontana. Più scura dell'ombra in cui si trovava, con le ali abbassate, c'era la puledra. «Ce l'hai fatta!» esclamò il Duca. «Hai trovato questa piccola meraviglia!» Fece un passo avanti e carezzò il muso della cavallina, che sbuffò triste dalle narici. «Nello!» chiamò il Duca. «Vieni qui!» Il suo stalliere si materializzò immediatamente. «Vostra Grazia» si inchinò. «Che cosa puoi fare per la piccola?» chiese Niccolò. «È un po' giù, mio signore.» «È naturale, le manca la madre.» «Ma si riprenderà» disse Nello. «Non temete, mio signore. Avrò cura di lei come se fosse mia figlia.» «Anch'io, mio signore» aggiunse Enrico. Il Duca guardò quei suoi due uomini e rabbrividì leggermente. Se non altro si fidava della loro esperienza coi cavalli. «Vorrei che Georgia fosse qui» disse Cesare avvilito. «Che cosa potrebbe ella fare che a noi non è permesso?» chiese Dethridge.
«Forse niente» ammise il ragazzo. «Però vorrei che sapesse di Merla.» «Forse oggi non ha potuto, ma sono certo che tornerà domani» intervenne Luciano. Nessuno replicò, ma l'umore nelle scuderie del Montone era pessimo. Avevano cercato a Santa Fina tutto il pomeriggio ed erano tornati a Remora solo sul tardi, decisi a ricominciare il mattino dopo. Nessuno credeva davvero che Merla fosse scappata per caso o che l'avrebbero trovata mentre vagava libera per la campagna. E anche se fosse stato solo un caso, chi assicurava che nessuno l'avesse già trovata e tenuta per sé perché gli portasse fortuna? Ma se qualcuno l'aveva rubata, significava che il segreto del Montone non era più tale. «Siete sicuri che nessuno di voi due si sia fatto sfuggire qualcosa coi de' Chimici?» chiese Paolo. «Certo» rispose Cesare. «Non abbiamo quasi mai parlato di cavalli, vero?» «Vero» confermò Luciano. «E comunque, anche se fosse, non credo che l'avrebbero detto al padre... o a chiunque altro.» «Pare invero che ora tu sia favorevole a questi giovani de' Chimici» disse Dethridge. «Hai forse obliato ciò che fecero a te e alla Duchessa?» «E come potrei?» ribatté Luciano. «Ogni giorno vivo le conseguenze di quelle azioni. Ma questi due giovani sono molto diversi dal padre... e anche dal cugino, pensandoci. Credo che a nessuno dei due interessino i piani della famiglia.» «E tuttavia quello di aspetto più sgradevole contrarrebbe matrimonio con la giovine Arianna per compiacere il padre» disse Dethridge. «Ah!» esclamò. «Allora è cosa già nota.» Il padre adottivo sembrava molto a disagio. «Me ne dispiaccio, Luciano. Me lo ha riferito Mastro Rodolfo. Non era mia intenzione parlarne, ma tu parevi certo che il giovine nobile fosse tuo amico. Dico soltanto che egli è figlio di suo padre e farà ciò che gli è richiesto.» «E Arianna?» ribatté Luciano. «Che cosa farà? Venderà se stessa al figlio e la città al padre? Non farebbe mai una cosa simile. Lei è come sua madre.» «Ecco qui» disse Maura. «Lo metteremo ad asciugare e sarà come nuovo.»
La statuina aveva di nuovo le ali: Maura aveva fatto un buon lavoro con la colla. «No» obiettò Georgia. «Non esce da camera mia.» La madre sospirò. «Come vuoi, ma se non lo tieni al caldo la colla ci metterà di più ad asciugarsi.» «Può stare sul davanzale» ribatté Georgia. «Non lascerò che Russell gli metta di nuovo le mani addosso. Si vede che è stato rotto apposta.» Era vero. Sembrava che le ali fossero state staccate di netto dal dorso del cavallo. Maura però non voleva credere che Russell fosse capace di una tale cattiveria. Il suo più grande desiderio era che la famiglia andasse d'accordo e non poteva ammettere l'idea di avere una figlia e un figliastro che si odiavano. «Sembri molto infelice, Georgia» disse. «Che ne diresti di andare un po' in vacanza?» Georgia guardò sua madre stupita. La dottoressa Kennedy l'aveva trovata in condizioni abbastanza buone da poter tornare a scuola l'indomani. La sua diagnosi era stata: «Un po' deperita. Succede spesso verso la fine del trimestre. Troppi compiti.» «E la scuola?» «Oh, puoi andarci nei prossimi due giorni. Non ti daranno comunque altri compiti. La madre di Alice mi ha chiesto se domenica ti va di accompagnare la tua amica da suo padre nel Devon. Sai, lei ha un cavallo laggiù.» «Lo so eccome» disse Georgia quasi in modo automatico, con la mente in subbuglio. Lasciare l'atmosfera che c'era in casa sarebbe stato fantastico, e le piaceva l'idea di passare un po' di tempo con Alice. Soprattutto le piaceva l'idea che Alice avesse chiesto a lei di accompagnarla. Dopotutto non erano amiche da molto. Ma avrebbe potuto stravagare a Remora anche dal Devon? E per di più con un talismano rotto? «Quando hai visto la madre di Alice?» chiese prendendo tempo. «Mi ha telefonato al lavoro» rispose Maura. «Alice si è preoccupata quando oggi non ti ha visto a scuola. Voleva chiedertelo di persona e ha avuto paura che non tornassi prima della fine del trimestre.» «Mi piacerebbe molto» disse Georgia. Maura tirò un sospiro di sollievo. Nel frattempo avrebbe convinto Ralph a parlare con Russell. E avrebbe anche impedito a Georgia di vedere quello strano individuo del negozio, almeno finché non avesse potuto conoscerlo lei stessa. Falco zoppicò giù per lo scalone della residenza estiva. Aveva aspettato
tutta la mattina una visita di Luciano e magari anche di Georgia, ma non era arrivato nessuno. Il palazzo era deserto e silenzioso e a Falco cominciavano a venire mille dubbi. Era facile parlare della sua nuova vita nel mondo di Georgia quando si trovava con gli altri Stravaganti, ma se il piano non avesse funzionato? E se fosse rimasto bloccato tra un mondo e l'altro? La vita che conduceva a Santa Fina era sicuramente meglio di una situazione come quella... e almeno c'era abituato. E se anche avesse funzionato, Falco sapeva quanto sarebbe mancato alla sua famiglia, specialmente a Gaetano e al padre. Da quando però aveva sentito che l'intenzione del Duca era di avviarlo alla carriera ecclesiastica, anche senza vocazione, aveva capito che il padre lo considerava diversamente dagli altri figli. Falco guardò in giù per vedere quanti gradini mancassero ancora, poi in su per vedere quanto aveva già percorso. Con la coda dell'occhio scorse un mantello blu che sgattaiolava dietro a una colonna. Lo aveva già notato altre volte. C'era qualcun altro nel palazzo, oltre a lui e alla servitù. Poi però il campanello dell'ingresso principale suonò e un servo fece entrare Luciano. Falco fu contento di vederlo, anche se era arrivato da solo. Il giovane Stravagante salì i gradini due alla volta e fu davanti a Falco prima ancora che questi avesse il tempo di accorgersene. «Mi spiace di non essere arrivato prima, ma sono stato in città tutta la mattina per un altro impegno» disse. «Dobbiamo parlare in un luogo privato.» Il giovedì Georgia tolse con delicatezza il cavallo alato dal davanzale e lo ispezionò. Sembrava a posto. Lo avvolse con cura nella plastica a bolle e se lo mise in tasca. L'avrebbe portato con sé a scuola e quella sera avrebbe verificato se poteva tornare a Remora. Alice la stava aspettando in classe e il suo viso si illuminò quando vide che Georgia stava bene. «Allora vieni nel Devon?» le chiese sottovoce durante l'appello. «Mia mamma ha telefonato alla tua ieri sera.» Georgia annuì. «Sì, grazie per l'invito. Ci divertiremo. Posso montare il tuo cavallo?» «Ovvio» disse Alice. «Faremo a turno.» «Alice... sai cavalcare a pelo?» sussurrò Georgia. Alice ebbe solo il tempo di annuire prima che la signora Yates le richiamasse perché stavano chiacchierando.
Luciano osservò la lunga sala da ballo, assolutamente meravigliato. Al capo opposto all'entrata c'erano strumenti musicali coperti da panni e cento specchi riflettevano lui e Falco, in piedi nel mezzo. Non doveva essere un'immagine confortante per il suo giovane amico. «Non c'è qualcosa di... di più piccolo?» «Non preoccuparti. Qui non viene mai nessuno se non durante i ricevimenti» disse Falco, zoppicando per tutta la lunghezza della sala. Luciano provò un impeto di pietà per quel ragazzo solitario, che aveva fatto di quel vasto e tetro palazzo il proprio regno. Sedettero dietro le forme spettrali di un'arpa e di un clavicembalo per parlare sottovoce di Georgia e di come Falco se ne sarebbe andato. «Credo che tu debba fare una ricognizione» disse Luciano. «Che cosa sarebbe?» «È una prova, una specie di allenamento. Quando Georgia ti porterà un talismano proverai a tornare con lei, alla fine di una delle sue visite. Nel suo mondo sarà giorno e potrai vedere se ti piace. Non dovresti prendere una decisione così importante senza sapere com'è. Sai, è molto diverso da questo.» Indicò la sala da ballo vuota. «Io voglio che sia diverso» disse Falco. «Sono pronto. Quando pensi che tornerà Georgia?» Luciano si rese conto di non averne idea. Per la prima volta era preoccupato per lei. Capitolo 15 UN fantasma a palazzo
Gaetano era troppo confuso per godersi il soggiorno a Bellezza, ma non c'era dubbio che la città fosse splendida. Per quanto amasse la natia Giglia, doveva ammettere che Bellezza era spettacolare. Il Reggente aveva chiesto ai propri fratelli maggiori, Egidio e Fiorentino, di fare da guida a Gaetano, e i due passavano le giornate a portare il giovane de' Chimici in giro per i canali e a raccontargli episodi del loro passato di mandolieri.
Erano una compagnia sorprendentemente piacevole: ridevano, conoscevano mille aneddoti e non incutevano alcun timore, al contrario del fratello più giovane. Il primo giorno, però, mentre Egidio remava, Fiorentino gli disse di attraccare a uno dei moli per i traghetti. «C'è una donna che ci sta facendo cenno di fermarci» disse. Gaetano si fece schermo agli occhi con la mano. Anche a quella distanza e con il sole di fronte, riuscì a capire che era sua cugina Francesca. I due mandolieri non ebbero obiezioni ad accogliere a bordo una bella ragazza, specialmente dopo che Gaetano ebbe detto loro che era una sua parente. «Che state facendo?» chiese Francesca dopo essere stata presentata ed essersi sistemata sui cuscini della mandola. «Sembri un turista, Gaetano.» «Non proprio» replicò Fiorentino. «Se lo fosse, avrebbe un mandoliere più giovane a portarlo. Mio fratello e io siamo in pensione da tempo, ma nessuno ci batte se c'è da mostrare la città a un ospite di riguardo.» «Anche a me piacerebbe vedere meglio la città» disse Francesca. «Mio cugino l'Ambasciatore mi ha portata qui l'anno scorso per farmi sposare e ho visto pochissimo di Bellezza, se non i luoghi principali come la Basilica e il mercato sul ponte di legno. Per la maggior parte del tempo sono rimasta chiusa nel palazzo di mio marito con la sola compagnia di una cameriera.» «E non di vostro marito?» chiese Egidio, che era a conoscenza di certi retroscena del matrimonio. «No» disse Francesca. «Il Consigliere Albani è andato al Sud per ispezionare i suoi vigneti vicino a Cittanuova.» Non aggiunse di aver insistito con Rinaldo de' Chimici perché facesse annullare il matrimonio e che non sarebbe rimasta un minuto di più a Bellezza se il marito non le si fosse tolto di torno. Era vero che Albani aveva dei vigneti al Sud. Non stavano rendendo molto per via di una ruggine che aveva colpito le piante, ed era quello il motivo per cui aveva accettato una sposa che portava una considerevole dote. Per Francesca liberarsi di quel matrimonio che le era stato imposto stava diventando più difficile del previsto, perché il marito faceva di tutto per tenersi la dote. Per i de' Chimici la questione era delicata. Francesca aveva creduto di poter tornare a Bolonia una volta che la farsa dell'elezione fosse finita, ma era arrivato un messaggio dal Duca Niccolò che le imponeva di rimanere in città fino all'annullamento del matrimonio: un po' per salvare la faccia alla famiglia e un po' per far credere che venire a Bellezza fosse stata un'idea di Francesca.
«Per noi sarebbe un onore mostrarvi la città insieme al Principe» disse Egidio. A Gaetano non passò neanche per la mente di chiedersi come la cugina facesse a sapere che lui sarebbe stato sul canale a quell'ora e perché le fosse stato permesso di uscire non accompagnata. Era contento di essere con lei e basta. Così per le settimane successive" passò le giornate a esplorare la città con Francesca guidato dai fratelli Rossi. Visitarono le isole, dove lui le comprò pizzi e vetri artistici e acquistò per sé un bellissimo pugnale. Mangiarono squisiti dolci a Burlacca e visitarono il Museo del Vetro a Merlino. Gaetano ammirò la famosa maschera di vetro copia dell'originale appartenuta a una Duchessa che aveva regnato tanto tempo prima; secondo la storia che il giovane Principe si fermò a leggere, la Duchessa indossava proprio quella mentre ballava con un Principe di Remora: a un tratto lei scivolò e la maschera le si frantumò sul volto. Da allora, costretta a nascondere il viso sfigurato, stabilì che a Bellezza tutte le donne nubili sopra i sedici anni indossassero una maschera in pubblico. «L'unico vantaggio di questo mio insopportabile matrimonio è che non devo portare la maschera» sussurrò Francesca. «Non so come la Duchessa ci riesca. A che serve essere giovane e bella e avere begli abiti e gioielli se non puoi mostrare il tuo volto? Secondo me si sposerà presto solo per sottrarsi a questo obbligo.» La conversazione mise Gaetano a disagio. Non sapeva se poteva dire a Francesca perché si trovava a Bellezza e che quasi tutte le sere la Duchessa, durante le cene private, sedeva sorridente di fronte a lui senza maschera e si faceva chiamare Arianna. «Doveva essere un nostro prozio» disse Francesca leggendo la targhetta vicino alla maschera. Le parole riportarono Gaetano alla realtà. Lui e Francesca erano de' Chimici ed era stato un loro antenato a danzare con la Duchessa. Non aveva idea se Arianna ne fosse una discendente, ma sapeva che in famiglia si raccontava che una Duchessa di Bellezza aveva avvelenato un giovane Principe di Remora. In quel momento si pentì di non aver prestato più attenzione alla storia. Non c'era da stupirsi che i de' Chimici e Bellezza fossero in lotta. Chissà se il matrimonio fra lui e Arianna avrebbe messo fine alla rivalità.
«No, figliolo. Devi adoperarti per rimanere in sella!» disse ridendo William Dethridge, enormemente divertito. Lui e Cesare, in segreto, stavano insegnando a Luciano a cavalcare, o almeno ci provavano. Il ragazzo non aveva l'istinto del cavaliere e cadeva spesso. Comunque si trovava in un campo coperto da soffice fieno e gli unici danni che si procurava erano qualche livido e qualche leggera ferita nell'orgoglio. Non voleva che Georgia lo venisse a sapere, così prendeva quelle lezioni la mattina presto e nel tardo pomeriggio. Si era deciso la mattina in cui aveva visto Cesare montare a pelo nelle prove per la Stellata. Aveva invidiato la facilità con cui stava in sella e il suo perfetto accordo con Arcangelo, il bellissimo sauro. Inoltre gli bruciava ancora aver visto Georgia e Cesare cavalcare verso Santa Fina con Gaetano de' Chimici mentre lui e Falco avevano dovuto seguirli in carrozza. Perfino Falco, più giovane di lui, a quanto sembrava era stato un ottimo cavaliere prima dell'incidente. Così le lezioni erano iniziate, una volta svelato il segreto a Cesare. «Non cercare di galoppare prima di essere capace di andare al passo» gli consigliò quest'ultimo. «Mi accontenterei anche solo di imparare a trottare!» disse Luciano, saltellando sul dorso di Dondola, la mite giumenta saura che avevano scelto per lui. «Non angustiarti» disse Dethridge. «Faremo tosto di te un cavaliere.» Quel pomeriggio, all'uscita da scuola, Georgia non sapeva che cosa fare. Non voleva andare a casa, dato che probabilmente ci sarebbe stato Russell, ma dopo le sue accuse ignobili non si fidava a passare dal negozio di antiquariato. Si chiedeva come avesse fatto a sapere delle visite al signor Goldsmith. Poi però valutò che il fratellastro non poteva essere sia a casa che in agguato vicino al negozio e quindi andò dall'anziano amico. Arrivò mentre il signor Goldsmith stava vendendo una coppia di vasi a una signora dai vestiti un po' fuori moda, e così attese sfogliando dei vecchi numeri di "Country Life" che stavano su un tavolo di marmo in un angolo. L'antiquario infilò vari biglietti da dieci sterline nel registratore di cassa. Era di ottimo umore, perché quella era stata la prima vendita da diversi giorni. «Ti vedo molto meglio, mia cara» disse. «Sì, sto bene, grazie» rispose Georgia. «La dottoressa ha detto che ero solo stanca.»
«E hai ritrovato il tuo cavallino?» «Ce l'aveva Russell. L'hanno costretto a rendermelo, ma gli aveva rotto le ali. Guardi!» Tirò fuori dalla tasca la statuina riparata e la porse al signor Goldsmith, che controllò le ali. «Chi l'ha riparato ha fatto un ottimo lavoro» disse. «È stata mamma» puntualizzò Georgia. «Allora avevi ragione a proposito del tuo fratellastro» osservò il signor Goldsmith. «I tuoi hanno preso provvedimenti?» «Per niente!» rispose Georgia amareggiata. «Sono io quella nei guai, non lui.» «Perché sei nei guai?» Georgia esitò e poi disse: «Niente di importante. Sono solo passata per dirle che ho ritrovato il cavallo e che starò via per un po'. Credo che i miei vogliano tenere me e Russell separati per qualche giorno.» «Credo che sia una buona cosa, anche se le tue visite mi mancheranno» ammise il signor Goldsmith. Rodolfo aveva puntato uno dei suoi specchi sul Gran Canale. Lo stava usando per seguire una mandola manovrata da suo fratello, che portava il giovane de' Chimici e la cugina. Sorrise vedendo le teste dei due giovani che si avvicinavano mentre Gaetano indicava a Francesca i luoghi più interessanti. «Sta andando bene, vero?» disse una voce alle sue spalle. Si voltò verso Arianna, sorridendo anche a lei. «Non ti avevo sentita. Forse sto invecchiando.» La giovane Duchessa, che era entrata dal passaggio segreto, mise una mano sulla spalla del padre. «Ma figurati» disse. «Sembrano felici, quei due.» «Stai facendo un gioco pericoloso» la redarguì Rodolfo. «Io?» esclamò Arianna spalancando gli occhi. «Che cosa ci potrebbe essere di più naturale per il Principe che passare il tempo con la sua unica parente a Bellezza?» Rodolfo alzò un sopracciglio. «Sai, somigli ogni giorno di più a tua madre.» Arianna dubitò che fosse un complimento. Georgia era sdraiata con la statuina in mano e pensava a Remora. Non osava addormentarsi, terrorizzata dalla possibilità di non riuscire a strava-
gare. Poi però cominciò ad assopirsi e fece una promessa solenne: "Se riesco a tornare a Remora farò quello che Falco vuole il più presto possibile, prima che Russell riesca a trovare di nuovo il talismano." Quando riaprì gli occhi, vide il sole che filtrava dagli spazi fra le tegole e illuminava la polvere dorata del fienile. Udì anche gli zoccoli dei cavalli che raschiavano il pavimento di pietra al piano di sotto e che masticavano rumorosamente nelle mangiatoie. Era tornata! Guardò meravigliata il cavallino che teneva in mano. Era piccolo e vulnerabile, ma l'attacco di Russell non era riuscito a diminuirne il potere. Scese di corsa la scala e arrivò in casa di Paolo, impaziente di scoprire quanto tempo era passato dalla sua ultima visita e che cosa era successo mentre era lontano. Sembrava però non esserci nessuno in casa. Georgia si sedette al tavolo della cucina, assolutamente perplessa. Dov'erano Luciano, Dethridge e gli altri? Poi sentì un rumore venire da un angolo. I gemelli dormivano in una grande culla oscillante di legno e uno di loro stava facendo dei rumorini nel sonno. Se non altro Teresa doveva essere nei paraggi. Balzò in piedi e corse fuori nel cortile. La donna stava dando da mangiare al pollame, aiutata dalle tre bambine che lanciavano gridolini di finta paura ogni volta che una gallina veniva a beccare vicino ai loro piedi. Quando Georgia uscì, Teresa la guardò e le sorrise. La ragazza sentì di nuovo una stretta al cuore, come tutte le volte in cui pensava alla famiglia di Cesare. Certo, non avrebbe voluto cinque fratelli più piccoli, ma le piaceva il modo in cui loro si accettavano e contavano l'uno sull'altro. Era un'atmosfera che a casa sua mancava completamente. Si chiese che cosa pensasse di lèi Teresa. Sapeva che era una ragazza? E che era una Stravagante? Forse non sapeva nemmeno che il marito stesso faceva parte della Fratellanza. La donna era sempre gentile e ospitale con lei e la trattava allo stesso modo di Luciano e Dethridge, anche se l'aveva conosciuta solo dopo che i due Stravaganti erano arrivati da Bellezza. «Buongiorno, Giorgio» disse, tenendo abilmente il gallo lontano dalle bambine e assicurandosi che tutto il pollaio avesse la giusta razione. «Hai dormito un po' di più?» «Buongiorno» rispose Georgia. «Devo aver perso la nozione del tempo. Ditemi, che giorno è oggi?» Teresa la guardò incuriosita. «È giovedì.» Allora a Remora erano passati solo due giorni, esattamente come nel suo
mondo. Georgia si era già accorta che il giorno della settimana che trascorreva a Remora era lo stesso che aveva appena trascorso nel suo mondo. Dalla sua prima stravagazione aveva vissuto otto giorni nello spazio di quattro. Non c'era da stupirsi se si era sentita esausta! Subito volle sapere che cosa fosse successo a Remora in quei giorni. «Dove sono tutti gli altri?» chiese con disinvoltura. «Giù alla pista» rispose Teresa sorridendo. «Cesare non si muoverà molto da lì fino alla Stellata.» "E Luciano?" pensò Georgia, ma prima di poter fare la domanda sentì i cavalli che tornavano. «Eccoli qui» disse Teresa con lo sguardo che le si accendeva. «Avranno fame.» Sparse svelta il resto del becchime e spinse le bambine verso casa. Georgia prese in braccio Marta e tenne Emilia per mano. Teresa le fece un sorriso di gratitudine, ma una volta dentro disse: «Va' pure da loro, ce la faccio da sola.» Georgia corse alle scuderie e si imbatté in Luciano, che stava uscendo accaldato e allegro. Quando la vide, la felicità gli si dipinse in viso. «Georgia!» gridò afferrandola per le braccia. «Grazie al cielo sei qui.» Lei sobbalzò come se le avesse dato la scossa, poi si rilassò e ricambiò il sorriso. «Scusa se non sono tornata subito. La prima sera ero troppo stanca e poi il mio fratellastro ha rotto il talismano. Ero convinta che non sarei più riuscita a venire.» Di colpo ebbe voglia di ballare dalla gioia. Era di nuovo a Remora, Russell non era riuscito a rovinare la cosa più importante della sua vita e Luciano era contento di rivederla. Poi però vide un'ombra scendergli sul viso. Gli altri, che erano appena usciti dalle scuderie, avevano la stessa espressione: un breve sorriso nel vederla, seguito da una profonda tristezza. «Che c'è?» domandò Georgia allarmata. «Merla è sparita» rispose Luciano. «Pensiamo che ce l'abbiano rubata.» Falco era tornato alla sua vita solitaria. Non aveva altro da fare che aggirarsi per il palazzo, sperando di ricevere visite da Luciano e dalla ragazza che veniva da un altro mondo. Leggeva in biblioteca finché il corpo non gli si indolenziva e allora riprendeva le sue sofferte peregrinazioni nella vasta residenza. Spesso aveva la sensazione di non essere completamente solo. Si sentiva osservato e a volte, se si girava abbastanza in fretta, era convinto di vedere di sfuggita qualcosa di blu. Cominciò a pensare di esse-
re tormentato da un fantasma. Eppure in un certo senso si sentiva un fantasma lui stesso. Presa la decisione di lasciare Talìa per sempre, si trascinava di stanza in stanza, invisibile, come uno spettro in casa propria. Le sue fantasie furono interrotte dagli squilli del campanello. Con grande gioia vide che entrambi i giovani Stravaganti erano venuti a trovarlo. Non appena furono soli, Georgia gli spiegò perché non era tornata prima e poi disse: «Luciano mi ha parlato della sua idea, Falco. Te la senti di fare una prova?» «Assolutamente. Credo che impazzirò se non facciamo qualcosa al più presto.» «Allora stanotte» disse Georgia. «Tornerai con me quando me ne vado da Talìa.» «E il talismano?» chiese Luciano. «Ci ho pensato» rispose Georgia. «Che ne dici dell'anellino che ho al sopracciglio?» L'idea piacque a entrambi i ragazzi. Veniva dall'altro mondo, ma non era stato portato appositamente da Georgia; era d'argento ed era abbastanza piccolo perché Falco lo potesse tenere in mano senza farsi notare. «Ma perché stanotte?» domandò Luciano. «Non hai preparato niente per accoglierlo nel tuo mondo.» «Lo so» disse Georgia. «Però non deve restare necessariamente tutto il giorno... Se riesco a farlo uscire da camera mia può venire a scuola con me per qualche ora e vedere se gli piace.» «Venire a scuola con te?!» esclamò Luciano, allibito al pensiero del pallido e invalido Falco nell'allegro caos della Barnsbury Comprehensive. «Quali vestiti si metterà? Non riuscirà a entrare in nessuna classe. E se i suoi bastoni non viaggiassero con lui? Non potrebbe camminare.» Era vero. Georgia si adombrò: il piano andava studiato meglio. «Aspettiamo un'altra notte, così torneremo di sabato. Gli troverò dei vestiti e magari anche due bastoni. Dovremmo averne nel portaombrelli. Però non possiamo rimandare oltre la prova. Domenica vado nel Devon e non posso portarlo lì. Non riuscirei a spiegarlo alla mia amica Alice.» «Allora quando partiremo?» chiese Falco con ansia. «Non prima del mio prossimo ritorno» disse Georgia decisa. «Non so neanche se riuscirò a stravagare dal Devon. Tu che ne pensi, Luciano?» «Non lo so. Rodolfo era convinto che non sarei riuscito a stravagare mentre ero in vacanza a Venezia, ma io non ci ho neanche provato. Per
Rodolfo il passaggio funziona solo tra l'Inghilterra e Talìa, per via del Dottor Dethridge, ma non so se devi necessariamente essere a Londra.» «Quel Devon è un altro paese?» chiese Falco, e Georgia si rese conto di quanto avrebbe dovuto aiutarlo una volta che fosse avvenuta la "traslazione". «Sarà dura una volta che dovrà rimanere per sempre nel mio mondo» disse afflitta, salendo con Luciano sulla carrozza che li avrebbe riportati a Remora. «Proprio così. Sei sicura di volerlo fare? Dovrà contare su di te per un bel po', forse per anni.» «Dipende da cosa faranno con lui i servizi sociali, no?» disse Georgia. «All'inizio dovranno darlo in affidamento e se siamo fortunati se ne occuperà mia madre, che è proprio un'assistente sociale. Poi cercheranno di farlo adottare, dato che ha solo tredici anni. Però se non lo mandano in qualche posto lontano da Londra avrà bisogno di me per diverso tempo.» Si guardarono, riflettendo seriamente su quanto il loro piano avrebbe comportato. All'andata avevano parlato solo di Merla, e Luciano aveva raccontato tutti i dettagli della loro infruttuosa ricerca, ma ora il problema di Falco dominava i loro pensieri e le loro parole. Per la prima volta da quando era arrivata a Remora, Georgia era impaziente di tornare a casa. Aveva molte cose da organizzare. Capitolo 16 Il battesimo dell'aria
Per fortuna l'ultimo giorno del terzo trimestre le lezioni alla Barnsbury Comprehensive finivano all'ora di pranzo. Non che si fosse fatto molto quella mattina, dato che gli studenti già pregustavano l'idea di sette settimane di vacanza. Georgia aveva già progettato tutto. C'erano le due settimane nel Devon e subito dopo avrebbe aiutato Falco a traslare. Alla fine di agosto sarebbe andata in Francia con Ralph e Maura, grazie al cielo senza Russell. Il fratellastro infatti durante l'estate avrebbe lavorato in un supermercato per le
prime cinque settimane e avrebbe trascorso le altre due in Grecia con i suoi amici. Georgia stava contando i giorni sulle dita. La Stellata si sarebbe corsa il 15 agosto, questo era sicuro. «È sempre in quel giorno» le aveva detto Paolo. «È la Festa di Nostra Signora, che per i Manoush è la Festa della Dea.» Sarebbe stato un venerdì, e lei voleva assolutamente esserci, anche se potevano sorgere problemi perché la corsa iniziava più o meno alle sette di sera. La vacanza in Francia sarebbe cominciata il weekend dopo la corsa. Per fortuna fino a quella data Ralph era impegnato con il lavoro e quindi non sarebbe stato possibile partire prima. La ragazza passò il pomeriggio in camera sua a preparare la stravagazione di prova che avrebbero effettuato quella notte. Si sforzò di ricordare la taglia di Falco. Era minuto per essere un tredicenne, ma secondo Georgia potevano andare bene una sua vecchia T-shirt e un paio di pantaloni di una tuta. Falco aveva anche piedi piccoli e avrebbe potuto usare un suo paio di scarpe da ginnastica. Non sarebbe stato molto elegante, ma almeno non si sarebbe fatto notare troppo, a parte per il suo modo di camminare. Georgia aveva preso due bastoni da passeggio dal portaombrelli, distribuendo meglio i vari ombrelli, le pompe per bicicletta e perfino una vecchia spada di plastica di Russell per nascondere la loro assenza. Sarebbero andate meglio delle stampelle, ma non aveva idea di come rimediarne un paio. Poi nascose i bastoni dietro il suo armadio. Rimaneva la difficile questione della biancheria intima. Georgia non sapeva che cosa i Talìani indossassero sotto i vestiti e di sicuro non intendeva chiederlo. Ogni volta si ritrovava sotto gli abiti da ragazzo remorano ciò che aveva indossato per andare a dormire, tanto che aveva cominciato a portare magliette e mutandine molto leggere per non avere troppo caldo sotto il sole di Remora. In ogni caso non poteva dare a Falco i suoi slip. Non aveva scelta: doveva rubare un paio dei boxer di Russell. Era un'operazione difficile e delicata, perché lui era in casa. Per due volte tentò di avvicinarsi allo stenditoio, ma il fratellastro era sempre stravaccato sulla porta della camera e lei finse di cercare degli asciugamani. Lui la guardava con evidente disprezzo e la seconda volta chiese: «E adesso cosa stai combinando?» «Faccio la valigia per il Devon» rispose Georgia gelidamente. «E non sono affari tuoi.»
«Ah, già» disse Russell. «La tua nuova amica. Un'altra maniaca dei cavalli.» Più tardi però lo sentì uscire e così tornò di corsa allo stenditoio. Prese un paio di boxer e lo portò in camera per nasconderlo insieme ai bastoni, con il cuore che le batteva all'impazzata. Un'occhiata all'orologio le disse che avrebbe fatto tardi per la lezione di musica. Fece la strada di corsa con il violino e gli spartiti. Quando fu vicino alla casa dei Mulholland rallentò. Dalla sua ultima lezione, una settimana prima, erano successe tante cose. Fino a quel momento non aveva pensato al fatto che essere faccia a faccia con la madre di Luciano avrebbe potuto metterla a disagio. Vicky Mulholland la accolse con la solita gentilezza, ma questa volta Georgia la guardò più attentamente. Alla fine della lezione, con sua grande sorpresa, Vicky le offrì una tazza di tè. «La tua è l'ultima lezione di oggi» disse. «Tutti gli altri miei studenti del venerdì sono già partiti per le vacanze.» Georgia era contenta di poter restare. Magari avrebbero parlato di Luciano. Stava guardando una sua foto quando Vicky portò un vassoio con due tazze e dei biscotti di pasta frolla. «Tu conoscevi mio figlio, vero?» le chiese. «Sì, per via dell'orchestra» rispose Georgia. Beveva il tè, pensando a quanto Luciano sembrava già più grande del Lucien nella foto. «Mi spiace per quello che è successo.» Ci fu un attimo di silenzio. Georgia pensò a quando Luciano le aveva rivelato che a volte riusciva a stravagare per qualche minuto nel suo vecchio mondo. Aveva detto che i suoi lo avevano visto e Georgia si chiese che cosa Vicky avesse pensato delle inspiegabili apparizioni del figlio che sapeva morto. La prima volta sicuramente doveva aver creduto di essere impazzita. Era stato meglio o peggio per quella madre così piena di dolore? Georgia sapeva che difficilmente lo avrebbe scoperto. Non era il tipo di discorso che la sua insegnante di violino sembrava disposta ad affrontare. «Credi sia stupido che io tenga ancora la sua foto?» chiese la signora Mulholland all'improvviso. «No, certo che no» disse Georgia. «Credo che lui sarebbe felice.» Vicky la guardò in un modo un po' strano. «Lo credo anch'io» mormorò. «Mi manca tanto.» Luciano faceva progressi con l'equitazione. Stava imparando ad andare
al trotto, anche se alla fine di ogni lezione si ritrovava sfinito e pieno di ammaccature. Dondola era una cavalla mite e Dethridge un maestro paziente, ma lui era sicuro che non sarebbe mai riuscito a eguagliare l'abilità di Cesare. Il giovane Talìano stava girando per la pista montando Arcangelo a pelo e Luciano non era l'unico a guardarlo con un misto di ammirazione e di apprensione. I capo-stallieri degli altri Duodecimi erano tutti alla pista per valutare i propri candidati a fantino e tenere d'occhio quelli della concorrenza. Luciano era ancora lì quando Georgia arrivò a cercarlo. «È bravissimo, eh?» «Fantastico» concordò lei. «E con Arcangelo fa una bella coppia. Sarà difficile batterli.» Cesare smontò e venne verso di loro. Era sudato e sorridente. «Vuoi provare tu, Georgia?» Luciano guardò l'amica fare un giro sul grosso sauro. Era brava, non c'era dubbio. Cavalcando a pelo, non andò oltre un piccolo galoppo, ma sedeva sicura e raggiunse una buona velocità. Quando tornò da Luciano era raggiante. «Andiamo a parlare da qualche parte» suggerì lui. Si sedettero su una sponda erbosa che guardava la pista. Più oltre vedevano i campi dove, come aveva spiegato Cesare, in autunno sarebbero cresciuti i crochi che avrebbero poi dato lo zafferano per cui Remora era famosa. «Allora sei proprio decisa a fare la prova stanotte?» chiese Luciano. «Credo sia l'unico modo per vedere se la traslazione di Falco potrà funzionare» rispose Georgia. «Ho preparato tutto.» «Sarà pericoloso per te, vero? Voglio dire, e se qualcuno lo trova in camera tua?» «Lo so, ma non vedo nessun altro modo» disse lei. Luciano scosse la testa. «Non riesco a immaginare Falco che si adatta a vivere come un ragazzo del ventunesimo secolo.» «Tu sei riuscito a trasformarti perfettamente in un ragazzo del sedicesimo» replicò Georgia. Luciano ci pensò su un momento, poi disse: «Posso chiederti una cosa?» Lei annuì. «Vai ancora a lezione di violino da... be', da mia madre?» «Sì. Ci sono andata proprio oggi.» «E... parla mai di me?»
«Non di solito, ma oggi sì.» Per qualche minuto Luciano non riuscì a dire altro. Si passò tutte e due le mani fra i capelli. «Possiamo fare una cosa simile alla famiglia di Falco?» chiese dopo un po'. «Voglio dire, io non avevo scelta, ma lui sta progettando di lasciare suo padre, sua sorella, i suoi fratelli. Come reagiranno? E come reagirà lui? Io sono tornato qualche volta per vedere i miei genitori, lo sai, e ti posso dire che non è facile.» «Immagino» disse Georgia. «Non so se al posto suo lo farei, ma lui è una persona straordinaria e questo è ciò che vuole.» Per Falco la sera sembrava non arrivare mai. Attendeva Luciano e Georgia prima del tramonto. Era talmente agitato che non riusciva a concentrarsi sulla lettura. Fece un giro fino alle scuderie per parlare con Nello, che fu sorpreso e allarmato nel vedere il giovane Principe. Trovarsi fra i cavalli, però, riuscì a calmare Falco. Il suo più grande desiderio era poter di nuovo cavalcare. Per riuscirci era disposto ad abbandonare tutto ciò che aveva in Talìa. Zoppicò per le poste, parlando agli animali e carezzando loro il muso. Si ricordava ancora tutti i nomi... Fiordiligi, Amato, Caramella... e loro si ricordavano di lui, e lo salutavano nitrendo quando passava. «Che cavallo è quello laggiù?» chiese a Nello, strizzando gli occhi per vedere meglio una sagoma che non riconosceva nella penombra delle scuderie. Aveva una coperta sul dorso. «Oh, quella è solo una nuova puledra che stiamo domando per vostro padre» rispose lo stalliere nervosamente, cercando di far uscire Falco dalle scuderie. «Io non mi avvicinerei. È molto nervosa.» Falco si lasciò convincere e tornò fuori, ma uscendo udì nitrire la strana puledra, con una nota addolorata e persistente che gli rimase dentro per il resto della giornata. Nel Duodecimo della Leonessa, il Manoush cieco alzò la testa come se ascoltasse qualcosa in lontananza. «Che c'è?» chiese Raffaella. «Qualcosa che non va in città» rispose Aurelio. «È molto peggio dei soliti traffici e congiure della corsa. Se qualcuno ha rubato lo zhou volou al Montone, lo ha fatto per rubare la buona fortuna. E la Dea è adirata.» «E che cosa farà?» domandò ancora la giovane.
Aurelio volse verso di lei gli occhi senza vita. «Non possiamo saperlo, ma certo le cose si metteranno molto male per il ladro.» Per Falco si avvicinava il momento dell'esperimento. Aveva informato la servitù che i suoi amici si sarebbero fermati per la notte. Due camere vennero preparate vicino alla sua e i tre mangiarono nella sala da pranzo della famiglia. Non era grande quanto quella in cui era stato festeggiato il compleanno di Gaetano, ma abbastanza per lasciare Georgia a bocca aperta. Che cosa avrebbe detto di casa sua Falco, abituato a palazzi con stanze come quella? Lei e Luciano avevano tentato di spiegargli la vita nel ventunesimo secolo, ma poi avevano lasciato perdere. Falco non riusciva proprio ad afferrare il concetto di vetture senza cavalli. «Ma se non tirano da davanti, allora spingono da dietro?» aveva chiesto incredulo. Tutti e tre erano impazienti di dare inizio alla prova. Una volta che su Talìa fosse sceso il buio, avrebbero avuto solo poche ore per compiere il viaggio. Falco congedò la servitù, poi Georgia e Luciano lo accompagnarono nella sua camera da letto. Georgia si tolse l'anellino d'argento dal sopracciglio e lo diede a Falco, che se lo rigirò curioso tra le mani prima di infilarlo al mignolo. Andò a cambiarsi dietro un paravento e tornò con una camicia da notte che lo faceva sembrare assurdamente giovane e minuto. Si sedette sulla sponda del letto. «Che cosa devo fare?» chiese. Georgia si sedette vicino a lui. «È semplice, e nello stesso tempo complicato. Devi addormentarti pensando a casa mia in Inghilterra, da dove arriva l'anellino. Te ne parlerò, così potrai immaginarla. Dai, mettiti a letto. Ti starò vicino.» Il ragazzo salì con un certo sforzo su quel letto troppo alto e Georgia gli si sdraiò accanto, sopra la coperta di broccato. «Sarà come raccontarti una fiaba» disse. «Ti descriverò la mia casa e la mia stanza. Però ricordati quello che ti ho detto quando ti sveglierai nel mio mondo. Se tutto funziona, sarò già lì. Se sembrerò ancora addormentata, svegliami pure.» Tirò fuori dalla tasca il proprio talismano. «Non lasciarci soli, Luciano» disse Falco. «No» lo rassicurò l'amico, sistemandosi su una poltrona vicino al letto. «Rimarrò qui.» Sapeva che sarebbe stata una lunga nottata.
