MARION ZIMMER BRADLEY LE FORESTE DI DARKOVER (The Planet Savers, 1962)
CAPITOLO 1 LA FEBBEE Quando mi svegliai, pensand...
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MARION ZIMMER BRADLEY LE FORESTE DI DARKOVER (The Planet Savers, 1962)
CAPITOLO 1 LA FEBBEE Quando mi svegliai, pensando di essere solo, ero sdraiato su un divano di pelle in una stanza bianca e spoglia con enormi finestre che alternavano vetri trasparenti a vetri opachi, dietro i quali il profilo delle montagne con le cime innevate diventava un'ombra pallida dai tenui riflessi metallici, glaciali. La memoria e l'abitudine diedero un nome a tutto ciò che mi circondava: l'ufficio spoglio, il bagliore aranciato del grande sole, le montagne in lontananza. Ma dietro una lucida scrivania di vetro era seduto un uomo che mi guardava fissamente... e quell'uomo io non lo avevo mai visto prima. Era grassottello e non giovane, con sopracciglia fulve e radi capelli altrettanto fulvi attorno al cranio, per il resto completamente calvo e rosa. Indossava il camice bianco regolamentare con i caducei intrecciati sulla tasca e sulla manica che dichiaravano la sua apparteneneza al Servizio Medico del Quartier Generale Civile della Città Commerciale Terrestre.
Naturalmente tutti questi particolari non li notai consciamente, perché facevano parte del mondo che aveva preso forma attorno a me quando avevo aperto gli occhi, come le montagne conosciute e il sole familiare. «Le dispiacerebbe dirmi come si chiama?» mi chiese in tono amichevole il dottore, come se fosse una cosa del tutto normale trovare un perfetto sconosciuto che si faceva un sonnellino sul suo divano. Mi parve comunque una richiesta ragionevole: se io avessi trovato qualcuno che si era accomodato nel mio ufficio (ammesso che io avessi avuto un ufficio), gli avrei fatto la stessa domanda. Mi girai per mettere le gambe giù dal divano e fui costretto a puntellarmi con una mano perché la stanza prese a girarmi vorticosamente intorno. «Al posto suo non cercherei ancora di mettermi seduto», mi consigliò lui mentre il pavimento tornava al suo posto. Poi ripeté educatamente, ma con insistenza: «Qual è il suo nome?» «Oh, già, il mio nome.» Mi chiamavo... annaspai attraverso quelli che sembravano strati di indistinto grigiore, cercando disperatamente di pronunciare il suono più familiare di tutti: il mio nome. Mi chiamavo... ma certo, mi chiamavo... «È ridicolo», esclamai con una punta di isterismo nella voce e poi deglutii, più di una volta. «Si calmi», mi esortò l'uomo grassottello in tono tranquillo. Già, più facile a dirsi che a farsi. Lo fissai, in preda a un panico crescente e chiesi: «Ma... ho avuto un'amnesia o qualcosa del genere?» «Qualcosa del genere.» «Come mi chiamo?» «Su, su, stia tranquillo! Sono certo che tra poco lo ricorderà. Nel frattempo sono sicuro che è in grado di rispondere ad altre domande. Quanti anni ha?» «Ventidue», risposi senza esitare. «Interessante. In-te-res-san-te!» affermò l'uomo grassottello scrivendo qualcosa su una scheda. «Sa dove ci troviamo?» Osservai l'ufficio. «Al QG terrestre, e dalla sua uniforme direi che siamo all'Ottavo Piano... Sezione Medica.» Lui annuì e scrisse un altro appunto, sporgendo in fuori le labbra. «Sa... dirmi su che pianeta siamo?» Era da ridere. «Darkover... spero!» risposi con una risatina nervosa. «E se vuole sapere il nome delle lune, o la data della fondazione della Città Commerciale, o cose simili...» Anche l'uomo grassottello rise con me. «Ricorda dove è nato?»
«Su Samarra. Sono venuto qui a tre anni; mio padre era nel Dipartimento Cartografia ed Esplorazione...» Mi interruppi di colpo. «È morto!» «Sa dirmi il nome di suo padre?» «Come me. Jay... Jason...» Il lampo di memoria mi abbandonò nel mezzo della parola; c'eravamo quasi, ma non del tutto. «Stiamo andando benissimo», mi incoraggiò il dottore. «Lei non mi ha detto niente», lo accusai. «Chi è lei? E perché mi fa tutte queste domande?» Lui mi indicò la targhetta sulla scrivania: aggrottando la fronte, compitai le lettere. «Randall... Forth... Capo... Dipartimento...» e il dottor Forth prese un altro appunto. «Sarebbe Dottor Forth, vero?» «Lei non lo sa?» Abbassai lo sguardo e scossi il capo. «Magari il dottor Forth sono io», dissi, notando solo in quel momento che anch'io indossavo un camice bianco con il caduceo. Ma quell'abbigliamento mi comunicava una sensazione sbagliata, come se stessi indossando gli abiti di un altra persona. Io non ero un dottore (o lo ero?). Scostai leggermente una manica, scoprendo una lunga cicatrice triangolare che stava sotto il polsino. Il dottor Forth (a quel punto ero sicuro che il dottor Forth fosse lui), seguì la direzione del mio sguardo. «Come si è fatto quella cicatrice?» «In un combattimento col coltello. Una banda di coloro-che-nonpossono-entrare-nelle-città ci ha sorpresi sulle colline e noi...» di nuovo i ricordi mi vennero a mancare e proseguii disperato: «È tutto confuso! Cosa sta succedendo? Perché sono al Dipartimento Medico? Ho avuto un incidente? Soffro di amnesia?» «Non esattamente. Le spiegherò.» Mi alzai e andai alla finestra un po' incerto sulle gambe, perché i miei piedi avrebbero voluto prendersela comoda, mentre io mi sentivo come intrappolato in una rete da cui volevo uscire a tutti i costi. Arrivato alla finestra, la stanza restò ferma per un po' e io aspirai a fondo grandi boccate di aria fresca e dolce. «Credo che mi farebbe bene bere qualcosa», dissi poi. «Ottima idea, anche se di solito non lo raccomando.» Forth frugò in un cassetto e tirò fuori una bottiglia piatta, dalla quale versò un liquido del colore del tè in un bicchiere di plastica. Poi ne versò un altro po' per sé. «Tenga... e si sieda, mi rende nervoso vederla in piedi.» Io non mi sedetti, anzi, mi diressi alla porta e la spalancai. «Cosa c'è che non va? Può uscire, se vuole, ma non preferisce invece se-
dersi e parlare per qualche minuto?» chiese il dottore con voce tranquilla e per niente ansiosa. «E comunque, dove vuole andare?» La domanda mi mise a disagio. Trassi un paio di respiri profondi e rientrai nella stanza. «Beva», disse Forth e io bevvi tutto d'un fiato. Poi, senza che glielo chiedessi, riempì di nuovo il bicchiere e io mandai giù anche quella dose, sentendo finalmente il peso che avevo sullo stomaco dissolversi e scomparire. «Anche claustrofobia. Tipico», disse Forth, prendendo un ennesimo appunto sulla cartella. Tutta quella faccenda cominciava a stancarmi; mi girai verso di lui per dirglielo chiaro e di colpo invece mi accorsi di essere divertito... o forse era solo l'effetto del liquore. Forth sembrava un ometto così ridicolo, richiuso lì in quell'ufficio, a parlare di claustrofobia e a osservarmi come se fossi uno scarafaggio mutante. Buttai il bicchiere in un cestino. «Non le sembra che sia arrivato il momento per qualcuna di quelle spiegazioni?» «Se crede di sentirsela... Come sta in questo momento?» «Bene», affermai ritornando al divano e sdraiandomi, perfettamente a mio agio. «Cosa c'era in quella bevanda?» «Segreto professionale», rispose. Forth ridacchiando. «Dunque, il modo più semplice per spiegare sarebbe quello di farle guardare il film che abbiamo fatto ieri.» «Guardare...» mi interruppi. «È lei che perde tempo». Il dottore schiacciò un pulsante sulla scrivania e parlò nel microfono. «Sorveglianza? Fate passare il nastro...» snocciolò una serie di numeri incomprensibili, mentre io me ne stavo disteso tutto comodo sul divano. Forth attese la risposta poi schiacciò un altro pulsante e una serie di persiane di metallo si abbassarono senza far rumore oscurando le finestre. L'oscurità mi parve stranamente più normale della luce; mi sistemai in una posizione più comoda e guardai una delle pareti trasformarsi in uno schermo. Il dottor Forth venne a sedersi accanto a me sul divano di cuoio, ma nel film il dottor Forth era seduto alla scrivania e guardava un altro uomo, un perfetto sconosciuto, che stava entrando nel suo ufficio. Come Forth, anche il nuovo venuto indossava un camice bianco con il caduceo. Mi bastò guardarlo per provare per lui un'antipatia istintiva: era sulla trentina, alto e magro, con un'espressione altera e dura sul viso. «Si sieda, dottore», disse il dottor Forth del film. Io trassi un lungo respiro, sopraffatto da una strana sensa2ione.
Sono già stato qui; questa cosa l'ho già vista accadere. (Una strana sensazione di sdoppiamento si era impadronita di me: ero lì seduto a guardare il film e sapevo perfettamente di essere seduto a guardare, ma come avviene nei sogni, dove chi sta sognando guarda lo svolgersi dell'azione e al tempo stesso vi partecipa.) «Si sieda, dottore», ripeté Forth. «Ha portato i rapporti?» L'uomo prese posto nella sedia indicata, restando seduto sul bordo, con la schiena eretta, sporgendosi in avanti quanto bastava per passare a Forth una cartelletta piena di fogli. Forth la prese ma non l'aprì. «Cosa ne pensa, dottor Allison?» «Non esistono dubbi o margini di errore.» Allison aveva un tono di voce piuttosto stridulo ed enfatico e pronunciava le parole con estrema precisione. «Segue l'andamento statistico di tutti i casi registrati di Febbre dei Quarantotto anni... a proposito, non siete riusciti a trovare un termine migliore per definire questa epidemia? La definizione "Febbre dei Quarantotto anni" porta a pensare a una febbre che dura quarantotto anni, e non a un'epidemia che ricorre ogni quarantotto anni.» «Una febbre che durasse 48 anni sarebbe una gran bella febbre», rispose Forth con un sorriso cupo. «Comunque è l'unico nome che abbiamo al momento. Trovi lei un nome adatto e andrà benissimo: il Morbo di Allison?» Allison accolse quell'amichevole suggerimento con espressione corrucciata. «Da quello che mi sembra di capire, l'epidemia si collega una volta ogni quarantotto anni alla congiunzione delle quattro lune e questo spiega perché i darkovani sono superstiziosi nei confronti di questo evento astronomico. Le lune hanno orbite molto eccentriche... in questo campo ne so molto poco, sto semplicemente citando il dottor Moore. Se la malattia si diffonde attraverso un vettore animale, non lo abbiamo mai scoperto. La diffusione dell'epidemia avviene sempre allo stesso modo: prima pochi casi nel distretto delle montagne, il mese dopo un centinaio di casi in questa regione del pianeta. Poi tre mesi esatti di stasi. Quando si manifesta il nuovo focolaio, i casi sono già saliti all'ordine delle migliaia e dopo altri tre mesi l'epidemia è ormai diventata un vero e proprio flagello per l'intera popolazione di Darkover.» «La situazione è esattamente questa», convenne il dottor Forth. I due medici si chinarono sulla cartelletta e Allison si ritrasse leggermente per evitare di sfiorare il collega. «Noi terrestri abbiamo un contratto commerciale di centocinquantadue
anni con i darkovani», disse Forth. «Alla prima epidemia di questa febbre dei quarantotto anni sono sopravvissuti un decina di uomini su trecento; i darkovani erano messi ancora peggio. L'ultima epidemia è stata meno ampia, ma ugualmente devastante: pare che abbia una percentuale di mortalità dell'ottantasette per cento, per gli esseri umani, mentre, a quanto si dice, gli Arboricoli ne sono immuni.» «I darkovani la chiamano la Febbre degli Arboricoli o del Piccolo Popolo, dottor Forth, proprio perché quella popolazione ne è praticamente immune. Presso di loro si manifesta solo come una malattia infantile e quando scoppia nella sua forma più virulenta ogni quarantotto anni, la maggior parte del Piccolo Popolo ne è immune. Io stesso ho preso la malattia da bambino... forse ne è al corrente.» Forth annuì. «Lei potrebbe essere l'unico terrestre che ha contratto la malattia ed è sopravvissuto.» «L'incubazione della febbre avviene presso gli Arboricoli», disse Allison. «Direi che l'unica cosa logica da fare sarebbe buttare un paio di bombe all'idrogeno sui villaggi arborei... e spazzarli via una volta per sempre.» (Fu tale la furia che mi prese a quelle parole, che mi irrigidii sul sofà come un pezzo di legno e il dottor Forth mi mise una mano sulla spalla, mormorando: «Stia calmo, amico!») L'espressione del dottor Forth sullo schermo era alquanto seccata e Allison proseguì con una smorfia disgustata: «Non intendevo in senso letterale. Ma il Piccolo Popolo non è di razza umana, non si tratterebbe di genocidio, ma solo di una misura di salute pubblica». Il dottor Forth assunse un'espressione sconvolta, rendendosi conto che il collega più giovane stava parlando seriamente. «È compito della Centrale Galattica stabilire se sono stupidi animali o esseri intelligenti e se può venir riconosciuto loro lo status di civiltà. Tutti i precedenti su Darkover tendono a riconoscerli come uomini... e poi, buon Dio, Jay, lei sarebbe con ogni probabilità chiamato come teste della difesa! Come può affermare che non sono esseri umani, proprio lei, dopo l'esperienza che ha vissuto con loro? E comunque prima che siano o meno riconosciuti come esseri senzienti, più della metà degli esseri umani già riconosciuti come tali di Darkover sarebbe morta. Ci serve una soluzione migliore.» Spinse indietro la sedia e guardò fuori dalla finestra. «Non entrerò nel merito della questione politica», proseguì, «perché né io né lei ci interessiamo di politica e non siamo esperti in materia, ma dovrebbe essere stupido, sordo e cieco per non rendersi conto che fino ad ora
Darkover non si è smosso di un millimetro nelle sue convinzioni. I darkovani sono molto più avanti di nói in alcune scienze e fino ad oggi hanno sempre sostenuto che la Terra non ha nulla da offrire loro. Ma - e si tratta di una ma importante - sanno, e sono disposti ad ammettere che la nostra scienza medica è migliore della loro.» «Dal momento che la loro è praticamente inesistente.» «Esatto: e questa potrebbe essere la prima breccia nella barriera. Forse lei non è in grado di rendersi conto del significato di questo gesto ma il Legato ha ricevuto un'offerta dagli Hastur in persona.» «Dovrei forse sentirmi impressionato?» mormorò Jay Alison. «Su Darkover è proprio il caso di sentirsi impressionati quando un Hastur si degna di notare qualcosa!» «Mi sembra di capire che sono telepati, o qualcosa di simile.» «Telepati, psicocinetici, parapsichici e più o meno tutto il resto. Sono in tutto e per tutto considerati gli Dèi di Darkover. E uno degli Hastur, uno molto giovane e anche poco importante, lo ammetto, il nipote del vecchio... è venuto di persona, dico di persona, nell'ufficio del Legato e si è offerto, in cambio del nostro aiuto, a debellare la febbre dei quarantotto anni, di addestrare alcuni terrestri scelti nella meccanica delle matrici.» «Santo Cielo!» Era una concessione che andava al di là di ogni aspettativa terrestre; per un secolo infatti avevano cercato in tutti i modi di avere, rubare, implorare o comprare una qualche conoscenza della meccanica delle matrici (quella incredibile disciplina in grado di trasformare la materia in energia pura e viceversa senza passaggi intermedi e soprattutto senza sottoprodotti tossici). Era stata proprio la meccanica delle matrici che aveva reso Darkover virtualmente immune alle lusinghe dell'avanzata tecnologia terrestre. «Personalmente ritengo che la scienza darkovana sia sopravvalutata», disse Jay. «Ma mi rendo conto del valore propagandistico...» «Per non parlare del valore umanitario della scoperta della cura...» Jay Allison scrollò le spalle con assoluta noncuranza. «Direi che la cosa importante è questa: siamo o no in grado di curare la febbre degli Arboricoli?» «Non ancora, ma sappiamo da dove cominciare. Durante l'ultima epidemia uno scienziato terrestre ha scoperto nel sangue del Piccolo Popolo un anticorpo contro la febbre che, isolato e trasformato in vaccino, potrebbe riportare la forma virulenta dell'epidemia nelle proporzioni di una semplice malattia infantile. Sfortunatamente anch'egli morì durante l'epidemia, sen-
za portare a termine il suo lavoro e i suoi appunti sono rimasti nel dimenticatoio fino a quest'anno. Su Darkover abbiamo oggi 18.000 uomini con le loro famiglie, Jay. In tutta sincerità, se perdiamo troppo personale dovremo ritirarci dal pianeta; le alte gerarchle terrestri possono anche passare sopra la perdita di un gruppo di commercianti di professione, ma non di un'intera colonia della Città Commerciale. Per non parlare poi della perdita di prestigio che subiremmo se la nostra tanto decantata scienza medica non fosse in grado di salvare Darkover da un'epidemia. Ci restano soltanto cinque mesi e in questo lasso di tempo non siamo in grado di sintetizzare un siero: dobbiamo appellarci al Piccolo Popolo ed è per questo che l'ho fatta chiamare. Lei conosce gli Arboricoli meglio di qualunque altro terrestre, deve saperne più di chiunque altro su di loro. Ha passato nove anni della sua vita nel Nido.» (Nell'ufficio buio di Forth mi raddrizzai di colpo, sopraffatto da un lampo di ricordi. Jay Allison, pensai, aveva parecchi anni più di me, ma io e lui avevamo una cosa in comune: quel pallone gonfiato aveva condiviso la mia stessa stupenda esperienza degli anni dell'infanzia trascorsi in un mondo alieno!) Jay Allison corrugò la fronte scontento. «Sono passati molti anni, ero poco più di un bambino. Mio padre è precipitato con un aereo durante una spedizione cartografica sugli Hellers... Dio solo sa come gli era venuto in mente di sorvolare quella zona con un velivolo leggero. Io sono sopravvissuto all'atterraggio per pura fortuna e sono vissuto con il Piccolo Popolo (almeno così mi hanno detto) fino ai tredici ò quattordici anni. Ma non mi ricordo molto, i ragazzini non sono particolarmente osservatori.» Forth si sporse sulla scrivania, fissandolo attentamente. «Ma lei parla la loro lingua, vero?» «La parlavo. Forse sarei in grado di ricordarla sotto ipnosi. Perché? Devo forse tradurre qualcosa?» «Non esattamente. Stavamo pensando di mandarla con una spedizione presso gli Arboricoli.» (Guardando il viso sconvolto di Jay, pensai tra me: «Dio, che avventura! Chissà... chissà se vogliono che l'accompagni anch'io?») «Si tratterà di un viaggio molto difficile», stava spiegando il dottor Forth. «Lei conosce gli Hellers, ma se non sbaglio, prima di entrare nel Servizio Medico, scalava montagne per passatempo...» «Ho superato la fase infantile dei passatempi parecchi anni fa, signore»,
ribatté rigido Allison. «Le forniremo le migliori guide che saremo in grado di trovare, sia darkovane che terrestri, ma loro non sarebbero mai in grado di fare l'unica cosa che serve: quella può farla solo lei, Jay. Lei conosce il Piccolo Popolo, potrebbe riuscire a persuaderli a fare quello che non hanno mai fatto prima.» «Vale a dire?» chiese Allison in tono sospettoso. «Allontanarsi dalle montagne, mandarci dei volontari... dei donatori di sangue... se avessimo abbastanza sangue su cui lavorare, potremmo essere in grado di isolare l'anticorpo e sintetizzarlo in tempo per impedire all'epidemia di raggiungere il suo picco massimo. È una missione difficile e pericolosissima, ma qualcuno deve pur intraprenderla e temo che lei sia l'unica persona qualificata.» «Preferisco il mio primo suggerimento: far scomparire gli Arboricoli e gli Hellers dalla faccia del pianeta con una bomba.» Sul viso di Jay Allison era disegnata un'espressione di profondo disgusto che riuscì a cancellare dopo un minuto. «No, non intendevo davvero. In teoria capisco la necessità della spedizione, solo che...» si interruppe e deglutì. «La prego, dica quello che stava per dire.» «Non sono sicuro di essere qualificato come lei pensa. No, non mi interrompa: trovo disgustosi i nativi di Darkover, anche gli umani. In quanto al Piccolo Popolo...» (Ero furioso e stavo diventando impaziente. Nell'oscurità sussurrai a Forth: «Spenga quel maledetto film: non potete mandare quel tizio in una missione simile. Piuttosto...» «Stia zitto e ascolti!» scattò Forth. Stetti zitto.) Jay Allison non stava recitando: era davvero disgustato e in preda al panico. Stava cercando di spiegare per quale ragione aveva persino rifiutato di insegnare all'Istituto di Medicina fondato dai terrestri per i darkovani, ma Forth non lo lasciò finire, interrompendolo in tono irritato. «Tutto questo lo sappiamo benissimo. È chiaro che non le è mai passato per la testa che per noi sia una grande seccatura il fatto che queste conoscenze di importanza vitale siano, per pura sfortuna, in possesso dell'unico uomo troppo testardo per usarle come si deve?» Jay non batté ciglio; io al suo posto sarei diventato piccolo piccolo. «Ne sono sempre stato perfettamente consapevole, dottore.» Forth trasse un respiro profondo. «Le concedo che in questo momento lei non ci è di molta utilità. Ma cosa sa di psicodinamica applicata?»
