Valerio Massimo Manfredi
LE PALUDI DI HESPERIA
Romanzo 1996
A James ed Eleonora.
Amici, se disertando la guerra a ...
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Valerio Massimo Manfredi
LE PALUDI DI HESPERIA
Romanzo 1996
A James ed Eleonora.
Amici, se disertando la guerra a noi prossima voi ed io fossimo destinati a vivere per sempre senza conoscere alcun decadimento, lo faremmo, non sarei fra i primi a combattere, non vi manderei nella battaglia che porta la gloria. Ma ora, così stando le cose, con i ministri della morte pronti attorno a noi a migliaia, che nessun uomo nato per morire può sfuggire e nemmeno evadere, andiamo. OMERO, Iliade.
1
Si fece silenzio nella sala, tutti guardavano l’ospite, il naufrago abbandonato dal mare fra gli scogli e la rena. Le sue mani erano ancora ferite e graffiate, i suoi occhi arrossati e i capelli secchi come l’erba al finire dell’estate. Ma la sua voce era bella, d’un timbro fondo e sonoro e, quando narrava, il suo volto si trasfigurava, gli occhi si accendevano di una febbre misteriosa, sembravano riflettere un fuoco interno e nascosto, più ardente che le fiamme del focolare. Capivamo la sua lingua perché noi abitavamo vicino al paese degli Achei e un tempo avevamo con loro rapporti commerciali ma benché io sia un cantore fra la mia gente e conosca storie bellissime e lunghe tanto da occupare una notte intera d’inverno, quando gli uomini hanno piacere di starsene su a bere vino e ad ascoltare fino a tardi, tuttavia non avevo mai udito nella mia vita una storia più bella e terribile. Era la storia della fine di un’era, la storia del tramonto degli eroi... Triste, quindi, soprattutto per un cantore quale io sono, perché se gli eroi scompaiono anche i poeti muoiono non avendo più materia per il loro canto. Io sono Vecchio ora e non ho alcun desiderio di vivere di più. Ho visto città fiorenti divorate dalle fiamme e ridotte in cenere, ho visto pirati feroci battere i mari e saccheggiare le coste, ho visto fanciulle intatte violate da barbari sanguinari e ho visto morire tutti coloro che amavo... E tuttavia di quei lontani giorni della mia fanciullezza nessun ricordo è più vivo in me del racconto di quello straniero. Egli aveva assistito all’impresa più famosa che fosse stata portata a termine in quei giorni, la conquista della più forte città dell’Asia, ed aveva seguito in battaglia e poi in una interminabile avventura uno degli uomini più forti della terra, un guerriero indomito e generoso che aveva osato opporsi in duello agli stessi dei ferendo a una mano Afrodite e squarciando il ventre ad Ares, il nume della guerra, furia oscura e tremenda, che non rinuncia mai a vendicarsi. Ora voi ascolterete la mia storia seduti sul fieno bevendo latte di capra e forse non crederete alle mie parole, lo so, penserete che siano racconti che ho inventato per intrattenere il mio uditorio e per ricevere alla fine un’elemosina di cibo e di alloggio ma vi sbagliate. Prima di questo mondo rozzo e miserabile esistette un’epoca in cui gli uomini abitavano città di pietra, vestivano di bisso e di lino, bevevano, in calici d’oro e d’argento, vino inebriante, navigavano su agili navi fino ai confini della terra, combattevano su cocchi di bronzo e impugnavano armi splendenti. In quel tempo i poeti erano accolti nelle case dei re e dei principi, erano onorati come numi. Ciò che sto per dirvi è tutto vero.
L’ospite straniero rimase a palazzo per alcuni mesi poi un giorno, sul finire dell’inverno, sparì senza dire nulla e di lui non sentimmo più parlare. Io però non avevo perso una parola di quello che lui narrava la sera, dopo la cena, nella sala
delle adunanze. L’eco della grande guerra sulla sponda dell’Asia era giunta fino a noi ma quella era la prima volta che avevamo l’opportunità di ascoltare la testimonianza di un uomo che vi aveva preso parte. Più volte il capo della nostra gente e i nobili gli chiesero di raccontare la storia della guerra ma egli sempre si rifiutò. Disse che non voleva ricordare quei giorni amari. E quando finalmente cominciò a narrare egli iniziò il suo racconto dalla notte della caduta della città di Priamo. Così come l’appresi dalle sue labbra, io ora vi narrerò la storia che seguì la caduta della città e di come una guerra tanto lunga ed estenuante fosse stata combattuta per nulla. Prima di scomparire per sempre quell’uomo mi rivelò un segreto: il vero motivo per cui Ilio fu rasa al suolo e la sua popolazione distrutta o ridotta in schiavitù. No... non fu Elena la causa. Potrei dire anzi che, in un certo senso, lei fu uno dei combattenti e forse il più temibile. E in ogni caso perché Menelao l’avrebbe ripresa senza farle pagare in alcun modo il tradimento? Qualcuno raccontò che lei gli mostrò il seno nudo, facendogli cadere la spada di mano. La causa fu un’altra, una causa tanto forte da spingere un re a mettere la sua regina nel letto di un altro uomo... per anni. Se pure anche questa non sia una verità incompleta e non nasconda un enigma dentro l’enigma. Tuttavia quello sconosciuto, gettato dal mare sulle nostre spiagge, volle rivelarla a me... a un ragazzo, in parte raccontando ciò che personalmente aveva veduto, in parte ciò che aveva udito dire e in parte, io credo, ciò che gli stessi dei gli avevano ispirato. Forse pensava che nessuno mi avrebbe creduto o forse desiderava scaricare il suo cuore da un peso che non poteva più sopportare. Ecco dunque ciò che egli raccontò. Che la dea ispiri il mio racconto e sostenga la mia memoria. Voi state per udire una storia quale non avete mai udito e che tramanderete ai vostri figli e ai figli dei vostri figli.
Per sette notti e per sei giorni bruciò la città di Ilio, bruciò la rocca superba e bruciarono le cinquanta stanze della reggia mentre i suoi abitanti, quanti si erano salvati dalla strage, venivano ammassati nel campo, come pecore nell’ovile. Là aspettavano di essere assegnati ai vincitori come preda di guerra. Le donne giacevano a terra con le vesti squallide e i capelli sciolti, senza più lacrime negli occhi. Quasi tutte erano spose o figlie di guerrieri Troiani caduti nella notte del tradimento. Il loro destino era di servire le mogli dei vincitori e anche di salire, come concubine, nel loro talamo, essere possedute e violate, private di tutto, fuorché dell’amarezza dei ricordi. I bambini piangevano, sporchi e affamati, giacevano a terra dove il sonno li coglieva e si risvegliavano piangendo di nuovo. I capi, riuniti nella tenda di Agamennone, discutevano se si dovesse partire immediatamente o se l’esercito dovesse fermarsi per offrire sacrifici di espiazione per il molto sangue innocente versato. La vittoria che avevano desiderato per tanti
anni non aveva recato loro la gioia che si attendevano. La preda era scarsa perché la città, esausta, aveva dato fondo a tutte le sue ricchezze, le atrocità commesse la notte della conquista avevano lasciato nel cuore di ognuno la cupa aspettativa di un castigo immancabile. Si sentivano come degli ubriachi che si risvegliano dopo una notte di gozzoviglie e hanno le vesti sporche e il sapore del vomito in bocca. Sedevano in cerchio su sedili coperti di pelli: Ulisse, il vincitore, l’inventore della macchina che aveva ingannato i difensori. Per lungo tempo, dopo che il grosso dell’esercito aveva fatto irruzione in città, era scomparso e il comando dei suoi uomini, Itacesi e Cefalleni delle Isole occidentali, lo aveva preso Euriloco, suo cugino. Era riapparso all’alba, pallido e muto. Egli, l’eversore di città, non aveva preteso che una modesta quota della preda, cosa strana, essendo lui uno dei più poveri tra i re della coalizione, sovrano di isole rocciose e aride e, quel che più conta, avendo lui il merito completo della vittoria. In quel modo nessuno volle discutere né controllare cosa si nascondesse in quel piccolo bottino, così piccolo da non suscitare né la gelosia degli altri capi né l’invidia dei suoi uomini. E dopo tutto egli riportava in patria le armi di Achille che da sole valevano il prezzo di cento tori. Ulisse versatile e scaltro! Ascoltava tenendo la sinistra sull’elsa della spada e la destra sullo scettro ma non udiva nulla perché la sua mente labirintica seguiva sentieri a tutti nascosti. Accanto a lui c’era il seggio, vuoto, di Aiace Telamonio. Aiace gigante, dallo scudo settemplice, mole smisurata, baluardo del campo e delle navi, l’unico dei capi che non avesse mai ricevuto in battaglia l’aiuto di un dio. Era morto di vergogna e di dolore gettandosi sulla sua spada perché Ulisse l’aveva privato dell’eredità più desiderata: le armi di Achille. Suo padre che spingeva ogni giorno lo sguardo sulle onde dagli scogli della sua isola lo avrebbe atteso invano. Nestore veniva subito dopo, il re di Pilo, saggio consigliere dall’età avanzata ma a tutti sconosciuta, e poi Idomeneo, re di Creta, successore di Minosse, signore del Labirinto. Menelao sedeva a fianco del fratello, spossato da una notte di sangue, di morte e di delirio. Si dice che avesse posseduto Elena nel talamo di Deifobo, suo ultimo marito, l’avesse goduta in un letto pieno di sangue, a fianco del cadavere straziato del principe troiano. Ma quella fu una notte di inganni... Aiace Oilèo, Aiace minore, sedeva con la fronte aggrottata e le mani strette fra le cosce. Quella notte aveva stuprato la principessa Cassandra nel tempio di Atena. E la dea, inorridita, aveva chiuso gli occhi per non vedere l’abominio. Egli l’aveva inchiodata al suolo, le aveva strappato le vesti, l’aveva penetrata come un ariete, come un toro selvaggio. Per un attimo solo aveva incontrato il suo sguardo e in quel momento aveva capito che la principessa lo aveva condannato a morte, morte orribile e certa. Agamennone l’aveva poi presa per sé. Lei sola conosceva il segreto che stava a cuore al re di Micene. Ma egli, il grande Atride, sogguardava Aiace con sospetto perché era stato solo per primo con la principessa troiana. Ultimo veniva Diomede figlio di Tideo, re di Argo, colui che aveva conquistato Tebe dalle Sette Porte. Dopo la morte di Achille nessuno lo emulava per valore e
coraggio. Era entrato nel cavallo assieme ad Ulisse e aveva combattuto tutta la notte cercando l’unico avversario troiano rimasto che fosse degno di lui, Enea. Ma il principe dardano sembrava scomparso. Diomede era penetrato nella cittadella sul far del mattino ed era scomparso in uno dei suoi passaggi segreti. La sua armatura era piena di polvere e il cimiero del suo elmo era sporco di ragnatele. Ed egli guardava con sospetto Ulisse dai molti inganni perché loro due soli, fra tutti gli Achei, erano penetrati nella città prima che cadesse per l’inganno del cavallo. Vi erano penetrati travestiti da prigionieri troiani, sporchi di polvere e di sangue. Loro due soli conoscevano i passaggi nascosti della cittadella. I capi discussero a lungo ma non riuscirono a raggiungere un accordo. Nestore, Diomede, Ulisse e Menelao decisero di partire comunque: Agamennone e gli altri restarono per offrire un sacrificio di espiazione per propiziarsi il ritorno. Questo almeno fu ciò che si disse ma forse la causa fu un’altra. Agamennone fu visto penetrare con Cassandra fra le rovine ancora fumanti di Ilio alla ricerca del solo tesoro che gli interessava, l’unico per cui la guerra era stata realmente combattuta. All’isola di Tenedo la flotta che aveva salpato si fermò per la notte. Il giorno dopo Ulisse si pentì di essere partito; disse che Agamennone aveva ragione e che era giusto celebrare un sacrificio di espiazione. Tornò indietro benché tutti gli chiedessero di non farlo e i suoi stessi compagni lo scongiurassero di non riportarli su quelle spiagge maledette dove tanti dei loro erano caduti. Fu tutto inutile. La flotta itacese tornò indietro a forza di remi e col vento al traverso fra onde nere e alte che il vento settentrionale faceva ribollire di schiume livide. Ulisse, ritto a poppa in un nembo di spruzzi, reggeva personalmente il timone della sua nave: da allora nessuno lo vide più. Si disse che fosse tornato, nel cuore della notte, al lido presso il quale gli Achei avevano innalzato un tumulo sulle ossa di Aiace e, spinto dal rimorso, mentre il cielo era squarciato dalle folgori e le montagne squassate dai tuoni, avesse deposto sull’ara votiva le armi d’Achille, troppo tardi, se pure fosse stato vero, perché ai morti non giovano le azioni dei vivi. Essi piangono per sempre la vita perduta e vagano nelle case oscure dell’Ade ricordando la luce del sole che non vedranno più. In realtà io credo che egli si fosse reso conto di essere stato ingannato, una cosa insopportabile per lui. L’uomo più astuto della terra doveva assolutamente togliersi dalla mente ogni dubbio. Per questo aveva sfidato il vento contrario e le onde di una tempesta imminente. So per certo comunque che gli altri compagni rimasti con l’Atride sulla spiaggia di Ilio non lo videro, né videro i suoi guerrieri Cefalleni: quando lui sbarcò Agamennone era già ripartito e, in seguito, non ebbe più modo di raggiungerlo. Forse aspettò troppo a riprendere il mare e dovette combattere i venti avversi della cattiva stagione o un dio invidioso della sua gloria sospinse la sua nave verso l’Oceano senza vento e senza onde, oppure lo tenne prigioniero da qualche parte. Il primo fra i duci Achei a pagare gli eccessi compiuti nella notte maledetta della caduta di Troia fu Aiace Oilèo. La sua nave fu presa da un fortunale,
s’incagliò sulle rupi Ghirèe e si spaccò in due. I suoi compagni furono subito sommersi dalle onde del mare in tempesta ma Aiace era un formidabile nuotatore. Aggrappato a una cassa di legno combatté con la forza dei flutti e riuscì a mettersi in salvo issandosi su uno scoglio assieme alla cassa che non aveva mai abbandonato. Di là, stando seduto su quella, bestemmiava gli dei dicendo che egli possedeva una forza invincibile e che nemmeno Poseidone poteva sconfiggerlo. Il dio del mare lo udì e salì dalle profondità dell’abisso impugnando il tridente. Con un colpo sbriciolò lo scoglio durissimo: Aiace precipitò fra i massi e fu maciullato come grano nella macina. Per un attimo le sue urla di dolore superarono il fragore della bufera poi furono disperse lontano dal vento. Gli altri capi riuscirono in qualche modo a sfuggire alla tempesta e, giunti a Lesbo, tennero consiglio se navigare sopra Chìo verso l’isola Psiria tenendola a sinistra, o sotto Chìo, doppiando il promontorio Mimante. Alla fine decisero di tagliare a mezzo il mare in direzione dell’Eubea, per la via più breve. Ma durante il viaggio, benché il mare si fosse appianato e il tempo fosse calmo e la temperatura mite, Menelao scomparve in una notte senza luna con tutte le sue navi. Di lui e di ciò che gli accadde vi dirò più oltre. Nestore giunse salvo al Pilo sabbioso con gli uomini, le navi e il bottino dopo aver doppiato il capo Malea. Regnò ancora per anni sul suo popolo, onorato dai figli e dalle nuore. Ben diversa sorte toccò al figlio di Tideo, Diomede. Trasse in secca le navi sulla spiaggia di Temenion mentre la notte era a mezzo del suo corso. Nessuno sapeva del suo arrivo, non aveva voluto mandare avanti un araldo ad annunciarlo. Si ricordava infatti di un avvertimento di Ulisse: «Non fidarti» gli aveva detto «quando tornerai, di nessuno. È passato molto tempo, molte cose sono cambiate, forse qualcuno ha preso il tuo posto e trama contro di te. E soprattutto, anche se per te è doloroso, non fidarti della tua regina». Partì con Stenelo, il suo amico inseparabile, e giunse a notte inoltrata nei pressi del suo palazzo a Tirinto. Non lo vedeva da dieci anni e gli parve cambiato anche se non avrebbe saputo dire come. Provò comunque una forte emozione nel contemplare le mura della cittadella che si dicevano costruite dai ciclopi, le porte del suo palazzo vigilate da guardie armate. Le osservò: erano bambini quando lui era partito e ora erano nel fiore delle gioventù e del vigore. Lasciò Stenelo con i cavalli in un luogo fuori vista ad aspettarlo ed egli entrò da un passaggio che solo lui conosceva, la postierla nel lato meridionale delle mura ostruita dal fango portato dalle piogge e dalle radici delle piante che vi si erano insinuate in tanti anni in cui nessuno l’aveva usato. Era infatti un passaggio che collegava la cinta esterna alla cinta del palazzo e serviva, in tempo di guerra, a fare sortite alle spalle del nemico. Man mano che avanzava si sentiva mancare il respiro per l’emozione e per il senso di oppressione che quel luogo gli procurava. Ben diverso l’aveva immaginato il suo ritorno: il popolo in festa che gli correva incontro lungo la strada, le sacerdotesse di Hera che spargevano fiori davanti al suo carro ma, soprattutto Egialea, la sua sposa, che gli apriva le braccia e lo prendeva
per mano per condurlo nel grande talamo profumato per godere dell’amore con lui, dopo anni di desiderio e di lontananza. Egialea... per quante notti l’aveva sognata giacendo nella sua tenda nella piana di Ilio. Nessuna donna mai, nemmeno le più belle prigioniere, aveva soddisfatto la sua passione. Le donne catturate in battaglia erano solo piene di odio e di dolore. Egialea... il suo seno era bianco e duro come l’avorio tagliato, il suo ventre ardeva sempre di desiderio, la sua bocca sapeva suscitare la febbre, oscurare la mente, donare l’oblio. Per questo forse egli si avvicinava furtivo alla sua casa, vi penetrava da un passaggio nascosto e sotterraneo. Mille volte in guerra aveva affrontato la morte alla luce del sole. Ora una paura sconosciuta e ben maggiore lo spingeva a strisciare nel buio. La paura di essere stato dimenticato. Non c’è nulla di più terribile per l’uomo. Era giunto ormai dove uno stretto cunicolo si dipartiva dalla galleria della postierla e terminava nella cavità di un antichissimo simulacro, un’immagine della dea Hera sposa di Zeus, che da sempre era appoggiata a un muro della sala del trono. Il gioiello che le ornava il petto era una pietra traslucida, un quarzo limpidissimo che appariva nero dall’esterno ma era trasparente come l’aria dall’interno della statua se c’era luce nella sala. Suo padre Tideo l’aveva fatto tagliare ed adattare dall’artefice Ificle che l’aveva incastonato con grande perizia, nessuno avrebbe indovinato l’inganno se non lo conosceva. E i suoni penetravano dalle orecchie ben modellate della statua, forate come se fossero vere. La sala era vuota ma ancora illuminata benché l’ora fosse tarda e l’eroe non si mosse sospettando che qualcosa stesse per accadere. Non si ingannava. Entrò di lì a poco un uomo armato e si sedette; entrò da un’altra porta una snella figura di donna dal volto velato. Si scoprì solo dopo che ebbe richiusa la porta alle sue spalle: Egialea! Era nel pieno fulgore della bellezza, più seducente ancora di quando l’aveva lasciata, più desiderabile. Le spalle, morbide e rotonde, avevano perduto la fredda purezza delle linee dell’adolescenza, gli occhi erano più fondi, più cupi e più grandi e la bocca era come un frutto maturo, umido di rugiada. Due linee le solcavano ora la fronte nel mezzo, fra le sopracciglia, e conferivano un che di duro e insieme di dolente al suo sguardo. Egialea... L’uomo disse: «Sono nascosti a Temenion nel buio presso un bosco di pini e non si lasciano vedere. Non si mostrano, come se avessero timore». «E sei certo che siano loro?» chiese la regina. «Certo come di essere vivo. Ho riconosciuto le insegne sulle navi e sulle loro armi.» «E... lui?» «Sta certamente sulla sua nave, quella che porta l’insegna reale e uno scudo lucidato sulla prora. Tutto intorno vegliano armati i migliori guerrieri. Stanno ritti in piedi, nell’oscurità, in doppia fila: la prima guarda la nave e la seconda, girando le spalle, guarda verso il mare e verso la campagna.
Il volto di Egialea si illuminò di gioia e Diomede, nel suo nascondiglio, si sentì invadere l’animo di una felicità immensa e stette per uscire e manifestarsi alla sua donna che appariva tanto contenta per il suo ritorno. Una simile felicità non l’aveva provata nemmeno la notte in cui Troia era caduta dopo anni di assedio. Egialea disse: «No. Non sono per lui la guardia e il doppio cerchio di guerrieri. Lui non si protegge mai. Nessuno può sorprenderlo nel sonno, nemmeno avvicinandosi a piedi nudi nella sabbia, nessuno può sperare di salvarsi dopo averlo destato e provocato a combattere. Se quello che dici è vero, su quella nave è conservato il bottino della guerra. Tutti i tesori che ha predato nella città di Troia, e, forse, qualcosa di più importante ancora. Dobbiamo sopprimerlo prima che la gente se ne accorga. Diremo che erano pirati sbarcati per saccheggiare i campi e razziare schiavi e bestiame.» L’uomo rispose: «Ho pronto l’esercito. Quasi tutti i suoi uomini dormono, stanchi per il viaggio. Li stermineremo nel sonno e dopo sarà facile sopraffare anche le guardie che vigilano attorno alla sua nave. E quando avrò conquistato il tesoro te lo porterò.» «Sciocco,» disse Egialea «non puoi vincerlo con le armi: il rumore della battaglia lo renderà furibondo, balzerà armato dal letto e vi mieterà come spighe di grano. Solo io posso domarlo. Io andrò alla sua nave e indosserò l’abito delle antiche regine che scopre il seno e dipingerò di rosso le punte del mio seno. E quando mi avrà presa più volte, solo allora dormirà di un sonno tanto profondo da non percepire il moto dell’aria quando il mio pugnale calerà sulla sua schiena. Tu allora attaccherai e non lascerai vivo nessuno dei compagni che lo hanno seguito sotto le mura di Ilio.» L’uomo tremava e il suo volto grondava sudore. Disse: «E anche per me indosserai l’abito delle antiche regine che scopre il seno, e dipingerai di rosso le punte del tuo seno per me?» Egialea lo fissò con uno sguardo duro e altero poi disse: «Forse. Ma ora fai ciò che ti comando.» Diomede si sentì spezzare il cuore nel petto. Per un momento egli pensò di irrompere nella sala e ucciderli tutti e due ma ebbe paura. Non sapeva se sarebbe riuscito a piantare la spada nel seno della regina che aveva sognato per anni, dormendo sotto la tenda nei campi di Ilio. Egli si rese conto che non avrebbe potuto sedere sul trono di Argo senza di lei e dormire nel suo talamo vuoto senza impazzire. Pensò, in quegli attimi di strazio e di dolore acuto, che doveva raggiungere i compagni e salvarli dall’agguato. I suoi compagni erano tutto quanto restava del suo regno e della sua famiglia. Non c’era più nessuno in Argo che attendesse il suo ritorno se la regina poteva prepararsi a ucciderlo e se l’esercito avrebbe obbedito spargendo il sangue di coloro che per anni avevano combattuto lontano dalla patria e tornavano per riabbracciare i figli e le spose. Percorse a ritroso, correndo, il cunicolo segreto e ritrovò Stenelo che lo attendeva immobile nell’ombra accanto ai cavalli.
«Torniamo al campo» disse «la regina trama per uccidermi e per uccidere tutti i compagni facendo uscire l’esercito contro di noi.» Stenelo non si mosse, lo afferrò per le spalle e disse: «Non potranno vincere. Sveglieremo i compagni e marceremo contro la città. Tu hai conquistato Tebe e Troia: nessuno può sfidarti impunemente. E quando avremo vinto sceglierai la punizione giusta per la regina» Ma Diomede non lo ascoltava più: «Io ho ferito Afrodite» disse «le ho trapassato con la lancia la mano delicata mentre si protendeva a proteggere Enea suo figlio, e ora la dea dell’amore ha cambiato la mente di Egialea, le ha riempito l’animo di odio verso di me. Gli dei non dimenticano le offese e si vendicano, prima o poi.» «È meglio morire combattendo anche contro gli dei che fuggire» disse Stenelo. «Dimmi che cosa hai visto nel palazzo.» Diomede gli raccontò ogni cosa senza tacere nulla. «Capisci ora, perché voglio fuggire? Non è più la nostra patria qui; lasciai la mia sposa nella reggia quando partii. La baciai a lungo quella mattina stringendola a me. E lei disse che avrebbe fatto costruire un simulacro che mi rappresentasse e l’avrebbe disteso nel letto nuziale accanto a sé finché io non fossi tornato. Ora trovo un mostro che di Egialea ha conservato solo l’aspetto...» chinò la testa «ancora più bella, se è possibile, ancora più desiderabile.» Salirono sul cocchio e Stenelo afferrò le redini e incitò i cavalli. E quelli si lanciarono veloci nella pianura immersa nel buio in direzione del mare, verso la spiaggia di Temenion dove la navi erano tratte in secca e i compagni dormivano aspettando il levare del sole. Diomede li svegliò e li convocò in assemblea. Si aspettavano che annunciasse loro il trionfo, l’ingresso in Argo, la città che avevano lasciato dieci anni prima e invece udirono parole amare, che non avrebbero mai voluto udire. Quando il re ebbe finito chiese loro di abbandonare quella terra e di seguirlo: li avrebbe condotti in una nuova patria, in un luogo lontano in occidente dove i ricordi di una guerra sanguinosa e inutile non avrebbero potuto seguirli, in un luogo dove avrebbero incontrato altre donne e generato altri figli, dove avrebbero costruito una città destinata a diventare invincibile. «Il mondo» disse «è grande, molto più grande di quanto noi possiamo immaginare. Troveremo un luogo dove regnano altri dei e dove i nostri non possono perseguitarci. Io sono Diomede, figlio di Tideo, vincitore di Tebe dalle Sette Porte e vincitore di Ilio: assieme conquisteremo un nuovo regno, cento volte più grande e là vivremo nell’abbondanza di ogni cosa, bevendo vino e banchettando ogni sera per scacciare i ricordi.» Alcuni, i più giovani, i più fedeli e forti, si posero subito al suo fianco dicendo che l’avrebbero seguito dovunque. Altri chiesero di aspettare finché potessero raggiungere le loro mogli per portarle con sé. Altri ancora, i più, rimasero muti, a capo basso. E quando il re chiese loro che cosa intendessero fare, risposero: «O signore, noi abbiamo combattuto al tuo fianco per anni senza mai tirarci indietro, il nostro petto e le nostre braccia sono segnati di molte cicatrici, ma ora, ti
preghiamo, dacci la nostra parte di bottino e lascia che andiamo. Hai ragione a volerti allontanare dalla sposa che ti vuole tradire ma noi non siamo re, vogliamo tornare alle nostre case per congiungerci alle nostre mogli e ai figli che lasciammo in fasce quando partimmo con gli altri Achei per seguire gli Atridi sotto le mura di Ilio. Noi vogliamo invecchiare in pace e sedere la sera davanti alla casa a guardare il sole che tramonta.» Diomede allora disse: «Non restate, vi prego, venite via con noi. La cosa migliore sarebbe di restare tutti o di partire tutti. Se resteremo io dovrò uccidere la regina e poi vivere per il resto dei miei giorni perseguitato dalle sue Furie, e tutti insieme dovremo combattere contro gli Argivi, contro il nostro stesso sangue. E vi saranno nuovi lutti e nuovi, infiniti dolori. Se solo alcuni di voi resteranno saranno certamente sopraffatti e uccisi non appena si saprà che non ci sono io a difendervi e a guidarvi in battaglia. Uno spirito malvagio si è impadronito del palazzo e della città. Se così non fosse la mia sposa, che mi adorava, non avrebbe disonorato il mio letto e la mia casa, non mediterebbe la mia morte.» Parlò così, ma non riuscì a convincerli. Per troppo tempo avevano desiderato di rivedere la patria e le famiglie e ora che erano arrivati non potevano sopportare il pensiero di dover ripartire. Un’esile falce di luna saliva in quel momento dalle onde del mare e le stelle cominciavano a impallidire. Decisero di lasciarsi: si abbracciarono gli uni gli altri piangendo mentre il bottino veniva fatto scendere dalle navi, la preda di guerra che doveva essere divisa. C’erano tripodi e lebeti di bronzo, gioielli d’oro e d’argento, pelli d’orso, di leone e di leopardo, conchiglie marine finemente incise, elmi, scudi e lance e c’erano donne dai fianchi alti, rotondi, dagli occhi neri, ancora umidi del rimpianto di quanto avevano perduto. Il re non prese quasi nulla per sé. Tenne l’armatura d’oro che gli aveva donato il capo dei Lici, Glauco, dopo che si erano battuti in duello e tenne i cavalli divini che aveva portato via a Enea. Solo lui e Stenelo sapevano cosa era nascosto nella stiva della nave reale. Per quella cosa Diomede poteva promettere ai suoi compagni che avrebbero fondato una città invincibile, un regno destinato a dominare il mondo. Salutò anch’egli i compagni prima di lasciarli e quando li ebbe salutati si rivolse a Stenelo per impartirgli gli ordini per la flotta che ripartiva con lui. Ma Stenelo guardò i compagni che restavano e disse: «Resterò anch’io con loro. Voglio rivedere il sole salire nel cielo di Argo, voglio entrare dalla porta meridionale, vedere la gente e il mercato dove giocavamo bambini rincorrendoci con piccole spade di legno. Ho combattuto abbastanza. Nemmeno per te, amico, potrei riprendere il mare e affrontare ancora fatiche e freddo e solitudine.» Diomede comprese. E, benché si sentisse oppresso da una infinita tristezza, capì che l’amico non parlava per paura. Egli non voleva abbandonare al loro destino i compagni che restavano. Sarebbe entrato con loro ad Argo o sarebbe morto con loro. Egli era l’altra metà di Diomede come Patroclo lo era stato per
Achille: per questo doveva restare con la parte dei compagni che non si sarebbero più imbarcati. «Addio, amico» gli disse il re. «Quando il sole sarà alto nel cielo di Argo e sul palazzo di Tirinto guardalo, tocca gli stipiti della porta anche per me. E se vedrai Egialea... dille che...» Non poté terminare perché l’emozione lo vinceva e le parole gli morivano in gola. «Glielo dirò, se sarà possibile» disse Stenelo. «Addio. Forse un giorno ci rincontreremo, ma se non accadrà, ricordati che, anche restando, ti sono amico. Per sempre.» E così il figlio di Tideo, Diomede, lasciò le sponde della terra che aveva tanto desiderato per affrontare di nuovo il mare e un cammino impervio. Era ancora buio quando levò le ancore ma l’orizzonte cominciava a imbiancare. Ordinò ai compagni di remare più in fretta che potevano e di alzare anche la vela. Voleva essere lontano sull’acqua quando il sole si fosse affacciato all’orizzonte: non avrebbe sopportato la vista della terra tanto amata nel momento in cui era costretto ad abbandonarla e non voleva che altrettanto soffrissero i compagni o che si pentissero di averlo seguito. Indossò l’armatura d’oro di Glauco e rimase ritto a poppa sotto lo stendardo reale perché tutti potessero vederlo e prendere forza da lui. Quando l’Aurora si affacciò dall’oriente a illuminare il mondo egli era già lontano: sulla destra gli incombevano le rocce alte di Capo Malea. Non seppe mai più quale sorte fosse toccata ai compagni rimasti anche se in cuor suo sperò che si fossero salvati e che, partito lui, non ci fosse stato più motivo per annientare uomini valorosi, combattenti formidabili. Ma io credo che a loro toccasse una sorte miserevole, non diversa da quella che subirono Agamennone e i suoi compagni quando tornarono in patria. L’unica notizia che si diffuse su quegli uomini raccontava che Stenelo era divenuto l’amante di Egialea e io credo che la regina stessa l’avesse fatta diffondere. Non potendo più raggiungere Diomede e ucciderlo, sperò che la fama, mostro alato con cento bocche, potesse raggiungerlo più rapidamente che le sue navi, sconvolgergli la mente e farlo morire di disperazione. Stenelo morì con la spada in pugno, con onore, come era sempre vissuto, sbalzato dal cocchio con un colpo di lancia o forse trafitto nel collo da una freccia. I cavalli aggiogati al suo cocchio non erano più i cavalli divini che Diomede aveva strappato a Enea ed egli non poté volare come sui campi di Ilio, più veloce dei dardi, più veloce del vento. Un uomo da nulla, forse, gli strappò dalle spalle l’armatura dopo che cadde, con fragore, nella polvere e la sua anima fuggì, gemendo, alle case dell’Ade.
2
Il sole era tramontato e tutti i sentieri della terra e del mare si oscuravano quando la flotta di Agamennone gettò l’ancora a Nauplio. Il peso della vittoria gravava sulle sue spalle più di una sconfitta e anche a lui gli dei presentavano il volto della patria velato dalla notte. Scese dalla nave e respirò l’odore dimenticato della sua terra. Per un momento quel profumo gli salì alla testa come l’aroma di un vino forte. Ma, subito, gli fece anche ricordare sua figlia, Ifigenia, sacrificata sull’altare per propiziare la partenza, dieci anni prima, e si rese conto che tutta la gloria che aveva guadagnato, che il tesoro che riportava e per il quale, solo, aveva scatenato la guerra assieme al fratello Menelao, non valevano un respiro della figlia perduta. Ricordava lo sguardo della fanciulla, che lo fissava smarrita, mentre la conducevano all’altare. Ricordava come aveva bevuto la pozione che l’avrebbe addormentata e come aveva accettato di credere che fosse per un sonno sacro di divinazione. «Ti apparirà in sogno la dea,» le avevano detto «perché sei pura e ti rivelerà il motivo della sua collera. Ti dirà perché non manda i venti favorevoli e non lascia partire la flotta. Tu poi, al tuo risveglio, lo rivelerai a noi.» Ricordava, l’Atride, come aveva distolto lo sguardo dall’altare quando il sacerdote aveva impugnato il coltello di selce per aprirle la vena del collo. Aveva dovuto essere presente perché il sacrificio fosse accettato, perché gli dei fossero paghi del suo dolore e della vita di una fanciulla innocente. Pensava al demone del potere che invade l’uomo come un morbo, un marchio che gli dei imprimono nell’animo dei re, un destino a cui non è possibile sottrarsi. I re sono fatti per compiere cose che nessun altro uomo potrebbe fare, nel bene e nel male. Possono dare la morte come gli dei e soffrire come gli uomini e non possono contare né sugli uni né sugli altri. Ho pensato molte volte a ciò che Agamennone aveva compiuto per raggiungere il suo scopo e mi sono chiesto se è possibile che un uomo giunga a tanto solo per conseguire o mantenere il potere e ancora oggi non so darmi una risposta. Ma alla luce di quanto accadde in seguito, forse una spiegazione c’è: forse egli agì con buona intenzione, per salvare tutti dal disastro totale, per scongiurare la fine che incombeva su tutti. Come re egli sapeva che, scatenando una guerra, avrebbe condotto a morte a migliaia i figli del suo popolo. Come re egli mostrò che per primo era capace di offrire la vita della figlia più amata. Se questo è vero, la sua fine fu una ingiustizia terribile. Avendo sofferto tutto quello che un uomo può soffrire nella vita egli subì una morte vergognosa, la stessa che avrebbe subito Diomede se non avesse agito con prudenza. Agamennone dunque fece sbarcare solo i prigionieri troiani e fra essi la figlia di Priamo, Cassandra, lasciando il bottino a bordo delle navi; pensava che il giorno successivo avrebbe mandato da Micene uomini e carri per caricarlo e portarlo nel
suo palazzo. Lo accompagnavano il suo auriga e i compagni più fedeli, i nobili che per tutta la durata della guerra avevano combattuto al suo fianco. Gli altri restarono sulla spiaggia a dormire e ad attendere che il giorno dopo, spartito il bottino, fosse loro consentito di raggiungere le loro famiglie. Pensavano infatti che non avrebbero potuto presentarsi a mani vuote dopo essere stati lontani per tanto tempo. Tutto era silenzio attorno nella campagna ma al passare della colonna armata i cani che dormivano davanti agli ovili e alle fattorie si svegliavano e cominciavano ad abbaiare e dalle alture si levava, lungo e modulato, il suono del corno. Era un suono pieno di angoscia, come se segnalasse il passaggio di un nemico invasore. Quando Agamennone giunse in vista di Micene si accorse che la città lo attendeva: sugli spalti guardie armate reggevano torce accese e altre torce ardevano sugli stipiti della grande porta. Lo stemma dei re micenei, due leoni con la testa d’oro affrontati a una colonna rossa su fondo azzurro, spiccava sull’immane architrave, sugli stipiti giganteschi, sulla nera apertura spalancata. Il re si commosse nel rivedere l’emblema della più potente dinastia degli Achei, ma il grande vano scuro gli sembrò in quel momento la porta della Casa dell’Ade. I soldati dagli spalti batteron le lance sugli scudi per salutarlo mentre i suoi cavalli arrancavano per la rampa che portava al palazzo. Oltre la porta, sulla sua destra, altre fiaccole illuminavano il recinto delle tombe dei re Perseidi, i primi che avevano regnato sulla città, discendenti di Perseo, il fondatore, il vincitore di Medusa. Quel sacro recinto era stato restaurato nel momento in cui la nuova dinastia del Pelopidi aveva preso il potere, a significare la continuità e il rispetto per la tradizione. Dall’altra parte della valle, nel fianco della montagna, si apriva l’enorme cupola di pietra della sua tomba che egli stesso si era fatto preparare prima di partire per la guerra. Sotto quella volta immensa un giorno anch’egli avrebbe riposato, avvolto in un candido lino, il volto coperto da una maschera d’oro che ne perpetuasse in eterno le fattezze... se agli dei fosse piaciuto concedergli, alla fine della sua esistenza, una morte dignitosa e l’onore di esequie solenni. Ma non c’era gente lungo la via, il rumore degli zoccoli dei cavalli e delle ruote del cocchio risuonava contro le pareti buie e le porte chiuse. Alle sue spalle gemettero i cardini della porta e i battenti si richiusero con un rombo sordo; molti dei suoi compagni portarono la mano all’impugnatura della spada. Gli occhi di Cassandra, al suo fianco sul carro, erano vuoti come il cerchio della luna nuova. Ma prima che egli scendesse davanti alla sua casa ella sembrò riscuotersi, gli toccò un braccio e quando egli si fu girato verso di lei gli mormorò qualcosa all’orecchio. Il volto di Agamennone s’imbiancò del pallore della morte: capì in quel momento che era stato ingannato; capì che gli Achei avevano combattuto dieci anni invano e si rese anche conto che la principessa gli offriva la possibilità di salvare almeno la vita. Ma era, la sua, una vita che non aveva più nessun valore. Entrò nel palazzo e le ancelle si inginocchiarono e gli baciarono le mani come se fosse rimasto assente solo pochi giorni, per una battuta al cinghiale, poi lo
condussero alla stanza da bagno per prepararlo all’incontro con la regina. Cassandra e i compagni furono condotti nella sala del trono. Agamennone si lasciò togliere l’armatura, si lasciò spogliare e lavare. Le mani delle fanciulle indugiavano sul suo corpo duro, solcato da cicatrici, spremevano sulle sue spalle acqua bollente da grandi spugne marine, versavano sul suo capo olio profumato. Morì quella notte. Dicono che l’amante della regina, Egisto, lo colpisse di sua mano durante il banchetto mentre mangiava. Gli calò sul collo la scure ed egli crollò a terra, come un toro macellato davanti alla greppia. Ma non morì subito. Si trascinò sul pavimento gridando e gettando sangue dalla ferita. Cercò di difendere Cassandra mentre la regina colpiva anche lei con il pugnale. Morì ai suoi piedi mentre dintorno il palazzo risuonava delle grida dei compagni che cadevano uno a uno sotto i colpi degli assalitori. Si batterono fino all’ultimo anche a mani nude, anche mutilati di un braccio o di una gamba perché erano i migliori fra gli Achei quando Agamennone li aveva scelti partendo per Troia. Il pavimento era tutto coperto di sangue e il comandante delle guardie a stento riusciva a reggersi in piedi quando passò alla fine a tagliare la gola a tutti quelli che erano ancora vivi. I loro corpi furono sepolti tutti insieme in una grande cisterna vuota prima che si levasse il sole e gli abitanti della città potessero scoprire ciò che era accaduto. Poi le ancelle lavarono la grande sala e la purificarono con il fuoco e con lo zolfo. In quella stessa notte altri armati uscirono coi carri da guerra e corsero al mare a Nauplio, dove era ancorata la flotta. La regina Klitemnestra aveva loro ordinato di impadronirsi della nave del re ma il suo disegno non poté compiersi. Prima di entrare in città Agamennone aveva ordinato al suo scudiero Antimaco di salire sul colle che domina la città. Gli aveva detto: «Ho un presentimento, come di una disgrazia che incomba su di me. Non so se la regina mi avrà conservato fedele il suo cuore. Ma tu sali su quella cima da dove si domina perfettamente la vista del palazzo. Quando il banchetto sarà terminato e si spegneranno i lumi nelle stanze io salirò sulla torre del baratro con una torcia accesa in mano. Allora entra anche tu nel palazzo, mangia e bevi e prendi il tuo riposo. Ma se non mi vedrai, allora vorrà dire che nel palazzo sono stato tradito. Accendi un fuoco sulla cima del colle. Il vento alzerà subito la fiamma e lo renderà visibile dal mare. Là sapranno cosa fare». Così aveva detto il re e Antimaco aveva obbedito. Quando udì le grida dei feriti, quando vide che i cadaveri dei compagni erano condotti fuori dal palazzo comprese che cosa aveva voluto dirgli Agamennone. Accese il fuoco e le fiamme si alzarono vigorose spinte dal vento che soffia sempre su quella cima durante la notte e il segnale fu visto da lontano dalle sentinelle che vegliavano sulla tolda della nave del re. Subito capirono che cosa era accaduto ed appiccarono il fuoco alla nave bruciandola con tutti i suoi tesori. Le altre navi salparono e si allontanarono nella notte.
Nessuno seppe mai dove fossero andate. Forse alcuni cercarono una nuova terra da abitare, forse altri si trasformarono in pirati portando rovina alle popolazioni rivierasche, forse altri ancora cercarono un approdo nascosto e raggiunsero le loro case furtivamente riabbracciando le spose e i figli. Il giorno dopo giunse a Micene un messaggero da parte della regina Egialea per annunciare quanto era accaduto ad Argo. Klitemnestra lo ricevette da sola verso sera nella sala del trono quasi buia per non mostrare il volto disfatto dalla veglia e dalla fatica, le occhiaie scure e la fronte terrea. Apprese che Diomede era sfuggito a stento alla morte ma che il suo fato lo avrebbe certamente colto sul mare sul quale aveva cercato scampo nella cattiva stagione quando i venti sono contrari e le onde minacciose. Klitemnestra fece riferire che Agamennone era morto scontando i suoi delitti e Menelao non era ancora ritornato. E nemmeno si avevano più notizie di Idomeneo a Creta. Aveva anche inviato da tempo una nave a Itaca da sua cugina Penelope e attendeva una risposta. Quando Elena fosse tornata le regine avrebbero regnato sugli Achei. Il messaggero ripartì al calare della notte e Klitemnestra rimase sola accanto al trono di Agamennone. La sala vuota e silenziosa echeggiava tuttavia ancora di grida, di rantoli, di imprecazioni, come se la strage continuasse senza fine.