I raggi del sole si riversarono nella camera di Georgia e sul suo viso. Era distesa sul letto, in maglietta e mutande, avvinghiata alla schiena ossuta del giovane de' Chimici. Per un attimo non riuscì a credere che avesse funzionato. Poi sussurrò: «Falco... tutto a posto?» Lui si voltò verso di lei, con i grandi occhi che saettavano tutto intorno a quella stanza sconosciuta. «Ce l'abbiamo fatta!» disse. Si tolse l'anellino dal dito con molta attenzione e Georgia se lo rimise al sopracciglio. Saltò giù dal letto, ansiosa di farlo vestire con abiti moderni. Gli mostrò tutto, compresi i boxer, che lo lasciarono sconcertato. Infine gli diede i bastoni. «Vado a cambiarmi in bagno» disse poi. «Mentre sono via, mettiti queste cose e nascondi la camicia da notte nel mio letto. Io chiudo a chiave la porta.» Falco annuì. Era un sabato mattina presto e nessuno si era ancora svegliato. Georgia fece una doccia veloce, si vestì e tornò verso la camera. Bussare sarebbe stato troppo rischioso, così aprì direttamente la porta ed entrò, sperando che Falco fosse presentabile. Con suo stupore, sul suo letto sedeva un ragazzo come tanti altri. Certo, sembrava un po' confuso, aveva indossato la T-shirt al contrario ed era insolitamente bello per un adolescente moderno, ma non sembrava arrivare da un'altra dimensione. «Stai benissimo» gli sussurrò. Lui cercò di sorridere. «Il bagno è la prima porta a destra» gli spiegò Georgia. «Ma devi fare pianissimo.» Il pensiero di Russell che si imbatteva in Falco sul pianerottolo la terrorizzava. Gli diede i bastoni e poi lo accompagnò alla porta e rimase di guardia mentre lui si trascinava verso il bagno per poi chiudersi dentro. Gli aveva spiegato il funzionamento della serratura, ma per tutto il tempo in cui rimase lì Georgia fu tesissima per la paura. L'impresa cominciava a sembrarle enorme, nonostante quella fosse solo una prova. Udì lo sciacquone e poco dopo Falco uscì e tornò zoppicando in camera. Il primo ostacolo era stato superato. Luciano si sorprese di essere riuscito ad assopirsi sulla poltrona. Sve-
gliandosi, vide il chiaro di luna che illuminava la stanza. Si alzò, si stiracchiò e poi guardò il letto. Falco sembrava addormentato, con i riccioli neri sparsi sul cuscino. Non c'era traccia di Georgia. Osservò l'amico: aveva un'aria perfettamente normale, ma lo Stravagante sapeva di fissare qualcuno che non era lì. E sentì una terribile nostalgia di casa. «Che cosa fai oggi, Georgia?» chiese sua madre. «Hai bisogno di comprare qualcosa per andare in vacanza?» «No, grazie, mamma. Ho tutto quello che mi serve. Anzi, la valigia è quasi pronta. Oggi pensavo di andare al British Museum.» Russell sghignazzò. «Volevi dire qualcosa, Russell?» chiese Ralph. «No, niente. Mi sono andati di traverso i cereali» spiegò lui. «Ti serve per la scuola?» domandò Maura. «Sì» mentì Georgia. «Devo fare una ricerca per il corso di Civiltà Classiche. Volevo prendere un po' di appunti prima di partire.» «Sfigata» mormorò Russell. "Se non altro non può offrirsi di venire con me, neanche per tormentarmi" pensò Georgia. Russell non sarebbe mai entrato in un museo. Ma doveva ancora scoprire cosa avrebbero fatto i genitori. Portare Falco fuori di casa sarebbe stata la cosa più difficile. Fu fortunata. Maura disse che si sarebbe chiusa nello studio per sistemare le bollette. Russell e Ralph si presentarono in tuta, pronti per andare in palestra. Georgia aspettò che se ne andassero, poi preparò una tazza di caffè e la portò alla madre. «Adesso esco, mamma» disse. «Tornerò nel pomeriggio.» Maura sorrise riconoscente. «Grazie per il caffè. Aspetta, ti do un po' di soldi.» Tirò fuori dalla borsa un biglietto da venti sterline. «Dovrebbero bastare per il pranzo e per il viaggio.» Georgia sapeva che Maura non sarebbe uscita dallo studio per un po', così ne approfittò per portare Falco di sotto. Era sorprendentemente agile: dopo gli ampi scaloni di Santa Fina non lo spaventavano di certo due rampe in una casa a schiera di Islington. Gli disse che prima di tutto dovevano cercare un cavallo etrusco simile al suo talismano. In realtà voleva mostrare a Falco il centro di Londra. Il ragazzo fu assalito dal panico ancora prima di aver varcato il cancello. Due
automobili passarono per strada e lui fece un salto, terrorizzato. Tutte le spiegazioni che Georgia aveva tentato di dargli su macchine e traffico non erano niente, paragonate alla realtà. Tuttavia non fu troppo sconvolto dall'assenza della propria ombra quando Georgia glielo fece notare. Ci volle un'eternità per arrivare alla fermata della metropolitana di Caledonian Road. Georgia aveva controllato che avesse un ascensore per evitare a Falco le scale mobili, ma non aveva fatto i conti con la sua lentezza nel camminare e con tutte le volte in cui dovette fermarsi, spaventato dal traffico. Alla fine lo fece entrare in un caffè. «Tanto devi fare colazione» disse. Ordinò tè e tramezzini con uova fritte. Falco, che non aveva mai assaggiato niente di simile in vita sua, trangugiò tutto. La cosa sembrò fargli bene. Il resto del percorso fu più tranquillo, anche se il ragazzo rimase sconvolto quando arrivò la metropolitana. Georgia si rese conto che la sua vita di tutti i giorni era assolutamente incredibile agli occhi di un ragazzo del sedicesimo secolo. Cambiando a Leicester Square furono costretti a usare una scala mobile, ma non era troppo grande e Falco non ebbe problemi. Però quando entrarono nell'ascensore di Goodge Street si sentiva già stanchissimo e da lì c'era ancora parecchia strada da fare. Finalmente arrivarono all'angolo fra Gower Street e Great Russell Street, e Falco tirò un sospiro di sollievo. «Siamo arrivati. Bene! Non sarei riuscito a camminare oltre.» Georgia intuì che doveva avere scambiato il bel negozio di libri d'arte, con l'insegna BRITISH MUSEUM, per la loro destinazione. Che cosa avrebbe pensato quando avesse visto il vero museo? «Ancora qualche passo» disse lei incoraggiante, guidandolo lungo Great Russell Street oltre la cancellata nera. D'un tratto si trovarono all'ingresso. Falco vide il museo in tutto il suo splendore e rimase senza fiato. «Ma è un palazzo!» esclamò. «Quale potente Principe o Duca vive qui?» «Nessuno, ma mi fa piacere che ti abbia colpito» disse Georgia. Lo guidò attraverso il piazzale anteriore, pieno di turisti e di piccioni. Lui si fermò davanti all'enorme testa di bronzo che stava su un lato e la studiò a lungo. «È un frammento?» chiese. «La statua originale dev'essere stata enorme. Dov'è il resto?» «È tutta qui» spiegò Georgia. «È così che l'ha fatta lo scultore.» Ci volle ancora un po' per fargli salire le scale fino all'entrata principale.
Una volta in cima Falco era esausto, ma quando Georgia gli disse che ciò che cercavano era al primo piano si incamminò di buon grado verso l'ampia scalinata di marmo. «Aspetta» disse lei. «Da qualche parte dev'esserci un ascensore.» Un assistente la sentì e si avvicinò. «Gli ascensori sono da quella parte, signorina, appena prima della sala principale. Non vuole una sedia a rotelle per il suo amico? Sono laggiù.» Li condusse dietro un angolo, dove trovarono file di sedie a rotelle piegate e pronte per essere usate. «Quant'è?» sussurrò Georgia. «È gratis, signorina» sorrise l'assistente. «Deve solo riportarla prima di uscire.» Poi ne prese una, la aprì e mostrò loro come usare i freni. Falco, esaltato, sedette e si sistemò i bastoni fra le ginocchia. «Adesso andrà da sola?» domandò. Georgia si ricordò di avergli parlato di sedie a rotelle elettriche. «Non questa» spiegò l'assistente. «Vedi, devi spingere le ruote con le mani o farti spingere per le maniglie dalla tua amica.» «Spingo io» disse Georgia decisa. «Grazie per l'aiuto.» Mentre si allontanavano sentì che l'assistente diceva sottovoce a un collega: «Povero ragazzo. Chissà come mai non ha una sedia a rotelle. Riesce a malapena a camminare!» Georgia spinse velocemente Falco verso l'ascensore. Arrivarono alle gallerie superiori e la ragazza si fermò guardando l'amico in viso: era pallido e spaventato. «Oh, non aver paura, Falco» disse. «È solo una delle nostre macchine. Sai, per portarci da un piano all'altro. La usiamo sempre ed è perfettamente sicura. Guarda, siamo arrivati alle sale di esposizione. Adesso chiedo all'assistente da che parte sono gli Etruschi.» Dovettero attraversare una lunga sala piena di bacheche con monete antiche, e Falco si fermò diverse volte a commentare le grandi bilance di ottone che servivano per pesare le monete. «Ne ho viste tante a Giglia» disse. «La mia famiglia ha fatto fortuna con le banche, sai?» Arrivarono alla sala 71, L'ITALIA PRIMA DELL'IMPERO ROMANO, e cominciarono a cercare il cavallo alato. Falco voleva spingere le ruote da solo, così si divisero. Dopo un po' la chiamò: «Georgia! Vieni a vedere!»
Lo raggiunse: c'erano quattro bronzi, ognuno alto circa dieci centimetri, che riproducevano alcuni ragazzi e i loro cavalli. La targhetta diceva: Quattro statuette di bronzo raffiguranti ragazzi che smontano da cavallo, provenienti dal bordo di un'urna campana. Arte etrusco-campana, 500480 a. C. circa. Realizzate probabilmente a Capua. I ragazzi sembrano partecipare a una corsa di origine greca nel cui tratto finale i concorrenti smontavano e correvano a fianco degli animali. I ragazzi erano nudi. Portavano i lunghi capelli raccolti dietro, avevano spalle larghe e muscolose e cavalcavano a pelo. Tutti smontavano a destra. «Non sono meravigliosi?» disse Falco. «Sai che si dice che la Stellata derivi da una corsa come quella? I nostri antenati, che noi chiamiamo Rassenani, correvano su una pista dritta e smontavano nell'ultimo tratto. Vinceva la squadra il cui cavallo e cavaliere tagliavano il traguardo insieme per primi.» Fu però in un'altra parte della sala che trovarono il cavallo alato: non una statuina, ma un dipinto su una ciotola nera. Lo ritrovarono poi disegnato su un cartello del museo che riportava la cronologia della storia etrusca. Era la riproduzione di due cavalli alati di terracotta, affiancati e molto vicini uno all'altro, rinvenuti a Tarquinia. Georgia e Falco tornarono a Islington con calma, dopo aver pranzato con hot dog e Pepsi al baracchino fuori del museo. Il Talìano era completamente sopraffatto da tutte le esperienze della giornata, ed era talmente stanco che Georgia dovette svestirlo e rimettergli la camicia da notte. Per un tacito accordo, Falco si tenne i boxer di Russell. Il ragazzo non ebbe problemi ad addormentarsi una volta che lei gli ebbe ridato l'anellino. Georgia lo guardò scomparire lentamente, dopo essere diventato prima pallido e poi quasi trasparente. Non osò andare con lui, sperando che riuscisse a stravagare da solo. Un rumore svegliò Luciano, nonostante fosse ancora notte. Falco era seduto nel letto e fissava il vuoto. Poi abbassò lo sguardo verso il pizzo della camicia da notte e cominciò a tremare. Luciano si sedette accanto a lui e gli mise un braccio intorno alle spalle. «Che cosa è successo?» «È stato... indescrivibile» disse Falco. «Un mondo di meraviglie.» Rigirò l'anellino d'argento intorno al dito. «E ti sei sentito meglio?» domandò Luciano. «È stato come avevi detto tu. La mia gamba non si è risanata, ma mi so-
no sentito più forte. E sono certo che un luogo del genere abbia la magia che mi serve per guarire.» «Non magia, scienza» disse Luciano, ricordandosi di quando aveva detto lui la stessa cosa a Rodolfo. In quel momento, però, non ne era più tanto sicuro. Capitolo 17 Traslazione
Per Georgia fu davvero difficile restare seduta a guardare Falco sparire. L'istinto le gridava di afferrare il proprio talismano e raggiungere l'amico, ma sapeva che a Remora ci sarebbe stato Luciano ad accoglierlo, e in ogni caso non osava sparire nel pomeriggio. In effetti, giusto in quel momento sentì sua madre chiamarla. Avrebbe dovuto attendere fino a notte per scoprire cos'era successo a Santa Fina. «Ah, Georgia» disse Maura affacciandosi alla porta. «Mi sembrava di averti sentito rientrare. Com'è andata al British Museum?» «Bene. Ho preso un mucchio di appunti» disse Georgia agitando distrattamente il bloc-notes. «Come mai hai portato quassù i vecchi bastoni della nonna?» chiese Maura. Georgia sobbalzò: i bastoni erano ancora appoggiati al letto. «Durante le vacanze dobbiamo scrivere qualcosa su Riccardo III dal punto di vista di uno storpio, e cercavo di immedesimarmi» disse alla svelta, sorpresa dalla facilità con cui stava mentendo. Grazie al cielo era proprio quella l'opera di Shakespeare nel programma per gli esami dell'anno successivo. «Si dice disabile» precisò sua madre. «Va bene, ma avresti dovuto chiedermelo.» «Scusa, non credevo fosse un problema.» «E non lo è. Ma non stai esagerando un po'? Prima la ricerca per Civiltà Classiche e adesso Shakespeare... guarda che è il primo giorno delle vacanze.»
«E domani parto per due settimane nel Devon» replicò Georgia. «Non voglio fare i compiti mentre sto da Alice.» Maura la fissò. «Hai ragione» disse, ma poi aggiunse: «Non hai più l'anellino al sopracciglio. Ti sei stancata di portarlo?» «No. Mi prudeva leggermente, così ho pensato di toglierlo per un po' e lasciarlo nell'alcol.» «Stai bene senza. E forse sarà meglio che non lo porti nel Devon. Il padre di Alice potrebbe pensare che tu sia una punk. Ti stanno anche crescendo i capelli. Strano che tu non abbia voluto tagliarteli prima di partire.» Georgia sospirò. «Mi rimetterò l'anellino non appena il prurito sparisce. Il padre di Alice non se ne accorgerà neanche. E non mi importa dei capelli, li taglierò quando tomo.» Merla teneva le ali afflosciate. Non faceva molto esercizio e le mancava sua madre. A causa della velocità con cui cresceva non aveva più bisogno del latte di Splendore, ma non stava mangiando abbastanza ed era deperita. «Dovreste farla uscire di notte» consigliò Nello a Enrico, che viveva ancora nel palazzo. Enrico era arrivato alla stessa conclusione. Sarebbe stato rischioso, ma non aveva senso possedere un cavallo alato se non lo si faceva volare. «Ci penserò io stanotte» disse. Georgia finì di fare la valigia e andò a dormire presto. O almeno ci provò. Russell però aveva altri piani. Se ne stava sulla porta di camera sua in quel modo che Georgia temeva tanto, perché significava che non aveva niente da fare e stava cercando una scusa per tormentarla. «Dove hai trovato il tuo nuovo ragazzo?» le chiese con indifferenza. Georgia si irrigidì. «Non so di cosa tu stia parlando» disse con tutta la calma possibile. «Maz ti ha visto in Caledonian Road con uno spastico. Ma com'è che gli sfigati e i mostri li attiri tutti tu? Forse perché sei una di loro.» Georgia non rispose. Era una tattica che a volte funzionava. Spesso Russell si stufava e la lasciava in pace. A volte però lo faceva arrabbiare ancora di più. «Maz ha detto che era solo un ragazzino» insistette. «E pure storpio. Chissà cosa penserebbe Maura. Prima vecchi viscidi, poi ragazzini deformi. Chi sarà il prossimo?»
Falco impiegò un bel po' di tempo a riaddormentarsi dopo avere stravagato di nuovo a Santa Fina. Avrebbe voluto tenere l'anellino di Georgia, ma Luciano glielo tolse. «Non possiamo rischiare che tu finisca in Inghilterra per errore. Adesso resterò con te finché non ti riaddormenterai e poi andrò in camera mia.» Georgia aveva sperato di potersi risvegliare nel palazzo di Falco, dato che l'ultima volta che aveva stravagato era partita da lì. Invece il suo cavallino alato la portò al solito punto di arrivo, nel fienile del Montone. Dovette farsi prestare un cavallo da Paolo e cavalcare verso Santa Fina. Sia i servi che presero in consegna il cavallo sia quelli che la fecero entrare sembravano confusi. Per quanto ne sapevano, quel giovane remorano stava dormendo nel palazzo e non riuscivano a capire come potesse arrivare una seconda volta, a cavallo, quando era giunto la sera prima in carrozza con un suo amico. La lasciarono comunque salire in camera sua. Georgia aprì la porta che dava in quella di Falco. Il ragazzo era ancora addormentato. Il suo viso pallido e contratto poggiava su una pila di cuscini. Si aprì anche la porta che comunicava con l'altra camera e ne uscì Luciano. Vide Georgia e sorrise. «Ce l'avete fatta! Falco mi ha raccontato tutto. L'ha trovato fantastico» disse restituendole l'anellino. «Anche il traffico?» chiese lei rimettendoselo al sopracciglio. «Anche il traffico.» Georgia si sedette su una seggiola, improvvisamente sopraffatta dal pensiero di ciò che l'aspettava. «Direi che abbiamo due settimane di tempo, se sono fortunata e riesco a tornare qui tutte le notti anche da casa di Alice» disse. «Dopo la corsa riporteranno Falco a Giglia. E comunque da quando Russell ha danneggiato il mio talismano non voglio rimandare più del necessario. Abbiamo due settimane per insegnargli a vivere nel ventunesimo secolo.» «Ce la possiamo fare» disse Luciano. «Ma dobbiamo lavorare insieme.» Le due settimane successive furono le più intense della vita di Georgia. La domenica partì in treno per il Devon con Alice. Paul, il padre dell'amica, le aspettava alla stazione con il suo fuoristrada. Era simpatico, aveva la barba e vestiva sportivo. Gentile e spiritoso, era l'esatto contrario di Ralph. Solo qualche settimana prima la loro casa l'a-
vrebbe messa in soggezione, ma ormai Georgia aveva passato troppo tempo nei palazzi di Talìa e così non ci fece caso. Era una grande fattoria di mattoni rossi, con una dépendance, scuderie e un ampio recinto esterno. Le scuderie ospitavano il cavallo di Alice, una giovenca saura di nome Trafile. Le ragazze andarono direttamente a vederla, senza disfare le valigie. «È stupenda» disse Georgia con invidia. Certo, in Talìa aveva a disposizione tutti i cavalli delle scuderie del Montone, ma sapeva che nel mondo reale non ne avrebbe mai posseduto uno. E Alice, una ragazza della sua età e che frequentava la sua stessa scuola, aveva un cavallo tutto per sé che la aspettava per le vacanze e nei weekend in cui riusciva ad andare nel Devon. Georgia invece doveva accontentarsi di una lezione ogni due settimane al maneggio di Jean. Nelle scuderie c'era però anche un altro inquilino. «Vi presento Conker» disse Paul. Nella posta vicino a quella di Truffle c'era un castrone sauro, molto simile ad Arcangelo. «Da dove salta fuori?» chiese Alice, sorpresa quanto Georgia. «È del nostro vicino» spiegò Paul. «Sai, Jim Gardiner, che abita in fondo alla strada. È andato in vacanza e stava per mettere Conker a pensione in un maneggio, ma gli ho detto che l'avrei tenuto io se l'amica di mia figlia avesse potuto cavalcarlo. Ho fatto bene, no? Alice mi ha detto che sei brava. Credi di potercela fare?» Georgia era talmente felice da non riuscire a parlare e si limitò ad annuire. Sarebbe stata una vacanza da sogno. Georgia aveva la camera vicino a quella di Alice, e aveva scoperto con sollievo che all'amica piaceva alzarsi tardi. Così di solito riusciva a dormire ancora un paio d'ore dopo essere tornata da Talìa. Paul faceva l'avvocato nel paese vicino e quando le ragazze si svegliavano lui era già partito da un pezzo per andare al lavoro. Georgia e Alice facevano sostanziose colazioni con frittelle, uova e frutta, poi passavano il resto della giornata a cavallo. Uscivano nella brughiera con Trafile e Conker per ore e quando erano stanche lasciavano pascolare i cavalli mentre loro si sdraiavano sull'erba a mangiare gli enormi panini che si erano portate dietro. Furono giorni meravigliosi. Le ragazze parlarono a lungo delle rispettive famiglie. Alice raccontò dei suoi genitori, che si erano conosciuti all'università. La madre, Jane, all'epoca era un'attivista politica e dirigeva il sindacato degli studenti. Nessuno avrebbe potuto prevedere che si sarebbe
messa con Paul, l'unico figlio di una famiglia borghese locale. «Hanno divorziato poco dopo che sono nata io» disse Alice. «Poi, quando i nonni sono morti, papà è tornato nel Devon. Io vengo qui da sempre.» «I tuoi sono rimasti amici?» chiese Georgia. «Adesso vanno abbastanza d'accordo. L'ultimo grosso litigio è stato sulla scelta della mia scuola. Papà voleva mandarmi in un collegio femminile qui vicino e mamma era contraria: niente istruzione privata per sua figlia. Sai, adesso è consigliere comunale laburista... Ci eravamo trasferite a Barnsbury e lei diceva che la scuola locale andava benissimo. Hanno litigato di brutto, e quando ho cominciato a frequentare il collegio si parlavano a malapena. Però io lì non mi trovavo bene e alla fine mamma ce l'ha fatta a mandarmi alla Barnsbury Comprehensive.» «Pensi che abbia avuto ragione?» chiese Georgia. «Be', non è male, no?» disse Alice. «Il fatto è che sento di avere due vite separate.» «Credo che sia così un po' per tutti quelli che hanno i genitori divorziati.» «Sì, ma se fai caso a quelli della nostra classe, come Selina, Julie, Tashi o Callum, hanno entrambi i genitori a Londra. Per loro passare un weekend dal padre non è un problema. Io ci metto ore ad arrivare, e alla fine mi resta solo un giorno intero da trascorrere qui. Però mi piace. È l'unica cosa che mi evita di impazzire quando sono in città. In realtà mi piacerebbe vivere sempre nel Devon, ma mamma non me lo permetterebbe mai. Comunque mio padre non è come quelli dei nostri compagni e questo mi fa sentire diversa da tutti. Se a scuola sapessero di come ce la passiamo qui non mi lascerebbero più vivere. Tu sei l'unica che abbia mai invitato.» Georgia pensò che forse per lei, che ricordava appena il padre, le cose andavano un po' meglio. Anche lei raccontò ad Alice della propria famiglia, soprattutto di Russell. Naturalmente Alice lo conosceva, almeno di vista, e sorprese Georgia dicendole che c'erano diverse ragazze del loro anno a cui Russell piaceva molto. «Ma se è mostruoso!» protestò Georgia. Poi ci pensò su. Lei vedeva Russell sempre e solo con un ghigno sul viso e con i tratti distorti dall'odio. Forse quando sorrideva non era poi tanto male. Era alto e robusto, con folti capelli castani e occhi scuri. Dovette ammettere che fisicamente non era brutto, ma per lei sarebbe sempre stato orribile a causa di quel carattere odioso. L'esatto opposto di Gaetano, che era bruttino, ma aveva modi talmente gentili e un cuore così buono che chiunque lo conoscesse gli voleva
bene. «Ti prendo in parola su Russell» disse Alice. «Dev'essere proprio una persona orribile. Uno così cattivo non potrebbe mai piacermi, neanche se fosse bellissimo.» Più tardi, quel pomeriggio, le ragazze tornarono alla fattoria e poi si allenarono a montare a pelo. Georgia era più brava di Alice, avendo già provato a Remora, ma presto anche l'amica migliorò. Tutte e due erano abili cavallerizze e nel giro di qualche giorno Georgia capì che Conker le sarebbe mancato una volta lasciato il Devon. Era sicuramente il cavallo più grande che avesse mai montato, ma aveva un buon carattere. Le ricordava sempre di più Arcangelo, anche se non aveva praticamente mai corso sul cavallo remorano. Montare a pelo era un'esperienza completamente diversa rispetto alla sella. All'inizio era scomodo, ma c'era maggiore sintonia col cavallo per via del contatto più stretto. Era un'unione completa fra cavallo e cavaliere, quella che Georgia aveva già visto tra Cesare e Arcangelo. Voleva arrivare anche lei a quel livello, e si chiese che cosa ne avrebbe detto Jean se glielo avesse proposto durante una delle sue lezioni. Luciano passava molto tempo con Falco. La mattina presto prendeva le sue lezioni segrete di equitazione, poi si incontrava con Georgia nel Montone. Quasi tutti i giorni andavano in carrozza a Santa Fina e trascorrevano diverse ore con Falco per prepararlo ai grandi cambiamenti che lo attendevano. «Dovrai andare a scuola» disse Georgia. «E se abiterai vicino a me sarà il mio stesso istituto, quello dove andava anche Luciano.» «Sarai al nono anno e avrai tre trimestri prima di dover scegliere gli esami, perciò seguirai tutte le materie» aggiunse Luciano. Georgia iniziò a contarle sulle dita: «Inglese non dovrebbe essere un grosso problema, perché quando hai stravagato sembravi parlare e capire bene, proprio come me col talìano quando sono qui. E poi leggi sempre.» Falco annuì e disse: «Continua.» «Poi ci sono matematica e scienze, cioè chimica, fisica e biologia.» «Ho già studiato un po' di matematica e di astronomia» disse Falco. «E anche un po' di anatomia, ma più che altro per disegnare.» «Ah, già» fece Luciano. «Puoi fare anche arte e musica.» «È l'informatica che mi preoccupa» osservò Georgia. «E che cos'è?» chiese Falco.
Passarono il resto della giornata a tentare di spiegare i computer al giovane Talìano, che proprio non riusciva a immaginarseli. Poi c'erano la televisione, i motori a scoppio, i cellulari, il calcio, i fast food, l'elettricità, i CD, i forni a microonde e gli aerei. Falco spalancava sempre di più gli occhi. Georgia e Luciano si resero conto che ci sarebbero state enormi differenze anche nel suo modo di intendere la storia e la geografia. Loro erano quattro secoli più avanti di Falco, e ne stavano iniziando un quinto. La sua conoscenza del mondo in cui viveva, il cui centro era il Mar di Mezzo, gli veniva dai mappamondi nella sua casa a Giglia. Luciano immaginò fossero come quelli nel Palazzo Ducale a Bellezza. D'altra parte Falco era molto intelligente e imparava in fretta. L'educazione fisica e gli sport sarebbero stati fuori discussione finché la sua gamba non fosse guarita, così avrebbe potuto passare più ore in biblioteca a studiare e a usare i computer. Probabilmente avrebbe avuto un computer e un accesso a Internet anche in famiglia. Proprio la Rete era un'altra cosa che faticava a capire. Come Rodolfo quando Luciano glielo aveva spiegato, anche Falco se la immaginava come un'enorme ragnatela e non riusciva a credere che chiunque vi si potesse collegare. «Ma non è privilegio dei potenti?» chiese una volta. Sia Georgia che Luciano pensarono che se mai ci fosse stato un equivalente talìano della Rete, Niccolò de' Chimici l'avrebbe sicuramente voluta sotto il proprio controllo. Non lo dissero a Falco, però. Un altro giorno cercarono di insegnargli i tagli che il denaro aveva in Inghilterra. «Ti ricordi quella banconota che ti ho fatto vedere a Londra?» chiese Georgia. «Quelle erano venti sterline. Non preoccuparti, perché tanto quelli della nostra età non ne vedono spesso. Però dovrai riconoscere almeno le monete da una sterlina e quelle più piccole, come i cinquanta, venti, dieci e cinque pence.» E un altro giorno ancora, tornando a Remora, Luciano fece a Georgia la domanda che non gli aveva dato pace fin da quando Falco aveva chiesto il loro aiuto. «Tu parli come se fossi convinta che rimarrà vicino a Islington, ma sarà così? Che cosa ne faranno di un ragazzino talìano che spunta dal nulla?» Georgia valutò quanto rivelare a Luciano del piano che aveva elaborato. «Tu sai che mia madre è un'assistente sociale, no?» disse. «Anzi, è proprio una dirigente della sezione che si occupa di affidamento e adozione. Vedrò di fare in modo che gli trovi lei una casa. Penso che la cosa migliore
sia far credere che abbia perso la memoria, così se le autorità gli faranno domande a cui non saprà rispondere nessuno si stupirà.» Falco faceva strani sogni. Si ritrovava in una galleria sotterranea con un drago che gli correva incontro ruggendo. Poi era in una minuscola cella che andava su e giù a una velocità prodigiosa. Finiva in cima a una scala di argento luccicante che gli scivolava da sotto i piedi. I bastoni gli sfuggivano dalle mani e lui cadeva a testa in giù. A questo punto si svegliava, sudato e terrorizzato. Poi si riaddormentava e allora cominciava un altro sogno, con immagini completamente diverse. Sentiva un lamento stridulo e un rumore come di enormi ali che sbattevano. Appena prima che il sogno finisse riusciva a intravedere delle piume nere, ma capiva che non appartenevano a un uccello. Le notti erano lunghe e tormentate, specialmente dopo le frequenti visite del Duca. Erano quelli i momenti in cui Gaetano gli mancava di più. I due fratelli si erano scambiati spesso opinioni sul padre. Non era facile far parte di quella famiglia, e ancora meno essere figli di qualcuno le cui azioni era impossibile ignorare. Falco però voleva bene al padre ed era sicuro di essere ricambiato. Non sapeva ancora quale sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe visto il Duca, ma sapeva di aver già detto addio al fratello prediletto. A Bellezza, intanto, Gaetano stava ancora conducendo una doppia vita. Passava quasi tutte le sere con la Duchessa che doveva corteggiare, e tutti i giorni con la cugina che adorava come quando giocavano insieme da bambini. Tuttavia i suoi sentimenti per Arianna stavano cambiando, come quelli di lei per lui. Istruito e divertente, Gaetano era una compagnia affascinante e spiritosa. La giovane bellezzana notava sempre meno il suo aspetto fisico, anzi, si era sorpresa ad attendere con impazienza quelle serate insieme. Per quanto Luciano le mancasse, era rilassante trovarsi con un altro Talìano di una famiglia regnante, che capiva i suoi obblighi e il suo ruolo senza bisogno di spiegazioni. Arianna doveva sforzarsi di ricordare che il padre di Gaetano era considerato il responsabile dell'attentato contro sua madre. Anche il Principe doveva sforzarsi di ricordarlo. Aveva sentito dire che il Duca Niccolò aveva incaricato qualcuno di uccidere la madre di Arianna.
«Che cosa pensi di questo rampollo dei nostri nemici?» chiese un'ospite a Rodolfo una sera. Era vestita di scuro e portava un velo leggero, come le vedove talìane, ma il suo abito color cobalto era molto elegante e al polso portava un braccialetto di zaffiri. Nervoso, il Reggente le sussurrò: «Sai che non dovresti farmi visita qui, Silvia. È un rischio troppo grande.» «L'ho visto lungo il canale con quella sciocchina che si era candidata contro Arianna all'elezione» disse lei ignorando il sottile rimprovero. «Ma ora sembra abbastanza interessato alla Duchessa.» «È un ottimo giovane» rispose Rodolfo. «Non somiglia al padre o al cugino Ambasciatore, ma credo stia ancora seguendo gli ordini piuttosto che il cuore.» La dorma inclinò la testa. «Forse è ciò che le persone del rango suo e di Arianna dovrebbero sempre fare. Qui c'è in ballo molto più di un amore giovanile.» «Mi stai dicendo seriamente che Arianna dovrebbe accettare?» chiese Rodolfo. «Ti sto dicendo che tu e lei dovreste pensarci bene prima di rifiutare» replicò l'ex Duchessa. «A me i de' Chimici non avevano mai proposto un matrimonio. Potrebbe essere una strada interessante da esplorare.» Quasi due settimane dopo essere partita per il Devon, un venerdì Georgia riprese il treno per Paddington insieme ad Alice. Aveva una lezione al maneggio prenotata per il giorno seguente e non voleva perderla, dato che aveva già dovuto farla posticipare dalla settimana precedente. Era il primo di agosto e mancavano solo pochi giorni alla stravagazione definitiva di Falco. Era strano essere di nuovo a casa. Maura, Ralph e Russell erano ancora al lavoro. Georgia entrò in una casa vuota che le sembrava terribilmente estranea. Si sentiva come un'ospite, così salì in camera sua a guardare i poster e il quadro con i cavalli bianchi e neri finché non si sentì tranquillizzare da una sensazione di normalità. Poi decise che quella notte, con Luciano, avrebbe stabilito una data per fare stravagare Falco. Niccolò de' Chimici andò nelle scuderie del Palazzo di Santa Fina per cercare Enrico, che di solito vi passava le giornate a chiacchierare con Nello. «Come sta la nuova cavalla?» domandò il Duca a entrambi. «Si sta riprendendo bene» rispose Nello.
«Sta molto meglio da quando la faccio volare di notte» disse Enrico. «Ora non la tengo più con la corda, ma la cavalco. È un'esperienza incredibile.» «Non ho dubbi» affermò il Duca. «Forse dovrei rimanere qui una notte e provare io stesso.» «Ehm...» fece Enrico. «Non riesce a portare molto peso. Sta ancora crescendo. Un tappo pelle e ossa come me va bene, ma un uomo robusto come Vostra Grazia potrebbe essere ancora un po' troppo per lei.» «Non importa» disse Niccolò. «Sono qui per parlarti d'altro. Ultimamente mio figlio ha avuto visite quasi tutti i giorni. Voglio che tu scopra che cosa ci fanno qui quei ragazzi e perché lui tiene tanto alla loro compagnia.» Enrico annuì. «So chi sono, mio signore. Vengono dal Montone, ma almeno uno è di Bellezza: Luciano, l'apprendista del Reggente.» «Ah, sì» disse Niccolò. «L'ho conosciuto quando i miei figli mi hanno portato al Montone per sentire suonare gli Zinti. Suo padre è un Anglico di una certa età. L'altro è un qualche stalliere, credo.» «Ora dicono che il Bellezzano è figlio del vecchio Dottore» osservò Enrico «ma non era così quando è arrivato in quella città. Allora passava per un lontano cugino del Reggente. L'ho anche tenuto prigioniero. C'è qualcosa di strano in lui qualcosa a cui il nipote di Vostra Grazia era molto interessato.» Al maneggio, Jean disse alla sua socia Angela: «Quella ragazza ha un talento naturale, sai?» Stavano osservando Georgia cavalcare a pelo intorno a uno dei recinti. «Dove ha imparato?» chiese Angela. «Dice che si è allenata per un paio di settimane nel Devon.» «Però sembra che lo faccia da molto più tempo.» «Già» disse Jean. «È come se volasse.» Lunedì 4 agosto fu il giorno decisivo. Georgia era abbastanza fiduciosa che la data in Talìa fosse la stessa. Nelle ultime tre settimane l'allineamento fra i due mondi era rimasto costante. Falco aveva ricevuto una visita del padre il giorno prima ed era improbabile che il Duca si recasse a Santa Fina per due giorni di seguito. Georgia aveva preparato gli stessi vestiti della prima volta, ma ora aveva tagliato le etichette. Avrebbe prestato a Falco anche una sacca e gli aveva
comprato una confezione di boxer da Marks & Spencer. Aveva pianificato tutto il possibile ed era giunto il momento di agire, anche perché passare tutto quel tempo alla residenza estiva cominciava a diventare faticoso. Avere Falco a Londra sarebbe stato stressante, ma almeno avrebbe potuto godersi di più i soggiorni a Remora. Al momento faticava a trovare il tempo per cavalcare e in ogni momento che passava da sola con Luciano Falco era comunque il loro unico argomento di conversazione. Decise di andare a trovare il signor Goldsmith al negozio. Lui fu contento di rivederla, ma rimase un po' sulle sue. «Mentre eri via ho avuto una visita inattesa» disse. «Tua madre è passata di qui per fare due chiacchiere.» Georgia nascose il viso tra le mani. Si sentiva arrabbiata e imbarazzata allo stesso tempo. «Non riesco a credere che l'abbia fatto» mormorò. «Non preoccuparti» disse l'antiquario. «Probabilmente voleva solo controllare chi fossi. Se sei qui, devo averle fatto buona impressione.» Georgia scosse la testa. «Non mi ha detto niente. Spero non sia stata scortese.» «Affatto. Anzi, è stata molto gentile. Però ha detto di voler sapere quando vieni al negozio. Ne deduco che non sappia che adesso sei qui, vero?» «No. Ma non può impormi chi posso vedere o quando.» «Sta solo cercando di proteggerti, Georgia» aggiunse Goldsmith dolcemente. «Oggigiorno bisogna stare attenti.» Improvvisamente Georgia notò qualcosa in un angolo del negozio, dietro il bancone. «Delle stampelle!» esclamò. «Lo sapevo che ne avevo visto un paio da qualche parte! Sono sue?» «Lo erano l'anno scorso. Ho dovuto usarle per un mese e mezzo dopo un'operazione all'anca. Continuo a ripetermi che devo riportarle all'ospedale. Grazie per avermelo ricordato.» «No, non le riporti» ribatté svelta Georgia. «Voglio dire, posso prenderle in prestito per un po'? È per un progetto a scuola e ne stavo cercando un paio. Le riporterò io all'ospedale per lei.» «Va bene» disse Goldsmith. «Affare fatto. È il reparto di ortopedia al St Bartholomew.» Falco era pronto da ore. Sotto la camicia da notte portava quel misterioso paio di mutande. Qualche giorno prima aveva rubato al giardiniere un flacone di veleno, che poi aveva svuotato con cura in un canale di scolo. Il
flacone però mandava ancora un odore pungente e conteneva qualche goccia di liquido. Aveva già detto addio al Palazzo di Santa Fina, facendo il giro di tutte le sue stanze preferite e passeggiando per i viali dei vasti giardini. Sembrò trascorrere un'eternità, ma finalmente i due Stravaganti arrivarono. Ripassarono ogni dettaglio. Georgia aveva l'aria stanca, e sul suo viso si leggeva la tensione per quanto stava per compiere. Anche l'umore di Luciano era cupo. Pensava al piano da così tanto tempo da non sapere più se fosse saggio o meno realizzarlo. I servi portarono candele nuove e i tre capirono che era giunta l'ora. Falco si sistemò nel letto con il flacone vuoto in una mano e l'anellino di Georgia nell'altra. Di nuovo lei lo abbracciò stretto e insieme attesero di addormentarsi. Il sonno però si fece aspettare a lungo. Luciano sedeva accanto al letto con gli occhi socchiusi, assorto nei propri pensieri. Falco invece chiuse i suoi sulla camera per l'ultima volta quando ormai era già tardi. Qualcosa cambiò nell'atmosfera e Luciano guardò davanti a sé. Georgia era sparita. Avvicinandosi al letto, vide che Falco dormiva e che il flacone gli era scivolato di mano. Era così che i servi dovevano trovarlo il mattino seguente. Si ritirò nella propria camera e mentre si addormentava gli sembrò di udire un rumore di ali provenire dalla finestra. «Ci siamo, allora» disse Falco non appena si svegliò in camera di Georgia. Lei si tirò su a sedere e lo guardò. «Ecco, riprenditi l'anellino» disse lui, aprendo la mano. «E non ridarmelo, neanche se te lo chiedo io.» Capitolo 18 Rivali
In un certo senso fu più facile della volta precedente. Essendo in vacanza, Georgia poteva non farsi vedere a colazione. Quando si alzò, tutti erano
già andati al lavoro e c'era solo un bigliettino di sua madre che diceva di preparare la cena per le sei. Tornò di sopra di corsa e portò in cucina Falco, che aveva aggiunto al suo completo un berretto da baseball. «Ti sta benissimo, ma devi portarlo nell'altro verso» disse Georgia. Fecero colazione con calma. Falco era interessato a tutti gli elettrodomestici e costrinse Georgia a spiegargli a che cosa servivano. Fu bello poter mostrare direttamente all'opera il forno a microonde, il bollitore e il tostapane. Falco era affascinato dal cibo nella dispensa e volle assaggiarne il più possibile. Gli piacquero particolarmente la marmellata di fragole e il succo d'arancia, ma anche il bacon e i croissant. Georgia riuscì pure a fargli vedere in funzione la lavastoviglie. «Allora le vostre macchine cucinano, preparano bevande e poi lavano i piatti per voi. È per questo che non avete servitù?» chiese Falco. «Sì, è uno dei motivi» rispose Georgia. «E anche perché le macchine costano di meno. Non potremmo permetterci dei servi.» «Come? Nel vostro mondo pagate la servitù?» domandò Falco. «Perché, voi no?» replicò Georgia. Si fissarono. Sembrava impossibile che potessero essere amici, venendo da due mondi tanto diversi. Da quel momento, però, ne avrebbero condiviso uno solo. Luciano venne svegliato dal rumore di passi frettolosi e voci smorzate. Si vestì in fretta e una volta uscito trovò che i servi erano in uno stato di grande agitazione. «Che sta succedendo?» chiese, anche se lo sapeva benissimo. «Non riusciamo a svegliare il signorino» rispose il domestico. «Ha... ha bevuto una qualche tintura, ma non sappiamo ancora che cos'è.» «Avete mandato a chiamare il medico?» «Sì. E anche il Duca.» «Lasciatemelo vedere» aggiunse Luciano. Andò a sedersi accanto al letto dove Falco era ancora disteso come lo aveva lasciato la sera prima. "Chissà cosa starà facendo in Inghilterra" pensò. Quando Falco fu sazio, Georgia gli mostrò il bagno, spiegandogli il funzionamento della doccia, dello spazzolino elettrico e perfino del rasoio di Ralph. «Fra qualche anno dovrai usarlo anche tu, se non vuoi farti crescere la
barba» disse. Poi gli fece fare un veloce giro della casa, mostrandogli il televisore e il computer. Falco fu particolarmente affascinato dagli interruttori e dai rubinetti, ma non gli piacque la moquette, anche se rendeva più silenzioso camminare con le stampelle. «Dai» disse Georgia. «Dobbiamo uscire. Non devi affezionarti troppo a casa mia, perché non potrai abitare qui.» «Possiamo andare all'ospedale?» chiese Falco. «Non ancora. Prima devono accorgersi di te. Hai ripassato quello che ti ho detto a proposito della perdita di memoria?» Camminarono lenti per le vie di Islington, questa volta prendendosi tutto il tempo per far abituare Falco al traffico e al rumore. Invece di aiutarlo semplicemente ad attraversare, Georgia gli spiegò per bene i semafori e le strisce pedonali. Lui era interessato a tutto, specialmente alle persone che incrociavano. Trovava difficile distinguere i maschi dalle femmine. «Portano tutti i calzoni!» sussurrò a Georgia. Al contrario, nessuno notò lui. Dalla propria esperienza in Talìa, Georgia sapeva che la gente non faceva caso all'ombra altrui. La sua mancanza, poi, era più facile da ignorare in una grigia giornata estiva inglese che non nel pieno sole di Remora. Avvicinandosi alla destinazione, Georgia esitò. Aveva pensato spesso a quel momento, e adesso che era arrivato si sentiva molto nervosa. «Okay» disse. «Ora aspettami qui fuori. Io entro a spiegare la situazione.» Quando il Duca arrivò alla residenza estiva, il suo cavallo era madido di sudore. Niccolò smontò, lanciò le redini a uno stalliere e salì lo scalone principale due gradini alla volta. Luciano fece un salto sulla sedia allorché il Duca, con l'espressione sconvolta, spalancò la porta e si precipitò verso il letto. Afferrò il figlio, ma il corpo del ragazzo era completamente inerte. «Dov'è il medico?» gridò. Era terribile vederlo tanto fuori di sé, e Luciano tentò di sgattaiolare via mentre i servi spiegavano che il dottore stava arrivando. «Fermo!» ruggì il Duca. «Tu, Bellezzano! Resta dove sei! Che cosa sai di tutto questo?» «Mi ha svegliato il trambusto» rispose Luciano. «Poi i servi mi hanno
raccontato che cosa era successo. Ho cercato di risvegliare vostro figlio, ma non si è mosso da come lo vedete ora. Sono rimasto a vegliarlo in attesa del medico.» «Eri qui la scorsa notte?» chiese Niccolò. Luciano annuì. «E quell'altro, il tuo servo?» «Il mio amico» Luciano lo corresse a bassa voce «dev'essere tornato al Montone, e vorrei partire anch'io per riferirgli quanto è successo.» Si era accordato con Georgia in modo che lei lo aspettasse a Remora quando fosse tornata. Niccolò scosse la testa come un orso ferito. «Puoi andare per ora» disse. «Ma voglio parlare di nuovo con te, soprattutto se dovesse succedere qualcosa a mio figlio.» Luciano tornò in carrozza a Remora con la morte nel cuore. «Un ragazzo che ha perso la memoria?» chiese incredula Vicky Mulholland. Georgia ripeté tutto con pazienza. «Sì. Gliel'ho detto... mi si è avvicinato per strada mentre passavo di qui. Ho suonato da lei perché è l'unica persona che conosco da queste parti. Non so cosa fare. Sembra proprio confuso. Non sa né dove abita né chi sono i suoi genitori.» «E non pensi che stia fingendo?» «No. Sembra un po'... strano, ecco. E ha un handicap: cammina con le stampelle e ha una gamba deformata. Nel suo stato non resisterebbe molto a vivere per strada. Chiamiamo la polizia?» «Aspetta» disse la donna, passandosi le mani fra i capelli ricci. «È ancora lì fuori?» «Gli ho detto di aspettare mentre cercavo aiuto.» «Be', forse prima di tutto dovremmo farlo entrare» disse Vicky. "E vai!" pensò Georgia. Da lì in avanti contava che Falco facesse la sua parte. Andò alla porta e fece un cenno all'amico, che era dove lei l'aveva lasciato. Appoggiato alle stampelle, aveva il viso pallido e stanco. Georgia vide che la signora Mulholland trattenne il respiro alla vista di quei riccioli neri e di quel bel volto dai tratti delicati. «Ti va di entrare?» chiese. Falco le sorrise.
