Paul Hoffman
La Mano Sinistra Di Dio The Left Hand of God © 2010 ISBN 978-88-429-1643-7
L'ENTUSIASMO DEGLI EDITORI NEL...
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Paul Hoffman
La Mano Sinistra Di Dio The Left Hand of God © 2010 ISBN 978-88-429-1643-7
L'ENTUSIASMO DEGLI EDITORI NEL MONDO STATI UNITI «La mano sinistra di Dio è un evento editoriale di enorme portata e siamo fieri di contribuire alla sua diffusione nel mondo. È uno di quei rarissimi romanzi in grado di entusiasmare i lettori di ogni età.» Brian Tart (Dutton) RUSSIA «Abbiamo deciso di pubblicare questo libro per una ragione molto semplice: perché è un romanzo straordinario.» Bookclub 36.6 OLANDA «Il romanzo di Paul Hoffman ci ha entusiasmato: una nuova voce di questa potenza è davvero una gemma rara.» Job Lisman e Priscilla Ruizeveld de Winter (Prometheus) BRASILE «Abbiamo amato all'istante il ritmo narrativo e la qualità della scrittura di questo romanzo magnifico. Dopo aver sfogliato poche pagine, ci siamo resi conto di trovarci di fronte a un libro unico.» Roberto Feith e Jaime Baggio (Objetiva) GIAPPONE «La contrapposizione tra bene e male è presente in ognuno di noi e Paul Hoffman rende Cale l'emblema di questa lotta eterna. Un romanzo che lascerà il segno.» Paul Hoffman
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Kodansha GERMANIA «Quando ci si imbatte in un romanzo che dà una scarica di adrenalina e accelera il battito del cuore a ogni pagina, allora ci si trova di fronte a un vero capolavoro, a un libro che va pubblicato senza esitare un solo istante. La mano sinistra di Dio racchiude in sé tutti gli elementi di un vero bestseller.» Georg Reuchlein (Goldmann Verlag) SPAGNA «La mano sinistra di Dio è uno di quei romanzi che ti fanno venir voglia di dire a tutti che hai scoperto uno scrittore straordinario e la storia che racconta è talmente bella da farti ricordare perché ami leggere.» Aranzazu Sumalla (La Esfera de los Libros) GRECIA «Questa storia ricca di mistero e suspense e il mondo in cui è ambientata, sospeso tra realtà e fantasia, affascinano sin dalla prima pagina. Un romanzo veramente indimenticabile.» Dioptra CINA «L'intera casa editrice è stata conquistata dal protagonista e dall'abilità con cui l'autore si muove sulla sottile linea che separa il bene dal male; siamo entusiasti della possibilità di offrire ai nostri lettori un romanzo di alta qualità e dal respiro internazionale.» Shanghai 99
Per Victoria e Thomas Hoffman
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1 Ascolta. Il Santuario dei Redentori, in cima a Shotover Scarp, prende il nome da una maledetta fandonia, perché è un luogo che non dà nessun rifugio e offre ben poca redenzione. È circondato, a perdita d'occhio, da un'arida boscaglia e da erbacce striminzite e si fatica a distinguere l'estate dall'inverno. In altre parole, fa sempre un freddo cane, in qualsiasi stagione. Quelle rarissime volte in cui non è oscurato da una sudicia coltre di fuliggine, il Santuario si vede a miglia e miglia di distanza, ed è fatto di selce, calcestruzzo e farina di riso. La farina rende il calcestruzzo più duro della pietra e questo è uno dei motivi per cui il carcere - perché, in verità, è di questo che si tratta - ha resistito a numerosi tentativi di assedio; tentativi considerati così futili che da secoli, ormai, nessuno prova più ad assediare il Santuario di Shotover. È un luogo fetido e disgustoso e, a parte i Redentori, nessuno ci entra di sua spontanea volontà. Allora chi sono i carcerati? Lo so che è sbagliato indicare così quelli che vengono portati a Shotover, perché «carcerati» implica un reato e invece nessuno di loro ha violato la legge, umana o divina che sia. In più, non somigliano affatto ai carcerati che può esserti capitato di vedere: sono ragazzi al di sotto dei dieci anni. A seconda dell'età che hanno all'arrivo, prima che se ne vadano possono trascorrere più di quindici anni e comunque neanche la metà di loro riesce ad andarsene. Gli altri finiscono avvolti in un sacco di tela blu e sepolti al Ginky's Field, il cimitero che comincia appena sotto le mura. Un cimitero che sembra estendersi fin quasi all'orizzonte: ciò ti può dare un'idea delle dimensioni di Shotover e di quanto sia difficile restare in vita lì dentro. Nessuno conosce con precisione la grandezza del Santuario; in più, è facilissimo perdersi nei suoi interminabili e tortuosi corridoi, che si snodano in tutte le direzioni, proprio come ci si perderebbe in una landa desolata. Questo anche perché ogni zona è praticamente identica alle altre: scura, tetra, opprimente e ammorbata da un odore di vecchio e di rancido. In uno di questi corridoi c'è un ragazzo che guarda fuori da una finestra, tenendo in mano un grosso sacco blu. Forse ha quattordici anni, forse ne ha quindici. Non ne è sicuro, proprio come tutti gli altri. Ha dimenticato il suo vero nome: chiunque arrivi a Shotover, viene infatti ribattezzato col nome di uno dei martiri dei Redentori... e ce ne sono tanti, di martiri, Paul Hoffman
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perché, da tempo immemorabile, tutti coloro che i Redentori non sono riusciti a convertire li hanno odiati a morte. Il ragazzo che sta guardando fuori dalla finestra si chiama Thomas Cale, anche se nessuno lo chiama mai col suo nome di battesimo. E sta commettendo un peccato particolarmente grave per il semplice fatto di usare quel nome. Ad attirare Cale alla finestra era stato il rumore del Cancello di NordOvest, l'immancabile cigolio che esso produceva quelle rare volte in cui veniva aperto, come se fosse il ginocchio artritico di un gigante. Il ragazzo era rimasto a guardare mentre due Redentori, con le loro tonache nere, varcavano la soglia e facevano entrare un ragazzino di circa otto anni, seguito da un altro un po' più giovane e poi da un altro ancora. Cale aveva contato fino a venti prima che un altro paio di Redentori comparisse in coda alla processione e che il cancello cominciasse a chiudersi, lento e gemente. L'espressione di Cale cambiò mentre lui si protendeva a scrutare le Scablands al di là del cancello semiaperto. Da quand'era arrivato lì, oltre dieci anni prima - si diceva che fosse il bambino più piccolo mai portato al Santuario -, era stato oltre le mura soltanto in sei occasioni, sempre sorvegliatissimo, come se ne andasse della vita delle sue guardie (e in effetti era proprio così). Se avesse fallito anche solo una di quelle sei prove, perché di quello si trattava, sarebbe stato ucciso sul posto. Della sua vita precedente non ricordava nulla. Mentre il cancello si chiudeva, Cale fissò i ragazzini. Nessuno di loro era paffuto, ma tutti avevano il viso tondo tipico di quell'età. Erano rimasti sbalorditi alla vista della prigione, delle sue dimensioni colossali, delle mura enormi ma, pur essendo sconcertati e sgomenti, non sembravano impauriti. Cale sentì il petto riempirsi di emozioni profonde e insolite, che non avrebbe saputo definire. Eppure, per quanto fosse perso in quelle sensazioni, la sua capacità di tenere sempre le orecchie aperte e di cogliere tutto ciò che avveniva attorno a lui lo salvò, proprio com'era avvenuto molte altre volte. Si allontanò dalla finestra e s'incamminò lungo il corridoio. «Ehi, tu! Aspetta!» Cale si fermò e si voltò. Nel vano di una delle porte che si aprivano a lato del corridoio c'era un Redentore: grasso, enorme, con rotoli di pelle penzolanti sopra il colletto. Dalla stanza alle sue spalle emergevano vapori Paul Hoffman
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e suoni strani. Cale lo guardò, impassibile. «Vieni qui, fatti vedere.» Il ragazzo andò verso di lui. «Ah, sei tu», disse il Redentore ciccione. «Che ci fai qui?» «Il Signore della Disciplina mi ha detto di portare questo al bidone.» Sollevò il sacco blu che stava trasportando. «Che cos'hai detto? Alza la voce!» Naturalmente Cale sapeva che il Redentore ciccione era sordo da un orecchio e aveva parlato sottovoce di proposito. Ripeté la risposta, stavolta gridando. «Stai cercando di fare lo spiritoso, ragazzo?» «No, Redentore.» «Che ci facevi alla finestra?» «Alla finestra?» «Non prendermi in giro. Cosa stavi facendo?» «Ho sentito aprire il Cancello di Nord-Ovest.» «Per Dio, davvero?» La cosa parve distrarlo. «Sono in anticipo.» Grugnì indispettito, poi si voltò e gettò uno sguardo in cucina, perché il ciccione altri non era che il Signore delle Vettovaglie, sovrintendente della cucina, che provvedeva a nutrire abbondantemente i Redentori e quasi per nulla i ragazzi. «Venti in più per cena!» gridò, in direzione dei vapori fetidi che emanavano dalla stanza. Quindi si rivolse nuovamente a Cale. «Stavi pensando, mentre eri alla finestra?» «No, Redentore.» «Stavi sognando a occhi aperti?» «No, Redentore.» «Se ti becco a bighellonare un'altra volta, Cale, ti faccio scorticare vivo. Hai capito?» «Sì, Redentore.» Il Signore delle Vettovaglie rientrò in cucina e fece per chiudere la porta. In quel momento, Cale parlò a bassa voce, ma molto chiaramente. Chiunque non fosse stato duro d'orecchi l'avrebbe sentito dire: «Spero che ti strozzi, lardoso pezzo di merda». La porta si chiuse sbattendo e Cale proseguì lungo il corridoio, trascinandosi dietro il grosso sacco. Ci mise circa un quarto d'ora, correndo Paul Hoffman
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quasi tutto il tempo, per raggiungere il bidone, situato in fondo a un breve corridoio costruito per tale scopo. Lo chiamavano «bidone» perché era proprio quello che sembrava, se si trascurava il fatto che era alto sei piedi e incassato in una parete di mattoni. Al di là del bidone, c'era un luogo isolato dal resto del Santuario; girava voce che ci vivessero dodici suore, le quali cucinavano soltanto per i Redentori e facevano il bucato per loro. Cale non sapeva cosa fosse una suora e non ne aveva mai visto una, anche se ogni tanto parlava con una di loro attraverso il bidone. Non sapeva che cosa distinguesse le suore dalle altre donne, le quali venivano comunque evocate di rado e soltanto con disprezzo. C'erano due eccezioni: la Santa Sorella del Redentore Impiccato e la beata Imelda Lambertini, che all'età di undici anni era morta di estasi durante la prima comunione. Ma i Redentori non avevano spiegato che cosa fosse l'estasi e nessuno era stato così stupido da chiederlo. Cale diede una spinta al bidone, che ruotò sul proprio asse, rivelando un'ampia apertura, ci buttò dentro il sacco blu e diede un'altra spinta, poi picchiò sulla parete del contenitore, che rimbombò fragorosamente. Aspettò trenta secondi, finché non sentì una voce smorzata proveniente dall'altro lato. «Che c'è?» Cale avvicinò la testa al bidone per farsi sentire, sfiorandone la superficie con le labbra. «Il Redentore Bosco lo vuole indietro entro domattina», urlò. «Perché non l'hanno portato insieme con tutti gli altri?» «E che diavolo ne so?» Al di là del bidone ci fu un grido stridulo di rabbia soffocata. «Come ti chiami, piccolo smargiasso miscredente?» «Dominic Savio», mentì Cale. «Be', Dominic Savio, farò rapporto al Signore della Disciplina, che ti farà scorticare vivo.» «E chi se ne frega.» Venti minuti dopo, Cale era di ritorno nell'ufficio addestramento del Signore Militante. Nella stanza c'era soltanto il Signore in questione, che non alzò lo sguardo né fece il minimo cenno di aver visto Cale. Continuò a scrivere sul suo libro mastro per altri cinque minuti prima di dire, sempre senza alzare lo sguardo: «Perché ci hai messo tanto?» «Il Signore delle Vettovaglie mi ha fermato nel corridoio dei bastioni esterni.» Paul Hoffman
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«Perché?» «Aveva sentito un rumore che veniva da fuori, credo.» «Che rumore?» L'uomo finalmente guardò Cale. I suoi occhi erano di un azzurro quasi sbiadito, ma lo sguardo era sveglio. Non gli sfuggiva granché. O forse proprio nulla. «Stavano aprendo il Cancello di Nord-Ovest per far entrare i novellini. Lui non li aspettava per oggi. Direi che c'è rimasto di palta.» «Tieni a freno quella linguaccia», lo ammonì il Signore Militante ma, considerando com'era implacabile, si trattava di un rimprovero bonario. Cale sapeva che lui disprezzava il Signore delle Vettovaglie e perciò non gli era sembrato troppo pericoloso parlare di un Redentore in quel modo. «Sì, girava voce che fossero arrivati, così ho chiesto al tuo amico.» «Io non ho amici, Redentore», rispose Cale. «Fare amicizia è proibito.» L'altro fece una risata sommessa. Non era un suono gradevole. «Quanto a questo, non nutro preoccupazioni nei tuoi confronti, Cale. Ma, se proprio dobbiamo continuare su tale linea... parlo del biondino tutto pelle e ossa. Com'è che lo chiamate?» «Henri.» «Conosco il suo nome di battesimo, ma qual è il nomignolo che gli avete affibbiato?» «Lo chiamiamo il Vago.» Il Signore Militante rise, ma stavolta con un'eco di normale buonumore. «Molto bene», disse in tono elogiativo. «Gli ho chiesto a che ora fossero arrivati i novellini e lui ha risposto di non esserne sicuro. Più o meno tra gli otto rintocchi e i nove, ha detto. Poi gli ho chiesto quanti ce ne fossero e lui ha risposto più o meno quindici, ma forse di più.» Guardò Cale dritto negli occhi. «Gliele ho date di santa ragione, così impara a essere più preciso, in futuro. Tu che ne pensi?» «Per me non fa differenza, Redentore», rispose Cale, impassibile. «Si meritava qualsiasi punizione voi gli abbiate dato.» «Davvero? Com'è gratificante sapere che la pensi così. A che ora sono arrivati?» «Poco prima delle cinque.» «Quanti erano?» «Venti.» «Di che età?» «Nessuno aveva meno di sette anni e più di nove.» Paul Hoffman
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«Di che tipo?» «Quattro Mezos, quattro Uitlander, tre Folder, cinque meticci, tre Miami e uno... non so.» Il Signore Militante grugnì, come se fosse a malapena soddisfatto di avere ottenuto risposte così precise a tutte le sue domande. «Vai al tavolo. Ho preparato un problema per te. Hai dieci minuti.» Cale raggiunse un tavolo da venti piedi per venti, sul quale l'altro aveva disteso una mappa leggermente più grande, che quindi pendeva dai bordi. Era facile riconoscere alcune delle cose disegnate, per esempio colline, fiumi e boschi, ma nella parte restante c'erano numerosi blocchetti di legno, sui quali erano scritti numeri e geroglifici. Alcuni blocchetti erano ordinati; altri sembravano messi a casaccio. Cale fissò la mappa per il tempo che gli era stato assegnato, poi alzò lo sguardo. «Allora?» chiese il Signore Militante. Cale cominciò a esporre la sua soluzione. Venti minuti dopo concluse e protese le mani davanti a sé. «Molto ingegnoso. Anzi notevole», commentò il Signore Militante. Qualcosa cambiò nello sguardo di Cale. Poi, con una rapidità straordinaria, il Signore Militante lo colpì sulla mano sinistra con una cinghia di cuoio rinforzata da bullette minuscole ma spesse. Cale trasalì e digrignò i denti dal dolore, ma ben presto si ricompose e come sempre, sul suo viso, il Redentore non vide altro che una vigile freddezza. L'uomo si sedette e studiò il ragazzo come se fosse un oggetto interessante e nel contempo inadeguato. «Quando imparerai che fare l'intelligente e l'originale significa lasciarsi controllare dal proprio orgoglio? La tua soluzione potrebbe anche funzionare, ma è irragionevolmente rischiosa. Tu conosci benissimo la soluzione comprovata e sicura a questo problema. In guerra, un successo opaco è sempre meglio di uno brillante. È meglio che tu inizi a capire perché.» Furioso, picchiò un pugno sul tavolo. «Hai dimenticato che un Redentore ha il diritto di uccidere all'istante qualsiasi ragazzo che faccia qualcosa d'imprevisto?» Colpì un'altra volta il tavolo, producendo un nuovo schianto, poi si alzò e fissò Cale con sguardo truce. Dai quattro fori nella mano sinistra del ragazzo, ancora protesa, gocciolava sangue, anche se non in grande quantità. «Nessun altro ti avrebbe assecondato come ho fatto io. Il Signore della Disciplina ti tiene d'occhio. Gli piace dare l'esempio, ogni tanto. Vuoi diventare un Atto di Fede?» Paul Hoffman
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Cale mantenne lo sguardo fisso davanti a sé, senza proferire parola. «Rispondimi!» «No, Signore.» «Pensi di essere necessario? Tu, inutile zeta?» «No, Signore.» «Mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa», esclamò il Signore Militante, battendosi il petto tre volte. «Hai ventiquattr'ore per riflettere sui tuoi peccati e poi ti mortificherai dinnanzi al Signore della Disciplina.» «Sì, Redentore.» «Ora esci.» Lasciando cadere le mani lungo i fianchi, Cale si voltò e s'incamminò verso la porta. «E non sanguinare sul tappeto», gli gridò dietro il Signore Militante. Cale aprì la porta con la mano sana e se ne andò. Solo nella sua cella, il Signore Militante guardò la porta finché essa non si chiuse con uno scatto, poi la sua espressione cambiò: la rabbia trattenuta lasciò il posto a un lampo di curiosità e di riflessione. Nel corridoio, Cale si fermò per un istante nell'orribile luce bruna che infettava ogni angolo del Santuario e si esaminò la mano sinistra. Le ferite non erano profonde: le bullette della cinghia erano tali da causare un dolore intenso senza però richiedere un lungo periodo di guarigione. Strinse forte il pugno, scuotendo la testa, come se avesse un tremito nel profondo del cranio, mentre il sangue gocciolava copioso sul pavimento. Poi allentò la stretta e, nella luce tetra, un'orribile espressione disperata si dipinse sul suo viso. Dopo un istante, tuttavia, era sparita. Cale proseguì lungo il corridoio. Quanti ragazzi vivessero nel Santuario era un mistero. Alcuni sostenevano che fossero addirittura diecimila e che crescessero ogni mese. Quell'aumento progressivo era il principale oggetto di conversazione tra gli accoliti. Coloro che erano prossimi ai vent'anni erano concordi nel sostenere che, fino a cinque anni prima, il numero, quale che fosse, era rimasto stabile. Da allora, però, si era verificato un incremento. E i Redentori avevano cambiato qualcosa, il che di per sé era strano e inquietante: per loro, le abitudini e la conformità al passato erano importanti come l'aria che respiravano. Ogni giorno - ogni mese, ogni anno - doveva essere identico al precedente e al successivo. Il grande aumento di ragazzi, invece, aveva richiesto vari cambiamenti. I dormitori erano stati Paul Hoffman
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modificati, con l'aggiunta di letti a castello, a volte anche a tre piani, per ospitare i nuovi arrivati. Le funzioni divine adesso si svolgevano in turni, cosicché tutti potessero pregare, accumulando i quotidiani gettoni contro la dannazione. Anche per i pasti era stata introdotta una sorta di staffetta. Quanto ai motivi di quel cambiamento, però, i ragazzi li ignoravano. Con la mano sinistra avvolta in un panno sporco, gettato via dai servi lavatori, Cale attraversò l'enorme refettorio, reggendo un vassoio di legno. Era il secondo turno. Lui era arrivato tardi, ma non troppo, altrimenti sarebbe stato picchiato ed escluso. Si diresse verso il grande tavolo in fondo alla sala, dove si sedeva sempre. Si fermò dietro un altro ragazzo, più o meno della sua stessa età e statura, ma così intento a mangiare da non accorgersi che Cale era alle sue spalle. Furono gli sguardi degli altri a metterlo in allerta e così il ragazzo alzò lo sguardo a sua volta. «Scusa, Cale», disse allora, cacciandosi in bocca il resto del cibo e nel contempo alzandosi dalla panca e allontanandosi precipitosamente col suo vassoio. Cale si sedette e guardò la propria cena: c'era qualcosa che somigliava a una salsiccia - ma non lo era - immersa in una salsa acquosa, con radici o tuberi non meglio definiti, scoloriti da un'infinita bollitura fino a diventare una poltiglia giallognola e sbiadita. In una scodella lì accanto c'era del porridge, gelatinoso, freddo e grigiastro, come neve semisciolta da almeno una settimana. Pur avendo una fame da morire, per un istante non riuscì a forzarsi a cominciare. Poi qualcuno si sedette sulla panca, premendosi accanto a lui. Cale non lo guardò, ma si decise a ingerire quel cibo. Soltanto il lieve spasmo involontario all'estremità della sua bocca rivelava quanto fosse ripugnante quella roba. Il ragazzo che si era infilato accanto a lui si mise a parlare, ma teneva la voce così bassa che soltanto Cale riusciva a sentirlo. Non era saggio farsi sorprendere a discorrere durante i pasti. «Ho trovato qualcosa», disse il ragazzo, con un'eccitazione che trapelava dalla voce appena percettibile. «Buon per te», rispose Cale senza la minima emozione. «Qualcosa di meraviglioso.» Stavolta Cale non reagì affatto, concentrandosi sul tentativo d'ingoiare il porridge senza conati di vomito. «C'è del cibo. Cibo mangiabile.» Cale alzò la testa a malapena, ma il ragazzo accanto a lui capì di aver Paul Hoffman
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vinto. «Perché dovrei crederti?» «C'era anche Henri il Vago con me. Troviamoci tutti e tre alle sette dietro il Redentore Impiccato.» Quindi il ragazzo si alzò e se ne andò. Cale sollevò il capo e sul viso gli si dipinse una strana espressione smaniosa, molto diversa dalla fredda maschera che normalmente mostrava al mondo. Il ragazzo di fronte a lui si mise a fissarlo. «Non mangi più?» gli chiese, con gli occhi che gli brillavano di speranza, come se la salsiccia rancida e il porridge cenerognolo promettessero una gioia incontenibile. Cale non gli rispose e non lo guardò, ma riprese a mangiare, costringendosi a inghiottire e cercando di non vomitare. Quando ebbe finito, portò il vassoio di legno al pulitoio, lo strofinò con la sabbia del catino e lo ripose sullo scaffale. Mentre usciva, osservato da un Redentore che teneva d'occhio l'intero refettorio dall'alto di un enorme sgabello, Cale s'inginocchiò davanti alla statua del Redentore Impiccato, si batté il petto tre volte e mormorò: «Io sono il Peccato, io sono il Peccato, io sono il Peccato», senza fare minimamente caso al significato di quelle parole. Fuori era buio ed era calata la nebbia. Era un bene: lo avrebbe aiutato a dileguarsi senza essere visto, passando dall'ambone esterno ai cespugli che crescevano dietro la grande statua. Quando ci arrivò, Cale non vedeva a un palmo dal naso. Scese dall'ambone e arrivò sullo spiazzo coperto di ghiaia davanti alla statua. Era la sacra forca più grande del Santuario e probabilmente ce n'erano centinaia di simili a quella: alcune erano alte soltanto qualche pollice ed erano appese alle pareti, collocate in apposite nicchie; altre decoravano i catini di sacre ceneri in fondo a ogni corridoio e sopra ogni porta. Erano così comuni e venivano prese a riferimento così di frequente che l'immagine in sé aveva perso da tempo immemorabile ogni significato. Nessuno, a parte i nuovi arrivati, notava ciò che erano veramente: modellini che rappresentavano un uomo appeso a una forca, con una corda attorno al collo, il corpo segnato dalle cicatrici delle torture che gli erano state inflitte prima dell'esecuzione, le gambe spezzate che penzolavano a un'angolazione innaturale. Le sacre forche del Redentore Impiccato costruite mille anni prima erano rudimentali e di un realismo brutale che, a dispetto della scarsa abilità degli intagliatori, emergeva dal terrore negli Paul Hoffman
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occhi e sul viso, dal corpo contorto e devastato, dalla lingua che sporgeva dalla bocca. Insomma gli intagliatori avevano chiaramente mostrato che quello era un modo orribile di morire. Nel corso degli anni, però, le statue erano state realizzate con maggiore perizia e minore crudeltà. La statua, alta venti piedi, col Redentore che penzolava dall'enorme forca, con un grosso capestro attorno al collo, aveva soltanto trent'anni: le piaghe sulla schiena erano pronunciate, ma pulite e incruente; le gambe non apparivano fracassate e martoriate, la posa suggeriva piuttosto qualche innocuo crampo. La cosa più strana, però, era il volto: invece del dolore dello strangolamento, il Redentore aveva un'espressione d'infastidita santità, come se gli fosse rimasto un ossicino in gola e stesse cercando di liberarsene con un contegnoso colpo di tosse. Nonostante ciò, tra la nebbia lattiginosa e l'oscurità, quella sera Cale vedeva soltanto i piedi enormi del Redentore che ciondolavano nel nulla. Quella visione bizzarra lo mise a disagio. Attento a non fare rumore, s'infilò nei cespugli, nascondendosi alla vista di eventuali passanti. «Cale?» «Sì.» Il ragazzo del refettorio, Kleist, e Henri il Vago emersero dai cespugli e gli si pararono davanti. «Henri, spero proprio che valga la pena rischiare», sussurrò Cale. «Sì, te lo assicuro.» Kleist fece cenno a Cale di seguirlo nei cespugli lungo le mura. Lì era ancora più buio e Cale dovette attendere che gli occhi si abituassero all'oscurità. Gli altri due lo aspettarono. C'era una porta. Era sbalorditivo: nel Santuario, c'erano pochissime porte, nonostante l'abbondanza d'ingressi. Durante la Grande Riforma, duecento anni prima, più di metà dei Redentori era stata messa al rogo per eresia. Temendo che quegli apostati avessero contaminato i ragazzi, i Redentori della setta vittoriosa avevano tagliato loro la gola, tanto per non correre rischi e, una volta ripopolato il Santuario di novellini, avevano attuato numerosi cambiamenti, tra cui la rimozione di tutte le porte da qualsiasi area frequentata dai ragazzi. Dopotutto quale poteva essere lo scopo di una porta, per un peccatore? Le porte servivano a nascondere qualcosa. Le porte, era stato il pensiero dei Redentori, avevano a che fare con troppe cose diaboliche, come la Paul Hoffman
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segretezza, il fatto di stare da soli o con altri e commettere empietà. Il concetto stesso di porta faceva sussultare di rabbia e di terrore i Redentori. Ormai il diavolo stesso non era più raffigurato soltanto come una bestia cornuta, ma anche come un rettangolo con una serratura. Naturalmente l'antipatia per le porte non si applicava ai Redentori: il possesso di una porta per accedere al loro luogo di lavoro e alle loro celle notturne era il segno più evidente della loro redenzione. Anzi la santità dei Redentori si misurava dal numero di chiavi che essi tenevano appese alla catena che portavano in vita. Il clangore che le chiavi producevano a ogni loro passo era equiparabile al suono delle campane che annunciavano l'accoglienza in paradiso. Una volta che i suoi occhi si furono abituati all'oscurità, Cale vide un cumulo di calcinacci e di mattoni sgretolati accanto alla porta. «Mi stavo nascondendo da Chetnick... è così che ho trovato questo posto», disse Henri. «In quell'angolo l'intonaco era scrostato e così, mentre aspettavo, ci ho lavorato un po'. Si stava sgretolando, c'era un'infiltrazione d'acqua. C'è voluto un attimo.» Cale allungò una mano verso l'estremità della porta e spinse cautamente. Poi ancora e ancora. «È chiusa a chiave.» Kleist e Henri sorrisero. Kleist infilò una mano in tasca ed estrasse qualcosa che Cale non aveva mai visto in mano a uno dei suoi compagni: una chiave. Era lunga, spessa e butterata dalla ruggine. A tutti e tre brillavano gli occhi dall'eccitazione. Kleist infilò la chiave nella serratura e cercò di farla girare, grugnendo per lo sforzo, finché essa non scattò con un rumore sordo. «Abbiamo spalato sudiciume vario per tre giorni prima di riuscire ad aprirla», spiegò Henri, con voce colma di orgoglio. «Dove hai trovato la chiave?» chiese Cale. Kleist e Henri erano felicissimi, perché Cale si era rivolto a loro come se avessero resuscitato un morto o camminato sull'acqua. «Te lo dico dopo che siamo entrati. Su, andiamo.» Kleist appoggiò la spalla alla porta e gli altri fecero altrettanto. «Non spingete troppo forte; forse i cardini sono messi male. Non dobbiamo far rumore. Conto fino a tre. Pronti? Uno, due, tre!» Si misero a spingere. Niente. Non si muoveva. Si fermarono e fecero un respiro profondo. «Uno, due, tre!» Paul Hoffman
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Spinsero ancora e la porta si mosse, con grande stridore. I tre arretrarono, allarmati. Farsi sentire equivaleva a farsi beccare e farsi beccare significava essere vittime di Dio solo sapeva cosa. «Ci potrebbero impiccare per questo», disse Cale. Gli altri lo guardarono. «No, non lo farebbero. Non un'impiccagione», dichiarò Henri. «Il Militante mi ha detto che il Signore della Disciplina sta cercando una scusa per dare l'esempio. Sono passati cinque anni dall'ultima impiccagione.» «Non lo farebbero», ripeté Henri, turbato. «Sì, invece. È una porta, per Dio! E tu hai una chiave!» Cale si rivolse a Kleist. «Mi hai mentito. Tu non hai idea di cosa ci sia là dentro. Probabilmente è un vicolo cieco, non c'è niente che valga la pena di rubare o di sapere.» Si voltò di nuovo verso l'altro ragazzo. «Non ne vale la pena, Henri, ma tanto sei tu che rischi l'osso del collo. Io non ci sto.» Mentre Cale si girava, dall'ambone giunse una voce irata e impaziente. «Chi è là? Cos'è stato quel rumore?» Poi si sentirono i passi di un uomo sulla ghiaia di fronte al Redentore Impiccato.
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2 Il terrore assoluto non era niente in confronto a ciò che Kleist e Henri provarono nel sentire quel rumore. Erano ben consapevoli di ciò che sarebbe successo per colpa della loro stupidità: immaginarono l'enorme folla silenziosa che li aspettava nella luce grigiastra, le loro urla mentre venivano trascinati al patibolo, la terribile attesa di un'ora mentre veniva recitata la messa e poi la visione del capestro... Si videro sospesi in aria, a soffocare e scalciare. Cale però era già tornato alla porta e, con un grosso sforzo silenzioso, l'aveva sollevata dai cardini fatiscenti. Poi l'aveva spinta ed essa si era aperta senza quasi far rumore. Quindi Cale aveva cercato le spalle degli altri due ragazzi, rimasti immobili, e li aveva spinti nel varco. Infine, con un altro sforzo titanico, aveva chiuso la porta alle proprie spalle, ancora una volta quasi in silenzio. «Vieni fuori subito!» La voce dell'uomo era attutita ma chiarissima. «Dammi la chiave», disse Cale. Kleist gliela consegnò. Cale si voltò verso la porta e cercò a tastoni la serratura. Poi si fermò. Non sapeva come usare una chiave. «Kleist! Fai tu!» sussurrò. Kleist cercò a sua volta la serratura e v'infilò la pesante chiave. «Non fare rumore», lo ammonì Cale. Con la mano tremante di chi sapeva che si trattava di una questione di vita o di morte, Kleist fece girare la chiave. Ne scaturì un suono metallico, che a loro sembrò un colpo di martello su una pentola di ferro. «Vieni qui, subito!» intimò la voce attutita. Ma Cale ne percepì l'incertezza. Chiunque fosse, l'uomo là fuori nella nebbia non era sicuro di ciò che aveva sentito. Aspettarono. Il silenzio era rotto soltanto dal lieve stridio dei loro respiri impauriti. Riuscirono appena a distinguere lo scricchiolio smorzato della ghiaia mentre l'uomo si voltava, poi il rumore fu rapidamente inghiottito dalla nebbia. «È andato a chiamare i Cavaocchi.» «Forse no», disse Cale. «Penso che fosse il Signore delle Vettovaglie. È un ciccione pigro e bastardo e non è sicuro di quello che ha sentito. Avrebbe potuto cercare tra i cespugli, ma non ha fatto nemmeno un Paul Hoffman
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tentativo. Ci penserà due volte prima di far uscire i Cavaocchi coi cani, dato che non era nemmeno disposto a dare un'occhiata dietro qualche cespuglio, per non affaticare la sua carcassa lardosa.» «Se torna domani, durante il giorno, troverà la porta», mormorò Henri. «Anche se scappiamo adesso, ci verranno a cercare.» «Cercheranno qualcuno e faranno in modo di trovarlo, che sia colpevole o no. Non c'è niente che ci colleghi a questo posto. Qualcuno si prenderà una bella strapazzata, ma non c'è motivo che tocchi a noi.» «E se è andato a cercare aiuto?» chiese Kleist. «Apri la porta e usciamo, dai.» Kleist cercò la porta a tastoni e poi fece scorrere le mani fino alla chiave che sporgeva dalla serratura. Cercò di girarla, ma quella non si muoveva. Ci provò un'altra volta. Niente. Infine girò più forte che poteva. Si sentì un colpo secco e sonoro. «Che cos'è stato?» chiese Henri. «La chiave», rispose Kleist. «Si è rotta nella serratura.» «Come?» fece Cale. «È rotta. Non possiamo uscire. Non da qui, almeno.» «Dio!» sibilò Cale. «Idiota! Se ti vedessi, ti torcerei il collo!» «Forse c'è un'altra via d'uscita.» «E come faremo a trovarla, in questo buio pesto?» replicò Cale, amareggiato. «Ho una candela», disse Kleist. «Ho pensato che forse ci sarebbe servita.» Ci fu una pausa. Si sentiva soltanto Kleist che rovistava nella casacca. Fece cadere qualcosa, poi lo raccolse, quindi rovistò ancora un po'. Quando lui strofinò una pietra focaia su del muschio secco, ci fu qualche scintilla. Ben presto, il muschio prese fuoco e, alla luce della fiamma, i due videro Kleist che lo avvicinava allo stoppino di una candela. In un attimo, l'aveva inserita nel suo paralume di vetro. Fu così che poterono guardarsi attorno per la prima volta. In realtà, non c'era molto da vedere alla luce di quella candela, perché il grasso giallo ottenuto sciogliendo la carne animale produceva un'illuminazione scarsa; a ogni modo, i ragazzi si resero conto di non trovarsi in una stanza, ma in un corridoio sbarrato. Cale sottrasse la candela a Kleist ed esaminò la porta. «Quest'intonaco non è poi così vecchio: ha qualche anno al massimo.» Paul Hoffman
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Qualcosa si mosse nell'angolo e tutti e tre ebbero lo stesso pensiero: ratti. Ai ragazzi era proibito mangiarli per motivi religiosi, ma almeno quello era un tabù motivato: i ratti erano una malattia a quattro zampe. Nonostante ciò, per i ragazzi la loro carne era una vera ghiottoneria. Naturalmente non tutti erano in grado di macellare un ratto. Era un'abilità molto apprezzata, che veniva tramandata dal macellaio all'apprendista in cambio di cospicui bottini e favori reciproci. I macellai di ratti erano una cricca furtiva e si facevano pagare metà della preda in cambio dei loro servigi; un prezzo così alto che, ogni tanto, alcuni cacciatori decidevano di fare a meno di loro e cercavano di macellare da sé i roditori, spesso con risultati che incoraggiavano gli altri a pagare e a essere riconoscenti. Kleist era un macellaio provetto. «Non abbiamo tempo», disse Cale, intuendo ciò che aveva in mente l'amico. «E non c'è abbastanza luce per la preparazione.» «So scuoiare un ratto anche se è buio pesto», replicò Kleist. «Come facciamo a sapere per quanto tempo rimarremo bloccati qui?» Sollevò la casacca ed estrasse un grosso ciottolo da una tasca nascosta nell'orlo. Poi prese la mira con attenzione e lo scagliò nella semioscurità. Dall'angolo giunsero uno squittio acuto e uno zampettamento frenetico. Kleist prese la candela da Cale e s'incamminò verso la fonte di quel suono. Infilò la mano in tasca e distese con grande attenzione un pezzetto di stoffa, che usò per afferrare la creatura. Con un movimento rapido e deciso del polso, le spezzò il collo e poi la ripose nella stessa tasca. «Finisco più tardi.» «Questo è un corridoio», disse Cale. «Una volta sicuramente portava da qualche parte, e forse anche adesso...» Kleist fece strada, perché aveva la candela. Dopo meno di un minuto, Cale cominciò a cambiare opinione. Il corridoio si restringeva e ben presto riuscirono a proseguire soltanto chinandosi. Sembrava che non ci fosse nessuna apertura, nessuna porta murata o altro. «Questo non è un corridoio», mormorò infine. «Somiglia di più a una galleria.» Continuarono a camminare per più di mezz'ora, muovendosi rapidi nonostante l'oscurità, perché il pavimento era quasi completamente liscio e sgombro. D'un tratto, fu di nuovo Cale a parlare: «Perché mi hai detto che c'era da mangiare, se non c'eri mai stato, qui?» Paul Hoffman
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«È evidente», rispose Henri. «Altrimenti non ci saresti venuto, no?» «E sarebbe stata proprio una stupidaggine, eh? Mi hai promesso da mangiare, Kleist, e io sono stato abbastanza idiota da fidarmi di te.» «Pensavo che fossi famoso per questo, cioè perché ti fidi delle persone», replicò Kleist. «E poi abbiamo preso un ratto. Non ho mentito. In ogni caso, c'è del cibo qui.» «Come fai a saperlo?» chiese Henri, con una voce che tradiva la sua fame. «Ci sono un sacco di ratti. E i ratti hanno bisogno di mangiare. Da qualche parte troveranno pure qualcosa.» Kleist si fermò all'improvviso. «Che c'è?» chiese Henri. Kleist allungò la mano con cui teneva la candela. Erano davanti a una parete e non c'era nessuna porta. «Magari è sotto l'intonaco.» Cale tastò la parete e poi bussò con le nocche. «Non è intonaco, è farina di riso e calcestruzzo, come le mura esterne.» Non c'era modo di fare breccia. «Dovremo tornare indietro. Forse ci è sfuggita una porta laterale nella galleria. Non ci abbiamo fatto caso.» «Non credo», disse Cale. «E poi... quanto durerà ancora la candela?» Kleist guardò il moncone di sego che teneva in mano. «Venti minuti.» «Cosa facciamo?» chiese Henri. «Spegni la candela e pensiamoci su un attimo», disse Cale. «Buona idea», commentò Kleist. «Mi fa piacere che tu la pensi così», borbottò Cale, sedendosi a terra. Dopo essersi seduto a sua volta, Kleist tolse il paralume di vetro e spense la fiamma tra pollice e indice. Rimasero seduti nell'oscurità, distratti dall'odore del grasso animale della candela. Il fetore di sego rancido e bruciato ricordava loro soltanto una cosa: cibo. Dopo cinque minuti, Henri disse: «Stavo soltanto...» Gli altri due aspettarono. «Questa è un'estremità di una galleria...» Fece un'altra pausa. «Ma ci deve essere più di un modo per entrare in una galleria...» Le parole gli si spensero sulle labbra. «Era solo un pensiero.» «Un pensiero?» gli fece eco Kleist. «Non esagerare.» Henri non ribatté. Paul Hoffman
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Cale si alzò. «Accendi la candela.» Kleist ci mise un po', col muschio e con la pietra focaia, ma ben presto furono in grado di vedere ancora. Cale si accosciò. «Passa la candela a Henri e montami in spalla.» Kleist passò la candela al compagno, poi si arrampicò sulle spalle di Cale, sistemando le gambe attorno al collo dell'altro. Cale lo sollevò in aria con un grugnito. «Prendi la candela», disse. L'altro obbedì. «Adesso guarda su.» Kleist sollevò la candela, cercando qualcosa, benché non avesse la minima idea di cosa stesse cercando. D'un tratto gridò: «Sì!» «Zitto, dannazione!» «È una botola», sussurrò Kleist, pazzo di gioia. «Ci arrivi?» «Sì, non devo quasi nemmeno allungare la mano.» «Stai attento... dai solo una spintarella. Può darsi che ci sia qualcuno in giro.» Kleist appoggiò la mano all'estremità più vicina della botola e spinse. «Si è mossa.» «Prova a spostarla. Cerca di vedere qualcosa.» Si sentì uno sfregamento. «Niente. È buio. Avvicino la candela.» Ci fu una pausa. «Non vedo ancora niente.» «Riesci a salire?» «Se mi spingi dai piedi, quando mi aggrappo ai bordi, sì. Adesso!» Cale gli afferrò i piedi e spinse verso l'alto. Kleist si mosse lentamente e poi si allontanò, mentre la botola faceva un gran fracasso sopra di loro. «Piano!» sibilò Cale. Kleist era scomparso. Cale e Henri lo aspettarono nell'oscurità, mitigata soltanto dal debole chiarore proveniente dalla botola. La luce si fece ancora più fioca, mentre Kleist si guardava attorno. Poi l'oscurità divenne completa. «Pensi che possiamo fidarci di lui, che non ci pianterà in asso?» «Be', penso di sì», rispose Henri. Dopo una pausa aggiunse: «Probabilmente». Ma non aveva neppure finito di parlare che la luce ricomparve nella botola, seguita dalla testa di Kleist. «È una specie di stanza», sussurrò. «Ma vedo una luce che proviene da Paul Hoffman
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un'altra botola.» «Monta sulle mie spalle», disse Cale a Henri. «E tu?» «Non ti preoccupare. Voi due aspettatemi e tiratemi su.» Henri era molto più leggero di Kleist e fu piuttosto facile sollevarlo fino alla botola; da lì l'altro lo aiutò a issarsi. «Scendi più giù che puoi con la candela.» Kleist si appese a testa in giù, mentre Henri lo teneva per i piedi. Cale andò alla parete della galleria, allungò la mano fino a raggiungere una fessura e si tirò su. Poi ne trovò un'altra e un'altra ancora, finché non riuscì a raggiungere la mano di Kleist. Si afferrarono a vicenda per i polsi. «Sei sicuro di farcela?» «Pensa per te, Cale. Adesso passo la candela a Henri.» Allungò la mano verso Henri, con metà del corpo che ciondolava dalla botola, e la luce scomparve di nuovo nell'oscurità. «Conto fino a tre.» Fece una pausa. «Uno, due, tre.» Cale si staccò dalla parete e oscillò, sospeso a mezz'aria, affidando tutto il suo peso a Kleist, che emise un possente grugnito. Rimase sospeso per un istante, aspettando che l'oscillazione cessasse. Poi allungò la mano libera e si aggrappò alla spalla di Kleist, mentre Henri lo tirava per le gambe. Si mossero soltanto di poco, ma fu abbastanza perché Cale si aggrappasse al bordo della botola, alleggerendo il carico per Kleist e Henri. Rimase appeso lì per un istante, poi i due lo tirarono su. I tre si abbandonarono sul pavimento di legno, ansimando per lo sforzo. Quindi Cale si alzò. «Mostrami l'altra botola.» Kleist si alzò a sua volta, raccolse la candela ormai quasi spenta e raggiunse l'altra estremità di una stanza che a Cale sembrava di circa venti piedi per quindici. Poi si chinò accanto a una botola, seguito dagli altri due. Come aveva detto, lì accanto c'era una fessura. Cale vi avvicinò un occhio ma, a parte la luce, non riuscì a vedere nulla. Poi appoggiò l'orecchio alla fessura. «Che cosa...?» «Silenzio!» ordinò Cale. Tenne l'orecchio appoggiato al pavimento per almeno un paio di minuti. Poi si alzò e andò alla botola. Non c'era nessun modo evidente per sollevarla, perciò ne tastò i bordi finché non trovò uno spazio sufficiente per spingerla verso il lato cui era fissata. La botola cedette appena, emettendo un suono stridente, e lui sussultò, irritato. Non Paul Hoffman
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c'era spazio nemmeno per infilare un dito, perciò dovette affondare le unghie nel legno. Faceva male, ma poi Cale riuscì ad alzare il bordo a sufficienza per metterci sotto una mano. Infine sollevò la botola dall'intelaiatura e poi tutti e tre guardarono giù. È là, circa quindici piedi più in basso, si presentò davanti a loro una scena lontanissima da qualsiasi cosa avessero mai visto o addirittura sognato.
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3 Assolutamente immobili e assolutamente in silenzio, i tre ragazzi continuarono a fissare la cucina. Già, era proprio una cucina. Ogni superficie era coperta di piatti ricolmi di cibo: c'era del pollo arrosto con la pelle croccante e aromatizzata con sale e pepe macinato; manzo tagliato a fette spesse; ciccioli così croccanti che, a morderli, avrebbero fatto lo stesso rumore di un rametto secco spezzato. C'era del pane tagliato a fette, con la crosta così scura che in alcuni punti era quasi nera; c'erano piatti stracolmi di cipolle con sfumature viola e di riso con frutta, uvetta e mele. E poi c'erano i dolci: meringhe che sembravano montagne, crema pasticciera di un giallo intenso, scodelle piene di panna. I ragazzi non conoscevano le parole per descrivere gran parte di ciò che vedevano: a cosa sarebbe servita una parola che indicasse la crema pasticciera a qualcuno che non si era mai nemmeno immaginato l'esistenza di una cosa del genere? E come si poteva pensare che le spesse fette di manzo e i petti di pollo affettato avessero un rapporto coi resti di rigaglie, zampe e cervella, bolliti tutti insieme, macinati e infilati in tubicini di budella, l'unica carne che loro conoscevano? Immaginate come sarebbero strani i colori e le immagini del mondo per un cieco che acquistasse la vista all'improvviso o per un sordo dalla nascita che sentisse il suono di cento flauti per la prima volta. Per quanto fossero confusi e strabiliati, comunque, la fame li spinse a calarsi dalla botola, dondolando come scimmie. Riuscirono a evitare il tavolo e atterrarono in mezzo alla cucina. Poi restarono immobili, stupiti dall'abbondanza che li circondava. Persino Cale rischiò di dimenticarsi che la botola andava chiusa. Infine, benché inebriato dagli aromi soavi e dai colori, tolse dal tavolo qualche piatto, montò su e, con le braccia distese al massimo, riuscì a spostare la botola, rimettendola al suo posto. Quando tornò a terra, gli altri due stavano già saccheggiando la cucina con tutta l'abilità di chi ha una lunga esperienza nel raccattare resti e rimasugli. Prendevano soltanto una cosa da ogni piatto e riempivano il vuoto, in modo che non si notasse nulla. Non riuscirono a fare a meno di addentare un po' di pollo o di pane, ma gran parte di ciò che presero finì nelle tasche proibite che si erano cuciti nelle casacche, per nascondere le eventuali merci di contrabbando che potessero capitar loro sotto tiro e che Paul Hoffman
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fossero facili da rubare e nascondere. Cale si sentiva quasi male: quegli odori intensi gli inondavano il cervello e gli sembrava di essere sul punto di svenire, come se fosse in balia di strane esalazioni. «Non mangiate. Prendete soltanto quello che riuscite a nascondere.» Le istruzioni erano tanto per lui quanto per gli altri. Prese la sua parte e nascose la refurtiva, ma c'erano poche tasche a disposizione. I ragazzi non avevano bisogno di molti nascondigli, perché normalmente i loro bottini erano davvero scarni. «Dobbiamo uscire di qui. Subito!» Cale s'incamminò verso la porta. Come se si stessero risvegliando da un sonno profondo, Kleist e Henri si resero conto del pericolo che stavano correndo. Dietro la porta, Cale si mise in ascolto per un istante, poi la socchiuse. C'era un corridoio. «Dio sa dove siamo, ma dobbiamo trovare un riparo», disse, spalancando l'uscio e avanzando, con gli altri che lo seguivano, circospetti. Si spostavano rapidi, restando vicini alle pareti. Dopo pochi passi, raggiunsero una scalinata che portava al piano superiore. Henri il Vago s'incamminò in quella direzione, ma Cale scosse la testa. «Dobbiamo trovare una finestra o uscire e cercare di scoprire dove siamo. Bisogna che torniamo al dormitorio prima del coprifuoco, altrimenti ci scopriranno.» Proseguirono ma, non appena si avvicinarono a una porta sulla sinistra, questa cominciò ad aprirsi. In un istante fecero dietrofront, batterono in ritirata fino alle scale e salirono di corsa. Quindi si distesero sul pianerottolo, ascoltando alcune voci lungo il corridoio sotto di loro. Un'altra porta si aprì e Cale alzò la testa quel tanto che bastava per vedere una sagoma diretta verso la cucina dalla quale erano appena usciti. Accanto a lui, Henri sussultò. Sembrava confuso e spaventato. «Quelle voci...» sussurrò. «Che avevano?» Cale scosse la testa, ma anche lui aveva notato che erano strane e aveva sentito un insolito sommovimento nello stomaco. Si alzò ed esaminò il luogo in cui si erano nascosti. Non c'era via d'uscita se non passando per una porta alle loro spalle. Girò rapidamente la maniglia ed entrò nella stanza. In realtà, però, quella non era una stanza, ma una specie di balcone, con un muretto basso a circa dieci piedi dalla porta. Cale lo raggiunse carponi, seguito dagli altri, finché non si ritrovarono tutti e tre rannicchiati dietro il parapetto. Dallo spazio sottostante al balcone, giunse uno scroscio di risa e di Paul Hoffman
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applausi. Non furono soltanto le risate a spaventare i tre ragazzi, anche se di rado ne sentivano e soprattutto non a quel volume e così gioiose; ciò che li sconvolse fu il timbro di quelle risate. Come le voci che avevano sentito nel corridoio qualche istante prima, anche quelle risate suscitarono un fremito sconosciuto dentro di loro. «Guarda», sussurrò Henri. No, mimò Cale con le labbra, senza emettere suono. «Se non guardi tu, guardo io.» «Se ci beccano, siamo morti.» Riluttante, Henri si appoggiò nuovamente alla parete del balcone. Ci fu un altro scroscio di risa, ma stavolta Cale tenne gli occhi fissi su Henri. Poi si accorse che Kleist si era messo in ginocchio e stava guardando in basso, affascinato dalla sorgente di tutta quella gioia spensierata. Per un accolito, le risate erano una cosa bizzarra; in genere, poi, erano laconiche e amare. Cale cercò di trattenerlo, ma Kleist era molto più forte di Henri. Sarebbe stato impossibile smuoverlo senza metterci una forza tale che li avrebbe smascherati all'istante. Quindi anche Cale sollevò lentamente il capo oltre il bordo del balcone e guardò giù, scoprendo qualcosa che era molto più scioccante e inquietante della vista del cibo nella cucina. Fu come se ogni parte di lui venisse fustigata con cento bastoni chiodati dei Redentori. Nel salone c'era una dozzina di tavoli, tutti imbanditi con lo stesso tipo di cibo che avevano visto nella cucina. I tavoli erano disposti in cerchio, in modo che tutte le persone che vi erano sedute potessero vedersi a vicenda. Sembrava che la causa di tutte quelle esplosioni di risa fossero due ragazze, vestite di un bianco immacolato. Una delle due era molto appariscente, con lunghi capelli scuri e occhi di un verde intenso. Era bellissima, ma anche piuttosto paffuta. Al centro del cerchio di tavoli, inoltre, c'era una grande vasca piena d'acqua calda, con un velo di vapore sulla superficie. Ed erano proprio le ragazze nella vasca che avevano congelato l'espressione di stupore sui volti di Cale e Kleist, un'espressione rapita e sconvolta insieme, come se quei due avessero visto il paradiso. Le ragazze nella vasca erano nude. Avevano la pelle rosata o scura, a seconda della loro origine, ma tutte erano dotate di curve voluttuose. Non era però la nudità a sorprendere i ragazzi. Era il fatto che loro non avevano mai visto una donna, prima di allora. Chi avrebbe potuto cogliere le loro sensazioni? Non esiste un poeta in grado di esprimere a parole la loro terribile gioia, unita allo shock e allo Paul Hoffman
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sgomento. Henri il Vago, che aveva raggiunto gli altri due, trasalì e il fiato gli si spezzò, facendolo gemere. Il suono fece tornare in sé Cale, che si lasciò scivolare giù e si appoggiò al muretto. Nel giro di pochi secondi, gli altri, pallidi e sconvolti, fecero altrettanto. «Che meraviglia», sospirò Henri tra sé. «Che meraviglia... una vera meraviglia.» «Se non ce ne andiamo, siamo morti.» Cale si mise carponi e raggiunse la porta, seguito dagli altri. Sgattaiolarono fuori e raggiunsero di soppiatto il pianerottolo. Rimasero in ascolto. Nulla. Scesero dalle scale e s'incamminarono lungo il corridoio. La fortuna fu dalla loro parte, perché i ragazzi prudenti e abili che avevano raggiunto il balcone e avevano assistito a quello sconcertante spettacolo si erano trasformati in tre giovani confusi, inquieti e incantati. Raggiunsero una porta che conduceva a un altro corridoio e svoltarono a sinistra, giacché non avevano un motivo migliore per andare a destra. Poi, rendendosi conto di avere soltanto mezz'ora per tornare al dormitorio, si misero a correre. Ma, dopo una brusca curva, arrivarono di fronte a quella che aveva tutta l'aria di una porta assai robusta. Sui loro volti si dipinse un'espressione disperata. «Buon Dio!» sussurrò Henri. «Tra quaranta minuti manderanno i Cavaocchi a cercarci.» «Be', non ci metteranno molto a trovarci, visto che siamo intrappolati qui.» «E poi? Non permetteranno che raccontiamo ad altri quello che abbiamo visto», mormorò Kleist. «Dobbiamo andarcene», dichiarò Cale. «Andarcene?» «Già, andar via e non tornare mai più.» «Non riusciamo nemmeno a uscire da qui e tu parli di scappare addirittura dal Santuario!» esclamò Kleist. «Non abbiamo altra sc...» La replica di Cale fu interrotta dal rumore di una chiave nella serratura della porta davanti a loro. Era una porta enorme e dello spessore di almeno sei pollici, perciò avevano qualche secondo per trovare un nascondiglio. Peccato che non ce ne fossero. Cale fece cenno agli altri due di appiattirsi contro la parete, dove sarebbero stati nascosti dalla porta aperta, quantomeno finché non fosse stata richiusa. Non avevano altra scelta: tornare sui propri passi equivaleva Paul Hoffman
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a rimanere intrappolati lì fino alla scoperta della loro assenza, seguita da una rapida cattura e da una morte lenta. L'uscio si aprì, grazie a uno sforzo non indifferente, a giudicare dalle imprecazioni e dal mormorio irritato che sentirono. Accompagnata da ulteriori borbottii di stizza, la porta si mosse verso di loro, poi si fermò. Quindi vi fu infilato sotto un piccolo cuneo di legno, per tenerla aperta. Seguirono ulteriori imprecazioni e lamenti, poi colsero il rumore di un carretto che veniva spinto lungo il corridoio. All'estremità della porta, Cale si sporse a guardare e vide una sagoma familiare con una casacca nera, che spingeva il carretto zoppicando, per poi scomparire dietro l'angolo. Fece cenno agli altri di seguirlo e varcò rapidamente la soglia. Si ritrovarono all'aperto, nella nebbia gelida, accanto a un altro carretto pieno di carbone. Ecco perché il Sottoredentore Smith, da pigro bastardo qual era, aveva bloccato la porta col cuneo invece di richiuderla a chiave, come sicuramente gli era stato ordinato. In un'altra occasione, avrebbero rubato tutto il carbone che potessero trasportare, ma avevano le tasche piene di cibo e in ogni caso erano troppo spaventati. «Dove siamo?» chiese Henri. «Non ne ho idea», rispose Cale. Fece qualche passo, cercando di abituarsi alla nebbia e all'oscurità per trovare un punto di riferimento, ma il sollievo per la loro liberazione stava già svanendo. Avevano camminato a lungo nella galleria. Avrebbero potuto essere in qualsiasi parte del Santuario e nel suo labirinto di amboni e corridoi. Poi dalla nebbia spuntò un paio di piedi enormi. Era la grande statua del Redentore Impiccato. Si trovavano nel punto da cui erano partiti, oltre un'ora prima. Nel giro di cinque minuti, i tre raggiunsero le rispettive code per il dormitorio, formalmente denominato Dormitorio della Signora del Perpetuo Soccorso, benché loro ignorassero cosa significava e non gliene importasse nulla. Cominciarono a salmodiare insieme con gli altri: «E se morissi stanotte? E se morissi stanotte? E se morissi stanotte?» I Redentori ripetevano sino allo sfinimento agli accoliti la risposta a quella lugubre domanda: sarebbero finiti quasi tutti all'inferno, a causa delle loro anime nere e disgustose, per bruciare in eterno. L'eventualità di una morte improvvisa durante la notte era un argomento che veniva affrontato spesso e, in quei casi, Cale era chiamato di fronte al gruppo, in Paul Hoffman
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modo che il Redentore incaricato potesse sollevare la sua casacca e mostrare la schiena nuda e i lividi che la ricoprivano, dalla nuca all'osso sacro. Mentre i lividi attraversavano i diversi stadi di guarigione, la schiena di Cale era bellissima da osservare, con le numerose sfumature di blu, grigio e verde, rosso vermiglio e giallo violaceo quasi dorato. «Guardate questi colori!» diceva allora il Redentore. «Le vostre anime, che dovrebbero essere bianche come le ali di una colomba, sono peggiori del nero e del viola sulla schiena di questo ragazzo. È così che apparite a Dio: viola e neri. Dunque, se qualcuno di voi morirà stanotte, non c'è neppure bisogno che io vi dica in quale fila vi troverete. Per quanto riguarda ciò che vi attende alla fine di quella fila... là ci sono bestie che vi mangeranno, vi cagheranno e poi vi mangeranno un'altra volta. Là ci sono forni incandescenti in cui sarete cotti per un'ora, finché non sarete ridotti in cenere; poi diventerete grasso sciolto e un diavolo v'impasterà, cenere e lardo insieme, in un'orrenda poltiglia; quindi rinascerete ancora, ma solo per essere bruciati di nuovo... e rinascerete e sarete bruciati per l'eternità.» Una volta, un prelato in visita, un certo Redentore Compton, che era ostile a Bosco, aveva assistito a quella dimostrazione e anche a una delle punizioni che avevano provocato quei lividi. «Questi ragazzi devono essere forgiati per combattere la blasfemia degli Antagonisti. Una violenza così estrema nei confronti di un fanciullo, a prescindere da quanto egli sia insubordinato e in balia del diavolo, spezzerà la sua volontà molto prima che essa sia divenuta abbastanza forte per aiutarci a cancellare il sacrilegio alla vista di Dio», aveva commentato. «Non è insubordinato ed è ben lungi dall'essere in balia del diavolo!» Sempre misurato quando si parlava di Cale, Bosco si era immediatamente infuriato con se stesso per essersi lasciato provocare, benché la sua spiegazione fosse stata piuttosto enigmatica. «Allora perché lasciate che ciò accada?» «Non chiedete conto dei motivi. Accontentatevi.» «Ditemi perché, Redentore.» «Vi ripeto che non lo dirò.» A quel punto, il Redentore Compton era stato più saggio di Bosco e aveva tenuto a freno la lingua. In seguito, tuttavia, aveva istruito due delle sue spie nel Santuario perché raccogliessero tutte le informazioni possibili sul ragazzo dalla schiena violacea. «E se morissi stanotte? E se morissi stanotte? E se morissi stanotte?» Paul Hoffman
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Mentre si dirigevano verso il proprio letto, Cale e gli altri mormoravano quella salmodia, che aveva quasi perso significato a causa delle continue ripetizioni. Eppure essa conservava ancora un po' del terribile potere che aveva esercitato su di loro all'inizio, quand'erano bambini e restavano svegli tutta la notte, convinti che sarebbe bastato chiudere gli occhi per sentire la bocca infuocata della bestia o il rumore metallico degli sportelli incandescenti del forno. Nel giro di dieci minuti, l'enorme baracca del dormitorio si era riempita e la porta era stata chiusa a chiave, mentre cinquecento ragazzi, nel più assoluto silenzio, si preparavano a dormire in quell'ambiente gelido e scarsamente illuminato. Poi anche le candele furono spente e i ragazzi attesero il sonno, che arrivò presto, perché erano svegli dalle cinque del mattino. Il dormitorio fu pervaso dalla mescolanza di rumori che i ragazzi producevano non appena si rifugiavano nei propri sogni, e che variavano a seconda dell'orrore o del conforto che vi trovavano; c'era chi russava, chi piangeva, chi guaiva e chi grugniva. Tre dei ragazzi, naturalmente, non si addormentarono in fretta, né per molte ore a venire.
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4 Cale si svegliò presto, com'era sua abitudine da tempo immemorabile. Gli consentiva di starsene per conto suo per un'ora intera, benché «per conto suo» fosse un'idea po' paradossale, dato che, nella stessa baracca, c'erano altri cinquecento ragazzi. Nell'oscurità prima dell'alba, comunque, nessuno parlava con lui, nessuno lo guardava, nessuno gli diceva cosa fare, nessuno lo minacciava o cercava una scusa per picchiarlo o addirittura per ucciderlo. E, sebbene avesse fame, quantomeno era al caldo. D'un tratto si ricordò del cibo. Aveva le tasche piene. Era imprudente allungare la mano verso la casacca appesa accanto al letto, ma Cale si sentiva spinto da un impulso irresistibile. E non era solo la fame, perché lui ci conviveva quotidianamente; erano soprattutto la gioia, il pensiero, l'insopportabile piacere di mangiare qualcosa che aveva un gusto così meraviglioso. Senza fretta, infilò la mano in tasca, prese la prima cosa che ci trovò, una specie di biscotto con uno strato di crema pasticciera, e se lo infilò in bocca. All'inizio, pensò che sarebbe impazzito per la delizia, mentre il gusto dello zucchero e del burro gli esplodeva non soltanto in bocca, ma anche nel cervello, anzi nell'anima. Masticò e inghiottì, con un piacere inesprimibile. Poi, naturalmente, gli venne la nausea. I cibi di quel genere, per lui, erano una follia, come il volo per un elefante. Al pari di un uomo sul punto di morire di sete o di fame, doveva assumere solo qualche goccia e qualche piccolo boccone, altrimenti il suo corpo si sarebbe ribellato e lui sarebbe morto proprio per aver trovato ciò di cui aveva disperatamente bisogno. Rimase disteso per mezz'ora, cercando con tutte le sue forze di non vomitare. Quando cominciava a riprendersi, sentì un Redentore che faceva la ronda prima della sveglia. Mentre girava tra i ragazzi addormentati, le suole dure delle sue scarpe producevano un suono secco sul pavimento di pietra. Continuò così per dieci minuti. Poi, all'improvviso, accelerò il passo e si mise a battere le mani. «In piedi! In piedi!» Ancora in preda alla nausea, Cale si mise a sedere sul letto e s'infilò la casacca, facendo attenzione a non rovesciare nulla dalle tasche stracolme, mentre gli altri ragazzi si alzavano, barcollando e gemendo. Qualche minuto dopo, erano tutti in marcia, sotto la pioggia, diretti alla Paul Hoffman
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messa nella grande Basilica dell'Eterna Misericordia, una costruzione in pietra in cui trascorsero le due ore seguenti, borbottando preghiere in risposta ai dieci Redentori che recitavano parole da tempo prive di ogni significato. A Cale la cosa non dispiaceva; aveva imparato fin da bambino a dormire a occhi aperti e a borbottare insieme con tutti gli altri, mentre solo una parte della sua mente era all'erta, per non farsi sorprendere dai Redentori che tenevano d'occhio gli scansafatiche. Poi arrivò il momento della colazione: altro porridge grigiastro e «piedi di uomini morti», una specie di torta fatta con molti tipi di grasso animale e vegetale, solitamente rancido, e numerose varietà di semi. Era ributtante, però molto nutriente. Se i ragazzi sopravvivevano, lo dovevano soltanto a quella disgustosa miscela. I Redentori volevano che conoscessero la minore quantità possibile di piaceri, ma i loro piani per il futuro, per la grande guerra contro gli Antagonisti, richiedevano che i ragazzi fossero forti. Quelli che sopravvivevano, naturalmente. Soltanto alle otto, mentre erano in fila nel Campo dell'Indulgenza Assoluta del Nostro Redentore, pronti a svolgere gli esercizi, i tre poterono parlare di nuovo. «Ho la nausea», disse Kleist. «Anch'io», sussurrò Henri il Vago. «Io quasi vomitavo», ammise Cale. «Dovremo nascondere quella roba.» «O buttarla via.» «Vi ci abituerete», mormorò Cale. Poi aggiunse: «Comunque, se non la volete, datela pure a me». «Dopo gli esercizi, devo piegare i paramenti», disse Henri. «Datemi il cibo, così lo nascondo lì dentro.» «Chiacchiere, ragazzi. Chiacchiere.» Il Redentore Malik era comparso alle loro spalle, nella sua solita maniera quasi miracolosa. Proprio per quella sua strana abilità di avvicinarsi furtivamente alle persone, non era saggio fare qualcosa di sbagliato se c'era Malik in giro. Inaspettatamente, era lui a presiedere l'addestramento invece del Redentore Fitzsimmons, noto come Fitz Cacarella, a causa della dissenteria che lo tormentava sin dalle campagne di Fen. Era una sfortuna. «Ne voglio duecento», ordinò Malik, assestando a Kleist un vigoroso scappellotto sulla nuca. Costrinse tutti i ragazzi in fila, e non soltanto loro tre, a mettersi sulle nocche e a fare le flessioni. «Tu no, Cale», aggiunse il Paul Hoffman
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Redentore. «Tu fai la verticale.» Cale si mise agevolmente in verticale sulle mani e si mise a spingere, su e giù, su e giù. Fatta eccezione per Kleist, tutti gli altri ragazzi avevano già il viso contratto per lo sforzo; Cale invece continuava a muoversi su e giù come se non avesse la minima intenzione di fermarsi, lo sguardo vacuo, a mille miglia di distanza. Kleist sembrava semplicemente annoiato e al contempo del tutto a suo agio, pur muovendosi a una velocità doppia rispetto agli altri. Quando gli ultimi finirono, esausti e doloranti, Malik ordinò a Cale di fare altre duecento flessioni, perché si era mostrato orgoglioso del suo corpo. «Ti ho detto di fare la verticale, non di fare anche le flessioni. L'orgoglio di un ragazzo è una gustosa merenda per il diavolo.» Quella lezioncina morale non venne compresa dagli accoliti, che fissarono Malik, perplessi: non avevano mai immaginato, né tantomeno sperimentato, uno spuntino tra un pasto e l'altro, gustoso o no che fosse. Quando suonò la campana per segnalare la fine degli esercizi, cinquecento ragazzi si misero in marcia - con la massima lentezza possibile senza incorrere in punizioni - verso la Basilica, per le preghiere del mattino. Poi, mentre passavano accanto a un vicolo che conduceva sul retro del grande edificio, i tre ragazzi sgattaiolarono via. Kleist e Cale diedero tutto il cibo che avevano nelle tasche a Henri, poi si unirono nuovamente alla lunga fila che si snodava nella piazza davanti alla Basilica. Nel frattempo, Henri spingeva il chiavistello della porta della Sacrestia con le spalle, dato che aveva le mani stracolme di pane, carne e dolciumi. Aprì l'uscio con un'altra spinta e rimase in ascolto, temendo di essere sorpreso dai Redentori. Quindi s'infilò nello spogliatoio buio, pronto a fare marcia indietro se avesse visto qualcuno. Sembrava vuoto. Raggiunse di corsa uno degli armadi; dovette posare a terra una parte del cibo per poterlo aprire, ma pensò che un po' di polvere non aveva mai fatto male a nessuno. Una volta aperta l'anta, infilò la mano nell'armadio e sollevò un'asse di legno dal pavimento. Lì sotto c'era un ampio spazio in cui Henri conservava i suoi averi, tutti proibiti. Agli accoliti non era permesso possedere nulla, per evitare che, come diceva il Redentore Porco, «bramassero le cose materiali di questo mondo». «Porco» ovviamente era il soprannome; in realtà si chiamava Redentore Glebe. Fu proprio la voce di Glebe che riverberò alle spalle di Henri. «Chi va là?» Paul Hoffman
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Nascosto per tre quarti dall'anta, il ragazzo rovesciò nell'armadio il cibo che aveva tra le braccia e le cosce di pollo e i dolci che aveva posato sul pavimento, poi si rialzò e richiuse l'armadio. «Come, scusate, Redentore?» «Ah, sei tu», disse Glebe. «Che stai facendo?» «Cosa sto facendo, Redentore?» «Sì», ribatté Glebe, irritato. «Ehm... be'...» Henri si guardò attorno, come in cerca d'ispirazione. Parve trovarla da qualche parte sul soffitto. «Stavo... mettendo via i paramenti lunghi che ha dimenticato il Redentore Bent.» Quest'ultimo era senza dubbio un po' matto, tuttavia la sua reputazione di smemorato era in gran parte dovuta al fatto che gli accoliti, non appena potevano, gli attribuivano la responsabilità di qualsiasi cosa si trovasse fuori posto oppure di un comportamento sospetto. Ogni volta che venivano scoperti a fare qualcosa che non avrebbero dovuto fare o in un luogo in cui non sarebbero dovuti essere, la loro prima linea difensiva consisteva nel dire che stavano eseguendo le istruzioni del Redentore Bent, la cui scarsa memoria a breve termine garantiva di non essere contraddetti. «Portami i miei paramenti.» Henri guardò Glebe come se non avesse mai sentito parlare di una cosa del genere. «Be'? Allora?» lo incalzò Glebe. «I paramenti?» chiese Henri. «Certo, Redentore.» Si voltò e raggiunse un altro armadio, spalancandone le ante con grande entusiasmo. «Neri o bianchi, Redentore?» «Che ti prende?» «Che mi prende, Redentore?» «Sì, razza d'idiota. Perché mai dovrei indossare paramenti neri in un giorno feriale del mese dei morti?» «In un giorno feriale?» gli fece eco Henri, come se fosse stupefatto da quell'idea. «Naturalmente no, Redentore. Vi servirà un tracollarico, però.» «Di che stai parlando?» Il tono di Glebe era querulo, ma anche incerto. C'erano centinaia di vesti e ornamenti cerimoniali, molti dei quali erano caduti in disuso durante le migliaia di anni trascorsi dalla fondazione del Santuario. Era evidente che non aveva mai sentito parlare del tracollarico, ma ciò non significava che non esistesse una cosa del genere. Henri andò a un cassetto e, sotto lo sguardo attento del Redentore, lo aprì. Rovistò per qualche istante e poi ne estrasse una collana formata da Paul Hoffman
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perline minuscole, alla cui estremità era appeso un pezzetto quadrato di iuta. «Va indossato nel giorno del martire Fulton.» «Non ho mai indossato nulla di simile», borbottò Glebe, ancora incerto. Allora andò all'Ecclesiasticum e lo aprì alla data di quel giorno. Era effettivamente il giorno del martire Fulton, ma d'altra parte c'erano così tanti martiri che il calendario non bastava e perciò alcuni dei martiri minori venivano festeggiati soltanto ogni vent'anni o giù di lì. Glebe tirò su col naso, irritato. «Muoviti, siamo in ritardo.» Con la dovuta solennità, Henri sistemò il tracollarico attorno al collo di Glebe e lo aiutò a infilare la lunga veste bianca dalle elaborate decorazioni. Quindi seguì Glebe nella Basilica per le preghiere del mattino e lì trascorse la mezz'ora successiva, rivivendo con grande piacere l'episodio del tracollarico, un oggetto che esisteva soltanto nella sua fantasia. Non aveva idea dello scopo del quadratino di iuta appeso alla collana di perline, ma in Sacrestia c'erano numerosi piccoli oggetti e cimeli il cui significato religioso era da tempo dimenticato. Nonostante ciò, aveva appena corso un rischio enorme per il semplice piacere di prendere in giro un Redentore. E non era la prima volta. Se lo avessero scoperto, gli avrebbero scorticato la schiena.
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Il soprannome che Cale aveva dato a Henri aveva preso piede, ma soltanto loro due ne apprezzavano davvero il significato. All'infuori di Cale, nessuno si rendeva conto che il suo modo elusivo di rispondere o di ripetere qualsiasi domanda gli fosse posta non era dovuto all'incapacità di comprendere ciò che gli veniva detto o di fornire risposte chiare, ma era semplicemente un modo per sfidare i Redentori, spingendoli al limite della loro già limitata tolleranza. Proprio perché aveva capito che cosa Henri stava combinando e ne ammirava la spettacolare temerarietà, Cale aveva infranto una delle regole più importanti: non fare amicizia con nessuno e non consentire a nessuno di fare amicizia con te. Cale si diresse verso un banco libero nella Basilica Numero Quattro, ansioso di recuperare un po' di sonno durante le Preghiere di Mortificazione. Aveva perfezionato l'arte di sonnecchiare mentre si affliggeva per i suoi peccati; peccati di turpitudine, di dilettazione morosa, di gaudio e di desiderio, consumati o non consumati. I cinquecento accoliti riuniti nella Basilica Numero Quattro giurarono all'unisono di non commettere mai trasgressioni che per loro sarebbero state impossibili, pure ammesso che le capissero: bambini di cinque anni giurarono solennemente di non desiderare mai la donna d'altri; bambini di nove anni giurarono che in nessuna circostanza avrebbero scolpito immagini di idoli e quattordicenni giurarono di non prostrarsi davanti a tali immagini, se mai le avessero scolpite. Tutto ciò pena la punizione di Dio non solo per loro, ma anche per i loro figli, fino alla terza o quarta generazione. Dopo un appagante sonnellino di quarantacinque minuti, la messa si concluse e Cale uscì in fila con gli altri e si diresse nuovamente verso l'estremità opposta dei campi di addestramento. Ormai i campi non si svuotavano mai durante il giorno. Anche per l'addestramento - come per i pasti, le pratiche d'igiene e le preghiere -, da cinque anni a quella parte era stato necessario organizzare dei turni e c'erano sessioni persino di notte, riservate agli accoliti che dovevano recuperare. Ma, di giorno o di notte che fossero, tutti odiavano quegli esercizi per via del freddo terribile, dato che il vento proveniente dalle Scablands era tagliente anche in estate. Non era un segreto che l'aumento nel numero degli accoliti si fosse reso necessario per rimpolpare le truppe nella guerra contro gli Antagonisti. Cale tuttavia sapeva che molti di coloro che lasciavano il Santuario non andavano stabilmente sul Fronte Orientale, ma costituivano una sorta di riserva: facevano un turno di sei Paul Hoffman
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mesi su ciascuno dei due Fronti, con un anno o più da riservisti fra un turno e l'altro. Glielo aveva spiegato Bosco. «Puoi fare due domande», aveva detto il Redentore, dopo averlo informato di quello strano schieramento. Cale ci aveva riflettuto per un istante. «Il periodo da riservisti, Signore... avete in progetto di aumentarlo di continuo?» «Sì», aveva risposto Bosco. «Seconda domanda.» «Non mi serve una seconda domanda», aveva replicato Cale. «Davvero? Sarà meglio che non ti sbagli, allora.» «Ho sentito il Redentore Compton che vi parlava di una situazione di stallo sui Fronti.» «Sì, ho notato che stavi origliando.» «Eppure entrambi avete girato attorno all'argomento, come se non fosse un problema.» «Continua.» «Negli ultimi cinque anni, avete addestrato parecchi preti militanti... troppi. State cercando di dar loro l'occasione di combattere, ma non volete che gli Antagonisti sappiano dell'aumento nelle vostre forze. Ecco perché il periodo da riservisti si è allungato. Ci viene detto sempre che ci sono Antagonisti traditori ovunque sui Fronti. È vero?» «Ah...» Bosco aveva sorriso; non era un'immagine piacevole. «Una seconda domanda, dopo che ti sei tanto vantato di cavartela con una sola. La tua vanità ti distruggerà, ragazzo, e non lo dico per il bene della tua anima. Ho...» Era parso incerto su come proseguire, una cosa che Cale non aveva mai visto prima. Era inquietante. «Ho delle aspettative nei tuoi confronti. E verranno avanzate alcune richieste. Preferirei essere gettato dalle mura di questo luogo con una macina da asino al collo che venir meno a quelle richieste e a quelle aspettative. E ciò che mi preoccupa di più è il tuo orgoglio. Qualsiasi altro Redentore, da qui all'eternità, ti dirà che l'orgoglio è la causa di tutti gli altri ventotto peccati mortali, ma io devo badare ad affari più importanti della tua anima. L'orgoglio distorce il discernimento e ti caccia in situazioni che avresti potuto evitare. Io ti ho offerto due domande e tu, per vana superbia, hai voluto superarmi, rischiando una punizione che non avevi bisogno di rischiare. Ciò t'indebolisce a tal punto che mi chiedo se tu ti sia meritato la mia protezione per tutti questi anni.» Aveva fissato Cale, il quale a sua volta fissava il pavimento e si sentiva pieno di odio e di scherno all'idea che Paul Hoffman
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Bosco lo proteggesse. La sua mente era stata attraversata da pensieri strani e pericolosi. «La risposta alla tua seconda domanda è che ci sono spie e informatori degli Antagonisti sui Fronti. Non sono molti, ma sono sufficienti.» Cale aveva tenuto lo sguardo fisso al suolo. Fingi di non resistere. Riduci al minimo la punizione. Ma provava un furioso risentimento, perché Bosco aveva ragione: lui avrebbe potuto evitare ciò che stava per succedere. «State costituendo una riserva per un grande attacco su entrambi i Fronti e, nel contempo, dovete mantenere i numeri più o meno allo stesso livello, altrimenti gli Antagonisti capiranno ciò che li aspetta. Volete che i riservisti facciano esperienza, ma adesso ce ne sono troppi, perciò dovranno trascorrere più tempo lontano dal fronte. Vi servono molti più soldati per battere definitivamente gli Antagonisti e quei soldati devono essere temprati in battaglia, tuttavia non ci sono battaglie a sufficienza. Siete a un punto morto, Signore.» «E la tua soluzione sarebbe...» «Mi servirà del tempo, Redentore. Può darsi tuttavia che la soluzione causi un altro problema.» Bosco aveva riso. «Lascia che te lo dica, ragazzo, la soluzione di qualsiasi problema è sempre un altro problema.» Poi, senza preavviso, aveva vibrato un colpo a Cale, il quale tuttavia lo aveva parato con facilità, come se fosse stato sferrato da un vecchio. «Metti giù la mano», aveva detto Bosco. Cale aveva obbedito. «Fra un attimo ti colpirò ancora e, quando lo farò, tu non muoverai né le mani né la testa. Lascerai che io ti colpisca. Lo permetterai. Acconsentirai», aveva mormorato Bosco. Cale aveva aspettato. Stavolta l'altro aveva preso lo slancio. Poi aveva colpito un'altra volta. Cale aveva sussultato, ma il colpo non lo aveva raggiunto. La mano di Bosco si era fermata a un nonnulla dal suo viso. «Non ti muovere, ragazzo.» Bosco aveva preso nuovamente lo slancio, sferrando un altro colpo. Ancora una volta, Cale aveva sussultato. «Non muoverti!» aveva urlato Bosco, col viso paonazzo di rabbia, salvo due macchioline bianche al centro delle guance, che diventavano sempre più chiare via via che la pelle circostante s'incupiva. Poi aveva assestato un Paul Hoffman
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altro colpo, che stavolta aveva raggiunto Cale, il quale era rimasto immobile come una statua. Quindi ne aveva sferrato un altro e un altro ancora. Infine aveva vibrato un colpo così forte da buttarlo a terra. Cale era esterrefatto. «Alzati.» La voce del Redentore era quasi impercettibile. Il ragazzo si era alzato, tremando come se avesse avuto improvvisamente un gran freddo. Un altro colpo. Di nuovo a terra, di nuovo in piedi. Un altro colpo. In piedi. Bosco aveva cambiato mano. Con la sinistra, che era più debole, gli ci erano voluti cinque colpi prima che Cale cadesse di nuovo a terra. Mentre il ragazzo si rialzava, Bosco lo aveva fissato dall'alto in basso. Tremavano entrambi. «Resta dove sei», aveva sussurrato il Redentore. «Se ti alzi, non risponderò delle mie azioni. Ora io vado.» Sembrava quasi sconcertato, esausto per la terribile intensità della sua rabbia. «Aspetta cinque minuti e poi vattene.» Aveva raggiunto la porta e se n'era andato. Cale non si era mosso per un minuto intero. Poi aveva vomitato. Aveva avuto bisogno di un altro minuto di riposo e poi di altri tre per fare pulizia. Poi, lentamente, era uscito nel corridoio, tremando come se avesse paura di non farcela. Sorreggendosi alla parete, aveva raggiunto uno dei vicoli ciechi che si dipartivano da un cortile e si era seduto. «Il busto eretto! Non così! No! No!» Cale si riscosse, come se poco prima fosse caduto in trance. Per qualche istante, la vista e i rumori del campo di addestramento erano svaniti, mentre lui veniva inghiottito dai ricordi. Era una cosa che gli accadeva sempre più spesso, ma non era una buona idea, nel Santuario. Bisognava stare attenti, altrimenti di certo succedeva qualcosa di sgradevole. Tutt'attorno a lui, i suoni e le immagini dell'addestramento si fecero vividi. Venti accoliti, prossimi alla partenza, si stavano esercitando a un attacco in formazione. Il Redentore Gil, noto come Gil il Gorilla per la sua bruttezza e la sua forza terribile, come al solito si stava lamentando degli errori dei suoi allievi. «Hai già visto i cancelli della morte, Gavin?» chiese stancamente. «Li vedrai ben presto se continui a scoprire il fianco sinistro in quel modo.» Gli altri accoliti nella formazione sorrisero dell'imbarazzo di Gavin. Pur con tutta la sua forza fisica e la sua bruttezza bestiale, tra i Redentori Gil era quello che più si avvicinava a essere un uomo per bene. In realtà, c'era pure il Redentore Navratil, ma era un caso particolare. Paul Hoffman
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«Per te, addestramento notturno», ordinò Gil al povero Gavin. Il ragazzo accanto a lui rise. «Tu, Gregor, puoi unirti a lui. E la stessa cosa vale per te, Holdaway.» Poco più in là, un bambino di non più di sette anni era appeso per le braccia a un'impalcatura di legno, a oltre sette piedi da terra. Una cintura di tela, all'interno della quale c'erano dei grossi pesi, gli era stata legata attorno alle caviglie. Il piccolo aveva il viso contratto in una smorfia e rigato di lacrime. Davanti a lui, un Sottoredentore stava dicendo che, se non avesse sollevato le gambe così appesantite formando ogni volta una L perfetta, nessuno dei suoi sforzi sarebbe stato considerato. «Piangere non ti servirà a nulla. Fai bene l'esercizio, piuttosto», concluse. Mentre il bambino si sforzava di obbedire, Cale notò come fossero definiti i suoi muscoli addominali: erano gonfi e possenti come quelli di un adulto. «Quattro!» contò il Sottoredentore. Cale continuò a camminare, passando accanto a bambini sui cinque anni, alcuni dei quali ridevano come fanno tutti i bambini, e a diciottenni che sembravano uomini di mezza età. C'erano gruppi di circa ottanta ragazzi che si esercitavano a spingersi avanti e indietro, gridando ritmicamente, come se fossero due giganteschi organismi che grugnivano l'uno contro l'altro. Un'ulteriore schiera di circa cinquecento ragazzi marciava in formazione e in assoluto silenzio, reagendo in perfetta sincronia a ogni segnale delle bandiere: a sinistra, a destra, poi un arresto improvviso, poi una ritirata, un altro arresto e un'avanzata. Ormai Cale si trovava a circa cinquanta iarde dalle grandi mura attorno al Santuario, ai margini del campo di tiro con l'arco, dove Kleist stava facendo una ramanzina a una squadra di dieci accoliti che avevano almeno quattro anni più di lui. Li insultava, gridando che erano inutili, brutti e incapaci, che avevano una pessima dentatura e occhi troppo ravvicinati. Smise soltanto quando vide Cale. «Sei in ritardo», gli disse. «Per tua fortuna, Primo è malato, altrimenti ti farebbe a pezzi.» «Puoi sempre provarci tu, se vuoi.» «Io? Non me ne frega niente se ci sei o no. Peggio per te.» Cale rispose con una debole alzata di spalle, che suggeriva una riluttante ammissione della verità delle parole di Kleist. Questi era a torso nudo e mostrava la sua corporatura straordinaria, per quanto bizzarra. Sembrava Paul Hoffman
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tutto schiena e spalle, come se, tra le gambe e la testa di un quattordicenne, fosse stato inserito il torso di un adulto. In particolare, il braccio e la spalla destri erano così muscolosi, rispetto al lato sinistro, da farlo apparire quasi deforme. «Va bene, diamo un'occhiata a cosa c'è di sbagliato», disse Kleist. Evidentemente era divertito dall'occasione di dimostrare il proprio senso di superiorità e ci teneva che Cale lo sapesse. Cale sollevò l'arco che Kleist gli aveva passato, tirò la corda, avvicinandola alla guancia, mirò, trattenne la freccia per un secondo e poi la scagliò verso il bersaglio, a ottanta iarde di distanza. Brontolò nel momento stesso in cui si staccava dall'arco. La freccia descrisse una curva verso il bersaglio, che aveva le dimensioni e la forma di un uomo, e lo mancò di parecchio. «Merda!» «Ohi, ohi, ohi», esclamò Kleist. «Non vedo nulla del genere da... be', non mi ricordo. Una volta te la cavavi. Dove diavolo sei andato a prendere un tiro così?» «Dimmi soltanto cosa devo fare per raddrizzare il tiro.» «Ah, be', è abbastanza facile. Vedi, tu pizzichi la corda, invece dovresti soltanto lasciarla andare... così.» Pizzicò la corda del proprio arco per mostrare a Cale dove sbagliava e poi, con enorme piacere, gli mostrò come si doveva fare. «In più, apri la bocca quando tiri e abbassi il gomito del braccio della corda prima del rilascio.» Cale fece per protestare, ma Kleist lo interruppe: «E, nel contempo, fai scorrere verso l'alto la mano della corda». «Va bene, ho capito il concetto. Dammi le istruzioni e basta. Ho solo preso qualche cattiva abitudine, tutto qui.» Kleist prese fiato a denti stretti, nel modo più melodrammatico possibile. «Non sono sicuro che sia così semplice. Penso che sia un problema psicologico.» Si portò un indice alla tempia. «Mi sa che hai perso la testa, amico. Adesso che ci penso, il tuo è il peggior caso di ansia da prestazione che io abbia mai visto.» «Questa te la sei appena inventata.» «No, no, ce l'hai davvero: ansia da prestazione, tic nervosi... Non esiste un rimedio. La bocca spalancata e il gomito che si abbassa sono segnali esteriori dello stato della tua anima. Il vero problema è nel tuo spirito.» Kleist infilò una freccia nell'arco, tese la corda e la lasciò andare con un Paul Hoffman
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solo movimento elegante. La freccia descrisse un bellissimo arco e cadde con un colpo appagante nel petto del bersaglio. «Vedi? Perfetto. Un segno esteriore della grazia interiore.» A quel punto, Cale si mise a ridere. Si voltò verso la faretra posata sulla panchina alle sue spalle ma, così facendo, vide Bosco che camminava verso il centro del campo e si avvicinava al Redentore Gil, il quale fece immediatamente cenno a un ragazzo di avanzare. Cale sentì un debole sibilo alle sue spalle e, girandosi, scorse Kleist puntare furtivamente l'arco verso Bosco, riproducendo il suono di una freccia scagliata. «Dai. Ti sfido», gli disse Cale. Kleist rise e si voltò verso i suoi allievi, che si erano seduti a parlare a una certa distanza. Uno di loro, Donovan, aveva colto l'occasione, come in ogni pausa, per iniziare un sermone sulla malvagità degli Antagonisti. «Non credono in un purgatorio dove si possano espiare i peccati nel fuoco per poi andare in paradiso. Credono nella giustificazione per fede.» Alcuni sussultarono, increduli. «Sostengono che ciascuno di noi sarà salvato o dannato soltanto in virtù della scelta inalterabile del Redentore e che quindi sia impossibile fare qualcosa per salvarsi. Usano le melodie delle canzoni da taverna per i loro inni e credono in un Redentore Impiccato che non è mai esistito. Inoltre moriranno nel peccato, perché hanno il terrore della confessione. Perciò saranno dannati, giacché abbandoneranno questa vita con tutte le loro trasgressioni impresse nell'anima.» «Chiudi la bocca, Donovan, e torna al lavoro», disse Kleist. Una volta che l'accolito se ne fu andato col messaggio destinato a Cale, Bosco chiamò in disparte il Redentore Gil, in modo che nessuno potesse sentirli. «Gira voce che gli Antagonisti stiano parlando coi mercenari laconici.» «È una voce fondata?» «Fondata quanto può essere una voce.» «Allora dovremmo preoccuparci... Ma avranno bisogno di diecimila soldati o anche più per batterci. Come li pagheranno?» «Gli Antagonisti hanno scoperto delle miniere d'argento a Laurium. E questa non è una voce.» «Allora che Dio ci aiuti. Persino noi non abbiamo più di qualche migliaio di soldati, tremila, forse, che siano in grado di combattere contro i Paul Hoffman
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mercenari laconici. La loro reputazione non è esagerata.» «Aiutati che Dio ti aiuta. Se non siamo capaci di affrontare uomini che combattono soltanto per il denaro e non per la gloria di Dio, meritiamo di fallire. È una prova, c'era da aspettarselo.» Sorrise. «'A onta della prigionia, del fuoco e della spada!' Giusto, Redentore?» «Be', Militante, se è una prova non so come superarla. E, se non lo so io, non c'è nessun altro Redentore che lo sappia. Perdonatemi il peccato d'orgoglio.» «Ne siete proprio sicuro? Del peccato d'orgoglio, intendo.» «Che cosa intendete? Non è necessario che siate oscuro con me. Mi merito di meglio da voi.» «Ma certo. Mi scuso per la mia presunzione.» Si batté delicatamente il petto tre volte. «Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Mi aspettavo qualcosa del genere da qualche tempo. Ho sempre pensato che la nostra fede sarebbe stata messa alla prova, a dura prova. Il Redentore è stato mandato per salvarci e l'umanità ha risposto a quel dono divino appendendo il mio amato a una forca.» I suoi occhi cominciarono a velarsi di lacrime, come se stesse ricordando qualcosa che aveva visto di persona, benché fosse trascorso un millennio dall'esecuzione del Redentore. Sospirò, come per un dolore terribile e recente e poi guardò Gil e, posandogli una mano sul braccio con delicatezza e vero affetto, aggiunse: «Non posso dire altro, tranne che, se queste voci sono vere, significa che non sono stato troppo pigro nel mio tentativo di porre fine all'apostasia degli Antagonisti e di rimediare al terribile crimine dell'assassinio dell'unico messaggero di Dio». Sorrise. «Ecco una nuova tattica.» «Non capisco.» «Non una tattica militare, ma un nuovo modo di vedere le cose. Non dobbiamo più pensare soltanto al problema degli Antagonisti, ma a una soluzione definitiva al problema della malvagità umana in sé.» Fece cenno all'altro di avvicinarsi e abbassò ancora di più la voce. «Da troppo tempo pensiamo soltanto all'eresia degli Antagonisti e alla nostra guerra contro di loro, a ciò che fanno e a ciò che non fanno. Abbiamo dimenticato che la loro importanza è secondaria rispetto al nostro obiettivo di non avere nessun dio all'infuori dell'Unico Vero Dio e nessuna fede all'infuori dell'Unica Vera Fede. Ci siamo incaponiti su questa guerra come se fosse fine a se stessa. Abbiamo lasciato che diventasse una zuffa in un mondo pieno di zuffe.» Paul Hoffman
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«Perdonatemi, Signore, ma il Fronte Orientale si estende per mille miglia e le vittime si contano a centinaia di migliaia. Non è una zuffa.» «Noi non siamo i Ferrazzi o i Janes, interessati alla guerra soltanto per il profitto o per il potere. Eppure siamo diventati simili a loro; siamo diventati un potere contro molti altri, nella guerra di tutti contro tutti, perché, come loro, desideriamo la vittoria, ma temiamo la sconfitta.» «È ragionevole guardarsi dalle sconfitte.» «Noi siamo i rappresentanti di Dio in terra tramite il suo Redentore. C'è un unico scopo nella nostra esistenza e lo abbiamo dimenticato perché abbiamo paura. Perciò le cose devono cambiare. O crediamo di avere Dio dalla nostra parte oppure no. Se è ciò che crediamo davvero, se non fingiamo soltanto di credere, allora dobbiamo perseguire una vittoria assoluta o nessuna vittoria.» «Se lo dite voi, Signore.» Bosco rise. Era un suono dolce, sinceramente divertito. «Lo dico eccome, amico mio.» Sia Cale sia Kleist osservarono il ragazzo che si avvicinava, compiaciuto dall'opportunità di recapitare una notizia che chiaramente lui riteneva sgradevole. Ma, non appena cominciò a parlare, Kleist lo interruppe, dicendo: «Che vuoi, Salk? Sono occupato». E quella frase ebbe l'esito sperato, dato che il ragazzo abbandonò subito l'idea di comunicare la notizia lentamente e con malignità. «Ti è andata male, Kleist. Tu non c'entri niente. Il Redentore Bosco vuole vedere Cale nelle sue stanze dopo la preghiera della notte.» «Bene», disse Kleist, come se quella fosse una cosa normalissima. «Adesso togliti dai piedi.» Colto di sorpresa da quell'ostile assenza di curiosità e notando che Cale lo fissava in modo strano, Salk sputò in terra per dimostrare la propria indifferenza e se ne andò. Cale e Kleist si guardarono. Poiché Cale era lo Zelota di Bosco, non era insolito che venisse convocato dal Signore Militante, cosa che avrebbe terrorizzato qualsiasi altro ragazzo. Ciò che era insolito e perciò inquietante, dati gli eventi del giorno prima, era che Cale venisse convocato nelle stanze private del Redentore e soltanto a tarda sera. Non era mai successo. «E se sapesse?» chiese Kleist. Paul Hoffman
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«Allora saremmo già nella Casa per le Funzioni Speciali.» «Sarebbe tipico di Bosco farcelo credere.» «Suppongo di sì, ma non ci possiamo fare nulla adesso.» Cale tese la corda dell'arco, la trattenne per un secondo e poi rilasciò la freccia. Mancò il bersaglio di almeno due spanne. I tre avevano concordato di saltare la cena. Trovarsi in un luogo diverso da quello deputato era pericoloso, tuttavia sembrava inconcepibile che un accolito sì assentasse da un pasto, dato che tutti, nonostante il cibo repellente, avevano sempre fame. Di conseguenza, la cena era il momento in cui i Redentori erano meno vigili, il che consentì a Cale e Kleist di nascondersi facilmente dietro la Basilica Numero Quattro e di aspettare che Henri il Vago portasse loro il cibo dalla Sacrestia. Mangiarono più lentamente, stavolta, e non si abbuffarono; tuttavia, dieci minuti dopo, si sentirono male. Mezz'ora più tardi, Cale era in attesa nel buio corridoio su cui si affacciava l'alloggio del Signore Militante. Un'ora dopo si trovava ancora lì. Poi la porta di ghisa si aprì e comparve la lunga sagoma di Bosco. «Entra.» Cale lo seguì in una stanza che era solo un po' meno tetra del corridoio. Se si fosse aspettato di scoprire, dopo tutti quegli anni, almeno qualche oggetto personale del Redentore, sarebbe stato deluso. C'erano porte che conducevano ad altre stanze, ma erano tutte chiuse; l'unica cosa visibile era lo studio semivuoto. Cale restò in piedi ad aspettare, sapendo che il motivo di quella convocazione poteva andare dalla richiesta di ritirare una dozzina di sacchi blu alla sua condanna a morte. Dopo qualche minuto, senza alzare lo sguardo e in un tono vagamente inquisitorio, Bosco esordì: «C'è qualcosa che mi vuoi dire?» «No, Signore», rispose Cale. «Se stai mentendo, non potrò fare nulla per salvarti.» Fissò Cale dritto negli occhi: uno sguardo di una freddezza e di un'oscurità infinite. Era la morte stessa che lo stava osservando. «Dunque te lo chiedo ancora una volta. C'è qualcosa che mi vuoi dire?» Reggendo il suo sguardo, Cale rispose: «No, Signore». Il Militante tenne gli occhi fissi su di lui e Cale sentì la sua volontà che cominciava a dissolversi, come se gli stessero versando dell'acido nell'anima. Venne colto dall'orribile impulso di confessare; gli parve Paul Hoffman
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addirittura che le parole gli risalissero in gola. Era il terrore che aveva provato fin da bambino, la consapevolezza che il Redentore di fronte a lui era capace di tutto, che il dolore e la sofferenza erano suoi assidui compagni, che qualsiasi essere vivente non poteva che ammutolire al suo cospetto. Bosco rivolse nuovamente lo sguardo al foglio che aveva di fronte e vi appose la propria firma. Poi lo piegò, lo sigillò con della cera rossa e lo consegnò a Cale. «Porta questo al Signore della Disciplina.» Cale fu investito da un vento gelido. «Adesso?» «Sì, adesso.» «È buio. Tra pochi minuti, il dormitorio sarà chiuso.» «Non ti preoccupare, ci ho già pensato io.» Bosco riprese a scrivere, ma il ragazzo non si mosse. «C'è altro, Cale?» gli chiese allora, fissandolo. La mente del ragazzo era un turbine di contraddizioni. Se avesse confessato, forse il Redentore l'avrebbe aiutato. Dopotutto lui era il suo Zelota. Avrebbe potuto salvarlo. Ma altre creature nella sua anima gli gridavano: Non confessare mai! Non ammettere mai una colpa! Mai! Nega sempre tutto. Sempre! «No, Signore», mormorò infine. «Allora vai.» Cale si voltò e s'incamminò verso l'uscita, resistendo all'impulso di mettersi a correre. Una volta fuori, chiuse la porta di ghisa e, come se fosse fatta di vetro, puntò lo sguardo dentro la stanza, con gli occhi pieni di odio e di disprezzo. Raggiunse il più vicino corridoio e si fermò sotto la luce fioca di un lume appeso alla parete. Sapeva che Bosco gli aveva offerto l'occasione di aprire la lettera, un reato che avrebbe avuto come conseguenza la sua esecuzione immediata. Se Bosco era venuto a sapere ciò che era successo il giorno prima, era possibile che, nella lettera, avesse dato istruzioni al Signore della Disciplina su come ucciderlo. Sarebbe stato tipico di Bosco fare in modo che toccasse allo stesso Cale consegnare il proprio ordine di esecuzione. Ma era altresì possibile che non fosse nulla di tutto ciò, che si trattasse soltanto dell'ennesimo tentativo del Militante di metterlo alla prova. Trasse un respiro profondo e cercò di vedere le cose con distacco, senza lasciarsi influenzare dalla paura. Ma certo: benché fosse quasi inevitabile che quella lettera avrebbe avuto conseguenze sgradevoli e dolorose, c'era la possibilità che non contenesse un messaggio letale. Aprirla, peraltro, avrebbe significato morte certa. Stabilito ciò, Cale s'incamminò verso lo Paul Hoffman
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studio del Signore della Disciplina, anche se, per tutto il tragitto, non fece altro che chiedersi con crescente angoscia cosa avrebbe fatto se le cose si fossero messe male. Nel giro di dieci minuti, dopo aver perso l'orientamento per qualche istante nel labirinto di corridoi, raggiunse la Camera della Salvezza. Per un istante, restò fermo nell'oscurità profonda di fronte alla grande porta, col cuore che batteva all'impazzata per la paura e la rabbia. Poi notò che la porta era socchiusa. Cale rifletté. Guardò il documento che aveva in mano, quindi spinse la porta a sufficienza per vedere all'interno. Scorse il Signore della Disciplina all'altra estremità della stanza. Era chino su qualcosa e stava canticchiando tra sé. La fede dei nostri padri è ancora viva, a onta della prigionia, del fuoco e della spada. Ta tam ta tam ta tam ta tam tam. Ta tam ta tam ta tam ta tam tam. La fede dei nostri padri, tam ta tam, ti sarà devota fino alla morte. S'interruppe di colpo, probabilmente perché doveva concentrarsi su qualche dettaglio. Quella parte della stanza era illuminata dalle candele; sembrava che il Signore della Disciplina avesse racchiuso la luce in una sorta di cupola calda e brillante, delimitata dalla forma del suo corpo. Cale notò che l'uomo era chino su un tavolo di legno largo circa sei piedi e lungo due, sul quale era appoggiato un oggetto avvolto in una stoffa a un'estremità. Poi il Signore della Disciplina riprese a canticchiare, si voltò di lato e lasciò cadere su un piatto di ferro qualcosa di piccolo e duro. Infine prese un paio di forbici e tornò al suo lavoro. Oh, qual dolce destino per i loro figli, se come i padri morranno per te! Ta tam ta tam ta tam ta tam ta tam. Ta tam ta tam ta tam ta tam... Cale aprì la porta ancora un po'. Nell'angolo più buio della stanza scorse un altro tavolo; pure su quello c'era qualcosa, ma era indistinguibile, Paul Hoffman
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coperto com'era dall'ombra del Signore della Disciplina. Quest'ultimo si raddrizzò, raggiunse un armadio basso sulla sua destra e si mise a rovistare in un cassetto. Cale si limitò a fissarlo, incapace di comprendere cosa ci fosse sul tavolo, anche se ormai lo vedeva chiaramente: c'era un corpo e il Signore della Disciplina lo stava sezionando. Il petto era stato inciso e aperto con grande perizia, arrivando fino al basso addome. Ogni sezione di pelle e muscolatura era stata allontanata con cura dall'incisione e tenuta ferma con pesi di vario genere. Ma, a parte la vista di un corpo esposto in quel modo, ciò che aveva sconvolto Cale, ciò che aveva reso difficile da accettare quella scena, sebbene lui avesse già visto molti cadaveri, era il fatto che il corpo era quello di una ragazza. Viva. La sua mano sinistra ciondolava dal bordo del tavolo e si muoveva a scatti, a intervalli di pochi secondi. Nel frattempo, il Signore della Disciplina continuava a rovistare nel cassetto, sempre canticchiando. A Cale sembrò che innumerevoli ragni gli stessero camminando sulla schiena. Poi sentì un gemito. E, senza l'ombra del Signore della Disciplina, riuscì a scorgere cosa c'era sull'altro tavolo: un'altra ragazza, legata e imbavagliata. Di certo stava cercando di chiamare aiuto. E lui la conosceva: era la più appariscente delle due ragazze vestite di bianco che avevano partecipato ai festeggiamenti del giorno prima, quelle stesse ragazze che lui aveva visto ridere di gioia. Il Signore della Disciplina smise di canticchiare, si raddrizzò e guardò la ragazza. «Fai silenzio, tu», disse, quasi con gentilezza. Poi ricominciò a canticchiare e continuò la sua ricerca. Nella sua breve vita, Cale aveva visto cose atroci, molti terribili atti di crudeltà, e aveva sopportato sofferenze quasi indescrivibili. Ma, in quel momento, era sbalordito: non riusciva a capire il senso della dissezione della ragazza, la cui mano si muoveva sempre di meno. Poi, molto lentamente, si ritrasse dalla porta e, in silenzio, proprio com'era arrivato, si allontanò nel corridoio.