Intanto, lontano sul mare, le navi di Diomede avevano doppiato il capo tenaro ed erano passate in vista di Abia, una città che Agamennone aveva promesso ad Achille se fosse tornato a combattere dimenticando il suo rancore. Un pallido sole illuminava le case affacciate sul mare, le barche da pesca e le navi tirate in secca sulla spiaggia. Non era più il tempo di navigare. Stava entrando nel regno di Nestore e meditava se fermarsi e chiedergli ospitalità o proseguire verso settentrione dove dicevano fosse il passaggio per la Terra della Sera. Chi vi era stato raccontava di immense pianure in cui pascolavano migliaia di cavalli e di montagne altissime sempre coperte di neve che solo Eracle era riuscito ad attraversare quando aveva raggiunto il giardino delle Esperidi e la casa di Atlante che regge il cielo sulle spalle. Era una terra incredibilmente ricca dove scorreva il fiume Eridano, tanto grande che il mare, attorno alla sua foce, cambiava di colore per una enorme estensione e l’acqua era dolce. Là c’erano le isole Elettridi dove di notte cadevano dal cielo gocce di ambra purissima che veniva raccolta dagli abitanti e venduta ai mercanti che giungevano fin là. Pensò che Nestore gli avrebbe chiesto il motivo del suo viaggio, perché abbandonava la patria dopo averla tanto desiderata durante la guerra interminabile. Gli avrebbe offerto il suo aiuto, la flotta e l’esercito per riconquistare la città e il regno ed egli avrebbe dovuto rifiutare, spiegare perché non c’era più una vita per lui ad Argo e nel palazzo. Preferì proseguire. E guardò dal parapetto della sua nave il palazzo sfiorato dall’ultima luce del tramonto che si ergeva contro il cielo già scuro. Si accendevano in quel momento le lucerne e le torce nelle grandi sale, si accendeva il fuoco nel focolare, le ancelle portavano i lebeti e vi mettevano pezzi di carne a bollire e il re scendeva dalle sue stanze per sedere a banchetto con i figli
fortissimi e con le nuore fiorenti. Pensò come sarebbe stato bello sedere e ricordare insieme i pericoli e le sofferenze patite in guerra, ascoltare il canto dell’aedo fino a tarda notte bevendo vino. E vedeva anche le luci accendersi nelle case dei pescatori e degli artigiani e anche loro invidiava: in quel momento avrebbe preferito essere un povero, un uomo da nulla ma avere una casa, una mensa a cui sedere assieme ai figli e alla sposa e parlare del tempo, del lavoro della giornata. Invece viaggiava verso una meta sconosciuta sul dorso del mare sterile e freddo. Le luci del Pilo riflesse nell’acqua lo accompagnarono per un poco e poi si spensero nella notte che inghiottiva il cielo e il mare. Non c’erano più rumori nell’aria, solo lo sciabordio dell’acqua contro la nave e il fruscio del vento nella vela. Il pilota reggeva il timone e teneva lo sguardo fisso alla stella del piccolo carro. Il re gli aveva ordinato di seguirla finché lui non gli avesse detto di fermarsi. Per molti giorni avrebbero dovuto solcare le onde verso le tenebre e la notte allontanandosi dal sole e dalla luce finché l’acqua del mare non avesse cambiato colore e il suo sapore non divenisse dolce al palato. Le foci di Eridano. Sfinito dalla stanchezza e dai sentimenti che gli agitavano l’animo si addormentò alla fine su un giaciglio di pelli appoggiando la testa a un rotolo di corda e sognò di essere nel suo palazzo, disteso accanto a Egialea nuda e bianca. I suoi capelli emanavano un intenso profumo, le sue labbra erano socchiuse, la sua pelle dorata dal riflesso della lucerna. Egli le si accostava per accarezzarla ma sotto il tocco delle sue dita sentiva squame viscide e fredde, come di un serpente o di un drago che si fosse annidato nel letto e che improvvisamente gli si rivoltava contro mordendogli la mano. E la mano diventava livida e gonfia di veleno. Si svegliò più volte e si riaddormentò mentre i compagni a turno reggevano il timone e attizzavano il fuoco nel braciere perché le navi non si perdessero di vista. Al sorgere del sole vide le isole di Ulisse: prima Zacinto e poi Dulichio e Same e da ultima Itaca. Le prime erano illuminate dal sole mentre l’ultima era ancora avvolta nella notte, coperta dall’ombra delle montagne di Tesprotia. Pensò di prendere terra a Itaca dopo aver nascosto le altre navi dietro l’isoletta di Asteris. Voleva sapere che cosa era stato di Ulisse, se era giunto in patria o se era ancora lontano ma non voleva rivelarsi alla regina Penelope non sapendo quale fosse la sua mente. Se avesse ritrovato Ulisse gli avrebbe chiesto consiglio per la navigazione che intendeva intraprendere perché nessuno conosceva il mare e le sue insidie come lui, nessuno era in grado di consigliarlo come lui avrebbe potuto fare. Scese a terra senz’armi, vestito come un semplice mercante e salì al palazzo. C’era un bambino di forse dieci anni che giocava nel cortile con un cane. Gli chiese: «Chi sei ospite straniero? Da dove vieni?» «Sono un marinaio» rispose. «Sono partito ieri sera dal Pilo e voglio incontrare il re. Conducimi da lui, se è possibile.» Il bambino abbassò il capo: «Il re non c’è» disse. «Mi hanno detto che stava per tornare, che sarebbe arrivato da un giorno all’altro, ma i giorni passano e lui non torna... non torna.»
Diomede lo guardò e lo riconobbe. Riconobbe chiarissimi i lineamenti di Ulisse: gli occhi scuri percorsi da una luce mutevole, gli zigomi larghi, le labbra sottili. Si sentì commuovere, si sentì anch’egli bambino quando sedeva sui gradini del palazzo e attendeva il padre che combatteva lontano. Ricordava quando ritornò, Tideo glorioso. Era disteso su un carro trainato da buoi, rivestito dell’armatura, coperto da un mantello rosso sangue e il volto cereo tenuto da una benda che gli serrava la mascella. Il corpo sobbalzava ogni volta che le ruote incontravano una buca o una pietra e il capo batteva contro il legno del carro. E donne vestite di nero levavano grida acute, strazianti... Gli appoggiò una mano sul capo: «Telemaco,» disse «sei Telemaco.» Il bambino lo guardò stupito: «Come sai il mio nome? Io non ti ho mai visto» Diomede rispose: «Conoscevo tuo padre, il re Ulisse... ero un suo amico... E così ti ho riconosciuto perché si vede subito che sei suo figlio» «Credi che tornerà mio padre?» chiese ancora il bambino. «Certamente» rispose Diomede. «Tornerà con le rondini e ti porterà dei doni bellissimi.» «Vuoi vedere mia madre?» «No, figlio mio, non voglio disturbare la regina e distoglierla dalle sue attività. Certamente ha molto da fare nel palazzo.» Il piccolo principe insistette: «Vieni, a mia madre farà piacere parlare con un amico di mio padre. Ti prego». Lo prese per mano e lo portò in casa. Diomede lo seguì. Pensò che comunque Penelope non lo aveva mai visto ed egli avrebbe potuto mantenere nascosta la sua identità. La regina lo ricevette nella sala. La nutrice gli porse uno sgabello e gli mise davanti pane e vino. Penelope era piccola di statura ma molto bella. Aveva capelli neri e occhi chiari, mani piccole e forti, fianchi rotondi e un seno alto e fermo come tutte le donne di Sparta. «Hai fatto la guerra?» gli chiese. «Sì. Ero con Diomede.» «E perché hai abbandonato il tuo re? È forse morto?» «È come se lo fosse. Ma perché, regina, mi chiedi di Diomede? Perché non chiedi di Ulisse, tuo marito?» «Ulisse...» La regina abbassò la fronte e i due riccioli che le ornavano le tempie le ombreggiarono le guance. «Lo aspettiamo. Dovrebbe tornare presto... non credi?» «Ulisse non venne con noi. Tornò da Agamennone che aveva deciso di attendere per sacrificare un’ecatombe di espiazione agli dei. Non abbiamo più saputo nulla di lui... ma sono certo che lo rivedrai. Forse si attarda a predare lungo le coste per arricchire il suo bottino, forse è trattenuto dal tempo cattivo e preferisce aspettare in un luogo riparato la buona stagione. Lui è prudente, calcola sempre il rischio che deve affrontare.»
«Lui non la voleva questa guerra. Non voleva partire, lasciare me, il bambino...» «Ma è lui che l’ha vinta. La città è caduta per un suo stratagemma.» «Mia cugina, la regina Elena... è tornata?» «No. Era con Menelao ma sono scomparsi una notte prima che doppiassimo il Sunion. Forse il vento li ha portati lontano... a Cipro o in Egitto... chissà?» «Perché, quando ti ho chiesto di Diomede mi hai detto “è come se fosse morto”? Dimmi la verità lo hanno ucciso? O lo hanno imprigionato al suo ritorno?» C’era una certa trepidazione nella sua voce, come se temesse il peggio, ma sembrava anche che, in qualche modo, sapesse qualcosa. «La regina Egialea ci ha teso un agguato. Io e altri dei miei compagni ci siamo salvati a stento. Del nostro re non sappiamo più nulla. Per questo ti ho detto “è come se fosse morto” Amava la sua sposa. E stato facile coglierlo di sorpresa. Quella cagna lo ha tradito dopo che era scampato a tanti pericoli nei campi di Ilio.» Penelope ebbe un lieve sussulto: «Non dire così. I dolori della guerra gravano molto più sulle donne che sugli uomini. Che ne sapete voi di che cosa passa per la mente di una donna quando vive per anni, per migliaia di giorni e di notti nell’attesa, nella continua illusione e nella continua delusione? L’amore può trasformarsi in odio... o in follia. E a volte la follia colpisce indistintamente, come un morbo. La regina Klitemnestra... anche lei...». «Ha tradito?» chiese Diomede. «No. Anche lei segue un antico destino. Tanto tempo fa in questa terra regnavano le regine e in cielo regnava una grande dea, madre di tutti i viventi. La loro stirpe è ancora viva. Mentre gli uomini si distruggono con la guerra le regine preparano il ritorno all’ordine antico quando il lupo pascolava con l’agnello, quando Persephone non era ancora stata rapita nell’Ade, quando non c’era l’inverno ma l’eterna primavera.» «La congiura delle regine...» mormorò Diomede. «Dicono che si perpetui da secoli... Medea contro Giasone, Deianira contro Eracle, Fedra contro Teseo, le cinquanta figlie di Danao che massacrarono i loro mariti. Anche tu come loro? Anche tu ti prepari a uccidere Ulisse? Non vi riuscirai. Nessuno può sorprenderlo con l’inganno. Io l’ho conosciuto.» Un raggio di luce illuminò la fronte di Penelope: «L’hai conosciuto? Dammene una prova, se vuoi che ti creda» «Ha una cicatrice sulla gamba sinistra e una macchia di pelle sopra il ginocchio. Ha il volto largo e le labbra sottili. Ampie spalle, ampio petto, gambe lunghe per la sua statura. E un sorriso strano... sorride sempre quando sta per vibrare il colpo mortale... Perché vuoi ucciderlo, wanaxa, perché?» «No» disse Penelope. «Non lo ucciderò, benché mi sia stato chiesto. E lo sai perché? Perché non è lui che mi ha scelta, ma io che ho scelto lui. Mio padre Icario non voleva, ma io mi coprii il volto appena lo vidi perché avevo capito che sarebbe stato l’unico uomo della mia vita. Mi coprii il volto con un velo per fargli capire che volevo essere la sua sposa. Lui o nessun altro. Io l’ho scelto: era il più povero
fra i re, sovrano di isole aride e rocciose, ma la sua voce era sonora e suadente. Quando parlava tutti restavano incantati ad ascoltarlo. «Lui non voleva questa guerra. Anche in lui vive il sangue dell’antica razza... Oppose l’astuzia alla forza... invano. Quando giunse il messo di Agamennone a chiedergli di partire per la guerra lo trovò che arava la spiaggia avendo aggiogato un asino e un toro. Presero Telemaco dalla culla e lo misero davanti alle bestie. E lui si slanciò a raccogliere il piccolo e lo stringeva contro il petto. Così apparve chiaro che non era pazzo e dovette partire... Lui mi ha costruito un talamo fra i rami di un albero, fra le braccia di un olivo, come il nido di un uccello. Quale uomo mai farebbe una cosa simile? I re degli Achei hanno costruito nidi di pietra per le loro spose, mura gelide che stillano sangue.» «Come sai di Klitemnestra? E di... Egialea... Perché anche di lei tu sai, non è vero?» «Sì. Tutti saranno cacciati: Idomeneo da Creta, Diomede da Argo, Menelao da Sparta... o uccisi. Klitemnestra ucciderà. Se già non ha ucciso.» Diomede si nascose il volto nel mantello: «Oh grande Atride...» mormorò fra sé. «Guardati le spalle. Non ci siamo più noi al tuo fianco, non ci siamo più... non ci siamo più» Piangeva. Le lacrime scendevano copiose dai suoi occhi, stillavano fra i riccioli biondi della barba. «Chi sei?» chiese Penelope. «Il mio nome è Leóde.» «Chi sei?» chiese ancora Penelope. «Un uomo che fugge... Avrei voluto chiedere consiglio a tuo marito, il saggio Ulisse, prima di affrontare l’ignoto ma anche questo gli dei hanno voluto negarmi.» Si alzò per andarsene ma Penelope lo fermò. Aveva negli occhi una luce strana, come di complice astuzia. «Dimmi, ti manda lui, vero? Lui è nascosto qua vicino e ti ha mandato per vedere, per conoscere e riferirgli tutto. Lo so, lui è fatto così ma io non sono offesa. Lo capisco. Digli che lo capisco ma che torni subito, ti supplico. Sono sicura che è così, non è vero? Non è vero?» Diomede si volse: «No, wanaxa. Purtroppo non è così. Ti ho detto la verità. Ulisse ci lasciò a Tenedo e tornò indietro.» Penelope cominciò a tremare. Le tremavano le labbra e le mani e le tremavano lacrime sotto le ciglia nere: «Ti prego, non tormentarmi,» disse «non continuare a mentire. Già abbastanza mi hai messo alla prova. Se è lui che ti manda corri a dirgli che ho conservato intatto il suo talamo, come un recinto sacro. Digli che torni. Ti supplico.» Diomede si alzò per andarsene. E invidiava in cuor suo il figlio di Laerte perché aveva una sposa innamorata. «Mi spiace, wanaxa. Non sono quello che tu credi. Io stesso lo cerco e non so ove si trovi. Ma se un giorno tornerà digli che un amico fu qui a cercarlo, un amico che fu al suo fianco sui campi di Ilio la notte che egli indossò l’elmo di Merione. Lui capirà. Lui ti dirà tutto di me. Ora lascia che io parta, che drizzi la prora verso il mare settentrionale, verso il buio e verso la sera. Addio.»
Uscì e Telemaco lo seguì per un poco: «Dimmi,» gli chiese «l’hai visto di recente? Che aspetto ha? Com’è mio padre?» Diomede si fermò ancora un momento: «Ha l’aspetto che tu immagini. Quando lo vedrai lo riconoscerai.» «Non voglio restare qui ad aspettarlo» disse il piccolo principe. «Prendimi con te a cercarlo sul mare. Lavorerò, guadagnerò il mio pane come un servo ma prendimi con te a cercarlo.» L’eroe gli passò una mano fra i capelli: «Non posso» disse. «Non posso, anche se lo vorrei.» Il bambino cessò di seguirlo e si sedette su un sasso ad osservarlo mentre scendeva di nuovo verso il porto. Un cane lo raggiunse e gli si accucciò ai piedi ed egli lo accarezzava, lo abbracciava stretto e lo chiamava per nome: «Argo, Argo.» Diomede si voltò al suono di quella parola, guardò il bambino e il cane poi disse: «Quando tornerà non lasciarlo più partire, mai più...». Riprese il suo cammino e raggiunse il porto al calar del sole. Alcuni pescatori si erano avvicinati ai suoi compagni che erano rimasti sulla nave e parlavano con loro, cercavano di vendere loro dei pesci che avevano pescato in cambio di resina e pece, se ne avevano. Diomede salì a bordo e fece mollare gli ormeggi. I compagni si misero ai remi ed egli guidò la nave fino ad Asteris dove attendeva il resto della sua flotta. Dormirono sui banchi e all’alba ripresero il viaggio. Si era alzato un vento da sud e le navi issarono la vela. Anche la corrente li portava a settentrione, verso il buio e la notte. Il suo pilota, Mirsilo, gli chiese: «Hai avuto notizie di Ulisse? Lo hai visto?» «No» rispose Diomede. «Non è tornato. Lo scongiurai di non tornare a Ilio. Il tempo stava peggiorando. Forse sono stati colti dalla tempesta quando finalmente hanno deciso di partire e il vento li ha gettati su qualche spiaggia sconosciuta. Ulisse è il migliore di tutti noi sul mare. Se non è tornato lui, ben pochi devono essersi salvati... Che cosa hai saputo della navigazione che ci attende?» «C’è una terra qui di fronte, verso Occidente» rispose il nocchiero. «È un’isola secondo alcuni, o una penisola. C’è terra anche a oriente. Nessuno di questi Itacesi si è spinto mai tanto a settentrione da incontrare altre terre in quella direzione. Ma hanno sentito dire che i venti sono pericolosi e improvvisi, gli scogli molti e insidiosi. La terra che si stende a settentrione è diversa, è bassa sul mare, spesso avvolta di nebbia e di nube; per lungo tempo il sole non la tocca con i suoi raggi né quando sorge al mattino né quando tramonta la sera. La gente che abita quella terra è sconosciuta a tutti e la loro lingua è incomprensibile.» «È là che dirigeremo» disse il re. Poi andò a prua e restò così, immobile, con la testa nel vento e il sole sui capelli biondi che gli scendevano fin sulle spalle. Gettò l’umile mantello con cui si era presentato a Itaca per sorprendere in quel modo Ulisse. Ma Ulisse non c’era. Da quel momento in poi il suo viaggio si svolgeva nell’ignoto e solo la memoria degli amici di un tempo avrebbe potuto seguirlo. Navigarono per molti giorni e si fermarono ogni notte in terraferma dove un promontorio si spingeva nel mare lontano dal continente o dove un’isoletta offriva riparo. In pochi si spingevano nell’interno a cercare acqua e cibo. A volte
gettavano le reti e prendevano dei pesci o lungo la spiaggia e fra gli scogli raccoglievano granchi, conchiglie e altri frutti del mare. L’aspetto della costa era sempre molto simile: insenature e promontori, isole piccole e grandi e all’orizzonte, verso oriente, li seguiva sempre una catena di montagne, ora alte, ora più basse che talvolta si spingevano a precipizio fin sul mare. Videro anche uomini che pescavano vicino alla costa gettando le reti da piccole barche scavate in un solo tronco d’albero. A volte, di notte, vedevano luci palpitare nel buio, fuochi accendersi sulle cime dei monti, sentivano echeggiare richiami fra le gole scoscese, simili alle strida delle aquile. Man mano che procedevano verso settentrione il cielo diveniva sempre più grigio e cupo e anche il mare diveniva dello stesso colore. Un giorno i compagni gli chiesero di scendere a terra. Avevano visto la foce di un fiume e su quello una piccola città. Volevano predare cibo e donne prima di continuare il viaggio. Diomede acconsentì benché fosse contrario. Chi abita una terra molto povera diventa duro e feroce: egli temeva ciò che poteva nascondersi dietro la linea delle montagne che incombevano vicine. Presero terra in una piccola insenatura e gettarono le ancore. Mirsilo guidò un gruppo di compagni sulla cima di un colle per osservare la città. Era un raggruppamento di capanne raccolte lungo le rive del fiume e ciascuna capanna aveva anche un recinto per gli animali. Si udivano belati e il raglio sonoro dell’asino e l’abbaiare dei cani. Ma nessuna voce umana. Calava la sera ma gli uomini non rientravano nelle loro capanne: sentivano la presenza di un nemico. Tutti assieme, armati, sedevano all’aperto e fiutavano il vento come i cani da pastore, attorno a un gregge, levano il muso in alto se l’odore del lupo passa nell’aria.
3
Al calare dell’oscurità Mirsilo guidò l’attacco ma Diomede, che era contrario, non volle partecipare all’impresa. Aveva consentito che prendessero cibo e donne ma aveva ordinato, per quanto era possibile, di risparmiare la popolazione. Rimase sulla sua nave con pochi compagni mentre Mirsilo e i suoi uomini si lanciavano in avanti gridando. Altre grida echeggiarono dal fondo della valle, dalle case della piccola città e ben presto si accese la zuffa. Erano poveri e con armi rozze e primitive ma si battevano con furore difendendo le mogli e i figli. La loro resistenza non durò a lungo. Dopo che al primo scontro le loro armi si furono spezzate si ritirarono continuando a lanciare pietre ma non potevano ferire gli assalitori protetti dai grandi scudi di bronzo e dagli elmi crestati. Si sarebbero fatti uccidere tutti se non fosse successo qualcosa di spaventoso che atterrì anche gli assalitori. Dalle montagne venne a un tratto un suono acuto e prolungato di corno e poi un grido come se migliaia e migliaia di uomini gridassero assieme. E in quel momento una moltitudine si affacciò al passo che scendeva verso la valle e il mare. Portavano fiaccole accese e le luci formavano un fiume che ondeggiava fra i fianchi boscosi della montagna. Gli uomini del villaggio e i guerrieri Achei che combattevano nella piccola pianura presso il villaggio non se ne accorsero, impegnati come erano nella mischia ma le donne si voltarono verso la montagna e poi verso il mare e levarono in alto le braccia nel gesto della disperazione. In pochi attimi la loro esistenza tranquilla era investita e travolta, la loro piccola città aggredita dalla terra e dal mare da sconosciuti che non sapevano nulla gli uni degli altri. Diomede dalla sua nave vide e comprese subito quale pericolo incombeva ai compagni. Chiamò il suo servo, un hittita di nome Telefo, che aveva preso prigioniero a Ilio, e gli comandò di suonare il segnale di ritirata con la tromba, ma la valle echeggiava ormai tutta di grida confuse, di un fragore di armi, di nitriti di cavalli. Mirsilo e i suoi non udirono e continuarono a sospingere indietro gli avversari. Diomede vide le prime avanguardie degli invasori aggirarli dalla parte delle montagne e della città. Erano gente selvaggia e spietata: volavano come ombre fra le capanne montando i loro cavalli sulla groppa, portavano fuori tutto quello che trovavano all’interno ammucchiandolo da una parte poi appiccavano il fuoco. Spinte dal vento le fiamme si levavano altissime portando verso il cielo colonne di fumo e di faville. I guerrieri indigeni erano già stretti fra due opposti schieramenti di nemici ma ben presto, caduti loro, Mirsilo e i suoi si sarebbero trovati a loro volta accerchiati, senza via di scampo. Diomede indossò l’armatura e ordinò di spingere a remi le navi verso la costa.
La sua nave fu la prima ad entrare nel cerchio di luce che le fiamme diffondevano verso il mare ed egli apparve sulla prora vestito di bronzo accecante sotto lo stendardo dei re di Argo. Spalancò le braccia tenendo nella destra la lancia e nella sinistra lo scudo e lanciò il grido di guerra, il grido che atterriva un tempo i Troiani, gettando lo scompiglio fra le loro file, spaventando i cavalli. Il grido echeggiò due, tre volte e il clamore sulla spiaggia si spense. Gli invasori si volsero e restarono muti, colpiti da quell’apparizione. Alle loro spalle la lunga colonna continuava a scendere dalla montagna e ad ammassarsi rumoreggiando nell’entroterra. Mirsilo e i suoi approfittarono per arretrare con le spalle al mare. Erano stretti l’uno all’altro, spalla contro spalla, scudo contro scudo. Fra gli invasori uno si fece avanti, avanzò verso la spiaggia e lanciò a sua volta un grido agitando le armi e facendo cenno ai suoi di arretrare. Era evidente che accettava la sfida e lo scontro singolare. La nave reale avanzò ancora fino quasi alla spiaggia e Diomede saltò in acqua armato avanzando in direzione del suo avversario. Gli uomini di Mirsilo si aprirono per farlo passare e si richiusero alle sue spalle. Le onde si frangevano tranquille sui ciottoli della riva ma dal limite dell’orizzonte occidentale un lungo squarcio nelle nubi mostrava un lembo scarlatto come se il cielo, ferito, sanguinasse sul mare. Il guerriero sceso dalle montagne era un gigante ispido. Aveva la testa protetta da un casco di cuoio, una placca di bronzo sul petto retta da catene incrociate sul dorso, l’inguine villoso coperto da un perizoma. Scagliò per primo la lancia che colpì il centro dello scudo di Diomede ma l’umbone di metallo pieno la deviò. Il figlio di Tideo piantò saldamente il piede sinistro davanti a sé, palleggiò la lunga lancia ben equilibrata poi l’avventò con forza enorme. Il frassino saettò nell’aria come una folgore, trapassò lo scudo del nemico e colpì la placca che proteggeva il cuore. La scalfì ma non lo perforò. Un grido si alzò dal popolo ammassato dietro di lui. Il guerriero gettò lo scudo che non poteva più reggere e sguainò la spada. Anche Diomede sguainò la sua e si avvicinò sogguardando il nemico dall’orlo dello scudo; i suoi occhi dietro la celata erano accesi di furore, sull’elmo il cimiero ondeggiava tremendo, nel vento della sera. L’eroe d’un tratto calò un gran colpo dall’alto sulla testa del nemico ma questi lo parò con la sua spada. Diomede avventò un secondo colpo ancora più forte e la lama che un tempo aveva squarciato il ventre del dio della guerra cadde a terra tranciata di netto, come fosse stata di legno. L’eroe fu invaso dallo sgomento, il gelo gli penetrò nelle ossa. Il suo avversario gridò qualcosa e le sue parole suonavano stranamente famigliari anche se incomprensibili. Sembrava agli Achei schierati sulla riva di ricordare una lingua un tempo comune e poi del tutto dimenticata. Mirsilo cercò di lanciare la sua spada al re disarmato ma lui non poteva vederlo, non poteva distogliere lo sguardo dal nemico che avanzava ridendo e impugnando la spada. Era di un metallo lucente, percorso da bagliori scarlatti e azzurrini; la sua superficie non era liscia e perfetta come una lama di bronzo ma irregolare, come se avesse subito innumerevoli colpi. Di quel metallo doveva essere fatta la volta del cielo e forse quell’uomo aveva avuto quella
spada da un dio: nulla poteva vincerla. Il guerriero balzò d’un tratto in avanti e colpì con forza enorme. Diomede oppose lo scudo ma i colpi calavano sempre più forti e più fitti, facevano sprizzare scintille ad ogni impatto e il suo scudo andava in pezzi, si spezzava l’orlo lucente, saltavano le borchie ben connesse. Ben presto si sarebbe trovato senza difesa. Ma a un tratto il suo servo hittita, Telefo, gridò alle sue spalle: «Wanax! La sua lancia è conficcata nella sabbia a tre passi proprio dietro di te!» E Diomede comprese, arretrò prima lentamente, poi, in un momento, scagliò lo scudo contro il suo avversario, si volse fulmineo, divelse la lancia da terra e mentre il nemico si scopriva per deviare l’oggetto scagliato contro di lui, gliel’avventò in pieno petto. La lama trapassò le piastre, gli spaccò il cuore e uscì dalla schiena. Il guerriero ondeggiò per un momento come una quercia a cui i boscaioli recidono le radici, gli usciva sangue nero dalla bocca, poi crollò con la faccia nella sabbia. Si levò un lungo gemito fra le file degli invasori, un lamento e un grido di dolore che subito si mutò in un urlo furibondo e tutti si scagliarono in avanti. Erano cento volte più numerosi anche ora che gli altri compagni erano scesi dalle navi per dare man forte. Diomede vide che sarebbe stato inutile opporre resistenza e ordinò a tutti di gettarsi gli scudi sulle spalle e correre verso le navi: i compagni obbedirono ma mentre correvano verso il mare o si arrampicavano sulle fiancate delle navi non pochi furono colpiti e uccisi. Altri caddero, feriti, nelle mani dei nemici e furono fatti a pezzi, le loro teste infilzate su picche vennero scagliate sulle navi. Tutti corsero ai banchi di voga e cominciarono a remare più forte che potevano per sottrarsi al pericolo. Un gruppo di nemici afferrò la gomena dell’ancora della nave reale e cercava di trattenerla. Altri accorrevano e si attaccavano a grappoli e i rematori, benché vogassero con foga disperata inarcando la schiena, non riuscivano a vincere il peso e la resistenza sempre maggiore dei nemici. Il mare ribolliva tutto attorno ma la nave non riusciva ad allontanarsi. Il chiarore degli incendi era sufficiente a illuminare la massa di uomini che si ingrossava sempre più a trainare la gomena. Diomede si accorse che la nave cominciava a riavvicinarsi alla riva e che i compagni non riuscivano, remando, a vincere la forza di centinaia di nemici che ormai la trascinavano verso di loro. Le altre navi, intanto, erano già lontane: i loro piloti non si erano accorti, nell’oscurità fitta che copriva il mare aperto, che mancava la nave del re. Diomede diede ordine a tutti quelli che non erano ai remi di impugnare gli archi e di saettare verso la massa di nemici che trascinava la gomena dell’ancora. Egli stesso poi, afferrata una bipenne, si sporse dalla prua per tagliarla. I nemici se ne accorsero e a loro volta fecero avanzare gli arcieri che scagliarono nugoli di frecce verso la nave. Mirsilo accorse con lo scudo a proteggere il re che altrimenti sarebbe stato trafitto. In pochi attimi l’arma si appesantì per il gran numero di frecce che vi si conficcavano e a Mirsilo non bastava più la forza per reggerla. Gridava ansando: «Wanax! Presto, o moriremo tutti!» Diomede alzò ancora la bipenne sulla corda nel punto in cui passava sul parapetto e calò un colpo formidabile. L’ascia tranciò la gomena e si conficcò a fondo nel legno. Liberata
improvvisamente la nave arretrò sotto la spinta dei remi, lo scafo gemette affondando la poppa nelle onde poi per le grida di Mirsilo che scandiva la voga ruotò su se stesso, e mise la prua al mare. Mentre cominciava ad allontanarsi il re vide che un uomo nuotava con tutte le sue forze verso la nave, cercando di raggiungerla. Pensò che fosse uno dei compagni che tentava di sfuggire ai nemici e ordinò di gettargli una corda perché potesse aggrapparvisi. Mentre la nave si allontanava finalmente dalla riva, le urla dei nemici si affievolivano e il bagliore delle fiamme si attenuava in lontananza, l’uomo fu issato a bordo. Non era uno dei compagni: doveva essere uno degli abitanti della piccola città che bruciava. Privato della casa e della famiglia, atterrito da nemici crudeli, aveva scelto quelli che gli erano sembrati meno feroci. Si guardò intorno smarrito poi, visto il re, si gettò ai suoi piedi e gli abbracciò le ginocchia. Il re gli fece dare un vestito asciutto e del cibo e tornò a prua. Si volgeva indietro di tanto in tanto a guardare il palpitare dell’incendio e poi scrutava il mare aperto per cercare le altre navi. Mirsilo fece accendere il braciere a prora perché potessero vederlo e poco dopo altri fuochi si accesero sulle onde. Li contò: «Wanax,» disse «ci sono tutte» Il re fece fermare la nave e si volse nuovamente verso la riva. La colonna dei nemici si era rimessa in movimento e la lunga teoria di fiaccole si snodava verso mezzogiorno mentre il rogo della piccola città mandava gli ultimi deboli bagliori. «Vanno a meridione» disse il re. «Verso la nostra terra.» «Non è più la nostra terra» disse Mirsilo. «Ti sbagli» disse ancora il re. «Lo è e lo sarà per sempre, come il padre e la madre di un uomo sono per sempre padre e madre, anche se il figlio li abbandona.» Si volse verso lo straniero e indicando i lumi che passavano nella notte sulla riva verso meridione gli chiese: «Chi sono?» Lo straniero scosse la testa e Diomede ripeté: «Chi sono, chi è quella gente?» L’uomo parve capire ciò che gli veniva chiesto, spalancò nell’oscurità occhi pieni di paura e con voce sommessa, come se temesse il suono stesso della sua voce, disse: «Dor» «Non ho mai sentito parlare di questa gente ma credo che nulla potrà fermarli se hanno spade come quella che ho visto...» Il servo hittita si era avvicinato: «È ferro» disse. «Ferro?» chiese Diomede. «Che cos’è?» «È un metallo, come il rame e il bronzo, ma infinitamente più forte. Il fuoco non può renderlo liquido ma solo ammorbidirlo fra i carboni ardenti, dopo di che gli si dà forma con il martello sull’incudine. Tutti i nostri nobili nella città di Hatti, il re e i dignitari, sono armati con spade e asce di quel metallo. Con quelle hanno conquistato tutta l’Asia. Nessuno mi credeva quando raccontavo dell’esistenza di questo metallo. Ora sai che non mentivo.» Mentre parlavano una delle navi accostò e il pilota chiese: «Wanax, sei salvo?» «Sono salvo» rispose Diomede. «Ma abbiamo rischiato tutti di morire. Sei tu, Anchialo?» «Sono io, wanax. E sono felice di vederti.»
«Non per molto. Devi partire.» «Partire? Sono già partito, per venire con te. E non intendo lasciarti più.» «Devi tornare indietro, Anchialo. Hai visto quella moltitudine di selvaggi? Si chiamano... Dor ... Sono armati con un metallo che può tagliare il bronzo migliore, montano sul dorso dei cavalli formando un unico corpo, come centauri, sono numerosi come le formiche e vanno verso la terra degli Achei. Devi tornare indietro, devi avvertire Nestore, Agamennone, Menelao, se è tornato, Stenelo ad Argo, se si è salvato. Di loro ciò che hai visto, che apprestino le difese, che erigano un muro sull’istmo, che lancino sul mare le navi nere...» «Che t’importa, wanax,» rispose Anchialo «noi abbiamo scelto di navigare verso la notte, verso la terra delle Montagne di Ghiaccio e delle Montagne di Fuoco. Ciò che avverrà oltre l’orizzonte che ci siamo lasciati alle spalle non ci riguarda più.» «Io sono il tuo re. Io voglio che tu vada. Ora.» Anchialo abbassò il capo stringendo con le mani il parapetto della sua nave. «Farò come dici» rispose. «Ma poi tornerò per venire con te. Dicono che questo mare sia in realtà un golfo. Io ti verrò incontro, quando avrò fatto ciò che mi comandi e risalirò la costa finché non ti avrò ritrovato. Lascia un segno sulla spiaggia perché lo possa riconoscere.» «Lo farò. E ti rivedrò con gioia.» Intanto anche le altre navi erano sopraggiunte: i fuochi accesi nei bracieri a poppa riverberavano sulle onde un alone purpureo come una chiazza di sangue. «Ma prima che tu vada, rendiamo onore ai compagni che abbiamo perduto, nave per nave.» Tutti si alzarono impugnando un remo e, nave per nave, guardando la terra, gridarono più volte i nomi dei compagni perduti, massacrati dai nemici, fatti a pezzi, abbandonati senza sepoltura su una terra selvaggia e inospitale, poi Anchialo alzò la mano nel saluto e guidò indietro la sua nave, a forza di remi. La notte li inghiottì e il vento disperse lontano i nomi dei compagni. Diomede si ritirò a poppa e si coprì il capo in segno di lutto per la perdita di uomini valorosi. Dietro le nubi che attraversavano il cielo passavano strani fremiti di luce, di colore sanguigno. Forse erano le loro anime che cercavano la luce delle stelle, un’ultima volta, prima di precipitare nell’Ade. Lo straniero che avevano issato a bordo lo seguì e andò a sedersi ai suoi piedi. Lo aveva scelto come suo padrone e attendeva che gli rivolgesse la parola. Mirsilo, al suo fianco, reggeva il timone tenendo l’occhio fisso al piccolo carro, ogni volta che lo vedeva apparire fra una nube e l’altra. Non si poteva cercare un approdo così al buio rischiando di sfracellarsi contro gli scogli, né si poteva rimanere fermi per farsi portare alla deriva dal vento e dalle onde. Bisognava navigare, sperando nell’aiuto degli dei e nella buona sorte. Telefo, l’hittita, era seduto vicino a lui su un cesto e affilava il suo coltello con una cote. «Di che paese sei?» gli chiese Mirsilo per rompere il silenzio e la paura. «Voi ci chiamate Chetei ma siamo Hittiti. Il mio nome nativo è Telepinu e vengo da una città dell’interno che si chiama Kussara. Ho combattuto a lungo
come capitano di uno squadrone di carri nelle armate del nostro re Tudkhaliyas IV, che gli dei lo conservino, prima contro la lega di Assuwa che abbiamo sconfitto. Poi, quando arrivaste voi, la lega si ricostituì appoggiando Priamo e la sua città Vilusya, che voi Ahhijawa chiamate Ilio e anche noi a quel punto avremmo voluto aiutarlo ma non ci fu possibile. Altri popoli avevano invaso il nostro paese venendo da oriente e dai monti di Urartu. Il nostro re inviò un’ambasceria al re degli Egiziani ma anche l’Egitto era invaso da una turba di popoli che venivano dal deserto e dal mare... Se avessimo potuto schierare contro di voi tutto il nostro esercito e i carri da battaglia vi avremmo ricacciati in mare. Nulla può resistere alla carica di un battaglione di carri hittiti.» Mirsilo sorrise nel buio: «Dicono tutti così. Ahhijawa... è così che ci chiamate... È strano, nessun popolo esiste per quello che è ma per come gli altri lo considerano e lo vedono. Hai visto anche l’Egitto?». «Oh, sì. Ero stato inviato come scorta ad un nostro principe che andava in visita al loro re che chiamano Faraone. I loro re conoscono il segreto dell’immortalità ma non lo rivelano a nessuno. Duemila anni fa già costruivano tombe di pietra grandi come montagne, i loro sacerdoti sono capaci di oscurare il sole e di farlo riapparire e hanno un fiume gigantesco che nutre mostri con la bocca piena di denti e con il dorso coperto di una corazza che nessun’arma può penetrare.» Mirsilo sorrise: «Sono belle le tue storie, Cheteo. Per caso sai anche qualcosa di questa terra che andiamo cercando?» «No. Non ne ho mai sentito parlare, ma quel popolo che marcia verso meridione è un segnale che mi rende inquieto.» Si udì, sospeso sulle loro teste, il richiamo di uno stormo di gru che passavano nella notte. L’hittita si strinse il mantello attorno alle spalle: «Noi stiamo andando là da dove essi fuggono. Noi andiamo nella direzione contraria alle gru che abbandonano luoghi inospitali dove non possono vivere durante l’inverno... Hai notato quelle strane luci dietro le nubi? Non ho mai visto nulla del genere in vita mia. E mai, a memoria d’uomo, si sono visti tanti popoli cambiare sede percorrendo distanze enormi. È accaduto qualcosa che li ha spaventati o qualcosa li muove senza che essi se ne accorgano... come quando le locuste improvvisamente e senza una ragione si radunano e cominciano a migrare, distruggendo tutto sul loro cammino...». Si volse a guardare il re che stava immobile e silenzioso vicino al parapetto, con il mantello tirato sul capo. «Anche voi state fuggendo... senza sapere dove» disse. «E io con voi.» Si coprì, si rannicchiò fra i cesti e le corde per ripararsi dall’umidità della notte. Diomede si volse in quell’attimo verso il pilota: «Sei ben sveglio?» gli chiese. «Sono sveglio, wanax, e tengo la rotta e il vento. Dormi se puoi.» Il re stese allora una pelle d’orso e vi si sdraiò sopra coprendosi con il mantello. Sospirava, afflitto per i compagni perduti. Il servo hittita attese che il re si fosse addormentato poi si avvicinò al pilota e indicando una cassa legata all’albero disse: «Tu lo sai che cosa c’è la dentro?» Mirsilo nemmeno si volse verso di lui, continuava a tenere gli occhi fissi al cielo: «Dentro a che?» chiese.
«Lo sai. Dentro a quella cassa legata all’albero maestro.» «Chiedilo ancora una volta e ti taglio la testa.» «Con chi credi di parlare?» disse ancora il servo. «Credi di potermi trattare come un topo solo perché sono caduto in servitù? Io sono un soldato hittita, ero comandante di uno squadrone di carri. E non sono nato ieri: c’è qualcosa di strano in quella cassa.» «Ancora una parola e ti taglio la testa» disse ancora Mirsilo. Il servo hittita non disse più nulla. Gli altri uomini si erano sdraiati sul fondo della nave e dormivano sotto ai loro mantelli. Lo straniero che era salito a bordo stava invece seduto contro la paratia della nave con le gambe strette contro il petto e la testa appoggiata sulle ginocchia. Il servo hittita lo guardò per un poco poi gli si avvicinò. La luce del braciere acceso a poppa illuminava il suo volto scuro: «Che razza di uomo sei?» gli chiese nella sua lingua. Lo straniero alzò la testa e nella stessa lingua gli rispose: «Io sono un Chnan.» «Un Chnan... e che ci fai in questo posto? E parli hittita... Dove l’hai imparato?» «I Chnan parlano molte lingue perché vanno presso tutti i popoli con i loro commerci.» «Allora non sei uno di quei disgraziati a cui hanno distrutto la città?» «No. Siamo stati spinti quassù da una tempesta due mesi fa, sul finire dell’estate. La mia nave è affondata e io mi sono salvato a stento. Mi hanno accolto, mi hanno sfamato. Non meritavano di morire.» «Nemmeno noi meritiamo di morire. Conosci qualcuno che meriti di morire? Sprofondare nel buio lasciando per sempre il profumo dell’aria e del mare, i colori del cielo, dei monti e dei prati, il sapore del pane e l’amore delle donne... c’è qualcuno che merita un simile orrore, solo per il fatto di essere nato? Chi erano quei... Dor... di cui parlavi?» «Così li chiamava la gente di cui ero ospite... È un popolo potente e feroce. Vivono su un grande fiume nell’interno che si chiama Istro ma da qualche tempo sono inquieti e compiono continue scorrerie verso il mare. Quelli che hai visto erano solo un gruppo ma se un giorno tutti dovessero muoversi allora nessuno potrebbe fermarli. Hanno armi di ferro, montano i cavalli a pelo... hai visto?» «Ho visto. Parli anche la lingua degli Achei?» «La capisco molto meglio di quanto non la parli. Ma questo è meglio che non si sappia... finché non li avrò conosciuti bene. Ma dimmi, che gente è questa che naviga in questo mare, in questa stagione e in questa direzione? Devono essere pazzi o disperati.» L’hittita guardò ancora il cielo. Le strane luci s’erano spente e la volta era grigia e compatta come un bacile di piombo. «L’uno e l’altro» disse.
A quell’ora la regina Klitemnestra giaceva nel talamo accanto a Egisto. Non dormiva, stava distesa con gli occhi aperti e con la lucerna accesa. Aveva ucciso senza esitazione lo sposo che tornava dopo anni di guerra ma non riusciva a sopportare le visioni che le circondavano il capo se chiudeva gli occhi, e l’odio di Elettra, la figlia. Molte volte era salita sulla torre del baratro nella notte e nel vento e là aveva ricordato i giorni delle sue nozze, la notte in cui un coro di fanciulle con fiaccole accese l’aveva accompagnata nel talamo del re di Micene e re dei re degli Achei. L’avevano spogliata e profumata. Le avevano pettinato i capelli e le avevano sciolto la cintura distendendola sul letto. Ricordava come il re era apparso, i riflessi di rame sulle Chiome folte che ombreggiavano la fronte e le guance, mescolandosi alla barba fiorente. Ricordava il petto e le braccia lucenti di olio profumato e ricordava il suo dovere. Come aveva finto di gridare di piacere quando il suo nerbo le lacerava il grembo. Aveva usato del suo fascino senza lasciarsi mai prendere a sua volta, senza abbandonarsi. Gli uomini dovevano sottomettersi o morire, come un tempo quando regnava la grande dea, la Potinja, e sceglieva per sé, una volta l’anno, il paredro, il maschio che la rendesse fertile, il più forte e il più temerario, il più vitale, colui che dopo essersi battuto più e più volte a duello con gli altri si guadagnava il privilegio di essere re per un giorno e per una notte prima di morire. Si alzò, raggiunse la sala del trono, si sedette sul seggio che era stato degli Atridi e attese là che si alzasse il sole. Prima ancora che le ancelle lasciassero il letto e accendessero il fuoco nel focolare giunse l’uomo che aspettava da molti giorni. Entrò e, vedendo la sala ancora buia, si sedette in terra vicino al muro per attendere che qualcuno si svegliasse nella grande casa. La regina lo vide e lo chiamò. «Vieni avanti,» disse «ti aspettavo. Hai incontrato mia cugina, la regina di Itaca?» «Sì, wanaxa, l’ho incontrata.» «E che cosa ti ha risposto? Ha aderito alle nostre richieste?» «Sì. Tutto sarà compiuto quando Ulisse sarà tornato.» «E... come? Ti ha detto come? Il re di Itaca è l’uomo più astuto della terra.» «E lei non è da meno. Ulisse non potrà sospettare di nulla.» «E lui, lo hai visto? Perché non hai atteso che si compisse il suo destino?» «Ho atteso ma il re non tornava. Avrebbe dovuto raggiungere Itaca non più di tre giorni dopo che Agamennone e Diomede erano tornati. Ma era passato un mese quando sono ripartito e nessuno sapeva nulla di lui.» «Un mese è troppo. Non può aver tardato tanto.» «Forse ha fatto naufragio. Forse è già morto. Mentre ero a Itaca arrivò una nave al porto e un uomo ne scese e parlò con la regina. Io seppi poi che erano Achei e che venivano da Argo ma non potei sapere altro.» «Argo?» chiese la regina alzandosi in piedi. «E lo hai visto in faccia quell’uomo?» «Per un momento, al porto, mentre saliva sulla nave.»