«Molto poco, mi spiace dirlo.» Allison non sembrava affatto dispiaciuto, ma piuttosto annoiato a morte di tutta la conversazione. «Posso essere franco... e scendere nel personale?» «Prego, non sono permaloso.» «Molto bene, dottor Allison. Dunque, normalmente, una persona repressa e controllata come lei possiede una personalità sussidiaria molto definita. Negli individui nevrotici, i tratti di questa duplice personalità a volte si dividono e abbiamo una sindrome conosciuta con il nome di personalità multipla o altenarata.» «Mi è capitato di studiare qualcuno dei casi classici: non c'era forse una donna con ben quattro personalità separate?» «Esatto. Lei comunque non è nevrotico e in circostanze ordinarie il suo alter ego represso non potrebbe mai prendere il sopravvento sulla sua personalità.» «Molte grazie», fu l'ironica risposta di Jay. «Avrei potuto perdere il sonno al pensiero.» «Ma ciò nonostante, io sono convinto che lei abbia una personalità sussidiaria che non si manifesta mai. Questo alter ego, chiamiamolo Jay, avrebbe tutte le caratteristiche che lei reprime. Sarebbe socievole mentre lei è schivo e studioso; avventuroso quanto lei è cauto; ciarliero quanto lei è taciturno; potrebbe amare l'esercizio e il movimento, mentre lei frequenta la palestra solo per ragioni di salute. E potrebbe addirittura ricordare con piacere gli arboricoli che lei invece disprezza.» «In breve, un miscuglio di tutte le caratteristiche più sgradevoli?» «Si potrebbe anche dire così. Di certo possiederebbe tutte quelle caratteristiche che lei, Jay, considera sgradevoli. Ma se si potesse liberarlo tramite l'ipnosi e la suggestione, potrebbe essere l'uomo adatto per questo lavoro.» «Ma lei come fa a sapere che io abbia davvero questa... questo alter ego?» «Non lo so, ma è un'ipotesi molto plausibile. La maggior parte delle personalità represse... disciplinate», si corresse Forth con un tossettina di scusa, «posseggono una personalità secondaria nascosta. Non le capita mai, molto di rado, naturalmente, di ritrovarsi a fare delle cose assolutamente non in carattere con le sua personalità?» «Be', sì...» confessò Jay (ed ebbi l'impressione che la cosa lo cogliesse di sorpresa). «L'altro giorno, ad esempio... in genere vesto in modo molto classico e conservatore», proseguì dando un'occhiata al camice, «mi sono
ritrovato a comprare...» si interruppe di nuovo e il suo viso assunse uno sgradevole color terracotta quando terminò controvoglia, «una camicia sportiva rossa a fiori!» (Seduto al buio avvertii una vaga compassione per quel povero diavolo, tanto sconvolto e vergognoso per l'unico impulso umano che avesse mai avuto). Sullo schermo, Allison corrugò la fronte e disse in tono seccato: «Un impulso... folle». «Dal suo punto di vista forse, ma potrebbe anche essere stato il gesto di quel Jay che si nasconde in lei. Cosa ne dice, Allison? Lei potrebbe essere l'unico terrestre di Darkover, forse addirittura l'unico essere umano in grado di avventurarsi nella terra degli Arboricoli senza essere ucciso.» «Signore... come cittadino dell'Impero non ho molta scelta, vero?» «Ascolti, Jay», disse Forth, e io sentii il suo sincero tentativo di superare la barriera e di toccare, toccare davvero, quel giovanotto freddo e distaccato, «noi non possiamo ordinare a nessuno di fare una cosa simile. A parte i pericoli fisici della missione, questo tentativo potrebbe distruggere forse per sempre il suo equilibrio psichico. Quello che le sto chiedendo è di offrirsi volontario per qualcosa che va al di là del suo dovere, qualcosa di più alto. Da uomo a uomo, cosa mi risponde?» Io sarei stato commosso da quelle parole... e anche sentendole così, di seconda mano, mi commossi. Jay Allison guardò il pavimento e vidi che torceva le dita lunghe e sensibili da chirurgo, facendo schioccare le nocche. «Non ho nessuna scelta in entrambi i casi, dottore», disse alla fine. «Correrò il rischio: andrò presso il Piccolo Popolo.» CAPITOLO 2 DOPPIA PERSONALITÀ Lo schermo si oscurò e Forth riaccese le luci. «Allora?» disse. «Allora?» ribattei io con lo stesso tono, e in quel momento mi accorsi che stavo facendo schioccare le nocche delle dita con lo stesso gesto nervoso di Allison quando aveva preso la sua dolorosa decisione. Esasperato, allontanai le mani l'una dall'altra e mi alzai. «Immagino che non abbia funzionato con quel pallone gonfiato e che abbiate quindi deciso di rivolgervi a me. Certo, io andrò dal Piccolo Popolo, ma non con quel bastardo di Allison - con quel tipo non andrei da nessuna parte, ma io parlo la loro lingua e per di più senza bisogno di ipnosi.»
Forth mi stava fissando con attenzione. «Dunque questo lo ha ricordato?» «Ma che diavolo, sì», risposi. «Mio padre è precipitato negli Hellers e una banda del Piccolo Popolo mi ha trovato mezzo morto. Sono vissuto con gli Arboricoli fino a quindici anni, poi l'Anziano ha deciso che ero troppo umano per loro e così mi hanno portato oltre il passo Dammerung e hanno fatto in modo di farmi arrivare qui. Certo, adesso mi ricordo tutto. Ho passato quindici anni nell'Orfanotrofio degli Spaziali, poi ho cominciato a lavorare accompagnando i turisti terrestri in partite di caccia e così via, perché mi piaceva stare tra le montagne. Io...» mi interruppi perché Forth continuava a fissarmi. «Perché non si risiede? Non riesce a stare fermo un minuto?» Mi sedetti, riluttante. «Crede che questo lavoro le piacerebbe?.» «Sarebbe un lavoro duro», risposi riflettendo. «Il Popolo del Cielo...» proseguii usando il nome che gli Arboricoli davano a loro stessi, «non ama gli sconosciuti. Però si potrebbe persuaderli. La parte più pericolosa sarebbe arrivare là: non è ancora stato costruito l'aereo o l'elicottero in grado di sopportare le correnti degli Hellers e di atterrare senza incidenti: quindi dovremmo andare a piedi, partendo da Carthon. Mi servono scalatori professionisti, montanari...» «Quindi lei non condivide l'atteggiamento di Allison?» «Maledizione, non mi insulti!» esclamai, alzandomi di nuovo in piedi, quasi senza accorgermene, e prendendo a camminare avanti e indietro per l'ufficio. Forth mi guardò e rifletté ad alta voce: «Cos'è la personalità, in fondo? Una maschera di emozioni sovrapposta al corpo e all'intelletto. Cambia il punto di vista, cambia le emozioni e i desideri ed ecco che, con lo stesso corpo e le stesse esperienze passate, si ha un uomo nuovo». Mi girai di scatto, perché un terribile sospetto, troppo mostruoso perché osassi esprimerlo, stava facendosi strada nella mia mente. Forth toccò un pulsante e il viso di Jay Allison immobile, apparve sullo schermo. Poi Forth mi mise in mano uno specchio e disse: «Jay Allison, si guardi». Guardai. «No», dissi. «No, no.» Fofth non discusse, ma alzò un dito grassottello e indicò. «Guardi», disse muovendo il dito mentre parlava, «altezza della fronte, taglio degli zigomi. Le sopracciglia hanno un aspetto diverso e così anche la bocca, perché diversa è l'espressione, ma la struttura ossea, il naso, il mento...» Udii la mia voce emettere un suono stridulo e scaraventai a terra lo spec-
chio. Forth mi afferrò il braccio. «Calma, amico!» Ritrovai un filo di voce (che non assomigliava affatto a quella di Jay Allison). «Allora io sono... Jay? Jay Allison con l'amnesia?» «Non esattamente.» Forth si asciugò la fronte con la manica immacolata del camice, che rimase macchiata di sudore. «No, santo cielo, non il Jay Allison che conosco io!» Trasse un lungo respiro ed esclamò: «E si sieda! Chiunque lei sia, si sieda!» Mi sedetti... con cautela. Non molto sicuro. «Ma l'uomo che Jay Allison avrebbe potuto essere con una diversa predisposizione caratteriale. Anzi, direi, l'uomo che Jay Allison aveva cominciato a essere... l'uomo che ha rifiutato di essere. Nel suo subconscio ha costruito delle barriere contro tutta una serie di ricordi e la soglia subliminale...» «Doc, non capisco un acca di psichiatria.» Forth mi guardò. «E lei ricorda la lingua del Piccolo Popolo. Lo pensavo: in lei la personalità di Allison è soppressa come lo era stata la sua in lui.» «Una cosa, dottore: io non capisco un accidente di epidemie e fattori sanguigni. Questa parte della mia personalità non ha mai studiato medicina.» Raccolsi lo specchio e studiai cupo il viso che vi era riflesso. Gli zigomi alti e sottili, la fronte spaziosa ombreggiata da ruvidi capelli neri che Allison teneva lisci e pettinati all'indietro e che ora erano arruffati e scomposti. Continuavo a non trovare nessuna somiglianza con il dottore. Nemmeno le nostre voci si somigliavano: la sua aveva un timbro piuttosto alto, mentre la mia, da quel poco che potevo sentire, era più sonora e di un'intera ottava più bassa. Eppure tutte e due quelle voci venivano emesse dalle stesse corde vocali, a meno che Forth non stesse giocandomi uno scherzo incomprensibile e molto macabro. «Davvero ho studiato medicina? È l'ultima cosa che mi passerebbe per la mente. È un lavoro onesto, lo so, ma io non sono mai stato tanto intellettuale.» «Lei... o piuttosto Jay Allison è uno specialista di parassitologia darkovana e anche un chirurgo molto abile e competente.» Forth appoggiò il mento sulla mano, osservandomi attento. Poi aggrottò la fronte e proseguì: «Devo dire che il cambiamento fisico è ancor più sorprendente di quello psicologico; non l'avrei riconosciuta». «Lo stesso vale per me, nemmeno io mi riconosco. E quel che è peggio», aggiunsi, «quel Jay Allison non mi piace per niente, per usare un eufemi-
smo. Se lui... ma non posso chiamarlo lui, vero?» «Non vedo perché no: lei non è Jay Allison più di quanto lo sia io. Tanto per cominciare lei è più giovane, di ben dieci anni. Dubito che qualcuno dei suoi amici (ammesso che ne abbia) la riconoscerebbe. Lei... continuare a chiamarla Jay mi sembra ridicolo. Come preferisce che la chiami?» «Non me ne importa molto, ma mi chiami Jason.» «Le si adatta», fu l'enigmatico commento di Forth. «Allora senta, Jason; vorrei poterle concedere qualche giorno per adattarsi alla sua nuova personalità, ma purtroppo il tempo stringe. Se la sente di andare in volo a Carthon questa sera? Ho scelto con molta cura la sua squadra e li ho già mandati avanti. Vi incontrerete là.» Lo fissai attonito: la stanza si era fatta di colpo opprimente e facevo fatica a respirare. «Era piuttosto sicuro dei risultati, vero?» chiesi meravigliato. Forth si limitò a guardarmi per quello che mi parve un interminabile minuto; poi disse a bassa voce: «No, non ero affatto sicuro. Ma se la sua personalità non fosse saltata fuori e non fossi riuscito a persuadere Jay, avrei dovuto tentare io stesso.» Al QG terrestre Jason Allison Junior risultava residente nell'appartamento 1214 del Residence medico. Trovai le stanze senza problemi, anche se mentre percorrevo a grandi passi il corridoio silenzióso, attrassi lo sguardo incuriosito di un dottore anziano. L'appartamento, composto da una camera da letto, un minuscolo soggiorno e un bagno, era deprimente: immacolato, neutro e privo di personalità come l'uomo che l'aveva abitato. Mi aggirai inquieto per le stanze, cercando qualche traccia familiare che indicasse che negli ultimi undici anni ero vissuto lì. Jay Allison aveva trentaquattro anni. Io invece, quando Forth mi aveva chiesto l'età avevo risposto senza esitazione ventidue. Nella mia memoria non c'erano vuoti; dal momento in cui Jay Allison aveva nominato il Piccolo Popolo, tutto il passato mi era tornato in mente e l'avevo davanti agli occhi, preciso, fino al pasto della sera prima (solo che quella cena l'avevo consumata dodici anni prima!) Ricordavo mio padre, un uomo taciturno, con il volto segnato dalle rughe, che amava volare, scattando una fotografia dopo l'altra dal suo aereo per il meticoloso lavoro di esplorazione e cartografia. Gli piaceva portarmi con sé nei suoi voli e io avevo sorvolato praticamente ogni metro quadrato del pianeta. Nessun altro aveva mai osato sorvolare gli Hellers, tranne le grosse astronavi commerciali che si mante-
nevano ad un'altitudine di sicurezza. Ricordavo vagamente la caduta del velivolo, le mani sconosciute che mi avevano estratto dal relitto e le settimane passate in delirio, mentre mi riprendevo, amorevolmente curato da una delle femmine cinguettanti con gli occhi rossi del Piccolo Popolo. In tutto avevo passato otto anni nel Nido, che però non era affatto un nido, ma una vasta città aerea costruita sugli enormi rami degli alberi. Insieme ai piccoli e delicati umanoidi che erano i miei compagni di gioco avevo raccolto noci e germogli, teso trappole per gli animaletti arborei di cui si cibavano gli arboricoli, imparato a tessere le tele ricavate dalle fibre di piante parassite coltivate sui fusti degli alberi e in tutti quegli otto anni avevo messo piede a terra meno di una decina di volte, anche se avevo percorso centinaia di chilometri sulle strade arboree che correvano molto al di sopra del terreno della foresta. Poi la dolorosa decisione dell'Anziano che mi aveva dichiarato troppo alieno rispetto a loro e il viaggio difficile e pericoloso che i miei genitori e fratelli adottivi del Piccolo Popolo avevano intrapreso per portarmi fuori dagli Hellers e farmi arrivare sano e salvo alla Città Commerciale. Dopo due anni di difficile e ribelle riadattamento fisico e mentale alla vita diurna (il Piccolo Popolo, con gli occhi da gufo, ci vedeva meglio di notte e la vita presso di loro era in gran parte notturna), avevo trovato il mio posto in quel nuovo mondo e mi ero sistemato. Ma gli anni seguenti (dopo che Jay Allison aveva preso il sopravvento, probabilmente da uno schema di ricordi comune a tutti e due) erano scomparsi nel limbo del subconscio. C'era un raccoglitore pieno di microschede: ne presi una e la infilai nel visore, con la strana sensazione di spiare e con il fiato sospeso nell'attesa di udire il passo cadenzato e la voce acuta di Jay Allison che mi chiedeva cosa diavolo credevo di fare, cacciando il naso nelle sue cose. Con l'occhio al visore lessi dapprima a caso qualcosa a proposito della riduzione delle fratture composte, poi mi resi conto che di un intero paragrafo avevo capito esattamente tre parole. Mi appoggiai un pugno sulla fronte e udii le parole riecheggiare vanamente nel cervello: «Lacerazione... versamento primario... siero e liquido linfatico... tessuto di granulazione...». Quelle parole probabilmente un significato l'avevano e un tempo dovevo averlo saputo; ma, se avevo un'istruzione medica, non ne ricordavo una sola sillaba. Non distinguevo una frattura da una frazione. Preso da una improvvisa frenesia, mi strappai di dosso il camice bianco e indossai la prima camicia che trovai, un indumento cremisi che in quella fila di tessuti bianchi spiccava come un variopinto uccello tropicale su una
distesa di neve. Mi misi a frugare nei cassetti e negli armadi: dimenticata in un angolo trovai un'altra microscheda che mi parve famigliare e, quando la inserii nel visore, scoprii che si trattava di un libro sull'alpinismo, che per quanto strano potesse sembrare, ricordavo di aver comprato in gioventù. Quella scoperta fugò anche gli ultimi dubbi; era chiaro che l'avevo comprato prima che le due personalità divergessero e si separassero in modo tanto netto, diventando Jason e Jay. Stavo cominciando a credere, non ad accettare, ma semplicemente a credere che fosse successo. Il libro appariva molto usato e i bordi della scheda erano così consunti che avevo dovuto guidarla a mano nella fessura del visore. Sotto una pila di biancheria pulita e meticolosamente piegata trovai una bottiglia di whisky mezza piena e mi tornarono in mente le parole del dottor Forth. che affermava di non aver mai visto Jay Allison bere e pensai: «Che povero scemo!» Mi versai un dito di liquore e mi sedetti, sfogliando distrattamente il libro sull'alpinismo. La mia ipotesi era che solo quando ero entrato alla scuola di medicina le mie due personalità avessero cominciato a divergere in maniera drastica... tanto drastica che dovevano esserci stati giorni e settimane, e anche anni, in cui il dottor Jay Allison mi aveva tenuto prigioniero. Cercai di far quadrare le date nella mente consultando persino un calendario, ma quella vista mi procurò una scossa tale che lo appoggiai a faccia in giù. Lo avrei aperto quando fossi stato un po' sbronzo. Chissà se i ricordi particolareggiati della mia adolescenza e dei miei vent'anni erano gli stessi che aveva il dottor Allison. Non mi sembrava possibile: la gente applica un meccanismo selettivo ai ricordi e a quello che vuole dimenticare, quindi giorno dopo giorno, settimana dopo settimana e anno dopò anno, la personalità dominante del dottor Jay Allison mi aveva confinato sempre più in disparte fino a trasformare quel giovane allegro, per più di metà darkovano, amante delle montagne e malato di nostalgia per un mondo non umano, nello studente di medicina freddo e austero che si tuffava nel lavoro per dimenticare. Ma io, Jason, io ero sempre rimasto come osservatore nascosto, come la persona che Jay Allison non osava essere. Perché lui aveva superato i trenta, mentre io avevo solo ventidue anni? Un trillo infranse il silenzio della stanza; ci misi un po' a trovare l'interfono sulla parete. «Chi è?» chiesi. E una voce sconosciuta rispose: «Il dottor Allison?» «Non c'è nessuno che si chiama così, qui», risposi automaticamente, e
stavo per rimettere a posto il ricevitore, quando mi fermai e, con esitazione, dissi: «È lei, dottor Forth?» Era lui e trassi un sospiro di sollievo. Non volevo nemmeno pensare a cosa avrei detto se qualcun altro avesse insistito per sapere per quale ragione rispondevo al citofono privato del dottor Allison. Quando Forth ebbe finito di parlare, mi avvicinai allo specchio e mi guardai, cercando di ritrovare dietro il mio viso i lineamenti angolosi di quell'estraneo, il dottor Allison. Stavo perdendo tempo, mentre il mio cervello elencava mentalmente le cose necessarie per una spedizione in montagna e la lunga abitudine a organizzare spedizioni aggiungeva giacche a vento e calze di lana. Il viso che mi guardava era un viso giovane, senza rughe, con qualche lentiggine, lo stesso viso di sempre, tranne che per l'abbronzatura che non c'era più; Jay Allison mi aveva tenuto al chiuso per troppo tempo. All'improvviso colpii lo specchio con un pugno. «Va' al diavolo, dottor Jay Allison», esclamai, e andai a controllare se il mio alter ego aveva tenuto degli indumenti che si potevano utilizzare per quel viaggio. CAPITOLO 3 LA SPEDIZIONE Il dottor Forth mi stava aspettando al piccolo eliporto sul tetto, accanto ad un elicottero, uno di quelli piuttosto vecchi che venivano assegnati al servizio medico quando erano troppo malandati per essere usati in missioni ad alta priorità. Forth osservò con espressione meravigliata la mia camicia cremisi, ma non fece commenti e mi salutò come se niente fosse. «Salve, Jason. C'è una cosa che dobbiamo decidere immediatamente: riveliamo alla squadra la sua vera identità?» Scossi la testa con decisione. «Io non sono Jay Allison; non voglio né il suo nome né la sua reputazione. A meno che tra gli uomini non ci sia qualcuno che conosce Allison di vista...» «Qualcuno c'è, ma non credo proprio che la riconoscerebbero.» «Gli dica che sono il suo fratello gemello», dissi senza entusiasmo. «Non sarà necessario, la rassomiglianza non è sufficiente.» Forth si girò e fece un cenno a un uomo che stava facendo qualcosa accanto all'elicottero e mentre questi si avvicinava, mi disse sottovoce: «Adesso vedrà cosa intendo». L'uomo indossava l'uniforme delle Forze Spaziali, di cuoio nero con un
piccolo arcobaleno di stelle su di una manica, tutte di diverso colore, che indicavano il numero di pianeti sui quali aveva prestato servizio. Era un uomo non giovane, attorno alla cinquantina, massiccio e muscoloso, con il volto segnato dalle rughe e un labbro spaccato. Mi piacque subito; ci stringemmo la mano e Forth disse: «Questo è il nostro uomo, Kendricks: si chiama Jason ed è un esperto del Piccolo Popolo. Jason, questo è Buck Kendricks». «Lieto di conoscerla, Jason.» Mi parve che Kendricks mi fissasse per qualche secondo di troppo. «L'elicottero è pronto, salite... dottore, lei viene con noi fino a Carthon, vero?» Ci infilammo le giacche a vento e l'elicottero si librò senza fare rumore nel cielo rosso pallido. Seduto accanto a Forth, guardai Darkover che si svelava sotto di noi attraverso una coltre di rade nuvole lilla. «Kendricks mi ha guardato in modo strano, Doc. Cosa lo rode?» «Conosce Jay Allison da otto anni», rispose Forth a bassa voce, «eppure non l'ha riconosciuta.» Con mio grande sollievo, la cosa finì lì e non se ne parlò più. Invece, mentre il rotore silenzioso ci trasportava lontano dalla zona della Città Commerciale, parlammo di Darkover. Forth mi ragguagliò sulla Febbre degli Arboricoli e riuscì a darmi qualche idea su cosa fossero i fattori sanguigni e sul perché fosse necessario persuadere cinquanta o sessanta di quegli umanoidi a tornare a Thendara con noi, per donare sangue da cui isolare e poi sintetizzare l'anticorpo. Se fossi riuscito in una simile impresa, avrei fatto una cosa senza precedenti. La maggior parte degli Arboricoli non toccavano mai terra in tutta la vita, tranne quando dovevano valicare i passi al di sopra della linea delle nevi perenni. Forse meno di una decina di loro, compresi i miei genitori adottivi che avevano intrapreso il faticoso viaggio per farmi attraversare il passo Dammerung, avevano mai valicato la catena di montagne attorno al loro territorio che li isolava dal resto del mondo. Qualche volta gli uomini penetravano nella foresta alla ricerca del Piccolo Popolo, ma si trattava di un traffico a senso unico: il Piccolo Popolo non andava mai alla ricerca degli uomini. Parlammo anche di quegli esseri umani che erano penetrati nel territorio degli Arboricoli, attraversando le montagne che erano state ribattezzate Hellers dai primi terrestri che avevano cercato di sorvolarle a una quota più bassa o a una velocità inferiore a quella di un'astronave. «Che mi dice della squadra che ha scelto? Non sono terrestri?»
Forth scosse il capo. «Sarebbe un assassinio mandare negli Hellers qualcuno chiaramente identificabile come terrestre. Sa come la pensa il Piccolo Popolo sugli stranieri che penetrano nel loro territorio.» Lo sapevo eccome. «In ogni caso», proseguì il dottore, «due terrestri ci saranno.» «Ma non conoscono Jay Allison?» Non volevo dovermi anche preoccupare che qualcuno, chiunque, potesse riconoscermi e si aspettasse dunque di vedermi comportare come il mio alter ego dimenticato. «Kendricks la conosce. Ma sarò assolutamente sincero con lei: non ho mai conosciuto molto bene Jay Allison, se non come collega. Negli ultimi due giorni, durante le sedute ipnotiche, sono venuto a conoscenza di un certo numero di cose che lui non si sarebbe mai sognato di dire né a me né a nessun altro, se fosse stato cosciente. Ma quelle confidenze rientrano nel segreto professionale... anche per quello che la riguarda. E per questa ragione ho scelto di mandare Kendricks, e lei dovrà correre il rischio di essere riconosciuto. Non è Carthon quella laggiù?» Carthon era adagiata ai piedi delle colline alla base degli Hellers, antica, massiccia e color marrone bruciato per la polvere di cinquemila anni. I bambini corsero fuori dalle case per guardare l'elicottero che atterrava vicino alla città, perché erano pochi gli aerei che volavano a quota tanto bassa da poter essere visti, e nessuno così pericolosamente vicino agli Hellers. Forth ci aveva fatti precedere dalla squadra, che era stata alloggiata in un grande edificio abbandonato alla periferia della città, che avrebbe potuto essere un enorme magazzino o un palazzo in rovina. All'interno vi erano un paio di grossi camion arruginiti e mal ridotti, pronti per essere demoliti avrei detto, come avveniva per tutti i macchinari importati dalla Terra. C'erano animali da soma, sagome scure nella penombra, e casse ammonticchiate in una sorta di ordinato disordine. Nell'angolo più lontano era acceso un fuoco attorno al quale erano seduti a chiacchierare cinque o sei uomini in abiti darkovani: camicie a maniche lunghe, pantaloni aderenti e stivali bassi. Quando Forth, Kendricks e io entrammo si alzarono e il dottore li salutò in un darkovano zoppicante con un accento atroce, poi passò subito a parlare terrestre standard, lasciando che uno di loro traducesse. Il dottore mi presentò semplicemente come «Jason», secondo l'uso darkovano e io osservai attentamente gli uomini, ad uno ad uno. Un tempo, quando facevo dell'alpinismo per diletto, preferivo scegliere attentamente gli uomini che portavo con me, ma era chiaro che chiunque avesse scelto questa squadra sapeva il fatto suo.
