ROBERT CRAIS L'ANGELO CUSTODE (The Watchman, 2007) Per Lauren nessun sacrificio è troppo alto nessun amore più prezioso ...
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ROBERT CRAIS L'ANGELO CUSTODE (The Watchman, 2007) Per Lauren nessun sacrificio è troppo alto nessun amore più prezioso nessun genitore più orgoglioso Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Libro dei Salmi, 51,12 Silenzio, mia adorata, dormi tranquilla. Gli angeli vegliano sul tuo sonno! ISAAC WATTS Luccio (pike): pesce predatore dal muso allungato, noto per la sua velocità e l'indole aggressiva. Oxford American Dictionary RINGRAZIAMENTI Tra quanti mi hanno aiutato nella stesura di questo libro desidero ringraziare: Aaron Priest, il Joe Pike degli agenti letterari, che ha tenuto insieme le nostre forze e ha reso possibile questo libro. Pat Crais, il redattore più temuto nel mondo dell'editoria, che ha rimediato ai miei errori con zelo e dedizione. I miei editori, Louise Burke e David Rosenthal, il cui incoraggiamento e partecipazione sono stati per me un grande stimolo. I miei editor, Marysue Rucci e Kevin Smith, per gli approfondimenti che hanno dato spessore e consistenza alle mie idee e per i momenti di allegria che mi hanno regalato. John Wood, il mio editor inglese presso la Orion, merita anch'egli la mia gratitudine per l'incrollabile sostegno che mai è venuto a mancare, neppure nelle emergenze dell'ultimo minuto. Laura Grafton, la mia direttrice alla Brilliance Audio, per il suo enorme contributo. Clay Fourrier della Dovetail Studio, che ha progettato e cura il mio sito
web www.robertcrais.com e Carol Topping, che lo gestisce e crea le nostre newsletter. Sono Clay e Carol a rendere possibile lo straordinario rapporto che ho con i lettori di tutto il mondo. Prologo LA CITTÀ DEGLI ANGELI La città era sua, tutta sua per un'ora, una sola magica ora. La mattina dell'incidente, fra le tre e le quattro, quando le strade sono deserte e gli angeli vegliano sugli uomini, la ragazza sfrecciava sul Wilshire Boulevard a centotrenta chilometri all'ora, lungo il tratto noto come Miracle Mile, senza mai rallentare, bruciando tutti i semafori rossi, uno dopo l'altro. Scie di mascara blu scintillante le rigavano le guance. In seguito, alla polizia che le chiedeva dove fosse stata prima dell'incidente, riferì di essere andata in un locale di Yucca Street, a Hollywood, uno di quei posti alla moda sempre assediati dai paparazzi. Vi era rimasta circa un'ora, cercando di evitare le avance di un vecchio attore, godendosi la compagnia dei suoi amici (ragazzi facoltosi del West Side e un gruppo scelto di giovani di Hollywood: attori, agenti, musicisti di cui non ebbe alcun problema a fare i nomi alla polizia), scattandosi l'un l'altro foto con il cellulare, mentre si mandavano baci e si mettevano in posa con in mano drink coloratissimi. Il sergente della polizia che l'aveva interrogata si era mostrato scettico nel sentirla dichiarare che non aveva bevuto, ma il test con l'etilometro aveva confermato la sua versione. Un solo Virgin Cosmo, e non l'aveva neppure finito. Le tre erano la sua ora delle streghe. Allungato un centone al ragazzo del parcheggio che le aveva portato l'Aston Martin, partì a razzo. Cinque isolati più avanti si fermò in mezzo all'Hollywood Boulevard - sola - e spense il motore, godendosi una brezza lieve come il cashmere. Dalle colline giungeva il profumo del rosmarino e dei gelsomini. Il motore ticchettava, ma lei ascoltava solo il silenzio. Il silenzio della città a quell'ora era straordinario. Alzò gli occhi e immaginò gli angeli appollaiati sui cornicioni dei palazzi: angeli alti e slanciati con le ali ripiegate, immobili, silenziosi, che la osservavano impassibili come in un sogno eterno. Ti consegniamo la città. Nessuno ti guarda. Liberati. Si chiamava Larkin Conner Barkley e aveva ventidue anni. Viveva in un elegante loft in centro, in un quartiere abitato da musicisti e pittori emer-
genti, non lontano dal Los Angeles River. L'edificio era di proprietà della sua famiglia. Larkin riaccese il motore, pestò sull'acceleratore e sentì il vento gonfiarle i capelli. Puntò a sud sulla Vine, poi a est sul Wilshire, ridendo fino a farsi venire le lacrime agli occhi. I semafori le sfrecciavano accanto: rossi o verdi, non aveva importanza. Le urla dei clacson si perdevano alle sue spalle. I suoi lunghi capelli color rame sferzavano l'aria. Chiuse gli occhi per qualche istante, poi li riaprì, divertita nel vedere che aveva continuato ad andare dritto... Centoquaranta... Centocinquanta... Centosessanta... ... un'elegante decappottabile nera da duecentomila dollari, un'immagine confusa appena chiazzata dall'alabastro della pelle e dal rosso rame dei capelli, lanciata come un bolide impazzito attraverso la città. Superò sfrecciando l'arco del MacArthur Park, vide l'autostrada venire verso di lei velocissima, la Pasadena Freeway, una barriera a difesa del centro. Rallentò impercettibilmente quando le carreggiate si fecero più strette e un po' più frequentate, lanciandosi nel dedalo di vie a senso unico del centro - Sixth, Seventh, Fourth, Ninth, Grand, Hill e Main -, svoltando quando le andava, imboccando strade contromano, puntando dritto verso il fiume, per rallentare, alla fine, inevitabilmente, quando tutto davanti ai suoi occhi si fece confuso... Si disse che era colpa del vento secco della notte, dei capelli che le sbattevano sul viso, se alla fine di quella corsa i suoi occhi erano pieni di lacrime; ma era sempre così, sia che l'aria fosse secca o umida, i capelli sciolti o raccolti. In quei pochi minuti di folle corsa per la città poteva essere - ed era - realmente se stessa, in quei pochi minuti si ritrovava per poi perdersi di nuovo, quando rallentava, restando indietro mentre la sua vera se stessa correva libera davanti a lei nella notte deserta... Attraversò Alameda Street, la velocità che si riduceva inesorabilmente. Cento... Novanta... Ottanta... Larkin svoltò verso nord su una strada industriale che correva parallela al fiume. Si trovava ormai a pochi isolati da casa quando l'air-bag esplose. L'Aston Martin girò su se stessa, poi si fermò. L'aria era densa di una polvere bianca simile a una nebbia leggera che le si posava sulle spalle e
sulle braccia. L'altra auto era stata solo un lampo, poco più di un'ombra intravista nel mare, un movimento improvviso scomposto dal prisma delle sue lacrime, poi lo schianto. Larkin slacciò la cintura di sicurezza e scese barcollando dalla macchina. Una Mercedes berlina color argento era ferma sul marciapiede, il paraurti posteriore sfasciato e pendente. Sui sedili anteriori un uomo, al volante, e una donna. Dietro, vicino al punto dell'impatto, era seduto un altro uomo. Quello al volante stava aiutando la donna, che sanguinava dal viso. Il passeggero sul sedile posteriore era piegato su un fianco e cercava di tirarsi su senza riuscirci. Larkin batté con il palmo della mano sul finestrino del guidatore. «Tutto a posto? Avete bisogno di aiuto?» L'uomo la fissava con uno sguardo vuoto, come se non la vedesse, poi aprì la portiera. Aveva un taglio sopra l'occhio sinistro. «Oh, mio Dio! Mi dispiace! Mi dispiace tanto!» esclamò Larkin. «Chiamo subito il 911. Chiedo un'ambulanza.» L'uomo era sulla cinquantina, abbronzato e ben vestito, con un anello d'oro alla mano destra e un bellissimo orologio al polso. La donna si fissava inebetita le mani coperte di sangue. Il passeggero seduto dietro uscì dall'auto, cadde in ginocchio e si rialzò aggrappandosi alla portiera. «Stiamo bene» disse. «Non è niente.» Larkin si rese conto che il suo cellulare era in macchina. Doveva andare a prenderlo per aiutare quelle persone. «Si metta giù, per favore. Vado a chiamare...» «No. Piuttosto mi lasci vedere se lei sta bene.» L'uomo fece un passo verso di lei, ma cadde di nuovo in ginocchio. Larkin lo vide bene, illuminato dai fari dell'Aston Martin. Aveva occhi molto grandi e così scuri che parevano neri nella luce abbagliante. Larkin corse alla sua auto. Preso il cellulare, stava componendo il 911 quando la Mercedes scese in retromarcia dal marciapiede, con il paraurti che strusciava sull'asfalto. «Ehi, aspettate!» gridò Larkin. Li chiamò un'altra volta, ma l'auto non rallentò. Stava cercando di memorizzare il numero di targa, quando sentì il passeggero del sedile posteriore allontanarsi di corsa in mezzo alla strada. Una voce metallica si inserì nella confusione della sua testa. «Pronto? Sono l'operatore del pronto intervento.» «Ho avuto un incidente. Un incidente d'auto...»
«Ci sono feriti?» «Non lo so, se ne sono andati. E l'altro uomo...» Larkin chiuse gli occhi e ripeté il numero di targa. Temeva di dimenticarlo, così prese il rossetto e con quello si scrisse il numero sul braccio. «Signora, ha bisogno di aiuto?» Si sentiva malferma sulle gambe. «Signora...?» La terra si inclinò e Larkin si sedette per terra. «Signora, mi dica dove si trova.» Larkin tentò di rispondere. «Signora, dove si trova adesso?» Larkin si sdraiò sull'asfalto duro e freddo. Gli edifici scuri incombevano su di lei come preti avvolti in tonache nere chini in preghiera. Scrutò i tetti alla ricerca degli angeli. L'autopattuglia arrivò in sette minuti, i paramedici tre minuti più tardi. Larkin pensava che la faccenda si sarebbe conclusa quella notte, quando la polizia avesse finito di interrogarla, ma l'incubo era appena cominciato. Nel giro di quarantott'ore avrebbe incontrato procuratori distrettuali e agenti del dipartimento di Giustizia. Da lì a sei giorni sarebbe sfuggita al primo attentato alla sua vita, da lì a undici avrebbe conosciuto un uomo di nome Joe Pike. Il suo mondo stava per cambiare. E tutto era cominciato quella notte. Primo giorno STA' IN CAMPANA 1 La ragazza scese dall'auto con aria disgustata per fargli capire quanto le facessero schifo quella casa misera, quel posto calcinato dal sole che puzzava di chili ed episote. Per lui, invece, quella piccola casa anonima era perfetta. Mentre aspettava che lei lo raggiungesse osservò le abitazioni vicine alla ricerca di eventuali pericoli; un gesto automatico, quasi inconscio. Si sentiva ridicolo con indosso quella camicia a maniche lunghe. Il sole di Los Angeles era decisamente troppo caldo per le maniche lunghe, ma lui non aveva altra scelta. Si muoveva lentamente per non far vedere quello che teneva nascosto sotto la camicia. «La gente che vive in case come questa ha figli idioti e deformi. Non
posso stare qui» disse lei. «Abbassa la voce.» «È tutto il giorno che non mangio. Ieri non ho toccato cibo e adesso questo odore mi fa venire la nausea.» «Mangeremo quando saremo al sicuro.» La ragazza lo aveva appena raggiunto quando la porta si aprì e sulla soglia comparve la persona che Bud gli aveva descritto: una donna atticciata con grossi denti bianchi e un'espressione cordiale di nome Imelda Arcano. La signora Arcano gestiva parecchi appartamenti e villette unifamiliari in affitto nella zona di Eagle Rock. L'ufficio di Bud si era servito di lei altre volte. Lui sperò che la donna non notasse i quattro fori lasciati dai proiettili sul paraurti posteriore della Jeep la sera prima. Voltò le spalle alla casa per parlare con la ragazza. «Se continui ad avere questo atteggiamento non passerai inosservata. Vedi di smetterla. Tu devi renderti invisibile.» «Perché non posso aspettare in macchina?» Lasciarla sola era impensabile. «Non dire nulla. Evita di guardarla negli occhi. Non sa niente di noi, quindi lascia fare a me.» La ragazza scoppiò a ridere. «Voglio proprio vederti. Voglio proprio vedere come la conquisti.» Lui la prese a braccetto e si avviò verso la casa. Lei lo seguì senza fare storie, incurvando leggermente le spalle per modificare il portamento come lui le aveva insegnato. Nonostante fosse camuffata da grandi occhiali da sole e da un berrettino dei Dodgers lui la voleva al sicuro dentro la casa il più presto possibile. Quando arrivarono alla porta il sorriso della signora Arcano si allargò per dare loro il benvenuto. «Signor Johnson?» «Sì.» «Fa un caldo pazzesco, oggi, vero? Dentro è più fresco. Il condizionatore funziona alla perfezione. Io sono Imelda Arcano.» Dopo l'incubo di Malibu, l'ufficio di Bud aveva trovato la nuova casa al volo, pagando l'affitto in anticipo e in contanti, rivelando alla signora Arcano il minimo indispensabile. Soldi facili, niente domande, inquilini discreti che se ne sarebbero andati nel giro di una settimana. Probabilmente la donna si sarebbe tenuta i soldi di Bud senza farne parola con il proprietario. Era lì soltanto per consegnare loro le chiavi.
Imelda Arcano li invitò a entrare. L'uomo esitò il tempo necessario per voltarsi e dare un'ultima occhiata alla strada. Era stretta e priva di alberi, il che era un bene. Offriva una buona visuale in entrambe le direzioni, anche se le case erano molto vicine l'una all'altra e questo poteva rivelarsi un problema. All'imbrunire i vialetti si sarebbero riempiti di ombre. Lui desiderava che la signora Arcano se ne andasse al più presto, ma quella aveva attaccato bottone con la ragazza, come spesso succede tra donne, e li condusse a fare il giro dell'appartamento per mostrare loro le due piccole camere da letto, il bagno, il soggiorno con la microscopica cucina e il giardino sul retro senza neppure un filo d'erba. Da ogni finestra lui studiò le case vicine e la recinzione tutta arrugginita che separava la casa da quella dietro. Nel cortile confinante c'era un pit bull bianco e beige legato a un palo con una catena. Se ne stava sdraiato con il mento posato sulle zampe, ma non dormiva. Lui fu contento di vedere il pit bull. «La tivù funziona?» chiese la ragazza. «Oh, sì. C'è la tivù via cavo. C'è luce, acqua, gas... tutto quello che serve, ma niente telefono. Non è il caso di chiamare la compagnia dei telefoni e far attivare la linea per così pochi giorni, non vi pare?» Aveva ordinato alla ragazza di non dire nulla, e quella continuava a parlare. Decise di interromperla. «Abbiamo i cellulari. Adesso può consegnarci le chiavi e andare.» La signora Arcano si irrigidì. Si era offesa. «Quando avete intenzione di trasferirvi?» «Adesso. Aspettiamo solo le chiavi.» La signora Arcano staccò due chiavi dal suo mazzo e se ne andò. Per la prima e unica volta quel giorno lui lasciò la ragazza da sola. Accompagnò la donna alla sua macchina perché voleva portare subito dentro la loro roba. Voleva chiamare Bud. Voleva scoprire che diavolo era successo. Ma più di ogni altra cosa voleva fare in modo che la ragazza fosse al sicuro. Indugiò accanto alla sua auto finché la signora Arcano non si fu allontanata, poi controllò di nuovo la strada in entrambe le direzioni, le case e i vicoli. Sembrava tutto a posto. Portò dentro la sua sacca e quella della ragazza, insieme al sacchetto di roba comprata in fretta e furia a un Rite Aid. Il televisore era acceso e la ragazza saltava da un canale all'altro, in cerca di un notiziario. Quando lui entrò, lei scoppiò a ridere, poi gli fece il verso, abbassando la voce. «"Adesso può consegnarci le chiavi e andare." Oh, questo l'avrà conquistata. Di sicuro non si dimenticherà di te.»
Lui spense la tivù e le porse il sacchetto. Lei però non lo prese, seccata che avesse spento il televisore; allora lui lo mollò per terra. «Sistemati i capelli. Andremo a prendere qualcosa da mangiare quando avrai finito.» «Volevo vedere se il telegiornale parlava di noi.» «Non riesco a sentire con il televisore acceso. E noi dobbiamo sentire tutto. Magari più tardi.» «Posso azzerare il volume.» «Sistemati i capelli.» Lui si tolse la camicia e la gettò a terra vicino alla porta d'ingresso. Se fosse uscito o se fosse arrivato qualcuno se la sarebbe rimessa. Aveva una Kimber .45 semiautomatica infilata nella cintura dei pantaloni. Aprì la sacca e tirò fuori una fondina con clip da agganciare alla vita per la Kimber, e una seconda pistola, già infilata nella sua fondina, una Colt Python .357 Magnum. Agganciò la Kimber alla cintura dei pantaloni, sul davanti a sinistra, e la Python sulla destra. Non aveva voluto correre il rischio che la signora Arcano vedesse le fondine, ma non poteva neppure girare disarmato. Poi prese un grosso rotolo di nastro adesivo dalla sacca e andò in cucina. «Stronzo» disse la ragazza, alle sue spalle. Lui verificò che la porta sul retro fosse chiusa, quindi passò nella minuscola camera da letto, chiuse le finestre e abbassò le tende a pacchetto. Strappò dei pezzi di nastro adesivo e ve li fissò, bloccando i due lati e la parte inferiore contro il davanzale e i montanti. Se qualcuno fosse riuscito ad aprire una finestra avrebbe staccato la tenda dalla parete e lui avrebbe sentito il rumore. A quel punto tirò fuori un coltello, un Randall, e praticò in ogni tenda un taglio verticale lungo una decina di centimetri, quel tanto da permettergli di aprirla appena con il dito per tenere d'occhio gli accessi alla casa. Era intento a fare questo lavoro quando la sentì entrare in bagno. Finalmente si era decisa a collaborare. Sapeva che era spaventata, da lui e da quello che stava succedendo, quindi rimase sorpreso, piacevolmente sorpreso, al pensiero che forse sarebbero rimasti vivi un po' più a lungo. Andando verso la seconda camera da letto passò davanti al bagno. Lei era di fronte allo specchio e si stava tagliando i folti capelli color rame. Teneva le ciocche tra le dita, sollevandole dalla testa, e le tagliava con le forbici comprate da Rite Aid, lasciando dei ciuffi irregolari lunghi cinque centimetri. Sul lavabo erano posate delle confezioni di tintura per capelli Clairol, anche quelle acquistate da Rite Aid. Lei lo vide nello specchio e lo fulminò con lo sguardo.
«Che schifo. Somiglierò a Melrose Bickerstaff.» Si era tolta la maglietta, ma aveva lasciato la porta aperta. Evidentemente voleva che lui la vedesse. I jeans da cinquecento dollari a vita bassa lasciavano intravedere un delfino sorridente che saltava tra le fossette del fondoschiena. Il reggiseno era azzurro e trasparente, un colore perfetto sulla sua pelle olivastra. Lei continuò a fissarlo giocherellando con i capelli, ciocche irregolari che sparavano in tutte le direzioni. Li arruffò, cercando di dar loro una forma, studiandoli con aria critica. Il lavandino e il pavimento erano coperti di capelli. «E se mi facessi bianca, ti andrebbe bene?» «Castano scuro. Un colore comune.» «Potrei farli blu. Il blu sarebbe divertente.» Si voltò verso di lui, mettendosi in posa. «Ti piacerebbe? Retropunk? Melrose in tutto e per tutto. Dimmi che ti piace.» Lui proseguì verso la camera da letto senza rispondere. La ragazza non aveva comperato della tintura blu. Probabilmente pensava che lui non l'avesse notato, ma lui notava tutto. Aveva comprato del biondo, del castano e del nero. Lui chiuse e bloccò le finestre della camera da letto sul davanti come aveva fatto nel resto della casa, poi tornò in bagno. L'acqua scorreva e lei era china sul lavandino. Aveva indossato dei guanti di plastica e stava massaggiando il colore sui capelli. Nero. Si chiese quanto tempo ci sarebbe voluto per coprire il rosso. Prese il cellulare e chiamò Bud Flynn continuando a guardarla. «Siamo sistemati. Cosa è successo ieri sera?» «Sto ancora cercando di scoprirlo. Non ne ho idea. La nuova casa va bene?» «Conoscono la nostra posizione, Bud. Io voglio sapere come hanno fatto a scoprirlo.» «Ci sto lavorando. Lei sta bene?» «Voglio sapere come hanno fatto.» «Cristo, ti ho detto che ci sto lavorando. Hai bisogno di qualcosa?» «Ho bisogno di sapere come hanno fatto.» Chiuse il telefono mentre lei si raddrizzava; l'acqua continuò a colarle lungo la schiena, giù, fino al delfino, finché lei non raccolse i capelli in un asciugamano. Solo allora lo vide nello specchio e sorrise. «Mi stai guardando il culo.» Il pit bull abbaiò.
Lui non perse un secondo. Estrasse la Python e corse nella stanza sul retro. «Accidenti, Joe!» disse lei. Lui aprì appena con il dito il taglio nella tenda mentre la ragazza arrivava di corsa alle sue spalle. Il cane era in piedi e guardava qualcosa che Joe non riusciva a vedere. «Cosa c'è?» disse lei. «Shh.» Il pit bull guardava alla loro sinistra, la fronte aggrottata, i monconi di orecchie ritti, senza più abbaiare, ma fiutando l'aria. Pike sbirciò attraverso la fessura, sforzandosi di sentire qualcosa, le orecchie tese come quelle del cane. «Cosa c'è?» ripeté la ragazza. Il pit bull si mise ad abbaiare forsennatamente, saltando e tirando la catena. Pike parlò in fretta, voltandosi appena verso di lei, mentre il primo uomo girava intorno alla casa. Stava per succedere di nuovo. «Va' sul davanti, ma non aprire la porta. Svelta.» L'asciugamano le cadde dalla testa mentre Pike la spingeva. Lui si caricò le sacche a tracolla, guidandola verso la porta, ma finì con il passarle davanti visto che si muoveva molto più velocemente di lei. Guardò attraverso la fessura nella tenda sul davanti. Un uomo stava risalendo il vialetto mentre un altro si avvicinava alla casa attraverso il giardino. Pike non sapeva quanti fossero in tutto, né dove fossero, ma lui e la ragazza non sarebbero sopravvissuti se avesse deciso di respingere l'assalto da dentro la casa. Le prese il viso tra le mani costringendola a guardarlo. Doveva ascoltarlo, doveva superare la paura. I loro sguardi si incontrarono, e lui capì che lei lo avrebbe seguito. «Guarda me. Non guardare né loro né altro. Guarda me finché non ti faccio un cenno, e allora corri verso la macchina più veloce che puoi.» Anche questa volta lui non ebbe la minima esitazione. Spalancò la porta, andò incontro all'uomo sul vialetto e fece fuoco due volte con la Python. Poi la puntò contro l'uomo che veniva attraverso il giardino e sparò altri due colpi in rapida sequenza, cosicché i quattro spari risuonarono quasi come due sole detonazioni, quindi corse al centro del giardino. Non vedendo nessun altro, fece un cenno alla ragazza. Lei corse più veloce che poté, di questo doveva dargliene atto. Pike la seguì, correndo all'indietro come fanno i cornerback per marcare un ricevi-
tore, standole vicino per farle da scudo con il suo corpo, perché il pit bull continuava ad abbaiare. Stavano accorrendo altri uomini. Arrivato all'altezza dei cadaveri, Pike si inginocchiò e tastò le loro tasche. Sperava di trovare un portafoglio, o qualche documento, ma le tasche erano vuote. Un terzo uomo girò intorno alla casa e imboccò il vialetto, poi, vedendo Pike, si ritrasse. Pike sparò gli ultimi due colpi. Schegge di legno e vernice esplosero dall'angolo della casa, ma l'aggressore era riuscito a mettersi al riparo e la Python era scarica. Il terzo uomo reagì quasi immediatamente sparando tre colpi in rapida successione che mancarono Pike ma si abbatterono sulla Jeep come martellate. Non c'era tempo per rimettere la Python nella fondina. Pike la mollò per prendere la Kimber, sparò altre due volte e stese l'uomo all'angolo della casa. Poi corse alla macchina. La ragazza aveva aperto la portiera del guidatore, ma aspettava sulla strada. «Dentro!» urlò Pike. Un altro uomo sbucò da dietro l'angolo della casa, sparando all'impazzata. Pike rispose al fuoco, ma l'altro si era già messo al riparo. «Dentro!» Pike spinse la ragazza verso il sedile del passeggero, infilò la chiave nel quadro e partì a razzo. Affrontò la curva al limite dell'aderenza, pestò sull'acceleratore e poi si voltò a guardare la ragazza. «Tutto a posto? Sei ferita?» Lei guardava fisso davanti a sé, gli occhi rossi e umidi. Stava di nuovo piangendo. «Quegli uomini sono morti» disse. Pike le posò una mano sulla coscia. «Larkin, guardami.» Lei strinse gli occhi e chiuse le mani a pugno. «Sono appena morti tre uomini. Altri tre uomini.» Lui si sforzò di parlarle con tono gentile. «Non permetterò che ti accada nulla. Mi hai sentito?» Lei non si voltò. «Mi credi?» Lei fece cenno di sì con la testa. A un incrocio, Pike svoltò bruscamente, rallentando soltanto di quel poco per evitare una collisione, poi accelerò di nuovo per imboccare l'autostrada. Erano rimasti nella casa di Eagle Rock ventotto minuti esatti. Lui aveva ucciso altri tre uomini e adesso stavano di nuovo scappando.
Gli dispiaceva aver perso la Colt. Era una buona pistola. La sera prima, a Malibu, li aveva salvati, ma adesso poteva essere la loro rovina. 2 Lanciato a tutta velocità sulla 101 verso nord, Pike tagliò senza alcun preavviso quattro corsie di marcia per imboccare lo svincolo d'uscita. Schizzarono fuori come bolidi. Larkin urlò. Arrivarono in fondo alla rampa in derapata, con Pike che, accompagnato da un coro di clacson e stridio di frenate, attraversava le corsie del senso di marcia opposto per imboccare la rampa di accesso e riprendere l'autostrada. La ragazza si stringeva le ginocchia con le braccia, rannicchiata nella posizione che si raccomanda per un atterraggio d'emergenza. Pike lanciò la Jeep fino all'uscita successiva, frenò all'ultimo momento e lasciò l'autostrada, continuando a guardare nello specchietto retrovisore. La ragazza gemeva. «Basta. Basta... Gesù, così ci ammazzeremo.» Uscirono all'altezza dell'università; la zona era congestionata dal traffico pomeridiano. Pike si infilò nella stazione di servizio della Chevron ai piedi della rampa, girò intorno alle pompe e inchiodò. Rimasero lì, con il motore acceso, mentre lui ricaricava la Kimber e guardava le macchine che scendevano dalla rampa. Osservò i passeggeri di ogni veicolo, ma nessuno si comportava come un killer in caccia. «Hai riconosciuto qualcuno di quegli uomini?» «È pazzesco. Stiamo ammazzando della gente.» «Quello in giardino, gli sei passata davanti... l'avevi mai visto prima?» «Io non... Dio, è successo tutto così...» Pike lasciò perdere. Lei non aveva visto neanche i due che aveva ucciso la sera prima. Solo ombre confuse che cadevano a terra. Lui stesso li aveva appena intravisti: energumeni sui venti o trent'anni, maglietta nera e pistola, immagini spezzate da lame di luce e ombra. Il suo cellulare cominciò a vibrare, ma lui lo ignorò. Ripartì e svoltò nella direzione opposta all'autostrada, aumentando la velocità quando fu certo che nessuno li seguiva. Dieci isolati più avanti, si infilò nel parcheggio di un piccolo centro commerciale, uno di quei posti in cui i negozi falliscono ogni due mesi. Girò intorno al gruppo di edifici e imboccò un vicolo sul retro occupato solo da cassoni dell'immondizia. Spense il motore, scese e andò ad aprire
la portiera del passeggero. «Scendi.» Lei non era abbastanza veloce. Pike la tirò giù tenendola stretta perché non cadesse. «Ehi! Cosa... Smettila!» «Hai chiamato qualcuno?» «No.» La spinse contro la Jeep, bloccandola con il fianco, per perquisirle le tasche alla ricerca di un cellulare. Lei cercò di respingerlo, ma lui la ignorò. «Smettila... Come avrei potuto chiamare? Ero con te. Sei pazzo. Smettila...» Lui afferrò la borsa di Prada dal pavimento dell'auto e rovesciò il contenuto sul sedile. «Sei fuori di testa! Io non ce l'ho il telefono. L'hai preso tu!» Pike frugò in ogni scomparto della borsa, poi passò alla sacca sul sedile posteriore. «Io non ho chiamato nessuno. Non ho un telefono!» Lui finì di ispezionare le sue cose, poi la fissò, riflettendo. «Cosa c'è? Perché mi guardi?» «Ci hanno trovato.» «Io non lo so come hanno fatto!» «Fammi vedere le scarpe.» «Cosa?» La spinse all'indietro, dentro la Jeep, e le tolse le scarpe. Questa volta lei non oppose resistenza. Si lasciò andare sul sedile, guardandolo mentre le sollevava i piedi. Pike si chiese se le avessero piazzato addosso una microspia. Forse c'era fin dall'inizio, e questo avrebbe spiegato perché sia i marshal sia Bud Flynn avevano rischiato di perderla. Pike le controllò i tacchi delle scarpe, poi la cintura e i bottoni di metallo dei jeans. Quando le tolse la cintura lei fece un sospiro profondo. «Ti piace?» gli chiese. Lui ignorò il suo sorriso. Era provocante. Perfetto. «Vuoi che mi tolga anche i pantaloni?» Pike prese a frugare nella sacca e lei rise. «Tu sei proprio pazzo. Quelle sono le mie cose. Non le ho perse di vista un solo momento da quando sono andata via con i marshal! Perché non dici qualcosa? Perché non mi parli?»
Pike non pensava che avrebbe trovato qualcosa, ma doveva controllare e così fece, ignorandola. Lo aveva imparato quando era nei marines: la volta in cui non pulisci il fucile è quando ti si inceppa, la volta in cui non fissi una fibbia con il nastro adesivo, o non assicuri bene l'attrezzatura, il rumore ti tradisce e ti fa uccidere. «Hai intenzione di restare qui? Almeno è sicuro questo posto? Io voglio andare a casa.» «A casa per poco non ti ammazzavano.» «Da quando sono con te ho rischiato due volte di essere ammazzata. Io voglio andare a casa.» Pike prese il cellulare e controllò i messaggi. Ce n'erano tre di Bud Flynn. Premette il tasto di risposta, chiedendosi se fosse stato il suo telefono a far scoprire la loro posizione. Per rintracciarlo dovevano conoscere il suo numero, e Bud lo conosceva. Forse lo avevano saputo da lui. Bud rispose immediatamente. «Mi hai fatto prendere un colpo. Quando ho visto che non rispondevi ho pensato che fossi morto.» «Ci hanno trovato di nuovo.» «Vieni qui. Dove sei?» «Senti, lei vuole andare a casa.» Mentre diceva quelle parole, Pike guardava la ragazza che, a sua volta, lo fissava. Bud non rispose subito. Quando parlò, il suo tono era pacato. «Calma. Calmiamoci tutti. Lei sta bene? In questo momento è tutto a posto?» «Sì.» «Voglio essere sicuro di aver capito... Stai parlando della casa di Malibu o di quella dove ti ho appena mandato, a Eagle Rock?» La sera prima Bud li aveva indirizzati in un rifugio sicuro a Malibu, e da lì, dopo che i sicari avevano colpito, li aveva mandati nella casa di Eagle Rock. «Quella di Eagle Rock. Mi hai dato due case bruciate, Bud.» «Non è possibile. Non potevano sapere di questa.» «Sono morti altri tre uomini. I federali mi copriranno o no? Devo saperlo, Bud.» Bud sapeva già dei due uomini uccisi a Malibu. Seppure con qualche protesta, i federali avevano promesso che avrebbero coperto lui e la ragazza con la polizia locale.
Questa volta, però, Bud non sembrava troppo ottimista. «Vedrò di parlare con loro.» «Fallo il più presto possibile. Ho perso una delle mie pistole, la Python. La polizia risalirà a me attraverso il numero di serie.» Bud si lasciò sfuggire un sospiro: sembrava più stanco che seccato. Pike non insistette. Gli lasciò il tempo di riflettere. «D'accordo. Senti... hai detto che lei vuole tornare a casa?» «Sì.» «Passamela.» Pike porse il cellulare alla ragazza, che se lo avvicinò all'orecchio. Adesso non sembrava più tanto convinta. Rimase in ascolto per qualche minuto, poi disse: «Ho paura. Posso venire a casa?». Pike conosceva già la risposta prima che lei gli restituisse il telefono. In quel vicolo della zona sudorientale di Los Angeles, con una temperatura che superava i trenta gradi, quella ragazza sembrava fresca come una rosa. Di solito i posti come quello lei li sorvolava a bordo del Gulfstream privato della famiglia, ma, per essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, adesso era lì e cercava, probabilmente per la prima volta in vita sua, di fare la cosa giusta. E fare la cosa giusta, in quel caso, significava restare con lui. Pike prese il telefono mentre un'auto entrava nel vicolo. Immediatamente si mise tra la ragazza e il veicolo che si avvicinava, ma poi vide che alla guida c'era una giovane donna ispanica, così bassa che era costretta a stare con la testa piegata all'indietro per vedere oltre il volante. Pike si portò il cellulare all'orecchio. «Sono io.» «Okay, ascoltami... Lei è d'accordo di restare con te. Io credo che sia la soluzione migliore, e anche suo padre la pensa così. Troverò un'altra casa...» «Tienitela pure, la tua casa. Avete identificato gli uomini di Malibu?» «Vi serve un luogo sicuro. Mi procurerò un'altra casa...» «Le tue non sono sicure.» «Joe...» «Ci hanno già beccato due volte. Ci penso io a trovare una casa.» «Non puoi tagliarmi fuori in questo modo. Come faccio a sapere...» «Tu l'hai consegnata a me, Bud. È mia.» Pike chiuse il telefono. La ragazza continuava a osservarlo nella calura micidiale del vicolo. «Così, adesso sono tua? Ho sentito bene?»
«Se vuoi andare a casa io ti ci porto. La decisione spetta a te, non a loro. È questo che intendevo dire.» A Pike parve che la ragazza ci stesse pensando. Poi lei si strinse nelle spalle. «Resto.» «Sali.» Pike l'aiutò a salire, poi controllò entrambi gli ingressi del vicolo. Voleva muoversi, ma adesso la Jeep era un rischio. Tramite la pistola la polizia sarebbe risalita a lui, prima o poi, ma se un testimone aveva preso il suo numero di targa a Eagle Rock era possibile che stessero già cercando una Jeep Cherokee rossa. Pike voleva a tutti i costi evitare la polizia, ma non poteva restare fermo. Se non continui a muoverti diventi un bersaglio facile. Il vicolo era libero. In quel momento, in quel posto, lui e la ragazza erano invisibili. Se Pike fosse riuscito a mantenere quella situazione, la ragazza sarebbe sopravvissuta. 3 Pike svoltò nel Bristol Farms, il mercato sul Sunset a Fairfax, e parcheggiò il più lontano possibile dall'incrocio per rendere meno visibile la Jeep. «Cosa facciamo?» chiese lei. «Devo chiamare una persona. Scendi.» «Perché non chiami dalla macchina?» «Non mi fido del cellulare. Scendi.» «Non posso aspettare qui?» «No.» Pike temeva che potessero riconoscerla, nonostante la nuova pettinatura e gli occhiali da sole, ma temeva anche che lei cambiasse idea, fuggisse e si facesse ammazzare. Si conoscevano soltanto da sedici ore. Erano due estranei. Larkin si affrettò a fare il giro della Jeep per tenere il passo con lui. «Chi devi chiamare?» «Ci serve un'altra macchina e un posto dove stare. Dobbiamo scoprire qualcosa sulla gente che sta cercando di ucciderti. Se la polizia ci dà la caccia, dobbiamo agire diversamente.» «Agire in che senso? Cosa hai intenzione di fare?» Pike era stanco di parlare, perciò non rispose. Fece strada oltre la banca-
rella dei fiori sul davanti del mercato, diretto a una fila di telefoni pubblici. Mise qualche moneta da un quarto in un apparecchio. Larkin lo prese a braccetto quasi temesse che il vento di Santa Anas potesse portarla via. Lanciò un'occhiata dentro il mercato. «Voglio prendere qualcosa da mangiare.» «Non c'è tempo.» «Potrei andare mentre tu parli.» «Dopo.» Pike era proprietario di una piccola armeria a Culver City, non lontano dal suo appartamento. Aveva cinque dipendenti - quattro uomini e una donna -, di cui due a tempo pieno, e tre erano ex poliziotti. Ronnie rispose al secondo squillo. «Armeria.» «Ti chiamo fra due minuti» disse Pike e riattaccò. Larkin gli strinse il braccio. «Chi era?» «Uno che lavora per me.» «Fa la guardia del corpo anche lui?» Pike la ignorò, impegnato a osservare la lancetta dei secondi compiere un giro completo sul quadrante del suo Rolex. Ronnie sarebbe andato nella lavanderia a gettoni accanto al negozio ad attendere la sua chiamata. Mentre Pike aspettava, due uomini sulla trentina uscirono dal mercato passando davanti a loro. Uno dei due osservò Larkin dalla testa ai piedi, lei sorrise, e l'altro la guardò in faccia. Larkin contraccambiò lo sguardo. Pike cercò di capire se il secondo uomo l'avesse riconosciuta. Nel parcheggio, i due si scambiarono una pacca sulla spalla prima di salire a bordo di un'Audi nera. Pike si rilassò. «Non lo fare più» le disse. «Cosa?» «Stabilire un contatto visivo come hai fatto con quei due. Non lo fare.» Pike pensò che lei avrebbe reagito, invece si limitò a stringere le labbra e ad allungare lo sguardo dentro il mercato. «A quest'ora potevo aver già comprato qualcosa.» Passati due minuti esatti, Pike fece la sua telefonata e Ronnie rispose. Pike gli espose a grandi linee la situazione, gli ordinò di chiudere il negozio e mandare tutti a casa. Quando avevano fatto irruzione nei due covi, gli uomini che volevano uccidere Larkin quasi certamente conoscevano l'identità di Pike, ma non ne avevano avuto bisogno per trovare la ragazza. A-
desso che entrambi erano scomparsi, avrebbero cercato di arrivare a Larkin tramite lui. Sarebbero risaliti ai suoi amici e conoscenti come onde che si propagano, una dopo l'altra. «Ho capito» disse Ronnie. «Cosa ti serve?» «Una macchina e un cellulare. Procurati uno di quei telefoni con la scheda prepagata che vendono da Best Buy o da Target.» «Okay. Puoi usare la mia vecchia Lexus, se vuoi. Ti va bene?» La Lexus verde scuro di Ronnie aveva dodici anni. Sua moglie l'aveva passata alla figlia, che adesso però era all'università, quindi l'auto rimaneva quasi sempre inutilizzata. Pike disse a Ronnie di lasciarla di lì a trentacinque minuti vicino a un Albertsons che entrambi conoscevano. Doveva parcheggiarla e allontanarsi. Trentacinque minuti sarebbero stati sufficienti a Pike per fare un salto a casa prima di abbandonare la Jeep. «Ronnie, quando chiudete inserite l'allarme e il sistema di videosorveglianza. Non tornate più in negozio. Non deve tornare nessuno finché non lo dico io.» «Forse sarebbe meglio che restassimo aperti. Se i tuoi amici decidono di passare da qui potremmo pensarci noi.» «Potrebbe arrivare anche la polizia.» «Ho capito.» Pike riattaccò e ricondusse immediatamente la ragazza alla Jeep. A ogni minuto che passava gli pareva di essere sul punto di perdere una gara. Una volta entrati in battaglia con il nemico, la rapidità era tutto. La rapidità era vita. Lei lo tirò per il braccio. «Vai troppo veloce.» «Abbiamo un sacco di cose da fare.» «Dove stiamo andando?» «A casa mia.» «È lì che staremo?» «No. Anche loro stanno andando lì.» Pike abitava a Culver City, in un complesso residenziale a un chilometro e mezzo dal mare, circondato da un muro in cemento con cancelli che si aprivano con una tessera magnetica. Gli appartamenti erano distribuiti a gruppi di quattro intorno a due campi da tennis e una piscina che Pike non usava mai. Il suo appartamento si trovava in un angolo verso l'esterno, nascosto dagli altri. Pike andò direttamente al condominio ma non entrò. Girò intorno al mu-
ro di recinzione per vedere se ci fosse qualcuno che sorvegliava i cancelli o aspettava il suo arrivo. Non gli andava di portare lì la ragazza, ed era convinto che il tempo ancora a disposizione per entrare in casa si stesse riducendo. Fece un altro giro del condominio, poi svoltò nel vialetto sul retro e aprì il cancello con la tessera magnetica. Larkin si guardò intorno. «Niente male. Credevo vivessi in una topaia. Quanto guadagna una guardia del corpo?» «Mettiti giù. Abbassati sotto il cruscotto» disse Pike. «Posso prendere qualcosa da mangiare a casa tua? Devi pur avere qualcosa, no?» «Tu non scendi dalla macchina.» Anche senza guardarla, Pike sapeva che lei stava alzando gli occhi al cielo, ma comunque la ragazza obbedì. «Solitamente, quando gli uomini mi ordinano di abbassarmi, è per qualcos'altro.» Pike le lanciò un'occhiata. «Molto divertente.» «E allora perché non ridi? Le guardie del corpo non sorridono mai?» «Io non sono una guardia del corpo.» Pike arrivò fino al posto dove parcheggiava abitualmente. C'erano soltanto tre auto, e lui le riconobbe tutte e tre. Si fermò, ma lasciò il motore acceso. Il giardino ospitava palme, ibisco e strelitzie tra i quali si inoltravano vialetti di cemento. Pike osservò il gioco di colore contro le pareti e i tetti in stile spagnoleggiante. «Cosa succede?» chiese Larkin. Pike non rispose. Non vedendo niente di insolito, alla fine si decise a spegnere il motore. Avrebbe potuto portare la ragazza con sé, ma senza di lei si sarebbe mosso più in fretta. Le porse la pistola. «Tieni. Ci metterò trenta secondi.» Lei scosse il capo. «Odio le pistole.» «Allora resta qui e non ti muovere.» Pike scese dalla Jeep prima che lei avesse il tempo di rispondere e si avviò a passo veloce verso la porta d'ingresso. Controllò le due serrature ma non vide alcun segno di manomissione. Entrò e andò a una pulsantiera inserita nella parete. Aveva installato un sistema di videosorveglianza che copriva l'ingresso, le finestre del piano terra e il parcheggio, composto da sei telecamere digitali talmente piccole da poter essere nascoste nelle piante e nelle lampade. Adesso ogni telecamera avrebbe ripreso un'immagine
ogni otto secondi. Pike programmò l'allarme, uscì e tornò velocemente verso la Jeep. Larkin era ancora nascosta sotto il cruscotto. «Cos'hai fatto?» gli chiese. «Non sappiamo nulla di questa gente. Se vengono qui, almeno avrò le loro foto, qualcosa su cui lavorare.» «Posso alzarmi?» «Certo.» Quando varcarono il cancello, nello specchietto retrovisore non comparve nessuno. Pike svoltò in direzione di Albertsons. Larkin riprese posto sul sedile e si allacciò la cintura di sicurezza. Adesso sembrava più calma. Anche Pike si sentiva meglio. «Cosa facciamo adesso?» chiese lei. «Ci procuriamo un'altra macchina e un posto dove stare. Abbiamo ancora molte cose da fare.» «Se non sei una guardia del corpo, allora che cosa sei? Bud ha detto a mio padre che facevi il poliziotto.» «È stato tanto tempo fa.» «E adesso? Se una donna ti chiede che lavoro fai, che so, a una festa o in un bar, tu cosa rispondi?» «Uomo d'affari.» Larkin scoppiò a ridere, ma era una risata stridula, forzata. «Io sono cresciuta tra gli uomini d'affari. Tu sei diverso.» Pike avrebbe voluto che lei la smettesse di parlare, ma sapeva che la paura che si era tenuta dentro adesso stava divampando di nuovo, come i tizzoni quando ci soffi sopra, e le sue chiacchiere non potevano che aumentare. Quello era un momento di calma, e in combattimento i momenti di calma erano i peggiori. Quando intorno a te si scatena l'inferno puoi anche reggere, ma nei momenti in cui hai il tempo per pensare... È allora che cominci a sentire i brividi come un cane bagnato nel vento. Pike sapeva come si sentiva Larkin. Le sfiorò la tempia e vide che le tremavano le labbra. Capì di aver visto giusto. «Qualunque cosa io sia, non ti farò del male, e non permetterò che nessuno te ne faccia.» «Me lo prometti?» «È così.» Pike le accarezzò i capelli ispidi, freschi di tintura.
«Tu credi che io non capisca, ma lo so cosa stai facendo» disse Larkin. «Potremmo andarcene da Los Angeles in questo momento e nasconderci da qualche parte, per esempio in un posto tipo Bisbee, in Arizona, ma non è questo che vuoi. Tu non vuoi nasconderti. Tu vuoi prenderli prima che loro prendano noi. È per questo che hai bisogno delle loro foto. Tu vuoi stanarli.» Pike si concentrò sulla guida. «Te l'ho detto: non sono una guardia del corpo.» Per un po' lei rimase in silenzio, e Pike gliene fu grato. 4 La Lexus verde li aspettava nella terza fila del parcheggio, una macchina come tante in un mare di veicoli anonimi. Pike parcheggiò la Jeep nel posto libero più vicino senza spegnere il motore. Frugò sotto il cruscotto, trovò con facilità l'involucro di nylon e fece cadere in grembo a Larkin una Smith & Wesson calibro .40 nella sua fondina. «Mettila nella borsa.» «Io non la tocco. Te l'ho detto, odio le armi.» Pike allungò la mano sotto il cruscotto sul lato del passeggero e tirò fuori una Beretta .380 compatta. Frugò ancora ed estrasse una scatola di plastica che conteneva caricatori per entrambe le pistole. Anche questi finirono in grembo a Larkin. «Mio Dio, tu sei pazzo» disse lei. Pike infilò la mano sotto il cruscotto un'ultima volta e prese un sacchetto di plastica sigillato contenente duemila dollari in contanti, carte di credito e una patente intestate a Fred C. Howe. Posò il sacchetto sulle gambe della ragazza insieme alle pistole. «Qui c'è del denaro. Forse questo nella tua borsa ci sta.» Finalmente spense il motore e scese senza aspettarla. Prese le sacche e raggiunse la Lexus, si chinò a prendere le chiavi che Ronnie aveva nascosto sotto la ruota anteriore sinistra e caricò il bagaglio. Poi chiuse la Jeep e lasciò le chiavi nello stesso posto, sotto la ruota. Ronnie sarebbe venuto a prenderla più tardi per posteggiarla dietro l'armeria. Larkin lo osservava a braccia conserte. «Che cosa facciamo adesso?» «Prima mossa, saliamo in macchina.» «Che ne dici se come seconda mossa prendiamo qualcosa da mangiare?»
«Tra poco.» Pike infilò la Kimber sotto la coscia destra, con il calcio rivolto verso l'esterno, pronta all'uso. Avviò il motore per far partire l'aria condizionata, quindi prese il telefono nuovo che Ronnie aveva lasciato per terra davanti al sedile del guidatore insieme a due schede prepagate e un biglietto. C'erano anche un auricolare e due caricabatteria, uno per la macchina e uno da usare in casa. Ronnie aveva già attivato la scheda e pagato duemila minuti di traffico, quindi il cellulare era pronto per l'uso. Il nuovo numero di telefono era scritto sul biglietto. «Sto morendo di fame» disse Larkin. «Per favore, possiamo prendere qualcosa da mangiare?» Pike studiò il cellulare per capire come funzionava, quindi mise in moto e uscì in retromarcia, digitando il numero di una persona che conosceva da tempo. «Grazie al cielo» fece Larkin. «Finalmente. Sono così affamata che il mio stomaco si sta mangiando da solo.» «Non ancora.» La ragazza diventò rossa per l'irritazione. «Cazzo! Ma è assurdo! Io ho fame. Voglio mangiare!» Pike doveva trovare un nascondiglio sicuro. Aveva pensato a un motel, ma questo avrebbe accresciuto le possibilità di contatto con la gente, mentre lui voleva evitarlo. Avevano bisogno di privacy, un posto dove nessuno potesse riconoscere la ragazza. Avevano bisogno di prendere immediatamente possesso dell'alloggio, senza troppe domande, e questo significava che non poteva rivolgersi a degli estranei. Una volta aveva aiutato un'agente immobiliare a liberarsi di un ex marito violento, e da allora aveva comprato e venduto parecchie proprietà con il suo aiuto. Quando lei rispose le spiegò che cosa gli servisse. Larkin se ne stava appoggiata contro la portiera, immusonita, le braccia conserte. «Aiuto! Aiuto! Vuole violentarmi!» gridò. «Chi è?» chiese l'agente immobiliare. «Sto facendo il baby-sitter.» Larkin gli lanciò un'occhiataccia. «Non hai mai fatto da baby-sitter a una come me.» Poi si sporse verso il telefono. «Gli ho fatto un pompino!» «Sembra simpatica» osservò l'amica di Pike. «Gli ho fatto un pompino e lui non vuole darmi da mangiare! Sto morendo di fame!» Pike mise una mano davanti al telefono per poter proseguire.
«Puoi trovarmi una casa?» «Credo di averne una che potrebbe fare per te. Ti richiamo.» Pike diede il nuovo numero all'amica, chiuse la comunicazione e poi si voltò a guardare la ragazza. Era di nuovo accasciata contro la portiera e lo scrutava da dietro gli occhiali scuri, in attesa delle sue prossime mosse. Forse voleva metterlo alla prova. Tutto quello che Pike sapeva sul suo conto lo aveva appreso da Bud Flynn e dal padre di lei, neanche diciassette ore prima; adesso capiva che non ci si poteva fidare di Bud. «Come ti chiami?» Lei si tolse gli occhiali e lo guardò come se fosse un ritardato. «Di chi stai parlando?» «Come ti chiami?» «Non capisco. Cos'è, una specie di gioco della verità?» «Il tuo nome.» «Non capisco perché me lo chiedi.» «Qual è il tuo nome?» Il volto della ragazza parve afflosciarsi per la frustrazione. «Ho fame. Quando mi darai qualcosa da mangiare?» «Nome.» «LARKIN CONNER BARKLEY! E tu, come cazzo ti chiami?» «Tuo padre?» «CONNER BARKLEY! MIA MADRE È MORTA! SI CHIAMAVA JANICE! SONO FIGLIA UNICA! VAFFANCULO!» Pike controllò lo specchietto retrovisore, poi indicò la borsa posata davanti ai piedi di lei. «Patente e carte di credito.» Lei non protestò. Afferrò la borsa, estrasse il portafoglio e glielo lanciò addosso. «Usale per comprarmi qualcosa da mangiare.» Pike aprì il portafoglio e tirò fuori la patente. Sopra c'era la foto di lei a nome Larkin Conner Barkley, ed era stata emessa in California. Come indirizzo figurava una via di Century City, ma sia Bud sia suo padre avevano parlato di una casa a Beverly Hills. «Abiti a Century City?» «Quello è l'ufficio della società. Arriva tutto lì.» «Dove vivi?» «Vuoi andare nel mio appartamento? Ho un loft fantastico. Tutto il palazzo è nostro.»
«Dove?» «In centro. Nella zona industriale.» «È lì che sono venuti, la prima volta che hanno cercato di ucciderti?» «Ero con mio padre a Beverly Hills.» «Quando è successo?» «Cristo, non me lo ricordo!» «Pensaci.» «Una settimana fa. No, forse meno. Sei giorni.» «Chi è Alex Meesh?» Lei parve rattrappirsi come una bambolina di cera che si scioglie sotto il sole, e si rannicchiò ancora di più contro la portiera. Tutta la sua insolenza e la spavalderia erano sparite. «L'uomo che sta cercando di uccidermi.» Pike lo aveva già appreso da suo padre e da Bud, ma voleva sentirlo da lei. «Perché ti vuole morta?» Lei fissò un punto indefinito oltre il parabrezza e scosse la testa. «Non lo so. Perché l'ho visto quella notte insieme ai King, quando ho avuto l'incidente. Sto collaborando con il dipartimento di Giustizia.» Pike scorse le carte di credito, senza mai perdere di vista la strada. Erano tutte a nome di Larkin Barkley, talvolta con il secondo nome. Pike tirò fuori un'American Express e una Visa. L'American Express era una di quelle carte speciali, nere, e indicava che il titolare spendeva almeno duecentocinquantamila dollari all'anno. Lanciò il portafoglio per terra ai piedi di lei, ma tenne le due carte di credito e la patente di guida, che infilò sotto la coscia insieme alla pistola. Pike sapeva solo quello che gli avevano riferito Bud e il padre della ragazza. Voleva identificare le persone in gioco e scoprire da solo la verità. Per fare questo avrebbe avuto bisogno di aiuto, così compose un altro numero. Larkin gli lanciò l'ennesima occhiataccia; questa volta, però, poco convinta, seguita da un sorriso incerto. «Spero che tu stia facendo una prenotazione.» «Sto chiamando una persona che può aiutarci.» Il telefono fece due squilli, poi rispose la voce di un uomo. «Agenzia investigativa Elvis Cole. Per noi niente è impossibile.» «Sono io. Sto arrivando.» Pike chiuse la comunicazione e svoltò in direzione delle montagne.
5 Trentadue ore prima, la mattina in cui tutto era cominciato, Ocean Avenue era illuminata dalla luce dorata dei lampioni e degli edifici che costeggiavano il lungomare di Santa Monica. Joe Pike faceva jogging in mezzo alla strada. Un coyote lo seguiva tenendosi nella zona più buia lungo la scarpata. Erano le tre e cinquantadue del mattino. A quell'ora il Pacifico era nascosto dalla notte e il mondo finiva sul bordo friabile del dirupo, inghiottito dall'oscurità. Pike si godeva la quiete che gli permetteva di correre al centro della strada deserta, cosa impossibile da fare quando la luce si portava via il buio. Gettò uno sguardo di lato e vide il coyote che teneva il suo passo senza difficoltà, talvolta in piena vista, altre volte nascosto dalle palme. Era un maschio anziano, con il muso bianco coperto di cicatrici, sceso dai canyon in cerca di cibo. Ogni volta che Pike si voltava scopriva che il coyote continuava a osservarlo mentre correva. Probabilmente era incuriosito. I coyote avevano delle regole di convivenza con gli umani, ed era per questo che a Los Angeles prosperavano. Una delle regole era che uscivano solo di notte: probabilmente pensavano che la notte appartenesse alle creature selvagge. Forse questo coyote era convinto che Pike stesse infrangendo le regole. Pike si aggiustò lo zaino e spinse ancora di più. Un secondo coyote si unì al primo. Joe Pike correva spesso lungo quel percorso: a ovest sulla Washington partendo dal suo appartamento, verso nord sulla Ocean fino alla San Vicente, quindi a est su Fourth Street dove una ripida scalinata di cemento mordeva la scarpata come una serie di denti irregolari. Una fila di centottantanove gradini abbarbicati alla parete, interrotta da quattro piccole terrazze costruite per fermare le persone che scivolavano. Senza quelle, chiunque inciampasse si sarebbe ammazzato. Centottantanove gradini sono alti quanto un edificio di nove piani. Farli di corsa era come salire nove piani di scale. Quella mattina Pike portava uno zaino militare caricato con quattro sacchi da cinque chili di farina. Avrebbe fatto la scalinata di corsa venti volte, su e giù, prima di tornare verso casa. Un marsupio legato in vita conteneva cellulare, documenti, chiavi e una Beretta calibro .25. Pike non si aspettava la telefonata quella mattina. Sapeva che sarebbe
arrivata, prima o poi, ma quella mattina, quando il cellulare si mise a vibrare, era tutto preso dallo sforzo fisico e dalla familiare sensazione del sudore. Aveva raggiunto un bel ritmo, ma pensò che erano in pochi ad avere il suo numero privato, quindi si fermò per rispondere. «Scommetto che non sai chi sono» disse la voce di un uomo. Pike lasciò che il suo respiro rallentasse, e spostò lo zaino. Ora che era fermo gli pareva più pesante. «Parlo con Joe Pike?» disse l'uomo, perplesso per il suo silenzio. Pike non sentiva la sua voce dai tempi del rapimento di Ben Chenier, un ragazzino di otto anni. Pike e il suo amico Elvis Cole avevano immediatamente iniziato le ricerche, ma per trovare i sequestratori erano stati costretti a chiedere aiuto all'uomo che ora era al telefono. Il compenso richiesto era semplice: un giorno l'uomo avrebbe chiamato Pike proponendogli un lavoro e lui avrebbe dovuto accettare. Poteva trattarsi di qualunque cosa, magari un genere di lavoro che Pike non amava più fare, ma lui non avrebbe avuto altra scelta che dire di sì. Quello era il prezzo da pagare per salvare Ben Chenier, e Pike aveva accettato. Un sì. Un giorno l'uomo lo avrebbe chiamato. Quel giorno era arrivato. «Jon Stone» disse Pike. Stone scoppiò in una risata. «Bene. Vedo che ti ricordi. Adesso vediamo se sei un uomo di parola. Ti ho detto che avrei chiamato e l'ho fatto. Sei in debito con me per un lavoro.» Pike guardò l'orologio prendendo nota dell'ora. Un terzo coyote si era unito ai primi due e lo fissava dall'oscurità. «Sono le quattro del mattino» osservò Pike. «È da ieri sera che cerco di farmi dare il tuo numero, amico. Se ti ho svegliato, mi dispiace. Ma se tu mi dai buca, dovrò cercare qualcun altro. Ecco perché ti ho chiamato a quest'ora.» «Che cosa c'è?» «Ho un pacco di cui ti dovresti occupare, ed è già bollente.» Un pacco significava una persona. Il calore indicava che la persona era già stata oggetto di attentati. «Come mai il pacco è in pericolo?» «Non lo so. A me importa solo che tu mantenga la parola data. Hai accettato di fare un lavoro per me. Questo è il lavoro. Devo dire a questa gente se ci stai o no.» Ombre grigie fluttuavano dietro le palme come spettri. Arrivarono altri
due coyote. Tenevano la testa bassa ma i loro occhi riflettevano la luce dorata. Pike si chiese come sarebbe stato correre insieme a loro nella notte, muoversi con la loro grazia, veloci e silenziosi, sentire e vedere quello che loro sentivano e vedevano, lì in città e su in alto, nei canyon. Stone continuò a parlare con voce sempre più tesa. «Il tizio che mi ha chiamato ha detto che ti conosceva. Bud Flynn.» Pike tornò alla realtà. «Sì.» «Bene. È Flynn che mi ha contattato. Fa da guardia del corpo a certa gente, gente così ricca che caga verde. E io voglio un po' di quel verde, Pike. Tu sei in debito con me. Accetti o no?» «Sì» disse Pike. «Bravo, così mi piaci. Ti chiamo più tardi quando ho la merce.» Pike chiuse il telefono. Mezzo chilometro più avanti, dove la San Vicente incontrava la Ocean, si accesero le luci di stop di un'auto. Pike rimase a guardarle finché non sparirono, poi sistemò lo zaino. Adesso i coyote che aspettavano nell'ombra erano una decina. Altri tre si materializzarono in un vicolo tra due ristoranti. Un altro era fermo in mezzo alla strada, a un isolato di distanza, e lui non l'aveva neppure visto avvicinarsi. Pike inspirò a fondo e sentì l'odore forte che si levava dal loro manto. Il coyote più vecchio non girò verso il canyon. Descrisse un ampio cerchio intorno a Pike, attraversò Ocean Avenue e proseguì lungo il Santa Monica Boulevard, seguito dagli altri. La città era loro fino al levar del sole. Non l'avrebbero ceduta finché non fossero stati costretti. Pike si tolse lo zaino e lo lasciò cadere a terra. Fece un respiro profondo e alzò le mani sopra la testa, stirandosi. I muscoli erano caldi e la spalla debole, quella che era rimasta quasi spappolata quando gli avevano sparato, sembrava in forma. Le cicatrici che striavano il deltoide si tesero, ma tennero. Pike si chinò in avanti fino a toccare con i palmi per terra. Trasferì il peso del corpo sulle mani, poi sollevò i piedi fino ad alzarsi in verticale in mezzo a Ocean Avenue. Era in pace con se stesso, in equilibrio perfetto. Si abbassò fino a toccare la strada con la fronte, poi si tirò su, eseguendo un piegamento in verticale, solo per il piacere di sentir lavorare il corpo. Avvertì un bruciore alla spalla nel punto in cui i nervi erano stati danneggiati e lo sarebbero rimasti per sempre, ma riuscì a sollevarsi senza sforzo. Abbassò le gambe, si rimise in piedi e vide che i coyote erano tornati e
lo osservavano, creature di strada che in città si sentivano a casa. Pike si caricò di nuovo lo zaino sulle spalle e riprese la sua corsa. Da lì a quattordici ore si sarebbe trovato in auto, diretto verso nord, per prendere in consegna la ragazza e, per la prima volta dopo vent'anni, avrebbe rivisto Bud Flynn, una persona alla quale era profondamente legato. Quindici ore dopo, Pike arrivò alle rovine di una chiesa nel deserto. La chiesa, una cinquantina di chilometri a nord di Los Angeles, a due chilometri dalla Pearblossom Highway, non aveva più finestre né porte; restavano solo le pareti dall'intonaco scrostato, con orbite vuote e bocca spalancata. Anni di incuria e intemperie le avevano dato il colore della polvere. Le pareti erano coperte da graffiti, vecchi anche quelli, sbiaditi quanto i cespugli di salvia e di artemisia che spuntavano dai muri. Era un luogo solitario, reso ancora più desolato dal sole basso all'orizzonte. Una limousine nera con i finestrini scuri e un Hummer nero erano fermi vicino alla chiesa, incongrui come due scintillanti gemme nere nella terra. Pike non li aveva visti uscendo dall'autostrada. Fermò la Jeep di fronte ai due veicoli. Sagome nere si muovevano dietro al parabrezza scuro dell'Hummer, ma all'interno della limousine non si vedeva nulla. Pike si stava accingendo ad aspettare quando Bud Flynn e un altro uomo comparvero sulla soglia della chiesa. Lo sconosciuto era corpulento, con un viso da nero e capelli lisci pettinati all'indietro. Sembrava nervoso e si ritirò dentro la chiesa mentre Bud, sorridente, usciva nel sole morente della sera, colmando un vuoto di vent'anni e due vite. Pike non lo aveva più visto dal giorno in cui aveva dato le dimissioni dalla polizia di Los Angeles. Vista l'amicizia che li legava, aveva voluto comunicarglielo di persona, allo Shortstop Lounge. Bud gli aveva chiesto se avesse un altro lavoro in vista e Pike gli aveva raccontato tutto. Lui non aveva approvato, aveva reagito come un padre arrabbiato per la scelta del figlio. Pike si era arruolato in una società privata di servizi militari con base a Londra. Avrebbe lavorato come soldato professionista, disse, uno specialista in sicurezza. Stronzate, aveva detto Bud, non sarai altro che un fottuto criminale, un mercenario. Adesso, nel vederlo, Pike sentì solo il calore dei ricordi più belli, e scese dalla Jeep. L'amico era invecchiato, ma sembrava ancora perfettamente in forma. Bud gli porse la mano. «È un piacere vederti, agente Pike. Ne è passato di tempo.»