«E che aspetto aveva?» «Aveva lunghi riccioli biondi che gli cadevano fin sulle spalle, aveva occhi scuri, accesi e vigili, mani forti e un incedere possente, come se fosse abituato a portare un peso sulle spalle.» «Il peso di un’armatura» disse la regina. «Forse hai visto un re che fuggiva... o che si preparava a tornare.» L’uomo scosse il capo senza capire. «Mia cugina starà con noi. Ne sono certa. E quando avremo spento anche la mente di Ulisse l’ultimo ostacolo sarà stato abbattuto.» L’uomo se ne andò e la regina uscì sul ballatoio della torre del baratro. Le nubi erano basse sulle montagne e gonfie di pioggia. A un tratto da una postierla in basso vide uscire una figura femminile avvolta in un manto nero che si affrettava verso il fondo della valle. Si fermava sulla vecchia cisterna abbandonata, si inginocchiava e si dondolava a lungo stringendosi le spalle poi si prostrava e appoggiava la fronte sulla nuda pietra che ricopriva l’imbocco. Elettra. Piangeva suo padre, indegnamente ucciso e indegnamente sepolto, e il soffio del vento spingeva a tratti fino agli spalti della torre l’eco sommessa dei suoi lamenti.
Intanto lontano sul mare settentrionale le navi di Diomede avanzavano nella luce dell’alba. Le prore aguzze fendevano le onde grigie passando fra isole deserte, fra lunghi, aspri promontori protesi come dita adunche in mezzo al mare. Dalle alture si affacciavano a volte piccoli villaggi circondati da muri a secco, come nidi di pietra. Si distinguevano gli abitanti che uscivano con greggi di capre, uomini selvatici anch’essi, coperti di pellicce come i loro animali. Quella notte trovarono riparo nella foce di un fiume e così pure la notte successiva. All’alba del giorno seguente Diomede volle risalire la corrente a piedi assieme a Mirsilo e ad alcuni compagni per cercare della selvaggina. Assistettero allora ad uno strano prodigio. Aggirato un colle e ridiscesi dall’altra parte videro che il fiume era scomparso. Guardarono da ogni parte ma non riuscirono più a trovarlo. Soltanto dopo aver camminato a lungo raggiunsero un luogo in cui il fiume riappariva e subito precipitava sotto terra, ingoiato da una voragine. Pensò che certamente quel luogo doveva comunicare con l’Ade ed egli sacrificò una capra nera a Persephone perché propiziasse il suo viaggio. Il sangue della vittima macchiò di rosso le acque del fiume e scomparve nell’inghiottitoio. Era una terra diversa quella che si apriva al suo sguardo, solcata da gole incavate, da forre selvagge, coperta da piante stentate e contorte. Avanzarono ancora nell’interno per cacciare e per cercare una fonte d’acqua. Non osavano attingerla da quel fiume maledetto che fuggiva la luce del sole come una creatura della notte. A un tratto videro un piccolo gruppo di cervi e cominciarono ad avvicinarsi. L’hittita e lo straniero erano armati di arco e si nascosero dietro un cespuglio di rovo, Diomede e Mirsilo si accostavano da un’altra parte armati di giavellotto. Uno stormo di uccelli si alzò in volo con acute strida e i cervi, spaventati, si diedero alla fuga. Mirsilo scagliò il giavellotto ma fallì il bersaglio; l’hittita, invece, ebbe tempo
di prendere la mira e di scoccare e uno degli animali cadde colpito a morte. I compagni lo raccolsero, gli legarono le zampe ad una pertica e se lo portavano indietro. Tutto il territorio sembrava deserto e disabitato ma lo straniero si guardava sempre intorno, mentre camminava, come se avvertisse la presenza di qualcuno. Non si sbagliava, purtroppo. A un tratto uno dei compagni gridò di dolore cadendo sulle ginocchia: una freccia gli s’era conficcata nella coscia. Tutti si voltarono e videro affacciarsi da dietro un colle una turba di selvaggi coperti di pelli di capra, con barbe e capelli incolti. Erano armati di archi e impugnavano delle mazze di pietra infilate su dei bastoni. Corsero avanti gridando a gran voce e agitando le mazze di pietra. Diomede ordinò ai suoi di ritirarsi in un anfratto dove potevano opporre migliore resistenza contro il numero sempre più grande dei nemici. Alcuni di loro lanciavano dei richiami modulando la voce in tonalità alte e stridule come di uccelli marini e subito richiami simili echeggiavano lontano rimbalzando fra le pareti di roccia, fra i dirupi e le caverne: erano certamente richiami di soccorso e in poco tempo il numero dei nemici divenne enorme. Gli Achei arretrarono ancora ma presto si trovarono in una gola stretta e profonda. I nemici apparvero subito sull’orlo delle pareti a strapiombo e cominciarono a spingere grandi pietre verso il basso. Le pietre rotolavano sulle pareti trascinandone altre con sé in una immensa rovina che precipitava con fragore verso il fondo della gola. Diomede gridò a tutti di appiattirsi contro le pareti e poi di correre verso il basso in direzione del mare, più in fretta che potevano. Alcuni furono colpiti e rimasero sul terreno, altri si misero a correre ma presto furono raggiunti da un destino ancora peggiore. Quella gola maledetta era disseminata di voragini nascoste, da folti cespugli e da macchie di rovi. Alcuni, correndo, vi precipitarono dentro sfracellandosi sul fondo, altri, ancora vivi ma con le ossa spezzate dalla caduta, urlavano di dolore. Diomede, accortosi del tremendo pericolo e vedendo che i nemici correvano ad occupare tutte le vie di uscita della gola, ordinò ai compagni di fermarsi e di cercare un riparo fra i cespugli e sotto le sporgenze rocciose delle pareti. Si guardò intorno e vide che il terreno era tutto sparso e biancheggiante di ossa di animali. Così quella gente feroce usava cacciare la selvaggina, sospingendola verso quella gola e massacrandola con le pietre dall’alto e in quello stesso modo cercavano di distruggere lui e i compagni. Il re di Argo, il figlio di Tideo, doveva nascondersi come una fiera braccata dai cacciatori, ascoltare le invocazioni dei suoi guerrieri feriti senza poterli soccorrere. Si nascosero fra i cespugli ed attesero immobili benché le pietre continuassero a cadere dall’alto sfiorandoli a volte da vicino, finché calò l’oscurità. Allora le pietre cessarono di cadere e dopo un poco cominciarono a spuntare dei fuochi sull’orlo della gola: i nemici non se ne erano andati dunque. Aspettavano il levar del sole per ucciderli tutti. Gli si avvicinò Clito, figlio di Leito, uno di Las che aveva combattuto con lui a Ilio e gli disse: «E questo il destino che ci tocca per averti seguito: morire massacrati da selvaggi feroci senza nemmeno potersi difendere, morire come bestie a colpi di pietra senza nemmeno mettere mano alla spada. Se fossimo rimasti ad
Argo almeno avremmo combattuto in campo aperto alla luce del sole e saremmo morti nella nostra terra.» Mirsilo lo interruppe: «Lascia perdere. Nessuno ti ha costretto a seguire il re. Lo hai fatto di tua volontà e dunque smettila di lamentarti se non vuoi che ti rompa i denti e ti faccia sputare sangue. Cerchiamo piuttosto di salvarci finché è buio e non ci possono vedere.» Telefo, il servo hittita, si avvicinò a sua volta e disse: «Si è alzato il vento dal mare e su quell’altopiano la terra è coperta di sterpi e di erba secca. Dalle mie parti, alla fine dell’autunno, i contadini bruciano le stoppie quando si alza il vento occidentale e in poco tempo tutta la pianura diventa un mare di fuoco.» «Che cosa intendi dire?» chiese il re. «Ascoltami, wanax, mentre fuggivamo a rotta di collo lungo questo baratro ho visto che sul fianco sinistro c’è la possibilità di risalire fino all’orlo, anche se con qualche difficoltà. Io sono un uomo di montagna e so arrampicarmi: se fra di voi c’è qualcuno come me lascia che mi accompagni. Quando saremo lassù daremo fuoco all’erba tutto intorno ai nemici. Il vento farà il resto. Non c’è altro modo, re. Se non facciamo così domani moriremo tutti e i nostri corpi resteranno insepolti, come le ossa di questi animali.» «Io stesso verrò con te» disse il re. «Da ragazzo sono stato a lungo in Etolia da mio nonno Oineo e da mio zio Meleagro: mi sono arrampicato su montagne molto alte, senza paura. Prenderò con me Diocle e Agelao, Eupito ed Eveno; sono Arcadi e sono vissuti da ragazzi sulle montagne.» Anche Mirsilo voleva venire ma Diomede gli ordinò di restare con gli altri compagni. Si avviarono nella notte e seguivano in silenzio lo schiavo hittita. Giunti ai piedi della scarpata cominciarono a salire fermandosi ogni volta che un sasso, urtato col piede, rotolava a valle, e aspettando con ansia, per vedere se i nemici si fossero accorti di loro: man mano che salivano però cominciavano ad udire un vociare confuso e risate e il crepitare dei fuochi. Quando si affacciarono all’orlo del burrone videro che tutti stavano seduti attorno ai fuochi mangiando carne arrostita. Gridavano e ruttavano e si lanciavano ossa e pezzi di carne l’uno con l’altro. Diomede e i compagni si avvicinarono ad un bivacco, il più isolato di tutti, scivolarono alle spalle dei nemici che non se l’aspettavano e li uccisero. Poi presero dei tizzoni e si sparsero tutto intorno. Il servo hittita li guidava come quando da ragazzo incendiava le stoppie assieme ai contadini sul suo altopiano in mezzo all’Asia. Si accertò della direzione del vento e cominciò ad incendiare l’erba e gli sterpi secchi che coprivano il terreno: le fiamme si levarono subito vigorose e dilagarono spinte dal vento. Gli altri, sparsi a semicerchio, appiccarono il fuoco tutto intorno ai nemici. In pochi attimi l’altopiano fu un mare di fiamme mentre il vento continuava a rinforzare. I nemici si misero a gridare pieni di terrore mentre alcuni di loro cadevano trafitti dalle frecce di invisibili assalitori: non riuscivano a distinguere nulla oltre il cerchio di fiamme che ormai li avvolgeva da ogni parte. Sospinti indietro dal calore
ormai insopportabile si ritirarono verso l’orlo del burrone poi, quando si videro perduti, alcuni cercarono di calarvisi precipitando di sotto e sfracellandosi sulle rocce, altri cercarono di correre attraverso il fuoco. Agelao ne prese uno vivo e lo legò saldamente a un albero per consegnarlo a Diomede quando tutto fosse finito. Al sorgere dell’alba il fuoco era spento e il terreno era coperto di corpi bruciati. Il re si affacciò all’orlo del precipizio e gridò: «Salite, ora, non c’è più pericolo.» I compagni superstiti salirono ma Mirsilo si accostò alle voragini da cui provenivano ancora dei lamenti. Sul fondo di una di esse poté distinguere un compagno cui l’osso spezzato di una gamba aveva perforato la carne e biancheggiava nudo e acuminato. L’uomo non urlava più perché non aveva più voce, lasciava udire un rantolo continuo, carico di dolore. Mirsilo scese cautamente lungo l’inghiottitoio finché gli fu possibile e poi si sporse verso il fondo mentre il sole, ormai abbastanza alto sul’orizzonte, illuminava il volto del guerriero ferito. Lo riconobbe: era Alcatoo, figlio di Dolio. Era partito molti anni prima da Mases, una città della costa dove faceva il pescatore, sognando la gloria e un ricco bottino. Aveva voluto seguire ancora Diomede in quell’ultima impresa pensando forse di essere un giorno fra i primi in un nuovo grande regno, uno dei maggiorenti nell’assemblea. Non poteva immaginare che il destino avrebbe sepolto la sua vita in fondo a una voragine buia, in un luogo oscuro e miserabile. Mirsilo prese la mira con il suo arco sporgendosi dall’orlo della voragine mentre il compagno, avendo compreso, cercò di trascinarsi nel punto più scoperto per offrire più facile bersaglio. La freccia gli si piantò alla base del collo ed egli si accasciò contro la parete e mentre l’anima gli usciva gorgogliando dalla ferita gli occhi gli s’arrovesciarono all’indietro e poté vedere per un momento dentro di sé. Vi trovò il villaggio natio, le acque scintillanti del mare e i suoi passi di fanciullo lungo la riva, sentì gli spruzzi e la schiuma e la sabbia dorata sotto i piedi, il calore del sole sulle spalle nude. Desiderò di non essere mai partito mentre, piangendo, scendeva per sempre nel buio e nel freddo. Mirsilo si accostò a un’altra buca, ma non potendo avvicinarsi per le pareti precipiti e non potendo vedere per i fitti cespugli che coprivano l’imbocco, lanciò il suo coltello, un ottimo bronzo a cui era molto affezionato, sperando che un altro compagno potesse raccoglierlo e con quello mettere fine alle sue sofferenze. Gridò: «Nient’altro che questo posso fare per te, amico!». Soltanto l’eco gli rispose: “Amico!” Ed egli risalì con il cuore pesante, ultimo fra i compagni, fino sull’orlo del precipizio. Diomede gli si avvicinò: «Quanti...» chiese. «Quanti compagni abbiamo erso?». «Alcatoo...» cominciò Mirsilo «sfracellato in fondo a una di quelle buche...» «E Schédio e Alcandro...» disse un altro «maciullati dalle pietre...» E ognuno enumerava i compagni perduti, guardandosi intorno. Agelao si avvicinò al re e, indicando il prigioniero, disse: «Ne ho preso uno vivo, l’ho legato a quel tronco. Vendica su di lui i nostri compagni massacrati». Ma Diomede disse:
«Ne ho già uccisi tanti... uno in più che cosa cambierebbe? Andiamo ora, torniamo alle navi. I compagni saranno preoccupati per noi». Si avviò e Telefo e lo straniero Chnan tornarono prima indietro a prendere il cervo che avevano abbattuto perché la carne non andasse sprecata. Ma Mirsilo che non aveva partecipato alla battaglia ma aveva solo udito le grida dei compagni morenti non desiderava che vendicarsi. Lasciò che gli altri si allontanassero e si avvicinò al prigioniero. Era un uomo aitante e tentando di liberarsi scuoteva forte tutta la pianta a cui era legato. Mirsilo gli si avvicinò e lo legò ancor più saldamente poi sguainò la spada. L’uomo lo fissò senza tremare, con la fronte alta. Mirsilo tagliò le corregge che reggevano la pelle di pecora di cui era rivestito e lo lasciò nudo. Poi con la punta della spada gli incise la pelle subito al di sopra del pube facendogli gocciolare il sangue fra le gambe, copiosamente. L’uomo capì la fine che gli era riservata e spalancò gli occhi pieni di terrore divincolandosi con tutta la forza che gli restava. Gridò e implorò nella sua lingua incomprensibile ma Mirsilo già si allontanava per raggiungere i compagni. Quando si fu allontanato di un buon tratto si volse indietro e vide che un lupo o un cane selvatico si avvicinava al prigioniero attirato dall’odore del sangue. Si fermava sospettoso guardandosi intorno poi si avvicinava ancora. L’uomo cercava di spaventarlo gridando e scalciando e l’animale si ritirava per poi riavvicinarsi e ogni volta si accostava di più finché si metteva a leccare il sangue che bagnava il terreno. Mirsilo lo vide avvicinarsi ancora e accostargli il muso all’inguine e capì che il suo scopo era raggiunto. Si volse e si mise a correre giù per il pendio per raggiungere i compagni. In quel momento la valle risuonò di un urlo straziante, disumano, e tutti si fermarono rabbrividendo. L’urlo echeggiò ancora più forte, disperato e delirante, e li seguì a lungo, magnificato dall’eco fra le balze rocciose, finché si spense in un mugolio sinistro. Si rimisero in cammino con l’animo oppresso per uscire al più presto da quella terra che poteva ingoiare un fiume vivo e scintillante e di nuovo rigurgitarlo in mare, gelido e nero.
4
Quando raggiunsero la spiaggia e videro le navi tutti si sentirono sollevati ma nessuno si abbandonò alla gioia perché avevano perduto molti compagni. Diomede volle ugualmente alzare un trofeo per aver riportato la vittoria sui nemici e, poiché non aveva preso né spoglie né bottino, dedicò un’armatura che aveva conquistato a Ilio. L’appese a due pali incrociati e fece incidere il suo nome su una pietra perché restasse il ricordo del suo passaggio in quella terra. Alzarono anche un tumulo sulla riva del mare e celebrarono le esequie dei compagni caduti perché potessero aver pace nell’Ade. Telefo e il Chnan accesero il fuoco e arrostirono il cervo e quando fu cotto tagliarono le porzioni e le distribuirono a tutti. Diomede fece venire del vino dalla sua nave e così, finché durò il cibo e finché ci fu da bere nelle coppe, la tristezza fu allontanata benché tutti, in cuor loro, sentissero che sarebbe tornata, più cupa e più opprimente, con le ombre della sera. Ripresero il mare e navigarono per tutto il giorno senza mai perdersi di vista; verso sera il Chnan si avvicinò a Mirsilo che reggeva il timone e disse: «Il vento sta girando: fra un poco lo avremo al traverso e ci spingerà verso il mare aperto.» «Io non sento nulla. Come fai a dirlo?» «Ti dico che sta girando. Fai ammainare la vela e disalbera, poi dà ordine di andare in terra a remi. E segnala agli altri di fare la stessa cosa, fin che sei in tempo. Hai mai sentito parlare di Borrhà? È un vento gelato che nasce dai Monti Iperborei nelle terre della notte: quando arriva sul mare nulla può resistergli. Solleva onde alte come colline e la nave meglio costruita può affondare in pochi attimi.» Un alito freddo sfiorò appena le sartie e Mirsilo si riscosse guardandosi intorno, inquieto. «Fai come ti ho detto» disse ancora il Chnan «Se non vuoi che moriamo tutti. Non c’è più tempo.» Mirsilo si rivolse al re: «Wanax, andiamo in terra: il vento sta girando. Ti chiedo il permesso di segnalare l’ordine alle altre navi.» Diomede si voltò dalla sua parte. «C’è ancora luce, perché?» Una raffica secca, tagliente, fece piegare l’albero e tese la vela. Lo scafo si coricò su un fianco, gemendo. «La prossima spezzerà l’albero e ci affonderà!» gridò il Chnan «Per tutti gli dei, fate come ho detto!» La sfida del vento riscosse Mirsilo e lo trasformò. Gridò agli uomini di affondare i remi di destra e di remare con tutta la forza con quelli di sinistra, affidò il timone e si precipitò con l’equipaggio ad ammainare la vela. Il vento era già fortissimo e faceva schioccare come una frusta il lembo ancora libero del grande lino. Vi si gettarono tutti sopra e la imprigionarono con il loro peso e quando l’ebbero domata si misero a sfilare l’albero dalla scassa.
«Troppo tardi!» gridò il Chnan per sopraffare il sibilo del vento. «Se lo sfilate ora vi cadrà addosso e vi ammazzerà.» Mirsilo tornò al timone. «Forza con i remi, ora con tutte e due le murate. La prua al vento! La prua al vento o andiamo sotto!» Diomede si era arrampicato sul castello di poppa e aveva issato il segnale di ammainare e alcune navi avevano risposto subito. Un’altra appariva in grande difficoltà, oscillava scossa dalle potenti raffiche di Borrhà e da enormi ondate spumeggianti. Vedeva in una nube di spruzzi gli uomini affannarsi alle manovre ma la forza del vento era ormai invincibile. Ne vide uno, scaraventato in mare da un’ondata, sparire fra i marosi, un altro, issato fuori bordo, rimanere aggrappato al parapetto e dibattersi a lungo invocando l’aiuto dei compagni prima di precipitare a sua volta. A un tratto una raffica improvvisa e fortissima spezzò l’albero e lo gettò in mare assieme alla vela. Lo scafo sembrò sparire per un momento ma poi riemerse e il re vide gli uomini che tagliavano con le asce le sartie che ancora imbrigliavano il troncone dell’albero. Libero dalla vela piena d’acqua che lo tratteneva come un’ancora lo scafo s’impennò, i remi batterono il dorso del mare con tutta la forza e la nave riacquistò il suo assetto. Il re aveva seguito con tale ansia tutta la vicenda che non aveva nemmeno visto ciò che stava accadendo sulla sua nave. Si volse e vide i banchi spazzati dalle onde, gli uomini fradici puntellarsi coi piedi e inarcare la schiena a ogni colpo di remo mentre Mirsilo urlava il tempo di voga sovrastando il fragore della tempesta e gli scricchiolii sinistri dello scafo. Capì che la vita di tutti era nelle mani degli uomini ai remi: appena la fatica li avesse vinti la nave sarebbe affondata immediatamente. Il Chnan era andato a prua e stava aggrappato all’aplustre, cercava di scrutare davanti a sé un segno di salvezza. A un tratto si voltò verso poppa e gridò a Mirsilo con quanto fiato aveva in gola: «Vira! Vira a dritta!» Mirsilo trasmise l’ordine ai rematori e si buttò sulla barra cercando di spingerla verso sinistra. Il re si precipitò al suo fianco e la sua forza ebbe ragione del mare. Lo scafo si contorse costretto dalla potenza dell’eroe che guidava lo sforzo di oltre cento braccia tese allo spasimo e la prua virò a sinistra prendendo ora buona parte del vento sulla fiancata destra. La nave acquistò ancora maggiore velocità, la virata si accentuò improvvisamente e Mirsilo temette per un attimo che il vascello si sarebbe schiantato nello sforzo. Ma il Chnan sapeva quello che faceva: egli stava cercando un’imboccatura che si apriva fra due lingue di terra. In breve tempo accadde qualcosa di miracoloso: la nave si trovò da un momento all’altro all’interno di un vasto specchio di acque calme appena increspate da onde piccole e fitte. «Oh, dei...» disse Mirsilo, non credendo a ciò che vedeva «oh dei... che cosa è questo?» Il Chnan passava lungo il parapetto da prua a poppa guardando in basso le acque ferme e poi davanti a sé il mare aperto, flagellato dalle raffiche.
«Accostiamo!» gridò il re. «Presto, guidiamo i compagni che sono ancora in mare o moriranno tutti!» Guidò la nave verso l’isolotto che aveva a sinistra e poi su quello di destra e su ambedue accese un vaso di resina e di pece attingendo, il fuoco alla brace che sempre stava accesa in un lebete protetto sotto il castello di poppa. I compagni dal mare videro le due luci e guidarono le navi verso lo stretto imbocco ripetendo la manovra che il re aveva poco prima effettuato. Quattro navi vi riuscirono ma la quinta, l’ultima, non poté vincere la forza del mare e del vento. Dall’isola tutti gridavano forte per incitare i compagni ancora in balia del mare ma l’equipaggio, stremato dalla lunga lotta, ebbe la peggio. Diomede vide i remi, uno a uno, cessare il movimento e scivolare in mare, vide lo scafo, non più trattenuto dalla forza dell’equipaggio, ruotare su se stesso, dare il fianco alle onde, e inabissarsi. Il re strinse i pugni e abbassò il capo. Gli uomini cominciarono a raccogliere sterpi e tronchi d’albero che le maree avevano abbandonato sulla spiaggia e accesero dei fuochi per asciugarsi e per asciugare gli abiti e i mantelli, poi tirarono le navi in secca e vi si ripararono all’interno. Tesero i teli delle vele sopra i banchi e vi si sdraiarono sotto stringendosi gli uni agli altri per riscaldarsi. Il vento continuò a soffiare per tutta la notte senza tregua e solo all’alba cominciò ad acquetarsi. Il mattino dopo il mare restituì i corpi di alcuni dei compagni che erano annegati nella tempesta. Erano verdi di alghe e avevano gli occhi aperti in una fissità acquosa, come quelli dei pesci che un pescatore ha gettato a morire sulla spiaggia. Furono sepolti in quella terra grigia e bassa, fra canneti e sterpaglie in una mattina fredda e serena e dopo che il re ebbe terminato le esequie, i quattro piloti delle navi, compreso Mirsilo, gli si avvicinarono. «Fermiamoci, wanax» gli disse parlando per primo. Abbiamo già perso molti uomini. Le giornate sono sempre più brevi e il tempo sempre peggiore. Se continueremo ad avanzare moriremo tutti: come fonderai il tuo regno? Con chi dividerai la tua sorte?» Il re si volse al mare e stette, come assente, a guardare il moto continuo delle onde spumeggianti che si allungavano sulla sabbia fin quasi a lambirgli i piedi. Il Chnan gli si avvicinò: «Io ho sentito parlare di questo luogo da un marinaio di Ashkelon che ne aveva sentito parlare a sua volta da un acheo di Rodi che importava ambra. Io credo che abbiamo raggiunto la costa dei Sette Mari: sette lagune che si versano una nell’altra fino alle foci di Eridano. Là ci sono le Isole Elettridi dove piove ambra dal cielo, dicono... o dove l’ambra arriva dai paesi delle lunghe notti, come credo io, a dorso di mulo. Da qui in poi la navigazione è tranquilla e al riparo. Dobbiamo solo guardarci dai bassi fondali ma per quelli basta un uomo a prua con uno scandaglio.» Diomede si volse verso di lui: «Tu sai molte cose e hai salvato le mie navi ieri. Quando fonderò il mio regno ti farò costruire una casa, ti darò una donna bella, alta, di fianchi rotondi, e armi e un mantello... Ma dimmi, perché ieri hai parlato la lingua degli Achei per la prima volta? Da tempo stavi con noi e non hai mai detto una parola nella nostra lingua.»
«Perché non ve n’era bisogno,» rispose il Chnan «ma ti ringrazio per la tua promessa. Ti prego, anzi, di farne una uguale al tuo servo hittita: ha salvato te e tutti noi pensando di dare fuoco alla prateria.» Il re scosse la testa: «Un servo e un mercante straniero mi sono creditori della vita. Mi chiedo se in questo mondo i nostri dei hanno ancora potere... Ma è giusto quello che dici: quando fonderò il mio regno anche il servo cheteo avrà le stesse cose che ho promesso a te» Poi, rivolto agli uomini disse: «Andiamo avanti a esplorare questi luoghi. Cercheremo un approdo dove ci sia la possibilità di trovare acqua e cibo. Qui non c’è nulla e non possiamo nemmeno ripararci.» Gli uomini obbedirono e tirarono in mare le navi, prima quella del re e poi tutte le altre. Il Chnan stava a prua e di tanto in tanto calava lo scandaglio per controllare la profondità dell’acqua. Non passò molto tempo che videro un gruppo di isole basse sulla superficie delle onde. Seguirono un largo canale che si snodava come un serpente in mezzo al piccolo arcipelago e poi avvistarono la terraferma e presero terra di nuovo. Il luogo era deserto. Il silenzio era rotto solo dalle strida di qualche uccello acquatico che passava volando basso fra i canneti. Diomede mandò alcuni degli uomini a caccia con l’arco e gli arpioni poi chiamò Mirsilo, gli affidò un gruppo di guerrieri armati e gli ordinò di inoltrarsi nell’interno per vedere chi abitasse quella terra e quale possibilità vi fosse di fermarvisi. E mandò con lui anche il Chnan. Non appena si furono allontanati dalla costa e furono fuori dalla vista il Chnan disse a Mirsilo: «Nascondete le armi qui sotto la sabbia e tenete solo un pugnale o una spada sotto il mantello. Avanziamo a piccoli gruppi, distanti uno dall’altro. In questa zona dovrebbe esistere un mercato dove si scambiano le merci che vengono da settentrione e quelle che vengono dal mare. I mercanti non danno nell’occhio ma gli armati sì.» Mirsilo era riluttante ad abbandonare le armature ma ricordando come il Chnan aveva salvato la flotta il giorno prima, pensò che conveniva tenere in considerazione i suoi consigli e ordinò agli uomini di fare come lui aveva detto. Si mise poi alla testa del primo gruppo e avanzò nella pianura guardandosi intorno continuamente. Si sentiva scoperto, solo e nudo in quella piatta solitudine. In tutta la sua vita non aveva mai attraversato un luogo da cui non si potessero vedere i monti o il mare, in cui la terra non brillasse di mille colori; qui per la prima volta la terra era una distesa uniforme e sterminata, tutta dello stesso colore verde pallido. Videro, verso la metà del giorno, una mandria di cavalli: centinaia di magnifici animali che pascolavano tranquilli agitando le lunghe code e toccando quasi terra con le lunghe ondeggianti criniere. Un candido stallone galoppava a coda ritta attorno a un gruppo di giumente e di puledri, si fermava nitrendo, s’impennava scalciando nell’aria, riprendeva il galoppo. Non c’era nessuno a vigilarli: quell’immensa ricchezza sembrava non appartenere a nessuno. Qua e là il terreno luccicava di acquitrini e a volte, improvvisamente, diventava molle e cedevole sotto i piedi. Ogni tanto si vedevano fitte macchie di querce e gruppetti di cinghiali che pascolavano grufolando in cerca di ghiande e di tuberi.
Cervi dalle corna maestose si fermavano improvvisamente ai margini dei boschi e fissavano immobili gli intrusi soffiando piccole nubi di vapore dalle froge umide. Camminarono a lungo finché videro un filo di fumo levarsi a una certa distanza, mentre il cielo a occidente cominciava ad arrossarsi in un fosco tramonto. Era una piccola città fatta di capanne di legno intonacate di fango e con il tetto di erba secca. A una certa distanza c’era un accampamento. «Se avessimo portato le armi avremmo potuto predare cibo e donne» disse Mirsilo. «Invece andremo da loro e chiederemo ospitalità, così sapremo dove siamo arrivati. Ma tu non parlare. In queste cose io sono più esperto.» Si avvicinarono ancora e videro che attorno alla piccola città pascolavano mandrie di porci, piccoli, di colore nero, e pecore. Anatre e oche affondavano il becco nel pantano sulle rive di un piccolo stagno. Un gruppo di bambini si fece loro incontro, un cane si mise ad abbaiare e poi un altro e un altro ancora. Vennero allora avanti alcuni uomini e il Chnan alzò la mano e chiese a Mirsilo di fare lo stesso. Gli uomini si avvicinarono e li guardarono. Avevano le gambe rivestite di pelle conciata e sopra portavano una tunica di lana grossa con maniche lunghe, stretta in vita da una cintura di pelle ornata con pezzetti di osso lavorato. Non portavano armi o, se ne avevano, non si vedevano. Parlarono un poco fra di loro poi uno si avvicinò e chiese qualcosa. «Che cosa ha detto?» chiese Mirsilo. «Non lo so. Non sono mai stato da queste parti.» Il Chnan si sciolse la cintura, alzò la tunica e si sfilò qualcosa che portava allacciato sulla pelle: una cordicella avvolta a più giri con infilati molti grani di vetro di tutti i colori e fibbie di bronzo con l’arco adorno di vetro colorato o di ambra. Mirsilo lo guardò stupefatto: «Dove hai preso quella mercanzia?» gli chiese. «È il mio tesoro personale: lo porto sempre con me. Lo avevo addosso anche quando mi avete raccolto dal mare.» Gli uomini si avvicinarono subito e dietro di loro Mirsilo notò poco dopo anche i visi di alcune donne. Si alzavano sulle punte dei piedi e guardavano gli oggetti che brillavano fra le mani del Chnan. Dopo un poco tutti parlavano, ognuno nella sua lingua, e sembrava anche che si capissero quanto bastava. Il Chnan muoveva le mani con l’abilità di un giocoliere e atteggiava il viso con una grande varietà di espressioni rivolgendosi ben presto alle donne e trascurando gli uomini. Appoggiava le fibule risplendenti sui loro abiti grossolani di lana grezza e la bellezza di quelle donne, ruvida e quasi selvatica, sembrava accendersi e illuminarsi per quei piccoli ornamenti, come una roccia nuda e spoglia sembra accendersi e illuminarsi dei colori di un piccolo fiore a primavera. Il Chnan si privò di una paio di fibbie e di qualche perlina in cambio dell’ospitalità per sé e per i compagni che attendevano a distanza fuori dal villaggio, di una sacca di pani di orzo e di cinque forme di formaggio per il viaggio di ritorno. Lui e Mirsilo cenarono nella casa dell’uomo che sembrava essere il capo, l’unico che aveva potuto acquistare ornamenti per sé, per la moglie e la maggiore delle figlie. C’erano le sue armi appese alla parete di fondo dell’unica stanza di cui
si componeva la casa: una lunga spada di bronzo, uno scudo borchiato e un pugnale. Il pavimento era di terra battuta indurita con il fuoco. Il Chnan continuò a parlare per tutto il tempo in cui durò la cena ed era evidente che con il passare del tempo riusciva sempre meglio a capire e a farsi capire. A volte si aiutava tracciando segni con il coltello sulla focaccia d’orzo che aveva davanti o sul latte rappreso raccolto in un grande bacile al centro del tavolo. I cani erano seduti vicino all’ingresso e attendevano di poter leccare le scodelle dopo che il pasto fosse finito. A un certo momento si udirono fuori dalla porta rumori sommessi, suono di parole e sul terreno si vide il balenare di un riflesso di fuoco. La porta si aprì e un uomo entrò per parlare con il capo. «Sei riuscito a capire qualcosa?» chiese Mirsilo al Chnan. «Non molto. Ma credo di averlo convinto che capisco molto di più di quanto in realtà non capisca. È questo l’importante. Nessuno parlerebbe altrimenti con uno che non capisce nulla...» Mirsilo scosse il capo: «Che succede ora?» «È arrivato qualcuno. Forse da quell’accampamento che abbiamo visto arrivando.» Il Chnan uscì dietro al capo e vide che un gruppo di uomini era giunto dal campo vicino. Portavano fiaccole accese ed erano vestiti in una foggia che non conosceva. Si volse per chiedere a Mirsilo se avesse mai visto gente simile ma il suo compagno era indietro, nell’ombra, presso lo stipite della porta. Gli si avvicinò: «Che fai qui,» disse «non vieni a vedere i nuovi arrivati?» «Troiani» disse Mirsilo a bassa voce e a capo basso. «Sono Troiani e noi siamo disarmati.»
5
La notte che Menelao era scomparso molti si chiesero come ciò avesse potuto accadere. Vi fu chi disse che un vento improvviso lo aveva spinto verso meridione trascinandolo per giorni e giorni fino alle spiagge d’Egitto e alle bocche del Nilo. D’altra parte, in quello stesso tempo, sul finire dell’estate, Nestore era giunto salvo e senza difficoltà al Pilo, Diomede aveva raggiunto le spiagge di Argo e anche Agamennone aveva potuto rivedere Micene anche se per lui sarebbe stato meglio morire a Ilio. È difficile credere che solo per Menelao i venti fossero avversi. Ed è difficile credere che nessuna delle sessanta navi che lo accompagnavano riuscisse a trovare la via del ritorno. Una flotta intera non scompare così se tutto non è stato già preordinato. Le cose andarono in modo diverso, come io credo.
Quelli erano anni maledetti. Qualcosa di sconosciuto e di implacabile, fosse la volontà degli dei, fosse una qualche altra forza oscura, cacciava molti popoli dalle loro sedi. In alcuni luoghi le terre si inaridivano e le messi bruciavano per la siccità prima di maturare, i buoi crollavano d’improvviso sotto il giogo schiantati dalla fame e dalla fatica, gli altri animali divenivano sterili e cessavano di procreare o se procreavano generavano creature mostruose che i pastori e i bifolchi seppellivano in fretta e di notte, tremando di paura. Altrove la terra era flagellata da tempeste di vento e di pioggia, inondata dai torrenti e dai fiumi che travolgevano gli argini sommergendo le campagne di melma che poi imputridiva quando il sole saliva più alto sull’orizzonte. Quel marciume generava una sterminata quantità di creature ripugnanti: rospi, salamandre e serpenti che si spargevano dovunque infestando i campi, i sentieri e le abitazioni degli uomini. Le carogne degli animali, abbandonate dai fiumi a marcire lungo le rive al decrescere delle acque, attiravano di giorno corvi e avvoltoi che riempivano il cielo delle loro strida, del battito sinistro delle loro ali; di notte richiamavano gli sciacalli che lanciavano nell’oscurità i loro richiami lamentosi. Solo il mare sembrava immune dal disastro: le sue acque limpide continuavano ad alimentare ogni sorta di pesci e di creature gigantesche negli abissi. E inoltre continuavano sul mare, anche se più limitati, i traffici e i commerci. Per questo molti popoli si affidarono al mare preferendo affrontare l’ignoto che attendere, nelle loro terre d’origine, di morire di fame, di stenti o di malattie. Altri, che già vi abitavano, si diedero alle razzie e alla pirateria. Si formò così una sorta di coalizione di cui fecero parte i Peleset e i Sheqelesh, i Lukka e i Tersh, gli Shardana e i Derden e molti altri popoli. Erano bellicosi e disperati, pronti a tutto, e decisero di tentare la sorte contro il paese più prospero, ricco e potente del mondo: l’Egitto. Non sapevano che il paese del Nilo era colpito
dagli stessi flagelli anche se in quella terra le conoscenze dei sacerdoti e degli architetti, la pazienza del popolo, la forza del sovrano riuscivano ad attenuarne gli spaventosi effetti. A questa coalizione di popoli si dice che si unisse anche un gruppo di Achei: erano i guerrieri lacedemoni di Menelao che uno strano destino aveva trascinato in quelle lontane contrade. La notte in cui scomparvero alla vista, le navi di Menelao fecero rotta in direzione di Delo. Fu detto agli uomini che la regina lo aveva convinto a consultare l’oracolo di Apollo, il dio che aveva protetto i Troiani durante la guerra, per chiedergli quali sacrifici di espiazione dovesse compiere per aver preso parte alla distruzione della città e per evitare la vendetta del dio che altrimenti li avrebbe annientati. Apollo avrebbe risposto che egli avrebbe dovuto immolare un sacrificio nella terra di Danao e dopo visitare l’oracolo del Vecchio del Mare sui lidi deserti della Libia. La terra di Danao era l’Egitto: Menelao decise di far vela verso mezzogiorno, assieme a tutta la sua flotta e così si allontanò definitivamente dalla terra degli Achei mentre suo fratello Agamennone affrontava la morte. Gli dei che tutto sanno e tutto vedono forse consentirono che Menelao, perduto fra le braccia di Elena, udisse l’ultimo rantolo del fratello morente, forse gli trasmisero, come un brivido gelato, la fitta della spada che tagliava la gola al grande Atride. E quando si abbandonò esausto il suo corpo fu invaso dallo stesso freddo della morte, dallo stesso terrore del vuoto infinito. La flotta attraversò il mare navigando con il vento favorevole per otto giorni e otto notti finché giunse in vista della costa, presso la foce occidentale del Nilo. Ma la fortuna o il caso vollero che proprio in quei giorni una moltitudine di altre navi fosse presente in quella zona. I Popoli del Mare: i Peleset e i Lukka, i Derden e i Tersh, i Sheqelesh e gli Shardana attaccavano l’Egitto alleati con il re libico Mauroy. Il faraone Ramses, terzo di quel nome, decise audacemente di contrattaccare anziché attendere l’urto dei nemici; fece scendere la flotta in mare dal ramo occidentale e dal ramo orientale del Nilo e la spinse al largo sui lati sfruttando il vento di terra del primo mattino. L’armata di Menelao, che si trovava in quel luogo per caso, fu aggredita dal lato occidentale prima di poter stabilire un contatto e fu costretta a difendersi. I suoi guerrieri, abituati ad anni e anni di combattimenti feroci, respinsero più volte gli attacchi nemici ma le navi egiziane continuavano a scendere dalla bocca del Nilo in una fila interminabile. Alla sua sinistra un gruppo di vascelli Shardana pieni di guerrieri con gli scudi rotondi e gli elmi conici adorni di corna di bue si batteva tenacemente contro un gruppo di navi egiziane che manovravano con grande perizia fra i bassi fondali delle acque costiere. Nella schermaglia che ne seguì gli Shardana si avventurarono troppo sotto costa e finirono incagliati nelle secche. In poco tempo furono circondati da tutte le parti e massacrati. Menelao non riusciva a capire ciò che stava succedendo: ormai dovunque spingesse lo sguardo il mare pullulava di navi e di guerrieri di tutte le nazioni. Ma
benché il loro numero fosse enorme erano preda della confusione non potendo comunicare e non essendoci chi impartisse ordini precisi che potessero essere uditi da tutti. La flotta del faraone invece si muoveva con meravigliosa sicurezza in quelle acque infide, si separava in squadre, di nuovo si ricompattava come una falange sul campo mentre il grosso delle navi pesanti da battaglia continuava ad allargare verso il mare aperto: gli equipaggi si scambiavano segnali issando drappi di vari colori sugli alberi a scala e lanciavano anche segnali luminosi lampeggiando con scudi di rame lucidati a specchio. Gli uomini cercarono di convincere Menelao a impegnarsi nella battaglia con tutte le sue forze, pensavano infatti che se la coalizione avesse ottenuto la vittoria essi avrebbero potuto condividerne il bottino e tornare a Sparta carichi di immensi tesori, ma Menelao temeva di perdere la flotta in quelle acque pericolose e segnalò ai suoi equipaggi di disimpegnarsi appena ne avessero avuto la possibilità. Chi poté lo fece ma alcune delle navi erano ormai troppo addentro nello schieramento nemico e dovevano combattere per non soccombere. Alcune presero fuoco per il lancio di dardi incendiari e dovettero essere abbandonate. I loro equipaggi perirono o finirono i loro giorni in schiavitù lavorando duramente alla costruzione di colossali monumenti nella terra d’Egitto. Con le navi superstiti Menelao tentò di rompere l’accerchiamento ma l’impresa era a quel punto quasi disperata perché si era alzato un gagliardo vento di mare che spingeva le sue navi assieme a quelle della coalizione contro la costa e contro le barene del delta mentre la flotta egiziana che era prima uscita al largo approfittando del vento di terra del mattino ora aveva il vento di mare da poppa e poteva chiudersi a tenaglia serrando gli invasori contro le zone paludose e i bassi fondali del delta. Menelao riuscì a salvarsi grazie alla forza dei suoi rematori che contrastando il vento spinsero le navi contro la flotta egiziana. Speronarono un grande vascello e lo affondarono, poi, aperto il varco, si tirarono dietro le altre navi superstiti della flotta. Il nocchiero, un Vecchio marinaio di Asine, si accorse che il vento di mare stava ruotando verso occidente e fece issare immediatamente la vela, presto imitato dagli altri equipaggi. Le navi poterono acquistare una certa velocità e, benché rischiassero di rovesciarsi sul fianco sinistro, mantennero la rotta fino a raggiungere un’isola e a nascondervisi dietro. Intanto, sul lato orientale dello schieramento anche i Peleset erano riusciti a rompere l’accerchiamento e a fuggire al largo. Alcuni si diressero verso il mare aperto, altri, la maggior parte, si ritirarono verso la costa dei Chnan e si stanziarono fra Gaza e Joppa. Da loro quella terra prese il nome di Pelestena. Ma il resto della flotta della coalizione non ebbe scampo: spinte fra le sabbie e il fango del delta le navi a scafo acuto si incagliarono e furono abbordate dalle navi leggere egiziane quasi tutte di papiro. I fasci di steli di cui erano composte, impregnati d’acqua, non prendevano fuoco, e se le alte prue e le alte poppe consentivano loro di affrontare le acque del mare, il fondo piatto e la struttura del tutto priva di parti rigide le faceva scivolare sui fondali più bassi con l’agile movimento dei serpenti d’acqua. Soltanto verso il tramonto il tempo cambiò. Un forte vento si levò dal deserto e si abbatté sul mare con gran forza trascinando al
largo le navi superstiti della coalizione, quelle dei Tersh e dei Sheqelesh, disperdendole in tutte le direzioni. Quella stessa sera il faraone celebrò il suo trionfo sugli invasori: si fece condurre sul mare sul grande vascello reale da parata ed egli in persona, ritto a prua, tendendo il grande arco dorato, trapassava con le frecce i naufraghi che ancora si dibattevano fra le onde. Le sue concubine, distese su morbidi cuscini, lo guardavano ammirate e ridevano ogni volta che l’arco reale colpiva il bersaglio. I disgraziati che cercarono scampo risalendo le rive del fiume affondarono nei pantani o finirono divorati dai mostri con le zampe palmate, coperti di scaglie e dalle enormi bocche irte di denti aguzzi. Il capo libico Mauroy riuscì a salvarsi ma la sua fine non fu meno terribile. Si dice che, tornato fra la sua gente, venisse impalato e abbandonato a marcire, pasto per i corvi e gli avvoltoi. Al calar della notte Menelao scese sulla spiaggia della piccola isola in cui aveva trovato rifugio e guardò verso la costa: all’orizzonte tremavano ancora gli ultimi bagliori degli incendi e dall’oscurità che scendeva sulle acque venivano grida e lamenti di naufraghi e di feriti che il vento trascinava al largo verso una morte certa. Sentì a un tratto, assieme all’odore del legno e della carne bruciata, il profumo della regina e si voltò. Elena gli stava a fianco fissando l’orizzonte senza un battito di ciglia. Il vento le incollava sui seni prepotenti e sulle gambe snelle la stoffa leggera dell’abito cario che le velava le membra. Guardava la distesa del mare piena di cadaveri con lo stesso sguardo fermo e altero con cui un tempo aveva osservato i pretendenti battersi nelle prove più dure per guadagnarsi i suoi favori. La luna sorgeva fra i loti e i papiri del delta. Al re parve di udire un gemito sommesso; si volse, e vide trascinarsi a riva un uomo che versava sangue copiosamente da molte ferite. Lo vide alzare ambedue le braccia verso il disco della luna, lo udì pregare piangendo in una delle cento lingue della grande coalizione sconfitta e poi cadere a faccia in giù con un tonfo sordo. Non era più un uomo partito un giorno da una città o da un villaggio dove aveva lasciato una moglie e dei figli. Era una cosa scura e informe che il mare rigirava nella fanghiglia col suo moto incessante.