Tre di loro erano darkovani delle montagne, uomini snelli, robusti, che si assomigliavano tanto da poter essere fratelli (e infatti più tardi scoprii che lo erano) : Hjalmar, Garin e Vardo, tutti e tre intorno al metro e novanta di statura; Hjalmar poi sovrastava i fratelli (che non imparai mai distinguere l'uno dall'altro) addirittura di tutta la testa. Il quarto uomo, con i capelli rossi, era vestito meglio degli altri e mi venne presentato come Lerrys Ridenow (il doppio nome stava ad indicare l'aristocrazia di rango di Darkover): era agile e muscoloso, ma le mani erano un po' troppo curate per essere quelle di un montanaro e mi chiesi quanta esperienza avesse di alpinismo. Il quinto uomo mi strinse la mano e si rivolse a Kendricks e Forth come se fossero vecchi amici. «Non ci siamo già visti da qualche parte, Jason?» Aveva l'aspetto di un darkovano e indossava abiti darkovani, ma Forth mi aveva messo in guardia, quindi pensai che la miglior difesa fosse l'attacco. «Non sei un terrestre?» «Mio padre lo era», rispose lui e io capii; era una situazione non molto insolita, ma piuttosto delicata su un pianeta come Darkover. «Dobbiamo esserci incontrati al QG», risposi con noncuranza, «ma non riesco a ricordare dove.» «Mi chiamo Rafe Scott. Credevo di conoscere la maggior parte delle guide professioniste di Darkover, ma ammetto di non venire spesso negli Hellers», confessò. «Che strada prenderemo?» Mi ritrovai così al centro del gruppo di uomini, accettai una delle piccole e dolci sigarette darkovane e guardai la mappa che qualcuno aveva schizzato sulla parte superiore di una cassa. Mi feci prestare una matita da Rafie Scott e disegnai una sommaria mappa del territorio che ricordavo senza incertezze dal tempo della mia infanzia. Forse i fattori sanguigni mi lasciavano stranito, ma quando si trattava di alpinismo ero nel mio campo. Rafe, Lerrys e i tre fratelli darkovani si affollarono alle mie spalle per guardare lo schizzo e Lerrys indicò con un dito il sentiero che avevo segnato. «Qui l'altezza è piuttosto pericolosa», disse in tono diffidente. «Durante la campagna di 'Narr il Piccolo Popolo ci ha attaccati proprio in quel punto, e combattere lungo quelle strette cenge non è stato affatto facile.» Lo guardai con nuovo rispetto: anche se aveva le mani da damerino, era chiaro che conosceva il territorio. Kendricks batté la mano sul fulminatore che portava al fianco e disse torvo: «Ma questa non è la campagna di 'Narr. Vorrei proprio vedere se il Piccolo Popolo ci attaccherà, se avrò uno di questi».
«Ma non lo avrai», disse una voce forte e autoritaria alle nostre spalle. «Metti via quell'arma, amico!» Sia Kendricks che io ci girammo di scatto per vedere chi aveva parlato, un giovane darkovano alto, ancora nascosto nell'ombra. Il nuovo arrivato si rivolse direttamente a me. «Mi dicono che siete un terrestre ma che conoscete bene il Piccolo Popolo... certo non avrete intenzione di usare contro di loro armi a fusione o a fissione?» Di colpo mi ricordai che adesso eravamo in territorio darkovano e che dovevamo fare i conti con il loro orrore verso tutte le armi che avevano una gittata superiore al braccio dell'uomo che le impugnava. Che si trattasse di una normale pistola a proiettili o di una bomba al super cobalto, per i darkovani era la stessa cosa. «Ma non possiamo viaggiare disarmati nel territorio del Piccolo Popolo!» Protestò Kendricks. «Incontreremo di certo delle bande di quelle creature e quei loro lunghi coltelli sono molto pericolosi!» «Non ho nessuna obiezione se tu o qualcun altro si porta un coltello per difesa personale», rispose il darkovano con voce tranquilla. «Un coltello?» ruggì Kendricks. «Ascolta un po', giovanotto... ma chi credi di essere?» Un mormorio si levò tra i darkovani e l'uomo in ombra rispose: «Regis Hastur». Kendricks strabuzzò gli occhi. Fui sul punto di avere anch'io la stessa reazione, ma poi decisi che era arrivato il momento di assumere il comando delle operazioni. Ora o mai più. «Va bene, qui sono io che comando. Buck, dammi il fulminatore.» Kendricks mi guardò con odio per qualche secondo, mentre io mi chiedevo cosa avrei fatto se non mi avesse consegnato l'arma; poi, lentamente, Buck slacciò il cinturone e mi porse il fulminatore, dalla parte del calcio. Non mi ero mai reso conto di quanto sembrasse svestito un uomo del Servizio Spaziale senza un'arma al fianco. Tenni ostentatamente in mano l'arma per qualche istante, mentre Regis Hastur usciva dall'ombra. Era alto e aveva i capelli rossi e la carnagione chiara caratteristica dell'aristocrazia darkovana. Sul suo volto c'era un'impronta indefinibile... arroganza, forse, o la consapevolezza che gli Hastur avevano governato quel mondo per secoli prima che i terrestri arrivassero con le loro navi e portassero il commercio e l'universo alle soglie delle loro case. Mi guardava come se approvasse il mio gesto e questo rendeva la situazione ancora peggiore di prima.
Così, rivolgendomi a lui nella forma rispettosa della lingua darkovana usata verso un superiore (cosa che lui era), ma mantenendo un tono di voce duro, dissi: «Nei miei viaggi c'è un solo capo, nobile Hastur, e in questo viaggio in particolare quel capo sono io. Se desiderate discutere del fatto che si possano o meno portare armi, vi suggerisco di discuterne con me in privato... e lasciare che sia io a dare gli ordini». Sentii uno dei darkovani ansimare; stavo rischiando, avrei potuto essere aggredito per il mio tono, ma con un gruppo di uomini così misto, dovevo impormi subito, altrimenti sarei stato messo fuori gioco. Non lasciai a Regis Hastur neppure il tempo di rispondere e dissi: «Venite da questa parte, intendevo comunque parlarvi». Mi seguì e a quel punto mi ricordai di respirare. Lo condussi in un angolo deserto di quell'edificio immenso e gli chiesi: «Ditemi un po': cosa ci fate qui? Non avrete per caso intenzione di attraversare le montagne con noi?» Lui sostenne il mio sguardo senza battere ciglio. «Certamente.» «Per quale ragione?» gemetti. «Voi siete il nipote del Reggente; la gente importante non si caccia in imprese pericolose. Se vi succede qualcosa, ne sarò ritenuto responsabile io!» Avrei avuto già abbastanza guai anche senza essere costretto a fare da balia a uno dei personaggi più riveriti di tutto quel maledetto pianeta! Non volevo ritrovarmi tra i piedi qualcuno da sorvegliare o da trattare con deferenza o, peggio ancora, da ascoltare. Lui corrugò leggermente la fronte ed ebbi la sgradevole impressione che sapesse cosa stavo pensando. «In primo luogo, non credete che per il Piccolo Popolo sarà un segno di rispetto la presenza di un Hastur che viene a richiedere i loro favori?» Aveva ragione. Gli arboricoli in genere non prestavano alcuna attenzione alle cose degli esseri umani, se non per considerarli una preda da spogliare quando sconfinavano nel loro territorio senza permesso; ma anche loro, come tutto Darkover, veneravano gli Hastur e la presenza del nipote del Reggente poteva essere un'accorta mossa diplomatica. Se i darkovani inviavano il loro personaggio più importante, forse il Piccolo Popolo ci avrebbe ascoltati. «In secondo luogo», proseguì Regis Hastur, «i darkovani sono il mio popolo e spetta a me negoziare per loro. In terzo luogo conosco il dialetto del Piccolo Popolo, non benissimo, ma sono in grado di parlarlo un poco. E, da ultimo, ho scalato montagne tutta la vita: da dilettante, certo, ma state sicuro che non vi sarò d'impaccio.»
Non c'era molto da ribattere a quel discorso; Hastur aveva chiariti tutti i punti... tutti, forse, tranne uno. Dopo un attimo aggiunse, con aria sagace: «Per ora non preoccupatevi; sono ben felice di cedervi il comando. Per ora non reclamerò il... privilegio». Dovetti accontentarmi della sua affermazione. Darkover è un pianeta civilizzato con un tenore di vita piuttosto alto, ma non è una cultura meccanizzata o tecnologica. Poca estrazione di minerali e quasi nessuna fabbrica, e le poche impiantate dalle imprese terrestri non avevano fatto una gran fortuna: al di fuori della Città Commerciale macchinari e mezzi di trasporto sono praticamente sconosciuti. Mentre gli uomini controllavano e caricavano le provviste e Rafe Scott andava a prendere contatto con degli amici per organizzare i dettagli dell'ultimo minuto, io rimasi con il dottor Forth per memorizzare le cognizioni mediche che avrei dovuto spiegare con chiarezza al Piccolo Popolo. «Se solo fossimo riusciti a lasciarle le sue conoscenze mediche!» «Il guaio è che fare il dottore non si adatta alla mia personalità», risposi. Mi sentivo assurdamente felice. Dal punto in cui ero seduto, sollevando la testa riuscivo a vedere il panorama di colline verde cupo che si stendeva dietro Garthon e individuare la strada di pietra, una specie di nastro bianco, che avremmo seguito per là prima parte del viaggio. Forth però non condivideva il mio entusiasmo. «Lo sa, Jason, esiste un pericolo reale...» «Crede che mi importi del pericolo? O teme forse che diventi... temerario?» «Non esattamente. Non si tratta di un pericolo fisico: è un pericolo emotivo... o meglio, intellettuale.» «Diavolo, dottore, non conosce altro linguaggio che quelle cavoiate psicologiche?» «Mi lasci finire, Jason. Jay Allison era represso e supercontrollato, ma lei è fin troppo impulsivo. Le manca un bilanciere, per così dire; e se corre troppi rischi, il suo alter ego sepolto potrebbe tornare in superficie e riassumere il comando per pura auto-conservazione.» «In altre parole», dissi ridendo, «se spavento a morte il buon vecchio Allison, potrebbe cominciare a rivoltarsi nella tomba?» Forth tossicchiò, nascondendo un sorriso, e ammise che sì, le cose potevano anche stare così. Gli diedi una pacca sulla spalla per rassicurarlo e dissi: «Se lo scordi. Ho promesso di essere buono, sobrio e laborioso, ma
c'è forse una legge che mi proibisca di godermi quello che faccio?» Qualcuno uscì dall'edificio, ex magazzino o ex palazzo, e gridò: «Jason! È arrivata la guida». Io mi alzai in piedi, rivolgendo un gran sorriso a Forth. «Non si preoccupi: ci siamo sbarazzati di Jay Allison», gli dissi, e rientrai nell'edificio per conoscere l'altra guida che avevano assunto. «Che mi venisse un colpo!» pensai, quando vidi che la guida era una donna. Era di bassa statura rispetto alla media delle donne darkovane, di costituzione minuta, il genere di corpo che a un primo sguardo si sarebbe potuto definire da adolescente o da ragazzo e non certo femminile. Capelli corti e ricci, di un nero con riflessi blu, che ombreggiavano un viso abbronzato è occhi con ciglia tanto folte che non riuscii a distinguere il colore. Aveva un naso leggermente camuso che avrebbe potuto essere ridicolo e che le conferiva invece un'aria arrogante. La bocca era grande e le guance rotonde. Tese la mano a palmo in su e si presentò con tono pacato: «Kyla n'ha Rainéach, Libera Amazzone e guida». Risposi al gesto con un cenno del capo, aggrottando la fronte. La Lega delle Libere Amazzoni, o Rinunciatarie, aveva rappresentanti praticamente in ogni professione, ma quella di guida alpinistica mi sembrava piuttosto bizzarra anche per un'amazzone. Certo la ragazza pareva agile e resistente e il suo corpo, nascosto sotto la camicia pesante, privo di fianchi e di seno quasi quanto il mio: solo le gambe lunghe e snelle erano indiscutibilmente femminili. Gli uomini stavano controllando le provviste e caricandole sui camion; con la coda dell'occhio notai che anche Regis Hastur non disdegnava la sua parte di lavoro e stava caricando e sollevando casse come tutti gli altri. Mi sedetti su un sacco ancora a terra e feci cenno alla ragazza di sedersi. «Hai esperienza di guida? Ci inoltreremo negli Hellers attraverso il Dammerung ed è un sentiero duro anche per un professionista.» «L'anno scorso ero con la spedizione terrestre di Cartografia ed Esplorazione che ha attraversato la catena del Polo Sud.» «Sei mai stata negli Hellers? Se mi succede qualcosa, saresti capace di riportare il gruppo sano e salvo a Carthon?» Lei abbassò lo sguardo sulle dita tozze. «Sono certa di essere in grado», disse, e fece per alzarsi. «È tutto?» «Ancora una cosa», dissi facendole cenno di fermarsi. «Kyla, tu sarai l'unica donna tra otto uomini...»
Lei arricciò il naso camuso, «Non mi aspetto di vederti strisciare sotto le mie coperte, se è questo che intendi. Non è nel mio contratto... spero!» Mi sentii arrossire come un ragazzine. Accidenti a quella donna! «Nel mio non c'è di certo», scartai. «Ma non posso rispondere per gli altri sette uomini, alcuni dei quali sono rudi montanari.» E, mentre lo dicevo, mi chiesi perché poi dovessi preoccuparmi tanto: di certo una libera amazzone era in grado di difendere la sua virtù, oppure no, a seconda di quello che voleva, senza nessun bisogno di aiuto da parte mia. Così cercai di scusarmi aggiungendo: «In ogni caso sarai un elemento di disturbo... e io non voglio neanche delle risse!» Lei emise uno strano suono di gola, come se fosse divertita. «Nel numero c'è sicurezza e... sei a conoscenza degli effetti fisiologici che provoca l'altitudine agli uomini abituati a vivere a livello del mare?» Di colpo gettò indietro la testa e il suono di gola si trasformò in una risata allegra. «Jason, io sono una Libera Amazzone e questo significa... no, non sono stata castrata, anche se alcune di noi lo sono. Ma hai la mia parola che non creerò guai di natura squisitamente femminile.» Si alzò. «E adesso, se non ti spiace, vorrei controllare l'attrezzatura da montagna.» I suoi occhi stavano ancora ridendo di me, ma chissà perché, non me ne importava. CAPITOLO 4 VERSO CARTHON Ci mettemmo in viaggio quella sera, un piccolo gruppo stranamente assortito, con un camion per le provviste e un altro in cui erano stipati gli animali da soma, per niente soddisfatti di quella sistemazione. L'antica strada di pietra, sbrecciata e segnata qua e là dalle piene e dal limo dei secoli, era stata progettata per essere percorsa solo dai piedi degli uomini e dalle zampe degli animali. Oltrepassammo minuscoli villaggi e fattorie isolate e qualcuna delle Torri solitarie dove i tecnici delle matrici lavoravano in solitudine con l'antica scienza di Darkover, torri di pietra grezza che a volte di notte brillavano come fari azzurri nell'oscurità. Kendricks guidava il camion in cui erano stipati gli animali e se la godeva un mondo. Rafe e io invece ci alternavamo al volante di quello delle provviste, dividendo il largo sedile anteriore con Regis Hastur e Kyla, mentre gli altri uomini avevano trovato posto tra le casse e i sacchi di provviste. Una volta, mentre Rafe era alla guida e la ragazza sonnecchiava
con il mantello sopra il volto per ripararsi dal sole, Regis mi chiese: «Come sono le città aeree?» Cercai di spiegarglielo, ma non sono mai stato bravo a mettere in parole le descrizioni e quando Hastur si accorse che non ero disposto a parlare, non fece altre domande e io mi ritrovai libero di riandare con il pensiero a quello che sapevo degli Arboricoli e del loro mondo. A quanto sembra la natura segue uno schema di similarità su tutti i pianeti abitati, che tende verso l'economia e la semplicità della forma umana. La stazione eretta, le braccia snodate, i pollici opponibili, la sensibilità al colore dei nodi e dei coni oculari, lo sviluppo del linguaggio e il lungo svezzamento da parte dei genitori... tutte queste cose paiono essere indispensabili alla crescita della civiltà che alla fine viene definita umana. A parte variazioni di poco conto dovute al clima, gli abitanti di Darkover o di Megaera non sono distinguibili da un terrestre o da un abitante di Sirio; le differenze sono soprattutto culturali e a volte una cultura isolata si sviluppa in una direzione insolita o si ferma a uno stadio primordiale, a metà strada nella scala dell'evoluzione, che, perlomeno sui pianeti conosciuti, considera ancora l'Homo sapiens come la più complessa delle forme della natura. Il Piccolo Popolo era una sorta di gradino intermedio, una pausa evolutiva che si era dimostrata piuttosto lunga. Quando il ramo principale dell'evoluzione su Darkover aveva abbandonato gli alberi e aveva ingaggiato la lotta per l'esistenza a terra, alcuni erano rimasti indietro. Ma l'evoluzione per loro non si era fermata, semplicemente si erano sviluppati nell'homo arborens, umanoidi notturni, nictalopi che trascorrevano la loro esistenza nelle immense foreste. Il camion sobbalzò sulla strada piena di buche. Il vento era gelido. Il veicolo era solo un mezzo di trasporto ridotto all'essenziale che non aveva lussi come i finestrini. Mi svegliai di soprassalto... a quali sciocchezze stavo pensando? Idee vaghe a proposito dell'evoluzione si rincorrevano nella mia mente come bolle scoppiate... il Piccolo Popolo? Era solo il Piccolo Popolo, chi poteva spiegarli? Jay Allison, forse? Rafe voltò la testa e mi chiese: «Dove ci fermiamo per la notte? Sta facendo buio e dobbiamo ancora inventariare il materiale!» Mi scossi e ripresi in mano la guida della spedizione. Ma una volta parcheggiati i camion, issata una tenda e scaricati e impastoiati gli animali e dopo aver cominciato la cernita dell'equipaggiamento, me ne restai disteso sveglio, ad ascoltare il sonoro ronfare di Kendricks, terrorizzato all'idea di addormentarmi. Quando avevo sonnecchiato sul
camion, avevo avuto uno strano e agghiacciante vuoto di coscienza: ero io, ma al tempo stesso non ero io, che mi trastullavo con pensieri che non riconoscevo come miei. Se mi fossi addormentato chi sarei stato al mio risveglio? Avevamo piantato il campo nella curva di un grande fiume poco profondo, il Kadarin, considerato per tradizione il punto di non ritorno da darkovani e terrestri. Al di là del fiume si stendevano fitte foreste e, ancora oltre, le pendici degli Hellers, che si innalzavano e si innalzavano, ricoperte di foreste impenetrabili in ogni gola e in ogni valle, e in mezzo a quelle foreste viveva il Piccolo Popolo. Ma anche se tutto quel territorio era fittamente popolato di colonie di confine e di nidi, non sarebbe servito a nulla parlare con loro: avremmo dovuto trattare direttamente con l'Anziano del Nordest, dove avevo trascorso la maggior parte della mia infanzia. Da tempo immemorabile il Piccolo Popolo, generalmente inoffensivo, aveva mantenuto confini ben definiti tra le loro terre e quelle degli uomini che vivevano al suolo: gli Arboricoli non si avventuravano mai al di qua del Kadarin e dal canto loro gli umani che sconfinavano nel territorio del Piccolo Popolo diventavano automaticamente, in virtù di quei confini, prede da cacciare. Alcune comunità montane darkovane avevano trattati di scambio con il Piccolo Popolo, al quale vendevano stoffe, metalli forgiati, piccole suppellettili in cambio di noci, cortecce per tintura e foglie e certi particolari tipi di muschi dalle virtù medicinali. E in alcuni casi il Piccolo Popolo permetteva loro di cacciare nelle foreste senza essere molestati. Ma altri esseri umani che si fossero avventurati nel loro territorio, correvano il rischio di venir attaccati senza pietà. Gli abitanti degli alberi non erano feroci, non uccidevano per il piacere di farlo, ma attaccavano in gruppi di venti o trenta e la loro preda veniva spogliata di tutto quello che era possibile trasportare. Viaggiare attraverso il loro territorio sarebbe stato pericoloso. Seduto davanti alla tenda, contemplavo la distesa d'acqua che il sorgere del sole colorava di rosa. Gli animali pascolavano nell'erba bassa dietro la tenda; i camion erano sfingi ricoperti da teloni carichi di rugiada. Regis Hastur usci dalla tenda sfregandosi gli occhi e si unì a me sul greto del fiume. «Cosa ne pensate? Sarà un viaggio difficile?»
«No, non direi; conosco i sentieri principali e so come tenermi alla larga. È solo...» esitai, e Regis mi incitò: «Che cosa?» «Be'... è... siete voi», dissi dopo qualche istante. «Se vi accade qualcosa, tutto Darkover me ne riterrà responsabile.» Lui sorrise e nella luce rossa parve la personificazione di un'antica leggenda. «Responsabile? Voi non mi date l'impressione di essere il tipo che si preoccupa, Jason. Per che razza di inetto mi prendete? So come cavarmela tra le montagne e non ho paura del Piccolo Popolo, anche se non lo conosco quanto voi. Avanti... vado a prenderla io la colazione o andate voi?» Scrollai le spalle e mi diedi da fare accanto al fuoco. Regis aveva fatto la sua parte di lavoro ad ogni fermata, senza ostentazione e con assoluta naturalezza e questo aveva sorpreso gli altri due terrestri, Rafe e Kendricks, che davano per scontato i capi lasciassero ai poveri soldati semplici tutti i lavori più umili. Ma nonostante le rigide distinzioni di casta, quel genere di differenze sociali terrestri su Darkover semplicemente non esistevano. Neppure la galanteria aveva corso, e solo Kendricks trovò qualcosa da ridire quando Kyla si assunse il compito di governare le bestie da soma e fece la sua parte a caricare casse e sacchi. Dopo un po' Regis mi raggiunse accanto al fuoco. I tre fratelli montanari si erano svegliati e ora erano al fiume a lavarsi rumorosamente. Gli altri dormivano ancora. «Devo farli uscire?» mi chiese. «Non ce n'è bisogno. Il Kadarin è alimentato dalle maree dell'oceano e per guadarlo dovremo aspettare la bassa marea. Prima di poter attraversare senza rovinare tutto l'equipaggiamento sarà quasi mezzogiorno.» Regis annusò la pentola. «Ha un buon profumo», dichiarò e vi immerse la sua scodella, poi si sedette tenendo in equilibrio il cibo su un ginocchio. Seguii il suo esempio e Regis domandò: «Parlatemi un po' di voi, Jason: come mai sapete tante cose sul Piccolo Popolo? Lerrys ha partecipato alla campagna di 'Narr, ma voi mi sembrate troppo giovane per esserci stato.» «Sono più vecchio di quello che sembro», risposi, «ma non abbastanza vecchio da aver partecipato alla campagna.» (Durante la breve guerra civile sui monti combattuta dai darkovani contro il Piccolo Popolo di 'Narr, io avevo undici anni e avevo spiato gli invasori umani; ma questo a Regis non lo dissi.) «Sharra! Eravate voi?» Il principe darkovano sembrava sinceramente impressionato. «Non mi stupisco che vi abbiano assegnato l'incarico! Come vi invidio, Jason!»
