MARGARET WEIS LA SIGNORA DEI DRAGHI (Mistress Of Dragons, 2003)
Dedicato a Brian Thomson, con affetto. 1 Ogni mattina, ...
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MARGARET WEIS LA SIGNORA DEI DRAGHI (Mistress Of Dragons, 2003)
Dedicato a Brian Thomson, con affetto. 1 Ogni mattina, prima che il sole sorgesse a illuminare con minuscole particelle d'oro le colonne di marmo bianco del monastero, la Somma Sacerdotessa si recava nella Sala dell'Occhio Vigile per celebrare il Rito del Vedere. Lei sola poteva compiere quell'antico rituale: era uno dei suoi doveri e dei suoi privilegi. Mentre le altre sacerdotesse recitavano le loro orazioni mattutine nelle celle, Melisande, la Somma Sacerdotessa, percorreva il sentiero buio e freddo che portava dal monastero vero e proprio al piccolo tempio, all'interno del quale si trovava la Sala dell'Occhio Vigile. Eretto su un promontorio che si affacciava sulla valle e sulla città sottostanti, il tempietto era una costruzione circolare di marmo nero, dal tetto a cupola, sorretto da colonne di marmo ugualmente nero, ed era privo di muri. Stando in piedi tra le sue colonne, Melisande poteva vedere gli abeti, i cedri e i pini che formavano una cortina naturale tutt'intorno. Altre mura, questa volta di pietra e innalzate dall'uomo, circondavano invece il monastero, i suoi vasti terreni e i fabbricati esterni. Sul camminamento in cima alle mura, le guardie, esclusivamente donne, non perdevano di vista la loro sacerdotessa, pronte ad accorrere in sua difesa qualora se ne fosse presentata la necessità. Il piccolo tempio ospitava un oggetto sacro: un enorme bacile di marmo bianco. Dentro al bacile, nel marmo, erano stati inseriti alcuni tasselli di lapislazzuli raffiguranti l'iride di un occhio: l'Occhio Vigile. La pupilla, al centro, era di giaietto. Ogni giorno, a mezzogiorno, le accolite più giovani, vergini sia nella mente sia nel fisico, andavano in quella sala a lavare e a lucidare l'Occhio nel marmo. Ogni mattina all'alba, prima del sorgere del sole, la Somma Sacerdotessa andava là a consultare l'Occhio.
Sebbene, a oriente, i colori dell'alba tingessero già il cielo di rosa, le ombre della notte persistevano e si ammassavano fitte e pesanti, impigliate tra i rami dei pini. Tuttavia, Melisande non portava lampade con sé e procedeva spedita nell'oscurità. Non le serviva una lanterna. Aveva fatto quel percorso ogni mattina, durante gli ultimi dieci anni, da quando aveva diciott'anni. Conosceva ogni fessura del selciato, ogni dislivello del terreno, ogni curva della dorsale su cui si snodava il sentiero. Quando emerse dall'ombra, alla fioca luce delle stelle ormai pallide, era quasi giunta nei pressi del tempio. Avanzò di altri quattro passi per aggirare un gruppetto di pini, e lo vide stagliarsi contro il cielo che si andava a poco a poco rischiarando. Melisande indossava l'abito da cerimonia, quello che si infilava la mattina per compiere il rituale e si toglieva al suo ritorno, affinché venisse stirato e piegato, e riposto ai piedi del letto nella sua minuscola cella, pronto per essere usato il giorno successivo. Tessuto a mano con filo d'angora, l'abito era stato prima tinto di nero e successivamente immerso in un bagno di tintura viola. Quando lo aveva indosso, Melisande si sentiva un tutt'uno con la notte, e anche per quello preferiva non portare una lampada. Quando si sfilava quella veste sontuosa, sostituendola con il suo abbigliamento di tutti i giorni, si spogliava dei misteri della notte e si preparava a svolgere le normali incombenze quotidiane. Prima di entrare nel tempio, Melisande si tolse i sandali di cuoio. Il pavimento di marmo era freddo, ma lei era abituata a camminarci sopra a piedi nudi, anzi, trovava addirittura piacevole il brivido che le attraversava il corpo quando la sua carne nuda toccava la pietra gelida. Bisbigliando le sue orazioni, salì i tre gradini che portavano alla pedana sulla quale era collocato il bacile con l'Occhio. Melisande vi si inginocchiò davanti, recitò la preghiera di rito, poi sollevò la caraffa con l'acqua benedetta, che era posata là accanto, sul pavimento. Versò l'acqua nel bacile. L'iride azzurra brillò nel crescente chiarore dell'alba. L'Occhio rifulse di lacrime non versate. Melisande attese che le increspature dell'acqua svanissero e che la sua superficie tornasse calma e uniforme, poi pronunciò la formula rituale, insegnatale dalla Signora dei Draghi il giorno in cui era stata nominata Somma Sacerdotessa. «Tu che difendi il nostro regno, spalancati, e fa' sì che i miei occhi vedano ciò che tu vedi». Ogni mattina, per dieci anni, aveva fissato il suo sguardo nell'iride di lapislazzuli e ogni mattina aveva visto ciò che l'Occhio vedeva: la valle nella
quale il loro regno era annidato; le montagne che lo attorniavano, lo proteggevano e lo riparavano; la città di Setti, ai confini settentrionali della valle; i campi coltivati che la circondavano e le fornivano sostentamento; il castello del re, costruito sulle colline ai piedi della montagna; e, in posizione dominante al di sopra di tutti, il monastero del Sacro Ordine dell'Occhio, appollaiato in cima alla montagna conosciuta con il nome di Monte Sentinella. Quella mattina, Melisande vide tutto quello e anche di più. Vide il drago. Spalancò la bocca, mentre lo fissava incredula. Sebbene quel rituale quotidiano avesse come scopo proprio quello di scoprire la presenza di eventuali draghi, lei non ne aveva mai visto uno. Erano trascorsi vent'anni da quando la precedente Somma Sacerdotessa, guardando nel bacile, aveva visto ben otto draghi che scendevano verso la valle. Melisande rammentava quell'evento con estrema chiarezza. A quell'epoca aveva otto anni, e ricordava ancora l'elettrizzante terrore e l'eccitazione che aveva provato quando le guerriere avevano condotto tutte le bambine nei sotterranei del monastero per metterle al sicuro, lontano dalla portata dei draghi. Le altre sue compagne erano scoppiate in lacrime. Melisande non aveva pianto. Si era rannicchiata in quell'oscurità soffocante e piena di gemiti, mentre sentiva il terreno tremare a causa della furia violenta che si stava scatenando là fuori, e aveva immaginato di trovarsi nel Santuario dell'Occhio, insieme alle sorelle, a usare i suoi poteri magici per scacciare quelle bestie feroci che non portavano altro che distruzione. Non le era ancora stato impartito alcun insegnamento formale delle arti magiche; la sua istruzione al riguardo non sarebbe iniziata che a partire dai dodici anni. Ma conosceva le parole, per averle udite durante il salmodiare quotidiano delle sorelle e per averle ripetute, sussurrandole tra sé. I colori della magia si propagarono in strati vibranti attraverso la sua mente: rossi luminosi e arancioni brillanti, intesi ad abbagliare e a confondere i draghi, ad attirarli alla portata delle lance e delle frecce, o a mandarli a schiantare contro il fianco della montagna. La battaglia dell'Ordine Sacro contro i draghi invasori fu dura. Alla fine, i potenti incantesimi della Signora e delle sue sacerdotesse, abbinati alle frecce e alle lance delle guerriere, avevano messo in fuga i draghi da Seth. Quella notte, nell'uscire dai sotterranei, Melisande vide ripulire il selciato da chiazze di sangue rappreso. Chinandosi, le toccò con le dita: era sangue di drago.
Melisande pose le mani sul bordo del bacile di marmo e ne fissò il centro. L'Occhio scomparve. L'iride azzurra diventò cielo azzurro, terso e senza nuvole. Le squame verdi del drago scintillarono sotto i raggi del sole nascente; gli occhi, ai lati della testa massiccia, parvero guardare dritto verso di lei, benché Melisande sapesse che, in realtà, si trattava di un'illusione creata dall'Occhio. Il drago si trovava ancora molto lontano. Probabilmente era in grado di vedere le montagne di Seth, ma nulla più. Non ancora perlomeno. Melisande si sedette sui talloni e inspirò profondamente per placare il tremito che l'aveva assalita. Non era spaventata, poiché non c'era nulla da temere. Il tremito era stato provocato dallo choc di vedere ciò che non si sarebbe aspettata di vedere. Poi si alzò con mossa rapida, uscì dal tempio e rifece di corsa la strada che portava al monastero. Nel frattempo, ripassò mentalmente i suoi compiti. Le cose da fare erano molte, e non avrebbe potuto farle tutte contemporaneamente. Doveva stabilire delle priorità, determinare l'ordine di importanza di ciascuna; e rifletté proprio su quello, mentre si affrettava lungo lo stretto sentiero. Dopo aver raggiunto le mura di pietra grigia che circondavano il monastero, Melisande prese la chiave di ferro da una corda di seta che portava attorno alla vita e aprì il cancello. Si accorse, con sollievo, di essere riuscita a riprendere il controllo di sé e di avere smesso di tremare. Spalancò il cancello con mano ferma, lo richiuse e attraversò a passo rapido il giardino. Dalle merlature sulle mura, udì provenire un certo movimento. Le guerriere erano state di guardia tutta la notte. Avevano quasi terminato il loro turno e non vedevano l'ora di ricevere un pasto caldo e di andarsene a dormire, mentre percorrevano, sbadigliando, gli ultimi giri di ronda. Lo spettacolo sorprendente della loro Somma Sacerdotessa, solitamente composta, che si stava precipitando chissà dove a piedi nudi (aveva dimenticato i sandali), le allarmò. Una donna-ufficiale la chiamò, chiedendole cosa fosse successo, ma Melisande non perse tempo a rispondere. Non entrò nel monastero. Proseguì invece a tutta velocità attraverso il giardino, che circondava completamente i quattro edifici di marmo bianco, e varcò un altro cancello di ferro, dirigendosi verso le baracche: un grosso fabbricato, costruito con la stessa pietra grigia delle mura che cingevano il monastero. Il sentiero lastricato che collegava quest'ultimo alle baracche era diventato liscio per l'usura, dopo essere stato percorso per secoli da piedi calzanti pesanti stivali. Una volta giunta a destinazione, Melisande aprì le massicce porte di legno ed entrò nella penombra che odorava di
cuoio, d'acciaio e dell'olio di mandorla che le guerriere si spalmavano sul corpo. Bellona, in quanto comandante, era l'unica a possedere una stanza tutta sua, situata sul davanti delle baracche, così che potesse essere svegliata immediatamente se se ne fosse presentata l'occorrenza. La stanza era piccola, di forma quadrata, ammobiliata con una brandina di legno sulla quale era steso un materasso di piuma d'oca, un dono di Melisande; le guerriere, di solito, si accontentavano della paglia. La lucida corazza d'acciaio e l'elmo di Bellona erano appesi ordinatamente su un supporto di legno accanto al letto, con a fianco la spada e lo scudo. Un tavolo e due sedie erano stati collocati proprio sotto la finestra a feritoia, in modo da catturare i primi raggi del sole. Bellona stava ancora dormendo. Non si sarebbe svegliata che al rintocco delle campane che segnalavano la fine della notte e l'inizio di un nuovo giorno. Era sdraiata supina, il capo girato di traverso, i capelli scuri, scompigliati e arruffati. Essendo una che abitualmente dormiva di un sonno agitato, aveva calciato via la leggera coperta di lana, anch'essa dono di Melisande, facendola finire a terra, come al solito. Bellona dormiva nuda, poiché l'allarme avrebbe potuto suonare in qualsiasi momento e lei avrebbe dovuto farsi trovare pronta, armata di tutto punto, in men che non si dica. «Bellona», bisbigliò Melisande dalla soglia. Entrò nella stanza e si chiuse adagio la porta alle spalle. Non aveva voluto spaventarla, ma il tono di voce doveva averla tradita. Bellona si svegliò di scatto e balzò a sedere, la mano già protesa a cercare la spada. «Melisande? Che c'è? Che è successo?». Prosciugata delle proprie forze e del poco calore che le restava, Melisande si lasciò cadere sul letto accanto alla guerriera, che la fissò con un'espressione preoccupata, prossima a trasformarsi in paura. «Per la miseria, stai tremando!». Bellona le circondò le spalle con un braccio, stringendola a sé. «E i tuoi piedi! Stanno sanguinando. Dove sono i sandali?». «Lascia perdere i miei sandali, Bellona», disse Melisande, scostandosi per fissare l'altra dritto negli occhi scuri. «Stiamo per essere attaccati da un drago. L'ho visto». «Melis!» esclamò Bellona afferrandole il braccio concitata. «Ne sei certa?». «Sì», rispose Melisande con voce ferma. «L'hai detto alla Signora?». «No, sono venuta a dirlo prima a te. Sapevo che avresti avuto bisogno di
tempo per organizzare le difese». Bellona sorrise, mentre gli occhi scuri le si addolcivano. «Ti ringrazio per aver pensato a noi. Non molte delle tue sorelle l'avrebbero fatto». «Nessuna delle mie sorelle è stata istruita dal comandante in persona», replicò Melisande. Si sciolse riluttante da quell'abbraccio caldo, forte e rassicurante. «È necessario che avvisi la Congregazione e che vada subito dalla Signora». «Dille che saremo pronte in men che non si dica», dichiarò Bellona, mentre tendeva la mano ad afferrare l'armatura. «Devi assicurarti che le bambine vengano accompagnate al sicuro nei sotterranei», la pregò Melisande, ancora legata a quel ricordo d'infanzia. Bellona annuì con aria assente, la mente già rivolta alle varie incombenze che l'aspettavano. «Puoi contare su di me, Melis». «Sì, ci conto», rispose Melisande, stringendole la mano. «Sempre». Le due donne si scambiarono un bacio di congedo. «Devo mandare qualcuno ad avvisare il re?» domandò Melisande, voltandosi prima di raggiungere la porta. «Non mi va di disturbarlo. Il figlio più piccolo è malato, dicono, e pare che le cose non si stiano mettendo bene. Lui e la regina sono molto preoccupati». «Sua Maestà deve comunque essere informata. Manderò un messaggero», disse Bellona, allacciandosi gli stivali. «Di' a Sua Maestà che non si deve preoccupare», aggiunse Melisande. «Siamo più che pronte ad affrontare il drago». «Naturalmente», replicò Bellona in modo pratico. «Non suonerò il grande gong, però», continuò Melisande, pensando ad alta voce. «A meno che qualcosa non vada storto. Gli abitanti della valle faranno ancora in tempo a scappare se noi non riusciamo nell'intento». «Andrà tutto bene», la rassicurò Bellona, alzandosi. «Riuscirete a fare ciò che dovete fare». Il suo corpo bruno era tutto muscoli, forte e flessuoso, con seni piccoli e sodi. Era completamente diverso da quello di Melisande, che era morbido e delicato, con la pelle diafana di chi trascorre le giornate tra quattro mura in compagnia dei libri, a esercitare la mente anziché i muscoli. «Tu e la Signora vi prenderete cura di noi, Melis», aggiunse Bellona. «Avete tutta la nostra fiducia». Mentre si allontanava per chiamare a raccolta la Congregazione e per svegliare la Signora, Melisande si augurò di poter provare nei propri confronti la stessa fiducia che la sua innamorata dichiarava di nutrire verso di
lei. Il regno di Setti, nella valle di Setti, era nominalmente una monarchia, governata da un re o da una regina, a seconda del sesso del figlio primogenito, nato all'interno della famiglia reale. Tuttavia, il monarca era solo una figura rappresentativa, qualcuno che la folla potesse acclamare nei giorni di festa. Colei che regnava davvero su Seth era la Signora dei Draghi, e così era stato per gli ultimi trecento anni. Tutti lo sapevano e lo accettavano, compreso il monarca del momento. Trecento anni addietro, il regno di Seth era stato ridotto in schiavitù da un drago, che aveva preso dimora all'interno del Monte Sentinella. Il drago aveva condotto ripetuti attacchi su quelle terre, razziando bestiame, incendiando raccolti, uccidendo o portando nella sua tana qualunque disgraziato avesse avuto la sventura di farsi sorprendere all'aperto. Le vittime di quel predone furono centinaia. Altre centinaia, invece, fuggirono cercando rifugio in terre lontane. Seth fu quasi sul punto di scomparire dalla faccia della terra. Poi giunse un salvatore. Una delle festività che si celebravano ancora a Seth commemora quel fausto evento. Gli abitanti del regno costruivano un'effigie di legno con le sembianze del drago e portavano l'enorme e mostruosa immagine in processione per le strade, accompagnati da figuranti vestiti di nero e col volto coperto da maschere a forma di teschio, a simboleggiare i morti. Al termine della rappresentazione, un figurante con un abito bianco e una maschera dorata riproducete il sole affrontava il drago in una finta battaglia. La figura in bianco rappresentava la Signora, che annientava il drago con l'aiuto di una spada d'oro. L'effigie veniva poi bruciata in un grande falò, al centro dell'area in cui si svolgeva la festa, tra le esultazioni dei presenti. Quella era una rappresentazione simbolica dell'accaduto. In realtà, la Signora aveva sconfitto il drago in modo meno drammatico ma più efficace, facendo ricorso alla magia. Il drago venne scacciato, e non si fece mai più vedere. I cittadini, riconoscenti, offrirono alla Signora le ricchezze delle loro terre. Le offrirono il regno stesso, ma lei rifiutò. Non sarebbe diventata il loro sovrano. Sarebbe diventata la loro divinità. Fece costruire un tempio sul fianco della montagna e vi collocò all'interno il bacile di marmo conosciuto con il nome di Occhio Vigile. Chiese che nove fanciulle, tutte vergini, si offrissero volontarie per servire nel tempio e per imparare le arti magiche, così che quando lei fosse morta, una di loro avrebbe potuto prenderne il posto per garantire la sicurezza del regno.
Nel corso dei secoli, furono molte le donne che assunsero il titolo di Signora. Il monastero si ingrandì e acquisì maggior potere tanto che, in quel momento, contava al suo servizio venticinque donne, sedici delle quali vergini. La più anziana delle Sorelle dell'Occhio, questo era il nome con cui erano conosciute, era la Somma Sacerdotessa, colei che aveva il compito di vegliare sulle eventuali incursioni del nemico. Alla morte della Signora, la Somma Sacerdotessa le subentrava nella carica. L'intervento della Signora era stato più volte richiesto, poiché, nel corso degli anni, il regno di Seth aveva subito continui attacchi da parte dei draghi. L'assalto peggiore si era verificato vent'anni prima, quando diciotto enormi draghi avevano posto sotto assedio il monastero stesso. La battaglia era stata feroce. Molte sorelle della Congregazione erano morte, così come numerose e valenti guerriere. Sangue di drago si vide piovere dal cielo quel giorno, così che esso fu ricordato negli annali della storia come il Giorno della Pioggia Nera. Alla fine, i draghi vennero cacciati. Non accadde più che attaccassero in così gran numero, anche se, di tanto in tanto, uno o due facevano la loro comparsa. «Vengono a vedere se manteniamo la sorveglianza», diceva la Signora. La sorveglianza delle sorelle non si allentò mai. Gli abitanti di Seth vivevano in pace e prosperità nella loro valle isolata, pienamente fiduciosi nella vigilanza esercitata dalla Congregazione. Dieci anni prima, la Signora dei Draghi aveva nominato Melisande Somma Sacerdotessa. A diciott'anni, Melisande era la più giovane sorella mai stata scelta per quell'onorevole incarico, ma pochi misero in discussione i suoi meriti, poiché la sua padronanza delle arti magiche superava di gran lunga quella di qualsiasi altra fanciulla nata nel monastero. L'attuale Signora era molto anziana, prossima ormai ai settant'anni, e cagionevole di salute. Melisande era consapevole che la sua carica avrebbe potuto passare a lei in qualsiasi momento, e faceva di tutto per essere sempre all'altezza dell'onore che le era stato riservato. Quel giorno avrebbe dimostrato se la fiducia della Signora nella sua protetta era ben riposta. Il monastero vero e proprio, composto da quattro fabbricati, era stato costruito in modo da formare un quadrato attorno a un cortile centrale. Al centro di questo si trovavano due gong: uno enorme, di ferro, e un altro più piccolo, d'argento. Se si fosse suonato il gong di ferro, il suo profondo rimbombo avrebbe raggiunto la città sottostante, e le fattorie e i boschi che
si trovavano al di là, avvisando in tal modo gli abitanti di Seth che era in corso un attacco, e dando loro il tempo di mettersi in salvo nelle caverne all'interno delle montagne. L'altro gong serviva invece ad avvisare solo le sorelle della Congregazione. Melisande alzò il martello d'argento, pronta a colpire. In lontananza, udì Bellona che impartiva ordini, e rumori affrettati di passi, mentre le guerriere raggiungevano le loro postazioni. Alcune sorelle, incuriosite dall'inconsueta agitazione, si affacciarono alle finestre, chiedendosi cosa stesse accadendo. Melisande non le lasciò a lungo nel dubbio. Colpì il gong d'argento, facendo echeggiare il suo vibrante grido d'allarme in tutto il monastero. Altre teste spuntarono alle finestre dell'ala est, quella dei dormitori, dove vivevano le sorelle. «Presto!» disse loro Melisande. «Sto andando dalla Signora». Le teste scomparvero, mentre le donne si affrettavano a indossare i loro abiti sacri. Melisande ripose il martello d'argento sul suo supporto. Il gong continuò a vibrare, mentre a poco a poco il suono si smorzava. Alcune guerriere le passarono accanto, dirette verso l'ala sud del monastero, dove vivevano le nove madri. Le madri - o «giovenche» come venivano sdegnosamente chiamate dalle guerriere - erano le sorelle scelte dalla Signora per procreare, costrette a sacrificare così la loro verginità al fine di perpetuare la Congregazione. I bambini venivano tolti alle madri qualche tempo dopo la nascita. I maschi venivano affidati a quelle famiglie del regno che si erano viste negare dalla buona sorte un figlio maschio, e che necessitavano di un erede. Le femmine restavano nel monastero e venivano allevate dalla Congregazione, perché diventassero sorelle, madri o guerriere, a seconda dell'inclinazione che la magia faceva seguire al loro sangue. Quell'ala ospitava anche le «stanze dell'accoppiamento» (usate una volta al mese) e i locali riservati al parto. Le guerriere emersero dall'ala sud, scortando le madri con i loro figli verso i sotterranei del monastero. Melisande si affrettò oltre l'ala ovest, che in quel momento era vuota. Lì si trovavano le classi, dove venivano insegnate alle sorelle le arti magiche che avrebbero permesso loro di garantire la sicurezza del regno. Lì c'erano anche le cucine, le aule scolastiche e le aree di gioco riservate alle bambine. La quarta ala, quella a nord, apparteneva alla Signora ed era occupata dalle sue stanze, al di sotto delle quali si trovava il Santuario dell'Occhio.
La Signora dei Draghi conduceva una vita separata dal resto della Congregazione, come era giusto e conveniente per una persona assurta al grado di divinità. Si incontrava con gli altri molto di rado. Aveva consacrato la propria esistenza alla magia e trascorreva gran parte di ogni giornata nel Santuario, ad affinare le proprie capacità prodigiose, grazie alle quali era in grado di tutelare la tranquillità di quelle terre. Due porte di bronzo impedivano l'accesso a chiunque, tranne che alla Somma Sacerdotessa e ad alcune componenti della Congregazione, le quali, comunque, potevano entrare solo dietro suo esplicito invito. Una cerchia ristretta di guerriere era stata scelta per prestare la guardia a quelle porte. Queste scattarono sull'attenti, nel vedere Melisande che si avvicinava. Avevano sentito il gong d'argento e, sebbene non avessero ricevuto ordini diretti dalla Signora, in casi di emergenza come quello le istruzioni erano di lasciar passare la Somma Sacerdotessa. Melisande non era forte abbastanza per aprire da sola le pesanti porte di bronzo, e le guardie lo fecero per lei. «Buona caccia, Somma Sacerdotessa», le augurò una di loro, mentre Melisande faceva il suo ingresso negli appartamenti della Signora. La luce del giorno entrò con lei, illuminando il lungo e stretto corridoio di legno dalle pareti affrescate. Gli occhi dei draghi raffigurati nei dipinti brillarono di nuova vita. Ma i raggi del sole svanirono non appena le porte di bronzo si richiusero con un tonfo sordo, portandosi via quella breve scintilla di vita. Del tutto privo di finestre, il corridoio era rischiarato solo dal bagliore delle lanterne, collocate a intervalli regolari sulla parete. Uno dei compiti delle guerriere consisteva nel rifornire le lanterne dell'olio che le teneva sempre accese. L'oscurità era pregna del profumo dell'incenso e comunicava una sensazione avvolgente, calda e confortevole. Negli appartamenti privati della Signora non era permesso correre. E neppure gridare o parlare. Bisognava entrare a capo chino, rivolgendo la mente a pensieri sacri, e muoversi con analogo decoro. Melisande dovette costringersi a rallentare il passo. Si rammaricò di aver dimenticato i sandali. La Signora avrebbe pensato che trascurava la disciplina. Cercando di placare la propria agitazione con l'aiuto delle preghiere e con la certezza che il drago fosse ancora lontano, percorse con quanta più dignità poté i corridoi in penombra che portavano alla camera da letto della Signora. Fu sorpresa di trovare la porta chiusa. L'apertura dei due battenti di bronzo azionava un filo che faceva squillare una campanella nelle stanze private della Signora, avvisandola dell'arri-
vo di un visitatore. Normalmente, lei avrebbe dovuto aprire la porta per accogliere l'ospite. Trovandola ancora chiusa, Melisande dedusse che l'anziana Signora stesse ancora dormendo e non avesse udito la campanella. Stava sollevando la mano verso il batacchio di bronzo a forma di drago, quando la porta si spalancò. La figura della Signora si stagliò sulla soglia. I fili d'oro di cui erano intessute le sue vesti da cerimonia brillavano, riflettendo la luce di una lampada a olio, posta su un tavolo di legno riccamente intagliato. I suoi settant'anni le avevano risucchiato le forze dal corpo. I capelli erano candidi come la neve, il viso avvizzito e solcato da rughe profonde, il fisico sottile e curvo. Ma la voce era ancora vigorosa, e i suoi occhi scuri scintillavano con ardore. «Hai visto un drago», disse. «Sì, mia Signora», rispose Melisande, vergognandosi di non riuscire a nascondere il tremito nella propria voce. In quel luogo consacrato, la gravità della situazione, il pericolo che correva la sua gente e il senso di responsabilità che avvertiva le ricaddero addosso, soffocandola sotto il loro enorme peso. Per un attimo, desiderò con tutta se stessa di tornare a essere quella bambina di otto anni, che veniva portata al sicuro dalle robuste braccia di una guerriera. «Quanti sono?». «Solo uno, Signora». «E si sta dirigendo qui? Ne sei certa?». «Il drago era ancora molto piccolo dentro l'Occhio, Signora. Ma, mentre lo osservavo, diventava via via più grande. Sta venendo qui. E i suoi occhi erano puntati dritti su di me». La Signora sorrise. I suoi sorrisi erano rari e sempre molto contenuti, così che Melisande non poteva mai dire con certezza se la Signora fosse contenta di qualcosa che lei aveva fatto o se la sua gioia scaturisse da qualche segreto interiore. «Sapevo che saresti stata tra le prescelte», disse la Signora. Si accostò a Melisande e le afferrò il polso. «Lo avevo capito sin da quando eri piccola. Vedevo la magia danzare nella tua mente. Descrivimi il drago». «Si tratta di un giovane maschio, a giudicare dal colore brillante delle sue squame: verde dorato sul dorso, sulle spalle e sulla cresta, tendente al blu sulla pancia, sulle gambe e la coda. Devo radunare le sorelle...». «Sì, chiamale». La mano della Signora era tutta tendini, pelle e ossa. Strinse saldamente il polso di Melisande. «Di' che si rechino nel Santuario.
Avvisa le guerriere...». «L'ho già fatto, Signora». «Già, certo». La Signora sorrise di nuovo. «Pare proprio che tu abbia fatto tutto ciò che era necessario, Melisande. Io vado al Santuario per prepararmi. Tu invece torna nella Sala dell'Occhio per tenere la situazione sotto controllo. Quando vedrai la testa del drago riempire tutto il bacile e ti sembrerà di non riuscire a nasconderti alla sua vista, vorrà dire che quell'orrendo animale sarà quasi arrivato sopra di noi. Allora, raggiungici nel Santuario, poiché avremo bisogno di te». La Signora non lasciò la presa. La trattenne con la mano e con il magnetismo di quel suo sguardo scuro e scintillante. «Questa sarà la tua prova, Melisande. Ho fiducia in te. Anche tu ne devi avere». «Farò del mio meglio, Signora. Ho ancora molto da imparare». La mano dell'altra si rilassò, il suo tocco si fece gentile, carezzevole. «Il tuo tempo giungerà molto presto, Melisande». «No, Signora, non dite questo», replicò Melisande, sinceramente addolorata. «Resterete con noi ancora per molti anni...». Il sorriso della Signora diventò triste e intenso. Scosse il capo. «Ci viene sempre dato di conoscere il nostro tempo, Melisande. Anche per te sarà così, quando giungerà la tua ora». Poi le diede un colpetto sbrigativo sulla mano. «Ma quell'ora non giungerà oggi. Adesso, dobbiamo prepararci a ricevere il nostro nemico. Vai a fare il tuo dovere, figlia mia. Mentre io farò il mio. E ricorda, come tu puoi vedere il drago, così lui può usare i suoi poteri magici per vedere te. Non lasciarti intimidire». La Signora la salutò con un cenno del capo. Melisande si inchinò e uscì camminando a ritroso, e lei chiuse la porta. Melisande indugiò un momento nell'oscurità profumata. Mentre chiudeva gli occhi e pregava in silenzio la Signora affinché le desse coraggio, pensò che ben presto non avrebbe avuto nessuno a cui rivolgere le proprie richieste. La Signora sarebbe stata lei, ed era a lei che sarebbero state indirizzate tutte le preghiere. Trovò quel pensiero sconvolgente e scoraggiante. Si chiese come mai non le fosse mai venuto in mente prima. «Forse perché avevo dato per scontato che la Signora vivesse in eterno». Interruppe a metà la sua invocazione d'aiuto. Se era quasi giunta la sua ora di assurgere al grado di divinità, avrebbe fatto meglio ad abituarsi ad agire da sola.
Suonò la campanella per chiedere alle guardie di aprire le porte di bronzo. Socchiudendo gli occhi alla vivida luce solare, inspirò una profonda boccata di aria fresca. Le guerriere avevano rinforzato le postazioni lungo tutte e quattro le mura. Altre loro compagne stavano portando al sicuro il resto delle bambine. Melisande vide le piccole che si aggrappavano alle soccorritrici, le braccia strette attorno al collo, gli occhi assonnati, ma spalancati per la novità di ciò che stava accadendo, e fece loro un sorriso rassicurante. Le «giovenche» venivano subito dietro, consolando le bimbe più impaurite e invitandole a rivolgere preghiere alla Signora. Le sorelle della Congregazione erano in attesa di essere ammesse all'interno del Santuario. A un cenno di Melisande, le sfilarono davanti, portandosi fuori dalla luce del sole, inghiottite dall'oscurità. Indossavano le loro vesti bianche, i cappucci tirati sul capo, gli occhi abbassati, le mani giunte in preghiera. Assorbite nelle loro orazioni, non rivolsero la parola a Melisande, né lei la rivolse a loro. Continuò per la sua strada, affrettandosi a tornare alla Sala dell'Occhio. Nel varcare il cancelletto, vide Bellona, che percorreva i camminamenti, ispezionando ogni guerriera, accertandosi che fossero tutte pronte. Mentre abbassava lo sguardo, questa scorse Melisande, e le due donne si rivolsero un sorriso e uno sguardo affettuoso, poi ciascuna tornò a dedicarsi alle proprie incombenze. Mentre avanzava lungo il sentiero illuminato dai raggi del sole, Melisande ripensò a quella bambina che aveva fatto appello alla magia nell'oscurità. Ripensò a lei, e i suoi dubbi svanirono. Inviò la sua benedizione a quell'immagine di lei, ormai lontana nel tempo, e proseguì fiduciosa, pronta a fronteggiare il drago. 2 Melisande si inginocchiò di nuovo accanto al bacile dell'Occhio Vigile. Si soffermò un istante prima di guardare nell'acqua, cercando di tranquillizzarsi e fare il punto della situazione: una ben ardua impresa. La sua mente si rifiutava di restare in quel luogo quieto e sacro, non faceva che tornare alla montagna, a Bellona, alla Signora e alle sorelle, chiedendosi se stessero bene, se c'era qualcosa che avrebbe dovuto fare e che non aveva fatto, chiedendosi se le bambine erano al sicuro... «Basta!» Melisande si impose. «La Signora è con noi. Ha la situazione sotto controllo. Il mio compito è sorvegliare il drago».
Pose le mani sull'orlo dell'enorme recipiente di pietra e si chinò su di esso, osservando con attenzione l'acqua immobile. Due occhi la fissarono. Occhi vibranti di vita. La testa del drago occupava tutto il bacile; gli occhi rossi, dalle pupille ridotte a due fessure assassine, fissavano imperturbabili i suoi. La visione era spaventosa, e Melisande fece un balzo indietro per impedire a quel terribile sguardo di penetrare in lei. E ricorda, come tu sei in grado di vedere il drago, così lui può usare i suoi poteri magici per vedere te. Non farti intimidire da lui. Melisande si ricordò dell'ultima raccomandazione della Signora. Doveva sfidare il drago, mostrargli che non lo temeva... eppure esitava. Rivide l'intelligenza e l'astuzia dei suoi occhi, quando lui l'aveva guardata intensamente attraverso l'acqua tranquilla. Se fosse riuscito a penetrare le sue barriere mentali, sarebbe stato in grado di scoprire i dubbi e le paure che lei cercava di nascondere. «Non devo preoccuparmi di lui», pensò. «Non ho paura. Io sono la Somma Sacerdotessa e lui non è altro che un mostro». Tornò a guardare l'acqua, affrontando lo sguardo del drago. «Sono la Somma Sacerdotessa del Tempio dell'Occhio Vigile», gli disse, mentre sentiva che stava riprendendo coraggio. «Ti do un saggio avvertimento, Drago. Non darci problemi e noi non ne daremo a te». «Noi?» chiese il drago. «Chi è questo "noi" che mi minaccia? Vedo una sola persona davanti a me, e anche piuttosto deboluccia. Chiama la tua Signora. Lei è l'unica con la quale intendo parlare». Il drago non comunicava ad alta voce, o almeno non muoveva la bocca. La sue parole apparivano nella mente di Melisande come tante immagini dai colori vivaci, così che lei potesse percepirne il significato più che sentirlo. Quella vista la sconvolse: i colori erano troppo forti, stridenti e vividi, talmente intensi da ferirla. Melisande indietreggiò e provò l'impulso di voltarsi dall'altra parte, ma rimase salda nel suo intento e sostenne lo sguardo del drago. «La mia Signora non si degna di parlare con uno come te. Noi siamo le Sorelle del Drago e siamo pronte ad affrontarti con i nostri poteri magici. Adesso che sei avvisato, te ne puoi anche andare». Gli occhi del drago scintillarono. «Fate pure. Io parlerò alla tua Signora. Sono venuto per questo e per questo soltanto». Poi distolse lo sguardo; i colori si fecero sbavati e sbiadirono fino a scomparire del tutto, lasciandola vuota ed esausta. Il drago aveva perso
ogni interesse per lei. Lei era un essere umano, una forma di vita inferiore. Melisande cercò di capire se dietro a quel drago solitario se ne nascondessero altri, ma non ne vide e cominciò a comprendere. Quello non era un assalto ben studiato e pianificato da un gruppo di draghi. Era l'attacco di uno solo, un giovane maschio, che voleva mettersi alla prova. Melisande era rabbiosa. Quel drago era là per appagare i propri desideri di grandezza, attaccava per fare bella figura davanti ai superiori o forse per conquistare i favori di qualche femmina della sua specie. La sua richiesta di parlare alla Signora non era altro che uno stratagemma, un inganno. Melisande si sedette sui talloni e fissò l'Occhio, concentrandosi sul drago, poiché la Signora avrebbe voluto saperne quanto più possibile. Una parte dell'addestramento delle sorelle della Congregazione consisteva nello studio dei draghi. «Conosci il tuo nemico», era il monito della Signora, la quale aveva trasmesso loro tutte le sue conoscenze, incluso ciò che aveva a sua volta appreso da chi l'aveva preceduta; e così era sempre stato, risalendo indietro nel tempo, fino alla prima Signora dei Draghi. Al pari degli esseri umani, questi animali si differenziavano l'uno dall'altro per forma e misura, per altezza e peso, per colore delle squame, della cresta e degli occhi, per temperamento e personalità. Bellona aveva la pelle scura, i capelli neri e gli occhi castani, mentre Melisande era bionda e chiara e aveva gli occhi del colore dei lapislazzuli del bacile. L'attuale Signora aveva la carnagione olivastra come Bellona, ma quella prima di lei aveva il medesimo incarnato diafano di Melisande. Un analogo discorso si poteva fare per i draghi. Nelle aule si trovavano dei vasi di pietra contenenti le squame dei draghi che avevano cercato di invadere il regno. Quella stessa bambina, che un tempo aveva sussurrato le parole magiche, era rimasta affascinata da quelle squame. Mentre le altre ragazze giocavano, Melisande si era recata spesso nelle aule per osservare le squame di drago, che brillavano e scintillavano sotto i raggi del sole. Uno dei vasi conteneva squame di colore blu scuro, come il succo di mora. Un altro, squame di colore cangiante verde-giallo, come le foglie nuove in primavera; un altro, squame rosse come il sangue o il fuoco, e un altro ancora, squame color dell'ametista. Melisande aveva trovato difficile identificare con il male creature di tale bellezza e magnificenza, ma le era comunque bastato osservare i dipinti appesi nella camera della Signora, per vedervi rappresentata la forza distruttiva di quei mostri in tutta la sua intensità.
«Le squame dei giovani draghi», aveva spiegato la Signora, «possiedono una sfumatura più brillante rispetto a quelle degli esemplari più anziani, poiché, col tempo, il colore tende a scurirsi. In questo modo si definisce l'età dell'animale. Le squame dei draghi molto vecchi a volte diventano così scure da apparire quasi nere, indipendentemente dalla tonalità che avevano in origine». Le squame del drago in questione erano di un verde brillante, iridescente. I suoi occhi erano rossi, come devono essere gli occhi di un drago, ma quelli di questo drago in particolare avevano un bagliore arancione che ne tradiva la giovinezza, il precipitoso coraggio e l'incosciente spavalderia. Il dorso ricoperto di aculei presentava una gradazione di verde più scuro, tendente al turchese. Melisande non riusciva a scorgere le ali, al momento, perché la testa della bestia occupava tutto il recipiente, ma ricordava che erano di un verde chiaro, coriacee, simili a quelle di un pipistrello. Il drago aveva quattro zampe, quelle anteriori più piccole, che svolgevano una funzione analoga a quella delle braccia degli uomini; quelle posteriori, possenti e muscolose, che servivano a fornire al suo corpo massiccio la spinta necessaria ad alzarsi in volo. La coda era lunga, della stessa lunghezza del corpo, e garantiva al drago una buona stabilità a terra e fungeva da timone mentre era in volo. La cresta aculeata gli arrivava fino alla coda. La testa del drago era liscia, aggraziata, come quella di un rettile. Le squame scintillanti formavano un disegno a V, nel quale i colori più scuri del dorso scendevano fino in mezzo agli occhi, lasciando gradualmente posto a squame di un verde più brillante, che ricoprivano il muso e le mascelle poderose. Dalla bocca del drago sporgevano quattro zanne, due sopra e due sotto, mentre gli altri denti affilati erano nascosti. Melisande si alzò. Non riusciva più a cogliere la bellezza del drago. Poteva solo vedere l'incurante crudeltà di una bestia che si divertiva a giocare con la vita degli uomini. Non dubitava che fosse pronto ad attaccare Seth, l'unico regno in tutto il Dragonvarld capace di tenere testa ai draghi, che terrorizzavano e dominavano il resto del mondo. Al sicuro nella propria vallata, il popolo di Seth aveva tagliato i ponti con tutte le altre terre, vietando l'accesso a chiunque. «Perché, se gli altri popoli di Dragonvarld venissero a sapere della pace e della prosperità che regnano a Seth, si riverserebbero qui a migliaia e noi perderemmo tutto ciò per cui abbiamo lottato così a lungo», aveva dichiarato la Signora. Mentre la paura svaniva per lasciare posto alla rabbia, Melisande si al-
lontanò dall'Occhio. Sapeva tutto ciò che doveva sapere. Il drago sarebbe venuto per dare battaglia. Riuscì a mantenersi calma abbastanza da ricordarsi di riprendere i sandali e tornò di corsa al monastero, impaziente come un giovane soldato alla sua prima battaglia. Non appena le guerriere sulle mura la videro, la chiamarono concitate e le chiesero se il drago stesse per arrivare. Furiosa per tale mancanza di disciplina, Bellona intimò loro di tacere. Melisande varcò il cancelletto e attraversò a tutta velocità il cortile. Accanto al grande gong di ferro si trovavano già due guerriere. «Suonate l'allarme», ordinò loro Melisande e, non appena le prime note risuonarono nella vallata, le donne sulle mura esultarono, percuotendo i loro scudi con le lance. Melisande lanciò un rapido sguardo verso Bellona, che stava percorrendo a grandi passi il camminamento, esortando le sue guerriere a combattere coraggiosamente, morire gloriosamente e ad aggiungere altre squame a quelle già contenute nei vasi di pietra. Nell'udire le parole di Bellona «morire gloriosamente», Melisande vacillò. Fu colta da un attacco di paura, non per se stessa, ma per la sua compagna. Melisande non aveva mai, fino a quel momento, pensato di poter perdere il suo amato bene; ora sapeva che quella possibilità era più che reale, poiché se i poteri magici avessero fallito e il drago fosse uscito vincitore dall'assalto, Bellona sarebbe stata in prima fila nella mischia: la prima ad attaccare, la prima a cadere. «Oh, mia Signora, fa' che questo non avvenga», pregò Melisande. Con aria risoluta, si affrettò in direzione del Santuario. Le porte di bronzo dell'ala nord erano aperte e incustodite. La Signora aveva ordinato alle guardie di prendere parte alla difesa del monastero. Le sorelle avrebbero già dovuto essere all'interno del Santuario, a preparare le loro potenti arti magiche per combattere il drago. Incurante delle formalità, Melisande fece di corsa tutto il buio corridoio. La porta che dava sul Santuario dell'Occhio si trovava accanto alla camera della Signora, di modo che lei potesse accedervi con facilità in qualsiasi momento. Di solito, era chiusa a chiave. La Signora era l'unica a possederne una. Quel giorno, la porta era aperta. Il bagliore delle fiamme del braciere si diffondeva in tutto il corridoio, illuminando di luce viva le sinistre immagini dei draghi raffigurate sui dipinti. Melisande varcò la soglia, discese una lunga rampa di scale in pietra e percorse un altro corridoio che si incuneava nella montagna. Tagliati diret-
tamente nella roccia, i muri di quel passaggio erano ruvidi e irregolari, l'aria fredda. L'odore della terra si mischiava alla fragranza dell'incenso e del profumo, che si propagava fin là, provenendo dal Santuario più avanti. Per il suo aspetto cavernoso e approssimativo, il Santuario dava l'impressione di essere stato scavato nella montagna da una mano gigantesca, con un solo colpo di pala. Il locale aveva una forma ovale, e le pareti e il soffitto bombato erano costituiti da una superficie rocciosa diseguale, sconnessa e friabile. Il pavimento di pietra era liscio, consumato dai passi delle innumerevoli sorelle che l'avevano calpestato. Sul lato nord si trovava un altare di marmo bianco, talmente grande che un uomo avrebbe potuto sdraiarvisi sopra e disporre ancora di spazio per allungarsi. Quell'altare era conosciuto con il nome di «Primo Miracolo», perché, a causa delle sue dimensioni, non sarebbe mai potuto passare attraverso la porta, e nemmeno cento uomini sarebbero stati in grado di sollevarlo, tanto era pesante. Eppure, era là. Stando a ciò che professavano le dottrine, era stata la terra stessa a donarlo alla Prima Signora. L'altare di marmo era splendidamente scolpito e riproduceva figure di draghi. Doveva essere sicuramente antico, giacché il colore del marmo aveva cominciato a ingiallire per l'età. La polvere si era depositata nelle crepe e nelle fessure, contornando di nero ogni squama di drago e facendola risaltare nettamente sullo sfondo. La superficie dell'altare era liscia. Un braciere di ferro, la cui struttura riproduceva due mani protese, era stato collocato là accanto. Uno dei compiti più importanti assegnati alla Congregazione era quello di tenere sempre acceso il fuoco sacro, perché, come la Prima Signora aveva profetizzato, se questo si fosse spento, i draghi avrebbero vinto e Seth sarebbe caduta. Il fuoco veniva alimentato con la torba, ricavata dalle paludi giù nella valle, modellata a forma di mattoni e trasportata su per la montagna dagli uomini che l'avevano estratta, gli unici esseri umani di sesso maschile ai quali fosse mai stato concesso di avvicinarsi al monastero (eccezion fatta per gli uomini che venivano scelti ogni mese per la riproduzione). Gli stessi lasciavano il loro carico di torba a circa otto chilometri dal Santuario, ed erano le guerriere a recuperarlo e a portarlo a destinazione. Le sorelle trasportavano poi la torba giù per le scale fino a una piccola caverna un po' discosta dal Santuario, dove le mattonelle venivano benedette dalla Signora. Una volta posta sul braciere, alla torba si aggiungeva incenso e profumo per purificare ulteriormente il fuoco. Un condotto nella
volta consentiva la fuoriuscita del fumo sacro sulla cima della montagna. Nelle giornate terse, gli abitanti di Seth potevano osservare le montagne e vedere la sottile scia di fumo prodotta dal braciere, traendo così conforto dalla consapevolezza che la Signora li stava proteggendo. Ciascuna sorella si sistemò su un piccolo tappeto di lana che portava i simboli dell'Occhio Vigile, della Mano Amorevole e della Mano Protettrice. Una mano brandiva la lancia, l'altra il fulmine, simboleggiando i due modi di combattere i draghi: la lancia delle guerriere e il fulmine dei poteri magici della Congregazione. Entrando, Melisande trovò tutte al loro posto, inginocchiate a formare un cerchio intorno al grande Occhio inciso nel pavimento di granito. Quell'Occhio era conosciuto con il nome di «Secondo Miracolo», in quanto si diceva che fosse apparso il giorno in cui la Signora si era prostrata dinanzi all'altare e aveva proclamato che in quel luogo avrebbe combattuto i draghi. Le sorelle avevano steso i loro tappeti in modo da avere lo sguardo rivolto all'interno del cerchio, verso l'Occhio. Erano a capo chino, raccolte in preghiera, le voci appena un sussurro. C'erano tutte. Tutte, tranne la Signora. Melisande si domandò, con una certa apprensione, se la tensione non fosse stata eccessiva per l'anziana donna e non l'avesse fatta ammalare. Stava quasi per andarla a cercare, quando alcune sorelle notarono la sua presenza e si inchinarono al cospetto della loro Somma Sacerdotessa. A quel punto, Melisande non poteva più andarsene. La sua partenza improvvisa avrebbe causato notevole agitazione, interrompendo la concentrazione della preghiera. La Signora era una donna orgogliosa. Non sarebbe stata grata a Melisande per essere andata a cercarla, quasi volesse rimproverarle di aver dimenticato o trascurato i propri doveri. Se la Signora tardava, doveva avere le sue buone ragioni. Melisande salutò le sorelle con un inchino. Portandosi silenziosamente dall'altra parte della sala, prese posto nel cerchio, di fronte all'altare di marmo. Le sorelle indossavano le loro vesti sacre, abiti di pura lana d'agnello, con i simboli delle Mani e degli Occhi ricamati sul bordo della gonna e delle maniche. Melisande portava un indumento simile, tranne che per il colore, che era nero, e per i profili dorati, che stavano a indicare il suo grado di Somma Sacerdotessa. Esaminò le sorelle a una a una, per essere certa che fossero tutte adeguatamente abbigliate. Dopo aver constatato che era tutto a posto, Melisande si lasciò cadere con sollievo sul suo tappeto. Il calore che proveniva dal braciere era piacevole. Solo allora si accorse di essere gelata fino al midol-
lo e scossa dai brividi. Fino a quel momento non se ne era resa conto. Incominciò a recitare le parole rituali della preghiera: «O Signora dei Draghi, vieni da noi in questo momento di necessità...». Sentì che quell'invocazione assumeva ora un significato nuovo per lei, e si trovò a pregare con un fervore mai provato prima. E, quasi in risposta, la Signora dei Draghi fece il suo ingresso nella sala. Indossava i paramenti, simbolo della sua alta carica: una lunga tonaca di lana, decorata da migliaia di minuscole perline che disegnavano un motivo simile alle squame di un drago. Per confezionare quell'indumento, venti donne avevano lavorato per cinque anni. Tutti i colori delle squame che si trovavano nei vasi di pietra erano rappresentati nelle sfumature del ricamo e la veste luccicava e scintillava alla luce delle fiamme. La Signora portava in testa una corona d'oro che raffigurava delle mani strette intorno all'Occhio Vigile, un bellissimo zaffiro. Le sorelle fecero un profondo inchino, andando a sfiorare con il capo il pavimento di pietra. Melisande si inchinò a sua volta, poi si rialzò e prese la Signora per mano, conducendola all'altare con aria solenne. Quest'ultima si sedette accanto al braciere acceso. Melisande si inchinò di nuovo e si allontanò per riprendere il suo posto nel cerchio. Una delle sorelle parlò. La sua voce era sommessa, ma essendoci tutt'intorno un gran silenzio, risultò chiaramente udibile. «Melisande ha del sangue sui suoi indumenti sacri, Signora». Alcune compagne trattennero il respiro, così che un debole ansito sibilante si diffuse attraverso la sala. Melisande non ebbe bisogno di indagare per sapere chi aveva fatto quell'osservazione perché sapeva benissimo di chi si trattava. Lucretta era più anziana di Melisande di cinque anni e aveva sempre avuto la certezza che sarebbe stata lei la prescelta per il ruolo di Somma Sacerdotessa. La Signora, invece, le aveva preferito Melisande, facendola andare su tutte le furie. Questa aveva riversato la propria ira sulla sua antagonista, che sopportava in silenzio i suoi modi offensivi e gli insulti, sapendo bene, così come lo sapeva Lucretta, che le meschine gelosie non avrebbero dovuto compromettere la sacra unità della Congregazione. Melisande si osservò l'orlo e notò che il profilo dorato era macchiato di rosso, probabilmente del sangue delle ferite che si era procurata ai piedi. L'altra doveva avercela messa tutta per notare quel piccolo particolare. Melisande si sentì pervadere il corpo da una spiacevole sensazione di calo-
re, e si voltò a guardare la Signora, dietro all'altare. «Signora, io...» cominciò a dire. La Signora rispose con un rapido cenno di diniego della mano, e Melisande tacque. «Il sangue sulla veste della nostra Somma Sacerdotessa dimostra la sua devozione alla causa», disse la Signora, in tono grave. «Melisande, prendi il tuo posto e guidaci nella preghiera». Inginocchiandosi sul tappeto, Melisande lanciò una rapida occhiata a Lucretta. Il viso dell'altra era nascosto, ma il collo era rosso di rabbia. Quell'incidente non aveva fatto altro che contrariarla ulteriormente. Melisande era decisa a cancellare dalla sua mente Lucretta e le sue meschine gelosie. Adesso dovevano combattere il drago. Fissò il centro dell'Occhio di pietra scolpito nel pavimento e cominciò a recitare la rituale Preghiera della Battaglia, chiedendo alla Signora di concedere loro i poteri magici con cui poter combattere il nemico. Mentre cominciava a pregare, Melisande prese per mano la sorella che stava alla sua sinistra (fortunatamente, non si trattava di Lucretta) e quella alla sua destra. Alle sue spalle, udì la voce esitante della Signora pronunciare le parole della formula magica che solo lei conosceva, e che sarebbero state tramandate, in punto di morte, a chi le fosse succeduta. Tutte le sorelle si presero per mano fino a formare un cerchio ininterrotto intorno all'Occhio di pietra. A mano a mano che Melisande proseguiva nella preghiera, il suo coraggio cresceva e la sua voce acquistava forza e vigore. Le sorelle si unirono a lei e le loro voci erano talmente vibranti e appassionate, che la stanza risonò del loro salmodiare. Cominciarono tutte a ondeggiare avanti e indietro, tenendosi per mano, al ritmo della loro cantilena. La Signora alzò anche lei il tono di voce, contrapponendo le sue parole al canto del resto della Congregazione. Melisande sentì scottare in modo innaturale le mani delle due sorelle di fianco a lei. La magia, chiamata «la maledizione del sangue», agiva su di lei e sulle altre come una febbre, rendendo la pelle calda al tatto, e inducendo, in certi casi negli elementi più deboli, uno stato di delirio. I colori bruciavano nella sua mente, sfavillando, volteggiando e scintillando. Il salmodiare cresceva di intensità. I poteri magici della Signora alimentavano il fuoco nel braciere. Le fiamme divamparono. Gli abitanti della valle, in timorosa attesa della battaglia, esultarono nello scorgere il fumo
che fuoriusciva dalla montagna. Anche il drago avrebbe visto il fumo, ma non ne avrebbe compreso il potere. L'Occhio intagliato nella pietra si mosse e cominciò a espandersi, e Melisande si chiese spaventata se ciò fosse dovuto al delirio, poi si rese conto, con un fremito che cancellava il dolore e la ebbre, che si trattava del miracolo compiuto dalla magia. Lei non aveva mai assistito a quel miracolo e ne fu sgomenta. Il pavimento di pietra svanì. Al suo posto apparve un cielo azzurro contro il quale si stagliavano le cime delle montagne imbiancate. Il sole invase la stanza. Da dietro la montagna spuntò il drago. La Signora emise un forte grido, che parve esserle stato strappato dal fragile corpo, un grido di collera, di odio e trionfo. Il drago lo sentì, o almeno così parve, poiché girò improvvisamente il capo e puntò lo sguardo dalle pupille contratte direttamente su di loro. I colori della mente di Melisande, impressi in fondo ai suoi occhi, presero forma: gialli dalle tonalità stridenti e affilati grigi metallici, pronti a colpire e a lacerare. I colori si fusero con quelli delle altre sorelle e cominciarono a produrre il loro effetto sulla mente del drago, confondendolo, e al tempo stesso proteggendo la Congregazione dai suoi eventuali sortilegi. La Signora liberò il potere della sua magia, un'esplosione di energia che si levò turbinando, insieme al fumo. Il drago cercò di deviare dalla sua traiettoria, ma era troppo tardi. La magia lo avvolse nel suo vortice, intrappolandolo. L'animale agitò disperatamente le ali nel tentativo di scappare, ma l'incantesimo lo fece ruotare su se stesso, quasi fosse uno spruzzo di schiuma proiettato in aria da un turbinoso torrente. L'energia che si era sprigionata gli fece sbattere più volte e con violenza la testa contro il corpo, strappandogli grida di dolore e di rabbia. Lo sfortunato drago fu sballottato di qua e di là da quei poteri magici, che lo trascinavano sempre più verso il basso, facendogli correre il rischio di andare a sfracellarsi sulle rocce aguzze. Si trattava di un esemplare giovane e vigoroso, che si oppose strenuamente per evitare la terribile fine che lo aspettava, ma Melisande capì che le forze lo stavano abbandonando. Adesso era a portata di tiro delle guerriere. Le lance e le frecce volarono in aria, descrivendo le loro traiettorie micidiali: una gli squarciò un'ala, un'altra lo colpì, rimbalzando, sul dorso coperto di squame Stava per essere annientato, inesorabilmente, e non a-
veva scampo. All'improvviso, la Signora incespicò sulle parole e cominciò a balbettare. Melisande si girò e vide che si afferrava la gola. «Signora!» gridò, spaventata. «Non interrompete... l'incantesimo!» disse lei, ansimando. Aggrappandosi all'altare, lottò per restare in piedi, ma era troppo debole. Il corpo le scivolò sul pavimento. Le sorelle esitarono. Il salmodiare si spense a poco a poco. In preda al panico, fissarono la Signora, che giaceva sul pavimento accanto all'altare. Ci fu chi cominciò a lanciare urla isteriche e chi a scoppiare in lacrime. Melisande cercò di farle proseguire, benché si rendesse conto che era impossibile. Senza la loro Signora, le sorelle non avrebbero potuto fare niente contro il drago. Il fuoco nel braciere perse vigore e il fumo si ridusse a una striscia sottile, a malapena visibile. Il drago comprese di essere libero. Con un solo battito delle ali, simili a cuoio indurito, si mise in salvo, fuori dalla portata delle lance e delle frecce. Mentre la bestia volava via, Melisande notò che una delle zampe anteriori gli pendeva inerte sotto il corpo, un'ala era lacerata e frecce erano conficcate nei suoi fianchi. Il sangue macchiava il verde brillante delle sue squame. Questo fu l'ultimo particolare che notò di lui, perché l'Occhio interruppe ogni collegamento con l'esterno, con la luce del sole e il cielo azzurro. Con la fiamma del braciere che si andava spegnendo, la sala era diventata buia e satura dell'odore del fumo. La febbre della maledizione del sangue lasciò le sorelle deboli ed esauste, anche se molte di esse riuscirono a rimettersi in piedi barcollando e singhiozzando, preoccupate per ciò che era successo alla Signora. Melisande avvertì una punta di isterismo nelle loro voci e temette che ben presto si sarebbero lasciate andare a scene di panico. «Smettetela!» ordinò risoluta, bloccando loro l'accesso all'altare. «Cercate di controllarvi. La vostra stupida agitazione non farà che aggravare le condizioni della Signora». Lanciando un'occhiata oltre l'altare, vide che questa giaceva sul pavimento, a bocca aperta e respirando a fatica. «Portatemi dell'acqua fresca e delle coperte. Fate presto». Le sorelle la fissavano, incapaci di obbedire. Le poche che avevano energia sufficiente a reggersi in piedi erano comunque costrette ad appoggiarsi alle altre per sostenersi. Anche Melisande si sentiva fiacca e stordita,
come un malato che si alzi dal letto dopo un periodo di febbre prolungata. Nessuna aveva la forza di muoversi. «Allora, pregate per lei», disse Melisande. Quasi tutte le sorelle sembravano vergognarsi per la loro incapacità di agire e, lasciandosi cadere sulle ginocchia, cominciarono a pregare con fervore. Solo Lucretta non si mosse. Lanciò un'occhiata fulminante in direzione di Melisande, lasciando chiaramente trasparire l'odio e l'invidia che avvertiva nei suoi confronti. Melisande non aveva tempo di preoccuparsi di lei. Debole e tremante, il corpo madido di sudore, si avviò verso l'altare e si lasciò cadere accanto alla Signora. La poveretta non era in grado di parlare, ma si fece capire muovendo le labbra. «Il drago!». «È stato gravemente ferito ed è fuggito via», la rassicurò Melisande. Poi le prese la mano e se la portò alle labbra. «Cara Signora, ci avete salvato da quel mostro. La gente è salva». La Signora si sforzò di parlare. «Non è morto?». «L'avete messo in fuga e non si farà vedere tanto presto», disse Melisande. «Ora dovete pensare a voi, a riposare e a riprendere le forze». La Signora scosse la testa, frustrata. Si lasciò ricadere indietro, spossata e stremata, e fece un cenno a Melisande con il dito tremante. «Avvicinati». Melisande si tirò indietro i capelli e si chinò su di lei. «Vi ho abbandonato», disse la Signora respirando a fatica. «No, Signora, vi prego...» Melisande non poté continuare a causa delle lacrime. «Vieni da me... domani. Ti impartirò... gli ultimi insegnamenti». La Signora ebbe un sussulto, chiuse gli occhi e ricadde inerte sul pavimento. «È morta!» strillò Lucretta, e un lamento si levò tra le sorelle. «No, sta dormendo», ribatté Melisande con voce ferma per frenare il panico. «Non può restare qui. Bisogna portarla in camera sua». Ma in che modo, ancora non sapeva. Sarebbe stato già un successo riuscire a fare qualche passo, ma trasportare la Signora fino ai suoi appartamenti era impossibile. Le sorelle la fissavano attonite. L'addestramento che era stato loro impartito non le aveva preparate a una tale evenienza. Mai avrebbero imma-
ginato che la Signora venisse a mancare, che fosse lei ad aver bisogno di loro. «Andrò a cercare aiuto», disse Melisande. «Voi restate con lei e fate quello che potete mentre io sarò via». Appoggiandosi con le mani all'altare, vi si aggrappò per potersi alzare. Si fermò un istante per riprendere forza, poi, facendosi coraggio, si diresse verso la porta. Stordite e sofferenti, le altre la osservavano. Non potevano aiutarla. Erano a malapena in grado di aiutare se stesse. Melisande si concentrò su dove doveva andare. Pian piano, la porta si avvicinava. Non poteva neppure pensare a come avrebbe percorso il lungo corridoio per arrivare fino alle porte di bronzo. Riuscì a raggiungere l'ingresso prima che le forze la abbandonassero. Si appoggiò alla parete, afferrandovisi per sostenersi. Il suo unico pensiero era di non dover cadere. «Mi riposerò... un istante...». Braccia vigorose l'afferrarono e la fecero adagiare con dolcezza sul pavimento. La voce di Bellona, intenta a impartire ordini, echeggiava per tutto il Santuario. Alle sue spalle, le guerriere si precipitarono nella stanza, portando lettighe, coperte, acqua e acquavite. Melisande fissò i suoi occhi in quelli scuri e ansiosi di Bellona. «Sto bene», disse. «Non ti preoccupare. È solo stanchezza dovuta alla maledizione del sangue. Occupati della Signora». «D'accordo», rispose Bellona. «La porterò nella sua stanza e farò venire le guaritrici. Adesso riposati, Melis, e lascia fare a me». «Il Santuario è un luogo sacro. Non dovresti essere qui», disse Melisande, cercando di mettersi a sedere. «Potrai purificarlo più tardi dalle tracce del nostro passaggio», replicò Bellona, costringendola a sdraiarsi di nuovo. Melisande si arrese. «Come hai saputo che c'erano problemi?». «Quando ho visto che la magia si esauriva, ho capito che qualcosa era andato storto». Le guerriere sistemarono la Signora su una lettiga e la trasportarono nei suoi appartamenti. Altre si occuparono delle sorelle, sostenendo i loro passi incerti e trasportando a braccia quelle troppo deboli per camminare. «Vedi?» le disse Bellona. «È tutto sotto controllo. Il drago è fuggito. È stata una battaglia gloriosa, anche se non lo abbiamo ucciso. Ora dovresti riposare, Melis. Sei sfinita. Ti accompagnerò in camera tua». «No, amore mio», replicò Melisande, mentre le forti e calde braccia di
Bellona l'avvolgevano, come il sonno, in un abbraccio. «Portami nella tua, di camera». 3 Erano trascorsi molti anni da quando era stato convocato l'ultima volta. Il loro silenzio non l'aveva sorpreso, poiché il mondo stava proseguendo abbastanza bene nella sua corsa vacillante - per quanto ci si potesse aspettare da un mondo governato da uomini - e i suoi servizi non erano più stati richiesti. Aveva passato tutto quel tempo in giro per le varie terre, spostandosi da un luogo all'altro, guardando, osservando e tornando a riferire, quando le circostanze lo richiedevano. I suoi resoconti erano rassicuranti. Gli uomini si comportavano come si erano sempre comportati nel corso dei secoli: rovinandosi la vita e riuscendo in qualche modo non solo a sopravvivere come specie, ma anche a progredire. Perciò si stava chiedendo il motivo di quella convocazione. A quanto ne sapeva, non mancava nulla. E lui veniva chiamato solo quando mancava qualcosa. Per necessità, aveva sviluppato una natura stoica, e in quel momento, mentre percorreva i bui corridoi sotterranei che portavano alla Sala del Parlamento, non provava altro che una debole curiosità. Non portava con sé lampade o torce. Non gli serviva la luce. Aveva la capacità di attingere alle sorgenti luminose dell'ambiente circostante, aumentandone l'intensità, perciò l'oscurità era luce ai suoi occhi, per quanto si limitasse a essere una specie di chiarore indistinto, di colore grigio-argento, come nelle notti in cui il biancore latteo della luna piena si intravede attraverso una bassa nebbia. A causa di quei lunghi anni trascorsi girovagando per il mondo, era forte, muscoloso e abbronzato. Aveva capelli neri striati d'argento, che teneva legati sulla nuca con un laccio di cuoio. Indossava calzoni di pelle, un corpetto e degli stivali di cuoio. Non portava spada. Aveva un coltello, che usava per cacciare e per mangiare, e un bastone, di cui si serviva, oltre che per aiutarsi, anche per appianare eventuali difficoltà incontrate durante il cammino. Aveva occhi castani, incappucciati da folte sopracciglia scure. Quando erano esposti a una certa luce, i suoi occhi emettevano bagliori rossastri, sebbene lui cercasse di evitare quel tipo di luce. Aveva una bocca dalle labbra strette, che raramente sorridevano, e non ridevano mai. Parlava poco e sempre a proposito. Non aveva né amici né amori, poiché ciò a-
vrebbe implicato un coinvolgimento con gli umani. Era l'unico esemplare al mondo della sua specie. Avanzò lungo i tortuosi corridoi scavati nella roccia, che scendevano sempre più in profondità, e nei quali si sentiva a suo agio e a casa propria. A volte, le gallerie erano così anguste da costringerlo a procedere carponi, procurandosi tagli e graffi sulla delicata pelle di umano. Più di una volta, lungo il percorso, si era visto bloccare da frane ed era stato obbligato a liberarsi la strada. Aveva superato voragini e guadato un fiume dalle acque cupe. Intorno a lui c'era silenzio, all'infuori di qualche rumore sporadico prodotto da gocce d'acqua o da pietre che cadevano da qualche parte, in lontananza. Gli piaceva il silenzio, preferiva il silenzio. Non riusciva a sentirli, e avrebbe potuto benissimo credersi solo, se non avesse percepito i loro movimenti attraverso il terreno, che a volte sussultava sotto i suoi piedi. Erano là, e lo stavano aspettando: i membri del Parlamento dei Draghi. Si addentrò in una stretta galleria che sbucava in una vasta caverna. Sebbene fosse già stato là molte volte, col passare degli anni aveva finito per dimenticare la magnificenza e la grandiosità di quel luogo. Mentre si accingeva a entrare nella Sala del Parlamento, indugiò un attimo, in piedi, trattenendo, come al solito, il respiro per la meraviglia. La caverna era immensa. Lui aveva visitato città abitate dagli umani, brulicanti di migliaia di persone, che avrebbero potuto benissimo essere contenute tutte là dentro. Il soffitto era talmente alto sopra la sua testa da provocare le vertigini, così lontano da sembrare la volta del cielo senza le stelle. I draghi avevano costruito un accesso proprio sulla cima della montagna, nascosto alla vista dalle nuvole e dalla magia, e una luce fioca filtrava da lassù piovendo verso il basso. In quel preciso momento stava arrivando un drago. Lui ne osservò il corpo massiccio che si librava nell'aria, passava attraverso l'apertura e poi scendeva in lente spirali nella tenue luce grigia, il capo proteso verso terra, in cerca di un punto dove atterrare. Abbassò gli occhi e si guardò intorno. Adesso li poteva vedere e sentire. Erano undici draghi, i rappresentanti più anziani di undici casati. Il Parlamento era costituito dagli appartenenti ai dodici casati dei draghi. Il dodicesimo drago atterrò sul pavimento della caverna e prese posto, inclinando il capo a mo' di saluto, sistemandosi con l'enorme massa il più confortevolmente possibile, piegando le ali strette lungo i fianchi e avvolgendosi la coda attorno alle zampe. Si scusò per il ritardo. Gli altri mormorarono frasi di cortesia.
La polvere, sollevata dal battito delle ali, saturava l'aria. Se i draghi si fossero trovati alla luce del sole, questa avrebbe brillato e giocato sulle loro squame lucenti. Sarebbe stato un magnifico spettacolo, capace di abbagliare gli occhi e la mente, poiché, a ogni movimento del drago, le squame scintillanti si increspavano provocando barbagli dorati, simili a quelli prodotti dai raggi del sole sulle onde dell'oceano. Lui vide quell'immagine stupenda nella sua mente, non là nella caverna, poiché in quel chiarore soffuso le squame dei draghi erano grigie, dello stesso colore delle pareti di pietra che li circondavano. Solo gli occhi dalle pupille a fessura mandavano rossi bagliori. Rimase accanto all'ingresso della Sala, in paziente attesa. I dodici si disposero in circolo, con la loro Ministra posizionata esattamente a nord. I draghi si appoggiarono su tutte e quattro le zampe, con la coda che faceva mezzo giro attorno a quelle posteriori, andando a sfiorare con la punta gli artigli anteriori, piantati saldamente in terra. Tenevano il capo sollevato e lo fissavano con occhi che non battevano ciglio. Udì il loro respiro, il fruscio delle ali e il raspare degli artigli. Erano gli unici suoni che rompevano il silenzio, gli unici in grado di romperlo. I draghi comunicano tra loro attraverso il pensiero, senza ricorrere al linguaggio parlato. In quanto tale, la lingua dei draghi è una lingua composta da immagini, essenze, forme, colori ed emozioni, in grado di toccare tutti i sensi. Un drago che sente un altro drago parlare di una tempesta riesce ad avvertire il freddo della pioggia, a udire il fragore del tuono e a vedere le onde spinte dalle raffiche di vento schiantarsi sulla riva. Lo stesso pennello che dipinge le immagini comunica anche le sensazioni del drago, e chi le riceve capisce se l'altro sta cercando di avvisarlo di una tempesta imminente o se gliene sta descrivendo una già passata. Ed è così che i draghi - animali che conducono esistenze solitarie - riescono a comunicare con i propri simili, ogni volta che se ne presenta la necessità. La mente umana non è concepita per comunicare in questo modo. Quando lui aveva accettato di svolgere quell'incarico, aveva avuto l'impressione che le immagini, i colori e le emozioni gli esplodessero nel cervello, dividendosi in innumerevoli frammenti variegati e appuntiti, simili a quelli di un vetro colorato, colpito dal fulmine. Si era quasi sentito impazzire, finché non aveva imparato a scindere i pensieri in parole, in immagini e forme elementari. I draghi, da parte loro, cercavano di mantenere i pensieri su una tonalità grigia, dagli spigoli smussati, in modo da non travolgerlo con eccessiva in-
tensità. Era da molto che non comunicava più con un drago, e gli ci volle un po' per passare dal pensiero e dal linguaggio umano a quello dei draghi. Vide se stesso nella mente della Ministra, mentre camminava verso il centro della Sala, e vide la propria immagine circondata dalla vivida luce del sole. «Avvicinati, Draconas», disse questa, aggiungendo garbatamente: «È bello rivederti. Grazie per essere venuto». Draconas avanzò fino a portarsi di fronte a lei, dall'altra parte del cerchio, posizionandosi esattamente a sud. Si inchinò. I membri del Parlamento risposero inclinando il capo. «È per me un onore essere stato convocato», rispose Draconas ricorrendo allo stesso linguaggio silenzioso. Così distillati attraverso la mente umana, i suoi pensieri sarebbero sembrati ai draghi tanti scarabocchi di un bambino. «Sono impaziente di servire questa augusta corporazione in qualunque modo mi sarà possibile». Il fatto che non avrebbe potuto ignorare quella chiamata neanche se avesse voluto, rendeva superfluo il suo discorso, ma i draghi sono immancabilmente educati e consapevoli dell'importanza della forma e del cerimoniale, soprattutto all'interno della loro società. I draghi non sono dediti ai rapporti interpersonali con altri esseri viventi, inclusi gli appartenenti alla loro stessa specie. Una coppia può amarsi profondamente e tuttavia continuare a vivere a parecchie centinaia di chilometri di distanza l'uno dall'altra. Può comunicare quotidianamente, ma vedersi di rado nel corso dei secoli. I piccoli vengono mandati ad affrontare il mondo non appena sono in grado di cacciare da soli e, in genere, sono felici di lasciare il nido quanto lo sono i genitori di vederli andar via. Quando sono costretti a vivere a stretto contatto, i draghi finiscono col darsi reciprocamente sui nervi. Si lasciano andare a inconsulti scoppi di collera e a dire cose che non pensano davvero. Le fredde acque del linguaggio civile e il rispetto della forma tengono sotto controllo il fuoco che arde nelle loro viscere. Tali convenzioni sociali significano anche che i draghi vengono subito al punto. Al contrario degli umani, essi non perdono tempo in chiacchiere inutili, della quale cosa Draconas era molto grato. Il Parlamento dei Draghi era un'antica istituzione, risalente alla quarta, e ultima, terribile Guerra dei Draghi. Al termine di quella guerra i draghi, esausti, si erano resi conto che, a meno di non trovare il modo di mantenere la pace tra le famiglie dei nobili, la loro razza avrebbe rischiato di sparire da quel mondo che avevano governato per secoli, un mondo che portava
il loro nome. Pochi uomini sanno delle Guerre dei Draghi, poiché esse vennero combattute quando gli umani erano ancora esseri primitivi, che vagavano nelle foreste primordiali brandendo le loro clave, abitavano nelle caverne e danzavano ai fuochi di bivacchi improvvisati. In quelle caverne, tuttavia, si possono vedere alcune rozze immagini raffiguranti mostri enormi che combattono nei cieli sprigionando fiamme, mentre il loro sangue piove sulla terra. Le Guerre dei Draghi erano già finite, quando gli uomini cominciarono a mettere il naso fuori dalle loro caverne e si organizzarono a vivere nei primi villaggi. Il Parlamento dei Draghi promulgò alcune leggi di cui si servirono i draghi per governare se stessi; più tardi vennero anche emanate altre leggi di cui essi si servirono per governare quella razza inesperta di creature implumi, conosciute con il nome di esseri umani, creature che avevano sviluppato un'intelligenza tale che, per quanto non si avvicinasse nemmeno lontanamente a quella dei draghi, li rendeva comunque una specie degna di nota. Il Parlamento elesse come Primo Ministro uno dei membri da cui era composto. Il drago eletto manteneva la carica a vita. Anora era l'attuale Primo Ministro, anzi Prima Ministra. Era un'anziana femmina di drago, matriarca di una potente famiglia - quella a cui apparteneva anche Draconas - visto che lei era la sua prozia. Anora ricopriva quella carica da molti secoli. In base agli standard dei draghi, era vecchia, il che significava che, in base a quelli degli umani, era addirittura vetusta. È difficile stabilire l'età di un drago dall'aspetto, poiché essi non hanno capelli che diventano grigi, come invece succede agli uomini, né rughe, né ossa fragili che si fratturano con facilità. Draconas si accorse che Anora era invecchiata dall'ultima volta che l'aveva vista e ne fu rattristato. Aveva sempre tenuto la testa fieramente eretta sul collo aggraziato e ricurvo. Ora le pendeva in avanti, come se fosse diventata troppo pesante. La pelle intorno agli occhi era gonfia e questi ultimi erano infossati. Quando apriva la bocca, si vedevano le zanne superiori e inferiori consumate, sottili e smussate, così come lo erano i denti. Sul corpo si vedevano chiazze di pelle nuda, nei punti in cui le squame erano cadute senza più ricrescere, come invece avrebbero fatto se si fosse trattato di un drago giovane. Anora portò di nuovo lo sguardo su Draconas e i suoi occhi brillarono della stessa vivace intelligenza che lui aveva imparato a conoscere e a rispettare. La sua mascella era ancora salda, i suoi pensieri forti e risonanti.
«Ti abbiamo convocato, Draconas», disse la Ministra, «perché bisogna assolutamente fare qualcosa a proposito di Maristara». Draconas fletté le mani e storse la bocca in una smorfia. Ecco di che si trattava. Quanto tempo era passato? Trecento anni? Un battito di ciglia per un drago, benché nel frattempo fossero nate e morte generazioni di umani. Doveva essere successo qualcosa perché quella vicenda ripugnante riaffiorasse. «Sì, Ministra», convenne Draconas, non essendoci altro che potesse dire, a parte: Perché diavolo ci avete messo così tanto?, che non sarebbe stato recepito molto bene. Gli occhi rossi di Anora lampeggiarono. La coda le si contrasse in uno spasmo. Sapeva molto bene cosa avrebbe voluto dire Draconas. Gli indirizzò un cenno discreto e sollevò un artiglio, ammonendolo a mantenere la calma. Non era necessario. Anche Draconas sapeva. Comprendeva. Così, si limitò ad aspettare. Un altro drago si girò verso la Ministra. Era un giovane drago, dalle squame di un bel verde brillante, muscoloso, robusto e pericoloso. «Chiedo la bacchetta», disse il drago. «Se siete tutti d'accordo, passo la bacchetta oratoria a Braun», disse la Ministra. Non incontrando alcuna obiezione, porse al giovane drago la bacchetta tempestata di gemme che teneva delicatamente tra gli artigli di una zampa anteriore. Draconas non lo conosceva. Braun era nuovo nel Parlamento, e parecchio giovane per essere a capo di un nobile casato. Ma lui sapeva quale casato rappresentava. Avvertì un pizzicore alla base della spina dorsale. «Sono Braun», esordì il drago, esprimendosi in toni dalle affilate sfumature rosso fiamma. «Come senza dubbio saprete, Maristara è mia nonna». Draconas inclinò il capo in cenno di assenso. Anche questa volta non c'era molto da dire, tranne: Mi spiace. «Comincerò col riassumervi gli eventi di questi ultimi trecento anni. Pregherei perciò il Parlamento di essere indulgente, poiché voi tutti conoscete la storia. L'avete vissuta in prima persona. Ma si dà il caso che io sia in possesso di nuove informazioni di cui, oserei dire, nessuno di voi è al corrente». I draghi si disposero ad ascoltare. Alcuni si scambiarono un'occhiata, ma tutti tennero a freno i propri pensieri. Se Braun desiderava rivivere pubblicamente il vergognoso passato della sua famiglia era liberissimo di farlo.
Draconas, essendo un sottoposto, non aveva alcun diritto a esprimere opinioni al riguardo. Sentire di nuovo quella vicenda non gli creava problemi, anzi, lo avrebbe aiutato a rinfrescarsi la memoria, soprattutto adesso che sembrava dovesse venirvi coinvolto. «Innanzitutto», disse Braun, «vorrei ricordarvi le leggi dei draghi, quelle che furono promulgate durante la primissima riunione del Parlamento, migliaia di anni fa. «La prima legge dice: I draghi non possono togliere la vita agli umani. «La seconda aggiunge: I draghi non possono interferire nelle faccende degli uomini. Non possono ricorrere alla costrizione, alla prepotenza, alla forza, alla minaccia, all'inganno o all'estorsione nei confronti degli uomini. «La terza specifica: I draghi, fatta eccezione per un solo caso, non possono avere rapporti con gli umani». A quel punto, Braun fece una pausa e accennò educatamente in direzione di Draconas, per riconoscere che l'eccezione era lui. Quindi proseguì. «Trecento anni fa, il drago Maristara trasgredì tutte le leggi, impossessandosi di un regno popolato da uomini: il regno di Seth. Essa si pose a capo di quel regno e dei suoi abitanti. Il Parlamento reagì con un duro messaggio, informandola che aveva violato le leggi e ordinandole di rinunciare alle sue conquiste e di andarsene. Nemmeno una parola giunse da parte di Maristara. Quella fu la sua risposta. «Le venne inviata una delegazione. Ma lei innalzò magiche barriere per impedire l'accesso ai draghi che ne facevano parte, e questi, non essendo autorizzati a infrangere tali barriere, furono obbligati a ritirarsi. Il tempo passò. Il problema di Maristara veniva sollevato a ogni riunione del Parlamento, ma nessuno sapeva come comportarsi. In passato non era mai successa una cosa del genere. Nessuno sapeva come gestirla. La questione fu oggetto di discussione per oltre un secolo. Alcuni dicevano che, se avessimo lasciato perdere, Maristara si sarebbe stancata del suo giocattolo e avrebbe finito per andarsene, altri invece sostenevano che avremmo dovuto attaccarla e mandarla via. «Alla fine il Parlamento adottò un provvedimento che, in realtà, non era per niente tale. Mio padre ricevette l'autorizzazione a recarsi in quel regno per tentare di ricondurre sua madre alla ragione. Cercò di penetrare attraverso le barriere magiche, ma non ci riuscì. Ancora una volta, il Parlamento si agitò e discusse. Dopo parecchio tempo, quando era trascorso più o meno un altro secolo, il Parlamento decise di non avere scelta e di dover cacciare Maristara con la forza».