Per Arianna era giunto il momento di partire da Bellezza. Doveva raggiungere Remora per il 10 agosto, un giorno prima che il Campo venisse trasformato in pista, ma una Duchessa doveva viaggiare in una carrozza di gala, a un'andatura tranquilla e fermandosi a dormire ogni notte in lussuose locande per non giungere stanca a destinazione. Contava di vedere anche altre parti di Talìa. Rodolfo l'avrebbe accompagnata in carrozza e Gaetano avrebbe cavalcato al suo fianco. Era la prima volta che Arianna lasciava la laguna ed era anche la sua prima visita di stato importante da quando era diventata Duchessa. Barbara, la sua cameriera, la seguiva in una seconda carrozza carica di bauli pieni di abiti, indispensabili per una settimana di cerimonie ufficiali. Quando il corteo ducale aveva raggiunto il pontile per prendere la barca verso la terraferma, solo quei bauli avevano riempito tre mandole. Fu un bene che Arianna indossasse la maschera e un cappuccio durante la traversata, altrimenti il suo viso avrebbe tradito un'esaltazione ben poco ducale nei confronti di quel viaggio. Sulla sponda opposta la attendevano nuove esperienze. La carrozza di gala bellezzana veniva tenuta sulla terraferma e usata di rado. Arianna non aveva mai visto dei cavalli prima di allora, e fu subito intimidita dalla mole e dalla potenza degli animali. E rimase piacevolmente colpita dalla destrezza ed eleganza con cui Gaetano montava l'alto baio che aveva lasciato nelle scuderie ducali tre settimane prima. «Sembrate a vostro agio con i cavalli, Principe» gli disse sorridendo dal finestrino della carrozza. «Molto, Vostra Grazia» rispose lui. «Sono l'unica cosa che mi è mancata nella vostra magnifica città.» «Mi fa piacere sapere che tutto il resto è stato di vostro gradimento» replicò Arianna tirando la tendina. «Come ti chiami?» chiese Vicky facendo accomodare Falco su una sedia in cucina. «Te lo ricordi?» «Nicholas Duke» rispose lui, ripetendo con attenzione il nome che aveva concordato con Georgia. Gli suonava strano da pronunciare, ma non c'era dubbio che se lo sarebbe ricordato. «Nicholas» disse Vicky. «Puoi dirci qualcosa di te?» Falco scosse la testa. «No.» «Dei tuoi genitori?» Lui scosse di nuovo la testa.
«Come ti sei fatto male alla gamba?» insistette lei. «Forse è stata una caduta da cavallo» disse Falco. «E come sei arrivato qui?» Falco guardò Georgia in tono supplichevole. «Non so spiegarlo» rispose, sentendosi le lacrime agli occhi. Vicky sembrava angosciata. Smise di fare domande e accese il bollitore. «Credo tu abbia ragione, Georgia» disse a bassa voce. «Dobbiamo chiamare la polizia e rintracciare i genitori il più presto possibile. Prima però prendiamo un caffè. Quel ragazzo mi sembra provato.» Portò un vassoio nel soggiorno, dove teneva il pianoforte e i violini, ma quasi lo lasciò cadere quando scorse il ragazzo che fissava con aria stupita una foto di suo figlio. Vicky appoggiò il vassoio e fece sedere Falco su una poltrona. «Ho visto che guardavi la foto» gli disse. «È mio figlio Lucien. È... è morto l'anno scorso.» «È vivo in un altro luogo» mormorò Falco. Georgia gli diede un calcetto di nascosto. Vicky si sedette, pallida. «È la stessa cosa che ha detto quello strano uomo al funerale» disse tremando. «Ma cosa significa? Anch'io spesso immagino che sia ancora vivo in un altro mondo. Qualche volta mi è perfino sembrato di vederlo.» Si passò le mani sugli occhi e poi osservò incerta i due ragazzi. «Credo sia solo un modo di dire. Forse è molto religioso» affermò svelta Georgia, lanciando un'occhiataccia a Falco. «Oggi abbiamo avuto un caso incredibile» disse Maura a cena. «La polizia ci ha chiamato per un ragazzo che ha perso la memoria e sembra essere stato abbandonato dai genitori.» «Accidenti» disse Ralph. «Quanti anni ha?» «Tredici» disse Maura. «Almeno così dice, ma è piccolino per la sua età. Ha anche un grave handicap e deve camminare con le stampelle. Ma la cosa pazzesca è che la polizia è stata chiamata dall'insegnante di violino di Georgia, Vicky Mulholland.» Georgia sentì gli spaghetti al ragù bloccarsi in gola, ma riuscì a deglutirli. Era arrivato il momento di confessare. Russell però stava ascoltando, invece di essere distratto come al solito durante i pasti. «Be', sì... in effetti l'ho trovato io che vagava davanti a casa loro mentre passavo di lì» disse. «Ho chiesto io alla signora Mulholland di chiamare la
polizia.» «Perché diamine non me l'hai detto?» chiese immediatamente Maura. Georgia alzò le spalle. «Non sembrava importante.» «Come sarebbe? Cos'è, uno trova ragazzini abbandonati tutti i giorni?» intervenne Ralph. «Gli storpi sì» disse Russell. «Lei li colleziona.» «Si dice invalidi, Russell» osservò Maura severa. «Be', avresti dovuto dirmelo, Georgia. Forse ora sul lavoro dovrò dichiarare un coinvolgimento.» «Quale coinvolgimento? Mica lo conosco» mentì Georgia. «L'ho solo trovato e l'ho portato dai Mulholland. Non è un reato, no?» «No, ma c'è stata una complicazione» spiegò Maura. «Vedi, non c'è nessuna denuncia di scomparsa di minore che gli corrisponda, così l'abbiamo dovuto dare in affidamento temporaneo. Come sai, qui a Islington abbiamo una lunga lista di bambini che devono essere sistemati, e le nostre case famiglia sono al completo.» «Non mi dire che dobbiamo prenderlo noi!» esclamò Russell. «No» si affrettò a rassicurarlo Maura. «Ma i Mulholland si sono offerti e noi li abbiamo approvati per l'affidamento temporaneo. Vivrà con loro finché non troviamo i suoi veri genitori.» «Dove credi che siano?» chiese Ralph. «Secondo me è molto probabile che siano immigrati in cerca di asilo politico e che l'abbiano abbandonato di proposito perché lo trovassimo e gli fornissimo cure mediche appropriate. Oppure potrebbe anche essere entrato nel paese da solo. Per noi non sarebbe il primo caso.» «Un po' crudele abbandonarlo, però» osservò Ralph. «Soprattutto se ha perso la memoria.» «Appunto, "se"» disse Maura. «È più facile che gli abbiano detto di fingere come copertura. Mi sa che i genitori sono tutto fuorché crudeli.» Georgia si sentì a disagio. Sua madre si stava avvicinando un po' troppo alla verità. «Bentornata» disse Paolo. «Ultimamente non ti abbiamo visto molto.» «Lo so, ma da adesso sarà diverso» replicò Georgia. «Davvero? Non so che cosa tu e Luciano abbiate combinato in questi giorni. Vi ho detto che era una buona idea fare amicizia con i giovani de' Chimici, ma dovete stare attenti. Il Duca è un avversario temibile.» Georgia fu salvata da Luciano, che arrivò in carrozza proprio in quel
momento e che si affrettò a raccontare a Paolo e al Dottor Dethridge che cosa sembrava essere successo a Falco. I quattro Stravaganti rimasero un attimo in silenzio, ognuno riflettendo per conto proprio sull'accaduto. «E voi due non conoscete alcunché delle ragioni del fanciullo?» chiese Dethridge. «Egli ha compiuto un gesto spaventevole.» «Credo fosse soltanto stanco di vivere con quei problemi fisici» disse Luciano. «E non ha detto a nessuno di voi che cosa voleva fare?» insistette Paolo. Per Georgia e Luciano fu difficile sopportare l'interrogatorio dei due uomini guardandoli in faccia. Alla fine il capostalliere li lasciò andare, ma aveva un'espressione molto seria. Con grande sollievo i due giovani si incamminarono verso la città. «Non voglio mai più passare una notte simile» disse Luciano. «Com'è andata da te?» «Bene» rispose Georgia, anche se si sentiva malissimo. Aveva tante cose da nascondere non solo a tutti i suoi amici talìani, ma anche a Luciano, e non sapeva come lui l'avrebbe presa. Disteso nel vecchio letto di Luciano a Londra, Falco non riusciva a rilassarsi e a prendere sonno. Dall'inizio della sua seconda stravagazione era successo di tutto. Non sapeva che Georgia intendeva portarlo dai genitori di Luciano, però gli piacevano. David non somigliava per niente al vero padre di Falco e non incuteva affatto paura; aveva accettato l'affidamento di quel ragazzo smarrito non appena la moglie glielo aveva proposto. E poi era bello per Falco avere di nuovo una madre. Tuttavia essere lì al posto di Luciano lo faceva sentire in colpa, e gli si stringeva il cuore quando immaginava le sofferenze dei suoi familiari a Remora, Giglia e Bellezza. Poi pensò che in quel momento Georgia era con Luciano a Remora e di colpo gli venne nostalgia di Talìa. Stava abbandonando non solo la sua famiglia, ma anche Luciano, a cui si era affezionato come a un nuovo fratello. Se avesse portato a termine il piano, non l'avrebbe mai più rivisto. Per il momento comunque non aveva scelta, perché il talismano ce l'aveva Georgia, che in quel momento stava dormendo in un'altra casa, anche se allo stesso tempo era perfettamente sveglia a Remora, dove senza dubbio la stavano interrogando su di lui. Sospirò e chiuse gli occhi. In fondo al letto, uno specchio rifletteva di nuovo riccioli neri sparsi su un cuscino.
«Che cosa?» esclamò Luciano. Aveva voluto sapere tutto su Falco a Londra. Georgia non intendeva ancora rivelargli quella parte del piano, ma non era riuscita a sfuggire alle sue domande pressanti. Stavano bevendo un sorbetto al limone che avevano comprato su una bancarella nel Campo delle Stelle e sedevano sul seggio di pietra che circondava la colonna al centro della piazza. Luciano era talmente furioso che Georgia si sentì morire. Sapeva di non poter sperare che si innamorasse di lei, ma desiderava ottenere almeno la sua ammirazione. In quel momento però le sembrava di aver mandato tutto all'aria. «Non riesco a crederci» continuò lui. «I miei genitori! Non avevano mai parlato di prendere qualcuno in affidamento.» «Be', non è stato proprio meditato» replicò Georgia. «Si sono offerti solo perché i servizi sociali non riuscivano a trovargli un altro posto.» «E invece sembra meditato, eccome» disse Luciano amaramente. «Non mi hai mai detto che avresti coinvolto i miei genitori.» «Ti dispiace?» «No» rispose lui dopo una pausa. «Non esattamente. Però è uno shock. Come ti è venuto in mente?» «È stato dopo aver parlato con tua madre» spiegò Georgia. «Le manchi tantissimo. Falco aveva bisogno di una casa e a me sembrava che lei avesse bisogno di un ragazzo di cui prendersi cura.» «Hai proprio la vocazione della psicologa, eh?» osservò Luciano, riuscendo però ad accennare un sorriso. «So che posso sembrare egoista, ma non voglio essere sostituito da nessuno, neanche da Falco.» Georgia gli strinse la mano. «Nessuno lo farà» gli disse. «Tu sei insostituibile.» Poi tornarono alla bancarella a restituire gli scodellini di legno. In Talìa niente era usa e getta. «Sembra strano pensare che fra una settimana questa diventerà una pista, eh?» osservò Georgia, cambiando discorso di proposito. «E che Cesare e gli altri vi correranno.» «E che il Montone farà il tifo per lui e per Arcangelo» aggiunse Luciano. «Ci sarà tutta la famiglia.» «Vedrai la corsa?» «Sì. Probabilmente il Dottor Dethridge e io avremo un posto con Rodolfo e la Duchessa nel palco del Papa.» «La zona nobile, eh?» scherzò Georgia. «Com'è che tu bazzichi l'aristo-
crazia mentre io devo essere un umile stalliere?» «È solo un caso... o il destino» rispose Luciano. «Dovrai seguire la corsa dal Campo, con tutti gli altri Remorani. E forse sarà anche più divertente.» «Attento!» disse lei all'improvviso. «C'è gente dei Pesci!» La mano di Luciano corse al pugnale che portava in vita. I tre giovani che si stavano avvicinando vestivano effettivamente il blu e il rosa del Duodecimo dei Pesci e non avevano l'aria amichevole. Nei giorni immediatamente precedenti la corsa, le rivalità cittadine si facevano più accese. Luciano e Georgia erano in inferiorità numerica, ma poi videro i Pesci indietreggiare. Si voltarono. Cesare e Paolo stavano venendo verso di loro e gli avversari dovevano aver pensato che non era il caso di prendersela con quattro del Montone, anche perché uno dei nuovi arrivati era decisamente robusto. «Appena in tempo» disse Paolo. «Ma porto notizie più preoccupanti di tre giovanotti dei Pesci. Un messaggero ha chiesto di voi: il Duca Niccolò vuole vedervi al Palazzo Papale. E ha detto che non ammetterà ritardi.» Nello stesso palazzo, Rinaldo de' Chimici era impegnato in un colloquio non proprio gradevole con lo zio. Dato che il piano era poi fallito miseramente, non aveva mai detto al Duca di aver catturato il giovane bellezzano. In compenso aveva fatto giungere a Giglia la notizia di un colpo molto più grosso: l'assassinio della Duchessa. In quel momento, però, il Duca voleva sapere tutto su quel Luciano. «Lo avevi in pugno e lo hai lasciato scappare?» chiese Niccolò incredulo. «Pur sapendo che era uno Stravagante da un altro mondo?» «Era quello che sospettavo, zio. Ma se lo era... e io l'ho visto senza ombra... non lo è più. Quel vecchio stregone di Rodolfo aveva qualcosa in mente, ma dev'essere andato storto. Te l'ho detto: quando ho chiamato in giudizio il ragazzo, l'ombra era lì, nitida.» «E il taccuino?» chiese ancora Niccolò. «Hai detto che c'era un taccuino che lui teneva in gran conto e che aveva a che fare con i suoi poteri.» Rinaldo si spostò sulla sedia. «È in mio possesso, zio, ma non sono riuscito a usarlo o anche soltanto a capirlo. Sospetto che ci sia un qualche trucco.» «Così lo hai lasciato andare?» «Non potevamo continuare a tenerlo prigioniero.» «Avresti dovuto tagliargli la gola mentre lo avevi davanti» disse Niccolò. «Se lo avessi fatto, ora mio figlio non giacerebbe privo di sensi al piano
di sopra.» Un valletto entrò. «I giovani che avete mandato a chiamare sono arrivati, Vostra Grazia.» «Ora puoi andare, Rinaldo» lo congedò il Duca. Sulla soglia Luciano sobbalzò incrociando l'Ambasciatore, suo vecchio avversario. Georgia non aveva mai visto Rinaldo e non sapeva niente di ciò che era successo fra i due. Notò soltanto un giovane piuttosto magro e nervoso che passò accanto a loro lasciando una scia di profumo. Nei venti minuti successivi il Duca li torchiò senza pietà riguardo a Falco. Perché gli avevano fatto visita così spesso? Di che cosa avevano parlato? Che cosa sapevano dello stato d'animo di suo figlio? Le risposte non lo convinsero. Fu inevitabile: Luciano e Georgia dovettero mentire per rispettare la volontà di Falco, ma era molto difficile trarre in inganno il Duca. Si ritennero fortunati a uscirne indenni, a parte le minacce. «Non tentate di allontanarvi da Remora» disse Niccolò freddamente. «Darò ordine di respingervi a ogni porta. E se mio figlio non si riprenderà, starete qui per sempre.» Quando i due ragazzi se ne andarono, il Duca nascose il viso tra le mani. Il messaggero da Remora non si era risparmiato. Aveva cambiato cavallo diverse volte durante il viaggio e arrivò in piena notte alla locanda appena fuori Volana. Il locandiere, insonnolito, era titubante a disturbare il giovane Principe, ma gli fu detto che la questione era urgente. Pochi minuti dopo Gaetano sedeva nel letto, strofinandosi gli occhi e cercando di capire il messaggio che gli veniva riferito. Un'elegante carrozza entrò dalla Porta del Sole nelle prime ore del mattino del mercoledì. I passeggeri non si vedevano perché le tendine erano tirate, ma c'erano molti bagagli sistemati sul tettuccio e un servo dall'elegante livrea seduto accanto al cocchiere. Era alto, magro e coi capelli rossi, un colore raro in Talìa e pertanto molto apprezzato. La carrozza percorse rumorosamente le vie acciottolate e deserte fino al Duodecimo del Montone. Si fermò di fronte a una casa alta su Via del Montone e il servo dai capelli rossi saltò giù. Bussò alla porta ed entrò per controllare che tutto fosse in ordine. Solo quando l'alloggio fu accuratamente ispezionato e giudicato adatto fece scendere il passeggero dalla carrozza. Era una bella donna di mezza età
dalla figura ancora snella, vestita con un abito da viaggio di velluto grigio. Portava un velo ed era seguita da una cameriera che reggeva diverse borse e valigette. I tre entrarono nella casa senza che nessuno li notasse, a parte un paio di piccioni e una gatta grigia. Nella settimana successiva tutto accadde molto in fretta per Falco. Dapprima ci fu l'appuntamento con il medico. La dottoressa Kennedy, che aveva concesso ai servizi sociali di mandarle quel ragazzo per una visita urgente, fu un po' sorpresa nel vederlo entrare con Vicky Mulholland. C'era anche Maura. Le due donne si conoscevano vagamente. La dottoressa lo esaminò a lungo, chiamandolo Nicholas. Falco dovette sforzarsi di ricordare che ormai era quello il suo nome. Però non poté rispondere alle domande sulle malattie che aveva avuto da bambino. «Bene» disse la dottoressa una volta finito, mentre compilava un modulo che Maura le aveva dato. «Da certi punti di vista sei in ottima forma. Sei ben nutrito e cuore e polmoni sono sani. Dovresti pesare tre o quattro chili in più per la tua età, ma sei bassino e può darsi che tu debba ancora completare la crescita. Ovviamente il vero problema è la gamba. Dici di non ricordarti niente dell'incidente, a parte che è stato un cavallo, ma è una brutta frattura, sistemata male.» «Lei può guarirla?» chiese subito Falco. «Non io» disse la dottoressa Kennedy. Poi sorrise, vedendo la sua espressione abbattuta. «Però un chirurgo ortopedico sì.» Guardò Maura. «Cercherò di farlo visitare al St Bartholomew il prima possibile. È molto probabile che ci voglia un intervento piuttosto impegnativo, seguito da fisioterapia.» «E dopo potrà di nuovo camminare normalmente, secondo lei?» domandò Vicky, dando voce a ciò che Falco non osava chiedere. «Non prometto niente, signora Mulholland» rispose la dottoressa. «Non sono uno specialista. Vedremo cosa diranno i chirurghi. Ora telefonerò alla segretaria del dottor Turnbull per sapere se può vederlo nei prossimi giorni.» Nel giro di una settimana, Falco fu visitato al St Bartholomew. L'infermiera guardò perplessa le stampelle, che erano di proprietà dell'ospedale, ma non disse nulla. Lo pesò, lo misurò, gli restituì le stampelle e poco dopo lo fece entrare nello studio del dottor Turnbull. Anche quella volta era accompagnato dalla sua affidataria e dall'assistente sociale. Maura dirigeva una sezione, ma si stava occupando personalmente di questo caso, che or-
mai era diventato di dominio pubblico. La foto di Falco era su tutti i quotidiani, accompagnata da titoli come: È VOSTRO FIGLIO? Oppure: LA TRAGEDIA DI UN RAGAZZINO DISABILE ABBANDONATO. I servizi sociali non potevano permettersi di sbagliare niente nel gestire le sue cure. Georgia portò Falco a visitare il negozio del signor Goldsmith. Il ragazzo talìano fu affascinato da tutti quegli oggetti buttati alla rinfusa. Il vecchio antiquario lanciò uno sguardo incuriosito alle stampelle di Falco e poi a Georgia, ma come al solito non fece domande. Era una delle cose che Georgia preferiva di lui. «Le presento il mio amico Nicholas. Nicholas, questo è il signor Goldsmith» disse. Subito dopo pensò: "Anche lui è mio amico. E anche Alice. In questo mondo ho tre amici." Giunse alla conclusione che il signor Goldsmith era un po' come il Dottor Dethridge. Lui e Falco andarono subito d'accordo, e poco dopo stavano già esaminando insieme i meccanismi di una lunga pendola. Il clan dei de' Chimici si stava riunendo a Remora. Il mattino dopo aver ricevuto il messaggero, Gaetano si era scusato con la Duchessa. Ad Arianna era dispiaciuto perdere la sua compagnia per il viaggio, che comprendeva ancora due notti a Giglia, la città del Principe, ma era stata molto comprensiva vedendo la sua preoccupazione per il fratello. Gaetano aveva fatto proseguire il messaggero per Bellezza e Francesca sarebbe arrivata a giorni. Altri ancora, mandati a Giglia dal Duca, avevano richiamato il resto della famiglia di Falco. I fratelli maggiori Fabrizio e Carlo, con la sorella Beatrice, erano partiti subito per Remora. Il corpo privo di sensi del ragazzo era stato portato da Santa Fina all'ospedale cittadino, che sorgeva sul lato opposto della piazza rispetto al Palazzo Papale e al Duomo, nel Duodecimo dei Gemelli. Tutti i giorni il Papa celebrava una messa per lui nel Duomo e i Remorani lo ricordavano nelle loro preghiere. A Falco era stata ufficialmente diagnosticata la "morte vivenda" e c'erano poche speranze che si riprendesse. Si era scoperto che il flacone di veleno apparteneva al giardiniere di Santa Fina, che venne frustato a lungo. La folla si riuniva fuori dell'ospedale per lasciare offerte votive alla Dea, sulle rovine del cui tempio era stato costruito l'edificio. Il Duca non abbandonava quasi mai il capezzale del figlio e non man-
giava o dormiva se non quando Beatrice lo obbligava a farlo. Un giorno mandò i suoi servi a cercare i Manoush per chiedere all'arpista cieco di venire a suonare sotto la finestra di Falco. Aurelio eseguì le melodie più belle e malinconiche mai udite a Remora, e tutti quelli che le ascoltarono non riuscirono a trattenere le lacrime. Per Luciano e Georgia furono momenti difficili. Su di loro incombeva la minaccia del Duca ed erano anche preoccupati per Falco. Georgia aveva rassicurato Luciano sulle sue condizioni nell'altro mondo, ma nessuno dei due aveva previsto che il suo corpo in Talìa potesse resistere così a lungo. Gaetano tornò a Remora tre giorni dopo la disgrazia e andò subito a far visita al fratello all'ospedale. Fu solo dopo alcune ore di straziante veglia che si recò al Montone. Trovò Luciano, Georgia e Cesare nel cortile delle scuderie. Si abbracciarono in silenzio, poi Gaetano sussurrò: «Non immaginavo che lo facesse così presto. Anzi, se devo dire la verità credevo che non ne avrebbe mai avuto il coraggio, anche se era venuto a dirmi addio. Eravate con lui? È stato facile?» «Io non c'ero» rispose Cesare. «Non sono uno Stravagante. Però mi spiace davvero.» «C'eravamo noi» disse Luciano. «Georgia si è occupata di tutto nel suo mondo.» «È in buone mani» assicurò lei. «Le migliori» aggiunse Luciano. «È con i miei genitori.» Gaetano sobbalzò. «Allora siamo come fratelli» disse abbracciandolo. Luciano trasse un respiro profondo e chiese: «Come sta la Duchessa?» «Benissimo!» rispose Gaetano. «È una persona davvero meravigliosa. Arriverà fra qualche giorno.» Georgia si chiese quale cuore stesse battendo più forte, se il suo o quello di Luciano. Capitolo 19 La pista
Era appena calata la sera quando la carrozza di stato di Bellezza attraversò rumorosamente la Porta del Sole. Una nutrita folla di Remorani, principalmente del Montone, la attendeva sventolando i vessilli del Duodecimo, i gonfaloni bianchi e neri della città e qualche bandiera bellezzana adorna di maschere. Gaetano, i suoi fratelli maggiori e lo zio erano sulla Porta in rappresentanza della famiglia de' Chimici. Era stato impossibile convincere il Duca a lasciare l'ospedale, nonostante l'importanza dell'ospite. Gli araldi diedero uno squillo di benvenuto con le buccine, mentre in sottofondo si udiva un debole rullo di tamburi provenire dagli altri Duodecimi, che continuavano ad allenarsi per la parata prima della corsa. Rodolfo scese dalla carrozza e aiutò Arianna a fare lo stesso. Poi ricevettero il saluto di Papa Benigno VI. La folla constatò che la Duchessa era bella come si raccontava, anche se era un peccato non poter vedere bene il suo viso, tenuto nascosto secondo le usanze di Bellezza: ma era alta e aggraziata, con una chioma di riccioli castani raccolti morbidamente. In più vestiva seta bianca e nera in omaggio ai colori di Remora, un particolare che i cittadini apprezzarono. La giovane Duchessa fece un inchino al Papa e gli baciò l'anello, mostrando il dovuto rispetto per la Chiesa. I Remorani apprezzarono anche quello. Il Pontefice la fece rialzare subito e la presentò ai suoi tre nipoti. La folla applaudì i giovani nobili gigliani che a turno si inchinarono alla mano della Duchessa, ma non poté fare a meno di notare che lei parlò soprattutto con il più giovane. Lo notò anche Luciano, che stava tra i sostenitori del Montone. Non vedeva Arianna da un mese e non sapeva quando avrebbe avuto la possibilità di stare da solo con lei. La Duchessa venne portata verso il Palazzo Papale, nel territorio dei Gemelli, un luogo da cui lui al momento si teneva alla larga. E stava ancora parlando con il giovane de' Chimici. Luciano ebbe una stretta al cuore: voleva bene a Gaetano, ma non quanto ad Arianna. La figura curva e vestita di nero alle spalle di Arianna si voltò proprio in quel momento e guardò dritto verso di lui. Rodolfo aveva intuito la presenza non solo di un altro Stravagante, ma soprattutto del suo apprendista. Il cenno e il sorriso che fece a Luciano furono rapidi, ma bastarono a risollevargli l'umore. Con Rodolfo presente, tutto sarebbe andato a posto. «Hanno un ottimo aspetto, vero?» una voce gli sussurrò all'orecchio. Luciano si voltò e riconobbe un viso familiare, anche se coperto da un leggero velo. «Silvia!» esclamò. «Non sapevo che sareste venuta qui.»
«Neanche loro» disse lei sorridendo. «Pensi che ne saranno contenti?» «Non è rischioso?» mormorò Luciano. «Ci sono de' Chimici dappertutto, come vedete, e il Duca è di pessimo umore.» «Ho sentito di suo figlio» disse Silvia. «È strano che qualcuno che può commissionare omicidi come se ordinasse un paio di stivali nuovi possa essere anche un padre tanto affettuoso, vero?» «È mio amico» ammise Luciano. «Il Duca Niccolò?» «No. Il suo ultimogenito, Falco. Temo che invece il Duca voglia mettermi nella lista insieme al suo prossimo paio di stivali.» Quella sera per Georgia era stato difficile lasciare Remora e affrontare un'altra giornata a Londra, sapendo che Luciano si sarebbe rivisto con la famosa Arianna. Con l'arrivo della Duchessa, tutti quei momenti che Georgia aveva passato da sola con lui stavano per finire. La settimana appena trascorsa a Remora era stata terribile, tanto che a volte aveva pensato di sospendere i suoi viaggi notturni. Dopotutto aveva fatto il proprio dovere. Nel suo mondo, Nicholas Duke era al sicuro, accudito dai Mulholland, curato dai medici e con una nuova vita davanti. A Remora, però, Falco stava morendo. Nessuno in città aveva dubbi al riguardo. Il Duca era fuori di sé dal dolore e stava sempre al capezzale del figlio. Nonostante tutto, però, Georgia era tornata ogni notte, divisa tra il dramma privato della famiglia de' Chimici e l'esaltazione pubblica che stava crescendo con l'avvicinarsi della corsa. I suoi due migliori amici a Remora erano coinvolti in entrambi gli eventi. Cesare non riusciva a nascondere l'entusiasmo per la Stellata: ne parlava a Georgia tutti i giorni quando andavano a cavalcare insieme, raccontandole gli accordi segreti fra i fantini dei diversi Duodecimi e i tanti rituali e usanze legati alla grande corsa. Luciano non nascondeva la propria preoccupazione per ciò che sarebbe potuto capitare a lui e a Georgia. Niccolò de' Chimici aveva minacciato terribili conseguenze per entrambi se Falco fosse morto, e quel momento si stava avvicinando. Il ragazzo non aveva aperto gli occhi da quando era stato trovato con il flacone di veleno quasi una settimana prima. Tuttavia i medici della città erano confusi. Non avevano rilevato nessuno dei sintomi dell'avvelenamento e tutti stentavano a credere che una persona così giovane potesse togliersi la vita. A Talìa il suicidio era tanto raro quanto l'omicidio era diffuso.
Georgia e Luciano avevano tentato di andare a fare visita a Falco all'ospedale, ma non gliel'avevano permesso. Il Duca aveva messo il figlio sotto una sorveglianza strettissima. Così si limitavano a parlarne nella cucina di Paolo, con Georgia che raccontava a Luciano come il Talìano se la stesse cavando a Londra. E a Londra Falco si trovava benissimo. Georgia lo andava a trovare spesso dai Mulholland. Nessuno giudicava strana la cosa, dato che era stata lei a scoprirlo. Le era molto difficile ricordarsi di chiamarlo Nicholas; lui invece si stava adattando benissimo alla nuova identità. I Mulholland gli avevano comprato dei vestiti e addirittura gli avevano passato vecchi indumenti di Lucien, che erano diventati troppo piccoli per lui, ma che non erano stati buttati via. Georgia ebbe un sussulto quando lo vide con la felpa grigia col cappuccio che Lucien indossava quando si erano incontrati la prima volta. Lo aveva anche presentato ad Alice, che era incuriosita dalla sua amicizia per quel ragazzino. «Forse ti senti responsabile, dato che l'hai trovato tu» aveva detto. «Hai ragione» aveva risposto Georgia. «"Responsabile" è proprio la parola giusta.» Falco andava anche a casa sua, e un sabato Georgia lo portò perfino con sé al maneggio, visto che Maura poteva accompagnarli in auto. Per fortuna, una volta risolta la questione dell'affidamento, non trovava niente di strano nel fatto che quel ragazzino abbandonato fosse amico di sua figlia. Inoltre sperava che il contatto con i cavalli potesse essere terapeutico per lui. «Forse gli farà tornare la memoria dell'incidente» aveva suggerito a Georgia. Falco era felice di essere di nuovo in mezzo ai cavalli. Era un aspetto della sua nuova vita che riusciva a capire perfettamente. Anche se non poteva cavalcare, Jean gli fece visitare le scuderie mentre Georgia seguiva la lezione. A Falco piacque particolarmente una giumenta nera di nome Blackbird. «Signora O'Grady, secondo lei potrò venire qui a cavalcare dopo l'operazione?» chiese a Maura. «Be', non subito» rispose lei. «Come sai, dovrai portare un gesso per sei settimane. Ma quando sarai guarito parleremo di queste lezioni ai tuoi genitori affidatari.» «Sarebbe bello se venissi» disse Jean, anche se dentro di sé non riusciva
a immaginare come quel povero ragazzino avrebbe potuto cavalcare. Quando giunse a Remora il giorno dopo l'arrivo della Duchessa, Georgia trovò un'estranea nella cucina. Una donna di mezza età, molto elegante e velata, stava parlando con il Dottor Dethridge e si capiva che i due erano vecchi amici. Un giovane allampanato coi capelli rossi, evidentemente il servo di quella donna, era in piedi dietro la sua sedia. «Ah, buona giornata» disse Dethridge vedendola. «Concedimi di introdurti alla signora Bellini. Silvia, eccoti il novello acquisto della nostra Fratellanza.» La donna porse a Georgia una mano fresca e perfettamente curata. Allo stesso tempo la scrutò attentamente. «E così sei il nuovo Stravagante» disse. «Ma il mio... Rodolfo mi aveva detto che eri una ragazza.» Georgia si sentì arrossire. Non si era mai sentita tanto a disagio in quei rozzi abiti da stalliere talìano come sotto gli occhi viola di quella donna. «Ah, ma vedo che è un travestimento» si corresse subito Silvia. «Molto saggio, in questa città. Forse dovrei usare lo stesso stratagemma, anche se in un certo senso lo sto già facendo.» Mille pensieri attraversarono la mente di Georgia, mentre cercava di capire quale fosse il ruolo di quella donna che era evidentemente un personaggio importante. Aveva davvero detto «il mio Rodolfo»? Chi poteva avere un tale grado di intimità con un uomo importante come lui? E perché aveva bisogno di un travestimento? In quel momento Luciano, Paolo e Cesare rientrarono dalla pista. Aveva cominciato a piovere e il fondo era scivoloso. Ciò preoccupava Cesare, perché quel giorno avrebbero posato la terra per la pista intorno al Campo. Era una fase cruciale nella preparazione della corsa. «Sono solo due gocce» lo rassicurò il padre. «La pista sarà ottima.» «Vedo che hai conosciuto Silvia» disse Luciano a Georgia, che di nuovo si stupì di quanto lui si sentisse a proprio agio con i notabili di Talìa. «Quando vedrai Arianna?» gli chiese la donna. «Non lo so» rispose Luciano. Poi qualcuno bussò alla porta. Nonostante una visita della Duchessa di Bellezza fosse improbabile, i due giovani Stravaganti sobbalzarono. Paolo aprì a una persona che Georgia intuì essere Rodolfo. Anzi, lo riconobbe come l'uomo che era venuto al funerale di Lucien. Lievemente ricurvo, magro, con i capelli ingrigiti e un aspetto distinto, egli entrò e abbracciò calorosamente prima Paolo, poi Dethridge e infine Luciano, che
scrutò in viso a lungo e attentamente. «Sono felice di vederti» Georgia gli sentì dire sottovoce, e vide Luciano guardare il maestro con evidente devozione. "Che cosa ci faccio io qui?" pensò, sentendosi piccola e insignificante. Poi però quell'uomo alto si voltò verso di lei e le prese la mano. Georgia si trovò ipnotizzata da due occhi scuri e decisi, che sembravano in grado di carpire i suoi segreti più profondi. «Tu devi essere Georgia» disse gentilmente. «Sono onorato di conoscerti.» «Cinque Stravaganti nella stessa stanza» disse una voce bassa di donna. «Dovremmo essere tutti onorati.» Toccò a Rodolfo rimanere sconcertato. Georgia si stupì nel vedere il suo tranquillo contegno turbato dall'apparizione della misteriosa Silvia. I due si abbracciarono, ma non con la solita cerimoniosità talìana, e di colpo Georgia capì chi era quella donna. Poi vide che Luciano sorrideva affettuosamente alla coppia, ancora abbracciata. «Dovrei essere arrabbiato con te» disse Rodolfo a voce bassa. «Ma come posso, quando il vederti qui mi riempie di gioia?» «Credo faresti meglio a presentarmi nuovamente alla giovane» disse Silvia. Allora Rodolfo, che stringeva ancora la mano della donna nella propria, disse: «Georgia, ti presento mia moglie, Silvia Rossi, già Duchessa di Bellezza e madre dell'attuale sovrana.» Nel Palazzo Papale, Rinaldo de' Chimici era impegnato in un altro incontro poco piacevole con uno zio. Ferdinando non era temibile quanto il Duca Niccolò, ma era pur sempre il Papa, nonché Principe di Remora. «Il matrimonio è un sacramento» stava dicendo. «Non può essere sciolto con leggerezza.» «Certamente, Vostra Santità, ma mi devo assumere parte della colpa» replicò Rinaldo. «Forse c'è stata leggerezza nel combinare questa unione, e ne sono io il responsabile.» Il Papa sapeva perfettamente che sua nipote Francesca era stata costretta da Rinaldo ad accettare il matrimonio con il Consigliere Albani, con la minaccia della collera del Duca Niccolò in caso di rifiuto. Però, se il piano avesse funzionato e la ragazza fosse diventata Duchessa di Bellezza, l'anziano marito sarebbe andato benissimo, e quindi il Papa era riluttante a scioglierla dall'impegno ora che il piano era fallito. Dopotutto era suo
compito difendere la santità del matrimonio. «Su quali basi la giovane donna chiede l'annullamento?» domandò. Rinaldo esitò. Se con «la giovane donna» lo zio si stava riferendo a Francesca, insistere sulla lealtà verso la famiglia non sarebbe servito a molto. «Lei... lui... credo che il matrimonio non sia stato consumato, Vostra Santità» disse, notando con orrore che stava arrossendo. «Dopo quanto tempo?» «Quasi un anno, Vostra Santità. E lei non lo ama.» «Forse se lo accogliesse nel suo letto la situazione migliorerebbe, non credi?» disse il Papa. «Un figlio le darebbe le motivazioni necessarie per restare con il marito.» «Sempre se il marito fosse in grado di darle un figlio, Vostra Santità» mormorò Rinaldo. Ferdinando de' Chimici non era un uomo cattivo. Era debole e indolente, ma non avrebbe mai voluto vedere una nipote legata a un uomo che non amava, specialmente in assenza di figli. Inoltre intuiva che Albani non serviva più al Duca suo fratello dal momento che era fallito il piano a Bellezza, e che sarebbe stato più utile avere Francesca disponibile per una nuova unione dinastica. Si ripromise quindi di trovarle un marito più interessante, se possibile. «Va bene, va bene» disse stizzito, ordinando con un cenno a un suo scrivano di redigere il necessario decreto. Premette nella ceralacca fusa l'anello con sigillo, ornato dai simboli del giglio e dei gemelli, poi porse il documento a Rinaldo. In quel momento Francesca ridiventò una donna libera. Sul Campo aveva smesso di piovere e l'aria era fresca e pulita. Carri trainati da buoi e pieni di terra arrivavano dalla campagna circostante in un flusso continuo, e squadre di uomini muniti di rastrelli ne spargevano il carico in una larga striscia tutto intorno alla piazza. Altri uomini erano impegnati a costruire tribune di legno che avrebbero accolto gli spettatori più importanti, anche se la maggior parte dei Remorani avrebbe assistito alla corsa dall'interno della piazza. La tribuna più imponente era in costruzione di fronte al Palazzo Papale, ma tutte le case affacciate sulla pista erano già adornate con i vessilli del Duodecimo che sostenevano. L'intero Campo divampava di colori. In vista della corsa, Enrico stava raccogliendo scommesse sul risultato.