Io risi - una risata breve e secca. «No, sul serio, Jason. Da ragazzo ho cercato di entrare nel Servizio Spaziale Terrestre, ma la mia famiglia alla fine è riuscita a convincermi che, come Hastur, avevo già un lavoro che mi aspettava.... che noi Hastur avevamo il compito e la missione di mantenere le pacifiche relazioni tra terrestri e darkovani. Questo mi mette terribilmente in svantaggio, sapete: tutti pensano che dovrei andarmene in giro con i cuscini attorno alla testa per non farmi male se cado.» «E allora perché diavolo vi hanno lasciato partecipare ad una missione tanto pericolosa?» sbottai. L'Hastur sbatté gli occhi, ma l'espressione del suo viso rimase assolutamente imperturbabile e la sua voce normale. «Ho fatto notare al mio signore che ero stato molto assiduo nei miei doveri nei confronti degli Hastur: ho cinque figli, di cui tre legittimi, che sono nati negli ultimi due anni.» Il cibo mi andò di traverso, sputacchiai ed esplosi in una risata, mentre Regis si alzava in piedi e andava a lavare la scodella nel fiume. Quando lasciammo il campo il sole era già alto. Mentre gli altri caricavano gli ultimi attrezzi, pronti a salire in sella, diedi a Kyla l'incarico di preparare gli zaini che ci saremmo caricati in spalla quando il sentiero sarebbe diventato impraticabile per le bestie da soma, e poi mi diressi sul greto per controllare la profondità del guado e osservai le alte catene montuose avvolte nella bruma rossastra. Gli uomini stavano smontando e impacchettando la piccola tenda che avremmo usato nella foresta; erano di ottimo umore e si davano da fare scherzando tra loro. Erano una buona squadra, come avevo già scoperto: Rafe e Lerrys e i tre fratelli darkovani erano instancabili, sempre allegri e abituati alla montagna. Su Kendricks, che si trovava fuori dal suo elemento, si poteva contare perché eseguisse gli ordini e io sentivo di poter far ricorso a lui. Per quanto strano possa sembrare, proprio il fatto che fosse terrestre mi dava una sensazione di conforto, mentre all'inizio avevo creduto che sarebbe stata una seccatura. La ragazza, Kyla, era ancora un'entità sconosciuta: era molto silenziosa e tesa, faceva fino in fondo la sua parte, ma raramente dava un suggerimento, forse perché non eravamo ancora entrati nel territorio delle montagne. Finora con me era stata schiva e di poche parole, anche se invece si comportava naturalmente con i darkovani e io la lasciavo fare. «Ehi, Jason, datti una mossa», gridò qualcuno e io ritornai verso la radu-
ra, socchiudendo gli occhi per il sole. Quel gesto mi procurò una fitta di dolore e mi resi conto all'improvviso di cosa doveva essere successo. Il giorno prima, viaggiando nel camion scoperto e quella mattina, non più abituato al sole cocente di quelle latitudini, non avevo preso le precauzioni contro le scottature e la mia faccia era tutta rossa e scottata. Mi avvicinai a Kyla, che stava assicurando l'ultimo sacco su uno degli animali, lavoro nel quale era maestra. Non mi lasciò neppure parlare, ma prese atto della situazione. Mi lanciò uno sguardo divertito e accennò con la testa al mio viso. «Scottato? Metti un po' di questo», disse porgendomi un tubetto di crema. Lo presi e lo spremetti, con una certa imperizia. Allora lei me lo tolse di mano, schiacciò una certa quantità di pomata bianca sul palmo della mano e mi disse: «China la testa e sta' fermo». Mi spalmò la crema sulla fronte e sulle guànce: era fresca e idratante. Feci per ringraziarla, ma mi interruppi perché lei scoppiò in una risata. «Cosa diavolo c'è?» «Dovresti vederti!» gorgogliò. Non ero per niente divertito; senza dubbio dovevo avere un aspetto grottesco, senza dubbio lei aveva il diritto di ridere di me, ma la cosa non mi garbava affatto. Per cercare di recuperare un po' dell'autorità che mi sembrava di avere perso, le chiesi: «Hai suddiviso i carichi negli zaini?» «È tutto pronto, tranne i sacchi a pelo. Non ero certa di quanto potessero pesare gli zaini», rispose. «Jason, hai degli occhiali da sole per quando arriveremo sulla neve?» Io annuì e lei proseguì in tono severo: «Non dimenticarteli. La cecità da riflesso, ti do la mia parola, è anche più sgradevole delle scottature... e molto dolorosa!» «Accidenti, ragazza, non sono mica stupido!» esplosi. «E allora avresti dovuto sapere come evitare di scottarti», ribatté con quella sua voce totalmente priva di espressione. «Ecco, questa tienila in tasca», proseguì porgendomi il tubetto di crema. «Forse farei meglio a controllare anche gli altri per assicurarmi che non se ne siano dimenticati.» Ciò detto se ne andò senza aggiungere altro, lasciandomi con la sgradevole impressione che fosse stata lei ad avere la meglio e che mi considerasse un povero irresponsabile. Forth aveva detto praticamente la stessa cosa. Dissi ai tre fratelli darkovani di far attraversare le bestie da soma nella parte più bassa del guado e indicai a Lerrys e Kyla di cavalcare a fianco di Kendricks, che non era abituato ai gorghi insidiosi e alle correnti improv-
vise dei fiumi di montagna. Rafe non riuscì a far entrare nell'acqua il suo cavallo e alla fine smontò di sella, si tolse gli stivali e lo trascinò nel fiume tenendolo per le briglie. Io attraversai per ultimo, cavalcando a fianco di Regis Hastur, attento ai possibili pericoli e riflettendo imbronciato che una persona tanto importante per la politica di Darkover non avrebbe dovuto rischiare la vita in una missione come quella. Se il Legato terrestre (improbabile evenienza!) fosse venuto con noi, sarebbe stato circondato dal Servizio Segreto, dalle guardie del corpo, con ogni possibile precauzione contro incidenti, attentati o disavventure. Cavalcammo tutto il giorno, accampandoci poi nel punto più alto che riuscimmo a raggiungere a cavallo e con gli animali da soma. Il giorno seguente cominciava la parte difficile del viaggio, la scalata vera e propria, da fare a piedi. Ci accampammo, ma io dormii molto male. Kendricks, Lerrys e Rafe avevano mal di testa dovuto al sole e all'aria rarefatta; io ero abituato all'altitudine, ma avvertivo ugualmente una sgradevole pressione alle orecchie. Con molta arroganza Regis negò di provare qualsiasi disagio, ma continuò a gemere e a gridare nel sonno fino a quando Lerrys non gli diede un calcio; allora rimase sdraiato in silenzio, ma senza più dormire, credo. Kyla sembrava risentire meno di tutti, perché era stata per un tempo più lungo di tutti noi ad altitudini maggiori. Ma al mattino seguente profonde occhiaie scure le segnavano gli occhi. Ma nessuno si lamentò mentre ci preparavamo per l'ultima, lunga arrampicata. Con un po' di fortuna, avremmo potuto attraversare il Dammerung prima del calar della notte, o almeno bivaccare molto vicino al passo. Quella notte avevamo rizzato il campo nell'ultimo punto in piano; impastoiammo gli animali in modo che non si allontanassero, gli lasciammo parecchio cibo e ci caricammo con lo stretto indispensabile per la scalata. Prima di attaccare il sentiero ripido e scosceso (poco più di una traccia) guardai Kyla e ordinai: «Il primo pezzo lo faremo in cordata». Uno dei tre fratelli mi gettò un'occhiata sprezzante. «E ti definisci un alpinista, Jason? Ma se anche la mia sorellina sarebbe in grado di fare quel sentiero senza nemmeno bisogno di una spintarella sul sedere!» Sollevai il mento e ricambiai l'occhiataccia. «Le rocce sono pericolose e tra di noi c'è chi non è assolutamente abituato a procedere in cordata. È meglio che ci abituiamo tutti, perché quando cominceranno i passaggi difficili, voglio che tutti sappiano cosa si deve fare.» Continuavano a non essere convinti, ma nessuno protestò fino a quando non piazzai il massiccio Kendricks al centro della seconda cordata. Il terre-
stre guardò torvo la sottile corda di nylon e chiese con un certa apprensione: «Non sarebbe meglio se stessi per ultimo fino a quando non ho imparato quello che devo? Schiacciato in mezzo a voi due potrei fare qualche stupidaggine!» Hjalmar scoppiò in una risata fragorosa e lo informò che la posizione centrale in una cordata a tre era sempre destinata al più debole, ai principianti e ai dilettanti. Mi aspettavo che Kendricks si ribellasse, ma il grosso terrestre e il gigante darkovano si limitarono a squadrarsi a vicenda, poi Kendricks scrollò le spalle, e legò la corda alla cintura. Kyla ammonì lui e Lerrys a non guardare in basso quando attraversavano i passaggi esposti e ci mettemmo in cammino. Il primo tratto fu fin troppo facile, un sentiero largo e segnato che si inerpicava serpeggiando per qualche chilometro; fermandoci a riposare per qualche minuto, ci voltammo e vedemmo tutta la valle distesa sotto di noi. A poco a poco il sentiero si fece più ripido, raggiungendo in alcuni punti una pendenza di quasi cinquanta gradi, cosparso di ghiaia, sassi smossi e lastroni, costringendoci a fare molta attenzione a dove mettevamo i piedi e ad afferrarci agli appigli o appoggiarci contro le rocce. Saggiavo ogni masso con estrema cautela, perché il mio peso contro una roccia smossa avrebbe potuto farla precipitare addosso agli altri. Subito dietro di me, separato da un paio di metri di corda lenta veniva uno dei tre fratelli darkovani (Vardo, credo); l'omone scivolò un paio di volte sulla ghiaia, strattonandomi con forza e mormorò qualcosa a bassa voce; aveva ragione: in realtà, su pendii come quelli, dove cadere non era pericoloso, sarebbe stato meglio avanzare senza corda, così un eventuale scivolone avrebbe dato fastidio solo a chi scivolava. Ma quella prova mi serviva per capire quello che avevo bisogno di sapere, cioè che genere di alpinisti stavo per portare attraverso gli Hellers. Lungo una parete rocciosa il sentiero si restrinse a una cengia di una quarantina di centimetri ricoperta di arbusti e ghiaietta e con uno strapiombo di circa quindici metri; un passaggio normale per un alpinista esperto, per il quale quaranta centimetri erano come un'autostrada a quattro corsie. Kendricks, un po' nervoso, fece una battuta a proposito dell'equilibrista che camminava sul filo, ma quando venne il suo turno, attraversò sicuro senza perdere l'equilibrio. Anche gli altri tre dilettanti, Lerrys, Rafe e Regis attraversarono senza esitare, ma io mi chiesi come se la sarebbero cavata con un precipizio più profondo; per un vero alpinista un sentiero è sempre un sentiero, sia che corra in mezzo a un prato o a venti
centimetri di altezza e a uno strapiombo di centocinquanta metri o addirittura su una parete a tremila metri da terra. Attraversata la cengia, il sentiero peggiorò, diventando ancora più ripido e, a tratti, solo una debole traccia che si inoltrava tra fitti cespugli e boschetti di alberi, le cui radici contorte lo nascondevano in parecchi punti, mentre in altri era stato completamente coperto dalla vegetazione. Fummo costretti ad aprirci la strada tra un intrico di rovi che non sarebbero stati un ostacolo per un arboricolo, ma che invece facevano dolere i nostri corpi abituati al terreno per lo sforzo di scavalcarli o attraversarli; in un punto trovammo il sentiero ostruito da alcuni tronchi, forse trasportati a valle da una valanga o da un alluvione. Aggirarli carponi per circa un centinaio di metri su un nevaio, piegati in avanti per non perdere l'equilibrio, passando uno alla volta, fu lungo e faticoso, ma nessuno osò in quella circostanza lamentarsi di essere legato alla corda. Verso mezzogiorno ebbi per la prima volta la sensazione che non fossimo soli sulla montagna. Dapprima fu solo la fugace impressione di un movimento colto con la coda dell'occhio, l'ombra di un'ombra, ma la quarta volta che lo vidi, chiamai sottovoce Kyla: «Visto niente?» «Stavo cominciando a pensare che fosse l'altitudine, o che ci fosse qualcosa che non andava nei miei occhi. Ho visto, Jason.» «Cerca un posto dove possiamo riposarci», le ordinai. Ci inerpicammo lungo un passaggio leggermente incavato, seguiti dall'altro lato dall'impercettibile movimento nel sottobosco. «Sarò contento quanto usciremo da qui», mormorai alla ragazza. «Almeno saremo in grado di vedere chi ci segue!» «Se si dovesse arrivare al combattimento», disse lei con mia sorpresa, «preferirei farlo sulla ghiaia che sul ghiaccio!». Da dietro una collinetta giungeva un rumore assordante. Kyla vi si arrampicò e restando in equilibrio su una radice incuneata nella roccia, mise le mani a coppa attorno alla bocca e gridò: «Rapide!» Mi arrampicai anch'io in cima al passaggio e guardai nella stretta forra: lì, il sentiero che avevamo seguito era attraversato e cancellato dalle rapide profonde e turbinose di un torrente di montagna. A meno di dieci metri di distanza il corso d'acqua si tramutava in una piena ghiacciata, quasi una cascata che saltava dal bordo di un dirupo sopra di noi e nella sua corsa aveva scavato una gola profonda un metro e mezzo nel fianco della montagna e precipitava verso il basso con un frago-
re che mi faceva rimbombare le orecchie. Era violentissima, e chiunque vi si fosse avventurato avrebbe immediatamente perso l'equilibrio e sarebbe stato trascinato via per chilometri dalla forza della corrente lungo il fianco della montagna. Rafe si arrampicò con cautela sul piccolo argine scavato dal torrente e si chinò per raccogliere l'acqua nel palmo della mano e berla. «Accidenti, è più gelida del nono inferno di Zandru! Deve arrivare dritta dal ghiacciaio!» E infatti era così: ricordavo il sentiero e ricordavo quel punto. Kendricks si unì a me sulla riva del torrente e chiese: «Come facciamo ad attraversarlo?» «Non lo so ancora», risposi, studiando il torrente impetuoso. A circa sei metri sopra le nostre teste enormi alberi con le radici contorte e per metà scoperte dalle piene ricorrenti, protendevano i loro robusti rami sopra le rapide e tra due di quegli alberi dondolava uno dei precari ponti di liane del Piccolo Popolo, sospeso a soli tre metri dall'acqua. Neppure io avevo mai imparato a camminare senza aiuto su quei ponti sospesi, perché le braccia umane non sono più brachiopodi. Un tempo forse avrei potuto farcela, ma in quel momento, se non ci fossi stato costretto, provarci era fuori questione. Forse Rafe o Lerrys, che erano atletici e di corporatura leggera, avrebbero potuto farlo come pezzo di bravura, a terra, su un campo d'erba, ma sopra il fianco di una montagna rocciosa e scoscesa, dove cadere significava venir trascinati per chilometri lungo un torrente impetuoso, ne dubitavo. Quindi il ponte sospeso del Piccolo Popolo era fuori questione... che altre scelte ci restavano? Feci un cenno a Kendricks, che era l'uomo al quale in quel momento sarei stato sicuro di poter affidare la mia vita, e gli dissi: «Parrebbe inguadabile, ma secondo me due uomini con i piedi ben saldi potrebbero attraversarlo. Gli altri potrebbero tenerci assicurati con le corde, in caso venissimo sbalzati via. Se riusciamo ad arrivare alla riva opposta, possiamo tendere una corda da quello spuntone di roccia...». Lo indicai con una mano, e aggiunsi: «Gli altri possono attraversare tenendosi alla fune. I primi due uomini sarebbero i soli a correre dei rischi. Te la senti di tentare?» Lui non mi rispose subito, e io apprezzai la sua prudenza, ma si avvicinò al bordo della forra e guardò le acque impetuose; certo, se fossimo stati spazzati via gli altri avrebbero comunque potuto recuperarci con la corda, ma non se fossimo stati maciullati sulle rocce. E in quel momento, ancora un volta, colsi il movimento furtivo nel sottobosco: se gli Arboricoli avessero scelto di attaccarci in quel punto, mentre eravamo per metà dentro e
per metà fuori dalle rapide, saremmo stati una preda fin troppo facile e vulnerabile. «Dovremmo poter assicurare una fune con un sistema più semplice», disse Hjalmar, e prese una delle corde di riserva dal suo zaino, la arrotolò, fece un cappio ad una delle estremità e poi, mantenendosi in equilibrio precario sul bordo delle rapide, la lanciò verso lo spuntone di roccia che avevo indicato in precedenza a Kendricks. «Se riesco ad agganciarla...» Il lancio fu troppo corto: Hjalmar raccolse la fune e riprovò. Fece altri tre tentativi infruttuosi e alla fine, mentre tutti trattenevamo il fiato, il cappio si infilò nello spuntone. Tirammo delicatamente la fune, finché non fu ben dritta e tesa sulle rapide e il nodo non si strinse fino al limite massimo. Allora Hjalmar sorrise e respirò. «Ecco», disse, e diede un violento strattone alla fune, per saggiarne la resistenza. Lo spuntone roccioso cedette con uno schiocco secco, e precipitò nelle rapide, rischiando di trascinare con sé anche Hjalmar. Il masso rotolò rimbalzando nell'acqua, sollevando alti spruzzi e portandosi via tutta la corda. Restammo immobili, a guardare affascinati e inorriditi per un intero minuto, mentre Hjalmar imprecava in modo irripetibile nel dialetto delle montagne, imitato dai fratelli. «Come diavolo facevo a sapere che quella maledetta roccia si sarebbe spaccata in due?» «Meglio che si sia spaccata adesso che non quando stavamo attraversando», disse Kyla per nulla turbata. «Io ho un'idea migliore.» Parlando slegò la corda che la teneva legata intorno alla vita e ne legò un'altra attraverso la cintura, poi diede l'estremità a Lerrys. «Tienila forte», gli disse; poi si tolse il telo impermeabile e rimase in piedi rabbrividendo con indosso solo un leggero maglione. Poi si sfilò anche gli stivali e me li gettò. «E adesso issami sulle tue spalle, Hjalmar.» Troppo tardi capii cosa intendeva fare e gridai: «No, non cercare di...» ma lei si era già issata sul precario trespolo rappresentato dalle possenti spalle del darkovano e aveva afferrato uno dei cappi di liane che sporgevano dalla parte inferiore del ponte sospeso e rimase appesa per qualche istante, mentre le corde vegetali dondolavano e cedevano sotto il suo peso sia pur leggero. «Hjalmar! Lerrys! Tiratela giù!» «Io sono la più leggera di tutti», gridò Kyla con voce acuta, «e non sono abbastanza robusta per aiutarvi a tenere le corde! E tieni ben stretta quella fune, Lerrys», aggiunse con voce che tremava un poco. «Se la lasci andare,
sarà stato tutto inutile!» Afferrò saldamente il cappio e con la mano libera si sporse per afferrare quello dopo, ormai sospesa sopra le rapide. Stringendo le labbra, feci segno agli altri di allargarsi sulla riva... non che avremmo potuto fare molto se fosse caduta. All'improvviso Hjalmar, vedendo la ragazza raggiungere il terzo cappio, che dondolò in modo orribile sotto il suo peso, gridò: «Kyla! Attenta! L'altro cappio... non toccarlo... è marcio, sfilacciato!» Kyla portò anche la mano destra sul terzo cappio, poi si tese per afferrare il quinto, mancò la presa, si diede un'altra spinta e finalmente si aggrappò, con il fiato corto all'appiglio. Io guardavo, terrorizzato: quella maledetta ragazza avrebbe dovuto dirmi quali erano le sue intenzioni! Kyla guardò in basso e noi scorgemmo l'espressione del suo viso, teso per lo sforzo, che luccicava per la patina di crema da sole e di sudore. La sua minuscola figura dondolava sospesa a tre metri sopra le acque vorticose e se avesse perso l'appiglio, solo un miracolo avrebbe potuto salvarla. Rimase sospesa per un minuto, poi riprese a dondolarsi avanti e indietro e la terza volta si lanciò in avanti per afferrare l'ultimo cappio. La liana le scivolò tra le dita, lei cercò di afferrarla con l'altra mano e sotto il suo peso la fune si abbassò verso l'acqua, scorrendole tra le dita e poi, con uno schiocco, si ruppe a metà. Lanciò un urlo mentre si contorceva freneticamente nell'aria e atterrò per metà fuori e per metà dentro l'acqua... ma sulla riva opposta. Si trascinò fuori dal torrente e rimase accucciata a terra, bagnata fino alla vita, ma in salvo. I darkovani gridavano felici. Io feci cenno a Lerrys di legare ben stretto il capo della corda ad una radice sporgente e poi gridai: «Sei ferita?» A gesti Kyla mi fece capire che il fragore delle rapide copriva le mie parole e poi si chinò per assicurare il suo capo della corda. Sempre a gesti le feci capire di controllare che i nodi fossero ben stretti, perché se qualcuno di noi fosse scivolato, lei non era abbastanza forte da fare da ancora. Tirai io stesso la fune per saggiarne la resistenza e vidi che era ben salda. Allora mi misi i suoi stivali attorno al collo e poi afferrando la corda, insieme a Kendricks entrai in acqua. Era ancora più gelata di quanto mi aspettassi e il primo passo per poco non fu l'ultimo, perché la violenza delle rapide mi fece cadere in ginocchio e sarei finito lungo e disteso se non avessi avuto la corda a cui aggrapparmi. Buck Kendricks mi afferrò, e per farlo dovette abbandonare la presa sulla corda e io imprecai contro di lui, dicendogliene di tutti i colori mentre
mi rimetteva in piedi e insieme lottavamo contro la corrente. Mentre avanzavamo a fatica nelle acque turbinose, fui costretto ad ammettere tra me che non saremmo mai riusciti ad attraversare senza la corda che Kyla aveva rischiato la vita per portare dall'altra parte. Rabbrividendo, arrivammo alla riva opposta e ci mettemmo all'asciutto. Feci cenno agli altri di attraversare due alla volta e in quel momento Kyla mi afferrò il braccio: «Jason...» «Dopo, maledizione!» urlai per farmi udire al di sopra del ruggito delle acque, mentre sporgevo un braccio per aiutare Rafe a salire sull'argine. «Non posso... aspettare!» mi urlò nell'orecchio, con le mani chiuse a megafono intorno alla bocca. «Che cosa?» gridai voltandomi verso di lei. «Ci sono degli... Arboricoli... sulla cima del ponte! Li ho visti! Sono stati loro a tagliare quel cappio!» Regis e Hjalmar arrivarono per ultimi; a un passo dalla sponda Regis, che era leggero e di corporatura snella, perse l'equilibrio e cadde in acqua. Hjalmar si voltò per afferrarlo, ma io gli urlai di non farlo, perché erano ancora assicurati l'uno all'altro con le corde e se queste si fossero attorcigliate, qualcuno avrebbe potuto annegare. Entrai in acqua con Lerrys e insieme tirammo fuori Regis, che tossicchiò e sputò, bagnato fino al midollo. Dissi a Lerrys di lasciare quella corda fissa (anche se avevo poche speranze che l'avremmo ritrovata al nostro ritorno) e poi mi guardai rapidamente intorno, incerto sul da farsi. Rafe e Regis e io eravamo bagnati fradici, mentre gli altri erano bagnati dalle ginocchia in giù e a quell'altitudine era pericoloso, anche se non eravamo ancora tanto in alto da temere il congelamento. Arboricoli o non Arboricoli, dovevamo comunque correre il rischio di trovare un posto dove accendere un fuoco per asciugarci. «Lassù, c'è una radura», dissi, e incominciai a salire. Adesso la scalata era difficile, tanto che in alcuni punti fummo costretti ad avanzare afferrandoci a degli appigli e appiattendoci contro una parete che appariva liscia come una tavola. Mentre salivamo, prese a soffiare il vento, che fischiava attraverso gli alberi e spazzava le rocce, insinuando le sue dita gelide sotto i nostri abiti fradici. Kendricks era in difficoltà e dovetti aiutarlo, ma il freddo rendeva difficili le cose anche a me. Arrivammo alla radura, un piccolo spiazzo spoglio su di una bassa cresta, e ordinai ai due fratelli darkovani, che tra noi erano i più asciutti, di raccogliere arbusti secchi e di accendere il fuoco. Mancava ancora un po' al tramonto e non sarebbe stato il momento di preparare il campo, ma prima che i nostri vestiti fossero stati abbastanza asciutti sarebbe stato quasi l'imbrunire, così