La flotta di Menelao fu trainata in secca dagli uomini per l’inverno e per mesi tutti si adoperarono attorno alle navi per ripararle e rimetterle in condizione di riprendere il mare appena fosse tornata la stagione propizia per la navigazione ma si illudevano. Furono costretti a restare in quel luogo dimenticato per quasi tre anni. Prima scoppiò una epidemia che fece morire molti e privò alcune navi degli equipaggi poi il mare fu battuto per tutta la primavera e l’estate successiva da venti impetuosi di settentrione che portavano continue tempeste e fortunali, piogge torrenziali e burrasche. Nei periodi in cui il tempo dava loro tregua attaccavano le navi di passaggio oppure pescavano o cacciavano nell’interno ma mai si arrischiavano a sfidare il mare aperto. Alla terza primavera Menelao partì con la
sua nave e alcuni compagni per raggiungere una località della costa dove aveva saputo che si poteva consultare l’oracolo del Vecchio del Mare. Da lui desiderava una risposta su un destino che appariva ogni giorno più fosco e incomprensibile. Pochi lo avevano visto in volto. A volte la sua voce emanava dalle fauci degli animali che stavano nella sua grotta: sciacalli o volpi ma anche da animali marini che popolavano il suo antro. Talvolta la grotta era deserta e la sua voce emanava dalle fiamme del fuoco sacro che ardeva nel braciere. Per questo era chiamato “il Mutevole”. Quando Menelao sbarcò, si trovò su una spiaggia deserta sparsa di ossa umane e di animali e di relitti di naufragi. Lasciò gli uomini presso la nave, depose la spada sulla sabbia ed entrò solo nell’antro. Le pareti erano dipinte con scene di pesca e di caccia: uomini che inseguivano su lunghe piroghe grandi cetacei marini, altri che in gruppo, armati di archi e frecce, cacciavano animali favolosi dal collo lunghissimo e dalla pelle maculata o striati di nero e bianco con corte criniere, simili ad asini o a muli. Un improvviso latrato lo fece trasalire e un animale mezzo cane e mezzo pesce corse via verso il mare ondeggiando sulle pinne che aveva al posto delle zampe. Aveva sentito dire che il Vecchio aveva simili cani da guardia. Avanzò ancora e si trovò davanti a una grande vasca su cui spioveva un poco di luce da una crepa nel soffitto della caverna. Al rumore del suo passo l’acqua ribollì improvvisamente e un dorso scaglioso emerse dal fondo, una coda irta e dentellata e fauci piene di denti. Un mostro come mai ne aveva visti nella sua vita. E tutto intorno un fetore di marciume e di putredine che gli rivoltava lo stomaco. «Dove sei, Vecchio del Mare?» gridò Menelao. «Sono io,» rispose una voce profonda, gorgogliante «sono il drago che nuota in quest’acqua. In questa terra mi chiamano Sobek e mi adorano come un dio in un grande tempio a Nbyt... ma attento ad avvicinarti o la tua avventura umana potrebbe finire fra le mie fauci.» Menelao arretrò smarrito e la mano gli corse al fianco inerme. «Sono io,» disse una voce acuta, stridula «il figlio della notte» e Menelao vide un enorme pipistrello dondolarsi pigramente da un anfratto della volta. «Sono cieco ma posso volare nelle tenebre e vedo cose che nessuno degli umani può vedere.» «Sono io» disse un’altra voce, sommessa, bisbigliata. E Menelao vide un serpente alzare la testa e dilatare il collo dardeggiando la lingua bifida a pochi palmi dalle sue ginocchia. «Sono figlio del sole ma sono il guardiano della notte.» Il re di Sparta non si mosse e lasciò che il serpente si dondolasse un poco sulle sue spire arrotolate prima di scivolare via silenziosamente fra i ciottoli e la sabbia. Avanzò ancora fino a una galleria che dal fondo della caverna sembrava penetrare nelle viscere della roccia, entrò e percorse al buio un lungo tratto nel più completo silenzio finché vide il riverbero di una luce rischiarare la volta del cunicolo. La luce aumentava man mano che egli avanzava e alla fine egli si trovò in una grotta ancora più ampia in cui pioveva dall’alto un raggio di luce vivissima su un uomo dal capo velato, assiso su un grande sedile di pietra che sorgeva sulla riva di una
fonte dalle acque limpide e scure. Aveva la pelle nera e grinza, la barba e i peli delle gambe e delle braccia bianchissimi. «Sei forse Caronte, il traghettatore delle anime?» chiese Menelao. «È qui che devo morire? In questo luogo lontano dalla mia patria, dimenticato da tutti?» Il Vecchio alzò il capo e mostrò due occhi lucidi e profondi. «Sono venuto per conoscere il mio destino» disse ancora Menelao. «Ho sofferto molto, ho sacrificato la mia vita e il mio onore... Voglio sapere se tutto questo ha un significato.» Il Vecchio non si mosse. Tenne lo sguardo immobile e fisso davanti a sé. Menelao si avvicinò ancora fin quasi a toccarlo: «Sono un re» disse. «Ero un sovrano potente, padre di una figlia bella come un fiore d’oro, sposo della più bella donna del mondo. Ora la mia vita non è che veleno e disperazione. I miei guerrieri muoiono senza gloria e io impazzisco in queste terre basse e torride... O Vecchio del Mare... dicono che tu abbia la sapienza degli dei. Aiutami e quando sarò tornato ti manderò una nave carica di doni, di tutte le cose che possono allietare il tuo cuore... Ti prego aiutami, dimmi se potrò tornare, se potrò sfuggire a una morte oscura in una terra straniera dopo aver sopportato dolori per tanti anni. E se tornerò potrò mai vivere con la regina nel mio palazzo? Potrò dimenticare la vergogna e il disonore che mi tengono sveglio nel mezzo della notte?» Si sedette nella polvere e abbassò il capo come un supplice. Il Vecchio non si mosse né aprì bocca. «Non mi muoverò di qui,» disse Menelao «finché non mi avrai risposto. Morirò di fame qui se non risponderai.» E restò in silenzio anch’egli da quel momento. Passò del tempo senza che accadesse nulla ma a un tratto, quando il raggio di sole che pioveva dalla sommità della caverna giunse a illuminare la superficie dell’acqua la fonte brillò di mille riflessi e anche le pareti della caverna si accesero di un tenue pallore. Il Vecchio si riscosse dal suo torpore e indicò con il braccio teso un punto al centro dello specchio liquido. Menelao si alzò e fissò quel punto mentre l’animo era invaso da una strana e sconosciuta trepidazione. Riudì la voce che già lo aveva accolto sotto le sembianze del drago, del pipistrello e del serpente: era differente ora, era un suono profondo e armonioso, come una canzone di cui non riusciva a distinguere le parole. Ma quella melodia suscitava immagini dalla superficie dell’acqua, come da uno specchio e Menelao vide e udì come se fosse presente alle vicende, che scorrevano sotto i suoi occhi, ma senza poter dire né fare nulla. Vide un impostore seduto sul trono di Micene accanto alla regina Klitemnestra impugnare lo scettro degli Atridi, vide la maschera funebre di suo fratello Agamennone sorgere come una luna d’oro dietro le mura del palazzo e versare lacrime di sangue, vide una fanciulla fuggire da una porta nascosta delle mura portandosi dietro per mano una ragazzo biondo con gli occhi pieni di terrore. E correvano nella notte ventosa fermandosi ogni tanto ansimanti dietro gli alberi e le rocce temendo di essere inseguiti. E di nuovo prendevano a correre fino a un punto
in cui un uomo li attendeva con un cocchio cui erano aggiogati due cavalli neri, scalpitanti. La fanciulla stringeva al petto il ragazzo in un lungo abbraccio, lo baciava sul volto e sulla fronte. Le sue labbra si muovevano come se stesse dicendo tante cose: raccomandazioni, consigli, esortazioni. E la luce mutevole che brillava nei suoi occhi era accesa d’amore appassionato e di odio feroce. Abbracciava ancora il fratello e poi ancora gli parlava affannata, volgendosi ogni tanto a guardare dietro le spalle. Poi il giovane principe saliva sul carro a fianco dell’auriga che reggeva immobile le redini; il vento gli gonfiava il grande mantello scuro come una vela nella tempesta. La fanciulla glielo affidava e li guardava partire piangendo. L’uomo frustava i cavalli, il carro partiva veloce sparendo in una nube bianca. Erano i figli di Agamennone e suoi nipoti: i principi Elettra e Oreste, costretti a nascondersi e a fuggire, orfani e perseguitati. Gridò e pianse di rabbia, di vergogna e di dolore, come mai gli era accaduto fino ad allora, tanto forte che lo specchio delle acque tremò e si oscurò. Il suo grido colpì le pareti della caverna, suscitando stormi di nottole che fuggirono squittendo, spezzò la strana melodia che aveva accompagnato le sue visioni, sembrò scuotere l’uomo dalla pelle nera che sedeva ora nell’ombra sul trono di pietra. «Perché hai scatenato la guerra?» disse la sua voce. Ma le sue labbra erano serrate e il suo volto era immobile, come il volto delle statue intagliate nel legno o scolpite nel sasso. «Per deviare un fiume di sangue. Per stornare dalla mia gente la distruzione e la fine.» «Quale distruzione?» «È scritto che sarebbero tornati... i figli di Eracle scacciati da Euristeo. Sarebbero tornati e avrebbero annientato Micene e Argo e tutte le città degli Achei. Non c’era che una cosa su tutta la terra che potesse salvarci... il talismano dei Troiani, coperto da mille segreti inviolabili. Era necessario che qualcuno vivesse nei penetrali della città e della rocca... per anni... che conquistasse la mente e l’anima dei principi, la fiducia del re. «Solo Elena poteva riuscirvi: in lei vivono tutte le donne e tutte le dee, l’amore e la perfidia, la purezza e l’inganno. Solo lei sa come usare le infinite armi che la rendono più temibile di una falange schierata in campo aperto. «La responsabilità del popolo era degli Atridi e solo loro: noi abbiamo sopportato più dolori che tutti gli altri Achei, più di Achille e più di Aiace che pure sono morti sotto le mura di Ilio. Agamennone sacrificò la figlia prediletta... a me fu chiesto di sacrificare la sposa unico amore della mia vita e il mio onore. Abbiamo fatto la guerra per nascondere il nostro vero intento e sapevamo che l’attacco finale sarebbe stato sferrato solo quando fosse caduto l’ultimo segreto, quando Ulisse e Diomede, penetrati di nascosto in città, avessero scoperto dove si nascondeva il talismano dei Troiani. «Tutto inutile. Mio fratello è morto. Ho visto l’impostore seduto sul suo trono che fu di Perseo e di Atreo, i principi, atterriti, fuggire nella notte... Tutto inutile...»
Cadde in ginocchio sulla riva della fonte e pianse nascondendo il volto nel mantello. «Tu non hai fatto la tua parte! Tu non hai pagato il prezzo che ti era stato richiesto» tuonò la voce del Vecchio. Menelao si riscosse: «Non è così? Non è cosi?» gridò ancora più forte. Menelao si alzò e camminò verso di lui con gli occhi pieni di stupore: «Il tuo oracolo è veritiero dunque... come è possibile che tu sappia questo?». «Ammetti la tua colpa,» disse la voce «oppure vattene e non tornare mai più!» Il Vecchio aveva gli occhi chiusi ora ma la fronte e il volto grondavano sudore. Le gocce che scorrevano sulla pelle arida erano l’unico segno di vita sul volto terreo. Menelao abbassò la testa: «Tutti i re degli Achei l’avrebbero voluta in sposa: fu data a me. Puoi capirmi? Puoi capirmi?». «Mentre andavi a Delo tuo fratello era massacrato, macellato come un toro nella greppia» disse la voce. «Se tu fossi sbarcato con gli altri ciò non sarebbe accaduto. È tua la colpa, su di te ricade il sangue di tuo fratello.» Gli sembrò in tutto, nel timbro e nel tono, la voce di suo fratello ucciso che lo accusava; rivedeva i principi perseguitati fuggire nella notte e torme di inseguitori lanciarsi alla loro ricerca. Il cuore gli fece male nel petto, come se un colpo di lancia lo avesse trapassato. Gridò piangendo: «Oh Vecchio del Mare, se il tuo vaticinio è veritiero, dimmi se mi sarà concessa una morte onorevole. Perché niente altro mi resta in cui sperare.» «Che cosa vuoi?» disse la voce. «Tornare, vendicare mio fratello, se davvero lo hanno ucciso. Chiederò aiuto agli altri re, a Ulisse, a Diomede. Non mi abbandoneranno...» Non appena ebbe pronunciato quelle parole si sentì improvvisamente altrove. Camminava sulla spiaggia deserta di un’isola assolata. L’aria tiepida era profumata di pino e di mirto e si sentiva in essa aleggiare la presenza di un essere potente e invisibile. L’acqua del mare gli accarezzava le caviglie, la sabbia scivolava fra le dita come una carezza ruvida. Una roccia protesa sul mare impediva a un certo punto la via ed egli cominciò ad arrampicarsi per scendere dall’altra parte e proseguire il cammino. Ma quando fu in cima e gettò lo sguardo in basso vide, seduto su una pietra, un uomo avvolto in un mantello bianco sulle membra nude. Lo riconobbe: Ulisse glorioso, il figlio di Laerte, guardava l’orizzonte con gli occhi pieni d’immensa tristezza. E una voce disse: «È mio, per sette anni!» «Oh signora che ti nascondi nell’aria» gridò Menelao. «Lascia partire il mio amico, lascia che riprenda i sentieri umidi del mare. Abbiamo bisogno di lui nella terra degli Achei, del suo ingegno, della sua mente invincibile!» «È mio, mio per sette anni!» ripeté ancora la voce. E quel grido lo investì come una folata di vento, lo travolse, lo fece turbinare come una foglia morta e poi lo lasciò cadere in mare. Affondò nel freddo abbraccio dell’abisso per un tempo che gli sembrò lunghissimo finché di nuovo emerse al centro di una laguna fosca, sotto un cielo greve di nubi basse. E davanti a sé vide un accampamento miserabile,
ripari fatti di canne e di erbe palustri, uomini emaciati, lividi per il freddo e la fame. Fra di loro l’eroe Diomede, il figlio di Tideo. Aveva la barba incolta e squallida, le mani sporche di terra, l’orlo del mantello imbrattato di fango. Si voltò per non vedere più oltre quello spettacolo miserando e si trovò, immerso nelle acque della fonte, sotto la volta dell’immensa grotta, davanti all’uomo con la pelle nera, al Vecchio del Mare. Una risata fragorosa esplose sotto la grande volta: «Li hai veduti i tuoi compagni? Credi ancora che potranno aiutarti?» chiese la voce. Menelao si coprì il capo con il mantello. «Vecchio del Mare» disse. «Io mi copro il capo e mi consegno agli dei infernali. Riconosco la mia colpa e sono pronto a subire ogni pena. Ma tu solo questo dimmi, al resto penserò io: dov’è ora il talismano dei Troiani? Forse la regina Klitemnestra lo ha tolto ad Agamennone dopo averlo ucciso e lo tiene nascosto in qualche luogo... o forse lo ha distrutto? Solo questo dimmi, ti prego. Io soltanto sono rimasto a stornare la sventura che incombe sugli Achei.» «Chi altri, oltre a te, conosce il tuo segreto?» chiese il Vecchio. «Nessuno si è mai accorto di nulla... tranne Ulisse. Per questo sono andato a Delo. E da Delo il dio mi ha mandato qui perché tu mi dica la verità sul mio destino.» «Tutto è nato nell’inganno e con l’inganno è destinato a finire. Ma tu volgi il male che hai fatto in bene. Ulisse ti può aiutare, benché lontano. Usa la sua mente. Esegui ciò che lui ha immaginato» disse la voce. «Altro non mi è concesso di dire.» Il raggio di luce si attenuò fin quasi a spegnersi e dalla sommità della caverna venne il soffio sempre più forte del vento. Il Vecchio del Mare ora sembrava assopito sul suo trono di pietra: le membra abbandonate, le labbra semiaperte. Il re di Sparta tornò sui suoi passi, riattraversò il cunicolo e il grande atrio finché uscì nuovamente all’aperto. Il vento era divenuto fortissimo e gli uomini si affannavano con ogni sforzo attorno alla nave per assicurare a terra le cime e impedire che il mare la portasse via. Menelao li guardò attraverso il turbine di sabbia che oscurava la luce del giorno e quasi gli sembrava di non riconoscerli, come se fossero degli stranieri che per caso erano giunti là da terre lontane spinti dalla forza del vento e del mare. Soltanto il giorno successivo poté far ritorno alla sua isola nel delta. La regina vide la nave approdare ma non lo vide venire e dopo aver atteso a lungo si recò alla spiaggia e lo trovò seduto in silenzio a guardare le onde. Gli chiese quale fosse stato il responso del Vecchio del Mare e Menelao, senza voltarsi rispose: «Il responso è molto bello, per me e per te, regina. Il Vecchio ha detto: Per te, Menelao, non è destino di morire in Argo nutrice di cavalli, ma nella pianura di Elisio gli dei manderanno, ai confini del mondo dove la vita è bellissima per i mortali. Non c’è neve, non c’è mai freddo, né pioggia ma sempre il soffio gentile di Zefiro che spira
sonoro dall’Oceano, reca ristoro. E questo perché Elena possiedi e sei genero a Zeus. «Un giorno i lutti, le ferite e la morte finiranno, regina. Vivremo in un luogo felice, lontano da tutti e per sempre.» Restò in silenzio a lungo guardando la schiuma delle onde che gli morivano ai piedi poi disse: «Dobbiamo tornare.»
6
Mirsilo pensò che fosse giunto per lui l’ultimo giorno quando vide armi troiane in quella terra tanto lontana. Ma il Chnan non ebbe alcun timore e si avvicinò ai nuovi venuti, si mescolò a loro osservandoli e cercando di ascoltare quello che dicevano. Era evidente che il capo del villaggio e quello che sembrava il capo dei Troiani non si capivano, ma che avevano ormai una certa consuetudine a comprendersi a gesti, e i gesti li capiva molto bene anche il Chnan. «Secondo me,» riferì poi a Mirsilo «gli stranieri desiderano rimanere e sono pronti a scambiare bronzo contro grano, latte e carne per l’inverno e semi per la primavera. Vogliono mettere radici in questa terra.» «Quando lo saprà Diomede marcerà fin qua con tutti gli uomini e li sterminerà. Sono certo che non vuole Troiani nella terra in cui fonderà il suo nuovo regno.» «Allora non dirglielo» rispose il Chnan. Non possiamo fare una guerra in questo pantano e con questo freddo e quei disgraziati non fanno male a nessuno. Cercano di sopravvivere per l’inverno. Con la nuova stagione semineranno il grano e, se arriveranno a raccoglierlo, una nuova gente sarà nata, in una nuova terra, sotto un nuovo cielo. Lasciamo che il seme metta radici, guerriero. Questa terra è molto grande, può nutrire tanta gente.» «Forse hai ragione tu, Chnan... C’è solo una cosa che non capisco: come mai è deserta. Se fossimo nella terra degli Achei avremmo incontrato almeno sei o sette villaggi nello spazio che si estende fra qui e il mare. Qui, invece, solo queste quattro capanne in una giornata intera di cammino e per quanto può spaziare lo sguardo in ogni altra direzione, nulla.» «Infatti. Forse è una terra inospitale, forse è infestata da fiere, forse il popolo che l’abitava è stato cacciato da una carestia o sterminato da un morbo... L’uomo si ostina ad abitare dovunque anche se la terra non lo vuole. Lo sai che vi sono uomini che abitano nelle grandi sabbie dove non cresce nemmeno un filo d’erba? E uomini che abitano nelle terre coperte di ghiaccio? Ma la terra prima o poi se ne libera come fa un cane con le pulci, una grattata e via. Ma ora forse è meglio dormire. Domattina prima dell’alba dovremo fare ritorno alle navi o il tuo re si metterà a cercarci e combinerà solo disastri.» «E i compagni che sono rimasti là fuori nella pianura? Non hanno riparo in mezzo alla prateria. Moriranno di freddo quando scenderà la brina.» «Vado a dirgli di venire qua con noi. Posto ce n’è.» «No» disse Mirsilo. «Qualcuno deve restare fuori dal villaggio nel caso ci succeda qualcosa...» «Ho capito,» disse il Chnan «andrò io a provvedere...» Prese da un angolo un mucchio di pelli e uscì di nascosto sparendo presto nell’oscurità. Tornò qualche tempo dopo. In lontananza il campo dei Troiani era illuminato da qualche fuoco
sporadico. Il villaggio era a mala pena rischiarato dalle braci che ancora ardevano al centro dello spiazzo principale, ormai velate da un leggero strato di cenere. Mentre stava per cercare, a tentoni, l’ingresso della capanna, si sentì appoggiare sulla spalla una mano vigorosa. Si voltò di scatto trasalendo e vide che si trattava di una delle donne che avevano guardato con desiderio la sua mercanzia quando l’aveva messa in mostra. Non aveva chi per lei potesse scambiare pelli o cibo in cambio di una fibbia con la perla di ambra. Ma sapeva di avere qualcosa di molto prezioso che forse il mercante straniero avrebbe apprezzato: se stessa. Bionda, alta, fiorente, aveva i capelli sciolti sulle spalle e un laccio di cuoio con piccoli ornamenti d’osso attorno al collo bianco. Gli sorrise e anche il Chnan le sorrise; piccolo e scuro com’era, con capelli corti e crespi poteva sembrare di fianco a lei poco più che un ragazzo. Lei gli insinuò una mano sotto le vesti e frugò per cercare un gioiello che le piacesse e al tempo stesso gli prese la mano destra e se la mise in seno. Il Chnan si sentì invadere da un’onda di calore quale non sentiva più da quando aveva lasciato la sua terra; gli sembrò di essere fanciullo e di allungare le mani a cogliere da una pianta grappoli maturi. Le mise l’altra mano sotto la veste e sentì che non portava nulla sotto e gli parve di accarezzare la peluria delicata di un agnello appena nato. La baciò avidamente e gli parve di suggere un favo di miele nell’ardente meriggio sui monti profumati del Libano. Quando lei lo lasciò estenuato contro la parete della capanna e si allontanò con l’incedere molle e solenne di una giumenta il Chnan si rese conto di aver concluso l’affare più vantaggioso di tutta la sua vita. Se anche lei gli avesse preso l’intero patrimonio che portava allacciato sotto la veste ciò che aveva avuto in cambio valeva come una mandria di cavalli, come un carico di legno di cedro, come una carovana di asini carichi di rame del Sinai. Entrò nella capanna e al chiarore fumoso di un lucignolo immerso nel sego controllò i suoi averi: o vaso di ogni virtù! La fanciulla non aveva preso che una fibbia con tre perline di vetro colorato, una gialla, una rossa e una bianca striata di blu. Al buio le sue dita avevano riconosciuto ciò che i suoi occhi avevano desiderato alla luce del tramonto. «Li hai visti?» chiese nel buio la voce di Mirsilo. «Non ho visto molto ma ho sentito tutto...» rispose il Chnan come se parlasse nel sonno. Due mani dure e legnose lo gettarono contro la parete: «Ti ho chiesto se hai visto i compagni» ripeté Mirsilo e la sua voce era un ringhio sordo. Il Chnan ritrovò il senno perduto: «Li ho visti e morivano dal freddo. Adesso stanno bene. Meglio di prima, senza dubbio. Calmati guerriero, dormiamo anche noi.» Mirsilo si acquetò e tornò a stendersi sul suo giaciglio tirandosi addosso una coperta fatta di pelli di pecora cucite insieme. Il tepore gli sciolse le membra e il sonno scese rapido sulle sue palpebre ma fu presto rattristato da sogni angosciosi. Sentiva di aver lasciato la patria per una terra fredda e fangosa dove il suolo e il cielo erano sempre intrisi d’acqua come se fosse appena piovuto o come se stesse
per piovere. Anche il suo re stava cambiando, perdeva ogni giorno il suo splendore. I giorni di Ilio erano lontani come se fossero trascorsi secoli da quando avevano lasciato le rive dell’Ellesponto. Fu il Chnan a risvegliarlo poco prima dell’alba. Presero le loro cose e si allontanarono senza fare rumore tornando verso il mare. Alle loro spalle un pallido sole illuminava un gruppo di colli che si levavano dalla pianura come isole dal mare. Non li aveva notati la sera prima ed ebbe la sensazione che fossero spuntati durante la notte. E forse era proprio accaduto così. Raggiunsero gli altri compagni e tutti assieme ripresero il cammino. «I Troiani non sono soli,» disse dopo un poco il Chnan «c’è altra gente con loro che li ha seguiti attraverso il mare.» «Come lo sai?» chiese Mirsilo. «Prima che tu ti svegliassi io ero sveglio. Dovevo salutare una fanciulla per ricambiarle un dono. Me lo ha detto lei. Me lo ha fatto capire.» «E chi è questa gente?» «Enet, se ho capito bene. Si chiamano Enet.» Mirsilo proseguì il cammino per un poco senza parlare come se cercasse di ricordare qualcosa. «Eneti» disse poi. «Come?» chiese il Chnan. «Forse sono Eneti. Era una nazione alleata dei Troiani. Buoni combattenti, con la lancia e con l’arco. Stavano quasi sempre schierati all’ala sinistra; avevano di fronte i Cretesi del re Idomeneo e i Cefalleni di Ulisse. Io non li ho mai incontrati. Mi chiedo cosa facciano qui. E anche mi chiedo cosa ci facciano dei Troiani. Veramente gli dei ci perseguitano con una maledizione.» «Molti popoli hanno abbandonato le loro sedi in questi anni, non lo sai? Non hai visto quelle strane luci nel cielo quando eravamo sul mare? Nessuno ha mai visto una cosa del genere a memoria d’uomo, ne sono certo. E sono certo che tutto ciò ha un significato anche se non posso dire quale.» «Se solo fosse con noi il vate Calcante,» disse Mirsilo «lui saprebbe interpretare questi segni e saprebbe dirci che cosa significano.» Camminarono per tutto il giorno senza incontrare nessuno e verso sera giunsero in vista del campo. Mirsilo si presentò subito al re e gli raccontò tutto ciò che aveva visto ma non gli disse di aver incontrato dei Troiani. Non voleva marciare di nuovo nell’interno e riprendere una guerra finita per sempre. Non sapeva che quello era solo un segno e che non si può sfuggire al destino che gli dei hanno pesato sulla bilancia per ciascuno. I compagni consegnarono il cibo che avevano acquistato dagli abitanti del villaggio e qualcuno accese il fuoco per la cena. C’era chi aveva pescato dei pesci e chi aveva cacciato con l’arco delle starne e delle alzavole. Il sole stava tramontando verso la pianura e dal suolo si levava la nebbia o piuttosto qualcosa di simile a una nube, una bava lattiginosa attraversata da striature biancastre. Anche il sole ne era velato e tutto ciò che si trovava vicino al
suolo ne era sommerso e inghiottito. Gli uomini si guardarono intorno smarriti. E anche il re, l’eroe Diomede, non sapeva che fare e cosa dir loro. A un certo punto soltanto le cime dei pioppi più alti emergevano da quella distesa informe e fluttuante come un velo. Tutti i suoni erano attutiti e come sommessi, i richiami degli uccelli erano fiochi lamenti. Un airone passò sul loro capo con un lento volo solenne ed anch’esso affondò subito nel nulla, vuota parvenza, forma vana. «Che cos’è questo?» chiese il re al Chnan «Tu che hai visto molti paesi, sai dirmi che cosa è questo?» «Non ho mai visto nulla di simile, wanax,» disse il Chnan «ma penso che potrebbe essere una nube. Ho conosciuto gente che veniva dalla terra di Urartu dove le montagne forano le nubi e mi hanno detto che dentro a una nube è così. Ma io non posso spiegarti perché in questa terra le nubi gravano sul suolo anziché navigare nel cielo. È una terra strana.» Quando calò l’oscurità nulla era più visibile, gli uomini dovevano restare molto vicini per non perdersi e il fuoco fu tenuto acceso per tutta la notte. Diomede credette che così doveva essere l’Ade e forse pensò anche di essere giunto veramente ai confini dell’aldilà ma non tremò né pensò a fuggire. Sapeva che solo gli eroi e i prediletti di Zeus possono affrontare ciò che è impossibile per chiunque altro. Si coricò sulla sua pelle d’orso e si coprì con un vello di pecora. Mirsilo si distese poco lontano. All’alba del giorno successivo Diomede diede ordine di salpare e la flotta riprese a navigare lentamente nella foschia che fumava sulla superficie delle acque, fra i canneti della riva e piccole isole boscose che affioravano appena dal mare. Avanzarono così per buona parte della giornata finché, d’un tratto, parve a tutti di udire dei richiami. «Che cos’è stato?» chiesero gli uomini ai remi. «Non so ma è meglio fermarsi» disse Mirsilo. Il re assentì e andò a prua per scrutare la distesa nebbiosa davanti a sé. Anche le altre navi si fermarono e cessò lo sciabordio dei remi. Nel silenzio completo i richiami risuonarono ancora più netti, poi, lentamente, affiorarono dalla foschia come fantasmi delle lunghe navi rostrate. Una di esse portava a prua un’insegna con una testa di leone e un drappo rosso che penzolava inerte dall’albero. Telefo, il servo hittita, si avvicinò al re. «Pirati Peleset» disse. «Devono essersi persi in questa maledetta nube. Speriamo che non ci attacchino.» «Perché?» disse il re. «Non li temo.» «È meglio evitare lo scontro» disse Mirsilo che aveva affidato il timone a un compagno. «Non abbiamo nulla da guadagnarci ma solo da perderci. Dal momento che a questo punto ci hanno visto dobbiamo parlargli. Il Chnan conosce sicuramente la loro lingua. Fallo venire.» Il re assentì e il Chnan riuscì a combinare un incontro. Quella che sembrava l’ammiraglia Peleset e la nave di Diomede uscirono dai loro schieramenti e si
vennero incontro nel mezzo. Manovrarono lentamente con i remi e con il timone finché giunsero quasi a toccarsi, fianco contro fianco. Il capo Peleset e il re Diomede, ambedue armati e con una lancia nella mano destra, erano ora uno di fronte all’altro. «Digli di lasciarci passare» disse Diomede «e non gli faremo alcun male.» «È il cielo che ti manda, potente signore,» disse invece il Chnan «per liberarmi da indicibili sofferenze.» «Sono contento che tu parli la mia lingua,» disse il Peleset «così ci capiremo meglio. Digli di consegnarci tutto quello che avete e vi risparmieremo la vita.» «Il capo ti porge i suoi omaggi» tradusse il Chnan rivolto a Diomede «e ti chiede se hai da vendergli del grano o dell’orzo. Sono a corto di cibo.» Poi, senza attendere una risposta disse al capo Peleset : «Se vuoi un mio consiglio personale attacca subito questa gente perché sta per arrivare il grosso della flotta: trenta navi da battaglia cariche di guerrieri che ci seguono a breve distanza; noi siamo solo un’avanguardia. In cambio di questa informazione vorrei che tu mi prendessi al tuo servizio: questa gente è selvaggia e crudele. Dovunque sono passati hanno seminato morte e distruzione, bruciato città e incendiato villaggi. Mi sottopongono alle più dure sevizie solo per il piacere di fare del male a un povero schiavo. Ho visto con i miei occhi il mio padrone, questo qui, al mio fianco» disse indicando Diomede «strappare il cuore ancora palpitante dei suoi nemici uccisi e divorarlo avidamente. Liberami per favore e non te ne pentirai» Il capo Peleset lo guardò interdetto e poi guardò Diomede e nel suo sguardo duro e fermo gli sembrò di poter riconoscere parte delle terribili cose che aveva detto il servo Chnan: «Per me puoi anche crepare» gli disse. «Noi ce ne andiamo per la nostra strada.» «Non abbiamo cibo da vendergli» disse Diomede. «Infatti, wanax, mi ero permesso di dargli già questa risposta prevedendo ciò che avresti detto. Ora proseguiranno per la loro strada.» Le navi Peleset sfilarono una dopo l’altra, una ventina in tutto, a brevissima distanza e piegarono verso destra dirigendosi a meridione. La nebbia cominciava di nuovo a infittirsi e l’umidità penetrava fin nel midollo delle ossa. L’ultimo vascelloPeleset passò a poca distanza da loro ma prima che venisse inghiottito dalla nebbia si udì qualcuno gridare dalla tolda: «Achei! Mi chiamo Lamo figlio di Onchésto e sono di Sparta, fatto schiavo in Egitto! Ricordatevi di me!» Poi dei colpi, dei lamenti e poi silenzio. Diomede trasalì: «Dei,» disse «un acheo come noi in questa terra così lontana... e dei Peleset » «E Troiani, ed Eneti...» disse Mirsilo. Diomede si volse di scatto verso di lui: «Che hai detto?» «C’erano dei Troiani e degli Eneti nel villaggio che abbiamo visitato ieri sera.» «Perché non me lo hai detto? Potrei farti pagare duramente la tua menzogna.» «Non menzogna, wanax, silenzio. Ho preferito dirtelo soltanto ora. Se te lo avessi detto avresti sferrato un attacco...»
«Certamente. Sono nostri nemici.» «Non più, wanax. La guerra è finita.» «Quando io lo dirò. Hai riconosciuto qualcuno? Enea, se ci fosse stato, lo avresti riconosciuto?» «Certamente, wanax. Ma non c’era. Il loro capo era un uomo avanti negli anni, con i capelli grigi ma con la barba ancora scura e folte sopracciglia nere. Alto, con le spalle leggermente curve.» «Antenore...» mormorò Diomede. «Forse hai visto Antenore. Fu Ulisse a chiedere ad Agamennone di risparmiarlo la notte della caduta di Troia perché lo aveva trattato con rispetto e lo aveva ospitato in casa sua quando era venuto la prima volta a chiedere a Priamo la restituzione di Elena. Ma perché è qui? Che cosa cerca in questa terra?» Il Chnan si avvicinò: «Deve essere successo qualcosa di terribile, forse una guerra più grande di quella che voi avete combattuto, oppure una gigantesca battaglia, o un qualche cataclisma. Mai i Peleset si sarebbero spinti tanto lontano. Questi Troiani devono aver saputo e hanno scelto di dirigersi verso un luogo lontano da tutto, un luogo tranquillo e solitario.» «Hai ordini da darmi, wanax?» chiese Mirsilo. «Andiamo avanti ma fermati appena vedi un luogo adatto. Se si presenterà l’occasione cercheremo di liberare quel disgraziato. Quelle navi non possono essere molto lontane.» Procedettero ancora per qualche tempo, fino al calare dell’oscurità senza mai arrivare in vista della flotta Peleset Ancorarono le navi sulla spiaggia di un’isoletta sabbiosa, bassa sulla superficie del mare, e accesero il fuoco. Si poteva vedere la costa del continente a brevissima distanza. Il re chiamò Mirsilo: «Devono essere ancorati a poca distanza da qui, sulla terraferma. Scendi a terra con un gruppo di uomini scelti e vedi se riesci a liberare quell’uomo. Prendi con te anche il Chnan che capisce la loro lingua. Ti sarà utile. Non voglio perdite: se l’impresa è troppo difficile torna indietro». Mentre gli altri sbarcavano sull’isola Mirsilo andò in terra a piedi con i compagni che aveva scelto perché l’acqua era talmente bassa a quella distanza da arrivare poco sopra le ginocchia. Si stava alzando un alito di vento dal mare che diradava qua e là la nebbia e lasciava trasparire un poco di chiarore lunare. Mirsilo non aveva mai visto in tutta la sua vita un simile paesaggio: la costa era una vasta distesa di sabbia finissima e bianca che risaltava molto bene anche al debole chiarore della luna e le onde del mare si allungavano su di essa per lunghissimo tratto ritraendosi poi con un lieve gorgoglio. Qua e là si vedevano dei tronchi giganteschi abbandonati sulla battigia che tendevano verso il cielo le enormi braccia scheletrite. «Ci deve essere un grande fiume qua vicino» disse il Chnan. «Perché?» chiese Mirsilo. «Quei tronchi. Solo un grande fiume può sradicare simili colossi e trascinarli in mare dove poi le onde li riportano sulla spiaggia.»
Mirsilo si stupì ancora una volta della saggezza dello straniero che avevano raccolto dal mare e capiva che tutto ciò gli veniva dall’aver viaggiato molto e dall’aver conosciuto tante genti e tante lingue diverse. Camminarono a lungo, tanto che la luna fece a tempo ad alzarsi di quasi un cubito sull’orizzonte e finalmente, in fondo ad una insenatura, videro la flotta Peleset all’ancora. Il luogo era completamente deserto e solo un paio di sentinelle vigilavano presso un piccolo bivacco. Di tanto in tanto uno di loro andava a prendere dei rami secchi da un tronco che giaceva vicino sulla sabbia e li aggiungeva al fuoco. Mirsilo e il Chnan si avvicinarono strisciando, tanto che potevano udire il crepitare del fuoco e il suono delle voci delle due sentinelle. «Come facciamo a sapere dov’è l’uomo che cerchiamo?» chiese il Chnan. «Non possiamo perquisire una nave alla volta.» «Infatti» disse Mirsilo. «L’unico modo è di farci sentire da lui.» «Ma così ci saranno tutti addosso.» «No, se qualcosa li tiene occupati.» «Come che?» «Come l’incendio della loro flotta.» Il Chnan spalancò due occhi esterrefatti e scosse la testa incredulo. Mirsilo si rivolse ai compagni: «Voi andate da quella parte, là dove comincia il bosco e attirate le sentinelle lontano dal fuoco, poi toglietele di mezzo. Noi intanto prenderemo i tizzoni e andremo ad appiccare il fuoco alle navi. Quando la confusione sarà al massimo lo farò venire da noi, là dove c’è quel grande tronco secco e anche voi ci raggiungerete lì. Se state attenti e fate come vi dico non morirà nessuno e avremo liberato un compagno che ha molto sofferto.» Un piccolo gruppo si allontanò verso l’interno e dopo un poco si udì un rumore di rami spezzati seguito subito da un fitto battere di ali, da uno sfrascare confuso. Le sentinelle si voltarono da quella parte, smisero di parlottare fra di loro e tesero l’orecchio. Si udì ancora un rumore e i due Peleset presero un tizzone ciascuno e si diressero verso il punto da cui provenivano i rumori: pensavano a una fiera che si aggirasse attorno all’accampamento visto che il luogo appariva del tutto deserto e disabitato. Non appena quelli si furono allontanati tanto da uscire dal raggio di luce del fuoco Mirsilo e i suoi compagni presero ciascuno un tizzone ardente e corsero verso le navi. A piedi scalzi e sulla sabbia si muovevano come ombre senza fare il minimo rumore. Ognuno scelse una nave e vi accostò il fuoco. La pece e la stoppa pressate fra le tavole del fasciame si accesero immediatamente avvolgendo gli scafi e sollevando dense volute di fumo. Le due sentinelle si volsero per dare l’allarme ma furono subito abbattute dagli uomini che si erano nascosti nella macchia. In pochi istanti quattro navi furono completamente avvolte dal fuoco. Gli uomini che dormivano a bordo si slanciarono fuori attraverso una barriera di fiamme gridando e invocando aiuto. Altri accorsero dalle altre navi portando orci e secchi per gettare acqua sull’incendio. In quell’immensa confusione di bagliori sanguigni e di ombre impazzite Mirsilo levò un grido nella lingua degli Achei sapendo che solo una persona
avrebbe potuto udirlo. Gridò: «Spartano! Vieni a raggiungerci presso l’albero secco sulla riva del mare!» Nella confusione di grida, lamenti, richiami, quelle parole emersero come la vetta di una montagna fra le nubi di una tempesta e Lamo, figlio di Onchésto, le udì. Saltò dalla nave su cui si trovava e si mise a correre prima verso le navi incendiate poi, nascondendosi fra il trambusto e la confusione, si portò sempre più ai margini della zona illuminata dall’incendio finché con un ultimo balzo si mise in salvo nel buio presso il grande tronco secco. Si guardò intorno cercando la voce che lo aveva chiamato e non vedendo nessuno temette di aver immaginato tutto. Mentre stava per tornare al suo destino una voce risuonò alle sue spalle: «Siamo Argivi e oggi abbiamo udito la tua voce. Siamo venuti a liberarti». Lamo li abbracciò uno per uno e piangeva come un bambino, singhiozzando. Non riusciva a credere di essere sfuggito a un destino doloroso, già segnato. Mirsilo esortava tutti a lasciare immediatamente quel luogo e a raggiungere di nuovo i compagni ma prima di mettersi in marcia fu colto da un dubbio, pensò che conveniva far capire allo spartano liberato, che la sua nuova sorte poteva anche essere peggiore di quella toccatagli fino a quel momento: «Prima di venire con noi rifletti perché sei ancora in tempo e nessuno sicuramente si è ancora accorto della tua fuga. Devi sapere,» gli disse «che noi non torneremo mai più ad Argo e nella terra degli Achei. Fuggiamo dalla nostra patria dove ci attendeva il tradimento e cerchiamo qui una nuova terra dove fermarci e fondare un nuovo regno per il nostro re, Diomede figlio di Tideo, vincitore di Tebe dalle Sette Porte e di Troia.» «Diomede?» disse lo spartano e la voce gli tremava. «O dei... dei del cielo... Io ho combattuto con voi nei campi di Ilio, io ero con Menelao.» «Allora rifletti, ti dico. Se resti con questi pirati tornerai forse a casa, forse qualcuno potrà pagare il tuo riscatto. È una tempesta che li ha spinti fin qua. Non ci sono venuti di loro spontanea volontà. Noi invece siamo venuti per restare. Per sempre.» L’uomo sembrò colpito da quelle parole. Si volse verso le navi dei Peleset e il suo volto si accese della vampa scarlatta; si volse di nuovo a Mirsilo e la sua faccia era tagliata dal buio, come i suoi pensieri, come il suo sguardo smarrito. «Vengo con voi» disse. «Con voi sono un uomo, un compagno. A un uomo libero tutto è possibile. Vi ringrazio per aver affrontato il pericolo per me.» Si misero in cammino e non videro che alle loro spalle si trascinava un uomo ferito, sanguinante: una delle due sentinelle che avevano abbattuto dopo averle attirate lontano dal bivacco. Era ancora vivo e aveva visto tutto. Mirsilo e i compagni si misero a correre lungo la spiaggia e quando furono fuori pericolo oltre il piccolo promontorio che chiudeva l’insenatura si voltarono indietro: le navi incendiate erano ormai distrutte e si vedevano solo gli alberi avvolti dalle fiamme che affondavano sfrigolando nell’acqua scura. Attorno tante piccole sagome nere si affannavano correndo in ogni direzione, come formiche a cui la zappa del villano ha sconvolto la tana e distrutto il rifugio.