Pike lo attirò a sé e lo abbracciò, mentre l'altro gli dava delle pacche sulle spalle. «Adesso lavoro nel settore delle investigazioni private, Joe. Quattordici anni, quindici il prossimo marzo. Gli affari vanno bene.» «E ti servi di mercenari per le indagini?» Bud pareva a disagio, forse persino imbarazzato. Tornarono entrambi con la mente a quel giorno allo Shortstop, ma Bud proseguì. «Talvolta la parte investigativa conduce ad attività di sicurezza. Un amico mi ha dato il nome di Stone. Stone ha a disposizione ex agenti del Mossad e del Servizio segreto... gente che ha esperienza con clienti ad alto rischio. Cercavo una persona così quando lui mi ha suggerito il tuo nome.» Pike lanciò un'occhiata all'Hummer. L'assetto ribassato tradiva il peso extra derivante dalla blindatura e dai vetri antiproiettile. «La ragazza è là dentro?» Jon Stone gli aveva spiegato a grandi linee la situazione quando lo aveva richiamato per dargli le indicazioni: una giovane donna proveniente da una famiglia molto ricca era sopravvissuta a tre tentativi di omicidio e Bud Flynn era stato assunto per proteggerla. Punto. Stone non sapeva nient'altro perché - giustamente, secondo Pike - Bud Flynn riteneva che non dovesse sapere altro. A Stone bastava sapere che la ragazza era ricca. Uno con il curriculum di Pike poteva chiedere un compenso astronomico e lui avrebbe spremuto per bene quella gente. Flynn ignorò la domanda di Pike e si voltò verso la chiesa. «Entriamo. Ti presento suo padre e ti spiego cosa sta succedendo. Se deciderai di accettare ti farò incontrare la ragazza.» Pike lo seguì pensando: "Ho già deciso". La chiesa odorava di salvia e urina. Lattine di birra e riviste erano sparse sul pavimento di cemento sbiadito dal tempo e coperto dalla sabbia che entrava dai varchi nelle pareti. Pike pensò che l'odore di urina fosse stato lasciato dagli animali. Lo sconosciuto che aveva visto sulla soglia era in compagnia di un terzo, magro, con lo sguardo intelligente di un uomo d'affari e la bocca perennemente imbronciata. Per terra vicino alla porta era posata una valigetta di cuoio pregiato. Pike si chiese chi dei due fosse il proprietario della valigetta e chi il padre della ragazza. Si fermò lontano dalle finestre. Bud accennò con il capo in direzione dell'uomo con i capelli pettinati
all'indietro. «Joe, ti presento Conner Barkley. Signor Barkley, questo è Joe Pike.» Barkley si costrinse a sorridere. «Piacere.» Barkley indossava una camicia di seta a maniche corte che metteva in evidenza la pancia sporgente. L'uomo dall'aria imbronciata sfoggiava una costosa giacca sportiva di colore grigio scuro. Pike portava una felpa grigia senza maniche, jeans e scarpe da jogging. L'uomo prese una penna e dei fogli piegati dalla tasca della giacca. «Signor Pike, mi chiamo Gordon Kline, sono il legale del signor Barkley e uno dei dirigenti della sua società. Questo è un accordo che la vincola alla riservatezza. Stabilisce che lei non può ripetere, riferire né rivelare in alcun modo quanto detto oggi dai signori Barkley o appreso mentre era al loro servizio. Deve firmarlo.» Kline gli porse documenti e penna. Pike non si mosse. «Gordon, perché non procediamo senza queste formalità, considerata la situazione?» «Deve firmarlo. Devono firmarlo tutti.» Pike vide che Barkley fissava le vistose frecce rosse sui suoi deltoidi. C'era abituato. Se l'era fatte tatuare in occasione del suo primo turno di servizio attivo. Puntavano in avanti. La gente osservava i tatuaggi, la felpa sbiadita con le maniche tagliate, e vedeva quello che voleva vedere. A Pike andava bene così. Quando distolse lo sguardo, Barkley aveva un'espressione preoccupata. «Questo è l'uomo che vuole ingaggiare?» «È il migliore nel suo campo, signor Barkley. Lui farà in modo che Larkin resti viva.» Kline gli porse i fogli. «Se vuole firmare qui, per favore.» «No» disse Pike. Le sopracciglia di Barkley si inarcarono come bruchi nervosi. «Penso che non ci siano problemi, Gordon. Credo che possiamo procedere. Cosa ne dice, Bud?» L'espressione di Kline si fece ancora più corrucciata, ma mise via i documenti, e Bud proseguì. «Okay, la situazione è questa: la figlia del signor Barkley è una testimone federale. Dovrà presentarsi davanti al Gran Giurì tra due settimane. Negli ultimi dieci giorni ha subito tre attentati a cui è scampata per un pe-
lo. Tre attentati in una settimana e mezza. E tutte le volte ci sono andati vicino. Non mi rimane altra scelta che rivolgermi all'esterno.» «A me.» Pike si spostò appena per vedere la limousine. Il deserto era stato invaso dalla luce rossa del tramonto. Pike sentì la temperatura scendere bruscamente. Di notte, lassù, l'aria sarebbe stata pungente. «Perché non è in un programma di protezione?» Fu Barkley a rispondere, scostandosi i capelli dagli occhi. «Lo era. Per poco non l'hanno fatta ammazzare.» Gordon Kline incrociò le braccia come se l'intero governo degli Stati Uniti fosse uno spreco di denaro dei contribuenti. «Incompetenti.» «Undici giorni fa Larkin è rimasta coinvolta in un incidente stradale» spiegò Bud. «È andata a sbattere contro una Mercedes alle tre del mattino...» Barkley lo interruppe un'altra volta. «Non ti aspetti di incontrare gente di quel tipo quando sei alla guida della tua auto...» «Conner...» disse Gordon Kline. «Guarda dove siamo: quassù tra queste rovine, costretti a scappare per non farci ammazzare. E tutto per un incidente stradale...» Barkley si scostò di nuovo i capelli dagli occhi, e questa volta Pike vide che gli tremava la mano. Bud riprese a raccontare della Mercedes. «C'erano tre persone a bordo. Una coppia, George ed Elaine King, i proprietari dell'auto, e un passeggero sul sedile posteriore. Ti dice niente il nome George King?» Pike scosse il capo, e così Bud spiegò. «Un immobiliarista, fedina immacolata, nessun problema con la giustizia, nessun precedente. George sanguinava, così Larkin è scesa per aiutarlo. Anche il secondo uomo era ferito, ma si è allontanato a piedi. Poi George si è ripreso quel tanto da rimettersi al volante e ripartire, ma Larkin ha preso il numero di targa. Il giorno seguente i King hanno raccontato alla polizia una storia diversa... hanno detto che erano soli. Dopo un paio di giorni alcuni agenti del dipartimento di Giustizia sono andati da Larkin con un disegnatore. Dopo duecento tentativi, Larkin ha identificato l'uomo scomparso come un certo Alexander Liman Meesh, un tizio accusato di omicidio che i federali credevano vivesse a Bogotá, in Colombia. Ho qui un fascicolo su di lui ricavato dall'NCIC, se lo vuoi.» Pike lanciò un'altra occhiata in direzione della limousine. «Perché un incidente stradale ha portato a un'indagine federale?»
Kline andò a mettersi tra Pike e la limousine; non sembrava più seccato per il suo rifiuto di firmare le carte. «Tutto è partito da King. Il dipartimento di Giustizia ci ha detto che stavano indagando su di lui perché sospettavano riciclasse denaro sporco attraverso la sua società immobiliare. Pensano che Meesh sia tornato negli Stati Uniti con dei soldi del cartello da investire nella società di King.» Bud annuì, inarcando le sopracciglia. «Una cifra superiore ai cento milioni.» Kline aggrottò ancora di più la fronte, poi lanciò un'occhiata al padre della ragazza. «Il governo ha bisogno di Larkin per collegare King a un noto criminale. Con la sua testimonianza sono convinti di riuscire a ottenere un'incriminazione e costringerlo ad aprire i suoi libri contabili. Suo padre e io eravamo contrari al suo coinvolgimento. Siamo sempre stati contrari, fin dall'inizio, e guardi in che casino ci troviamo.» «Quindi, King la vuole morta?» «King è un uomo d'affari» disse Bud. «Non ha un passato criminoso, nessun precedente di violenza, nessun contatto nell'ambiente, a parte Meesh. Quelli del dipartimento di Giustizia sono convinti che Meesh stia cercando di proteggere i soldi investiti nei progetti di King. Se lui viene incriminato, i suoi progetti verranno congelati, insieme ai suoi fondi. E Meesh questo non lo vuole. È anche possibile che King non sappia che Meesh sta dando la caccia alla ragazza. È possibile che non sappia da dove vengono realmente quei soldi.» «Qualcuno l'ha chiesto ai King?» «Sono fuggiti. Il loro ufficio dice che sono partiti per una vacanza programmata da tempo, ma al dipartimento di Giustizia non ci credono.» Conner Barkley si passò una mano tra i capelli. «È un incubo. Questa faccenda è un vero incubo...» Bud lo interruppe. «Conner, le dispiacerebbe lasciarmi parlare un minuto con Joe? Ci vediamo alla macchina. Ci scusi, Gordon...» Barkley aggrottò la fronte come se non avesse capito che gli era stato chiesto di andarsene, ma Kline gli sfiorò un braccio e si allontanarono. Bud attese per un po', poi fece un gran sospiro. «Questa gente sta passando un brutto momento.» «Io non sono una guardia del corpo» disse Pike. «Joe, ascoltami. La prima volta che ci hanno provato la ragazza era a casa. La casa dei Barkley è una fortezza... una proprietà di quasi due etta-
ri a Beverly Hills, a nord del Sunset, servizio di sicurezza ventiquattr'ore su ventiquattro, uno staff completo. È gente ricca sfondata.» «Questo l'ho capito.» Bud aprì la valigetta di cuoio e tirò fuori alcune foto sgranate. Ritraevano tre figure vestite di scuro che, di notte, passavano davanti a una piscina, poi in un giardino, quindi davanti a una portafinestra. «Sono state scattate dalle telecamere di sicurezza. In questa e in questa si vedono le facce, ma non siamo ancora riusciti a identificarli. Hanno sequestrato una cameriera per trovare Larkin. L'hanno picchiata, le hanno rotto naso e denti.» Una delle foto ritraeva la cameriera. Gli occhi parevano due melanzane. Attraverso il labbro spaccato si vedevano le gengive. Pike pensò che chi l'aveva ridotta così doveva essersi divertito. Probabilmente aveva continuato a picchiarla anche quando ormai aveva perso conoscenza. «Fin dove sono arrivati?» «Sono scappati quando è arrivata la polizia. La prima aggressione ha colto tutti di sorpresa, poi la ragazza è passata sotto la protezione federale. I marshal l'hanno portata in un rifugio sicuro dalle parti di San Francisco quella sera stessa... sei giorni fa. La notte seguente ci hanno riprovato.» «Nel rifugio sicuro.» «Uno dei marshal è rimasto ucciso, un altro ferito. Quella gente ci va giù pesante.» Pike sentì sbattere una portiera e si spostò verso la finestra. Larkin Conner Barkley era scesa dalla limousine per andare incontro a suo padre e Kline. Aveva il viso a forma di cuore con un naso sottile leggermente inclinato a sinistra, una massa di capelli color rame simili a un groviglio di serpi. Indossava un paio di shorts a vita bassa, aderenti e cortissimi, una maglietta verde e portava un cagnolino infilato dentro la borsetta rosa firmata che stringeva sotto il braccio. Era uno di quei cani microscopici con gli occhi sporgenti che tremano quando sono nervosi. Pike sapeva che si sarebbe messo ad abbaiare al momento sbagliato e l'avrebbe fatta uccidere. Si girò dando le spalle alla finestra. «Sempre gli stessi uomini?» «Non abbiamo modo di saperlo. Larkin ha chiamato il padre e la sera era già tornata a Beverly Hills. Non ne volevano più sapere della protezione dei federali. Il signor Barkley mi ha assunto quel giorno stesso. L'ho
portata via da casa e l'ho sistemata in albergo, ma dopo poche ore ci hanno riprovato.» «Quindi sapevano dove si trovava, tutte e tre le volte.» «Sì.» Pike tornò a guardare la limousine. Dentro la chiesa la luce del crepuscolo aveva assunto il colore del fumo. «Tra i tuoi federali c'è una talpa.» Bud strinse la mascella, come se lo pensasse anche lui ma non volesse dirlo. «Ho una casa a Malibu. Voglio che tu la porti là stasera... tu da solo. Non voglio riportarla in città.» «E i federali cosa dicono di questo?» «Li ho tagliati fuori. Pitman, il capo, è convinto che io stia facendo un grosso sbaglio, ma questo è ciò che vogliono i Barkley.» Pike guardò Bud Flynn. «Stone ti ha detto del nostro accordo?» Bud lo guardò senza capire. «Quale accordo?» «Io non lavoro più sotto contratto. Gli devo un favore. Questo incarico e basta. E così saldo il mio debito.» «Costi una fortuna.» «Non prendo io quei soldi. Non è per questo che lo faccio.» «Lui non mi ha parlato di nulla. Se non sei convinto, non voglio che tu...» «Agente Flynn...» disse Pike. Bud si interruppe. «Fammi conoscere la ragazza.» Barkley stava parlando con Kline quando Pike e Flynn uscirono dalla chiesa. Bud fece un cenno in direzione dell'Hummer, al che due uomini vestiti elegantemente di scuro cominciarono a scaricare valigie e sacche da viaggio. La ragazza studiava Pike con le mani sui fianchi, come una che ha dei ripensamenti su un acquisto appena fatto. Il cagnolino, appeso nella borsetta sotto il suo braccio, lo guardava avvicinarsi con occhi vendicativi. Quando arrivarono alla macchina, Flynn fece un cenno con il capo in direzione di Gordon Kline. «Noi siamo pronti.» Poi si voltò verso la ragazza. «Larkin, ti presento Joe Pike. Andrai con lui.»
«E se mi violenta?» Barkley non guardò la figlia. Si limitò a lanciare un'occhiata in direzione di Gordon Kline. «Piantala, Larkin» disse Kline. «Stiamo facendo quello che è meglio per te.» Barkley annuì e Pike si chiese se il compito di Kline consistesse nel dire alla figlia di Barkley quello che doveva fare. Larkin si tolse gli occhiali da sole e squadrò Pike da capo a piedi con studiato scetticismo. Poi guardò il padre. «È abbastanza carino. Me lo compri, papà?» Barkley guardò nuovamente Kline, quasi volesse che l'avvocato rispondesse al posto suo. Pareva che avesse paura della figlia. Lei si voltò di nuovo verso Pike. «Pensi di riuscire a proteggermi?» Pike la osservò. Era carina, e sapeva di esserlo. L'abbigliamento e la pettinatura indicavano che le piaceva essere al centro dell'attenzione, e questo sarebbe stato un problema. Gli uomini in abito scuro stavano ancora scaricando i bagagli. Larkin guardò Flynn con aria seccata. «Come mai non parla? Cos'è, fatto?» Pike prese una decisione. «Sì.» Larkin scoppiò a ridere. «Sei fatto?» «Sì, posso proteggerti.» Il sorriso di Larkin svanì e lei parve perplessa, come se solo allora si rendesse conto che il pericolo era reale. «Voglio vedere i tuoi occhi» disse lei. «Togliti gli occhiali.» Pike accennò con il capo alla montagna di valigie. «Quella è la tua roba?» «Sì.» «Una sacca e una borsa. Nient'altro. Niente cellulare. Niente apparecchiature elettroniche. Niente iPod.» Larkin si irrigidì. «Ma io ho bisogno di quella roba. Papà, diglielo tu che ne ho bisogno.» Gli occhi del cagnolino schizzarono in fuori e l'animale prese a ringhiare. «E niente cane» aggiunse Pike. Conner Barkley si passò una mano tra i capelli e Gordon Kline si accigliò ancora di più, ma nessuno guardò la crescente montagna di valigie, né il cane.
Un'ora dopo, Pike e la ragazza erano per strada. Quattro ore e mezza più tardi, a Malibu ci fu il quarto attentato alla vita di Larkin Barkley. E così cominciò la loro fuga. 6 Elvis Cole «Joe...?» Cole si rese conto che Pike aveva riattaccato. Le telefonate di Joe Pike erano così. Tu rispondevi, lui borbottava qualcosa tipo: "Sto arrivando", fine della comunicazione. I convenevoli non erano mai stati il suo forte. Cole posò il cordless e riprese a lucidare la sua auto, una Sting Ray decappottabile gialla del 1966. Indossava pantaloncini corti da ginnastica e una maglietta grigia con il logo dell'Harrington's Café, un piccolo ma bellissimo localino di Baton Rouge. La maglietta era madida di sudore e avrebbe voluto togliersela, ma la portava per coprire le cicatrici. Viveva in una piccola casa dal tetto a punta appollaiata sul ciglio di un canyon in Woodrow Wilson Drive, sulle colline di Hollywood. Era un posto molto verde e tranquillo, e spesso i vicini passavano davanti a casa sua quando portavano fuori il cane. Non era il caso che vedessero le suture color rosso bruno che lo facevano sembrare un incidente di laboratorio. E neanche lui aveva voglia di vederle. Cole odiava lucidare la macchina, ma la sera prima aveva visto uno dei suoi film preferiti, Karate Kid, quella scena in cui Pat Morita allena Ralph Macchio nelle tecniche di bloccaggio del kung fu costringendolo a lucidare la macchina: "Dai la cera, togli la cera". Guardando il film, Cole aveva pensato che lucidare la macchina poteva essere una buona terapia. Tredici settimane prima, un uomo di nome David Reinnike gli aveva sparato nella schiena con un fucile calibro 12. I pallettoni gli avevano mandato in frantumi cinque costole, fratturato l'omero sinistro, fatto collassare il polmone sinistro e, come Cole aveva raccontato in seguito, in un modo che dava sui nervi a tutti, gli aveva rovinato una bella giornata. Prima che gli sparassero, Cole riusciva a piegarsi fino ad appoggiare il petto alle cosce e avvolgere le braccia ai polpacci. Adesso si muoveva come un robot con gli snodi arrugginiti. Ma due volte al giorno metteva da parte il dolore e faceva ginnastica per tornare in forma. Quindi, "dai la cera, togli la cera".
Stava ancora sgobbando sulla carrozzeria quando una Lexus verde si fermò di fronte al vialetto. Cole si alzò e rimase sorpreso nel veder scendere Pike e una giovane donna con i capelli sparati e grossi occhiali da sole. La ragazza aveva un atteggiamento diffidente, Pike indossava una camicia a maniche lunghe. Pike non portava mai camicie a maniche lunghe. Cole andò loro incontro zoppicando. «Joseph! Avresti dovuto avvertirmi che eri in compagnia. Mi sarei reso presentabile.» Cole sorrise alla ragazza, allargando le mani come a scusarsi per i calzoncini, i piedi nudi e la maglietta da lavoro. Mister Eleganza che scherzava sul proprio aspetto. «Io sono Elvis. Sto interpretando la parte di Ralph Macchio.» La ragazza lo gratificò di un sorriso sveglio e sarcastico al tempo stesso, poi indicò Pike con il pollice. «Se non altro tu hai una personalità. Stare con lui è come andare in giro con un cadavere.» «Solo finché non lo conosci. Poi non la smette più di parlare.» Cole notò il modo in cui Pike le sfiorava la schiena, senza confidenza, per invitarla a entrare sotto la tettoia del garage. «Entriamo» disse Pike. Cole lanciò un'occhiata alla Lexus. Aveva già capito che non si trattava di una visita di cortesia. «La berlina quattro porte non ti si addice, amico. Cosa è successo alla Jeep?» «Entriamo» ripeté Pike. Cole li fece accomodare in soggiorno, da cui si godeva una splendida vista del canyon attraverso le portefinestre che davano sul patio. La ragazza guardò fuori. «Non è affatto male» osservò. «Grazie.» La ragazza trasudava ricchezza: jeans Rock Republic da quattrocento dollari, maglietta Kitson, occhiali da sole Oliver Peoples. Cole era bravo a giudicare le persone, e il tempo gli aveva confermato che raramente si sbagliava. Ma la ragazza trasudava anche guai. Aveva un'aria familiare, ma Cole non riusciva a ricordare dove l'aveva già vista. «Scusa, non ho capito il tuo nome.» La ragazza guardò Pike. «Posso dirglielo?» «Lei è Larkin Barkley» disse Pike. «È una testimone in un'indagine federale. Era in un programma di protezione, ma non ha funzionato.»
«Ah» fece Larkin. «Avremmo bisogno di mangiare qualcosa e farci una doccia. Nel frattempo ti spiego cosa succede.» Cole capì che Pike non voleva parlare di fronte alla ragazza. «Perché non vai a farti una bella doccia mentre io preparo qualcosa da mangiare?» le disse, sorridendo. Larkin lo guardò e Cole avvertì un'altra vibrazione. Poi lei gli rivolse un altro sorriso malizioso come quello che gli aveva fatto fuori, solo che adesso lo stava informando che niente di quello che lui avesse detto o fatto l'avrebbe sorpresa, colpita o impressionata, lì in quella sua casetta che non era per niente male. Lo stava sfidando, pensò Cole, o forse voleva metterlo alla prova. «Perché non sgranocchiamo qualcosa, prima?» chiese. «Lo zio Pikester non vuole darmi da mangiare. Lui pensa solo al sesso.» «Fa così anche con me» disse Cole «ma abbiamo imparato a convivere.» Larkin sbatté le palpebre, poi scoppiò a ridere. «Uno a zero per me» disse Cole. «Va' a farti una doccia, oppure aspetta fuori sul patio. Quello che preferisci, ma non ti vogliamo tra i piedi mentre parliamo.» Lei scelse la doccia. Pike le portò dentro la sacca e le mostrò il bagno degli ospiti mentre Cole si metteva all'opera in cucina. Affettò zucchine e melanzane, li cosparse d'olio e sale, e mise sul fuoco una graticola. Dopo qualche minuto Pike lo raggiunse, ma nessuno dei due disse niente finché non si sentì scorrere l'acqua. Cole si appoggiò con la schiena al bancone. «Zio Pikester?» Pike posò sul bancone una patente e due carte di credito. La foto sul documento ritraeva la ragazza con una massa spettacolare di capelli rossi. Sulle carte di credito era scritto il suo nome. L'American Express era nera. Significava soldi. Tanti soldi. «L'ho incontrata ieri per la prima volta, ma non so niente di lei» disse. «Ho bisogno del tuo aiuto.» Pike posò accanto alle carte di credito quello che sembrava un fascicolo del National Crime Information Center dell'FBI, un rapporto privo di foto. «Questo è l'uomo che sta cercando di ucciderla. Si chiama Alex Meesh, dal Colorado a Bogotá, Colombia.» Cole lanciò un'occhiata all'intestazione. Alexander Meesh. Ricercato per omicidio.
«Sudamerica?» «Sì. Si è rifugiato laggiù per sfuggire al mandato di cattura. I federali hanno consegnato il suo fascicolo a Bud, ma non ho visto molto che possa aiutarci. Magari tu ci trovi qualcosa.» Pike gli descrisse la situazione di Larkin Barkley con il linguaggio semplice e chiaro di un agente che fa rapporto. Gli spiegò che la ragazza si era trovata coinvolta in un'indagine del dipartimento di Giustizia su un sospetto riciclaggio di denaro sporco da parte di un certo George King, e che l'aver accettato di testimoniare l'aveva esposta a vari tentativi di omicidio. Cole ascoltò senza fare commenti finché Pike arrivò alle sparatorie di Malibu e Eagle Rock. Allora avvertì un brivido alla schiena e si staccò dal bancone. «Un momento. Hai sparato a qualcuno?» «A cinque persone. Due ieri sera, tre questa mattina» rispose Pike, impassibile, con la stessa tranquillità con cui un altro direbbe che aveva bisogno di fare il pieno. «Joe. Cristo, Joe... la polizia ti sta cercando?» «Non lo so. A Malibu è successo ieri sera, a Eagle Rock un paio d'ore fa. Ma se non mi stanno ancora cercando, lo faranno presto... Ho perso una pistola a Eagle Rock.» Cole provò una momentanea sensazione di leggerezza, come quando la terra sprofonda durante un terremoto. Dieci minuti prima stava lucidando la sua auto. Tre giorni prima lui e Pike avevano passato una serata a programmare un'escursione nei boschi. «È stata legittima difesa, no? Tu stavi difendendo la tua vita e quella di un testimone federale. I federali ti appoggiano, giusto?» «Non lo so.» «Sei fuggito perché temevi per la tua vita e hai riferito quanto è accaduto al dipartimento di Giustizia. Tutto questo è successo con la piena conoscenza del dipartimento di Giustizia. Loro sono d'accordo?» «Non ho mai parlato con loro.» Cole fissò il suo amico. Pike si trovava sull'altro lato della cucina, la schiena rivolta verso il muro, in una posizione così sciolta che pareva quasi sospeso da terra. Gli occhiali scuri erano due buchi neri, come se una parte di lui fosse stata tagliata via. «Comunque, abbiamo un problema più grosso della polizia» disse Pike. «Gli aggressori conoscevano l'indirizzo dei due rifugi. L'hanno trovata quando era sotto la protezione dei marshal e poi di nuovo quando Bud l'ha
portata in un hotel. Capisci?» L'acqua continuava a scorrere, in bagno, ma Cole abbassò comunque la voce. Adesso capiva perché Pike non voleva parlare in presenza della ragazza. «Qualcuno vicino a lei l'ha tradita.» «Ora ce l'ho io. Ho tagliato fuori sia Bud sia i federali. Finché nessuno scopre dov'è, penso di riuscire a proteggerla.» «Cos'hai intenzione di fare?» «Trovare Meesh.» Cole guardò di nuovo il fascicolo. "Si ritiene che al momento risieda a Bogotá, in Colombia." «Meesh potrebbe non essere a Los Angeles. Potrebbe essere tornato in Colombia.» «Ha tentato cinque volte di farla fuori. Se sei così determinato a uccidere una persona, non te ne vai sperando che qualcun altro ci riesca: resti e ti assicuri che venga fatto.» Pike prese il taccuino e la penna che Cole teneva vicino al telefono e scribacchiò qualcosa. «Ho mollato la Jeep e mi sono procurato un nuovo cellulare. Questo è il numero.» Cole provò un senso di nausea, ma era una cosa che gli accadeva spesso da quando gli avevano sparato. I medici dicevano che ci voleva tempo. Dicevano anche che avrebbe potuto non tornare più come prima. «Hai idea di chi l'abbia tradita?» «Bud sta indagando, ma di chi posso fidarmi? Potrebbe essere uno dei suoi uomini. Persino uno dei federali.» Cole mise via il foglietto con il numero di telefono. Tornò alla graticola e vi posò le verdure. Era troppo calda, ma a lui piaceva l'odore che si sprigionava quando venivano a contatto con l'acciaio rovente. Cole e Pike ne avevano passate di tutti i colori, insieme. Erano amici da molto tempo. Quando Cole si era svegliato dal coma aveva trovato Joe Pike che gli stringeva la mano. Cole posò la forchetta e si voltò verso di lui. «Non mi piace. Non mi piace che tu sia coinvolto in qualcosa senza sapere chi hai di fronte. Questo Meesh. Questi federali che non hai mai incontrato. Questo Flynn che non vedevi da vent'anni. Non so. Di solito, non è così che lavori.» Pike era immobile come una statua, come se la vicenda avesse dei lati
oscuri. «Allora?» «Non sono venuto qui solo per chiederti aiuto. Se questa gente sa chi sono, potrebbe tentare di arrivare a me tramite te.» Da dietro le lenti scure scaturì un'inaspettata tristezza. «Mi spiace» aggiunse Pike. Cole si sentì arrossire per l'imbarazzo e si voltò verso la graticola. «Se quei pagliacci si fanno vivi quassù, li prendo a calci in culo.» Pike annuì. «Vedrò cosa riesco a scoprire su questo Meesh. Cominceremo da Larkin, quando esce dalla doccia. Forse sa più di quanto crede.» Pike si spostò verso il muro. «Non possiamo restare qui a lungo, Elvis.» Cole capiva. Se fossero arrivati i killer o la polizia, Pike non voleva che la ragazza si trovasse lì. «Allora parlale tu. Ma c'è un'altra cosa. Quando farò ricerche su Meesh, farò qualche controllo anche sul tuo amico Bud Flynn.» La bocca di Pike ebbe un guizzo, e Cole si chiese se Larkin avesse notato che Pike non sorrideva né rideva mai. Come se la parte di lui che poteva concedersi quel momento di spensieratezza fosse morta, o sepolta così in profondità che le labbra potevano lasciarsi sfuggire solo un breve fremito. «Come credi» disse Pike. Cole stava preparando i sandwich quando squillò il cellulare di Pike, e lui uscì sul patio per rispondere. Cole posò le verdure su fette di pane integrale, vi spalmò sopra della crema di ceci, quindi rimise i panini sulla graticola per rendere croccante il pane. Lo scroscio dell'acqua cessò e l'improvvisa assenza di rumore irruppe nel silenzio. Qualche minuto dopo, la ragazza uscì nel corridoio. Pike era ancora fuori sul patio. «Si sente un profumo incredibile» disse la ragazza. «Gradisci un bicchiere d'acqua o di latte?» «Latte, grazie.» Aveva gli occhi rossi, e Cole si domandò se avesse pianto. Lei lo scoprì a osservarla, e gli rivolse di nuovo quel sorriso malizioso. Un sorriso furbetto e invitante, impossibile per una persona che ha appena pianto, ma tant'è... Cole pensò che la ragazza doveva essere abituata a nascondere le proprie emozioni.
«Hai un'aria familiare» disse Cole. «Davvero?» «Sei un'attrice?» «Oh, Dio, no.» Lei aprì il sandwich e lanciò un urletto che mal si accordava con il sorriso malizioso di prima. «È perfetto! Non volevo essere fastidiosa, ma io sono vegetariana. Come facevi a saperlo?» «Non lo sapevo. Li ho preparati per Joe. Anche lui è vegetariano.» «Lui?» Lanciò un'occhiata in direzione di Pike, e Cole pensò che il suo sorriso si era fatto più sincero. «La carne rossa lo rende aggressivo.» Lei scoppiò a ridere, e Cole scoprì che cominciava a piacergli. La ragazza diede un morso famelico al sandwich, poi un altro. Mentre masticava osservò Pike sul patio. «Non parla molto.» «Lui usa la telepatia. Riesce anche a passare attraverso i muri.» La ragazza sorrise di nuovo, poi diede un altro morso, questa volta più piccolo. Tornò a fissare Pike. Adesso il sorriso era svanito e lei aveva assunto un'aria pensierosa. «Ha sparato a un uomo davanti a me. Ho visto il sangue.» «Un uomo che cercava di ucciderti.» «Ha fatto un rumore fortissimo. Non come nei film.» «Già.» «Lo senti dentro.» «Lo so.» «Continuano a trovarmi.» Cole le sfiorò la schiena. «Ehi...» Lei teneva lo sguardo fisso su Pike. «Potrebbe finire nei guai?» Cole non rispose. In quel momento Pike rientrò in cucina. «Ho trovato un posto dove stare. Andiamo.» Lei lanciò un'occhiata ai sandwich. «Ma tu non hai mangiato. E io non ho ancora finito.» «Mangeremo in macchina.» Cole li seguì fuori, li salutò e rimase a guardarli mentre si allontanavano. Non chiese dove erano diretti e Pike non lo disse. Cole sapeva che lui lo avrebbe chiamato quando fossero stati al sicuro. Cole guardò la sua casa, poi la macchina. Joe Pike era l'unica cosa che
era stata parte della sua vita più a lungo della casa e dell'auto. Si erano conosciuti quando Pike era ancora un poliziotto e Cole faceva apprendistato con il vecchio George Feider, per mettere insieme le tremila ore di esperienza necessarie a ottenere la licenza di investigatore privato. Pike aveva definito George il sergente istruttore di Cole. Bud Flynn era stato il sergente istruttore di Pike quando lui era una recluta, e Pike lo venerava. Cole si scoprì a sorridere. Qualche anno più tardi, quando lui aveva messo insieme le ore necessarie e Pike aveva lasciato la polizia, George era andato in pensione; Cole e Pike avevano unito le loro finanze per rilevare l'agenzia di Feider, con l'accordo che ufficialmente doveva figurare soltanto il nome di Cole. Pike non aveva intenzione di prendere la licenza e aveva altri impegni. Voleva aiutare l'amico part-time e sosteneva che, se lui non gli avesse coperto le spalle, probabilmente si sarebbe fatto ammazzare. Cole non aveva mai capito se dicesse sul serio o scherzasse, ma era quello il fascino di Pike. Se questa gente sa chi sono, potrebbe tentare di arrivare a me tramite te. Cole inspirò a fondo, espandendo il petto finché il dolore non gli fece venire le lacrime agli occhi. Allora tornò in casa. Potrebbe tentare di arrivare a me tramite te. "Lascia che vengano" pensò Cole. "Anch'io ti copro le spalle, fratello." Poi si mise al lavoro. 7 Pike guidava lungo il Sunset Boulevard diretto a est nel cielo che si tingeva di porpora, rilassato per la prima volta in venti ore, invisibile a bordo dell'auto anonima. Arrivato all'altezza di Echo Lake, con la sua fontana illuminata dalla luce incerta del crepuscolo, svoltò verso nord in direzione delle belle colline di Echo Park. A est del parco le abitazioni erano più eleganti, ma lì, sulle stradine tortuose che andavano verso nord, c'erano solo casette di legno. Arrivarono a destinazione quando i vecchi lampioni anteguerra cominciavano ad accendersi. «È questa.» Era una casa grigia e stretta con il tetto aguzzo e la veranda, il giardino occupato quasi per intero dal garage. L'amica di Pike aveva lasciato la chiave sotto un vaso da fiori accanto alla porta. Larkin guardò la casa con diffidenza.
«Chi ci abita, qui?» «È una casa in affitto. I proprietari vivono a Las Vegas e adesso sono in attesa di trovare nuovi inquilini. Quando scendi vai direttamente alla porta.» Una leggera brezza muoveva l'aria tiepida. I vicini erano fuori, sulle verande, ad ascoltare la radio o a chiacchierare. Pike sentì la voce di Vins Scully che commentava la partita dal vicino Dodger Stadium. I Dodgers stavano vincendo cinque a due. La maggior parte dei vicini pareva originaria dell'Europa dell'Est. Sul lato opposto della strada cinque giovani, forse armeni, erano raggruppati intorno a una BMW ultimo modello. Ridevano, e uno di loro disse qualcosa ad alta voce per farsi sentire al di sopra delle risate. Larkin non si mosse. Rimase a fissare la casa come se temesse che questa potesse mangiarla, poi studiò le case vicine, i cinque ragazzi. «È tutto a posto. Andiamo» disse Pike. Prese i bagagli della ragazza. Avrebbe potuto portare dentro anche i suoi, ma non lo fece. Trovata la chiave, fece strada in un piccolo soggiorno. Una porta sulla destra dava su un bagno e due camere da letto. La casetta era completamente arredata e molto pulita, ma gli ambienti erano piccoli e i mobili dimostravano per intero la loro età. L'amica di Pike aveva lasciato acceso l'unico condizionatore della casa applicato alla finestra del soggiorno. «Pensavo una cosa» disse Larkin. «Adesso nessuno sa dove ci troviamo, giusto? Abbiamo le mie carte di credito. Possiamo andare ovunque vogliamo.» Pike mollò le borse. «Ci sono due camere da letto. Prendi quella che preferisci.» Pike proseguì verso le camere e il bagno, controllando che le finestre fossero chiuse e tirando giù le tende. Larkin gli andò dietro, seguendolo così da vicino che per due volte gli urtò i tacchi delle scarpe. «Senti. Possiamo prendere il Gulfstream. A mio padre non interessa. Abbiamo un appartamento favoloso a Sydney. Sei mai stato a Oz?» «Ti riconosceranno. Qualcuno all'aeroporto dirà: "Guarda, c'è Larkin Barkley sul suo jet".» Pike aprì il frigo. Trovò due sacchetti pieni di provviste, sei bottiglie di acqua minerale e sei di Corona. «La mia amica ha lasciato un po' di roba. Serviti.» «Stai facendo lo stronzo. D'accordo. Abbiamo una casa in Rue Georges
V, a un isolato dagli Champs Elysées. Prenderemo un volo di linea. Pago io. Non è un problema.» «Le carte di credito lasciano una traccia e le compagnie aeree devono compilare le liste dei passeggeri.» «Preleverò dei contanti a un bancomat. Davvero, non è un problema. Qui non c'è neppure il telefono. Non c'è la tivù.» Il condizionatore entrò in funzione con un tonfo sordo, come se qualcuno fosse andato a sbattere contro la parete. Le ventole presero a soffiare aria rumorosamente, come un colpo di vento accompagnato da una lontana vibrazione metallica. Pike spense l'impianto. Il silenzio che si venne a creare era interrotto solo dall'abbaiare di qualche cane, dal rombo di una motocicletta tra le colline e dalle risate degli uomini sull'altro lato della strada. Larkin sembrava inorridita. «Cosa fai? Perché hai spento il condizionatore?» «Così non sento.» «Ma fa caldo! Questa casa diventerà un forno.» Se ne stava lì, in mezzo alla stanza, le braccia incrociate sul petto, così tesa che le dita affondavano nella carne. Pike sapeva che non era per Parigi o Sydney. Era semplicemente spaventata. Pike le sfiorò un braccio. «So che non è quello a cui sei abituata, ma è quello che ci serve adesso. Questa casa è sicura. Qui siamo al sicuro.» «Scusa. Non volevo fare la rompiballe.» «Vado a prendere la mia roba in macchina. Te la senti di restare sola per qualche minuto?» «Mi manca il mio cane.» Pike non sapeva cosa dire e così non disse nulla. Larkin fece un sorriso stanco. «Certo. Non c'è problema.» Pike spense la luce in modo da non essere illuminato in controluce nel vano della porta, poi uscì. Aveva lasciato i suoi bagagli in auto per potervi tornare da solo e controllare i messaggi. Se avesse dovuto chiamare qualcuno, voleva poter parlare liberamente. Salì sulla Lexus, e servendosi del nuovo cellulare controllò i messaggi ricevuti su quello vecchio. Ce n'erano sette. Bud ne aveva lasciati tre di seguito, tutti più o meno dello stesso tenore... "Chiamami, accidenti! Non puoi scomparire con la ragazza! È un testimone federale, perdio! Ti faranno cercare dall'FBI!" Bud aveva lasciato un quarto messaggio circa un'ora dopo. Pike notò che ora pareva più calmo. Non urlava...
"Joe, ascoltami. Devi farti vivo. Per quello che ne so io potreste anche essere morti tutti e due. Ti prego, non lasciarmi nel dubbio." Il quinto messaggio era di Jon Stone. Calmo. Guardingo. "Sono Stone. Stai facendo innervosire persone importanti, amico. Non richiamarmi ma sta' in campana." Pike esitò un attimo prima di cancellare il messaggio di Stone. "Sta' in campana" non aveva niente a che vedere con lo stare calmo. Era un'espressione usata dalle piccole unità di ricognizione e dalle squadre di cecchini dietro le linee nemiche. Si ripetevano di stare in campana quando il livello di pericolo era così alto che dovevano mandare giù amfetamine per restare svegli e pronti all'azione ventiquattr'ore al giorno, sette giorni su sette, perché il minimo cedimento avrebbe significato essere uccisi. Sta' in campana, prendi le pillole. Sta' in campana, via la sicura e dito sul grilletto. Sta' in campana, benvenuto all'inferno. Stone aveva voluto lanciargli un avvertimento. Pike si chiese perché. Avrebbe voluto richiamare, ma se Stone gli aveva detto di non farlo doveva avere i suoi buoni motivi. Probabilmente Bud e i federali avevano fatto pressioni su di lui perché rivelasse quello che sapeva. Si chiese se anche Meesh lo avesse fatto. Il sesto messaggio era ancora di Bud. Questa volta sembrava sfinito. "Ecco quello che ho scoperto: i morti di Malibu non sono stati identificati. Quelli di Eagle Rock non so, ma dovrei saperlo domani. La polizia e l'ufficio dello sceriffo non ti hanno collegato alle sparatorie. Ho parlato con Don Pitman... Pitman è l'agente del dipartimento di Giustizia. Farà il possibile per coprirti con la polizia locale, ma vuole parlare con te... deve assolutamente parlare con te. Devi chiamarmi, amico. Non so cosa dire al padre della ragazza. Vuole chiamare la polizia. Joe, se sei ancora vivo... chiamami." L'ultimo messaggio era di una voce maschile, asciutta. "Parla l'agente speciale Don Pitman del dipartimento di Giustizia. 202555-6241. Ho avuto il suo numero da Bud Flynn. Mi chiami, signor Pike." Signor Pike. Quando ebbe finito rimase ad ascoltare i rumori del quartiere. Si chiese cosa avesse voluto dire Bud con il discorso che i morti di Malibu non erano stati identificati. Pike pensava che sarebbero stati identificati l'attimo in cui fossero arrivati sul tavolo del coroner, e che questo avrebbe potuto portare a Meesh. Aveva riflettuto a lungo su questo Meesh: Larkin aveva detto una cosa che gli dava da pensare. L'incidente d'auto era avvenuto in cen-
tro, in una zona quasi deserta, ma Meesh era fuggito a piedi. Pike non capiva, ma c'erano ancora tante cose che non sapeva. Voleva parlarne con Larkin. Svitò la lampadina della luce di cortesia in modo che non si accendesse quando apriva la portiera, poi scese. Adesso il buio era totale, e Pike si godette quell'oscurità. Oscurità, pioggia, neve, tormenta... qualunque cosa servisse a nasconderti andava bene. Fece un giro intorno alla casa per controllare le finestre, quindi entrò. Larkin non era in soggiorno e le sue cose erano sparite. La sentì armeggiare in cucina. Si tolse la camicia con le maniche lunghe e si sedette su una delle poltrone ad aspettare. Non la vedeva, ma sapeva che stava per prendere una bottiglia d'acqua. Sentì il ronzio del frigo e un rumore quando lei aprì l'involucro di plastica per estrarre una bottiglia, poi lo sportello che si chiudeva con un sibilo e infine uno schiocco quando lei svitò il tappo. La sua ombra danzava sulla parete illuminata della cucina, quindi Pike udì uno scalpiccio di piedi nudi sul pavimento. Larkin uscì dalla cucina. Era arrivata a metà soggiorno quando si accorse di lui e trasalì così violentemente che dalla bottiglia uscì uno spruzzo d'acqua. «Mi hai spaventato.» «Scusa.» Ansimava per lo spavento, ma fece una risata imbarazzata. «Gesù! La prossima volta avvertimi. Non ti ho sentito rientrare.» «Faresti meglio a metterti qualcosa addosso.» Si era tolta i vestiti ed era rimasta soltanto con il reggiseno trasparente e un perizoma verde acido. All'ombelico luccicava una piccola sfera d'oro. Larkin raddrizzò la schiena e gli si piazzò davanti, petto in fuori. «Avevo caldo. Te l'ho detto che avrebbe fatto troppo caldo senza condizionatore. Vuoi una bottiglietta d'acqua?» «Non fare così» disse Pike. Lei andò al divano, si sedette e appoggiò i piedi sul tavolino, fissandolo. «Così come? Sei sicuro che non vuoi andare a Parigi? Fa più fresco a Parigi.» Lo fissò negli occhi con quel sorriso provocante come se lei e solo lei avesse scoperto che il mondo girava intorno al sesso e Pike non avesse mai visto nessuna come lei prima di allora. «Chi è Don Pitman?» chiese Pike. Il sorriso malizioso svanì. «Non voglio parlare di questo, adesso.» «Io devo sapere chi è. Mi ha cercato.»
Lei chiuse gli occhi e tirò giù i piedi dal tavolino. «È uno di quelli del governo. Erano in due. Pitman e un altro... Blanchette. Kevin Blanchette. Kevin lavora nell'ufficio del ministro della Giustizia.» «Comandano loro o ubbidiscono a qualcun altro?» Lei strinse gli occhi, come se provasse dolore ma cercasse di controllarlo. «Non adesso. Non posso più parlare di questo.» «Devo farti alcune domande. Dovrò parlare con questa gente, con Bud, con tuo padre.» «Basta. Non adesso.» Spalancò gli occhi. Si sporse in avanti per posare la bottiglia sul tavolo. I suoi seni erano rotondi e pieni alla debole luce color ocra. «Ho un tatuaggio sul sedere. L'hai visto, stamattina? Volevo che tu lo vedessi.» Pike si limitò a fissarla. «È un delfino. Trovo che i delfini siano bellissimi. Li vedi saettare nell'acqua. Hanno quel sorriso stupendo. Sembrano così felici mentre nuotano veloci. Io voglio essere un delfino. Voglio essere come loro.» Si alzò, girò intorno al tavolino e andò a mettersi di fronte a Pike. Pike scosse il capo. «No.» Lei si inginocchiò e posò i palmi delle mani sulle sue spalle, sopra i tatuaggi. «Perché queste frecce? Spiegami. Devo saperlo.» «Non lo fare più, per favore.» Per un po' Larkin rimase a fissare un punto indefinito tra loro, poi tornò al divano. Pike osservò il suo profilo, metà viso illuminato dalla luce proveniente dalla cucina, l'altra metà in ombra. Gli occhi luccicavano riflettendo il chiarore che proveniva dalla strada. «Andrà tutto bene. Con me sei al sicuro» disse lui. «Io non ti conosco. Non conosco questi tizi del governo. Non so niente di Meesh, di questi King, né del riciclaggio di denaro dal Sudamerica. Io volevo solo rendermi utile. Non so cosa ci faccio qui. Non so cosa sia successo alla mia vita.» Il luccichio si propagò alle guance. «Ho paura. Tanta paura.» Pike sapeva che era un errore, lo sapeva quando andò verso il divano. Le mise un braccio intorno alle spalle, cercando di consolarla come aveva consolato tante altre persone quando era nella polizia: una madre che aveva perso un figlio, un bambino rimasto traumatizzato in un incidente stradale. Quando la sfiorò, lei gli si rannicchiò contro. Gli posò una mano sul
petto e la fece scendere lentamente. «No» disse Pike con un sussurro. Larkin si alzò di scatto, corse in camera da letto e chiuse la porta. Pike restò seduto sul divano nel silenzio e nel buio della casa. Era sveglio da trentacinque ore, ma sapeva che, se anche fosse arrivato, il sonno non sarebbe durato più di un'ora o due. Si tolse la felpa e vagò silenzioso per la casa, passando di stanza in stanza, ascoltando la notte dietro le finestre. Quando arrivò alla camera di Larkin la sentì piangere. Una lama di luce che filtrava dal bordo della tenda disegnava una striscia sul pavimento, ai suoi piedi. Pike mise una mano sulla porta. «Larkin.» Il pianto cessò e lui capì che lei stava ascoltando. «Le frecce... significano che tu controlli la tua vita andando avanti, mai indietro. Bisogna andare avanti. Ed è quello che faccio. È quello che faremo.» Pike attese, ma la ragazza non disse nulla. Imbarazzato, si pentì di aver cercato di spiegarle. «Adesso mi conosci meglio.» Si allontanò dalla porta e spense tutte le luci della casa. Poi tornò in soggiorno e rimase lì, nell'oscurità, in ascolto, quindi si lasciò andare in avanti, cadendo silenziosamente sulle braccia piegate. Da quella posizione continuò a fare flessioni, una dopo l'altra, solo con se stesso, in attesa che la notte passasse. Sta' in campana. Secondo giorno LUCE SULL'ACQUA 8 La mattina seguente il sole sorse alle cinque e mezzo riempiendo la casa di Echo Park di un incerto chiarore lattiginoso, tetro come uno stagno. Pike si era già lavato e vestito: jeans, la felpa grigia senza maniche, scarpe da ginnastica. Era nel soggiorno, in piedi. Da quella posizione riusciva a vedere tutta la casa, dalla porta d'ingresso sul davanti fino a quella sul retro. Stava lì immobile in quel punto da quasi un'ora. Di tanto in tanto durante la notte si era appisolato sul divano, ma solo
per pochi minuti, senza mai addormentarsi realmente. Ogni ora faceva il giro della casa, controllava le finestre, restava in ascolto. Le case erano vive, come gli animali, le foreste e le navi. Quando tutto era a posto emettevano i rumori giusti. E lui questi voleva sentire. Era entrato due volte in camera della ragazza e l'aveva sentita russare piano, una volta sdraiata sulla pancia, l'altra sul fianco, le coperte scalciate in fondo al letto. Ogni volta era rimasto in silenzio, nell'oscurità, ad ascoltarla respirare, e prima di allontanarsi aveva controllato la finestra. Adesso era nel soggiorno. Alle cinque e quaranta Larkin uscì dalla stanza e si infilò in bagno senza vederlo. La luce si accese, la porta si chiuse e dopo un po' si sentì scorrere l'acqua nel water. Pike rimase immobile. La porta si aprì mentre lei spegneva la luce. La ragazza uscì dal bagno strascicando i piedi, le spalle chine, e in quel momento lo vide. Aveva gli occhi gonfi di sonno. «Perché porti gli occhiali da sole al buio?» disse. Pike non rispose. «Cosa fai lì in piedi?» «Sto qui.» «Sei proprio strano.» Se ne tornò in camera. La vaschetta dello sciacquone finì di riempirsi e la casa ripiombò nel silenzio. Pike non si mosse. Alle sei e due minuti, il cellulare si mise a vibrare. Quando vide che era Ronnie, Pike rispose. «Sì.» «Dodici minuti fa a casa tua è scattato l'allarme.» Tutte le volte che la società responsabile della sicurezza riceveva un segnale d'allarme, per prima cosa telefonava all'abbonato per vedere se era tutto a posto. I falsi allarmi erano comuni. Pike aveva preso accordi con la società perché nel caso di una segnalazione avvisasse Ronnie e non facesse intervenire la polizia. «Cosa gli hai detto?» chiese Pike. «Che era tutto a posto e che possono riattivare il sistema, come hai detto tu. Vuoi che vada a vedere?» «No. Ci penso io.» Pike rifletté un istante.
«Richiama la società e avvertili che se ricevono un allarme anche dal negozio vogliamo che intervengano.» «Ricevuto.» Pike posò il telefono, poi guardò l'ora. L'allarme era scattato dodici minuti prima, presumibilmente quando avevano forzato la porta o una finestra. Era probabile che fossero ancora a casa sua. Era altrettanto probabile che quando lui fosse arrivato là gli intrusi se ne fossero già andati, a meno che il loro piano non fosse quello di aspettarlo. In ogni caso non aveva importanza: lui doveva restare con la ragazza. Pensò a quegli uomini in casa sua. Sapeva che era solo questione di tempo. Adesso che era successo, lui era soddisfatto. Avevano scoperto il suo nome, il suo indirizzo, e ora stavano tentando di trovare lui. Questo gli diceva molto: dovevano aver avuto il suo nome da qualcuno che lo conosceva, e le uniche persone che conoscevano il suo nome erano il padre di Larkin, Jon Stone e Bud Flynn. Non c'era altra spiegazione: qualcuno stava ancora cercando di tradire la ragazza. Aveva fatto bene a tagliarli fuori tutti. Sperava che lo aspettassero a casa, ma era più probabile che facessero un tentativo al negozio e solo dopo sarebbero tornati a casa sua. Presto o tardi avrebbero scoperto il collegamento con Cole, ma prima di tutto sarebbero andati all'armeria. Il modo in cui agivano gli avrebbe fatto capire molte cose sulle dimensioni della loro organizzazione e sulla loro abilità. Conoscere il nemico era importante. Per il momento, la ragazza dormiva. La notte era passata e lei era ancora viva. Lui aveva svolto il suo lavoro, ma gli restava ancora molto da fare. La lasciò dormire. Telefonò a Cole per metterlo al corrente, poi rimase in soggiorno ad aspettare. Il battito del suo cuore rallentò, come pure il respiro. Il suo corpo e la sua mente erano in pace. Poteva aspettare così per giorni, e doveva farlo se voleva ottenere qualcosa. 9 Elvis Cole L'ennesima conversazione telefonica stile Pike. Chi altri poteva essere, alle sei del mattino? Cole era fuori sul patio a preparare una serie di asana quando era squillato il telefono. Si precipitò dentro zoppicando per rispondere.
«Pronto?» «Ti avverto. Sono entrati in casa mia.» Clic. Non "come stai?", "cosa stai facendo?"o "cosa ne pensi?" Classico. Cole finì i suoi esercizi, fece una doccia, tirò fuori dall'armadietto blindato la vecchia .38 che gli aveva dato George Feider e si preparò una tazza di caffè. Prese la pistola, il caffè, il materiale su George King e Alexander Meesh e portò tutto fuori, sul patio. Aveva passato buona parte della notte a scaricare informazioni da Internet. Cole non aveva paura di venire attaccato da killer vestiti di nero: la pistola gli serviva come fermacarte per impedire che i fogli volassero via. Era una mattinata stupenda che faceva presagire una giornata caldissima. Scrutò la foschia lattiginosa che riempiva il canyon, si godette il caffè e vide una poiana che volava in tondo sopra di lui, alla ricerca di topi e serpenti. «Cosa ne pensi? È la giornata buona o no?» Un gatto nero era seduto accanto a lui e guardava giù, attraverso la ringhiera, nel canyon. Il gatto non rispose, cosa che capita spesso quando si parla con i gatti. «Sei solo invidioso perché tu non puoi volare» disse Cole. Il gatto sbatté gli occhi come se stesse per addormentarsi, poi improvvisamente prese a leccarsi il pene. I gatti sono creature sorprendenti. Cole osservò la poiana. Il giorno dopo essere stato dimesso dall'ospedale, era uscito sul patio all'alba (come ogni altra mattina dopo di allora) e aveva faticosamente eseguito le dodici posizioni del saluto al sole dello Hata Yoga (come ogni altra mattina dopo di allora). Quella prima volta non li aveva fatti bene e non era arrivato in fondo alla serie. Era arrivato fin dove poteva, poi si era seduto sul bordo del patio a guardare la poiana. Il rapace era tornato ogni giorno, ma Cole non lo aveva mai visto catturare nulla. Eppure, eccolo lì, ogni mattina, a cercare qualcosa che non trovava mai. Cole ammirava la sua perseveranza. Entrò a prendere dell'altro caffè, poi rilesse il materiale che aveva scaricato da Internet su George King. King era un immobiliarista originario della Orange County, e aveva cominciato costruendo una villetta unifamiliare con pochi soldi che si era fatto prestare dai suoceri. Era il classico selfmade man. Aveva venduto quella prima casa e con il ricavato ne aveva costruite altre tre. Da queste era passato ai piccoli centri commerciali, e dai
centri commerciali ai condomini di venti, quaranta fino a centosessanta appartamenti, mettendo su un impero immobiliare che creava shopping center, interi complessi abitativi e grattacieli di uffici in California, Arizona e Nevada. Nessuno degli articoli accennava a una condotta commercialmente scorretta, attività illegali o affari poco chiari. Stando a quelle informazioni, George King era un cittadino integerrimo. Alexander Meesh, invece, no. Cole non aveva trovato niente sul suo conto in Internet. L'ultima annotazione inserita nel rapporto dell'NCIC consegnatogli da Pike risaliva a sei anni prima e terminava dicendo che Meesh era fuggito e si pensava vivesse a Bogotá, in Colombia. Latitante da sei anni, Meesh era una vecchia conoscenza della giustizia. Leggere il rapporto dell'NCIC era come leggere la versione condensata di una carriera criminale ventennale. Era possibile richiederne anche un'edizione più completa con foto, impronte digitali e persino DNA, presentando una speciale richiesta, ma quella versione ridotta diceva tutto quanto serviva, con un elenco cronologico di crimini, condanne e incarcerazioni, complici e capi di imputazione. Meesh era un autentico gentiluomo. Era stato condannato per due omicidi di primo grado, aveva sette imputazioni per concorso in omicidio e sedici imputazioni per attività connesse al crimine organizzato, tutto in Colorado. Meesh, che controllava parecchie bande specializzate in rapine stradali, aveva ucciso un camionista e sua moglie a Colorado Springs. Era convinto che il camionista lo avesse fregato piazzando un carico di televisori a schermo piatto a una banda rivale. Nel tentativo di recuperare la merce, Meesh aveva versato olio bollente sulla moglie. Non una sola volta, ma ripetutamente, durante le torture durate ventiquattr'ore. Poi si era dedicato al marito. Chi aveva assistito al fatto sosteneva che Meesh voleva far capire alle altre bande della zona che il padrone delle strade era lui. Cole rilesse quella parte, poi tornò a osservare la poiana. Le poiane non versavano olio bollente sulle altre poiane. Guardò il suo gatto. Fissava il canyon attraverso le assi del patio. Si domandò se il gatto e la poiana stessero cercando la stessa cosa. «Ehi, amico.» Il gatto gli si avvicinò e gli diede un colpetto con la testa. Coccolare il gatto rendeva più facile dimenticare cose tipo la carne umana ustionata dall'olio bollente. Cole tornò a dedicarsi al fascicolo. Non c'era niente che spiegasse come
un criminale di Denver avesse potuto diventare il referente finanziario per un gruppo di signori della droga sudamericani, ma a Cole non importava. Lui voleva trovare Meesh, e Meesh non era in Sudamerica. Era a Los Angeles. Il rapporto elencava anche le persone frequentate dal soggetto, compresi amici, familiari, affiliati delle gang. Cole sperava di trovare qualche suo complice a Los Angeles, ma tutte le persone citate erano di Denver, dove del resto Meesh era stato arrestato. Era possibile che qualcuno dei suoi amici si fosse trasferito a Los Angeles nei sei anni trascorsi da allora, ma Cole non poteva saperlo senza controllare nome per nome. Le probabilità erano scarse, ma si accinse a stilare un elenco. In seguito avrebbe verificato se qualcuna di queste persone aveva collegamenti con Los Angeles e avrebbe proceduto a ritroso per arrivare a Meesh. Stava lavorando all'elenco quando colse un movimento improvviso nel cielo. Alzò gli occhi, sorridendo. Voleva vedere cosa aveva catturato la poiana, ma in quel momento squillò il campanello. Il suo primo pensiero fu che Alex Meesh fosse venuto a torturarlo con il grasso fuso del bacon, ma lui aveva sempre avuto una fervida immaginazione. Zoppicando, andò alla porta con la pistola in mano e guardò dallo spioncino. Due uomini lo fissavano, le facce distorte dall'occhio di pesce. Non avevano l'aria dei torturatori. L'uomo in primo piano aveva un'abbronzatura da golfista e i capelli castani tagliati corti. Indossava una giacca sportiva marrone che sembrava fuori luogo a Los Angeles in estate, specialmente alle sette del mattino. L'uomo dietro di lui era più alto, di colore, e indossava una giacca di cotone millerighe blu scura e occhiali da sole. Cole infilò la pistola nella cintura dei pantaloni dietro la schiena e la coprì con la maglietta, poi aprì la porta. «Elvis Cole?» disse l'uomo più vicino. «Si è trasferito in Austria. Volete lasciargli un messaggio?» L'uomo sul davanti alzò un portadocumenti di pelle nera esibendo un tesserino dei federali. «Agente speciale Donald Pitman. Dipartimento di Giustizia. Vorremmo scambiare qualche parola.» Non attesero che lui li invitasse a entrare. 10 Fuori dalla casa di Echo Park il quartiere si svegliò con il lento sorgere
del sole. Fringuelli e passeri presero a cinguettare. L'impianto automatico di irrigazione della casa accanto entrò in funzione e rimase acceso per venti minuti. Le auto dei vicini uscivano in retromarcia dai vialetti o si allontanavano dai marciapiedi. Le sottili tende che coprivano le finestre si illuminarono poco a poco finché la casa fu invasa da una debole luce dorata. Talvolta, in mattinate silenziose e tranquille come quella, Pike aveva l'impressione di sentir ruotare la terra. Si chiese se a casa sua ci fosse tuttora qualcuno. La ragazza dormiva ancora. Pike versò del caffè macinato in un pentolino, vi aggiunse dell'acqua e lo mise sui fornelli. Preparava il caffè in quel modo da anni. Lo portava a ebollizione e poi lo versava, filtrandolo attraverso un foglio di carta da cucina. A volte non lo filtrava neppure. In un modo o nell'altro andava bene comunque. La semplicità era la cosa migliore. Il caffè cominciò a bollire, dopo un attimo Pike spense il fuoco e lo lasciò riposare. Senza preoccuparsi di filtrarlo, ne versò un po' in un bicchiere di polistirolo e lo portò al tavolo. Si era appena seduto quando il suo cellulare si mise a vibrare. «Puoi parlare?» disse Cole. Da quella posizione Pike riusciva a vedere la porta della camera dove dormiva la ragazza. Era chiusa. «Sì.» «Stamattina sono venuti due agenti del dipartimento di Giustizia. Donald Pitman e Kevin Blanchette. Hanno portato la tua pistola. Era ancora dentro un sacchetto di plastica della polizia di Los Angeles.» «Okay» disse Pike. «Non hanno fatto parola di King, di Meesh o della ragazza. Non mi hanno chiesto se sapevo cosa stava succedendo né se ti avevo visto. Si sono limitati a consegnarmi la pistola, dicendo di informarti che se ne stavano occupando loro.» «Faresti meglio a non chiamarmi più da casa tua.» «Infatti ti sto chiamando da casa dei vicini.» «Okay.» «Pitman ha detto che se ti sentivo dovevo dirti di chiamarlo. Vuoi il numero?» «Ce l'ho.» «Ha detto che la pistola è un segno di buona volontà, ma che se non chiami la buona volontà si sarebbe esaurita.»
«Capisco.» «Hai intenzione di chiamarlo?» «No.» «Un paio di altre cose. Nel fascicolo non c'è niente che colleghi Meesh a Los Angeles o che ci fornisca degli elementi su cui lavorare, quindi l'unica possibilità è partire dai cadaveri. Se riusciamo a identificarli, potremmo avere qualche speranza di risalire a Meesh.» «Parlerò con Bud.» «Non è che abbia molto da fare. Potrei chiamare io.» Pike bevve un sorso di caffè, poi guardò la porta della camera. «Se ne occupa Bud. Hai fatto ricerche sulla ragazza?» Cole ebbe un attimo di esitazione e, quando rispose, Pike colse un cambiamento nel suo tono. «Non te l'ha detto?» «Cosa avrebbe dovuto dirmi?» «È la ragazza delle riviste.» «È una modella?» «No. Non in quel senso. È ricca. È famosa perché è ricca. Con i capelli corti non l'avevo riconosciuta. E di persona sembra diversa. È sempre sui giornali scandalistici... serate folli nei locali notturni, scenate, questo genere di cose. L'hai vista.» «Non leggo i tabloid.» «Suo padre ha ereditato un impero. Sono proprietari di catene alberghiere in Europa, un paio di compagnie aeree, giacimenti di petrolio in Canada. Deve valere almeno cinque o sei miliardi di dollari.» «Ah.» «Se resta tranquilla va tutto bene, ma tienila d'occhio. È la classica ragazzina californiana viziata.» Pike lanciò un'occhiata alla porta. «A me sembra a posto.» «Io ti ho avvisato.» Pike bevve un altro sorso di caffè. Era diventato freddo, ma non gli importava. Pensò a Pitman e Blanchette che si erano presentati a casa di Cole con la pistola. Una dimostrazione di buona volontà. Si domandò per quale motivo due agenti federali avessero fatto una cosa del genere, ma tutto sommato non gli interessava. A lui interessava soltanto trovare Meesh. «Puoi procurarti l'indirizzo di casa di Bud Flynn?» chiese. «Sono o non sono il miglior detective del mondo?» ribatté Cole. «C'è una cosa che devo fare, più tardi. Non posso portare la ragazza con
me e non voglio lasciarla sola. Potresti restare con lei?» «Fare da baby-sitter a una ragazza giovane, ricca e scatenata? Credo di potercela fare.» Pike chiuse la comunicazione, poi compose il numero di cellulare di Bud Flynn. Flynn rispose al terzo squillo, con voce roca e assonnata. Pike si chiese se anche lui stesse prendendo un caffè, ma poi decise che doveva essere ancora a letto. Erano solo le sette e quaranta. Probabilmente Bud era rimasto alzato fino a tardi. «Hai la voce assonnata. Ti ho svegliato?» Mentre parlava, la porta della camera si aprì e comparve Larkin. Aveva gli occhi gonfi di sonno e indossava soltanto il reggiseno e il ridottissimo perizoma verde. Non sembrava poi così scatenata. Pike si portò un dito alle labbra. Shh! Larkin sbatté le palpebre con aria sonnacchiosa, poi entrò in bagno. «Mi stai facendo morire, Joe. Cristo, dove sei?» «Stiamo bene. Perché sono tutti così agitati?» Pike cominciava a divertirsi. «Perché sei scomparso dalla faccia della terra, ecco perché! Dovevi prenderti cura di lei, certo, ma non puoi sparire a questo modo. I federali...» Pike lo interruppe. «Quante persone sanno che è con me?» «Perché me lo chiedi? Cosa vuoi dire?» «Tu, i tuoi scagnozzi tutti azzimati, i federali, la famiglia? Qualcuno si è introdotto in casa mia questa mattina, Bud, quindi la falla continua a fare acqua. Stiamo esaurendo la fiducia.» Larkin uscì dal bagno e andò in soggiorno, i piedi nudi che producevano uno scalpiccio sul pavimento. Pike sollevò il bicchiere per farle capire che c'era del caffè pronto, poi indicò la cucina. La ragazza non pareva in imbarazzo per il fatto di essere svestita, anzi sembrava quasi non rendersene conto. Gli passò davanti, diretta in cucina. Bud aveva ancora quel tono incerto. «Ti capisco, ma abbiamo cinque cadaveri, un'indagine della polizia in pieno svolgimento e...» Pike lo interruppe di nuovo. «Senti cosa faremo. La ragazza e io ci incontreremo con te. Non avvertire suo padre, né i federali, né i tuoi ragazzi in doppiopetto. Vieni solo e troveremo una soluzione. D'accordo?» «Dove?» Larkin uscì dalla cucina con il pentolino in mano. Aveva un'aria perples-
sa, come per dire: "Cosa diavolo è questa roba?". Pike levò un dito per farle segno di attendere, poi guardò l'orologio. Mancavano tredici minuti alle otto. «Dove sei, adesso?» «A casa. A Cheviot Hills.» «La stazione della metropolitana a Universal City a mezzogiorno. Pensi di farcela?» «Sì.» «Che macchina hai?» «Un'Explorer beige.» «Parcheggia nella zona nord. Più in fondo che puoi. Aspetta in auto finché non ti chiamo.» Pike chiuse il telefono. Larkin lo interpretò come un segno che poteva parlare. Agitò il pentolino. «Cos'è questo?» «Caffè.» «È fango. C'è della roba dentro.» Pike finì di bere, andò al divano e indossò la camicia con le maniche lunghe. «Prepara le valigie. Dobbiamo incontrare Bud.» Lei abbassò il pentolino, fissandolo con espressione improvvisamente spaventata. «Credevo fossimo al sicuro, qua.» «Lo siamo. Ma se succede qualcosa è meglio avere le nostre cose con noi.» «Cosa deve succedere?» «Ogni volta che lasceremo questa casa, ci porteremo tutto dietro. È la regola.» «Non voglio andarmene in giro tutto il giorno rannicchiata nella tua auto. Non posso restare qui?» «Vestiti. Dobbiamo fare in fretta.» «Ma gli hai detto a mezzogiorno. Universal City è a venti minuti da qui.» «Andiamo. Non c'è tempo.» Lei rientrò a grandi passi in cucina e lanciò il pentolino nel lavabo. «Il tuo caffè fa schifo!» «Ne prenderemo uno da Starbucks.» Non sembrava poi così scatenata, neppure quando lanciava gli oggetti.