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5 «Ah!» esclamò con soddisfazione il Redentore Picarbo, Signore della Disciplina, quando trovò ciò che cercava: una sorta di lungo spiedino con pinze affilate all'estremità. «Che Dio sia lodato.» Lo provò. Zac zac! Compiaciuto, tornò dalla ragazza distesa sul tavolo e scrutò dentro la terribile ferita, peraltro realizzata con grande eleganza. Si chinò e, sollevando delicatamente la mano della ragazza, gliela posò lungo il fianco. Poi afferrò la pinza con la destra e si accinse a proseguire... ma proprio in quel momento la ragazza nell'angolo riprese a lamentarsi. Stavolta il Redentore fu più fermo, come se avesse esaurito la pazienza. «Ti ho detto di fare silenzio!» Sorrise. «Non ti preoccupare, verrò da te al momento opportuno.» D'un tratto, sentì qualcosa o forse agì guidato dall'istinto che derivava da una lunga esperienza. In ogni caso, si voltò e sollevò il braccio per parare il colpo che Cale stava per assestargli alla nuca. L'impatto del colpo sferrato appena sotto il polso - fu così forte da scaraventare dall'altra parte della stanza il mezzo mattone che il ragazzo brandiva e che si andò a frantumare contro un armadio, producendo un grande frastuono. Poi il Signore della Disciplina spinse verso sinistra Cale - che aveva perso l'equilibrio -, facendolo ruzzolare ai piedi del tavolo su cui era distesa la ragazza legata, che emise un altro urlo smorzato. Esterrefatto, Picarbo fissò Cale. L'aggressione da parte di un accolito era una cosa inaudita. Non era mai successa nell'arco di mille anni. I due si guardarono per un istante, in silenzio. «Sei impazzito?» sibilò poi il Redentore, furibondo. «Sarai impiccato per questo! Impiccato e squartato. Sarai strangolato e sventrato ancora vivo e le tue budella verranno bruciate sotto i tuoi occhi. E...» S'interruppe, ancora sopraffatto dallo stupore per essere stato aggredito. Poi si voltò di lato e raccolse un arnese che sembrava - e in effetti era - un coltello da macellaio. «Lo farò subito, maledetto.» Andò verso il ragazzo, che era ancora a terra, cereo per lo shock, e sollevò il coltello, piazzandosi sopra di lui a gambe divaricate. Con un gesto fulmineo, Cale afferrò l'arnese appuntito che gli era caduto accanto e lo infilzò nella coscia del Signore della Disciplina. L'uomo barcollò all'indietro, non tanto per il dolore quanto per lo sbigottimento. Paul Hoffman
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Mai e poi mai avrebbe pensato di trovarsi in una situazione del genere. «Mi hai colpito!» esclamò. Sorpresa, incredulità, meraviglia. «Mi hai colpito!» Fissò Cale. «Morirai lentamente, quanto è vero Iddio. Per...» S'interruppe di nuovo e sul suo volto si dipinse un'espressione confusa, come se qualcuno gli avesse posto una domanda difficile. Chinò il capo di lato, come se stesse cercando di sentire qualcosa, poi si sedette, lentamente, neanche fosse stato spinto da una mano gigantesca. Per qualche istante, continuò a fissare Cale, che stava scivolando all'indietro, cercando di allontanarsi da lui, quindi guardò le proprie gambe e la grossa macchia di sangue che si stava allargando nella parte inferiore della tonaca. All'improvviso, Cale non aveva più l'aria di un accolito spaventato o di un assassino furioso. Una strana calma era scesa su di lui e gli dava l'aspetto di un ragazzino curioso, intento a osservare qualcosa che, sì, era interessante ma non irresistibile. Nel frattempo, il Redentore Picarbo si sedette a terra, sollevò la tonaca, rivelando i mutandoni abbondantemente macchiati di rosso, poi ritrasse la mano, guardò Cale come per dire: Hai visto cos'hai fatto? e infine si strappò i mutandoni, così da esporre la ferita e il sangue, che zampillava pulsante dalla lacerazione. Dopo aver studiato la ferita, alquanto perplesso, fissò Cale con la stessa espressione e, indicando una pigna di strofinacci sul tavolo, accanto alla ragazza morta, disse: «Portami un asciugamano». Cale si alzò, ma non si mosse. Era come se soltanto una parte di ciò che lui vedeva fosse reale: Picarbo che cercava di arrestare l'emorragia con le dita e sospirava, irritato, neanche avesse scoperto una perdita piccola ma molto fastidiosa; la macchia di sangue che si allargava, implacabile, sul pavimento... Quella scena e le conseguenze che implicava erano impossibili da accettare. Una voce nel cervello di Cale mormorava che forse era possibile cancellare tutto, far tornare le cose com'erano meno di un minuto prima e che comunque, più a lungo avesse aspettato a cambiare la situazione, più gli sarebbe stato difficile farlo. Ma un'altra voce gli gridava che non c'era più niente da fare. Tutto era definitivamente cambiato e in un modo terribile. Gli sovvenne una frase che aveva sentito centinaia di volte, tratta dal Libro dei Proverbi dei Redentori e la sentì riecheggiare nella testa: Siamo come acqua versata al suolo, che non si può più raccogliere. Così, paralizzato, continuò a guardare Picarbo che si appoggiava su un Paul Hoffman
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gomito e poi si distendeva, come se fosse incredibilmente stanco. E continuò a guardarlo mentre gli si annebbiava la vista, mentre smetteva di respirare. Il Redentore Picarbo, il cinquantesimo Signore della Disciplina a portare quel nome, era morto.
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6 Kleist si svegliò con la sensazione che qualcuno lo stesse immobilizzando per poi soffocarlo. Il motivo era semplice: Cale gli teneva una mano sulla bocca e Henri il Vago gli premeva con forza le mani lungo i fianchi. «Ssstt! Siamo noi, Cale e Henri.» Cale aspettò che Kleist smettesse di dibattersi e poi gli tolse la mano dalla bocca. Henri allentò la presa. «Devi venire con noi, subito. Se resti qui sei morto. Vieni?» Kleist si mise a sedere e guardò Henri nella luce della luna. «È vero?» Henri annuì. Kleist sospirò e si alzò. «Dov'è Ragno?» chiese, cercando con lo sguardo il Redentore addetto al dormitorio. «È uscito a fumare. Dobbiamo andare.» Cale si voltò e gli altri lo seguirono. Si fermò e si chinò sul letto di un ragazzo che fingeva di dormire. «Savio, se dici qualcosa a Ragno ti sbudello. Hai capito, stronzetto?» Il ragazzo annuì senza aprire gli occhi e Cale proseguì. Usciti dalla porta che Ragno, con la sua consueta negligenza, non aveva chiuso a chiave, Cale li condusse all'ambone esterno e, rimanendo dal lato delle mura, proseguì verso la grande statua del Redentore Impiccato e verso l'entrata che avevano scoperto il giorno prima. «Che succede?» chiese Kleist. «Zitto!» sibilò Henri. Cale aprì la porta con una spinta e fece strada agli altri due. Poi accese una candela, molto più splendente di qualsiasi altra fonte di luce avessero mai visto. «Come hai fatto ad aprire la porta?» chiese Kleist. «Con un piede di porco.» «Dove hai trovato quella candela?» «Nello stesso posto in cui ho trovato il piede di porco.» Kleist si voltò verso Henri. «Tu sai cosa sta succedendo?» L'altro scosse la testa. Cale si spostò all'estremità sinistra della galleria e sollevò la candela. «Dio mio!» esclamò Kleist, quando vide la sagoma rannicchiata sul pavimento, in preda al terrore. Paul Hoffman
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«Non preoccuparti», disse Cale, chinandosi sulla ragazza. «Sono qui per aiutarci», aggiunse, non troppo convinto. «Dimmi cosa sta succedendo o la facciamo finita, qui e ora», minacciò Kleist. Cale lo guardò e sorrise cupamente. «Ascolta...» cominciò, spegnendo la candela. Venti minuti dopo aveva finito di raccontare la sua storia e la riaccese. I due ragazzi fissavano alternativamente lui e la ragazza, inorriditi da ciò che avevano sentito, ma anche affascinati da lei. Ci volle un po' perché Kleist tornasse in sé. «L'hai ucciso tu, Cale. Perché mettere in mezzo anche noi?» «Non essere stupido. Non appena si fossero accorti che sono stato io, avrebbero torturato Henri, perché sanno che siamo amici. Poi avrebbero collegato Henri a te. In questo modo hai una possibilità di vivere.» «Ma io non c'entro in questa storia.» «Che differenza credi che faccia? Negli ultimi giorni, ti hanno visto parlare con me almeno due volte. Ti uccideranno per mandare un segnale e per non correre rischi.» «Significa che hai un piano?» chiese Henri, che era spaventato, ma stava cercando di calmarsi. «Sì», rispose Cale. «Probabilmente fallirà, però...» Spense di nuovo la candela e spiegò la sua idea. «Hai ragione», disse Kleist, quando l'altro ebbe finito. «Probabilmente fallirà.» «Se hai qualcosa di meglio...» Cale riaccese la candela e la avvicinò alla ragazza, che aveva lo sguardo smarrito, tremava e si teneva le braccia strette attorno al petto. «Come ti chiami?» le chiese. All'inizio lei parve non averlo neppure sentito, poi lo guardò in faccia, ma rimase in silenzio. «Povera creatura», commentò Henri. «Perché ti dispiaci per lei? Che cosa rappresenta per te?» chiese Kleist in tono aspro, diviso tra la propria paura e la ragazza accovacciata. «Ti dovresti preoccupare per te stesso.» Cale si alzò, passò la candela a Henri e andò alla porta. «Adesso», disse. Henri spense la candela. Si sentì la porta che si apriva e si chiudeva. Henri, Kleist e la ragazza piombarono nell'oscurità.
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Mentre Cale attraversava il Santuario per la terza volta, lo shock degli eventi di quella sera cominciò a svanire. Naturalmente lui si muoveva con cautela, tenendosi nell'ombra, ma era più calmo. Stava iniziando a capire quanto fossero illusorie certe sensazioni che lui provava costantemente, per esempio l'angoscia di essere sempre sotto controllo e il timore che ci fosse comunque qualcuno pronto a notare e riferire ogni movimento. I Redentori supponevano - non a torto - che la loro abilità nel tenere d'occhio gli accoliti, unita alla ferocia delle punizioni a fronte di ogni disobbedienza, avrebbe mantenuto l'ordine. Davano quindi per scontato che di notte, mentre i ragazzi, esausti e impauriti, erano chiusi nei loro dormitori, loro potessero abbassare la guardia. Era la terza volta che Cale attraversava il Santuario nel giro di poche ore e aveva visto soltanto un Redentore in lontananza. Si sentì pervadere da una strana euforia. Quegli individui che lui odiava e che sembravano così invulnerabili e potenti in realtà non lo erano. Si era dimostrato più astuto di Bosco, aveva ucciso il Signore della Disciplina e se ne andava in giro con facilità per il Santuario. Nel profondo del suo cuore, tuttavia, qualcosa gli diceva di non diventare troppo arrogante. Fai attenzione, altrimenti finirai appeso per il collo. Eppure, per quanto ci riflettesse e per quanto la cosa avesse un che di temerario, aveva senso tornare nell'alloggio del Signore della Disciplina. Prima di uscire di lì con la ragazza aveva preso alcune cose, ma perché tutti e quattro avessero una possibilità di sopravvivere al di fuori del Santuario avrebbero avuto bisogno... in effetti non sapeva di che cosa avrebbero avuto bisogno, ma era probabile che nell'alloggio del morto si trovassero molte cose utili e sarebbe stato stupido non approfittarne. Con un po' di fortuna ci sarebbero volute altre quattro ore prima che qualcuno trovasse il Redentore. Dieci minuti dopo, era di nuovo accanto al cadavere di Picarbo. Lo guardò per un istante e poi si mise a cercare. Era una strana esperienza, perché lì c'erano tanti oggetti, mentre gli accoliti non potevano possedere nulla. In teoria, persino i Redentori dovevano possedere soltanto sette cose... perché non otto o sei non lo sapeva nessuno. Le stanze di Picarbo erano stracolme di roba. Cale ignorava a cosa servissero molti di quegli oggetti e gli sarebbe piaciuto starsene lì a maneggiarli, facendo ipotesi sul loro uso. Com'era particolare e gradevole al tatto il pennello da barba di setole di tasso! E che dire del meraviglioso profumo e della superficie Paul Hoffman
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viscida di una barretta di sapone? Ma ben presto la prospettiva della morte smorzò la sua curiosità e così si mise a scegliere le cose da infilare nello zaino che aveva trovato: alcuni coltelli, un telescopio - l'aveva visto in mano a Bosco una volta, sui bastioni, e ne era rimasto affascinato -, un affilatoio per gli strumenti medici di Picarbo, un sacco di tela, alcune erbe con cui aveva visto curare le ferite, aghi sottili, del filo, un gomitolo di spago. Rovistò negli armadi, ma quasi tutti contenevano innumerevoli vassoi sui quali erano disposte parti di corpi femminili. Naturalmente Cale non ne riconobbe quasi nessuna e richiuse le ante, disgustato e atterrito. Non che cercasse una giustificazione per aver ucciso Picarbo, avendolo visto picchiare per punizione molti bambini e addirittura ucciderne uno; tuttavia quei pezzi di carne essiccata rappresentavano per lui un vero orrore. Evitando di guardare la povera creatura sezionata sul tavolo, aprì una delle porte che si affacciavano sulla stanza e le sue narici vennero subito investite da una zaffata di prete raffermo. Era il nome che lui aveva dato al fetore che si sprigionava allorché due o più Redentori si trovavano in uno spazio ristretto. E la stanza sembrava completamente intrisa di quell'odore marcio, come se tutto ciò che i Redentori avevano dentro, il loro stesso spirito, fosse rancido, guasto. Richiuse l'uscio, sempre distogliendo lo sguardo dal cadavere della ragazza, ma qualcosa lo attrasse verso di lei. Per qualche istante, osservò l'attenta, meticolosa operazione compiuta su quella bella e giovane donna e avvertì un'insolita ondata di pietà all'idea che qualcosa di così tenero e fragile fosse stato rovinato in quel modo. Poi il suo sguardo si posò sul piatto di metallo lì accanto e lui scorse il piccolo oggetto che il Signore della Disciplina aveva estratto dalla pancia della ragazza. Non era un osso, né aveva un'aria raccapricciante. Sembrava un ciottolo lisciato da una lunga esposizione a una rapida corrente, lattiginoso e quasi trasparente, di un colore marrone dorato. Circospetto, Cale lo toccò con l'indice. Poi lo raccolse e lo guardò. Quindi lo annusò. L'odore era irresistibile, come se ogni cellula del suo cervello fosse pervasa da quello strano ma meraviglioso profumo. Il ragazzo rimase immobile per un momento, intontito e sul punto di svenire. Però doveva andare avanti. Trasse un respiro profondo e continuò a cercare, mise nello zaino ancora un po' di cose che riteneva utili e altre di cui gli piaceva l'aspetto, poi uscì dalla stanza, diretto al suo nascondiglio.
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7 Sebbene Cale stesse pianificando la sua fuga da quasi due anni, l'idea di provarci davvero non lo aveva mai attirato, dato che le probabilità di successo erano molto scarse. I Redentori smuovevano le montagne per riacciuffare i fuggiaschi, che per punizione venivano impiccati, sventrati e squartati. Per quanto ne sapesse Cale, nessuno era mai riuscito a sfuggire ai Cani del Paradiso. Era molto meglio avere pazienza: una volta compiuti i vent'anni, sarebbe stato inviato alla frontiera e lì avrebbe approfittato della prima occasione per sfuggire ai Redentori. In ogni caso, si complimentò con se stesso per essersi preparato. Mentre camminava di soppiatto lungo l'ambone esterno, cercò di non pensare a quanto fosse improbabile sopravvivere a una fuga. Tuttavia non poté trattenere un moto di rancore per quanto gli sarebbe costato quel suo gesto. Salvare la ragazza era stato un'azione sconsiderata. Cosa ne avrebbe ricavato? Una condanna a morte anche per sé e, cosa meno importante, per Henri il Vago e Kleist. Che stupido era stato! Trasse un respiro profondo e cercò di calmarsi. La sera precedente, quella ragazza gli era apparsa così felice e con un sorriso così... già, come? Era difficile descrivere ciò che lui aveva provato nell'osservare una persona davvero felice. Era proprio quello che l'aveva spinto a tornare indietro la prima volta, dopo che si era allontanato dall'alloggio del Signore della Disciplina: si era fermato nel corridoio buio, tremando per ciò che aveva visto nella stanza di Picarbo, per l'orrore generato dalla sua crudeltà disgustosa. Era andato su tutte le furie, come gli accadeva spesso, eppure, per la prima volta nella sua vita, aveva ceduto. E non era servito a nulla, pensò. Proprio a nulla. Nel frattempo era arrivato a una piccola nicchia a lato dell'ambone principale, che aveva un'apertura a un'estremità. Non era un'entrata, ma soltanto un punto in cui la sezione di una parete interna non combaciava coi bastioni esterni del Santuario. Ci s'infilò di traverso, inspirando e spingendo. Nel giro di pochi mesi, sarebbe stato troppo grosso per passare di lì. Allungò la mano, afferrò un appiglio che aveva scavato nella parete molto tempo prima e riuscì a scivolare dentro. Era troppo buio per vedere, ma lo spazio era minuscolo e il nascondiglio gli era familiare al tatto. Si accovacciò; estrasse un mattone libero e poi quello accanto, poi spostò i due mezzi mattoni che vi erano appoggiati. Quindi infilò la mano in quel Paul Hoffman
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vano e ne estrasse una lunga corda, intrecciata con grandissima cura, alla cui estremità era legato un gancio di ferro. Infine si rialzò e passò di nuovo nella fessura tra le pareti. Una volta tornato nella nicchia, rimase in ascolto per qualche istante. Nulla. Tese la mano verso l'alto e tastò la superficie grezza delle mura principali, incastrando il gancio in una piccola fenditura che aveva inciso mesi prima, subito dopo aver finito di fabbricare la corda, che non era fatta con la iuta o la sisalana, ma coi capelli degli accoliti e dei Redentori che lui stesso aveva raccolto, per quasi due anni, nei bagni, quando faceva le pulizie. Era un compito disgustoso, certo, e gli faceva venire più di un conato di vomito, ma lui aveva resistito, sapendo che gli avrebbe offerto una possibilità di sopravvivere. Tirò la corda per assicurarsi che fosse ben fissata. Poi, con una forza sorprendente per un quattordicenne, si issò, incastrato tra le due pareti della nicchia, con la schiena contro una parete e i piedi contro l'altra. Staccò il gancio, lo infilò in un'altra fenditura più in alto e ripeté l'intero processo diverse volte. Nel corso dell'ora successiva, spostandosi di non più di una iarda per volta e spesso ancora meno, riuscì ad arrampicarsi fino in cima ai bastioni del Santuario. Quando arrivò lassù, emise un esausto grugnito di piacere. Restò disteso per cinque minuti, le braccia come pesi morti, senza vita, a parte il dolore lancinante. Non osò aspettare più a lungo. Si sporse a prendere la corda e la raccolse, poi piazzò il gancio nella fenditura più grande che trovò. Quindi distese la corda dall'altra parte. Sperava di sentire un rumore non appena la corda avesse toccato terra; e infatti un rumore ci fu, però non era affatto chiaro. La corda era lunga una volta e mezzo l'altezza delle mura, almeno dal lato interno al Santuario ma, per quanto ne sapeva lui, era possibile che quella parte delle mura fosse stata costruita sul margine di un dirupo. Cale guardò nell'oscurità insondabile, fece un momento di pausa e poi si calò. Con la destra tese la corda, in modo che il gancio facesse presa nella fenditura. Con una mano sulla parete e con l'altra che teneva tesa la corda, si fermò, rendendosi conto di quanto fosse spaventosa la sua situazione. Ma era sempre meglio finire così che impiccato e fatto arrosto. Con quel pensiero consolante, staccò la mano dalla parete, lasciò che la corda sostenesse il suo peso e cominciò a scendere. Con le gambe incrociate sulla corda, Cale discese, una mano dopo l'altra. Quella era la parte facile: il suo peso lavorava per lui. Rifletté che la corda Paul Hoffman
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non era mai stata messa alla prova e avrebbe potuto spezzarsi o disfarsi, sfregando contro le pareti grezze. A quel pensiero sgradevole se ne aggiunse un altro: che la corda non fosse lunga abbastanza e che lui si ritrovasse a dondolare a trenta iarde o più da terra. E, anche se fossero state soltanto tre iarde, cadendo su rocce o sassi si sarebbe spezzato una gamba. Ma a che serviva preoccuparsi? Era troppo tardi ormai. In meno di cinque minuti, aveva raggiunto il nodo che indicava le ultime quindici iarde di corda. Poi dieci... E il grosso nodo alla fine. Non aveva scelta. Superò il nodo, e rimase appeso soltanto per una mano. Tre, due, uno. Si lasciò andare.
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8 A intervalli di pochi minuti, Kleist e Henri il Vago accendevano una delle candele che Cale aveva rubato al Signore della Disciplina e guardavano la ragazza. Avevano concordato che fosse meglio darle un'occhiata, ogni tanto. Dopotutto avevano nove candele, dunque potevano essere generosi. La fissavano perché avevano già visto parecchie persone assumere quello strano sguardo vacuo e poi ammutolire, proprio come stava facendo la ragazza. Soprattutto gli accoliti che avevano ricevuto più di cento colpi. Se rimanevano così per più di qualche giorno, venivano portati via e non tornavano più. Quelli che si riprendevano, spesso si mettevano a gridare nel mezzo della notte, a settimane o anche a mesi di distanza... nel caso di Morto, poi, era avvenuto addirittura dopo anni. Quindi svanivano anche loro. Sì, era quello il motivo per cui continuavano a tenere d'occhio la ragazza, si dicevano. Se avesse cominciato a gridare, forse qualcuno l'avrebbe sentita. Ogni volta che accendevano la candela, Henri le diceva: «Andrà tutto bene». Lei non reagiva se non con un leggero tremore. La terza volta, qualcosa emerse dal lontano passato di Henri, una parola confortante che lui aveva sentito una volta e credeva di aver dimenticato. «Animo! Animo!» esclamò. «Animo! Animo!» Ma c'era un altro motivo per cui continuavano ad accendere la candela: non riuscivano a fare a meno di guardare la ragazza. Entrambi erano entrati nel Santuario a sette anni, e la loro vita precedente sembrava ormai lontana come la luna. I genitori di Henri erano morti poco dopo la sua nascita. I genitori di Kleist lo avevano venduto ai Redentori per cinque dollari e comunque, prima, erano stati quasi altrettanto brutali nei suoi confronti. Entrambi non vedevano una ragazza o una donna da quando avevano varcato i cancelli del Santuario e i Redentori avevano ripetuto sino allo sfinimento che le femmine erano il terreno ideale per il diavolo e che, se per caso ne avessero visto una, uscendo dal Santuario per andare alla frontiera o agli Eastern Breaks, avrebbero dovuto abbassare subito lo sguardo. «Il corpo di una donna è di per sé un peccato che grida vendetta Paul Hoffman
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al cielo!» tuonavano. L'unica eccezione - o quasi - era rappresentata dalla madre del Redentore Impiccato; unica tra le sue simili, lei era pura, e doveva essere guardata senza disgusto e senza allarme. Era la fonte della compassione, del perpetuo soccorso e della consolazione, sebbene i ragazzi non avessero idea di cosa comportassero tali virtù, giacché non avevano mai fatto esperienza di nessuna di esse. E i Redentori erano altrettanto vaghi nello spiegare perché «le femmine erano il terreno ideale per il diavolo». Di conseguenza, Kleist e Henri guardavano la ragazza spinti da un'intensa curiosità, mista a paura e a non poca soggezione. Chiunque inducesse i Redentori a una simile ebbrezza di odio e disprezzo doveva essere davvero molto potente, quindi degno di essere temuto al di sopra di ogni cosa. In quel momento, la candela illuminava una ragazza tremante, atterrita e nient'affatto orribile. Anzi era affascinante. Anzitutto aveva una forma davvero straordinaria. Indossava una veste di lino finissimo - più bella di qualsiasi cosa i ragazzi avessero mai indossato -, legata attorno alla vita con uno spago. Kleist fece cenno a Henri di spostarsi e chinò il capo per sussurrargli all'orecchio: «Che cosa sono quelle gobbe che ha sul petto?» L'altro, con tutto il rispetto possibile, e dato che non aveva idea di come comportarsi con una donna, spostò la candela verso i seni della ragazza e li esaminò attentamente. «Non lo so», sussurrò infine. «Deve essere grassa», sussurrò Kleist. «Come quel sacco di merda del Signore delle Vettovaglie.» Naturalmente non c'erano ragazzi grassi al Santuario. C'era a malapena un'oncia di differenza tra tutti e diecimila. Henri rifletté. «Il grasso del Signore delle Vettovaglie è tondo e cascante», mormorò. «Il suo va su e giù.» «Fatti avanti, allora», lo esortò Kleist. «No, penso che dobbiamo lasciarla in pace... Credo», replicò l'altro. E aggiunse: «Deve averla pestata». Kleist guardò la ragazza e fece un gran sospiro. «Non mi dà l'idea di poter sopportare le botte, almeno non quelle che dà Picarbo.» «Che dava», lo corresse Henri. Entrambi grugnirono, con uno strano moto di soddisfazione, dato che la morte di Picarbo li aveva messi in grave pericolo. «Mi chiedo perché l'abbia picchiata», riprese Kleist. «Probabilmente perché è il terreno ideale per il diavolo», rispose Henri. Kleist annuì. Sembrava plausibile. Paul Hoffman
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«Come ti chiami?» chiese Henri. Glielo aveva già domandato altre volte. Neanche stavolta la ragazza rispose. «Mi chiedo quanto ci metterà Cale», sospirò allora lui. «Pensi che abbia davvero un piano?» «Sì», replicò Henri, deciso. «Quando dice una cosa, fa sul serio.» «Be', sono contento che tu ne sia certo. Vorrei esserlo anch'io.» La ragazza disse qualcosa, ma a voce così bassa che non riuscirono a sentirla. «Che cos'hai detto?» chiese Henri. «Riba.» La ragazza trasse un respiro profondo. «Mi chiamo Riba.»
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9 Mentre Cale scendeva in quell'abisso oscuro, si rese conto che i suoi due peggiori timori si erano avverati. Anzitutto, quando i suoi piedi avevano raggiunto il grosso nodo all'estremità della corda, lui era ancora sospeso in aria, senza avere la minima idea di quanto fosse lontano il suolo. In secondo luogo, il gancio infilato nella fenditura in cima al muro era sottoposto a uno sforzo eccessivo: persino a quella distanza, lui sentiva che cominciava a cedere. Cadrai comunque, si disse. Così, spingendo con entrambi i piedi contro la parete, sollevò le braccia per proteggersi il capo e si lasciò cadere. Sempre che un salto di mezza iarda si possa definire una caduta. Estasiato, Cale si alzò e sollevò le braccia al cielo, in segno di trionfo. Poi estrasse una delle candele che aveva rubato al Signore della Disciplina e cercò di accenderla con una pietra focaia e del muschio secco. Dopo un po', riuscì a ottenere una fiamma e accese la candela ma, quando la sollevò nell'oscurità, la luce era troppo fioca. E il vento la spense subito. Il buio era assoluto e la luna era coperta da una spessa coltre di nuvole. Se avesse provato a camminare, sarebbe caduto e, nella sua fuga dalla morte, anche un piccolo infortunio lo avrebbe rallentato troppo. Era meglio aspettare almeno un paio d'ore, fino all'alba. Presa quella decisione, si avvolse nella casacca, si distese e si addormentò. Circa due ore dopo si svegliò e, nella fioca luce di un'alba grigia, si guardò attorno. Fissò la corda appesa alle mura, che rivelava il luogo da cui lui aveva iniziato la sua fuga: sembrava un enorme indice puntato o una gigantesca coda di cavallo. Ma non poteva farci nulla, come non poteva far nulla per lenire il rimpianto della perdita di qualcosa che aveva richiesto tanti mesi e parecchie sofferenze per essere fabbricata. Si voltò e si avviò lungo il pendio roccioso della Collina del Santuario, pensando con sollievo che sarebbe passata almeno un'altra ora prima che venisse scoperto il cadavere del Signore della Disciplina. E, con un po' di fortuna, ci sarebbero volute almeno due ore prima che i Redentori s'imbattessero nella corda. Non ebbe fortuna in nessuno dei due casi. Il corpo del Redentore Picarbo era stato scoperto un'ora prima dell'alba dal suo servo, le cui grida Paul Hoffman
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isteriche avevano risvegliato e messo in fermento l'intero Santuario nel giro di pochi minuti. Subito venne data la sveglia in tutti i dormitori, fu fatto l'appello e apparve chiaro che mancavano tre degli accoliti. L'esploratore Brunt, stalliere dei cani e Redentore incaricato di catturare i pochissimi accoliti abbastanza stupidi da fuggire, venne immediatamente mandato dal Redentore Bosco e, per la prima volta nella sua vita, fu ammesso all'istante nel suo alloggio. «Li voglio tutti e tre vivi. Farai ogni cosa in tuo potere per catturarli senza ucciderli.» «Certo, Signore, faccio sempre...» «Risparmiami le tue promesse. Non ti sto chiedendo di stare attento, te lo sto ordinando. Nessuno farà del male a Thomas Cale, in nessuna circostanza, anche a costo della vita. Se Kleist e Henri venissero uccisi, che sia pure, benché preferirei avere anche loro vivi.» «Posso chiedere perché la vita di Cale è così preziosa; Signore?» «No.» «Che cosa dirò agli altri? Non capiranno... e sono in preda a una rabbia furibonda.» Bosco si rese conto di cosa gli stava suggerendo Brunt. Di fronte a un accolito colpevole di un'azione così impensabile e terrificante, il sacro furore rischiava di sopraffare anche il Redentore più pacato. Sospirò per l'irritazione. «Di' loro che Cale lavora per me ed è stato costretto a seguire questi assassini, nel tentativo di smascherare una terribile congiura degli Antagonisti che mirano a uccidere il Supremo Pontefice.» Si trattava di una spiegazione poco plausibile - Bosco lo sapeva -, ma fu sufficiente per Brunt, che subito impallidì, angosciato. Era un uomo di una brutalità estrema, anche rispetto alla media degli stallieri dei cani, però era altresì estremamente protettivo nei confronti del Pontefice, come un bambino nei confronti della propria madre. La corda di capelli di Cale venne scoperta in fretta. I Cani del Paradiso la annusarono, i grandi cancelli vennero aperti e una squadra di cacciatori si mise all'inseguimento. Cale aveva meno di cinque miglia di vantaggio, ma il suo piano aveva avuto successo nell'aspetto più importante: nessuno pensò che soltanto uno degli accoliti fosse fuggito, dunque non ci furono ricerche all'interno del Santuario. Per il momento, Henri, Kleist e la ragazza erano al sicuro. Sempre che Cale mantenesse la sua promessa, naturalmente. Paul Hoffman
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Quando sentì i cani, Cale aveva percorso altre quattro miglia. Si fermò e si mise in ascolto ma, sulle prime, avvertì soltanto il vento gelido che sibilava tra le pietre e la sabbia. Poi, però, si rese conto che il pericolo, sebbene ancora lontano, si stava avvicinando a grandi passi. I cani emettevano uno strano suono stridulo, non il normale guaito di una muta di segugi, ma una specie di costante grido di rabbia, che somigliava al lamento di un maiale cui venisse tagliata la gola con una sega arrugginita. In effetti, quei cani erano pesanti come maiali, avevano un'indole peggiore di un cinghiale e una serie di zanne tali da dare l'impressione che qualcuno avesse rovesciato loro in bocca un sacchetto di chiodi arrugginiti. Affannosamente, Cale cercò qualcosa che gli indicasse la vicinanza dell'oasi di Voynich, ma nulla attorno a lui spezzava la monotona distesa di collinette aride e malate delle Scablands. Ricominciò a correre, più veloce di prima. Era chiaro che aveva ancora molta strada da fare e, coi segugi così vicini, sarebbe stato fortunato a sopravvivere al mezzogiorno. Se fosse stato troppo lento, i cani l'avrebbero preso; se avesse corso troppo velocemente, avrebbe ceduto alla stanchezza. Cancellò tutti quei pensieri e ascoltò soltanto il ritmo del proprio respiro. «Da quanto tempo sei qui, Riba?» Per un istante, parve che la ragazza non avesse sentito Henri, poi lo guardò come se cercasse di metterlo a fuoco e disse: «Da cinque anni». I ragazzi si guardarono, esterrefatti. «Ma perché sei qui?» chiese Kleist. «Siamo venute qui per imparare a essere spose», rispose lei. «Ma ci hanno mentito. Quell'uomo ha ucciso Lena e avrebbe ucciso anche me. Perché? Perché qualcuno fa una cosa del genere?» mormorò, in preda allo sconcerto. «Non lo sappiamo», rispose Kleist. «Non sappiamo niente di voi. Non avevamo idea che esisteste.» «Comincia dall'inizio», la esortò Henri. «Raccontaci come sei arrivata qui. Da dove vieni?» «Fai con calma. Abbiamo un sacco di tempo», disse Kleist. «Quell'altro ragazzo tornerà a prenderci, vero?» «Si chiama Cale.» «Tornerà a prenderci?» «Sì, ma forse sarà una lunga attesa», disse Henri. Paul Hoffman
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«Non voglio aspettare qui», replicò lei, furiosa. «Fa freddo, è buio e orribile. Non ci voglio stare!» «Abbassa la voce.» «Fatemi uscire subito, altrimenti mi metto a gridare!» Il problema non era che Kleist non avesse idea di come trattare una donna, ma piuttosto che non avesse idea di come trattare chiunque si comportasse in modo così emotivo. Esprimere una rabbia incontrollata, di solito, aveva come conseguenza un viaggio a Ginky's Field e una fossa profonda una iarda. Alzò un braccio per farla tacere, ma Henri lo trattenne. «Devi tenere la voce bassa», disse a Riba. «Cale tornerà e ti porteremo in un luogo sicuro. Ma, se ci sentono, siamo morti. Capito?» Lei lo fissò per un istante, come se fosse la follia pura a sussurrarle nell'orecchio. Poi annuì. «Raccontaci da dove vieni e tutto quello che sai sul motivo per cui sei qui.» Nella sua agitazione, Riba si era alzata in piedi. Era una ragazza alta e formosa. Si sedette di nuovo e trasse un respiro profondo per calmarsi. «Madre Teresa mi ha comprato al mercato dei servi di Memphis quando avevo dieci anni. Ha comprato anche Lena.» «Sei una schiava?» chiese Kleist. «No!» esclamò lei, piena di vergogna e d'indignazione. «Madre Teresa ci ha detto che eravamo libere e che potevamo andarcene quando volevamo.» Kleist rise. «E allora perché non ve ne siete andate?» «Perché era gentile con noi, ci faceva regali e ci viziava come gattine siamesi, dandoci da mangiare fantastiche ghiottonerie e molte altre cose. Ci ha insegnato come essere spose e ci ha detto che, una volta pronte, avremmo avuto un ricco cavaliere con l'armatura scintillante, che ci avrebbe amato e si sarebbe preso cura di noi per sempre.» S'interruppe, quasi senza fiato, come se ciò che diceva stesse effettivamente succedendo e gli orrori dell'ultima giornata fossero soltanto un sogno. Per i ragazzi non faceva differenza, perché ben poco di ciò che Riba aveva detto aveva senso per loro. Henri si rivolse a Kleist. «Non capisco. È contro la Fede possedere schiavi.» «Niente di tutto questo ha senso. Perché i Redentori comprerebbero una ragazza e farebbero tutte queste cose per lei, soltanto per macellarla Paul Hoffman
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come...» «Zitto!» Henri guardò Riba, ma lei sembrava persa nel suo mondo. Kleist sospirò, irritato, e allora Henri lo prese in disparte e mormorò: «Come ti sentiresti se fossi stato costretto a guardare mentre facevano una cosa del genere a qualcuno con cui hai passato cinque anni?» «Ringrazierei la mia buona stella che un idiota come Cale fosse venuto a salvarmi. Devi preoccuparti più di noi e meno della ragazza. Cosa rappresenta lei per noi e noi cosa rappresentiamo per lei? Dio sa quante ne prendiamo in ogni caso, non c'è bisogno di andarsi a ficcare in altri guai.» «Quel che è fatto è fatto.» «Ma niente è fatto. O no?» Era vero. Henri restò in silenzio per qualche istante, poi sussurrò: «Ma perché i Redentori porterebbero al Santuario creature che sono il terreno ideale per il diavolo, dando loro da mangiare, prendendosi cura di loro, dicendo loro una serie di menzogne, per poi tagliarle a pezzi mentre sono ancora vive?» «Perché sono dei bastardi!» sbottò Kleist. Però, dato che non era stupido, trovava interessante la domanda. «Perché hanno aumentato il numero degli accoliti di cinque o forse anche di dieci volte, eh?» Imprecò e si sedette. «Dimmi una cosa, Henri.» «Che cosa?» «Se conoscessimo la risposta, ti sentiresti meglio o peggio?» E, da quel momento in poi, tacque. Cale stava urinando oltre il margine di una collinetta franata per metà, sperando che l'odore distraesse i cani - le cui urla erano ormai vicine e continue - almeno per qualche minuto. Aveva il respiro affannoso e le gambe cominciavano a farsi pesanti. Secondo i calcoli elaborati in base alla mappa trovata nello studio del Redentore Bosco, sarebbe già dovuto essere all'oasi. Invece non c'era nulla, se non collinette e rocce e sabbia a perdita d'occhio. A quel punto, rammentò ciò che aveva pensato nell'istante in cui aveva visto la mappa: che quella non fosse altro che una trappola preparata per lui dal Signore Militante. Ormai non aveva più senso calibrare l'andatura. I cani l'avrebbero raggiunto nel giro di pochi minuti. I guaiti non erano cessati neppure per un attimo, il che significava che gli animali avevano ignorato l'odore della sua urina. Riprese a correre più veloce che poteva ma, dopo quattro ore, Paul Hoffman
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era davvero troppo stanco. La sua corsa perse slancio: Cale non aveva più speranze di distanziare la muta. A ogni respiro, gli sembrava di sentirsi raschiare i polmoni. Inciampò diverse volte. Poi cadde. Si rialzò subito, ma la caduta lo aveva indotto a guardarsi attorno. C'erano ancora le stesse colline e le medesime rocce, ma tra la sabbia crescevano anche erbacce striminzite e ciuffi d'erba. Dove c'era erba, c'era acqua. D'un tratto, i cani presero a ululare più forte, come se fossero stati colpiti con una frusta chiodata. Cale continuò a correre in cerca dell'oasi, sperando di avere preso la direzione giusta e di non finire sbranato in quel deserto. Ma l'erba s'infoltì e, quando lui oltrepassò una cresta con un balzo, rischiando di cadere, si trovò davanti l'oasi di Voynich. I cani guaivano sempre di più, perché sentivano che la caccia era quasi conclusa. Ignorando il dolore lancinante alle gambe, Cale si slanciò in avanti. Sapeva che non avrebbe dovuto voltarsi indietro, ma non poté resistere. Come pezzi di carbone rovesciati da un sacco, i segugi si stavano riversando lungo il crinale, guaendo, ululando e gridando per il desiderio di farlo a pezzi, intralciandosi a vicenda, ringhiando e mordendo. Lui proseguì, incespicando, mentre i cani avanzavano a grandi balzi, coi denti snudati. Poi Cale raggiunse i primi alberi dell'oasi. Uno dei cani, più veloce e cattivo degli altri, gli fu addosso e, con una zampata sul tallone, gli fece perdere l'equilibrio, mandandolo a gambe all'aria. Poteva essere la fine, ma il cane era stato troppo ansioso di aggredire la preda; non essendo abituato al terreno più umido e irregolare dell'oasi, l'animale perse a sua volta l'equilibrio e finì per ribaltarsi, schiantandosi infine contro un albero. Allora, ululando di rabbia, prese a raspare affannosamente per rimettersi in piedi, ma quei disperati tentativi non fecero che peggiorare la situazione. Cale corse al centro dell'oasi, verso il lago, e guadagnò una ventina di iarde di vantaggio. Ma il cane riuscì a rialzarsi e gli fu subito addosso, anche perché era almeno quattro volte più veloce del ragazzo, ormai stremato. Con un ululato, la bestia fece per spiccare un balzo, ma Cale la precedette e, con un lungo salto, cadde nel lago. Fermandosi a un passo dall'acqua, il cane lanciò un ennesimo ululato di rabbia. Un altro cane lo raggiunse e poi un altro ancora. Tutti abbaiavano, con un fracasso da fine del mondo, un concentrato di odio, furia e fame. Ci vollero cinque minuti prima che l'esploratore e i suoi uomini arrivassero in groppa ai loro pony, trovando i cani sulle rive del lago. Paul Hoffman
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Abbaiavano ancora, ma ormai non si vedeva più nulla. Brunt restò immobile sulla sponda per qualche istante, osservando pensieroso l'acqua. Il suo volto, di certo non bello in condizioni normali, era reso quasi spaventoso dall'ombra di frustrazione che vi era dipinta. «Siete sicuro che siano loro, Redentore?» chiese uno degli uomini. Poi guardò i cani e aggiunse: «Non sarebbe la prima volta che queste bestie inseguono un cervo o un cinghiale». «Zitto», mormorò Brunt. «Potrebbero essere ancora qui. Senza dubbio sono buoni nuotatori. Disponi le guardie e i cani migliori lungo il perimetro del lago. Se sono qui, li catturerò. Ma nessuno deve fare del male a Cale, per Dio.» Brunt non aveva rivelato ai suoi uomini la spiegazione di Bosco riguardo alla congiura contro il Pontefice. E, in merito alla furia dei suoi uomini, non era stato completamente sincero col Redentore: erano arrabbiati, sì, ma avrebbero comunque obbedito agli ordini. Essere l'unico Redentore ordinario a conoscenza della terribile minaccia che incombeva sul Pontefice lo induceva a provare un amore ancora più profondo per Sua Santità, un amore che non doveva essere sciupato condividendolo con altri. Fece un cenno del capo e, in un istante, gli uomini cominciarono a muoversi. Nell'arco di un'ora, l'oasi era blindata come una cassaforte. Nel corridoio segreto del Santuario, Riba si era addormentata. Kleist era andato a caccia di ratti e Henri il Vago stava guardando la ragazza, affascinato da quelle strane curve che suscitavano in lui nuovi e sconcertanti impulsi, insieme con quelli soliti della paura e della fame. Aveva motivo di essere spaventato. Non importava quanto tempo fosse stato necessario: i Redentori non smettevano mai di cercare i fuggiaschi. Una volta catturati, loro tre sarebbero stati sottoposti a una punizione esemplare, tale da far raggelare il sangue nelle vene di ogni accolito per mille anni, da far rizzare loro i capelli come gli aculei di un istrice innervosito. La crudeltà e l'agonia della loro punizione e conseguente morte sarebbero diventate leggendarie. Per quanto si tenesse occupato dando la caccia ai ratti, anche Kleist aveva paura. E un altro sentimento che i due condividevano era il crescente sospetto che Cale fosse già a metà strada per Memphis e che non sarebbe mai più tornato. Per Kleist era quasi una certezza; e persino il fedele Henri non era più sicuro di ciò che avrebbe fatto Cale. Aveva Paul Hoffman
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sempre voluto essere suo amico, anche se non sapeva esattamente perché. Il timore dell'anatema dei Redentori nei confronti dell'amicizia suscitava infatti una spiccata diffidenza tra gli accoliti, anche perché i Redentori addestravano alcuni ragazzi - quelli dotati di un certo fascino e di una sottile doppiezza - a diventare ancora più affascinanti e infidi. Noti come «polli», quei ragazzi tentavano i loro ignari compagni, inducendoli a scambiarsi confidenze, a parlare, a giocare e a manifestare vari segni di amicizia. Coloro che cadevano nella trappola venivano portati davanti ai loro compagni di dormitorio, ricevevano trenta colpi con un guanto borchiato e venivano lasciati lì a sanguinare per ventiquattr'ore. Nemmeno quelle terribili conseguenze, tuttavia, impedivano ad alcuni accoliti di diventare grandi amici e alleati nella battaglia per sopravvivere e non essere travolti dallo slancio devoto dei Redentori. Con Cale, però, Henri non era mai stato sicuro che la loro fosse una vera amicizia. Henri si era dato parecchio da fare per suscitare l'interesse dell'altro, comportandosi in maniera insolente con vari Redentori davanti a lui, sperando di far colpo grazie alla propria arguzia e temerarietà. Per mesi, tuttavia, non aveva avuto nessuna indicazione che Cale si stesse rendendo conto di ciò che stava facendo e aveva pensato che non gliene importasse nulla. L'espressione di Cale era sempre la stessa: un freddo, silenzioso controllo. Non esprimeva mai emozioni, in nessuna circostanza. Sembrava che le sue vittorie nell'addestramento non gli procurassero piacere e che le dure punizioni che Bosco gli riservava non gli procurassero dolore. Non era temuto dagli altri accoliti, però non era neppure amato. Non si ribellava, tuttavia non era nemmeno un fedele seguace. Nessuno capiva da che parte stava, quindi tutti lo lasciavano in pace. E Cale, in apparenza, preferiva così. «A cosa stai pensando?» chiese Kleist, di ritorno dalla caccia, con le prede senza coda che gli dondolavano da uno spago in vita. Cinque. Slegò un nodo scorsoio, lasciando cadere gli animali su una pietra, e si mise a scuoiarli. «Meglio prepararli prima che lei si svegli», spiegò, sorridendo. «Non penso che li apprezzerebbe cotti con la pelle e tutto il resto.» «Perché non la lasci in pace?» «Lo sai che ci farà ammazzare, vero? Non che abbiamo molte possibilità, comunque. Il tuo amico ha dodici ore per tornare, altrimenti...» «Altrimenti cosa?» lo interruppe l'altro. «Se hai un piano, tiralo fuori. Sono tutt'orecchi.» Paul Hoffman
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Mentre sventrava i ratti, Kleist tirò su col naso. «Se non fosse che non vedo l'ora di mangiarmi il mio bottino, avrei un pessimo presentimento. Riguardo alle nostre possibilità, voglio dire. Alle nostre possibilità di rivedere Cale, cioè.» Dopo essere emerso da uno dei canneti ai margini del lago, Cale si era addentrato per circa mezzo miglio negli scavi. Da quindici anni a quella parte, i Redentori portavano via dall'oasi tonnellate della terra grassa che si formava sotto le chiome degli alberi. Era una terra miracolosa, capace di arricchire persino il terreno sterile degli orti del Santuario. Era talmente fertile che il suo uso aveva consentito al Santuario di decuplicare il numero di accoliti che vi venivano addestrati. Ma Cale aveva scoperto che il terriccio dell'oasi aveva un'altra proprietà. Un giorno, mentre lavorava negli orti ed era guardato a vista dai cani che venivano sguinzagliati contro ogni accolito sorpreso a rubare, Cale aveva fatto una pausa, tirando fuori un pezzo di «piedi di uomini morti» che aveva trovato sul pavimento del refettorio. Non appena lo aveva annusato, però, si era reso conto che non era caduto per caso, ma era stato gettato via da qualcuno perché assolutamente immangiabile. Poi aveva notato che uno dei cani stava dormendo lì vicino e il suo padrone stava guardando da un'altra parte. Allora aveva gettato il rimasuglio al cane, non per gentilezza, ma sperando che quella immonda creatura - che, come tutti i segugi, avrebbe mangiato qualsiasi cosa - lo trangugiasse e si sentisse male. Se lo meritava. Il pezzo di «piedi di uomini morti» era atterrato proprio accanto alla testa del cane, su un piccolo cumulo di terriccio dell'oasi. A quel rumore, l'animale si era destato ma, benché avesse del cibo sotto il naso - un naso che avrebbe sentito l'odore del piscio di un moscerino a un miglio di distanza -, non lo aveva degnato di uno sguardo. Invece aveva fissato Cale, aveva sbadigliato, si era grattato, poi si era accucciato ed era tornato a dormire. Più tardi, quando la guardia e il cane se n'erano andati, Cale aveva raccolto il pezzo di cibo e lo aveva annusato. Puzzava da morire. Perplesso, aveva raccolto una manciata di terriccio e l'aveva spalmato attorno al boccone. Poi lo aveva annusato ancora e non aveva sentito altro che un intenso odore di torba. Il terriccio non aveva soltanto mascherato l'odore del grasso marcio, l'aveva anche fatto svanire. Nei giorni successivi, via via che il boccone diventava sempre più fetido, Cale aveva fatto diversi esperimenti coi cani, ma quelli non ne Paul Hoffman
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avevano sentito l'odore nemmeno una volta. Alla fine, dopo averlo ripulito dal terriccio, lo aveva gettato sul sentiero selciato e, nel giro di un paio di minuti, un cane, attratto dall'odore, lo aveva ingoiato. Con sua grande soddisfazione, dieci minuti dopo Cale aveva visto l'animale rigurgitare le sue prodigiose budella in un angolo. Più che difficile, era stato pericoloso cercare informazioni sulla natura di quel terriccio nell'archivio della biblioteca. Ma Cale ci andava spesso a prendere mappe e cartelle per il Signore Militante; così aveva semplicemente dovuto attendere, con pazienza, l'opportunità d'impadronirsi della cartella giusta e, con pazienza ancora maggiore, l'opportunità di rimetterla al suo posto. Era improbabile essere colti sul fatto nel compiere quell'operazione ma, qualora i Redentori avessero capito che il suo interesse per l'oasi era ispirato da un piano di fuga, e non dall'entusiasmo per il giardinaggio e i concimi, le conseguenze sarebbero state terribili, forse fatali. Una volta riemerso dal lago, inzuppato fino all'osso, Cale si era avventurato tra gli alberi, con l'orecchio teso ai latrati dei cani. In quel momento, non potevano vederlo né annusarlo, ma lui sapeva non sarebbe durata. Si era quindi ritrovato quasi subito nella zona degli scavi, che appariva come una serie di lunghi campi pieni di buche. Il terriccio era infatti così morbido che risultava impossibile scavare vere e proprie trincee; c'era il rischio che le pareti crollassero, seppellendo gli uomini e facendoli morire per asfissia. Almeno una dozzina di Redentori era comunque morta così, come risultava dai verbali conservati negli archivi, e per Cale quella scoperta era stata motivo di grande gioia. Tuttavia, mentre cercava un posto in cui scavare per nascondersi alla vista e all'olfatto dei cani, la sua gioia era cancellata dalla consapevolezza che lui stava rischiando di fare la loro stessa fine. Scelse una leggera depressione alla base di una collinetta, scavò con le mani una fossa di una profondità commisurata al suo coraggio, raccolse un po' di terriccio smosso dalla zona circostante, in modo che i suoi inseguitori non notassero le tracce di uno scavo recente, e si distese nella buca, raccogliendo poi il terriccio all'intorno e tirandolo infine verso di sé, sempre con molta cautela. Non ci mise molto e si sentiva assai vulnerabile, essendo così vicino alla superficie, ma non osava scavare ancora, temendo un crollo. Cercò di ricordare a se stesso che aveva soltanto bisogno di non essere visto o annusato. La fiducia dei Redentori nei loro animali era la Paul Hoffman
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loro debolezza. Se i cani non sentivano l'odore di qualcosa, per i Redentori significava che quella cosa non esisteva. Non si sarebbero dati pena di condurre nemmeno una semplice ricerca. Non potendo far altro, Cale cercò di rilassarsi e di dormire. Aveva bisogno di riposo. In ogni caso, il suo non sarebbe stato un sonno profondo. Aveva imparato da tempo a svegliarsi in un istante. Infatti si addormentò e si ridestò subito quando sentì i cani latrare e i Redentori gridare. Poi i latrati lasciarono il posto ai guaiti sommessi: i cani stavano sniffando il terreno, concentrandosi su una ricerca più lenta e accurata, piuttosto che sull'inseguimento. I suoni si avvicinavano sempre di più... finché una delle bestie non arrivò a pochi passi da lui. Ma si allontanò quasi subito. Con gioia, Cale comprese che il terriccio aveva fatto il suo lavoro, mascherando gli odori. Ben presto i suoni si diradarono e lui si rilassò un poco. Tuttavia doveva rimanere immobile ancora per diverse ore. In breve, si addormentò. Al risveglio, era tutto indolenzito a causa della corsa sfrenata; inoltre il ginocchio sinistro, che non si era mai completamente ripreso da un vecchio infortunio, pulsava dolorosamente. In più, aveva un gran freddo. Spinse il braccio destro fuori dallo strato di terriccio e ne sgombrò una quantità sufficiente per capire che era notte. Aspettò ancora. Due ore dopo, sentì gli uccelli cantare e ben presto il cielo si rischiarò. Cale riemerse lentamente, pronto a scomparire di nuovo nella sua buca al primo segnale della presenza dei Redentori. Ma, attorno a lui, c'erano soltanto i cinguettii degli uccelli sugli alberi e il fruscio delle piccole creature del sottobosco. Allora estrasse il sacco di tela che aveva preso dalla stanza del Signore della Disciplina e cominciò a riempirlo di terriccio, comprimendolo per raccoglierne il più possibile. Poi se lo mise in spalla e partì in cerca dei Redentori e dei loro cani. Li trovò circa tre ore dopo. Non era stato difficile, dato che si trattava di un gruppo di venti Redentori e quaranta cani. Gli uomini, poi, non avevano motivo di coprire le proprie tracce: nel raggio di duecento miglia, nessuno si sarebbe spontaneamente avvicinato a uno di loro e ancor meno a un'intera squadra con tanto di cani. Erano i Redentori a cercare gli altri, e mai viceversa. Cale si chiese se fosse il caso di dimenticare i tre che lo aspettavano al Santuario e di scappare a Memphis, finché era in tempo. Non doveva nulla Paul Hoffman
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a Kleist, poco a Henri il Vago e aveva già salvato la vita alla ragazza una volta. Come una piovra che cambiava colore quand'era minacciata, con sfumature di rosso e di giallo che vibravano sotto la pelle a mo' di onde, gli impulsi contrastanti di Cale ondeggiavano dentro di lui, avanti e indietro, torbidi e cristallini e ambigui. I motivi per darsi alla macchia erano ovvi; i motivi per tornare erano confusi e oscuri... ma era la risacca di questi ultimi che lo trascinava, con grande riluttanza e parecchie imprecazioni, ad andare verso i segugi e i Redentori che lo stavano cercando. Benché fosse ricoperto di terriccio, Cale rimase sottovento, mantenendo almeno mezzo miglio tra sé e i cani. Due ore dopo, come lui aveva sperato, il gruppo interruppe le ricerche e fece marcia indietro verso il Santuario. Cale sapeva che i Redentori non avevano gettato la spugna: quella era soltanto la prima ricerca, un tentativo per riacchiappare velocemente i fuggiaschi. Di solito funzionava; tuttavia, se nelle prime trenta ore se ne perdevano le tracce, i primi inseguitori tornavano alla base e venivano rimpiazzati da diverse squadre secondarie - fino a cinque in tutto - ben equipaggiate e autosufficienti, pronte a continuare la caccia anche per anni, se necessario. Ma non era mai accaduto. Il tempo più lungo di latitanza di un fuggiasco era stato di due mesi. E, quando il ragazzo era stato catturato, la sua punizione era stata così atroce da andare al di là di ogni possibile descrizione. Continuando a restare sottovento e ben discosto, Cale seguì i Redentori come un'ombra per le dodici ore successive, avvicinandosi sempre di più, aspettando un segno che i cani avessero percepito il suo odore. Li seguì fino al Santuario e, a quel punto, non dovette fare altro che accodarsi al gruppo, ormai esausto e, col volto coperto dal cappuccio, seguire gli altri mentre attraversavano i grandi cancelli. Non ci fu nessun controllo. D'altra parte quale folle, uomo o ragazzo, avrebbe mai tentato d'intrufolarsi nel Santuario? Dopo una giornata di attesa nel corridoio segreto, i tre erano seduti nell'oscurità, ciascuno coi propri pensieri, tutti simili, tutti cupi. Quando sentirono bussare leggermente alla porta, la raggiunsero, animati da una disperata speranza, ma anche in preda al timore che fosse una trappola. «E se fossero loro?» sussurrò Kleist. «Allora, in un modo o nell'altro, entrerebbero comunque, no?» replicò Henri il Vago. Paul Hoffman
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Entrambi si diedero da fare per aprire la porta. «Grazie a Dio, sei tu!» esclamò Henri. «Perché, chi pensavi che fosse?» replicò Cale. «Pensavamo che fossero quegli uomini.» Era la prima volta che una donna gli parlava. La sua voce era dolce e lieve e, se non fosse stato così buio, il viso di Cale avrebbe mostrato un'intensa sorpresa e una profonda fascinazione. «Se i Redentori verranno a prenderci, non busseranno alla porta», mormorò. «Potrebbero farlo, per tenderci una trappola», disse Kleist poco convinto. Cale chiuse la porta. «Questa è già una trappola.» «Ora basta. Dicci cosa stai facendo e se possiamo uscire vivi di qui», gli intimò Kleist. «Accendi una candela. Ne avremo bisogno.» In breve, poterono vedersi, in una luce delicata che rendeva quella scena quasi bella. «Cos'è quest'odore?» chiese Henri. Cale lasciò cadere il sacco di terriccio sul pavimento. «Se vi sfregherete questo sul corpo e sui vestiti, i cani non sentiranno il vostro odore. Mentre vi preparate, vi spiegherò cos'è successo.» In altre parti del mondo, ciò che seguì sarebbe stato imbarazzante. Riba, sconvolta, stava per protestare, ma ciascuno dei ragazzi voltò le spalle a lei e agli altri. Essere nudi in presenza di un altro ragazzo era un crimine che gridava vendetta al Cielo, diceva spesso l'ormai defunto Signore della Disciplina e quella non era l'unica trasgressione per cui il Cielo invocava tonanti rappresaglie. Così, spinti dall'abitudine, i ragazzi andarono a spogliarsi al buio. Lasciata in disparte, Riba non aveva più nessuno con cui protestare. Prese una manciata di quel terriccio dall'odore pungente e anche lei si appartò nell'oscurità. «Pronti?» chiese infine Cale in tono scherzoso. «Allora comincio.» Cinque ore dopo, mentre un'alba torbida imbrattava le tenebre, Brunt ordinò alle cinque squadre secondarie di ricerca - ognuna composta da cento uomini accompagnati dai cani - di lasciare il piazzale principale. Mentre l'ultimo gruppo stava uscendo, altre quattro sagome, incappucciate come per difendersi dal freddo, si accodarono alla colonna e li seguirono Paul Hoffman
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fuori dai cancelli, lungo la pista di cenere e nella pianura cosparsa di arbusti. Lì, i cinquecento Redentori si divisero nei vari gruppi, avviandosi in tutte le direzioni. I quattro restarono con la colonna diretta a sud. Per un'ora, tennero il passo degli uomini, mentre il Precettore intonava la marcia della vergogna: «Santo Redentore!» «Punisci i nostri peccati!» fu la risposta bofonchiata all'unisono da centoquattro voci. «Santo Redentore!» «Castigaci per i nostri delitti!» «Santo Redentore!» «Mortifica la nostra lussuria!» «Santo Redentore!» «Flagella...» E così via, fino a una stretta curva in prossimità della prima collina delle Scablands, quando le centoquattro voci divennero cento. Dai bastioni, il Signore Militante osservò i cinquecento emergere dalla nebbia e dividersi in cinque gruppi dopo un paio di miglia. Restò a guardare finché non perse di vista anche l'ultimo e poi si voltò per andare a far colazione. Era la sua preferita: una scodella di trippa nera con un uovo sodo. Da soli, i ragazzi avrebbero percorso quaranta o anche cinquanta miglia prima del calar della sera. Ma, con loro, c'era Riba. Bella, paffuta e viziata, negli ultimi cinque anni si era mossa a malapena, camminando soltanto per spostarsi da un lettino per massaggi a una vasca da bagno e da lì, quattro volte al giorno, a una tavola imbandita con foglie di vite ripiene, zampe di maiale in gelatina, torte di spezie, eccetera eccetera. Di conseguenza, per lei, camminare per quaranta miglia era come volare, cioè impossibile. All'inizio, Kleist e Cale, irritati, l'avevano spronata a muoversi, ma ben presto era apparso evidente che i rimproveri, le minacce e persino le suppliche non avrebbero potuto smuovere di un passo la povera ragazza. Così tutti si erano seduti e Henri il Vago aveva convinto Riba a raccontare la sua vita quotidiana nei meandri nascosti del Santuario. Non era soltanto una storia meravigliosa di lussi e comodità, di vizi e coccole, attenzioni e calore. Era anche, per loro, un susseguirsi di cose del tutto incomprensibili. Ogni volta che Riba aggiungeva un nuovo dettaglio Paul Hoffman
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al modo in cui lei e le altre ragazze venivano vezzeggiate, coccolate, viziate e assecondate, la confusione dei tre ragazzi aumentava. Com'era possibile che i Redentori si comportassero in quel modo e, soprattutto, lo facessero proprio con quelle creature che definivano sempre «il terreno ideale per il diavolo»? E che senso aveva la loro strabiliante gentilezza alla luce delle orrende torture inflitte a Lena, l'amica di Riba? Era una crudeltà così grottesca da superare ogni altra sevizia che gli accoliti avevano visto o subito; mai avrebbero immaginato che i Redentori fossero capaci di giungere a tanto. Ma sarebbe stato necessario molto tempo prima di arrivare a ricostruire la terribile storia che univa loro quattro e il Signore Militante... anche perché Cale aveva messo in una tasca l'oggetto profumato che aveva trovato nel piatto e se n'era del tutto dimenticato. Al momento, comunque, avevano questioni più urgenti da affrontare: come restare in vita e portarsi dietro Riba, tanto bella quanto lenta e pesante. Quel giorno percorsero dieci miglia e, in un certo senso, ciò depose a favore della forza di volontà della ragazza che, fino ad allora, aveva considerato «faticoso» portarsi alle labbra un pezzo di pollo fritto oppure voltarsi su un lettino da massaggi, per farsi spalmare creme e unguenti sulla pelle perfetta. Ma, ovviamente, la determinazione di Riba non fu granché apprezzata dai tre ragazzi. Esausta, la giovane si addormentò per terra non appena si fermarono per la notte. Poi, mangiando la carne secca preparata da Kleist, i tre discussero cosa fare di lei. «Lasciamola qui e scappiamo», disse Kleist. «Morirà», replicò Henri. «Le lasceremo dell'acqua. A dirla tutta, ci vorrà un bel po' prima che muoia di fame», borbottò Kleist, lanciando un'occhiata al corpo burroso della giovane. «Se andiamo avanti di questo passo, morirà comunque. E noi moriremo con lei.» Era stato Cale a parlare, non tanto per formulare un'argomentazione, quanto per esporre un semplice fatto. Henri provò con le lusinghe. «Non credo, Cale. Ascolta, tu li hai ingannati. Pensano già che siamo a miglia e miglia di distanza. Probabilmente si sono convinti che, per scappare con tanta facilità, qualcuno ci abbia aiutato.» «Chi diavolo ci aiuterebbe contro i Redentori?» chiese Kleist. «Che importanza ha? Ci vorrà un bel po' prima che capiscano come abbiamo fatto a scappare, sempre che lo capiscano. Possiamo rallentare un Paul Hoffman
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po'.» «È molto meglio se non lo facciamo», replicò Cale. «Di questo passo, ci prenderanno», osservò Kleist. «Ci vorrà ben più di un trucco e di un po' di merda di tasso per tenerli lontani dalle nostre tracce.» «Abbiamo fatto tutto questo per salvarla, non possiamo lasciarla morire adesso», mormorò Henri. «E invece sì», ribatté Kleist. «La gentilezza più grande che possiamo farle è tagliarle la gola mentre dorme. E la cosa migliore, per lei e per noi.» Cale emise un breve sospiro, ma non di rimpianto. «Henri ha ragione. Che senso ha lasciarla morire adesso?» «Che senso ha?» gridò Kleist, esasperato. «Il senso, stupidi idioti, è che noi scappiamo e siamo liberi. Per sempre!» Gli altri due non replicarono. Kleist non aveva tutti i torti. «Votiamo», propose Henri, dopo qualche minuto di silenzio. «No, non votiamo. Usiamo il cervello.» «Votiamo», dichiarò Cale. «E a che serve? Tanto avete già deciso. Ci teniamo la ragazza.» Su di loro, piombò un silenzio intriso di malumore. «C'è un'altra cosa che dovremmo fare», disse infine Cale. «E che cosa ancora?» brontolò Kleist. «Andare a cercare piume d'oca per fare un materasso a quella cagna cicciona?» «Abbassa la voce», disse Henri. Cale ignorò Kleist. «Dobbiamo decidere chi dovrà farlo se i Redentori ci prendono.» Era un pensiero sgradevole, ma qualcuno doveva pur esprimerlo. Nessuno di loro voleva essere riportato vivo al Santuario. «Tiriamo a sorte, con le paglie», propose Henri. «Non ci sono paglie», osservò Kleist, avvilito. «Allora usiamo i sassi.» Henri si alzò e si allontanò, tornando qualche minuto dopo con tre sassi di dimensioni diverse. Li mostrò agli altri, che annuirono. «Chi ha il più piccolo perde.» Henri mise i sassi dietro la schiena e allungò davanti a sé la mano sinistra chiusa a pugno. Ci fu una pausa. Sospettoso come sempre, Kleist non voleva scegliere. Cale alzò le spalle e protese la mano, col palmo rivolto verso l'alto e con gli occhi chiusi. Impedendo a Kleist di vedere, Henri lasciò cadere il sasso e Cale chiuse il pugno, poi aprì gli occhi. Poi Paul Hoffman
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Henri mise ciascuno dei due sassi rimanenti in un pugno. Kleist era ancora restio a prendere una decisione, quasi temesse - chissà come - che qualcuno volesse ingannarlo. «Datti una mossa», fece Henri, in un tono seccato piuttosto insolito, per lui. Con grande riluttanza, Kleist toccò la mano destra di Henri e chiuse gli occhi. Adesso ciascuno di loro aveva un sasso. «Al tre. Uno, due, tre.» I tre ragazzi aprirono i pugni. Cale aveva il sasso più piccolo. «Be', almeno sapete che sarà fatto come si deve.» «Non avresti dovuto preoccuparti, Cale», commentò Kleist. «Non avrei avuto nessun problema a sgozzarti.» Cale lo guardò, ma aveva un accenno di sorriso sul volto. «Cosa state facendo?» Riba si era svegliata e li osservava. «Stiamo discutendo di chi mangeremo per primo quando finiremo il cibo», disse Kleist. E le scoccò un'occhiata eloquente, come a suggerire che la risposta era piuttosto ovvia. «Non dargli retta», intervenne Henri. «Stavamo decidendo chi farà il primo turno di guardia.» «E il mio quand'è?» chiese Riba. I tre accoliti restarono sorpresi dal tono di sfida della sua voce, che rivelava pure una vaga irritazione. «Tu hai bisogno di riposare più che puoi», replicò Henri. «Sono pronta a fare la mia parte.» «Naturalmente. Tra qualche giorno, quando sarai più abituata a tutto questo. Per adesso, ci servi riposata. E la cosa migliore, lo capisci anche tu.» Era difficile controbattere. «Vuoi qualcosa da mangiare?» chiese poi Henri, porgendole un pezzo di ratto essiccato. Non aveva un aspetto appetitoso, tantomeno per una ragazza cresciuta a panna e pasticcini, sformato di pollo e salsine. Ma Riba aveva molta fame. «Che cos'è?» chiese. «Hmm... carne», rispose vagamente Henri il Vago. Le si avvicinò e le mise sotto il naso il pezzo di carne. Aveva proprio l'odore che ci si poteva Paul Hoffman
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aspettare da un ratto morto. Il naso delicato della ragazza si arricciò per il disgusto. «Bleah, no.» Poi aggiunse: «Grazie». «Stare digiuna per un po' non le farà male.» Kleist aveva parlato a bassa voce, ma a un volume sufficiente perché lei lo sentisse. Tuttavia Riba era stata cresciuta nella convinzione di essere perfetta: gliel'avevano detto e ripetuto fino allo sfinimento. Quindi non comprese affatto l'osservazione di Kleist e colse soltanto l'ostilità che il ragazzo provava nei suoi confronti. «Farò io il primo turno di guardia», disse Cale, raggiungendo la cima di un crostone. Gli altri due ragazzi si distesero e, nel giro di pochi minuti, si addormentarono. Non riuscendo a tranquillizzarsi, Riba cominciò a singhiozzare piano, ma né Kleist né Henri si svegliarono. Cale la sentì piangere e rifletté sul da farsi ma, a un certo punto, i singhiozzi cessarono. Evidentemente anche Riba si era assopita. La mattina dopo, i ragazzi si svegliarono alle cinque, come al solito. «Lasciamola dormire», mormorò Cale. «Più riposa adesso, più camminerà poi.» «Senza di lei, potremmo essere a ottanta o forse a cento miglia da qui», borbottò Kleist. Un coltello si piantò con un rumore sordo nel terreno accanto ai suoi piedi. «L'ho preso a Picarbo. Tagliale la gola, se vuoi», disse Cale in tono pratico, senza la minima irritazione. «Basta che la smetti di piagnucolare.» Kleist gli lanciò uno sguardo gelido e pieno di disprezzo, quindi abbassò gli occhi. Henri fissò entrambi in silenzio, chiedendosi se Kleist fosse davvero pronto a uccidere la ragazza o magari a usare il coltello contro Cale oppure se gli piacesse semplicemente avere qualcosa di cui lamentarsi. In ogni caso, Cale fu abbastanza saggio da non dare alla propria voce nessun tono particolare quando, dopo un minuto, disse: «Ho un'idea. Forse possiamo usare il problema della ragazza a nostro vantaggio». Imbronciato, Kleist alzò lo sguardo e rimase in ascolto. «Se non riusciamo a distanziare le squadre a est e a ovest rispetto a noi, è meglio che seguiamo le loro tracce, così da essere sicuri di non incrociarle per sbaglio.» Si chinò, raccolse il coltello e disegnò alcune linee nella sabbia. «Henri, se tu e la ragazza andate a sud in linea retta e non fate più di dodici miglia al giorno, Kleist e io sapremo sempre dove Paul Hoffman
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trovarvi. Kleist può dirigersi a ovest, io a est... e così incontreremo le due squadre più vicine.» Indicò la linea retta che aveva disegnato per Henri e Riba. «In caso pensassimo che state andando incontro alle squadre degli inseguitori che procedono a zig-zag, allora torneremmo indietro e vi porteremmo nell'altra direzione.» Kleist aveva un'aria assorta e dubbiosa. «Immaginiamo che tu torni indietro e li porti da qualche parte. Io come farò a trovarti se non sarai al punto d'incontro?» Cale scrollò le spalle. «Dovrai decidere se seguire le nostre tracce oppure andare a Memphis per conto tuo. Ci aspetterai lì per tutto il tempo che riterrai opportuno.» Kleist tirò su col naso e distolse lo sguardo. Era una sorta di consenso. «A te sta bene?» chiese Cale, rivolgendosi a Henri. «Sì», rispose l'altro. «Ci sono un sacco di cose che voglio sapere dalla ragazza.» Nel giro di cinque minuti, dopo aver diviso cibo e acqua, Kleist e Cale erano partiti verso est e ovest. Dopo altri cinque minuti, erano scomparsi. Henri si era seduto a mangiare e guardava la ragazza che dormiva, la sua bellissima pelle chiara, le labbra rosse e le ciglia lunghe. Osservarla gli dava una gradevole sensazione di pace. La stava ancora studiando allorché, un'ora dopo, lei si svegliò. Vide Henri che la fissava con aria inebetita e sussultò. «Non te l'ha mai detto nessuno che è maleducazione fissare la gente?» «No», rispose lui. Ed era vero. «Be', è così.» Henri si guardò i piedi, imbarazzato. «Scusa, non volevo essere così severa», mormorò lei. A quel punto, Henri dimenticò l'imbarazzo e scoppiò a ridere. «Che c'è di tanto divertente?» chiese lei, di nuovo arrabbiata. «Per noi, 'severo' è venire trascinati alla forca davanti a cinquecento persone, per essere impiccati dai Redentori.» «Che significa?» «Che ti appendono per il collo. Come il Redentore Impiccato, hai presente?» «Chi è il Redentore Impiccato?» Henri ammutolì. La guardò come se lei gli avesse chiesto che cos'era il sole oppure se gli animali parlavano. Per un po' non disse nulla, ma il suo Paul Hoffman
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cervello non smetteva di cercare il significato della domanda di Riba. «Il Redentore Impiccato è il figlio del Signore della Creazione», recitò infine. «Si è sacrificato per lavare i nostri spregevoli peccati col suo sangue.» «Bleah! E perché mai?» fece lei. Lo sguardo sbalordito del ragazzo le fece rimpiangere all'istante quella reazione. «Scusa, non volevo offenderti. Ma è un'idea così bizzarra...» «Come?» chiese lui, a bocca aperta. «Be'... quali peccati? Che cos'hai fatto, tu?» «Sono nato peccatore. Chiunque nasce pieno di peccati disgustosi.» «Che idea ridicola.» «Davvero?» «Com'è possibile che un neonato abbia fatto qualcosa di sbagliato o addirittura di terribile?» Entrambi restarono in silenzio per qualche istante. «E poi perché lavare via qualcosa col sangue?» chiese Riba. «È un simbolo», rispose lui, accorgendosi di essere sulla difensiva e chiedendosi il perché. «Non sono mica stupida, questo l'avevo capito. Ma perché? Perché usare il sangue come simbolo di una cosa del genere?» Per natura, Henri rifletteva attentamente su ogni cosa. Ma quelle idee facevano parte di lui da così tanto tempo che le domande della ragazza erano paragonabili a chiedere quale fosse il significato degli occhi oppure il senso di avere un paio di braccia. «Dove sono gli altri?» chiese all'improvviso Riba. Ancora stordito dalla conversazione, Henri rispose distrattamente: «Se ne sono andati». «Ci hanno abbandonato?» domandò lei, sgranando gli occhi. «Soltanto per qualche giorno. Andranno dietro alle tracce degli inseguitori a est e a ovest del nostro percorso, per fare in modo che non li incrociamo.» «Come faranno a ritrovarci?» «Sono molto bravi a seguire le tracce», rispose Henri, evasivo. «Non capisco», mormorò lei. «Pensavo che avessi detto che non uscivate praticamente mai dal Santuario.» «Hmm... Meglio che ci muoviamo. Ti spiego tutto mentre camminiamo.»
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Il Redentore Bosco sollevò il bastone da passeggio e picchiò due volte sulla porta. Ci vollero quasi trenta secondi perché si aprisse, ma lui non mostrò il minimo segno di nervosismo o irritazione, anzi rimase impassibile. Alla fine, la porta si aprì e un uomo alto, anch'egli un Redentore, si parò davanti al Signore Militante. «Avete un appuntamento?» chiese l'uomo alto. «Non siate sciocco», replicò Bosco, in tono deciso. «L'Alto Redentore mi ha chiesto di venire. Eccomi qua.» «L'Alto Redentore comanda, non chiede...» Bosco oltrepassò l'uomo. «Ditegli che sono arrivato.» «È scontento di voi. Non l'ho mai visto così arrabbiato.» Bosco lo ignorò e l'uomo raggiunse la porta di una stanza, bussò e vi entrò. Dopo un breve lasso di tempo, la porta si riaprì e l'uomo alto tornò sorridendo, anche se non aveva nulla di gradevole da comunicare. «Ora è disposto a ricevervi.» Bosco entrò in una stanza così buia che persino i suoi occhi, pur abituati agli ambienti tetri, faticarono a discernere qualcosa. A poco a poco, si delinearono alcune piccole finestre con le persiane e diversi arazzi, che ricostruivano in maniera piuttosto criptica le vicende di vari martiri, tanto antichi quanto orribili. Sembrava tuttavia che il centro dell'oscurità fosse il letto nell'angolo. Sul letto c'era un uomo, appoggiato con la schiena ad almeno una dozzina di cuscini. Bosco dovette avvicinarsi parecchio prima di poterlo vedere in viso; la pelle era di un pallore tale da risultare quasi bianca e cadeva dalle guance e dal collo in una serie di pieghe scarne. Gli occhi, acquosi e spenti, suggerivano una lucidità mentale assai precaria. Tuttavia, quando l'uomo vide Bosco, ci fu un lampo nel suo sguardo, come un fascio di luce scaturito da un faro lontano. E quella luce, fissa sul Redentore Bosco, era piena di odio e di scaltrezza. «Mi hai fatto aspettare!» disse l'Alto Redentore, con voce fioca ma tagliente. «Sono venuto il più presto possibile, Vostra Grazia.» Com'era prevedibile, l'altro non gli credette. «Quando ti convoco, Bosco, devi mollare tutto, all'istante. Subito, maledizione!» Rise. Era un suono particolarmente sgradevole e forse Bosco era l'unico in tutto il Santuario che non lo trovava snervante. Era il suono di qualcosa di morto, pervaso soltanto da un'intensa cattiveria e da un'inestinguibile rabbia. «Per quale motivo desideravate vedermi, Vostra Grazia?» L'Alto Redentore lo fissò per un istante. «Quel ragazzo, Cale.» Paul Hoffman
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«Sì, Vostra Grazia?» «Ti ha preso in giro.» «In che modo, Vostra Grazia?» «Tu avevi in mente grandi cose per lui.» «Sapete che è così, Vostra Grazia.» «Deve essere riportato indietro.» «Voi e io non abbiamo nessuna divergenza, Vostra Grazia.» «E deve essere fustigato.» «Naturalmente, Vostra Grazia.» «Poi impiccato e squartato.» Bosco non rispose. «Ha assassinato un Redentore. Deve diventare un Atto di Fede.» «Dalle mie indagini è emerso che sono gli altri due accoliti i responsabili del delitto», disse Bosco con aria pensierosa. «Sembra probabile che abbiano costretto Cale a partire con loro. Loro erano armati, lui no. Se questo è vero, Cale deve essere punito semplicemente per dare l'esempio. Lo squartamento, tuttavia, non mi sembra necessario. Basterà squartare gli altri, dato che la colpa è loro.» Lo sbuffo di disprezzo dell'Alto Redentore fu così roco da dare l'impressione che lui si stesse strozzando con la propria saliva. «Ah! La compassione non ti si addice, Bosco. È solo la tua vanità che parla. Non ha importanza che Picarbo sia stato ucciso da Cale o dagli altri due. Per Dio, sono tentato di dar fuoco all'intero dormitorio insieme con loro!» La foga aveva scatenato un furioso attacco di tosse e l'Alto Redentore indicò una tazza con dell'acqua sul comodino. Con calma, Bosco gliela porse. L'altro bevve rumorosamente, poi gli ripassò la tazza, tutta bagnata di saliva e Bosco la rimise sul comodino, con uno sguardo di contegnoso disgusto. A poco a poco, il respiro dell'Alto Redentore cominciò a rallentare e infine tornò normale. L'animosità nel suo sguardo, tuttavia, era aumentata. «Parlami di questa faccenda di Picarbo.» «Di quale faccenda, Vostra Grazia?» «Già, Bosco, di quale faccenda... Il Signore della Disciplina viene ritrovato nelle sue stanze con una sgualdrina sbudellata e tu mi chiedi di quale faccenda parlo?» «Ah, quella faccenda», mormorò Bosco. «Pensi forse che, essendo vecchio e malato, io non sappia cosa sta succedendo? Be', ti sbagli e non è la prima volta. Per quanto malato, non Paul Hoffman
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mi lascio cogliere alla sprovvista da te, Bosco.» «Nessuna persona intelligente sottovaluterebbe la vostra saggezza ed esperienza, Vostra Grazia, ma...» Fece un sospiro pieno di rincrescimento. «Speravo soltanto di risparmiarvi la rivoltante natura di ciò che abbiamo trovato nelle stanze del Redentore Picarbo. Sarebbe un peccato se un regno nobile come il vostro fosse oscurato da una cosa di tal genere.» «Sono troppo vecchio per queste sviolinate, Bosco. Voglio sapere cosa stava facendo con la ragazza. Non se la stava solo scopando, vero?» Persino Bosco, sempre impassibile di fronte a qualsiasi cosa, fu turbato dall'uso di quel termine. Un riferimento così diretto all'atto sessuale era inaudito; nelle rare occasioni in cui se ne parlava, veniva indicato con perifrasi quali «turpitudine» o «imbruttimento». «Forse la sua anima si era guastata», replicò. «Il male non riposa mai, Vostra Grazia. Forse aveva cominciato a provare piacere nel dispensare le pur giuste punizioni agli accoliti. È già successo in passato, credo.» L'Alto Redentore grugnì. «Come ha fatto a mettere le mani su una ragazza, laggiù?» «Finora non sono riuscito a scoprirlo. Ma aveva molte chiavi. Soltanto a voi e a me è permesso indagare su un Signore della Disciplina. Ci vorrà del tempo.» «Non avrebbe potuto farlo senza l'aiuto di qualcuno. Può darsi che ci sia di mezzo qualcosa di più della turpitudine. Potrebbe trattarsi di un'eresia.» «Ci avevo pensato anch'io, Vostra Grazia. Venti suoi amici sono in isolamento nella Casa per le Funzioni Speciali. I più alti in grado negano, almeno finora, ogni conoscenza dei fatti, ma i Redentori ordinari hanno ammesso di aver creato, per ordine di Picarbo, un cordone ulteriore attorno al convento, sigillando vari livelli dei corridoi, così che nessuno sospettasse nulla. Il convento era già completamente isolato dai Redentori, dopotutto. Nessuno doveva vedere le spose. Picarbo aveva dissimulato le loro attività all'interno e all'esterno, spostando all'interno del cordone la cucina e la lavanderia riservate ai Redentori di grado superiore. Come sapete, ogni cosa che entra ed esce passa attraverso un grande bidone. Giacché pure il Signore delle Vettovaglie e il Maestro della Lavanderia facevano parte della sua piccola setta di eretici, Picarbo non aveva problemi ad accedere al cibo o a qualsiasi altra cosa.» «Ma stiamo riaprendo i vecchi corridoi di gran lena, no? Prima o poi, Molloy avrebbe scoperto tutto.» Paul Hoffman
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«Purtroppo il Maestro della Bonifica era uno di loro.» «Mio Dio! Quella pulce ipocrita di Molloy li stava aiutando a trasformare il Santuario in un bordello?» L'Alto Redentore rimase senza fiato di fronte all'orribile gravità di tutto ciò. «Abbiamo bisogno di una purificazione. Di Atti di Fede da qui alla fine dell'anno. Dobbiamo...» «Vostra Grazia, non è affatto chiaro se l'imbruttimento fosse lo scopo di questo... harem», lo interruppe Bosco. «Non sono nemmeno sicuro che si trattasse di un harem; sembrava piuttosto un luogo d'isolamento. Da quello che sono riuscito a decifrare dai suoi scritti, per quanto folli, Picarbo stava cercando qualcosa di molto specifico.» «Cosa mai avrebbe potuto trovare nelle budella di una sgualdrina cicciona?» «Non lo so ancora, Vostra Grazia. Può darsi che sia necessaria una purificazione, anche di entità consistente, ma dovremmo aspettare che io arrivi alla radice della faccenda prima di accendere candele a Dio.» E «accendere candele a Dio» non aveva nulla a che vedere con la cera o gli stoppini. «Fai attenzione, Bosco. Credi di essere migliore in virtù delle tue conoscenze, ma io so... Io so che la conoscenza è la radice di ogni male!» esclamò l'Alto Redentore, agitando un dito in direzione di Bosco. «Quella sgualdrina di Eva voleva sapere ed è stato quel suo impulso a far discendere su di noi il peccato e la morte.» In silenzio, Bosco arretrò verso la porta. «Redentore Bosco!» L'altro si fermò, guardando l'anziano Redentore avvizzito. «Quando riporterai qui Cale, dovrà essere giustiziato. Emetterò un ordine in questo senso oggi stesso. E scordati di andare a scavare nelle perversioni di Picarbo. Devi epurare tutti coloro che avevano a che fare con lui. Non m'importa se forse sono innocenti. Non possiamo correre il rischio di coltivare un'eresia. Bruciali e lascia che sia Dio a smistarli. Chi è senza macchia riceverà la sua ricompensa nella vita eterna.» Un acuto osservatore avrebbe potuto notare che, a quel punto, il Signore Militante batté più volte le palpebre, come se si fosse reso conto di qualcosa e avesse preso un'improvvisa decisione. Ma forse si trattava semplicemente di uno scherzo dell'oscurità. Bosco fece un passo verso il letto e si chinò, come se volesse sprimacciare i cuscini su cui era appoggiato l'Alto Redentore. Invece ne Paul Hoffman
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prese uno e lo posò con attenzione e fermezza sul viso dell'anziano, a una tale velocità che soltanto una frazione di secondo prima che il cuscino gli tappasse la bocca l'Alto Redentore comprese tutto l'orrore di ciò che stava accadendo. Due minuti dopo, Bosco uscì dalla stanza. Il Redentore alto si alzò immediatamente. «Si è addormentato mentre parlavamo», mormorò Bosco. «È davvero una cosa molto insolita per l'Alto Redentore. Forse è il caso che andiate a dargli un'occhiata.» Bosco non aveva soltanto assassinato l'Alto Redentore, gli aveva anche mentito. Non gli aveva rivelato la vera entità della collezione di giovani donne di Picarbo, né i propri crescenti sospetti sullo scopo dei disgustosi esperimenti del defunto Signore della Disciplina. Ci sarebbe voluto un po' per decidere cosa fare delle donne ma, a tempo debito, esse sarebbero state assai utili per mettere in atto la sua decisione di prendere il controllo completo del Santuario. E, quando Cale fosse stato di ritorno, sarebbero state un monito anche per lui. Il terzo giorno, Cale aveva raggiunto i Redentori e li aveva osservati mentre si dirigevano a ovest, cioè lontano da Henri il Vago e Riba. Il giorno seguente, però, la squadra aveva puntato a est, il che l'avrebbe pericolosamente avvicinata ai suoi amici. Fu proprio mentre li seguiva, sperando che cambiassero direzione ancora una volta, che successe qualcosa di veramente insolito. Si stava avvicinando all'estremità di una delle colline delle Scablands, dove il terreno aveva ceduto, formando un bordo frastagliato. Nel girare un angolo, Cale s'imbatté in un uomo che proveniva dalla direzione opposta. Restò così sorpreso che quasi perse l'equilibrio, slittando sulla ghiaia. Invece l'uomo, che si trovava in una zona più ripida, scivolò davvero e cadde sulla schiena con un tonfo, dando a Cale il tempo di estrarre il coltello che aveva rubato al Signore della Disciplina. In un lampo, il ragazzo sovrastò l'uomo, che ormai sembrava alla sua mercé. L'altro tuttavia superò ben presto la sorpresa e si rialzò, gemendo. Allora Cale agitò la lama, per fargli capire che doveva restare dov'era. «Prima mi vieni addosso e poi vuoi anche tagliarmi la gola. Non sei molto amichevole», disse l'uomo in tono amabile e stanco insieme. «Me l'hanno già detto. Che ci fate qui?» Paul Hoffman
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L'uomo sorrise. «Quello che fanno tutti nelle Scablands. Cerco di uscirne!» «Non ve lo chiederò un'altra volta.» «Non credo che siano affari tuoi.» «Sono io che ho il coltello, perciò decido io quali sono gli affari miei.» «Giusto. Posso alzarmi?» «Per il momento, state bene dove siete.» L'uomo dava l'idea di aver visto parecchie cose strane nella vita, ma era chiaramente sconcertato dalla presenza di un ragazzo così giovane e padrone di sé nel bel mezzo delle Scablands. «Sei molto lontano da casa, vero, ragazzo?» «Non preoccupatevi per me, nonno. Fareste meglio a preoccuparvi di dove state andando voi. Siete forse in cerca del vostro bastone da passeggio?» L'uomo rise. «Sei un accolito dei Redentori, vero?» «Che v'importa?» «Nulla, in realtà. È solo che, nelle poche occasioni in cui ho visto un accolito, era in una schiera di altri duecento e c'era qualche dozzina di Redentori a sorvegliarli con le fruste. Non ne ho mai visto uno da solo prima d'ora.» «Be', c'è sempre una prima volta», replicò Cale. L'uomo sorrise. «Già, immagino di sì.» Gli porse la mano destra. «IdrisPukke, attualmente al servizio del Gauleiter Hynkel.» Cale non gli strinse la mano. IdrisPukke la abbassò e si strinse nelle spalle. «Forse non sei giovane come sembri. È saggio essere cauti, in posti simili.» «Grazie del consiglio.» IdrisPukke rise ancora. «Sei un ragazzo intransigente, eh?» «Già», rispose Cale in tono piatto. «E non chiamatemi ragazzo.» «Va bene. Come ti devo chiamare?» «Non c'è affatto bisogno che mi chiamiate.» Con un cenno del capo, Cale indicò verso est. «Voi andate da quella parte. Se provate a seguirmi, IdrisPukke, vedrete quanto so essere intransigente.» Gli fece segno di alzarsi. IdrisPukke obbedì. Guardò Cale per qualche istante, come se stesse valutando il da farsi, poi sospirò, si voltò e proseguì nella direzione che Cale gli aveva indicato. Paul Hoffman
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Per le dodici ore successive, Cale rimuginò a lungo sull'incontro con IdrisPukke. Era forse un Redentore travestito? Improbabile. Sembrava d'animo troppo vivace per essere uno di loro. Era un cacciatore di taglie? Improbabile pure quello. I Redentori non divulgavano ciò che accadeva nel Santuario. D'altra parte, però, lui aveva ucciso un Signore della Disciplina, un peccato di tale gravità che forse loro sarebbero stati disposti a fare qualsiasi cosa per catturarlo... Mentre rifletteva, continuava a seguire le tracce dei Redentori, sperando che cambiassero direzione. Lo fecero il giorno seguente, puntando di nuovo verso ovest. Di solito, i cacciatori mantenevano una direzione per almeno ventiquattr'ore. Era il momento di tornare dagli altri. Sempre che riuscisse a trovarli. Dodici ore dopo, era sul percorso che avevano previsto per Henri e la ragazza, ma dieci miglia più avanti, per sicurezza. Cominciò quindi a ripercorrere il tragitto a ritroso, per essere certo di trovarli, nascondendosi meglio che poteva, così da evitare d'imbattersi nei Redentori che Kleist doveva seguire o anche solo di essere visto da loro. Gli ci vollero soltanto poche ore per trovarli tutti e tre, fermi in un ampio avvallamento, circondati da una ventina di corpi mutilati, alcuni tagliati a pezzi. Gli altri lo videro da cento iarde di distanza e lo aspettarono senza muoversi, mentre lui camminava tra i cadaveri sparsi. Li salutò con un cenno del capo. «I Redentori sono andati a ovest», annunciò. «I miei puntavano a est, l'ultima volta che li ho visti.» Cadde il silenzio. «Avete idea di chi siano?» chiese Cale d'un tratto, indicando i morti con un cenno del capo. «No», rispose Henri. «Sono morti da circa un giorno, direi», osservò Kleist. Riba aveva più o meno lo stesso sguardo esterrefatto che Cale le aveva visto quando l'aveva salvata da Picarbo, uno sguardo che diceva: È impossibile che stia succedendo una cosa del genere. «Da quanto tempo siete qui?» mormorò Cale. «Da circa venti minuti. Abbiamo incontrato Kleist un paio d'ore fa, venendo in questa direzione.» Cale annuì. «Ci conviene perquisirli. Chiunque li abbia uccisi non ha lasciato granché, ma può darsi che ci sia qualcosa da recuperare.» I tre ragazzi si misero a cercare tra i resti, trovando qualche moneta, una Paul Hoffman
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cintura, una giacca strappata... Poi Henri vide qualcosa di luccicante nella sabbia, accanto a una testa mozzata, e subito spazzolò via la sabbia, rivelando un tirapugni d'ottone. Restò deluso; se non altro, però, era un oggetto utile. «Aiuto...» gemette la testa mozzata. Henri fece un balzo all'indietro, lanciando un grido. «Mi ha parlato! Mi ha parlato!» «Come?» chiese Kleist, subito innervosito. «La testa! Mi ha parlato!» «Aiuto...» mormorò la testa. «Visto?» fece Henri. Cale si avvicinò alla testa con circospezione e la punzecchiò sulla tempia col coltello. La testa gemette di nuovo, ma non aprì gli occhi. «L'hanno sepolto fino al collo», spiegò Cale, dopo un momento di riflessione. I tre ragazzi conoscevano bene la crudeltà umana, quindi non si meravigliarono più di quanto avrebbero fatto se ci fosse stato di mezzo qualcosa di soprannaturale. «Dobbiamo disseppellirlo», propose Henri. «No», replicò Kleist. «Chiunque lo abbia sepolto si è dato parecchio da fare. Se roviniamo i suoi sforzi, rischiamo grosso. Stiamone alla larga.» «Aiuto...» sussurrò l'uomo ancora una volta. Henri guardò Cale. «Allora?» Ma l'altro rimase in silenzio, assorto. «Non abbiamo tempo da perdere, Cale», lo esortò Kleist. Cale si era messo a fissare un punto in lontananza. «No, infatti», disse infine. Il suo tono era strano, allarmato. Gli altri due alzarono lo sguardo, seguendo il suo. In cima alla collina più vicina, a circa trecento iarde di distanza, c'era una schiera di Redentori. Li stavano fissando. Poi cominciarono a muoversi. I tre ragazzi, pallidissimi, restarono immobili. Non c'era via di scampo. Riba si mosse per prima, correndo in avanti, per vedere meglio gli uomini che marciavano verso di loro. «No, no, no!» continuava a gridare. Henri, bianco come la farina, guardò Cale. «Il sasso piccolo è toccato a te», disse. Paul Hoffman
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Cale lanciò agli altri uno sguardo privo di espressione. Poi estrasse il coltello, raggiunse rapidamente Riba, che si era fermata a guardare gli uomini, e fece per prenderle i capelli e scoprirle il collo. «Aspetta!» gridò Kleist. Per quanto terrorizzata, Riba si voltò, cogliendo nella voce di Kleist qualcosa di strano. Cale abbassò il coltello. «Non sono Redentori», disse Kleist. «Chiunque siano, però, è meglio vedere che succede.» Altri uomini superarono la cresta della collina, ma erano a cavallo e portavano con sé almeno trenta cavalcature. Raggiunsero gli uomini a piedi, che montarono a cavallo a loro volta; nel giro di neanche un minuto, circa cinquanta cavalieri circondarono i quattro ragazzi. Metà di loro smontò e si mise a esaminare i cadaveri. Gli altri si limitarono a sguainare le spade, sempre fissando i quattro ragazzi. «Capitano, è l'ambasciata di Arnhemland», disse uno dei cavalieri a terra. «Questo è il figlio di Lord Pardee.» Il capitano era un uomo imponente, in groppa a un cavallo enorme, alto più di sei piedi. Avanzò, smontò, raggiunse Cale e gli assestò al viso un colpo di tale potenza che il ragazzo crollò a terra. «Prima che vi giustiziamo, voglio sapere chi ha ordinato questo massacro», tuonò. Intontito e dolorante, Cale non rispose. Il capitano stava per prenderlo a calci, quando Henri il Vago intervenne: «Noi non c'entriamo nulla, signore. Li abbiamo appena trovati. Vi sembra forse che siamo in grado di fare una cosa del genere? Abbiamo soltanto un coltello in quattro. Come avremmo potuto?» Il capitano guardò lui e poi di nuovo Cale. Quindi vibrò a quest'ultimo un violento calcio nello stomaco. «D'accordo. Allora non vi taglieremo la gola per il massacro, ma per il saccheggio.» E indicò il piccolo cumulo di oggetti che i quattro avevano recuperato: una borsa, un piatto, qualche coltello da cucina, della frutta secca e il tirapugni d'ottone. Henri si rese conto che quel bottino non faceva una bella impressione e cercò di correre ai ripari. «Uno di loro è ancora vivo. Stavamo appunto per disseppellirlo...» Fece un cenno verso l'uomo, che aveva perso conoscenza e sembrava più che mai una semplice testa mozzata. I soldati lo circondarono rapidamente e cominciarono a scavare nella sabbia e nella ghiaia. «È il Cancelliere Vipond», annunciò uno di loro. Paul Hoffman
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Il capitano ordinò ai soldati di fermarsi e s'inginocchiò, estraendo una borraccia. Poi versò delicatamente un po' d'acqua nella bocca all'uomo semisvenuto, che tossì, rigurgitandola. Un altro soldato si fece avanti con un paio di badili. Nel giro di cinque minuti, l'uomo venne estratto dalla sabbia e disteso a terra. Ascoltarono il battito del suo cuore e controllarono che non fosse ferito. «Avevamo intenzione di salvarlo», disse Henri, mentre Cale, disteso nella polvere, guardava il capitano con aria rancorosa. «Questo lo dici tu. L'unica cosa che so per certo è che siete una manica di ladri. Non ho nessun motivo per non vendere la ragazza e uccidere voi tre.» «Non siate irragionevole, caro capitano Bramley», intervenne un uomo dietro un soldato a cavallo. Era chiaro che non era uno di loro: non indossava un'uniforme e aveva le mani legate con una corda, annodata alla sella del cavallo davanti a lui. «Chiudi il becco, IdrisPukke», fece il capitano. Ma IdrisPukke non era certo il tipo da fare ciò che gli veniva ordinato. «Siate saggio, una volta tanto, caro capitano. Sapete che il Cancelliere Vipond e io ci conosciamo da moltissimo tempo. A mio modesto parere, non apprezzerebbe se voi uccideste tre giovani che hanno cercato di salvarlo. Ho ragione?» Per la prima volta, il capitano parve esitare. IdrisPukke abbandonò il tono canzonatorio. «Sono certo che vorrebbe almeno la possibilità di decidere. Sì, poco ma sicuro.» Il capitano guardò l'uomo privo di sensi che veniva disteso su una barella con una coperta arrotolata sotto la testa. Poi fissò IdrisPukke. «Ancora una parola e, lo giuro su Dio, ti sventro. Hai capito?» L'altro scrollò le spalle, ma saggiamente - come pensò Henri il Vago non disse nulla. «Grady! Fog!» gridò il capitano a due soldati. «Tenetelo d'occhio. E, se vi dà anche solo l'idea di voler scappare, fategli saltare la testa.»