Ovviamente i Gemelli e la Signora, favoriti, avevano la quotazione più bassa e quindi i membri dei loro Duodecimi non si aspettavano di vincere molto. Gli altri puntavano sulla vittoria dei propri cavalli e fantini, ma a volte scommettevano anche una piccola cifra sui due più forti. I Remorani avevano uno spirito pratico. Tuttavia queste scommesse dovevano essere fatte con discrezione. Enrico si era abituato a vagare per tutti i Duodecimi e portava una sacca piena di fazzoletti di diversi colori, per poterli cambiare a seconda della parte della città in cui si trovava. Li considerava soltanto un salvacondotto, non sentendosi legato a nessun Duodecimo. Ultimamente passava le giornate a Remora, tornando a Santa Fina ogni sera per cavalcare Merla. La puledra si stava abituando a lui e non sembrava dispiacerle portarlo in groppa mentre volava. Enrico non voleva trascorrere più tempo del necessario in casa de' Chimici. Ciò che era successo a Falco l'aveva davvero turbato. Si era dato alla raccolta delle scommesse per non pensare a quel ragazzo pallido che giaceva privo di sensi in ospedale. Del Duca, suo protettore e padrone, non aveva notizie da tempo. Arianna non riusciva a dormire e stava al balcone della sua camera, nel Palazzo Papale. Raggi di luna e ombre riempivano il Campo. Tutto intorno al bordo della piazza, capannelli di gente si riunivano vicino ai cavalli. Ogni tanto riuscivano a organizzare una partenza e allora i cavalli facevano tre giri al galoppo in senso orario. Così pieno di gente nel cuore della notte, il Campo aveva un'atmosfera allegra, ma anche misteriosa. Quando Rodolfo la raggiunse sul balcone, Arianna stava assistendo a uno strano spettacolo. Un grande e robusto cavallo grigio, che difficilmente avrebbe potuto correre nella Stellata, stava portando due persone, un ragazzo e una ragazza. Avevano abiti strani, anche se la luce della luna ne attenuava i colori. «Chi sono?» chiese, mentre la coppia andava verso la linea di partenza. «Sembrano Zinti» disse Rodolfo. «Il popolo dei viaggiatori. Vengono qui per la Festa della Dea, che si celebra lo stesso giorno della corsa.» Rimasero a guardare un'altra partenza improvvisata. Il cavallo grigio vinse di un'incollatura, portando i due fantini come se fossero stati uno solo. Quando smontarono e la ragazza accompagnò il ragazzo fuori dal Campo, Arianna rimase colpita da un particolare. «È cieco!» disse. «Gli Zinti riescono a vedere anche in altri modi» replicò Rodolfo. «Tu
non dovresti essere a dormire?» «Non ci riuscivo» rispose lei. «Credi che abbiamo fatto bene a venire qui?» «Penso che non ci siano assolutamente rischi, se è questo che intendi» rispose suo padre. «Non so che cosa avesse in mente di fare prima, ma ora secondo me Niccolò è troppo preoccupato per la malattia del figlio per organizzare complotti.» «E quelli che invece ha già organizzato?» chiese Arianna. «Vuoi dire Gaetano? Ti sta mettendo in difficoltà?» La giovane Duchessa alzò le spalle. «È più dura di quanto immaginassi. Lui mi piace, e ora è anche piuttosto sconvolto per via del fratello. Respingere la sua dichiarazione non sarà facile.» «Credi che il suo corteggiamento sia sincero?» Arianna non rispose. «Ho visto Luciano questa mattina» disse Rodolfo. «Come sta?» chiese lei con interesse. «È molto inquieto. Vuole vederti, ma senza venire qui. Il Duca Niccolò si è messo in testa che lui e il nuovo Stravagante siano coinvolti nel tentativo di suicidio di suo figlio.» «Ma è assurdo!» esclamò Arianna. «Luciano non farebbe mai una cosa del genere.» «Ho pensato che potresti incontrarlo in territorio neutrale» disse Rodolfo. «Ho suggerito a Gaetano di portarci a visitare Belle Vigne domani. Luciano ci raggiungerà lì.» Georgia trovava sempre più difficile passare il tempo a Londra. Dormiva molto per recuperare le ore trascorse a Remora. Proprio come Luciano l'estate prima, stava cominciando a pensare che non ce l'avrebbe fatta a tenere quel ritmo una volta tornata a scuola a settembre, e ciò la rendeva molto triste. I viaggi per vedere Cesare e la sua famiglia sarebbero diventati occasionali. Dopo la corsa Luciano sarebbe di sicuro tornato con Arianna e Rodolfo a Bellezza, e allora non avrebbe più potuto incontrarlo. Il talismano la portava soltanto a Remora: da lì non si poteva andare a Bellezza e tornare in giornata. Una volta che Falco fosse morto, Gaetano e i suoi sarebbero tornati a Giglia e per quella città, anche se più vicina a Remora, valeva lo stesso discorso. Le restava solo una settimana per godersi il soggiorno nella città talìana con i suoi amici e nemici ancora presenti. Il fatto che tutti gli Stravaganti,
almeno quelli che lei conosceva, fossero riuniti lì faceva pensare a una crisi imminente, ma Georgia non capiva di cosa si trattasse. C'era forse qualche pericolo che incombeva su di lei e Luciano? Non era troppo preoccupata per se stessa. Finché aveva il talismano poteva sempre stravagare a casa. Però il Duca Niccolò avrebbe potuto uccidere Luciano se avesse deciso di vendicare in quel modo la morte del figlio, e così lei lo avrebbe perso un'altra volta. Poi si ricordò che in passato Luciano era stato imprigionato e che il suo talismano gli era stato tolto: le aveva raccontato lui stesso la storia. Se fosse successo a lei, si sarebbe ridotta nello stato in cui Falco si trovava a Remora e in cui Luciano si era trovato quando era ancora Lucien, quando i suoi genitori avevano acconsentito a staccare le macchine che lo tenevano in vita. Quei pensieri la fecero sudare freddo e la resero ancora più impaziente di tornare a Remora per scoprire che cosa stava succedendo. Voleva assolutamente sapere della Duchessa. Se Silvia era la persona che il Duca credeva di aver assassinato, che cosa ci faceva a Remora come se niente fosse? E che cosa ci faceva sua figlia sul trono di Bellezza? Quando Georgia arrivò a Remora, la carrozza dei Bellezzani stava per partire. «Salta su» disse Luciano chiamandola con un gesto. «Andiamo a Belle Vigne.» All'interno, Dethridge era di ottimo umore. «Ben arrivato, giovine Giorgio» disse. «Siamo in procinto di visitare un insediamento rassenano. E verosimilmente troveremo che altri amici avranno compiuto il medesimo viaggio!» Luciano sorrideva seduto in un angolo e Georgia ebbe un tuffo al cuore. A Belle Vigne la loro carrozza ne affiancò un'altra con lo stemma dei de' Chimici: il giglio e la fialetta di profumo. Salendo per la collina erbosa che aveva visitato in precedenza con Gaetano e Falco, Georgia vide alcune persone che avevano già raggiunto la cima: erano Rodolfo, Gaetano e una giovane snella ed elegante che poteva essere solo la Duchessa. Arrivati lì, Georgia rallentò e lasciò che Dethridge andasse ad abbracciare Arianna. Luciano lo seguì, ma il saluto che rivolse alla Duchessa sembrò molto più formale. C'era un certo imbarazzo fra loro. Poi salutò Gaetano con un cenno della testa e quindi si voltò per accogliere Georgia nel gruppo.
«Vi presento Giorgio» disse. Georgia si sorprese nel sentirlo usare la forma maschile del suo nome, ma poi si accorse che della comitiva faceva parte anche un'altra persona. Mentre porgeva la mano ad Arianna, intuì che Gaetano stava presentando Luciano e Dethridge a suo fratello maggiore, Fabrizio. Era difficile concentrarsi su qualunque altra cosa mentre si veniva osservati da quegli occhi viola. Li incorniciava una maschera di seta turchese chiaro, la prima che Georgia avesse mai visto in Talìa, che si accompagnava perfettamente all'elegante abito della Duchessa. Arianna ebbe su Georgia lo stesso effetto che le aveva provocato la madre: la fece sentire goffa e inadeguata. Fu comunque gentile e cordiale. «Ho sentito parlare molto di te, Giorgio» disse. «Anch'io» aggiunse Fabrizio, facendo qualche passo in avanti per stringere la mano di Georgia. Somigliava al padre molto più di Gaetano. Alto, robusto, con i capelli neri e un'aria intelligente e decisa, dava proprio l'idea del Duca che un giorno sarebbe stato. «Mi hanno detto che sei in ottimi rapporti con mio fratello Falco.» «Sì» disse Georgia. «Era... è un buon amico.» «E tuttavia secondo mio padre non sai spiegare questo suo terribile atto.» «Posso dire soltanto ciò che ho già detto al Duca, ossia che Falco era demoralizzato per via dei suoi problemi fisici.» Gaetano le venne in aiuto: «Lascialo tranquillo, Fabrizio. Non può dirti niente che tu non sappia già. Falco trovava la sofferenza e l'inattività difficili da sopportare.» «Ma sopportava entrambe già da due anni» insistette Fabrizio. Georgia vide che era davvero angosciato. «Perché arrendersi ora?» «Forse perché nostro padre aveva per lui progetti che Falco non riusciva ad accettare» disse calmo Gaetano. «Quali progetti?» «Dovrai chiederlo al Duca.» Poi arrivò Rodolfo per mostrare a Fabrizio e Gaetano alcune cose che aveva scoperto e Dethridge prese Georgia a braccetto. Lei capì subito perché era stata organizzata quella gita: per fare in modo che Luciano e Arianna potessero stare un po' da soli. Cercò di non guardare verso di loro, ma ne sentiva i discorsi e trovava difficile concentrarsi sui tentativi di conversazione del Dottor Dethridge. Alla fine questi si fermò e la guardò in viso.
«Non è fattibile» disse, scuotendo la testa ispida e grigia. «Cotali soluzioni non sono permesse. Finirai alla guisa del povero giovine Falco se non decidi in quale mondo desideri soggiornare.» Georgia sobbalzò. Dethridge sapeva che cosa aveva fatto Falco? Oppure stava paragonandola a un ragazzo pallido ed esanime perché era così che i suoi sentimenti per Luciano l'avevano ridotta? Con il Dottore non si poteva mai sapere. Era l'unica persona oltre a Luciano ad aver mai effettuato quella terribile traslazione permanente da un mondo all'altro e pertanto poteva sospettare qualcosa. In ogni caso, sapeva già fin troppo. «Lo so» disse piano Georgia. «Lo so che non ho speranze, ma non posso farci niente.» Dethridge le accarezzò affettuosamente la mano. «Com'è stato il viaggio?» chiese Luciano. «Molto interessante» rispose Arianna. «Ho visto Volana, Bolonia, Giglia... e ora eccoci a Remora. Che città meravigliosa!» «Gli altri non ci possono sentire, Arianna. Smettiamola di chiacchierare del più e del meno» disse Luciano. «Mi sei mancata. Non sopporto di avere sempre tutta questa gente intorno quando sto con te.» «Le Duchesse non passano molto tempo da sole, come ben sai.» «E le Duchesse hanno sempre così tanta compagnia da dimenticare gli amici lontani?» incalzò Luciano sorridendo. Lei gli sorrise di rimando. «No, non così tanta» disse. «Nemmeno tu sei stato un eremita, però. Sembri essere molto amico del nuovo Stravagante. Ti ha fatto piacere stare con qualcuno del tuo vecchio mondo?» «Non del tutto. Lei mi ha riportato alla mente ricordi dolorosi.» Arianna si bloccò. «Lei?» «Sì. Rodolfo non te l'ha detto? Conoscevo Georgia da prima. Frequentava la mia vecchia scuola.» «Allora nel tuo mondo le ragazze hanno questo aspetto?» disse lei con un misto di curiosità e disprezzo. «Non tutte, no» ribatté Luciano, punto sul vivo. «Georgia è un po' diversa dalle altre. E siccome porta i capelli così corti, abbiamo deciso di farla passare per un ragazzo.» «E che bel lavoro avete fatto!» esclamò Arianna amaramente. «L'avrai imparato da me.» Si riferiva chiaramente al loro primo incontro a Bellezza, quando lei era
vestita da ragazzo e tremendamente arrabbiata con Luciano, come sembrava essere anche in quel momento. «Andiamo. Non devo trascurare i miei ospiti» disse poi. E passò il resto del pomeriggio ad essere cortese e affabile con Gaetano e Fabrizio de' Chimici. Tornando al Montone, Georgia e Luciano si sentivano entrambi giù di corda. Non avevano avuto molto da dirsi nella carrozza e il Dottor Dethridge aveva dormito per quasi tutto il viaggio. Poco dopo il loro ritorno, qualcuno bussò con foga alla porta. Rodolfo entrò a grandi passi nella cucina di Paolo: era decisamente furioso, con gli occhi che sprizzavano scintille. La sua rabbia sembrava essere diretta soprattutto contro Luciano. «Che cos'hai fatto?» chiese. «No, non dirmelo. So benissimo che cos'hai fatto. Sei diventato amico di un ragazzo invalido, avete passato insieme tutti i giorni e anche qualche notte, e di colpo lui cade in un sonno misterioso che si direbbe causato da un veleno.» «Lo sapevate anche prima» disse Luciano a bassa voce. «Ma ora l'ho visto» replicò Rodolfo. «Siccome il Duca non aveva intenzione di spostarsi, Fabrizio mi ha accompagnato a incontrarlo all'ospedale. Così ho visto anche il ragazzo. Pensavi davvero che non avrei riconosciuto il corpo di qualcuno che sta viaggiando nell'altro mondo?» Si voltò verso Georgia. «E tu... tu devi avere portato un talismano dal tuo mondo. Hai idea di quanto può essere pericoloso per uno Stravagante senza esperienza?» Si mise a camminare su e giù per la cucina. «Posso capire te, una novizia che si è fatta commuovere dalle richieste di un ragazzino malato» disse a Georgia. «L'avrai portato di là per farlo curare, presumo. Ma tu, Luciano... dopo tutto quello che ti ho insegnato, come hai potuto agire in maniera così irresponsabile?» Poi si rivolse di nuovo a Georgia. «C'è solo una cosa da fare. Devi riportarlo indietro immediatamente.» Capitolo 20 Un vessillo al vento
Georgia si risvegliò nel proprio mondo in preda al panico. Quasi si aspettava che Rodolfo avesse stravagato con lei, da quanto se l'era presa. L'idea di ritrovarsi in camera quella figura vestita di velluto nero e di doverne spiegare la presenza imbattendosi in Russell sul pianerottolo non fece che peggiorare la sua agitazione. Poi si rilassò. Rodolfo non c'era: e anche se ci fosse stato, avrebbe saputo tenere tranquillamente a bada Russell. Pensandoci, sarebbe stato uno spettacolo interessante. Era impaziente di andare a parlare a Falco, anche se non sapeva bene cosa dirgli. Come convincerlo a tornare in Talìa quando era già in lista d'attesa per l'operazione? E i Mulholland avrebbero sopportato l'idea di perdere un altro ragazzo? Georgia rispettava Rodolfo, ma era convinta che in questo caso non avesse ragione. Tuttavia il pensiero di mettersi contro di lui la preoccupava. Era presa fra due fuochi: il Reggente arrabbiato e il Duca pazzo di dolore. Entrambi rivolevano Falco e lei non aveva idea di come fare. Forse aveva completamente frainteso lo scopo del proprio viaggio a Remora. «Ciao, Georgia» la salutò Falco allegramente. «Tutto bene?» Stava già molto meglio rispetto a quando era in Talìa. Mangiava bene ed era felice di vivere in una famiglia normale. Stava diventando un ragazzo del ventunesimo secolo molto in fretta. «No, non proprio» rispose Georgia. «Possiamo parlare?» «Vicky è uscita» disse Falco. «È andata a casa di un'amica per le prove di un quartetto d'archi.» «Rodolfo ha scoperto che cosa ti abbiamo aiutato a fare» raccontò Georgia. «E non è contento, vero?» «Eh, no. Per niente!» Falco sembrava spaventato, anche se non aveva mai incontrato Rodolfo. «Non sta venendo qui, eh?» «Non credo. Sarebbe già arrivato stamattina. Era così arrabbiato che per un attimo ho temuto che avrebbe stravagato anche lui.» «E perché?» chiese Falco. «Che cosa potrebbe fare qui?» Georgia esitò. «Vuole che tu torni.»
Falco impallidì. «No» disse deciso. «Non mollo adesso, dopo tutto quello che ho passato.» «Forse dovresti pensarci su» provò a convincerlo lei. Poi, dato che Falco cercava già di replicare, aggiunse: «No, fammi finire. Non sai che effetto sta avendo questa storia sulla tua famiglia. Gaetano e gli altri sono tutti a Remora e tuo padre è distrutto dal dolore: non si allontana mai dal tuo capezzale.» Falco la fissò, cercando di frenare le lacrime. «Ma non posso» mormorò. «Già è stato difficile così. Sarebbe peggio per tutti, specialmente per mio padre, se tornassi e poi stravagassi di nuovo.» «Rodolfo vuole che tu torni per sempre» disse Georgia. «Allora devi distruggere il talismano» affermò Falco con fermezza. Georgia lo guardò attonita. «Prendi l'anello e fondilo. O buttalo via» insistette lui. «Sei incredibile, sai?» esclamò Georgia. «Dici sul serio? Pensavo volessi farmelo tenere nel caso cambiassi idea.» «Non voglio cambiare idea. Se te ne sbarazzi, non riusciranno a farmi tornare.» Cesare arrivò alla pista con Arcangelo la mattina presto per la seconda prova. Nella prima, la sera precedente, era stato troppo nervoso e il Montone era arrivato nono. Quel giorno però sarebbe andata diversamente, lo sapeva. Si sentiva pieno di energia, con la mente sgombra e pronto a correre. Come tutti gli altri fantini, anche lui portava i colori del proprio Duodecimo. Alcuni cavalli erano stati scelti solo dopo le prove di notte e certi fantini perfino dopo. Cesare aveva quindi un vantaggio, perché lui e Arcangelo cavalcavano insieme sulla pista di prova già da diverse settimane. «È lui quello da battere» disse Enrico al capo-stalliere dei Gemelli, mentre Cesare guidava Arcangelo fra i canapi. «Dici?» domandò Riccardo. «Ieri non era poi tanto veloce.» «Stava solo prendendo le misure» replicò Enrico. «Fidati, è quella la combinazione migliore nel Campo.» «Meglio del nostro Seta?» disse Riccardo. Tutti i fantini che avevano già corso la Stellata avevano dei soprannomi. Quello dei Gemelli era Seta e quello della Signora era Cherubino. Quest'ultimo, paradossalmente, era il fantino più vecchio, avendo partecipato alle quindici corse precedenti. Aveva trentatré anni, ma manteneva un
aspetto da bambino: per questo gli avevano affibbiato quel nomignolo. Oltre a Cesare, c'erano altri due esordienti, che correvano per la Leonessa e per l'Acquario. Emilio, il capostalliere della Signora, osservava con Enrico e Riccardo dalle tribune di legno che circondavano il Campo. Concordava sul fatto che il Montone quell'anno aveva un'ottima combinazione, ma era anche ragionevolmente fiducioso che gli accordi conclusi avrebbero assicurato la vittoria a Cherubino. A meno che i Gemelli non avessero investito più soldi nei loro accordi, naturalmente. Nei vent'anni precedenti, la Stellata era stata vinta dalla Signora o dai Gemelli per quattordici volte. Tuttavia nemmeno i patti più segreti e costosi potevano dare la certezza della vittoria, e nelle restanti sei occasioni erano riusciti a vincere altri Duodecimi, meno legati alla famiglia de' Chimici. Il Montone, però, non vinceva da una generazione: l'ultima volta il fantino era stato Paolo. I presagi per loro erano favorevoli. Avevano un buon cavallo, un fantino che era il figlio dell'ultimo vincitore e quel segreto presagio di buona fortuna di cui solo la famiglia del capostalliere sapeva: la cavallina alata. Ma Merla era sparita. Cesare cercò di dimenticare che proprio in quel momento il Montone avrebbe dovuto rivelare l'esistenza della puledra alata e vantarsi della propria fortuna con tutti gli altri Duodecimi. I cavalli erano allineati e pronti a partire. Quello di rincorsa, che era della Bilancia, entrò al galoppo fra i canapi e la corsa cominciò. Lo Scorpione andò subito in testa e vi rimase per tutto il primo giro, ma a metà del secondo Cesare sorpassò il loro fantino Razzo su Celeste e condusse fino alla fine. Quando Paolo arrivò ad abbracciarlo al traguardo, Cesare era raggiante. La gente del Montone scortò cavallo e fantino fino al Duodecimo fra canti e cori esultanti. Georgia arrivò mentre Arcangelo si raffreddava girando al passo in un piccolo recinto. «Me la sono persa!» disse delusa. «Com'è andata?» «Ha vinto» rispose Paolo orgoglioso. «Non significa niente. Lo sanno tutti che le prove non contano. Conta solo la corsa» disse Cesare con modestia, però con un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro. «È un peccato che il Duca non si stia occupando della corsa» disse Enrico, che si era ritirato con Riccardo in una taverna.
«Non puoi dargli colpa» replicò Riccardo. «Dicono che il figlio sia in fin di vita. Anche lui è un uomo come tutti gli altri.» Enrico rabbrividì. Preferiva non pensarci. «Forse tocca a noi occuparci della concorrenza.» Riccardo alzò le spalle. «Che cos'hai in mente?» «Lascia fare a me.» Nel Montone si fece festa con una ricca colazione a cui parteciparono anche Luciano e Dethridge. Tutti sapevano che era stata solo una prova, ma in casa di Paolo c'era grande euforia. Cesare si beava dei complimenti dei familiari. Essere arrivato primo alla prova gli aveva dato un assaggio di come sarebbe stato vincere la Stellata, e non vedeva l'ora di provare di nuovo quella sensazione. L'allegria generale distrasse Georgia dai suoi problemi con Rodolfo, ma non per molto. Non appena fu sola con Luciano, gli raccontò la reazione di Falco. «È un ragazzo coraggioso» disse lui. «E credo che dovremmo appoggiarlo.» Georgia annuì. «Però non sarà facile mettersi contro Rodolfo.» «Lui non conosce Falco» replicò Luciano. «Non capisce quanto questo sia importante per lui. E poi io gli ho già disobbedito una volta, prima di decidere di rimanere in questo mondo. Sono tornato a Bellezza di notte per vedere i fuochi d'artificio che lo avevo aiutato a preparare.» «E si è arrabbiato con te?» chiese Georgia. «No. Ha detto che doveva essere stato il destino, perché ho salvato la Duchessa da un attentato.» «Però tutti hanno creduto che fosse morta.» «No, quello è successo dopo, la seconda volta. Un'altra persona è stata uccisa al posto suo. Silvia ha deciso che ne aveva abbastanza e che in incognito avrebbe combattuto meglio i de' Chimici. Da quando Arianna le è succeduta, è rimasta molto attiva nella politica bellezzana.» «Pensa come dev'essere avere quei due come genitori!» osservò Georgia. Arianna le faceva quasi pena. «Ci penso spesso» disse Luciano. «Quando li conosci sono due persone incredibili, ma è meglio non farli arrabbiare. E Arianna somiglia a entrambi.» «Credi che Rodolfo abbia detto al Dottor Dethridge e a Paolo che cosa abbiamo fatto?» chiese Georgia.
«Lo ha detto invero» disse una voce conosciuta. William Dethridge era venuto a cercarli nelle scuderie assieme a Paolo. «Vi state adoperando per traslare quel povero fanciullo.» «Non avreste dovuto farlo senza parlare prima con noi» aggiunse Paolo serio. «Non solo è un passo difficile per il ragazzo e una pratica troppo avanzata per uno Stravagante inesperto, ma avete pensato anche a quali saranno le conseguenze qui? Se Falco muore, il Duca vorrà vendicarsi e verrà subito al Montone, dove in casa mia troverà dei sostenitori di Bellezza e parecchi Stravaganti. Le vostre iniziative hanno messo in pericolo tutta la Fratellanza.» Ignaro delle nubi che si stavano addensando sul Montone, Cesare era al Campo a controllare la pista. Non pioveva da diversi giorni e le condizioni sembravano buone. Quando non erano in corso le prove, gruppi di Remorani ne approfittavano per camminare sull'anello, pestando il terreno in modo da compattarlo e migliorare il fondo per la gara. Cesare salutò con un cenno un gruppo dell'Arciere. «Hai corso bene!» gli gridarono. La loro cavalla, Alba, montata da Sorcetto, era arrivata terza nella prova della mattina e quindi erano abbastanza soddisfatti. «Hai corso bene eccome!» fece eco un uomo basso di statura con indosso un mantello blu. Portava i colori del Montone, ma Cesare non lo conosceva. La cosa però era normale, perché nel periodo della corsa molti tornavano a Remora per sostenere il proprio Duodecimo anche se non vivevano più in città da anni. «Lascia che ti offra da bere» disse l'uomo. «Così mi racconterai di te e del cavallo... Angelo, vero?» «Arcangelo» disse Cesare con orgoglio. «È il migliore che si sia visto nel Duodecimo negli ultimi anni... a parte uno» aggiunse mestamente, pensando a Merla. Lasciò comunque che lo sconosciuto gli pagasse da bere. Talmente preso dal raccontare le imprese del castrone sauro, non notò niente di strano nel sapore. «Un po' presto per essere già ubriachi, eh?» esclamò un altro avventore mentre l'uomo col mantello blu portava via il giovane, trascinandolo di peso. «Già» disse il taverniere. «Soprattutto perché ha preso solo un sorbetto al limone.»
Poi però un gruppo di turisti entrò a chiedere del vino e nessuno ci pensò più. Il Consigliere Albani non era abbastanza ricco da permettersi una carrozza privata e così Francesca dovette compiere il viaggio a Remora con altre persone, ma la cosa non le pesò. Appena giunta andò dritta all'ospedale, mandando i bagagli al Palazzo Papale tramite un portantino. Era certa di essere la benvenuta presso il Papa. I de' Chimici erano molto legati tra loro, specialmente in un momento di dolore come quello. Quando entrò, Gaetano balzò in piedi e il dolore sul suo viso sparì per un momento. «Come sta?» chiese Francesca. «Come vedi» rispose Gaetano, facendo un gesto verso il letto dove giaceva il corpo quasi trasparente di suo fratello. Niccolò sedeva come al solito lì accanto tenendo le mani del figlio. Francesca fu impressionata dalla barba lunga e dagli occhi iniettati di sangue dello zio. «Guarda chi c'è» disse Gaetano sottovoce rivolto al padre. «Francesca è arrivata da Bellezza.» Il Duca si riscosse appena per salutarla, passandosi la lingua sulle labbra secche prima di parlare. «Grazie, mia cara. Sei stata molto gentile a venire, ma non c'è nulla che tu possa fare... né tu né chiunque altro.» Beatrice li raggiunse, tutta agitata. «Oh, Francesca... grazie al cielo è arrivata un'altra donna! Mi darai una mano, vero? Ora che Francesca è qui puoi andare a riposarti un po' a palazzo» disse al padre. «Lo sai che ti manderemmo subito a chiamare se ci fossero dei cambiamenti.» Gaetano fece notare che la cugina era appena arrivata e che doveva essere stanca per il lungo viaggio, ma Francesca lo interruppe: «Rimarrò volentieri a vegliare Falco con te, Beatrice.» Con grande sorpresa di Gaetano, Niccolò si alzò, lasciando a Francesca la mano di Falco. «Andrò a riposarmi un po'» annunciò. «Sei una brava ragazza, Francesca. Beatrice, mi giuri che manderai subito Gaetano a chiamarmi se succede qualcosa?» «Non vuoi che venga a palazzo con te?» chiese Gaetano. «No. Devi restare qui nel caso riapra gli occhi. Il palazzo è vicino. Ci andrò da solo.» Poi uscì dall'ospedale, attraversando un capannello di persone che pregavano per Falco, recitando il rosario o stringendo immagini della Dea.
«Cesare non c'è? Ma come?» esclamò Paolo. «Qui non c'è» disse Teresa. «Sarà giù al Campo.» «Ma è quasi l'ora della prova. Deve portare Arcangelo alla partenza.» Nelle scuderie non c'era traccia del ragazzo. Dall'ora di colazione nessuno lo aveva più visto. Paolo stesso dovette condurre il cavallo al Campo. Luciano e Georgia lo accompagnarono, anche se per lei cominciava ad essere un po' tardi per trattenersi in Talìa. Cesare però non era nemmeno in piazza. Alcuni sostenitori dell'Arciere, che attendevano con Alba e il suo fantino, vennero verso il capostalliere del Montone, stupiti di vedere Arcangelo senza cavaliere. Paolo fece qualche domanda con circospezione e loro confermarono di aver visto Cesare nel Campo qualche ora prima. «È andato a bere qualcosa con un uomo dal mantello blu» disse uno. «Era del Montone. Be', almeno indossava i vostri colori.» Luciano trasalì: un uomo dal mantello blu significava solo una cosa, e non era affatto buona. «Ho paura che Cesare sia stato rapito» mormorò a Georgia. «Tutti i cavalli alla linea di partenza» gridò il mossiere. «Oh, no! E adesso cosa farà Paolo?» chiese Georgia. Il tramestio di uomini e animali cessò per qualche minuto. «Il Montone rinuncia» annunciò il mossiere. «Gli altri undici vadano alla linea di partenza e prendano posto.» La terza prova venne corsa senza il Montone. Cesare si svegliò con un terribile mal di testa. Non aveva idea di dove fosse né di come ci fosse arrivato. Era in una stanza disadorna, calda e polverosa, con finestre alte e inferriate. Allungandosi per sbirciare da una di queste, capì di essere molto in alto. Vedeva colline e boschi che avevano qualcosa di familiare, ma era troppo confuso per capire di che cosa si trattasse. Dalla luce che filtrava intuì di essere rimasto svenuto a lungo e che era già l'ora della prova della sera. Si mise a camminare angosciato su e giù per la stanza. Tentò di dare strattoni alla porta, ma era chiusa dall'esterno. Era in trappola. Il giorno seguente Ralph disse: «Georgia, stasera in tivù c'è un programma che forse ti interessa. È sui cavalli.» Lei quasi non fece caso al giornale che il patrigno le stava mostrando.
Era ancora scioccata da ciò che era successo la sera prima a Remora. Per un Duodecimo era una vergogna rinunciare a una prova, ma Paolo non aveva sostituti pronti. Lui stesso era ormai troppo alto e pesante per correre nella Stellata: quando aveva portato il Montone alla vittoria, un quarto di secolo prima, aveva solo quindici anni. Inoltre era sempre più probabile che Cesare fosse stato rapito. Georgia aveva rischiato ed era tornata tardi, perché sapeva che nessuno si sarebbe preoccupato se non fosse scesa per colazione. Fu sorpresa di trovare Ralph ancora a casa. Lui spiegò che stava aspettando un'importante consegna di pezzi e poi le sventolò di fronte agli occhi ancora assonnati il supplemento del "Guardian" con i programmi televisivi. A un tratto qualcosa sul giornale attirò la sua attenzione: PALIO DI SIENA. UN DOCUMENTARIO SULLA CORSA DI CAVALLI PIÙ PAZZA DEL MONDO. CHANNEL 4, ORE 20.00. «Lo sapevo che ti sarebbe interessato» disse Ralph, soddisfatto della sua reazione. «Mi interessa sì» esclamò Georgia. «Abbiamo una cassetta vuota per registrarlo?» «Sì, puoi usare quella su cui abbiamo registrato gli Oscar.» «Vorrei invitare qui Fal... ehm, Nicholas» aggiunse Georgia. «Anche a lui piacciono i cavalli.» «Buona idea» disse Ralph. «Possiamo guardarlo tutti insieme sul televisore grande in soggiorno.» Quello era un imprevisto. Georgia avrebbe dovuto avvisare Falco di non fare paragoni con la Stellata, e sarebbe stato difficile per entrambi. «Prima Merla e ora Cesare» disse Paolo. «Ci sono per forza di mezzo i de' Chimici.» «Concordo» approvò Rodolfo, che era stato convocato alla casa del capostalliere. «Anche se sono sorpreso che il Duca abbia agito mentre suo figlio è ancora in pericolo di vita. Mi sembrava troppo preoccupato.» «Ha parenti in abbondanza in città» osservò Paolo. «Che cosa facciamo?» chiese ansiosa Teresa. «Non gli faranno del male» cercò di consolarla il marito. «Credo che vogliano solo tenerlo prigioniero fino a dopo la corsa.» «Appunto. Cosa facciamo per la corsa?» intervenne Luciano. «Credo ci sia solo una cosa da fare» disse Paolo. «Georgia dovrà correre per il Montone.»
Del tutto ignara dei piani in cui la stavano coinvolgendo a Remora, Georgia seguì il documentario come ipnotizzata. Seduti sul divano, lei e Falco si spartivano una grossa ciotola di popcorn, uno degli aspetti che Falco preferiva della sua nuova vita. Ralph era seduto in poltrona accanto a loro, mentre Maura stava scrivendo alcune relazioni di lavoro nello studio e Russell si era chiuso in camera a guardare un video di arti marziali. «È una corsa piuttosto violenta, eh?» disse Ralph, seguendo cavalli e fantini che agitavano i nerbi impegnati in un furioso galoppo intorno a Piazza del Campo. «Montano a pelo, Georgia» sussurrò Falco. «Proprio come i nostri.» «Sembra molto più difficile di come faccio io» disse lei, chiedendosi se la vera Stellata fosse veloce e frenetica come il Palio. A Siena i fantini erano molto più vecchi di Cesare ed evidentemente professionisti, quasi tutti da fuori città. Quando il documentario finì, Ralph riportò Falco a casa e Georgia decise di andare a dormire presto. Voleva essere a Remora in tempo per la prova successiva, perché non sapeva che cosa avrebbe fatto Paolo. Si stava preparando una cioccolata calda in cucina, quando Russell arrivò a saccheggiare il frigo. «Non so come fai a girare con quel ragazzino» disse rabbrividendo in maniera esagerata. «Con quella gamba tutta storta. Mi fa venire la pelle d'oca.» Ferma sulla soglia della cucina, Maura aveva un'espressione scandalizzata. «Spero che tu non dica sul serio, Russell.» «No, scherzavo» rispose subito lui. «Be', non c'è proprio niente da ridere» replicò Maura con il tono più arrabbiato che avesse mai usato nei confronti del figliastro. Uscendo, Russell lanciò a Georgia un'occhiata velenosa. «Vieni, bellezza mia» sussurrò Enrico a Merla in piena notte. «Andiamo in un posto speciale.» La puledra nera, ormai cresciuta, volò decisa verso Remora, spronata da quell'uomo che conosceva bene. Fu un volo più lungo del solito e a Merla questo piacque. Volando verso sud attraverso la notte stellata e oltre le mura di una grande città, sentì che i ricordi diventavano sempre più forti. Avrebbe voluto virare a ovest, ma il suo cavaliere la mantenne in direzione del centro
e poi la frenò dolcemente, in modo da farla librare sopra uno slargo circolare. Merla ignorava il senso di quegli ordini, ma si ricordò che lì vicino c'erano persone che l'avevano trattata con amore. Cesare aveva passato una notte terribile, sapendo che sarebbe stato ancora chiuso in quella stanza quando la prova mattutina sarebbe iniziata. In sogno gli era sembrato di sentire un cavallo che nitriva appena fuori della finestra. Doveva per forza essere stato un sogno, perché nessun cavallo sarebbe potuto arrivare così in alto. "Solo Merla" aveva pensato, sprofondando poi in un altro sogno nel quale Arcangelo vinceva la corsa senza di lui. Un cavallo poteva vincere la Stellata anche arrivando da solo, ma non poteva partire senza fantino. A un certo punto sentì che i chiavistelli venivano aperti e corse verso la porta, ma due uomini robusti, che non aveva mai visto prima, gli impedirono di uscire. Uno di loro lasciò un cesto di panini e di frutta e una tazza di latte. Poi Cesare rimase di nuovo solo, roso dall'angoscia. «Vorrei che tu cavalcassi Arcangelo per il Montone» disse Paolo, che aveva atteso Georgia nel fienile con la tunica da fantino di Cesare. «Sei capace, vero? Di montare a pelo, voglio dire.» «Be', sì» disse Georgia deglutendo. «E hai già montato un cavallo grande come Arcangelo?» Georgia si ricordò di Conker e annuì. «Allora infilati questa tunica e raggiungimi nel cortile» tagliò corto Paolo. «Dobbiamo andare alla pista.» La notizia di un evento soprannaturale si era subito sparsa per tutta Remora. Il Campo era pieno di gente divisa in gruppi che guardavano verso l'alto, molte più persone di quante normalmente assistevano a una prova mattutina. Al centro del Campo, in cima all'alta colonna che si ergeva dalla fontana, oltre la portata di qualsiasi scala, la fascia rosa e bianca dei Gemelli sventolava dal collo della leonessa. «È un presagio» dicevano alcuni, unendo le dita a formare la mano della fortuna. «I Gemelli vinceranno.» «Ma come ha fatto ad arrivare lassù?» osservavano altri. «Dev'essere stata la Dea» disse qualcuno. Subito il grido «Dia! Dia!» riecheggiò per tutto il Campo.