11 Pike non la portò a Universal City e non attese mezzogiorno. Prima che uscissero di casa, Cole aveva richiamato per comunicare l'indirizzo di Bud. Cheviot Hills era un quartiere elegante che si estendeva sul terreno collinoso a sud dell'Hillcrest Country Club. La zona era disseminata di abitazioni signorili con prati immacolati e marciapiedi lindi. Le case più grandi erano vicine al parco, mentre quelle più a sud e vicino alla I-10 erano di dimensioni più contenute, ma comunque sempre oltre la portata dello stipendio di un poliziotto. Ai tempi in cui Pike era di pattuglia con Bud, i Flynn avevano un appartamento in una casetta bifamiliare a Atwater Village. L'attuale abitazione di Bud era su due livelli, non lontano dall'autostrada. Nel vialetto era parcheggiata un'Explorer beige. La casa si trovava in cima a una collinetta, con un vialetto in leggera discesa e un prato che lottava contro il calore brutale dell'estate. Molte delle case, costruite negli anni Trenta, non erano mai state ristrutturate e questo dava alla strada un'aria da piccola città sonnacchiosa. Una coppia di alberi di jacaranda avevano sparso sulla vettura e sul vialetto una spolverata color porpora. Larkin si guardava intorno, vigile ed eccitata. «Cosa facciamo adesso?» «Tu resti in macchina. Io vado a parlare con lui.» «E se non c'è? E se è già uscito?» «Vedi i fiori di jacaranda sul vialetto? Non sono stati calpestati.» «E se non fosse qui? Se ti ha mentito?» «Sta' zitta, per favore.» Pike parcheggiò di traverso all'imboccatura del vialetto, in modo che Larkin fosse in piena vista, poi scese e andò all'ingresso. Si mise accanto alla porta, in modo da non essere visibile dalle finestre. Chiamò il cellulare di Bud. «Non puoi essere che tu, Joe. Il display dice "numero riservato".» «Guarda nel vialetto.» «Joe?» «Guarda fuori.» Pike udì dei movimenti, al telefono, e poi dentro la casa. Un attimo dopo la porta si aprì e Bud uscì. Vide la ragazza, ma non Pike. Si era già vestito. Pike pensò che nelle ultime trentasei ore aveva ripreso tutti gli anni che
non dimostrava. Pareva affaticato. «Bud» disse Pike. Bud non mostrò alcuna sorpresa. Aggrottò la fronte come faceva quando Pike era una recluta, come se si stesse chiedendo cosa aveva fatto per dover sopportare quella persona che gli stava rovinando la vita. «Cosa pensavi che facessi?» chiese. «Che facessi circondare Universal City? Che facessi decollare degli aerei spia?» Pike fece un cenno a Larkin perché abbassasse il finestrino. «Di' ciao a Bud» le gridò. La ragazza agitò la mano e disse: «Ciao, Bud!». «Vuoi restare qui con lui?» chiese Pike a voce alta. Larkin fece un gesto con entrambi i pollici abbassati e scosse la testa. Pike si voltò verso Bud. L'altro era ancora accigliato. «Cosa credi di fare?» «Bella casa. Te la passi bene.» «Cosa cazzo credi di fare? Hai idea del casino in cui mi trovo?» «Ti ho dimostrato che è viva e sta bene. Puoi dire a suo padre e all'agente speciale Pitman che sta bene. Puoi dire che non vuole tornare a casa perché desidera restare viva.» Bud si arrabbiò. «Un momento, accidenti! Non si tratta soltanto di lei. Ti sei lasciato dietro cinque cadaveri in due giorni. Cosa credi? Pensi davvero che Pitman possa andare alla polizia e dire: "Ehi, ragazzi, è tutto a posto, il nostro uomo ha ammazzato questi tipi per proteggere la teste", e che la Omicidi chiuderà un occhio? Devi fare la tua parte per sistemare questo casino.» A Pike non fregava un accidente che chiudessero un occhio o meno. Si chiese come mai Bud non avesse accennato al fatto che Pitman gli aveva restituito la pistola. Gli venne il dubbio che Bud non lo sapesse e si domandò come mai Pitman non lo aveva informato. «Cosa vuole Pitman?» «Tu, i federali, due vicecapo di Parker Center e gli uomini dell'ufficio dello sceriffo, ecco di cosa stiamo parlando. Pitman dice che se tu e Larkin risponderete alle loro domande la polizia locale lascerà perdere.» «Non accadrà.» «Pitman dice che se non ti presenti spontaneamente farà emettere un mandato di cattura per rapimento.» L'angolo della bocca di Pike si contrasse e Bud arrossì. «Lo so che sono tutte stronzate, ma tu sei sparito e nessuno capisce cosa
stia succedendo. I federali sono convinti di poterla proteggere. Pensano che il problema sia io, e stanno cercando di convincere anche il padre. Mi licenzierà.» «Allora, dimmi, Bud... in questo momento è più al sicuro con me o con te?» «Ho consegnato il mio fascicolo personale al dipartimento di Giustizia. Gli ho dato quelli dei miei uomini... i tabulati dei cellulari, spese per alberghi, qualsiasi cosa. Suo padre ha aperto le porte a Pitman perché facesse controlli sul suo avvocato e il suo staff... posta elettronica, traffico telefonico, tutto quanto. Tapperemo la falla.» «Chi controlla Pitman?» Bud sbatté le palpebre come per difendersi dal vento. Alla fine scosse la testa. «Non posso tenerla al sicuro. Non posso neppure coprire te. So che faceva parte dell'accordo, ma adesso non posso più.» «Se facciamo a modo mio, la falla non avrà più importanza.» Bud si voltò a guardarlo. Gli occhi erano come due pietre nascoste dalla carne resa flaccida dall'età. «Joe, cosa stai facendo?» «Sto cercando Meesh.» «Tu non lo stai solo cercando. Io non voglio essere coinvolto in niente del genere. Tu vuoi il mio aiuto, ma io non voglio saperne di questa faccenda.» «Io ho solo due tracce per arrivare a Meesh: gli uomini all'obitorio e i King. Se i King erano in affari con lui, probabilmente sanno dove stava e dove è possibile rintracciarlo. Potrei scovarlo attraverso loro.» «Non li hanno ancora trovati.» «I federali devono sapere qualcosa. Non puoi darmi una mano in questo?» «Pitman ha fatto mettere sotto sorveglianza continua casa e ufficio. Ha fatto mettere sotto controllo i telefoni. Ha persino messo degli uomini di guardia al loro yacht. Se quelli anche solo scoreggiano, i federali gli saltano addosso. Se cerchi di avvicinarti alle loro proprietà, salteranno addosso anche a te.» «Allora l'unica possibilità sono gli uomini che ho ucciso. Cosa sai di loro?» Bud aggrottò la fronte. Lanciò un'occhiata alla ragazza e si passò la lingua sulle labbra.
«Devo prendere le chiavi nell'ingresso. Posso?» Pike annuì. Bud entrò in casa e vi rimase il tempo necessario per afferrare un mazzo di chiavi da una ciotola azzurra in ingresso. Pike lo seguì fino alla sua auto. Bud aprì la portiera dell'Explorer e Pike vide la cartella di cuoio che aveva notato nella chiesa diroccata. Bud estrasse tre foto. Erano immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza durante l'irruzione in casa Barkley. Pike le aveva già viste, anche quelle nella chiesa. Bud gliele porse e batté il dito sulla prima. «Questo era uno dei primi che sono entrati nella casa. Gli hai sparato a Malibu. È l'unico dei cinque che hai ucciso ad aver partecipato all'irruzione.» «Come si chiama?» «Non lo so. Ma quest'uomo...» Bud scorse le foto e si soffermò su un uomo dagli zigomi pronunciati e con una cicatrice sul labbro. «... questo è il balordo che ha picchiato la governante. Riconosci qualcuno di questi come gli uomini di Malibu o Eagle Rock?» «Chi sono?» «Non lo so. Non siamo stati in grado di identificare nessuna delle cinque persone che hai spedito all'obitorio. Il controllo sul Live Scan non ha dato risultati. Sui cadaveri non sono stati trovati documenti, e non figurano in nessun database. Puoi tenere le foto, se vuoi.» Pike osservava le immagini e pensava che era impossibile che nessuno dei cinque fosse stato identificato. Le persone che si potevano ingaggiare per far uccidere qualcuno avevano quasi sempre dei precedenti. Il sistema Live Scan scannerizzava le impronte digitali e le confrontava all'istante con quelle contenute nell'archivio del dipartimento di Giustizia della California e dell'NCIC. Se qualcuno era stato arrestato in un qualunque posto degli Stati Uniti o aveva prestato servizio nell'esercito le sue impronte erano nel sistema. «Non mi torna» disse Pike. «No, neanche a me, ma erano tutti e cinque puliti.» «Niente portafoglio? Niente documenti?» «Nessun oggetto personale. Tu hai arrestato un sacco di gente, Joe. Ti ricordi di qualcuno così furbo da svuotarsi le tasche prima di commettere un crimine?» Pike scosse il capo.
«Neanch'io. Ma la situazione è questa.» Bud chiuse il bagagliaio, poi guardò la ragazza. «Suppongo che dovrei chiederti scusa per averti coinvolto in questo casino, ma non lo farò. Potresti restituirla a Pitman. Ma hai scelto tu di agire in questo modo.» Bud osservò Larkin per qualche istante, e Pike si chiese cosa stesse pensando. Poi Bud si voltò e, sotto una luce diversa, Pike pensò che sembrava il duro di sempre. «Sono sicuro che non la tradirai.» Pike rimase a guardare Bud che si allontanava, quindi tornò alla Lexus e ripartì immediatamente. «Sembra un brav'uomo» osservò Larkin. «Era un buon agente.» «È quello che ha detto lui a mio padre parlando di te, che eri un bravo poliziotto. Anzi, ha detto che eri il migliore con cui avesse mai lavorato.» Pike non rispose. Pensava ai cinque killer senza nome, ripuliti per commettere un crimine, senza alcun precedente. Era ancora convinto di poter arrivare a Meesh tramite loro e credeva di sapere come fare. PRIMO PERIODO DI SERVIZIO DIVISIONE DI RAMPART - RIUNIONE DI INIZIO TURNO TURNO SERALE, ORE 14:48 L'uniforme blu scuro era fresca e pulita, la piega dei pantaloni così dritta che pareva tirata con il righello. Il distintivo di acciaio e rame rifletteva la luce come uno specchio, la pelle nera della fondina e delle scarpe luccicava come quando era nei marines. Al taschino erano appesi occhiali da sole militari nella posizione approvata dal regolamento. L'equipaggiamento, l'attrezzatura e il suo aspetto erano in ordine, perfetti come lui voleva. Pike, Charlie Grissom e Paul "P-bag" Hernandez sedevano in prima fila nella sala riunioni della stazione di polizia di Rampart. Quello era ufficialmente il loro primo giorno di lavoro dopo il conseguimento del diploma all'Accademia di polizia di Los Angeles, e per la prima volta portavano distintivo e armi cariche. Quel giorno avrebbero iniziato la loro carriera come agenti di polizia in prova, "pivelli" come venivano chiamati al dipartimento. Pike e gli altri pivelli sedevano eretti nella sala, lo sguardo fisso sul sergente Kelly Levendorf, il comandante del turno serale. Non era permes-
so stare scomposti, stravaccati o appoggiati al tavolo. Essendo pivelli, dovevano sedere in prima fila, rivolti in avanti, e non era loro concesso di guardare gli agenti veterani alle loro spalle. Non potevano partecipare agli sfottò durante la riunione, né reagire o rispondere ai veterani, qualunque insulto ricevessero. Non si erano ancora guadagnati quel diritto. Nonostante si fossero diplomati all'Accademia, avrebbero passato l'anno seguente a conseguire "l'abilitazione sulla strada" da parte di agenti anziani con molta esperienza, conosciuti come P-III, che sarebbero stati i loro mentori, i loro protettori, il loro dio. In quella prima riunione sarebbero accadute due cose: avrebbero conosciuto i loro P-III, cosa che Pike attendeva con impazienza, e si sarebbero presentati ai veterani, cosa che Pike temeva. Non amava parlare, e meno che mai parlare di sé. Levendorf assegnò le squadre, poi passò agli annunci, dalle eventuali attività criminali e i sospettati che erano stati visti o si pensava fossero in zona, ai compleanni degli agenti e le feste per i prossimi pensionamenti, che annunciò leggendo da uno spesso classificatore ad anelli. Quando ebbe concluso, lo richiuse e alzò gli occhi sugli uomini riuniti davanti a lui. «Okay, abbiamo dei nuovi agenti tra noi. Lasciamo che si presentino. Agente Grissom, ha un minuto e un secondo.» "Ci siamo" pensò Pike. Ogni recluta aveva un minuto e un secondo per presentarsi. Doveva essere concisa e andare dritto al punto, esattamente come ci si aspettava che fosse quando avrebbe parlato con i superiori, gli operatori radio e con il pubblico. Grissom si alzò in piedi, sprizzando entusiasmo, e si voltò verso la folla. Era un ragazzo basso e tarchiato, con capelli biondi e sottili, che sembrava sempre ansioso di riuscire simpatico. «Mi chiamo Charlie Grissom. Mi sono laureato in storia alla San Diego State. Mio padre era un agente della polizia di San Diego, ed è lì che sono nato. Mi piace il surf, pescare e fare immersioni. Sono sempre alla ricerca di compagni per immergermi, quindi, se qualcuno fosse interessato, mi contatti. Non sono sposato, ma esco con una ragazza da quasi un anno. Ho sempre desiderato diventare un agente. Mio padre voleva che entrassi nella polizia di San Diego, ma io volevo stare con i migliori... quindi eccomi qui.» Queste parole suscitarono un boato di approvazione da parte degli agenti del turno, ma quando l'entusiasmo si placò, una voce tagliente com-
mentò: «È anche un gran leccaculo». Pike vide Grissom arrossire fino alla radice dei capelli mentre tornava a sedersi. «Agente Hernandez... un minuto e un secondo» disse Levendorf Alzandosi, Hernandez lanciò un'occhiata a Pike, il quale gli fece un impercettibile cenno di incoraggiamento. Pike e Hernandez erano stati compagni di stanza in Accademia. Hernandez si voltò verso la sala. «Mi chiamo Paul Hernandez. Mio nonno, mio padre e due miei zii erano nella polizia di Los Angeles... Io sono della terza generazione...» I presenti applaudirono e acclamarono finché Levendorf disse loro di smetterla e ordinò a Hernandez di proseguire. «Ho giocato a baseball per due anni alla California State Northridge prima di infortunarmi. Adoro il baseball e nelle mie vene scorre sangue blu Dodger. Sono sposato. Il nostro primo figlio nascerà a giugno. Sono diventato poliziotto perché ammiro i poliziotti. Dipende dal modo in cui mi hanno cresciuto. Ce l'abbiamo nel sangue.» La sala applaudì di nuovo mentre Hernandez tornava a sedersi. Levendorf li zittì, poi guardò Pike. «Agente Pike... un minuto e un secondo.» Tutti dicevano più o meno le stesse cose, parlavano della loro istruzione e delle loro famiglie, ma Pike non aveva frequentato il college e non voleva parlare della sua famiglia. E comunque non vedeva che importanza potesse avere, né perché dovesse interessare a qualcuno. Pike pensava che fosse importante ciò che un uomo faceva in quel momento e se lo faceva bene. Si alzò e si voltò verso la sala. Era la prima volta che vedeva gli agenti radunati alle sue spalle. Erano di ogni colore ed età. Molti erano sorridenti e rilassati, altri avevano un'aria severa. I più parevano annoiati. Pike notò gli agenti che avevano due strisce sulla manica. I civili li confondevano con i galloni da caporale, ma questi erano P-III e uno di loro era il suo istruttore. «Mi chiamo Joe Pike. Non sono sposato. Ho fatto due turni di combattimento nei marines...» Dalla sala si levarono applausi fortissimi e urla di incoraggiamento, con molti che urlavano il motto "Semper Fi". Nella polizia di Los Angeles c'era un'alta percentuale di veterani dei marines. Levendorf li zittì con la mano, quindi fece cenno a Pike di continuare.
«Voglio fare il poliziotto perché il motto dice "Proteggere e servire". Ed è quello che voglio fare.» Pike si sedette, accompagnato da qualche applauso, ma qualcuno verso il fondo rise. «Abbiamo un vero Clint Eastwood. Un uomo di poche parole.» Pike vide Levendorf corrugare la fronte. «Questa parte del programma si chiama "un minuto e un secondo", agente Pike» disse Levendorf «quindi credo che lei abbia ancora quaranta secondi. Vuole raccontarci qualcosa di più su se stesso? Non so... sui suoi hobby, sulla sua famiglia?» Pike si rialzò e tornò a voltarsi verso gli agenti. «Ho conseguito la qualifica di esploratore/tiratore scelto e ho prestato servizio nelle forze speciali dei marines, principalmente in operazioni di ricognizione ad ampio raggio, in squadre di eliminazione e in missioni contro obiettivi prioritari. Sono cintura nera di tae kwon do, kung fu, wing chun, judo e ubawazi. Mi piace correre e fare esercizio fisico. Mi piace leggere.» Pike si interruppe. Gli agenti lo osservavano, lui non sapeva se sedersi o meno, e rimase lì a guardarli. Nessuno applaudì. Alla fine, un anziano P-III, un uomo di colore con i capelli sale e pepe disse: «Grazie al cielo gli piace leggere... credevo fosse una checca». I presenti scoppiarono in una gran risata. Levendorf dichiarò conclusa la riunione e tutti si avviarono verso l'uscita tranne Pike e le altre due reclute, che rimasero per conoscere i loro istruttori. Tre agenti anziani si fecero largo verso di loro tra la folla che usciva. L'agente di colore che aveva fatto la battuta su Pike andò verso Grissom. Il secondo P-III era un asiatico con un volto spigoloso come un diamante. Porse la mano a Hernandez. Pike osservò il terzo agente: era più basso di lui, abbronzato, con capelli castani tagliati corti e una bocca sottile e decisa. A Pike sembrava vicino alla quarantina, ma poteva anche essere più vecchio. Aveva tre galloni sulla parte bassa della manica, il che significava almeno quindici anni di servizio. L'uomo venne dritto verso di lui e gli tese la mano. «Piacere di conoscerti, agente Pike. Io sono Bud Flynn.» «Signore.» «Sarò il tuo istruttore per due periodi di servizio. Dopodiché, se sarai ancora tra noi, scambierai istruttore con gli altri due pivelli, ma per i pri-
mi due mesi sei mio.» «Sì, signore.» «Puoi chiamarmi agente Flynn o signore finché non deciderò altrimenti. Io ti chiamerò agente Pike, Pike o pivello. Chiaro?» «Sì, signore.» «Hai la tua roba?» «Sì, signore. Ce l'ho qui con me.» «Prendila e andiamo.» Pike si mise il borsone a tracolla e seguì Flynn nel parcheggio. Il sole del pomeriggio era rovente e c'era foschia per lo smog che soffocava la città. Flynn accompagnò Pike a una sconquassata Caprice che doveva aver fatto almeno trecentomila chilometri su ogni tipo di strada. Arrivati alla macchina, Flynn la indicò con il dito. «Questo è il nostro ufficio. Si chiama due-adam-quarantaquattro, che sarà anche il tuo nome, dopo che ti avrò insegnato a usare la radio. Cosa ne pensi del nostro ufficio, agente Pike?» «Che va bene.» «Fa schifo. È talmente malandato che in qualunque altra forza di polizia degli Stati Uniti verrebbe rottamato. Ma questa è Los Angeles e quei pidocchi del consiglio municipale non ci vogliono dare più soldi per assumere uomini, comprare quello che ci serve e fare manutenzione all'attrezzatura. Ma sai qual è la buona notizia, agente Pike?» «No, signore.» «La buona notizia è che noi siamo poliziotti di Los Angeles. Questo significa che useremo comunque questo rottame e forniremo comunque il miglior servizio di polizia disponibile in tutti gli Stati Uniti.» Pike cominciava a trovarlo simpatico. Gli piacevano i modi di Flynn, il suo orgoglio per la professione e per il dipartimento. Flynn depositò la sua roba per terra, dietro l'auto, poi si voltò verso Pike, con le mani sui fianchi. «Prima di tutto ispezioneremo il veicolo, poi caricheremo la nostra roba, ma prima di cominciare voglio essere sicuro che ci capiamo.» Sembrava che Flynn si aspettasse una risposta, così Pike annuì. «Rispetto il fatto che sei stato nei marines, ma non me ne frega un accidente. Metà dei nostri agenti ha prestato servizio nei marines e l'altra metà è stufa di sentirne parlare. Questa è una città degli Stati Uniti, non una zona di guerra.» «Sì, signore. Ho capito.»
«Ti disturba che ti abbia detto questo?» «No, signore.» Flynn lo guardava come se avesse il sospetto che mentisse. «Be', se anche fosse non lo dai a vedere, e questo è un bene, perché qua fuori non devi far capire a nessuno quello che hai in testa. Qualunque cosa tu pensi dei delinquenti, dei degenerati, dei cittadini con cui abbiamo a che fare, siano essi vittime o criminali, devi sempre tenere per te le tue opinioni. Da questo momento in poi tu sei l'agente Pike, e l'agente Pike lavora per le persone di questa città, qualunque cosa esse siano. Intesi?» «Sì, signore.» Flynn aprì il bagagliaio. Era sporco, malconcio e vuoto. Indicò l'interno. «Questo è il bagagliaio. Io guido, quindi la mia roba va sul lato del guidatore. Tu sei il passeggero, quindi la tua va sul lato del passeggero. Nella polizia di Los Angeles facciamo così.» «Sì, signore.» «Carica la tua roba, ma continua ad ascoltare.» Pike ubbidì e Flynn proseguì. «All'Accademia ti hanno insegnato leggi e procedure, ma io ti insegnerò le due lezioni più importanti. La prima è questa: vedrai le persone dare il meglio di loro stesse nel fare le azioni peggiori, e io ti insegnerò a capirle. Imparerai a distinguere una menzogna dalla verità anche quando tutti mentono, e a capire dove sta la ragione anche quando hanno tutti torto. Grazie a questo imparerai a dispensare la giustizia in maniera equa e imparziale, che è poi quello che i nostri cittadini si meritano. Chiaro?» «Sì, signore.» «Domande?» «Qual è l'altra lezione?» «Quale altra lezione?» «La prima lezione è come imparare a capire le persone. La seconda?» Flynn inarcò le sopracciglia come se stesse per dispensare la saggezza dei secoli. «Imparerai a non odiarli. Incontrerai dei miserabili bastardi, là fuori, agente Pike, ma la gente non è così cattiva. Io ti insegnerò a non perdere di vista questo, perché se lo fai, finirai con l'odiarli, ed è il primo passo verso l'odiare se stessi. E questo non lo vogliamo, vero?» «No, signore.» Flynn ispezionò il bagagliaio per assicurarsi che Pike avesse sistemato
correttamente la sua attrezzatura, fece un grugnito di approvazione e chiuse il cofano. Si voltò di nuovo verso di lui con aria pensosa, e Pike si chiese se stesse cercando di leggergli nella mente. «Ho una domanda da farti» disse Flynn. «Quando hai spiegato perché sei diventato poliziotto, hai citato il motto della polizia di Los Angeles: proteggere e servire. Cosa significa?» «Alcune persone non possono difendersi. Hanno bisogno di aiuto.» «E glielo daresti tu, agente Pike, con il tuo karate e le altre arti marziali?» Pike annuì. «Ti piace lo scontro fisico?» «Non è che mi piaccia o non mi piaccia. Se devo, non mi tiro indietro.» Flynn annuì, ma dal modo in cui si succhiava le labbra Pike capì di essere ancora sotto esame. «Il nostro compito non è quello di farci coinvolgere negli scontri fisici, agente Pike. Spesso non abbiamo altra scelta, ma se esageri ti prendono a calci nel culo. Ti hanno mai preso a calci nel culo?» «Sì, signore.» Pike non aveva intenzione di parlare di suo padre. Flynn continuava a succhiarsi le labbra. «Se ci facciamo coinvolgere in uno scontro fisico significa che abbiamo fallito. Se premiamo il grilletto significa che abbiamo fallito. Lo pensi anche tu, agente Pike?» «No, signore.» «Io invece sì. Secondo te cosa significa?» «Che non c'era altra scelta.» Flynn si lasciò sfuggire un grugnito, ma questa volta Pike non avrebbe saputo dire se fosse di approvazione o meno. «Allora perché vuoi proteggere le persone, agente Pike? Hai preso così tanti calci nel culo che vuoi andare in pari?» Pike capì che Flynn lo stava mettendo alla prova. Lo stuzzicava per vedere la sua reazione. Pike gli puntò addosso gli occhi azzurri e impassibili. «Non mi piacciono i bulli.» «Quindi li prendi a calci nel culo.» «Sì.» «Purché si resti nei limiti della legalità.» Flynn lo studiò ancora per qualche istante, poi i suoi occhi calmi si in-
cresparono appena agli angoli. «Essendo il tuo istruttore, ho letto il tuo fascicolo e credo che tu abbia i requisiti per diventare un buon agente di polizia.» Pike annuì. «Sei un tipo di poche parole, vero?» «Sì, signore.» «Bene. Io parlo per tutti e due. Adesso salta in macchina. Andiamo a proteggere la gente.» Durante la prima ora non furono granché occupati. Normalmente ogni autopattuglia sorvegliava una specifica area all'interno del distretto, ma Flynn cominciò con il fargli fare un giro dell'intero distretto, nel corso del quale gli spiegò le procedure per l'utilizzo della radio, lasciò che si esercitasse a comunicare con gli operatori della centrale, e gli mostrò le zone in cui abitualmente si incontravano i delinquenti. All'inizio della seconda ora Flynn gli lasciò compilare due multe. Dopo la seconda contravvenzione, a carico di una donna anziana offesa e furibonda per essere stata sanzionata dopo essere passata con il rosso, Flynn gli rivolse un gran sorriso. «Allora, ti piace il lavoro?» «Per adesso è un po' noioso.» «Te la sei cavata bene con quella donna. Non l'hai neppure stesa con un pugno.» «Magari la prossima volta.» Flynn scoppiò a ridere, poi avvisò gli operatori radio che potevano cominciare a passare loro le chiamate. Nelle due ore seguenti Pike ricevette la segnalazione di un furto d'auto da parte di un'adolescente in lacrime (l'auto era del fratello, che l'avrebbe sicuramente uccisa perché se l'era fatta rubare), interrogò la padrona di un negozio di animali che aveva presentato una denuncia per ubriachezza molesta (un ubriaco era entrato nel suo negozio, aveva liberato cani e gatti dalle gabbie ed era fuggito), raccolse una denuncia per taccheggio dal direttore di un negozietto di alimentari (il ladruncolo si era allontanato da tempo), un rapporto da parte di un uomo che rientrando a casa l'aveva trovata svaligiata (del topo d'appartamento nessuna traccia), una denuncia per il furto di una bicicletta (nessun sospettato) e una per il furto di una motocicletta (anche in questo caso nessun sospettato), e controllò la segnalazione di una donna convinta che l'anziana del piano di sopra fosse morta (l'anziana vicina era
andata a passare qualche giorno nello chalet della figlia a Big Bear Lake). Ogni volta il reo o il sospettato era fuggito da tempo, ma sotto la guida di Flynn Pike annotò con cura le dichiarazioni delle vittime, compilò i moduli necessari ed effettuò le comunicazioni del caso. Erano diretti a est sul Beverly Boulevard quando l'operatore comunicò: «Due-adam-quarantaquattro, una lite domestica al 2721 di Harell Street, donna che grida e chiede aiuto. Potete intervenire?». Pike avrebbe voluto, ma non disse nulla. Toccava a Flynn decidere. Flynn si voltò verso di lui, parve capire il suo desiderio, afferrò il microfono e rispose. «Due-adam-quarantaquattro ci dirigiamo sul posto.» «Ricevuto. Restate in ascolto.» Queste chiamate erano le peggiori. Pike lo aveva sentito ripetere mille volte all'Accademia, e Flynn glielo aveva già fatto presente nelle poche ore che erano stati insieme. Quando si rispondeva a una chiamata per una lite domestica era come entrare nell'occhio di un ciclone emotivo. In quei momenti i poliziotti erano spesso considerati dei salvatori o dei vendicatori, ed erano sempre l'ultima risorsa. «Il turno serale è quello più caldo per le liti domestiche» disse Flynn. «Probabilmente questa sera riceveremo tre o quattro chiamate di questo tipo, ancora di più il venerdì. Di venerdì la burrasca ha avuto tutta la settimana per montare.» Pike non commentò. La violenza domestica lui l'aveva sperimentata di persona. Ma suo padre non aspettava il venerdì. Per lui una sera valeva l'altra. «Quando arriviamo là lascia parlare me» disse Flynn. «Tu osserva come gestisco la situazione e impara. Ma tieni gli occhi aperti. Non si sa mai cosa aspettarsi. Magari stai tenendo d'occhio il marito e la moglie ti spara alla schiena. O magari la donna ha l'aria di una povera massaia spaventata ma una volta che riesci a calmare il marito, lei si trasforma in un mostro. M'è capitato, una volta. Abbiamo ammanettato l'uomo e quando la vecchia si è sentita al sicuro gli ha staccato un piede con una mannaia.» «Okay» fece Pike. Non era preoccupato. Immaginava che rispondere a una chiamata per una lite domestica non fosse molto diverso da liberare gli edifici in una zona di combattimento: si doveva tenere gli occhi ben aperti e la schiena contro una parete, dando per scontato che tutti volessero ucciderti. Solo
così ne uscivi vivo. Arrivarono a un piccolo condominio a sud della Temple vicino al centro di Rampart. L'edificio era reso più pittoresco da palme immobili che torreggiavano sulla casa e raccoglievano l'ultimo bagliore del sole morente. L'operatore radio li aveva informati che la chiamata era stata fatta da una certa Esther Villalobos. La donna si era lamentata che i vicini avevano continuato a litigare per tutto il pomeriggio; il diverbio era degenerato e si era sentito un gran fracasso. La vicina, identificata dalla signora Villalobos come una giovane donna di razza bianca di nome Candace Stanik, aveva gridato parecchie volte "Basta! Smettila!" e poi aveva chiesto aiuto. La signora Villalobos aveva affermato che ogni tanto nell'appartamento viveva un uomo, anche lui di razza bianca, un disoccupato di cui lei conosceva solo il nome, Dave. All'operatore radio non risultava che fossero mai stati inviati altri agenti a quell'indirizzo. In seguito Pike e Flynn avrebbero scoperto molto di più, ma erano queste le informazioni a loro disposizione quando arrivarono sulla scena. Parcheggiarono l'auto in doppia fila e scesero. Automaticamente Pike perlustrò l'area con lo sguardo - i veicoli, le zone d'ombra fra gli edifici, i tetti -, un insieme di spazio e colori che sentiva più che vedere. Tutto libero. Bene. «Sei pronto?» chiese Flynn. «Sì, signore.» «Andiamo a vedere come stanno le cose.» Pike seguì Flynn verso l'appartamento di Candace Stanik. La signora Villalobos viveva nell'appartamento sul retro a piano terra, Candace Stanik in quello accanto. Pike e Flynn avrebbero contattato la signora Villalobos solo se non fossero riusciti a entrare in casa della Stanik o se non avesse risposto nessuno. Flynn si fermò davanti alla porta della Stanik e fece cenno a Pike di restare in silenzio. Le finestre erano illuminate. Non si sentivano voci, ma Pike udì distintamente dei singhiozzi. Flynn guardò verso di lui e inarcò le sopracciglia, come per chiedergli se aveva sentito. Pike annuì. Nella strana luce della sera Flynn pareva quasi verde. Flynn indicò il lato della porta e sussurrò: «Tu resta qui, fuori vista. Quando entro vienimi dietro e fa' quello che faccio io. Forse il tizio se n'è già andato. O forse hanno fatto la pace e adesso sono tutti zucchero e miele. Capito?». Pike annuì.
«Non estrarre la pistola a meno che non lo faccia io. Non vogliamo far precipitare la situazione, ma disinnescarla. Chiaro?» Pike annuì di nuovo. Flynn bussò tre volte alla porta e si annunciò. «Polizia.» Bussò di nuovo. «Aprite la porta, per favore.» I singhiozzi cessarono e Pike udì del movimento, poi una voce di donna giovane da dietro la porta. «È tutto a posto. Non ho bisogno di niente.» Flynn bussò nuovamente. «Apra la porta, signorina. Non possiamo andarcene senza prima averla vista.» Flynn stava alzando la mano per bussare di nuovo quando la porta si aprì di qualche centimetro e Candace Stanik sbirciò dallo spiraglio. Anche con quella visuale ridottissima, Pike vide che aveva il naso rotto e l'occhio destro nero e gonfio. Ancora qualche minuto e non sarebbe più riuscita ad aprirlo, Pike lo sapeva per esperienza. Soprattutto di quando era ragazzo, e soprattutto grazie a suo padre. Flynn posò la mano sulla porta. «Si scosti, per favore. Mi lasci aprire la porta e dare un'occhiata.» «Se n'è andato. È tornato dalla sua ragazza.» La voce di Flynn era gentile ma ferma. Pike si meravigliò di quanta emozione lui riuscisse a trasmettere solo con la voce. «Signorina Stanik? È così che si chiama, Candace Stanik?» «Sì. Lui se n'è andato...» La voce della donna era sommessa, debole, tesa. Ma Pike non l'ascoltava: cercava di capire se c'erano altri occupanti. Dall'appartamento proveniva un forte odore di etere, segno che qualcuno aveva fumato crack. «Ci faccia entrare. Non possiamo andarcene finché lei non ci ha fatto entrare, perciò apra.» Flynn spinse dolcemente la porta finché la ragazza arretrò. Pike sgusciò dentro e si spostò velocemente di lato in modo da non trovarsi vicino al collega. Insieme avrebbero costituito un unico bersaglio, separati, invece, erano due bersagli più difficili da colpire. Pike si tenne con le spalle al muro. Fu come entrare in un forno. Pike cominciò a sudare. Si trovavano in un soggiorno piccolissimo. Mentre Flynn si avvicinava alla ragazza, Pike notò un ripostiglio nell'ingresso, sulla sinistra, e un cucinino con zona pran-
zo sull'altro lato della stanza. Da qui partiva un breve corridoio. L'appartamento sembrava in ordine, a parte il tavolino rovesciato e le macchie di sangue sul pavimento. Candace Stanik era incinta, Pike giudicò di sette o otto mesi, anche se non ne sapeva molto di donne e di gravidanze. Aveva la maglietta sporca di sangue sul rigonfiamento del ventre e dell'altro sangue sulle gambe e sui piedi nudi. Pike vide uno strofinaccio da cucina con dentro del ghiaccio, probabilmente usato dalla donna per impedire all'occhio di gonfiarsi. Aveva le labbra spaccate in due punti e il naso rotto. Si teneva il ventre come se avesse dei crampi. Flynn si voltò verso Pike e gli disse a voce bassa: «Paramedici e unità di rinforzo». Pike azionò la trasmittente agganciata vicino alla spalla e inviò all'operatore la richiesta di un'ambulanza e di altre unità. Pike vide Flynn allungare una mano verso la ragazza, ma questa si ritrasse e cominciò a urlare. «Voglio che lo prendiate! Dovete prenderlo. È andato da quella troia della sua donna...» La ragazza era sempre più agitata e Flynn si sforzava di calmarla, abbassando la voce, cercando di infonderle tranquillità. «Prima prendiamoci cura di questo bambino, okay, cara? Niente è più importante del suo bambino.» Flynn l'afferrò per il braccio e questa volta lei lo lasciò fare, ma aveva un'aria stravolta. «Scapperà...» «Shh. Non scapperà.» Flynn era esattamente la persona di cui c'era bisogno: una figura paterna, forte e rassicurante. Se ti fidavi di lui tutto si sarebbe aggiustato: lui si sarebbe preso cura di te. Flynn mise un braccio intorno alle spalle della ragazza, un braccio che l'avrebbe protetta, avrebbe scacciato il dolore, e le mormorò: «Innanzi tutto deve sedersi, cara. Mettiamo un po' di ghiaccio su questo naso. Mi occuperò io di lei». Flynn fece un cenno a Pike. Erano entrati da meno di un minuto. «Qui è a posto. Puoi controllare il retro?» Pike annuì. «Fa' attenzione.» Pike si avviò senza grande timore. Guardò in cucina, poi entrò nel corridoio. Dalla porta del bagno aperta si vedeva un lavandino incrostato di sapone, una piccola vasca e il water. Pike andò verso la camera. La porta era socchiusa, la luce accesa. Pike ricordava le raccomandazioni di Flynn
sulla cautela nell'estrarre la pistola, ma lui la impugnò comunque e aprì un po' di più la porta. La stanza era un campo minato di sacchetti, indumenti sporchi e scatole. Sul letto matrimoniale un groviglio di lenzuola sporche e ingrigite, appoggiato alla parete oltre il letto c'era un armadio con l'anta aperta. La stanza aveva due finestre, però erano chiuse come tutte le altre. Pike rimase in ascolto, ma la ragazza aveva ricominciato a insistere con Flynn perché andasse a prendere quel bastardo, dicendo che lui e quella troia della sua donna stavano partendo per Las Vegas. Pike avrebbe voluto tornare in soggiorno, ma tenne lo sguardo fisso sull'armadio. Si mosse veloce e silenzioso come aveva imparato a fare nei boschi da ragazzo, quando si nascondeva dal padre. Il silenzio era tutto. La velocità era la vita. Si inginocchiò, sollevò le lenzuola aggrovigliate e guardò sotto il letto. Niente. Lanciò un altra occhiata in direzione dell'armadio. Non pensava che ci fosse qualcuno, dentro, ma doveva controllare. La ragazza aveva alzato ancora di più la voce, continuava a insistere, e Pike voleva andare da Flynn a dargli una mano. L'anta dell'armadio era aperta di una quindicina di centimetri. La camera era illuminata ma l'interno dell'armadio era buio, impenetrabile. Pike si mise di lato alla porta, il più lontano possibile, quindi la spalancò di scatto, lasciando che la luce invadesse il piccolo spazio buio. Niente. Erano nell'appartamento da meno di due minuti. Nell'istante in cui Pike vide che l'armadio era vuoto, dal soggiorno si udì un forte schianto, accompagnato dai colpi sordi di uomini che lottavano, e una voce che grugniva: «Uccidilo». Pike scavalcò il letto, uscì nel corridoio e arrivò sulla soglia del soggiorno. La porta del ripostiglio nell'ingresso era spalancata. Un uomo, in seguito identificato come il convivente di Candace Stanik, tale David Lee Elish, aveva immobilizzato Flynn stringendogli un braccio intorno al collo e gli bloccava la mano destra per impedirgli di estrarre la pistola. Un secondo uomo, poi identificato come un certo Kurt Fabrocini, rilasciato proprio quel giorno sulla parola, stava ripetutamente pugnalando Flynn al petto con un coltello da caccia. Candace Stanik era raggomitolata a terra. In seguito si scoprì che sia Elish sia Fabrocini avevano in corpo così tanto alcol e crack da stendere un elefante. «Uccidilo» continuava a ripetere Elish. Senza la minima esitazione Pike alzò la nove millimetri e sparò a Fa-
brocini, colpendolo alla testa. Avrebbe sparato anche a Elish, ma non aveva un buon angolo di tiro. Prima che Fabrocini cadesse a terra Pike si stava già muovendo. Si lanciò contro Elish e Flynn, gettandoli entrambi a terra. Sapeva esattamente cosa doveva fare. Continuò a spingere, puntando le gambe con forza. Buttò Flynn da parte e colpì Elish al volto con la pistola. L'uomo cercò di alzarsi. Aveva uno sguardo da pazzo. Pike lo colpì ancora, e questa volta Elish non si mosse più. Pike lo voltò a pancia in giù, lo immobilizzò con un ginocchio e gli girò le braccia dietro la schiena per ammanettarlo. Solo dopo aver neutralizzato Elish e allontanato il coltello, si voltò verso Flynn, temendo di vederlo morire dissanguato. «Agente Flynn...» disse Pike. Flynn alzò lo sguardo, le dita strette sulla camicia lacerata, gli occhi spalancati e lucidi, il viso bianco come un cencio. «Il giubbotto... questo cazzo di giubbotto ha fermato la lama.» Pike pensò che stesse ridendo, ma poi vide le lacrime. Tre ore più tardi, ebbero il permesso di allontanarsi. Era arrivata una squadra della Scientifica, insieme al comandante del turno serale, due capitani di Rampart e due detective della disciplinare da Parker Center. Pike e Flynn erano stati divisi per essere interrogati separatamente, ma adesso erano di nuovo insieme, a bordo della loro auto. Flynn era al volante. Aveva girato la chiave di accensione, ma il motore non dava segno di voler partire. Pike sapeva che il suo compagno era scosso, ma pensava che stesse a Flynn decidere se parlarne o meno. Dopotutto, lui era solo un pivello. Alla fine Flynn si voltò verso di lui, muovendo la testa come se pesasse una tonnellata. «Tutto a posto?» «Sì, signore.» Flynn non disse altro. Guardava Pike in un modo che lo metteva in imbarazzo. «Senti, vorrei parlare di quello che è successo là dentro... Tu mi hai salvato la vita. Voglio ringraziarti.» «Non è necessario.» «Lo so, ma voglio farlo. Voglio tu sappia che apprezzo quello che hai fatto. Hai visto quei due, hai visto il coltello, hai reagito in fretta. Non sto
dicendo che hai sbagliato. Voglio solo che tu rifletta su ciò che hai fatto. A volte siamo costretti a uccidere, ma il nostro compito non è quello di uccidere.» «Sì, signore. Lo so.» «La colpa di quello che è successo là dentro è mia. Io dovevo guardare dentro quel ripostiglio. Avevo visto quella dannata porta.» «Stavamo controllando l'appartamento quando è successo. Non è colpa di nessuno.» «Tu sei un pivello, è il tuo primo giorno di lavoro e mi hai salvato il culo.» Flynn continuava a guardarlo. I suoi occhi erano diventati due fessure come se cercasse di vedere qualcosa di vago e lontano. Pike si chiese cosa fosse. All'improvviso Flynn allungò la mano e la posò su quella di Pike. «Tu sei rimasto calmo, sembri di pietra. Io, invece, tremo come una foglia...» Pike lo sentiva attraverso la mano... una vibrazione lontanissima come delle api che cercano di fuggire da un alveare. Bud ritrasse la mano di colpo quasi gli avesse letto nel pensiero e si vergognasse. Le sparatorie che coinvolgevano agenti erano rare, ma gli scontri a fuoco erano parte della vita di Pike fin da quando era andato via di casa, e la casa, in quei rari momenti in cui ci pensava, era stata ancora peggiore: la furia di suo padre, pugni, cinture e scarponi da lavoro con la punta di ferro che si abbattevano su di lui come grandine, stranamente senza provocare dolore... sua madre che urlava, lui che urlava. Il combattimento era niente, al confronto. Pike ricordava una specie di accettazione razionale del fatto che lui doveva uccidere altri uomini così che loro non potessero uccidere lui. Come quando, finalmente, era diventato abbastanza grande da prendere suo padre per il collo. Quando suo padre era arrivato ad avere paura di lui aveva smesso di picchiare lui e sua madre. Semplice. Adesso, l'unica preoccupazione di Pike era quella di seguire le regole del dipartimento di polizia di Los Angeles. E lo aveva fatto. Un tiro pulito. Bud era vivo. Lui era vivo. Semplice. Pike sfiorò la mano di Bud. Voleva aiutarlo. «Noi stiamo bene» disse. Bud si passò una mano sul viso, ma continuava a sbattere gli occhi, nervoso, senza staccarli da Pike. «Ti guardo e sembra che per te non sia successo niente. Hai appena uc-
ciso un uomo e nei tuoi occhi non c'è la minima emozione.» Pike si sentì in imbarazzo e ritrasse la mano. Anche Flynn parve improvvisamente imbarazzato, quasi si vergognasse di se stesso, quasi si fosse reso conto che stava dicendo delle sciocchezze. Si sforzò di ridere. «Sei pronto? Ci aspetta una montagna di scartoffie. È la parte peggiore, quando spari a qualcuno. I moduli da riempire.» Pike prese gli occhiali da sole e li inforcò per nascondere gli occhi. Flynn rise di nuovo, più forte, mostrando tutta la tensione. «Ma è buio pesto. Li porti anche di notte, quelli?» «Sì.» «Be', come vuoi. Sai quando ti ho detto che dovevi chiamarmi agente Flynn e io ti avrei chiamato agente Pike? Dimenticalo. Il mio nome è Bud.» Pike annuì, ma Bud tremava ancora e quel sorriso forzato gli dava un'aria amareggiata. Pike avrebbe voluto che non fosse successo niente. Avrebbe voluto che non avessero risposto a quella chiamata e che il loro turno non si fosse concluso in quel modo. Il pensiero di aver messo in imbarazzo il suo istruttore lo faceva stare male. Avrebbe cercato di fare meglio. Voleva essere un uomo buono e giusto. Voleva servire e proteggere. 12 Pike guidava veloce verso Glendale e la sede della Scientifica della polizia di Los Angeles, quando il suo cellulare squillò. Guardò il numero e vide che era Ronnie. «Dimmi.» «Hanno fatto irruzione in negozio quattordici minuti fa. Quella gente non si fa problemi ad agire in pieno giorno. È disposta a tutto pur di prenderti.» «Chi è?» chiese Larkin. Pike sollevò un dito, facendole segno di pazientare. «Quelli della sicurezza sono intervenuti?» «Codice tre, luci, sirene e hanno chiamato la polizia. Denny e io stiamo andando là. Volevi un intervento in piena regola, l'hai avuto.» «Sporgi denuncia alla polizia. Se ci sono danni, avverti subito il perito dell'assicurazione. Se c'è qualcosa da riparare, chiama gli operai.»
«Ho capito. Vuoi fare rumore.» «Tanto rumore.» Pike posò il telefono e Larkin gli diede un pugno sul braccio. «Ti odio quando mi ignori. Ti ho fatto una domanda e tu mi mostri il dito.» La ragazza gli mostrò un dito, ma non era l'indice. «Dobbiamo vedere una persona a Glendale, poi ci incontreremo con Elvis nel punto in cui hai avuto l'incidente» le disse Pike. «Perché non possiamo tornare alla casa?» «Qualcuno sta cercando di ucciderti.» «Perché non possiamo semplicemente nasconderci?» «Qualcuno potrebbe trovarti.» «Tu hai una risposta per tutto.» «Sì.» Lei gli mollò un altro pugno sul braccio, ma questa volta Pike la ignorò. Con la coda dell'occhio la vide abbandonarsi contro lo schienale del sedile, imbronciata. Pike era contento di quel silenzio. Risalirono il Sepulveda Pass e ridiscesero nella San Fernando Valley. La valle era sempre molto più calda e Pike lo sentì nonostante l'aria condizionata. Vide la temperatura esterna salire sul termometro del cruscotto. Da Cheviot Hills a Van Nuys era aumentata di dieci gradi. Larkin rimase in silenzio per nove minuti esatti. Poi disse: «Ti piacerebbe guardarmi mentre mi masturbo?». Pike non la guardò e non le rispose, ma si interrogò sul perché di quella domanda. Probabilmente lei voleva scioccarlo. Forse con certe persone funzionava, ma Pike non era tra quelle. Lo choc era relativo. «Potrei farlo qui in macchina, mentre guidi. Ti piacerebbe?» La ragazza fece scivolare le mani verso l'inguine. La sua voce era un sussurro. «Lo chiederò al tuo amico. Scommetto che a lui piacerebbe.» Pike le lanciò un'occhiata, continuando a guidare. «Il giorno in cui sono arrivato in Africa Centrale» le disse «ho visto una donna. La sua famiglia era stata sterminata quella mattina, due ore prima del nostro arrivo, e lei si era tagliata le dita della mano sinistra, una per il marito e una per ognuno dei quattro figli. Aveva cominciato dal pollice.» Pike le lanciò un'altra occhiata. «Era il suo modo per piangere i familiari morti.» Larkin giunse le mani in grembo. Lo fissò per qualche istante, poi si girò
verso il finestrino. Il silenzio era piacevole. Proseguirono nel caldo torrido della valle. 13 La missione segreta di John Chen La disperazione genera innovazione, e John Chen era un uomo disperato. La disperazione generava anche menzogne, inganno, finzione, tutte cose alle quali John aveva fatto ricorso con convincente efficacia perché - diciamolo - era il tecnico criminologo più brillante di tutta la divisione Scientifica della polizia di Los Angeles. Negli ultimi anni John aveva risolto più casi (necessari per gli avanzamenti di carriera, leggi: soldi), accumulato più apparizioni sulle reti televisive locali (fondamentali per rimorchiare, leggi: con un metro e novanta di altezza per cinquantotto chili di peso e un pomo d'Adamo grosso quanto una mela, aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile) e racimolato più aumenti di stipendio per meriti (essenziali per il leasing della Porsche Boxster, leggi: questa non è la leva del cambio, tesoro, è che sono felice di vederti) di ogni altro nello staff del laboratorio. E quale ricompensa aveva ottenuto per aver portato la Scientifica agli onori della cronaca ed essere diventato una stella tra i criminologi? Un maggior carico di lavoro. Altri casi. Meno tempo per godersi il frutto delle sue fatiche. In una parola: la fica. John Chen non pensava che a quello. Era il primo ad ammetterlo, e lo faceva spesso con tutti coloro che erano disposti ad ascoltarlo, comprese le giovani donne di sua conoscenza, e questo probabilmente spiegava perché non riusciva a trovarsi una ragazza. Era ossessionato, ansioso di colmare quella lacuna che era stata il suo cruccio per tutta la vita, convinto com'era che ogni singolo maschio eterosessuale della California avesse potuto godere di pantagrueliche abbuffate di sesso fin dalla pubertà. Tutti tranne lui. Adesso, però, era venuto il momento della riscossa. John Chen si era trovato una ragazza. D'accordo, non era esattamente la sua ragazza. Lo sapeva, e non si faceva illusioni. Ronda Milbank era una segretaria di Highland Park con un marito e due figli, alla quale piaceva bere. Ogni due settimane diceva al marito che andava al cinema con le amiche, ma in realtà faceva il giro dei bar nella speranza che qualcuno le offrisse da bere. E aveva trovato John Chen. "Ehi, bellezza, cosa bevi?"
"Gimlet." A lei piaceva il dolce. Be', non era andata esattamente così. John era troppo timido. Però si era seduto accanto a lei, e dopo un po' Ronda gli aveva rivolto la parola. Un paio di settimane più tardi l'aveva rivista nello stesso bar. Era accaduto la sera precedente. Lui le aveva offerto un drink, un altro e poi - dopo averne bevuti almeno tre o quattro anche lui - le aveva chiesto se poteva, insomma... diciamo così... incontrarla, qualche volta. E Ronda aveva detto certo, domani, tra le undici e mezzogiorno, mio marito sarà al lavoro e i bambini a scuola. BINGO! Poi, però, erano nati i problemi. Come diceva Jack Webb, questa è la città, Los Angeles. Quattrocentosessantacinque miglia quadrate, milioni di civili, un numero enorme di criminali, tutti fuori a far danno, novemila poliziotti - i migliori del mondo -, tutti fuori a cercare di arrestare i criminali di cui sopra, centinaia di scene del crimine, un numero che aumentava ogni giorno, a ogni ora di ogni giorno, un inarrestabile tsunami di prove, ognuna delle quali andava preservata, documentata, catalogata, classificata e analizzata dalla divisione di investigazione scientifica più oberata di lavoro, più a corto di personale e di fondi, ma di certo la migliore del mondo. E così John conosceva la risposta anche senza bisogno di porre la domanda. E cioè: "Ma certo, John, hai bisogno di una pausa-scopata a metà mattina, fai pure". Sì, probabile quanto il fatto che una palla di neve resista all'inferno senza sciogliersi. Ed ecco come John Chen aveva orchestrato la sua fuga: quella mattina si era procurato un frammento di smalto dentale da un kit di confronto e aveva atteso il momento di punta della pausa caffè di metà mattina, quando tecnici di laboratorio, esperti e criminologi (tutti troppo impegnati per lasciare la loro postazione di lavoro) si ingozzavano di muffin e snack al formaggio tra campioni di sperma e tracce ematiche. Esattamente alle dieci e quindici John aveva fatto in modo di passare davanti al suo supervisore mentre addentava il suo muffin al lampone e urlava... «AHHHHHH!!!» John prese a saltellare, tenendosi la mascella, e a girare in cerchio, senza fermarsi, finché non fu certo che tutti i presenti lo stessero guardando. Poi aprì la mano per mostrare il pezzo di dente e urlò... «PORCA PUTTANA!!! MI SONO ROTTO UN DENTE! DEVO ANDARE DAL DENTISTA!» Harriet, il suo supervisore, guardò il pezzetto di dente. «Non mi sembra
molto grosso. Te lo sarai solo scheggiato.» «OH, CRISTO, HARRIET! MI FA UN MALE DA MORIRE! HO IL NERVO SCOPERTO!» «Vieni qui, fammi vedere» disse Harriet. John si coprì la bocca, arretrando. «MI SERVE DEL GHIACCIO! UN'ASPIRINA! DEVO ANDARE SUBITO DAL DENTISTA!» John si accorse che lei aveva già guardato l'orologio con aria preoccupata. Lo avrebbe lasciato morire piuttosto che rischiare di restare indietro con il lavoro. «John, ti prego. È capitato anche a me di rompermi un dente. Il dolore passa. Tra qualche minuto non lo sentirai neppure più.» «Si è rotto, Harriet... rotto, sgretolato, sbriciolato! Devo andare dal dentista.» «Perché non lo chiami, prima? Magari non può riceverti subito.» «È mio cugino! Guarda, prima vado prima torno. Lo chiamo strada facendo. Se parto adesso è facile che riesca a tornare per l'una, l'una e mezzo.» Togliendo il disturbo prima che rientrassero marito e figli. Harriet lanciò un'altra occhiata preoccupata all'orologio, ma alla fine cedette. «D'accordo. Ma non andare con la tua auto. Prendi il furgone. È possibile che debba mandarti su una scena quando hai finito dal dentista.» Col cazzo che prendo il furgone, pensò Chen. Prese un bicchiere pieno di ghiaccio per rendere più credibile la sua storia, afferrò le chiavi e il kit per le prove e si affrettò verso l'uscita. Si fermò sulla porta per accertarsi che nessuno lo stesse seguendo, quindi gettò via il ghiaccio. Figuriamoci se si presentava a casa di Ronda con lo schifoso furgone della Scientifica. Prima di andare al lavoro aveva lavato la Porsche e adesso il suo razzo d'amore della Foresta Nera era scintillante! Aveva intenzione di arrivare a casa di Ronda in grande stile. Giunto alla prima fila di auto parcheggiate, si accorse che Harriet lo osservava dalla porta. Che stronza! I furgoni erano parcheggiati uno accanto all'altro su quella stessa fila, e John svoltò verso di essi. Si fermò vicino al primo, si portò una mano alla mascella come se il dolore fosse insopportabile, poi fece un cenno con la mano in direzione di Harriet. Lei non contraccambiò. Lui proseguì, costeggiando i furgoni, continuando a guardarla con la coda dell'occhio.
Quella stronza era inchiodata lì. Trovò il furgone che usava di solito, si precipitò dietro per nascondersi, poi contò fino a cento. Quando sbirciò da dietro il veicolo, Harriet se n'era finalmente andata. John si abbandonò a un gesto di esultanza. Tutto quel lavoro, tutti quei sacrifici, le apparizioni sulle televisioni locali finalmente avrebbero dato i loro frutti: stava per scrollarsi di dosso il peso del suo permanente digiuno. John Chen, la star dei criminologi, stava per fare sesso. Chen si voltò per correre alla sua auto quando... ... qualcuno che un attimo prima non si trovava lì gli bloccò la strada. Chen trasalì e lanciò un urlo, questa volta autentico. «AHHHH!» Fece un balzo, cadendo all'indietro finché mani forti come morse non lo afferrarono. «Calma, John. Così ti farai male» disse Joe Pike a voce bassa. Chen odiava quando quello psicopatico di Pike faceva così, sbucando dal nulla all'improvviso. Solo uno stronzo si comportava in quel modo, spaventando la gente, e Chen temeva Pike fin dalla prima volta che lo aveva conosciuto. Gli era bastata un'occhiata per capire che quello era uno di quei criminali dal doppio cromosoma Y, con le sopracciglia da cavernicolo, che amava mettere in difficoltà gli altri. Certo, era stato Pike a dargli la dritta che aveva portato al suo primo grosso successo lavorativo e all'acquisto della sua fuoriserie da rimorchio, ma Pike continuava a renderlo nervoso. «Mi hai spaventato» disse Chen. «Da dove spunti?» Pike accennò con il capo a una Lexus verde parcheggiata nella fila vicina. Il portamento di Chen si fece immediatamente più eretto. Sul sedile del passeggero c'era uno schianto di ragazza con i capelli neri e corti e le labbra più sexy che Chen avesse mai visto. Lei gli fece un piccolo cenno con la mano e per poco Chen non eiaculò nei pantaloni. Quella bambola urlava SESSO. «Amico, quella ragazza è uno schianto. Ci sta?» disse Chen. «Ho bisogno di un favore, John.» Chen si ricordò di Ronda e della finestra temporale di un'ora. Cominciò ad arretrare. «Certo, sicuro. Ma adesso devo andare. Ho un appuntamento...» «Non posso aspettare.» Chen si bloccò, convinto che Pike lo avrebbe ammazzato di botte se a-
vesse fatto un altro passo. Dalle labbra gli uscì uno squittio. «Ma...» «È un caso importante, John. Potresti finire di nuovo sui giornali» disse Pike. Ronda svanì come una bolla di sapone che scoppia e d'un tratto Chen non si sentì più così titubante. Pike e il suo socio, Cole, erano sempre stati di parola in precedenza, e la Porsche era lì a dimostrarlo. Un altro caso da prima pagina e avrebbe potuto smetterla con quel lavoro, magari trovarsi un posto in un laboratorio privato e cominciare a guadagnare sul serio, forse persino mettere le mani sul Sacro Graal a cui tutti quelli che lavoravano per le forze dell'ordine di Los Angeles aspiravano: un incarico come consulente tecnico per una serie televisiva! E passare a una Porsche Carrera! Guardò di nuovo la ragazza. «Quella ragazza l'ho già vista. Lavora nel porno?» Pike spostò il mento di John con un dito in modo da guardarlo negli occhi. Stronzo. «Sai qualcosa di quei due che hanno ammazzato a Malibu?» chiese. «Se ne occupa il laboratorio dello sceriffo.» «E dei tre uomini uccisi a Eagle Rock?» Chen si chiese dove volesse arrivare. «Sì, certo. Quel caso è nostro, ma non me ne occupo io. Cosa vuoi sapere?» «L'identità dei tre morti.» Chen si sentì sollevato, e quasi immediatamente il suo pensiero corse a Ronda. Aveva temuto che Pike volesse qualcosa di difficile. «Non ti preoccupare. Chiamerò l'investigatore del coroner questo pomeriggio. Lui lo sa di sicuro.» «No, John. Non lo sa. La ricerca sul Live Scan ha dato esito negativo. Nessuno dei cinque è nel sistema.» «I detective avranno sicuramente recuperato...» «Sui cadaveri non è stato trovato nessun elemento che potesse portare a un'identificazione.» Chen vide sfumare il suo miracoloso colpo da maestro. «E allora cosa posso fare io?» «Un controllo sulle loro pistole, John. Sui bossoli.» Chen sapeva cosa gli stava chiedendo Pike, e non gli piaceva. La polizia e i criminologi dovevano aver recuperato tutte le armi e i bossoli ritrovati accanto ai cadaveri su entrambe le scene del delitto. Le armi dovevano avere dei numeri di serie e delle caratteristiche che avrebbero potuto con-
durre ai proprietari, ma fare controlli sulle pistole era quasi impossibile. La Scientifica aveva a disposizione solo due tecnici specializzati in analisi delle armi da fuoco, e le pistole in attesa di essere esaminate erano migliaia. Il carico di lavoro era così spaventoso che spesso i processi iniziavano prima ancora dell'arrivo dei risultati e i giudici erano costretti a emettere delle ordinanze perché le armi in attesa di accertamenti avessero la precedenza sulle altre. L'euforia di Chen si spense. «Non lo so, amico. Il carico di lavoro è incredibile.» «L'hai già fatto altre volte.» «Sì, ma eseguire controlli su una pistola non significa necessariamente trovare un nome. Molte sono state rubate o comprate illegalmente.» «Un'ultima cosa...» Pike gli comunicò una data. «Un incidente automobilistico avvenuto quella notte. La polizia ha portato via il veicolo il giorno seguente, una Mercedes color argento di proprietà di un certo George King. Se la sono tenuta ventiquattr'ore per esaminarla. Voglio sapere cos'hanno trovato.» Chen ci pensò, ma non riusciva a ricordare quella notte, né il veicolo. Non gli pareva neppure che qualcuno gliene avesse parlato. «È stato commesso un crimine a bordo del veicolo?» «È rimasto coinvolto in un incidente.» «Hanno chiesto a uno dei nostri di esaminare un veicolo coinvolto in un incidente?» «Voglio sapere cos'hanno trovato. Chiama Elvis quando lo scopri. Io non sarò reperibile.» Chen guardò di nuovo la ragazza e immaginò dove sarebbe stato Pike. «E io cosa ci guadagno?» chiese Chen. «I proiettili dei cadaveri di Malibu corrispondono a quelli di Eagle Rock. È stata la stessa persona a sparare, John. La polizia e lo sceriffo non hanno ancora collegato i due casi. E neanche la stampa.» John Chen lo guardò a occhi sgranati. «Sei sicuro?» La bocca di Pike ebbe un guizzo. Il cuore di Chen prese a battere più in fretta. Non si era occupato lui degli omicidi di Eagle Rock, ma si trovava in laboratorio quando erano arrivate le prove. I criminologi che avevano lavorato a quel caso non avevano parlato di alcun collegamento tra le due sparatorie. Con i proiettili in due
diversi laboratori, a meno che la polizia non avesse altri elementi per collegare i due casi, potevano volerci mesi se non addirittura anni per mettere in relazione le due sparatorie. Anzi, era possibile che non accadesse affatto... a meno che un brillante criminologo non facesse una miracolosa scoperta. «E la pistola?» chiese Chen. «L'arma è una di quelle che abbiamo?» «Potresti fare qualche ricerca anche in quella direzione. Confronta il numero di armi registrate come prove con le armi che avete. Vedi se il numero ritorna.» A Chen batteva così forte il cuore che gli facevano male le orecchie. Pike stava alludendo a una specie di cospirazione, forse a un tentativo di copertura. Altro che televisioni locali! Se avesse giocato bene le sue carte avrebbe potuto comparire sui notiziari nazionali. Forse persino a "60 Minutes"! Ronda era ormai dimenticata. Pike si allontanò verso la Lexus. «Controlla, John. E chiama Elvis.» Pike scivolò a bordo dell'auto con un movimento fluido, quindi si allontanò. Chen rimase a osservarli, fissando la ragazza, sicuro che avrebbe fatto un pompino a quello schifoso bastardo prima che fossero arrivati all'uscita. Chen si voltò per tornare in laboratorio, scrollando il capo. Dopo tutto il casino che aveva fatto per andare dal dentista, Harriet si sarebbe chiesta come mai non si era neppure allontanato dal parcheggio. Ma poi si rese conto che proprio lei gli aveva già fornito una valida scusa: aveva sostenuto che il dolore gli sarebbe passato. E lui avrebbe confermato. Piaceva a tutti sentirsi dire che avevano ragione, e lui avrebbe guadagnato qualche punto per essere tornato al laboratorio in modo da non restare indietro con il lavoro. Non per niente lui era il criminologo più brillante del mondo. John rientrò di corsa e si mise immediatamente all'opera. Ronda se ne sarebbe fatta una ragione. 14 Perdere tempo era come perdere sangue, e Pike sentiva i secondi sgocciolare via. Sapeva che la ragazza era agitata all'idea di tornare nel suo quartiere. Era lì che il suo incubo aveva avuto inizio. L'incidente. I King. Alexander Meesh. E proprio per questo lì doveva tornare. Gli animali la-
sciano tracce al loro passaggio, e così pure gli uomini. Anche Meesh e i King potevano aver lasciato una traccia. L'idea di Pike era quella di lasciare la ragazza con Cole e poi fare un salto a casa. Anche l'uomo o gli uomini che vi si erano introdotti dovevano aver lasciato una traccia, e Pike sapeva già dove trovarla. Il tragitto da Glendale era noioso per via dell'intenso traffico pomeridiano e del panorama sgradevole, con tutte quelle linee elettriche e gli scali ferroviari che costeggiavano il fiume. Era una parte di Los Angeles sporca e grigia che non sembrava mai pulita, neppure dopo la pioggia, ma quando finalmente arrivarono nel west side, la zona dove abitava Larkin, non era molto meglio. Le strade erano costeggiate da magazzini fatiscenti in attesa di essere ristrutturati, oppure rasi al suolo, e da edifici adibiti a depositi o piccole officine dove immigrati sottopagati costruivano mobili e oggetti in ferro battuto. Una zona decisamente industriale. Cole li aspettava nel punto in cui era avvenuto l'incidente, ad appena tre isolati dalla casa della ragazza. La Corvette gialla era parcheggiata sull'altro lato della strada, ma Cole si era rifugiato in un portone vicino per ripararsi dal sole. «Lui cosa ci fa qui?» chiese Larkin quando lo vide. «Lavora. È venuto qui molto presto per ricostruire la scena al momento dell'incidente.» «Non mi pare prudente. E se mi stessero aspettando?» «Elvis ci avvertirebbe.» «E lui come fa a saperlo?» Pike non si curò di rispondere. Sentiva già la mancanza del silenzio. Non c'erano molti parcheggi liberi, ma Pike trovò un posto lungo il marciapiede poco più avanti rispetto al vicolo. Cole attese che passasse un autoarticolato, poi attraversò la strada per raggiungerli. Indossava pantaloncini cargo verde oliva coi tasconi, una camicia a fiori con le maniche corte e un cappellino sbiadito dei Dodgers. A Pike parve che quel giorno si muovesse con maggiore scioltezza. Cole sorrise alla ragazza. «Bel posto. Mi ricorda Fallujah.» «Bei vestiti. Mi ricordano un ragazzino delle medie.» Cole rivolse il suo sorriso verso Pike. «L'adoro quando fa così.» Si trovavano nel punto esatto in cui la ragazza era andata a sbattere contro la Mercedes, dove un vicoletto sbucava sulla strada. Il vicolo era poco più di una lurida fessura tra due edifici grigi. Fuori dal vicolo decine di
uomini a torso nudo e donne robuste con cappelli di paglia si affollavano intorno a un furgone parcheggiato lungo il marciapiede che vendeva bibite. Pike osservò i tetti e le finestre, poi tornò a voltarsi verso Cole. Era impaziente di andare, ma prima voleva sentire il resoconto di Cole. «Allora?» disse. «Nada. Ho parlato con chiunque nel raggio di due isolati in ogni direzione. Qui tutto chiude alle sei, e nessuna di queste attività ha un guardiano notturno, eccetto una ditta di spedizioni che sta laggiù...» Cole indicò con la testa l'isolato alle loro spalle. «Vedi quel recinto di filo spinato? Loro la notte hanno un guardiano, ma non ha visto niente. Dice che non sapeva neppure che ci fosse stato un incidente, finché non sono arrivati i federali.» Nel sentire questo, Pike inarcò le sopracciglia e Cole annuì. «Già. I tuoi federali si sono dati da fare. Ho chiesto anche se c'erano delle telecamere di sicurezza, sperando in un colpo di fortuna, ma è stato un altro buco nell'acqua. Ci sono un paio di telecamere interne, ma nessuna qui fuori in strada.» «Vorresti dire che hai bussato alle porte e hai fatto tutte queste domande?» chiese la ragazza. «Certo. È così che lavorano gli investigatori.» «Vestito in quel modo?» «Incredibile, non è vero?» «Ti sei procurato il rapporto dell'incidente?» chiese Pike. «Sì...» Cole prese alcuni fogli piegati dai tasconi dei calzoncini e con quelli indicò la strada. «L'incidente è avvenuto qui all'imboccatura del vicolo. La signorina Barkley procedeva lungo la strada verso di noi...» Cole indicò la direzione opposta «... diretta verso casa sua, che si trova tre isolati più in giù.» Cole lanciò un'occhiata a Larkin. «A proposito, bella casa. Sistemata molto bene.» Poi aprì i fogli per mostrare uno schizzo tracciato dagli agenti la notte dell'incidente. Un rettangolino segnava la posizione dell'auto di Larkin, insieme a delle linee che rappresentavano i segni di frenata accompagnati da alcune misure. Pike aveva disegnato parecchi schizzi come quello durante il suo primo anno come agente di pattuglia. Una serie di frenate era contrassegnata dalle parole ASTON MARTIN, un'altra, più breve, con SCONOSCIUTO.