Il re li attendeva vegliando presso il fuoco, solo. Tutti gli altri compagni, vinti dal sonno e dalla fatica del remo, dormivano dentro alle navi o distesi sul suolo sabbioso. Quando udì lo sciacquio provocato dagli uomini che correvano nell’acqua bassa fra la spiaggia e l’isolotto si alzò e andò loro incontro: «Abbiamo riportato uno spartano» disse Mirsilo. «Quello che aveva fatto udire la sua voce in mezzo alla nebbia. Gli abbiamo detto che forse era meglio per lui restare con i Peleset ma ha voluto ugualmente seguirci.» L’uomo avanzò verso il fuoco e si gettò ai piedi di Diomede, gli prese la mano e la baciò: «Ti ringrazio, wanax, per avermi liberato» disse. «Io ho combattuto a Ilio, come voi e non avrei mai creduto che avrei rivisto altri Achei in questo luogo desolato, in questa terra ai confini del mondo.» Restarono ancora a lungo presso il fuoco e Lamo raccontò come erano finiti in Egitto e come nel corso della grande battaglia era caduto in mare aggrappato a un relitto, raccolto poi dai Peleset che avevano intenzione di venderlo nella prima città in cui fossero sbarcati. Ma il vento li aveva spinti verso settentrione per giorni e giorni finché erano giunti in quel luogo triste e grigio. «Che cosa vogliono fare i Peleset ?» chiese Diomede. «Vogliono tornare alle loro basi ma temono di affrontare il mare d’inverno. Forse cercheranno un luogo in cui tirare le navi in secca, dove trovare cibo e acqua da bere fino alla nuova stagione.» «Il tuo signore...» chiese ancora Diomede. «Il re Menelao, è sopravvissuto?» «Era vivo l’ultima volta che l’ho visto ma da allora non ho saputo più nulla. Oh, wanax, gli dei hanno soffiato sul mare e le nostre piccole imbarcazioni sono state sospinte dovunque, su rive lontane... gli dei giocano con la nostra vita come un fanciullo sulla riva di uno stagno sospinge al largo la sua barchetta ogni volta che le onde la riportano vicino a riva...» «La riva...» disse Mirsilo. «Forse non ci sono più rive a cui approdare. In questo luogo l’acqua, la terra, il cielo sono tutti mescolati assieme... Noi stiamo tornando al Kaos.» «Forse» disse Diomede. «Hai paura, nocchiero?» «No» rispose Mirsilo. «Non paura. Dolore, tristezza forse... malinconia. Non paura. È come fuggire dalla vita, è come scendere nell’Ade anzitempo e senza motivo.» Il re si volse di nuovo allo spartano: «Che cosa sai di questa terra?» gli chiese «e dei suoi abitanti, se ne ha?» «Ben poco, wanax. In tanti giorni che abbiamo navigato in questa zona non abbiamo visto un solo essere umano. Qualcuno che si è spinto verso l’interno per un paio di giorni da qui ha riferito che c’è prima una fitta foresta da attraversare, di pini e querce, di arbusti fitti e quasi impenetrabili abitata da cinghiali e da grandi tori selvatici, ma poi si giunge in una pianura aperta e vasta come il mare. Altro non so dirti.» Il Chnan si avvicinò all’ospite spartano e gli chiese: «Avete visto anche voi gli strani segni nel cielo? Che cosa dicevano i Peleset ?» Un fremito di paura passò negli occhi dell’uomo. «Li avete visti?» insistette il Chnan.
«Li abbiamo visti, sì. I Peleset raccontano una storia che hanno appreso da un Vecchio che viveva in una capanna nella foresta.» Si fece silenzio e si poteva udire il respiro pesante degli uomini che dormivano dentro alle navi, il brusio lieve della risacca sulla sabbia dell’isola. «Che storia?» chiese il re. «Il Vecchio è stato con loro quasi tre mesi e non so quanto sia riuscito ad apprendere la loro lingua. Egli avrebbe raccontato di una cosa terribile che ha sterminato gli abitanti che vivevano nella pianura, un villaggio dopo l’altro. Anche lui aveva visto le strane luci nel cielo. Dicono che il carro del Sole è caduto sulla terra non lontano da qui presso il grande fiume.» «Il carro del Sole? Che storia è mai questa» disse il Chnan «Il carro del Sole è ancora al suo posto e percorre ogni giorno l’arco del cielo da oriente a occidente.» «Forse hanno visto qualcosa di simile al sole cadere sulla terra. Il Vecchio indicava un luogo preciso non lontano dalla bocca del grande fiume ma nessuno ha osato avvicinarsi a quel luogo. Le acque della palude ribollono, si odono suoni incomprensibili. Di notte qualcuno ha udito dei lamenti, come pianti di donne...» Seguì ancora un lungo silenzio, rotto in lontananza dal gemito solitario dell’assiolo.» Il Chnan si riscosse: «Forse qualcuno ha scambiato il verso di un uccello notturno per il pianto di misteriose creature. Questa è una terra che genera fantasmi.» «Scopriremo presto in che terra siamo giunti» disse il re bruscamente «e scopriremo se il carro del Sole è veramente caduto in queste paludi.» Alzò lo sguardo verso la nave in cui erano trasportate le sue armi e i suoi cavalli. «A quel carro io posso aggiogare cavalli divini, gli unici che potrebbero trainarlo...» Nella sua voce c’era una convinzione cieca, caparbia. «Ma ora dormiamo» aggiunse. «Le notti sono lunghe ma l’alba non è più tanto lontana.» Si coricarono vicino al fuoco lasciando una sentinella a vegliare, ma il re pensava. Il canto dell’assiolo sembrava ora ancora più triste nell’immensa notte silente ed egli si rivedeva fanciullo quando quel canto lo teneva desto nella rocca di Tirinto a fissare a occhi aperti l’oscurità sterminata. Egli pensava allora nella sua mente di fanciullo che esistessero creature i cui occhi erano fatti per vedere nell’oscurità, creature con gli occhi di tenebre che vedono l’altra metà del mondo, quella che il sole non visita mai. Ma erano i tempi in cui gli pareva vedere i centauri calare dai monti nel crepuscolo d’oro, e le chimere volare con strida acute fra le gole rocciose. Ora sentiva quegli occhi vuoti fissare i suoi uomini e le sue navi dalla sponda boscosa che aveva di fronte e come in quei giorni lontani aveva paura. L’indomani ripresero il viaggio. Mirsilo fece un’ampia virata verso il mare aperto per evitare di incrociare quanto rimaneva della flotta Peleset e non dover ingaggiare una battaglia, poi, verso la metà del giorno, trovò un vento orientale abbastanza forte e teso e allora issò la vela e strinse di nuovo verso terra. Il cielo era coperto di nubi e il freddo era pungente ma il mare era calmo e la navigazione era tranquilla. A un tratto la vedetta che stava a prua gridò che si vedeva qualcosa, la foce di un fiume, si sarebbe detto. Mirsilo allora fece calare in mare un orcio, lo
riempì, vi bagnò un dito e lo accostò alla punta della lingua: «È dolce, wanax» disse porgendo il vaso a Diomede. «Abbiamo raggiunto le foci di Eridano!» «Vi avevo detto che vi avrei condotto in una nuova terra» disse il re. «È qui che ci fermeremo e costruiremo una nuova città.» Chiese al nocchiero se il vento fosse abbastanza forte da permettere alle navi di risalire la corrente. «Sì, wanax,» rispose Mirsilo. «Credo di sì.» «Allora andiamo» disse il re. Prese una coppa e la riempì di vino, rosso, fortissimo, lo stesso che era solito bere prima del combattimento nei campi di Ilio e lo versò nella corrente del fiume dicendo: «Ti offro questa libagione o dio delle acque di Eridano. Noi fuggiamo la nostra patria avendo sofferto prima ogni dolore in una lunga guerra e cerchiamo una nuova terra e un nuovo tempo e una nuova vita. Sii propizio. Ti prego.» E gettò in acqua anche la coppa, d’argento, preziosa; Anassilao l’aveva fusa e ageminata con arte suprema un giorno a Lemno, senza immaginare quanto lontano avrebbe concluso il suo corso. Poi raggiunse Lamo, figlio di Onchésto, lo spartano che Mirsilo aveva liberato dalla schiavitù: «Sapresti riconoscere il luogo in cui quel Vecchio diceva di aver visto cadere il Sole?» «Credo di sì. Ma perché vuoi saperlo?» «Se vogliamo restare qui devo conoscere ogni segreto di questa terra. Tu indicami il luogo, appena lo vedi e non temere.» La nave cominciò a risalire il fiume, immenso, così grande che le rive appena si distinguevano dal centro della corrente e le querce più alte sembravano arbusti. «Un fiume così riceve molti fiumi e scende da montagne alte come il cielo, sempre coperte di ghiaccio, d’inverno e d’estate, più alte dei monti di Elam e di Urartu» disse il servo hittita, Telefo. «Hai ragione» disse il re. «E forse un giorno le vedremo.» Il vento rinforzava sempre più da occidente e da settentrione e le navi dovevano compensare la spinta con il timone per non incagliarsi contro la riva meridionale del fiume. Attraversarono la foresta, fittissima, da cui si levavano ogni tanto stormi immensi di uccelli che oscuravano come una nube il pallido sole autunnale e finalmente entrarono nella pianura aperta. Ogni tanto incontravano grandi isole boscose da cui alberi giganteschi protendevano i rami fino a lambire la superficie delle acque. Ogni soffio di vento strappava da quei rami nuvole di foglie di ogni colore, gialle, rosse e ocra e le faceva turbinare nell’aria prima di adagiarle sulla corrente. A destra e a sinistra invece la terra appariva nuda, sparsa qua e là di qualche gruppo di alberi. Lo spartano indicò a un tratto un punto in cui un ramo del fiume si staccava dalla corrente principale, attraversava un grande stagno e poi puntava verso meridione, in direzione del mare: «Ecco,» disse «il Vecchio ci indicò quel punto dove luccicano quegli stagni.» Diomede diede ordine di fermare le navi. Una dopo l’altra imbrogliarono la vela e raggiunsero a remi la riva gettando l’ancora. Il re si armò soltanto di una
spada, prese con sé un piccolo gruppo di guerrieri: Lico, Eumelo, Driope ed Eveno, tutti di Argo; e Krissos e Dios di Tirinto e si incamminò verso l’interno. Il sole già basso trasformava in lastre d’oro gli specchi immoti degli acquitrini. Ogni tanto si fermavano e tendevano l’orecchio: dovunque un silenzio che stringeva il cuore e gelava l’animo. Nulla di simile avevano mai provato nemmeno nel pieno della zuffa più feroce sul campo di battaglia. Anche gli uccelli tacevano e solo di tanto in tanto si udivano i piccoli tonfi improvvisi delle rane che si gettavano in acqua. Avanzarono fino alla riva degli stagni e Diomede fece cenno agli uomini di fermarsi presso una quercia che tendeva verso l’acqua i rami ormai nudi. Proseguì da solo mentre la luce del crepuscolo si affievoliva sempre più e il sole affondava nella caligine che velava l’orizzonte. Si fermò a un certo punto perché avvertiva confusamente che quel luogo era infestato da una presenza possente e tenebrosa, perché vedeva anche i suoi uomini che tante volte avevano affrontato la morte in campo aperto, guardarsi attorno pieni di sgomento. Gli parve a quel punto di udire qualcosa: un suono, o un gemito, forse... era quella la voce di cui aveva parlato Lamo, figlio di Onchésto? Il suono di un pianto di donne? Guardò la superficie delle onde e udì quel suono d’un tratto più distinto. Era un pianto, sì, un coro di lamenti come se molte donne vegliassero i corpi senza vita dei figli o dei fratelli o dei mariti. E l’eroe Diomede cercò in quel coro la voce di sua madre, la voce di Egialea la sposa perduta, ma non le trovò. Si avvicinò ancora alle acque dello stagno in cui era precipitato il carro del Sole e vide scorrere un brivido sulle acque anche se il vento era caduto e l’aria era ferma e stagnante. E mentre il cielo si oscurava la superficie dello stagno si tese, s’incurvò come spinta in alto dalla schiena di un mostro. Alla sua sinistra il sole scomparve con un ultimo palpito di luce e il cielo s’incupì d’un tratto sopra il pallido velo delle nebbie. Un lieve gorgoglio salì dallo stagno e sotto la superficie delle acque, abbandonate dal riflesso dorato, Diomede riuscì a distinguere una forma, come una ruota... la ruota del carro solare? L’acqua gorgogliò ancora e la ruota si dissolse nell’incresparsi delle onde. Diomede si volse verso i compagni: «Non ho più bisogno di voi,» disse «ma voglio restare ancora, trascorrere qui qualche tempo» «Torna con noi al campo, wanax,» dissero gli uomini. «Questi sono luoghi sconosciuti.» «Andate» ripeté Diomede. «Questi luoghi sono deserti, non lo sentite? Nessuno può nuocermi e la dea Atena veglia sempre su di me.» Gli uomini partirono e il frusciare del loro passaggio fra le canne palustri li accompagnò per un poco finché il silenzio non scese di nuovo sulla palude. L’eroe si appoggiò al tronco di un salice colossale che bagnava i suoi rami nell’ acqua. La terra era ormai scura come il cielo. Trascorse del tempo e il freddo divenne pungente ma egli continuava a fissare la superficie delle acque, nera come uno specchio brunito. Poi, quando pensava ormai di fare ritorno alle navi, vide un lampo di luce pallida animare il fondo della palude. Volse gli occhi al cielo pensando che la luna si fosse affacciata dietro un
banco di nubi ma non vide nulla. La luce emanava dal fondo di quell’acqua. La superficie dello stagno s’incurvò ancora, divenne come un globo scuro che rivestiva qualcosa che continuava tuttavia a restare invisibile. L’eroe non poteva credere ai suoi occhi. L’acqua non cadeva, aderiva a quell’oggetto come un mantello fluttuante. La luce balenò ancora, più forte, più vivida e colpì le nubi del cielo che ne sussultarono come pervase da lampi di tempesta. Erano quelle dunque le luci che li avevano accompagnati da quando avevano lasciato la terra degli Achei navigando sul mare, quelli i bagliori inspiegabili che avevano intimorito gli uomini ai remi e riempito di stupore i nocchieri. Ebbe paura di fissare quella luce che sembrava ora volgere verso di lui. Come avrebbe resistito il suo corpo al lampo che poteva penetrare le nubi del cielo? La luce dardeggiava ora dal mozzo della ruota come una raggiera e quando il raggio lo colpì sembrò che d’improvviso cadessero dalle sue palpebre i veli che impediscono di vedere ciò che è esistito prima di noi e che esisterà in seguito. E l’eroe vide, come in un sogno, l’origine della sua vita e della sua vicenda umana. Vide la guerra dei Sette contro Tebe, udì distintamente il nitrito dei cavalli e le grida dei guerrieri. Là, in quel cieco massacro, era cominciato tutto. Guerra di fratello contro fratello, sangue dello stesso padre e della stessa madre. Vide il padre suo, Tideo, scalare le mura, rovesciare dagli spalti uno dopo l’altro i difensori, gridare, gridare sempre più forte ai compagni di raggiungerlo e di seguirlo. E in quel momento l’asta di Melanippo, scagliata con gran forza, gli si conficcava nel ventre. E il padre suo, l’eroe Tideo, si strappava la lancia dalle carni, tratteneva con la mano sinistra i visceri che sgorgavano dalla larga ferita e con l’altra ruotava l’enorme bipenne. Melanippo non si guardava - come avrebbe potuto un uomo morente trovare ancora la forza di nuocergli? - e la bipenne ancora ruotava e poi, volando nell’aria, si abbatteva sul collo di lui troncandolo netto. Il busto mutilo crollava al suolo sussultando e scalciando ma la testa rotolava lontano sugli spalti fra le gambe dei guerrieri che si affrontavano nella zuffa feroce. Ed egli, il padre Tideo, si trascinava sulla pietra lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue, raggiungeva la testa mozza di Melanippo, l’afferrava e la sbatteva sulla pietra con ambo le mani, con forza, fino a spaccare il cranio robusto, accostava la bocca, divorava il cervello ancora caldo... E la dea Atena accorsa per aiutarlo, per guarirgli la ferita, si volse inorridita, chiuse gli occhi per non vedere. Ed egli morì, solo, esalando la vita sulla pietra lontano dalla sposa e dal figlio. E la dea gridava con gli occhi chiusi e pieni di lacrime: «È questa la tua stirpe, Diomede! È questa la tua razza e il tuo sangue!» Diomede si volse e gridò a sua volta: «Avete visto anche voi? avete udito?» Ma dimenticava che i compagni se ne erano andati. L’aveva ordinato lui. E la potenza misteriosa che incombeva su quelle acque lo forzò nuovamente a guardare nel raggio luminoso. Ed egli vide Anfiarao, il padre del suo amico Stenelo, fuggire sul carro, fuggire nella piana in una nube di polvere, frustando crudelmente i cavalli, lontano da Tebe per evitare la Chera di morte. Ma il terreno d’un tratto si apriva davanti alle zampe dei cavalli e le Furie infernali emergevano gettando fiamme dalla bocca, i capelli intrecciati di serpenti
velenosi, gli occhi iniettati di sangue, la pelle rossa e squamosa. Afferravano le redini dei cavalli focosi - quelli tentavano inutilmente di liberarsi, nitrivano disperatamente, si impennavano - ma quelle li trascinavano sotto terra, e con loro Anfiarao. E la voce disse: «E questa è la razza di Stenelo, la stirpe del tuo amico fedele!» «Stenelo!» gridò Diomede. «Dov’è? Dov’è?» Ma non ci fu risposta. Solo sentì nel profondo del cuore che Stenelo era morto, da tempo; sentì che la sua forza era svanita dal mondo come un fumo lieve, come il vapore di nebbia mattutina dissolto dal sole. Si accasciò contro l’albero e disse: «Dio, che abiti queste acque e fai palpitare le nubi del cielo con il tuo sguardo, ho visto ciò che è stato. Ho visto che il sangue della mia razza è come veleno. Ora lascia che io veda ciò che sarà. Se c’è una via per piegare un destino amaro.» Si fece forza, avanzò fin sull’orlo dello stagno e stette ritto nel bagliore accecante. Il globo tremò, l’acqua che lo rivestiva cominciò lentamente a gocciolare e poi a scrosciare in basso sollevando spruzzi dalla superficie dello stagno. La luce sussultò, la ruota girò su se stessa, e di nuovo si udì il lamento, il pianto corale. Diomede sentì che qualcuno era alle sue spalle e si volse: vide un guerriero coperto da un mantello avanzare verso di lui dal profondo dell’oscurità. Sull’elmo ondeggiava un cimiero candido, luccicava nella mano una spada troiana. Il guerriero avanzò, circondato dal silenzio e da un alone di nebbia, ed era enorme a vedersi, molto più del naturale. Solo quando fu nel raggio di luce il suo volto apparve riconoscibile e lo sguardo ardeva di odio e di vendetta: Enea! Diomede sguainò la spada: «È questo il destino! È questo dunque il futuro, uguale al passato!» gridò, e si avventò contro l’avversario ma la spada trafisse una forma vana, un’immagine vuota. Si volse ancora gridando: «Dove sei? Combatti e che sia finita per sempre! O me o te, figlio di Anchise! Quante volte ti ho messo in fuga nei campi di Ilio? Mostrati! Non ho paura di te!» Sferrò colpi su colpi finché si lasciò andare sfinito in ginocchio sull’erba umida. Le luci nel cielo si erano spente, la superficie dell’acquitrino era di nuovo immobile. Una mano si posò sulla sua spalla: «Andiamo, wanax, questa terra genera incubi. Torniamo alle navi». «Mirsilo. Perché sei qui? Non dovevi lasciare la nave. La nave deve sempre essere custodita. Con ciò che contiene.» Si alzò e si incamminò verso la riva del fiume. «Ci sono i compagni a custodire la nave, wanax. Puoi fidarti.» Camminarono in silenzio guidati dal fuoco di bivacco che ardeva lontano nella notte e dalla torcia che Mirsilo teneva nella mano. «Che cosa hai visto in quel luogo, wanax? I compagni sono tornati pieni di spavento. Mi hanno detto di averti visto gridare e combattere, tranciare canne palustri, cespugli di salice e virgulti di pioppo. Hanno udito suoni e grida e rantoli ma non sapevano come aiutarti.» «Ho visto solo quello che mi porto dentro» disse il re.
«E il carro del Sole? Che sia vero che il carro del Sole è precipitato in quel luogo?» Diomede non rispose. Pensava alla superficie incurvata dell’acqua, a quella cosa che lanciava raggi di luce verso il cielo e poi affondava nel fango e nel silenzio. «Non lo so. Ma è di là che vengono i segni che attraversano il cielo di notte. I segni che hanno spaventato i popoli e li spingono in tutte le direzioni come formiche impazzite. Il cielo non dovrebbe mai toccare la terra. La tempesta degli elementi non si placherà ancora per molto tempo. Dovremo ancora soffrire.» «Lo so, wanax,» disse Mirsilo «l’ho visto nei tuoi occhi, ma ora riposiamo, ogni giorno ha il suo dolore.»
7
Mirsilo andò a stendersi al riparo sotto la poppa della nave e restò per qualche tempo sveglio ad ascoltare la voce del fiume. Pensò alle eccelse montagne di ghiaccio che dovevano aver generato una corrente così enorme. Forse erano i Monti Iperborei o i Monti Rifei di cui aveva sentito favoleggiare da bambino. In quei monti c’era una grotta profonda sostenuta da mille colonne di ghiaccio e di là si originava il vento freddo del settentrione che sconvolge le onde del mare e porta la neve sulla terra durante l’inverno. Pensò anche a ciò che il re aveva visto nella palude: qualcosa che aveva turbato la sua mente spingendolo a infuriare con la spada contro canne palustri e cespugli. Era stato così anche per Aiace Telamonio quando aveva sgozzato pecore e buoi pensando di uccidere i suoi avversari. Eppure non temeva che il re perdesse la mente. Nei suoi occhi aveva visto sofferenza e terrore ma non follia. Diomede era ancora il più forte. Ma Lamo, figlio di Onchésto, lo spartano, si avvicinò al re, prima che si addormentasse. «C’era per davvero il carro del Sole in quel luogo, wanax?» Il re non dormiva. Stava appoggiato con la schiena al suo scudo. «Non lo so,» disse «se quella cosa è veramente caduta dal cielo sta cercando di liberarsi per tornarsene da dove è venuta. Quei lampi di luce scagliati verso il cielo sono come grida di soccorso, grida che nessuno qui può comprendere ma solo temere. La terra non da più frutti, i popoli abbandonano le loro sedi...» «E tu vuoi proseguire ugualmente verso l’interno? Quel pianto... quel lamento non è forse un segno degli dei per farci capire che non dobbiamo sfidare ulteriormente la fortuna? Ti prego, torniamo indietro. Il re Menelao è vivo e con lui ci sono quasi tutti i miei compagni. Si sono salvati e torneranno presto in patria. «Mi hanno detto che hai perso la tua città: se noi torniamo lui potrà aiutarti e chiederà ad Agamennone, il grande Atride, di unire le sue forze per riprendere Argo e restituirla al tuo comando. Questa terra è fredda e deserta... non è amabile e calda come quella sulle rive dell’Eurota, come la tua, piena di messi e di greggi al pascolo... Torniamo, wanax, i re si batteranno per te, e anche noi...» Diomede si volse verso di lui ma il suo sguardo sembrava fissare qualcosa oltre il buio della notte: «Forse era meglio per te restare con i Peleset » disse. «Noi andremo avanti, se necessario fino alle Montagne di Ghiaccio e alle Montagne di Fuoco, finché non avremo trovato un luogo dove fondare una nuova città e un nuovo regno. Noi abbiamo sofferto per anni tutti i dolori e le paure di una guerra feroce. Noi abbiamo già varcato i confini presidiati dalla paura, noi siamo già oltre. «Questa terra è degna di noi perché è diversa da qualunque altra. È deserta come il nostro cuore, è fredda come la nostra solitudine, è austera e grande e noi la conquisteremo e vi stabiliremo un popolo nuovo.»
Lamo si allontanò con l’animo pieno di tristezza temendo che non avrebbe più rivisto la sua città e il padre, già molto avanti negli anni. Diomede lo richiamò: «Spartano!» «Sono qui, wanax.» «Un giorno torneremo sul mare e se vorrai potrai lasciarci o restare con noi. Ma per ora fai la tua parte. Anche di te abbiamo bisogno.» «Ne puoi essere certo» disse lo spartano. «Il mio re ti amava come un amico e ti onorava come un dio. Quello che era giusto per lui è giusto per me.» «Ascolta» disse ancora Diomede. «Mentre navigavamo verso questa terra abbiamo incontrato un popolo feroce che muoveva lungo la costa verso meridione. Ho mandato allora una nave per avvertire i re del pericolo che incombe alla terra degli Achei; la guidava Anchialo, uno dei miei uomini migliori che vorrei molto avere con me. Non ho dimenticato la patria. È la patria che ha rifiutato me. Capisci?» Le lacrime tremarono sul ciglio dei suoi occhi ma il calore ardente del suo sguardo le asciugò prima che scendessero sulle guance. «Ti capisco» disse Lamo e si allontanò. E il re Diomede pensò in quel momento ad Anchialo e alla sua nave, immaginò che già fosse giunto nella terra degli Achei e che avesse gettato l’ancora nella baia del Pilo sabbioso per salire alla reggia di Nestore e godere della sua ospitalità. Avrebbe voluto in quel momento essere al suo posto, scaldarsi davanti alla vampa di un grande fuoco e mangiare carne arrostita tagliata a gran tranci dagli scalchi e bere vino fino a tarda notte e poi stendersi sul letto con a fianco una fanciulla dal collo bianco, dallo sguardo soave. Pensava che quello era forse in quel momento il privilegio del suo compagno Anchialo e si distese sospirando. Ma altre cose avevano disposto gli dei immortali.
Quando Anchialo aveva invertito la rotta per ordine del re, era andato avanti per un breve tratto perché il vento era contrario e la notte buia. Raggiunta l’isola più vicina aveva gettato l’ancora al riparo di un piccolo promontorio. Pensava di attendere in quel luogo finché il vento non avesse cambiato direzione spingendolo verso meridione e verso la terra degli Achei. Si era disteso sul fondo della nave a guardare il cielo e le stelle che avrebbero dovuto guidarlo e il suo cuore era combattuto da sentimenti opposti. Gli dispiaceva di aver dovuto abbandonare il re con il quale aveva combattuto per anni, che gli aveva più volte salvato la vita in battaglia. Ma anche gli dava gioia il pensiero di rivedere la sua terra e i vecchi genitori se ancora erano vivi. Pensava che Nestore e gli altri re lo avrebbero ringraziato e lo avrebbero ricambiato con ricchi doni: armi, vesti e forse anche una donna, bella, dai fianchi alti, da condurre come sposa nel talamo. Attese dieci giorni. All’undecimo il vento cambiò e cominciò a soffiare da settentrione, violento, sollevando onde minacciose. Anchialo aspettò che si fosse stancato, che avesse esaurito le sue forze, poi alzò la vela e iniziò il suo viaggio. Il vento aveva anche mutato direzione e soffiava dalla parte sinistra della poppa tanto
che il pilota doveva compensare di frequente con i remi e con i timoni per non essere trascinato al largo verso occidente. Procedette così per una giornata fermandosi la notte successiva presso un promontorio della costa. Il luogo era deserto e solo a grande distanza sui monti si vedeva il lume fioco di qualche casolare. Scelse, per montare la guardia, Frisso, uno di Abia, e gli disse di svegliare un compagno, quello che voleva lui, per dargli il cambio quando le stelle avessero compiuto un quarto del loro corso nel cielo ed egli stesso andò a dormire. Ma Frisso fu ingannato dalla stanchezza e dalla pace che regnava in quel luogo e si addormentò. Non vide quando il pericolo si addensava, non udì alcun rumore perché nelle sue orecchie il soffio del vento e lo sciacquio della risacca erano come una voce rassicurante e continua, come la nenia che invita un bambino al sonno. Si riscosse poco prima dell’alba quando il freddo gli punse le membra e il grido dei gabbiani gli portò un’angoscia improvvisa nel cuore. Si alzò ma Anchialo già gli stava di fronte con la spada in mano e gli occhi pieni di stupore. Non guardava lui, ma qualcosa alle sue spalle. Anche Frisso si volse, vide uno stormo di ali bianche in cielo e uno stormo di vele nere sul mare, appena fuori dal buio della notte, nel pallido riverbero dell’alba. Anche gli altri compagni si svegliarono e si affacciarono alle murate guardandosi l’un l’altro muti e sgomenti. «Dobbiamo fuggire» disse Anchialo. «Se ci raggiungono siamo finiti. Nessuno va per mare di questa stagione e a quest’ora, con tanti uomini e con tante navi se non ci è costretto. Questa gente può portarci solo del male. «Issate la vela!» gridò. «Uomini ai remi!» L’equipaggio obbedì, la nave lasciò l’ormeggio e si slanciò in avanti. Si era messo vicino al pilota per meglio governare la nave da poppa. Ma il profilo dell’isola aveva nascosto alla vista una parte della flotta e appena Anchialo uscì allo scoperto si trovò sul fianco destro quattro vascelli che venivano avanti in piena velocità. Uno tentò di tagliargli la strada ma lui riuscì a evitarlo virando verso la costa. Per un poco furono fianco a fianco, così vicini che i guerrieri Achei potevano guardare in faccia gli avversari. Erano scuri di pelle, con capelli neri e crespi come quelli degli Etiopi, armati con spade di bronzo e scudi di cuoio, calzavano elmi pure di cuoio. Il loro comandante parlava la lingua degli Achei anche se in modo molto rozzo. Gridò: «Fermatevi o vi manderemo a picco!». Ma Anchialo incitava i suoi uomini perché aumentassero il ritmo della voga. «Chi siete?» chiese il pilota. Il comandante nemico si sporse fuori bordo impugnando una sciabola con una mano e tenendosi con l’altra appeso a una sartia e gridò: «Sheqelesh! E ti taglierò il naso e le orecchie quanto ti avrò preso.» «Siculi» disse Anchialo al pilota senza perdere di vista il nemico. «Oh, dei... che fanno qua dei Siculi. Vira!» gridò al pilota «vira, metti quello scoglio fra noi e loro.» Il pilota obbedì e la nave Sheqelesh fu distanziata e scomparve per un poco alla vista dietro un isolotto roccioso.
«Da ragazzo sono stato nella loro isola. Ero mozzo su una nave con un carico di vino. Dicevano che venissero dalla Libia e che l’avessero popolata prima che Minosse regnasse a Creta. È gente povera e feroce, combattono per tutti e contro tutti. Il loro stesso nome suona come il sibilo di un serpente. Dobbiamo distanziarli. Se ci prendono ci venderanno tutti schiavi nel primo mercato.» Doppiarono l’isola ma subito si ritrovarono altre due navi sulla sinistra. «Siamo in trappola!» gridò Anchialo. «Se ci incastrano tenete pronte le armi.» E già un vascello Sheqelesh , leggerissimo, li sopravanzava a babordo tagliando loro la strada. «Speronamento!» gridò Anchialo. L’equipaggio ammainò la vela. «Speronamento!» gridò ancora. I rematori aumentavano il ritmo di voga, il pilota virò a sinistra investendo il vascello nemico con tutta la spinta possibile. La piccola nave si squarciò e colò a picco in poco tempo ma le altre ebbero il tempo di accostare e di arrembare. ISheqelesh si gettarono urlando fuori dalle murate impugnando spade e pugnali. Gli Achei abbandonarono i remi e si gettarono armati contro i nemici. Anchialo gridò «Argo!» con tutta la forza della sua voce, come quando gridava nella piana di Ilio al momento di sferrare l’attacco. Gridò: «Argo!». E la zuffa divampò, e in pochi istanti la nave fu piena di urla e di sangue. Gli Achei si batterono con disperata energia, molti ne uccisero e molti ne gettarono fuori bordo ma furono oppressi dal numero quando un terza nave accostò per dare man forte. Il pilota vide Anchialo circondato da un gruppo di nemici roteare una bipenne tagliando a uno la testa, a un altro un braccio di netto ma era evidente che sarebbe stato subito sopraffatto. Si gettò fra di loro spingendoli da parte con impeto e poi si scaraventò contro lo stesso Anchialo gridando: «Salvati! Il re ti ha dato un ordine!» E lo gettò in mare. Fu subito circondato e massacrato da una decina di assalitori. Anche gli altri compagni furono sopraffatti, uno dopo l’altro. I Sheqelesh ne presero vivi solo due e li torturarono fino a notte per vendicarsi delle pesanti perdite che avevano subito senza avere alcun profitto perché non avevano trovato nulla sulla nave che fosse di qualche pregio. Anchialo aggrappato a un pezzo di fasciame udì le loro grida di dolore e si morse a sangue le labbra per non poterli aiutare, ma il suo pilota aveva dato la vita per salvarlo e consentirgli di condurre a termine il compito che Diomede gli aveva affidato. Doveva salvarsi dunque e proseguire il suo cammino. Con le membra intirizzite dal gelo nuotò fino all’isolotto e di là, prima di sera, fino a terra. Era fradicio e digiuno e il freddo della notte lo avrebbe sicuramente ucciso ma la fortuna gli venne finalmente in soccorso. Trovò una piccola tettoia di bastoni e di frasche secche, ricovero per gli animali. Le bestie non c’erano e non c’era nemmeno un poco di fieno ma c’era un mucchio di letame. Anchialo si tolse gli abiti e vi si seppellì nudo. Il calore di quell’immondizia lo tenne vivo per la notte. Il giorno dopo si lavò nel mare e indossò gli abiti che il vento aveva asciugato nella notte. All’orizzonte le navi Sheqelesh si distinguevano appena: il vento le portava verso occidente, verso la terra di Hesperia dove anche il re Diomede stava per giungere o dove forse era già arrivato.
Aveva freddo perché era senza mantello e corse per tutto il giorno verso meridione per riscaldarsi e per dimenticare la fame e i crampi della stanchezza. Correva con il cuore oppresso dal dolore pensando ai compagni perduti che giacevano in fondo al mare, cibo per i pesci. Temeva che forse non sarebbe mai riuscito a raggiungere la terra degli Achei, a lanciare l’allarme ai re perché apprestassero le difese. Si fermava ogni tanto quando il sentiero toccava la sponda del mare, raccoglieva molluschi, prendeva dei piccoli pesci e li mangiava crudi per calmare i morsi della fame e poi proseguiva il viaggio. Quando attraversava un bosco raccoglieva le lumache e le larve che stavano attaccate alla base dei cespugli per il letargo invernale. Al calare dell’oscurità cercò riparo in una grotticella dopo averla riempita di foglie secche e avere con quelle chiuso l’imboccatura. Si addormentò piangendo, commiserando la sua vita ridotta a una esistenza più simile a quella di un animale che di un uomo. In un solo giorno lui che era comandante di una nave e di cinquanta guerrieri Achei aveva perso tutto, era ridotto a una larva, un bruto che dormiva nel fimo degli animali e mangiava carne cruda. Eppure egli serrava le mascelle stringendo l’anima ferita fra i denti: sentiva che se avesse ceduto allo scoramento il suo mondo sarebbe stato travolto e annientato da quelle orde di barbari che correvano la terra ed il mare, senza meta, più disperati, forse, di lui, più smarriti, forse, del suo re Diomede che cercava un regno nelle brume della notte. Un mondo intero, forse, avrebbe potuto continuare a esistere con le sue opere e le sue speranze se lui avesse trovato la forza di continuare. Il giorno dopo, mentre usciva dal suo riparo con le membra indolenzite e gli occhi gonfi, vide davanti a sé una donna. Era coperta di pelli fino ai piedi e conduceva un gregge di pecore al pascolo. Lui la guardò senza dire nulla e lei non si ritrasse, non si spaventò del suo aspetto miserabile. Lo fece avvicinare a una delle sue capre, lo fece sdraiare e gli spremette in bocca le poppe della bestia saziandolo di latte. Lo condusse la sera nella sua capanna presso un ruscello, un rifugio di pali e di ramaglie coperte di fango secco dove viveva da sola. Munse le pecore e le capre e fece una cagliata disponendo poi le forme su dei graticci appesi sopra il focolare. Gli diede da mangiare formaggio affumicato e focaccia di miglio arrostita sulle braci e latte da bere. Quando ebbero finito di mangiare si tolse il suo abito di pelli e rimase nuda davanti a lui in silenzio. Aveva mani grosse e screpolate e unghie nere, capelli sporchi e aggrovigliati ma il suo corpo nella luce del fuoco apparve bello e desiderabile, il suo volto precocemente segnato dalle fatiche aveva una grazia austera e semplice, nel naso sottile e diritto, nello sguardo ritroso e quasi corrucciato degli occhi neri e profondi. Anchialo le si avvicinò e la strinse a sé, si distese con lei sulle pelli di pecora che coprivano il pavimento accanto al fuoco. Lei gli accarezzava i capelli e le spalle con le mani ruvide e secche ed egli entrò nel suo grembo umido e caldo e sentì scorrere dentro di sé l’ardore del suo corpo e il calore della brace. Trascorse con lei tutto l’inverno. Egli l’aiutava a governare gli animali e a mungere le capre e le pecore. Non parlavano quasi mai e, quando la neve scendeva
a imbiancare i monti e le valli, stavano a lungo, in silenzio, a guardare i grandi fiocchi che turbinavano nel cielo freddo e grigio. Così Anchialo sopravvisse e aspettava, con la buona stagione, di poter proseguire il suo viaggio. Era certo infatti che nemmeno i Dor o i Sheqelesh si sarebbero mossi quando la neve copriva la terra e le bufere infuriavano sul mare. Una sera sul finire dell’inverno lei si accovacciò vicino al fuoco, prese da una bisaccia degli ossicini e cominciò ad agitarli nel pugno e poi a gettarli sul pavimento, due, tre volte. A un tratto si fermò, guardò gli astragali sparsi sulla cenere e poi gli alzò gli occhi in viso, pieni di lacrime. Sapeva che era giunto il momento di lasciarlo partire. Il mattino dopo gli riempì una bisaccia di cibo, gli diede un otre con dell’acqua attinta al ruscello, una pelliccia per proteggersi dal freddo della notte e un bastone. Anchialo staccò da una parete la sua spada annerita dal fumo e partì. Quando ebbe raggiunto il crinale dei monti che per tanti giorni avevano chiuso il suo orizzonte verso meridione si volse indietro. Lei era piccola ora per la distanza, una figurina scura davanti alla capanna solitaria. Agitò il braccio per salutarla ma lei non si mosse, come se il dolore e il vento freddo che soffiava dai monti l’avessero mutata in una statua di ghiaccio.
Diomede lasciò le foci di Eridano e navigò ancora sul fiume per un giorno, approfittando del vento che spirava da oriente gonfiando le sue vele, senza mai vedere segno di presenza umana. Tirò in secca le navi sulla riva meridionale in un’ansa del grande fiume e i suoi uomini gettarono le reti prima di approdare prendendo una gran quantità di pesci che arrostirono la sera sul fuoco. Alcuni di essi erano enormi, talmente grandi che dovettero trafiggerli con le lance prima che distruggessero le reti. Il giorno dopo il re decise di avanzare verso l’interno. Fece scavare un vallo ed erigere una palizzata per gli uomini che sarebbero restati a custodire il campo e le navi. Fece sbarcare il carico delle navi perché gli uomini potessero fare la manutenzione dello scafo, fece scaricare la cassa che teneva sempre legata all’albero della sua nave e fece sbarcare i suoi cavalli, quelli che aveva preso a Enea nei campi di Ilio dopo averlo battuto e ferito e lasciò a Mirsilo il comando in sua assenza. Ordinò che i guerrieri indossassero l’armatura e che prendessero con sé una razione di cibo sufficiente per tre giorni e partì seguendo un piccolo corso d’acqua che stranamente prendeva acqua dal fiume anziché portarne. Marciarono per tutto il giorno sempre seguendo il piccolo canale e verso sera avvistarono un villaggio. Era circondato da un fossato molto largo, alimentato dal canale che essi avevano seguito marciando durante il giorno. All’interno c’era un terrapieno sormontato da una palizzata e oltre quella si potevano distinguere i tetti di un gran numero di capanne molto grandi, apparentemente tutte uguali, disposte in modo ordinato e in file parallele. Una passerella di legno era gettata sopra il canale in corrispondenza dell’ingresso del villaggio: una porta di tronchi d’albero fiancheggiata da due torrette, esse pure fatte di tronchi e coperte da tetti di ramaglie. Tutto intorno, per un vasto tratto, i campi rivelavano l’opera dell’uomo:
si vedevano grandi appezzamenti di stoppie e altri disseminati di mucchi di fieno ormai fradicio e coperto di muffe biancastre. Frutti marci o rinsecchiti pendevano dagli alberi allineati lungo i confini delle terre coltivate, altri coprivano il terreno tutto intorno alla base dei tronchi. Nemmeno un filo di fumo si levava dai tetti del villaggio e non si udiva alcun suono: non una voce, non il belato di una pecora o il muggito di una giumenta. A oriente il sole uscì dalla fitta nuvolaglia poco prima di tramontare e gettò la sua ultima luce sul villaggio e sulle campagne rigando il terreno con le ombre lunghe dei guerrieri achei in marcia. Diomede fece cenno di fermarsi ed avanzò con due o tre uomini, quelli che si trovò più vicini, fino alla passerella. Fece udire una voce ma non ebbe alcuna risposta, soltanto l’abbaiare di un cane si levò dopo un poco da dietro la palizzata. Avanzò guardingo attraversando la passerella ed entrò nel villaggio. Al suo entrare il cane, che stava rosicchiando le ossa ormai spolpate di una carogna, ringhiò e poi si allontanò guaendo e il luogo ricadde nel più profondo silenzio. Diomede chiamò ancora poi, non ottenendo alcuna risposta, cominciò ad avanzare percorrendo la strada che attraversava il villaggio da una porta all’altra. Man mano che andava avanti i guerrieri perlustravano le vie laterali che dividevano l’intero abitato in settori regolari. Egli cercava l’abitazione del capo ma non riusciva a trovarla: le abitazioni erano tutte uguali, fatte di graticci di ramaglie spalmate di argilla indurita col fuoco e con i tetti di paglia e di fieno. «In questa città gli uomini sembrano tutti uguali» disse Eveno. «Tutte le case sono di uguali dimensioni e tutte sono fatte allo stesso modo. Come fa questa gente a capire chi comanda e chi ubbidisce?» «Qui non c’è gente» disse Diomede. «Non più. È successo qualcosa che li ha uccisi o li ha fatti fuggire.» «Cosa può essere stato?» disse Eveno. «In tutta la mia vita non ho mai visto una cosa simile. Forse... il carro del Sole?» «Ora vediamo» disse il re. «Guardate all’interno delle case e ditemi che cosa vedete.» Ed egli stesso entrò in una delle abitazioni. All’interno c’era un solo vano. Da un lato si vedevano dei giacigli coperti di polvere su cui biancheggiavano degli scheletri. Le bocche erano spalancate come in un urlo di spasimo, le braccia raccolte sul grembo, la schiena incurvata come contratta attorno a un punto di dolore lancinante. Al centro c’era il focolare con uno spesso strato di cenere e tutto intorno dei vasi di varie dimensioni, di colore scuro, con semplici decorazioni incise. C’erano anche ossa di animali mezzo bruciate, lische di pesce, gusci di noce e noccioli di frutti. Mancavano le lucerne, né c’erano tavoli o altri mobili. Vide soltanto, appeso a una parete, il morso di un cavallo in bronzo da cui ancora pendevano le redini. Quando uscì uno degli uomini lo venne a chiamare. Si poteva leggere la paura nei suoi occhi: «Wanax, le case sono tutte vuote... soltanto resti di cadaveri... In una casa, laggiù, abbiamo trovato una cosa strana.»