«La Dea... o qualcuno su un cavallo alato» aggiunse un altro. E così cominciò a circolare la voce che quell'animale prodigioso fosse tornato a Remora. Capitolo 21 Va' e torna vincitore
«Non abbiamo tempo per pensare a quello» disse Paolo, dando solo un'occhiata distratta alla colonna e alla fascia che vi fluttuava in cima. «Hai capito, vero? Oggi non è permesso l'uso dei nerbi. Devi solo stare in sella per tre giri del Campo. Il piazzamento non importa.» Fu un bene, perché Georgia arrivò ultima. Però rimase in sella nonostante la prova fosse combattuta con la maggior parte dei cavalli uniti in gruppo. L'Acquario vinse di una lunghezza, su un destriero chiamato Uccello. Il suo giovane fantino era famoso per essere sempre affamato e purtroppo per lui venne visto fare colazione poco prima della partenza. Fu quindi immediatamente soprannominato "Salsiccio". Anche Georgia ebbe un soprannome, ma non molto lusinghiero. Non aveva mai visto una prova prima di allora e dovette farsi spiegare tutto: dove aspettare, quando montare, che cosa fare. La chiamarono "Zonzo", l'equivalente locale di "tonto", ma lo fecero con affetto e tutti furono gentili con lei, anche i fantini avversari. La notizia della sparizione di Cesare si era diffusa in fretta, e nessuno dubitava che fosse stato tolto di mezzo perché rappresentava un ostacolo alla vittoria dei de' Chimici. Cose del genere erano già successe. «Che sfortuna per il Montone» disse Riccardo a Enrico mentre seguivano la quarta prova. «Terribile» concordò lui. «Però siamo ancora alle prove. Il sostituto può migliorare.» Riccardo scosse la testa e disse: «Mancare a una prova è un pessimo presagio. Non si riprenderanno.» Se non altro il Montone aveva un cavaliere di riserva. I fantini non erano
tenuti a dare i loro nomi ai giudici fino al mattino stesso della gara. Da quel momento nessun cambio era più possibile. Se Cesare fosse stato rapito allora, il Montone avrebbe dovuto rinunciare alla Stellata. Enrico però non voleva arrivare a tanto: a lui bastava che non vincesse. Mentre correva, Georgia era terrorizzata, ma alla fine della prova si sentì euforica. Non era stata brutta come temeva. L'aveva trovata meno violenta del Palio che aveva visto in tivù, ma era solo una prova. La vera corsa sarebbe stata molto diversa. Arianna osservava dal suo balcone insieme a Rodolfo. «Qualcosa non va» gli disse. «Sul cavallo del Montone c'è lo Stravagante, non il fantino ufficiale.» «Cesare è sparito» spiegò Rodolfo. «Temiamo che sia stato rapito. Paolo ha deciso di far prendere il suo posto a Georgia.» «Be', non sembra che stia facendo un gran lavoro» osservò Arianna. «Il Duodecimo di Bellezza che arriva ultimo è proprio il risultato perfetto per il Duca Niccolò.» «Non gli basterà, se la Signora o i Gemelli non vincono. Non dimenticare che la corsa deve dimostrare che i de' Chimici dominano Talìa» disse Rodolfo. Arianna sospirò, poi chiese: «Perché non mi hai detto che lo Stravagante remorano era una ragazza?» «Ti avevo detto solo che era arrivato un nuovo Stravagante. Chi fosse non aveva importanza.» «Sapevi che era un'amica di Luciano?» «Il Dottor Dethridge mi ha detto che frequenta la sua stessa scuola. È convinto che l'edificio sia stato costruito sul luogo in cui sorgeva il suo vecchio laboratorio.» «Che cosa ne pensi di lei?» «Al momento sono molto arrabbiato per ciò che lei e Luciano hanno fatto a Falco» rispose Rodolfo. «Però è coraggiosa, leale e fa volentieri quello che le viene richiesto.» «La trovi carina?» chiese ancora Arianna. Suo padre non rispose subito. La guardò meglio in viso, ma con quella maschera elaborata era difficile capire che cosa pensasse. «Fra qualche giorno sarà tutto finito» disse. «Poi tu, io e Luciano saremo di nuovo tutti insieme a Bellezza. Ci dimenticheremo presto di quest'ultimo mese.» «Allora la trovi carina» ribatté Arianna con un tono afflitto. «Non è certo come te» precisò Rodolfo. «Nell'altro mondo, le giovani
del futuro hanno un concetto diverso di avvenenza, se Georgia ne è un esempio. Però non è male da vedere.» «Ma io non la voglio vedere» sussurrò Arianna. Se Rodolfo la sentì, preferì non rispondere. Cesare stava progettando la fuga. Non era troppo fiducioso di riuscirci, ma doveva escogitare qualcosa o sarebbe impazzito. Ultimamente il cibo gli veniva portato da un uomo solo, che però era armato. Il ragazzo sapeva che sarebbe stato uno spreco di energia gettarsi contro qualcuno più grande, più forte e con un pugnale alla cintura. Il suo piano era difficile da mettere in pratica. Aveva deciso di non mangiare e bere niente di ciò che gli avessero portato. La fame gli attanagliava lo stomaco e aveva la gola secca. La noia assoluta della prigionia gli rendeva quasi impossibile non pensare al cibo e alla corsa. Così, per non essere tentato, Cesare strinse i denti e rovesciò a terra i piatti con un calcio. Paolo riportò Georgia al Montone e le spiegò tutto quello che sarebbe successo nelle trentasei ore successive. Quella sera ci sarebbe stata un'altra prova, seguita da banchetti nelle strade di tutti i Duodecimi. La maggior parte dei Remorani sarebbe rimasta sveglia tutta la notte a bere e a parlare della corsa. Poco dopo l'alba i fantini avrebbero assistito alla messa nel Duomo e poi, corsa l'ultima prova, sarebbero stati investiti ufficialmente e i loro nomi consegnati ai giudici. A quel punto, anche se Cesare fosse miracolosamente tornato, Georgia avrebbe dovuto comunque montare Arcangelo: una sostituzione sarebbe stata impossibile. Intorno all'ora di pranzo avrebbe potuto riposarsi un po', ma i preparativi per la grande corsa sarebbero iniziati verso le due del pomeriggio, quando tutti i partecipanti al corteo, compresi i fantini, si sarebbero vestiti con i colori del proprio Duodecimo e si sarebbero avviati verso il Duomo con gli sbandieratoti e i tamburini. «Allora dovrò restare sempre a disposizione» disse Georgia allarmata. «È più facile di quanto non sembri» replicò Paolo. «Ma dovrai per forza rimanere qui per quasi tutta la notte.» «E si può fare senza pericolo?» chiese lei, improvvisamente preoccupata di finire bloccata per sempre in Talìa come Luciano. «Credo di sì» rispose Paolo. «Parlerò con il Dottor Dethridge e con Rodolfo, ma secondo me è un rischio che dobbiamo correre. Forse è questo il motivo per cui sei arrivata qui.»
"Un rischio che devo correre io" pensò Georgia. Poi disse: «Ho tempo per stravagare a casa adesso? Devo sistemare alcune cose.» Salì nel fienile che ormai considerava come camera sua e tirò fuori il talismano, ma addormentarsi sembrò impossibile, con tutti quei pensieri per la testa. Se Paolo aveva ragione, se il motivo per cui era stata portata a Remora era davvero correre nella Stellata per evitare una pessima figura al Duodecimo di Bellezza, allora non avrebbe dovuto aiutare Falco. Forse doveva riportarlo indietro, come diceva Rodolfo. Ma era ancora possibile? Gaetano le aveva detto quanto il fratello fosse diventato magro e fragile, tenuto in vita dal latte e miele caldo che gli veniva versato in bocca con un cucchiaio. Nella Talìa del sedicesimo secolo non esistevano le flebo. Rodolfo andò a trovare Luciano nel Montone. Non avevano mai litigato prima e la cosa metteva a disagio entrambi. «Dobbiamo di nuovo parlare di Falco, Luciano. So che Georgia è stata distratta dai preparativi della corsa, che sa il cielo quanto siano importanti, ma deve riportare quel ragazzo nel suo corpo finché è possibile. Non credo che resisterà ancora per molto.» «La cosa è molto più complicata» disse Luciano. «Ora Falco vive con i miei genitori.» Rodolfo lo guardò stupefatto. «Complicata è dir poco» osservò. «Di chi è stata l'idea?» «Di Georgia. Ha organizzato tutto nel suo mondo. Era convinta di essere stata mandata qui per questo.» Rodolfo si fece pensieroso. «È pur sempre una Stravagante» disse. «Sarebbe strano se avesse frainteso una cosa simile. Ma non ha l'addestramento che hai ricevuto tu e ciò potrebbe creare problemi. Con la tua traslazione, nell'altro mondo ci fu un salto di tre settimane, ricordi? Abbiamo lavorato sodo per mantenere stabili le date e siamo riusciti ad allineare di nuovo i mondi. Ora le date combaciano, anche se loro sono più di quattrocento anni nel futuro. Ma se Falco morisse qui? Se morisse oggi? L'altro mondo potrebbe andare ancora più avanti, e Georgia diventerebbe vecchia prima di poter tornare da noi. Però ci serve qui domani, in forma per la corsa.» «È un bel problema» disse Luciano, passandosi la mano nei capelli. «Non capisco come si sia complicato tutto in questa maniera. È cominciato quando abbiamo fatto amicizia con i de' Chimici.» «Com'è successo?» chiese Rodolfo. Luciano ci pensò su un momento, poi rispose: «È stato quando abbiamo
incontrato i Manoush. Abbiamo sentito la loro musica e tutto è partito da lì.» «Gli Zinti? Allora non può essere stato un male» esclamò Rodolfo. Fece un sospiro profondo. «Devo parlare di nuovo a Georgia. Questo non è proprio il momento giusto, ma forse c'è sotto qualcosa che io non so.» Poi mise un braccio intorno alle spalle di Luciano. Georgia si ritrovò in camera sua in piena notte e cominciò subito a fare dei piani: come procurarsi un po' di tempo libero da passare a Remora, come trovare una scusa per uscire di casa e come convincere Falco a collaborare. Il giorno dopo sarebbe stato venerdì e con tutti al lavoro avrebbe potuto passare altrove la giornata senza destare sospetti. Per la sera e il giorno dopo, però, doveva escogitare qualcosa. Si alzò e accese la lampada sulla scrivania. Prese un foglio, vi scrisse un messaggio per Maura, poi sgattaiolò giù dalle scale e lo lasciò sul tavolo della cucina, dove la madre l'avrebbe trovato a colazione. Il passo successivo sarebbe stato più difficile: andare fino a casa dei Mulholland e farsi aprire la porta da Falco, a quell'ora di notte. Al pensiero di dover camminare per le strade di Londra al buio, cominciò a tremare. Remora si stava preparando per una serata di festa fra le più grandi dell'anno. La sera dopo solo un Duodecimo avrebbe brindato e festeggiato, ma alla vigilia della Stellata tutti potevano sperare nella vittoria. Ogni strada era piena di tavoli poggiati su cavalletti e di panche; in ogni cucina, pentole piene di sugo stavano già bollendo mentre le donne preparavano pasta fresca che poi tagliavano in mille forme diverse. I carri portavano ai mercati verdure che sparivano ancor prima di poter essere messe sui banchi. Botti di vino e di birra venivano fatte rotolare fino alle piazze centrali di ogni Duodecimo. Tutto era pronto per le baldorie serali. Il banchetto più sontuoso si sarebbe tenuto nella Piazza del Duomo, il punto di ritrovo principale per i Gemelli: lo avrebbe presieduto il Papa in persona. Tuttavia ogni Duodecimo avrebbe festeggiato la vigilia della Stellata con uguale intensità. I de' Chimici si erano riuniti nel Palazzo Papale per decidere che cosa fare quella sera. Il programma prevedeva che il Duca Niccolò e i figli banchettassero ai tavoli della Signora e poi facessero una visita ai Gemelli, lasciando magari Carlo e Beatrice a rappresentare la dinastia nel Duodecimo alleato con Giglia. In quel momento, però, nessuno sapeva se Niccolò
avrebbe abbandonato l'ospedale abbastanza a lungo per partecipare ad almeno uno dei banchetti. Naturalmente la Duchessa e suo padre sarebbero stati ospiti del Papa nei Gemelli. Qualcun altro della famiglia avrebbe dovuto tenere loro compagnia, e presumibilmente questo compito sarebbe toccato a Gaetano. Rinaldo avrebbe cenato nel Capro insieme a suo fratello Alfonso, Duca di Volana. Altri membri della famiglia stavano arrivando per assistere alla grande corsa. Filippo, il fratello di Francesca, avrebbe rappresentato Bolonia e i due avrebbero presenziato al banchetto della Bilancia, mentre da Fortezza le giovani Principesse Lucia e Bianca avrebbero fatto visita al Toro. Anche il vecchio Principe di Moresco si era spostato a Remora per festeggiare con lo Scorpione insieme al suo erede, il figlio Ferrando. «La città pullula di de' Chimici» disse Rodolfo entrando nelle stanze di Arianna nel Palazzo Papale. «Lo sapevamo, no? Sono qui per assistere a una vittoria per i capi della loro famiglia e a una sconfitta ignominiosa per Bellezza. Il motivo della nostra visita è tutto qui.» «Non solo, Arianna» le ricordò Rodolfo. «Si avvicina il momento in cui dovrai dare una risposta a Gaetano.» «Non mi ha ancora fatto una domanda ufficiale» replicò lei. Per Georgia fu un sollievo arrivare alla porta dei Mulholland. Camminare fin lì di notte non era stato affatto piacevole. Molti lampioni erano rotti e tutte le case erano al buio, a parte qualche rettangolo di luce che ogni tanto proveniva da finestre dietro le quali la gente studiava, litigava o semplicemente non riusciva a dormire. Per fortuna Falco era uno di questi. Georgia prese un po' di ghiaia da una delle fioriere accanto alla porta e tirò i sassolini verso la finestra del ragazzo. Dopo alcuni tiri a vuoto, vide affacciarsi una sagoma scura. «Falco!» sibilò. «Puoi farmi entrare?» Aspettò parecchio, mentre lui scendeva le scale fino alla porta il più velocemente e silenziosamente possibile. Georgia non era mai stata tanto felice di vedere qualcuno e di poter sfuggire a quell'oscurità minacciosa. Si mise un dito sulle labbra e fece cenno all'amico di chiudere di nuovo a chiave. Salirono le scale senza fare rumore e anche una volta al sicuro nella stanza di Falco dovettero parlare sottovoce per non farsi sentire da Vicky e David.
Georgia osservò la camera, illuminata dalla lampada a fianco del letto. Non riusciva a non pensare che quella era la vecchia stanza di Luciano, in cui lui non sarebbe mai più potuto tornare. Poi controllò l'interno della porta. «Hai una serratura» sussurrò. «Bene. Dobbiamo chiuderci dentro.» Il Duodecimo del Montone era tutto addobbato di bandiere rosse e gialle, i tavoli coperti da tovaglie dagli stessi colori e i muri decorati da reggitorcia di legno finemente dipinti, che non aspettavano altro che essere utilizzati al calare dell'oscurità. Dappertutto era stato riprodotto il segno dell'Ariete e i bambini portavano piccoli elmi con corna ricurve. A casa di Paolo i piccoli erano andati a dormire; le bambine avevano acconsentito solo a patto di portare con sé le loro bandierine. Georgia, con indosso la tunica da fantino, scese dal fienile e fu abbracciata da Paolo e Teresa. «È l'ora della prova» disse il capostalliere. «In bocca al lupo» le augurò Luciano, abbracciandola anche lui. In quel momento Georgia capì che doveva fare di più che rimanere semplicemente in groppa. Le speranze del Montone erano puntate solo su di lei. Tutti dicevano che i risultati della prova non contavano, ma quella di stasera era diversa. Georgia sperava che il piano elaborato a Londra funzionasse. Poi smise di pensarci e si concentrò sulla corsa. Arrivò decima, davanti al Capro e al Granchio. Tutto il Montone la applaudì e Georgia l'avrebbe considerata anche una bella impresa se non avessero vinto i Pesci, con il loro cavallo Noè, montato da un fantino che chiamavano "Il Re". Proprio i Pesci fischiarono Georgia mentre lasciava la pista e le gridarono parole che lei ipotizzò fossero insulti in talìano. Tuttavia venne riaccompagnata al Montone da una folla di sostenitori entusiasti, al grido di "Zonzo! Zonzo!" e "Montone! Montone!". Arcangelo fu portato a raffreddarsi nel suo piccolo recinto erboso e Georgia si trovò circondata da una folla di estranei che le davano pacche sulle spalle e le facevano i complimenti. Aveva riscattato l'onore del Montone e gliene erano grati. Per lei, che non era mai stata al centro dell'attenzione e non si era mai sentita particolarmente benvoluta, fu una sensazione insolita, che la inebriò più del vino rosso che le fu offerto a fiumi. Venne portata al tavolo principale davanti alla Santa Trinità, la grande chiesa del Montone, e fu felice di scoprire che Luciano e Dethridge si sarebbero seduti accanto a lei: aveva
infatti temuto che dovessero recarsi ai Gemelli con la giovane Duchessa. Un altro ospite al tavolo principale era Silvia Bellini, che non avrebbe potuto consumare quella cena di festa se non nel Duodecimo caro a Bellezza. La folla si stava incanalando su Via del Montone. A poco a poco tutti i posti ai tavoli vennero occupati, le torce furono accese e il banchetto ebbe inizio. Per prima cosa Paolo si alzò e richiese silenzio. «Montonaioli!» esclamò. «Vi presento il nostro fantino per domani... Giorgio Gredi!» L'applauso divenne un boato. «Pur senza preavviso, ha accettato di sostituire mio figlio e per questo gli siamo debitori.» Arrivarono altri applausi, poi il parroco della Santa Trinità apparve sulla gradinata della chiesa e Georgia dovette salire a ricevere da lui un casco speciale. Aveva i colori del Montone, ma era di metallo e non di stoffa come il berretto che aveva portato nelle prove. Si inquietò quando capì che il motivo era che l'indomani, nella corsa vera, tutti i fantini avrebbero avuto dei nerbi di cuoio con cui frustare anche gli avversari. Paolo si alzò di nuovo e nel suo ruolo di Capitano fece un discorso sull'onore del Duodecimo e sull'importanza della Stellata nella vita di tutti loro. Con orrore Georgia scoprì che adesso toccava a lei prendere la parola. Non aveva mai pronunciato un discorso in pubblico prima di allora, ma successe una cosa straordinaria. Paolo le sedeva a sinistra, Luciano a destra e accanto a lui c'era Dethridge. Alzandosi, già leggermente stordita dal vino, Georgia vide Luciano e il Dottore prendersi per mano. Luciano afferrò un lembo della tunica da fantino nella mano libera e Paolo fece lo stesso dall'altro lato. Quando aprì la bocca per parlare, sentì una grande energia scorrerle dentro. La sua voce le sembrò più profonda del solito e trovò che le parole le uscivano con estrema facilità. Fu una sensazione piacevole, anche se in seguito non avrebbe ricordato una sola parola di quello che disse. Parlò del proprio attaccamento a Remora e al Montone in particolare e di come l'indomani avrebbe fatto del suo meglio per meritarsi la fiducia che riponevano in lei. Il Montone sembrò apprezzare il discorso e alla fine Georgia ricevette un applauso fragoroso. Gli Stravaganti lasciarono la presa per unirsi all'acclamazione e l'energia in lei diminuì immediatamente. Dal suo posto a fianco di Dethridge, Silvia si chinò verso la ragazza e le disse piano: «Magari per domani questi tre riusciranno anche a farti cresce-
re un po' di barba.» E Georgia rise, sapendo di essere fra amici. Non avrebbe mai dimenticato quella sera. Già trovarsi a Remora dopo il tramonto e vedere le sue vie illuminate dalle torce era emozionante, ma partecipare ai canti, ai cori e ai festeggiamenti nella sera più importante dell'anno remorano ed essere addirittura considerata ospite d'onore, con Luciano che sorrideva al suo fianco, per Georgia era felicità allo stato puro. Se quello era il modo in cui festeggiavano la sola partecipazione alla corsa, che cosa avrebbero fatto per la vittoria? Cercò di non pensarci. Arcangelo era un buon cavallo e loro due si stavano abituando a correre insieme. Tuttavia lei non era Cesare, e perciò decise che era meglio non farsi illusioni. Con il trascorrere della serata,, i canti crebbero di volume. Tutti brindarono a Georgia, a Paolo, ad Arcangelo, al Montone e a qualsiasi altra cosa venisse loro in mente. Poi ci fu un momento solenne in cui Paolo richiese un brindisi alla salute di Cesare, dovunque lui fosse. Luciano aggiunse sottovoce: «E a Merla.» Il cibo era più che abbondante. C'erano verdure arrosto fragranti di aglio e di erbe aromatiche; frutti di mare su letti di crescione aspro; pasta in una miriade di forme tra cui una che ricordava le corna di un ariete; sugo di cinghiale, pesto, cotolette e pollo alla brace; ciotole di fagioli verdi, bianchi e rossi; nonché forme intere di formaggio, fresco e soffice o stagionato e piccante. Le portate sembravano non finire mai. In un momento di pausa, mentre i piatti di legno venivano portati via, una figura avvolta in un mantello si inserì fra Georgia e Luciano. Poi si tolse il cappuccio di velluto e Georgia si trovò a fissare gli occhi viola di Arianna. Era senza maschera. Paolo sussultò: non aveva idea di come fosse riuscita a liberarsi dal banchetto dei Gemelli, ma senz'altro era lì in incognito. Allora propose un brindisi alla città loro alleata e il grido «A Bellezza!» risuonò per tutta Via del Montone. «A Bellezza!» fece eco Georgia, bevendo già un po' brilla dal suo calice d'argento. «Grazie» disse Arianna divertita. «E grazie di non essere arrivata ultima oggi. A quanto pare, domani il mio Duodecimo non farà una brutta figura.» Georgia ammirava la Duchessa. Non solo per il fatto che era bellissima, ma per qualcosa che non aveva niente a che fare con gli abiti o i gioielli. La affascinava il suo rapporto con Luciano, quella parte della vita di lui che Georgia non conosceva; e anche il suo ruolo, importante e pericoloso,
di sovrana assoluta di una città che si opponeva ai de' Chimici. «Rodolfo è con te?» chiese Luciano. «No» rispose Arianna senza staccare gli occhi da Georgia. «Già è stato poco cortese che me ne andassi io. Ho usato la scusa del mal di testa. Lui è dovuto rimanere a rappresentare la nostra città. Ma non potevo lasciar passare la serata senza venire ad augurare buona fortuna al mio fantino, vero?» "Non devo arrossire" pensò Georgia, e si accorse che Paolo aveva ripreso in mano un lembo della sua tunica. Luciano invece sembrava nervoso. Avere vicino la Duchessa era un po' come essere a fianco di un animale selvatico, impossibile da prevedere. Arianna salutò poi la madre con un cenno impercettibile. Tutte e due stavano correndo un grosso rischio. Georgia pensò che per quanto il Montone fosse un luogo sicuro, ci potevano sempre essere delle spie fra le centinaia di persone che banchettavano nella piazza. Per la prima volta non provò gelosia o soggezione nei confronti di Arianna, ammirandone invece il coraggio. Si accorse che la giovane Duchessa la stava fissando. «Tu e io siamo molto più simili di quanto non immagini» le disse Arianna sottovoce. «Entrambe portiamo una maschera. E forse condividiamo anche un segreto.» Per Falco, a Islington, quello fu un lungo venerdì, passato nel timore che Maura telefonasse e chiedesse di parlare con Georgia. Inoltre non era mai stato così tanto tempo senza avere notizie da Remora. «Andiamo a fare un giro?» chiese Vicky. «Mi sembri un po' giù.» Istintivamente a Falco venne da dire di no, ma poi pensò che forse sarebbe stata la copertura perfetta. Uscendo non avrebbe dovuto mentire alla madre di Georgia e non si sarebbe neanche dovuto preoccupare che Vicky entrasse in camera sua. Però non fu facile lasciare la casa sapendo che la sua amica stava dormendo tranquilla sul pavimento accanto al suo letto, e la porta della camera non si chiudeva a chiave dall'esterno. Era una giornata bellissima e calda. Vicky lo portò al parco in macchina: non era molto distante, ma andarci a piedi sarebbe stato troppo faticoso per Falco. Erano arrivate le giostre e per quanto potessero sembrare banali a un tredicenne del ventunesimo secolo, lui le trovò fantastiche. Andarono nel castello dei fantasmi, sulla ruota panoramica, sul polipo e sull'autoscontro. Falco mangiò zucchero filato rosa e una granita alla menta, ma dopo l'autoscontro gli venne di nuovo fame.
«Potrei avere una di quelle salsicce nel panino, per favore?» chiese a Vicky. Le ci volle un attimo per capire che intendeva dire un hot dog. Glielo comprò, ma fu sorpresa che li conoscesse. Non sapeva mai che cosa pensare di Nicholas: a volte sembrava che stesse solo fingendo di aver perso la memoria, ma altre volte sembrava che certi aspetti della vita londinese lo stupissero molto. Forse la teoria di Maura O'Grady sugli immigrati in cerca di asilo politico non era poi così sbagliata. Finito l'hot dog, Falco si leccò le labbra e le dita soddisfatto. Nel nuovo mondo il cibo era davvero delizioso e facile da procurarsi. Aurelio e Raffaella si alzavano sempre all'alba, ma la notte precedente la Festa della Dea non erano andati a dormire per niente. L'avevano trascorsa nel Campo delle Stelle con la loro vecchia amica Grazia, che abitava nella Leonessa, e quando la luna piena era sorta si erano rivolti in silenzio verso oriente. Avevano intorno altri gruppi di persone dai vestiti sgargianti. Poi tutti i Manoush avevano cominciato a cantare. Aurelio non era l'unico musicista fra loro: arpe, flauti e tamburini si erano uniti in un inno di lode alla Dea che era durato fino al mattino. I pochi Remorani svegli all'alba avevano visto i Manoush alzare le braccia verso il sole nascente e li avevano sentiti intonare una canzone lamentosa che parlava della Dea e del suo consorte. Così iniziava la Stellata ogni anno: con un rituale più antico e segreto, conosciuto soltanto da pochi, ma fondamentale per tutto quello che sarebbe successo nel resto della giornata. Georgia non dormì molto più dei Manoush e fu lieta di vedere il cielo schiarirsi. Per quella notte, la sua prima a Remora, le era stata data una stanza in casa di Paolo. «Dormire nel fienile è troppo pericoloso» aveva detto il capostalliere. «Non vogliamo che ci rapiscano un altro fantino.» Dopo essere rimasta in piedi fino a tardi e aver sonnecchiato un paio d'ore, Georgia venne svegliata dai rumori di casa. Quel giorno però non avrebbe fatto colazione assieme agli altri, perché doveva andare a messa nel Duomo con gli altri undici fantini e digiunare. Georgia non era abituata a svegliarsi così presto e a saltare la colazione, e tanto meno ad andare in chiesa. L'imponente Duomo, con le sue strisce di marmo bianche e nere e le nubi di incenso, la fece sentire in soggezione, in netto contrasto con l'esaltazione della sera prima. Il peggio fu sapere
che, nonostante una folla di sostenitori di tutti i Duodecimi affollasse l'esterno, la funzione era riservata solo ai dodici fantini. Georgia osservò attentamente ciò che facevano gli altri e li imitò. Sentì lo stomaco di Salsiccio borbottare e sorrise pensando che c'era qualcuno più affamato di lei. Per il resto, comunque, la funzione fu solenne. Georgia guardò meglio il Papa, che stava celebrando la messa. Era stata parecchie volte nel suo palazzo, ma non aveva mai visto lo zio di Falco e Gaetano. Era molto diverso dal Duca, più rotondo e corpulento, e non aveva la sua espressione crudele. Georgia intuì che era quello il destino che Falco aveva voluto evitare anche a rischio della vita. Passando dalla fresca penombra della chiesa al sole del mattino, le parve di udire in lontananza il debole suono di un'arpa. Poi però le campane del Duomo cominciarono a squillare e la folla ad applaudire. Il giorno della Stellata era iniziato. L'uomo di guardia era preoccupato. Il ragazzo che tenevano prigioniero stava rannicchiato in un angolo: non mangiava da quasi due giorni ed evidentemente non stava bene. Lui non sapeva come comportarsi e non c'era nessuno che potesse consigliarlo. Enrico era andato in città e non sarebbe tornato fino al pomeriggio. Quando l'uomo venne a scuoterlo, Cesare tese ogni muscolo del proprio corpo, scattò in piedi, gli passò sotto le gambe e prima che questo potesse reagire era già in fondo alla prima rampa di scale. Continuò a scendere rampa dopo rampa, alla cieca, senza sapere dove andare, ma usando tutta la propria energia solo per fuggire lontano. Era debole e gli girava la testa, ma aveva dalla sua l'effetto sorpresa. Quel fisico leggero che ne aveva fatto un buon fantino gli diede anche il vantaggio sul robusto inseguitore. Aveva l'impressione di essere in un grande palazzo, anche se lo scalone che stava scendendo non era quello principale. Probabilmente era nell'ala della servitù. Quando poi arrivò all'esterno, scoprì dove si trovava: sul retro della casa de' Chimici a Santa Fina. Attraversò i giardini a tutta velocità e non si fermò finché non si sentì al riparo nel bosco. Era pieno di graffi, senza fiato e moriva di sete, ma era libero. La prova che aveva luogo il mattino della Stellata era una pura formalità per la maggior parte dei fantini, ma non per Georgia. Per lei era un'occa-
sione in più per cavalcare Arcangelo intorno a quella pista insidiosa e aveva deciso di approfittarne. Di conseguenza arrivò terza. Vinse la Leonessa con Primavera e il loro fantino guadagnò un soprannome all'ultimo minuto. Tra baci e abbracci, quelli del suo Duodecimo lo chiamarono "Tesoro" per la vittoria, sebbene quella prova contasse ancora meno delle altre. «Bravissima!» disse Luciano a Georgia, che arrossì per il complimento. Poi i fantini dovettero dare i loro nomi al podestà e iscriversi alla corsa. "Giorgio Gredi" fu registrato insieme agli altri undici. Da quel momento non si poteva più tornare indietro. Georgia era nervosissima e a pranzo mangiò poco. Pensava con ansia a tutto ciò che l'aspettava quel pomeriggio e desiderava solamente non far fare brutta figura al Montone. Subito dopo pranzo venne portata a trovare Arcangelo. Il castrone, riposato dopo la prova mattutina, la riconobbe quando entrò nella posta. «Come stai, bello?» Georgia gli sussurrò nella criniera color ruggine. «Mettiamocela tutta, ti raccomando.» Il primo dovere del pomeriggio fu recarsi alla Santa Trinità per la benedizione del cavallo. Tutti i membri del Duodecimo, con le loro fasce rosse e gialle, si erano ammassati nel piccolo oratorio laterale, ma si fecero da parte quando entrò il destriero. Georgia camminò al suo fianco, sul tappeto rosso, fino all'altare. La passatoia attutiva il rumore degli zoccoli, che producevano ugualmente un suono strano in un luogo di culto. La folla stava in silenzio e l'atmosfera era tesa: nessuno poteva rischiare di spaventare l'animale. Il sacerdote intonò la rituale benedizione di cavallo e fantino. Impose per qualche secondo le mani sulla testa di Georgia, poi si rivolse al destriero. «Arcangelo... va' e torna vincitore!» Quelli del Montone attesero finché il loro campione non fu uscito e poi la chiesa si riempì di canti di lode. Capitolo 22 Fantini e stelle
Niccolò de' Chimici fu svegliato dal rullo di tamburi che arrivava da fuori. Come chiunque altro a Remora, aveva sopportato quel suono per settimane. Ora però il corteo stava passando proprio sotto le finestre dell'ospedale. A Falco era sempre piaciuta la sbandierata, con quegli stendardi multicolori che venivano sventolati e lanciati in alto dagli alfieri dei Duodecimi per creare figure elaborate. Fino all'incidente, ogni anno era stato impaziente di essere a Remora per vederla. Il Duca si rese conto che quello doveva essere il pomeriggio della Stellata, quando tutti i Duodecimi si esibivano nella sbandierata in onore di suo fratello, il Papa: il pomeriggio che Falco avrebbe dovuto godersi di nuovo dopo due anni di assenza. Niccolò si portò lentamente alla finestra e guardò verso la piazza. Era una sarabanda di suoni e di colori. Il numero di cittadini e di turisti che era accorso per vedere la sbandierata aveva largamente superato quello di chi pregava per la guarigione di Falco fuori dell'ospedale. «La vita continua» sospirò amaramente il Duca. Sapeva benissimo ciò che i Remorani provavano per la loro corsa: dopotutto quell'anno era stato proprio lui a complottare per sfruttare a proprio vantaggio la loro credulità e la loro superstizione. In quel momento, però, gli sembrava un piano architettato da un'altra persona, tanto tempo prima. Tornò al letto e sollevò suo figlio, ormai tanto magro da non richiedere alcuno sforzo, avvicinandolo alla finestra aperta. «Vedi, Falco?» disse. «Vedi come sono belle le bandiere?» A Cesare sembrava di camminare da ore. Riconoscendo il Palazzo di Santa Fina aveva capito quale distanza lo separava dalla città, ma non era mai stato in quei boschi e aveva perso l'orientamento. Non c'era un rumore e il terreno sotto i suoi piedi era già ricoperto di foglie secche, nonostante fosse solo agosto. Gli alberi torreggiavano sopra di lui, formando una specie di volta lungo tutto il sentiero. Ma era il sentiero giusto? Attraverso il fogliame, Cesare non riusciva a capire bene la posizione del sole. Si augurò di essere ancora diretto verso sud. Era stanco, affamato e aveva una gran sete. L'energia che gli aveva permesso di fuggire era ormai svanita. Pensava solo che quello doveva essere il giorno della Stellata e che il Montone non aveva un fantino. Si trascinò avanti con determinazione, pur sapendo che se anche fosse tornato a Remora in tempo, non sarebbe stato nella forma necessaria per cavalcare.
Georgia era rimasta commossa dalla cerimonia della benedizione del cavallo. Davvero bizzarri, i Remorani. Erano superstiziosi e quasi pagani con i loro riferimenti alla Dea, ma l'atmosfera in quell'oratorio cristiano era stata intensa e le parole del prete avevano dato speranza a tutti. Dopo la cerimonia Paolo la convinse a riposarsi, anche se era troppo nervosa per coricarsi. Quella era la sua unica possibilità di assistere allo splendore rituale del grande giorno e non voleva perdersi nulla. Poi pensò che avrebbe dovuto almeno tentare di stravagare fino a Londra per controllare che tutto fosse a posto. Alla fine riuscì ad addormentarsi, stringendo in mano il cavallino alato che era il suo passaporto per casa. Quando Georgia si sedette di colpo e gli strinse la mano, Falco si spaventò. Non stava dormendo: era stato bellissimo rimanere a guardarla indisturbato con il chiaro di luna che filtrava dalle tende. La ragazza lo fissò e quello stesso chiaro di luna le brillò negli occhi. «Qualcosa non va?» chiese lui. «Cosa sta succedendo a Remora?» Lei scosse la testa. «No, va tutto bene. È solo che devo riposare un po' prima della corsa. È fantastico... le bandiere, i colori, i cavalli... Stamattina sono arrivata terza nella prova e poi sono andata alla benedizione di Arcangelo e...» Le mancarono le parole. «Ma sono dovuta tornare per controllare come stava andando qui. E per assicurarmi di poter ritornare» aggiunse a voce ancora più bassa. «Qui è tutto a posto» disse Falco. «Ma vorrei essere con te alla corsa.» Georgia gli strinse la mano. «Lo so che per te questa è la parte più difficile» disse. «Abbi ancora un po' di pazienza e ti racconterò tutto quando torno. Adesso però devo andare.» Si sdraiò di nuovo e si concentrò sulla stanza in casa di Paolo. Poco dopo, un respiro regolare segnalò a Falco che si era addormentata e che lui poteva riprendere la veglia. Passò qualche ora prima che chiudesse gli occhi, perché nella mente stava vivendo ogni minuto del giorno più importante di quella corsa che non avrebbe mai più rivisto. Dai gradini della grande chiesa, Georgia guardò gli sbandieratori eseguire i loro numeri e creare figure con le bandiere rosse e gialle. Come il resto della gente del Montone, anche lei trattenne il respiro quando i ragazzi lanciarono le pesantissime aste sopra le teste e se le scambiarono al volo dopo averle fatte incrociare a mezz'aria.
«L'alzata» disse una voce dietro di lei. Si voltò e vide Paolo in uno splendido abito da parata. In quanto Capitano, doveva marciare con gli sbandieratori e i tamburini del Montone, come tutti gli altri Capitani dei Duodecimi. Stava parlando con un uomo alto e dai capelli grigi, che Georgia intuì essere il capo della corporazione degli argentieri, da quanto diceva la gente lì intorno. Poi tutti cominciarono ad allinearsi, nei loro abiti di velluto rosso e giallo, con mantelli di broccato ed elaborati copricapi dalle falde arrotolate e dalle piume ricurve. Paolo aveva anche speroni d'argento e una spada. Più tardi sarebbero arrivati un carro allegorico ispirato al Duodecimo e un Montonaiolo con Arcangelo. Allora anche Georgia si sarebbe unita al corteo, indossando il casco di metallo e montando il cavallo da parata, visto che prima della gara Arcangelo non doveva sprecare la minima energia. Proprio in quel momento, però, i figuranti a piedi si mossero per raggiungere gli altri Duodecimi che stavano già effettuando la sbandierata nella piazza dietro il Palazzo Papale. Di Luciano non c'era traccia, anche se fra la folla Georgia intravide Dethridge con una donna dall'abito di velluto rosso e il mantello di seta gialla, che doveva essere Silvia. Enrico era nella Piazza dei Gemelli a guardare gli sbandieratori. A un certo punto credette di scorgere il Duca affacciarsi a una finestra dell'ospedale. Sembrava reggesse qualcosa che poteva essere un manichino o una statua. Poi Enrico si rese conto con orrore che era il corpo esanime del giovane Principe de' Chimici. "Pazzesco" disse fra sé. Come poteva importare al Duca chi avrebbe vinto la corsa? Forse era il caso di investire ancora un po' dei soldi che gli avevano dato sia il Duca che il Papa e stringere un accordo dell'ultimo minuto con Seta, il fantino dei Gemelli. Enrico lo cercò con gli occhi acuti e scorse il rosa e il bianco della sua tunica nel caleidoscopio di nastri e fazzoletti indossati dai cittadini. Nella tribuna dei Gemelli, davanti al Palazzo Papale, Ferdinando guidò la Duchessa al suo posto, fra Rodolfo e Gaetano. Anche Fabrizio de' Chimici era presente, mentre Carlo rappresentava la famiglia sulla tribuna della Signora. C'erano però diversi posti vuoti, tra cui quelli degli altri ospiti bellezzani. L'assenza più vistosa era comunque quella del Duca. Nessuno sapeva se si sarebbe fatto vedere in tempo per la corsa.