Larkin si avvicinò per vedere. «Cos'è questo?» «Ho chiesto a un amico di procurarmi una copia del verbale dell'incidente. Volevo vedere cos'era successo.» «Te l'avevo già detto io, cos'era successo.» «Lo so, ma volevo vedere il rapporto. Nel caso di incidenti come questi, gli agenti indicano eventuali testimoni.» «Ne hanno trovati?» chiese Pike. «Sarebbe troppo facile. Sulla scena non è stato trovato nessuno a parte la signorina Barkley.» Cole si voltò verso il vicolo e proseguì nel suo resoconto. «Il vicolo sbocca nell'altra strada. L'edificio sulla destra è abbandonato. Le porte sul davanti, sul retro e sui lati sono chiuse da catene; da come sono arrugginite e sporche si capisce che non vengono aperte da anni. L'altro edificio è adibito a fabbrica. Producono soprammobili e souvenir di ceramica. Considerato che un edificio è vuoto e l'altro è pieno di repliche in miniatura dell'Hollywood Bowl, è un'ipotesi fondata pensare che i King non si trovavano quaggiù per un sex party.» «Ve l'ho detto: stavano uscendo in retromarcia» sbottò Larkin. Cole la guardò con aria scettica. «Sì, ma perché proprio qui e in quel momento? Sappiamo perché tu ti trovavi qui. Stavi tornando a casa. Ma loro?» «Non lo so» rispose la ragazza. «Era una domanda retorica.» Pike studiò la posizione delle auto sul disegno e cercò di immaginare l'Aston Martin di traverso alla strada. Aveva urtato la Mercedes dal lato del guidatore subito dietro la ruota posteriore, mentre questa si immetteva in retromarcia sulla carreggiata. La forza dell'impatto aveva fatto compiere alla Mercedes un quarto di giro in senso antiorario, mentre l'Aston Martin sì era fermata, il muso rivolto verso la Mercedes, un faro fracassato, ma l'altro che illuminava la scena. Lo schizzo fatto dalla polizia concordava con quanto affermato dalla ragazza. Era scesa dalla sua auto per aiutare gli altri, quindi era tornata a prendere il cellulare. I King erano ripartiti, Meesh si era allontanato a piedi. «Da che parte è andato Meesh?» chiese Pike. La ragazza si piazzò tra loro e indicò la direzione. «Da quella parte. È corso via in mezzo alla strada. La Mercedes è andata nella direzione opposta.»
Cole si spostò di qualche passo per vedere meglio. «Lo hai visto girare?» «Non guardavo.» «A quell'ora di notte non ci sono tutte queste auto e c'è abbastanza luce. Magari si è infilato in qualche edificio.» «Non lo so. Ero al telefono con il pronto intervento. La Mercedes era sparita. Io mi stavo scrivendo il loro numero di targa sul braccio e parlavo con il 911.» Cole si strinse nelle spalle guardando Pike. «Quaggiù non c'è niente. Ho camminato per otto isolati in ogni direzione, fino ai ponti. Due isolati più a est c'è il fiume, ma ho controllato anche quelle strade, e anche tre isolati in direzione ovest. Tutti quelli con cui ho parlato dicono che di notte questa zona è abbandonata. Non ci sono stazioni di servizio... non sono neppure riuscito a trovare un telefono pubblico. Ci sono soltanto magazzini e cantieri, tranne tre o quattro edifici convertiti in appartamenti come quello di Larkin. Andrò a fare domande anche lì.» Pike grugnì, pronto a lasciare che Cole continuasse con la sua idea. Voleva andare, ma qualcosa che Cole aveva detto non lo convinceva. "A quell'ora di notte, non ci sono tutte queste auto e c'è abbastanza luce..." Pike si voltò a guardare la folla degli operai e il furgone delle bibite, poi i veicoli parcheggiati su entrambi i lati della strada. Aprì di nuovo il foglio con il disegno dell'incidente e studiò i segni di frenata. «Quando sei andata a sbatterle contro, sei sicura che la Mercedes stesse facendo marcia indietro oppure era ferma?» La ragazza scosse il capo. «Non lo so.» Cole aggrottò la fronte, riflettendo. «Alla polizia hai detto che stava facendo marcia indietro.» «Non so più cosa ho detto alla polizia, non ricordo neppure quando ho parlato con loro. Perché, che importanza ha?» «Se erano parcheggiati, cosa stavano facendo?» disse Cole. «Stavano guardando qualcosa o qualcuno dentro il vicolo? Erano appena saliti sull'auto oppure stavano per scendere? Ti rendi conto di come una cosa porti a un'altra?» Pike si voltò verso la strada e capì cos'era che lo lasciava perplesso. Non aveva niente a che vedere con il motivo per cui i King e Meesh erano lì. «Con la strada vuota dovevi avere la visuale libera» osservò. «Tu sei an-
data a sbattere contro di loro, e questo significa che si trovavano davanti a te. La logica dice che avresti dovuto vederli.» La postura di Larkin rivelava tutta la sua tensione. «Non sto mentendo.» I segni di frenata confermavano la sua versione, ma Pike si chiese come mai non era riuscita a evitare l'urto. Pensò che fosse ubriaca o drogata e sfogliò il rapporto per verificare. Niente. I test erano tutti negativi. «Non sto dicendo questo. Sto solo cercando di capire.» «Be', a me sembrava che mi stessi accusando. Non posso farci niente se non li ho visti. Forse sono usciti a tutta velocità. Forse stavo guardando la radio. Dobbiamo stare qui ancora per molto? Ho paura e non mi piace.» Pike guardò Cole, il quale si strinse nelle spalle. «Qui ho visto tutto quello che c'era da vedere. Posso accompagnarla.» Larkin lo guardò di traverso, ancora irritata. «Mi sono persa qualcosa?» «Ti riaccompagna lui a casa» spiegò Pike. «Resterà con te finché non torno.» Pike si avviò verso la Lexus, ma la ragazza lo seguì. «E quando è stato deciso, questo?» Pike non rispose. Non lo riteneva necessario. «Non puoi venire con me. Sarai più al sicuro a casa.» «Non voglio restare con lui. Mi violenterà appena te ne sarai andato.» «Ti piacerebbe, eh?» disse Cole. Lei lo ignorò e rimase incollata a Pike. «Ascoltami. Tu... tu sei pagato per proteggermi. Tu lavori per me. A mio padre non piacerà che mi molli con la squadra di riserva.» Cole spalancò le braccia. «La squadra di riserva?» Pike salì sulla Lexus, ma Larkin andò a mettersi tra l'auto e la portiera in modo che lui non potesse chiuderla. Il volto di lei sembrava fragile come una maschera di ceramica. A Pike tornò in mente quando si era ribellata a suo padre, nel deserto. Solo che adesso non sembrava tanto arrabbiata quanto delusa. Pike si sforzò di risponderle con gentilezza. «Scusami. Avrei dovuto discuterne con te, ma non pensavo che fosse un problema.» Lei rimase lì, ansante per la rabbia. «Non puoi venire con me, Larkin. Ci vediamo questa sera.» Pike tirò a sé la portiera, urtandola leggermente. Il tempo fuggiva via. Gli pareva di sentirlo correre lungo la schiena con gli scarponi chiodati, e quella ragazza se ne stava piazzata lì, impedendogli di andarsene.
«Scostati dalla macchina» le ordinò con tono più duro. Lei non si mosse. «Scostati dalla macchina.» «Vuoi che la stenda con un pugno?» disse Cole. La ragazza arretrò, pronunciando un'ultima parola mentre Pike chiudeva la portiera. «Stronzo.» Pike si allontanò senza voltarsi indietro, diretto a Culver City. 15 Quando fu solo, Pike si sentì come quando si galleggia in piscina in un giorno senza vento, con il cielo sereno e il sole che brucia la pelle. Non aveva paura di ciò che avrebbe trovato e non se ne preoccupava più di tanto. Forse gli uomini che avevano fatto scattare l'allarme in casa sua lo stavano ancora aspettando, oppure se n'erano andati: certe cose andavano prese come venivano. Venticinque minuti più tardi, si fermò sotto un albero di sicomoro in una strada residenziale a sei isolati da casa sua. Due bambine e un maschietto gli sfrecciarono accanto in bicicletta. Tre case più avanti due ragazzi si lanciavano una palla da baseball. Un cane bianco correva avanti e indietro tra loro, abbaiando quando la palla gli passava sopra la testa. Pike scese dall'auto, si tolse la camicia a maniche lunghe, aprì il bagagliaio e frugò tra le cose che Ronnie aveva lasciato per lui. Bevve mezza bottiglia d'acqua, prese il coltello da combattimento SOG, un paio di binocoli Zeiss, la piccola Beretta calibro .25 e una scatola di proiettili a punta cava per la .45. Non avrebbe avuto bisogno d'altro. Risalì in auto e andò alla stazione di servizio che si trovava accanto al suo condominio, oltre il muro di recinzione. Parcheggiò in fondo allo spiazzo, vicino al muro. Faceva spesso rifornimento lì e conosceva il personale, quindi poteva fare quello che voleva. Prima di scendere dall'auto assicurò la .25 alla caviglia destra e il coltello alla sinistra. Si accertò che la Kimber fosse carica e la infilò nella cintura dei pantaloni, dietro la schiena. Andò all'ufficio e fece un cenno con la mano verso l'uomo al bancone. «Dovrei lasciare l'auto qui per un po'. Ci sono problemi?» «Nessun problema, amico. Tutto il tempo che crede.» Pike agì in fretta. Scavalcò il muro ed entrò nel giardino del condominio dietro un edificio dal tetto piatto che si ergeva di fronte alla grande piscina
comune. Una folta cortina di banani, uccelli del paradiso e canne mimetizzava la parete costruita per insonorizzare l'impianto idraulico e proseguiva intorno alla piscina e ai vialetti interni. Pike attraversò il giardino tenendosi al riparo dietro le piante. C'era ancora gente in giro, ma Pike si spostava con facilità. Percorse quasi duecento metri per evitare un tratto scoperto largo una trentina, ma non gli importava: preferiva la libertà di muoversi senza essere visto. Passò da un gruppetto di case all'altro, attraversando tre parcheggi, e finalmente arrivò in fondo al complesso, e da lì all'edificio in cui si trovava il suo appartamento. Non si avvicinò alla porta e non cercò di entrare. Si appostò all'angolo, dietro alcune piante di papiro, e si preparò ad aspettare. Era una buona posizione, che gli permetteva una vista indisturbata del parcheggio e delle case di fronte alla sua. Se c'era qualcuno ad attenderlo, doveva trovarsi all'interno o appostato in un luogo da cui si potesse vedere la porta d'ingresso. Non poteva essere altrove. Pike studiò le auto nel parcheggio e le tende alle finestre della casa di fronte, la cortina di piante esattamente uguale alla sua. Rimase immobile e, per la prima volta quel giorno, non avvertì il passare del tempo. Si limitò a essere: al sicuro nel nascondiglio tra le piante, in osservazione. Guardò finché non arrivò a conoscere a memoria ogni ramo e ogni foglia screziata dalla luce del tramonto. Capì chi era in casa e chi no. Due ore più tardi fu certo che nessuno stesse sorvegliando il suo appartamento, ma non si mosse ancora. Se qualcuno lo stava aspettando, era dentro. Pike vide il mondo farsi dorato, poi brunito, fino a raggiungere un intenso color porpora che lasciò il posto alle tenebre. Le macchine andavano e venivano. I vicini entravano e uscivano di casa, alcuni in ciabatte infradito, diretti alla piscina. Pike rimase in osservazione finché il buio non fu totale, e il suo mondo dietro la cortina di piante divenne completamente nero. Solo allora si mosse, alzandosi con la lentezza del ghiaccio che si scioglie. Costeggiò il suo appartamento, controllando ogni finestra, e scoprì che la seconda era stata forzata. Era stato quello a far scattare l'allarme. Guardò dentro, ma vide solo ombre. Non si muoveva nulla e dall'interno non proveniva alcun rumore. Tolse lentamente la zanzariera e poi, altrettanto lentamente, aprì la finestra e si issò all'interno. La stanza era buia, ma la porta che dava in soggiorno era illuminata. Pike aveva lasciato la luce accesa. Estrasse la Kimber ed entrò in soggiorno, muovendosi senza fare alcun rumore. Sul divano non era seduto nessuno e così pure sulla poltrona destinata alla lettura. L'unico movimento veniva
dalla fontana nell'angolo, una vasca con l'acqua che gorgogliava piano sulle pietre. Pike rimase in ascolto, sforzandosi di sintonizzarsi con lo spazio circostante, ma gli unici suoni erano il mormorio dell'acqua e il sussurro del condizionatore. Non trovò nessuno in casa. Erano stati molto attenti a non lasciare traccia del loro passaggio, ma dalla cucina mancava un'agenda e il telefono in camera da letto era in una posizione in cui lui non lo lasciava mai. E gli indumenti nell'armadio non erano disposti come al solito. Pike tornò in soggiorno. Il televisore era integrato in un complesso multimediale di fronte alla fontana, insieme al lettore CD, a un videoregistratore digitale e ad altre apparecchiature elettroniche. Una telecamera di sicurezza installata personalmente da Pike trasmetteva le immagini a un hard disk sistemato lì vicino. Pike accese il televisore e guardò la registrazione. Immagini singole del soggiorno erano state riprese a intervalli di otto secondi, e il filmato sembrava una proiezione di diapositive in sequenza. Un uomo con una pistola in mano era entrato dalla stessa stanza da cui era entrato Pike. Non indossava maschera né guanti, solo maglietta, jeans neri e scarpe da ginnastica. Aveva i capelli piuttosto lunghi, scuri e lisci. Era bianco o sudamericano, Pike non avrebbe saputo dirlo. Le immagini mostravano il suo tragitto a scatti, la prima quando era entrato, poi in mezzo alla stanza, quindi davanti alle scale. Una persona poteva coprire parecchi metri in otto secondi. Quando l'uomo era arrivato davanti alla porta d'ingresso, ne era entrato un altro. Più piccolo del primo, indossava una camicia scura con la falda fuori dai jeans. Anche lui aveva i capelli lunghi e scuri, ma la pelle era più scura. Pike concluse che questo doveva essere un sudamericano. Nell'immagine successiva il primo uomo era tornato in cucina, il secondo era inginocchiato davanti alla porta. Sul pavimento era comparsa una valigetta nera, e il secondo uomo stringeva la maniglia con entrambe le mani. A un certo punto, Pike capì che il secondo uomo stava facendo delle chiavi. Il primo tornò dalla perquisizione della casa mentre il secondo provava le chiavi appena fatte. Pike bloccò l'immagine. Era quella in cui il primo uomo si vedeva meglio, il viso inquadrato di tre quarti. Pike prese le foto che gli aveva dato Bud e le confrontò. Il fabbricatore di chiavi non c'era, ma il primo uomo figurava tra coloro che avevano fatto irruzione in casa di Larkin. Non era quello che aveva picchiato la governante, però aveva partecipato alla spedizione.
Pike fece scorrere le immagini avanti e indietro finché non trovò l'inquadratura migliore del secondo uomo. Premette un pulsante e la stampante laser nel complesso multimediale emise un ronzio. Pike si infilò in tasca le nuove foto. Le ultime immagini mostravano i due uomini che uscivano dalla porta d'ingresso. Pike spense il televisore e rimase al centro del soggiorno ad ascoltare la fontana. Era il rumore di un ruscello nei boschi, un suono naturale e confortante. Pike accese il cellulare e chiamò Ronnie. «Eccomi» disse Ronnie. «Voglio che tu e Denny sorvegliate il mio appartamento. Due uomini, tra i venti e i trent'anni con capelli scuri lisci piuttosto lunghi, sul metro e settanta, settantacinque. Il più basso probabilmente è sudamericano.» «Sono a casa tua, adesso?» «No, ma torneranno. Hanno le chiavi.» «Ah. Li vuoi cotti a puntino?» «Voglio solo essere informato.» Pike ripristinò allarme e telecamere di sicurezza, poi andò al frigo. Stappò due bottiglie di Corona, versò il contenuto nel lavandino e posò le bottiglie vuote sul bancone. Quando i due uomini si erano introdotti in casa il bancone era libero, mentre adesso le bottiglie spiccavano come vele all'orizzonte. Quando fossero tornati avrebbero capito che Pike era stato lì. Si sarebbero detti che se era rientrato una volta sarebbe tornato, e forse avrebbero deciso di aspettarlo. Pike voleva che lo aspettassero. 16 Cole Larkin Conner Barkley si rifiutava di parlargli. Cole le chiese dei proprietari e degli inquilini che vivevano vicino al suo loft, ma era come se parlasse una lingua straniera. Lei continuava a tenere le labbra piegate in un bocciolo corrucciato e a fissare la strada come se l'auto di Pike fosse un miraggio. «Non riesco a credere che mi abbia lasciato così. Mi ha scaricato.» «Che faccia tosta, quell'impunito» osservò Cole.
«Va' a farti fottere.» «È la seconda volta che alludi al sesso, ma mi vedo costretto a rifiutare.» Larkin attraversò la strada senza aspettarlo, andando dritto alla macchina. Certe persone non avevano proprio il senso dello humour. Cole decise di lasciarle un po' di tempo per sbollire, e in auto rimase in silenzio. Non poteva biasimarla se si era stancata di sentirsi porre sempre le stesse domande e di ripetere le stesse cose, e non voleva prendersela con lei se era stressata. Aveva ancora delle domande da farle, ma potevano aspettare. Lungo il tragitto di ritorno verso Echo Park si fermò a un piccolo negozio di alimentari a Thai Town, pensando che lì c'erano meno probabilità che la ragazza venisse riconosciuta. Quando le chiese di andare con lui si aspettava che facesse storie, ma Larkin lo sorprese. Pareva essersi calmata. Osservò in silenzio le etichette e le strane confezioni mentre lui acquistava latte, cibo, un blocco da disegno, un righello di plastica e due bottiglie di vino di prugne. L'unica volta in cui aprì bocca fu quando vide il vino. «Io non bevo.» «Allora starai a guardare me. Vuoi qualcosa di speciale? Della frutta, un dessert?» «Non voglio niente.» Non disse altro. Assunse di nuovo quell'espressione svogliata e Cole si sentì ancora più dispiaciuto per lei. Quando risalirono in macchina, lui frugò nel vano portaoggetti del cruscotto alla ricerca del suo iPod e glielo mise in grembo. «Sai come funziona?» «Lui non mi ha permesso di tenerlo.» «Questo te lo lascerà tenere.» Larkin lo prese ma non diede cenno di volerlo usare. Tornati alla casa, lei si chiuse in bagno senza dire una parola e poco dopo si sentì scorrere l'acqua. Cole mise a posto la spesa, poi andò a sedersi al tavolo con il blocco e i fogli del rapporto dell'incidente. Il retro di ogni pagina era interamente occupato dai suoi appunti, che descrivevano nel dettaglio tutti gli edifici e le attività commerciali del quartiere. Cole si mise al lavoro: disegnò una mappa, procedendo isolato per isolato, uno per pagina. Divise ogni isolato in riquadri, ognuno dei quali rappresentava un'attività e riportava l'indirizzo completo, oltre che la descrizione dell'edificio, i nomi, i numeri di telefono e tutte le altre informazioni raccolte. Aveva quasi completato la prima cartina quando cominciò a preoccupar-
si. L'acqua aveva smesso di scorrere da parecchio, ma Larkin non era ancora uscita dal bagno. Cole andò alla porta e bussò. «Tutto bene?» Nessuna risposta. Cole girò la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Bussò di nuovo, questa volta più forte. «Larkin?» «Sono in ammollo.» Se non altro non aveva tentato il suicidio. Cole tornò al tavolo e si rimise al lavoro. Lo scarico della vasca gorgogliò, segno che veniva svuotata, poi si sentì di nuovo scorrere l'acqua. Cole la lasciò fare. Se voleva raggrinzirsi come una prugna secca era libera di farlo. Dopo un po' la ragazza uscì dal bagno avvolta in un asciugamano, entrò in camera da letto e chiuse la porta. Terminata la mappa della strada, Cole passò a disegnare quelle vicine. Era convinto che Meesh e i King si trovassero nell'area con uno scopo ben definito. Stavano andando o tornando da una meta precisa, probabilmente uno degli edifici o delle attività della zona. Cole era convinto che quella fosse anche l'ipotesi dei federali: dodici delle sedici persone con cui aveva parlato erano state interrogate da agenti del dipartimento di Giustizia. Pitman, Blanchette e almeno altri due agenti avevano fatto domande sull'incidente, sui King e su Meesh. Pareva tutto normale finché non riesaminò i suoi appunti per ricostruire la tempistica degli avvenimenti. Allora si accorse di una discrepanza. Lavorò ininterrottamente per un'ora prima che Larkin uscisse dalla stanza. Indossava un paio di jeans puliti da cinquecento dollari, una maglietta nera attillata dei Ramones e l'iPod. Aveva un'aria fresca e pulita senza trucco o gioielli, a piedi nudi. Si allungò sul divano coi piedi che spuntavano oltre il bracciolo, chiuse gli occhi e si mise ad ascoltare l'iPod, muovendo i piedi a ritmo con la musica. «Ehi» fece Cole. Lei aprì gli occhi e lo guardò. «I federali non sapevano che il terzo occupante della Mercedes fosse Meesh, prima che tu lo identificassi?» «No.» «È questo che ti hanno detto?» «Sì. Sembravano molto eccitati quando finalmente hanno scoperto il suo nome.»
Cole tornò alla sua tabella temporale, ma pensava ad altro. Le dodici persone interrogate dai federali erano state interpellate il giorno dopo l'incidente. Tutte e dodici affermavano che i federali avevano mostrato loro le foto di due uomini, e tutte e dodici avevano descritto le stesse due foto. Era come se già prima di parlare con la ragazza, Pitman sapesse o sospettasse che Meesh era l'uomo fuggito, e avesse mentito con lei sull'argomento. Una ventina di minuti dopo, Cole avvertì un movimento e alzò lo sguardo. Larkin si alzò dal divano, andò alla finestra e guardò fuori, in strada. Il giorno stava morendo e presto avrebbero dovuto chiudere le tende. «Se hai fame preparo la cena. Volevo soltanto finire il mio lavoro.» Lei non lo sentì. Stava guardando la strada. Cole appallottolò un foglio di carta e glielo lanciò contro la schiena. Quando la ragazza si voltò, Cole si toccò un orecchio per farle capire di togliersi l'auricolare. «Hai detto qualcosa?» fece lei. «Se hai fame preparo la cena.» «Non dovremmo aspettare lui?» Lui. «Potrebbe fare tardi.» «Non ho fame.» Tornò a sdraiarsi sul divano, solo che questa volta i suoi piedi restarono fermi. Cole si rimise al lavoro. «Davvero è stato in Africa?» Cole alzò lo sguardo: Larkin era sdraiata coi piedi alzati e lo guardava. Cole rimase sorpreso che Pike le avesse detto dell'Africa. Non parlava mai di quei giorni, neppure nell'imminenza dei viaggi, quando si preparava a partire. Solitamente diceva qualcosa tipo: "Starò via per un po'". Okay, diceva Cole, e qualche giorno dopo Pike spariva. Passate un paio di settimane chiamava per sapere se era tutto a posto. "Certo" rispondeva lui, e Pike: "Se hai bisogno torno". Larkin fraintese il suo silenzio e fece una risata sarcastica. «Lo sapevo. Se l'è inventato.» Cole compattò i fogli e si appoggiò allo schienale. Aveva lavorato molto alla mappa e adesso si trovava con più domande che risposte. «Cosa ti ha detto?» «Che ha visto una donna tagliarsi le dita. Che cosa disgustosa. Come se io mi lasciassi impressionare. Che cosa schifosa e orrenda, cercare di spaventarmi in quel modo.»
«Hai cambiato idea a proposito della cena? Io ho praticamente finito.» «No.» Lei incrociò le braccia sul petto e fissò il soffitto. «È sposato?» «No.» «Mai stato?» «Ti sei presa una cotta per Joe? Gesù, credo che Larkin si sia presa una cotta per Joe.» «Gliel'ho chiesto, ma non mi ha risposto. Fa sempre così. Io dico qualcosa, e so che ha sentito, ma lui mi ignora. Non mi piace essere ignorata. È da maleducati.» «Già.» «E allora perché lo fa?» «Gliel'ho chiesto, una volta, ma mi ha ignorato.» Larkin non lo trovò divertente. «Così lui è quello che non parla e tu sei quello che scherza su tutto.» «Forse Joe non ti risponde perché pensa che non siano fatti tuoi.» «E la conversazione civile non esiste? Sono costretta a stare con un uomo che si rifiuta di parlare. Non ride mai. Non sorride. Non si capisce mai cosa pensa.» «Gesù, e pensare che con me è uno spasso. Non riesco a farlo stare zitto.» «Non sei spiritoso. Tu sei uno di quelli che lo trovano divertente, ma non lo è. Io mi annoio, e qui non c'è neppure il televisore.» «Già. Stare senza televisore è un vero inferno.» «C'era da immaginarlo che avresti detto una cosa del genere. Sei amico suo.» Cole scoppiò a ridere. «Probabilmente sei abituata a persone che cercano di fare colpo su di te... cercano di essere divertenti, di attirare la tua attenzione, di riuscirti simpatici. Non confondere questo con l'essere interessante. Non lo è. Pike è uno degli uomini più interessanti che ti capiterà mai di incontrare. È solo che non vuole intrattenerti, e quindi non lo fa.» «Ma io mi annoio.» «Cerca di leggere. Le ragazze belle e ricche sanno leggere, oppure no?» Gli angoli della bocca di lei si incurvarono appena. «Tu parli molto. È perché vuoi intrattenermi?» «È perché voglio intrattenere me. Tu sei un po' noiosa.»
Larkin si alzò dal divano e tornò alla finestra. «A quest'ora non dovrebbe essere già tornato?» «È ancora presto.» Larkin tornò al divano, ma questa volta si sedette a gambe incrociate. Cole capì che non aveva intenzione di mollare. Lo guardava con aria imbronciata, quasi fosse convinta che lui le nascondesse qualcosa. «Allora, è vero che è stato in Africa?» «Molte volte. Ha girato tutto il mondo.» «Perché fare una cosa del genere?» «Non è stato Joe a tagliare le dita a quella donna.» «Io mi riferivo al fatto di essere un mercenario. Capisco se ti mandano in missione, ma farsi pagare per giocare alla guerra è disgustoso.» «Joe non giocava. Lui era un professionista.» «Io lo trovo disgustoso. Chiunque ami quel genere di cose deve essere pazzo.» «Suppongo dipenda da quello che fai e dal motivo per cui lo fai.» «Stai solo cercando delle scuse per difenderlo. Probabilmente sei disgustoso quanto lui.» A Cole piacque così tanto quella sua certezza che non poté fare a meno di sorridere. «Quella storia che ti ha raccontato, di quella donna... Ti ha detto perché si trovava là?» «Certo che no.» «Vuoi saperlo?» Lei lo fissò come se temesse un trabocchetto. Alla fine, però, annuì e lui glielo raccontò. Solo di quella storia, ma avrebbe potuto raccontargliene altre. «Un gruppo di guerriglieri, il Lord's Resistance Army, imperversava in Africa Centrale, soprattutto in Uganda. Rapivano le ragazze. Il loro metodo era questo: facevano irruzione in un villaggio, sparavano a tutto quello che si muoveva, saccheggiavano le case e prendevano le ragazze adolescenti. Non una o due, tutte. Ne hanno rapite a centinaia, per renderle schiave, stuprarle, sottoporle a qualunque tipo di violenza. È il Terzo Mondo, Larkin, non è come qui. La maggior parte del pianeta non vive come noi. Lo capisci?» Lei si costrinse ad annuire, ma Cole intuì che non capiva, non poteva capire. Là non c'era la polizia, ma i "signori della guerra". Non c'erano i repubblicani e i democratici. C'erano le tribù. In Ruanda una tribù ne pren-
deva di mira un'altra e in meno di tre mesi ammazzava un milione di persone a colpi di machete. Come poteva un americano capire una cosa come quella? «Gli abitanti di quei villaggi sono agricoltori, magari hanno qualche capo di bestiame, a volte si consorziano per mettere insieme le loro magre finanze. Capirono di avere bisogno di professionisti per fermare quei rapimenti, e Joe andò laggiù. Joe e i suoi uomini, credo ne avesse cinque con sé, quella volta, arrivarono un pomeriggio. Quella mattina era stato assaltato un altro villaggio, rapite altre ragazze. A quella donna avevano ammazzato il marito e i figli. La prima cosa che Joe vide quel giorno, arrivando, fu quella poveretta che si stava mutilando.» Larkin lo fissava a bocca aperta, come se si aspettasse dell'altro: quando vide Cole alzarsi in piedi si passò la lingua sulle labbra, poi chiese: «E lui cosa fece?». Cole lo sapeva, ma decise di mantenersi sulle generali. «Il suo lavoro. E i raid cessarono.» Larkin lanciò uno sguardo verso le finestre, ma adesso che si era fatto più buio, la luce nella stanza rendeva impossibile vedere fuori. «Io comincio ad avere fame. Vuoi mangiare qualcosa?» chiese Cole. Voleva andare in cucina, bere un bicchiere di vino e cucinare, ma la ragazza continuava a fissare le finestre e a passarsi la lingua sulle labbra. «Lo ha fatto molte volte?» «È stato in tutto il mondo.» «Perché?» «Vuoi sapere perché lavorava a contratto?» Larkin annuì. «È un idealista.» Lei si voltò a guardare Cole. «Io sono ancora convinta che sia una cosa orribile. Non lo farebbe, se non gli piacesse.» «No, probabilmente no. Ma non gli piace nel senso che intendi tu. Su, vieni, prepariamo la cena.» Lei tornò a voltarsi verso la finestra. «Io aspetto.» Cole andò in cucina, ma non cominciò a preparare. Pensava a Pitman. Pitman aveva dato alla ragazza e alla sua famiglia una versione che non concordava con i fatti. Pitman aveva mentito. Chissà se aveva mentito solo su quello. 17
John Chen L'Unità analisi armi da fuoco veniva chiamata "stanza delle pistole". Quando entravi là dentro, vedevi solo armi. Le pareti erano interamente occupate da mobiletti a tutta altezza stracolmi. Le pistole spuntavano dentro le vetrine come frutti da un albero pericoloso, file e file, la canna infilzata su perni di metallo: l'unico modo per riporle, visto che i tecnici ne avevano esaminate così tante che non sapevano più dove metterle. Appeso al ponticello di ogni arma c'era un cartellino che identificava marca, modello e numero del caso. Ogni arma presente in quella stanza era stata utilizzata per commettere un crimine. Un copioso raccolto di frutti amari. Maledicendo la sua perfida sfiga, John Chen lanciò un'occhiata al corridoio per accertarsi che non stesse arrivando nessuno. Detestava essere ancora in giro a quell'ora, ma i tecnici balistici erano così oberati di casi e cronicamente indietro con il lavoro che quella negriera di Harriet Munson non faceva altro che alitargli sul collo, e questo significava che passava il suo tempo nella stanza delle pistole. Di conseguenza Chen aveva dovuto aspettare che Harriet andasse a casa, e lei andava a casa più tardi di chiunque altro perché anche lei era oberata di lavoro e costantemente in ritardo. A peggiorare ulteriormente le cose - che per John andavano già molto male, come sembrava indicare il suo ineluttabile fato -, probabilmente in quel preciso momento Pike era incazzato nero perché non aveva ancora avuto una risposta a proposito delle pistole. Chen venne assalito dalla nausea all'idea di Pike incazzato. Quell'uomo era un mostro, un assassino a sangue freddo, e probabilmente non ci avrebbe pensato due volte a spezzargli il collo come si fa con una matita da disegno... ... e sarebbe stata anche colpa di Harriet Munson, quella stronza. Il giorno precedente, Chen era convinto di poter ottenere in brevissimo tempo ciò di cui Pike aveva bisogno, e di essere felicemente avviato alla conquista di un'auto da rimorchio di livello superiore... e invece non era affatto andata così. Appena Pike si era allontanato, Chen era tornato di corsa in laboratorio, facendo l'eroe. Il suo piano era quello di non dar tregua a un tecnico della balistica finché questi non avesse acconsentito a dare la precedenza alle prove di Eagle Rock, ma non ne aveva avuto mai l'occasione. Era intento a descrivere il suo coraggioso recupero dall'incidente dentario recupero che chiunque avrebbe considerato quantomeno eroico - e quella stronza di Harriet cosa aveva fatto? Lo aveva spedito sulla scena di un
crimine, così su due piedi, da un momento all'altro, senza neanche passare dalla scrivania o fermarsi a fare una pisciata. Un accoltellamento in famiglia a Pacoima, perdio. Poi, come se non bastasse, da lì lo aveva dirottato su Atwater, dove uno di quei senzatetto che vivono su un'isola del Los Angeles River era stato trovato con il cranio sfondato come un'anguria, quasi certamente ammazzato da un altro barbone dopo una lite per questioni di fica, droga o territorio. Ora dico, era quella la ricompensa per un uomo che, incurante di un dente rotto, era tornato subito al lavoro? Dopotutto, Harriet non sapeva che il suo incidente era una farsa! John era arrivato a casa a mezzanotte passata e poi, il giorno dopo - quel giorno - Harriet aveva infestato la sala delle pistole come lo Spirito del Natale Futuro, e lui aveva sofferto tutto il giorno perché sapeva che Pike doveva essere là fuori ad aspettarlo, sempre più spazientito oltre che, sicuramente, sempre più incazzato con lui. Chen era stato sulle spine tutto il giorno finché Harriet non se n'era andata e si era finalmente presentata l'occasione per mettere alle strette il tecnico della balistica. Adesso non doveva fare altro che convincerlo a consegnargli le prove di Eagle Rock, e in quel modo si sarebbe tolto Pike di torno. Chen era arrivato preparato. Il tecnico di turno era una donna alta e magra con occhi ravvicinati e denti gialli che si chiamava Christine LaMolla. Chen era convinto che fosse lesbica. Avanzò silenzioso lungo il corridoio e, dopo essersi accertato che non stesse arrivando nessuno, suonò il campanello. Essendo piena di armi, la stanza delle pistole era sempre tenuta chiusa a chiave. Quando sentì scattare la serratura, Chen spinse la porta ed entrò. LaMolla si voltò, distogliendo lo sguardo dal computer, e osservò il caffè senza sorridere. Le lesbiche non sorridono mai. Chen le porse il bicchiere. Aveva fatto una corsa allo Starbucks più vicino e le aveva comperato il mocha più grosso che avevano. Persino le lesbiche amavano il cioccolato. Chen le rivolse un sorriso smagliante. «Per te.» «Io non te l'ho chiesto.» Chen sorrise ancora di più, per tutti e due. «So che lavorate fino a tardi. Pensavo potessi averne bisogno.» LaMolla lanciò un'altra occhiata al bicchiere come se fosse avvelenato. Una volta John le aveva chiesto di uscire e lei aveva rifiutato senza tanti
complimenti. Lesbica. Poi guardò Chen con aria altrettanto sospettosa. Non aveva neppure accennato a prendere il bicchiere. «Cosa vuoi, John?» «Sai quella sparatoria a Eagle Rock? Ho bisogno di vedere le pistole.» Mister Disinvoltura. Mister Normalità. Gli occhi di lei si strinsero fino a diventare due fessure. «Tu non ti sei occupato del caso di Eagle Rock.» «No, ma in uno dei miei vecchi casi di Inglewood è emerso qualcosa. Credo che possa esserci un collegamento.» LaMolla lo guardò con espressione ancora più dura, poi prese il caffè. Lo annusò, senza assaggiarlo, poi andò alla porta, la chiuse a chiave e vi si appoggiò con la schiena, bloccandola. John venne assalito dal dubbio, inaspettato e non del tutto spiacevole, che dopotutto lei non fosse affatto lesbica, e che forse la sua cattiva sorte stava per cambiare, e sorrise ancora di più... ... ma poi lei lasciò cadere il bicchiere in un cestino della spazzatura e incrociò le braccia sul petto. «Cosa cazzo sta succedendo?» disse LaMolla. Chen non sapeva cosa rispondere e non era neppure certo di aver capito la domanda. «Come sarebbe a dire, cosa sta succedendo?» «Eagle Rock.» Gli occhietti tondi e ravvicinati le davano un'espressione da uccello predatore. Chen era confuso e cercò di nasconderlo assumendo... be', un'aria confusa. «Giusto. Eagle Rock. Devo solo dare un'occhiata alle armi, Chris. Nient'altro.» Lei lo fissò e Chen cominciò a sentirsi in imbarazzo. Sapeva che se lei avesse continuato così, il suo tic nervoso si sarebbe scatenato con la violenza di una motosega. Scosse la testa e si sforzò di assumere un'aria innocente. «Senti, io voglio solo vedere le pistole. Cosa succede?» «È quello che vorrei sapere anch'io.» «Come sarebbe a dire che lo vuoi sapere anche tu? Cristo, me le fai vedere o no, queste pistole?» Lei scosse la testa lentamente. «Le hanno prese i federali.» Chen sbatté le palpebre. «I federali?»
«Le tre semiautomatiche e il revolver trovati a Eagle Rock. E la cosa strana è che quella sera hanno preso soltanto il revolver, una Colt Python calibro .375. Poi ieri mattina sono tornati e si sono portati via anche le semiautomatiche.» Chen vide il sogno della Porsche Carrera svanire vorticosamente nello scarico del cesso. Immagini dell'incontro mai avvenuto con Ronda gli passarono davanti agli occhi come lampi all'orizzonte. Ma, più che altro, ebbe la chiara visione di Pike che lo picchiava come un tamburo. Pike non era persona che si poteva deludere. Pike era un tipo vendicativo. «Ma quelle sono prove della polizia!» esclamò Chen. «I federali non possono venire qui e portarsi via le nostre prove! È roba nostra!» «Invece possono, se da Parker ci ordinano di dargliela.» «Parker Center li ha autorizzati?» LaMolla annuì lentamente, continuando a osservarlo coi suoi occhietti tondi. «Io so solo che Harriet ha ricevuto la telefonata e non ha voluto dirmi nulla. Avevo appena inserito le armi nel registro, quando lei mi ha comunicato che dal sesto piano era venuto l'ordine di consegnare ai federali quello che volevano...» Il sesto piano di Parker Center era il piano dei pezzi grossi. «... E noi abbiamo ubbidito. Si sono portati via le armi.» A questo punto John era in preda al delirio. La sua mente vorticava come impazzita alla ricerca di una spiegazione che potesse placare Joe Pike, quando gli venne un'idea disperata. «E i bossoli? Si sono portati via anche i bossoli?» Sulla scena dovevano essere stati raccolti anche dei bossoli che, come le pistole, potevano essere analizzati e comparati. Christine scuoteva la testa, fissandolo come se volesse guardargli dentro. «Hanno preso tutto. Anche i bossoli.» Chen si chiese perché lei lo stesse guardando in quel modo, e poi si attaccò a un ultimo brandello di speranza. «Chris... non è che per caso tu... hai conservato uno di quei bossoli, vero?» Lei fece un sospiro lento. «Ne avevo tenuti due, ma loro hanno voluto vedere l'elenco delle prove. Hanno verificato ogni elemento raccolto, e ho dovuto consegnarli. Ma sai cosa c'è di veramente strano?» Chen scosse la testa. «Si sono rifiutati di firmare una ricevuta.»
Ogni volta che delle prove venivano trasferite da un dipartimento all'altro, o consegnate a un'altra agenzia, era necessario firmare una ricevuta di presa in consegna. Era la procedura standard, che garantiva che la catena di custodia non venisse interrotta e impediva la manomissione delle prove. Evitava che potessero essere perse. O trafugate. «Ma dovevano farlo» obiettò Chen. LaMolla si limitò a fissarlo. «No, John, non dovevano. E adesso arrivi tu e mi chiedi le stesse pistole. E i bossoli. Cosa sta succedendo?» «Non lo so.» «Mmh» fece LaMolla, che chiaramente non gli credeva. Pike aveva lasciato intendere che potesse essere in atto una qualche cospirazione, ma Chen immaginava che si riferisse a qualche poliziotto corrotto. Adesso, invece, sembrava che ci fossero di mezzo i federali e pure i vertici di Parker Center, e pareva che nessuno sapesse cosa stavano facendo, o perché, anche se quello era un comportamento che nessun corpo di polizia avrebbe mai legittimamente avallato. La catena di custodia era sacrosanta, e adesso quelle prove erano sparite. John Chen cominciò ad avere paura, una paura neppure lontanamente comparabile a quella melodrammatica e isterica provata in occasioni precedenti. Nessuna Porsche Carrera giustificava una cosa del genere, nessun lavoro in televisione come consulente tecnico, e neppure la gnocca strepitosa che sarebbe venuta di conseguenza. All'improvviso John Chen si sentì in trappola, prigioniero di un incubo claustrofobico tra un maniaco omicida (Pike), il governo federale (che notoriamente pullulava di assassini) e i poteri oscuri all'interno di Parker Center (che tuttora tenevano nascosta la verità sull'assassino della Dalia Nera); tutta gente della quale non ci si poteva fidare, gente pronta a stroncare la sua vita e la sua carriera senza la minima esitazione. Chen si sentiva la bocca asciutta. Gli tremavano le mani. Il tic sotto l'occhio sinistro scoppiettò come un fuoco furioso mentre lui contemplava gli sviluppi futuri di quella situazione: LaMolla che raccontava a Harriet di lui che voleva vedere le pistole, Harriet che faceva la spia a Parker Center e lui che si ritrovava di colpo al centro di un'indagine. O peggio. Fece per dire qualcosa, ma aveva la bocca troppo asciutta. Cercò di riattivare la salivazione. «Chris, tu non... Ascoltami, tu non lo dirai... Voglio dire, non è necessa-
rio che Harriet...» LaMolla continuava a fissarlo con i suoi occhietti calmi e predatori. Allargò le braccia in un gesto che ricordava quello di Mosè che separa le acque. «Questa è la stanza delle pistole. È la mia stanza. Queste pistole sono mie. Le prove che sono qua dentro sono mie. Non mi piace che qualcuno venga qui e se le prenda. Non mi piace che tu sappia qualcosa che io non so.» Abbassò le braccia e si scostò dalla porta. «Vattene, John. E non tornare a meno che tu non abbia qualcosa da dirmi.» Chen si affrettò a uscire e scomparve lungo il corridoio. Corse direttamente alla sua auto, saltò a bordo e mise la sicura alle portiere. Accese il motore ma rimase con le mani strette in grembo, scosso e terrorizzato. Il pericolo era ovunque, come quando lui era il ragazzino smunto e sfigato preso di mira dai compagni. Il pericolo era ovunque e il colpo fatale poteva arrivare da qualsiasi direzione. Proprio come quando era bambino e se ne andava per la sua strada, o verso il suo armadietto o magari attraversava il parcheggio e qualcuno gli tirava addosso una zolla di terra. Così, dal nulla, senza motivo, bang, in pieno sulla testa, senza che lui la vedesse arrivare. Ma arrivava sempre. Sempre. Chen prese il cellulare dalla tasca. Il tremito alle mani rendeva difficile far scorrere i numeri in memoria, ma Pike gli aveva detto di chiamare Elvis quando avesse avuto qualche notizia. Quasi certamente Pike se la sarebbe presa con lui perché le armi erano scomparse. Avrebbe potuto persino pensare che si fosse inventato tutto e perdere la testa. Ma Cole era amico di Pike. Chen nutriva la vaga speranza che Cole potesse convincerlo a non ucciderlo. Era la sua unica possibilità. L'unica speranza. Lo sapevano tutti che Joe Pike era un mostro. 18 Nella quiete della notte, un bagliore violaceo proveniente dal Dodger Stadium avvolgeva i crinali. Pike stava tornando alla casa di Echo Park. L'aria era più calda della sera precedente, ma intorno alla BMW sotto il lampione erano radunati gli stessi cinque ragazzi, le famiglie erano sedute fuori nelle verande ad ascoltare Vin Scully che commentava un gioco di cui molti di loro non avevano mai sentito parlare fino a pochi anni prima.
Della Sting Ray di Cole nessuna traccia: doveva averla lasciata su una strada vicina. La casa era soltanto una sagoma scura contro la notte ancora più scura, illuminata soltanto dal lampione e dai rettangoli color ocra delle finestre. Pike parcheggiò nel vialetto e attraversò il giardino diretto verso la veranda. I cinque giovani si voltarono a guardarlo, ma non in maniera minacciosa. La sporgenza del tetto bloccava la luce del lampione e la veranda era buia come una caverna. Come Pike arrivò all'ingresso, Cole aprì la porta e gli andò incontro. In quel momento Pike sentì odore di menta e di curry e si chiese come mai Cole fosse uscito. «Com'è andata?» chiese Cole a voce bassa per non farsi sentire dagli uomini in strada. Pike descrisse i due che avevano perquisito la sua casa e gli consegnò le foto. Cole socchiuse appena la porta per guardarle alla luce, e subito la richiuse. Questa volta Pike intravide la ragazza, in piedi in cucina, sul retro della casa. Aveva un iPod. Eppure l'aveva costretta a sbarazzarsene quando erano nel deserto. «Dove ha preso l'iPod?» «È mio. Ho cucinato thailandese, se hai fame. Noi abbiamo già mangiato.» Pike mise via le foto. Un piatto thailandese era quello che ci voleva. Cole, però, si allontanò ulteriormente dalla porta e abbassò ancora di più la voce. «Mi ha chiamato John Chen, questa sera. Gli hai parlato?» «Non lo sento da ieri.» Cole si voltò a guardare la porta, quasi sospettasse che la ragazza fosse lì dietro a origliare. «I federali hanno confiscato tutte le prove di Eagle Rock. Pistole, bossoli, tutto.» «Pitman?» «Chen sa solo che erano federali.» «È riuscito ad analizzare le pistole prima che le portassero via?» «Hanno agito troppo in fretta. Ma la cosa davvero strana è che si sono portati via tutto senza firmare nulla. Pare che da Parker abbiano chiamato il laboratorio ordinando di lasciare che prendessero tutto, senza fare domande.» Pike inarcò le sopracciglia. «Senza fare domande.»
«I detective della Omicidi non si fanno scavalcare solo perché Pitman è un federale, non con cinque cadaveri all'obitorio. Qualcuno deve avergli puntato una pistola alla tempia. E non per modo di dire.» Anche Pike lo pensava. Pitman aveva usato tutta la sua influenza per farsi consegnare delle prove che potevano anche non portare a nulla. Era più logico lasciare che la polizia effettuasse i test sulle pistole e, se non fosse emerso nulla, queste avrebbero perso ogni interesse. Se invece la polizia avesse scoperto qualcosa, Pitman poteva comunque utilizzare i risultati. Confiscare le armi era servito solo ad attirare l'attenzione della polizia su un'indagine che Pitman voleva tenere segreta. «Ha paura» disse Pike. «Già. L'unico motivo per prenderle è che non vuole la polizia intorno a questo caso. Oppure deve nascondere qualcosa di più grosso di questa indagine sui King.» «Tipo?» «Non lo so. Ma so che ha mentito.» Pike cercò di decifrare l'espressione di Cole. Nonostante l'oscurità, si capiva che era preoccupato. «Strano che Pitman abbia restituito la mia pistola.» «Stava cercando di comprarti. E poi la tua pistola non può nuocergli. Può nuocere soltanto a te. Probabilmente l'ha fatta analizzare prima di restituirla, così potrà collegarla ai cadaveri, caso mai avesse bisogno di ricattarti.» «Ricattarmi per cosa?» Cole si voltò di nuovo verso la porta, poi si avvicinò ancora di più a Pike. «Non è stato sincero con la ragazza né con suo padre. Ricordi cosa le hanno detto? Che non sapevano che Meesh fosse l'uomo fuggito dal luogo dell'incidente prima che lei lo identificasse?» Pike annuì. Era quello che gli avevano riferito sia Bud sia Larkin. «Quella mattina, prima di incontrarla» proseguì Cole «avevano già perlustrato la zona per interrogare eventuali testimoni. E non chiedevano solo dei King. Chiedevano anche di Meesh. Non hanno fatto il suo nome, ma sapevano o sospettavano già che il terzo passeggero della Mercedes fosse Meesh.» Pike lanciò un'occhiata agli uomini radunati sotto il lampione. Ascoltò le loro voci e si rese conto che Cole era uscito per poter parlare senza farsi sentire dalla ragazza.
«Come fai a saperlo?» «Me l'hanno detto almeno in cinque o sei, oggi. Hanno raccontato di essere stati interrogati da due agenti del dipartimento di Giustizia, uno bianco e uno di colore, che mostravano in giro foto di due uomini. Ho chiesto loro di descriverli, e sono quasi sicuro che uno fosse King e l'altro Meesh.» «Pitman e Blanchette hanno fatto questo prima di parlare con la ragazza?» «Sì. Non ero sicuro della tempistica finché non mi sono messo a studiare gli appunti, questa sera. Adesso non ho più dubbi: sapevano che Meesh era con King, e conoscevano già la sua identità prima che lei lo identificasse.» Pike inspirò a fondo, chiedendosi perché Pitman e Blanchette avevano ingannato la ragazza. Lei era importante, certo, ma se Pitman e Blanchette sapevano già che Meesh era con i King quella notte, forse non era la loro unica teste. Forse l'altro testimone era stato ucciso. A Pike la cosa non piaceva, ma questo non cambiava la sua missione. Trovare Meesh. Eliminare la minaccia. Proteggere la ragazza. Si sarebbe occupato di Pitman e Blanchette in seguito. Fece un cenno con il capo in direzione della porta. «Lei lo sa?» «È già abbastanza terrorizzata così senza doversi preoccupare anche della polizia. Perlomeno finché non scopriamo perché Pitman ha mentito.» «Bene. Domani torniamo là. Speravo di trovare tracce di Meesh, ma forse quelle lasciate da Pitman sono più importanti.» «Non sarà felice. Non le è piaciuto quando te ne sei andato.» Pike si voltò verso la casa, domandandosi se la ragazza fosse ancora in cucina. Si chiese cosa stesse ascoltando sull'iPod di Cole. «Le hai detto dell'Africa» proseguì Cole. Pike si voltò verso Cole e vide che stava sorridendo. «Se proprio decidi di raccontare a qualcuno dell'Africa, parlagli di zebre e leoni. Non di donne che si mozzano le dita.» Pike decise di non fare parola dell'offerta della ragazza di masturbarsi. Lo trovava imbarazzante. Non tanto per sé, quanto per lei. «Quella roba manda un buon odore» disse. «È curry?» Cole sorrise di nuovo ed entrarono in casa. La ragazza era allungata sul divano con gli auricolari infilati. Aveva gli occhi chiusi, ma sentendoli entrare alzò la testa. «Come va?» chiese Pike. Lei non si alzò, e non gli rispose. Si limitò a una specie di saluto con la
mano, quindi richiuse gli occhi e tornò alla sua musica. I piedi si muovevano a tempo. Pike immaginò che fosse ancora arrabbiata con lui. Quando Cole se ne andò, qualche minuto dopo, Pike entrò in cucina. C'era del riso con verdure al curry. Mangiò direttamente dalla padella, in piedi, in mezzo alla cucina, senza curarsi di riscaldarlo. Quando ebbe finito, bevve un bicchiere di vino di prugne, seguito quasi da un'intera bottiglia d'acqua. Fu in quel momento che la ragazza arrivò sulla soglia. «Io vado a letto» annunciò. Pike annuì. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma stava ancora riflettendo sul motivo per cui Pitman aveva messo la ragazza in quella posizione. Meesh era un assassino, ma le accuse contro di lui sarebbero state portate avanti a livello locale, in Colorado. Per Pitman Meesh era soltanto un mezzo per incastrare i King. Il suo obiettivo erano i coniugi King, l'accusa di riciclaggio di denaro sporco. Carta. Aveva messo a repentaglio la vita della ragazza per dei pezzi di carta, e convinto la polizia di Los Angeles ad aiutarlo. Pitman era parecchio influente per essere un agente federale di medio livello impegnato in un caso di riciclaggio. Pike si chiese se Bud fosse a conoscenza di questo. La ragazza si voltò senza dire altro, entrò in camera sua e chiuse la porta. Pike finì l'acqua e andò in bagno. Si rasò, si lavò i denti con molta cura, quindi fece una doccia. Portò con sé nella cabina gli abiti indossati durante il giorno, li lavò con il sapone e li sciacquò sotto il getto d'acqua. Poi li strizzò meglio che poté, li appese e si mise dei vestiti puliti. Lavò anche gli occhiali da sole, li indossò e si guardò allo specchio. I capelli stavano crescendo: erano lunghi quasi due centimetri sulla sommità, e sui lati gli sfioravano le orecchie. A lui piacevano corti. Presto avrebbe dovuto tagliarli. Il senso di vuoto trasmesso dalla casa diventò ancora più grande nel silenzio assoluto. Pike controllò porte e finestre, spense le luci e si sistemò in poltrona. Rimase lì per un po', al buio, poi si trasferì sul divano. Posò la pistola per terra in modo che fosse a portata di mano, quindi si sdraiò e chiuse gli occhi. Il divano conservava ancora il calore e l'impronta del corpo di lei. Larkin Furono i Jethro Tull a svegliarla. Emerse dal sogno quando il leone scomparve nell'erba secca, e si tolse gli auricolari pensando che non c'era
da meravigliarsi che negli anni Sessanta fossero tutti costantemente drogati, con i complessi che cantavano solo di guerre e malattie. Poi, però, più addormentata che sveglia, rivide il leone, la testa coperta di cicatrici che spuntava tra l'erba, il muso imbrattato di sangue, i muscoli delle spalle che guizzavano negli ultimi incerti momenti del sogno, prima che questo svanisse del tutto. Larkin rimase sdraiata al buio, in una specie di dormiveglia, finché non si rese conto che aveva sete e doveva far pipì. La casa era buia, e lei immaginò che Pike stesse dormendo o si trovasse in piedi immobile da qualche parte, con quel suo modo di fare inquietante, e così andò direttamente in bagno. Chiuse la porta prima di accendere la luce. Vide i vestiti di lui appesi ad asciugare al bastone della tenda, ma non vi badò. Fece pipì, poi bevve dal rubinetto, usando la mano. Quando ebbe finito, spense la luce e aprì la porta. Fu allora che lo udì. Dal soggiorno proveniva un borbottio sommesso ma agitato e un convulso fruscio di tessuto contro tessuto. Rimase lì, in ascolto, mentre i suoi occhi si adattavano all'oscurità, poi si avvicinò. Lui era sul divano. Dormiva, ma il suo corpo era teso, le braccia rigide lungo i fianchi, mentre tremava e scalciava. Nonostante la luce scarsa, lei vide il sudore che gli imperlava il volto, mentre la testa girava da una parte all'altra e dai denti usciva quel borbottio. Sognava, pensò. Oh, mio Dio. Era in preda a un incubo. Si chiese se fosse il caso di svegliarlo. Non ricordava più cosa si doveva fare quando la gente aveva gli incubi. Forse svegliarlo sarebbe stato peggio. Larkin si avvicinò, cercando di decidere. Pike muoveva le gambe a scatti come se stesse correndo, in quel modo impacciato tipico di quando si è intrappolati in un sogno. Le mani si aprivano e si chiudevano spasmodicamente, si agitavano e sbattevano, gli occhi roteavano frenetici sotto le palpebre. Larkin pensò che doveva trattarsi di un incubo dei peggiori. Sembrava che lui stesse lottando per salvarsi la vita. Poi disse qualcosa. Lei non riuscì a capire, ma era sicura che tra i grugniti e i gemiti avesse detto qualcosa. Pa... Qualcosa come pa... o po... Gli si avvicinò per capire cosa stesse dicendo, ma sentì solo dei borbottii incomprensibili. Poi, poco a poco, Pike si calmò. I movimenti convulsi rallentarono. Le
mani si rilassarono, la testa smise di sbattere di qua e di là. Larkin gli era vicinissima quando lui borbottò di nuovo. Pa... pa... Sembrava avesse detto "papà". Larkin attese, credendo che avrebbe detto qualcos'altro, ma lui si calmò. Probabilmente si era sbagliata, pensò, la gente mormorava ogni genere di stupidaggini quando sognava. Era possibile che un uomo come lui avesse degli incubi, ma non a proposito di suo padre. Era difficile immaginare anche solo che fosse stato bambino. Lo osservò. Adesso era calmo, il respiro era tornato regolare, ma l'espressione restava sofferente. No, pensò, non sofferente. Spaventata. Aveva avuto un incubo. Persino quelli come lui potevano avere paura durante un incubo. Avrebbe voluto toccarlo, allungare una mano come a volte verrebbe spontaneo fare allo zoo, attraverso le sbarre, per toccare gli animali feroci. Larkin rimase accanto a lui ancora qualche istante, poi tornò nella sua stanza. Terzo giorno SICARI 19 La mattina seguente Pike stava pulendo la pistola seduto al tavolo in soggiorno quando la ragazza uscì dalla camera. Erano le otto e dieci. Pike era alzato da tre ore. La ragazza aveva la stessa aria slavata e gli occhi gonfi di ogni mattina, ma quel giorno, se non altro, non era nuda. Indossava una T-shirt di parecchie taglie troppo grande che le arrivava alle cosce. «Che puzza!» esclamò, arricciando il naso. «Si sente fin dalla camera. Ti manda su di giri respirare quella roba?» Pike aveva smontato la pistola fino all'ultimo pezzo. Canna, boccola, tappo di ritegno della molla di recupero, molla di rinculo e guidamolla, blocco del carrello, carrello, telaio e caricatore erano posati su un sacchetto di carta proveniente dal negozio thailandese. Stava pulendo la canna con un solvente che emanava un fortissimo odore di pesche troppo mature. A Larkin non piaceva. Si era lamentata fin dalla prima sera che avevano passato insieme, quando Pike aveva pulito la pistola, e da allora ogni altra vol-
ta. Pike puliva la pistola tutti i giorni. «C'è del caffè» disse lui. Il suo cellulare era posato sul tavolo. Aspettava la chiamata di Cole per incontrarsi a casa della ragazza. Aveva anche deciso di chiamare Bud. Voleva metterlo al corrente di Pitman, nella speranza che lui riuscisse a scoprire cosa aveva fatto con le pistole. Bud aveva ancora contatti con il dipartimento. Persino a Parker Center. «La notte scorsa hai sognato» disse Larkin. «Hai avuto un incubo.» «Non ricordo.» «Doveva essere brutto. Non sapevo se svegliarti o no.» «Non ti preoccupare.» Pike non ricordava mai i suoi sogni. Quando si svegliava, però, non riusciva più a prendere sonno. «Voglio essere sicuro di aver capito bene una cosa» disse. «Torniamo all'inizio...» Lei alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia. «Ancora! Odio l'inizio. Non che quello che è successo dopo sia molto meglio...» «Quanti giorni erano passati dall'incidente quando Pitman e Blanchette sono venuti a parlare con te?» «Tre.» «Non il giorno seguente o quello dopo?» «Ma non ne abbiamo già parlato?» «Ci sono tante cose da tenere a mente.» «Sai quanto ci vuole per trovare un momento libero nell'agenda di mio padre? E del suo avvocato? Non è che ci si può presentare a casa nostra così, senza preavviso. La gente non fa un salto da noi... deve prima prendere un appuntamento. Era tre giorni dopo.» Pike finì di pulire la canna e passò al castello. Il solvente nella canna avrebbe sciolto i residui di polvere da sparo mentre lui si dedicava alle altre parti. «Già. E così sono venuti a farvi visita e ti hanno chiesto del passeggero a bordo dell'auto di King?» «Sì. Dell'incidente, di quello che era successo dopo e tutto il resto. Volevano sapere chi c'era in macchina coi King. Per le loro indagini.» «Non sapevano che si trattava di Meesh?» «Sapevano solo quello che c'era scritto sul verbale dell'incidente. Volevano identificare l'altro uomo. Gesù, ancora non ho neppure bevuto il caf-
fè.» «Ho intenzione di tornare dalle parti di casa tua per parlare con alcune persone che ha trovato Elvis. Poi devo vedere Bud.» La ragazza non disse nulla. Rimase in silenzio per un momento, come se stesse pensando, poi andò in cucina. Pike finì di pulire il castello. Inzuppò il tampone di solvente pulito e si dedicò al carrello, facendo penetrare il liquido in ogni incavo, in ogni solco, e spargendolo abbondantemente sul lato dell'otturatore. La ragazza tornò con una tazza di caffè e si sedette al tavolo di fronte a lui. Quando Pike alzò lo sguardo, vide che lei lo stava osservando. Aveva un'espressione seria. «Ti va di aiutarmi?» chiese Pike. «Odio le pistole.» Pike eliminò il solvente in eccesso dal carrello, quindi tornò a dedicarsi alla canna. Fece scorrere uno scovolino di ottone dalla bocca fino alla camera di scoppio, e poi nella direzione opposta. Ripeté l'operazione con un tampone di cotone pulito imbevuto in altro solvente. «Dobbiamo parlare» disse la ragazza. «Okay.» «Non mi è piaciuto come mi hai mollato ieri. Se mi avessi informato di quello che avevi intenzione di fare non sarebbe stato un problema, ma tu non mi hai detto niente. Tu non mi parli. D'accordo, lo so che sei un tipo di poche parole. Questo l'ho capito. Elvis dice che a malapena parli con lui. Ma io sono una persona adulta. Questa gente sta cercando di uccidere me. Non ho bisogno di un baby-sitter e non mi piace essere trattata come una bambina. È una questione di fiducia. Quello che sto cercando di dire è che tra noi deve esserci fiducia. Siamo in questo schifo di casa: o è sicura o non lo è. Se pensi che non lo sia, andiamo in qualche altro posto. Io ho proposto Parigi, ma no, tu vuoi stare a Echo Park. E va bene. Siamo qui da due giorni e non mi hanno ancora trovato, quindi suppongo sia sicura. Okay, benissimo. Ma a me non va, e non mi piace passare tutta la giornata in macchina solo perché tu pensi che io sia stupida. Mi offende. Io non voglio vedere Bud, e non voglio starmene seduta in auto mentre tu ed Elvis parlate con la gente. Mi annoio, e sono stufa. Preferisco stare qui e posso starci da sola.» Pike posò la canna della pistola e la guardò. «Sì.» «Sì, nel senso che posso stare qui?» «Ho detto che io devo vedere Bud. Non ho detto noi. Scusami per ieri.
Avrei dovuto essere più attento.» La ragazza aprì la bocca per dire qualcosa, poi ci ripensò. Sorseggiò il caffè tenendo la tazza con entrambe le mani. Pike inserì la canna nel carrello, fece scivolare il guidamolla al suo posto sotto la canna e vi infilò la molla di recupero. In pochi secondi rimontò la pistola. Era in grado di smontarla e rimontarla anche bendato, al buio, in piedi, esausto per la mancanza di sonno, e sotto il fuoco nemico. Montare la pistola era facile. Il difficile era parlare con la ragazza. «Okay. Grazie. Va bene» disse lei, alla fine. «Bene.» Il cellulare prese a vibrare producendo un forte ronzio sul tavolo. Pike lesse il numero sul display, pensando fosse Cole, ma non era lui. Si portò il telefono all'orecchio. «Hai compagnia» disse Ronnie. La ragazza lo osservava, ma lui rimase impassibile. Erano decisi a prenderlo, proprio come lui era deciso a prendere loro. E come lui era costretto a tornare a casa della ragazza per trovare le loro tracce, allo stesso modo loro non avevano altra scelta che tornare nel suo appartamento. Gli animali bisogna andare a cercarli nella loro tana. «Quanti?» disse Pike. «Uno solo, questa volta. Non so se è quello di cui mi hai parlato, ma potrebbe. Sotto il metro e ottanta, direi, capelli scuri e piuttosto lunghi.» «Dov'è?» «In casa. È appena entrato, tranquillo come se fosse il proprietario. Vuoi che vada a presentarmi?» Pike guardò la ragazza. Lo stava ancora osservando. Se avesse capito cosa aveva intenzione di fare si sarebbe preoccupata e avrebbe cominciato a fare domande, e per quel giorno lui aveva esaurito la sua risorsa di loquacità. «No. Verrò io a scambiare due parole. Arrivo subito. Se se ne va, il mio numero ce l'hai.» «Okay.» Pike posò il telefono, inserì il caricatore nella pistola, quindi tirò il carrello e mise la sicura. Se avesse potuto dirsi felice, quello era il momento, ma non lo diede a vedere. Li aveva beccati. Aveva un collegamento che poteva portarlo a Meesh. Avrebbe potuto fare piazza pulita. Tutti quei bastardi che cercavano di ammazzare Larkin, tutti coalizzati contro di lei, contro una ragazza... Lui avrebbe fatto piazza pulita, ma non per giustizia.