Diomede lo seguì ed entrò in una casa che si trovava sull’incrocio delle due vie principali. La porta era aperta e dava verso il tramonto. La luce corrusca del sole colpiva un oggetto appoggiato su una sorta di rialzo del pavimento in fondo alla casa, un disco rilucente e lo faceva sfavillare quasi fosse un altro piccolo sole. Il re si avvicinò e vide che il disco era d’oro decorato a sbalzo con tante spirali che davano l’impressione del movimento ed era appoggiato su quattro piccole ruote. In terra c’era un bacile di terracotta ancora pieno d’acqua, decorato con teste di tori, che aveva sul fondo un piccolo frammento d’oro, tolto dall’orlo del disco. «Che cos’è, wanax?» chiese il guerriero. «Sembra una magia, un sortilegio... Questo posto non mi piace...» Il re allungò la mano verso il disco e improvvisamente il luccichio si spense. Il sole era sceso in quel momento dietro l’orizzonte. Guardò le piccole ruote e il frammento in fondo al bacile. «Un pezzo del carro solare è caduto nella palude... ecco che cosa significa.» Non disse altro per non incutere paura ai suoi uomini ma pensò che quella gente aveva voluto lasciare la testimonianza della sua fine a quelli che sarebbero venuti, forse per metterli in guardia, forse per lasciare memoria di sé. «Andiamocene» disse. «Non toccate nulla perché questo luogo è come un santuario.» Uscirono e si incamminarono verso la porta meridionale, opposta a quella da cui erano entrati. Passarono accanto ai resti spolpati di una giumenta: non era rimasto che qualche frammento di pelle rinsecchita attorno alle corna e fra le vertebre, ciò che aveva attirato il cane randagio. Le grandi occhiaie vuote sembravano fissare con stupore la teoria di guerrieri crestati che avanzavano in mezzo alla piccola città morta. Varcarono la porta e uscirono dall’altra parte. Anche qui c’era una passerella sconnessa che attraversava il grande canale pieno d’acqua ma dall’altra parte si presentava uno spettacolo assai più sinistro di ciò che avevano visto all’interno. Due file di pali carbonizzati attraversavano un campo arato di recente; in cima a ogni palo era conficcata una testa di ariete dalle grandi corna attorte, bruciata e con ancora dei brandelli di pelle e di carne carbonizzata aderenti al teschio. Alla fine dei due strani filari si poteva scorgere un’altra scena ancora più inquietante: gli scheletri di due buoi giacevano a terra sotto il giogo con l’aratro ancora conficcato nel terreno. Poco distante c’erano i resti di un uomo. I cani l’avevano fatto a pezzi contendendosene i resti: le braccia spolpate e rosicchiate e parti delle gambe giacevano a qualche distanza ma il torso era ancora protetto da una sorta di grande casacca di cuoio. A tracolla aveva una bisaccia pure di cuoio. Il re si avvicinò e la prese con una mano, guardò all’interno: c’erano dei denti, grandi zanne acuminate di animali sconosciuti. Diomede si guardò intorno e vide che i denti erano sparsi dentro ai solchi che l’aratro aveva tracciato. Eveno gli si avvicinò: «Wanax, che cosa significa tutto questo? Quest’uomo seminava denti...» «Denti di drago... come dicono che facesse Giasone nella Colchide... Denti di drago per suscitare dalla terra una nuova stirpe di guerrieri...»
«E quei teschi di ariete bruciati...» disse ancora Eveno guardandosi intorno mentre l’oscurità scendeva sul villaggio alle sue spalle. Dal fossato si levava una sottile bava di nebbia che strisciava sul terreno, lambiva le basi dei pali, avvolgeva le ossa degli uomini e degli animali. «Forse è il rito con cui quest’uomo voleva propiziarsi la semina... forse un rito antichissimo e sacro degli antenati rievocato dalla disperazione.» «Andiamocene, wanax, questo luogo è abitato da ombre di insepolti, ombre senza pace. Trascineranno anche noi nell’Ade se restiamo qui. Anche i compagni hanno paura... abbiamo affrontato tanti pericoli, abbiamo combattuto senza risparmiare le forze, non temiamo nessun nemico... ma questa terra popolata solo di ombre ci riempie di sgomento... Non è in questa terra che potrai fondare il tuo regno.» Il re restò in silenzio a guardare i teschi anneriti conficcati sui pali, la nebbia che strisciava sul terreno e sommergeva tutto, gli scheletri, l’aratro abbandonato: «È una terra avvolta nel freddo e nell’inverno. Anche qui giungerà la primavera e i prati si copriranno di fiori, le erbe alte nasconderanno i segni della morte. Non dovete avere paura. Ma ora torniamo al villaggio e prepariamoci per la notte. Domani torneremo al nostro campo.» «Wanax,» disse Eveno «se tu vuoi fare questo nessuno ti seguirà all’interno di quel vallo e di quella palizzata. E se tu lo ordini nessuno comunque chiuderà occhio. Tanto vale tornare indietro. Basterà seguire la riva del canale. Abbiamo portato il fuoco con noi: potremo accendere delle torce... Dammi ascolto, ti prego.» Diomede vide il terrore nei suoi occhi anche se lo sguardo era fermo e la mano stringeva l’impugnatura della spada. Se fossero stati assaliti durante la notte si rendeva conto che sarebbe potuta accadere qualunque cosa. Acconsentì a riportarli all’accampamento che aveva lasciato sulle rive di Eridano. Mangiarono qualcosa per non marciare digiuni poi raccolsero delle ramaglie e fecero delle torce accendendole dalle braci che avevano portato con sé in un vaso coperte di cenere. Si misero in viaggio: Diomede camminava alla testa della fila e Eveno marciava per ultimo. Camminarono a lungo in silenzio accompagnati soltanto dalle strida degli uccelli notturni. La stanchezza cominciava a farsi sentire e gli uomini rallentavano il passo ma Diomede li incitava come se improvvisamente qualcosa lo spingesse ad affrettarsi verso il campo. L’alba non era ancora sorta che apparve all’orizzonte un bagliore sanguigno, il palpitare di una luce rossastra. Eveno, dalla retroguardia accorse a fianco del re: «Lo vedi anche tu, wanax? Sembra un incendio...» «Lo vedo. Presto, corriamo. Potrebbe essere il nostro accampamento.» Si lanciarono di corsa e percorsero l’ultimo tratto di strada inciampando spesso e cadendo, non potendo vedere il terreno che calpestavano. Man mano che arrivavano cominciavano a udire sempre più distintamente l’eco di grida e un clamore confuso e a vedere turbini di fiamme e di faville levarsi alte verso il cielo. Quando finalmente furono vicini si resero conto di quanto era accaduto: le navi tirate in secca erano state raggiunte di notte dalla flottaPeleset e date alle fiamme.
Mirsilo e i suoi erano usciti e impegnavano il nemico sulla spiaggia mentre altri cercavano di spegnere l’incendio. Diomede si fermò a contemplare quello spettacolo tremendo: le fiamme che bruciavano le navi gli rievocarono alla memoria il giorno in cui Ettore aveva travolto le difese e aveva appiccato il fuoco alla nave di Protesilao. Il furore gli divampò nelle vene, la stanchezza della interminabile marcia svanì d’un tratto, impugnò la spada e gridò: «ARGO!» come quando dava il segnale di attacco nei campi di Ilio e si lanciò in avanti seguito dai suoi uomini. Si fece largo tra le file dei guerrieri di Mirsilo che arretravano sotto la spinta soverchiante del nemico e si portò in prima linea gettandosi nella mischia. In quel momento il re non era più presente a se stesso e la realtà che lo circondava era come un sogno del passato: la lotta sotto le mura di Tebe, i duelli all’ultimo sangue davanti alle porte Scee, sotto gli occhi delle donne troiane. Il re era come il vento che piega le querce sui monti, come la grandine che distrugge i raccolti, come la folgore che acceca e poi uccide. Sventrò con un fendente il guerriero Peleset che si trovò dinnanzi facendogli uscire i visceri fino alle ginocchia, decapitò il compagno che si era affrettato in suo soccorso e sconciò orribilmente nel volto un terzo che si faceva sotto da sinistra. Il sangue lo rendeva pazzo di collera e triste, al tempo stesso, in fondo all’animo, come il mare sconvolto in superficie dalla bufera ma sempre cupo e immobile negli abissi. Per questo la forza del suo braccio era insostenibile. Mirsilo e i suoi, ansiosi di mostrarsi degni agli occhi del re, contrattaccarono vigorosamente respingendo i nemici che avevano di fronte verso il greto del fiume. Il capoPeleset si rese conto che la situazione si era completamente rovesciata e che se il combattimento fosse continuato ancora i suoi uomini sarebbero stati annientati. Pago del danno che aveva inflitto ai nemici gridò che a un suo segnale tutti dovevano correre verso le navi e salpare. Solo Lamo, figlio di Onchésto, capì quello che aveva detto ma trovandosi in quel momento nei pressi della palizzata non riuscì a farsi udire da Diomede che combatteva nel folto dei nemici e aveva le orecchie piene di frastuono. Gridò: «Fermateli perché vogliono fuggire! Non lasciamo che vadano via o resteremo senza navi!» Fu tutto inutile. Al segnale successivo i Peleset si voltarono e fuggirono rapidissimi sulle navi salpando verso il centro del fiume. Si lasciarono subito prendere dalla corrente che li trascinò in breve fuori dalla vista, in direzione del mare. Gli Achei rimasero sul greto del fiume e nessuno ebbe voglia di levare il grido della vittoria benché avessero respinto un nemico agguerrito e più numeroso. Le loro navi erano quasi tutte andate distrutte. Quelle che non erano bruciate erano così malconce che era impossibile pensare di ripararle.
Il re li radunò tutti presso la palizzata, si tolse l’elmo e così com’era, lacero e sporco di sangue disse: «Abbiamo vinto ma abbiamo perso le navi e dunque non abbiamo più scelta. Se ieri sera i compagni che erano venuti con me mi chiedevano di abbandonare questa terra in cui sono molti i segni di una distruzione inspiegabile, oggi non è più possibile prendere una simile decisione. Andremo avanti e cercheremo un luogo adatto a fondare la nostra nuova patria. Forse la distruzione delle navi è un segno degli dei che vogliono farci capire che questo è il luogo che ci hanno destinato. Andiamo avanti: c’è sempre una terra nuova oltre l’orizzonte. Se necessario andremo verso le Montagne di Ghiaccio o verso le Montagne di Fuoco e anche oltre. Nessuno è più forte di un uomo che non ha più nulla da aspettarsi dalla sorte.» Gli uomini lo ascoltarono in silenzio. Molti, specialmente quelli che lo avevano seguito il giorno prima e che avevano camminato con lui durante la notte, erano angosciati pensando agli stenti e alle privazioni che avrebbero dovuto sopportare avanzando in una terra deserta e maledetta. Fra di loro il più affranto era Lamo, lo spartano: era certo ormai a quel punto che in nessun modo avrebbe mai potuto rivedere la sua casa e la sua città. Se anche fosse stato libero di muoversi come voleva non avrebbe saputo dove andare. Se ne stava in disparte, a capo basso, trattenendo a stento le lacrime. «Non vi abbattete:» disse ancora Diomede «i nemici ci hanno privato delle navi ma non sono riusciti a espugnare l’accampamento. Ci resta ancora quanto abbiamo di più prezioso. Seguitemi» e si mosse verso l’accampamento. «Se da oggi in poi non ci resta altro che le nostre armi e il nostro coraggio, è giunto il momento che sappiate la verità.» Raggiunse il centro del campo dove era ritta accanto al palo con il suo stendardo la cassa che sempre stava legata all’albero maestro della sua nave. Afferrò un’ascia e con un colpo fece saltare i cardini. Il coperchio cadde a terra e lasciò vedere ciò che vi era all’interno. Cadde un grande silenzio sul campo e gli uomini abbassarono la testa. Mirsilo si fece avanti e alzò la lancia verso il sole che saliva ormai fra i rami spogli dei pioppi e delle querce a illuminare le acque di Eridano: «Ti seguiremo, wanax, anche sulle Montagne di Ghiaccio, anche sulle Montagne di Fuoco!» Anche gli uomini levarono le lance verso il sole e gridarono: «Wanax!» Non avevano più paura e guardarono senza lacrime le loro navi che affondavano ed erano travolte dalla corrente del fiume. Le navi che avevano portato guerra a Ilio, le navi che per anni erano state per loro la speranza del ritorno, il pensiero della patria. «Ora possiamo andare solo avanti» disse il re. Caricarono quello che avevano sul dorso dei cavalli. La cassa fu rinchiusa e caricata sul carro del re a cui furono aggiogati i suoi cavalli divini. Egli stesso vi salì e prese in mano le redini. Quando tutti furono pronti diede il segnale di partire e la colonna si mise in marcia verso occidente.
Il Chnan era fra gli ultimi ed era disperato per aver visto le navi distrutte. «Pazzi e sciocchi,» diceva «hanno perso le navi ed è come se nulla fosse stato, solo per aver visto quella cosa dentro la cassa. Tu, almeno, hai visto che cos’era?» chiese rivolto a Telefo, il servo hittita. «No» rispose quello. «Li avevo tutti davanti e tutti avevano in testa l’elmo con il cimiero. Ma non credo che cambi molto per noi.» «Certo che cambia» disse il Chnan. «Con una nave io posso portarti dovunque: ai confini del mondo, alle rive dell’Oceano, nella palude del gelido Boristene, alle foci del Nilo... o a casa... sì, a casa...» Per la prima volta i suoi occhi erano pieni di sgomento e di terrore.
8
Avanzarono per qualche giorno finché trovarono un’altra di quelle strane città di forma quadrata, circondate da un canale d’acqua, fatte di capanne tutte uguali. Qui era rimasto qualcuno: poche famiglie che vivevano allevando qualche giumenta e un piccolo gregge di pecore. Furono presi da spavento quando videro i guerrieri Achei ma Diomede ordinò di non fare loro nulla di male e fra le donne di prendere solo quelle che riuscisse loro di convincere con i doni e con le parole. Un ordine inutile: quasi tutti gli abitanti erano di età avanzata. Decise comunque di fermarsi perché il tempo era di nuovo cambiato al peggio: prima pioggia, poi neve e freddo intenso. Trovarono anche cibo: grano e orzo e latte e formaggio. E nei boschi c’era molta legna per accendere il fuoco. Nelle giornate serene il re prendeva i suoi cavalli e li portava con sé nella pianura, lontano dalla città quadrata. Li portava lontano a pascolare e i cavalli raspavano con gli zoccoli sotto la neve per trovare erba ed arbusti con cui cibarsi. Tornava alla sera con una luce di malinconica pace nello sguardo e si ritirava nella sua capanna senza parlare con nessuno. Se durante la notte cadeva la neve il re usciva coperto dal suo mantello e restava a lungo a guardare i grandi fiocchi che volteggiavano nell’aria, in silenzio, con gli occhi lucidi e febbrili. A volte restava molto a lungo e tornava a coricarsi poco prima dell’alba cadendo in un sonno pesante e agitato. Gli uomini che facevano la guardia sempre davanti alla porta dicevano di averlo sentito invocare nel sonno il nome di Egialea, la regina, e di averlo sentito piangere ma Mirsilo li aggredì e li minacciò che avrebbe tagliato loro la lingua se avessero ancora osato parlare. Disse che dovevano vigilare e basta, dimenticando ogni altra cosa. Un giorno il re portò con sé soltanto uno dei cavalli e quando fu lontano dal campo provò a montarlo a pelo come aveva visto fare dai Dor Il destriero sgroppò e lo fece cadere più di una volta ma alla fine il re ebbe la meglio e riuscì a reggersi in groppa all’animale che si lanciò al galoppo nella pianura piena di neve. Era una cosa incredibile, era come volare ed era anche come sentir scorrere nelle proprie vene il sangue bollente del grande animale, ed era come stringere fra le gambe un’onda impetuosa del mare. Il destriero volava sferzandosi le terga con la coda, soffiando nubi di vapore dalle froge bianche di brina e lanciando acuti nitriti. Diomede lo lasciò correre fino alla sfinimento e poi scese, lo coprì con una coperta e lo lasciò pascolare. Ogni tanto il cavallo alzava la testa superba, scuoteva la criniera e sembrava fissarlo con i grandi occhi inquieti e ardenti. «Pensi al tuo padrone, non è vero? Pensi a Enea?» L’animale scosse il capo come se annuisse. «Non c’è più. Enea è morto. Ti resto solo io e dunque è me che devi amare. Se un giorno dovessimo mai incontrarlo io lo sfiderò e se lui vincerà potrete tornare con lui, se lo vorrete, e
portarlo ancora in battaglia. Ma fino a quel giorno dovete servirmi perché io vi ho conquistati combattendo lealmente e con onore.» Si incamminò per tornare al villaggio ma una falsa traccia lo portò fuori dal suo sentiero, molto lontano, ai margini meridionali del bosco e là, prima di uscire dal folto, vide una carovana che avanzava da settentrione nella neve alta. C’era un piccolo gruppo di guerrieri armati di lunghe spade e di lance, coperti di pelli e con elmi di cuoio e di bronzo; dietro veniva un paio di buoi che trainavano un carro coperto. Quando furono molto vicini a lui si alzò improvvisamente il vento e scostò le stuoie che coprivano i lati del carro. Per un attimo, per un attimo solo, il re vide una fanciulla di divina bellezza, due occhi azzurri velati d’ombra, una fronte bianca e pura come il ghiaccio, una chioma come grano maturo. Gli sembrò Egialea, quando l’aveva vista per la prima volta. I lineamenti erano diversi, diverso il taglio degli occhi e la linea del viso ma uguale era lo spirito e la forma, uguale l’ambiguo fascino dello sguardo e uguale ne immaginava il fuoco sotto le vesti. Felice l’uomo che l’avrebbe condotta nel suo talamo. Montò a cavallo e seguì a distanza il piccolo corteo, a lungo, sempre tenendosi all’interno del bosco per non farsi vedere. Sentiva che una forza invincibile lo teneva legato a quel plaustro che avanzava ondeggiando e lasciando profonde tracce nella neve. Qualche tempo dopo si accorse che il carro si avvicinava a una di quelle città quadrate circondate dal fossato e dal vallo e con le capanne tutte uguali ma questa era grande, in grado di contenere molte persone. Dai tetti delle abitazioni si alzavano lente volute di fumo verso il cielo rannuvolato. Uscì allo scoperto proprio mentre il carro si fermava e si apriva la porta nella palizzata per accogliere i nuovi venuti. C’era un uomo che usciva al centro del ponte in direzione del carro dal quale scendeva nello stesso momento la fanciulla. I guerrieri facevano scendere anche alcune ceste di vimini, forse la sua dote, e le portavano verso la città. Diomede affondò i talloni nel ventre del cavallo e si portò più vicino fino al punto che la ragazza lo vide e lo fissò in volto. Egli ricambiò quello sguardo e le fece un cenno ampio della mano come se la invitasse a seguirlo. Gli uomini che l’accompagnavano si volsero verso di lui gridando, poi presero gli archi e cominciarono a scagliargli contro delle frecce. Il re se ne stava fuori della portata del tiro e gridava: «Vieni con me! Nessuna è più bella di te sulla terra. Vieni con me!». E parlava dal cuore. Sentiva che quella donna avrebbe potuto essere la regina nella città che avrebbe fondato. Solo lei, forse, avrebbe potuto oscurare nel suo animo l’immagine di Egialea. Pensò per un momento che avrebbe potuto attaccare e portarla via con sé, ma mentre stava per slanciarsi parecchi altri uomini uscirono dalla palizzata e si schierarono davanti al carro. La fanciulla entrò dietro a colui che era uscito ad accoglierla. Prima che la porta si chiudesse dietro di lei si volse verso la pianura e guardò ancora il guerriero temerario che continuava a chiamarla caracollando sul suo cavallo baio e alzando spruzzi di neve scintillante.
E Diomede capì che cosa stava accadendo. Il capo di quella gente aveva fatto venire una sposa da lontano, una sposa di un’altra razza per scongiurare la fine della sua stirpe morente, per innestare nuovo sangue nel tronco della sua famiglia inaridito e disseccato da un male oscuro. Anche per questo voleva quella donna, a qualunque costo. Tornò al suo villaggio seguendo a ritroso le orme del cavallo e quella stessa sera convocò i guerrieri. Disse loro che aveva scoperto un’altra di quelle strane città, grande e prospera, piena di mandrie, di cibo abbondante, di armi, di metallo da forgiare. Da quel momento iniziava la conquista del nuovo regno. A primavera avrebbero forse avuto terre, donne e ricchezze sufficienti per fondare la nuova città. I guerrieri dissero che erano pronti. «Vi ringrazio» disse allora il re. «E se vinceremo io prenderò da quella città una regina per me e la porterò nel mio letto con il ritorno della buona stagione. I guerrieri gridarono e applaudirono poi tutti si sedettero in terra per mangiare. Telefo aveva arrostito una capra e la fece servire al re e ai suoi amici ma il vino era finito. «Pianteremo anche la vite» disse Diomede. «Ho visto nei boschi dei tralci selvaggi. Li addomesticheremo e faremo in modo che portino frutto. Berremo ancora vino e staremo allegri insieme, in questa terra. Come un tempo,» disse «come un tempo...» ma il non aver vino rendeva tutti tristi. Passarono due mesi da quel momento e in quel tempo il Chnan riuscì a fare ancora molti progressi nell’apprendere la lingua degli abitanti di quella terra. Da lui si lasciavano avvicinare perché non aveva armi e perché parlava sempre come se loro lo potessero capire. Quando la stagione cominciò a migliorare e le giornate ad allungarsi il Chnan sapeva di quei luoghi e di quella gente più che tutti i guerrieri Achei messi assieme. Un giorno, verso il tramonto, chiese di vedere il re davanti alla sua capanna. Diomede stava seduto su uno sgabello guardando il sole che scendeva sulle Chiome delle foreste che orlavano l’orizzonte. Gli disse: «Re, io vengo da una terra dove tutti viaggiano e incontrano sempre popoli diversi: per questo ci è più facile imparare le lingue. Però questo non significa che non siamo affezionati al nostro paese: quando ho visto bruciare le navi mi sono sentito morire per il fatto che non avrei più potuto rivedere la mia terra e la mia città. Ma se tu mi prometti che un giorno mi troverai una nave e mi lascerai partire io ti servirò fedelmente e ti riferirò tutto quello che riesco ad apprendere» «Ti do la mia parola di re» rispose Diomede. «Quando avremo conquistato un territorio che si affacci sul mare farò in modo che tu abbia un’imbarcazione e che tu possa partire.» «E lascerai anche che Telefo, il cheteo, venga con me?» «Io speravo che sareste rimasti... vi avrei dato una moglie e un casa... ma se è questo che volete, io vi lascerò andare... E prenderete con voi anche lo spartano. Anche lui non sogna che di tornare.» «Ti ringrazio e prendo la tua parola,» disse il Chnan «e non avertela a male se desideriamo andarcene. Non sappiamo nemmeno che cosa troveremo, se ci sarà ancora la nostra casa e la nostra famiglia, se i nostri genitori sono ancora vivi. Il
cheteo era comandante di uno squadrone di carri da guerra e io ero comandante di un mercantile: ci unisce solo la nostra condizione di stranieri e il desiderio del ritorno, una cosa che voi non avete più...» «Ti sbagli. Io non dimenticherò mai Argo e il mio nido di roccia sullo scoglio di Tirinto ma dovrei massacrare il mio popolo in battaglia per poter tornare. Per questo ho scelto di cercare una nuova terra...» Il Chnan se ne stette zitto per un poco poi si sedette in terra appoggiandosi con la schiena alla parete della capanna: «Il capo della città che vuoi conquistare si chiama Nemro. È un uomo valoroso e ben voluto dal suo popolo. Ha perso due fratelli e la prima moglie.» «Perché questa gente muore?» chiese il re. «Perché le loro città sono vuote?» «Nessuno lo sa. Ma dicono che è cominciato quando sono apparse le strane luci nel cielo... e dopo che il carro del Sole è precipitato nella palude... Stai attento. Se ti fermi qui anche noi potremmo andare incontro alla stessa sorte.» Il re tacque pensando a ciò che aveva visto e immaginato nella palude, ai fantasmi che da quel momento funestavano la sua mente. Pensò al cadavere dell’uomo che aveva seminato denti di drago, agli scheletri dei buoi crollati sotto il giogo, alle teste d’ariete infisse sui pali e bruciate. Era una vista che non poteva più dimenticare. «Quando esplorammo la prima città, quella che trovammo abbandonata e deserta, assistemmo a uno strano spettacolo» disse. «Lo so. I tuoi uomini ne hanno parlato a lungo sedendo la sera accanto al fuoco. Hanno avuto paura...» «Tu che cosa pensi? Ne hai parlato con questa gente? Che cosa significa tutto questo?» Il Chnan sembrò scosso da un pensiero improvviso: «Hai camminato in mezzo ai pali?» chiese. «Ai pali con le teste d’ariete?» Diomede non distolse lo sguardo dal sole che stava calando nella foschia dell’orizzonte: «Sì» rispose senza un battito di ciglia. «Non avresti dovuto. Io temo che...» Ma il re lo interruppe come se la risposta ai suoi interrogativi non lo interessasse più: «La donna che è giunta di lontano... si sa chi è? Ed è venuta come sua sposa?» «È venuta da terre che stanno oltre le Montagne di Ghiaccio, viaggiando attraverso nubi e foreste: Nemro vuole un figlio da lei.» Il re abbassò la testa. Pensava allo sguardo luminoso e ambiguo della fanciulla giunta dai confini del mondo e alle occhiaie vuote e alle dentature beffarde delle teste d’ariete confitte sui pali anneriti. Che destino si preparava per lui? Si rendeva conto che ormai troppo spesso gli accadeva di invidiare i compagni che erano caduti sotto le mura di Ilio. E capiva anche che solo quella donna avrebbe potuto restituirgli la vita. «Attaccherò quella città e mi prenderò la donna» disse. Il sole era tramontato e una nebula diafana usciva dalle foreste ricoprendo tutta la terra. Dal folto dei boschi si levavano i muggiti di sfida dei tori selvatici che si accingevano alle battaglie di primavera ma giungevano anche altre voci, grida non
di uomini, e forse nemmeno di animali, fiochi lamenti di creature non più vive, non ancora morte, di ombre, forse. Il Chnan tendeva l’orecchio come se tentasse di capire anche quei richiami remoti, smarriti; i suoi lineamenti erano contratti, la sua bocca serrata, la fronte umida. «Attaccherai un popolo morente? Strapperai la donna e la speranza di sopravvivere a un uomo che non ti ha fatto nulla? E quale sarà il pretesto?» «Nessun pretesto» disse il re. «Il leone non ha bisogno di pretesti per abbattere il toro, e il lupo uccide l’ariete senza rimorso. Se io trovo una buona ragione per vivere anche la mia gente la troverà; se la perdo non ci sarà più speranza, per nessuno.» Mirsilo preparò gli uomini e diede disposizioni per la partenza. Caricò sui carri tutto quello che poteva servire per costruirsi dei ripari adatti a sostenere un assedio e caricò tutto il cibo che poté. Ben poco rimase agli abitanti che ancora vivevano nel villaggio ma restava loro comunque il bestiame che poteva assicurare la sopravvivenza. Non si salutarono benché fossero vissuti insieme per tanti giorni e quando i guerrieri si incamminarono nella pianura la gente del villaggio uscì dall’argine e dal fossato e restò a guardarli in silenzio. Diomede gettò loro uno sguardo prima di montare a cavallo: erano quasi solo vecchi; avevano i capelli bianchi e lo sguardo spento, rassegnato. La loro non era più vita. L’esercito procedeva in colonna e con i carri al centro trainati dai buoi. Arrivarono in vista della città di Nemro poco prima del tramonto e il re diede ordine agli uomini di piazzarsi sui sentieri di accesso e attorno ai due pozzi dai quali gli abitanti erano soliti attingere l’acqua. Altri fermarono i carri e dopo averli scaricati vi posero sopra delle coperture di pelli e di teli per allestire dei ripari per il riposo e per la notte. In seguito Mirsilo pensava di costruire dei ricoveri fissi con il legname dei boschi nel caso che l’assedio fosse durato a lungo. Se mai si potesse chiamare assedio: duecento guerrieri attorno a una palizzata di legno, a un fosso limaccioso, a capanne di paglia e di fango... Dov’erano le mura superbe di Ilio costruite da Poseidone, dov’era Tebe dalle Sette Porte, dove le falangi scintillanti, le decine di migliaia di guerrieri catafratti? Diomede sentì una stretta al cuore e volse lo sguardo verso la pianura deserta per nascondere lo smarrimento e il tremito delle palpebre. Ma fu un momento, la forza del suo animo era ancora intatta: spronò il cavallo e, prima che i suoi uomini potessero impedirglielo, si presentò, solo, davanti al ponte di accesso. Gli zoccoli del suo cavallo risuonarono sui tronchi ben connessi e rimbombarono dentro la cinta della città. Nessuno si presentava a impedirgli il passo, nessuno gli contrastava l’ingresso. Penetrò dalla porta semiaperta e si guardò attorno: il luogo appariva deserto. Le porte delle abitazioni erano chiuse, i recinti degli animali erano vuoti, tutto era pace e silenzio nella luce incerta del crepuscolo. A un tratto gli parve udire uno strano rumore: una specie di crepitio, come di qualcosa che prende fuoco. Spronò il cavallo e raggiunse il centro della città dove le due vie principali si incrociavano in un punto. Si volse verso destra e poi verso sinistra e il suo sguardo si riempì di sgomento: venti teste mozze di ariete erano confitte su pali aguzzi
avvolti dalle fiamme, nell’aria un odore acre, ripugnante, un fumo denso e grasso. Per un attimo vide una figura avvolta in una cappa di lana nera appiccare il fuoco con una torcia all’ultimo palo e subito sparire in una via laterale. La voce di Mirsilo risuonò alle sue spalle: «Fermati, wanax! Può essere una trappola, lascia che arrivino gli altri compagni!» ma il re, dopo un attimo di esitazione, spronò il cavallo e si slanciò in avanti passando in mezzo alle teste d’ariete, raggiunse l’uomo prima che sparisse dentro una delle abitazioni, gli sbarrò la via mettendosi di traverso con il cavallo, gli puntò la lancia alla gola. Era un Vecchio ossuto con occhiaie scure e profonde; arretrò contro la parete che aveva alle spalle e attese senza un battito di ciglia che il bronzo gli aprisse la gola. Il re abbassò la lancia e scese da cavallo e quando Mirsilo lo raggiunse ansimante gli disse: «Fai venire il Chnan: voglio che quest’uomo risponda alle mie domande.» Mirsilo obbedì e ordinò anche agli uomini di battere la città casa per casa per vedere se non vi si nascondesse qualcuno. «Chi sei?» chiese il Chnan al Vecchio quando fu arrivato. «Il vostro capo è morto» rispose il Vecchio «la sua testa brucerà come quelle confitte sui pali.» «Il nostro capo è già passato una volta fra le teste bruciate ed è ancora vivo, come vedi.» L’uomo guardò Diomede di sottecchi e poi fissò il suo interlocutore: «Menti. Non è possibile» «È un grande eroe che ha distrutto due città immense, cinte di mura di pietra. Lui ha visto il luogo dove è caduto il carro del Sole e vi ha passato la notte.» Gli occhi del Vecchio si dilatarono mostrando il bianco, il suo mento cominciò a tremare, gli occhi si tramutarono in fessure: era terrorizzato. «Digli che lo trascinerò nella palude dove è caduto il carro del Sole» disse Diomede, quando si fu reso conto della causa di quel terrore. «Lo legherò a un albero e lo lascerò là ad impazzire.» Il Vecchio scosse la testa e pianse, si gettò in terra con la faccia nella polvere. Il suo corpo era scosso da un tremito continuo. Il Chnan lo fece alzare e lo calmò. Gli disse che avrebbe potuto andarsene libero se avesse loro indicato dove erano andati gli altri. «Ormai sono in salvo» disse il Vecchio «e non potete più raggiungerli. Domani passeranno il fiume e marceranno verso il Grande Lago degli Antenati ai piedi delle Montagne di Ghiaccio. Là si immergeranno nelle acque limpide e pure per liberarsi dal male che ci fa morire e ricostruiranno le case sull’acqua che non possono essere raggiunte da alcun maleficio. Il nostro popolo rinascerà.» Diomede si rese conto che Nemro e la sua gente tornavano a settentrione verso le sponde di Eridano, per passare. Se ci fossero riusciti non avrebbe più rivisto quella donna. Chiamò Mirsilo e gli ordinò di aggiogare i cavalli al suo carro da guerra. Ordinò ai suoi uomini di trattenere il Vecchio finché lui non fosse tornato poi balzò sul cocchio e passò le redini a Mirsilo. Fecero un giro sul lato settentrionale della città finché non individuarono, evidenti, le tracce della migrazione. Il re allora
incitò i cavalli come un tempo nella piana di Ilio. Li incitò con un grido lungo, acuto e modulato: gli animali scalpitarono, s’impennarono scuotendo il giogo e poi si slanciarono in avanti sul sentiero di terra battuta in una nuvola di polvere. Mirsilo allungava loro le briglie sul collo e gli animali divini aumentavano sempre di più l’andatura, collo contro collo, testa contro testa, in un tumulto di muscoli luccicanti, di criniere fluttuanti nel vento. Il re taceva ora, si teneva aggrappato al corrimano con la mano destra e reggeva la lancia nella sinistra. Il sole basso gli diffondeva sul volto e sui capelli un riflesso di vampa. Il cocchio volava sul sentiero deserto nell’ultima debole luce del sole e Mirsilo riuscì a tenere la stessa andatura fin quasi al buio abituando gli occhi a distinguere il pallido chiarore della polvere fra il verde dei prati. Fu costretto a rallentare quando sparì l’ultimo riflesso di luce ma in quel momento il re indicò un punto lontano: «Guarda,» disse «devono essere loro. Non fermarti, gli arriveremo addosso quando non se l’aspettano.» Si vedevano delle luci in mezzo alla pianura, riflesse come da un specchio: le acque di Eridano. E attorno delle ombre scure che si muovevano attorno a dei fuochi. Mirsilo mise i cavalli al passo e continuò ad avvicinarsi finché, protetti dal buio, riuscirono a vedere cosa accadeva nell’accampamento che avevano davanti: la gente era disposta in cerchio attorno a dei grandi fuochi. Al centro Nemro indossava la sua armatura e un mantello di lana scura. Di fronte a lui la fanciulla bionda venuta da lontano aveva il capo cinto di bende bianche che le scendevano in morbide pieghe ai lati del collo. Stavano per celebrare il loro matrimonio. Un Vecchio dalla lunga barba teneva le loro mani e un accolito versava bianca farina sul loro capo e latte ai loro piedi. Diomede vide con un rapido sguardo dove il suo cocchio avrebbe potuto insinuarsi e dove avrebbe potuto curvare per riprendere la via della fuga e spiegò la manovra a Mirsilo che annuì stringendo le mascelle e attorcendo le briglie ai polsi. «Ora!» gridò il re. Mirsilo incitò i cavalli e fece schioccare ripetutamente le briglie sui loro dorsi. Gli animali si lanciarono nuovamente in corsa puntando verso l’unico luogo luminoso in mezzo alla notte. I nitriti e il galoppo furioso, il rombo delle ruote, le grida dei due guerrieri seminarono lo scompiglio e il terrore ma Nemro si volse e capì, afferrò una lancia e la scagliò contro il carro che avanzava come una meteora, dritto su di lui. La punta stracciò la tunica sulla spalla di Mirsilo che nemmeno tentò di schivare il colpo. Nemro fu costretto a gettarsi di lato perdendo la mano della sposa che restò impietrita a fissare il guerriero ritto sul cocchio che le volava addosso. La mano di Diomede le passò sotto l’ascella e la sollevò come un fuscello, la fece volare oltre il bordo rovente della ruota e la depose sul carro lieve come una colomba nel nido. Le passò il braccio sinistro attorno alla vita serrando la mano sul parapetto anteriore. Mirsilo intanto volava attraverso il campo senza volgersi indietro, curvava vicino alla riva del fiume prima di incontrare la sabbia che avrebbe spento la sua corsa e di nuovo incitava con altissime grida i cavalli divini a riguadagnare la pianura aperta.
Curvò tutto intorno al campo e si slanciò verso il punto da cui aveva lanciato l’attacco. Nemro si rialzò furibondo e chiamò a raccolta i suoi uomini ma Diomede lo sorprese ancora irrompendo di nuovo dallo stesso punto verso gli uomini raggruppati attorno al capo. Uno rimase travolto in pieno e fu maciullato dalle zampe dei cavalli, altri due furono storpiati dalle ruote del cocchio; lo stesso Nemro, urtato di fianco dal cavallo di sinistra, fu scagliato a terra e stordito. Poi il carro di bronzo e di fuoco sparì nella notte.
Per tre giorni la donna rifiutò il cibo e il riposo. Stava rannicchiata sul suo giaciglio con le ginocchia strette vicino al corpo e il volto completamente nascosto dai capelli. A volte verso sera lasciava udire un canto malinconico e modulato come le nenie che si cantano ai fanciulli per addormentarli. Sembrava volesse cullarsi e lenire da sé il suo dolore. Deperiva rapidamente, il suo volto smagriva e sembrava più piccolo e minuto di quanto non fosse in realtà. Quando alzava il viso i suoi occhi apparivano gonfi e rossi di pianto. «Forse lo amava» disse il Chnan. «Nemro era il suo sposo dopo tutto.» «Non lo aveva mai visto prima, ne sono sicuro. L’ha mandata la sua famiglia da una terra lontana, come poteva amarlo?» «Forse l’hai lasciata troppo con lui: pochi giorni possono bastare per prendere il cuore di una donna, specialmente se lei sa che l’uomo a cui è stata destinata sarà il suo sposo per il resto della vita.» «Pensi che conosca la lingua del popolo di questa terra? Deve esistere un contatto fra la sua gente e questo popolo se è stata mandata come sposa a un capo di questa terra. Forse conosce qualche parola... Potresti provare a parlarle.» Il Chnan scosse la testa: «Un sordo che parla a un altro sordo: come potranno capirsi? La mia conoscenza di questa lingua è assai misera. La sua non credo sia migliore, probabilmente non conosce più di qualche parola, e sarebbe già molto. Forse una carezza varrebbe più di qualunque parola. È solo una bambina spaventata. Non sa chi sei, che cosa vuoi da lei... Quasi certamente è una vergine mai toccata da uomo.» «Nessuno le ha fatto del male, le abbiamo offerto del cibo, un letto, dividiamo con lei quel poco che abbiamo.» «Lei ha paura. Non mangia perché ti teme.» «Non ti capisco» disse il re. «È la sua unica difesa: non mangia per farsi brutta e magra, in modo che tu non la desideri... Forse, se tu le facessi capire che non vuoi farle del male...» «Tu sai molte cose, uomo diChnan , cose che io non so... o che non ho mai voluto apprendere. Nella mia vita mi è stato insegnato che conta solo l’onore e la gloria che un uomo si conquista in battaglia. Per questo forse ho perso Egialea, la mia regina. O forse fu la vendetta di Afrodite.» «Noi la chiamiamo Isthar» disse il Chnan «e può essere una dea terribile. Che cosa le hai fatto?»
«L’ho ferita in battaglia, mentre stendeva la mano delicata a coprire suo figlio caduto a terra sotto i miei colpi. Da allora temo la sua vendetta. Gli dei non dimenticano. Ci possono colpire quando vogliono, nel modo più atroce. Se la cosa più terribile al mondo per un uomo è di cadere nelle mani di un altro uomo, puoi immaginare che cosa significa cadere nelle mani di un dio che ti odia?» «Ma forse c’è anche un dio che ti ama. O una dea: sei un re e sei bello, forte.» «La dea che mi amava mi ha abbandonato. Non la vedo da molto tempo, non la sento più... Siamo una razza maledetta: mio padre Tideo divorò il cervello di un uomo ancora caldo. Ma io lo ammiro ugualmente per questo. Nella vita il coraggio più grande è quello di saper andare fino in fondo, fino all’ultimo orrore, se è necessario...» Il Chnan abbassò la testa e non disse nulla. Lo sguardo del re era fisso al cielo coperto da nubi nere sfilacciate di bianco in basso, verso la terra. Un vento freddo e umido penetrava nelle ossa e scuoteva le fragili pareti delle case di canne e di argilla della piccola città morta. Il Chnan attraversò di corsa la via ed entrò nella capanna che si era scelto come abitazione. Il vento cominciò a soffiare più forte e il tuono scoppiò nel cielo proprio sopra il villaggio facendo tremare la terra; la pioggia scrosciò dura e battente scorrendo in rivoli lungo le vie. Il re, per la prima volta, sentì che il tempo scorreva dentro di lui veloce, inarrestabile, come quell’acqua limacciosa che si versava in mille rivoli nel grande fossato. Uscì allora nella tempesta che spazzava il villaggio con raffiche taglienti e la pioggia gli inondò il viso e il petto e gli corse lungo la schiena; affondò con i piedi nel fango fino alle caviglie, si fermò a capo basso sotto il diluvio come per purificarsi e poi raggiunse la capanna in cui era custodita la donna di Nemro. Due dei suoi guerrieri vigilavano immobili, uno davanti e uno dietro la casa riparandosi come potevano sotto lo sporto del tetto: erano uomini fedeli e pazienti, capaci di resistere a tutto. Vedendoli così, fermi nel vento e nell’acqua, in quel luogo miserabile, sentì compassione di loro, sentì più acuto e più forte il desiderio di dare loro una vita e una terra, e donne e mandrie di buoi e di pecore grasse. Comandò loro di andare a ristorarsi e a scaldarsi dove ci fosse un fuoco acceso e quelli obbedirono con un cenno, si tirarono il mantello sul capo e corsero via. Il re entrò. Era buio nell’interno: una sola lucerna di coccio ardeva fumigando, bruciando grasso di pecora. In un angolo c’erano i resti, rosicchiati dai topi, del cibo che le era stato portato e che lei non aveva toccato. Quello era il suo talamo? Quelli i profumi e gli aromi? Quelle le fiaccole nuziali? Non riuscì a vedere la ragazza finché i suoi occhi non si abituarono alla semioscurità di quel luogo. E quando la vide si sentì invadere dallo sgomento: era smagrita e pallida e il viso si intravvedeva appena fra i capelli aggrovigliati e sporchi. Trasalì al suo entrare e lasciò udire un gemito debole. Poi si ritirò, strisciando sul pavimento e si addossò con la schiena alla parete nascondendo il volto nell’angolo.