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10 Il capitano Bramley legò le mani ai tre ragazzi e li fece camminare - e ogni tanto correre - dietro ai cavalli. Per punizione, IdrisPukke venne legato a una sella e, in risposta alle sue beffarde richieste di essere portato tra le braccia di un soldato a cavallo, come la ragazza, Bramley gli somministrò una sfilza di calci. Si accamparono circa mezz'ora prima che facesse buio. Dopo che Brambley ebbe ammonito i soldati di non toccarla, Riba fu lasciata libera. Quelli erano uomini duri, che avevano visto e fatto cose di ogni genere, talune fin troppo sgradevoli da raccontare, ma un simile ammonimento non era necessario per gran parte di loro. Certo, alcuni sarebbero stati ben lieti di fare del male a quella bella ragazza, ma la maggior parte sembrava quasi ipnotizzata da lei. Ben presto, Riba prese a chiacchierare e scherzare con loro, civettando ingenuamente e sgranando gli occhi per lo stupore mentre ascoltava le tipiche storie dei soldati. Di tanto in tanto, lanciava occhiate di comprensione ai ragazzi, ma non poteva fare altro: le avevano ordinato di non avvicinarsi a loro né di parlarci, altrimenti pure lei sarebbe stata legata. Incatenati all'assale di una carrozza che aveva raggiunto i soldati poco dopo la cattura, i tre ragazzi si ritrovarono in compagnia di IdrisPukke: a differenza di lui, che ricevette soltanto un calcio, vennero nutriti con carne secca e pane lievitato. Avevano una fame atroce e trangugiarono tutto come cani famelici. «Perché non me ne date un po'?» chiese IdrisPukke. «E perché dovremmo?» chiese di rimando Kleist, con la bocca piena. «Perché ho messo una buona parola per voi con quel bastardo di Bramley, che voleva dare le vostre budella in pasto alle sabbie affamate delle Scablands.» Kleist finì rapidamente l'ultimo boccone. «Mi spiace, non ho più niente. Ma grazie per oggi.» Gli altri due furono più clementi, sebbene Cale si decidesse a offrirgli il suo pane soltanto perché voleva fare qualche domanda. A differenza dei ragazzi, IdrisPukke mangiò con calma il pane e la piccola quantità di carne secca lasciata da Henri il Vago. «Sai qualcosa del massacro?» chiese Cale. Paul Hoffman
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«Io?» esclamò IdrisPukke. «Volevo chiederti la stessa cosa.» Mangiò un altro boccone di pane. «Avevate davvero intenzione di aiutare Vipond?» Henri e Cale si guardarono. «Ci stavamo pensando», rispose Cale. «Molto saggio. Sempre meglio riflettere, prima di fare un favore a qualcuno. È un buon consiglio. Nel caso del vostro amico, mi piacerebbe averlo ascoltato», disse l'uomo, indicando Kleist con un cenno del capo. «In tal caso, avresti saltato la cena.» IdrisPukke fece una risata sommessa. «Non mi sembra uno scambio equo: due pezzi di pane in cambio di tre vite? Direi che siete ancora in debito con me.» «Non possiamo fare niente per te», intervenne Henri. «Adesso forse no, ma in futuro può darsi che io debba ricordarvelo. Spero che siate uomini d'onore.» Cale rise. «Tu sei un uomo d'onore?» «Se non lo fossi, a quest'ora rideresti con la nuca.» Henri ritenne opportuno cambiare argomento. «Cosa pensi che ci faranno?» IdrisPukke alzò le spalle. «Vi porteranno a Memphis. Se Vipond sopravvive, probabilmente non avrete problemi.» Sorrise. «Purché non smentiate la vostra versione dei fatti.» «E se muore?» chiese Henri. «Dipende. Può darsi che vi processino oppure che vi mettano nel Passante.» «E che cos'è?» «Un posto dove sarete dimenticati.» «Noi non abbiamo fatto nulla», protestò Cale. «Vallo a dire a quelli», replicò l'altro, ridendo. «Secondo te, chi li ha uccisi?» IdrisPukke ci pensò su. «Ci sono un sacco di delinquenti nelle Scablands, ma ben pochi oserebbero sfidare un'ambasciata armata dei Ferrazzi.» «E chi sono?» «Mio Dio, ma non v'insegnano proprio nulla, in quel posto?» I tre lo guardarono, impassibili. «Già. Be', allora: i Ferrazzi governano su Memphis e su ogni altro luogo compreso tra le Scablands a nord e il Grande Golfo a sud... Dalle vostre Paul Hoffman
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facce, capisco che non avete mai sentito parlare nemmeno di quello.» «Com'è Memphis?» «Meravigliosa. Il più grande spettacolo della terra. Non c'è niente che non si possa trovare a Memphis, niente che non possa essere comprato o venduto, nessun crimine che non sia stato commesso, nessun cibo che non sia stato mangiato, nessuna pratica... mai praticata. Ne vedrete delle belle, sempre che non vi uccidano o vi mettano nel Passante... e sempre che abbiate del denaro, naturalmente.» «Non ne abbiamo», disse Cale. «Allora dovete trovarne. Se non avete soldi, a Memphis siete inutili. E, se siete inutili a Memphis, qualcuno troverà ben presto un modo per usarvi.» «Che cosa...» «Basta domande, ora. Sono stanco e mi fa male tutto. Parleremo domattina.» Poi ammiccò e aggiunse: «Sempre che io ci sia ancora». Si voltò e, nel giro di cinque minuti, prese a russare. I ragazzi avevano dato per scontato che IdrisPukke avesse scherzato, come faceva spesso e in modo piuttosto enigmatico, ma la mattina dopo, quando si svegliarono, videro che non c'era più. Furibondo, il capitano Bramley si mise a tempestare di calci i tre ragazzi. Ma, se non c'era dubbio che loro si sentissero peggio, era altrettanto chiaro che neppure lui traeva sollievo da quella sfuriata. A un certo punto, Riba accorse al suo fianco, implorandolo di smettere. «L'avrebbero aiutato a fuggire per poi rimanere qui?» gli fece notare, disperata. «Non è logico!» Avvezzi alle ingiustizie com'erano, i ragazzi cercavano soltanto di proteggere le parti più delicate dalla punta degli stivali di Bramley e lo facevano senza lasciarsi scappare neanche un gemito. Fortunatamente, il capitano era un tipo irascibile e incline agli sfoghi violenti, ma non un abile sadico come quelli cui loro erano abituati. L'idea che la punizione dovesse essere commisurata al misfatto compiuto era ignorata dai Redentori o quantomeno era assurda come l'idea di un cane a cinque zampe. Allo stesso modo, la tanto declamata promessa del Redentore Impiccato, secondo la quale chiunque avesse fatto del male a un bambino sarebbe stato bollito nel lardo per l'eternità, non veniva mai presa sul serio. Quando i ragazzi arrivavano al Santuario, venivano subissati di storie e di Paul Hoffman
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parabole sulla gentilezza del Santo Redentore, sul suo particolare riguardo per i più piccoli e sulle sue continue raccomandazioni a prendersi cura dei bambini e della loro felicità. All'inizio, il fatto di essere sempre picchiati, senza ragione apparente, prima di quelle omelie sull'amore e sulla gentilezza - e spesso anche dopo -, suscitava un forte risentimento negli accoliti. Nel corso degli anni, però, le contraddizioni si cancellavano e quelle parole di conforto e di gioia entravano da un orecchio e uscivano dall'altro. Erano soltanto parole. Dopo aver sfogato la prima ondata di rabbia sui ragazzi, Bramley si rivolse al sergente e al caporale, che aspettavano il loro turno con rassegnata pazienza. «Tu!» gridò al sergente. «Tu, grosso sacco di escrementi. E tu!» continuò, rivolgendosi al caporale, un uomo molto più minuto. «Tu, sacco striminzito di escrementi! Prendete dieci dei vostri uomini migliori e trovate quel bastardo di IdrisPukke. Ma, se tornate senza di lui, o se me lo riportate morto, allora vedete di procurarvi da soli la cena, perché, quando avrò finito con voi due, non ho certo intenzione di sfamarvi, maledizione!» Si girò, dirigendosi a passi pesanti verso la sua tenda. «Continuate a interrogare i prigionieri!» gridò senza voltarsi. «Hai sentito, caporale?» chiese il sergente, con un sospiro in cui si percepivano irritazione e arrendevolezza nel contempo. Il caporale raggiunse i tre ragazzi, che erano appoggiati alle ruote della carrozza, con le ginocchia strette al petto per proteggersi. «Sapete qualcosa della fuga del prigioniero?» «No!» urlò Kleist, furioso ma spaventato. «Il prigioniero dice di no», riferì con calma il caporale. «Chiedigli se è sicuro, caporale.» «Sei sicuro?» «Sì, sono sicuro», rispose Kleist. «In nome di Dio, perché mai avrebbe dovuto dirci dove andava?» «Ha ragione, sergente.» «Sì», ammise il sergente con voce stanca. «Ha ragione.» Dopo una pausa, aggiunse: «Fai montare il Plotone Sette e sveglia lo scout Calhoun. Partiamo tra dieci minuti». I soldati attorno a loro si sparpagliarono; i ragazzi e Riba furono lasciati soli, come se nulla fosse accaduto. Lei s'inginocchiò accanto a loro e li guardò con un'aria di straziante pietà, un'emozione che tuttavia i ragazzi riconobbero a malapena. Anzitutto erano più preoccupati per i lividi e, in Paul Hoffman
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secondo luogo, erano incapaci di comprendere come lei potesse provare qualcosa per la loro sofferenza. A eccezione di Henri, forse: durante la settimana che lui e Riba avevano trascorso insieme, si erano imbattuti in uno dei pochi torrenti delle Scablands e Henri ne aveva approfittato per lavarsi. Ma, non appena era rimasto a torso nudo, aveva sorpreso Riba che guardava di sottecchi la sua schiena coperta di cicatrici e piaghe. E, benché non si fosse mai imbattuto nella compassione femminile prima di allora, non era rimasto insensibile al suo strano potere. L'accampamento cominciò ad animarsi. Ai prigionieri venne data una tazza di porridge, quindi fu il momento di partire. Prima di essere portata via, Riba sussurrò eccitata che, di lì a due giorni, sarebbero arrivati a Memphis. Ma i tre ragazzi non condivisero il suo entusiasmo, visto il destino incerto che li attendeva. «Quel vecchio, quello che stavamo per salvare... è morto?» chiese Kleist a Riba. «Non credo.» «Cerca di renderti utile e scoprilo», le sibilò. A quel rimprovero, lei sgranò gli occhi, che si velarono di lacrime. «Lasciala in pace», scattò Henri. «Perché?» fece Kleist. «Se quello muore, c'impiccheranno. Non capisco perché lei se ne debba andare a Memphis seduta comodamente sulle sue grosse chiappe e senza aiutarci a scoprire una cosa così determinante per noi.» Le lacrime lasciarono subito il posto all'indignazione. «Perché continui a dire che sono grassa? Sono come devo essere.» «Basta litigare», s'intromise Cale, irritato. «Kleist, lasciala in pace. E tu scopri cos'è successo al vecchio.» Riba lanciò a Cale un'occhiata indispettita, ma non disse nulla. «Marciare o morire! Marciare o morire!» gridarono i caporali, però senza crederci davvero, giacché gridavano così ogni volta che levavano il campo e si mettevano in marcia. Il carro cui i ragazzi erano legati si mosse con uno strattone, lasciando indietro Riba, che non si era ancora calmata. Più tardi, tuttavia, passò loro accanto e, come se fosse una cosa di nessuna importanza, mormorò: «È ancora vivo». Le Scablands terminarono all'improvviso, in uno spazio di cento iarde. Ciottoli, sabbia, cenere e collinette desolate lasciarono il posto a una Paul Hoffman
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pianura verde e fertile, disseminata di fattorie, case e capanne. Parecchia gente spuntò fuori da dietro i cespugli e le siepi, incuriosita dalla carovana. Ma, dopo una rapida occhiata, tutti, tranne i bambini, tornavano alle proprie attività. Il numero delle case e delle persone non fece che aumentare per il resto della giornata e per il giorno seguente: prima attraversarono villaggi, poi città, quindi giunsero nei sobborghi di Memphis. Ma ci vollero altre due ore prima di scorgere la grande cittadella. Era enorme, assai più grande del Santuario, che aveva comunque dimensioni di tutto rispetto, e i minareti dorati, le cattedrali e i palazzi si stagliavano contro il cielo con grande eleganza. E poi il Santuario era tutto uguale, mentre quel luogo andava al di là di ogni immaginazione: era bellissimo e di una varietà infinita. La carovana si era fermata per via di un ingorgo e uno dei caporali, vedendo che i ragazzi stavano fissando sbalorditi la città, li affiancò col suo cavallo. «Quelle mura sono le più grandi del mondo: quindici iarde nel punto più stretto e due volte cinque miglia di perimetro.» I tre lo guardarono. «Dieci miglia, quindi», osservò Kleist. Il caporale restò basito e spronò il cavallo, allontanandosi.
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11 Le ultime due miglia fino ai grandi cancelli di Memphis erano interamente occupate da mercati di vario genere. Il rumore, gli odori e i colori lasciarono attoniti i ragazzi, che furono quasi sopraffatti dalla gioia. Qualsiasi viaggiatore l'avrebbe considerata un'esperienza da portare con sé fino al Giorno dei Morti, ma per i tre ragazzi, la cui dieta era stata basata sulla sbobba chiamata «piedi di uomini morti» e su qualche ratto, quello era il paradiso, anzi un paradiso ricco e strano oltre ogni immaginazione. A ogni respiro, erano investiti dall'odore di cumino e rosmarino, accompagnato dal fetore di un mandriano sudato che vendeva pecore; dal profumo all'olio al mandarino di una casalinga; dal puzzo d'urina e dalla fragranza di rose. C'erano richiami e urla provenienti da ogni dove: il lamento dei pappagalli finiti in pentola, il miagolio del piatto preferito dai buongustai - il gatto bollito alla Memphis -, il tubare delle colombe sacrificali, l'abbaiare dei cani, allevati sulle colline attorno alla città, per essere arrostiti durante le feste; i maiali strillavano, le vacche gemevano e ci fu un grande urlo quando un luccio che stava per essere sventrato sfuggì a un pescivendolo, dibattendosi e agitandosi, fino a trovare la strada per la libertà in un canale di scolo; un urlo che esprimeva una tragica perdita per il pescivendolo, seguito dalle risate di scherno della folla. Proseguirono tra le urla incomprensibili dei mercanti. «Uddiri, uddiri, uddi!» gridava un uomo, che vendeva scatole simili a piccole bare, dentro le quali c'era una cosa che sembrava una coda di vacca, senza pelle e di un rosa brillante, il colore dello zucchero filato. «Accabonnarobba!» strillava un altro, mostrando le sue verdure con un gesto compiaciuto, come se fosse un mago che le aveva appena fatte comparire dal nulla, e aggiungeva: «Compre mi verdure, eh! Pommadore matura, nanassi deliziosa! Compre mi vegetali, mi fantastiche pianta!» In un angolo, poi, c'era un vecchio seminudo che, saltellando da un piede all'altro, reggeva un panno logoro su cui c'erano due uova chiazzate, che sembravano in vendita. Guardando alla propria sinistra, Henri il Vago scorse una fila di ragazzi sui nove anni, legati gli uni agli altri da catene attorno al collo. Sembravano diretti a un cancello, sorvegliato da uomini enormi che indossavano giacche di pelle. Giunti lì, le guardie rivolsero loro un cenno Paul Hoffman
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del capo e li fecero entrare. I ragazzi sembravano indifferenti, ma Henri notò che avevano le labbra dipinte di rosso e le palpebre coperte da una polvere azzurra. Sconcertato, chiamò uno dei soldati accanto a lui e indicò prima i ragazzi, poi la costruzione che si trovava al di là del cancello, dipinta in colori vivacissimi e ancora più affollata del mercato. «Che succede laggiù?» chiese. Il soldato guardò i ragazzi e impallidì per il disgusto. «Quella è Kitty Town. Non ci andare mai.» Scoccò una triste occhiata a Henri. «Sempre che tu possa scegliere di non farlo.» «Perché si chiama Kitty Town?» «Perché è gestita da Kitty la Lepre. E, per evitare che tu faccia altre domande, ti dico subito che non è una donna e non è una lepre. Stai lontano da quel posto.» Una volta oltrepassate le guardie ed entrati nella città di Memphis, il cambiamento fu istantaneo: dalla calca, dal baccano e dagli odori del mercato si ritrovarono in una sorta di gelida galleria. Dopo trenta iarde di quasi completa oscurità sotto le mura, riemersero alla luce e ancora una volta trovarono un altro mondo. Gli edifici - sia antichi sia recenti - erano disposti attorno a piazze con giardini e fontane, dove la gente stava seduta a leggere o si riuniva in gruppetti per spettegolare, mentre i bambini giocavano. Soltanto la presenza dei tre ragazzi - sporchi, stanchi e goffi turbava l'aspetto di un mondo altrimenti elegante e raffinato. Quasi nessuno li guardava: più che ignorati, erano invisibili. Solo i bambini li osservavano attraverso delicate ringhiere di ferro, fissandoli con occhi sgranati sotto una cascata di riccioli d'oro. D'un tratto, in una delle strade sopra di loro, ci fu un'esplosione di attività: venti soldati della cavalleria locale, in uniforme rossa e oro, fecero il loro ingresso nella piazza, scortando una carrozza decorata. Puntarono con decisione verso la carovana e si fermarono accanto al carro coperto in cui giaceva Lord Vipond, ancora privo di sensi. Le ampie porte della carrozza decorata si aprirono; tre uomini dall'aria importante si affrettarono a raggiungere il carro e scomparvero al suo interno. Tutti gli altri rimasero ad aspettare per cinque minuti all'ombra degli alberi che fiancheggiavano la piazza e che erano agitati da un gelido venticello. Una bambina sui cinque anni si allontanò dalla madre, che stava chiacchierando, e raggiunse l'inferriata vicino ai tre accoliti. «Ehi, tu, Paul Hoffman
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ragazzo!» chiamò. Cale la guardò con tutta la considerevole scortesia di cui era capace. «Sì, ragazzo, proprio tu.» «Che vuoi?» «Hai una faccia da maiale.» «Vattene.» «Da dove vieni, ragazzo?» Lui le scoccò un'occhiataccia. «Dall'inferno, per portarti via nella notte e mangiarti.» «A me sembri un ragazzo normale», commentò la bambina, dopo averci riflettuto un po'. «Un normale ragazzo sporco.» «Le apparenze ingannano», borbottò Cale. «Vedrai», intervenne Kleist. «Fra tre notti, entreremo nella tua stanza, in silenzio, così tua madre non ci potrà sentire. Ti metteremo un bavaglio sulla bocca, dopodiché probabilmente ti mangeremo, lasciando soltanto qualche osso.» La fiducia della bambina nella normalità di quei ragazzi parve vacillare. Ma non era tipo da lasciarsi spaventare facilmente. «Mio padre vi fermerà e vi ucciderà.» «No, invece, perché mangeremo anche lui», sibilò Kleist. «Probabilmente per primo, così saprai cosa ti aspetta.» Cale scoppiò a ridere, scuotendo la testa. Kleist si stava proprio divertendo. «Smettila d'incoraggiarla», disse, sorridendo. «A me sembra una spia.» «Non sono una spia!» esclamò la bambina, indignata. «Ma se non sai nemmeno che cos'è, una spia», fece Kleist. «Sì che lo so.» «Silenzio!» sussurrò Cale. La madre della bimba si era finalmente accorta della sua assenza e la stava raggiungendo di gran lena. «Vieni via, Jemima.» «Stavo solo parlando con questi ragazzi sporchi.» «Zitta, sfacciata! Non devi parlare così di queste povere creature. Mi dispiace», mormorò la donna, rivolta ai due ragazzi. «Ora scusati, Jemima.» «No.» La madre la trascinò via. «Niente dolce per te!» «E noi?» chiese Kleist. «Ce l'ha un dolce per noi?» Paul Hoffman
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Qualcosa si mosse in testa alla carovana: sei soldati della città stavano facendo scendere la barella del Cancelliere Vipond dal carro, mentre i tre uomini dall'aria importante assistevano alla scena con espressione preoccupata. La barella fu portata alla carrozza, che subito dopo lasciò la piazza. La carovana la seguì lentamente. Tre ore dopo, i ragazzi si trovavano in una prigione. Al loro arrivo, erano stati portati in una cella sotterranea, spogliati e perquisiti. Poi gli avevano gettato addosso tre secchi d'acqua gelata, che odorava di sgradevoli sostanze chimiche a loro sconosciute. Infine gli avevano restituito i vestiti, tutti cosparsi di una polverina bianca pruriginosa, e li avevano rinchiusi in un'altra cella. Restarono seduti in silenzio per una buona mezz'ora, finché Kleist non emise un sospiro e disse: «Chi ha avuto quest'idea? Ah, già, Cale. Me n'ero dimenticato». Come se la cosa lo toccasse a malapena, Cale replicò: «C'è una differenza tra qui e il Santuario: se fossimo là, staremmo faticando sotto gli occhi di un Redentore urlante. Qui, invece, non sappiamo cosa succederà». C'era poco da obiettare. Nel giro di pochi minuti, tutti e tre si addormentarono. Per tre giorni, Lord Vipond si avvicinò sempre di più alla morte. Gli furono somministrati balsami e medicine; venne circondato, giorno e notte, dai fumi di varie erbe aromatiche; sulle ferite gli furono applicate tinture di ogni tipo. Ma ciascuno di quei trattamenti risultò inutile o addirittura dannoso e soltanto il naturale vigore del Cancelliere e la sua buona forma fisica gli consentirono di sopravvivere, a dispetto degli sforzi dei più abili medici che Memphis potesse offrire. Proprio quando i suoi eredi erano stati avvisati di prepararsi al peggio - o, dal loro punto di vista, al meglio -, Vipond si svegliò e, con voce gracchiante, pretese che le finestre fossero aperte, le erbe malsane rimosse e il suo corpo fosse lavato in acqua bollita. Nel giro di pochi giorni, non più privato dell'aria fresca e con le sue difese naturali libere di fare il proprio lavoro, fu in grado di mettersi a sedere e di fare un resoconto degli eventi che lo avevano condotto a essere sepolto fino al collo nella sabbia delle Scablands. «Eravamo a circa quattro giorni da Memphis quando siamo stati investiti da una tempesta di sabbia... anche se era più ghiaia che sabbia, in realtà. È Paul Hoffman
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stato così che la carovana si è dispersa; poi, prima che potessimo ricompattarci, i Gurrier ci hanno attaccato. I miei uomini sono stati tutti uccisi ma, per qualche motivo, i Gurrier hanno deciso di lasciarmi come mi avete trovato.» L'uomo con cui stava parlando era il capitano Albin, capo dei servizi segreti dei Ferrazzi: un uomo alto, con occhi azzurri così penetranti che sarebbero potuti appartenere a una bella ragazza. Quell'appariscente caratteristica era in netto contrasto col resto del suo aspetto: rigidissimo sembrava fosse appena stato stirato - e freddo. «Siete sicuro che fossero soltanto Gurrier?» chiese Albin. «Non sono un esperto di banditi, capitano, però così mi ha detto Pardee, prima di morire. Avete motivo di pensare diversamente?» «Be', qualcosa di strano c'è.» «Per esempio?» «Il modo in cui le colonne sono state aggredite sembra troppo organizzato, troppo abile per i Gurrier che, per quanto siano opportunisti e feroci, raramente si riuniscono in gruppi abbastanza numerosi da battere soldati di qualità come quelli che scortavano voi, per quanto dispersi dalla tempesta.» «Capisco», annuì Vipond. «E anche il fatto che vi abbiano lasciato in vita è strano. Perché?» «Mi hanno lasciato in fin di vita.» «Vero, ma perché rischiare?» Albin raggiunse la finestra e guardò nel cortile. «Vi hanno trovato un foglio di carta piegato in bocca.» D'un tratto, Vipond ricordò la sensazione sgradevole di quando gli avevano aperto a forza le mascelle, lasciandolo ad annaspare, prima che perdesse conoscenza. «Mi dispiace, Lord Vipond, sicuramente la cosa vi turba. Volete che torni domani?» «No, non c'è problema. Cosa c'era scritto sul foglio?» «Era il messaggio che portavate dal Gauleiter Hynkel al Maresciallo Ferrazzi, promettendo che si sarebbe instaurata la pace.» «Dov'è?» «Ce l'ha il Conte Ferrazzi.» «È privo di qualsiasi valore.» «Ah, dite? Interessante», mormorò Albin, pensieroso. «Perché?» Paul Hoffman
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«Lasciarvi in vita con un messaggio di una certa importanza ficcato in bocca dà l'impressione che qualcuno volesse dire qualcosa.» «Del tipo?» «Mah, forse qualcosa di deliberatamente oscuro. O, almeno, di non chiarissimo. Di certo non sembra opera dei Gurrier. A loro interessano solo gli stupri e i furti, non i messaggi politici, chiari o no che siano.» «Ma, se fosse davvero un messaggio, non dovrebbe essere più chiaro?» «Non necessariamente. Hynkel si ritiene una specie di buontempone. Senza dubbio troverebbe divertente mascherare un'aggressione a un ministro dei Ferrazzi con qualcosa in grado di spiazzarci, facendoci credere che ci sia dietro qualcosa di più.» Albin sorrise con modestia. «Ma voi l'avete incontrato di recente e forse siete di un'altra opinione...» «No, affatto. È stato un ospite gioviale... forse un po' troppo brillante. Come molti uomini intelligenti, pensa che tutti gli altri siano idioti.» «È certamente ciò che pensa del nostro ambasciatore.» Nel silenzio che seguì, Albin si chiese se non si fosse spinto troppo oltre. Vipond lo guardò con attenzione. «Sembra che voi sappiate molte cose», commentò, cauto, ma invitandolo comunque a proseguire. «Molte cose? Mi piacerebbe. Qualcosa sì, però. Tra pochi giorni, potrei ricevere notizie che forse chiariranno la faccenda in un senso o nell'altro.» «Vi sarei estremamente grato se mi teneste informato. Anch'io ho risorse che potrebbero rivelarsi utili.» «Naturalmente, Lord Vipond.» Albin era contento di aver raggiunto, almeno in apparenza, un accordo col Cancelliere. La questione non era se fidarsi di Vipond, perché sicuramente il Cancelliere non era degno di fiducia. La corte di Memphis era un nido di vipere e nessuno avrebbe potuto occupare una posizione importante come quella di Vipond senza avere denti affilati e pieni di veleno. Era irragionevole aspettarsi qualcosa di diverso. Tuttavia Albin aveva l'impressione che fossero stati fatti progressi verso un'intesa reciproca: poteva contare sul fatto che Vipond non lo avrebbe tradito finché non fosse stato veramente suo interesse farlo. «Ci sono altre questioni che vorrei discutere con voi, Lord Vipond. Naturalmente, se siete troppo stanco, posso tornare domani.» «No, affatto, vi prego...» «C'è quella strana faccenda dei quattro ragazzi che Bramley ha trovato accanto a voi quand'eravate...» Paul Hoffman
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«... sepolto fino al collo?» «Ecco, sì.» «Pensavo di essermeli sognati», disse Vipond. «Tre ragazzi e una ragazza.» «Già.» «Cosa stavano facendo?» «Ah, pensavamo che voi poteste rispondere. Bramley vuole giustiziare i ragazzi e vendere la ragazza.» «E perché mai?» «Pensa che facessero parte della banda dei Gurrier che vi ha attaccato.» «Ci hanno attaccato almeno ventiquattr'ore prima del mio ritrovamento. Perché diavolo sarebbero stati lì, quei ragazzi, se avessero avuto a che fare coi Gurrier?» «Bramley vuole giustiziarli comunque. Dice che dobbiamo mandare un messaggio chiaro: chiunque osi attaccare un ministro dei Ferrazzi, saprà cosa l'aspetta.» «È un bastardo sanguinario, il vostro Bramley.» «Oh, no, non è uno dei miei, che Dio me ne scampi.» «Cosa dicono quei bambini?» «Che erano appena arrivati e che stavano per disseppellirvi.» «E voi non gli credete?» «Non c'erano segni di scavi.» Albin fece una pausa, quindi riprese: «E non li chiamerei 'bambini'. I tre ragazzi hanno tredici o quattordici anni, ma sembrano creature coriacee. La ragazza, invece, pare cresciuta nella bambagia. E che ci facevano nel bel mezzo delle Scablands?» «Appunto. Che hanno detto loro?» «Hanno sostenuto di essere zingari.» Vipond rise. «Non ci sono zingari in questa parte del mondo da quando i Redentori li hanno spazzati via, sessant'anni fa.» Sembrò riflettere per qualche istante. «Ci parlerò io tra qualche giorno, quando starò meglio. Passatemi quella tazza d'acqua, vi prego.» Albin prese la tazza dal comodino e la passò a Vipond, che era diventato molto pallido. «Vi lascio, Cancelliere», disse. «C'è altro?» Albin si fermò. «Sì. Prima di trovare voi, Bramley aveva catturato IdrisPukke, imboscato da qualche parte, a circa quattro miglia di distanza.» «Eccellente», esclamò Vipond, con gli occhi che gli brillavano. «Gli Paul Hoffman
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parlerò domani.» «Purtroppo è fuggito.» Vipond sussultò, irritato. Rimase a lungo in silenzio, poi disse: «Voglio IdrisPukke. Se vi capita a tiro, lo porterete da me, senza dirlo a nessuno». Albin annuì. «Naturalmente.» E, soddisfatto, uscì dalla stanza di Vipond. Per i ragazzi, quello era il sesto giorno di prigionia nelle celle sotterranee di Memphis. Eppure, nonostante l'incertezza, erano di buonumore. Avevano ricevuto tre pasti al giorno, pasti che, per una persona normale, sarebbero stati disgustosi, ma che per loro non lo erano affatto. Inoltre avevano potuto dormire a piacimento e ne avevano approfittato, dormendo anche diciotto ore filate, come se, così facendo, potessero rimettersi dalle privazioni di una vita intera. Attorno alle quattro del pomeriggio, il secondino aprì la porta della cella e fece entrare Albin, che li aveva già interrogati una volta. Insieme con lui c'era un uomo prossimo alla sessantina e molto riverito. «Buongiorno», disse Lord Vipond. Dalle loro brande, Henri il Vago e Kleist lo scrutarono. Cale era seduto sulla sua, con le ginocchia strette al petto e il cappuccio abbassato sul viso. «In piedi, quando entra Lord Vipond», mormorò Albin. Lentamente Henri e Kleist si alzarono, ma Cale non si mosse. «Tu, alzati e togliti il cappuccio, altrimenti chiederò alle guardie di farlo.» Come sempre, la voce di Albin era pacata, nient'affatto minacciosa. Dopo qualche istante, Cale balzò in piedi, come se si stesse alzando dopo un buon sonno ristoratore, e fece cadere all'indietro il cappuccio. Tuttavia non alzò gli occhi, come se, sul pavimento lurido, ci fosse qualcosa d'immenso interesse per lui. «Allora, mi riconoscete?» chiese Vipond. «Sì, siete l'uomo che abbiamo cercato di salvare nelle Scablands», rispose Kleist. «Già», replicò Vipond. «Che ci facevate laggiù?» «Siamo zingari», rispose Kleist. «Ci siamo persi.» «Che tipo di zingari?» «Oh, zingari normali», disse Kleist sorridendo. «Il capitano Bramley pensava che voleste derubarmi.» Paul Hoffman
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Kleist sospirò. «È un uomo malvagio, quel capitano Bramley. Molto malvagio. Noi stavamo cercando soltanto di salvare una persona importante come voi e lui, a mo' di ricompensa, ci ha incatenato come criminali e ci ha messo qui dentro. Non è stato affatto riconoscente.» C'era una strana, allarmante sfacciataggine nel modo in cui Kleist si stava comportando, come se si aspettasse di essere creduto sulla parola. Anzi sembrava addirittura che non gliene importasse nulla. Vipond si era imbattuto in quell'atteggiamento negli uomini che aveva accompagnato alla forca, i quali si potevano permettere di essere insolenti dato che avevano perduto ogni speranza di salvezza. «Volevamo aiutarvi», disse Henri. Dal suo punto di vista, naturalmente diceva la verità. Vipond guardò Cale. «Come ti chiami?» Cale non rispose. «Vieni con me.» Vipond si diresse verso la porta, che il secondino si affrettò ad aprire. Ma Cale non si mosse. Il Cancelliere si voltò a guardarlo. «Forza, ragazzo. Sei sordo, oltre che arrogante?» Cale lanciò un'occhiata a Henri, il quale annuì, come se gli suggerisse di obbedire. Poi raggiunse lentamente la porta della cella. «Capitano Albin... Venite con me, se non vi spiace.» Vipond si allontanò insieme con Cale, e Albin li seguì a pochi passi di distanza, sganciando con un dito lo spadino dal fodero. Non appena la cella fu richiusa, Kleist andò alle sbarre della feritoia e urlò: «E io? Anch'io voglio fare una passeggiata!» Poi i due ragazzi sentirono la porta esterna aprirsi e Cale scomparve. Allora Henri fissò Kleist e mormorò: «Ma sei sicuro di avere il cervello a posto?» Cale si ritrovò in un bel cortile, con un elegante prato al centro. Stavano camminando lungo il sentiero che seguiva le mura e Cale teneva il passo col Cancelliere Vipond. D'un tratto, Vipond disse: «Ho sempre creduto nel principio per cui non si deve mai dire al proprio miglior amico nulla che non si sia disposti a dire al proprio peggior nemico. Tuttavia, per quanto ti riguarda, in questo momento l'onestà è di gran lunga la politica migliore. Perciò non voglio Paul Hoffman
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sentire altre sciocchezze sugli zingari, anzi nessuna sciocchezza in generale. Voglio la verità: chi siete e cosa ci facevate nelle Scablands?» «Intendete la verità che direi al mio miglior amico?» «Può darsi che io non sia il tuo miglior amico, giovanotto, ma sono la tua migliore speranza. Sii sincero e io potrei essere disposto a considerare con generosità il fatto che, mentre la ragazza e quel ragazzo tardo di comprendonio volevano aiutarmi, tu e quell'altro brigante volevate lasciarmi lì.» «Dato che bisogna essere sinceri, signore, ditemi: al nostro posto, voi non avreste riflettuto sulla situazione in cui vi sareste cacciato, rimanendo in quel luogo?» «Già. Ma ora vai avanti. E, se avrò l'impressione che tu mi stia mentendo, ti consegnerò a Bramley in un batter d'occhio, senza pensarci due volte.» Cale non disse nulla per qualche secondo, poi sospirò, come se avesse preso una decisione. «Noi tre siamo Redentori, accoliti del Grande Santuario di Shotover.» «Ah, la verità», esclamò Vipond, sorridendo. «Ha un suono riconoscibile, non trovi? E la ragazza?» «Stavamo cercando da mangiare nelle gallerie e nei corridoi che i Redentori avevano sbarrato. L'abbiamo trovata per caso in un posto di cui non avevamo mai sentito parlare. Ce n'erano altre come lei.» «Donne nel Santuario? Che strano! O forse no.» «I Redentori ci hanno visto con la ragazza, quindi non abbiamo avuto scelta. Ci siamo dovuti dare alla macchia.» «Un grosso rischio, capisco.» «Se fossimo rimasti, non ci sarebbe stato nessun rischio, ma solo una certezza.» «Già.» Vipond rifletté su quella frase, mentre i due camminavano lentamente attorno al cortile, fianco a fianco. Quindi chiese: «E le Scablands?» «Era il posto migliore in cui nascondersi. Non si vede molto lontano per via delle collinette e dei crostoni.» «I Redentori vanno a caccia coi cani, vero? Una volta ne ho visto uno: era brutto come la morte, ma un gran segugio.» «Però io ho trovato un modo per fermarli.» Cale lo spiegò, omettendo tuttavia il dettaglio della doppia fuga. La loro evasione poteva anche essere Paul Hoffman
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vera ma, qualsiasi cosa dicesse Vipond sul suono della verità, gli eventi che l'avevano preceduta non suonavano affatto autentici. Inoltre, dopo lo stupido tentativo di Kleist di spacciarli per zingari, i ragazzi avevano concordato di attenersi a una versione semplice. Evidentemente ciò che i Redentori avevano detto loro a proposito degli zingari era una menzogna: l'attacco a tradimento al Santuario, avvenuto sessant'anni prima, non era stato seguito da una spedizione punitiva, intesa a dare una lezione agli zingari su come comportarsi in futuro. Era stato seguito da un massacro totale, fino all'ultimo neonato. «Ci consegnerete ai Redentori?» volle sapere poi Cale. «No.» «Perché?» Vipond rise. «Ottima domanda. Non ne abbiamo ragione. Non abbiamo nemmeno rapporti diplomatici con loro. Abbiamo a che fare coi Redentori soltanto tramite i Duena.» «Chi sono?» «Sai cos'è un mercenario?» «Qualcuno che uccide per denaro.» «Ecco: i Duena sono mercenari pagati per negoziare invece che per uccidere. Le nostre trattative coi Redentori sono così rare che ci conviene pagare qualcun altro per farle al posto nostro. Ma io credo sia arrivato il momento di cambiare. Rimanere nell'ignoranza è stato una negligenza da parte nostra. Tu potresti essere molto utile. La guerra negli Eastern Breaks tiene occupati i Redentori da un secolo. Quest'aumento degli accoliti cui mi hai accennato forse significa che stanno pianificando di agire qui... o magari altrove. Dobbiamo saperne di più.» Gli sorrise. «Dunque forse ti puoi fidare di me, perché puoi essermi utile.» «Sì, forse», mormorò Cale, pensieroso. Nel frattempo erano tornati alla porta esterna delle celle. Vipond ci picchiò sopra col pugno e la porta si aprì immediatamente. Quindi lui si rivolse a Cale. «Tra qualche giorno, sarete trasferiti in un luogo più confortevole. Nel frattempo sarete trattati meglio: cibo decente ed esercizio fisico.» Cale annuì e oltrepassò la porta, che si chiuse rapidamente alle sue spalle. Mentre Albin lo raggiungeva, Vipond si voltò e gli disse: «Curioso invero, mio caro Albin. Mai incontrati ragazzini così. Se qualche Paul Hoffman
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Redentore venisse a cercarli, fate in modo che nessuno riveli la loro presenza. Anzi tenete i Redentori lontano dalla città, nei sobborghi. I ragazzi devono essere considerati agli arresti domiciliari». Poi si girò e si avviò, gridando: «Domani alle undici, portatemi la ragazza».
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12 Affabile come un bonario tutore, Vipond chiese: «Allora, Riba, finché questi tre giovanotti non hanno assistito per caso al tentativo di aggredirti da parte di un Redentore, tentativo durante il quale egli è stato colpito e ha perso conoscenza, tu eri del tutto inconsapevole della presenza di uomini nel Santuario?» «Sì, signore.» «Eppure ci sei vissuta da quando avevi sette anni e, a quanto dici, venivi trattata come una principessa. È strano, non trovi?» «Ci ero abituata, signore. Ci davano tutto ciò che volevamo. C'era un'unica regola: non allontanarsi mai dalla zona a noi riservata. Ci dicevano che, se lo avessimo fatto, la punizione sarebbe stata terribile. Ma avevamo a disposizione spazi molto grandi e le mura erano impossibili da scavalcare. Inoltre noi eravamo felici.» «Le donne che si occupavano di voi vi spiegavano perché eravate trattate con una simile gentilezza e generosità?» «Dicevano che, a quattordici anni, saremmo state portate in un luogo meraviglioso, ancor più bello del Santuario, per diventare spose.» Pensando alla morte di quel sogno coltivato così a lungo, Riba sospirò. «Saremmo state felici e beate per sempre, ma soltanto se fossimo diventate perfette.» «Perfette? In che modo?» chiese Vipond, vagamente allarmato. «La nostra pelle doveva essere bianchissima, i nostri capelli dovevano essere brillanti e docili, le guance rosa, gli occhi splendenti, i seni tondi e gonfi, le natiche grandi e lisce... In più, tra le gambe, sotto le ascelle o in altre parti del corpo, non doveva esserci neppure un solo pelo. Bisognava essere sempre affascinanti e profumate di fiori. La rabbia, i rimproveri o le critiche verso gli altri erano esclusi; era nostro dovere essere sempre gentili e affettuose nonché pronte ai baci e alla tenerezza.» Albin e Vipond erano uomini di grande esperienza e avevano visto e sentito molte cose strane ma, davanti a quella spiegazione, non sapevano proprio cosa dire. Alla fine, fu Albin a parlare: «Tornando a quel Redentore... Non l'avevi mai visto prima?» «No. Non avevo mai visto lui né nessun altro uomo.» «Come esercitavate la vostra... tenerezza, se non c'erano uomini?» Paul Hoffman
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chiese Vipond. «L'una con l'altra.» I due uomini erano ancora più sbalorditi. «Facevamo a turno: fingendo di essere stanca e arrabbiata, una gridava un sacco e sbatteva le porte finché un'altra non la calmava e, trattandola con gentilezza, la rendeva felice.» Li guardò e si rese conto che la sua risposta non era stata esauriente. «E poi c'erano i bambolotti.» «I bambolotti?» chiese Albin. «Sì, i bambolotti a forma di uomo. Li vestivamo, li massaggiavamo e li trattavamo da re.» «Capisco», mormorò Vipond. «Io e Lena... Ah, già, voi non potete sapere chi è... Lena è la ragazza che il Redentore ha ucciso. Ci avevano detto che eravamo state scelte per sposarci e vivere felici e contente. Poi però le nostre Zie - così chiamavamo le donne che ci crescevano - ci hanno portato nella stanza di quell'uomo. E lui ha ucciso Lena.» «Le vostre Zie sapevano cosa vi sarebbe successo?» domandò Vipond. «Perché ci avrebbero fatto una cosa del genere, dopo essere state così gentili con noi? Di certo sono state ingannate.» «Non è singolare che tu ti sia imbattuta in questo Redentore e in Cale nel giro di ventiquattr'ore? Non trovi strano che Cale sia arrivato proprio all'ultimo momento per salvarti?» Albin temeva che la ragazza li stesse prendendo per i fondelli, ma nel contempo pensava che, per farlo, avrebbe dovuto essere una bugiarda assai abile. «Sì, l'ho pensato anch'io. Che strano incontrare ben quattro uomini, dopo tutti quegli anni trascorsi senza averne mai visto uno... E poi: mentre uno si è comportato in modo così crudele, gli altri hanno rischiato la loro vita per me, per una ragazza che non conoscevano. Sono cose che succedono di solito?» «No, non di solito», rispose Vipond. «Grazie, Riba. È tutto, per ora.» Agitò un campanello che aveva davanti a sé; quasi all'istante, la porta si aprì ed entrò una giovane donna. Aveva la tipica aria fiera e disinvolta di un'aristocratica sedicenne: sembrava conoscere il mondo intero e giudicarlo nient'affatto interessante. Tuttavia strabuzzò gli occhi quando vide Riba, coi suoi capelli biondi e con le sue morbide rotondità. Vedendole così, l'una accanto all'altra, davano l'impressione di avere ben poco in comune. Paul Hoffman
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«Riba, questa è Mademoiselle Jane Weld, mia nipote. Si occuperà di te nei prossimi giorni», spiegò Vipond. Mademoiselle Jane, ancora sbalordita, annuì. Riba si limitò a sorridere nervosamente. «Albin, vi spiacerebbe aspettare fuori insieme con Riba, mentre io scambio due parole con Mademoiselle Jane?» Albin accompagnò fuori Riba e chiuse la porta. Vipond guardò la nipote. «Chiudi la bocca, Jane. Sembra che tu voglia mangiare il vento.» La bocca di Mademoiselle Jane si chiuse con uno scatto quasi percettibile, per poi riaprirsi quasi subito. «Chi diavolo era quella creatura?» «Siediti, ascolta e per una volta prova a fare ciò che ti viene detto!» Seppur risentita, Mademoiselle Jane obbedì. «Devi fare amicizia con Riba e convincerla a raccontarti di nuovo tutto ciò che ha già raccontato a me e anche di più. Scrivi tutto e mandamelo, senza omettere neppure il minimo dettaglio, per quanto banale o strano possa essere...» Le lanciò un'occhiata severa. «E le stranezze saranno parecchie, credimi. Poi dovrai capire se è possibile convincerla a non parlare più della sua storia e a fingere di essere originaria delle Isole del Sud o di qualche luogo del genere. È educata, a modo suo, ma tu le insegnerai le nostre buone maniere. Forse, se saprà cavarsela, potrà diventare una cameriera personale o addirittura una dama di compagnia.» «Vi aspettate che io faccia da tutrice a una domestica?» chiese Mademoiselle Jane, indignata. «Mi aspetto che tu faccia quello che ti dico. E ora puoi andare.»
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13 Dopo avere lasciato cento tra uomini e cani in una città a trenta miglia di distanza, il Redentore Stape Roy, esploratore della squadra d'inseguitori del sud, entrò a Memphis. Si sentiva angosciato come mai in vita sua, ed era un'inquietudine non da poco, considerando che Stape aveva vissuto molte esperienze infernali e ne aveva causate altrettante. Tuttavia, mentre si avvicinava a Kitty Town, aveva l'impressione di essere capitato nel luogo più vicino all'inferno che si potesse trovare sulla terra. Una volta raggiunte le luci sfolgoranti dell'ingresso di quello spaventoso sobborgo di Memphis, Stape fermò il cavallo, smontò e lo condusse a piedi per le ultime iarde. Anche a quell'ora tarda, c'era un intenso viavai di persone, che sfilavano davanti alle guardie, le quali tuttavia ne ignoravano la maggior parte e ne perquisivano solo alcune. «Non potete portarlo dentro!» esclamò una guardia grande e grossa, indicando il cavallo. «Siete armato?» Fino ai denti, pensò Stape. «Non voglio entrare. Ho una lettera per Kitty la Lepre», spiegò. «Mai sentita nominare. E ora fuori dai piedi!» Lentamente, Stape infilò la mano nelle bisacce della sella e ne estrasse due portamonete, l'uno molto più grande dell'altro. Porse alla guardia il più piccolo. «Questo potete dividerlo tra voi. L'altro è per Kitty la Lepre.» «Consegnateli entrambi a me. Farò in modo che li riceva.» Altre cinque guardie, enormi ed evidentemente scelte per il loro aspetto scevro di qualsiasi bellezza, cominciarono a muoversi, pronte ad accerchiare Stape. «Tornate domani o, meglio ancora, il giorno seguente», gridò la prima guardia. «Vuol dire che terrò il denaro fino ad allora.» «Non credo proprio. Con noi sarà al sicuro.» Poi si avvicinò al Redentore velocemente - per quanto possa essere veloce un uomo di quasi trecento libbre - e allungò la mano verso il portamonete. Stape abbassò le spalle, come per dichiararsi sconfitto. Quindi, mentre l'omone premeva una mano sul suo petto, si limitò a incrociare le braccia con quelle dell'altro e a spingere verso il basso. Si sentirono un crac non particolarmente forte e un grido straziante, poi l'uomo cadde in ginocchio. Paul Hoffman
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Le altre guardie, spiazzate dall'azione repentina, si mossero per attaccare Stape ma, prima ancora che riuscissero a fare due passi, si resero conto che il Redentore stava puntando uno spadino al collo dell'omone. L'urlo con cui quest'ultimo intimò ai suoi compagni di farsi indietro era quasi superfluo. «Ora portatemi subito da qualcuno veramente importante! Non ho intenzione di stare in questa cloaca un minuto più del necessario.» Venti minuti dopo, Stape era seduto in un'anticamera. Era una delle stanze più gradevoli in cui fosse mai stato: rivestita con legno di cedro e di sandalo, dava un'impressione di ricca semplicità ed emanava un profumo così delicato e capace di placare i sensi che lui accarezzò l'idea di tagliarne un pezzo e portarselo via. Tuttavia neppure quella stanza poteva fugare la sua apprensione. E, a turbarlo, non era certo lo scontro che aveva avuto alle porte di Kitty Town. L'uomo che aveva organizzato i massacri di Odessa e Polish Wood, e la cui malvagità spiccava perfino in quel crogiolo di scelleratezza che erano le guerre negli Eastern Breaks, era innervosito da ciò che aveva visto subito dopo essere entrato. D'un tratto, una porta si aprì e apparve un vecchio, che disse cortesemente: «Ora Kitty la Lepre vi può ricevere». Ancor prima che la porta si fosse aperta del tutto, Stape era stato investito da un odore curioso, soltanto vagamente sgradevole e persino dolce, ma di una dolcezza che, chissà come, faceva rizzare i capelli. Era certo di non aver mai sentito prima quell'odore eppure in esso c'era qualcosa di conosciuto, che gli suggeriva di stare all'erta. Così, sommando la nuova inquietudine a quella che aveva provato nell'attraversare Kitty Town, il Redentore s'incamminò verso la porta e la oltrepassò. Rimasto nell'anticamera, il vecchio la chiuse alle sue spalle. La stanza era illuminata con attenzione, in modo che si potesse vedere il pavimento, ma lasciando il resto immerso in un'oscurità da cui emergevano solo vaghi contorni. Seduto a una scrivania al centro della stanza c'era qualcuno, però era impossibile identificarlo: sembrava una creatura fatta di ombre. «Prego, accomodatevi, Redentore.» Quella voce. Era diversa da qualsiasi voce che lui avesse mai sentito. Non aveva nessuna inflessione crudele, nessun sibilo malvagio, nessuna roca perfidia... insomma nessuno dei toni che Stape ben conosceva. Somigliava al tubare di una colomba, con una nota di grande tristezza, Paul Hoffman
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simile a un sospiro, a un miagolio profondo. In un certo senso, era la cosa più orribile che gli fosse capitato di ascoltare. Gli parve che quel suono gli risuonasse nella pancia, come la nota più bassa dell'organo della grande cattedrale di Kiev, impossibile da sentire con le orecchie. Represse un conato di vomito. «Non avete una bella cera, Redentore. Volete dell'acqua?» «No, grazie.» Kitty la Lepre sospirò, quasi fosse in preda a una cupa preoccupazione. Per Stape fu come essere baciato da qualcosa di ripugnante e inimmaginabile. «Veniamo al dunque, allora.» Il Redentore dovette far ricorso a tutta la sua determinazione per non crollare, la stessa determinazione che aveva dimostrato molte volte, mettendo al rogo gli apostati e massacrando gli innocenti. Respirò a fondo, ma la cosa non lo aiutò affatto. Anzi non fece che aumentare quell'orribile odore dolciastro. «È vero che i quattro ragazzi da voi cercati sono a Memphis», disse Kitty la Lepre. «Potete raggiungerli?» «Oh, Redentore, chiunque può essere raggiunto. Desiderate che siano vivi?» «Potete farlo?» Il povero Stape Roy riuscì a malapena a non svenire. «Io scelgo di non farlo, Redentore. Vedete, non mi si addice», replicò Kitty la Lepre. Poi emise un suono che poteva essere una gentile risata o il suo esatto contrario. La porta si aprì e riapparve il vecchio che aveva fatto entrare Stape. «Se venite con me, Redentore, concluderò io i nostri affari.» Dieci minuti dopo, ancora bianco come un cencio, il Redentore Roy si stava riprendendo dall'orribile colloquio con Kitty la Lepre. «Vi sentite meglio, Redentore?» chiese il vecchio. Stape lo guardò. «Ma che cos'è...» «Non ponete domande che potrebbero essere considerate offensive», lo interruppe il vecchio. «In questo luogo, non è saggio formulare insulti di tal genere.» Trasse un respiro profondo. «Ecco come stanno le cose. Voi volete prelevare queste quattro persone dalla città vecchia. È una cosa possibile, ma non sarà fatta, perché interferirebbe con interessi che ci stanno molto a cuore.» Paul Hoffman
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«Allora devo andare subito a informare il mio superiore. Vuole conoscere subito le cattive notizie.» «Non siate irragionevole, Redentore», mormorò il vecchio. «La fretta è cattiva consigliera e allunga i tempi. Li terremo d'occhio. A un certo punto, dovranno lasciare la città. Ve lo faremo sapere. Poi, come gesto di buona volontà, ve li restituiremo incolumi. È una promessa.» «Quanto ci vorrà?» «Tutto il tempo che ci vorrà, Redentore. Ci atterremo a ciò che vi ho detto, ma permettetemi di essere chiaro. Se farete anche soltanto un tentativo di riprenderli, Kitty la Lepre lo considererà un attacco diretto ai suoi interessi.» Bussarono alla porta. «Avanti», disse il vecchio. Due guardie entrarono. «Questi uomini vi scorteranno ai cancelli di Kitty Town. Il vostro cavallo è stato nutrito e abbeverato, a prova delle nostre buone intenzioni. Addio.» Quando Stape emerse dall'edificio, l'aria di Kitty Town fu come uno schiaffo in pieno viso. Il rumore! La gente! Gli sembrava di essere un cieco che recuperava la vista solo per vedere gli arcobaleni dell'inferno o un sordo che riacquistava l'udito soltanto per sentire le trombe della fine del mondo. C'erano sguaione con le loro scalzelline, mancedevoli con le zippe in bella mostra, impercatoli in mantofopali che gridavano: «Sballo giallo!» C'erano pingitari coi loro truzzufuri nudi, mediatori che impetravano agonie, Zie coi loro sbarbini strafottenti coperti di rossetto, che offrivano doppi servizietti. C'erano ugonotti che vendevano il preterito al migliore offerente e ragazzi matti e con la lingua lunga pronti a prendere due piccioni con una fava. In preda all'orrore e sbalordito fin quasi alla paralisi, il Redentore Roy all'improvviso lanciò un grido di odio e disgusto. Poi, lasciando esterrefatte le due guardie che lo scortavano, corse all'impazzata verso i cancelli di Kitty Town, immergendosi nella notte. A trenta miglia dall'ultimo villaggio protetto da Memphis, IdrisPukke era seduto in un fosso, sotto la pioggia. Non c'era nulla di asciutto con cui accendere un fuoco e comunque sarebbe stato troppo pericoloso. Nelle ultime ventiquattr'ore aveva mangiato soltanto mezza patata, per di più quasi ammuffita. Come aveva fatto a ridursi così un uomo che aveva comandato tre eserciti, consigliato re e imperatori nonché disonorato quasi un'intera generazione di belle figlie di nababbi e di satrapi? Era una buona Paul Hoffman
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domanda e IdrisPukke conosceva la risposta. Cerano persone che sfidavano la fortuna una volta di troppo; IdrisPukke la sfidava quasi quotidianamente. Aveva raccolto senza seminare, gli avevano dato un dito e si era preso tutto il braccio, aveva guadagnato una fortuna e ne aveva perse due. Da tempo, ormai, aveva esaurito le sue sette vite. Non si poteva negare che, sul campo, fosse un soldato brillante: il suo ingegno, la sua abilità con le armi e il suo acume politico erano ammirati in tutto il mondo conosciuto, cioè ovunque fosse stata emessa una sentenza di morte contro di lui... senza considerare tutti quei luoghi in cui faccende come processi e sentenze erano considerate spiacevoli formalità. In breve, non c'era nessuno Stato in cui IdrisPukke potesse rifugiarsi senza rischiare di essere bollito, sventrato, messo al rogo o impiccato; per non parlare delle terre in cui avrebbe subito una combinazione reiterata di tutte quelle procedure. Il più grande mercenario del mondo era ridotto a nascondersi da uno delle dozzine di cacciatori di taglie e soldati che lo inseguivano, rifugiandosi in un fosso, bagnato, stanco e in preda a un terribile mal di pancia dopo l'ultimo pasto ammuffito. Nel mese precedente, era stato catturato due volte ed era fuggito quasi subito, ma il vero problema era che non esisteva nessun luogo in cui rifugiarsi. IdrisPukke non doveva far altro che chiudere gli occhi per immaginare tutte le ritorsioni delle sue azioni passate. Snap! D'istinto, IdrisPukke si ritrovò a strisciare carponi nel fosso, il più velocemente possibile. «Le torce! Fate luce. Ci ha visto!» Tutt'attorno si accesero torce a illuminare il campo oscuro, ma ciò che aiutava i suoi inseguitori aiutò anche IdrisPukke, che riuscì a intravedere una macchia di alberi a trenta iarde di distanza. Continuò a correre a quattro zampe, veloce come un cane, ma scivolando nel fango. «Eccolo!» L'avevano visto. Mentre continuava a strisciare, scorse la luce delle torce che si avvicinava. Ormai era questione di poco: una freccia o una spada, l'agonia e la morte. Ansante e spaventato, continuò a gattonare. Era ancora libero, poteva ancora muoversi. Doveva raggiungere gli alberi. Si arrampicò sulla parete del fosso, scivolando di continuo e, proprio mentre si stava sollevando oltre il bordo, fu raggiunto da un colpo. Crac! Paul Hoffman
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Restò in piedi immobile per un istante. Il mondo si era fermato, in un lampo di luce e di dolore. Poi ci fu un altro colpo e lui cominciò a cadere all'indietro. Prima di atterrare nel fosso, prendendo un'altra terribile botta in testa, aveva già perso conoscenza. Quando si svegliò, un enorme gorilla peloso lo teneva stretto per entrambi i piedi con una sola zampa e gli sbatteva la testa contro un muro di mattoni, ma in modo indolente, come una casalinga che battesse fiaccamente un tappeto. D'un tratto, il gorilla lo sollevò, in modo che fossero a faccia a faccia, e lo guardò fisso negli occhi. IdrisPukke sapeva che quello era un gorilla perché ne aveva visto uno in un circo, ad Arnhemland. Il suo era molto più grande, però; aveva un alito caldo e umido, che puzzava di carne marcia vecchia di mesi, e dal naso gli colavano fiumi di muco verde. «Sei ancora vivo, dunque», disse il gorilla. Fu soltanto allora che, con un certo sollievo, IdrisPukke si rese conto di stare sognando. Poi il gorilla riprese a sbattergli la testa contro il muro di mattoni, con la stessa svogliata energia di prima. A quel punto, IdrisPukke si costrinse ad aprire gli occhi; la scena attorno a lui si dissolse e si trasformò in un carro. Lui era legato mani e piedi, con la testa che sbatteva contro la parete di legno a ogni strattone, mentre il veicolo avanzava su un terreno sconnesso. Trasse un respiro profondo, per non perdere di nuovo conoscenza, e spostò la testa verso il centro del carro. Era bello smettere di sbatterla contro un muro. Poi il dolore tornò e lui non fu più così lieto. Gemette. «Allora sei sveglio, eh?» Era un soldato, non un cacciatore di taglie, il che quantomeno diceva che era caduto in mano a persone che forse si sarebbero attenute a qualche formalità prima d'infliggergli una serie di trattamenti sgradevoli. In più, c'era una possibilità di fuga. Il soldato gli assestò un rapido colpo nello stomaco con la base della sua corta lancia. «Ti ho fatto una domanda civile e voglio una risposta civile.» «Sì, sono sveglio», ansimò IdrisPukke. «Dove stiamo andando?» «Chiudi il becco. Mi hanno detto di non parlarti per nessun motivo, ma non capisco perché. Non mi sembri chissà cosa.» E, dopo un altro colpo allo stomaco con la lancia, il soldato si rimise comodo e non parlò più.
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14 «Cosa volete che ne faccia?» chiese Albin. Vipond alzò lo sguardo dalla scrivania e rifletté. «M'interessano, tuttavia penso che sia il momento di spremerli un po' di più. Desidero che voi presidiate al loro interrogatorio sui Redentori. Dobbiamo farci un'idea più chiara del Santuario, capire se quello che i Redentori stanno combinando abbia qualche significato per noi. Nel frattempo, mandate i ragazzi a fare gli apprendisti dai Mond.» «Solomon Solomon non ne sarà felice.» «Buon Dio», sospirò Vipond. «Non c'è più nessuno che faccia semplicemente ciò che gli viene detto? Se non gli piace, che si rassegni.» «I Mond sono una masnada di arroganti, Cancelliere. Non sarà facile per quei tre.» «Me ne rendo conto, però voglio tenerli d'occhio. Intendo capire come reagiscono al trattamento. Non li biasimo per avermi mentito, giacché avrei fatto lo stesso, al loro posto. Ma voglio arrivare in fondo a questa faccenda.» Fu così che, due giorni dopo, Cale, Kleist e Henri il Vago si ritrovarono nella Piazza del Campo dell'Eccellenza, insieme con altri quarantasette apprendisti, a guardare un pari numero di giovani Ferrazzi che si scaldavano davanti a Solomon Solomon, controllore delle arti marziali dei Mond. Era un uomo imponente, con la testa rasata e lo sguardo gelido come il vento dell'est in un giorno di gennaio. Quel giorno, il cielo era azzurro e il vento era caldo. I nuovi apprendisti ammiravano i quattordicenni e i quindicenni che facevano esercizi per sciogliere e allungare i muscoli. Si somigliavano tutti: erano alti, sorprendentemente agili, biondi e magri. Brillavano di sicurezza e fiducia in se stessi, mentre distendevano i lunghi arti in contorsioni impossibili o eseguivano flessioni su una mano sola, come se le loro braccia snelle fossero azionate da meccanismi magici. Quarantasette apprendisti assistevano alla scena, intimoriti. Erano i figli di ricchi mercanti che avevano pagato a Solomon Solomon una grande quantità di denaro per entrare in contatto coi Ferrazzi, benché fossero semplici membri della classe dei commercianti. La sostituzione di tre apprendisti coi tre Paul Hoffman
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teppistelli delle Scablands sarebbe costata a Solomon Solomon più di mille dollari all'anno. Perciò il suo cuore gelido era ancora più gelido del solito. Ciascuno degli apprendisti era stato assegnato a un diverso stemma e, benché Cale non avesse idea di cosa fossero, notò che ciascun Ferrazzi accanto a lui portava un distintivo sul petto e che alcuni corrispondevano agli scudi araldici che vedeva dietro gli apprendisti. Ci mise un po' a individuare il possessore del distintivo corrispondente al suo scudo. Era come gli altri, ma le sue caratteristiche erano ancora più accentuate: più alto, più biondo, più aggraziato, più forte. Si muoveva a una velocità straordinaria, simulando combattimenti con diversi avversari, controllando i colpi, ma nel contempo stendendo tutti con estrema facilità, a suo piacimento. Almeno così sembrava. Cale si guardò alle spalle per qualche secondo, esaminando l'armamentario per ciascuno dei Mond: mezza dozzina di tipi di spade, lance corte, medie e lunghe, asce e diversi altri tipi di armi che non aveva mai visto prima. «Tu! Tu! Fermo dove sei!» Era stato Solomon Solomon a parlare e stava fissando Cale. L'uomo scese dal grezzo palcoscenico pieno di manichini da combattimento, dal quale aveva osservato gli esercizi, e marciò direttamente verso Cale, senza togliergli gli occhi di dosso neppure per un istante, sinché non gli fu davanti. Le attività di riscaldamento si bloccarono, mentre i giovani Ferrazzi sembravano curiosi di scoprire cosa sarebbe successo. Non dovettero attendere a lungo. Non appena Solomon Solomon ebbe raggiunto Cale, gli assestò un forte colpo a mano aperta sulla testa. Alcuni Mond risero, con quella sorta d'insensibile indulgenza che si prova nel vedere un atleta ruzzolare durante una gara o un pugile venire colpito da un pugno che gli fa perdere conoscenza per ore. Cale barcollò, ma non cadde, come invece Solomon Solomon si aspettava. E, quando raddrizzò la testa, non protestò né guardò in faccia l'uomo con rabbia. Aveva sperimentato fin troppi atti di violenza arbitraria e conosceva bene l'incomprensibile aggressività di chi detiene il potere per commettere simili errori. «Sai cos'hai fatto?» «No, signore», rispose Cale. «'No, signore'? Osi dirmi che non lo sai?» Quelle parole erano state pronunciate con tutta la furia repressa di un avaro che scopre di aver perso di colpo mille dollari. Solomon Solomon colpì di nuovo Cale. Al terzo colpo, il ragazzo comprese in cosa stava sbagliando. Al Santuario, quando Paul Hoffman
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si veniva colpiti, bisognava restare immobili, perché altrimenti si provocava un nuovo colpo. Lì invece era il contrario. Così cadde debitamente a terra. A quel punto, Solomon Solomon gridò: «In futuro guarda in avanti, guarda il tuo maestro e non abbassare gli occhi. Hai capito?» «Sì, signore.» Solomon Solomon si voltò e marciò di nuovo verso il podio. Lentamente, Cale si alzò, frastornato. Gli altri apprendisti avevano lo sguardo pieno di terrore e fisso davanti a sé; anche Henri e Kleist guardavano in avanti, ma soltanto perché quell'uomo aveva ordinato di fare così. Tuttavia c'era qualcuno che guardava Cale: il più alto e aggraziato dei Ferrazzi, quello cui apparteneva lo stemma cui Cale era stato assegnato. Gli altri attorno a lui ridevano, ma lui no. Era quasi rosso fuoco dalla rabbia. Nemmeno le botte propinate a Cale migliorarono il malumore di Solomon Solomon. Perdere così tanto denaro era stato un colpo al cuore, per lui. «Ai vostri apprendisti! Spade corte!» I Mond s'incamminarono verso la fila degli apprendisti e si disposero di fronte a loro. Il giovane Ferrazzi guardò Cale e gli mormorò: «Mettiti in mostra un'altra volta in quel modo e ti farò rimpiangere di essere nato. Hai capito?» «Sì, ho capito», rispose Cale. «Sono Conn Ferrazzi. D'ora in poi, puoi chiamarmi capo.» «Sì, capo, ho capito.» «Dammi la spada corta.» Cale si voltò. C'erano tre spade corte appese a una spranga di legno, con lame di pari lunghezza, ma forme diverse, dritte e ricurve. Per Cale, una spada era una spada. Ne prese una. «Non quella», sbottò Conn, assestandogli un calcio nel sedere. «L'altra.» Cale prese la spada lì accanto e si buscò un altro calcio, tra le risate dei suoi amici e di alcuni apprendisti. «L'altra», disse Conn. Cale la prese e la porse al giovanotto sorridente. «Bene, adesso ringrazia per quel calcio istruttivo.» Cadde un silenzio carico di attesa. Forse l'apprendista sarebbe stato abbastanza stupido da protestare o, ancor meglio, da ricambiare il colpo. Paul Hoffman
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«Ringraziami», ribadì Conn. «Grazie, capo», disse Cale, in tono quasi affabile, con grande sollievo di Henri il Vago e persino di Kleist. «Eccellente. Assenza di spina dorsale: mi piace, in un servitore», dichiarò Conn, guardando i suoi amici. L'accattivante risata fu interrotta da un altro ordine abbaiato da Solomon Solomon. Per le due ore successive, Cale rimase a guardare, con la testa dolorante, mentre i Mond svolgevano i loro esercizi di addestramento. Quando ebbero finito, lasciarono il campo ridendo, per andare a lavarsi e a mangiare. Quindi sopraggiunsero diversi uomini più anziani, gli inservienti, che istruirono gli apprendisti nell'uso e nella cura delle armi. Più tardi, i tre ragazzi si sedettero a parlare. Sorprendentemente, Henri e Kleist erano più avviliti di Cale. «Dio mio, pensavo che avessimo avuto un po' di fortuna a finire qui», sbottò Kleist, guardando Cale con aria indispettita. «Hai un vero talento per irritare le persone, Cale. Ci hai messo... vediamo, venti minuti per scornarti coi due più grossi rompipalle del gruppo. E sì che sembrava una faccenda di tutto riposo!» Cale rimase in silenzio. «Vuoi partire stanotte?» chiese Henri. «No», rispose Cale, ancora pensieroso. «Mi servirà un po' di tempo per rubare tutto quello che posso.» «Non è saggio aspettare. Pensa a quello che potrebbe succedere.» «Andrà tutto bene. E poi non c'è bisogno che voi due partiate. Kleist ha ragione: siete caduti in piedi, qui.» «Bah! Quando te ne sarai andato, se la prenderanno con noi comunque», gli fece notare Henri. «Forse. Magari Kleist ha ragione: c'è qualcosa in me che fa arrabbiare la gente.» «Io vengo con te», dichiarò Henri. «No.» «Ho detto che vengo.» Ci fu un lungo silenzio e, alla fine, Kleist disse: «Be', io non rimarrò qui da solo». Poi si allontanò con aria imbronciata. «Potremmo andarcene prima che lui torni», mormorò Cale. «È più logico che rimaniamo insieme.» «Immagino di sì, ma perché deve lamentarsi di continuo?» Paul Hoffman
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«È il suo modo di fare. Però è un tipo a posto», affermò Henri. «Davvero?» chiese Cale, come se fosse soltanto vagamente curioso. «Quando vuoi partire?» «Tra una settimana. Qui c'è un sacco di roba che vale la pena di sgraffignare. Dobbiamo fare delle scorte.» «È troppo pericoloso.» «Andrà tutto bene.» «Non sono d'accordo.» «Be', sono io che rischio la testa e il culo, perciò la decisione è mia.» Henri scrollò le spalle. «Immagino di sì», disse, poi cambiò argomento. «Che ne dici dei Mond? Sono pieni di sé, non ti pare?» «Belli tosti, però.» «Belli sono belli», annuì Henri, sorridendo. Poi si fece serio. «Pensi che Riba se la caverà?» «E perché non dovrebbe?» Era chiaro che Henri era davvero preoccupato. «Il fatto è che lei non è come te e me. Non sopporterebbe di essere picchiata o cose simili. Non ci è abituata.» «Se la caverà. Vipond ci ha sistemati tutti, no? Quello che ha detto Kleist è vero. Se non fosse per me, voi qui vivreste nella bambagia.» In realtà, non sapeva nemmeno cosa fosse la bambagia, ma aveva sentito quell'espressione un paio di volte e gli era piaciuta. «Riba va d'accordo con la gente. Non avrà problemi.» «E tu, perché non vai d'accordo con la gente?» «Non lo so.» «Cerca di star fuori dai guai e, se non ci riesci, smettila di guardare le persone come se volessi prima tagliar loro la gola e poi darle in pasto ai cani.» Il giorno dopo, però, la speranza di Henri che le cose con Solomon Solomon e Conn Ferrazzi si placassero venne disattesa. Solomon Solomon trovò altre scuse per malmenare Cale, ma stavolta nel bel mezzo del campo, in modo che tutti assistessero alla scena e fossero incoraggiati a trovare un motivo per fare altrettanto. Conn Ferrazzi, che era più insidioso del suo maestro e non voleva essere accusato di copiarlo pedissequamente, continuò a prendere a calci Cale per ogni minimo pretesto, ma senza quasi metterci forza. Aveva talento nell'impartire umiliazioni e trattava Cale come se fosse un risibile fardello che gli era toccato e che lui doveva Paul Hoffman
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gestire con la massima gentilezza. Con le sue gambe lunghe e flessibili e dopo una vita di esercizi, riusciva a colpire Cale sulla parte posteriore delle gambe, sul sedere e addirittura sulle orecchie, come se usare le mani con uno come lui significasse prenderlo troppo sul serio. Dopo quattro giorni di quel trattamento, però, era l'effetto di Conn su Cale a preoccupare Henri più delle botte che gli riservava Solomon Solomon. Cale era abituato a una brutalità ben più estrema di quella che Solomon Solomon poteva concepire, ma essere ridicolizzato non faceva parte dell'esperienza sua e dei suoi compagni. Dunque Henri temeva che, prima o poi, Cale reagisse a quelle provocazioni. «A me sembra più calmo che mai», replicò Kleist, quando Henri si sedette accanto a lui e gli confidò la sua apprensione. «Tranquillo come una casa infestata finché non si risveglia il demone», disse Henri. Entrambi risero a quella frase, spesso ripetuta dai Redentori. «Soltanto altri due giorni», mormorò Kleist. «Convinciamolo a partire domani.» «Va bene.» Attingendo alla sua malvagità, Conn Ferrazzi si sentiva ormai perfettamente a suo agio nel ruolo di padrone tollerante di un ridicolo idiota e i suoi amici lo ammiravano molto per quello. Tra un pugno e un calcio di Solomon Solomon, Conn arruffava i capelli di Cale per rimproverarlo di errori che non aveva commesso, come se fosse un vecchio animale domestico, incontinente, sì, ma oggetto di grande compassione. C'erano poi infiniti buffetti provocatori sulla nuca, colpetti sul sedere, dati di piatto con la spada... Cale rimaneva in silenzio, incupendosi sempre di più. Ma Conn era un mostro, non uno stupido e notò che, se le percosse non lasciavano nessun segno apparente, la sua derisione invece stava lentamente facendo breccia nell'animo coriaceo del ragazzo, per quanto lui si sforzasse di nasconderlo. I Ferrazzi erano famosi per due cose. La prima era la loro suprema abilità nelle arti marziali e il coraggio e la temerarietà che la accompagnavano: erano terrificanti macchine da guerra, sia singolarmente sia collettivamente. La seconda era la straordinaria avvenenza delle loro donne, eguagliata soltanto dalla loro freddezza. Si diceva che fosse impossibile capire perché i Ferrazzi fossero così pronti a morire in battaglia se non si aveva esperienza diretta dell'atteggiamento Paul Hoffman
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condiscendente, fiero e sprezzante delle loro donne. Eppure chiunque le incontrasse non poteva sottrarsi al fascino della loro stupefacente bellezza e, proprio come i Ferrazzi, sarebbe stato disposto a sopportare qualsiasi cosa per un sorriso o un bacio. Così, benché i Ferrazzi dominassero un terzo del mondo conosciuto grazie al loro potere militare, economico e politico, le popolazioni conquistate potevano sempre consolarsi pensando che, per quanto fosse grande la loro influenza, erano comunque schiavi delle loro donne. Benché Solomon Solomon e Corni Ferrazzi non smettessero di tormentare Cale, ciò non impedì a lui e ai suoi due compagni di dedicarsi ai furti. Non era particolarmente difficile o pericoloso perché, almeno agli occhi dei tre giovani, i Ferrazzi avevano un atteggiamento bizzarro nei confronti di ciò che possedevano: sembravano pronti a gettare via le cose subito dopo averle comprate. Cale, Henri e Kleist - ai quali era stato proibito possedere qualsiasi cosa - ne erano rimasti sconcertati. Avevano cominciato col rubare piccoli strumenti che ritenevano utili, come un coltello a serramanico o un affilatoio; poi avevano preso il denaro lasciato in giro, spesso in quantità enormi, nelle camere da letto dei loro capi; quindi si erano resi conto che, per avere un certo oggetto, bastava chiedere al capo se voleva che lo spostassero o lo pulissero, dato che spesso quello rispondeva semplicemente di buttarlo. Nel giro di quattro giorni, avevano rubato e ricevuto «in regalo» più roba di quanta potessero o sapessero usare: coltelli, spade, un arco da caccia leggero - con un piccolo difetto che Kleist aveva facilmente riparato -, un bollitore da campo, scodelle, cucchiai, corda, spago, cibi conservati dalle cucine e una discreta somma di denaro, che sarebbe aumentata allorché avessero ripulito le stanze dei rispettivi capi prima di partire. Avevano infine nascosto con cura il bottino in una serie di nicchie e angolini, ma la probabilità che fosse scoperto era quasi nulla, perché nessuno sentiva la mancanza di quelle cose. Nel comprendere che, in quel luogo, se la sarebbero potuta spassare semplicemente grazie agli oggetti che gli altri non volevano più, Kleist e Henri si rammaricarono di dover partire. Ma le soperchierie di Conn Ferrazzi - che non smetteva di punzecchiare Cale, di dargli buffetti sulle guance, di tirargli il naso come a un monello - preoccupavano troppo Henri per convincerlo a cambiare idea. Nel pomeriggio del quinto giorno, Cale stava cercando qualcosa da Paul Hoffman
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rubare in una parte della fortezza a lui vietata, in quanto apprendista. Ma il termine «vietato» a Memphis aveva un significato molto diverso da quello che aveva nel Santuario. Coi Redentori, una trasgressione poteva portare, per esempio, a ricevere quaranta colpi con una cintura di cuoio rinforzata da bullette di metallo, e dunque al rischio di morire dissanguati. A Memphis, «vietato» indicava una cosa che, se fatta, comportava una punizione vagamente sgradevole oppure un impedimento dal quale ci si poteva liberare con una scusa. In quel caso, se Cale fosse stato colto in flagrante, si sarebbe semplicemente scusato, sostenendo di essersi perso. Stava attraversando la parte più antica della fortezza, che era anche la parte più antica di Memphis. Gran parte delle mura, comprese le stanze un tempo utilizzate come magazzini, era stata demolita e sostituita coi palazzi eleganti - dalle enormi finestre - che i Ferrazzi amavano tanto. Era una zona buia, progettata per gli assedi, non per andarci a passeggio: l'unica illuminazione proveniva da corridoi distanti anche venti iarde l'uno dall'altro. Mentre Cale saliva cautamente una rampa di scalini di pietra, senza nessuna protezione o balaustra a impedirgli di perdere l'equilibro e schiantarsi sul lastricato, sentì che qualcuno stava scendendo di corsa le scale verso di lui. Non poteva vedere chi fosse, sia per il buio sia perché le scale facevano una curva, ma era evidente che aveva con sé una lanterna. Così si nascose in una rientranza, sperando di confondersi con l'oscurità, e rimase in attesa. I passi frettolosi e la luce fioca si avvicinarono finché, proprio mentre lui si appiattiva contro la parete, non apparve una ragazza, che gli passò accanto di gran fretta. Tuttavia vuoi per il buio, vuoi perché le pietre erano sconnesse, vuoi per la velocità, la giovane inciampò in una lastra di pietra sporgente poco oltre la curva e si fermò, in bilico, sospesa su un baratro profondo dieci iarde, in fondo al quale l'attendeva il pavimento lastricato. Poi, con un breve grido, lasciò cadere la lanterna, ed era sul punto di seguirne le sorti quando Cale l'afferrò per un braccio e la trasse in salvo. «Mio Dio!» gridò la ragazza, atterrita da quella mano comparsa dal nulla. «È tutto a posto. Stavate per cadere...» mormorò Cale. «Oh!» esclamò lei, guardando la lanterna, che si era rotta, ma continuava a bruciare l'olio versato. «Oh!» esclamò ancora, poi aggiunse: «Mi avete spaventato». Cale rise. «Per fortuna siete ancora viva per potervi spaventare.» Paul Hoffman
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«Me la sarei cavata.» «No, invece.» Lei guardò ancora in basso e poi socchiuse le palpebre per osservare Cale, notando che era di altezza media e coi capelli neri, quindi diverso da qualsiasi ragazzo o uomo che avesse mai visto. Ma furono soprattutto i suoi occhi a colpirla: erano scuri, segnati e... avevano qualcos'altro che non sapeva definire. All'improvviso ebbe paura. «Devo andare. Grazie», disse. E riprese a scendere di corsa le scale. «Attenta», fece Cale, così sottovoce che sarebbe stato impossibile sentirlo. Poi la ragazza scomparve. Lui si sentì come se fosse stato colpito da un fulmine. La ragazza in cui si era imbattuto avrebbe fatto girare la testa anche a un uomo molto anziano e saggio e Cale non era né l'uno né l'altro, soprattutto quando si trattava di donne. Quella giovane era Arbell Ferrazzi, la figlia del Maresciallo Ferrazzi, Doge di Memphis. Nessuno, però, all'infuori del padre, pensava a lei come ad Arbell Ferrazzi: tutti la chiamavano «Arbell Collo di Cigno» ed era considerata la più bella donna di Memphis e probabilmente anche di tutti i suoi vasti territori. Descrivere la sua bellezza? Basta immaginare una donna simile a un cigno. Come sarebbe stata diversa la storia se Cale, quel pomeriggio, non l'avesse incontrata all'interno delle grandi mura o se non fosse stato abbastanza lesto da trarla in salvo, in quel luogo oscuro e scivoloso, e se lei si fosse spezzata il bellissimo, lungo ed elegante collo sul lastricato... Nel giro di poche ore, un Cale folgorato dall'amore aveva annunciato ai suoi due compagni - il primo divertito e il secondo irritato - di aver cambiato idea e di non voler più lasciare Memphis. Naturalmente non aveva spiegato il vero motivo di quel ripensamento; si era limitato a dire di aver subito, nel corso della sua vita, batoste assai peggiori di quelle di Solomon Solomon e di aver deciso d'ignorare le provocazioni di Conn Ferrazzi. Perché si sarebbe dovuto preoccupare per gli stupidi scherzi di un moccioso viziato, quando avevano tanti buoni motivi per restare lì? Sebbene perplessi, Henri e Kleist non avevano ragione di dubitare di lui. Ma Henri dubitava comunque. «Tu gli credi?» aveva domandato a Kleist più tardi, dopo che erano rimasti soli. «E che m'importa, in un modo o nell'altro? Se vuole restare, a me sta Paul Hoffman
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bene. L'unica cosa che non mi piace è che si comporta sempre come se fosse Dio onnipotente.» Nei giorni successivi, Henri osservò Cale con grande attenzione, mentre le botte e le derisioni continuavano. E, dato che erano gli scherni a preoccuparlo di più, ebbe modo di studiare a fondo anche Conn Ferrazzi. Sì, forse era un moccioso viziato, però era anche un praticante di arti marziali quasi senza pari. Soltanto gli uomini d'arme più anziani ed esperti riuscivano a sconfiggerlo nei combattimenti dolorosamente realistici che si svolgevano ogni venerdì e che duravano per l'intera giornata; e pure quelle disfatte contro soldati mortalmente abili e spietatamente crudeli divennero sempre più rare col passare delle settimane. Se Conn Ferrazzi era diventato famoso, non era successo per caso, insomma. Così non fu una sorpresa che, nell'ultima settimana di addestramento formale, gli fosse conferito un onore concesso di rado a qualcuno che stava per entrare nell'esercito dei Ferrazzi: la Custodia della Forza o Fusto di Danzica, comunemente nota come la Lama. Fabbricata cent'anni prima dal celebre armaiolo Martin Bacon, era una spada forgiata con un acciaio di forza e flessibilità uniche, un segreto purtroppo andato perduto allorché Bacon si era ucciso per amore: si era perdutamente innamorato di una giovane Ferrazzi che però lo ignorava. Peter Ferrazzi, il Doge dell'epoca, per il quale l'armaiolo aveva fabbricato la spada, non si era dato pace, rifiutandosi di credere che un uomo geniale come Bacon si fosse suicidato per quel motivo. Si raccontava che esclamasse spesso: «Per una ragazza! Ma io gli avrei dato mia moglie, se me lo avesse chiesto!» e, sebbene l'efficacia di una tale offerta fosse piuttosto dubbia, data la freddezza delle donne di famiglia, era indiscutibile che la Custodia della Lama era un grande onore per Conn e non veniva concesso da oltre vent'anni. La cerimonia di conferimento e la parata di ammissione nell'esercito furono ovviamente splendide: una grande folla, cappelli sventolati, acclamazioni, musica, fasti, discorsi, eccetera. I quasi cinquemila Mond erano schierati davanti ai loro antenati: un'élite corazzata, la migliore del mondo per addestramento e attrezzatura, composta soltanto di militari di alto grado e di estrazione aristocratica. Molto di più di un semplice esercito. Al centro di tutto ciò c'era Conn Ferrazzi: sedici anni, alto più di sei piedi, biondo, muscoloso, snello e avvenente, colui che la folla osservava, il centro dell'attenzione, il beniamino, l'orgoglio dei Ferrazzi. Nel Paul Hoffman
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momento in cui gli venne consegnata la Lama, accolse con palese alterigia le acclamazioni e gli applausi. Poi sollevò la spada sopra la testa: esplose un boato da fine del mondo. Per non attirare attenzione su di sé, Henri il Vago applaudì. Kleist espresse la propria antipatia esagerando gli applausi e gridando incitazioni come se Conn fosse suo fratello gemello. Tuttavia, nonostante una gomitata di Kleist e una supplica sussurrata da Henri, Cale rimase impassibile. Una reazione che non sfuggì al suo padrone. Data l'alta opinione di sé che aveva in partenza e che era stata rafforzata da schiere di leccapiedi, Conn ormai si riteneva un individuo straordinario. Qualche ora più tardi, dopo che lui era tornato all'isolamento della grande fortezza, la testa gli ronzava ancora, come un alveare di api impazzite. Ma ci volle molto meno perché Conn tornasse coi piedi per terra quanto bastava per ricordare l'insulto calcolato di Cale, il rifiuto di applaudire il suo trionfo. Quello spettacolare atto d'insubordinazione non poteva essere tollerato. Mentre si trovava ancora nel Giardino d'Estate, mandò quindi un servo a convocare il suo apprendista. Il servo ci mise parecchio a trovare Cale, anche perché, una volta giunto al dormitorio degli apprendisti, ebbe la sfortuna di chiedere a Henri il Vago dove trovare il suo compagno. Era da un pezzo che Henri non metteva a frutto il suo talento per l'evasività ma, non appena venne interpellato, la sua naturale ambiguità prese il sopravvento. «Cale?» chiese, come se non fosse sicuro se si trattasse di una cosa o di una persona. «Il nuovo apprendista di Lord Conn Ferrazzi.» «Lord chi?» «Ha i capelli neri ed è alto così...» Rendendosi conto di avere a che fare con uno non particolarmente sveglio, il servo sollevò la mano, indicando un'altezza tra i cinque e i sei piedi. «Ha un aspetto penoso.» «Ah, intendi Kleist. È giù nelle cucine.» Forse sto davvero cercando Kleist, pensò il servo. Gli sembrava che Conn Ferrazzi avesse detto Cale però, visto l'umore del padrone, non aveva voglia di tornare a chiederglielo. Purtroppo, in quel momento, Cale entrò nel dormitorio, sperando di recuperare un po' di sonno, e così mandò in fumo il piano di Henri, che aveva progettato di spedire il servo a cercarlo fin quasi al Santuario. «E lui», disse il servo a Henri. Paul Hoffman
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«Quello non è Kleist, è Cale», replicò Henri, trionfante. Quando Cale arrivò nel Giardino d'Estate, Conn non era più circondato dalla folla, però era finalmente arrivata la persona che, per lui, era senza dubbio la più importante: Arbell Collo di Cigno. Educata a trattare gli uomini con sdegno, mitigato soltanto da una certa dose di condiscendenza, Arbell trovava piuttosto arduo mostrare, nei confronti di Conn, qualche emozione che andasse al di là dell'indifferenza. In realtà, non era per nulla indifferente alla sua bellezza e al suo successo, proprio come non lo sarebbe stata qualsiasi altra giovane donna, bella come un cigno oppure no. Se si fosse trattato di un altro, Arbell avrebbe saputo istintivamente come comportarsi: sarebbe apparsa durante i festeggiamenti, si sarebbe complimentata con lui in modo assai misurato e poi sarebbe svanita. Davanti a quel meraviglioso giovane guerriero, ai boati della folla e al potere raro e glorioso della cerimonia, tuttavia, persino le più altere donne Ferrazzi avrebbero avuto difficoltà a restare impassibili. Senza contare che Arbell, in realtà, era assai meno sdegnosa di quanto sembrasse e si era messa addirittura a tremare nel momento in cui Conn aveva sollevato la Lama e la folla aveva espresso fragorosamente la sua ammirazione nei confronti di quel magnifico giovane. Di conseguenza, l'abilità di Arbell di restare imperturbabile davanti ai giovani uomini l'aveva abbandonata e il conseguente turbamento l'aveva indotta ad arrivare con un ritardo eccessivo e addirittura ad arrossire - benché Conn non se ne accorgesse nel fargli i complimenti per il suo trionfo. C'erano soltanto due persone cui Conn riservava una certa deferenza: suo zio, il Maresciallo Ferrazzi, e sua figlia Arbell. Quella ragazza gli provocava un autentico sgomento, sia per la sua bellezza sconcertante sia per l'apparente disprezzo che nutriva per lui. Così, a dispetto di una giornata che lo aveva investito di un potere e di una maestà quasi senza pari, l'arrivo della ragazza aveva gettato Conn in un tale imbarazzo che forse lui non si sarebbe accorto dell'uguale imbarazzo di Arbell nemmeno se lei gli avesse gettato le braccia al collo e lo avesse soffocato di baci. Aveva ascoltato il suo discorsetto di congratulazioni riuscendo a malapena a capire quello che lei stava dicendo e di certo non aveva notato il tono incerto con cui Arbell aveva pronunciato quelle parole. E fu proprio mentre i due si stavano congedando con un inchino e Arbell si girava per andarsene che Cale arrivò. Di solito, Arbell avrebbe prestato a un apprendista la stessa attenzione Paul Hoffman
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riservata a una falena grigia. Ma, trovandosi di fronte allo strano ragazzo che l'aveva salvata da una caduta mortale soltanto qualche giorno prima, il turbamento che si era fatto strada in lei nel corso della giornata si accentuò. Così il viso di Arbell sembrò raggelarsi e il suo sguardo divenne completamente vacuo. Solo gli amanti più grandi ed esperti della Storia - come il leggendario Nathan Jog o forse il mitico Nicholas Panick - avrebbero colto la verità celata da quell'atteggiamento della ragazza, il cui cuore era ormai in subbuglio. Ma il povero Cale, naturalmente, non era affatto un grande amante, quindi vide soltanto ciò che temeva di vedere. Per lui, l'espressione della ragazza equivaleva a un gelido affronto: lui le aveva salvato la vita e se n'era innamorato e lei non lo riconosceva nemmeno. Tuttavia, per quanto confusa e sconcertata, Arbell aveva ben chiaro come sottrarsi a quell'incontro inatteso. Semplicemente si voltò e s'incamminò verso il cancello all'altra estremità del Giardino d'Estate, a circa cento iarde di distanza. A quel punto, nel giardino, oltre a Conn, Arbell e Cale, c'erano soltanto otto persone: cinque amici intimi di Conn e tre guardie annoiate, bardate con l'armatura cerimoniale e col triplo delle armi che avrebbero mai portato in una vera battaglia. E c'era un solo osservatore: Henri il Vago, preoccupato per il suo amico, aveva raggiunto il tetto che sovrastava il giardino e guardava in basso, nascosto da un fumaiolo. Conn Ferrazzi si girò verso il suo apprendista come se volesse parlargli, ma fu preceduto da uno dei suoi amici, il quale, ubriaco e in vena di divertirsi, pensò d'imitare Conn quando trattava Cale come se fosse un idiota. Allungò quindi una mano e diede a Cale due schiaffetti sul viso. Conn rimase impassibile, ma gli altri presero a ridere così forte da indurre Arbell a voltarsi nel preciso istante in cui un terzo schiaffo di derisione si stampava sulla guancia di Cale. La ragazza ne fu inorridita, tuttavia, nella sua espressione, Cale non lesse altro che un'ulteriore prova del suo disprezzo. Fu al quarto schiaffo che, si potrebbe dire, il mondo cambiò. Senza sforzo apparente, Cale afferrò il polso del giovane con la mano sinistra e l'avambraccio con la destra, poi torse entrambi. Il sonoro colpo secco e l'urlo straziante che seguirono furono accompagnati da un altro movimento di Cale, che prese il ragazzo per le spalle e lo gettò addosso a uno sconcertato Conn Ferrazzi. Quindi Cale fece un passo indietro, chiuse il Paul Hoffman
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pugno destro nella mano sinistra e sferrò una gomitata in faccia al più vicino dei Ferrazzi, che perse conoscenza ancor prima di toccare terra. Nel frattempo, gli altri due giovani si erano riscossi dallo stupore: avevano estratto i pugnali da cerimonia, fatto un passo indietro e assunto una posizione da combattimento. Con aria distaccata, Cale si mosse verso di loro ma, improvvisamente, si chinò, raccolse una manciata di calce e ghiaia e gliela gettò in faccia. Sorpresi e confusi, i due si allontanarono, girando su se stessi, mentre Cale sferrava un gran pugno nelle reni del più vicino e un colpo allo sterno del secondo. Infine l'apprendista raccolse i due pugnali e si voltò per affrontare Conn, che nel frattempo si era districato dall'amico ancora urlante. L'intera scena non era durata più di una manciata di secondi. Conn e Cale si fissarono, in silenzio. L'espressione del primo era controllata, ma il suo furore era evidente. Il viso del secondo era assolutamente impassibile. Intanto i tre soldati erano accorsi dal chiostro, dov'erano andati a cercare un po' di frescura, visto che erano bardati come cavalli. «Lasciate che ce ne occupiamo noi, signore», disse il sergente cerimoniere. «Voi restate dove siete», replicò pacatamente Conn. «Se vi provate a prenderlo, giuro su Dio che pulirete merda di cavallo per il resto della vita. È vostro preciso dovere obbedirmi.» Era vero. Il sergente arretrò di un passo, ma fece cenno a uno dei compagni di andare a chiamare altre guardie. Spero che quel coglione pieno di sé si prenda una bella batosta, pensò poi, ma sapeva che non sarebbe successo. Conn Ferrazzi era un soldato più unico che raro, un maestro a soli sedici anni. Bisognava riconoscerglielo, anche se era un bastardo. Conn sguainò la Lama. Salvo che per la cerimonia in quella giornata particolare, era stata sempre considerata troppo preziosa per essere usata in battaglia ed era rimasta semplicemente in mostra in uno dei saloni. Ma Conn sapeva che avrebbe potuto sostenere di non aver avuto scelta. Perciò, per la prima volta in quarant'anni, la Lama fu sguainata con l'intenzione di uccidere qualcuno. «Fermi!» gridò Arbell. Conn la ignorò. In una faccenda di tale portata, nemmeno lei poteva avere voce in capitolo. Cale non diede neppure a vedere di averla sentita. Sul tetto, Henri sapeva di non poter fare nulla. Il duello cominciò. Paul Hoffman
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Conn sferrò un fendente a velocità incredibile, seguito da un colpo di taglio e poi da un altro, mentre Cale indietreggiava lentamente, bloccando ogni colpo coi due pugnali che, essendo ornamentali, ben presto somigliarono a una sega vecchia e consunta. Conn si muoveva e parava con grande grazia e velocità; sembrava una via di mezzo tra un ballerino e uno schermidore. Cale continuava a battere in ritirata, riuscendo a malapena a parare i colpi, le stoccate e gli affondi di Conn, diretti alla testa, al cuore, alle gambe... ovunque lui vedesse un'apertura. Il tutto avveniva in silenzio, a parte la strana musica, quasi una melodia, prodotta dalla Lama, in contrasto col sordo tintinnio dei pugnali. Conn Ferrazzi incalzava Cale, il quale parava i colpi - uno alto, uno basso -, continuando ad arretrare. In breve, avendolo costretto contro la parete, senza via di scampo, fece un passo indietro, per coprire eventuali movimenti laterali di Cale. «Il tuo modo di combattere è come quello di un cane», sibilò. Cale era sempre impassibile. Non diede segno neppure di aver sentito quell'ennesima provocazione. Conn continuava a spostarsi a destra e a sinistra, facendo qualche passata elegante per segnalare agli astanti che si preparava a uccidere. Sentì il cuore battere forte ed era estasiato dalla consapevolezza che nulla, dopo quel duello, sarebbe più stato uguale a prima. Nel frattempo, erano arrivati nel giardino altri venti soldati, tra cui diversi arcieri, e il sergente cerimoniere li aveva fatti schierare a semicerchio, a qualche iarda di distanza dal duello. Tutti avevano capito come sarebbe andata a finire. E, nonostante gli ordini di Conn, il sergente sapeva benissimo che avrebbe passato un guaio se il giovane Ferrazzi fosse rimasto ferito. Provò un autentico dispiacere per il ragazzo bloccato contro la parete, mentre Conn sollevava la spada per l'ultimo colpo. Ma Conn, prima di abbassare l'arma, cercò la paura negli occhi di Cale. E non la trovò. Lo sguardo dell'altro era vacuo, assente, come se non ci fosse più un'anima dentro di lui. E falla finita, idiota, pensò il sergente. Poi Conn sferrò il colpo. Sarebbe impossibile indicare a quale velocità la Lama tagliò l'aria; al confronto, un fulmine si muove lentamente. Cale non parò il colpo; semplicemente si scostò di lato, con un movimento impercettibile. La spada lo mancò, ma soltanto dell'ampiezza dell'ala di un moscerino. Ci fu un altro colpo, tuttavia neppure quello andò a segno. Paul Hoffman
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Quindi giunse una stoccata, che Cale schivò. Infine, per la prima volta, Cale sferrò un vero colpo e Conn lo parò a malapena. Quindi, colpo dopo colpo, lo costrinse a indietreggiare, finché non si ritrovarono nel punto in cui lo scontro era iniziato. Conn ormai ansimava e la paura crescente lo faceva annaspare ancora di più. Non essendo abituato al terrore e alla presenza della morte, il suo corpo sembrò ribellarsi alle abilità acquisite negli anni di addestramento. I nervi cominciarono a logorarsi e le viscere a cedere. Poi Cale indietreggiò fino a trovarsi fuori della portata della spada e squadrò Conn dalla testa ai piedi. Dopo un paio di secondi, Conn, disperato, sferrò un altro colpo. La Lama sibilò, fendendo l'aria, però Cale si era mosso prima ancora che il colpo partisse, bloccando la Lama con un pugnale e affondando l'altro nella spalla dell'avversario. Con un urlo di dolore e di shock, Conn lasciò cadere la spada, mentre Cale lo faceva girare e, bloccatogli il collo con l'avambraccio destro, gli puntava contro il ventre il pugnale che stringeva nella sinistra. «Non ti muovere», gli sussurrò all'orecchio. Quindi si rivolse ai soldati che stavano per raggiungerlo. «Restate dove siete, altrimenti lo sventro come un maiale!» E, per rendere chiare le sue intenzioni, punse il fianco di Conn. Il sergente, terrorizzato, fece cenno ai suoi uomini di fermarsi. La pressione di Cale sulla gola di Conn aumentò; il giovane ormai faticava a respirare. «Prima che tu te ne vada, capo, ti do un regalino da portare con te», mormorò ancora Cale. «Combattere non è un'arte.» Conn perse conoscenza e rimase appeso al braccio di Cale, che si decise ad allentare la presa. «È ancora vivo, sergente», annunciò. «Tuttavia, se proverete a fare anche il minimo gesto in sua difesa, non lo sarà per molto. Ora raccoglierò la spada, perciò fate i bravi.» Sostenendo il considerevole peso del giovane, Cale si abbassò lentamente e allungò la mano per prendere la Lama. Quando l'ebbe afferrata, si rialzò, la mise di piatto contro la gola di Conn... e si accorse che stavano sopraggiungendo altri soldati. Ben presto, ce ne fu quasi un centinaio. «Dove hai intenzione di andare, figliolo?» chiese il sergente. «A dire la verità, non ci ho pensato», rispose Cale. Fu allora che Henri il Vago gridò dal tetto: «Promettete che non gli farete del male e lo lascerà andare». Allarmati, i soldati risposero a quel tentativo di patteggiamento con tre frecce scagliate nella direzione di Henri, il quale si riparò, scomparendo Paul Hoffman
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alla vista. «Fermi!» gridò il sergente. «Il prossimo che si muove senza un mio ordine si becca cinquantun anni a pulire i cessi!» Si voltò verso Cale. «Che dici, figliolo? Lascialo andare e non ti sarà fatto nulla.» «E poi?» «Non lo so. Farò quello che posso. Dirò che questi ragazzi ti tormentavano. Che poi mi ascoltino è un'altra faccenda, ovvio... Ma che scelta hai?» «Cale! Fai come ti dice», gridò Henri, badando a non sporgersi più di tanto dal bordo. Cale esitò, sebbene fosse perfettamente chiaro ciò che doveva fare. Allontanando la Lama dalla gola di Conn, si guardò attorno, in cerca di un luogo in cui posarla. Fu fortunato. Con estrema cautela fece due passi indietro, verso un punto delle vecchie mura in cui s'incontravano due enormi pietre di fondazione, a un'altezza di poco inferiore a quella del suo ginocchio. Infilò la Lama tra le pietre, a una profondità di circa dieci pollici. «Che cosa stai facendo, ragazzo?» gridò il sergente. Cale lasciò cadere a terra Conn Ferrazzi, ancora privo di conoscenza, si voltò verso la spada e, con tutta la sua forza, la spinse contro le grosse pietre. La Lama, la Forza, il Fusto di Danzica, insomma forse la più grande spada nella Storia del mondo intero, prima si piegò e poi si spezzò, producendo il suono di una campana. Dai soldati si levò una corale esclamazione di stupore. Cale guardò il sergente, poi con calma lasciò cadere la metà spezzata della Lama che reggeva ancora in mano. Allora il sergente prese una catena e un lucchetto da un soldato e andò verso di lui, dicendo: «Voltati, ragazzo». Cale obbedì. Mentre il sergente lo ammanettava, gli mormorò all'orecchio: «Questa è l'ultima stupidaggine che farai in vita tua, figliolo». Uno dei soldati medici - ce n'era uno ogni sessanta soldati nell'esercito dei Ferrazzi - si era precipitato da Conn, che giaceva a terra, ancora privo di sensi. L'uomo alzò gli occhi sul sergente, annuì e poi andò a controllare gli altri. A quel punto, Arbell fece irruzione nell'anello di soldati che circondava Cale e i feriti e s'inginocchiò accanto a Conn, per sentirgli il polso. Quindi, soddisfatta, si alzò e guardò Cale, che era stretto tra due Paul Hoffman
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soldati. «Immagino che non mi dimenticherai una seconda volta», le disse lui in tono calmo e controllato, scoccandole un'occhiata gelida. I soldati si apprestarono a trascinarlo via, ma fu allora che Cale ebbe un colpo di fortuna. Pur non essendo preoccupato di ciò che sarebbe potuto accadere al compagno, ma mosso soltanto dalla curiosità, Kleist aveva seguito sul tetto Henri. Poi, non appena era cominciato il duello, Henri aveva detto a Kleist di andare a cercare il capitano Albin, cosa che lui aveva fatto. In un attimo, Albin aveva chiamato a sé i suoi uomini e si era diretto al Giardino d'Estate, dov'era arrivato nel preciso istante in cui quattro soldati stavano trascinando Cale fuori dal giardino, diretti alle carceri, un luogo dove lui sarebbe stato fortunato a sopravvivere anche solo una notte. «Ce ne occuperemo noi, adesso», dichiarò Albin, affiancato da dieci dei suoi uomini, con le loro uniformi costituite da panciotto e bombetta neri. «Il sergente cerimoniere ci ha ordinato di portarlo in carcere», obiettò il soldato più anziano. «Io sono il capitano Albin degli Affari Interni, responsabile della sicurezza nella Cittadella, perciò consegnatelo a me, altrimenti...» L'aspetto imponente di Albin, unito ai dieci minacciosi Bulldog - così venivano chiamati i suoi uomini, in un modo per nulla affettuoso -, aveva intimorito i soldati, che di rado erano ammessi nella Cittadella e si trovavano subito a disagio se venivano messi alla prova in quel luogo estraneo. Ciononostante, il soldato più anziano fece un altro tentativo. «Dovrò chiedere al sergente cerimoniere.» «Chiedi a chi ti pare. Lui è nostro prigioniero e viene con noi. Subito.» Poi fece cenno ai suoi uomini e i soldati, incerti e in netta inferiorità numerica, si fecero da parte. Il soldato più anziano fece un cenno a uno degli altri, che corse verso il giardino a chiamare aiuto, ma ormai i Bulldog avevano preso Cale e si erano diretti verso il labirinto di vicoli della Cittadella. Quando arrivarono i rinforzi, erano già scomparsi. Nel giro di dieci minuti, Cale era rinchiuso in una delle celle private di Vipond e un secondino stava armeggiando coi ferri che gli legavano le mani. Venti minuti dopo, aveva le mani libere. La porta si richiuse alle sue spalle, lasciandolo solo in quella cella buia, separata dalle altre da un muro chiuso, in basso, da grosse sbarre. Paul Hoffman
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Allora si sedette e si mise a riflettere su ciò che aveva fatto. Non erano pensieri felici, ma dopo qualche minuto furono interrotti da una voce proveniente dalla cella alla sua destra. «Hai da fumare?»