Era un pomeriggio caldo e soleggiato e Barbara stava in piedi dietro la Duchessa, reggendo un parasole di pizzo bianco. Arianna portava un abito di seta bianchissima e una maschera ornata di piume di pavone candide. Aveva scelto di non sostenere alcun Duodecimo: tuttavia, all'insaputa di chiunque tranne Barbara, sotto l'ampia gonna di seta portava giarrettiere rosse e gialle. I fratelli de' Chimici vestivano il viola e il verde della Signora e sarebbero stati molto più felici nella loro tribuna, dalla parte opposta del Campo. Tuttavia, come anche nelle varie cene prima della corsa, avevano dovuto sostituire il padre e tenere alto l'onore della famiglia con i loro ospiti bellezzani. Le conseguenze diplomatiche della malattia di Falco erano state notevole, e nessuno dei due fratelli sapeva a che cosa avrebbero portato. L'atmosfera era tesa e anche Rodolfo, nel suo solito abito di velluto nero, senza alcun fazzoletto colorato, sembrava nervoso. «Che succede?» gli sussurrò Arianna. «Dov'è lui?» «C'è qualcosa che non va» rispose piano suo padre. «Avrei preferito che Georgia non corresse. Dovrebbe riportare indietro il ragazzo. E sono anche preoccupato per Cesare.» «E Luciano?» chiese Arianna. «Perché non è qui?» Rodolfo sospirò. «Non lo so» disse scuotendo la testa. «Anche con lui le cose non vanno. Dalla sua traslazione non era mai stato così infelice. Ed è colpa mia, almeno in parte.» «Ecco Dethridge!» esclamò Arianna. L'anziano Dottore prese posto sulla tribuna dei Gemelli fra inchini e baciamano, ma era venuto solo. Luciano non riusciva a stare fermo. Mentre Georgia era alla benedizione del cavallo, lui aveva gironzolato per le scuderie del Montone. Sentiva che dovunque si fosse trovato quel giorno, sarebbe stato nel posto sbagliato. Era riluttante ad andare al Campo così presto, anche se avrebbe voluto vedere il corteo prima della corsa. Tuttavia non gli andava di stare nella tribuna dei Gemelli, perché una volta lì, circondato da dignitari e sotto gli occhi di tutti, non ci sarebbe stata possibilità di fuga. Questo gli fece venire in mente Cesare, che quasi certamente era tenuto chiuso da qualche parte. Ricordò quando anche lui, un anno prima, si era trovato nella stessa situazione. Ovviamente Cesare non era in pericolo quanto lo era stato lui: il ragazzo talìano sarebbe stato rilasciato alla fine della corsa senza altra conseguenza che la delusione per essersi perso la
Stellata. Per Luciano, invece, da allora la vita era cambiata per sempre. Eppure ogni ora che Cesare passava prigioniero faceva rivivere a Luciano quello che aveva sofferto per mano dell'Ambasciatore dei de' Chimici e della sua spia dal mantello blu. Era probabile che il suo amico fosse prigioniero della stessa persona. Poi si ricordò di una cosa che Falco aveva detto prima di stravagare: che secondo lui c'era qualcun altro nel palazzo, qualcuno che lo teneva d'occhio. Di colpo Luciano capì che cosa doveva fare. Corse a vedere se c'erano cavalli da attaccare alla carrozza, ma tutti gli stallieri erano andati in Piazza del Fuoco e lui non poteva farcela da solo. Però sapeva come sellare e imbrigliare Dondola, che stava placidamente masticando fieno nella sua posta. Una volta finito, le salì goffamente in groppa usando un montatoio trovato nel cortile. Poi si avviarono per le strade deserte del Montone in direzione nord. Solo la gatta grigia li vide partire. Come primo segno dell'anno astrologico, fu il Montone ad aprire il corteo. Il tamburino cominciò a dare il ritmo per la marcia, che poi tutti gli altri Duodecimi avrebbero seguito. Gli alfieri abbassarono le bandiere e attraversarono l'arco sotto la tribuna dei giudici per entrare nel Campo. Lentamente raggiunsero la tribuna della Signora, pronti per eseguire la prima sbandierata cerimoniale. Georgia, sul cavallo da parata, si fermò. A causa del carro allegorico non riusciva a vedere niente del loro numero se non l'alzata, quando le bandiere salivano in alto e poi ricadevano mulinando, salutate da grandi applausi. "Fa paura" pensò guardando la folla. Tutto l'interno del Campo era pieno di Remorani vestiti con i colori dei propri Duodecimi. Notò che alcuni, evidentemente arrivati prestissimo per prendere i posti migliori, stavano in piedi appoggiati al parapetto di pietra intorno alla fontana. Il vessillo con i colori dei Gemelli sventolava ancora dalla cima della colonna, inspiegabile se non come presagio favorevole ai de' Chimici. Georgia spostò lo sguardo dalla folla alla tribuna della Leonessa, dove il suo gruppo si era fermato. Fra i nastri rossi e neri fu sorpresa di vedere i vestiti multicolori dei Manoush. Aurelio e Raffaella sedevano vicino a un'anziana donna della loro tribù. Georgia sorrise: avrebbe immaginato che guardare la corsa in tutta comodità non fosse compatibile con l'austero stile di vita dei Manoush. Il suo sguardo e quello di Raffaella si incrociarono. Georgia comprese di essere stata riconosciuta e se in quel momento non avesse dovuto tenere il
cavallo al passo avrebbe forse notato che anche il musicista cieco si era accorto di lei. Dal suo posto d'onore, Arianna assisteva incantata. Nella sua Bellezza non c'era uno spettacolo paragonabile a quello, tranne forse il Carnevale. Sentiva fortissimo il fascino di quella città e dei suoi cavalli. Vicino a lei, però, Rodolfo era ancora nervoso. Non faceva caso al corteo, ma continuava a guardare il cielo e a voltarsi verso l'ospedale, la cui mole era coperta dal Palazzo Papale. E dopo un po' Arianna si accorse che teneva uno specchietto seminascosto nel mantello. Cesare era quasi allo stremo delle forze quando arrivò a un fiume che scorreva impetuoso. Bevve con le mani a coppa fino a placare la sete. Non aveva niente in cui poter portare dell'altra acqua con sé, ma si bagnò il viso e i capelli e inzuppò il fazzoletto per tenersi fresco. Poi decise di attraversare il fiume per proseguire nel sentiero che serpeggiava fra gli alberi sull'altra sponda. Nel corso d'acqua c'erano diverse pietre irregolari che avrebbero potuto fare da guado, ma sondando con un ramo Cesare vide che nel mezzo era molto profondo. Il ragazzo sapeva già quanto quell'acqua fosse fredda e impetuosa, così tornò a riva e si sedette per un po' con la schiena contro un albero. Purtroppo non aveva mai imparato a nuotare. Luciano si diresse verso Santa Fina. Finché rimase sulla Strada delle Stelle trottò veloce, ma appena passata la Porta del Sole e imboccata la via che portava verso la campagna lanciò Dondola al piccolo galoppo. Non passò molto prima che il grande palazzo gli apparisse alla vista. I cancelli erano aperti e la servitù sembrava in preda alla confusione proprio come l'ultima volta in cui era stato lì, quando avevano trovato Falco e il flacone di veleno. Quando smontò da Dondola, uno dei servi lo riconobbe. «Oh, buongiorno, signore» disse. «Vi chiedo scusa, ma devo stare di guardia a questa porta. Vi dispiace portare voi il cavallo nelle scuderie?» «No di certo» rispose Luciano. «Che cosa è successo?» L'uomo borbottò qualcosa, ma evidentemente non voleva parlare. Luciano alzò le spalle e condusse Dondola nelle scuderie praticamente vuote. La mise in una posta e le diede fieno e acqua. «Torno subito» le disse. «Voglio solo dare un'occhiata nel palazzo. Sono
sicuro che Cesare è qui da qualche parte.» E riconoscendo la sua voce, o forse il nome del ragazzo che era con lei quando era venuta al mondo, Merla lanciò un lungo nitrito dal retro delle scuderie. Arianna sentì Rodolfo irrigidirsi all'improvviso. «Che c'è?» gli sibilò. Il corteo aveva ormai occupato l'intera circonferenza del Campo. Georgia si trovava di fronte alla tribuna dei Gemelli, la cui parata era arrivata invece davanti a quella del Montone. Rodolfo scambiò un'occhiata con Dethridge ed entrambi fecero poi un cenno a Paolo, che camminava orgoglioso sotto la tribuna. La connessione fra le loro menti era quasi visibile. La parata dei Pesci era appena entrata nel Campo seguita dall'ultimo carro, che portava il trofeo: la Stellata, il drappo ricamato di stelle. Su di esso c'era l'immagine di una donna vestita di azzurro. Se fosse la Regina del Cielo cristiana o una dea pagana non era chiaro. Alla vista del drappo la folla impazzì, tirando fuori tutti i nastri e i fazzoletti colorati e sventolandoli verso di esso. Approfittando del clamore, Rodolfo mostrò ad Arianna ciò che si vedeva nello specchio. Un giovane dai capelli neri lunghi e ricci, che portava i colori del Montone, era aggrappato al dorso di un cavallo nero. Sembrava poco abituato a cavalcare. Poi però, mentre l'immagine si affievoliva, Arianna vide che il ragazzo montava a pelo tra un enorme paio di ali e che il cavallo stava volando sopra le cime degli alberi. Cesare si svegliò di soprassalto. La luce era ormai quella del tardo pomeriggio e raggi di luce verde filtravano fra i rami. La fame lo tormentava, ma si convinse a entrare in acqua e a tentare di camminare su quelle pietre malsicure. A un terzo della traversata il coraggio gli venne meno. Le pietre erano scivolose e anche quelle più grandi si muovevano quando vi si appoggiava sopra. A ogni passo rischiava di cadere nelle acque impetuose e venire trascinato via. Si fermò, incapace di andare avanti o indietro, perché non si ricordava dove fosse passato per arrivare fin lì e gli girava la testa. Improvvisamente scorse una libellula nera sospesa proprio davanti al suo viso. Le sue ali lucide che riflettevano il sole gli ricordarono Merla. Concentrarsi su
quell'insetto luccicante gli fece passare il capogiro. Poi la libellula andò a posarsi su una delle pietre color ambra. Tenendo lo sguardo fisso su di lei, Cesare portò un piede in avanti e lo appoggiò sulla stessa pietra. La libellula spiccò il volo e si posò su un'altra pietra. Vi si fermò un secondo, tornò da Cesare e poi di nuovo lì. Cesare disse: «È quella giusta, vero, piccola?» e fece un passo in avanti. Pietra dopo pietra, passo dopo passo, faticosamente, la libellula lo guidò attraverso il fiume. Quando finalmente il ragazzo arrivò sull'altra sponda ed ebbe posato entrambi i piedi sulla terraferma, l'insetto sbatté tre volte le ali nere e poi sparì fra gli alberi. «Grazie» le gridò Cesare guardando verso l'alto. Fu allora che vide Merla volare lenta sopra il bosco, con un cavaliere in groppa. Luciano guardò in giù verso le cime degli alberi che sfrecciavano sotto di lui a una velocità che gli dava la nausea. Intuiva che Merla poteva volare molto più in fretta, ma sembrava cercare qualcosa. Gliene era grato: quando aveva deciso di imparare a cavalcare non aveva certo questo in mente. Perfino sistemarsi sulla groppa della cavalla alata era stata un'impresa. Luciano non aveva mai montato a pelo e si era sempre fatto aiutare a salire. In equilibrio fra le ali e aggrappato alla criniera, aveva premuto le ginocchia sui fianchi di Merla e schioccato la lingua. La cavalla era passata da un piccolo galoppo a un galoppo pieno e poi si era alzata senza scosse, salendo in diagonale verso il cielo con solo pochi battiti delle sue forti ali. Luciano aveva chiuso gli occhi e lei lo aveva portato sopra il bosco. Gli alberi occupavano la zona a sud di Santa Fina, verso Remora. Merla sembrava determinata a tornare in città. Entrambi udirono nello stesso momento le grida che arrivavano da sotto. Merla smise di battere le ali e rimase sospesa nell'aria. Luciano guardò cauto oltre una spalla della puledra. Nel bosco c'era una radura: in mezzo vi scorreva una striscia azzurra, vicino alla quale una figura si agitava sventolando un fazzoletto rosso e giallo. Poi la figura si ingrandì e Luciano si rese conto che Merla stava cercando un punto per atterrare. I rami gli sfrecciarono vicino alla testa e sentì le ali della cavalla frusciare mentre venivano ripiegate sul dorso, avvolgendolo in una nuvola di morbide piume nere. Merla abbassò il collo per permettergli di scivolare a terra. Luciano faceva fatica stare in piedi da quanto gli tremavano le gambe.
Poi però sentì un rumore di rami spezzati e Cesare sbucò di corsa dagli alberi. I due ragazzi si abbracciarono stretti. «Cesare! Che bello rivederti!» «Hai trovato Merla!» «Solo perché stavo cercando te!» Cesare corse verso la cavalla alata, che stava tranquillamente brucando l'erba. Le buttò le braccia al collo e appoggiò il viso alla sua guancia. Per un istante il ragazzo e la puledra rimasero fermi in silenzio a respirare l'uno l'odore dell'altra. Alla fine Cesare si voltò verso Luciano: «Dobbiamo andare al Campo. La corsa sta per cominciare.» «È tutto a posto. Georgia monterà Arcangelo.» Alla notizia, Cesare provò sentimenti contrastanti. Sapeva che il Montone doveva impiegare un altro fantino se non voleva rinunciare alla corsa; sapeva anche che ormai la scelta era definitiva e sarebbe stato impossibile cambiare. Almeno Georgia era abituata a montare a pelo e probabilmente era riuscita a stabilire un buon rapporto con Arcangelo. Tuttavia era ugualmente amareggiato. La Stellata si correva una sola volta all'anno e lui si era preparato a lungo per questa. L'anno seguente forse sarebbe stato già troppo alto o troppo pesante per ritentare. Ancora attaccato alla criniera di Merla, sospirò e poi chiese: «Può portare tutti e due?» Luciano scosse la testa. «Per un tratto breve, magari, ma non fino in città. Però ho un cavallo al palazzo, che è solo un miglio o due a nord.» «Io non ci torno» approvò Cesare. «È lì che mi tenevano prigioniero. Ci ho impiegato giorni a scappare.» «E se andassimo da Roderigo?» propose Luciano. «Ottima idea!» disse Cesare. «Dovrebbe essere qui vicino, a ovest. E lì c'è ancora Splendore. Merla sarebbe contenta di vederla e uno di noi potrebbe cavalcarla fino a Remora.» «Lo farò io» disse Luciano, che già si sentiva a disagio pensando al breve volo per arrivare fin lì. Merla lasciò montare entrambi. Cesare spinse su Luciano e poi saltò leggero, piazzandosi davanti a lui. Si chinò in avanti e sussurrò qualcosa all'orecchio della puledra. Subito lei spiegò le grandi ali e avanzò nella radura, guadagnando velocità sufficiente per decollare. Per un attimo i due ragazzi si chiesero se ce l'avrebbe fatta ad alzarsi prima di arrivare agli
alberi sull'altro lato, ma lentamente i muscoli possenti e le forti ali la fecero staccare dal terreno. E poi Merla si librò nell'aria, sempre più in alto, e volò verso sua madre. Georgia aveva i crampi allo stomaco. Il corteo aveva girato tre volte intorno al Campo e la Stellata era stata appesa sopra la tribuna dei giudici. Gli sbandieratori di tutti i Duodecimi avevano eseguito insieme un'ultima spettacolare alzata davanti al palco dei Gemelli e pieni di orgoglio avevano visto l'avvenente Duchessa di Bellezza scattare in piedi e applaudirli. I fantini avevano cambiato i cavalli nel cortile del Palazzo Papale e ora montavano quelli che avrebbero utilizzato nella corsa. Sorcetto, il fantino dell'Arciere, salutò Georgia toccandosi il casco e lei ricambiò. Invece non le piaceva l'aspetto del Re, il fantino dei Pesci, che le lanciava occhiate ben poco regali. E lei si ricordò di come si era comportato durante le prove. Di colpo la grande campana del palazzo tacque e solo allora Georgia si rese conto che aveva suonato tutto il pomeriggio, fin dalla cerimonia della benedizione. Nel cortile calò il silenzio. In quel momento una figura alta con i capelli arruffati barcollò di fronte ai cavalli e degnò appena di uno sguardo il proprio campione, che si era inchinato per ricevere un augurio. «Vostra Grazia» sussurrò Cherubino. Il Duca si fermò e lo fissò, poi alzò una mano stanca. «Vittoria e giubilo» disse rigidamente sforzandosi di ricordare la formula, e si avviò verso il Campo. Ad Arianna batteva forte il cuore. Sapeva che la corsa era truccata in modo da far vincere i de' Chimici. Sapeva anche che era stata invitata lì per assistere a una dimostrazione di potere da parte dei suoi nemici e se possibile a un'umiliante sconfitta per il Duodecimo suo alleato. Di lì a pochi minuti, però, sarebbe stata accompagnata alla tribuna dei giudici per sorteggiare l'ordine di partenza. Quello non poteva essere truccato: da un sacchetto di velluto avrebbe estratto, una per una, le palline di legno dipinte con i colori di ciascun Duodecimo. L'ordine di estrazione avrebbe determinato le posizioni dei cavalli, cominciando dall'interno della pista. Arianna pregò che a Georgia ne toccasse una buona, fra i primi estratti. Del Duca, che avrebbe dovuto accompagnarla, non c'era ancora traccia, e i figli si scambiavano sussurri che lei tentava di ignorare. Poi qualcuno si
fece largo fra la folla sul palco. Simile a un fantasma, Niccolò de' Chimici accennò un inquietante sorriso. «È il momento del sorteggio, Vostra Grazia» disse, offrendole il braccio. All'ingresso nel Campo, passando attraverso l'arco sotto il palco dei Gemelli, a Georgia fu consegnato uh nerbo. La linea di partenza era nella zona neutrale che partiva dalla metà nord della Strada delle Stelle. C'era un'altra zona neutrale a sud, dove le persone che avevano preso parte al corteo sedevano in una tribuna riservata. Georgia si avvicinò alla partenza, di fronte alla tribuna dei giudici, quasi come in sogno. Riusciva a vedere il mossiere: reggeva quella che sembrava una grande tromba, ma che più probabilmente era una specie di megafono. Al suo fianco c'era la Duchessa di Bellezza, una ventata di aria fresca nel caldo e nell'afa del Campo. Accanto a lei, Georgia riconobbe il Duca: non lo vedeva da giorni e rimase sconvolta dal suo aspetto. Arianna infilò una mano, elegantemente guantata, nel sacchetto di velluto nero. Ne estrasse una pallina rossa e viola. «Arciere» disse ad alta voce, ma il mossiere lo ripeté ugualmente con il megafono e «A-a-rr-ciee-ree!» echeggiò fra i palazzi che circondavano il Campo. Sorcetto portò Alba verso i canapi. La pallina venne messa al primo posto in quello che sembrava un incrocio fra un candelabro e una fila di portauovo di vetro. La Duchessa estrasse la seconda pallina: «Moon-too-nee!» risuonò il grido del mossiere. A Georgia occorse qualche secondo per capire che era uscita la pallina rossa e gialla. Le era toccata una posizione eccellente vicino alla barriera interna, con un amico al fianco. Poi però uscirono il blu e il rosa dei Pesci e Georgia si trovò incuneata fra il suo migliore alleato e il suo peggiore avversario. Ma non era ancora finita, perché nel quarto incavo venne posta la pallina rosa e bianca. Vicino ai Pesci ci sarebbero stati i Gemelli, impazienti di darle addosso e farle sbagliare la partenza. Tanti nella folla cominciarono a lamentarsi, perché le posizioni migliori erano ormai andate e i cavalli dei loro Duodecimi sarebbero stati vicini alla barriera esterna. La Signora venne estratta per ultima: il numero dodici, la rincorsa. Il loro cavallo avrebbe fatto partire la Stellata, entrando al galoppo fra i canapi e dando il via agli altri, sempre che il mossiere avesse ritenuto la partenza valida e nessuno fosse stato fuori posto. Nelle prove avevano seguito le stesse regole, ma non si erano preoccupati troppo di seguir-
le. La corsa vera e propria, invece, era molto più seria. Gli incavi di vetro erano ormai tutti pieni e il pallidissimo Duca stava riaccompagnando la Duchessa al palco dei dignitari, davanti al Palazzo Papale. Tra i canapi i cavalli scalpitavano nervosi. Non c'erano gabbie di partenza e diversi destrieri, fra cui Arcangelo, guardavano addirittura nella direzione sbagliata. Georgia vide il Duca e la Duchessa percorrere i pochi metri che portavano ai Gemelli e osservò con attenzione il palco. Luciano non c'era. Ma non ebbe tempo di pensarci. Dopo due false partenze, la corsa iniziò di colpo e Georgia non poté preoccuparsi di nulla se non della pioggia di colpi che le arrivò sul casco da parte del Re. Sorcetto scattò in avanti per farle spazio e lasciarla correre dietro di lui vicino alla barriera interna, ma Seta la bloccò mettendo Benvenuto sulla sua strada. L'inizio era stato disastroso, ma poi i Pesci e i Gemelli la lasciarono in pace. Erano convinti di avere fatto abbastanza per metterla fuori gioco e si concentrarono sulla loro gara. Georgia era furibonda, ma stava ancora in sella e Arcangelo correva veloce. Recuperò sugli altri cavalli e alla fine del primo giro era sesta, in mezzo a un gruppetto. In qualche modo sapeva di essere passata di fronte a Paolo e agli altri nella tribuna più a sud. Aveva completato un intero giro in senso orario, attraversando tutti i segni dello zodiaco. Duchi, Principi, bottegai e contadini si confondevano alla sua vista in un'unica striscia di colori. Georgia non vedeva niente e nessuno, se non il proprio cavallo e i propri avversari. Stavano galoppando a tutta velocità nel secondo giro, quando una voce si distinse fra il chiasso della folla. «Lo zhou volou! La fortuna è di nuovo col Montone!» Georgia capì subito che la voce era quella di Aurelio e contemporaneamente udì un battito d'ali. Gli altri fantini si distrassero e rallentarono quel tanto che bastò perché Arcangelo si ritrovasse terzo, dietro all'Acquario e ai Gemelli, quando passarono la linea per la seconda volta e iniziarono l'ultimo giro. «Non guardare in alto» Georgia mormorò fra sé, stringendo i denti, mentre la folla gridava all'unisono. Qualcosa di rosa e bianco le fluttuò vicino, ma neanche allora rallentò o esitò. Si affiancò a Salsiccio su Uccello. Lo vide vacillare e per un attimo notò i suoi occhi sgranati e pieni di terrore rivolti al cielo. «Non... guardare... in alto» ansimò. Era quasi al pari con Seta, su Ben-
venuto. Il fantino dei Gemelli alzò di nuovo il nerbo, ma subito lo lasciò cadere a terra perché ormai inutile. Georgia fece appena in tempo a vederlo fare la mano della fortuna e impallidire. Lo superò, tenendo lo sguardo ben fisso sulla bandierina bianca e nera che segnalava il traguardo. La passò e cominciò a far rallentare il grosso sauro. Non riusciva a crederci. Aveva vinto, aveva vinto per il Montone. Il silenzio, però, era inquietante. Era come trovarsi in un video messo in pausa. Tutti guardavano verso la colonna al centro del Campo. La fascia dei Gemelli era stata gettata a terra: in groppa a Merla, che restò pazientemente sospesa per tutta l'operazione, Cesare si tolse dal collo un fazzoletto rosso e giallo e lo legò al pinnacolo. Poi salutò Georgia con un cenno, si sporse pericolosamente dal fianco della cavalla alata e le gridò: «Vittoria e giubilo!» A quel grido, il Campo si rianimò e la festa ebbe inizio. Capitolo 23 Fuochi Del Montone
Luciano arrivò al Campo trafelato, dopo aver cavalcato Splendore da Santa Fina. Giunse molto dopo Cesare e Merla, trovando tutte le tribune vuote e gli ultimi spettatori che passavano sotto il palco dei Gemelli per raggiungere il Duomo. Legò il cavallo a uno degli anelli di ferro in una via che portava alla piazza e si incamminò. «Chi ha vinto?» chiese a un passante, ma la risposta si perse nel frastuono che veniva dalla chiesa di marmo bianco e nero. Luciano si fece largo e lo spettacolo che si offrì ai suoi occhi sciolse ogni dubbio. L'interno era un tripudio di rosso e giallo, con la gente del Montone che sventolava orgogliosa vessilli e fazzoletti. In fondo, vicino all'altare, vide il blu e l'argento del drappo della Stellata e due figure, entrambe nei colori del Duodecimo, portate a spalle da Montonaioli pazzi di gioia. Canti e applausi echeggiavano nella navata centrale. Era impossibile avvicinarsi a Georgia e Paolo.
Sorridendo, Luciano uscì dal Duomo e riportò Splendore alle scuderie del Montone. Arianna era tornata al Palazzo Papale e non aveva idea di come comportarsi. Era previsto un magnifico banchetto in suo onore, ma il palazzo era silenzioso. Per i de' Chimici, che si aspettavano di festeggiare una vittoria dei Gemelli o della Signora, era andato tutto storto. Era tradizione che dopo la Stellata il Duodecimo vincente desse una grande festa per le sue strade, cenando sotto le stelle con un banchetto che durava l'intera notte. Tutti gli altri Duodecimi, invece, sarebbero rimasti al buio, senza torce e senza candele, come se fossero in lutto. I tavoli sui cavalletti nella piazza di fronte al Duomo, con le tovaglie rosa e bianche già stese in previsione dei festeggiamenti, erano vuoti. Tuttavia il Papa non aveva intenzione di rinunciare a un banchetto. Anche se al Duodecimo dei Gemelli era stata negata la festa, non c'era motivo per disdire quello che si sarebbe tenuto a palazzo. Come secondo membro più anziano della famiglia, prese il comando. Sul Duca non si poteva praticamente contare. Ferdinando de' Chimici non era certo alla sua altezza come statista o come stratega, ma sapeva qual era il proprio compito nei confronti di ospiti nobili: toccava a lui salvare l'onore della famiglia e organizzare un festeggiamento il più grandioso possibile, anche se non c'era niente da festeggiare. Il Duca era tornato all'ospedale subito dopo la fine della corsa. Sembrava a malapena rendersi conto che Bellezza aveva vinto. Quando Gaetano andò a trovarlo, però, la città lagunare sembrava essere tornata nei suoi pensieri. «Perché non vieni a palazzo per il banchetto?» gli chiese sottovoce il ragazzo. «Hai bisogno di mangiare. Posso stare io con Falco.» «No» rifiutò Niccolò. «Il tuo posto è là. Tu piaci alla Duchessa, si vede. Devi approfittare del momento favorevole e dichiararti questa sera stessa.» Per Gaetano fu un colpo. Non gli era dispiaciuto sospendere il corteggiamento con la scusa della malattia del fratello, ma in quel momento gli veniva di nuovo imposto. «Non possiamo parlare di matrimonio mentre Falco è in questo stato.» «Non ne avrà ancora per molto» disse Niccolò. «I medici dicono che non supererà la notte.» Un nuovo dolore si impadronì di Gaetano. Avrebbe dovuto piangere il fratello senza poter condividere con la famiglia la consolazione di sapere che Falco viveva felice in un altro mondo. I medici sembravano comunque
avere ragione: il più giovane dei Principi de' Chimici non era ormai che l'ombra di se stesso. Nel Montone le torce erano accese e i tamburi rullavano. Ai bambini era stato permesso di rimanere svegli fino a tardi, anche se i gemellini Montalbano si erano addormentati sotto un tavolo. Teresa li mise nella loro culla di legno e si sedette a dondolarla col piede, mentre le bambine correvano fra i tavoli agitando le bandierine e gridando: «Vittoria! Evviva!» a chiunque incrociassero. Georgia fu riportata al Duodecimo in trionfo sulle spalle di due robusti uomini. Altri due portarono Paolo. Arcangelo fu accompagnato da un folto gruppo di Montonaioli che lo accarezzavano e gli davano pacche affettuose. Cesare condusse Merla, felice di tornare a casa da sua madre. I Montonaioli, in soggezione, le si accalcavano intorno, ma non osavano toccarla. William Dethridge aveva dato il braccio a Silvia e il capo sbandieratore aveva lasciato il vessillo al suo vice per poter reggere il drappo della Stellata. Poi, lasciati fuori i cavalli, la gente del Duodecimo portò in chiesa il trofeo, il capitano e i fantini, sorreggendo Georgia e Cesare fino al portale. Era infatti tradizione che dopo la vittoria si rendesse grazie alla Vergine, prima nel Duomo e poi nella propria chiesa. La Santa Trinità era piena di bandiere che sventolavano e di Montonaioli raggianti. Il sacerdote, che aveva donato il casco a Georgia e benedetto Arcangelo solo poche ore prima, asperse generosamente con l'acqua santa non solo la ragazza, ma chiunque gli capitasse a tiro. L'atmosfera, in quel tempio di solito silenzioso e solenne, era quasi carnevalesca. Ma avere vinto la Stellata dopo venticinque anni era un motivo più che sufficiente per chiudere un occhio sulle regole. I piedi di Georgia non avevano ancora toccato terra da quando aveva montato Arcangelo nel cortile del Palazzo Papale un'ora prima. Dopo la corsa era stata praticamente strappata dal cavallo dall'abbraccio entusiasta della gente del Montone e aveva dovuto lottare per non farsi togliere di dosso la tunica da fantino. Finalmente i suoi sostenitori la posarono sui gradini della chiesa e lei si gettò nelle braccia di Cesare. «Che serata!» disse lui. «Che vittoria!» «Grazie a te» ribatté Georgia. «Senza te e Merla non sarei riuscita a vincere. Mi spiace solo che su Arcangelo non ci fossi tu.» «Davvero?»
«No, scherzo!» replicò lei con un enorme sorriso. Un altro cavallo entrò nella piazza e Merla lanciò un nitrito di saluto. Luciano stava portando Splendore verso gli altri, ai piedi della scalinata. Saltò giù dalla sella e diede le redini a un Montonaiolo che si era offerto di avere l'onore: si era già sparsa la voce che quella giumenta grigia fosse la madre della miracolosa cavalla alata. «Luciano!» esclamò Georgia. «Hai imparato a montare!» «Adesso è un vero fantino» disse Cesare ridendo. «È andato a Santa Fina con un cavallo ed è tornato con un altro. Ha perfino volato due volte su Merla!» «Che fortuna!» disse Georgia, guardando con invidia la puledra. Poi però Luciano si avvicinò e la abbracciò. «Georgia! Ce l'hai fatta!» le disse e la baciò sulle labbra. Lei si sentì avvampare. Quella sera era stata abbracciata e baciata come non le era mai successo prima, ma quel bacio era diverso. Lo baciò a sua volta e lo sentì reagire con sorpresa. Allora si staccò e baciò anche Cesare, in modo che Luciano non si sentisse troppo al centro dell'attenzione. Con la coda dell'occhio lo vide rilassarsi mentre notò che Cesare ricambiava calorosamente. Rodolfo aveva puntato i suoi specchi su diversi luoghi. Uno sul Palazzo Ducale a Bellezza, un altro sull'ospedale in cui Falco giaceva immobile e silenzioso, un altro ancora sul Montone, dove si trovava Silvia: riusciva a distinguerla tra la folla fuori della chiesa. Subito dopo vide Luciano baciare la fantina del Montone per un secondo in più di quanto ci si potesse aspettare da un bacio per una vittoria. «Altre complicazioni» sospirò. Georgia proprio non sapeva come avrebbe fatto ad andarsene dal Montone quella sera. Ancor più della serata precedente, era lei il centro dei festeggiamenti. Tutti venivano a congratularsi e a baciarla. Come avrebbero reagito Maura e Ralph se non fosse tornata? Nel biglietto aveva scritto che avrebbe passato tutto il giorno con Falco, dormendo dai Mulholland. Con quello si era coperta le spalle per la notte e il giorno trascorsi a Remora, ma ormai si stava facendo di nuovo buio. Ciò significava che nell'altro mondo era quasi giorno: essendo un sabato, tutti sarebbero stati in casa a chiedersi dove fosse finita.
Di lì a poco Maura avrebbe telefonato a Vicky e avrebbe scoperto che i Mulholland non avevano idea di dove fosse. Il fatto che lei si trovasse effettivamente da loro non sarebbe stato d'aiuto. Se l'avessero trovata nella stanza di Falco, in uno stato di coma apparente, l'avrebbero portata subito all'ospedale, proprio come Luciano un anno prima. Georgia non voleva pensare a come avrebbero reagito Vicky e David. Dopo qualche calice di vino, tuttavia, decise che non se ne sarebbe preoccupata e che Falco in qualche modo le avrebbe dato una mano. Non voleva perdersi neanche un secondo di quella sua notte di gloria e in ogni caso, anche se ce l'avesse fatta ad allontanarsi dalla festa, non sarebbe mai riuscita ad addormentarsi. Alla cena, Gaetano sedeva di fianco allo zio. Una volta tanto non era vicino ad Arianna, anche se lei continuava a dominare i suoi pensieri. La Duchessa era all'altro fianco del Papa, accanto al padre. Oltre loro sedevano Fabrizio e Carlo, che stavano discutendo a bassa voce su chi dovesse tenere il discorso alla fine del banchetto, se il primo come erede al Ducato di Giglia o il secondo in quanto prossimo Principe di Remora. Beatrice arrivò e si sedette di fronte a Gaetano. «Come vanno le cose all'ospedale?» le chiese lui con ansia. Lei scosse la testa. «Non hai lasciato nostro padre da solo, vero?» «No» rispose la sorella stancamente. «Mi ha dato il cambio Francesca. Ha detto che dovevo riposarmi.» Udendo quel nome, il Papa disse: «Ah, Francesca. Davvero una brava ragazza, sempre così attenta alla famiglia. Sono lieto di averle concesso l'annullamento. Merita molto di più di un vecchio marito incapace di renderla felice.» A Gaetano andò di traverso il fagiano che stava mangiando. Francesca era libera e poteva risposarsi... e lui nel giro di poche ore avrebbe dovuto dichiararsi ad Arianna! A Londra, Falco stava sulle spine. Talìa, suo padre e Gaetano gli mancavano tantissimo, e non sapere che cosa stesse succedendo a Georgia durante la Stellata era una sofferenza. In più, doveva anche cercare di non farla scoprire mentre era ancora addormentata in camera sua. Non voleva perderla di vista nel caso fosse tornata improvvisamente nel proprio corpo, come la notte prima, ma rimanendo chiuso in camera avrebbe fatto sospet-
tare qualcosa di strano a Vicky. Quando il telefono suonava si precipitava a rispondere, ma la gamba lo rallentava e a volte Vicky arrivava all'apparecchio prima di lui. Lo preoccupava anche un'altra cosa. Aveva stravagato già da dodici giorni, ma non aveva ancora l'ombra. Ciò significava che a Remora era ancora vivo: finché fosse rimasto così, sarebbe stato tentato di chiedere l'anellino a Georgia per cercare di tornare. Non sapeva se la sua amica avesse distrutto o meno il talismano. Voleva solo che tutto fosse finito per poter pensare a guarire e a vivere la sua nuova vita. Il telefono squillò. Vicky era solo a qualche metro. «Georgia? Non credo che sia qui. La notte scorsa? No, non da noi. Aspetti un momento. Vado a chiederlo a Nicholas.» «È accaduto invero come la mia lettura aveva predetto» stava spiegando il Dottor Dethridge a Georgia. «Tutte le carte mostravano il numero due, quello assegnatoti nella corsa. E quivi eri tu, la Principessa di Uccelli.» «Principessa di Uccelli?» chiese Georgia perplessa. «Principessa in quanto giovin pulzella» disse pazientemente Dethridge. «E di Uccelli in quanto il presente loco appartiene all'aire, essendo casa del destriero alato e Cittade degli Astri.» «Se lo dite voi...» si rassegnò Georgia. «E che cos'altro vi hanno rivelato le carte?» «Che la Duchessa... Arianna, Principessa di Pesci... era ben custodita da Luciano quando giunse alla celebrazione degli Astri Mobili.» «Non vedo che cos'abbia fatto per proteggerla» replicò Georgia. «E che il Cavaliere... il giovine Cesare... sarebbe stato recluso in una torre» continuò Dethridge imperterrito. «E dal lato opposto al tuo, il Principe di Serpenti, ovverosia uno dei giovini nobili della Signora, pur se ignoro se questi sia il povero Falco o il Principe Gaetano.» «Come avete intuito tutto questo?» chiese Georgia, a disagio al pensiero che l'anziano Dottore avesse predetto il suo intervento nella vita di Falco. «La Signora è segno di Terra, proprio come il Montone appartiene al Foco e i Gemelli all'Aire» disse Dethridge, come se ciò spiegasse tutto. "Magari dovreste leggere di nuovo le carte" pensò Georgia. Non aveva idea di come la matassa che avviluppava lei e Luciano, Arianna e Gaetano e perfino Falco e Cesare si sarebbe sbrogliata senza conseguenze. Uno squillo di buccine d'argento annunciò l'arrivo di un'ospite. Al contrario della sera prima, finalmente la Duchessa di Bellezza poteva recarsi
apertamente a visitare il Duodecimo fedele alla sua città per congratularsi. Arianna vi entrò maestosamente e a testa alta. Portava una mantella scarlatta sopra a un abito di seta gialla e una maschera fatta di piume rosse e gialle. Seguita da Rodolfo e da Gaetano, camminò per tutta la ripida Via del Montone fra le ovazioni della folla e si avviò verso il tavolo principale. Paolo portò delle sedie per i nuovi arrivati, ma Arianna non volle prendere posto se non dopo essere andata ad accarezzare i cavalli. Secondo la tradizione, quello vincente aveva un posto d'onore al banchetto della vittoria, ma il Montone era andato un passo oltre e aveva messo anche Merla vicino ad Arcangelo. E dove c'era Merla, doveva esserci anche Splendore. I tre stavano in un recinto approntato in fretta e furia davanti alla chiesa, con il drappo di seta della Stellata appeso a un'alta pertica dietro di loro. Per tutta la sera, la gente del Duodecimo e i suoi ospiti sarebbero andati a visitare la "Fortuna del Montone". La Duchessa accarezzò Arcangelo e fece il solletico al muso di Splendore, poi rimase a lungo ad ammirare Merla. «Quasi non riesco a crederci» disse a Gaetano. «Fino a una settimana fa i cavalli erano qualcosa che avevo visto solo in dipinti e stampe. E ora ho davanti una creatura mitologica, come quelle rappresentate sui frammenti di vasi antichi o nei mosaici.» «Ma questa è reale» replicò Gaetano. «Qualcos'altro che la mia famiglia aveva rubato al Montone, oltre al loro fantino.» Arianna poggiò affettuosamente una mano sul suo braccio, un gesto che non passò inosservato a diversi ospiti al tavolo principale. «Non vi ho mai considerato responsabile per le azioni della vostra famiglia.» «I cavalli non sono gli unici con cui ti devi congratulare» disse Rodolfo, riaccompagnandola al banchetto. «Hai ragione!» esclamò Arianna riacquistando il consueto brio. Si avvicinò a Georgia e le strinse entrambe le mani. Proiettando la sua voce chiara e musicale verso la piazza, esclamò con fermezza: «I miei complimenti al Montone e al suo ottimo fantino, Giorgio Gredi.» Non ebbe esitazioni sul nome. «Questa sera avete tenuto alto l'onore della mia città e per questo Bellezza vi ringrazia. Come piccolo segno della mia gratitudine, dono a Giorgio un sacchetto d'argento e un bacio.» Georgia sussultò quando si sentì sfiorare le labbra da quelle della Duchessa. Due occhi viola fissarono i suoi e poi Arianna le porse un sacchetto di velluto pieno di monete. Balbettò un ringraziamento e tutto il Montone manifestò il proprio apprezzamento battendo i pugni sui tavoli e i piedi sul selciato.
Mentre la Duchessa accettava un calice di vino versatole da Paolo, Georgia si sedette confusa. Arianna di sicuro sapeva che lei non avrebbe potuto portare con sé quell'argento stravagando a casa. Decise che l'avrebbe lasciato a Cesare non appena avesse finito di mangiare, visto che aveva alcuni giorni di digiuno da recuperare. Luciano era divorato dalla gelosia. Arianna non lo aveva degnato di uno sguardo o di un sorriso, ma aveva l'impressione che ogni suo gesto fosse rivolto a lui, anche quando civettava con Gaetano come in quel momento. Che cosa aveva potuto combinare per farla arrabbiare? Georgia lo aveva baciato, ma quello non significava niente, dal momento che aveva baciato anche Cesare e metà degli abitanti del Montone. I Remorani facevano così dopo ogni grande vittoria e Luciano stesso aveva ricevuto baci e abbracci da ragazze del Duodecimo che non aveva mai visto prima. Quella sera nel Montone si respirava un'aria di grande gioia ed euforia. Gaetano non era insensibile all'atmosfera o all'attenzione che Arianna gli stava concedendo. Per prendere coraggio e dichiararsi, stava bevendo più vino di quanto avrebbe dovuto. Si era quasi convinto, perché quella sera, come d'altronde aveva fatto altre volte, valutava che essere il marito dell'avvenente sovrana di Bellezza non sarebbe stato per niente un peso. I suoi pensieri vennero interrotti da un'esclamazione improvvisa. «Guardate!» gridò Cesare. «Sono arrivati i Manoush!» Aurelio e Raffaella erano entrati silenziosamente nella piazza e stavano parlando a Merla, che sembrava ascoltare e capire. Pian piano la piazza si riempì di altri membri della tribù nei loro sgargianti abiti. Paolo li invitò a partecipare alla festa ed essi improvvisarono un concerto. Si unì anche un tamburino del Montone, che in poco tempo si adattò ai loro complessi ritmi. Anche gli araldi cercarono di dare un contributo con le buccine. I Montonaioli erano piacevolmente storditi dal vino, dalla stanchezza e dalla felicità e non furono troppo severi con la qualità della musica. Dopo una pausa, però, Aurelio suonò da solo, una melodia dolce e triste che a Gaetano riportò alla mente prima il fratello e poi la cugina, la ragazza a cui presto avrebbe dovuto rinunciare per sempre. «È una melodia che spezza il cuore, non credete, Principe?» disse una donna che non aveva ancora notato. Vide che era molto bella e vestiva i colori del Montone. Per un attimo gli ricordò la Duchessa, ma poi si rese conto che era più vecchia di lei. Comunque somigliava ad Arianna. Forse era una zia venuta in visita. Gli sembrava di aver sentito che la moglie di Dethridge fosse appunto una zia della Duchessa.