Diomede si tolse il mantello e fece per avvicinarsi ma quando la vide agitarsi e fremere tutta di paura si arrestò in mezzo alla camera spoglia. Prese la lucerna e se l’accostò al viso: «Guardami,» disse «anch’io ho bisogno di te.» Al suono di una voce la ragazza si voltò lentamente ed il re poté vedere i suoi occhi smarriti, la luce pallida e tremante dello sguardo, ma per un momento riuscì anche a percepire, pur ferita e come spezzata, quella strana, ambigua forza che lo aveva colpito il primo giorno nella pianura. Si accostò al focolare spento e vi radunò sopra un po di legna poi prese la lucerna e accese il fuoco. La fiamma si alzò crepitando mentre fuori si udivano più forti gli scrosci del temporale. «Non voglio farti male» diceva mentre aggiungeva ancora legna. «Non voglio farti male.» E teneva la testa bassa come se soffrisse anch’egli della sua desolazione. La ragazza sembrò rianimarsi e si scostò lievemente dal muro. «Avvicinati,» disse il re «vieni a scaldarti... su, vieni.» La raFgazza levò il capo e lo guardò. Poi si alzò in piedi e si accosto lentamente al fuoco. Tremava, il suo passo era incerto per lo sfinimento del lungo digiuno. Il piede cedette a un tratto mentre muoveva il passo ma Diomede, che non distoglieva un momento lo sguardo da lei, la raccolse fra le braccia prima che cadesse. L’adagiò vicino al fuoco, si tolse egli stesso i panni bagnati e poi la prese delicatamente fra le braccia. Rinvenne poco dopo e il re dischiuse le braccia affinché potesse andarsene. Se voleva. Non se ne andò e il re la tenne stretta a sé senza parlare, ascoltando assieme a lei il rumore della pioggia sul tetto di paglia. Passò del tempo, tanto che smise di piovere e il sole cominciò a filtrare dalle fessure della porta. Si udì a un certo punto la voce del Chnan che diceva: «Gli uomini hanno cotto del pane, wanax.» E subito dopo la capanna fu invasa da un raggio di luce e da un intenso profumo. Il re si alzò, andò alla porta e prese il pane, poi si avvicinò alla ragazza, e gliene porse un piccolo pezzo. Il sole le illuminava gli occhi e i capelli e il re le accostò il pane alla bocca. La ragazza dischiuse le labbra e mangiò il pane mentre il re le passava una mano sui capelli. Poi anche lui prese un poco di pane e mangiò sempre fissandola negli occhi, sempre tenendole l’altra mano fra i capelli. E in quel momento il raggio di sole che entrava dalla porta gli illuminò da dietro le Chiome, lo circonfuse di luce bionda, come un dio. Le porse ancora pane e lei mangiò dalla sua mano e prese le sue carezze.
Passarono parecchi giorni prima che Nemro sapesse dove si nascondeva il suo nemico. Il tempo era cattivo e le piogge insistenti avevano cancellato le tracce del carro e dei cavalli di Diomede ma appena fu possibile i suoi uomini perlustrarono tutta la zona in lungo e in largo. Un gruppo di loro incontrò un giorno il Vecchio sacerdote che avevano lasciato dietro di sé prima di emigrare verso il Lago degli Antenati perché officiasse, nella
città deserta, il rito delle teste bruciate. Vagava solo nella pianura con una bisaccia al collo e non sembrò nemmeno che li avesse riconosciuti. «Siamo noi, Uomo del Sole e della Pioggia,» gli dissero «fermati. Cerchiamo lo straniero biondo che vola sul carro. Ha rapito la sposa di Nemro e la tiene con sé. Senza di lei Nemro non può condurre la gente sul Lago degli Antenati a ricostruire la città sull’acqua. La sposa è la nostra sola speranza: il suo sangue non è contaminato dal Sole della Palude.» Il Vecchio ammiccò ripetutamente come se una luce violenta gli ferisse gli occhi: «Lui è passato due volte fra le teste bruciate ed è ancora vivo» disse. «La sua carne è più dura delle vostre ossa... E lui ha parlato anche con il Sole della Palude: l’ho letto nei suoi occhi. Come può sperare Nemro di combattere con lui e di vincere?» «Non ci lasci speranza allora... Ma almeno dicci dove si trova ora e noi tenteremo qualunque cosa per riavere la sposa. Non è rimasto nulla al mondo che possa farci paura.» Il Vecchio indicò loro un punto all’orizzonte verso meridione e poi riprese a camminare con il suo passo lento e strascicato nella direzione opposta. Non l’avrebbero rivisto più. Quella sera stessa giunsero nelle vicinanze della città occupata dagli invasori e si introdussero all’interno durante la notte. Poterono così osservarli per giorni senza essere visti: li videro esercitarsi ogni giorno nell’uso delle armi, li videro scagliare la lancia e tirare con l’arco, usare la spada e l’ascia, lottare gli uni con gli altri, montare la guardia di notte con il sereno e con la pioggia. Si resero conto che con le loro forze non avrebbero potuto batterli in alcun modo. Quando tornarono a riferire Nemro li ascoltò in silenzio e senza un battito di ciglia, poi si ritirò sotto la sua tenda e vi rimase a lungo. Alla fine uscì, radunò gli uomini e disse: «Non possiamo raggiungere il Lago degli Antenati senza la sposa e non possiamo battere da soli i nostri nemici, troppo forti, troppo feroci. Ci serve aiuto e lo chiederemo in tutti i villaggi superstiti e fra gli altri popoli. Ci sono i Kmun delle Montagne di Ghiaccio e gli Ambron delle Montagne di Pietra. Li avvertiremo e loro avvertiranno gli altri popoli che vivono presso di loro: i Pica, gli Ombro. Direte che gli stranieri con i capelli di fiamma vengono per uccidere e per rapire le nostre donne... che vengono per toglierci anche la speranza. In ogni bosco troveranno un agguato, in ogni valle una trappola, le acque che berranno si muteranno in veleno, ogni canto di uccello e ogni verso della foresta nasconderà un segnale d’attacco o d’insidia. Moriranno uno dopo l’altro... come noi fino a questo momento.» Nemro abbassò il capo con un sospiro e si coprì gli occhi. Quando li risollevò aveva un lampo disperato nello sguardo: «Quello di noi che sopravvivrà avrà la sposa e potrà generare da lei un popolo nuovo. Se sarò io a rimanere vivo vi ricondurrò al Lago degli Antenati, ai piedi delle Montagne di Ghiaccio da cui vennero gli avi. Se sarà lui, l’uomo che vola sul carro di fuoco... se sarà lui a rimanere vivo sul campo, allora sarà il suo seme a generare una nuova razza di
sterminatori e non ci sarà più posto per nessun altro in questa terra... per nessuno fra i monti e il mare. Dobbiamo distruggerlo, perché anche lui, forse, è uscito dal Sole della Palude, forse è lui l’ultima e la più terribile delle calamità.» E gli uomini di Nemro portarono il suo messaggio ai Kmun delle Montagne di Ghiaccio e agli Ambron delle Montagne di Pietra e questi avvertirono i Pica e gli Ombro loro vicini e questi a loro volta avvertirono i Lats che erano stanziati in quel tempo e nelle pianure del mare occidentale. Su qualunque sentiero gli invasori avessero mosso i loro passi lo avrebbero trovato irto di pericoli mortali.
Intanto l’Uomo del Sole e della Pioggia, il Vecchio sacerdote, continuava il suo cammino solitario per raggiungere il luogo cui nessuno della sua gente aveva mai osato nemmeno avvicinarsi. Sentiva che le forze non gli sarebbero bastate per seguire Nemro verso il suo sogno di sopravvivenza ma pensava che forse gli sarebbero state sufficienti per capire da dove era giunto il seme velenoso della morte che aveva messo radici nella palude cadendo dal cielo come un globo di fuoco. Benché la primavera fosse ormai avanzata continuava a piovere quasi ogni giorno, a lungo. Ma egli non si arrestava e camminava ugualmente fra le erbe alte e le canne che infestavano i campi un tempo fiorenti di colture e i pascoli grassi per le greggi numerose. Si riposava a volte in villaggi deserti o in case disabitate quando l’inclemenza del cielo diveniva insostenibile e poi riprendeva il cammino. Dopo sette giorni di cammino raggiunse la palude in cui era caduto il seme della distruzione. Era sfinito per la stanchezza, la fame, il dolore; aveva la mani e i piedi piagati, le gambe piene di sanguisughe, eppure gli parve di udire un canto dolcissimo, come un lamento di donne che piangessero la perdita di un congiunto. Si trascinò dietro quel canto finché giunse sulle rive di un grande stagno dalla superficie levigata come uno specchio di bronzo. Si sporse a guardare e vide la propria immagine riflessa nell’acqua lucida e nera, vide il proprio volto emaciato e lo sguardo smarrito, null’altro. Si mosse tutto attorno allo specchio liquido aprendosi un varco tra i folti canneti, fra i cespugli di salice e di saggina. Il vento fece stormire le Chiome dei pioppi colossali, riempì l’aria delle loro bianche lanuggini ma non un uccello si levò a volo, non un richiamo passò nell’aria, solo l’antico lamento gli sembrò ancora echeggiare, più debole, quasi spento nella boscaglia fumante. Vinto dalla stanchezza e dallo sconforto il Vecchio sacerdote si lasciò scivolare a terra e appoggiò ansimante la schiena a un gran tronco schiantato come un fuscello da una forza immane. Aveva sperato che avrebbe lasciato la vita dopo aver conosciuto almeno la verità e invece le forze lo abbandonavano sulle rive di quell’acqua morta senza che nulla accadesse, senza che un barlume si manifestasse alla sua mente, senza che un segno apparisse davanti ai suoi occhi. E la stanchezza gravava a ogni istante di più sulle sue palpebre finché il sonno lo vinse ed egli si abbandonò con le braccia spalancate e il capo riverso. E nel suo sonno greve egli
vide le città abbandonate della sua gente cadere lentamente in rovina, un anno dopo l’altro, i canali riempirsi di canne, le palizzate crollare corrose dal marciume, le vie invase da torme di ratti, e, su tutto, un cielo grigio e torbido, gonfio di umori malati. E gli occhi chiusi gli si riempirono di lacrime e il cuore di angoscia. Ma vide anche la laguna nera riempirsi lentamente di fango e di sabbia, cambiarsi in palude, prima, poi in acquitrino e da ultimo in una fitta sodaglia e poi ancora in un bosco di querce annose. E su quella terra vide il cielo nuovamente azzurro e chiaro e il sole splendente e una nuova gente scendere dalle montagne boscose e avanzare nella piana deserta... Molti anni... tanti... poi la vita sarebbe rifiorita nella grande valle di Eridano; i nuovi venuti si sarebbero mescolati agli ultimi discendenti della sua gente sventurata. Vide ancora uomini rivoltare la terra, scavare canali ed innalzare capanne, messi mature ondeggiare al vento d’estate e viti rigogliose stendere al sole i tralci carichi di grappoli. Non vide il guerriero dai capelli di fiamma che era passato due volte indenne fra le teste bruciate ma ne avvertì l’ombra dileguare oltre i monti boscosi, oltre i gioghi azzurrini. Non si svegliò più e il vento ricoprì il suo corpo consunto di bianca lanuggine come una larva nel suo bozzolo. Ma il suo spirito già si librava con grandi ali di farfalla sul mare di canne ondeggianti, sulle acque di Eridano, sulle nere paludi di Hesperia, in alto, oltre le nubi tumide e grigie, nell’etra limpida e tersa, verso la luce infinita.
9
Diomede avanzò con i suoi guerrieri verso occidente, risalendo la corrente di un piccolo fiume limaccioso nella speranza di trovare terre più accoglienti e cieli meno ostili ma appena ebbe abbandonato il suo rifugio ed ebbe cominciato a muoversi negli spazi aperti avvertì subito la presenza di un nemico nascosto ma presente dovunque. Di giorno si udivano suoni lontani, come richiami dalle profondità della pianura o dall’interno dei boschi, di notte passavano veloci ombre evanescenti nel chiarore lunare; sagome, ora simili ad animali o a uccelli fantastici, si paravano d’improvviso davanti alle sentinelle che vegliavano nell’oscurità per poi dileguarsi come creature di sogno. Telefo, il servo hittita, diceva a tutti di non fidarsi, di non lasciarsi trascinare lontano dall’accampamento o dal posto di guardia; diceva di non lasciarsi provocare da ombre, che solo con una buona spada valeva la pena di misurarsi. Diceva di non lasciarsi impaurire da vane parvenze: non aveva mai sentito dire che qualcuno fosse stato ucciso da apparizioni o da spettri ma sempre e solo da una buona spanna di bronzo o di ferro. «Non credi dunque agli dei e alle creature invisibili?» gli chiese una sera il Chnan mentre arrostivano sul fuoco un porco selvatico che avevano preso in trappola. «Io credo agli dei del mio paese quando sono a casa mia ma qui... quale dio potrebbe mai desiderare di vivere in un luogo come questo? Qui ci possono essere solamente spiriti di bestie o di alberi... nulla che possa impensierirci. State a portata di voce e a portata di mano, sempre, e non vi potrà succedere alcun male. Io comandavo uno squadrone di carri nell’armata di Hatti ma ho anche pattugliato a piedi i monti e le foreste di Toros e Katpatuka infestate di selvaggi feroci e infidi. Uno proteggeva la schiena dell’altro, nessuno si avventurava mai da solo a prendere acqua o foraggio per le bestie...» Mentre diceva così l’aria vibrò di un sibilo improvviso e una delle sentinelle che vigilavano poco distante si abbatté con un gemito, trapassata da un freccia. Il re, subito avvertito, uscì a cavallo con una cinquantina di uomini armati per circondare la zona da cui era giunta la freccia ma l’oscurità e il terreno accidentato protessero gli aggressori. Di loro non si trovò traccia, come se non fossero mai esistiti. Il re tornò al campo verso la metà della notte pieno di rabbia impotente e si fermò accanto al guerriero ormai morente: era Ippotoo, uno di Lerna. Aveva solo sedici anni quando era partito per la guerra. Suo padre Faillo era stato amico di Tideo fra i più fedeli e Diomede lo aveva sempre amato come un fratello minore. I suoi compagni lo avevano portato vicino al fuoco e il Chnan gli bagnava le labbra con una pezza di lino. Delirava.
«Attaccano!» gridava ogni tanto tremando e tentando di sollevarsi sui gomiti. «Deifobo ed Enea da destra! Attento, attento al fianco sinistro, wanax! Arrivano i carri dei Meoni, maledetti cani bastardi...» Il re si inginocchiò vicino a lui e gli appoggiò la mano sulla fronte bollente. Il Chnan era riuscito a tranciargli l’asta della freccia con la lama del coltello ma non aveva potuto estrarla. «Riposa, ora, amico mio. Il nemico è in rotta. Li abbiamo messi in fuga.» «Davvero, wanax? E a me cosa viene? Qual è la mia parte?» «Una coppia di cavalli: due sauri... stupendi, ancora da domare» disse il re, piano, continuando ad accarezzarlo, «e un elmo, bello, decorato d’argento e... due lance...» Ma in quel momento il dio del sonno eterno gli aprì gli occhi per un istante e il giovane vide la verità nello sguardo accorato del suo re: «Sto morendo... wanax. Senza scopo.» Reclinò il capo e gli occhi immobili e spalancati si riempirono di morte. Il fuoco languiva e il riverbero azzurrino faceva risaltare ancora di più il pallore marmoreo della sua fronte. Il re si morse le labbra e pianse.
Da quella notte Diomede cercò di essere ancora più prudente: mandava avanti Mirsilo con un piccolo gruppo dei più veloci : Eveno, Agelao, Krissos e anche Lamo, lo spartano figlio di Onchésto. Dopo alcuni giorni di smarrimento il guerriero lacedemone aveva recuperato il suo spirito e la sua determinazione. Sembrava che ogni momento in cui la colonna non avanzava apparisse per lui sprecato. Non voleva mai fermarsi la sera e la mattina era il primo a svegliarsi e a riattizzare il fuoco. Ai fianchi il re poneva due piccoli drappelli di guerrieri argivi della sua guardia personale. Lui stesso marciava davanti al grosso della colonna e lasciava dietro, a una buona distanza, un altro piccolo gruppo di retroguardia. La sua cassa di legno era al centro di tutto, trainata da una coppia di muli su un carretto. Accanto, seduta su uno sgabello e protetta da una specie di riparo di vimini intrecciati, era la sposa venuta dalle terre oltre le Montagne di Ghiaccio, intatta. Ma anche così Diomede continuava a subire perdite: nugoli di frecce piovevano improvvisamente dal cielo come grandine, senza che si potesse capire da dove venivano, il terreno si spalancava improvvisamente sotto i piedi e i guerrieri cadevano in fosse irte di pali aguzzi, trafitti come pesci che un pescatore esperto infilza con l’arpione. A volte, mentre dormivano, il loro accampamento era improvvisamente inondato dall’acqua, cosicché tutti dovevano abbandonare il giaciglio, cercare di salvare le provviste, correre a rintuzzare le insidie che erano in agguato nelle tenebre e passare il resto della notte vegliando con gli occhi che bruciavano per la stanchezza e le viscere morse dai crampi. Il re mostrava ai suoi uomini sempre lo stesso volto impassibile, sempre lo stesso sguardo d’imperio ma coloro che gli stavano più vicino, Mirsilo, e anche il Chnan , vedevano sempre più spesso i muscoli del suo viso fremere incontrollati
sotto la pelle, vedevano il battito delle sua ciglia sempre più frequente e un lieve sudore bagnargli sempre la fronte, sia che fosse caldo sia che fosse freddo. Il re soffriva, e il suo dolore era ogni giorno più insopportabile. La sposa lo guardava a volte e il re ricambiava il suo sguardo ma quel contatto non gli dava alcun conforto né alcun calore. Lo sguardo della fanciulla era come il cielo di una fredda primavera, percorso continuamente da luci e da ombre, sereno e corrucciato quasi al medesimo istante. E il re non poteva parlarle. E se lo faceva, a volte, nell’intimità della sera che gli uomini gli lasciavano per rispetto al suo rango e per l’affetto che gli portavano, non otteneva risposta. Ma il Chnan notò che quando Diomede sembrava più solo e disperato, quando sembrava che soprattutto la sorte e gli eventi si accanissero contro di lui, lei lo guardava e il suo sguardo sembrava quasi una carezza furtiva sulle Chiome del re. E il Chnan notò anche che il re girava a volte improvvisamente il capo come se avesse sentito che qualcuno lo toccava. «Vogliono solo la ragazza» disse una sera Telefo, l’hittita. «Se la lasciassimo andare questa persecuzione cesserebbe. Non possiamo più sopportare questa pressione. Continuando così moriremo tutti. Qualcuno deve dirglielo» disse indicando il re che se ne stava ritto in disparte vicino ai suoi cavalli. «Camminiamo da molti giorni e non li abbiamo mai visti ma loro ci massacrano. Quanti uomini abbiamo perduto? Dieci, forse quindici, ho perso il conto. E quanti di loro abbiamo ammazzato? Nemmeno uno. Questi sono diversi: non ci affronteranno mai in campo aperto, falange contro falange, non pensano che attaccare di nascosto e con le tenebre sia disdicevole o vergognoso.» «E tu credi che non lo sappia già?» rispose il Chnan indicando il re che avanzava ora nel fango tenendo per la cavezza i cavalli. «Dicono che abbia ferito in battaglia un dio e ora non riesce a incrociare la spada con un selvaggio, con un pastore...» «Ma allora perché? È un uomo generoso, lo so. Come può sacrificare così la sua gente?» Il Chnan camminò a lungo senza rispondere. In lontananza si profilava una bassa linea di montagne dal colore azzurro. «Vedi quelle montagne? Forse là finisce questa terra maledetta. Il re pensa che se riusciremo a uscire di qua potrà finalmente costruire la sua città e alzare un tempio. Pensa che da allora saremo invincibili e pensa che questa ragazza potrà dargli dei figli e una dinastia. E che potrà prendere altre donne per i suoi guerrieri... questo pensa. Sa che non c’è alternativa. Tornare indietro non si può, affrontare il nemico è impossibile. Non resta che andare avanti... sperando che resti qualcuno, alla fine.» «Ma perché non restituisce la donna? Ne troverà certamente delle altre, forse anche più belle.» «Lui vuole questa. Se era stata inviata per rigenerare la tribù di Nemro, deve essere portatrice di una grande forza vitale. Questo pensa. E forse anche la ama. Hai visto come la guarda?»
«Già. Ma noi moriremo tutti, lo so. Quei monti sono ancora lontani: quanti di noi cadranno prima che possiamo arrivare laggiù?» La colonna si era fermata perché Mirsilo aveva trovato uno spiazzo asciutto, una specie di largo tumulo erboso protetto da una parte da un gruppo di frassini e di roveri che cominciavano a coprirsi di foglie novelle, dall’altra da un torrente che lo delimitava su tre lati come una penisola. Nubi giganti s’innalzavano dalle creste dei monti, pervase dallo sfolgorio dei lampi. «Dobbiamo infliggere loro delle perdite pesanti» disse il Chnan , per indurli a ritirarsi. «O ad accettare un duello singolare» disse Telefo. Il Chnan guardò le grandi nubi temporalesche che si addensavano sui monti: «Le spinge il vento occidentale», disse «appena farà buio le avremo qui.» «Già. Anche la pioggia.» «Ci saranno lampi, folgori. E queste piante sono altissime, potrebbero facilmente attirarle.» «Vuoi dire che dovremmo accamparci altrove?» «Al contrario. Forse questa notte ci attaccheranno e noi riusciremo ad annientarli o almeno a colpirli duramente. Se in questa terra le tempeste si muovono come sul mare... e se il re mi darà ascolto...» Si allontanò mentre i boschi intorno echeggiavano di richiami, come versi di animali. Il Chnan si avvicinò al re. «I tuoi uomini dicono che possiedi un’armatura d’oro.» «Ti hanno detto la verità» rispose Diomede senza voltarsi. «Anche lo scudo è d’oro?» «Anche lo scudo.» «Dammelo. Se questi richiami dal bosco non sono di rapaci notturni, come io credo, questa notte ci attaccheranno ancora.» «Invisibili, inafferrabili... come sempre.» «Non più wanax. Dammi un uomo che mi aiuti ad accendere un fuoco sul punto più alto del colle, Telefo, il cheteo, e dammi lo scudo nascosto dentro la sua custodia. Il temporale sarà qui fra non molto, proprio al calare delle tenebre. Siedi e mangia. Riposati e riprendi le forze perché fra non molto io ti renderò visibili i tuoi nemici. Dà ordine agli arcieri di schierarsi e di tenersi pronti perché dovranno prendere la mira e scoccare con la velocità di un battito di palpebre. Dà ordine ai guerrieri di non togliersi le armature e di tenere la mano sull’impugnatura della lancia.» Il re gli consegnò lo scudo e il Chnan si allontanò seguito da Telefo verso la sommità del colle. Telefo teneva in mano un tizzone acceso e quando fu arrivato cominciò ad accendere un fuoco. Anche gli uomini accesero il fuoco e mangiarono e anche il re mangiò e porse del cibo alla fanciulla. Il temporale era ormai prossimo e le nubi galoppavano nel cielo ormai sopra l’accampamento. Giunse in quel momento l’hittita:
«O re,» disse «da questo momento tieni pronti gli uomini perché il temporale corre verso di noi e se i nemici ci attaccheranno il Chnan te li renderà visibili anche se per un tempo abbastanza breve.» «Basterà» disse il re. E si mise l’elmo e si allacciò la corazza. Il vento soffiava sempre più forte alimentando i fuochi del campo e anche quello che Telefo aveva acceso. Diomede chiamò gli uomini, li schierò dietro un gruppo di alberi in direzione del bosco e li tenne pronti anche se non sapeva ciò che sarebbe accaduto. A un tratto balenò un lampo accecante subito seguito dallo scoppio del tuono e in quell’istante il re vide nel piano i guerrieri nemici avanzare in ordine sparso verso il colle. Li vide anche il Chnan e subito orientò lo scudo d’oro in modo che proiettasse verso di loro la luce del grande fuoco su cui Telefo gettava tutta la legna che riusciva a trovare. «Ora, wanax!» gridò il Chnan e Diomede si precipitò seguito dai suoi uomini. I nemici si erano arrestati per un istante quasi storditi dal tuono e abbagliati dal lampo ma la luce del fuoco riflessa nello scudo d’oro del re li rendeva visibili, appena fuori dall’ombra, ma visibili. Bastò. Gli Achei si aprirono a raggiera mentre correvano giù dal colle a grande velocità. Diomede piombò gridando al centro dei nemici, e il solo suo grido era spaventoso più del fragore del tuono. Trapassò uno con la lancia e abbatté altri due che gli erano subito addosso, con il pugnale e con la spada. Mirsilo all’estremità sinistra ne abbatté altri scagliando i suoi giavellotti. Colti di sorpresa per la prima volta gli assalitori erano smarriti, incerti se continuare a combattere o darsi alla fuga e in quell’incertezza erano abbattuti dai colpi durissimi dei guerrieri achei, furibondi e assetati di vendetta. Cominciò in quel momento a piovere, a raffiche e a pesanti scrosci e l’acqua del cielo attenuò il fuoco e poi in pochi attimi lo estinse quasi del tutto. Anche la luce dello scudo d’oro si spense e la battaglia cessò. Mirsilo prese un tizzone ardente e cercò fra i morti se potesse riconoscere Nemro ma non ne trovò traccia. Si ripararono sotto le tende e attesero che cessasse di piovere per poter riprendere le ricerche. Passò ancora del tempo e il cielo si aprì mostrando le stelle e la luna piena che saliva in quel momento al di sopra delle creste dei Monti Azzurri. Il re volse lo sguardo al campo per vedere se i morti fossero ancora là e man mano che il chiarore della luna aumentava liberandosi delle foschie del temporale vide un’ombra ritta e immobile fra i corpi senza vita dei caduti: era alto e possente e impugnava una spada lunga e stretta. Era Nemro! Dietro di lui, a una certa distanza e sul limitare del bosco erano schierati i suoi uomini con le mani sulle impugnature delle spade. Il Chnan si avvicinò al re e gli disse: «È accaduto prima di quanto mai avessi sperato: ti sfida a un combattimento singolare. Abbattilo e non avremo più alle costole questi demoni inafferrabili.» Mirsilo si fece avanti: «O wanax, quel selvaggio che si è nascosto fino a ora non è degno di incrociare la spada con il re di Argo. Tu riposati e guarda: andrò io.» Il re si volse indietro e vide la sposa bionda ritta alle sue spalle che fissava la pianura davanti a sé. Guardava Nemro. «No» disse. «Devo battermi io con lui. Fammi portare l’armatura di Ilio.»
Mirsilo obbedì e gli fece portare l’armatura che Diomede era solito indossare quando combatteva i figli di Priamo fra lo Scamandro e il Simoenta. Gettò a terra il corsetto di cuoio che aveva indossato per l’incursione notturna e si rivestì di bronzo, imbracciò lo scudo e impugnò la lancia enorme, di faggio: cinse il balteo adorno di borchie dorate e tese la destra verso l’attendente perché gli porgesse la spada. «Pakana» disse Mirsilo. E quello gli porse la spada, pesante, con l’impugnatura d’argento, opera di Traseo che vi aveva incastonato un’ambra sbalzata con la figura di un leone che inseguiva un capriolo. Il re la sospese al balteo e l’aggiustò sul fianco. Prima di calzare l’elmo si volse alla sposa e le disse: «Affronterò la morte per te. Non disprezzarmi nel tuo cuore» E scese a lenti passi pesanti il pendio fino a fronteggiare il suo avversario. I guerrieri Achei, senza che nessuno avesse detto loro nulla, si alzarono tutti e si schierarono su tre file lungo il pendio imbracciando lo scudo e impugnando la lancia e quando il re afferrò la sua e cominciò a palleggiarla cercando un varco nelle difese del nemico gridarono: «ARGO!» Anche i guerrieri di Nemro gridarono qualcosa ma nessuno capì tranne il Chnan e gli occhi, nell’oscurità, gli si riempirono di lacrime. Avevano gridato: «Vita!» Diomede lo osservò attentamente esplorando ogni palmo della sua gigantesca persona. Aveva un elmo a calotta di bronzo e un grande scudo che lo proteggeva dal mento alle ginocchia, impugnava un giavellotto e una lunga spada gli pendeva dal fianco. Anche lui cominciò a muoversi intorno palleggiando il giavellotto per bilanciarlo prima di avventare il colpo. L’aria, dopo il temporale, era divenuta molto più fredda della terra e un vapore diafano strisciava fra le erbe e copriva il campo fino a lambire la base del tumulo su cui erano schierati i guerrieri Achei. I duellanti, sotto il lume della luna, ne emergevano ora soltanto dalla cintura in su. Nemro avventò d’improvviso il giavellotto mirando alla fronte del nemico ma Diomede previde il colpo e alzò lo scudo. L’arma si conficcò sull’orlo e lo trapassò. La punta si fermò a un palmo dal suo volto senza che le ciglia avessero un battito. Dal fondo della radura si alzò un grido di incitamento. Diomede scrollò il giavellotto dallo scudo sbattendolo contro il tronco di una pianta e si richiuse nuovamente in una guardia impenetrabile. Nemro sguainò la spada ma mentre il suo braccio si abbassava verso la cintura e scopriva la spalla Diomede scagliò la lancia e gli stracciò lo spallaccio lacerandogli la pelle. Un fiotto di sangue scese lungo il braccio del guerriero ma il colpo non aveva reciso il tendine, il muscolo era intatto ed egli si scagliò in avanti brandendo la spada. Il fragore del corpo a corpo echeggiò nella piccola valle completamente immersa nel silenzio: un clangore di bronzo percosso, grida soffocate, ansimare
convulso. I due uomini si affrontavano in una mischia feroce, in uno scontro continuo, incessante, senza un attimo di tregua. A un tratto un colpo improvviso di Diomede calato dall’alto sorprese il braccio di Nemro in una posizione di svantaggio e gli fece cadere a terra la spada. Poi lo incalzò facendolo arretrare, disarmato. Nemro si mise a correre, volgendo le spalle, poi, a un tratto, si fermò, afferrò un tronco d’albero che giaceva al suolo e lo volse contro il nemico che l’inseguiva, come un ariete. Con tutta la forza, mentre i suoi uomini levavano un urlo di dolore e di sorpresa, Nemro caricò tenendo il tronco con le due mani e colpì Diomede in corsa in pieno petto facendolo stramazzare. Urla di gioia si levarono dal fondo del bosco mentre in alto le file degli Achei sembravano dileguare come ombre nella nebbia che saliva verso la sommità. Nemro abbandonò il tronco e prese un macigno che emergeva fra l’erba; lo sollevò sopra la testa e lo avventò con tutta la forza sul nemico caduto. Ma Diomede si riebbe in quell’istante, scartò con il torso e vibrò fulmineo un colpo a fondo con la spada. Il masso cadde ai suoi piedi senza danno e Nemro crollò sulle ginocchia portandosi tutte e due le mani alla ferita. Stringendo i denti si svelse dal costato la spada e fece per colpire il nemico con l’arma rossa del suo sangue ma le forze non gli bastarono e si accasciò moribondo. Diomede si alzò in piedi e si tolse l’elmo e Nemro alzò una mano verso di lui e disse qualcosa che egli non poté capire ma il tono di quella voce rauca e piena di dolore gli penetrò fino in fondo all’animo. Si inginocchiò vicino a lui e quando ebbe esalato l’ultimo respiro gli chiuse gli occhi. Non lo spogliò delle armi come era suo diritto, raccolse la lancia e tornò verso i suoi che lo attendevano anch’essi in silenzio, schierati e immobili sulla collina. E mentre avanzava nell’erba alta e umida udì un canto levarsi alle sue spalle e rabbrividì. Gli sembrava lo stesso lamento che aveva udito nella palude alle foci di Eridano, un pianto inconsolabile, un lungo gemito, la voce di un popolo morente. Si volse lentamente verso il bosco e vide nel chiarore lunare un gruppo di uomini avvicinarsi al corpo esanime del gigante caduto. Lo raccolsero delicatamente e lo portarono a braccia presso il torrente. Lo lavarono del sangue e del sudore, lo ricomposero, gli aggiustarono addosso le armi, lo coprirono con il mantello. Fecero una portantina con rami flessibili di avellana, ve lo deposero e lo vegliarono per il resto della notte. Sul far dell’alba si misero in cammino. Diomede salì sul colle e li osservò mentre si allontanavano con lento passo portando a braccia il rozzo feretro del loro re caduto. Scomparvero presto alla vista ma per qualche tempo si udì dalle profondità del piano il canto funebre che si perdeva verso l’orizzonte ancora oppresso da grandi nubi nere. Camminarono senza sosta per giorni e notti, fino alle rive di Eridano e oltre, finché non raggiunsero il luogo dove era accampato il resto del popolo. Di qui proseguirono fino al Lago degli Antenati, guidati dagli anziani che conoscevano da sempre il cammino. Giunti sulle sue rive deposero il corpo di Nemro in una piroga e lo spinsero al largo secondo il rito antichissimo dei padri. La Grande Acqua
accolse il figlio che tornava dopo tanto tempo e lo cullò a lungo nel sole e nel vento prima di seppellirlo nelle liquide tenebre dell’abisso.
Diomede riprese la marcia verso i Monti Azzurri con il cuore pesante. La vittoria non gli aveva dato soddisfazione e la terra che attraversava non presentava nessun luogo in cui sembrasse opportuno fondare una città. Vide ancora villaggi quadrati circondati da una fossa e campi coltivati, ma erano isole ormai assediate da una natura selvaggia che riprendeva possesso del suo territorio. Molti villaggi poi apparivano deserti come se gli abitanti se ne fossero andati portandosi dietro le loro cose. Sterminati canneti segnavano il lento serpeggiare dell’acqua sulla terra: sembrava che una serie di spaventose alluvioni avesse devastato l’opera degli uomini e che una fatica intollerabile avesse stroncato le possibilità di resistenze delle comunità dei villaggi dopo una lunga e durissima lotta con gli elementi. Dovunque apparivano opere iniziate e lasciate a metà: terrapieni, arginature, canali... Il tempo cominciava a cambiare e il sole alto nel cielo scaldava ogni giorno di più l’aria e la terra. Per alcuni giorni fu un sollievo ma poi la calura divenne intollerabile perché l’acqua che scorreva sul suolo si mescolava all’aria che così non dava più alcun ristoro ma un senso di soffocamento e di oppressione. Soltanto di sera quella terra sembrava mutare e concedere tregua. Il sole tramontava dietro ai Monti Azzurri infuocando le nubi del cielo e incendiando del suo riverbero le immense distese acquitrinose. L’acqua brillava fra i canneti come oro fuso e il vento si levava a piegare le immense distese erbose, ad agitare le Chiome verdeggianti delle querce e dei frassini. Le macchie di pioppo a ogni soffio cangiavano in argento e le foglie nuove dei faggi brillavano come rame lucente. Al limitare dei boschi cervi dalle corna gigantesche e femmine con i piccoli appena nati uscivano a pascolare. Gruppi di cinghiali si aggiravano sotto le querce annose e le scrofe chiamavano con continui e sommessi grugniti i piccoli dal dorso striato. E talvolta, nel folto, si intravedeva appena la mole gigantesca e il lucido mantello dell’orso. Quando calava l’oscurità sorgeva dalle acque il coro incessante delle rane, dai prati il canto dei grilli e dal folto dei boschi il gorgheggio solitario degli usignoli. Il re a quell’ora scendeva verso un corso d’acqua o un ruscello, se c’era, per lavarsi, poi si gettava una clamide sulle spalle e restava in silenzio a contemplare la sera. In quel momento soprattutto lo prendevano i ricordi, rivedeva i combattimenti furiosi sotto le mura della città di Priamo, rivedeva i compagni: Achille, Stenelo, Ulisse, Aiace. Morti... o perduti... Come avrebbe voluto sedere con loro come un tempo e parlare delle fatiche della giornata bevendo vino e mangiando carne arrostita... Per tanti anni aveva desiderato di tornare alla pace della sua casa e all’amore della sua sposa e ora, incredibilmente, rimpiangeva la guerra. Non gli scontri ciechi che gli riservava quella terra, ma i leali combattimenti di un tempo dove due falangi si schieravano in pieno giorno e in campo aperto, fronte a fronte e dove gli
dei potevano scegliere chiaramente da che parte stare, dove un uomo poteva mostrare ciò che valeva. Ricordava il bagliore accecante del bronzo, il fragore dei carri da combattimento lanciati in corsa sfrenata contro la barriera della fanteria nemica, ricordava il sonno pesante sotto la tenda, un torpore profondo. E ricordava che la dimestichezza continua con la morte gli faceva apprezzare enormemente anche l’aspetto più umile e povero della vita. Ora invece, per la prima volta nella sua vita, aveva paura. Temeva di veder morire uno a uno i suoi uomini, presi come bestie nelle trappole, uccisi di notte a tradimento, sorpresi nell’ombra; temeva di marciare, a costo di enormi sacrifici e di massacranti fatiche, verso il nulla. Quella landa disabitata non era nemmeno una terra, era un magma confuso e senza confini che aveva già annientato il popolo che aveva osato tentare di sottometterla. La sposa venuta dalle Montagne di Ghiaccio cominciava a capire il linguaggio degli Achei perché Telefo e il Chnan le parlavano spesso e le dedicavano molte attenzioni ma non parlava mai, non chiedeva nulla e nemmeno sorrideva. Sapeva in cuor suo che non avrebbe mai più rivisto né la sua terra né la sua famiglia e questo pensiero la riempiva di malinconia. Una sera si accamparono lungo il fiume che ora era divenuto molto più bello a vedersi e limpido. L’acqua correva lucente fra ghiaie levigate e ciottoli di tutti i colori, nelle anse si allungavano lingue di sabbia fine contornate da ciuffi di vimini che si piegavano nella brezza del vespero fino a lambire la corrente. La fanciulla scese verso un boschetto di salici, si spogliò e scese nell’acqua. Era fredda ancora, era acqua delle nevi che si scioglievano sui Monti Azzurri ma era piacevole ugualmente perché le ricordava i fiumi della sua terra natale. Si lasciò trasportare e rotolare dalla corrente, si tuffò dove era più profonda, fino a toccare le sabbie dell’alveo, si girò sul dorso e di nuovo sul ventre, si lasciò accarezzare i capelli. Quando si alzò in piedi per tornare a riva dove aveva lasciato i suoi panni si trovò dinanzi, solo e immobile, il re Diomede. Il sole basso lo investiva in pieno e i capelli avvampavano attorno alle guance abbronzate, si mescolavano ai riccioli della barba come le onde del fiume fra i cespugli di salice. Aveva solo la clamide sul corpo nudo e teneva una gamba appoggiata su un masso. Capì che la stava osservando da tempo, senza che lei se ne fosse accorta. Non fuggì perché non avrebbe avuto dove andare e gli andò incontro perché nei suoi occhi c’era la stessa malinconia che aveva visto negli occhi neri di Nemro ma senza luce di speranza. In quel momento, in quei pochi passi che la separavano dal suo signore, capì che egli era più triste, più solo, più disperato, capì che la morte di Nemro era stata per lui nulla più che una fatalità ineluttabile. Gli guardò le mani tremende, sterminatrici, le dita forti, le vene turgide sotto la pelle lucente. Mani che davano la morte o una carezza senza quasi differenza. Lo guardò negli occhi e gli appoggiò le mani sulle spalle: le sentì dure e forti, gli passò le dita fra i capelli e li sentì morbidi e lisci. Strinse il suo capo contro il seno e lui le allacciò la vita e la baciò sul petto e sul ventre morbido e gocciolante ancora dell’acqua del fiume. Poi sempre restando seduto la attrasse contro di sé, la
fece sedere in grembo e così penetrò dentro di lei tenendola in braccio, come una bambina, facendole reclinare il capo sulla sua spalla, come se dormisse. Una goccia del suo sangue verginale macchiò la bianca clamide del re e lei strinse le labbra senza dir nulla, senza un gemito; strinse il corpo duro del re con le tenere braccia e con le gambe snelle e lunghe, pensò agli occhi neri di Nemro, spenti per sempre, pensò alla sua terra lontana, oltre le cime immacolate delle Montagne di Ghiaccio e pianse. Pianse mentre il re la piegava sulla sabbia e scatenava dentro di lei la sua forza tenendola per le spalle, per i capelli... Pianse perché il mondo intero era oppresso di tristezza, nel murmure del fiume e del bosco, nel lento, opaco crepuscolo, nel singhiozzo remoto dell’assiolo, nel sospiro del vento. Il re gridò nell’attimo del delirio supremo, un grido rauco come il rantolo di una fiera, poi si accasciò esausto stringendo con i pugni la sabbia del fiume. La fanciulla scivolò via da sotto il suo corpo pesante e tornò a immergersi nel fiume per purificarsi nell’acqua gelida. Quando riemerse Diomede era scomparso: non restavano che le orme dei suoi piedi sulla sabbia umida e il suo odore selvaggio nell’aria ma mentre lei raccoglieva gli abiti per rivestirsi vide che c’era un fiore sulla sua veste, un meliloto selvatico. Lo raccolse e lo avvicinò al viso aspirandone il profumo. Sorgeva la luna in quel momento fra le Chiome dei pioppi e il giorno trascorso non era più che una sottile striscia vermiglia sulla cresta dei monti. Le parve che il re le avesse lasciato un bacio e una carezza.
10
La regina Klitemnestra seppe che Elena era tornata a Sparta assieme al marito Menelao sul finire di un’estate torbida e afosa e la notizia la rallegrò a un tempo e la riempì di ansia. Era impaziente di riabbracciare la sorella che aveva visto ventenne per l’ultima volta e di sapere da lei le tante cose della lunga guerra che ancora le erano ignote: era impaziente di sapere in che modo avesse servito la causa della grande congiura. Ma temeva Menelao. L’Atride minore avrebbe cercato immediatamente notizia di Agamennone e non era detto che non apprendesse presto la verità. Molti testimoni del massacro erano stati eliminati e solo i più fedeli erano stati risparmiati. Ma come stabilire cosa fosse la fedeltà in un palazzo dove la regina divideva il letto con il complice che l’aveva aiutata a uccidere il suo sposo legittimo, dove i figli non si fidavano della loro stessa madre? I suoi informatori l’avevano avvertita che Menelao era stato accolto da una città stupita e angosciata ma non ribelle. Le madri e i padri dei guerrieri che tornavano dopo tanti anni, si erano assiepati lungo la via di accesso che giungeva da meridione e guardavano con ansia le file dei fanti, scrutavano i carri da combattimento che sfilavano rombando in colonna, scintillanti nelle loro decorazioni d’argento e di rame. Alcuni d’un tratto s’illuminavano in volto, gridavano un nome e si mettevano a correre lungo la colonna per non perdere di vista un istante il volto amato. E colui che rispondeva a quel nome non volgeva il capo, restava inquadrato nei ranghi, chiuso nell’armatura luccicante ma il suo sguardo si posava su quelle teste amate, su quei volti duramente segnati dalla lunga attesa. Altri, dopo aver visto sfilare fino all’ultimo uomo, si trascinavano ancora verso la testa del corteo per guardare di nuovo, o passavano dall’altra parte, non potendo rassegnarsi alla disperazione di una perdita o illudendosi che gli anni e la guerra avessero potuto rendere irriconoscibile un figlio al padre che lo aveva generato, alla madre che lo aveva partorito. Altri ancora, dopo avere inutilmente e più volte gridato il nome di uno o di due figli, dopo aver corso lungo i ranghi affannosamente e col cuore in tumulto, e dopo avere ancora osservato le file dei guerrieri schierati davanti al palazzo del re prima del congedo, si erano abbandonati al pianto, le donne levando alte grida e sciogliendo i capelli nella polvere, gli uomini con le guance rigate di lacrime, fissando muti il cielo fosco e senza luce che sovrastava la città. Al calar della notte alcune guardie uscirono dal palazzo con delle torce scortando gli scribi che avevano inciso su tavolette d’argilla ancora fresca i nomi dei caduti, poi venne il re in persona, armato, fiancheggiato dai suoi aiutanti di campo. Era sua la responsabilità della guerra ed era sua quella dei caduti, dei tanti giovani trafitti dal bronzo spietato, sepolti in una terra straniera, nei campi d’Asia o nelle paludi dell’Egitto. Egli doveva rendere conto ai genitori affranti.