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15 «Ogni volta c'incontriamo in circostanze sgradevoli», disse IdrisPukke. «Forse è arrivato il momento di cambiare.» «Parla per te, nonno.» Cale si sedette sul letto di legno e finse d'ignorare il suo vicino di cella. Ritrovarsi con IdrisPukke era davvero un caso strano. Forse troppo. «Che coincidenza», disse l'uomo. «Dici?» «Sì, dico. Perché sei qui?» Cale ci pensò attentamente prima di rispondere: «A causa di una zuffa». «Per una zuffa non finiresti nella prigione personale di Vipond. Con chi ti sei battuto?» Ancora una volta, Cale rifletté sulla risposta da dare. Ma, in fondo, che importava? «Con Conn Ferrazzi.» IdrisPukke rise, ma era evidente che lo ammirava e, per quanto Cale cercasse di resistere, non poté fare a meno di sentirsi lusingato. «Mio Dio, il signor Palle d'Oro in persona! Da quello che ho sentito, sei fortunato a essere vivo.» Cale avrebbe dovuto rendersi conto che si trattava di una semplice provocazione ma, a dispetto dei suoi insoliti talenti, era ancora giovane. «È lui che è stato fortunato. A quest'ora, starà rinvenendo, con un brutto mal di testa.» «Be', sei pieno di sorprese, eh?» Restò in silenzio per qualche istante, quindi riprese: «Comunque ciò non spiega perché sei qui. Che c'entra Vipond?» «Forse è per via della spada.» «Di quale spada?» «La spada di Conn Ferrazzi.» «E che c'entra la sua spada?» «Non era esattamente la sua spada.» «Cioè?» «Era la spada del Maresciallo Ferrazzi, quella che chiamano la Lama. Dopo che ho lasciato cadere a terra Conn, l'ho infilata tra due pietre e l'ho spezzata.» Il silenzio di IdrisPukke era gelido e profondo. «Un atto di vandalismo Paul Hoffman
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particolarmente sventato, direi. Quella spada era un'opera d'arte.» «Non ho avuto tempo di ammirarla mentre Conn cercava di usarla per tagliarmi in due.» «Ma, quando l'hai spezzata, il duello era già finito, l'hai detto tu stesso.» La verità era che Cale si era pentito di quel gesto nel momento stesso in cui aveva spezzato la spada. «Vuoi un consiglio?» «No.» «Te lo darò lo stesso. Se vuoi uccidere qualcuno, uccidilo. Se vuoi lasciarlo in vita, lascialo in vita. Ma, in un modo o nell'altro, non farne un dramma.» Cale voltò le spalle a IdrisPukke e si sdraiò. «Mentre dormi, sogna questo: tutto ciò che hai fatto, in particolare spezzare la spada, significa che dovresti essere nelle mani del Doge. Nulla spiega perché tu sia qui.» Mezz'ora dopo, un insonne Cale fu disturbato dal rumore della porta della cella che si apriva. Si mise a sedere e vide entrare Albin e Vipond, il quale gli lanciò uno sguardo truce. «Buonasera, Lord Vipond!» esclamò allegramente IdrisPukke. «Taci», sibilò Vipond, continuando a guardare Cale. «Adesso raccontami esattamente che cos'è successo. E voglio tutta la verità, altrimenti, com'è vero Iddio, ti consegno al Doge all'istante. E quando hai finito dimmi esattamente chi sei e com'è possibile che tu abbia battuto Conn Ferrazzi e i suoi amici. Dico sul serio: la verità, altrimenti mi sbarazzo di te in meno tempo di quanto ne impieghino a cuocere gli asparagi.» Naturalmente Cale non sapeva nemmeno che cosa fossero gli asparagi. L'unica difficoltà stava nel decidere quanto raccontare a Vipond per convincerlo di essere sincero. «Ho perso la calma. Capita a tutti, no?» «Perché hai spezzato la spada?» Cale si mosse, a disagio. «Ho fatto una stupidaggine. È successo nella foga dello scontro. Mi scuserò col Doge.» Albin rise. «Ah, certo, l'importante è chiedere scusa.» «Dove hai imparato a combattere così bene?» chiese Vipond. «Al Santuario. Dodici ore al giorno, sei giorni alla settimana. Per tutta la vita.» «Intendi che pure Henri e Kleist sanno combattere così?» Paul Hoffman
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Per Cale, era una domanda imbarazzante. «No. Voglio dire, sono addestrati per combattere, ma Kleist è uno st... uno specialista.» «Specialista in cosa?» «Nella lancia e nell'arco.» «E Henri?» «Approvvigionamenti, mappe, spionaggio.» Era vero, però non era tutta la verità. «Perciò nessuno di loro avrebbe saputo fare ciò che hai fatto tu oggi?» «No.» «Ci sono altri, al Santuario, con le tue stesse capacità?» «No.» «Cosa ti rende così speciale?» chiese Vipond. Cale finse di esitare, per dare l'impressione di non voler rispondere. «Quando avevo nove anni, ero bravo a combattere, ma non come adesso.» «Che è successo, allora?» «Stavo combattendo con un ragazzo molto superiore per addestramento, era un duello senza esclusione di colpi, con armi vere, a parte il fatto che le punte e le lame erano smussate. Ho avuto la meglio, l'ho messo a terra, ma sono stato troppo arrogante e lui è riuscito a tirarmi giù. Poi mi ha colpito in testa con un sasso e ho perso conoscenza. I Redentori me l'hanno tolto di dosso, perché altrimenti mi avrebbe spappolato il cervello. Mi sono svegliato un paio di settimane più tardi e, dopo altre due settimane, sono tornato normale, a parte un'ammaccatura sul cranio.» Indicò un punto della sua testa, a sinistra, verso la nuca. «Ma non eri più come prima?» «No. All'inizio, non riuscivo più a combattere bene. Sbagliavo tutti i tempi, ma dopo un po' mi ci sono abituato, qualsiasi cosa fosse successa quando quel ragazzo mi aveva spaccato la testa.» «Ti sei abituato a cosa?» chiese Albin. «Ogni volta che sferri un colpo significa che hai già deciso dove colpirà il tuo avversario e così ti tradisci: lo sguardo, il movimento del corpo, come ti curvi per evitare di perdere l'equilibrio al momento dell'impatto... Tutto ciò rivela all'altro dove lo colpirai. Se lui legge male i segnali, il colpo va a segno; se li legge bene, lo para e lo evita.» «Questo lo sa qualsiasi lottatore o atleta», obiettò Albin. «Un buon lottatore e un buon atleta sanno mascherare un colpo o un tiro.» «Non con me, qualsiasi cosa facciano. Non più. Io riesco sempre a Paul Hoffman
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leggere il movimento che una persona sta per fare.» «Ce lo puoi dimostrare? Senza far male a nessuno, naturalmente», disse Vipond. «Chiedete al capitano Albin di mettere le mani dietro la schiena.» Albin apparve a disagio, una cosa che non sfuggì a IdrisPukke, che fino a quel momento aveva osservato in silenzio. «Io non mi fiderei, se fossi in voi, caro capitano.» «Chiudi il becco, IdrisPukke.» Albin scrutò Cale e poi lentamente mise le mani dietro la schiena. «Dovete soltanto decidere quale mano puntare verso di me il più velocemente possibile. Potete fare quello che volete per ingannarmi: fintare, muovervi, cercare di farmi scegliere la direzione sbagliata. Dipende da...» Senza preavviso, Albin allungo di scatto la mano sinistra verso di lui. Il ragazzo la prese con la destra, delicatamente, come se fosse stata una palla lanciata da un goffo bambino di tre anni. La stessa cosa si ripeté altre sei volte, nonostante gli sforzi del capitano. «Ora è il mio turno», annunciò Cale quando Albin, innervosito, ma parecchio impressionato, cedette. Cale mise le mani dietro la schiena e la pantomima riprese, però a ruoli invertiti. Per sei volte, Albin fece la scelta sbagliata. «Io riesco a cogliere quello che state per fare nell'istante in cui cominciate a muovervi», spiegò Cale. «Sono soltanto una frazione di secondo più veloce, ma è abbastanza. Nessuno riesce a prevedere quello che farò, a prescindere da quanto sia veloce o esperto.» «Ed è solo quello? Tutto grazie a un colpo in testa?» chiese Albin. «No», rispose Cale, irritato senza sapere perché. «Per tutta la vita sono stato addestrato a fare solo una cosa. Avrei potuto battere Conn Ferrazzi in ogni caso, per bravo che fosse; però non sarebbe stato altrettanto facile e non ne avrei battuti altri quattro contemporaneamente. Quindi, no, capitano, non è solo quello.» «Come hanno reagito i Redentori, quando si sono resi conto di ciò che era successo?» Cale grugnì, facendo una specie di risata, ma non si stava divertendo. «Non tutti i Redentori se ne sono accorti. Anzi uno solo l'ha capito: il Redentore Bosco, il Signore Militante, responsabile di tutti gli addestramenti marziali.» Paul Hoffman
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«Come le nostre arti marziali?» Cale rise, veramente divertito, stavolta. «Non c'è arte in quello che faccio. Chiedete a Conn Ferrazzi e ai suoi amici.» Vipond ignorò lo scherno. «E cos'ha fatto, questo Bosco, quando ha scoperto le conseguenze del tuo incidente?» «Mi ha messo alla prova per mesi, mettendomi contro altri ragazzi più grandi e più forti. Ha addirittura fatto venire cinque veterani che avevano combattuto negli Eastern Breaks ed erano condannati a morte... almeno così mi ha detto.» «E cos'è successo?» «Mi ha fatto combattere con loro per quattro giorni di fila. Ci diceva soltanto: 'Uccidere o morire'. Poi, dopo il quarto giorno, ci ha fermato.» «Perché?» «Aveva visto abbastanza. Continuare sarebbe stato un rischio non necessario.» Cale fece un sorriso per niente gradevole. «Dopotutto non si sa mai come può andare a finire quando si combatte, no? C'è sempre un rischio, non trovate? Un colpo a tradimento...» «E poi?» «Poi ha cercato di copiarmi.» «Che vuoi dire?» «Ha passato giornate intere a misurare la ferita sulla mia testa, confrontandola con teschi che aveva preso dai cimiteri. Quindi ha fatto un modello di argilla. E ha passato sei mesi a cercare di farlo succedere di nuovo.» «Non ti seguo. Come?» «Ha preso una dozzina di accoliti della mia stessa età e corporatura. Li legava e prendeva uno scalpello che aveva realizzato, con la medesima forma della mia ferita; quindi ci picchiava sopra con un martello, colpendoli nello stesso punto sul cranio. Prima forte, poi piano, poi ancora piano.» Per qualche istante, nessuno parlò. «E cosa succedeva?» mormorò quindi Vipond. «Metà è morta praticamente subito e gli altri... be', non erano più gli stessi, dopo. Nessuno li ha più visti.» «Sono stati portati da qualche altra parte?» «In un certo senso.» «E poi?» Paul Hoffman
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«Bosco ha cominciato a addestrarmi personalmente. Non l'aveva mai fatto, prima. Qualche volta mi faceva andare avanti per dieci ore al giorno, cercando ogni debolezza, dandomi una gragnola di botte se sbagliavo e correggendo gli errori. Poi è scomparso per sei mesi ed è tornato con altri sette Redentori. Secondo lui, erano i migliori nella loro specialità.» «Quale?» «Uccidere, soprattutto. Con armature, senza armature, con spade, con bastoni, a mani nude. Come organizzare un massacro...» Cale esitò. «... di prigionieri?» «Non solo di prigionieri. Due di loro erano una specie di generali. Uno si occupava di tattica: avanzate, ritirate, grandi manovre. L'altro era specializzato nelle attività banditesche: incursioni in territori nemici, assassinii, sistemi per atterrire le popolazioni locali, così da indurle ad aiutare te anziché i tuoi nemici.» «E a che serviva tutto ciò?» «Non sono mai stato così stupido da chiederlo.» «Aveva a che fare con le guerre dei Redentori a est?» «Ve l'ho detto, non l'ho chiesto.» «Ti sarai fatto un'opinione.» «Un'opinione? Sì. Doveva avere a che fare con le guerre a est.» Vipond fissò a lungo Cale, che ricambiò con insolenza lo sguardo. Poi fu come se il Cancelliere avesse preso una decisione. Si rivolse ad Albin. «Portate gli altri due a casa mia il più presto possibile.» Albin fece un cenno al secondino e i tre se ne andarono. Cale si sedette sul letto e IdrisPukke si avvicinò alle sbarre, commentando: «Che vita interessante! Dovresti scrivere un libro, sai?»
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16 Quando ebbe finito di parlare con Henri il Vago e Kleist, Lord Vipond si diresse verso il palazzo del Maresciallo Ferrazzi, Doge di Memphis. Il Doge aveva molti consiglieri, perché amava discutere a fondo di ogni argomento. Che poi raramente seguisse i consigli degli altri non era sorprendente, perché si trattava di una caratteristica tipica degli uomini nati per assurgere a posizioni di grande potere. L'unica eccezione a quella regola - l'unica persona cui lui desse ascolto - era Lord Vipond, che a sua volta godeva di un potere notevole, grazie alla sua rete di spie e informatori, e possedeva un talento imbattibile: aveva sempre ragione. Come diceva la famosa filastrocca: Vipond il Cancelliere semina o raccoglie e ciò che non sa son solo morte foglie... Non era granché, come filastrocca, ma il concetto era quello. Il Maresciallo Ferrazzi era un uomo di considerevole efferatezza, che governava il più grande impero del mondo e che, per vent'anni, era riuscito a mantenerne il controllo, senza che nessuno lo potesse sfidare. Un compito che aveva richiesto un grande valore militare, uno spiccato talento per la politica e una notevole intelligenza. Eppure, sebbene avesse sempre avuto Vipond accanto a sé come Cancelliere, non era mai riuscito a capire come quell'uomo fosse diventato quasi altrettanto potente. Molto tempo prima, circa tre anni dopo l'inizio del suo regno, aveva cominciato a rendersi conto, con orrore, che Vipond gli era diventato indispensabile. La cosa, all'inizio, gli aveva suscitato una profonda ostilità nei confronti del Cancelliere: una cosa del genere, infatti, era non solo intollerabile, ma anche rischiosa perché avrebbe potuto condurre a un colpo di Stato o al suo assassinio. Per non parlare della possibilità che lui diventasse una sorta di burattino nelle mani di Vipond. Il Cancelliere però aveva detto chiaramente al Maresciallo che sarebbe stato sempre un suo fedele servitore, purché egli non interferisse nel suo ruolo di Cancelliere e non gli rompesse le scatole per nessun motivo. Da allora, il loro rapporto era diventato... non proprio complesso ma, come avrebbero detto i contadini nei dintorni di Memphis, «conigliesco». Paul Hoffman
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Ammesso al cospetto di Ferrazzi, Vipond lo salutò con un cenno del capo e fu invitato ad accomodarsi. «Come vi sentite, Vipond?» «Molto bene, mio signore. E voi?» «Bene, bene.» Ci fu una pausa imbarazzante, soprattutto per il Maresciallo, giacché Vipond se ne stava semplicemente seduto con un sorriso benevolo stampato sul viso. «A quanto ho saputo oggi avete incontrato la missione diplomatica norvegese», disse il Cancelliere. «Già.» I Norvegesi erano uno dei popoli confinanti, sottomessi da Ferrazzi oltre quindici anni prima. Avevano approfittato con entusiasmo dei vantaggi offerti dall'occupazione, dalle strade ai palazzi con riscaldamento centralizzato all'importazione di beni di lusso, senza tuttavia abbandonare la loro feroce bramosia per i combattimenti. Cinque anni prima, il Maresciallo, ormai stanco e sempre più irritato dalle spese necessarie per mantenere il suo vasto impero, aveva deciso che l'espansione doveva terminare. Pur dimostrando una commovente lealtà nei confronti del loro conquistatore, i Norvegesi non perdevano occasione di espandere il loro territorio verso nord, a dispetto dei reiterati divieti. Sfruttando l'ambiguità che li caratterizzava, provocavano i vicini e mettevano in atto ogni possibile espediente per sostenere di essere stati attaccati e di non avere altra scelta se non quella di proteggere se stessi invadendo le terre degli aggressori. Come Vipond sapeva benissimo, quegli attacchi in realtà erano compiuti da soldati norvegesi infiltratisi nell'esercito del Paese che intendevano saccheggiare. «Cos'hanno detto a propria discolpa?» «Come al solito, hanno sostenuto di essere vittime, vittime pacifiche, di voler semplicemente difendere se stessi e l'impero di cui sono sudditi tanto fedeli.» «E voi che avete detto?» «Che non sono nato ieri e che, se non ritireranno l'esercito, potremmo prendere in considerazione di offrire loro l'indipendenza.» «E loro, come l'hanno presa?» «Tutti e sei sono impalliditi per il terrore e hanno promesso che l'esercito si ritirerà entro una settimana.» Ferrazzi scrutò Vipond. «Forse dovremmo Paul Hoffman
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offrire loro l'indipendenza comunque... e offrirla anche a qualcun altro. Governare e mantenere l'ordine pubblico costano una fortuna, maledizione. Più delle tasse che incassiamo, giusto?» «Ci siamo vicini. Poi però dovreste ridurre il nostro esercito e un gran numero di soldati irascibili se ne andrebbe in giro in cerca di guai. A meno che non vogliate pagarli voi.» Ferrazzi grugnì. «Tra l'incudine e il martello.» «Proprio così, mio signore. Ma se volete che io conduca uno studio approfondito...» «Perché avete preso il ragazzo che ha spezzato la mia spada?» Quegli improvvisi cambiamenti di traiettoria erano una vecchia tattica del Maresciallo e miravano ovviamente a spiazzare chiunque lo infastidisse. «Sono responsabile della sicurezza in città.» «Voi siete responsabile delle questioni relative alla sedizione; non siete un poliziotto. Questa faccenda non c'entra niente con voi. Quel ragazzo ha spezzato la mia spada, che è inestimabile, e ha ferito gravemente mio nipote e i figli di quattro membri della corte. Vogliono il suo sangue... e, se per questo, lo voglio anch'io.» Vipond sembrava pensieroso. «Forse la Lama si può riparare.» «Voi non ve ne intendete affatto; non fingete che sia altrimenti.» «Effettivamente no, però conosco qualcuno che se ne intende. Il prefetto Walter Gurney è tornato dalla sua missione presso i Riben.» «Perché non è venuto a farmi rapporto?» «Non sta bene. Probabilmente non arriverà alla fine dell'anno.» «E questo che c'entra con la mia spada?» «Il rapporto di Gurney comprendeva una lunga sezione sulla maestria dei Riben nella lavorazione del metallo. Lui afferma di non avere mai visto nulla di simile. Gli ho parlato brevemente e ha detto che, se la Lama può essere riparata, i mastri fabbri dei Riben saprebbero farlo.» Fece una pausa, quindi riprese: «Naturalmente garantirei io per la sicurezza della spada e il lavoro verrebbe svolto a mie spese». «Perché?» chiese Ferrazzi. «Che significa questo ragazzo per voi? Perché vi date tanta pena e siete persino disposto a sostenere un tale costo?» «Se posso essere sincero, è perfettamente comprensibile che siate seccato per ciò che è accaduto a un vostro bene prezioso e per le ferite Paul Hoffman
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riportate da vostro nipote, ma avete trascurato il fatto che un ragazzo di quattordici anni è riuscito a darle di santa ragione a cinque dei soldati più promettenti dei Ferrazzi, compreso uno che è ritenuto il combattente più grande della sua generazione. La cosa non vi preoccupa?» «Motivo in più per sbarazzarsi di lui.» «Non siete interessato a scoprire come abbia acquisito questo straordinario talento?» «Perché, come l'ha acquisito?» «Questo giovane, Cale, è stato addestrato dai Redentori nel Santuario.» «Non ci hanno mai causato problemi.» «In passato no, ma il ragazzo afferma che, negli ultimi anni, c'è stato un grande cambiamento nel Santuario. Stanno addestrando molti più soldati e in modo sempre più spietato.» «Temete che ci attacchino? Sarebbero davvero sciocchi se lo facessero.» «Anzitutto è mio dovere temere cose di questo genere. In secondo luogo, quanti re e imperatori pensavano la stessa cosa di voi, trent'anni fa?» Ferrazzi sospirò, irritato e a disagio. Mentre costruiva il suo grande impero, era stato un condottiero sanguinario e terrificante ma ormai, dopo dieci anni di pace, aveva perso qualsiasi inclinazione per la guerra. Il soldato crudele, avido e assetato di conquista era diventato un uomo di mezza età, che aspirava soltanto a una vita tranquilla. Aborriva la semplice idea di soffrire il freddo una settimana, per poi morire di caldo e sete la settimana seguente; senza contare che - come aveva confessato a Vipond, una volta che era ubriaco - aveva sempre avuto il terrore di finire nelle mani di qualche rozzo contadino e di essere sbudellato con una falce. Non l'aveva mai ammesso con nessuno, ma il suo disprezzo per la guerra era nato dopo un inverno trascorso a soffrire la fame nei campi gelati di Stetl, dove lui si era ridotto a mangiare i resti del suo amato sergente maggiore. «Dunque qual è il vostro piano?» esclamò. «Sono certo che ne abbiate uno ed è meglio che comprenda un modo per far smettere a mio fratello di tormentarmi a proposito di Conn.» Vipond posò una lettera sul tavolo. Era di Conn Ferrazzi. Il Maresciallo l'aprì e lesse. Quando finì la rimise sul tavolo. «Conn Ferrazzi ha molte ammirevoli qualità, ma non immaginavo che, tra queste, ci fosse anche la capacità di farsi da parte per il bene comune.» «La vostra capacità di valutare il carattere delle persone è un esempio per tutti noi, Maresciallo. Che ne dite per esempio della vanità di Conn? Paul Hoffman
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Ho fatto due chiacchiere con lui e gli ho fatto notare che far punire Cale per averlo sconfitto l'avrebbe messo in ridicolo. E lui si è detto d'accordo.» «Non potete permettere che il vostro ragazzo se ne vada in giro per Memphis. I padri della città non lo tollereranno e neanch'io lo potrei tollerare. Non posso permettermi di passarci sopra, Vipond.» «Naturalmente no, ma tutti sanno che è affidato a me. Se fugge, ogni critica ricadrà su di me.» «Volete lasciarlo andare?» «In realtà, no. Quel ragazzo possiede abilità straordinarie. Inoltre lui e i suoi amici sono le uniche vere fonti di cui disponiamo per conoscere le intenzioni dei Redentori. Dobbiamo scoprire molto di più. Ho già provveduto in questo senso, ma ho bisogno di verificare con loro le informazioni. Sono troppo preziosi, più importanti di qualsiasi spada o di qualche testa ammaccata di un gruppo di prepotenti viziati che hanno avuto ciò che si meritavano.» «Per Dio, mi state sfidando?» «Se vi ho recato dispiacere, Maresciallo, mi dimetterò immediatamente.» Ferrazzi, stizzito, emise un profondo sospiro. «Ecco! Ci risiamo. Non appena vi si dice qualcosa, v'infervorate. Più invecchiate, più diventate irritabile, Vipond!» «Vi porgo le mie scuse, Maresciallo», replicò il Cancelliere con finto rammarico. «Forse le ferite mi hanno reso più irascibile di quanto non vorrei essere.» «Ma certo! Mio caro Vipond, dovete fare attenzione. Siete passato attraverso sofferenze terribili... Sì, davvero terribili. Vi ho trattenuto troppo a lungo, sono stato un imperdonabile egoista. Dovete riposare.» Vipond si alzò, chinando il capo in segno di riconoscenza per le preoccupazioni del Maresciallo, e poi si apprestò a uscire. Mentre si avvicinava alla porta, però, Ferrazzi gli disse, in tono quasi allegro: «Quindi provvederete alla riparazione della spada a vostre spese e vi occuperete anche dell'altra questione».
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17 Due giorni dopo, IdrisPukke e Cale stavano procedendo lentamente lungo la Strada Maestra Sette, una delle ampie strade di pietra che si dipartivano da Memphis e sulle quali venivano trasportate grandi quantità di merci, dato che la città era il più grande di tutti i crocevia commerciali. Dopo diverse ore di silenzio, Cale domandò: «Ti hanno messo nelle celle per spiarmi?» «Sì», rispose IdrisPukke. «No, invece.» «Perché me l'hai chiesto, allora?» «Per vedere se posso fidarmi di te.» «Be', non puoi.» «Il Cancelliere Vipond si fida di te?» «Finché mi ha sott'occhio.» «Allora perché mi ha imposto di stare con te, come condizione per la sicurezza dei miei amici?» «Avresti dovuto chiederlo a lui.» «Gliel'ho chiesto, infatti.» «E lui cos'ha risposto?» «'La troppa curiosità spinge l'uccello nella rete.'» «Ecco.» Cale restò in silenzio per qualche istante, poi chiese: «Cos'ha fatto per essere sicuro che tu rimanga con me?» «Mi ha pagato.» Non era una vera e propria menzogna, ma ciò che legava IdrisPukke a Cale andava ben oltre il denaro. Perché il denaro servisse a qualcosa bisognava avere un luogo in cui spenderlo e, per IdrisPukke, non c'era nessun luogo in cui valesse la pena di andare e in cui non pendesse su di lui una sentenza di morte... o peggio. Vipond aveva semplicemente esposto i fatti riguardo al futuro di IdrisPukke, rimarcando che era inesistente, per poi offrirgli una possibile via d'uscita. Anzitutto un nascondiglio ragionevolmente comodo in cui stare per qualche mese e poi, se avesse obbedito, la possibilità di una serie di grazie provvisorie, che quantomeno avrebbero impedito che lui fosse giustiziato dai governi ufficiali sotto il dominio dei Ferrazzi. Paul Hoffman
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«E i governi che mi vogliono far fuori ma non sono ufficiali?» aveva chiesto IdrisPukke a Vipond. «Sono affari tuoi. Però, se fai amicizia col ragazzo, scopri qualcosa di utile e lo tieni fuori dai guai, forse ne ricaverai qualcosa pure tu.» «È un po' poco.» «Per un uomo nella tua posizione, cioè senza nessuna posizione, penso che sia un'offerta molto generosa», aveva replicato Vipond, facendogli cenno di andarsene. «Se ne hai una migliore, ti consiglio di accettarla.» Dopo un'altra ora di silenzio, Cale chiese: «Che faremo in questo posto dove stiamo andando?» «Staremo fuori dai guai e ti chiariremo le idee su un paio di cose.» «Tipo?» «Lo scoprirai quando arriveremo.» «Lo sai che qualcuno ci segue?» chiese Cale. «Quel brutto bestione con la giacca verde?» «Sì», rispose Cale, deluso. «Un po' troppo appariscente, non trovi?» Cale si voltò a guardarlo, come se fosse chiaro anche a lui che il loro inseguitore era troppo appariscente. IdrisPukke rise. «Chiunque ci sia dietro, si aspetta che prendiamo quel tizio e lo buttiamo in un fosso da qualche parte. Chi ci pedina davvero si trova circa duecento iarde più indietro.» «E che aspetto ha?» «Ecco la tua prima lezione. Vediamo se riesci a individuarlo prima che io lo sistemi.» «Vuoi dire prima che tu lo uccida?» IdrisPukke lo fissò. «Sei un piccolo tagliagole sanguinario, eh? Vipond ha detto chiaramente che dobbiamo renderci invisibili e non penso che lasciarci dietro una scia di cadaveri corrisponda all'idea.» «Allora cosa farai?» «Guarda e impara, figliolo.» Lungo le strade che conducevano a Memphis, a intervalli di cinque miglia, c'erano piccoli posti di guardia con sei soldati al massimo. Fu in uno di quelli che IdrisPukke si ritrovò a litigare con un caporale, sotto lo sguardo divertito di Cale. «Per amor del cielo, amico, questo è un mandato firmato dal Cancelliere Vipond in persona!» Paul Hoffman
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Il caporale si mostrò dispiaciuto, ma fermo. «Mi spiace, signore. Sembra ufficiale, però non ne ho mai visto uno così. Di solito, i mandati di questo tipo sono firmati dal Comandante in Capo. Li so riconoscere e conosco la sua firma. Provate a mettervi nei miei panni, signore. Manderò a chiamare il tenente Webster.» «Quanto ci vorrà?» chiese IdrisPukke in tono esasperato. «Fino a domani, probabilmente.» IdrisPukke gemette per la frustrazione, quindi andò alla finestra. Dopo circa un minuto, chiamò Cale. «Aspetta fuori», gli sussurrò poi. «Pensavo di dover guardare e imparare.» «Non discutere, maledizione! Fai come ti dico e basta. Vai sul retro e non farti vedere da nessuno.» Sorridendo, Cale obbedì. Sul retro c'erano quattro soldati seduti su un muretto a fumare. Sembravano annoiati. Cinque minuti dopo, IdrisPukke uscì e fece cenno a Cale di raggiungerlo, mentre conduceva i cavalli lungo un vicolo, allontanandosi dalla strada principale. «Allora, che succede?» chiese Cale. «Li arresterà e li terrà in cella per qualche giorno.» «Cosa gli ha fatto cambiare idea?» «Secondo te?» «Non lo so, è per questo che te lo chiedo.» «Gli ho dato una tangente. Quindici dollari per lui e cinque per ognuno dei suoi uomini.» Cale rimase di sasso. Per quanto i Redentori fossero malvagi, crudeli e meschini, era impensabile che trascurassero il proprio dovere per denaro. «Avevamo un mandato. Perché mai avremmo dovuto corromperli?» chiese, indignato. «È inutile prendersela», rispose irritato IdrisPukke. «Considerala una parte della tua istruzione, una nuova realtà da incamerare, mentre impari com'è fatta la gente.» Poi aggiunse, in tono brusco: «Solo perché i Redentori ti trattavano come un cane non devi pensare di sapere tutto su quel branco di bastardi corrotti che forma la razza umana!» E su quella nota di malumore proseguì il cammino, senza più parlare per il resto della giornata. Non è poi così difficile capire perché IdrisPukke fosse così infastidito, pur essendo abituato a subire molto peggio che essere alleggerito di qualche dollaro da un tipo cinico come il caporale. Quanti di noi hanno Paul Hoffman
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bisogno di un vero disastro per andare fuori dai gangheri? Perdere una chiave, calpestare un chiodo o essere contraddetti su una questione di scarsa importanza è sufficiente per mandare su tutte le furie anche una persona ragionevole, se è di quell'umore. Era tutto lì. Quali che fossero i limiti della comprensione di Cale per quanto riguardava la natura umana a esclusione di quella parte composta da spietati fanatici -, il ragazzo ebbe il buonsenso di lasciare in pace IdrisPukke, finché non si fosse calmato. Ciononostante, se IdrisPukke si fosse reso conto di chi stava dietro i loro pedinatori, la sua rabbia sarebbe stata perfettamente giustificata e lui avrebbe avuto ogni motivo per essere anche spaventato: Kitty la Lepre non avrebbe infatti tollerato che le sue spie venissero scoperte così facilmente. I due uomini individuati da IdrisPukke furono rinchiusi in cella nel giro di un'ora, però erano soltanto esche, inviate appositamente per essere catturate. Quando Cale e IdrisPukke tornarono sulla strada principale e, dopo un giorno, la lasciarono, per dirigersi verso la Foresta Bianca, c'erano altri due occhi che li seguivano, con astuzia molto maggiore, stavolta." S'inoltrarono tra le montagne: il sole splendeva e l'aria era limpida come acqua pura. Il malumore del giorno precedente era dimenticato e IdrisPukke era tornato ai suoi modi più esuberanti. Raccontava a Cale storie della sua vita, avventure e opinioni, di cui era provvisto in quantità. Si potrebbe pensare che Cale, capace com'era di una rabbia spietata e di una spaventosa violenza, fosse irritato dal fatto che il suo compagno si presentasse come un mentore, rendendo lui, di fatto, un discepolo. Ma non bisogna dimenticare che Cale era ancora un ragazzo, e la varietà e la natura delle esperienze di IdrisPukke, con ascese e cadute, amori e nemici, avrebbe affascinato anche l'ascoltatore più indifferente. Inoltre era sempre disposto a prendersi in giro e ad assumersi la responsabilità di quasi tutte le sue disgrazie. Un adulto che ridesse di sé era davvero insolito per Cale, anzi era quasi incomprensibile. Per i Redentori, la risata era un'occasione di peccato, ispirata dal diavolo in persona. Non che IdrisPukke avesse una visione allegra del mondo, ma il suo pessimismo era espresso con un piacere consapevole e con la disponibilità a includere se stesso nell'arguto cinismo di cui faceva sfoggio; una disponibilità che Cale trovava stranamente confortante, oltre che divertente. Il ragazzo non era certo incline ad accettare una visione lieta degli esseri umani, dato che ciò non collimava con la sua esperienza quotidiana, tuttavia ascoltare qualcuno che rideva della crudeltà e della Paul Hoffman
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stupidità umane gli rendeva più facile sopportare la propria rabbia e addirittura la smorzava. «Poche cose al mondo mettono di buonumore le persone come il racconto di qualche terribile disgrazia che ti ha colpito di recente», proclamò IdrisPukke a un certo punto. E proseguì: «Per gente come me e te, la vita è un viaggio. Ma non siamo mai sicuri di dove stiamo andando. Mentre viaggi, vedi una nuova destinazione o una meta migliore e così dimentichi completamente il luogo che avevi scelto in origine come approdo. Siamo come alchimisti: iniziamo cercando l'oro però, strada facendo, scopriamo medicine utili, un modo sensato per ordinare le cose e i fuochi d'artificio. L'unica cosa che gli alchimisti non hanno mai scoperto è proprio l'oro!» Cale rise. «Perché mai dovrei darti retta? La prima volta che ti ho visto mi sei caduto addosso e le altre due volte eri prigioniero.» Il viso di IdrisPukke fu attraversato da una vaga espressione di sdegno, come se quella fosse un'obiezione familiare cui non valeva nemmeno la pena di rispondere. «E allora impara dai miei errori, novellino! E tieni conto del fatto che, sebbene abbia frequentato i corridoi del potere per quarant'anni, sono ancora vivo; e non si può dire la stessa cosa della maggior parte delle persone che li hanno frequentati con me. In più, oserei affermare che, se non cominci a dimostrare una dose di buonsenso di gran lunga maggiore rispetto a quanto hai fatto finora, la stessa cosa succederà anche a te.» «Finora me la sono cavata.» «Ah, davvero?» «Sì.» «Sei stato fortunato, figliolo, e anche parecchio. Non m'importa quanto tu sia bravo a tirare pugni. Se sei arrivato fin qui senza pendere da un cappio è questione di fortuna, oltre che di buonsenso.» Fece una pausa e sospirò. «Ti fidi di Vipond?» «Io non mi fido di nessuno.» «Qualsiasi stupido è capace di dire che non si fida di nessuno. Il problema è che talvolta ci sei costretto. Le persone possono essere nobili, altruiste e avere tante qualità ammirevoli; queste nobili virtù esistono, ma il problema è che tendono ad apparire e a scomparire. Nessuno si aspetta che un uomo gioviale o una donna gentile siano gioviali e gentili ogni giorno e in ogni momento; eppure tutti rimangono sgomenti se qualcuno è Paul Hoffman
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affidabile per un mese o un anno e poi non lo è per un'ora o un giorno.» «Se non si può contare su una persona sempre, allora non ci si deve fidare.» «E su di te si può contare?» «No. Ho scoperto di essere capace di compiere gesti nobili, come salvare gli innocenti...» Sorrise, beffardo, e aggiunse: «... di salvarli da persone malvagie e inique, voglio dire. Ma non è nel mio carattere. Quando ho salvato Riba, era una giornata buona, forse. Però non succederà ancora così facilmente». «Ne sei certo?» «No, tuttavia farò del mio meglio.» Continuarono a cavalcare in silenzio per un'altra mezz'ora. «Tu ti fidi di Vipond?» chiese infine Cale. «Dipende. In che ambito?» Cale si riposizionò sulla sella, chiaramente a disagio. «Mi ha promesso che, se starò con te e mi comporterò bene, Henri il Vago e Kleist non avranno problemi, che lui li proteggerà. Lo farà davvero?» «Sei preoccupato per i tuoi amici, quindi? Non sei poi così senza cuore come fingi di essere.» «Lo credi davvero? Prova ad affidarti al mio cuore e vedrai che fine farai.» IdrisPukke rise. «Per quanto riguarda Vipond, bisogna tenere a mente che è un grand'uomo e che i grandi uomini hanno grandi responsabilità. Non mantenere le promesse è una di queste.» «Stai solo cercando di sembrare intelligente.» «Nient'affatto. Vipond ha un sacco di pesci grossi cui badare e tu e i tuoi amici non siete affatto pesci grossi. E se infrangere una promessa fatta a voi permettesse di salvare cento vite o la sicurezza futura di Memphis e del milione di anime che la popola? Tu cosa faresti, al suo posto? Tu che pensi di essere tanto tosto, dimmi un po'.» «Kleist non è mio amico.» «Cosa credi che voglia da te, Vipond?» «Vuole che io mi fidi di te, che ti racconti tutta la verità su ciò che è successo coi Redentori. Crede che siano una minaccia.» «E ha ragione?» Cale lo guardò. «I Redentori sono una maledizione...» Sembrò che volesse continuare, ma che si fosse sforzato d'interrompersi. Paul Hoffman
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«Stavi per dire qualcos'altro.» «Sì.» «Cosa?» «Una cosa che so io e che tu devi scoprire.» «Come vuoi. In quanto a fidarsi di Vipond o no... Puoi fidarti, in una certa misura. Farà il possibile per proteggere il tuo amico e quell'altro che non è tuo amico, a meno che non diventi importante fare il contrario. Finché non diventeranno importanti per il verso sbagliato, saranno al sicuro.» E, mentre continuavano a cavalcare in silenzio, nessuno dei due si accorse che gli occhi di Kitty la Lepre li guardavano e le sue orecchie li ascoltavano. Quello stesso pomeriggio, alle quattro, IdrisPukke smontò da cavallo e, facendo cenno a Cale di fare altrettanto, lasciò il sentiero per addentrarsi in quella che sembrava una foresta vergine. Sarebbe stato difficile avanzare anche senza i cavalli e i due proseguirono per un paio d'ore prima che alberi e cespugli si facessero meno densi, per poi arrivare a una pista chiaramente poco usata. «Direi che sapevi la strada», osservò Cale, seguendo IdrisPukke. «Vedo che non ti si può nascondere nulla, sapientone.» «Come mai conosci questo luogo?» «Venivo sempre qui, a Treetops, quand'ero ragazzo, con mio fratello.» «Tuo fratello?» «Sì, il Cancelliere Leopold Vipond.»
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18 Dopo due mesi a Treetops Lodge, Cale avrebbe potuto pensare che quello fosse il periodo più felice della sua vita. Tuttavia, dato che non aveva altre liete esperienze con cui confrontarlo e che pure passare due mesi nel settimo cerchio dell'inferno sarebbe stato meglio rispetto al Santuario, la sua felicità non poteva essere paragonata a nulla. Era semplicemente felice. Dormiva dodici ore al giorno e talvolta anche di più; alla sera, beveva birra e si godeva una fumatina con IdrisPukke, impegnato a convincerlo che, una volta superata l'avversione iniziale, il fumo sarebbe diventato un grande piacere, una delle poche consolazioni affidabili che la vita potesse offrire. Seduti all'esterno del vecchio padiglione di caccia, sulla grande veranda di legno, i due ascoltavano il ritmico frinire degli insetti e assistevano alle evoluzioni acrobatiche di rondini e pipistrelli. Spesso restavano lì per ore, in un silenzio interrotto soltanto a tratti dalle facezie di IdrisPukke sulla vita, sui suoi piaceri e sulle sue illusioni. «La solitudine è una cosa meravigliosa per due motivi, Cale. Anzitutto ti permette di stare con te stesso e, in secondo luogo, t'impedisce di stare con gli altri.» Cale annuì, con la sincerità possibile soltanto a chi aveva trascorso ogni ora della sua vita insieme con centinaia di persone, sempre osservato e spiato. «Essere socievoli è rischioso, persino fatale», proseguì IdrisPukke. «Perché significa essere in contatto con le persone, che per la maggior parte sono ottuse, perverse e ignoranti e stanno con te soltanto perché non sopportano di stare in compagnia di se stesse. Quasi tutti trovano noiosa la propria compagnia e ti accolgono non come un vero amico, ma come una distrazione, come un cagnolino danzante o un attore idiota con una scorta di storie divertenti.» Nutriva una particolare avversione per gli attori e ne elencava spesso i difetti. Ma il suo disprezzo andava del tutto sprecato con Cale, che non aveva mai visto uno spettacolo teatrale e che trovava incomprensibile l'idea di fingere di essere qualcun altro in cambio di denaro. «Naturalmente tu sei giovane e non hai ancora provato l'impulso più forte di tutti: l'amore per le donne. Non fraintendermi: ogni uomo e ogni donna dovrebbero provare cosa significa amare ed essere amati. Il Paul Hoffman
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corpo femminile è la migliore immagine della perfezione che io abbia mai visto. Tuttavia, per essere perfettamente onesto con te, Cale, anche se non farà nessuna differenza, desiderare l'amore, come disse un tempo una grande mente, è come desiderare di essere incatenati a un folle.» Dopo quelle considerazioni, di solito apriva un'altra birra, ne versava un quarto e non di più - e mai troppe volte - nel boccale di Cale e si rifiutava di dargli altro tabacco, sottolineando che col fumo c'era il rischio di esagerare e che l'eccesso poteva togliere il fiato a un giovanotto come lui. A volte, si trattenevano fino alle prime ore del mattino, poi Cale raggiungeva quello che era diventato quasi il suo più grande piacere: un letto caldo, un materasso morbido, tutto suo. Non c'erano gemiti e urla, nessuno che russava, non c'era il puzzo dei peti di centinaia di ragazzi; c'era soltanto un meraviglioso e pacifico silenzio. In quei giorni, per Cale la felicità consisteva semplicemente nell'essere vivo. Prese a vagare senza meta per i boschi per ore, scomparendo non appena si svegliava e tornando al padiglione di caccia quando scendeva la notte. Le colline, un prato, un fiume, un cervo guardingo, i piccioni che tubavano sugli alberi durante i pomeriggi caldi, la meravigliosa sensazione di beatitudine che gli derivava dal vagare per conto suo erano un piacere ancora maggiore della birra o del tabacco. L'unica cosa che guastava la sua felicità era il pensiero di Arbell. Il viso della giovane gli appariva davanti all'improvviso, di notte o nel pomeriggio, mentre lui era disteso in riva al fiume ad ascoltare i pesci che saltavano nell'acqua, il canto degli uccelli e la brezza tra gli alberi. Quell'immagine suscitava in lui sentimenti strani, fastidiosi, e in sgradevole contrasto con la meravigliosa pace che provava. La cosa lo faceva arrabbiare e lui non avrebbe voluto mai più provare rabbia. Voleva soltanto sentirsi così, libero e pigro, nella bellissima, verdeggiante e grande foresta in quella calda estate. Un'altra grande gioia veniva dal cibo. Per lui, che aveva sempre avuto una fame atroce, soddisfatta soltanto riempiendosi lo stomaco di «piedi di uomini morti», mangiare qualcosa di buono era una fonte di costante meraviglia. A differenza di molte persone, non lo dava affatto per scontato. IdrisPukke amava molto il cibo e, avendo vissuto quasi ovunque nel mondo civilizzato, si considerava un esperto in quel campo, come in quasi tutti gli altri. Amava tanto preparare i pasti quasi quanto consumarli e aveva dunque cercato di comunicare al suo volonteroso allievo tale passione. Ma non era stato facile, anzi il primo tentativo era finito davvero Paul Hoffman
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male. Un giorno, Cale era tornato al padiglione dopo un'assenza di dieci ore e aveva un appetito così vorace che si sarebbe mangiato un Redentore intero. Si era ritrovato davanti un banchetto imperiale, una versione improvvisata da IdrisPukke del pasto più spettacolare che lui avesse mai consumato, nella Casa di Imur Lantana nella città di Apsny. Aveva dovuto sostituire molti ingredienti: sulle montagne non si trovavano i peni di maiale, perché gli abitanti della zona consideravano impuri quegli animali; lo zafferano era troppo costoso e comunque nessuno ne aveva mai sentito parlare. In più, mancava il piatto considerato da molti la prelibatezza suprema... ma IdrisPukke, pur non essendo tenero di cuore, non era proprio riuscito ad affogare nel brandy dieci pulcini di allodola per poi arrostirli in forno per mezzo minuto. Quando Cale era arrivato, con la pelle imbrunita dal sole e una fame da lupi, era scoppiato in una fragorosa risata di fronte alle ghiottonerie che un orgoglioso IdrisPukke gli aveva parato davanti. «Comincia da qui», aveva detto il cuoco sorridente, e Cale si era avventato su un piatto di gamberetti d'acqua dolce sminuzzati, fritti e deposti su fette di pane bianco, con una salsa di lamponi selvatici acerbi. Dopo che ne ebbe trangugiati cinque, IdrisPukke aveva indicato con un cenno del capo l'anatra alla griglia e i bastoncini di pesce con la salsa di prugne. Poi, esortando gentilmente il ragazzo a rallentare, era passato alle ali di pollo impanate con patatine fritte. Ben presto, naturalmente, Cale si era messo a vomitare con violenza. Quello spettacolo non era certo una novità per IdrisPukke; rammentava bene la sgradevole abitudine degli abitanti di Kvenland di interrompere banchetti di trentanove portate con visite al bilematorio o al vomitatorio, visite che si rendevano necessarie ogni dieci portate circa, per poter arrivare fino alla trentanovesima portata ed evitare così di offendere a morte il proprio ospite. Ma i conati di vomito di Cale erano di portata epica: il suo stomaco stava espellendo tutto ciò che lui aveva ingerito nei venti minuti precedenti e forse anche tutto ciò che aveva mangiato in vita sua... almeno quella era stata l'impressione di IdrisPukke. Quando ebbe finito, esausto, il ragazzo era andato a letto. La mattina dopo, aveva un colorito bianco-verdognolo, che IdrisPukke aveva visto soltanto sul volto di cadaveri di tre giorni. Cale si era seduto e, con estrema cautela, aveva bevuto una tazza di tè leggero, senza latte. Poi, con voce fioca, si era messo a spiegare a IdrisPukke il motivo per cui si era sentito così male. Paul Hoffman
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Quando ebbe finito di raccontargli della cucina dei Redentori, IdrisPukke aveva commentato: «Be', se mi venisse mai la tentazione di pensare male di te, cercherò di scusarti, considerando che c'è poco da aspettarsi da un ragazzo cresciuto a 'piedi di uomini morti'». E, dopo un breve silenzio, aveva aggiunto: «Spero che non ti dispiaccia se ti do qualche consiglio». «No», aveva risposto Cale, troppo debole per offendersi. «La gente ha dei limiti, quando si tratta di accettare gli altri. Ecco perché, se l'argomento dovesse ripresentarsi e se tu fossi in miglior compagnia, ti suggerirei caldamente di non menzionare i ratti.»
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19 Prima dell'affrettata partenza di Cale, Henri e Kleist avevano visto il loro compagno soltanto per pochi minuti, dunque non avevano riflettuto sulla sospetta ricomparsa di IdrisPukke né avevano capito bene ciò che era successo a Cale dopo che era stato trascinato fuori dal Giardino d'Estate. Con grande irritazione, Kleist non aveva nemmeno avuto la possibilità di far notare a Cale che la sua sfacciata indisciplina e il suo generalizzato egoismo avevano lasciato lui e Henri nelle pesti. Com'era comprensibile, temeva che Cale avesse attratto su di sé l'ostilità di tutti e che ciò si potesse ripercuotere su di loro. Ma le cose non erano andate proprio così. L'ostilità era palpabile, ovvio, tuttavia la feroce strigliata impartita da Cale ai Mond aveva reso estremamente prudente chiunque fosse animato da un desiderio di vendetta, nell'eventualità che Henri e Kleist avessero doti analoghe. I Mond, infatti, non temevano di restare gravemente feriti o di morire, ma di essere umiliati da persone di estrazione sociale inferiore alla loro. Vipond aveva riassegnato i due ragazzi alle cucine, dove non c'era possibilità che i due s'imbattessero in qualcuno d'importante. Non è difficile immaginare le elaborate e ripetute maledizioni che Kleist aveva riversato su Cale per averlo lasciato lì a lavare piatti per dieci ore al giorno. Tuttavia c'era un vantaggio imprevisto: i servitori che nutrivano rancore nei confronti dei Mond per la loro impudenza e arroganza - e non erano pochi - guardavano con ammirazione i due ragazzi, tanto che dopo circa un mese avevano permesso loro di occuparsi d'incarichi più interessanti. Kleist si era offerto di aiutare in macelleria e tutti erano rimasti colpiti dalle sue capacità. «Un talento naturale», dicevano, e lui era stato abbastanza saggio da non specificare con quali animaletti avesse imparato il mestiere. Mentre smembrava felicemente un'enorme mucca Holstein, aveva detto a Henri: «Come mi piace lavorare su scala più grande!» Henri si era dovuto accontentare di dar da mangiare agli animali e di recapitare messaggi alla porta di servizio di qualche palazzo. Così aveva avuto l'opportunità di vedere Riba, che ormai era sempre nei suoi pensieri. I loro incontri non duravano mai a lungo, ma ogni volta la ragazza s'illuminava in viso e gli parlava animatamente, toccandogli il braccio e sorridendogli coi suoi bei dentini bianchi. Ben presto, però, lui si era reso Paul Hoffman
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conto che, con ogni probabilità, chiunque riceveva da lei quello stesso sorriso e quel medesimo slancio. Era nella natura di Riba dimostrarsi aperta e accattivante; infatti le persone erano sensibili al suo fascino e spesso si meravigliavano di quanto diventasse importante per loro quel bel sorriso. Henri tuttavia lo voleva tutto per sé. Da quand'erano rimasti soli nelle Scablands per quasi cinque giorni, Henri serbava un oscuro segreto riguardo a Riba. Dapprima lui l'aveva trattata con una stupita deferenza, come se si fosse ritrovato in viaggio con un angelo. A tutti gli uomini sarà capitato di restare incantati di fronte alla bellezza di una donna; figuratevi dunque quanto ne possa essere affascinato un giovane cresciuto senza mai vedere né immaginare una simile creatura. Dopo un paio di giorni, tuttavia, Henri si era calmato un po', se non altro perché in lui erano emerse pulsioni più basse della riverenza e dell'adorazione. Si era comunque sforzato di comportarsi in modo da non svilire la meraviglia di quell'essere divino, sebbene ignorasse quali comportamenti potessero provocare un tale svilimento. Dentro di lui, insomma, si agitava una marea di cose alle quali lui non sapeva dare un nome. A un certo punto, erano arrivati a una piccola oasi con una sorgente, da cui l'acqua sgorgava copiosa, formando un laghetto. Lei era scoppiata a ridere di gioia e Henri, con naturale delicatezza, si era offerto di ritirarsi sull'altro versante di una piccola collina nei pressi del laghetto. Giunto lì, si era disteso a terra, supino. E così la sua prima, vera, grande battaglia col diavolo aveva avuto inizio. Al Santuario, le grandi tentazioni erano pochissime, ma il Redentore Hauer, padre spirituale di Henri per quasi dieci anni, sarebbe rimasto mortificato nello scoprire quanto fosse stata inefficace la sua tormentosa insistenza sulla certezza dell'inferno per chi peccava contro lo Spirito Santo - per ragioni imperscrutabili, infatti, era proprio lo Spirito Santo a restare particolarmente traumatizzato da desideri peccaminosi di quel tipo - e quanto debole fosse la resistenza del ragazzo. In un lampo, il diavolo si era impadronito di Henri, che si era messo prono e aveva cominciato a strisciare, da quel rettile servitore di Belzebù che era diventato, scendendo appena sotto la cresta della collina. Chi era mai stato ricompensato con tanta abbondanza dopo aver ceduto a una tentazione? Riba era nel laghetto, con l'acqua che le arrivava a metà coscia, e si spruzzava pigramente. Per quanto Henri non avesse termini di paragone, i suoi seni gli sembrarono enormi e i capezzoli avevano un Paul Hoffman
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colore rosato quale lui non aveva mai visto. Inoltre si muovevano insieme con lei, fremendo con una grazia che gli mozzava il fiato. Tra le gambe, poi... No, non ci addentreremo laggiù, anche se Henri non contemplò nemmeno per un istante una simile proibizione. Ormai il diavolo lo possedeva completamente. Il ragazzo era così colpito che aveva quasi smesso di respirare. Nel suo animo erano impresse molte visioni dell'inferno ma, fino a quel momento, lui non ne conosceva nessuna del paradiso. Quelle pieghe delicate e morbide erano un insuperabile ritratto della grazia, un'immagine che avrebbe continuato a riverberare nell'animo di Henri fino al giorno della sua morte. Era stato così che il ragazzo, trasfigurato da un sacro terrore, era tornato lentamente indietro, strisciando lungo l'altro versante della collina. Vittima ignara di quella trasgressione, Riba aveva continuato a lavarsi ancora a lungo, del tutto inconsapevole dell'epifania in atto appena oltre il rilievo. Se Henri fosse semplicemente rimasto in riva al laghetto a guardarla, lei non ci avrebbe quasi badato. Amava dare piacere agli uomini: era stata cresciuta per quello, dopotutto. Il povero Henri, invece, era stato colpito come un diapason e, anche a distanza di mesi, continuava a vibrare. La natura gli aveva dato un desiderio intenso, ma la vita gli aveva negato la necessaria esperienza o la comprensione sufficiente per gestirlo. Per quanto riguardava il lavoro, Riba era stata molto più fortunata dei ragazzi. Aveva cominciato come ancella della fantesca della damigella personale di Mademoiselle Jane Weld, una posizione che, per quanto infima nel mondo spietato delle serve destinate alle dame, richiedeva in genere almeno quindici anni di gavetta. La nipote del Cancelliere Vipond aveva accolto Riba con particolare risentimento, perché il fatto di avere una sotto-sotto-damigella di rango così infimo sarebbe risultato evidente a chiunque. Tuttavia ben presto emerse che Riba aveva un talento eccezionale in alcuni dei compiti per i quali le fantesche erano molto apprezzate: era una parrucchiera di grande delicatezza e competenza; era in grado di schiacciare un brufolo o un punto nero causando il minor danno umanamente possibile e poi sapeva camuffare l'arrossamento in modo da renderlo invisibile; realizzava creme che, come per miracolo, facevano rifiorire la carnagione; trasformava in eleganti le unghie più brutte; riusciva a rendere folte le ciglia, rosse le labbra e lisce le gambe (depilandole nel modo meno doloroso possibile, cioè giusto una tacca al di Paul Hoffman
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sotto della tortura). In breve, Riba era una scoperta sensazionale. Così il risentimento di Mademoiselle Jane diminuì rapidamente, mentre quello delle altre donne di servizio, già intenso all'inizio, crebbe. Mademoiselle Jane dovette quindi affrontare uno spinoso problema: che fare delle altre tre damigelle personali, ormai superflue, una delle quali - la più anziana le era stata accanto da quando lei era bambina? Per quanto arrogante e altera, Mademoiselle Jane aveva un lato sensibile e non se la sentiva di dire alla vecchia Briony che non le serviva più. Sapeva che l'ex balia ci sarebbe rimasta molto male e, a pensarci bene, era anche preoccupata del fatto che la donna, sull'onda del rancore, finisse per rivelare a qualcuno le numerose confidenze che lei le aveva fatto. Decise quindi di risparmiare a Briony la dolorosa esperienza di essere liquidata dopo dodici anni di fedele servizio e ordinò di preparare le sue valigie mentre l'anziana donna era fuori a comprare un mastello di crema fredda al rosmarino. Al suo ritorno, la sfortunata Briony trovò soltanto una stanza vuota e un servitore con una busta, all'interno della quale c'erano venti dollari e un biglietto in cui la si ringraziava per la sua fedeltà e la si informava che sarebbe stata mandata a servizio presso una lontana parente, in una distante provincia. Come riconoscimento per il suo lavoro, inoltre, sarebbe stata accompagnata in quel lunghissimo viaggio dal servitore che le aveva consegnato la busta, il quale aveva istruzione di restare con lei e proteggerla sempre finché non fosse giunta a destinazione. Infine Mademoiselle Jane le augurava buona fortuna e manifestava la speranza che facesse il miglior uso possibile della sua buona sorte. Nel giro di venti minuti, un'esterrefatta Briony si ritrovò in groppa a un cavallo e partì verso una nuova vita, accompagnata dal suo protettore. Nessuno seppe più nulla di lei. Nell'eventualità che Briony si rivelasse comunque tanto sfacciata quanto lo era stata la sua signora, le altre donne di servizio vennero disperse in modo analogo e Mademoiselle Jane si ritrovò a contemplare una vita in cui brufoli, foruncoli, punti neri, labbra sottili e capelli intrattabili erano un ricordo del passato. Per diversi mesi, la nobildonna fu al settimo cielo. L'abilità di Riba nelle arti della bellezza esaltò la sua avvenenza che, in passato, non era certo superiore alla media. I pretendenti si fecero ancora più numerosi, il che le consentiva di trattare quei potenziali innamorati con sdegno sempre maggiore, come richiedevano le tradizioni dei Ferrazzi in tema di corteggiamento. Come ben sapeva, nessuna droga, per quanto rara e costosa, offriva il meraviglioso piacere di essere al centro dei sogni e dei Paul Hoffman
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desideri di qualcuno e, nel contempo, di poter distruggere quella persona con un unico sguardo e un solo sorriso. , All'inizio, insomma, Mademoiselle Jane si beò della deliziosa consapevolezza di spezzare più cuori della detestata Arbell Collo di Cigno; a poco a poco, tuttavia, emerse qualcos'altro, qualcosa di così strano e doloroso che, per diverse settimane, lei fu certa di averlo soltanto immaginato. Alcuni dei giovani nobili che le facevano visita - soltanto alcuni - non sembravano devastati dai suoi continui rifiuti, com'era giusto che fosse. Certo, si lamentavano e la imploravano di cambiare idea, però... Come abbiamo già detto, Mademoiselle Jane era una giovane sensibile quantomeno nei riguardi di se stessa - e cominciò a sospettare che le loro proteste non fossero del tutto sincere. Che cosa poteva significare tutto ciò? Forse si stava abituando a spezzare i cuori e il suo piacere stava diminuendo, come spesso accade coi piaceri che ci si concede con eccessiva frequenza. Eppure lei continuava a provare le stesse intense emozioni coi pretendenti che erano veramente distrutti dalla sua freddezza! No, stava succedendo qualcosa, si disse. Mademoiselle Jane riservava sempre la tarda mattinata a spezzare i cuori dei suoi spasimanti e concedeva loro tempi generosi - a volte persino mezz'ora - se erano particolarmente bravi a esaltare la sua bellezza nonché a dolersi della sua indifferenza e crudeltà. Un giorno, nel tentativo di venire a capo delle sue fastidiose inquietudini, decise di destinare l'intera mattinata a coloro nei confronti dei quali nutriva dei sospetti, aiutata dal fatto che le sue camere erano strutturate in modo tale da consentirle di spiare i suoi pretendenti quando arrivavano e quando se ne andavano. A metà mattina, era già furiosa. I suoi peggiori timori erano stati confermati, ma in un modo che aveva dell'incredibile: era tutta colpa di quell'ingrata sgualdrina di Riba. Per ben tre volte, quella mattina, Mademoiselle aveva sopportato gli struggimenti e i sospiri di giovanotti che, come ormai era evidente, venivano da lei soltanto perché in quel modo, dopo essere arrivati presto e aver finto di strisciare ai suoi piedi, avevano l'opportunità di andarsene il più in fretta possibile per poter fare gli occhi dolci a quella cicciona di Riba. Era un'umiliazione inconcepibile: non solo stavano ingannando la donna più bella e desiderata di Memphis - il che non era proprio vero, perché era la numero quindici a dir tanto, ma dobbiamo comprendere la sua indignazione -, ma lo facevano addirittura con una creatura più larga Paul Hoffman
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che alta, che a ogni passo ballonzolava come un budino. Quell'insulto - e per una Ferrazzi era un insulto mortale definire «grassa» un'altra donna - non era nemmeno particolarmente accurato. Senza dubbio, la costituzione fisica di Riba era in netto contrasto con quella della sua padrona e di tutte le donne dei Ferrazzi, ma la sua carne non ballonzolava affatto come un budino; inoltre, nei due mesi trascorsi a Memphis, la ragazza era stata così occupata da non aver avuto né modo né tempo di mangiare come faceva al Santuario. Di conseguenza, aveva perso una consistente porzione della sua burrosa floridezza. Se prima aveva un aspetto non solo insolito, ma anche esagerato, adesso le sue forme erano solo insolite e molto attraenti. Quando la vedevano camminare, così morbida e ondeggiante, accanto alla sua sdegnosa padrona, i Ferrazzi notavano subito il contrasto con la magrezza fanciullesca delle loro donne e ne erano conquistati. Poi c'erano il suo sorriso gioioso e i suoi modi cordiali, quasi altrettanto seducenti perché in netto contrasto col brutto carattere delle donne con cui loro trattavano da sempre. Abituati ai rituali di un amore cortigianesco, che implicava una disperata adorazione, non corrisposta, per una donna fredda e sprezzante, i Ferrazzi ne erano ammaliati. Non era perciò difficile spiegarsi perché numerosi giovani si fossero convertiti in ammiratori di una bella ragazza formosa, che non li guardava dall'alto in basso, come se fossero disgustose creature. In uno stato terribile, Mademoiselle Jane scese di corsa dal suo nascondiglio, si allontanò dal suo appartamento principale e raggiunse la sala dei ricevimenti, dove Riba aveva appena chiuso la porta alle spalle di un giovane Ferrazzi, il quale era uscito in strada avvolto in una nuvola di desiderio e rimpianto. «Anna Maria! Anna Maria!» gridò, chiamando la sua governante. Esterrefatta, Riba fissò la padrona, notando che era rossa di rabbia. «Che succede, Mademoiselle?» «Chiudi la bocca, palla di lardo! Panzona!» replicò Mademoiselle Jane in tono ben poco mademoisellesco, mentre Anna Maria, sbalordita per quelle urla ferine, raggiungeva di corsa la sala. Mademoiselle Jane fissò la governante come se fosse sul punto di esplodere e poi indicò Riba. «Sbatti fuori di casa mia questa imbrogliona traditrice! Non voglio rivederla mai più!» Stava per concludere la sua tirata mollando un ceffone a Riba, ma poi notò che l'espressione della ragazza era passata dallo stupore alla rabbia per essere stata insultata così ferocemente e si limitò a strillare: Paul Hoffman
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«Levamela di torno!» rivolta ad Anna Maria. Infine ripartì di gran carriera verso le sue stanze.
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20 IdrisPukke non aveva abbandonato l'idea di rieducare lo stomaco di Cale. La sua nuova dieta sarebbe stata - almeno all'inizio - piuttosto semplice, ma la semplicità non era forse una prova dell'abilità di un cuoco? Quando Cale tornò a cimentarsi con uno dei pasti speciali di IdrisPukke, trovò ad aspettarlo una trota, pescata nel lago vicino al padiglione di caccia. Era cotta al vapore e accompagnata da patate lessate, con erbe e qualche foglia d'insalata. Cale fu prudente con le patate, perché erano condite con una piccola quantità di burro fuso, ma riuscì a tenerle giù e chiese addirittura il bis. Così passavano i giorni e le notti. Cale continuava a fare lunghe passeggiate, con e senza IdrisPukke. I due stavano seduti in silenzio per ore e per altre ore parlavano, anche se era soprattutto l'uomo più anziano a parlare. Insegnò a Cale a pescare, a mangiare da persona civile - bisognava masticare a bocca chiusa, senza rutti o risucchi - e gli raccontò della sua vita straordinaria, incluse molte storie in cui si prendeva gioco di sé, una cosa che il ragazzo continuava a trovare sconcertante. Al Santuario, ridere di un adulto significava prendersi una brutta batosta e lui trovava incredibile che qualcuno addirittura lo invitasse a farlo. Talvolta, di notte, avvertiva moti di gioia tanto irrefrenabili quanto immotivati. Inoltre IdrisPukke continuò a offrire a Cale vari scampoli della sua filosofia di vita. «L'amore tra un uomo e una donna è l'esempio migliore del fatto che tutte le speranze di questo mondo sono un'assurda illusione, perché l'amore promette così tanto e rende così poco.» Oppure: «So che non c'è bisogno che io ti dica che questo mondo è un inferno, ma cerca di capire che gli uomini e le donne sono, da una parte, le anime tormentate e, dall'altra, i diavoli che procurano il tormento». E ancora: «Nessuno di veramente intelligente accetterà mai qualcosa come vero soltanto perché è l'autorità a dichiararlo tale. Non prendere per vero nulla, salvo che tu ne abbia trovato conferma personalmente». In cambio, Cale gli raccontava la sua vita coi Redentori. «All'inizio, non erano soltanto le botte che ci spaventavano. In quei giorni, credevamo a tutto ciò che ci dicevano. Per esempio: anche se non venivamo sorpresi a fare qualcosa di sbagliato, eravamo nati cattivi e Dio vedeva tutte le nostre azioni, perciò dovevamo confessare ogni cosa. Se non l'avessimo fatto e fossimo morti nel peccato, saremmo andati all'inferno, per bruciare in Paul Hoffman
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eterno. Poi moriva qualcuno - succedeva ogni mese - e loro ripetevano tutto da capo. A quei tempi, restavo sveglio la notte, dopo le preghiere, che finivano sempre con la domanda: 'E se morissi stanotte?' Talvolta ero assolutamente sicuro che, se mi fossi addormentato, sarei morto e finito all'inferno.» Smise di parlare per un istante, poi riprese: «E tu, quanti anni avevi quando hai conosciuto il terrore?» «A differenza di te, ben più di sette. È successo alla Battaglia del fiume Capra. Avevo... vediamo... diciassette anni. Durante una missione di avanscoperta, siamo caduti in un'imboscata. Era la prima volta che mi ritrovavo in una vera battaglia. Non si può dire che non fossi stato addestrato, anzi ero piuttosto bravo, il terzo nel mio anno. Poi la cavalleria Drusa aveva superato la collina e tutto era diventato soltanto confusione e rumore. Non riuscivo a parlare, avevo la lingua appiccicata al palato. Ho cominciato a tremare e stavo per... be', insomma...» «Per fartela sotto?» suggerì Cale. «Perché non essere schietti? Sì. In cinque minuti, però, era tutto finito e io ero ancora vivo. Ma non avevo nemmeno sguainato la spada.» «Qualcun altro se n'è accorto?» «Sì.» «E cosa ti ha detto?» «'Ti ci abituerai.'» «Non ti hanno picchiato?» «No, ma se fosse successo di nuovo, be'... non sarei sopravvissuto a lungo.» Ci fu un'altra pausa, poi IdrisPukke domandò: «Quindi tu ti sei sempre sentito così?» Non era una domanda semplice. Una delle condizioni cui suo fratello o, per essere più precisi, il suo fratellastro - l'aveva rilasciato, affidandogli Cale, era scoprire tutto sul ragazzo e soprattutto sulla fonte della sua abilità e del suo coraggio, per appurare se fossero qualcosa di eccezionale oppure se, in qualche modo, fossero opera dei Redentori. «Quand'ero piccolo, avevo sempre paura», rispose Cale dopo un po'. «Ma poi è passata.» «Perché?» «Non lo so.» Naturalmente non era vero, o almeno lo era non del tutto. «E adesso non hai più paura? Mai?» Cale lo guardò. Le ultime settimane lo avevano lasciato sbalordito: era grato a IdrisPukke e aveva provato molte emozioni strane e sconosciute, di Paul Hoffman
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amicizia e fiducia. Ma ci sarebbero voluti ben più di quindici giorni di gentilezza e generosità per vincere la sua diffidenza. Si chiese se cambiare argomento. All'apparenza, comunque, non sembrava che dire la verità facesse molta differenza. «Ho paura delle cose che mi possono far male in generale. So cosa vogliono farmi i Redentori. È difficile da spiegare, ma combattere... è diverso. Che cosa stavi dicendo a proposito della Battaglia...» Esitò. «... del fiume Capra?» «Già, quando tremavi e stavi per fartela addosso.» «Tranquillo. Non aver paura di offendermi.» «Be', per me è il contrario. Divento freddo, tutto si fa più chiaro.» «E poi?» «Poi cosa?» «Hai paura?» «No, di solito non sento nulla, a parte quella volta in cui ho dato una bella lezione a Conn Ferrazzi. Quello mi ha fatto sentire piuttosto bene. Anche adesso, se ci penso. Ma, quando ho ucciso i soldati, non mi sono sentito bene. Dopotutto non mi avevano fatto nulla.» Fece una pausa, quindi mormorò: «Non voglio parlarne più». Saggio com'era, IdrisPukke non mise alla prova la sua fortuna. Così, nelle settimane successive, Cale tornò alle sue passeggiate. Alla sera, i due bevevano, fumavano e mangiavano insieme. E, via via che Cale riusciva a digerire meglio un boccone di pesce fritto in una pastella croccante, un po' di burro in più con le verdure, un cucchiaino di panna con le more, il cibo divenne più ricco. Durante il periodo in cui Cale e IdrisPukke si godettero la calma e la tranquillità di Treetops, un uomo e una donna li avevano tenuti d'occhio, ma senza tenerezza o preoccupazione. Come due genitori che vigilano il proprio figlio... ma senza il minimo slancio d'affetto. Nelle storie di buoni e cattivi sono soltanto i buoni a essere terribilmente sfortunati, a restare vittime di disgrazie ed errori. I cattivi sono sempre intelligenti e agiscono con disciplina, hanno piani astuti, che vengono sventati soltanto all'ultimo momento. I cattivi sono sempre sul punto di averla vinta. Nella vita reale, sia i buoni sia i cattivi commettono errori semplici ed evitabili, hanno giorni terribili in cui tutto va storto. I malvagi hanno debolezze superiori alla loro volontà di uccidere e danneggiare. Paul Hoffman
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Persino l'anima più nera e crudele può avere qualche punto debole. Persino il deserto più aspro ha qualche oasi, alberi ombrosi e pozze d'acqua. Non è soltanto la pioggia a cadere ugualmente sui giusti e sugli iniqui, ma sono anche la fortuna e la sfortuna, le vittorie inaspettate e le sconfitte immeritate. Appoggiato con la schiena contro un gelso, Daniel Cadbury chiuse il libro che stava leggendo, Il Principe malinconico, con un grugnito di soddisfazione. «Ssstt!» esclamò la donna, che aveva tenuto lo sguardo rivolto nell'altra direzione ma, sentendo il libro chiudersi, si era voltata di scatto verso di lui. «È a duecento iarde di distanza», sbuffò Cadbury. «Il ragazzo non ha sentito nulla.» Controllando rapidamente che Cale fosse ancora addormentato sulla sponda del fiume, la donna si voltò di nuovo verso Cadbury, limitandosi a fissarlo. Se non fosse stato ciò che era, cioè un assassino, un ex schiavo di galea e un occasionale informatore di Kitty la Lepre, Cadbury avrebbe potuto spazientirsi. Lei non era proprio brutta, forse era solo insignificante, ma i suoi occhi, nei quali non c'era altro che ostilità, avrebbero messo a disagio quasi chiunque. «Vuoi che te lo presti?» chiese, mostrandole il libro. «È molto bello.» «Non so leggere», rispose lei, pensando che lui la stesse prendendo in giro. Ed era proprio così. Di norma, Cadbury non sarebbe stato così poco saggio da deridere Jennifer Plunkett, una sicaria che Kitty la Lepre ammirava tanto da riservarle soltanto gli omicidi più difficili. Quando il suo committente gli aveva detto chi lo avrebbe affiancato in quell'impresa, lui aveva emesso un gemito di costernazione, esclamando: «No, Jennifer Plunkett, no, per favore!» «Non è una compagna amichevole, sono d'accordo, ma parecchie persone molto importanti sono interessate a questo ragazzo, me compreso, e il mio istinto mi dice che potrebbe rendersi necessario un bel po' di quel caos in cui Jennifer Plunkett eccelle. Sopportala per me, Cadbury.» E così era stato. Era stato per noia che Cadbury aveva pungolato quella macellala dal pericoloso talento, che lo fissava ancora con uno sguardo truce. Ormai da un mese sorvegliavano il ragazzo, il quale non aveva fatto altro che mangiare, dormire, nuotare, camminare e correre. Persino i piaceri del Paul Hoffman
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Principe malinconico, un libro che gli era piaciuto ogni volta che l'aveva letto - una dozzina nel giro di altrettanti anni -, non erano stati sufficienti a impedirgli di diventare irrequieto. «Senza offesa, Jennifer.» «Non chiamarmi Jennifer.» «In qualche modo ti devo pur chiamare.» «E invece no.» Non distolse lo sguardo e non batté ciglio. C'era un limite alla sua tolleranza e quel limite non era particolarmente ampio. Lui scrollò le spalle, dando l'impressione di cedere, ma lei non si mosse. L'uomo si chiese se fosse il caso di prepararsi. Poi, come un animale, ma di quelli che non apprezzano la compagnia umana, la donna si girò dall'altra parte e riprese a fissare il ragazzo addormentato. Cadbury pensò che non erano soltanto i suoi occhi a essere strani, ma anche ciò che vi stava dietro. È viva, ma non riesco a definire esattamente come, pensò. Data la sua professione, Cadbury conosceva molto bene gli assassini. Dopotutto lui era uno di loro. Ma uccideva solo quand'era necessario, di rado provando piacere e a volte con riluttanza o addirittura con rimorso. La maggior parte dei sicari, invece, provava un certo piacere in ciò che faceva. Jennifer Plunkett era diversa: sembrava impossibile capire ciò che succedeva quando lei ammazzava qualcuno. Vederla sbarazzarsi dei due uomini che IdrisPukke aveva convinto i soldati ad arrestare era stato un'esperienza incredibile. Al loro rilascio, inconsapevoli della funzione di supporto che avevano svolto, in qualche modo erano arrivati nella foresta, a mezzo miglio da Treetops, e si erano accampati. Senza consultarsi con lui - il che era professionalmente scortese, ma Cadbury aveva deciso di lasciar perdere -, Jennifer si era avvicinata, mentre i due erano seduti ad aspettare che il tè fosse pronto, e li aveva accoltellati entrambi. Ma quello che aveva lasciato davvero sbalordito Cadbury era stata l'assenza di preliminari. Li aveva uccisi con uno sforzo insignificante, lo stesso che una madre avrebbe potuto dedicare a raccogliere i giocattoli dei figli, una sorta di distrazione annoiata. Quando gli uomini si erano resi conto di ciò che stava succedendo ormai erano agonizzanti. A quanto ne sapeva Cadbury, anche gli assassini più feroci dovevano - o volevano - caricarsi per uccidere. Non Jennifer Plunkett. I suoi pensieri furono interrotti da alcuni suoni provenienti dal fiume. Il ragazzo si era svegliato e si era allontanato dalla sponda di circa venti Paul Hoffman
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iarde. Emise un basso «Uuuuuuuuh...» poi si lanciò verso l'acqua, correndo sempre più veloce. Con un urlo stridulo, saltò dall'argine, raccogliendo le ginocchia al petto e infine entrando in acqua con un grande spruzzo. Riemerse quasi subito, ridendo a squarciagola e tornando di corsa a riva. Nudo come un verme, prese a danzare, sogghignando e gridando per il piacere procuratogli dal contrasto tra l'acqua gelida e l'aria calda dell'estate. «È bello essere giovani, eh?» fece Cadbury. Era impossibile non partecipare alla gioia del ragazzo. Poi, con enorme stupore, si rese conto che Jennifer Plunkett stava sorridendo e che il suo volto era trasfigurato: pareva il ritratto di una santa. La donna era innamorata. Non appena si accorse dello sguardo di Cadbury, però, lei sgusciò via dal paradiso in cui il ragazzo l'aveva portata. Guardò il compagno, sbatté le palpebre come un falco o un felino e poi si voltò nuovamente verso il fiume, stavolta con un'espressione vacua. «Che cosa vuole da lui Kitty la Lepre, secondo te?» chiese. «Non ne ho idea, ma non deve essere nulla di buono», rispose Cadbury. Poi aggiunse, con una certa sincerità: «E un peccato, sembra un ragazzino così felice». Si pentì immediatamente di quelle parole, ma era ancora perplesso per ciò che aveva visto. Era come vedere un serpente arrossire. Così impari a pensare di sapere cosa succede agli altri, si disse Cadbury. Pieno di meraviglia per quella strana piega degli eventi, si sedette e appoggiò la schiena al tronco del gelso. Non gli ci volle molto a scoprire come stavano le cose. Troppo accorto per non andare a fondo di quella rivelazione, diede a intendere a Jennifer Plunkett di essersi addormentato, ma celò alla donna gli occhi semichiusi, estrasse il pugnale e lo nascose, con la mano sull'elsa, sotto la coscia destra, quella più lontana da lei. Per mezz'ora buona restò a guardare la schiena immobile della donna, mentre ogni tanto si alzavano le urla del ragazzo, il fragore degli spruzzi e le allegre risate. D'un tratto, lei si voltò e andò verso Cadbury, senza fare il minimo rumore, col coltello in mano, pronta a sferrare il colpo mortale. Lui lo parò con la mano sinistra e spinse verso l'alto il pugnale che aveva nella destra. Si meravigliò della velocità della donna, mentre rotolava con lei nelle foglie secche che ricoprivano il sottobosco. Stretti in un abbraccio letale, continuarono a girare, a destra e a sinistra, accompagnati solo dal caldo stridore del loro respiro e dal fruscio delle foglie, mentre si guardavano negli occhi, con le labbra che si Paul Hoffman
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sfioravano. A un certo punto, Cadbury sembrò avere la meglio. Lei si contorceva, si dibatteva e si dimenava con tutto il suo vigore, ma lui era ormai riuscito a bloccarla. Jennifer però, oltre all'odio e alla collera, aveva un'altra arma: il suo amore travolgente. Come avrebbe potuto morire e abbandonarlo? Con una spinta, scivolò di lato, fece sbilanciare Cadbury e si liberò dalla presa della sua mano sinistra. In un attimo, fu in piedi e si mise a correre come una lepre lungo la collina, verso il suo ragazzo adorato. «Thomas Cale! Thomas Cale!» gridò a squarciagola. Il ragazzo alzò lo sguardo, mentre risaliva la sponda muscosa del fiume, nudo. A bocca aperta, fissò l'arpia urlante che correva disperata lungo la collina, chiamandolo per nome. «Thomas Cale! Thomas Cale!» In una vita maledetta da numerose visioni straordinarie, quella fu, per Cale, una delle più strane: un essere asessuato dall'espressione folle gridava il suo nome, agitando un coltello e correndo verso di lui con un lampo di follia nello sguardo. Stupefatto, il giovane corse in cerca dei suoi vestiti, armeggiò con la spada, la lasciò cadere, la raccolse di nuovo e la sollevò per colpire, mentre lei l'aveva quasi raggiunto, continuando a gridare. Si sentì un acuto ronzio e poi un suono sordo, come uno schiaffo sul fianco di un cavallo. Jennifer tossì e, sorpassando Cale con un capitombolo, andò a sbattere fragorosamente contro il tronco di una quercia e cadde a terra. Il ragazzo se la diede a gambe, nascondendosi dietro un albero, mentre il cuore gli batteva forte, come quello di un uccellino appena preso in trappola. Si mise subito a cercare una via di fuga. L'albero era circondato da un tratto di terreno semicircolare, privo di vegetazione, ampio dalle quaranta alle sessanta iarde. Guardò il corpo e capì che si trattava di una donna, accartocciata alla base di un albero, col sedere per aria e spostato di lato. Aveva una freccia da tre once conficcata nella schiena, con la punta che fuoriusciva appena dal petto. Le sanguinava il naso e le gocce cadevano a terra a intervalli di tre-quattro secondi. Colpire un bersaglio mobile in quel modo non era facile, ma non era nemmeno eccezionale. Cale rifletté: la donna aveva corso lungo la traiettoria della freccia, mentre se lui si fosse allontanato subito avrebbe attraversato perpendicolarmente la linea di tiro. Partendo da fermo gli ci sarebbero voluti cinque o sei secondi per raggiungere un riparo. Bastavano per scoccare una freccia, non Paul Hoffman
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di più, e ci sarebbe voluta una grande finezza. D'altra parte, forse quell'arciere la possedeva. Kleist avrebbe messo a segno un tiro del genere tre volte su quattro. «Ehi, figliolo!» Circa duecento iarde, a centottanta gradi, pensò Cale. «Che vuoi?» «Un grazie, tanto per cominciare.» «Grazie. E adesso perché non ti togli dai piedi?» «Piccolo stronzetto ingrato, ti ho appena salvato la vita!» Si stava muovendo? Sembrava di sì. «Chi sei?» «Il tuo angelo custode, amico, ecco chi sono. Quella era una davvero cattiva. Ribadisco: davvero cattiva.» «Che voleva da me?» «Voleva tagliarti la gola, amico. Era il suo mestiere.» «Perché?» «Non ne ho idea, amico. Vipond mi ha mandato per tenere d'occhio te e quel buono a nulla di suo fratello.» «E io perché dovrei crederti?» «Non ne hai motivo. Comunque non m'importa. Voglio soltanto che tu non mi segua. Non vorrei doverne piantare una in corpo anche a te, non dopo tutta la fatica che ho fatto per tenerti in vita. Perciò resta semplicemente dove sei per il prossimo quarto d'ora e, mentre tu pazienti, io me ne andrò, così nessuno si farà male. D'accordo?» Cale ci pensò su. Era meglio fuggire oppure seguirlo, catturarlo e cavargli la verità a bastonate? Oppure ritrovarsi con una freccia nella schiena? Sembrava che quell'uomo sapesse il fatto suo. In ogni caso, c'era un'alternativa. «Va bene, un quarto d'ora.» «Parola d'onore?» «Come?» «Lascia perdere. Che ne dici di quel grazie, allora?» Così sia Cadbury sia Cale si misero in movimento. L'uomo si diresse verso la foresta e il ragazzo, usando l'albero per farsi schermo, scivolò nel fiume e, nuotando lentamente lungo la riva, si allontanò. Tre ore dopo, Cale e IdrisPukke tornarono in riva al fiume, per esaminare il corpo della donna, al riparo di un gruppetto di alberi. Paul Hoffman
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Avevano passato due ore a cercare eventuali tracce del presunto salvatore di Cale, ma non avevano trovato nulla. IdrisPukke perquisì il cadavere e ben presto scoprì tre pugnali, due garrotte, uno schiacciapollici, un pugno di ferro e, in bocca, lungo la gengiva inferiore sinistra, una lama flessibile lunga qualche pollice, avvolta in un panno di seta. «Qualsiasi cosa stesse facendo, di certo non cercava di venderti mollette per il bucato.» «Tu gli credi?» «Al tuo salvatore? Sembra plausibile. Diciamoci la verità: se avesse voluto ucciderti, avrebbe potuto farlo in qualsiasi momento nell'ultimo mese. In ogni caso, qualcosa mi puzza.» «Pensi davvero che l'abbia mandato Vipond?» «È possibile. Certo che si è dato un sacco di disturbo per uno come te. Senza offesa, eh?» Se Cale non prese l'osservazione di IdrisPukke come un affronto era solo perché stava pensando la stessa cosa. «E che ne facciamo della donna?» chiese infine. «Gettiamola nel fiume.» Così fecero. E quella fu la fine di Jennifer Plunkett. Quella sera, per sicurezza, mangiarono al chiuso e, considerati gli strani eventi della giornata, discussero sul da farsi. «Il fatto è...» cominciò IdrisPukke. «Che cosa possiamo fare? Chiunque abbia ucciso quella donna avrebbe ucciso anche te, se avesse voluto. Oppure potrebbe farlo domani.» «Hai detto che la cosa ti puzza.» «E possibilissimo che Vipond abbia mandato qualcuno per tenerci d'occhio, per qualche suo motivo. È altresì possibile che uno dei Mond che tu hai umiliato pubblicamente abbia pagato qualcuno per metterti in una bara. Hanno soldi e rabbia a sufficienza. Quella donna aveva in mano un coltello, quindi, almeno in apparenza, ti voleva aggredire. Quell'uomo l'ha fermata e poi è sparito. Questi sono i fatti. Ovviamente non tutti i fatti, però, e può darsi che qualche successiva scoperta c'induca a considerarli sotto una luce completamente diversa. Ma fino ad allora qualsiasi ipotesi non sarebbe altro che un'ipotesi. Che restiamo qui o andiamo da qualche altra parte, rimaniamo comunque vulnerabili a chiunque, uomo o donna, abbia una buona mira e una dose sufficiente di astio nel cuore o la prospettiva di una ricompensa. Presupponiamo ciò che ci suggeriscono le Paul Hoffman
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informazioni in nostro possesso, perché non possiamo fare altro. O forse tu hai un'alternativa?» «No.» «Ecco.» Il pomeriggio seguente, Cale si sedette in terrazza a riflettere. Capiva il senso del fatalismo di IdrisPukke, ma d'altra parte il destino in questione era il suo. Come diceva sempre lo stesso IdrisPukke, ogni filosofo riesce a sopportare il mal di denti, a parte quello che ce l'ha. Assorto nei suoi pensieri, non si accorse quasi di un piccione dal piumaggio lucente, che camminava su e giù per la terrazza, mangiando briciole di pane raffermo. «Non ti muovere», gli mormorò IdrisPukke, che era arrivato alle sue spalle. Tenendo un pezzo di pane, si avvicinò piano piano all'uccello e cominciò a nutrirlo, cingendolo con cura con una mano, per poi afferrarlo saldamente. Quindi capovolse il piccione e slegò un tubicino di metallo che era attaccato a una zampa. Cale lo osservava, divertito. «È un piccione viaggiatore», spiegò l'uomo. «L'ha mandato Vipond. Ecco, tienilo così.» Consegnò l'uccello a Cale e svitò il tubicino. Ne estrasse un pezzo di carta di riso e, mentre leggeva, il suo viso s'incupì. «Una squadra di Redentori ha catturato Arbell Collo di Cigno», disse infine. Cale arrossì, esterrefatto e confuso. «Perché?» «Non è spiegato. Era al castello sul lago di Constanz, a circa cinquanta miglia da qui. Da lì il percorso più rapido per tornare al Santuario è attraversare il passo di Cortina, circa venti miglia a nord della nostra posizione. Se è quella la strada che stanno facendo, dobbiamo trovarli e avvertire le truppe che Vipond sta mandando a raggiungerci.» Sembrava preoccupato e confuso. «Non ha senso! È una dichiarazione di guerra. Perché i Redentori farebbero una cosa del genere?» «Non lo so, ma un motivo c'è senz'altro. Non sarebbe successo senza l'approvazione di Bosco. E lui sa quello che fa.» «Be', non c'è luna, perciò non possono viaggiare di notte e noi nemmeno. Facciamo i bagagli, poi dormiamo un po'. Partiremo all'alba.» Trasse un respiro profondo. «Anche se abbiamo ben poche speranze di raggiungerli.»