«È davvero commovente, signora» le rispose con gentilezza. «Sembra raccontare di amori perduti e obblighi da assolvere» continuò lei. «Di scelte sbagliate e di una vita di sacrificio come conseguenza.» Gaetano era davvero sbigottito. Quella donna era una veggente? O forse un'altra Stravagante? «Riuscite a leggere così tanto in una semplice melodia?» chiese. «Nella musica dei Manoush non c'è niente di semplice» replicò lei. Il giovane si voltò verso l'arpista. Quando la musica finì, la donna era sparita. Le note si dissolsero nella notte e lasciarono spazio a una musica più allegra; i tavoli vennero spostati per le danze. Gaetano ballò con Arianna e vide con la coda dell'occhio che Rodolfo stava ballando con la donna misteriosa. «Chi è la dama che danza con il Reggente?» chiese. «Mi ha appena detto delle cose stupefacenti. Credo sia una specie di maga, o di veggente.» Arianna rise. «Non siete il primo a dirlo» osservò, senza però rispondere alla domanda. Luciano e Cesare avrebbero voluto entrambi ballare con Georgia, ma per quanto ne sapeva la gente del Montone, il loro fantino era un ragazzo. I Remorani erano affettuosi con tutti e non trovavano niente di strano che due ragazzi si abbracciassero o si baciassero, specialmente durante una grande festa come quella, ma ballare insieme era fuori questione. I tre amici si ritrovarono in mezzo ad alcune ragazze del Duodecimo, carine e simpatiche. Arianna lanciava sguardi velenosi a Luciano, la cui ballerina era una bella bruna. Georgia guardava Paolo disperata, ma lui stava danzando felice con Teresa. Fu salvata da William Dethridge. Quando la musica cambiò, egli riunì tutti i ragazzi, compresa Georgia, e li fece danzare in cerchio, mentre le ragazze battevano le mani a tempo. Georgia si ritrovò proprio dove voleva, fra Luciano e Cesare. Tutti cantavano l'inno del Duodecimo con calore e a piena voce. Gaetano era all'altro fianco di Luciano. Ambedue i giovani desideravano che quella danza andasse avanti all'infinito e l'indomani non arrivasse mai. Sapevano che il mattino dopo si sarebbe deciso il loro destino, ma in quel momento non volevano fare altro che ballare, bere e cantare. A parte i Montonaioli più fedeli, Enrico era l'unico ad aver fatto soldi con la corsa. Aveva ancora una bella fetta dell'argento che il Duca e il Papa gli avevano dato per stringere accordi, e le scommesse gliene avevano
fatto guadagnare altro. A quel punto stava valutando se era il caso di andarsene dalla città. Non sapeva bene dove: Remora e i suoi cavalli gli piacevano, ma non reputava saggio fermarsi. Aveva rubato un cavallo e tenuto prigioniero un ragazzo. Una volta che si fosse saputo nel Montone, la sua vita sarebbe stata in pericolo. In ogni caso, ciò che aveva fatto non era servito a niente. I de' Chimici avevano perso la corsa e il prestigio di Bellezza era più forte che mai. La notizia della vittoria si sarebbe presto sparsa per tutta Talìa e avrebbe incoraggiato le altre città a opporsi ad alleanze e usurpazioni. Il Duca era pazzo di dolore, ma prima o poi sarebbe tornato in sé e si sarebbe potuto ricordare che la sua spia aveva fallito. D'altra parte era anche la persona più importante per cui Enrico avesse mai lavorato e non gli andava di rinunciarvi. Magari sarebbe riuscito a convincerlo di essergli utile in altri modi. Al momento, però, c'era da affrontare la gente del Montone, a cui doveva dei soldi. Enrico era una canaglia, ma era anche profondamente superstizioso: aveva cercato di rubare loro la fortuna, ma non si sarebbe impossessato dei loro guadagni. Quando i Manoush si riunirono per salutare l'alba, la festa nel Montone era ormai alla fine. Georgia era seduta sulla scalinata della chiesa e sbadigliava: all'improvviso tutta la stanchezza le era crollata addosso. Vide Rodolfo e Gaetano che accompagnavano Arianna fuori dalla piazza. Si fermarono vicino alla fontana e Rodolfo si voltò per parlare con Silvia. I due giovani se ne andarono insieme e Georgia notò che Luciano li seguiva con lo sguardo: l'espressione sul suo volto era disperata. Paolo le si avvicinò. «Sembri esausta» le disse. «Vuoi tornare alle scuderie?» La piazza era ricoperta di sedie rovesciate e di bandiere sgualcite, in mezzo a rimasugli di vino e di cibo. Improvvisamente scoppiò una lite e Georgia vide Cesare aggrappato a un uomo dal mantello blu. Lei, Paolo e alcuni giovani corsero ad aiutarlo. «Questo è l'uomo che mi ha rapito!» disse Cesare. «Magari ha rubato anche Merla... e osa farsi vedere nel Montone!» Enrico sembrava spaventato, ma tenne duro. «Stavo solo eseguendo degli ordini» dichiarò. «E poi sono venuto a pagare chi di voi ha scommesso sul Montone.» Alcuni giovani che lo stavano tenendo allentarono la presa. Non avevano ancora pensato alle vincite, ma l'idea era allettante. Però non avrebbero
lasciato che quell'imbroglione se la cavasse facilmente. Gli svuotarono tutte le tasche e la borsa. Enrico non protestò: la fetta maggiore del suo argento era al sicuro a Santa Fina. Alla fine riuscì a lasciare la piazza illeso. «È una nottata meravigliosa» disse Gaetano riaccompagnando la Duchessa al Palazzo Papale per le strette viuzze di Remora. «Una mattina, vorrete dire» precisò Arianna. Improvvisamente Gaetano decise che era giunto il tempo di togliersi quel peso dal cuore. «Vostra Grazia...» disse, fermandola sotto una delle torce ancora fumanti. «Arianna... forse non vi sembreranno il momento e il luogo adatti, ma voi presto tornerete a Bellezza e io non posso aspettare oltre. Abbiamo passato insieme quasi un mese e ora ci conosciamo abbastanza bene. Vorrei sapere che cosa pensate della nostra offerta. Volete sposarmi?» «Visto?» disse Arianna. «Non è stato poi così difficile, vero? Non molto elegante, non molto romantico, ma efficace.» Georgia tornò alle scuderie reggendosi a Cesare e Paolo. Prima che salisse nel fienile, Cesare la abbracciò ancora una volta. «Grazie» le disse Paolo. «Hai il coraggio di un guerriero. Il tuo fratellastro non l'avrà vinta.» Poi la lasciarono sola. Luciano e Dethridge erano spariti da qualche parte e Georgia non aveva idea di dove Rodolfo e Silvia stessero dormendo, ma immaginava fossero insieme. Si coricò nella paglia, sentendo Arcangelo, Merla, Splendore e tutti gli altri cavalli del Montone muoversi al piano di sotto. Anche Dondola era tornata: Roderigo l'aveva riportata dalla casa dei de' Chimici in tempo per i festeggiamenti. La mente di Georgia era un caleidoscopio di forme e di colori: il corteo, le bandiere, i cavalli, i rumori, Merla che fluttuava sopra il Campo, i nastri sgargianti dei Manoush, i baci, la musica, il vino... Gaetano irruppe nell'ospedale. Il Duca dormiva profondamente nella sedia al capezzale di Falco, ma Francesca era ancora sveglia. La stanza odorava di cera bruciata. Il giovane Principe vide con sollievo che Falco respirava ancora, sebbene molto debolmente. Poi prese Francesca per mano e la portò fuori dalla stanza. Nel corridoio, dove filtrava la luce del mattino, si inginocchiò sul freddo
pavimento e le chiese di sposarlo. Francesca disse di sì. Georgia si risvegliò nella camera di Falco. La porta era chiusa, ma non con il chiavistello. Non c'era traccia di lui, ma sul cuscino c'era un biglietto con scritta una sola parola: Beccati! Era già sera e la casa sembrava deserta. Si alzò, scese al pianterreno e uscì. Doveva tornare dai suoi e affrontare le conseguenze di ciò che aveva fatto. La consolava il pensiero che, qualsiasi castigo la stesse aspettando, ne era valsa la pena. Capitolo 24 Reti d'oro
Quando Georgia entrò nel soggiorno di casa sua, le ci volle qualche secondo per adattarsi. Era stanca morta e le persone che aveva appena lasciato, nel Montone, le sembravano più reali che non la propria famiglia. Si concentrò su Falco, che in un certo senso le era più vicino di chiunque altro dei presenti. Mentre tutti la fissavano, gli sussurrò: «Ho vinto!» e fece in tempo a scorgere la sua espressione di sorpresa e di gioia prima che si scatenasse l'inferno. C'erano Maura, Ralph, Russell, i Mulholland e un uomo e una donna che quasi subito Georgia intuì essere poliziotti. I due non si fermarono oltre: per quanto li riguardava, una denuncia di scomparsa si era appena risolta nel migliore dei modi e avevano altri problemi di cui occuparsi. Non appena uscirono, Ralph andò in cucina a preparare il caffè, trascinandosi dietro Russell nonostante le sue proteste. Il ragazzo avrebbe voluto rimanere a godersi lo spettacolo, ma il padre fu irremovibile. La strigliata sembrò durare ore. Georgia si sentì ripetere più volte le stesse domande. Dov'era stata? E con chi? Che cosa aveva fatto? Nicholas c'entrava in qualche modo? Non servì a niente. Che cosa avrebbe potuto dire, comunque? Che aveva partecipato a una corsa di cavalli in un altro mondo, che aveva vinto e che
aveva banchettato e festeggiato tutta la notte? Che aveva visto una cavalla alata? Che aveva sventato un complotto politico? Che era stata in compagnia del figlio dei Mulholland? Che "Nicholas" era in realtà un aristocratico proveniente da un'altra dimensione e da un tempo che risaliva a secoli prima? Che era diventata un eroe col nome di Giorgio? Non sapeva che cosa pensassero Maura e Ralph, ma era sicura che se avesse detto anche solo una di quelle cose si sarebbero convinti che aveva preso qualche droga. Si limitò ostinatamente ad alcune semplici risposte. «Non posso dirvelo. Non ho fatto niente di male. Ho solo mantenuto una promessa. Nicholas non ne sa niente.» «Scommetto che quel vecchio pervertito dell'antiquario c'entra qualcosa» diede il proprio contributo Russell e l'interrogatorio si intensificò. Per fortuna David Mulholland conosceva Mortimer Goldsmith e negò tassativamente che ci fosse alcunché di sinistro in quell'anziano signore. «Non ha niente a che fare col signor Goldsmith» disse Georgia fiaccamente. «Posso andare a dormire, adesso? Sono molto stanca.» «Non puoi stare fuori un'intera notte e quasi tutto il giorno dopo e pensare di cavartela così!» disse Maura furibonda. «Stavo impazzendo. Non voglio mai più passare una giornata come oggi.» Poi scoppiò a piangere. Georgia si sentiva malissimo. Non ce la faceva a vedere sua madre che piangeva e i visi preoccupati degli altri, a parte Russell che se la rideva e Falco che conosceva la verità. «Scusami, mamma» disse. «Era una cosa che dovevo fare. Niente di vietato, di pericoloso o di stupido, ma non posso parlartene, né adesso né mai. Dovrai fidarti di me. Ti ho detto che sarei stata dai Mulholland per non farti preoccupare, ma ciò che dovevo fare ha portato via più tempo di quanto pensassi. Tutto qui. Non succederà più, te lo prometto. Da domani puoi mettermi in castigo o punirmi come ti pare, ma adesso devo andare a letto, perché non ricordo l'ultima volta che ho dormito.» «Basta così, Maura» disse Ralph. «Lasciala andare a riposare. Ne riparleremo domani.» «Come sarebbe, "fidanzati"?» chiese confuso il Duca quando Gaetano e Francesca tornarono nella stanza tenendosi per mano e gli comunicarono la notizia. «E la Duchessa?» «Mi sono dichiarato, padre» disse Gaetano, che aveva già spiegato tutto alla cugina. «Ho fatto ciò che mi avevi ordinato, ma lei mi ha respinto. Ha detto che rimarremo sempre amici, ma che il suo cuore appartiene a un
altro. Poi mi ha detto anche di andare a cercare Francesca.» «E io ho potuto accettare, zio» aggiunse Francesca «perché il mio matrimonio è stato annullato.» Il Duca li fissò. Tutti i suoi piani erano falliti, ma alla vista dei due giovani innamorati la sua mente si mise subito a elaborarne di nuovi. Gaetano non avrebbe avuto Bellezza, ma avrebbe potuto ereditare Fortezza alla morte del vecchio cugino Jacopo, che aveva soltanto figlie. E quelle figlie avrebbero potuto sposare altri figli e nipoti di Niccolò, in modo che non trovassero mariti senza titolo da contrapporre a Gaetano. «Molto bene» disse. «Avete la mia approvazione. Ora andate a dare la notizia a palazzo. Io rimango qui con Falco.» Al Palazzo Papale, Arianna ebbe una visita. Non era riuscita a dormire ed era già vestita quando un cameriere fece accomodare una donna nei suoi appartamenti. «La signora Bellini» annunciò prima di ritirarsi. «Silvia» disse Arianna quando il cameriere fu uscito. Non la chiamava mai "mamma": quel nome era riservato alla zia che l'aveva cresciuta su un'isola della laguna, tenendola all'oscuro di tutto, mentre Silvia Bellini regnava su Bellezza e si difendeva dai de' Chimici. «Buongiorno, mia cara» la salutò Silvia togliendosi il velo. «Non credo di doverti ricordare quanto sia pericoloso venire qui» disse Arianna. «Ti sbagli. Nessuno in questo palazzo ha mai visto il mio viso, tranne te e tuo padre.» «Non dirmi che hai passato la notte qui!» esclamò Arianna, atterrita al pensiero del rischio che aveva corso la madre. «Quale notte, dopo tutti quei festeggiamenti? No, sono rimasta nel Montone» disse Silvia. «Lì ho anche parlato col tuo giovane amico.» «Quale?» «Quello che sta per chiederti di sposarlo. Quello che vuole Bellezza.» «Intendi Gaetano?» disse Arianna. «Di che cosa avete parlato?» «Gli ho consigliato di pensarci molto bene prima di rinunciare a un vecchio amore per uno nuovo.» «Allora non hai avuto un grande effetto su di lui. Si è dichiarato mentre tornavamo a palazzo, al sorgere del sole.» Silvia la guardò in silenzio. Poi disse: «Troppo presto per le cose serie. Tu che cosa hai risposto?»
«Ho rifiutato.» «Per quali motivi?» «Perché non lo amo e penso che lui ami un'altra. Ottimi motivi, direi.» «Per una semplice ragazza della laguna, forse» obiettò Silvia. «Ma tu non lo sei più. Sai bene che la tua scelta dev'essere influenzata da altre considerazioni che non i sentimenti.» Arianna spalancò gli occhi. «Che vuoi dire? Che avrei dovuto accettare? È un de' Chimici. Diventerebbe Duca di Bellezza e la sua famiglia farebbe continuamente pressione su di lui fino a convincermi ad aderire alla Repubblica. E allora sarebbe davvero un Duca, non come consorte, ma come sovrano. Bellezza perderebbe la sua indipendenza e le sue tradizioni, tutte le cose per cui tu hai tanto combattuto.» «Sei sicura di non avergli detto di no per motivi meno nobili?» chiese Silvia. «Per esempio perché volevi tenerti libera per qualcun altro?» «E se anche fosse?» rispose Arianna, ferita dalla domanda della madre. «Tu parli di dovere e di responsabilità, ma ti sei sposata per amore. Non puoi impormi di non fare lo stesso.» «Non ti sto imponendo niente» replicò Silvia. «Ti sto solo consigliando di essere sincera riguardo alle tue motivazioni.» Una cameriera bussò alla porta e fece entrare Gaetano, che teneva per mano Francesca e sorrideva radioso. «Scusatemi, Vostra Grazia. Non sapevo foste impegnata» disse. Poi riconobbe la sua interlocutrice della sera prima e la guardò incuriosito. «Credo piuttosto che quello impegnato siate voi» replicò Arianna allegra. Tese la mano a Francesca. «Sono sicura che andremo molto più d'accordo ora che voi non siete più Bellezzana!» «Mio padre ci ha dato la sua approvazione» dichiarò Gaetano. «Ce la darete anche voi, mi auguro.» «Naturalmente» disse Arianna. «E mi aspetto un invito al matrimonio.» Georgia dormì sei ore, dalle otto e mezzo di sera alle due e mezzo del mattino, quando il suono smorzato della sveglia che aveva sotto il cuscino la destò. Si mise seduta, sbadigliò e osservò quella camera che ormai le sembrava estranea. Aveva sbarrato la porta con la cassettiera: la serratura si era rotta quando Ralph aveva sfondato la porta e ora pendeva inutilizzabile. Prese il cavallino alato dalla tasca e si appoggiò di nuovo al cuscino. Non fece fatica a riaddormentarsi.
Il giorno dopo la corsa nessuno si svegliò molto presto nel Montone. Dopo la prigionia, la fuga e l'incredibile conclusione della Stellata, senza contare tutto il cibo e le bevande consumati durante i festeggiamenti, Cesare avrebbe volentieri dormito per una settimana. I cavalli però andavano curati e l'idea della colazione era allettante. Mangiò assieme a suo padre, Luciano e Georgia che era appena arrivata. «Com'è andata a casa tua, Georgia?» chiese Paolo. Lei fece un sospiro profondo e tutti alzarono lo sguardo. «Non troppo male» disse. «Però il peggio deve ancora arrivare. Stanotte dovrò stravagare presto perché mi aspetta una lunga discussione con i miei genitori. Mi hanno lasciata andare a dormire perché ero distrutta, ma non mi hanno ancora detto quale sarà la punizione.» «Mi dispiace che tu venga punita per colpa nostra» disse Paolo. «Però hai detto "i miei genitori". È la prima volta che ti sento chiamare tutti e due così.» Anche Georgia si stupì. "È vero" pensò. Anche se Ralph si era tenuto da parte il più possibile mentre Maura la sgridava, era stato comprensivo e si era preoccupato per lei. Chissà, magari prima o poi lo avrebbe potuto considerare come un padre. Bussarono alla porta e subito dopo Rodolfo entrò. «Vi porto notizie fresche» disse dopo essersi seduto a tavola con loro. «Ci sarà un matrimonio nella famiglia de' Chimici.» Georgia notò che Luciano era impallidito. «Gaetano sposerà sua cugina Francesca» continuò Rodolfo. «Forse ti ricordi di lei, Luciano: era la candidata che l'Ambasciatore aveva presentato contro Arianna all'elezione. Il suo matrimonio con il Consigliere Albani è stato annullato.» «Sì» disse Luciano con più calma di quanta non provasse. «È la figlia del Principe di Bolonia, vero?» «Proprio così» confermò Rodolfo. «I due erano fidanzatini anche da piccoli. Li ho lasciati mentre ne parlavano con la Duchessa.» «Arianna lo sa?» chiese Luciano. «E non le dispiace?» Rodolfo inarcò un sopracciglio. «Glielo potrai chiedere di persona» disse. «Fra pochi giorni torneremo tutti insieme a Bellezza.» Luciano sorrise di gioia e di sollievo. «Che cosa stiamo aspettando?» «Mi spiace dirlo, ma attendiamo che Falco de' Chimici muoia... o che si riprenda» disse Rodolfo guardando Georgia con un'espressione seria. «Ora
che la corsa è finita, ti chiedo nuovamente di riportare qui il ragazzo.» Rinaldo de' Chimici era andato a fare visita a suo fratello nel Duodecimo del Capro. Alfonso, il giovane Duca di Volana, era rimasto deluso dal risultato della corsa. Il loro fantino, Papavero, non aveva combinato niente in groppa a Brunello. Alfonso aveva cenato al Palazzo Papale, ma non era stato divertente a causa della tristezza che aleggiava nei Gemelli, così il Duca stava pensando di tornarsene nella sua città. Come tutti gli altri, però, non riteneva opportuno lasciare Remora mentre l'ultimogenito di Niccolò era in quelle condizioni. «Sarà meglio andare a trovare zio Niccolò all'ospedale e sondare il terreno» sospirò. «Che brutto affare.» «Vengo con te» disse Rinaldo. «Devo sapere cosa si aspetta da me ora che il suo nuovo piano per avere Bellezza non ha funzionato. Hai sentito che la proposta di Gaetano è stata rifiutata? Adesso invece sposerà nostra cugina Francesca.» «Davvero?» esclamò Alfonso. «Sembra ieri che eravamo tutti bambini e giocavamo a Santa Fina in quelle lunghe estati. Anche allora lei aveva un debole per Gaetano. E Fabrizio era sempre con Caterina.» «Forse anche loro potrebbero sposarsi» suggerì Rinaldo, allettato dalla possibilità di far sposare sua sorella minore con l'erede al titolo e al denaro dei de' Chimici. Anche Alfonso ci pensò su. «Potrebbe non essere una cattiva idea. Andiamo a parlarne con Niccolò, mentre non ha la forza di ribattere.» Anche in Talìa, proprio come nel suo mondo, Georgia era con le spalle al muro. Rodolfo aveva chiesto di parlarle in privato ed erano andati a sedersi in camera di Dethridge. Non c'era Luciano a darle man forte: avrebbe dovuto tenere testa da sola allo Stravagante bellezzano. «Falco sta per subire un'operazione che lo potrà far camminare di nuovo» disse. «E gli piace vivere con i Mulholland. Credo che loro vogliano perfino adottarlo.» «E alla fine tutti sarebbero di nuovo contenti, eh?» fece Rodolfo. «Ma le cose non vanno in questo modo, Georgia. Luciano non può essere sostituito.» «Credete che non lo sappia?» replicò Georgia, cercando con tutte le forze di trattenere le lacrime. «Ma la gente deve trovare una consolazione. Loro hanno perso un figlio e Falco ha perso una famiglia. È giusto così.»
«Non sto mettendo in discussione i tuoi sentimenti, ma ciò che sai di questa faccenda e forse anche il tuo buon senso» disse Rodolfo con più dolcezza. «Falco non ha perso la sua famiglia, l'ha abbandonata. Quando qui morirà, cosa che accadrà molto presto se non lo salvi tu, non hai idea di quali saranno le conseguenze per Talìa e per tutti noi che viaggiamo fra i due mondi. Se vuoi verrò con te.» Poi si interruppe di colpo. «Non porti più l'anello che lui ha usato come talismano. Dov'è?» «Nel tritarifiuti della mia cucina» rispose Georgia. Si tenne forte in attesa della reazione di Rodolfo, ma questi si limitò ad alzarsi e ad andare alla finestra. Poi si voltò e la guardò. Sembrava molto stanco e Georgia intuì che soffriva il peso di tutte quelle responsabilità. «Presumo significhi che l'hai distrutto. Hai ignorato i miei consigli, ma credo di capire perché. Tu sei convinta che la consolazione data e ricevuta in un mondo bilanci il dolore e la perdita nell'altro. Spero che tu abbia ragione, perché ora sia tu che Luciano correte un gravissimo pericolo.» Il Duca Niccolò sembrò riconoscere a malapena i nipoti. Come da due settimane a quella parte, era seduto e teneva la mano scheletrica del figlio. «I medici si sono sbagliati» mormorò. «Falco è ancora vivo.» «Mi spiace tanto, zio» disse Alfonso con sincerità. Come tutti i de' Chimici, era affezionato al giovane Principe. Due anni prima avevano sofferto molto alla notizia dell'incidente e ora i loro cuori erano ancora più gonfi di dolore. «Però sono felice per Gaetano» aggiunse. «Felice che almeno mio cugino trovi la felicità in questo nostro momento di dolore. Sono giovani e sani e ti daranno dei nipoti.» Il Duca sussultò e Alfonso si chiese se non avesse mancato di tatto. Invece quelle parole sembrarono incoraggiare il Duca. «Hai ragione» disse. «E hai fatto bene a dirlo. È una speranza per il futuro. Ma perché Gaetano dovrebbe sposarsi così giovane quando ha due fratelli maggiori ancora celibi e una sorella nubile? Devono sposarsi tutti. Anche tu, Alfonso. E tu, Rinaldo, se vuoi. La famiglia de' Chimici ha bisogno di nuovi membri. Voi avete una sorella, no? Mia nipote... come si chiama... Caterina? Una bella ragazza, se ricordo bene. Vorreste che sposasse uno dei miei figli? Quello di Volana è un ramo prospero della famiglia. Non come quello di Moresco, che si sta estinguendo.»
Il Duca stava farneticando. La sua mente tesseva trame e già vedeva una lunga serie di discendenti e infiniti rami nell'albero genealogico. Alfonso era un po' sconcertato, ma felice di aver trovato lo zio tanto accondiscendente. «Ricordo che Caterina era molto legata a nostro cugino Fabrizio» suggerì. «Splendido, splendido» disse il Duca. «Gliene parlerò stasera stessa. Non c'è tempo da perdere. Tu hai dei progetti matrimoniali?» «Mi chiedevo se tu non mi potessi dare qualche idea al riguardo, zio» rispose Alfonso. «Non vorrei contrarre un matrimonio senza la tua approvazione.» «Giusto, giusto» ribadì il Duca, che evidentemente stava già pensando a come risolvere il problema. «Che ne dici di Bianca, la figlia più giovane di Jacopo? Pensavo anche che la più vecchia... come si chiama?... Lucia?... potrebbe andare bene per Carlo. Voglio che Gaetano abbia il Principato di Fortezza quando Jacopo morirà e quelle ragazze hanno bisogno di buoni mariti.» Alfonso annuì. Non aveva idea di che cosa avrebbe risposto Bianca - che aveva visto a cena la sera prima con la sorella - a una dichiarazione tanto improvvisa. Sembrava comunque certo che nell'anno a venire ci sarebbe stata un'abbondanza di matrimoni fra i cugini de' Chimici. Lui, che ormai aveva ventisei anni, era comunque pronto per prendere moglie. Bianca, poi, era decisamente carina, come tutte le donne della famiglia. Solo qualche maschio ogni tanto, come Gaetano o Rinaldo, non era del tutto attraente. Anche se brutto, però, Gaetano aveva conquistato la bellissima Francesca. «E tu, Rinaldo?» chiese il Duca, soddisfatto di come erano stati accolti i suoi piani. «Io... io non ho desiderio di sposarmi, zio» disse imbarazzato il nipote. «Ti prego di escludermi da questi progetti. Naturalmente farò qualsiasi altra cosa per servirti.» «Hmmm» valutò il Duca. «Dimmi... sei religioso?» Dopo il colloquio con Rodolfo, Georgia si sentiva davvero giù. Chi era lei per contraddire il più importante Stravagante di Talìa? Il fatto che Luciano le fosse alleato era una magra consolazione, dal momento che Paolo e Dethridge non si erano ancora pronunciati. Uscì in cortile senza sapere cosa fare: la corsa era passata e il suo compito a Remora sembrava svolto. Cesare la salutò dal portone delle scuderie. Teneva in braccio la gatta
grigia. «Hai bisogno di distrarti un po'» le disse. «Che ne dici di un giro su Merla?» Georgia non credeva alle proprie orecchie. Un giro sulla cavalla alata? Le avrebbe fatto sopportare meglio qualsiasi punizione la stesse aspettando nel suo mondo. «Possiamo?» chiese. «Voglio dire, Paolo è d'accordo?» «L'ha suggerito lui. Ha detto che ci voleva qualcosa per tirarti su di morale dopo la chiacchierata con Rodolfo.» Georgia non se lo fece dire due volte. Cesare portò la cavalla fuori dalle scuderie e la strigliarono nel cortile. Oltre a pettinarle coda e criniera e a strofinarle il manto, dovettero anche prendersi cura delle piume. Merla collaborò allargando una dopo l'altra le grandi ali, permettendo ai ragazzi di lisciarle le piume fuori posto e di spazzolare via ogni traccia di polvere. Sellare Merla era fuori questione, ma Georgia decise di montarla perfino senza brighe. Dopotutto, anche Luciano c'era riuscito. La guidò fuori dal cortile, lontano dalle vie del Duodecimo, fin quando non trovarono uno spiazzo abbastanza largo per farla decollare. Cesare, che le aveva accompagnate, aiutò Georgia a montare. Dalla groppa, lei osservò il suo viso allegro e pulito e si rese conto di quanto fosse affezionata a lui. Come Alice, era un vero amico, qualcuno su cui poter contare sempre. «Grazie, Cesare» disse. «Non c'è di che» rispose lui. «È difficile salire con quelle ali che ingombrano.» «No, volevo dire grazie di essere stato così comprensivo per la corsa e tutto il resto.» Il ragazzo alzò le spalle. «Ci saranno altre corse. E poi tu mi hai dato l'argento della Duchessa. Va', adesso. Vola!» Poi diede a Merla una leggera pacca sulla coscia. La puledra alzò la testa, nitrì, stirò il collo e si mise a correre. Prese velocità e Georgia le si aggrappò alla criniera. Dopo un'ultima spinta sul terreno, le zampe smisero di muoversi ed entrarono in azione le ali. L'ascesa fu rapida e una volta che Merla si fu raddrizzata a un'altezza soddisfacente, i loro battiti rallentarono al minimo indispensabile per farla librare nel cielo azzurro sopra Remora. Volavano verso nord, via dalla città, ma quando si fu sistemata meglio in groppa Georgia diede a Merla un colpetto sui fianchi con il ginocchio destro e le tirò delicatamente la criniera per farle capire che voleva cambiare direzione. La cavalla volante obbedì: non le andava di tornare nel luogo
dov'era stata tenuta prigioniera. Le piaceva volare di giorno e spiegare le ali al calore del sole. Sotto di loro si stendeva Remora: i minuscoli cittadini nelle vie e nelle piazze si riparavano gli occhi con la mano e guardavano all'insù. Merla non era più un segreto. Era l'orgoglio di tutta la città, anche se la gloria andava al Montone. Tuttavia, anche i cuori dei Gemelli e dei Pesci si rallegravano alla sua vista. Dopotutto erano Remorani, e nessun'altra città in tutta Talìa poteva vantare un cavallo alato. Si diressero verso Belle Vigne, dove Georgia si era recata in carrozza il giorno in cui i giovani Principi erano diventati loro amici. Era successo poco più di un mese prima e in quelle settimane Falco era andato a vivere in un altro mondo; Gaetano si era dichiarato a una ragazza; Cesare, Luciano e lei stessa avevano tutti cavalcato la puledra volante e il Montone aveva vinto la Stellata. Ma che ne sarebbe stato di loro da lì in avanti? Georgia intuì che le sue avventure a Remora stavano per finire. Fra sette giorni sarebbe partita per la Francia, sempre che i suoi volessero ancora portarla con loro. I Bellezzani forse se ne sarebbero andati anche prima. Pensarci la faceva star male. In quel momento tutto ciò che voleva era poter volare per sempre, il viso sul collo caldo di Merla, con le sue ali nere che battevano piano e con un ritmo regolare nell'aria cristallina. Nella vecchia stanza di Luciano, Falco non riusciva a dormire. La scenata a casa di Georgia era stata terribile, ma se non altro lei era tornata sana e salva. Gli mancava però la sua presenza nella stanza e la curiosità su ciò che le era successo in Talìa lo teneva sveglio. Georgia aveva detto di aver vinto la Stellata, ma a lui sembrava impossibile. Falco sapeva quanti soldi suo padre e suo zio erano disposti a spendere per assicurarsi la vittoria dei Gemelli o della Signora. Si chiese se lei avesse già stravagato di nuovo fino a Remora e di colpo si sentì tagliato fuori dalla sua vecchia vita. Come stava andando la corte di Gaetano alla Duchessa? Che cosa stava facendo suo padre? Le domande non avrebbero avuto risposta finché non avesse di nuovo potuto parlare con Georgia. E fino ad allora non sarebbe riuscito a dormire. La luce cominciava a calare mentre Merla volava lenta verso casa. A Georgia venne in mente un verso di una poesia che a Maura piaceva molto: Non possiamo imprigionare l'attimo nelle sue reti d'oro. "È vero" pensò,
ma se avesse avuto una rete d'oro, quello era il momento che avrebbe voluto catturare per sempre. Merla cominciò la discesa e in pochi minuti quel meraviglioso volo finì. Da allora, però, ogni volta che Georgia si fosse sentita giù, le sarebbe bastato chiudere gli occhi per trovarsi di nuovo sulla puledra alata a volare in cerchio sopra la Città delle Stelle, attorniata dal viola e dall'oro dei suoi campi di zafferano. Dopo che la ragazza fu smontata, Merla scosse le ali e una piuma nera fluttuò fin sul selciato: Georgia la raccolse e se la mise in tasca insieme alla statuina etrusca. Forse non doveva farlo, ma le dispiaceva lasciarla lì a Remora. Luciano la stava aspettando vicino alle scuderie. Attese finché la puledra non fu strigliata e nutrita, poi chiese a Georgia di fare una passeggiata insieme. «Okay, ma non posso fermarmi troppo» disse lei. «Oggi devo tornare puntuale.» Come avevano fatto molte altre volte, si diressero verso il Campo. Il fazzoletto rosso e giallo di Cesare sventolava ancora dalla colonna centrale, ma quella che meno di un giorno prima era stata una pista era tornata ad essere una piazza percorsa da Remorani e da turisti. Molti di loro riconobbero Georgia e la salutarono con complimenti e applausi. «Sei diventata il loro eroe» disse Luciano sorridendole. «Potrei montarmi la testa» scherzò lei. «Mi aspetto la stessa accoglienza quando rimetterò piede a scuola il prossimo trimestre.» «Quando io invece sarò a Bellezza per imparare a migliorarmi come Stravagante.» «Meglio quello che i miei esami» commentò Georgia. «Mi mancherai» disse lui all'improvviso. «Davvero?» fece Georgia, pensando: "Ti prego, Dio, non farmi arrossire o piangere." «Mi ha fatto bene rivedere qualcuno del mio vecchio mondo» continuò Luciano. «All'inizio ci stavo male, ma ora voglio sapere tutto di come sta andando tra Falco e i miei.» «Mi hai detto di essere tornato qualche volta. Non potresti andarlo a vedere di persona?» «Sì, ma è dura. Quando sono là non mi sento molto bene. E poi è strano vedere i miei genitori e pensare di non poter più vivere con loro. Oppure sapere che non potrò mai spiegare loro che cosa mi è successo veramente.»
«Forse più lo fai più diventerà facile» disse Georgia. «E magari potremmo incontrarci anche nel nostro vecchio mondo.» «Mi farebbe piacere.» Luciano le prese la mano. «Non so spiegare bene quello che provo, ma sento che sei davvero speciale per me. Sei un legame con la mia vecchia vita, qualcosa che nessuno qui, neanche il Dottor Dethridge, potrà mai essere. Il mondo che lui ha lasciato per venire qui è troppo diverso dal nostro.» Rimasero un po' in silenzio. «Torniamo indietro» disse poi Georgia. «Devo stravagare.» «Allora se non ti dispiace salutiamoci qui. Vorrei andare a trovare Arianna a palazzo.» «È prudente?» chiese Georgia preoccupata. «E se incontri il Duca?» «Non posso passare la vita a temere di incontrarlo, no?» replicò Luciano. Le si avvicinò e la abbracciò, sfiorandole la guancia con un bacio. Poi se ne andò, attraversando spedito il Campo. Capitolo 25 L'ombra
Niccolò sedeva sulla sua poltrona tenendo in braccio Falco, ormai irriconoscibile. Erano soli: tutti gli altri membri della famiglia erano andati a palazzo per discutere col Papa di matrimoni. L'ultima luce della sera filtrava dalla finestra, illuminando i granelli di polvere che danzavano nei suoi raggi. «È giunta l'ora» disse il Duca. Con molta delicatezza appoggiò un lembo del mantello sopra il viso del ragazzo e ve lo tenne premuto. Falco si sentì attraversare da un'improvvisa scarica, come un fulmine, e si alzò in piedi di scatto. Il corpo gli sembrò più pesante, stranamente solido. Non si era mai sentito particolarmente leggero nel mondo di Georgia, ma fu in quel momento che capì che fino ad allora non era mai stato del tutto presente. «È successo» disse meravigliato. «Il mio vecchio corpo è morto.» Zoppicando raggiunse la finestra e aprì le tende. Il sole stava sorgendo
sopra Islington e i primi raggi illuminarono la stanza. Falco gli voltò le spalle e vide la propria ombra stagliarsi di traverso sul letto. «Ora sono bloccato qui per sempre» disse, sentendosi più solo di quanto non si fosse mai sentito in tutta la sua vita. Georgia si alzò presto, pronta ad affrontare qualsiasi cosa la giornata le avrebbe riservato. E la prima cosa fu Russell, che entrò a forza in camera sua, spostando la cassettiera con una spallata come se fosse un giocattolo. «Oh, scusa» disse. «E quello avrebbe dovuto tenermi fuori?» «Che cosa vuoi?» chiese lei con voce stanca. «Voglio sapere dove sei stata l'altra notte» disse Russell. «E non menarla con quella storia delle promesse. Scommetto che eri in giro con lo storpietto.» «E invece no» ribatté Georgia in tono pacato. Si sentiva stranamente calma. Questo fece imbestialire Russell, che capì di doversi sforzare di più se voleva avere una risposta. «Be', di sicuro eri con un tipo. E di sicuro era anche uno sfigato.» «Sì, è quello che mi aspettavo pensassi» disse Georgia. «Veramente ero con due tipi, tutti e due considerati molto carini, a giudicare dal numero di ragazze che avevano intorno.» Russell strabuzzò gli occhi. «E ho bevuto un bel po' di vino e ho anche ballato» continuò lei, ricordando come aveva passato la notte precedente a Remora. «E tutti hanno brindato alla mia salute e mi è stata data una ricompensa principesca.» «Ah, ho capito. È un'altra delle tue fantasie, come essere benvoluta a scuola o avere un ragazzo» disse Russell. Poi alzò la voce, seriamente infastidito dal tono indifferente di lei. «Ma resteranno fantasie, no? Fai pietà e sei brutta. Non piaci e non piacerai mai a nessuno, se non alle fallite come Alice o ai piccoli spastici schifosi come Nick lo zoppo.» «Russell!» esclamarono insieme Maura e Ralph dalla porta. Georgia non dovette aggiungere niente. In quella che era iniziata come una normale occasione per tormentare la sorellastra, la calma e l'indifferenza della sua vittima avevano fatto infuriare Russell, la cui voce si era alzata a tal punto che i genitori avevano sentito l'ultima parte del discorso. Erano talmente scioccati, mentre guardavano dentro la stanza appoggiati alla cassettiera, che Georgia fu quasi dispiaciuta per loro. Aveva cercato diverse volte di spiegare come Russell la trattava, ma ora l'avevano sentito
con le proprie orecchie. Il gesto che fece con spalle e mani sembrava dire: "Visto?" Livido dalla rabbia, Russell si voltò di nuovo verso di lei. «Questa me la pagherai» le disse sottovoce. «Pagartela per cosa?» disse chiaramente Georgia. «Sei stato tu a cercartela. Io ero qui a pensare ai fatti miei, come al solito.» Niccolò tolse il mantello dal viso di Falco. La lunga e straziante attesa era finita. Suo figlio era in pace e poteva essere seppellito con tutti gli onori. Avrebbe riportato il corpo a Giglia, lo avrebbe tumulato nel mausoleo dei de' Chimici e avrebbe chiesto a quella donna di nome Miele di scolpirgli una statua. Oppure avrebbe fatto costruire una nuova cappella apposta per lui. Quei pensieri erano diventati più facili da sopportare dopo l'interminabile agonia. Guardò il figlio adorato, poi piegò la testa all'indietro e lanciò un urlo di dolore. Beatrice arrivò di corsa. Stava tornando per dare il cambio al padre e quel gemito straziante le fece capire subito che cosa era successo. Ciò che vide appena entrata nella stanza la lasciò senza respiro. La prima cosa su cui posò lo sguardo furono i capelli di Niccolò. Neri fino al giorno prima, con solo qualche screziatura di grigio, erano ormai diventati completamente bianchi. In un giorno solo era invecchiato di dieci anni. La seconda cosa le fece fare il segno della croce più volte. L'ultima luce del giorno proiettava sul pavimento l'ombra massiccia del Duca. Il corpo di Falco gli era disteso in grembo, come quello di Gesù nella Pietà che si trovava nel Duomo di Giglia, ma la sua ombra non si vedeva. Quando il Duca si accorse di ciò che stava guardando Beatrice, smise di gridare. Si alzò in piedi, reggendo tra le braccia l'esile cadavere di Falco. Arrivò lentamente al letto e ve lo distese. Ma la sua ombra aveva le mani vuote, e depose un carico inesistente. Lo sguardo di Niccolò incrociò quello di Beatrice e al segno della croce lei aggiunse anche la mano della fortuna. Luciano, Arianna e Rodolfo si trovavano nella stanza di quest'ultimo, a palazzo. Tutti e tre erano nervosi. Il Reggente e il suo apprendista avevano sentito la terra tremare sotto i piedi, come se la città fosse stata scossa da un terremoto.
«Che c'è?» chiese Arianna, che non aveva percepito niente. Rodolfo si avvicinò ai suoi specchi e li puntò su altri luoghi. Luciano andò a sedersi vicino ad Arianna e le mise un braccio sulle spalle, titubante. «Andrà tutto bene» disse, cercando di darle una sicurezza che lui per primo non provava. Lei gli si appoggiò contro, improvvisamente stanca. «Voglio andare a casa» disse piano. «Torniamocene a Bellezza.» «Credo che sarebbe una buona idea» concordò Rodolfo. Poi qualcuno irruppe nella stanza senza bussare. Ai tre ci volle qualche secondo per capire che era il Duca, completamente sconvolto. I suoi capelli erano diventati bianchi e aveva gli occhi rossi per il sonno arretrato. «Mi avevano detto che ti avrei trovato qui» disse a Luciano. «Tu, che una volta non avevi ombra! Dimmi che cos'hai fatto a mio figlio!» «È peggiorato, Vostra Grazia?» chiese Arianna allarmata. «È morto» disse il Duca. «È morto, ma il suo corpo non proietta ombra. Chi vuole spiegarmi come sia possibile? Questo vecchio stregone o il suo seguace nelle arti oscure?» Improvvisamente Niccolò notò qualcosa in uno degli specchi di Rodolfo. Inorridito, Luciano vide la sua vecchia stanza, e Falco che, seduto sul letto, si teneva la testa fra le mani. Il sole del mattino dipingeva chiaramente un'ombra sul copriletto alle sue spalle. Per il Duca fu troppo. La sua salute, sia fisica che mentale, era troppo provata per sopportare quella vista. Cadde a terra svenuto. Rodolfo gli si avvicinò e gli premette le dita sugli occhi, mormorando qualcosa. «Dormirà per qualche ora e al risveglio non ricorderà ciò che ha visto» disse. «Però dobbiamo ugualmente andarcene prima che rinvenga.» In tutta fretta Rodolfo smontò il sistema di specchi e lo ripose in una valigia mentre Arianna chiamava la servitù. Spiegò che il Duca era stato sopraffatto dal dolore mentre annunciava la morte del figlio ed era svenuto. I servi lo portarono nelle sue stanze e riferirono la notizia al Papa. Pochi minuti dopo le campane del palazzo suonarono a morto e la città si mise a lutto. Appena vide Falco arrivare a casa sua, Georgia capì cos'era successo. Il ragazzo era con i Mulholland e pertanto non fu possibile parlarne subito, ma l'amica notò l'ombra ai suoi piedi e la strana luce nel suo sguardo. «Come stai?» gli chiese. Fece di tutto per farlo sembrare un normale saluto, ma il tono diceva molto più delle parole.