diedi ordine di montare ugualmente la tenda. Poi mi rivolsi a Kyla, infuriato: «Sentimi bene: un'altra volta non fare più una cosa così azzardata a meno che non te lo ordini io!» «Non prendetevela troppo con lei», intervenne Regis, «non saremmo mai riusciti a passare senza quella corda fissa. Ottimo lavoro, ragazza.» «Voi non immischiatevi!» scattai. Aveva ragione lui, ma mi sentii ribollire di rabbia vedendo il volto sereno di Kyla illuminarsi di piacere a quella lode. Il fatto era (fui costretto ad ammettere con me stesso) che con la sua corporatura leggera la ragazza avrebbe corso meno rischi sul ponte sospeso che in mezzo a quelle acque turbinanti. Questo però non contribuì a mettermi di buon umore, e l'interferenza di Regis Hastur e il sorriso soddisfatto della ragazza non facevano che rinfocolare il mio risentimento. Ero indeciso se chiederle cos'altro avesse visto sul ponte, ma poi rinunciai; ci avevano risparmiato un attacco sulle rapide, quindi non era escluso che un gruppo non ostile di arboricoli stesse semplicemente sorvegliando la nostra avanzata o, addirittura, che sapessero addirittura che la nostra era una missione pacifica. Ma non ci credetti neppure per un istante: se c'era una cosa che sapevo degli Arboricoli, era che non li si poteva giudicare secondo parametri umani. Cercai di mettermi nei panni di uno di loro, per indovinare cosa avrebbero fatto, ma il mio cervello non riusciva più a ritrovare la loro mentalità. I fratelli darkovani avevano acceso un fuoco senza minimamente curarsi di essere osservati e secondo me il morale e il benessere del mio piccolo gruppo era più importante della cautela, in quel momento; e i fatti parvero darmi ragione. Radunati attorno al fuoco, mentre i nostri abiti si asciugavano e con una bella tazza di infuso bollente tra le mani, l'ottimismo parve ritornare. Mentre Hjalmar le curava la mano che si era escoriata quando la liana le era scivolata tra le dita, Kyla scherzava con gli uomini a proposito della sua esibizione acrobatica. Ci eravamo accampati sulla sommità di una catena parallela agli Hellers e la catena principale si stendeva davanti ai nostri occhi, trasformata in un arcobaleno di colori dal sole al tramonto: verdi, turchesi e rosa... quelle montagne erano ancora più belle di quanto le ricordassi. La cima che avevamo appena scalato aveva nascosto alla nostra vista il vero massiccio e vidi Kendricks spalancare gli occhi quando si rese conto che avevamo ap-
pena superato il primo passo e che la parte più difficile doveva ancora venire. La vera catena montuosa si innalzava davanti a noi, ricoperta di fitte foreste sui pendii più bassi e costellata di rocce e granito nelle parti alte, come il paesaggio di una luna deserta e priva di aria. E, sopra le rocce, le cime delle montagne ricoperte di neve bianca e accecante. Da uno dei picchi scendeva un ghiacciaio, una sorta di cascata congelata, come se si fosse fermata all'improvviso. Ad alta voce, pronunciai il nome usato dal Piccolo Popolo per quelle montagne e lo tradussi per gli altri: «Il Muro Attorno al Mondo». «È un nome adatto», disse Lerrys, che si era avvicinato con la tazza in mano a guardare le montagne. «Jason, quel picco alto non è mai stato scalato, vero?» «Non me lo ricordo», risposi battendo i denti, e tornai verso il fuoco. Regis osservò il lontano ghiacciaio e mormorò: «Non sembra così inespugnabile; potrebbe esserci un passaggio lungo il versante occidentale... Hjalmar, non eri con quella spedizione che ha scalato e fotografato l'Alto Kimbi?» Il gigante annuì, con un sorriso orgoglioso. «Siamo arrivati a poche decine di metri dalla cima, poi è scoppiata una tormenta e siamo stati costretti a tornare indietro. Un giorno affronteremo il Muro Attorno al Mondo... è già stato tentato, ma nessuno ha mai scalato il picco.» «E nessuno ci riuscirà mai», affermò Lerrys deciso. «Ci sono sessanta metri di parete rocciosa liscia e a strapiombo... Principe Regis, ci vorrebbero le ali per arrivarci. E poi c'è quella parete dove cadono le valanghe, quella chiamata la Strada dell'Inferno...» «Non me ne importa niente se non è mai stato scalato o se non lo sarà mai», interruppe Kendricks irritato, «di sicuro non lo scaleremo noi!» Mi guardò e aggiunse: «Almeno lo spero!» «No, non lo scaleremo», risposi, lieto dell'interruzione. Se i più giovani e i principianti volevano dilettarsi progettando ipotetici attacchi alle catene inespugnabili, meglio per loro, ma dal mio punto di vista era semplicemente una perdita di tempo. Mostrai a Kendricks un punto nella catena, di parecchio più basso delle cime e ben riparato da valanghe su entrambi i lati. «Quello è il Dammerung, è di lì che passeremo. Non ci avvicineremo alle punte più alte; il passo raggiunge un'altitudine di meno di seimila metri, anche se ci sono alcune cenge e passaggi pericolosi. Se ci riusciremo ci terremo alla larga dalle principali vie aeree e da tutti i villaggi del Piccolo Popolo segnati sulle carte, però potremmo imbatterci in bande giro-
vaghe...» Di colpo presi una decisione e feci cenno a tutti di avvicinarsi. «Da questo momento in avanti», dissi mettendoli al corrente della situazione, «potremmo venire attaccati. Kyla, racconta quello che hai visto.» Lei posò la tazza e il suo viso assunse un'espressione seria mentre raccontava quello che era accaduto sul ponte. «Siamo in missione pacifica, ma questo loro non lo sanno ancora. Quello che dovete tenere bene a mente, è che non vogliono uccidere, ma solo derubarci e al massimo ferirci. Se ci mostreremo determinati», concluse tirando fuori il coltello, che si infilò con gesto deciso nella cintura, «se ne andranno di nuovo.» Lerrys mostrò una corta spada che fino a quel momento avevo ritenuto un puro oggetto ornamentale, e disse: «Ti spiace se aggiungo qualche altra cosa, Jason? È quanto ricordo dalla campagna di 'Narr: gli Arboricoli combattono corpo a corpo e combattono sporco, secondo quelle che sono le nostre idee». Si guardò intorno con espressione fiera e un sorriso gli illuminò il viso non rasato. «Un'ultima cosa: preferirei avere spazio di manovra. Dobbiamo per forza stare in cordata quando ci rimetteremo in cammino?» Io riflettei. Il suo entusiasmo alla prospettiva di un combattimento mi dava fastidio e al tempo stesso, inspiegabilmente, mi rassicurava. «Non costringerò nessuno a stare legato, se si sente più sicuro senza corda», risposi. «Ma lo decideremo quando verrà il momento. Il mio potere è che gli Arboricoli sono abituati a correre sui sentieri stretti e noi no: la loro prima tattica sarà probabilmente quella di cercare di buttarci di sotto, ad uno ad uno. Se saremo in cordata, potremo respingerli meglio.» Conclusi l'argomento aggiungendo: «In questo momento la cosa importante è di asciugarci». Kendricks rimase al mio fianco dopo che gli altri tornarono a radunarsi accanto al fuoco, e fissò la fissa foresta che si stendeva sotto il nostro campo. «Sembra che questo posto sia stato già usato come accampamento», disse. «Non siamo vulnerabili agli attacchi qui come lo saremmo in qualunque altro posto?» Aveva centrato proprio l'unica cosa di cui non volevo parlare: quella radura era fin troppo esposta. «Qui almeno non ci sono troppi cornicioni da cui farci cadere!» «E tu hai l'unico fulminatore che ci abbiano lasciato!» mormorò lui. «L'ho lasciato a Carthon», gli rivelai. Poi decisi di dirgli come stavano le cose. «Ascolta, Buck: se uccidiamo anche un solo Arboricolo, a meno che non
sia in duello ad armi pari e per difesa, potremo dire addio alla spedizione e tornare a casa. La nostra è una missione pacifica e siamo qui per chiedere un favore. Anche se siamo attaccati, uccideremo solo se saremo costretti a farlo... e in combattimento!» «Maledetto pianeta primitivo...» «Preferiresti forse morire della febbre degli Arboricoli?» «Tanto qui finiremo per prenderla comunque!» ribatté furente. «Tu sei immune, a te non importa, sei al sicuro! Ma tutti noi siamo in missione suicida... e, maledizione, se muoio voglio portarmi con me qualcuna di quelle maledette scimmie!» Io chinai il capo, mordendomi le labbra e non dissi nulla; non potevo prendermela con Buck se la pensava così. Dopo qualche istante, indicai di nuovo il passo. «Non è molto lontano; una volta superato il Dammerung, il cammino verso la città degli Arboricoli è facile. Al di là è tutto civilizzato.» «Forse tu la chiamerai civiltà» ribatté Kendricks e mi voltò le spalle. «Vieni, finiamo di asciugarci i piedi.» E in quel momento ci attaccarono. CAPITOLO 5 LA CITTA ARBOREA Il grido di Kendricks fu l'unico avvertimento che sentii prima di accorgermi che qualcosa cercava di arrampicarsi sulla mia schiena. Girai su me stesso e strappai via la creatura; in quel momento vidi che tutta la radura era piena di esseri pelosi e bianchi che correvano da tutte le parti. Misi le mani intorno alla bocca e urlai nell'unico dialetto del Piccolo Popolo che conoscevo: «Fermatevi! Veniamo in pace!» Uno dei nostri assalitori gridò qualcosa di incomprensibile e si lanciò su di me... erano di un'altra tribù! Scorsi un viso ricoperto di peluria bianca e senza mento, alterato dall'ira, un piccolo coltello... era una femmina! Estrassi il mio pugnale e cercai di parare il colpo che la creatura mi vibrò con estrema violenza. Avvertii un dolore lancinante sulle nocche della mano, le dita mollarono la presa e il coltello cadde a terra; la femmina lo afferrò e fuggì con il bottino, arrampicandosi con sorprendente agilità sulle cime degli alberi. Tenendomi stretta la mano ferita, mi guardai intorno e vidi Regis Hastur che lottava al limitare del declivio con due di quelle creature. Un pensiero
agghiacciante mi attraversò la mente: se lo avessero ucciso, tutto Darkover si sarebbe sollevato e avrebbe sterminato gli Arboricoli, e sarebbe stata tutta colpa mia. Poi Regis riuscì a liberare una mano e fece un curioso gesto con le dita. Fu come una grossa vampata verde lunga un metro, o forse era una palla di fuoco. Esplose sul volto bianco di una delle creature, che lanciò un urlo di terrore e di angoscia, si sfregò gli occhi e, gemendo di dolore, cercò velocemente scampo sugli alberi. Gli Arboricoli emisero all'unisono un lungo gemito, si riunirono e fuggirono nell'ombra. Rafe gridò qualcosa di osceno, poi un'altra vampata azzurra inseguì il branco in ritirata. Uno degli umanoidi cadde senza emettere un suono, precipitando oltre la scarpata, privo di sensi. Corsi verso Rafe e lottai con lui per strappargli lo storditore che il terrestre aveva estratto da sotto la camicia, dove lo aveva nascosto. «Maledetto stupido!» lo aggredii, «potresti aver rovinato tutto!» «Se non lo avessi fatto lo avrebbero ucciso», ribatté lui furente; evidentemente non si era accorto di come Regis si fosse difeso con assoluta efficienza. Rafe fece un cenno verso il branco in ritirata e sbottò con astio: «Perché non vai con i tuoi amici?» Con una mossa che credevo di aver dimenticato, strinsi la mano attorno alle nocche di Rafe e premetti con forza: le dita gli si intorpidirono e io afferrai lo storditore e lo buttai nel burrone. «Una sola parola e fai anche tu la stessa fine», lo ammonii. «Chi è ferito?» Garin sbatteva gli occhi con aria inebetita, ancora stordito da un colpo alla testa; Regis aveva una ferita sulla fronte da cui usciva sangue e Hjalmar aveva un taglio in una coscia. Le mie nocche erano tagliate fino all'osso e la mano stava perdendo sensibilità. Passò qualche minuto prima che ci accorgessimo di Kyla, piegata in due e ammutolita per il dolore. Quando la toccammo cadde all'indietro, diventando pallida come un cencio. La sdraiammo a terra nel punto in cui era caduta, le togliemmo la camicia e Kendricks si avvicinò per esaminare la ferita. «Un taglio netto», disse, ma io non lo udii. Dentro di me era scattato qualcosa, come una mano che mi stringesse il cervello, e... Ansimando in preda ad un'improvvisa vertigine, il dottor Jay Allison si guardò intorno: non era nell'ufficio del dottor Forth, ma in piedi, in equilibrio precario sul bordo di una roccia. Chiuse gli occhi per un istante, chie-
dendosi se per caso quello non fosse uno dei suoi incubi peggiori e quando li riaprì, si trovò di fronte un viso familiare. Buck Kendricks era bianco come un cencio, con la bocca spalancata. «Jay! Dottor Allison... per l'amor di Dio...» L'addestramento medico crea reazioni che sono quasi riflessi condizionati; Jay Allison recuperò in parte il senso della realtà rendendosi conto che davanti a lui era sdraiato qualcuno, mezzo nudo e che sanguinava abbondantemente. Fece cenno a tutti quegli sconosciuti di allontanarsi e disse nel suo pessimo darkovano: «Fatevi da parte, questo è il mio lavoro». Non conosceva abbastanza bene la lingua per usare parole più forti, così si rivolse a Kendricks in terrestre: «Buck, fa allontanare questa gente, lasciate respirare il paziente. Dov'è la mia valigetta con gli strumenti chirurgici?» Si chinò ad esaminare la ferita e solo in quel momento si rese conto che il suo paziente era una donna, e anche giovane. La ferita era solo una lacerazione superficiale e qualunque fosse stato lo strumento affilato che l'aveva inflitta era stato deviato da una costola senza penetrare nel tessuto polmonare. Aveva bisogno di una sutura, ma quella che Kendricks gli aveva porto era solo una cassetta di pronto soccorso e per giunta poco fornita, così il dottor Allison disinfettò la ferita e la coprì con una striscia di plastica graffata che avrebbe dovuto fermare ulteriori emorragie. Aveva appena finito la medicazione che la ragazza si mosse e disse con voce esitante: «Jason...» «Dottor Allison», la corresse lui secco, un poco sorpreso (solo un poco, perché la sorpresa precedente non lasciava posto per quelle di poco conto) che lei sapesse il suo nome. Kendricks parlò in fretta alla ragazza in uno dei dialetti darkovani che Allison non conosceva e poi prese in disparte Jay, dove nessuno poteva sentirli e disse con voce scossa: «Jay, non sapevo... non lo avrei mai creduto... lei è il dottor Allison? Buon Dio... Jason!» Poi si avvicinò in fretta. «Cosa succede? Oh, Cristo, Jay, non mi svenga proprio adesso!» Jay si rendeva conto che non aveva fatto proprio una bella figura, ma chiunque avesse avuto qualcosa da obiettare, pensò risentito, poteva fare una prova di persona: addormentarsi in un comodo ufficio, al chiuso, e risvegliarsi su uno spuntone di roccia in mezzo al nulla. Gli faceva male una mano, vide che sanguinava e piegò le dita per accertarsi che nessun tendine fosse stato leso. «Come è successo?» chiese ad alta voce.
«Abbassi la voce, signore... o parli darkovano!» Jay sbatté di nuovo le palpebre, ma Kendricks continuava ad essere l'unica cosa familiare in quell'universo che gli faceva girare la testa. L'uomo delle Forze Spaziali bisbigliò con voce, roca: «Giuro davanti a Dio, Jay, non ne avevo la più pallida idea... e ci conosciamo da quanto? Otto, nove anni?» «Quell'idiota di Forth!» esplose Allison, l'unico epiteto che la sua mente riservata conoscesse. Qualcuno gridò: «Jason!» in tono imperioso e Kendricks disse con voce scossa: «Jay, se la vedono... lei non è più lo stesso uomo, letteralmente!» «Ovviamente no.» Guardò la tenda, con un palo ancora da fissare. «C'è qualcuno là dentro?» «Non ancora.» Kendricks quasi lo spinse all'interno. «Gli dirò io qualcosa.» Prese un radiante dalla tasca, lo mise a terra e in quella luce tremolante fissò Jay, imprecando poi in modo colorito. «Starà... se la sente di restare qua dentro?» Jay si limitò ad annuire perché non aveva più la forza di parlare; stava cercando con tutto se stesso di mantenere i nervi saldi, perché se non ci fosse riuscito, si sarebbe messo ad urlare come un pazzo. Passò un po' di tempo, poi udì un rumore all'esterno, un discreto colpetto di tosse, e un uomo entrò nella tenda. Era senza dubbio un aristocratico darkovano, e il suo aspetto era vagamente familiare, anche se Jay non aveva alcun ricordo cosciente di averlo visto in precedenza. Alto e slanciato, possedeva quella bellezza maschile perfetta e squisita che si trovava a volte tra i darkovani. Si rivolse a Jay con familiarità, ma anche con sorprendente cortesia: «Ho detto loro che non dovevano disturbarvi per qualche momento, che la ferita alla mano è peggiore di quanto credessimo. Le mani di un medico sono uno strumento delicato, dottor Allison, e spero proprio che la vostra non sia ferita gravemente. Mi permettete di dare un'occhiata?» Con un gesto automatico, Jay Allison ritrasse la mano, poi, conscio di quanto fosse maleducato quel comportamento, lasciò che lo sconosciuto la prendesse ed esaminasse le dita. «Non mi sembra una ferita preoccupate. Ero sicuro che ci fosse qualcosa d'altro», disse il darkovano, fissandolo con occhi seri. «Non ricordate neppure il mio nome, vero, dottor Allison?» «Voi sapete chi sono?» «Il dottor Forth non me l'ha detto, ma noi Hastur siamo telepatici, Jason... vi chiedo scusa, dottor Allison. Fin dal principio sapevo che eravate posseduto da un dio o da un demone.»
«Superstizioni senza senso», sbottò Allison, «tipico di un darkovano!» «È solo un modo conveniente di spiegare le cose, nient'altro», ribatté il giovane Hastur passando sopra alla scortesia del tono. «Immagino che potrei imparare la vostra terminologia, se pensassi che ne vale la pena. Ho avuto l'addestramento psi e sono in grado di riconoscere quando metà dell'anima di un uomo è stata spodestata dall'altra metà. Forse potrei restituirvi la vostra personalità...» «Se credete che permetterei a qualche svitato darkovano di pasticciare con la mia mente...» cominciò Jay scaldandosi e poi si interruppe. Sotto lo sguardo grave di Regis, una strana umiltà lo pervase: quel gruppo di uomini avevano bisogno del loro capo ed era ovvio che lui, Jay Allison, non era il capo di cui avevano bisogno. Si coprì gli occhi con una mano. Regis si chinò e gli mise una mano sulla spalla, in un gesto di compassione, ma Jay la scrollò via e quando riuscì di nuovo a parlare, il suo tono fu amaro, freddo e sulla difensiva. «Va bene. La cosa importante è questo lavoro: io non sono in grado di farlo, Jason sì. Voi siete un parapsichico: se siete in grado di riportarmi a quello che ero prima... avanti, fate pure!» Fissai Regis, passandomi una mano sulla fronte. «Cosa è successo?» domandai e poi aggiunsi con apprensione improvvisa: «Dov'è Kyla? Era ferita...» «Kyla sta bene», rispose Regis, ma io balzai in piedi per accertarmene. Kyla era a terra, avvolta nelle copertele stava bevendo qualcosa di caldo appoggiandosi a un gomito? Nell'aria c'era un buon odore di cibo. Fissai Regis e gli chiesi: «Non sarò mica svenuto per un graffietto come questo?» osservando con indifferenza la mia mano. «Aspettate...» Regis mi trattenne. «Non uscite ancora. Ricordate cosa è successo, dottor Allison?» Lo fissai sentendomi pervadere dall'orrore, le mie peggiori paure si erano avverate. «Voi... siete cambiato», proseguì Regis a bassa voce. «Probabilmente lo spavento di aver visto...» Si interruppe a metà della frase, e io proseguii: «L'ultima cosa che ricordo è di aver visto Kyla che sanguinava quando le abbiamo tolto la camicia. Ma, buon Dio, un po' di sangue non avrebbe certo potuto spaventare me, e Jay Allison è un chirurgo... è possibile che la vista di una ferita lo abbia fatto emergere con tanta violenza?» «Non potrei dirlo.» Ma sembrava che Regis ne sapesse di più di quanto volesse dire. «Non credo che il dottor Allison... non vi assomiglia per nien-
te... fosse molto preoccupato per Kyla. Voi lo siete?» «Maledizione, certo che lo sono. Voglio accertarmi che stia bene...» mi interruppi di colpo. «Regis... hanno visto tutti quello che è successo?» «Solo io e Kendricks, e non diremo una parola», mi rassicurò. «Grazie», dissi, e sentii la sua mano posarsi sulla mia spalla in un gesto di conforto. Maledizione, semidio o principe, Regis mi piaceva. Uscii e presi del cibo dalla pentola e mi sedetti accanto a Kyla e Kendricks per mangiare. Mi sentivo debole e scosso; era la reazione e in più mi rendevo conto che non potevamo restare in quel posto, era troppo vulnerabile agli attacchi. E nelle condizioni in cui ci trovavamo, lo eravamo anche noi. Se fossimo riusciti a proseguire di buon passo tanto da arrivare vicini al Dammerung per quella sera, il giorno dopo avremmo potuto attraversarlo senza problemi, prima che il sole scaldasse la neve e ci trovassimo a dovere fare i conti con le slavine e la fanghiglia mista a neve. Al di là del Dammerung conoscevo le tribù ed ero in grado di parlare la loro lingua. Lo dissi agli altri e Kendricks gettò un'occhiata dubbiosa a Kyla. «Sarà in grado di proseguire?» «Può forse restare qui?» ribattei. Mi accostai a lei e le domandai: «Come va la tua ferita? Credi di farcela a muoverti?» «Ma certo che posso continuare! Non sono una ragazzetta, ti dico, sono una libera amazzone!» esclamò in tono deciso, scostando le coperte che qualcuno le aveva avvolto intorno alle gambe. Si alzò stringendo le labbra, ma si avviò a passi lunghi e sicuri verso il fuoco chiedendo dell'altra zuppa. Pochi minuti dopo togliemmo il campo. La banda di Arboricole ci aveva derubato di tutto quello che era stata in grado di portare via e non aveva nessun senso smontare e portarsi dietro la tenda: sarebbero ritornate a prendersela. E poi, se al ritorno avessimo avuto una scorta di Arboricoli, non ne avremmo avuto alcun bisogno. Ordinai di lasciare tutto, tranne le cose leggere e esaminai tutti gli zaini: razioni per la notte che avremmo trascorso sul passo, le poche coperte che ci erano rimaste, corde, occhiali da sole. Il resto non ci serviva e li convinsi a lasciare tutto lì. Il cammino peggiorò; in primo luogo il sole stava calando e il vento della sera era gelato. Poi quasi tutti erano stati feriti, in un modo o nell'altro, e questo ci ostacolava nella scalata. Kyla era pallida e si muoveva con gesti rigidi, ma non si risparmiava; Kendricks soffriva terribilmente per l'altitudine e cercai di aiutarlo in tutti i modi, ma con il taglio che mi stava irrigidendo la mano nemmeno io me la cavavo troppo bene.