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21 Il giorno dopo IdrisPukke non volle partire finché non ci fu abbastanza luce. Cale sosteneva che fosse necessario assumersi quel rischio e mettersi subito in viaggio, ma IdrisPukke non cedette. «Se uno dei cavalli si azzoppa, brancolando nel buio, siamo bloccati.» Il ragazzo si rendeva conto che aveva ragione, ma era impaziente di partire e brontolò. IdrisPukke lo ignorò per altri venti minuti, poi si misero in viaggio. Nei due giorni seguenti, si fermarono soltanto per far riposare i cavalli e mangiare. Cale continuava a incalzare IdrisPukke perché andasse più veloce. L'altro ribadiva con calma che, pure ammesso che Cale riuscisse a sostenere un'andatura più rapida, né i cavalli né lui ce l'avrebbero fatta. Dovevano raggiungere i Redentori, sempre che fosse possibile, e avevano bisogno che almeno un cavallo fosse abbastanza in forze per tornare rapidamente dai Ferrazzi e riferire numero e direzione dei soldati. «Non sembri preoccupato per la ragazza», osservò Cale. «È proprio perché sono preoccupato che facciamo a modo mio. Perché ho ragione io. E poi, cosa rappresenta per te Arbell Collo di Cigno?» «Niente. Ma, se posso aiutare a fermare i Redentori, il Maresciallo avrà una buona ragione per essere più generoso con me. Ho amici a Memphis che sono ostaggi a loro volta.» «Non credevo che avessi amici. Pensavo che fossero soltanto le circostanze ad avervi riunito.» «Ho salvato loro la vita. Direi che è stato un gesto piuttosto amichevole.» «Ah, pensavo che tu fossi l'eroe riluttante della situazione.» «Infatti.» «Allora, mastro Cale, deciditi: sei nobile per vocazione o soltanto per via delle circostanze?» «Non sono affatto nobile.» «Così sostieni. Ma mi chiedo se, da qualche parte, dentro di te, non ci sia un eroe incipiente.» «Che vuol dire 'incipiente'?» «Qualcosa che comincia ad apparire, a esistere.» Cale rise, ma non fu un suono piacevole. «Se la pensi così, speriamo che Paul Hoffman
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tu non ti debba mai trovare nella condizione di scoprire se è vero.» A quel punto, IdrisPukke decise di stare zitto. Il secondo giorno scesero sulla strada principale verso il passo di Cortina. Non era granché, come strada. «Non la usa nessuno da sessant'anni, da quando i Redentori hanno chiuso i confini.» «Quanto dista il Santuario dal passo?» chiese Cale. «Perché, non lo sai?» «I Redentori non lasciavano in giro mappe o cose del genere, temendo di facilitare la nostra fuga. Fino a qualche mese fa, pensavo che Memphis fosse a migliaia di miglia di distanza da noi.» Se IdrisPukke non fosse stato distratto da una bellissima libellula dalle tinte rosso vermiglio e oro, avrebbe visto la menzogna nell'espressione di Cale, nel preciso istante in cui il ragazzo pensava di essersi tradito. «Voglio dire, prima di arrivare qui e di rendermi conto che non era così lontana», aggiunse Cale. IdrisPukke notò il tono imbarazzato. «Che c'è?» «Niente.» «Se lo dici tu.» Terrorizzato di aver rivelato qualcosa che era molto ansioso di non rivelare, nei dieci minuti successivi Cale si avvolse in un allarmato silenzio. Ma, quando IdrisPukke riprese a parlare, fu come se si fosse dimenticato di tutta la faccenda e infatti era proprio così. «Il Santuario è a più di duecento miglia dal passo, ma non c'è bisogno che vadano così lontano. C'è un presidio a venti miglia dal confine, Martyr Town.» «Mai sentita nominare.» «Be', non è tanto grande, ma le mura sono spesse. Ci vorrebbe un esercito per espugnarla.» «Che facciamo, allora?» «Niente. Ferrazzi adora quella ragazza. Darà loro tutto ciò che vogliono.» «Come sai che vogliono qualcosa?» «Altrimenti non avrebbe senso.» «Ciò che ha senso per te e ciò che ha senso per i Redentori sono due cose molto diverse.» «Allora ti è venuta qualche idea? Su quello che stanno facendo, voglio dire.» Paul Hoffman
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«No.» «Non c'entra niente con te?» Cale rise. «I Redentori sono un branco di bastardi. Ma pensi davvero che dichiarerebbero guerra a Memphis per tre ragazzi e una cicciona?» IdrisPukke emise un grugnito. «Se la metti così, no. D'altro canto, però, tu mi hai raccontato un sacco di frottole negli ultimi due mesi.» «E tu chi sei, per pretendere la verità?» «Il migliore amico che tu abbia mai avuto.» «Ah, davvero?» «Già, si dà il caso che sia proprio così. Allora, non vuoi dirmi niente?» «No.» La conversazione si chiuse lì. Venti minuti dopo, trovarono i resti di un fuoco. «Che ne pensi?» chiese Cale, mentre IdrisPukke setacciava la cenere tra le dita. «È ancora calda. Qualche ora al massimo.» Indicò l'erba appiattita e il terreno leggermente smosso. «Quanti sono?» Cale sospirò. «Probabilmente non meno di dieci e non più di venti. Mi spiace, però non sono molto bravo in queste cose.» «Nemmeno io.» Si guardò attorno, pensieroso e incerto. «Penso che uno di noi debba tornare indietro e informare i Ferrazzi.» «Perché? Forse cavalcheranno più in fretta? E, anche se fosse, cosa faranno una volta arrivati qui? Se ci sarà una battaglia campale, i Redentori la uccideranno. Di certo non si arrenderanno, te lo posso assicurare.» IdrisPukke sospirò. «Dunque cosa suggerisci?» «Di raggiungerli e di non farci vedere. Poi, quando sapremo come stanno le cose, potremo decidere il da farsi. Per esempio, chiamare qui un numero ridotto di Ferrazzi e sistemarli in silenzio. Per adesso, almeno, la penso così. Magari, quando li raggiungeremo, le cose staranno diversamente.» IdrisPukke tirò su col naso e sputò per terra. «Va bene. Tu sei quello che li conosce meglio.» Cinque ore dopo, mentre faceva buio, Cale e IdrisPukke risalirono una collinetta in prossimità dell'accesso al passo di Cortina, un enorme crepaccio nella montagna di granito che segnava il confine settentrionale tra i Redentori e i Ferrazzi. Paul Hoffman
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La collina sovrastava un avvallamento di circa venti piedi di profondità e ottanta iarde di lunghezza, nel quale sei Redentori stavano preparando un accampamento. In mezzo al gruppo c'era Arbell Ferrazzi: probabilmente era stata legata, perché non si mosse nemmeno una volta per tutto il tempo in cui i due restarono a guardare. Dopo cinque minuti, entrambi si ritirarono in una macchia di cespugli a circa duecento iarde di distanza. «Se ti stai chiedendo perché ce ne siano soltanto sei, lascia che ti dica che ce ne sono sicuramente almeno altri quattro a fare la guardia», disse Cale. «E avranno mandato un uomo a cavallo in avanscoperta al presidio. Li aspetterà oltre il passo.» «Io torno indietro a prendere i Ferrazzi», disse IdrisPukke. «E perché?» «Se sono vicini, correranno il rischio di viaggiare di notte. Anche se i Ferrazzi dovessero perdere metà dei cavalli per strada, ci sarà al massimo una dozzina di Redentori.» «E, se non sarete qui schierati prima dell'alba, loro saranno sul passo e noi non potremo raggiungerli. E, anche se potessimo, attaccare di giorno significherebbe morte sicura per la ragazza. O li fermiamo prima che partano o non li fermeremo mai.» «Siamo soltanto in due», sottolineò IdrisPukke. «Sì, ma uno dei due sono io», replicò Cale. «È un suicidio.» «Se fosse un suicidio, non lo farei.» «E allora perché lo faresti?» Cale scrollò le spalle. «Se salvo la ragazza, Sua Enormità il Maresciallo mi sarà eternamente grato. Abbastanza grato da darmi un sacco di denaro e da lasciarmi andare senza rischi.» «Andare dove?» «In qualche posto caldo, dove si mangi bene e che sia il più lontano possibile dai Redentori, ma senza cadere giù dall'orlo del mondo.» «E i tuoi amici?» «Amici? Ah! Possono venire anche loro. E perché no?» «Il rischio è troppo grande. Meglio lasciare che la tengano in ostaggio e che i Ferrazzi la riscattino, qualsiasi cosa vogliano i Redentori.» «Perché sei così sicuro che sia un ostaggio?» chiese Cale, in tono freddo e irritato. IdrisPukke lo guardò. «Bene. Vediamo un po' se viene fuori la verità, Paul Hoffman
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adesso.» «La verità è che tu pensi che i Redentori siano come te; pensi che siano più cattivi, più folli, ma che in fondo vogliano le stesse cose che vuoi tu. Ma non è così.» Il ragazzo sospirò. «Non che io li capisca. Pensavo di capirli finché non ho visto quello che stava succedendo prima che io uccidessi quel bastardo del Redentore Picarbo. Ti ho detto che l'ho fatto per impedirgli di... insomma di... stuprarla.» «Stuprarla.» Cale arrossì: odiava essere corretto. «Sì, insomma, non importa come si dice, in ogni caso non era quello che stava facendo. La stava tagliando a pezzi.» Quindi raccontò a IdrisPukke esattamente ciò che era successo quella notte. «Mio Dio!» esclamò IdrisPukke, inorridito. «E perché?» «Non ne ho idea. Ecco perché non sono più convinto di sapere cosa succede nella loro mente perversa.» «Perché farebbero una cosa del genere ad Arbell Ferrazzi?» «Te l'ho detto, non lo so. Forse vogliono scoprire com'è fatta una Ferrazzi, hai presente...» S'interruppe, a disagio, per una volta. «... dentro, voglio dire. Non lo so, ma non ha senso che la vogliano per denaro. Non è da loro.» «Avrebbe ancora più senso se volessero indietro te.» Cale sussultò e si mise quasi a ridere. «Sicuramente vorrebbero farmi diventare un esempio, un bel rogo con tutto quello che ci va dietro. E non nego che farebbero di tutto per raggiungere quello scopo, ma cominciare una guerra coi Ferrazzi per un accolito? No. Nemmeno per sogno.» Fece un sorriso sardonico. «Immagino che pure il Maresciallo abbia pensato la stessa cosa. Sono disposto a scommettere che noi quattro ci ritroveremmo sulla strada per il Santuario in un battibaleno, semplicemente come gesto di buona volontà da parte sua. Non credi?» IdrisPukke non rispose perché era ciò che aveva pensato anche lui. Restarono entrambi in silenzio per qualche minuto. «È un rischio, ma si può fare», riprese Cale. «Lei per me non significa niente», mentì. «Non butterei via la vita per una mocciosa viziata. Se i Redentori la tengono, io non ho che da perderci. Se la recuperiamo, posso guadagnarci qualcosa e lo stesso vale per te. Non devi fare altro che coprirmi. Anche se io fallissi, avresti una buona possibilità di scappare. E diciamoci la verità: nessuno ti ringrazierebbe se si venisse a sapere che li Paul Hoffman
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hai raggiunti e li hai lasciati andar via con lei senza fare nulla.» IdrisPukke sorrise. «Le ingiustizie della vita sono sempre l'argomentazione migliore. E va bene. Dimmi qual è il tuo piano.» «Ci sono tre parole che Bosco mi ha inculcato a forza di legnate quotidiane: sorpresa, violenza, slancio. Ora rimpiangerà di avermele insegnate.» Cale disegnò un cerchio tra gli aghi dei pini che ricoprivano il sottobosco. «Ci saranno quattro guardie attorno al cerchio: a est, a ovest, a sud e a nord. Non c'è luna, stanotte, perciò non potremo muoverci fino alle prime luci dell'alba. A quel punto, tu dovrai uccidere il soldato di guardia a ovest, non appena riuscirai a vederlo. Poi io ucciderò quello a sud. Manterrai la posizione della guardia a ovest, perché solo da lì si può avere sotto tiro il masso vicino al quale viene tenuta la ragazza. Ed è lì che la porterò non appena l'avrò liberata. Sai imitare qualche uccello?» «So fare la civetta», rispose IdrisPukke, dubbioso. «Ma non ci sono civette da queste parti.» «Probabilmente i Redentori non lo sanno.» Cale fece una pausa poi chiese: «Com'è il verso della civetta?» IdrisPukke gli diede una dimostrazione. «E se il soldato fa rumore mentre cerco di ucciderlo?» «Come 'cerco'?» esclamò Cale, inorridito. «Non possiamo andare per tentativi. Non voglio nemmeno sentirti dire che farai del tuo meglio. Se combini qualche pasticcio, io sono morto. Hai capito?» IdrisPukke lo guardò con risentimento. «Non ti preoccupare per me, ragazzo.» «Certo che mi preoccupo. Allora, quando sentirò il tuo segnale, ucciderò la guardia a sud. Mi ci vorrà un minuto per indossare la sua tonaca. Poi entrerò nell'accampamento facendo il minor rumore possibile. Quando le altre guardie capiranno cosa sta succedendo...» «Perché non uccidiamo prima tutte le guardie?» «È impossibile andarsene in giro a lungo senza essere scoperto. Questo è il metodo più sicuro. Saranno confusi e io sarò vestito esattamente come tutti gli altri nell'accampamento. Ci sarà ancora poca luce. Se farai bene il tuo lavoro, in un modo o nell'altro non ci vorrà molto.» «E che devo fare, dopo?» «Non vedrai le guardie a nord e a est, a meno che non comincino a tirare frecce. In tal caso, rispondi, fai in modo che tengano giù la testa. Io porterò la ragazza dietro quel masso. Non ci potranno colpire, se non da sopra.» Paul Hoffman
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Sorrise e aggiunse: «È qui che la faccenda si fa complicata. Devi impedire loro di arrivare immediatamente sopra e dietro di noi, finché io non potrò mettermi a correre. Lì lei sarà al sicuro, purché tu riesca a bloccare i Redentori, rendendo loro impossibile prendere il tuo posto. Una volta che mi troverò oltre il bordo dell'avvallamento, saremo due contro due». «Dovrai correre per quaranta iarde allo scoperto e su una salita ripidissima nelle ultime quindici. Non avrai molte possibilità, a meno che non siano degli incapaci.» «Sono sicuramente in gamba.» «Comunque non capisco nemmeno perché mi preoccupo della tua corsa suicida. Dopotutto dovrai uccidere sei uomini armati da solo, prima. È un'idea ridicola. È meglio che aspettiamo i Ferrazzi.» «La uccideranno prima che i Ferrazzi la possano trarre in salvo. Questa è la sua unica possibilità. Fidati, per me sarà più facile agire che star qui a spiegartelo. Non si aspetteranno di essere attaccati alle prime luci dell'alba e, nel buio, mi scambieranno per uno dei loro. Quando si accorgeranno di essere attaccati, si aspetteranno che ci siano Ferrazzi ovunque, non certo una cosa del genere.» «Perché è una cosa troppo stupida.» «È la mia vita che metto a rischio, non la tua.» «E quella della ragazza.» «La ragazza varrà qualcosa soltanto se saremo noi a salvarla. Senza di lei, sarai degradato a una sorta di nullità o peggio. Direi che la scelta è piuttosto semplice.» Sei ore dopo, IdrisPukke era accanto al cadavere del soldato di guardia a sud. In un passato lontano, IdrisPukke aveva comandato numerose battaglie, con migliaia di morti, ma era trascorso parecchio tempo da quando aveva ucciso un uomo a faccia a faccia. Per un momento, restò a guardare gli occhi vitrei e la bocca spalancata, le labbra ritratte e i denti scoperti. Quindi si mise a tremare. Di conseguenza, il suo tentativo d'imitare una civetta gli morì in gola e avrebbe potuto mettere in allarme chiunque ne avesse mai sentita una. Ma, nel giro di un minuto, lui distinse la sagoma di Cale che scendeva lentamente dalla scarpata, facendo attenzione a non emettere nessun suono e a non dare l'impressione di andare di fretta, in caso le altre due guardie l'avessero visto. Guardando quel ragazzo che raggiungeva con disinvoltura i sei uomini Paul Hoffman
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addormentati e si metteva all'opera, IdrisPukke fu attraversato da un moto di terrore. Non era sicuro di cosa aspettarsi, ma di certo non aveva previsto nulla del genere. Cale estrasse la sua spada corta e, con un solo movimento verso il basso, accoltellò la prima sagoma addormentata. L'uomo non si mosse e non urlò. Senza fretta, il ragazzo passò al secondo. Di nuovo un colpo vigoroso, sferrato verso il basso, e nessun lamento. Mentre Cale si spostava, il terzo Redentore si mosse e sollevò addirittura la testa. Un altro colpo. Se l'uomo aveva gridato, IdrisPukke non l'aveva sentito. Cale passò al quarto uomo, che nel frattempo si era messo a sedere e lo guardava con aria assonnata, perplesso e tuttavia non spaventato. Una stoccata in gola e l'uomo cadde all'indietro con un urlo soffocato, ma sonoro. Il quinto e il sesto si svegliarono. Erano uomini esperti, temprati dalle battaglie e da molti agguati. Il primo attaccò Cale con un grido, cercando di colpirlo al viso con una lancia corta. Cale puntò alla gola dell'uomo, ma la mancò e lo colpì nell'orecchio. Il Redentore urlò e cadde a terra, ululando per il dolore. L'ultimo uomo, invece, perse di colpo la sua abituale presenza di spirito. Gli anni trascorsi a combattere furono come cancellati: in silenzio, immobile come un tronco d'albero, si limitò a fissare inorridito il compagno che strisciava tra le foglie intrise di sangue, mentre Cale, come in trance, gli perforava lo sterno. Quindi cadde a terra con un sussulto, mentre l'altro continuava a urlare. Allora Cale scattò in direzione della ragazza, che si era svegliata e aveva assistito agli ultimi tre omicidi. Era legata mani e piedi. Lui la sollevò, se la mise in spalla con un solo movimento, poi corse a ripararsi dietro il grande masso al quale lei si era appoggiata per dormire. Una freccia sibilò accanto all'orecchio sinistro del ragazzo e rimbalzò tra i sassi. Da sopra le loro teste, IdrisPukke rispose a sua volta con una freccia. Ci fu un'immediata reazione da parte della seconda guardia, la cui freccia s'infilò tra gli alberi che nascondevano IdrisPukke. Nei minuti successivi, ci fu un andirivieni di frecce, ma IdrisPukke capì cosa stava succedendo: una guardia gli si stava avvicinando furtivamente, mentre l'altra la copriva. La luce aumentava a ogni istante e, con l'avvicinarsi dell'alba, ogni possibilità di Cale di uscire incolume da quell'impresa stava svanendo. IdrisPukke doveva muoversi subito, per evitare di ritrovarsi in trappola. Cale fece cenno ad Arbell di restare ferma e in silenzio, poi corse verso la scarpata. IdrisPukke, con l'arco teso, sperava che l'arciere fosse Paul Hoffman
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impaziente e cercasse di colpire Cale non appena lo avesse visto, rivelando così la propria posizione. Ma l'arciere mantenne il sangue freddo. Aspettava che Cale raggiungesse la parte più ripida della salita e fosse costretto a rallentare; a quel punto, l'avrebbe colpito. Il ragazzo ci mise soltanto pochi secondi, poi si arrampicò, affondando le mani e i piedi nello strato superficiale e cedevole di aghi di pino, dunque rallentando sempre di più. A tre quarti del percorso, scivolò sulla radice di un albero coperta di terra argillosa e si fermò, cercando un appiglio coi piedi. Fu soltanto un secondo, ma interruppe il suo slancio e diede all'arciere tutto il tempo necessario. La freccia attraversò la conca, ronzando come una vespa, e colpì Cale mentre lui si issava sul bordo della scarpata. IdrisPukke ebbe un tuffo al cuore. Nella semioscurità, era difficile vedere dove fosse finita la freccia, però il rumore era inconfondibile: un colpo secco e morbido allo stesso tempo. Ma anche lui era nei guai, giacché era diventato l'unico obiettivo delle due guardie superstiti. Se fosse rimasto in quel punto, avrebbe avuto poche possibilità di cavarsela ma, se si fosse spostato, le guardie avrebbero occupato la sua posizione e non avrebbero avuto difficoltà a sporgersi oltre il ciglio della scarpata per colpire la ragazza. I cespugli attorno a IdrisPukke erano fitti e, se avevano rappresentato un riparo per lui, lo sarebbero stati anche per le guardie. Ormai tutto era a loro favore. Nei cinque minuti seguenti, gli vennero in mente numerosi pensieri sgradevoli, quali la terrificante prospettiva di essere in punto di morte e la pressante tentazione di darsela a gambe. Se fosse morto lì - e il diavolo nella sua coscienza gli sussurrò che sarebbe di certo accaduto - non avrebbe giovato alla ragazza: ci sarebbero state due vittime, anziché una soltanto. Se fosse fuggito, avrebbe dovuto vivere con quel rimorso. Poi il diavolo nella sua coscienza gli sibilò che se la sarebbe cavata: meglio un cane vivo che un leone morto. Così IdrisPukke, con la spada conficcata nel terreno davanti a sé e l'arco in mano, aspettò e sopportò i pensieri che gli martellavano nel cervello. Aspettò e aspettò. Il dolore non era una novità per Cale, ma la freccia che l'aveva colpito appena sopra la scapola gli stava procurando una sofferenza che andava ben oltre qualsiasi cosa avesse mai provato. Digrignava i denti e respirava Paul Hoffman
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sibilando, un rumore che gli era impossibile arrestare con la forza di volontà, proprio com'era inarrestabile il sangue che sentiva scorrere lungo la schiena. Improvvisamente prese a tremare con violenza, come se avesse le convulsioni. Cercò di respirare a fondo, ma il dolore non si placò neppure per un istante e continuò a essere accompagnato da quei singulti spasmodici. Doveva mettersi seduto, riprendere il controllo. Gemendo, strisciò in avanti. Poi svenne. Si risvegliò, senza sapere per quanto tempo fosse rimasto privo di sensi. Secondi? Minuti? Stavano per raggiungerlo e doveva rialzarsi. Arrancò fino a un pino e vi si aggrappò per sollevarsi. Inutile. Si fermò, poi riprese a spingere. Doveva alzarsi in piedi, altrimenti sarebbe morto. Ma riuscì soltanto a voltarsi e ad appoggiare la parte sana della schiena contro il tronco dell'albero. Quindi vomitò e svenne di nuovo. Quando si risvegliò fu a causa di un sasso, grande come un pugno, che un Redentore gli aveva tirato contro da circa dieci iarde di distanza. «Pensavo che ti fingessi morto», disse il Redentore. «Dove sono gli altri?» «Cos'hai detto?» Cale grugnì di dolore, ma sapeva che doveva restare sveglio e continuare a parlare. «Dove sono gli altri?» «Laggiù.» Cercò di sollevare la mano e indicare un punto lontano da IdrisPukke, ma perse di nuovo conoscenza. Un altro sasso, un altro brusco risveglio. «Cosa...» «Dimmi dove sono, oppure la prossima freccia te la pianto tra le gambe.» «Sono venti... io conosco il Redentore Bosco... mi ha mandato lui.» Il Redentore aveva già teso l'arco, non aspettandosi niente di sensato da Cale, ma restò sbalordito sentendo nominare Bosco. Com'era possibile che qualcuno, laggiù, conoscesse il grande Signore Militante? Abbassò l'arco e ciò fu sufficiente. «Bosco dice...» proseguì Cale, poi cominciò a biascicare, come se stesse per svenire un'altra volta. Senza riflettere, il Redentore fece qualche passo in avanti per sentire ciò che il ragazzo stava dicendo. A quel punto, Cale sferrò un colpo col braccio buono, il sinistro, lanciando un sasso in modo che colpisse il Redentore in mezzo alla fronte. L'uomo strabuzzò gli occhi, spalancò la bocca e si accasciò al suolo. Cale svenne di nuovo.
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IdrisPukke stava ancora aspettando nella piccola radura, circondata su tre lati da cespugli così fitti che gli ostruivano la vista e impedivano a chiunque di vedere lui. Alle sue spalle c'era il dirupo di trenta piedi in fondo al quale, come sperava, Arbell Ferrazzi era ancora in attesa. Sentendo un debole fruscio da dietro i cespugli, sollevò l'arco, completamente teso, e aspettò. Un sasso cadde nella radura. Lui quasi scoccò la freccia, come aveva sperato chiunque avesse tirato il sasso. Poi, muovendo l'arco avanti e indietro, così da essere pronto a reagire a un eventuale aggressione, strillò, con voce tremante: «Vieni qui e avrai il cinquanta per cento di probabilità di beccarti una freccia nello stomaco!» Si spostò di lato di tre passi, per non rivelare la sua posizione. Una freccia sibilò tra i cespugli e oltrepassò il ciglio della scarpata, mancando IdrisPukke di quei tre passi. «Vattene subito e non t'inseguiremo», urlò. Lui si abbassò e si spostò lateralmente ancora una volta. Un'altra freccia passò ronzando quasi nel punto esatto in cui era prima. Parlare non era stato una bella mossa. Passarono venti secondi. IdrisPukke aveva la sensazione di respirare così rumorosamente che il Redentore non avrebbe avuto la minima difficoltà a individuare la sua posizione. Poi, da circa duecento iarde di distanza, giunse un urlo di dolore e di sgomento, stridulo e agghiacciante. Nel silenzio che seguì, tutto parve fermarsi. Soltanto il vento correva tra le foglie. E gli istanti sembrarono minuti. «Quello era il tuo amico, Redentore. Ora sei rimasto soltanto tu.» Un'altra freccia non andò a segno. «Scappa adesso e non t'inseguiremo. Facciamo un accordo, hai la mia parola.» «Perché dovrei fidarmi?» «Il mio amico ci metterà un paio di minuti ad arrivare. Garantirà lui per me.» «Va bene. Accetto l'accordo ma, se mi seguirete, giuro su Dio che, mentre vado all'altro mondo, mi porterò dietro uno di voi.» IdrisPukke decise di restare in silenzio. Con Cale là fuori, vivo e di pessimo umore, non gli restava che aspettare. In realtà, il ragazzo era ancora svenuto, dunque non era in condizione di fare granché, e tantomeno di salvarlo. Ci vollero altri dieci minuti, colmi di ansia, prima che la voce di Cale giungesse da dietro i cespugli alla destra di IdrisPukke. Paul Hoffman
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«Sto arrivando e non voglio che tu mi tagli la testa», mormorò il ragazzo. «Grazie a Dio», sospirò a mezza bocca IdrisPukke, abbassando l'arco e allentando la corda. Ci fu un bel po' di fruscii e poi Cale emerse di fronte a lui. L'altro si sedette, espirò a lungo e profondamente e s'infilò una mano in tasca, in cerca del tabacco. «Pensavo che fossi morto.» «Non lo sono», replicò Cale. «E la guardia?» «Sì.» IdrisPukke fece una risata sardonica. «Un avvertimento e niente errori.» «Non so cosa significhi.» «Non importa.» Finì di arrotolare il sigaretto e l'accese. «Ne vuoi uno?» chiese, mostrando l'involto di tabacco. «A essere sincero, non mi sento tanto bene», rispose Cale, e cadde in avanti, svenendo a peso morto. Non si risvegliò per altre tre settimane, durante le quali si ritrovò in punto di morte in più di un'occasione. È soltanto in parte a causa dell'infezione provocata dalla punta della freccia che gli si era conficcata nella spalla. Furono soprattutto le cure somministrate dagli illustri medici, che lo assistevano giorno e notte, e i loro metodi rovinosamente stupidi salassi, raschiature e defuscolamenti - a portare il ragazzo là dove neppure le torture del Santuario erano riuscite a portarlo. E l'avrebbero portato anche oltre, se un momentaneo alleviarsi della febbre non avesse consentito a Cale di riprendere conoscenza per qualche ora. Quando aprì gli occhi, confuso e disorientato, il ragazzo si ritrovò a fissare un vecchio con uno zucchetto rosso, che lo guardava a sua volta. «E voi chi siete?» «Sono il dottor Dee», spiegò il vecchio, che riprese a incidere con un coltello affilato e non particolarmente pulito una vena dell'avambraccio di Cale. «Che state facendo?» chiese il ragazzo, sottraendogli il braccio. «Stai calmo», replicò il vecchio, in tono rassicurante. «Hai una brutta ferita alla spalla, che si è infettata. Ti devo fare un salasso per far uscire le tossine.» Strinse di nuovo il braccio di Cale e cercò di tenerlo fermo. «Lasciami andare, vecchio pazzo maledetto!» si ribellò il ragazzo, Paul Hoffman
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benché fosse così debole che il suo grido non fu altro che un sussurro. «Stai fermo, maledizione!» strillò il medico. Fortunatamente la sua voce giunse a IdrisPukke, che si trovava nella stanza accanto, e lo allarmò a dovere. «Che succede?» chiese allora, aprendo la porta e rimanendo sulla soglia. Poi vide che Cale era sveglio. «Grazie a Dio!» tuonò. Si avvicinò al letto e si chinò sul ragazzo. «Sono contento di rivederti.» «Di' a questo vecchio stupido di andarsene.» «È il tuo medico. È qui per aiutarti.» Cale liberò ancora una volta il braccio, sussultando per il dolore alla spalla. «Levamelo di torno, altrimenti gli taglio la gola, a questo vecchio bastardo, quanto è vero Iddio!» IdrisPukke fece cenno al medico di andarsene e lui obbedì, facendo capire che si riteneva leso nella sua dignità. «Voglio che tu dia un'occhiata alla ferita», disse Cale. «Non me ne intendo di medicina. Lascia che sia il medico a occuparsene.» «Ho perso molto sangue?» «Sì.» «Allora non ho bisogno che qualche idiota mi aiuti a perderne altro.» Si girò sul fianco destro. «Dimmi di che colore è.» Delicatamente, ma non senza provocare un notevole dolore a Cale, IdrisPukke sollevò la fasciatura macchiata e sporca. «Ha un sacco di pus verde chiaro e i bordi sono rossi.» La sua espressione era cupa: aveva già visto ferite mortali come quella. Cale sospirò. «Mi servono dei vermi.» «Come?» «Ho bisogno di vermi, ho detto. So quello che faccio. Me ne serve una ventina. Lavali per cinque volte in acqua pulita, potabile, e poi portameli.» «Lasciami andare a chiamare un altro medico.» «Ti prego, IdrisPukke. Se non mi farai questo favore, per me sarà la fine. Ti prego.» Così, venti minuti dopo, pieno di dubbi, IdrisPukke tornò con venti vermi lavati con cura, che lui aveva raccolto da un corvo morto in un fosso. Con l'aiuto di una domestica, seguì le istruzioni dettagliate di Cale: «Lavati bene le mani, poi lavati con l'acqua bollita... versa i vermi sulla ferita. Usa una fasciatura pulita e fai aderire i bordi alla pelle... Fai in Paul Hoffman
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modo che io stia disteso sulla pancia. Fammi ingerire più acqua che puoi...» Poi perse conoscenza ancora una volta e non si risvegliò per altri quattro giorni. Quando aprì gli occhi, accanto al letto c'era IdrisPukke. Sembrava parecchio sollevato. «Come stai?» Cale fece qualche respiro. «Non male. Sono caldo?» IdrisPukke gli posò una mano sulla fronte. «Non troppo. I primi due giorni scottavi.» «Per quanto tempo ho dormito?» «Per quattro giorni, anche se per gran parte del tempo non hai riposato: facevi un sacco di rumore. Era difficile tenerti sdraiato sulla pancia.» «Dai un'occhiata sotto la fasciatura. Mi prude.» Con un po' d'incertezza, IdrisPukke sollevò il bordo della fasciatura, il naso arricciato in previsione di trovare qualcosa di disgustoso e grugnendo per la ripugnanza. «È conciata male?» chiese Cale, ansioso. «Buon Dio!» «Cosa?» «Il pus è scomparso e non è quasi più arrossata per niente.» Sollevò ancora di più la fasciatura, anche se, così facendo, i vermi ormai ingrassati caddero tra le lenzuola. «Non ho mai visto niente del genere.» Cale sospirò, con immenso sollievo. «Sbarazzati dei vermi, poi portamene altri cinque. E ripeti la stessa cosa.» Detto ciò, si addormentò profondamente.
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22 Tre settimane dopo, IdrisPukke e un Cale dal colorito ancora giallognolo si dirigevano verso la grande fortezza di Memphis. Cale aveva segretamente sperato in un'accoglienza ufficiale e, benché lo negasse persino a se stesso, l'avrebbe desiderata. Dopotutto aveva ucciso otto uomini da solo, salvando Arbell da una morte orrenda. Non che pretendesse granché per aver corso simili pericoli: una parata di qualche migliaio di persone, che gli lanciavano fiori e lo acclamavano, il tutto coronato dalla lacrimosa accoglienza della bella Arbell, su un baldacchino decorato in seta, accanto a un padre disperatamente riconoscente, così sopraffatto dall'emozione da non riuscire a parlare. Invece non ci fu proprio niente: soltanto una Memphis che continuava a perseguire il suo obiettivo di fare e spendere soldi, sotto un cielo minaccioso per l'avvicinarsi di un temporale. Mentre stavano per attraversare il grande portone della fortezza, il cuore di Cale sussultò nel sentire il fragoroso scampanio proveniente dalla cattedrale e l'eco meravigliosa delle campane per tutta la città, quando le altre chiese seguirono l'esempio. Ma le sue speranze furono infrante da IdrisPukke. «Suonano le campane per tenere lontani i lampi», disse l'uomo, indicando il temporale in arrivo. Dieci minuti dopo smontavano da cavallo davanti alla residenza di Lord Vipond. Ad accoglierli c'era soltanto un servitore. «Ciao, Stillnoch», gli disse IdrisPukke. «Bentornato, signore», rispose Stillnoch, un uomo così vecchio e dalla pelle così rugosa e segnata da ricordare a Cale la quercia in un angolo del campo delle esercitazioni del Santuario, un albero per cui era difficile stabilire in che misura fosse vivo o morto. IdrisPukke si voltò verso il ragazzo esausto e profondamente scontento. «Devo andare a parlare con Vipond. Stillnoch ti porterà nella tua stanza. Stasera ceneremo insieme. A dopo.» E si avviò verso l'ingresso principale. Stillnoch indicò a Cale una porta più piccola, all'estremità dell'edificio. Di sicuro è un tugurio puzzolente, pensò il ragazzo, sentendo montare il risentimento. In realtà, si rivelò un luogo estremamente gradevole. C'erano un salotto con un morbido divano, un tavolo da pranzo di legno di quercia e persino un bagno con tanto di gabinetto, una cosa di cui lui aveva sentito Paul Hoffman
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parlare, ma che aveva liquidato come una folle fantasia. Naturalmente poi c'era una camera con un grande letto e un materasso imbottito di piume. «Gradite desinare, signore?» chiese Stillnoch. «Sì», rispose Cale, avendo l'impressione che si trattasse di cibo. Stillnoch fece un inchino. Quando fu di ritorno, venti minuti dopo, portando un vassoio con birra, pasticcio di maiale, uova sode e patate fritte, trovò Cale addormentato sul letto. Stillnoch aveva sentito le voci che circolavano. Posò il vassoio e osservò il ragazzo con attenzione. Con la pelle giallognola e con quel viso tirato a causa dell'infezione che l'aveva quasi ucciso, non gli sembrò un granché. Ma, se aveva impartito una bella lezione a quel piccolo bastardo impertinente di Conn Ferrazzi, allora si meritava rispetto e ammirazione. Con quel pensiero, Stillnoch coprì il ragazzo addormentato, chiuse le tende e se ne andò. «Ha attraversato l'accampamento come se fosse la Morte in persona. Ai miei tempi ho visto diversi sicari in azione, ma nessuno simile a questo ragazzo.» IdrisPukke era seduto di fronte al fratellastro, stava bevendo una tazza di tè ed era chiaramente scosso. «Dunque è soltanto un sicario?» «A essere sincero, se l'avessi visto fare soltanto quello mi sarei allontanato da lui il più in fretta possibile e ti avrei detto di pagarlo e di sbarazzarti di lui.» Vipond si mostrò sorpreso. «Buon Dio! Invecchiando, sei diventato un vero sentimentale. Le persone di quel tipo sono utili, certo, ma ti sto chiedendo se è qualcosa di più di un teppista omicida.» IdrisPukke sospirò. «Molto di più, direi. E, se me lo avessi chiesto prima della battaglia al passo di Cortina, sempre che si possa chiamare una battaglia, ti avrei detto che è una grossa scoperta. Ha sofferto molto, ma ha spirito e cervello, anche se è dolorosamente ignorante su certe cose. Inoltre ti avrei detto che ha buon cuore. Ma sono rimasto scioccato per quello che è successo. Ecco, è tutto qua. Non so come valutarlo. Mi piace, tuttavia, per essere schietti, mi fa anche paura.» Vipond si appoggiò allo schienale della poltrona, pensieroso. Poi disse: «Be', quali che siano i tuoi dubbi, vale oro per te e, a essere sinceri, anche per me. Dio solo sa quanto avevi bisogno di essere messo in buona luce. Il Maresciallo Ferrazzi ti ha perdonato tutti i tuoi peccati e ora ti sei Paul Hoffman
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conquistato i suoi favori». Gli sorrise. «In effetti, se non fosse necessario mantenere il segreto su tutta questa faccenda, vi avrebbero organizzato una parata, con la banda e tutto il resto.» Fece un altro sorriso, stavolta beffardo. «Ti sarebbe piaciuto, vero?» «Ma certo che mi sarebbe piaciuto. E perché no? Dio sa da quanto tempo nessuno è contento di vedermi.» «E di chi sarebbe la colpa?» «Mia, caro fratello», rispose IdrisPukke, ridendo. «Tutta mia.» «Forse dovresti spiegare al ragazzo perché è stato ricevuto in un modo così... silenzioso.» «A essere sinceri, credo che non gliene importi nulla. Per lui, salvare Arbell era soltanto un mezzo per raggiungere un obiettivo. Pensava che fosse suo interesse rischiare la vita, tutto qui. Non ha mai chiesto di lei, nemmeno una volta. Pur con tutti i miei dubbi, ho lodato il suo coraggio e lui continuava a guardarmi come se fossi un idiota. Vuole del denaro e la sicurezza di potersi allontanare il più possibile dai suoi vecchi padroni. Non è il tipo da curarsi di lodi o rimproveri. Non gli importa nulla di piacere o non piacere alla gente.» «Allora è davvero un tipo eccezionale», commentò Lord Vipond, alzandosi. «In ogni caso, che tu abbia ragione o no, il Maresciallo desidera ringraziarlo personalmente stasera. E pure Arbell lo farà, ovvio. Anche se, a giudicare dalla sua espressione quando lui gliel'ha detto, ho avuto l'impressione che quella ragazza preferirebbe mangiarsi una donnola, piuttosto.»
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23 «Per l'amor del cielo!» disse il Maresciallo alla figlia. «Su con la vita!» «Mi fa paura», sussurrò la bellissima giovane, mortalmente pallida. «Ti fa paura? Ti ha salvato la vita! Ma che ti prende?» «Lo so che mi ha salvato la vita, ma è stato orribile.» Il Maresciallo sussultò per l'irritazione. «Ci credo che è stato orribile. Uccidere è una cosa orribile, ma lui ha fatto ciò che era necessario e ha rischiato la vita. Anzi, date le possibilità che aveva, è andato oltre il rischio. E tu te ne stai lì a lamentarti di quanto sia stato orribile. Devi pensare a come sarebbe stato se lui non ti avesse salvato.» Arbell, che non era abituata a essere ripresa in quel modo, apparve ancora più avvilita. «Lo so che mi ha salvato la vita, però mi spaventa lo stesso. Tu non hai visto com'è. Io sì, due volte. È una cosa mai vista, non è un umano.» «È ridicolo! Non ho mai sentito nulla di tanto ridicolo. Per Dio, farai meglio a essere gentile con lui, altrimenti saranno guai.» Arbell non era abituata nemmeno a essere minacciata e stava per abbandonare il proprio ruolo di ragazza timorosa a favore di una maggiore fierezza, quando la porta della piccola sala da pranzo si aprì ed entrò un servitore, che annunciò: «Il Cancelliere Vipond e i suoi ospiti, Maresciallo». «Benvenuti, benvenuti!» esclamò entusiasta il Maresciallo, tentando di dissipare l'atmosfera gelida con tanto zelo che sia Vipond sia IdrisPukke si resero conto dell'imbarazzo che aleggiava nella stanza. Cale non notò nulla se non la presenza di Arbell, in piedi accanto alla finestra. Era bellissima e si sforzava invano di non tremare. Pure Cale, che era in preda al desiderio e al terrore dal momento in cui aveva saputo che lei sarebbe stata presente alla cena, cercava di non tremare. «Tu devi essere Cale», disse il Maresciallo, stringendogli calorosamente la mano. «Grazie, grazie. Ciò che hai fatto è impagabile!» Guardò la figlia. «Arbell...» Il suo tono era incoraggiante e minaccioso allo stesso tempo. Lentamente l'affascinante giovane, alta e slanciata, si diresse con grazia verso Cale e gli porse la mano. Lui la prese come se sapesse a malapena cosa farne. Non notò che il viso di Arbell stava diventando bianco come la luce della luna sulla neve Paul Hoffman
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(benché una cosa del genere suoni davvero impossibile). «Grazie per tutto ciò che avete fatto per me. Vi sono molto riconoscente.» IdrisPukke pensò che aveva sentito più vita ed entusiasmo nelle ultime parole di un condannato che saliva sul patibolo. Il Maresciallo lanciò un'occhiata feroce alla figlia, ma nel contempo si rese conto che Arbell nutriva davvero un profondo timore nei confronti del ragazzo che le stava davanti. All'irritazione per le sue pessime maniere si aggiunse un autentico moto di sconcerto. Per quanto fosse profonda la sua gratitudine - ed era assai profonda, perché lui adorava sua figlia -, in verità era in qualche modo deluso da Cale. Si era aspettato... be', non era sicuro esattamente di cosa si fosse aspettato ma, data la temibile reputazione del ragazzo, si era immaginato un giovane dalla presenza imponente, animato da quella forza carismatica che qualsiasi individuo violento portava con sé, almeno a quanto ne sapeva lui. Cale invece sembrava un giovane contadino, non rozzo o di aspetto sgradevole, però stordito e imbarazzato com'erano tutti i contadini in presenza di un nobile. Era un vero mistero come una creatura del genere avesse potuto dare una sonora batosta ai giovani migliori della famiglia Ferrazzi e uccidere così tanti uomini da solo. «Mangiamo. Avrai sicuramente molta fame. Vieni a sederti accanto a me», disse, prendendo Cale per le spalle. Lui si era appena seduto di fronte ad Arbell, che teneva gli occhi fissi sul piatto, quando si rese conto della sfilza di posate che aveva davanti: un plotone di forchette di varie dimensioni e una squadra di coltelli in pari numero, affilati e spuntati. La cosa più sconcertante era un oggetto che somigliava a uno strumento utile per praticare una tortura assai dolorosa, per esempio la rimozione del naso o del pene. Sembrava una pinza, ma le estremità s'incrociavano in un modo alquanto misterioso. Si sentiva parecchio a disagio. Provava un'incomprensibile miscela di adorazione e odio per quella giovane seduta di fronte a lui, che gli aveva stretto la mano con lo stesso entusiasmo che avrebbe riservato a un pesce morto. Tanto bella quanto ingrata, la maledetta... Era certo di apparire ridicolo e la cosa gli risultava intollerabile. Nulla, neppure i dolori più atroci, persino la morte, gli faceva più paura. D'altronde, chi avrebbe potuto affrontare il dolore e la morte con maggior coraggio di lui? Ma la prospettiva di essere deriso gli dava un'ansia tale che temette di svenire. Sobbalzò quando Stillnoch gli si avvicinò alle spalle di soppiatto, talmente silenzioso che lui non si accorse della sua presenza - un'impresa Paul Hoffman
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non da poco - almeno finché non gli fu messo davanti un piatto e il solidale servitore sussurrò: «Lumache!» al suo orecchio. Inconsapevole del proprio stato di eroe agli occhi di Stillnoch, Cale pensò che «Lumache!» fosse una sorta di sprezzante insulto da parte di un servitore risentito per la sua presenza tra i potenti. D'altra parte, rifletté, cercando di calmarsi, poteva anche essere un avvertimento. Ma di che tipo? Guardò nel piatto e la sua confusione non fece che aumentare. Davanti a lui c'erano sei oggetti che somigliavano a minuscoli e contorti elmi da soldato e da cui fuoriusciva un'orribile sostanza appiccicosa e screziata. Senza dubbio erano qualcosa per cui era opportuno stare all'erta. «Ah!» esclamò IdrisPukke, annusando l'aria come un pessimo mimo. «Eccellente! Lumache al burro e aglio!» Era seduto accanto a Cale e aveva subito notato l'allarme del ragazzo alla vista dell'ampia gamma di posate nonché il suo terrore all'arrivo delle lumache. Avendo attirato l'attenzione di Cale - e, va detto, anche degli altri convitati -, IdrisPukke sollevò con la destra le strane pinze e le strinse, facendo aprire le due estremità a cucchiaio. Prese quindi un guscio di lumaca e allentò la stretta sul manico: i cucchiai allora si chiusero con uno scatto, imprigionando il guscio. Poi, prendendo uno spiedino col manico d'avorio, lo infilò nel guscio e con destrezza - ma soprattutto con un gesto enfatico, in modo che Cale potesse imitarlo - estrasse quello che sembrava un pezzo di cartilagine grigio-verdastra, grande come il lobo di un orecchio e coperto di aglio, prezzemolo e burro. Infine se lo mise in bocca, con un altro, teatrale sussulto di soddisfazione. Sulle prime, quella strana esibizione divertì non poco i convitati, ma ben presto il suo scopo fu chiaro a tutti loro. Evitarono quindi deliberatamente di guardare Cale, che continuava a fissare quella prima portata con palese animosità. Potrebbe sorprendere il fatto che un ragazzo disposto a mangiare ratti storcesse il naso di fronte a una lumaca. Ma lui non ne aveva mai vista una e chi può dire se, in circostanze del genere, anche voi non preferireste mangiare un vigoroso e ben nutrito ratto piuttosto che una lumaca butterata, magari dopo averla vista strisciare fuori da sotto un tronco marcescente, lasciando una stria appiccicosa e viscida. Tenendo furtivamente d'occhio gli altri ospiti mentre abbordavano la loro cena con tanto di elmo, Cale prese le pinze, afferrò un guscio e, usando lo spiedo, ne tirò fuori la massa grigia, umida e molliccia. Si fermò per un istante, mentre gli altri continuavano a distogliere lo sguardo, poi se Paul Hoffman
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la mise in bocca e la masticò con tutto l'entusiasmo di un uomo che sta mangiando uno dei propri testicoli. Per fortuna il resto della cena gli risultò sufficientemente familiare, o quantomeno somigliava parecchio a ciò che gli aveva cucinato IdrisPukke. Tenendo sempre d'occhio il suo mentore, Cale riuscì a utilizzare in modo più o meno corretto le posate rimanenti, anche se le forchette restarono un mistero e lui le maneggiò con parecchia goffaggine. Furono i tre uomini a guidare la conversazione, che non aveva nulla di ufficiale: ricordi personali, storie di eventi comuni... Della delicata storia d'indiscrezioni e di espulsioni di IdrisPukke non venne fatta parola. Per tutta la cena, Arbell non sollevò nemmeno una volta lo sguardo dal suo piatto, anche se non mangiò granché. Ogni tanto, Cale le dava un'occhiata e ogni volta gli sembrava più bella: i lunghi capelli biondi, gli occhi verdi quasi a mandorla, le labbra rosse come il frutto di una rosa, in contrasto con la carnagione chiara, il collo lungo e slanciato... Era ammutolito e riusciva a lanciarle solo brevi sguardi. Ogni volta, tornava a concentrarsi sulla cena, mentre la sua anima vibrava come una campana colpita con forza. Ma era una campana che non risuonava soltanto di gioia e adorazione: c'era anche una nota di rabbia e di risentimento. Lei non lo guardava perché non gradiva la sua presenza. Lei lo odiava e lui - come poteva essere altrimenti? - la odiava di rimando. Non appena fu servita l'ultima portata, fragole con la panna, Arbell disse: «Mi spiace, non mi sento bene. Posso andare?» Il padre le scoccò un'occhiataccia, nascondendo il proprio furore soltanto per rispetto nei confronti degli ospiti. Si limitò ad annuire, sperando che quel semplice movimento del capo comunicasse tutta la sua irritazione unita a un minaccioso ammonimento: Ne parliamo dopo. Lei si guardò attorno rapidamente, evitando Cale, poi se ne andò. Il ragazzo era in uno stato d'irrefrenabile agitazione. Un mare impetuoso di emozioni, amore, amarezza e furia, esplose e si abbatté sul suo animo roccioso. Tuttavia, dopo che la ragazza si fu allontanata, non ci fu più bisogno di mantenere il riserbo sulla faccenda del suo rapimento. Ed emerse chiaramente anche il motivo dell'assenza di una folla plaudente che gridasse la propria eterna gratitudine per lo straordinario coraggio di Cale nel salvare Arbell Ferrazzi. A Memphis, quasi nessuno sapeva cos'era Paul Hoffman
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successo. Il Maresciallo si scusò col ragazzo, spiegando che, se quel rapimento fosse divenuto di dominio pubblico, sarebbe stato impossibile evitare una guerra. Lui e Lord Vipond concordavano sulla necessità di scoprire il più possibile in merito all'incomprensibile gesto dei Redentori prima di compiere un passo così drastico. «Siamo ciechi», disse Vipond a Cale. «E perciò rischieremmo d'inciampare in un'impresa di tale portata. IdrisPukke mi dice che non hai idea del perché abbiano fatto un'azione così provocatoria.» «No.» «Ne sei sicuro?» «Perché dovrei mentire? Non ha senso per me, come non ne ha per voi. I Redentori parlavano sempre e soltanto della guerra contro gli Antagonisti. E, anche in quel caso, dicevano soltanto che gli Antagonisti adoravano l'Anti-Redentore ed erano eretici che dovevano essere cancellati dalla faccia della terra.» «E Memphis?» «Ne parlavano raramente e comunque con disgusto, definendola un luogo di perversione e peccato, dove si poteva comprare e vendere qualsiasi cosa.» «Un giudizio severo, ma l'allusione è tutt'altro che oscura», commentò IdrisPukke. Il Maresciallo e Vipond lo ignorarono. «Perciò non ci sai dire niente?» chiese Ferrazzi. Cale si rese conto che stava per essere congedato e che quella era la sua unica opportunità di dare una forma al suo futuro in mezzo ai potenti. «Io so soltanto questo: se hanno deciso di fare qualcosa, i Redentori non si fermeranno. Ignoro perché vogliano vostra figlia, ma continueranno a cercarla, a prescindere da quanto possa costar loro.» A quella frase, il Maresciallo sbiancò. Cale mantenne il vantaggio. «Vostra figlia è una...» Esitò, come se stesse cercando la parola giusta. Poi riprese: «... una persona molto prestigiosa». Gli era piaciuta quella parola fin da quando l'aveva sentita, però non ne aveva capito del tutto il senso. «Voglio dire che da tutti è considerata il più ricco ornamento dell'impero... almeno così ho sentito. Tutto ciò che lei ha di ammirevole è fonte di ammirazione nei confronti dei Ferrazzi. Vi rappresenta, non è così?» «Che vuoi dire?» Paul Hoffman
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«Se i Redentori volevano mandare un messaggio...» «Che tipo di messaggio?» lo interruppe il Maresciallo, sempre più ansioso. «Rapire Arbell Ferrazzi, e magari ucciderla, avrebbe dimostrato ai vostri sudditi che i Redentori sono in grado di arrivare anche agli uomini più potenti del Paese.» Fece un'altra pausa a effetto. «Probabilmente loro sono consapevoli che un secondo rapimento sarà impossibile, tuttavia, a mio parere, non molleranno. Finiscono sempre ciò che hanno iniziato. Per loro, un simile messaggio è tanto importante quanto l'idea di poter arrivare a chiunque. Stanno cercando di dirvi che non si fermeranno per nessun motivo, insomma.» Il Maresciallo era più pallido che mai. «Sarà al sicuro, qui. La proteggeremo, nessuno riuscirà a entrare.» Cale cercò di apparire più in imbarazzo di quanto non fosse. «Mi hanno detto che, quand'è stata catturata al castello sul lago di Constanz, era protetta da quaranta uomini. Ci sono sopravvissuti?» «No», rispose il Maresciallo. «E la prossima volta, badate, è solo la mia opinione, non posso esserne sicuro, verranno unicamente per uccidere. Ottanta uomini o centottanta saranno sufficienti per fermarli?» «Se la Storia c'insegna qualcosa, mio signore, è che chiunque sia disposto a sacrificare la propria vita può uccidere chiunque altro», disse IdrisPukke. Vipond non aveva mai visto il Maresciallo così a disagio e inquieto. «Tu puoi fermarli?» chiese il Maresciallo a Cale. «Io?» Cale diede l'impressione di non averci nemmeno pensato. Rifletté per un momento, quindi disse: «Meglio di chiunque altro, direi. E ho Henri e Kleist». «Chi?» domandò il Maresciallo. «Sono i suoi amici», intervenne Vipond, sempre più interessato a ciò che Cale aveva in mente. «Hanno i tuoi stessi talenti?» volle sapere il Maresciallo. «Ne hanno di propri. Insieme possiamo affrontare qualsiasi cosa i Redentori intendano mandare.» «Sei molto sicuro del tuo potere, Cale», commentò Vipond. «Soprattutto dopo aver trascorso gli ultimi dieci minuti a raccontarci quanto siano invulnerabili i Redentori.» Paul Hoffman
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Cale lo guardò. «Ho detto che i loro assassini sono invulnerabili per voi.» Sorrise. «Non ho mai detto che siano invulnerabili per me. Io sono meglio di qualsiasi soldato che sia mai uscito dalle mani dei Redentori. Non lo dico per vantarmi; è un dato di fatto.» Si rivolse al Maresciallo. «Se non mi credete, domandate a vostra figlia e a IdrisPukke. E, se non vi basta, rivolgetevi a Conn Ferrazzi.» «Tieni a freno la lingua, pivello», scattò Vipond, mentre la rabbia prendeva il posto della curiosità. «Non ci si rivolge con questo tono al Maresciallo Ferrazzi!» «Mi hanno detto di peggio», intervenne il Maresciallo. «Se riuscirai a tenere al sicuro mia figlia ti renderò un uomo ricco e, in privato, mi potrai parlare come ti pare e piace. Ma sarà meglio che ciò che dici sia vero.» Si alzò. «Entro domani pomeriggio, voglio un piano per la sua protezione. Va bene?» Cale annuì. «Per ora, ogni soldato della città è in servizio. Ora se non ti spiace lasciarci... anche tu, IdrisPukke.» I due si alzarono, fecero un cenno di saluto e uscirono. «Una bella esibizione», disse IdrisPukke, mentre chiudeva la porta. «Ma c'è qualcosa di vero in quello che hai detto?» Cale rise, ma evitò di rispondere. Per farlo, avrebbe dovuto spiegare a IdrisPukke che il suo catastrofico avvertimento si fondava in gran parte sul desiderio di costringere Arbell a prestargli attenzione. Era furioso per la sua ingratitudine e più innamorato che mai. Lei meritava di essere punita per averlo trattato in quel modo... E poter decidere quando vederla, nonché avere infinite occasioni di renderle la vita impossibile, era il sistema migliore per punirla. Naturalmente il fatto che la sua presenza le risultasse così sgradevole era un colpo al cuore, ma Cale poteva convivere benissimo con quella e con molte altre dolorose contraddizioni. L'ansia per la figlia induceva il Maresciallo a temere il peggio e ciò lo rendeva facile preda delle sinistre previsioni di Cale, della cui fondatezza Vipond non era più convinto di quanto lo fosse IdrisPukke. D'altro canto, non vedeva nessun male nella proposta di Cale e l'idea che i Redentori cercassero di uccidere Arbell era, almeno in una certa misura, plausibile. In ogni caso, quella soluzione avrebbe convinto il Maresciallo che si stava facendo qualcosa al riguardo; nel frattempo, Vipond avrebbe lavorato Paul Hoffman
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giorno e notte per scoprire le reali intenzioni dei Redentori. Era sicuro che un qualche genere di guerra fosse inevitabile ed era rassegnato a prepararsi a combatterla, per quanto non in prima linea. Tuttavia, per lui, andare in guerra senza sapere cosa volesse esattamente il nemico era un atteggiamento foriero di disastri incalcolabili. Gli andava dunque benissimo che Cale stesse tramando qualcosa... Qualsiasi cosa, in realtà, benché non fosse così difficile capire dove voleva arrivare. Quel ragazzo ignorava il movente del rapimento - poco ma sicuro -, tuttavia con lui come guardia del corpo Arbell sarebbe stata al sicuro. In modo meno paternalistico, anche il Cancelliere era grato a Cale per aver salvato la ragazza: le implicazioni politiche della cattura del componente più adorato della famiglia reale da parte di un regime brutale come quello dei Redentori erano così gravi che il semplice pensiero gli risultava insopportabile. Le notizie provenienti dal Fronte Orientale, secondo le quali la guerra tra Redentori e Antagonisti era a un punto morto, erano terribili, così terribili da suonare quasi impossibili. Eppure le pochissime persone fuggite oltre il confine e rifugiatesi nel territorio dei Ferrazzi raccontavano tutte la stessa storia. Il che era allarmante e conferiva un'orribile eco di verità ai resoconti dei suoi agenti. Se una guerra contro i Redentori era davvero inevitabile, allora sarebbe stata una guerra come mai nessuno aveva visto.
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24 «Dimmi quello che sai sulla guerra tra i Redentori e gli Antagonisti.» Vipond guardava torvo Cale dall'altro capo della sua ampia scrivania. IdrisPukke era seduto accanto alla finestra, come se fosse più interessato a ciò che accadeva nel giardino sottostante. «Gli Antagonisti sono gli Anti-Redentori», disse Cale. «Odiano il Redentore e tutti i suoi fedeli; vogliono distruggerlo e far scomparire dalla faccia della terra la sua bontà.» «È questo che credi?» chiese Vipond, insospettito dal tono monotono del ragazzo. «È ciò che ci insegnavano a recitare due volte al giorno a messa. Io non credo a una parola di ciò che dicono i Redentori.» «Ma cosa sai degli Antagonisti e di ciò in cui credono?» Cale apparve perplesso. «Nulla», rispose, dopo averci riflettuto. «Non ci è mai stato detto che gli Antagonisti credessero in qualcosa. L'unica cosa che conta per loro è distruggere l'Unica Vera Fede.» «Non l'hai mai chiesto?» Cale rise. «Non si facevano domande sull'Unica Vera Fede.» «Se sapevi che gli Antagonisti odiavano così tanto i Redentori, perché non hai cercato di fuggire verso est?» «Avremmo dovuto viaggiare per millecinquecento miglia nella terra dei Redentori e poi attraversare settecento miglia di trincee sul Fronte Orientale. E, anche se fossimo stati abbastanza stupidi da provarci, ci dicevano sempre che gli Antagonisti avrebbero martirizzato a vista ogni Redentore. Ci parlavano sempre del santo Redentore George, che era stato bollito vivo nell'urina di vacca, o del santo Redentore Paulus, al quale era stato ficcato in gola un gancio, che poi era stato legato a un tiro di cavalli, in modo che lui venisse rovesciato come un guanto. Non smettevano mai di raccontare o cantare storie di prigioni, fuoco e spade. Come dicevo, non ho mai pensato che gli Antagonisti potessero effettivamente credere in qualcosa, a parte uccidere i Redentori e distruggere l'Unica Vera Fede.» «Anche gli altri accoliti la pensavano così?» «Qualcuno sì, però molti no. Non conoscevano altro, perciò non avevano mai messo in dubbio ciò che veniva detto. Per loro, il mondo era così. Pensavano che, credendo, si sarebbero salvati e che, se non avessero Paul Hoffman
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creduto, sarebbero bruciati all'inferno per l'eternità.» Vipond cominciava a diventare impaziente. «La guerra contro gli Antagonisti è scoppiata duecento anni prima della tua nascita. Mi hai confermato ripetutamente che, oltre a essere parte dell'Unica Vera Fede, vi preparavano sempre e soltanto a combattere, in particolare nel tuo caso. Eppure non sai niente delle vittorie e delle sconfitte, delle tattiche, di come sono state vinte o perse le varie battaglie? Fatico a crederci.» Lo scetticismo di Vipond era del tutto giustificato. Cale aveva studiato ogni battaglia e ogni scontro tra i Redentori e gli Antagonisti sotto lo sguardo attento di Bosco, che lo fustigava con la cintura ogni volta che lui commetteva un errore nella sua analisi di ciò che era andato per il verso giusto o sbagliato. Le battaglie sul Fronte Orientale erano state il pane quotidiano di Cale per quattro ore al giorno per dieci anni. Però era vero che lui non sapeva nulla di ciò in cui credevano gli Antagonisti. La sua decisione di mentire sulle sue conoscenze in merito alla guerra era frutto, in pari misura, dell'istinto e del calcolo: un conflitto tra i Ferrazzi e i Redentori avrebbe portato terribili sofferenze e chissà quante vittime. Cale non aveva intenzione di prenderne parte e, se avesse ammesso di sapere ciò che sapeva, Vipond ce l'avrebbe trascinato a ogni costo. «Ci parlavano soltanto di gloriose vittorie e sconfitte a tradimento», disse, continuando a mentire. «Erano soltanto storie, senza dettagli. Non si facevano domande. Io ero addestrato soltanto a uccidere. Tutto qui. Duelli a corpo a corpo e morte in tre secondi. Non ho imparato altro.» «In nome di Dio, che cos'è la morte in tre secondi?» chiese IdrisPukke, senza allontanarsi dalla finestra. «Non è abbastanza chiaro?» chiese Cale di rimando. «Una vera lotta all'ultimo sangue si decide in tre secondi ed è quello il tuo obiettivo. Tutto il resto, tutte quelle manovre artistiche che i Mond imparano, è una montagna di balle. Più una lotta si protrae, più diventa importante il caso. Tu inciampi oppure il tuo avversario, anche se è più debole, riesce a mettere a segno un colpo fortunato o magari ti coglie in un momento di debolezza. Perciò o uccidi in tre secondi oppure ne sopporti le conseguenze. I Redentori del passo di Cortina sono morti come cani perché non ho dato loro l'opportunità di morire in un altro modo.» Cale stava cercando di sconvolgere i due uomini che lo ascoltavano. Fin da piccolo, era sempre stato abile a mentire, proprio com'era poi diventato abile a uccidere. Il motivo era lo stesso: la necessità di sopravvivere. Paul Hoffman
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Aveva quindi deviato l'interesse di quei due per ciò che non voleva rivelare, ammettendo la verità in un altro ambito. Naturalmente più quella verità era sconcertante, anche per guerrieri esperti come Vipond e IdrisPukke, meglio era. Se i Ferrazzi credevano che lui fosse soltanto un giovane e spietato sicario, incoraggiare tale opinione era nel suo interesse. C'era abbastanza verità in quel fatto da renderlo convincente, ma non era tutta la verità. Vipond gli fece qualche altra domanda; tuttavia, a prescindere dal fatto che lui credesse a Cale oppure no, gli sembrò evidente che il ragazzo non avrebbe rivelato altro. Passò quindi al suo piano per salvaguardare la sicurezza di Arbell. Dalle disposizioni che aveva scritto per proteggerla e dalle risposte alle domande di Vipond, era chiaro che Cale era esperto altresì nel prevenire la morte, oltre che nel procurarla. Finalmente soddisfatto delle risposte del ragazzo, almeno su quell'argomento, Vipond estrasse da un cassetto un grosso raccoglitore e lo aprì. «Prima che te ne vada, voglio chiederti una cosa. Ho ricevuto una serie di rapporti, da profughi degli Antagonisti e da agenti del controspionaggio, e ho scorso alcuni documenti sequestrati riguardanti una politica dei Redentori definita 'Dispersione'. Ne hai mai sentito parlare?» Cale scrollò le spalle. «No.» In quel caso, Vipond fu convinto dall'espressione perplessa del ragazzo. «Questi rapporti parlano anche di qualcosa che viene chiamato 'Atti di Fede'. È un termine che ti è familiare?» chiese ancora il Cancelliere. «Sono le esecuzioni per crimini contro la religione, coi fedeli come testimoni.» «Si dice che gruppi di prigionieri degli Antagonisti vengano portati nelle città dei Redentori e bruciati vivi, fino a mille alla volta. Quelli che abiurano la propria eresia sono trattati con maggiore clemenza, cioè vengono strangolati prima di finire sul rogo.» Fece una pausa, scrutando il ragazzo. Poi domandò: «Pensi che questi Atti di Fede siano possibili?» «Sì, sono possibili.» «Secondo altri documenti sequestrati, simili esecuzioni sono soltanto l'inizio. Tali documenti fanno riferimento alla Dispersione di tutti gli Antagonisti. Alcuni miei collaboratori sostengono che sia un piano per trasferire l'intera popolazione degli Antagonisti sull'isola di Malgascia, una volta ottenuta la vittoria. Alcuni profughi degli Antagonisti, invece, Paul Hoffman
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affermano che la Dispersione consista nello sterminare l'intera popolazione degli Antagonisti, una volta trasferiti sull'isola, così da spazzar via per sempre la loro eresia. Io trovo difficile crederci, ma tu hai maggiore esperienza di chiunque di noi riguardo alla natura dei Redentori. Che ne pensi di una cosa del genere? È possibile?» Cale rimase in silenzio per un po', chiaramente combattuto tra il suo odio per i Redentori e l'enormità di ciò che gli veniva chiesto. «Non lo so», disse infine. «Non ho mai sentito parlare di una cosa simile.» «Ascolta, Vipond. È chiaro che i Redentori sono una manica di assassini», intervenne IdrisPukke. «Però ricordo che, vent'anni fa, durante la rivolta dei Mont, giravano voci di ogni genere. Si mormorava che, in ogni città conquistata, i Redentori raggruppassero i neonati per gettarli in aria e impalarli sulle loro spade. E tutto ciò di fronte alle madri. Tutti ci credevano, ma erano solo maledette fandonie. Non è mai successo nulla del genere. Nella mia esperienza, per ogni atrocità commessa ne vengono raccontate dieci.» Vipond annuì. Non era stato un incontro produttivo; in più le storie che arrivavano da est gli creavano un profondo disagio. Ma, a infastidirlo, c'era anche qualcosa di più banale. Guardò Cale con sospetto. «Hai fumato, lo sento dal tuo alito.» «Che v'importa?» «M'importa quanto voglio, pivello insolente.» Osservò IdrisPukke, che guardava ancora fuori dalla finestra e sorrideva, poi si rivolse nuovamente a Cale. «Pensavo che avessi troppo buonsenso per imitare IdrisPukke. Dovresti considerarlo un esempio di come non fare le cose. In quanto al fumo, è un'affettazione infantile: un vizio disgustoso alla vista, detestabile per il naso, nocivo per il cervello e pericoloso per i polmoni. Fa puzzare l'alito e rende effeminato qualsiasi uomo lo pratichi troppo a lungo. E ora fuori di qui, tutti e due.»
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25 Quattro ore dopo, Cale, Henri il Vago e Kleist si stavano sistemando nelle loro confortevoli stanze nella zona del palazzo riservata ad Arbell Ferrazzi. «E se scoprono che non sappiamo niente di come si fa la guardia del corpo?» chiese Kleist, mentre si sedevano a mangiare. «Be', io non ho intenzione di dirglielo, e tu?» ribatté Cale. «E, in ogni caso, quanto può essere difficile? Domani facciamo un giro per il palazzo e lo mettiamo in sicurezza. Quante volte ti sei esercitato a farlo? Poi impediamo a chiunque di entrare e uno di loro starà con lei ovunque vada. Se esce di qui, cosa che scoraggeremo, non potrà uscire dalla fortezza e sarà scortata da due di noi, più una dozzina di guardie.» «Perché non ci prendiamo semplicemente una ricompensa per averla salvata e non ce ne andiamo?» domandò Kleist. Era un'ottima domanda: Cale sapeva benissimo che era ciò che avrebbero dovuto fare e che, se non fosse stato per i suoi sentimenti nei confronti di Arbell, avrebbe fatto proprio quello. «Qui siamo al sicuro come saremmo in qualunque altro luogo», fu la sua risposta. «Prenderemo la ricompensa che ci hanno promesso e i soldi per il lavoro che facciamo. Sono soldi facili. Inoltre abbiamo un intero esercito a proteggerci dai Redentori. Se hai un posto migliore in cui andare, vai pure.» La conversazione terminò lì e quella notte Arbell dormì con Henri e Kleist fuori dalla porta della sua stanza. «È meglio che facciamo attenzione finché non potremo disegnare una mappa, domani», disse loro Cale, mentre già pensava al suo ingresso del giorno dopo; si sarebbe presentato alla ragazza come il suo invincibile difensore, rivelandole nel contempo tutto il suo sdegno. Al che, lei sarebbe stata intimidita e spaventata e lui sarebbe stato contentissimo di sé. Alle nove della mattina dopo, Arbell Collo di Cigno uscì dal suo appartamento. Le domestiche che le avevano portato la colazione le avevano rivelato che fuori c'erano due guardie, insieme con due tizi malmessi che, prima di allora, avevano visto soltanto a pulire le stalle. La giovane assunse un'espressione gelida, ma rimase contrariata quando, a parte le due guardie sull'attenti ai lati della porta, non si trovò davanti Cale, bensì due ragazzi sconosciuti. «Voi chi siete e che ci fate qui?» Paul Hoffman
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«Buongiorno, signora», rispose Henri in tono affabile. Lei lo ignorò. «Dunque?» «Siamo le vostre guardie del corpo», spiegò Kleist, cercando di tenere sotto controllo l'impulso di stramazzare al suolo per la sconcertante bellezza di quella fanciulla. Ci riuscì inalberando uno sguardo che, nelle sue intenzioni, voleva dire: Ho visto un sacco di nobildonne affascinanti nella mia vita e tu non mi colpisci in modo particolare. «Dov'è il vostro...» Ad Arbell non venne in mente un termine sufficientemente offensivo, ma alla fine, anche se poco soddisfatta, concluse: «... capobanda?» «Mi cercavate?» Cale emerse da un corridoio, accompagnato da due uomini che sorreggevano vari rotoli di carta. «Chi sono queste persone?» «Sono le vostre guardie del corpo. Questo è Henri, l'altro è Kleist. Ho assegnato loro una piena autorità e voi, per cortesia, farete esattamente quello che diranno.» «Sono i vostri familiari, quindi», disse lei, sperando di essere il più offensiva possibile. «Familiari? Che significa?» «Demoni», ribatté la giovane trionfante. «Come le mosche che seguono Belzebù ogni volta che esce dall'inferno.» Com'era prevedibile, quella definizione contrariò parecchio Henri e Kleist, ma procurò una grande gioia a Cale. «Sì», disse, rivolgendo un sorriso compiaciuto ai due ragazzi. «Sono senza dubbio i miei demoni familiari.» «Un po' gracili per essere guardie del corpo, non vi sembra?» Cale li guardò con rincrescimento. «Mi scuso per le loro condizioni. Nemmeno io vorrei doverli guardare per tutto il giorno. Per il resto, potreste provare a sguinzagliare loro contro un paio di Ferrazzi... e constaterete voi stessa quanto siano davvero gracili.» «Dunque sono assassini, come voi?» Henri si sentì profondamente offeso, mentre fu chiaro che Kleist aveva gradito quell'insulto. «Sì, sono assassini proprio come me», replicò Cale con disinvoltura. Incapace di escogitare una risposta, Arbell tornò nelle sue stanze, sbattendo la porta. Dieci minuti dopo, qualcuno bussò e la giovane fece cenno alla sua Paul Hoffman
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damigella personale di andare ad aprire la porta. Quando lo fece, la damigella fu lieta di constatare che Cale, nel vederla, aveva sgranato gli occhi per lo stupore. Era Riba. L'ascesa di Riba era legata a circostanze singolari come quelle di Cale, benché di tutt'altra natura. Dopo aver sovrinteso all'espulsione della giovane dagli appartamenti di Mademoiselle Jane, Anna Maria, l'anziana servitrice, aveva subito raggiunto il palazzo occupato dall'Onorevole Edith Ferrazzi, madre di Arbell e moglie separata del Maresciallo. Va detto che, dopo il loro matrimonio, combinato vent'anni prima, i due erano stati poco meno che estranei: il concepimento di Arbell doveva essere stato una delle più fredde fusioni reali della Storia. Ma, se i tentativi del Maresciallo di evitare la moglie avevano successo, lo stesso non si poteva dire dei suoi tentativi di negarle una notevole influenza sul corso delle faccende di Memphis. C'erano ben pochi affari loschi o nebulosi di cui Edith Ferrazzi non fosse al corrente, sempre che non ne fosse addirittura la fonte primaria. Dunque, pur non avendo nessun potere ufficiale, cosa di cui si era personalmente assicurato il Maresciallo, la donna giocava un ruolo nient'affatto secondario, giacché conosceva gli scheletri nell'armadio e i passi falsi delle nobili famiglie cittadine; per quanto sprezzanti e altezzose, infatti, non ce n'era neppure una che non avesse commesso qualche manchevolezza o qualche errore. Così, nel giro di mezz'ora dall'accesso d'ira di Mademoiselle Jane nei confronti di Riba, Edith Ferrazzi era stata informata dell'accaduto dalla sua spia, Anna Maria, e aveva disposto che alla giovane, furente e sbalordita, fosse destinata una stanza nel suo palazzo. Una volta che Vipond era stato messo al corrente di ciò che era successo e del fatto che Riba era caduta tra le grinfie di Edith Ferrazzi, aveva subito convocato la nipote, Mademoiselle Jane, e le aveva dato una spaventosa lavata di capo. La giovane se n'era poi andata, singhiozzando e gemendo di terrore, ma ormai era tutto inutile: per scoprire cosa avrebbe combinato la vecchia strega non restava che attendere. Edith Ferrazzi non aveva perso tempo. Sapeva che c'era in ballo qualcosa che riguardava sua figlia. Dopo la sua visita al lago di Constanz, tre settimane prima, erano circolate voci incontrollate sull'assenza di Arbell: si sussurrava di matrimonio segreto, di un parto clandestino... Nessuna di quelle voci, però, Paul Hoffman
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era tanto assurda quanto la verità stessa. Edith Ferrazzi aveva investito molto tempo e denaro per andare a fondo degli avvenimenti, ma con scarso successo. E quello le risultava intollerabile. «Ti stanno trattando bene?» aveva chiesto a Riba con un sorriso affettuoso, battendo la mano accanto a sé, sul divano, e invitandola a sedersi. Nervosa, ma anche diffidente, la ragazza aveva obbedito. Conosceva ormai abbastanza la situazione di Memphis per intuire che stava succedendo qualcosa di strano. In città, ogni differenza di rango, per quanto minima, era importantissima, come se fosse stata decretata da Dio in persona, e gli estranei erano sempre oggetto di scherno, a prescindere dallo status di cui godevano nelle varie province. Per esempio, Riba aveva sentito dire che la Contessa di Karoo, giunta a Memphis più di dieci anni prima, aveva dovuto vendere il proprio porcile per pagarsi il viaggio. Chiunque sapeva che si trattava di una grottesca calunnia, perché gli abitanti di Karoo consideravano impuri i maiali, eppure quella maldicenza continuava a girare. Quindi, mentre si sedeva, Riba si era chiesta perché una tale nobildonna le stesse riservando tanta gentilezza. «Prima di tutto, mia cara, mi dispiace che tu sia stata trattata in modo così sgradevole da Jane», disse Edith Ferrazzi. «Naturalmente non è una scusa, ma io ero amica della sua defunta madre e c'è soltanto un modo per descrivere quella ragazza: è viziata. Le ha sempre avute vinte tutte. È così che vanno le cose, oggi. I figli ottengono tutto quello che vogliono e i risultati li vedi anche tu. Ma tant'è...» Con un sospiro, aveva dato un colpetto sulla mano di Riba. «E mi dispiace.» La ragazza non sapeva cosa dire. «Sì, signora.» «Bene», aveva replicato Edith Ferrazzi in tono compiaciuto. «Ora voglio chiederti un grande favore.» Riba stentava a credere alle sue orecchie. «Anch'io ho una figlia, sai», aveva mormorato la donna con aria triste. «E mi preoccupo per lei... L'hai mai vista?» «Mademoiselle Arbell? Sì, signora.» «Ah.» Edith Ferrazzi aveva sospirato di nuovo, come se quel nome avesse evocato un lontano ricordo. «È così bella, non è vero?» «Sì, signora.» «Ora voglio confidarmi con te e anche aiutarti», aveva ripreso la donna, prendendo la mano della giovane. «Perché sento che sei una ragazza di cuore, cui si possono affidare le preoccupazioni di una madre. Giusto, Paul Hoffman
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Riba?» «Sì, signora, spero di sì», aveva risposto l'altra, sempre più sconcertata. «Già, credo proprio di sì.» Edith Ferrazzi lo aveva detto come se avesse guardato nell'animo di Riba, scorgendo soltanto gentilezza e comprensione di quell'inquietudine materna. «Dobbiamo parlare di cose che per me sono difficili, ma il dovere di una madre va oltre l'orgoglio, come sono certa che scoprirai anche tu, un giorno.» Un altro sospiro. «Mio marito mi odia e fa di tutto per impedirmi di vedere mia figlia. Che ne pensi?» Riba aveva sgranato gli occhi per lo stupore. «Penso che sia molto triste, signora.» «Infatti. M'impedisce di vederla e la aizza contro di me. Ma io non posso difendermi: se lei dovesse assumere una posizione avversa al Maresciallo, distruggerebbe il suo futuro. E io non posso permetterlo, perciò devo resistere. Devo sopportare che la mia unica figlia, che io amo, mi creda fredda e distante, addirittura indifferente al suo destino. Che ne pensi?» «Io... penso che deve essere terribile, per voi.» «Infatti. Ma tu mi puoi aiutare.» Incapace di ribattere, Riba aveva sgranato ancora di più gli occhi. «Ho sentito che sei un'eccellente dama di compagnia e che sei molto abile nelle arti della bellezza.» «Grazie, signora.» «Tutti parlano di come i tuoi talenti abbiano trasformato quella giovane ingrata, Jane. Non è mai stata una gran bellezza, però, a dire la verità, tu l'hai fatta quasi diventare tale.» «Grazie, signora.» «Ora, voglio che tu faccia quello che ti dico. È una cosa che ti aiuterà a raggiungere un'ottima posizione. Ho disposto che tu diventi l'estetista di mia figlia.» «Oh!» aveva esclamato Riba. «Già», aveva detto l'altra, sorridendo. «Non è una gran cosa?» «Sì, signora.» «So che te la caverai bene. Ma ti chiedo soltanto due cose. Una di queste sarà difficile per te, perché vedo che sei una ragazza onesta.» Ecco la fregatura, aveva pensato Riba. «Ti chiedo di non rivelare a mia figlia che sono stata io a mandarti da lei.» Aveva stretto la mano della ragazza, come se stesse cercando disperatamente di smorzare una protesta del tutto naturale. «So che sembra Paul Hoffman
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sbagliato e lo capisco, ma so che ti rifiuterebbe, se lo sapesse. Talvolta, per fare una cosa grande e giusta, è necessario farne una piccola e sbagliata. Ed ecco la seconda cosa. Voglio che, ogni tanto, tu mi venga a raccontare come sta, di cosa parla, se c'è qualcosa che la preoccupa. Tutto ciò che una figlia direbbe a una madre che le vuole bene. Credi di poterlo fare, Riba?» Naturalmente sì. Pur sospettando che la donna non fosse del tutto sincera, Riba aveva accettato l'incarico. D'altronde, la possibilità di rifiutare le era preclusa. Non aveva avuto scelta e sia lei sia l'Onorevole Edith Ferrazzi lo sapevano benissimo. Il Redentore Bosco - ormai diventato l'Alto Redentore del Santuario era seduto sul balcone e guardava lo schieramento di soldati che si estendeva a perdita d'occhio, riempiendo la vastità del Santuario. C'erano uomini che urlavano, muli che ragliavano, cavalli che sbuffavano e subivano le imprecazioni dei loro padroni. La vista e i suoni di tutti quei preparativi gli facevano piacere. Dopotutto erano i primi passi verso il coronamento di un'ambizione che lui aveva nutrito da sempre. Prese un altro cucchiaio di zuppa, una delle sue preferite: zampe di gallina e una verdura che a Memphis, dove ne apprezzavano l'utilità ma non il valore nutritivo, veniva chiamata «pezza da culo». Bussarono alla porta. «Avanti!» Era il Redentore Stape Roy. «Avete chiesto di vedermi, Vostra Grazia?» «Voglio che tu prenda venti Redentori e vada a uccidere Arbell Ferrazzi.» «Ma, Vostra Santità, è impossibile!» protestò Roy. «Lo so benissimo. Se fosse possibile, non ti ci manderei.» Pur essendo irritato e intimorito, Roy represse l'impulso di chiedere a Bosco cosa diavolo significasse quel commento. «Tu sei arrabbiato con me, Redentore Stape Roy.» Bosco si alzò e fece cenno all'altro di raggiungerlo a un tavolo sul quale era distesa una mappa delle fortificazioni di Memphis. «Tu c'eri all'assedio di Voorheis, vero?» «Sì, Vostra Grazia.» «Quanto ci è voluto prima che cadesse?» «Quasi tre anni.» Bosco indicò la mappa delle fortificazioni di Memphis. «Tu che sei un uomo d'esperienza, quanto tempo pensi che ci voglia per radere al suolo Memphis?» Paul Hoffman
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«Di più.» «Quanto di più?» «Molto di più.» Bosco lo guardò. «Noi siamo potenti, senza dubbio, ma il tentativo di prendere Memphis con la forza ci porterebbe alla rovina. E questo non succederà. Cosa si dice in giro sul motivo per cui abbiamo tentato di rapire Arbell Ferrazzi?» Il Redentore Roy apparve a disagio. «È peccato ascoltare i pettegolezzi ed è ancor più peccaminoso riferirli, Vostra Grazia.» Bosco sorrise. «Certo, ma in tal caso ti concedo una dispensa. Il peccato di disseminazione di pettegolezzi ti è già stato perdonato.» «Si dice che lei fosse diventata una sostenitrice degli Antagonisti e che stesse diffondendo la loro parola; che fosse una strega e che organizzasse orge, corrompendo migliaia di uomini, e che torturasse i Redentori prigionieri, costringendoli a contaminarsi mangiando gamberi.» Bosco annuì. «Una peccatrice formidabile, se ciò fosse vero.» «Io ho soltanto riferito le voci; non ho detto di crederci.» «Buon per te, Redentore», replicò Bosco. «In realtà, io l'ho rapita per costringere i Ferrazzi a uscire dalle mura di Memphis. Nel loro impero, tutti considerano quella ragazza una regina, la idolatrano per la sua gioventù e per la sua bellezza. È una stella nel loro firmamento. Ovunque, anche nei più sperduti assembramenti di tuguri dell'impero, parlano delle sue eccezionali imprese, senza dubbio in gran parte inventate o esagerate. È adorata da tutti, Redentore, non da ultimo dal padre. Tuttavia, quando ho sentito che il rapimento era fallito, non me ne sono preoccupato più di tanto. Per raggiungere il mio scopo, bastava che si sapesse che noi avevamo commesso una tale nefandezza. Pensavo che i Ferrazzi sarebbero usciti da Memphis tutti eccitati, pronti a spazzarci via dalla faccia della terra...» Bosco si sedette e guardò l'uomo severo che gli stava davanti. «Naturalmente stai pensando che non è andata così, che mi sono sbagliato. Ma sei troppo cortese per dirlo o hai troppa paura. Sbaglieresti a tua volta. Il Maresciallo Ferrazzi, invece, è d'accordo con me. A quanto sembra, anche se è un padre affettuoso, non è affatto un sentimentale. Ha tenuto segreto il rapimento, ben consapevole che non sarebbe riuscito a frenare il desiderio di vendetta del popolo. Ed è qui che entri in gioco tu, Redentore. Tu hai un ottimo rapporto con quell'elemento, quel tizio di...» «Kitty Town, Vostra Santità.» Paul Hoffman
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«Voglio che tu lo persuada ad aiutarti a sferrare un attacco, col numero di soldati che riterrai opportuno, trenta o forse cinquanta. Dirai a questi soldati che le voci già diffuse tra i Redentori a proposito della peccaminosa apostasia della ragazza corrispondono al vero e che, se loro dovessero morire, sarebbero considerati dei martiri... E moriranno. Ti assicurerai che i capitani scelti portino con sé un certificato di martirio, con la spiegazione dei motivi per cui stanno compiendo l'opera del Signore. Con un po' di fortuna, alcuni di loro sopravvivranno a sufficienza perché i Ferrazzi estorcano loro la verità a suon di torture. Stavolta non voglio che ci sia la minima possibilità di tenere segrete le nostre azioni. Chiaro?» «Sì, Vostra Grazia», rispose il Redentore Roy, bianco come un cencio. «Sei diventato alquanto pallido, Redentore. Rassicurati: la tua morte non è necessaria. Al contrario. Inoltre dovresti usare soldati che sono, in qualche modo, caduti in disgrazia. Ti chiedo una cosa malvagia, però necessaria.» Una volta appreso che non era necessario sacrificare la sua insignificante vita, il Redentore Roy riacquistò il colorito. «Kitty la Lepre vorrà sapere in cos'è coinvolto», disse. «Probabilmente non penserà che sia nei suoi interessi farsi coinvolgere in una faccenda così equivoca.» Bosco gli fece cenno di andarsene. «Promettigli tutto ciò che vuoi. Digli che, quando vinceremo, lo faremo Satrapo di Memphis.» «Non è uno stupido, Vostra Santità.» Bosco sospirò e ci pensò su per qualche istante. «Portagli la statua d'oro della Venere Lussuriosa di Strabo», concluse. Il Redentore Roy restò esterrefatto. «Pensavo che fosse stata rotta in dieci pezzi e gettata nel vulcano di Delfi.» «Era solo una diceria. Blasfema e oscena com'è, la statua turerà le orecchie a quella tua creatura, così non sentirà nessuna delle domande che si porrà, stupida o no che sia.»