«Bene» rispose lui. Era sincero. Gli adulti erano in gruppo e discutevano piano. Russell era andato dai suoi amici perché l'indomani sarebbe partito per la Grecia, ma in ogni caso Ralph e Maura non lo volevano intorno. Dalla sera prima, quando tutti si erano ritrovati per avere una spiegazione da Georgia, l'atmosfera era completamente cambiata. Ora l'oggetto delle loro preoccupazioni era diventato Russell e la fuga della ragazza era passata in secondo piano. «Ti andrebbe di preparare il caffè, Georgia?» chiese Ralph a un certo punto. Lei capì che volevano parlare in privato. «Nicholas può farti compagnia» aggiunse Vicky. In quel modo anche loro due riuscirono a rimanere soli. Il caffè si fece attendere un'eternità. Georgia dovette raccontare tutto a Falco: la corsa, Cesare e Merla, il banchetto nel Montone, Gaetano e Francesca. Poi Falco volle raccontarle del momento in cui aveva sentito la sua ombra tornare. «Mi chiedo quali saranno le conseguenze per Luciano» disse Georgia. «Tuo padre ci aveva minacciato nel caso ti fosse successo qualcosa.» «Ora non posso tornare mai più, vero?» domandò Falco. «Non senza un talismano da Talìa» rispose Georgia. Falco aveva un'espressione così abbattuta che lei tirò fuori dalla tasca la piuma nera e gliela diede. «Prendi. Io sono una Stravagante e ti dono questo talismano. Sono certa che un giorno ti farà tornare.» Le carrozze dei Bellezzani si fermarono nel Montone per accomiatarsi dai Montalbano. Rodolfo sarebbe tornato a Bellezza con Silvia, lasciando a Luciano il proprio posto nella carrozza di Arianna. Dethridge però non avrebbe viaggiato da solo. Francesca sarebbe andata a Bellezza con lui per riprendere le sue cose dalla casa del vecchio Albani. Anche Gaetano era sceso alle scuderie per salutare la sua promessa sposa. Gli vennero affidati diversi messaggi da portare al padre per spiegare la frettolosa partenza dei Bellezzani. Avrebbe fatto il possibile per mitigare i sospetti e la rabbia di Niccolò nei confronti degli Stravaganti, ma sarebbe sempre rimasta una minaccia sulle loro teste. Paolo e Teresa salutarono i propri ospiti. Luciano, Cesare e Gaetano, gli ultimi rimasti dei cinque che avevano stretto il patto mentre andavano a Belle Vigne, si abbracciarono. Si sentivano ancora i rintocchi a morto per Falco. Luciano si chiese se sarebbe mai riuscito a dimenticare quel suono. «Quando tornerà il fantino di riserva, portagli il mio saluto» disse a Ce-
sare la giovane Duchessa. «Ma conto che sia tu a correre per il Montone l'anno prossimo.» «Certamente, Vostra Grazia» rispose Cesare, che continuava a provare soggezione davanti a quella splendida ragazza. «E digli di badare a mio fratello» aggiunse Gaetano sottovoce. Poi si rivolse alla comitiva in partenza per Bellezza: «Prendetevi cura di Francesca nella vostra Città delle Maschere. Conterò le ore che mi separano dal momento in cui mi raggiungerà a Giglia.» «Vedete?» disse Arianna. «Quando volete riuscite ad essere romantico. Certo che mi prenderò cura di lei.» I tre Stravaganti in partenza abbracciarono Paolo. Ognuno fece forza agli altri e ne ricevette da loro in ugual misura. Poi le carrozze si misero in movimento verso la Porta del Sole. Lungo la strada sorpassarono un gruppo di persone dagli abiti sgargianti e pieni di nastri. Molti avevano con sé strumenti musicali. «Ferma!» ordinò Arianna al cocchiere. «Volete unirvi a noi?» chiese a Raffaella. «C'è spazio sul tetto e nella quarta carrozza, se non vi dispiace viaggiare con i miei bagagli.» «Apprezziamo l'offerta, Vostra Grazia, ma preferiamo compiere a piedi il nostro lungo peregrinare» disse Aurelio, rispondendo per entrambi. «Comunque sono certo che ci incontreremo di nuovo, nella Città dei Fiori se non nel vostro stesso Ducato.» «Lo spero» disse Arianna. «Mi piacerebbe risentire la musica dei Manoush.» La punizione per Georgia consistette nel dover rinunciare alle lezioni di equitazione per tutto il trimestre. Fu un colpo duro, ma sopportabile. Quell'estate aveva cavalcato così tanto che difficilmente avrebbe dimenticato ciò che aveva imparato a Remora. In un certo senso, poi, qualsiasi cavallo sarebbe stato un po' una delusione dopo Merla; ritardare il momento in cui avrebbe dovuto fare quel paragone non era poi tanto male. In compenso sarebbe comunque andata in Francia, mentre Russell sarebbe partito per la Grecia l'indomani, come previsto. Finalmente Ralph e Maura avevano preso sul serio i suoi problemi col fratellastro. «Ora capisco perché volevi una serratura» disse triste Maura, mentre Ralph ne installava una nuova sulla porta della camera di Georgia. «Scusa se non ti ho mai dato abbastanza ascolto quando mi parlavi di Russell.» «Mi sconvolge pensare che mio figlio possa essersi comportato così»
aggiunse Ralph. «Mi ha sempre detestato» disse Georgia. «Credo che se la prendesse con me per gelosia, perché avevi sposato mamma.» «Be', la dovrà smettere» sbottò Ralph. «Maura e io vogliamo che vada da uno psicologo.» «E lui è d'accordo?» chiese Georgia. Ralph e Maura si scambiarono un'occhiata. «Non esattamente» rispose lui. «Ma l'abbiamo lasciato andare in vacanza solo a condizione che al ritorno inizi una terapia.» Poterne parlare fu un grande sollievo, ma Georgia sapeva che Russell aveva già perso ogni potere su di lei. Quella notte decise di non stravagare. "Magari lo faccio per paura" pensò "ma non voglio affrontare il Duca senza prima aver recuperato il sonno perduto." La notte seguente, però, era già troppo tardi. Russell se n'era andato e con lui il cavallino etrusco. Georgia capì subito di averlo probabilmente perso per sempre. Dopo la famiglia, uno dei primi a portare le condoglianze a palazzo fu Enrico, la spia. Al braccio aveva una fascia nera. Gli venne detto che il Duca stava dormendo, ma che il Papa lo avrebbe ricevuto. Enrico si ravviò i capelli ed entrò a parlare con il Pontefice. «Santità» mormorò, prostrandosi di fronte a Ferdinando de' Chimici e baciandogli l'anello. «Ah» disse il Papa, facendogli segno di alzarsi. «Allora hai sentito della nostra grande disgrazia.» «Certamente, Santità. Terribile, terribile» esclamò Enrico con sincerità. «Di fronte alla scomparsa del nostro Principe più giovane tutto il resto perde di importanza, è vero, ma mi è anche dispiaciuto che la Stellata non sia stata vinta da un fantino legato alla nostra famiglia» disse il Papa. «È stato molto imbarazzante sia per me che per mio fratello.» «Me ne dolgo, Santità» dichiarò Enrico. «Tuttavia, che può fare un uomo solo contro le forze del destino? Concorderete che la Dea ci era avversa.» «Io non concordo con questi discorsi empi, insolente!» proruppe il Papa diventando paonazzo. «Io sono il capo della Chiesa e non credo in nessuna dea!» «Era soltanto un modo di dire, Santità» rimediò abilmente Enrico, fin-
gendo di grattarsi il mento e di tossire per mascherare la mano della fortuna. Il Papa era esterrefatto. «Ciò che intendevo dire è che non è destino che certe cose, come anche la guarigione del giovane Principe, accadano» continuò la spia. «Ho fatto tutto il possibile per truccare la corsa, ma i Remorani sono superstiziosi, e una volta avvistata quella meraviglia alata tutti i fantini si sono distratti, tranne quello del Montone.» «So bene chi ha vinto» replicò stizzito il Papa. «Mi rendo conto però che tutto si è messo contro di noi nel momento in cui quella cavalla è nata a Remora. L'altra questione è che cosa fare di te ora che la corsa è finita. Ti consiglio di riaccompagnare mio fratello a Giglia non appena si sarà rimesso abbastanza per riportarvi il corpo del figlio. Sono certo che troverà delle mansioni per te.» Falco aveva ottenuto un appuntamento per l'operazione e non vedeva l'ora di dirlo a Georgia. Le telefonò, ma la trovò sconvolta. «Sparito? Come sarebbe a dire?» «Russell è andato in Grecia e credo l'abbia portato con sé o l'abbia fatto a pezzi. Aveva detto che me l'avrebbe fatta pagare e c'è riuscito.» «Mi spiace davvero» disse Falco. «Pensi di poter usare la mia piuma? Se vuoi te la presto.» All'altro capo del telefono ci fu un lungo silenzio. «No, non credo» rispose Georgia alla fine. «Non è stata portata qui per me. Probabilmente non funzionerebbe.» Niccolò dormì dodici ore di seguito e si svegliò con rinnovata energia. Mandò a chiamare il suo maggiordomo perché lo rasasse e gli tagliasse i capelli ormai bianchi. Poi, con sollievo dei figli, fece una robusta colazione. Il Duca voleva lasciarsi quel dolore alle spalle e riprendere le proprie attività. Ricordava poco del giorno prima. Sotto sotto sapeva che la morte di Falco non era andata proprio come aveva raccontato, ma cercò di seppellire quel pensiero, come avrebbe fatto di lì a poco con il corpo del figlio. Non poteva però dimenticare del tutto ciò che era successo dopo. C'era qualcosa di inquietante nella morte di Falco ed era collegato agli Stravaganti, anche se Niccolò non ricordava ciò che aveva visto negli specchi di Rodolfo. Era deciso a raddoppiare gli sforzi e scoprire quali fossero vera-
mente i loro poteri. A questo fine fece chiamare tutti i figli per una riunione di famiglia. Gaetano fu il primo ad arrivare, ma suo padre non apprezzò le notizie che portava. «Partiti? I Bellezzani sono partiti?» esclamò Niccolò incredulo. «Senza nemmeno fingere la cortesia di un saluto e senza attendere il funerale di mio figlio?» «La Duchessa ha insistito perché ti portassi le sue più profonde scuse» disse Gaetano. «E noi non volevamo svegliarti quando stavi dormendo per la prima volta da giorni. Comunque la data della partenza era già stata decisa da tempo e lei era preoccupata per la lunga assenza dagli affari della sua città. Sia lei che il Reggente mancano da Bellezza da due settimane, e tu sai bene quanto possa essere vulnerabile un ducato quando il suo signore è lontano.» «Io manco da Giglia da più del doppio del tempo» disse il Duca sprezzante. «Sì, ma nessuno oserebbe muovere contro di te, padre mio» replicò Gaetano. «La Duchessa regna solo da un anno ed è normale che abbia dei timori.» «È ora che anche noi torniamo alle nostre città» tagliò corto Niccolò. «Abbiamo cose importanti a cui pensare, come un funerale, diversi matrimoni e una guerra aperta contro gli Stravaganti.» «E perché?» chiese coraggiosamente Gaetano. «Perché abbiamo perso Falco? Dubito che sia stata colpa loro.» Niccolò lo guardò stupito. «Ti prego, padre» disse piano il giovane. «Ora finalmente Falco riposa. Non possiamo smettere questi discorsi di vendetta e piangerlo in pace?» «Tu non capisci» replicò Niccolò. «Ci sono gli Stravaganti dietro alla sua morte. Se non gli altri, di sicuro Rodolfo. Ho visto qualcosa... qualcosa di innaturale. La loro è stregoneria e voglio andarne a fondo.» Il signor Goldsmith stava partendo per le vacanze. Aveva messo il cartello con scritto CHIUSO sulla porta del negozio ed era andato a trovare Georgia a casa. C'era anche Maura, che fu sorpresa di vederlo. Preparò comunque il tè per tutti e rimase a berlo con loro. «Me ne vado per qualche settimana» disse lui. «Volevo solo passare a dirtelo. Ieri sera mio nipote mi ha telefonato per invitarmi ad andare in vacanza con lui e la sua famiglia sui canali nella piana del Norfolk.»
Georgia ne fu contenta. Goldsmith non aveva mai parlato dei suoi parenti e lei temeva che potesse essere solo al mondo. «Volevo avvisarvi, prima che tu o Nicholas arrivaste al negozio e lo trovaste chiuso» continuò. «Non me ne vado spesso d'estate, ma questa è un'occasione che mi attira.» «Suo nipote vive nel Norfolk?» chiese Maura. «No, a Cambridge» rispose Goldsmith. «È da lì che veniva la mia famiglia. E anche mia moglie.» «Non sapevo che lei fosse sposato» disse Georgia. «È morta molti anni fa, prima che potessimo avere figli» raccontò lui. «Ma ho tre bisnipoti e mi farà piacere andare in barca con loro.» Quando il signor Goldsmith se ne fu andato, Maura si scusò con Georgia. «Mi sbagliavo sul suo conto» disse. «Sembra una brava persona. Era Russell ad avere dei problemi.» Georgia la abbracciò. «Non fa niente, mamma.» Enrico era nel Palazzo di Santa Fina, intento a recuperare il proprio denaro, quando vide il Duca. Niccolò stava vagando per le stanze della residenza come se stesse cercando qualcosa. «Mio signore» disse Enrico esitante. Il Duca si girò sussultando. Quando lo vide, si tranquillizzò. «Ah, la spia» disse. «Non c'è niente da spiare, qui. Solo un palazzo deserto e un vecchio.» «C'è qualcosa che posso fare per voi, Vostra Grazia?» chiese Enrico. «Sono addolorato per quanto è successo al Principe.» Il Duca si fermò un momento a pensare. «Se dovessi seppellire il tuo figlio prediletto, che cosa metteresti nella bara con lui?» Enrico non aveva figli né prevedeva di averne da quando la sua Giuliana era scomparsa, ma aveva una mente pronta. «Forse un ricordo d'infanzia, mio signore. Un giocattolo, un ninnolo, un'immagine...» «Un'immagine? Sì, hai ragione.» Il Duca prese una miniatura dall'interno della propria camicia. «Porto questa da quando mia moglie Benedetta è morta. Visto che ora non posso più farlo io, nel sepolcro starà lei vicino al nostro bambino.» Georgia era dai Mulholland per salutarli prima di partire per la Francia. «Credi che tornerai mai a Remora?» chiese Falco.
«Spero di sì. È un posto fantastico. E poi mi mancano Cesare e la sua famiglia.» «Però la persona che ti manca di più non si trova in quella città, vero?» domandò Falco piano. Georgia non replicò. Evidentemente in Talìa non era stata brava a nascondere i propri sentimenti come lo era lì. «Ti ha sorpreso che la Duchessa abbia respinto mio fratello?» insistette lui. «Non troppo» rispose Georgia. «Dopotutto è un de' Chimici, anche se uno di quelli simpatici.» «E io?» chiese Falco. «Io non sono uno di quelli simpatici?» «Tu non sei più un de' Chimici. Ora sei un Duke e forse un giorno diventerai un Mulholland.» «Ma pensi che io sia simpatico?» «Non essere scemo!» disse Georgia. Che cosa avevano tutti quanti? Era come se da quando aveva vinto la Stellata tutti la trovassero irresistibile, in entrambi i mondi. «Certo che sì!» aggiunse, vedendo Falco un po' deluso. «Non so spiegare bene quello che provo, ma per me sarai sempre una persona speciale, perché sei il mio unico legame con i giorni che ho passato in un altro mondo, un mondo di cui nessuno qui sa niente.» Poi gli si avvicinò, lo abbracciò e gli diede un bacio sulla guancia. Epilogo Il tredicesimo fantino
Remora, settembre 1578 Per la seconda volta in quell'estate, il Campo delle Stelle si stava trasformando in una pista. Capitava eccezionalmente che una seconda gara, una Stellata Straordinaria, venisse indetta in occasione di avvenimenti particolarmente importanti per la città. L'ultima volta era successo vent'anni prima, quando Ferdinando de' Chimici era diventato Papa e aveva ripristinato il titolo di Principe di Remora.
Ora il fratello del Papa, Niccolò, aveva deciso di indire una Stellata Straordinaria per commemorare la breve vita del più giovane dei suoi figli. I cittadini erano indaffaratissimi a preparare una nuova corsa a così breve distanza dalla precedente. Dovevano approntare la pista, nominare i giudici, ripulire gli abiti da parata e provare nuovi numeri con le bandiere. Il rullo dei tamburi, che quasi non si era ancora affievolito, era già ripreso, e Remora viveva di nuovo il ritmo affannoso dei preparativi. In quel momento era più importante che mai che la Signora o almeno i Gemelli vincessero la Stellata di Falco. Al fantino trionfatore sarebbe andato un premio più sostanzioso delle altre volte. Cesare non riusciva a capacitarsi di essere così fortunato da poter correre su Arcangelo senza dover aspettare un altro anno. Non si sarebbe sicuramente lasciato rapire di nuovo. Nell'ultimo mese, da quando i Bellezzani se n'erano andati e i de' Chimici erano tornati a Giglia, la vita era stata un po' monotona. La morte di Falco lo aveva rattristato: certo, sapeva che il ragazzo era vivo in un altro mondo, ma era un mondo che lui difficilmente avrebbe potuto visitare. Rivederlo era improbabile. Peccato, perché si era affezionato molto al giovane Principe. Quanto a Georgia, non era più venuta a trovarli dal giorno dopo la corsa. Cesare si chiese se sarebbe tornata per la Stellata Straordinaria. Doveva essere già rientrata dalle vacanze. Londra, settembre 2004 In effetti Georgia era rientrata da un anno. In quel periodo di tempo erano successe molte cose, ma non c'erano stati altri viaggi in Talìa perché il talismano era andato perduto. Quando Russell tornò dalla Grecia fu interrogato al riguardo, ma questa volta non cedette e negò di aver preso lui la statuina. Con grande sorpresa di Georgia, cominciò ad andare dallo psicologo. La vita in casa migliorò notevolmente, anche se non tutto filava liscio. Ralph e Maura, che andavano con Russell ad alcune delle sedute di terapia familiare, furono chiaramente scioccati dalla portata dei suoi problemi. Non avrebbe mai smesso di detestare Georgia, né lei di detestare lui, ma almeno smise di tormentarla. Mantennero una specie di guerra fredda, che sotto l'attenta vigilanza di Ralph e Maura non degenerò mai. La vita di Georgia divenne comunque molto più impegnativa. Quell'anno ci sarebbero stati gli esami e aveva molto da studiare.
L'amicizia con Alice si rinsaldò. Si recò con lei nel Devon diverse volte nei fine settimana, e la cosa le fu di molto aiuto specie nel primo trimestre, quando non poteva andare a lezione da Jean e aveva nostalgia di Remora. Nel secondo trimestre ebbe il suo primo ragazzo. Si chiamava Dan ed era un anno avanti a lei a scuola. Rimasero insieme otto settimane e la storia finì giusto in tempo perché Georgia potesse concentrarsi sugli esami. I risultati arrivarono all'inizio di agosto ed erano così buoni che Ralph e Maura la portarono fuori a cena e le regalarono una macchina fotografica digitale. Il regalo più bello, però, fu la notizia che Russell se ne sarebbe andato. I suoi voti alla maturità furono sufficienti per farlo ammettere all'università del Sussex per studiare Informatica. Non volle festeggiare con la famiglia; uscì invece con gli amici e si prese una bella sbornia i cui postumi durarono due giorni. In regalo ebbe la caparra per l'affitto di un appartamento a Brighton; avrebbe lasciato la casa di Islington ancora prima dell'inizio dei corsi. Inutile dire che Georgia ne fu felicissima. Lei passò di nuovo gran parte dell'estate nel Devon con Alice, a cavalcare e a conoscere altre persone del posto. Fra loro c'era Adam, un ragazzo con occhi e capelli scuri, niente male. Anche a scuola aveva molti più amici. Vincere la Stellata l'aveva cambiata molto più di quanto si sarebbe aspettato. La profonda e intima soddisfazione per essere riuscita bene in qualcosa le diede una nuova sicurezza di sé, che modificò il suo carattere e anche il suo aspetto. Smise di respingere chi le offriva amicizia e scoprì che le persone che la consideravano interessante erano molte. Una volta che Russell cessò di tormentarla in casa, fu come se la sua personalità si allargasse per colmare il nuovo spazio che le si era creato intorno. Georgia non si mise un altro anellino al sopracciglio, ma si fece tatuare sulla spalla un cavallo alato e si tinse i capelli di rosso scuro, con meche bianche e nere sul davanti. Le era anche cresciuto il seno, per cui cominciò a indossare magliette corte e attillate invece delle solite felpe larghe e sformate. In entrambi i mondi sarebbe ormai stato impossibile scambiarla per un ragazzo. Ma se dall'ultimo viaggio a Remora la vita di Georgia era cambiata, quella di Falco era stata completamente trasformata. Il ragazzo balzò in cima alla lista d'attesa per via dell'età e della gravità delle sue condizioni. Qualche tempo prima di Natale, il primo trascorso nel suo nuovo mondo, gli fu impiantata una protesi dell'anca.
Seguirono mesi di cure e fisioterapia, durante i quali imparò a camminare senza stampelle. Raggiunse l'obiettivo a febbraio, anche se zoppicava ancora leggermente. A maggio, dopo un altro paio di mesi di lavoro in palestra e in piscina, dove imparò a nuotare, Falco camminava perfettamente ed era cinque centimetri più alto di quando aveva stravagato. Frequentava il nono anno alla Barnsbury Comprehensive ed era estremamente benvoluto a scuola. Alle ragazze piaceva il suo aspetto esotico e i ragazzi ammiravano la sua costanza nell'allenamento. E non guastava certo il fatto che la sua migliore amica fosse una ragazza dell'undicesimo anno che ormai tutti consideravano una dura. La sera prima della Stellata di Falco, i Duodecimi di Remora erano di nuovo illuminati dalle torce. La città era abituata a riprendersi da una corsa e prepararsi immediatamente per la successiva, e d'altronde un detto locale recitava: «La Stellata si corre tutto l'anno.» Quella volta però ai Remorani era stata regalata subito una seconda possibilità di vincere. Un nuovo drappo per la Stellata, con un piccolo ritratto di Falco a cavallo nell'angolo in basso a destra, era stato ordinato e realizzato in brevissimo tempo. Cesare non si illudeva che il Montone venisse lasciato vincere di nuovo, ma fu felice di essere l'ospite d'onore al banchetto del suo Duodecimo la vigilia. Ricevette il casco dal sacerdote e poi dovette alzarsi per fare il suo primo discorso. «Montonaioli!» disse rivolgendosi ai convitati in un mare di tovaglie e fazzoletti rossi e gialli. «Sono onorato di essere stato scelto come vostro fantino. Mi è stato impedito contro la mia volontà di partecipare alla scorsa Stellata, ma sappiamo tutti com'è poi finita, vero?» Ci fu un boato di approvazione. «Così, anche se questa sera non può essere tra noi, vi chiedo di brindare alla salute del più recente campione del Montone, Giorgio Gredi!» E il grido "Giorgio Gredi!" echeggiò per tutta la piazza. Georgia si sentiva strana fin dalla mattina. Non si era ancora abituata del tutto alla nuova routine dell'ultimo biennio di scuola. Aveva un nuovo tutor e il lusso di sole cinque materie; poteva usare la sala studenti, una stanza con poltrone di solito occupate da quelli dell'ultimo anno e una piccola cucina in cui preparare il caffè; e c'erano ore libere in cui poteva studiare in biblioteca o anche fuori nel prato, se il tempo era bello. Quel giorno lo era, in effetti, proprio come in piena estate, anche se in serata avrebbe fatto freddo. Georgia aveva un'ora libera proprio prima di
pranzo e se ne stava fuori con Alice. «Russell va via oggi, vero?» chiese l'amica. «Vi siete salutati fraternamente?» Georgia fece una smorfia. «Che vada e che ci resti!» disse, chiedendosi se non fosse quello a farla sentire strana. «È il giorno più felice della mia vita.» Non proprio. Il giorno più felice della sua vita era stato quando aveva vinto la Stellata ed era stata baciata da Luciano, ma non poteva certo dirlo ad Alice o a qualcun altro, e questo la rattristava. Era anche inquieta. Quando era di nuovo arrivato il 15 agosto era stata una tortura pensare a cosa stava succedendo a Remora. Aveva passato la giornata con Falco, che ormai doveva chiamare Nicholas, a parlare della gara e a chiedersi quali cavalli e quali fantini avrebbero corso, nonché se quella volta i de' Chimici sarebbero riusciti a vincere. Poi c'era stato l'anniversario della traslazione e Nicholas aveva sentito una fortissima nostalgia di casa. Discutevano spesso se dovesse usare o meno la piuma come talismano per fare una visita nel suo mondo, proprio come faceva Luciano, ma lui non voleva stravagare da solo e il talismano di Georgia era sparito. Georgia sospirò. Aveva sperato che Luciano tentasse una delle sue rischiose stravagazioni fino a Londra per rivedere la famiglia, in modo da poterlo incontrare. Perciò aveva continuato a frequentare i Mulholland con la scusa delle lezioni di violino - tanto da essere ormai quasi pronta per il diploma - nonché naturalmente delle visite a Nicholas, ma di Luciano non c'era traccia. Nonostante Dan fosse stato molto carino e Adam le piacesse, era lui che desiderava vedere. «Che sospiro profondo!» esclamò Alice. «A cosa stai pensando?» «Hai mai sentito parlare di quel ragazzo che era un anno avanti a noi e che è morto due anni fa?» chiese Georgia improvvisamente. Non ne aveva mai parlato prima con la sua amica. «Chi, quello coi riccioli neri che dicono fosse un gran bel tipo? Quasi tutte quelle del nostro anno gli stavano dietro, vero? E allora?» «Niente» disse Georgia. «Lo vedevo sempre nell'orchestra. Mi piaceva molto.» «Oh» fece Alice sorpresa. «Non me lo avevi mai detto.» «Non avrebbe avuto molto senso. Tanto non c'è niente da fare: non lo rivedrò mai più.» Si rese conto che era proprio così. Era come se Lucien fosse morto una
seconda volta. Alice sembrava preoccupata per lei, ma proprio in quel momento la campanella annunciò il pranzo e non ci fu tempo per continuare il discorso. Studenti di tutti gli anni si riversarono fuori, contenti di potersi godere un ultimo sprazzo d'estate. «Il tuo amico Nicholas gli somiglia, per caso?» chiese inaspettatamente Alice. Un gruppo di ragazzi del nono anno era uscito in cortile. Una figura slanciata, con i capelli ricci, se ne staccò e camminò fino alla sponda erbosa dove sedevano loro due. Georgia si riparò gli occhi dal sole con una mano e guardando Nicholas fu felice di vedere la sua ombra che si allungava sull'asfalto. Luciano stava lavorando con Dethridge e Rodolfo nel laboratorio di quest'ultimo, a Bellezza. Fin dal loro ritorno da Remora, gli Stravaganti erano preoccupati per le possibili conseguenze della morte di Falco; principalmente per il timore di rappresaglie contro di loro da parte del Duca, ma anche perché Rodolfo era convinto ci fosse stato uno slittamento nel portale che permetteva l'accesso fra i due mondi. Dopo la traslazione di William Dethridge, il mondo da cui proveniva Luciano si era spostato molto più avanti nel tempo rispetto alla Talìa del sedicesimo secolo, ma al momento della prima visita del ragazzo lo scarto si era già ridimensionato. Il portale era rimasto stabile per mesi, poi il tempo era di nuovo schizzato in avanti quando Luciano era rimasto intrappolato in Talìa. Era solo uno scarto di qualche settimana, però: gli sforzi congiunti dei tre Stravaganti lo avevano di nuovo stabilizzato, riprendendosi un giorno alla volta finché le date nei due mondi non erano tornate a combaciare, anche se separate da più di quattro secoli. Tuttavia, con la morte di Falco c'era stato un nuovo balzo in avanti nell'altro mondo e i tre stavano ancora cercando di stabilirne la portata. Rodolfo teneva uno specchio puntato sulla vecchia camera di Luciano, come quel giorno in cui Falco era morto e il Duca era sembrato a un passo dall'impazzire. A Luciano fu consigliato di non guardarlo. I due Stravaganti più anziani osservarono Falco vivere una vita fatta di immagini a scatti velocissimi. Avrebbero potuto paragonarla alla visione di una cassetta mandata in avanzamento veloce, se solo avessero avuto idea di che cosa fosse una videocassetta. In ogni caso notarono la lunga assenza di Falco e il suo ritorno con una pesante ingessatura alla gamba. Lo videro rafforzarsi progressivamente con gli esercizi, poi smettere il gesso e co-
minciare a camminare con una stampella sola. Cercarono anche di valutare il passare delle stagioni dall'intensità della luce alla finestra, ma a volte avevano bisogno di Luciano per capire ciò che stavano vedendo. «Che cosa è mai cotale cilindro scarlatto da cui fuoriescono confezioni?» gli chiese Dethridge un giorno. «La calza per i doni di Natale» rispose Luciano con nostalgia. A Bellezza non si usavano e comunque in Talìa era soltanto la fine di agosto. Seguirono Falco, ignaro di essere sorvegliato dai suoi vecchi amici, per tutti i mesi della convalescenza e della riabilitazione. Lo videro crescere e irrobustirsi. A volte Georgia veniva a trovarlo e si sedeva accanto a lui sul letto. Quando ciò succedeva chiamavano sempre Luciano, che era contento di poterla vedere. Attraverso lo specchio tra i due mondi non passava alcun suono, ma a Luciano piaceva pensare che parlassero di lui. Quando Rodolfo ebbe notizia della Stellata Straordinaria tramite lo specchio puntato su Remora, l'altro mondo sembrava aver rallentato di nuovo. Basandosi sui cambiamenti fisici di Georgia e di Falco, stimò fosse passato un anno. «Torniamo a Remora per la Stellata di Falco?» chiese Luciano. «No» disse Rodolfo. «Non è necessario. Arianna non ci andrà e non ha senso esporti al rischio di incontrare il Duca. Sicuramente ci saranno i de' Chimici al gran completo.» La sera prima della gara, il clan dei de' Chimici si radunò nella Piazza del Duomo per la cena dei Gemelli. I Duodecimi delle loro rispettive città erano stati messi da parte in favore dell'unità familiare. Seduto vicino al fratello Papa, il Duca Niccolò osservò i figli e la figlia che gli restavano, nonché i numerosi nipoti, maschi e femmine. I suoi piani per farli sposare tra loro erano stati accolti con favore e lui già immaginava una nuova generazione di de' Chimici e un futuro in cui i suoi discendenti avrebbero regnato, come Principi o Duchi, su ogni cittàstato di Talìa. Non volle guastarsi la serata pensando a quella fastidiosa giovane Duchessa che governava Bellezza, ma prima o poi avrebbe trovato un modo per occuparsi anche di lei. Era solo questione di tempo. «Posso passare da te dopo la scuola?» domandò Nicholas. «Devo parlarti di una cosa.» «Certo» rispose Georgia. «Ci vediamo dopo.»
Fu nervosa per tutto il resto della giornata e la fine delle lezioni fu un sollievo. Trovò la casa vuota, un vuoto che gridava: "RUSSELL NON C'È!" Georgia salì in camera e notò che la porta della stanza del fratellastro era aperta. La spalancò ed entrò. Il letto, la cassettiera e la scrivania c'erano ancora, ma Russell si era portato via stereo, computer e televisore. Il letto era spoglio e proprio nel bel mezzo del materasso stava il cavallino alato. Non c'era un biglietto: solo la statuina, intatta. Russell doveva aver immaginato che lei sarebbe entrata a godersi la sua assenza e probabilmente era tornato a mettere lì il talismano dopo che Ralph e Maura avevano portato fuori gli ultimi bagagli. Georgia lo prese in mano con cautela. Le dava la stessa sensazione di sempre: liscio e caldo, con le delicate ali e il sottile segno della riparazione appena visibile all'attaccatura. Poi il campanello suonò. Nicholas era sui gradini di casa, e Georgia si accorse con stupore che era ormai alto quanto lei. «Come stai?» le chiese. «È tutto il giorno che io mi sento strano. Credo che c'entri Remora. Mi chiedevo se lo sentissi anche tu.» Fu allora che vide ciò che lei teneva in mano. Il mattino della Stellata di Falco sorse chiaro e luminoso. Cesare prese parte a tutti i rituali che si era perso un mese prima, come la messa per i fantini nel Duomo, l'ultima prova mattutina, la registrazione dei nomi. Poi tornò al Montone per un pasto leggero prima degli impegni del pomeriggio. Dopo aver mangiato andò nelle scuderie per calmare un po' il nervosismo, e per poco non svenne dallo spavento. Nella penombra c'era una ragazza snella con i capelli a strisce, vestita con una maglietta minuscola e pantaloni larghi che a Cesare ricordarono qualcosa. «Georgia?» chiese incredulo. «Cesare!» esclamò lei, abbracciandolo forte. Il ragazzo trovò che avesse un ottimo profumo. «Sarà meglio trovarmi dei vestiti. Quelli che usavo prima sono spariti.» «Mi sa che non riusciresti più a portare vestiti da ragazzo» disse Cesare ammirando le sue forme. Georgia arrossì e poi gli diede una gomitata. «Guarda chi ti ho portato» disse sorridendo. Era magnifico essere di nuovo a Remora. «Ci abbiamo messo ore ad addormentarci. Eravamo
troppo esaltati dal pensiero di tornare.» Dietro di lei, un ragazzo slanciato con i riccioli neri e con indosso i bizzarri vestiti dell'altro mondo uscì dall'ombra. Cesare non lo riconobbe finché Falco non lo chiamò per nome. Il Remorano unì le dita a formare la mano della fortuna: quello era Falco, ma un Falco più adulto e più alto, che camminava normalmente senza bastoni. Quell'altro mondo doveva essere davvero magico! «Rieccomi qui» disse. «Raccontami cos'è successo nell'ultimo anno.» «L'ultimo anno?» esclamò Cesare. «Siete andati via solo da un mese. È incredibile come sei cambiato! E poi avete scelto proprio oggi per tornare!» «Perché?» chiese Georgia. «Cosa c'è di speciale oggi?» «C'è una Stellata Straordinaria» spiegò Cesare. «E io correrò su Arcangelo per il Montone. È in onore di Falco.» «Grande!» esclamò l'interessato. «Allora verremo a vederti» disse Georgia. «Però ci servono dei vestiti.» Cesare corse in casa a portare la notizia a Paolo e a Teresa. In memoria di Falco, il carro della Signora aveva inframmezzato il viola e il verde del Duodecimo con drappi neri ed era trainato da cavalli anch'essi neri, con briglie d'argento e pennacchi scuri. Trasportava una bara vuota con lo stemma del ramo principale dei de' Chimici: il giglio e la fialetta di profumo, oltre a un ritratto di Falco dipinto da un maestro gigliano. Sempre sul carro, una piccola orchestra eseguiva una melodia funebre. I vessilli degli sbandieratori erano listati a lutto e tutti i membri della parata della Signora vestivano di nero sotto le fasce viola e verdi. Quando la loro parte di corteo passò sotto le varie tribune, tutti gli spettatori si tolsero i cappelli e si fecero il segno della croce. Si sentì piangere, anche nella Bilancia: la tristezza dell'avvenimento superava perfino le antiche inimicizie. La grande campana del Palazzo Papale, che con il suo rintocco segnava tutto il pomeriggio della Stellata, ricordava invece il giorno in cui aveva suonato a morto per Falco, un mese prima. Nonostante l'atmosfera sobria, l'attesa per la corsa rimaneva febbrile. Georgia era seduta nella tribuna del Montone con Teresa e i bambini. Indossava un vestito rosso prestatole dalla moglie di Paolo e una fascia con i colori del Duodecimo. L'abbigliamento e l'acconciatura attira vano sguardi d'ammirazione, e lei si sentiva molto diversa dal fantino che aveva vinto la Stellata un anno prima.
Ma a Remora non era passato un anno. Le era davvero difficile capacitarsi di non essere stata via abbastanza perché gli altri sentissero la sua mancanza. Per la prima settimana i Montalbano la sapevano in Francia, e anche se in quelle successive si erano a volte chiesti come mai non tornasse, non si erano ancora preoccupati sul serio. A Remora non era cambiato quasi niente dall'ultima volta. Sembrava che la città fosse in un'atmosfera di festa perpetua, anche se quella Stellata non si prestava molto ai festeggiamenti. Esaminò la folla in cerca di Falco, che si era fermato più a lungo di lei nel Montone. Erano stati entrambi a vedere i cavalli e avevano passato diverso tempo con Merla, ma lui era restio a staccarsene. Georgia supponeva che non avrebbe corso il rischio di sedersi nella tribuna della Signora o di cercare di intrufolarsi nei Gemelli. Anche se era un anno più vecchio e fisicamente molto più forte e sano, era pur sempre riconoscibile. Georgia si augurò che stesse bene: era la prima stravagazione nel suo vecchio mondo, e lei sapeva quanto fosse stata difficile quella di Luciano. Falco però sembrava vispo e pieno di energia. Il corteo si fermò e la campana smise di suonare. Ancora non c'era traccia di Falco. Georgia decise di smettere di pensarci e di godersi la corsa. I dodici cavalli entrarono nel Campo e lei riconobbe Cesare sul grosso sauro. Era elegante e sicuro di sé. C'era sempre un'aura di rispetto intorno al cavallo che aveva vinto la Stellata precedente. Dopo la distribuzione dei nerbi, i cavalli si avvicinarono alla partenza. Il Duca Niccolò in persona tirò a sorte l'ordine di partenza. Ci furono i soliti spostamenti e blocchi, che attirarono l'attenzione della folla sulla zona tra i canapi. Poi, proprio mentre la rincorsa, in quel caso l'Acquario, stava cominciando a muoversi, la cavalla alata planò sulla piazza. Non ci fu più il grido di un Manoush ad annunciarla, ma solo il ripiegarsi di un paio di ali nere e un elegante atterraggio in pieno galoppo. Un tredicesimo cavallo era appena entrato in gara. La folla andò in delirio. Chi era quel fantino dall'aspetto così strano? Non sfoggiava singoli colori, ma aveva i fazzoletti di tutti i Duodecimi legati ai suoi normali vestiti da garzone di stalla. Non portava il casco e i riccioli neri ondeggiavano al vento. Merla e il suo fantino percorsero senza sforzo il primo giro, con un enorme vantaggio sugli altri cavalli. Poi però una voce si levò dalla tribuna dei Gemelli e risuonò per il Campo più veloce di qualsiasi destriero. Il grido si trasformò in «Falco! Falco!» e dopo
pochi secondi gli spettatori cominciarono a cadere in ginocchio e a farsi il segno della croce. «Un fantasma!» dicevano tutti. «Il Principe Falco è tornato per la commemorazione!» Gaetano sedeva pietrificato e quasi senza respiro, stringendo la mano di Francesca. Nessuno lo sentì mormorare: «Ha funzionato!» Il Duca era l'unico in piedi. Il suo viso era come una maschera, pallido di terrore o forse di rabbia. La paura si impadronì di tutti i fantini a parte Cesare, ma Falco avrebbe comunque vinto facilmente. Anche senza volare, Merla era molto più veloce di un normale cavallo. Ormai stava per raggiungere il traguardo, diversi metri davanti al Montone e alla Signora. Non appena lo superò, il ragazzo sussurrò qualcosa all'orecchio di Merla, che spiegò le ali. La cavalla volò verso il tramonto e la sua imponente ombra alata si proiettò sui visi degli spettatori, rivolti verso l'alto. Ci fu un sospiro generale e tutti gridarono: «Dia!» Su quel cavallo d'ombra non c'era nessun fantino. E quando passò sopra la tribuna della Signora, un fazzoletto viola e verde cadde fluttuando e venne afferrato al volo dal Duca. Alla folla ci volle qualche secondo per rendersi conto che la corsa era finita. Negli ultimi metri Cesare aveva rallentato; Cherubino, il fantino della Signora, non si era fatto sfuggire l'occasione e aveva spronato Zarina oltre il traguardo per poi alzare il nerbo in segno di vittoria. I sostenitori del Duodecimo invasero la pista per festeggiare i loro campioni. Georgia si alzò dalla tribuna del Montone e raggiunse Cesare, facendosi largo tra la folla della Signora che cercava di afferrare il drappo della Stellata dalla tribuna dei giudici. «Perché lo hai fatto?» disse sottovoce all'amico, che era smontato e stava in piedi, sudato, vicino ad Arcangelo. «Guarda il Duca» rispose lui. «Non è saggio continuare a far arrabbiare la Signora.» «Ma Falco sarebbe stato comunque squalificato e tu avresti potuto tranquillamente vincere per il Montone» protestò Georgia. «Immagina... due Stellate in un anno! Arianna sarebbe stata entusiasta.» «Squalifica o no, il vero vincitore è stato Falco» disse Cesare. Poi si voltarono entrambi verso il Duca, che stava arrivando ai piedi della tribuna per congratularsi con Cherubino. Aveva lo sguardo vitreo e stringeva quel fazzoletto viola e verde che emanava ancora il calore del
figlio. Nonostante ciò che diceva la folla, era convinto di non avere affatto visto un fantasma. Scendendo verso il Campo, notò la ragazza col vestito rosso fiamma e il cavallo sauro. Di colpo si ricordò del misterioso fantino del Montone che un mese prima aveva strappato la vittoria alla sua famiglia. Anche se non capiva come ciò fosse possibile, Niccolò sapeva benissimo che cosa aveva visto: suo figlio, fisicamente cambiato e di nuovo in salute, era tornato per dimostrare a lui e a tutta la famiglia di essere ancora vivo in un altro mondo. Gli Stravaganti ne custodivano il segreto, e da quel momento il Duca avrebbe fatto di tutto per scoprirlo. Una nota sulla Stellata e sul Palio Come anche Georgia scopre a un certo punto, la Stellata di Remora non è esattamente uguale al Palio di Siena. Le differenze riflettono quelle fra la città immaginaria e la reale. Remora è divisa in dodici rioni, chiamati ovviamente Duodecimi, mentre Siena è composta da diciassette Contrade. I Duodecimi sono chiamati secondo i segni dello zodiaco talìano. Le Contrade, invece, prendono i nomi da diversi animali, anche lenti come il Bruco e la Chiocciola, oppure da oggetti come il Nicchio, la Torre, l'Onda e la Selva. Solo un rione è presente in entrambe le città: il Montone a Remora e Valdimontone a Siena. Rosso e giallo sono anche i colori di Valdimontone e il simbolo dell'ariete incoronato è frequentissimo nella loro Contrada, situata a sud-est nel Terziere di San Martino. Il Palio si corre due volte, il 2 luglio e il 16 agosto; la Stellata, invece, soltanto il 15 agosto. Entrambe le corse possono avere edizioni speciali in occasione di particolari avvenimenti. Nel Palio corrono solo dieci Contrade. Sette sono ammesse di diritto, non avendo partecipato alla corsa equivalente l'anno prima. Le restanti tre sono estratte a sorte. È quindi possibile che una Contrada vinca il Palio due volte nello stesso anno; tuttavia succede di rado. Piazza del Campo a Siena non è circolare, ma ha la forma di una conchiglia. La corsa, preceduta da un Corteo Storico che dura due ore, viene comunque completata all'incirca in un minuto e mezzo. Però ci può volere anche un'ora per avere una partenza valida! Fin dal quattordicesimo secolo il Palio venne corso in linea retta e fu
spostato in Piazza del Campo solo nel 1650. Nella Remora del 1578, invece, la Stellata è un circuito già da almeno un secolo. Ci sono tre aspetti della Stellata che credevo di avere inventato, ma che poi ho scoperto essere comuni anche al Palio. Secoli fa, i fantini a Siena erano probabilmente ragazzi adolescenti. Nel 1581 una ragazza corse effettivamente il Palio: si chiamava Virginia e gareggiò per il Drago, ma non vinse. In terzo, luogo, solo dopo aver deciso di farne un'usanza remorana, col Montone legato a Bellezza, la Signora a Giglia e così via, sono venuta a sapere che c'è veramente un'antica tradizione per la quale le Contrade hanno speciali alleanze con altre città. Come Alan Dundes e Alessandro Falassi hanno scritto nel loro libro La Terra in Piazza (NIE 1989): Non dobbiamo dimenticare che ogni contrada si considera una piccola repubblica, uno stato a sé. [...] Diverse contrade hanno concluso gemellaggi con altre città italiane, come se fossero entità politiche del tutto indipendenti dalla città di Siena.
FINE