Ci trovammo di fronte ad un passaggio costituito da una roccia liscia, che ci costrinse ad appiattirci come insetti contro la parete, e a usare ogni fessura come appigli per le mani e i piedi. Era per me un punto di orgoglio fare il capo cordata e non mi risparmiai, ma quando terminammo la scalata della parete e ci arrampicammo sulla sporgenza da cui ripartiva il sentiero, decisi di cedere e mandai avanti il veterano Lerrys, che era molto più in gamba di tanti scalatori professionisti. «Credevo che avessi detto che questo era un sentiero!» borbottò. Stirai la bocca in quello che volevo fosse un sorriso, ma non mi venne troppo bene. «Per un Arboricolo questa è una passeggiata. E nessun altro si avventura mai da queste parti.» Avanzavamo lentamente sulla neve; un paio di volte fummo costretti ad attraversare piccoli nevai e a un certo punto una breve, violenta tempesta ci costrinse a fermarci per venti minuti, raggruppandoci gli uni contro gli altri su una piccola sporgenza, afferrati alle rocce per resistere alle folate di vento gelido misto a neve. Quella notte bivaccammo in un crepaccio molto al di sopra della linea degli alberi, dove il vento aveva quasi del tutto spazzato via laneve e dove solo i cespugli più caparbi e resistenti restavano aggrappati alla roccia. Ne strappammo alcuni e li usammo per farne un riparo contro il vento. Ci sdraiammo gli uni vicino agli altri è tutti - ne sono certo - pensavamo con amaro rimpianto alla nostra confortevole tenda e all'attrezzatura che avevamo lasciato al campo. Quella notte mi rimase impressa nella memoria come una delle più miserevoli della mia vita. L'altitudine non mi dava fastidio, sentivo solo un leggero ronzio alle orecchie, ma gli altri non se la cavavano con così poco. Gli uomini avevano un violento mal di testa, Kyla soffriva sicuramente molto per la ferita al fianco e Kendricks aveva continui attacchi di mal di altitudine, nella forma peggiore, con vomito e crampi. Ero molto preoccupato per tutti loro, ma non c'era nulla che potessi fare: l'unica cura per il mal di montagna era l'ossigeno o un'altitudine inferiore, e nessuna delle due cose era a portata di mano. Ci sdraiammo sotto quel rudimentale riparo di arbusti, condividendo le coperte e il calore dei nostri corpi. Diedi un'ultima occhiata intorno prima di strisciare accanto a Kendricks e vidi che la ragazza si era sistemata un po' lontana dagli altri. Fui sul punto di dire qualcosa, ma Kendricks mi precedette. «È meglio che tu venga qui vicino a noi, ragazza. Non devi preoccuparti
di scherzi poco gradevoli», disse in tono freddo ma non sgarbato. Kyla mi rivolse un fuggevole sorriso e io mi resi conto che stava rendendomi partecipe di una grave infrazione da parte del grosso montanaro a quella che i darkovani consideravano l'etichetta dei rifugi di montagna. Ma rispose ugualmente con voce fredda e secca: «Non sono affatto preoccupata». Infatti slacciò la giacca pesante e si infilò sotto le coperte tra noi due. Lo spazio era decisamente esiguo e freddo, nonostante le termocoperte. Stavamo stretti gli uni contro gli altri, e Kyla appoggiò la testa sulla mia spalla. La sentii stringersi ancor di più a me, mezza addormentata, alla ricerca di un po' di calore, e mi resi conto che ero ben cosciente della sua vicinanza e che le ero grato. Un'altra donna avrebbe protestato, se non altro per formalità, trovandosi costretta a dividere le coperte con due estranei e capii che se Kyla avesse rifiutato di sdraiarsi accanto a noi, avrebbe attirato molta più attenzione sul suo sesso che non comportandosi come aveva invece fatto fino ad allora comportandosi come un uomo. La sentii tremare e le sussurrai: «Ti fa male la ferita? Hai freddo?» «Un po'. Anche per me è passato molto tempo dall'ultima volta che sono stata a queste altitudini. Ma la verità è... che non riesco a togliermi dalla mente quelle femmine.» Kendricks tossì e si mosse. «Non capisco: quelle creature che ci hanno attaccato, erano tutte femmine?» «Tra il Popolo del Cielo», gli spiegai, «come dappertutto, nascono più femmine che maschi. Ma l'esistenza degli Arboricoli ha un equilibrio così preciso che non c'è posto per le donne in sovrannumero nel Nido... nelle città. Così, quando una ragazza del Piccolo Popolo diventa adulta, le altre donne la cacciano dalla città a calci e pugni e lei è costretta a vagare nella foresta fino a quando qualche maschio non la va a cercare e la riporta indietro come la sua donna. Allora non può più essere scacciata... ma se non può avere figli, possono costringerla a fare da serva alle altre mogli del suo maschio.» Kendricks emise un grugnito di disgusto. «Tu pensi che sia crudele», disse Kyla infervorandosi, «ma nella foresta possono vivere e sono in grado di trovare cibo, non muoiono né fanno la fame. Molte di loro preferiscono la vita della foresta alla vita nei Nidi e rifiutano e lottano contro i maschi che le avvicinano. Noi che ci definiamo umani, spesso trattiamo molto peggio le donne che non servono.» Tacque e sospirò, come se soffrisse per la ferita. Kendricks non replicò e si limitò ad emettere un altro grugnito indefinito. Io dovetti fare un enorme
sforzo su me stesso per non toccare Kyla, costringendomi a ricordare chi era e alla fine dissi: «È meglio che la smettiamo di parlare; gli altri vogliono dormire, anche se noi non ci riusciamo». Dopo un po' sentii Kendricks russare e avvertii il respiro lento e regolare di Kyla. Assonnato, mi chiesi che effetto avrebbe avuto su Jay quella situazione: lui che odiava i darkovani ed evitava qualunque contatto con agli altri esseri umani, ritrovarsi schiacciato tra una libera amazzone darkovana e una mezza dozzina di sconosciuti. Ma scacciai subito quel pensiero, nel timore che potesse in qualche modo risvegliare la sua personalità nel mio cervello. Ma dovevo pensare a qualcosa, a qualsiasi cosa, per allontanare da me la consapevolezza fin troppo acuta della testa della donna sulla mia spalla, del suo lento respiro che mi scaldava il collo. Solo con un terribile sforzo di autocontrollo mi trattenni dal posare la mano sul suo seno caldo e morbido sotto il leggero maglione. Mi chiesi come mai Forth mi avesse definito indisciplinato: non potevo rischiare la mia posizione di capo della spedizione facendo degli approcci indesiderati alla nostra guida, donna, amazzone o qualsiasi altra cosa fosse. Chissà perché la ragazza era diventata il perno di tutti i miei pensieri. Non faceva parte del QG terrestre, non faceva parte di nessun mondo che Jay Allison poteva aver conosciuto: lei apparteneva interamente a Jason, al mio mondo. Nel dormiveglia mi smarrii in un sogno in cui correvo come se volassi lungo le strade arboree, inseguendo la forma distante di una ragazza cacciata quel giorno dal Nido tra calci e invettive. L'avrei trovata da qualche parte in mezzo alle foglie, e insieme saremmo ritornati alla città, lei con il capo inghirlandato dai fiori rossi della prescelta e le stesse donne che l'avevano cacciata le si sarebbero affollate attorno per darle il bentornato. La donna in fuga si guardò alle spalle con gli occhi di Kyla, poi la sua forma mutò e in mezzo a noi, nella strada sugli alberi, era in piedi il dottor Forth, con l'emblema del caduceo sul camice spianato come un bastone rosso. Kendricks, con l'uniforme del Servizio Spaziale ci minacciava con un fulminatore e di colpo anche Regis Hastur indossava un'uniforme del Servizio Spaziale e diceva: «Jay Allison, Jay Allison», mentre la strada arborea si incrinava e cedeva sotto di noi e tutti precipitavamo lungo la cascata, sempre più giù, sempre più giù... «Svegliati!» sussurrò Kyla, dandomi una gomitata nel fianco. Aprii gli occhi nell'oscurità affollata, cercando di afferrare gli ultimi rimasugli del sogno che svaniva. «Cosa succede?»
«Stavi gemendo. Forse un attacco di mal di montagna?» Accorgendomi di averle passato un braccio intorno alle spalle, borbottai e mi scostai in fretta. Dopo un po' ripresi sonno e dormii un sonno inquieto. Prima dell'alba uscimmo stancamente dal nostro precario bivacco, intirizziti, per niente riposati e indolenziti, ma pronti a metterci in marcia. La neve era dura, la luce fioca, ma in quel punto il sentiero non era difficile. Dopo tutti i guai sui pendii più bassi, credo che anche i principianti avessero perso il desiderio per le scalate avventurose e sono sicuro che tutti eravamo più che felici che l'attraversamento del Dammerung si svolgesse senza incidenti e senza clamori. Quando raggiungemmo il passo stava sorgendo il sole e ci fermammo per qualche istante, stretti gli uni agli altri in quella piccola strettoia tra le vette incombenti. Hjalmar guardò pensoso i picchi innevati. «Come vorrei poterli scalare.» Regis gli rivolse un sorriso amichevole. «Un giorno, e ti do la mia parola di Hastur, farai parte di quella spedizione.» Gli occhi del gigante brillarono di gioia. Rivolgendosi a me, Regis disse con calore: «Che ne dite, Jason? Facciamo un patto? Lo scaleremo insieme il prossimo anno?» Stavo per ricambiare quel sorriso amichevole, quando un demone cupo e amaro si risvegliò dentro di me. Quando quella missione fosse finita, mi resi conto all'improvviso, io non sarei più esistito, non sarei più esistito da nessuna parte; io ero un surrogato, un frammento di Jay Allison, e a missione ultimata il dottor Forth e le sue tecniche ipnotiche mi avrebbero riportato in quello che veniva considerato il mio posto... vale a dire nel limbo. Dopo questa avventura in corsa contro il tempo e contro la necessità, non avrei mai più scalato montagne. Serrai le labbra e la mia bocca divenne una sottile fessura piena di ostilità a cui non ero abituato: «Ne riparleremo al nostro ritorno... se ritorneremo. Adesso è meglio rimetterci in marcia. Tra noi c'è chi ha bisogno di scendere ad altitudini inferiori», risposi. A differenza del sentiero lungo la parte esterna della catena montuosa, quello che scendeva dal passo Dammerung era ben segnato e visibile e si snodava giù per il pendio, permettendoci di camminare agevolmente in fila indiana. Quando ci lasciammo alle spalle la neve e la bruma si alzò, vedemmo sotto di noi quello che pareva un enorme tappeto verde con lampi
di colori luminosi. Indicai i colori ai miei compagni. «Le cime degli alberi della Foresta Settentrionale... e i colori che vedete... sono nelle strade della Città Arborea.» Un'ora di cammino ci portò fino al limitare della foresta. Tenevamo un passo sostenuto, dimenticando la stanchezza, ansiosi di raggiungere la città prima del cadere della notte. La foresta era silenziosa, fin troppo, quasi minacciosa nel suo silenzio. Da qualche parte sopra le nostre teste, sui fitti rami che a tratti escludevano del tutto la luce del sole, correvano le strade della città, intersecandosi tra loro; e infatti di tanto in tanto udivo dei fruscii, il frammento di un suono, una voce, l'eco di un canto. «È molto buio, qua sotto», commentò Rafe. «Chiunque fosse costretto a vivere qui dovrebbe vivere sulla cima degli alberi, altrimenti diventerebbe completamente cieco!» Kendricks mi sussurrò: «Siamo seguiti? Ci attaccheranno?» «Non credo. I suoni che senti sono solo gli abitanti della città intenti alle loro occupazioni giornaliere, là in alto.» «Devono essere delle ben strane occupazioni», intervenne Regis curioso; e mentre percorrevamo il terreno muschioso e ricoperto di aghi di pino, gli raccontai qualcosa della vita degli Arboricoli. Ormai non avevo più paura: se avessimo incontrato qualcuno, avrei parlato la loro lingua e avrei potuto farmi riconoscere, dire cosa volevo e fare il nome dei miei genitori adottivi. A quanto sembrava, un po' della mia fiducia si era comunicata anche agli altri. Ma mentre ci inoltravamo in un territorio più familiare, mi fermai di colpo dandomi una manata sulla fronte. «Lo sapevo che avevo dimenticato qualcosa!» esclamai. «Sono stato lontano troppo tempo, ecco il perché. Kyla.» «Cosa c'entra Kyla?» Fu la ragazza stessa a spiegarlo, con quel suo tono uniforme di voce. «Io sono una donna senza uomo e non è permesso alle donne sole di entrare nel Nido.» «Allora non è un problema», disse Lerrys. «Non deve fare altro che appartenere a uno di noi.» Non ebbe bisogno di aggiungere altro, e nessuno lo pretendeva: gli aristocratici darkovani non portavano le loro donne in viaggi come quello e le loro donne non erano come Kyla. I tre fratelli si offrirono volontari con molto entusiasmo e Rafe se ne uscì con un suggerimento osceno. Kyla corrugò la fronte in un gesto ostinato, stringendo le labbra in quella che avrebbe potuto essere una smorfia di
rabbia o di imbarazzo. «Se credi che abbia bisogno della tua protezione...!» «Kyla», dissi in tono secco, «è sotto la mia protezione. Verrà presentata come la mia donna... e trattata come tale.» Rafe storse la bocca in un sorriso nient'affatto divertente. «Dunque il capo tiene per sé tutto il meglio, vedo.» Sul mio viso dovette disegnarsi un'espressione feroce, perché Rafe fece lentamente un passo indietro. «Kyla è la nostra guida ed è indispensabile», dissi costringendomi a mantenere calma la voce. «Se mi succede qualcosa, lei è l'unica che può riportarvi indietro, quindi sono personalmente responsabile della sua salvezza. È chiaro?» Mentre proseguivamo lungo il sentiero, la tenue luce verde scomparve. «Siamo proprio sotto la Città Arborea», sussurrai e indicai verso l'alto. Tutto attorno a noi si innalzavano i Cento Alberi, pilastri tanto grandi che quattro uomini che si tenessero per mano non avrebbero potuto circondarne il tronco con le braccia. Gli alberi si slanciavano verso l'alto per un centinaio di metri prima di distendere i rami intrecciati sopra i quali non si vedeva altro che oscurità. Eppure il bosco non era buio, ma illuminato dall'incredibile fosforescenza dei funghi che crescevano sui tronchi, formando bizzarri motivi ornamentali e in gabbie di fibra trasparente ronzavano sommessi insetti luminosi grandi come una mano. Mentre guardavo, un Arboricolo, completamente nudo a parte uno stretto perizoma attorno ai fianchi e un cappello, scese dal tronco e passò da una gabbia all'altra, nutrendo gli insetti con pezzetti di fungo fosforescente che prendeva da un cesto che aveva al braccio. Lo chiamai nella sua lingua e lui lasciò cadere il cesto con un'esclamazione di stupore, il corpo magro pronto a fuggire o a scappare per dare l'allarme. «Ma io appartengo al Nido», gli dissi ancora e feci il nome dei miei genitori adottivi. Lui allora venne verso di me, afferrandomi gli avambracci con le lunghe dita calde, in un gesto di benvenuto. «Jason? Sì, ho sentito parlare di te, tanto tempo fa», disse con una voce gentile e cinguettante. «Tu sei a casa... ma questi altri?» E fece un gesto nervoso indicando i miei compagni. «Sono miei amici», lo rassicurai, «e siamo venuti a implorare un'udienza presso l'Anziano. Per questa notte cerco riparo presso i miei genitori, se vorranno riceverci.» L'Arboricolo alzò la testa ed emise un basso richiamo: agile come un fu-
retto, un bimbo scese dal tronco e prese il cesto. L'adulto disse: «Io mi chiamo Carrho. Forse sarebbe meglio se vi guidassi io dai tuoi genitori adottivi, così nessuno vi fermerà». Mi sentii sollevato; non avevo mai visto Carrho, ma mi sembrava piacevolmente familiare. Guidati da lui, salimmo in fila la stretta scala scavata all'interno del tronco ed emergemmo in una piazza ariosa, ombreggiata dalle foglie più alte e immersa in un delicato crepuscolo verde. Mi sentivo sfinito, ma felice. Ce l'avevamo fatta. Kendricks si avventurò cauto sul pavimento dondolante e morbido della piazza, che cedeva leggermente ad ogni passo e imprecò senza risparmiarsi in una lingua che, per fortuna, solo io e Rafe capivamo. Arboricoli curiosi si riversarono nella strada, cinguettando sorpresi e dandoci il loro benvenuto. Rafe e Kendricks dimostrarono un considerevole disprezzo quando mi videro salutare con affetto i miei genitori adottivi. Erano invecchiati e mi dispiacque constatarlo; la loro pelliccia si era ingrigita, le dita prensili dei piedi e delle mani erano chiaramente affette da qualche malanno reumatico, gli occhi rossi erano appannati e opachi. Mi diedero il benvenuto nella loro casa e disposero affinché i miei compagni venissero alloggiati in una casa vuota poco lontano. In quanto a me, insistettero perché restassi con loro, e naturalmente Kyla doveva accompagnarmi. «Non potremmo accamparci a terra, invece?» chiese Kendricks guardando in tralice e con un certo disgusto il modesto rifugio. «I nostri ospiti si offenderebbero», ribattei in tono fermo. Io non trovavo niente che non andasse in quella casa, il tetto era costituito da corteccia intrecciata, il pavimento ricoperto da muschio coltivato... certo, il posto era abbandonato, un po' umido, ma a prova di intemperie e molto confortevole dal mio punto di vista. La prima cosa da fare era inviare un messaggio all'Anziano, per chiedergli che ci concedesse un'udienza e quel compito venne assolto da uno dei miei fratelli adottivi. Poi ci venne servito un pasto a base di miele di germogli, insetti e uova di uccelli; lo gustai, ritrovando in esso la familiarità del cibo a cui mi ero abituato da bambino, ma degli altri, solo Kyla mangiò con appetito e Regis Hastur con interessata curiosità. Adempiuti gli obblighi dell'ospitalità, i miei genitori adottivi mi chiesero il nome dei componenti del mio gruppo, e io li presentai ad uno ad uno. Quando nominai Regis Hastur, rimasero per un attimo in stupefatto silenzio e poi lanciarono un'esclamazione sorpresa, e gentilmente, ma con fer-
mezza, insistettero che la loro casa era indegna di ospitare il figlio di un Hastur, che avrebbe ricevuto un'ospitalità degna di lui nel Nido Reale dell'Anziano. Regis non poteva rifiutare senza apparire scortese e, quando il messaggero tornò, si preparò ad accompagnarlo, ma prima di andarsene mi prese in disparte. «Non mi piace dividermi da voi...» «Sarete perfettamente al sicuro.» «Non è di questo che mi preoccupo, dottor Allison.» «Chiamatemi Jason», lo corressi irritato. «È proprio questo il punto», ribatté Regis con espressione tesa. «Dovrete essere il dottor Allison, domani, quando si tratterà di spiegare all'Anziano lo scopo della nostra missione, ma dovrete anche essere il Jason che lui conosce.» «E allora...?» «Vorrei non dovervi lasciare. Vorrei che poteste, restare con gli uomini che vi conoscono solo come Jason, invece di restare solo... o soltanto con Kyla.» C'era qualcosa di strano nella sua espressione e mi chiesi cosa potesse significare; era possibile che lui, un Hastur fosse geloso di Kyla? Geloso di me? Non mi era mai venuto in mente che potesse provare qualcosa per la ragazza. Cercai di prenderla alla leggera. «Kyla potrebbe essermi d'aiuto.» «Ma è stata proprio lei a far rinascere Jay Allison la prima volta», ribatté senza cambiare tono. E poi, sorprendentemente, rise. «Ma forse avete ragione.. forse Kyla riuscirà a... spaventare il dottor Allison, se dovesse ripresentarsi.» CAPITOLO 6 IL PATTO Le braci del fuoco morente conferivano strane sfumature di colore al viso di Kyla, alle sue spalle e ai riccioli neri. Ora che eravamo soli, mi sentivo perduto. «Non riesci a dormire, Jason?» Scossi il capo. «Meglio dormire finché puoi.» Ma io sentivo che tra tutte, quella era proprio la notte in cui non osavo chiudere gli occhi, per paura di risvegliarmi trasformato in quel Jay Allison che odiavo. Per un attimo vidi quella stanza con i suoi occhi: per lui, abituato alle piastrelle asettiche dei corridoi e degli ambienti del QG terrestre, non sarebbe stata confortevole e pulita, ma sporca e anti-