«Ricordiamo tutti cosa successe allora, Braun», disse Anora. «Non credo che tu debba entrare nei particolari». Gli altri draghi si guardarono intorno. I loro occhi rossi lampeggiarono. La mente di Draconas fu colmata da terribili immagini di sangue e di dolore, ed egli le respinse con fermezza. «Ci troviamo in questa situazione perché ci rifiutiamo di affrontare eventi spiacevoli», dichiarò Braun. «Dico questo a beneficio di Draconas, che forse non ne era ancora al corrente». Anora lanciò un'occhiata a Draconas, che sollevò un sopracciglio. La Ministra sospirò e disse: «Molto bene, Braun. Continua!». «Vent'anni fa il Parlamento inviò in quel regno uno squadrone di draghi nel tentativo di liberare gli umani e di assicurare Maristara alla giustizia. I draghi misero insieme i loro poteri magici e riuscirono a penetrare le barriere, o perlomeno credettero di esserci riusciti. Era un tranello. Vennero attaccati. Non da un drago, ma dagli uomini. Le conseguenze», dichiarò Braun, trasmettendo mentalmente colori dalle sfumature verdastre e venefiche, «furono disastrose. Le nostre leggi proibivano loro di rispondere all'attacco. Molti dei nostri fratelli vennero uccisi e innumerevoli altri feriti. Subimmo una sconfitta terribile. Fu il peggior massacro di draghi mai visto. Ma servì a dimostrare una cosa. E cioè che Maristara aveva fatto qualcosa di persino più nefando che non il semplice impadronirsi di un regno. Dimostrò che aveva insegnato agli umani le arti magiche dei draghi». «Questo non fu mai provato», disse severamente uno dei membri più anziani, un certo Malfiesto. «E invece sì», ribatté Braun, i cui pensieri emisero guizzi di impazienza. «Altrimenti, come giustificate il fatto di essere stati così brutalmente respinti? Di avere subito un numero così ingente di perdite? Mostratemi un umano in grado di compiere una prodezza del genere senza ricorrere alla magia. Dico bene, Draconas?». Draconas si era fatto una sua idea, ma non aveva intenzione di lasciarsi spingere a schierarsi dall'una o dall'altra parte. Fortunatamente, il drago anziano parlò di nuovo, e Draconas fu dimenticato. «Anche se così fosse, non riesco a capire che cosa ti aspetti da noi, Braun». Anora pose fine a quello scambio. «Chiedi la bacchetta, Malfiesto?». «No, Ministra», replicò questi. «Ho detto tutto quello che avevo da dire. Tutto quello che serviva, credo. Tranne che si tratta di un'impresa senza senso, per noi e per Draconas. Che cosa potrebbe fare lui che noi non ab-
biamo già fatto?». Anora si accigliò e Malfiesto tacque, mentre i suoi pensieri assumevano quella sfumatura verde-grigia che tra gli umani avrebbe significato scontentezza. «Ti prego, vai avanti, Braun», disse Anora. «Grazie, Ministra», rispose il giovane drago. Lanciò un'occhiata di sfida agli altri membri. «Vi dirò perché vi ho fatti venire qui e perché ho chiesto che fosse presente anche Draconas. Come tutti ben sapete, sono qui oggi, a far parte di questo nobile consesso, a causa dell'improvvisa morte di mio padre». Braun tagliò corto sui delicati e tenui colori delle espressioni di simpatia che gli vennero indirizzate dagli altri, aggiungendo: «Mio padre è stato assassinato». I draghi si scambiarono occhiate ansiose. Non sapevano cosa dire. Era corsa voce che il terribile disonore che aveva infangato la famiglia avesse condotto il padre di Braun - figlio di Maristara - alla pazzia. Nessuno sapeva con esattezza cosa fosse accaduto. Il corpo fracassato e contorto del drago era stato rinvenuto ai piedi della montagna. Si pensava che fosse impazzito e che avesse deciso di porre fine alla propria vita scagliandosi contro il fianco dell'altura. Braun sapeva cosa stavano pensando. Era in grado di leggere nei loro pensieri, e disse con aria di sfida: «Non è stato assassinato da sua madre, Maristara. Lei non esce mai dal suo regno. Ma è stato ucciso da un drago. Qualcuno in combutta con Maristara, qualcuno che la protegge e la difende». «Si tratta di un'accusa molto seria, Braun», osservò Anora. Nella sua mente lampeggiarono immagini di un vivido color arancio. «Non è più successo dai tempi della Guerra dei Draghi che uno della nostra specie spargesse il sangue di un suo simile. Trovo molto difficile credere a un'eventualità del genere. Quale possibile motivo...?». «Il gusto per la carne umana», rispose Braun. I draghi si agitarono a disagio. Non volevano sentir parlare di quello sgradevole segreto che accomunava tutti gli appartenenti alla loro razza. Ogni drago mostrava una predilezione per la carne umana. Un tempo, in un passato molto lontano, agli uomini era stata data la caccia, causando quasi l'estinzione della specie. Ecco perché esisteva il Parlamento, esistevano le leggi, e anche Draconas. «Quali prove possiedi, Braun?» chiese Anora, con aria decisamente scet-
tica. «Mio padre ha cercato a lungo un modo per provocare la caduta di Maristara. Mi disse che gli risultava chiaro che il Parlamento fosse incapace di occuparsi adeguatamente del problema...». Per tutta risposta si udirono dei brontolii, ma nessuno si espresse esplicitamente. «... perciò la responsabilità era caduta su di noi, in quanto membri della famiglia. Mio padre aveva cominciato a indagare, a scoprire tutto ciò che era possibile su sua madre, su quel regno sventurato, su quell'attacco nefasto. Studiò l'attacco, parlò con i superstiti, e giunse a due conclusioni: la prima fu che gli umani si erano serviti della nostra stessa magia contro di noi. La seconda fu che Maristara era stata avvisata in anticipo del nostro arrivo. L'unico che avrebbe potuto metterla in guardia era uno di noi, un altro drago». Braun si fermò e lanciò nella sala uno sguardo circolare, ma nessuno lo contraddisse. «Mio padre sosteneva che chiunque ci spiasse per conto di Maristara doveva essere ben pagato. Perciò si chiese che cosa avesse lei che uno di noi potesse desiderare. Oro, gioielli. No!». Fece una pausa, mentre immagini di carne succulenta si formavano nella mente degli altri draghi. «Lei aveva gli umani». Il silenzio fu profondo. Tutti evitarono accuratamente di palesare i propri pensieri. «Mio padre cominciò a fare domande, a curiosare qua e là. "È impazzito", questo fu il vostro commento. "Lascia che mi credano matto", mi disse. "Vedranno ben presto qual è la vera pazzia". A un certo punto, ricevette delle informazioni che puntavano in direzione di un certo drago». «Il suo nome?» chiese Anora, in tono brusco. «Non lo so», rispose Braun, e gli altri draghi tirarono discretamente un sospiro di sollievo. «Non me lo disse, non voleva infangare il nome di una delle nobili famiglie finché non fosse certo. La notte in cui uscì per recarsi all'incontro con questo drago fu quella in cui morì: una morte che deve essere arrivata proprio a proposito per qualcuno». «Avrebbe dovuto informare il Parlamento», obiettò Anora. «Lo avreste ascoltato?» replicò Braun. «Adesso stiamo ascoltando...». «Adesso che è morto». Anora si guardò intorno. Nessuno ricambiò il suo sguardo. Le code si
contrassero e le ali si agitarono. Gli artigli graffiarono il terreno, le code batterono e le squame si rizzarono. «Ci occorrono prove», disse Anora. «È per questo che sono qui, Ministra. Onorevoli membri», continuò Braun, alzando fieramente il capo, «non sono venuto a cercare la vostra pietà. Sono venuto qui perché ho un piano». I suoi occhi scintillanti si fissarono su Draconas, che rimase calmo, in atteggiamento rilassato, in paziente attesa di sapere quale sarebbe stato il suo ruolo nella faccenda. «Bene, qual è questo piano?» domandò Anora, vedendo che Braun non proseguiva. «Vorrei dirlo solo a voi, Ministra», disse il giovane drago. «A voi e a Draconas». Ondate di colori che esprimevano rabbia e sdegno eruppero dai draghi riuniti nella sala, investendo Draconas, il quale sollevò istintivamente una mano a fermarli, allo stesso modo in cui si sarebbe riparato con la mano dai raggi brucianti del sole. «Stai dicendo che uno di noi è una spia?» esclamò Malfiesto. «Noi, gli anziani dei dodici casati?». Braun non batté ciglio di fronte alla collera dell'altro. «Non accuso nessuno. Ma qualcuno deve aver avvisato Maristara in anticipo, e sapete bene che il piano d'attacco era stato discusso solo in Parlamento». «Temo che non sia esatto», interloquì Anora. «Qualcuno di noi potrebbe averne parlato con i propri compagni o con altri». «Eppure, credo di non sbagliarmi», replicò Braun cocciuto. «Ma lascio a voi decidere, Ministra. Mi atterrò alle vostre decisioni». «Non voglio creare incomprensioni tra di noi», disse Anora, «come succederebbe di certo se accogliessi la tua richiesta. Noi rappresentiamo il Parlamento. L'onestà dei suoi membri non si discute. Esponi il tuo piano». Braun non parve contento. «E sia», acconsentì. «Mi sono recato nel regno di Seth...». «Gesto azzardato da parte tua, mio giovane drago», dichiarò Malfiesto emettendo un suono simile a un grugnito. «Lo so, ma ero quasi fuori di me dal dolore per la morte di mio padre. Volevo parlare con Maristara, chiederle...» Braun si interruppe. «A ogni modo, ho quasi pagato con la vita quella pazzia. Comunque, mentre ero là sono riuscito a fare qualcosa. Sono riuscito a penetrare attraverso la barriera magica abbastanza da vedere uno degli umani incaricati di cacciarmi:
una donna. Sono riuscito a penetrare nella sua mente, solo una rapida occhiata, ma ciò che ho visto mi ha incuriosito. I suoi pensieri erano occupati dall'immagine di una donna che lei conosce come "La Signora dei Draghi", che è - io credo - colei che governa su quel regno. «La mia idea è semplice: se Draconas potesse catturare questa Signora dei Draghi, potrebbe portarla qui per consentirci di interrogarla. Così potremmo scoprire senza ombra di dubbio se Maristara ha infranto la legge insegnando agli umani le nostre arti magiche. La Signora potrebbe sapere chi, tra di noi, è al soldo di Maristara. Potremmo anche scoprire dove si trova il nascondiglio di quest'ultima e consegnarla alla giustizia». La proposta piacque alla Ministra, e anche agli altri. Si sentivano tutti sollevati, ben felici di affidare a qualcun altro la risoluzione del loro problema. C'era solo un piccolo dettaglio. «Il vostro piano è buono, Braun», disse Draconas. «Ma avete tralasciato un fattore importante: un fattore che si tralascia facilmente, lo devo ammettere, a causa del mio aspetto. La magia di Maristara è efficace tanto su di voi quanto su di me per impedire l'accesso al regno di Seth». Il drago parve perplesso, confuso. «Temo di non comprendere, Draconas. Voi siete un uomo...». «Sembra un uomo», lo corresse Anora. «In realtà, è un drago. Non lo sapevi, Braun? Lui è l'eletto». «Non sono un pivellino», replicò Braun, emettendo colori di una gelida tonalità bianco-azzurra. «Immaginavo che Draconas fosse immune dai poteri magici dei draghi, visto che ha assunto sembianze umane». Anora scosse il capo. «La materia è la stessa, a prescindere dal fatto che sia stata modellata in forma di umano o di drago. Il corpo di Draconas è diverso, ma questo è tutto. In questo modo, ha mantenuto i suoi poteri magici, la forza e la capacità di comunicare con noi e via dicendo». Braun reclinò il capo, conficcò gli artigli nel terreno, sferzò l'aria con la coda. Abbattuto, scoraggiato, lanciò un'occhiataccia a Draconas, rimproverandolo irrazionalmente di non essere ciò che lui voleva che fosse. A quel punto, gli altri draghi liberarono i loro pensieri, offrendo suggerimenti, lanciandosi in discussioni accese o esitanti. Pur senza molto successo, Anora cercò, con immagini vibranti e autorevoli, di riportare l'ordine. I draghi apparivano esteriormente oltraggiati e interiormente turbati dall'accusa e dall'idea che uno di loro avesse potuto assassinare un proprio simile. Quel bombardamento di emozioni procurò il mal di testa a Draconas. La cosa avrebbe potuto andare avanti per giorni o settimane, e si sentì frustra-
to. Aveva sempre pensato che il Parlamento si fosse comportato con negligenza nel gestire la faccenda di Maristara. Era da molto che insisteva perché venissero presi dei provvedimenti. Ovviamente, gli era sempre stato risposto che era il suo lato umano a parlare. Rimase fermo al centro di quel guazzabuglio di pensieri, lo sguardo fisso sul povero Braun, mentre rimuginava sul da farsi. Il sistema ci sarebbe stato, ma avrebbe significato dover fare qualcosa che aveva accuratamente evitato per seicento anni. Avrebbe significato aggirare la legge, se non proprio infrangerla. Avrebbe significato immischiarsi nella vita degli uomini. «Ma in fin dei conti», si disse Draconas con una smorfia sarcastica, «io sono l'eccezione». Fece un passo avanti. «Ministra», intervenne, protendendo la mano, la sua mano di uomo, «chiedo la bacchetta...». 4 La strada che portava alla grande città murata di Ramsgate sull'Aston era di solito affollata, poiché la città era la capitale del reame di Idlyswylde, una delle più prospere nazioni del continente. Convogli di mercanti, con i loro carri trainati da muli e carichi di ogni tipo e varietà di mercanzia, avanzavano faticosamente lungo il cammino, mentre i pingui mercanti salutavano con generosi sorrisi tutti quelli che incontravano, poiché chiunque avrebbe potuto essere un potenziale cliente. Gruppi di cavalieri con falconi sul polso ridevano e scherzavano, mentre andavano in cerca di gloria. Calderai ambulanti, mendicanti, zingari, nobili signore che sbirciavano attraverso le tende delle loro portantine, ladri, assassini e tagliaborse, menestrelli, bardi e attori girovaghi, tutti percorrevano la vecchia strada principale, o meglio l'avevano percorsa in passato. Quel giorno, sebbene fosse una bella mattina di mezza estate e un caldo sole risplendesse tra le nuvole che si muovevano pigramente nel cielo, il solitario viandante aveva la strada tutta per sé. Non c'erano in vista pingui mercanti, e nemmeno un singolo mendicante a scuotere la sua ciotola delle elemosine. Draconas avrebbe potuto credere di essere solo in tutto l'universo se non si fosse imbattuto in tre monelli cenciosi, seduti sulla spalletta di un ponte che attraversava il fiume Aston. Scorse i bambini quando si trovava ancora a una certa distanza dal ponte. Di tanto in tanto, uno di loro smetteva di dondolare i piedi nudi nel vuoto e di lanciare sassi nell'acqua, e
alzava lo sguardo verso l'alto, schermandosi gli occhi con una mano, per scrutare il cielo. Poi, con una scrollata di capo, tornava al suo passatempo. Sapendo che non esiste nessuno al mondo meglio informato di un ragazzino di sette anni, Draconas si fermò a parlare con loro. «Le torri che si vedono laggiù sono quelle della città di Ramsgate sull'Aston?». Uno dei tre alzò la testa. I bambini possiedono un intuito innato per le persone. Il piccolo lanciò a Draconas un'occhiata perspicace, notando tutto quello che c'era da notare: dal coltello infilato nella cintura, al corpetto e agli stivali di cuoio, fino ai calzoni verdi di fustagno e all'anonimo bastone, all'estremità del quale era appesa una sacca, pure di cuoio. Gli abiti lasciavano intendere che si doveva trattare di un cacciatore, o forse addirittura di un bracconiere. Ma gli occhi scuri e sovrastati dalle sopracciglia cespugliose lasciavano intendere qualcos'altro. Il monello scattò in piedi in segno di rispetto. «Sì, signore», rispose. «Per una moneta di rame, vi ci posso portare». «Direi che non mi serve una guida, dato che sono in grado di vedere da solo le torri», ribatté pacatamente Draconas. Ma nello scorgere l'espressione delusa del piccolo, si affrettò ad aggiungere: «Ma sarei molto lieto di pagare una moneta di rame per un'informazione». «Sì, signore», disse il bambino. A quel punto ci fu un po' di trambusto, perché i suoi due amichetti, nell'udire la parola «pagare», lo raggiunsero d'un balzo, dando origine a una piccola zuffa. Quando la polvere si depositò, il primo ragazzino ne emerse vincitore. Mentre gli altri si massaggiavano la guancia e il naso, questi si rivolse a Draconas con aria trionfante: «Cosa volevate sapere, signore?». «Ho sentito dire che questa Ramsgate è una grande città, ricca e prospera, e che i suoi mercati sono famosi in tutto il reame». «È vero, signore», rispose l'altro con aria fiera. «Tuttavia, vedo che la strada principale è vuota. Sembra che nessuno, tranne me, sia diretto in città. Me ne sai spiegare il motivo?». «Be', si tratta del drago, signore», spiegò il ragazzino mostrando stupore, quasi Draconas avesse espresso il desiderio di sapere cosa fosse quella strana sfera gialla che splendeva nel cielo. «Volete dire che non siete al corrente di quello che sta succedendo? In questi ultimi tempi non s'è parlato d'altro». «Mi spiace, ma devo confessare che non ne so proprio niente», confermò Draconas. «Un drago, hai detto?» chiese, mentre scrutava il cielo.
«Sì, signore». Il bambino indicò con il pollice i compagni. «È per questo che siamo qui. Speriamo di poter dare un'occhiata a quel mostro». «Da una quindicina di giorni a questa parte, si è fatto vedere ogni giorno», aggiunse il più piccolo dei tre: probabilmente un fratellino minore che i più grandi si portavano appresso. «Joe, il figlio del mugnaio, l'ha visto. Era verde e grosso, con le fiamme che gli uscivano dalla bocca e gli artigli macchiati del sangue di quelli che aveva ucciso». «Ma non ha ucciso Joe, spero», disse Draconas. «No, signore. Quando ha visto il mostro, Joe si è nascosto tra i cespugli, e non ne è uscito finché non è volato via. Ma il drago ha ucciso migliaia di persone e bruciato tutti i villaggi a valle e a monte del fiume». Il bambino pareva davvero elettrizzato. «Non c'è da meravigliarsi che la strada sia deserta», commentò Draconas. «Ne ha uccisi a migliaia, dite? Questo drago sembra proprio una bestia terribile. Ma voi non mi date l'impressione di essere spaventati». «No, noi non abbiamo paura», disse il primo bambino, pur continuando a lanciare occhiate circospette verso l'alto. «E nessuno pensa di combatterlo, questo drago?» domandò Draconas. «Il re e i suoi cavalieri erano partiti a cercarlo. Li abbiamo visti uscire a cavallo dalle porte della città e poi li abbiamo visti rientrare, tutti accaldati e arrabbiati, che imprecavano dicendo che in tutto il santo giorno, di quel drago, non avevano sentito neanche l'odore». «E non erano neanche scesi di sella, quando è arrivato un contadino che gridava a squarciagola dicendo che il drago gli aveva fatto fuori la mandria», cantilenò il più piccolo. «E allora hanno imprecato di nuovo. Anche il re, l'ho sentito io». «Non si tengono più i mercati e le botteghe sono chiuse», aggiunse il terzo ragazzino. «La gente ha paura persino di mettere fuori il naso dalla finestra. Joe dice che, secondo il mugnaio, quel mostro sarà la nostra rovina, anche se non ci ammazzerà tutti nel nostro letto». «È un uomo saggio, questo mugnaio. Ecco una moneta di rame per ciascuno di voi», disse Draconas, prendendo la sacca e distribuendo le monete. «E una anche per quel coraggioso di Joe». Dopodiché si incamminò lungo il ponte. «Aspettate, signore!» strillò il primo ragazzino. «Vi state dirigendo verso la città». «Ebbene? Che c'è di strano?» chiese Draconas. Il piccolo lo raggiunse. «Anche dopo che vi abbiamo detto del drago?
Non avete paura?». «Sì, che ne ho», ribatté Draconas. «Ma ho bisogno di lavorare». «Non c'è molto da fare», disse l'altro. «Non da quando c'è in giro il drago. Che lavoro fate?». «Sono un cacciatore di draghi», rispose Draconas. Poi proseguì lungo la strada principale, con le torri della città di Ramsgate sull'Aston davanti a lui e la strada deserta alle sue spalle. I ragazzini, dopo aver confabulato tra di loro per un attimo, si allontanarono correndo lunga la riva del fiume, per portare a Joe la sua moneta di rame e per comunicargli la notizia eccitante. Draconas raggiunse le porte della città, che avrebbero dovuto essere spalancate per accogliere tutti indistintamente. Quel giorno però le porte non solo erano chiuse, ma addirittura sbarrate. Draconas scosse il capo, divertito. «Devono aver pensato che il drago abbia intenzione di entrare dalla porta principale», mormorò tra sé. L'ironia dell'affermazione lo colpì causandogli una scrollatina di spalle. «Bene, bene. Forse non sono così stupidi, dopo tutto». Le mura della città erano presidiate da una moltitudine di guardie. La luce del sole si rifletteva sugli elmi dei soldati che lo osservavano dai bastioni. Solo alcuni guardavano in basso. La maggior parte aveva gli occhi rivolti verso l'alto, intenti a scandagliare il cielo. Evitando l'enorme portone principale, Draconas si diresse verso una piccola entrata laterale. Mentre si avvicinava, la porticina si aprì. Un omone, con indosso un'armatura che lo ricopriva da capo a piedi, rendendolo una visione abbagliante sotto il sole del mezzogiorno, fece segno al viandante di entrare. «Ne avete di coraggio, signore, a starvene fuori, così, in pieno giorno», osservò la guardia, squadrando Draconas con attenzione. «Non si tratta tanto di coraggio quanto di necessità di lavorare», rispose Draconas. «Ho sentito dire che le mie capacità sarebbero potute tornare utili a Ramsgate, perciò mi sono affrettato a venire qui». «Ramsgate sull'Aston», lo corresse severamente la guardia. «Ci teniamo a dire il nome per intero, visto che c'è una città chiamata Ramsgate circa venti miglia a sud di qui. Una città poco raccomandabile, non so se mi spiego. Non ci va di essere confusi». «Vi chiedo scusa», disse Draconas. «E chiedo scusa anche a Ramsgate
sull'Aston». «A pensarci bene», continuò la guardia con aria corrucciata, «sarebbe meglio che vi rechiate a Ramsgate. Dicono che là i mendicanti siano i benvenuti. Qui non lo sono di certo». «Non sono un mendicante», precisò pacatamente Draconas, cercando di mantenere un atteggiamento cordiale. «Ma avete detto di essere senza lavoro». «Ho detto che stavo cercando un lavoro, e sono quasi certo di poterlo trovare qui. Mi chiamo Draconas. Sono un cacciatore di draghi». La guardia spalancò gli occhi per lo stupore, poi li strizzò con sospetto. «Andiamo, se siete un cacciatore, dove tenete il vostro spadone affilato, la corazza e lo scudo? E dov'è il vostro cavallo?». Vedendo il bastone di Draconas, la guardia giunse a un'altra conclusione. Arretrò di un passo e accennò a uno scongiuro per allontanare il demonio. «Siete uno di quegli stregoni al servizio del demonio, non è vero?». «Sono venuto a Ramsgate sull'Aston per offrire i miei servigi al vostro re», dichiarò Draconas. «Poi, per quanto riguarda il modo di trattare con il drago, direi che è un problema esclusivamente mio. Anche se potrei farvi notare che gli spadoni taglienti, gli scudi e i cavalli non vi sono serviti a molto finora». La guardia assunse un'espressione accigliata. Agitando la spada, disse in tono minaccioso: «Andatevene, spregevole stregone! Il nostro re non ha bisogno dei servizi di coloro che venerano il demonio». «Al contrario, è stato il vostro re a mandarmi a chiamare», replicò calmo Draconas. «Fatemi parlare con il vostro comandante». La guardia esitò, poi rinfoderò la spada. «Aspettate qui», ordinò, allontanandosi con un grande sbatacchiare di corazza. Poco dopo era di ritorno in compagnia del suo comandante. «Avete detto che Sua Maestà vi ha mandato a chiamare. Immagino che siate in grado di dimostrarlo». Draconas tolse la sacca di cuoio dall'estremità del bastone, ne estrasse una lettera, la aprì e indicò il sigillo in basso. La guardia osservò con attenzione. «È di Sua Maestà», dichiarò raddrizzandosi. Draconas piegò la lettera e la ripose nella sacca. «Ora, signore», disse rivolgendosi al comandante, «ho spiegato alla vostra guardia chi e cosa sono, e immagino che ve l'abbia riferito. Le ho spiegato perché sono qui: per occuparmi del drago. E vi ho mostrato una
lettera con il sigillo di Sua Maestà. Sono atteso a palazzo, e ho intenzione di rispettare il mio appuntamento con Sua Maestà. Se non vi fidate di me, potete farmi accompagnare da una scorta». Il comandante fece correre lo sguardo oltre il cacciatore, alla strada vuota sulla quale, quel giorno, non era passata anima viva, e così sarebbe stato finché c'era in circolazione un drago che depredava tutto e tutti. Il comandante pensò al mercato, i cui banchi erano vuoti come la strada, ai suoi amici e vicini, che stavano cominciando a diventare impazienti. Poi guardò le torri scintillanti del palazzo, dove - si diceva - il re non sapeva più che pesci prendere. «Accompagnalo», ordinò il comandante alla guardia. «Sarà Sua Maestà a decidere se lo vuole vedere oppure no. Se si rifiuta di incontrarlo, riportalo subito qui». Quindi si rivolse a Draconas: «Vi sembra che così possa andare, signore?». «Mi sembra più che giusto, comandante», rispose Draconas. «Sarà meglio che vi sbrighiate», aggiunse il comandante spalancando la porticina per farlo entrare. «Non si sa mai dove e quando quell'orribile mostro può comparire». «Già, proprio così», convenne educatamente Draconas. Draconas aveva visitato parecchi regni abitati da umani nel corso dei suoi seicento anni di vita, ma a Ramsgate sull'Aston non era mai stato. Si rese subito conto di cosa si fosse perso. Fu colpito dalla pulizia della città, dalla sua evidente ricchezza e prosperità, ora messe a repentaglio dalla presenza del drago. Braun aveva davvero superato se stesso. Naturalmente, il racconto del ragazzo circa il fatto che il drago avesse massacrato migliaia di persone non corrispondeva a verità. Braun e Draconas dovevano aggirare le leggi dei draghi, non infrangerle. E non ne avevano neppure bisogno. La vista di un drago che scendeva dal cielo ad ammazzare il bestiame e a incendiare fienili e covoni era più che sufficiente a terrorizzare la popolazione. «Tra una settimana», predisse Draconas, esperto conoscitore delle umane debolezze, «un centinaio di mucche uccise diventerà un centinaio di persone morte. Un fienile bruciato una città distrutta». Fu lieto di vedere che la sua conoscenza della natura umana non venisse smentita. Mentre accompagnava Draconas, la guardia appariva accigliata e a disagio e rifiutò di farsi coinvolgere nella conversazione. Attraversò le strade
in un silenzio imbronciato, interrotto solo dallo sbatacchiare della sua corazza, non allontanandosi mai di un passo dal forestiero, ma avendo cura di non toccarlo. L'unico momento in cui si degnò di parlargli fu per indicargli la locale abbazia ed enfatizzare il fatto che i sacerdoti sarebbero stati più che felici di strapparlo all'influenza del demonio. La guardia lo fece anche passare dalla piazza della città, dove - precisò - venivano bruciate le streghe. Draconas prestava poca attenzione. Era occupato a cogliere ogni dettaglio, a prendere nota di ogni strada, di ogni palazzo, a fare le sue valutazioni. Soprattutto, era interessato al sovrano di quella bella terra di Idlyswylde. Il castello era simile ad altri già visitati da Draconas. In origine, doveva essere stato una semplice torre circondata da una palizzata di legno, sulla cima di una delle colline che si affacciavano sul fiume. L'orgogliosa città di Ramsgate sull'Aston era probabilmente nata come un agglomerato sconnesso di capanne dal tetto di paglia, tutte ammassate a ridosso della palizzata, in cerca di protezione. Col passare degli anni, la fortezza di legno era stata trasformata in un imponente maniero di pietra bianca con torrette, torri, bastioni e merlature, cortili e fabbricati esterni, stalle e baracche. Alcune impalcature erette sul lato sud indicavano che le migliorie al palazzo non erano finite. La città aveva abbandonato a poco a poco le sue capanne dal tetto di paglia e si era trasferita in sontuosi edifici di pietra e legno, dai muri intonacati e dalle insegne dai colori vivaci, attorniati da strade lastricate, abbellite ovunque da vasi traboccanti di fiori. Draconas non era tipo da farsi impressionare da quelle bellezze architettoniche, poiché, come si sa, i draghi vivono nelle caverne, dove la temperatura rimane invariata durante tutto l'anno: perfetta per i rettili a sangue freddo. E lui, persino dopo sei secoli, si sentiva più a casa propria in una grotta che non in un palazzo. Era più interessato a cercare indizi in grado di confermargli che il castello e la città si erano sviluppati e avevano prosperato: la prosperità avrebbe indicato che quel regno era in pace con i vicini. Un regno che aveva vissuto in pace, fino a quel momento. Fino all'arrivo del drago. Dopo avere raggiunto il palazzo, Draconas e la sua scorta varcarono il cancello principale e si trovarono in un vasto cortile affollato da giovani uomini vocianti e in procinto di sfilarsi le armature, tutti occupati a gesti-
colare e a proclamare a gran voce che il drago li aveva visti arrivare e si era spaventato a tal punto da non voler combattere. Doveva trattarsi dei cavalieri che erano usciti in cerca del drago. Draconas fece un cenno col capo mentre li superava. I cavalieri non gli prestarono la minima attenzione e continuarono a schiamazzare. La guardia scorbutica condusse Draconas all'ingresso principale del castello. Poi, mentre non lo abbandonava con lo sguardo, chiamò a gran voce qualcuno perché venisse ad aprire. Dopo un po', da una porticina laterale uscì un uomo, che avanzò curvo per evitare le travi delle impalcature. «Ah, Gunderson», grugnì la guardia. «Proprio te cercavo». I due confabularono qualche istante. Draconas colse più volte la parola «demonio». Gunderson era più anziano, gli mancavano parecchi denti davanti e un occhio. Quello superstite, che teneva fisso su Draconas, possedeva intelligenza sufficiente per altri sei. Il suo aspetto ricordava quello di un soldato. «Avete con voi la lettera del re, signore?» chiese Gunderson, allontanandosi dalla guardia per portarsi accanto a Draconas. «Certamente», rispose Draconas, prendendo la sua sacca. Gunderson gli fece cenno: «Per di qua, signore». La guardia lanciò a Draconas uno sguardo carico d'odio. «Stai camminando con il demonio, Gunderson», lo ammonì. «Mi immergerò nell'acqua santa, Nate, se questo ti farà sentire meglio», replicò Gunderson. «Non c'è proprio niente da scherzare», ribatté l'altro e, borbottando a bassa voce, fece di nuovo uno scongiuro e si allontanò tutto impettito. «Ne parlerò con Fratel Bascold». «Mi scuso di causare così tanto scompiglio», disse Draconas, mentre seguiva Gunderson. «Mi pare di capire che non avrei dovuto essere così esplicito riguardo alla mia convocazione. Al mio paese, la gente non è così arretrata... non è di vedute così limitate», si affrettò a rettificare con discrezione. «Era più azzeccata la prima definizione, signore», disse Gunderson sogghignando. «Arretrata è la parola giusta. Nate è un ragazzo di campagna e crede ancora che le streghe mangino i bambini e danzino nude nella foresta al chiaro di luna». «Vi posso assicurare», dichiarò Draconas, «che non ho mai danzato nudo né nella foresta né altrove».
Gunderson scoppiò a ridere. Aveva una bella risata: franca e sonora. «Aspettate qui. Vado a informare Sua Maestà del vostro arrivo». Gunderson condusse Draconas in una grande sala e si allontanò per andare in cerca del re. Draconas si guardò intorno incuriosito. I muri di pietra mantenevano l'aria del locale fresca come quella della Sala del Parlamento, e quel luogo cavernoso era quasi altrettanto buio. Le finestre a feritoia lasciavano filtrare solo una piccola parte di luce solare e, poiché erano rivolte a est, anche quella era svanita quando il sole si era spostato nella sua traiettoria verso ovest. Parecchi mobili di squisita fattura arredavano la stanza ed erano stati disposti, insieme ad alcune sedie di legno dall'alto schienale rivestito di cuoio e a un tavolino, davanti a un immenso camino ricavato al centro di una parete. Un enorme tavolo rettangolare, destinato a ospitare un nutrito gruppo di commensali, era collocato in fondo alla sala ed era corredato, da un lato, da panche e, dall'altro, da alcune sedie. Quella era la sala riservata al pubblico. Gli appartamenti privati dovevano trovarsi altrove. Mentre Draconas si guardava pigramente intorno, prendendo nota di questo o di quello, fu raggiunto da un bambino di circa sette anni, venuto a dare un'occhiata al cacciatore di draghi. Il bambino aveva capelli chiari e occhi grandi. Le calzature e la casacca sembravano di ottima qualità, ma non erano elaborate, né appariscenti. A giudicare dal suo aspetto in qualche modo un po' arruffato e in disordine, si sarebbe detto che si era cambiato in fretta e furia gli abiti di tutti i giorni mettendone altri più formali, dopo aver saputo della presenza dell'ospite. Sembrava anche che avesse riservato a Draconas il grande onore di lavarsi il viso, benché avesse dimenticato l'area attorno all'orecchio destro. «Mio padre vi raggiungerà tra poco, signore», disse il ragazzino. «Mi ha chiesto di offrirvi un rinfresco, nel frattempo». «No, grazie», rispose Draconas, immaginando di trovarsi in presenza dell'erede al trono. Due altre testoline bionde si affacciarono da una porta socchiusa che si trovava in fondo alla sala. «Suppongo che siate il Principe Guglielmo». «Sì, signore», confermò il principe con la dignità che si addiceva al suo rango. «E io sono Draconas». Il principe annuì e si mordicchiò le labbra, cercando apparentemente di ricordarsi cosa avrebbe dovuto fare adesso per mettere l'ospite a proprio agio. La risposta gli giunse immediata. «Prego, sedetevi, signore», disse, indicando una sedia dall'alto schienale.
Draconas si inchinò, ma rimase in piedi. Il principe si rese conto che avrebbe dovuto sedersi prima lui dell'ospite e si appollaiò sul bordo di una delle sedie, ma balzò subito in piedi, del tutto dimentico del protocollo di corte. «Ho sentito Gunderson dire a mio padre che siete un cacciatore di draghi. È vero? Li cacciate veramente? Quanti ne avete uccisi?». Prima che Draconas potesse rispondere a quel fuoco di fila di domande fu interrotto dall'ingresso di una donna, che arrivò affannata nella sala, costringendolo ad alzarsi di nuovo. La donna era bruna quanto il principino era biondo. Era piccola di statura e ben tornita, mentre lui era alto e snello. Tuttavia, una certa rassomiglianza tra i due bastava a classificarli come madre e figlio, soprattutto nel naso leggermente schiacciato e negli occhi grandi e spalancati. «Regina Ermintrude», la salutò Draconas. «Sono onorato». La donna aveva un modo tutto suo di essere attraente, con quei fianchi abbondanti e il seno prosperoso. L'espressione del viso era dolce e tranquilla. I capelli neri, folti e rigogliosi, costituivano la sua unica bellezza, e lei li portava annodati in una treccia elaborata, non nascosti sotto un soggolo, come invece avrebbe imposto la moda del momento. «Sua Maestà si scusa per il ritardo. Vi raggiungerà tra poco. Nel frattempo desiderate forse darvi una rinfrescata?». Lanciò un'occhiata severa al figlio. «Oppure Guglielmo ve l'ha già chiesto? Sa che dovrebbe farlo». Il principino arrossì. «Sono spiacente, Madre. Ho dimenticato che avrei dovuto proporglielo subito. Gli ho chiesto se voleva qualcosa da bere...». «Sì, non mi dispiacerebbe lavarmi via un po' la polvere di dosso», intervenne Draconas. «Non un bagno», aggiunse in fretta, ricordando che in alcune terre vigeva l'usanza che la signora del castello offrisse un bagno ai suoi ospiti e che, a volte, assistesse addirittura alle loro abluzioni. «Vorrei solo spruzzarmi un po' d'acqua sul viso e sciacquarmi le mani. Forse il Principe Guglielmo può indicarmi la strada...». Il volto afflitto del principino si illuminò. «Ne sarò lieto, signore». «Naturalmente, sarete nostro ospite per la notte», disse la regina. Fece una pausa e aggrottò la fronte, pensosa. «Al momento abbiamo parecchi ospiti, ma credo che ci sia una camera libera nell'ala est, in fondo al corridoio». «Non voglio crearvi problemi, Regina Ermintrude. Una coperta nelle stalle sarà più che sufficiente». La regina sorrise, facendo comparire due fossette ai lati della bocca. «A-
vete l'aria di un gentiluomo avvezzo ai viaggi, signore. Probabilmente avrete soggiornato in corti ben più importanti della nostra». Parlò molto in fretta, senza dargli né tempo né spazio per rispondere. «Mio marito e io non siamo molto portati per le cerimonie. E, a quel che mi pare di capire, nemmeno voi. Sapete, non vi siete inchinato quando sono entrata, e non mi chiamate "Vostra Maestà" o "Madame". Vengo dalla corte reale di Weinmauer, dove mio padre è re. Ci siete mai stato?» chiese, proseguendo però nel suo discorso prima ancora che Draconas potesse replicare. «Là, tutto è molto formale. Io lo trovavo alquanto soffocante. E anche il mio caro Ned, quando è venuto per il matrimonio. Naturalmente, il nostro matrimonio era stato combinato, ma abbiamo scoperto di essere fatti l'uno per l'altra. La prima cosa che ho fatto da regina è stato rispedire a casa le venti dame di compagnia che mio padre aveva insistito a mandarmi come seguito». La regina rise di nuovo. Draconas fece per aprire bocca, ma lei aveva già ripreso a parlare. «Accompagna Mastro Draconas nella sua stanza, Guglielmo. Dopo che vi sarete rinfrescato e riposato, signore, permettetemi di offrirvi del vino speziato. Lo preparo io personalmente. Oltraggioso, non è vero?». Il principino si precipitò correndo verso l'uscio in fondo al corridoio. Mentre Draconas si accingeva a seguirlo, la regina lo bloccò con lo sguardo. Lanciando un'occhiata in direzione del figlio, Ermintrude si avvicinò rapida a Draconas e gli mise una mano sul braccio. Le fossette svanirono, così come la sua aria scherzosa. «Gunderson mi ha detto che siete un cacciatore di draghi, signore», disse sottovoce. «Spero che possiate aiutarci. È più di una settimana che Ned non riesce a dormire. Non mangia quasi niente. È preoccupato per i suoi sudditi e si sente così impotente. I mercanti sono in agitazione...». Ermintrude tacque e fissò Draconas con uno sguardo intenso. Lo stava valutando. Aveva da fargli una confidenza e stava cercando di decidere se fosse degno della sua fiducia. Dopo averlo scrutato per un attimo, decise. «Vi dico questo, signore, perché Ned non lo farà. I ministri stanno facendo pressioni su mio marito affinché chieda a mio padre, il re di Weinmauer, di inviare qui i suoi soldati e di proclamarci suo protettorato. È da molto che mio padre ha messo gli occhi sul nostro prospero regno. Lo vorrebbe per sé. Era questa la sua intenzione quando ha combinato il mio matrimonio con Ned. Ed era molto contrariato quando mi sono rifiutata di assoggettarmi alle sue macchinazioni e ai suoi piani. So che gli è giunta noti-
zia del drago. Le sue spie lo tengono informato su tutto. Se manda qui il suo esercito ci sarà la guerra, perché Ned non permetterà mai che il suo regno finisca sotto il dominio di Weinmauer. Sospettiamo che almeno due dei nostri ministri siano al soldo di mio padre...». Un improvviso e terribile pensiero le passò per la mente. Indietreggiò, fissando Draconas con circospezione. «Forse anche voi...». «Sono completamente digiuno di politica, Regina Ermintrude», disse Draconas. «Vi do la mia parola. Sono qui solo per fare il mio lavoro». Una lacrima rotolò giù per la guancia della regina, mentre altre le spuntavano, luccicanti, negli occhi. Draconas si affrettò a fare un passo indietro, si voltò a metà e nascose le mani dietro la schiena. «Che gli angeli benedetti ci proteggano», esclamò Ermintrude. «Siete uno di quegli uomini che si sentono venire meno alla vista delle lacrime di una donna?». Draconas torse la bocca. «Avete scoperto il mio punto debole, Madame», rispose con un inchino. «Non preoccupatevi», lo rassicurò Ermintrude, asciugandosi gli occhi. «Non piango più. È solo che... siete il primo a dire di poterci aiutare e mi è parso che ne aveste davvero l'intenzione. Ma cosa avete detto circa il fatto che mio marito dovrebbe fidarsi di voi? Perché non dovrebbe?». «Perché i miei metodi sono, diciamo, un po' inconsueti...». «Immagino che non contemplino il danzare nudo al chiaro di luna», disse Ermintrude, mentre un accenno di fossette le compariva di nuovo agli angoli della bocca. «No, Madame», rispose Draconas con un mezzo sorriso. Quelle fossette erano contagiose. «No, certo che no». «Ah, peccato!» sospirò la regina. «Mi sarebbe piaciuto. Ecco che arriva, Guglielmo», gridò al principino, che stava strascicando impaziente i piedi sul pavimento. «Vi prego di non raccontare a mio figlio ciò che vi ho appena detto. Non vogliamo che lui e i suoi fratelli si preoccupino». L'etichetta richiedeva che Draconas baciasse la mano della regina, ma lei, nella sua distrazione, dimenticò di porgergliela e lui non accennò a prendergliela. Le dita di lei erano ancora umide di lacrime. Con un inchino Draconas si congedò, soddisfatto di ciò che aveva scoperto. «È ancora meglio di quanto mi aspettassi», si disse. «Una minaccia di guerra, e tutto a causa di alcuni villaggi bruciati e di qualche vacca ammazzata».
Mentre si allontanava per darsi una rinfrescata e appagare la curiosità del giovane principe con una serie di sorprendenti bugie sulla caccia ai draghi, commentò tra sé: «Gli umani si danno così tanto da fare per complicarsi la vita. Sembra che questo povero re sia proprio disperato come speravo». 5 Edoardo IV del Casato di Ramsgate sull'Aston era giovane per essere re, avendo appena compiuto trent'anni. Il padre era morto a poco più di cinquant'anni per aver bevuto dell'acqua inquinata durante una spedizione di caccia. Edoardo era stato quasi sul punto di accompagnare il padre, ma, all'ultimo momento, aveva dovuto restare a casa perché il principino Guglielmo era stato colto da una febbre improvvisa. Se fosse andato con il padre, avrebbe sicuramente bevuto la stessa acqua e sarebbe rimasto vittima della stessa malattia, lasciando il regno al figlio, che a quei tempi era un bambino di appena cinque anni. Guglielmo raccontò la storia della sua famiglia a Draconas, mentre questi si lavava il viso e le mani nel grande catino che i servi avevano portato in camera sua. Guglielmo era molto fiero di aver salvato la vita al padre. Mentre si lavava e il piccolo continuava a chiacchierare, Draconas udiva altre voci in sottofondo, ospiti del re e della regina che andavano e venivano attraverso i corridoi del castello, affollati da cavalieri e dalle loro dame, da nobili in visita, da menestrelli e servi, e dai vari adulatori, frequentatori abituali delle corti. I cavalieri facevano un gran baccano. Avevano deciso di compensare la delusione provata per non aver saputo sconfiggere il drago organizzando un'imponente caccia al cinghiale, che avrebbe dovuto avere luogo l'indomani, ed erano tutti intenti nei preparativi. I cani trotterellavano al loro fianco, abbaiando e, di tanto in tanto, azzuffandosi l'un l'altro, contribuendo in tal modo ad accrescere la confusione generale. Guglielmo avrebbe voluto condurre Draconas nelle stalle per mostrargli il proprio cavallo, di cui era molto orgoglioso, ma Gunderson li raggiunse. «Mastro Draconas», gli annunciò il vecchio soldato, «Sua Maestà adesso può ricevervi». «Me lo mostrerete un'altra volta, questo magnifico cavallo», promise Draconas al principino. A tutta prima, questi parve deluso, ma poi pensò a come avrebbe potuto pavoneggiarsi davanti ai suoi fratelli più piccoli, raccontando loro di avere
trascorso il pomeriggio con un vero cacciatore di draghi, e si allontanò di corsa a cercarli. Gunderson guidò Draconas verso gli appartamenti privati del re. Attraversarono il salone principale, ora gremito di giovani uomini, di cani e dei loro attendenti, tutti impegnati a discutere dell'imminente caccia. La conversazione si arrestò al loro ingresso. I presenti fissarono apertamente l'uomo che ormai tutti sapevano essere un cacciatore di draghi. Alcuni sguardi erano incuriositi, altri indagatori, altri ancora palesemente ostili o sospettosi. Draconas non prestò loro la minima attenzione. Gunderson lo precedette su per una scala a chiocciola, scavata nella pietra della torre occidentale. La scala portava a una saletta privata dall'aspetto confortevole, piccola e accogliente. Numerosi tappeti di squisita fattura coprivano il pavimento. A un'estremità della stanza troneggiava un grande camino che, in quella bella giornata estiva, ovviamente non era acceso. Alcune lampade a olio illuminavano il locale e diffondevano nell'aria un gradevole profumo. Il re sedeva a un tavolo ingombro di carte, intento a dettare lettere a un tale che indossava i panni scuri dell'impiegato. Draconas si guardò intorno. Doveva trattarsi del salottino privato del re, il suo preferito, quello dove lui trattava i suoi affari, dove si rifugiava per restare solo o per riflettere. Draconas era giunto a credere che ciò che possiede un uomo riveli molte cose sul suo carattere, e fu subito incuriosito dal fatto che lo studio del re fosse zeppo di strumenti di natura scientifica. Un bellissimo astrolabio occupava il posto d'onore su un tavolo. Accanto ad esso era stato collocato un sestante. Un cannocchiale era posizionato sul balcone. Draconas si chiese per un attimo e con un certo divertimento se il re non avesse smesso di usare il cannocchiale per osservare le stelle e non lo stesse usando per tenere d'occhio il drago. Al loro ingresso, Edoardo alzò gli occhi e fece un breve cenno per mostrare che si era accorto del loro arrivo. Poi andò avanti a dettare. Gunderson condusse Draconas a una finestra, fuori portata da ciò che veniva detto, e quest'ultimo capì per quale motivo il re avesse scelto proprio quella stanza. Una portafinestra si apriva sul balcone, che si affacciava sul cortile del castello. Oltre le mura, si vedeva la città di Ramsgate sull'Aston e, oltre Ramsgate, il mondo. Campi verdeggianti lasciavano il posto al verde screziato più scuro della foresta, la quale, a sua volta, lasciava il posto al brumoso azzurro violaceo delle montagne in lontananza. Draconas osservò quelle montagne, le loro cime incappucciate di neve, e si sentì accelerare il battito del polso. Non avrebbe potuto scegliere una collocazione migliore,
neppure se avesse voluto. Alla fine, il segretario si congedò, portandosi via un fascio di documenti. Edoardo si alzò in piedi e si stiracchiò. Nell'udire il rumore della sedia che si spostava, Gunderson e Draconas capirono che era giunto il momento di voltarsi. «Sua Maestà, Re Edoardo IV», disse Gunderson. Draconas inclinò il capo. Il viso di Gunderson si fece purpureo. «Siete al cospetto del re, signore. Inchinatevi a Sua Maestà». «Chiedo scusa», disse Draconas, «ma lui non è il mio sovrano e perciò non mi inchino». Parlò rivolto al re, che lo stava guardando, non tanto arrabbiato quanto divertito. «Mi avete mandato a chiamare, Re Edoardo, perché avete un problema e credete che io sia la persona giusta per risolverlo. Siete voi che cercate il mio aiuto, e non il contrario. Se volete avvalervi della mia collaborazione, per me va bene, se non volete, fa lo stesso. Ma ritengo che sia importante tanto per me quanto per il mio lavoro sapere se ci troviamo su un piano di parità». Draconas osservò il re attentamente per cogliere la sua reazione. Se Edoardo si fosse lasciato andare a uno scatto di nervi e si fosse infuriato, Draconas avrebbe capito di essersi sbagliato nel valutarlo e avrebbe dovuto indirizzarsi verso qualcun altro. Edoardo torse le labbra. «Ecco un punto a suo favore, Gunderson, o più di uno. Noi non siamo il suo sovrano. Siamo noi ad averlo mandato a chiamare. Stiamo pensando di rivolgerci a lui perché ci aiuti. Tenendo conto di queste circostanze, è difficile costringere qualcuno a inchinarsi davanti a noi». Draconas si ritenne soddisfatto e approfittò dell'occasione per studiare quell'uomo nel quale, a sua insaputa, erano riposte tutte le speranze dei draghi. Edoardo era equilibrato, fiducioso, sicuro di sé e di bell'aspetto, in base agli standard di quei tempi. I capelli castani, divisi nel mezzo da una scriminatura, gli ricadevano in morbide onde a sfiorargli le spalle, come si usava da quelle parti. I lineamenti erano regolari e armoniosi, con zigomi alti e prominenti, il naso forte e diritto e gli occhi grandi color nocciola, che incontravano lo sguardo altrui con disarmante franchezza. Era alto di statura, con un corpo ben fatto e muscoloso, poiché, sebbene nelle sue terre regnasse da molto tempo la pace, non dimenticava che avrebbe potuto aver bisogno di combattere per difenderle.
«Ho sentito che non danzerete nudo», aggiunse Edoardo. Il suo sorriso era caldo e generoso e aveva la capacità di far sentire chiunque a suo agio, mantenendo però nel contempo un certo distacco, a ricordare che ci si trovava comunque al cospetto di un re. «Poiché mi sembra che ciò sia causa di grande delusione, potrei provare a farlo», disse Draconas. Edoardo sorrise di nuovo. Aveva un sorriso simile a quello del figlio, un sorriso che gli conferiva un'aria birichina e gli illuminava gli occhi nocciola, facendovi brillare tante pagliuzze verdi e oro. «Temo che la vostra danza non produrrebbe alcun effetto sul drago», commentò Edoardo. Potrebbe, pensò Draconas, ma non l'effetto che lui vuole. L'immagine della paffuta e ben dotata Ermintrude che danzava nuda con selvaggio abbandono al chiaro di luna non era priva di un certo fascino. Ma Draconas decise di essere onesto. «Temo di no». «Ah, bene», rispose il re con un finto sospiro di rammarico. «Sarà per un'altra volta, forse». La luce maliziosa nei suoi occhi non durò a lungo. Il color nocciola diventò marrone scuro. Il bel volto appariva tirato, logorato dalle preoccupazioni, e lasciava palesemente trasparire l'ansia di cui era preda il sovrano. Chiunque altro avrebbe cercato di nascondere quelle emozioni. Ma i sentimenti e i pensieri di Edoardo si sarebbero sempre riflessi con chiarezza sul suo viso, alla luce del sole, perché il mondo potesse vedere e giudicare. «Credo che mia moglie vi abbia già illustrato la situazione», disse Edoardo. Indicò il punto dove prima era seduto il suo segretario. «Le lettere che mi avete visto dettare. Una era in risposta a un messaggio inviatomi da un barone che ha dei possedimenti ai confini tra le nostre terre e quelle di Weinmauer. Mi avvisa che i castelli lungo la frontiera vengono rinforzati. Mio suocero si sta preparando ad accorrere in mio aiuto e, così facendo, mi inghiottirà in un sol boccone. Preferirei quasi», aggiunse con un lampo negli occhi, «essere inghiottito dal drago». «Capisco», replicò Draconas. «E voi avete una soluzione per tutto questo?» chiese Edoardo, fissando Draconas con sguardo intento. «Siete in grado di porre fine a questa minaccia? Di uccidere quel mostro o di scacciarlo?». «Prima di darvi una risposta, devo spiegarvi qualcosa riguardo alla natura dei draghi», disse Draconas. «"Conosci il tuo nemico" è una massima comune tra i soldati, o così perlomeno sono portato a credere».
Nel dire quelle parole, lanciò un'occhiata a Gunderson, avendo cura di includerlo nella conversazione, poiché immaginava - a ragione - che, in mancanza del padre, Edoardo si rivolgesse all'anziano soldato per avere consigli e suggerimenti. «Sono impaziente di imparare», esclamò Edoardo. «Sediamoci accanto al camino. Faccio portare del vino». «Ditemi esattamente che tipo di razzie ha compiuto quel drago», disse Draconas, dopo che il servo fu congedato. «Può sembrare irrilevante, ma mi aiuterà capire qualcosa di più sulla natura di quell'animale». Edoardo si concesse un attimo per riorganizzare i pensieri. «Il drago ha cominciato con l'attaccare il villaggio di Apfield, nella parte occidentale del regno». «Chiedo scusa», lo interruppe Draconas. «Ma credo che si possa già stabilire con certezza che si tratta di un maschio. Le femmine commettono raramente questo genere di atti deliberati di distruzione. Il gentil sesso tende a comportarsi in modo più sottile e astuto». «Suppongo che le donne siano le stesse dappertutto», osservò Edoardo, lo sguardo ravvivato da un breve sorriso. Draconas non commentò. «Mi piacerebbe conoscere i dettagli precisi, prego, continuate». Fu la volta di Gunderson a proseguire nel racconto. «Dopo l'attacco di Apfield, hanno cominciato a giungerci notizie di assalti da ogni parte del regno: mandrie massacrate, pecore rubate, gente terrorizzata, case distrutte. A dispetto di certe voci che affermano il contrario, finora nessun uomo è stato ucciso», dichiarò, «anche se è solo questione di tempo». «Capisco. E quali misure avete adottato contro il drago?». «Abbiamo radunato i cavalieri di Sua Maestà e abbiamo aspettato che il mostro si decidesse a fare la sua comparsa. A quel punto, l'abbiamo inseguito. I nostri cavalli, però, non riescono a star dietro a un animale capace di volare alla velocità delle raffiche di vento invernali». «Ovunque noi arrivassimo, il drago non c'era più», spiegò Edoardo con sottile ironia. «Quella bestia sembrava divertirsi a colpire tutti i posti dove noi stavamo per arrivare o da cui ce n'eravamo appena andati, facendoci fare la figura degli stupidi». «Il drago può seguire i vostri movimenti dall'alto», concordò Draconas. «Gli riesce facile individuare un grosso contingente a cavallo e, come dite voi, è in grado di spostarsi molto più rapidamente. Così non lo catturerete mai».
«E allora come?» domandò Edoardo, battendo con violenza le mani sui braccioli della seggiola. «Cosa si può fare? Questo drago deve essere fermato!» esclamò, balzando in piedi e cominciando a camminare su e giù per la stanza con aria inquieta. Draconas finse di riflettere seriamente sulla questione. «Direi che avete un problema molto serio. Un drago maschio - indubbiamente giovane - ha preso dimora nel vostro regno. Probabilmente in una caverna da qualche parte lungo il fiume». «Dimora?» la mascella di Edoardo si fece cascante. «Volete dire che ha intenzione di stabilirsi qui?». «Temo proprio di sì. I draghi non differiscono molto dagli umani nel modo di pensare e di agire. In tutti gli angoli del mondo i giovani sono giovani. Voi stesso, durante la vostra giovinezza, vi sarete lasciato andare a fare qualcosa di sconveniente». Edoardo e Gunderson si scambiarono un mesto sorriso, riandando entrambi indietro col pensiero a qualche dolce ricordo. «Può darsi», confermò il re. Poi si diresse di nuovo alla sua seggiola, vi si lasciò cadere, distendendo le lunghe gambe, e rimase a fissarsi cupo la punta degli stivali. «Capisco ciò che intendete dire, Mastro Draconas. Questo drago è giovane, spericolato e sciocco». «Precisamente. Non ha idea delle difficoltà che sta causando, ma anche se lo facesse non ci baderebbe. Bada solo a divertirsi e ad attirare su di sé l'attenzione delle femmine giovani». «Quanto potrà andare avanti una cosa del genere?» domandò Edoardo. «I draghi vivono molto a lungo, Vostra Maestà. La giovinezza di un drago può durare centinaia di anni...». «Per l'amor del cielo! Bisogna fare qualcosa, signore! Dobbiamo trovare la caverna dove si è rifugiato. Colpirlo mentre dorme. Voi scuotete il capo, ma...». «Impossibile. Per prima cosa, potreste cercare la sua tana per tutta la vita senza riuscire a trovarla. I draghi sono molto astuti nel mimetizzare i luoghi che hanno eletto a loro dimora. E poi sarebbe necessario un enorme spiegamento di forze per combatterlo. Un migliaio di cavalieri basterebbe appena». «Un migliaio!» gemette Edoardo. «Ho già avuto problemi a metterne insieme venti». «Ma anche se ne aveste mille, il drago vi sentirebbe e vi scorgerebbe a
miglia di distanza e avrebbe tutto il tempo di preparare le sue difese o di mettersi in salvo. Tuttavia», aggiunse Draconas, vedendo che il re stava piombando nella disperazione più nera, «c'è un modo per liberarvi di questa minaccia». «Sì?» chiese Edoardo, mentre si protendeva speranzoso in avanti sulla sedia. «Richiederà coraggio da parte vostra, coraggio, impegno e sacrificio». «Sono pronto a fare qualunque cosa pur di salvare il mio regno», dichiarò Edoardo risolutamente. «E dovrete fidarvi di me», disse Draconas. Edoardo lanciò un'occhiata in tralice a Gunderson, poi riportò lo sguardo su Draconas. «Non vi conosco, signore», replicò il re. «Ciò che ho visto di voi mi piace, ma in quanto a fidarmi...». Scosse il capo. «Per il momento, non mi sento di farlo. Forse quando mi avrete spiegato il vostro piano...». «Mi sembra giusto», disse Draconas. Poi si alzò in piedi e indicò la finestra. «Se volete avere la grazia di accompagnarmi, Vostra Maestà, c'è qualcosa che desidero mostrarvi». Perplesso, il re fece come Draconas gli chiedeva, mentre Gunderson lo seguiva da vicino. «Vedete quelle montagne? Quelle in lontananza, con la cime coperte di neve?». «Sì. È la catena dell'Ardvale». «Ci siete mai stato, Vostra Maestà?». «Cielo, no!» replicò Edoardo, stupito per la domanda. «La catena dell'Ardvale si trova fuori dai confini del mio regno. Le nostre terre finiscono ai piedi delle prime alture». «Perciò non sapete cosa ci sia oltre quelle montagne?». Il re diede una scrollatina di spalle, in segno di disinteresse. «Si dice che quei monti siano invalicabili. Nient'altro che rocce e neve. Non riesco a capire...». «Oltre quelle montagne, c'è qualcosa: un reame. Il reame di Seth». Edoardo fece del suo meglio per mostrarsi educato. «Non avevo idea. Un reame, avete detto». Dopo aver fatto roteare gli occhi in direzione di Gunderson, si voltò di nuovo e ricominciò a camminare. «Ora, Mastro Draconas, stavamo parlando dei draghi...». «Un tempo, le terre di Seth vennero attaccate da un nutrito numero di draghi», continuò Draconas imperturbabile. «Più di venti draghi posero la
città sotto assedio». Edoardo si fermò e si girò a fissarlo, inorridito. «I draghi furono cacciati. Tre di loro vennero uccisi. Vi racconto questo, Vostra Maestà, perché il reame di Seth è l'unico posto al mondo che i draghi temono. È l'unico posto al mondo che i draghi evitano». Draconas indicò nuovamente le montagne avvolte nella foschia. «Là, in quel reame, troverete la persona di cui avete bisogno. La persona in grado di scacciare il drago e di tenere lui e quelli della sua specie per sempre lontani dal vostro regno». «In che modo?» chiese Edoardo. «Chi è questa persona?». «Una donna dotata di poteri magici. Dovrete recarvi da lei e persuaderla ad accompagnarvi a Idlyswylde. Solo la sua magia potrà respingere il drago». «Magia...». Edoardo rivolse un'occhiata divertita a Gunderson, che rispose con un sorriso tollerante. «Siamo tornati a danzare nudi, signore?». Draconas lanciò uno sguardo significativo in direzione dell'astrolabio. «La scienza vi ha forse aiutato finora?». Edoardo parve punto sul vivo. «Non abbiamo neppure tentato. Pensavo di far arrivare dei cannoni. Potremmo sistemarli sulle mura...». «Cosa vi aspettate che faccia il drago, Sire? Che si rotoli nei campi mentre voi lo bersagliate con le vostre palle da cannone? O forse vi proponete di abbatterlo mentre è in volo?». Edoardo si fece paonazzo per la rabbia. Non era abituato a essere messo in ridicolo. «Credo che potrebbe funzionare altrettanto bene dell'agitare una zampa di gallina sul muso del drago, cantilenando abracadabra». «Non credete nella magia», disse Draconas. «No», rispose Edoardo, aggiungendo però subito, con un guizzo dorato negli occhi castani, «ma fino a poco tempo fa non credevo nemmeno nei draghi». Poi uscì sul balcone, contemplò le montagne e diede loro una rapida guardata con il cannocchiale. «A questo punto, sono disposto a tentare qualunque cosa», aggiunse, voltandosi. «Invierò una delegazione per portare qui quella donna. Voi, Gunderson, andrete come mio rappresentante personale. Invieremo doni. Gioielli. Sete preziose. Alle donne piacciono». Poi si bloccò, osservando Draconas con una certa impazienza. «Che succede adesso, signore? Scrollate di nuovo la testa. Volete forse dire che i gioielli sono un dono poco appropriato?». «C'è un particolare di cui non avete mai sentito parlare, che assicura l'in-
columità al regno di Seth», rispose Draconas. «Sono una delle poche persone al mondo a esserne a conoscenza, e solo dopo averne cercato per anni l'esistenza. Il regno è tenuto in isolamento, e sui suoi confini gravano degli incantesimi, fatti da quella stessa donna. In tal modo, lei impedisce l'accesso ai draghi e a chiunque altro possa nuocere alla sua gente. La vostra delegazione potrebbe trascorrere anni a cercare tra quelle montagne senza essere capace di penetrare la magia che nasconde l'accesso a quelle terre. E anche se, per qualche oscuro miracolo, i vostri inviati fossero in grado di trovare questo accesso, non vivrebbero tanto a lungo da trarre profitto dalla scoperta. I confini sono pattugliati da soldati che hanno l'ordine di uccidere tutti coloro che tentano di entrare». Edoardo lo fissava, sbigottito. «Mi sembra di essere finito in una specie di fiaba! Un regno incantato. Gente tenuta prigioniera. Confini nascosti da incantesimi». «Quest'uomo è matto», commentò Gunderson, accigliandosi. «Questa storiella da bambini è già andata avanti troppo a lungo. Vostra Maestà, sono spiacente di avervi fatto sprecare del tempo con queste sciocchezze. Lasciate che butti fuori questo individuo». Edoardo gli fece cenno di tacere. «Trovo tutto ciò molto difficile da credere, Draconas». «In tal caso, permettetemi di farvi una domanda, Sire. La scienza è stata capace di dimostrare l'esistenza di Dio?». «Naturalmente no», rispose categoricamente Edoardo. «Eppure voi credete in Dio?». «Sono un uomo di fede. E, sì, capisco cosa volete dire». Gli occhi nocciola erano scurissimi, ravvivati da scintillanti pagliuzze verdi. «Porgete acqua a un uomo che muore di sete e poi togliete di colpo la coppa dalle sue labbra. Mi dite prima che in quel regno lontano risiede la mia unica speranza e subito dopo affermate che questa speranza deve fare affidamento sul soprannaturale. Ma, a ogni modo, che importanza può avere», aggiunse con un gesto impaziente, «visto che un'impresa del genere non potrà mai essere realizzata?». «Non ho detto questo», ribatté Draconas. «Una delegazione non sarebbe in grado di introdursi in quel regno. Tutti i suoi componenti verrebbero uccisi. Ma una persona sola potrebbe, purché provvista di adeguati poteri magici. Una persona in grado di perorare la propria causa». Edoardo fissò a lungo Draconas. «Una persona provvista di poteri magici. Madre di Dio misericordiosa. Se mandassi Gunderson...».
Draconas stava di nuovo scuotendo il capo. «La Signora dei Draghi è tenuta in gran conto dalla sua gente. È autorevole e potente, ed è venerata come una divinità. Solo un sovrano di diritto come voi avrebbe la possibilità di ottenere un'udienza». «Non starete pensando seriamente a una cosa del genere, Sire», esclamò Gunderson, osservando sospettoso il suo re. Lo prese da parte. Parlarono a voce bassa, ma Draconas era dotato di un ottimo udito. Girò la schiena e guardò fuori dalla finestra, facendo finta di osservare il panorama. «Non mi piace, Vostra Maestà», disse Gunderson. «Cosa sappiamo di questo individuo? Niente! E adesso vi propone di imbarcarvi con lui in una specie di impresa assurda. Magia!». Sbuffò. «È più probabile che si tratti di un trucco di Weinmauer per portarvi lontano da qui». «Qualunque cosa sia, non credo che si tratti di questo», ribatté Edoardo seccamente. «Mio suocero non avrebbe mai potuto inventare una storia simile: una sacerdotessa dotata di poteri magici, nascosta in un lontano regno incantato». Sospirò piano. «Se tutto questo è vero, quale meravigliosa avventura, Gunderson! Ma ci pensi?». «Se è vero». Gunderson pose una grande enfasi sul «se». «In primo luogo, c'è questo fatto della magia. Vostra Maestà sa, come tutte le persone istruite, che un umano non può possedere poteri soprannaturali. Ciò che quei ciarlatani che si fanno chiamare stregoni e streghe vendono come "magia" in realtà altro non è che un trucco: abilità manuale, illusione, inganno». «È vero», ammise Edoardo. «In secondo luogo, non mi piace la sua arroganza. Non vi mostra il dovuto rispetto». «Vedi, Gunderson, questo è proprio uno dei motivi per cui sono propenso a fidarmi di lui. Ha chiarito fin dall'inizio che lo devo prendere così com'è. Se avesse intenzioni poco onorevoli, si comporterebbe in modo servile e adulatore, come quei leccapiedi mandati da mio suocero, non credi?». «A meno che non pensi che sia proprio quello che credereste...». «Oh, andiamo, Gunderson, non ti sembra di esagerare?» disse Edoardo con un sorriso. «Sto proprio pensando di andare con lui». «Non lo direte sul serio, Vostra Maestà!». «Sei stato tu a suggerirmi di incontrarlo...». «Incontrarlo, sì. E ascoltare ciò che aveva da dire. Ma non andarvene in giro da solo con lui».
«Ho un'idea», disse Edoardo. «Hai parlato di magia. Facciamo un piccolo esperimento». Alzò la voce. «Mastro Draconas, avete detto che devo essere "provvisto di poteri magici". Che genere di poteri? Chi potrebbe conferirmeli?». «Io, Vostra Maestà». «Spero che non riteniate sconveniente da parte mia chiedervi una dimostrazione». Edoardo gettò un'occhiata in tralice a Gunderson, a significare: «Adesso sì che l'abbiamo preso in castagna». Draconas scrollò le spalle. Prese la sacca di cuoio appesa all'estremità del bastone, vi mise dentro la mano ed estrasse un topazio giallo. Delle dimensioni di un uovo di gallina, il topazio era stato tagliato in modo tale da risultare liscio sulla punta, smussato ai lati e piatto sul fondo. Draconas si accostò allo scrittoio che il re aveva usato per dettare le sue lettere e posò la pietra su un foglio di pergamena. «Una bella gemma», osservò Edoardo, avvicinandosi a sua volta per esaminarla. «La vedremo levitare? La farete uscire galleggiando dalla finestra?». Draconas non rispose. Tenne la mano sul topazio e pronunciò qualcosa a bassa voce. La gemma cominciò a brillare di una misteriosa luce gialla. Il re e Gunderson rimasero a fissare con un certo divertimento la pietra fiammeggiante, ma non si mossero. «Notevole», commentò Edoardo. «Cosa dovrebbe fare?». «Avete accennato alla finestra», disse Draconas. «Questo topazio è una finestra. Una finestra magica che solo io ho il potere di aprire. Venite qui e guardateci dentro». Edoardo lanciò un'occhiata a Gunderson e vide che si era fatto cupo in volto. «È un trucco», gli disse questi. «Se lo è, si tratta di un trucco molto efficace», commentò Edoardo, alzando gli occhi su Draconas. «Andiamo, signore. Come avete fatto a farla risplendere così? Ah, ci sono. È uno di quei prismi che hanno il potere di immagazzinare la luce solare?». «Fa ben altro che solo brillare», disse Draconas. «Guardateci dentro». Con una risata e una scrollatina di spalle, Edoardo si chinò a osservare la pietra. Gli occhi gli si spalancarono. Emise un'esclamazione soffocata, si avvicinò ulteriormente e guardò con attenzione. La strana luce gialla proiettava uno sfolgorante bagliore sul suo volto. «C'è... c'è qualcuno lì dentro!». Alzò il capo, timoroso e incredulo. «Chi
è?». «Non conosco il suo nome», rispose Draconas. «Tutto ciò che so è che è una sacerdotessa al servizio della Signora dei Draghi. È bella, non è vero?». «Non ho mai visto niente del genere», mormorò Edoardo, attratto verso il topazio. «Le sue labbra si muovono. Sta per dire qualcosa...». Draconas posò rapido la mano sul topazio e spezzò l'incantesimo. La luce svanì e con essa l'immagine della sacerdotessa che aveva scrutato nel magico bacile di pietra, aveva visto il drago Braun e gli aveva parlato. Draconas non aveva intenzione di permettere al re di sentire ciò che era stato detto. Benché le terre di Seth e di Idlyswylde fossero rimaste isolate l'una dall'altra per centinaia di anni - così tanti che ciascuna delle due si era dimenticata dell'esistenza dell'altra - un tempo c'erano stati degli scambi tra di loro, ed entrambe le popolazioni condividevano la stessa lingua. «Voglio sentire quello che dice!» esclamò Edoardo. «Non è il momento». «Si è trattato di un trucco, Vostra Maestà», disse Gunderson in tono burbero. «Qua, fatemi vedere». Draconas porse il topazio al vecchio soldato. Questi lo scosse, lo esaminò con attenzione. Estrasse una lente da gioielliere e ispezionò la pietra da tutte le parti. «È un semplice topazio», concluse infine. «Nemmeno di grande valore. La gemma presenta delle imperfezioni». Poi lo tese a Edoardo, che però scosse la testa. Allora lo restituì a Draconas. il quale lo lasciò cadere nella sacca di cuoio. «Come avete fatto, signore?» chiese nuovamente Gunderson. «Come ho detto, si tratta di magia», spiegò Draconas stringendosi nelle spalle. «Della mia magia. Quella che vi porterà dentro ai confini del regno incantato». Edoardo inspirò e rilasciò lentamente il fiato. «Quali sono i vostri piani?». «Tutto a tempo debito. Prima c'è la questione del mio compenso. Cento monete d'oro: cinquanta adesso e il resto una volta che il drago se ne sarà andato». Edoardo batté le palpebre, sbalordito. «Si tratta di una cifra enorme, signore». «Verrebbe quasi da dire: "un riscatto degno di un re"», disse Draconas. «O, in questo caso, un riscatto degno di un regno. Il drago vi costa molto più di questo in termini di profitti mancati ogni giorno».
«Molto bene», commentò Edoardo, con un sussulto. «E adesso che ci siamo messi d'accordo, vi prego di spiegarmi come funziona questa vostra magia». «La magia non è una ruota idraulica, Vostra Maestà. Non posso disegnare un diagramma o mostrarvene il meccanismo. È quello che è. Se poteste mandare qualcuno per l'oro...». «Gunderson, vai a prelevarlo dal forziere». «Vostra Maestà, vi prego di riflettere su ciò che state per fare. Il vostro regno è minacciato dall'esterno e dall'interno. I baroni sul confine si stanno preparando alla guerra. I mercanti si lamentano che i loro affari vanno a rotoli. Non hanno denaro per pagare le tasse, il che significa che non hanno denaro per pagare i nostri soldati, e ancora meno per pagare quest'uomo. Per quanto riguarda la sua cosiddetta magia, non so in che modo sia avvenuto l'inganno, ma ci deve essere una spiegazione razionale!». Gunderson continuò a parlare e Draconas prese posto su una seggiola e lo lasciò fare. Mentre osservava il re con attenzione, vide che i suoi occhi castani stavano assumendo una tonalità più scura e diventavano impenetrabili. Il volto espressivo, fino a poco prima così aperto a ogni possibilità, sprangò le porte e spense la propria luce interiore. Il re prestò educatamente ascolto all'uomo più anziano, ma tenne lo sguardo fisso sulla sacca di cuoio appesa al bastone. «Un uomo in giovane età», rifletté Draconas, «afflitto nei migliori anni della sua vita dal peso del potere, peso che si fa sempre più insostenibile ogni giorno che passa. Lo hanno fatto sposare con una donna che conosceva appena con il solo intento di ridurlo a una nullità. Ora deve essere marito e padre, non solo per la sua famiglia, ma anche per il suo popolo. Impantanato fino alle ginocchia, piegato in due dal peso che deve portare. Ed eccomi qui, a offrirgli un'avventura che ha il sapore d'altri tempi e una bellezza misteriosa. Al pari dei cavalieri del passato, egli è disposto a partire per una buona causa, per salvare il suo regno. Gli offro l'opportunità di liberarsi dai pesi, di scordare per un po' di essere sovrano, marito e padre. Dovrebbe essere molto più che un umano per rifiutare». «La mia decisione è presa», disse Edoardo, interrompendo Gunderson nel bel mezzo di una frase. Il tono con cui pronunciò quelle parole era quello di un re, freddo e impersonale. «Partirò con Mastro Draconas. So di correre un grosso rischio, mio caro amico», aggiunse, ammorbidendo la voce, «ma sono convinto che, se esiste la benché minima possibilità che
questo possa funzionare e che io riesca a liberare per sempre le nostre terre dal flagello del drago, valga la pena di correre un tale rischio». «Permettetemi di accompagnarvi, Vostra Maestà», lo scongiurò Gunderson. «Non andatevene in giro da solo con questo forestiero». «Tu mi servi qui, amico mio», ribatté Edoardo, «a occuparti del regno. Ermintrude è più che capace di tenere a bada il padre, ma ha bisogno di averti al fianco, qualora dovesse verificarsi il peggio e lui decidesse di invaderci». «Sì, Vostra Maestà», rispose Gunderson in tono grave. Poi si voltò verso Draconas. «Badate di prendervi buona cura di Re Edoardo, signore. O vi prometto che ne renderete conto al diavolo in persona». Gunderson si batté una mano sul petto. «A me». Quella notte il drago colpì di nuovo. Sebbene l'ora fosse tarda, i cavalieri erano ancora seduti a tavola quando venne lanciato l'allarme. Tutti i presenti afferrarono scudo e spada e si precipitarono fuori, arrampicandosi mani e piedi su per i gradini di pietra che portavano ai bastioni per vedere con i loro occhi quanto stava accadendo. In lontananza, l'enorme corpo ricoperto di squame verdi del drago scintillava ai bagliori delle fiamme che si sprigionavano dai campi di grano incendiati. I cavalieri imprecarono e fecero cozzare le spade contro gli scudi, sfidando a gran voce il drago affinché si avvicinasse a combattere. Naturalmente, Braun ignorò la sfida e si allontanò con un guizzo della coda, che fu preso da tutti come un palese insulto. Scuro in volto per la rabbia, Edoardo serrò le labbra a formare una linea sottile, girò sui tacchi e si allontanò dalle mura. Poco più tardi, il re annunciò con voce pacata che aveva in mente di compiere un pellegrinaggio. Sarebbe andato in cerca di un aiuto divino per trovare una soluzione al loro problema. Edoardo avrebbe preferito tenere segreto il suo viaggio, ma, come Gunderson gli aveva ragionevolmente fatto notare: «Se voi sparite all'improvviso, Sire, senza dare alcuna spiegazione, il popolo potrebbe essere preso dal panico. Potrebbe pensare che siete fuggito per la paura. E la vostra assenza spalancherebbe quasi sicuramente le porte al re di Weinmauer». «Ma se», aveva ribattuto Edoardo, «io annunciassi di recarmi presso un altro regno in missione diplomatica, al fine di cercare aiuti per combattere il drago, ci si aspetterebbe che portassi con me guardie armate di tutto punto, servi, ministri, consiglieri e scrivani, per non parlare dei miei falchi e
dei cavalieri». «Dite che vi recate in pellegrinaggio», suggerì Draconas. «Persino un re può compiere questo genere di viaggi da solo. Anzi, sembrerebbe più logico così». Edoardo venne colpito da quell'idea, che andava a toccare le corde della sua natura romantica e avventurosa. In quella parte di mondo i tempi dei prodi cavalieri e dell'amor cortese erano ormai finiti. Ramsgate sull'Aston stava cominciando a rivolgere la propria attenzione più verso gli scambi commerciali che non verso «l'onore che tutto vince», che aveva invece significato così tanto per i nobili cavalieri. Quei tempi facevano ormai parte del passato recente ed erano assai celebrati. I menestrelli li cantavano nelle loro ballate, i poeti nei loro versi, le dame sospiravano ricordandoli e gli uomini si rammaricavano che le occasioni di compiere imprese coraggiose e atti eroici fossero per sempre passate. Quando Edoardo annunciò la sua intenzione di partire per un pellegrinaggio verso una terra lontana, nemmeno Ermintrude ebbe da obiettare, sebbene nutrisse parecchi dubbi e paure. I cavalieri lo pregarono di lasciarsi accompagnare, alcuni giunsero addirittura a prostrarsi dinanzi a lui e a scongiurarlo. Ma Edoardo rimase fermo nei suoi propositi. Doveva partire solo. Chiese soltanto le loro preghiere e benedizioni. I cavalieri alla fine cedettero e gli tributarono una calorosa ovazione. Senza più temere che il re potesse cambiare idea - o che qualcuno gliela facesse cambiare - Draconas andò a letto. Quella sera, anche Edoardo e la moglie si congedarono presto dai loro ospiti. Probabilmente, proprio in quel momento, il re doveva trovarsi con Ermintrude, a fare del suo meglio per assicurarle che sarebbe tornato da lei sano e salvo. «Mi domando», disse Draconas tra sé con una punta di divertimento, mentre si stendeva sul suo pagliericcio, «se Edoardo racconterà alla moglie del bel viso di donna che ha visto nel topazio. Scommetto che quel particolare lo terrà per sé». 6 Il re riuscì ad allontanarsi dal palazzo e dalla città con il minimo clamore, molto meno di quanto Draconas si fosse aspettato. Non era ancora l'alba, quando Edoardo montò in groppa al suo cavallo per mettersi in viaggio. Alla partenza era presente un sacerdote, che benedì e unse il re con olio consacrato. Anche la sua famiglia era là: Ermintrude,
che ostentava sul volto uno stoico sorriso d'incoraggiamento, senza però riuscire a nascondere il suo sguardo ansioso e tormentato; e il Principe Guglielmo, amaramente deluso di non potere accompagnare il padre. Anche i cavalieri erano là, raccolti tutt'intorno, così come numerosi sudditi, poiché la notizia della partenza del re si era diffusa con la stessa rapidità di uno degli incendi provocati dal drago. Nessuno si lasciò andare a grida esultanti, visto che si trattava di un pellegrinaggio. Al passaggio del loro sovrano, molti mormorarono parole di benedizione. Draconas non era presente. Lui e il re avevano concordato di incontrarsi lungo la strada, fuori dalle mura. Meno si faceva notare, meglio era. Gunderson accompagnò Sua Maestà fino alle mura della città, dove affidò il suo re a Draconas con un'occhiata minacciosa e una stretta di mano finale. Edoardo aveva con sé tre cavalli: un cavallo da soma, uno da regalare alla Signora dei Draghi e uno per Draconas. «Gunderson mi ha detto che siete arrivato a piedi», disse Edoardo, porgendo le redini a un Draconas tutt'altro che entusiasta. «Accettatelo come segno della mia gratitudine per tutto ciò che avete fatto». «Non ho ancora fatto niente», gli fece notare Draconas, squadrando il cavallo, che fece altrettanto con lui. A Draconas non piaceva cavalcare. Grazie alla forza e alla resistenza che gli venivano dal fatto di appartenere alla razza dei draghi (qualità che superavano di gran lunga quelle della media degli umani), non ne aveva alcuna necessità. Era in grado di correre per molto tempo, e riusciva a coprire in un giorno la stessa distanza che avrebbe potuto percorrere un cavallo, senza mai fermarsi a riposare. Questa era una delle ragioni. Ma ce n'era un'altra. Gli animali e Draconas non si intendevano molto bene. Alcuni si spaventavano e fuggivano. Altri gli si avventavano contro al solo vederlo. La maggior parte appariva perplessa, non comprendendo bene cosa fosse, anche se sapeva con certezza cosa non fosse. Non era un uomo. I cani dei villaggi lo seguivano per chilometri e chilometri, annusandolo e uggiolando. Ci fu una volta un gatto, un gattino giallo e nero, che rimase seduto di fronte a lui per ore, la testolina piegata di lato, con gli occhi dorati che non smettevano di fissarlo. Draconas doveva prestare particolare attenzione ai cavalli, che di solito appiattivano le orecchie sulla testa, sbuffavano, scalciavano e facevano roteare gli occhi quando si accostava. Una volta che si era avvicinato, tuttavia, il più delle volte riusciva a tranquillizzarli con la voce e con il tocco
fermo della mano, così da poter montare in sella, proprio come fece con la puledra donatagli dal re. Ma questa continuò a essere inquieta e scontrosa, a girare la testa di scatto per osservarlo con profondo sospetto. «Non ho mai visto Falderal comportarsi così», disse Edoardo. «Forse ha un sassolino sotto la sella». Draconas avrebbe potuto dire al re che non era tanto per il sassolino sotto la sella che il cavallo si agitava, quanto per il drago che vi stava sopra. Poiché quel particolare non sarebbe stato facilmente spiegabile, era smontato e si stava accingendo a sciogliere le cinghie della sella per verificare, quando udì un rumore di zoccoli. La giornata era incredibilmente silenziosa. Le lepri e i conigli se ne stavano rintanati per paura del drago, gli uccelli si nascondevano timorosi tra i rami degli alberi e non osavano neppure cinguettare. Persino i ladri e i briganti erano fuggiti da quel paese, o perlomeno così asseriva Edoardo. L'udito sensibile di Draconas colse uno scalpitio ritmico alle loro spalle, scalpitio che continuò per un attimo per poi cessare improvvisamente. Draconas scrutò a sud, nella direzione da cui erano venuti. Il territorio che stavano attraversando era una distesa di prati ondeggianti, che salivano e scendevano in mezzo a basse colline. La strada, che correva diritta, era ben tenuta, dato che fungeva da collegamento tra Ramsgate sull'Aston e la città di Bramfell, situata nella parte settentrionale del regno, e famosa - così disse Edoardo - per la sua lana. Un luccichio in lontananza attirò la sua attenzione. La vista di Draconas era acuta quanto l'udito. Un drago in volo può avvistare un topolino nei campi a parecchi chilometri di distanza. La sua vista non era così eccelsa, poiché i suoi occhi di umano lo limitavano, ma era migliore di quella della maggior parte degli uomini. Più indietro, in cima a una collina a una certa distanza da loro, c'erano cinque cavalieri. Il luccichio che aveva scorto era stato provocato dal sole riflesso sulla lente di un cannocchiale, che uno dei cinque stava adoperando. Un istante dopo i cavalieri erano spariti, e Draconas non udì più alcun rumore di zoccoli. «Che succede?» domandò Edoardo, notando che l'altro era preoccupato. «Il drago?». «Credevo si trattasse di lui, ma mi sono sbagliato», rispose Draconas. Sistemò di nuovo la sella e si chinò a stringere i finimenti, restando però sempre in ascolto. Ma non udì nulla.
«Non voglio che quella bestia immonda ci sorprenda qui», dichiarò Edoardo, con aria cupa. «No», concordò Draconas, guardandosi intorno. «Non qui all'aperto». Poi rimontò in groppa e ripartirono. Nel mentre, aguzzò le orecchie e ben presto udì un'eco attutita, uno scalpiccio distante di zoccoli che sembrava seguirli. Lui e il re proseguirono per più di cinque chilometri e, durante tutto quel tempo, il rumore di zoccoli li seguì, mantenendosi sempre alla stessa distanza. Draconas elaborò una sua teoria. Una piccola cappella sul ciglio della strada, al riparo di un gruppo di alberi, gli offrì l'opportunità di metterla alla prova. Il re si fermò a fare un'offerta, poiché, così disse, avrebbe avuto bisogno di tutto l'aiuto possibile. Draconas condusse i cavalli ad abbeverarsi a un ruscello poco distante e prestò ascolto, tenendo d'occhio la strada a sud. Udì il calpestio degli zoccoli per un po' di tempo ancora, prima che cessasse del tutto. Gli parve di cogliere un bagliore, ma non ne fu sicuro a causa della polvere che i cavalieri sconosciuti avevano sollevato nell'aria e dell'atmosfera caliginosa di quel caldo pomeriggio. Edoardo propose di fermarsi a mangiare qualcosa e far riposare i cavalli. Draconas si dichiarò d'accordo. Si dissetarono entrambi al ruscello e si spruzzarono l'acqua sulla faccia e sul collo, poi Edoardo tirò fuori uno spuntino «degno di un re», come ebbe modo di commentare con aria scherzosa. Da un cesto fece spuntare del pane e due interi capponi arrosto, avvolti in un tessuto a trama larga, e un otre di birra chiara, che immerse nell'acqua per tenerla in fresco. Porse a Draconas uno dei capponi, strappò una coscia all'altro e cominciò ad addentarla. «Che bontà», disse, rosicchiando la zampa con l'entusiasmo di un ragazzino. Poi si guardò intorno con un'espressione di felicità sul volto. «Nessuno mi cerca. Nessuno ha bisogno di me. Nessuno mi dà la caccia per sistemare questo, rispondere a quello, firmare quest'altro o non firmarlo, ascoltare la stessa lamentela per la centesima volta...». Fece una pausa ed emise un sentito sospiro di soddisfazione, che gli veniva dal profondo del cuore. «Nessuno mi può trovare». Draconas lasciò che il re si gustasse qualche breve istante di quel tranquillo interludio prima di disilluderlo. «Avete nemici?» chiese. «Un re ha sempre dei nemici», rispose allegro Edoardo. «Voglio dire, nemici che vi vogliano fare seriamente del male».
Edoardo fissò Draconas con attenzione, poi aggiunse, con aria più seria: «Se intendete nemici che vogliono vedermi finire sotto il pugno di ferro di Weinmauer, la risposta è sì. Se intendete nemici che vogliono vedermi morto, la risposta è... be'...». Rifletté, pensieroso. «Immagino che nessuno di noi sia propenso a credere che là fuori ci sia qualcuno pronto a togliergli la vita, ma credo che questa possibilità non sia da escludere, sebbene, al momento, non mi venga in mente qualcuno di particolare». «Vostro suocero vorrebbe vedervi morto?» insistette Draconas. «Non sarebbe di certo sopraffatto dal dolore, se io morissi per cause naturali. Weinmauer non è uno sciocco. Sa che sarebbe il primo a essere sospettato se il motivo della mia morte fosse poco chiaro. Tanto per dirne una, si attirerebbe l'odio imperituro della figlia e, inoltre, si ritroverebbe con una guerra tra le mani. E non ne avrebbe bisogno. Perché dovrebbe quando è convinto di riuscire a ottenere ciò che vuole con mezzi pacifici?». Edoardo gettò i resti della coscia in mezzo ai cespugli. «Se il vostro piano non funziona e io non ritorno con la Signora dei Draghi, mio suocero marcerà sulle mie terre per "proteggerci" e la gente farà ala al suo passaggio, esultando. Perché mi chiedete questo?». «Perché siamo seguiti», rispose Draconas. Edoardo lo fissò, sbigottito. «Per tutti i diavoli! Seguiti! Ne siete certo?». «Ne sono certo». Edoardo si accigliò. «L'avevo detto a quelle teste calde che dovevo partire da solo...». «Non credo che si tratti dei vostri cavalieri. Ci sarebbero corsi dietro e ci avrebbero raggiunti, ormai». «Allora è qualcuno che si è messo in viaggio come noi...». Draconas scosse il capo. «Voi stesso avete detto che persino i banditi se la sono data a gambe per paura del drago. Chiunque ci stia inseguendo, sta ben attento a tenersi a debita distanza, spiando i nostri movimenti, fermandosi quando ci fermiamo, proseguendo quando anche noi proseguiamo». Edoardo scrutò la strada. «Non ho visto né udito niente». «Io sì», disse Draconas. «Ma perché?» domandò Edoardo. «Perché dovrebbero seguirci? Se fossero stati dei predoni ci avrebbero attaccati. Non avrebbero rischiato di essere scoperti seguendoci così da vicino». Aggrottò la fronte, ripensando al-
le domande di Draconas. «Non credete che si tratti di semplici briganti di strada, non è vero?». Draconas guardò il re con attenzione. I casi erano due: o Edoardo era un ottimo simulatore, oppure non sapeva davvero perché mai qualcuno volesse sguinzagliargli degli assassini alle calcagna». «No, Maestà, non credo». Draconas si lavò via dalle mani il grasso del cappone nel ruscello. «Com'è il terreno più avanti?». «Dovremo continuare allo scoperto, come abbiamo fatto finora, ancora per parecchi chilometri, dopodiché ci inoltreremo nella fitta boscaglia che costeggia il fiume. Poi, una volta che avremo attraversato quest'ultimo, troveremo un'altra distesa di prati. Queste sono terre da pascolo...». «La foresta, ecco cosa stanno aspettando», esclamò Draconas. Edoardo terminò il suo cappone. Tolse l'otre dall'acqua, rimosse il tappo e bevve una lunga sorsata di birra, poi lo porse a Draconas. «Pensate quindi che ci attaccheranno non appena avremo raggiunto la foresta?». «Non lo hanno ancora fatto. Stanno aspettando qualcosa. Un'adeguata copertura mi sembra la spiegazione più ovvia». «E perché avrebbero bisogno di copertura? Qui intorno non c'è nessuno per chilometri e chilometri. Nessuno tranne il drago», aggiunse Edoardo con un sorriso sarcastico. Draconas dovette ammettere che il re aveva ragione. Perché non attaccarli adesso? Perché aspettare? Erano solo in due, e soltanto uno portava una spada, mentre loro erano in cinque, senza dubbio armati fino ai denti». «Siete sicuro che abbiano intenzione di ucciderci?» domandò Edoardo. «Non sono sicuro di niente», dovette ammettere Draconas. Edoardo si strinse nelle spalle. «Trovo che sia tutto molto strano». Bevve un'altra sorsata dall'otre e lanciò un'occhiata al cielo. «Dovrebbe essere più o meno mezzogiorno. Credo che mi farò un sonnellino. Non ho dormito molto la notte scorsa. Ermintrude non era per niente entusiasta di questo mio viaggio. Ho paura che se vado avanti a cavalcare finirò per cadere di sella». Draconas assentì. «Resterò di guardia». Edoardo si tolse la spada dal fodero e gliela posò accanto, poi si sdraiò all'ombra di un albero. Si calò il berretto sugli occhi per ripararli dalla luce del sole, si rilassò ed emise un profondo respiro soddisfatto. «Se ci attaccano, svegliatemi», disse, sorridendo. Draconas lo guardò accigliato. Degli assassini ci stanno inseguendo e lui
si fa un sonnellino, lasciando me - un perfetto sconosciuto - a fare la guardia. Che sia uno stupido? Sto cominciando a chiedermi se ho scelto l'uomo giusto per quest'impresa. Lasciando il re che sonnecchiava, Draconas uscì sulla strada. Non vide niente. Non udì niente, eppure sentì che i loro inseguitori dovevano essere da qualche parte là fuori. Poi tornò e si sedette sulla riva del ruscello. A giudicare dal modo in cui era rilassato e dal respiro profondo, il re doveva dormire della grossa. I cavalli scacciavano le mosche agitando la coda e brucavano tra l'erba alta. Draconas si divertì a pescare gamberi con un osso di cappone. Con la mente riandava di continuo a quella faccenda degli inseguitori, segno palese che non era così certo, come voleva convincersi di esserlo, delle proprie affermazioni. Per la frustrazione, finì per gettare l'osso e il gambero nel ruscello, poi, sentendosi d'umore irritabile, svegliò il re scuotendolo bruscamente. «È tempo di rimettersi in viaggio», disse. Edoardo scostò il berretto e guardò in su verso Draconas, battendo le palpebre e strizzando gli occhi a causa del sole. «Di già?». Sbadigliò, si mise a sedere e si stiracchiò. «Non mi sono svegliato morto», aggiunse allegramente. «Perciò immagino che non sia successo niente mentre dormivo». «Direi proprio di no», replicò Draconas, montando in sella con un balzo. «Credo di avere imparato qualcosa». «Anch'io», disse Edoardo mentre a sua volta saliva in groppa al suo cavallo. Draconas si agitò impaziente, pronto a partire. «Che cosa?». «Come si catturano i gamberi», rispose Edoardo, quindi, con un sorriso ammiccante, partì al galoppo. Mi stava mettendo alla prova, si rese conto Draconas. Seicento anni trascorsi in mezzo agli umani, e ancora riescono a sorprendermi. Si erano ormai addentrati nei terreni adibiti a pascolo e avrebbero dovuto vedere colline verdeggianti punteggiate di candide greggi. Ma in quei giorni i pastori tenevano le pecore chiuse nei loro recinti vicino alle case, per paura del drago, e i fianchi delle colline erano spogli e deserti. Dopo un'altra ora di cammino, l'erba alta e l'erica cedettero il posto a querce e ad aceri, a tigli e a filari di pioppi bianchi, le cui foglie apparivano dorate nella vivida luce di quel sole opprimente.