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26 Nelle settimane successive, Cale sperimentò tutti i controproducenti piaceri che derivavano dal rendere la vita sgradevole a qualcuno che adorava e odiava nel contempo. A dire la verità - ma lui non la diceva - ne era disgustato. Non si era mai chiesto davvero cosa si aspettasse di ottenere, diventando la guardia del corpo di Arbell Collo di Cigno. I suoi sentimenti nei confronti della giovane - intenso desiderio e intenso risentimento sarebbero stati difficili da conciliare per chiunque, figuriamoci per uno come lui, che era una strana miscela di esperienze brutali e completa innocenza. Forse, per impedirle di rabbrividire quando lui le parlava, un po' di fascino avrebbe aiutato... ma dove poteva trovare del fascino un ragazzo come Cale? Arbell detestava la sua presenza e, com'era comprensibile, ciò lo offendeva a morte. Ma l'unica reazione che poteva avere era un aumento dell'ostilità nei suoi confronti. Quella strana atmosfera tra Cale e la sua padrona era fonte di grande preoccupazione per Riba. La giovane aveva ambizioni più alte che essere la damigella di una nobildonna, per quanto illustre, eppure Arbell le piaceva. Era gentile e premurosa e, dopo aver scoperto quanto Riba fosse intelligente, si era dimostrata molto aperta ed era perfettamente a suo agio con lei. Ciononostante, Riba era devota a Cale fino all'adorazione. Lui aveva rischiato la vita per salvarla da qualcosa di terribile, qualcosa che emergeva ancora nei suoi incubi. Dunque non capiva la freddezza di Arbell nei confronti del ragazzo ed era decisa a correggere il comportamento della padrona. Il modo in cui decise di procedere fu assai poco convenzionale. Un giorno, fingendo d'inciampare, versò di proposito una tazza di tè addosso a Cale. Vi aveva aggiunto dell'acqua fredda, in modo che lui non si scottasse troppo, ma il liquido era caldo a sufficienza. Con un urlo di dolore, Cale si strappò la tunica di cotone che indossava. «Oh, mi spiace, mi spiace», mormorò Riba con fare agitato, prendendo una tazza d'acqua fredda che aveva messo nei paraggi e versandogli addosso anche quella. «Ti sei fatto male?» «Che ti prende?» chiese lui, ma senza rabbia. «Prima cerchi di scottarmi, poi di annegarmi?» Paul Hoffman
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«Oh, mi spiace», ripeté ansimando Riba. Continuò a scusarsi, porgendogli un piccolo asciugamano e ricoprendolo di cortesie. «Non ti preoccupare, sopravvivrò», replicò lui, asciugandosi. Poi fece un cenno ad Arbell e disse: «Dovrò cambiarmi. Vi prego di non lasciare le vostre stanze finché non sarò tornato». E se ne andò. A quel punto, Riba si voltò per verificare se il suo stratagemma avesse funzionato ma, com'è tipico degli stratagemmi complicati, l'effetto fu altrettanto complicato. Ciò che aveva suscitato la compassione di Arbell, una compassione che lei non avrebbe mai immaginato di provare per Cale, era stata la scoperta delle cicatrici e delle piaghe che ricoprivano la schiena del ragazzo. C'era a malapena qualche lembo di pelle che non portasse i segni del suo brutale passato. «L'hai fatto di proposito», disse Arbell. «Sì», replicò Riba. «Perché?» «In modo che voi vedeste tutto ciò che ha patito. E, con tutto il rispetto, in modo che non siate così scortese con lui.» «Che vuoi dire?» chiese Arbell, stupita. «Posso parlarvi francamente?» «No, che non puoi!» «Lo farò comunque, arrivati a questo punto.» Per essere una nobildonna, Arbell non era una maniaca dell'etichetta, però nessuno - non solo nessun servitore, ma proprio nessuno in generale le aveva mai parlato in quel modo, tranne suo padre. Lo stupore la lasciò senza parole. «Forse voi e io non abbiamo molto in comune, ora, ma c'è stato un tempo in cui quasi ogni mio desiderio veniva assecondato e avevo davanti a me un'esistenza fatta soltanto di piaceri da dare e da ricevere. Be', tutto è finito nel giro di un'ora e ho imparato quanto sia orrenda, crudele e incredibile la vita.» Quindi raccontò alla padrona - che l'ascoltava con occhi sgranati - tutti i dettagli, senza omettere la tremenda morte dell'amica e di come Cale avesse rischiato tutto, compresa una morte ancora più orribile, per salvarla. «Mentre attraversavamo le Scablands, mi ha fatto capire che salvarmi era stata la cosa più stupida e folle che avesse mai fatto.» «E tu gli hai creduto?» La domanda uscì dalla bocca di Arbell in un rantolo. Paul Hoffman
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L'altra rise. «Non ne sono sicura. A volte penso che dica sul serio e altre volte no. Ma ho visto la schiena di Henri mentre ci stavamo lavando in un torrente, nelle Scablands, e lui mi ha raccontato quello che hanno fatto a Cale. Fin da quand'era bambino, un tale Redentore Bosco l'ha preso di mira, picchiandolo anche per un nonnulla. Lo accusava di qualsiasi cosa. Più la mancanza era banale, più quell'uomo ci prendeva gusto: pregare con le dita incrociate, non fare la gamba del nove quando scriveva... Lo trascinava davanti a tutti gli altri e lo picchiava ferocemente. Lo prendeva a pugni finché non cadeva a terra, poi lo tempestava di calci. E così, alla fine, l'ha fatto diventare un assassino.» Riba si era infervorata, rivelando tutto il suo risentimento e non soltanto nei confronti dei Redentori. «Perciò mi sembra sorprendente che si degni anche solo di scaldarci col vapore del suo piscio. Figuriamoci rischiare la vita per salvare voi o me.» Per quanto fosse quasi impossibile, Arbell sgranò gli occhi ancora di più davanti a quella sbalorditiva metafora. «Quindi, Mademoiselle Arbell, credo sia ora di smetterla di guardarlo dall'alto in basso e di dimostrargli la gratitudine e la compassione che merita.» Riba aveva ormai smarrito la purezza d'intenzioni che aveva dato origine alla sua tirata e aveva cominciato a gustarsi la propria indignazione e il disagio della padrona. Ma non era una stupida e capì che era il momento di fermarsi. Ci fu un lungo silenzio, mentre Arbell sbatteva ripetutamente le palpebre, sforzandosi di non piangere. Si guardò attorno con gli occhi lucidi, poi rivolse lo sguardo di nuovo a Riba ed emise un lungo sospiro. «Non me n'ero resa conto. Finora non conoscevo neppure me stessa...» In quel momento, Cale bussò alla porta ed entrò. Benché l'atmosfera della stanza fosse completamente diversa, lui non si accorse del cambiamento. Quel cambiamento, tuttavia, era più grande di quanto Riba potesse sospettare o di quanto si rendesse conto la giovane donna che lo stava avvertendo. La bella Arbell Collo di Cigno, la più desiderata tra le desiderate, era stata mossa a compassione dalle terribili cicatrici sulla schiena di Cale, eppure dentro di lei si era mosso anche qualcosa di meno nobile: un desiderio tanto intenso quanto inaspettato. Vedendo il ragazzo a torso nudo, lei aveva colto il netto contrasto tra il fisico di Cale e quello dei Ferrazzi; anche loro erano quanto mai agili e forti, ma lui aveva spalle ampie e una vita molto stretta. Non c'era nulla di elegante in Cale, era tutto muscoli e forza, come un toro o un bue. Non era neppure avvenente; Paul Hoffman
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nessuno avrebbe mai fatto una scultura di quella massa di tendini e cicatrici. Tuttavia quella vista aveva fatto sussultare qualcosa in Arbell Ferrazzi. E non era soltanto il suo cuore.
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27 «Bene, bene, Redentore», tubò Kitty la Lepre, accarezzando con le unghie il legno del tavolo sul quale si ergeva la statua dorata della Venere Lussuriosa di Strabo. Il suono della sua voce languida suggerì al Redentore Stape Roy l'idea che una cosa orribile oltre ogni immaginazione stesse per insinuarsi dolcemente nel suo orecchio. «Però è tutto molto strano», proseguì, fissando la statua, o almeno così credeva il Redentore Roy, perché, come sempre, il viso di Kitty era coperto da un cappuccio grigio, un capo d'abbigliamento verso il quale il Redentore provava grande riconoscenza. «La statua sarà vostra se ci aiuterete. Che importanza hanno le nostre motivazioni?» Le unghie continuarono a raschiare il legno; poi, quando il rumore s'interruppe e il braccio coperto si allungò verso la statua, il Redentore sobbalzò, notando che il tessuto grigio stava scivolando via dalla mano di Kitty. Non era una mano, però: pensate a qualcosa di grigio, rivestito da un leggero manto di pelliccia, simile alla zampa di un cane, ma più lunga, molto più lunga, con unghie screziate... sebbene neppure questa descrizione dia perfettamente conto della realtà. Come una madre che accarezzi il viso del figlio, le unghie sfiorarono la statua per qualche istante, poi si ritirarono. «Una bella opera», gorgogliò Kitty. «Ma mi avevano detto che era stata spezzata in dieci parti e gettata nel vulcano di Delfi.» «Evidentemente non era vero.» Ci fu un lungo sospiro e il Redentore lo sentì sul viso. Era come l'alito cattivo, caldo e umido di un grosso cane ostile. «Non ce la farete», disse Kitty la Lepre. «È un'opinione.» «È un dato di fatto», ribatté Kitty in tono secco. «Sono affari nostri.» «State cercando di scatenare una guerra, perciò sono anche affari miei.» Ci fu una lunga pausa. «Si dà il caso che io non abbia obiezioni contro le guerre», continuò poi. «In passato, mi hanno sempre fatto comodo. Non avete idea di quanti soldi si facciano fornendo cibo, bevande e pentolame Paul Hoffman
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di scarsa qualità, anche nel conflitto più insignificante. Voglio una garanzia scritta che, in caso di vittoria da parte vostra, nessuno dei miei possedimenti sarà danneggiato. Inoltre voglio protezione per andare ovunque io desideri.» «D'accordo.» Nessuno dei due credeva all'altro. Kitty la Lepre era certamente felice di guadagnare da una guerra, ma i suoi piani andavano molto più lontano. «Ci vorrà del tempo», sospirò, con un'altra ventata di alito caldo e umido. «I miei piani saranno pronti entro tre settimane.» «È troppo», obiettò il Redentore Roy. «Forse, ma è il tempo che ci vorrà. Addio.» Così il Redentore Roy fu accompagnato fuori dalle stanze private di Kitty la Lepre, nel cortile e poi in città. Notò che si era assembrata una folla per guardare due giovani, sedicenni al massimo, che stavano per essere impiccati. Terrorizzati, portavano entrambi un cartello appeso al collo. Diceva: STUPRATORE. «Che cos'è uno stupratore?» chiese il Redentore Roy alla sua guardia, dimostrando che innocenza e malvagità potevano felicemente convivere. «Chiunque cerchi di cavarsela senza pagare», fu la risposta. Mentre raggiungeva le stanze di Arbell, che nel frattempo erano state circondate da un cordone di sicurezza, Cale era assorto. Nonostante il profondo risentimento che nutriva nei confronti della giovane, aveva notato che lei lo trattava in modo un po' meno scostante. Non lo guardava più in cagnesco e non indietreggiava ogni volta che lui le si avvicinava. Talvolta Cale si chiedeva persino se il suo sguardo avesse un qualche significato... anche se, naturalmente, non vi riconosceva affatto la compassione e il desiderio. Liquidava subito quelle idee come insensate, tuttavia era confuso. Perso in quei pensieri, quasi non si accorse del gruppetto di ragazzi sui dieci anni, ai margini del campo delle esercitazioni. Avevano un atteggiamento sospetto e si tiravano sassi a vicenda. Mentre si avvicinava, si rese conto che uno di loro era molto più grande, sui quattordici anni, alto, snello e bello com'era tipico dei Ferrazzi a quell'età. A quel punto, comprese che i ragazzi più giovani non si stavano tirando sassi a vicenda, ma miravano al ragazzo più grande, gridando epiteti quali: «Minchione! Idiota! Pezzo di merda sbavone! Stronzo slabbrato!» Poi lanciavano altri sassi. Paul Hoffman
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Nonostante la sua stazza, però, il ragazzo più grande non faceva che piroettare su se stesso, spaventato e confuso, ogni volta che veniva colpito. Poi un sasso lo raggiunse sulla fronte e lui si accasciò al suolo. Quando i ragazzini cominciarono a correre verso di lui per prenderlo a calci, arrivò Cale, che diede uno scappellotto sull'orecchio a uno di loro, quindi fece lo sgambetto a un altro e gli diede un piccolo calcio mentre era disteso a terra. In un attimo, tra una ridda d'insulti, la banda si disperse. «Se vi vedo ancora, razza di gentaglia, il vostro deretano conoscerà a fondo la punta dei miei stivali!» gridò Cale, e poi si chinò sul ragazzo a terra. «È tutto a posto, se ne sono andati», mormorò a quella specie di sacco di patate piangente, che si copriva il volto ed era raggomitolato su se stesso. Non ci fu nessuna reazione. «Non ti farò del male. Se ne sono andati.» Ancora nessuna reazione. Allora, un po' irritato, Cale gli toccò una spalla. Il ragazzo si rianimò e si mise a tirare colpi così rapidamente che ferì Cale sulla fronte. Con un urlo di sorpresa e dolore, Cale fece un balzo all'indietro, mentre l'altro lo guardava in preda allo stupore e indietreggiava a tentoni verso un muro, guardandosi attorno, terrorizzato, in cerca dei suoi aguzzini. «Merda!» esclamò Cale. L'altro aveva nocche di ferro; gli sembrava di essersi preso una martellata. «Che ti prende, maledetto?» gridò al ragazzo dallo sguardo folle. «Io cerco di aiutarti e tu quasi mi stacchi la testa?» Il ragazzo continuò a fissarlo, ma alla fine parlò. In realtà, emise soltanto una serie di grugniti. Non essendo abituato a zoppi, storpi o a chiunque avesse qualche serio impedimento fisico - nessuno, in quelle condizioni, sopravviveva a lungo al Santuario - Cale ci mise un po' a rendersi conto che era muto. Gli porse la mano. Lentamente, il ragazzo l'afferrò e Cale lo aiutò ad alzarsi. «Vieni con me», disse. Il ragazzo lo fissò. Oltre che muto, era anche sordo. Allora Cale gli fece cenno di seguirlo e piano piano, piangendo per il dolore e l'umiliazione, il ragazzo obbedì. Dieci minuti dopo, Cale gli stava dando una ripulita nella guardiola provvisoria negli alloggi di Arbell, quando lei entrò di corsa, seguita da Riba. Vedendo il ragazzo sanguinante seduto di fronte a Cale sussultò e urlò: «Che gli avete fatto?» «Che state dicendo, cagna furiosa?» gridò lui per tutta risposta. «Una banda dei vostri tesorini lo stava conciando per le feste e io li ho cacciati via.» Lei lo fissò, piena di rimorso per aver rovinato i progressi degli ultimi Paul Hoffman
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giorni. «Mi spiace», disse, con un rammarico così evidente che Cale provò un intenso piacere. Una volta tanto era lui a essere in vantaggio. In ogni caso, fece un sospiro per minimizzare. «Mi spiace tanto», ripeté lei, poi si avvicinò al ragazzo, piena di ansia e preoccupazione, e lo baciò. Cale non l'aveva mai vista riservare quel tipo di attenzioni a nessuno. E il ragazzo quasi si calmò. Poi Arbell gli accarezzò i capelli e guardò Cale. «È mio fratello Simon», spiegò. «Quasi tutti lo chiamano Simon l'Idiota, ma non davanti a me. È sordomuto. Che cos'è successo?» «Era nel campo delle esercitazioni. Un gruppo di ragazzi più giovani gli tirava i sassi.» «Mostri!» esclamò lei, voltando le spalle al fratello. «Pensano di farla franca perché lui non può dire nulla.» «Non ha un tutore?» «Sì, ma lui vuole stare da solo e scappa sempre, va al campo delle esercitazioni perché desidera essere come gli altri. Loro però lo odiano e hanno paura di lui perché è tardo di comprendonio. Dicono che è posseduto da un demonio.» Intanto Simon indicava Cale e grugniva, mimando il tentativo di lapidazione e il salvataggio. «Vi vuole ringraziare.» «E voi come lo sapete?» ribatté Cale, un po' troppo brusco. «Be', non so, ma ha buon cuore, anche se è uno sprovveduto.» Prese la mano di Simon e la aprì, porgendola a Cale perché gliela stringesse. Quando Simon capì che cosa doveva fare, Cale ci mise un po' a interrompere l'energica stretta. Intanto il sangue stava imbevendo la fasciatura provvisoria che Cale gli aveva applicato sulla ferita. Allora fece cenno al ragazzo di sedersi e, sotto lo sguardo ansioso di Arbell, rimosse la benda. Era una brutta ferita, lunga quasi due pollici. «Quasi gli cavavano un occhio, quei piccoli bastardi. Ci vorranno dei punti.» Arbell era esterrefatta. «Che volete dire?» «Serviranno dei punti, come quando si rammenda una camicia o un calzino.» Cale rise. «Ovviamente queste non sono attività che voi conoscete.» «Chiamerò uno dei nostri medici.» Paul Hoffman
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Cale sbuffò in una risata di scherno. «L'ultimo medico dei Ferrazzi che mi ha curato mi avrebbe ucciso, se lo avessi lasciato fare. Il problema non è solo la cicatrice enorme che gli rimarrà: una ferita irregolare come questa non guarirà facilmente. Con tutta probabilità, farà infezione e poi Dio solo sa come andrà a finire. Tre o quattro punti basteranno a richiuderla e sarà quasi come se non ci fosse mai stata.» Arbell era completamente senza parole. «Lasciate che lo veda un medico, prima. Cercate di capire, vi prego.» Cale scrollò le spalle. «Come volete.» Un'ora dopo, erano arrivati due medici; dopo un'accesa discussione, i due non erano riusciti ad arrestare l'emorragia, anzi l'avevano peggiorata, continuando a stuzzicare la ferita. A quel punto, Simon, confuso e in preda al dolore, ne aveva avuto abbastanza e si rifiutava di far avvicinare gli uomini, sebbene la sua fronte continuasse a sanguinare copiosamente. Dopo qualche minuto, Cale se n'era andato e, al suo ritorno, mezz'ora più tardi, Simon era in un angolo e si rifiutava di farsi toccare da chiunque, persino dalla sorella. Cale prese in disparte Arbell, molto turbata. «Ho preso dell'achillea al mercato per arrestare l'emorragia. Così non va», le disse, indicando il dramma che si stava consumando nell'angolo. «Perché non chiedete a vostro padre che ne pensa?» Arbell sospirò. «Mio padre si rifiuta di avere a che fare con lui. Dovete capire che un figlio così è una terribile vergogna. Posso decidere io.» «Allora decidete.» Nel giro di qualche istante, i medici furono congedati e nella stanza rimasero soltanto Cale e Arbell. Il ragazzo sembrò placarsi, ma li guardava entrambi con palese sospetto. Cale si assicurò che Simon lo vedesse mentre apriva l'involto con la polvere di achillea e ne versava un po' nel palmo della mano; quindi indicò la polvere, la ferita di Simon e la propria fronte. Poi si avvicinò piano piano al ragazzo e s'inginocchiò, mostrandogli la mano aperta con la polvere di achillea. Mentre Simon lo fissava, circospetto, Cale prese un pizzico di polvere e glielo avvicinò lentamente alla testa. Poi rovesciò il capo all'indietro, facendo cenno al ragazzo d'imitarlo. Sempre guardingo, il ragazzo obbedì e Cale sparse la polvere sulla ferita ancora sanguinante, ripetendo l'operazione sei volte. Poi si allontanò e lasciò che Simon si rilassasse. Paul Hoffman
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Nel giro di dieci minuti, il sangue aveva smesso di scorrere, Simon si era calmato e aveva permesso a Cale di avvicinarsi per togliergli la polvere dalla ferita. Per quanto l'operazione fosse dolorosa - e Arbell sorvegliasse entrambi con occhio critico -, lui fu molto paziente. Quando Cale ebbe finito, persuase Simon a spostarsi al centro della stanza e a sdraiarsi sul tavolo. Poi estrasse un involto di seta da una tasca interna e l'aprì sul tavolo. Conteneva diversi aghi, alcuni dei quali ricurvi, in cui erano già infilati corti fili di seta. Lo sguardo di Simon si colmò nuovamente di diffidenza e poi rivelò un autentico terrore, mentre Cale prendeva un ago, glielo mostrava e, a gesti, provava a illustrargli ciò che intendeva fare. Si avvicinò più volte al ragazzo, tentando di ricucire la ferita, ma Simon si metteva sempre a urlare in modo inconsulto. «Non ve lo permetterà. Provate qualcos'altro», disse Arbell, turbata. «La ferita è troppo profonda», sbottò Cale, esasperato. «Vi ho già detto che s'infetterà e allora sì che Simon avrà un motivo per urlare... oppure per tenere la bocca chiusa, ma per sempre.» «Non è colpa sua. Non capisce.» Era vero. Cale fece un passo indietro e sospirò. Poi indietreggiò ancora, estrasse un coltellino dalla tasca interna e, prima che Simon o Arbell potessero reagire, si praticò una profonda incisione nel palmo della mano sinistra, nella parte più carnosa, vicino al pollice. D'un tratto, nella stanza calò il silenzio. Mentre Simon e la sorella lo fissavano, sconvolti, Cale ripose il coltello, afferrò una benda, la usò per comprimere la ferita sanguinante e poi rimase immobile a lungo. Quindi si tolse con cura la benda, si avvicinò al tavolo, prese l'ago e il filo e lo mostrò a Simon, come se stesse per eseguire un gioco di prestigio. Poi, con cautela avvicinò l'ago a un lembo della ferita e lo fece passare fino all'altro, tendendo il filo con aria concentrata, come se stesse rammendando un calzino. Fece quindi un nodo e, prendendo un altro ago, ripeté l'operazione per tre volte, sinché la ferita non fu ricucita per bene. A quel punto, avvicinò la mano al viso di Simon, in modo che lui potesse osservare la ferita e i punti. E aspettò. Simon era pallidissimo, ma trasse un respiro profondo e annuì. Allora Cale prese un altro ago, lo avvicinò alla ferita del ragazzo e si mise all'opera. I cinque punti vennero applicati regolarmente ma, com'era comprensibile, non senza una serie di grida acute da parte di Simon. Paul Hoffman
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Quando ebbe finito, Cale sorrise e gli strinse la mano. Il ragazzo era diventato bianco come il latte di Melksham e aveva sopportato un dolore infernale, ma la ferita sarebbe guarita. Cale si voltò verso Arbell, cerea e tremante come il fratello. «È fatto della pasta giusta», le disse. «Vostro fratello è molto più in gamba di quanto la gente creda.» L'esibizione di Cale stava sortendo l'effetto sperato. Mentre fissava la straordinaria creatura che si trovava davanti, Arbell Ferrazzi, sconvolta, atterrita ed esterrefatta, si scoprì quasi innamorata. I Guelfi, popolo notoriamente ingeneroso, avevano un detto: «Nessuna buona azione resta impunita». E Cale avrebbe scoperto ben presto la sporadica veridicità di quell'amaro proverbio. Purtroppo per lui, non era stato addestrato per sorvegliare gruppi di ragazzini dispettosi, che si comportano in modo tanto infantile quanto crudele; era stato addestrato per uccidere ed era quindi incapace di controllare la propria aggressività. Così, sfortunatamente, il calcio che aveva assestato a uno degli aguzzini di Simon era andato ben oltre le sue intenzioni e il ragazzo ne era uscito con due costole spezzate. E, per una coincidenza ancora più sfortunata, quel ragazzo era nientemeno che il figlio di Solomon Solomon, già inviperito con Cale per la batosta impartita a sei dei suoi migliori allievi e adesso letteralmente fuori di sé dalla rabbia per l'infortunio del figlio. Come spesso accade nel caso dei bruti, infatti, Solomon Solomon era un padre gentile e premuroso. Ma, se la sua rabbia era incandescente, doveva comunque essere trattenuta. Non poteva sfidare Cale a duello per via dell'incidente del figlio, dato che si era verificato mentre lui aggrediva il figlio del Maresciallo Ferrazzi. Per quanto il Maresciallo provasse una profonda vergogna per avere un idiota come proprio erede, sarebbe andato su tutte le furie per l'affronto all'onore della sua famiglia e, a dispetto di tutta la sua importanza e delle sue abilità, Solomon Solomon sarebbe stato spedito in qualche buco nel Medio Oriente, a sovrintendere alle sepolture in una colonia di lebbrosi. All'ira già esulcerata nei confronti di Cale si aggiunse così un odio omicida che aspettava soltanto l'occasione giusta per esplodere. Un'occasione che non si sarebbe fatta attendere a lungo. Non c'era da meravigliarsi che Simon l'Idiota, come tutti lo chiamavano quando il padre o la sorella non potevano sentire, avesse cominciato a trascorrere più tempo che poteva con Cale, Kleist e Henri. Paul Hoffman
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Sorprendentemente, l'ingresso nel loro gruppo di un individuo che non era in grado né di parlare né di sentire fu assai meno molesto di quanto si potesse immaginare. Come loro, Simon era un emarginato e spesso veniva trattato male; tuttavia provavano anche compassione nei suoi confronti, dato che lui aveva a portata di mano tutto ciò che a loro appariva paradisiaco - il denaro, una posizione e il potere -, ma nel contempo gli era impossibile raggiungerlo. Inoltre non gli permettevano di diventare troppo fastidioso. Certo, si comportava in modo bizzoso e umorale, ma ciò era dovuto soltanto al fatto che nessuno, prima di allora, si era preso la briga d'inculcargli quelle che i tre consideravano «buone maniere». Così lo facevano loro, gridandogli dietro ogni volta che lui li infastidiva; essendo sordo, per lui non faceva differenza, ma il calcio nel sedere che accompagnava le urla la faceva, eccome. Ben presto, poi, si resero conto che, quando Simon si comportava male, la cosa migliore era ignorarlo completamente. Era la cosa che il ragazzo odiava di più e che lo indusse a imparare in fretta le regole sociali degli accoliti dei Redentori. Di certo non sarebbero state utili nei salotti di Memphis, ma erano le uniche regole che qualcuno gli avesse mai insegnato. Una volta, Arbell aveva detto a Cale che Simon aveva avuto i migliori insegnanti, ma senza risultato. I ragazzi però avevano un vantaggio rispetto ai «migliori insegnanti» di Memphis e quel vantaggio nasceva dal semplice linguaggio dei segni che i Redentori avevano sviluppato per i giorni e per le settimane durante i quali vigeva il divieto di parlare. E gli accoliti, soggetti ancora più spesso a quel divieto, lo avevano ulteriormente sviluppato. Così, dopo aver tentato invano di far pronunciare a Simon alcune parole, Cale aveva cominciato a insegnargli vari segni, che lui aveva assimilato senza fatica: «acqua», «sasso», «uomo», «uccello», «cielo», eccetera. Tre giorni dopo, mentre camminavano in un giardino con un grande stagno e qualche anatra, Simon aveva tirato la manica di Cale e, col linguaggio dei segni, aveva detto «uccello d'acqua». E, nel giro di una settimana, il ragazzo aveva assorbito quel linguaggio con la stessa rapidità di una spugna secca su cui viene versata dell'acqua. Dunque non solo non era un idiota, ma sembrava addirittura molto sveglio. «Ha bisogno che qualcuno inventi altre parole per lui», disse Cale, lanciando un'occhiata a Simon, una sera in cui tutti e quattro stavano cenando nella stanza delle guardie. «E a che serve, se nessun altro saprà cosa vogliono dire?» chiese Kleist. Paul Hoffman
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«Che vantaggio ne avrà?» «Ma Simon non è uno qualsiasi. È il figlio del Maresciallo. Possono pagare qualcuno perché legga i suoi segni e li dica a voce.» «Collo di Cigno pagherà», disse Henri. Ma quello non faceva parte del piano di Cale. «Non ancora», mormorò. «Penso che si meriti di vendicarsi di suo padre e di tutti gli altri, Arbell esclusa. Deve fare qualcosa di grande, deve fargliela vedere. Troverò qualcuno e lo pagherò.» Benché quella fosse una spiegazione sincera delle sue motivazioni, non era però tutta la verità. Lui sapeva che Arbell aveva cambiato atteggiamento nei suoi confronti, ma non in che misura. Dopotutto non era molto esperto - e come avrebbe potuto esserlo? - di faccende che coinvolgevano i sentimenti di una bellissima e desideratissima giovane donna nei confronti di qualcuno che ancora la spaventava a morte. Sentiva di aver bisogno di qualcosa di drammatico per far colpo su di lei. Anzi: di sbalorditivo. Fu così che, il giorno dopo, si ritrovò insieme con IdrisPukke, suo consigliere nella faccenda, nell'ufficio del Controllore dell'Istituto degli Studiosi, un istituto noto anche come Cervelleria. Era lì che venivano istruiti i numerosi burocrati necessari per amministrare l'impero. Le posizioni più importanti, naturalmente, erano riservate ai Ferrazzi, i quali non soltanto erano governatori di questa o di quella provincia, ma venivano anche impiegati in qualsiasi lavoro che implicasse un certo potere e una certa influenza. Tuttavia solo pochi di loro avevano l'ingegno o il buonsenso necessario per gestire un dominio così vasto: era una cosa risaputa, benché nessuno la dicesse ad alta voce. Così, per evitare che l'amministrazione sprofondasse nell'incompetenza e nel caos, era stata fondata la Cervelleria, che operava in base a rigorosi principi di merito. Se un figlio idiota o un nipote dissoluto dei Ferrazzi veniva nominato governatore di uno Stato conquistato, era subito affiancato da un numero significativo di laureati della Cervelleria, in modo da limitare i danni. Non si era dunque creato quell'istituto per pura generosità o per coltivare le ambizioni dei figli più intelligenti dei mercanti (ma non dei poveri): l'unico motore era stato un egoistico interesse aristocratico, la capacità di tenere sotto controllo le menti più brillanti e impedire che fossero coinvolte in quelle congiure contro lo status quo che avevano già rovinato molte famiglie nobili e che ne avrebbero di certo rovinate altre in futuro. Paul Hoffman
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Ben conoscendo la reputazione di IdrisPukke, il Controllore non riuscì a nascondere la sua diffidenza. E il ragazzo che gli stava accanto - un giovane furfante dall'aspetto malvagio e con una reputazione ancora peggiore, benché più misteriosa - non semplificava le cose. «Come posso esservi d'aiuto?» chiese in modo piuttosto sbrigativo. «Lord Vipond vi chiede di darci la massima assistenza», rispose IdrisPukke, estraendo una lettera dalla tasca interna e posandola sul tavolo davanti al Controllore. L'altro adocchiò la lettera con sospetto, come se dubitasse della sua autenticità. «Ci serve il vostro migliore studioso come funzionario di corte per un importante membro della famiglia del Maresciallo.» Il Controllore si rallegrò. La cosa poteva tornargli utile. «Capisco. Ma quel genere di posizione non viene normalmente riservato a un Ferrazzi?» «Normalmente», concordò IdrisPukke, come se quella tradizione, che in effetti era inattaccabile, non avesse la minima importanza. «Però a noi serve un funzionario dotato d'intelligenza e di abilità, soprattutto abilità linguistiche. Qualcuno che sia flessibile, capace di pensare da sé. Avete una persona con queste caratteristiche?» «Abbiamo molte persone con queste caratteristiche.» «Allora ci darete la migliore.» Fu così che, due ore dopo, uno sbalordito e felice Jonathan Koolhaus attraversò la fortezza e, con la deferenza dovuta a un funzionario di corte dei Ferrazzi, fu condotto negli appartamenti di Arbell Collo di Cigno e quindi agli alloggi del corpo di guardia. Forse Jonathan Koolhaus non aveva mai sentito il detto del grande generale Void: «Nessuna notizia è mai buona o cattiva come sembra a prima vista», ma stava comunque per scoprire quanto fosse vero. Si aspettava di trovarsi in un appartamento grandioso, anzi nella sala d'attesa di una vita grandiosa, convinto che i suoi talenti non meritassero nulla di meno. Invece si ritrovò in una stanza in cui, lungo una parete, erano ammassati alcuni letti e che ospitava numerose armi di vario tipo, tutte dall'aspetto minaccioso. C'era qualcosa che non andava. Mezz'ora dopo, entrarono Cale e Simon Ferrazzi: Cale si presentò e Simon grugnì. In breve, Koolhaus, sempre più sconcertato, comprese ciò che si aspettavano da lui: avrebbe dovuto sviluppare un linguaggio dei segni adatto a Simon, accompagnarlo ovunque e fungere da suo traduttore. Ci vuole poco a Paul Hoffman
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immaginare la sua irritazione e il suo sconforto: si era immaginato un futuro luminoso all'apice della società dei Ferrazzi e invece sarebbe finito a fare il portavoce... dello scemo del villaggio. Sarebbe stato più contento se gli avessero detto che gli era spuntato un paio di branchie. Cale chiese a un servitore di mostrargli la sua stanza, non molto diversa da quella che aveva alla Cervelleria. Poi fu condotto nell'appartamento di Simon, dove Henri lo aspettava per insegnargli i segni di base del linguaggio muto dei Redentori. E, lì, la delusione di Koolhaus si attenuò, anche perché la sua reputazione di avere un talento naturale per le lingue si rivelò ben meritata. Ben presto, infatti, si rese conto che quella faccenda del linguaggio dei segni non era molto complessa. Nel giro di due ore, annotò tutti i segni e, piano piano, si convinse che inventare una lingua, anziché impararla, poteva essere parecchio interessante. «Nessuna notizia è mai buona o cattiva come sembra a prima vista.» In ogni caso, benché non gli piacesse lavorare con un idiota, non aveva scelta. Tuttavia bastarono pochi giorni a Koolhaus per cambiare opinione anche su questo secondo aspetto. Sempre solo e abbandonato a se stesso, privo del necessario controllo di un qualsiasi sistema d'istruzione, Simon era del tutto indisciplinato, ma Koolhaus scoprì di poter fare leva su due cose: da un lato, c'erano il timore e l'adorazione nei confronti di Cale; dall'altro, c'era il disperato desiderio del ragazzo di poter comunicare, un desiderio solo in parte soddisfatto dal linguaggio dei segni dei Redentori, troppo semplice e limitato. Quella combinazione rese Simon un allievo più promettente di quanto non sembrasse di primo acchito. I progressi furono rapidi, anche se venivano interrotti almeno due volte al giorno dalle bizze di Simon, frustrato perché incapace di comprendere che cosa stesse facendo il suo tutore. La prima volta, Koolhaus, allarmato, mandò a chiamare Cale, che ridusse il ragazzo al silenzio minacciandolo di dargli una manica di botte se non si fosse comportato bene. Dopo la faccenda dei punti, Simon si era convinto che Cale fosse capace di qualsiasi cosa, dunque obbedì. Poi, per rafforzare l'autorità di Koolhaus, Cale «trasmise» a quest'ultimo la facoltà d'impartire punizioni tanto orribili quanto indistinte. Come risultato di quella sceneggiata, Koolhaus continuò a insegnare e Simon, che voleva soprattutto far piacere a Cale, continuò a imparare. Nel frattempo, comunque, a Koolhaus fu ordinato di non rivelare a nessuno e in nessuna circostanza ciò che stava facendo. A tutti venne detto che lui era la guardia del corpo provvisoria di Simon. Paul Hoffman
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Pur inconsapevole delle ambizioni di Cale per suo fratello, Arbell sapeva benissimo ciò che stava facendo per lui. Ed ebbe modo di verificarlo di persona. Al Santuario non c'erano giochi, perché giocare era un'occasione per peccare. La cosa che più vi si avvicinava era un esercizio di addestramento in cui i membri di due squadre, separati soltanto da una linea che nessuno poteva attraversare, cercavano di colpire gli avversari con una borsa di cuoio legata a una corda. Un esercizio innocuo solo in apparenza, perché la borsa di cuoio era piena di grossi sassi: di conseguenza, c'erano parecchi gravi infortuni; la morte era rara, ma non impossibile. Un giorno, rendendosi conto che la vita comoda di Memphis stava indebolendo lui e i suoi due compagni, Cale aveva riproposto quel gioco, usando però la sabbia anziché le pietre. Era stata una bella sorpresa per tutti: senza il terrore di farsi del male, si erano divertiti come mai avrebbero creduto possibile. Ben presto, tuttavia, si erano resi conto che mancava un giocatore, e avevano coinvolto Simon. Era goffo, privo della grazia degli altri Ferrazzi, però era pieno di energia e di entusiasmo, tanto che si faceva male di continuo. Ma non sembrava che gli importasse. Quegli scontri erano rumorosi: i ragazzi ridevano di continuo, prendendosi in giro per le reciproche disattenzioni e mancanze. Arbell non poteva fare a meno di sentirli. Spesso si metteva alla finestra che dava sul giardino e osservava il fratello mentre rideva e giocava e, per la prima volta nella vita, non si sentiva escluso. Anche quello si radicò nel suo cuore, insieme, naturalmente, con la strana forza di Cale, coi suoi muscoli e col suo sudore, mentre correva, lanciava la borsa, inseguiva gli altri e rideva. Così, un giorno, Arbell chiese a Riba di chiamarlo e, mentre lei si preparava nella stanza da letto, così da apparire naturalmente bella, lui aspettava nel salotto principale. Era la prima volta che si trovava da solo in quell'ambiente e ne approfittò per esaminare ogni cosa: dai libri posati sui tavoli agli arazzi, al grande dipinto che dominava la stanza e raffigurava una coppia. Lo stava osservando da vicino quando Arbell entrò alle sue spalle e disse: «Quello è il mio bisnonno, con la sua seconda moglie. Hanno suscitato un grande scandalo, perché erano davvero innamorati». Cale stava per chiedere perché tenesse un ritratto di quei due sulla parete, ma lei cambiò argomento. «Volevo ringraziarvi per tutto ciò che fate per Simon», mormorò, timidamente. Cale rimase in silenzio perché non sapeva cosa ribattere e perché, per la Paul Hoffman
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prima volta, l'oggetto della sua confusa adorazione gli parlava con tanta gentilezza. «Voglio dire... vi ho visto, oggi. Simon è così contento di avere qualcuno con cui...» Stava per dire «giocare», ma si rese conto che quel giovane alternativamente brutale e gentile avrebbe potuto prendere la frase nel modo sbagliato, perciò concluse: «... fare amicizia. Vi sono molto riconoscente». A Cale piacquero molto quelle parole. «Non c'è problema», replicò. «Impara in fretta, quando riusciamo a spiegarci. Lo faremo diventare un duro.» Si rese subito conto che non era la cosa giusta da dire. «Voglio dire che gli insegneremo a badare a se stesso.» «Non gli insegnerete nulla di troppo pericoloso, vero?» «Non gli insegnerò a uccidere, se è questo che intendete.» «Mi spiace», mormorò lei, mortificata per averlo offeso. «Non volevo essere sgarbata.» Ma Cale, in presenza di Arbell, non era più permaloso come prima, anche perché la ragazza era diventata molto più cordiale con lui. «No, non siete stata sgarbata. Mi scuso se mi offendo sempre così facilmente. IdrisPukke mi ha detto di ricordarmi che sono soltanto un teppista e devo fare più attenzione quando sto con persone che sono state educate come si deve.» «Non l'avrà detto davvero!» esclamò lei, ridendo. «Certo che sì. Non ha molto rispetto per il mio lato sensibile.» «Avete un lato sensibile?» «A dire la verità, non lo so. Pensate che sarebbe una buona cosa?» «Penso che sarebbe una cosa meravigliosa.» «Allora ci proverò, anche se non so come. Forse potreste dirmelo voi, quando mi comporto come un teppista, e darmi una bella sgridata.» «Avrei troppa paura», replicò lei, sbattendo lentamente le palpebre. Lui rise. «Lo so che tutti pensano che io abbia un brutto carattere, più brutto di quello di una puzzola, ma sicuramente non ammazzerei qualcuno soltanto perché mi rimprovera di essere un teppista.» «Siete molto di più», disse lei, continuando a sbattere le palpebre. «Ma rimango comunque un teppista.» «Ora siete di nuovo troppo suscettibile.» «Visto? Mi avete rimproverato e non ho ucciso nessuno e continuerò a tentare di migliorarmi.» Paul Hoffman
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Lei sorrise, lui rise... e fece un decisivo passo in avanti nel cuore sempre più turbato della ragazza. Kleist stava insegnando a Simon e Koolhaus come attaccare piume d'oca a una freccia. Al terzo tentativo fallito, Simon era così furioso che spezzò la freccia e gettò i due pezzi all'altro capo della stanza. Kleist lo guardò con calma e fece cenno a Koolhaus di tradurre. «'Fallo un'altra volta, Simon, e ti ritroverai la punta del mio stivale nel...'» Koolhaus si fermò e, facendo una smorfia per quel linguaggio volgare, chiese: «... 'deretano'?» «Visto che sei così intelligente, trova tu un modo per tradurlo.» «Indovinate cos'ho trovato nella cantina qui sotto!» annunciò Henri, entrando nella stanza tutto pimpante. «In nome di Dio, come posso indovinare cos'hai trovato in cantina?» sbottò Kleist, senza alzare lo sguardo dal tavolo. L'entusiasmo di Henri non vacillò neppure per un istante. «Venite a vedere.» La sua gioia era così evidente che Kleist s'incuriosì. Henri allora li condusse di sotto e li guidò attraverso un corridoio sempre più buio fino ad arrivare a una porticina, che aprì con difficoltà. Si ritrovarono in una stanza illuminata da una finestra a due ante collocata in alto. «Stavo parlando con un veterano, che mi raccontava tutte le sue storie di guerra, molto interessanti, tra l'altro», spiegò Henri. «Be', lui mi ha detto che, più o meno cinque anni fa, è andato in ricognizione nelle Scablands in cerca di Gurrier e si è imbattuto in un vagone staccatosi da un treno dei Redentori. C'erano soltanto un paio di Redentori lì attorno, perciò lui e i suoi compagni gli hanno detto di togliersi di mezzo e poi hanno confiscato il vagone.» Andò verso una tela cerata e ne sollevò un lembo. Sotto, c'era un'enorme collezione di reliquie: forche sacre di varie dimensioni, in legno e in metallo, statue della Santa Sorella del Redentore Impiccato, le dita dei piedi e delle mani di vari martiri, incenerite e conservate in piccoli contenitori dalle elaborate decorazioni. Uno racchiudeva persino un naso... almeno Henri pensava che lo fosse, dato che, dopo settecento anni, era piuttosto difficile a dirsi. C'erano addirittura l'avambraccio destro di santo Stefano d'Ungheria e un cuore perfettamente conservato. Koolhaus guardò Henri. «Che cos'è tutta questa roba? Non capisco.» Henri sollevò una bottiglietta piena per tre quarti e lesse l'etichetta: OLIO DI SANTITA' COLATO DALLA BARA DI SANTA WALBURGA. Paul Hoffman
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Kleist era irrequieto: quel mucchio di reliquie aveva fatto riaffiorare brutti ricordi. «Dimmi che non ci hai trascinato quaggiù per questa roba.» «No, no», replicò Henri, dirigendosi verso una cerata più piccola e sollevandola di scatto, proprio come aveva fatto il prestigiatore col panno nel momento clou dello spettacolo che aveva tenuto a palazzo, la settimana precedente. «Finalmente servi a qualcosa!» esclamò Kleist, scoppiando a ridere. In terra c'era un assortimento di balestre leggere e pesanti. Henri ne sollevò una con un sistema di carica a cremagliera. «Questa è una balestra antica. Scommetto che ci si può cavare qualcosa di speciale.» Mentre ne sollevava una più piccola, con una sorta di scatola in cima, aggiunse: «E questa deve essere una balestra a ripetizione. Ne ho sentito parlare, ma non ne ho mai viste». «Sembra un giocattolo.» «Lo vedremo non appena avrò qualche dardo. Qui non ce ne sono. Probabilmente i Ferrazzi non li hanno presi, perché non sapevano che cosa fossero.» Simon fece qualche gesto a Koolhaus, che disse: «È preoccupato di quello che hai detto di Henri». Kleist era perplesso. «Io non ho detto niente.» «Hai fatto capire che non serviva a niente. Lui vuole che ti scusi, altrimenti ti ritroverai la punta del suo stivale nel deretano.» Prima di conoscere i ragazzi, Simon era abituato soltanto a insulti belli e buoni o a una spudorata adulazione. Gli era dunque quasi impossibile cogliere le sfumature del linguaggio e l'ironia gli sfuggiva del tutto. Kleist lo guardò. Le dita di Koolhaus si mossero come fulmini mentre lui parlava. «Henri è ciò che i Ferrazzi chiamano...» Non gli veniva la parola. «Un cecchino, un sicario. Usa soltanto la balestra.» Passarono due ore prima che Cale arrivasse agli alloggi del corpo di guardia e la notizia delle balestre lo mise subito di malumore. «Avete detto a Simon e Koolhaus di tenere la bocca chiusa?» «E perché?» chiese Kleist. «Perché non vedo nessun buon motivo per far sapere in giro che Henri è un cecchino», replicò Cale, ormai davvero irritato. «E il motivo cattivo?» «Quello che non sanno non possono usarlo contro di noi. Meno sanno di Paul Hoffman
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noi, meglio è, insomma.» «Questa è bella, soprattutto detta da quello che ha dato spettacolo nel Giardino d'Estate», borbottò Kleist. «Ascolta, Cale, come avrei potuto tirar fuori le balestre o farci qualcosa senza che qualcuno lo scoprisse?» intervenne Henri. «Dovrò farmi realizzare dei dardi e ho bisogno di fare esercizio.» Ormai era comunque troppo tardi. Due giorni dopo, tutti e tre furono convocati dal capitano Albin, che sembrava più divertito che seccato. «Non mi sembri un omicida, Henri.» «Non sono un omicida; sono soltanto un franco tiratore.» «Jonathan Koolhaus ha detto che sei un cecchino.» «Non bisogna dar retta a Koolhaus.» «Insomma sei un franco tiratore che non uccide le persone. A che servi, allora?» Contrariato, Henri si rifiutò di abboccare, ma il risultato fu che Albin pretese una dimostrazione. «Ho sentito parlare di questo aggeggio. Vorrei vederne uno all'opera.» «Non è un aggeggio. Ce ne sono sei.» «Va bene, sei. Il Campo dei Sogni andrà bene?» «Quanto è lungo?» «Circa trecento iarde.» «No.» «E quante te ne servirebbero?» «Circa seicento.» Albin rise. «Mi stai dicendo che, con questi affari, puoi colpire qualcosa a seicento iarde di distanza?» «Non con tutte le balestre. Solo con una.» Albin era dubbioso. «Penso che potremmo chiudere il lato occidentale del Parco Reale. Va bene tra cinque giorni?» «Me ne serviranno otto. Devo farmi fare dei dardi e tutte le balestre devono essere tese.» «Molto bene.» Il capitano guardò Kleist. «Koolhaus mi dice che tu sei un arciere.» «Ha la lingua lunga, quel Koolhaus.» «A prescindere dalla lunghezza della sua lingua, è vero?» «Migliore di chiunque abbiate mai visto.» «Allora pure tu farai una dimostrazione. Quanto a te, Cale... hai altri assi Paul Hoffman
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nella manica?» Otto giorni dopo, un gruppo di generali dei Ferrazzi, il Maresciallo, che si era autoinvitato, e Vipond si radunarono dietro i grandi teli che solitamente venivano utilizzati per far sfilare i cervi davanti alle nobildonne che volevano praticare un po' di caccia. Prudente al pari di Cale, Albin aveva deciso che forse era meglio non spargere troppo la voce di quella dimostrazione. Non avrebbe saputo spiegare il motivo della sua circospezione, ma quei tre ragazzi erano davvero imprevedibili. E poi c'era qualcosa di minaccioso in Cale. Meglio pensar prima che pentirsi poi, si era detto. Erano passati solo cinque minuti dall'inizio della dimostrazione, e Albin si era già reso conto di aver commesso un terribile errore. Non era facile accettare che, per semplice diritto di nascita, persone meno abili, meno operose, meno intelligenti e meno dotate fossero sempre le prime ad avere l'opportunità di ficcare il muso in quello che il poeta Demidov chiamava «il grande trogolo della vita». Avendo avuto spesso a che fare con Vipond - un individuo laborioso, intelligente e dalle capacità straordinarie -, Albin aveva applicato il proprio ingenuo senso della giustizia a tutti coloro che lo circondavano, dimenticando che quel nobiluomo sarebbe potuto diventare Cancelliere anche se fosse stato un perfetto somaro. I generali che osservavano la dimostrazione non erano né più né meno capaci dei generali di qualsiasi altro gruppo selezionato in virtù delle proprie parentele. A Memphis, panettieri, birrai, scalpellini osservavano il diritto di nascita con la stessa rigidità di qualsiasi duchessa dei Ferrazzi. Sei un idiota e ti meriti questa umiliazione, si disse Albin. Perché quei tre erano non solo semplici ragazzini, per quanto piuttosto strani, ma non facevano nemmeno parte della gente comune. Uno scalpellino, un armaiolo erano degni di rispetto; persino essere sgarbati con un servitore era considerato volgare dalla maggior parte dei Ferrazzi. Quei ragazzi, invece, erano del tutto privi d'identità, non facevano parte di nulla, erano migranti. E, cosa ancora più importante, uno di loro si era spinto troppo oltre. I generali non giustificavano affatto la prepotenza dei Mond e di Solomon Solomon, considerato da tutti uno zoticone; tuttavia la parola definitiva spettava ai Ferrazzi. Le eventuali ingiustizie nei confronti di un membro della classe inferiore dovevano essere sistemate in silenzio... però, se non venivano sistemate, tutto finiva lì. Non toccava certo alla Paul Hoffman
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parte lesa sollevare la questione. E men che meno farlo in modo così efficace e umiliante. Il fatto che Cale avesse raddrizzato da sé il torto subito costituiva un'autentica minaccia. Il primo a esibirsi fu Kleist. Dodici soldati di legno, solitamente usati per le esercitazioni di scherma, erano stati collocati a cento iarde di distanza. I Ferrazzi conoscevano gli archi, ma li usavano soprattutto per la caccia: si trattava di archi compositi, di grande eleganza e bellezza, importati a caro prezzo. L'arco di Kleist ricordava un manico di scopa: sembrava impossibile piegare un aggeggio dall'aspetto così assurdo. Il ragazzo appoggiò a terra l'estremità inferiore dell'arco, puntellandola col collo del piede sinistro. Poi, tenendo la corda appena sotto l'anello, cominciò a flettere l'arco che, pur essendo più spesso del pollice di un uomo robusto, lentamente si piegò sotto la sua grande forza. Quindi Kleist sollevò delicatamente l'anello e lo inserì nella tacca, cercando di nascondere l'immane sforzo che quel gesto gli costava. Infine, girandosi verso le frecce conficcate a semicerchio nel terreno alle sue spalle, ne estrasse una, la incoccò, la tirò verso la guancia, prese la mira e scoccò il dardo. Il tutto avvenne in un unico movimento fluido, seguito da altri identici, al ritmo di una freccia ogni cinque secondi. Undici colpi andarono a segno con un tonfo, mentre un dardo mancò silenziosamente il bersaglio. Uno degli uomini di Albin uscì di corsa da dietro una parete protettiva di travi di legno e confermò il punteggio, sventolando due bandiere: undici su dodici. Il Maresciallo applaudì, entusiasta, esclamando: «Oh, bravo!» e i generali batterono le mani, però senza entusiasmo. Seccato per la mancata reazione dei generali, Kleist si allontanò scuotendo il capo, pieno di risentimento, e cedette il posto a Henri il Vago, perché dimostrasse ciò di cui era capace. «Esistono tre tipi fondamentali di balestra», cominciò in tono brillante Henri, convinto che il pubblico condividesse la sua eccitazione. Sollevò la più leggera tra le due, collocate davanti a lui nelle rispettive intelaiature. «Questa è la balestra a un piede. Si chiama così perché si mette un piede... qui.» Infilò il piede destro nella staffa in cima alla balestra, assicurò la corda con un gancio legato a una cintura che portava in vita e spinse, raddrizzando nel contempo la schiena, così che il meccanismo afferrasse la corda e la mantenesse in posizione. A quel punto, lanciò un'occhiata ai generali e i loro sguardi di disapprovazione gli guastarono il buonumore. Tuttavia proseguì: «Ora metto in posizione il dardo e poi...» Si voltò, prese Paul Hoffman
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la mira e fece scattare la balestra. Emise un grugnito di sollievo sentendo il colpo del dardo che centrava il bersaglio, un colpo sonoro anche a distanza di trecento iarde. «Bel tiro!» esclamò il Doge. I generali fissavano Henri, nient'affatto impressionati, anzi cupi e sprezzanti. Vedendo che tutte le sue aspettative sull'effetto sorprendente del tiro erano andate in fumo, Henri perse la sua sicurezza. Esitò. Passò alla balestra successiva, molto più grande, ma con una struttura simile alla precedente. «Questa è la balestra a due piedi. Si chiama così perché... ehm... si mettono due piedi nella staffa... e... ehm... non soltanto uno.» Poi aggiunse, goffamente: «Questo significa che... ehm... è ancora più potente». Ripetendo gli stessi movimenti compiuti in precedenza, sganciò il dardo sul secondo bersaglio. Stavolta il colpo fu talmente forte da spaccare in due la testa del soldato di legno. Il silenzio carico di disapprovazione si fece gelido come il ghiaccio in cima al Monte di Sale. Se Henri avesse avuto qualche anno in più o una maggiore esperienza nell'arte della presentazione, forse si sarebbe fermato, limitando così i danni. Ma non aveva né l'età né l'esperienza necessaria, perciò proseguì, inconsapevole, fino a commettere il suo ultimo, e più grande, errore. A poca distanza, e coperto da una delle cerate rinvenute in cantina, Henri aveva collocato un grosso oggetto. Senza il brio da prestigiatore e con l'aiuto di Cale, sfilò la cerata, rivelando una balestra d'acciaio grande il doppio della precedente, e avvitata a un grosso palo saldamente conficcato nel terreno. All'estremità posteriore della balestra era attaccato un imponente meccanismo di caricamento. Henri azionò il meccanismo con l'apposita manovella e spiegò: «Questa è ovviamente troppo lenta per il campo di battaglia ma, usando un argano e un arco d'acciaio, si può colpire un bersaglio anche a un terzo di miglio di distanza». Se non altro, quell'affermazione non fu accolta dal gelo e dall'indifferenza: alcuni generali manifestarono la loro incredulità con sbuffi di risa. E, giacché Henri non aveva condiviso la sua nuova scoperta né con Cale né con Kleist, anch'essi erano parecchio dubbiosi, ma rimasero in silenzio. Paradossalmente, quell'atmosfera di diffuso scetticismo spronò Henri. Era ancora abbastanza giovane, sciocco e innocente da credere di poter dimostrare a qualcuno che aveva torto senza suscitare un profondo risentimento. Fece cenno a uno degli uomini di Albin di sollevare una Paul Hoffman
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bandiera. Ci fu una breve pausa, poi un'altra bandiera venne sollevata in fondo al parco e una seconda tela cerata fu rimossa da un bersaglio dipinto di bianco, dal diametro di circa tre piedi. Henri appoggiò la spalla al calcio della balestra, fece una pausa a effetto, quindi la fece scattare. Quando l'acciaio e la canapa rilasciarono la mezza tonnellata di potenza che avevano accumulato, si udì una botta tremenda. Il dardo dipinto di rosso schizzò via come se fosse spinto da un demonio e scomparve alla vista, diretto verso il bersaglio bianco. Con grande ingegno, Henri aveva coperto il dardo di vernice a polvere rossa e, all'impatto col bersaglio, la polvere si sparse sulla superficie bianca in modo piuttosto spettacolare. Qualcuno rimase senza fiato e ci furono molti grugniti, persino, o forse soprattutto, da parte di Kleist e Cale. Era senza dubbio una dimostrazione di grande accuratezza di tiro, anche se non straordinaria come sembrava. Henri aveva impiegato molte ore per allestire con precisione la balestra a molinello, fissandola al terreno e regolando l'arco per calcolare la distanza esatta. Ci fu un lungo silenzio, che il Maresciallo cercò di nascondere andando da Henri e ponendogli una sfilza di domande. «Davvero?» «Accidenti!» «Straordinario!» Poi invitò i suoi generali a raggiungerlo ed essi si misero a esaminare la balestra con tutto l'entusiasmo di una duchessa cui fosse stato chiesto di esaminare un cane morto. «Be', se mai avremo bisogno di far assassinare qualcuno da una distanza di sicurezza sapremo a chi rivolgerci», disse infine uno di loro. «Non prenderla così, Hastings», lo rimproverò il Maresciallo, col tono di uno zio scontento, ma gioviale. Poi si rivolse a Henri. «Non fargli caso, giovanotto. Io penso che sia molto affascinante. Bravo!» Con quello, la dimostrazione era terminata e il Maresciallo e i suoi generali se ne andarono. «Sei fortunato che non ti abbia dato un buffetto sotto il mento e una caramella», disse Cale a Henri. «Quella balestra...» borbottò Kleist, indicando il gigante d'acciaio avvitato al palo. «Quante ore ci hai messo per prepararla?» «Non molte», mentì Henri. Ci fu un breve silenzio. Paul Hoffman
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Fu Kleist a romperlo. «L'altro giorno ho imparato una parola nuova a Memphis.» Fece una pausa e concluse: «Balle!» Il giorno dopo, Vipond ricevette i tre ragazzi nel suo studio. «Finora avete ignorato come funzionano le cose tra i Ferrazzi, ma è tempo che impariate», esordì. «I militari hanno una legge a parte e rispondono soltanto al Maresciallo. Io sono il suo consigliere per le questioni politiche, ma ho un'influenza molto più ridotta quando si tratta di faccende legate alla guerra. Ciononostante mi devo interessare alla guerra in generale e al vostro talento per la violenza in particolare.» Poi aggiunse, spudoratamente: «Mi vergogno a dirlo, ma talvolta potrei avere bisogno dei vostri talenti ed è per questo che dovete capire determinate cose. Il capitano Albin è un eccellente poliziotto, ma non è uno dei Ferrazzi e, permettendo ai generali di assistere alla vostra dimostrazione, ha rivelato di non aver compreso un elemento importante. Adesso se ne è reso conto e voi dovete fare altrettanto. I Ferrazzi provano un'intensa ripugnanza per chi uccide senza correre rischi. Ritengono che sia assolutamente al di sotto del loro livello, una cosa riservata a volgari assassini e a brutali tagliagole. Le armature dei Ferrazzi, per esempio, sono le più raffinate del mondo e dunque costosissime. Molti Ferrazzi impiegano vent'anni a pagare i debiti contratti per acquistarne una. In più, reputano indegno combattere con qualcuno che non sia dotato di un'armatura simile e che non abbia avuto un addestramento analogo a quello cui loro si sono sottoposti. Pagano somme enormi per combattere contro uomini di pari rango; possono uccidere o essere uccisi, tuttavia mantengono il proprio status anche dopo la morte. Che status si può conquistare, massacrando uno stalliere o un macellaio?» «O facendosi massacrare da uno di loro?» aggiunse Cale. «Proprio così», annuì Vipond. «Insomma: voi dovete guardare le cose dal loro punto di vista.» «Noi non siamo stallieri o macellai, ma soldati addestrati», obiettò Kleist. «Senza offesa, ma non avete nessun valore sociale. Utilizzate armi e metodi che vanno contro ogni cosa in cui i Ferrazzi credono. Per loro siete una sorta di eresia. Sapete cos'è un'eresia, vero?» «Ma che differenza fa?» sbottò Cale. «Un dardo o una freccia non sanno chi era tuo nonno materno e non gliene importa nulla. Uccidere è semplicemente uccidere, proprio come un ratto con un dente d'oro resta Paul Hoffman
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comunque un ratto.» «Certo. Ma così stanno le cose. È una tradizione dei Ferrazzi, vecchia di trecento anni, e non la cambieranno soltanto perché lo volete voi o perché non vi piace», tagliò corto Vipond. Poi guardò Kleist e chiese: «Una delle tue frecce può penetrare le armature dei Ferrazzi?» Kleist alzò le spalle. «Non lo so, non ho mai colpito un Ferrazzi tutto bardato. Ma ci vorrebbe un'armatura maledettamente buona per fermare una freccia da quattro once a cento iarde.» «Allora dobbiamo fare una prova. Quella balestra con l'arco d'acciaio, Henri... i Redentori ne hanno parecchie?» «Non ne avevo mai vista una, ne avevo soltanto sentito parlare. Il mio maestro ne aveva viste soltanto due, perciò non credo.» «C'è voluto parecchio per caricarla. I Ferrazzi hanno ragione a non tenerne conto per le battaglie.» «Questo l'ho detto anch'io, quando ve l'ho mostrata», protestò Henri. «Comunque un dardo delle altre balestre può perforare un'armatura. L'ho visto... l'ho fatto io stesso.» «Anche le armature dei Ferrazzi?» «Fatemi provare.» «A tempo debito. Domani vi manderò uno dei miei segretari e uno dei miei consulenti militari. Voglio che mettiate per iscritto tutto ciò che sapete sulle tattiche dei Redentori, capito?» Tutti e tre reagirono con sguardi sfuggenti, ma non dissero nulla. «Eccellente. Ora andatevene.»
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28 Senza dubbio, nella storia dei duelli, non sono stati pochi gli uomini che hanno prima sfidato e poi ucciso i loro simili per ragioni dettate da una logica stringente. Eppure è difficile trovare traccia di tali rigorosi ragionamenti. A noi sono giunti soltanto commenti denigratori sull'onestà nel gioco delle carte, offese di poco conto, vere o immaginarie, divergenze d'opinione sulla bellezza degli occhi di una donna e così via. E il famigerato duello tra Solomon Solomon e Thomas Cale non fu diverso, dato che ebbe origine dalla questione di chi avesse la precedenza nella scelta dei tagli di manzo. Cale era stato coinvolto in quella faccenda perché il cuoco ingaggiato per occuparsi dei trenta uomini necessari per fare la guardia ad Arbell si era lamentato della terribile qualità della carne che gli veniva fornita. Cresciuti a «piedi di uomini morti», i tre ragazzi non avevano notato che il cibo era scadente. I soldati però si erano lagnati col cuoco e il cuoco aveva protestato con Cale. Il giorno dopo, Cale era andato al mercato, per discutere la faccenda col macellaio e, non avendo nulla di meglio da fare, Henri lo aveva accompagnato. Se Kleist non fosse stato in servizio, si sarebbe unito ai compagni. Invece lo era, e fare la guardia a una donna - pur bellissima per ventiquattr'ore al giorno era un compito estremamente noioso, soprattutto sapendo che i pericoli che lei correva erano quasi inventati. Per Cale era diverso: lui era innamorato e trascorreva le ore con Arbell semplicemente guardandola oppure mettendo in atto il suo piano per indurla a ricambiare i propri sentimenti. E il piano stava funzionando benissimo, anche in quel momento, proprio mentre Cale e Henri andavano a sistemare le cose col macellaio. Nei suoi appartamenti, infatti, Arbell stava cercando di estorcere a un riluttante Kleist qualche storia su Cale. La riluttanza del giovane era presto spiegata: Kleist sapeva che lei desiderava disperatamente ascoltare aneddoti su Cale che ne evidenziassero la generosità o la benevolenza e lui, quasi con lo stesso accanimento, non voleva dare al compagno la soddisfazione di raccontarli proprio alla sua innamorata. Tuttavia Arbell era alquanto abile, affascinante e determinata e, nel corso di diverse settimane, aveva tirato fuori a Kleist e a Henri - che era molto più disposto a collaborare - un sacco d'informazioni su Cale e Paul Hoffman
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sulla sua storia. In effetti, ai suoi occhi, la reticenza di Kleist non faceva che confermare quanto fosse stato terribile ciò che il ragazzo aveva passato. Benché nervoso e ricalcitrante, dunque, Kleist aveva finito per confermare le storie di Henri, rendendole ancora più plausibili. «È vero che quel tizio, Bosco, era così brutale?» «Sì.» «Perché se la prendeva con Cale?» «Perché lui era lì, a portata di mano.» «Per favore, ditemi la verità. Perché era così crudele con lui?» «Perché era un pazzo, soprattutto quando c'era di mezzo Cale. E non intendo un pazzo come quelli che vanno in giro a vaneggiare e farneticare: in tutti quegli anni al Santuario, non l'ho mai sentito alzare la voce. Però era matto come un'intera mandria di cavalli.» «È vero che lo ha fatto lottare all'ultimo sangue con quattro uomini?» «Sì, ma l'unico motivo per cui ha vinto è per via di quel buco che ha in testa, che gli permette di sapere in anticipo che cosa uno sta per fare.» «Non vi piace Cale, vero?» «Come potrebbe piacermi?» «Riba mi ha detto che vi ha salvato la vita.» «Giacché è stato lui a metterla in pericolo, direi che siamo pari.» «Cosa posso fare per te, giovanotto?» chiese cordialmente il macellaio, gridando per sovrastare il baccano del mercato. Cale rispose urlando a sua volta e in tono altrettanto cordiale: «Potresti smetterla di mandare cani e gatti morti al corpo di guardia del Palazzo Occidentale». Il macellaio, di colpo assai meno cordiale, allungò una mano sotto il bancone e prese una mazza dall'aspetto spaventoso. «Chi ti credi di essere, stronzetto, per parlarmi in questo modo?» tuonò, avvicinandosi a Cale con una rapidità sorprendente, data la mole, e agitando la mazza. Ma Cale si abbassò e schivò il colpo; la mazza allora roteò sopra la sua testa, facendo sbilanciare il macellaio, che infine cadde nel fango a faccia in giù, «aiutato» da uno sgambetto del giovane. Quindi Cale gli salì in piedi sul polso, gli strappò via la mazza e, facendola rimbalzare delicatamente sulla nuca del suo aggressore, disse: «Ora andremo ovunque tu tenga la carne. Tu sceglierai la migliore e ogni settimana me ne manderai della stessa qualità. Ci siamo capiti?» «Sì!» «Bene.» Cale smise di far rimbalzare la mazza sulla testa del macellaio e Paul Hoffman
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gli permise di rialzarsi. «Da questa parte», disse l'uomo, con voce pregna di rabbia repressa. I tre si diressero verso un magazzino dietro la bancarella, pieno di cosce e mezzene di manzo, maiale e agnello, con un angolino dedicato alle più piccole carcasse di gatti, cani e altre creature che Cale non riconobbe. «Scegli la migliore», disse Henri. Il macellaio cominciò a sollevare i tagli di scamone e lombo dai ganci, quando una voce ben nota esclamò: «Fermo!» Era Solomon Solomon, accompagnato da quattro dei suoi soldati di maggiore esperienza. Se vi potrà sembrare strano che un uomo del rango di Solomon Solomon fosse al mercato a scegliere la carne, dovete sapere che i soldati sono disposti a sopportare più facilmente la morte, le ferite, le privazioni e le malattie piuttosto che il cibo di scarsa qualità. Solomon Solomon attribuiva particolare importanza all'alimentazione dei suoi uomini e faceva in modo che i soldati lo sapessero. «Cosa credi di fare?» chiese al macellaio. «Metto da parte i tagli di carne per la nuova guardia del palazzo», rispose l'altro, con un cenno del capo verso Cale e Henri. Solomon Solomon ignorò i due, come se neanche esistessero. Poi si avvicinò alla carne per esaminarla e si guardò attorno nel magazzino. «Tutto quello che c'è qui dentro deve essere consegnato alla caserma di Tolland entro questo pomeriggio. Ma non quelle schifezze nell'angolo.» Poi lanciò un'occhiata alla carne destinata a Cale. «Questa sì, invece.» «Noi siamo arrivati prima. Questa carne è nostra», obiettò Cale. Solomon Solomon lo fissò come se non l'avesse mai visto. «Io ho la precedenza. Qualcosa in contrario?» La giornata era calda, però il magazzino era freddo, dato che era scavato nella pietra e aveva grossi blocchi di ghiaccio ammucchiati negli angoli. Eppure fu come se la domanda di Solomon Solomon avesse ulteriormente abbassato la temperatura. Rendendosi conto che la risposta di Cale poteva avere conseguenze terribili, Henri si sforzò di essere gentile e ragionevole. «Non ce ne serve molta, signore. Soltanto quanto basta per trenta uomini.» Solomon Solomon non lo guardò e diede l'impressione di non averlo nemmeno sentito. «Io ho la precedenza. Qualcosa in contrario?» ripeté, fissando Cale. «Be', sì», rispose il giovane. Con estrema lentezza, in modo che Cale vedesse ciò che stava facendo e Paul Hoffman
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come se seguisse un preciso rituale, Solomon Solomon sollevò la mano destra e, col palmo aperto, colpì Cale sulla guancia, quasi dolcemente. Poi abbassò la mano e aspettò. Cale alzò a sua volta la mano e l'avvicinò piano piano al viso di Solomon Solomon, ma all'ultimo momento fece scattare il polso con tutta la sua forza, assestandogli uno schiaffo sonoro, che riverberò nel silenzio come un libro sacro chiuso di scatto in una chiesa. Le quattro guardie, irate, fecero per avanzare. «Fermi!» ordinò Solomon Solomon. «Il capitano Grey verrà da te stasera.» «Ah, sì?» chiese Cale. «E perché?» «Lo vedrai.» Poi si voltò e se ne andò. «Allora, come la mettiamo con la nostra carne?» chiese Cale in tono gioviale mentre lui usciva. Guardò il macellaio attonito, sbalordito e spaventato per il dramma che si era appena consumato nel suo magazzino. «Immagino di non poter contare sul fatto che tu consegni il mio ordine.» «Ne va della mia vita, signore.» «Allora è meglio che ne portiamo un po' con noi.» Si mise in spalla un'enorme mezzena di manzo e uscì.
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29 Come un fulmine che colpisce un albero in un bosco, scatenando un incendio che ben presto avvolge ogni cosa, il clamore suscitato dall'incontro nel magazzino del macellaio si diffuse per tutta Memphis. Informato dell'incidente, il Maresciallo Ferrazzi andò su tutte le furie e Vipond imprecò. Entrambi mandarono a chiamare Cale e pretesero che si rifiutasse di combattere. «Mi hanno detto che, se rifiuto, chiunque avrà il diritto di uccidermi a vista, senza avvertimento.» Un'obiezione difficile da contestare, perché vera. Poi Cale recitò con abilità la parte dell'innocente e i due trovarono impossibile non concordare con lui. Così fu Solomon Solomon a essere trascinato davanti al Maresciallo e al suo Cancelliere ma, nonostante uno spaventoso torrente d'insulti da parte dell'uno e un mare di minacce da parte dell'altro, il quale gli assicurò che, se fosse andato sino in fondo, avrebbe concluso la sua carriera seppellendo lebbrosi nel Medio Oriente, Solomon Solomon fu irremovibile. «Fermatevi, altrimenti finirete impiccato!» gridò allora il Maresciallo, furioso. «Non mi fermerò e non sarò impiccato!» replicò Solomon Solomon, gridando a sua volta. Aveva ragione: nemmeno il Maresciallo poteva impedire un duello, dopo che era stata lanciata la sfida, né aveva il diritto di punire i partecipanti. Vipond cercò di far leva sulla spocchia di Solomon Solomon. «Che ve ne viene in tasca a uccidere un quattordicenne, se non il disonore? Non è nessuno. Non ha nemmeno una madre o un padre, né tantomeno un cognome degno di essere messo alla prova in combattimento. Come diavolo vi salta in mente di svilirvi in questo modo?» Era un argomento efficace, ma Solomon Solomon lo affrontò semplicemente rifiutandosi di rispondere e la discussione finì lì. Il Maresciallo gli urlò di levarsi di torno e, in preda a una rabbia insanabile, Solomon Solomon obbedì. Come si può ben immaginare, l'incontro di Cale con Arbell fu all'insegna di un grande turbamento. Lei lo implorò di non combattere poi, ammettendo che l'alternativa era decisamente peggiore del duello stesso, si Paul Hoffman
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lanciò in una furiosa diatriba contro Solomon Solomon. Infine uscì di corsa per andare dal padre ed esigere che mettesse fine a tutto ciò. Durante lo straziante colloquio con Arbell, Cale aveva indotto Henri a corroborare la sua versione dei fatti. Però, dopo che la giovane se ne fu andata, Cale notò che Henri lo fissava con uno sguardo nient'affatto benevolo. «C'è qualche problema?» chiese allora. «Sì, tu.» «Perché?» «Perché fingi di non esserti reso conto di cosa sarebbe successo contestando il diritto di Solomon Solomon a scegliere prima di te?» «Ero arrivato prima, e tu lo sai.» «Lo ucciderai o ti farai uccidere... e per cosa? Per un taglio di carne?» «No, lo ucciderò o sarò ucciso per il fatto che mi ha picchiato una dozzina di volte senza motivo. Nessuno mi farà mai più una cosa del genere.» «Solomon Solomon non è Conn Ferrazzi e non è nemmeno un gruppetto di Redentori mezzi addormentati che non aspettano il tuo arrivo. Ti stai comportando da stupido. Quello ti può ammazzare.» «Davvero?» «Sì.» «Spero che Solomon Solomon sia d'accordo con te nel ritenermi uno stupido, perché resterà ancora più sorpreso quando lo farò a pezzi come se fosse un piatto di ceramica.»
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30 Il Teatro Rosso era un magnifico anfiteatro, con vista sulla baia di Memphis, che lasciava sbalordito persino il viaggiatore più cosmopolita. Era così ripido che, in varie occasioni, alcuni spettatori dei livelli più alti, trascinati da un eccessivo entusiasmo, avevano finito per cadere di sotto, perdendo la vita. Ma tale vertiginosa serie di gradinate aveva uno scopo ben preciso: consentire a trentamila persone di raccogliersi attorno al campo che esse racchiudevano e avere comunque, anche nei posti più elevati, l'impressione di trovarsi a un passo dall'azione. I duelli erano di due tipi: simplex e complex. Nel primo tipo, il semplice spargimento di sangue poteva comportare la conclusione del duello; nel secondo, uno dei combattenti doveva morire. Il Maresciallo si opponeva ai duelli complex non tanto per buon cuore - sebbene, data l'età avanzata, ormai non provasse il minimo piacere nell'assistere a spettacoli omicidi quanto per l'enorme quantità di guai che provocavano. Le faide, le zuffe e le vendette che ne scaturivano generavano un'ondata di sofferenze così violenta da spingere il Maresciallo a adoperare tutto il suo potere, formale e informale, per assicurarsi che non avessero luogo. I combattimenti all'ultimo sangue, insomma, causavano guai in generale e, in particolare, incoraggiavano la disobbedienza nei confronti delle classi dominanti. Negli ultimi tempi, dunque, il Teatro Rosso era il luogo in cui gli abitanti di Memphis andavano ad assistere ai combattimenti contro tori e orsi (anche se questi ultimi non erano più molto di moda), agli incontri professionali di pugilato e alle esecuzioni. Di conseguenza, nessuno voleva perdere l'occasione di vedere i propri superiori - giacché nessuno considerava Cale un inferiore - uccidersi in pubblico. Chi poteva sapere quando si sarebbe presentata un'altra opportunità? Il giorno del duello, l'enorme piazza davanti al Teatro Rosso era affollatissima sin dal primo mattino. C'erano migliaia di persone in coda a ciascuna delle dieci entrate e chi già sapeva che non sarebbe riuscito a entrare si accalcava attorno alle bancarelle che, in quelle grandi occasioni, spuntavano come funghi. C'erano sbirri e gendarmi antisommossa ovunque, per tenere d'occhio i ladri ed evitare guai, sapendo che la delusione poteva scatenare ogni tipo di violenza. C'erano tutti i trafficoni e Paul Hoffman
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le gang della città, i Suedehead coi loro gilet color rosso e oro e con gli stivali argentati; gli Hooligan con le loro bretelle bianche e i loro cilindri neri; i Rocker con le loro bombette, i monocoli e i baffetti sottili. Anche le ragazze erano accorse in massa: le Lollard coi loro lunghi soprabiti, con gli stivali alla coscia e le teste rasate e le Ticket, con la bocca rossa a forma di cuore, i corpetti rossi attillati e le lunghe calze nere come la notte. C'erano urla, fischi e risate, esplosioni di musica, fanfare all'arrivo dei giovani Ferrazzi, giunti lì anche per farsi guardare e invidiare. E metà di ogni centesimo che veniva guadagnato finiva nelle tasche di Kitty la Lepre. Durante le esecuzioni, il popolino gettava gatti morti ai condannati. Se ciò era considerato del tutto normale nel caso dei criminali e dei traditori, tali comportamenti erano rigorosamente proibiti in occasioni come quella. C'era di mezzo un Ferrazzi, dunque qualsiasi mancanza di rispetto era intollerabile. Eppure tale divieto non impedì alla gente di tentare il colpaccio: così, fuori dai dieci ingressi, si formarono ben presto piccole montagne di gatti morti, oltre a donnole, cani, ermellini e qualche oritteropo. A mezzogiorno, in un tripudio di fanfare, arrivò Solomon Solomon. Dieci minuti dopo, senza che nessuno lo riconoscesse, Cale attraversò la folla, accompagnato da Henri e Kleist. Suscitò una certa attenzione soltanto quando gli sbirri che controllavano le file bloccarono la folla e rimasero a guardare con morbosa curiosità i ragazzi che entravano nel Teatro Rosso.
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31 Nelle tenebrose stanze sotto il Teatro, un tempo riservate ai Ferrazzi che attendevano di massacrarsi a vicenda, Cale si sedette a fianco di Henri e Kleist e rimuginò su quello che lo attendeva. Fino a due giorni prima, i suoi pensieri erano stati dominati dalla rabbia e dal desiderio di vendetta. Emozioni potenti, nitide, ma assai familiari. Poi tutto era cambiato: lui si era ritrovato a letto con Arbell, nudo sotto lussuose lenzuola di cotone, e aveva capito per la prima volta nella sua vita lo stupefacente potere della beatitudine. Provate a immaginare come si era sentito Cale - Cale l'affamato, Cale la vittima, Cale l'assassino - tra le braccia e le gambe di quella bellissima giovane, in preda a una passione disperata, mentre lei gli accarezzava i capelli e lo baciava senza sosta. In quel momento, invece, si trovava in una stanza buia, pervasa da un vago odore d'umidità, mentre, sopra di lui, trentamila persone aspettavano di vederlo morire. Fino a due giorni prima, a spronarlo era stata la volontà di sopravvivere, profonda, animalesca e rabbiosa; eppure c'era sempre stata una parte di lui per la quale vivere o morire non faceva differenza. Adesso, invece, gli importava e parecchio e perciò, per la prima volta da molto tempo, aveva paura. Amare la vita era senza dubbio una cosa meravigliosa; tuttavia, in quel giorno, non lo era affatto. Seduti lì, accanto a lui, Henri e Kleist coglievano una sensazione di terrore completamente sconosciuta in quel ragazzo che avevano sempre considerato intoccabile, simpatico o no che fosse. Ogni grido attutito, ogni tonfo prodotto da porte enormi, montacarichi e macchine invisibili, ogni rumore metallico e ogni eco erano accompagnati non più dall'aspettativa e dalla convinzione, ma dal dubbio e dalla paura. Quando mancava mezz'ora al duello, qualcuno bussò leggermente alla porta. Kleist l'aprì, facendo entrare Lord Vipond e IdrisPukke. Parlarono sottovoce, sconfortati dalla strana atmosfera che regnava nella stanza buia. Gli chiesero se fosse tutto a posto. «Sì.» Gli chiesero se avesse bisogno di qualcosa. «No, grazie.» Poi calò lo stesso silenzio che circonda i letti degli ammalati. IdrisPukke, testimone del terribile e improbabile massacro dei Redentori al Paul Hoffman
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passo di Cortina, era sconcertato. Il Cancelliere Vipond, saggio e scaltro com'era, sapeva di non aver mai conosciuto una creatura come Cale, eppure in quel momento vedeva solo un ragazzo destinato a una morte orrenda sotto gli occhi di una folla inferocita. I duelli gli erano sempre parsi ingiustificati, ma in quel momento lui li considerava soltanto grotteschi e inaccettabili. «Lascia che vada a parlare con Solomon Solomon», disse a Cale. «Tutto ciò è stupido e criminale. Inventerò una scusa. Lascia che me ne occupi io.» Si alzò per uscire e, in quell'istante, qualcosa emerse in Cale, qualcosa che lo stupì, perché mai avrebbe pensato di provarlo. Sì, basta, non voglio tutto questo, non voglio. Tuttavia, mentre Vipond raggiungeva la porta, qualcos'altro, che non era orgoglio, ma una profonda comprensione della realtà delle cose, lo indusse a parlare. «Per favore, Cancelliere Vipond, rimanete. Non servirà a nulla. Lui vuole la mia pelle più della vita stessa. Nulla che voi direte potrà fargli cambiare idea. Gli darete un vantaggio nei miei confronti, senza nessun beneficio.» Vipond rimase in silenzio perché sapeva che Cale aveva ragione. Bussarono forte alla porta. «Un quarto d'ora!» Poi la porta si aprì. «Ah, ecco il curato», mormorò Vipond. Nella stanza entrò un uomo straordinariamente piccolo, con un sorriso gentile. Indossava un abito nero e un collare bianco che somigliava a quello di un cane. «Sono venuto per darti una benedizione», disse. Dopo una breve pausa, aggiunse: «Se lo desideri». Cale guardò IdrisPukke, il quale si aspettava che lo sbattesse fuori. Il giovane se ne accorse, allora sorrise. «Male non mi farà», commentò. Poi allungò la mano e IdrisPukke gliela strinse, dicendo: «Buona fortuna, ragazzo», e se ne andò. Cale fece un cenno al Cancelliere Vipond, il quale lo ricambiò e uscì, lasciando soli i tre ragazzi col curato. «Vogliamo cominciare?» chiese l'uomo in tono quasi festoso, come se stesse celebrando un matrimonio o un battesimo. Mise una mano in tasca, ne estrasse un piccolo contenitore d'argento, aprì il coperchio e mostrò a Cale la polvere che si trovava all'interno. «Sono le ceneri della corteccia bruciata di una quercia», disse. «Si ritiene che simboleggi l'immortalità», aggiunse, come se fosse un'opinione cui lui dava poco credito. «Posso?» Paul Hoffman
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Affondò l'indice nella cenere e tracciò una breve linea sulla fronte di Cale. «Ricorda che polvere tu sei e in polvere tornerai», intonò allegramente. «Ma ricorda pure questo: anche se i tuoi peccati sono scarlatti, diverranno bianchi come la neve. Anche se i tuoi peccati sono di porpora, diventeranno di lana.» Chiuse di scatto il coperchio del contenitore e se lo rimise in tasca con aria soddisfatta, come se avesse fatto un buon lavoro. «Ehm... buona fortuna.» Mentre andava verso la porta, Kleist gli chiese: «Avete detto la stessa cosa a Solomon Solomon?» Il curato si girò e lo guardò come se cercasse di ricordare. Quindi sorrise in modo strano e rispose: «Sai, non credo proprio». E se ne andò. Ci fu un'altra visita. Qualcuno bussò debolmente alla porta, Henri l'aprì e Riba s'infilò nella stanza. Henri arrossì quando lei gli strinse la mano, prima di proseguire verso Cale, che teneva gli occhi bassi e aveva un'aria smarrita. Ci volle qualche istante prima che lui alzasse lo sguardo e fissasse la giovane con un'espressione sorpresa. «Sono venuta ad augurarti buona fortuna», disse lei, parlando rapidamente, nervosa. «Volevo anche chiederti scusa e darti questo.» Gli porse un biglietto. Lui lo prese e ruppe l'elegante sigillo. Ti amo. Torna da me, ti prego. Per qualche istante, nessuno parlò. «Perché mi hai chiesto scusa?» chiese poi Cale. «È colpa mia se sei qui», rispose Riba. Kleist si concesse una risata di scherno. Senza staccare gli occhi dalla ragazza, Cale passò il biglietto a Henri perché lo conservasse. «Quello che sta cercando di dire il mio amico», spiegò, indicando Kleist, «è che ho fatto tutto da solo. È la verità, non lo dico per essere gentile.» Come forse avrebbe fatto ognuno di noi al posto suo, Riba voleva essere sicura della propria assoluzione e così diede voce alla propria ansia. «Penso comunque che sia colpa mia.» «Pensa quello che ti pare», mormorò Cale. Riba apparve così mortificata che Henri ebbe compassione di lei. La prese per mano e l'accompagnò fuori dalla stanza, nel corridoio ancora più buio. Paul Hoffman
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«Sono davvero un'idiota», disse la ragazza, in lacrime e arrabbiata con se stessa. «Non ti preoccupare. Diceva sul serio: non è colpa tua. È solo che adesso deve concentrarsi su quello che sta per succedere.» «E cosa succederà?» «Cale vincerà. Vince sempre. Ora devo andare.» Lei gli strinse di nuovo la mano e lo baciò sulla guancia. Sentendo dentro di sé un turbinio di sensazioni bizzarre, Henri la guardò allontanarsi, poi tornò nella stanza. Ormai mancavano dieci minuti. Cale aveva cominciato a eseguire gli esercizi preparatori al combattimento, in silenzio e in modo automatico. Nella luce fioca, Kleist e Henri si unirono a lui, facendo roteare le braccia, allungando i muscoli delle gambe, emettendo lievi grugniti per lo sforzo. Poi bussarono forte alla porta. «È il momento, signori!» I ragazzi si guardarono. Ci fu una breve pausa, seguita da un colpo secco mentre il chiavistello scivolava su una seconda porta, in fondo alla stanza. Lentamente la porta si aprì, scricchiolando, e l'oscurità fu lacerata da un raggio di luce, come se il sole, là fuori, stesse aspettando proprio Cale. La luce intensa si diffuse nella stanza con tutta l'energia di una folata di vento che sembrava volerli spingere nuovamente nella sicurezza dell'oscurità. Camminando, Cale riusciva ancora a sentire le ultime parole di Arbell: «Scappa! Vattene, ti prego! Cosa può mai significare tutto questo per te? Scappa!» Con pochi passi raggiunse la soglia e poi fu all'esterno, sotto il sole delle due del pomeriggio. I suoi occhi e le sue orecchie furono investiti da una seconda esplosione di luce e dal boato della folla, un boato da fine del mondo. Mentre avanzava di dieci, poi di quindici, poi di venti piedi e i suoi occhi si abituavano alla luce, la prima cosa che vide non fu il muro di trentamila persone che si muovevano e fischiavano, incitavano e cantavano, ma soltanto l'uomo al centro dell'arena, che reggeva due spade nelle rispettive guaine. Cercò di non guardare Solomon Solomon, ma non poté farne a meno. Si trovava a trenta iarde da lui, alla sua sinistra, camminava dritto, e pure lui fissava l'uomo con le spade. Era enorme, molto più alto e robusto di quanto Cale ricordasse, come se la sua stazza fosse raddoppiata dall'ultima volta che l'aveva visto. Mentre il terrore lo prosciugava della Paul Hoffman
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forza che lo aveva reso invincibile per quasi metà della sua vita, Cale era stupefatto di se stesso: aveva la lingua asciutta come sabbia e incollata al palato, i muscoli delle cosce gli dolevano e a malapena lo sorreggevano, le braccia, un tempo forti come querce, sembravano incollate al corpo e nelle orecchie sentiva uno strano brusio, ancora più forte del rumore della folla, dei fischi, delle incitazioni e dei canti. Lungo la base dell'anfiteatro c'erano diverse centinaia di soldati sull'attenti, uno ogni quattro iarde circa, disposti in posizioni alternate, uno rivolto verso la folla e uno verso l'interno della grande arena. I Suedehead dagli alti cappelli cantavano gioiosamente: Nessuno ci ama, ma cosa ci cale? Nessuno ci ama, ma cosa ci cale? Alle Lollard va il nostro cuor! Agli Ugonotti va il nostro ardori O no? O no? O no? O no? Vi state sbagliando ed ecco perché: degli Aggro di Memphis il nostro cuor è... Poi sollevarono le mani sopra la testa e cominciarono a battere il tempo di una nuova canzone, alzando ritmicamente le ginocchia: Vivere dovrai, altrimenti morirai! Vivere dovrai, altrimenti morirai! Vivere dovrai, altrimenti morirai! Vivere dovrai, altrimenti morirai! Nel tentativo di superarli e, nel contempo, di prendersi gioco dei duellanti, le Lollard dai cilindri cantavano allegramente: Ehilà, ehilì, ehilù, chi sei tu? Ehilà, ehilì, ehilù, chi sei tu? Sei Dimitri, Devon, Dante? La tua morte è tra un istante. Ehilà, ehilì, ehilù, chi sei tu? Ascoltaci bene, deve accadere: sul marmo freddo dovrai giacere lungo disteso, con sopra i fiori, Paul Hoffman
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senza più denti e senza colori. Ehilà, ehilì, ehilù, chi sei tu? A ogni passo, Cale sembrava sprofondare sempre di più, come se la debolezza e la paura, risvegliatesi in lui per la prima volta dopo anni, gli stessero devastando il ventre e il cervello. Poi finalmente giunse accanto a Solomon Solomon, la cui rabbia e la cui potenza scottavano come un secondo sole. Il Maestro d'Armi fece loro cenno di sistemarsi alla sua sinistra e alla sua destra. Poi gridò: «Benvenuti al Teatro Rosso!» La folla si alzò all'unisono, scoppiando in un boato, a parte la sezione riservata ai Ferrazzi, dove gli uomini lanciarono solo qualche grido d'incitamento e le donne si limitarono ad applaudire con elegante indifferenza. Bisogna precisare che quelli non erano i membri più nobili della famiglia Ferrazzi, giacché sarebbe stato inconcepibile per loro sia assistere a uno spettacolo così volgare sia essere associati a un individuo come Solomon Solomon che, per quanto rispettato, rimaneva il bisnipote di un uomo che si era arricchito vendendo pesce essiccato. D'altro canto, alcuni dei Ferrazzi più nobili erano comunque presenti, sebbene fossero arrivati piuttosto tardi, e tra loro c'era pure il Maresciallo. Ma quei Ferrazzi assistevano allo spettacolo da palchi privati e nascosti, sgranocchiando gamberi pescati quella mattina stessa. Nella sezione riservata ai Mond, invece, l'odio violento nei confronti di Cale esplose in un mare di braccia scagliate ritmicamente verso di lui e in un coro di scherno: Boom-lacalacalaca-boom-lacalacalaca-tac-tac-tac! Da un punto molto alto della curva ovest, un teppista che era riuscito a eludere le perquisizioni degli sbirri gettò un gatto morto, che descrisse un arco enorme e poi atterrò con un tonfo nella sabbia, a soli venti piedi da Cale, accompagnato da un boato di approvazione della folla estasiata. Il panico imperversava nell'animo indebolito di Cale, come se per tutti quegli anni avesse contenuto un fiume di paura che ormai aveva rotto gli argini, spazzando via il sangue freddo e il coraggio, il fiele e la volontà. Quando il Maestro d'Armi gli consegnò la spada, il ragazzo fu attraversato da un brivido intenso. Si sentiva così debole che riuscì a malapena a Paul Hoffman
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sollevare la mano per sguainarla, scoprendo subito dopo che era incredibilmente pesante. Così la lasciò penzolare al proprio fianco. Dentro di lui, c'era un turbine in cui si mescolavano il gusto amaro del terrore, il sole cocente e abbagliante, il rumore della folla, il muro di volti... Il Maestro d'Armi alzò le mani e la folla tacque. Quindi l'uomo lasciò cadere le mani lungo i fianchi e la folla ringhiò come se si fosse trasformata in una bestia feroce. Cale fissò l'uomo che stava per massacrarlo: stava sollevando la spada e avanzava a passi cauti verso di lui, immobile, tremante e in preda al panico. Dal profondo del suo animo, Cale invocò aiuto, implorò di essere salvato: IdrisPukke, salvami! Leopold Vipond, salvami! Henri e Kleist, salvatemi! Arbell Collo di Cigno, salvami! Ma nessuno poteva aiutarlo, tranne l'uomo che lui odiava di più al mondo. Fu il Redentore Bosco a salvarlo da un colpo devastante e dallo spargimento del suo sangue nella sabbia. Furono la violenza che Cale aveva subito da lui per anni, il terrore e la paura quotidiani a salvarlo. Cominciando dal petto, le acque del terrore si congelarono. Mentre Solomon Solomon gli girava rapidamente attorno, il gelo si diffuse nel cuore e nelle budella del ragazzo, poi nelle cosce e nelle braccia. Nel giro di pochi secondi, come un farmaco miracoloso capace di sopprimere un dolore straziante, la vecchia, familiare e salvifica indifferenza alla paura e alla morte era tornata. Cale era di nuovo se stesso. Solomon Solomon, che dapprima aveva diffidato dell'immobilità di Cale, si stava avvicinando rapidamente per sferrare l'attacco, con la spada sollevata, lo sguardo concentrato, i movimenti controllati, da abile emissario della morte quale egli era. Si avvicinò a sufficienza per colpire, poi si fermò per un istante. I due si guardarono negli occhi. La folla piombò nel silenzio. Cale ebbe l'impressione di vedere ogni cosa come in un tunnel. Una vecchia tra la gente gli sorrideva come una nonna gentile, mentre si passava il dito di traverso sulla gola. Il gatto morto lì a terra era così rigido da sembrare un giocattolo malriuscito. La giovane danzatrice ai bordi dell'arena teneva la bocca aperta e nel suo sguardo c'erano allarme e paura. E il suo avversario strisciava i piedi nella sabbia, producendo un rumore stridente e molto più forte del brusio della folla, che ormai sembrava lontanissima. Poi Solomon Solomon raccolse le forze e colpì. Cale schivò l'affondo e si spostò sotto il braccio dell'altro, vibrando una stoccata verso il basso, mentre la spada di Solomon Solomon cercava di Paul Hoffman
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tagliarlo in due. Tra le urla della folla, in preda a un delirio di eccitazione, si scambiarono di posto. Entrambi sembravano illesi. Poi qualcosa gocciolò dalla mano di Cale e quindi prese a sgorgare copioso. Il suo mignolo sinistro era stato mozzato e adesso era a terra, sulla sabbia, piccolo e incredibilmente ridicolo. Cale fece un passo indietro, mentre il dolore si faceva sentire, orribile, intenso e angoscioso. Solomon Solomon restò a guardare, registrando con attenzione il sangue e il dolore, pensando che il suo compito non era ancora finito, però l'inizio era promettente. Quando la folla si accorse del sangue, dal Teatro Rosso si alzò un boato terrificante. Da alcuni gruppi del popolino, che nel frattempo si erano messi a fare il tifo per il perdente, si levarono fischi; dai Ferrazzi partirono urla d'incitamento; dai Mond giunse un brusio di derisione. Poi, gradualmente, la folla si acquietò, mentre Solomon Solomon, sapendo di avere ormai tutto sotto controllo, aspettò che l'emorragia, il dolore e la paura della morte facessero il lavoro al posto suo. «Stai fermo e forse ti finirò alla svelta. Anche se non ti posso promettere nulla», disse. Cale lo guardò con un'aria perplessa. Poi armeggiò un po' con la spada, come se la stesse soppesando, quindi vibrò una debole, pigra stoccata alla testa dell'avversario. L'istinto di muoversi dopo un attacco così debole indusse Solomon Solomon a lanciarsi contro Cale e le sue grandi cosce lo spinsero in avanti come uno scattista. Ma al secondo passo cadde, come se fosse stato colpito da uno dei dardi di Henri, crollando sulla sabbia a faccia in giù. La folla sospirò all'unisono per lo stupore. La stoccata che Cale aveva vibrato nel corso del primo attacco era andata a segno. Se il primo colpo di Solomon Solomon aveva tagliato il dito del ragazzo, il colpo di Cale aveva reciso il tendine d'achille dell'uomo. Ecco perché, oltre alla sofferenza provocata dal dolore alla mano, era rimasto così perplesso: gli era parso strano che Solomon Solomon fosse illeso. Allora, per farlo muovere, aveva blandamente finto di colpirlo. Nonostante la paura e lo stupore, Solomon Solomon aveva subito spostato il peso sul ginocchio della gamba buona, sferrando un colpo in direzione di Cale, per tenerlo a distanza. «Piccolo sacco di merda!» esclamò in un sussurro. Poi gridò, in un enorme scoppio di rabbia e Paul Hoffman
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avvilimento. Cale si tenne fuori portata e attese. Solomon Solomon ululò, sopraffatto dal dolore e dall'umiliazione. Cale si limitò a guardarlo e comprese che l'altro stava cominciando ad accettare la sconfitta. Infatti, pochi istanti dopo, Solomon Solomon sbottò: «Molto bene, hai vinto tu. Mi arrendo». Cale guardò il Maestro d'Armi. «Mi avevano detto che il duello doveva continuare finché uno di noi non fosse morto.» «La clemenza è sempre possibile», replicò il Maestro d'Armi. «Ah, sì? Nessuno l'ha mai tirata in ballo, la clemenza, prima.» «Un avversario sconfitto può chiedere clemenza. Non è obbligatorio concederla e nessuno può rimproverare il vincitore se la rifiuta. Ma, ripeto, è sempre possibile.» Il Maestro d'Armi guardò l'uomo in ginocchio. «Se desiderate ricevere clemenza, Solomon Solomon, dovete chiederla.» Solomon Solomon scosse la testa, rabbioso, come se dentro di lui si fosse scatenata una lotta impari e in effetti era proprio così. In Cale, invece, la sensazione di sconcerto stava lasciando il posto a una crescente indignazione. «Chiedo la vostra...» «Chiudi il becco!» gridò Cale, guardando prima l'avversario sconfitto e poi il Maestro d'Armi. «Razza d'ipocriti! Prima mi trascinate qui e poi, quando vi fa comodo, pensate di poter cambiare le regole, e soltanto perché le cose non sono andate come speravate. Ecco il vero significato di tutte le vostre stronzate sulla nobiltà: vi arrogate il potere di cambiare tutto a vostro favore. Raccontate solo una montagna di balle!» «È obbligato a pagarvi diecimila dollari per riscattare la sua vita», lo interruppe il Maestro d'Armi. Cale sferrò un colpo e, gridando, Solomon Solomon crollò a terra, con un profondo squarcio nel braccio. «Dimmi, adesso vali di più o di meno? Mi hai picchiato senza ragione e senza dimostrare clemenza... e adesso guardati! Quante persone hai massacrato senza pensarci due volte? Ma, ora che è arrivato il tuo turno, ti metti a piagnucolare, chiedendo che sia fatta un'eccezione.» Cale ansimava, in preda allo stupore e al disgusto. «Perché? Questo è il tuo destino. Un giorno sarà il mio. Dov'è la tua forza, vecchio?» Cale afferrò Solomon Solomon per i capelli e lo mandò all'altro mondo con un unico colpo alla nuca. Poi lasciò ricadere il corpo senza vita sulla Paul Hoffman
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sabbia, a faccia in su, con gli occhi aperti e ciechi e con un rivolo di sangue che colava ancora dal naso. Ben presto, tuttavia, il sangue si fermò. E quella fu la fine di Solomon Solomon. Negli ultimi secondi di vita del suo avversario, Cale non aveva sentito nulla, né il dolore alla mano sinistra né la folla. La rabbia l'aveva reso sordo a tutto. Poi il dolore e la folla tornarono. Il suono era strano. Non c'erano grida d'incitamento, se non quelle di alcuni gruppetti troppo ubriachi per capire a cosa avessero assistito, qualche urlo e qualche fischio. C'erano soprattutto stupore e incredulità. Seduti sulla panchina da cui avevano osservato il duello, Henri e Kleist sembravano pietrificati. Ma Henri si rese conto di ciò che Cale stava per fare. «Vai via», bisbigliò, come se Cale potesse sentirlo. Poi gli gridò: «Non farlo!» Quindi si slanciò in avanti, ma venne bloccato da uno sbirro e da uno dei soldati. Al centro dell'arena, Cale rovesciò il cadavere, lasciò cadere la spada sulla schiena del morto, poi unì i piedi divaricati e trascinò il corpo nella sabbia, verso l'area recintata in cui si trovavano i Ferrazzi. Le braccia del morto erano aperte dietro di lui, la testa rimbalzava sulla superficie irregolare e il sangue lasciava una scia sfrangiata di color rosso brillante. Il Maestro d'Armi fece segno ai soldati di serrare i ranghi. I Ferrazzi, uomini e donne, e i giovani Mond restarono a guardare, in silenzio, quasi istupiditi. Poi Cale, continuando a tenere le gambe di Solomon Solomon sotto le braccia, si fermò e guardò la folla come se tutta quella gente non valesse un soldo bucato. Infine mollò i piedi, che ricaddero con un tonfo, alzò le braccia sopra la testa ed emise un maligno grido di trionfo. A quel punto, il Maestro d'Armi fece cenno al soldato e allo sbirro di lasciare che Henri e Kleist lo portassero via. Mentre loro correvano verso di lui, Cale camminava avanti e indietro, di fronte ai soldati e alla folla che essi proteggevano, con l'aria di una volpe che cerca il modo di entrare in un pollaio. Poi si batté violentemente il petto per tre volte e ogni volta gridò con soddisfazione: «Mea culpa! Mea culpa! Mea maxima culpa!» La folla non poteva capire, tuttavia nessuno aveva bisogno di una traduzione. Come un solo essere vivente, la gente ondeggiò e si spinse in avanti, abbaiando il proprio odio. Poi i due ragazzi raggiunsero Cale e gli cinsero le spalle con le braccia. «Già, Cale, perché non li affronti uno per uno?» disse Kleist, mentre lo Paul Hoffman
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stringeva con cautela. «È ora di andare, Thomas, vieni con noi», mormorò Henri. Continuando a urlare la sua sfida alla folla, si lasciò guidare verso i sotterranei e, in breve, i tre ragazzi si ritrovarono seduti nella luce fioca, intontiti da un'orribile meraviglia. Erano passati dieci minuti da quand'erano usciti di lì. Nel suo palazzo, in preda a un'intollerabile frenesia di terrore, Arbell aspettava. Non aveva voluto andare al Teatro Rosso: era sicura che Cale sarebbe morto e lei non intendeva assistere alla sua fine. Una voce dentro di lei le gridava che aveva visto il suo innamorato per l'ultima volta. Poi ci fu uno strano parapiglia fuori dalla sua porta, che infine si aprì di slancio. Senza fiato e con gli occhi sgranati, Riba entrò di corsa nella stanza. «È vivo!» Potete immaginare la scena di quella sera, quando i due innamorati si ritrovarono soli: le migliaia di baci, di carezze, di dichiarazioni d'amore e di adorazione che si riversarono sul ragazzo esausto. Se quel pomeriggio aveva attraversato la valle oscura della morte, quella sera fu ricompensato con un barlume del paradiso. Anche l'inferno, però, era con lui: il dolore del dito amputato era intenso, peggiore di quello che aveva sopportato per varie ferite, ben più gravi, in passato. Cale poté dunque assaporare quell'accoglienza gioiosa soltanto quando Henri riuscì a trovare, a caro prezzo, una piccola quantità di oppio, che smorzò rapidamente l'intensità del dolore. Più tardi, quella notte, quando Arbell ebbe finito di adorare ogni angolo del suo corpo, lui cercò di spiegarle quello che gli era successo prima del duello con Solomon Solomon. Forse era l'oppio, forse risentiva della tensione e degli orrori della giornata, forse era il fatto che aveva guardato la morte negli occhi, ma faticava a esprimersi in modo sensato. Voleva spiegarsi con lei, ma nel contempo aveva paura di farlo. Alla fine, lei lo interruppe, mossa a pietà dalla confusione e dal terrore che sentiva nel giovane. Forse, tuttavia, lo fece anche per il proprio bene. Non voleva ricordare che quel suo strano amante aveva stretto una sorta di patto con la morte. «Meno si dice, prima si guarisce», dichiarò la ragazza. Mandato via da Arbell prima che cominciasse il turno di guardia dell'alba - e soltanto dopo molti altri baci e dichiarazioni d'amore -, Cale Paul Hoffman
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uscì e trovò Henri. «Come stai?» chiese Henri. «Non lo so. Mi sento strano.» «Vuoi una tazza di tè?» Cale annuì. «Allora metti l'acqua a bollire. Ti raggiungerò dopo il passaggio delle consegne.» Dieci minuti dopo, Henri raggiunse Cale negli alloggi del corpo di guardia. Restarono seduti in silenzio, bevendo e fumando, due piaceri cui Cale aveva introdotto sia Henri sia Kleist, che ormai era raro vedere senza una sigaretta tra le labbra. «Che cos'è andato storto?» chiese Henri dopo un po'. «Me la stavo facendo sotto. Di brutto.» «Pensavo che stesse per ucciderti.» «Se fosse stato meno prudente, ci sarebbe riuscito. Pensava che non mi muovessi perché gli stavo giocando qualche brutto tiro.» Silenzio. «Cos'è cambiato, allora?» chiese Henri dopo un po'. «Non lo so. Se n'è andata nel giro di pochi secondi, come se qualcuno mi avesse versato addosso dell'acqua gelata.» «Un colpo di fortuna, quindi.» «Sì.» «E adesso?» «Non ci ho ancora pensato.» «Forse è meglio che cominci.» «Cioè?» «Per noi qui è finita.» «Perché?» chiese Cale, sistemandosi sulla sedia e fingendo di concentrarsi sul rollare un'altra sigaretta. «Hai ucciso Solomon Solomon, poi hai scaricato il suo cadavere di fronte ai Ferrazzi e li hai sfidati.» «Sfidati?» «A dare il peggio di sé, giusto?» Cale non rispose. «Immagino che, nel loro caso, il peggio potrebbe essere piuttosto brutto, non credi? E la prossima volta non sarà un a faccia a faccia. Qualcuno ti sgancerà un mattone in testa.» Paul Hoffman
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«Va bene, ho capito.» Ma Henri non aveva finito. «E poi che succederà quando scopriranno di te e Arbell? Gli unici che ti possono proteggere sono Vipond e il padre della ragazza. Cosa pensi che farà, una volta che avrà capito? Organizzerà un matrimonio? Vuoi tu, Arbell Ferrazzi, con tutte le tue arie e le tue grazie, prendere il qui presente apprendista stalliere e combina guai universale, Thomas Cale, come tuo legittimo sposo?» Cale si alzò, affaticato. «Ho bisogno di dormire. Adesso non sono in grado di pensarci.»