gienica come la tana di una bestia. «Sei uno strano uomo, Jason», disse Kyla riflettendo ad alta voce. «Che genere di uomo sei... nel mondo dei terrestri?» Risi, ma non c'era allegria nella mia risata. Di colpo capii che dovevo dirle tutta la verità. «Kyla, l'uomo che conosci con il mio nome non esiste; io sono stato creato specificamente per questa missione. Quando sarà finita, neppure io esisterò più.» Lei mi fissò ad occhi spalancati. «Ho... sentito parlare dei terrestri e della loro... scienza... che costruiscono uomini che non sono veri, uomini di metallo, non di ossa e carne.» Prima che quell'ingenuo e primitivo terrore la sopraffacesse, tesi la mano bendata, le presi le dita e le feci scorrere sulle mie. «Ti sembra metallo, questo? No, no, Kyla. Ma l'uomo che conosci come Jason... non sarò io... sarò una persona diversa.» Come potevo spiegare a Kyla cos'era una personalità secondaria, quando neppure io lo capivo fino in fondo? Stringendomi le dita tra le sue, lei disse piano: «Una volta... una volta ho visto qualcun altro... guardarmi dai tuoi occhi: un fantasma». Scossi il capo con violenza. «Per i terrestri, il fantasma sono io!» «Povero fantasma», sussurrò lei. La sua pietà mi ferì, non la volevo. «Quello che non ricordo non posso rimpiangerlo. Probabilmente non ricorderò neppure te.» Ma mentivo: sapevo che anche se avrei sicuramente dimenticato tutto il resto, senza rimpianti perché non avrei ricordato, non potevo sopportare di perdere lei, che il mio fantasma avrebbe vagato inquieto per l'eternità se l'avessi dimenticata. Guardai Kyla, dall'altra parte del fuoco, seduta a gambe incrociate nella luce fioca dei pochi tizzoni ardenti rimasti nel braciere: si era tolta gli informi indumenti che portava in viaggio e indossava solo una specie di camiciola aderente, semplice come l'abitino di un bimbo, ma stranamente sensuale. Sotto l'indumento si intravedeva la fasciatura della ferita e un ricordo spurio, che non mi apparteneva, commentò in un angolo del mio cervello che se quella ferita non fosse stata suturata a dovere, sarebbe rimasta una cicatrice visibile. Visibile a chi? Lei tese una mano, in un gesto implorante. «Jason! Jason...?» Avevo perso il controllo di me stesso: avevo la sensazione di essere in piedi, piccolo e spaventato in un'enorme stanza riecheggiante che era la mente di Jay Allison, con il tetto che stava per cadermi addosso. L'immagine di Kyla si sfocava, andava e veniva, dolce e infinitamente desiderabile
e poi, come se la guardassi dalla parte sbagliata di un cannocchiale, lontana, distaccata e ripugnante come un insetto osservato al microscopio. Sentii le sue dita stringermi una spalla e tesi una mano per scostarle, «Jason», mi implorò, «non allontanarti da me in questo modo! Parlami, dimmi!» Ma le sue parole mi arrivavano attraverso il vuoto... sapevo che dall'incontro del giorno seguente dipendevano cose vitali, che solo Jason avrebbe potuto ottenere da quell'incontro, che per qualche oscura ragione i terrestri lo avevano cacciato in quell'inferno di dannazione e tortura... oh, sì... la Febbre degli Arboricoli... Jay Allison scostò con violenza la mano della ragazza e imprecò furente, cercando di raccogliere i propri pensieri e di concentrarli su quello che doveva fare e dire per convincere il Piccolo Popolo del loro dovere verso il resto del pianeta. Come se quelli, che non erano neppure umani, possedessero un senso del dovere! Con un impeto di emozione a lui del tutto estranea, desiderò di essere con gli altri. Kendricks: adesso capiva con esattezza la ragione per cui Forth lo aveva fatto seguire dal grosso e affidabile uomo delle Forze Spaziali. E quel darkovano affascinante è arrogante... dov'era? Perplesso, Jay guardò la ragazza: non voleva rivelarle che non era affatto sicuro di quello che doveva fare o dire e che ricordava ben poco di quello che Jason era stato in procinto di fare pochi istanti prima. Fu sul punto di chiedere: «Dove è andato il giovane Hastur?» ma poi un pensiero improvviso - e logico - gli disse che un ospite di quell'importanza doveva essere alloggiato con l'Anziano. E un'ondata di disperazione si impadronì di lui, quando si rese conto che non parlava neppure più là lingua degli Arboricoli, che questa era completamente scomparsa dalla sua memoria. «Tu...» annaspò disperatamente alla ricerca del nome della ragazza, «Kyla. Tu non parli la lingua del Piccolo Popolo, vero?» «Solo qualche parola, niente di più. Perché?» Si era ritirata in un angolo della minuscola stanza, sempre non molto lontana da lui, e Jay si chiese senza molto interesse cosa diavolo fosse stato sul punto di fare quel dannato del suo alter ego. Con Jason non si poteva mai sapere. Jay sollevò il capo, sorridendo malinconico. «Siediti, bambina; non c'è niente di cui avere paura.» «Sto... sto cercando di capire...». La ragazza lo toccò di nuovo, nell'evi-
dente tentativo di vincere il suo terrore. «Non è facile... quando... quando tu ti trasformi in qualcun altro sotto i miei occhi...» Jay si accorse che stava tremando, in preda ad una paura reale. «Non ho intenzione di trasformarmi in un pipistrello e volare via», le disse con voce stanca. «Sono solo un povero diavolo di dottore che si è cacciato in un pasticcio tremendo.» Stava pensando che non c'era nessuna ragione di dare sfogo alla sua amarezza e al suo risentimento prendendosela con quella povera ragazza. Dio solo sapeva cosa poteva averle fatto passare quell'irresponsabile del suo alter ego: Forth aveva ammesso che la personalità di quel pallone gonfiato di "Jason" era un miscuglio di tutte le qualità peggiori che Jay aveva lottato tutta la vita per sopprimere. Con uno sforzo di volontà, il dottore si trattenne dal scostarle ancora la mano. «Jason... non scivolare via così! Pensa! Cerca di mantenere il controllo di te stesso!» Jason lasciò cadere la testa tra le mani, cercando di trovare un senso a quello che la ragazza aveva detto. Di certo in quella luce fioca non poteva essersi accorta fino in fondo dei sottili cambiamenti di espressione del suo viso ed era chiaro che pensava di parlare con Jason. Non sembrava molto intelligente. «Pensa a domani, Jason. Cosa gli dirai? Pensa ai tuoi genitori...» Jay Allison si chiese cosa avrebbero pensato i suoi genitori adottivi trovando un estraneo, perché lui si sentiva un estraneo. Eppure, quella sera doveva essere entrato in quella casa e aver parlato... disperato, frugò nella memoria alla ricerca di qualche frammento della lingua degli Arboricoli: l'aveva parlata da bambino, doveva ricordarne quanto bastava per parlare alla donna che era stata una tenera madre adottiva per il suo figlio alieno. Cercò di costringere le labbra a pronunciare quelle parole estranee... Di nuovo si coprì il viso con le mani. Era Jason la parte di lui che ricordava la lingua del Piccolo Popolo, quella era la cosa importante che doveva ricordare: Jason non era un estraneo ostile, non era uno sconosciuto che si era intrufolato nel suo corpo. Jason era la parte perduta della sua personalità e in quel momento era la parte più maledettamente necessaria. Se solo ci fosse stato un modo di ricatturare i ricordi di Jason, le sue capacità, senza perdere la personalità di Jay... «Lasciami pensare», disse alla ragazza. «Lasciami...» Con sorpresa e orrore sentì la sua bocca parlare una lingua sconosciuta: «Lasciami solo, vuoi?» «Forse», pensò Jay, «potrei restare me stesso se riuscissi a ricordare il resto.» Il dottor Forth aveva detto che Jason avrebbe ricordato con gratitu-
dine il Piccolo Popolo, non con disgusto. Jay frugò nella propria memoria ma non trovò altro che l'ormai nota frustrazione: anni passati in una terra aliena, lontano dagli esseri umani che erano i suoi simili, abbandonato e in esilio. Mio padre mi ha lasciato solo: ha fatto precipitare l'aereo e non l'ho più rivisto e lo odio per avermi abbandonato... Ma suo padre non lo aveva abbandonato, aveva cercato di far atterrare l'aereo per salvare entrambi. Non era colpa di nessuno... Solo di mio padre, perché aveva voluto sorvolare gli Hellers per avventurarsi in una terra che non era degli uomini... Nemmeno lui apparteneva a quella terra. Eppure gli Arboricoli, che lui considerava poco più che bestie vagabonde, avevano accolto quel bimbo alieno nella loro città, nelle loro case, nei loro cuori. Lo avevano amato. E lui... «...e io amavo loro», mi sentii dire ad alta voce e subito mi resi conto che Kyla mi aveva afferrato per un braccio e mi fissava con uno sguardo implorante. Scossi il capo, confuso, per schiarirmi le idee. «Cosa succede?» «Mi hai spaventata», rispose con voce scossa e tremante e all'improvviso capii cosa doveva essere successo. Una rabbia violenta nei confronti di Jay Allison mi invase: non mi concedeva neppure quel misero frammento di vita che mi ero costruito da solo, ma insisteva a spuntare strisciando malevolo dalla mia mente. Quanto doveva odiarmi! Ma non poteva odiarmi neppure la metà di quanto io odiavo lui, maledizione! Oltre a tutto il resto, aveva spaventato a morte Kyla! La ragazza era inginocchiata vicino a me, molto vicina, e io mi resi conto che c'era un unico modo di combattere lo spettro di Jay Allison: rispedirlo all'inferno a cui apparteneva. Lui era l'uomo che odiava tutto tranne il mondo gelido e austero in cui aveva trasformato la sua vita. Il viso di Kyla, dolce, attento e implorante, era levato verso di me e con un gesto improvviso tesi le braccia, la strinsi a me e la baciai con passione. «Un fantasma potrebbe fare questo?» le chiesi. «O questo?» «No... oh, no», sussurrò lei, e mi passò le braccia attorno al collo. Mentre la distendevo sul muschio morbido e profumato che ricopriva la stanza, sentii il fantasma oscuro dell'altra metà di me stesso assottigliarsi, rimpicciolire e scomparire. Regis aveva avuto ragione. Quello era l'unico modo.
L'Anziano non era affatto anziano, era semplicemente un titolo onorifico. Era giovane, poco più vecchio di me, ma aveva un portamento e una dignità e quella stessa strana e indefinibile qualità che avevo riscontrato in Regis Hastur. Era qualcosa che, probabilmente, l'Impero Terrestre aveva perso nel suo espandersi da un pianeta all'altro: la consapevolezza di sapere qual era il proprio posto, una dignità che non aveva bisogno di riconoscimento perché quel riconoscimento non le era mai mancato. Come tutti gli Arboricoli, non aveva mento e le orecchie erano prive di lobi; il corpo, ricoperto da una folta pelliccia, aveva un aspetto ben poco umano. Parlava a voce molto bassa (il Piccolo Popolo ha un udito molto fine) e dovetti tendere le orecchie per sentirlo e ricordarmi di parlare sottovoce anch'io. Mi tese la mano e io vi chinai sopra la testa mormorando: «Faccio atto di sottomissione, o Anziano». «Alzati, figlio mio e siedi», mi rispose con la sua voce gentile e cinguettante. «Sei il benvenuto qui, ma temo che tu abbia abusato della nostra fiducia in te. Ti avevamo rimandato dalla tua gente perché sentivamo che saresti stato più felice tra loro. Non ti abbiamo mai mostrato altro che gentilezza, dunque perché dopo tanti anni ritorni con degli uomini armati? La riprovazione nei suoi occhi era un inizio tutt'altro che promettente. «O Anziano», risposi umilmente, «gli uomini che sono con me non sono armati. Una banda di coloro-che-non-possono-entrare-nelle-città ci ha attaccati e noi ci siamo difesi. Ho viaggiato in compagnia di altri uomini solo perché temevo di attraversare da solo i passi.» «Ma questo spiega forse la ragione per cui sei tornato?» Il rimprovero nella sua voce era motivato. «O Anziano», dissi allora, «noi veniamo come supplicanti. Il mio popolo si appella al tuo popolo nella speranza che vogliate essere...» stavo per dire tanto umani, ma mi interruppi e mi corressi, «che vogliate trattarlo con la gentilezza con cui avete trattato me tanto tempo fa.» L'espressione del suo viso non mutò. «Cosa chiedete?» Glielo spiegai, annaspando alla ricerca delle parole, non conoscendo i termini tecnici e sapendo che comunque non avrei trovato l'equivalente nella lingua del Piccolo Popolo. Lui mi ascoltò, ponendo qualche domanda molto appropriata di tanto in tanto. Quando accennai all'offerta del Legato terrestre di riconoscere gli Arboricoli come popolo sovrano e indipendente, lui aggrottò la fronte e mi rimproverò:
«Noi del Popolo del Cielo non abbiamo alcun rapporto con i terrestri e non sappiamo che farcene del loro riconoscimento... o della mancanza di tale riconoscimento.» Non avevo nulla da ribattere a quell'affermazione e l'Anziano proseguì, gentilmente ma con indifferenza: «Non ci piace pensare che la febbre che per noi è solo una insignificante malattia dei bambini possa causare la morte di tanti della vostra specie. Ma in tutta onestà non potete biasimare noi; non potete dire che siamo noi a diffondere la malattia: noi non ci avventuriamo mai al di là delle montagne. È forse colpa nostra se i venti cambiano o le lune si congiungono nel cielo? Quando per gli uomini è giunto il tempo di morire, essi muoiono». Tese le mani, in un gesto di congedo. «Darò ai tuoi uomini un salvacondotto fino al fiume, Jason. Non tornare.» Regis Hastur si alzò di colpo e si portò davanti a lui. «Vuoi ascoltarmi, Padre?» usò quel titolo onorifico senza esitazione e l'Anziano rispose a disagio: «Il figlio di Hastur non avrà mai bisogno di parlare come supplice al Popolo del Cielo!» «Ma ciò nonostante, tu ascoltami come un supplice, o Padre», rispose Regis sottovoce. «Non sono i terrestri alieni e stranieri che ti supplicano. Dagli alieni della Terra abbiamo imparato una cosa, che invece voi non avete ancora imparato. Io sono giovane e non è decoroso che sia io ad insegnartelo, ma tu hai detto: "È forse colpa nostra se le lune si congiungono nel cielo?" No, certo. Ma noi abbiamo imparato dai terrestri a non attribuire alle lune del cielo la colpa della nostra ignoranza delle vie degli Dei... vale a dire le vie della malattia, della povertà e della miseria.» «Strane parole queste, per un Hastur», affermò l'Anziano, dispiaciuto. «Questi sono strani tempi per un Hastur», rispose Regis con voce più alta e l'Anziano trasalì. Regis allora moderò il tono, ma continuò appassionatamente: «Voi date la colpa alle lune del cielo: io dico che le lune non hanno colpa, né i venti né gli Dei. Gli Dei mandano questi affanni agli uomini per mettere alla prova il loro coraggio, per scoprire se hanno la volontà di superarli!» Sulla fronte dell'Anziano si disegnò una profonda ruga verticale e l'Arboricolo disse con pungente disprezzo: «È dunque questa la stirpe di re che ora viene chiamata Hastur?» «Uomo, dio, o Hastur, io non sono troppo arrogante e orgoglioso da rifiutarmi di implorare per il mio popolo», ribatté Regis avvampando di rabbia. «Mai in tutta la storia di Darkover un Hastur si è trovato in piedi din-
nanzi a voi ad implorare...» «... per gli uomini di un altro mondo!» «... per gli uomini del nostro mondo! Anziano, io potrei restarmene al sicuro nel castello degli Hastur dove neppure la morte potrebbe toccarmi finché non mi fossi stancato di vivere! Ma ho preferito imparare nuove vite da uomini nuovi. I terrestri hanno qualcosa da insegnare persino agli Hastur e sono in grado di trovare un rimedio alla febbre degli Arboricoli.» Si voltò a guardarmi, per farmi capire che adesso toccava a me proseguire e io dissi: «Io non sono uno straniero di un altro mondo, Anziano: io sono stato un figlio nella tua casa e forse sono stato mandato per insegnarvi a combattere il destino. Non posso credere che voi siate indifferenti alla morte». E all'improvviso, senza quasi sapere quello che facevo finché non mi ritrovai in ginocchio, mi inginocchiai davanti a lui e sollevai lo sguardo sul volto severo, remoto e tranquillo di quell'essere non umano. «Padre mio», dissi, «tu hai preso un uomo morente e un bimbo morente da un aereo in fiamme quando persino quelli della loro stessa razza avrebbero potuto spogliarli di tutto ciò che avevano e lasciarli là morire. Tu hai salvato il bimbo, lo hai adottato e trattato come un figlio, e quando raggiunse l'età in cui avrebbe potuto soffrire restando con voi, tu hai permesso a una dozzina di uomini del tuo popolo di rischiare la loro vita per riportarlo dalla sua gente. Non puoi chiedermi di credere che sei indifferente alla morte di un milione di appartenenti alla mia gente, quando il destino di uno solo di loro ha saputo suscitare la tua compassione!» Ci fu un momento di silenzio e poi l'Anziano disse: «No, non indifferente, ma impotente. La mia gente muore quando si allontana dalle montagne, l'aria per loro è troppo ricca, il cibo è inadatto, la luce li tortura e li acceca. Posso mandare a soffrire e morire coloro che mi chiamano Padre?» E allora un ricordo, rimasto sepolto per tutta la mia vita, risorse all'improvviso. «Ascoltami, Padre», dissi in tono incalzante, «nel mondo in cui vivo ora sono chiamato un uomo saggio. Non c'è bisogno che tu mi creda, ma ascoltami: io conosco la tua gente, essi sono la mia gente. Ricordo che quando vi lasciai, più di una dozzina degli amici dei miei genitori adottivi si offrirono di accompagnarmi, ben consapevoli di rischiare la vita. Io ero un ragazzo e non mi rendevo conto del sacrificio che facevano, ma li vedevo soffrire a mano a mano che scendevamo dalle montagne e giurai... giurai...» parlavo con difficoltà, costringendo le parole a uscire dalla bocca riluttante «...che dal momento che altri avevano sofferto così tanto per me,
avrei passato la mia vita a curare le sofferenze degli altri. Padre, i terrestri mi chiamano medico, saggio guaritore. Quando saremo tra i terrestri, potrò fare in modo che la mia gente, se vorrà venire con noi e aiutarci, abbia aria che può respirare e cibo adatto a loro e difesa contro la luce. Io non ti chiedo di mandare nessuno, Padre: ti chiedo solo di dire ai tuoi figli ciò che io ho detto a te. Se conosco il tuo popolo, che è e sarà per sempre il mio popolo, centinaia di loro si offriranno di tornare con me. E tu sarai testimone di ciò che il tuo figlio adottivo qui giura: che se uno solo dei tuoi figli morirà, allora il tuo figlio alieno ne risponderà con la sua stessa vita.» Le parole mi erano uscite di getto, come una piena inarrestabile e non erano tutte farina del mio sacco: qualcosa, dentro di me, mi aveva fatto ricordare che Jay Allison aveva il potere di fare quelle promesse. E per la prima volta cominciai a rendermi conto di quale forza, di quale senso di colpa, di quale dedizione avesse agito in Jay Allison distaccandolo da me. Rimasi inginocchiato ai piedi dell'Anziano, sopraffatto, vergognoso della cosa che ero diventato: Jay Allison valeva dieci volte me. Irresponsabile, aveva detto Forth, senza alcuno scopo, privo di equilibrio interiore. Che diritto avevo di disprezzare il mio alter ego? Alla fine sentii la mano dell'Anziano sfiorarmi la testa. «Alzati, figlio mio», disse. «Risponderò per il mio popolo. E perdona i miei dubbi e le mie esitazioni.» Per parecchi minuti dopo aver lasciata la sala delle udienze né io né Regis pronunciammo parola; poi, quasi all'unisono, ci voltammo l'uno verso l'altro. Fu Regis il primo a parlare, in tono serio: «Avete fatto una cosa meravigliosa, Jason. Non credevo che avrebbe acconsentito». «È stato il vostro discorso a convincerlo», ribattei convinto. Ero ancora pervaso da quel nuovo stato d'animo, da quella serietà inattesa... ma una nuova sensazione di esultanza stava nascendo in me. Maledizione, ce l'avevo fatta! Che Jay Allison provasse a fare altrettanto! Regis aveva ancora quell'espressione grave. «Avrebbe rifiutato, ma voi vi siete appellato a lui come uno della sua gente. Ma non è stato neppure questo... è stato qualcosa d'altro, di più...» Con un gesto imbarazzato, Regis mi passò un braccio attorno alle spalle e sbottò in fretta: «Penso che il Dipartimento Medico terrestre abbia fatto un inferno della vostra vita, Jason! E anche se milioni di vite saranno salvate, sarà difficile perdonarli per quello che vi hanno fatto!»