«Adesso li sento», disse Edoardo. «Già», confermò Draconas che, nel corso di quell'ultima ora, non aveva fatto altro che ascoltare il rumore sordo prodotto dagli zoccoli dei cavalli, un suono regolare come un battito cardiaco. «Si stanno avvicinando. E non si preoccupano di farsi scoprire». Edoardo gettò un'occhiata alle fronde pendenti degli alberi. «Gunderson dice sempre che, se sai con certezza di dover combattere, sei tu che dovresti scegliere il terreno più adatto. Lui si riferisce all'esercito, ma credo che questa massima possa andare bene anche nel nostro caso». «Siete voi che conoscete la strada, perciò vi lascio decidere», disse Draconas, la cui stima per l'uomo che aveva scelto era di parecchio cresciuta. «Siccome sono in cinque e noi solo in due, dovremo fare in modo che ci attacchino di fronte. Altrimenti cercheranno di circondarci e di assalirci da ogni lato». «Esatto, è proprio quello che avevo pensato anch'io». Edoardo aggrottò la fronte, pensieroso. «Più avanti c'è una grossa quercia colpita da un fulmine. Metà pianta è caduta di traverso sulla strada, bloccandola completamente. La gente di Bramfell ha passato giorni a sgombrare il passaggio, trascinando il tronco da una parte. Se ci mettiamo con la schiena appoggiata al tronco, chiunque si presenterà da dietro dovrà scavalcarlo per raggiungerci». «Ottimo piano». Draconas annuì. «Perché siete così sicuro che stiano cercando di uccidermi?» chiese Edoardo. «Se avessero voluto fermarsi a fare una chiacchierata credo che l'avrebbero già fatto». Dietro di loro il calpestio di zoccoli si trasformò in galoppo. «Quanto dista quell'albero?» gridò Draconas. «È poco più avanti», rispose Edoardo, spingendo le ginocchia nei fianchi del suo cavallo. Il rumore di zoccoli si fece più vicino. Appariva ovvio che c'erano guai in vista. Dopo aver raggiunto l'albero abbattuto dal fulmine, Edoardo rimase in sella, brandendo la spada con la mano destra e un pugnale con la sinistra. Aveva indosso gli abiti da viaggio: una casacca ricamata, fermata da una cintura, alti stivali di cuoio, pantaloni corti e aderenti, e calze di lana. Non aveva pensato a mettersi un'armatura. Draconas balzò giù da cavallo. Un bastone non era un'arma adatta a un
cavaliere e lui era abituato a combattere a piedi. Né lui né il re si trovavano realmente in pericolo, poiché Draconas poteva ricorrere a tutta una serie di sortilegi che gli derivavano dalla sua natura di drago e, sebbene non fosse in grado di uccidere gli assalitori, poteva comunque confonderli con degli incantesimi o spaventarli con il fuoco. Tuttavia, avrebbe preferito non dover ricorrere alla magia, a meno di non esservi costretto. Edoardo sapeva che il suo compagno era dotato di poteri magici, ma nessun essere umano sulla faccia della terra possedeva i poteri di Draconas, e lui era alquanto restio a renderli palesi. Era certo che tutti e due insieme sarebbero stati capaci di tenere a bada quei tagliagole senza dover fare uso della magia. Gunderson aveva addestrato bene il suo protetto. Edoardo si reggeva ben saldo in groppa e impugnava le armi con abilità. In lontananza apparvero cinque cavalieri. Vedendo che le loro prede li stavano aspettando, spronarono le cavalcature. La strada che attraversava la foresta in direzione di Bramfell era ampia, poiché veniva regolarmente percorsa dai grossi carri adibiti al trasporto della lana. I cinque avrebbero potuto procedere fianco a fianco, ma non lo fecero. Uno di essi procedeva in testa. Gli altri quattro seguivano a breve distanza, come se avessero ricevuto l'ordine di tenersi più indietro. Draconas fu colpito da quella strategia, che reputò poco adatta a una banda di sicari. Poi concentrò la propria attenzione su quello che sembrava il capo e fu sbigottito e confuso da ciò che vide. Apparentemente dovette esserlo anche Edoardo, perché abbassò la spada. «Per l'amore di Nostra Signora», esclamò, stupito, «è un santo padre». Il cavaliere davanti al gruppetto era alto e magro, con il corpo sottile e macilento di chi trascorre la maggior parte del proprio tempo a digiunare. Indossava una lunga tonaca nera, trattenuta in vita da una corda. Gli occhi troppo grandi scintillavano di una luce selvaggia nel viso scarno. Non doveva essere abituato a cavalcare, poiché sobbalzava a ogni movimento del cavallo, dando l'impressione di dover cadere di sella da un momento all'altro. Aggrappandosi alla sua cavalcatura con le ginocchia e con la grazia di Dio, il monaco tese una mano verso il cielo e puntò l'altra in direzione di Draconas. «Che il Signore punisca il demonio!» gridò. Un colpo che sembrava sferrato da un gigantesco pugno di ferro si abbatté su Draconas, scaraventandolo all'indietro contro il tronco con una violenza tale da togliergli il respiro e fargli quasi perdere conoscenza.
Il poveretto rimase disteso a terra sulla schiena, stordito tanto dall'impossibilità di un colpo del genere quanto dal colpo stesso. Il monaco si era servito dei poteri magici dei draghi, poteri che nessun umano era in grado di conoscere. Il frastuono delle grida e delle imprecazioni e il cozzare dell'acciaio spinse Draconas a rimettersi in piedi. Gli altri quattro sicari si erano avventati su Edoardo, ignorandolo. Il re era stato colto alla sprovvista nel vedere un monaco che li attaccava a quel modo, ma si era ripreso e stava rispondendo all'assalto con trasporto, sferrando fendenti e stoccate e parando quelli degli avversari, avendo cura di dare le spalle, sue e del cavallo, al tronco caduto. Per il momento Edoardo non correva alcun pericolo. Draconas si guardò intorno alla ricerca di un nemico più temibile. Incapace di controllare la propria cavalcatura, il monaco aveva proseguito caracollando lungo la strada e si trovava ora circa duecento metri più avanti, intento a lottare freneticamente per riprendere il controllo dell'animale e potersi rituffare nella mischia. Draconas ebbe tutto il tempo di dare una mano al re a ridurre il numero degli aggressori, prima di occuparsene di nuovo. Dopo essersi portato velocemente dietro ai sicari, Draconas brandì il massiccio bastone di legno di quercia a mo' di mazza, assestando sull'elmo di uno di essi una botta che lo fece risuonare come la campana di una chiesa. L'uomo cadde da cavallo. Edoardo affondò la spada nella gola di un altro, che scivolò di sella, soffocando nel suo stesso sangue. Il monaco intanto era riuscito a riguadagnare un certo controllo sul cavallo e a farlo girare. Dopodiché tornò al galoppo verso di loro, costringendo Draconas a lasciare i rimanenti avversari alle cure di Edoardo. Mettendosi al centro della strada, Draconas guardò stupefatto il monaco che gli si stava precipitando addosso, incurante, le mani sui fianchi e i piedi che si agitavano fuori dalle staffe. I suoi occhi, sbarrati e accesi da una luce di pazzia, lo fissavano. Blaterando di nuovo qualcosa sui demoni, puntò il dito verso di lui. Questa volta Draconas era preparato. Fece descrivere un arco al suo bastone, formando davanti a sé uno scudo di energia azzurro-argento, e vi si rannicchiò dietro, pronto a balzare fuori. Il magico fluido del monaco colpì lo scudo. La luce sfrigolò. Si udì uno scoppio simile a quello del tuono. Il cavallo del monaco fu preso dal panico e si impennò, agitando in aria le zampe anteriori. Il suo cavaliere venne catapultato via e atterrò con un
tonfo sul selciato duro e compatto. L'animale fuggì, allontanandosi al galoppo. Il monaco tentò di rimettersi in piedi. Un braccio gli pendeva inerte e le gambe sembravano non riuscire a sostenere il peso del corpo. Si trascinò carponi, poi si ficcò la mano buona tra le pieghe della tonaca stracciata. Aspettandosi di veder comparire un coltello, Draconas si fermò, guardingo e sospettoso. I pazzi sono avversari terrificanti, perché le loro azioni sono imprevedibili. Quello che gli stava davanti, ovviamente, non doveva sentire dolore, visto che continuava a fissare Draconas con odio feroce, farfugliando e chiamandolo «frutto del demonio». Tenendo il bastone sollevato, Draconas si fece avanti lentamente. «Non voglio essere costretto a uccidervi», disse al monaco. «Voglio solo parlare con voi». «Che il diavolo si porti via la tua razza immonda!» inveì il monaco. La sua mano emerse veloce dalle pieghe della tonaca tenendo tra le dita una fialetta di vetro. Draconas lasciò cadere il bastone e balzò in avanti, ma era troppo tardi. L'altro strappò il tappo dalla fiala coi denti e ne bevve il contenuto tutto d'un fiato. Venne subito scosso da conati di vomito. La bocca gli si aprì lasciando intravedere una lingua tumefatta e violacea. Gli occhi gli uscirono dalle orbite ed egli si afferrò la gola. Poi cadde in avanti, soffocato, e morì. «Dannazione», imprecò Draconas. Udendo un rumore di passi alle sue spalle, si girò di colpo e alzò il bastone. «Sono io», disse Edoardo, ricoperto di graffi e di sangue, sporco e sudato, ma altrimenti incolume. Draconas si rilassò e tornò a guardare il monaco morto. «Che gli avete fatto?» domandò Edoardo, raggiungendolo. «Niente», rispose Draconas. Dopo essersi inginocchiato, sollevò la mano dell'uomo e mostrò la fialetta che stringeva tra le dita. «Ha ingerito del veleno». «Ma», annaspò Edoardo, «si tratta di un peccato mortale. E lui era un santo padre...». «Bah!» sbuffò Draconas. «Non lo era più di quanto non lo sia io. Era abbigliato in modo da sembrare un monaco». Gli alzò la testa e indicò la sommità del capo, che era stato rasato. «Questa è una scottatura causata dal sole. Un vero monaco avrebbe la testa abbronzata. La tonsura è stata
fatta di recente». «Avete ragione», disse Edoardo, confuso. «Ma perché mai un assassino si travestirebbe da monaco? Potrei capire se avesse cercato di arrivare fino a me con l'inganno, ma lui si è precipitato al galoppo, diritto verso...». A quel punto tacque e fissò pensieroso Draconas. «Forse ha qualcosa nascosto sotto la tonaca». Draconas lacerò la stoffa nera sulla schiena dell'uomo, poi si bloccò, inorridito, alla vista dello spettacolo che gli si parò davanti agli occhi. Orribili lividi violacei e vischiosi segnavano la schiena e le spalle del monaco: il tipo di ferite provocato da una frusta o da uno scudiscio. Alcuni erano di vecchia data. Altri recenti. Non erano molte le cose capaci di turbare Draconas. Aveva assistito a ogni genere di crudeltà, inflitte da uomini ad altri uomini, alcune estremamente ingegnose, e non aveva mai battuto ciglio. Ma quella vista lo fece sentire male. Rimise delicatamente a posto la tonaca e si rialzò. «Buon Dio!» esclamò Edoardo in preda allo choc. «Mi chiedo chi può avergli fatto una cosa simile!». Poi rivolse lo sguardo verso gli altri sicari, i cui corpi giacevano riversi nella polvere. Draconas si strinse nelle spalle. «Non avremo modo di saperlo». «Mi chiedo anche qualcos'altro», disse Edoardo, più calmo. «Ha attaccato voi, non me». Maledettamente sveglio il ragazzo. Draconas aveva sperato che il re non avesse notato quel particolare. «Era pazzo. Chissà perché gli spostati fanno certe cose invece di altre!». Edoardo rimase a fissare il corpo esanime, scuotendo il capo. «Non ci credo. Gli altri quattro erano mercenari, soldati dalla tempra dura, ben addestrati e, a quanto sembra», disse mostrando un borsello insanguinato, «anche ben pagati. L'ho trovato addosso a uno di loro: monete d'argento, una ventina. Questi uomini erano professionisti e degli esperti soldati di ventura non si mettono al servizio di un matto. Anche se pare ovvio che il quinto facesse parte della banda». «Un bel mistero davvero», commentò Draconas. Si chinò a raccogliere il suo bastone e scrutò dubbioso la strada. «So che avevate in programma di trascorrere la notte a Bramfell, ma non credo sarebbe saggio farlo. Proporrei di lasciare la strada, di girare attorno alla città e di dirigerci a nordovest attraverso i campi». «Così il percorso sarà molto più difficile», dichiarò Edoardo. «E richiederà molto più tempo».
«Meglio arrivare tardi che non arrivare per niente», replicò Draconas. «Chiunque si sia avvalso del servizio di questi uomini è probabilmente seduto in qualche taverna di Bramfell, in attesa di sapere come sono andate le cose. Quando non vedrà comparire i sicari, si metterà a cercarli». Draconas gettò un'occhiata ai morti e ai feriti. «E li troverà. Non c'è nulla che possiamo fare. Ma almeno non sarà in grado di trovarci». «Credete che chi ha fatto questo ci riproverà?». «Voi no?». «Sapete cosa penso, Draconas?» domandò Edoardo, i cui occhi castani avevano assunto riflessi dorati come il sole sulle foglie. «Penso che i re non siano i soli ad avere dei nemici». Poi si avviò verso il cavallo, ripulendo la spada dal sangue rappreso. «Non posso dargli torto», disse tra sé Draconas, mentre restava in piedi a fissare il corpo del folle, che doveva essere stato davvero tale, se non era un monaco. Chi l'aveva condotto alla follia? I poteri magici del drago che gli bruciavano nelle vene, il cattivo uso che ne aveva fatto, le terribili esperienze vissute? Le sue ultime parole gli echeggiarono nella mente. Che il diavolo si porti via la tua razza immonda. Il monaco conosceva la verità su Draconas. Sapeva dove trovarlo. Gli avevano insegnato a servirsi della magia dei draghi contro di lui, seppure senza molto successo. Soltanto dodici draghi erano al corrente del piano che si proponeva di andare alla ricerca della Signora dei Draghi: i dodici che sedevano in Parlamento. Uno di essi era in combutta con Maristara oppure passava informazioni a qualcuno che lo era. «Il che significa che ti devo le mie scuse per aver dubitato di te, Braun», sussurrò cupamente Draconas. «Tutti noi te le dobbiamo». A ogni buon conto, adesso, aveva trovato le risposte alle domande insistenti che lo avevano turbato sin da quando il re vi aveva fatto cenno: «Visto che le strade erano deserte, perché mai i sicari li avevano attaccati solo dopo che avevano raggiunto il riparo degli alberi?». La risposta era semplice. Gli assassini non si stavano nascondendo alla vista degli uomini. Si stavano nascondendo alla vista del drago. 7 Prima di rimettersi in viaggio, Draconas fu costretto ad andare in cerca
del suo cavallo. Dopo che lo ebbe trovato, dovette dissuadere Edoardo dal dare una decente sepoltura ai cadaveri. Come ebbe modo di fargli notare, si trattava di sicari di professione; se fossero caduti nelle mani delle guardie sarebbero stati impiccati e i loro corpi lasciati marcire sul patibolo per essere di monito agli altri. Abbandonarli là non faceva molta differenza. «Inoltre», disse Edoardo, colpito da una nuova intuizione, «se li lasciamo qui, offriremo allo sceriffo di Bramfell l'occasione di indagare sull'accaduto. Durante la prossima sosta, manderò un messaggio al duca, raccontandogli quanto è successo e sollecitandolo a scoprire il mandante dei sicari». «Ottima idea, Vostra Maestà», si complimentò Draconas, che non aveva la minima intenzione di permettere che si indagasse sul fatto. Frugò il cadavere del monaco, ma non trovò nulla di interessante: non che se lo aspettasse. «Che ne è stato di quel bastardo che ho colpito alla testa?» chiese. Edoardo si guardò intorno. «Non ho visto. Probabilmente si è riavuto ed è fuggito». «Una ragione di più per andarcene prima che riferisca a chi li aveva ingaggiati di avere fallito. Il sole tramonta tardi. Ci restano almeno un paio d'ore di luce». Così, abbandonarono la strada, procedendo inizialmente adagio, poiché erano costretti a farsi largo con i cavalli attraverso il groviglio di rovi e felci che infestavano il sottobosco. Una volta raggiunti i prati, furono in grado di proseguire più rapidamente e Draconas provò l'enorme soddisfazione di veder sparire in lontananza dietro di sé la strada e la foresta. Nel raggiungere la sommità di un'altura, decisero di fermarsi a far riposare i cavalli. Il re gettò un'occhiata alle sue spalle e si irrigidì sulla sella. «Fumo», disse, indicando con la mano. «Laggiù». Il sole era prossimo al tramonto. Le ombre si addensavano sulla vallata. Una luce rosso-arancione indorava le cime delle colline e degli alberi. Una colonna di fumo nero saliva nell'aria immobile. «Il fuoco di un accampamento», disse Draconas. «Non si tratta di un bivacco», ribatté Edoardo, scuro in volto. «Il drago ha dato fuoco alla foresta nei pressi della strada». Strizzò gli occhi per vedere meglio. «Deve essere vicino al luogo dove siamo stati attaccati». «Un altro motivo per affrettarci, Vostra Maestà», lo esortò Draconas. Il re rimase ancora un attimo a guardare il fumo, le labbra serrate in una linea sottile.
«Sono lieto che siate dalla mia parte, Draconas», disse bruscamente. «Perché voi siete dalla mia parte, non è vero?». «Io non sono mai dalla parte di nessuno», replicò Draconas. «Ma mi piace essere pagato». Edoardo lo fissò per un momento, poi scoppiò a ridere: una risata sonora, che risuonò tra le colline. «Mi siete simpatico, Draconas. Che io sia dannato se so il perché, ma mi piacete». Poi proseguì al galoppo, lo sguardo fisso sulle alture, ormai raggiunte dal crepuscolo. Draconas gettò un'ultima occhiata al fumo: Braun stava facendo il suo lavoro, stava distruggendo i corpi. Cavalcarono come forsennati per cinque giorni. Draconas insisteva per alzarsi presto e coricarsi tardi, spingendo se stessi e le cavalcature al limite, per percorrere quanta più distanza possibile. Braun e Draconas controllavano che nessuno li seguisse - Draconas dai suoi vari punti d'osservazione a terra e il drago dal cielo - ma nessun altro monaco pazzo fece la sua comparsa. Draconas ne immaginava la ragione. Avevano cercato di ucciderlo una volta e avevano fallito. Avrebbero potuto tentare di nuovo - inseguendolo attraverso quelle terre - oppure risparmiare le energie, aspettando che arrivasse fino a loro. Maristara sapeva dov'era diretto e perché. Avrebbe predisposto la sua trappola nel punto in cui immaginava che sarebbe passato: il valico attraverso i monti Ardvale. Maristara aveva bloccato il transito di quel valico trecento anni prima, causando una frana che aveva efficacemente interrotto la vecchia strada. Un normale viandante non avrebbe mai tentato di superare la frana, ma un avventuriero ostinato avrebbe potuto arrampicarsi sui massi per portarsi dall'altra parte. Poiché l'incantesimo di Maristara gli impediva l'accesso, Draconas aveva in programma di mandare avanti Edoardo, debitamente protetto dai suoi poteri magici. Ma fu costretto a rivedere il suo piano, poiché Maristara era sicuramente in allerta. Doveva avere piazzato guardie ovunque e, probabilmente, anche parecchi altri squilibrati in grado di contrastarli con i loro sortilegi. Quanto a Edoardo, se fosse preoccupato per la presenza di eventuali assassini o per il fatto di dover penetrare una barriera creata da un incantesimo, non lo dava minimamente a vedere. Il re avrebbe potuto benissimo trovarsi da quelle parti in viaggio di piacere. Era di ottimo umore, chiac-
chierava, rideva e si guardava intorno con aria entusiasta. Attraversarono i confini del suo regno e si trovarono in un territorio sconosciuto: sconosciuto per Edoardo. Draconas vi era già stato una volta, solo poco tempo prima, quando aveva tentato di superare il confine, sfidando l'incantesimo. Di quel tentativo non riuscito portava ancora le ferite. «La mia esistenza è sempre stata molto ordinaria», confessò Edoardo la sera del quinto giorno, mentre erano seduti accanto al fuoco. «Procedevo a fatica lungo la strada, un piede davanti all'altro. Poi è arrivato il drago, ed eccomi qui, a saltare improvvisamente sulle mani e a fare capriole». In realtà era Draconas a fare le capriole, seppur mentali, mentre il re chiacchierava. Il primo ascoltava appena, limitandosi a dire di tanto in tanto «sì» o «no» oppure «davvero?». Stava pensando a Maristara e a come muoversi, ora che lei sapeva del loro arrivo. Abbandonare il progetto non era concepibile. Prima dell'attacco del monaco, Draconas aveva provato una certa dose di scetticismo, al pari degli altri draghi, riguardo alle affermazioni di Braun e alle sue accuse circa il fatto che Maristara avesse un complice e si servisse degli umani per i suoi nefandi disegni. Ma il monaco dotato dei poteri magici dei draghi (o forse posseduto da quegli stessi poteri) aveva fatto cambiare idea a Draconas. Braun ha torto su di una cosa, rifletté questi. Maristara e il suo compare non sono a caccia di carne umana, bensì di talento. Sospettavamo già che lei avesse trasmesso alle donne le prodigiose conoscenze dei draghi. Ora sembrerebbe che abbia fatto lo stesso con gli uomini, anche se in modo non altrettanto accurato. È probabile che gli uomini non siano adatti a questo genere di magia... No, ecco cos'è! si disse Draconas, colpito da un'intuizione improvvisa. Sta facendo imparare la magia agli uomini perché uccidano. Alle donne la insegna a scopo difensivo, per proteggere il monastero e il drago. Agli uomini a scopo distruttivo. Non mi meraviglia che li faccia uscire di senno. «Che ne pensate, Draconas?» chiese Edoardo, strappandolo alle sue riflessioni. «Chiedo scusa, Sire. Mi ero distratto. Che stavate dicendo?». «Che ho sempre desiderato una vita avventurosa», ripeté Edoardo. «Speravo in una guerra per rompere la monotonia. Non una guerra importante, badate bene. Una di poco conto. Qualunque cosa pur di movimentare un po' l'esistenza. Poi, quando è giunto il drago, mi sono sentito responsabile. Mi sono detto: "Dio mi sta punendo per quei pensieri malvagi". Credete che Dio farebbe una cosa del genere?».
«Credo che dovremmo cercare di dormire un po'», rispose Draconas. «L'alba arriva in fretta. Fate voi il primo turno di guardia o lo faccio io?». «Lo farò io», disse Edoardo. «È bello starsene seduti tranquilli a pensare senza essere interrotti di continuo». «Già», assentì Draconas in tono esplicito, ma ebbe l'impressione che l'altro non lo avesse nemmeno sentito. Dopo essersi avvolto nella coperta, Draconas si distese a terra accanto al fuoco che stava languendo e chiuse gli occhi, sperando che il re seguisse il proprio consiglio e se ne stesse tranquillo. Edoardo sedeva con lo sguardo fisso sulle braci, silenzioso e meditabondo, assorto nei propri pensieri, della qual cosa Draconas fu grato. Aveva intenzione di farsi un'altra chiacchierata mentale con Braun. Adesso avevano la prova che Maristara aveva reso partecipi gli umani del talento proibito: i poteri magici dei draghi. E che quegli umani non erano più confinati all'interno dei confini di Seth, ma venivano mandati fuori a dargli la caccia. Cosa aveva intenzione di fare Maristara? Cosa avevano in mente lei e il suo complice? Draconas stava cercando di dare una risposta a quelle domande nella sua mente, quando Edoardo lo interruppe. «Amo Ermintrude, la amo davvero», esclamò il re tutto d'un tratto. «La nostra è un'unione fortunata, credo, tenendo conto che nessuno di noi due ha avuto voce in capitolo nel decidere il matrimonio. Ci siamo incontrati, sposati e siamo andati a letto, tutto nello stesso giorno. Il nostro amore non è quello di cui si sente cantare dai menestrelli, l'amore che fa male e brucia, e spinge l'uomo a compiere imprese gloriose o ad affogarsi nel fiume». A quel punto accennò ad alcune battute di una ballata, poi ne cantò un paio di strofe con una gradevole voce da tenore. Grande tormento racchiuso nel cuore stanco Crudele amarezza sopportata in segreto, Dolente espressione senza gioia, Timore che ogni speranza fa tacere, Sono in me e non mi abbandonano mai: E io non posso né guarire né morire. «Tuttavia», aggiunse allegramente quando ebbe finito di cantare, «questo tipo d'amore può essere molto piacevole, e io sto benissimo con Ermintrude e i bambini». Poi assunse un tono più serio e la voce gli si addolcì. «Darei la vita per i
miei figli. Sono il mio futuro, la mia immortalità. Ecco perché devo fare tutto ciò che è in mio potere per scacciare il drago. Se i figli rappresentano il nostro futuro, dobbiamo assicurarci che anche il loro sia sicuro. Non ho ragione, Draconas?». Draconas assentì e continuò a seguire il corso dei suoi tetri pensieri. Umani provvisti dei poteri magici dei draghi. Gli uomini erano più che capaci di distruggere se stessi senza ricorrere alle arti prodigiose dei draghi. Non voleva neanche immaginare cosa avrebbero potuto farsi, una volta in possesso di quella terribile arma. «O cosa potrebbero fare a noi», rimuginò tra sé Draconas. Poiché, naturalmente, era quello il motivo per cui i draghi erano in agitazione. Un umano dotato dei loro poteri magici non avrebbe potuto uguagliare un drago in battaglia, ma sarebbe stato di certo molto più temibile di quanto non fosse ora. E un esercito di umani con i poteri magici dei draghi... Mi staranno aspettando al valico. Quegli strani monaci, in grado di fare sortilegi... la barriera incantata, che mi impedisce l'accesso... E che impedisce agli abitanti di quelle terre di uscire. Draconas fu così colpito da quel pensiero che si mise a sedere di scatto, scostando la coperta. «Che succede?» domandò Edoardo, un po' allarmato. «Un formicaio», mentì Draconas. Si alzò, scrollò formiche immaginarie dalla coperta e si spostò. Poi, si coricò di nuovo e aggiunse: «Era una bella ballata quella che stavate cantando. Magari volete continuare». «Non era bella. È molto triste. Ma qualunque cosa va bene pur di farmi smettere di parlare, non è vero?» disse affabilmente Edoardo. «Molto bene. Io canto e voi pensate. Spero che alla fine mi direte a cosa state pensando. Alla fine», dichiarò con un sorriso, «dovrete farlo». Il re ricominciò a cantare, e la sua voce da tenore si diffuse nell'oscurità. E come il suo liuto vive o muore, Anch'io faccio lo stesso per amore; Poiché quando lei canta di piacere, Io conosco improvvise primavere... Verrà un momento in cui Edoardo punterà i piedi e rifiuterà di muoversi finché tutte le sue domande non avranno avuto risposta. Conoscendo gli umani, quel momento mi causerà molti problemi, disse tra sé Draconas. Si
annotò mentalmente di tenersi pronto a una tale evenienza e si immerse di nuovo nelle sue riflessioni. Nessuno è in grado di attraversare la barriera magica per entrare nel regno di Maristara, ma la gente può uscirne. Qui fuori, ci sono uomini che possiedono i poteri dei draghi e Seth ne è indubbiamente la fonte. Il desiderio di carne umana, così Braun aveva dichiarato. Forse era cominciato tutto così. Un drago spia per conto di Maristara. Lei lo ripaga con degli uomini che gli serviranno come pranzo. Ma poi questo drago scopre che gli uomini possono essere più utili a lui che al suo stomaco. Se ha continuato a reclutare schiavi per trecento anni, potrebbe anche aver costituito un esercito di umani dotato di poteri magici. Lui e Maristara potrebbero essere in combutta per conquistare città, paesi, nazioni. Ciò che incuriosiva Draconas era il fatto che questi uomini venivano contrabbandati fuori dal regno. Ci doveva essere un sistema per farli sparire senza che ci si accorgesse della loro assenza. In qualche punto all'interno o intorno a Seth la barriera doveva avere un «cancello» lasciato aperto. E Draconas si era fatto un'idea di dove potesse essere. I draghi abitano nelle caverne. Nascono nelle caverne. I piccoli bucano il guscio coriaceo delle uova, depositate nei recessi più bui delle grotte più profonde. Ed è lì che rimangono per un centinaio di anni, nutrendosi del cibo portato loro dai genitori, dormendo, mangiando e crescendo, finché non sono forti abbastanza da lasciare le loro tane e dare la prima, dolorosa occhiata alla luce del sole. La vista della luce è terribile per la maggior parte dei giovani draghi. Draconas lo ricordava bene, ricordava di aver nascosto la testa, di non vedere l'ora di tornare nella sicura e confortevole oscurità. Ricordava che la madre gli aveva bloccato il passaggio. Non aveva altra scelta se non subire quel tormento. Col tempo, si era abituato al sole ed era giunto ad apprezzarlo. Ma quando sognava, sognava di caverne fresche e buie. Maristara non era diversa. Anche lei si sentiva a proprio agio in stanze sotterranee e in gallerie e, d'altra parte, quale luogo migliore per nascondere ciò che non si vuole venga visto dagli altri, dato che la maggior parte degli umani odia e teme gli spazi bui e angusti? Subito dopo il suo arrivo a Seth, Maristara doveva aver fatto ciò che farebbe ogni drago: installarsi in una caverna, costruirvi delle gallerie, adattarla alle proprie esigenze. Il che significava che ci doveva essere un'entrata... e un'uscita. «Braun», chiamò Draconas, con i pensieri sfumati dai dolci e caldi colori della soddisfazione, «il drago deve avere un ingresso secondario alla sua
tana. Credo che questa tana sia situata sulla cima del Monte Sentinella, nella catena dell'Ardvale. E che l'ingresso sia facilmente accessibile agli umani. Vedi se riesci a scoprirlo». Il sesto giorno si preannunciò caldo e afoso. Non un alito di vento agitava le foglie, che pendevano inerti. L'aria era umida. Il sudore luccicava sui loro corpi. I cavalli avanzavano a fatica, le teste curve. Edoardo si fece aria con il berretto e annunciò che sentiva avvicinarsi un temporale. Si trovavano tra le desolate alture dell'Ardvale, e stavano procedendo con cautela tra boscaglie di pini, tronchi caduti e sassi che si erano staccati dalla montagna ed erano rotolati giù per i suoi ripidi fianchi. Nella valle ai loro piedi, a est, scorreva il fiume Aston che, lungo il percorso dalla sorgente - lontano a nord - girava attorno a quella catena dirigendosi verso est. Un suo braccio penetrava in profondità nelle terre di Seth, riaffiorando a formare un grande lago nel tratto occidentale della valle, per poi sparire di nuovo sottoterra. Durante quel viaggio l'avevano attraversato più volte, poiché l'Aston era un corso d'acqua dall'andamento sinuoso e serpeggiante, con innumerevoli ramificazioni e affluenti. «Un tempo gli scambi commerciali tra i nostri due regni dovevano avvenire lungo il fiume», osservò Edoardo. «È strano che tutto si sia perso. Forse posso far sì che le cose cambino». Draconas rispose: «Sì». Era tutto preso a scrutare senza sosta le montagne, in cerca dell'ingresso «secondario», per quanto non si aspettasse davvero di trovarlo. Doveva essere ben nascosto, almeno agli occhi di chi si trovava in basso. Braun avrebbe avuto più fortuna dal cielo. La giornata trascorse lenta. Il sole splendeva di una luce accecante, penetrante e oppressiva. Draconas, il quale di solito si preoccupava ben poco del proprio benessere fisico, si sentiva come se lo stessero rosolando a fuoco lento. Dalle rocce si levavano ondate di calore abbagliante. Le sagome delle montagne tremolavano davanti ai suoi occhi. D'un tratto, Edoardo fece fermare il cavallo, tirando le redini così bruscamente che l'animale emise un nitrito e scrollò la testa irritato. «Il drago», disse con voce strozzata. «È lassù». Draconas strizzò gli occhi scrutando il cielo blu cobalto e vide Braun che, con le imponenti ali spiegate, si stava facendo trasportare dalle correnti d'aria calda, planando davanti alla parete della montagna, il collo curvo e la testa piegata. Era vicino ai confini di Setti. Maristara e la sua sacerdotessa - il bel volto apparso nel topazio - dovevano essere in allerta.
Sperò che lo fossero. Occorreva tenere alta la tensione. Gli umani, quando sono sotto pressione, agiscono spesso in modo avventato o stupido e, per certi versi, i draghi non erano molto dissimili. «Vi sbagliate», disse calmo Draconas. «È un airone». «Un airone!» esclamò Edoardo in tono di scherno. «Credete che io non sappia riconoscere un drago quando...». Scrutò, batté le palpebre, poi scrutò di nuovo. «Per Nostra Signora, avete ragione. Si tratta proprio di un airone. Avrei giurato...». «Colpa del caldo», lo tranquillizzò Draconas. «Può fare dei brutti scherzi alla vista. Una volta mi trovavo nel bel mezzo di un deserto e ho visto una cosa che sembrava un lago azzurro, mentre poi ho scoperto che non era altro che sabbia. Guardate», aggiunse, cambiando argomento, «a ovest. Ecco il vostro temporale». Nuvole grigio-azzurre, solcate da scintillanti lampi bianchi, spumeggiavano e ribollivano, si rincorrevano rapide e turbolente sull'estremità della cresta montuosa. Il temporale avanzò a una velocità tale che, con un solo schiocco di fulmine e un assordante rombo di tuono, fu su di loro inzuppandoli di pioggia all'istante. Edoardo rise per il piacere di sentire l'acqua fresca sul suo corpo accaldato e per il senso di esaltazione che deriva dall'assistere a una spettacolare manifestazione della natura. Togliendosi il berretto, alzò il viso verso il cielo, godendo di quella sensazione di frescura che gli scorreva sul corpo fradicio di sudore. Draconas lanciò un'occhiata di sfuggita verso il cielo e vide Braun che cavalcava i venti della tempesta. Il drago gli parlò, facendo comparire nella mente di Draconas immagini colorate d'allegria. «Credo di avere trovato ciò che cercavamo. Vi mostrerò dove guardare. Lascerò un segno». Draconas si chiese come avrebbe potuto vedere qualcosa in quell'oscurità grigio-piombo. Perse di vista Braun, che sparì dietro le nuvole, ma tenne gli occhi fissi sul tratto in cui aveva avvistato il drago per l'ultima volta. La pioggia cominciò a cadere più forte. Draconas imprecò sottovoce. Un lampo improvviso apparve sul fianco della montagna, attirando il suo sguardo. Draconas scrutò con attenzione e individuò il punto dove un pino aveva preso fuoco, probabilmente colpito dal fulmine. Draconas misurò la distanza, cercò altri riferimenti, benché un pino bruciato e fumante non fosse difficile da localizzare. Braun virò, allontanandosi dalla montagna, per evitare che qualche im-
provviso risucchio generato dai venti impetuosi lo mandasse a sbattere contro le rocce. Poi guadagnò quota, salendo attraverso la pioggia, alla ricerca di cieli più tranquilli. «Fate attenzione», disse Braun, ammonendo Draconas mentre si allontanava. «Sapevo di dover cercare da queste parti perché la notte scorsa ho visto delle torce che risalivano i fianchi della montagna. Maristara ha dei visitatori». «Avevo ragione», disse Draconas. «Sembrerebbe di sì», rispose Braun. Il fronte più avanzato del temporale passò rapidamente, portandosi via le nuvole nere, i lampi accecanti, i tuoni assordanti e la pioggia torrenziale, che vennero sostituiti da nuvole grigie meno tumultuose e da una pioggia più regolare. Draconas osservò il fumo grigio-scuro levarsi dall'albero incendiato e calcolò mentalmente la distanza e il tempo per arrivare fin là. Dopo avere individuato un percorso di suo gradimento, fece girare il cavallo e si diresse a nordest. Edoardo si rimise in testa il berretto fradicio, poi ci ripensò e se lo tolse, appendendolo al pomo della sella per farlo asciugare. «Mi era sembrato di capire che il valico si trovasse lassù», disse indicando a ovest, nel senso di marcia che avevano seguito fino a un momento prima. «Infatti è così», rispose Draconas, «ma ho cambiato idea». «Proprio come avete cambiato un drago in airone?» replicò Edoardo. «Sapete bene che una cosa del genere è impossibile, Vostra Maestà». «So che mi chiamate "Sire" o "Vostra Maestà" solo quando volete farmi stare buono. Vi ho visto compiere l'impossibile: all'interno di una gemma imperfetta mi avete mostrato un volto perfetto. Non sono un bambino, Draconas. E nemmeno uno stupido». Non siete né un bambino né uno stupido, Edoardo. Siete una pedina. Una piccola e insignificante pedina in un gioco molto più grande di voi. Voi vedete solo la casella su cui state. Non siete in grado di vedere l'intera scacchiera, ed è per questo che dovete muovervi come vi dico io. E se dovrò sacrificarvi per una causa più importante, non esiterò a farlo. Gli umani dotati dei poteri magici dei draghi potrebbero distruggerci tutti quanti. Sollevando il capo, Draconas scrutò tra il grigio ammasso di nuvole, oltre le quali era sparito Braun. Il drago se ne era volato verso cieli più azzurri e venti più tranquilli, lasciando Draconas a terra, sotto la pioggia. «Ripensandoci, ho deciso di vedere se riesco a trovare un'altra via d'ac-
cesso a Seth», disse, continuando a cavalcare senza voltarsi indietro. «Un passaggio sotterraneo, libero da sortilegi». «E libero da monaci impazziti?» aggiunse Edoardo. Draconas sorrise, ma tenne quel sorriso per sé, continuando a voltare la schiena a Edoardo. «Potrei fermarmi qui e rifiutare di procedere, a meno che non mi diciate cosa sta succedendo», disse il re, «ma non lo farò. Perché, mi chiederete voi? Perché mi fido di voi? No, non particolarmente. Siete un uomo pieno di segreti. Rendete impossibile fidarsi di voi e questo vi va bene perché non volete che ci si fidi. Forse credete che io venga con voi per curiosità. È vero. E credete che io sia disperato. Ebbene sì, lo ammetto. Questo dannato drago tiene in pugno il mio regno. Ma c'è un altro motivo». Edoardo fece una pausa e proseguì piano: «Se io mi impuntassi e voi vi rifiutaste di rispondermi, non mi resterebbe altra scelta se non girare il cavallo e tornarmene da dove sono venuto. E non sono pronto a tornare. Non ancora. Sono stato bene in questi ultimi giorni. Per la prima volta nella mia vita, sono libero. Non sono re. Non sono marito. Non sono padre. Non sono portatore di peccati. Non sono la risposta alle domande. Non sono la soluzione ai problemi». Edoardo fece un'altra pausa. La pioggia era diminuita d'intensità, ma le nuvole erano ancora dense sopra le loro teste. Il fumo del pino incendiato si innalzava nell'aria ad afferrare gli ultimi gelidi rimasugli di tempesta. «Devo tornare a tutto questo», disse Edoardo. «Voglio tornare. Ma non adesso. Non adesso», aggiunse con un improvviso sorriso malizioso, «mentre ho un'eccellente scusa per non farlo. Perciò proseguite, Draconas. Io vi seguirò». Seicento anni prima, subito dopo aver assunto le sue sembianze umane, Draconas aveva commesso un errore. Era giunto a provare affetto e ammirazione per un uomo. Per colpa sua, quell'uomo era morto e Draconas era quasi uscito di senno. Aveva giurato a se stesso che non sarebbe successo mai più. Ripeté quelle parole. Mai più. 8 Un'importante cerimonia si stava svolgendo nel monastero sulle montagne del regno di Seth. Quella era la Notte dell'Accoppiamento, così come veniva chiamata. Nelle notti di luna piena, dodici uomini, selezionati dalla
Signora dei Draghi tra quelli di un elenco che le presentava ogni mese il sovrano di Seth, venivano condotti al monastero sotto una cospicua scorta. Dodici sacerdotesse, ugualmente scelte dalla Signora, li aspettavano. Uomini e donne si disponevano a coppie e passavano insieme la notte. Il mattino successivo, gli uomini venivano accompagnati fuori dal monastero. Nove mesi più tardi, se tutto era andato bene, nascevano dodici bambini. La selezione degli uomini veniva effettuata dalla Signora con molta attenzione. Eventuali suppliche, sussurrate all'orecchio di Sua Maestà da qualche nobile affinché la scelta cadesse su un figlio non degno, non venivano prese in considerazione, così come non c'era alcuna possibilità che qualche mercante facoltoso potesse corrompere il re per procurare tale onore alla propria famiglia. I prescelti dovevano vantare un comportamento ineccepibile dal punto di vista morale e aver compiuto atti di eroismo, di misericordia o di sacrificio personale, documentati da un testimone. Anche se agli uomini non veniva concesso di conoscere i figli nati da quelle unioni, il prestigio di essersi distinti li avrebbe accompagnati nel corso degli anni. Ciascuno di essi indossava i suoi abiti migliori ed era agghindato come uno sposo il giorno del matrimonio. Tuttavia, quel corteo di sposi non era accompagnato né da risate sguaiate, né da battute volgari. Gli abitanti di Seth nutrivano grande rispetto per le sorelle che li proteggevano dai draghi. La cerimonia che avrebbe assicurato la continuazione della Congregazione aveva un carattere sacro. Gli sposi e il loro seguito risalivano il sentiero della montagna in reverente silenzio. Arrivarono al tramonto, dopo una calda giornata di pioggia torrenziale. Alla fine, il cielo si era fatto di nuovo terso, e la stella della sera brillava sul fondale dell'orizzonte, sfumato di rosso-rosato e giallo zafferano. Le guerriere di Bellona, con indosso corazze che erano state lucidate fino a renderle sfavillanti, accolsero gli uomini al cancello, in corrispondenza delle alte mura che delimitavano la proprietà del monastero. Freschi di bagno e ben rasati, con i capelli pettinati e adorni di ghirlande, gli uomini portavano semplici abiti bianchi e camminavano a piedi nudi per mostrare la loro umiltà. Entrarono uno alla volta, consentendo così alle guardie di perquisirli alla ricerca di eventuali armi. I loro nomi furono confrontati con quelli dell'elenco e, poiché tutto risultava regolare, vennero ammessi all'interno. Gli amici e i familiari li salutarono e invocarono su di loro benedizioni, benché le mogli, di tanto in tanto, ricacciassero indietro le lacrime, visto che quell'onore aveva a volte un gusto dolce-amaro per
una donna che avrebbe dovuto passare la notte sola nel proprio letto. Gli uomini furono scortati dalle guerriere nel giardino del monastero, dove le sorelle li stavano aspettando. Tutte le componenti della Congregazione erano presenti; le sacerdotesse con le quali i prescelti si sarebbero accoppiati erano allineate su un lato del quadrangolo, mentre le altre sorelle si erano disposte sul lato opposto. Quella notte, sarebbe stata Melisande a porgere il benvenuto a nome della Congregazione. Normalmente, quel compito sarebbe toccato alla Signora dei Draghi, che però era talmente debole da non essere in grado di lasciare il letto. A mano a mano che il fisico della Signora si indeboliva, il suo spirito si irrobustiva, o così perlomeno sembrava a Melisande. La sua voce era un lieve e tremolante bisbiglio, ma i suoi ordini erano chiari e coerenti. Le sue mani pendevano come paralizzate, ma la presa era ferma. «Questa notte è molto importante per il nostro futuro», annunciò la Signora, adagiata tra i cuscini. «Avrei dovuto impartire prima le mie istruzioni. Ma c'è sempre così tanto da fare... così tanto...». «Riposate, mia Signora», la esortò Melisande. Seduta sul bordo del letto, ravviò con tocco gentile i capelli grigi, scostandoli dalla fronte della donna più anziana. «Resterete con noi per molte altre Notti dell'Accoppiamento. Vi sentite male per la tensione che avete dovuto sopportare oggi nel respingere il drago. Non avreste dovuto alzarvi così presto. Tra non molto starete di nuovo bene». «Le ombre si chiudono su di me», disse la Signora. «Domattina verrai da me, Melisande, e cominceremo la veglia». «No, mia Signora!». Melisande ricacciò le lacrime. Alla Signora sarebbe dispiaciuto vederla piangere. «Non ancora. Non possiamo farcela senza di voi. Io non posso! Non sono pronta». «Hai dimostrato di esserlo durante lo scontro con il drago». «Ho ancora così tanto da imparare...». «Ce la farai, Melisande. Tutti ci riusciamo quando arriva il nostro turno. E sappi che sarò con te», disse la Signora, carezzandole la mano. «Sarò sempre con te. Adesso», aggiunse sbrigativa, «asciugati gli occhi e fai come ti ho detto». «Quando pronuncerai il saluto rituale, da' il benvenuto agli uomini e lodali per le imprese che hanno compiuto per meritarsi questo onore. Non dilungarti troppo per non mettere a dura prova la loro pazienza. Al termine, congeda le donne e mandale nelle loro stanze a prepararsi. Dopo un ragionevole intervallo, fai scortare gli uomini dalle guardie. Quando tutti saran-
no entrati nelle loro stanze, fai chiudere le porte». La Signora sembrava voler aggiungere altro, ma dovette limitarsi a usare quel poco fiato che le restava per respirare. Gli occhi le si chiusero. Annaspò e tossì. Melisande si alzò dal letto. «Non stancatevi, mia Signora. So come condurre la cerimonia. Vi ho assistito così tante volte. Vi lascio riposare». La Signora fece una smorfia. «Mi riposerò fin troppo presto, Melisande. Ho tutta l'eternità... Che stavo dicendo? Aiutami a ricordare, figlia mia». «Gli uomini scortati nelle stanze e le porte chiuse». «Il cibo e le bevande...». «Sono pronti, Signora, e ho già dato disposizioni affinché vengano portati nelle camere». «Con le erbe speciali. Non hai dimenticato...». «No, Signora. Al cibo e al vino sono stati aggiunti degli afrodisiaci». «E le pozioni per la fertilità», aggiunse la Signora. «Le donne devono bere la pozione questa notte». Cercò di rialzarsi. «Dovrei andare...». «Ho pensato io a tutto, Signora», la rassicurò Melisande. «Le donne sanno cosa fare. Le controllerò personalmente una per una domani mattina, per accertarmi che abbiano ubbidito. Conoscono l'importanza dell'Accoppiamento. Tutte noi la conosciamo». Frustrata per la mancanza di energia, la Signora si appoggiò di nuovo ai cuscini. «Tu e le altre passerete la notte in preghiera, Melisande. Pregate perché da queste unioni nascano dei bei bimbi sani». «Sì, mia Signora. Gli auspici sono buoni. Tra la notte scorsa e oggi sono nati cinque bambini». Gli occhi della Signora si illuminarono. «Cinque, hai detto?». «Tre femmine e due maschi. E quattro piccoli sono stati svezzati oggi, tolti alle loro madri e portati nella nursery». «Ricordo il giorno in cui sono venuti alla luce. Tutti maschi». «Tutti e quattro, Signora». «Bene», sospirò questa. «Almeno le nascite di oggi ci hanno portato tre femmine in buona salute». «I maschi sono pronti per essere accolti dalle famiglie, ma mi dovete ancora spiegare la procedura. Mi sembra di capire che debbano essere portati via di notte e che nessuno sappia in che modo o quando...». «Per il bene delle loro madri», spiegò dolcemente la Signora. «Sono momenti difficili per loro. Portare via i piccoli, di notte, senza che lo sappiano, rende più facile la separazione».
«Ma come si procede? Se me ne devo occupare...». «Domani», la interruppe la Signora, chiudendo gli occhi. «Sono molto stanca, Melisande. Lasciami sola, ti prego». Melisande trattenne un sospiro. Aveva così tanto da imparare e si sentiva sempre rispondere «domani». «Posso portarvi qualcosa, Signora? Un bicchiere di vino? Del cibo? Sono giorni che non mangiate niente». «Non ho più appetito. Non ho più voglia di niente. Nemmeno della vita. Mettimi un bicchiere di vino sul comodino. È tutto ciò che voglio». «Me ne occupo subito e poi mando qualcuno a farvi compagnia...». «No!» la interruppe, irritata, la Signora. «Le altre si agitano e piagnucolano facendomi stare peggio. Tu sei l'unica che non mi dia fastidio». «In tal caso tornerò a vedere se vi serve qualcosa...». «No». La voce dell'altra era brusca e il suo tono spaventò Melisande. «Ti chiedo scusa, figlia mia. Non volevo trattarti male. Mi hai mostrato così tanta devozione! Ma sono notti che non dormi come si deve. Credi che non ti abbia vista venire qui ogni ora? Questa notte io dormirò e tu farai altrettanto». «Sì, mia Signora. Se questo è ciò che desiderate». La voce dell'anziana donna si addolcì. «Sono così stanca. Non voglio essere disturbata. Torna da me domattina». Melisande si chinò, mormorò una preghiera e baciò la mano rugosa della Signora. Ricacciando indietro le lacrime, si lavò il viso con acqua fredda, poi uscì dalla camera. Il crepuscolo colorava il giardino di azzurro e di viola. Presto sarebbe spuntata la luna. Era tempo di dare inizio alla cerimonia. Melisande pronunciò il suo discorso di saluto, ripetendo parole che aveva sentito ogni mese di ogni anno, per tutti gli anni della sua vita, parole che avevano un profondo significato per chi le udiva, o perlomeno così si augurava. Quella notte, le parole non significarono nulla per lei. Avrebbe potuto benissimo parlare una lingua straniera. Aveva così tanto da fare, così tanto a cui pensare, erano così numerose le responsabilità che ricadevano sulle sue spalle... ma non c'era il tempo per riflettere chiaramente. Quando fece la sua comparsa nel quadrangolo, prendendo il posto che solitamente era della Signora, sulla pedana rialzata all'estremità nord, un'ondata di sgomento serpeggiò attraverso la Congregazione. Dov'era la Signora? Le sorelle si strinsero per mano. Alcune emisero dei gemiti e una
scoppiò addirittura a piangere. Le sacerdotesse scelte per l'accoppiamento cominciarono a perdere vigore come fiori recisi. Gli uomini non avevano idea di cosa stesse succedendo, ma riuscivano a percepire la tensione presente nell'aria. Si scambiarono fuggevoli occhiate, muovendosi a disagio. Melisande dovette assumere il controllo della situazione per impedire che la serata si trasformasse in un disastro. Fu grata per la disciplina dimostrata da Bellona e dalle sue guerriere, che mantennero un atteggiamento calmo e risoluto. Mentre si avvicinava per prendere posto accanto alla pedana, Bellona rivolse a Melisande un sorriso rassicurante che la riscaldò come del vino speziato. «La Signora mi ha pregato di comunicarvi il suo rincrescimento», disse Melisande in tono vibrante. «È dispiaciuta di non poter prendere il suo consueto posto davanti a voi questa sera, ma lo scontro con il drago l'ha lasciata molto affaticata. Uomini di Seth, vi trasmetto i suoi saluti». Poi proseguì con il discorso tradizionale e, anche se non sarebbe stata in grado di ripetere in seguito una sola sillaba di ciò che disse, le parole sortirono l'effetto desiderato. Le sue spiegazioni, fornite in tono pacato ed energico, agirono come un balsamo calmante sui timori delle sorelle. Le sue lodi per il comportamento eroico degli uomini li incoraggiò e li rinvigorì, mentre l'ammirazione che espresse nei confronti delle donne destinate a diventare presto madri le fece esultare d'orgoglio. Terminato il discorso, Melisande lasciò che Bellona assumesse il controllo della serata. Le sorelle si recarono nella cappella a recitare le loro preghiere. Le donne si ritirarono pudicamente nelle stanze dell'accoppiamento, in nervosa attesa del compagno designato. Alcune avevano già dato alla luce dei figli e sapevano bene cosa sarebbe successo. Guardavano con desiderio o con paura all'atto d'amore, a seconda delle loro esperienze passate. Alcune erano vergini. Quella sarebbe stata la loro prima notte, e aspettavano trepidanti. Le guerriere di Bellona scortarono gli uomini, si assicurarono che ciascuno fosse chiuso in una stanza con la compagna e che tutti avessero cibo e vino, ai quali erano state aggiunte abbondanti pozioni ed erbe, note per la loro capacità di allentare le inibizioni e accrescere la potenza sessuale maschile. Guardie furono piazzate alle estremità della sala e si lasciò che la natura facesse il suo corso. Ben presto, nell'aria notturna sarebbero echeggiati risolini e risate profonde, sostituiti in seguito da grugniti, sospiri e grida di dolore o di piacere. Melisande avrebbe dovuto unirsi alle sorelle per pregare nella cappella,
ma prima doveva parlare a Bellona. Nel corso degli anni, solo pochi deplorevoli incidenti avevano minacciato di sciupare una Notte dell'Accoppiamento e ad essi si era sempre ovviato con rapidità e discrezione. Ma non ci sarebbe stato riposo per Bellona e le sue guerriere quella notte, finché c'erano uomini presenti all'interno del monastero. Melisande scivolò furtiva nell'ombra profumata di una pergola di caprifoglio rampicante, e rimase in attesa di Bellona. Questa si trovava ancora nelle stanze per assicurarsi che fosse tutto a posto. Di lì a poco la porta si aprì e la sagoma di Bellona, intenta a impartire gli ultimi ordini, si stagliò contro il chiarore delle lampade. Poi la guerriera si avviò attraverso il giardino a passo veloce. Melisande non la chiamò. Non era necessario. Erano così vicine che Bellona l'avrebbe sicuramente vista. Infatti, quest'ultima aveva superato di appena pochi passi il punto in cui l'altra aspettava, che si fermò di colpo, si girò e scrutò nell'ombra. «Melisande? Va tutto bene?». Melisande scosse il capo e in un attimo Bellona le fu accanto. «Sei gelata, stai tremando». Bellona la prese fra le braccia. «Che c'è? Dimmi!». «Oh, Bellona», esclamò Melisande, tenendosi stretta alla sua innamorata. «Domani comincia la veglia!». Bellona mormorò una rapida preghiera e accentuò la stretta. «Mi occuperò io di tutto, al monastero. Tu fai ciò che devi fare e non pensare ad altro». Bellona esitò. «Sono trascorsi trent'anni dall'ultima veglia. Sono poche le sorelle sufficientemente anziane da ricordare ciò che deve essere fatto. La Signora te l'ha spiegato?». «Sì», rispose Melisande. «Ti avrei informata, ma pensavo di aspettare la fine della Notte dell'Accoppiamento. Non sapevo che sarebbe accaduto così presto». «Ti va di parlarne?». «Ma io devo andare a pregare...». «Lascia che le preghiere aspettino, Melisande», disse brusca Bellona. «Nessuno sentirà la mancanza della tua voce. Lucretta sarà ben felice di prendere il tuo posto». «E in seguito fare osservazioni maligne su di me», aggiunse Melisande con un debole sorriso. «Non ne avrà il coraggio», ribatté Bellona a bassa voce. «Non adesso che stai per diventare la nuova Signora».
Melisande rabbrividì e si strinse ancora di più a Bellona. Il profumo del caprifoglio era dolce nel tepore della notte. Trasportati dall'aria tranquilla, si potevano udire, da una parte, il mormorio delle preghiere e, dall'altra, i suoni di risate appassionate. I due aspetti della vita, pensò Melisande: quello spirituale e quello fisico. E su entrambi grava la mano della morte. «Quand'è stata l'ultima volta che hai mangiato? O dormito?» le chiese Bellona. «Non riesco a ricordare. Non sgridarmi», rispose Melisande con voce stanca. «Non sai cosa significhi tutto questo. Stringo la sua mano cercando di trattenerla, ma lei scivola sempre più lontano da me. È nostra madre, Bellona. L'unica madre che la maggior parte di noi abbia conosciuto...». «Lo so, mia adorata. Lo so. Ma la sua ora è giunta. Tutti ci dobbiamo arrivare». «Parli come un soldato», osservò amaramente Melisande. «È vero, tesoro mio. Noi guerrieri siamo abituati a concederci alla morte, e forse per questo ci è più facile accettarla. La fine di un guerriero è rapida e pulita, o così almeno si spera. Questa interminabile morte devastatrice dev'essere terribile da vedere. Vorrei che tu non dovessi restare sola con lei, Melisande. Sono giorni che te ne stai chiusa nella sua stanza. Non mangi, non dormi. Sei stremata dalla fatica. Non puoi convincerla a lasciare che questo tuo compito penoso venga condiviso da altre sorelle?». Melisande scosse il capo. «Solo la Somma Sacerdotessa può soprintendere alla morte della Signora. E sarà così anche quando sarà giunto il mio tempo». Posò il capo sulla robusta spalla di Bellona e chiuse gli occhi per un attimo. «Anche se non capisco per quale motivo deve essere così, Bellona. Sarebbe diverso se la Signora mi impartisse le sue istruzioni, su come eseguire il rituale, per esempio, o se mi dicesse qualcosa di più sui draghi, se mi trasmettesse le sue conoscenze. Ma non lo fa. Non capisco...». Le parole divennero un sussurro. Si lasciò sprofondare nell'oscurità, nella dolcezza notturna del caprifoglio e nell'abbraccio di Bellona. Si riscosse al suono di una voce che chiamava Bellona. «Cosa?» chiese con un sussulto, svegliandosi di colpo, ubriaca di sonno. «Che c'è? Che succede?». Bellona imprecò. Si alzò in piedi e uscì dall'ombra della pergola, in modo da poter essere vista. «Sono qui, Nzangia. Che cosa vuoi?». La guerriera si fermò e salutò accostandosi al petto la mano chiusa a pu-
gno. Melisande riconobbe il vicecomandante di Bellona, una giovane donna di vent'anni, alta, ossuta e maldestra in tutto tranne che nel combattere. «Sono spiacente di disturbarvi, comandante, ma avevate chiesto di essere tenuta al corrente...». «Bene. Allora, di che si tratta?» la esortò brusca Bellona. «Quei forestieri si trovano ancora nei pressi del valico». Bellona si accigliò, contrariata. «Il vostro ultimo rapporto diceva che se n'erano andati». «L'avevamo creduto, comandante, poiché era da un paio di settimane che non si facevano più vedere, ma sembra che ci siamo sbagliate. Una delle ricognitrici ne ha avvistato uno stamattina. Sono tornata a riferirvelo». «Come fate a sapere che si tratta degli stessi individui?». «Sono facilmente riconoscibili, comandante, con quelle tonache nere e il capo rasato». «Di chi state parlando?» domandò Melisande, completamente sveglia e in preda all'ansia. «Forestieri vicino al valico? Da oltre quindici giorni? E ne vengo a conoscenza solo adesso?». «La Signora mi aveva chiesto di non dirti nulla», si giustificò Bellona. «Le avevamo riferito subito la notizia, naturalmente. Aveva risposto che probabilmente si trattava di pellegrini che si erano persi tra i monti. Ma nessun pellegrino che abbia smarrito la strada rimane nello stesso posto per più di un paio di giorni». «E questi sono individui strani», commentò Nzangia. «C'è qualcosa di sinistro in loro, di macabro, che non mi piace per niente». «Neppure a me. Voglio rifletterci sopra, Nzangia. Puoi andare. Ti farò avere i miei ordini domattina». La guerriera salutò e se ne andò. Bellona si sedette di nuovo sulla panca, la schiena curva, le braccia appoggiate alle ginocchia e il mento tra le mani, a fissare con sguardo vacuo l'oscurità della notte. Melisande rimase in paziente attesa di una spiegazione, che però non giunse. «Mi vuoi dire che cosa sta succedendo?» chiese alla fine. Bellona si mosse e scosse il capo. «Non sono sicura di poterlo fare. La Signora mi aveva chiesto di non farti preoccupare». «Direi che è troppo tardi per farsi prendere dagli scrupoli», ribatté secca Melisande. «Mi farai preoccupare molto di più non dicendomi niente». «Per la verità, non è importante. Tranne che», Bellona aggrottò la fronte,
«è tutto molto strano...». «Bellona!» esclamò Melisande, esasperata. «Dimmelo!». «Oltre due settimane fa, le pattuglie di confine avevano riferito l'avvistamento di un gruppo di uomini a cavallo nei pressi del valico. Erano otto in tutto. Cinque di loro erano coperti da mantelli e cappucci ed erano difficili da identificare, ma gli altri tre avevano un aspetto strano. Indossavano tonache nere e avevano la tonsura sul capo». «Come negli antichi dipinti dei monaci che un tempo vivevano nel monastero», disse Melisande. «E cosa facevano?». «Non facevano altro che confabulare e osservare di continuo il valico, indicandoselo tra di loro. Hanno perlustrato tutta l'area circostante e poi se ne sono andati, o perlomeno così credevamo». «Non hanno tentato di attraversarlo, in quel punto o da qualche altra parte?». «No, e la cosa in sé è strana. Era come se sapessero che era inutile tentare di penetrare attraverso la barriera incantata». «E adesso sono tornati». «Già, e non dovrebbe essere così. L'incantesimo avrebbe dovuto rendere apatica la loro mente, facendo in modo che si rendessero improvvisamente conto che non valeva la pena di superare il valico, perché non c'era niente di interessante sul versante opposto. Anzi, avrebbero dovuto addirittura dimenticare il motivo per cui avevano provato interesse, andandosene via senza pensarci su due volte». «Ma questo gruppo ci ha ripensato! Eccome, se ci ha ripensato». «Eh sì», rispose Bellona. «E non si tratta solo di questo...». Si alzò bruscamente in piedi, si allontanò di un paio di passi voltando la schiena a Melisande, lo sguardo rivolto alle stelle, come se cercasse consiglio. «Allora?» la esortò Melisande, con una punta di paura nella voce. «Quegli strani individui non sono stati gli unici a provare un interesse insolito nei confronti dei nostri confini. Non volevo dirtelo, avrei preferito aspettare...». Indugiò, esitando, poi tornò a voltarsi verso Melisande. «Anche un drago ha tentato di penetrare nelle nostre terre. Non quello verde che abbiamo visto e ricacciato. Un altro». «Non è possibile», ribatté decisa Melisande. «L'avrei visto nell'Occhio. La Signora l'avrebbe visto...». «Eri presa da altre cose», disse Bellona, guardandola teneramente. «Così come la Signora».
Melisande tese la mano e afferrò quella di Bellona. «L'avrei visto, ti dico!». «Ma non l'hai visto, Melisande», replicò piano Bellona. Scostò i riccioli biondi che le ricadevano disordinatamente sul viso segnato dalle preoccupazioni e dal dolore. «Non so perché o che cosa sia andato storto. Un drago ha tentato di attraversare. La barriera incantata gliel'ha impedito. Una pattuglia di confine ha avvistato le fiamme e ha udito gli scoppi della sua magica collera. Le guerriere si sono precipitate sul posto e hanno trovato segni di bruciature sulle rocce, una frana e alcune macchie di sangue». «Qualche umano...» disse Melisande cocciuta. «L'incantesimo non reagisce con violenza nei confronti degli umani. Solo sui draghi. Cara Melisande», Bellona le cinse le spalle in un abbraccio, attirandola a sé, «non sei venuta meno al tuo dovere, non pensarlo neppure!». «Invece sì! Avrei dovuto vedere... Senza le nostre preghiere a contrastarlo, il drago avrebbe potuto crearsi una breccia...». Lacrime amare le spuntarono agli occhi e le bruciarono in gola. Non piangeva mai. Non davanti a Bellona. Né a nessun altro. Con rabbia, Melisande le ricacciò e strinse le labbra finché non ebbe padroneggiato quel doloroso nodo che sentiva in gola. Si sottrasse all'abbraccio di Bellona e respinse le sue mani carezzevoli. «Devi andare al valico», le ordinò. «Voglio che tu indaghi personalmente sull'accaduto». «Ma la veglia...». «Gli appartamenti della Signora sono sorvegliati dalle guardie. Nessuno può entrare, né tantomeno avvicinarsi finché... finché lei non sarà morta». «Tranne te». «Tranne me. Nzangia è il tuo braccio destro, Bellona. Me lo dici spesso. Puoi lasciare a lei il comando. Non ci sarà niente da fare, se non impartire alle guardie i soliti ordini. Di certo, nessuna oserà disubbidire». Bellona la guardò esitante. «Gli uomini si trovano ancora qui...». «Se ne andranno domattina. Potrai scortarli fuori dai nostri confini e poi partire. Devi verificare le nostre difese, Bellona. La Signora ci ha assicurato che avremmo potuto respingere gli invasori qualora se ne fosse presentata la necessità, ma il nostro sbarramento difensivo non è mai stato messo alla prova. Mi sentirei meglio se tu ti recassi là di persona, ad accertarti che sia tutto a posto. Qui non c'è nulla che tu possa fare. Dobbiamo solo aspettare».
«Andrò, ma a una condizione», disse Bellona. Dopo aver preso tra le sue le mani di Melisande se le portò alle labbra e le baciò. «Che tu passi la notte nel nostro letto». «Bellona, devo pregare perché gli accoppiamenti abbiano successo», replicò Melisande. «Bah!» ribatté l'altra, stizzita. «I casi sono due: o gli arieti sfonderanno le porte, oppure se ne andranno zoppi e falliranno miseramente. E, nella seconda evenienza, dubito che le preghiere di gente come Lucretta riescano a rafforzare la loro... chiamiamola così... determinazione». «Bellona!» esclamò Melisande, esterrefatta. Ma, prima di continuare, fu colpita dall'aspetto ridicolo della situazione e cominciò a ridere. Inorridita, si tappò la bocca con le mani. «Vedi cosa mi fai fare!». «Dimentica le preghiere. Vieni con me», insistette Bellona, baciandole la guancia e il collo. «No, non devo», replicò Melisande, sospirando e rilassandosi a quel tocco carezzevole. Le due donne si strinsero in un abbraccio, mentre Bellona strofinava la sua guancia contro i capelli biondi, soffici e profumati di Melisande, che capitolò davanti a quelle braccia, forti e gentili al tempo stesso. «Melisande», la chiamò dolcemente Bellona. «Sì?» mormorò Melisande, con voce insonnolita. «Stavi già dormendo. Qui, in piedi, tra le mie braccia». «No! Davvero?» Melisande batté le palpebre e cercò di scuotersi. Bellona la fissò severa. «Devi concederti un po' di riposo, Melisande. Va' avanti. Darò un'ultima occhiata in giro. E dirò a Lucretta che non ti senti bene». «Non metterci troppo», rispose Melisande, arrendendosi del tutto. «Sta' tranquilla», la rassicurò l'altra con un bacio. Bellona fece il suo giro di ricognizione e si accertò che fosse tutto a posto. Le guardie erano di buonumore. La Notte dell'Accoppiamento era una consuetudine sacra sia per loro sia per le sorelle. Tutte le donne del monastero dovevano la loro nascita a una di quelle unioni. Tuttavia, le guerriere non dimostravano verso quella cerimonia lo stesso rispetto profondo provato dalle sorelle. Ogni mese facevano girare le loro scommesse sui «tori», mettendo in palio una parte delle loro razioni di cibo, tirando a indovinare su chi avrebbe scavato il suo solco più di una volta e su chi invece ci sa-
rebbe a malapena riuscito. Si scambiavano le stesse battute e le stesse storielle volgari che erano circolate per trecento anni in occasione di quelle notti, e ne aggiungevano di nuove, rendendone allegramente partecipe Bellona durante i suoi giri d'ispezione. Lei rideva, ma non si fermava mai per unirsi al divertimento generale, come invece avrebbe potuto. Augurandosi che anche quella Notte dell'Accoppiamento trascorresse senza incidenti, Bellona si recò nella cappella e comunicò il suo messaggio a Lucretta, la quale storse la bocca in segno di disapprovazione e tirò su col naso. Bellona aveva ancora una sosta da fare prima di tornare ai suoi alloggi. «Tutto bene lì dentro?» domandò alle guardie davanti alla porta della camera della Signora. «Sì, comandante», rispose una di loro. «Tutto tranquillo». Bellona osservò le finestre, sempre buie, con le pesanti tende invariabilmente tirate. La Signora avrebbe potuto morire nella sua stanza e nessuno se ne sarebbe accorto. Ma forse non era così vicina alla morte come tutti temevano. Melisande aveva ancora molto da imparare prima di essere pronta ad assumere la carica di Signora dei Draghi. L'attuale Signora non aveva neppure cominciato a insegnarle. Bellona era ancora incerta se recarsi o no al valico. Guardando le finestre buie, prese la sua decisione. Il valico distava circa quarantacinque chilometri, e il viaggio sarebbe durato un giorno, calcolando un cambio di cavalli a metà strada. Un altro giorno lassù, per ispezionare le difese e scoprire altri particolari sui forestieri che stavano cercando di penetrare nelle loro terre. E un giorno per tornare. Se la Signora fosse morta ci sarebbe stato ben poco da fare, se non impedire che la triste notizia si diffondesse nel reame prima che le sorelle fossero pronte ad annunciarla. Senza parlare poi del fatto che l'ultima veglia era durata settimane, o perlomeno così Bellona aveva sentito raccontare. Dopo aver preso la sua decisione, Bellona tornò ai suoi alloggi. Il corridoio era buio. Le baracche silenziose. Abituata ad andare e venire a tutte le ore, Bellona si fece strada facilmente nel debole chiarore lunare ed entrò senza far rumore nella sua stanza. Melisande era distesa sul letto. Non si era neppure spogliata. Non si era sfilata né l'abito né i sandali, né si era sciolta i lunghi e biondissimi capelli. Un raggio argenteo di luce lunare penetrava attraverso la feritoia della finestra sfiorandole il viso, che pareva stanco e triste persino immerso nel
sonno, il rifugio di tutti i problemi. Minuscole gocce di sudore le imperlavano il viso e il collo. L'aria nella stanza era soffocante. Bellona le tolse i sandali e l'abito bianco. Dopo aver versato dell'acqua fresca in una bacinella, vi immerse una spugna, la strizzò e gliela passò sulle braccia e sul petto, sul viso e sulle mani. Lo fece con movimenti lunghi e lenti, carezzandole il corpo con dolcezza per evitare di svegliarla. Melisande rabbrividì, ma continuò a dormire. Bellona sciolse con cautela la lunga treccia e le spazzolò i capelli ondulati, che sembravano d'oro alla luce del sole e bianchi a quella della luna. Quindi avvolse una coperta sul corpo bagnato di Melisande per evitare che si raffreddasse. Chinandosi, la baciò sulla fronte, sulle palpebre e sulla bocca. Melisande non si mosse, ma le rughe di stanchezza si erano appianate e la tensione era svanita. Dormiva di un sonno profondo e tranquillo. Da qualche punto imprecisato, nella notte, giunse la risata sazia e assonnata di una donna, alla quale si unì il ridacchiare grave di un uomo. Da lontano giunse il rombo di un tuono. Sarebbe piovuto prima di mattina. Bellona si arrampicò sul letto, posò un braccio protettivo sulle spalle di Melisande e chiuse gli occhi, lasciando fuori la luce della luna. 9 «Lasceremo qui i cavalli», disse Draconas, legando le redini al ramo di un albero, «e proseguiremo a piedi». Non riusciva a vedere il viso di Edoardo, poiché questi gli voltava le spalle, ma riusciva a capire dai suoi movimenti agili e svelti che il re non vedeva l'ora di passare all'azione. Edoardo fece come gli era stato detto e raggiunse rapidamente Draconas. Lo scheletro ancora fumante del pino colpito dal fulmine si trovava duecento metri più avanti, su una cengia che sporgeva dalla parete rocciosa. La luna aveva rischiarato loro il cammino, durante l'ascesa. Era stato facile arrampicarsi, poiché la salita era graduale, per niente ripida, e tutt'intorno non c'erano che pochi alberi stenti. Il rombo lontano di un tuono lasciava presagire altra pioggia. Mentre si avvicinavano alla loro meta, le nubi si ammassarono in cielo, inghiottendo luna e stelle e anche il drago Braun, il quale era impaziente di agire quanto Edoardo. Dei due, Braun era quello del quale Draconas si fidava di meno. Non aveva idea di come avrebbe reagito il giovane drago impulsivo. Fino a quel momento Braun si era comportato bene: il pino incendiato si era
rivelato un ottimo stratagemma. Draconas si augurava che Braun continuasse a comportarsi in modo razionale e discreto, ma non ci contava troppo. Braun era spinto dalla vendetta, un'emozione pericolosa, sia negli uomini sia nei draghi. In quanto a Edoardo, Draconas si rammaricava solo di una cosa, e cioè che Sua Grazia non era per niente aggraziato quando di trattava di attraversare un bosco. Edoardo faceva rumore per sei, scivolava e inciampava, imprecava sottovoce, calpestava rami secchi che scricchiolavano e crepitavano sotto i suoi stivali, e una volta era stato quasi sul punto di cadere, mettendo male il piede su un sasso. «Con tutto il baccano che fate, tanto vale che spariamo un colpo di cannone per annunciare il nostro arrivo», si lamentò Draconas. «Per voi è facile parlare», lo rimbeccò Edoardo, col respiro pesante. «Sembra che abbiate la vista di un pipistrello. Io invece non riesco a vedere un bel niente in questa dannata oscurità». Draconas avvertì una fitta di rimorso. Di solito dimenticava che gli umani non beneficiavano delle sue capacità di drago, che gli consentivano di vedere anche al buio. «Posate prima la punta e poi il tacco», gli suggerì Draconas. «Così sarete più stabile». «Così avrò l'aspetto di un lezioso maestro di danza», borbottò Edoardo; ma seguì il consiglio di Draconas, e i due proseguirono. Per fortuna la pioggia aveva ricominciato a cadere, coprendo il rumore dei loro passi. Si arrampicarono fino a un punto che si trovava direttamente sotto la sporgenza sulla quale stava il pino bruciacchiato. Dietro all'albero, così gli aveva riferito Braun, si trovava l'apertura della caverna, alla quale si accedeva lungo quello che aveva l'aspetto di un rudimentale sentiero. Questo sentiero consente un facile accesso agli umani, pensò Draconas, lieto che la sua teoria fosse confermata. Si fermarono sotto la sporgenza, scrutando in su. La pioggia picchiettava leggera su di loro, riparati com'erano dalla lastra di roccia. Il tuono brontolava sopra le loro teste. I fulmini diffondevano una luce biancoazzurrognola tra le nuvole. Trattenendo il respiro, Draconas piegò il capo e restò in ascolto. «Che c'è?» sussurrò Edoardo, irrigidendosi. «Voci», disse Draconas. «Vado a dare un'occhiata». Dopo essersi afferrato alla sporgenza, vi si issò sopra senza fatica. Si appiattì sulla roccia, avendo cura di tenersi nascosto a ridosso del tronco del
pino bruciato. Nessun uomo sarebbe stato in grado di vederlo così al buio, sotto la pioggia, ma chi poteva sapere che cosa sarebbe stato capace di fare o di vedere un umano dotato dei poteri magici dei draghi? E gli umani non sarebbero stati gli unici a fare la guardia. Dinanzi a lui, a una ventina di passi di distanza, si trovava l'apertura della caverna, una fenditura lunga e stretta ricavata nella montagna. Un soldato era seduto là, appoggiato contro un masso, la testa reclinata sul petto. L'uomo indossava un mantello, un elmo d'acciaio, una cotta di maglia e portava una spada al fianco. Era l'unico in vista: nessun monaco pazzo nei dintorni. Per ripararsi dalla pioggia, il soldato si era rifugiato sotto un lastrone di roccia che sporgeva sopra l'imboccatura della caverna, creando un portico naturale. Durante il giorno, l'ingresso veniva così nascosto dall'ombra del portico, confondendosi con la parete della montagna. Draconas avrebbe potuto cercare per anni, senza mai scoprirlo. Era il sentiero che ne denunciava la presenza, e Braun non l'avrebbe mai trovato se Draconas non gli avesse detto cosa cercare. Simile a una stretta striscia bianca profilata di grigio, quel sentiero non era stato scavato nella roccia, bensì creato dal passaggio degli innumerevoli piedi che l'avevano calpestato durante tre secoli, salendo o scendendo il fianco della montagna. Braun aveva seguito il suo tracciato dal cielo e gli aveva riferito che spariva all'interno di una foresta, in prossimità del fiume. Sembrava proprio che provenisse dal nulla e svanisse di nuovo nel nulla, poiché il drago non era riuscito a scorgerne traccia nelle terre che confinavano con le montagne. Draconas prestò nuovamente attenzione alle voci. A tutta prima, gli era parso che provenissero proprio da un punto sopra la sua testa. Ora si rendeva conto che giungevano invece da una certa distanza all'interno, e che era la caverna stessa ad amplificarle. Fu in grado di distinguerne almeno due di timbro diverso, ma, a causa dell'eco, non riuscì a capire cosa dicessero. Approfittando dei tuoni, che coprivano il rumore dei suoi movimenti, Draconas si lasciò ricadere sulla roccia, accanto a Edoardo. «Una guardia», riferì, sussurrandogli all'orecchio. «Ed è addormentata». «Nessuna traccia dell'incantesimo?» mormorò l'altro di rimando. «Nessuna polverina fatata sparsa tutt'intorno all'apertura? Misteriose ragnatele luccicanti tese davanti?». «Non sapremo se l'incantesimo funziona finché non proveremo a entra-
re. E se funziona», aggiunse gelido Draconas, «non lo troverete così dannatamente spassoso. Per l'amor del cielo, fate più piano che potete!». Draconas si aggrappò di nuovo alla sporgenza e vi si arrampicò. Poi si accucciò, restando in ascolto per assicurarsi che non arrivasse nessuno. Ma non sentì niente, solo le voci all'interno della caverna. La guardia assopita cadde pesantemente all'indietro sul masso. Draconas non la biasimava per essere così negligente. Erano passati trecento anni senza che succedesse mai niente. «Porgetemi il bastone», disse a Edoardo. L'altro glielo porse. Draconas lo posò a terra accanto a sé, poi protese una mano verso il re e lo aiutò ad arrampicarsi. «Zitto!» lo ammonì Draconas. I due si accovacciarono immobili. Le voci continuarono a parlare, ma, oltre a quelle, si udivano rumori di passi e altri suoni più strani. «Sembrava il pianto di un bambino!» sussurrò Edoardo. «Fate silenzio!» gli intimò Draconas in tono irritato, mentre cercava di pensare. Poi si voltò verso il re, gli afferrò la mano e lo fissò dritto negli occhi. «Qualunque cosa succeda, qualunque cosa vediate o sentiate, non dovrete interferire. Promettetemelo». «Che sta succedendo? Ditemelo». «Non c'è tempo. Promettete», ripeté Draconas, «o torno indietro». Edoardo se ne rimase là, accigliato, a fissare con sguardo minaccioso la buia caverna. Il rumore dei passi e del pianto si fece più vicino. Chiunque fosse all'interno, si stava dirigendo verso l'uscita. «Lo prometto», borbottò Edoardo. «Non c'è nulla che possiate fare», gli disse Draconas. «Se tentate di fermarli, loro risponderanno con la forza e così rischierete di fare del male ai bambini. Nascondetevi là dietro e aspettate un mio segnale». Edoardo fece come gli era stato ordinato, per quanto lasciasse capire di non esserne contento. Al pari di tutti gli altri animali, gli umani provavano il bisogno istintivo di proteggere i loro piccoli. Draconas avrebbe dovuto avvisare il re che c'era la possibilità di un coinvolgimento di bambini, ma non aveva certo immaginato di capitare nel bel mezzo di un trasferimento. Che maledetta sfortuna! Draconas aspettò una manciata di secondi ancora, per accertarsi che Edoardo ubbidisse agli ordini. Il re poteva avere un'indole romantica, ma era anche provvisto di una giusta dose di buon senso e fece come gli era stato detto, portandosi con passi felpati oltre la guardia assopita e riparandosi
dietro un mucchio di pietre, nei pressi dell'entrata della caverna. Dopo che Edoardo si fu messo al riparo, Draconas si arrampicò mani e piedi, risalendo da una sporgenza all'altra lungo la parete esterna della caverna e raggiungendo il lastrone che fungeva da tetto del portico. Poi vi si acquattò sopra e si sporse a spiare oltre il bordo. La guardia si trovava proprio sotto di lui. Altri tre soldati, con indosso armature simili a quella del primo, emersero dalla caverna. «Svegliati, bastardo di un pigrone!» urlò uno, affibbiando un pugno al compagno di guardia. «Per fortuna sono stato io e non Grald a sorprenderti qui a russare, mentre sei di sentinella. Altrimenti ti avrebbe mandato a riposare per sempre». «Che ci sarà mai da sorvegliare? Qua in giro non ci sono che capre», replicò l'altro con uno sbadiglio. Gettò un'occhiata all'interno della caverna. «Vorrei che quelle vecchie galline si sbrigassero. Di' loro di darsi una mossa». «Spicciatevi, là dentro», gridò il soldato. «E spegnete quella dannata torcia!». «No di certo», ribatté una stridula voce di donna in tono indignato. «È buio come la pece qui intorno». «Le altre volte c'era più luce sul sentiero», disse un'altra voce femminile. «Le altre volte c'era la luna», ribatté il soldato. «Be', questa volta non c'è, giusto?». Cinque donne, tutte in abito da suora, con indosso tuniche e sottogola neri, uscirono dalla caverna. Una di esse reggeva una torcia fiammeggiante: l'oggetto della disputa. Le altre quattro portavano dei fagottini di panno che, di tanto in tanto, si dimenavano ed emettevano lamentevoli vagiti. A quella vista, Edoardo non riuscì a soffocare un'esclamazione di sorpresa, che fortunatamente udì solo Draconas, poiché i soldati si stavano ancora azzuffando con le donne. «Ordini di Grald», dichiarò il soldato. «Niente torce. Andate a lamentarvi da lui». Le donne si scambiarono un'occhiata. «Spegnetela», disse una di loro seccamente. Il soldato prese la torcia e ne tuffò l'estremità accesa in una pozza d'acqua. Le donne continuarono a brontolare e a lamentarsi di non vedere niente, dicendo che sarebbero sicuramente finite in qualche precipizio. «Se mi rompo il collo, dovrete occuparvene voi di questo moccioso ur-
lante», borbottò un'altra. «I vostri occhi si abitueranno all'oscurità», replicò il soldato. «Non dovrete andare troppo lontano. Il carro ci sta aspettando nella foresta». Le donne presero ad avanzare con cautela lungo il sentiero, procedendo con passi strascicati per accertarsi di non mettere un piede in fallo. «Con questo ritmo, ci metteremo tutta la notte», borbottò il soldato che prima si era addormentato. «Non ti preoccupare», replicò il compagno. «Tra non molto Grald ci raggiungerà, e allora vedrai come zampettano le vecchiacce». «Parla piano», gli intimò il primo, nervoso. «Quelle donne sono dotate di poteri magici, come tu sai, e sono capacissime di rivoltarci come delle calze se solo si accorgono che parliamo male di loro». «Ci devono solo provare», ribatté l'altro con una scrollata di spalle, ma abbassando comunque la voce. Il suo compagno gettò un'occhiata verso la caverna. «Quanto credi che resterà ancora là dentro con lei Grald?». «Finché Sua Eccellenza non si deciderà a congedarlo». «Pensi che uno di noi debba aspettarlo?». «Ci ha ordinato di scortare le donne. Ci raggiungerà al carro. Non ti preoccupare. Se dovessero esserci dei problemi, Grald sarà perfettamente in grado di cavarsela da solo». «Lo so fin troppo bene!» esclamò l'altro. Come aveva previsto il soldato, le donne si abituarono presto all'oscurità e cominciarono a camminare più spedite. I soldati si affrettarono a seguirle. Draconas avvertiva la magia che emanava da quelle donne, così come Edoardo aveva avvertito il temporale imminente. Dopo che si furono allontanate, il re uscì dal suo nascondiglio e si portò davanti all'apertura della caverna. Lasciandosi scivolare giù dal lastrone, Draconas lo trascinò nell'ombra. «Monache che portano bambini fuori da una caverna!» lo affrontò Edoardo. «E voi ne eravate al corrente!». «Almeno», disse Draconas, «adesso sappiamo che l'accesso non è impedito da un incantesimo». «All'inferno l'accesso! E i bambini? Dove li stanno portando? Di chi sono figli? In nome della nostra Santa Madre, cosa sta succedendo?». «Seguitemi», gli intimò Draconas. «E, per il vostro bene, non fate rumore». «Dannazione, Draconas...».