Sarebbe stata una punizione. La punizione era di per sé una forma di giustizia. «Allora, cosa farai mentre io non ci sono?» le chiese. «Chi era?» «Ronnie. Ha trovato una persona che potrebbe aiutarci e così vado a parlargli. Te la senti di restare qui?» «Uh-uh.» Pike si alzò, si mise il cellulare in tasca, infilò la Kimber nella fondina e l'assicurò alla cintura, quindi indossò la camicia con le maniche lunghe per nascondere tatuaggi e pistola. «Vuoi che mi fermi a prendere qualcosa?» «Magari un po' di frutta.» «Che tipo?» «Fragole. Qualche banana.» «Ci vorrà un po'. Sei sicura che te la senti?» Lei continuava a fissarlo. Pike sperava che ci stesse ripensando e cambiasse idea. «Quanto starai via?» chiese lei. «Forse anche tutto il giorno. Posso chiedere a Elvis di venire qui.» «No, non è il caso.» «Sicura?» «Sì.» «Okay. Allora ci vediamo più tardi.» Pike era deluso, ma non lo diede a vedere. Era in dubbio sul fatto di lasciarla sola, ma si era convinto che proteggerla non significava soltanto fare in modo che restasse viva. Non voleva che si sentisse nuovamente abbandonata. Se era fiducia quella di cui aveva bisogno, lui era deciso a dargliela. Una decisione di cui si sarebbe pentito. 20 Pike si diresse a sud verso la Santa Monica Freeway nel traffico lento del mattino, senza affrettarsi. Se l'uomo che si trovava a casa sua se ne fosse andato, Ronnie lo avrebbe seguito. Durante il tragitto telefonò a Cole per metterlo al corrente. Lui gli chiese se avesse bisogno di aiuto, ma Pike rifiutò, dicendo che sarebbe stato più utile che lui si occupasse di Pitman come previsto. Era ancora intenzionato a parlare con Bud, ma nelle prossime ore tutto poteva cambiare e decise di aspettare. Raccontò a Cole della
ragazza. «Vuoi che la tenga d'occhio?» «Tenerla d'occhio no, ma mi farebbe piacere se facessi un salto da lei.» «Starò attento. Non se ne accorgerà neppure.» «Sì, ma lei non vuole. Non so quanto starò via. È sufficiente una visita. Non è necessario che ti fermi.» «Allora andrò da lei più tardi. Le porterò qualcosa da mangiare.» «Fragole.» «Come?» «Vuole delle fragole. E delle banane.» «D'accordo.» «Accertati che stia bene e fammi sapere.» «Sei preoccupato?» «Sto solo facendo il mio lavoro.» «Va bene.» «Se lei vuole che tu resti, puoi restare.» Cole scoppiò a ridere, e Pike riattaccò. Pike non aveva più sentito Ronnie e quando uscì dall'autostrada lo chiamò. «Sono a cinque minuti da lì. È ancora in casa?» «No. È rimasto dentro solo pochi minuti. Adesso è nascosto tra i cespugli. Scommetto che quel figlio di puttana è entrato solo per andare in bagno.» «È solo?» «Sì.» «Dov'è?» «Sai quei due cassonetti della spazzatura in fondo al parcheggio? È nascosto lì in mezzo, dietro i cespugli. Riesce a vedere la tua porta d'ingresso. Sarà lì da venti minuti.» «Che macchina ha?» «Non ne ho idea. È arrivato a piedi lungo il viale principale, quindi probabilmente l'ha lasciata fuori dal cancello, ma è solo un'ipotesi. È anche possibile che qualcuno lo abbia accompagnato.» Pike rifletté su quelle informazioni, svoltando verso il condominio. Visto che l'uomo si era appostato vicino al suo appartamento, lui poteva entrare dal cancello principale e parcheggiare all'interno del complesso. Questo gli avrebbe garantito un accesso più veloce all'auto, cosa che poteva rivelarsi importante.
«Com'è vestito?» «Camicia a righine verdi a maniche corte, fuori dai pantaloni. E jeans.» «Puoi lasciare la tua posizione senza essere visto?» «Nessun problema.» «Ti chiamo quando sono lì.» Pike entrò dal cancello principale, ma si diresse verso il parcheggio riservato al gruppo di case vicino al suo. Parcheggiò la Lexus senza preoccuparsi di nasconderla e si avviò. Sapeva esattamente dove si trovava l'uomo e cosa poteva vedere da lì. Arrivato all'ultimo gruppo di case prima del suo si infilò dietro un albero di frangipani e ancora una volta scomparve nella vegetazione. Tenendosi rasente al muro arrivò fino in fondo all'edificio e svoltò l'angolo. Il parcheggio che utilizzava normalmente si trovava proprio di fronte a lui. Osservò la fitta cortina di cespugli di oleandri dietro i cassonetti. L'uomo doveva avere un campo visivo piuttosto limitato, ma aveva scelto un buon posto per nascondersi: Pike non riusciva a vederlo dietro il fogliame. Cambiò posto per ben due volte prima di trovare un'angolazione che facesse al caso suo. Continuava a non vedere l'uomo, ma era convinto che quella posizione andasse bene. Pike sorvegliò gli oleandri per una ventina di minuti, poi, finalmente vide una striscia di luce muoversi dietro le foglie. Pike chiamò Ronnie. «Trovato» disse, coprendo il telefono con una mano. «Ringrazia Denny da parte mia. E grazie anche a te.» «Lo prendiamo?» Ronnie viveva per queste cose, ma in quel caso Pike non lo voleva tra i piedi. Se avesse avuto bisogno glielo avrebbe chiesto, ma era molto meglio per lui se si teneva alla larga. «Ci vediamo, Ron.» Pike mise via il telefono. Non vide Ronnie allontanarsi, ma la cosa non lo sorprese. Si sedette sul terreno duro senza più muoversi, e rimase a osservare il gioco di luce e colore sulle foglie cangianti degli oleandri, un patchwork di verde pallido tendente al grigio, sbiadito dal sole; tra queste si intravedevano foglie più scure e sotto ancora le sagome allungate dei rami. Chiaro, scuro, più scuro, e il verde interno ancora più scuro punteggiato di luce, finché, alla fine, un'ombra si mosse tra le ombre scoprendo un barlume di verde che non si accordava con le tonalità circostanti; prima un accenno d'ombra, poi un'altra sfumatura di verde, finché Pike intravide un motivo dentro il motivo delle foglie e l'uomo dentro il fogliame. Un ramo si mosse appena, segno che era irrequieto e annoiato. Un attimo dopo si
mosse un altro ramo. Probabilmente l'uomo era infastidito dalla lunga permanenza tra i cespugli e poco disposto a sacrificare la comodità per restare immobile. Pike interpretò quella mancanza di autocontrollo come un segno di debolezza. Avrebbe potuto ucciderlo in quel momento, o catturarlo, ma in quelle case vivevano persone innocenti, quindi decise di attendere. Quaranta minuti prima che l'uomo lasciasse il nascondiglio, Pike capì che sarebbe successo. L'uomo si sgranchiva e si agitava sempre più spesso, facendo tremare il cespuglio. La sua mancanza di disciplina era spaventosa. Tre ore e dodici minuti dopo che Pike aveva preso posizione, l'uomo si alzò da terra, restando chinato, sbirciò tra i rami per accertarsi che nessuno stesse guardando e uscì rannicchiato da dietro i cassonetti. Si tolse la polvere di dosso, attraversò il parcheggio, poi svoltò verso il cancello principale. Mentre si allontanava prese un cellulare dalla tasca, ma Pike non riuscì a capire se stesse facendo una telefonata o la stesse ricevendo. Forse non era stata una sua decisione quella di abbandonare l'impresa; forse era stato qualcuno a ordinarglielo. Pike emerse dal suo nascondiglio e corse alla macchina. Uscì velocemente dal cancello sul retro, girò intorno al complesso diretto all'ingresso principale. Si fermò due isolati prima del cancello, proprio mentre l'uomo con la camicia a righe verdi usciva dal cancelletto per i pedoni. Per entrare era necessaria una tessera magnetica, ma non per uscire. Adesso l'uomo indossava un paio di occhiali da sole, ma Pike era sicuro di non averlo mai visto. Era scuro, con spalle robuste e un volto magro, quasi certamente sudamericano. Quando si muoveva la camicia gli tirava sul dietro, rivelando la presenza di una pistola infilata in vita. Arrivato all'altezza di una polverosa Toyota Corolla marrone scuro si fermò. Poco dopo, l'auto partì. Pike giudicò che fosse un modello dei primi anni Novanta, con pneumatici scompagnati e il cofano butterato di ruggine. Prese nota del numero di targa e si tenne a tre o quattro auto di distanza, avvicinandosi solo quando la Corolla lo lasciò indietro a un incrocio e il traffico cominciò a rallentare. Imboccarono la I-10 all'altezza della Centinela e uscirono alla Fairfax. La Corolla si fermò a fare rifornimento, poi proseguì verso nord, attraversando la città senza fretta. Arrivati al Santa Monica Boulevard, l'auto svoltò verso ovest, costeggiando West Hollywood e Hollywood per poi inoltrarsi in una zona sordida, popolata di negozi di video porno, locali di spo-
gliarello e ambulatori che fornivano assistenza medica gratuita. La Corolla si infilò nel parcheggio del Tropical Shores Motor Hotel, un edificio a due piani. Dal tetto spuntava un'insegna a forma di palma, con delle frecce puntate in basso verso la scritta CAMERE LIBERE. La palma e le frecce erano realizzate con tubi al neon, sbiaditi e rotti, probabilmente da anni. Un piccolo cartello nella vetrina dell'ufficio diceva DISPONIBILI TARIFFE ORARIE. Pike lasciò l'auto in divieto di sosta e tornò indietro di corsa verso il vialetto. La pianta del motel era a forma di L, con una scala nel punto in cui si univano le due ali della costruzione. Il parcheggio interno era deserto, a parte la Corolla, altre due auto e una bicicletta da corsa verde assicurata a un palo con una catena. Condizionatori d'aria singoli spuntavano dalle stanze come bubboni, ma erano quasi tutti spenti. Pike arrivò all'altezza dell'ufficio proprio mentre l'uomo con la camicia a righe verdi scendeva dall'auto. Cercò di vedere se ci fosse qualcuno nell'ufficio, ma la vetrata era troppo incrostata di sporco. La porta dell'ufficio, chiusa, dava sul parcheggio e il condizionatore ronzava rumorosamente. L'uomo con la camicia a righe verdi non si preoccupò di chiudere a chiave la macchina. Andò a un distributore di bibite accostato alla parete, acquistò una soda e andò verso una stanza al piano terra. Si fermò davanti alla porta per cercare la chiave, dando le spalle al parcheggio. Pike gli si avvicinò da dietro, spostandosi leggermente a destra e a sinistra per restare nell'angolo cieco, muovendosi con grande rapidità. Vide la chiave entrare nella toppa, la porta aprirsi... Mise il braccio sinistro sotto il mento dell'uomo e tirò verso l'alto, poi gli chiuse il braccio intorno alla gola e strinse con tutte le forze. Estrasse la Kimber e spinse l'uomo all'interno, usandolo come scudo. Pike si aspettava compagnia, ma l'ambiente era vuoto. Una stanza e un bagno. Chiuse la porta con un calcio, sempre tenendo stretto l'uomo. Dalle tende aperte Pike vide che il parcheggio era ancora deserto, e dall'ufficio non era uscito nessuno. L'uomo scalciò e si divincolò, ma lui lo tenne sollevato con un ginocchio, facendogli perdere l'equilibrio. L'uomo prese a menare colpi all'indietro, cercando di afferrare il braccio di Pike, e dalla sua gola uscì un gorgoglio. Era un uomo forte, in ottima forma. Le sue unghie gli lacerarono la pelle. Pike fece scivolare il braccio destro dietro il collo dell'uomo, spingendo
finché la gola non venne a trovarsi nell'incavo dell'altro. Strinse e spinse, senza mollare. A poco a poco l'uomo smise di divincolarsi e scalciare, poi si afflosciò. 21 La presa di strangolamento interrompeva l'afflusso di sangue al cervello e la vittima perdeva i sensi come un computer con la batteria scarica. Era un metodo efficace per neutralizzare un avversario, ma c'era il rischio che non si risvegliasse più. Seduto sul bordo del letto, Pike si mise in attesa. L'uomo non restò privo di sensi a lungo. Sbatté le palpebre e sollevò la testa. Aveva l'espressione di un pugile suonato ma, quando si rese conto che non poteva muoversi, si irrigidì. Pike lo aveva legato a una sedia con una striscia di lenzuolo, bloccandogli caviglie, cosce, torace e braccia. Pike si trovava in piedi di fronte a lui, a pochi centimetri di distanza, e stringeva una vecchia Browning 9 millimetri. L'aveva trovata addosso all'uomo, insieme a un cellulare, le chiavi della macchina e della stanza, dodici dollari e sessanta centesimi, un pacchetto di Marlboro, un accendino e un orologio Seiko. Non aveva portafoglio, né carte di credito, né documenti. Pike osservò gli occhi dell'uomo, preoccupati ma fieri. Aveva un viso largo e spigoloso, con piccole cicatrici vicino alle sopracciglia e sulla sella del naso. «Sai chi sono?» disse Pike. L'uomo lanciò uno sguardo verso la porta, forse sperando che qualcuno venisse in suo aiuto. «Sai chi sono?» ripeté Pike. L'uomo rispose in spagnolo, mandandolo a farsi fottere. La Browning si mosse di scatto e lo colpì alla testa. Pike agì con tale rapidità che l'uomo non capì quello che stava succedendo finché la sua guancia non si lacerò e il sangue prese a colargli sulla camicia. Pike voleva che restasse lucido. Quando gli occhi dell'uomo tornarono a mettere a fuoco, Pike allungò la mano sinistra. Questa volta si mosse lentamente, come se volesse fargli una carezza. Invece premette il pollice sul nervo nel punto di collegamento tra la mandibola e l'arco zigomatico. L'uomo cercò di sfuggirgli, ma era bloccato contro la sedia. Pike mantenne la pressione a lungo. Quando sollevò il pollice, l'uomo boccheggiò come se fosse rimasto
sott'acqua. Prese a muovere la mascella, guardando Pike con espressione omicida. Pike rimase impassibile. «Lo rifarò» disse. Si infilò la Browning in tasca e andò alla finestra. La stanza era piccola e squallida, con due letti matrimoniali sistemati di fronte a un cassettone e una scrivania, e una poltroncina sgangherata vicina alla finestra. Pike aveva tirato le tende, ma erano di quel tessuto leggero attraverso cui è possibile vedere. Un uomo dal ventre sporgente, probabilmente il gestore del motel, stava fumando fuori dall'ufficio. Aveva lasciato la porta aperta, probabilmente per poter sentire se squillava il telefono. Pike aveva già perquisito la Corolla. Adesso perquisì la stanza. I cassetti del comò e della scrivania erano vuoti, ma nell'armadio Pike trovò due borsoni di tela, una sacca da ginnastica di nylon blu con il logo della Nike e uno zaino nero. Ognuno di essi conteneva abiti da uomo, sigarette e articoli per l'igiene personale. In una tasca dello zaino Pike trovò una busta con dentro duemilaseicento dollari, una pagina strappata da un block-notes con appunti scritti a mano e una fotografia di Larkin Conner Barkley. Non era stata ritagliata da una rivista: era una stampa originale, un primo piano del viso, che la mostrava sorridente. Nascosti tra gli indumenti c'erano passaporti americani e biglietti aerei andata e ritorno tra Quito, Ecuador, e Los Angeles. Su uno dei passaporti c'era la foto dell'uomo adesso legato alla sedia. Si chiamava Rulón Martinez, ma Pike dubitava che fosse il suo vero nome. Pike riconobbe due degli altri uomini, ma non il terzo. I primi facevano parte del gruppo che aveva fatto irruzione a casa dei Barkley. Uno era quello con la cicatrice sul labbro che aveva picchiato la governante. Il passaporto lo identificava come Jesus Leone. L'altro si chiamava Walter Bloch. Pike lo trovò strano. Un nome tedesco. Il quarto uomo, quello che Pike non aveva mai visto, si chiamava Ramon Alteiri. Tutti e quattro risultavano essere cittadini americani residenti a Los Angeles. Pike studiò i passaporti. Se erano falsi, erano di ottima qualità. Lo zaino nero apparteneva all'uomo con la cicatrice. Pike lo rovesciò, facendo cadere il contenuto, e vi mise dentro passaporti, biglietti, la Browning e le altre cose che voleva tenere, ma non la foto di Larkin. Tornò al letto con la foto e la tenne alzata, in modo che l'uomo potesse vederla. Non disse nulla, si limitò a mostrargliela. Poi la mise via.
«So parlare spagnolo, ma preferisco l'inglese. Per te va bene?» L'uomo gli rivolse un ghigno malevolo, come se non gliene fregasse un accidente. «Molla il colpo, finché puoi, figlio di puttana. Non sai in che casino ti sei messo.» Pike infilò il dito indice nel tessuto molle sotto la clavicola dove ventisei nervi diversi confluiscono nel plesso brachiale. In quel punto il nervo sopraclavicolare, che portava informazioni al midollo spinale, corre vicino alla pelle, seguendo un solco nell'osso. Quando Pike spinse con forza sul fascio di nervi nell'incavo, l'intero plesso brachiale mandò un segnale di dolore paragonabile a quello prodotto dalla trapanazione di un dente senza anestesia. L'uomo emise un gemito stridulo ma soffocato. Cercò di liberarsi del nastro e rovesciare la sedia, ma Pike la bloccò con un piede. Le vene del collo guizzavano come serpi, le lacrime gli colavano sul viso, mischiandosi al sangue sulla guancia. Implorò Pike di smettere, in spagnolo, ma lui non smise. Quando, finalmente, allentò la pressione, Pike sapeva che il dolore sarebbe continuato con la ferocia del veleno delle formiche, così toccò un altro punto, questa volta sul collo, per far diminuire il dolore. L'uomo si afflosciò e il suo viso divenne pallidissimo, di un colore simile a quello della carne lasciata a marcire nell'acqua. «Questo è dim mak. È cinese» disse Pike. «Significa "tocco della morte".» Il dim mak era il lato oscuro dell'agopuntura: una usava i punti di pressione per guarire, l'altro per infliggere dolore. «Voglio Alex Meesh» disse Pike. «Non conosco.» Pike sollevò il dito. L'uomo sobbalzò all'indietro con una violenza tale da far traballare la sedia, ma Pike lo tenne fermo. «Non so cosa vuoi! Non so!» «Alex Meesh.» «Non so!» «Non conosci Alex Meesh?» L'uomo scosse la testa così violentemente da far schizzare il sangue che gli colava sulla guancia. «No no no! Io non so!» Sembrava troppo spaventato per mentire, ma Pike voleva essere sicuro.
Tenne alzato il passaporto dell'uomo. «Qual è il tuo vero nome?» L'uomo rispose senza esitazione. «Jorge Petrada.» «Perché sorvegliavi la mia casa?» «Per la ragazza.» Mentre lo diceva, non sbatté neppure le palpebre. Pike decise che era la verità. Jorge non conosceva Alex Meesh. «Meesh ti ha ordinato di trovarla?» «Non conosco Meesh. Non so.» «Chi ti ha chiesto di trovarla?» «Luis. Luis chiesto.» «Chi è Luis?» Jorge lanciò uno sguardo in direzione dei passaporti. Pike gli mostrò quello dell'uomo con la cicatrice sul labbro. «Sì. Luis.» «È il tuo capo?» «Sì.» Luis non aveva la faccia del capo. I capi non tentano di rapire la gente a Beverly Hills, non si fanno coinvolgere in conflitti a fuoco. I capi lasciano che siano gli altri a correre rischi. Pike guardò l'orologio, poi tornò alla finestra... Più il tempo passava e più aumentavano le probabilità che tornassero gli altri. Il gestore del motel stava ancora fumando, ma adesso parlava al cellulare, ridendo. Pike tornò al letto. «Come sapevi dove trovare la ragazza?» «Luis. Lui detto tuo indirizzo.» «Come facevate a sapere dei nostri covi a Eagle Rock e Malibu?» «Io non so questo Eagle Rock. Non so.» «Hai cercato di ucciderla a Eagle Rock e a Malibu. Ci hai provato su a nord, nella baia. Chi ti ha detto dove trovarla?» «No no no. Io appena arrivato. Io qui solo due giorni. Io non so niente.» Pike prese i biglietti aerei dallo zaino e controllò le date dei voli. Jorge aveva detto la verità: era arrivato con Alteiri soltanto due giorni prima. Bloch era lì da dodici giorni, Luis da sedici. Era Luis l'uomo da interrogare. Pike stava riponendo i biglietti nello zaino quando il suo cellulare vibrò. Era Cole. Pike rispose senza togliere gli occhi di dosso a Jorge. «Sì?»
«L'ho appena lasciata. Sta bene» disse Cole. «Okay.» «Le ho portato un po' di frutta e qualche rivista. E anche una caffettiera, così non dovrà più bere quella schifezza che prepari tu.» «Voleva delle fragole. Fragole e banane.» «Sì.» «Okay.» «Cosa c'è che non va? È tutto a posto?» «A posto.» «Va bene. Se hai bisogno di qualcosa chiama.» Pike chiuse il telefono. Osservava Jorge. Jorge aveva paura. «Chi è Donald Pitman?» disse Pike. «Non so.» «Hai mai sentito questo nome?» «No. Io non conosco.» «Bud Flynn?» «No.» «Per chi lavora Luis?» L'uomo parve sorpreso che Pike non lo sapesse e si raddrizzò. Parve diventare più forte per la prima volta dopo essersela fatta addosso. «Esteban Barone. Noi tutti lavoriamo per Barone. Per questo tu hai fatto un grosso errore, amigo. Se conosci Barone, conosci la paura.» «Chi è? Un gangster? Un uomo d'affari? Capisci quello che dico?» «Cártel... conosci esta parola?» «Sì.» Un sorriso rude squarciò il volto dell'uomo, come se si sentisse orgoglioso di farne parte. «Barone, lui molti soldati. Tu quanti?» Pike tirò fuori dalla tasca le foto dei cinque uomini morti. Le tenne sollevate una per una, osservando il volto dell'uomo incupirsi. «Sto pareggiando le forze.» L'uomo borbottò qualcosa in spagnolo che Pike non capì. Pike andò di nuovo alla finestra. Il gestore del motel era sparito, ma la porta dell'ufficio era ancora aperta. Pike avrebbe voluto che fosse chiusa: aveva intenzione di andarsene con Jorge a bordo della Corolla. Tornò al letto. «In quanti siete rimasti?» L'uomo sputò.
Questa volta Pike non si mosse lentamente. Infilò il pollice in un punto preciso tra le costole, sotto il muscolo pettorale. «Siete!» Pike allentò la pressione. «Quattro di voi dormono qui. Dove stanno gli altri tre?» «Io non so niente.» Pike affondò di nuovo il dito nel punto di prima, e questa volta l'uomo urlò. Pike spinse ancora più a fondo, finché l'uomo non cominciò a singhiozzare. Allora allentò la pressione. «Dove stanno?» «Non so dove stanno. Carlos, lui portati qui da aeroporto. Lui non detto dove altri dormono. Lui portato da Luis, e Luis dice noi dormiamo qui. Io non ho visto altri!» Pike si sedette. Carlos. Un nuovo giocatore. «Chi è Carlos?» «Americano. Lui venuto aeroporto. Portati qui. Fa tutto per noi.» «Qual è il suo cognome?» L'uomo lanciò un'altra occhiata alla finestra e questa volta Pike seguì il suo sguardo. Attraverso le tende sottili si vedevano il tetto di fronte e le macchine illuminate dal sole, nient'altro. «Io conosce solo Carlos. Lui dato noi tutto. Telefoni, pistole...» «D'accordo. Dove si trovano adesso gli altri?» «Non so. Faccio mio lavoro. Altri fanno loro.» L'uomo si passò la lingua sulle labbra. Stava diventando sempre più nervoso e continuava a guardare verso la finestra. Pike si chiese se avesse visto qualcosa. «Stanno per tornare, Jorge?» «No, no. Loro non tornano.» Pike estrasse la pistola e osservò la finestra. «Tornano questa sera. Questa sera» disse Jorge. Un'ombra attraversò la tenda, poi tre esplosioni in rapida successione mandarono in frantumi il vetro. La tenda si gonfiò verso l'interno come una vela che prende il vento, ma Pike era già a terra. La porta si spalancò all'improvviso. Luis si precipitò dentro con una pistola, continuando a sparare mentre Pike rispondeva al fuoco e i suoi colpi mandavano l'altro a sbattere contro il muro. Poi nella stanza ci fu silenzio. Luis scivolò a terra contro la parete, lasciandovi una scia rossa. Pike rimase a terra, ma non comparve nessun altro. Si voltò a guardare
Jorge: aveva la testa china e gran parte della sua fronte era sparita. Pike andò alla porta, irritato per aver perso il controllo della situazione. Probabilmente Luis aveva sentito Jorge gridare, o forse aveva capito qualcosa vedendo le tende tirate: in un modo o nell'altro, l'uomo che avrebbe potuto essere la sua miglior fonte di informazioni adesso era morto. L'uomo panciuto era uscito dall'ufficio e un'inserviente era comparsa sull'altro lato del motel. Pike tolse Luis di mezzo e chiuse la porta fracassata. Mise la pistola nella fondina e cominciò a frugare nelle tasche di Luis. Trovò un cellulare, chiavi, ventiquattro dollari e un brandello di giornale sul cui margine era stato annotato un numero di telefono. Pike ficcò tutto nello zaino, poi tornò alla finestra. Il gestore era rientrato in ufficio, sicuramente per chiamare la polizia. L'inserviente era dentro con lui, e sbirciava dalla porta aperta. Pike corse in bagno. Era un locale angusto, realizzato negli anni Cinquanta con piastrelle dozzinali, le stuccature che si sbriciolavano e una piccola finestra di vetro satinato sopra la vasca da bagno. L'inserviente aveva lasciato sul lavabo due bicchieri di plastica avvolti nel cellophane. Pike li portò in camera. Tolse uno dei bicchieri dall'involucro, vi strinse intorno le dita di Jorge, quindi lo rimise nel cellophane. Fece la stessa operazione con Luis, e fu allora che notò l'orologio. Luis aveva al polso un Patek Philippe di platino, fuori posto su di lui quanto un diamante su un mucchio di escrementi. Pike prese l'orologio e lo voltò. Sulla cassa c'era un'incisione: AL MIO ADORATO GEORGE. Pike mise orologio e bicchieri nello zaino, ripulì le superfici che aveva toccato e corse in bagno mentre sentiva le sirene avvicinarsi. Ruppe la finestra con la pistola, si issò e si lasciò cadere fuori, nel vicolo. Si mise lo zaino sulla spalla e girò di corsa l'angolo dell'edificio. Arrivato in strada rallentò, passando davanti all'ufficio del motel mentre arrivava la prima autopattuglia. In strada la gente si nascondeva dietro i veicoli o le porte come se temesse di essere colpita dagli spari. Altri correvano a ripararsi dentro i negozi. Pike rimase un attimo a guardare come tutti gli altri, poi proseguì fino alla Lexus. Si allontanò mentre arrivava la seconda autopattuglia. Gli venne da pensare, come gli era capitato altre volte in passato, che i poliziotti erano gli unici a correre verso il pericolo, mentre tutti gli altri scappavano. 22
Pike si infilò in uno shopping center dalle parti di Griffith Park. Gli fischiavano ancora le orecchie per gli spari e gli facevano male le spalle. Più tardi, quella notte, quando la ragazza si fosse addormentata, si sarebbe rifugiato in una tranquilla foresta verde e Jorge e Luis sarebbero svaniti come spiriti tra gli alberi. Adesso, però, i colpi d'arma da fuoco continuavano a risuonare dentro di lui, rendendolo nervoso. Ma era un nervosismo costruttivo: lo aiutava a stare in campana. Il gestore del motel lo avrebbe descritto come un uomo con occhiali da sole, camicia marrone e jeans. Un tipo anonimo. Era stato attento a non lasciare impronte. Niente sui cadaveri o sulla scena del crimine avrebbe potuto ricondurre a Eagle Rock, Malibu, né a lui fino a quando - e se - non fosse stata trovata una corrispondenza tra i proiettili, e per farlo ci sarebbero volute settimane. La polizia non aveva motivo di collegare le due vicende, e Pitman non aveva motivo di accorgersene. Jorge e Luis sarebbero rimasti due cadaveri come tanti altri non identificati nella città di Los Angeles: un caso di duplice omicidio con tante domande e nessuna risposta, probabilmente un acquisto di droga finito male. Pike ricaricò la sua pistola e diede uno sguardo alle cose che aveva portato via. Innanzi tutto controllò le carte e le mappe, cercando qualcosa di immediatamente utilizzabile, tipo il nome di Meesh o quello di un albergo, ma non trovò nulla. Le avrebbe esaminate con maggior attenzione insieme a Cole, e per il momento le mise da parte. Diede una rapida occhiata all'orologio e alle pistole, ma si soffermò sulla foto della ragazza: immaginò Luis che la mostrava agli altri e diceva: "È lei". Vide Meesh consegnare la foto a Luis intimandogli: "Dobbiamo ammazzarla". Pike fissava la foto e pensava: "No, non lo farete". Tralasciò il resto perché voleva dedicarsi ai cellulari: potevano fornirgli un collegamento diretto e immediato con Alexander Meesh. I due telefoni erano identici tra loro e non molto diversi da quello che lui stesso utilizzava in quel momento: acquistati anonimamente in contanti e caricati con schede prepagate. Studiò prima quello di Jorge, richiamò i numeri in memoria e ricostruì le chiamate fatte. Jorge aveva fatto soltanto tre telefonate, tutte allo stesso numero. Pike immaginò fosse il numero di Luis. Essendo arrivati da poco in città, era logico che Luis avesse dato loro il suo numero, da utilizzare in caso di necessità. Premette un tasto per comporre l'ultimo numero chiamato. Il telefono di Luis si mise a squillare. Pike spense il cellulare di Jorge e lo rimise nello zaino.
Luis, invece, aveva fatto parecchie telefonate. Pike scorse un lungo elenco che comprendeva almeno una decine di telefonate in Ecuador. Per ognuna veniva mostrato il numero chiamato, la data e l'ora. Più tardi insieme a Cole avrebbe annotato i numeri, ma adesso era più interessato alle telefonate recenti. Luis aveva effettuato l'ultima soltanto quattro minuti prima di morire. Doveva trovarsi già al motel, e probabilmente aveva chiamato per chiedere aiuto o informare gli altri. Pike scorse l'elenco delle telefonate e scoprì che Luis aveva composto quello stesso numero cinque o sei volte ogni giorno. Era il numero che chiamava più spesso. Pike si chiese se si trattasse di Meesh. Forse Luis lo aveva sorpreso con Jorge e aveva chiamato Meesh per chiedere istruzioni. Pike premette il pulsante di composizione automatica. Il telefono fece quattro squilli. La persona all'altro capo avrebbe visto il numero e pensato che Luis richiamava per riferire quanto era accaduto. Al quinto squillo rispose la voce di un uomo. «L'hai preso quel figlio di puttana?» L'uomo aveva una voce profonda e sonora, e non sembrava affatto un gangster di Denver o dell'Ecuador. Era una voce colta, con una traccia di accento straniero, probabilmente francese. «Pronto? È caduta la linea? Mi senti?» «Alex Meesh» disse Pike. «Ha sbagliato numero.» L'uomo riattaccò. Pike premette di nuovo il tasto di composizione automatica. Questa volta l'uomo rispose al primo squillo. «Luis?» «Luis e Jorge sono morti.» Silenzio. Poi, quando l'uomo si decise a parlare, il suo tono era guardingo. «Chi parla?» «Il figlio di puttana.» L'uomo, di nuovo, esitò. «Cosa vuoi?» «Te» rispose Pike. E riattaccò. 23 John Chen
Dopo aver ricevuto la telefonata di Pike, John Chen era terrorizzato. Era così spaventato che temeva di vomitare. "Fatti trovare fuori tra un'ora" gli aveva ordinato Pike senza neppure aspettare una risposta, limitandosi a grugnire con tono minaccioso. Sì. Certo. La prima cosa che fece fu correre in bagno. Era sicuro che Pike lo avrebbe ucciso. Probabilmente lo riteneva responsabile per la perdita delle pistole. Probabilmente lo avrebbe riempito di botte di fronte a tutti. Chen camminò su e giù nel bagno per un'ora, sudando copiosamente, continuando a sedersi e alzarsi dalla tazza del water, cercando di pensare a come cavarsela. Pensò di chiedere all'agente in servizio di accompagnarlo alla macchina, ma poi concluse che l'unico modo per uscire da quella situazione era fingere che fosse tutto tranquillo. Comportarsi come se potesse recuperare le pistole. Inventarsi una menzogna credibile. Chen uscì dal bagno, andò nell'ingresso e dalle porte a vetri osservò il parcheggio. Vedeva bene la sua auto, ma non vide Pike, né la Cherokee rossa o la Lexus verde che Pike aveva usato per rimorchiare quel gran pezzo di gnocca. Chen uscì, si voltò a guardare l'atrio, poi tornò a perlustrare con lo sguardo il parcheggio. Ancora nessuna traccia di Pike. Chen non sapeva cosa fare. Forse Pike era già venuto e se n'era andato. Forse non era ancora arrivato e lui l'avrebbe scampata! Fece uno scatto verso la Porsche. Non era sua intenzione mettersi a correre, ma fu ciò che fece. Alzò il culo e se la diede a gambe più veloce che poté, soffiando e ansimando già dopo venti metri, ma carico di adrenalina. Premette il telecomando. Ce l'aveva fatta, era libero, FIGLIO DI PUTTANA!, era libero! Spalancò la portiera ad alta tecnologia germanica quando... «John» disse una voce alle sue spalle. «Ahh!» Chen fece un balzo di lato, ma Pike lo afferrò e tenne ferma la portiera. «Sali.» Pike portava uno zaino nero. Chen era sicuro che dentro ci fosse una pistola. Chen si aggrappò alla portiera come un gatto al divano. Il tic sotto l'occhio partì come una mitragliatrice. «Non uccidermi, ti prego» implorò. Pike indicò l'interno dell'auto. «Non essere stupido. Sali.»
Lo spinse dentro e girò intorno alla macchina per andare dal lato del passeggero. Chen non riusciva a togliere gli occhi di dosso allo zaino. «So come funziona. Mi porterai in un luogo deserto e mi sparerai un colpo in testa...» «Respira» gli ordinò Pike. Chen non riusciva a smettere di parlare. Le parole gli uscivano come un fiume in piena, senza che lui potesse farci niente, proprio come la decisione di mettersi a correre, poco prima. «Le pistole le hanno prese i federali. Io le avrei fatte analizzare, te lo giuro su Dio. Io non c'entro niente...» Mentre parlava, la mano di Pike gli chiuse la bocca come una morsa. «Tu sei mio amico, John» disse Pike. «Non devi avere paura. Posso mollare adesso?» Chen annuì. Suo amico? Pike allentò la morsa. Aprì lo zaino e glielo porse. Chen pensò si trattasse di uno degli scherzi che la gente come Pike faceva alla gente come lui: guardi dentro e schizza fuori un serpente. Sbirciò cauto all'interno, pronto a ritrarsi, ma non era un serpente. «Cos'è questa roba?» «Pistole, di cui i federali non sanno nulla, e due serie di impronte.» Chen guardò dentro la borsa senza toccare nulla. Vide due bicchieri protetti da involucri di plastica e quelle che sembravano due pistole 9 millimetri, entrambe ammaccate e picchiettate di ruggine. Da come erano malconce capì subito che erano pistole da strada: rubate molti anni prima, vendute o scambiate per un po' di droga, passate da un delinquente all'altro. Vide anche tre bossoli. «Dove hai preso questa roba?» «Hai scoperto i nomi dei federali che hanno confiscato le pistole?» disse Pike, ignorando la sua domanda. «Pitman. Pitman e un altro.» «Blanchette?» «Non so. La mia collega non se lo ricordava.» Chen guardò i bossoli. L'ottone, un tempo lucido, era bruciacchiato e nello zaino c'era odore di polvere da sparo. La paura si impadronì nuovamente di Chen, non paura che Pike lo ammazzasse di botte, ma qualcosa di più profondo. Chen si accorse che Pike lo osservava. Si vide riflesso nei suoi occhiali scuri e per qualche strano motivo, di cui in seguito si meravigliò, Chen si tranquillizzò. Era come se la calma di Pike fosse contagiosa.
Chen si appoggiò allo schienale. «Ci sono altri cadaveri associati a queste pistole?» «Due.» «Sono collegati con Eagle Rock e Malibu?» «Sì. La polizia di Los Angeles è sulla scena del delitto, adesso. Sono stati sparati dei colpi, quindi sapranno che sono sparite delle pistole, ma non possono sapere chi le ha. Verranno recuperati dei proiettili che corrisponderanno a una di queste pistole, la Taurus, ma non all'altra.» Chen annuì, prendendo mentalmente nota di tutto. Se avesse avuto un turno diverso, avrebbe potuto trovarsi lui sulla scena del delitto. «Se i federali sapessero che abbiamo queste pistole le prenderebbero?» «Sì, ma non lo sapranno. Lo sappiamo solo tu e io, John. Dovrai fare una scelta.» Chen non capiva. «Che scelta?» «Sono morti sette uomini. Il dipartimento di Giustizia è coinvolto. Noi ci ritroviamo con queste pistole. Nel migliore dei casi potresti essere accusato di ostacolare un'indagine federale. Nel peggiore, di concorso in omicidio.» Chen continuava a non capire. «Cosa stai dicendo?» «Se non vuoi entrarci, io me ne vado.» Chen era sconcertato. Sbalordito. «Un momento. Mi stai offrendo una scelta?» «Certo. Sta a te scegliere. Cosa pensavi?» Chen osservò Pike e si chiese come facesse a essere sempre così calmo. Il volto impassibile, la voce pacata... lo osservò e ancora una volta si vide riflesso nei suoi occhiali, due facce in una. In quel momento gli tornò in mente una piscina per la meditazione che aveva visto in un monastero buddista: la superficie liscia, immobile, perfetta. Chen aveva sei anni. Suo zio lo aveva portato al monastero e lui era rimasto affascinato dalla piscina. La superficie era assolutamente piatta, senza una foglia, un granello di terra o un insetto a deturparla, non un alito di vento a corrugarla. La piscina era così simile a uno specchio che Chen non riusciva a vedere sotto la superficie e gli parve che fosse profonda solo pochi centimetri. Suo zio si voltò e Chen decise di tuffarsi. Era una giornata molto calda nella San Gabriel Valley e Chen aveva soltanto sei anni. Voleva sguazzare nell'acqua fresca e correre all'altro capo della piscina. Solo qualche centimetro di profondità. Chen si preparò a tuffarsi, ma in quel momento la superficie si increspò e un mostro si lanciò contro di lui, coperto di una scintillante arma-
tura. Scaglie rosse, nere e arancione, orribile e luccicante. Infranse la superficie con un impeto spaventoso e poi scomparve. Una carpa koi, gli spiegò in seguito lo zio, quando lui smise di piangere. Ma la lezione gli era servita, anche se aveva soltanto sei anni. Una superficie calma e piatta può nascondere una grande agitazione. «Cosa sta succedendo?» chiese Chen. «Sto cercando di scoprirlo. Credo che i federali abbiano confiscato le vostre prove per nascondere qualcosa. Se sapessero di queste pistole, confischerebbero anche queste.» «Sono collegate con i morti di Eagle Rock e Malibu?» «Sì.» Chen fissò di nuovo le armi. «I tecnici della balistica sono degli specialisti, amico. La loro non è solo scienza... è un'arte. La mia collega è già andata a casa.» «Domani mattina presto.» «Non posso presentarmi là e dirle: "Ecco, qui ci sono due pistole". Ho bisogno di collegarle al numero di un caso.» «Usa quello di Eagle Rock.» «La mia collega sa che i federali hanno preso quelle pistole. È stata lei a informarmi.» «Dille che le hai ricuperate. Inventati qualcosa, John. È importante.» Chen lo sapeva. Ogni cosa che Pike e Cole gli portavano era importante. Guardò di nuovo dentro lo zaino. «E i bicchieri? Sono per le impronte? O vuoi che rilevi le impronte sulle pistole?» «Gli uomini che hanno usato queste armi finiranno sul tavolo del coroner, ma lui non sarà in grado di identificarli. Tu sì.» Chen scosse la testa. «Posso rilevare le impronte e inserirle nel sistema, ma è lo stesso database. Il Live Scan è il Live Scan. Se il coroner non ci riesce, non ci riuscirò neanch'io.» «Queste persone non sono nel database. Vengono dall'Ecuador.» Chen lanciò un'altra occhiata ai bicchieri. La ricerca standard negli archivi informatici a disposizione delle forze dell'ordine era limitata agli Stati Uniti. Per fare una ricerca internazionale era necessaria una richiesta speciale, più o meno una per ogni paese straniero. Non esisteva un unico database mondiale, quindi se non sapevi dove cercare tanto valeva lasciar perdere. «Puoi farlo, John?» chiese Pike. «È una cosa grossa, vero?»
«Sì. Molto grossa.» Chen si morse il labbro superiore come se stesse valutando quello che avrebbe dovuto fare, per le pistole e per le impronte. Era quasi certo di riuscire a convincere LaMolla a esaminare le armi: era ancora furibonda con i federali perché le avevano portato via il giocattolo e doppiamente furibonda perché né Harriet né i vertici di Parker Center avevano voluto darle spiegazioni. «Posso farlo. Me ne occuperò io.» Pike scese dall'auto e si allontanò. Chen rimase a fissarlo, pensando che non era poi così male quando lo conoscevi. Non così terrificante, anche se... be'... diciamolo, era proprio terrificante. Tu sei mio amico, John. Chen prese i bicchieri e li alzò, uno dopo l'altro, e vide chiaramente le impronte anche attraverso l'involucro di plastica. Chen sorrise. Il coroner aveva cinque cadaveri non identificati e stavano per arrivargliene altri due. Un bel mistero per tutti... ... finché John Chen non lo avesse chiarito. Il suo sorriso si allargò. Le pistole potevano aspettare fino all'indomani, ma quello era il momento migliore per esaminare le impronte sui bicchieri. Il personale di laboratorio era ridotto e Harriet era andata a casa, quindi nessuno gli avrebbe chiesto cosa stava facendo. Chen infilò le pistole sotto il sedile, chiuse la macchina e corse dentro con i due bicchieri. Voleva identificare quei tizi, non soltanto per se stesso e per quello che ci avrebbe guadagnato, ma anche per Pike. Non voleva deludere il suo amico Joe Pike. 24 Anche se quel giorno Cole aveva portato del cibo alla ragazza, Pike si fermò in un ristorante indiano di Silver Lake per prendere qualcosa di pronto. Scelse un piatto di formaggio e spinaci chiamato saag paneer, jalfrezi alle verdure e naan all'aglio, pensando che a Larkin potessero piacere, oltre a un litro di una bevanda dolce allo yogurt chiamata lassi. Era corposa come un milk shake e aromatizzata al mango. Pike amava l'odore forte delle spezie, l'aglio e il garam musala - con coriandolo e cardamomo -, gli ricordavano i villaggi sassosi e la giungla dove aveva assaggiato quei cibi
per la prima volta. E, con il calare dello stress, una gran fame si era impadronita di lui. Quando arrivò a casa e svoltò nel vialetto, il sole era calato da tempo. Sembrava tutto a posto. La porta era chiusa, le tende illuminate dall'interno. Nell'improvviso silenzio, quando spense il motore, avvertì ancora il fischio alle orecchie, anche se più debole di prima. Non aveva intenzione di raccontare alla ragazza di Luis e Jorge, ma le avrebbe detto che aveva fatto progressi, nella speranza che questo la facesse sentire meglio. Pike chiuse a chiave l'auto e andò alla porta. Ricordando che le sue apparizioni improvvise la spaventavano, questa volta si annunciò. Bussò due volte, poi aprì la porta. «Sono io.» Entrando, avvertì il silenzio. L'iPod di Cole era posato sul tavolino accanto a una bottiglia d'acqua aperta, le riviste sparpagliate a terra. La casa era illuminata, ma Pike non udì alcun rumore. Si concentrò, sforzandosi di sentire qualcosa oltre il fischio alle orecchie, sperando che lei gli stesse facendo uno scherzo per vendicarsi di quando lui la coglieva di sorpresa, ma sapeva che non era così. Il silenzio di una casa vuota è un silenzio tutto particolare. Pike posò a terra il sacchetto con il cibo, estrasse la Kimber e la tenne abbassata lungo la coscia. «Larkin?» In un attimo fu in camera sua. Poi controllò la seconda camera da letto, il bagno, la cucina. Larkin non era in casa. Le stanze e gli effetti personali erano in ordine, al loro posto. Non c'era traccia di alcuna colluttazione. Le finestre erano intatte, la porta sul retro chiusa a chiave, ma lui l'aprì comunque per controllare il giardino, quindi tornò dentro. Le porte non erano state forzate. Cercò un biglietto. Non ne trovò. La borsa e la sacca della ragazza erano nella sua camera da letto. Se era fuggita, non le aveva portate con sé. Pike uscì fuori e rimase lì, al buio, in ascolto, ascoltando i rumori del quartiere... il lampione sopra la pozza di luce argentea, le case abitate con le finestre da cui filtrava la luce, i movimenti dei vicini sulle verande e dentro le case. La vita scorreva normale. Nessuno si era presentato con le armi in pugno. Nessuno aveva trascinato via una ragazza caricandola a forza su un'auto. Nessuno aveva sentito una donna urlare. Probabilmente Larkin se n'era semplicemente andata. Pike andò in strada, cercando di decidere da che parte si era diretta e
perché. Aveva le carte di credito e un po' di contanti, ma non un cellulare con cui chiamare i suoi amici o un taxi. Pike decise che doveva essersi allontanata in direzione del Sunset Boulevard per cercare un telefono, ma poi sentì la risata di una donna sull'altro lato della strada. Erano una coppia anziana, li aveva visti sulla veranda ogni sera, magari ad ascoltare le radiocronache delle partite dei Dodgers. Quella sera erano sintonizzati su una stazione che trasmetteva musica, ma Pike udiva chiaramente le loro voci. Si infilò tra le auto, attraversando la pozza di luce. «Scusate» disse. La veranda era illuminata soltanto dalla luce proveniente dalla loro casa. Le punte rosse delle sigarette accese fluttuavano nel buio come lucciole. L'uomo tirò una boccata e la brace brillò ancora di più. Abbassò il volume della radio. «Buonasera» disse. Parlava in maniera formale, con un accento russo. «Abito sull'altro lato della strada» disse Pike. La donna fece un cenno con la mano che teneva la sigaretta. «Lo sappiamo. Vediamo lei e la signorina.» «Avete visto la signorina questa sera?» Nessuno dei due rispose. Erano seduti su poltroncine di metallo appena visibili nella luce fioca. Il vecchio tirò un'altra boccata dalla sigaretta. «Credo sia uscita a fare una passeggiata. Avete visto da che parte è andata?» Il vecchio si lasciò sfuggire un grugnito denso di significato. «Come?» disse Pike. «È sua moglie?» chiese la donna. Pike comprese l'importanza della domanda, e si affrettò a togliere la componente sessuale dalla discussione. «Mia sorella.» «Ah» fece il vecchio. Qualcosa passò sul volto della donna, lasciando intendere che lei non gli credeva. La vecchia parve riflettere sulla risposta da dare. Alla fine si decise e agitò la sigaretta in direzione della strada. «È andata con i ragazzi.» «Armeni» aggiunse il vecchio. La donna annuì, come se quella parola dicesse tutto. «Ha parlato con loro... Se ne stanno sempre lì in strada, loro e la loro macchina. Sono andati via insieme.» «Quando è successo?» chiese Pike.
«Da non molto. Eravamo appena usciti a bere il tè.» Un'ora. Non più di un'ora. «Gli armeni» disse Pike. «Dove vivono?» La donna indicò di lato. «Qui accanto. Sono tutti cugini, dicono, cugini e fratelli. Tutti gli armeni dicono di essere cugini, ma non si sa.» «Armeni» confermò il vecchio. La casa indicata dalla donna era al buio, e la BMW non era in strada. La donna parve leggergli nel pensiero. «Non c'è nessuno. Sono andati via tutti.» «Ha sentito qualcuno dire dove andavano?» La donna spinse la sedia all'indietro e allungò la testa verso la finestra aperta. «Rolo! Rolo! Vieni qui!» Un ragazzo allampanato con la maglia dei Lakers si sporse oltre la zanzariera. Pike giudicò che avesse quattordici, quindici anni. «Sì, nonna?» «Gli armeni, come si chiama quel posto dove vanno?» «Non lo so.» Il vecchio parve irritarsi e fece un gesto stizzito con la mano, come per dirgli di smetterla di scherzare. «Gli armeni. Quel locale dove tu non devi andare.» La vecchia fece un cenno d'intesa verso Pike. «Lo sa. Lui parla con quei ragazzi armeni. Col più giovane. Vanno sempre in un locale.» Rolo sembrava in imbarazzo, ma parlò di quella che sembrava una sala da ballo non lontano da lì, a Los Feliz. Non ricordava il nome, ma lo descrisse piuttosto bene: un vecchio edificio a nord del Sunset, con la facciata ridipinta da poco e una scritta sul lato, una sola parola, che lui non ricordava ma che gli pareva avesse una Y. Pike trovò il posto venti minuti più tardi, subito a nord del Sunset, infilato tra una libreria armena e una panetteria francovietnamita. L'insegna sopra l'edificio diceva CLUB YEREVAN. Sotto, una porta di pelle rossa tenuta aperta con un cuneo. Sul marciapiede tre uomini grandi e grossi parlavano tra loro fumando, due in maniche di camicia, l'altro con una giacca di pelle lucida. Un piccolo cartello sopra la porta diceva: PARCHEGGIO SUL RETRO. Pike svoltò l'angolo. Un vicolo sul retro portava a un parcheggio, con un addetto dentro un chiosco che sorvegliava l'entrata e un altro che si occu-
pava di sistemare le auto. Era ancora presto, ma i posti erano già quasi tutti occupati. Un gruppetto di persone era radunato nei pressi dell'ingresso posteriore. Pike non perse tempo a parcheggiare né a cercare la BMW. O Larkin era lì o non c'era, e se non c'era lui avrebbe dovuto muoversi in fretta per continuare le ricerche. Mollò la Lexus dietro la panetteria e scese. L'addetto vicino al chiosco lo vide e si precipitò verso di lui, agitando le mani. «Non può parcheggiare lì. Non è permesso.» Pike lo ignorò. Il fischio alle orecchie era tornato, più forte di prima, ma lui non se ne curò. Si fece strada tra giovani donne che fumavano sigarette marroncine e uomini sorridenti i quali non avevano occhi che per loro. Entrando si ritrovò in un corridoio lungo e stretto, affollato di persone che urlavano per farsi capire al di sopra della musica, un mix di hip-hop a tutto volume che però non riusciva a coprire il fischio. Spalancò la porta del bagno degli uomini, guardò dentro, poi aprì quello delle donne. Le persone intorno a lui ridevano o lo osservavano, ma lui proseguì per la sua strada senza prestare loro attenzione. Il corridoio faceva una curva, poi un'altra. Man mano che si avvicinava alla fine del corridoio c'era sempre più gente e la musica si faceva sempre più forte, un ritmo pulsante di basso, solo che adesso era accompagnato dalla voce della folla. La gente cantava, le mani sollevate sopra la testa, muovendosi al ritmo della musica, sollevando le mani sempre più in alto... Go baybee, Go baybee, Go baybee, Go...! Pike avanzò tra i corpi sudati che si riversavano nella sala principale, e fu allora che la vide. Larkin era in piedi sul bancone, in reggiseno, e si esibiva per la folla come una spogliarellista, muovendo il bacino a tempo con la canzone. Girò lentamente, facendo correre le mani dai capelli all'inguine, mentre si abbassava sul bancone, con quel suo sorriso provocante, e Pike vide solo il delfino che saltava libero, urlava per essere riconosciuto. Quando Pike arrivò al bar, la ragazza si accorse di lui e smise di ballare all'improvviso, come una bambina sorpresa a fare qualcosa di proibito. Si raddrizzò e lo guardò con aria colpevole e spaventata. Pike si fermò ai suoi piedi, e in quel momento erano le uniche due persone presenti nella sala a non ballare. «Scendi» urlò Pike. Lei non si mosse. Aveva un'espressione triste sul viso che lo lasciò disorientato. Pike non lo ripeté una seconda volta. Non era sicuro che lei lo avesse sentito.
Larkin non oppose resistenza quando lui la tirò giù dal bancone. Pike si voltò portando con sé la ragazza. La folla non sapeva cosa pensare: alcuni ridevano, altri fischiavano. Ma poi i due cugini più vecchi e un uomo grosso con la pancia sporgente gli sbarrarono la strada; uno dei cugini gli andò vicino per bloccarlo mentre l'altro lo prendeva per un braccio. Pike gli afferrò il pollice nell'attimo in cui questo lo sfiorò, allontanando la mano e girandogliela, come l'acqua rovescia un sasso, mandando l'uomo a faccia in avanti sul pavimento, simile a un'onda che si infrange sulla riva. La gente intorno a loro arretrò. Pike non aveva mai tolto gli occhi di dosso dall'armeno e non lo fece neppure adesso. La folla si scostò ulteriormente. Nessuno fece atto d'intervenire. Alla fine, quando Pike fu certo che avessero capito, condusse via la ragazza. 25 Le persone che affollavano il corridoio e la porta sul retro non l'avevano vista ballare e non avevano assistito alla scena, ma Pike la trascinò direttamente alla macchina. Lei salì senza dire una parola. Pike uscì dal vicolo in retromarcia, a tutta velocità, quindi puntò verso il Sunset, pensando a come comportarsi con gli armeni, decidendo se tornare o meno alla casa. Era arrabbiato, ma sapeva che la rabbia lo avrebbe soltanto intralciato. Il suo compito era quello di tenere in vita la ragazza. Parlò solo quando furono a due isolati di distanza. «Gli hai detto chi sei?» «No.» «Cosa gli hai detto?» «Mona.» «Cosa?» «Il mio nome. Dovevano pure chiamarmi in qualche modo. Gli ho detto che mi chiamavo Mona.» Pike continuò a guardare nello specchietto retrovisore per vedere se qualcuno li seguiva. «Qualcuno ti ha riconosciuto?» «Non... Come faccio a saperlo?» «Dal modo in cui ti guardavano. Qualcuno potrebbe aver detto qualcosa.» «No.»
«Le domande che ti hanno fatto. Qualche commento.» «Abbiamo solo ballato. Mi hanno chiesto se ballavo. Quali film mi piacevano. Cose del genere.» Si trovavano a quattro isolati di distanza quando Pike accostò al marciapiede davanti a una rivendita di liquori. Le afferrò il volto e lo girò verso di sé. «Sei ubriaca?» «Ti ho detto che non bevo. Sono sobria da un anno.» «Sei fatta?» «Un anno.» Pike osservò il gioco della luce nei suoi occhi e decise che stava dicendo la verità. La lasciò andare, ma lei gli afferrò la mano e la tenne accostata al viso. Lui tirò ma lei la tenne stretta. Non voleva ferirla. «Togliti quegli stupidi occhiali» gli disse. «Hai idea di quanto sei inquietante con quegli occhiali? Nessuno porta gli occhiali da sole di notte. Hai voluto vedere i miei occhi, ora fammi vedere i tuoi.» Glielo aveva chiesto anche nel deserto, la prima volta che si erano incontrati. Allora aveva un atteggiamento ostile, adesso era arrabbiata, spaventata. «Sono soltanto occhi» aggiunse Pike. Si liberò dalle dita di lei e ritrasse la mano, con delicatezza, per non farle male. Non come con l'uomo al bancone del bar. «Quello che hai combinato potrebbe farci ammazzare tutti e due. Vuoi morire? È questo che vuoi?» «È stupido...» «Dimmi cosa vuoi. Vuoi andare a casa? Ti porto a casa. O vuoi vivere? Dimmelo.» «Io non...» Pike le afferrò entrambe le mani. «Io ho intenzione di vendere cara la pelle, ma non per una suicida. Non intendo sprecare la mia vita.» Lei lo fissò per un istante, confusa. «Io non ti sto chiedendo di...» Pike le strinse le mani con forza, interrompendola. «Se vuoi andare a casa, andiamo. Se vuoi morire, va' a casa e dopo muori, perché finché stai con me io non lo permetterò.» Forse strinse con troppa energia. Le sue mani erano forti, ossute e callose. Il mento di lei tremolò e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Io stavo solo guidando la mia macchina!» Pike diede una violenta manata sul volante. «A questo volante non im-
porta. All'aria che respiriamo non importa. Cacciatelo bene in testa...» «Sei uno stronzo!» «Vuoi vivere o andare a ballare? Posso portarti a casa nel giro di venti minuti.» «Non sai cosa vuol dire essere me!» «Tu non sai cosa vuol dire essere me.» Le luci delle auto giocavano su di lei, muovendosi come sull'acqua. Le luci gialle, verdi e blu delle insegne intorno a loro la dipingevano con una confusione di colori in movimento. Lei non ribatté: pareva non fosse in grado di parlare. «Dimmi che vuoi vivere» riprese Pike, ammorbidendo il tono di voce. «Voglio vivere.» «Ripetilo.» «Voglio vivere!» Pike le lasciò libere le mani, ma lei non si mosse. Pike si raddrizzò. «Non siamo così diversi.» La ragazza scoppiò a ridere. «Oh, mio Dio! Oh, mio Dio! Forse sei tu che sei fatto!» Pike teneva la mano sulla leva del cambio. La somiglianza tra loro era evidente. «Tu vuoi essere notata. Io voglio essere invisibile. È la stessa cosa.» La ragazza lo fissò, poi si raddrizzò come aveva fatto lui un attimo prima. «Un idealista» disse. Pike non capiva cosa volesse intendere e si limitò a scuotere la testa. «Il tuo amico Elvis. Dice che sei un idealista.» Pike si immise nel traffico. «Crede di essere spiritoso.» Lei fece per replicare ma poi restò in silenzio, come fanno le persone quando riflettono. Tornarono alla casa in quel silenzio, ma una volta, una sola volta, lei allungò la mano stringendogli il braccio, e una volta, una sola volta, lui le diede un colpetto sulla mano. 26 Più tardi, quando dal ritmo del suo respiro capì che si era addormentata, lì sul divano, Pike spense anche l'ultima luce e la casa piombò nel buio. Più tardi sarebbe uscito e non voleva che ci fossero luci accese quando avesse aperto la porta. Rimase a osservarla in silenzio. Avevano mangiato il cibo indiano, ma
non molto, parlando - lei soprattutto -, ridendo della musica sull'iPod di Cole. Adesso la ragazza si era addormentata, con ancora gli auricolari infilati. Quando dormiva sembrava più giovane e più minuta, come se una parte di lei svanisse dentro il divano. Adesso che dormiva, Pike aveva l'impressione di vedere la sua Persona Autentica. Era convinto che ognuno fosse artefice di se stesso. Ti costruisci dall'interno, e le tensioni e la forza di volontà della persona interiore tengono insieme quella esteriore. La persona esteriore è quella che mostri al mondo, la tua maschera, il tuo travestimento, il tuo messaggio. Il tuo modo di essere, forse. Ed esiste soltanto finché quella interiore la tiene insieme. Quando la persona interiore non riesce più a tenere insieme la maschera, quella esteriore si dissolve e tu puoi vedere la Persona Autentica. Pike aveva notato che a volte il sonno poteva allentare quel legame; alcol, droga e condizioni estreme potevano scioglierlo: più era debole, più era facile allentarlo. Allora vedevi la persona dentro la persona. Pike rifletteva spesso su queste cose. Il trucco era raggiungere un punto in cui la persona esteriore e quella interiore coincidevano. Più ci si avvicinava a quel punto, più si diventava forti. Pike pensava che Cole fosse una di quelle persone il cui interno ed esterno erano vicini a coincidere. Lo ammirava per questo e si chiedeva se vi fosse arrivato seguendo un percorso, con sforzo, o invece fosse così perché quella era la sua natura. A ogni modo Pike lo considerava un fatto di enorme importanza e osservava Cole per imparare da lui. La sua persona interiore aveva eretto una fortezza. La fortezza era servita, ma Pike sperava in qualcos'altro. Una fortezza era un luogo solitario in cui vivere. Pike decise che la Persona Autentica di Larkin era una bambina, che poteva essere buona ma anche cattiva. Una bambina non poteva resistere a lungo. Una bambina non reggeva allo sforzo di tenere insieme la persona esteriore, e prima o poi qualcosa si sarebbe rotto. La bambina sarebbe stata schiacciata e trasformata in qualcun altro, forse migliore forse peggiore, ma comunque la Persona Autentica sarebbe cambiata. Secondo alcune filosofie il cambiamento era sempre positivo, ma Pike non ne era tanto sicuro. Quel convincimento gli era sempre parso fine a se stesso: visto che spesso il cambiamento sembrava inevitabile, tanto valeva fare buon viso a cattiva sorte. Dopo qualche minuto Pike andò al tavolo, smontò la pistola come già aveva fatto quel mattino e si accinse a pulirla per la seconda volta in un giorno. Non aveva intenzione di dormire. Non aveva ancora deciso se ab-
bandonare quella casa. Molto sarebbe dipeso dagli armeni. Pike li stava aspettando. Non aveva problemi a lavorare al buio. Pulì i componenti con il solvente per polvere da sparo, facendo attenzione a non usarne troppo perché non voleva che l'odore svegliasse la ragazza. Voleva che quando i cugini armeni fossero tornati lei dormisse. Stava pulendo la canna quando li sentì. Andò alla finestra del soggiorno e vide i cinque scendere dalla BMW. Uscì e scese i gradini della veranda. Il più grande scese dal posto di guida. Loro non lo videro finché non arrivò al marciapiede e allora il più giovane, che era sull'altro lato della macchina, disse qualcosa e tutti si voltarono. C'era molto silenzio, a quell'ora della notte, e il quartiere era tranquillo. Le verande erano deserte. I vecchi e le famiglie dormivano. La strada era vuota, a parte Pike e i cinque armeni, lì sotto il cono di luce azzurrina. Pike si fermò a qualche metro di distanza da loro, guardandoli uno per uno, fino a soffermarsi sul più anziano, quello che aveva cercato di bloccarlo al bar. «Immagino non ti abbia detto che siamo sposati» disse. «Tu non lo sapevi, ed è per questo che l'hai portata fuori. Immagino che adesso che lo sai il problema non si ripresenterà.» Il ragazzo sollevò le mani con i palmi in avanti, per mostrare a Pike che era dispiaciuto per l'equivoco. «Nessun problema, amico. Lei ha detto che dividevate la casa. Tutto qui. Solo la casa.» Il cugino più giovane si affrettò ad annuire. «Ci stavamo solo divertendo un po', amico. Lei è uscita ed è venuta a fare quattro salti con noi.» Il più giovane si era così americanizzato che pareva un rapper con accento armeno. Pike annuì. «Capisco. Quindi tra noi è tutto chiarito.» «Certo, amico. È tutto a posto.» Pike li osservava, non per vedere se erano d'accordo, ma per capire se l'avevano riconosciuta. Se uno di loro o qualcuno al locale l'avesse riconosciuta, non si sarebbe parlato d'altro per il resto della serata. Pike concluse che non sapevano e non sospettavano nulla. Per loro Larkin era soltanto una tipa un po' fuori di testa, una ragazza scatenata. Decise che non c'erano rischi.
«Non è la prima volta che Mona fa così, e questo ha causato problemi» disse Pike. «C'è un uomo che la molesta. Abbiamo cambiato casa, ma sappiamo che la sta cercando. Se voi ragazzi doveste vedere qualcuno, mi avviserete?» «Ma certo, amico. Nessun problema» rispose il più vecchio. Pike gli tese la mano e l'altro la strinse. Il secondo in ordine di età, che fino a quel momento si era limitato a fissare Pike con soggezione, si decise a parlare. «Cos'è che hai fatto al club? Come si chiama quello che hai fatto?» Il più giovane scoppiò a ridere. «Si chiama far vedere chi è che comanda, scemo!» Due degli armeni risero, ma non il più grande, il quale disse ai suoi compagni che si era fatto tardi ed era l'ora di rientrare. Dopo che gli altri si furono allontanati, si voltò verso Pike con espressione comprensiva. «Mi dispiace che tu soffra, amico. Devi amarla molto.» Pike lo lasciò lì, sotto la luce azzurrina, e tornò in casa. Larkin dormiva. Prese il copriletto dalla stanza di lei e la coprì, poi andò in cucina a prendere una bottiglia d'acqua e la bevve tutta. Prese il cartone con quanto restava del jalfrezi e ne mangiò qualche forchettata. Riprese a pulire la pistola. Gli piaceva la concretezza del metallo tra le mani, le forme dure e definite, la certezza che l'arma, una volta rimontata, avrebbe funzionato, il conforto della sua semplicità. Quando lavorava con le mani non doveva pensare. Continuò a osservare la ragazza che dormiva, aspettando il nuovo giorno. Quarto giorno STARING AT THE SUN 27 Quella notte Pike praticamente non dormì. Si appisolava pochi minuti tra una riflessione e l'altra per poi risvegliarsi più inquieto che riposato. La caccia stava acquistando velocità e Pike voleva andare ancora più veloce. Più lui accelerava, prima Meesh sarebbe stato costretto a reagire, diventando più esigente con i suoi uomini. Questi non avrebbero gradito la cosa, Meesh si sarebbe innervosito e Pike avrebbe spinto ancora di più. Si chiamava stressare il nemico, e quando Meesh fosse stato abbastanza stressato, avrebbe capito di non essere più il cacciatore, ma di essere diventato la
preda. Questo si chiamava portare il nemico al limite. A quel punto Meesh avrebbe commesso un errore. Al sorgere del sole Pike, per non disturbare la ragazza, chiamò Cole dal bagno e gli disse del motel. Capì dal suo tono di voce che era preoccupato. «Sei stato riconosciuto?» «No.» «Sicuro?» Visto che non rispondeva, Cole si lasciò sfuggire un sospiro. «Okay, forse no. I poliziotti non hanno ancora buttato giù a calci la mia porta. Il tempo di fare una doccia e arrivo.» Quando Pike uscì dal bagno trovò Larkin in soggiorno. Non si era mai alzata così presto da quando era con lui. Lei si rifiutò di incrociare il suo sguardo, quasi fosse imbarazzata per la sera prima. «Hai fatto il caffè?» chiese. «Non volevo svegliarti.» «Lo faccio io.» Stava per andare in cucina, quando lui la bloccò. «Vieni, ho delle cose da farti vedere.» La sera prima non le aveva detto nulla di quanto era accaduto al motel. Adesso, però, la portò al tavolo dove aveva già sistemato i passaporti in attesa di Cole. Prese quello di Luis, tenendolo aperto alla pagina con la foto. Lei lo osservò per un momento, poi scosse la testa. «Jésus Leone. Chi è?» «Uno degli uomini che hanno fatto irruzione in casa tua. Quello che ha picchiato la governante. Il suo vero nome era Luis. Il cognome non lo so.» Pike le mostrò gli altri passaporti, uno per uno, ma lei non riconobbe nessuno. Li degnò a malapena di un'occhiata. «Dove li hai presi?» Pike ignorò la domanda. «Hai mai sentito il nome Barone?» «No.» «E il nome Carlos?» Lei scosse la testa, poi riprese il passaporto di Luis. Osservò la foto, ma Pike capì che non stava pensando a Luis. «Ti turba quando, sai, quando tu...?» «No.» «No?» «No.» Lasciò cadere il passaporto insieme agli altri. «Bene.»