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32 Cale piombò in un sonno profondo proprio mentre il sole sorgeva e le gravi parole di Henri gli riecheggiavano nelle orecchie. Si risvegliò quindici ore dopo, ma a riecheggiare nelle sue orecchie erano le campane della chiesa. Il suono, però, non era uno scampanio melodioso che richiamava anche i fedeli meno entusiasti di Memphis; era piuttosto il clangore sfrenato e chiassoso di un allarme. Scese di corsa dal letto e, a gambe nude, si slanciò lungo i corridoi, fino agli appartamenti di Arbell. Fuori c'erano già dieci guardie dei Ferrazzi e altre cinque stavano sopraggiungendo nel corridoio dalla direzione opposta. Cale bussò alla porta. «Chi è?» «Sono Cale. Aprite.» La porta si aprì e comparve Riba, palesemente spaventata. Arbell la spinse di lato. «Che sta succedendo?» chiese. «Non lo so», rispose Cale. Poi fece un cenno alle guardie. «Cinque di voi, presto, qui dentro. Tirate le tende e non fatevi vedere. Tenete le signore in un angolo della stanza, lontane dalle finestre.» Stava per spingere Arbell nella stanza, ma lei si oppose. «Voglio sapere cosa sta succedendo. E se si tratta di mio padre?» «Torna dentro!» gridò Cale, pur sapendo che quello era un timore perfettamente ragionevole. «Fai come ti dico, una volta tanto, e chiudi la porta!» Riba prese gentilmente per un braccio la nobildonna sgomenta e la trascinò con sé nella stanza. Stupefatte dalla sfuriata di Cale ad Arbell, le cinque guardie le seguirono all'interno. Mentre la porta si chiudeva, Cale si rivolse al comandante. «Manderò notizie non appena saprò qualcosa. Qualcuno mi dia una spada.» Il comandante fece segno a uno dei suoi uomini di consegnargli la propria arma. «E magari anche un paio di pantaloni?» aggiunse il comandante, suscitando l'ilarità dei soldati. «Quando tornerò, non avrete più tanto da ridere», sibilò Cale. E, con quella scontrosa risposta, corse via. Prese i vestiti nella sua stanza e, in meno di un minuto, aveva sceso due rampe di scale, raggiungendo il cortile del palazzo. Henri e Kleist avevano già schierato le guardie attorno Paul Hoffman
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alle mura e, armati di arco e balestra a un piede, stavano per unirsi a loro. «Dunque?» chiese Kleist. «Non si sa granché», intervenne Henri. «Un attacco da qualche parte, dopo il quinto ordine di mura... a quanto pare gli aggressori indossavano delle tonache. Ma potrebbe essere anche una notizia falsa.» «In nome di Dio, com'è possibile che i Redentori siano arrivati così vicino?» esclamò Cale. La spiegazione era semplice: Memphis era una città commerciale. Non veniva attaccata da cinquant'anni e, per questo motivo, non era pronta per quell'eventualità. La vasta gamma di merci scambiate ogni giorno nella città fluiva liberamente, sebbene dovesse passare per sei ordini di mura interne, realizzate per ottenere lo scopo opposto durante un assedio, l'ultimo dei quali era appunto avvenuto mezzo secolo prima. In tempo di pace, le mura interne erano insomma diventate una maledetta seccatura; così, gradualmente, in esse erano stati aperti numerosi passaggi, nonché tunnel destinati a rifiuti, acqua ed escrementi, e ciò aveva compromesso non poco la loro funzione originale. A ciò si era aggiunto il fatto che un sovrintendente alle fognature, ricattato da Kitty la Lepre - i peccati delle città della pianura erano puniti dai Ferrazzi con severità analoga a quella applicata dai Redentori -, fosse stato obbligato a condurre il drappello di circa cinquanta Redentori fino al quinto ordine di mura. Tuttavia, per cancellare ogni collegamento tra quell'azione e Kitty la Lepre, il sovrintendente era finito a testa in giù in un bidone della spazzatura, con la gola tagliata, proprio mentre veniva sferrato l'attacco. Fu così che il tentativo di Bosco di provocare una reazione da parte dei Ferrazzi, alle spese di pochi, disgustosi pervertiti, scatenò una battaglia disperata proprio nel cuore di Memphis, dove la sorveglianza era massima. L'attacco al quinto ordine di mura, infatti, non era che un'esca e c'erano voluti soltanto dieci Redentori per lanciarla; gli altri quaranta erano passati sotto il palazzo tramite una conduttura ed erano riemersi nel cortile attraverso un tombino. Mentre uscivano in superficie, neri come uno sciame di scarafaggi di fogna, Cale stava dicendo a Henri e Kleist di portarsi sulle mura, armati di arco e balestra, e si chiedeva cosa fare dei dodici Ferrazzi che aveva a disposizione. In quel momento, però, tutti videro i quaranta Redentori che si stavano allargando a macchia d'olio attorno a loro. Dopo un istante di sconcerto, Cale prese a gridare: «In linea! In linea!» Paul Hoffman
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Poi i Redentori attaccarono. Cale urlò all'indirizzo di Kleist ma, nel susseguirsi di affondi e di parate dello scontro ravvicinato, era troppo rischioso usare l'arco. Un gruppetto di Redentori tentò di aggirare lo spiegamento di Ferrazzi, puntando verso il portone del palazzo, ma una tempesta di frecce e dardi sibilanti e ronzanti si abbatté su di loro non appena ebbero superato la linea di difesa. A quel punto, Henri e Kleist ebbero campo libero. Richiamato dall'urlo di un soldato, che si teneva il petto come se avesse un calabrone intrappolato nella camicia, Cale si staccò dallo schieramento e corse verso il portone, tagliando nel contempo il tendine d'achille a un Redentore, per poi fare lo stesso a un altro, mentre un terzo si prendeva una freccia nella coscia. L'uomo barcollò all'indietro, gridando, quando un colpo di Cale, sferrato fuori tempo, lo colpì sulla bocca, tagliandogli prima la mandibola e poi la gola. Raggiunta la facciata del palazzo, Cale si voltò per fronteggiare l'attacco, ma si rese conto che si era già arrestato, perché i Redentori, intimiditi dai dardi e dalle frecce, si erano rifugiati dietro un muretto a forma di V, con la punta diretta verso il palazzo. Cale vi si piazzò davanti, in attesa. I Redentori procedevano lentamente verso di lui, muovendosi carponi, rasenti al muro, nel tentativo di sottrarsi alla tremenda pioggia di frecce proveniente dalle mura. Allora Cale infilò la mano in un vaso di sei piedi che conteneva un olivo, collocato lì a decorare l'ingresso, raccolse i sassi grandi quanto un pugno che vi erano stati disposti ad arte e li lanciò, spaventando i Redentori, che abbandonarono la protezione del muro, esponendosi così ai dardi e alle frecce. Disperati, i cinque Redentori ancora illesi si avventarono su Cale. Lui prese a tirare gomitate e calci e ad assestare morsi, eppure, nel bel mezzo di quella lotta per la sopravvivenza, d'un tratto gli sembrò che ci fosse qualcosa di strano. Una sensazione che si fece via via più intensa mentre lui, invincibile come l'eroe di una fiaba, mandava gli avversari alla morte, falciandoli come fossero erbacce; un pugno, una parata, un taglio, il colpo di grazia e tutto finiva lì. Nel frattempo, i Ferrazzi avevano respinto l'attacco, perdendo soltanto tre uomini. I pochi Redentori rimasti cercarono di fuggire, ma furono rapidamente raggiunti dalle spade dei Ferrazzi, che si erano lanciati al loro inseguimento, o da Kleist e Henri, i quali, non dovendo più coprire Cale, ormai prendevano di mira qualsiasi Redentore che desse l'impressione di poter raggiungere il tombino e fuggire. Paul Hoffman
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Cale sentiva il cuore che batteva all'impazzata e il sangue che fluiva impetuoso nelle vene. Il cortile sembrava ondeggiare davanti a lui, ora più vicino, ora più lontano. Osservava lo sguardo terrorizzato di un Redentore morente; un soldato dei Ferrazzi che si teneva la pancia per impedire alle proprie budella di riversarsi a terra; un altro che sussurrava: «Sì! Sì!» felice di essere sopravvissuto e di aver superato la battaglia senza disonore; un giovane Redentore, pallido come cera sacra, consapevole di essere prossimo alla morte, mentre un Ferrazzi incombeva su di lui... e, in tutto ciò, non riusciva a scacciare quel pensiero: C'è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. Cercò di gridare, per ingiungere al soldato di non vibrare il colpo di grazia, ma non gli uscì altro che un guaito esausto, incapace di fermare l'urlo orrendo e lo spasmo dei piedi nella polvere. «Tutto a posto, figliolo?» gli chiese una guardia. Cale ansimò, poi trasse un respiro profondo. «Digli di fermarsi.» Indicò i Ferrazzi che si aggiravano tra i feriti, decisi a finirli. «Devo parlare con loro. Subito!» La guardia si precipitò a eseguire l'ordine. Cale si sedette sul muro e fissò una falena che si stava posando ai margini di una pozza nera di sangue. L'insetto valutò con attenzione quel liquido e probabilmente lo trovò di suo gusto, dato che cominciò a nutrirsene. «Che problema c'è?» chiese Kleist, mentre raggiungeva Cale con aria spavalda. «Sei ancora vivo, no?» «C'è qualcosa che non va.» «Ti sei dimenticato di ringraziare.» Cale lo fissò. «Vai a vedere se c'è qualche sopravvissuto.» Kleist stava per replicare con una battuta ironica, ma Cale era più strano del solito, quindi lasciò perdere. Henri stava controllando i corpi, pregando Dio che le sue vittime fossero già morte. Notò che Kleist stava facendo la stessa cosa, anche se i Ferrazzi avevano rapidamente finito chiunque si stesse ancora muovendo. «Cale! Vieni a vedere!» urlò Kleist, rovesciando un cadavere che aveva una delle sue frecce conficcata nella schiena. Henri guardò Cale avvicinarsi, ma restò a distanza, sentendosi a disagio. «Guarda: è Westaby!» esclamò Kleist. Cale fissò il volto senza vita di quel diciottenne che lui aveva visto ogni Paul Hoffman
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giorno al Santuario. «Qui c'è uno dei gemelli Gaddis», disse Henri. Ci fu un breve silenzio, mentre rovesciava un cadavere lì accanto, per vederne il viso. «Ed ecco suo fratello.» Dall'altra estremità del cortile, vicino al tombino, giunse un'esplosione di grida. Quattro Ferrazzi stavano prendendo a calci e pugni un Redentore che aveva cercato di nascondersi. I tre ragazzi li raggiunsero di corsa e cercarono di allontanarli, ma i Ferrazzi non ne volevano sapere. Allora Cale estrasse la spada, minacciandoli di orribili smembramenti se non si fossero fatti da parte, e Kleist e Henri trascinarono via il Redentore, sotto gli sguardi irritati dei soldati. Il malumore fu interrotto da un altro Ferrazzi, che si avvicinò ai quattro mostrando una spada piegata a forma di L. «Avete visto che roba?» continuava a ripetere. «Avete visto che roba?» Lentamente Cale si allontanò e raggiunse Kleist e Henri, tenendo sempre d'occhio i cinque Ferrazzi. Cale, Kleist e Henri attorniarono il Redentore, che era seduto con la schiena appoggiata alla parete del palazzo, privo di sensi, il viso gonfio, le labbra tumefatte e diversi denti mancanti. «Mi sembra di averlo già visto», mormorò Henri. «Sì, è Tillmans, l'accolito di Navratil», replicò Cale. «Il Redentore Toccaculi?» chiese Kleist, guardando con maggiore attenzione il giovane svenuto. «Sì, hai ragione, è lui.» Kleist schioccò le dita. «Tillmans! Sveglia!» Poi lo scosse per le spalle e, a quel punto, il ragazzo prese a gemere. Piano piano aprì gli occhi, ma il suo sguardo era perso nel vuoto. «L'hanno messo al rogo», ansimò Tillmans. «Chi?» «Il Redentore Navratil. L'hanno fatto arrosto perché toccava i ragazzi.» «Mi spiace. Tutto sommato era un tipo abbastanza a posto», disse Cale. «Sì, se tenevi la schiena appoggiata al muro», sbuffò Kleist. «Una volta mi ha dato una braciola di maiale», aggiunse, e quel ricordo era quanto di più vicino a un elogio funebre che Kleist fosse disposto a pronunciare riguardo a un Redentore. «Non riuscivo a sopportare le urla», sussurrò Tillmans. «Ci ha messo quasi un'ora per crepare. Poi mi hanno detto che avrebbero fatto lo stesso anche a me, se non mi fossi offerto volontario per venire qui.» «Chi vi sorvegliava lungo il tragitto?» Paul Hoffman
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«Il Redentore Stape Roy e i suoi. Ci hanno detto che, quando saremmo arrivati qui, le spie di Dio avrebbero combattuto al nostro fianco e che, se fossimo stati bravi, avremmo potuto ricominciare da capo. Non uccidermi, capo!» «Non ti faremo del male. Dicci soltanto quello che sai.» «Niente. Non so niente.» «Chi erano gli altri?» «Non lo so. Altri come me, non soldati. Voglio...» Gli occhi di Tillmans cominciarono a muoversi in modo strano: uno sembrava non mettere più a fuoco, l'altro guardava oltre la spalla di Cale, come se vedesse qualcosa in lontananza. Kleist schioccò di nuovo le dita, ma non ci fu nessuna reazione, salvo il fatto che lo sguardo si sfocò ulteriormente e il respiro divenne più irregolare. Il giovane parve tornare in sé per un istante. «Cos'è quello?» chiese. Quindi la testa gli ricadde di lato. «Non durerà fino a domattina», disse Henri. «Povero Tillmans.» «Già», gli fece eco Kleist. «E povero Redentore Toccaculi. Che brutta fine.» Cale ci mise molto più del solito a essere ammesso nello studio di Vipond; rimase seduto per quasi tre ore nella sala d'attesa, parecchio affollata. Gli era stato detto di fare rapporto alle tre e di tenere la bocca chiusa. Quando finalmente lo fecero entrare, Vipond quasi non lo guardò. «Devo ammettere che ho avuto i miei dubbi quando hai affermato che i Redentori avrebbero tentato di aggredire Arbell a Memphis. Mi sono chiesto se non te lo fossi inventato, per trovare qualcosa da fare per te e per i tuoi amici. Me ne scuso.» Che un uomo di potere fosse disposto ad ammettere i propri errori era una novità per Cale, che abbassò lo sguardo, anche perché sapeva che Vipond non si era sbagliato affatto. Senza aggiungere altro, il Cancelliere gli passò un volantino sul quale c'era il rozzo disegno di una donna a seno scoperto, sormontato dal titolo: LA SGUALDRINA DI MEMPHIS. Nel testo sottostante, Arbell veniva descritta come una profanatrice e una prostituita che costringeva donne e uomini innocenti a partecipare a vere e proprie orge, in cui si adorava il demonio e si praticavano sacrifici. QUESTA DONNA È IL PECCATO! strillava infine il volantino, gridando vendetta al cielo. Paul Hoffman
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Nel tentativo di capire cosa stesse succedendo, il cervello di Cale cominciò a macinare pensieri a un ritmo forsennato. «Gli aggressori hanno sparso questi volantini lungo il percorso del loro attacco», spiegò Vipond. «Stavolta non si potrà mettere a tacere l'accaduto. A Memphis e nell'impero, Arbell Ferrazzi è considerata più candida della neve.» Evidentemente non era più del tutto vero, ma le grottesche menzogne del volantino non potevano non sconcertare sia Cale sia Vipond. «Hai qualche idea di cosa significhi?» chiese Vipond. «No.» «Ho sentito che avete interrogato un prigioniero.» «Ciò che era rimasto di lui, sì.» «Ha detto qualcosa?» «Solo quello che era già piuttosto chiaro, cioè che non è stato un attacco serio. Non erano nemmeno veri soldati. Ne conoscevamo una decina: cuochi, impiegati, qualche tipo che batteva un po' troppo la fiacca. Ecco perché è stato così facile.» «Guai a te se ripeti una cosa del genere. La versione ufficiale è che i Ferrazzi hanno ottenuto una grande vittoria contro un vile attacco da parte dei migliori assassini dei Redentori.» «I migliori stallieri dei Redentori.» «C'è sdegno per ciò che è accaduto e grande considerazione per l'abilità e l'eroismo dei nostri soldati che hanno sventato l'attacco. Nulla deve contraddire questa versione. Hai capito?» «Bosco vuole provocarvi, in modo che lo attacchiate.» «Be', c'è riuscito.» «Dare a Bosco ciò che vuole è un'idea stupida. E non sto mentendo.» «Sarebbe quasi una novità. Ma ti credo.» «Allora dovete dire ai Ferrazzi che non sanno che cosa li aspetta, se pensano che affrontare un vero esercito dei Redentori somigli in qualche modo a questa schermaglia.» Per la prima volta, Vipond guardò in faccia il ragazzo che gli stava di fronte. «Dio mio, Cale, se solo sapessi con quanto poco buonsenso si governa... Non c'è disastro che si sia abbattuto sull'umanità senza un avvertimento da parte di qualcuno; mai, nell'intera Storia del mondo. E chiunque abbia formulato tali avvertimenti non ne ha mai tratto vantaggio, sebbene le circostanze gli abbiano dato ragione. Nessuno potrà dire ai Paul Hoffman
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Ferrazzi come comportarsi in questa faccenda... E figuriamoci se ascolterebbero un Thomas Cale qualsiasi. E così che va il mondo: tu, che sei un individuo insignificante, non ci puoi far nulla. Ma non ci posso far nulla neppure io, che sono importante.» «Quindi non proverete a fermarli?» «No. E pure tu starai zitto. Memphis è il cuore della più grande potenza della Terra. L'impero è tenuto insieme da alcune forze molto semplici, Cale: il commercio, l'avidità e la diffusa convinzione che i Ferrazzi siano troppo potenti perché valga la pena di sfidarli. Rinchiuderci in attesa all'interno delle mura di Memphis, mentre i Redentori ci assediano, non è un'alternativa. Bosco non può vincere, ma noi possiamo perdere. Potremmo resistere a un assedio a Memphis per cent'anni, ma non passerebbero sei mesi e scoppierebbero rivolte da qui alla Repubblica di Vasino sul Mare. È una guerra, perciò è meglio che la combattiamo.» «Io so come combatteranno i Redentori.» Vipond gli scoccò un'occhiata di esasperazione. «E ti aspetti di essere consultato? I generali che stanno pianificando la campagna non solo hanno conquistato metà del mondo conosciuto, ma hanno anche combattuto con Solomon Solomon o sono stati addestrati da lui, anche se quasi nessuno di loro lo apprezzava particolarmente. E tu? Un ragazzo... No, un nessuno, che lotta come un cane morto di fame. Scordatelo.» Gli fece cenno di andarsene, con un gesto impaziente, poi però aggiunse, per indurlo a riflettere: «Avresti dovuto risparmiare la vita a Solomon Solomon». «Lui avrebbe risparmiato la mia?» «No, in effetti non l'avrebbe fatto, ma questo era un motivo in più per sfruttare la sua debolezza. Se lo avessi lasciato in vita, ti saresti conquistato il favore dei Ferrazzi e lo avresti fatto sembrare una nullità. La forza è spietata, tanto con l'uomo che la possiede quanto con le sue vittime: loro ne vengono schiacciate, ma lui ne è inebriato. La verità è che nessuno domina a lungo un potere come il tuo. Coloro che lo ricevono in prestito dal fato ci contano troppo e ne restano distrutti a loro volta.» «E questo da dove viene? L'avete inventato voi? Oppure l'ha detto qualcuno che non si è mai ritrovato davanti a una folla inferocita che lo voleva vedere sbudellato soltanto per divertirsi in un pomeriggio d'estate?» «Cos'è, autocommiserazione, questa? Non eri obbligato a farlo. E tu lo sai.» Irritato, anche perché non aveva una risposta, Cale si voltò per Paul Hoffman
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andarsene. «A proposito. Nel rapporto sugli eventi di ieri sera, l'importanza del contributo fornito da te e dai tuoi amici sarà alquanto ridotta. E tu non protesterai.» «E perché?» «Dopo la tua esibizione al Teatro Rosso, sei molto odiato. Pensa a ciò che ti ho appena detto e ne capirai il motivo. Ma, se anche così non fosse, non dirai nulla di quanto è accaduto ieri.» «Tanto non m'importa di cosa pensano i Ferrazzi.» «È questo il tuo problema, lo sai? Non t'importa di cosa pensa la gente. E invece dovrebbe importarti.» Nel corso della settimana seguente, molti Ferrazzi partirono dalle loro terre per riversarsi a Memphis. La città rigurgitava di cavalieri, uomini d'armi con le mogli, servitori delle mogli, ladri, sgualdrine, giocatori d'azzardo, spacciatori, malintenzionati, strozzini... Tutti erano in cerca di un'occasione per guadagnare, come sempre avviene in una guerra. Ma c'erano anche macchinazioni che non riguardavano il denaro, bensì, per esempio, le complesse questioni di precedenza tra i nobili Ferrazzi. Dato che la posizione sul campo di battaglia era un segno della posizione all'interno della società, ogni piano era in parte una strategia militare e in parte simile alla disposizione degli invitati a un matrimonio reale: le opportunità di offendere e di essere offesi erano pressoché infinite. Perciò, nonostante l'impellenza della guerra, il Maresciallo trascorreva gran parte del tempo in cene e raduni, al solo scopo di allisciare il pelo pericolosamente arruffato dell'uno e dell'altro, spiegando come quello che, a prima vista, sembrava un imperdonabile affronto era in realtà un altissimo onore. Fu a uno di quei banchetti, cui Cale era stato invitato - su richiesta di Vipond, nell'ambito del suo tentativo di riabilitarlo -, che gli eventi presero ancora una volta una piega inattesa. Sebbene in genere - e in particolare in occasioni pubbliche - il Maresciallo non desiderasse avere Simon vicino a sé, non era sempre possibile accontentarlo, soprattutto se Arbell aveva implorato il padre d'invitare il fratello. Lord Vipond era un maestro nel manipolare le informazioni, vere o false che fossero. Disponeva di una consistente rete d'informatori, estesa a tutti i livelli della società di Memphis, dai nobili ai più infimi lustrascarpe. Se Paul Hoffman
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desiderava che qualcosa venisse divulgato, bastava affidare a tali informatori una storia, col compito di diffonderla. Un sistema certamente non originale, usato sia per divulgare voci utili sia per negare quelle dannose da ogni governante - da Ramesse II, il Re dei Re, al sindaco di Nulla sul Nessunluogo -, ma non per questo meno efficace. Tuttavia Vipond era diverso da molti altri praticanti dell'arte oscura delle dicerie: era infatti convinto che l'affidabilità dei suoi informatori, soprattutto se si trattava di diffondere una notizia importante, si basasse sulla pressoché assoluta veridicità della storia che loro mettevano in giro. Di conseguenza, se Vipond voleva far accettare una menzogna, essa veniva quasi sempre presa per buona. Così, ben consapevole dello spirito di vendetta che divampava tra i parenti di Solomon Solomon e tra chi era stato amico del Maestro d'Armi, il Cancelliere aveva intaccato la sua preziosa credibilità a favore di Cale, cercando d'impedire che il ragazzo venisse assassinato, una possibilità nient'affatto remota. Ecco perché, a dispetto di ciò che aveva detto allo stesso Cale, Vipond aveva fatto circolare la voce che il ragazzo aveva combattuto coraggiosamente accanto ai Ferrazzi, per aiutare a salvare Arbell. In tal modo, la minaccia immediata di un avvelenamento o di una pugnalata alle spalle in un vicolo buio era stata considerevolmente ridotta, anche se non eliminata. La cosa più insolita era che, se qualcuno avesse chiesto a Vipond perché investisse tanto tempo in una persona priva d'importanza, lui non avrebbe saputo rispondere. Ma, d'altra parte, non c'era nessuno che potesse chiederglielo. Vipond e il Maresciallo Ferrazzi erano riuniti da ore, nel frustrante tentativo d'ideare un piano di battaglia che prendesse in considerazione le complicate faccende di status e potere legate al dispiegamento dei Ferrazzi sul campo. La verità era che sentivano la mancanza di Solomon Solomon, la cui reputazione eroica come soldato l'aveva reso un preziosissimo negoziatore, capace di far scendere a compromessi anche le fazioni più ostinate dei Ferrazzi. «Sapete, Vipond, per quanto io ammiri la scaltrezza con cui gestite queste faccende, devo ammettere che, in ultima analisi, a questo mondo ci sono alcuni problemi che non possono essere risolti con una sostanziosa tangente o spingendo il proprio nemico in un burrone in una notte buia», aveva detto il Maresciallo, con aria sconsolata. «Cosa significa tutto ciò, mio signore?» «Quel ragazzo, Cale... Non difendo Solomon Solomon, sapete che ho Paul Hoffman
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cercato d'impedire ciò che è successo... Tuttavia non pensavo che il ragazzo avesse qualche possibilità contro di lui.» «E se lo aveste saputo?» «È inutile che vi diate delle arie. Non ditemi che voi fate sempre la cosa giusta a scapito della cosa più saggia. Il fatto è che avremmo bisogno di Solomon Solomon. Lui avrebbe sistemato le cose, facendo rigare dritto questi bastardi. È semplice: Solomon Solomon ci serve. Cale no.» «Cale ha salvato vostra figlia, mio signore, e ha rischiato la vita per farlo.» «Ecco, vedete? Proprio voi dovreste sapere che non posso farne una questione personale. So quello che ha fatto e gli sono riconoscente, ma soltanto come padre. Come governante, sto sottolineando che lo Stato ha bisogno di un Solomon Solomon molto più di quanto non abbia bisogno di un Cale. È una verità lampante e non ha senso che voi la neghiate.» «Dunque qual è il vostro rimpianto, signore? Non averlo gettato in un burrone prima del duello?» «State cercando di mettermi in imbarazzo? Anzitutto gli avrei dato un bel sacco pieno d'oro e gli avrei detto di togliersi dai piedi e non farsi più vedere. Tra parentesi, è esattamente ciò che intendo fare allorché questa guerra sarà finita.» «E se si fosse rifiutato?» «Sarei diventato maledettamente sospettoso. A ogni buon conto, perché mai è rimasto qui?» «Perché gli avete dato un buon lavoro nel bel mezzo del miglio quadrato più protetto del mondo.» «Dunque è colpa mia? Be', in tal caso sistemerò le cose. Quel ragazzo è una minaccia. È un menagramo, come quel tipo nel ventre della balena.» «Gesù di Nazareth?» «Già, proprio lui. Non appena avremo sistemato la faccenda coi Redentori, Cale se ne andrà.» Il Maresciallo era di malumore e uno dei motivi era appunto la prospettiva di dover stare seduto accanto al figlio per un'intera serata. Per lui, era un'umiliazione quasi insopportabile. In realtà, il banchetto andò bene. I nobili sembrarono più che disposti a mettere da parte ogni risentimento e battibecco per far fronte comune contro la minaccia dei Redentori nei confronti di Memphis in generale e di Arbell Collo di Cigno in particolare. Anzi, durante la cena, la giovane fu Paul Hoffman
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così dolce, divertente e affascinante da rendere il grottesco ritratto tracciato dai Redentori un motivo in più per lasciar cadere ogni stupida controversia e impegnarsi a contrastare quei fanatici religiosi. Arbell si sforzò disperatamente di non guardare Cale. Lo amava e lo desiderava tanto da essere sicura che il suo slancio sarebbe risultato evidente anche agli individui più insensibili. Cale, da parte sua, era imbronciato, perché interpretava il comportamento di lei come un tentativo di evitarlo; riteneva che si vergognasse di lui, che fosse imbarazzata a stare in sua compagnia in pubblico. Invece il timore del Maresciallo di essere mortificato da Simon si rivelò infondato. Certo, il ragazzo rimase seduto senza dire nulla, com'era inevitabile, ma la sua tipica espressione d'allarme e di atterrito smarrimento era svanita. Anzi aveva un'aria del tutto normale: il suo sguardo era talvolta interessato, talaltra divertito. Il Maresciallo, però, era sempre più irritabile, anzitutto perché non era riuscito a sbarazzarsi di una fastidiosa tosse, probabilmente causata dall'aver parlato tanto con gli infiniti postulanti. E poi c'era il giovane seduto accanto a Simon. Il Maresciallo non lo conosceva e lui non aveva detto nulla per tutta la sera, limitandosi a muovere incessantemente la mano destra, in un'esasperante serie di scatti, indicazioni, colpetti, cerchi... Alla fine, la cosa aveva dato così sui nervi al Maresciallo che lui era sul punto di ordinare al suo servitore Pepys di far smettere quel giovane o di costringerlo ad andarsene. Fu allora che il giovane si alzò e attese che tutti facessero silenzio, un atto così sorprendente, data l'augusta compagnia, che il brusio di risate e conversazioni si attenuò parecchio. «Io sono Jonathan Koolhaus», annunciò. «Sono il tutore di lingue di Lord Simon Ferrazzi. Lord Simon desidera dire qualcosa.» Nella sala piombò il silenzio, più per lo stupore che per la deferenza. Simon si alzò e mosse la mano destra nello stesso strano modo usato da Koolhaus per tutta la sera. Koolhaus tradusse: «Lord Simon Ferrazzi dice: 'Sono stato seduto davanti al Prevosto David Lascelles per tutta la sera e, in questo arco di tempo, in tre occasioni, il Prevosto Lascelles mi ha definito un 'idiota farfugliante'». Fece un ampio sorriso gioviale. «'Be', Prevosto Lascelles, c'è un modo sicuro per riconoscere gli idioti farfuglianti: essere uno di loro.'» La risata che scoppiò fu indotta non soltanto dalla battuta, ma anche e soprattutto dalla reazione di Lascelles, che avvampò, con gli occhi che Paul Hoffman
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quasi gli uscivano dalle orbite. La mano di Simon si mosse rapidamente avanti e indietro. «Lord Ferrazzi dice: 'Il Prevosto Lascelles sostiene che sia un grande disonore essere seduto di fronte a me'.» Simon s'inchinò verso Lascelles con fare beffardo e Koolhaus fece altrettanto. Poi la mano destra di Simon riprese a muoversi. «'Io vi dico, Prevosto Lascelles, che il disonore è tutto mio.'» Con quelle parole, Simon si sedette, con un sorriso benevolo, e Koolhaus seguì il suo esempio. Per qualche istante, tutti i convitati continuarono a fissarlo, stupefatti, anche se qualcuno rise e applaudì. Poi, come per uno strano, tacito accordo, gli ospiti decisero d'ignorare ciò che avevano appena visto e di fingere che non fosse mai accaduto. Così il brusio delle risate e delle conversazioni ricominciò e tutto proseguì esattamente come prima, almeno in apparenza. A tempo debito, la serata giunse a conclusione, gli ospiti furono consegnati alla notte e il Maresciallo, accompagnato da Vipond, raggiunse quasi di corsa i suoi appartamenti, dove aveva ordinato ai figli di aspettarlo. «Che sta succedendo?» chiese, ancora sulla soglia. «Che razza di trucco è mai questo?» E guardò Arbell. «Io non ne so nulla», disse lei. «È tanto un mistero per me quanto lo è per voi.» Koolhaus, sgomento, agitò le dita nel modo più discreto possibile. «Tu! Cosa stai facendo?» tuonò il Maresciallo. «È... ehm... un linguaggio delle dita, signore.» «Sarebbe?» «È molto semplice, signore. Ogni gesto delle mie dita indica una parola o un'azione.» Koolhaus era così nervoso e parlava così rapidamente che era quasi impossibile capirlo. «Piano!» gridò il Maresciallo. Koolhaus, tremando, ripeté ciò che aveva detto. Il Maresciallo, incredulo, fissò il figlio che si era messo a gesticolare, rivolto a Koolhaus. «Lord Simon dice... ehm...: 'Non devi essere arrabbiato con me'.» «Allora spiegami che razza di storia è questa.» «È semplice, signore. Come dicevo, ogni segno rappresenta una parola o un'emozione.» Koolhaus si toccò il petto col pollice. «Io.» Poi chiuse la Paul Hoffman
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mano a pugno e la sfregò sul petto con un moto circolare. «Chiedo scusa.» Tirò fuori il pollice dal pugno, lo puntò in avanti e fece un movimento a martello. «Per fare.» Indicò il Maresciallo. «Te.» Fece scattare il polso e il pugno avanti e indietro. «Arrabbiato.» Poi ripeté la sequenza così rapidamente che era quasi impossibile distinguere i singoli gesti. «Scusa se ti ho fatto arrabbiare», tradusse. Il Maresciallo guardò il figlio come se in quel modo potesse scoprire la verità. L'incredulità e la speranza erano evidenti sul suo volto. Poi trasse un respiro profondo e guardò Koolhaus. «Come faccio a sapere per certo che è mio figlio a parlare e non sei tu?» Koolhaus recuperò parte del suo consueto equilibrio. «È impossibile, mio signore. Proprio come nessun uomo può mai sapere per certo di non essere l'unica creatura pensante e dotata di sentimenti in mezzo a una serie di macchine che fingono soltanto di pensare e di sentire qualcosa.» «Oh, mio Dio! Sei proprio il tipico prodotto della Cervelleria!» sbuffò il Maresciallo. «Sì, signore, ma ciò che dico è vero. Voi sapete che gli altri provano sentimenti e pensano come voi perché, col tempo, il vostro buonsenso vi ha insegnato la differenza tra il reale e l'irreale. Allo stesso modo, se parlerete con vostro figlio tramite me, scoprirete che, pur mancando d'istruzione ed essendo dolorosamente ignorante, ha una mente acuta come voi e me.» Era difficile non rimanere colpiti dall'offensiva sincerità di Koolhaus. «Molto bene», disse il Maresciallo. «Lascia che Simon mi racconti com'è stata organizzata tutta questa faccenda, dall'inizio a stasera. E non aggiungere nulla. Non farlo sembrare più saggio di quanto non sia.» Così, nel quarto d'ora seguente, Simon ebbe la sua prima conversazione col padre e il padre la ebbe col figlio. Ogni tanto, il Maresciallo faceva domande, ma soprattutto ascoltava. Quando Simon ebbe finito, il suo volto era rigato dalle lacrime, proprio come quello della sua sbalordita sorella. Alla fine, il Maresciallo si alzò e abbracciò il figlio. «Mi dispiace, figliolo, mi dispiace tanto.» Poi disse a una guardia di andare a chiamare Cale. Quell'ordine suscitò sentimenti contrastanti in Koolhaus. Secondo lui, la spiegazione fornita da Simon era ingiustamente sbilanciata a favore della richiesta di Cale d'insegnare al ragazzo un semplice linguaggio dei segni e non teneva in sufficiente conto il fatto che lui, Koolhaus, avesse trasformato quella serie Paul Hoffman
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di rozzi gesti in un linguaggio reale e vivace. Sembrava che quel cafone di Cale stesse per prendersi tutti i meriti, insomma. Naturalmente Cale era rimasto spiazzato da ciò che era accaduto, almeno come gli altri invitati al banchetto: non aveva idea dei progressi fatti da Koolhaus e Simon, soprattutto perché il primo aveva fatto giurare al secondo di mantenere il segreto, con l'intenzione di fare una brillante sorpresa e prendersi il merito. Cale si aspettava una strigliata e restò alquanto confuso nel sentirsi osannare come salvatore da Arbell e dal Maresciallo, il quale si sentiva in colpa per la sua ingrata - ma forse non malaccorta - decisione di sbarazzarsi di Cale. Anche Arbell però si sentiva in colpa. Nei giorni successivi ai terribili eventi del Teatro Rosso, aveva trascorso notti di lascivia con Cale, divorando appassionatamente ogni parte del suo corpo; durante la giornata, invece, aveva ascoltato i suoi ospiti discutere degli orrori della morte di Solomon Solomon. Dato che, fino ad allora, lei aveva manifestato soltanto disprezzo nei confronti della sua misteriosa guardia del corpo, nessuno si era sentito in imbarazzo nel descrivere l'accaduto fin nei dettagli più sgradevoli. Alcuni di quei commenti potevano essere liquidati come semplici pettegolezzi o come pregiudizi a favore di un membro della propria cerchia, ma addirittura una persona onesta e di buon cuore come Margaret Aubrey aveva detto: «Non riesco a spiegarmi perché io sia rimasta. All'inizio, quel ragazzo mi faceva pena: sembrava così piccolo, là fuori... Poi però, Arbell, devo ammettere di non aver mai visto un atteggiamento più gelido e brutale in vita mia. Gli ha parlato prima di ucciderlo. L'ho visto sorridere. 'Nemmeno i maiali si trattano così', ha commentato mio padre». Dopo quelle parole, i sentimenti della giovane erano stati in gran tumulto. Da un lato, c'era stato il dolore per quell'insulto nei confronti del suo innamorato, ma... non aveva forse notato anche lei quella sua strana freddezza omicida? Chi avrebbe potuto biasimarla per quel brivido che si era fatto strada nei recessi più profondi del suo cuore e che era stato chiuso lì a doppia mandata? Ma tutti quei pensieri terribili furono scacciati quando Arbell scoprì che Cale aveva praticamente fatto tornare suo fratello dal mondo dei morti. Gli prese la mano e gliela baciò con passione e meraviglia, ringraziandolo per tutto ciò che aveva fatto. Cale attribuì il merito a Koolhaus, ma la cosa non fece molta differenza. Il Maresciallo, tra i vari tentativi di schiarirsi la gola, ringraziò lo studioso e Arbell fece Paul Hoffman
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altrettanto, ma poi entrambi ripresero a riversare lodi e gratitudine su Cale. Koolhaus si sentì tradito, dimenticando per convenienza che era stato Cale a individuare l'intelligenza nascosta di Simon Ferrazzi e il modo per liberarla. Pensò pure che il tentativo di Cale di coinvolgerlo in quella generica ondata di congratulazioni fosse soltanto un modo per mettersi ancora di più in luce, ricacciando lui nell'ombra. Così, nello stesso giorno in cui aveva finalmente riconquistato due persone che nutrivano dubbi nei suoi confronti, Cale si era fatto un nuovo nemico.
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33 Quella notte, dopo aver lasciato cadere ogni riserva, Arbell Ferrazzi strinse appassionatamente Cale tra le braccia. Com'era stato coraggioso e com'era stata ingrata, lei, a nutrire dubbi! E che cambiamento miracoloso aveva provocato in suo fratello! Come lo faceva apparire generoso con gli altri, intelligente e dotato di grande intuito! Quella notte, mentre faceva l'amore con lui, era in fiamme per quanto l'adorava, come gli dimostrò con ogni parte del suo corpo flessuoso e squisito. Che aggraziata magia era quella per l'anima scorticata di Thomas Cale, che gioia e che stupore gli procurò! Più tardi, mentre giaceva tra le eleganti braccia e le infinite gambe di lei, gli sembrò che gli strati più profondi della sua anima ghiacciata fossero toccati dal sole. «Promettimi che nessuno ti farà del male», disse lei, dopo quasi un'ora di silenzio. «Tuo padre e i suoi generali non hanno la minima intenzione di lasciarmi avvicinare ai combattimenti. E io non ho la minima intenzione di parteciparvi, comunque. Non c'entro nulla. Il mio lavoro è prendermi cura di te. È l'unica cosa che m'interessa.» «E se mi succedesse qualcosa?» «Non ti succederà nulla.» «Nemmeno tu puoi esserne certo.» «Ma che hai?» «Niente.» Gli prese il viso tra le mani e lo guardò negli occhi, come se cercasse qualcosa. «Ricordi il quadro della stanza qui accanto?» «Quello del tuo bisnonno?» «Sì, con la sua seconda moglie, Stella. L'ho fatto mettere lì per via di una lettera che ho trovato da bambina rovistando tra alcuni cimeli di famiglia, in un baule. Penso che nessuno l'avesse aperto da almeno un secolo.» Si alzò e raggiunse un cassetto all'altro capo della stanza, nuda come mamma l'aveva fatta, una vista sufficiente a fermare il cuore di qualsiasi uomo. Com'è possibile che una tale creatura mi ami? si chiese lui. Arbell rovistò per qualche istante, poi tornò con una busta. Ne estrasse due pagine coperte da una fitta scrittura e le guardò con aria triste. «Questa è l'ultima lettera che ha scritto a Stella prima di morire nell'assedio di Gerusalemme. Ti leggo gli ultimi paragrafi, perché voglio Paul Hoffman
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che tu capisca una cosa.» Si sedette ai piedi del letto e incominciò. Mia cara Stella, ci sono forti segnali che attaccheremo ancora tra qualche giorno, forse domani stesso. In caso non fossi in grado di scriverti ancora, mi sento in dovere di vergare qualche riga che potrebbe giungere ai tuoi occhi quando io non ci sarò più. Stella, il mio amore per te è immortale. Sembra che mi leghi a te con cavi potenti che nessuno, tranne Dio, potrebbe spezzare. Se non farò ritorno, mia cara Stella, non scordare mai quanto ti amo. Quando esalerò l'ultimo respiro sul campo di battaglia, esso sussurrerà il tuo nome. Se i morti possono tornare su questa terra e muoversi invisibili tra coloro che amavano, io ti sarò sempre accanto; nella luce abbagliante del giorno e nell'oscurità della notte, nei tuoi momenti più felici e nelle ore più tristi, sempre, sempre; se una brezza leggera ti sfiorerà le guance, sarà il mio respiro; se l'aria fresca porterà refrigerio alla fronte pulsante, quello sarà il mio spirito che ti passa accanto. Arbell alzò lo sguardo, con le lacrime agli occhi. «È l'ultima volta che lei ha avuto sue notizie.» Si avvicinò e lo strinse forte. «Anch'io sono legata a te. Ricordati sempre che, qualsiasi cosa accada, io ti sarò sempre vicina. Potrai sempre sentire il mio spirito vegliare su di te.» Colpito, travolto da quella bellissima e appassionata giovane, Cale non sapeva che cosa dire. Ma di lì a poco le parole non furono più necessarie.
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34 Wilfred Penn, detto «Cinquepance», sentinella della città di York, cento miglia a nord di Memphis, si fregò gli occhi per restare sveglio e sorvegliare le mura della città. Un'altra bella alba stava nascendo sopra i boschi circostanti e Cinquepance pensò che, per quanto l'esistenza di una guardia notturna fosse noiosa e monotona, quel momento della giornata lo rendeva meravigliosamente felice di essere vivo, a prescindere da quante volte vi avesse assistito. Fu allora che notò qualcosa di così singolare che la sua stranezza - la sua impossibilità - suscitò in lui più perplessità che allarme. Quello che credeva di vedere non poteva essere vero. A circa un miglio e mezzo di distanza, un grosso oggetto nero si era sollevato dal bosco e stava salendo nel cielo blu-rossastro, avvicinandosi alla città. L'oggetto nero divenne più grande e sembrò muoversi ancora più rapidamente finché, stordito come un animale prima del macello, Cinquepance non vide un masso grande come una vacca volare sopra di lui a meno di venti piedi di distanza, girando pigramente su se stesso. La sua traiettoria ad arco terminò nella città sottostante, distruggendo quattro grandi case, rimbalzando in una massa di detriti di pietra frantumata e polvere e fermandosi nei Giardini Municipali degli Usignoli. Durante le due ore successive, i quattro trabucchi mobili da assedio dei Redentori lanciarono altri dieci massi e, avendo calibrato la gittata, causarono gravi danni alle mura di York. Erano macchine di nuova progettazione, dunque mai provate sul campo di battaglia e infatti due si spezzarono lungo le grandi leve. Ma gli Ingegneri Pontifici, che avevano accompagnato la Quarta Armata del Redentore Generale Princeps, fecero le dovute valutazioni dei difetti di quelle loro nuove attrezzature mobili e, nel giro di un'ora, avevano raccolto i bracci spezzati e cominciato la lunga marcia di rientro a Shotover. Nel pomeriggio, faceva così caldo che, sebbene gli uccelli non cantassero, il frinire delle cicale era quasi assordante. Alle tre, duecentocinquanta uomini della cavalleria leggera della città sferrarono un attacco, con lo scopo primario di provocare una reazione da parte dei nemici e dare così al comandante della guarnigione un'idea di cosa avessero di fronte. Una raffica di frecce provenienti dagli alberi fece Paul Hoffman
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deviare di lato gli uomini e l'unica cosa che i Ferrazzi ottennero da quell'incursione furono due morti, cinque feriti e dieci cavalli da abbattere. Appostati ai margini del bosco, i Redentori osservarono la cavalleria ritirarsi. Nell'aria si percepiva una tensione orribile, come se qualcosa di spaventoso stesse trattenendo il fiato, pronto a colpire. Poi il minaccioso silenzio venne spezzato e i Redentori scoppiarono a ridere. Zittite dall'arrivo dei cavalli e calmate dalla loro scomparsa, le cicale avevano infatti ripreso il loro canto e l'avevano fatto nel medesimo istante, come se non fossero migliaia di creature, ma una sola. Quella notte cominciò il vero lavoro sporco. Toccò al sergente maggiore Trevor Beale e a dieci dei suoi uomini - comprensibilmente riluttanti e guardinghi - andare di pattuglia nel bosco di Dudley. Su far dell'alba, Beale e sette dei suoi uomini erano di ritorno tra le mura, pronti a fare rapporto al Governatore di York e con due Redentori prigionieri. «In nome di Dio, perché i Redentori ci attaccano?» «Non ne ho idea, signore», rispose il sergente maggiore Beale. «Era una domanda retorica, sergente maggiore, una di quelle che vengono formulate soltanto per produrre un certo effetto e non per suscitare una risposta.» «Sì, signore.» «E quanti sono?» «Direi tra gli ottomila e i sedicimila, signore.» «Non potete essere più preciso?» «Siccome stavamo bighellonando nel fitto dei boschi, nel buio pesto e nel bel mezzo di un esercito, no, signore, non posso essere più preciso. Dubito che siano di meno o di più.» «Siete molto insolente, sergente maggiore.» «Ho perso tre uomini stanotte, signore.» «Mi dispiace, ma dubito che sia colpa mia.» «No, signore.» Tre ore dopo, il sergente maggiore Beale era nello studio del Governatore Agostino. «Tutto ciò che siamo riusciti a estorcere ai prigionieri, o almeno a uno di loro, è la sua ipotesi sul numero dei soldati. Prima di chiudere la bocca per sempre, il prigioniero ha detto che, nel bosco, erano circa seimila, ma l'esercito si era diviso tre giorni fa. Oh, ha confessato pure che sono comandati da un certo Princeps.» Paul Hoffman
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«Concedetemi un'ora da solo con l'altro prigioniero, signore», disse il sergente maggior Beale. «Dubito fortemente che siate più abile di Bradford. È il suo lavoro, dopotutto. Inoltre voglio che voi e altri tre uomini portiate un dispaccio a Memphis. Scegliete strade diverse. Voi prenderete quella che vi darà le maggiori probabilità di sfuggire ai picchetti dei Redentori.» Un'ora dopo che Beale e i suoi uomini avevano lasciato la città, i Redentori presero d'assalto un varco nelle mura meridionali. Seguì un breve ma selvaggio scontro coi trecento Ferrazzi completamente corazzati che li aspettavano. Furono respinti e persero venti soldati senza che, a prima vista, qualcuno dei Ferrazzi rimanesse seriamente ferito. Soltanto un'ora dopo l'attacco emerse che tre Ferrazzi erano scomparsi. E una cosa ancora più strana avvenne qualche ora dopo: nel terso cielo estivo, s'innalzarono quattro pennacchi di fumo, in corrispondenza delle macchine da assedio dei Redentori. Poco più tardi, una pattuglia riferì al Governatore che i Redentori si erano ritirati, bruciando i quattro trabucchi che di certo avevano trascinato con gran fatica fino a York. Tre giorni dopo, quando Beale aveva raggiunto Memphis, la città aveva già avuto notizie dell'altra metà della Quarta Armata del Redentore Generale Princeps, tuttavia il suo messaggio non era stato accolto con meno stupore. Invece di attaccare le tre città fortificate sul proprio percorso, tanto importanti almeno quanto York, la seconda unità dei Redentori le aveva semplicemente aggirate, dirigendosi verso la Fortezza Invincibile. Secondo una battuta che circolava tra i Ferrazzi, la Fortezza Invincibile non era veramente una fortezza... ma non importava, dato che non era nemmeno invincibile. In realtà, era un luogo in cui ampie distese pianeggianti e morbide dune si alternavano a strettissimi canyon e a passi rocciosi e ciò, almeno da un punto di vista geografico, lo rendeva nel contempo il migliore e il peggiore terreno su cui cavalieri e fanti corazzati potessero combattere. Di conseguenza, era il luogo ideale per addestrare i Ferrazzi, che infatti periodicamente affluivano alla Fortezza da tutto l'impero; in quel momento, erano stanziati lì almeno cinquemila uomini tra fanti e cavalieri, molti dei quali con svariati anni di esperienza. Dal punto di vista militare, non aveva senso che i Redentori attaccassero la Fortezza Invincibile: significava sfidare la potenza militare dei Ferrazzi in uno dei punti di maggior forza, in un territorio in cui si esercitavano ogni giorno. Paul Hoffman
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Eppure quattromila Redentori si erano schierati in formazione da battaglia sulle dune davanti alla Fortezza e avevano sfidato i Ferrazzi ad attaccarli. Ovviamente la sfida era stata raccolta e, purtroppo per i Redentori, un'unità di cavalleria dei Ferrazzi composta da mille uomini, di ritorno da un'esercitazione, li aveva attaccati alle spalle. Come risultato, i Redentori erano stati massacrati, perdendo quasi metà delle loro truppe. Cercando una via di scampo, i rimanenti duemila uomini si erano ritirati nelle gole di Thametic, riunendosi ai quattromila Redentori che li aspettavano lì. In quella zona, il terreno era molto più difficile per i cavalli e in quel caso i Redentori non erano stati sfortunati. Il primo giorno di battaglia era stato tanto feroce quanto inconcludente. Il secondo giorno non c'era neppure stato. La mattina seguente, infatti, quando i Ferrazzi si erano svegliati, avevano scoperto che i Redentori si erano ritirati sulle montagne, dove la cavalleria non poteva seguirli. Nel frattempo, a Memphis, i generali si scervellavano sull'utilità dell'attacco dei Redentori alla Fortezza Invincibile. Le notizie giunte a Memphis il giorno seguente erano sconcertanti, ma in modo molto diverso, sempre che «sconcertanti» possa essere inteso anche come «orribili» e «disgustose». Alle sette del mattino dell'undicesimo giorno di quel mese, la Seconda Fanteria Montata dei Redentori, comandata dal Redentore Petar Brzica, aveva raggiunto Mount Nugent, un villaggio di milleduecento anime. C'era stato soltanto un testimone del loro arrivo, un quattordicenne malato d'amore per una delle ragazze del villaggio: si era svegliato presto ed era andato nei boschi vicini, per piangere senza esporsi allo scherno dei fratelli maggiori. Per il ragazzo che, dal folto degli alberi, aveva guardato i trecento soldati diretti a Mount Nugent, quello era stato uno spettacolo assai strano, accentuato dal fatto che gli uomini indossavano tonache - una cosa che lui non aveva mai visto – e che cavalcavano piccoli asini e quindi sobbalzavano in modo piuttosto comico. Erano così diversi dai cavalieri dei Ferrazzi, magnificamente minacciosi, che lui aveva osservato con timore durante la sua unica visita a Memphis... Quando i Redentori avevano lasciato il villaggio, otto ore più tardi, tutti gli abitanti erano morti tranne il ragazzo. La descrizione del massacro da parte dello Sceriffo della Contea era basata sulla sua testimonianza ed era arrivata sulla scrivania di Vipond insieme con un sacco di lino.
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I Redentori hanno svegliato gli abitanti del villaggio e, per mezzo di un megafono, li hanno informati che si trattava di un'occupazione temporanea. Hanno pure spiegato che, se avessero collaborato, non sarebbe stato fatto loro nessun male. I maschi sono stati separati dalle femmine e i bambini al di sotto dei dieci anni sono stati raggruppati. Quindi le donne sono state condotte al granaio del villaggio - vuoto, dato che il raccolto non è ancora avvenuto -, gli uomini sono stati portati nella sala delle riunioni e i bambini nel Municipio, l'unico edificio di tre piani del villaggio, e messi al secondo piano. Quando siamo arrivati, abbiamo scoperto che i Redentori avevano eretto un palo al centro del villaggio e su quel palo c'era l'attrezzo allegato al presente rapporto. Vipond aprì il sacco di lino. All'interno c'era un guanto senza dita, simile a quelli indossati dagli ambulanti in inverno, per tenere le mani calde senza ostacolare l'agilità delle dita. Era fatto di pelle molto spessa e robusta e, dalla parte di maggior spessore, lungo il margine del palmo, emergeva una lama lunga quasi cinque pollici, leggermente ricurva alle estremità, fatta in modo da seguire la curvatura del collo umano. Sulla lama c'era l'iscrizione GRAVISO, che era il luogo di produzione. All'interno del guanto, c'era un'etichetta, simile a quelle attaccate ai vestiti degli scolari, sulla quale era ricamato in blu il nome PETAR BRZICA. Tremando, il Cancelliere Vipond riprese a leggere il rapporto. Hanno cominciato con le donne, portandone fuori una alla volta. Dopo averla fatta inginocchiare, un Redentore, calzando l'attrezzo allegato a questo rapporto, le arrivava alle spalle, le tirava indietro la testa, quindi faceva scorrere la lama, la cui curvatura è chiaramente adatta allo scopo, lungo la gola della vittima. Il cadavere veniva poi trascinato via, in modo da non essere visibile, e si passava alla vittima successiva. Abbiamo trovato soltanto un testimone, un ragazzo. Secondo lui, ciascuno di questi omicidi non richiedeva più di trenta secondi in tutto. Inconsapevoli del proprio destino, le vittime sembravano spaventate, ma non terrorizzate, e la loro morte avveniva a una tale velocità che nessuno urlava. Non si sono sentite urla per Paul Hoffman
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l'intera giornata. In tal modo, i Redentori hanno ucciso tutte le donne (392) entro l'una. (Il testimone vedeva la torre dell'orologio del Municipio.) Quindi gli uomini del villaggio (503) sono stati eliminati nella stessa maniera. Tuttavia, quand'è arrivato il turno dei bambini al di sotto dei dieci anni (304), i Redentori hanno abbandonato ogni preoccupazione di segretezza. I bambini sono stati gettati dal balcone più alto, uno o due alla volta, perché si rompessero il collo. Non è stato risparmiato nessuno, neppure i neonati. Non ho mai, mai, visto una cosa simile. Resa la sua testimonianza e prima che potessimo impedirglielo, il testimone è scappato di corsa nel bosco, giurando vendetta agli aggressori. GEOFFREY MENOUTH, SCERIFFO DELLA CONTEA DI MALDON Per tre giorni, durante le ore di luce, Cale era andato nei boschi ai margini del Parco Reale a osservare i soldati dei Ferrazzi che si addestravano con indosso la loro armatura completa. Aveva soppesato un'armatura lasciata in un corridoio dal proprietario, che si stava insediando in una delle stanze del palazzo di Arbell. Doveva essere qualcuno di grande importanza, perché la città traboccava di Ferrazzi, al punto che né l'amore, né il denaro, né il rango - che contava più delle prime due cose - bastavano per ottenere un letto decente. Cale aveva valutato il peso dell'armatura in circa settanta libbre, chiedendosi come un peso del genere potesse consentire la velocità o la flessibilità che lui riteneva necessarie, a prescindere da quanta protezione garantisse quell'aggeggio. Tuttavia, guardando i soldati durante l'addestramento, si era reso conto di avere torto. Era rimasto sbalordito dalla velocità dei loro movimenti, da quanto fossero agili e da come l'armatura seguisse in modo fluido ogni loro movimento. Riuscivano a montare e smontare da cavallo in un balzo, con una facilità che lo lasciava esterrefatto. Conn Ferrazzi si era persino arrampicato su una scala dal lato sbagliato e poi aveva fatto una piroetta per salire sulla torre che stava fingendo di assalire. I colpi che si sferravano a vicenda avrebbero tagliato in due un uomo senza armatura, ma sembrava che loro fossero in grado di sopportare facilmente anche gli affondi più perfidi. C'erano alcuni punti vulnerabili, per esempio la parte Paul Hoffman
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alta dell'interno coscia, ma sarebbe stato estremamente rischioso cercare di arrivarci. Cale aveva deciso che la cosa meritava una riflessione approfondita. «Bù! Beccato!» esclamò Kleist, spuntando da dietro un albero con Henri e IdrisPukke. «Vi ho sentito arrivare cinque minuti fa. Le ciccione della gelateria avrebbero fatto meno baccano.» «Vipond ti vuole vedere.» Cale li guardò. «Ha detto perché?» «Una flotta di Redentori comandati da quel sacco di merda di Coates ha attaccato un luogo che si chiama Port Collard. Hanno appiccato il fuoco e poi se ne sono andati. Un soldato mi ha detto che gli abitanti della zona lo chiamano Little Memphis.» Cale chiuse gli occhi, come se avesse ricevuto una gran brutta notizia. Infatti era proprio così. Quando finì di spiegare perché, nessuno disse nulla per qualche istante. «Dobbiamo andarcene», mormorò infine Kleist. «Adesso, stasera.» «Penso che abbia ragione», annuì Henri. «Ma io non posso», disse Cale. «Per amor del cielo, Cale, come pensi che finirà tra te e Mademoiselle Pretenziosa?» sbottò Kleist. «Perché non vai a farti una lunga passeggiata su un pontile molto corto?» «Penso che dovresti dirlo a Vipond», intervenne IdrisPukke. «Non abbiamo più niente da fare qui. Perché non volete capire?» «Vai a raccontare questa storia a Vipond e diventeremo tutti e tre mangime per i pesci sul fondo della baia di Memphis», sbuffò Kleist. «Forse hai ragione. In questo momento, siamo tanto popolari quanto i foruncoli», bofonchiò Henri. «E sappiamo tutti di chi è la colpa», aggiunse Kleist, guardando Cale. «È colpa tua, in caso avessi qualche dubbio.» «Parlerò con Vipond domani. Voi due potete andarvene stanotte», propose Cale. «Io non me ne vado», protestò Henri. «E invece sì», si oppose Kleist. «No», insistette Henri. «Sì, invece», ribadì Kleist, con pari insistenza. Paul Hoffman
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«Prenditi la mia parte dei soldi e vai», gli suggerì Henri. «Non voglio la tua parte.» «E allora non prenderla. Nessuno t'impedisce di andartene da solo.» «Lo so, ma non voglio.» «Perché?» chiese Henri. «Perché ho paura del buio», rispose Kleist. Con quelle parole sguainò la spada e lacerò la corteccia dell'albero più vicino. «Merda! Merda! Merda!» Fu in quel modo indiretto che i tre concordarono di rimanere, stabilendo pure che IdrisPukke sarebbe andato con Cale da Vipond. Quella volta, Cale non dovette rimanere a lungo nella sala d'attesa. Anzi venne fatto entrare immediatamente. Nei primi dieci minuti, il Cancelliere fece un resoconto dei tre attacchi dei Redentori e del massacro di Mount Nugent. Mostrò a Cale il guanto lasciato sul palo al centro del villaggio. «C'è un nome qui dentro. Lo conosci?» «Petar Brzica era il carnefice sommario del Santuario, responsabile di tutte le esecuzioni che non erano Atti di Fede. 'Pubbliche esecuzioni ai fini della contemplazione religiosa dei fedeli'», recitò in maniera automatica. «Quelle venivano svolte da Redentori più santi di lui. Io non l'ho mai visto usare questo aggeggio, però Brzica era famoso per la velocità con cui era in grado di uccidere.» «Mi assumo personalmente la responsabilità di trovare quest'uomo», sibilò Vipond. Quindi si sedette e trasse un respiro profondo. «Nessuno di questi attacchi sembra avere senso. Mi sai dire qualcosa sulla strategia che i Redentori stanno adottando?» «Sì.» Vipond si appoggiò allo schienale della poltrona e fissò Cale. Il tono della sua risposta lo aveva colpito profondamente. «Conosco queste tattiche perché sono stato io a idearle», spiegò Cale. «Mostratemi una mappa e ve le illustrerò.» «In base a quello che mi hai appena detto, non credo sia saggio farti vedere una mappa. Prima spiegami.» «Se volete il mio aiuto, avrò bisogno della mappa. Soltanto così sarà chiaro ciò che hanno intenzione di fare. E potrete decidere dove fermarli.» «Fammi un riassunto, poi vedremo cosa fare per la mappa.» Cale capì che Vipond era più scettico che diffidente. «Circa otto mesi fa, il Redentore Bosco mi ha portato nella Biblioteca del Capestro del Redentore Impiccato, una cosa che non era mai successa, a memoria Paul Hoffman
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d'uomo. Mi ha permesso di consultare liberamente tutte le opere disponibili sulle tattiche militari, scritte negli ultimi cinquecento anni. Poi mi ha dato le informazioni che lui aveva raccolto sull'impero dei Ferrazzi. Ed erano parecchie. Infine mi ha ordinato d'ideare un piano d'attacco.» «Perché l'ha chiesto a te?» «Erano dieci anni che m'istruiva sulla guerra. I Redentori hanno una scuola, per questo. Siamo circa duecento. Ci chiamano gli Operativi. E io sono il migliore.» «Come sei modesto!» «Sono il migliore. La modestia non c'entra nulla.» «Continua.» «Dopo qualche settimana, ho deciso di escludere un attacco a sorpresa. Mi piacciono le sorprese... come tattica, intendo. Ma non in questo caso.» «Non capisco. Questo è stato un attacco a sorpresa.» «No, invece. Da un secolo, i Redentori combattono contro gli Antagonisti ma, da più di dieci anni a questa parte, si tratta di una guerra di trincea e ormai si può parlare di stallo, dato che le trincee sono rimaste più o meno sulla stessa linea. Serve qualcosa per sbloccare la situazione, ma ai Redentori non piacciono le novità. Hanno una legge che permette a un Redentore di uccidere all'istante un accolito se fa qualcosa d'imprevisto. Bosco però è diverso: pensava di continuo e una delle cose che ha pensato è che io fossi insolito e che gli potessi servire.» «In che modo attaccare noi potrebbe sbloccare la situazione di stallo con gli Antagonisti?» «Non sono riuscito a capirlo nemmeno io, perciò l'ho chiesto a lui.» «E dunque?» «Dunque niente. Mi ha dato soltanto una bella legnata. Perciò ho continuato a fare ciò che mi aveva chiesto. Il fatto è questo: pensavo che, coi Ferrazzi, un attacco a sorpresa non avrebbe funzionato perché loro non combattono come gli altri, né come i Redentori, né come gli Antagonisti. I Redentori non hanno una cavalleria degna di nota e non hanno armature. Per noi...» Si corresse. «Per loro, sono essenziali gli arcieri; voi li usate a malapena. Le nostre macchine da assedio erano enormi e ingombranti, costruite sul posto di volta in volta. Voi probabilmente avete quattrocento città grandi e piccole con mura cinque volte più spesse di quelle cui siamo abituati.» «Due dei trabucchi utilizzati a York si sono rotti, ma li hanno bruciati Paul Hoffman
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tutti e quattro, perché?» «Hanno aperto un varco nelle mura il primo giorno, no?» «Sì.» «Hanno collaudato una nuova arma in una vera battaglia contro un nuovo tipo di nemico, e hanno fatto tutto ciò in un luogo molto lontano dal Santuario. Due dei nuovi dispositivi si sono rotti, certo, ma gli altri due hanno funzionato.» «Due no, però.» «Allora bisogna migliorarli. È a questo che serve.» «Cioè?» «Non ha senso sorprendere il nemico in condizioni che lui decide e sul suo territorio se non si è sicuri di annientarlo rapidamente. Bosco mi picchiava sempre perché, secondo lui, correvo troppi rischi inutili. Non in questo caso. Sapevo che i Redentori non erano pronti, che noi dovevamo...» Si corresse di nuovo. «... che loro dovevano fare una campagna breve, scoprire il più possibile su come combattevano i Ferrazzi, sull'efficienza delle loro armi e delle loro armature e poi ritirarsi. Mostratemi una mappa.» «Perché dovrei fidarmi?» «Sono qui a dirvi quello che è successo, no? Avremmo potuto semplicemente darcela a gambe.» «E se tu mi stessi raccontando queste cose fingendo di essere sincero? E se Bosco ti stesse manovrando?» Cale rise. «È una buona idea. Un giorno la userò. Mostratemi la mappa.» «Niente uscirà da questa stanza», lo ammonì Vipond. «E chi mi darebbe retta, a parte voi?» «Giusto. Però, per eliminare ogni dubbio, se qualcun altro scopre che tu hai avuto una parte in tutto questo la tua ricompensa sarà il capestro.» Vipond raggiunse uno scaffale all'altro capo della stanza e prese uno spesso rotolo. Mentre tornava alla sua scrivania, guardò Cale dritto negli occhi, scrutandolo, senza rendersi conto che, per quel ragazzo abituato da una vita a celare i propri pensieri, uno sguardo più o meno indagatore non faceva la minima differenza. Finalmente si decise e srotolò le carte sulla scrivania, bloccando gli angoli con tre fermacarte di vetro veneziano e una copia del Principe malinconico, il suo libro preferito. Cale guardò la mappa con grande concentrazione, assumendo un'aria molto diversa da quella che aveva di solito. Vipond non lo aveva mai visto Paul Hoffman
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così. Nella mezz'ora successiva, rispose alle domande dettagliate del ragazzo sui siti dei quattro attacchi, sulle forze in campo e sulla disposizione dei soldati. Poi si fermò e anche lui studiò la mappa in silenzio per dieci minuti. «Voglio un bicchiere d'acqua», disse infine Cale. L'acqua fu portata e lui se la scolò in un unico sorso. «Dunque?» lo sollecitò Vipond. «I Ferrazzi hanno città fortificate. Senza macchine d'assedio in grado di essere trasportate facilmente da una città all'altra, avremmo fatto prima a sperare che le mura crollassero allo squillare delle nostre trombe. Ho quindi detto a Bosco che gli Ingegneri Pontifici avrebbero dovuto costruire macchine molto più leggere, semplici da allestire e da smontare.» «E le hai progettate tu?» «Io? No. Non me ne intendo per niente. Sapevo soltanto ciò che serviva.» «Ma lui non ti ha detto che era d'accordo, che avrebbe messo in atto il tuo piano.» «No, quando ho sentito parlare degli attacchi all'inizio ho pensato che forse stavo diventando un po'...» Fece un movimento circolare con la mano accanto alla testa e concluse: «... un po' matto, ecco». «E invece no.» «No, sono sanissimo. In ogni caso, a York hanno imparato quello che dovevano imparare ed è per questo che se ne sono andati e si sono portati dietro i tre Ferrazzi. Volevano le armature, non gli uomini. A quest'ora, saranno già quasi al Santuario e gli Ingegneri Pontifici certamente non vedono l'ora di esaminarle.» «Vi siete presi una bella batosta alla Fortezza Invincibile.» «Non l'ho presa io. L'hanno presa i Redentori.» «A volte dici 'noi'.» «È l'abitudine.» «Va bene. Allora diciamo che il tuo piano, alla Fortezza Invincibile, è fallito.» «Non proprio. È stata soltanto sfortuna. I Ferrazzi non avevano intenzione di attaccarli alle spalle, è stato un caso che stessero tornando alla Fortezza al momento sbagliato... almeno dal punto di vista dei Redentori. Come dicono gli usurai di Memphis? 'Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi piani.'» Paul Hoffman
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«Sei andato nel Ghetto? Ci vuole una parola d'ordine per entrarci.» «Nessuno me l'ha chiesta.» «Sei così acuto che rischi di tagliarti.» «Se sopravvivo, volete dire.» «Io comunque penso che il tuo piano alla Fortezza Invincibile sia andato storto.» «No, invece.» «E perché no?» «Quanti Redentori sono morti?» «Circa duemila.» «Hanno combattuto contro la vostra cavalleria due volte e il resto di loro è riuscito a salvarsi. Erano lì per vedere di che pasta siete fatti, non per vincere una battaglia.» «E Port Collard...» «Lo chiamate Little Memphis. Perché?» «È stato costruito in un porto naturale, proprio come la nostra baia. La città è stata edificata nello stesso modo. Era una struttura che aveva funzionato una volta... e i provinciali amano copiare le cose...» Si fermò. «Capisco. Già.» Emise un profondo sospirò e starnutì. «Scusa. Dunque cosa succederà, adesso?» Cale scrollò le spalle. «Io so che cosa prevedeva il piano, ma ciò non significa che lo metteranno in atto.» «E perché non dovrebbero? Finora ha avuto un certo successo.» «Direi che ha avuto successo e basta. Hanno ottenuto tutto ciò che avevo previsto.» Ci fu uno sgradevole silenzio. Sorprendentemente, fu Cale a interromperlo. «Mi spiace. Secondo Bosco, il peccato d'orgoglio è molto grande dentro di me.» «Si sbaglia?» «Probabilmente no.» «Conosci questo Princeps?» «L'ho incontrato una volta. Allora era il governatore militare della costa settentrionale. Lì non c'è guerra di trincea; sono solo montagne. Perciò è lui a gestire questa campagna: è il migliore di cui dispongano per combattere con un esercito in movimento ed è amico di Bosco, anche se, a quanto ho capito, non è molto apprezzato altrove.» «Sai perché?» Paul Hoffman
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«No, ma ho letto tutti i rapporti delle sue campagne. Combatte come uno che pensa a ciò che fa. Questo tipo di comportamento rende nervoso l'Ufficio dell'Intolleranza. Bosco lo protegge... sempre a quanto ho sentito.» «Quindi perché Princeps ha bisogno che tu gli dica cosa fare?» «Dovreste chiederlo a Bosco.» Cale indicò la mappa. «Dove sono adesso?» Vipond segnò un punto a circa cento miglia dall'estremità settentrionale delle Scablands. «L'impressione è che stiano per attraversare le Scablands per raggiungere il Santuario.» «Così sembra, ma è troppo rischioso attraversare le Scablands in estate con un esercito, per quanto piccolo.» «Allora questo non rientra nel tuo grandioso piano?» «Rientra esattamente nel piano secondo il quale loro danno l'impressione di essere diretti alle Scablands attraverso la foresta di Hessel e aspettare, mentre voi cercherete di arrivarci per primi. Ma, una volta entrati nella foresta, si dirigeranno a ovest e attraverseranno il fiume qui, al ponte di Stamford, per poi puntare verso Port Erroll, sulla costa occidentale. La flotta che ha incendiato Little Memphis li aspetterà al porto. Se ciò non dovesse succedere... Ricordo di aver letto in biblioteca che le spiagge sono basse da questa parte. Se necessario, dunque, entreranno con le barche a remi.» Indicò un passo sulla mappa. «Anche se il tempo sarà brutto e la flotta tarderà, una volta attraversato il passo di Baring, poche centinaia di Redentori potrebbero tenere a bada anche un grande esercito per diversi giorni.» Vipond lo guardò così a lungo che la cosa prima mise a disagio Cale, poi lo infastidì. Stava per parlare quando Vipond disse: «E tu ti aspetti che io creda che venga chiesto a una persona della tua età, qualunque età tu abbia, di preparare un piano d'attacco di questo genere e che poi tale piano venga messo in atto fin nei minimi dettagli? Da te mi sarei aspettato una storia più plausibile». Dapprima Cale assunse un'espressione vacua, assente, che spinse Vipond a rimpiangere la propria franchezza e a ricordare il gelido piacere con cui il ragazzo aveva mandato all'altro mondo Solomon Solomon. Questo ragazzo non è del tutto sano di mente, pensò. Ma poi Cale scoppiò in una breve risata divertita. «Avete mai visto gli usurai giocare a scacchi nel Ghetto?» Paul Hoffman
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«Sì.» «Ci sono un sacco di vecchi che giocano, ma anche bambini molto più piccoli di me. Uno di questi bambini vince sempre. Nemmeno il vecchio Rabbione con tutti i suoi riccioli e la barba e il cappellino strano riesce a batterlo. Perciò il Rabbione dice...» «Si dice Rabbino, a quanto ne so.» «Ah, ecco, mi chiedevo, appunto... Insomma, questo Rabbino dice che gli scacchi sono un dono di Dio per aiutarci a vedere il suo piano divino e che questo bimbo, che sa a malapena leggere, è un segno per farci credere nell'ordine che sottende ogni cosa. Io ho due doni: il primo è che sono capace di uccidere la gente con la stessa facilità con cui voi rompereste un bicchiere. Il secondo è che so guardare una mappa o andare in un posto e capire come attaccarlo o difenderlo. Mi viene naturale, proprio come giocare a scacchi per il bambino del Ghetto. Anche se non penso che sia un dono di Dio. Se non mi credete, comunque, peggio per voi.» «E come li fermeresti?» chiese Vipond. Poi aggiunse, dopo una pausa: «Se dovessi fermarli, intendo». «Anzitutto non dovete permettere che raggiungano il passo di Baring, altrimenti li avrete persi. Ma ho bisogno di una mappa più dettagliata da qui a qui», disse, indicando una zona di circa venti miglia quadrate. «E di due o tre ore per pensarci su.» Doveva credere a quello strano ragazzo o lasciare le cose come stavano? C'era una frase che il padre di Vipond amava molto: «Non fare nulla; stattene lì con le mani in mano». La diceva ogni volta che si trovava in un momento di crisi. E poi, appunto, aspettava. «Vai nella stanza accanto. Ti porterò io stesso le mappe. E stai lontano dalle finestre.» Cale si alzò e si diresse verso lo studio privato del Cancelliere, però, mentre stava per chiudersi la porta alle spalle, Vipond lo fermò e gli chiese: «E il massacro? Faceva parte anche quello del tuo piano?» Cale lo guardò in modo strano, ma, qualsiasi cosa significasse quell'espressione, non era di offesa. «Secondo voi?» replicò con calma, e poi chiuse la porta. Vipond guardò il fratellastro. «Sei stato molto taciturno.» IdrisPukke alzò le spalle. «Che si può dire? O gli credi o non gli credi.» «E tu gli credi?» «Io credo in lui.» Paul Hoffman
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«E la differenza quale sarebbe?» «Mente sempre perché non riesce ad assumersi più rischi del necessario. A volte essere reticenti è un errore e lui continua a commetterlo.» «Non sono sicuro che sia un difetto», mormorò Vipond. «Ma, proprio come Cale, anche tu sei reticente.» «E in questo momento?» «Penso che stia dicendo la verità», rispose IdrisPukke. «Sono d'accordo.» Una volta presa la decisione d'intervenire, Vipond divenne sempre più teso e impaziente. Anche perché Cale non impiegò tre ore per mettere a punto il suo piano, bensì più di tre giorni. «Volete un buon piano o lo volete adesso?» chiedeva Cale in risposta alle insistenti richieste di Vipond di vedere almeno alcune idee. L'insolita frenesia che aveva pervaso quello che normalmente era un pensatore imperturbabile era dovuta allo sgomento per la morte degli abitanti del villaggio, una morte che gettava una nuova luce sulle strane storie raccontate dai pochi profughi degli Antagonisti provenienti dal nord. C'era qualcosa nel guanto di Brzica che gli aveva dato i brividi, come se tutta la malvagità e la sete di vendetta del mondo si fossero concentrate nella cura necessaria per realizzarlo, nella qualità delle cuciture e nella finezza artigianale con cui la lama era stata attaccata alla pelle. Si sentiva ancora più a disagio perché si era sempre ritenuto un uomo di mondo, quasi un cinico e certamente un pessimista. Aveva imparato ad aspettarsi poco dalle persone e di rado le sue aspettative erano disattese. Non era una novità per lui che, nel mondo, ci fossero omicidi e crudeltà, ma quel guanto era una testimonianza della possibilità di qualcosa di terribile e inimmaginabile, come se l'inferno che lui aveva da tempo liquidato quale spauracchio per i bambini avesse mandato un messaggero, non con le corna e lo zoccolo caprino, ma sotto forma di un guanto di pelle realizzato con massima cura. Per Vipond non sarebbe stato facile influenzare le tattiche militari dei Ferrazzi, gelosi fino all'isteria della loro superiorità in tali questioni. Senza contare che lui non era un soldato, ma un politico, e una simile ingerenza avrebbe suscitato forti sospetti. E poi c'era un altro problema: il Maresciallo Ferrazzi stava sempre peggio, perché l'irritante pizzicore in gola si era trasformato in una debilitante infezione polmonare che lo costringeva ad assentarsi sempre più spesso dalle innumerevoli riunioni Paul Hoffman
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convocate per discutere della campagna militare. Vipond dovette quindi confrontarsi con una nuova realtà, per quanto temporanea, ma se la cavò grazie alla sua solita abilità. Quando le pattuglie dei Ferrazzi persero di vista l'armata dei Redentori nella foresta di Hessel, la cosa non suscitò un grande allarme, dato che tutti si aspettavano di vederla prima o poi riemergere, diretta verso l'unico passaggio per le Scablands. Fu allora che Vipond s'incontrò in segreto col secondo in comando, il Generale di Punta Amos Narcisse, e gli comunicò di aver appreso dalla propria rete d'informatori le vere intenzioni dei Redentori, aggiungendo però che, per una serie di complicate ragioni, non desiderava essere coinvolto apertamente nella faccenda. Se Narcisse avesse presentato quelle informazioni al consiglio dei Ferrazzi come se fossero proprie, Vipond era disposto a fornirgli un piano di battaglia così efficace che la sua messa in opera avrebbe di certo comportato una notevole gloria per il generale. Vipond sapeva che Narcisse era molto preoccupato. Non era uno stupido, ma non era nemmeno del tutto adeguato a quel ruolo di responsabile dell'intera campagna, ruolo in cui si era ritrovato per via delle condizioni di salute del Maresciallo. E Narcisse lo sapeva benissimo: non l'avrebbe ammesso con nessuno, ma in cuor suo non credeva di essere all'altezza di quel compito. Vipond lo incoraggiò dunque a offrire la sua completa collaborazione, facendogli promesse velate, ma chiare, di modifiche a una legge fiscale che avrebbero comportato enormi benefici per Narcisse; inoltre si offrì di porre termine a una lunga controversia, riguardante una consistente eredità, nella quale il generale era coinvolto da vent'anni e che sembrava destinato a perdere. Tuttavia Narcisse non era così facilmente corruttibile e persino lui non avrebbe acconsentito a una strategia che mettesse in pericolo l'impero. Rimuginò quindi sul piano di Vipond - cioè sul piano di Cale - per diverse ore, prima di constatare che i suoi interessi finanziari e la sua coscienza militare coincidevano alla perfezione. Chiunque avesse ideato quel piano sapeva il fatto suo, disse a Vipond. Quindi sostenne - in modo non del tutto convincente - di non volersi assumere il merito di un altro, ma Vipond lo assicurò che il piano era frutto del lavoro di diverse persone e che, in ogni caso, la vera abilità consisteva nel piglio da comandante dell'uomo che lo avesse messo in atto. In ultima analisi, insomma, quello era il piano di Narcisse. Quando il generale lo presentò al consiglio e ne difese i meriti, l'affermazione di Vipond finì per corrispondere alla verità e Paul Hoffman
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l'argomentazione decisiva per il consiglio fu che l'armata dei Redentori di cui si erano perse le tracce era riemersa esattamente nel punto previsto da Narcisse. Come qualcuno ha detto, è un bene che le guerre siano così rovinosamente costose, altrimenti non smetteremmo mai di combatterle. Benché questa famosa citazione sia ben formulata, tende a dimenticare una cosa: probabilmente ci sono guerre giuste e guerre ingiuste, non ci sono mai guerre a buon mercato. Il problema per i Ferrazzi era che gli uomini d'affari più esperti del loro impero erano gli Ebrei del Ghetto. Gli Ebrei, d'altro canto, diffidavano profondamente delle guerre degli altri, perché spesso comportavano disastri per loro, a prescindere dal risultato. Se la parte cui avevano prestato denaro era sconfitta, non c'era nessuno che potesse ripagarli; d'altro canto, se avevano finanziato i vincitori, troppo spesso questi ultimi decidevano che gli Ebrei erano in qualche modo responsabili della guerra e meritavano dunque di essere espulsi. Di conseguenza, non era più necessario ripagarli. Così i Ferrazzi mentirono agli Ebrei, assicurando loro che i debiti di guerra sarebbero stati saldati, mentre gli uomini d'affari del Ghetto, con pari insincerità, sostennero che era molto difficile ottenere un credito per somme così ingenti e che la cosa fosse possibile soltanto a tassi d'interesse proibitivi. Fu in quei negoziati che Kitty la Lepre colse l'opportunità che aspettava e si offrì di finanziare tutti i debiti di guerra dei Ferrazzi. Ciò rappresentò un enorme sollievo per gli Ebrei, che ritenevano Kitty Town un autentico abominio: era risaputo che non avrebbero fatto affari col proprietario di quel luogo in nessuna circostanza, nemmeno a rischio di essere espulsi. Ovviamente Kitty aveva agito in quel modo per puro interesse personale. A dispetto di tutte le sue bustarelle, dei ricatti e della corruzione politica, infatti, sapeva che l'opinione pubblica di Memphis era sempre più avversa alle disgustose pratiche che si svolgevano a Kitty Town e che un'azione contro di lui era pressoché inevitabile. Nei suoi calcoli, una guerra, soprattutto se caratterizzata da un grosso coinvolgimento emotivo da parte dell'opinione pubblica, avrebbe spento la vampata d'indignazione nei confronti di Kitty Town. Finanziando quella che, nelle sue previsioni, sarebbe stata una breve campagna, Kitty la Lepre era abbastanza sicuro che le mazzette di banconote destinate a coprire le spese dell'impresa avrebbero garantito anche la solidità della sua posizione a Memphis per molto tempo. Così i Ferrazzi furono infine pronti ad attaccare i Redentori e, col grande Paul Hoffman
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piano di Narcisse a guidarli, quarantamila uomini corazzati di tutto punto lasciarono la città, accompagnati dai cori d'incitamento di una folla sterminata. Venne fatta circolare la voce che il Maresciallo Ferrazzi stesse definendo i dettagli della strategia e che avrebbe raggiunto i suoi uomini di lì a poco. Non era vero. Il Maresciallo stava molto male per via dell'infezione ai polmoni ed era assai improbabile che avrebbe preso parte alla campagna. Ma i Redentori stavano anche peggio, a causa di un'epidemia di dissenteria che, se aveva ucciso solo alcuni di loro, ne aveva indeboliti parecchi. Inoltre il loro tentativo d'ingannare i Ferrazzi - inducendoli ad aspettarli ai margini delle Scablands, mentre loro andavano nella direzione opposta - era palesemente fallito. Così, quando uscirono dalla foresta di Hessel, un'avanguardia dei Ferrazzi di duemila uomini cominciò quasi subito a seguirli dall'altra sponda del fiume Oxus. Da quel momento in poi, ogni movimento dell'armata dei Redentori veniva osservato e il Generale di Punta Narcisse riceveva rapporti molto dettagliati. Con grande sorpresa di Princeps, non ci fu nessun tentativo di rallentare la sua armata, che in meno di tre giorni percorse quasi sessanta miglia. A quel punto, gli effetti della dissenteria si erano fatti sentire su oltre metà dei suoi uomini e lui decise di farli riposare per mezza giornata nei pressi di una località chiamata Mulini Bruciati. Inviò una delegazione ai difensori della città vicina, minacciando di massacrare tutti gli abitanti, come aveva fatto a Mount Nugent, ma promettendo di risparmiarli se avessero rifornito i suoi uomini di cibo. Quelli obbedirono. Il mattino dopo, i Redentori proseguirono la marcia verso il passo di Baring. Avendo verificato l'efficacia delle sue minacce - e quanto terrore avesse sparso la notizia del massacro di Mount Nugent -, Princeps mandava spesso in avanscoperta una piccola unità di duecento soldati, ricattando cittadine e villaggi per fornire ai suoi uomini ancora deboli una provvista continua di cibo; in gran parte, quel cibo era decisamente migliore di quello cui erano abituati, e quel fatto sollevò parecchio il morale della truppa. Fino a quel momento, il piano di Cale per un attacco esplorativo all'impero dei Ferrazzi si era rivelato efficace, ma i documenti contenuti nella biblioteca del Santuario non contenevano mappe dettagliate del territorio in cui i Redentori stavano entrando. E infatti uno dei loro obiettivi più importanti era l'impiego di venti cartografi che, a gruppi di due e muovendosi in ogni direzione, avrebbero mappato nel modo più Paul Hoffman
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preciso possibile la zona che sarebbe stato attaccata l'anno seguente. I tre gruppi che stavano esplorando il tratto successivo del loro percorso non erano tornati e Princeps si stava muovendo in un'area di cui aveva soltanto un'idea molto vaga. Il giorno dopo, cercò di attraversare il fiume Oxus alla Curva Bianca, ma si rese conto che l'esercito dei Ferrazzi che lo seguiva sull'altra sponda contava ormai almeno cinquemila uomini e fu costretto a rinunciare. S'inoltrò quindi in una zona in cui era difficile procedere e che non offriva molte risorse, dato che i pochi villaggi erano già stati evacuati dai Ferrazzi, i quali avevano poi fatto piazza pulita di ogni genere alimentare. Nei due giorni successivi, i Redentori avanzarono a fatica, cercando con ansia sempre maggiore un punto per guadare il fiume, cosa che i Ferrazzi sull'altra sponda erano determinati a impedire. Inoltre erano sempre più stanchi e deboli per la penuria di cibo e per gli effetti della dissenteria, quindi riuscirono a percorrere soltanto poche miglia al giorno. Poi però ebbero un colpo di fortuna. Una pattuglia aveva catturato un mandriano e la sua famiglia e, nel tentativo disperato di salvare i suoi cari, l'uomo aveva fatto cenno a un vecchio guado, ormai in disuso, dove secondo lui anche un'armata consistente sarebbe riuscita ad attraversare il fiume. Gli uomini verificarono l'informazione, riferendo poi a Princeps che sarebbe stato necessario rendere il guado nuovamente transitabile: una cosa difficile ma non impossibile, anche perché la zona non era sorvegliata. Le ampie paludi sull'altra sponda dell'Oxus avevano infatti costretto i Ferrazzi ad allontanarsi dal fiume, quindi a perdere di vista i nemici. Dopo aver quasi toccato il culmine della disperazione, i Redentori furono travolti da un'ondata di speranza: nel giro di due ore, fu posata una testa di ponte sull'altra sponda dell'Oxus e gli uomini si misero a ripristinare il guado con pietre sottratte alle case circostanti. Entro mezzogiorno, il lavoro era completato e l'armata cominciò ad attraversare il fiume. Al tramonto, anche gli ultimi Redentori avevano raggiunto sani e salvi la sponda opposta. Nessuno di loro si accorse che vari drappelli di Ferrazzi avevano assistito, a distanza di sicurezza, all'ultima fase dell'attraversamento e, grazie ad alcuni messaggeri, ne avevano comunicato modalità ed esito a Narcisse. Il giorno successivo, dopo aver percorso tre miglia, Princeps si trovò davanti una scena così agghiacciante da convincersi che la fine era prossima. Per almeno dieci iarde in entrambe le direzioni, le strade fangose Paul Hoffman