«Allora, venite?» chiese Draconas, avviandosi verso l'interno della caverna. A Edoardo non rimase altra scelta se non di seguirlo brontolando. «È buio come la pece qui dentro. Reggetevi a me o vi perderete», gli disse Draconas, sentendo subito dopo la mano dell'altro chiudersi sul suo braccio. Il re imparava in fretta. E si muoveva silenzioso quasi come Draconas. La stretta apertura si apriva su un'ampia caverna dall'alto soffitto a volta. Quei soldati venivano a prendere i bambini una volta al mese, nelle notti in cui la luna piena rischiarava loro il cammino. Si chiese quanti neonati fossero stati portati via da quel luogo buio e spaventoso verso un destino forse ancora più buio e spaventoso. Centinaia? Migliaia? Fu lieto che Edoardo non sapesse a quali orrori andavano incontro quelle povere creature. Nessun umano che ne fosse stato al corrente sarebbe stato capace di starsene a guardare in disparte, mentre venivano portati via, senza fare niente per salvarli. Le due voci all'interno della caverna si fecero più forti e chiare, ed egli fu in grado di stabilirne il punto di provenienza. Erano arrivati in fondo alla grande sala, un piccolo passaggio alla sua sinistra dava su un'altra sala, dalla quale usciva una lama di luce che si allungava sul pavimento, proiettandovi l'ombra di un uomo. Draconas si fermò in modo talmente brusco che Edoardo andò a sbattergli contro. Draconas gli strinse il braccio, rammentandogli di fare silenzio. L'altro ricambiò la stretta, con molto più vigore di quanto non fosse necessario. Sì, me ne starò zitto, diceva quella stretta esasperata, ma più tardi avrò molte cose da dire. Draconas sorrise nell'oscurità. Si spostò a ridosso della parete rocciosa, lontano dalla luce. Entrambi in silenzio, respirando a malapena, le orecchie protese in ascolto. La lingua in cui si esprimevano le due voci nell'altra sala era quella usata dalla maggior parte degli abitanti di quella parte di continente, sebbene quella dell'uomo denotasse l'inflessione dialettale e l'accento di qualcuno che veniva da molto più a sud. L'altra voce, quella di «Sua Eccellenza», parlava con un fruscio sibilante, come ci si sarebbe aspettato da una creatura provvista di una lingua lunga e sottile, che si muoveva saettando tra denti affilati. «Siete certo che tenterà di passare?».
«Sì. Sennò, dove altrimenti potrebbe tentare?». «Non lo so. Ma se c'è un altro modo, lo scoprirà. Non è un tipo da sottovalutare, come credo che abbiate cominciato a capire anche voi». «Le vostre guerriere pattugliano il confine...». «Sì, perché hanno avvistato i monaci. Un'altra dimostrazione della vostra incompetenza». «Si sono fatti vedere di proposito. Ce l'avevate suggerito voi...». «Vi avevo suggerito di fare in modo che fossero i soldati a farsi vedere, per dare l'impressione che fosse imminente un'invasione. Invece le mie guerriere hanno avvistato i monaci. Le donne non sono stupide. Hanno fatto domande. La Signora ha dovuto farli passare per semplici pellegrini». «Inoltre, c'è l'incantesimo», proseguì Grald in tono imbronciato. «Ha tentato una volta di attraversare e ha fallito...». «E voi credete che un fallimento possa farlo desistere? È un drago, Grald, non un uomo. Credo che qualche volta lo dimentichiate». «Ma ha sembianze umane», ribatté Grald. «E ciò lo rende vulnerabile». «Non così vulnerabile da permettere ai vostri monaci di avere la meglio su di lui». «Non avevamo tempo. Dovevamo agire in fretta...». «Anch'io. La vecchia è debole e fragile e non mi è più di alcuna utilità. La Signora morirà stanotte. Dopo avere accompagnato gli altri, tornate in mattinata a prendere il corpo. Bruciatelo come avete fatto con gli altri». Edoardo affondò le dita nel braccio di Draconas. Ho sentito, dannazione! Draconas liberò il braccio con uno strattone. E adesso, cosa diavolo facciamo? Grald non sembrava contento. «Non sono d'accordo. Quella donna potrebbe vivere ancora per settimane, mesi persino. Ci occorre più tempo per preparare la nuova...». «La decisione spetta a me», lo interruppe la voce sibilante. A quel punto si udì il rumore di una massa enorme che spostava il suo peso, di artigli che grattavano sul pavimento di pietra e di squame che sfregavano contro la parete rocciosa. «Avete ciò per cui siete venuto. Occupatevi dei vostri affari e lasciate che io mi prenda cura dei miei». «Molto bene, Maristara. Suppongo che sappiate quello che state facendo. Mi terrò in contatto», rispose Grald. L'ombra si inchinò, poi si apprestò a uscire. Draconas si appiattì contro il muro. Accanto a sé, sentì Edoardo muoversi per prendere la spada. Gli posò una mano sul braccio per fermarlo.
Per un attimo, Grald nascose la luce con il proprio corpo, poi uscì nella sala dove loro erano appostati. Draconas lo fissò. Sentì Edoardo emettere una lieve esclamazione di stupore. Grald era un gigante. Era alto più di due metri, con spalle e braccia massicce, un torace simile a una botte di legno di quercia e grosse cosce muscolose. Draconas avrebbe potuto fare il bagno nella corazza che gli cingeva il petto. Portava a tracolla un enorme martello e uno spadone gli pendeva al fianco. Grald li superò di gran carriera senza accorgersi della loro presenza. Era accecato dalla collera, si muoveva con passo pesante e imprecava sottovoce, senza guardare né a destra né a sinistra. Edoardo e Draconas rimasero in silenzio finché non lo sentirono allontanarsi. Anche il drago se ne andò. Draconas riconobbe ogni rumore e seppe esattamente ciò che ciascuno di essi significava: il raschiare della punta di un'ala contro la parete, il grattare degli artigli sul pavimento, il fruscio strisciante provocato dalla lunga coda sinuosa che si trascinava sulla pietra. L'immagine evocata da quei suoni gli era talmente chiara che non poteva immaginare come Edoardo non si fosse reso conto della verità. Draconas sarebbe stato costretto a spiegare il deplorevole fatto di avere scoperto la presenza di un drago in un regno che si riteneva ne fosse privo, e si apprestò a mettere rapidamente insieme un misto di verità, di mezze verità e di vere e proprie bugie. Edoardo non disse nulla. Era stranamente silenzioso. Draconas lo tirò per la manica. «Usciremo dalla stessa parte da cui siamo entrati...». «Uscire?» Edoardo si girò verso di lui, sorpreso. «Non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo salvare la Signora». «Abbassate la voce», lo ammonì Draconas. «Queste stanze trasmettono l'eco». «Dobbiamo salvare la Signora», bisbigliò Edoardo. Fece segno in direzione della sala da cui erano giunte le voci. «Avete sentito ciò che quella donna... quella Maristara ha detto. Ha intenzione di ucciderla stanotte». «Vostra Maestà, è troppo pericoloso...». «Ecco che ci risiamo. Avete ripreso a chiamarmi "Vostra Maestà" con quel tono mieloso. Ma questa volta non funzionerà, Draconas». Edoardo era scuro in volto e risoluto. «Avevate ragione quando avete detto che questo era un viaggio con una connotazione di sacralità. Dio mi ha portato qui
per uno scopo più nobile, che non il semplice liberare il mio regno dalla presenza del drago. Dio vuole che io salvi questa donna da una morte terribile». Draconas avrebbe potuto dirgli che Dio non c'entrava per niente in tutto quello. Edoardo era stato portato fin là da un drago con uno stratagemma: uno stratagemma che non aveva funzionato, poiché Draconas non aveva alcuna intenzione di interporsi tra il drago e la sua preda. Per quanto lo riguardava, la Signora poteva essergli utile anche da morta. Avrebbe dovuto escogitare un altro espediente. Il suo dovere ora consisteva nel salvare quella testa calda di un umano da se stesso. Draconas rimpiangeva di aver mostrato a Edoardo il bel viso nel topazio. Il re sguainò la spada e si diresse verso la stanza dov'era rimasta accesa la torcia. Draconas si affrettò a seguirlo. «Non avete sentito quei rumori? La caverna è sorvegliata, Edoardo, e la guardia non è una guardia normale». «Volete dire che si tratta di una grossa bestia?». Edoardo lo guardò sdegnoso. «Un mastino, forse? Un lupo? Un leone o un orso? Credete che uno di questi animali possa farmi paura? Devo trovarla, Draconas. Trovarla e portarla in salvo. Dio mi ha portato fin qui per questo scopo. Dio è con me». Sarà meglio che lo sia, perché io non lo sono, pensò tra sé Draconas, esasperato. Poi disse a voce alta: «Come farete a trovarla? Non avete alcuna idea di dove vi trovate voi, e ancora meno di dove sia lei». Edoardo indugiò e alzò lo sguardo. «Voi stesso avevate detto che ci trovavamo all'interno del Monte Sentinella. Il monastero dev'essere proprio sopra di noi. Lei dovrebbe essere là, e io la troverò. Ci penserà il buon Dio». Posò la mano sulla spalla di Draconas. «Finora abbiamo sempre fatto come volevate voi, amico mio. Ma non ora. Devo salvarla e niente mi potrà fermare, se non la morte stessa. Se non dovessi tornare, dite a mia moglie che ho perso la vita cercando di portare a termine una sacra missione». «Oh, per l'amor di...». Edoardo gli batté la mano sulla spalla e sparì nella stanza. Probabilmente doveva aver preso la torcia che Grald aveva lasciato là, poiché Draconas vide la luce vacillare, poi muoversi. Imprecando contro la cocciutaggine degli uomini, Draconas gli corse dietro. Lo raggiunse proprio mentre stava uscendo dalla seconda stanza per entrare in una terza. I draghi suddividevano sempre le loro tane in più cu-
nicoli e caverne, una misura difensiva che permetteva loro di chiuderne alcuni in caso di attacco e di lasciarne aperti altri. Edoardo teneva la torcia alta sopra la testa, scrutando intorno a sé e procedendo adagio. Perlomeno si stava comportando con cautela, invece di buttarsi a capofitto nel pericolo. Quando gli arrivò alle spalle, Draconas fece in modo che l'altro lo sentisse per evitare di spaventarlo. Edoardo si girò e compensò Draconas con un caloroso sorriso. «Sapevo che sareste venuto. Sapevo che non mi avreste abbandonato». «In tal caso ne sapevate più di quanto ne sapessi io», borbottò Draconas. «Qua, datemi la torcia, se proprio insistete ad andare avanti». «Sì, insisto», disse Edoardo. «Non ho ancora visto traccia del vostro bestione, Draconas». «Li avete sentiti anche voi quei rumori, così come li ho sentiti io», replicò Draconas. «Li ho sentiti», confermò Edoardo, «ma adesso non li sento, e voi?». «No», dovette ammettere l'altro. Nonostante l'enorme massa, i draghi si muovevano silenziosi. Il loro peso non era proporzionale alle dimensioni. I draghi pesavano molto meno di quanto non sembrasse. Le ossa, cave, consentivano loro di volare. La pelle, sottile, era protetta da squame. Poiché non possedevano una grande massa, erano in grado di comprimere il loro corpo in ambienti incredibilmente piccoli, perciò le loro tane erano contraddistinte da strette gallerie, da minuscole nicchie e da cunicoli a fondo cieco. I draghi non amavano essere costretti all'azione e preferivano di gran lunga attirare il nemico in una trappola, così da potersi battere con rapidità e in tutta sicurezza. Costringevano qualunque avversario, stupido abbastanza da volersi misurare con loro, a spingersi sempre più in profondità nelle loro tane, portandolo diritto incontro alla morte. Maristara forse aveva adottato quella strategia. Li stava illudendo, facendo loro credere di essere al sicuro, mentre in realtà aspettava che si perdessero in quel dedalo di corridoi, finché non le fossero arrivati a tiro. Le stanze in quella parte del nascondiglio erano grandi e le gallerie facili da seguire, poiché si trovavano nelle vicinanze dell'ingresso. Ben presto, tuttavia, come Draconas aveva previsto, le stanze si fecero più piccole. La galleria principale si suddivise in altri cunicoli. Erano entrati nel labirinto che il drago aveva creato a scopo di difesa, ed era lì che Maristara avrebbe potuto decidere di attaccarli, appostata in una nicchia o raggomitolata in
fondo a un passaggio a fondo cieco. Draconas insistette per andare avanti per primo, così da essere lui a fronteggiare il drago, o perlomeno così pensò. Avrebbe fatto in modo che Maristara lo vedesse sotto le sue vere sembianze. Forse la comparsa inaspettata di un drago che si intrufolava nella sua tana avrebbe disturbato i suoi piani d'attacco per il tempo sufficiente a concedere un po' di vantaggio a Draconas. Per un drago, combattere contro un umano, è terribilmente facile. Un respiro infuocato, una poderosa zampata, uno sbattere delle poderose mandibole, ed è tutto finito. Lottare contro un altro drago invece richiede una buona dose di attenzione e di astuzia, di forza e di scaltrezza. Poiché si aspettava di poter avere gioco facile con un umano, Maristara si sarebbe trovata spiazzata. Approfittando della sua confusione, Draconas avrebbe potuto farle un incantesimo per neutralizzarla, riuscendo così a mettersi in salvo con Edoardo. Si sarebbe servito di quello stesso dedalo di gallerie contro di lei, visto che Maristara non sarebbe stata in grado di destreggiarsi rapidamente attraverso gli stretti cunicoli, mentre lui ed Edoardo sì. Draconas non si perdeva mai sottoterra. Sarebbe stato capace di condurre se stesso e il suo compagno al sicuro, purché tutto andasse secondo i piani prestabiliti. Il che, si rese conto all'improvviso, non era più avvenuto da quando si erano imbarcati in quella disgraziata avventura. 10 Draconas si era detto certo di avere previsto tutto quando aveva elaborato il piano per cacciare il drago, ma apparentemente non aveva tenuto conto di un particolare. Un particolare importante. E cioè che non c'era nessun drago. Draconas riusciva a orientarsi bene in quell'intrico di corridoi. Si sentiva più a casa sua a percorrere il labirinto di un drago che non le strade affollate di una città. Seguì le gallerie usate dal drago, che erano facili da riconoscere, poiché Maristara aveva lasciato segni del suo passaggio sulle pareti rocciose: qualche tratto reso liscio dallo sfregamento dell'enorme corpo contro la pietra, alcune squame finite a terra, che scintillavano alla luce della torcia. Non c'erano rifiuti, dato che i draghi tenevano pulite le loro tane. Si chiese distrattamente cosa ne facesse. Evitò accuratamente le zone che non mostravano tracce dei suoi spostamenti, poiché là probabilmente
erano state predisposte delle trappole. Ascoltò con attenzione in cerca di rumori che tradissero la sua presenza e, a tutta prima, gli parve di udire il raspare di un artiglio o lo stropiccio di una coda. Ma i suoni erano deboli ed egli non poté dirsi certo di averli sentiti veramente. Non riusciva a capire se il drago si trovava davanti a lui o dietro di lui. Durante quell'ultima ora non aveva sentito altro che lo zampettare dei topi. A quel punto immaginò il peggio, e cioè che Maristara avesse scelto il campo di battaglia e che li stesse aspettando. Avanzò scuro in volto e con passo furtivo, ma non accadde niente. Ogni volta che giungeva in corrispondenza di qualche punto che lui stesso avrebbe giudicato ideale per un'imboscata, si irrigidiva, pronto a fronteggiare l'attacco del drago, ma l'unica cosa spaventosa che si trovava davanti era la propria ombra, che gli balzava addosso quando girava l'angolo. «Che posto terribile e soffocante», osservò Edoardo sottovoce. «Queste gallerie non mi sembrano naturali. Ho l'impressione che siano state create apposta. Siete sicuro di sapere dove stiamo andando?». Giacché quella era la quinta volta che Edoardo gli poneva la stessa domanda, Draconas non si sentì in obbligo di rispondere. Non allentò la guardia. Continuò ad avanzare adagio, con determinazione, ignorando Edoardo che lo sollecitava a proseguire più veloce. In un'occasione, scocciato per l'andatura lenta e calcolata del compagno, Edoardo aveva cercato di precederlo, ma Draconas l'aveva tirato indietro. Il drago era là, da qualche parte. Doveva essere là. Non c'era altro posto dove potesse andare. Draconas cominciò a considerare l'eventualità che Maristara non sapesse che loro erano penetrati nel suo covo. O che avesse predisposto altri accorgimenti per liberarsi della loro presenza. «Dobbiamo essere quasi alla fine della galleria», disse d'un tratto Edoardo. «So che questo sembra strano, ma sento del profumo». «Non è profumo», rispose Draconas, fermandosi. «Si tratta di incenso». Incenso e qualcos'altro: umani. L'odore di esseri umani nella tana di un drago era qualcosa che Draconas non aveva mai avvertito prima di allora. Entrando nella caverna, aveva percepito subito l'odore dei trafficanti di bambini, ma i soldati e le finte suore non erano andati oltre la prima sala. Quel gigante, Grald, si era spinto fin nella seconda, ma era rimasto là. L'odore era intenso e diffuso e proveniva da qualche punto più avanti. Gli umani frequentavano il luogo nel quale stavano per entrare. Si recavano là spesso e di loro spontanea volontà. Poiché quello non era il puzzo che emanava da una prigione di schiavi.
Era l'odore della carne umana mescolato alle fragranze dei fiori, all'incenso e a oli profumati. E nessun segno della presenza del drago. Draconas si sentì contrarre lo stomaco nel rendersi conto di non avere visto nemmeno una squama di drago negli ultimi cento metri o poco più. «Perché vi fermate?» chiese Edoardo. «Se quello che sentite è incenso, allora dovremmo avere raggiunto la nostra destinazione. Dobbiamo sbrigarci, se vogliamo salvare la Signora da quell'assassino!». «Dannazione!» borbottò Draconas, vedendo che l'altro aveva intuito giusto. «Ci siamo spinti più in là di quanto pensassi!». Si mise a correre, seguito da Edoardo. Nel fare una curva, per poco non andarono a sbattere contro un muro di pietra. «Una galleria a fondo cieco!» esclamò Edoardo, amaramente frustrato. «Già, proprio così», commentò cupo Draconas. Si trattava di una trappola. Erano andati a finire in una galleria senza via d'uscita. Fu sorpreso di non sentire il drago strisciare furtivo verso di loro, ma d'altra parte Maristara era vecchia, potente e astuta. Afferrando il bastone con entrambe le mani, Draconas lo fece roteare, pronto a fronteggiare... Il nulla. Il nulla, se non l'oscurità e il silenzio. «Dannazione!» esclamò. Con i nervi tesi, agitò il bastone nel vuoto. Edoardo fece scorrere la mano sul muro. «Sapete cosa c'è di strano? Sento ancora quel profumo». Draconas colorò la propria mente di grigio, lo stesso grigio della parete che bloccava loro la strada. Poi ci ficcò dentro il bastone. La punta sparì, inghiottita dalla solida roccia. «Che la Santa Madre e tutti i santi del paradiso ci proteggano!» mormorò Edoardo, arretrando di un passo. «Un'illusione», commentò Draconas trionfante. «Non capisco», disse l'altro, palesemente scosso. Tese esitante la mano. Le sue dita sfiorarono la fredda pietra. Tirò indietro la mano di scatto e fissò Draconas: «Come avete fatto?». «Avevate ragione. Abbiamo raggiunto il monastero». Draconas indicò il muro. «Al di là c'è una stanza illuminata. Della torba mescolata a incenso brucia in un braciere di ferro. Un altare di marmo è situato a una delle estremità. Di fronte a noi, dall'altra parte della stanza, c'è una porta che dà verso l'esterno. L'immagine di un occhio è intagliata nella pietra del pavi-
mento». «Voi siete pazzo», disse Edoardo, guardandolo di traverso. «Io non vedo altro che roccia, fredda roccia». «Voi vedete! Non dovete vedere», spiegò Draconas. «Non date retta ai vostri occhi. Sono stati ingannati. Prestate ascolto agli altri sensi. Avete sentito il profumo dell'incenso». Edoardo fissò il muro, poi scosse il capo. «Non ci riesco. Conosco ciò che vedo e ciò che sento. E non vedo e non sento altro che solida roccia». Draconas ritirò il bastone. Gettò un'ultima occhiata alla stanza dell'altare, poi scrollò le spalle e si voltò. «Suppongo che qui finisca la strada. Tanto vale che torniamo indietro». «Ma ci deve essere un altro ingresso...» cominciò a dire Edoardo. Draconas girò su se stesso facendo roteare il bastone. Colpì il re alla guancia e lo mandò a cadere a capofitto attraverso il finto muro di pietra. Edoardo si ritrovò disteso sul pavimento, a osservare ammiccando le fiamme guizzanti di un braciere collocato su un supporto di ferro accanto all'altare, a una delle estremità della stanza. Fissò la luce sfavillante, poi, strofinandosi la guancia colpita, si mise a sedere. «Tutto bene,Vostra Maestà?» gli giunse una voce. «Draconas?» domandò Edoardo, guardandosi intorno. «Dove siete?». «Dall'altra parte del finto muro. Starò di guardia. Andate in cerca della Signora e portatela qui». Edoardo studiò la parete con attenzione. Udiva molto chiaramente la voce di Draconas, come se fosse a meno di un metro di distanza dal punto in cui lui si trovava. Era caduto attraverso un muro che non era un muro e fece del suo meglio per convincersi di quell'illusione. D'altro canto, vedeva il bagliore delle fiamme riflesso dalla parete e, se avesse teso la mano, avrebbe sentito la pietra sotto le sue dita. «Eravate voi ad avere fretta», gli ricordò Draconas impaziente. «Sarà meglio che lasciate un segno in corrispondenza del punto in cui siete entrato. L'apertura non è molto grande ed è circondata da solida roccia. Non posso permettere che ci andiate a sbattere contro con la testa. Qui, prendete questa». Una torcia fiammeggiante si materializzò attraverso la parete e atterrò ai piedi di Edoardo. «Non è possibile», esclamò questi. «In base a tutte le leggi della scienza, tutto ciò non è possibile. Mi verrebbe da credere di essere uscito di senno,
non fosse che la mascella mi fa un male terribile». Si strofinò di nuovo la guancia ammaccata, poi si tolse un guanto e lo posò alla base del muro, accanto alla torcia. «Riuscite a vederlo?» chiese dubbioso. «L'ho messo nel posto giusto?». «Il vostro guanto? Lo vedo. Buona idea. Se vi serve aiuto, gridate. Altrimenti, resterò qui ad aspettarvi». «Perché non venite con me?» domandò Edoardo, raccogliendo la torcia. «Questa è l'unica via d'uscita», rispose Draconas. «Credo sia saggio che uno di noi due resti qui di guardia». «Ah, certo», rispose Edoardo. «Naturalmente». Ma non gli credette. Edoardo desiderava fidarsi di Draconas, perché provava simpatia per lui e lo ammirava. Ma non poteva. Un sovrano che vuole essere un buon sovrano deve essere un attento osservatore dei propri simili, deve imparare a leggere nel loro cuore, allo stesso modo in cui un navigatore legge gli impercettibili segnali del mare e del cielo, e sa quando si prepara una tempesta o quando il vento sta per levarsi o cambiare direzione, o se ci sono fondali nei quali rischia di rimanere incagliato. Le acque di Draconas erano calme e placide, ma Edoardo intuiva dei segreti nascosti nelle loro profondità. Tutti gli uomini, compreso Edoardo, avevano segreti, ma lui aveva la sensazione che quelli di Draconas non fossero i segreti normali di un uomo normale. Draconas sapeva che Edoardo non si fidava di lui e, stranamente, quest'ultimo capiva che, per qualche strana ragione e proprio per quello, era cresciuto nella stima del compagno. Posando la mano sull'elsa della spada per assicurarsi di non averla persa nella caduta, Edoardo attraversò la stanza, dirigendosi verso la porta aperta, proprio di fronte a lui. Non riusciva a distinguere quello che c'era al di là, ma immaginò che si trattasse di un'altra stanza o di un corridoio. Si mosse rapido, giacché aveva perso tempo vicino al muro, e si lanciò intorno un'occhiata incuriosita. L'altare di marmo che stava all'altra estremità era davvero imponente. Il lavoro d'intaglio delle figure dei draghi doveva essere stato eseguito da un artista provetto, poiché ogni squama, delle migliaia là riprodotte, era stata accuratamente delineata. Per contro, l'occhio intagliato nel pavimento appariva rozzo e approssimativo. Edoardo notò i tappetini da preghiera consunti, disposti a formare un cerchio attorno all'occhio, e si sentì correre un brivido lungo la schiena. «Qui è dove compiono la loro magia», si disse Edoardo. «La magia, che
è uno strumento del demonio, osteggiato da Dio. La magia, che inganna i sensi e ci fa dubitare di noi stessi. Capisco perché ci mettono in guardia nei suoi confronti». Quell'idea era inquietante e, nonostante sentisse pressante la necessità di affrettarsi, Edoardo rallentò il passo. Era cresciuto all'ombra della Chiesa e, per quanto si considerasse un uomo di scienza, era anche un uomo di fede. Non aveva difficoltà a conciliare le due cose, come facevano altri della sua generazione, poiché, a prescindere da quante spiegazioni la scienza potesse fornire, non sarebbe mai riuscita a dimostrargli né il come né il perché. Dio era sempre presente in ogni equazione. Edoardo aveva avuto la certezza che Dio fosse con lui in quella sacra missione, ma ora provava la sgradevole sensazione di averlo lasciato ad attendere in anticamera. Il muro finto, l'altare di marmo con il suo Occhio del Drago, la cui pupilla di pietra pareva consapevole della sua presenza, erano prodotti dei sogni, e i sogni erano le nauseanti ed esotiche giravolte della mente, che sfuggiva ogni notte alla sicura prigione della civiltà. Edoardo pensò a quella Signora che era in procinto di salvare. Riandò col pensiero al bel viso che aveva visto e ricordò le storie che i preti raccontavano riguardo alle gradevoli forme che il Maligno era capace di assumere per condurre l'uomo alla perdizione. Quand'era seduto in tutta sicurezza nel proprio banco in Chiesa, tutto ciò poteva anche sembrargli assurdo, ma là, nella stanza profumata e illuminata dalle fiamme, l'idea di essere osservato da quell'occhio di pietra, gli faceva chiudere la bocca dello stomaco e inaridire le fauci. Edoardo esitò, ma solo per un attimo. La sua parte razionale e scientifica lo colpì metaforicamente alla guancia, così come aveva fatto fisicamente Draconas, e fece dileguare quei terrori infantili. Anche lì c'erano cose terrificanti, ma una di esse era un assassino e, se vi fosse implicato o meno il Maligno, si trattava comunque del maligno che abitava nel cuore degli uomini. Rapidamente, ma non senza le dovute precauzioni, Edoardo varcò la soglia e si trovò in un corridoio scavato direttamente nella roccia. Di fronte a lui c'era una scala dai gradini di pietra. Li risalì a due a due e giunse davanti a un'altra porta. Questa invece era chiusa. Edoardo infilò la torcia in un supporto di ferro fissato al muro, per avere libere entrambe le mani, ed esaminò la porta, notando che si apriva verso l'interno. Fu contento di scoprire, anche se ne fu sorpreso, che non era né chiusa a chiave né sprangata. Se Draconas fosse
stato là avrebbe detto al re che nei luoghi dove esiste la magia, chiavi e catenacci non sono necessari, ma Edoardo era nuovo a tutto questo. Appoggiò la mano sulla maniglia, che era di ferro battuto e riproduceva la figura di un drago, e impresse una leggera spinta alla porta, che si aprì un poco. Attraverso lo spiraglio Edoardo vide un corridoio, e una parte di lui tirò un sospiro di sollievo nel constatare che là fuori non c'era alcun oggetto che evocasse il mondo dei sogni. Là c'erano i segni della civiltà: il pavimento era di lucido marmo, le pareti erano rivestite da pannelli di legno, e c'erano mobili di ebano e di palissandro. La luce di una torcia si rifletteva sui fili brillanti di un raffinato arazzo appeso al muro, proprio di fronte a lui. Sollevando lo sguardo, Edoardo incontrò gli occhi di un drago che lo stava fissando: gli occhi dipinti, del muso dipinto, di un drago dipinto, riprodotto nei minimi dettagli in un affresco. Il corridoio era buio e deserto. Edoardo si inoltrò con cautela nell'oscurità, lasciando aperta la porta, e si chiese da che parte andare. Alla sua destra era buio. Alla sua sinistra, non molto lontano dal punto in cui si trovava, una luce fioca filtrava da una stanza attraverso un uscio spalancato, proiettando un caldo riflesso sul freddo pavimento di marmo. Udì un respiro, il respiro debole e sibilante di chi è molto vecchio o molto malato, e sentì l'odore di stantio, tipico delle stanze degli infermi. Restò in ascolto, ma non udì altro suono, né avvertì altro odore. Quella stanza e il suo occupante sarebbero stati il suo punto di partenza. Edoardo portò una mano alla cintura ed estrasse il coltello, poi lo inserì saldamente tra il pannello e lo stipite della porta. In tal modo, non solo questa non si sarebbe richiusa, ma gli avrebbe anche fornito luce sufficiente a indicargli la strada del ritorno. Tenendosi a ridosso della parete, si avviò a passi felpati lungo il corridoio. Il chiarore che filtrava dalla stanza più avanti non sembrava interrotto da alcuna ombra. Il respiro affannoso continuava incessante. La notte era tranquilla e il silenzio era scandito solo da un tenue picchiettio, che Edoardo alla fine riconobbe come il suono prodotto dalla pioggia sul tetto. Avvicinandosi alla stanza, si appiattì con la schiena contro il muro e sbirciò al di sopra della spalla: vide un ampio locale, arredato con sontuosa eleganza e buon gusto. Alle pareti erano appesi pesanti drappeggi di velluto operato e il pavimento di marmo era reso più caldo e confortevole da tappeti intessuti a mano. Uno scrittoio, il cui ripiano era sgombro, si trovava in fondo alla stanza. Quattro grandi seggiole dall'alto schienale erano
disposte a due a due, una di fronte all'altra, davanti a quella che probabilmente era una finestra, ora schermata da spessi tendaggi. Bagliori provenivano da più punti, riflessi da cofanetti tempestati di pietre preziose, da una caraffa d'argento, da una serie di calici dal bordo in oro. Una lampada a olio di squisita fattura, su un tavolino dai profili dorati, emetteva la luce che l'aveva guidato a quella stanza e alla sua unica occupante: una donna anziana, assopita nel suo letto. La donna giaceva supina, aveva la bocca aperta e il corpo sottile, avvolto in un copriletto di seta dai ricami d'oro. Al collo e ai polsi portava delicati merletti. Un medaglione d'oro le pendeva al collo. Le mani, posate sul copriletto, erano scarne e ossute, solcate da profonde vene azzurre. I capelli, di un bianco avorio, erano raccolti in una treccia che le spuntava dalla candida cuffia di pizzo che le copriva la testa. Una vestaglia di seta ricamata, piegata con cura, era appoggiata ai piedi del letto. «Debole e fragile», disse Edoardo tra sé, ripetendo le parole dell'assassino. La vecchia è debole e fragile e non mi è più di alcuna utilità. La Signora morirà stanotte. Edoardo aveva così tanto pensato e sognato il bel viso nel topazio che, fino a quel momento, non aveva associato le parole «debole e fragile» con quelle «la Signora morirà». Ora, guardando l'anziana donna che dormiva tranquilla nel suo letto, si rese conto che si riferivano a una persona sola. «Lei è la Signora dei Draghi, ed è lei che dovrà morire stanotte». Gettò di nuovo intorno un'occhiata, in quella stanza provvista di tutti i simboli della ricchezza. Eppure la donna era là sola, abbandonata. Non c'erano figlie devote, né figli addolorati, e nemmeno un servo che le portasse un bicchier d'acqua o sistemasse lo stoppino della lampada a olio che faceva fumo. E là sarebbe morta, sola, in modo violento. Poveretta, pensò, compatendola profondamente. Poveretta. La osservò, in preda a un conflitto interiore, incerto sul da farsi. Gli sembrava così fragile, che temeva di poterla uccidere se solo avesse cercato di sollevarla. Tuttavia, non poteva permettere che venisse brutalmente assassinata. Ascoltò con attenzione il suo respiro e si convinse che, benché debole, non era comunque il rantolo di qualcuno che stava per morire. Era anziana e debilitata, ma, come aveva detto il gigante Grald, avrebbe potuto sopravvivere ancora parecchi giorni. Edoardo si guardò di nuovo intorno nella stanza traboccante di ricchezze, ma priva di ogni comodità.
Forse tutto ciò di cui quella povera creatura aveva bisogno erano cure e attenzioni. Avrebbe mandato a chiamare il suo medico, un tipo intelligente, che conosceva alcuni rimedi in grado di farle riprendere le forze. E non le avrebbe parlato del drago, almeno finché non si fosse ristabilita. «E se non ce la farà, almeno vivrà tranquilla per quel poco che le rimane. E avrà un sacerdote al suo fianco e una sepoltura cristiana», aggiunse cupo, pensando a Grald e alle istruzioni che gli erano state date di bruciare il corpo. Edoardo si inginocchiò accanto al letto per evitare che, quando la donna si fosse svegliata, vedesse qualcuno troneggiare minaccioso su di lei. Tese la mano e le sfiorò la spalla. «Madame...» disse piano. Le palpebre della Signora si mossero, ma lei non si svegliò. Sembrava immersa in un sonno profondo. Edoardo si disse che era strano, dato che gli anziani tendono ad avere il sonno leggero. Magari le era stato somministrato qualche farmaco. Forse era stata drogata con dell'acqua di papavero. Fece scivolare le braccia flaccide sotto il copriletto e glielo rimboccò come si fa con un bambino, poi la sollevò. Aveva il peso di una piuma. La testa le ricadde contro la sua spalla. Non mostrava di accorgersi di ciò che stava succedendo, ed Edoardo si convinse che era stata davvero drogata. Mentre la trasportava verso la porta, un angolo del copriletto cadde e si trascinò sul pavimento, impigliandosi nei suoi stivali. Temendo di inciampare, si fermò per cercare di alzarlo con una mano, pur continuando a reggere il fragile corpo della donna assopita. In quel momento udì delle voci. Si fermò all'istante, in ascolto. La pioggia tamburellava sul tetto e, in lontananza, si sentiva il rombo di un tuono. Le voci continuarono, poi si udì un suono di passi: lo scalpiccio di sandali bagnati sul pavimento di marmo, il rumore di qualcuno che si muoveva in fretta e con uno scopo ben preciso. L'assassino. Edoardo uscì nel corridoio, portando il suo fardello verso l'uscio che aveva lasciato aperto. La testa dell'anziana donna gli batteva dolcemente contro il petto. Il lembo del copriletto strisciava dietro di lui. 11 Melisande si svegliò bruscamente. Si mise a sedere Sul letto, gettò da
parte il lenzuolo e fece per alzarsi, rendendosi conto solo allora di non avere idea di cosa l'avesse svegliata. Si guardò intorno in uno stato di torpore, sospesa a metà tra il sonno e la veglia, sentendosi ancora nelle orecchie il rumore che l'aveva destata così all'improvviso da farle accelerare il battito del cuore e pulsare il sangue alle tempie. Il suo primo pensiero andò a Bellona, tanto che tese una mano nell'oscurità a toccarla, per assicurarsi che fosse accanto a lei. Il respiro di Bellona era profondo e regolare. Lei reagì al tocco di Melisande, ma come un gatto che sonnecchia, stirandosi in tutto il corpo e ripiombando subito nel sonno. Melisande si disse che doveva aver sognato e stava per ricoricarsi, quando udì di nuovo la voce. «Melisande, vieni! Ho bisogno di te!». «Signora!» gemette Melisande, alzandosi di scatto e guardandosi attorno nella camera buia. L'unica persona presente nella stanza, oltre a lei, era Bellona che, sentendo il suo grido, si era quasi svegliata del tutto. «Melis», mormorò con voce assonnata, «che succede? Mi hai chiamata?». «No, tesoro mio, no. Va tutto bene. Torna a dormire», la rassicurò Melisande, tirandole il lenzuolo sulle spalle. Aveva ricominciato a piovere e la notte era umida e fresca. Melisande rimase in ascolto, immobile, evitando persino di respirare, in attesa di sentire nuovamente quella voce. Ma non udì nulla. Si è trattato di un sogno, si disse. Tuttavia, la voce le era sembrata decisamente reale. Le risuonava ancora nelle orecchie, ne sentiva l'agitazione, il tono spaventato e disperato. La paura le attanagliò il cuore, glielo serrò in una morsa, facendola sentire per un attimo come se stesse soffocando. Le mani e le gambe le si intorpidirono e le dita le pizzicarono. Si alzò frettolosamente dal letto e si avviò brancolando nel buio verso la porta. In quel momento si rese conto che non poteva presentarsi al cospetto della Signora completamente svestita, e afferrò l'abito da cerimonia che aveva indossato la sera precedente. Era talmente sconvolta che, al primo tentativo, cercò di infilare la testa attraverso l'apertura della manica, così si fermò un attimo per calmarsi. Con la fretta non avrebbe ottenuto niente. Ripeté il tentativo, questa volta con successo, e si drappeggiò l'abito nero dai riflessi viola attorno al corpo, fermandolo ai fianchi con una cintura. Inopportunamente, ricordò che Lu-
cretta le aveva fatto notare che l'orlo della gonna era sporco di sangue, perciò il giorno prima l'aveva messo a bagno nell'acqua fredda e aveva lavato via le macchie. Quindi calzò i sandali. Con la mente ancora annebbiata dal sonno, aprì la porta della camera senza neppure sapere cosa stava facendo e uscì in fretta dalle baracche, avviandosi verso il quadrangolo. La pioggia continuava a cadere fitta. L'acqua fredda sul viso la svegliò del tutto. Sapeva dov'era e cosa doveva fare. La notte era molto buia e tranquilla, densa di nubi. Le coppie dormivano, sfinite dal piacere. Nella nursery i bambini, il prodotto di una precedente Notte dell'Accoppiamento, dormivano il sonno dell'innocenza. Le sorelle dormivano e sognavano il drago. Le guerriere dormivano e sognavano il sangue, tranne quelle di guardia, i cui passi giungevano attutiti dalla pioggia. «Sto arrivando, Signora», disse piano Melisande. La pioggia cadeva con tale violenza da darle l'impressione che la notte avesse assunto una forma liquida e che fosse l'oscurità stessa a colpirla con le sue gocce dure e pungenti. L'abito fu ben presto fradicio e il pesante tessuto le si incollò al corpo, impacciandola nei movimenti con il suo peso, mentre la gonna le si avvolgeva attorno alle gambe a ogni passo, impedendole di avanzare. L'acqua che le gocciolava dai capelli la accecava. Rami d'albero, trascinati verso il basso dalle foglie bagnate, le artigliarono il viso. Melisande li scostò e proseguì sguazzando nei rivoli d'acqua che correvano lungo i vialetti. Scivolando nel fango, si affrettò attraverso la notte e la pioggia, percependo il tragitto che doveva compiere, più che vederlo, e alla fine giunse agli appartamenti della Signora. Le guardie erano al loro posto. Avvolte nei mantelli, tenevano il capo chino per proteggersi dal temporale. Al suono dei passi di Melisande si riscossero e balzarono in piedi, impugnando le lance. La loro espressione cupa si tramutò in stupore nel vederla, fradicia e infangata, sbucare dall'oscurità. «Lasciatemi passare», ordinò loro, scostando le lance, così come aveva scostato prima i rami bagnati. «È successo qualcosa?» chiese una delle guardie, allarmata. Melisande si voltò, la mano già posata sulla maniglia. «Nessuno deve entrare. Nessuno». Indugiò un attimo, ricacciando il nodo che si sentiva salire in gola, poi aggiunse piano: «Comincia la veglia». «Sì, Sacerdotessa», risposero le guardie, i visi ridotti a bagliori spettrali
nella pioggia. «Che la benedizione della Signora sia con voi, Sacerdotessa». Poi le aprirono le massicce porte di bronzo. Il corridoio si allungava davanti a lei, buio e silenzioso. Le guardie richiusero le porte, tirandole a sé adagio e senza far rumore, per non disturbare quella calma che incuteva quasi paura. Melisande pensò senza volerlo che quando avrebbe varcato di nuovo quelle porte, l'avrebbe fatto come Signora dei Draghi. «Non sono pronta. È troppo presto. Signora, camminate al mio fianco e datemi la forza!» pregò. Poi, raddrizzando le spalle, si asciugò le lacrime e la pioggia dal viso. Accese una delle candele che erano sempre sul tavolo accanto alla porta, e la tenne con una mano, mentre con l'altra sollevava la gonna bagnata. Quindi si incamminò in fretta lungo il corridoio buio e silenzioso, con il cuore che le doleva per la trepidazione. Mentre avanzava, si chiese se avesse davvero udito la voce della Signora, o se non si era invece trattato di un sogno, o forse di tutte e due le cose: di un sogno che le aveva parlato attraverso il suo cuore angosciato. Arrivata in fondo al corridoio, Melisande svoltò ed entrò nel vestibolo che immetteva nella camera della Signora. A quel punto si fermò, sgomenta. La scena che le si presentò dinanzi agli occhi era così stupefacente che per un attimo si sentì paralizzata, incapace di muoversi, di pensare o di articolare alcun suono, al di là di un gemito di sbigottimento. L'uscio che dava sulla camera della Signora era aperto, così come, poco più in là, era pure spalancato quello che dava sul Santuario. La luce della camera si riversava nell'ingresso, e in quella luce Melisande vide un uomo che reggeva ciò che, a prima vista, le sembrò un fagotto avvolto nel copriletto della Signora. Il suo cervello intontito non riuscì a cogliere il motivo per cui un ladro avrebbe voluto rubare una coperta, ma poi ebbe la fugace visione di una mano inerte, che ciondolava fuori dalle pieghe di una manica di seta azzurra e verde. Lo choc derivatole dall'aver compreso ciò che stava succedendo le restituì voce e vigore. «Signora! Fermo!» gridò disperata, ma, a quel suono, l'uomo balzò all'interno del Santuario, portandosi via la Signora. La porta si richiuse con un tonfo. La luce svanì. Il corridoio piombò nell'oscurità, tranne per il fioco bagliore proveniente dalla camera da letto del-
la Signora. Melisande fece per inseguirli, ma, al primo passo, scivolò con i sandali umidi sul pavimento di marmo e cadde pesantemente a terra sulle mani e sulle ginocchia, sbucciandosi un ginocchio e storcendosi il polso sinistro. L'ansia per la sorte della Signora attutì il dolore della caduta, spingendola a rialzarsi barcollante e a proseguire nell'inseguimento. Si fermò davanti alla camera della Signora soltanto il tempo necessario ad assicurarsi di avere davvero visto ciò che il suo cervello scombussolato le diceva di avere visto. La Signora non si trovava più nel suo letto, e la coperta era sparita. Quell'uomo l'aveva portata via. La Signora, vedendosi in pericolo, aveva chiamato Melisande in suo soccorso. «Troppo tardi!» gemette Melisande. «Sono arrivata troppo tardi. Bellona! Devo chiamare le guardie...». Abbozzò un passo verso l'ingresso, ma in cuor suo sentì di non doverlo fare e si voltò di nuovo, in preda all'indecisione. Probabilmente, ogni secondo che passava era di vitale importanza. «È un uomo», esitò, sgomenta, «ed è armato... ma anch'io sono armata», disse, cercando di calmarsi, «armata dei miei poteri magici». Una strana sensazione la pervase, una sensazione di fermo proposito, che cancellò tutte le sue paure. «Quel pazzo! Le scale lo porteranno al Santuario: una via senza uscita per chi ha avuto l'ardire di rapire la Signora». Melisande si lanciò all'inseguimento. I poteri magici cui era ricorsa solo nei momenti di tensione per combattere i draghi le bruciavano sulle labbra e nelle viscere. 12 «Signora! Fermo!» gridò la donna. Nello stato di agitazione in cui Edoardo si trovava, la voce aveva lo stesso suono di quella sibilante udita nella caverna, la voce che minacciava di far morire la Signora la notte stessa. Edoardo azzardò un'occhiata alle spalle per vedere in faccia l'assassina, ma questa era protetta dall'ombra, e lui non fu in grado di distinguerne i lineamenti. Si sentì ribollire di rabbia e provò l'impulso di fermarsi a fronteggiarla, ma il suo primo pensiero doveva andare all'anziana donna che teneva tra le braccia. Avrebbe fatto in modo di metterla in salvo. L'avrebbe consegnata
a Draconas, poi si sarebbe occupato del demonio che stava cercando di togliere la vita a quella povera donna. Edoardo aveva già elaborato un suo piano d'azione. Aveva deciso di restare in quelle terre. Avrebbe catturato viva la traditrice e l'avrebbe consegnata alle autorità del posto. Si sarebbe assicurato che l'inferma ricevesse le opportune cure e attenzioni. Dopodiché avrebbe cominciato a investigare su Grald, sui soldati e sui misteriosi trafficanti di bambini. Pensò a tutto questo in un istante, mentre scendeva rumorosamente le scale che portavano alla stanza illuminata dal braciere. Reggeva il suo fardello saldamente ma con dolcezza, stando attento a non inciampare nel lembo del copriletto che si trascinava a terra. La donna giaceva immobile tra le sue braccia, immersa nel sonno comatoso indotto dalla droga, ignara di tutti quegli scossoni e delle urla, del pesante calpestio dei suoi piedi e dello sferragliare prodotto dalla sua spada contro le pareti di pietra. Edoardo raggiunse la stanza nella quale si trovavano l'altare di marmo bianco e quello strano e assurdo occhio intagliato nel pavimento, un occhio che scintillava alle fiamme del braciere e pareva fissarlo. «L'ho trovata!» gridò Edoardo a Draconas, affrettandosi ad attraversare la stanza e ad avvicinarsi al finto muro e al punto nel quale aveva lasciato il guanto. «Qualcuno ci sta inseguendo...». Edoardo abbassò lo sguardo sulla donna e la voce gli morì in gola. D'un tratto, inaspettatamente, questa aveva ripreso conoscenza e i suoi occhi scuri lo fissavano, riflettendo il bagliore delle fiamme e l'immagine del suo volto. Il re non scorse paura in quegli occhi imperturbabili, ma solo una strana e impassibile calma, una calma snervante, che gli faceva accapponare la pelle. «Madame», balbettò, con la mente confusa, «Madame, non voglio farvi del male. Vi prego di credermi...». «Melisande», chiamò l'anziana donna, «sei qui?». «Sì, mia Signora», rispose un'altra voce, bassa, dolce e terribile. Perplesso e disorientato, reggendo ancora la donna tra le braccia, Edoardo si voltò. Una pallida bellezza brillava alla luce del braciere. Fiammeggianti occhi azzurro cupo, spruzzati di pioggia. Il viso dall'ovale color avorio e dai lineamenti puri, delicatamente cesellati, sfumati di corniola e di rosa, grondava acqua che sembrava ghiacciarsi sulla pelle diafana. Il suo viso. Il viso nel topazio. Melisande.
Edoardo rimase a fissarla, turbato, incapace di parlare e di muoversi. La giovane donna non disse nulla. L'anziana era silenziosa. Tre cuori scandirono i secondi, poi, all'improvviso, la porta si richiuse. Edoardo trasalì: si sentiva un fascio di nervi. Melisande lanciò un'occhiata alle spalle, verso la porta, ma riportò subito lo sguardo azzurro fiamma su di lui. «Lasciate la Signora», gli ordinò. Le spiegazioni che Edoardo avrebbe voluto fornire si ingarbugliarono nel profumo muschiato e nei riccioli bagnati di lunghi capelli biondi, immagini contrastanti di assassini e di magia, di monaci pazzi, di finte suore, di sacre missioni e, da qualche parte, molto tempo prima, nei racconti che parlavano di una strega della foresta che portava alla perdizione tutti gli uomini che si innamoravano di lei. «Signora Melisande, voglio dire, Madame», le sue parole faticarono a farsi strada attraverso il groviglio di pensieri, «non ho intenzione di... cioè... la vostra Signora è in pericolo. Ho sentito...». Melisande fece un gesto al tempo stesso perentorio e così aggraziato che interruppe il flusso dei suoi pensieri e li mandò a disperdersi come fili di una ragnatela mossi dal vento. «Avete commesso un sacrilegio», disse Melisande, con voce terribile. «Avete posato le vostre mani immonde sul corpo sacro della nostra Signora, e questo è un crimine imperdonabile, per il quale sarete sicuramente condannato a morte». Edoardo sentì il sangue affluirgli al viso. Abbassò lo sguardo sull'anziana donna che teneva tra le braccia, la quale, durante tutto quel tempo, se ne era rimasta tranquilla, lasciando che la sua protetta gestisse la situazione. Non si muoveva, sembrava quasi che non respirasse. Lo teneva agganciato a sé con lo sguardo, e lui stava cominciando a sentirsi sempre più a disagio. Sapeva di essere dalla parte della ragione e, tuttavia, aveva l'impressione di avere inspiegabilmente commesso qualche terribile errore. Doveva spiegare. Doveva avvisare la giovane donna e la Signora che là fuori, da qualche parte, si nascondeva un assassino. La sua unica preoccupazione adesso era Draconas. Edoardo non voleva che interferisse, e lanciò un'occhiata di sfuggita al muro, che non era un muro, e al guanto per terra. Per quanto si sforzasse, non riuscì a vedere al di là della barriera illusoria. Si augurava che Draconas avesse notato la sua occhiata e ne avesse colto il significato. «Lascerò andare la Signora», disse Edoardo, cercando di prendere tem-
po, «se mi darete l'opportunità di spiegarvi. Vi assicuro che non intendevo farle del male». Dal modo in cui Melisande alzò la testa e serrò le labbra, parve sul punto di rifiutare. Fu la Signora a parlare. «Sentiremo ciò che ha da dire», disse. Melisande lo minacciò con lo sguardo. «Posatela a terra. Fate attenzione. È molto debole». Edoardo fece come gli venne detto e piegò un ginocchio per deporre con delicatezza l'anziana donna, avvolta nel copriletto di seta, sul pavimento di pietra della stanza. Nel farlo, le mise una mano dietro la testa come si fa con un bambino, per evitare che sbattesse all'indietro, e la fissò negli occhi. Vide un'oscurità che era più buia dell'ultima notte dell'ultimo giorno della fine del mondo. In quell'oscurità scorse una malvagità simile a una cosa che cresceva, respirava e viveva, una cosa che gli artigliò il cuore con gelide mani possenti e cominciò a stringerglielo, impedendogli di respirare. Rabbrividendo, arretrò, talmente inorridito che perse l'equilibrio. La gamba che lo sosteneva scivolò ed egli cadde sulle ginocchia. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi terribili. Era come se la donna lo tenesse avvinto a sé. «Adesso lo punirai, Melisande», ordinò la Signora.. Edoardo riuscì finalmente a staccare gli occhi dalla donna e a rivolgerli al volto che aveva visto nel topazio, al volto che popolava i suoi sogni. Pallida come il ghiaccio, lo sguardo azzurro fiamma, Melisande tese le mani nella sua direzione. Raggi di sfolgorante luce bianco-violacea le partirono dalle dita e si avvilupparono attorno al corpo di Edoardo. Dopo aver afferrato quei raggi come se fossero corde, lei lo sollevò e lo scaraventò contro il muro di pietra. Edoardo provò un dolore accecante, simile a un'esplosione, dietro agli occhi. Avvertì in bocca il sapore del sangue e si sentì precipitare nella malvagia oscurità dello sguardo della donna più anziana. Lottò per liberarsi e, nel farlo, udì la dolce voce di Melisande chiedere sommessa e in tono ansioso: «Signora, va tutto bene? Vi ha fatto del male?». E udì una flebile voce rispondere: «Va tutto bene, Melisande. Non preoccuparti. Devi pensare al nostro assassino. Mi pare di averlo sentito muovere».
«Lo farò, mia Signora. Siate certa che non vi darà più alcun fastidio». Una pallida bellezza lo guardò dall'alto. L'oscurità piombò su di lui e lo inghiottì. 13 Dall'altra parte del finto muro, Draconas aspettava nell'oscurità, che per lui non era tale dato che cominciava finalmente a intravedere qualche barlume di verità. Doveva agire in fretta, poiché, se aveva visto giusto, non gli restava molto tempo. Sapeva che l'incantesimo funzionava ancora perché aveva visto Edoardo cercarlo con lo sguardo. Povero Edoardo, ingannato un'altra volta. Un altro sguardo, molto più penetrante di quello del re, poteva tuttavia scrutarvi attraverso, e quello sguardo non doveva vederlo. Muovendosi adagio per non attirare l'attenzione, Draconas si alzò e si appoggiò con la schiena al muro. Si riempì la mente con l'immagine di una montagna. Si avvolse tutto nelle rocce di una montagna. Diventò una montagna. Edoardo si trovava molto vicino al finto muro, tanto vicino che Draconas avrebbe potuto tendere la mano e toccarlo. Ma non lo fece, neppure per vedere se era vivo o morto. Nascosto nella propria illusione, Draconas rimase a osservare e ad aspettare. Dopo aver reso inoffensivo il re, Melisande si affrettò a raggiungere la Signora e le si inginocchiò accanto. Questa respirava debolmente e a fatica, emettendo a ogni espirazione un suono gorgogliante. Melisande le fece scivolare una mano sotto le povere spalle ossute e le sollevò il capo, appoggiandolo su un lembo drappeggiato del copriletto. «Il pavimento è gelido. Non dovreste stare lì sdraiata. Riuscite ad alzarvi?». La Signora scosse il capo. «Lascia... che riposi un attimo». Melisande era spaventata. L'anziana donna sembrava stare molto male. Afferrandole la mano scarna e rugosa, se la appoggiò contro la guancia umida di pioggia e di lacrime di paura e di rimorso. «Signora, mi spiace così tanto. Avrei dovuto stare con voi. Perdonatemi». «Su, su, Melisande», sussurrò questa. Prese la giovane e morbida mano nella sua, fragile e sottile, e la carezzò con dolcezza, come se ricavasse
piacere dalla sua giovinezza e dal suo vigore. Lo sguardo le corse verso Edoardo, ma non poté vederlo. «È morto?». «Morto o svenuto», disse Melisande gettando un'occhiata incurante al corpo. «Se è morto, ci siamo risparmiati la fatica di giudicarlo. In caso contrario, verrà consegnato alla giustizia per il suo crimine. Adesso vi riporto in camera vostra. Poi andrò a cercare aiuto...». «Non ancora, Melisande», la interruppe affannata la Signora, stringendole la mano e pronunciando ogni parola con grande fatica. «Prima c'è qualcosa che devi fare». Melisande era bagnata fradicia e scossa dai brividi, e stava cominciando a risentire le conseguenze della maledizione del sangue. Temeva che presto si sarebbe sentita troppo debole per riuscire a trasportare la Signora, e non osava lasciarla sola con il suo assalitore. «Farò qualunque cosa mi chiederete, Signora, ma prima permettetemi di portarvi dove starete più comoda...». «Mi stai sfidando, Melisande?» chiese l'altra, sembrando più triste che arrabbiata. «No, Signora», balbettò Melisande. «Sono preoccupata per la vostra salute». «Allora fai come ti dico». La Signora si lasciò ricadere all'indietro, respirando affannosamente. Chiuse gli occhi. Giacque immobile per un istante: era talmente gracile che il battito del cuore la scuoteva tutta. Riaprì di nuovo gli occhi e diresse lo sguardo, sempre più incerto, oltre Melisande, verso l'estremità opposta della stanza. «Avvicinati all'altare». Melisande gettò un'occhiata timorosa al corpo dell'assalitore. Adesso non si muoveva, ma appena un attimo prima le era parso di vederlo agitarsi ed emettere un debole lamento. Non era morto, non lo aveva ucciso. Avrebbe potuto riprendere conoscenza in qualsiasi momento. Melisande si massaggiò le braccia per cercare di attenuarne il tremito. Fu tentata di ignorare l'ordine della Signora, che non era per niente razionale in una situazione del genere, e di trasportarla in camera nonostante le proteste. Poi avrebbe chiamato Bellona, che sarebbe stata in grado di gestire la situazione. Mai come ora Melisande sentiva la mancanza dello spirito intraprendente della compagna. «Melisande», disse la Signora, la cui fievole voce si stava inasprendo. «Ciò che ti chiedo è importante. Avvicinati all'altare». Per tutta la vita Melisande aveva ubbidito agli ordini della Signora, per
amore e per rispetto, non per paura. Non poteva disubbidire ora, soprattutto perché quell'ordine avrebbe potuto essere l'ultimo. Melisande baciò la mano all'anziana donna e gliela rimise sul petto. Gettò ancora una dura occhiata all'uomo per terra: non si era mosso. Forse il lamento che aveva udito era stato l'ultimo. Certa che, almeno per il momento, lui non avrebbe costituito una minaccia, Melisande si diresse verso il fondo della stanza, dov'era collocato l'altare di marmo. La Signora aveva appena energia sufficiente a girare la testa. Gli occhi erano l'unica parte di lei ad avere conservato una certa vitalità e seguivano ogni movimento di Melisande, animati come da una sorta di smania. Anche l'Occhio intagliato nel pavimento la guardava. Giunta davanti all'altare, Melisande si inginocchiò sul tappeto dov'era solita genuflettersi. Nel farlo, barcollò. Lo choc e la fatica, oltre alla maledizione del sangue, contribuivano a renderla debole. Chiuse gli occhi, congiunse le mani stringendole forte e recitò una breve preghiera per se stessa, implorando di poter riacquistare un po' di forza. «Sono davanti all'altare, Signora», disse Melisande, cercando con un grande sforzo di volontà di contenere il tremito nella propria voce. «Cosa volete che faccia?». «Non fare domande, Melisande», rispose la Signora, in tono ansioso, impaziente. «Fai esattamente ciò che ti ordino. Alzati e vai nella nicchia dietro all'altare». Melisande si voltò a guardarla, stupita. Si sentiva vagamente a disagio, anche se non sapeva spiegarne la ragione. La Signora non sembrava più la stessa. «Alzati», insistette la Signora, «e vai nella nicchia». Melisande si alzò vacillando, non del tutto sicura di avere sentito bene. «Solo la Signora dei Draghi può entrare là dentro...». «E tu lo sarai presto, Melisande. Fa' come ti dico». Turbata, Melisande ubbidì. Da quando era entrata per la prima volta in quella stanza come novizia, dieci anni prima, aveva sempre guardato alla buia e misteriosa nicchia dietro all'altare come al luogo più sacro al mondo, sacro e inviolabile, terribile e meraviglioso. Quando aveva osato sognare che un giorno avrebbe potuto diventare la Signora, si era concessa il lusso di immaginare come sarebbe stato tornare lì, salire i tre gradini che separavano la nicchia dal resto della stanza, passare oltre il braciere fumante e prendere posto all'altare, da dove avrebbe guardato i volti delle sorelle radunate attorno all'Occhio, volti rivolti a lei con fiducia e abbando-
no. Quello non era il momento che aveva sognato. C'era qualcosa di sbagliato, qualcosa di sinistro. Lei non era la Signora. Non aveva alcun diritto di stare lì. Melisande avanzò adagio, riluttante, sperando che la Signora cambiasse idea e le ordinasse di fermarsi. Ferma col piede sul primo gradino, si voltò. «Per favore, Signora. Non è giusto. Lasciate che vi riporti in camera...». «Vai avanti, Melisande», le intimò l'altra in tono freddo e tagliente come una lama. Facendo un profondo respiro, nel tentativo di convincersi che ciò che stava facendo non era un sacrilegio, dato che gliel'aveva ordinato la Signora stessa, Melisande salì tutti e tre i gradini ed entrò nella nicchia. La luce del braciere non riusciva a penetrare l'oscurità che vi aleggiava all'interno, da quando quell'alcova era stata scavata nella roccia, centinaia di anni prima. L'oscurità era fredda e compatta, ma non minacciosa, sebbene non fosse neppure gradevole. Melisande cercò di avvertire la sacralità della pace che doveva regnare in quel luogo, ma non sentì nulla. Le ombre sembravano segugi, in attesa di saltarle addosso a un comando del loro padrone. «Che sciocchezze», si disse. «È solo una fantasia creata dalla mia debolezza». Il suo corpo non era più scosso dai tremiti, ma bruciava di febbre. Si voltò di nuovo verso la Signora e si ritrovò a guardare l'Occhio. Era enorme, pareva avviluppare tutta la stanza, e la stava fissando. Melisande si appoggiò con i gomiti sull'altare, congiunse le mani e vi abbandonò contro la fronte che scottava. Doveva essere forte. Se fosse crollata, la Signora si sarebbe ritrovata sola e impotente. «Signora», disse, «perdonate la mia debolezza, ma non mi sento bene. Lasciatemi andare...». «Presto starai di nuovo bene, Melisande», rispose questa. «Starai bene e sarai giovane, forte e invincibile. Apri il sarcofago». «Ma qui non c'è nessun sarcofago, Signora», ribatté Melisande. Il cuore le doleva per la pietà. Capì che la poveretta era sprofondata in quello stato di confusione mentale che caratterizza a volte le persone molto in là con gli anni. «C'è solo un altare di marmo. Adesso vi riporto in camera...». La Signora balzò in piedi. Il copriletto di seta le scivolò dalle spalle a formare una pozza intessuta di fili dorati attorno alle sue caviglie nude. Il suo esile corpo vibrava con intensità.
«Non sei ancora la Signora, Melisande!» gridò, e c'era qualcosa di terribile nel suo tono di voce. «Ubbidisci». Melisande si sentì serrare la gola. La bocca le si inaridì. Se quello era un attacco di follia, sarebbe stato meglio assecondarla, altrimenti avrebbe peggiorato la situazione. «Molto bene, Signora. Solleverò il coperchio del... sarcofago». Melisande fece scorrere le mani sulla lastra dell'altare di marmo, esaminandola con attenzione. L'altare era lungo e stretto e aveva davvero l'aspetto di una tomba, benché lei se ne fosse accorta solo in quel momento. Forse era proprio quello ad avere messo una simile idea nella mente debilitata della Signora. La lastra avrebbe potuto benissimo essere un coperchio, visto che il bordo ricopriva tutto il corpo principale. Alzò lo sguardo e vide che gli occhi della Signora erano puntati su di lei. «Il coperchio è pesante», disse questa, «ma se spingi con forza, aiutandoti con entrambe le mani, riuscirai a spostarlo». Se quella era pazzia, parlava con la voce della ragione. In preda alla nausea per un terrore al quale non riusciva a dare un nome, Melisande appoggiò le mani sulla lastra e spinse con forza, come le era stato ordinato. Il coperchio si mosse. Le mani di Melisande vennero scosse da un tremito, i palmi le si fecero madidi di sudore e la bocca arida. Si sentiva male e temeva di svenire da un momento all'altro. «Spingi più forte», disse la Signora. «No, Signora, vi prego», la implorò Melisande, colta dal panico. «Aprilo!». Con l'ultimo briciolo di energia rimastale, Melisande diede un'altra spinta. Il coperchio di marmo di spostò, cigolando e stridendo. All'interno del sarcofago era buio, un buio profondo e senza fine, come quello definitivo che ci fa chiudere gli occhi per non riaprirli più. L'aria che ne usciva era fredda, e aveva uno strano odore, che non era di umido o di muffa come quello di una tomba, ma un terribile puzzo di sangue. Melisande venne scossa da un conato di vomito e avrebbe voluto tirarsi indietro, per sfuggire alla morte e a quel tanfo di sangue, ma era incapace di muoversi. La paura la attanagliava e la teneva inchiodata là. Il coperchio di marmo continuò ad aprirsi da solo. Tremante, senza volerlo, ma incapace di impedirselo, Melisande guardò nella tomba. Vide la Signora che la stava fissando.
Un brivido di orrore le attraversò il corpo. Non riusciva né a urlare, né a emettere alcun suono. Si afferrò all'altare per non cadere. La Signora giaceva nella tomba. Il suo viso era lo stesso viso caro che Melisande conosceva da sempre, segnato dal trascorrere del tempo, ma su di esso vi era un'espressione di indescrivibile tormento e agonia. L'odore di sangue fresco proveniva da uno spaventoso squarcio che aveva nel petto. Il cuore le era stato strappato dal corpo. Eppure, per qualche arcano potere, la Signora era ancora in vita. Gli occhi che fissavano quelli di Melisande erano orribilmente coscienti. Le mani della donna erano strette a pugno per sopportare quel dolore smisurato. La bocca era spalancata in un urlo silenzioso. Non poteva muoversi. Non poteva gridare. Non poteva respirare. Ma non poteva neppure morire. Da quanto tempo si trovava là? Da quanto tempo era prigioniera di quell'oscurità infinita, prigioniera della sofferenza e del terrore? Melisande spostò lo sguardo sbigottito sull'altra Signora, che adesso si stava dirigendo verso di lei, avvicinandosi sempre più, e seppe che si era trattato di molto, molto tempo. Anni e anni di agonia, di continua oscurità, di insopportabile solitudine, di paura. La Signora aveva tra le mani un medaglione d'oro. Uno dei primi ricordi che Melisande aveva della propria infanzia era il desiderio di voler toccare quel bel medaglione, di volerci giocare. «Ti stai chiedendo cosa ne ho fatto del suo cuore. È qui dentro, Melisande», disse la Signora, facendosi più vicina. «Quando aprirò il medaglione, lei morirà». «Che cosa siete?» gridò Melisande, aggrappandosi alla tomba: vita aggrappata alla morte. «Chi siete?». «Io sono te, Melisande», rispose piano la Signora, tendendo la mano verso di lei, verso il suo cuore che batteva. «Altrimenti, presto morirò». La mano di carne si avvizzì, diventò un artiglio: un artiglio ricoperto di squame e dalle unghie affilate e scintillanti. L'artiglio di un drago. 14 Edoardo si mosse e gemette. Le sue mani si contrassero. Dal suo nascondiglio dietro al muro finto, Draconas bisbigliò brusco: «Restate immobile!».
Con la testa che gli faceva male e la mente confusa, Edoardo ubbidì prontamente. Premette la guancia contro la fredda pietra del pavimento, chiuse gli occhi per proteggersi dalla vivida luce della stanza e sperò che lo stordimento e la nausea passassero. Ascoltò le due donne che parlavano con noncuranza e distacco della sua morte. Era in pericolo, ma non aveva la minima idea del come o del perché. Aveva un vago ricordo di ciò che gli era successo, per quanto nemmeno uno dei particolari che rammentava avesse un senso logico. Ricordava dita snelle e delicate, dalle quali erano partiti raggi di luce accecante che gli avevano bruciato la carne e i vestiti, facendogli correre attraverso il corpo dolorose scariche elettriche. Avrebbe anche potuto non crederci, ma sentiva ancora le ustioni sulla pelle. L'irrealtà di tutta la vicenda rendeva ancora più orribile l'accaduto. Edoardo sperava che Draconas sapesse quello che stava succedendo e che escogitasse un modo per gestire la situazione. Il compito di Edoardo, per il momento, era rimanere cosciente e sopportare il dolore pulsante che avvertiva nella testa. Sussurrò una preghiera a Dio perché lo salvasse e bisbigliò, rivolto a Draconas: «Cosa devo fare?». «Niente, per ora», giunse la risposta. «Restate immobile e in silenzio!». Edoardo ricacciò il saporaccio che si sentiva montare in gola e, trasgredendo l'ammonimento di Draconas, girò impercettibilmente il capo per cercare di vedere e sentire ciò che stava accadendo. «Farò qualunque cosa mi chiederete, Signora, ma prima lasciate che vi porti dove sarete più comoda...» stava dicendo la giovane donna. Buona idea! La incoraggiò tra sé Edoardo, intravedendo un barlume di speranza. Aspettiamo che escano, tutte e due. Streghe o demoni, o qualunque cosa esse siano. Guardò verso la donna che aveva appena parlato e, sebbene avesse la vista un po' offuscata, riuscì comunque a vedere che era molto bella. Le streghe non dovrebbero essere belle, pensò avvolto in una nebbia indistinta di dolore. E nemmeno gli assassini. Ma lei è molto bella... «Mi stai sfidando, Melisande?» chiese la donna più anziana. Melisande. Che bel nome, pensò Edoardo. Mi chiedo cosa significhi. Le si addice. Dio, come mi duole la testa! Chiuse gli occhi, aspettando che l'ondata di nausea che lo aveva assalito si attenuasse, e scivolò per un attimo nell'oscurità, perdendosi ciò che stava avvenendo tra le due donne. Quando riaprì gli occhi, vide che Melisande si trovava accanto all'altare.
La vide che spingeva la lastra di marmo, udì lo stridio prodotto dall'attrito della pietra che sfregava contro la pietra, mentre il coperchio si muoveva. La vide scrutare all'interno e il suo viso farsi livido, come se qualcuno le avesse risucchiato tutto il sangue e la vita dal corpo. Era terrorizzata. Riusciva a malapena a reggersi in piedi. Vide il suo sguardo agghiacciato dirigersi verso la donna più anziana, che stava facendo dondolare in una mano un medaglione d'oro. «Io sono te, Melisande», disse questa, ed Edoardo riconobbe la voce. La voce sibilante, quella nella caverna. La voce dell'assassino. Edoardo sollevò il capo e portò la mano alla spada. Si irrigidì, pronto a balzare in piedi. Una mano si sporse attraverso il muro e si chiuse sul suo polso come una morsa di ferro, impedendogli di muoversi. «Aspettate!» gli ordinò Draconas. Edoardo diede uno strattone al braccio per cercare di sottrarsi alla presa, ma la stretta dell'altro era incredibilmente forte, salda e dolorosa. «Vi dirò io quando», aggiunse Draconas, la voce ridotta a un sussurro, gelido e tagliente. «Le salverete la vita, ma non è ancora giunto il momento. Muovetevi adesso, ed entrambi morirete. Credetemi, Edoardo». Il re esitò. Non aveva alcuna fiducia in Draconas, ma ne aveva ancora meno in se stesso, poiché la testa gli faceva un male terribile e gli rendeva persino difficile pensare. «Se volete salvarla, dovete fare ciò che vi dico io», insistette Draconas. «Voglio salvarla», disse Edoardo, lo sguardo fisso su Melisande. La presa di Draconas si allentò, ma Edoardo sentì ancora la sua stretta ammonitrice sul polso e sorrise mestamente. Draconas non si fida di me più di quanto io non mi fidi di lui. Il re si sdraiò di nuovo a terra con movimenti impercettibili per non dare nell'occhio. Si trattava di una precauzione inutile: entrambe le donne erano del tutto dimentiche della sua presenza, una troppo spaventata per ricordare e l'altra troppo concentrata sulla sua vittima. Edoardo si accinse ad aspettare, anche se non era disposto a lasciar passare troppo tempo. «Non pazienterà molto», disse Draconas tra sé. «Posso contare su di lui? Questo è il problema. Finora si è comportato bene. Ma per questo - per ciò che adesso dovrà affrontare - non sono sicuro che sia pronto. Non sono nemmeno sicuro di esserlo io. Potremmo finire uccisi tutti e due».
«Dovrei andarmene», rifletté. «Dopo aver visto in che modo Maristara riesce a cambiare forma, me la posso svignare. È mio dovere farlo, visto che dovrò informare il Parlamento di ciò che succede. Gli umani moriranno, naturalmente - Edoardo e la donna - e, in effetti, sarebbe meglio per loro che morissero subito, poiché se vivono vedranno quello che non devono vedere. Quello che nessun umano deve vedere». Si trattava di un ragionamento logico, che avrebbe dovuto seguire, ma non lo fece. Sarebbe rimasto per lottare contro Maristara e per salvare gli umani, per un motivo molto semplice: non sopportava l'idea di lasciar vincere il drago. Perciò cominciò a prepararsi e a preparare i suoi poteri magici. «Edoardo», chiamò piano attraverso il muro finto, «quando ve lo dico, correte verso la donna, afferratela e tornate qui di corsa, nella caverna. Poi, tutti e due, continuate a correre senza guardarvi indietro. Indipendentemente da ciò che sentirete, non voltatevi indietro». Melisande si accovacciò dietro al sarcofago, le mani aggrappate al bordo di marmo per non cadere. Come in preda a un malvagio incantesimo, fissava la mano che aveva assunto la forma di un artiglio coperto di squame scintillanti, le cui unghie affilate si protendevano verso di lei. Lo sguardo rosso e incandescente della Signora era puntato sul suo petto, si insinuava tra le pieghe del tessuto scuro e bagnato, che sussultava a ogni battito frenetico del suo cuore. Nella mano che aveva conservato il suo aspetto umano la Signora teneva il medaglione e lo faceva oscillare lentamente, con un movimento ipnotico, avanti e indietro, avanti e indietro. «L'età ha i suoi vantaggi», disse questa, facendosi ancora più vicina e ricorrendo a un tono di voce suadente per calmare la sua vittima. «Ho governato per cinquant'anni in questo corpo, che mi ha servito bene. Ma un corpo si indebolisce, e anch'io con lui. Ho bisogno di giovinezza, di vita, di sangue nuovo. Del tuo sangue, Melisande. Del tuo cuore che batte così vigoroso. La Signora muore. Tu vivrai in quella tomba, sospesa tra la vita e la morte, così come vivrai in me. O piuttosto, per essere più precisi, come io vivrò in te». Con un gesto agile delle dita, aprì il medaglione. Al suo interno c'era un cuore pulsante, il cuore che apparteneva alla donna, il cui corpo giaceva imprigionato nella tomba. Il cuore era piccolo, ridotto per mezzo della magia, perché si potesse adattare al medaglione, eppure era palpitante e fre-
mente di vita. Avvicinandosi a Melisande, che non riusciva a distogliere il suo sguardo terrorizzato dall'artiglio, la Signora lasciò cadere il cuore dal medaglione, facendolo tornare nella cavità sanguinolenta dalla quale era stato strappato. La donna nella tomba boccheggiò, agonizzante. Poi emise un tremulo sospiro, il sospiro di sollievo di chi accoglieva la morte a braccia aperte. Gettò un'occhiata a Melisande, un'occhiata compassionevole e priva di speranza, quindi si irrigidì. Le mani strette a pugno si rilassarono. Lo sguardo assunse la fissità della morte. Il cuore cessò di battere. Il corpo giacque immobile. Mentre la guardava orripilata, Melisande vide se stessa all'interno del sarcofago. Vide il proprio corpo imprigionato là, in quel tormento senza fine e in quell'oscurità insopportabile, prigioniera anno dopo anno, consapevole di tutto ciò che le succedeva intorno, capace di sentire le voci delle sorelle, di sentire, forse, anche l'amata voce di Bellona, e incapace di chiederle aiuto, di toccarla, di far conoscere la verità. La Signora era morta, e con la sua fine moriva il corpo del quale il drago si era servito per così tanti anni. Maristara abbandonava l'inutile carcassa per assumere la sua nuova forma e identità. Il ricordo di Bellona strappò Melisande dal suo abulico stato di panico. «Se devo morire», si disse, «morirò facendo in modo che Bellona sia fiera di me. Non morirò da prigioniera, ma da guerriera». Melisande spostò lo sguardo dal cadavere straziato della donna distesa nella tomba alla vecchia che conosceva da sempre come la Signora. Quest'ultima si stava trasformando, stava cambiando aspetto, abbandonando le sue sembianze umane, spogliandosi della carne come una cicala si spoglia del suo inutile involucro disseccato. La vecchia si stava mutando in un drago. Le mani diventarono artigli affilati, coperti di squame grigioverdi. Il collo si tese, si allungò ed emerse contorcendosi dalle spalle. Le ali spuntarono a poco a poco sulla schiena e si distesero, proiettando la loro ombra nella stanza e nascondendo la luce fiammeggiante del braciere. Le gambe si fecero sottili e si curvarono in dentro per rialzare e sostenere il corpo scintillante che stava crescendo a dismisura. La coda si arrotolava e si srotolava, trascinandosi avanti e indietro per l'eccitazione. Il volto della Signora si scompose e si modificò in quello di una bestia. Gli occhi rossi sfavillarono nelle cavità verde scuro, il naso si protese all'infuori, i denti divennero zanne affilate e la lingua cominciò a guizzare tra le fauci. Melisande non riusciva a comprendere cosa stava succedendo. La mente
si rifiutava di credere a ciò che vedevano gli occhi, ma, a quel punto, comprendere non aveva importanza. Dinanzi a lei c'era un drago, il suo nemico, un nemico che le avevano insegnato a combattere sin da quando era bambina nella nursery ed era solita ammirare i dipinti dei draghi raffigurati sulle pareti del monastero. Il drago non aveva ancora assunto la sua forma definitiva e si stava ancora dimenando per liberarsi dell'aspetto umano dietro al quale si era nascosto. Gli occhi rosseggianti, fissi sul corpo giovane e vigoroso di Melisande brillavano d'impazienza. Il bestione alzò la zampa munita di artigli e la protese sul sarcofago, sopra il cadavere che stava all'interno, con l'intenzione di ghermire il corpo di Melisande, di affondare le unghie nel suo petto e di strapparle il cuore. Il medaglione d'oro mandava bagliori alla luce delle fiamme. Melisande afferrò il coperchio di marmo e con uno sforzo originato dalla paura e dalla rabbia, lo sollevò scagliandolo contro il drago. Poi si mise a correre. «Adesso!» gridò Draconas. Edoardo balzò in piedi. Era rimasto sconvolto quanto Melisande nel vedere l'anziana donna trasformarsi in un drago, ma, al pari di lei, riteneva che comprendere non avesse importanza. Ciò che importava era agire. Il pesante coperchio di marmo si abbatté sulla zampa del drago, schiacciandola. Imprecando, Maristara la tirò indietro di colpo. Poi tentò di agguantare Melisande, ma questa le sfuggì. Il sangue che sgorgava dalla ferita alla zampa si riversò sul pavimento e schizzò le pareti. Melisande si diresse verso la porta. «Non puoi fuggire, Melisande», le disse il drago. Il suo corpo massiccio riempiva quasi tutta la stanza. Le ali sfioravano il soffitto, la coda strisciava sul pavimento, coprendo l'Occhio. «La porta è bloccata da un incantesimo». Melisande vi si gettò contro con un urlo selvaggio. Tirò la maniglia, la percosse con il pugno, ma la porta non cedette. Mentre si girava per dare la schiena alla porta, Melisande vide con stupore e meraviglia Edoardo che le stava correndo incontro. «Da questa parte!» gridò lui. Le tese la mano, e la sua mano conteneva una promessa di vita. Melisande l'afferrò, e insieme si precipitarono verso il muro finto, nel punto in cui si trovava il guanto. Il drago si girò velocemente cercando di agganciare l'intruso con la
zampa ferita, preparandosi a stritolarlo. Edoardo si sottrasse alla presa. Riparando Melisande con il proprio corpo, menò un fendente alla zampa del drago. «Correte!» urlò Draconas, portandosi d'un balzo dalla loro parte del muro. Edoardo rimise la spada nel fodero. Poi si girò e sollevò Melisande fra le braccia, gettandosi in avanti. Il muro incombeva su di loro. Melisande cacciò un grido, poiché sembrava proprio che vi si sarebbero andati a sfracellare contro. Edoardo non aveva tempo per pensare o discutere con la sua parte razionale di cervello o con la sua vista, né tantomeno con Melisande, che si portò le braccia davanti al viso per proteggersi. Così, si precipitò a capofitto verso il muro, portando Melisande con sé. I due passarono velocemente attraverso la finta barriera, piombando dalla luce, dal rumore e dalla confusione in un'improvvisa e completa oscurità. Incapace di vedere, e temendo di andare a sbattere contro un vero muro di pietra, Edoardo tentò disperatamente di rallentare la sua corsa disperata. Ma lo slancio lo spinse in avanti. Inciampò, mettendo male un piede, e ruzzolò a terra, andando a finire con tutto il peso del corpo su Melisande. Nel sentirla gridare, lui si affrettò a rotolare via, temendo di farle male. «Mi spiace, mi spiace così tanto», farfugliò, a malapena consapevole di ciò che diceva. Tese la mano a toccarla. In quel buio, non riusciva a vederla, ma poteva sentirla tremare accanto a sé. «Siete ferita? Mi spiace così tanto...». «Correte!» tuonò Draconas. «Vi prometto sulla mia vita», le disse piano Edoardo, «che non permetterò che vi succeda nulla di male. Mai». Poi la risollevò con dolcezza, mentre lei esitava un attimo prima di aggrapparsi spasmodicamente con le braccia attorno al suo collo. La prese in braccio, e rimasero tutti e due vicini nell'oscurità, con i corpi che si toccavano. Si tennero stretti, lieti di quel calore condiviso, lieti di sentire quel contatto di carne e ossa con altra carne e altre ossa, di sentire il proprio cuore che batteva contro un altro cuore. Tenendosi aggrappati alla vita e l'uno all'altra, fuggirono attraverso la tortuosa oscurità. 15 Draconas attraversò con un balzo il finto muro, poi Si fermò, tenendo la
schiena rivolta verso la roccia: precauzione del tutto inutile, visto che quello non era un muro, ma che lo faceva sentire più sicuro. Le armi di cui disponeva erano il suo bastone, i suoi poteri magici e la sua intelligenza. Il bastone non sarebbe servito a nulla contro la potenza del drago. E i suoi poteri magici altro non erano che trucchi da bambini, se paragonati a quelli dell'avversario. Perciò, per salvarsi, avrebbe fatto affidamento sulla propria intelligenza. Fronteggiò Maristara e la osservò guardingo. Sebbene disprezzasse il suo operato, era costretto a renderle un forzato omaggio. Il sortilegio al quale i draghi avevano fatto ricorso per trasformarlo da drago in umano aveva richiesto giorni di lavoro e di complicati procedimenti, anche se, adesso che la magia era stata compiuta, lui poteva cambiare forma con estrema facilità. Maristara aveva abbreviato in modo considerevole l'intero processo. Era davvero un piano astuto, quello di appropriarsi del cuore di un umano e di usare quello, abbinandolo alla magia, per impossessarsi anche del corpo. Draconas si chiese quante di quelle sventurate donne fossero morte prima che Maristara fosse riuscita a perfezionare le proprie capacità. L'aveva colta in una situazione di svantaggio, nel bel mezzo della sua trasformazione da umano alla forma originale. Draconas poteva comprenderla. Una volta si era trovato lui stesso in un'analoga posizione, posizione che poteva essere paragonata a quella di un uomo sorpreso con le brache calate. L'uomo rimane lo stesso di quando è vestito, ma ciò non toglie che alcune sue parti importanti e vulnerabili siano esposte. La testa del drago si abbassò fino a lui, curvando il lungo collo sinuoso. «Dunque», disse Maristara, parlandogli con la mente, come sono soliti fare i draghi, mentre lo scrutava con i suoi occhi rosseggianti, «voi siete Draconas, il camminatore». Draconas notò che la parola «camminatore» era accompagnata da una verde sfumatura di scherno. «Camminatore» era un termine dispregiativo tra gli appartenenti alla sua specie, e si riferiva a un drago che cammina come un umano, tra gli umani. Draconas avrebbe potuto restituire l'insulto, ma ciò avrebbe significato stare al gioco di Maristara, mentre lui aveva un suo piano da seguire. Doveva essere paziente, aspettare il momento giusto, evitare di agire prematuramente. Maristara l'aveva riconosciuto subito per ciò che era davvero. I suoi occhi vedevano l'uomo, ma la sua mente vedeva l'ombra: il drago. E così lo
vedevano tutti gli altri draghi. Ma il particolare interessante era che lei non aveva proiettato la propria ombra nella mente di lui allo stesso modo. Lui non si era accorto che l'anziana donna era un drago finché non aveva cominciato a trasformarsi. Lui aveva visto la forma umana, non l'ombra. Il che la rendeva enormemente pericolosa, giacché nessun drago avrebbe potuto smascherarla quand'era nascosta nel corpo di un umano. Draconas frugò la mente di lei con la propria, cercando di saggiarla, così come uno schermitore cerca di saggiare l'avversario. Era un guazzabuglio di colori: il rosso-dorato dell'aspettativa e il fiammeggiante arancio della collera e dello sdegno, smorzato da una fredda corrente sotterranea azzurro ghiaccio di astuzia. Poteva sentire - oltre il respiro sibilante del drago - lo scalpicciò di piedi dei due umani che stavano cercando di districarsi attraverso le gallerie buie come la pece, scalpiccio reso frenetico dalla paura. Erano ancora troppo vicini. Doveva guadagnare tempo. Anche Maristara li udiva. Udiva il suo nuovo corpo che le sfuggiva, ma non era preoccupata. Non sarebbero mai riusciti a trovare una via d'uscita, in quelle gallerie. Li avrebbe inseguiti e catturati con comodo. La sua preoccupazione immediata era Draconas. Stava cercando di adescarlo, sperando di suscitare in lui una reazione per vedere come si comportava, per vedere i colori della sua mente. Gli occhi di lei cercarono di agganciare i suoi, ma lui fu pronto a evitare la lama penetrante di quello sguardo. Quando i draghi si affrontano in combattimento, la lotta è tanto fisica quanto mentale, poiché ciascuno dei contendenti cerca di penetrare, attraverso lo sguardo dell'altro, nella sua anima. «Tirare di scherma con l'occhio dello stocco», un drago aveva definito una volta quel tipo di lotta. Se Draconas avesse avuto il suo aspetto di drago ci avrebbe pensato su due volte prima di impegnarsi in uno scontro con Maristara, poiché lei era più anziana ed esperta. A maggior ragione doveva essere cauto adesso, dato che i suoi deboli occhi umani non sarebbero stati in grado di competere con lei. Perciò, lasciò correre lo sguardo tutt'intorno come se fosse del mercurio, evitando di fissarla, ma non perdendone di vista ogni singolo movimento. «Che camminatore astuto», commentò Maristara. La mutazione da umano a drago era quasi giunta al termine. La massa ingombrante del suo corpo era troppo grande per quella stanza e la intralciava ulteriormente. Era costretta a tenere abbassati il lungo collo e la testa massiccia. La cresta grattava contro il soffitto di pietra. Le ali si torcevano
e vibravano per la frustrazione, poiché rientra tra gli istinti di un drago il ricorrere alla loro enorme estensione per intimidire la preda, mentre lei non lo poteva fare, pena il rischio di danneggiarle contro le pareti rocciose della stanza. Era costretta ad avvolgere la coda voluminosa attorno alle zampe posteriori, dato che non c'era spazio sufficiente a trascinarsela dietro, e questo contribuiva a rallentarle i movimenti. Aveva già assunto l'aspetto esteriore di un drago, ma la sua trasformazione non era del tutto completa. Draconas non avvertiva ancora puzzo di zolfo, né udiva il brontolio delle fiamme nelle sue viscere. Il fuoco doveva ravvivarsi, il respiro riscaldarsi. Ciò nonostante, era pericolosa e letale. I suoi denti avrebbero potuto tranciarlo a metà, i suoi artigli smembrarlo. Un movimento brusco del polso, un morso di quelle fauci, e sarebbe morto. La testa di lei si fece più vicina, mentre parlava, cercando di distrarlo con un caleidoscopio di colori turbinanti, di abbagliarlo, di fargli dimenticare se stesso, di costringerlo a guardarla negli occhi. «Quindi, voi conoscete il mio segreto. Cosa ne pensate, Draconas? Quanti giorni di incantesimi sono occorsi al Parlamento per conferirvi l'aspetto di un umano? Quanti minuti occorrono a me per fare la stessa cosa? E dunque, come pensate di fermarmi? Non ci riuscirete, Draconas. Per centinaia di anni ho preparato le mie difese, mentre voi e il Parlamento dormivate. Adesso sono troppo forte. Non potete sconfiggermi. Cosa farete? Niente, è ovvio, perché non c'è niente da fare». Draconas colse un sentore di zolfo. Era a malapena in grado di udire lo scalpiccio di passi dei due fuggitivi. «I vostri pensieri se ne vanno in giro veloci come un cento-piedi, Draconas», continuò Maristara. La sua testa oscillò, si abbassò e scartò bruscamente. I suoi occhi cercarono di catturare quelli di Draconas, che però la evitarono con prontezza. Stava disperatamente cercando di penetrare nella mente di lui per impadronirsi dei suoi pensieri, così come avrebbe voluto penetrare nel petto della giovane donna, per impadronirsi del suo cuore. Poi balzò in avanti di scatto, con un movimento così rapido e imprevedibile che gli artigli affilati strapparono il corpetto di cuoio di Draconas. Questi si sottrasse alla presa lanciandosi in una capriola all'indietro e atterrando morbidamente sulle ginocchia. Quindi, spiccando un salto verso l'alto, colpì il soffitto della caverna con la punta del bastone, attraverso il quale fece scorrere una delle sue magie. Sulla pietra si formarono larghe crepe. Frammenti rocciosi cominciarono a staccarsi e a cadere.