Cole arrivò con un piccolo televisore, un Sony da tredici pollici. Né Pike né Larkin glielo avevano chiesto, ma lui aveva pensato che alla ragazza potesse fare piacere. «Era lì, inutilizzato, nella camera degli ospiti» disse. «Non sono neppure sicuro che funzioni.» Pike dubitava che Cole lo avrebbe portato fino a lì senza controllare se funzionava, ma non disse nulla. Non disponevano di una prolunga per l'antenna esterna, ma il televisore era dotato di due antennine che spuntavano da dietro come orecchie. Lo sistemarono su un tavolo in soggiorno, lo accesero e il piccolo schermo si illuminò subito. Non si potevano ricevere i canali via cavo, ma le stazioni locali si prendevano benissimo. Larkin ringraziò Cole, ma senza troppo entusiasmo. Era tutta la mattina che era mogia: non scostante, solo silenziosa. Quando Cole era arrivato gli aveva rivolto un sorriso timido ed era rimasta a osservarli in silenzio mentre sistemavano il televisore. Una volta acceso, si parcheggiò sul divano con una tazza di caffè, lo sguardo fisso su uno show del mattino, ma, ogni volta che Pike la guardava, capiva che lei non vi prestava realmente attenzione. Come se avesse altro per la mente. Pike fece vedere a Cole i passaporti. Cole li osservò bene sotto la luce. «Sono degli ottimi falsi. Sono arrivati in dodici?» «Così ha detto l'uomo. Adesso sono rimasti in cinque.» Cole posò i passaporti. «A meno che non abbiano chiesto rinforzi.» Pike gli mostrò le mappe, i biglietti aerei, e il foglio sgualcito strappato da un blocco a spirale che aveva trovato addosso a Luis. La pagina era stata piegata e ripiegata un'infinità di volte, e probabilmente infilata in tasca altrettante volte. Appunti scritti a mano, indecifrabili, coprivano entrambe le facciate, in tutte le direzioni, con frasi lunghe non più di qualche parola. Prima che la ragazza si svegliasse, Pike aveva passato una ventina di minuti a cercare di capirci qualcosa, ma non ci era riuscito. Probabilmente Luis aveva preso quegli appunti guidando, magari con un telefono stretto tra l'orecchio e la spalla e una mano sul volante. Pike immaginò che fossero nomi e indirizzi. I numeri erano chiaramente recapiti telefonici. Cole osservò la pagina perplesso. «Suppongo che non insegnino calligrafia alle scuole per criminali.» Poi guardò i biglietti aerei e le cartine, li mise da parte insieme agli appunti e passò a esaminare l'orologio. Quando lesse l'incisione inarcò le sopracciglia. «George come George King?»
«È un orologio da sessantamila dollari.» «Potrei fare un controllo sul numero di serie.» Cole posò l'orologio sulle cartine e passò ai telefoni. Pike aveva fatto un elenco delle chiamate effettuate e ricevute da ognuno dei due cellulari, contraddistinti dai nomi: "Jorge" e "Luis". Jorge aveva fatto soltanto tre telefonate, tutte al numero di Luis. Luis ne aveva fatte quarantasette, a diciannove numeri diversi. Cole guardò l'elenco, poi i due cellulari. «Quale è di chi?» Pike toccò prima un telefono, poi l'altro. «Jorge. Luis.» Cole rigirò i telefoni tra le mani, osservandone il fondo. «Peccato che non abbiamo le password. Potremmo sentire i messaggi, se ce ne fossero.» «Lasciali accesi. Potrebbe chiamare qualcuno.» «Forse chiamare quel tizio non è stata una grande idea. È probabile che si disfi del cellulare e ne compri un altro. A quest'ora l'avrà già fatto.» «Una volta trovati Luis e George avrebbero comunque capito che i telefoni li avevamo noi. Volevo solo stressarlo.» Cole lanciò un'occhiata alla ragazza per accertarsi che non li stesse ascoltando, e abbassò la voce. «Hai ucciso sette dei suoi uomini. Starà mandando giù Maalox a litri.» «Così adesso è una questione personale. Meglio.» «E se dovesse pensare che è così personale da tornarsene in Colombia?» «Lo seguirei.» Cole lanciò un'altra occhiata alla ragazza. «Ma tu non credi che l'uomo con cui hai parlato sia Meesh?» «Aveva un accento... Era appena accennato, ma mi è parso un accento francese. O francese misto a spagnolo. Ieri ero convinto che non fosse Meesh, adesso, però, non ne sono più tanto sicuro.» «Perché?» «Come parla un criminale di Denver? Nel suo fascicolo non si fa menzione di alcun accento particolare, ma quei rapporti non sono accurati.» Cole passò in rassegna i numeri un'altra volta. «Anche se si liberano dei telefoni, potrei riuscire a ricavare comunque qualcosa. Questi diciannove numeri significano che ha chiamato diciannove telefoni e questi telefoni ne hanno chiamati altri. Non verranno tutti gettati via. Parlerò con un'amica che lavora alla compagnia dei telefoni. Magari lei riesce a farsi dare i tabulati dagli altri gestori. Prima o poi salteranno fuori numeri intestati a persone con nomi veri.»
Pike si accorse che la ragazza lo stava osservando. Gli ospiti del talkshow stavano discutendo di una causa per paternità intentata contro una star del cinema, ma lei non vi prestava attenzione. «Come va?» disse Pike. «Bene» rispose lei, tornando a voltarsi verso il televisore. Cole stava di nuovo esaminando i biglietti aerei e prendeva appunti. Né le cartine, né i biglietti, né i fogli di carta contenevano un indizio importante, tipo una ricevuta d'albergo a nome Alexander Meesh, ma Pike non si aspettava di trovare qualcosa di così diretto. Cole avrebbe dovuto fare controlli sui telefoni, proprio come Chen stava controllando le pistole. Prima o poi sarebbe saltato fuori qualcosa di utile ad accorciare la distanza tra lui e Meesh. Pike era paziente. La caccia procedeva un passo per volta. E passo dopo passo ti ritrovavi con la preda nel reticolo del mirino. Tutto stava nel fare il primo passo. Pike si staccò da Cole per andare a controllare le finestre. La BMW degli armeni era sempre al suo posto, in strada e intorno alle case era tutto normale. Non era comparso alcun veicolo estraneo, nessuno sconosciuto era appostato tra i cespugli. Sembrava tutto a posto. Nonostante fosse ancora presto, Pike sentì l'aria scaldarsi e capì che avrebbe fatto molto caldo. Il cielo era velato da una lieve foschia. A mezzogiorno l'atmosfera della città sarebbe stata satura di idrocarburi e ozono, e avrebbe assalito la loro pelle come uno sciame di insetti invisibili. Voltò le spalle alla finestra. La ragazza fissava il televisore ma Pike sapeva che un attimo prima stava guardando lui: aveva colto il movimento dei suoi occhi che tornavano verso lo schermo. «Oggi accenderemo l'aria condizionata.» «Fantastico. Grazie.» «Stai bene?» «Sì. Benissimo.» Pike si chiese perché lei si rifiutasse di incrociare il suo sguardo. Non era da lei. Non è che fosse arrabbiata o volesse fare la strana. Semplicemente si rifiutava di sostenere il suo sguardo. Pike vide che Cole era ancora al lavoro, e si avvicinò alla ragazza. Le andò così vicino che lei non ebbe altra scelta che alzare gli occhi verso di lui. «Cosa c'è?» disse lei. «Non ti preoccupare.» «Di cosa?» «Di ieri sera. Dimenticalo. È tutto a posto fra me e te.»
«Lo so.» Pareva ancora più a disagio, se possibile, ma si sforzò di sorridere mentre Cole chiamava Pike dal tavolo. «Ho trovato qualcosa.» Cole faceva dondolare la sedia all'indietro, tenendo il foglio strappato dal block-notes alzato davanti agli occhi. «Sei riuscito a decifrare quello che ha scritto?» chiese Pike. «Le parole no, ma i numeri quasi tutti. Guarda...» Pike si avvicinò, e questa volta la ragazza lo seguì. Cole spianò il foglio sul tavolo e indicò uno dei numeri. 18185. «Come se avesse cominciato a scrivere un numero di telefono e poi si fosse interrotto» osservò Pike. «Questo non è un numero di telefono» ribatté Cole. «Potrebbe sembrarlo, ma in realtà è un indirizzo...» Cole posò una delle sue cartine sul foglio, poi alzò lo sguardo verso Larkin. «Questa è la tua strada. Il numero mi è saltato agli occhi perché ho preso appunti su ogni indirizzo.» «Io abito al 17922» disse lei. «Stai tre isolati più a nord, nel blocco 17900. I numeri salgono andando verso sud. Qui è dove hai avuto l'incidente...» Cole indicò un punto sulla strada contrassegnato con una crocetta per indicare il luogo dell'incidente, poi batté il dito sull'edificio vicino «... e questo è il 18185, proprio nel vicolo da cui stavano uscendo in retromarcia quando tu li hai investiti.» Cole aveva annotato l'indirizzo di ogni edificio. Il 18185 era il magazzino abbandonato all'imboccatura del vicolo. «Quando è arrivato Luis nel nostro paese?» disse Pike. Cole controllò le date sul biglietto aereo. «Quattro giorni dopo l'incidente. I federali erano già stati nella zona. Larkin era con il padre a Beverly Hills e l'incidente era storia vecchia. Se era Larkin il loro obiettivo, l'avrebbero cercata nel suo appartamento, o a Beverly Hills. Che interesse poteva avere il luogo dell'incidente?» Pike sapeva che Cole aveva ragione. Luis e i suoi sicari non avevano alcun motivo di andare sul luogo dove era avvenuto l'incidente. «Quindi, forse non era stato inviato sul luogo dell'incidente, ma nell'edificio.» «Dovremmo dare un'altra occhiata.» Pike andò a prendere una camicia con le maniche lunghe mentre Cole
radunava le carte. Mentre si abbottonava la camicia, Pike sorprese ancora una volta la ragazza intenta a guardarlo. Aveva riflettuto a lungo su cosa fare quando l'avesse lasciata di nuovo sola ed era giunto a una decisione. «Puoi restare qui, se vuoi. Non sei costretta a venire con noi e restare in macchina.» La ragazza parve sorpresa, poi voltò la testa quasi che il peso dello sguardo di lui risultasse doloroso. La Larkin che lui aveva visto ballare sul bancone non era imbarazzata o a disagio, come non lo era la Larkin incontrata nel deserto. Questa era una Larkin diversa. Pike capiva che lei avrebbe voluto dire qualcosa, ma che non riusciva a decidersi. «Vorrei venire anch'io, se non è un problema» disse. Non lo aveva semplicemente affermato o ordinato. Lo aveva chiesto. «Come vuoi tu» rispose. Cinque minuti dopo erano fuori, diretti alle loro auto. 28 Pike e Larkin seguirono l'auto di Cole giù dalle colline, viaggiando in silenzio su strade insolitamente deserte. La ragazza non sedeva più con le gambe raccolte sotto di sé sul sedile come il giorno precedente. Guardava avanti, con i piedi posati sul pavimento. Pike non fece commenti. Se aveva voglia di parlare avrebbe parlato. Altrimenti no. Però la osservava con la coda dell'occhio. Per due volte lei parve sul punto di dire qualcosa, ma poi distolse lo sguardo. Stavano attraversando il Sunset Boulevard quando chiamò John Chen. «Non ho potuto telefonarti prima.» Chen parlava così piano che Pike aveva difficoltà a sentirlo. Probabilmente c'erano delle persone vicino a lui. «Puoi chiamarmi da una posizione migliore?» «Sono sulla scena di un omicidio a Monterey Park. Uno schifoso bastardo ha versato del liquido sgorgante in gola a sua madre. L'ha tenuta ferma finché lei ha smesso di dibattersi e poi si è costituito alla polizia. Sono qui dalle sei. Adesso sono in bagno.» «Hai qualcosa per me?» «Avevi visto giusto su quelle impronte.» «Li hai identificati?» «Due su due, grazie al database sudamericano dell'Interpol. Merda, aspetta un momento...»
La voce di Chen si fece più lontana, ma al tempo stesso più forte. Pike sentì Chen che diceva: «Non posso farci niente... quelle carnitas erano andate a male...». «Stronzi» sussurrò, poi. «Dimmi cos'hai trovato.» «Jorge Manuel Petrada e Luis Alva Mendoza. Petrada è colombiano. Arrestato diverse volte in Colombia, Venezuela ed Ecuador. Mendoza è nato in Ecuador, ma anche lui si è dato da fare all'estero. Entrambi sono stati in carcere e sono attualmente ricercati per diversi omicidi. Mendoza anche per tre accuse di stupro. Dove hai preso quei bicchieri, amico?» Pike ignorò la domanda. «Per chi lavoravano?» «Risultano associati a un certo Esteban Barone, un membro del cartello di Quito, identificato dalla DEA come uno dei gruppi che hanno preso in mano il traffico di droga dopo lo scioglimento dei cartelli di Medellin e Cali.» «Hanno soci o familiari qui a Los Angeles?» «Non risulta.» «Da qualche altra parte negli Stati Uniti?» «Niente.» «Collegamenti con qualche gang?» Le gang latinoamericane di Los Angeles come i Mara 18 e gli MS-13 si erano diffuse anche nel Centro e nel Sudamerica. «No. Facevano i soldati per questo Barone. Niente indica che fossero già stati qui in precedenza.» Chen aveva confermato quello che Pike aveva saputo da Jorge, ma non gli aveva fornito alcun elemento nuovo per avvicinarsi a Meesh. «Hai controllato le pistole?» «Non posso farlo finché non vado via di qua, ma ascolta... i federali hanno confiscato anche le pistole di Malibu. Sono entrati nel laboratorio dello sceriffo e si sono portati via tutto, come hanno fatto da noi: pistole, bossoli, tutto quanto.» «Pitman?» «Lo stesso tipo di accordo... nessuna domanda. Anche i morti di Malibu e Eagle Rock facevano parte di questo gruppo di Quito?» «Sì.» «Sai cosa penso? Penso che i federali sappiano già chi è questa gente e che non ci vogliano tra i piedi.» «Probabilmente hai ragione, John.»
«Non capisco. Sono dei trafficanti di droga. E va bene. Perché ai federali dovrebbe importare se identifichiamo questi stronzi dell'Ecuador? I nostri uomini collaborano spesso con le agenzie internazionali. Conosco gente della Narcotici che passa più tempo in Messico che a casa.» Pike si chiedeva la stessa cosa. Il riciclaggio di denaro sporco era riciclaggio, che il denaro venisse dai mafiosi del New Jersey o dai trafficanti di droga dell'Ecuador. Gli sforzi compiuti dai federali per tenere segreta la loro indagine sui King aveva sempre meno senso, senza contare che non si vedeva la necessità di tagliare fuori la polizia. Pike non ci credeva. Secondo lui Pitman stava coprendo qualcos'altro, ma non sapeva cosa. «Pensi che se passassi le impronte dei cadaveri di Malibu e Eagle Rock nel database dell'Interpol troverei qualcosa? Sarebbe un colpo grosso, amico. Davvero fantastico.» «Meglio lasciar perdere, John.» «Meglio?» «Lascia perdere. Potremmo scoprire che è una cosa più grossa di quanto pensiamo.» «Tu non mi hai detto tutto, vero?» «È che non so ancora tutto. So qualcosa, ma non tutto. Ti dirò di più quando lo scoprirò.» Chen si lasciò sfuggire un grugnito, per indicare che era disposto a puntare su un colpo ancora più grosso. «Fammi capire... cosa sono venuti a fare qui, questi tizi dell'Ecuador?» «A morire.» Era la risposta migliore che Pike aveva in quel momento. Chiuse il cellulare, poi si voltò verso la ragazza. Lei lo stava di nuovo osservando. «Il nome completo è Esteban Barone.» «Non mi dice niente.» «Gli uomini che stanno cercando di ucciderti lavorano per questo Barone.» «Credevo lavorassero per Meesh.» «Barone è in affari con Meesh. Questo è quanto ha affermato Pitman: che Meesh era qui per investire il denaro dei sudamericani.» Visto che Larkin non rispondeva, Pike si voltò a guardarla. La ragazza lo fissava con quell'espressione pensosa che aveva dal mattino, ma questa volta non distolse lo sguardo. «Devo farti una domanda» disse lei. «Ieri sera, quando hai detto che io voglio farmi notare... Perché l'hai detto?»
Pike pensava che fosse ovvio. «Perché ti senti invisibile. Se nessuno ti guarda tu non esisti, quindi cerchi ogni modo per farti notare.» Una ruga sottile comparve tra le sue sopracciglia, ma lei non sembrava arrabbiata, né offesa. «Sono in terapia fin da quando avevo undici anni. Tu mi conosci da tre giorni. Cristo, è così evidente?» «Sì.» «Perché? Perché ballavo sul bancone del bar? Va' un po' a vedere quello che fanno il Martedì Grasso.» Pike pensò a un altro esempio. «Nel deserto... il modo in cui hai guardato tuo padre... non lo stavi solo guardando, volevi vedere se si interessava a te. Lui era concentrato su Bud, il suo avvocato e me, e così tu hai dovuto dire qualcosa di offensivo per attirare la sua attenzione. Volevi che lui ti guardasse.» Larkin voltò la testa verso il finestrino. «Non mi interessa se mi guarda o no.» «Adesso no, forse, ma prima sì. Altrimenti non ti saresti sforzata così tanto di attirare la sua attenzione.» Lei tornò a girarsi verso di lui. La ruga tra le sopracciglia si era distesa. «E tu capisci tutto questo guardandomi?» «Osservandoti. C'è differenza.» «E come mai riesci a osservare con tanta chiarezza?» Pike si chiese se aveva voglia di rispondere o no. Era una persona riservata. Non parlava mai di sé, e non gli piaceva la gente che lo faceva, ma supponeva che la ragazza avesse il diritto di chiederglielo. «Capitava che i miei e io stessimo guardando la tivù, mia madre, mio padre e io, oppure cenando, e qualcosa lo faceva scattare. Allora il mio vecchio mi riempiva di botte. O me o lei. Così avevo imparato a osservare per cogliere i segnali. Il modo in cui incurvava le sue spalle, in cui stringeva le labbra, quanto liquore si versava. Un dito in più nel bicchiere, ed era pronto a partire. Piccole cose che ti aiutano capire. Se le noti ti salvi. Se ti sfuggono finisci all'ospedale. Così impari a osservare.» Lei rimase in silenzio. Quando Pike la guardò, vide che aveva un'espressione triste. «Mi dispiace» disse lei. «Il fatto è che ho visto il gioco fra te e tuo padre. Tu volevi da lui qualcosa che non ricevevi, e probabilmente non hai mai ricevuto.» «Grazie per avermi osservato» disse lei.
Pike annuì. «Bud ha detto a Gordon e a mio padre che tu mi avresti protetta. Mio padre si è limitato a guardare Gordon. Gordon voleva sapere quanto costavi. Ma Bud gli ha detto che tu eri la persona giusta. E credo che tu lo sia.» «Bud ha detto altro?» chiese Pike continuando a guidare. «Solo che aveva lavorato con te. Che potevamo fidarci. Ha detto che tu avresti risolto il problema. Ce l'ha garantito.» Pike assimilò quelle parole senza fare commenti, impassibile, nascondendo la propria tristezza così come era abituato a nascondere ogni altra emozione. Shortstop Lounge Ore 7.20 Lo Shortstop era un'istituzione per la polizia di Los Angeles. Situato sul Sunset Boulevard a Echo Park, a metà strada tra la Alvarado e il Dodger Stadium, il locale era comodo sia per gli agenti della stazione di Rampart sia per l'Accademia di polizia. Tra le pareti di legno scuro coperte di distintivi e gagliardetti del dipartimento si festeggiavano compleanni, divorzi, pensionamenti, promozioni e commemorazioni, e si vivevano momenti carichi di emozione ogni volta che un agente sopravviveva a una sparatoria. Allo Shortstop cominciavano carriere. E finivano anche. Alle 7.20 del suo giorno libero, Pike sedeva a un tavolino, unico tra i presenti a essere solo, ignorando gli sguardi tesi e i commenti. Si aspettava anche di peggio e comunque non gli importava. Aveva scelto lui quel luogo per incontrarsi con Bud Flynn. Pike aveva tre anni, quattro mesi e rotti di servizio. Il suo anno di prova si era concluso ventotto mesi prima. Di tutti i suoi compagni di Accademia, lui era il primo e per adesso l'unico ad aver ucciso un essere umano durante l'adempimento del dovere, una differenza verso la quale nutriva sentimenti contrastanti. Cinque settimane prima era diventato il primo della sua classe a uccidere un secondo uomo. Quella seconda sparatoria era avvenuta un terribile pomeriggio all'Islander Palms Motel, una squallida topaia dove, per sua stessa ammissione davanti a una commissione di inchiesta della polizia di Los Angeles, Joe Pike aveva causato la morte di un altro agente, Abel Wozniak, un veterano decorato, con ventidue anni di servizio, per difendere la vita di un pedofilo, un certo Leonard DeVille. Abel Wozniak era stato il compagno di Pike. Avevano occupato parecchie
volte, insieme, lo stesso tavolo al quale lui sedeva ora, ma quei tempi erano finiti. COMMISSIONE DI INCHIESTA Rapporto sulla morte dell'agente Abel Wozniak Sequenza degli eventi (come da risultanze): 9.25: Ramona Ann Escobar (anni 5, femmina) rapita a Echo Park Lane. 9.52: Diramato avviso di allerta per Escobar; sospettato L. DeVille, noto pedofilo, avvistato nella zona. 11.40: Agenti Wozniak e Pike apprendono posizione di DeVille, visto da teste in compagnia di minore di sesso femminile. 11.48: Agenti Wozniak e Pike arrivano all'Islander Palms Motel. 11.52: Agenti Wozniak e Pike entrano nella stanza di DeVille; interrogano DeVille, trovano prove fotografiche di Escobar, ma la bambina non è presente. (Mettere a verbale che le prove comprendono foto della minore Escobar mentre subisce abusi sessuali da parte di DeVille.) 11.55: Agente Wozniak minaccia di uccidere DeVille se questi non consegna la minore; agente Wozniak colpisce DeVille con la pistola d'ordinanza. (Mettere a verbale che il medico del pronto soccorso dichiara compatibili le ferite di DeVille.) 11.56: Agente Pike tenta inutilmente di calmare Wozniak; agente Wozniak punta l'arma contro DeVille; agente Pike interviene. 11.57: Gli agenti Wozniak e Pike lottano; dall'arma parte un colpo; l'agente Wozniak muore sul colpo. (Mettere a verbale: gli esami condotti da Scientifica, Sezione Investigativa e Medico Legale confermano questa versione.) (Mettere a verbale: storia precedente dell'agente Wozniak con il sospettato DeVille: due arresti.) Conclusioni: sparo accidentale. Non si ritiene di dover procedere ad alcuna accusa. Alle sette e mezzo di mattina lo Shortstop era affollato di agenti smontati
dal turno di notte, impazienti di lasciarsi alle spalle la tensione della strada prima di tornare a casa. Pike ignorò il modo in cui tutti lo guardavano: il poliziotto che aveva provocato la morte del suo compagno per difendere un pedofilo. Quando entrò nel bar, con i pollici infilati nel cinturone, Bud aveva l'aria torva di un pistolero. Era uno dei pochi agenti presenti a indossare ancora l'uniforme: tutti gli altri avevano fatto una doccia e si erano cambiati alla stazione. Aveva la mascella contratta e la sua bocca era una fessura tirata, senza labbra. Bud si guardò intorno, scrutando la folla finché Pike alzò una mano. Non si vedevano da settimane. Da prima che succedesse il fattaccio. Quando stabilirono un contatto visivo, Pike fece un cenno con la testa. Bud guardò la stanza, i pollici ancora infilati nel cinturone, poi disse, a voce così alta che tutti i presenti si voltarono verso di lui: «Questo è l'uomo migliore che io abbia mai addestrato, l'agente Joe Pike». «Vaffanculo lui e vaffanculo pure tu» rispose qualcuno dal fondo del locale a voce altrettanto alta. Alcuni risero. Bud andò direttamente al tavolo di Pike e si sedette su uno sgabello. Se anche aveva sentito il commento, non reagì. Neppure Pike. Era un po' come affrontare una folla in sommossa. «Grazie per essere venuto» disse Pike. «Togliti quei cazzo di occhiali. Fanno ridere, qua dentro.» Proprio come se Pike fosse ancora un pivello e Bud il suo istruttore: Pike non se li tolse. «Lascio il lavoro» disse. «Non volevo che venissi a saperlo da qualcun altro.» Bud lo guardò come se Pike gli dovesse dei soldi, poi guardò torvo gli uomini davanti al bancone. Un detective della squadra Antirapine li stava osservando e incrociò lo sguardo di Bud. «Allora?» fece Bud sostenendo lo sguardo dell'altro. Il detective abbassò gli occhi sul suo drink e Bud tornò a voltarsi verso Pike. «Stronzi.» «Lascia perdere.» «Non lasciare che questi bastardi ti mettano sotto. Vai per la tua strada.» Pike allargò le mani, a indicare il bar e tutti i suoi clienti.
«Siamo allo Shortstop, Bud. Se qualcuno ha qualcosa da dire, può dirmelo in faccia.» Bud fece un sorriso sbieco, ma era un sorriso afflitto. «Già. Immagino sia da te chiedermi di incontrarti qui, invece che in un altro posto.» «Oggi darò le dimissioni. Volevo dirtelo di persona, faccia a faccia.» Bud inspirò, riflettendo, poi intrecciò le dita. A Pike parve deluso e questo gli dispiacque. «Senti» disse Bud «non farlo. Chiedi di entrare alla divisione Metro. È un'unità d'eccellenza, il meglio del meglio. Dopo, potrai fare tutto quello che vuoi, in questo lavoro. Se non vuoi diventare detective, puoi fare domanda per le unità speciali. Sta a te scegliere.» «È deciso, Bud. Io lascio.» «Maledizione, sei troppo bravo per lasciare. Tu sei un poliziotto.» Pike cercò di pensare a qualcosa da dire, ma non ci riuscì. Non quello che avrebbe voluto dire veramente. Nonostante gli oltre tre anni di servizio si considerava ancora la recluta di Bud, e cercava la sua approvazione, anche se di certo non se l'aspettava adesso. All'improvviso Bud si sporse verso di lui e gli chiese a voce bassa: «Cosa è successo là dentro?». L'Islander Palms Motel. Pike si appoggiò allo schienale della sedia e subito si maledisse per quel gesto: Bud lo avrebbe visto come una mossa evasiva. Nell'anno di addestramento, Bud gli aveva insegnato a leggere le persone... le sfumature del linguaggio del corpo, l'espressione del volto, un gesto, potevano salvare la vita a un poliziotto. Pike cercò di rimediare sporgendosi nuovamente in avanti, ma capì che era troppo tardi. Bud era bravo. Era un mago. «Lo sai cos'è successo» rispose. «Lo sanno tutti. L'ho dichiarato alla commissione d'inchiesta.» «Stronzate. Non è stata una colluttazione per impossessarsi della pistola. Conoscevo Woz e conosco te. Se davvero volevi quella pistola gli saresti saltato addosso prima che lui potesse scoreggiare.» Pike si limitò a scuotere la testa, cercando di risultare convincente. «È quello che è successo.» Bud lo studiò, poi, abbassando ancora di più la voce, disse: «Ho sentito che aveva qualche problema. Woz era sotto indagine?». Pike avvertiva su di sé lo sguardo indagatore di Bud e sapeva che qua-
lunque movimento o cambio di espressione lo avrebbe tradito, così si schiarì la voce e rispose con il minor numero di parole possibile. «Non lo so.» Bud gli posò una mano sul braccio. «Ho sentito che il medico legale aveva qualche dubbio. Ha detto che l'angolo d'entrata del proiettile era compatibile con una ferita autoinferta.» Senza abbassare lo sguardo, Pike ripeté quanto dichiarato davanti alla commissione. «Wozniak ha puntato la pistola contro DeVille. Io l'ho afferrata e abbiamo lottato. Invece di togliergli l'arma di mano, l'ho girata verso di lui. Avrei potuto fare diversamente, forse, ma questo è ciò che ho fatto. Durante la colluttazione è partito un colpo.» «Se stavate lottando per la pistola» disse Bud parlando lentamente «potrei capire un colpo all'addome, o magari al petto. Ma alla tempia?» «Lascia perdere, Bud. È andata così.» «Quindi, quello che è successo là dentro non ha niente a che vedere con la famiglia di Wozniak?» Come se sapesse. Come se potesse leggergli nel pensiero che Wozniak era sotto indagine per furto e associazione a delinquere, e che lui aveva cercato di convincerlo a dare le dimissioni per il bene della sua famiglia. «No.» «Non ha niente a che vedere con i benefici in caso di morte, vero? Perché se si fosse ucciso, la famiglia non avrebbe ottenuto niente, mentre se è morto lottando con te, loro possono continuare a prendere l'indennità.» Come se tutto quello che Pike aveva nella mente se lo portasse scritto sulla fronte. «Lascia perdere, Bud. È andata così.» Finalmente Bud si ritrasse, e Pike lo amò e rispettò ancora di più per questo. Sembrava soddisfatto di ciò che aveva visto. «Senti cosa facciamo» disse. «Conosco lo sceriffo di San Bernardino. Potresti trasferirti là. Conosco dei ragazzi in gamba, nella contea di Ventura. Potresti andarci anche tu.» «Ho già un'altra proposta.» «Cosa farai?» «Andrò in Africa.» Bud aggrottò la fronte, come se solo un pazzo potesse lasciare un lavoro nella polizia per andare laggiù.
«Cosa c'è là? I Corpi di Pace?» Pike non avrebbe voluto affrontare l'argomento, ma non sapeva come evitarlo. «È un lavoro a contratto. Attività militari. Hanno del lavoro da fare laggiù.» Bud si irrigidì. Era chiaramente turbato. «Cosa significa lavoro a contratto?» «Cercano gente con esperienza di combattimento. Come quella che ho fatto nei marines.» «Vuoi dire che farai il mercenario?» Pike non rispose. Si era già pentito di avergli parlato dei suoi progetti. «Cristo! Se vuoi giocare alla guerra, arruolati di nuovo nei marines. È un'idea stupida. Perché mai dovresti andare a farti ammazzare in un posto di merda come l'Africa?» Pike aveva accettato un lavoro a contratto con una società privata di sicurezza con sede a Londra. Era un lavoro nel quale eccelleva, che capiva con la chiarezza di un obiettivo perfettamente definito. E in quel momento lui aveva bisogno di chiarezza. Avrebbe preso le distanze dal fantasma di Wozniak. E ancora di più dalla moglie di Wozniak. «Ora devo andare» annunciò Pike. «Volevo dirti che sono felice che tu sia stato il mio istruttore. Volevo ringraziarti.» Pike gli porse la mano, ma Bud non la strinse. «Non farlo.» «Ormai è fatta.» Pike continuò a tendere la mano, e Bud continuò a ignorarla, poi si alzò dallo sgabello e tornò a infilare i pollici nel cinturone. «Il giorno in cui ci siamo conosciuti tu volevi servire e proteggere. Hai citato il nostro motto. Immagino che tu abbia cambiato idea.» Pike abbassò la mano. «Sono deluso, figliolo. Ti credevo migliore.» Figliolo. Bud Flynn uscì dallo Shortstop. Non si sarebbero mai più parlati fino a quel giorno, nel deserto. Pike rimase seduto al tavolino, intontito, svuotato. Sono deluso, figliolo. Ascoltò gli uomini e le donne intorno a lui. Erano come tutte le altre persone con cui aveva lavorato: parlavano, ridevano, si lamentavano, mentivano. Alcuni li rispettava, altri no. Alcuni gli piacevano, altri no. Di-
versi uno dall'altro come i sassi di una spiaggia, ma diversi dall'altra gente, e per questo Pike li ammirava... Erano quelli che correvano verso il pericolo per proteggere e servire. A Pike piaceva fare il poliziotto. Non riusciva a pensare a una cosa che gli piacesse di più, ma devi giocare con le carte che hai in mano, e adesso quella parentesi si era conclusa. Pike uscì dallo Shortstop, andò al suo camioncino ripensando alla sua prima uscita con Bud Flynn, la sera in cui avevano risposto a quella chiamata per violenza domestica. Non ci pensava quasi mai, come pensava raramente alle sue missioni di combattimento o alle botte che gli aveva dato suo padre. Nella sua mente passarono istantanee di Fabrocini che pugnalava Bud al petto. Vide le tacche di mira della Beretta allineate sopra l'orecchio di Fabrocini e l'attimo in cui aveva premuto il grilletto. Vide lo spray rosso. E dopo, Bud che, ancora tremante, diceva: "Il nostro lavoro non è quello di uccidere la gente... è quello di mantenerla viva". Parlando di un uomo che lo aveva pugnalato al petto. Che uomo, Bud Flynn. Che poliziotto. «Mi mancherai» disse a voce alta. Il padre che non aveva mai avuto. Pike avviò il motore e partì. Aveva giocato con le carte che aveva in mano, anche se erano brutte, e ora ne sopportava le conseguenze. Ma qualche volta avrebbe desiderato qualcosa di meglio. 29 Grossi camion avanzavano brontolando lungo il fiume diretti all'autostrada. All'imboccatura del vicolo era fermo lo stesso furgone del giorno prima, solo che adesso, essendo mattina, il gruppo di operai dei laboratori vicini stavano consumando la colazione a base di burritos e succo d'arancia. Come fermò l'auto dietro quella di Cole, Pike sentì subito l'odore del salammo piccante e del chili. Osservò la facciata del magazzino finché trovò il numero civico, sbiadito ma ancora leggibile, quasi un'ombra sul muro chiaro. 18185. Cole era in gamba. Pike lanciò un'occhiata a Larkin. «Sei sicura?» «Voglio venire con voi. È tutto a posto.» Lei fece per aprire la portiera, ma Pike la bloccò. «Aspetta Elvis.» Cole scese dall'auto per primo. Guardò i tetti e le finestre tutto intorno
come un agente del Servizio segreto che deve controllare il percorso del presidente, quindi prese una lunga sacca di tela verde da dietro il sedile del passeggero e se la mise a tracolla. Pike lo vide fare una smorfia di dolore. Da come era tesa la cinghia si capiva che la sacca era pesante. Cole si avvicinò alla portiera dalla parte della ragazza. «C'è un piccolo spiazzo in fondo al vicolo che dovrebbe fare al caso nostro. Ci sono un cancello chiuso da un lucchetto e un paio di porte. Andiamo a vedere.» «Non avrete intenzione di scassinarli?» Cole scoppiò a ridere. «Non sarebbe la prima volta.» Entrarono nel vicolo: prima Cole, poi la ragazza e per ultimo Pike. Sulla loro destra c'era il magazzino abbandonato, sulla sinistra l'officina. Le grosse porte erano ancora chiuse da una catena, ma Cole proseguì fino in fondo al vicolo, che sbucava nell'altra strada. All'angolo dell'edificio era stato ricavato un piccolo parcheggio con una zona di carico. Lo spiazzo era invaso di spazzatura e fogli di giornale ingialliti; dalle fessure formatesi nell'asfalto spuntavano grossi ciuffi marrone di erbacce ormai morte. Da un muro, all'altezza del petto di Pike, spuntava una piattaforma di carico; su quello accanto, a livello del terreno c'era una porta di metallo per il passaggio delle persone. Il cartello di un'immobiliare coperto di graffiti, che pubblicizzava l'affitto o la vendita dell'edificio, era fissato al cancello con del fil di ferro. Pike si voltò a guardare il furgone della ristorazione mentre Cole sbirciava attraverso il cancello e annunciava: «Sì. Sono stati qui». Quando Pike tornò a girarsi, Cole indicò un angolo del tetto dove era montato un pannello d'allarme a cui mancava il coperchio. I fili erano stati tagliati e ponticellati. Chiunque lo aveva manomesso non si era neppure curato di rimettere a posto il coperchio, come se non gli importasse che l'effrazione venisse scoperta. Pike lanciò un'occhiata a Cole. «Sei sempre dell'idea?» «Certo. Le compagnie di assicurazione costringono i proprietari a mantenere la sorveglianza anche se gli edifici non vengono utilizzati. Adesso non dobbiamo preoccuparci delle guardie. Così è tutto più facile.» Cole prese dalla sacca un paio di tronchesi lunghe un metro con le quali tranciò il lucchetto, e Pike aprì il cancello. Cole andò direttamente alla porta, seguito dalla ragazza e da Pike che restava indietro per coprire le spalle. L'ingresso per i dipendenti era rinforzato da una lastra di metallo e chiuso da tre grosse serrature di sicurezza. Cole non perse tempo a cercare di
forzarle: le scardinò con uno scalpello d'acciaio e una mazza da cinque chili. Pike era orgoglioso della ragazza: non aveva aperto bocca, non aveva fatto domande. Si limitava a starsene lì, un po' in disparte a braccia conserte, a osservare Elvis. Quando la porta si aprì, Cole rimise gli attrezzi nella sacca, prese due torce e ne porse una a Pike, insieme a un paio di guanti di lattice monouso. Pike entrò per primo in una zona buia, un tempo adibita a ufficio, ma ormai spogliata di mobili, attrezzature o oggetti di qualche valore. Uno spesso strato di polvere e di escrementi di topo copriva il pavimento, nell'aria aleggiava un odore pungente di urina. Pike accese la torcia e vide una confusione di orme recenti impresse sulla polvere a terra. Poi mosse qualche passo in modo che anche Elvis e Larkin potessero entrare, quindi si accucciò a esaminare le impronte. «Che puzza!» esclamò Larkin. Cole accese la torcia e la puntò sulle impronte. «Cosa ne pensi?» Pike si alzò. «Tre persone. Una settimana fa, più o meno. Forse dieci giorni.» Fece correre il fascio di luce lungo una serie di impronte fino all'angolo della stanza dove c'era una grossa macchia sul pavimento. «Cos'è quello?» chiese Larkin. «Uno dei nostri amici ha orinato.» «Che schifo!» Le impronte provenivano da una seconda stanza dietro la prima. «Là dentro» disse Pike. Come il precedente, anche quel locale era spoglio. Nella parete si aprivano una porta e una vetrata da cui il direttore poteva tenere d'occhio il magazzino. Oltre il vetro si estendeva uno spazio enorme, cavernoso, illuminato solo dal debole chiarore proveniente dal lucernario. Pike puntò la torcia, ma l'oscurità inghiottì il raggio di luce. Nonostante la visuale limitata, riuscì a scorgere altre orme oltre il vetro. Cole e la ragazza gli si avvicinarono, uno per parte. «Sono venuti qui soltanto una volta. Si sono guardati intorno e non sono tornati.» La ragazza avvicinò il viso al vetro, tenendo le mani a coppa per vedere meglio. «Cosa cercavano? Cosa c'entra questo posto con me?» Cole andò alla porta. «È quello che vogliamo scoprire. Dimmi se trovi un indizio, okay?»
Quando Cole aprì la porta, una nuova zaffata di ammoniaca lo assalì, accompagnata da un odore più forte, di organico. Larkin si coprì la bocca. «Ugh.» Pike seguì Cole nel magazzino, con la ragazza alle calcagna. I loro passi echeggiavano rumorosi, le torce fendevano l'oscurità come sciabole. Fu la ragazza a vederla per prima. «Omioddio! Quella è la macchina!» Pike e Cole la videro un attimo dopo. Una Mercedes berlina color argento era parcheggiata alle loro spalle, vicino alla piattaforma di carico che dava sul piccolo parcheggio, sola e in piena vista nel magazzino vuoto. Il paraurti dietro la ruota posteriore sinistra era piegato e accartocciato. «Questa è la macchina che ho urtato. La Mercedes.» La ragazza si avvicinò, per niente spaventata, come se quella fosse una cosa del tutto naturale, parte della sua vita quotidiana. «Larkin» disse Pike. Lei andò dritto alla Mercedes, guardò dentro, si portò una mano allo stomaco e vomitò. Cole la raggiunse e la costrinse a voltarsi, mentre Pike puntava la torcia all'interno attraverso il vetro del finestrino. Il cadavere di un uomo era accasciato al posto di guida. Quello di una donna giaceva sdraiato su un fianco sul sedile posteriore. Erano entrambi nudi, le caviglie, le ginocchia e i polsi legati con una corda. I corpi erano scolorati e così gonfi che i legacci avevano inciso la carne. Erano stati uccisi con un colpo alla nuca. Pike immaginò che si trattasse dei coniugi King, ma non li aveva mai visti. Si voltò verso la ragazza. «Credo siano i King, ma non ne sono certo. Riesci a capirlo?» Larkin respirava affannosamente con la bocca. Era terrea, ma si avvicinò comunque per vedere. «È che mi ha preso alla sprovvista, tutto qui.» Pike si mise tra lei e la macchina. «Non guardare dietro. Concentrati sull'uomo sul sedile anteriore» disse, puntando la torcia. La ragazza si sporse per dare un'occhiata. «È lui. È George King. Omioddio.» Pike lanciò un'occhiata a Cole, che annuì. «Va' con Elvis. Ci metterò solo pochi minuti» disse Pike. «No. Posso stare qui.» «Non sei obbligata.» Il volto di lei assunse un'espressione risoluta, e a Pike piacque il modo in
cui lei cercava di farsi forza. «Posso restare. Sto bene.» Pike si voltò verso la Mercedes e puntò nuovamente la torcia all'interno. Le chiavi erano ancora inserite nel quadro, e questo significava che le portiere non erano chiuse. Pike si voltò verso la ragazza. «Copriti la bocca e il naso con un fazzoletto. Se non ce l'hai usa la maglietta.» Lei parve perplessa. «Perché?» «L'odore. Copriti naso e bocca.» Lei si tirò su la maglietta e se la premette contro il viso con entrambe le mani, ma questa volta si allontanò. Anche Cole arretrò. Pike aprì la portiera del guidatore. I gas che si erano sprigionati dai cadaveri per più di una settimana lo investirono con la puzza di uovo marcio tipica di un corpo in decomposizione. Pike aveva sentito altre volte quell'odore, in Africa, nel Sudest asiatico e in tanti altri posti: cadaveri lasciati per giorni dentro le case o ai bordi delle strade, oppure in fosse poco profonde. Niente aveva un odore peggiore della morte di un altro essere umano, né cavalli, né bestiame, neppure le balene che marcivano sulla spiaggia. La morte di un uomo aveva l'odore di ciò che si nascondeva nel tuo futuro, di quello che ti aspettava. «Oh, Cristo!» esclamò la ragazza dietro di lui. Pike tolse le chiavi dal quadro, poi esaminò il corpo dell'uomo. George King era stato colpito dietro l'orecchio destro. Il proiettile era uscito dalla tempia sinistra, portandosi via anche un pezzo di testa grande quanto un limone. Se indossava orologio, anelli o altri gioielli, erano spariti. Pike non trovò altre ferite. La mancanza di schizzi di sangue e frammenti di tessuti nell'auto faceva pensare che fosse stato ucciso fuori dal veicolo e poi messo lì dentro. Pike controllò il pavimento sotto il volante, lo spazio sotto il sedile e l'aletta parasole. Nella tasca di quest'ultima erano infilati una carta di circolazione rilasciata dallo Stato della California e un certificato di assicurazione emesso a nome di George King. Pike passò al sedile posteriore. La donna era in condizioni peggiori. Anche lei era stata colpita alla nuca, ma due volte, come se il primo proiettile non fosse bastato a ucciderla. Mancava gran parte dell'occhio e della guancia destra, come pure eventuali gioielli. Era raggomitolata sul fianco destro, ma aveva la coscia e il braccio sinistro rosso porpora, dove il sangue si era accumulato dopo la morte. Anche questo suggeriva che fosse stata uccisa in un luogo diverso e poi
trasportata nel magazzino, dando tempo al livor mortis di sopraggiungere. Pike controllò il pavimento anche lì e il sedile sotto il corpo, ma non trovò nulla. Si scostò dall'abitacolo, aprì il bagagliaio e qui scoprì uno strato di giornali inzuppati di sangue. Questo confermava le sue supposizioni. I due erano stati giustiziati altrove, caricati nel bagagliaio e poi trasportati nel magazzino a bordo della loro auto. Pike rimise le chiavi nel quadro, chiuse la portiera e raggiunse Cole e la ragazza. Erano accanto al portellone della piattaforma di carico, il più lontano possibile dalla macchina. Pike aspettò di essere vicino a loro prima di fare un respiro profondo. L'odore era così forte che gli bruciavano gli occhi. Cole puntò la torcia verso il lucernario, e poi lungo i segni lasciati dai pneumatici sul pavimento polveroso. «Sono entrati dal lucernario, hanno aperto la porta dall'interno, poi hanno risalito la rampa con l'auto.» «Credo di dover vomitare ancora» disse Larkin. «Andiamocene. Usciamo da qui.» Una volta fuori, si tolsero i guanti di lattice e respirarono a fondo per togliersi quel fetore dalle narici. Cole e Larkin si misero a tossire. Pike osservava la ragazza, arrabbiato per la sua situazione, perché tutto era peggio di quanto si aspettassero. Larkin si accorse che lui la stava guardando. «Adesso va meglio. È stato quell'odore.» «Quando Pitman e Blanchette ti hanno avvicinato la prima volta, sono venuti a casa tua?» le chiese Cole. «Sì» rispose lei e tossì di nuovo, facendo una smorfia. «Quando li hai incontrati in centro, dove vi siete visti?» «Al Roybal Building. È lì che si trova l'ufficio dei federali.» «Erano presenti solo Pitman e Blanchette, oppure c'erano anche altri agenti?» «Che differenza fa?» «Sta cercando di stabilire se Pitman sia davvero un agente federale» spiegò Pike. «Tutto quello che ti ha detto si è rivelato una menzogna.» Lei scosse la testa. Non capiva. «La stanza era piena di gente. C'era mio padre... Gordon aveva portato altri due avvocati del suo studio. Noi non muoviamo un passo senza i nostri legali. È stato Gordon a prendere accordi sul mio coinvolgimento, fin dall'inizio.» «Perché Meesh sta cercando di ucciderti?» disse Pike.
«Perché io non possa testimoniare contro il signor...» In quel momento lei capì e si bloccò. Cole terminò la frase per lei. «Da come te l'ha spiegata Pitman, Meesh ti vuole morta in modo che tu non possa testimoniare contro i King. Presumibilmente tutto quello che ti è capitato è perché Meesh stava proteggendo i King.» Larkin scosse la testa. «Ma i King sono morti.» «Già, e sono stati gli uomini di Meesh a ucciderli. Meesh sa che sono morti. Per lui non farebbe alcuna differenza che tu testimoniassi o no contro di loro. Non si possono incriminare dei cadaveri.» «Forse li ha fatti fuori qualcun altro. Forse non è stato Meesh.» «Luis aveva al polso l'orologio di George King» disse Pike. «È stato Meesh.» «E allora perché sta cercando di uccidermi?» «Non lo so.» Cole si voltò verso il magazzino. «Mi domando perché questa gente abbia messo i corpi nel punto dove hai avuto l'incidente. Avrebbero potuto gettarli ovunque, invece li hanno portati qui.» «Raccontale anche il resto» disse Pike. Larkin incrociò le braccia, impallidendo. «C'è dell'altro?» Cole voltò le spalle al magazzino. «Il giorno dopo l'incidente, il pomeriggio seguente, due giorni prima di interrogare te, Pitman e Blanchette e almeno altri due agenti hanno interrogato la gente qui intorno. Hanno mostrato le foto di due uomini, di cui una coincide con la descrizione che hai dato di Meesh. Pitman sapeva o sospettava che Meesh fosse a bordo della macchina già prima di parlare con te. Ti hanno mentito anche su questo.» Larkin sollevò le mani e si premette i palmi contro la testa. Stava cercando di mantenere il controllo. «Ditemi che le cose non possono andare peggio di così.» «Scopriremo tutto» disse Pike. «Parleremo con Bud. Non hanno mentito soltanto a te, hanno mentito a tutti.» Lei si lasciò sfuggire un singhiozzo che somigliava più a una risata. «Vi prego, ditemi che la situazione non può peggiorare.» Pike l'attirò a sé e la tenne stretta per quella che parve un'eternità, ma in realtà fu solo per qualche secondo, poi fece strada verso le loro auto. Notò che Cole si attardava dietro di loro e osservava gli edifici come se stessero sussurrando, rivelando segreti che nessuno di loro poteva udire.
30 Elvis Cole Il magazzino e i cadaveri abbandonati al suo interno gli davano da pensare. L'edificio si trovava esattamente nel punto in cui le vite di Larkin, dei King e di Meesh si erano incrociate, e adesso qualcuno aveva ucciso i King e nascosto i loro corpi proprio lì, correndo un rischio enorme. Quel luogo era la chiave di tutto. L'assassino aveva lasciato lì i corpi per mandare un messaggio. Quello che Cole non riusciva ancora a capire era chi voleva mandare il messaggio e chi avrebbe dovuto riceverlo. Cole approfittò del momento di calma tra il traffico impazzito del mattino e gli ingorghi dell'ora di pranzo. Uscì dall'autostrada al Santa Monica Boulevard e si diresse a ovest, verso il suo ufficio. Pike e Larkin stavano tornando a Echo Park per chiamare Bud Flynn, ma Cole era dell'idea che non avrebbero dovuto informarlo finché non avessero scoperto con certezza di chi potevano fidarsi, e al momento non potevano fidarsi di nessuno. Si chiese se Pitman e Blanchette sapessero dei cadaveri abbandonati nel magazzino. Forse erano stati proprio loro a metterli lì. I due si erano presentati a casa sua identificandosi come agenti speciali del dipartimento di Giustizia. Cole pensava che lo fossero realmente. Era possibile falsificare delle credenziali, ma loro avevano fatto i prepotenti con la polizia di Los Angeles e la polizia non si fa mettere i piedi in testa da due finti agenti federali. Inoltre Larkin, suo padre e i loro legali si erano incontrati in più occasioni con loro e altri agenti negli uffici dell'FBI. E quelle stesse persone avevano affidato i Barkley al servizio di protezione testimoni dei marshal. Cole non aveva dubbi che Pitman e Blanchette fossero agenti federali, ma tutta l'operazione dava l'impressione di un colossale imbroglio e lui si domandava cosa ci fosse dietro. Cole aveva un ufficio nella parte occidentale di Hollywood; vi era andato solo un paio di volte dopo essere stato dimesso dall'ospedale. Salì le quattro rampe di scale portando con sé gli appunti, le cartine, l'elenco dei numeri di telefono e le altre informazioni raccolte. Né Pitman, né Meesh, né sicari ecuadoregni lo stavano aspettando. Fatto deludente ma prevedibile. I cattivi raramente aspettano te: sei tu che devi andare a cercarli. «Ehi, testa di legno, come ti va?» disse Cole. Pinocchio gli sorrideva dal muro. Cole aveva trovato l'orologio su una bancarella di oggetti usati. Aveva una grossa faccia da Pinocchio sorriden-
te e gli occhi che si muovevano a tempo con il ticchettio del meccanismo. Solitamente i clienti restavano indifferenti, ma criminali e poliziotti ne erano affascinati. Cole aveva smesso di interrogarsi sul perché. A Cole piaceva il suo ufficio, e gli piaceva come si sentiva quando stava lì. Aveva anche una stanza attigua per Joe Pike, che però non era mai stata usata. Davanti alla scrivania erano sistemate due sedie da regista per quelle rare occasioni in cui due clienti si contendevano la sua attenzione. Oltre le poltroncine una portafinestra si apriva su un terrazzino. Nelle giornate limpide poteva uscire sul balcone e vedere tutto il percorso del Santa Monica Boulevard giù fino alle Channel Islands. Nelle giornate migliori, la donna che occupava l'ufficio accanto al suo prendeva il sole sul terrazzo con indosso un bikini grande quanto un francobollo. Cole aprì la portafinestra per far entrare un po' d'aria, poi andò alla scrivania. Per prima cosa si dedicò al magazzino. Sistemate le sue cartine, telefonò in Florida a una donna di nome Maria Hendricks, che era in grado di ricostruire la storia dell'immobile, corredata di eventuali ipoteche, contenziosi, assegnazioni e sfratti relativi alla proprietà. Cole si serviva di lei da anni, ormai, come molti altri investigatori privati di tutto il paese. Maria era una donna anziana, obesa e costretta su una sedia a rotelle, che si guadagnava da vivere effettuando ricerche su vari database online a cui era iscritta. Non aveva accesso a banche dati militari, mediche e delle forze dell'ordine - fonti riservate per legge -, ma praticamente a tutto il resto sì. Quando Cole ebbe finito di parlare con Maria, osservò l'elenco dei numeri di telefono e chiamò la sua amica che lavorava alla compagnia telefonica. «Cominciavo a pensare che non mi volessi più bene» fu la prima cosa che disse la donna. «Tu mi vuoi bene solo perché posso procurarmi dei biglietti per le partite dei Dodgers.» «No. Mio marito ti vuole bene per i biglietti dei Dodgers. Io perché i tuoi biglietti lo fanno felice.» «Allora ho idea che tutti e tre stiamo per provare questa travolgente felicità.» Tempo prima Cole aveva aiutato uno scrittore di successo a liberarsi di un uomo che lo perseguitava via Internet. Il romanziere aveva degli ottimi posti nell'esclusivo Dodgers Dugout Club e li divideva con Cole parecchie volte all'anno. Gratuitamente. «Ho una lista di numeri da identificare» disse Cole.
«Nessun problema.» «Prima che tu ti comprometta, ti avverto: gran parte di questi numeri sono probabilmente di telefoni usa e getta, e altri quattro sono stranieri.» «Potrei avere un problema con quelli stranieri, se non compaiono sull'elenco.» «È probabile che siano numeri dell'Ecuador.» «Potrebbero anche essere della Siberia, non cambia nulla: i gestori stranieri sono restii a collaborare, a meno che non si passi per i canali ufficiali, ai quali io non posso ricorrere visto che lo faccio solo per quei biglietti dei Dodgers.» «Ricevuto.» «Per quanto riguarda i telefoni usa e getta... tanto perché tu lo sappia, se sono stati acquistati in contanti non posso scoprire a chi appartengono. È un'informazione che non esiste.» «Se non riesci a identificare il proprietario di un dato numero, potresti comunque ottenere i tabulati telefonici di quel numero?» «È possibile.» «Prima o poi questi telefoni devono aver chiamato dei telefoni normali, riconducibili a un nome. Magari possiamo arrivarci procedendo all'inverso.» Per qualche secondo lei non disse nulla. Cole la lasciò riflettere. «Ci proverò» riprese la donna alla fine. «Dipende tutto dal gestore. Alcune di queste piccole compagnie... Be', dammi questi numeri, vedrò quello che posso fare.» «È un elenco lungo. Posso mandartelo per fax?» Cole si annotò il numero di fax e le inviò la lista, poi mise sul fuoco il caffè. Mentre aspettava, tornò alla scrivania e rilesse il rapporto dell'NCIC su Alexander Meesh. Voleva vedere se gli era sfuggito qualcosa che potesse spiegare l'accento straniero di cui aveva parlato Pike, o qualcosa che potesse collegare Meesh a Esteban Barone o a quel tale "Carlos". Ma non c'era nulla. Una sola riga collegava Meesh al Sudamerica: "... lasciato il paese e si pensa che attualmente risieda a Bogotá, in Colombia". Gli agenti che avevano indagato su di lui dovevano aver raccolto delle prove o delle deposizioni che collocavano Meesh a Bogotá, altrimenti non lo avrebbero scritto sul rapporto. Cole andò all'ultima pagina del rapporto e vide il nome della persona che si era occupata delle indagini: agente speciale Daryl Willis del dipartimento di Giustizia del Colorado. Polizia di Stato. Probabilmente l'FBI era subentrata in un secondo tempo. Willis era
stato il primo a occuparsene, perché l'omicidio è un reato statale. Sotto il nome di Willis era riportato un numero di telefono. Erano passati sei anni, ma Cole decise di fare comunque un tentativo. Rispose una donna. «Investigativa.» «Daryl Willis, per favore.» Lei lo mise in attesa e ce lo lasciò per quasi cinque minuti. Cole passò il tempo osservando gli occhi di Pinocchio finché dall'altra parte si sentì la voce di un uomo. «Sono Willis.» «Parla Hugh Farnham. Sono un detective della Omicidi di Devonshire, del dipartimento di polizia di Los Angeles. La chiamo per un omicidio di cui lei si è occupato qualche anno fa, a opera di un ricercato di nome Alexander Meesh.» Cole snocciolò un numero di distintivo inventato lì per lì. Dubitava che Willis ne avrebbe preso nota, ma sapeva che era la cosa giusta da fare. «Ah, sì, certo. Di cosa ha bisogno?» Willis avrebbe potuto mostrarsi più incuriosito se Cole gli avesse chiesto di che colore era la sua auto. «Abbiamo preso il suo fascicolo dall'NCIC e trovato la sua annotazione in cui si dice che è fuggito in Colombia...» «Esatto. All'epoca degli omicidi aveva dei collegamenti con un tizio, laggiù. Non faceva abbastanza soldi con le rapine sulle strade qui da noi: voleva mettersi nel traffico di droga e aveva stretto un accordo con... mi faccia pensare... un certo Gonzalo Lehder. Aveva fatto qualche viaggio in Colombia per perfezionare i dettagli. Quando lo abbiamo incriminato, lui è fuggito.» Cole annotò il nome. Lehder. «Lehder era un fornitore?» «Uno di quelli che sono saltati fuori dopo lo scioglimento dei cartelli di Cali e Medellin. Erano nate una quarantina di piccole organizzazioni, che adesso non sono più così piccole.» «Meesh era collegato con un uomo di nome Esteban Barone?» «Mi spiace, ma non saprei.» «Barone viene dall'Ecuador.» «A me risulta solo questo Lehder.» Sei anni erano un sacco di tempo. Probabilmente Meesh aveva iniziato con Lehder e poi era passato a Barone e ad altre organizzazioni. Centoventi milioni di dollari erano un bel capitale da investire.
«Okay. Torniamo a Meesh» disse Cole. «Aveva dei contatti qui a Los Angeles?» «Mi spiace, ma non ricordo.» «E Lehder? Se pensa a Lehder le viene in mente qualcosa riguardo a Los Angeles?» «Senta, Farnham, sono passati cinque, sei anni da quando mi sono occupato di questa vicenda. Posso chiederle di cosa si tratta?» «Meesh è a Los Angeles. Crediamo sia coinvolto in un omicidio plurimo.» Willis non disse nulla e Cole aspettò, osservando gli occhi di Pinocchio. «Sta parlando di Alexander Meesh?» chiese Willis dopo un po'. «Esatto.» «Alexander Liman Meesh?» «Proprio lui.» «Meesh non è a Los Angeles, amico. Alexander Meesh è morto.» Cole smise di fissare gli occhi del burattino e posò i piedi per terra. Non sapeva cosa pensare. Larkin era stata interrogata più volte da cinque o sei agenti federali, tutti convinti dell'identificazione da lei fatta. Cole sospettava che avessero anche trovato le impronte di Meesh sull'auto di George King, ma Willis sembrava assolutamente sicuro delle sue affermazioni. Adesso la sua voce non era più così annoiata. «Abbiamo un'identificazione confermata dall'FBI» disse Cole. «Basata su cosa? Hanno una corrispondenza di impronte digitali? Di DNA?» Cole non sapeva su quali elementi si basassero, ma se dicevano che era Meesh doveva essere Meesh. «Sì, tutt'e due.» «Allora quella gente non sa distinguere un test di laboratorio da una ricetta di cucina. Alexander Meesh è morto.» Willis era passato dall'indifferenza all'interesse e poi alla collera, quasi si trattasse di un affronto personale. «Come fa ad affermare che è morto?» chiese Cole. Willis esitò, come se fosse in dubbio se rispondere o meno. Cole lo incalzò. «Ho un omicidio plurimo, qui, agente Willis. Mi hanno incaricato di trovare Alexander Meesh, e adesso lei mi dice che i federali si sono sbagliati. Come fa a essere così sicuro?» Willis emise una specie di grugnito, poi si schiarì la voce.
«I colombiani e la DEA stavano dando la caccia a Lehder. È così che siamo venuti a sapere che Meesh era morto. La polizia colombiana ha avvertito la DEA e la DEA ha avvertito me. Meesh era laggiù da otto mesi e stava cercando di organizzare un affare tra Lehder e certi venezuelani, solo che Lehder gli si è rivoltato contro e lo ha ucciso.» «Se Meesh è morto, come mai non avete chiuso il suo fascicolo?» «È per via della DEA. Avevamo saputo che Meesh era laggiù grazie a degli agenti sotto copertura infiltrati nell'organizzazione di Lehder. Se avessimo chiuso il fascicolo con l'annotazione della morte di Meesh, o avessimo menzionato Lehder come complice, avremmo compromesso quegli agenti. Inoltre, non si può affermare che uno è morto senza un certificato di morte in mano, e non credo che potremo mai averlo.» «Perché?» «Lehder scoprì che Meesh gli aveva mentito sulla quantità di droga che i venezuelani intendevano vendere. Meesh voleva tenere per sé la differenza. Lehder lo scoprì, ma si comportò come se non sapesse nulla e spedì Meesh in Venezuela a ritirare la droga insieme a tre o quattro dei suoi uomini. Questi ammazzarono Meesh nella giungla. È una giungla molto vasta. I suoi resti non sono mai stati trovati, e probabilmente non lo saranno mai.» «Allora come potete essere certi che sia morto? Magari è fuggito. O è sopravvissuto. Oppure ha comprato gli uomini di Lehder.» «Gli infiltrati della DEA e della polizia colombiana erano presenti quando gli uomini di Lehder sono tornati, portando la testa di Meesh in modo che lui potesse vederla. Hanno lasciato il corpo nella giungla, ma hanno portato via la testa. Gli agenti erano lì quando quei tipi hanno tirato fuori la testa da un sacco. Lehder ha detto: "Bravi, ragazzi, ottimo lavoro" e la cosa è finita lì.» Cole era senza parole, ma Willis proseguì. «Allora eravamo tutti convinti che Lehder avesse realmente mandato Meesh in Venezuela per prendere la droga. Ci aspettavamo che Meesh sarebbe tornato indietro con duecento chili di cocaina pura. La DEA e la polizia colombiana erano pronte ad arrestare tutti quanti. A loro non interessava Meesh, volevano Lehder. Io volevo Meesh per quegli omicidi commessi qui da noi e così lasciarono che li accompagnassi. Ero con loro in quella stanza, detective. Ho visto la testa. Ma senza la droga, i colombiani rinunciarono a effettuare l'arresto. Non cercarono neppure di incastrarlo per l'omicidio di Meesh, e così dovetti restarmene lì per un'altra ora a bere
tè, come se niente fosse. Ancora adesso non so cos'abbiano fatto della testa i ragazzi di Lehder, ma l'ho vista. L'ho riconosciuto. Era Meesh. Quindi, chiunque abbiate identificato lì a Los Angeles, non è Alexander Meesh.» Cole si sentiva svuotato. Gli ronzavano le orecchie come se fosse stato troppo tempo senza mangiare. «Posso farle un'ultima domanda, agente Willis?» «Roba da farti restare senza parole, eh?» «Sì, può dirlo forte.» «Cos'è che voleva chiedermi?» «Meesh aveva un difetto di pronuncia o parlava con un accento straniero?» Willis scoppiò a ridere. «E perché avrebbe dovuto avere un accento straniero?» «Grazie, agente Willis. La ringrazio per il tempo che mi ha dedicato.» Cole tirò su i piedi e li appoggiò al ripiano della scrivania, fissando Pinocchio. L'unico rumore nell'ufficio era il ticchettio dell'orologio. La telefonata a Willis avrebbe dovuto essere una cosa semplice. Cole sperava di scoprire qualcosa sul collegamento tra Meesh e Barone, su eventuali appoggi che Meesh poteva avere a Los Angeles, magari sul perché di quell'accento straniero... ma questo proprio no. È questo l'uomo che ha visto, signorina Barkley? Sì. Chi è? Si chiama Alexander Meesh. Cole rimase a fissare l'orologio con la faccia di Pinocchio, e poi una statuetta di ceramica del Grillo Parlante regalatagli da un cliente. Lascia che la coscienza sia la tua guida. Tutti hanno bisogno di un Grillo Parlante. Sfogliò il rapporto dell'NCIC, che non conteneva né impronte digitali, né foto, né analisi del DNA. Non hai bisogno di quelle cose se credi sempre a quello che ti dicono. 31 Pike guidava lentamente, con i finestrini abbassati in modo che l'aria li ripulisse da quell'odore. Scelse un percorso lungo e tortuoso attraverso Chinatown, guidando per più di un'ora. Non avevano fatto colazione, ma la ragazza non aveva fame. Pike si fermò comunque a prendere del cibo cinese da mangiare più tardi. Sperava che l'aria e il lungo tragitto l'aiutassero a dimenticare i cadaveri, ma la prima cosa che Larkin fece quando arrivaro-
no a casa fu andare al tavolo dove era ancora posato il necessario per pulire le pistole. Versò del solvente per polvere da sparo su uno straccio e se lo premette contro il naso come un tossico che sniffa pittura. «Sento ancora l'odore. Nei capelli. Addosso.» I King. Pike le prese lo straccio di mano. «Fatti una doccia e lavati i denti. Indossa abiti puliti. Al resto ci penso io.» Mentre lei era in bagno, Pike telefonò a Bud, che però non rispose. Pensò di lasciare un messaggio, ma temeva che potesse ascoltarlo qualcun altro e decise di riprovare più tardi. Quando Larkin tornò, con i capelli bagnati e degli abiti puliti, Pike pensò a sé. Si strofinò con forza, massaggiandosi a lungo con il sapone, si risciacquò e si rilavò, facendo scorrere l'acqua calda finché non ne rimase più. Quando ebbe finito bagnò i vestiti, li insaponò e li lasciò in ammollo nella vasca da bagno. Avrebbe lavato anche quelli della ragazza, ma temeva di rovinarli. Indossò gli ultimi abiti puliti che gli restavano e, quando uscì in soggiorno, trovò Cole e Larkin. Cole aveva in mano una grossa busta gialla. «Sentivo così tanto la vostra mancanza che non ho potuto fare a meno di tornare qui.» «È appena arrivato» disse Larkin. «Anche lui dice che sente ancora quell'odore.» Pike capì subito che c'era qualcosa che non andava. La tensione nel corpo di Cole era evidente come un cadavere che penzola dal soffitto. Ma, a beneficio della ragazza, fingeva che fosse tutto normale. «Cosa c'è?» chiese Pike. «Ho qui una cosa da far vedere a Larkin. Date un'occhiata.» Pike li seguì al tavolo, dove Cole aprì la busta ed estrasse due fotografie sgranate che parevano uscite da un fax. Erano foto segnaletiche che ritraevano un uomo con i capelli scuri e il viso rotondo, gli occhi piccoli e il naso butterato. Cole si ritrasse in modo che la ragazza potesse guardare bene. Pike lo osservava. «Allora, cosa mi dici? Hai mai visto quest'uomo?» le chiese Cole con noncuranza, come se le domandasse se gradiva delle patatine. «No. Chi è?» «Alexander Meesh.» Larkin scosse la testa, come se Cole avesse fatto un errore banale.