CAPITOLO 7 RITORNO AL QG Il giorno seguente, nel pomeriggio, l'Anziano ci mandò a chiamare e ci disse che cento uomini si erano offerti volontari per tornare con noi ed erano disposti a donare il proprio sangue e sottoporsi agli esperimenti per le ricerche del vaccino contro la Febbre degli Arboricoli. Guidati da cento Arboricoli che ci proteggevano dagli attacchi e che erano in grado di scegliere i sentieri più agevoli, il viaggio di ritorno attraverso le montagne, così penoso e difficile all'andata, si trasformò in una specie di passeggiata. Quando iniziammo la lunga discesa verso le pendici delle montagne, però, gli Arboricoli, che non erano abituati a camminare al suolo e che soffrivano per l'altitudine più bassa, cominciarono a indebolirsi. E a mano a mano che noi ci rinfrancavamo, un numero sempre maggiore di loro dava segni di cedimento e fummo costretti a rallentare di molto l'andatura. E quando finalmente raggiungemmo la radura in cui avevamo lasciato gli animali da soma, neppure Kendricks poté più fingere di restare insensibile di fronte alle sofferenze di quegli «animali non umani». Fu Rafe Scott ad avvicinarsi a me e a dirmi disperato: «Jason, questi poveri disgraziati non ce la faranno mai ad arrivare a Carthon. Lerrys e io conosciamo il territorio: lascia che andiamo avanti, da soli viaggeremo molto più in fretta, e a Carthon potremo organizzare un trasporto... magari potremo ottenere un aereo pressurizzato per portarli a destinazione. Da Carthon potremo anche mandare un messaggio in modo che al Quartier Generale terrestre facciano i preparativi necessari per accoglierli.» Quella sua richiesta mi sorprese e mascherai il senso di colpa per non averci pensato da solo con l'ironia: «Pensavo che non te ne importasse un accidente dei "miei amici".» «Credo di averli giudicati male», ammise Rafe controvoglia. «Stanno passando le pene dell'inferno solo per il senso del dovere, quindi devono essere molto diversi da come li avevo immaginati.» Regis, che aveva sentito Rafe proporrai il suo piano, intervenne tranquillo: «Non c'è bisogno che voi due andiate avanti, Rafe. Io posso mandare un messaggio molto più in fretta.» Avevo dimenticato che Regis era un telepate addestrato. «Ci sono delle limitazioni di distanza e di spazio per questi messaggi», proseguì l'Hastur,
«ma Darkover possiede una rete regolare di "informatori" che possono inoltrare i messaggi, e uno di questi è una ragazza che vive proprio al confine con la Zona Terrestre. Se mi direte come può fare per aver accesso al QG terrestre...» arrossì leggermente e spiegò, «da quello che ho sentito dei terrestri, non avrebbe molta fortuna se si presentasse semplicemente all'ingresso del QG dicendo di avere un messaggio telepatico da riferire, vero?» L'immagine che quella descrizione mi portò alla mente mi fece sorridere. «Temo proprio di no», ammisi. «Ditele di presentarsi al dottor Forth e di riferirgli il messaggio da parte del dottor Jay Allison.» Regis mi rivolse un'occhiata curiosa. Era la prima volta che pronunciavo il mio nome dove anche gli altri potevano sentirmi, ma si limitò ad annuire senza fare commenti. Per le due ore seguenti mi parve più affaccendato del solito, ma dopo un po' tornò da me e mi disse che il messaggio era arrivato a destinazione. E qualche tempo dopo mi riferì la risposta: un aereo ci avrebbe attesi, non a Carthon, ma in un piccolo villaggio nelle vicinanze del guado del Kadarin dove avevamo lasciato i camion. Quella sera, dopo esserci accampati, dedicammo la nostra attenzione a tutta una serie di problemi pratici che andavano risolti: il luogo e il momento esatto per attraversare il guado, cercare di rassicurare i terrorizzati Arboricoli, che erano riusciti a sopportare di allontanarsi dalle loro foreste, ma che avrebbero ancora dovuto superare l'ultimo ostacolo rappresentato dal guado del fiume; dispensare il poco aiuto che era in nostro potere ai malati. Ma dopo aver fatto tutto quello che potevo e dopo che il silenzio fu sceso sul campo, rimasi seduto davanti al fuoco, a fissare le fiamme, sprofondato in una dolorosa apatia. L'indomani avremmo attraversato il fiume e poche ore più tardi saremmo arrivati al Quartier Generale terrestre. E allora... E allora... e allora nulla: io sarei svanito, avrei cessato completamente di esistere in qualunque luogo, sarei stato solo un fantasma vagabondo che turbava i sogni inquieti di Jay Allison. E mentre lui avrebbe seguito la fredda routine delle sue rigide giornate, io non sarei stato che un vento ormai passato, una bolla scoppiata, una nuvola svanita. Il profumo di rose e di zafferano della legna che bruciava diede corpo ai miei sogni. Ancora una volta, come quella notte nella Città Arborea, Kyla era scivolata al mio fianco accanto al fuoco: alzai lo sguardo e di colpo capii che non avrei potuto sopportarlo. La strinsi a me e mormorai: «Oh, Kyla... Kyla, non mi ricorderò neppure di te!» Lei respinse le mie mani, si inginocchiò e mi disse in tono pressante:
«Jason, ascoltami: siamo vicini a Carthon, gli altri sono in grado di proseguire da soli. Perché vuoi tornare? Scompari ora e non tornare mai più! Noi due possiamo...» si interruppe all'improvviso, arrossendo, sopraffatta dalla timidezza e concluse in un sussurro, «Darkover è un mondo vasto, Jason, grande quanto basta per nasconderci. Non credo che sprecheranno molto tempo per cercarci.» No, non lo avrebbero fatto. Avrei potuto dire a Kendricks (non a Regis, il telepate avrebbe capito subito che mentivo) che li precedevo a Carthon con Kyla e quando si fossero resi conto che ero fuggito, sarebbero stati troppo preoccupati di riportare sani e salvi gli Arboricoli al QG per sprecare molto tempo alla ricerca di un fuggiasco. Quello era il mio mondo, un mondo in cui non sarei stato solo. «Kyla, Kyla», esclamai disperato e impotente, stringendola con forza a me. Lei chiuse gli occhi e io fissai a lungo il suo viso: non era bello, no, ma era un viso di donna coraggiosa, appassionata e ricca di tante altre virtù. Era uno sguardo di addio, lo sapevo, anche se lei non se ne rendeva conto. Dopo un istante lei si scostò e la sua voce priva di tono era ancora più dolce e sommessa del solito: «Sarà meglio che ce ne andiamo prima che si sveglino gli altri.» Si accorse che non mi muovevo. «Jason...» Non potei guardarla. Nascondendo il viso tra le mani dissi: «No, Kyla. Ho... ho promesso all'Anziano che mi sarei preso cura del mio popolo nel mondo dei terrestri.» «Ma tu non sarai là per prenderti cura di loro!» «Scriverò una lettera per ricordarmene», risposi triste. «Jay Allison ha un fortissimo senso del dovere: si prenderà cura di loro al posto mio. Non gli piacerà, ma farà quello che deve, fino in fondo. Lui è un uomo migliore di me, Kyla, è meglio che tu mi dimentichi, io non sono mai esistito», terminai cupo. Non poteva finire così. Di fronte al mio inspiegabile rifiuto, Kyla scoppiò in lacrime, mi pregò, mi implorò di non abbandonarla. Alla fine fuggì singhiozzando e io mi distesi accanto al fuoco, maledicendo Forth, la mia follia, ma soprattutto maledicendo Jay Allison e odiando il mio alter ego di un odio ardente e rabbioso. Poco prima dell'alba, muovendomi alla luce del bivacco, sentii le braccia di Kyla circondarmi il collo e il suo corpo stringersi al mio, scosso da singhiozzi irrefrenabili. «Non posso convincerti e non posso cambiarti», gemette, «e anche se
potessi non lo farei. Ma finché posso... finché posso, ti avrò, finché sei ancora tu.» La strinsi a me con violenza e in quegli istanti la mia paura del domani, l'odio e l'amarezza nei confronti di chi aveva giocato con la mia vita, vennero spazzati via dalla dolcezza delle sue labbra calde e arrendevoli contro le mie. E nella luce del fuoco morente, disperato, sapendo che avrei dimenticato ogni cosa, la presi e l'amai. Qualunque cosa fosse stata di me l'indomani, quella notte ero soltanto suo. E capii allora cosa dovevano provare gli uomini che amavano nell'ombra incombente della morte... Per me era ancora peggio, perché sarei vissuto come il gelido fantasma di me stesso per giorni lunghi e freddi e notti ancor più lunghe e fredde. Fu un amore disperato, selvaggio, violento perché tutti e due cercavamo di concentrare in pochi istanti una vita che non avremmo mai potuto avere. Quando, nella pallida luce dell'alba, guardai il volto bagnato di lacrime di Kyla, la mia amarezza era scomparsa. Sarei stato spazzato via per sempre, sarei diventato un fantasma, una debole traccia che lentamente si estingue nella memoria di un uomo. Ma fino all'ultima scintilla morente di ricordo, l'avrei amata, e nel mio limbo sarei stato grato, se ai fantasmi era concesso di provare gratitudine, a coloro che mi avevano chiamato dal nulla in cui dimoravo per farmi conoscere tutto questo: l'impeto della lotta e l'amore dei compagni, i venti tersi delle montagne sul mio viso, un'ultima avventura, le labbra calde di una donna tra le mie braccia. Nelle poche settimane di vita che mi erano state concesse avevo sofferto, gioito e amato più di quanto Jay Allison avrebbe mai potuto nel corso di tutta la sua fredda e monotona esistenza. Non gli invidiavo la sua vita. Non più. Il pomeriggio seguente, attraversando il piccolo villaggio dove ci attendeva il velivolo, notammo che il quartiere più povero era deserto; non una donna davanti alle case, non un uomo in strada, non un bimbo che giocava nella piazza polverosa. «È cominciata», disse Regis cupo e si staccò da noi per accostarsi all'uscio di un'abitazione silenziosa. Dopo un momento mi fece cenno e io mi avvicinai per guardare all'interno. Avrei preferito non averlo fatto, perché quello che vidi non potrò mai dimenticarlo. Dentro giacevano un vecchio, due giovani donne e una mez-
za dozzina di bambini tra i quattro e i quindici anni. Il vecchio, una delle donne e uno dei bambini erano stati composti in un sudario con il volto coperto da rami freschi, secondo l'usanza darkovana. L'altra donna era rannicchiata accanto al focolare, morente, con l'abito di ruvida stoffa imbrattato di vomito. I bambini... ancora adesso non riesco a pensare ai bambini senza sentirmi male. Uno, molto piccolo, era ancora stretto tra le braccia della donna quando costei era crollata a terra ed era riuscito a liberarsi a stento... ma per poco. Gli altri erano in una condizione indescrivibile e la cosa peggiore era che uno di loro si muoveva ancora, debolmente, senza che si potesse fare nulla. Regis si allontanò dalla porta e si appoggiò alla parete coprendosi il volto con le mani: era visibilmente scosso, e non, come pensai in un primo tempo, per il disgusto, ma per il dolore. Non riusciva a trattenere le lacrime e quando lo presi per un braccio per portarlo via, si appoggiò pesantemente alla mia spalla. «O Dei, Jason», disse con voce quasi incomprensibile, rotta dal pianto, «quei bambini, quei bambini... se mai hai avuto dubbi su quello che stai facendo, o che hai fatto, pensa a quello che hai visto, pensa che potresti avere salvato un intero mondo da un destino funesto, pensa che sei riuscito a fare qualcosa che neppure un Hastur era in grado di fare!» Sentii la gola che mi si chiudeva per qualcosa che non era solo imbarazzo. «Meglio aspettare di essere sicuri che i terrestri riescano nel loro intento. Ed è meglio che tu ti allontani in fretta: io sono immune, ma tu no, maledizione!» Fui costretto a trascinarlo di peso, come un bambino, lontano da quella casa. Regis sollevò lo sguardo fissandomi con un'intensità che mi parve insostenibile. «Credimi», mi disse, «avrei dato senza esitazione la vita per riuscire a fare quello che hai fatto tu.» Era una strana specie di elogio, ma chissà perché lo trovai confortante. E dopo, mentre attraversavamo a cavallo il villaggio, cercai di dimenticare tutto, impegnandomi solo a rassicurare i terrorizzati Arboricoli che non avevano mai visto una città, né visto o udito un aereo. Evitai Kyla: non volevo parlarle ancora, dirle di nuovo addio. Forth aveva fatto un ottimo lavoro con la preparazione degli alloggi per il Piccolo Popolo e, dopo averli sistemati nel miglior modo possibile e rassicurati come potevo, scesi stancamente e indossai gli abiti di Jay Allison. Guardai fuori dalla finestra, verso le montagne lontane. Quand'ero un ragazzo sperduto in un mondo alieno, avevo comprato un libro su quelle montagne, e Jay l'aveva conservato come se fosse un frammento enigmati-
co di un'altra personalità. Una frase di quel libro riafforò prepotentemente nella memoria: C'è qualcosa nascosto... vai a cercarlo... C'è qualcosa che si è perduto al di là delle montagne... Avevo appena cominciato a vivere, meritavo qualcosa di meglio che non scomparire proprio quando avevo appena scoperto la vita. Meritava forse di vivere l'uomo che vivere non sapeva? Jay Allison, quell'uomo freddo che non aveva mai guardato al di là, di nessuna montagna. Perché dovevo smarrirmi in lui? Qualcosa che si era perduto al di là delle montagne... Nulla si era perduto, tranne me stesso. Stavo cominciando ad odiare quell'eccesso di senso del dovere che mi aveva riportato lì. Ora, quando ormai era troppo tardi, ero assalito dal rimorso: Kyla mi aveva offerto la vita, e io l'avevo respinta. Potevo rimpiangere quello che non avrei ricordato? Entrai nell'ufficio di Forth come se stessi per affrontare il Giudice Supremo. Forth mi rivolse un caloroso saluto. «Si sieda e mi racconti tutto», mi incitò. Io avrei preferito non parlare e invece, come costretto da un forza irresistibile, gli feci un rapporto completo. Mentre parlavo, nalla mia mente si presentarono strani lampi di coscienza. Quando mi accorsi che non stavo facendo altro che rispondere ad un comando post-ipnotico, che anzi ero di nuovo sotto ipnosi, era troppo tardi e potei solo pensare che quell'esperienza era peggiore della morte, perché in un certo senso sarei rimasto vivo. Jay Allison si raddrizzò sulla sedia, sistemandosi il camice e distendendo la bocca in quello che per lui era un gelido sorriso. «Dunque immagino che l'esperimento sia stato un successo?» «Un successo completo.» La voce di Forth era stranamente brusca e seccata, ma Jay non si turbò: da anni ormai sapeva di non piacere alla gran parte dei suoi colleghi e dei suoi sottoposti e aveva da tempo smesso di preoccuparsene. «Gli Arboricoli hanno accettato?» «Hanno accettato», confermò Forth sorpreso. «Non ricorda proprio nulla?» «Solo qualche frammento, come un incubo.» Jay Allison posò lo sguardo, sul dorso della mano, flettendo cautamente le dita e toccando la ferita quasi del tutto rimarginata. Forth seguì la direzione del suo sguardo e disse in tono comprensivo: «Non si preoccupi per la sua mano, l'ho esaminata
con molta cura, ne recupererà totalmente l'uso». «Mi sembra che sia stato un rischio molto grave», commentò Jay severo. «Non si è mai soffermato a pensare cosa avrebbe significato per me perdere l'uso della mano?» «Mi è sembrato un rischio giustificabile, anche se l'avesse perso», rispose secco Forth. «Jay, ho registrato tutta la storia su nastro, proprio come mi aveva chiesto. Forse non le piacerà avere un vuoto nella memoria. Vuole sentire quello che ha fatto il suo alter ego?» Jay esitò un istante e poi si levò in piedi. «No, non credo proprio che mi importi di saperlo.» Si fermò, sentendo uno strano indolenzimento ai muscoli e aggrottò la fronte. Cosa era successo? Perché quel lieve strappo gli procurava un dolore più profondo e più acuto? Forth lo stava guardando e Jay chiese irritato: «Cosa c'è?» «La sua freddezza è davvero incredibile, Jay.» «Non capisco cosa intenda, signore.» «Ne ero certo», mormorò Forth. «Che buffo: mi piaceva la sua personalità alternativa.» Jay storse la bocca in un sorriso privo di allegria. «Ne ero certo anch'io», disse, e si girò per uscire. «Andiamo, se devo cominciare a lavorare sul serio, è meglio che controlli i volontari e riguardi gli appunti.» Le cime innevate delle montagne attirarono il suo sguardo, trattenendolo: una specie di indovinello, un rompicapo forse, gli attraversò la mente. «Ridicolo», disse, e uscì dall'ufficio. CAPITOLO 8 KYLA Quattro mesi più tardi, Jay Allison e Randall Forth osservavano insieme l'ultimo aereo che si allontanava, riportando gli ultimi volontari a Carthon e alle loro montagne. «Sarei dovuto tornare a Carthon con loro», commentò Jay imbronciato. Forth guardò l'uomo alto che osservava le montagne e si chiese cosa c'era dietro quei gesti misurati e quell'umore malinconico. «Ha fatto abbastanza, Jay», disse. «Ha lavorato duramente, tanto che il Legato Thurmond mi ha fatto sapere che lei riceverà un encomio ufficiale e una promozione. Senza parlare di quello che ha fatto nella Città Arborea.» Mise una mano sulla spalla del collega, ma Jay la scrollò via con un
gesto impaziente. Durante tutto il lungo e faticoso processo per isolare l'anticorpo, Jay aveva lavorato instancabilmente e senza risparmiarsi, dormendo pochissimo e rimuginando silenzioso, ma facile a lasciarsi andare a scoppi d'ira selvaggia. Si era preoccupato degli Arboricoli con sollecitudine quasi paterna, ma anche con un certo distacco; non aveva tralasciato nulla perché si sentissero a proprio agio, ma si era sempre rifiutato di vederli di persona, se non nei casi indispensabili. «Abbiamo fatto un gioco pericoloso», pensò Forth. «Jay Allison era riuscito a costruirsi una vita sua e noi abbiamo disturbato quell'equilibrio. Abbiamo forse distrutto quest'uomo? Certo, è sacrificabile, ma, maledizione! quale perdita!» «E allora perché non è tornato in aereo con loro a Carthon?» gli chiese. «Kendricks li ha accompagnati, lo sa, e fino all'ultimo minuto si aspettava che andasse anche lei.» Jay non rispose; aveva evitato Kendricks che era stato l'unico testimone del suo sdoppiamento di personalità. In preda a pensieri ossessivi, evitare tutte le persone che lo avevano conosciuto come Jason era diventata per il dottor Allison un'idiosincrasia. Una volta, incontrando Rafe Scott al pianterreno del QG, aveva precipitosamente fatto dietro-front ed era scappato correndo come un pazzo per i corridoi e le sale pur di evitare di trovarsi faccia a faccia con lui; aveva salito di gran carriera quattro piani di scale e'si era rifugiato nelle sue stanze, con il cuore che gli martellava in petto, trafelato e spaventato come fosse stato inseguito da una muta di cani. «Se mi ha fatto venire qui per farmi una predica perché mi rifiuto di fare un altro viaggio negli Hellers...» «No, no», lo interruppe Forth in tono conciliante, «sta per ricevere visite. Regis Hastur ha mandato un messaggio dicendo che desidera vederla. In caso non si ricordasse di lui, ha fatto parte del Progetto Jason...» «Me lo ricordo», rispose Jay cupo. Era forse l'unico ricordo chiaro che aveva: l'incubo sulla cresta della montagna, la mano ferita, il corpo quasi nudo della donna darkovana... e, a offuscare quei ricordi, quell'aristocratico darkovano troppo avvenente, che l'aveva rimandato nell'ombra per far risorgere Jason. «Come psichiatra vale più di lei, Forth; mi ha ritrasformato in Jason in un batter d'occhio, mentre a lei ci sono volute una mezza dozzina di sedute ipnotiche.» «Ho sentito parlare dei poteri psi degli Hastur, ma non ho mai avuto la fortuna di conoscerne uno di persona», rispose Forth. «Mi racconti: che
cosa ha fatto?» Jay mosse le spalle esasperato, un movimento troppo controllato per essere una vera scrollata di spalle. «Perché non lo chiede a lui? Senta, Forth, non ci tengo molto a vederlo; io non l'ho fatto per Darkover, l'ho fatto perché era il mio lavoro e preferirei dimenticarmi di tutta la faccenda. Perché non gli parla lei?» «Ho avuto la netta sensazione che volesse parlare con lei personalmente. Jay, lei ha fatto una cosa stupenda! Maledizione, perché non si lascia un po' andare, sia normale... per una volta! Ma come, io scoppierei d'orgoglio se uno degli Hastur insistesse per congratularsi con me di persona!» Un fremito contorse le labbra di Jay, che parlò con voce tremante, cercando di controllare l'esasperazione: «Forse per lei sarebbe così, ma per me non lo è». «Be', temo invece che sarà costretto a vederlo. Nessuno su Darkover rifiuta la richiesta di un Hastur... e certo non una richiesta ragionevole come questa.» Forth si sedette accanto alla scrivania; Jay colpì violentemente il tavolo con un pugno e quando riabbassò la mano, un sottile rivolo di sangue gli macchiava le nocche. Dopo un minuto si diresse al divano e si sedette rigido e con la schiena eretta, senza dire una parola. Nessuno dei due parlò fino a quando Forth trasalì al suono di un cicalino, tirò verso di sé il microfono e disse: «Gli dica che siamo onorati... eccetera, eccetera; sa quali sono le frasi di rito in queste occasioni e lo mandi su». Jay intrecciò le dita e con un gesto per lui insolito, fece scorrere il pollice sulla cicatrice ancora visibile sulle nocche. Forth si accorse che il silenzio era diverso e fu sul punto di parlare per spezzarlo, ma prima che potesse dire qualcosa la porta dell'ufficio si aprì senza fare rumore e Regis Hastur entrò nella stanza. Forth si alzò educatamente e Jay balzò in piedi come una marionetta strattonata dai fili di un burattinaio. Il giovane principe darkovano gli rivolse un sorriso affabile. «Non preoccupatevi, è una visita informale, ed è per questa ragione che sono venuto io da voi invece di invitarvi al Castello. Dottor Forth, è un piacere rivedervi: spero che la nostra gratitudine potrà presto assumere una forma più tangibile. Non abbiamo più avuto un solo decesso per febbre degli arboricoli da quando avete distribuito il siero.» Immobile, Jay osservò l'anziano collega soccombere totalmente al fascino deliberato del giovane. Il suo viso segnato e grassoccio si illuminò di un sorriso compiaciuto e Forth rispose: «I doni che avete mandato a vostro
nome agli arboricoli sono stati molto apprezzati, nobile Hastur». «Pensate forse che qualcuno di noi possa mai dimenticare quello che hanno fatto?», replicò Regis. Poi si voltò verso la finestra e rivolse un sorriso incerto all'uomo che era rimasto in piedi dopo quel gesto di convenzionale educazione. «Dottor Allison, si ricorda di me?» «Mi ricordo di lei», rispose Jay controvoglia. La sua voce rimase sospesa nella stanza, risuonandogli come un rombo nelle orecchie. Tutte le notti insonni, gli incubi, le meditazioni cupe, l'odio represso per Darkover e i ricordi che aveva cercato di seppellire, esplosero in un'amarezza intrattenibile verso quel giovanotto troppo affascinante, che era un semidio su quel mondo e che l'aveva umiliato, ripudiato per l'odiato Jason. Di colpo, per Jay, Regis divenne il simbolo di un mondo che lo detestava, che lo costringeva in un ruolo e in una forma falsa. Nella stanza sembrò alzarsi un vento scuro e sferzante. «La ricordo eccome», ripeté con voce roca, e fece un passo avanti, gettandosi sul darkovano. La violenza di quel colpo inaspettato fece roteare Regis su se stesso e nell'istante che seguì Jay, che non aveva mai toccato un altro essere umano, se non con i guanti da chirurgo, per guarirlo, afferrò alla gola Regis con una stretta d'acciaio. Il mondo si ridusse ad una nuvola di rabbia rossa. Si udì gridare, ci furono dei rumori e un'esplosione lancinante nel suo cervello... «È meglio che beva questo», avvertì Forth. Mi resi conto che stavo rigirando tra le mani un bicchiere di plastica. Mentre lo portavo alle labbra, Forth si sedette, scosso e tremante. Regis scostò la mano con la quale si stava massaggiando la gola e disse con voce rauca: «Credo che farebbe bene anche a me, dottore». Posai il bicchiere di whisky. «Fareste meglio a bere acqua finché non vi sarà passato l'indolenzimento ai muscoli della gola», intervenni, e andai a riempirgli un bicchiere di plastica, senza pensarci. Glielo porsi, mi interruppi sgomento a metà gesto, la mano mi tremò, e versai qualche goccia. «Bevete», riuscii a dire con voce tremante. Regis deglutì un sorso, a fatica e disse: «È stata colpa mia. nel momento in cui ho visto Jay Allison... ho capito che era sull'orlo della pazzia. L'avrei fermato prima, se non mi avesse colto di sorpresa». «Ma avete visto... lui... io sono Jay Allison», dissi, poi mi cedettero le
ginocchia e fui costretto a sedermi. «Cosa diavolo è questa faccenda? Io non sono Jay... ma non sono neppure Jason...» Ero in grado di ricordare tutta la mia vita, ma l'angolazione era cambiata: provavo ancora il vecchio amore, la vecchia nostalgia per il Piccolo Popolo, ma al tempo stesso sapevo, con certezza assoluta, qual era la mia identità: io ero il dottor Jason Allison Junior, che aveva abbandonato l'alpinismo per diventare specialista in parassitologia darkovana. Non il Jay che aveva rifiutato il mondo e non il Jason che dal mondo era stato rifiutato. Ma allora chi ero? «Io vi ho già visto... una volta», disse Regis con voce sommessa, «quando vi siete inginocchiato dinanzi all'Anziano del Piccolo Popolo... e dal quel darkovano superstizioso e ignorante che sono, ho pensato che eravate un uomo che per una volta era riuscito a trovare l'equilibrio tra il suo demone e il suo dio», concluse con un sorriso irònico. Fissai sconcertato il giovane Hastur; pochi secondi prima stringevo tra le mani la sua gola; Jay, o Jàson, sconvolto dall'odio e dalla gelosia verso se stesso, poteva anche non assumersi la responsabilità del gesto del suo alter ego. Ma io non potevo. «Potremmo scegliere la soluzione più facile», disse Regis, «e organizzare le cose in modo da non rivederci mai più. O potremmo scegliere la strada più difficile.» Tese la mano e dopo un attimo compresi e ci stringemmo la mano, come due estranei che si conoscessero in quel momento. «Il vostro lavoro con il Piccolo Popolo è terminato, ma noi Hastur abbiamo dato la nostra parola di insegnare ad alcuni terrestri qualcosa della nostra scienza, la meccanica delle matrici», proseguì il darkovano. «Dottor Allison...Jason...tu conosci Darkover e credo che potremmo lavorare insieme. E inoltre tu ne sai parecchio sullo sdoppiamento mentale. Sono venuto qui per farti una richiesta: te la sentiresti di essere uno di quei terrestri? Saresti un soggetto ideale.» Guardai fuori dalla finestra le montagne lontane. Quel lavoro sarebbe stato qualcosa che avrebbe potuto soddisfare entrambe le mie personalità: la forza irresistibile, l'oggetto inamovibile... e nessun fantasma che si aggirava nel mio cervello. «Lo farò», dissi a Regis. Poi, deliberatamente, gli voltai le spalle e mi recai negli alloggi, ora deserti, che avevano ospitato il Piccolo Popolo. Con i miei nuovi ricordi doppi, o completi, nella mia mente si era risvegliato un altro fantasma e ricordavo una donna che era apparsa brevemente a Jay Allison, senza che lui la notasse, che aveva lavorato
con gli Arboricoli, tollerata perché era in grado di parlare la loro lingua. Aprii la porta, ispezionai in fretta le stanze e gridai: «Kyla!» e lei arrivò. Correndo. Affannata. Mia. All'ultimo istante si ritrasse dal mio abbraccio e sussurrò: «Sei Jason... ma c'è qualcosa di diverso, di più...» «Non so chi sono», ammisi sottovoce, «ma sono io. Forse per la prima volta. Vuoi aiutarmi a scoprire finalmente chi sono?» La strinsi al petto, cercando di ritrovare dentro di me un filo che unisse i ricordi di ieri con i sogni di domani. Per tutta la vita avevo percorso uno strano e oscuro cammino verso un orizzonte sconosciuto e ora che l'avevo raggiunto mi rendevo conto che segnava solo il confine di una terra ignota. Kyla e io l'avremmo esplorata insieme. FINE