Draconas si girò e se la diede a gambe. Udì le imprecazioni del drago e lo schianto rovinoso della volta che cedeva. Un'ondata di detriti, polvere, terra e schegge di roccia invasero la stanza. Draconas continuò a correre più forte che poté, con le braccia, le gambe, il cuore e l'adrenalina che pompavano, nel tentativo di sottrarsi alla frana. Quello era sempre stato il punto debole del suo piano, e cioè che avrebbe potuto soccombere a quanto lui stesso aveva provocato. La forza che gli derivava dall'essere un drago gli consentiva un'incredibile velocità, ed egli corse lungo la galleria, precedendo di un passo appena le rocce che crollavano. Schegge di pietra, affilate come punte di freccia, gli trafissero la carne, e la polvere, che si era venuta a produrre durante il crollo, quasi lo soffocò. Ma ecco che poco più avanti nella galleria vide i due fuggitivi, i quali, per non smentire la loro umana stupidità, si erano fermati a osservare ciò che stava succedendo. Draconas li raggiunse di gran carriera. Poi, avvolgendo le robuste braccia attorno alle loro spalle, li fece distendere sul pavimento della caverna e li coprì con il proprio corpo, mentre un'ondata di detriti e di polvere li travolgeva. Draconas era di nuovo in piedi prima ancora che la polvere si fosse depositata del tutto. «Alzatevi!» ordinò. Edoardo si mise a sedere, semisoffocato e in preda a un accesso di tosse. «Avete ucciso il drago?» chiese, affannato. «No», si limitò a dire Draconas. «Alzatevi, tutti e due. Dobbiamo muoverci». Sputacchiando polvere, Edoardo cercò a tentoni nell'oscurità finché non trovò la donna. Si chinò ansioso su di lei e le prese la mano. Lei si mosse, alzò il capo, poi ricadde all'indietro. Lui l'attirò a sé con dolcezza e la strinse tra le braccia. «Non può continuare, Draconas. È troppo debole, è ferita...». Lasciando cadere a terra il bastone, Draconas sollevò il corpo floscio della donna. «Fate piano...» disse Edoardo, in tono sollecito. Draconas non aveva tempo per fare piano. Si caricò la donna sulle spalle in modo da poterla tenere per le gambe, lasciando la testa e le braccia a ciondolargli sulla schiena. «Datemi il bastone», ordinò. «Non potete portarla così», protestò Edoardo, raccogliendo il bastone.
«Lei non è...». «Sì che posso, e lei è», ribatté Draconas. Poi si rimise a correre. «Restatemi vicino. Se vi perdete, rimarrete solo. Non tornerò a cercarvi». Dietro di sé sentiva il drago che artigliava e raspava il mucchio di macerie che, fortunatamente, bloccava l'accesso alla caverna. Aveva guadagnato un po' di tempo, ma non si trattava che di minuti, di preziosissimi minuti. «Lasciate che la porti io», insistette Edoardo. «Avrete già il vostro bel da fare a badare a voi stesso», replicò Draconas. Quasi a conferma di ciò che gli era appena stato detto, Edoardo inciampò su un sasso e andò a finire a terra lungo e disteso. Draconas rallentò l'andatura e tese le orecchie per assicurarsi che il re non si fosse fatto male. Sentendo che inveiva con voce soffocata e lottava per rimettersi in piedi, proseguì. Edoardo lo raggiunse incespicando. «Quando saremo fuori da tutto questo», disse, col respiro affannoso, «mi prenderò la soddisfazione di mandarvi a finire con le chiappe a terra». «Spero che ne abbiate l'opportunità», replicò Draconas. Era preoccupato. Non sentiva più il drago. «Che volete dire?». Quel silenzio significava calma. Significava riflettere, macchinare, programmare. «Niente di buono», rispose cupo. Si addentrarono ancora di più nella caverna. Edoardo si teneva vicino e tendeva la mano a toccare sia Melisande sia Draconas, per accertarsi che l'una fosse calda e respirasse e che l'altro non si fosse allontanato in quell'oscurità soffocante. Draconas continuò ad avanzare perché non aveva altra scelta. O quello, o mettersi seduto a lanciare imprecazioni, il che poteva far bene allo spirito, ma sarebbe stato di ben poco aiuto dal punto di vista pratico. Non aveva idea di cosa stesse tramando il drago. Maristara non poteva lasciarli scappare. Sapevano troppo. Doveva fermarli. L'unico punto a loro favore era che si trovavano nella sua tana. Se gli umani fossero stati soli si sarebbero subito persi, e Maristara li avrebbe catturati. Ma erano in compagnia di un drago, che conosceva bene le caverne dei draghi e che sapeva come ciascuna di esse fosse dotata di più di un'uscita. Draconas si muoveva rapido con Edoardo che gli teneva dietro, benché risultasse evidente, dal suo respiro affannato, dai discorsi confusi e dai
passi incerti, che il re non avrebbe potuto proseguire a lungo. Quando la galleria lungo la quale stavano procedendo giunse a una biforcazione, Draconas si fermò. Edoardo gli andò a sbattere contro, ma si raddrizzò subito, posandogli una mano sulla spalla. «Che succede?» chiese, con appena il fiato sufficiente a formulare la domanda. «C'è qualcosa che non va?». Agli occhi di un umano, entrambe le gallerie sarebbero apparse uguali: buie e desolate. Agli occhi, agli orecchi e al naso di un drago erano completamente diverse. Quella che proseguiva dritta era rischiarata solo da una debole luce ed emanava un'aria fetida. A giudicare dalla pendenza, doveva condurre verso il basso, alla base della montagna. L'altra galleria era un po' più illuminata, proseguiva diritta e in piano e da essa fuoriusciva un soffio d'aria fresca. «Ci siamo persi, non è vero?». Edoardo si lasciò cadere a terra, appoggiò la testa contro il muro e chiuse gli occhi. Era prossimo a quel pericoloso stato di dolore e di stanchezza in cui non ci si preoccupa più né di vivere né di morire. Draconas si lasciò scivolare la donna dalla spalla e la depositò sulle ginocchia di Edoardo. «Credo di aver trovato il modo di uscire. Vado a dare un'occhiata. Cercate di riscaldarla», gli ordinò Draconas. «Abbracciatela. Tenetela stretta». Quello avrebbe dovuto restituirgli un po' di vita, si disse Draconas. Melisande si mosse, emise un gemito e fece un respiro profondo. Si raggomitolò più vicino a Edoardo in un istintivo bisogno di calore. Edoardo fece per abbracciarla, ma esitò. Sembrava che non sapesse dove mettere le mani. Aveva ricevuto un'educazione da gentiluomo, era stato rimpinzato di storie d'amor cortese, quel tipo di sentimento che ammira la bellezza da lontano e che rimane casto e puro fino alla morte. «Probabilmente ha subito uno choc», disse Draconas. «Certo che, con quegli abiti fradici e lo spavento che ha avuto, potrebbe anche morire di freddo». «Andrà tutto bene, Melisande», disse Edoardo piano, abbracciandola. «Sono qui e non permetterò che vi accada niente di male». Mentre Draconas osservava i due, nella sua mente prese forma un'idea. L'idea era strampalata e disperata, e non gli piaceva. L'abbandonò immediatamente, sentendosi in colpa per averci pensato. Ma, quasi come un motivetto fastidioso che continua a suonare nella testa, quell'idea non se ne voleva andare.
«Aspettate qui», disse, anche se non era necessario, visto che nessuno dei due umani avrebbe avuto la forza di alzarsi. Poi, incamminandosi in direzione della luce e dell'aria fresca, si allontanò. Draconas avanzò con circospezione. Non vide alcun segno che facesse pensare alla presenza del drago. Era probabile che, dopo avere costruito un'uscita centinaia di anni prima, Maristara non avesse più usato quella galleria. Tuttavia l'aveva costruita, servendosi sia dei suoi artigli sia dei suoi poteri magici. Si potevano ancora vedere i segni delle scanalature, le raschiature sui muri, e i punti in cui lei era ricorsa alla magia per praticare una breccia nel granito, punti in cui la pietra si era fusa e aveva assunto un aspetto vetrificato. Draconas si disse che l'intera montagna doveva aver tremato a causa di quelle esplosioni, le cui onde d'urto si erano presumibilmente propagate attraverso la valle di Seth e nei territori circostanti. Gli umani dovevano averle ritenute fenomeni naturali: terremoti e altre calamità del genere. Se avesse cercato negli annali di storia, avrebbe sicuramente trovato un riscontro alla sua ipotesi. Si stava avvicinando a un'uscita. Persino un appartenente alla specie degli umani, notoriamente dotati di un senso dell'odorato quasi inesistente, sarebbe stato in grado di avvertire l'aria fresca. Le pareti della galleria correvano diritte e senza sporgenze. Draconas avanzò in silenzio, furtivo, tenendo tutti quanti i sensi all'erta. Ed ecco: l'apertura verso l'esterno era là, dinanzi a lui. La pioggia era cessata, ma la notte era agitata e ventosa. Draconas poteva udire il picchiettare delle gocce che cadevano dai rami di pino ogni volta che questi venivano investiti da una raffica di vento. La luna brillava nel cielo. Le nuvole si rincorrevano, nascondendola a tratti alla vista, per poi allontanarsi veloci e farla riapparire di nuovo. Nel chiarore dei raggi lunari, Draconas fu in grado di scorgere degli alberi, e si sentì sollevato. Aveva temuto che l'apertura fosse stata ricavata nel fianco della montagna, il che avrebbe significato trovarsi davanti uno strapiombo di oltre di trecento metri per chi, come loro, non possedeva ali. Gli alberi indicavano la presenza di terreno solido, di una sporgenza, di un modo di allontanarsi di lì. Draconas sperava di trovare una caverna poco profonda o una fitta macchia di alberi: un posto qualunque dove poter mettere al sicuro i suoi due compagni, per consentire loro di riposare e recuperare le forze, prima di intraprendere il viaggio che li avrebbe condotti a valle. Avrebbe preferito
una grotta, poiché gli sarebbe stato facile riscaldarla con la magia. La prospettiva di fermarsi sulla montagna di Maristara non lo preoccupava, purché non fosse dentro la sua tana. Adesso che era tornata a essere un drago, lei avrebbe potuto esplorare il fianco della montagna e scoprirli, ma non l'avrebbe fatto. Doveva continuare a nascondere la sua vera natura a coloro che aveva ingannato per così tanti anni. Si era cacciata da sola nei pasticci. Rinvigorito da un senso di ben meritata soddisfazione, Draconas si avventurò all'aperto. Venne subito fermato da un muro di fiamme, che divamparono tutt'intorno a lui. Il calore era intenso e si sentì bruciare la pelle. Alzò il braccio per proteggersi, poi il cervello prese il sopravvento. Le fiamme svanirono, insieme al calore. Si trattava di un'illusione, nient'altro che di un'illusione. Le fiamme avrebbero potuto fermare gli umani, anche se non per molto, purché fossero stati astuti abbastanza da vedere ciò che aveva visto Draconas, e cioè che quel fuoco scoppiettante nasceva direttamente dalla roccia. Maristara stava perdendo colpi. Avrebbe almeno dovuto creare l'illusione di qualche materiale capace di alimentare il fuoco. Draconas si accinse ad attraversare la barriera infuocata, ma si fermò. Un uomo, con indosso un informe abito nero, era uscito dall'ombra degli alberi, fissando con attenzione le fiamme, che gli si riflettevano negli occhi scuri e allucinati. I raggi della luna brillavano sul suo capo rasato. Draconas trattenne il respiro ed emise un impercettibile fischio. Ancora una volta aveva sottovalutato Maristara. Il finto fuoco non era stato concepito come barriera, ma come segnale d'allarme. «So che sei lì, lurido figlio dell'inferno», gridò il monaco. «E lo sa anche Dio!». Poi alzò le braccia scarne al cielo. «E io lo invoco perché ti colpisca...». Draconas buttò a terra il bastone e si catapultò a testa bassa contro il monaco, centrandolo con la spalla al plesso solare. In tal modo, sperava semplicemente di sbilanciare l'avversario, impedendogli di fare un incantesimo. Ma con suo grande stupore, lo vide crollare a terra, accompagnato da un preoccupante rumore di ossa che si fratturavano. Draconas ebbe l'impressione di essere andato a sbattere contro un fascio di ramoscelli secchi. Disgustato, cercò di rimettersi in piedi. Il monaco respirava producendo uno strano sibilo e dalla bocca gli usci-
va sangue a fiotti. Poi cominciò a contorcersi, il corpo scosso dagli spasmi, infine emise un suono gorgogliante e morì. Draconas venne colto dalla nausea. Aveva ancora nelle orecchie il rumore di quelle ossa che scricchiolavano, udiva il rantolo d'agonia del monaco, quando le sue costole spezzate gli erano penetrate negli organi vitali. Ricacciando il saporaccio che gli era salito in gola, Draconas si chinò a esaminare il corpo. Le ossa del monaco erano sottili come aghi di larice. La testa avrebbe potuto essere quella di un cadavere, tanto era scarna. Sentendo dei passi alle sue spalle, Draconas balzò in piedi e si girò di colpo, andando quasi a sbattere contro Edoardo, che era là, sulla soglia della caverna, vacillante e con la spada in pugno. «Un altro monaco!» esclamò, fissando il corpo senza vita. «Dov'è la donna?» chiese Draconas. Edoardo si voltò a guardare la caverna, come se questa fosse depositaria di tutti i tesori inimmaginabili dell'umanità. «Là dentro», rispose, con la voce che gli si addolciva. «Non avreste dovuto lasciarla». Draconas lo spinse da parte e si diresse di nuovo verso l'interno. «Ho udito delle voci e ho visto le fiamme», ribatté Edoardo. «Ho pensato che forse avevate bisogno di aiuto». «Be', non ne avevo», replicò Draconas, lanciando un'occhiata di disgusto al monaco. «Il vostro compito era occuparvi della donna. Aspettate qui. La vado a prendere...». Sentendosi toccare la spalla, si girò, e si trovò davanti il pugno di Edoardo, che lo colpì alla mascella. La botta lo fece vacillare, sebbene non lo mandasse a finire col sedere per terra, come gli era stato promesso. «Lei ha un nome. Si chiama Melisande», disse Edoardo. Poi si rimise la spada nel fodero e si avviò a grandi passi verso l'interno della caverna. Draconas aspettò fuori, massaggiandosi la mascella dolorante e pensando che Edoardo cominciava a piacergli. Ed era un peccato, un vero peccato. 16 Maristara rimase sconvolta nel vedere il suo nuovo corpo che le sfuggiva, più sconvolta che arrabbiata, almeno all'inizio. Gli eventi si erano letteralmente abbattuti su di lei. Un attimo prima era sul punto di strappare il cuore da un umano e l'attimo dopo il soffitto le crollava addosso.
Draconas, il camminatore. Quell'intrigante di un camminatore. E quel pivello, Braun. C'era lo zampino di tutti e due in quello che era successo. Il figlio avrebbe dovuto morire col padre. Be', a tempo debito, le cose si sarebbero aggiustate. Maristara adesso era calma. Si era sentita così irritata, così infuriata nel vedere andare in fumo i suoi piani, che per poco non aveva perso la testa, lasciandosi accecare dalla rabbia. Era stata quasi sul punto di ricorrere ai suoi poteri magici per togliere di mezzo la frana che ostruiva il passaggio nella caverna, e inseguire gli umani, dando loro la caccia come a dei parassiti, eruttando le sue fiamme nelle gallerie, intossicandoli con il fumo e riducendo in cenere la loro miserabile carne. Si era fermata, appena in tempo. L'esplosione sarebbe stata sentita da tutti nel monastero e da una buona metà degli abitanti di Seth. Le sorelle sarebbero entrate in agitazione, avrebbero pianto e gridato e preteso delle risposte, avrebbero invocato la guida e l'aiuto della Signora... e non ci sarebbe stata nessuna Signora. Solo il cadavere incartapecorito di una vecchia con uno squarcio nel petto. E un drago. Maristara girò le spalle al cumulo di macerie, contorcendo e strizzando il corpo ingombrante nel piccolo spazio limitato del Santuario, e rifletté sul da farsi. «Lasciamo che se ne vadano, per il momento, quegli umani e il camminatore». Quelle parole le rotolarono con odio sulla lingua. «Non arriveranno lontano. Ci penserò io a fermarli. Per prima cosa, bisogna che ci sia una nuova Signora dei Draghi. Chi devo scegliere?». Passò mentalmente in rivista le sorelle, studiando, selezionando, scartando. E finalmente trovò quella che faceva al caso suo. «La rivale di Melisande, ovviamente!» esclamò Maristara. «Proprio quella che ci vuole. Il suo sguardo è offuscato dalla gelosia e dalla brama. Non perderà certo tempo a chiedersi...». Il drago soffiò sul fuoco che ardeva nel braciere e lo spense. Poi si accoccolò al buio, tenendo il medaglione in una delle zampe anteriori, fissò lo sguardo sulla porta e, con la voce flebile e morente della precedente Signora, chiamò piano: «Lucretta. Vieni da me, Lucretta. Ho bisogno di te». Bellona si risvegliò al suono di passi davanti alla sua porta. Quando sen-
tì bussare, era già fuori dal letto. «Comandante!». «Sì, che c'è?» chiese sottovoce per non disturbare Melisande. «Vi mandano a chiamare dalla stanza della Signora. Dovete andarci subito. Si tratta di una questione urgente». L'alba era vicina. Una luce pallida e grigia illuminava la camera. Bellona gettò un'occhiata per vedere se Melisande si era svegliata, ma si accorse che il letto dalla sua parte era vuoto. Tese la mano e lisciò il cuscino, che conservava ancora l'impronta della testa dell'amata. «Dunque, è successo», disse tra sé. «Povera Signora. Eppure ha vissuto una lunga vita. Che possa raggiungere le schiere benedette di coloro che vegliano su di noi e ci proteggono». «Comandante...». «Eccomi», rispose Bellona, alzandosi e afferrando la morbida casacca che indossava sotto l'armatura. «Puoi entrare. Non ci sono problemi con gli uomini, vero?» domandò bruscamente. Una giovane guerriera spalancò l'uscio e fece il suo ingresso nella stanza. «No, comandante. La convocazione viene dalle guardie della Signora». Bellona annuì e sospirò. Le venne in mente che avrebbe dovuto recarsi fino al valico per indagare sulla presenza di quegli strani intrusi. Era ovvio che avrebbe dovuto rimandare la spedizione, visto che Melisande avrebbe avuto bisogno di lei al monastero. La Signora era morta. Bellona sapeva che quel momento sarebbe giunto. Aveva creduto di essere preparata all'evenienza, ma adesso che si era verificata si sentiva profondamente rattristata. Nel corso della propria vita non aveva conosciuto altra Signora che quella. Era stata lei ad assistere alla sua nascita e a vederla crescere e trasformarsi da bambina ribelle, sempre pronta a cacciarsi nei guai, in un soldato noto per la sua abilità e il suo coraggio. Era stata lei a promuoverla all'attuale rango di comandante. Ora Melisande ne avrebbe preso il posto, e Bellona era felice per la sua amata. Ma, per il momento, c'era da piangere quella morte. «È dura, non è vero, comandante?» chiese piano la giovane guerriera. «Sì, decisamente». Bellona si ricosse. Quel giorno, l'aspettava un'infinità di cose da fare, a cominciare dallo scortare gli uomini fuori dal complesso. Non dovevano sospettare che fosse successo qualcosa. «Aiutami a indossare l'armatura».
Mentre l'altra le agganciava la corazza riccamente decorata, sopra la casacca, Bellona si rese conto di non essersi svegliata quando Melisande era uscita dalla camera. Di solito dormiva di un sonno profondo, anche se aveva abituato il suo fisico a destarsi al minimo rumore. Doveva esserci stato un colpo secco alla porta, alcune parole bisbigliate, Melisande che si vestiva. «E io ho continuato a dormire», si disse stupita Bellona, irritandosi con se stessa. «Avrei dovuto stare vicina a Melisande, aiutarla con le mie preghiere e il mio amore, se non altro». Nell'uscire dalle baracche, Bellona si imbatté in un gruppo di guerriere che parlottavano a voce bassa e che rivolsero subito lo sguardo verso di lei, con un'espressione turbata sul viso. Vedendo che indossava l'armatura completa, si scambiarono occhiate preoccupate. Alcune scossero il capo. Altre distolsero rapidamente gli occhi. Una si passò la mano sul volto, come ad asciugare una lacrima. «Non si sa ancora niente», disse loro Bellona. «Andate a riposare un po'. Ne avrete bisogno». Le guerriere fecero come era stato loro ordinato e si avviarono verso le baracche. Normalmente, quando smontavano dal servizio, erano allegre e rumorose, impazienti di concedersi un pasto sostanzioso e una bella dormita. Quel giorno, invece, erano quiete e silenziose. «Ci farete sapere, comandante?» le chiese una, mentre si allontanava. Bellona agitò la mano, temendo di commuoversi se avesse parlato, e continuò per la sua strada. La squadra incaricata di scortare gli uomini fuori dal monastero si stava già disponendo in formazione al comando di Nzangia. Questa scattò sull'attenti davanti a Bellona e, a un suo cenno, si avvicinò. «Devo affidare a te quest'incarico. Sono stata chiamata al capezzale della Signora», le disse sottovoce. «Lo so. Ero là quando è giunta la chiamata delle guardie. Temete...». «Temo il peggio», rispose cupa Bellona. «Melisande è stata convocata durante la notte. Fa' in modo che gli uomini vengano accompagnati fuori di qui al più presto. Non permettere a nessuno di parlare con loro e di' alle tue guerriere di cancellare quell'aria da funerale dalle facce. Non voglio che gli uomini intuiscano che c'è qualcosa che non va. Se dovesse succedere, tutta la città ne sarebbe informata nel giro di un paio d'ore, mentre noi dobbiamo avere il tempo di prepararci». Nzangia annuì: aveva compreso perfettamente. Radunò intorno a sé le
guerriere della sua squadra e insieme si allontanarono; poi, subito dopo, Bellona le udì chiamare con voce decisa gli uomini, ordinando loro di alzarsi e vestirsi. Era tempo di partire. Bellona gettò una rapida occhiata sulle mura e vide che le sentinelle erano di guardia e che, all'apparenza, tutto sembrava normale. Notò solo un piccolo particolare che la irritò: due di loro si erano fermate a chiacchierare, invece di fare il proprio dovere. Si ripromise di fare loro un appunto non appena le si fosse presentata l'occasione, dopodiché si affrettò verso gli appartamenti della Signora. I vialetti erano bagnati e fangosi. Il ramo di un albero, caduto a causa del temporale, giaceva accanto al gong di ferro. Le gocce di pioggia picchiettavano sull'elmo di Bellona, mentre lei passava sotto gli alberi. I boccioli delle rose, saturi di pioggia, erano chini sui lunghi steli, a piangere la dipartita della Signora. Nel vedere Bellona che si avvicinava, le guardie davanti alle doppie porte che immettevano agli appartamenti della Signora, scattarono sull'attenti. Il loro saluto, di solito vigoroso, fu lento e solenne. Si muovevano adagio, evitando di fare rumore. «Cos'è successo, Daniela?» domandò Bellona a voce bassa. «Non lo so con certezza, comandante», replicò la guardia. «Questa mattina, quando siamo entrate in servizio, una delle sorelle è venuta a dirci di mandarvi a chiamare immediatamente». «Una delle sorelle», ripeté Bellona. «Non sai quale?». «Aveva il capo velato, comandante», rispose l'altra. «E il viso coperto». «Allora, la Signora dev'essere morta», disse Bellona. Le sorelle avrebbero portato tutte il velo in segno di lutto, nascondendosi il volto, per trenta giorni. «È quello che abbiamo supposto, comandante». Povera Melisande, pensò Bellona, mentre si incamminava lungo il buio corridoio. Aveva dovuto affrontare tutto da sola. Quanto doveva essere stato duro per lei, vegliare la moribonda e darle un ultimo addio, senza nessuno al suo fianco. Doveva essere esausta. E bisognava ancora comunicare la notizia al re e predisporre le cose, affinché gli abitanti di Seth potessero venire al monastero a rendere omaggio alla nuova Signora. Devo fare in modo che Melisande si riposi un po', altrimenti si ammalerà. Almeno non ci sarebbero stati né veglia funebre, né esposizione pubblica del corpo, né funerale. La Signora rivestiva una tale importanza per la sicurezza di Seth che la
fondatrice della Congregazione aveva stabilito che nessuno dovesse vedere le spoglie mortali della Signora, dopo il suo decesso. «È vero che la Signora dei Draghi è mortale», aveva dichiarato la primissima Signora. «Ma non deve essere percepita come tale da coloro che dipendono da lei per la loro stessa esistenza. Devono sapere che il loro futuro è in buone mani e, per questo motivo, vedranno sempre e solo la Signora mentre è in vita. Ordino pertanto che il corpo della Signora venga immediatamente bruciato dopo la sua morte, alla sola presenza di chi ne prenderà il posto, e che le sue ceneri vengano sparse sopra l'Occhio sacro, nel Santuario». «Ho sempre pensato che si trattasse di un'usanza ben strana», osservò tra sé Bellona, mentre avanzava silenziosa lungo il corridoio troppo tranquillo. «Sembrava quasi una mancanza di rispetto nei confronti del morto. Ma ora comprendo. Se la gente vedesse il cadavere della Signora potrebbe nutrire dei dubbi. Potrebbe spaventarsi e chiedersi se colei che la sostituirà si mostrerà all'altezza del compito. Invece, così, nessuno avrà il tempo di farsi assalire da paure strane. Al posto della precedente c'è una nuova Signora, pronta a prendersi cura di tutti». Bellona si chiese se Melisande avesse già svolto quella triste incombenza. I dettagli su dove e come doveva avvenire la cremazione erano tenuti segreti. Solo Melisande ne sarebbe stata a conoscenza, ma un giuramento sacro le imponeva di rivelarli solo in punto di morte. Con animo triste e abbattuto, Bellona raggiunse la porta che immetteva negli appartamenti della Signora. Non fu sorpresa di trovarla aperta. Probabilmente Melisande la stava aspettando. Sarebbe stata addolorata per quella morte, ma non avrebbe mostrato cedimenti. Bellona ne era più che sicura. Un breve abbraccio e qualche lacrima, poi ciascuna si sarebbe presa carico delle nuove mansioni e avrebbe continuato la propria vita. Sebbene fosse già mattina, nella camera della Signora era rimasta accesa una lampada. Le pesanti tende erano ancora chiuse, tenendo fuori la luce del giorno. Entrando, Bellona gettò un'occhiata verso il letto. Era vuoto. Bellona sospirò e ricacciò indietro le lacrime. Una donna, con il volto coperto da un velo diafano, sedeva allo scrittoio. Forse doveva essere stata occupata a scrivere, perché sul ripiano davanti a lei c'erano mucchi di incartamenti, ma la penna adesso le era caduta di mano. La donna sedeva, immersa nelle sue cupe fantasticherie, lo sguardo fisso nel vuoto. Non si voltò all'ingresso di Bellona, anche se quasi sicuramente aveva udito il suono dei passi e il cigolio della sua armatura.
«Signora...» disse piano Bellona che, per quanto provasse un profondo rammarico, sentiva il cuore cantarle in petto nel rivolgersi a Melisande chiamandola con il suo nuovo titolo. La donna girò il capo, poi portò le mani al velo e lo sollevò. Bellona la fissò sbalordita. «Lucretta! Non mi aspettavo... Dov'è Melisande?». Bellona era perplessa, ma non eccessivamente preoccupata, per quanto le sembrasse strano che Melisande avesse mandato a chiamare proprio Lucretta per farsi aiutare, e non una qualunque delle altre sorelle. Lucretta era sempre stata gelosa di Melisande, fin da quando erano bambine. Né graziosa né attraente, dotata di una natura cinica e ostile, Lucretta era una di quelle persone sempre convinte che gli altri parlino male di loro. Era alta e magra e il suo viso ossuto aveva sempre un'espressione corrucciata, quasi a voler dire: «So che mi odiate, perciò sono io la prima a odiare voi». Benché avesse appena ventott'anni, ne dimostrava quaranta. Il suo continuo cipiglio aveva lasciato il segno. Le guerriere la chiamavano «la prugna secca» o a volte «la pudibonda», poiché era risaputo che non aveva mai avuto un'innamorata. Non solo aveva respinto ogni avance, ma aveva anche tenuto interminabili prediche sui peccati della carne alle poche che avevano osato avvicinarla. L'unico elogio che le si poteva fare era che si dedicava anima e corpo alla Congregazione. Era stata a lungo convinta di essere lei la prescelta a diventare la nuova Signora e si era molto risentita per il fatto che la preferenza fosse andata a Melisande. Lucretta non rispose alla domanda di Bellona e la fissò con un sorriso altezzoso e sgradevole. Un bagliore dorato attirò l'attenzione di Bellona: Lucretta portava al collo il medaglione sacro che poteva essere indossato solo dalla Signora. Un freddo senso di nausea la assalì. «Dov'è Melisande?» chiese, avanzando di un passo. «Fate bene a chiedermelo, comandante», replicò Lucretta, in tono arrogante, alzandosi in piedi. «Se n'è andata». I suoi occhi, che avevano la stessa slavata tonalità di grigio della pelle, erano piccoli e cattivi e adesso scintillavano per qualche intimo piacere. Alzando la mano, si mise a giocherellare con il medaglione. «Andata?». Bellona non riusciva a capire. «Cosa volete dire con "se n'è andata"?». Un pensiero le attraversò la mente: «Sta assistendo alla cremazione...». «No», rispose Lucretta. «Melisande se n'è andata dal monastero». Indu-
giò, divertendosi a tenerla in sospeso. «Melisande è scappata con un uomo, il suo amante. È venuto a prenderla durante la notte». «Non vi credo», ribatté Bellona con voce incolore. Lucretta si girò. Tese la mano e scostò un poco le tende, poi guardò fuori dalla finestra, come se stesse cercando la fuggitiva. «Se n'è andata da parecchie ore. Chi lo sa dove può essere adesso?». Bellona attraversò a grandi passi la stanza. Le mani le prudevano dalla voglia di afferrare la donna per quella sua gola scarna e di strozzarla. «Dov'è Melisande? Cosa le avete fatto? Ditemelo, o quant'è vero che esiste l'Occhio, io vi...». «Voi, cosa, comandante?». Lucretta si voltò e fissò il suo sguardo penetrante su Bellona. «Posereste le vostre mani profane sulla Signora?». Bellona la fissò con odio, le mani strette a pugno. «Poiché io sono la Signora dei Draghi», continuò Lucretta con detestabile disinvoltura. «Mi trovavo con la Signora quando è morta. Ho pensato io alla cremazione. Ho sparso le sue ceneri. Melisande ha abbandonato il suo posto. Ha rinunciato ai suoi doveri. Ha lasciato che la Signora morisse sola. L'ha tradita». Lucretta sorrise tristemente e aggiunse in tono di finta pietà: «Ha tradito tutti coloro che l'hanno amata e hanno avuto fiducia in lei». «Non vi credo», ripeté Bellona. «Melisande non avrebbe mai fatto ciò di cui l'accusate. Amava la Signora. Avrebbe dato la vita per lei. Non l'avrebbe mai lasciata morire da sola». Bellona osservò Lucretta. La donna era cambiata. Non aveva mai posseduto una tale facilità di linguaggio, né era mai stata così loquace e autorevole. Le si avvicinò di un passo. «Avete fatto qualcosa a Melisande. Non so cosa. Forse l'avete uccisa. La odiavate abbastanza per farlo. Indagherò. Non mi importa se voi siete la Signora. E non sarò l'unica. Le sorelle vogliono bene a Melisande. Tutte quante le vogliono bene, così come detestano voi!». «Ciò che pensano di me non ha importanza», replicò Lucretta con una calma altezzosa che fece ammattire Bellona. «Ciò che pensate di me non mi interessa. A ogni modo, indagate pure. Farete solo del male alla vostra amata Melisande, non a me. Poiché io ho le prove». Bellona non avrebbe mai osato aggredire una delle sorelle, ma aveva i mezzi per intimidire chiunque, e li usò in quel momento, facendosi avanti e servendosi del suo corpo forte e muscoloso per mettere alle strette quella
donna, tutta pelle e ossa, e gridarle in faccia. «Dov'è Melisande? Cosa le avete fatto?». Lucretta non si mosse, né batté ciglio. Fissò impassibile gli occhi lividi di rabbia di Bellona e ripeté calma: «Ho le prove. Ve le mostrerò se riacquisterete il controllo di voi stessa. Anzi, devo mostrarvele. Visto che vi manderò a cercarla per ucciderla». Bellona fissò intensamente Lucretta, alla ricerca di un segno che le facesse capire che mentiva, ma non lo trovò. La sua rabbia sbollì, lasciandola fredda e intontita, con in bocca un sapore di cenere. Il cuore le batteva forte. Aveva difficoltà a respirare, a pensare. Rimase là, sprofondata in una sorta di stupore, le mani che si chiudevano e si aprivano, cercando di riportare sensibilità alle dita intorpidite. «Mostratemele», disse con una voce resa sorda dal dolore. Senza dire una parola, Lucretta uscì dalla camera della Signora. Bellona la seguì, senza sapere dove si stesse dirigendo, non preoccupandosene. Il suo cervello le offriva le prove, il suo cuore le rifiutava. Era costretta a credere e tuttavia non poteva credere. Conosceva Melisande, la conosceva bene, meglio di quanto conoscesse se stessa. Melisande era lei, una parte di lei. Le era più cara di un' amica, più vicina di una sorella. Melisande che giaceva tra le sue braccia, calda, amorevole e arrendevole, dolci baci notturni, tenerezza e fremente passione da togliere il respiro. Come poteva essere stato tutto una menzogna? Era possibile che, durante tutto quel tempo, lei avesse sentito sul suo corpo le mani del suo amante invece delle sue? Era il volto di lui che vedeva al culmine dell'orgasmo? Era il nome di lui che sussurrava? Era quello il vero motivo per cui si era sentita così stanca nelle ultime settimane? Perché si incontrava di notte con lui, concedendoglisi senza riserve? Ora che le si erano destati i sospetti, Bellona pensò al tempo che avevano trascorso insieme e, d'un tratto, certe parole lasciate cadere, certe frasi non terminate, certe azioni che non erano sembrate importanti diventarono dense di sinistri significati. Ammettiamo che tutto questo sia vero, le diceva la logica, ma come faceva il suo amante a introdursi nel monastero? Dove si svolgevano i loro convegni amorosi? Il posto era ben sorvegliato. Nessuno lo sapeva meglio di Bellona, che avrebbe scommesso la propria vita sulla lealtà e sulle capacità delle sue guerriere. Un barlume di speranza si riaccese tremolante nell'immensa oscurità del suo dolore. Avrebbe sentito le spiegazioni di Lucretta, e poi avrebbe deciso se crederle o meno.
Si riprese abbastanza da notare che Lucretta la stava conducendo al Santuario dell'Occhio. Il calore all'interno della sala era soffocante. Sul braciere era stata impilata parecchia torba, mista a incenso. Eppure, dietro a quel profumo intenso, Bellona avvertì il puzzo del sangue e venne colta da conati di vomito. Non vide alcun segno di resti carbonizzati o altri indizi che facessero pensare che là era stato bruciato un corpo, ma il puzzo non lasciava dubbi. Un'urna dorata con decorazioni a sbalzo in argento era stata collocata sull'altare di marmo. Bellona le lanciò un'occhiata, poi abbassò lo sguardo in segno di rispetto. L'agitazione causatale dalla sparizione di Melisande le aveva fatto dimenticare che la morte si era portata via la donna che aveva amato, onorato e riverito per così tanti anni. Bellona venne assalita dalla vergogna e dal senso di colpa, e si sentì ancora più infelice. Lucretta si avvicinò all'Occhio intagliato nel pavimento. Poi si voltò e guardò Bellona con un sottile sorriso sarcastico. «Ebbene?» chiese questa, con aria di sfida. «Perché mi avete portata qui?». «Guardate nell'Occhio», le disse Lucretta. Bellona indietreggiò. «Sapete che non mi è concesso farlo...». «Vi do io il permesso. Per questa volta. Guardate nell'Occhio e vedrete la verità. A meno che», aggiunse Lucretta, incurvando le labbra, «non abbiate paura». Bellona esitò. Avrebbe voluto proclamare con rabbia che non aveva paura, che la sua fiducia in Melisande e nel suo amore avrebbe dimostrato la falsità di quelle prove, quali che fossero. Eppure, d'un tratto, si sentiva spaventata. Molto spaventata. L'Occhio non poteva mentire, e Bellona non voleva vedere. Voleva tenersi aggrappata al suo amore, alla sua fiducia, al suo orgoglio. «È vostro dovere, comandante», le disse la Signora. Solo pochi mesi prima, uno degli uomini scelti per l'accoppiamento era riuscito a introdurre dell'alcol nel monastero. In preda all'ebbrezza, aveva cominciato a picchiare la donna che gli era stata destinata come partner. Mentre tentava di calmarlo, Bellona si era accorta che l'altro aveva con sé anche un coltello. Aveva visto il luccichio della lama mentre cercava di colpirla. Non potendo evitare la coltellata, si era preparata a riceverla, a sentirsi trapassare le carni, ma aveva fatto in modo che non la colpisse al cuore. Si inginocchiò davanti all'Occhio.
Lucretta si inginocchiò dall'altra parte, di fronte a lei. «Rivela ciò che hai visto», ordinò. Le immagini si muovevano rapidamente ed erano sfocate, incomplete, ma esplicite. Un uomo di bell'aspetto, un forestiero a giudicare dagli abiti, era in piedi in quella stessa sala. C'era anche Melisande, pallida in viso, tremante, con un'aria spaventata, come se fosse sul punto di morire. Ma d'altra parte, non era forse così? Doveva essere pienamente consapevole dell'enormità del suo crimine. L'uomo tese la mano a Melisande, e lei fradicia di pioggia, con l'abito nero che le si incollava al corpo - corse da lui. Lo sconosciuto la prese tra le braccia e la portò... L'Occhio si richiuse. Le immagini svanirono, ma Bellona sentì che avrebbe continuato a vederle per sempre. Chiuse gli occhi e chinò il capo. Il dolore che avvertiva era simile a una bestia rabbiosa, lasciata libera dentro di lei, che le artigliava gli organi vitali, glieli lacerava, strappando e squartando. La sofferenza causata dalla perdita e dal tradimento era insopportabile, e Bellona avrebbe voluto morire in quel preciso momento, se le fosse stato possibile. Tuttavia si alzò e, con uno sforzo sovrumano, costruì una gabbia attorno a quella bestia, imbavagliò le sue urla di dolore e di rabbia. «L'ha incontrato qui nel Santuario, questo è chiaro», disse Bellona, mostrando una calma fredda e terribile. Puntò lo sguardo su Lucretta. «Ma come ha potuto entrare quell'uomo senza che nessuno lo vedesse? E dove se ne sono andati?». Lucretta si alzò, con movimenti sgraziati e maldestri del corpo spigoloso. Poi si appoggiò le mani sullo stomaco inesistente e arricciò le labbra. «La Signora dei Draghi possiede conoscenze che altri non hanno. So come è entrato e come tutti e due sono riusciti a fuggire. Ma questi dettagli a voi non servono...». «Invece sì, se devo inseguirli», ribatté Bellona in tono tagliente. «No, non ne avrete bisogno», ripeté Lucretta. Alzò gli occhi e incrociò quelli di Bellona. «Vi mostrerò dove trovare le loro tracce. Venite». Tese la mano sottile e ossuta con l'intento di posare le sue dita fredde su quelle di Bellona. «Torneremo in camera mia. Ho una mappa...». Bellona si ritrasse per evitare quel contatto. «Prego, andate avanti Signora. Vi seguo». Lucretta si incamminò e uscì dal Santuario con tutta la maestà che il suo corpo scarno e la sua goffa andatura le permettevano. Bellona la seguì, con la bestia rabbiosa ben chiusa nella sua gabbia.
Per tenerla tranquilla, per impedirle di farla a pezzi, Bellona cominciò a nutrirla con il proprio odio. 17 Prima che la grigia luce del mattino cominciasse a diffondersi nel cielo, portandosi via le stelle e riducendo la lucente sfera della luna a una pallida cialda, piatta e inconsistente, Draconas aveva già portato al sicuro i due umani, facendoli nascondere in una grotta poco profonda, scavata nel fianco della montagna. Melisande si lasciò cadere a terra. Sofferente per lo choc e l'orrore causatole dall'attacco del drago e dal terribile pensiero che avrebbe potuto trovarsi lei, adesso, a giacere in quella tomba insanguinata, non riusciva a togliersi dalla mente quelle mani strette a pugno, quella bocca spalancata in un muto grido di dolore, quegli artigli del drago e quel medaglione d'oro. Non aveva idea di dove si trovava, né avrebbe saputo dire come ci era arrivata. La fuga attraverso l'oscurità le sembrava irreale. Quegli uomini che l'avevano portata via erano strani e le incutevano paura. Le avevano salvato la vita, ma per quale motivo? Perché erano venuti fin là? La loro presenza non aveva senso e le pareva assumere un significato sinistro. Non era mai stata molto in compagnia di uomini, solo di quelli che venivano al monastero per l'accoppiamento, e lei aveva sempre provato una sorta di disgusto per quelle mani grandi che afferravano e per la manifesta bramosia che traspariva dai loro occhi. Dopo essersi trascinata in un angolo della piccola grotta, si sedette con la schiena contro il muro, le braccia strette ad abbracciarsi il corpo, a osservare i suoi due compagni con circospezione. «Dovremmo accendere un fuoco», disse Edoardo. «Guardatela. Sta tremando». Lo sguardo che posò su di lei era ansioso e preoccupato. Era un uomo dall'aspetto piacente, doveva ammetterlo. Gli occhi color nocciola, punteggiati di pagliuzze dorate, brillavano d'ammirazione per lei, e questo le riscaldava il cuore, seppure contro la sua volontà, e l'aiutava a cancellare l'orrore di quella notte. Lui aveva affrontato il drago per difenderla. Le era parso onesto e sincero; ciò nonostante, lei si chiedeva quale fosse il motivo che l'aveva condotto fin là. «È troppo pericoloso», disse Draconas. Quell'uomo dagli occhi scuri, cupo e taciturno, la guardava a malapena e, nelle rare occasioni in cui il suo sguardo indugiava su di lei, Melisande
vi scorgeva una luce di freddo apprezzamento, come se si chiedesse in che modo avrebbe potuto servirsi di lei. Devo andarmene, decise Melisande. Sì, Edoardo, voi siete molto bello e attraente, ma non mi ispirate alcuna fiducia. E di sicuro nemmeno il vostro amico. Se credete che io vi sia debitrice per avermi salvato, vi sbagliate. Non vi devo niente. Mentre devo tutto alla mia gente. Le devo la verità. Devo tornare da lei per informarla, metterla in guardia. Siete stanchi, disse in silenzio, rivolgendosi ai due uomini. Vi addormenterete, e allora io me ne andrò. Doveva cercare di tranquillizzarli. Doveva far loro credere che era debole ed esausta, il che non le sarebbe stato difficile, pensò con un malinconico sospiro. Mise le braccia attorno alle ginocchia piegate e vi appoggiò la testa. Poi chiuse gli occhi, escludendo i due uomini dalla sua vista. Edoardo si mise a sedere a sua volta, sistemandosi come meglio poteva sulla nuda terra, e soffocò un lamento. «Pensate che abbia qualcosa che non va?» chiese preoccupato. «Sembra così... malata». «Starà bene», rispose Draconas con aria assente, assorto nei suoi problemi. «È giovane e robusta. Ha solo bisogno di riposo». Edoardo annuì. Anche lui non poteva certo dire di stare bene. «Dovreste dormire un po'», gli consigliò Draconas. «Vado a prendere i cavalli». «Avete detto che è troppo pericoloso accendere il fuoco. Non lo è ancora di più andarsene in giro a cercare i cavalli?». «Me la caverò», lo rassicurò Draconas. «Devo farlo. O forse avete in programma di farvi a piedi tutta la strada fino a Ramsgate, portandovi la donna tra le braccia?». Edoardo avvampò. La testa gli doleva. Si sentiva stordito e in preda alle vertigini, e arrabbiato, giustamente arrabbiato. Era stato usato, gli avevano mentito, ed era tempo di porre fine a tutto ciò. «Ditemi una cosa, Draconas. Mi avete condotto fin qui per trovare questa Signora, che avrebbe dovuto scacciare il drago che minaccia le mie terre. E cosa ci troviamo? Un drago! E mi è parso di capire che voi non ne siete tanto sorpreso...». «Ma l'abbiamo fatto!» esclamò Melisande, alzando il capo. La fiamma azzurra si era spenta nei suoi occhi, lasciandoli di un limpido colore blu, appena offuscato. «Li abbiamo tenuti lontani, i draghi. Li abbiamo combattuti e uccisi. Tutti tranne...». Le labbra le tremarono. Rabbrividì e si strinse le braccia attorno alle gambe, sforzandosi di riprendere il controllo.
«Sì, Melisande, li avete uccisi», intervenne Draconas, in tono calmo e gentile. «E chi è stato a insegnarvi le arti magiche per uccidere i draghi? La vostra Signora: un drago». Melisande alzò appena la testa e gli lanciò un'occhiata furtiva. L'altro non la stava guardando. Teneva lo sguardo fisso fuori dal loro rifugio, verso l'alba che stava nascendo, il canto degli uccelli, il profumo degli aghi di pino calpestati e il vento che sospirava contento, ora che il temporale era passato. «Non stavate proteggendo le vostre terre, Melisande», continuò Draconas. «Stavate proteggendo il vostro drago». Melisande non rispose. Non si mosse. Sperava di far credere di essersi addormentata. I suoi pensieri erano come un gran pantano. Cercò di farsi strada in mezzo al fango, ma non riuscì a tirare fuori nemmeno un solo pensiero da quella terribile melma, senza che un altro la risucchiasse ancora più a fondo. Aveva bisogno di tempo per pensare, per elaborare. «Credo che stia dormendo», disse piano Edoardo. «Anche voi dovreste farlo», gli consigliò Draconas, alzandosi e stiracchiandosi. «Vado a prendere i cavalli. Sarete abbastanza al sicuro, mentre starò via. Non avranno ancora messo insieme una squadra per la ricerca. La staranno organizzando». Edoardo lanciò un'occhiata a Draconas. «Dormire è la cosa peggiore che si possa fare quando si ha un trauma alla testa. Ho sentito Gunderson raccontare di uomini col cranio spaccato, che si erano addormentati e mai più svegliati». Fece una pausa e aggiunse rapido, mentre Draconas si accingeva a partire: «Non vi ha sorpreso vedere il drago, non è vero? Anzi, io credo che ve lo aspettaste». «Oh, ero sorpreso, invece», replicò Draconas. «Questo nostro viaggio non è stato altro che una sorpresa dopo l'altra». Poi uscì. Edoardo avrebbe voluto balzare in piedi e gridare: «Non potete andarvene così, caro il mio signore! Ho altro da dirvi!» ma era troppo stanco, troppo malandato. Lasciamolo andare, pensò, e non si preoccupò del fatto che potesse anche non tornare. Con spirito cavalleresco, Edoardo scelse di sistemarsi quanto più lontano da Melisande gli consentisse lo spazio angusto della grotta, il che non era molto. Si coricò sulla dura terra, tenendo lo sguardo fisso su di lei. Aveva intenzione di stare sveglio per fare la guardia, ma gli occhi gli si chiusero ben presto contro la sua volontà. Fece un profondo sospiro e scivolò in un
sonno irregolare e agitato. Draconas uscì dalla grotta e si allontanò di alcuni passi, dando loro il tempo di addormentarsi. Aveva davvero intenzione di andare a recuperare i cavalli, ma non subito. Fletté i muscoli delle gambe e delle braccia e risanò le poche ammaccature e ferite del suo corpo. Era stanco, ma non esausto. Avrebbe potuto andare avanti parecchi giorni senza dormire. Ciò di cui aveva bisogno adesso era il cibo. Non avendo previsto di stare via per molto, avevano lasciato tutte le provviste nelle bisacce sui cavalli. E poi c'era Braun. Draconas doveva ancora fare il suo rapporto. Probabilmente, il drago era impaziente di sentire cos'era accaduto. Avrebbe dovuto aspettare ancora. Per prima cosa, Draconas voleva schiarirsi un po' le idee. Dopo una mezz'oretta, tornò silenzioso dentro la grotta per dare un'occhiata ai due umani. Erano entrambi addormentati. Edoardo era disteso sulla schiena, con un braccio flesso sul petto. Continuava a borbottare e a contrarre il viso: doveva sentire ancora male. Melisande giaceva su un fianco, con le gambe piegate e un braccio a coprire il volto, quasi a nasconderlo. Naturalmente, non avrebbe voluto assopirsi. Aveva in mente di scappare per fare ritorno dalla sua gente. «Coraggiosa», la elogiò in silenzio Draconas, chinandosi su di lei. «Ma sciocca». Dopo essersi assicurato che fossero entrambi immersi nel sonno e che non si sarebbero svegliati nel sentirsi toccare, Draconas si apprestò a fare quanto gli era possibile per curare le loro ferite. Maristara non li avrebbe lasciati andare, non con quello che sapevano. Avrebbe mandato qualcuno a cercarli, o magari sarebbe venuta lei in persona. Quei due dovevano essere in grado di spostarsi. Draconas aveva il potere di autoguarirsi, come fanno tutti i draghi, che utilizzano un misto di magia e di concentrazione mentale per annullare le conseguenze negative di qualsiasi trauma, tranne i più gravi. La magia diffonde calore in tutto il corpo, alleviando il dolore. I draghi sono in grado di far rallentare il battito cardiaco per arrestare le emorragie, sia interne che esterne. Possono indurre nel loro corpo uno stato di immobilità profonda per consentirgli di rigenerare e riparare organi colpiti, ossa fratturate e tendini spezzati. Draconas era capace di fare tutto questo con se stesso, e l'aveva già fatto in passato. Gli umani erano talmente sprezzanti del pericolo
e tenevano in così poco conto il loro benessere. L'esistenza vissuta in mezzo a loro era densa di minacce. Draconas non riusciva a guarire gli umani come guariva se stesso. Non poteva far sì che i loro organi si rigenerassero, per esempio, ma poteva ridurre i traumi e far rallentare un cuore che correva troppo o farne accelerare uno che perdeva colpi. Poteva cauterizzare le ferite con un semplice tocco, lasciando la cicatrice, ma eliminando il processo infettivo. Poteva aggiustare piccole fratture. Stando a una rigorosa interpretazione delle leggi dei draghi, era consapevole che, curando gli umani, si intrometteva nelle loro vite, ma di solito trovava il modo di giustificarsi. E stava attento a non far mai sapere loro che li aveva aiutati. Per fortuna, molti di essi attribuivano l'improvviso miglioramento al fatto di essersi riposati o di possedere una tempra robusta, o alla combinazione di entrambe le cose. Draconas posò le sue mani esperte sulle brutte ferite che Edoardo aveva alla testa e lasciò che i suoi poteri magici fluissero nell'altro, facendolo sprofondare ancora di più nel sonno. Il viso contratto in una smorfia di dolore si distese, il re si rilassò e il respiro gli si fece più regolare. Draconas continuò a frugare e cercare, ma non trovò altre lesioni. Perciò, si spostò accanto all'altra paziente. I traumi di Melisande erano superficiali: graffi, tagli e piccole ammaccature, nulla più. Era la sua anima ad avere ricevuto la ferita più grave. Draconas poteva curarle il fisico, ma, in quanto all'anima, avrebbe dovuto farcela da sola. Poteva solo tenerla al caldo e confidare che l'intelligenza e il coraggio che aveva dimostrato nel lottare contro il drago l'aiutassero a continuare la lotta. Una volta portato a termine i suoi compiti, li lasciò e uscì dalla grotta per incontrarsi con Braun. «Tutto questo è terribile», disse cupo il drago. «Molto peggio di quanto pensassimo. Non riesco a crederci». I due draghi comunicavano mentalmente. Poiché la giornata era tersa e senza nubi, Braun non aveva ritenuto opportuno sorvolare quella zona, per paura di essere visto da Maristara. Perciò aveva trovato rifugio sulla cima di un'altra montagna, il più vicino possibile al Monte Sentinella. Guardando nella mente di Braun, Draconas vide un groviglio di brutti colori: dello choc misto a disgusto e ripugnanza; della rabbia mescolata a sgomento, e anche un sottile rivolo rosso di paura, che attraversava tutto quanto. Draconas scrutò più a fondo e, alla fine, fu soddisfatto. I sentimenti del
giovane drago erano sinceri, non contraffatti. Draconas aveva nutrito qualche sospetto nei confronti di Braun. Non era la prima volta che si sentiva parlare di parricidio tra i draghi. La loro era una storia di sangue, soprattutto ai tempi in cui la vita del pianeta che abitavano era agli albori, molto prima che gli umani imparassero a camminare eretti. Il complice di Maristara era un maschio. Forse quel complice era il nipote. Draconas fu lieto di scoprire che i suoi sospetti erano infondati. Braun era giovane. Non aveva ancora acquisito l'arte di saper nascondere le proprie emozioni. «Se trapelano le voci di ciò che sta succedendo a Seth, se altri umani scoprono che i draghi rapiscono i loro bambini per costringerli a un'esistenza di tormenti e di torture, si arrabbieranno molto. I loro governi invieranno i soldati a cacciarci. I massacri e le uccisioni non si conteranno». Intendeva riferirsi ai massacri degli umani, ma anche i draghi sarebbero morti. Era inevitabile, soprattutto tenendo conto che l'ingenuità degli uomini sembrava prenderci gusto a inventare nuovi modi sempre più sofisticati per ammazzare. «Cos'avranno in mente Maristara e quel demonio del suo complice?» chiese Braun, infuriato. «Non riescono a vedere il pericolo?». «Lo vedono», rispose Draconas. «E lo desiderano». Una vibrante ondata di sdegno, seguita da una fredda calma, prese possesso della mente del drago. «Certo!» esclamò Braun. «Che sciocco! Agitazioni e disordini lavorano a loro favore. Vogliono destabilizzare la società degli umani, per poi sguinzagliare quei falsi monaci dotati dei magici poteri dei draghi per assumerne il controllo». «Si impadroniranno di un regno qui, di una nazione là», osservò Draconas. «A quanto ne sappiamo, controllano già un regno. E sospetto che si siano impadroniti anche di un altro: quello dove portano i bambini rapiti. Sei riuscito a vedere dove andava il carro con i neonati?». «Si sono inoltrati nella foresta che costeggia il fiume. Da lì hanno preso le barche e li ho persi di vista. Ho sorvolato il fiume nelle due direzioni, ma non ne ho trovato traccia». «Gli argini del fiume sono fitti di alberi. Potrebbero aver ormeggiato le barche in qualunque punto lungo la riva ed essersi diretti verso l'interno. Non li troveremo mai. È come cercare un ago in un pagliaio». «Mio padre li aveva trovati», disse Braun. «Ed è per questo motivo che l'hanno ucciso».
«Sapeva troppo», convenne Draconas. «E adesso anche noi. Sarà meglio essere cauti, amico mio. Stai attento a ciò che dici e a chi lo dici». «Dovrò informare il Parlamento...». «No!» lo ammonì bruscamente Draconas. «Dillo ad Anora e a nessun altro». Braun rimase in silenzio e la sua mente assunse un colore grigio cupo. «Credete che ci possiamo fidare di lei?». «Dobbiamo», disse Draconas con voce piatta, aggiungendo, dopo averci ripensato un attimo: «Credo di sì». «Come potete essere così sicuro? Io, a questo punto, credo di non essere più sicuro di niente», ribatté Braun. «Quei monaci praticano la magia dei draghi maschi: la magia da combattimento. Il sortilegio che mi ha fatto il primo monaco gli era stato insegnato da un drago maschio. Le donne, come quelle che ti hanno attaccato, conoscono solo la magia da difesa. Bisogna dire che Maristara e il suo complice sono stati molto astuti a suddividere le cose in questo modo. Così, nessun umano acquisirà troppo potere». «Quindi, voi pensate che siano coinvolti solo in due?». «Non lo so per certo. Spero che ce ne siano solo due», si limitò a dire Draconas. «Se ce ne sono altri...». Lasciò la frase in sospeso. «Dovrai spiegare bene ad Anora che non dovrà dire niente a nessuno. Non le piacerà. Vorrà informarne il Parlamento, e questa è una cosa che non deve fare. L'unico nostro vantaggio sul nemico è che lui non sa esattamente quello che sappiamo. E intendo continuare così. Anora dovrà decidere da sola ciò che deve essere fatto». «Ciò che deve essere fatto?» chiese Braun, in tono frustrato e impotente. «Immagino che potremmo attaccare questo sventurato regno di umani, distruggerlo, bruciarlo fino alle fondamenta e sotterrare ciò che è rimasto affinché nessuno lo trovi mai». «E cosa avresti ottenuto, a parte il massacro di qualche migliaio di umani? Maristara si limiterebbe a starsene nascosta nella sua tana finché non ce ne siamo andati, per poi volarsene via in cerca di un altro regno. E inoltre ti lasceresti scappare il suo complice, visto che non abbiamo la più pallida idea di chi si tratti. Gli abitanti di queste terre sarebbero in tumulto e la notizia che centinaia di draghi hanno distrutto un intero regno abitato da umani si diffonderebbe in tutto il continente. Come tu hai detto, i loro governi ci scaglierebbero addosso i loro eserciti e noi finiremmo per cacciarci proprio nella trappola che stiamo cercando di evitare».
«Cerchiamo almeno», aggiunse Draconas, «di costringere Maristara a darsi un po' da fare per ucciderci». «Sono contento che troviate tutto questo divertente», disse Braun in tono gelido. «Oh, sì. Da quando quel monaco mi ha quasi messo fuori combattimento, non ho più smesso di ridere». Draconas rimase a sedere pensieroso, assorto nelle proprie riflessioni. «Mettiamola in un altro modo», disse Braun tutto d'un tratto. «Se voi foste al posto di Maristara, cosa fareste adesso?». «Fare?» Draconas si strinse nelle spalle. «Non molto. Perché dovrei? Cercherei di eliminare questi due umani, naturalmente. Conoscono la verità su di me e potrebbero intrufolarsi di nuovo nelle terre di Seth, mettendo a repentaglio quanto ho costruito finora». Rimase in silenzio, scrutando con sguardo vigile il fianco della montagna e il cielo. Al sorgere del sole, riuscì a vedere Braun: un'aggraziata figura alata, appollaiata sulla cima di un'altura che si stagliava contro una nuvola bianca e vaporosa. «Avete un piano», disse il drago. «Lo vedo nella vostra mente. Si tratta di un buon piano». «No, non lo è», ribatté Draconas, irritato con se stesso. Non aveva avuto intenzione di far conoscere il suo piano. Era convinto di averlo tenuto ben nascosto, ma apparentemente si era sbagliato. «Ci sono troppe variabili. E ci vorrebbero vent'anni per realizzarlo». «Parlate come un umano», commentò Braun in tono sprezzante. «Cosa sono vent'anni per noi? Un battito di ciglia e niente più». «Ma contravviene a tutte le nostre regole. No, non va bene», tagliò corto Draconas. «Non possiamo prenderlo in considerazione». «E che mi dite di quei bambini che avete visto rapire? Quali spaventosi tormenti dovranno affrontare per mano di quei mostri? E quella povera donna sepolta viva nella tomba? Quanti umani sono morti per mano di Maristara? Quanti ancora ne moriranno se gli umani e i draghi si combatteranno?» domandò Braun. «Lo so, dannazione!» ribatté Draconas. «Non occorre che tu me lo dica». «Riferirò il vostro piano ad Anora», disse Braun. «Credo che lo approverà. Anche se nel frattempo decidiamo di prendere altre iniziative, questo piano potrà costituire per noi un ottimo ripiego». «Ricordale che qui stiamo parlando di vite umane», aggiunse Draconas.
«Lo farò», replicò Braun in tono gentile. «Parecchie migliaia di vite umane». Non era esattamente ciò che Draconas intendeva dire, e fu quasi sul punto di chiarire, quando venne interrotto dall'altro. «C'è del movimento, a terra». «Truppe?» domandò Draconas. «Sì, stanno attraversando il valico». «E dove si dirigono?». «Verso di voi», disse Braun. La tana di un drago è per il suo occupante ciò che la tela è per un ragno. Il ragno avverte anche la più infinitesimale vibrazione di ogni singolo filo. Analogamente, il drago sa cosa succede in ogni sua galleria. Maristara doveva aver avvertito il calore emanato dal fuoco magico e udito il grido agonizzante di quel miserabile monaco. Sapeva dove cercarli, se non proprio dove trovarli. «In quanti sono?». «Una trentina». «Più numerosi di quei monaci pazzi?». «Sono soldati. Scorgo lo scintillio delle loro armature». «Quanto ci vorrà prima che ci raggiungano?» «Si stanno spostando a cavallo, e anche rapidamente per ora, visto che sono sulla strada. Presto dovranno abbandonarla per addentrarsi in una gola rocciosa, e la loro andatura subirà un notevole rallentamento. Direi che avete un paio d'ore prima che giungano nelle vicinanze. Sarete in grado di fronteggiarli?». «Certo. Anzi, mi daranno addirittura una mano. Uno dei miei umani, la donna, non si mostra troppo collaborativa». Il drago spiegò le ali e si alzò in volo, sfruttando le correnti d'aria calda. «In tal caso, se non vi serve aiuto, vado a riferire ad Anora. Spero di essere di ritorno al più presto». «Fai con calma», gli gridò dietro Draconas. «Pare che abbiamo tempo, tutto il tempo del mondo». «Un battito di ciglia», replicò Braun. Il drago volò via, dirigendosi a sud. Draconas rimase a osservarlo mentre si allontanava. Poi gettò un incantesimo sul loro rifugio, facendolo confondere con la parete rocciosa tutt'intorno. «Questo dovrebbe tenerli al sicuro per un po'», si disse. «Un battito di ciglia».
Quindi si avviò in cerca dei cavalli. 18 Draconas rimase fuori dal rifugio, nascosto in un boschetto di pioppi. Sul fianco dell'altura di fronte a lui, al di là di una profonda gola, elmi, corazze e lance scintillavano sotto il sole del mezzogiorno. Draconas osservò i soldati che avanzavano nella sua direzione con passo regolare. La sua vista acuta di drago colse i vari dettagli. Tutti i soldati erano donne e tra loro non c'erano monaci pazzi. Ogni guerriera era armata di arco e frecce, oltre che di lancia. Portavano con sé dell'acqua, ma non avevano altre provviste. Prevedevano una breve caccia, che avrebbe permesso loro di catturare rapidamente la preda. No, non catturare, si corresse Draconas. Uccidere. Si acquattò al riparo dei tronchi e indugiò a riflettere sulla singolarità di un esercito composto da sole donne. Era una cosa che si era verificata molto raramente nel corso della storia, ma lui capiva che, per Maristara, aveva una sua logica. Era quasi sul punto di svegliare i suoi due umani, visto che le guerriere si stavano avvicinando, quando si accorse che uno di loro era già sveglio, anzi sveglia. Melisande si era fermata all'ingresso della grotta, pronta a fuggire. Ma non si sarebbe messa subito a correre incautamente. Innanzitutto, si sarebbe guardata attorno con attenzione, decise lui, e fu proprio ciò che lei fece. Battendo le palpebre alla vivida luce del sole, alzò una mano a proteggersi gli occhi e aspettò di essere in grado di vedere bene prima di proseguire. Si avventurò fuori di un passo o due, poi lanciò intorno un'altra occhiata. Avanzò furtivamente di parecchi passi, scrutò le cime delle montagne e il cielo, poi portò di nuovo lo sguardo sull'area circostante. Annuì impercettibilmente, soddisfatta, e scivolò senza fare rumore nella direzione da cui erano venuti. «Non lo farei, se fossi in voi», commentò Draconas in tono tranquillo. Melisande rimase senza fiato per lo stupore. Per un attimo, si irrigidì, nel tentativo di placare il battito del suo cuore, poi si voltò adagio verso il punto da cui proveniva la voce. Lui uscì dall'ombra del suo nascondiglio e le si avvicinò. Ripresasi in fretta dalla sorpresa, Melisande aveva già pronta la sua bugia. «Sto cercando un luogo appartato, signore», disse sollevando il mento.
«Per le mie abluzioni mattutine». Draconas fece un cenno verso gli alberi da cui era uscito. «Lì in mezzo. Tranquillo e sicuro». Durante la notte, gli abiti di Melisande si erano asciugati un po', ma il pesante tessuto era ancora umido e lei rabbrividì nell'ombra. I capelli le ricadevano sulle spalle, in riccioli arruffati e ribelli. Alcuni le spiovevano sul viso. Lei li ricacciò indietro. Gettò un'occhiata al boschetto e un lieve rossore le soffuse le guance. «È troppo vicino...». «Mi spiace, ma non posso lasciarvi allontanare troppo». Il rossore di Melisande si fece più intenso. Lei drizzò le spalle e lo fissò con aria imperiosa. «Allora, mi devo considerare vostra prigioniera?». «Direi che questo non è il modo di parlare a qualcuno che vi ha appena salvato la vita, Melisande. Sono stato di guardia tutto questo tempo, mentre voi dormivate. Cosa credete? Che il drago vi permetta di andarvene, così, semplicemente? Dopo quello che avete visto?». Il sangue le defluì dal viso. Serrando le labbra, lei si strinse le braccia al petto e si girò, dandogli la schiena. «Dove pensate di andare?» le chiese lui. Melisande voltò il capo. Gli occhi blu erano l'unica macchia di colore nel volto esangue. «Dalla mia gente», rispose. «Per raccontarle la verità». Poi si girò di nuovo e gli si avvicinò. «Dovete lasciarmi andare». Tese la mano verso di lui, come se la sua richiesta fosse qualcosa di tangibile, che lei poteva mostrare sul palmo della mano. «Devo avvisare Bellona e le altre. Mio dio!». Le dita le si chiusero a pugno. «Un drago! La nostra Signora... un drago! E quella povera infelice. Sepolta viva nell'oscurità, tenuta là a soffrire in modo orribile per anni. Il medaglione d'oro...». Le mancò la voce, fece una pausa per riacquistare il controllo, poi continuò in tono più fermo: «Perciò, vedete, dovete lasciare che io torni. L'ingresso alla caverna dev'essere qui vicino. Non ci siamo allontanati di molto». Draconas l'afferrò per i polsi e l'attirò a sé, costringendola a fissarlo negli occhi per un lungo, lunghissimo momento. Lei emise un gemito e si divincolò cercando di liberarsi. Lui vide la paura nel suo sguardo e per un attimo temette il peggio. L'aveva visto per ciò che era realmente? Lei possedeva i poteri magici dei draghi. Era in grado di vederlo sotto le sue vere sembianze? «Lasciatemi», gemette lei, tirandosi indietro. «Mi fate male».
No, si rese conto Draconas. Ha paura di me perché sono un uomo. Sentì il corpo di lei fremere e tendersi, e immaginò che, in materia di uomini, Melisande fosse ancora vergine. Se mai conosceva l'amore, doveva essere quello delle donne. Le guerriere. Le guerriere che stavano di guardia attorno alle sacerdotesse e le tenevano lontane dagli uomini perché...? Perché in tal modo il drago avrebbe avuto la possibilità di esercitare un controllo sulle nascite dei bambini dotati dei poteri magici. Maristara non poteva permettere che quelle donne speciali si sposassero e crescessero una propria famiglia. Doveva tenerle legate a sé per poter raccogliere l'abbondante raccolto. «Se tornate a Seth, non riuscirete a vivere abbastanza a lungo da raccontare ciò che sapete», disse Draconas. «Ci penserà il drago a impedirvelo». La lasciò andare, e lei indietreggiò incespicando. Massaggiandosi i polsi, Melisande si spostò fuori portata. Ma non cercò di fuggire. Non aveva rinunciato al suo proposito. La voce le si fece dura, mentre riprendeva a parlare con fermezza e determinazione. «Non mi incutete paura, signore. Adesso che so chi è la Signora, posso vedermela con lei senza problemi. Nel corso della mia vita non mi è stato insegnato altro che combattere i draghi». Il coraggio di lei lo colpì intimamente. La ricompensò arretrando di un passo, perché non lo vedesse più come una minaccia. Poi si gettò un'occhiata alle spalle, verso la sottile linea di guerriere che scendeva lungo il fianco della montagna. Melisande inspirò profondamente. Giunse strettamente le mani, allacciando le dita. «Perché siete venuti?» domandò bruscamente. «Siete degli assassini?». Draconas sorrise, divertito. «Ammetto di non essere granché come aspetto, signora, ma vi pare che Edoardo sembri un assassino? O si comporti come tale?». Melisande fece correre lo sguardo verso la grotta. Un raggio di sole cadeva sul viso di Edoardo. Era pallido, di un pallore che lo rendeva interessante, con tracce di sangue rappreso, sufficienti a ricordarle ciò che aveva dovuto patire per salvarla. Dormiva con la mano sull'elsa della spada, pronto ad accorrere in sua difesa. Melisande ripensò al suo coraggio e alla sua gentilezza e non poté impedirsi di provare rimorso, di sentirsi toccata e attratta da lui. «No, non sembra un assassino», dovette ammettere lei. «Ma allora perché siete venuti al monastero?».
«Avete sentito ciò che Edoardo ha detto ieri notte. Eravamo venuti a cercare la Signora dei Draghi. Volevamo parlarle. Sua Maestà ha dei problemi. Un drago sta depredando le sue terre, portando ovunque scompiglio. Sperava di persuadere la Signora ad accompagnarlo per scacciare il drago con la sua magia». Melisande spalancò gli occhi. «Se questo è vero, devo dire che vi siete presentati davanti alla Signora in un modo ben strano». «Ammetterete che il vostro popolo non è molto ospitale nei confronti dei forestieri», le fece notare Draconas. «Siamo entrati dalla porta secondaria, anche se era nostra intenzione presentarci a quella principale». «E cos'è che vi ha fatto cambiare idea?». «Abbiamo sentito per caso i piani di un complotto per uccidere la Signora», disse Draconas. «Allora non lo sapevamo, ma la voce che abbiamo udito era quella del drago». Melisande trattenne il fiato e lanciò un'altra occhiata verso Edoardo. «Perciò lui è venuto a...». «... salvare la vostra Signora. E invece, purtroppo, ha salvato il drago». «Oh!» esclamò Melisande, scoppiando in una risata gorgogliante, ma premendosi subito la mano sulla bocca per soffocarla. «Non è buffo. È orribile. Devo essere diventata isterica». Rimase in silenzio per un attimo, pensierosa. «Avete parlato di questo regno...». «Lui ne è il sovrano. Re Edoardo di Idlyswylde. Le sue terre non sono lontano da qui. Alcuni secoli fa, tra i vostri due regni, esistevano scambi commerciali». «Si riprenderà?» chiese lei dopo un po', sembrando vergognarsi di avere pensato male di lui. «Gli rimarrà una cicatrice sulla testa, ma credo proprio che non gliene importerà. Gli farà ricordare voi». Il rossore tornò a imporporarle le guance, accompagnato da un debole sorriso, che però non durò molto. Era stata momentaneamente distratta, ma non aveva perso di vista il suo vero obiettivo. «Ringraziate per me Sua Maestà quando si sveglia. E adesso vi devo lasciare. Devo tornare dalla mia gente e fare ciò che è in mio potere per eliminare questa minaccia, o quanto meno cercare di coinvolgere tutti nella lotta contro il drago. Se mi volete mostrare la strada per raggiungere la caverna...». Draconas scosse il capo.
«Devo considerarmi vostra prigioniera, dunque», disse Melisande, incollerita. «Il fatto di avermi salvato la vita non significa che possiate disporre di me! Sono la Somma Sacerdotessa. Ho dei doveri...». «Venite qui», disse Draconas. Melisande rimase immobile a guardarlo con aria minacciosa, quasi di sfida, e si mise le mani dietro la schiena. «Venite qui», ripeté lui. «Vi voglio mostrare qualcosa. Non temete. Non vi toccherò più». Riluttante, palesemente controvoglia, lei gli si avvicinò, mantenendosi comunque a debita distanza. Lui le indicò un punto. «Guardate là, su quella cresta». Le guerriere erano molto più vicine, e stavano avanzando più rapidamente di quanto Draconas avesse immaginato. Dovevano aver scoperto un sentiero più agevole per scendere giù nella gola e si trovavano ora quasi alla stessa altezza del boschetto di pioppi in cui lui e Melisande si nascondevano, divisi solo dal burrone. Le piogge del giorno prima dovevano aver fatto scendere un vero e proprio torrente attraverso la stretta gola, a giudicare dai segni lasciati sulle rocce e dall'erba ancora umida e schiacciata. Ma la piena improvvisa era stata di breve durata e l'afflusso d'acqua si era ormai ridimensionato, sebbene la gola fosse ancora fangosa e colma di detriti: parecchi sassi e rami spezzati, un albero sradicato e alcuni tronchi fradici. Il drappello a cavallo si destreggiava veloce, seppure con una certa prudenza, sul sentiero che portava in basso, mentre la guerriera che stava alla testa divideva la propria attenzione tra il percorso da scegliere e l'area circostante. Sapeva bene dove stava andando, su questo non c'era dubbio. Procedeva sicura e risoluta, senza mai esitare. «Sono più vicine di quanto immaginassi», osservò Draconas. «Anche se incontreranno qualche difficoltà nell'attraversare il fondo della gola, intasato com'è da tutti quei detriti. Dobbiamo pensare a come andarcene da qui». Lanciò un'occhiata a Melisande per vedere la sua reazione. Questa aprì la bocca, come per parlare, ma le parole le morirono in gola. Aveva gli occhi sbarrati e spaventati, lo sguardo fisso. «Sono le guerriere di Seth, se non mi sbaglio», disse Draconas. «Sono scese dal valico. Probabilmente è la prima volta, da trecento anni a questa parte, che mettono piede fuori dai confini delle loro terre. Hanno ricevuto l'ordine di venire a cercarvi, Melisande».
«L'ordine?». Le sue labbra formarono le parole, ma lei non riuscì a pronunciarle. Pareva stupefatta, attonita. «L'ordine impartito dalla Signora dei Draghi. La nuova Signora. Seth non poteva stare a lungo senza una Signora, capite? Voi siete riuscita a fuggire, Melisande, ma qualche altra poveretta non è stata così fortunata». Melisande fissò le guerriere con occhi scintillanti. Rabbrividì e si strinse le braccia sul petto, ma non distolse mai lo sguardo dalle donne che si stavano inesorabilmente avvicinando. «La Signora è morta», continuò Draconas, sperando di renderla consapevole del pericolo imminente. «Lunga vita alla Signora. È stata lei a dare l'ordine di cercarvi e di uccidervi. Non può rischiare di vedervi tornare viva. Probabilmente ha detto loro...». All'improvviso, Melisande balzò fuori dall'ombra degli alberi, agitando le mani e urlando. «Bellona!» urlò. «Bellona! Sono qui!». Le sua urla echeggiarono attraverso la gola e rimbalzarono sulle pareti rocciose. Cominciò a correre giù per il fianco dell'altura. Colto alla sprovvista, Draconas si maledisse per essere stato così stupido. Devo informare Bellona, aveva detto prima Melisande, e la sua voce aveva indugiato su quel nome come se fosse una mandorla bagnata nel miele, di una dolcezza squisita nella sua bocca. «Che succede?» gridò Edoardo, mettendo fuori la testa dalla grotta, con la spada sguainata. «Ho sentito delle voci. Dov'è Melisande?». «Restate lì!» raggi Draconas, e si precipitò all'inseguimento. Seicento anni tra gli umani, e ancora continuavano a sorprenderlo per la loro stupidità. Poiché, naturalmente, anziché ubbidire ai suoi ordini e restarsene al sicuro nella grotta, Edoardo lo seguì a ruota. «Melisande!» chiamava disperato. «Tornate indietro!». Lei si trovava già a una certa distanza più in basso rispetto a loro, intenta a farsi strada come una forsennata tra le rocce, le balze e gli alberi, procedendo più per istinto e per una buona dose di fortuna che per abilità. D'un tratto si fermò, su una sporgenza, a pochi passi da un dirupo. Il salto era considerevole. Mentre cercava il modo di proseguire nella discesa, non si accorse che gli arcieri le stavano puntando contro gli archi e si stavano preparando a tirare. Sicuramente non le sarebbe sfuggito l'ordine che avrebbe preceduto lo scoccare delle frecce, ma sarebbe stato troppo tardi, giacché subito dopo i dardi sibilanti le si sarebbero conficcati nel petto. Draconas maledisse con veemenza tutti gli umani. Lei non doveva mori-
re. Nella sua mente aveva già pronta la frase rituale di un incantesimo. Avrebbe potuto avvalersi dei suoi poteri magici per far prendere fuoco a ogni singola freccia, riducendola in cenere. Ma se Melisande ancora non sapeva chi era lui realmente, non le ci sarebbe voluto molto a capirlo dopo quell'exploit. Avrebbe riconosciuto immediatamente la magia dei draghi. Pensò al piano, al suo piano, e a cosa sarebbe successo a Melisande se Anora avesse deciso di metterlo in atto. Forse sarebbe stato meglio che lei morisse, adesso, per mano degli umani. Anora non avrebbe potuto accusarlo... Draconas aprì la mano e lasciò cadere l'incantesimo, come se fosse sabbia. Edoardo si mise a correre scartando i sassi, uscì dal boschetto e si precipitò giù per il fianco della montagna. «Attenta!» gridava. «Melisande, mettetevi al riparo!». Melisande alzò la testa. Vide le guerriere che imbracciavano gli archi. Vide le frecce puntate su di lei e tese le mani. «Tirate!» ordinò il comandante, con voce fredda, chiara e orgogliosa. Edoardo si portò d'un balzo sulla sporgenza accanto a Melisande. Dopo averla afferrata per la vita, la gettò in mezzo a un ammasso di rami fradici e di foglie morte, trasportati là dalle piogge torrenziali, poi si tuffò a sua volta, mentre le frecce fendevano l'aria nel punto in cui si trovava lei un attimo prima. Finirono allacciati, in un groviglio di gambe e braccia. Edoardo cercò di rimettersi in piedi e aiutò Melisande a rialzarsi. Draconas si affrettò a raggiungerli. La prese per un braccio - rigido e inerte - e la trascinò su per il pendio, mentre Edoardo la spingeva dal basso. «Tirate!» giunse di nuovo l'ordine. Era la sua immaginazione, o quella voce sembrava in qualche modo sollevata? Ed era sempre la sua immaginazione, o quelle donne erano dei formidabili arcieri? Draconas si sdraiò pancia a terra, tirandosi vicino Melisande. Edoardo la protesse con il proprio corpo. Le frecce sibilarono intorno a loro andando a colpire le rocce, conficcandosi nel fango o finendo in mezzo agli alberi. Subito dopo quella raffica, si rialzarono. Afferrando Melisande, che pareva semi-intontita, Draconas continuò a trascinarla, arrampicandosi su per il fianco roccioso. A giudicare dal respiro pesante e dalle imprecazioni, capì che anche Edoardo era scampato ai dardi nemici. Si inerpicarono su per la montagna, scivolando e cadendo, risollevandosi
e mettendosi a correre. Melisande si muoveva come se fosse inebetita e non sembrava attribuire alcuna importanza a ciò che avrebbe potuto accaderle. A metà strada dalla cima si fermò di colpo, facendo spaventare Draconas. Dopo essersi liberata dalla sua stretta e incurante delle proteste affannose di Edoardo, se ne rimase là in piedi, girata a osservare le guerriere che, in quel momento, stavano di nuovo procedendo al galoppo verso il fondo della gola e verso di lei. «Ve l'avevo detto», borbottò Draconas. «Ha intenzione di uccidervi». Dagli occhi di Melisande sgorgarono due lacrime, che le scivolarono lungo le guance, tracciando piccoli solchi sul fango che le incrostava il viso. Poi lei si girò di nuovo, respinse la mano di Draconas e, rifiutando qualsiasi aiuto, cominciò ad arrampicarsi da sola. 19 Il tempo è dalla nostra parte, o perlomeno così credeva Edoardo. Le guerriere avrebbero dovuto attraversare la gola e ci avrebbero impiegato un bel po', se non altro per farsi strada attraverso gli alberi sradicati e i rami spezzati portati fin là dalla piena, e avrebbero dovuto avanzare nel terreno melmoso, che impediva ai cavalli di procedere a passo regolare. Poi ci sarebbe stata la risalita su per l'altro fianco della montagna, che era ripido e irto di ostacoli, come Edoardo aveva avuto modo di constatare. «Voi pensate a Melisande», gli ordinò Draconas, dopo che ebbero raggiunto i cavalli. «Io farò strada». Era un ordine al quale Edoardo fu lieto di ubbidire e, dopo aver posto un ansioso fuoco di fila di domande a Melisande per stabilire se avesse subito qualche trauma o ferita - domande alle quali lei non rispose o che forse non sentì - lui la issò in groppa al cavallo che aveva portato in dono alla Signora. Solo allora si ricordò di chiederle se sapeva cavalcare. «Sì», rispose lei, senza guardarlo. Teneva gli occhi fissi dinanzi a sé, e afferrò le redini solo dopo che lui gliele ebbe messe tra le dita gelide. Poi anche lui montò rapidamente in sella e le rivolse uno sguardo preoccupato. «Andrà tutto bene», cercò di rassicurarla. Lei non rispose. Allora lui le si avvicinò e le afferrò la mano. A quel contatto, Melisande
trasalì, ma lo guardò, consapevole della sua vicinanza, e non ritirò la mano. «Dovete vivere», le disse lui. «Siete l'unica in grado di salvare la vostra gente». Lei lo fissò a lungo e nei suoi vacui occhi blu comparve infine un guizzo di vita. Draconas li raggiunse al galoppo. «Voi due, potrete giocare più tardi ai fidanzatini!» esclamò, lanciando un'occhiata furibonda alle loro mani allacciate. Edoardo ritrasse immediatamente la sua. Melisande afferrò saldamente le redini, si sistemò ben dritta in sella e incitò il cavallo al galoppo, avviandosi dietro a Draconas. Edoardo chiudeva la fila. Non aveva idea di dove fossero. Seguiva senza discutere Draconas, che sembrava sapere esattamente dove stava andando. Quest'ultimo era tutto compreso dal suo compito di salvare Melisande, proteggendola da chiunque le volesse fare del male, ed Edoardo sarebbe stato pronto a credere al diavolo in persona, se quell'immondo re dei demoni avesse promesso di salvare la vita della giovane donna. Edoardo divideva il suo tempo tra il tenere d'occhio le guerriere, alle loro spalle, e Melisande, poco più avanti. Lei non si era voltata nemmeno una volta, ed egli lo interpretò come un brutto segno. Cavalcava a testa bassa, incurante di tutto ciò che la circondava, immersa nel proprio dolore, lasciando che il cavallo la portasse. Per fortuna, l'animale era abituato a seguire i suoi compagni e non creò alcuna difficoltà. Edoardo veniva subito dietro, per essere certo che non ci fossero problemi. Era in ansia per lei e avrebbe voluto fare una sosta da qualche parte, accendere un fuoco per riscaldarla e farle asciugare i vestiti, trovarle un po' di carne e qualcosa da bere, visto che, quando l'aveva toccata, gli era sembrata fredda come un cadavere. Ma non ardirono fermarsi. Dovevano andare avanti. Di tanto in tanto, una freccia passava sibilando tra i rami o andava a conficcarsi nel tronco di un albero, ricordando loro che avevano la morte alle calcagna. Trascorsero le ore successive cercando di seminare le loro inseguitrici. Risalirono la montagna e la ridiscesero. Seguirono le curve del sentiero, si addentrarono nelle gole e si avventurarono inaspettatamente in percorsi a fondo cieco. A volte, Edoardo era convinto di essersi lasciato dietro le guerriere, ma non appena cominciava a respirare un po' più liberamente, udiva di nuovo lo scalpiccio dei loro cavalli.