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apparivano sconnesse come campi male arati e i cespugli ai lati erano appiattiti: decine di migliaia di soldati dei Ferrazzi erano passate di lì prima di loro. Rendendosi conto che un esercito molto più grande del suo li aspettava tra quel punto e il passo di Baring, Princeps fece il possibile per mettere al sicuro le informazioni, che erano sempre state l'obiettivo centrale del piano di Cale. I cartografi sopravvissuti realizzarono più copie che poterono delle mappe appena disegnate, si camuffarono alla bell'e meglio e partirono in dodici direzioni diverse, sperando che almeno uno di loro riuscisse ad arrivare al Santuario. Poi, dopo aver celebrato una breve messa, Princeps riprese la marcia. Per due giorni i Redentori arrancarono nel fango senza vedere né sentire i nemici. Il terzo giorno si mise a piovere, con scrosci violenti e terribilmente gelidi. Sferzati dal vento e dall'acqua, i soldati avevano appena risalito il ripido versante di una collina ed erano giunti su un altopiano quando, di colpo, davanti a loro, apparve l'enorme esercito dei Ferrazzi schierato ad aspettarli. La pioggia cessò, spuntò il sole e i Ferrazzi spiegarono le loro bandiere e i loro vessilli, che sventolavano gioiosamente, rossi, blu e dorati, mentre il sole risplendeva sulle armature argentee. Dalle valli laterali, intanto, un flusso incessante di uomini andava a rafforzare le file dei soldati. Nonostante tutti gli sforzi fatti dal Redentore Generale Princeps, la battaglia era ormai inevitabile. Ma non sarebbe avvenuta quel giorno. Era quasi buio e i Ferrazzi, paghi di aver instillato la paura della morte e della dannazione nei Redentori, si ritirarono un poco verso nord. Pure i Redentori indietreggiarono, cercando riparo ove possibile, ma non prima che Princeps avesse ordinato a ciascuno dei suoi arcieri di abbattere qualche albero e di realizzare un palo difensivo alto sei piedi. Inoltre, temendo che i Ferrazzi li attaccassero nel corso della notte, Princeps ordinò pure che non fossero accesi fuochi, così da impedire ai nemici d'individuare il loro accampamento. Fradici, infreddoliti e affamati, i Redentori si coricarono sulla nuda terra, si confessarono, parteciparono alla messa, pregarono e aspettarono la morte. Princeps passò in mezzo a loro distribuendo medaglie sacre di san Giuda Taddeo, santo delle cause perse, pregando per la sua anima e per quelle dei suoi soldati con chiunque, dagli specialisti dei pozzi neri ai due arcivescovi che avevano incarichi di comando. «Ricordate che polvere noi siamo e in polvere torneremo», diceva allegramente a tutti. «E ci torneremo tutti entro questa stessa ora, domani», borbottò un Paul Hoffman
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Redentore. Al che, con grande sorpresa del suo arcidiacono, Princeps rise. «Sei tu, Dunbar?» «Sì, sono io.» «Be', non ti sbagli.» Quasi tutti i Ferrazzi erano a mezzo miglio di distanza, i loro fuochi brillavano e i Redentori sentivano frammenti di canti, urla di vario genere, tra cui insulti rivolti a loro e, nella quiete della notte che avanzava, ogni tanto brandelli di normali conversazioni. Il sergente maggiore Trevor Beale era ancora più vicino. Assegnato alle truppe di Narcisse, si era appostato a meno di cinquanta iarde e stava cercando di capire come rendersi utile. Avvilito, bagnato, infreddolito, affamato e pieno di paura per ciò che lo attendeva, il Redentore Colm Malik si diresse verso una delle poche tende che la Quarta Armata si era portata dietro. È colpa tua, pensava. Ti sei offerto volontario, mentre saresti potuto restare al sicuro al Santuario, a prendere a calci in culo gli accoliti. Abbassò la testa per entrare nella tenda e vi trovò il Redentore Petar Brzica che guardava un ragazzo sui quattordici anni, seduto a terra con le mani legate dietro la schiena. Il giovane aveva un'espressione strana: era bianco per il terrore - il che era comprensibile -, ma c'era anche qualcos'altro, che Malik non riuscì a definire. Odio, forse. «Mi avete mandato a chiamare, Redentore?» «Ah, sì, Malik», disse Brzica. «Mi chiedevo se poteste rendermi un servigio.» Malik annuì, con ardore appena sufficiente a farla franca. «Questo ragazzo è una spia o un assassino scelto dai Ferrazzi, perché sostiene di essere stato testimone dei fatti di Mount Nugent. Bisogna sistemarlo.» «Dunque?» Malik era perplesso. «Poco prima che le pattuglie lo catturassero e lo portassero da me, ho ricevuto la piena assoluzione per i miei peccati da parte dell'Arcivescovo in persona.» «Capisco.» «Evidentemente no. Uccidere una persona disarmata, per quanto meriti di morire, richiede una successiva assoluzione formale. Non posso ucciderlo io e poi chiedere all'Arcivescovo un'altra assoluzione. Paul Hoffman
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Penserebbe che sono un idiota. Voi vi siete confessato?» «Non ancora.» «Allora qual è il problema? Portatelo nel bosco e toglietelo di mezzo.» «Non potete incaricare qualcun altro?» «No. Muovetevi.» Così Malik condusse il giovane terrorizzato attraverso l'accampamento fradicio, passando tra le messe mormorate che i Redentori stavano celebrando gli uni per gli altri, per poi oltrepassare le guardie e raggiungere i boschi vicini. Con ogni passo, Malik aveva la sensazione di calpestare il proprio cuore sotto gli stivali bagnati. Una cosa era prendere a schiaffi e a pedate gli accoliti; un'altra era tagliare la gola a un ragazzo qualsiasi. Per di più, quel giovane era stato testimone di qualcosa che aveva disgustato profondamente Malik per avervi preso parte... anche senza tener conto del fatto che, di lì a poco, lui si sarebbe trovato a faccia a faccia col suo Creatore, il quale gli avrebbe certamente chiesto conto di quell'azione. Una volta che furono tra i cespugli, dove nessuno poteva vederli, prese per le spalle il ragazzo e gli sussurrò: «Ora ti lascerò andare. Continua a correre in quella direzione e non voltarti indietro. Hai capito?» «Sì», rispose il ragazzo, tremando. Malik tagliò la corda che gli teneva legati i polsi e lo guardò allontanarsi, piangendo e incespicando, per poi scomparire nell'oscurità. Aspettò diversi minuti, per essere sicuro che, terrorizzato com'era, il ragazzo non sbagliasse direzione, imbattendosi nelle guardie. Il giorno successivo, anche se qualcuno l'avesse scoperto, non avrebbe avuto importanza. Così, sperando che quell'atto di carità potesse controbilanciare i numerosi peccati che aveva commesso nei confronti dei più giovani, Malik tornò verso il campo. E finì dritto contro il pugnale del sergente maggiore Trevor Beale. Cale si alzò molto prima dell'alba e, mentre il cielo s'illuminava lentamente, fu raggiunto da Henri, poi da Kleist e, infine, allo spuntar del sole, da IdrisPukke. Erano in cima a Silbury Hill, da dove si poteva vedere il campo di battaglia. Silbury Hill non era una vera e propria collina, ma un enorme terrapieno, realizzato per qualche misterioso motivo da un popolo ormai da tempo scomparso. Era un'eccellente piattaforma di osservazione non soltanto per le guardie che intendevano spiare i movimenti del nemico Paul Hoffman
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- anche se, dal lato dei Ferrazzi, il campo di battaglia era abbastanza visibile da qualsiasi punto -, ma anche per i numerosi Ferrazzi al seguito dell'esercito: ambasciatori, addetti militari, uomini al di fuori dell'esercito ma importanti e persino donne importanti. Tra queste ultime c'era Arbell, che aveva insistito per essere presente, nonostante la strenua opposizione del padre e di Cale, i quali avevano sottolineato come lei sarebbe stata un ottimo bersaglio per i Redentori e che, nella confusione di una battaglia, non si poteva garantire la sicurezza di nessuno. Lei aveva ribattuto che la presenza di altre donne dei Ferrazzi avrebbe reso vergognosa la sua assenza, soprattutto perché quella guerra veniva combattuta anche per lei. Insomma, quegli uomini stavano rischiando la vita per Arbell Ferrazzi e soltanto la viltà avrebbe spiegato la sua assenza. Quella discussione era continuata fino al giorno prima della battaglia e il Maresciallo aveva ceduto soltanto quando Narcisse aveva confermato le condizioni miserevoli e le dimensioni ridotte dell'armata dei Redentori, oltre alla sicurezza garantita da Silbury Hill. La collina, infatti, era troppo ripida per un assalto veloce ed era facile da difendere, con una via di fuga rapida e sicura. Le obiezioni di Cale non erano state ascoltate, ma lui aveva già previsto che, al minimo segnale di pericolo, avrebbe allontanato Arbell, anche usando la forza, se necessario. Ma quella mattina, nel vedere la disposizione degli schieramenti, la sua ansia si smorzò alquanto. Il campo di battaglia era triangolare. Lui si trovava nell'angolo sinistro della base del triangolo e l'esercito dei Ferrazzi, di circa quarantacinquemila uomini, era distribuito lungo tutto il lato destro. I Redentori occupavano l'estremità del triangolo. Su entrambi i lati c'erano boschi fitti e quasi impenetrabili, di color nero bluastro, e in mezzo c'era un grosso campo, in gran parte arato di recente, ma con una striscia di stoppie giallo brillante che segnavano la posizione dei Ferrazzi. Secondo le loro valutazioni, la distanza tra gli eserciti era di circa novecento iarde. «Quanti sono, secondo te?» chiese Cale a Henri, indicando i Redentori con un cenno del capo. Lui rimase in silenzio per un bel po', quindi disse: «Almeno cinquemila arcieri e forse milletrecento soldati». «Bisogna fare i complimenti a Narcisse», esclamò IdrisPukke, sbadigliando. «I Redentori non possono ritirarsi e, se attaccano in queste condizioni, saranno fatti a pezzi. Vado a fare colazione.» Insieme con Kleist, si diresse da un anziano servitore che, col viso rosso Paul Hoffman
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come un'aragosta, era intento a soffiare su un fuoco. Accanto a lui, c'erano alcune uova marroni e un prosciutto affumicato grande come la zampa di un cavallo. Un setter rosso, che apparteneva a una delle donne dei Ferrazzi, li raggiunse, scodinzolando e sperando di essere invitato all'imminente pasto. I due mangiarono di gusto, ignari del fatto che Narcisse non stava ricevendo complimenti da nessuno. Al contrario, era assediato dalle critiche. Senza dubbio, il suo piano aveva conquistato l'appoggio e l'ammirazione di uomini di grande esperienza e abilità militare, ma era sempre stato il Maresciallo Ferrazzi ad avere l'ultima parola sulle precedenze nel fronte di attacco, in osservanza a una tradizione che risaliva ad almeno vent'anni prima. E la sua sfortunata assenza dal campo di battaglia aveva riacceso antagonismi che non solo si pensavano ormai sepolti, ma che non potevano essere appianati da nessun altro. Inoltre Narcisse era stato obbligato a modificare il suo piano di battaglia in ben tre occasioni: non era una cosa strana - capitava anche ai generali più illustri -, tuttavia aveva portato ad assegnare posizioni essenziali ma di retroguardia a nobili di sangue reale che, in passato, avevano occupato un importante ruolo in prima linea. E per quei nobili, che avevano dedicato la vita alla gloria e alle prodezze militari e che definivano la propria esistenza in base alla posizione in battaglia, tutto ciò era equivalso a una brutale degradazione. Così, l'elemento cruciale e più intelligente del piano intrappolare i Redentori in una zona molto limitata - era diventato ben presto un problema: c'erano troppi nobili di grande esperienza, abilità e coraggio e non c'erano posizioni sufficienti per tutti. Inoltre ciascuno di loro era convinto - spesso a ragione - di essere l'uomo più adatto per un certo ruolo e che farsi da parte soltanto in nome del quieto vivere fosse un compromesso inaccettabile, anzi assai dannoso proprio all'impero che tutti loro volevano proteggere, anche a costo della vita e in virtù del proprio onore. Ognuno insomma sembrava avere un'argomentazione convincente e ben fondata. Ci sarebbero volute tutta l'abilità diplomatica del Maresciallo Ferrazzi e l'autorevolezza da lui accumulata negli anni per imporre una soluzione e, per quanto fosse competente, Narcisse non aveva né l'una né l'altra. Alla fine, aveva deciso che ciascuno dei nobili più potenti avrebbe comandato una sezione della prima linea, mentre gli altri - quelli di cui lui temeva meno le ritorsioni - avrebbero ricoperto incarichi secondari. Così facendo, però, la catena di comando si era complicata in modo atroce... ed Paul Hoffman
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era destinata a complicarsi ancora di più, giacché continuavano ad arrivare militari che pretendevano di rivestire un incarico adeguato nel grande ordine delle cose. L'unica consolazione di Narcisse era stato il pensiero che le difficoltà di Princeps erano infinitamente più semplici, ma anche infinitamente peggiori. Fingendo di dover esaminare lo schieramento del nemico, abbandonò il quartier generale - che tutti chiamavano la Tenda Bianca - e le sue discussioni, ma proprio in quel momento notò Simon Ferrazzi, bardato con un'armatura completa e circondato da una dozzina di soldati che lo colmavano di smancerie: si stava esibendo, mostrando alcuni colpi di spada che aveva appena imparato. Narcisse prese in disparte uno scudiero e gli sussurrò: «Porta immediatamente l'idiota del Maresciallo nelle retrovie e fallo sorvegliare finché tutto non sarà finito. Ci manca solo che se ne vada in giro per il campo di battaglia e si faccia ammazzare!» Poi, per non rischiare, aspettò che il suo ordine fosse eseguito ed ebbe così modo di osservare la furia rabbiosa, ma impotente, di Simon. Koolhaus era andato a prendere dell'acqua e non aveva visto nulla. Cale e Henri avevano continuato a studiare il campo di battaglia ma, per quanto discutessero di ciò che avrebbero fatto al posto di Princeps, né l'uno né l'altro era riuscito a formulare una valutazione migliore di quella di IdrisPukke. La loro ansia cominciò a smorzarsi. «È il tuo piano, in realtà», disse Henri, guardando con ammirazione lo splendido schieramento di uomini bardati con le loro armature e i vessilli colorati. «È la mia idea. Quello che vedi laggiù è la realizzazione pratica di Narcisse. Non è male. C'è un po' troppo affollamento, ma va bene lo stesso.» Poi, con notevole soddisfazione, immaginò il futuro nefasto che attendeva i Redentori e il suo sguardo si spinse verso di loro. Con odio misto a paura, notò che l'armata si stava organizzando in blocchi, separati in tre diverse unità da due piccoli reparti di cavalleria. Su entrambi i lati, a destra e a sinistra, poi, c'erano due schieramenti di arcieri. Quindi lanciò un'occhiata a Henri e comprese che pure lui stava provando gli stessi sentimenti. Pur con tutte le cupe sensazioni che suscitavano in loro i Redentori, per Cale e Henri era chiaro che la loro posizione era terribile. Ormai avevano pochissimo cibo, erano infreddoliti e bagnati; infatti, quando cominciarono a muoversi, sotto i pallidi raggi del sole, dai loro corpi si levarono Paul Hoffman
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nuvolette di vapore. Per quelli colpiti dalla dissenteria, la situazione era ancora peggiore: senza possibilità di lasciare il campo di battaglia, avrebbero dovuto farsela addosso. Tutto ciò di fronte a un esercito ben rifornito, ben nutrito e di almeno dieci volte più grande. Sì, per i due ragazzi quella era una prospettiva di soddisfacente sgradevolezza. Una parte dei Ferrazzi era stata approssimativamente suddivisa in due gruppi, ciascuno di ottomila uomini dotati di armatura completa, sebbene molti non l'avessero ancora indossata. Su entrambi i lati e dietro questi due fronti, c'erano altri milleduecento soldati corazzati a cavallo. Le prime linee dei Ferrazzi, però, non erano ancora state formate. Parecchi si erano seduti a mangiare e a bere e c'erano un bel po' di urla, cori e risate, oltre che manovre non ufficiali per conquistare la posizione migliore. Qualcuno stava arrostendo delle pecore e persino un cavallo e, dalle marmitte, si levavano lunghi pennacchi di vapore. Molti, però, erano troppo eccitati per sedersi sulle stoppie gialle con le gambe ancora scoperte e mangiavano in piedi; altri si bardavano, prendevano posizione e cercavano di avvicinarsi di più al fronte a forza di spintoni, però mai in modo così indisciplinato da degenerare in qualcosa di più violento. Due ore dopo non era ancora successo nulla. Arbell, pallidissima, si unì a loro, accompagnata da IdrisPukke e da Kleist, che nel frattempo si erano rimpinzati per bene, e da Riba. Sebbene fosse smagrita, era ancora e sarebbe sempre stata molto diversa dalla sua padrona. Era più bassa di quasi otto pollici, scura, con gli occhi castani e tanto procace quanto la bionda Arbell era snella. Erano diverse come una colomba e un cigno. Arbell chiese con ansia che cosa sarebbe accaduto. Tutti concordarono che i Ferrazzi facevano bene ad aspettare, perché, presto o tardi, Princeps sarebbe stato costretto ad attaccare. Da qualsiasi prospettiva la si considerasse, la posizione dei Redentori era disperata, commentò Cale, soddisfatto. «Qualcuno ha visto Simon?» domandò Arbell. «Sarà col Maresciallo...» rispose IdrisPukke. Negli ultimi tempi, infatti, Simon e il Maresciallo erano diventati inseparabili. «Quasi come padre e figlio», aveva scherzato Kleist, senza farsi sentire da Arbell. Preoccupata, la giovane stava per mandare due servitori a cercare il fratello, quando un gruppo di cinque soldati a cavallo si avvicinò. Conn Ferrazzi era con loro. Dal loro scontro, non era mai stato così vicino a Cale. Paul Hoffman
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«Mi manda il generale Narcisse per controllare che siate al sicuro», disse Conn. «Sì, sono al sicuro. Avete visto mio fratello?» «L'ho visto circa un'ora fa. Era nella Tenda Bianca con quel buffone che traduce per lui.» «Non avete nessun diritto di parlare di Koolhaus in questi termini. Cercate Simon e, per favore, assicuratevi che venga mandato qui.» Poi si rivolse a due servitori e li mandò alla Tenda Bianca con le stesse istruzioni. Per la prima volta, Conn Ferrazzi guardò Cale. «Dovresti essere al sicuro anche tu, qui, direi.» Cale rimase in silenzio. Allora Conn si rivolse a Kleist. «E tu? Se hai un po' più di coraggio di quello che serve per startene seduto qui e lasciare che combattiamo anche per te, ti troverò un posto in prima linea.» Kleist sembrò interessato. «Va bene», rispose cordialmente. «Devo fare ancora un paio di cose, ma tu comincia ad andare avanti. Ti raggiungo tra qualche minuto.» Conn non aveva un gran senso dell'umorismo, ma persino lui si rese conto che lo stava prendendo in giro. «Quantomeno i vostri disgustosi amici laggiù hanno il coraggio di combattere. Voi tre ve ne state qui e lasciate che combattiamo noi al posto vostro.» Come se dovesse spiegare qualcosa a una persona non troppo sveglia, Kleist replicò: «Che senso ha abbaiare se hai un cane che può farlo al posto tuo?» Ma Conn non era facile da prendere in giro o, meglio, il sarcasmo non faceva molta presa su di lui, perché era stato abituato fin dalla nascita ad avere un'enorme stima di sé. «Voi avete più motivi per combattere di chiunque di noi. Se pensate che sia divertente, non ho bisogno di sentire le battute di un cialtrone per capire di che pasta siete fatti.» Così, avendo avuto l'ultima parola, voltò il cavallo e se ne andò. La verità era che quell'accusa aveva sortito un effetto assai limitato su Henri e non ne aveva avuto nessuno su Kleist ma, per Cale, aveva messo il dito nella piaga. La sua vittoria su Solomon Solomon gli aveva dimostrato che le sue abilità erano alla mercé di un terrore che poteva manifestarsi o dissolversi da un momento all'altro. A che serviva il suo talento se il panico poteva annientarlo? Sapeva benissimo cosa lo tratteneva lì: la Paul Hoffman
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consapevolezza che quella battaglia non fosse, in senso stretto, la sua battaglia, unita al senso del dovere e all'amore che gli imponevano di proteggere Arbell Ferrazzi; ma c'era anche il ricordo del tremito, della debolezza e delle budella che si torcevano; c'era l'orribile sensazione di essere spaventato e debole. Nel frattempo, in cima a Silbury Hill, era arrivato un altro visitatore e la sua comparsa aveva causato un intrigante subbuglio tra le persone lì riunite. Benché fosse arrivato ai piedi della collina in carrozza, si era poi trasferito su una portantina coperta, di quelle che le dame usavano per percorrere le stradine del centro storico, dove le carrozze non passavano. Otto uomini, chiaramente esausti per la salita, avevano trasportato la portantina e altri dieci facevano la guardia. «E questo chi sarebbe?» chiese Cale a IdrisPukke. «Be', non si può dire che io mi stupisca spesso, ma questa è una sorpresa», commentò l'altro. «Quella è l'Arca dell'Alleanza?» «Guarda in giù, non in su. Se il diavolo stesso fosse posseduto, sarebbe opera di questa creatura. È Kitty la Lepre.» Cale restò opportunamente colpito e per qualche istante non disse nulla. «Sembrano in gamba», mormorò poi, osservando le dieci guardie. «Direi. Sono mercenari laconici. Probabilmente costano una cifra.» «Che ci fa qui? Pensavo che facesse parlare di sé, ma senza farsi mai vedere.» «Scherza, scherza... Se fai arrabbiare Kitty, lo rimpiangerai. Probabilmente è venuto a tenere d'occhio i suoi investimenti. In più, oggi è un'occasione per essere testimoni di un pezzo di Storia, restando al sicuro.» Lo sportello della portantina si aprì e ne scese un uomo. Cale emise un gemito di delusione. «Quello non è Kitty», borbottò IdrisPukke. «Grazie a Dio. Belzebù deve avere un aspetto consono al suo ruolo», commentò Cale. «A volte dimentico che sei ancora un ragazzino», disse IdrisPukke. Indicò l'uomo e aggiunse: «Se mai avessi l'opportunità d'incontrarlo, quello lì, ricordati, caro il mio novellino, di trovarti un impegno urgente da qualche altra parte». «Adesso sì che mi hai spaventato.» Paul Hoffman
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«Sei proprio un piccolo bastardo impertinente, eh? Quello è Daniel Cadbury. Cerca nel Dizionario generale del dottor Johnson: alla voce 'scagnozzo', troverai il suo nome, ma lo troverai anche sotto 'assassino', 'omicida' e 'ladro di pecore'. Un tipo affascinante, però. È così cortese che ti verrà da pensare che ti voglia prestare il suo buco del culo per cagare dalle costole.» Mentre Cale stava cercando di decifrare quell'interessante affermazione, Cadbury si diresse verso di loro e sorrise. «Ne è passato di tempo, IdrisPukke. Ti stai dando da fare?» «Salve, Cadbury. Eri di strada mentre andavi a strangolare un orfano?» Cadbury continuò a sorridere, come se apprezzasse davvero la malignità nella voce di IdrisPukke. Poi, essendo piuttosto alto, guardò dall'alto in basso Cale, ma con aria di approvazione. «È un burlone, il tuo amico, eh? Tu devi essere Cale», aggiunse, in un tono che sottintendeva qualcosa d'indefinibile. «Ero al Teatro Rosso quando hai fatto fuori Solomon Solomon. Non sarebbe potuto accadere a un tipo più simpatico. Niente male, giovanotto, niente male. Quando tutta questa sgradevole faccenda sarà finita, dobbiamo pranzare insieme.» E, con un inchino che mostrava rispetto a Cale, ma da parte di un suo pari, dal quale valeva la pena essere rispettati, l'uomo si voltò e tornò alla portantina. «Sembra molto simpatico», commentò Cale, con l'intenzione di risultare irritante. «E lo sarà sempre, fino al momento in cui sarà obbligato, col massimo rimpianto, a tagliarti la trachea», sibilò IdrisPukke. In quel momento, Henri lanciò un grido. Nei ranghi dei Redentori c'era stato un movimento. I seimila arcieri e i millenovecento soldati avevano lentamente cominciato ad avanzare. Cinquanta iarde più in là, ai margini del campo irregolare che si estendeva fino allo schieramento dei Ferrazzi, si fermarono e la prima fila s'inginocchiò. «Che cosa stanno combinando, in nome di Dio?» chiese IdrisPukke. «Stanno raccogliendo un boccone di terra, per ricordare a se stessi che fango sono e in fango torneranno», rispose Cale. Gli uomini della prima fila si alzarono e ripresero a camminare. Quelli della fila dietro di loro avanzarono, s'inginocchiarono, presero un boccone di terra e poi li seguirono. La scena si ripeté per varie volte. Nel giro di nemmeno cinque minuti, l'intera armata dei Redentori era tornata nella sua formazione da battaglia. I soldati camminavano lentamente, senza tenere il Paul Hoffman
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passo, sulla superficie irregolare. Ai Ferrazzi e agli osservatori in cima a Silbury Hill non restava che aspettare. «Quando pensi che accelereranno per l'assalto?» chiese IdrisPukke. «Non lo faranno», rispose Henri. «I Ferrazzi non usano arcieri, perciò la distanza letale è... vediamo... sei piedi? Non c'è nessuna fretta.» Erano passati circa dieci minuti dall'inizio dell'avanzata e, dopo che avevano percorso circa settecento delle novecento iarde che li separavano dalla prima fila dei Ferrazzi, i Centenari dei Redentori - chiamati così perché ciascuno controllava cento uomini - lanciarono un grido. L'avanzata si arrestò. Si levarono altre grida smorzate dei Centenari e gli arcieri e i soldati cominciarono a spostarsi lateralmente, occupando più spazio, in modo che la fila riempisse l'intera ampiezza del campo di battaglia. In meno di tre minuti, lo schieramento era completo: gli uomini erano a circa una iarda di distanza l'uno dall'altro. Le sette file dietro la prima erano sfalsate, come le caselle di una scacchiera, in modo che gli arcieri potessero vedere e tirare più facilmente sopra le teste degli uomini davanti a loro. Da qualche minuto, era chiaro che ciascun Redentore portava un'arma che sembrava una lancia lunga circa sei piedi. Quando si fermarono, ormai molto più vicini, un altro fatto divenne chiaro: qualsiasi cosa fosse, quella «cosa» era troppo spessa e pesante per essere una lancia. Ma bastò un ordine gridato dei Centenari per rendere evidente il suo scopo. All'istante, i Redentori cominciarono a piantare di sbieco nel terreno quei pali, servendosi di pesanti magli in forza a ciascun arciere. E continuarono a lungo. «Perché stanno preparando uno steccato difensivo?» chiese IdrisPukke. «Non lo so», rispose Cale. «E voi? Avete qualche idea?» Kleist e Henri scossero la testa. «Non ha senso. I Ferrazzi li hanno colti di sorpresa.» Cale guardò IdrisPukke con ansia. «Sei sicuro che i Ferrazzi non attaccheranno?» «Perché dovrebbero gettare via un vantaggio simile?» Nel frattempo, i Redentori si erano messi ad affilare le estremità dei pali. «Cercano di provocarli ad attaccare», esclamò Cale, dopo qualche istante. Si voltò verso IdrisPukke. «Sono a portata di arco. Quattromila arcieri, sei frecce al minuto. Pensi che i Ferrazzi sapranno resistere a ventiquattromila frecce che piombano su di loro ogni sessanta secondi?» IdrisPukke inspirò sonoramente e rifletté: «Duecentocinquanta iarde è Paul Hoffman
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una bella distanza. Non importa quanti sono. Ognuno dei Ferrazzi è coperto dalla testa ai piedi da un'armatura d'acciaio. Non è ancora stata realizzata una freccia che possa penetrare l'acciaio temprato da una tale distanza. Non posso dire che mi piacerebbe essere sotto una pioggia di frecce come quella, ma i Redentori saranno fortunati se una su cento andrà a segno. E non avranno abbastanza frecce, al massimo due dozzine a testa, per mantenere quel ritmo a lungo. Se questo è il loro piano...» IdrisPukke scrollò le spalle, come a dire che gli sembrava un'idea destinata al fallimento. Cale guardò un gruppo di cinque segnalatori dei Ferrazzi, che a loro volta osservavano i Redentori dal punto panoramico di Silbury Hill. Uno di loro stava scendendo la collina per portare la notizia dei pali difensivi, dato che sarebbe stato difficile vederli dalla prima linea dei Ferrazzi. C'era voluto un po' di tempo perché capissero che cosa stavano facendo i Redentori coi pali e se fosse una cosa abbastanza importante da mandare un messaggero. Dopo aver atteso che il messaggero scomparisse oltre il bordo della collina, Cale si voltò di nuovo verso i Redentori. Una dozzina di uomini stava sollevando bandiere bianche con l'immagine del Redentore Impiccato dipinta in rosso. I Centenari diedero l'ordine di prendere la mira. Erano troppo lontani per cogliere esattamente le parole, ma il senso dell'ordine risultò ovvio quando le migliaia di arcieri tirarono la corda delle loro armi, puntandole in alto. Ci fu una breve pausa poi, dopo un ennesimo ordine gridato dai Centenari, le bandiere caddero. Quattro nuvole di frecce descrissero un arco di cento piedi nell'aria, puntando verso la prima fila dei nemici. In tre secondi, avevano raggiunto i Ferrazzi, che abbassarono la testa per deviare le punte. Cinquemila frecce andarono a segno, sibilando e facendo un gran baccano mentre rimbalzavano sulle armature. I Ferrazzi si chinarono sotto quella pioggia d'acciaio, come se fosse una raffica di vento e grandine. Dai lati, giunsero le urla dei cavalli colpiti. Altre cinquemila frecce si abbatterono sui soldati e, dieci secondi dopo, fu la volta di altre cinquemila. La pioggia di frecce continuò per due minuti. Pochi Ferrazzi morirono; soltanto qualcuno in più restò ferito. IdrisPukke aveva ragione per quanto riguardava le armature, pensò Cale. Ma pensate al rumore, all'infinito clangore del metallo, alla breve attesa, alla nuova raffica di frecce, alle urla dei cavalli, alle grida degli sfortunati Paul Hoffman
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colpiti in un occhio o sul collo e al fatto che nessuno di loro aveva mai dovuto sopportare un attacco così terrificante e ostile. Che senso aveva starsene lì a prendersi le frecce tirate da un qualche fanatico grezzo e codardo, senza la capacità o il coraggio di combattere a faccia a faccia? Fu la cavalleria ai lati che ruppe le file, il lato sinistro per primo. Tutto cominciò con la caduta dei portabandiere. Era un segnale? Difficile capirlo, con quei cavalli in preda al panico e pronti a scappare, e con solo una fessura per gli occhi dalla quale vedere cosa stava succedendo all'intorno. Tre cavalli scattarono in avanti, spaventati. Era una carica? Nessuno voleva essere scambiato per un codardo, restando indietro. Così, proprio come succede agli atleti attenti e tesi nel caso di una falsa partenza, tutti scattarono in avanti. Le grida provenienti dalle retrovie che ingiungevano di mantenere la posizione si persero nel rumore. Poi ricominciarono a piovere le frecce. All'improvviso i cavalli sulla sinistra scattarono in avanti, per impazienza, furia, paura e confusione. Narcisse, che osservava tutto dalla Tenda Bianca, imprecò tanto da sembrare sul punto di scoppiare. Ma ben presto si rese conto che non poteva farli tornare indietro. Sventolò le insegne per indicare al fianco destro della cavalleria di attaccare a sua volta. Solo allora arrivò il messaggero da Silbury Hill e lo avvertì del porcospino di pali appuntiti conficcati tra gli arcieri. Sulla collina, Cale, inorridito e incredulo, fissò la cavalleria che avanzava e i cavalieri che spronavano i cavalli per formare una linea. Ben presto si disposero su tre file, a ginocchio a ginocchio, su un'ampiezza di trecento iarde, per eguagliare lo schieramento degli arcieri che li fronteggiavano. All'inizio, non erano molto più veloci di un uomo che corre: stavano in piedi sulle staffe, serravano le lance sotto il braccio destro e stringevano le redini con la sinistra. Per duecento iarde, per quaranta secondi, mantennero quel passo, sopportando la pioggia di ventimila frecce. Poi arrivarono le ultime cinquanta iarde: duemila unità composte da uomo, bestia e acciaio, lanciate alla carica per abbattere gli arcieri. Gli arcieri, che sentivano ancora in bocca il gusto del fango mescolato alla paura, sganciarono un'altra nuvola di frecce. Altri cavalli urlarono e caddero, schiacciando i loro cavalieri, spezzando schiene, trascinando con sé le bestie vicine mentre crollavano. Ma il fronte avanzava. Paul Hoffman
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Poi arrivò lo scontro. Nessun cavallo travolgerebbe deliberatamente un uomo o affronterebbe una barricata che non può saltare. Nessun uomo sano di mente se ne starebbe lì, immobile, a farsi investire da un cavallo imbizzarrito e a farsi trafiggere da una lancia. Ma gli uomini a volte scelgono la morte, mentre le bestie no. Gli uomini possono essere addestrati a morire. Proprio mentre sembrava che i cavalli stessero per abbattersi su di loro come un'onda travolgente, gli arcieri indietreggiarono e si rifugiarono rapidamente tra i pali affilati. Alcuni scivolarono, altri furono troppo lenti e vennero travolti o trafitti dalle lance. Numerosi cavalli arrivarono troppo velocemente sui pali e non poterono scartare, finendo impalati; le loro furono urla da fine del mondo e i cavalieri disarcionati si spezzarono il collo. Mentre erano distesi nel fango e si dimenavano come pesci, i Redentori li finirono a colpi di maglio. In certi casi, un Redentore li teneva fermi, mentre l'altro li pugnalava tra le giunture dell'armatura, tingendo di rosso il fango. Quasi tutti i cavalli rifiutarono di scontrarsi con gli ostacoli. Alcuni scivolarono, disarcionando i cavalieri. Altri cavalieri riuscirono a rimanere in sella mentre la grande carica si fermava in un istante, rivoltandosi su se stessa. I cavalli si scontrarono tra loro e gli uomini volarono a terra, finendo tra la vegetazione. I soldati imprecavano, i cavalli nitrivano, e la paura rendeva entrambi grandi e pesanti la metà e li induceva a scappare verso la sicurezza delle retrovie. Gli uomini caddero a centinaia: nel giro di un istante, gli arcieri nemici spuntavano da dietro i pali coi loro magli e colpivano i cavalieri storditi sulla testa e sul petto, con mazzate devastanti. C'erano tre Redentori con le sottane infangate per ogni cavaliere dei Ferrazzi che cercava di rialzarsi o di sguainare la spada, mentre veniva spinto, fatto scivolare, sgambettato e accoltellato attraverso le fessure degli occhi e le giunture dell'armatura. Più indietro, tra i pali appuntiti come aculei di porcospino, gli arcieri, ormai irosi e senza paura, sganciarono le loro frecce sui cavalieri in ritirata. Alcuni cavalli feriti caddero, altri s'imbizzarrirono. Ma il peggio doveva ancora venire. Per appoggiare la cavalleria, il generale non poté fare a meno di mandare in avanti la prima linea dei suoi soldati. Diecimila uomini disposti su otto file erano già a metà strada verso il fronte dei Redentori quando la cavalleria, in ritirata, coi cavalli terrorizzati e impazziti per la paura e le ferite, si abbatté su di loro. Paul Hoffman
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Accalcati e bloccati dai fitti boschi su entrambi i lati e dalle file di soldati alle loro spalle, non riuscirono a farsi da parte per lasciar passare i cavalli lanciati al galoppo. E, nel disperato tentativo di evitare lo scontro mortale, i soldati cominciarono a spingere di lato, scontrandosi tra loro, cercando di farsi largo, aggrappandosi ai vicini, innescando onde che si diffondevano all'indietro e di lato a mano a mano che cadevano. Così l'avanzata fu bloccata su tutta la linea. Gli uomini scivolavano nel fango calpestato e ricalpestato, imprecavano e si trascinavano giù a vicenda. Gli arcieri dei Redentori, che avevano avuto il tempo di riorganizzarsi, sganciarono un'ultima nuvola di frecce. Stavolta, però, coi Ferrazzi fermi e a meno di ottanta iarde di distanza, le punte delle frecce riuscivano a penetrare persino nell'acciaio delle armature, se lo colpivano con l'angolazione giusta. Anche se solo qualche centinaio di uomini venne schiacciato dai cavalli in fuga o ferito dalle frecce, furono migliaia i soldati che ripiegarono su se stessi, prima che i sergenti e i capitani, gridando e sbraitando, li rimettessero in linea e l'avanzata potesse ricominciare. Anche se erano sconvolti dal disordine generale e dallo sforzo di camminare trascinandosi appresso sessanta libbre di armatura per trecento iarde in mezzo al fango, il loro attacco riprese slancio e potenza. Cinquanta iarde. Venti. Dieci. Nell'ultimo tratto, si misero a correre, puntando le lance verso il petto degli avversari. Ma, al momento dell'impatto, i Redentori indietreggiarono rapidamente di qualche iarda, tutti insieme, come una cosa sola, sbilanciando i nemici nella loro spinta offensiva. Ancora una volta, il fronte dei Ferrazzi si spezzò: alcuni avanzarono e altri rimasero indietro. E ciò bloccò di nuovo lo slancio dell'avanzata. A quel punto, però, nonostante tutta quella confusione, i Ferrazzi sapevano con certezza che avrebbero vinto. Avevano le armature, erano i più grandi soldati del mondo e finalmente erano a faccia a faccia col nemico, cinque a uno. Convinti della vittoria, proseguirono nella loro avanzata. Oltre alle grida e al vocio degli uomini, risuonavano nell'aria i colpi delle lance e i grugniti dei Ferrazzi, accalcati in alcuni punti anche su venti file, tutti intenti a spingere per arrivare al centro dell'azione e dell'onore. Ma soltanto i Ferrazzi in prima linea riuscivano a combattere. Meno di mille uomini potevano assestare un colpo in un determinato momento. I Redentori, essendo in numero più esiguo, avevano spazio di Paul Hoffman
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manovra, per entrare e uscire dalla zona letale che si estendeva per una dozzina di piedi circa. Incapaci di avanzare, i Ferrazzi in prima linea venivano spinti e schiacciati dai compagni alle loro spalle e, ancor peggio, anche da una dozzina di file più indietro. Chi stava nelle retroguardie non aveva idea di cosa stesse accadendo in prima linea e continuava a spingere in avanti e lo stesso facevano quelli che stavano in mezzo. La pressione crebbe, come in una reazione a catena. I soldati in prima linea cercavano di evitare i colpi e di spostarsi di lato o persino d'indietreggiare quando i Redentori li attaccavano, ma non trovavano spazio. Quindi la pressione proveniente da dietro li sospinse con una forza irresistibile incontro alle lance e ai colpi di maglio. Alcuni caddero, feriti; altri, incapaci di mantenere l'equilibrio tra le spinte e il fango viscido, scivolarono, trascinando con sé anche chi stava dietro di loro e così via. Nel tentativo di scontrarsi coi nemici, i Ferrazzi delle file centrali cercarono di scavalcare i compagni caduti davanti a loro. Ma, che lo volessero o no, lo slancio degli uomini alle loro spalle - che non vedevano nulla - li costrinse a calpestare i compagni. Parecchi slittarono e caddero a loro volta, per via del fango o perché gli uomini a terra, agitandosi e dimenandosi, avevano fatto perdere loro l'equilibrio. A che servivano le loro armature se non avevano spazio per muoversi? Erano soltanto d'ingombro mentre cercavano di rialzarsi o arrancavano sopra due o tre strati di corpi. E intanto i fendenti e i colpi dei nemici continuavano ad arrivare. Anche se cadevano, i Redentori potevano facilmente rialzarsi o essere aiutati. Nel giro di tre o quattro minuti, si formò un muro costituito da corpi dei Ferrazzi, un muro che proteggeva i Redentori e impediva l'attacco, mentre continuava la spinta dalle retrovie, così lontane che nessuno da lì riusciva a vedere cosa stesse succedendo davanti. Gli uomini delle ultime file interpretavano ogni crollo della prima linea come un avanzamento e così erano incoraggiati a spingere ancora di più. Pochi Ferrazzi ammucchiati a terra erano morti o feriti in modo grave ma, nella calca e nel fango, era difficile che un cavaliere riuscisse a risollevarsi da solo, una volta caduto. Con un altro sopra di lui, gli era quasi impossibile muoversi. Bastava un terzo per renderlo indifeso come un bambino. Immaginate la rabbia e la paura, gli anni di addestramento, le battaglie e le cicatrici... per poi ridursi a morire schiacciati o ad aspettare nel fango che una specie di contadino ti sfondasse il petto o ti accoltellasse attraverso la Paul Hoffman
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fessura per gli occhi dell'elmo o la giuntura dell'armatura sotto il braccio. Che angoscia, che terrore, che impotenza! E, a tutto ciò, si aggiungeva il terribile slancio dalle retrovie: venti file di Ferrazzi convinti della vittoria e ansiosi di dare il proprio contributo prima che la battaglia fosse vinta. Dietro il campo di battaglia erano posizionati i messaggeri, che aspettavano avidamente notizie. Incapaci di vedere il disastro in atto e di capire che la battaglia era perduta, mandavano a dire che la vittoria era vicina e chiedevano rinforzi per suggellare quella giornata gloriosa. Alla Tenda Bianca giungevano notizie contrastanti da Silbury Hill, dove il crollo della prima linea era chiaramente visibile. In quel luogo, però, soltanto i ragazzi e IdrisPukke erano in grado di comprendere davvero la catastrofe che si stava consumando sotto i loro occhi. Gli osservatori, incerti e insicuri, non si azzardavano a consigliare la ritirata ai Ferrazzi. Anzitutto era una cosa impensabile; in secondo luogo, temevano di sbagliarsi. Così scrivevano messaggi allarmanti, ma temperati da «se» e da «ma». Così Narcisse riceveva sia le richieste di rinforzi per concludere la giornata, sia i desolati resoconti degli osservatori di Silbury Hill, per quanto moderati dalla cautela e dal rifiuto di ammettere la sconfitta. Aveva puntato quasi tutte le sue forze in un unico attacco contro nemici malati, indeboliti e insufficientemente armati. L'esercito dei Ferrazzi era il più grande del mondo e non perdeva una battaglia da vent'anni. La sconfitta non aveva senso. Per quanto allarmato dai messaggi provenienti da Silbury Hill, quindi, il generale ordinò di mandare all'attacco anche il secondo schieramento di soldati. Quando i ragazzi e IdrisPukke scorsero la seconda linea avanzare verso il fronte della battaglia, lanciarono un grido d'incredulità, di stupore e di rabbia. «Che sta succedendo?» chiese Arbell a Cale. Lui alzò una mano ed emise un lamento. «Non vedi? La battaglia è persa. Quegli uomini stanno andando alla morte. E chi proteggerà Memphis una volta che i loro corpi marciranno in quel campo?» «No, ti sbagli. Dimmi che non è così! Non può essere così terribile!» «Guarda tu stessa», le disse lui, indicando il fronte della battaglia. Migliaia di arcieri dei Redentori stavano già circondando i Ferrazzi, falciandoli con le pertiche e i magli; cadevano come tessere del domino. «Dobbiamo andarcene», mormorò. Poi chiamò il palafreniere di Arbell: «Roland! Prendi il suo cavallo! Subito!» Infine, in preda a un'angoscia Paul Hoffman
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tremenda, urlò: «Mio Dio! Non ci crederei se non lo vedessi coi miei occhi!» Fece un cenno a Henri e Kleist e s'incamminarono verso le tende. Ma una sagoma zoppicante e senza fiato si parò davanti a loro. «Aspettate!» gridò. Era Koolhaus, accaldato e agitato. «Mademoiselle! Vostro fratello, Simon... mi ha seminato mentre eravamo nelle retrovie a guardare la cavalleria. Credevo di averlo soltanto perso di vista per qualche istante nella calca ma, quando sono tornato nella sua tenda, l'armatura che vostro padre gli aveva regalato per il suo compleanno era scomparsa. Un'ora fa, Simon era con Lord Parson, e quel maledetto scherzava con lui, dicendogli che lo avrebbe portato con sé nel primo attacco.» Rimase in silenzio per qualche istante, poi aggiunse: «Penso che sia laggiù, nella battaglia». «Come avete potuto essere così sconsiderato?» gridò Arbell, poi si rivolse subito a Cale. «Per favore, trovalo. Riportalo indietro.» Ma Cale era troppo sbalordito per reagire. Kleist, invece, non lo era affatto. «Se li volete entrambi morti, questo è il modo migliore.» Fece cenno ad Arbell di guardare la battaglia. «Tra qualche minuto, laggiù ci saranno venticinquemila uomini, tutti accalcati in un campo di patate. I Redentori hanno già vinto. Nelle prossime due ore, non vedremo altro che uomini uccisi. E voi volete mandarlo laggiù? Sarà come cercare un ago in un pagliaio... e in un pagliaio in fiamme, per di più.» Fu come se lei non avesse sentito nemmeno una parola: Guardò Cale negli occhi, disperata e implorante. «Ti prego, aiutalo.» «Kleist ha ragione», intervenne Henri. «Qualsiasi cosa succeda a Simon, non possiamo farci niente.» Di nuovo, lei ignorò quell'obiezione, continuando a fissare Cale. Poi, lentamente, disperata, abbassò lo sguardo. «Capisco», mormorò. Una parola, e fu come se lei lo avesse accoltellato al cuore. Per Cale, quello era il suono della fiducia persa e gli risultava insopportabile. Sapeva di essere diventato una specie di dio ai suoi occhi e gli era semplicemente impossibile rinunciare alla sua adorazione. In tutto quel tempo, Riba aveva tenuto la bocca chiusa, sperando di poter contare sugli altri per fermare Cale. Ma sapeva che, quando si trattava di Arbell, il buonsenso per quel giovane non esisteva più. Sebbene per certi versi temesse il suo strano salvatore, brusco e indifferente con lei se gli passava accanto durante lo svolgimento dei suoi doveri quotidiani, da mesi Paul Hoffman
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Riba aveva notato che in lui c'era pure una sorta di follia e che, a scatenarla, era stata Arbell. «Non farlo, Thomas», gli disse, col tono severo di una madre. Arbell la guardò, sconvolta e nel contempo indispettita che una serva la contraddicesse in quel modo. Ma, avendo tutti contro, non se la sentì di zittire Riba o di dire qualcosa. Comunque non fece differenza. Cale sembrò non averla nemmeno udita. Con un tuffo al cuore, si voltò a osservare la battaglia che ormai si stava disfacendo. Poi guardò Henri e Kleist. «Copritemi come meglio potete, ma non aspettate fino all'ultimo momento per trarvi in salvo.» «Non ne avevo la minima intenzione», replicò Kleist. Cale rise. «Ricordatevi: se uno di voi mi colpisce, io saprò chi è stato.» «Se sarò io, non credo proprio.» «Tornate a Memphis con le guardie di Arbell. Io vi raggiungerò non appena possibile.» I due corsero alla tenda a prendere le armi. Cale trasse in disparte IdrisPukke. «Se le cose si mettono male, rifugiatevi a Treetops.» «Non ti conviene andare laggiù, ragazzo», gli mormorò l'uomo. «Lo so.» Henri e Kleist tornarono armati e cominciarono a prepararsi. IdrisPukke ordinò a uno degli scudieri di Arbell di togliersi l'abito ufficiale, una camicia coperta di draghi blu e dorati, sulla quale era ricamato il motto della famiglia Ferrazzi: MEGLIO MORIRE CHE CAMBIARE. Poi consegnò la camicia a Cale. «Se scendi come sei, ti attaccheranno tutti. Se indossi questa, almeno i Ferrazzi ti lasceranno in pace.» «E, se ti catturano, forse si renderanno conto di poter ottenere un grosso riscatto», aggiunse Arbell. Kleist quasi ululò, come se fosse la battuta più divertente che avesse mai sentito. «Lasciala in pace», disse Cale. «Preoccupati per te, amico. Non credo che lei avrà problemi.» Cale si diresse verso il bordo della collina e scese il ripido pendio quasi di corsa. In meno di un minuto, era sul campo di battaglia. Davanti a lui, il secondo schieramento di Ferrazzi stava già avanzando verso la brutale carneficina del primo attacco: altri ottomila uomini accalcati in uno spazio troppo piccolo anche per la metà. I Redentori si stavano già portando sulle Paul Hoffman
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fasce laterali per intrappolare i nuovi arrivati. I rinforzi non facevano che offrire loro più soldati immobili da falciare con tutta calma. I ranghi serrati dei militari si erano frammentati qua e là ed esercitavano una notevole pressione, aggirando gli enormi cumuli umani, alcuni alti addirittura dieci piedi, simili a un mare che fluisce attorno agli scogli. Cale si mise a correre, e ben presto raggiunse le retrovie dei Ferrazzi. A differenza di quand'era sulla collina, da lì non aveva nessuna percezione di ciò che stava accadendo. Alcuni soldati erano incerti e non si muovevano, altri spingevano in avanti. Soltanto perché l'aveva visto dall'alto, Cale sapeva che in prima linea e nelle fasce laterali era in atto un massacro. Laggiù non c'era nemmeno molto rumore: soltanto gruppi di soldati che avanzavano, cambiavano direzione quando vedevano un varco oppure, dopo l'ennesima caduta nelle prime file, spingevano in avanti, pensando di aver aperto un'altra breccia nello schieramento dei Redentori. Così migliaia di uomini un po' impazienti, sperando di non perdersi il meglio della battaglia, si avviavano lentamente verso una morte orribile. Cale corse avanti e indietro in cerca di Simon, ma era un compito disperato, proprio come aveva previsto Kleist. Mentre scendeva da Silbury Hill, si era illuso di poter fare qualcosa, ma adesso non gli restava che la disperazione. Non avrebbe mai trovato Simon; né lui vivo né il suo cadavere. Poteva morire laggiù oppure tornare da Arbell, ammettendo la propria sconfitta. Lei poteva anche rassegnarsi, ammettendo che l'impresa di Cale era comunque disperata, ma lui non lo voleva. Non intendeva rinunciare alla sua adorazione. Poi dovette preoccuparsi di altre cose. Una ventina di Redentori spuntò ai lati di una linea di Ferrazzi che spingeva in avanti. A gruppi di tre, attaccavano gli uomini che cercavano di avanzare verso il fronte principale della battaglia. Il primo li faceva inciampare con una lunga roncola, il secondo li colpiva con uno dei pesanti magli usati per conficcare i pali nel terreno e il terzo li accoltellava. Nella calca e nel fango, non aspettandosi un attacco di quel genere, soldati che, altrove, sarebbero stati quasi invulnerabili scivolavano, cadevano e venivano uccisi mentre si dimenavano nel fango, impotenti come neonati. Poi un gruppo di Redentori vide Cale e si dispose per attaccarlo su tre lati. Una freccia colpì in un occhio quello alla sua sinistra, un dardo quello alla sua destra. Il primo cadde in silenzio, il secondo urlando e battendosi il petto. Il terzo aveva ancora un'espressione sbalordita quando Cale lo Paul Hoffman
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colpì sul collo, tagliandogli la gola. Cadde nel fango, dibattendosi accanto al Lord delle Sei Contee che aveva massacrato solo qualche secondo prima. Poi Cale si ritrovò in un secondo combattimento: bloccò il braccio del suo aggressore, gli assestò una potente testata in faccia e infine lo accoltellò abilmente al cuore. Un Redentore con la roncola cadde a bocca aperta, colpito da uno dei dardi di Henri, ma la freccia di Kleist entrò soltanto nel braccio di quello che reggeva il maglio. La fortuna dell'uomo però non durò più di due secondi, perché Cale, scivolando nel fango, sbagliò il colpo letale e lo trafisse nella pancia. Il Redentore cadde, urlando, e soffrì atrocemente per ore prima di morire. Poi un'altra ondata di uomini respinse i Redentori rimasti e Cale restò dov'era, coperto di sangue, impotente, non sapendo da che parte girarsi. Tutte le sue abilità non erano nulla nella calca e nella confusione. Era soltanto un ragazzo in una ressa di uomini agonizzanti. Poi, proprio mentre stava per andarsene, sessanta file più avanti di lui, ci fu un altro crollo, il più grande fino a quel momento. Si aprì un varco verso la prima linea. Cale esitò, terrorizzato, sapendo che quella breccia era come le fauci della morte che minacciavano d'inghiottirlo. Ma la paura di fallire agli occhi della sua innamorata lo sospinse verso quell'apertura e, dato che riuscì a correre più velocemente degli uomini corazzati che scivolavano attorno a lui, arrivò a meno di dodici piedi dal fronte. Tuttavia non vi trovò altro che un muro impenetrabile di Ferrazzi morti e morenti. Nessuno dei soldati davanti a lui era ferito: erano semplicemente caduti l'uno sopra l'altro e il peso di quelli che stavano sopra e che spingevano da dietro li stava schiacciando. Per qualche istante, non ci furono altro che i mucchi di corpi e uno strano gemito sommesso. Alcuni avevano perso l'elmo, altri, intrappolati, ma con una mano libera, se l'erano tolto in un disperato tentativo di respirare. I loro volti erano paonazzi, alcuni quasi neri, mentre gemevano ed emettevano orribili sibili nel tentativo di riempire i polmoni d'aria, ma il loro petto schiacciato non lasciava passare nulla. Cale li vedeva smettere di respirare e rimanere a bocca spalancata, come pesci sulla sponda di un fiume. Molti gli parlarono, con orribili sussurri: «Aiuto! Aiuto!» Lui cercò di liberarne un paio, ma era come se fossero cementati nella farina di riso e nel calcestruzzo delle pareti del Santuario. Distolse lo sguardo e sondò i mucchi di cadaveri e soldati morenti che gemevano tutt'attorno. Paul Hoffman
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«Aiuto!» fece una voce stridula. Lui abbassò lo sguardo e scorse un giovane col volto di un orribile colore violaceo. «Aiuto!» Cale distolse lo sguardo. «Cale! Aiutami!» Sgomento, si voltò e allora, nonostante il gonfiore e il colore orribile del suo viso, lo riconobbe. Era Conn Ferrazzi. Una freccia gli sibilò accanto all'orecchio destro e rimbalzò con un suono metallico quando colpì l'armatura di uno dei cadaveri. Cale si accovacciò. «Ti posso finire rapidamente. Sì o no?» Conn non diede a vedere di aver sentito. «Aiutami! Aiutami!» ansimò, con un suono orribile e stridente. Vedendo le condizioni terribili in cui versava quel giovane che lui aveva conosciuto, a Cale apparve ancora più evidente quanto fosse orribile e inutile essere lì. Guardando alle proprie spalle, vedeva che il varco si stava richiudendo e che i Redentori stavano costringendo i Ferrazzi delle fasce laterali a spostarsi al centro. Si alzò, pronto a scappare. «Aiutami!» C'era qualcosa nello sguardo del giovane che gli fece venire i brividi. Era orrore, disperazione... Cale affondò le mani nel mucchio di cadaveri e cercò di sollevare Conn con tutta la forza che aveva, raddoppiata dalla rabbia e dalla paura. Ma il ragazzo era bloccato, con un altro sotto di lui e tre sopra: mille libbre di peso morto e acciaio. Tirò ancora. Nulla. «Mi spiace, amico. È scaduto il tempo», gli disse. Poi venne mandato a gambe all'aria da una potente spinta nella schiena. Spaventato e sorpreso, cercò di sguainare la spada e di trovare un appiglio nel fango, per sfuggire al suo aggressore. Ma si trattava di un cavallo, che lo guardò, sbuffando, speranzoso. Cale lo fissò. Il suo cavaliere era morto e l'animale stava cercando qualcuno che lo conducesse lontano dal campo di battaglia. Cale afferrò subito la cavezza, la annodò attorno al robusto pomello della sella e poi si affrettò a legarla attorno al petto di Conn, passandogliela sotto le ascelle. Il volto del giovane Ferrazzi era quasi nero e gli occhi sembravano spenti. Per fortuna la corda era sottile, ma molto resistente, più da cerimonia che da uso pratico, e non fu difficile spingerla sotto un braccio e poi sotto l'altro. Disperato, Cale la legò come non aveva mai legato una corda in vita sua, poi cadde nel fango, mentre cercava di Paul Hoffman
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montare a cavallo. Allora, più disperato che mai, afferrò il pomo della sella e, vedendo il varco chiudersi, gridò nell'orecchio del cavallo. Spaventato, l'animale partì di scatto, scivolando nel fango e rischiando di cadere, ma riuscendo infine a far presa sul terreno, mentre tirava con tutta la forza di una bestia abituata a portare in groppa trecento libbre. All'inizio, non successe nulla; poi Conn venne estratto dal mucchio di cadaveri, mentre la sua gamba destra si spezzava con un suono secco. L'impeto del movimento rischiò ancora una volta di far cadere il cavallo e di far perdere la presa a Cale, ma poi i tre partirono, diretti verso il varco, a non più di cinque miglia all'ora. Tuttavia il cavallo era forte e ben addestrato e, nonostante la catastrofe che li circondava, era felice di avere un cavaliere in groppa. L'istinto che aveva salvato l'animale mentre vagava per il campo di battaglia nel bel mezzo di un massacro continuò ad aiutarlo. Cale teneva la testa bassa e il corpo il più possibile appiattito sull'animale, pronto a estrarre il coltello e a sganciare Conn se fosse rimasto incastrato, minacciando di farli cadere. Ma il fango che aveva provocato la morte di tanti Ferrazzi e che ne avrebbe ucciso molti altri fu il salvatore di Conn. Privo di sensi, il giovane si accasciava in qualsiasi direzione venisse trascinato, quasi come una slitta nella neve. Cale teneva la testa bassa e spronava il cavallo coi piedi, ignaro del fatto che due Redentori stavano andando incontro all'animale. Comunque non li vide neppure cadere, urlando all'unisono per l'orrore e l'angoscia, falciati da Kleist e da Henri, che vigilavano, impassibili. In meno di tre minuti, il cavallo aveva attraversato la massa di uomini sospinti verso il centro del campo; senza troppi drammi o cerimonie lasciò il campo di battaglia, sbatacchiando Cale e trascinando l'incosciente Conn in uno stretto sentiero tra Silbury Hill e gli impenetrabili boschi che delimitavano la battaglia. Quando nessuno poteva più vederli, Cale fermò il cavallo e scese per dare un'occhiata a Conn. Sembrava morto, ma respirava. Gli tolse rapidamente l'armatura e, con grande difficoltà, lo caricò a pancia in giù sulla sella, mentre lui gemeva e gridava per il dolore provocato dalle fratture alle costole e alla gamba destra. Cale avanzò a piedi, condusse il cavallo e, in breve, il suono della battaglia era svanito, rimpiazzato da quello dei merli e del vento che faceva frusciare le foglie del bosco. Un'ora dopo, Cale fu assalito da un'improvvisa ondata di stanchezza. Cercò un accesso al bosco e, non riuscendo a trovare un passaggio nei rovi Paul Hoffman
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tra gli alberi, dovette aprirsi un varco con la spada, coprendosi di graffi sul viso e sulle braccia. Una volta superati i margini del bosco, tuttavia, i cespugli cedettero il passo a un tappeto di foglie secche. Allora legò il cavallo e, con grande attenzione, depose a terra Conn. Rimase per un po' a fissarlo, come se non riuscisse a capire cosa li avesse condotti, insieme, in quel luogo, quindi gli raddrizzò la gamba con la massima delicatezza e la steccò con due rami che aveva tagliato da un frassino. Infine si distese e si addormentò subito. Fu un sonno profondo e terribile. Si svegliò due ore dopo, quando gli incubi divennero insopportabili. Conn Ferrazzi era privo di sensi, pallido come la morte. Cale sapeva di dover trovare almeno un po' d'acqua, ma era ancora esausto e rimase seduto, in una sorta di terribile trance. Ben presto, tuttavia, Conn si mise a gemere e a muoversi. Si svegliò e vide Cale che lo fissava. Allora urlò, in preda all'orrore e alla confusione. «Calmati, va tutto bene.» Esterrefatto e atterrito, Conn cercò d'indietreggiare, allontanandosi da Cale, ma quel gesto gli strappò un grido di dolore. «Al tuo posto non cercherei di muovermi. Ti sei rotto il femore», spiegò Cale. Per un paio di minuti, Conn non disse nulla, mentre il terribile dolore alla gamba diminuiva lentamente. «Che cos'è successo?» chiese infine. Cale gli raccontò tutto. Quando ebbe terminato, Conn rimase a lungo in silenzio, poi mormorò: «Il fatto è che non ho mai visto un Redentore. Nemmeno uno... C'è dell'acqua?» Le condizioni disperate di Conn cominciavano a suscitare in Cale un misto di pietà e irritazione. «Ho visto del fumo poco prima di arrivare qui. Ieri mi è sembrato di sentire che c'è un villaggio vicino alla collina. Tornerò non appena possibile.» Tolse l'armatura al cavallo e tagliò quanto poté della cotta di maglia che gli ricopriva la schiena e i fianchi, poi lo condusse sul sentiero. Infine montò in groppa al destriero e gli accarezzò la testa. «Grazie», gli disse. Quindi prese a cavalcare.
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35 Nel giro di tre ore, un contadino del posto era andato a prendere Conn Ferrazzi. L'avevano messo a letto, gli avevano aggiustato la gamba, steccandola con quattro bastoni di nocciolo e otto cinghie di cuoio. Lui era svenuto di nuovo, gemendo pietosamente nell'ora che Cale aveva impiegato a raddrizzargli la gamba, e non aveva ancora ripreso conoscenza. Anzi alla fine era di un pallore così mortale che non dava l'idea di potersi mai risvegliare. «Tagliagli i capelli», disse Cale al contadino. «E seppellisci la sua armatura nel bosco, in caso venissero i Redentori. Di' loro che è un bracciante. Se riesco ad arrivare a Memphis, manderanno qualcuno a prenderlo. Ti pagheranno. Altrimenti ti pagherà lui, quando starà meglio.» Il contadino guardò Cale. «Tieniti i tuoi consigli e i tuoi soldi», mormorò, allontanandosi. Poco dopo, Conn riprese conoscenza. I due si fissarono per un po'. «Adesso ricordo: ti ho chiesto aiuto», disse Conn. «Sì.» «Dove siamo?» «In una fattoria, a due ore dalla battaglia.» «Mi fa male la gamba.» «Dovrà rimanere così per almeno sei settimane. E non si può sapere se tornerà dritta, una volta guarita.» «Perché mi hai salvato?» «Non lo so.» «Io non avrei fatto lo stesso per te.» Cale scrollò le spalle. «In questi casi, non si può mai sapere finché non succede. Comunque l'ho fatto e basta.» Restarono in silenzio per qualche tempo. «Che farai adesso?» volle sapere Conn. «Andrò a Memphis domattina. Se ce la farò, manderò qualcuno.» «E poi?» «Prenderò i miei amici e andrò in qualche posto dove i soldati non siano pazzi e stupidi. Non pensavo che fosse possibile perdere una battaglia da una posizione del genere. Non ci avrei creduto se non l'avessi visto coi miei occhi.» Paul Hoffman
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«Non rifaremo lo stesso errore.» «Cosa ti fa pensare che avrete un'altra occasione? Princeps non resterà a Silbury ammirandosi allo specchio; vi prenderà a calci in culo fino alle porte di Memphis.» «Ci riorganizzeremo.» «Con chi? Tre su quattro Ferrazzi sono morti.» Conn non seppe cosa ribattere. Avvilito, chiuse gli occhi. «Vorrei essere morto», disse infine. Cale rise. «Ti devi decidere. Non è quello che hai detto stamattina.» L'altro sembrò ancora più abbattuto, sempre che fosse possibile. «Non sono un irriconoscente.» «Non sei irriconoscente?» ripeté Cale. «Significa che sei riconoscente?» «Sì, sono riconoscente.» Conn chiuse di nuovo gli occhi. «Tutti i miei amici, tutti i miei parenti, mio padre, sono tutti morti.» «Probabilmente.» «Certamente.» Cale non sapeva cosa aggiungere. «Dovresti dormire», mormorò infine. «Non c'è nient'altro che tu possa fare, se non guarire e vendicarti dei Redentori come potrai. Ricordati: la vendetta è la miglior vendetta.» E, con quella perla di saggezza, lasciò Conn ai suoi miserabili pensieri. Il mattino dopo, alle prime luci dell'alba, partì a cavallo, dopo aver deciso che non c'era bisogno di prendere congedo dal giovane Ferrazzi. Aveva fatto più del necessario per quel giovane, pensò, e in un certo senso si vergognava di aver rischiato la vita per qualcuno che non avrebbe fatto altrettanto per lui, come aveva ammesso lo stesso Conn. Rammentò un'osservazione che aveva fatto IdrisPukke una sera, mentre fumavano insieme al chiaro di luna, a Treetops: «Resisti sempre ai tuoi primi impulsi. Spesso sono generosi». All'epoca, Cale l'aveva presa per l'ennesima battuta sarcastica, ma in quel momento capì che cosa voleva dire. Nonostante la sua ansia di raggiungere Memphis per assicurarsi che Arbell fosse al sicuro, Cale si diresse a nordest, facendo un giro largo. C'erano sicuramente troppi Redentori e Ferrazzi che ancora si aggiravano e nessuno di loro sarebbe stato selettivo nello scegliere le proprie vittime. Evitò le città e i villaggi e comprò da mangiare soltanto nelle fattorie isolate che incontrò sul percorso. In ogni caso, la notizia della grande Paul Hoffman
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battaglia era arrivata ovunque, anche se alcuni parlavano di una grande vittoria oltre che di una grande sconfitta. Lui diceva di non saperne nulla e se ne andava alla svelta. Il terzo giorno, puntò a ovest, dirigendosi verso Memphis, e giunse nei pressi della Strada degli Aggeri, quella che da Somkheti portava alla capitale. Era deserta. Aspettò tra gli alberi per un'ora ma, non avendo visto nessuno passare, decise di proseguire allo scoperto. Fu il suo terzo errore nel giro di quattro giorni. Più si avvicinava a Memphis, più si sentiva a disagio. Nel giro di dieci minuti, una pattuglia di Ferrazzi comparve da dietro una curva e lui non ebbe modo di evitarla. Quantomeno non erano Redentori e lui fu sollevato, e sorpreso, di constatare che a guidarli c'era il capitano Albin, benché la presenza del capo dei servizi segreti dei Ferrazzi in quel luogo lo lasciasse perplesso. Tuttavia, quando i venti uomini che accompagnavano Albin estrassero le armi, la sua perplessità si trasformò in allarme. Quattro di loro erano arcieri a cavallo e le loro frecce erano puntate dritte al petto di Cale. «Qual è il problema?» «Ascolta, non dipende da noi, ma sei in arresto», disse Albin. «Non fare storie, da bravo. Ora ti leghiamo le mani.» Cale non aveva scelta e obbedì. Probabilmente, pensò, il Maresciallo se l'era presa con lui perché aveva lasciato Arbell con Kleist e Henri. «Arbell Ferrazzi sta bene?» chiese poi, d'un tratto allarmato. «Sta bene, anche se forse avresti dovuto pensarci su due volte prima di andartene... ovunque tu te ne sia andato.» «Stavo cercando Simon Ferrazzi.» «Be', la cosa non mi riguarda. Ora ti bendiamo gli occhi. Non fare storie.» «E perché?» «Perché lo dico io.» In realtà, gli infilarono la testa in un sacco. Era pesante, odorava di luppolo ed era fatto di una tela così spessa da attutire i suoni, oltre che la luce. Cinque ore dopo, Cale sentì che il cavallo sotto di lui faticava, trovandosi all'improvviso a procedere in salita. Poi riconobbe il rumore sordo degli zoccoli sul legno. Stavano attraversando una delle tre porte di Memphis. Nonostante il sacco in testa, si aspettava di sentire molto più rumore, essendo in città ma, anche se gli arrivava qualche grido attutito, Paul Hoffman
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l'unica cosa che gli faceva capire di essere diretto alla fortezza era il fatto che procedessero ancora in salita. L'ansia per Arbell gli fece venire un nodo allo stomaco. Alla fine si fermarono. «Tiratelo giù», disse Albin. Due uomini lo presero dal fianco sinistro e lo tirarono giù, con sufficiente delicatezza, poi lo misero in piedi. «Albin, toglietemi questo affare di dosso», sibilò Cale da sotto il sacco. «Mi spiace.» I due uomini lo presero ciascuno per un braccio e lo spinsero in avanti. Sentì una porta aprirsi e fu condotto in quello che gli sembrava un corridoio. Si aprì un'altra porta e ancora una volta lo sospinsero in avanti. Fatte poche iarde, lo fermarono e, dopo una breve pausa, gli tolsero il sacco dalla testa. All'inizio non vide nulla, un po' per la polvere che aveva negli occhi e un po' perché era stato al buio per così tante ore. Con le mani legate, si strofinò gli occhi per liberarsi dalla polvere di luppolo e guardò gli unici due uomini presenti nella sala. Uno lo riconobbe subito: era IdrisPukke, imbavagliato e con le mani legate. Ma, quando riconobbe l'altro uomo, accanto a lui, ebbe l'impressione che gli si fermasse il cuore, tanto fu forte l'ondata di paura e di rabbia. Era il Signore Militante Redentore Bosco. Dopo i primi istanti di turbamento e di odio, a Cale venne voglia di cadere in ginocchio e di piangere come un bambino; e l'avrebbe fatto, ma l'odio lo salvò. «Dunque, Cale, la volontà di Dio ci riporta dove abbiamo cominciato. Pensaci su, mentre mi guardi come se io fossi un cane rabbioso. Cosa ti hanno portato la tua ira e le tue divagazioni?» «Che è successo ad Arbell Ferrazzi?» «Oh, lei è al sicuro.» Nel suo profondo turbamento, Cale non sapeva se chiedere di Henri e Kleist. Non disse nulla. «Non sei preoccupato per i tuoi amici?» fece Bosco. «Redentore!» gridò poi, mentre una porta si apriva all'altro capo della stanza e qualcuno accompagnava dentro Henri e Kleist, imbavagliati e con le mani legate. Non avevano nemmeno un graffio, anche se chiaramente erano terrorizzati. «Ci sono diverse cose che ti devo dire, Cale, e vorrei sprecare il minor Paul Hoffman
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tempo possibile in espressioni convenzionali d'incredulità. Ti ho mai mentito?» gli chiese. Lo aveva picchiato selvaggiamente ogni settimana della sua vita e lo aveva costretto a uccidere in cinque occasioni... però Cale dovette ammettere che Bosco, per quanto lui ne sapeva, non gli aveva mai detto una semplice menzogna. «No.» «Ricordatelo mentre mi ascolti. Devi essere sicuro che l'importanza di ciò che sto per dirti vada al di là di quel genere di meschinità. E, per dimostrarti la mia buona fede, lascerò andare i tuoi amici, tutti e tre.» «Dimostratemela.» Bosco rise. «In passato, un simile tono di voce avrebbe avuto conseguenze dolorose.» Allungò una mano e il Redentore Stape Roy gli consegnò uno spesso libro rilegato in pelle. «Questo è il Testamento del Redentore Impiccato», spiegò. Cale lo fissò: non ne aveva mai visto uno. Bosco posò il palmo della mano sulla copertina. «Giuro davanti a Dio, a spese della mia anima immortale, che le promesse che sto per fare e tutto ciò che dirò oggi è la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità.» Guardò Cale. «Soddisfatto?» Il semplice fatto che, fra tutte le atrocità che Bosco gli aveva riservato, non figurasse lo spergiuro non bastava certamente a indurre Cale a credergli. Ma un giuramento era d'importanza fondamentale per Bosco e dopotutto il ragazzo non aveva scelta. «Sì», disse. Bosco si rivolse al Redentore Stape Roy. «Dai loro tutto ciò di cui hanno bisogno, nei limiti del ragionevole, e un'autorizzazione di transito. Poi lasciali andare.» Stape Roy andò da IdrisPukke, lo prese per un braccio e lo spinse verso Henri e Kleist. Poi spinse tutti e tre verso la porta. Cale si sentì rassicurato: le istruzioni di non dare troppo ai suoi tre amici e il trattamento rude sembravano autentici. Una maggiore generosità o una minore durezza gli sarebbero apparse sospette. «E Arbell Ferrazzi?» Bosco sorrise. «Perché sei così determinato a scoprire quante illusioni ti sei fatto sul mondo?» «Che cosa intendete?» «Lo vedrai. Ma devi lasciarti legare e imbavagliare e devi accettare di stare dietro quel paravento laggiù, nell'ombra, senza far storie, qualsiasi Paul Hoffman
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cosa sentirai.» «Perché dovrei promettervi qualcosa?» «In cambio della vita dei tuoi amici? Non mi sembra irragionevole.» Cale annuì e Bosco fece cenno a una guardia di portarlo dietro il piccolo paravento in fondo alla stanza. Un attimo prima di arrivarci, Cale si voltò verso Bosco. «Come avete conquistato la città?» Bosco rise, quasi con modestia. «Con facilità e senza combattere. Nel giro di tre ore, Princeps ha fatto giungere a Port Erroll la notizia della grande vittoria della Quarta Armata e ha ordinato alla flotta di ritirarsi e di attaccare Memphis senza indugi. Qui l'intera popolazione si è fatta prendere da un panico abietto. A cinquanta miglia dalla costa, la flotta ha avvistato una serie d'imbarcazioni che fuggivano a Memphis in preda al terrore. Siamo semplicemente attraccati, senza tante storie. Nel complesso è stata una sorpresa, ma molto gratificante. Resta lì dietro in silenzio e vedrai e sentirai tutto.» Gli fece cenno di nascondersi dietro il paravento. La guardia prese un bavaglio dalla tasca e lo mostrò a Cale. «Possiamo farlo nel modo più facile o in quello più difficile. Per me non fa differenza.» Ma Cale era ansioso di Vedere Arbell e non oppose resistenza. A disagio, rimuginò sulla presenza di Bosco e sulla stranezza del suo comportamento. Nel frattempo, al centro della stanza, vennero sistemati un tavolo e tre sedie. Poi la porta si aprì ed entrarono il Maresciallo e sua figlia. Cale non sapeva che fosse possibile provare un sollievo così profondo, un'ondata tanto potente di assoluta felicità. Lei era pallida e terrorizzata, ma sembrava sana e salva, come il padre, anche se l'uomo aveva gli occhi scavati e il viso tirato. Sembrava più vecchio di vent'anni. Di vent'anni di malattia. «Accomodatevi», disse Bosco in tono sommesso. «Uccidetemi, ma vi chiedo in tutta umiltà di lasciar vivere mia figlia», esclamò il Maresciallo. «Le mie intenzioni sono molto meno cruente di quanto immaginate», replicò Bosco, sempre in tono sommesso. «Accomodatevi. Non ve lo chiederò un'altra volta.» Quell'imbarazzante miscela di benevolenza e minaccia intimidì i due ancora di più. Obbedirono. «Prima che io inizi, dovete capire che i requisiti e l'ardore di coloro che Paul Hoffman
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servono il Redentore Impiccato sono impenetrabili per persone come voi. Non desidero né cerco la vostra comprensione ma, per il vostro bene, è necessario che vi rendiate conto di come stanno le cose.» Fece un cenno a uno dei Redentori, che allontanò dal tavolo la terza sedia, e poi si sedette a sua volta. «È un fatto: abbiamo il completo controllo di Memphis e il vostro esercito ormai consiste in non più di duemila soldati addestrati, in gran parte nostri prigionieri. Il vostro impero, per quanto vasto, sta già cominciando a crollare. Ammettete che questa è la situazione?» Ci fu una pausa. «Sì», rispose infine il Maresciallo. «Bene. Affiderò nuovamente al vostro controllo la città di Memphis e vi consentirò di ricostituire un esercito, per ripristinare le strutture del potere, con determinate tasse e condizioni, che approverete in dettaglio in un momento successivo.» Il Maresciallo e Arbell fissarono Bosco, gli occhi sgranati per la speranza e la diffidenza. «Quali condizioni?» chiese il Maresciallo. «Non fraintendetemi», disse Bosco, a voce così bassa che Cale lo sentì a malapena. «Questo non è un negoziato. Naturalmente voi non avete nessun potere contrattuale. Siete del tutto impotente e avete soltanto una cosa che io voglio.» «E cioè?» chiese il Maresciallo. «Thomas Cale.» «Mai, per niente al mondo», gridò Arbell con ardore. Bosco la guardò, pensieroso. «Interessante.» «Perché fareste una cosa del genere?» chiese il Maresciallo. «Scambiare un impero con un ragazzo? Suona alquanto improbabile, sono d'accordo.» «Volete ucciderlo», disse Arbell. «Non è così.» «Perché ha ucciso uno dei vostri, un uomo che stava facendo qualcosa d'indicibile.» «Be', avete ragione: ha ucciso un Redentore che stava facendo qualcosa d'indicibile. Io non sapevo nulla di queste pratiche eretiche fino al giorno in cui Cale non è fuggito. Tutti coloro che erano coinvolti sono stati epurati.» «Volete dire uccisi.» «Voglio dire epurati e poi uccisi.» Paul Hoffman
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«Perché Cale pensava che foste voi il responsabile?» «Glielo chiederò quando lo vedrò. Ma, se voi pensate che io possa consegnare un impero per giustiziare Cale giacché lui ha ucciso un eretico assassino e pervertito...» S'interruppe e apparve sinceramente perplesso. «Perché dovrei fare una cosa del genere? Non ha senso.» «Può darsi che mentiate», disse il Maresciallo. «Può darsi, ma non ne ho bisogno. Prima o poi troverò Cale, ma preferirei che fosse al più presto. Voi avete i mezzi per darmi ciò che voglio, tuttavia la mia pazienza ha un limite e, quando sarà superato, non vi rimarrà nulla.» «Non ascoltarlo», mormorò Arbell al padre. «E voi, perché siete così preoccupata?» chiese Bosco. «Forse perché siete amanti?» Il Maresciallo squadrò la figlia. Non ci furono indignate richieste di dire la verità né condanne per aver macchiato il sangue reale. Soltanto un lungo silenzio. Alla fine, Ferrazzi si voltò di nuovo verso Bosco. «Cosa volete che faccia?» Bosco trasse un respiro profondo. «Non c'è niente che voi possiate fare. Non ci sono molte persone di cui Cale si fida... sempre ammesso che ce ne siano. Di certo voi non siete una di quelle. A parte vostra figlia, naturalmente, per motivi che ormai tutti abbiamo capito. Ciò che chiedo è che la ragazza scriva una lettera a Cale e finga di affidarla segretamente a uno dei suoi amici. In questa lettera, gli chiederà d'incontrarla fuori dalle mura a una determinata ora. Io sarò lì, e lo costringerò ad arrendersi.» «Lo ucciderete», ribadì Arbell. «Non lo ucciderò», disse Bosco, alzando la voce. «Non lo farò mai, per motivi che gli spiegherò quando lui capirà che gli sto dicendo la verità. Lui non ha idea di ciò che devo comunicargli e, finché non lo saprà, la sua vita sarà esattamente com'è stata da quando ha lasciato il Santuario: violenta, rabbiosa... Una vita che può portare soltanto distruzione a tutti coloro con cui lui ha a che fare. Pensate al caos che ha scatenato nella vostra vita. Soltanto io posso salvarlo da questa situazione. Qualsiasi cosa voi pensiate di provare per lui, non potete capire chi sia veramente Cale. Cercherete di salvarlo, ma sarà inutile. Causerete invece la rovina di vostro padre, della vostra gente, di voi stessa e, soprattutto, dello stesso Cale.» «Devi scrivere quella lettera», sussurrò il Maresciallo alla figlia. «Non posso», rispose Arbell. Paul Hoffman
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Bosco sospirò, con aria comprensiva. «Io so cosa significa avere autorità e potere. La scelta che dovete fare in questo momento non è invidiabile. Qualsiasi cosa facciate, vi sembrerà sbagliata. O distruggete un intero popolo e un padre che amate oppure un solo uomo che amate.» Lei fissò Bosco come se fosse paralizzata. «Sì, è una scelta difficile, però meno di quanto temete. Non farò del male a Cale e lo troverei comunque, presto o tardi. Il suo futuro è legato alla volontà di Dio, quindi è impossibile che lui non sia uno di noi... e uno molto speciale, se è per questo.» Si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò ancora. «Ditemi, pur con tutto l'amore per questo giovane, un amore che, come posso constatare, è certamente sincero...» Fece una pausa per consentirle d'ingoiare quel veleno zuccheroso, poi riprese: «... non avete sentito qualcosa...» S'interruppe di nuovo, cercando con cura la parola giusta. «... qualcosa di fatale?» «Siete stato voi a farlo diventare così, con la vostra crudeltà.» «Non è esatto», replicò Bosco in tono ragionevole, come se capisse quell'obiezione. «Dal primo momento che l'ho visto, quand'era molto piccolo, aveva già qualcosa di sconcertante. Mi ci è voluto molto tempo per capire esattamente cosa fosse, perché non aveva senso: era terrore. Io temevo quel bambino. Certo, è stato necessario modellare e disciplinare quello che già c'era, ma nessun essere umano potrebbe rendere Cale ciò che egli è. Io non sono così vanaglorioso. Sono stato soltanto un agente del Signore, mandato per piegare la sua natura al nostro bene comune e al servizio di Dio. Però anche voi avete notato questa cosa in lui e vi spaventa, com'è giusto che sia. Le gentilezze che talvolta avete visto in lui sono come le ali dello struzzo: battono, ma non gli consentono di volare. Lasciatelo a noi e salvate vostro padre, il vostro popolo e voi stessa.» Fece una pausa a effetto, e concluse: «E Cale». Arbell fece per parlare, ma Bosco alzò una mano. «Non ho altro da dire. Pensateci e prendete la vostra decisione. Vi farò avere i dettagli dell'ora e del luogo in cui incontreremo Cale. Sta a voi decidere se scrivere o non scrivere la lettera.» I due Redentori rimasti accanto alla porta avanzarono e fecero cenno a entrambi di andarsene. Mentre Arbell usciva, Bosco le disse, con un'aria di riluttante solidarietà: «Ricordatevi che siete responsabile della vita di migliaia di persone. E vi prometto che non alzerò mai più le mani su di lui, né permetterò ad altri di farlo». La porta si chiuse e Bosco sussurrò: Paul Hoffman
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«Perché le labbra che per lui ora sono dolci come il miele, tra poco saranno amare come l'assenzio e affilate come una lama a doppio taglio». Il Signore Militante si voltò e fece cenno a Cale di uscire da dietro il paravento. La guardia gli tolse il bavaglio e lo condusse da Bosco. «Pensate davvero che vi crederà?» domandò il giovane. «Non riesco a immaginare perché non dovrebbe: è quasi tutto vero, anche se non è tutta la verità.» «Che sarebbe?» Bosco lo guardò come se cercasse di leggere qualcosa sul suo viso. Nel contempo, tuttavia, la sua espressione rivelava un'incertezza che Cale non aveva mai visto. «No, aspetteremo la sua risposta», disse infine il Redentore. «Di cosa avete paura?» Bosco sorrise. «Be', forse un po' di onestà tra noi non sarebbe male, a questo punto. Naturalmente ho paura che il vero amore vinca su ogni cosa e che lei si rifiuti di consegnarti a me.» Tornata nei propri appartamenti, Arbell era in preda alle terribili pene del desiderio privato e dei doveri pubblici, del tremendo e impossibile tradimento che entrambe le scelte comportavano. Era ancor peggio di quanto sembrasse, perché nel profondo del suo cuore - e nella parte segreta del suo cuore, che era ancora più nel profondo - aveva già deciso di tradire Thomas Cale. Immaginate che perdita, che shock paralizzante doveva essere stato veder crollare sotto i suoi occhi tutto ciò che lei aveva conosciuto. Poi pensate al tremendo potere delle parole di Bosco, che facevano eco ai suoi pensieri più spaventosi. Pur con tutte le emozioni che Cale suscitava in lei, la medesima stranezza che la eccitava destava in lei pure un certo disprezzo. Lui era così violento, così arrabbiato, così mortale... Bosco aveva visto dentro di lei. Come poteva, data la sua posizione, non essere raffinata e delicata? Non c'era dubbio: quella raffinatezza e quella delicatezza erano proprio le qualità che Cale adorava, ma Cale era stato forgiato in tremendi fuochi d'inimmaginabile paura e d'intenso dolore. Come avrebbe potuto stare a lungo con lui? Una parte recondita di Arbell cercava già da tempo un modo per lasciare il suo amante... seppur inconsciamente, è giusto sottolineare. Così, mentre Cale aspettava che lei lo salvasse, mentre lui studiava un modo per salvare lei, Arbell aveva già scelto la strada amara, ma ragionevole, del bene, dei molti piuttosto che dell'uno. Poteva fare Paul Hoffman
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altrimenti, dopotutto? No, non lei. Col tempo, pure Cale avrebbe capito.
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36 Quasi sei ore dopo, Bosco entrò nella stanza in cui Cale era imprigionato. Portava due lettere. Ne consegnò una al giovane, il quale la lesse, impassibile, apparentemente due volte. Poi Bosco gli diede la seconda. «Mi ha chiesto, con le lacrime agli occhi, di darti questa, dopo che ti avessimo preso prigioniero. T'implora di credere quanto sia stato difficile consegnarti a me e di perdonarla.» «Ho fatto un sogno meraviglioso», mormorò Cale. «Ora sono sveglio e sono arrabbiato con me stesso. Dite quello che avete da dire.» Bosco si sedette dietro il tavolo, che era l'unico mobile della stanza, oltre alle due sedie. «Trent'anni or sono, quando sono andato nel deserto per digiunare e pregare prima di diventare un Redentore, la Madre del Redentore Impiccato, che la pace sia con lei, mi è apparsa per tre volte. Nella prima visione mi ha detto che Dio aveva aspettato invano che l'umanità si pentisse per aver ucciso suo figlio e che ormai disperava della natura delle sue creature. La malvagità dell'uomo era grande sulla terra e ogni immaginazione che scaturiva dai pensieri del suo cuore era continuamente malvagia. Dio si pentiva di averlo creato. Nella seconda visione, mi ha comunicato che Dio aveva detto: 'La fine di ogni carne è giunta di fronte a me; ogni uomo e donna vivente da me creati saranno annientati da te, saranno cancellati dalla faccia della Terra. Quando avrai compiuto tutto ciò, il mondo finirà, i salvati entreranno in paradiso e uomini e donne non esisteranno più'. Io le ho chiesto come sarebbe stato possibile fare ciò e lei mi ha ordinato di digiunare e di attendere una terza visione, l'ultima. Nella terza e ultima visione, ha portato con sé un bambino che aveva in mano un rametto di biancospino, dal quale gocciolava dell'aceto. 'Cerca questo bambino e, quando lo vedi, preparalo per il suo lavoro. È la Mano Sinistra di Dio, detto anche l'Angelo della Morte, e lui porterà a compimento tutte queste cose.'» Parlando, Bosco sembrava in trance, come se non fosse in una stanza a Memphis, ma di nuovo nei deserti di Fatima, trent'anni prima, ad ascoltare la Madre di Dio. Poi fu come se si fosse spenta una luce e lui tornò in sé. Guardò Cale. «Non appena vidi quel bambino arrivare al Santuario, lo riconobbi.» Gli sorrise in un modo stranissimo, un sorriso d'amore e di Paul Hoffman
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tenerezza. «Eri tu.» Una settimana dopo, un corteo si fermò nella fortezza. Tra gli uomini a cavallo c'erano il Redentore Generale Bosco e, al suo fianco, Cale. Tra le persone radunate per vederli partire c'erano il Maresciallo Ferrazzi, il Cancelliere Vipond e gli ufficiali più anziani che erano sopravvissuti alla battaglia di Silbury Hill. In mezzo a loro c'erano pure due file di soldati dei Redentori, per assicurarsi che Cale - libero, ma disarmato - non facesse nulla di disdicevole. Per il momento, a Bosco faceva comodo lasciare il Maresciallo dov'era. Tuttavia fu abbastanza saggio da non provocare la reazione di Cale con la presenza di Arbell e perciò le aveva ordinato - con grande sollievo della ragazza - di stare lontana dall'umiliazione ufficiale che stava per essere impartita a suo padre e a tutti gli altri abitanti di Memphis. Le aveva tuttavia chiesto di guardare e di ascoltare da una finestra. Non c'era stato bisogno d'ingiungerle di non farsi vedere. Nonostante le sue precauzioni, Bosco si chiedeva se fosse stato saggio non legare Cale. Il giovane fermò la sua cavalcatura e fissò il Maresciallo da sopra le teste delle guardie. Accanto a lui c'era Simon, turbato. Cale non sembrò notarlo. Quando parlò, la sua voce era così bassa che a malapena la si sentiva nel rumore dei cavalli inquieti. «Ho un messaggio per vostra figlia», disse Cale. «Sono legato a lei con cavi che nemmeno Dio può spezzare. Un giorno, se una brezza leggera le sfiorerà le guance, forse sarà il mio respiro. Una notte, se il vento fresco giocherà coi suoi capelli, forse sarà la mia ombra che le passerà accanto.» Con quella terribile minaccia, si voltò e il corteo si mise in moto. In meno di un minuto, scomparve alla vista. Nella sua stanza buia, Arbell Collo di Cigno era bianca e fredda come l'alabastro. In silenzio, il Maresciallo e la sua gente furono lasciati lì a riflettere sulla propria mortificazione. Quando Vipond tornò al proprio palazzo, accompagnato dal capitano Albin, si voltò verso di lui e gli mormorò: «Sapete, Albin, più invecchio e più credo che, a giudicare dai suoi effetti più evidenti, l'amore somigli di più all'odio che all'amicizia». Mezza giornata più tardi, il corteo si era lasciato alle spalle i sobborghi di Memphis e si dirigeva verso le Scablands e il Santuario. In tutto quel tragitto, Bosco e Cale non avevano scambiato una sola parola. Da una macchia di alberi discosta dalla strada, Henri, Kleist e Paul Hoffman
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IdrisPukke guardarono scorrere il corteo finché non scomparve. Poi cominciarono a seguirlo. FINE
Paul Hoffman
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