«No, questo non è Meesh.» «È Meesh. È stato ucciso in Colombia cinque anni fa. Queste sono le sue foto segnaletiche, scattate dalla polizia di Denver.» Pike le posò una mano sulla spalla. Larkin sentiva la tensione nel trapezio. Non voleva credere a quello che aveva appena sentito. «Be', magari si è fatto fare una plastica facciale. È possibile, no? A volte i criminali lo fanno.» Cole scosse il capo. «Larkin, mi dispiace. Questo è Meesh. Il fascicolo che ti ha consegnato Pitman è quello di Meesh, ma l'uomo che tu hai visto in compagnia dei King non era Meesh.» «E allora chi era?» «Non lo so.» «Perché avrebbero dovuto mentirmi su quest'uomo?» «Per lo stesso motivo per cui ti hanno mentito su tutto il resto» disse Pike. Cole lo guardò. «Sarà meglio che parli con il tuo amico Bud e vedi su cos'altro hanno mentito.» Larkin si irrigidì all'improvviso. «Omioddio! Dobbiamo avvertire mio padre.» Pike esitò. Qualunque fosse il gioco di Pitman, loro erano in vantaggio finché lui non sapeva di essere stato scoperto. Pike non si fidava di Conner Barkley e dei suoi avvocati; temeva che si sarebbero traditi. «Non possiamo avvertire tuo padre. Non ancora.» Larkin arrossì violentemente. «Non posso non dirglielo! Questa gente ha mentito su tutto, e adesso viene fuori che Meesh non è neppure Meesh! Chi è quest'uomo? Perché mentono?» «Larkin...» Lei lo afferrò per la maglia. «Hanno mentito anche a lui, e lui gli crede! È mio padre. Se non glielo dite voi, glielo dirò io!» Pike la osservò. Nei suoi occhi c'erano paura e speranza. Conner Barkley era suo padre. Lei voleva proteggerlo. Forse, allora, lui si sarebbe accorto di lei. Pike prese il telefono e compose il numero di Bud. Questa volta rispose. Pike gli disse che avevano bisogno di incontrare lui e il padre di Larkin al più presto. Era importante, insistette Pike. Stabilì il luogo e concluse la telefonata prima che Bud potesse fargli domande. Quando abbassò il telefo-
no, la ragazza gli strinse il braccio. Adesso era più tranquilla, anche se non particolarmente felice. Pike non poteva biasimarla. «Quando eravamo al magazzino...» disse Cole. Pike attese che terminasse la frase. «Sono felice che tu non le abbia detto che le cose non potevano andare peggio di così.» Pike si voltò verso la ragazza. «Va' a prendere la tua roba. Andiamo.» 32 In California la guerra tra Messico e Stati Uniti si era conclusa a Universal City. Lontano dalle battaglie che ancora si combattevano vicino a Città del Messico e sul confine texano, il trattato che metteva fine alle ostilità locali venne siglato in una piccola missione in stile adobe nota con il nome di Campo de Cahuenga, sulla sommità del Cahuenga Pass. La missione esisteva ancora, ma adesso passava quasi inosservata, sull'altro lato della strada rispetto agli Universal Studios, nascosta tra svincoli autostradali, parcheggi e due strane torri che segnalavano l'ingresso di una stazione della metropolitana. Era un buon posto per incontrare qualcuno. Pike e la ragazza aspettavano con il motore acceso quando l'Hummer nero svoltò, proveniente dalla Lankershim. L'Hummer passò davanti alla missione e attraversò il parcheggio venendo a fermarsi nella fila accanto. Un attimo dopo le portiere si spalancarono e scesero Bud, Conner Barkley e il suo avvocato, Gordon Kline. Pike non fu particolarmente felice di vedere Kline. «Togliamoci il fastidio» disse. Scesero mentre Bud e gli altri venivano verso di loro. «Larkin, era ora...» disse suo padre. «Eravamo preoccupatissimi per te. Andiamocene da qui.» Larkin non si mosse. «Io non vado da nessuna parte. Siamo venuti qui soltanto per avvertirti.» Suo padre sembrava agitato, quasi temesse che lei stesse per fare una scenata. «Ma tu devi venire a casa. Noi eravamo preoccupati.» Poi si rivolse a Kline. «Diglielo anche tu, Gordon. Dille che deve smetterla.» Pike era già stufo di quei due. Si voltò verso Bud e parlò solo per lui. «Pitman non ha detto la verità. L'uomo che lui ha indicato come Ale-
xander Meesh non è Meesh. Meesh è morto cinque anni fa.» Gordon Kline alzò le mani in un gesto che Pike aveva visto mille volte quando era poliziotto. Pantomima forense. «Non abbiamo tempo per queste sciocchezze. La denunceremo per rapimento. Ho capito che lei era un pazzo l'attimo stesso in cui l'ho vista.» «Chiudi quella cazzo di bocca!» ordinò Larkin a voce alta, arrabbiata. Barkley continuava a guardare Kline. Larkin afferrò il padre per il braccio. «Vuoi ascoltarmi? Vuoi guardarmi, per favore, e ascoltarmi? Siamo venuti qui per mettere in guardia te.» Conner Barkley aveva un'espressione afflitta. «Non fare così, Larkin. Siamo tutti preoccupati.» «Ti portiamo a casa» disse Kline. Fece per afferrarla, ma Pike gli prese la mano e la ruotò. Kline fece un salto all'indietro. «Figlio di puttana! Flynn! Faccia qualcosa!» «Avrebbe potuto strappargliela, Gordon. Vediamo cos'hanno da dirci.» Pike prese dalla tasca la foto dell'arresto di Meesh e la porse a Flynn. «Questo è Meesh. E non è l'uomo ritratto nelle foto che Pitman ha mostrato a Larkin.» Kline e Barkley si sporsero oltre la spalla di Flynn per vedere. Barkley pareva dubbioso, Kline si allontanò subito, spazientito. «No, non lo è, e allora? Per quanto ne sappiamo, potrebbe essersi inventato tutto.» Bud si voltò lentamente verso di lui. «Perché avrebbe dovuto?» «Per spillarci altri soldi.» Larkin era concentrata su suo padre. «Questo non è l'uomo delle loro foto. Ci hanno detto che quell'uomo era Alexander Meesh, ma non è così. Ci hanno mentito, papà.» Papà. Non sembrava una parola che lei potesse usare. A Pike piacque che lei lo avesse fatto, ma allo stesso tempo lo rattristò. Kline inspirò a fondo e disse, con tono più pacato: «Quelle foto le abbiamo viste tutti, e sono d'accordo con voi... l'uomo delle foto non era questo. Ma da come la mettete sembrerebbe che abbiano voluto ingannarci. È anche possibile che due persone abbiano lo stesso nome». Bud scorse velocemente i fogli allegati alle foto. «Stesso nome magari sì, ma non la stessa fedina penale. Il rapporto è assolutamente identico a quello che mi ha consegnato Pitman quando ho
cominciato a occuparmi di questa faccenda.» Kline inarcò le sopracciglia. «Davvero? Allora ecco cosa dobbiamo fare: liberarci di Pike. Adesso. Pike deve andarsene. Dobbiamo riportare Larkin a casa e poi chiederemo spiegazioni al signor Pitman. Ho un sacco di domande da fargli. E, credetemi... se le risposte non dovessero piacermi, rimpiangerà di essere nato.» Conner continuava a fare cenno di sì con la testa, come se quella fosse la migliore idea che avesse mai sentito. «Perché non andiamo a casa, tesoro? Una volta a casa vedremo cos'ha da dire questo Pitman.» «Io non vengo a casa.» Kline teneva lo sguardo fisso a terra come se non riuscisse a credere ai problemi che lei stava causando. «Flynn. Potrebbe farla salire in macchina?» disse, con voce stanca. «No, signore. A meno che non lo faccia volontariamente.» «A casa non è al sicuro, Kline» disse Pike. «Non lo capisce?» Gordon Kline alzò lo sguardo e studiò Pike da sotto le sopracciglia folte. «Va a letto con lei?» chiese con tono volutamente pacato. La bocca di Pike ebbe un guizzo, ma la sua attenzione era tutta per Conner Barkley. L'uomo non reagì e Pike si sentì ancora più triste per la ragazza. «Vaffanculo, Gordon» disse Larkin. «Questo è intralcio alla giustizia. Tu sei una testimone in un'indagine federale. Quest'uomo ti sta mettendo in situazioni pericolose...» «Questa è una situazione pericolosa.» «... e si sta alienando le persone che cercano di aiutarti. Io sto solo dicendo che forse Pitman aveva un buon motivo per fare quello che sta facendo. Lo chiederemo a lui, e sarà meglio per lui che abbia delle spiegazioni convincenti.» «Gli chieda perché ha finto di non sapere chi era in compagnia dei King la sera in cui Larkin ha sbattuto contro la loro auto.» «Sta dicendo che lo sapeva?» «Il giorno dopo l'incidente è andato in giro per il quartiere a mostrare le foto di quell'uomo... Due giorni prima di parlare con Larkin. Gli chieda anche perché l'uomo che secondo lui è Meesh sta cercando di uccidere Larkin nonostante i King siano morti.» Kline lanciò un'occhiata a Conner Barkley, poi scosse la testa. «Ho parlato con l'agente Pitman questa mattina. Mi ha detto che stanno ancora cer-
cando i King.» «Sono morti da più di una settimana. Li abbiamo trovati ieri.» «Non capisco.» «Li abbiamo trovati» disse Larkin. «Cioè, siamo andati a dare un'occhiata e li abbiamo trovati. Qualcuno ha messo i loro cadaveri esattamente dove ho avuto l'incidente, Gordon. Vuoi l'indirizzo? È il 18185. Credo sia un messaggio. Vogliono farci capire che io li raggiungerò.» Kline si passò la lingua sulle labbra. Guardò Barkley e scosse la testa. «Sei sicura che fossero i King? Stai dicendo che George King è morto?» «E anche sua moglie. Erano nella Mercedes» rispose Larkin con voce rotta. Bud fissò Pike. «Come è successo?» «Un colpo alla testa. Giustiziati in un altro posto e poi trasportati nel magazzino. Il veicolo risultava intestato a George King.» «E con questo cosa vorrebbe dire, che è stato Pitman a ucciderli?» «Non lo so.» «Pensa che ci sia Pitman dietro ai tentativi di uccidere Larkin?» «Non lo so. Questo spiegherebbe la fuga di notizie, ma l'unica cosa che sappiamo per certo è che tutto quello che vi ha detto sono menzogne.» «Devi stare attento, papà. Non puoi fidarti di lui» disse Larkin. Kline continuava a tenere lo sguardo fisso a terra. Alla fine guardò Bud. «Potrebbe controllare? 18185.» «Subito.» Kline si rivolse a Pike. «L'uomo della foto... l'uomo che non è Meesh... ha idea di chi sia?» «Potremmo avere le sue impronte digitali. Non lo so per certo, ma è possibile. Potremmo essere in grado di identificarlo.» «In qualità di avvocato, le dico che se tiene nascosta qualche prova alla polizia potrebbe essere accusato di intralcio alla giustizia, e forse anche di concorso in reato. Voglio che lo sappia.» «Lo sa benissimo» disse Bud. «Correrò questo rischio» ribatté Pike. Kline annuì. «Tanto per informarla, lei è licenziato. È chiaro, Bud? Quest'uomo non è più alle nostre dipendenze. Non lavora più per lei, e non riceverà più denaro né da noi né da lei finché lei è alle nostre dipendenze.» «Ma cos'hai nella testa?» urlò Larkin. «Hai sentito o no?» «Larkin, tesoro, sta infrangendo la legge» disse suo padre. «Non pos-
siamo permetterlo.» «Noi siamo venuti qui per avvisare te, papà!» Kline la interruppe. «Conner, ho del lavoro da svolgere. Andiamocene» disse, quindi si avviò verso l'Hummer. Conner Barkley osservava la figlia con espressione accigliata. La perplessità si era trasformata in insofferenza. «Questo mi mette in difficoltà con il governo, Larkin. Non avremmo mai dovuto farci coinvolgere in questa vicenda. Avresti dovuto rifiutarti, ma tu dovevi a tutti i costi raccontare la tua storia, e adesso guarda in che guaio ci troviamo. Questo ci mette in cattiva luce. Potrebbero farmi passare dei guai, per questo, Larkin.» Non era preoccupato per la sicurezza di Larkin. Era preoccupato per la società. Per l'immagine del gruppo. «Bud, per informazione del signor Barkley» disse Pike «io non sono alle tue dipendenze, né alle sue, e non lo sono mai stato.» Poi guardò Larkin. «Sto solo dando una mano a un'amica.» Larkin corse alla Lexus e Pike la seguì. «Agente Pike...» Pike si voltò e vide Bud fargli un sorriso tirato. Kline e Conner Barkley erano già all'Hummer. «Chiamami se hai bisogno» disse Bud. Pike salì a bordo della Lexus e si allontanò a tutta velocità. Si immise nel traffico, guardando nello specchietto retrovisore, ma l'Hummer era ancora fermo nel parcheggio. Presto avrebbero avuto bisogno di cambiare macchina. Kline o il padre della ragazza avrebbero potuto segnalare la Lexus alla polizia. Pike sapeva di aver perso un vantaggio. Non avevano più dalla loro l'elemento sorpresa. Probabilmente in quel momento Gordon Kline stava già parlando al telefono con Pitman. Dovevano agire in fretta. Ancora più in fretta di prima. «E adesso cosa facciamo?» disse Larkin. «Andiamo avanti.» Lei gli sfiorò la spalla, posando la mano sui tatuaggi. «Mai tornare indietro.» «Mai.» Pike svoltò nel parcheggio di un Safeway a Burbank e si fermò. Scese e aprì il bagagliaio. Lo zaino nero che aveva portato via dal motel era lì dentro, insieme alle loro cose. Conteneva tutto quello che aveva preso a Jorge
e Luis. Pike frugò tra cartine e passaporti finché non trovò il sacchetto di plastica con la foto di Larkin. Richiuse il cofano, tornò in macchina e ripartì. «Cos'è?» chiese Larkin. «La tua foto. Il tipo che ti dà la caccia l'ha consegnata a Luis. L'ha toccata, maneggiata... potrebbe averci lasciato sopra le sue impronte. Quando credevamo che si trattasse di Meesh non aveva importanza, ma adesso ne ha eccome.» Pike prese il cellulare. Stava componendo un numero quando Larkin parlò. «Sai cos'è che non ha senso? Io gli voglio bene.» «Già. Anch'io volevo bene al mio.» Pike non lo aveva mai detto a nessuno. Neppure a Elvis Cole. 33 John Chen Eccolo di nuovo lì, a lavorare fuori orario, a infrangere ogni regola, a volare basso in una zona di fuoco libero, a rischiare il licenziamento in tronco se quella stronza di Harriet lo avesse scoperto, ma a John Chen piaceva. Gli piaceva da morire! Forse ancora più della sua amata Porsche. Persino più del vedere il proprio nome sui giornali. Addirittura più della gnocca. Be', adesso non esageriamo. Niente era meglio della gnocca. Quando si rese conto di ciò che aveva pensato, si lasciò sfuggire una risatina, una specie di yuck-yuck alla Pippo. Chen aveva sempre odiato la sua risata. Gli altri ragazzi lo avevano sempre preso in giro per quel suo modo di ridere (oltre che per ogni altra cosa che faceva), ma adesso non gliene fregava più un emerito cazzo perché da una ventina di minuti lui era L'UOMO! Aveva avuto questa rivelazione quando Joe Pike aveva chiamato per chiedergli di mollare tutto quello che stava facendo per analizzare delle impronte. Il suo amico, Joe Pike... ... che aveva bisogno di John Chen. ... che apprezzava l'abilità e le conoscenze di John Chen. ... che si fidava di John Chen.
E Joe Pike non era forse il peggior bastardo che girava per le strade di Los Angeles? L'ex poliziotto più coraggioso, più tosto, più temuto sulla faccia della terra? L'investigatore più brillante? (Era Pike che da anni teneva a galla Cole.) Non era un supereroe in Levi's? (Chen era convinto che avrebbero potuto guadagnare una fortuna vendendo soldatini con le fattezze di Joe Pike.) Non era quello che beccava più fica di tutti? (Vedi quella gran sventola che aspettava con lui nel parcheggio.) Joe Pike era L'UOMO, e a chi si era rivolto quando aveva avuto bisogno di aiuto? A John Chen, perdio, ecco a chi! «John! Cosa ci fai ancora qui?» disse Harriet. Era arrivata silenziosa alle sue spalle, la stronza. John, colto di sorpresa, incassò la testa e incurvò le spalle come se avesse i brividi alla schiena, facendosi piccolo piccolo in quell'iniziale istante di panico, come aveva fatto mille altre volte prima di allora. Ma poi pensò: "No. L'UOMO non si piega". Raddrizzò la schiena, si voltò e le rivolse un sorriso sicuro di sé. E, incredibilmente, si sentiva davvero sicuro di sé. «Sto finendo un lavoro di ieri. Non ti preoccupare, Harriet. Ho timbrato l'uscita un'ora fa.» Chen aveva già esaurito il monte ore di straordinario per quella settimana. Harriet sbirciò oltre le sue spalle per vedere dentro la camera di fumigazione, una camera stagna di plexiglas dove gli oggetti venivano esposti ai fumi generati dal riscaldamento di cianoacrilato per evidenziare le impronte latenti. In quel momento, dentro la camera c'era una foto della ragazza di Pike avvolta da una nebbiolina tossica. Harriet osservò la foto con aria critica. «Non mi è nuova.» «Già, è una di quelle facce che...» «Che caso è?» «L'omicidio dello sgorgante. Gli investigatori pensano che sulla scena del delitto potesse esserci una terza persona.» John non si era mai sentito così sicuro delle proprie bugie. Come se scaturissero da un nucleo di verità assoluta. Harriet osservò la foto per qualche istante ancora, poi arretrò. «Grazie per non aver caricato altro straordinario. Questi tagli al budget ci mettono in grande difficoltà.»
«Lo so, Harriet. C'è altro?» «No, no, grazie. A proposito, come va il dente?» «Non lo sento neppure più.» «Mi dispiace averti fatto passare un brutto quarto d'ora. Non era mia intenzione.» «Non c'è problema, Harriet. Non ti preoccupare.» Harriet si allontanò in silenzio, quasi si vergognasse di se stessa, e lui sorrise ancora di più. Glielo aveva letto negli occhi. Harriet aveva capito che lui era L'UOMO. Chen tornò a voltarsi verso la camera ed esaminò la foto attraverso il vetro. Sulla superficie stavano comparendo delle macchie bianche, ma ci voleva ancora tempo. Le impronte digitali non erano altro che tracce di sudore. Evaporata l'acqua, restava un residuo organico. I fumi prodotti dal cianoacrilato reagivano con gli aminoacidi, il glucosio e i peptidi di questo residuo dando origine a una sostanza bianca. Ma ci voleva tempo. John calcolò che avrebbe dovuto aspettare altri dieci o quindici minuti prima che le impronte fossero rilevabili. Chen colse un movimento riflesso sul vetro. Si girò e vide LaMolla fuori dal laboratorio. Era arrivata fino alla porta, senza farsi vedere da Harriet. Gli fece cenno di andare nella stanza delle pistole e poi scomparve. Chen si assicurò che Harriet se ne fosse andata e corse fuori dal laboratorio. LaMolla lo aspettava sulla soglia, tenendo la porta aperta. «Entra» disse lei. «Non voglio che qualcuno ci veda insieme.» Praticamente lo tirò dentro con la forza, poi chiuse la porta. «Hai scoperto qualcosa?» chiese Chen. LaMolla lo guardò con espressione minacciosa. «Se stai cercando di incastrarmi, brutto stronzo, io ti uccido nel sonno.» «Perché dovrei incastrarti?» «Mai fidarsi di nessuno, John. Noi lavoriamo per il governo.» LaMolla lo portò al bancone di lavoro mentre gli raccontava quello che aveva scoperto. «Con la Browning è stato un buco nell'acqua. È risultata rubata nel 1982 a un poliziotto di Houston, un certo David Thompson. La ricerca sul BIN non ha prodotto nulla, a parte l'informazione su Thompson.» L'ATF (Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms) gestiva il BIN (Ballistic Information Network), la rete nazionale di informazione balistica nella quale venivano inseriti i dati di tutte le armi, i proiettili e i bossoli rinvenuti sulle scene di reati, o comunque collegati al mondo del crimine. La-
Molla doveva aver controllato entrambe le pistole inserendo i dati nel BIN, ma i colpi di fortuna erano rari. Chen contava molto di più sul fiuto della collega. «La Taurus, invece, è un'altra storia» proseguì lei. «Guarda qua...» Lo portò al computer. Sullo schermo c'era l'immagine ingrandita del fondello di un bossolo. Un anello di ottone circondava una capsula rotonda color argento. Un'incisione sfumata al centro della capsula indicava il punto in cui il percussore l'aveva colpita. «Vedi? Salta agli occhi, non è vero?» A Chen sembrava un bossolo come tanti altri. «Cosa?» «Il punto di impatto del percussore. Vedi, qui in cima, quella specie di punta? Quando l'ho vista, ho pensato: "Accidenti, io questo percussore lo conosco".» A John l'incisione sembrava perfettamente rotonda, ma quello era il motivo per cui i tecnici balistici erano dei veri maghi. «Negli ultimi due anni» proseguì LaMolla «la Taurus è stata utilizzata per un paio di agguati e una rapina con omicidio a Exposition Park. Non è stato effettuato alcun arresto, ma i sospettati erano tutti membri della stessa gang. Gli MS-13. È una pistola che passa di mano in mano, John.» Solitamente armi di questo tipo non appartenevano a una sola persona, ma venivano utilizzate all'interno della stessa gang da chi, di volta in volta, ne aveva bisogno. LaMolla scosse il capo. «Mi dispiace, vorrei poter essere un po' più precisa, ma questo è tutto quello che ho. Non mi sembra molto.» «È sempre meglio di niente.» Chen la lasciò e tornò di corsa in laboratorio. Le impronte latenti si erano sviluppate bene, ma ce n'erano così tante che John temeva di non riuscire a ricavarne niente di utile. Le impronte si sovrapponevano l'una all'altra, perché quello era il modo in cui le persone maneggiavano gli oggetti. Nessuno prendeva mai un libro, una tazza o una rivista afferrandola saldamente in un solo punto: si sollevava un oggetto, lo si rigirava, lo si spostava da una mano all'altra, lo si posava per poi riprenderlo, lasciando un'infinità di impronte illeggibili, fino a ricoprirlo completamente. La foto della ragazza non faceva eccezione. Chen ventilò la camera per far uscire i fumi, quindi tirò fuori la foto servendosi di un paio di pinzette e la esaminò sotto una lente di ingrandimen-
to. Tracce circolari sbavate erano più fitte sui lati della foto, dove le persone avevano posato il pollice, ma anche il margine inferiore e quello superiore erano ricoperti di impronte, come pure la parte centrale dell'immagine. Chen ne vide parecchie che gli parvero utilizzabili. Il retro della foto, invece, era impossibile da interpretare: la sostanza lasciata dei residui organici scompariva contro il bianco del cartoncino. Chen portò la foto alla sua postazione di lavoro. La fissò a una piccola intelaiatura di metallo, quindi spennellò con delicatezza una polverina blu finissima su tutto il retro. Quando lo ebbe interamente ricoperto, soffiò via l'eccesso di polverina con una bomboletta di aria compressa, scoprendo gruppi di chiazze blu scuro, per la maggior parte illeggibili. Voltò la foto, ripeté il procedimento ed esaminò ognuna delle singole impronte. Era soddisfatto. Aveva dodici impronte separate, ognuna con minuzie ben definite. Le minuzie erano i punti caratteristici tramite i quali le impronte digitali potevano essere identificate, cioè le biforcazioni, gli anelli e le linee spezzate che componevano le minuscole irregolarità delle creste. Chen asportò ogni impronta con un pezzetto di nastro adesivo, che poi premette su un supporto bianco. Una per una, le collocò su uno scanner ad alta risoluzione e le fotografò per ottenere immagini digitali. Inserì i file nel computer e poi, con un programma speciale, identificò e catalogò i punti caratteristici. Il database dell'FBI non comparava immagini di impronte, ma una lista numerica di punti caratteristici identificativi. Analizzava le sequenze dei numeri. Una volta trovati i numeri, tutto il resto era semplice. Il computer elaborò la sequenza per ognuna delle dodici impronte, poi Chen le inserì nel sistema, accompagnandole con una richiesta speciale per una ricerca su database internazionali. Chen guardò di nuovo l'orologio. Pike e la ragazza aspettavano fuori, nel parcheggio, e lui non voleva farli attendere troppo. Non voleva deludere Pike. Ma non avrebbe dovuto preoccuparsi. Il logo dell'NCIC/Interpol prese a lampeggiare sullo schermo mentre i file in arrivo si aprivano. John Chen lesse i risultati. Aveva ottenuto un riscontro positivo su tutte e dodici le impronte, identificando sette diversi individui maschi, di cui due già identificati in precedenza, Jorge Petrada e Luis Mendoza. Altri quattro erano criminali sudamericani collegati, come Petrada e Mendoza, a Esteban Barone. Ma non il settimo.
Chen si rese conto di avere la bocca asciutta quando si accorse che non riusciva a deglutire. Capì perché era coinvolto il dipartimento di Giustizia. Capì perché quelli di Parker Center non avevano opposto la minima resistenza. John stampò i sette rapporti e li pinzò, poi ripulì la memoria del computer in modo che nessuno potesse vedere cosa aveva scaricato. Radunò le diapositive delle impronte e la foto della ragazza mettendo tutto in una busta. Prese busta e fascicoli e uscì dal laboratorio. Il sole era basso e incendiava il cielo a occidente. Le Verdugo Mountains erano di un color porpora tendente al nero. Chen andò direttamente all'auto di Pike. Non gli fregava un accidente se anche Harriet lo vedeva, perché sapeva di aver scoperto qualcosa di clamoroso, più importante di qualunque indagine a cui avesse mai lavorato. Pike e la ragazza lo guardarono avvicinarsi. John Chen porse i fascicoli a Pike. «Leggi.» La ragazza vide la foto sulla prima pagina ed esclamò: «È lui! È l'uomo delle foto!». La ragazza andò più vicina a Pike e insieme lessero il fascicolo. Chen non pensò a quanto fosse bella, o a come la sua mano si era posata sulla coscia di Pike mentre lei leggeva, non si perse a fantasticare sul sapore della sua pelle. Pensò soltanto a quello che i due stavano leggendo. Le impronte digitali appartenevano a un uomo di nome Khali Vahnich. Vahnich era un ex banchiere quarantaquattrenne della Repubblica Ceca, condannato per traffico di droga prima di lasciare il suo paese. Da allora le sue attività comprendevano ancora traffico di droga, vendita illegale di armi, rapporti accertati con organizzazioni terroristiche in Europa e in Medio Oriente. Al centro della pagina compariva un avviso a grosse lettere nere. John lo ricordava perfettamente e sapeva che non lo avrebbe mai dimenticato. La superficie si era increspata. Era comparso un mostro. ALLERTA: QUEST'UOMO È SULLA LISTA DEI RICERCATI PER TERRORISMO SE PENSATE CHE SIA NELLA VOSTRA ZONA AVVERTITE L'FBI. CATTURARE A OGNI COSTO. Pike terminò di leggere per primo. Alzò lo sguardo verso John, e John non avrebbe mai dimenticato la sua espressione. Il suo volto non tradiva la
minima emozione, ma le scintillanti lenti scure riflettevano il rosso del cielo in fiamme. In quel momento Chen si sentì orgoglioso, terribilmente, assolutamente orgoglioso, che quest'uomo avesse coinvolto lui in quell'indagine. «Grazie, John» disse Pike. «Qualunque cosa ti serva, tutto quello che posso fare, lo farò. Qualunque cosa, la farò.» «Lo so.» Pike gli porse la mano. Chen la strinse e non avrebbe voluto lasciarla andare mai più, perché sentiva di avere qualcosa, qualcosa che lo rendeva migliore di quanto fosse mai stato o avrebbe mai potuto essere, qualcosa che avrebbe voluto tenere per sempre. «Buona fortuna, fratello» disse John Chen. 34 Quella sera prepararono del tè al gelsomino e mangiarono il cibo cinese mentre Larkin guardava alla tivù una commedia su una coppia di mezza età che passava il tempo a insultarsi. Pike non la trovava affatto divertente, ma sembrava che alla ragazza piacesse. Telefonò a Cole, lo mise al corrente degli sviluppi e, insieme, prepararono un piano per l'indomani. Quando la commedia finì, Larkin andò nella sua stanza e qualche minuto dopo tornò con indosso un paio di calzoncini e una maglietta diversa. Si rannicchiò in fondo al divano e prese a sfogliare una rivista. Il divano era piccolo. I piedi nudi di lei erano vicinissimi a Pike. Lui avrebbe voluto posarvi sopra una mano, ma non lo fece. Si spostò sulla poltrona. A Pike non importava nulla dell'indagine di Pitman, o del motivo per cui aveva mentito, se non per le conseguenze che questo poteva avere su Larkin. Non gli importava se Pitman era un bravo poliziotto o se era corrotto, o faceva affari con Vahnich e i King. Lui aveva dato la caccia a un uomo di nome Meesh e adesso si ritrovava a dare la caccia a un uomo di nome Vahnich. Se Pitman stava cercando di fare del male alla ragazza, avrebbe dato la caccia anche a Pitman. L'unico pensiero di Pike era il bene della ragazza. La osservò mentre leggeva. Lei se ne accorse e gli sorrise. Non quel sorriso malizioso e ironico, ma qualcosa di più dolce, con appena un tocco di malizia. «Tu non sorridi mai» disse lei.
Pike si sfiorò la mascella. «Questo sono io che sorrido.» Larkin fece una risata e tornò alla sua rivista. Pike guardò l'orologio. Decise che avevano aspettato abbastanza e prese il telefono. «Ci siamo.» Larkin chiuse la rivista tenendo il segno con un dito e lo guardò con espressione seria. Pike aveva ancora il numero di Pitman da quando lui gli aveva lasciato il messaggio. Pitman rispose subito. «Sono Pike.» «Lei è proprio un bel tipo.» «L'ha chiamata Kline?» «Kline, Barkley, Flynn. Cosa diavolo crede di fare?» «E Khali Vahnich? Lui lo ha sentito?» Pitman esitò. «Deve smetterla, Pike.» «Vahnich cambia tutto. Larkin vuole tornare a casa.» Pitman esitò di nuovo. «Bene. È la cosa più saggia da fare. L'importante è che lei sia al sicuro.» «Già. È quello che sto facendo» ribatté Pike. La ragazza sorrise nuovamente mentre Pike prendeva accordi.
Quinto giorno OLTRE LA LEGGE 35 Alle 6.57 della mattina seguente, Pike vide una Ford berlina blu metallizzato svoltare nel parcheggio di Union Station proveniente da Alameda Street. L'automobile rallentò davanti alla folla di pendolari che si riversava fuori dalla stazione della metropolitana, quindi proseguì a bassa velocità fino in fondo al parcheggio. Al volante c'era Donald Pitman, seduto accanto Kevin Blanchette. Era la prima volta che Pike li vedeva, ma Cole glieli aveva descritti con cura e Pitman gli aveva detto che sarebbero stati a bordo di una berlina blu. Entrambi sulla quarantina, erano molto curati e di bell'aspetto. Pitman aveva
un volto affilato con un naso sottile, Blanchette era più grosso, con guance paffute e un'incipiente calvizie. Né loro due né gli altri sette agenti federali appostati intorno alla stazione si accorsero di lui. Pike presumeva fossero federali, ma non ne era certo e non gliene importava. Avevano preso posizione da un'ora e mezza. Lui, invece, era lì dalle tre del mattino. Li osservò attraverso il binocolo Zeiss dalla finestra della dispensa al primo piano di un ristorante messicano di Olvera Street di proprietà di un suo amico, Frank Garcia. Il ristorante era chiuso per lavori. Pitman si aspettava che Pike e Larkin arrivassero alle sette, ma le cose non sarebbero andate così. In quel momento Larkin e Cole stavano facendo colazione. Alle 7.22 Pitman e Blanchette scesero dall'auto e rimasero a osservare le auto di passaggio e i pendolari che uscivano dalla stazione. Pike capì che erano preoccupati. Alle 7.30 risalirono in macchina. Non sarebbe passato molto tempo prima che capissero che Pike aveva tirato loro un bidone. Pike corse di sotto, nel bagno dei dipendenti adiacente alla cucina. Il locale aveva una finestra che dava sulla stazione. Pike l'aveva aperta appena arrivato, in modo che adesso i suoi movimenti non attirassero l'attenzione. Alle 7.51 i sette agenti che sorvegliavano l'area uscirono dai loro nascondigli e si ritrovarono nell'angolo settentrionale del parcheggio. Pitman aveva deciso di considerare conclusa l'operazione. Pike lasciò il ristorante e andò a passo svelto all'auto di Cole parcheggiata in fondo a Olvera Street. Cole adesso usava la Lexus. Pike seguì la berlina blu lungo l'Alameda in direzione sud verso il Roybal Building, il quartier generale dei federali. Il traffico a singhiozzo dell'ora di punta era bestiale e tra un verde e l'altro passavano solo poche auto, ma Pike contava che questo giocasse a suo favore. La berlina era tre auto davanti a lui quando il giallo diventò rosso e Pitman rimase in trappola. Pike infilò l'auto di Cole in una zona di carico e scarico, scese e tenne d'occhio il semaforo. Quando le luci lampeggianti indicarono che questo era sul punto di passare dal rosso al verde, partì di corsa. Andò verso la berlina come uno squalo che segue una scia di sangue e le arrivò addosso dall'angolo morto. Nessuno dei due uomini a bordo lo vide, nessuno dei due si aspettava un'aggressione. Pike raggiunse la portiera di Blanchette proprio mentre il semaforo diventava verde, e spaccò il vetro con la pistola. Spalancò la portiera e premette l'arma contro il fianco di
Blanchette, urlando per confonderlo ulteriormente. «La cintura! Slaccia la cintura...» Pike prese la pistola a Blanchette, lo trascinò giù dall'auto e lo costrinse a sdraiarsi a terra, tenendo la pistola puntata contro Pitman. «Mani sul volante! Tienile sul volante o ti ammazzo!» Le auto davanti a loro erano ripartite. La strada era libera. Dietro di loro era un frastuono di clacson. Pike salì a bordo. «Pike?» fece Pitman. Pike prese la pistola di Pitman e la gettò sul sedile posteriore. In strada, Blanchette si stava rialzando. «Parti!» Pitman non si mosse, forse frastornato dalla confusione, ma nei suoi occhi guizzò un lampo di collera. «Sono un agente federale. Non puoi...» Pike lo colpì violentemente alla fronte con la pistola, si mise al volante e partì a tutto gas. 36 Quando Pitman rinvenne, si trovavano sotto il ponte di First Street, tra gli alti pilastri di cemento ai bordi del Los Angeles River. Veicoli abbandonati rimossi dall'amministrazione cittadina erano sistemati in file ordinate nello spazio inutilizzato sotto il ponte, protetti da una recinzione metallica che nulla poteva contro polvere, uccelli e graffitari. Pike aveva parcheggiato dietro l'angolo più remoto della recinzione. I camion che transitavano sopra la sua testa facevano ronzare la rete metallica come uno sciame d'api. Si trovavano a meno di otto isolati dal punto in cui Pike aveva lasciato l'auto di Cole. Pitman si tirò su di scatto, cercando di scappare, ma Pike gli aveva legato i polsi al volante con dei serrafili. Pitman cercò di allontanarsi il più possibile da Pike strisciando sul sedile. «Cosa stai facendo? Cosa diavolo pensi di fare, Pike? Lasciami andare!» Da vicino Pitman sembrava più giovane. Aveva uno squarcio sulla fronte nel punto in cui Pike lo aveva colpito, e il sangue gli si era rappreso sul volto, trasformandolo in una maschera rossa. Pike continuò a osservarlo tenendo la pistola in grembo. «Hai aggredito un agente federale. Mi hai rapito, cazzo! Lasciami andare! Lasciami libero e chiuderemo un occhio. Io posso aiutarti!»
Pike diede un colpetto con la pistola. «Non sono io quello che ha bisogno di aiuto.» «Tu sei nella merda, nella merda fino agli occhi!» La voce di Pitman si fece più forte e il suo volto si contorse e guizzò come se si muovesse in tutte le direzioni. «Hai infranto una legge federale! Vattene adesso o ti sbatto dentro.» «Khali Vahnich. Terrorista» disse Pike. «Te lo ripeto, Pike... vattene adesso.» «Un noto terrorista.» «Non intendo parlare di questo!» Pike sollevò la Kimber di quel tanto perché Pitman vedesse bene il buco nero della canna. «Stiamo parlando della tua vita o della tua morte.» «Sono un agente federale! Ammazzeresti un agente federale!» Pike annuì, perfettamente calmo. «Se fosse necessario...» «Cristo!» Pike sollevò il distintivo di Pitman. Gli aveva frugato nelle tasche alla ricerca dei documenti. «Non si è mai trattato dei King, Pitman. Si tratta di Vahnich. Tu hai trasformato la ragazza in un bersaglio per catturare il terrorista. O per proteggerlo.» «È pura follia. Io non sto cercando di proteggerlo.» «Le hai detto che Khali Vahnich era Alexander Meesh.» «Dovevamo salvaguardare le indagini.» «Le hai detto che voleva ucciderla per difendere i suoi investimenti con i King, ma i King sono morti. Non c'era nessuno da proteggere.» «Fino a ieri non sapevamo che fossero morti, Pike! Non lo sapevamo! Noi credevamo che li stesse aiutando...» «Qui non c'è nessun "noi", Pitman. Ci sei solo tu. I King sono morti, e allora perché Vahnich vuole ucciderla?» «Non lo so!» «Io credo che sia stato tu a ucciderli e che tu abbia venduto la ragazza per aiutare Vahnich.» Pike sollevò di nuovo la pistola, e Pitman tirò con forza per liberarsi dai legacci. «Non è così! Te lo giuro su Dio! Ascoltami... Noi sapevamo che erano in affari, Vahnich e i King, ma abbiamo saputo che Vahnich era a Los Angeles solo poco prima dell'incidente. Guarda nel bagagliaio... c'è la mia va-
ligetta. Va' a vedere, Pike! È la verità...» Pike lo osservò, cercando di capire se mentiva, poi prese le chiavi e nel bagagliaio trovò una grossa valigetta. Era chiusa a chiave. La portò nell'abitacolo. «La chiave è nella mia tasca» disse Pitman. Pike non perse tempo a prendere la chiave e squarciò la valigetta con il coltello. Dentro c'erano lettere, promemoria e fascicoli con l'intestazione del dipartimento di Giustizia e della Sicurezza nazionale gettati alla rinfusa senza alcun ordine particolare. «Tu non ti occupi di crimine organizzato» disse Pike. «Sicurezza nazionale. Guarda i miei appunti...» «Chiudi la bocca, Pitman.» Molti fogli portavano il timbro RISERVATO. Pike vide promemoria su transazioni commerciali e attività di sorveglianza dei King, altri che collegavano Vahnich a Barone e molte altre persone, alcune identificate altre no, in Sudamerica. Molti degli appunti descrivevano i movimenti di Khali Vahnich negli Stati Uniti e all'estero. Pike lesse finché tutto non gli fu chiaro, poi alzò lo sguardo su Pitman. «Vahnich fa affari per conto dei terroristi.» Pitman annuì con aria stanca. «Questa è la versione condensata. In Medio Oriente la maggior fonte di finanziamento per il terrorismo organizzato, a parte i contributi dei vari governi, è la droga. La comprano, la vendono, ci investono e ne traggono profitto. Questi bastardi sono ricchi, Pike. Non parlo dei pazzi che si fanno saltare in aria, ma delle organizzazioni. Come tutte le macchine da guerra su questo pianeta, divorano soldi e ne chiedono sempre di più. È questo che fa Vahnich. Si occupa di investimenti per conto di questi bastardi. Investe i loro soldi, li fa fruttare, li rimette in circolo.» «Con i King?» «L'economia funziona allo stesso modo per tutti, repubblicani e democratici, signori della droga e capi di Al Qaeda. I rischi si limitano diversificando gli investimenti. I King sono forti nel settore immobiliare e Vahnich vuole diversificare. Investe centoventi milioni di dollari con i King... sessanta del cartello, sessanta direttamente dalla zona di guerra. Il mio compito è quello di intercettare quei soldi.» «Soldi.» «Soldi dei terroristi. Non vogliamo che tornino indietro per addestrare degli attentatori suicidi.»
«Dove sono i soldi?» «Non lo so. I King hanno accettato il trasferimento su un conto estero, ma il denaro è stato spostato il giorno stesso e non sappiamo dove sia finito. Forse è per questo che Vahnich li ha uccisi. Probabilmente voleva indietro i suoi soldi.» «Quindi, si tratta solo di investimenti immobiliari.» Pitman scoppiò a ridere, ma era una risata cinica e amara. «Tutto quello che succede nel mondo oggi riguarda il settore immobiliare, Pike. Non li leggi i giornali?» Pike osservava Pitman e pensava a Khali Vahnich, ai King e a tutti quei ragazzi venuti dall'Ecuador. Fuori, il ponte vibrava al passaggio delle auto e la recinzione ronzava. Pike pensò a Larkin nella casa di Echo Park, estraniata dalla sua vita e dai suoi amici solo perché un uomo come Khali Vahnich la voleva morta. «Perché Vahnich sta cercando di ucciderla?» «Non lo so. Credevo di saperlo. Credevo fosse per via dei King.» «I King sono morti.» «Non sapevo che Vahnich avrebbe cercato di ucciderla. Come potevo saperlo?» «Avresti dovuto essere sincero con loro. I terroristi non si sono ancora impadroniti di Los Angeles, Pitman, siamo ancora una nazione libera. Avresti dovuto dire a questa gente con chi avevano a che fare.» Pitman scosse la testa: sembrava che non capisse quello che Pike gli stava dicendo. «Io gliel'ho detto.» «Che cosa?» «Sapevano che si trattava di Vahnich. La ragazza no, ma suo padre sì. Ci ha suggerito lui di non raccontarle la verità.» Pike doveva avere un'espressione perplessa perché Pitman cercò di spiegarsi meglio. «Abbiamo avuto degli incontri a questo proposito... con suo padre, i suoi legali, i nostri. Non volevamo alienarci un teste disposto a collaborare, ma era necessario mantenere il segreto. Barkley ci ha detto che lei non sarebbe stata capace. Ci hanno consigliato di identificare Vahnich solo subito prima della testimonianza.» «Vi hanno consigliato? Suo padre le ha mentito?» «La ragazza non è una molto stabile. Si sarebbe servita di questo per attirare l'attenzione su di sé.»
Pike provò una sensazione di gelo nonostante il calore della mattina. Ripensò alla sera prima, quando la ragazza era disperata perché voleva avvertire suo padre. «È una svitata, Pike. A questo punto l'avrai capito anche tu» proseguì Pitman. Pike guardò nuovamente il distintivo di Pitman e pensò al proprio. Vi aveva rinunciato per aiutare la famiglia di Wozniak. Lui aveva amato il suo distintivo e tutto ciò che esso rappresentava, ma aveva amato ancora di più la famiglia di Wozniak. Le famiglie hanno bisogno di protezione. Hanno bisogno di qualcuno che le difenda. Lui la pensava così. «Lei voleva soltanto fare la cosa giusta» disse Pike. Poi mise via la pistola. «Abbiamo finito.» Pitman tirò i legacci. «Toglimi questi cosi. Riporta la ragazza, Pike. Noi possiamo proteggerla, e tu potresti darci una mano a trovare Vahnich.» Pike aprì la portiera. «Sei legato a un volante. Non puoi proteggere neanche te stesso.» Scese portando con sé chiavi dell'auto e distintivo. Pitman capì che se ne stava andando e tirò ancora più forte per liberarsi. «Che cazzo vuoi fare? Che intenzioni hai?» Pike lanciò il distintivo nel fiume. «No! Il distintivo no! Pike...» Pike lanciò anche le chiavi. «Pike!» Pike si allontanò senza voltarsi indietro. 37 Elvis Cole Quella mattina, prima di andare a tenere compagnia a Larkin, Cole passò dal suo ufficio per prendere i tabulati telefonici. L'amica che lavorava alla compagnia dei telefoni aveva inviato ventisei pagine di chiamate in partenza e in arrivo, ma non tutti i numeri erano stati identificati. Cole avrebbe dovuto controllarli uno per uno, magari con l'aiuto della ragazza. A lui stava simpatica, era intelligente e rideva alle sue battute. Tutto quello che serviva. Quando entrò in casa la trovò sdraiata sul divano a guardare la tivù con gli auricolari dell'iPod infilati nelle orecchie.
«Come fai a guardare la tivù e contemporaneamente ascoltare quel coso?» Lei agitò l'iPod. «Hanno smesso di fare musica nel 1990?» Visto? Anche spiritosa. «Devo fare un paio di telefonate, poi vorrei che mi dessi una mano.» Lei si tirò su, incuriosita. «A fare cosa?» «Numeri di telefono. Dobbiamo costruire un albero telefonico, collegando le chiamate fatte e ricevute dai cellulari che ha trovato Pike. Rintracceremo le telefonate da un numero all'altro finché non riusciremo a identificare qualcuno che possa esserci utile per trovare Vahnich. Divertente, no?» «Per niente.» «È come unire i puntini numerati. Puoi riuscirci anche tu.» Lei gli mostro il dito medio. Cole pensò che era fantastica. La sistemò al tavolo con l'elenco dei numeri, le mostrò quali appartenevano a Jorge, Luis e all'uomo che pensavano fosse Khali Vahnich, alias Alexander Meesh. Cole le spiegò cosa doveva fare, poi andò al divano con il suo telefono. Quella mattina sulla segreteria dell'ufficio aveva trovato un messaggio con cui Maria Hendricks lo informava che il 18185 apparteneva al Tanner Family Trust, detentore anche di altre parecchie grosse proprietà nel centro di Los Angeles, tutte in vendita. Come al solito, Maria non aveva trascurato nulla. Il 18185 era stato acquistato dal dottor William Tanner nel 1968 e posto sotto amministrazione fiduciaria nel 1975. Durante quel periodo la proprietà non era stata gravata da ipoteche o altro. L'amministratore era la figlia maggiore di Tanner, Elizabeth Little, un ex avvocato, che adesso sovrintendeva alla vendita delle proprietà. Maria aveva incluso anche l'indirizzo e il numero di telefono di Elizabeth Little. «Tutto bene?» chiese Cole. Larkin era impegnata con i numeri. «Non è che devo sommarli.» «Adesso faccio una telefonata. Non mi interrompere.» Lei gli mostrò di nuovo il medio. Cole chiamò Elizabeth Little e fece centro al primo tentativo. Pareva che la donna avesse fretta. «Sì, sono io.» «Mi chiamo Elvis Cole. Sono un investigatore privato e...» «Da chi ha avuto questo numero?» «Faccio l'investigatore privato. Signora, la chiamo a proposito di una
proprietà che lei ha in vendita. Rappresento un compratore.» Il vecchio espediente della cupidigia. Non fallisce mai. «Quale proprietà?» «Un magazzino in centro. Al numero 18185.» «Oh, certo. Quello è di mio padre. Stiamo sciogliendo l'amministrazione fiduciaria. Cercherò di rispondere alle sue domande, ma per le condizioni di vendita dovrebbe parlare con il nostro mediatore.» Sembrava una persona normale, non una che scarica un paio di cadaveri in un magazzino, o che frequenta qualcuno che potrebbe farlo. «Mi basta qualche informazione sulla proprietà.» «Rappresenta un compratore?» «Esatto.» «Allora, prima di tutto devo dirle che considereremo tutte le offerte, ma solo come riserva. Il suo compratore è disposto ad accettare questa condizione?» «Come riserva. L'edificio è già stato venduto?» «Un acquirente ha opzionato tutte e sette le proprietà. Non credo però che il suo cliente debba preoccuparsi. L'opzione sta per scadere.» «Qualcuno vuole comprare tutte e sette le proprietà?» «Il potenziale di guadagno è enorme, visto il boom immobiliare in centro. Il suo cliente potrebbe essere interessato a tutte e sette le proprietà?» «Di cosa stiamo parlando, in termini di prezzo?» «Almeno due.» «Due milioni di dollari?» Lei rise. «Duecento milioni.» «Scherzavo. So benissimo cosa intendeva.» «L'avevo capito. Le opzioni sono usuali in trattative di questa portata. La gente ha bisogno di tempo per trovare il denaro. A volte l'affare va in porto, altre volte no. In questo caso è possibile che non se ne faccia nulla. Se così fosse, venderemo le proprietà separatamente. Qualora il suo cliente fosse ancora interessato, ne riparleremo.» «Riferirò il messaggio. Quanto durava l'opzione?» «Quattro mesi.» «Ah. E quanto costano quattro mesi di opzione per una proprietà che vale duecento milioni di dollari?» «In questo caso sei milioni.» «Che resteranno a lei se l'affare non va in porto?» «Oh, sì. Credo che scada... mi faccia pensare... non ho qui l'agenda, ma
direi tra quattro giorni. Forse tre. Può chiamare l'intermediario per avere la data esatta.» «Riferirò. Un'ultima domanda... le dispiace dirmi chi è il compratore?» «Niente affatto. È la Stentorum Real Holdings. Non ho il loro numero, ma se vuole può farselo dare dall'intermediario. Visto che non sono riusciti a trovare il denaro, magari il suo cliente potrebbe aiutarli e acquistare una parte delle proprietà. Ci terremmo a vedere concluso questo affare.» Cole annotò il nome sul taccuino. Stentorum Real Holdings. Riattaccò proprio mentre entrava Joe Pike. Pike chiuse la porta e rimase in mezzo alla stanza immobile come una statua. «Ciao!» cinguettò la ragazza. «Ciao» fece Cole. Pike non si mosse, non rispose. Aveva sempre un'aria strana, ma ora sembrava ancora più strana del solito. Cole si chiese quale fosse il problema. «Hai parlato con il nostro amico?» Pike attraversò la stanza ed entrò in bagno. Strano. Cole riprese il telefono e chiamò il servizio informazioni. «Ho bisogno del numero della Stentorum Real Holdings, per favore. Qui a Los Angeles.» Larkin alzò la testa. «Cos'hai detto?» «Stentorum Real Holdings.» «È una delle società di mio padre.» La voce computerizzata del servizio informazioni comunicò il numero. Cole lo annotò, senza distogliere lo sguardo dalla ragazza. Quando ebbe finito si avvicinò al tavolo, posò il taccuino e lo girò in modo che lei potesse vederlo. «Tuo padre è proprietario di questa società?» «Tecnicamente la proprietaria sono io. È una delle società della famiglia.» L'acqua smise di scorrere e Pike uscì dal bagno. Si era tolto la camicia e si era lavato, come se fosse venuto a casa per ripulirsi da qualcosa o da qualcuno. Una ragnatela di cicatrici gli copriva il torace. Indossò subito la felpa. «Abbiamo bisogno di te» disse Cole, e aspettò che Pike li raggiungesse. «Cosa c'è?» «Il padre di Larkin possiede una società che si chiama Stentorum Real
Holdings. La Stentorum sta cercando di comprare il magazzino al 18185, insieme ad altri sei edifici tutti dello stesso proprietario. Hanno aperto un'opzione per l'acquisto quattro mesi fa, ma sta per scadere.» Cole guardò Pike, che però rimase impassibile, distaccato. Larkin sentiva che era un brutto segno, ma non capiva il motivo. Ancora non sapeva quello che loro avevano scoperto. Cole aspettava. Voleva che fosse Pike a decidere cosa raccontarle e cosa nasconderle. Larkin scosse la testa. «Cosa significa? Sei sicuro? Mio padre vuole comprare quell'edificio? Il magazzino dove abbiamo trovato i cadaveri?» Pike allungò una mano sopra il tavolo verso di lei. Larkin vi posò sopra la sua e Pike la strinse. Cole aveva visto Pike fare flessioni sui pollici, sugli indici, lo aveva visto rompere noci come fossero bolle di sapone. Ma questo mai. «Seguimi, okay? Fatti forza, perché non è finita qui.» Cinque minuti prima, Cole pensava che Larkin dimostrasse dodici anni. Adesso ne dimostrava cento. La ragazza guardò prima Cole, poi Pike; alla fine annuì con espressione seria e risoluta. «Okay. Spara.» «Tuo padre e Gordon Kline sapevano che Meesh era Khali Vahnich. Si sono messi d'accordo con Pitman per tenerti all'oscuro. Pitman dice che è stata un'idea sua. Di tuo padre.» Cole guardava la mano della ragazza in quella di Pike. Le dita di lei si contrassero fino a far risaltare i tendini, ma il suo volto non tradì alcuna emozione. «Perché avrebbero fatto una cosa del genere?» «Non lo so.» «Facevano affari insieme, mio padre e queste persone orribili?» «Sì, sembrerebbe di sì.» Larkin si appoggiò all'indietro e fece una risata, senza lasciare la mano di Pike. «Sono solo supposizioni» precisò Cole. «Verificheremo.» «Ci sono cresciuta dentro! Io so riconoscere una disputa commerciale! Non sono riusciti a concludere l'affare e così qualcuno deve accollarsi la perdita del deposito. Vahnich ha ucciso i King e adesso vuole me e mio...» Si interruppe all'improvviso e fissò il lunghissimo elenco di numeri telefonici. «È stato mio padre?» Cole non capiva cosa volesse dire, ma Pike sì.
«Lo scoprirò.» Il suo volto abbronzato impallidì, gli occhi tradivano il dolore che si prova quando si viene schiacciati, come se anche l'ultimo frammento di amore le venisse strappato dal cuore. «No, non voglio saperlo. Non cercare di scoprirlo. Non dirmelo.» Allora Cole capì cosa aveva chiesto... se era suo padre la persona che aveva detto a Vahnich dove trovarla. «Sono soltanto supposizioni. Andiamo a fare il nostro lavoro di investigatori» disse Cole. Si alzò e andò alla porta. Pike si attardò per qualche istante, poi lo seguì fuori. 38 Larkin Conner Barkley Larkin rimase a guardare Pike che si allontanava: nell'attimo in cui varcò la soglia rimase incorniciato dalla porta aperta come un'immagine su una rivista, bloccata nel tempo e nello spazio. Un uomo robusto ma non un gigante, anzi, di statura media. Con le braccia coperte e il viso rivolto verso l'esterno sembrava assolutamente normale, e per questo lei lo amò ancora di più. Un superuomo non rischiava nulla, un uomo normale rischiava tutto. Quando Pike si voltò a guardarla, prima di chiudere la porta, lei vide il volto impassibile, gli occhiali da sole a specchio. Poi la porta si chiuse e lei restò sola. «Fa' che si aggiusti. Ti prego, fa' che vada tutto bene.» Lo disse alla casa vuota e subito se ne vergognò, sentendosi una stupida. Era più spaventata adesso di quando le avevano sparato addosso. Se suo padre l'aveva abbandonata, era davvero sola, più sola di quanto si fosse mai sentita o avesse creduto possibile. Le pareva di vivere un'esperienza extracorporea. Le pareva di trovarsi all'esterno del proprio corpo, ma sentiva l'aria sulla pelle, e il silenzio in casa era così totale da risultare assordante. Come trovarsi nello stesso posto due volte nello stesso momento, una vita sovrapposta all'altra ma non perfettamente coincidente. A parte la paura, non provava alcuna emozione. Cercò di costringersi a provare qualcosa. Pensò che avrebbe dovuto essere arrabbiata, risentita, ma era come se fosse scattato un interruttore e lei fosse vuota.
Andò in bagno e si guardò nello specchio. Voleva vedere se quel vuoto era visibile sul suo volto come su quello di Pike. Non riuscì a capirlo. Guardando se stessa vedeva solo suo padre. Aveva i suoi occhi, le sue orecchie, la stessa mascella. Il naso e la bocca, quelli li aveva presi dalla madre. «Non mi importa» disse a voce alta. Non le importava ciò che lui aveva fatto. Era suo padre. Se Pike era riuscito a sopportare il suo, di padre, ci sarebbe riuscita anche lei. Tornò al tavolo e studiò l'elenco di numeri e gli alberi telefonici che aveva tracciato. Trovò il numero di Khali Vahnich e lo cercò in ognuna delle ventisei pagine. Ogni volta che lo trovava, lo segnava. Quando ebbe finito, tornò alla prima pagina e isolò i numeri che Vahnich aveva chiamato. Lo vide verso il fondo della seconda pagina e lo riconobbe subito perché le era familiare. Vahnich aveva chiamato il quartier generale della società. La Barkley Company. Vedendo il numero, pensò: "Che strano". Provava solo quella strana sensazione di irrealtà. Le si annebbiò la vista, e capì che stava piangendo, ma non singhiozzava, non le colava neppure il naso: era come se qualcun altro stesse piangendo e lei lo stesse osservando da dentro. Si asciugò gli occhi per vedere meglio e continuò a cercare. Trovò il numero altre due volte e a quel punto si fermò. Era inutile continuare. Pike e Cole avevano ragione. Suo padre era collegato a quella gente e adesso erano entrambi in pericolo. Vahnich stava cercando di servirsi di lei per ottenere qualcosa da suo padre, o per punirlo. In un modo o nell'altro suo padre aveva fatto un gran casino. Il padre di Pike era stato un mostro. Suo padre era un coglione. Ma non aveva importanza. Lei lo amava comunque. «Fa' che vada tutto bene.» Questa volta lo disse a se stessa. 39 La Barkley Company occupava gli ultimi tre piani di una fortezza di vetro nero a Century City con tante guardie armate, postazioni di sorveglianza e metal detector da garantire la sicurezza a un aeroporto internazionale. Pike aveva chiamato Bud perché organizzasse l'incontro. Si aspettava che questo sarebbe avvenuto a casa, invece Bud gli disse che Barkley era stato
chiamato in ufficio. Pike non gli spiegò perché volevano vederlo; gli disse solo che si trattava di Larkin. Bud accettò di aspettarli al piano terra: avrebbero avuto bisogno di lui per superare i controlli di sicurezza. "Niente pistole, Joe" lo aveva avvertito Bud. "Non posso lasciarti entrare armato." "Certo" aveva risposto Pike. "Porterai Larkin?" "E tu porterai Pitman?" "Non ho alcuna intenzione di dirlo a Pitman. Non lo dirò neppure a Barkley. Ci vediamo nell'atrio e poi vi accompagno su" aveva detto Bud chiudendo la telefonata. Parcheggiare fu un'avventura. Quando Pike e Cole arrivarono, alcuni addetti presero nota dei loro nomi e vollero vedere i documenti, mentre guardie munite di specchi esaminavano il fondo dell'auto. «Se dobbiamo andarcene in fretta da qui siamo fottuti» osservò Cole. Pike non rispose alla battuta. Pensava alla ragazza. Voleva far soffrire le persone che la stavano facendo soffrire. Continuava a vedere il dolore negli occhi di lei, intrappolata in un mondo tormentato, sola con un dolore che non poteva condividere con nessuno e al quale non sarebbe mai sfuggita. E ogni volta che vedeva questo in lei, lo vedeva anche in se stesso, e desiderava punire quelle persone. Voleva fare loro del male, tanto male, al punto da trasformarsi nel proprio padre per farlo cosicché loro sarebbero diventati lui. Voleva che sapessero che lui li stava punendo per aver fatto soffrire quella ragazza. Per aver abusato del loro potere. Per la loro arroganza. «Sei molto silenzioso. Troppo, persino per te» osservò Cole. «È tutto a posto.» Bud aspettava nell'atrio con due pass per i visitatori da appendere ben visibili al bavero. Li aveva già registrati. «Volete dirmi di cosa si tratta, prima che saliamo?» disse Bud. «No.» Pike capì dal suo comportamento che Pitman non lo aveva chiamato. Passarono attraverso un metal detector quindi entrarono in un ascensore riservato che saliva direttamente all'ultimo piano. «Come sta la ragazza?» chiese Bud. «Non troppo bene.» «Tu tienila al sicuro. È per questo che sei qui. Credo che ci siano un sacco di cose che questi bastardi non ci hanno detto.»
Quando le porte si aprirono, Bud fece strada nell'area della reception, presidiata da una signora bionda seduta a una scrivania. La donna riconobbe Bud e fece segno con la mano di procedere. «È là dentro, da qualche parte. Se non è nel suo ufficio, chiedete. C'è qualche problema.» Cole diede un colpetto con il gomito a Pike e sussurrò: «Di già? Ma se siamo appena arrivati». Seguirono Bud lungo un corridoio che sembrava una galleria d'arte, passando davanti a cubicoli vuoti destinati a quelli che Bud definì "assistenti". Trovarono Conner Barkley fuori dal suo ufficio, circondato da un gruppetto di uomini e donne dall'aspetto impeccabile, elegantissimi nei loro completi di Brioni o di Donna Karan. Barkley, invece, sembrava avesse dormito vestito. Aveva i capelli scompigliati e gli occhi rossi. Quando li vide avvicinarsi sbatté le palpebre e si passò una mano tra i capelli, guardando Bud con espressione accigliata. «Non avevo capito che avrebbe portato con sé queste persone.» Pike afferrò Barkley per la gola e lo spinse all'indietro nel suo ufficio. Bud fu colto alla sprovvista. «Joe!» Il caos esplose come colpi di mortaio, ma Pike lo ignorò. Gli assistenti urlavano, scioccati, e Cole ordinò a qualcuno di togliersi dai piedi. Pike spinse Barkley contro il muro mentre Cole e Bud entravano nell'ufficio e chiudevano la porta. Bud cercò di staccare Pike da Barkley. «Ma sei impazzito? Ti ha dato di volta il cervello?» Pike strinse la gola a Barkley. Non forte, solo un po'. «Stentorum Real Holdings» disse. Gli occhi di Barkley fluttuavano in due pozze rosa. Ansimava e le sue parole erano gorgoglii. «Non so cosa vuoi.» Bud aveva afferrato Pike per il braccio. Cole gli era accanto. «Lascialo andare» disse Bud. «Chiameranno la polizia! Vuoi che arrivi la polizia?» «Cosa ne dici di lasciar parlare me?» propose Cole. Pike fece un passo indietro. Barkley si portò una mano alla gola, tossì e sputò per terra. «Perché ha fatto questo? Perché è così arrabbiato?» Bud si mise tra Pike e Barkley, alzando le mani. «Calma. Calma. Gesù, cosa stai facendo?» «La Stentorum Real Holdings è una società di proprietà del signor Barkley» disse Cole. «E sta cercando di acquistare l'edificio in cui abbiamo
trovato i cadaveri dei King. Aveva un'opzione di quattro mesi per l'acquisto del magazzino. L'edificio si trova dove Larkin ha avuto l'incidente.» Barkley si stava ancora massaggiando la gola. «Di cosa sta parlando? Io non ne so nulla. Sono proprietario della Stentorum, certo, ma non so di cosa stia parlando.» Pike osservava Barkley mentre Cole parlava e l'altro rispondeva. Osservava i suoi occhi, la sua bocca, i suoi modi, ascoltava il timbro della sua voce, valutandone le fluttuazioni insieme allo sguardo e ai movimenti nervosi delle mani, e decise che Barkley stava dicendo la verità. «Sapeva che Alex Meesh non esisteva?» chiese Pike. Barkley arrossì. Incapace di sostenere il suo sguardo, si voltò, poi alzò gli occhi al cielo. Pike capì che si vergognava di se stesso. «Pensavamo che fosse l'unico modo.» Bud tornò a mettersi tra loro, questa volta rivolto verso Barkley. «Sapeva di Vahnich?! Cristo, Conner!» «E la proprietà?» proseguì Cole. «Ho parlato con l'amministratrice. Sostiene di avere ricevuto un'opzione per l'acquisto dalla Stentorum Real Holdings.» «Non mi occupo di queste cose. Se ne interessano i miei collaboratori.» «Kline» disse Pike. Barkley si passò di nuovo le mani tra i capelli, scostandoli dal viso. «Gordon se n'è andato. È sparito. Venite, vi faccio vedere...» Barkley li condusse fino in fondo al corridoio, sull'altro lato dell'edificio, nell'ufficio di Gordon Kline. Pike capì perché i cubicoli vicini all'ufficio di Barkley erano deserti: un piccolo esercito era radunato nell'ufficio di Kline, intento a esaminare documenti, il suo computer e quelli dei suoi assistenti. «Pensiamo che se ne sia andato ieri sera. Non so... sono sparite alcune cose...» «Denaro?» chiese Bud. «Sì, riteniamo di sì. C'erano delle cose che non tornavano. Lui viveva qui. Era venuto a stare qui, in ufficio, quando era cominciato questo casino con Vahnich. Diceva di aver paura.» Cole andò alla scrivania di Kline dove una squadra di persone stava lavorando al suo computer. «Potrebbe aver usato la Stentorum per acquistare la proprietà senza che lei lo sapesse?» «Certo che sì. Lasciavo che fosse Gordon a occuparsi di queste cose. Mi
fidavo di lui.» «Chi ha i tabulati telefonici di Kline?» chiese Cole a voce alta, rivolgendosi a tutti i presenti. «Su, qualcuno deve pur averli. Non c'è nessuno che controlla?» Due donne sedute vicine su un divano si scambiarono un'occhiata, incerte se rispondere o meno. Ma visto che Cole era con il signor Barkley, la più anziana si decise ad alzare la mano. «Li abbiamo noi.» Cole si avvicinò. «A partire da un mese fa, questi tabulati comprendono sia il telefono fisso sia il cellulare?» «Sì, signore.» I dirigenti di alto livello avevano spesso l'uso gratuito del telefono come benefit. Le società erano disposte ad accollarsi il costo delle bollette con la motivazione che i propri dirigenti si occupavano spesso d'affari dal loro telefono. La donna sfogliò le pagine finché trovò la data giusta. Cole scorse i numeri aiutandosi con il dito, voltò pagina, passando alla seguente, poi alzò lo sguardo. «È lo stesso numero che abbiamo trovato sul telefono di Luis. Vahnich.» Pike si avvicinò a Barkley e gli chiese a voce bassa: «È stato Kline a suggerire di mentire a Larkin a proposito di Vahnich?». Barkley annuì, poi capì perché Pike glielo aveva chiesto. «Era Gordon che diceva a Vahnich dove trovarla?» Bud sembrava sul punto di vomitare, come Barkley. «Quel figlio di puttana. Probabilmente stava cercando di guadagnare tempo. E avrà incolpato lei se l'accordo andava a rilento.» Barkley si girò di scatto, si appoggiò alla parete e vomitò. Quasi tutti i presenti si voltarono, e subito distolsero lo sguardo. Solo una persona si mosse per aiutarlo: un giovane ben vestito con gli occhiali andò a un bancone, prese dei tovaglioli di carta e corse a portarli a Barkley. «Mi dispiace» disse Barkley. Pike pensò che fosse sincero e provò compassione per lui. «Vahnich aveva investito centoventi milioni di dollari con i King, sessanta di un cartello della droga dell'Ecuador, sessanta da fonti sue. Intendo dire terroristi, Conner. È probabile che i King abbiano fatto da mediatori, pensando di rivolgersi a lei per la cifra restante.» «Nessuno si è rivolto a me. Io non so nulla di questo.»