Il sole era a metà strada tra il mezzogiorno e la sera: la parte più calda della giornata. I cavalli ansimavano e il loro mantello era lucido di sudore. Avevano gli occhi dilatati e selvaggi e la bocca schiumante di saliva. Edoardo non poteva dire di avere una forma migliore. Al suo risveglio, quella mattina, si era meravigliato di sentirsi molto meglio. Ma, d'altra parte, tutti sapevano che un buon sonno ristoratore curava molti malanni. Il caldo, la tensione e la fatica gli avevano fatto ricomparire quel dolore martellante al capo. Aveva il corpo rigido e indolenzito per tutte quelle ore passate in sella, e non riusciva a immaginare quanto potesse essere difficile per Melisande, che era costretta a cavalcare con le gonne rialzate fino alle ginocchia. Ma lei non si lamentava. Anzi, non parlava per niente. Faceva ciò che le dicevano di fare, andava dove le dicevano di andare, restando sempre in silenzio. Edoardo stava già pensando che quel viaggio da incubo sarebbe durato per sempre, quando una fresca ombra lo avvolse, lo rinfrescò e lo rinvigorì. Avevano abbandonato il brullo sentiero della montagna per addentrarsi in una foresta fitta di querce, di tigli, di pioppi, di pini e di salici piangenti. Una brezza leggera faceva muovere le foglie. La temperatura si abbassò. L'odore dell'acqua giunse alle narici degli uomini e dei cavalli. Dopo aver risalito una piccola altura, raggiunsero la cima e videro scorrere impetuoso dinanzi a loro il fiume, con il suo ampio letto dalle acque scure e profonde. «L'Aston», disse Edoardo, tirando le redini. Gettò una cupa occhiata a Draconas. «Siamo in trappola. Qui non c'è nessun guado. Non possiamo attraversare. Le guerriere ci prenderanno di sicuro. Ci avete portati nel posto sbagliato!». «Al contrario», ribatté Draconas, balzando giù di sella. «Questo è proprio il punto che stavo cercando. Guardate un po' là». Indicò un viottolo, una piccola striscia di terra che si snodava in mezzo alle erbacce, segnata dalle innumerevoli impronte di zoccoli di cervi e di alci e attraversata da quelle di lupi, volpi e coguari e, qua e là, dalle profonde intaccature prodotte dalle unghie degli orsi. Draconas indicò di nuovo, questa volta i lati del viottolo. Edoardo scrutò con attenzione. All'inizio non vide nulla, ma poi le tracce dei solchi gli risultarono evidenti, tanto che si chiese se fosse diventato stupido o cieco - o entrambe le cose - a non averle viste subito. Due leggeri solchi correvano su entrambi i lati del viottolo fangoso. «Ruote di carri», disse Edoardo.
«Aspettate qui», ordinò Draconas. Poi cominciò a scendere giù per il fianco dell'altura, seguendo quei segni, finché non scomparve in mezzo a un folto gruppo di cespugli. Rimase assente per un po'. Edoardo non aveva idea di cosa stesse cercando Draconas o di cosa avesse a che fare tutto quello con loro. A più riprese, si guardò ansiosamente alle spalle. Era da qualche tempo che non sentiva più lo scalpitio degli zoccoli, ma troppo spesso in precedenza era stato ingannato perché adesso potesse nutrire una qualche speranza. Si voltò a guardare Melisande. «State bene?» le chiese. «Ho sete», disse lei, senza alzare gli occhi. «Pare che siamo arrivati proprio nel posto giusto, allora», replicò lui, cercando di strapparle un sorriso. Dietro di loro si udì un fruscio di rami. Edoardo si girò rapido, con la mano sull'elsa della spada, ma si trattava solo di Draconas, che stava uscendo dai cespugli. «Ho trovato il carro», riferì, dando l'impressione di essere molto soddisfatto di sé. «Interessante», osservò caustico Edoardo. «Non vedo come...». «E tre barche», aggiunse Draconas. Si voltò e indicò con il dito. «Sono da quella parte. Tirate in secco e protette da un'incerata». Edoardo guardò il fiume dalle acque impetuose, e improvvisamente comprese. Con un balzo scese di sella e si avvicinò a Melisande per aiutarla a smontare. Lei cercò di farcela da sola, ma le sue gambe, irrigidite per la lunga cavalcata, la fecero scivolare, mandandola quasi a finire tra le braccia del re. Soffocando un gemito di dolore, si lasciò afferrare da Edoardo. I suoi abiti erano in disordine e la gonna le era risalita fin sulle cosce. Lei la scosse per farla scendere, non prima però che Edoardo cogliesse un lampo di carne nuda e vedesse la pelle piena di escoriazioni, a causa del continuo sfregamento prodotto dal movimento sobbalzante del cavallo. Edoardo notò anche che le gambe erano ben fatte, con caviglie sottili e piedi piccoli e delicati. «Dovreste camminare un po', se ci riuscite», le disse Edoardo, confuso. «Per riattivare la circolazione. Mi occupo io dei cavalli». Melisande annuì e si avviò zoppicando verso il folto degli alberi, le labbra strette in una smorfia di sofferenza. «E le guerriere?» chiese Edoardo a Draconas, intento a togliere la sella e i finimenti alla sua cavalcatura.
«Credo che le abbiamo seminate», rispose l'altro. «Ma solo per il momento. La donna che le comanda possiede la tenacia di un cane da combattimento. Ritroverà le nostre tracce, a meno che noi non le facciamo sparire del tutto. Le barche sono solide. Anche se optare per il fiume significa dover abbandonare i cavalli». «Tanto meglio», disse Edoardo, seguendo con lo sguardo Melisande. «Non è più in grado di proseguire a cavallo. Mi meraviglia che abbia resistito fin qui». Indugiò, accigliandosi. «Credete che possiamo lasciarla allontanare da sola?». «Suppongo che non apprezzerebbe molto la nostra compagnia», dichiarò seccamente Draconas. «Oh!» esclamò Edoardo, comprendendo con un certo imbarazzo. Voltò la schiena a un Draconas chiaramente divertito e cominciò a togliere la sella al proprio cavallo, cercando di discorrere per alleviare la tensione. «Probabilmente le guerriere troveranno i cavalli». «Meglio quelli di noi», ribatté Draconas. Poi scese fino al fiume, si accovacciò e unì le mani a coppa per attingere l'acqua e dissetarsi. Edoardo gettò a terra la sella. «Come sapevate che avremmo trovato delle barche, qui? E il carro? E come avete fatto a orizzontarvi per arrivarci? Io mi sono perso subito dopo aver lasciato la grotta». «Faccio solo il mio lavoro», replicò Draconas. «Ciò per cui mi pagate. Quanto al carro», alzò la testa e fissò il fiume, «dovevano disporre di un qualche mezzo per trasportare quei neonati». «Neonati?» Edoardo parve confuso. «Cosa... Oh! Dio mi benedica e mi conservi. Avevo completamente dimenticato! I bambini nella caverna». Non riusciva a credere che fosse stato solo la notte scorsa che si erano imbattuti nei trafficanti di bambini. Gli pareva che, di notti, ne fossero trascorse un anno intero. «Già, immagino che questo abbia un senso. Ma come sapevate che avrebbero proseguito sul fiume? Come sapevate dove trovare le barche?». «Un colpo di fortuna», rispose Draconas con disinvoltura. Poi si alzò, inclinò il capo e rimase in ascolto. «Sentite qualcosa?» chiese Edoardo. Draconas fece segno di no. «No, credo proprio che questa volta abbiamo fatto perdere le nostre tracce. Quel loro comandante è molto capace». «Eppure è una donna», disse Edoardo. «So che la storia parla dell'esistenza di donne-guerriero nei tempi antichi, ma... io lo trovo molto insoli-
to. Sembra che vada contro natura». «I maschi tolgono la vita e le femmine la danno, giusto?» domandò Draconas. Edoardo stava per replicare, ma Melisande uscì zoppicando dal folto degli alberi e gli fece dimenticare ogni altra cosa. Lasciando che Draconas finisse con i cavalli, lui le si avvicinò. «Vi farà piacere sapere che la nostra cavalcata è giunta al termine. Draconas ha trovato una barca. Scenderemo il fiume. Come vi sentite, meglio?». Melisande aveva riacquistato un po' di colore sulle guance pallide. Camminava ancora a fatica, ma i suoi passi sembravano meno incerti. Fece correre lo sguardo oltre Edoardo, verso il fiume, le cui acque fluivano abbondanti e precipitose, dopo le piogge della notte precedente. La sua superficie color verde scuro era disseminata di rottami galleggianti che la corrente aveva trascinato via al suo passaggio: grossi rami d'albero, fasci di ramoscelli provenienti da una vecchia diga costruita dai castori, un ceppo coperto di muschio verde. Il fiume trasportava tutto giù a valle, incuneandosi tra le ombre proiettate dai salici che costeggiavano le due sponde. Edoardo vide il fiume con gli occhi di lei e comprese quali fossero i suoi pensieri, quasi come se lei li avesse espressi ad alta voce. «Anche voi, quindi, vi sentite catturata da questa corrente veloce», disse. «Trasportata a valle, verso un ignoto destino. Non siete sola, Melisande», aggiunse serio. «Non dovrete mai pensare di essere sola». Gettò un'occhiata al fiume, che scorreva rapido, ampio e profondo, apparentemente destinato a non finire mai. «Ovunque queste acque ci portino, ci porteranno insieme. Lo giuro, sul mio onore». Gli occhi azzurro cupo di lei trattennero a lungo l'immagine del fiume, poi il suo sguardo si spostò ed Edoardo vi si vide riflesso. Le toccò la mano e, questa volta, lei non trasalì. Le sue dita sfiorarono quelle di lui: erano terribilmente fredde. Lui le coprì con le sue e sentì che cominciavano a scaldarsi. Il richiamo di un corno lacerò l'aria: un suono acuto, sottile e lamentoso, come il grido lugubre di uno spettro. Quel richiamo spaventò i cavalli e fece rizzare i capelli sulla nuca di Edoardo. La mano di Melisande strinse spasmodicamente la sua e i due rimasero immobili a lungo, anche dopo che quell'orribile suono era cessato. «Che cos'era?» chiese Edoardo, affannato. «Bellona», rispose Melisande a bassa voce. «Quel richiamo è indirizzato
a me. Mi sta dicendo che non posso sfuggire al mio destino». «Sciocchezze...» cominciò a dire Edoardo. Lei si staccò da lui. «Avete sentito il corno?» chiese lei a Draconas. «Anche i morti l'hanno sentito, Melisande», replicò lui. «Rappresento un pericolo per voi», continuò Melisande, senza badargli, parlando in fretta. «Per tutti e due. Dovreste lasciarmi qui. Bellona non vi inseguirà. È me che cerca». «Assolutamente no!» esclamò Edoardo con rabbia. «Vi sono riconoscente per ciò che avete cercato di fare per me, Vostra Maestà», disse gentilmente Melisande, «ma non servirà a niente. Conosco Bellona. Non avrà pace finché...». Le parole le morirono in gola, ma lei chiamò a raccolta tutte le sue forze e continuò con voce calma: «... finché non mi avrà trovata. State rischiando la vostra vita per me, Sire, una perfetta sconosciuta, e non è giusto. Voi dovete vivere e tornare alle vostre terre, al vostro popolo». «Vorrei poter dichiarare che le intenzioni di Sua Maestà sono del tutto disinteressate», disse freddamente Draconas. «Ma non è così. Lui ha bisogno di voi. Come vi ho spiegato questa mattina, Sua Maestà è venuto a Seth per...». «Basta così, Draconas», lo interruppe Edoardo, sentendosi affluire il sangue al viso. Ripensò al suo «pellegrinaggio» e lo vide come una sciocca avventura da scolaretti, un viaggio nel mondo immaginario delle canzoni dei menestrelli, qualcosa da non prendere sul serio. Si rendeva conto adesso di quanto si fosse I sbagliato e si vergognava profondamente. Non poteva permettere che lei morisse a causa del suo comportamento stupido e sconsiderato. «Credetemi, Melisande, quando vi dico che non volevo che le cose andassero in questo modo. Avevo intenzione di presentarmi al cospetto della vostra Signora, con i miei abiti migliori, con doni preziosi, degni di una regina. Volevo inginocchiarmi davanti a lei e pregarla umilmente di concedermi il favore - il grandissimo favore - di venire con me fin nel mio regno per liberarlo dal drago che aveva causato così tanta sofferenza e distruzione. Niente si è svolto secondo i piani, ed è colpa mia. Sapevo di sbagliare introducendomi di soppiatto nel monastero. Stavo giocando a fare l'eroe». Draconas gli si avvicinò e lo tirò per la manica. «Vostra Maestà, il suono di quel corno era molto vicino. Non abbiamo tempo per questo».
«Sì che ne abbiamo», ribatté brusco Edoardo. Inspirò profondamente, senza distogliere lo sguardo da Melisande. «Ho bisogno di voi, non lo nego. Sono responsabile della vita dei miei sudditi. Ho promesso solennemente a Dio di dare la vita per salvarli, di pormi tra loro e il pericolo. E di fronte a questo drago sono impotente. Voi siete cresciuta imparando a combattere i draghi con la vostra magia. Accompagnatemi nel mio regno. Usate i vostri poteri magici per salvare la mia gente. Non potrò mai ripagarvi adeguatamente, ma cercherò di farlo, per il resto dei miei giorni». «Ma che ne sarà della mia gente?» chiese Melisande. «Non posso abbandonarla, ora che conosco la verità». «Avrete modo di tornare a Seth», le promise Edoardo. «E io verrò con voi. Torneremo con il mio esercito e voi cavalcherete alla sua testa». Melisande ne rimase ovviamente molto colpita, ma esitava ancora. Forse non si fidava di lui. Il corno si udì di nuovo, molto più vicino. Lei lanciò un'occhiata disperata in direzione del suono. «E se scelgo di non accompagnarvi?». «In tal caso, starò con voi finché le guerriere non vi avranno trovata. Resterò qui e dirò loro la verità riguardo al drago». Melisande scosse il capo. «Non vi crederanno». «Allora, chiederò loro di prendere la mia, di vita», disse fieramente Edoardo, «poiché sono io ad aver sbagliato. E le pregherò di risparmiarvi, dato che siete innocente». Melisande lo fissò con intensità, cercando di scrutare nel suo cuore e anche oltre, fin nella sua anima. Lui la fronteggiò fiducioso, fermo nella consapevolezza che, qualunque cosa lei avesse deciso di fare, lui avrebbe mantenuto la promessa fatta. «Vi credo», disse lei alla fine, in tono quasi meravigliato. «Per quale motivo? Io sono una sconosciuta per voi». «Perché sono stato io a condurvi a questo», rispose Edoardo con semplicità. «La responsabilità dell'accaduto è mia e la accetto». Le guance di Melisande si soffusero d'un lieve rossore. Il petto le si sollevò in un improvviso respiro affannoso. Le mani, che teneva strettamente giunte, le tremarono. Edoardo vide l'ammirazione negli occhi di lei e anche qualcosa di più intenso, appassionato, e sentì che il sangue gli scorreva più veloce nelle vene, provocandogli una sensazione di formicolio alla punta delle dita e scendendo dal cervello a colmargli il cuore, causandogli una sorta di capogiro. «Verrete con me, Melisande?» chiese. «O dovremo restare qui ad affron-
tare insieme la morte?». Melisande si girò a scrutare le montagne, verso il punto in cui gli spaventosi echi del corno sembravano aleggiare nell'aria. Chinò il capo e si consegnò alla corrente impetuosa del destino. «Verrò con voi». «Riuscite a essere molto persuasivo», osservò Draconas, mentre lui e il re si affrettavano lungo la riva, in direzione delle barche. «Non mi meraviglia che i vostri sudditi vi amino». «Intendevo veramente ciò che ho detto», replicò freddamente Edoardo. «E abbassate la voce, per favore». Lanciò un'occhiata a Melisande, che camminava adagio dietro di loro, le braccia strette al petto, il capo chino in atteggiamento pensieroso. «Quanto credete siano vicine quelle guerriere?» chiese Edoardo, cambiando bruscamente argomento. Era ancora arrabbiato con Draconas, ma non era quello il momento di cominciare a discutere. Draconas gli gettò un'occhiata furtiva e, per la prima volta, fu quasi sul punto di sorridere. «Abbastanza vicine da costringerci a non indugiare oltre. Aiutatemi con le barche». «Non ci servono tutte», protestò Edoardo, guardando le tre imbarcazioni. «Potrebbero ospitare almeno otto persone. Una sarà più che sufficiente per noi e le nostre provviste, lasciandoci ancora spazio in abbondanza». «È vero», assentì Draconas, «ma non voglio offrire ai nostri inseguitori il mezzo per raggiungerci». Lui ed Edoardo tolsero l'incerata che proteggeva le barche e le trascinarono una per una fuori dal loro riparo improvvisato di rami. «Dovevano esserci almeno sei barche, qui», disse Draconas indicando le impronte sul terreno bagnato. «I trafficanti di bambini ne hanno prese tre, lasciandone nascoste altre tre». Spinsero una delle imbarcazioni in acqua e vi caricarono le provviste: cibo, coperte e otri contenenti l'acqua da bere. Poi Edoardo aiutò Melisande a salire, cosa che lei fece con diffidenza e apprensione. Non era mai stata su una barca prima d'allora. Servendosi del suo bastone, Draconas sfondò le altre due. La barca era provvista di un paio di remi, già inseriti nei loro scalmi. Draconas si offrì di remare. Melisande prese posto a prua, avvolta in una delle coperte da cavallo per non prendere freddo. Fissò nervosa l'acqua che scorreva oltre il bordo. Sbiancando per il movimento ondulatorio impresso
dalla corrente, si afferrò con entrambe le mani alla panca che fungeva da sedile. Mentre scavalcava Draconas per portarsi a poppa, Edoardo si chinò a sussurrargli: «Da quale parte credete che siano andati quei trafficanti di bambini?». «A valle», rispose Draconas. «La stessa nostra direzione». Draconas annuì con aria assente, impegnato a controllare i remi. «Sarà saggio? E che succede se li incontriamo?». «Non succederà», disse Draconas. «Come lo sapete?». L'altro diede una scrollata di spalle. Provò i remi, prima uno, poi l'altro. Edoardo si chinò di nuovo, talmente vicino che Draconas avvertì sulla guancia il suo fiato caldo. «Almeno una volta, vorrei che mi diceste quello che sapete e come ne siete venuto a conoscenza!». Draconas alzò gli occhi su di lui. «No, non lo vorreste, Vostra Maestà. E adesso, sarà meglio che ci avviamo». Edoardo aprì la bocca come per replicare, quindi la richiuse di nuovo. Si diresse a poppa e sciolse l'ormeggio. La corrente spinse rapidamente la barca lontana dall'approdo. Alcuni possenti colpi di remi di Draconas li portarono a distanza di sicurezza dalla sponda e da pericolose radici e tronchi sommersi. Edoardo si stava chiedendo cosa avesse voluto dire l'altro con quella sua enigmatica dichiarazione, e stava cercando di decidere se fosse il caso di chiarire una volta per tutte la sua posizione con quell'uomo, quando udì un rumore di zoccoli a riva. Si girò, scrutò tra gli alberi, aspettandosi a ogni istante di sentire il micidiale sibilo delle frecce. In lontananza, vide i loro cavalli che brucavano placidamente l'erba vicino al fiume. Ma non scorse traccia delle guerriere. Le guerriere. Non aveva mai visto donne di quel genere, donne dai robusti corpi muscolosi e dalle braccia e gambe segnate da cicatrici. Donne che si scagliavano contro il nemico con il fuoco della morte nello sguardo. Mani femminili che reggevano lance, archi e frecce invece dell'ago da ricamo. Mezze nude, tutte quante. Se le immaginò che cavalcavano verso di lui, i corpi luccicanti sotto il sole. Mezze nude e per niente a disagio, con la mente concentrata a compiere il loro dovere. Rivide la curva di un seno, quando una di loro aveva teso la corda dell'arco, vide il guizzo del muscolo sul braccio e il contrarsi dell'addome, nudo e compatto.
Quelle guerriere erano belle, di una bellezza sconvolgente e inquietante. Non avrebbe voluto pensare a loro, ma non poteva farne a meno. Melisande. I suoi pensieri non tornarono a lei, perché in verità non l'avevano mai abbandonata. Le immagini delle guerriere non erano altro che relitti, che scorrevano galleggiando in superficie. Melisande era il mormorio del fiume, che non lo abbandonava mai. «Coraggio, cercate di dormire un po'», le disse Edoardo. «Per il momento, siete al sicuro». Melisande era troppo esausta per discutere. Dopo essersi avvolta bene nella coperta, si rannicchiò sulla panca e, nonostante la scomoda posizione, si assopì, cullata dal rollio della barca, che proseguiva nel suo cammino, scivolando tra le ombre proiettate dagli alberi. I raggi del sole le accarezzavano i capelli e li facevano brillare di una luminosità dorata. Il viso, nell'ombra, era pallido e triste. Il dolore e la bellezza di quella giovane donna toccarono una corda nascosta nell'intimo di Edoardo. Questi la guardava, e si sentiva come se gli avessero conferito un nuovo potere, quello di essere il custode del sonno di lei. Il suo campione, come negli antichi tornei cavallereschi. «Sono responsabile della sua vita», ricordò a se stesso. «Lei si fida di me. Si è affidata a me. Devo avere cura di lei». Cura di lei. Quella parola ridestò in lui, in modo volontario e sgradevole, il ricordo della promessa che aveva pronunciato in occasione del suo matrimonio. E quel ricordo gli fece tornare in mente la moglie. Il viso di Ermintrude, con quel suo sorriso allegro e le fossette sbarazzine, aprì uno spiraglio nella porta della sua coscienza e vi sbirciò dentro. Ma lui la richiuse di colpo e vi si appoggiò contro con la schiena, avvertendo un senso di colpa e di vergogna. 20 Bellona aveva amato melisande fin dai tempi dell'infanzia. Lei era stata una bellissima bambina dai capelli d'oro, dalla pelle chiara e dagli occhi blu, occhi che possedevano una saggezza non comune tra i piccoli della sua età, come se fosse nata già conoscendo i segreti dell'umanità. Non era stata la sua bellezza ad attrarre Bellona, per quanto a quella ragazzina di un paio d'anni più grande piacesse osservare la bambina dai capelli color del
sole mentre giocava in cortile. Furono le stesse qualità che avevano attirato l'attenzione della Signora su Melisande a farla notare anche a Bellona. A sei anni, Melisande guidava i giochi delle compagne. La sua vivace intelligenza aveva colpito le insegnanti. Era eccezionalmente dotata nella magia, soprattutto in quella conosciuta come «la maledizione del sangue»: una dote che a Bellona mancava e che segretamente le invidiava. Fatta per essere una guerriera, Bellona era stata definita dai suoi superiori come una che sarebbe salita nella scala gerarchica del comando. Scura di occhi e di capelli, prediligeva l'ombra anche nello spirito. Parlava poco, non spalancava mai a nessuno le porte del suo cuore, guardava, osservava, prendendo parte solo alle attività che le permettevano di misurarsi nel corpo e miglioravano la sua forza fisica. A mano a mano che le due ragazzine crescevano, Melisande, sensibile anche al tocco più leggero, avvertì spesso su di sé quegli occhi scuri, e trovò nella quieta e forte Bellona un luogo sicuro e tranquillo dove riposare. Il drago incoraggiava l'amore tra le guerriere e le sacerdotesse. In tal modo, le avrebbe tenute legate al monastero, le une alle altre, e a lei. Naturalmente nessuno lo sapeva, ma non avrebbe fatto molta differenza se lo avessero saputo. Bellona ricordava la prima volta che si erano dichiarate il proprio amore. Quel ricordo le bruciò dentro, mentre avanzava con il cavallo sulla cresta dell'altura alla ricerca di Melisande, con l'ordine di eliminarla. Bellona se ne servì come stimolo e, quasi fosse una lama tagliente, se lo rigirò più volte nella carne finché non vide scorrere il sangue. Il dolore era lancinante, ma più facile da sopportare di quello procuratole dalla perdita della sua amata, che la lasciava vuota e distrutta. Melisande aveva sedici anni, Bellona diciotto. Bellona era fuori servizio quella notte, una Notte dell'Accoppiamento. Lei e Melisande sedevano al buio, sotto gli alberi, ascoltando di nascosto le chiacchiere delle guerriere, intente a scambiarsi battute sulle «giovenche» e sui «tori». Se Bellona si fosse trovata in compagnia delle guerriere, sarebbe stata lei la prima a ridere. Ma stando là seduta con Melisande, si chiese con un certo disagio quanto lei capisse. D'un tratto, quegli scherzi le parvero grossolani e imbarazzanti, e desiderò che le guerriere tacessero. Una giovane sacerdotessa, vergine, non avrebbe dovuto udire quelle cose. Bellona era quasi sul punto di suggerirle di andare a cercare un posto più tranquillo, quando Melisande soffocò una piccola esclamazione di dolore.
«Mi ha punto un'ape», disse in tono preoccupato e avvilito. «Guarda». Tese il braccio al chiarore delle fiaccole che ardevano sulle mura. Bellona vide la piccola protuberanza arrossata sulla pelle morbida e bianca. «Credo che il pungiglione sia ancora dentro». «Potrebbe infettarsi», replicò calma Melisande. «Devi succhiare la puntura per estrarlo. Lo farei io, ma non ci arrivo». Qualcosa nella voce dell'altra indusse Bellona ad alzare lo sguardo con il cuore che le accelerava i battiti. «Dovresti andare dalla guaritrice, Sacerdotessa...» disse Bellona, sentendosi il sangue pulsare nelle vene. «Non c'è tempo», rispose Melisande. «L'infezione potrebbe diffondersi. Presto, Bellona, salvami». E così dicendo, le tese le braccia, così bianche, morbide e fragranti dei profumi della notte. Bellona posò le labbra sulla carne tiepida e sentì Melisande tremare. Subito si ritrasse. «Scusami!» disse affannata, allontanandosi da lei. «Fai bene a scusarti», replicò Melisande attirandola a sé, e facendola sdraiare accanto a lei sull'erba tenera e profumata. «Per avermi fatta aspettare così tanto. Ti ho sempre, sempre amata...». «Comandante! Li vedo!» gridò una delle donne, strappando Bellona da quei ricordi agrodolci. Rimproverandosi tacitamente per essersi distratta, Bellona si ritrovò a guardare in faccia la cruda realtà. Vide Melisande che correva giù per il fianco della montagna, agitando le braccia. «Bellona!» gridava, e la nota d'amore che si sentiva nella sua voce spezzò il cuore a Bellona e lo prosciugò del sangue, lo prosciugò della vita. È stato tutto un malinteso. La Signora non ha capito. Melisande mi spiegherà cos'è successo. Bellona stava per ordinare alle sue guerriere di aspettare, quando udì un'altra voce, quella di un uomo. Scrutando il fianco dell'altura, lo vide: il suo amante. Così, ordinò alle guerriere di far partire le loro frecce, anche se, nel profondo del suo cuore dissanguato, fu lieta che le sue espertissime tiratrici fossero insolitamente poco abili, quel giorno.
Le guerriere inseguirono i fuggitivi, spronate da Bellona. Nessuna di loro era mai stata prima sul pendio meridionale della montagna. Ben poche erano mai uscite dalla valle. Ma tutte erano battitrici esperte, e i tre cui stavano dando la caccia non potevano fare a meno di lasciare visibili tracce del loro passaggio. Tuttavia, non riuscirono a raggiungerli. Bellona non risparmiava le sue acide e impietose osservazioni nell'incitare il drappello, che però continuò ad avanzare in silenzio, poiché tutte quante le sue componenti conoscevano bene il motivo di tale comportamento. Seguirono le orme dei tre cavalli fino al fiume e, a tutta prima, il cuore di Bellona diede un balzo, poiché ebbe la certezza di poterli raggiungere, visto che non avrebbero potuto scappare da nessuna parte. Poi trovarono i tre cavalli, le loro selle e i finimenti, ma nessuna traccia dei fuggitivi. Orme, appartenenti a due paia di stivali e a un paio di sandali, le condussero fino all'acqua, dove però sparirono. Sulla riva c'erano due barche, entrambe con lo scafo sfondato. Bellona scrutò più a valle, cercò di calcolare quanta distanza potessero avere già percorso. La sua scarsa conoscenza geografica della zona le impedì dei calcoli corretti. Prese mentalmente in considerazione alcune possibili strategie, poi impartì i suoi ordini. «Ho bisogno che la più veloce di voi guerriere si rechi al monastero e mi riporti una mappa di quest'area, in grado di indicare anche i principali centri abitati». Giacché sarebbe stato là che lui l'avrebbe portata, aggiunse tra sé. Una città, dove avrebbero potuto confondersi tra la moltitudine dei suoi abitanti. «Le altre», continuò ad alta voce, «cominceranno a riparare le barche. Ho visto un carro tra gli alberi. Potrete utilizzare alcune delle assi del fondo per rappezzare i buchi». Le donne si scambiarono occhiate perplesse, poi tutte guardarono Nzangia. «Comandante», disse questa, esitante. «Vi ho dato un ordine», replicò bruscamente Bellona. «Perché siete ancora qui?». «Comandante, i cavalli sono esausti. Devono riposare. In quanto a riparare le barche, io per prima, non saprei da dove cominciare». «Ci vuole un carpentiere per sistemarle, comandante», aggiunse un'altra. «Allora portatemi un carpentiere», gridò Bellona. Le mani le si chiusero a pugno. «Portatemi qualcuno in grado di fare qualcosa che non sia stare lì
a fissarmi a bocca spalancata come un gruppo di zotici dispiaciuti!». Le donne rimasero in silenzio, a disagio. «Tu, Drusilla», disse Nzangia alla fine, «tu che cavalchi più veloce, fai ciò che ti ordina il comandante». Drusilla lanciò uno sguardo interrogativo a Nzangia. Nzangia scrollò impercettibilmente le spalle e fece ruotare gli occhi in direzione di Bellona. Drusilla annuì. Poi balzò in groppa al suo cavallo e si allontanò al galoppo, dirigendosi di nuovo verso la montagna. Bellona volse loro la schiena. Guardò le barche, si accucciò accanto a una di esse e fece finta di esaminarla. Al pari delle sue guerriere, neppure lei aveva idea di come fare a ripararle, ma finché restava lì a fissarle non avrebbe dovuto affrontare gli sguardi delle donne. Era dolorosamente consapevole dei loro occhi puntati su di lei. «Poiché ci fermeremo qui per un po', sarà meglio che prepariamo il campo», disse Nzangia in tono sbrigativo. Le donne si sparsero, contente di avere qualcosa da fare. La tensione si allentò. Nzangia rimase là vicino, a osservare Bellona, palesemente desiderosa di parlarle. Bellona la evitò. Se le barche non possono essere riparate, pensò, dovremo costeggiare il fiume a cavallo fino a valle. Questo le fece tornare in mente il carro. Strano, trovare un carro là, così lontano da tutto. Si rialzò e si avviò in quella direzione, lieta di avere un'altra scusa per eludere Nzangia. Bellona fu poco sorpresa nel constatare che il carro era stato usato di recente. Le ruote di legno erano incrostate di fango e di erba, ancora umidi per la pioggia della notte precedente. Era convinta che fosse stato abbandonato da qualche contadino, ma, dopo averlo esaminato, vide che era attrezzato per il trasporto di persone, non di prodotti dei campi. Sulle assi del pianale, su entrambi i lati nel senso della lunghezza, erano state collocate due panche. Un graticcio di vimini era stato poi aggiunto sui fianchi per proteggere i passeggeri e impedire che cadessero fuori. Guardando meglio l'assito di legno, vide che era macchiato di fango secco lasciato da impronte di stivali. Bellona rimase a fissare il carro, accigliata. C'era qualcosa che non andava... e poi capì. Non c'era il sedile del conducente. Non c'era conducente perché non c'era cavallo.
Il carro veniva trainato da persone. Riportò lo sguardo sul fiume. Era facile trasportare persone con una barca. Ma trasportare cavalli da tiro sarebbe stato più difficile. Cosa faceva quella gente così vicino a Seth? Che genere di carico trasportava? Sarebbe stato diverso se ci fossero state città o paesi nelle vicinanze, ma non ce n'erano. Mentre scendevano dalla montagna, aveva avuto una chiara visuale della campagna circostante e, per chilometri e chilometri, dal punto in cui si trovavano loro fino all'orizzonte, non aveva visto alcuna zona abitata. Tutto questo doveva avere a che fare con Melisande, dato che il suo amante l'aveva condotta fin lì, portandola poi via con la sua barca. Ma cosa c'entrava il carro? Bellona vi salì sopra, frugò dappertutto, guardò sotto le panche. Un pezzo di stoffa sporco e bagnato giaceva accartocciato sulle assi del pavimento. Bellona lo raccolse e lo aprì. Rimase a osservare pensosa la stretta fascia di cotone, dicendosi che aveva un'aria familiare, ma senza riuscire ad attribuirle un nome. L'odore la investì. Arricciò il naso, poi annusò di nuovo e capì di cosa si trattava: era il pannolino di un neonato. Bellona era perplessa. Non riusciva a venire a capo di quel mistero. Fece per buttare via il pezzo di stoffa, ma poi ci ripensò e, ubbidendo a un impulso, se lo ficcò nella cintura. Avrebbe chiesto spiegazioni alla Signora. Chiedere alla Signora significava chiedere a Lucretta. Vide dinanzi a sé una vita di richieste a Lucretta, di ordini ricevuti da Lucretta, in un monastero governato da quella donna austera e amareggiata. Una vita intera di preghiere rivolte a Lucretta. Bellona avvertì lo sguardo di Nzangia, che sembrava quasi perforarle la corazza, e si girò a metà, lanciandole un'occhiata al di sopra della spalla. «Vado a fare un giro di perlustrazione più a monte», disse al suo vicecomandante. «Tu aspettami qui». Poi si allontanò rapidamente. Camminò finché non si trovò fuori dal campo visivo delle guerriere, fuori dalla portata delle loro orecchie. «Una vita intera fatta di sonni solitari la notte», sussurrò Bellona. «Una vita intera di vuoti risvegli la mattina». Là, finalmente sola, diede sfogo al proprio dolore. Si raggomitolò su se stessa, le mani che si tenevano strette a una ferita invisibile, le unghie che le laceravano la carne. Si sentì percorrere da un brivido violento in tutto il corpo e cadde in ginocchio, dondolandosi avanti e indietro in preda al tor-
mento. Alla fine si calmò. L'ondata di dolore si attenuò, e fu allora che lei vide un'altra barca. Inghiottendo le lacrime, si sedette indietro sui talloni. Si trattava di una piccola imbarcazione, nascosta tra le felci, a una certa distanza dalle due che erano state rese inservibili dall'amante di Melisande. Fu quasi sul punto di ringraziare la Signora per quel miracolo, poi si ricordò che, facendolo, avrebbe ringraziato Lucretta, perciò tenne la bocca chiusa. Le guerriere tornarono dalla loro battuta di caccia con un cervo. Al cadere della notte, il profumo della carne che arrostiva saturava l'aria. In altre occasioni, le donne avrebbero goduto di quell'insolita avventura. Ma la natura della loro missione e l'atteggiamento scontroso del loro comandante gettava un velo di mestizia su tutto quanto. Bellona fece ritorno al campo, determinata a comportarsi come se tutto fosse normale. Durante il pasto, si unì alle donne e si sforzò di mangiare, ma al primo boccone il suo stomaco si ribellò e lei fu costretta a porgere la sua parte a Nzangia. Poi cercò di discutere gli eventi di quella giornata, come avrebbe fatto in altre circostanze, ma nessuno sapeva cosa replicare. A quel punto, si impegnò in una disperata conversazione con Nzangia riguardo alla necessità di addestrare meglio le donne nel combattimento a cavallo. Alla fine, l'argomento si esaurì e Bellona non ne abbordò un altro. Rimase là, cupa, seduta per terra con le ginocchia piegate contro il petto, a fissare le fiamme. Il resto della serata trascorse in silenzio. Le donne si attardarono attorno al fuoco, masticando la loro carne di cervo, che era carbonizzata all'esterno e cruda all'interno, e cercarono di evitare di guardare il viso devastato dal dolore di Bellona. «Comandante!» gridò una delle sentinelle, avvicinandosi di corsa. «Stanno arrivando dei cavalieri. Da quella parte». Bellona balzò in piedi, felice di avere qualcosa da fare. Le guerriere afferrarono le armi e dei tizzoni ardenti, disponendosi in formazione di battaglia. Drusilla arrivò al galoppo. Il viso era tirato, l'espressione tesa. Non disse nulla, ma il suo sguardo fu molto esplicito. Scese da cavallo, si mise sull'attenti e disse: «Sta arrivando qualcuno, comandante. È la Signora dei Draghi». In quel momento, Lucretta fece il suo ingresso nell'accampamento. Le guerriere si inginocchiarono. Bellona accennò a un inchino, poi si di-
resse verso la Signora, che fece segno alle altre di rialzarsi. Tenendo alte le torce, le guerriere si radunarono attorno alla Signora, formando un cerchio di fuoco fumoso. Lucretta non amava cavalcare. Non le piacevano i cavalli, e il cavallo lo sentiva, poiché era inquieto e ombroso. Bellona lanciò un'occhiata a Drusilla per saperne di più. «Non sono mai arrivata al monastero. Lei era già per strada», le riferì questa a bassa voce. «Non so come facesse a sapere dove trovarci...». «Signora!» esclamò Bellona, turbata. «Perché siete venuta? Non ce n'era bisogno...». «Cos'è questa sciocchezza della barca?» chiese la Signora. «Abbiamo inseguito fin qui i tre fuggitivi, Signora», spiegò Bellona. «Hanno proseguito sul fiume», aggiunse, indicando con un vago gesto della mano. «Laggiù ci sono un carro e delle barche. Non so bene a cosa servissero le imbarcazioni, ma...». «Non mi interessano né le barche né il carro. Le vostre guerriere hanno cercato di colpire Melisande e l'hanno mancata», disse Lucretta. «Più volte». «È vero, Signora», replicò Bellona. «Oggi non abbiamo avuto fortuna». «Fortuna, dite? Mi chiedo se avete davvero cercato di raggiungere il vostro bersaglio!». Il suo sguardo passò in rassegna le guerriere. «Mi pare strano che delle tiratrici tanto esperte, la cui abilità nel tiro con l'arco ho avuto occasione di ammirare in passato, abbiano potuto svolgere questo compito in modo così maldestro». «Posso assicurarvi, Signora, che ogni guerriera ha compiuto il proprio dovere», ribatté Bellona, sentendosi la rabbia che montava dentro. «Lasciar intendere il contrario sarebbe come mettere in discussione il nostro onore...». «Non è il loro onore che io metto in discussione», replicò Lucretta, appoggiandosi al pomo della sella. «Dopo tutto, loro stavano solo ubbidendo a degli ordini. È il vostro onore che io metto in discussione, Bellona. Voi amavate quella sgualdrinella e non potevate sopportare di vederla morire...». Con le mani strette a pugno, Bellona fece per avventarsi contro Lucretta. «Bellona!» la chiamò Nzangia in tono basso e pressante. Le sue dita forti affondarono nel braccio muscoloso di Bellona, trattenendola: «Tutto questo è pazzesco. Vi rendete conto di ciò che state facendo? Lei è la Signora!».
«Non può parlarmi a questo modo!» protestò Bellona, lottando per liberarsi. Altre due guerriere si unirono a Nzangia e, tra tutte e tre, riuscirono ad atterrare Bellona. Solo quando si trovò distesa a terra, con il viso nel fango e il ginocchio di Nzangia che le premeva sulla schiena, Bellona cessò di agitarsi. I muscoli tesi si rilassarono. Il corpo le si fece inerte e lei chiuse gli occhi. Quel cambiamento fu così repentino e inatteso che Nzangia, spaventata, le mise una mano sul collo per sentire le pulsazioni. «Sono ancora viva», borbottò Bellona, sputando fango. «Purtroppo». «Non dite così, comandante», le sussurrò Nzangia con ferocia, aiutandola a rimettersi in piedi. «Non dovete mai neanche pensare a una cosa del genere». Lucretta si raddrizzò sulla sella e le fissò con sguardo imperioso. «Siete esonerata dal comando, Bellona. Nzangia, vi nomino comandante. Mettete questa donna agli arresti. Legatela. Verrà riportata a Seth per essere giudicata». «Signora...» cominciò a protestare Nzangia. «Ubbidite!» replicò freddamente Lucretta. «O troverò qualcun'altra capace di farlo». «Mi spiace, comandante», disse piano Nzangia, mentre legava i polsi e le braccia a Bellona, utilizzando delle corde d'arco. «Non è colpa tua», rispose Bellona a bassa voce. «Si tratta di una cosa temporanea. La Signora ci ripenserà. Le parlerò...». «Non ci provare neanche», disse Bellona. «Mi odia, così come odiava Melisande. In questo modo è più facile. Davvero». Nel mentre, Lucretta stava cercando di smontare da cavallo, senza però riuscirci. Nel passare sopra al pomo della sella con la lunga gamba ossuta, era rimasta impigliata con il piede tra le pieghe della gonna. Il cavallo fece roteare gli occhi e girò la testa, come per cercare di morderla, al che parecchie delle presenti si precipitarono a darle una mano. Bellona mosse le mani per verificare la solidità dei legacci. Saggiamente, Lucretta permise alle donne di aiutarla a scendere da cavallo. Una volta a terra, barcollò un attimo, ma cercò subito di raddrizzarsi. «Ordinate alle vostre guerriere di andare a coricarsi, comandante. Domani ci alzeremo prima dell'alba per ripartire. Voglio essere di ritorno al monastero il più presto possibile». «Al monastero?». Nzangia la fissò con aria interrogativa. «Chiedo scusa,
Signora, ma non dobbiamo inseguire i fuggitivi?». «Domani torneremo a Seth», ripeté Lucretta, con voce stridula. «Quanto a quella sgualdrina, sarà la sua coscienza sporca a punirla, visto che è sfuggita alla nostra, di punizione». Bellona non riusciva a credere alle proprie orecchie, e nemmeno Nzangia, che osò ribattere: «Signora, lasciate almeno che porti con me una pattuglia lungo il fiume, fino a valle...». Lo sguardo di Lucretta si fece fiammeggiante. «Ascoltatemi, voi tutte. La nostra precedente Signora era una brava persona. Nessuna avrebbe potuto fare meglio. Ma era anziana e fragile e, a causa della sua fragilità, ha lasciato correre parecchie cose. Quando impartisco un ordine, mi aspetto che ubbidiate, senza discutere. È chiaro, Comandante?». Le guerriere rimasero in silenzio, il volto atteggiato a un'espressione grave. Tutte quante, senza discriminazione, avevano amato la Signora, l'avevano amata e rispettata. Sì, forse la nuova Signora aveva ragione. Forse la disciplina aveva lasciato a desiderare. Di sicuro doveva essere stato così, visto che la Somma Sacerdotessa era addirittura riuscita a introdurre il suo amante nel Santuario, come dicevano alcune voci. Nessuna di loro amava Lucretta, ma stavano cominciando a guardare a lei con rispetto. «Sì, Signora. Perdonatemi, Signora», disse Nzangia. «Bene», rispose Lucretta, che aveva ritrovato la sua aria compiaciuta. «In quanto a domani, è richiesta la nostra presenza a Seth. Sua Maestà farà l'annuncio ufficiale della morte della Signora, e ciò significa che, secondo le usanze, il funerale dovrà aver luogo entro la settimana. Verranno a migliaia al monastero, per rendere omaggio. Avremo bisogno delle vostre guerriere per tenere a bada quella moltitudine, dato che le sacerdotesse dovranno essere distolte il meno possibile dalle loro mansioni. Non possiamo allentare la guardia nei confronti dei draghi, che potrebbero approfittare di questo momento di debolezza per attaccarci». Nzangia si inchinò in segno di ubbidienza. «Bene, ora che abbiamo chiarito», disse Lucretta guardandosi in giro, «qualcuna di voi... mi prepari un giaciglio». Le guerriere si scambiarono un'occhiata perplessa. Quando erano fuori di pattuglia, avevano l'abitudine di avvolgersi nelle coperte da cavallo e di coricarsi sulla nuda terra, fosse anche umida e fangosa come quella che si trovava in riva al fiume. Ma una soluzione del genere non sarebbe mai andata bene per la Signora dei Draghi. «Suggeriscile di dormire nel carro», propose Bellona in un rauco sussur-
ro. «Signora», disse Nzangia, sollevata, «abbiamo trovato un carro nascosto tra gli alberi. Potremmo prepararvi un letto...». «Che avete detto?» domandò bruscamente Lucretta. «Un carro, Signora», spiegò Nzangia. Poi, credendo di aiutare il suo vecchio comandante, aggiunse: «È stata un'idea di Bellona. Ha detto che potreste dormire sul carro, visto che il terreno è bagnato. Lo troverete più...». «Non voglio più ricevere altri consigli da Bellona», strillò Lucretta con voce acuta. «Imbavagliatela e legatela a quell'albero. Dormirò per terra come tutte voi». Girando loro la schiena, la Signora si avviò a grandi passi verso il fuoco, dove si fermò tutta impettita, tendendo le mani per riscaldarle al calore delle braci. Le guerriere si prepararono per la notte. Ammucchiarono altra legna sul fuoco e confezionarono alla meno peggio un giaciglio improvvisato per la Signora, scegliendo con cura il punto più asciutto e stando attente a rimuovere eventuali sassi o rametti, per poi stendervi sopra delle coperte. Del cibo venne anche tenuto in caldo per le sentinelle che sarebbero smontate dal turno di guardia. Queste mangiarono in fretta e in silenzio, guardando ogni tanto di sottecchi la Signora, che dormiva in atteggiamento regale, sdraiata sulla schiena, con le mani congiunte sullo stomaco. Nessuna delle guerriere osò coricarsi vicino a lei. Nzangia si accoccolò accanto a Bellona, con una striscia di stoffa tra le mani. «Ha avuto un comportamento strano riguardo al carro, non credi?» chiese Bellona a voce bassa, con gli occhi puntati sulla Signora. «Sarebbe stata molto più comoda là sopra». «Tutto sembra strano, come se stessimo vivendo in un sogno», rispose Nzangia. «Anche se credo che la Signora abbia ragione. Abbiamo perso il controllo di alcune cose». Poi sollevò il bavaglio improvvisato per metterlo sulla bocca di Bellona. Questa alzò le mani legate e la fermò. «Portami una coperta». «Certo, naturalmente...». «... con un coltello nascosto dentro». Nzangia sobbalzò, lasciando quasi cadere il bavaglio. «Non state ragionando con lucidità, comandante...». «Non ho intenzione di tagliarmi i polsi, Nzangia», la interruppe impa-
ziente Bellona. «Andrò a cercare Melisande. La riporterò indietro perché affronti un processo e risponda dei crimini commessi». Nzangia la fissò, poi lanciò un'occhiata di sfuggita verso la Signora. «Non lo so, Bellona...». «Lucretta ha messo in discussione il mio onore, Nzangia. Anche il tuo, e il loro». Bellona indicò le guerriere, che avevano preso posto sui loro giacigli in silenzio, senza scambiarsi le solite frecciate e battute allegre. «Quest'infamia mi accompagnerà fino alla tomba». Nzangia esitò. «Non ti causerò problemi», insistette Bellona. «Lo farò sembrare come se mi fossi annegata nel fiume. Devo fare questo, Nzangia. Lo devo fare! Tu ami Drusilla», aggiunse, con la voce che le mancava. «Mi puoi capire». Nzangia legò il bavaglio sulla bocca di Bellona con brusca efficienza, poi si rialzò. Abbassò gli occhi sul suo comandante, girò sui tacchi e si allontanò. Bellona la seguì con lo sguardo finché non la vide scomparire nella foresta. Nzangia avrebbe fatto il suo giro di controllo, per assicurarsi che le sentinelle fossero al loro posto e che nessuna si fosse addormentata. Bellona non poteva fare altro. Si appoggiò stanca contro l'albero. Non aveva idea se Nzangia avrebbe fatto ciò che lei le aveva chiesto. Sperava di averla convinta, ma non poteva esserne certa. Sulle prime, Nzangia era rimasta sbigottita per quella sua improvvisa ascesa al potere, ma era sempre stata ambiziosa, e dava l'impressione di sapersi adattare rapidamente e senza problemi al suo nuovo ruolo. Lei e Lucretta sarebbero andate d'accordo. Ci avrebbe pensato Nzangia a fare in modo che le cose andassero bene. «Se non altro, Nzangia sarà contenta di essersi sbarazzata di me», disse Bellona tra sé. «E anche Lucretta». Si era comportata così stranamente quando le avevano parlato del carro. Non aveva mostrato la minima curiosità. Eppure avrebbe dovuto. Quel carro era vicino ai confini del regno, troppo vicino. Non che la cosa avesse importanza. Niente aveva importanza, tranne Melisande. «La porterò indietro perché risponda dei suoi crimini. Dimostrerò a Nzangia e a Lucretta che non sono venuta meno al mio onore e al mio giuramento, e che non ho lasciato fuggire deliberatamente Melisande», continuò Bellona tra sé. «Lo dimostrerò a tutte quante», giurò, ma sapeva nel profondo del proprio cuore che lo voleva dimostrare a una persona sola: a se stessa. Bellona cercò di nuovo di muovere i polsi. Le sue guerriere avevano fatto bene il lavoro, come d'altronde si sarebbe aspettata che facessero. La
corda era legata stretta e le segava la pelle. Si sistemò meglio. Se non altro, Nzangia aveva dimenticato di legarla all'albero. Bellona si appoggiò al tronco e chiuse gli occhi sulle scure increspature dai riflessi d'argento, che il fiume creava nella sua corsa verso valle. Melisande era là, che scivolava su quelle acque, bagnata anch'essa da quei riflessi d'argento, mentre Bellona si trovava sotto, immersa nella fredda oscurità, trascinata verso il basso, trascinata lontano... «Bellona!» le sussurrò Nzangia all'orecchio, scuotendole la spalla con una mano. Bellona si risvegliò con un sussulto: non aveva avuto intenzione di addormentarsi. Nzangia teneva una coperta piegata tra le mani. Con cautela, la aprì e la avvolse intorno alle spalle di Bellona, drappeggiandogliela sulle mani e sui piedi legati. Un coltello da caccia le cadde in grembo. Lei ne afferrò l'impugnatura con gratitudine. «Grazie», disse con voce roca. «Buona fortuna», le augurò Nzangia, allontanandosi subito nel buio della notte. Bellona strinse il coltello tra le mani, trovando conforto nella sua fredda lama affilata. Si preparò ad aspettare, finché tutto l'accampamento non fosse stato immerso in un sonno profondo. «Comandante!» gridò Drusilla, scuotendo Nzangia per svegliarla. «Presto!». «Che è successo?» domandò Nzangia, alzandosi all'istante. Drusilla la condusse in riva al fiume e indicò l'armatura di Bellona, le cui varie parti giacevano in un mucchio ordinato sulla sponda. Poi le indicò le orme che si dirigevano verso l'acqua. «Si è affogata», disse Drusilla. Le altre sopraggiunsero e si fermarono a guardare. I loro visi esprimevano dolore e approvazione. Una di loro raccolse in fretta le corde tagliate e le gettò in acqua. «Informerò la Signora», disse Nzangia. Lucretta ricevette la notizia senza mostrare alcuna emozione né reazione. Gettò da parte la coperta. Rigida e indolenzita per la cavalcata del giorno prima e per aver passato tutta la notte sulla dura terra, si lasciò sfuggire una smorfia mentre cercava di alzarsi, e tese la mano per farsi aiutare da
Nzangia. «Voglio verificare con i miei occhi», dichiarò Lucretta. «Signora», disse Nzangia, guardando le ombre sotto gli alberi, che stavano già impallidendo, «volevate partire presto. Avremo molto da fare, una volta tornate al monastero, mentre non c'è altro che possiamo fare qui. Ciò che è fatto è fatto, e per il meglio, credo». Lucretta le gettò uno sguardo penetrante. Nzangia lo sostenne senza abbassare gli occhi. Un muto accordo venne stipulato. «Ottimo suggerimento, comandante», convenne Lucretta con insolita compiacenza. «Cominceremo subito». «Ai vostri comandi, Signora», rispose Nzangia, in tono umile. 21 Anche i fuggitivi erano già in piedi alle prime luci dell'alba. Una soffice nebbia aleggiava sul fiume, ma i suoi vapori si dileguarono al sorgere del sole. L'acqua scintillava e le foglie dei pioppi brillavano. Melisande tornò dalle sue abluzioni mattutine portando con sé il profumo della menta che doveva aver calpestato. Il sonno li aveva ristorati. Tutti sembravano in condizioni migliori, e Melisande riuscì persino a mandar giù qualche boccone di carne essiccata di cervo, che Edoardo le aveva tenuto da parte. Il suo umore si incupì un poco quando mise piede sulla barca. Guardando verso valle, ebbe una chiara visuale della cima montuosa su cui sorgeva il monastero. Gli occhi le si velarono di tristezza e il viso assunse un'espressione tesa e tormentata. Le rapide acque del fiume, su cui i raggi del sole creavano screziature multicolori, li facevano avanzare celermente. I tre avevano iniziato il viaggio in silenzio. Due di loro, intenti a pensarsi reciprocamente, si chiedevano se la controparte fosse ugualmente assorta in simili speculazioni. Il terzo, invece, lasciò che le proprie riflessioni abbandonassero la barca e si dirigessero lontano, lungo il fiume. Draconas preferiva di gran lunga le barche ai cavalli. La corrente li trasportava a tutta velocità. Non dovendo fare molto con i remi, se non correggere di tanto in tanto la rotta, seguiva con la mente il viaggio di quei neonati che erano stati rapiti. Si diceva che, con ogni probabilità, quegli stessi monaci pazzi, usciti di senno per i maltrattamenti subiti e per la ma-
gia del drago che bruciava nelle loro vene come la febbre di una pestilenza, dovevano avere iniziato la loro vita allo stesso modo. Neonati maschi, trafugati di nascosto da Seth e affidati al complice di Maristara. E la cosa era andata avanti per centinaia di anni. Gli occhi color nocciola di Edoardo erano fissi su Melisande che, avvolta nella sua coperta, guardava l'acqua scorrere via sotto di lei. I suoi pensieri erano soprattutto incentrati su di lei, anche se, a volte, il ricordo di Ermintrude vi si intrufolava, costringendolo a distogliere gli occhi da Melisande per posarli sulle sponde fiancheggiate da alberi. Melisande non aveva altro da fare che pensare. La sua vita era cambiata in modo talmente brusco e radicale che lei guardava a se stessa con una sorta di confuso smarrimento, così come una volta le era capitato di osservare un mosaico in composizione, cercando di scorgere un'immagine finita nelle tessere disposte alla rinfusa. Proprio mentre le sembrava di cominciare a capire qualcosa, spinse via le tessere, sparpagliandole, e riportò il pensiero su Edoardo. Lo aveva frainteso. Lui non era come gli altri uomini che aveva conosciuto. Lo guardava, ogni volta che lui non guardava lei, lasciando che i suoi occhi indugiassero su di lui, provando un po' di sollievo al proprio dolore nel tracciargli i contorni del volto o nell'osservargli le mani. Poi ci fu un momento di tensione, quando lui la fissò improvvisamente e lei non riuscì a distogliere lo sguardo. I loro occhi si incontrarono. Lei li spostò rapida sui salici. Edoardo decise che era giunto il momento di fare un po' di conversazione. «Draconas, ieri sera quando ci siamo accampati, avete detto che le guerriere non ci avrebbero inseguiti». «E avevo ragione, visto?» replicò Draconas, appoggiandosi ai remi. «Sì, ma come facevate a saperlo?». «Stiamo seguendo lo stesso itinerario delle barche che trasportano i trafficanti», replicò Draconas. «Se le guerriere ci inseguissero, potrebbero imbattersi in quei neonati. Potrebbero riconoscerli e cominciare a fare domande. E il drago non può correre un simile rischio». «Quali neonati?» chiese Melisande. «Di cosa state parlando?». Edoardo rimase in silenzio, prendendosi mentalmente a calci. Non era sua intenzione tirare in ballo quella faccenda. Non voleva aggiungere altre preoccupazioni a quelle che lei aveva già. Lanciò a Draconas un'occhiata esplicita, spronandolo a dare una qualunque risposta innocua, a cambiare argomento. Questi, naturalmente, lo ignorò.
«I maschi nati dalle donne del monastero», rispose. «Quelli che la Signora fa uscire ogni mese. Voi sapete che ne è di loro?». «Vengono affidati alle famiglie di Seth, a quelle che non possono avere figli o...». Melisande tacque. Lo fissò stupefatta e improvvisamente spaventata. «Come lo sapevate?» gli chiese. «Come sapevate dei bambini?». «Quando siamo entrati nella caverna ci siamo imbattuti in alcune donne anziane vestite di nero, che portavano fuori dei neonati in braccio. Abbiamo sentito il drago parlare di loro. Pare che venda quei bambini come schiavi». «Non ci credo», replicò Melisande, afferrandosi con le mani al bordo dell'imbarcazione con tale forza che le nocche si sbiancarono. «I bambini vengono affidati a gente rispettabile». «Avete mai incontrato qualcuno di quei bambini, più tardi nel corso della loro vita?» le domandò Draconas. «Ne è mai tornato nessuno al monastero a fare visita alla sua vera madre?». «Non lo potevano fare». Draconas sorrise e inarcò un sopracciglio. «E non vi è parso strano tutto ciò? Non vi siete mai chiesta cosa ne era stato di loro?». Melisande se l'era chiesto spesso. Aveva pensato spesso a quei bambini, e ancora di più aveva pensato a suo padre. Non l'aveva mai detto a nessuno, neppure a Bellona. Ogni mese, in occasione della Notte dell'Accoppiamento, lei scrutava la lunga fila di uomini e si chiedeva se ci fosse anche lui tra loro. Com'era? Era un nobile? Un umile contadino? Un musicista? Le sue mani accarezzavano dolcemente le corde di un'arpa o brandivano il martello di un fabbro? «Quei bambini sono un dono», disse Melisande, ripetendo le parole della Signora. «Un dono sacro, divino. Coloro ai quali vengono affidati sono selezionati appositamente per ricevere tale benedizione. Nel momento in cui accettano, si impegnano a non rivelare mai né al bambino né a nessun altro che loro non sono i veri genitori. In caso contrario provocherebbero le ire della Signora...». La voce le morì in gola. Le ritornò alla mente cosa significasse provocare le ire della Signora. «Ciò nonostante ve lo chiedete ancora, non è vero?» la incalzò Draconas. «I segreti sono difficili da mantenere. La gente mormora, chiacchiera. Tutti affermano di conoscere qualche famiglia che ha avuto in affido uno dei bambini del monastero. Ma si tratta sempre di un amico dell'amico. Non è così che vanno le cose?».
Credere alle parole di Draconas voleva dire credere a qualcosa di mostruoso. Quei neonati, teneri fagottini di panno, dalle manine strette a pugno, dalle boccucce simili a boccioli di rosa e dagli occhi stupiti. Trafugati di nascosto, di notte. Nessuno sapeva dove fossero condotti e in che modo avvenisse la loro partenza, solo la Signora. Nessuno conosceva un «bambino del monastero». Solo la Signora. «Sono una stupida», ammise Melisande con voce sommessa. «Siete stata ingannata», la confortò Edoardo. «Non dovete rimproverarvi. Non potevate sapere». «Davvero?». Melisande fece correre lo sguardo sul fiume, sui rami dei salici, le cui estremità si tuffavano nell'acqua, e sulla corrente che cercava di trascinarli via. «La notte scorsa non riuscivo a dormire al pensiero di quella povera vittima del drago, intrappolata nel sarcofago, al buio, in preda a una sofferenza infinita, sola e dimenticata, senza alcuna speranza, se non quella di morire. E noi eravamo là con lei, nella stessa stanza, così vicine che avremmo potuto toccarla. Orgogliose e compiaciute, noi facevamo le nostre magie. Forse lei udiva le nostre voci. Forse qualche volta ha gridato. Forse l'ho anche sentita!». Le sue mani lasciarono il bordo della barca e si intrecciarono tra loro. «Una volta mi è parso di udire una voce, un grido. Mi sono detta che avevo le allucinazioni, ma probabilmente era lei, che cercava disperatamente aiuto, e io le ho voltato le spalle. Non volevo disturbare la splendida serenità della mia vita. E quei bambini», continuò Melisande, inesorabile. «Avrei dovuto sapere. Ora che ci ripenso, mi sembra talmente ovvio. Non ne ho mai rivisto uno! Perché non ho mai chiesto che cosa ne era stato di loro?». Alzò il capo e guardò Edoardo. «Perché avete scelto il nostro regno? Sapevate che era segretamente governato da un drago?». «Lo sapevamo, Draconas?» chiese Edoardo a sua volta. La domanda giunse così inaspettata che Draconas fu quasi sul punto di dire la verità, tanto che fu costretto a lavorarsi la risposta sulla lingua, come se stesse snocciolando una ciliegia. «Ho scelto il vostro regno perché sapevo che combattevate i draghi», replicò, scegliendo accuratamente le parole. «Per centinaia di anni, siete riusciti a respingerli». «Credevamo che venissero per farci del male», disse Melisande a voce bassa. «Ma ora mi chiedo se ci stessero attaccando, come sosteneva la Signora, o se stessero cercando di salvarci».
«Credo che non lo sapremo mai», osservò Draconas. «Credo proprio di no». Melisande fece un sospiro. «Ditemi qualcosa sul drago che sta razziando il vostro regno, Maestà». Edoardo le raccontò ciò che era successo. Melisande prestò ascolto con pacata gravità. Draconas, seduto tra i due, continuò a remare. Il viaggio proseguì per tutta la mattina e per una parte del pomeriggio, idillico, indisturbato. Dopo aver esaurito l'argomento del drago, Edoardo e Melisande non trovarono altro di cui discutere. Cercarono di parlare di pesci, dopo averne visto uno spiccare un salto fuori dall'acqua, ma la cosa non durò a lungo, così come non diede risultati persistenti un tentativo di abbordare il tema dell'ornitologia. Ciò che ciascuno dei due aveva da dire non poteva essere espresso molto bene lì dove si trovavano, alle estremità opposte della barca, con Draconas nel mezzo. La corrente si fece meno rapida, ma essi se ne accorsero a malapena. Le forti braccia di Draconas continuavano a far avanzare spedita l'imbarcazione. Si rifiutò di lasciare che Edoardo gli desse il cambio ai remi, assicurando che l'esercizio fisico gli faceva bene. Il fiume Aston era noto per avere molti affluenti che contribuivano ad alimentare il suo corso principale, dai piccoli ruscelli, che sgorgavano direttamente dal terreno o scendevano dalle montagne, ai torrenti, che confluivano nel fiume solo dopo avere esplorato altre terre più lontane. L'Aston era anche un fiume dalle molte diramazioni, che si estendevano nella campagna circostante, raggiungendo anche notevoli distanze. Quel pomeriggio, i tre giunsero nei pressi di un'imponente altura di roccia rossa, che emergeva dal terreno e divideva il fiume in due di questi rami. Uno, il più piccolo, si dirigeva verso ovest, mentre l'altro, che rappresentava il corpo principale, continuava a scorrere verso sud. Draconas rallentò l'andatura, mentre rifletteva su quale ramo seguire. La logica gli suggeriva di proseguire verso sud, poiché Ramsgate sull'Aston si trovava da quella parte. Ma il vento, che soffiava da est, e la corrente del fiume portarono la barca verso l'altro ramo. Draconas avrebbe dovuto lavorare di braccia per guidare la barca nella direzione voluta, e si stava apprestando a manovrare i remi, quando avvertì la presenza di magia. Magia di drago. Lieve come una traccia di profumo che aleggiava ancora nell'aria dopo che il suo proprietario si era allontanato, e tuttavia inconfondibile.
Rivolgendo lo sguardo verso il ramo occidentale, Draconas osservò che il nastro azzurro del fiume si insinuava tra le rosse pareti rocciose dell'altura, la cui mole imponente nascondeva la luce del sole. Con gli occhi della mente, Draconas vide le barche che si inoltravano tra quelle rocce, con il loro carico di donne vestite di scuro che tenevano in braccio i neonati frignanti, e vide i soldati e il gigante Grald che le sorvegliavano. Non aveva notato che una delle persone presenti nella caverna fosse particolarmente dotata di poteri magici. Ma, d'altra parte, la magia emanata dal drago doveva essere stata così potente da mascherare quella più debole degli altri. Avvertire la magia in quel modo era strano. Dannatamente strano. Perciò, tirò fuori i remi dall'acqua e lasciò che la corrente li trasportasse. «Seguirò il ramo occidentale», disse a Edoardo. «Ma le mie terre si trovano a sud», protestò questi. «Possiamo sempre tornare indietro», ribatté Draconas. Edoardo gli indirizzò un'occhiata penetrante. «Che c'è? Che sta succedendo? Perché volete andare da quella parte?». «Mi è sembrato di vedere un'altra imbarcazione», spiegò Draconas. «Laggiù». «Credete che si tratti della barca che trasporta i bambini?». «È possibile». «Ma dovrebbero essere molto più avanti rispetto a noi. Erano partiti prima...». «Non così tanto», ribatté Draconas. «Non hanno potuto navigare di notte. Erano partiti la mattina, solo poche ore prima del nostro arrivo. E non dimenticate che stanno trasportando donne anziane e neonati. Potrebbero essersi fermati lungo il percorso per vari motivi». «Se c'è qualche possibilità che abbia ragione», intervenne Melisande, «è nostro dovere seguire le loro tracce. Voglio sapere la verità». Edoardo si trovò a corto di argomenti per controbattere e Draconas fece dirigere la barca tra le ombre proiettate dalle alte pareti rocciose. La temperatura scese di colpo. Melisande si strinse le braccia con le mani ed Edoardo si rabbuiò in volto. A mano a mano che il fiume si restringeva per ritagliarsi un passaggio tra le rocce, la corrente diventava più rapida. La percezione della magia di drago si fece più forte, e non ci volle molto prima che Draconas ne scoprisse la provenienza: una fenditura che si apriva sulla parete di quella specie di canyon, a formare una caverna o una galleria, immersa a metà sotto il pelo dell'acqua.
Mentre le scivolavano accanto con la barca, scrutò con attenzione all'interno, cercando di capire cosa potesse esserci all'origine di quella magia. L'oscurità era assoluta. Non vide nulla, eppure si convinse che i trafficanti di bambini erano passati di là ed erano entrati nella caverna. «Si avverte la presenza di drago in quella caverna», disse Melisande, scossa da un brivido. Sbigottito, Draconas si voltò a guardarla. Aveva il viso pallido e teso, e i suoi occhi sbarrati stavano fissando l'apertura. Allora lo sente anche lei, pensò Draconas. Anche se forse non ne è pienamente consapevole. È così abituata a stare vicino a un drago che riesce a percepirne la magia solo dopo essere rimasta lontana per un po'. Adesso la distingue, anche se non riesce bene a stabilirne la provenienza. «Non posso dire nulla circa la presenza di un drago, ma da questo posto emana un senso di malvagità», dichiarò Edoardo. «Probabilmente si tratta del covo dei trafficanti. Pensate che siano entrati qui?». «Può darsi», cercò di temporeggiare Draconas. Mentre si allontanavano, Edoardo gettò un'ultima occhiata alla caverna semisommersa. «Non mi attira per niente l'idea di andare là dentro dopo...». Un movimento attirò il suo sguardo. Sollevando il capo, il re scrutò il cielo. «Santa Madre di Dio, salvateci! Si parla del demonio e spuntano le ali!». Draconas non alzò gli occhi. Sapeva troppo bene cosa avrebbe visto: Braun, che volteggiava descrivendo pigri cerchi nell'aria, al di sopra delle rosse pareti rocciose. «Ecco cos'avevo sentito!» esclamò Melisande, vedendo il drago. «Non riuscivo a capire... Pensate che ci attaccherà?». «No», replicò brevemente Draconas. «Come potete esserne così certo?» chiese lei, stupita dalla sua sicurezza. «Le pareti del canyon ci proteggono. È troppo stretto. Il drago rischierebbe di danneggiarsi le ali. Vedete, si sta allontanando». Per fortuna, pensò Draconas. Non voleva incontrarsi con Braun. Immaginò che la sua comparsa volesse dire che Anora aveva deciso di andare avanti con il piano da lui proposto. Quasi evocato dai suoi pensieri, Braun si mise mentalmente in contatto con lui. «C'è un luogo ideale dove accamparsi, non lontano dal punto in cui vi trovate adesso», riferì questi. «La gola finisce in corrispondenza di un fitto
boschetto di alberi sulla sponda a nord, non lontano dalla caverna che pensate di esplorare. Vi aspetterò quando sarà scesa l'oscurità. Assicuratevi che nessuno ci disturbi». «Ho avuto un ripensamento circa il mio piano», gli disse Draconas. «Lo so», ribatté Braun. «E sono qui per convincervi del contrario». 22 Nel tardo pomeriggio, Draconas si accampò nel luogo suggeritogli dal drago. Mentre aiutava Edoardo a tirare la barca in secco, provò il forte impulso di insistere perché il re prendesse Melisande a bordo e si spingesse il più lontano possibile verso valle, fermandosi solo dopo aver raggiunto il mare. Ma, naturalmente, non cedette a quella tentazione. La forte praticità della sua natura lo trattenne dal fare una cosa tanto sciocca e romantica. Innanzitutto, sapeva che, per quanti fiumi avesse navigato e per quanti oceani avesse attraversato, quella giovane donna dotata dei poteri magici del drago che le bruciavano nel sangue come una malattia, non avrebbe mai potuto sfuggire agli artigli di Maristara. E poi sapeva che, anche se lui si fosse liberato degli umani, non avrebbe mai potuto liberarsi del problema. Quindi, aiutò a tirare l'imbarcazione all'asciutto e la coprì con dei rami per nasconderla alla vista. Erano approdati più a valle rispetto alla gola, una stravaganza che il fiume si era concesso solo in quel punto e che poi, apparentemente, aveva abbandonato a favore della riva sabbiosa e costeggiata da alberi sulla quale si trovavano adesso, e di quella sulla sponda opposta, anch'essa con caratteristiche analoghe. Le acque del fiume, che avevano attraversato impetuose la gola, ora avevano rallentato la loro corsa ed erano tornate a scorrere placidamente. Il sole al tramonto brillava di un giallo dorato tra le foglie degli alberi, poco più arretrati rispetto alla sponda. L'acqua e il cielo avevano lo stesso colore grigio-azzurro. Melisande non aveva più pronunciato una parola da quando avevano superato la caverna. Sedeva sulle radici sporgenti di un salice, lo sguardo fisso sul fiume senza vederlo, giocherellando con aria assente con le foglie di un ramo che teneva tra le mani. Edoardo, inquieto e nervoso, camminava avanti e indietro sulla spiaggia. Impietosito, Draconas gli ricordò che le loro provviste erano quasi esaurite e gli suggerì di procurare del cibo. Dopo aver lanciato una lunga e intensa occhiata in direzione di Melisande, che parve non accorgersi di niente, E-
doardo borbottò qualcosa e si inoltrò tra gli alberi. Dopo che si fu allontanato, Melisande emise un profondo sospiro. «Il drago deve aver detto loro qualcosa di terribile sul mio conto, non è vero?» chiese. A una a una, staccò le foglie dal ramo e le gettò in acqua. «Che avete detto, Sacerdotessa?» le chiese Draconas. Non le aveva prestato attenzione. Stava pensando alla carne fresca, l'unica sua debolezza. Non poteva resistere a lungo senza sentirne il bisogno. «Il drago deve aver detto a Bell... alle guerriere che avevo fatto qualcosa di terribile, per indurle a uccidermi. Mi stavo chiedendo cosa deve aver detto a Bell... alle guerriere». «Probabilmente che siete fuggita con il vostro amante», replicò Draconas senza tante cerimonie, col pensiero rivolto a un bel cosciotto arrosto. Ma quando la guardò fu subito dispiaciuto di avere detto una cosa del genere. Il viso di lei aveva perso completamente colore e aveva assunto una tonalità di un bianco cereo. Melisande non disse niente, rimase là seduta a fissare il fiume che scorreva pigro, le mani improvvisamente pesanti e senza vita. «Sì», mormorò mestamente. «Probabilmente è proprio questo che deve aver detto a Bell... alle guerriere». In quel momento il cielo era un tripudio di rosso, arancio e viola: gli ultimi slanci del sole morente. Lo sguardo di lei si diresse a monte, verso l'altura rocciosa. Scrutò a lungo e con sguardo inquisitore, come in attesa. Non si trattava di un'attesa piena di speranza, ma del contrario. Sta aspettando la sua innamorata, capì Draconas. Sta aspettando che arrivi. E lei non tarderà. A prescindere da ciò che dirà il drago, lei continuerà l'inseguimento e Melisande lo sa. Sa anche che quando la sua innamorata la troverà, la ucciderà. Lo sguardo di lei si spostò all'improvviso su Draconas, riflettendo una traccia dei raggi infuocati del sole. «Sapete così tante cose su di noi e sul nostro regno. Sapevate dei bambini. Edoardo dice che sapevate, o almeno sospettavate, della presenza del drago tra le montagne, ancora prima di valicarle». Draconas notò che lei aveva chiamato il re «Edoardo». Si strinse nelle spalle. «Sono un cacciatore di draghi. La gente mi paga perché io conosca quante più cose possibili sui draghi». «In tal caso ho una domanda da farvi», continuò Melisande. «Tutti i draghi possono trasformarsi in esseri umani?». Fece un gesto con la mano. «È possibile che Edoardo sia un drago? O che voi lo siate?».
«Non ho strappato il cuore dal petto di nessuno, ultimamente, se è questo che volete sapere», replicò Draconas. Lei distolse lo sguardo, rivolgendolo di nuovo verso il cielo. I rossi e gli arancioni avevano assunto una colorazione viola uniforme, che stava a sua volta virando al nero. La stella della sera fece la sua apparizione, decisa a scacciare in fretta il giorno. Melisande si alzò di colpo, massaggiandosi le braccia. «Vorrei che Sua Maestà tornasse», disse, inconsapevole di averlo chiamato per nome, prima. «Ho come la sensazione che quel drago sia ancora in giro». «Vado a cercarlo», si offrì Draconas, e si allontanò scuotendo il capo. Pericolosi, questi umani dotati dei poteri magici dei draghi. Molto pericolosi. Draconas trovò Edoardo intento a costruire una trappola. Quella sera mangiarono coniglio selvatico. Sebbene, dapprima, Melisande protestasse dicendo che non aveva appetito, il profumo del coniglio, che stava arrostendo su uno spiedo improvvisato sul fuoco, risultò irresistibile. Dopo cena sedettero in silenzio. Edoardo guardava la notte farsi più scura sul fiume. Lo sguardo di Melisande si rivolse più volte a monte. Stava ancora aspettando. Draconas si offrì di stare di guardia. Edoardo protestò educatamente, ma alla fine cedette, con l'impegno che Draconas l'avrebbe svegliato a metà della notte per farsi dare il cambio. Draconas promise, ed era una promessa che intendeva mantenere. Non aveva dormito per due notti di seguito e stava cominciando a sentirne il bisogno. Il suo appuntamento con Braun non avrebbe dovuto durare a lungo, visto che c'era ben poco da discutere. Perlopiù, sarebbe stato il drago a parlare, mentre Draconas si sarebbe limitato ad ascoltare, rispondendo «sì» di tanto in tanto. Ma gli dirò come la penso io su questa faccenda, si ripromise Draconas. Farò in modo che sappiano come mi sento riguardo a questo piano. Il che lo portò a chiedersi come realmente si sentiva. Non riuscì a trovare una risposta. Credeva di essere contrario alla sua attuazione, ma dopo la conversazione con Melisande sui draghi, non ne era più del tutto sicuro. Edoardo scelse il posto migliore dove preparare il letto per Melisande e le diede la sua coperta più bella. Poi cercò una sistemazione per sé, a una distanza accettabile. Draconas fu quasi sul punto di chiedergli se intendesse mettere una spada fra sé e Melisande, com'erano soliti fare gli antichi
cavalieri, ma, dall'espressione del suo viso, capì che non avrebbe apprezzato la battuta. Dopo che i due umani si furono avvolti nelle coperte e adagiati sui giacigli di fortuna, voltandosi ostentatamente, ma a fatica, la schiena, Draconas fece loro un incantesimo, che avrebbe dovuto proteggerli come una sorta di coperta speciale. Entrambi si rilassarono, si girarono e caddero in un sonno profondo. A quel punto, Draconas si avviò all'incontro con Braun, cercando un luogo dove potessero parlare indisturbati, ma che gli permettesse di tenere d'occhio i suoi due protetti. L'innamorata di Melisande era là fuori, da qualche parte, e lei sapeva che l'avrebbe trovata. Un'altra dannata cosa di cui preoccuparsi. Melisande aveva ragione, Bellona era molto vicina. Se Draconas avesse saputo quanto, non avrebbe lasciato soli i due umani quella notte. La barca che aveva trovato era più piccola delle altre, e probabilmente era stata usata per il trasporto delle provviste, poiché sul fondo aveva uno strato sottile di farina e, a poppa, una corda assicurata a un gancio di metallo. Quella prima notte, Bellona proseguì quanto più poté al buio, sperando di porre la maggior distanza possibile tra lei e le guerriere. Alla fine, dopo avere urtato il ramo di un albero, che aveva quasi sfondato la chiglia, decise di fermarsi per accamparsi. Dormì di un sonno intermittente, svegliandosi spesso e credendo di udire la voce di Melisande che la chiamava. Si alzò all'alba, risalì a bordo della barca e riprese la sua discesa verso valle. La sua imbarcazione era più leggera e le permetteva di viaggiare più veloce. Avrebbe potuto raggiungere i tre fuggitivi molto rapidamente se, in corrispondenza del punto in cui il fiume si biforcava, lei non avesse scelto il ramo diretto a sud, anziché quello che andava verso ovest. Bellona si era chiesta quale direzione prendere, ma il ramo occidentale non la ispirava. Per quanto lacunosa fosse la sua conoscenza delle terre fuori dai confini di Seth, ricordava di aver sentito parlare di altri regni a sud. Melisande non doveva essere così lontana. Anche lei, con i suoi due compagni di viaggio, doveva essersi fermata per la notte. Bellona era certa di poterli raggiungere e continuava a scrutare le sponde. Il tempo passava. Il sole tramontò in una fantasmagoria di rossi e di viola. Gli alberi proiettarono lunghe ombre su di lei e sul suo cuore. Bellona capì di aver preso la direzione sbagliata e seppe con amara certezza che gli altri avevano proseguito verso ovest.
Avrebbe dovuto tornare indietro, remando controcorrente. Batté il palmo della mano sul sedile, con una tale violenza che si fece male. Per un attimo, considerò la possibilità di spingersi più lontana, quella notte, ma era stanca morta. Le braccia le dolevano per l'inconsueto esercizio e lei temeva che, con quel buio, le potesse sfuggire qualche segno della loro presenza. Pur con riluttanza, decise di fermarsi per accamparsi. Anche quella notte dormì poco. Il cuore, roso dalla gelosia, non glielo permise. Braun condusse Draconas verso un punto poco più lontano sulla spiaggia, dove il drago aveva trovato un ampio tratto di terreno sgombro, vicino all'acqua. Gli stivali di Draconas scricchiolavano sulla sabbia. Ai suoi occhi, la sagoma del drago scintillava di calore vitale stagliandosi contro il fondale dell'oscurità. Il drago fu pratico e sbrigativo. Sorvolò sui convenevoli e venne subito al dunque. «Anora ha approvato il vostro piano. Anzi, ne è rimasta estremamente colpita e ha espresso un giudizio molto lusinghiero nei vostri confronti. Vi manda questo, come avevate chiesto». Gli porse un flacone dalla superficie tempestata di pietre preziose. Ai draghi piacciono le cose belle. Draconas capì che l'oggetto doveva essere di fattura mediorientale. Lo prese e se lo infilò nel corpetto di cuoio. «Non l'avevo chiesto», disse. «Sì, invece», ribatté Braun. «Forse non con le parole, ma io ne ho colto l'immagine in fondo alla vostra mente. La ricetta risale a parecchio tempo fa. Secondo quanto mi ha detto Anora, si tratta di una ricetta elaborata nei tempi antichi, quando aiutavamo gli umani nella loro lotta disperata per la sopravvivenza. Tutti quei predatori, sapete, e loro sono così fragili. Ostinati, ma fragili. All'inizio, i nostri antenati avevano sperato che agli umani spuntassero le squame, ma... be', lasciamo perdere. Non è necessario che conosciate tutta la storia. Me la sono già dovuta sorbire io. Vi basti sapere che questa pozione farà ciò che è necessario: renderà l'uomo ardente di desiderio e la donna ricettiva, e farà in modo che possano concepire, così che sia sufficiente un solo accoppiamento». «Non deve essere sprecato neanche un attimo», commentò borbottando Draconas. «A proposito, la donna ha un nome. Si chiama Melisande». Non sapeva perché gli fosse uscita quella precisazione, sapeva solo che si sentiva giù di corda.
«Lei riconoscerà la pozione», continuò Draconas. «Sicuramente è la stessa usata da Maristara con i suoi umani». «In tal caso, sappiamo già che funziona», replicò Braun. «Ne abbiamo la dimostrazione. Anora dice che il bambino nato da questa unione sarà provvisto di grandi poteri magici. La madre è enormemente dotata. Me ne sono già accorto a distanza». «E se è un maschio, non avremo fatto altro che regalare un altro monaco pazzo al mondo». «Al contrario, Draconas, poiché noi saremo presenti e faremo in modo che riceva un'appropriata istruzione. I vostri ordini sono di condurre la donna da Anora, che si prenderà cura di lei e di suo figlio». «In altre parole, diventeranno vostri prigionieri», ribatté Draconas. «Riceveranno il meglio di tutto», gli assicurò Braun. «Qualunque cosa desiderino sarà loro data, basta che la chiedano». «Ma saranno comunque prigionieri», insistette Draconas. «Come gli abitanti di Seth. Anche loro dispongono di tutto quello che vogliono». Braun trattenne un sospiro di esasperazione. Stava facendo del suo meglio per mantenere la calma e Draconas non gli rendeva facile il compito. «Sapete bene quanto me che non potremo permettere che la donna se ne vada in giro liberamente per il mondo. E neppure suo figlio. Il ragazzo dovrà ricevere un'educazione adeguata». «Così che impari a combattere i draghi. Come fai a essere certo che sarà davvero un maschio?». «Questo re che avete scelto ha già generato due figli maschi. Ma se non lo è, andrà bene anche una femmina, per quanto non sia proprio lo stesso». «E poiché avrete Melisande, potrete sempre provare a farla procreare un'altra volta», disse acido Draconas. «Con Maristara la cosa funziona molto bene». La cresta di Braun emise un fruscio, le sue squame schioccarono e la coda si dimenò. Il drago affondò gli artigli nella sabbia. «Devo ricordarvi di nuovo quante vite sono in gioco?». No, rispose Draconas in silenzio, non è necessario. Lo so, dannazione, lo so. Infilò una mano nel corpetto e toccò il flacone che conteneva la pozione, avvertì sotto le dita le protuberanze delle gemme, fredde, dure e dagli spigoli affilati. «Allora, qual è il vostro piano per questo bambino?» domandò Draconas, proiettando con la mente colori pacificatori. «Immagino che quando sarà cresciuto, dovrà togliere di mezzo Maristara e la sua coorte, oltre che i
monaci pazzi, i trafficanti di neonati e tutto il resto. Mi chiedo solo come pensate di portare tutto questo a compimento». «Abbiamo qualche idea in proposito», disse Braun, i cui colori si erano fatti vaghi. Draconas rimase a guardare il fiume che scorreva davanti a lui. Le stelle si riflettevano nell'acqua, ma il fiume non poteva catturarle. «Non lo sai ancora, vero? E nemmeno Anora lo sa». «Abbiamo vent'anni per discutere su cosa fare», rispose Braun. Draconas sbuffò. «State prendendo tempo. Proprio come avete fatto finora. Cosa sono altri vent'anni aggiunti ai trecento che sono già passati? Avete deciso di non decidere. Non farete niente». «Stiamo facendo qualcosa...» cominciò a dire Braun. «Vi state comportando esattamente come si comporta Maristara», lo interruppe Draconas. «State manipolando gli umani, li state usando per i vostri scopi, quasi non avessero valore, come la sabbia che sto calpestando». I colori nella mente di Braun erano simili alle pietre che Draconas aveva sfiorato: duri, dai bordi seghettati e taglienti. «Non avete scelta, Draconas. Anora ha dato ordine che procediate. Tornerò tra una settimana circa per ricevere il vostro rapporto e per aiutarvi a condurre la donna da Anora. Verrei prima, ma è stata convocata una sessione speciale del Parlamento per discutere sulla situazione». «Sapete che qualcuno in Parlamento riferisce a Maristara...». «State tranquillo, non riveleremo tutto ciò che sappiamo. Anora è del parere che Maristara troverebbe strano il fatto che non convochiamo una sessione speciale e potrebbe cominciare a sospettare qualcosa. Non preoccupatevi, Draconas. Conoscete Anora, è molto brava a controllare i suoi pensieri. Gli altri vedranno solo ciò che lei consentirà loro di vedere». Braun spiegò le ali e si preparò a partire. «Sono lieto che abbiate accettato di andare avanti con il vostro piano. So che nutrite dei dubbi. "Draconas ha l'anima di un drago", dice di voi Anora, "ma il cuore è umano". Rassicuratevi, state facendo la cosa giusta». Anora lo diceva sempre. Draconas aveva perso il conto di quante volte gliel'aveva sentito dire. Poi aggiungeva anche che lui era il miglior camminatore che avessero mai avuto. «E cosa devo dire a questo sovrano, il cui regno è depredato da un malvagio drago?» domandò Draconas, mentre Braun si alzava in volo, sfiorando con le ali le cime degli alberi. «Dite a Sua Maestà che, alla sola idea dell'arrivo della Signora dei Dra-
ghi, quel bestione ha avuto così tanta paura che si è dato alla fuga», rispose Braun ridacchiando. Poi si librò alto nel cielo. La luce lunare si rifletté sulle sue squame e, per un attimo, il suo corpo risplendette come se fosse d'argento, quindi il drago virò, guadagnando quota e diventando una macchia scura circondata di stelle, infine svanì. Draconas tornò adagio verso il luogo dove si erano accampati. D'un tratto, si sentì talmente stanco da riuscire a malapena a muoversi. Il suo corpo acconsentiva solo fino a un certo punto alle sue richieste, dopodiché imponeva la propria volontà, volontà che Draconas avrebbe fatto meglio a rispettare, se non voleva subirne le conseguenze. Prima di dormire, però, doveva ancora risolvere due questioni. Si allontanò dalla spiaggia e si inoltrò nel bosco, alla ricerca di un rifugio per i due umani. Gli serviva un luogo che fosse vicino alla spiaggia, ma non troppo. Un luogo isolato, ma che si potesse raggiungere con facilità. Una quercia caduta fece al caso suo. L'albero si era inclinato in diagonale rispetto al terreno, formando con il suo tronco un riparo naturale. Una vite selvatica vi si era arrampicata sopra, ricoprendolo con le sue foglie verdi e costituendo una specie di tetto. Con un paio di coperte distese a terra, i suoi due umani avrebbero potuto disporre di un graziosissimo salottino privato. Tornando al campo, Draconas lasciò delle indicazioni per segnare il percorso. Al suo ritorno, trovò Melisande ed Edoardo immersi in un sonno profondo. Melisande era sdraiata sulla schiena, con il viso rivolto verso la luce della luna e le braccia distese. Edoardo manteneva la propria compostezza anche nel sonno e giaceva su un fianco, con la schiena rivolta verso la donna e il volto risolutamente girato dall'altra parte. Draconas estrasse il flacone. Prese l'otre che conteneva l'acqua da bere e tolse il tappo. Poi, aiutandosi con i denti, rimosse anche il tappo del flacone. Tenendo entrambi i contenitori tra le mani, indugiò un attimo a guardare i due umani, esitando. I volti di tutti gli umani che aveva conosciuto gli si affacciarono alla mente. Così tanti, pensò, passando in rassegna quella fila interminabile. Così tanti, e dov'erano andati? Tutto ciò che rimaneva di loro era il ricordo: un viso, il suono di una risata, una mano sollevata in segno di saluto. Tutti
quanti, a dirgli addio e a voltargli le spalle, per poi svanire nella polvere. Per diventare polvere. Ed eccone altri due. Altri due da aggiungere a quella lunga fila. Tra altri seicento anni, si sarebbe guardato indietro e avrebbe visto un viso, il lampo di un sorriso, una mano alzata. Oppure avrebbe visto solo la polvere. Versò la pozione nell'otre e lo richiuse. Poi proiettò un cerchio incantato sul campo, di modo che Melisande ed Edoardo potessero dormire indisturbati, quindi distese a terra la sua coperta, sistemandosi al centro del cerchio. Nei suoi sogni era sempre un drago. Non si vedeva mai con le sembianze di un uomo. Mentre scivolava adagio nel sonno, spiegò le ali su di loro e vegliò con la sua anima di drago, lasciando che il suo cuore di umano si addormentasse. 23 Draconas venne svegliato dalla vivida luce del sole che gli feriva gli occhi e da un rumore di spruzzi. Si alzò, appoggiandosi su un gomito, e vide Edoardo intento a tirare fuori un pesce dall'acqua, con il solo aiuto delle mani, lanciandolo poi a riva. Parecchi altri pesci erano già ammucchiati là, boccheggianti e con i corpi che si contorcevano. «Sono piacevolmente stupito», commentò Draconas. «È un trucco che ho imparato da bambino», rispose Edoardo. «Me l'ha insegnato mio padre». Poi si lanciò, tuffandosi, e subito dopo un altro pesce dalle squame luccicanti volò verso la riva. «Direi che può bastare per colazione», dichiarò, uscendo dall'acqua. Scrollando le braccia, tutto tremante nell'aria fredda del mattino, si asciugò con la coperta e si infilò la camicia. «Pensavo che sareste andato avanti a dormire tutto il giorno», aggiunse ridacchiando, rivolto verso Draconas. «Adesso che ho preso i pesci, sta a voi cucinarli. Questa è la punizione per non avermi svegliato per il mio turno di guardia». Draconas lanciò un'occhiata all'otre e vide che era stato spostato. La sabbia sotto il tappo era umida. «Dov'è Melisande?» chiese, guardandosi intorno senza riuscire a vederla.
«Voleva farsi un bagno. Le ho preparato un paravento di fortuna», disse Edoardo, indicando una coperta, stesa sul ramo di un albero, poco più lontano. «È laggiù, nel fiume». Draconas udì qualcuno canticchiare da dietro la coperta. Gli parve di riconoscere vagamente il motivo, poi capì che si trattava di una delle ballate di Edoardo. Ma l'inverno è passato e la primavera è già inoltrata E io sono stato a cercarti alla tua porta, Per dirti, amore mio, con gli abiti fluenti Che la primavera era verde quando ti ho incontrata... La voce di Melisande era dolce e sommessa. Draconas andò al fiume, vi immerse le mani e si strofinò vigorosamente il viso, gettandosi l'acqua fresca sul collo. Vide che Edoardo era rimasto là immobile, con un pesce che gli si contorceva tra le mani. Stava fissando la coperta e ascoltava la ballata, quasi incapace di respirare. «Allora, quali sono i vostri programmi per oggi?» domandò Edoardo, riscuotendosi con aria colpevole e mandando il pesce a finire sul mucchio di quelli già catturati. «Continuiamo la nostra caccia ai trafficanti di bambini?». «Avevo in mente di dare un'occhiata alla caverna che abbiamo visto arrivando qui». «Bene», disse Edoardo. «Vengo con voi». «Siete proprio un bel tipo di cavaliere errante», commentò Draconas. «Chi proteggerà Melisande se tutti e due ci allontaniamo?». Un lento rossore fluì sulle guance di Edoardo. Lasciò cadere un pesce, ne prese un altro, poi lasciò cadere anche questo sulla sabbia. «Restate voi con lei, Draconas. Potrei andare io a perlustrare la caverna». «È fuori discussione. So cosa sto cercando. Non siete ancora guarito del tutto dalle vostre ferite. Un po' di riposo farà bene a entrambi. Ieri, mentre ero fuori a caccia, ho trovato un rifugio nel bosco. Una specie di capanna naturale formata da un albero caduto. Potrete dormire, cucinare il pesce...». «È solo che non mi sembra opportuno che io resti solo... non mi fido...». Indugiò e cambiò argomento. «Quanto credete che siamo lontani da casa?». Casa. Moglie.
A Draconas piaceva Ermintrude. Gli piacevano la sua allegra praticità e l'interessamento che provava nei confronti del marito. Ricordava le sue lacrime, e quanto poco ci fosse mancato che una lacrima cadesse su di lui, rivelando la sua vera natura di drago. Lanciò di nuovo un'occhiata in direzione dell'otre e si chiese se Melisande avesse bevuto un po' del suo contenuto. A giudicare dalla ballata, ritenne che fossero entrambi sotto l'effetto della pozione. Melisande uscì da dietro la coperta, i capelli lucenti e bagnati dell'acqua di fiume. Non avendo un pettine, vi passò in mezzo le dita, facendoli ricadere in morbide onde sulle spalle e sulla schiena. Edoardo la fissò in silenzio, lasciando trasparire dal suo sguardo un amore e un desiderio così palesi che non era davvero necessario che lo esprimesse a parole. Lei lo guardò, guardò solo lui, e sorrise. «Siamo molto lontani da casa», disse Draconas, poi indicò con la mano: «Il rifugio si trova laggiù, tra gli alberi. Ho lasciato dei segni per indicare il sentiero. Non dovreste avere problemi a trovarlo». Quindi si girò e si incamminò lungo la spiaggia, in direzione della caverna. «Non volete fare prima colazione?» gli chiese Edoardo, stupito per quella partenza così brusca. «Vi lascio la mia parte», rispose Draconas. «Non aspettatemi prima di sera». «Draconas», lo chiamò Edoardo. «Che c'è? Che vi succede?». Draconas continuò a camminare. «Draconas?» quella era la voce di Melisande. «State attento!» Non si voltò. Proseguì sul suo cammino, e ben presto non li sentì più. Poi si inoltrò nella foresta e sparirono anche alla sua vista. Con risolutezza, cercò di toglierseli dalla mente. «Dove sta andando?» chiese Melisande. «A perlustrare la caverna», rispose Edoardo. Melisande era preoccupata. «Non avrebbe dovuto andarci da solo. È un luogo terribile, lo sento». Posò la mano sul braccio di Edoardo. «Dovreste raggiungerlo e fermarlo». Edoardo guardò la mano di lei, che era sottile, con dita affusolate e unghie corte, rosa e arrotondate. Avvertì il contatto della pelle attraverso la stoffa bagnata della sua camicia, ne percepì il calore sul suo braccio freddo. Il desiderio che provava per lei era un dolore quasi fisico, che lo co-
strinse ad allontanare di colpo il braccio. Girandosi bruscamente, cominciò a raccogliere i pesci e a ributtarli in acqua. «Non servirebbe», disse con voce sorda. «Gli ho proposto di accompagnarlo. Ha detto che devo stare con voi. Naturalmente ha ragione». «Cosa state facendo con quei pesci?». «Li ributto in acqua. Non sopporto di vederli soffrire. Se avete fame, cercherò di trovare qualcos'altro...». «Non ho fame», replicò lei. Edoardo si lavò via il viscidume dei pesci dalle mani e li guardò guizzare via nell'acqua. «Nemmeno io», disse. Sentì che Melisande gli si era avvicinata: non lo toccava, ma era molto vicina. Non poteva stare là, inchiodato a terra come una statua di sale. Doveva voltarsi. Doveva guardarla in faccia. Guardare in faccia quel suo dolore e affrontarlo. Assunse un atteggiamento risoluto. «Dovremmo andare in cerca di quel rifugio», propose rapido, girandosi verso di lei. La fissò negli occhi, di un colore blu più intenso di quello del fiume o del cielo. Si sentì montare dentro un'ondata di desiderio. Vide negli occhi di lei quella stessa ondata, che la afferrava e la trascinava verso di lui, gettandola tra le sue braccia. Non si baciarono. Rimasero là sulla spiaggia, sotto il sole del mattino, stretti l'una nelle braccia dell'altro, a sentire il calore e la dolcezza, e il battito dei loro due cuori. «Il mio amore per te infrange qualunque promessa io abbia fatto finora», le disse Edoardo in silenzio. «Infrange le leggi del mio paese e le leggi della chiesa. Eppure, questo amore mi sembra l'unica verità in un'esistenza fatta di bugie». «Non ti amo», gli rispose Melisande sempre in silenzio. Tenendo il capo chino e gli occhi bassi, lei gli si rannicchiò contro. «Ma ho bisogno di te. Ho bisogno che le tue mani mi dicano che la mia carne è calda. Ho bisogno che le tue labbra mi convincano che non sono sepolta in quella tomba buia. Amami. Riportami alla vita». «Dovremmo andare in cerca di quel rifugio», ripeté Edoardo ad alta voce, roco per la passione. Diceva che dovevano andare, ma non si muoveva. Le scostò un ricciolo bagnato dal viso, che era bellissimo, e la fissò negli occhi, nei quali si vide
riflesso. «Sì», rispose lei. «Dovremmo trovare il rifugio». Con le braccia allacciate, tenendosi stretti l'uno all'altra, risalirono la riva, dirigendosi verso gli alberi e il sentiero indicato loro da Draconas. A metà strada, Melisande si fermò. «Dovremmo portare con noi l'otre», disse. «Se abbiamo intenzione di stare là tutto il giorno». Edoardo assentì e, separandosi da lei con riluttanza, andò a recuperarlo. Lo prese e se lo mise a tracolla. «Ho notato», disse lei, scivolandogli di nuovo tra le braccia, «che l'acqua aveva un sapore diverso stamattina. Sembrava più dolce». «Sì», concordò lui. «Era più dolce». 24 Draconas aveva sperato di poter raggiungere la caverna via terra, ma scoprì di non poterlo fare. La rossa parete rocciosa era impervia e non offriva appigli di alcun genere. L'unica possibilità era arrivarci dal fiume. Così, Draconas si tolse gli stivali, si sfilò i calzoni e si tuffò. Il freddo dell'acqua lo fece annaspare di riflesso a causa dell'impatto. I draghi sono nuotatori maldestri, poiché non hanno simpatia per quell'elemento liquido e lo evitano ogni volta che possono. Ciò che gli mancava in abilità, era però compensato dalla forza. Scalciando e soffiando, alla fine riuscì comunque a portarsi fino all'ingresso della caverna. Il freddo non era poi tanto terribile, una volta che ci si era abituati. Avanzò un poco e scrutò all'interno. La magia del drago permeava ogni cosa, coinvolgendo tutti i suoi sensi. Draconas era perplesso. Non aveva mai sperimentato niente del genere. Ma d'altra parte, ricordò a se stesso, non aveva neppure mai incontrato monaci pazzi. Proseguì, sguazzando con le mani e i piedi nell'acqua, ma avendo cura di non fare rumore. Solo leggere increspature, che andavano a rifrangersi contro le pareti, denotavano il suo passaggio. Quel tratto di caverna aveva una volta bassa e arcuata. Se fosse giunto fin là in barca, Draconas avrebbe dovuto chinarsi. E se il gigantesco Grald aveva effettivamente seguito quel percorso, doveva essersi addirittura piegato in due per poter passare.
Draconas si lasciò ben presto alle spalle la luce del giorno. Tuttavia, quella specie di galleria non era completamente buia, poiché si apriva su una grotta molto più vasta, rischiarata da una strana luminescenza gialloarancione, che ricordava la luce del crepuscolo. Prima di procedere oltre, si fermò. Muovendo le gambe per tenersi a galla, trovò una roccia che sporgeva dall'acqua scura e vi si aggrappò con l'intenzione di dare un'occhiata intorno. Dato che la grotta era molto spaziosa, anche un uomo dall'imponente statura sarebbe riuscito a starci tranquillamente in piedi. Una breccia nella parete rocciosa lasciava intravedere uno squarcio di cielo azzurro. La breccia aveva i bordi smussati e Draconas nutrì forti dubbi circa la sua origine naturale. Il fiume scorreva attraverso la grotta, il che lasciava supporre che quel posto non fosse tanto una caverna quanto una larga galleria. Ed era per tale motivo che finora non si erano trovate tracce dei trafficanti di bambini. Dovevano essere passati di là e usciti dall'altra parte. Probabilmente, pensò Draconas, seguendo quel ramo del fiume, si sarebbe arrivati al luogo in cui venivano portati i bambini di Maristara. Come aveva detto Edoardo, la grotta era un nascondiglio ideale per dei trafficanti. Poco più avanti, l'acqua del fiume aveva scavato le pareti su entrambi i lati, formando una specie di banchina dove approdare, e fu in quel punto che Draconas trovò segni inequivocabili del fatto che qualcuno doveva essersi accampato là: tratti anneriti sulla roccia dov'erano stati accesi dei fuochi, alcune ossa rosicchiate, un pezzo di corda sfilacciata a un'estremità. L'approdo era delimitato nella sua parte posteriore da un muro di pietra grigia che si incurvava a raggiungere la volta. La grotta era vuota. Se i trafficanti di bambini erano stati là, dovevano essersene andati già da alcuni giorni. Draconas abbandonò il suo supporto e si spinse più avanti, non tanto nuotando, quanto procedendo piuttosto come se volesse scostare con impazienza il fiume da sé. A mano a mano che si avvicinava alla banchina, le ombre si infittivano, rendendogli più difficile cogliere i particolari. Attribuendo la colpa all'acqua torbida, batté più volte le palpebre per schiarirsi la vista. Quando finalmente ebbe raggiunto l'approdo, vi si aggrappò con le mani, con l'intenzione di appoggiarsi per aiutarsi a uscire dall'acqua. Fu allora che due mani robuste gli ghermirono i polsi. Draconas annaspò per lo choc e reagì d'istinto. Agguantò le mani che
avevano agguantato lui e cercò di dare uno strattone al suo aggressore per farlo cadere nel fiume. Fu come cercare di smuovere una montagna. L'altro non si spostò di un palmo. Anzi, la sua presa si rafforzò. Nell'alzare gli occhi, Draconas vide che si trattava di Grald. Allo stesso modo in cui Edoardo aveva pescato i pesci nel fiume e li aveva gettati a riva, così Grald sollevò Draconas e lo scaraventò sul duro pavimento di roccia. Draconas gemette e boccheggiò, inarcando la schiena, atteggiando il viso a una smorfia di finto dolore, di finto spavento, non abbandonando neppure per un attimo il suo avversario con gli occhi. Il gigante gli si fece più vicino. Draconas si irrigidì, proponendosi di assestargli un potente calcio al ginocchio, con la speranza di fratturarglielo. Ma Grald lo spiazzò, chinandosi verso di lui. Dopo avergli afferrato il mento con una mano, che avrebbe potuto contenere nel palmo la sua testa tutta intera, Grald gli fece girare il viso verso la luce. «Sono deluso. Mi avevano detto che eri astuto. E invece ti sei precipitato diritto nella mia trappola. Non l'hai ancora capito cosa sta succedendo, Draconas?». Grald intensificò la stretta. Le sue dita affondarono nella mascella dell'altro, torcendogliela con forza brutale, quasi slogandogliela. Il dolore era atroce. Poi, con la mano gigantesca, diede uno strattone alla testa di Draconas. «Adesso riesci a capire?» chiese Grald, fissando Draconas negli occhi. Una luce bianca incandescente attraversò come un lampo il cervello di Draconas, illuminando ogni sua parte. Questi tentò di proteggersi da quell'aggressione. Le sue idee, i suoi piani, i suoi pensieri sgattaiolarono via come topi spaventati, cercando di infilarsi in ogni piega e in ogni fessura. Ma quella luce implacabile continuò a sondare, indagare e frugare, afferrandoli tutti e strappandoli ai loro nascondigli, per poi divorarli. Un solo misero pensiero rimase, tutto raggrinzito, nascosto a quella luce accecante. Grald era un drago. Un drago anziano, potente, crudele e astuto. Immobilizzato dalla poderosa morsa dell'avversario, Draconas non poteva né muovere la testa né distogliere lo sguardo. Ma aveva le braccia libere, perciò si tastò intorno furtivamente, in cerca di un'arma. Le sue dita sfiorarono un sasso e vi si chiusero sopra. Il sasso colpì Grald con violenza su un lato del capo.
L'impatto avrebbe spaccato il cranio di un umano. Grald si limitò a emettere un grugnito e a barcollare all'indietro. Il colpo però lo stordì quel tanto che bastava a fargli mollare la presa su Draconas, il quale riuscì a liberarsi e a rimettersi in piedi vacillante, con il sasso ancora stretto tra le dita. Un rivolo di sangue scese lungo la tempia del gigante a rigargli la guancia. Questi scrollò la testa, come un cane si scrolla dopo essere uscito dall'acqua, poi si alzò con movimenti pesanti. Draconas era stato attirato in quella trappola per uno scopo ben preciso: perché l'altro gli potesse penetrare nella mente, scoprire cosa sapeva e, particolare ben più importante, cosa si era proposto di fare alla luce di quelle sue conoscenze. Grald era riuscito nell'intento e non c'era nulla che Draconas potesse fare. Aveva visto tutto, sapeva tutto. Sapeva di Braun, sapeva del piano, di Anora e della pozione che lei gli aveva mandato, sapeva di Edoardo e Melisande. Grald avrebbe potuto porre fine a quella minaccia eliminando semplicemente tutti coloro che vi erano coinvolti: Draconas, Edoardo, Melisande, Braun e, forse, persino Anora, se fosse riuscito a fare in modo che gli altri membri del Parlamento non giungessero a sospettare. Ma neppure lui usciva indenne da quello scontro. Proprio come quando si spilla il contenuto di una botte di vino in una caraffa, Grald era stato costretto ad aprire una parte della propria mente, per poter ricevere ciò che era racchiuso in quella di Draconas. E questi aveva scorto qualcosa di affascinante. A differenza di Draconas, il cui aspetto era umano, ma la cui mente era quella di un drago, Grald possedeva due menti: la mente di un umano e quella di un drago. Le due non erano compatibili. La mente del drago era quella predominante, la più forte delle due. In effetti, aveva quasi consumato del tutto quella dell'uomo, così che, del vero Grald, rimaneva ben poco. Tuttavia, quel poco che restava avvolgeva la mente del drago come in una rete. I pensieri del drago dovevano filtrarvi attraverso. Il che significava che Grald sarebbe stato lento nelle sue reazioni. Draconas preparò una delle sue magie. A quel punto, non sarebbe servito a niente nascondere le sue capacità. Grald aveva visto tutto. Sapeva come combatteva, conosceva tutti i suoi stratagemmi, le tattiche e le abilità nascoste. Draconas preparò un potente incantesimo, quello cui sarebbe ricorso normalmente in una situazione del genere: un roboante scoppio di ma-
gica energia, mirante a far perdere i sensi alla sua vittima, per renderla rapidamente inoffensiva. Grald vide i colori dell'incantesimo che prendevano forma nella mente di Draconas e levò le mani a creare un contro-incantesimo per bloccarlo. Subito dopo, avrebbe fatto seguire uno dei suoi sortilegi mortali. Lasciando cadere il suo incantesimo all'ultimo secondo, Draconas si voltò e fuggì come una lepre. Colto alla sprovvista, Grald cercò di fermare la propria magia. La mente del drago sarebbe stata in grado di farlo all'istante, ma quella dell'umano era lenta, così il contro-incantesimo venne portato a termine. Un enorme scudo di energia, concepito allo scopo di deviare l'attacco di Draconas, comparve davanti a Grald. Finché lo scudo fosse rimasto alzato, Grald non avrebbe potuto ricorrere ai suoi poteri magici: infatti la protezione bloccava qualunque sortilegio, suo e del nemico. A Grald sarebbe occorso del tempo per inattivare lo scudo. Avrebbe dovuto rivedere l'incantesimo che intendeva lanciare e sostituirlo con un altro, facendo filtrare il tutto attraverso la rete della sua mente di umano. Quel processo avrebbe richiesto solo alcuni secondi, ma quei pochi secondi erano vitali per Draconas. A testa bassa e con i muscoli delle gambe che pompavano, questi si diresse a tutta velocità verso il fiume. Grald scelse di rinunciare a ogni tipo di magia, lasciando cadere a terra lancia e scudo, e si gettò all'inseguimento della sua vittima, per così dire, a mani nude, servendosi solo della forza del corpo che si era scelto. Draconas udì un passo pesante alle spalle e maledì l'astuzia dell'altro. Le lunghe gambe del gigante inghiottirono il poco spazio che li separava e questi raggiunse Draconas in un affondo a mezz'aria proprio mentre si tuffava, trascinandolo con sé. Le acque scure si richiusero sopra Draconas. Grald aggiustò la presa. Le sue mani enormi lo trattennero sott'acqua, cercando di affogarlo. Ma, poiché il corpo di Draconas era bagnato e scivoloso, non fu in grado di tenerlo saldamente, così l'altro riuscì a liberarsi e a nuotare disperatamente verso l'uscita della caverna. Se Draconas avesse potuto restare sott'acqua sarebbe riuscito a fuggire, ma dopo solo pochi momenti, sentì che i polmoni cominciavano a bruciargli. Tentò di resistere, finché non ce la fece più. Spingendosi verso l'alto con potenti bracciate, affiorò annaspando in superficie. Due mani robuste lo afferrarono sotto le ascelle e lo sollevarono fuori
dall'acqua, scagliandolo con violenza contro la parete rocciosa. Un dolore acuto e di un bianco abbacinante gli attraversò il corpo. Sentì il crac delle ossa che si fratturavano. Il sangue si mescolò all'acqua nei suoi occhi, nella sua bocca. Lottò con tutte le forze per sfuggire alla morsa dell'altro, ma quelle mani erano come ganasce di ferro. In preda alla disperazione, Draconas afferrò la testa dell'avversario e gli affondò i pollici negli occhi. Grald emise una sorta di muggito e se lo scrollò di dosso. Draconas finì di nuovo nelle acque scure. Ogni respiro e ogni movimento gli procuravano una sofferenza indicibile. Draconas sentiva Grald che scandagliava tutt'intorno, agitando quelle sue mani gigantesche per cercare di trovarlo. Anche la mente del drago che era in Grald cominciò a cercare, attenta a ogni sfumatura di colore emessa dalla mente del suo antagonista. Draconas fece in modo che quei colori sbiadissero, diventassero tenui e offuscati, poi si concentrò mentalmente, dicendo: «Com'è bello sprofondare in quest'acqua scura e silenziosa, lasciare che si chiuda sopra la mia testa, che penetri nei miei polmoni, alleviando il bruciore, il dolore, il senso di colpa... una morte calma e tranquilla...». Draconas fece in modo che Grald vedesse quei pensieri. Che credesse che lui stava morendo. Doveva solo assicurarsi che quella finzione non diventasse realtà. Grald cercò a lungo nell'acqua, illudendosi ogni volta di avere avvistato la sua preda. Si lanciò qua e là, tastando con le mani e scalciando con i piedi. «Te lo sei perso», disse Maristara, comparendogli nella mente all'improvviso. «Lascialo andare». I due comunicarono mentalmente, come sono soliti fare i draghi, ma con l'inconveniente che le loro due menti umane si intromettevano. Grald portò fuori il corpo massiccio dall'acqua e si scrollò. «Se n'è andato, mente e corpo», dichiarò cupo. «Credo che sia annegato». «È stato facile», ribatté Maristara. «Troppo facile». «Non sei stata tu a dover lottare contro di lui», borbottò Grald, facendo una smorfia mentre si portava la mano alla ferita aperta e sanguinante sulla tempia. «Credi che sia ancora vivo?». «Certo».
«Molto bene», grugnì Grald. «Lo vado a cercare». «Non ora. Abbiamo questioni più urgenti da risolvere». «Vuoi dire la donna. Quella che possiede i poteri magici dei draghi. Ho visto il piano di Draconas. So dove si nascondono i due umani. Per prima cosa li uccido, poi...». «Uccidi l'uomo», lo interruppe Maristara. «Ma non la donna. Ho un'idea migliore. È da tanto che mi dici che il sangue dei maschi si sta guastando». «Credo che sia questo il motivo per cui ci ritroviamo con tutti quei pazzi furiosi», disse Grald. «È passato molto tempo da quando abbiamo avuto l'ultima, sana infusione di sangue di drago», convenne Maristara. «Dai primi giorni al monastero, con le primissime donne. Sempre che tu abbia ragione ad affermare che il sangue si sta guastando, e non sto dicendo che tu ce l'abbia, bada bene. Le mie donne sono più forti che mai per quanto riguarda la magia: potresti tentare un esperimento con questa donna. Draconas ha già predisposto tutto quanto. Sarebbe un peccato non approfittarne». «Hai proprio ragione». Grald ridacchiò. «È una buona idea». «Dopo che avrai fatto ciò è necessario, riportala da me. La terrò prigioniera fino alla nascita del bambino, poi ce ne libereremo». «E Draconas?» chiese Grald, la cui mente umana provava del risentimento. «Rispettiamo le priorità», rispose Maristara. Draconas continuò ad avanzare tenendosi sott'acqua, poiché non voleva correre rischi. Il che gli risultò difficile, visto che non poteva usare il braccio sinistro. Si servì del braccio buono per procedere alla bell'e meglio, finché non vide penetrare nell'acqua una lama di luce, che gli fece capire di trovarsi fuori dalla caverna. Fu vagamente sorpreso di veder splendere il sole. Là dentro, aveva avuto l'impressione che l'oscurità si fosse inghiottita il mondo intero. Agitò le gambe spingendosi verso la superficie, riaffiorò e si guardò subito intorno in cerca di Grald. Non ne vide traccia: il che non lasciava presagire nulla di buono. Si diresse a fatica verso la riva, facendosi spingere dalla corrente. Poi si aggrappò alle lunghe e contorte radici di un albero per issarsi fuori dall'acqua. Fece qualche passo strisciando e si lasciò cadere sulla sabbia calda. Respirare era come inghiottire del piombo fuso. Aveva una costola rotta, probabilmente più di una. Il braccio sinistro era fratturato e inservibile e,
attraverso la carne violacea e infiammata, spuntavano le estremità seghettate dell'osso. Rigurgitò tutta l'acqua che aveva inghiottito e ricadde all'indietro, debole e tremante per il freddo e per lo choc. Il fiume lo raggiunse, lo travolse e lo spinse nelle sue acque tenebrose... Draconas si risvegliò con un gemito. Fissò il cielo sopra di lui. Non aveva idea di quanto a lungo fosse rimasto privo di sensi. Apparentemente, doveva essere passato un po' di tempo, visto che la luce del giorno stava scemando. Si disse che i casi erano due: o il sole stava tramontando o lui stava perdendo la vista. I denti gli battevano talmente forte per il freddo che si era morsicato la lingua. Sentì in bocca il sapore del sangue. Era in grado di guarire se stesso, ma per farlo doveva rimanere cosciente. Doveva concentrarsi sulla formula magica, ma il dolore gli rimescolava tutti i colori facendoli diventare un nero uniforme. Edoardo e Melisande. Ho permesso che Grald venisse a sapere della loro esistenza. Ho rivelato a Grald i nostri piani, e adesso lui sa dove si nascondono i due umani. Una trappola astuta, molto astuta. Ho incontrato il complice di Maristara, gli ho parlato e ho lottato contro di lui, tuttavia non ho idea di chi possa essere. Non ha lasciato che scoprissi il suo vero aspetto. Potrei trovarmi seduto accanto a lui durante la prossima sessione del Parlamento e non accorgermene. Ho fallito nella mia missione. Ho tradito Edoardo e Melisande. Probabilmente sono già morti, o lo saranno presto. Non posso fare niente per salvarli. Li ho coinvolti in tutto questo e li ho fatti ammazzare. Una rabbia più amara della bile gli montò dentro. Una rabbia così violenta e cupa che quasi lo soffocò. Era arrabbiato con tutti: Maristara, Braun, Anora e se stesso. Che diritto avevamo di intrometterci? Tutti quanti. Persino i draghi dei tempi passati, che avevano aiutato con spirito caritatevole gli umani a sguazzare fuori dal fango della creazione. Non lo avevano fatto per altruismo, ma solo per curiosità. «Facciamo un esperimento», si devono essere detti. «Vediamo come diventerà questa specie intelligente». La rabbia gli diede forza, funse da bastone da stringere tra i denti mentre elaborava nella sua mente la formula magica di cui aveva bisogno. Poi l'afferrò e se la fece scorrere attraverso il corpo tremante. La magia lo pervase con il suo calore e attenuò la sofferenza. Si rimise in piedi a fatica e valutò con cura la situazione. Non era ancora
guarito del tutto. Il processo di risanamento richiedeva almeno un giorno di sonno ininterrotto, ma lui non aveva tempo. La testa gli doleva, ma era poco più che un semplice fastidio, non un dolore feroce da farlo sentire come se la testa gli si spaccasse in due. Anche respirare gli faceva male, poiché le costole rotte erano tenute insieme solo dall'esile filo della sua magia. Lo stesso si poteva dire per il braccio fratturato. Riusciva a muoverlo e ad agitare le dita, e quello era quanto di meglio riuscisse a fare. Si guardò intorno, cercando di orizzontarsi e di trovare qualche punto di riferimento, poiché non aveva davvero idea di dove fosse finito. Con il sopraggiungere della sera, l'acqua del fiume era diventata di un color grigio setoso, calma e tranquilla, poiché non c'era vento. Scorreva lenta, mormorando tra sé una canzone. Draconas scrutò in lungo e in largo la sponda su cui era approdato. Scrutò anche l'altra riva. Non riusciva a trovare alcun indizio che gli risultasse familiare, il che lo lasciava perplesso. Non poteva essersi spinto così lontano. Alzò la testa e studiò il cielo, indugiando sul tramonto luminoso. Il sole stava calando alle sue spalle. Draconas si lasciò sfuggire un'imprecazione e colpì con il pugno della mano buona il tronco di un pioppo. Si trovava sulla sponda sbagliata. Su quella occidentale, mentre Edoardo e Melisande erano su quella orientale. Così come lo era Grald. 25 Edoardo e Melisande trovarono la quercia caduta più per istinto e per la buona sorte, dato che nessuno dei due prestava attenzione al sentiero che Draconas aveva indicato con tanta cura. Le braccia allacciate, camminavano appaiati, i passi di lui in sintonia con quelli di lei. Non parlavano del futuro. Il futuro non esisteva in quella regione selvaggia, lontano dai segni della civiltà e delle opere dell'uomo. Erano le uniche creature viventi. Il mondo era stato creato solo per loro. Non avevano passato, poiché erano nati proprio in quel momento. Non avevano futuro, poiché nessuno dei due voleva pensarci. Tutto ciò che dovevano fare era vivere, respirare e amare. Edoardo provò per un attimo la strana sensazione di essersi sdoppiato e di vedere un Edoardo che guardava l'altro Edoardo in preda a un cupo stupore. Si vide tendere la mano a fermare l'altro se stesso, ad afferrarlo e a
trascinarlo via. All'ultimo momento, la mano gli ricadde lungo il fianco e lui ordinò a se stesso di andare avanti. Quello era l'amore, ciò che doveva essere. Si guardò indietro, ma non riuscì più a scorgere l'altro se stesso, e ne fu lieto perché voleva vedere solo lei, la sua amata. Melisande non aveva una tale visione di sé. Viveva momento dopo momento, respiro dopo respiro, battito di cuore dopo battito di cuore. Si nascondeva da un passato che evocava strazianti sofferenze e orrori. Tutti coloro che aveva amato l'avevano tradita, perciò fuggiva da loro, correva via finché non avrebbe più udito le loro voci o visto i loro volti. C'erano solo il viso di lui, le sue mani, il suo amore e la certezza che lei era viva, respirava ed era amata. Quando giunsero alla quercia caduta, si sentirono entrambi impacciati ed esitanti. L'attesa fece loro accelerare le pulsazioni e scorrere veloce il sangue nelle vene, ma essi erano comunque degli sconosciuti l'uno nei confronti dell'altra e, sebbene fossero consapevoli di quale sarebbe stata la naturale conclusione e la desiderassero quasi con dolore, nessuno dei due sapeva come cominciare. «Devi avere sete», disse Edoardo, aggrappandosi all'unico gesto che non sembrasse avere un secondo fine. Si tolse l'otre dalla spalla, svitò il tappo e glielo porse. Lei accostò le labbra all'imboccatura e, in quell'atto, vi fu qualcosa di così sensuale che lui si sentì balzare il cuore in petto e tremare le mani, finendo per versarle l'acqua sul viso e sul corpetto. Impallidì e cominciò a profondersi in scuse. Lei scoppiò a ridere e lo guardò negli occhi. La risata svanì. Le loro labbra si toccarono in un primo bacio incerto e indagatore, poi la passione li travolse e li depositò sulle morbide foglie, all'ombra fresca e profumata della quercia. Fecero l'amore e si addormentarono, stretti l'uno all'altra, poi si svegliarono per fare di nuovo l'amore, scoprendo una gioia rinnovata e più intensa ogni volta che un corpo cedeva alle carezze dell'altro e si deliziava nel trovare nuovi modi di procurare piacere. Il giorno non aveva inizio e non aveva fine. Il sole sembrava ruotare attorno a un piccolo cerchio compatto sopra le loro teste, girando continuamente in tondo. Non avevano fame, ma la loro sete era incontenibile e ben presto bevvero il contenuto dell'otre fino all'ultima goccia. Poi rimasero sdraiati l'uno nelle braccia dell'altra senza parlare, come invece sono soliti fare gli innamorati, poiché tutto ciò di cui potevano parlare
era il passato, che avrebbe però suscitato solo un senso di colpa in lui e di terrore in lei. Il silenzio, imbarazzato e scomodo, sostituì la passione e il sole tramontò in un attimo, tuffandosi nel fiume, dove annegò il suo fuoco. Lui si accorse all'improvviso che si stava facendo buio e lei cominciò a sentire freddo. Edoardo si mise a sedere e si strofinò la bocca. L'acqua aveva un sapore dolce, ma lasciava un retrogusto amaro. Scrutò le ombre che li circondavano e si interrogò cupamente sul da farsi. «Sento qualcosa», disse lei. «Dei passi». Anche lui li sentì: rami che scricchiolavano e si spezzavano sotto il passaggio di pesanti stivali. «Dev'essere Draconas», arguì Edoardo. Si guardò in giro cercando i vestiti e vide che erano sparsi qua e là, sotto e dietro il tronco. «Anche se di solito non fa così tanto rumore quando cammina». Gli passò per la mente che forse Draconas aveva immaginato ciò che era successo e voleva avvisarli per tempo del suo arrivo. Edoardo porse a Melisande il suo abito perché si coprisse. Nel farlo, evitò di guardarla. Notando che lui aveva distolto lo sguardo, Melisande si sentì a disagio e provò vergogna. Armeggiò con l'abito, facendoci passare dentro la testa e accorgendosi subito che se l'era infilato a rovescio. Sospirando e rabbrividendo, se lo sfilò e lo girò. «Resta qui. Cercherò di liberarmene», disse Edoardo, allacciandosi i calzoni. Non vedeva l'ora di allontanarsi e si odiava per quello, così come per tutto il resto. Il ricordo del loro ardore lo assalì e lo riempì di rimorso. «Melisande...». Lei girò la testa dall'altra parte. «Vai, per favore», lo pregò. «Non voglio vedere Draconas. Non voglio vedere nessuno. Almeno per un po'. Ti prego, vai». Lui fece ciò che gli chiedeva. Uscendo dal riparo della quercia vide che stava scendendo la notte, con le sue ombre che si stendevano da un ramo all'altro, come un drappo bagnato tirato fuori dal fiume e poi strizzato e teso su di lui, ad avvolgerlo in un futuro opprimente. Si sentiva depresso, sopraffatto e confuso. Aveva una moglie, dei bambini, un regno. Aveva il suo Dio, che considerava peccato mortale ciò che lui aveva appena fatto. Edoardo recuperò la camicia e indugiò per un attimo a giocherellare con un polsino sfilacciato. Sentì i passi avvicinarsi e, d'un tratto, provò irrita-
zione nei confronti di Draconas, perché lasciava intendere in modo così ovvio che lui sapesse fin dall'inizio che Edoardo avrebbe ceduto alla tentazione. Gettando la camicia a terra, Edoardo uscì dalla piccola radura. Avrebbe preso Draconas per un braccio e l'avrebbe ricondotto all'accampamento, dove avrebbe regolato i conti che aveva in sospeso con lui. Gli avrebbe cancellato quel sorrisetto altezzoso che gli compariva a volte sulle labbra, come se fosse lui solo il depositario della verità. Un uomo sbucò dall'ombra. Era più alto del normale, più alto di Draconas, e anche più massiccio. Le ultime luci del sole al tramonto andarono a posarsi sul grugno bestiale di Grald. Gli occhi dell'uomo, incassati sotto una fronte prominente, scrutarono intorno in cerca della quercia caduta. La bocca gli si atteggiò a un ghigno lascivo. Edoardo non capì nulla e tutto nello stesso istante. Portò la mano alla spada, ma si accorse di non averla al fianco. L'aveva dimenticata sulla spiaggia. Si tuffò in avanti, sperando di cogliere l'altro di sorpresa e di trascinarlo a terra. Grald lo osservò divertito. Piegò la gamba e colpì Edoardo in pieno viso col ginocchio. Il violento impatto fece piegare all'indietro la testa di Edoardo, fracassandogli il naso e i denti. Questi sentì il dolore che gli esplodeva dentro, il dolore e la paura per Melisande. Con il naso e la bocca che gli sanguinavano e la testa che gli risuonava, tentò di rimettersi in piedi. Lo stivale di Grald gli si affondò nelle costole. Edoardo si piegò in due e l'altro gli sferrò un calcio in faccia. Una bianca luce accecante scoppiò nella testa di Edoardo, una luce bianca, pura e accusatrice come il viso di Dio. Poi il viso di Dio svanì. Melisande udì il grido di Edoardo e si rannicchiò nell'oscurità, stringendosi l'abito al petto. Poi udì un altro grido, e la voce di Edoardo che gemeva, e poi ancora altri suoni orribili, come se qualcosa di duro andasse a sbattere ripetutamente contro della carne molle. I gemiti cessarono. Dei passi si diressero verso di lei. Voleva gridare, ma il terrore le paralizzava la gola. Il rumore di passi si fermò. Melisande si rese a malapena conto di una presenza goffa ed enorme che si era accucciata mani e piedi a terra, intenta
a scrutare all'interno del suo rifugio improvvisato. Il volto di un uomo, contorto in un'espressione di lasciva bestialità, la fissava. Lei si ritrasse ancora di più nell'ombra, quasi sperando che questa la potesse salvare. Una mano - anch'essa enorme e bagnata, ricoperta da fitti peli neri - si protese nell'oscurità, le ghermì un piede e la tirò a sé, mentre lei scalciava e si divincolava. Melisande lottò, si agitò, fletté e contorse il corpo, cercando di fuggire. L'uomo la immobilizzò a terra ridendole in faccia. Si lasciò cadere su di lei, sembrando divertito nel sentire che si dimenava sotto di lui. Il drago che abitava il corpo di Grald non conosceva il desiderio carnale. Quello per lui era solo un lavoro che doveva portare a termine. Ma il corpo dell'uomo provava un enorme piacere nell'assistere a quegli inutili tentativi di liberarsi da parte della sua vittima. Quei preliminari gli erano quasi indispensabili e lo eccitavano, perciò il drago permise all'uomo di trarre il suo godimento. L'uomo spinse a forza le sue ginocchia tra le gambe di Melisande per aprirle, si mise in posizione e la penetrò. Lei cacciò un urlo straziante. Le lacrime le bruciarono gli occhi e si riversarono copiose, inondandole le guance. Lui le mise una mano sulla bocca per farla smettere di gridare. Le lacrime di lei schizzarono sulla sua mano. Nel momento dell'orgasmo, la spinta di lui quasi la smembrò. Nell'aprire gli occhi, contorcendosi dal dolore, Melisande vide un paio di ali nere distendersi su di lei e la testa di un drago che la fissava con occhi cupidi. Rivoli di saliva uscivano dalla bocca del drago, mentre i suoi artigli le si conficcavano nella carne e il suo seme caldo le penetrava nel corpo. 26 Intrappolato sull'altra riva del fiume, Draconas si succhiò le nocche ferite e sanguinanti della mano, nel punto in cui aveva colpito il tronco e rimuginò sul da farsi. Doveva affrontare l'amara realtà: non avrebbe potuto salvare Melisande ed Edoardo. Era trascorso troppo tempo. Il sole stava tramontando, l'acqua del fiume era diventata grigio perla, nella luce del crepuscolo. Grald non era tipo da lasciarsi crescere l'erba sotto i piedi. Sapeva esattamente dove trovarli e non avrebbe indugiato a raggiungerli subito per
ucciderli. A quell'ora dovevano già essere morti. E, dopo tutto, che importanza poteva avere? Si trattava solo di due umani. Draconas fissò frustrato il fiume. Avrebbe potuto tuffarsi in quell'acqua gelida, esaurire la poca energia che gli era rimasta cercando di nuotare controcorrente, con il solo scopo di ritrovarsi qualche chilometro più a valle. Ammesso che non fosse annegato prima. Oppure avrebbe potuto riprendere il suo aspetto di drago, servirsi delle ali per sorvolare il fiume. Avrebbe potuto farlo, ma ciò significava infrangere la legge. In base a un decreto del Parlamento dei Draghi, promulgato secoli addietro, a un drago diventato «camminatore» non era consentito riprendere il proprio aspetto originale senza prima aver chiesto e ottenuto l'autorizzazione del Parlamento stesso. Gli era permesso fare a meno di tale autorizzazione solo se la sua vita era in pericolo e, in tal caso, solo se la trasformazione avveniva lontano da occhi umani. Quanto poi a un drago che riprendeva la sua vera forma per salvare la vita a un umano, quello era assolutamente vietato. I draghi avevano a cuore l'esistenza degli uomini e si preoccupavano del loro benessere, ma questi erano talmente numerosi che la perdita di uno o due di tanto in tanto non faceva grande differenza. La vita di un umano, contrapposta alla possibilità che gli appartenenti alla sua specie scoprissero l'esistenza di un drago in mezzo a loro, non valeva davvero il rischio. Draconas rimase sulla riva a osservare l'oscurità che si infittiva intorno a lui. Il braccio che aveva curato da poco gli faceva male. Riusciva appena a muovere la mano. La testa gli pulsava. Per un attimo, pensò di nuovo alla legge e alla probabile punizione che gli sarebbe toccata. «Al diavolo», esclamò. Il suo aspetto di drago era sempre presente, sempre in attesa. Spiegava le ali su di lui, proprio come gli umani credono che gli angeli custodi veglino su di loro. Sebbene Draconas non riuscisse a vederlo, ne avvertiva sempre l'esistenza. Chiuse gli occhi e sollevò il capo, tese le mani a toccare le ali invisibili e il corpo coperto di squame lucenti. Non sapeva mai con certezza se, in quei momenti, fosse il suo corpo umano a fondersi in quello del drago o viceversa. Non aveva importanza. Carne e spirito divennero una cosa sola. I suoi dolori si attenuarono e sparirono. Era diventato di nuovo la creatura che
popolava i suoi sogni. I suoi legami terreni si sciolsero, Draconas aspirò l'aria della notte immettendola nei poderosi polmoni. Sentì il fuoco bruciargli nelle viscere. Sentì muscoli e tendini rispondere ai suoi comandi, sentì le squame che frusciavano. Spiegò le ah e si alzò in volo attraverso il fiume. Dal suo punto d'osservazione, al di sopra delle cime degli alberi, Draconas scrutò in basso, verso la spiaggia dove si trovava il loro accampamento. Vide la barca, proprio dove l'avevano lasciata. Vide, luccicante alla luce delle stelle, la spada che Edoardo aveva dimenticato. Stava cominciando a virare in direzione della quercia caduta, quando notò che, anziché una sola barca, sulla spiaggia ce n'erano due. Grald, pensò, e si sentì colmare il cuore da una gioia feroce. Questa volta si sarebbero incontrati faccia a faccia con il loro vero aspetto. Draconas pianificò il suo attacco, un attacco condotto con l'aiuto della magia, in grado di danneggiare gravemente le sembianze umane dietro le quali si nascondeva Grald. Solo trasformandosi da umano in drago, l'altro avrebbe potuto sfuggirgli. E a quel punto, Draconas avrebbe scoperto la sua vera identità. Fosse l'ultima cosa che faccio, giurò Draconas a se stesso, l'ultima cosa prima di morire, farò in modo che Braun sappia il nome del suo nemico. Volteggiando in cerchio nel cielo, Draconas rimase in attesa del gigante. Ben presto questi comparve, come evocato dai suoi pensieri di vendetta, uscendo dal fitto degli alberi e dirigendosi verso la spiaggia. Draconas si abbassò silenzioso, senza fretta, evitando di fare movimenti o rumori improvvisi, che avrebbero potuto mettere in allerta quel bruto e fargli scrutare il cielo, dove avrebbe visto un drago color rosso-arancio, dalle squame che sfavillavano come braci alla luce delle stelle. Draconas si tenne mentalmente pronto a lanciare il suo incantesimo: una rete sottile come una ragnatela, intessuta di energia. Scoppiettando e sprizzando scintille, la rete avrebbe imprigionato Grald con i suoi fili setosi di guizzanti saette. L'altro avrebbe avuto solo un istante per cambiare forma, o il suo corpo di umano sarebbe morto, senza lasciargli altre possibilità. Sarebbe stato colto in piena mutazione, proprio come Maristara, fragile e vulnerabile. Descrivendo spirali sempre più basse, con il dolce sapore della magia sulla lingua, Draconas si teneva pronto a rilasciare la rete. Volò più vicino e bloccò all'istante la magia, bloccò l'incantesimo. Grald non era solo. Aveva tra le braccia Melisande. Lei doveva essere
morta o svenuta, perché la testa le ciondolava e le braccia pendevano inerti. Perché Grald stava portando via Melisande? Draconas riuscì a immaginare due motivi. O lei era morta e il gigante voleva liberarsi del corpo, il che gli sembrò improbabile. Oppure era viva e lui la stava portando con sé per qualche ragione. Draconas capì cos'era accaduto. Grald aveva visto il suo piano: fare in modo che Edoardo mettesse incinta Melisande, così che lei desse alla luce un bambino nel cui sangue scorressero i poteri magici dei draghi. Adesso la sta portando a Maristara, così come io avrei dovuto portarla ad Anora. Draconas era incerto sul da farsi. Non poteva attaccare Grald senza correre il rischio di uccidere Melisande. Ma non sarebbe stato meglio così? La morte non sarebbe stata preferibile al tipo di vita che l'attendeva? A prescindere da quale dei due schieramenti di quella terribile battaglia l'avesse requisita, lei sarebbe stata comunque prigioniera, costretta a portare in grembo un bambino che poi le sarebbe stato tolto, un bambino destinato a un solo scopo, e cioè distruggere. Se Melisande fosse mancata in quel momento, la sua morte avrebbe obbligato Anora a prendere immediati provvedimenti nei confronti di Maristara, anziché passare vent'anni a divertirsi crescendo quel bambino e chiedendosi senza sosta che fare di lui, una volta che fosse diventato grande. Nel cupo stato d'animo in cui si trovava, Draconas aveva quasi deciso che Melisande dovesse morire, che avrebbe voluto morire, quando vide che sulla spiaggia c'era qualcun altro. Non aveva indosso l'armatura, ma Draconas la riconobbe all'istante: era Bellona, la guerriera al comando della squadra inviata per uccidere Melisande. Capì che era lei dai flessuosi movimenti dei muscoli, dall'abilità e dal passo furtivo con cui si stava avvicinando per colpire la sua vittima. Ma chi era la sua vittima? Grald o Melisande? O entrambi? Non che il fatto avesse rilevanza per Draconas. Il suo piano era andato in fumo. L'unica cosa che gli restava da fare era aspettare, e vedere se riusciva a recuperare qualcosa dalle rovine. «Umani», borbottò tra sé, esasperato. Bellona aveva trascorso l'intera mattinata a risalire il fiume. I muscoli delle braccia erano irrigiditi dai crampi e le dolevano a furia di remare. Le mani erano coperte di vesciche e i palmi quasi sanguinavano a causa del
continuo sfregamento con i remi. Ma aveva proseguito, scrutando le sponde in cerca di qualche segno che denotasse la presenza dei tre fuggitivi. Passò davanti alla caverna semisommersa. All'interno tutto era quieto e tranquillo, poiché era ormai pomeriggio inoltrato e la battaglia tra Draconas e Grald era terminata da un pezzo. Draconas giaceva svenuto sulla riva, poco più lontano a valle. Grald era andato alla ricerca di Melisande. Bellona esaminò da vicino la caverna, dicendosi che sarebbe stata un ottimo nascondiglio per i tre. Ma non le piacque la sensazione che quel luogo le comunicava, perciò proseguì. L'istinto le diceva che Melisande non era là. Dopo un altro po', lasciò che la barca venisse trasportata piano dalla corrente, mentre lei controllava le sponde. Un raggio di sole si rifletteva su qualcosa di metallico. Con il cuore che le batteva forte, Bellona si avvicinò a riva a forza di remi. Il luccichio proveniva dall'elsa di una spada, abbandonata nel suo fodero, vicino ai resti carbonizzati di un fuoco da campo. In secco sulla spiaggia, c'era una barca identica a quelle che aveva trovato in precedenza. Bellona scrutò il terreno circostante, ma non vide traccia dei tre. Dovevano avere trascorso la notte là. Vide alcune coperte stropicciate sulla sabbia, e un'altra coperta distesa sul ramo di un albero. Avevano trascorso la notte là e non se n'erano ancora andati. Il sangue le pulsava nelle orecchie. Il cuore le batteva così forte da impedirle quasi di respirare. Fu un sollievo immergere gambe e piedi nell'acqua fredda e lasciare che la sua pelle febbricitante si rinfrescasse. Avanzando nell'acqua, Bellona trascinò la barca a riva. Le ombre del crepuscolo erano già fitte in mezzo agli alberi, ma la luce radente, che indorava il fiume, illuminava la spiaggia. Le numerose impronte che vide sulla sabbia le confermarono che qualcuno doveva essere stato là non molto tempo prima. Riconobbe subito le orme dei piedi di Melisande e maledisse la luce che diventava sempre più fioca: non avrebbe potuto seguire le loro tracce al buio. Ma non occorreva seguirne le tracce, si rese subito conto. Ovunque fossero andati, sarebbero tornati al campo al cadere della notte. Doveva solo aspettarli. Si diresse verso il limitare del bosco con l'intento di nascondersi. Un grido di donna, straziante e disperato, le giunse dal bosco. Bellona si irrigidì, mettendosi in ascolto. Riconobbe la voce amata e si guardò intorno, scrutando tra gli alberi, nel punto da cui sembrava provenire quel terribile suono.
Il grido giunse di nuovo, una, due volte, e poi all'improvviso cessò, quasi fosse stato soffocato. Bellona si avviò di corsa in quella direzione, ma l'avanzare le fu impedito dalla folta vegetazione e dall'oscurità. Fu costretta a rallentare, con il cuore che le batteva, ma di paura. Frustrata e scoraggiata, estrasse la spada e cominciò a farsi strada nell'intrico dei rami. Il rumore di qualcuno che si muoveva nel bosco la fece fermare. Il rumore si fece più vicino. Bellona doveva semplicemente restare dov'era, aspettando che l'altro le passasse accanto. Si acquattò nell'ombra. Da dove si trovava poteva vedere bene sia il bosco sia la spiaggia. Il rumore proveniva dalla sua destra. Erano passi, decisi, come se la persona a cui appartenevano sapesse bene dove dirigersi. E appartenevano a un uomo, l'amante di Melisande. Qualunque cosa le avesse fatto, avrebbe pagato a caro prezzo. Si costrinse a restare in attesa, immobile e paziente, come aveva sempre insegnato a fare alle sue guerriere nel corso di un'imboscata. L'uomo le passò molto vicino. Lei lo fissò stupita. Non si trattava dell'amante di Melisande, né del suo compagno. Questo aveva una corporatura da orso, enorme, goffa e pesante. Chiunque egli fosse, era comunque Melisande quella che teneva tra le braccia. Bellona non riuscì a vederla con chiarezza a causa dell'oscurità, ma riconobbe i capelli biondi. Il corpo della donna giaceva inerte e senza vita tra le braccia di quel bruto. Bellona non aveva idea di ciò che potesse essere successo o di chi fosse quello sconosciuto, né per quale motivo si trovasse là o che cosa ne fosse stato degli altri due uomini. Non le importava niente di tutto questo. Muovendosi adagio e con cautela, si rialzò. Aveva già la spada stretta in pugno. L'uomo caracollò verso la spiaggia. Si fermò un attimo a riflettere sul da farsi. Scorgendo la barca di Bellona, che lei non aveva pensato di nascondere, emise un grugnito di soddisfazione e si avviò da quella parte. Brandendo la spada, Bellona sgusciò furtiva dall'ombra degli alberi. Con passo leggero, attraversò di corsa la spiaggia, portandosi alle spalle del bruto. Lui non la udì. Continuò a camminare, lo sguardo puntato sulla barca. In silenzio, cercando di mettere a tacere persino il battito del suo cuore, Bellona alzò la spada e si precipitò verso la sua vittima. Intendeva sferrargli un colpo sul cranio per spaccarglielo in due. Adesso non doveva più preoccuparsi di fare piano. Sperava di colpire rapida, prima che l'altro avesse il tempo di reagire. I suoi stivali scricchiolarono sulla
sabbia e l'uomo la sentì. I muscoli della schiena massiccia si tesero. Cominciò a girare la testa. Ma non aveva importanza. Non poteva fare niente, impedito com'era dal fardello che portava tra le braccia. Bellona cacciò un possente grido di battaglia e, con quanta forza aveva in corpo, assestò all'altro un fendente mortale sul capo. La lama parve esplodere in mille pezzi e i suoi frammenti di metallo le si conficcarono nelle mani e nelle braccia, mentre l'impatto la mandò a finire lunga e distesa sulla sabbia. Sanguinante e stordita, senza capire bene cosa fosse successo, Bellona sollevò lo sguardo e vide quella specie di gigante troneggiare su di lei. Con fare casuale, come se si liberasse di un rifiuto, questi gettò a terra Melisande. La poveretta cadde a corpo morto, in un groviglio di gambe e braccia, senza emettere suono. Bellona capì allora che Melisande era morta. Le lacrime le bruciarono in gola e le pizzicarono gli occhi. L'uomo estrasse uno stiletto, che teneva nascosto nello stivale. Lei rimase a osservarlo, indifferente. Lasciamo che ponga fine a questo tormento, pensò, e voltò la testa dall'altra parte. Uno stridio risuonò alto nel cielo. Lo stridio era acuto, lacerante e, sebbene provenisse indubbiamente da un animale, conteneva una nota di avvertimento che persino Bellona riuscì a cogliere. L'uomo si bloccò e alzò gli occhi. La bocca gli si contorse in un ghigno. Lo stridio aveva svegliato Melisande, che si mosse ed emise un lamento. Bellona si sentì percorre da una rinnovata energia. Vedendo che l'altro non la guardava, gli afferrò la mano che teneva lo stiletto e affondò i denti nella carne. Sentì il sangue che le zampillava in bocca, mentre le sue lacrime gli cadevano sulla mano. Bellona udì il ruggito, che aveva una connotazione umana, benché provenisse dalla gola di un drago. L'umano ritrasse la mano ferita e ringhiò furioso. Il drago, che emetteva bagliori nero-azzurrognoli alla luce delle stelle, alzò lo sguardo minaccioso verso il cielo e si produsse in un brontolio rabbioso. Davanti agli occhi orripilati di Bellona l'uomo e il drago erano un tutt'uno e al tempo stesso separati, come un uomo e la sua ombra. Attonita, la guerriera era incapace di muoversi. Lo stridio risuonò di nuovo, penetrante e sinistro, e lei venne percorsa da un brivido e scrutò il cielo. In alto, c'era un altro drago dalle squame rosso-fuoco, che volava in cerchio sopra la sua testa con le ali che sfioravano le stelle. Il collo proteso,
gli artigli abbassati, il drago fiammeggiante si tuffò in picchiata verso il drago azzurro, come un falco sulla sua preda. L'uomo lasciò cadere lo stiletto nella sabbia e cominciò a correre in direzione del fiume. Lo raggiunse pochi secondi prima che l'altro si abbattesse su di lui. Si tuffò nell'acqua scura e scomparve. Il drago rosso-fuoco passò in volo sopra Bellona, sollevando un vortice accecante di sabbia. Lei si riparò il viso con un braccio. La sabbia le turbinò intorno, sferzandole la carne e pungendole gli occhi. Rimase stordita per un lungo momento, poi rialzò il capo, battendo le palpebre per liberarsi della sabbia. Le stelle splendevano, fredde e nitide, proiettando la loro luce argentea sulle nuvole che correvano veloci. Del drago, di entrambi i draghi, non c'era più traccia. Bellona si portò, strisciando sulle mani e sulle ginocchia, fino al punto in cui giaceva Melisande e si lasciò cadere stancamente accanto a lei, come al termine di un lungo viaggio. Se la morte doveva arrivare, le avrebbe trovate insieme. 27 Melisande giaceva sulla schiena, con le membra contorte, nel punto in cui l'uomo l'aveva lasciata cadere. Aveva il viso lacero e malconcio, le labbra spaccate e sanguinanti. Era mezza nuda, come se l'assalto l'avesse colta mentre era in procinto di vestirsi. La gonna era bagnata e Bellona capì che quell'umidore era sangue di Melisande. Un tremito di pietà e di rabbia scosse Bellona. Sentì il polso di Melisande e vide che batteva. Anche il cuore batteva, debolmente, ma batteva. Melisande, nel sentirsi toccare, spalancò gli occhi di colpo. La bocca le si aprì in un grido, il corpo le si irrigidì. «Calmati, Melisande, sei al sicuro», le disse dolcemente Bellona, scostandole dal viso con una carezza i capelli incrostati. Melisande fissò Bellona con uno sguardo terrorizzato, poi la riconobbe. «Dove... dov'è lui?» chiese, tremante di paura. «Se n'è andato, Melisande», rispose Bellona, senza precisare né dove né come. Melisande non capì. Le ombre del dolore e dell'orrore erano sospese su di lei, troppo fitte e vicine perché lei riuscisse a vedere oltre. Tutto ciò che vedeva era il volto della sua amata.
«Bellona», mormorò, con labbra così tumefatte da riuscire a malapena a farsi comprendere. «So che devo morire e lo accetto». Chiuse gli occhi e le lacrime le scivolarono sulle guance mescolandosi al sangue. «La morte sarà la benvenuta...». «No, Melis», la interruppe Bellona, a malapena consapevole di ciò che stava dicendo e lasciando che fosse il cuore a parlare per lei. Poi le afferrò la mano e se la portò alle labbra. «Non morirai. Non lo permetterò. Non parlare adesso, cerca di riposare. Ti porto dell'acqua». «Non lasciarmi!» la implorò Melisande, aggrappandosi alla sua mano. «Non temere, non lo farò», rispose Bellona cercando di tranquillizzarla. L'altra si rilassò, chiuse gli occhi, poi li riaprì. Si guardò intorno. «Edoardo! Ho sentito che mi chiamava, ma era troppo tardi». Melisande venne scossa da un brivido. «L'ho visto a terra. La testa... Credo che lo abbia ucciso». Le labbra di Bellona si serrarono: «Edoardo? Il tuo amante?». Melisande la fissò con sguardo fermo. «Ti ho tradita. No», disse, facendo una pausa, «ho tradito tutte e due. Il nostro amore. Mi spiace. Mi spiace così tanto. Non volevo...». Inspirò ed emise un sospiro. «Non mi aspetto che tu mi perdoni. Non riesco neppure a perdonare me stessa. Per me sarà un sollievo morire. Credimi, e non sentirti colpevole per ciò che devi fare. Sono felice che sia tu a farlo, Bellona, e nessun altro». «Non parlare di questo adesso, Melisande. Non parlare di niente. Devi riposare...». «Presto riposerò fin troppo», rispose Melisande sorridendo mesta. «Adesso devo parlare, ne ho bisogno, Bellona. Devo dirti la verità circa la Signora. Devi trovare il modo di mettere in guardia la nostra gente, di eliminare quel mostro che ha ridotto tutti in schiavitù». Melisande cominciò a raccontarle le vicende di quella terribile notte di pioggia, partendo da quando si era svegliata e aveva udito la voce della Signora che la chiamava. Bellona ascoltò, dapprima scettica, poi stupita e infine orripilata. Mentre Melisande proseguiva nel suo racconto, dicendole di Edoardo e di come l'avesse salvata dal drago, Bellona rivide le immagini dell'Occhio che le aveva mostrato Lucretta - il viso di Melisande e dello sconosciuto - e all'improvviso vide tutto con chiarezza e non con lo sguardo offuscato dalla gelosia. L'espressione dei due non era di gioia, come quella di due innamorati che si incontrano, ma di paura, di due persone terrorizzate che cercano
di fuggire insieme da morte sicura. Vide di nuovo l'immagine del drago che volava sopra Grald e, a quel punto, cominciò a credere. La sua convinzione si rafforzò quando Melisande le riferì ciò che aveva saputo dei neonati maschi, rapiti e venduti come schiavi. Bellona si ricordò del pannolino trovato nel carro. Si ricordò di Lucretta, del cambiamento che era intervenuto in lei, quell'inspiegabile cambiamento... Melisande concluse la sua storia. Non accennò a Edoardo e a quella loro giornata di estasi. Non parlò del crepuscolo, del dolore e del sangue. L'oscurità si stava infittendo intorno a lei e a Bellona. Non un alito di vento muoveva le foglie. Nessun animale vagava nel buio. Il fiume scorreva silenzioso e pareva essersi scordato del suo mormorio. O forse stava ascoltando di nascosto, come Draconas, che scivolava non visto tra le nuvole, là in alto nel cielo. «Penserai che sono pazza», disse Melisande alla fine. «L'ho pensato subito, quando hai cominciato a raccontarmi del drago», confessò Bellona. «Ma adesso non lo penso più». Infilò la mano nella cintura e ne estrasse il pannolino da neonato che vi aveva nascosto. «L'ho trovato nel carro e l'ho tenuto. Non so perché. Credo di avere avuto intenzione di parlarne con Lucretta...». Tacque di colpo e scosse il capo. «Povera Lucretta. Non mi è mai piaciuta. Ma non se lo meritava». «Devi tornare», disse Melisande, accentuando la stretta sulla mano di Bellona. «Promettimi che troverai il modo di liberare Lucretta dalla morte apparente che è costretta a subire. Promettimi che libererai la nostra gente dal drago». «Torneremo insieme a Seth, Melis. Elimineremo quel mostro insieme». Melisande chiuse gli occhi e scosse il capo. Bellona aveva paura. Non era da Melisande arrendersi. «È colpa mia, Melisande», le disse Bellona, balbettando. «Se ti avessi amata come dovevo, mi sarei fidata di te. Avrei capito che, anche se tu avevi trovato un altro amore, non saresti mai venuta meno alle tue responsabilità. Quando Lucretta mi ha mostrato te insieme al tuo amante, ho intuito che c'era qualcosa che non andava, ma non ho voluto approfondire. Ho visto ciò che volevo vedere. Se c'è qualcuno che deve chiedere perdono, quella sono io». Si chinò e baciò teneramente Melisande. «Perdonami per non aver avuto fiducia in te». Bellona esitò, poi chiese
risoluta: «Vuoi che vada in cerca del re o di quel Draconas?». «No», disse Melisande. «Sono entrambi morti, ne sono certa. Sono morti nel tentativo di salvarmi, Bellona. Ho sentito gridare Edoardo e poi... poi...». Melisande passò le braccia attorno al collo di Bellona e vi si aggrappò. Voleva raccontarle della violenza subita, del dolore lancinante e dell'orribile immagine del drago accovacciato su di lei. Ma non ci riuscì. Se ne avesse parlato, avrebbe reso tutto ancora più reale. «Sai dove si trova il suo reame?» chiese Bellona con dolcezza. Melisande annuì. «A sud di qui. Da qualche parte a valle». «Andremo laggiù e spiegheremo alla sua gente dove trovare i corpi». «Ti amo, Bellona», sussurrò Melisande. «Ti amerò sempre. Spero che tu mi possa perdonare». «Se anche tu mi perdoni, i nostri peccati si cancelleranno reciprocamente», disse Bellona. «E adesso andiamocene da questo luogo di dolore». Sollevando Melisande tra le braccia, la trasportò fino alla barca. La avvolse in una coperta, le fece bere dell'acqua fresca, le lavò il viso contuso e le mani, e aspettò paziente accanto a lei, finché non cadde sfinita in un sonno profondo. Sebbene fosse lei stessa stremata, spinse in acqua l'imbarcazione, ci saltò dentro e, guidata dalla luce della luna, cominciò a discendere il fiume dai riflessi argentati. Draconas avrebbe dovuto fermarle. Avrebbe dovuto raggiungerle, spaventando a morte la guerriera, agguantare Melisande e portarla da Anora, come gli era stato ordinato di fare. Ma disubbidì. Lasciò che la barca si allontanasse. Non la seguì, né guardò dove fosse diretta. Lasciò che scivolasse nell'oscurità e sparisse. Avrebbe pagato cara quella disubbidienza. Aveva fatto un bel pasticcio, lo ammetteva. Ma cosa avrebbe potuto fargli Anora di tanto brutto? Privarlo della sua «umanità»? Emise un sordo brontolio. Ebbene, se la poteva prendere. Draconas si guardò intorno in cerca di qualche indizio che gli facesse capire se Grald era appostato nei dintorni, ma non ne trovò. Grald non aveva potuto andarsene con il suo premio, ma aveva portato a compimento ciò che era venuto a fare. Draconas ne era certo. A quel punto, rimaneva soltanto Edoardo. Draconas si abbassò di quota nell'oscurità. Non aveva dubbi che Edoardo fosse morto. Avrebbe recuperato il corpo e l'avrebbe
riportato a Ermintrude. Avrebbe dovuto inventarsi qualche storia, naturalmente, ma non sarebbe stato difficile. Avrebbe raccontato di come Edoardo avesse combattuto contro il drago che aveva invaso il suo regno, di come avesse fronteggiato quella bestia e di come, seppure ferito mortalmente, l'avesse ucciso. Ermintrude si sarebbe disperata, ma sarebbe stata fiera del marito. I suoi figli sarebbero cresciuti idolatrando il padre. Probabilmente, Edoardo sarebbe stato proclamato santo, come quell'altro presunto uccisore di draghi. Non era il risultato migliore che ci si potesse aspettare, ma neppure il peggiore. Draconas atterrò sulla spiaggia. Abbandonò il suo aspetto di drago con un sospiro di rammarico, lo sentì uscire da lui come l'anima esce dal corpo in punto di morte, lasciando dietro di sé solo carne pesante e senza vita. Gli ci sarebbe voluto un po' per riadattarsi al suo aspetto umano, per riabituarsi a sentirsi limitato, confinato, terrestre. Avanzò di qualche passo esitante e finì quasi per inciampare su Edoardo. Il re giaceva a faccia in giù sulla spiaggia; Draconas si chiese come mai non l'avesse visto dall'alto, ma forse era stato troppo occupato a osservare Bellona e Melisande. «Questo dimostra cosa succede quando ci si lascia troppo coinvolgere», borbottò. Lo fece girare sulla schiena per accertarsi che fosse morto. Edoardo gemette e aprì un occhio. L'altro era troppo gonfio. Il viso era un ammasso di carne sanguinolenta e di ossa fracassate. «Melisande?» sussurrò. Draconas scosse il capo. L'altro emise un suono lamentevole. Chiuse gli occhi e ricadde all'indietro, privo di sensi. Draconas sorrise, lieto di aver trovato vivo il re, sebbene sapesse che non avrebbe dovuto esserlo. Edoardo morto sarebbe stato un santo. Edoardo vivo avrebbe complicato seriamente le cose. Al diavolo. Avrebbero escogitato insieme una soluzione. Draconas si passò sul viso e sul corpo un po' di sangue di Edoardo, mise insieme una storia verosimile, poi si occupò del ferito. Accese un grande fuoco per scaldarlo. Il che era rischioso, perché c'era la possibilità che Grald si trovasse ancora nei dintorni, anche se Draconas era convinto del contrario: il gigante non si sarebbe azzardato a scontrarsi di nuovo con lui.
Nonostante le cure di Draconas, Edoardo passò una notte agitata. Balbettò e si agitò nel sonno, borbottando tra sé, e a un certo punto si svegliò con un grido selvaggio, fissando Draconas con uno sguardo colmo di terrore. Draconas cercò di calmarlo. Edoardo si guardò intorno con aria smarrita, mezzo istupidito dal sonno, poi sprofondò di nuovo in un torpore inquieto. Finalmente, verso le prime ore del mattino, Draconas ebbe la soddisfazione di vederlo rilassarsi e sprofondare in un bel sonno ristoratore. Edoardo si svegliò più o meno a mezzogiorno. Si guardò intorno confuso, poi ricordò. Respingendo la mano di Draconas che cercava di trattenerlo, si alzò in piedi vacillante. «Melisande! Dov'è? Devo trovarla!». «Non siete nelle condizioni di trovare nessuno», lo rimproverò Draconas. «Tra l'altro, se n'è andata». Edoardo impallidì. «Non sarà... morta...». Draconas fece un cenno di diniego. «È viva ed è al sicuro. Se vi rimettete a sedere, vi racconto cos'è successo. Ho passato la notte a combattere per salvarvi la vita e non voglio che la mia fatica venga vanificata». «Non è morta», ripeté Edoardo. «Non me lo dite solo per...». «Non è morta. Quella donna, la guerriera, ci aveva seguiti. Ha trovato Melisande e l'ha portata via nella sua barca». Edoardo lo fissò, inorridito. «L'ha portata via, lei! Quella che le tirava frecce! Dobbiamo inseguirle. La ucciderà!». «No, non lo farà», disse Draconas. «Vi volete sedere, sì o no?». Edoardo esitò, gettando un'occhiata al fiume, le cui acque variegate dai raggi del sole gliel'avevano portata via. Con aria abbattuta, si lasciò cadere a terra. «Quindi, quella guerriera l'ha trovata. Come potete essere così sicuro che non la ucciderà?». «Perché le ha salvato la vita. Grald...». «Grald!». Edoardo era perplesso. «Quel bruto che abbiamo visto nella caverna del drago? Quello che ha rapito i bambini? Che ha a che fare lui con tutto questo?». «Non ricordate?». «Non ricordo nulla», rispose Edoardo in tono amaro. «Ho sentito un rumore di passi che si avvicinavano attraverso il bosco. Ho creduto che foste voi e...». Fece una pausa, aggrottando la fronte per sforzarsi di ricordare. Trasalì dal dolore. «Nulla. L'unica cosa che ricordo è che mi sono svegliato nell'oscurità, con un intenso dolore alla testa. Ho chiamato Melisande, ma lei non ha risposto».