«Si sono rivolti alla sua società, e la sua società era Kline.» «Avevano bisogno di duecento milioni di dollari per l'acquisto» disse Cole. «Kline avrà pensato di rubare il restante a lei, o di sfruttare la posizione della sua società per raccogliere i fondi necessari, ma non come investitore insieme ai King. Lui doveva acquistare le proprietà attraverso la sua società per tenere nascosto quello che stava facendo. Così i King gli hanno dato i centoventi, ma lui non è riuscito a mettere insieme il resto. Forse Vahnich si è spaventato perché la cosa andava per le lunghe e voleva indietro i soldi. Probabilmente Kline ha dato la colpa a lei...» Barkley lo ascoltava come un cane che si aspetta di essere preso a calci. Anche tutti i presenti ascoltavano. Barkley si pulì la bocca. «I miei avvocati mi hanno consigliato di chiamare la polizia e la commissione di controllo delle banche. Dovrei chiamare l'agente Pitman. Dobbiamo chiedere l'intervento di consulenti contabili.» «Lei ha un problema più grosso di quello che si è portato via Kline. Vahnich rivuole i suoi soldi.» Barkley deglutì quando capì cosa significava e arrossì violentemente. «Larkin sta bene?» «Sta bene.» «Lei sa...» Esitò, poi si costrinse a pronunciare le parole. «Lei sa che le ho mentito?» «Sì.» «Voglio vederla. Voglio andare da lei. Subito.» Pike guardò Cole e questi annuì. «L'accompagneremo da lei.» 40 Pike salì in auto con Bud e Conner Barkley, Cole li seguì da solo. Bud era alla guida, Pike al suo fianco, Barkley seduto dietro. Pike riferì a Bud tutto quello che aveva appreso da Chen sull'identità degli uomini arrivati dall'Ecuador e i possibili collegamenti con la gang di Mara Salvatrucha, gli MS-13. Bud chiamò un suo amico che lavorava all'unità antigang e gli chiese di verificare se nella banda degli MS-13 figurasse qualcuno di nome Carlos. Dopo la telefonata, proseguirono in silenzio. Stare in auto con Bud al volante era per Pike una sensazione familiare ma non piacevole, come se fosse stato costretto a tornare in un luogo che si
era ormai rassegnato a lasciare. Per evitare di pensarci ascoltava le telefonate concitate di Conner Barkley ai manager della società e ai suoi avvocati. «Ne è passato di tempo, agente Pike» disse Bud. Pike si voltò verso di lui e capì che anche Bud la sentiva, quella sensazione familiare provocata dal trovarsi a bordo della stessa auto per dare la caccia ai cattivi. Bud pareva eccitato, ma per Pike quei giorni erano ormai finiti. Puntò il dito. «Devi svoltare qui.» Pike li guidò lungo le stradine tutte curve fino alla casa. La Lexus era ancora nel vialetto, gli anziani seduti vicini sulla veranda. I due armeni più giovani, Adam e uno che Pike non aveva conosciuto, stavano lavando la BMW. Quando l'Hummer si fermò dietro la Lexus, si voltarono a guardare incuriositi. Cole parcheggiò davanti alla casa vicina. Conner Barkley chiuse il telefono e si sporse in avanti per guardare la casa. «È qui che avete vissuto? Larkin deve averlo odiato, questo posto.» Pike scese senza rispondere, attese che arrivasse anche Cole, quindi andò verso la casa, saltò sulla veranda e bussò forte alla porta per avvisarla. «Sono io.» Così dicendo, infilò la chiave nella serratura e aprì. «Larkin.» La casa era silenziosa. Pike capì che era deserta. Cole, Bud e Barkley entrarono a loro volta mentre lui chiamava a voce alta «Larkin!». «Larkin, sei qui?» disse Barkley. Pike e Cole si scambiarono un'occhiata e subito si separarono: Cole andò in cucina mentre Pike controllava la camera da letto e il bagno. Gli effetti personali di Larkin erano al loro posto, non mancava nulla, non c'era alcun segno di lotta... Tutto era esattamente come due sere prima. Larkin era scomparsa. Barkley si mise le mani sui fianchi, irritato. «Mi pareva di aver capito che si trovasse qui.» Pike stava già andando verso la porta quando una voce gridò da fuori: «Ehi, fratello!». Adam era sul prato, bagnato e a piedi nudi. Teneva una mano davanti agli occhi per proteggersi dal sole, ma Pike capì che aveva visto qualcosa, e che era qualcosa di brutto. «Tutto a posto, fratello? Mona sta bene?»
«Non è qui. Per caso hai visto dov'è andata?» Cole, Bud e Barkley erano usciti sulla veranda e si erano raccolti intorno a Pike. «È andata via con dei tizi. Non sarà quel molestatore, vero?» «Quale molestatore?» fece Barkley. «Di cosa sta parlando?» Pike saltò giù, seguito da Bud e Cole. La luce lattiginosa si era fatta accecante, nonostante gli occhiali scuri. «L'hanno portata via?» chiese Pike. «Lei sembrava d'accordo. Altrimenti noi saremmo intervenuti, no?» Cole cercò di mettere a proprio agio il ragazzo. «Tu non hai fatto nulla di male. Raccontami cosa è successo.» «Eravamo proprio qui. Lei non ha urlato, era normalissima. Poi sono saliti in auto.» «Quanto tempo fa?» «Mezz'ora, più o meno. Avevamo appena iniziato a insaponare la BMW.» Bud si avvicinò. Nonostante il completo elegante, sembrava proprio un poliziotto di strada. Pike capì che era teso. L'aria pareva elettrica. «Hai visto bene queste persone e la macchina? E il tuo amico?» «Questo è mio cugino, Garo. Sì, abbiamo visto. Due sudamericani e un bianco, con una gran bella macchina. Non il mio genere... una di quelle macchinone americane con la carrozzeria ribassata.» «Una lowrider?» «Sì, tipo. Non conosco la marca, ma era proprio bella. Nera con i cerchioni cromati...» «Hai preso la targa?» chiese Pike. «Mi dispiace, fratello.» Bud andò verso Garo mentre Pike apriva il foglio con la foto segnaletica dell'Interpol di Khali Vahnich. Adam annuì. «Sì, sì. È lui. È questo il maniaco?» Cole si lasciò sfuggire un sibilo. «Cristo. Come ha fatto a trovarla? Come ha fatto?» Pike si sentì come se avesse fallito. Ripensò al locale notturno. Forse era successo allora. Forse lei era stata riconosciuta e lui non se n'era accorto. «Sapete dov'è andata o no?» gridò Barkley dalla veranda. «Qualcuno potrebbe dirmelo, per favore?» Pike guardò la casa che aveva diviso con Larkin, poi si spostò al centro della strada. Lo fece senza riflettere, senza sapere bene perché. La lowrider
nera non era in fondo all'isolato, e sull'asfalto non erano visibili segni di pneumatici, ma forse fu proprio per quello che si mosse. Qualcosa dentro di lui lo spingeva in quella direzione, qualcosa di primitivo lo incitava alla caccia. Pike chiuse gli occhi. L'aveva tenuta al sicuro per cinque giorni, e adesso l'aveva persa. Larkin Conner Barkley era sparita. Qualcosa gli sfiorò la schiena. Pike aprì gli occhi e vide Cole. «La troveremo.» Il cellulare si mise a squillare. Pike guardò il numero ma non lo riconobbe. Rispose comunque. Il tempismo era troppo perfetto perché fosse qualcun altro. «Pike.» «Voglio i soldi.» Pike aveva già sentito quell'accento. Era Khali Vahnich. 41 Pike si sforzò di mantenere un tono di voce calmo. Il suo cuore aveva fatto un balzo, ma non voleva che Vahnich capisse quanto era spaventato. «La mia amica è viva e sta bene?» «Per adesso sì. Poi vedremo. Con chi parlo?» Pike fece dei cenni a Cole per fargli capire che era Vahnich, poi corse in casa. Aveva bisogno di silenzio per sentire bene e di una penna per prendere appunti. La confusione e gli errori potevano esserle fatali quanto il panico. «Passamela» disse Pike. In casa, andò direttamente al tavolo dove erano sparpagliate carte e penne e annotò il numero che appariva sul display. Vahnich parve offeso. «Sta bene. La ucciderò soltanto se non avrò i soldi.» «La conversazione termina qui, a meno che io non sia sicuro che è viva.» Cole e Barkley lo avevano seguito all'interno, e Barkley aveva sentito abbastanza da capire cosa stava succedendo. Venne avanti a passo deciso come se volesse strappargli il telefono di mano. «È per Larkin? È morta?» Pike lo zittì con un gesto e Cole gli tappò la bocca con una mano. Barkley si divincolò, ma Cole gli sussurrò qualcosa all'orecchio e lui si calmò.
«Passamela, Vahnich. Passamela o riattacco.» Pike si concentrò sulla telefonata. Si coprì l'orecchio libero e ascoltò attentamente per cogliere rumori di fondo che potessero dargli qualche indicazione sul luogo in cui si trovava Vahnich. Sentì delle voci, ma niente che facesse pensare a un luogo in particolare. Poi Larkin venne al telefono. Sembrava stesse bene. «Joe?» «Sto arrivando.» «Sto bene...» Pike sentì un tonfo come se fosse caduto il telefono. Larkin gridò qualcosa che lui non capì, poi lanciò un urlo che venne subito soffocato. Tornò in linea Vahnich. «Sei contento di sapere che è viva? Era questo che volevi?» Pike esitò. Questa volta mantenere un tono di voce calmo fu più difficile. Annuì per far capire a Cole e Barkley che era viva. «Sì. Andiamo avanti solo se lei è viva.» «Con chi parlo?» «Col suo angelo custode.» «Devi farmi parlare con suo padre.» «Parlerai solo con me. Tutto passa attraverso di me.» «Allora basta. Suo padre trasferirà il denaro ed è finita lì. Ti do il numero di conto e i codici d'accesso.» «Aspetta... ascolta... È stato Kline a prendersi i tuoi soldi. Li ha trasferiti all'estero. Non sappiamo dove si trovi adesso.» «Non è un problema mio.» La porta si spalancò e Bud si precipitò dentro. Cole gli fece cenno di stare zitto. Bud annuì, ma andò al tavolo e cominciò a scarabocchiare qualcosa. Pike lo guardava continuando a parlare con Vahnich. «I King devono averti detto cosa è successo, prima che tu li ammazzassi. Era un affare ideato da Kline. Barkley non c'entra niente.» «Ti dico io una cosa. Questi soldi non sono miei. Me li hanno affidati persone pericolose che contano su di me per riaverli. A loro non interessa da dove vengono.» Vahnich aveva commesso un errore. Capita, quando si parla, e Vahnich aveva parlato molto. Stava cercando di convincere l'interlocutore, e questo significava che non si sentiva in grado di gestire la situazione. Pitman si era sbagliato su tutto, ma anche Pike: Vahnich e i suoi sicari non avevano
mai cercato di uccidere la ragazza. Loro avevano cercato di rapirla per usarla come merce di scambio. Le persone che avevano anticipato i soldi adesso li rivolevano indietro e Vahnich stava solo cercando di salvarsi la pelle. La sua paura poteva essere usata per guadagnare un po' di tempo, o per indurlo a commettere un altro errore. «E se ti aiutassimo a trovare Kline? Potremmo lavorare insieme» disse Pike. Vahnich scoppiò in una risata. «Ma certo! No. Credo che questo mi metterebbe in una posizione di debolezza. Mentre adesso sono in vantaggio.» Bud voltò il foglio su cui aveva scritto e lo tenne alzato in modo che Pike potesse leggerlo. LO HA CHIAMATO LEI DAL TELEFONO DEI VICINI. L'elenco delle telefonate era ancora lì, sul tavolo. Larkin aveva scoperto le telefonate tra Kline e Vahnich e lo aveva chiamato. Pike indicò Barkley con il dito, per far capire a Bud di mostrare a lui l'appunto. «Perché lei ti ha chiamato, Vahnich?» Pike era sicuro di conoscere già la risposta. «Voleva aiutare il padre, e invece ha aiutato me. Queste ragazze sono proprio sciocche, vero?» Pike non rispose. Stava osservando Conner Barkley. L'uomo pareva confuso. «Dillo a suo padre» proseguì Vahnich. «Non vorrà perdere una figlia così devota.» Cole andò al tavolo e scrisse qualcosa. CHIEDIGLI DI INCONTRARLO. Pike annuì. «Lui le vuole bene, Vahnich. L'adora. Credo che troveremo una soluzione...» Il cellulare di Bud cominciò a suonare, ma lui riuscì ad allontanarsi in fretta, coprendolo con una mano. Pike continuò a parlare con Vahnich. «Vediamoci, così possiamo organizzare il trasferimento. Dimmi dove possiamo incontrarci.» Vahnich rise. «Hai intenzione di portarmi i soldi in contanti? Quanti camion ti serviranno? Ma andiamo! Sarà lui a trasferire il denaro. Quando sarà al sicuro, io lascerò andare la ragazza. Tu e io non ci incontreremo mai, amico.» «Barkley non è uno stupido, Vahnich. Non trasferirà il denaro finché
non rivede la figlia.» «Allora nessuno di noi due avrà quello che vuole, e saremo entrambi tristi.» Pike voleva guadagnare più tempo possibile. Se Vahnich si rifiutava di incontrarlo, dovevano scoprire dove si nascondeva. «Gli parlerò. Prima devo trovarlo, ma gli parlerò. Lui la rivuole sana e salva.» «Segnati questi numeri...» disse Vahnich, e cominciò a snocciolare una serie di cifre, ma Pike lo interruppe. «Non so quanto tempo ci vorrà...» «Segnateli e rileggimeli.» Pike ubbidì. «Bene» fece Vahnich. «I numeri sono giusti. Se lui non fa arrivare i soldi su questi conti entro due ore io taglio una mano alla ragazza...» «Vahnich...» disse Pike. «Se entro un'altra mezz'ora i soldi non sono ancora arrivati, le taglio la testa. Non abbiamo altro da dirci.» La comunicazione si interruppe. Pike continuava a stringere il cellulare, ascoltando il silenzio. Cole e Barkley lo fissavano. Bud era al telefono, in un angolo della stanza, e stava prendendo appunti su un taccuino. «Per adesso è viva» disse Pike. «Ma lui non vuole incontrarci. Non è scemo.» «Cosa vuole?» disse Barkley. «I suoi centoventi milioni. Abbiamo due ore.» «Ma non li ho presi io. Io non ne so nulla.» Barkley si lasciò cadere sul divano e si premette le mani sugli occhi, il volto contratto in una smorfia. «Ha davvero chiamato lei quest'uomo? Si è messa da sola nelle sue mani?» «Lo ha fatto per lei. Probabilmente pensava di riuscire a fare un accordo o di convincerlo a non ucciderla.» Barkley si alzò di scatto dal divano, come se volesse assumere il. comando della situazione. «E va bene. Pagherò. Non posso trasferire una somma del genere in due ore, ma pagherò. Lo richiami.» «Il denaro non è la soluzione.» «Pagare non è una cosa furba, signor Barkley» disse Cole. «Appena avrà
avuto i soldi, la ucciderà.» «Lui vuole i soldi, io li ho... cos'altro possiamo fare?» «Trovarlo.» Bud concluse la sua telefonata e li raggiunse. «Ho qualcosa... il collegamento con gli MS-13 potrebbe aver dato qualche risultato. Ci risultano due veteranos di nome Carlos. Uno è in carcere, ma l'altro frequenta della gentaglia che importa droga dal Sudamerica da anni...» «Sembrerebbe il nostro uomo» disse Cole. «Ma c'è anche una cattiva notizia. Questo Carlos Maroto è uno dei vecchi, da sempre con i Mara, e vive proprio al centro di una zona controllata dai Mara. Trovarlo non sarà facile, e convincerlo a collaborare ancora meno.» Pike sapeva che Bud aveva ragione. Se ne avessero avuto il tempo, sarebbero riusciti a trovarlo, ma il tempo era pochissimo, e rintracciare un bandito del genere nel suo barrio era arduo. Una gang poteva essere formata da famiglie intere, interi quartieri. Nessuno avrebbe collaborato, e la notizia si sarebbe sparsa velocemente. In un ambiente in cui l'orgoglio e la famiglia sono tutto, i membri delle gang sudamericane avevano molta voce in capitolo, e non avrebbero tradito gli amici. Specialmente per tre bianchi sconosciuti. La rapidità era vita. «Abbiamo bisogno della sua collaborazione» disse Pike. «Impossibile.» «Potrebbe essere possibile, se glielo chiedesse la persona giusta.» Cole inarcò le sopracciglia quando capì cosa stava pensando Pike. «Frank Garcia. Frank potrebbe riuscirci.» «Quel Frank Garcia?» chiese Bud. Pike guardò l'orologio. «Proviamo. Lo chiamerò dalla macchina.» Cole e Bud si diressero verso la porta. Pike fece per seguirli, poi si fermò e guardò Barkley. «Mi metterò in contatto quando sapremo qualcosa.» «Io vengo con voi.» «Signor Barkley, questa è...» Barkley diventò tutto rosso in faccia. «È mia figlia, e voglio esserci. È questo che fanno i padri.» Pike pensò che Barkley stesse per mollargli un pugno. La sua bocca ebbe un guizzo. «Dopo di lei» disse e lo seguì fuori.
42 Le indicazioni portavano a una strada stretta al confine tra Boyle Heights e City Terrace, non lontano dalla Pomona Freeway, nella zona orientale di Los Angeles. La strada era fiancheggiata da case piccole con i tetti piatti come scatole da scarpe separate da angusti vialetti, la maggior parte con giardini delle dimensioni di un francobollo. Lungo il marciapiede erano parcheggiate auto americane, mentre nei vialetti giacevano abbandonati giocattoli e biciclette, e più di un giardinetto sfoggiava una piscina gonfiabile, afflosciata e senza vita nella micidiale calura del giorno. Bud imboccò la strada a passo d'uomo con il grosso Hummer; Pike era seduto accanto a lui, Cole e Barkley sui sedili posteriori. Conner Barkley si sporse in avanti per guardare. «Dove siamo?» «Boyle Heights» disse Bud. «Dovrebbe comprarlo e costruirci uno shopping center.» Pike sapeva che Barkley era nervoso, ma anche Bud lo era. «Lo vedete? Io non lo vedo» disse Bud. «Verrà. Ha detto di aspettare in macchina finché non arriva.» «Io non ho nessuna intenzione di scendere, che lui arrivi o meno, con questi maledetti punk qui intorno.» Bud rallentò quando arrivarono nei pressi dell'indirizzo indicato, e andò a fermarsi davanti a una casetta uguale a tutte le altre, solo che questa aveva una barca nel vialetto e una bandiera americana appesa al cornicione. Alla bandiera era attaccato un nastro giallo. Entrambi erano lì fuori da così tanto tempo che il sole li aveva sbiaditi. Strada facendo, avevano visto nastri come quello in più di una casa. Giovani con l'aria da duri sedevano sulle auto parcheggiate o se ne stavano fermi in strada in piccoli gruppi, come se fossero insensibili al caldo. I più indossavano magliette bianche e jeans abbastanza larghi da nasconderci dentro un microonde, e sfoggiavano vistosi tatuaggi. Osservavano l'Hummer con studiata indifferenza. Dai tatuaggi, Bud capì a che gang appartenevano. «Guardate questi qui... Florencia 13, Latin Kings, Sureños, 18th Street... Cristo, gli 18th Street e i Mara si ammazzano gli uni con gli altri appena si vedono. Si odiano.» «Appartengono tutti a qualche gang?» chiese Barkley. «Faccia finta di guardare la tivù» gli disse Cole «e non avrà problemi.»
«Ecco Frank» annunciò Pike. Una limousine nera comparve in fondo alla strada e avanzò lentamente verso di loro. La sua comparsa si propagò come un'onda tra i giovani che scesero dalle auto per vedere. Barkley si accorse della loro reazione e si sporse nuovamente. «È il capo?» Cole scoppiò a ridere. Anche Pike lo trovò divertente. Pensò che se fosse sopravvissuto a quell'avventura lo avrebbe raccontato a Frank, e anche lui avrebbe riso. «È un cuoco» disse. Bud sorrise a Pike e, quando si rese conto che lui non aveva intenzione di aggiungere altro, si voltò verso Barkley per spiegare. «Lei mangia cibo messicano? So che ha dei cuochi, ma quando è tardi e vuole qualcosa di veloce, non tiene qualche tortilla in casa?» «Sì.» «Le Monsterito?» «Certo. Per me sono le migliori.» Pike rifletté che era una cosa ben strana di cui parlare in quel frangente. Bud tornò a voltarsi verso la strada per tenere d'occhio la limousine di Frank. «Per lei come per tutti gli altri. E anche per me. Ha presente quel disegnino che c'è sull'involucro, quel tipo con i baffoni? Ecco, quello è il signor Frank Garcia quarant'anni fa. Quei ragazzi che vede là fuori... Frank era uno come loro, prima di mettersi a fare tortillas per sua zia. Le faceva in cucina, secondo la ricetta di famiglia. E con quelle tortillas ha creato un impero che vale... Quanto?» Bud lanciò un'occhiata a Pike, ma lui lo ignorò. «Cinque, seicento milioni» rispose Cole. Pike avrebbe voluto che la smettessero di parlare, ma Bud tornò a voltarsi verso Barkley. «Non un giro d'affari come il suo, ma comunque degno di nota. Il fatto è che lui non ha mai dimenticato le proprie origini. Ha pagato parecchie parcelle mediche da queste parti. E un sacco di rette scolastiche. Ci sono degli uomini in prigione, molti dei quali sbattuti dentro dal sottoscritto, e Frank si prende cura delle loro famiglie da anni. Pensa che questa gente non farebbe qualunque cosa per lui? È ricco, ed è vecchio, ma loro sanno che era uno di loro e che non gli ha voltato le spalle quando ha avuto successo.» La limousine di Frank si fermò, il muso contro quello dell'Hummer. Le
portiere anteriori si aprirono e ne scesero due giovani ben vestiti, la guardia del corpo e l'assistente di Frank. Pike li aveva già conosciuti. «Come fa a conoscerlo, Pike?» chiese Barkley. «Per poco Joe non sposava sua figlia» rispose Bud. Pike aprì la portiera e scese. Non voleva ascoltare la storia di Bud. Aveva conosciuto i Garcia quando era un giovane agente di pattuglia e faceva ancora coppia con Abel Wozniak. Anni dopo, quando Karen Garcia era stata uccisa, Pike e Cole avevano trovato il suo assassino. Pike attese che Frank scendesse dall'auto. Dimostrava cento anni. La pelle, brunita come il cuoio di una sella, aveva l'aspetto della corteccia e i capelli erano color argento. Era fragile e doveva essere trasportato in carrozzella attraverso le innumerevoli stanze della grande casa di Hancock Park, ma riusciva ancora a muovere qualche passo se qualcuno lo sosteneva per il braccio. Quando la guardia del corpo fece per aprire la carrozzella, Frank la respinse con un gesto della mano. Voleva camminare. Quando vide Pike, un sorriso scavato gli incrinò il volto. «Ciao, cuore mio» gli disse, stringendogli il braccio. Pike ricambiò l'abbraccio e subito si staccò da lui. «Carlos è dentro?» «Abbot ha parlato con le persone che potevano fare in modo che venisse. Ma non sa perché si trova qui. Ho pensato che fosse meglio così, per non correre il rischio che qualcuno mettesse in guardia questo Vahnich.» Frank Garcia era un vecchio molto scaltro, come pure il suo avvocato e braccio destro, Abbot Montoya. I due erano cresciuti insieme. Insieme avevano militato nella gang dei White Fence, e insieme avevano fatto molta strada. La guardia del corpo e l'autista presero il vecchio per le braccia e il quartetto si avviò lentamente lungo il marciapiede. Quasi immediatamente la porta d'ingresso di una casa si aprì e sulla soglia comparve un uomo sulla quarantina. Era basso ma ben piantato, con un torace da sollevatore di pesi e gambe secche. Aveva il viso tondo, così butterato che pareva un ananas. Le braccia erano coperte di tatuaggi e cicatrici. Osservò Pike, poi guardò il vecchio e aprì ancora di più la porta. «Benvenuto nella mia casa, signore. Io sono Aldo Saenz. Mia madre, Lupe Benítez, era sposata con il cugino della moglie del signor Montoya, Hector Guerrero.» Frank gli strinse la mano con calore. «Grazie per la sua benevolenza, signor Saenz. Oggi lei mi fa un grande
onore.» Pike seguì Frank in un piccolo soggiorno molto simile a quello della casa di Echo Park, arredato con mobili che avevano fatto molte battaglie, ma pulito e in ordine. Era la casa di una famiglia, con diverse foto appese intorno a un crocefisso sulla parete. Le foto ritraevano bambini di età diverse; c'era anche un giovane in alta uniforme dei marines. Pike contò sei uomini, compreso Aldo Saenz, due in tinello, quattro in soggiorno. I loro occhi si posarono su Pike l'attimo stesso in cui entrò, e due parvero subito innervosirsi. Saenz fece un gesto d'impazienza verso quelli in tinello. «Una sedia. Presto.» Uno si precipitò a prendere una sedia. «Si accomodi, la prego» disse Frank. «Non stia in piedi per un vecchio. Devo presentarmi... Sono Frank Garcia, e questo è il mio amico...» Frank fece cenno a Pike di avvicinarsi e lo afferrò per il braccio. Pike non finiva mai di stupirsi per la forza del vecchio. Aveva dita che parevano artigli. «Quando ho perso mia figlia... quando è stata assassinata... quest'uomo ha trovato l'animale che se l'è portata via. E adesso lui è il mio cuore. Quest'uomo è come un figlio per me. Aiutare lui significa aiutare me. Vorrei che lo capiste tutti. Ora possiamo parlare con il signor Maroto?» Saenz indicò uno degli uomini in tinello. Maroto era un tipo sulla trentina, nervoso come se stessero per giustiziarlo. Persone potenti gli avevano ordinato di presentarsi lì, persone che potevano porre fine alla sua vita senza esitazione. Aveva addosso gli occhi di tutti i presenti. «Carlos Maroto della Mara Salvatrucha?» Gli occhi dell'uomo guizzarono per la stanza. Aveva paura, ma Pike capì che il suo cervello era in vorticosa attività. Gli avevano ordinato di andare lì, e lì era, ma adesso si stava preparando a combattere, se fosse stato necessario. «Sono io» disse Maroto. Frank strinse di nuovo il braccio di Pike. «Quest'uomo, il figlio del mio cuore, deve chiederle qualcosa, qui, davanti agli altri membri di questa casa. Prima che lo faccia, voglio dirle che capisco che si tratta di questioni delicate, che potrebbero riguardare accordi commerciali di vecchia data tra individui e bande. Quello che le chiediamo, non lo chiediamo con leggerezza.» Il vecchio mollò la presa e fece un piccolo gesto con la mano.
«Chiedi.» Pike guardò Maroto. «Dove posso trovare Khali Vahnich?» Maroto strinse gli occhi per far capire che era un duro e scosse il capo lentamente. «Non ne ho idea. Chi cazzo sarebbe?» A Pike venne in mente che l'uomo poteva non conoscere il vero nome di Vahnich. Prese la foto di Vahnich e la voltò verso di lui. Maroto non la prese, e da questo Pike capì che lo conosceva. «La tua gang è in affari con Esteban Barone. Barone ti ha chiesto di aiutare lui e certi ragazzi che sono venuti su dall'Ecuador. Tu stai solo dando una mano a un amico, questo lo capisco.» «Rispondigli, fratello» disse Saenz. «Nessuno è sotto processo, qui.» Maroto era furioso. Si sentiva messo all'angolo. «Che cazzo significa? Sì, è così. E allora? Perché dovrebbe fregare qualcosa a qualcuno?» «Voglio che tu me lo consegni» disse Pike. Maroto cambiò posizione. Non guardava più Pike: guardava gli altri. «Cos'è questa storia? Noi non ne sappiamo un cazzo. Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere un poliziotto.» Aldo Saenz incrociò le braccia possenti e Pike capì che stava cercando di controllarsi. Quando parlò, la sua voce era un brontolio minaccioso. «Tu sei qui come mio ospite. Io ti tratto con rispetto, ma tu non puoi insultare il signor Garcia nella mia casa.» «Non intendevo mancare di rispetto al signor Garcia, ma la mia banda è in affari con Esteban Barone. Affari redditizi e di lunga data. Lui ci ha chiesto un favore, noi glielo abbiamo fatto. Cosa volete che dica?» «Khali Vahnich è amico di Barone» riprese Pike «ma non è solo questo.» Pike porse a Saenz il rapporto dell'Interpol. «Legga cosa c'è scritto in fondo alla pagina.» Saenz aggrottò la fronte. «Come sarebbe a dire, lista dei ricercati per terrorismo? Cos'è questa storia?» Frank si aggrappò al braccio di Pike e si alzò in piedi. «Significa che è mio nemico. Sostiene persone che vogliono ucciderci, arma i loro uomini fuori di testa e adesso, in questo momento, mentre noi parliamo, è qui a Los Angeles, nel nostro barrio! E io voglio mettere le mani su quel figlio di puttana!» Saenz era immobile, tranne che per il sollevarsi e abbassarsi del torace
massiccio. Il suo volto si increspò, mosso da un forte tic alla guancia. Passò il foglio all'uomo più vicino, quindi guardò Maroto. Lui impallidì e scosse la testa. «Barone ha detto di aiutarlo e noi lo abbiamo aiutato. Credi che sapessimo una cosa del genere? Credi che ci abbia detto: questo è un mio amico, un terrorista? Che cazzo...» L'uomo che aveva ricevuto il foglio lo passò al vicino, e questi all'uomo accanto. Pike pensò alla bandiera esposta fuori e al nastro giallo. Saenz stava guardando la foto del giovane marine, e Pike capì che Frank Garcia aveva fatto una buona scelta con quella casa. Il nastro stava a significare il sostegno alle forze armate americane impegnate all'estero. Saenz si schiarì la voce e si rivolse a Frank. «Se vuole concederci un momento, per favore. Non è per mancanza di rispetto, ma abbiamo bisogno di un momento.» La guardia del corpo e l'autista aiutarono Frank a uscire; Pike li seguì. Non erano arrivati neppure a metà strada fra la casa e la limousine, quando Saenz li raggiunse e disse loro dove trovare Vahnich. 43 Era una piccola casa su una collinetta nell'angolo formato dalla Glendale Freeway e dal Los Angeles River. Gli aranceti che un tempo si estendevano a vista d'occhio erano rimasti vittime della speculazione edilizia e adesso le dolci colline di Glassell Park erano disseminate di villette. Alberi solitari e stentati facevano ancora capolino fra le case più vecchie, legittimi abitanti di quel luogo, i tronchi nodosi neri come fuliggine. Pike e Bud conoscevano bene quella zona perché si trovava proprio di fronte all'Accademia di polizia, anche se sull'altro lato del fiume. «Questo Hummer spicca come un carro armato. Tanto valeva arrivare con un cartello e la scritta "Eccoci qui"» commentò Pike. «Alla prossima gira a destra, poi vai su per la collina. Dovrebbe trovarsi sulla sinistra.» Maroto aveva detto che la casa si trovava in fondo a un vialetto piuttosto lungo, nascosta da querce nane e alberi di olivi. Vahnich non abitava lì, ma aveva bisogno di un posto dove incontrarsi con gli uomini venuti dall'Ecuador. Gli era piaciuto il fatto che la casa fosse così isolata. Barkley si sporse in avanti cercando di vedere meglio. «E se lei non fosse qui? E se l'avesse portata da qualche altra parte?» «In quel caso Maroto passerà una brutta nottata. È per questo che Saenz e gli altri lo hanno trattenuto, perché non potesse avvisare il suo amico e
per essere sicuri che non avesse mentito.» Bud rallentò. «Siamo quasi arrivati. Guarda a sinistra.» Il vialetto curvava in discesa, allontanandosi dalla strada per seguire l'andamento della collina. Pike vide l'angolo della casa e la coda di un'auto blu, e in attimo furono oltre. «Ho visto soltanto una macchina blu» disse Cole «ma potrebbe esserci un intero esercito là dentro.» A Pike non importava. Se tu non potevi vedere loro, loro non potevano vedere te. Bud proseguì. «Chiamiamo la polizia. Dobbiamo avvertirli.» Pike si voltò per vedere se qualcuno usciva dalla casa a controllare. «Accertiamoci che la ragazza sia qui.» «Cosa vuoi fare?» «Andare a vedere. Aspettami in cima alla strada. Ti chiamo.» «Voglio venire anch'io» disse Conner Barkley. «Vado solo a dare un'occhiata.» Pike scese in fretta dall'auto e si avviò a passo svelto per il vialetto più vicino. In quel tratto di strada le case erano costruite a monte, a pochi metri di distanza una dall'altra. Pike costeggiò un basso muretto di contenimento che correva sotto la casa, passò davanti a bidoni di plastica per la spazzatura, vecchie grondaie e sacchi di fertilizzante così vecchi che erano scoppiati. Si fermò solo il tempo necessario per accertarsi che il giardino sul retro fosse deserto, poi lo attraversò passando fra tre vecchi aranci, quindi superò la cresta. Scese il fianco della collina facendosi largo tra piante di edera, erba cristallina e altri aranci finché non arrivò sotto la casa di Vahnich, e allora risalì il pendio. Da quella posizione vide una casa in stile ranch un po' scrostata, circondata da un prato secco disseminato di arance marce. La casa vicina era più in alto. Il vialetto curvava e saliva fino a un ricovero per auto di fronte alla casa. La macchina blu intravista dalla strada bloccava la lowrider descritta dai cugini armeni e una Chrysler LeBaron nuova parcheggiata sotto la tettoia. Due uomini erano in piedi davanti alla lowrider, una Bel Air del 1962 lucida e nera come un tizzone. Il cofano era sollevato, e i due erano persi in adorazione del motore. Da come la casa era inserita nel fianco della collina Pike capì che sull'altro lato doveva esserci un muretto di contenimento che correva per tutta la sua lunghezza. Era quasi certo che avrebbe trovato delle finestre, e quindi
avrebbe potuto individuare Larkin. Fece qualche passo tra gli alberi da frutto scheletrici dirigendosi verso l'angolo della casa, ma come la sua visuale cambiò, vide la ragazza attraverso le portefinestre sul retro della casa. Larkin era seduta per terra, la schiena appoggiata alla parete di una stanza vuota, di fronte alla portafinestra. Un uomo le passò davanti, da sinistra a destra, diretto verso il davanti della casa. Non era Vahnich. Pike fece un rapido calcolo. Erano presenti almeno sei uomini... i cinque ecuadoregni rimasti più Vahnich. Osservò Larkin e provò un sollievo enorme. L'aveva persa, ma adesso l'aveva ritrovata. Era seduta con le ginocchia giunte e le mani dietro la schiena. Pike non riusciva a capire se fossero legate, ma voleva scoprirlo. Se era legata, i suoi movimenti sarebbero stati limitati. Non pareva ferita, né sofferente. Teneva la testa sollevata e gli occhi aperti, e guardava verso il davanti della casa. I capelli corti e neri le davano un'aria da dura. Pike si chiese se se li sarebbe fatti ricrescere e se avrebbe preferito il rosso. Larkin stava dicendo qualcosa alla persona che aveva davanti. Pike decise che era arrabbiata, e la sua bocca ebbe un guizzo. "Sei proprio una ragazza in gamba" pensò, mettendosi comodo. Prese il telefono e compose il numero di Vahnich. Che rispose immediatamente. «Sì?» «Trasferirà il denaro. Sta organizzando tutto in questo momento.» «È un uomo saggio. Ha fatto la scelta giusta.» «Io però dovrei assicurarmi che tu non le abbia tagliato la mano o le abbia fatto del male. Lui vuole esserne certo. Passamela.» Vahnich non fece obiezioni. Un uomo entrò nella stanza da destra, si accucciò accanto alla ragazza e le avvicinò un telefono all'orecchio. Era Vahnich. Pike capì che Larkin aveva le mani legate. «Joe?» disse la voce di lei. «Non lascerò che ti faccia del male.» «Non mi ha fatto del male.» «Sta' in campana.» Vahnich si avvicinò alla finestra con il telefono in mano. Pike non si allarmò: Vahnich stava semplicemente guardando fuori verso l'autostrada e le Verdugo Mountains. Pike avrebbe potuto ucciderlo, ma in casa con la ragazza c'erano altri tre uomini. «Sta bene, hai sentito? Sono un uomo di parola. Rispetterò il nostro ac-
cordo» disse Vahnich. «Il contabile dice che ci vorrà ancora qualche minuto per mettere insieme tutti quei soldi. Ne hanno un po' dappertutto.» «Va bene.» «Ti richiamerò. Suo padre vorrà sentire personalmente la sua voce. Per essere sicuro. Solo allora daranno il via al trasferimento.» «Certo. Non c'è problema.» «Bene. Così non avrai problemi.» Un terrorista ragionevole. Gentile e premuroso. Pike chiuse la comunicazione, poi chiamò Cole. Mentre aspettava che rispondesse, vide Vahnich che voltava la schiena alla portafinestra e usciva verso sinistra. A Pike non piaceva quel nuovo sviluppo. Adesso aveva Vahnich sul retro della casa, un altro uomo sul davanti e due in posizione sconosciuta. Cole rispose. «È qui» disse Pike. «Fuori ci sono due uomini vicino alle auto. La ragazza è dentro in quella che sembra una saletta sul retro della casa. All'interno ci sono almeno altri tre uomini, ma non ti so dire dove.» «Hai visto Vahnich?» «Affermativo.» «Quindi la sua presenza nella casa è confermata?» «Sì.» «Bud dice che chiama la polizia.» «Faccia come vuole. Tu dove sei?» «Sull'altro lato della strada.» «Cosa ne dici di salire verso la casa per tenere d'occhio il davanti? Bud potrebbe coordinarsi con la polizia e restare sul vialetto... Aspetta un momento...» Un uomo robusto che Pike non aveva mai visto prima arrivò dal davanti della casa e fece alzare in piedi Larkin, poi la spinse verso il retro. A Pike non piacquero i suoi modi bruschi e neanche il fatto che l'avessero spostata. Riprese a parlare con Cole. «La stanno spostando. Vado a vedere cosa succede.» Pike chiuse il telefono, tornò sui suoi passi fino in fondo al giardino, quindi risalì fino al vialetto dietro la casa. Si avvicinò alla finestra, rimase in ascolto ed estrasse la pistola. Non dovette mettere un colpo in canna o controllare che fosse carica come si vedeva in tivù: lui teneva sempre il colpo in canna.
Si sollevò di quel tanto necessario a sbirciare oltre l'angolo della finestra. Larkin, l'uomo robusto e Vahnich erano in una stanza vuota. Larkin si trovava nuovamente a terra, con lo sconosciuto che torreggiava su di lei. Entrambi guardavano Vahnich che aveva un computer portatile aperto davanti a sé. Si stava preparando a ricevere la telefonata di Pike: teneva la ragazza pronta a parlare con suo padre, e il computer acceso per avere conferma del trasferimento dei soldi. A trasferimento avvenuto, avrebbe ucciso la ragazza. Vahnich o uno dei suoi uomini l'avrebbe strangolata, o le avrebbe tagliato la gola, quindi sarebbero immediatamente partiti alla volta dell'aeroporto per lasciare il paese. Pike si chiese se sarebbe stato Vahnich a ucciderla. Proseguì verso il ricovero per l'auto. Avvicinandosi, sentì le voci dei due uomini. Guardò oltre la Chrysler. I due avevano chiuso il cofano, ma erano ancora accanto alla macchina. Restavano da localizzare altri due uomini, che potevano trovarsi ovunque. Pike si chiese se Cole riusciva a vederli sull'altro lato della casa. Si allontanò un poco, tornando sui propri passi, e richiamò Cole. «Dove sei?» chiese con un sussurro. «Davanti alla casa. In un cespuglio di agrifoglio, lungo la strada, all'inizio del vialetto. E tu?» Cespugli di agrifoglio delimitavano la proprietà davanti a Pike. «Riesci a vedere i due uomini vicino alla Bel Air?» «Sono a circa sette metri da me.» «Guarda la Chrysler e vai oltre.» «Ti ho visto.» «Vahnich e il tipo che sta con Larkin più questi due fanno quattro. Riesci a vedere gli altri due lì da dove ti trovi?» «Aspetta...» I due uomini vicino alla Bel Air alzarono la testa di scatto e guardarono verso il vialetto. Pike capì che c'era qualcosa che non andava, ma dalla sua posizione non riusciva a vedere quello che stavano guardando. Sollevò il telefono. «Cosa succede?» «Non lo so. Adesso controllo.» Pike si alzò per vedere meglio e in quell'attimo udì la reazione di Cole. «Oh, merda!» Conner Barkley stava camminando a passo deciso su per il vialetto.
44 Barkley risaliva il vialetto con aria sdegnata e minacciosa, i due uomini lo guardavano confusi. Probabilmente pensavano fosse un vicino e di dover fare finta di niente, ma Pike sapeva che la loro indecisione non sarebbe durata a lungo. Pike accelerò verso la tettoia, silenzioso e veloce, consapevole che le cose stavano per volgere al peggio. Barkley guardò verso di lui ed entrambi gli uomini si voltarono seguendo il suo sguardo. Pike colpì l'uomo più vicino con la pistola, ma il secondo si gettò di lato, urlando... Qualcosa esplose alle spalle di Pike e un altro uomo si mise a urlare mentre Cole usciva da dietro i cespugli. I due uomini non ancora localizzati erano all'ingresso, uno dietro l'altro; il primo stava per sparare di nuovo quando Cole lo colpì in pieno petto. L'uomo si accasciò mentre quello alle sue spalle chiudeva la porta. Pike sapeva che sarebbe corso sul retro della casa. Accadde tutto in un attimo: Barkley che si avvicinava con andatura stranamente rigida, Bud Flynn che compariva ai piedi del vialetto, Cole che mirava al secondo uomo impugnando la pistola con entrambe le mani... ... solo che adesso il secondo uomo era in ginocchio con le mani alzate e guardava Cole. Pike corse verso la casa. «Larkin...» «Va'» gli urlò Cole. Pike tornò di corsa sui suoi passi. Dentro la casa, il primo uomo stava sicuramente riferendo quanto era accaduto. Vahnich doveva essere confuso, spaventato: avrebbe mandato fuori qualcuno dei suoi a vedere cosa stava succedendo, poi avrebbe preso una decisione... Era una splendida giornata di sole e tutto stava precipitando. Le scelte che avevano davanti erano tutte sbagliate: sbagliate per Vahnich, sbagliate per la ragazza, sbagliate per Pike. Vahnich poteva mettersi a sparare oppure poteva cercare di fuggire. Non sapeva quante persone aveva davanti, né se la polizia fosse sul posto, ma l'ostaggio era una carta perdente: se fosse rimasto nella casa era in trappola. Scappare era la migliore delle scelte e quindi sarebbero scappati - dal retro, sparando se necessario, avrebbe fatto irruzione in una casa vicina, rubato una macchina e pregato -, ma era anche la loro unica scelta. Pike corse verso l'angolo posteriore della casa e sentì altri colpi. Uno
sparo avrebbe significato un'esecuzione, più spari gli davano speranza. Stavano facendo fuoco verso l'ingresso per respingere un'eventuale irruzione. Significava che sarebbero scappati dal retro. Pike era convinto che Vahnich avrebbe ucciso Larkin, ma solo dopo essere uscito dalla casa. Non sapendo cosa si sarebbe trovato davanti aveva bisogno di lei per usarla come scudo. Se la via era libera, era possibile che la uccidesse immediatamente prima di allontanarsi, ma non molto prima. L'avrebbe uccisa per punire suo padre, e per punire lui. Pike si nascose dietro gli alberi di arancio dietro la casa proprio nel momento in cui la finestra si apriva. L'uomo robusto scavalcò per primo, atterrando su un ginocchio, quindi disse qualcosa rivolto verso la finestra. Larkin venne spinta fuori e cadde in avanti, atterrando con un'esclamazione di dolore. Vahnich le rovinò addosso, poi toccò all'ultimo uomo, un tipo basso e muscoloso con una bandana legata intorno alla testa. Quando si furono rimessi in piedi, Vahnich attirò a sé la ragazza. Pike appoggiò la pistola contro l'albero e attese di avere la linea di tiro libera. Quando Cole girò l'angolo della casa, l'uomo con la bandana lo vide e gli sparò. Cole rispose al fuoco. L'uomo cadde a terra con un lamento acuto e straziante, ma poi si rimise in ginocchio e sparò di nuovo. Cole si gettò a terra per ripararsi mentre la portafinestra si apriva di scatto e Bud Flynn usciva con la pistola spianata. Doveva aver perso il senno, perché urlò: «Fermi! Polizia!». L'uomo con la bandana si voltò verso di lui, ma Pike gli sparò alla testa. Vahnich e l'uomo robusto videro Pike. Vahnich spostò la ragazza per usarla come scudo, muovendosi all'indietro verso il declivio. L'uomo robusto sparò contro Flynn, poi contro Cole, ma erano colpi a casaccio. «Sei finito» disse Pike. Bud aveva trovato riparo dietro una grossa giara di terracotta e urlava: «Gettate le armi! Gettatele immediatamente!». Conner Barkley uscì dalla portafinestra. Era disarmato e non faceva nulla per ripararsi. Forse non sapeva neanche come fare. Passò davanti a Bud come una furia, poi si fermò di botto... in mezzo al giardino, solo. «Lasciala andare! Lascia andare mia figlia!» urlò. L'uomo robusto si spostò da dietro la ragazza per sparare. Si spostò solo di pochi centimetri, ma la linea di tiro adesso era perfetta. Pike lo centrò prima che potesse fare fuoco e l'uomo cadde come un sacco vuoto. Bud continuava a urlare, ma si era spostato, strisciando di lato in modo
da non colpire Barkley. «Butta la pistola, maledizione! Mettila giù! Sei finito, figlio di puttana! A terra!» Anche Barkley urlava, urlava come un bambino che fa i capricci. «Lasciala andare! LASCIALA ANDARE, TI HO DETTO!» Pike uscì da dietro l'albero. Vahnich colse il movimento e, tenendo la ragazza davanti a sé, si sporse per guardare da dietro la sua testa. Le teneva la pistola premuta contro il collo, e questo Pike non poteva permetterlo. Allo scoperto, si mise in posizione di tiro e mirò all'occhio di Vahnich, spostandosi a tempo con la sua paura: l'occhio si muoveva, si muoveva anche la pistola. L'occhio e la pistola diventarono un tutt'uno. «Sei morto» disse Pike. Il primo fischio lontano delle sirene arrivò come un soffio di vento su per la collina. Bud e Barkley stavano ancora urlando. Pike non vedeva Cole, ma sperava che avesse avuto la meglio. Non guardava Larkin perché temeva che lei potesse scorgere la sua paura. Pike vedeva solo l'occhio di Vahnich che lo fissava. Vahnich gettò a terra la pistola, ma lui non si mosse. Aveva preso una decisione: preferiva giocarsela in tribunale. «L'ho buttata. Mi arrendo» gridò da dietro la ragazza. Bud urlò gli ordini che Pike aveva sentito centinaia di volte. «Alza le mani sopra la testa. Intreccia le dita sopra la testa!» Vahnich sollevò le mani e intrecciò le dita sopra la testa. La ragazza era rimasta immobile, così pure Pike. «Larkin, va' da tuo padre» disse Pike. Lei andò verso Pike. «Va' da tuo padre.» Lei corse verso il padre. «Mi arrendo!» disse Vahnich. Bud era uscito da dietro la giara. Cole teneva sotto tiro gli uomini a terra. Pike si spostò lentamente di lato attraverso il giardino finché non venne a trovarsi tra Vahnich e la ragazza, senza che il mirino della pistola lasciasse mai, neppure per un attimo, l'occhio dell'uomo. Alle sue spalle Bud disse: «Joe, figliolo, sta arrivando la polizia». «Larkin, stai bene? Tutto a posto?» chiese Pike. «Lui voleva uccidermi. Lui...» «Lo so.» «Agente Pike...» disse Bud. Pike premette il grilletto. Il fragore dello sparo si propagò all'aperto con
un rumore cupo. Vahnich cadde a terra. Pike si avvicinò per raccogliere le armi e controllare i corpi. Erano morti tutti e tre. Bud lo fissava con le mani lungo i fianchi, come prosciugato. Conner Barkley stringeva la figlia. Cole si infilò la pistola nella cintura e si avvicinò. «Tutto a posto?» chiese. «Sì. La tua gamba come va?» «Meglio. Se non altro questa volta non ci hanno colpito.» Pike andò vicino alla ragazza. Conner alzò lo sguardo verso di lui e Pike vide che stava piangendo. Le lacrime dei miliardari erano uguali a quelle della gente comune. Cinse con un braccio le spalle di Larkin e le sussurrò: «Non permetterò che ti facciano del male. Non lo permetterò a nessuno». Allora lei si voltò e lo abbracciò. Affondò il viso contro il suo petto e Pike poggiò il mento sulla sua testa. Bud lo guardava con espressione triste e amareggiata. «Continuo a odiare i bulli. Devi fartene una ragione» disse Pike. Pike stava ancora stringendo la ragazza quando arrivò la polizia. 45 A quell'ora del mattino, lì sul mare, Ocean Avenue era avvolta in un'incerta luce dorata. Pike correva lungo il centro della strada, godendosi il silenzio e il ritmo del proprio corpo. Erano le tre e cinquantanove. Non incontrava macchine da più di tre chilometri e quella mattina i coyote non lo seguivano. Era l'unico animale in città, ma qualcosa stava per cambiare. Lei svoltò sulla Ocean all'altezza della San Vicente e corse rombando verso di lui nell'oscurità. Pike riconobbe la sua nuova auto e rimase al centro della strada, senza cambiare andatura. Larkin gli sfrecciò accanto a tutta velocità, fece inversione e gli si affiancò, a passo d'uomo. Si era presa un'Aston Martin decappottabile bianco perla. Guidava con il tettuccio abbassato. Aveva mantenuto i capelli corti ma era tornata al rosso. Gli sorrise arricciando le labbra. Pike era felice che avesse ritrovato la fiducia in se stessa. «Solo un pazzo corre a quest'ora.» «Solo una pazza che se ne va in giro a quest'ora potrebbe trovarmi.» «Ho chiesto al tuo amico Cole, visto che tu non rispondi più alle mie te-
lefonate.» «Già.» «Credo che sia innamorato di me.» «Mmh.» Pike aveva smesso di rispondere alle sue telefonate. Nelle settimane successive all'incidente si erano parlati spesso; adesso, però, lui non sapeva più cosa dirle. «Puoi parlare mentre corri?» chiese lei. «Certo.» Lei si prese un momento per raccogliere le idee, poi gli disse quello per cui era venuta. «Non ho intenzione di disturbarti più. Ma il fatto che io non ti chiami non significa che tu non possa chiamare me, se cambi idea. Puoi chiamarmi quando vuoi, ma capisco che non vuoi più che io ti telefoni, quindi non lo farò.» «Okay.» Il consueto lampo di rabbia le incupì lo sguardo. «Amico mio, è troppo facile. Perlomeno potresti fingere.» «Non con te.» L'auto procedeva a passo d'uomo al suo fianco. Pike colse il profilo di una sagoma sul ciglio della scogliera e si chiese se fosse un coyote. «Tu credi negli angeli?» chiese lei dopo un po'. «No.» «Io sì. È per questo che me ne vado in giro a quest'ora. Vado in cerca di angeli. Escono solo la notte.» Era l'ennesima affermazione cui Pike non sapeva come rispondere, così non disse nulla. Lei alzò il viso verso di lui. «Non ti chiamerò più perché questo è ciò che vuoi, non perché non voglio più farlo. Probabilmente pensi di essere troppo vecchio per me. Pensi che io sia troppo giovane. E scommetto anche che odi i ricchi.» «Scegli quello che preferisci.» Larkin sorrise di nuovo e Pike ne fu felice. Gli piaceva quel sorriso sfacciato. Poi, però, il sorriso svanì e gli occhi di lei si riempirono di lacrime. A Pike questo non piacque affatto. «Probabilmente pensi che mi passerà» proseguì lei «ma non è così. Io ti amo. Ti amo da morire. Farei qualunque cosa per te.» «Lo so.»
«Smetterei persino di telefonarti.» L'Aston Martin si allontanò con un rombo, il rombo di un motore che urlava disperato. Pike osservò i fanalini posteriori brillare nella notte. L'auto svoltò a est sulla San Vicente, poi corse via verso la città. «Ti amo» disse Pike. Continuò a correre, solo, nell'oscurità, sperando che i coyote arrivassero a fargli compagnia. Ultimo giorno BACIO D'ADDIO 46 Turtle Island, Golfo di Thailandia 182 giorni dopo Jon Stone fissava il golfo azzurro e sognava vele al vento. I grandi velieri del tardo Settecento, non questi razzi acquatici supertecnologici che qualunque cretino poteva governare, ma navi di legno costruite a mano, con il sudore della fronte, manovrate da uomini che vivevano nel terrore dei mostri marini. Jon immaginava il suo veliero che doppiava la punta, una fregata con quaranta cannoni, e lui, tenente della Royal Navy, legato a quella nave dal senso del dovere e dell'onore, lì all'altro capo del mondo. Quelli erano giorni di infinita bellezza, e Jon avrebbe desiderato farne parte. Era stata la casa del tizio a metterlo di quell'umore: nuova, il non plus ultra, costruita con grande dispendio di mezzi, certo, ma con una sensazione primitiva di libertà che faceva a pensare a quei tempi lontani. Le pareti erano costituite da grandi imposte scorrevoli in stile coloniale che potevano essere rimosse in modo che l'esterno e l'interno diventassero un tutt'uno, aprendo la casa al mare, alla giungla, alla brezza tiepida che portava con sé l'odore di fiori colto nei capelli di una donna: un palazzo tropicale in stile neocoloniale che spaziava sul Golfo di Thailandia, con lo splendido caos della giungla che lasciava il posto a una piantagione di palme da cocco, e questa a sua volta degradava su una spiaggia bianca immacolata, verso la distesa azzurra di mare e cielo; la fantasia trasformata in realtà di una capanna su un albero, come la poteva immaginare un ragazzino ricco, o magari una di quelle grandi case africane in cui si ritiravano gli ammiragli bri-
tannici in pensione. Jon Stone la trovava assolutamente incantevole. Stava ancora pensando ai velieri quando il silenzio venne rotto da un singolo sparo attutito proveniente dall'altro capo della casa, un unico colpo, come di una mazza da baseball battuta contro un letto. Stone sospirò, ben sapendo che gli restava poco tempo. «Adoro questa casa» disse. «Potrei viverci.» Parlò a voce alta, ma non si aspettava una risposta. Era una casa molto grande e nessuno poteva sentirlo. Uscì sulla splendida terrazza di pietra e guardò la spiaggia, giù in basso. Altri tre o quattro giorni e sarebbe stata invasa da complessi musicali e orde di donne scalmanate. «La festa della Luna Piena, amico. Quel tizio al Big Buddha ha detto che ne fanno una a ogni plenilunio. Arrivano sette, ottomila persone, musica, cibo, alcol e tutto il resto. È per via di queste giovani turiste. Impazziscono, ha detto. È solo per una notte, pensano, quello che accade qui non lo verrà a sapere nessuno. Ragazzi! Dovremmo restare qui, amico.» Ma nessuno rispose, lì in mezzo alla giungla. La città era distante. I guanti di lattice gli facevano sudare e prudere le mani. Jon guardò l'orologio e tornò in casa. Solitamente nella casa lavoravano quattro domestici: un cuoco, un maggiordomo, una cameriera e un giardiniere. Ogni martedì arrivavano altri due uomini ad aiutare il giardiniere nei lavori più pesanti. Il venerdì veniva un tizio a pulire l'immensa piscina e una governante a sistemare i fiori freschi. Jon aveva monitorato i loro movimenti per tre settimane e organizzato tutto in modo che quel giorno nessuno di loro si facesse vivo. Niente ospiti, niente domestici, niente testimoni. Quando l'uomo di Jon era arrivato sulle sue tracce, Gordon Kline si faceva chiamare George Perkins. Aveva raccontato alla gente del posto di essere andato in pensione dopo aver venduto trentadue McDonald's nell'Alberta. La gente in città era abituata a sentirsi raccontare storie come quella da ricchi europei e nordamericani, per lo più pervertiti arrivati lì per farsi una scorpacciata di bambini thailandesi, ed è appunto questo che pensavano dell'uomo che si faceva chiamare George Perkins. Solo che Perkins nascondeva un segreto ben più oscuro della pedofilia. Jon fece un giro panoramico della casa per tornare nell'ufficio di Kline, come guidasse una troupe di MTV per quella trasmissione in cui rapper idioti e atleti strapagati magnificano le loro abitazioni principesche. Scher-
mi al plasma da sessanta pollici in ogni stanza, un bar in rame battuto che doveva essere lungo almeno sette metri, una cella a temperatura controllata per i vini grande quanto la camera da letto di Jon, un enorme acquario di acqua salata pieno di pesci dai colori brillanti. Parcheggiate davanti a casa c'erano un Hummer nero, una Bentley Continental bordeaux e una Maserati Quattroporte verde pallido. Jon avrebbe fatto una follia per la Maserati. Ci si vedeva ad arrivare alla spiaggia a bordo di quel gioiellino. E a ritornare su alla casa in compagnia di due australiane scatenate. Jon estrasse la pistola e la tenne abbassata lungo il fianco. Centoventi milioni di dollari potevano comprare quasi tutto, ma non proprio tutto. Trovò l'ufficio. Il corpo del tizio giaceva a faccia in giù su un bellissimo divano di pelle, un braccio e una gamba ciondoloni. Un unico colpo sul lato del collo lo aveva quasi decapitato. Il sangue colava ancora sul pavimento. «Tutto fatto, signor Katz?» disse Jon. «Quasi.» Pike usava un passaporto che lo identificava come Richard Katz di Milwaukee, Wisconsin. Sul passaporto di Jon figurava il nome Jon Jordan, anche lui di Milwaukee. Soci d'affari in vacanza, e che la gente del posto pensasse quello che gli pareva. Pike era dietro la scrivania e stava infilando un laptop in una grossa scatola di cartone già quasi piena di CD, documenti e un paio di unità disco esterne. Informazioni contabili per capire dove aveva nascosto i soldi di Vahnich. Cento milioni e rotti. Stone guardò il cadavere e alzò la pistola. «Pezzo di merda.» Sparò due colpi in quello che restava della testa. Pike continuò a passare al setaccio la scrivania, nonostante le due esplosioni assordanti come bombe. «Smettila» disse, girandosi appena. «Vaffanculo. Avresti dovuto lasciarlo a me. Lo avrei tenuto vivo per settimane, schifoso bastardo.» Stone sparò di nuovo. «Per favore, Jon» disse Pike. Stone abbassò la pistola. La batté contro la coscia, frustrato perché non poteva sfogare la propria rabbia. Lui lo avrebbe spellato vivo quel figlio di puttana, un americano che faceva affari con i terroristi. Gli avrebbe tagliato le dita delle mani e dei piedi una falange alla volta, poi lo avrebbe spolpato
vivo. Be', d'accordo, magari no... Jon non faceva quelle cose, ma gli dava soddisfazione pensarlo, e lui ci aveva pensato ogni giorno da quando Pike gli aveva ordinato di trovare Kline. Jon Stone era stato un soldato, un mercenario, un reclutatore per una società militare privata, persino un assassino, ma era anche un patriota. La pistola di Pike era a terra, accanto al divano. Pike aveva sparato al tizio e poi gettato la pistola, come da copione. Le armi erano pezzi locali che Jon si era procurato espressamente per quel lavoro, usa e getta, più facile che introdurre illegalmente armi nel paese. Pike girò intorno alla scrivania portando lo scatolone. «Hai preso tutto?» chiese Jon. Pike rispose con un grugnito che suonò come un sì. Stone continuava a pensare al panorama incredibile, a quanto gli piaceva quella casa, alla spiaggia che a ogni plenilunio si riempiva di ragazze assatanate. Stone batté la pistola contro la gamba. «Sai una cosa, amico? Teniamoceli. Non sarebbe come rubarli a gente perbene.» Pike perlustrò la stanza con lo sguardo per accertarsi di non aver trascurato nulla. «Questa roba torna tutta a casa. Pitman potrebbe riuscire a ricavare qualcosa dalle unità esterne.» Stone batté di nuovo la pistola contro la gamba, poi lanciò un'occhiata alla pistola di Pike pensando che sarebbe stato facile: due colpi ben piazzati e quella grossa scatola sarebbe stata sua. Passare il resto della sua vita in quella casa stupenda. «Vaffanculo» disse. Sollevò la pistola e sparò di nuovo al cadavere, un solo colpo, in mezzo alle natiche. Poi gettò la pistola sul corpo. Non sarebbe stato giusto tenersi quei soldi, ma era bello pensarlo. Jon aveva comunque guadagnato una fortuna con il contratto di Pike, il quale non aveva chiesto un solo centesimo. Però lo aveva costretto ad aiutarlo a trovare Kline. Gratis. E questo non gli andava giù. «Reggi questo» disse Pike, e gli mise tra le mani lo scatolone; tornò alla scrivania e prese qualcosa dalla tasca. Stone si chiese cosa diavolo stesse facendo, poi vide che si trattava di una foto della ragazza. Larkin Conner Barkley. Pike sistemò la foto in piedi contro la scatola per i sigari in modo che fosse rivolta verso il cadavere. Pike era proprio un tipo strano.
Ai tempi in cui Stone era in Vietnam, i ragazzi lasciavano biglietti da visita sui nemici uccisi in combattimento. Li chiamavano "biglietti della morte". Per far capire al nemico che con loro era meglio non scherzare. Pike spostò appena la foto perché fosse in posizione perfetta, quindi andò a riprendersi lo scatolone. «Okay. Abbiamo finito.» Lasciarono il paradiso ripercorrendo la strada tutta curve che portava all'aeroporto. Consegnarono l'auto a noleggio e si diressero al terminal, con i documenti e le unità esterne al sicuro nei bagagli. Era un piccolo terminal composto da un solo edificio basso e lungo, circondato da sabbia, conchiglie e palme da cocco. «Io me ne fumo una» disse Stone. «Mi fai compagnia?» «Ci vediamo all'imbarco.» Mentre Pike scompariva all'interno del terminal, Stone si accese una sigaretta. Attese qualche istante, poi andò in fondo all'edificio, dove si sedette a godersi quel momento. Il sole era perfetto e splendente, l'aria così tersa che avrebbe voluto restare lì per sempre. Stone aveva uno di quei cellulari abilitati per chiamare dall'estero. Compose un numero negli Stati Uniti e attese che l'uomo rispondesse. «Missione compiuta» disse Stone. «Torniamo a casa.» «Grazie al cielo. Lui sta bene?» «Grazie per aver chiesto di me.» «Sai cosa intendo.» «Pike sta bene. Ha fatto quello che doveva, come prevedevi. Quel ragazzo è un bulldog.» «Non avevo altra scelta.» «Lo so, lo so.» "Ma chiudi quella bocca" pensò Jon. Erano mesi che quel figlio di puttana non faceva che scusarsi, come se si sentisse in colpa per aver lasciato Pike libero di agire. Jon sospettava che sapesse fin dall'inizio quello che Pike avrebbe fatto, e come lo avrebbe fatto. L'uomo continuava a parlare. «Non avevo altro modo per proteggere la ragazza. Sapevo cosa ci voleva, ma non me la sentivo. Lui, invece, sì.» «Senti, adesso devo andare...» «È un bravo cristo.» «Sì, signor Flynn. Pike è Pike.» «Vedete di arrivare a casa sani e salvi, ragazzi.»
Stone chiuse il telefono. Finì la sigaretta, godendosi il cielo terso e l'aria dolce finché non annunciarono il suo volo. Solo allora entrò e raggiunse Joe Pike all'imbarco. FINE