«Siete stato attaccato da Grald», disse Draconas. «Voleva uccidervi. Siete fortunato che non l'abbia fatto». «Melisande... Avete detto che non era morta. Grald l'ha forse?... Oddio! L'ha...». Edoardo non riuscì a completare la frase. «Non lo so», rispose Draconas cupo. «Credo di sì». «Ma come ha fatto a trovarla? Come faceva a sapere di lei? A meno che il drago non gliel'abbia detto...». Draconas annuì. «È ciò che penso anch'io». «Oh, mio Dio!» gridò Edoardo, afferrandosi il capo tra le mani. «Sapevo che le doveva essere accaduto qualcosa di terribile, me lo sentivo». Alzò il viso, rigato di lacrime, ma deciso, risoluto. «Grald? È stato lui? Ne siete certo?». «L'ho visto. È uscito dalla foresta portandosi in braccio Melisande. La guerriera lo ha assalito. Lui ha lasciato cadere Melisande e se l'è data a gambe». «E voi, cosa stavate facendo tutto quel tempo?» domandò arrabbiato Edoardo. «Vi godevate lo spettacolo?». «Ero occupato a rimettere insieme i pezzi maciullati del mio osso», replicò Draconas, mostrandogli il braccio, che aveva bendato alla bell'e meglio e infilato in una rudimentale fascia appesa al collo. «E a vomitare l'acqua del fiume. Mi sono imbattuto anch'io in quel Grald». «Com'è accaduto?». «Mi aveva teso un'imboscata nella grotta e io ci sono caduto dentro come uno stupido». «Melisande l'aveva detto che quella grotta non le piaceva», disse piano Edoardo. «Avrei dovuto darle ascolto», aggiunse Draconas. Edoardo lo guardò. «Ho parecchie domande da farvi. Almeno credo. Ma la testa mi fa male e fatico a pensare. Come ha fatto a trovarci?». «Siamo stati incauti», rispose Draconas in tono deciso. «L'altra sera abbiamo acceso un fuoco e abbiamo lasciato la barca in vista, per non parlare delle coperte sparpagliate sulla spiaggia. Una volta trovato il campo, non gli è rimasto che seguire le nostre tracce». Edoardo aggrottò la fronte, sforzandosi di capire. «Ma se stava inseguendo Melisande perché mai ha teso una trappola a voi?». «Non era per me», spiegò Draconas, «ma per lei, per Melisande. Sperava di attirarla nella grotta. Non si aspettava di vedermi e non ne è stato contento, ve lo posso garantire». Draconas fece una smorfia. «Quando gli è
sembrato di essersi preso adeguatamente cura di me, è venuto a cercare lei». Edoardo rimuginò il concetto. «Tutto questo ha una sua logica», dovette ammettere. Gettò un'altra occhiata a Draconas e sorrise mestamente. «Vi prego di scusarmi se ho dubitato di voi». Rimase in silenzio per un po', il viso teso per il dolore. «E Melisande, ha seguito quella donna di sua spontanea volontà?» domandò, evitando di guardare Draconas. «L'ha seguita di sua spontanea volontà». Edoardo sembrò sul punto di dire qualcosa, poi ci ripensò e rimase a fissare cupo il fiume. «Ha creduto che foste morto, Edoardo», disse Draconas, in risposta al muto e affranto interrogativo dell'altro. «Ha detto a Bellona che avevate lottato contro Grald per difenderla. Melisande prova una profonda stima nei vostri confronti». «Prego solo di poter incontrare quel Grald, uno di questi giorni», disse Edoardo. «Anch'io», aggiunse Draconas. «E io non sono uno che prega». I due rimasero in silenzio: Edoardo con lo sguardo fisso sul fiume, Draconas in attesa per ciò che doveva venire dopo. «Non riesco a capire cosa mi sia preso», esclamò alla fine Edoardo. «Non avrei mai dovuto toccarla. Ma era così bella, il sole era così caldo e sembrava che fossimo rimasti solo noi due in un mondo creato solo per noi...». «Siete un uomo», disse Draconas. Edoardo sospirò. Dopo avere appoggiato le braccia sulle ginocchia, vi lasciò cadere sopra la testa. «Volete dire che sono debole». «No», replicò Draconas. «Voglio dire che lei era bella, il sole caldo e che c'eravate solo voi due al mondo». Edoardo alzò la testa e sorrise fiaccamente. «Be', non ha importanza adesso. È tutto finito, lei se n'è andata e io ho sbagliato. Ho tradito tutti coloro che si fidavano di me. Ho tradito Melisande. E la mia gente, perché quel dannato drago sarà ancora là al mio ritorno. Ho tradito mia moglie, la mia povera Ermintrude. Come potrò guardarla di nuovo in faccia?». Draconas avrebbe potuto rispondere che almeno in un punto Edoardo non aveva sbagliato. Una volta tornato a casa, avrebbe scoperto che quel drago malvagio non costituiva più una minaccia. Ma Draconas non avrebbe dovuto sapere una cosa del genere, perciò non aprì bocca. Non c'era
nulla che potesse dire per consolare il re. Perciò rimase in attesa di ciò che sarebbe venuto dopo, e che quasi subito venne. «C'è una persona che non tradirò», dichiarò Edoardo. «Lasciate perdere, Edoardo», gli consigliò Draconas. «Ma non sapete cosa voglio dire...». «Sì che lo so. Lasciate perdere. Non aiuterà nessuno dei due. Causerà solo altra sofferenza: per voi e per lei». Edoardo scosse adagio la testa. «No, non posso lasciar perdere. Se lei aspetta un bambino, è figlio mio e io devo...». «Il bambino potrebbe non essere vostro», gli disse brutalmente Draconas. «Non se Grald...». «Credete che questo abbia importanza per me? Se siete davvero convinto che io sia quel genere d'uomo che si è concesso un'ora di piacere per poi abbandonarla, allora vi sfido a battervi con me e vi lascio la scelta dell'arma». «No, non credo che siate quel tipo d'uomo», replicò Draconas, aggiungendo tra sé: «Anche se vorrei che lo foste». Edoardo barcollò, ma si raddrizzò subito. «Dovete trovarla. Siete l'unico che io possa mandare. L'unico di cui lei si fiderà. Non voglio niente da lei. Dovrete rassicurarla a questo proposito. Ma se aspetta un bambino, voglio prendermi cura di lei e di mio figlio. È tutto. Qualunque cosa io possa fare per loro. La troverete e glielo direte, Draconas?». Avreste dovuto morire, gli disse Draconas in silenzio. Verrà un momento in cui rimpiangerete di non essere morto. Ma se voi siete pronto ad assumervi le vostre responsabilità, allora credo che anch'io sarò pronto ad assumermi le mie. «Farò ciò che mi sarà possibile», rispose Draconas, aggiungendo in tono d'avvertimento: «Ma non sarà facile». Né per voi, né per tutti noi. 28 Il fiume riportò a casa Edoardo, da sua moglie e dai suoi sudditi, dove venne acclamato eroe. Rimase meravigliato e perplesso nell'apprendere che, da una quindicina di giorni a quella parte, il drago non si era più fatto vedere e la gente attribuiva a lui il merito. Cercò di protestare, dicendo che lui non c'entrava, ma, come Gunderson ebbe modo di dirgli, il popolo ave-
va bisogno di un eroe, ed era giusto e opportuno che lo vedesse nel proprio sovrano. Così, Edoardo non proferì parola e ricevette di buona grazia gli elogi che in cuor suo sapeva di non meritare, a prescindere da qualunque cosa gli dicesse Gunderson per convincerlo del contrario. Parlò poco delle sue avventure, con gran dispiacere dei figli, che avrebbero invece voluto conoscere ogni raccapricciante dettaglio: di come il drago avesse emesso un potente ruggito quando il padre gli aveva tranciato di netto la testa e di quanto sangue fosse stato versato. Edoardo disse loro con dolcezza che non ne voleva parlare e la loro madre intimò loro bruscamente di lasciarlo in pace. I figli ubbidirono, anche perché il padre aveva preso la sconcertante abitudine di stringerli a sé ogni volta che li vedeva. Sopportarono quei moti d'affetto il più a lungo possibile, ma un giorno Guglielmo prese il padre in disparte e gli disse che gli stallieri lo canzonavano e lo chiamavano «bebè», perciò lo pregava di essere meno espansivo in pubblico. Edoardo gli sorrise teneramente e gli promise che l'avrebbe fatto, e mantenne fede alla promessa, limitandosi, da quel momento in poi, a dargli soltanto un'amichevole pacca sulla spalla. Edoardo mise al corrente di ciò che era effettivamente accaduto solo Gunderson, il quale ascoltò attonito e stupito, non si dilungò a parlare, ma strinse la mano del suo re con calore sincero e lo commiserò dal profondo del cuore. Convenne con Edoardo che aveva fatto la cosa giusta nel chiedere a Draconas di cercare quella donna. Edoardo non raccontò la verità a Ermintrude. Aveva avuto intenzione di farlo, per sgravarsi del suo pesante fardello, ma Gunderson gli consigliò seriamente di astenersene. Era giusto che facesse soffrire la moglie solo per liberarsi del senso di colpa che gli gravava sulla coscienza? Molto meglio espiare i propri errori da solo e in silenzio, piuttosto che scaricarli su di lei. Edoardo comprese la saggezza di quel consiglio, sebbene quel silenzio non facesse altro che aggiungere altro peso al suo fardello, poiché lui ed Ermintrude si erano sempre detti che non avrebbero dovuto esserci segreti tra loro. Ermintrude intuiva che doveva essere successo qualcosa per produrre quel cambiamento nel marito, e in cuor suo sospettava la verità. A volte, in passato, a Edoardo era capitato di mostrarsi brusco nei confronti di certi sudditi, soprattutto di quelli che gli presentavano petizioni. Adesso si comportava in modo affabile e comprensivo, e prestava ascolto ai problemi di tutti con pazienza esemplare. Abbandonò i suoi studi scientifici, regalò il
suo astrolabio, i libri e le mappe celesti, e si riempì lo studio di trattati sull'essere re e sull'arte del governare, su leggi e metodi amministrativi. Rideva di meno, e lei lo sorprendeva sovente alla finestra, a fissare il fiume con aria triste e pensierosa. Con lei era molto più gentile, sollecito e tenero. Sebbene evitasse il loro letto, molto spesso la teneva stretta, come se avesse bisogno di sentire le sue braccia attorno a sé. Ed era proprio in quei momenti che Ermintrude percepiva in lui il desiderio di raccontarle ciò che era accaduto e che aveva gettato un'ombra sulla sua vita, ma che non poteva farlo per paura di causarle dolore. In quei momenti, lei avrebbe voluto dirgli che, qualunque cosa fosse successa, lei era sua moglie e lo amava, e che lo avrebbe perdonato. L'istinto - quello stesso istinto che la faceva svegliare all'improvviso di notte e la guidava al letto di uno dei suoi figli ammalati - la tratteneva. A suo tempo e nel modo che avrebbe ritenuto più opportuno, lui le avrebbe raccontato tutto. Fino ad allora, lei avrebbe dovuto essere paziente, continuare ad amarlo e dimostrarglielo. Parecchi mesi trascorsero così. Il fiume trascinò via con sé le foglie morte dell'autunno e attraversò con i suoi gorghi scuri le nevi dell'inverno. Quando le nevi si sciolsero e il fiume si gonfiò con le acque del disgelo primaverile, quando i crochi e le scille sbocciarono, Edoardo diventò irrequieto e cominciò a sentirsi a disagio. Sembrava in attesa di qualcuno o di qualcosa, poiché, ogni volta che sentiva risuonare nel cortile il rumore degli zoccoli di un cavallo, si precipitava alla finestra e scrutava fuori, ansioso. Gunderson sapeva che Edoardo stava aspettando Draconas. Ermintrude lo immaginava. A Gunderson non era piaciuto il ruolo svolto da Draconas in quell'avventura. Trovava che molte delle sue azioni fossero estremamente sospette e lo disse con franchezza a Sua Maestà. Edoardo confessò di aver nutrito lui stesso dei dubbi nei confronti di Draconas, ma che non c'era nessun altro su cui potesse contare. Gunderson avrebbe desiderato ardentemente dire al suo re di dimenticare quella donna, dimenticare quell'amorucolo e le conseguenze che ne sarebbero potute derivare. Gli uomini generavano bastardi ogni giorno e non si preoccupavano più di quanto non si preoccupi un gatto da cortile. Ma Edoardo non era stato educato a pensarla così, e Gunderson era fiero di lui, di vederlo comportarsi con onore, per quanto di notte, nell'intimità della sua camera, pregasse Dio che quella donna non
venisse mai trovata. Ermintrude pregava semplicemente che, qualunque cosa dovesse succedere, succedesse, allo stesso modo in cui, in una giornata calda e afosa, si prega che arrivi un temporale a portare un po' di sollievo. Gunderson aveva ricevuto ordine dal re di condurre subito Draconas alla sua presenza, di giorno come di notte. Edoardo aveva appena finito di tenere un banchetto in onore del suocero, il sovrano di Weinmauer, venuto con grande ostentazione a complimentarsi con il genero per i suoi atti eroici. In realtà, Weinmauer era venuto per andarsene un po' in giro a curiosare, a sussurrare vaghe promesse all'orecchio di parecchi nobili che abitavano i territori di confine, sperando di convincerli ad allearsi con lui. Ma tutti quanti si erano proclamati leali al loro re, e Weinmauer si stava accingendo a ripartire con le pive nel sacco. Gli ospiti avevano lasciato la sala del banchetto. Quelli sufficientemente sobri da reggersi in piedi sulle proprie gambe si erano trascinati fino al proprio letto, mentre quelli che avevano bisogno di aiuto erano stati portati a peso nelle loro camere dalla servitù. Edoardo ed Ermintrude si erano ritirati nei loro appartamenti privati, ma non si erano ancora coricati. Erano seduti davanti al fuoco, a ridere per lo scacco subito dal padre di lei, le cui manovre erano state riferite loro in dettaglio da alcuni informatori fidati. Ermintrude stava scaldando del vino speziato, quando Gunderson comparve sulla porta e chiamò Edoardo con un cenno. «Scusami, mia cara», disse Edoardo, girandosi verso la moglie, che era rimasta in piedi, con la tazza del vino caldo tra le mani e un tremulo sorriso sulle labbra. «Affari urgenti reclamano la mia attenzione. Non aspettarmi alzata». Poi uscì prima che lei potesse replicare. Ermintrude si sedette sulla seggiola e rimase a fissare le fiamme, a osservare il fuoco che divorava la legna, i ceppi che crepitavano, si contorcevano e si annerivano. Edoardo e Gunderson si precipitarono in cortile. L'aria della notte era ancora fredda, sebbene portasse già con sé un lieve sentore di primavera. Si diressero verso le scuderie, dov'era stato condotto il loro visitatore. Gunderson accese una lanterna e proiettò il fascio di luce tutt'intorno per assicurarsi che non vi fosse nessun altro in giro. «Siamo soli», confermò. «Draconas?» chiamò Edoardo, nell'oscurità che sapeva di fieno e di cavalli. Draconas uscì dall'ombra. Aveva l'aspetto di sempre. Lo stesso non si
poteva dire di Edoardo. «Vostra Maestà è stata poco bene?» chiese Draconas. «Sono stato solo in ansia», rispose Edoardo, tagliando corto. «Quali novità mi portate, Draconas? L'avete trovata?». «Sì», disse l'altro con calma. «È...». «Sì, lo è», confermò Draconas. «Lo sapevo», disse piano Edoardo. «In qualche modo lo sapevo. È al sicuro? Sta bene?». Draconas assentì con il capo a tutte e tre le domande, benché avesse mentito riguardo alle ultime due. «Le avete dato il denaro?». «Non l'ha voluto», rispose, rendendogli il borsello con le monete. Edoardo accarezzò il cuoio del borsello con aria assente. Sospirò. «Speravo che accettasse, anche se non pensavo che lo facesse». Impazziva dalla voglia di chiedere a Draconas dove fosse, ma aveva promesso che non lo avrebbe fatto e mantenne la parola data. Tuttavia, non poté impedirsi di chiedere ansioso: «Vi ha detto qualcosa di me? Vi ha lasciato un messaggio? Posso forse fare qualcosa per lei senza che lo venga a sapere?». Draconas non rispose subito. Il suo sguardo si posò su Gunderson, che era rimasto in piedi, silenzioso, nell'oscurità. Questi lesse negli occhi dell'altro ciò che stava per dire e rispose con una muta preghiera, chiedendogli di non farlo. Draconas lo ignorò. Aveva trascorso parecchi giorni sgradevoli alla presenza di una Anora parecchio contrariata, che l'aveva minacciato, come lui aveva previsto, di privarlo della possibilità di stare tra gli umani, a meno che lui non avesse posto fine a quel suo «comportamento umano, spiacevolmente debole e sentimentale» nei confronti di Melisande. Avrebbe benissimo potuto non tenere conto di quell'avvertimento, poiché, per quanto ammirasse e rispettasse Anora, era convinto che lei non avrebbe mai potuto comprendere appieno ciò che significava vivere in due corpi e in due mondi diversi. Ma era successo qualcosa, qualcosa che aveva reso il cuore di Draconas meno sensibile verso gli umani e i loro piccoli problemi. Braun era morto. Analogamente a quella del padre, anche la morte del giovane drago era stata fatta passare per un incidente. Il corpo ricoperto di squame luccicanti
di Braun era stato rinvenuto in un campo, con il collo spezzato. Alcune macchie bruciacchiate sulla pelle parevano indicare che fosse stato colpito dal fulmine, come a volte succede quando un drago viene sorpreso dai temporali. Il Parlamento aveva emesso un verdetto di morte accidentale. Ma Draconas sapeva bene che non era così, e anche Anora lo sapeva. Draconas aveva confidato a Braun, poco prima che morisse, di avere scoperto il nascondiglio di Melisande e gli aveva rivelato dove si trovava, affinché gli potesse dare una mano a tenerla d'occhio. Tutte quelle informazioni erano ben visibili nella mente di Braun, visibili anche al suo assassino. «Melisande desidera una sola cosa da voi, Sire», disse Draconas. «Qualunque cosa», rispose Edoardo con aria seria, stringendo il borsello di cuoio tra le mani. «Vuole che vi prendiate cura del suo bambino e che lo alleviate nella vostra casa». «Lo farò», replicò subito Edoardo. «Vostra Maestà», protestò Gunderson, «vi prego di tenere conto...». «No, amico mio. Devo farlo», ribatté Edoardo in un tono che non lasciava spazio a eventuali repliche. «Non è necessario che riconosciate il bambino», insistette Gunderson. «Conosco una brava famiglia di contadini che...». Edoardo lo interruppe con un gesto. «Quali sono gli accordi, Draconas?». «Qualcuno verrà a prendere voi o chiunque vogliate mandare», Draconas lanciò un'occhiata in direzione di Gunderson, «e vi porterà dal bambino. Non farete domande. Prenderete il piccolo e non cercherete di rintracciare Melisande. Mai». Edoardo esitò. Draconas lo fissava. «D'accordo», rispose l'altro alla fine, seppure a malincuore. Draconas si infilò un paio di guanti di pelle e raccolse il suo bastone. «Naturalmente vi fermerete da noi stanotte, Draconas», lo invitò il re, sebbene con un po' di ritardo. «Vi offrirei una stanza al castello, ma abbiamo ospite mio suocero, e saremmo costretti a fare degli spostamenti...». «Grazie, ma non mi posso fermare», rispose brusco Draconas. «Mi è stato difficile assentarmi per tutto questo tempo, ma volevo avvisarvi». Dopo la morte di Braun, Draconas non aveva perso d'occhio Melisande nemmeno per un attimo. In quanto ad affidare il bambino alla famiglia di Edoardo, Draconas era riuscito a persuadere Anora. L'unica informazione
che Grald non era riuscito a carpire alla sua mente riguardava Edoardo: chi era e da dove veniva. Grald non era interessato a quei dettagli, e nemmeno si interessava al re adesso. Perché avrebbe dovuto? Grald era convinto di avere ucciso l'amante di Melisande. Anora aveva insistito per tenere presso di sé la madre e il piccolo, perché fossero al sicuro, naturalmente. Ma l'assassinio di Braun l'aveva convinta del contrario. Lei stessa era in pericolo, poiché sapeva troppo, e non c'era motivo di credere che sarebbe stata in grado di proteggere madre e figlio. Anzi, avrebbe potuto danneggiarli, dato che Grald e Maristara avevano visto proprio quel progetto nella mente di Draconas e di Braun. Nascondere il bimbo tra i componenti di una famiglia reale, dove avrebbe goduto sempre della sorveglianza delle guardie, era la migliore soluzione possibile. Draconas sarebbe andato a trovarlo di tanto in tanto, e sarebbe stato l'unico a poterlo fare. Nemmeno Anora avrebbe saputo dov'era il bambino. «Un ultimo avvertimento, Vostra Maestà», disse Draconas mentre raggiungeva la porta delle scuderie. «Non dovrete mai raccontare a nessuno le circostanze della nascita di questo bambino o svelare l'identità della madre. Neppure al bambino stesso». «Ma se è un maschio e mi assomiglia, la gente saprà...». «La gente potrà sospettare, ma non saprà con certezza. E poiché voi siete il sovrano, terrà quei sospetti per sé. È per la sicurezza del piccolo. Voi sapete bene chi potrebbe cercarlo». «Gunderson conosce già la verità», disse Edoardo. «E dovrò dirlo a Ermintrude. Mi sembra giusto, visto che sarà lei a fare da madre a mio figlio». Draconas aggrottò la fronte, dubbioso. «Del resto, credo che lo abbia già intuito», aggiunse Edoardo con un mezzo sorriso. «Non sono bravo a fingere». «Sono contrario, ma ciò che farete nell'ambito della vostra famiglia riguarderà solo voi», replicò Draconas con una sgarbata scrollata di spalle. «La sicurezza del bambino ha la priorità. Se venisse anche solo accennato...». «Non succederà», disse Edoardo con fermezza. «Avrete mie notizie», gli promise Draconas; poi uscì dileguandosi nella notte. Edoardo fece ritorno ai suoi appartamenti. Ermintrude si alzò e gli andò
incontro. Nel vederlo così pallido e angosciato, gli si avvicinò e gli prese la mano tra le sue, portandosela alle labbra. «Mia cara», chiese lui piano, «saresti capace di voler bene a un figlio mio, ma non tuo?». «Si trattava di questo dunque?» gli disse lei, con dolcezza e in tono di lieve rimprovero. «È questo il motivo per cui hai smesso di mangiare e te ne vai in giro a quest'ora di notte? È solo per questo?». «Non ho alcun diritto di chiedere il tuo perdono, ma il bambino è senza colpa e la madre desidera che mi prenda cura di lui...». «Mio adorato», lo interruppe Ermintrude, «non sei il primo marito che si concede una scappatella, né sarai l'ultimo. Un bambino deve crescere nella casa di suo padre. Portalo qui e gli vorrò bene quanto ne voglio a Guglielmo e al nostro Harry». Edoardo non riusciva a parlare, tanto il suo cuore era traboccante di riconoscenza. La tenne stretta a sé e sentì che il pesante fardello di vergogna e di colpa gli scivolava via dalle spalle. Quella notte raggiunse la moglie nel suo letto e, sebbene non facessero l'amore, si tennero abbracciati e parlarono per ore finché lui, liberato dal suo rimorso, non si assopì tranquillo con la testa sul seno di lei. Ermintrude rimase sveglia, con lo sguardo fisso alle grigie luci dell'alba e, dopo che lui si fu addormentato, lasciò che le lacrime le scorressero silenziose sulle guance. La ferita che Edoardo le aveva inflitto sanguinava copiosamente, ma questo era un bene, perché voleva dire che non si sarebbe infettata. 29 Se Edoardo l'avesse saputo, avrebbe potuto tranquillamente recarsi a piedi alla casa di Melisande, poiché lei aveva preso alloggio nei pressi di Bramfell, in un piccolo villaggio conosciuto con il nome di Sheepcote, così chiamato perché i suoi abitanti si occupavano dell'allevamento delle pecore e della lavorazione dei loro sottoprodotti. Il villaggio era un agglomerato di casette di pietra, dall'aspetto accogliente, fatte costruire dal proprietario della fabbrica locale, dove i tessitori si riunivano per lavorare la lana e trasformarla in pezze di tessuto. La fabbrica era un'innovazione abbastanza recente. In passato i tessitori lavoravano a casa, il che significava che la lana doveva essere consegnata alle singole abitazioni, sparse un po' in tutta la campagna circostante, e che il prodotto finito doveva poi essere
ritirato e consegnato ai vari depositi. Radunare i tessitori tutti insieme in un unico locale faceva risparmiare tempo e denaro e permetteva loro di stabilire rapporti sociali con i compagni di lavoro. Quando Melisande si era accorta di essere incinta, aveva insistito perché si recassero ad Idlyswylde. «Non sarò in grado di prendermi cura del bambino», disse a Bellona. «Un figlio deve crescere nella casa di suo padre». Bellona aveva protestato, ma senza convinzione né troppo a lungo. Melisande non si era mai davvero ripresa dalla sua brutta avventura. Il suo corpo era guarito, perché lei era giovane e forte, ma lo spirito era ridotto in pezzi, come una rosa in boccio colpita da un gelo prematuro. La gravidanza era difficile. La poveretta era costantemente in preda alla nausea e non riusciva a tenere nello stomaco nemmeno un po' di cibo. La levatrice aveva detto che si trattava di un fenomeno normale durante i primi tre mesi e che, benché non fosse così normale nei mesi successivi, le era già capitato di assistere a casi del genere, e che tutti i neonati venuti poi alla luce erano belli e sani. Bellona nutriva dei dubbi in proposito, anche se non lo diceva apertamente. Vedeva Melisande che si ingrossava e diventava sempre più debole, come se il bambino le succhiasse la vita, e venne assalita dalla paura. Al loro arrivo nel villaggio, Melisande aveva trovato lavoro alla fabbrica come tessitrice. Ma, quando la sua gravidanza cominciò a diventare evidente, dovette lasciarlo, poiché non era considerato decoroso che una donna nelle sue condizioni svolgesse un'attività fuori casa. Tuttavia, visto che era molto abile nel ricamo e nel cucito e che il proprietario della fabbrica era stato veloce a notarlo, cominciò a fare lavori di cucito a domicilio per i nobili e gli appartenenti alla classe abbiente di Bromfell. Tra una pausa e l'altra della sua nuova occupazione, tesseva una coperta per il nascituro, ed era proprio nei momenti in cui stava al telaio che era più felice, e cantava tra sé una canzone che parlava della primavera. Bellona si era travestita da marito di Melisande, un ruolo che le piaceva di più, giacché aveva avuto modo di vedere come quella società trattasse le donne: quasi fossero oggetti o schiave. Così, aveva indossato abiti maschili e, grazie al suo fisico muscoloso e prestante, era facilmente riuscita a passare per un giovanotto imberbe e di bell'aspetto. Purtroppo, non sopportava le pecore, né qualunque cosa avesse a che fare con quegli animali. Perciò, grazie alla sua bravura con l'arco e al fatto che il re possedeva alcuni terreni di caccia nelle vicinanze, trovò impiego come guardaboschi. Il suo
compito consisteva nell'assicurarsi che nessun bracconiere cacciasse di frodo i cervi del re. Le sue mansioni la tenevano spesso lontana da casa e da Melisande, ma il denaro che guadagnava sarebbe servito loro per superare il lungo e difficile inverno e, inoltre, Melisande le aveva assicurato che non le importava restare da sola. Le due donne erano più vicine di quanto non lo fossero mai state, perché adesso dovevano preoccuparsi solo l'una dell'altra e, non volendo spartire con nessuno l'amore che le univa, trascorrevano la maggior parte del tempo insieme, evitando di allacciare rapporti con il vicinato. Ma c'era qualcosa di diverso nei sentimenti di Melisande e Bellona se n'era accorta. Una cortina, lieve come una ragnatela, trasparente come il dolore e fugace come la felicità, si era alzata tra loro, e nemmeno l'affetto più sincero riusciva a dissiparla. Melisande aveva un'altra idea fissa nella mente. Era più che mai decisa a tornare a Seth, per raccontare alla sua gente la verità sulla Signora. Quella determinazione la aiutava a superare le terribili nausee, la sofferenza e la paura. Lei e Bellona facevano progetti e parlavano ogni sera di ciò che avrebbero fatto quando Melisande si fosse ripresa e fosse stata in grado di viaggiare. Gli abitanti del villaggio lasciavano tranquilla la giovane coppia, sebbene le vecchie del paese guardassero sospettose Melisande, nelle rare occasioni in cui questa usciva di casa, e parlottassero tra di loro riguardo al suo aspetto malaticcio. Capitava spesso, invece, che interi quarti di cacciagione venissero depositati sulla soglia della loro casetta o che qualcuno si fermasse a lasciare un brodo caldo per invogliare «la povera piccola a mandar giù qualcosa». Solo una persona sembrava avere stretto con loro un rapporto di amicizia, e questa persona era talmente strana che quell'insolita amicizia non veniva considerata come tale. Gli abitanti della casa accanto si erano improvvisamente trasferiti e un nuovo vicino ne aveva preso il posto. Si trattava di un uomo di mezza età, dagli occhi e dalla folta barba neri, e dai lunghi capelli scuri che stavano ingrigendo. Era un tipo taciturno e schivo, che non parlava con nessuno e che aveva subito reso chiaro il fatto che voleva essere lasciato in pace. Cominciò a essere conosciuto da tutti come l'Eremita. L'Eremita non lavorava. Nessuno sapeva come si procurasse di che vivere o cosa facesse tutto il giorno. Bellona non si fidava di lui, poiché l'aveva sorpreso alcune volte a guardare fisso verso la loro casa. Disse a Melisan-
de di diffidare di lui, cosa che lei all'inizio fece. Poi venne un giorno in cui si era trovata sola in casa e aveva avuto bisogno di andare a prendere l'acqua alla fontana pubblica. Era là, che stava lottando per azionare la pompa, quando una mano vigorosa le aveva preso il secchio dalle mani. L'Eremita non disse nulla. Si limitò a riempirle il secchio, a riportarglielo a casa e ad andarsene, ignorando le sue parole di ringraziamento. Dopo quel giorno, ogni volta che aveva bisogno dell'acqua, o della legna tagliata, o del fuoco acceso nel camino o di qualunque altra cosa, lui sembrava saperlo istintivamente e compariva subito. Non parlava mai e rifiutava qualunque tentativo di Melisande di dargli del denaro. Quando lei aveva cercato di ripagarlo lasciandogli una forma di pane appena sfornato sul davanzale della finestra, il pane era rimasto là, intatto, finché uno dei cani del villaggio se l'era portato via. La gente del posto credeva che fosse muto e diceva che gli era stata strappata la lingua come punizione per aver bestemmiato. L'Eremita non piaceva a nessuno, e nessuno si fidava di lui, tranne Melisande. «C'è qualcosa nei suoi occhi, quando mi guarda», disse a Bellona, «come se comprendesse e fosse dispiaciuto». «Non abbiamo bisogno della pietà altrui», ribatté Bellona in tono brusco. «Non si tratta di quello», replicò Melisande piano. «Non so spiegare. È come se sapesse...». Bellona la fissò dura. «Non gli hai detto niente, vero?». «No, certo che no». «Forse quel servitore si è lasciato sfuggire qualcosa. Il servitore del re. Quello che aveva cercato di darci del denaro. Sono contenta che tu l'abbia mandato via. Non vogliamo niente da quell'uomo». Bellona andò avanti a parlare. Melisande non rispose. Trovava conforto nel sentire la voce della sua amata, anche se spesso non ascoltava ciò che Bellona diceva. Sapeva che questo le faceva male. Melisande vedeva il dolore nei suoi occhi e le spiaceva di esserne la causa, ma non riusciva a impedirselo. Udiva solo una voce: quella della paura. E quella voce soffocava tutte le altre. Posò l'ago, si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi, facendo un profondo sospiro. Era al nono mese, il ventre era enorme e teso, e lei non riusciva ad alzarsi senza essere aiutata. Non riusciva neppure a dormire. L'unico conforto le veniva dal coricarsi con il proprio corpo contro quello di Bellona, la quale le massaggiava dolcemente la schiena e i
piedi gonfi. Quel poco cibo che mangiava sembrava venire assorbito tutto dal bambino, visto che lei dimagriva a vista d'occhio e lui diventava sempre più grosso. Non era felice di aspettarlo, quel bambino, poiché ogni volta che lo sentiva agitarsi in grembo, provava solo terrore. Sperava che il padre fosse il re, ma non poteva esserne certa. Lo avrebbe saputo solo al momento del parto e desiderava ardentemente che quel momento arrivasse per portarle un po' di sollievo. «Persino il dolore del parto sarà ben accetto», diceva piano, posandosi la mano sul ventre sformato, «poiché sarà molto più facile da sopportare del fatto di non sapere». I bambini assomigliano al padre, almeno così le diceva la levatrice: «In questo modo la natura fa sì che ogni padre possa riconoscere il proprio figlio». Melisande custodiva due volti nel suo cuore: uno bello e sorridente, con occhi color nocciola che si accendevano di tante pagliuzze dorate alla luce del sole; l'altro duro e brutale, con occhi svuotati di tutto tranne che di crudele lascivia. Sarebbe bastata una sola occhiata al bambino per sapere, e per recuperare i resti della propria vita, rimetterli insieme e andare avanti. Quel giorno di primavera, a metà mattina, quando le foglie nuove non erano che teneri germogli sui rami, ebbero inizio le doglie. Melisande si lasciò cadere sul pavimento e pianse di gioia. Bellona non era con lei quella mattina. Non avrebbe voluto lasciarla sola in quegli ultimi giorni di gravidanza, ma Melisande aveva insistito perché andasse al lavoro. «A essere sincera, quando sei qui, mi fai agitare», le confessò Melisande sorridendo. «Cammini avanti e indietro come una bestia in gabbia, apri la finestra per guardare fuori o metti troppa legna sul fuoco, così che mi ritrovo sempre semicongelata o lessa come un pollo. Con la scusa di darmi una mano, mi rovini i ricami, e sono sicura che è tua la colpa, se il pane si rifiuta di lievitare». Bellona la ricambiò con uno sguardo così profondamente ferito che Melisande scoppiò a ridere: la prima risata da molti mesi a quella parte. «Sto scherzando, mia adorata», disse Melisande, rifugiandosi tra le forti braccia della compagna. «No, non stai scherzando», replicò Bellona. «Almeno, sotto sotto non stai scherzando. Molto bene. Me ne vado, ma chiederò alla levatrice di
passare a darti un'occhiata». «Davvero, oggi mi sento molto meglio...». «Perché il bambino ha cambiato posizione», disse Bellona con aria esperta, «il che significa che il parto avverrà tra non molto». «Prega Iddio che sia così», sussurrò Melisande, stringendo le mani di Bellona. «Prega Iddio». «Sei sicura di volere che me ne vada?» le chiese ancora Bellona dalla soglia. Melisande annuì. Bellona non si era allontanata di molto quando le doglie cominciarono. La riserva della foresta reale era situata a circa otto chilometri dal villaggio. Il tragitto per raggiungerla era piacevole e passava attraverso colline verdeggianti, punteggiate di greggi e risonanti delle loro campanelle, dei richiami dei pastori e dell'abbaiare dei cani. Più in là c'era la foresta, il cui verde cupo inghiottiva il verde chiaro dell'erba, e la cui ombra avvolgeva e attutiva i belati delle pecore e qualunque altro suono proveniente dal mondo esterno. Nel momento in cui Bellona si addentrò nella foresta quella mattina, camminando leggera lungo il sentiero che i passi dei guardaboschi che l'avevano preceduta avevano tracciato nel corso degli anni, sentì che c'era qualcosa che non andava. Nata e cresciuta nel monastero, che era a tutti gli effetti una piccola città autonoma e indipendente, Bellona si era trovata molto di rado così completamente in mezzo alla natura, e sempre durante battute di caccia o esercizi di addestramento. Ciò che aveva avuto modo di vedere in quelle poche occasioni non le era piaciuto. Abituata all'ordine, alla disciplina e al controllo, Bellona aveva scoperto, con sua grande frustrazione, che la natura deplorava l'ordine, alimentava il caos e viveva in base alle proprie leggi. Più tempo trascorreva tra quegli alberi giganteschi, ai quali non importava niente di lei, ma vivevano là in alto la loro segreta esistenza, più si rendeva conto che, nella natura, c'erano ordine e disciplina, anche se non del tipo che intendeva lei. Tutto in natura viveva per morire e moriva per vivere. Quello era l'ordine, quella la disciplina. L'uomo faceva parte di quell'ordine, ma lui solo era diverso. Faceva di tutto per sfuggirlo, per evitarlo. La natura poteva lottare brevemente, come la lepre lotta per liberarsi dai denti della volpe, ma lo faceva in modo istintivo e, alla fine, accettava il proprio destino: la lepre non dà la caccia alla volpe per evitare la propria
morte, né la volpe insegue il leone. All'inizio, quell'ordine le era parso così crudele e indifferente che Bellona ne era rimasta terrificata, come mai le era accaduto prima d'allora. Ma, a mano a mano che i giorni passavano, aveva cominciato a trovare quella realtà altrettanto pacifica e tranquillizzante del silenzio e delle fitte ombre della foresta. Comprendere che quello era l'ordine eterno delle cose era comprendere Dio. Mentre si inoltrava nella foresta quella mattina, Bellona sentì che Dio era stato disturbato. Lo sentì dapprima nel silenzio, che era troppo profondo. Non c'erano scoiattoli che giocavano tra gli alberi, saltando da un ramo all'altro con infantile divertimento. Né cervi che sobbalzavano intimoriti nel vederla arrivare e correvano via, con la bianca coda guizzante, ad avvisare gli altri della sua presenza. Né lupi che le attraversavano veloci la strada, tenendola d'occhio pur senza badarle eccessivamente, assorti com'erano nei loro affari. Gli animali si erano dileguati. «Bracconieri», pensò Bellona, impugnando l'arco e incoccando una freccia. Aveva cominciato ad assumere un atteggiamento protettivo nei confronti della natura, e il pensiero di bracconieri che tendevano trappole alle sue lepri e uccidevano i suoi cervi la mandava su tutte le furie. Si addentrò ancora di più nella foresta, aguzzando occhi e orecchie. La sua attenzione fu premiata. Udì delle voci. Ne fu spaventata, perché chiunque stesse parlando, poco più lontano, non lo stava facendo a bassa voce, come ci si sarebbe aspettati da dei fuorilegge, ma in tono normale. Forse il re o qualche nobile, suo amico, aveva deciso di fare una battuta di caccia senza comunicarglielo. Bellona avanzò cauta e, a mano a mano che si avvicinava, udiva le voci sempre più chiaramente. Erano voci femminili. D'un tratto comprese la verità. Capì immediatamente che le guerriere di Seth avevano scoperto il loro nascondiglio. Lo capì perché era da molto che aspettava e temeva quel momento. La prima reazione dettata dal panico le disse di tornare subito da Melisande per proteggerla. La logica, più razionale, le suggerì di fermarsi per cercare di capire quali fossero le intenzioni del nemico. I forestieri erano molto rari al villaggio. Abituati a difendersi da razziatori di pecore o da orsi che li depredavano del cibo, i suoi abitanti si dimostravano sospettosi nei confronti di chiunque non conoscessero. Lottavano con armi rozze e
non erano addestrati come soldati, ma erano comunque in grado di difendersi. Non avrebbero consentito a nessun soldato di entrare in paese senza opporre resistenza. Bellona strisciò più vicina, muovendosi con la silenziosa cautela che aveva imparato dalle volpi e dalle lepri. Si sistemò in modo da poter vedere e sentire, senza che ci si accorgesse della sua presenza. La prima donna che scorse fu Nzangia. Questa aveva con sé dodici guerriere. Per evitare di attirare l'attenzione, tutte indossavano abiti da cacciatore di taglio maschile, così come aveva fatto Bellona. Non erano venute a combattere, poiché non portavano cotte di maglia o corazze, né scudi né lance. I loro elmi erano di cuoio, non d'acciaio. Erano solo armate di arco e frecce e di un piccolo pugnale, come qualunque cacciatore. Quella avrebbe dovuto essere un'operazione condotta in gran segreto, probabilmente al cadere della notte. «Avete trovato la casa?» chiese Nzangia. «Sì, comandante», rispose una delle guerriere. «Si trova alla periferia del villaggio. Ci sono parecchie altre case vicino, ma sono disabitate...». «Nessuno interferirà», disse Nzangia. «Saranno tutti impegnati altrove. Drusilla, tu prendi...». Bellona non indugiò oltre. Se fosse corsa subito da Melisande, avrebbe avuto il tempo di portarla al sicuro, dopodiché sarebbe tornata per occuparsi delle guerriere. Così si allontanò veloce e fece ritorno al villaggio. Se si fosse fermata un po' più a lungo avrebbe sentito Nzangia che aggiungeva: «Non dimenticate che vogliamo il bambino. Il nostro informatore ci ha detto che il travaglio ha avuto inizio. Il segnale per attaccare sarà il primo vagito del bambino...». 30 I dolori al momento non erano forti, ma Melisande sapeva che sarebbero aumentati. Aveva udito le grida di una giovane vicina di casa che aveva partorito da poco, e sapeva cosa l'attendeva. Ma adesso non aveva paura. Si sentiva stranamente felice. La fine era ormai prossima. Si accovacciò sul pavimento e, afferrandosi ai braccioli di una pesante seggiola, riuscì ad alzarsi. Prima che la doglia successiva comparisse avrebbe avuto il tempo di chiamare la levatrice. Fece per avviarsi verso la porta, pensando di poter chiedere aiuto ai bambini che giocavano sempre in cortile, quando fu colta da un'altra fitta. Questa fu così violenta, come
un'ondata rovente che le correva su per la schiena, che la fece barcollare, ansimare e urlare di dolore. Un'ombra si proiettò su di lei. L'Eremita comparve sulla soglia. Melisande fece per parlargli, ma lui le si precipitò accanto e la sorresse, riportandola alla sedia per aiutarla a sedersi. «Vado a cercare la levatrice», disse e si allontanò. Lei lo seguì con lo sguardo, preoccupata e sorpresa. Quelle erano le prime parole che gli sentiva pronunciare e le parve di riscontrare qualcosa di familiare nella sua voce. Si sforzò di ricordare, ma il dolore era troppo forte e lei era preoccupata perché il momento del parto le sembrava troppo vicino. Si appoggiò indietro sulla seggiola, ansimando. Bellona raggiunse il villino e trovò l'Eremita appoggiato al muro, con la testa china e le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni. Nel vedere la donna che si avvicinava, questi alzò la testa e la fissò con uno sguardo cupo e penetrante. Accorgendosi dell'espressione sul viso di lei, tolse le mani dalle tasche e si raddrizzò. «Cosa c'è?» chiese allarmato. «Qualcosa non va?». Bellona lo ignorò e fece per passare oltre. Lui tese un braccio come per cercare di fermarla, ma la donna lo fulminò con un'occhiata e l'Eremita lasciò cadere il braccio. All'interno della casetta, Melisande urlava di dolore. Bellona si irrigidì, paralizzata da quelle grida. Col cuore in gola, spalancò la porta. Il villino era costituito da un unico locale, arredato con pochi mobili: un tavolo e due sgabelli, una sedia comoda per Melisande, il suo telaio e un pagliericcio, situato nel punto più caldo, vicino al camino. La levatrice era curva sul letto dove Melisande giaceva, in preda agli spasmi. «Melisande!» gridò Bellona, rovesciando uno degli sgabelli, nella foga di raggiungerla. La levatrice alzò la testa, scandalizzata. «Tu, che cosa intendi fare precipitandoti qua dentro in questo modo? Agli uomini non è permesso entrare durante il travaglio. Fuori! Fuori!». Agitando il grembiule come se stesse scacciando delle oche, la levatrice fece schioccare la lingua, sbuffò e scosse la testa. Bellona restò a fissare Melisande, che aveva smesso di gridare. Era di-
stesa sulle lenzuola inzuppate di sudore, il viso cadaverico, sul quale spiccavano gli occhi enormi e lucidi. Bellona conosceva già la risposta, ma dovette comunque chiedere: «Può essere spostata?». «Sei matto?» strillò la donna. Poi la afferrò saldamente per le spalle e la spinse fuori dalla porta. Bellona udì di nuovo la voce di Nzangia. Hai trovato la casa? E se ne rimase là fuori, con lo sguardo fisso in direzione della foresta, mordendosi le labbra e chiedendosi disperatamente cosa fare. «Le guerriere di Seth», disse l'Eremita. «In quante sono?». Bellona in un primo momento lo ignorò, ma poi il significato di quelle parole acquistò un senso e lei si voltò a osservarlo con attenzione. Aveva gli occhi scuri e cerchiati. Il viso nascosto dalla folta barba mostrava rughe evidenti, che si facevano più profonde quando irrigidiva la mascella. «Non so di cosa stiate parlando», cominciò a dire, pensando che l'aveva già visto da qualche parte. «Sì che lo sapete», rispose l'uomo e gettò un'occhiata a nord, alle montagne di Seth, le cui cime incappucciate di neve risaltavano come calce contro il cielo blu. «E avrete presto bisogno di aiuto. Quante sono? Dieci? Venti?». «Ne ho contate dodici», rispose Bellona, assorta, mentre cercava di inquadrarlo. «Ma potrebbero essercene di più». «È probabile. Dove le avete avvistate?». «Nella foresta». Bellona lo fissò con occhi indagatori. «Draconas!» esclamò all'improvviso. «Il servitore del re! Ci avete spiato...». «Penso sia stato un bene», disse freddamente l'altro. «Per arrivare a noi, le guerriere saranno costrette a passare attraverso i campi e i pastori le scambieranno per razziatori di greggi. Andate ad avvisare gli abitanti del villaggio, dite loro di avere visto dei banditi nella foresta e chiedete loro di mobilitare tutti gli uomini...». Le sue parole vennero coperte da un furioso scampanio e dalle note stonate di un corno. «Al fuoco!» si sentì gridare. «Al fuoco!». Bellona e l'Eremita si voltarono in direzione di quelle grida convulse e videro una colonna di fumo levarsi nel cielo mattutino. «Il mulino sta bruciando». Il grido fu ripreso e ripetuto di voce in voce, diventando via via sempre più forte, acuto e concitato. Il fumo si infittì e assunse una torbida colora-
zione grigia, solcata da fiamme arancio. «Hanno appiccato il fuoco al mulino», disse Draconas. «Nzangia aveva detto che gli abitanti del villaggio non avrebbero interferito», ricordò Bellona. «Aveva ragione», le rispose lui, cupo. Il fuoco, l'incubo angoscioso di ogni comunità, a partire dal villaggio più piccolo fino alla città più affollata. Se dal mulino le fiamme si fossero propagate, avrebbero potuto bruciare completamente la fabbrica, distruggere tutte le case e le botteghe, spazzando via l'intero centro abitato. In un solo istante, i sogni, le speranze e la vita stessa degli abitanti avrebbero potuto ridursi a un mucchio di cenere e di macerie. I residenti arrivarono di corsa, in risposta a quell'appello disperato, portando secchi, asce e forconi, nel tentativo di domare l'incendio e spegnerlo. Si udì una gran confusione di ordini gridati a gran voce, di nitriti di cavalli spaventati, e uno schianto, come di legno che crollava. L'odore acre di fumo saliva su per la collina. All'interno della casetta, le grida di Melisande si facevano sempre più strazianti. Bellona affondò le unghie nel palmo della mano. «Sono qui per Melisande», disse con voce rauca. «La Signora ha mandato le guerriere per ucciderla». Draconas la guardò, fece per dire qualcosa, ma si bloccò. Il fumo proveniente dal mulino in fiamme stava cominciando ad accumularsi nella valle e a salire su per le colline, strisciando lungo i pendii, dove le pecore belavano in preda al panico e i cani abbaiavano freneticamente. «Non possiamo muoverla. Dovremo tenerle a bada da qui». «È meglio rientrare», consigliò Draconas. «Nascondiamoci. Facciamo credere loro che ci hanno colti di sorpresa». I villini avevano muri di pietra con tetti di paglia, ed erano identici l'uno all'altro. Ciascuno era costruito su un minuscolo appezzamento di terra, sul quale i proprietari potevano coltivare un orto, così da integrare le normali provviste invernali con gli ortaggi di loro produzione. La maggior parte delle case era raggruppata attorno alla fabbrica e al mulino, lungo la riva del fiume. Con l'espandersi della comunità, si erano aggiunte nuove dimore, sparse un po' qua un po' là, così che ora l'area abitabile si estendeva in modo disordinato lungo la strada di terra battuta, conosciuta con il nome di Via del Pastore. Il loro villino era munito di una piccola finestra rivolta a est, per far entrare più luce, e di un'unica porta. La finestra era sprovvista di vetri, perché il vetro costava, ma aveva imposte
di legno, che potevano essere chiuse per ripararsi dal vento e dalle intemperie. Tali imposte di solito restavano aperte perché a Melisande piaceva l'aria fresca. Quel giorno erano chiuse. La levatrice voleva che la stanza fosse calda. Aveva acceso lei stessa il fuoco, e ora l'ambiente era talmente caldo da risultare soffocante. Una striscia di giardino separava la loro casa da quella dell'Eremita. Nel giardino non cresceva niente, perché Melisande stava troppo male per potersene occupare e Bellona si intendeva poco di piante. Come lei era solita dire, le era stato insegnato soltanto a uccidere, non a far crescere né a nutrire alcunché. Mentre si accingeva a entrare, Bellona indugiò e gettò un'occhiata esitante all'interno. «Melisande... che cosa le dirò?». Draconas seguì il suo sguardo ansioso. Le urla strazianti di Melisande si susseguivano sempre più frequenti e a intervalli regolari, seguite da silenzi quasi altrettanto strazianti. «Dubito persino che si renda conto dì quello che sta succedendo», lui rispose. «Andate avanti. Io vi raggiungo». Si avviò, affrettando il passo verso il suo villino. Bellona lo guardò allontanarsi, chiedendosi se fidarsi o meno di lui. Decise che non aveva molta scelta. Una volta in casa, Draconas fece per prendere il suo bastone, ma si fermò, indeciso sul da farsi. Conosceva il vero motivo per cui la Signora aveva inviato le sue guerriere. Volevano uccidere Melisande e portarsi via il bambino. Scrutò dalla finestra, cercando di avvistarle, ma il fumo impediva la visuale. Sentiva più che mai la mancanza di Braun, gli mancavano i voli di ricognizione del drago, che avrebbe potuto informarlo dell'arrivo delle guerriere e metterlo in guardia in anticipo, così da permettergli di organizzarsi. Adesso, forse, era troppo tardi. Intravide un'altra possibilità. «Potrei ucciderle. Ucciderle tutte». Gli era già capitato più di una volta di infrangere le leggi dei draghi: in alcune occasioni, perché gli era stato ordinato, in altre, di sua spontanea volontà. L'unica legge che non aveva ancora violato era la sacrosanta legge del Parlamento dei Draghi, la legge suprema. In seicento anni, non aveva mai, deliberatamente, tolto la vita a un umano. Il fatto di avere eliminato accidentalmente il monaco pazzo non contava.
Se avesse ucciso, Anora sarebbe stata costretta a privarlo della sua parte umana. Lui avrebbe potuto cercare di nasconderle il fatto, ma lei l'avrebbe capito leggendogli nella mente. La sua mano accarezzò il legno ruvido del bastone. Le grida di Melisande, imprigionate dietro le pareti di pietra, gli giungevano attutite. Non poteva rischiare, affidando quell'incarico a qualche altro camminatore, a qualcuno al quale non importava. Draconas poteva anche perdere Melisande, ma non voleva perdere il suo bambino. Glielo doveva. Afferrando saldamente il bastone, uscì di casa e si diresse verso l'altro villino. Mentre cercava di rientrare, Bellona si accorse che la porta era stata bloccata con il chiavistello. Batté e picchiò fino a quando l'uscio si socchiuse e comparve la levatrice, che la fulminò con lo sguardo. Dopo aver inserito il piede nello spiraglio per impedire che la porta venisse di nuovo chiusa, Bellona la spalancò con una gomitata e spinse da parte la vecchia, che protestava e borbottava. Poi si chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò contro con tutto il peso. «Predoni», disse, con voce ferma, troncando di netto la sfuriata della levatrice, «hanno dato fuoco al mulino ed è probabile che attacchino il villaggio. Potrebbero arrivare da un momento all'altro e io non posso difendere il villino da fuori». La levatrice sapeva di cos'erano capaci quei razziatori. Il volto le si contrasse in una smorfia. «Quei diavoli assassini!» esclamò, lanciando un'occhiataccia di disapprovazione a Bellona. «Immagino che tu sappia quello che fai. Basta che non interferisca con il mio lavoro». «Mi è sembrato giusto dirvi che potreste essere in pericolo», ribatté Bellona freddamente. La donna tirò su col naso e si girò. Melisande urlò, contorcendosi. «Non è niente, agnellino, niente di cui preoccuparsi», la rassicurò la levatrice, passandole un panno bagnato sulla fronte. «Un'altra spinta, mia cara. Ancora una». Melisande gemette e scosse la testa. Aveva il viso imperlato di sudore e i capelli bagnati. La levatrice aveva legato alcune strisce di stoffa alle colonne del letto, di modo che lei si potesse aggrappare quando le doglie si facevano sentire. Aveva gli occhi spenti e infossati. Fissò Bellona come si
fissa uno sconosciuto, inconsapevole, incurante, avvolta dal suo dolore, che era tutto quanto poteva vedere, udire, sentire o assaporare. Inarcò la schiena, si afferrò a quelle maniglie improvvisate e lanciò un urlo. Sussultando, Bellona chiuse gli occhi. Per fortuna le urla cessarono. Melisande si appoggiò all'indietro, cercando di incamerare più aria possibile. La levatrice si affannava intorno a lei. Almeno la vecchia stava affrontando la situazione con calma, pensò Bellona. Ma, dopotutto, una levatrice ha a che fare ogni giorno con la vita e con la morte. Forse ci avrà fatto il callo. In quel silenzio affannato, Bellona udì bussare alla porta. «Sono io», la chiamò Draconas da fuori. Bellona esitò un attimo, poi tolse il chiavistello alla porta. Lui sgusciò dentro, portandosi dietro un bastone di quercia. Si chiuse la porta alle spalle e tirò il chiavistello. La levatrice lo guardò storto, ma era troppo occupata per rimproverarlo. A Melisande vennero fatte alzare le ginocchia e sistemate le sottane sulle gambe nude. Lei fissò il soffitto, senza vederlo, aspettando inebetita la fitta successiva. Draconas la guardò e le sue labbra si contrassero. Poi riportò lo sguardo su Bellona. «Siete stata voi ad addestrare quelle guerriere. Siete stata il loro comandante. Che cosa possono avere in mente di fare?» le chiese. Bellona cercò di ragionare con la mente di Nzangia. Era un bravo soldato, dotata di una fervida immaginazione. L'incendio al mulino era stato concepito come un diversivo, per attirare laggiù tutti quelli che invece avrebbero potuto aiutarli a contrastare l'assalto al loro villino. «Loro non sanno che io le ho viste», disse Bellona. «Attaccheranno la casa. Come avevate detto voi, vorranno coglierci di sorpresa». Afferrò Draconas per il braccio, lo tenne saldamente, facendogli male, e disse: «Come hanno fatto a trovarci?». «Ci hanno cercato», replicò lui. Lei lo guardò dritto negli occhi, tentando di vedergli dentro, ma non ci riuscì. Il suo sguardo non riuscì a dissipare le ombre. «Non c'è nulla che io possa dire per convincervi ad avere fiducia in me, non è vero?» aggiunse Draconas. «No», rispose lei, caustica. «Allora, perché perdere tempo con le domande?». Lei non seppe che rispondere. «Vediamola così. Io ora sono qui con voi, non fuori con loro; questo dovrebbe significare qualcosa».
Bellona allentò lentamente la presa. «Ora che abbiamo chiarito questo punto», disse Draconas voltandosi, «dovremmo decidere cosa fare. La porta si apre verso l'interno. Le guerriere ci si butteranno contro tutte insieme, e noi toglieremo il chiavistello». «Perché facilitare loro il compito?». «Perché non se l'aspettano. Io mi metterò qui». Prese posto accanto alla porta. «Voi starete lì. Quando la porta si aprirà, la prima cosa che vedranno sarà voi, non me. Io farò così», lui mimò un gesto. «Voi farete così», e ne mimò un altro. Bellona non aveva simpatia per lui, non si fidava, non gli credeva. Era certa che avesse qualcosa a che fare con il fatto che le guerriere le avevano scoperte, anche se non riusciva a capire in che modo e perché. Non voleva che la loro vita dipendesse da lui, ma non le era mai capitato prima di allora di dover combattere a distanza ravvicinata, e sicuramente non si era mai trovata a dover difendere una donna in procinto di partorire, una donna che amava più della vita stessa. Bellona non era in grado di giudicare obiettivamente, sconvolta com'era da quelle terribili grida. Il piano che lui aveva concepito era buono e lei riusciva a vedere dove voleva andare a parare. «Sono tutte qui le armi che possedete?» chiese lei, gettando un'occhiata sprezzante al bastone. «E tutto ciò di cui ho bisogno», rispose lui, prendendo posizione. «Ma dovreste avere almeno un pugnale». Bellona mise mano alla cintura. «Ecco, prendete. Non potete usare quello per uccidere...». «Non ho intenzione di uccidere. Solo di fermare. Si tratta di un voto che ho fatto», aggiunse. «Qualcosa che ha a che vedere con la religione?». «Qualcosa del genere», replicò lui. Bellona indicò fuori con la mano. «Loro non hanno fatto nessun tipo di voto. Cercheranno di uccidervi». «È probabile». Lui piegò il capo, restando in ascolto. «Sono qui fuori. Le sento. Tenetevi pronta e cercate di attirare la loro attenzione su di voi». Bellona si morse le labbra, afferrò la spada, e aspettò. L'aria nella casetta era soffocante. La levatrice aveva aggiunto altra legna al fuoco del camino, e le fiamme stavano divampando furiose. Bellona si terse il sudore dalla fronte con il dorso della mano. La stanza era satura dell'odore del sudore, del sangue e del fumo, e lei cominciava a sentirsi mancare il respiro. Il nemico era là fuori, che stava avanzando furtivo, avvicinandosi sempre di più. Non sopportava quell'attesa, non sopportava la
tensione. Avrebbe voluto spalancare la porta per affrontarlo faccia a faccia, e le costò uno sforzo enorme frenare quell'impulso. Melisande emise un grido terrificante. Questa volta il grido non si fermò, ma si trasformò in un gemito disperato. Bellona azzardò un'occhiata alle sue spalle. «Non potete fare qualcosa per lei?» gridò con rabbia. «Spingi, agnellino mio», ordinò la levatrice risoluta, non prestandole attenzione. «Vedo la testa. Spingi!». Bellona tremava e sudava freddo. «Un'altra spinta!» ordinò la levatrice. Aveva le mani sporche di sangue, il sangue della nascita, non della morte. Melisande diede un'ultima spinta, accompagnandola con un ultimo grido, e il bambino entrò a capofitto nella vita. Con un affannoso sospiro di sollievo, Melisande si lasciò cadere tra i cuscini zuppi di sudore. «È un maschio, signora», chiocciò la levatrice con aria soddisfatta. «Perfetto come una bella giornata. Nessun difetto». Lo sollevò e gli diede una sculacciata decisa sul sedere. Il bambino spalancò la piccola bocca ed emise un potente vagito. «Sono qui!» gridò Draconas. Un colpo poderoso si abbatté contro la porta di legno. 31 Due guerriere colpirono la porta, la spalancarono e irruppero nel villino. Si bloccarono sulla soglia, spaventate, alla vista di Bellona che stava di fronte a loro, con la spada in pugno. Draconas, nascosto dietro la porta, la spinse con quanta più forza possibile cercando di richiuderla, intrappolando così le due donne. Bellona si esibì in un paio di affondi consecutivi, colpendo una guerriera allo stomaco e l'altra al petto. Nessuna delle due indossava la corazza. Non si aspettavano di vedersi opporre resistenza. I loro corpi caddero sul pavimento e il loro sangue si mescolò alla terra. Draconas le trascinò dentro casa, poi appoggiò la schiena contro la porta e la richiuse con un colpo secco. «Adesso sanno che non sarà facile catturarci», disse. Bellona emise una specie di grugnito. Afferrò i corpi delle due donne e li girò. Le conosceva entrambe fin da bambine, quando avevano giocato insieme. Con un piede, le rigirò nella posizione di prima, cercando di non
guardare i loro occhi spenti. Rinfoderò la spada, svuotò la faretra e cominciò a togliere l'impennatura alle frecce. Poi conficcò le aste nella terra battuta del pavimento, a punta in su. Lanciò un'occhiata alle sue spalle, verso il bambino - bagnato e coperto di sangue, che piagnucolava e si dimenava, con gli occhi chiusi a proteggersi dalla terribile luce della vita - poi tornò alle proprie incombenze. «Fatemelo vedere», sussurrò Melisande, con il filo di voce rimastole. La levatrice tagliò il cordone ombelicale del piccolo, che rappresentava l'ultimo suo legame con il mondo caldo, confortevole e buio da cui era venuto, quindi lo ripulì con un panno umido e tiepido, provocando in lui un altro strillo di protesta. Oltre a quel grido di vita, Bellona udì provenire dall'esterno la voce di Nzangia che impartiva ordini. «Assassini», borbottò la levatrice, lanciando uno sguardo fiammeggiante in direzione dei due corpi stesi a terra. «Forse adesso ci lasceranno in pace». Bellona sapeva che non era così. Continuò a infilare frecce nel pavimento di terra battuta. La levatrice avvolse il bambino in una coperta e lo mise tra le braccia della madre. Melisande lo guardò con un'espressione di stremata meraviglia. «Com'è bello», sussurrò. «Credo che i suoi occhi diventeranno castani». Una volta terminato ciò che doveva fare, Bellona si avvicinò a Melisande, le mise le braccia attorno alle spalle e le appoggiò il viso contro la guancia scarna e accaldata. «Tu sei bella», le disse Bellona. Poi cominciò a carezzarle i capelli biondi e fradici di sudore, ma, accorgendosi di avere le mani macchiate di sangue, le ritrasse in fretta. Melisande non si accorse di niente. Stringeva il bambino tra le braccia, con gli occhi lucidi per il ricordo della sofferenza patita e per la gioia che provava in quel momento. «Stanno tornando», annunciò Draconas. Bellona fece per balzare in piedi, ma Melisande le afferrò il braccio con un gesto convulso, trattenendola. «Il mio bambino!» disse affannata. «Non lasciare che si prendano il bambino!». «Non si prenderanno nessuno», rispose Bellona con aria truce. «Adesso riposati, amore mio». Melisande fece per aggiungere qualcosa, ma il viso le si contrasse in una
smorfia di dolore. Emise un grido straziante e ricadde all'indietro sul letto. «Che succede?» chiese Bellona alla levatrice. «C'è qualcosa che non va?». La lama di un'ascia colpì le imposte della finestra, penetrando attraverso una delle assi e facendo schizzare frammenti di legno all'interno della stanza. Mostrando una notevole presenza di spirito, la levatrice agguantò il neonato e lo nascose sotto il letto, al sicuro. Melisande gridò di nuovo. Le mani afferravano e torcevano le coperte. «Che il Signore ci benedica!» esclamò la levatrice, palpando il ventre di Melisande. «C'è un altro bambino qui dentro! Spingi, ragazza mia, spingi!». Un secondo colpo d'ascia si abbatté contro le imposte, aprendosi un varco. Bellona si diresse da quella parte con l'intenzione di respingere l'attacco, ma Draconas la richiamò. «Ci ho già pensato io», disse brevemente. «Occupatevi della porta!». Bellona gettò un'occhiata dubbiosa alla finestra e vide, con suo enorme stupore, che il danno ai pannelli di legno non era grave come le era sembrato a tutta prima. Rimase un attimo a fissarla. «Che avete fatto?» chiese. «Magia», rispose lui, riprendendo posizione dietro la porta. «Si tratta di un'illusione». Le imposte erano tornate integre, con appena qualche scalfittura qui e là. L'attimo dopo, l'illusione era svanita, così come le imposte. Benché l'ascia colpisse il nulla, le guerriere all'esterno continuavano a sferrare ostinatamente colpi a quello che per loro aveva l'aspetto di solido legno. Prima che Bellona potesse chiedere a Draconas se aveva compiuto qualche altro strano incantesimo, la porta si spalancò. Due donne irruppero nella stanza, spintonate da quelle che stavano dietro. La prima a entrare vide i corpi, distesi a terra ai suoi piedi, e vide le aguzze punte di freccia, che emettevano bagliori riflettendo le fiamme del camino. Cercò di fermare quella sua corsa in avanti, ma le altre incalzavano alle sue spalle. Inciampò sui corpi e andò a cadere con un urlo terribile sulle punte di freccia, impalandosi da sola. La morte non giunse subito, e lei continuò a urlare, mentre il sangue le sgorgava dalle ferite. Draconas colpì la seconda donna in piena faccia con l'estremità del bastone, spaccandole il naso. Sul viso di lei spuntò un fiore grottesco, di sangue e ossa spappolate. Poi le assestò una bastonata al ginocchio, fratturan-
dole la rotula. Le gambe della donna si piegarono e lei cadde a terra, rotolandosi, impotente, in preda al dolore. La terza guerriera superò d'un balzo i corpi delle altre e fronteggiò Bellona, facendo roteare la spada. Le grida di Melisande si confondevano con quelle della donna morente, la quale finalmente perse conoscenza, crollando a terra e trascinandosi dietro le punte di freccia rimaste infilzate nel suo corpo. Bellona conosceva le sue guerriere, conosceva i loro punti deboli. Abbozzando una finta da un lato, indusse la sua avversaria a sbilanciarsi, per poi trafiggerla con la spada. Estrasse subito la lama dalla carne e la malcapitata cadde sulle ginocchia. «Questa mossa ti ha sempre tratta in inganno, Mari», le disse Bellona. La donna barcollò in avanti e finì a terra, priva di vita. L'ascia continuava a sferrare colpi alle imposte che non c'erano più. Draconas si appoggiò con la schiena alla porta, puntò i piedi e spinse con tutte le sue forze. Riuscì a richiuderla, ma le guerriere stavano di nuovo incalzando. «Non riuscirò a trattenerle ancora a lungo!» grugnì. Bellona annuì e si asciugò la mano insanguinata sui calzoni per rinsaldare la presa sulla spada. Alle sue spalle udiva la levatrice che si affannava intorno a Melisande e la incoraggiava. Da sotto il letto giungevano i vagiti attutiti del bambino. Draconas si scostò improvvisamente dalla porta. Le guerriere colpirono il battente con una tale violenza da scardinarlo. Usandolo a mo' di scudo, Nzangia scaraventò Draconas all'indietro, bloccandolo sotto il peso della porta. Le altre guerriere si precipitarono dentro al suo seguito. Due si avventarono su Draconas, ma Bellona non fu più in grado di curarsi di lui perché si trovò ad affrontare Nzangia. «Questa non è la tua battaglia, Bellona», le disse la sua vice-comandante di un tempo. «La sgualdrina ti ha tradito. Quel marmocchio urlante è la prova del...». Bellona sferrò un colpo. Nzangia parò rapida. L'acciaio cozzò contro l'acciaio, le impugnature delle spade si scontrarono. Le due guerriere lottarono l'una contro l'altra, ciascuna cercando di penetrare le difese dell'altra. Il sole illuminò la stanza. Le assalitrici all'esterno avevano finalmente capito il trucco e si erano accorte che le imposte erano completamente distrutte. Si affacciarono alla finestra. Bellona scorse con la coda dell'occhio
una guerriera che le stava puntando contro un arco. Anche Nzangia la vide. «Non tirare!» gridò, assestando una spinta a Bellona. Questa inciampò in uno sgabello, perse l'equilibrio e cadde. Nzangia approfittò dell'occasione per balzarle addosso. «Ecco il secondo bambino...» stava dicendo la levatrice. Le sue parole finirono in un gorgoglio. La donna fissò il neonato che teneva tra le mani e cacciò uno strillo acuto. L'urlo risuonò proprio nell'orecchio di Nzangia, la quale, convinta che qualcuno la stesse assalendo alle spalle, si girò di colpo per fronteggiare il nuovo attaccante. Bellona si rimise prontamente in piedi e si lanciò in avanti con la spada in pugno. La lama penetrò nella schiena di Nzangia. Questa gridò. Bellona spinse la lama più a fondo, per avere la certezza di infliggerle un colpo mortale, poi la ritirò, grondante di sangue. Nzangia emise un gemito soffocato e cadde a terra. La guerriera alla finestra imprecò di rabbia e di stupore. Bellona udì il clic metallico della freccia che partiva dall'arco e il suo fruscio, ma non se ne curò. Riusciva a pensare solo a Melisande. A giudicare dall'urlo della levatrice, doveva essere accaduto qualcosa di terribile, perciò lei si girò rapida e si precipitò dalla sua amata, con la paura che le attanagliava le viscere. Melisande giaceva sul letto, lo sguardo rivolto al soffitto e una strana espressione sul volto. La levatrice, con il bambino in braccio, aveva la bocca spalancata e continuava a urlare. Draconas comparve dal nulla. Con un balzo repentino, spinse Bellona da parte e afferrò il neonato dalle braccia della levatrice un attimo prima che questa lo lasciasse cadere. Torcendosi le mani angosciata, questa si voltò e corse verso la porta. Con quei capelli grigio ferro svolazzanti, il viso contorto in una smorfia di terrore, dovette costituire una visione talmente spaventosa che le guerriere all'esterno, spaventate dalle sue grida, indietreggiarono e la lasciarono fuggire via senza nemmeno tentare di bloccarla. La donna scappò a gambe levate giù per la collina continuando a gridare con quanto fiato aveva in gola. Draconas raccolse dei panni insanguinati e cominciò ad avvolgerli attorno al secondo neonato. «Occupatevi dell'ingresso!» ordinò a Bellona, girandole le spalle. «Ci
penserò io al bambino e a Melisande. Lo metterò al sicuro sotto il letto. Spicciatevi!». Bellona si affrettò verso l'apertura dove prima c'era stata la porta. Fuori, le guerriere si erano raggruppate e stavano parlottando tra loro. Al centro, impegnata a discutere animatamente, si trovava Drusilla. Più di una lanciò un'occhiata al villino e ai corpi senza vita delle loro compagne. «Nzangia è morta», gridò loro Bellona dalla soglia. «La vostra missione è fallita. Ascoltatemi», continuò, mentre Drusilla le puntava contro l'arco. «La Signora è veramente un drago! Vi ha ingannate, così come ha ingannato la nostra gente...». Drusilla scoccò la freccia, Bellona si abbassò. Il dardo le passò sopra la testa e andò a conficcarsi nel muro dietro di lei. Drusilla disse qualcosa alle altre, indicando enfaticamente il villino. «Coraggio, allora!» gridò Bellona, agitando la spada insanguinata. «Venite a battervi!». Drusilla sembrava pronta ad accettare la sfida, ma le sue compagne scossero il capo. Avevano perduto il loro comandante. Ne avevano abbastanza. Una dopo l'altra, le guerriere si girarono e si allontanarono. Drusilla rimase ancora là. Bellona vide che aveva le guance rigate di lacrime e ricordò che lei e Nzangia erano state amanti. Alla fine, Drusilla si decise ad andarsene, ma prima lanciò a Bellona uno sguardo intenso: una promessa che quello non sarebbe stato il loro ultimo incontro. Con un sospiro, Bellona guardò partire le guerriere, chiedendosi se almeno una di loro avrebbe riflettuto su quanto lei aveva detto, ma ne dubitò. Una mano le toccò la spalla. «Sarà meglio che andiate da Melisande», le disse piano Draconas. Bellona lo guardò e lo vide serio in viso. «Che succede?» chiese lei, subito preoccupata. Lui scosse la testa. Spingendolo da parte, Bellona si precipitò verso il letto. Melisande giaceva tra le lenzuola sporche di sangue, con il respiro che le usciva in strani rantoli intermittenti, il corpo rigido, le mani strette a pugno. Il viso, in precedenza arrossato per le fatiche del parto, aveva assunto una terrea tonalità bianco-grigiastra. Bellona le si inginocchiò accanto, e fu allora che vide il sangue che inzuppava le lenzuola e il pagliericcio. Le sollevò delicatamente il braccio. Il dardo scoccato dalla guerriera alla finestra le era penetrato nel petto, di la-
to. Il sangue scuro fluiva copioso dalla ferita. Bellona gettò un urlo di rabbia e di disperazione, cercando di riscuotere Melisande dalla sua agonia. Questa voltò il capo in direzione della voce amata. «Bellona», disse piano. «Sono qui, Melis», rispose Bellona, costringendosi a sorriderle per confortarla. «Non parlare. Cerca di riposare». «Non riesco... a respirare», mormorò Melisande a fatica. Un rivolo di sangue schiumoso le comparve tra le labbra. «Il mio bambino...». «Sono due, gemelli», replicò Bellona. Melisande lottò per vedere tra le ombre che le offuscavano la vista. Afferrò la mano di Bellona. «Quell'urlo», continuò, in tono tormentato. «C'è qualcosa che non va?». «Nulla», la rassicurò Bellona, quasi soffocata dal proprio dolore. «Non c'è nulla che non vada. La levatrice era spaventata per l'attacco. Non parlare. Riposa, Melisande. Appoggia il capo sul mio braccio. Cerca di dormire». Melisande sorrise. Il sorriso le si irrigidì sulle labbra. Con uno sforzo immane, sussurrò: «Abbi cura dei miei figli». «Lo farò, Melisande», disse Bellona, non riuscendo a trattenere le lacrime che le scorrevano copiose sulle guance. «Lo prometto». Melisande chiuse gli occhi. Inspirò a fatica ed esalò un lieve sospiro. Il capo le ricadde inerte sul braccio di Bellona. Gli occhi si aprirono e la guardarono, ma non la videro. Lo sguardo si era fatto fisso e vuoto. Bellona emise un grido angosciato e si lasciò cadere sul corpo della sua amata. Sotto il letto, i due bambini giacevano in una pozza di sangue della propria madre e piangevano, come se avessero capito. 32 «Che il Signore ci salvi e ci conservi!». Draconas si voltò e vide Gunderson in piedi sulla soglia, fermo a fissare sbigottito la carneficina: un corpo impalato sulle frecce, un altro che si contorceva negli ultimi spasmi dell'agonia, parecchi altri ammucchiati l'uno sull'altro, come tanti rifiuti. Il pavimento di terra battuta era nero del sangue che vi ristagnava sopra. L'odore della morte si mescolava a quello della vita, rendendo irrespirabile l'aria nella piccola stanza.
Gunderson, il veterano di innumerevoli battaglie, si girò di colpo e corse fuori. Un attimo dopo Draconas lo sentì vomitare. Poi rientrò nella stanza, pulendosi la bocca con la mano. «Ho ricevuto il vostro messaggio», tenne a precisare, per quanto la cosa fosse ovvia, dato che si trovava lì. In base alle istruzioni di Draconas, si era installato a Bramfell per trovarsi già nelle vicinanze, quando fosse giunto il momento del parto. «Che diavolo è successo, qui?». «Siamo stati attaccati», replicò Draconas, anche lui dichiarando quanto già appariva evidente. Scavalcò i corpi e si avvicinò rapido al letto. «Le guerriere di Seth erano riuscite a rintracciarla». «Volevano riprendersi la loro Signora, eh?». «No, la volevano morta», lo contraddisse Draconas. «E sono riuscite nel loro intento. Le avete viste qui in giro?». Gunderson annuì, sconcertato. «Ne ho viste alcune che si allontanavano furtive. Avevano l'aria di non aver più voglia di combattere». Lanciò un'occhiata al corpo che Bellona stringeva ancora tra le braccia. «Per quale motivo la volevano morta?». «Perché sapeva la verità», gli spiegò Draconas. «La verità sul drago. So che Edoardo ve l'ha detto. Oppure non gli avete creduto?». «Io credo solo che lui ci crede», ribatté freddo Gunderson. «Poveretta!» aggiunse, addolcendo il tono di voce. «Che ne è del bambino?». Avanzò di un passo. Draconas protese una mano a fermarlo. «Attento alle frecce!» lo ammonì brusco. «Abbiamo già sufficienti cadaveri qui senza aggiungerci anche il vostro. Il bambino sta bene. Restate dove siete. Ve lo porto io». Gunderson non sollevò obiezioni e rimase sulla soglia. Bellona sedeva sul letto, stringendo Melisande tra le braccia. Nell'udire le voci, non aveva neppure alzato la testa. Non vedeva altro che il vuoto, non udiva altro che quell'ultimo, debole sospiro. Draconas le posò una mano sulla spalla e sentì i suoi muscoli irrigidirsi e tendersi, come se il gelo della morte si fosse impossessato anche di lei. Mentre si chinava, le sussurrò piano, perché sentisse lei sola: «Non siamo ancora fuori pericolo. Dobbiamo essere forti, per il suo bene». Bellona rabbrividì a quel tocco e sollevò il capo, mostrando un volto dagli occhi arrossati e gonfi. Lanciò un fuggevole sguardo verso Gunderson. «È qui per il bambino», disse Draconas ad alta voce. Bellona lo guardò, non riuscendo a capire.
Draconas le strinse la spalla, facendole male. «Il bambino», ripeté. Bellona lo fissò muta, con occhi simili a quelli di un animale ferito, incapace di esprimere il proprio dolore. Draconas si augurò che avesse capito ciò che lui aveva voluto dirle. In caso contrario... Non voleva pensare a cosa sarebbe successo. Si chinò, appoggiandosi sulle mani e sulle ginocchia e scrutò sotto il letto. Uno dei due bambini era là, avvolto in panni insanguinati, l'altro nella coperta che la madre aveva tessuto per lui. Draconas afferrò il neonato nella coperta e lo tirò fuori. Dopo averlo preso tra le braccia, si alzò e si diresse verso Gunderson. Sentiva su di sé gli occhi di Bellona, ma questa non disse una parola. Rimase seduta sul letto, stringendosi al corpo di Melisande. «È un maschio», disse Draconas, mettendo il fagottino tra le braccia di Gunderson. «Assomiglia a Sua Maestà». Gunderson guardò il piccolo. Ai suoi occhi, tutti i marmocchi si assomigliavano e questo non era diverso dagli altri. Una testolina tonda, un nasino schiacciato, una bocca simile a un bocciolo di rosa, occhi dalle palpebre increspate, tenute chiuse strettamente per cercare di escludere quell'orribile mondo nuovo nel quale era finito. Il bambino piagnucolava e si agitava nervoso, in cerca di qualcosa che sembrava mancargli, senza sapere bene cosa fosse. «Che Dio mi perdoni per ciò che sto per dire», commentò cupo Gunderson, «perché si tratta di un peccato mortale. Ma sarebbe stato meglio se questo bambino fosse morto con la madre». «Non potete saperlo», ribatté Draconas. «Nessuno riesce a prevedere il futuro». «Alcuni ci riescono», disse Gunderson. Fece correre lo sguardo dal piccolo a Draconas, fissando quest'ultimo con occhi scuri e ostili. «Avete portato sufficiente scompiglio nella vita del mio sovrano. Stategli alla larga. Se vedo che cercherete di avvicinare lui o questo bambino, che Dio mi aiuti, vi ucciderò». Draconas avrebbe desiderato con tutto il cuore fargli una tale promessa. Ma non poteva, poiché non sarebbe stato in grado di mantenerla. «Se fossi in voi, mi libererei della coperta appena possibile», suggerì a Gunderson. «C'è il sangue di lei lì sopra». Il sangue era ancora fresco. Gunderson ne avvertì l'umidiccio e fece una smorfia. «C'è una donna che mi aspetta a Bramfell. Una balia. Ci penserà
lei a ripulire, a nutrire e a rivestire il bambino». «Come si conviene al figlio di un re», aggiunse Draconas. Gunderson rispose con un amaro sorriso a labbra strette. «Se lo dite voi». «Il piccolo è figlio di Re Edoardo», dichiarò con enfasi Draconas. «Se lui faticherà a credere a ciò che è accaduto, dovrà credere almeno a questo». «Ci crederà», disse Gunderson. «Ed è questo il guaio». Avvolse bene la coperta insanguinata intorno al corpicino del piccolo e se lo ficcò sotto il mantello di pelliccia per tenerlo al caldo. Mentre si girava per andarsene, lanciò un'occhiata verso Melisande. «Che la sua anima riposi in pace», mormorò. Era sul punto di varcare la soglia e di allontanarsi, e Draconas stava già tirando un respiro di sollievo, quando il secondo neonato, nascosto sotto il letto, emise un vagito: un vagito strano, rauco, simile a quello di un animale selvatico. Sbigottito, Gunderson si fermò e si voltò. «Cos'era?». Draconas imprecò sottovoce e scoccò un'occhiata a Bellona. «Cos'era?» le chiese ad alta voce. «Ho sentito un grido», disse Gunderson tornando indietro. «Ero io», spiegò Bellona con voce roca. Poi si chinò di nuovo sul corpo disteso sul letto, ricoprendolo con i lunghi capelli neri. «Sembrava il pianto di un neonato», insistette Gunderson. Bellona sollevò di nuovo il capo, il viso straziato dal dolore. «Avete quello per cui siete venuto! Il vostro re ha un bambino. Andatevene e lasciatemi seppellire i miei morti». «Dovreste andare adesso», intervenne Draconas, bloccandogli l'accesso alla stanza. «Il bambino ha fame e voi avete davanti un lungo viaggio». Gunderson fece correre lo sguardo dall'una all'altro, da Bellona a Draconas. Avrebbe potuto insistere e indagare, ma il bambino che teneva tra le braccia cominciò a piangere: il pianto indisponente, continuo ed esigente dei neonati. Perciò girò sui tacchi e se ne andò, stringendo con mani maldestre il fagottino frignante. Draconas rimase a guardare dalla soglia, finché l'altro non fu montato a cavallo e non si fu allontanato tra la nebbia creata dall'incendio del mulino. Il fuoco doveva essere stato spento, oramai, poiché non si scorgevano più le fiamme, e anche il fumo si era un po' attenuato. Gli abitanti del villaggio erano probabilmente tutti là, a fissare le macerie, mentre una fredda collera
avrebbe a poco a poco sostituito l'eccitazione provata nello spegnere l'incendio. Tra non molto, la levatrice li avrebbe raggiunti, se già non lo aveva fatto, e avrebbe raccontato farfugliando la sua storia, con la gente che la guardava, incredula. Alcuni avrebbero pensato che era impazzita, ma altri le avrebbero creduto. Lei avrebbe giurato su ciò che le era più sacro che diceva la verità, e molti altri avrebbero cominciato a crederle. Poi sarebbero venuti al villino per verificare con i propri occhi. Durante tutto quel tempo, Bellona non si era mossa. Seduta sul letto, con un braccio dietro al capo di Melisande, fissava il volto pallido e immobile, così calmo nella morte, e le carezzava i capelli biondi con le mani sporche di sangue. «Dovete prendere il bambino e andarvene», le disse Draconas. Bellona non lo guardò. Non diede segno di averlo sentito. «Le avete promesso che vi sareste presa cura di lui», proseguì Draconas, con voce volutamente brusca, simile a uno schizzo di acqua gelata. «Se non ve ne andate adesso, gli abitanti del villaggio lo troveranno e lo uccideranno. E probabilmente noi con lui». Bellona lo guardò. «Ucciderlo? Uccidere un bambino? E perché?». Dopo avere emesso quello strano vagito, il piccolo si era calmato. Mentre si chinava per prenderlo, Draconas ricordò le parole di Gunderson: Sarebbe stato meglio che questo bambino fosse morto con la madre e la risposta banale che lui gli aveva dato. Non potete saperlo. Nessuno riesce a prevedere il futuro. Be', quello era vero. Ma, mentre tirava fuori il bambino da sotto il letto, fece una smorfia nel vedere che era sano e robusto. A differenza di quelli del fratello, i suoi occhi erano spalancati e fissavano senza battere ciglio la luce, con un'espressione di sospettosa attenzione. «Guardatelo», disse Draconas a Bellona. Lei lo guardò ma non si offrì di prenderlo in braccio. Ancora avvolto nei panni insanguinati che Draconas gli aveva buttato frettolosamente addosso, il piccolo sembrava un bambino normale, non fosse per quegli strani occhi consapevoli. Aveva il capo coperto da una lanugine di un colore indefinito e teneva i piccoli pugni stretti al petto. Le labbra ricurve erano leggermente protese in fuori, ma serrate, come se lui non si aspettasse niente da questo mondo e nemmeno volesse chiedere niente. «Assomiglia a Melisande», disse piano Bellona. «Molto più dell'altro». Tese la mano a sfiorargli la guancia. Draconas scostò i panni che lo ricoprivano, mostrandole il corpicino nu-
do. Bellona emise un'esclamazione soffocata e indietreggiò inorridita. Dall'inguine in su, il neonato era normale. Ma dall'inguine in giù, aveva le gambe arcuate come le zampe posteriori di un animale, ricoperte di squame azzurro-argento. I piedi, ugualmente ricoperti di squame, erano muniti di artigli. «È suo figlio», disse Draconas, tendendole il bambino. «Avete promesso a Melisande di prendervi cura di lui». «Non è suo figlio!» gridò Bellona, distogliendo lo sguardo, disgustata. «È un mostro». «È suo figlio», ripeté Draconas, implacabile. «Le avete promesso sul letto di morte che vi sareste presa cura di lui». Riluttante, Bellona, tornò a guardare il neonato. «Non capisco». «Lei ed Edoardo avevano fatto l'amore quel giorno», spiegò Draconas. «Date le circostanze, non avevano scelta. Nessuno dei due. Era stato deciso da altri che facessero l'amore e concepissero un figlio». «Non capisco», disse lei di nuovo, ma questa volta in tono pressante. Lui evitò la domanda e proseguì con il suo racconto. «Il primo bambino che è venuto alla luce, il maggiore dei due fratelli, è figlio di Re Edoardo». «E questo?». «Questo non era stato previsto», continuò Draconas. «Un altro uomo si era recato da Melisande quel giorno, anche lui con l'intento di metterla incinta. Quell'uomo assalì Edoardo e lo lasciò privo di sensi a terra credendo che fosse morto, poi usò violenza a Melisande». «Lo so», lo interruppe Bellona. «L'ho visto. Io...». «... lo attaccaste alle spalle con la vostra spada. Lui lasciò cadere a terra Melisande e si girò a fronteggiarvi, e vi avrebbe uccisa se qualcosa non l'avesse fermato. Ricordate cos'era?». «Come fate a sapere tutto questo?» domandò Bellona, fissandolo. «Che cosa gli impedì di uccidervi?». «Udii uno stridio. Alzai lo sguardo verso il cielo e vidi un drago...». Draconas sollevò la mano e toccò la guancia di lei, ancora umida di lacrime. Una lacrima cadde sulla sua pelle e, quando Bellona lo guardò, vide Draconas l'uomo e, sospeso sopra di lui, lo spirito di un drago dal corpo ricoperto di scintillanti squame color rosso-arancio. «Grald mi aveva visto come sono veramente», disse Draconas, «e sapeva che non poteva competere con me. Avrebbe dovuto assumere anche lui la sua forma originale di drago, ma non ne ebbe il coraggio, per paura di
farsi riconoscere. In ogni caso, aveva portato a termine ciò che era venuto a fare. Aveva lasciato il suo seme dentro di lei. Perciò è fuggito». «L'ho visto», disse Bellona, lo sguardo perso lontano, a rivivere quella terribile notte. «L'ho visto come ho visto voi. Lui è...». «... come la Signora. Come me. E come», sospirò lievemente, «il sangue che scorre nelle vene di questo bambino. Draghi. Tutti quanti». Poi le mise il bambino tra le braccia, che non opposero resistenza. Bellona abbassò lo sguardo sul piccolo, confusa e meravigliata. «Ho infranto la legge della mia specie nel raccontarvi tutto questo», proseguì Draconas, «poiché si tratta di un segreto che abbiamo mantenuto per migliaia di anni. Un segreto che nessun umano dovrebbe conoscere. Non vi chiederò di mantenerlo, poiché non ho il diritto di farlo. Sono stato io a coinvolgere Melisande e, quando lei ha avuto bisogno di me, io ho fallito. Vi chiedo solo di riflettere su ciò che sto per dirvi e di comportarvi come riterrete giusto». Draconas si inginocchiò davanti a Bellona e la guardò negli occhi. «Melisande ha dato alla luce un bambino-umano, che crescerà dotato dei magici poteri dei draghi. E ha dato alla luce un bambino-drago, che potrebbe anche non avere la possibilità di crescere per niente, se gli umani scoprono la verità su di lui. Diranno che è maledetto e lo uccideranno». «Forse è maledetto», aggiunse sommessamente Draconas, abbassando lo sguardo sul neonato. Tese la mano e sfiorò delicatamente la sua morbida guancia. «Forse crescerà per essere la maledizione della sua gente, o forse per vendicare la madre. Non lo so. Ma credo che gli si debba concedere un'opportunità. Per il bene di Melisande». Dall'esterno, trasportate dal vento, pungenti e acri come il fumo, giunsero loro delle voci. «Gli abitanti del villaggio stanno arrivando», disse Draconas. «La levatrice li ha informati di quello che ha visto. La gente si sta radunando. A voi salvarlo o consegnarglielo». «Salvatelo voi», disse Bellona, tendendogli il bambino. Draconas si alzò e fece un passo indietro. «Se lo crescessi io lo condannerei a un destino peggiore della morte. Il drago, suo padre, lo reclamerebbe, e anche la Signora. Sono loro che hanno mandato qui le guerriere. Cercavano il bambino. Hanno attaccato solo dopo aver udito il pianto del bambino. Io sono l'unico della mia specie ad avere assunto l'aspetto di un uomo. Maristara sospetterebbe un mio coinvolgimento e finirebbe per trovare me e il bambino. Voi fate parte di una vasta moltitudine di umani. Po-
trete prenderlo con voi e sparire». Bellona riprese il neonato, reggendolo goffamente, come se dovesse lasciarlo cadere da un momento all'altro, poiché le braccia sembravano aver perso la loro sensibilità. Non riusciva a sentirle, non riusciva più a sentire niente. «Non capisco», disse per la terza volta, in tono duro e sgradevole. «Non capirò mai. Che diritto avete voi e la vostra specie di intromettervi nella nostra vita?». «Nessuno», replicò lui. «Lo so che non sembra, ma stavamo cercando di rimediare a degli errori». Irritata, Bellona gli strappò di mano i panni macchiati di sangue e li avvolse intorno al piccolo. «Lo porterò via con me e lo crescerò. Per fare cosa, per diventare cosa, non lo so. Lo faccio per Melisande», aggiunse con aria feroce. «Non per voi». Mise il bambino, avvolto nel sangue della madre, tra le braccia fredde di Melisande. «Ma prima, devo seppellire i miei morti». «Non c'è tempo. Non sentite le voci? Stanno arrivando. Dovete andarvene prima che vi vedano. Mi occuperò io di lei». Bellona esitò, non volendo abbandonare Melisande, ma sentì che l'altro era sincero. Fuori dalla casetta, il brusio della folla aumentò. Gli abitanti del villaggio avevano trovato un capro espiatorio per ciò che era successo ed erano assetati di sangue. Draconas le parlò di nuovo, le disse qualcosa di importante. Lei udì la sua voce, ma le giunse come da una grande distanza, soffocata dalle urla e dagli strepiti, soffocata dalle ultime parole di Melisande: Abbi cura dei miei figli. Tenendosi stretto al petto il bambino, quasi accecata dalle lacrime, Bellona si voltò e si allontanò dal letto inzuppato di sangue. Corse via dalla morte della donna che aveva amato fin da quando era stata consapevole di poter amare. Mentre si dirigeva verso la porta, inciampò sui corpi delle guerriere e li spinse da parte con il piede, poi si fermò sulla soglia. Vide una moltitudine di gente che stava risalendo la collina. Non sarebbe scappata davanti a loro, decise. Uscì con calma, portando il bambino tra le braccia, silenzioso e tranquillo, come se fosse consapevole del pericolo. Quindi, cominciò a scendere lungo il pendio dietro la casa, in direzione della foresta, che avrebbe inghiottito lei e il piccolo. Solo più tardi, quando Bellona fu al sicuro tra gli alberi dalle verdi fronde, ricordò le ultime parole di Draconas.
Il giorno in cui il figlio del drago vorrà sapere chi è e che cosa è, portatelo qui, sulla tomba della madre. Draconas rimase sulla soglia del villino. Con gli occhi della mente vedeva uno dei figli di Melisande, portato a cavallo verso la città di Ramsgate sull'Aston, dove sarebbe stato accolto da una madre affettuosa, in un palazzo reale, e destinato a vivere un'esistenza di agi e di lusso. Vedeva l'altro figlio di Melisande, che sfuggiva alla morte appena pochi istanti dopo essere venuto alla luce, cresciuto da una donna che avrebbe trovato difficile amarlo, destinato a una vita di solitudine e di isolamento, di tormento e rabbia. Draconas rimase a guardare, finché Bellona e il neonato non scomparvero entrambi alla vista, poi tornò indietro per tenere fede alla promessa fatta. Melisande giaceva tra le lenzuola impregnate del sangue del parto, così come i suoi figli erano giaciuti nel suo sangue. Le prese la mano destra e gliela posò sul petto. Le sollevò la sinistra e tenne stretta nella sua mano quella carne bianca e fredda. La strinse con dolcezza, facendo attenzione a non graffiarla con i suoi artigli, che nessuno poteva vedere. Nessuno tranne lui. «Non volevo che si giungesse a questo, Melisande», disse piano. «Mi dispiace». Le posò la mano sinistra sulla destra, poi, sollevando il corpo tra le braccia, si diresse verso l'uscita. Giunto sulla soglia, si trovò davanti la folla che aveva risalito a passo di carica la collina, e si fermò a guardare tutti in silenzio. Stupiti dalla sua compostezza e resi nervosi dallo spettro della morte che lui teneva tra le braccia, una donna dal viso così bello e freddo e dai lunghi capelli che ricadevano quasi fino a terra, gli abitanti del villaggio abbassarono le pale e i rastrelli e lo fissarono a disagio. «Il bambino deve essere dentro!» gridò la levatrice dal fondo, incitandoli. «State attenti, è un demonio!». Dalla calca si levò un sordo brontolio e parecchi uomini si slanciarono in avanti. Draconas si gettò un'occhiata alle spalle. Il villino prese fuoco e le fiamme divamparono con una violenza tale che quelli che si trovavano nelle prime file si sentirono bruciare il viso. Gli abitanti del villaggio emisero all'unisono un'esclamazione sbalordita, poi, cadendo e incespicando l'uno sull'altro, si girarono e si precipitarono
giù per il pendio, urlando che il demonio era in mezzo a loro. Draconas avanzò, con Melisande tra le braccia, diretto verso la strada che portava al fiume. Ringraziamenti Le ballate citate nel testo sono, in ordine di presentazione: Deuil Angoisseux, di Christine de Pisan When to Her Lute Corinna Sings, di Thomas Campion With Garments Flowing, di John Clare FINE