Il grande cortile del palazzo era pieno di una folla muta, ma presto qualcuno cominciò a gridare: «Restituisci i nostri figli! Che cosa ne hai fatto? Hai preso i giovani migliori e li hai portati in guerra per una donna!» Il re era pallido, l’aspetto dimesso. Portava i lunghi capelli rossi legati dietro la nuca ed era a piedi nudi, come un mendicante. «Anch’io piango i miei morti!» gridò d’un tratto. «Dov’è mio fratello Agamennone? E dove sono i suoi compagni? Dove sono i miei nipoti, il principe Oreste e la principessa Elettra? Perché non sono venuti ad accogliermi?» Avanzò verso l’orlo della gradinata. «Fu mia la responsabilità della guerra» disse. «Io dunque pronuncerò i nomi dei compagni caduti in terra straniera, sepolti lontano dalla patria, affinché i genitori possano elevare loro un tumulo e una pietra che ne ricordi il nome, se lo desiderano.» «Sono morti per causa tua!» gridò un’altra voce «perché tu potessi ricondurre Elena nel tuo letto! E tu sei vivo!» Il re si aprì la veste e mostrò il petto segnato di cicatrici: «È solo il fato che mi ha risparmiato» gridò. «Mille volte ho sentito i dardi sibilare accanto alle mie tempie, molte volte il bronzo ha tagliato la mia carne e mai mi sono nascosto. Colpite questo cuore se credete che abbia tremato di paura, se credete che si sia fatto scudo della vita dei compagni che mi avevate affidato.» Abbassò il capo. «Li ho pianti. Amaramente. Uno per uno. E tutti li ricordo.» Le grida si mutarono in un brusio diffuso. Il re tese la mano verso lo scriba che stava seduto in terra vicino a lui e questi gli porse una tavoletta. Cominciò a leggere i nomi dei caduti, uno a uno, con voce ferma e netta, e allora si fece nella corte un silenzio profondo tanto che si poteva udire lo sfrigolio delle torce nell’aria greve. A tarda notte il re ancora pronunciava i nomi dei caduti davanti ai padri e alle madri, davanti alle spose in lacrime. Pronunciò a un certo momento anche il nome di Lamo, figlio di Onchésto, ma il Vecchio padre non l’udì. Giaceva morente nel suo letto con il cuore pieno di tristezza perché doveva scendere nella casa dell’Ade senza rivedere il figlio, l’unico che sua moglie gli aveva partorito. Per anni aveva sognato di vederlo tornare un giorno, di vederlo entrare dal cancelletto della vigna sotto il pergolato, fatto uomo dalla guerra e dalle privazioni, e appoggiare a terra la lancia e lo scudo per corrergli incontro, per abbracciarlo. Ed era giunta invece per lui l’ultima ora senza che il suo sogno si avverasse. Quando il re Menelao ebbe pronunciato l’ultimo nome la luna spariva dietro il Monte Taigeto e il Vecchio Onchésto scendeva piangendo nell’ombra. Gli dei che tutto vedono e tutto sanno non gli concessero di sapere che il figlio amato era vivo. Marciava in quel momento sotto la pioggia incessante su un sentiero che si inerpicava verso le cime boscose dei Monti Azzurri, nella remota Terra della Sera. Seguiva il figlio di Tideo, Diomede, verso un destino oscuro.
Elena incontrò la regina Klitemnestra di Micene e la regina Egialea di Argo nel
santuario della Potinja , l’antica dea signora degli animali, presso Nemea, di notte, al lume delle lucerne. Così aveva chiesto per non essere riconosciuta e per non destare sospetti negli uomini della sua scorta. E aveva anche chiesto che nel momento in cui tutte e tre si fossero trovate nel tempio fossero presenti anche le sacerdotesse della dea celebrando i loro riti. «Sei cambiata» le disse la regina Klitemnestra.» «Anche tu» rispose Elena sommessamente. «Noi regniamo su Argo, su Knosso e su Micene» disse Egialea. «Abbiamo un uomo nel palazzo e nel letto, ma non ha alcun potere. Devi sopprimere Menelao.» «Sa come è morto suo fratello?» chiese Klitemnestra. «Sa che è morto. Da tempo. E soffre.» «Anche noi abbiamo sofferto» disse Egialea. «Non lasciarti commuovere. Gli uomini sono portatori di morte ed è giusto che muoiano. Le donne danno la vita e devono regnare per riportare la felicità nel mondo.» «Presto saprà come è morto Agamennone,» disse Elena «se già non lo sa. Ieri gli è stata annunciata la visita di amici da Micene.» «Sai chi sono?» chiese Klitemnestra e aveva un lampo di paura nello sguardo. «Non lo so» disse Elena. «Devi ucciderlo prima che abbia il tempo di prendere l’iniziativa... o di trovare alleanze.» «Qualcuno dei re potrebbe soccorrerlo...» disse Elena. «Soltanto Nestore» disse Egialea. «Gli altri sono tutti morti o scomparsi.» Le porse una fiala. «È un veleno potente. Devi mescolarlo al tuo profumo e spargerlo sul tuo corpo là dove sai che lui ti bacerà. Morirà lentamente, un poco per volta, ogni volta che farà l’amore con te. Sembrerà una malattia che lo consuma poco a poco. E se indebolito dal veleno non vorrà più accostarsi a te allora prendi tu l’iniziativa, provocalo, costringilo. Ha fatto una guerra per riaverti nel suo letto. E di quello deve morire.» Elena prese la fiala e la nascose nelle pieghe della veste. «Quando anche Menelao sarà morto nessuno potrà più contrastare il nostro potere. Il Vecchio Nestore rimarrà completamente solo: non vorrà scendere in guerra alla sua età e dubito che vorranno farlo i suoi figli. Pisistrato, il primogenito, è un toro ma ha tutto da perdere e nulla da guadagnare. A Itaca già regna Penelope e Ulisse è sicuramente morto. Se fosse vivo a quest’ora sarebbe già tornato. A Creta Idomeneo è stato cacciato dopo che aveva immolato agli dei il suo unico erede maschio. Non restano che donne nel palazzo di Minosse. Abbiamo vinto, ormai.» Egialea uscì dal santuario mentre scendeva la notte e salì sul suo carro dove un auriga attendeva tenendo per le briglie una coppia di cavalli bianchi come la polvere della strada. Elena se ne sarebbe andata per ultima e dopo aver lasciato passare del tempo. Klitemnestra le si accostò prima di partire a sua volta. Il santuario era ormai buio e soltanto l’immagine della dea si intravedeva in un pallido cerchio di luce ma il canto delle sacerdotesse continuava come una nenia interminabile: «Hai visto qualcosa di strano fra le cose che Menelao ha portato da Ilio?» «Che intendi dire?»
Klitemnestra sorrise e le sue labbra si corrugarono in una strana smorfia: «Lo sai? Si dice che questa guerra sciagurata non sia stata combattuta per te ma per un’altra cosa...» Elena non si volse: «Il talismano dei Troiani?» chiese. «Ma allora è vero...,» disse Klitemnestra «tutto è stato fatto per il folle sogno di un potere senza fine... a questo è stata sacrificata Ifigenia, sgozzata sull’altare come un agnello...» Le tremava la voce e gli occhi erano pieni di tenebre, la fronte era corrugata e contratta. Se ne stette raccolta in silenzio per un poco con la testa reclinata sul petto poi disse: «Egialea ha fatto massacrare tutti i compagni di Diomede e ha requisito tutti i loro averi: ha fatto frugare dappertutto. Cercava qualcosa evidentemente.» «Già» annuì Elena. «La stessa cosa.» «Ma tu devi certamente saperlo... Chi lo ha preso? Diomede forse? Menelao? O Ulisse... O forse... forse Agamennone... Era lui il gran re dopo tutto.» «Se l’avesse avuto Agamennone come avrebbe potuto sfuggirti? Non è scampato nessuno, per quanto ne so...» «Molte delle sue navi sono riuscite a salpare quella notte: non sappiamo dove siano andate. Nessuno le ha più viste... sarebbe un destino beffardo se quella cosa si fosse trovata proprio su una di quelle navi...» «Io non so chi abbia preso il talismano dei Troiani. So soltanto che quella notte molti l’hanno cercato: Diomede, Ulisse, Aiace, forse anche Agamennone o Menelao... C’è una sola persona che certamente sa dove si trova: la principessa Cassandra, che è tua schiava, credo. Lei era la sacerdotessa nel tempio...» «È morta» disse Klitemnestra. «Morta? Ma perché?» «Era la sua amante. L’ho uccisa.» «Un’azione che non ha spiegazioni. Che t’importava se Agamennone aveva un’amante? Così hai distrutto l’unica possibilità per noi di sapere la verità.» «Ormai quel che è fatto è fatto. Forse Menelao sa qualcosa comunque. Non ti sarà difficile accertartene se sarai abile... Devi sapere tutto prima di farlo morire.» «Ma perché vuoi quella cosa? Così facendo diventiamo come loro, cercando il potere per il potere.» Klitemnestra era pallida e aveva la fronte umida di sudore: «Devo sapere perché è stata veramente combattuta questa guerra, devo saperlo a ogni costo.» «Questa stessa notte salirò nuda sul letto di Menelao e avrò sul corpo il profumo che mi hai dato. Saprai presto se il tuo disegno avrà compimento: e saprai tutto il resto, se c’è qualcosa da sapere... Ma tu, intanto, non puoi restare in silenzio, come se non esistessi. Lui vorrà vedere la sepoltura di suo fratello e immolare un sacrificio alla sua ombra. Come potrai esimerti? E come spiegherai la sua morte?» «Forse sarebbe meglio ucciderlo subito.» «Impossibile,» rispose Elena «è sempre accompagnato dalla sua guardia, tutti veterani della guerra troiana che non lo lasciano un momento. Io sono l’unica ad avere intimità con lui. Se gli accadesse una disgrazia improvvisa la colpa
ricadrebbe immediatamente su di me. Verrei subito giustiziata. Molti mi odiano. Soprattutto gli anziani che credono che la guerra sia stata combattuta per me, e mi rinfacciano la morte dei loro figli nei campi d’Asia. Devi incontrarlo e convincerlo della tua innocenza. O almeno lasciargli il dubbio.» «So quello che debbo fare» disse la regina Klitemnestra. «Gli manderò un’ambasceria per rendergli omaggio e per invitarlo a Micene dove potrà sapere la verità sulla scomparsa del fratello e immolare un sacrificio sulla sua tomba. Lui dovrà rifiutare per non mettersi in un pericolo mortale. A quel punto io non dovrò più giustificarmi e denuncerò la sua malafede. Al resto penserai tu.» «Mi sembra una buona soluzione» rispose Elena. Klitemnestra fece per avvicinarsi e abbracciarla ma Elena accennò con lo sguardo agli uomini della scorta che l’osservavano dalla soglia del santuario. «Meglio di no» disse. «Addio sorella, che gli dei diano compimento alle nostre aspirazioni.» Si lasciarono prendendo ciascuna la sua strada.
Quella stessa sera Menelao incontrava nel suo palazzo il Vecchio Ippaso che un tempo era statolawagetas a Micene, capo dell’esercito sotto il re Atreo, e ora, cieco e infermo, era trascurato da tutti nella città. Si era fatto portare di nascosto dai figli vestito da contadino su un carro di fieno. Il re gli andò incontro e lo abbracciò stringendolo al petto. Il Vecchio gli passò le mani sul volto: «La guerra ti ha segnato duramente, mio re» Gli disse. «Dove sono i giorni in cui ti conducevo assieme a tuo fratello sul mio cocchio a cacciare il cinghiale in Arcadia?» «Sono giorni lontani, Vecchio amico» disse il re con gli occhi umidi e gli accarezzò i capelli candidi e radi. «Giorni che non tornano più. Ma dimmi il motivo della tua visita. Certamente non sei giunto fin qui travestito ed irriconoscibile solo per salutarmi.» Diede ordine ai servi di portare uno scranno e uno sgabello, alle ancelle di lavargli i piedi. Il Vecchio si sedette mentre i figli restavano in piedi dietro di lui. Erano quattro, giganteschi, con larghe spalle e braccia poderose. Il Vecchio si sedette e si lasciò lavare i piedi in un grande bacile colmo di acqua calda. «Sono venuto per darti brutte notizie. Tuo fratello Agamennone...» «Lo so. È stato ucciso.» «Assassinato nel suo palazzo dalla regina Klitemnestra e dal suo amante, Egisto: un mostro generato da un incesto; suo padre e suo nonno sono la stessa persona.» Il re abbassò il capo: «Molto orrore si addensa attorno alla nostra famiglia. La casa di un re è sempre una casa di sangue, ma dobbiamo ugualmente fare ciò che è dovuto» «Come hai saputo della morte di Agamennone?» «Mi è difficile spiegartelo. Nella terra d’Egitto, in un oracolo venerando, ho visto come in sogno il suo corpo massacrato e la sua maschera funebre sorgere
come una luna insanguinata dietro la torre del baratro. Quando sono sbarcato e non l’ho visto venirmi incontro, ho capito che il mio sogno era veritiero.» «Anche Diomede è perduto. Dicono sia stato ucciso in un agguato tesogli dalla regina Egialea, ma nessuno sa dove è sepolto. Qualcuno dice che si è salvato fuggendo lontano con la flotta e affrontando il mare invernale. Idomeneo è stato cacciato da Creta e di Ulisse non si sa nulla. «Sono rimasto solo» disse il re e parlò con voce più fonda e bassa, carica di tristezza. «Ma non tutto è perduto. I tuoi nipoti, il principe Oreste e la principessa Elettra, sono salvi. Elettra vive nel palazzo e non esce mai dalle sue stanze se non per recarsi sulla tomba del padre. Ma Oreste è in Focide da tua sorella Anaxibia: io stesso ve l’ho fatto condurre da uno dei miei figli. Ora che sei tornato devi rimetterlo sul trono di suo padre. Il re Nestore di Pilo ti aiuterà, se lo chiedi.» «Lo so,» rispose Menelao «ma sarà un altro bagno di sangue. Come potrò chiedere al mio popolo di cominciare un nuova guerra? Un altro interminabile assedio? Le mura di Micene sono imprendibili. Tirinto potrebbe essere espugnata solo dai Giganti. Certamente Egialea e Klitemnestra si sono alleate per condurre a termine i loro disegni.» «Ti aiuteremo noi dall’interno» disse Ippaso. «Molti sono ancora fedeli alla dinastia degli Atridi e odiano la regina e il suo amante per le atrocità che hanno commesso.» Menelao restò a lungo pensieroso mentre le ancelle portavano altri scranni e apparecchiavano le mense davanti a ciascuno. I quattro figli di Ippaso si sedettero e, appena fu servita la carne, stesero le mani sui vassoi e cominciarono a mangiare divorandone dei gran pezzi. «Solo se sarà inevitabile» disse alla fine. «Il sangue mi ripugna.» Qualche giorno dopo giunse un’ambasceria della regina Klitemnestra per rendergli omaggio e invitarlo a Micene ma fu risposto agli inviati che il re era malato. Giaceva nel suo letto in preda alla febbre e la regina gli era vicino, lo vegliava bagnandogli le labbra riarse con acqua fresca. Macaone, il medico che tante volte lo aveva guarito nei campi di Ilio era morto, purtroppo, per la spada di Euripilo, e suo fratello Podalirio, non meno abile nell’arte medica, si era perso nella via del ritorno. Si sperava nell’aiuto degli dei. Quando il re si fosse rimesso sarebbe andato certamente a Micene a incontrare la cognata e a immolare un sacrificio sulla tomba di Agamennone. Gli inviati attesero alcuni giorni per vedere se vi fosse un miglioramento ma senza alcun esito. Videro soltanto la regina Elena mentre celebrava un sacrificio per impetrare la guarigione di Menelao. La videro molto vicina tanto da distinguere il piccolo neo che spiccava sulla sua spalla destra e da percepire, al suo passaggio, il meraviglioso profumo della sua pelle. Quando il capo della delegazione riferì a Klitemnestra, la regina sembrava ansiosa: «C’era qualcosa di strano in lei quando l’ho incontrata a Nemea. Ha sempre parlato sottovoce ed è sempre rimasta nell’ombra.»
«Non so cosa vuoi dire, regina» rispose l’uomo. «Io l’ho veduta vicinissima a me, in pieno giorno. Sono passati anni e anni, eppure la sua bellezza è immutata. La sua pelle profuma ancora di viole, la sua voce è armoniosa e dolcissima, come quando, fanciulla, parlò ai re degli Achei che si disputavano la sua mano.» Klitemnestra non chiese altro e si ritenne paga delle notizie che aveva avuto. La malattia del re era certamente dovuta al veleno. Elena si stava comportando lealmente. Passò un mese e le notizie da Sparta erano sempre più confortanti: le fu riferito che un artista era stato chiamato al palazzo per prendere l’impronta del volto del re nella creta umida e preparare la maschera funebre. Il grande momento era vicino. Ma l’artista che aveva preso l’impronta del volto di Menelao non avrebbe avuto alcuna fretta di condurre a termine la sua opera se avesse visto come il re si era alzato subito dopo dal letto, era sceso di nascosto nelle scuderie e aveva fatto preparare il più veloce dei suoi cocchi. Col capo coperto da un cappuccio era salito a fianco dell’auriga e gli aveva fatto cenno di frustare i cavalli. Tre giorni dopo passarono l’istmo peloponnesiaco, di notte, per non farsi vedere, e proseguirono ancora per una settimana fino a raggiungere la Beozia e le rive del lago Kopais. Al centro, su un’isola sorgeva la fortezza imprendibile di Arne. Le guardie che vegliavano in armi rimasero stupefatte al veder scendere dalla barca un guerriero fulvo che l’araldo annunciò come l’Atride Menelao, re di Sparta, pastore di genti. Poco dopo la regina Anaxibia fu svegliata nel mezzo della notte e accompagnata nella sala del trono. Ritto e immobile, le spalle coperte da un mantello nero, i lunghi capelli rossi legati dietro la nuca da un laccio di cuoio, il re Menelao si volse di scatto al suono dei suoi passi. Si gettarono l’una nelle braccia dell’altro e piansero a lungo senza dire una parola al centro della gran sala deserta. Versavano dagli occhi lacrime cocenti pensando all’infanzia che avevano trascorso insieme, ai sogni d’amore che si erano confidati negli anni dell’adolescenza, ai ricordi dei tempi felici e a quelli della lunga separazione, gli anni interminabili della guerra troiana. Quando si furono sfogati Menelao la guardò come se non credesse ai suoi occhi: «Sorella amata» le disse passando delicatamente la punta dell’indice ad asciugarle una lacrima. «Solo tu mi resti in questa terra ostile. Sono venuto per chiederti aiuto.» Un soffio improvviso di vento invase la sala dalle finestre aperte sul cortile. Il mantello nero di Menelao si gonfiò per un attimo e ricadde ondeggiando attorno alle sue caviglie. «No,» disse Anaxibia «non io sola. Siedi. Aspetta.» e fece un cenno a un’ancella che si era appena levata dal letto per essere pronta alle sue richieste. La donna si allontanò. «Qual è il tuo piano? Perché sicuramente sai della fine di nostro fratello...» In quel momento riapparve sulla soglia l’ancella con una lucerna accesa in mano e dietro di lei entrò un giovane di forse diciassette anni. Portava un lenzuolo stretto attorno al corpo nudo, una peluria dorata gli velava le guance e una cascata di capelli biondissimi gli illuminava il volto. Era talmente biondo da sembrare quasi bianco ma aveva gli occhi neri come la pece. La regina Anaxibia gli tese le mani e
lo baciò sulla fronte e sugli occhi, poi, indicando l’ospite: «È tuo zio Menelao. L’avevamo creduto morto e invece è tornato. E giunge ora da Sparta.» Menelao gli aprì le braccia: «Figliolo,» disse con voce tremante «ragazzo mio» Il giovane principe ancora assonnato ricambiò, un po incerto, l’abbraccio e baciò il re sulla guancia. «Oreste,... sono venuto per rimetterti sul trono di tuo padre, a Micene, se tu lo vuoi.» «Lo voglio, wanax» disse il giovane. Era ben sveglio ora e il suo sguardo era saldo e fermo. «Non chiamarmi così» disse il re. «Sono tuo zio e ti voglio bene come se fossi tuo padre...» Si sedettero e l’ancella portò del vino e del latte caldo. «C’è una cosa che forse non sai...» E mentre parlava Menelao volse lo sguardo ad Anaxibia come per avere da lei l’approvazione di quanto stava per dire. La regina annuì. «Ragazzo mio, tua madre non è stata costretta contro voglia... tua madre ti ha reso orfano con la sua stessa mano.» Il principe non si scosse: «Lo so» disse. «E io la ucciderò per questo.» Poi prese dalla mensa la coppa di latte e la vuotò. Si alzò e si congedò con un leggero inchino: «Buona notte, zio. Sono contento che tu sia tornato». Oltrepassò la soglia leggero come l’aria della notte. La luce delle torce accese nel corridoio rese trasparente il lenzuolo che gli velava il corpo: era bello come un dio. Menelao lo seguì per un momento con la sguardo poi chinò la fronte: «Sarà uno scontro durissimo e feroce» disse «più crudele della guerra troiana.» «Sì,» disse la regina «soltanto tra famigliari ci si può odiare veramente.» «Ho paura» disse il re. «Non so se le mie forze saranno sufficienti. Devo affrontare, solo, una coalizione potente.» Le labbra della regina s’incresparono in un sorriso: «Non sei solo» disse. «Tu hai il più potente alleato che esista al mondo. Vieni, voglio mostrarti una cosa.» E si alzò incamminandosi per il corridoio. Menelao la seguì fino in fondo e poi lungo una scala che scendeva sotto terra. Giunsero davanti a una piccola porta serrata con chiavistelli di bronzo. Anaxibia aprì e protese la torcia che teneva in mano a illuminare l’interno. Menelao guardò attonito, gli occhi pieni di stupore: «Il talismano dei Troiani» disse. «O dei, dei del cielo... Allora non è stato inutile... Tutto quel sangue non è stato inutile... Oh dei, vi ringrazio.» La regina richiuse la porta e serrò i chiavistelli. «È per questo che mi hai trovata qui ad Arne. Questa fortezza in mezzo al lago è imprendibile e nessuno potrebbe penetrarvi.» «Ma com’è possibile...» disse Menelao. «Quando nostro fratello fu ucciso da quella cagna, una nave giunse fin qui da me senza che nessuno si preoccupasse di inseguirla. Tutti infatti pensarono che il talismano dei Troiani si trovasse sull’ammiraglia di Agamennone che era stata incendiata nel porto e affondata dall’equipaggio. Klitemnestra dovette credere che i marinai avessero eseguito un ordine del re che forse aveva subodorato il tradimento. Fece persino immergere dei tuffatori per esplorare il relitto ma il fondale era troppo alto: nemmeno i più esperti pescatori di spugne riuscirono a
raggiungerlo. Invece il talismano era a bordo di una piccola triakontere che fuggì verso settentrione e approdò ad Aulis.» «Un’azione che si crederebbe ispirata dalla mente di Ulisse.» «E chi ti dice che non sia così?» disse la regina. «Già» mormorò Menelao. «Ulisse tornò indietro... Mi sono sempre chiesto il perché...» Anaxibia richiuse la porta che metteva in comunicazione il corridoio superiore con la scala che saliva dal sotterraneo e fece cenno alle ancelle che attendevano chiacchierando fra di loro tenendo ciascuna in mano una lucerna accesa. Subito si avvicinarono per ascoltare i suoi ordini, poi condussero Menelao nella sua stanza, lo spogliarono e lo lavarono con molta acqua calda, lo asciugarono e lo rivestirono con una veste da camera, fine, di lino leggero. Gli chiesero se desiderava che una di loro restasse con lui nel letto, quella che gli piacesse di più, ma il re le congedò e si lasciò andare, spossato, sul grande letto di pino profumato. Un abile artigiano lo aveva intagliato da un tronco schiantato dal vento sul Monte Ossa e vi aveva sovrapposto una lamina di bronzo sbalzato che rappresentava una fila di guerrieri a fianco agli aurighi sui loro carri da guerra.
Qualche tempo dopo, una sera d’autunno, la principessa Elettra usciva dalla grande porta dei leoni a Micene e scendeva nella stretta valle delle tombe. Portava una cesta con delle offerte, miele e latte e bianca farina, quelle che si offrono alle ombre dei morti. Ma non si fermò davanti a nessuno dei grandi tumuli che si affacciavano lungo il suo cammino. Proseguì con passo frettoloso fino a un punto in cui una grande lastra di pietra copriva una cisterna scavata nella roccia del fondo e là si fermò. Versò sulla pietra il latte e poi il miele e poi sparse la farina invocando l’ombra del padre. Grandi grumi rappresi mostravano quante volte la sua mano aveva versato senza parsimonia quelle offerte ed erano prova che nemmeno gli animali, i cani randagi e le volpi, avevano osato contenderle al fantasma corrucciato del Grande Atride. Si prostrò sulla roccia nuda e pianse appoggiando la guancia alla lastra enorme, bagnandola di lacrime. Il sole era calato dietro i monti e la sua luce era inghiottita d’improvviso da una massa scura di nubi che avanzavano dal più remoto orizzonte. Il vento s’insinuava nella valle e il suo soffio, nella stretta gola, sembrava anch’esso un lamento. La principessa si alzò sulle ginocchia continuando a tenere la mano destra appoggiata sulla pietra come per accarezzarla, e il capo basso. Si udiva il chioccolio degli uccelli che cercavano un riparo per la notte e le ultime rondini volavano basse sull’erba arida intrecciando i loro voli fra gli amaranti rinsecchiti e i pruni spinosi. La valle era ormai completamente invasa dall’ombra ed Elettra si alzò: «Addio, papà» mormorò portando la mano alla bocca per cogliere un bacio.«Tornerò appena mi sarà possibile.» Lo aveva visto l’ultima volta tutto sporco di sangue e con la gola tagliata venir trascinato sconciamente sul pavimento come un animale macellato. Svegliata nella notte dalle urla che venivano dalla grande sala, aveva visto tutto dal ballatoio del
piano superiore, ma non aveva potuto urlare l’orrore e la disperazione che le mordevano il cuore, e l’animo era stato dilaniato dal dolore e poi invaso dall’odio più implacabile. Eppure, ogni volta che veniva su quella tomba indegna, su quella sepoltura miserevole, cercava di ricordare il padre come quando l’aveva visto partire per la guerra. Era entrato nella sua stanza mentre lei, seduta in terra in un angolo, cercava di inghiottire le lacrime. Le aveva appoggiato una mano sul capo e le aveva detto: «Ifigenia partirà domani, per andare sposa a un principe, ma tu veglia su tuo fratello che è piccolo, e rispetta tua madre. Io penserò a te ogni sera, quando il sole scenderà dietro i monti o fra le onde del mare e sognerò di tenerti fra le mie braccia e di accarezzarti i capelli» Lei si era alzata e lo aveva abbracciato. Aveva sentito il freddo contatto del bronzo che gli rivestiva il petto e aveva provato come una stretta, la stessa che provava ora, ogni volta che appoggiava il viso su quella pietra sempre fredda, anche nelle sere dell’estate più torrida. «Addio, papà» aveva detto piangendo, e gli aveva alzato gli occhi in faccia. Gli aveva letto in volto il segno di una cupa disperazione, negli occhi il luccicare incerto delle lacrime. Lui le aveva dato un bacio e poi era uscito, e lei era rimasta ad ascoltare il crollare dei gran passi giù per la scala e il risuonare delle armi sulle spalle possenti. Non l’avrebbe rivisto più. Vivo. Un ciottolo rotolò d’improvviso vicino ai suoi piedi da sinistra; Elettra volse il capo in quella direzione e si trovò di fronte una figura ammantata che avanzava con passo prudente tra le rocce della valle. Si ritrasse impaurita rendendosi conto di essere, in quel luogo solitario, esposta a ogni pericolo, ma la figura ammantata si fermò, si scoprì il capo mostrando il volto di un giovane dio biondo. La sua voce risuonò vicina e calda nel silenzio della sera: «Elettra.» «Oh, dei del cielo...» balbettò la principessa e scrutò nella penombra perché i suoi occhi riconoscessero ciò che il suo cuore già sapeva. «Fratello,» disse «sei tu?» Il giovane la strinse a sé premendole il capo contro la spalla mentre lei non poteva trattenere le lacrime. La portò al riparo di una roccia e la fece sedere accanto a sé. La teneva stretta e quasi la cullava fra le sue braccia. A un tratto lei sembrò riscuotersi: «Sei stato pazzo» disse, «a spingerti fin qua. Se qualcuno ci vede ti ucciderà subito. Gli uomini di Egisto sono dappertutto.» «Volevo solo vederti e farti capire che non sei sola. Stiamo radunando un esercito e quando saremo pronti stringeremo d’assedio la città.» «Non potete farcela» disse Elettra. «La città è imprendibile: le forze focesi non hanno alcuna speranza contro gli squadroni di carri da guerra che Egisto può mettere in campo.» «Zio Menelao è tornato. Non lo sapevi?» «Sì... ma avevo sentito dire che era molto malato, prossimo alla morte.» «Sta benissimo. Ma questo tienlo per te. Nessuno deve saperlo. Nestore lancerà sul mare la sua flotta per fermare i Cretesi se dovessero attaccare, ci manderà mille guerrieri al comando di Pisistrato e cento carri. Molti altri si aggiungeranno a noi
da Argo, da Tirinto, da Nemea e anche da Micene.» Gettò uno sguardo sfuggente sulla lastra che copriva la cisterna. «Nostro padre sarà vendicato e avrà finalmente pace nell’Ade.» Elettra non gli toglieva gli occhi di dosso e lo accarezzava mentre parlava. Quando ebbe finito abbassò il capo in silenzio per un poco come se raccogliesse i pensieri: «Lo sai che cosa significa tutto ciò?» «Lo so» disse il giovane. «Significa la morte di nostra madre. Per mano mia. Se vinceremo. Se invece saremo sconfitti, significa la mia morte, la tua e quella di tutte le nostre speranze.» «Non hai mai ucciso nessuno. Come potrai uccidere tua madre? Hai pensato a come ti sentirai dopo? Agli incubi che ti tormenteranno per tutta la vita? Alla sua immagine che non ti darà più tregua né di giorno né di notte?» Lo baciò sugli occhi, sulla fronte, sui capelli. «Sei solo un ragazzo... Avresti diritto a pensieri diversi... Oh dei... perché? Perché a noi che non abbiamo fatto nulla?» «Non chiedere, sorella. Non c’è risposta alle tue domande. Il destino è cieco e ha gettato su di noi tutte le sventure. Nello stesso momento qualcun altro, altrove, lontano, gode di tutte le gioie... anche delle nostre, di quelle a cui avremmo diritto. Ma un giorno, chissà, forse anche per noi sorgeranno giorni più sereni. Forse potremo vivere e dimenticare.» Si alzò. «Ma ora conviene fare ciò che è dovuto. Non piangere mentre me ne vado.» Si coprì il capo e si volse sparendo presto nell’oscurità che era scesa a coprire la terra. Il pigolio degli uccelli era cessato: dormivano nei loro nidi sotto le ali materne. Nella valle scura risuonava ora il richiamo dei rapaci e il lamento degli sciacalli che si aggiravano nel buio per contendere ai morti le offerte lasciate dalla pietà dei viventi. Elettra si strinse il mantello attorno alle spalle e riprese la via del ritorno. Mentre usciva dalla valle il suo sguardo corse alla rocca e alle mura altissime del palazzo. Le parve distinguere, per un attimo, sulla torre del baratro, una figura solitaria avvolta in vesti nere poi il vento le portò l’eco di un pianto da una casetta poco distante dalla strada. Un bimbo piangeva per paura del buio e la madre lo consolava cantando. Elettra ascoltò per un poco quel canto che le evocava immagini lontane, dimenticate da tanto tempo. Un nodo le serrò la gola e una nostalgia struggente le invase l’animo. Poi il pianto del bimbo cessò e anche il canto della madre si spense. Elettra riprese il suo cammino.
11
Anchialo percorse un lungo tratto fra montagne aspre e boschi intricati vivendo di quanto poteva trovare. A volte si fermava in qualche villaggio e restava per qualche tempo offrendo il proprio lavoro in cambio di sostentamento. Ma un giorno, avendo riacquistato le forze e avendo deciso di riprendere il cammino, si accorse che non gli era possibile. La gente presso cui viveva lo considerava ormai di sua proprietà e intendeva tenerlo come schiavo. Gli fu tolta la spada e gli fu messo un collare e un anello con cui veniva incatenato di notte. Restò in quella condizione per lungo tempo senza riuscire a capire dove si trovava e chi erano coloro che lo tenevano prigioniero, finché una notte il villaggio fu assalito e messo a sacco da un popolo che scendeva da settentrione. I Dor . Si salvò perché era uno schiavo e da quel giorno mutò padrone. Vide che il popolo dei Dor era suddiviso in modo molto rigido: vi erano i guerrieri, vi erano quelli che facevano i lavori manuali e vi erano gli schiavi, quasi tutti preda di guerra, come era lui stesso. A loro venivano affidati gli animali da accudire e le greggi da pascolare. Non gli era riuscito di imparare la lingua della gente che lo aveva tenuto per prima come schiavo ma si accorse che era molto più facile per lui apprendere la lingua dei Dor che gli suonava stranamente famigliare, simile, in fondo, alla sua. Non riusciva a farsene una ragione e cercava di ricordare le tradizioni e le storie che i vecchi della sua gente gli raccontavano quando era ancora bambino per trovare una qualche spiegazione ma non riusciva a trovarne alcuna. La notte quando si lasciava andare, esausto, su un giaciglio di erba secca non riusciva a prendere sonno benché lo desiderasse. Pensava ai suoi compagni che aveva lasciato morire sul mare; pensava agli altri compagni che avevano seguito Diomede; pensava al suo re al quale aveva fatto una promessa che assai difficilmente avrebbe potuto mantenere. Invocava gli dei perché lo liberassero, perché rimuovessero il giogo che gravava sulle sue spalle, perché gli restituissero la spada e la lancia, ma il tempo passava senza che accadesse nulla. I Dor si stabilirono per quasi tre anni in una pianura in riva a un lago chiuso fra alti monti ed egli con loro. Un giorno gli diedero una donna della sua stessa condizione perché potesse generare altri schiavi ma quando si coricava con lei spargeva il suo seme per terra per non legarsi a quella vita, per non avere moglie e nemmeno figli. Ogni giorno al sorgere dell’alba e ogni notte al calare del sole egli ripeteva a se stesso: «Tu sei Anchialo figlio di Iaso e hai seguito il figlio di Tideo, Diomede, sotto le mura di Troia. Nessuno può tenerti schiavo». Si finse docile e vile, mostrava di tremare alla vista del suo padrone, strisciava a terra piagnucolando se gli minacciavano un castigo e nessuno ebbe più di lui
maggior considerazione di quella che non avessero per le pecore e le capre che allevavano nei recinti. Così una notte strangolò il suo padrone nel sonno, gli prese le armi e il cavallo e fuggì. Discese un fiume per non lasciare tracce e andò avanti giorno e notte senza mai fermarsi, senza mangiare e senza dormire. Quando fu certo di aver messo fra sé e i suoi nemici uno spazio sufficiente, si fermò e cercò di procurarsi un po di cibo per poter tirare avanti. Mise delle trappole, come aveva imparato a fare dai suoi primi padroni, e catturò un po di selvaggina. Scavò tuberi e radici dal suolo con la spada, raccolse frutti selvatici dagli alberi come già aveva fatto un tempo dopo essere scampato al naufragio. Quando ebbe riacquistato le forze riprese il suo cammino evitando questa volta i villaggi, temendo di cadere nuovamente prigioniero. Passarono così quasi due mesi ma non avrebbe potuto dire quale distanza avesse percorso. Sapeva solo di camminare verso mezzogiorno lasciandosi alle spalle il buio e la notte. Finalmente un giorno, sul far dell’alba, raggiunse una cima rocciosa da cui poté contemplare davanti a sé la distesa delle onde che brillava come bronzo lucidato. Il vento portava alle sue narici l’odore forte della salsedine e il cuore gli si allargò nel petto. «Il mare» disse. Lungo la costa trovò un villaggio di pescatori che parlavano la sua lingua. Chiese loro che paese fosse quello e gli risposero che era l’Epiro. Vi regnava Pirro, un ragazzo di diciassette anni. I pescatori gli dissero che il giovane era giunto con una nave dopo aver combattuto a lungo in Asia. Si diceva che fosse figlio di un guerriero terribile, morto lontano dalla sua patria. “Il figlio di Achille” pensò Anchialo. “Il figlio di Achille è qui... Come è possibile?” Si convinse ancora di più che la guerra maledetta aveva rovinato tutti, aveva sconvolto regni e dinastie, aveva procurato ai vincitori mali non inferiori che ai vinti. Ecco che il figlio di Achille non regnava in Ftia e sulle pianure di Tessaglia come sarebbe stato suo diritto ma in un paese rozzo, povero e primitivo, ai margini della terra degli Achei. Chiese ai pescatori dove si trovasse la casa del re e quelli risposero che doveva continuare a camminare lungo la costa, se vi riusciva, e comunque non perdere mai di vista il mare procedendo verso mezzogiorno finché non fosse giunto in un luogo chiamato Butrinto. Lì abitava il giovane re, circondato dai suoi guerrieri con una sposa straniera, più attempata di lui, bella e sempre triste. Da quanto si sentiva dire, nessuno l’aveva mai vista sorridere e nemmeno l’avevano vista piangere. Chi l’aveva veduta diceva che somigliava a una statua, che la sua pelle aveva il pallore del marmo e che i suoi occhi erano bellissimi ma senza luce. Anchialo pensò a lungo a chi potesse essere quella donna ma non riusciva a ricordare nessuna che potesse somigliare a quella descrizione. Era però felice: pensava che finalmente avrebbe incontrato uno dei re che avevano combattuto sotto le mura di Ilio, a lui avrebbe riferito ciò che Diomede gli aveva ordinato. Poi si sarebbe fatto dare una nave e avrebbe fatto vela nuovamente verso occidente. Prima o poi avrebbe ritrovato Diomede e i compagni che aveva lasciato e con loro avrebbe preso parte al nuovo regno, nella patria nuova.
Camminò per due giorni e poi trovò un pescatore che andava in città con la sua barca per vendere il pesce e gli chiese di farlo salire. Parlarono a lungo mentre la barca scivolava tranquilla sulle onde limpide, sotto il sole splendente. Gli sembrava di non essersi mai allontanato da quelle terre. Si vedevano le isole levarsi dal mare da un lato, e, dall’altro, il profilo della costa ora alto, dirupato, ora basso e sabbioso, contornato di alberi rigogliosi che allungavano i rami fino a sfiorare le onde. Butrinto apparve verso sera, le mura rosseggianti nella luce del tramonto, stagliate contro il verde cupo dei boschi circostanti. Si sentiva l’abbaiare dei cani e il grido dei gabbiani sulle rocce a strapiombo. L’Epiro era una terra quasi selvaggia. Anchialo raggiunse il palazzo ed entrò nel cortile facendosi riconoscere dal guardiano della porta. «Sono Anchialo figlio di Iaso. Un tempo combattevo a Troia con il mio re Diomede figlio di Tideo, signore di Argo. Riferisci al re che io sono qui e che ho bisogno di parlargli al più presto. Un grave pericolo incombe a queste terre e io devo avvertirlo.» L’uomo lo guardò attentamente e solo in quel momento Anchialo pensò a quale doveva essere il suo aspetto: aveva i capelli lunghi e arruffati, le mani ruvide e callose, le unghie nere: «Lo so, sembro un mendicante, ma devi credermi. Sono stato ridotto in schiavitù e costretto a pascolare pecore e porci per anni. Poi finalmente mi sono liberato e ho ripreso il mio cammino per mantenere fede alla mia promessa. Non voglio nulla anche se sono tormentato dalla fame. Lascia solo che parli con il re» «Il re è partito» disse il guardiano. «Partito? E dove è andato?» «Il re Menelao ha chiesto il suo aiuto.» «Il re Menelao? Dunque si è salvato?» «Sì. Sta chiedendo aiuto a tutti i suoi amici per mettere insieme un grande esercito e attaccare Micene che è nelle mani di sua cognata, la regina Klitemnestra. La regina, con l’aiuto del suo amante, ha ucciso il re Agamennone.» Anchialo abbassò il capo. Il Grande Atride era caduto, dopo aver patito tante sofferenze in guerra, proprio nella sua casa, fra le pareti domestiche che tanto aveva desiderato. «Da quanto tempo è partito?» chiese. «Da due giorni. Marcia a meridione, lungo la costa.» «E sai dirmi dove è diretto?» «Non lo so. Ma se lo sapessi non te lo potrei dire. La meta del re è segreta. Nessuno deve sapere da dove arriverà. Piomberà come un falco in mezzo a uno stormo di corvi.» Anchialo restò muto per un poco cercando di capire che cosa avrebbe potuto fare. Se solo avesse potuto incontrare il giovane re gli avrebbe riferito il messaggio di Diomede e la sua missione si sarebbe compiuta. Avrebbe cercato una nave in un porto per navigare verso occidente. Voleva tornare da Diomede. Mentre meditava
sul da farsi lo sguardo gli cadde su una figura di donna che usciva in quel momento da una porta laterale e si dirigeva lungo un sentiero che portava verso la montagna. Per un momento il suo sguardo incontrò quello di lei e la sua mente restò come folgorata: la nuora di Priamo, la sposa di Ettore, Andromaca! La seguì senza farsi scorgere e vide che a un certo punto si fermava davanti a un tumulo di terra sormontato da una pietra. La gramigna aveva ricoperto completamente il tumulo e alla base alcuni cardi selvatici aprivano i loro fiori purpurei. La vide inginocchiarsi accanto al tumulo e piegare il capo fino a terra. Piangeva, e la schiena era scossa dai singulti. Anchialo volse altrove lo sguardo perché capiva che quel pianto solitario non voleva testimoni. Ma capì a chi era stato innalzato quel tumulo. Andromaca aveva voluto un luogo in cui piangere lo sposo perduto, sepolto lontano nei campi d’Asia dopo che Achille gli aveva tagliato la gola, dopo che lo aveva trascinato coi piedi forati dietro al suo carro. Capì anche che era lei la regina triste di cui gli aveva parlato l’uomo che lo aveva condotto a Butrinto. Regina di un regno miserabile di pastori e di pescatori, preda di un ragazzo violento e collerico che l’aveva voluta come trofeo, eredità che sarebbe spettata a suo padre se gli dei non lo avessero abbattuto presso le porte Scee per le frecce di Paride. Passò del tempo e Andromaca si sollevò asciugandosi gli occhi con il lembo del velo poi si incamminò per la via che conduceva alla città. Egli allora le si avvicinò in attitudine di supplice. «Regina,» le disse «fermati e ascolta ciò che ti chiedo. Sono un uomo privo di tutto, della casa, della patria e degli amici, eppure credo di poterti offrire qualcosa se tu mi aiuterai.» Andromaca ebbe un moto di sorpresa come se non si attendesse di trovare qualcuno in quel luogo così solitario. Lo guardò come per capire chi avesse di fronte. Era pallida come il marmo e i suoi occhi erano neri come le porte dell’Ade ma il luccichio delle lacrime dava al suo sguardo una intensità accorata e fremente. Non rispose e affrettò il passo abbassando il capo. «Ti prego, regina» disse ancora Anchialo quasi impedendole il passo. «Non negare un attimo del tuo tempo a un povero che ti supplica.» «Non sono ciò che credi» disse con voce sommessa. E Anchialo percepì il suo lieve accento orientale, lo stesso delle donne che aveva condotte prigioniere nella tenda di Diomede quando si spartivano le prede dopo la conquista di una città dell’Asia. Anch’egli ebbe voglia di piangere sentendo la violenza e l’inutilità di quel dolore fin dentro le ossa. «Ti prego, io devo raggiungere il tuo sposo, Pirro, il valoroso figlio del grande Pelide. Mi hanno detto che è partito.» «Non è il mio sposo» rispose Andromaca. «È il mio padrone. Mi hanno data a un ragazzo che potrebbe essermi figlio...» «Mi dicono che marcia per raggiungere Menelao. Dimmi la strada che segue, se puoi, perché devo assolutamente trovarlo. Se me lo dici io ti farò fuggire. Ti porterò con me procurandoti il nutrimento e il giaciglio per la notte. Ti porterò il rispetto che conviene al tuo rango e al tuo dolore e mai alzerò lo sguardo su di te se
non quando vorrai parlarmi. Cercherò per te un luogo pacifico e nascosto. Ti affiderò alla mia nutrice, se è ancora viva, una buona vecchia che vive sola in una piccola isola. E se è morta, troverò per te un’altra casa e un’altra persona che ti curi e ti serva fin che tu lo vorrai. Più di questo non posso fare, ma ti giuro sugli dei che sono sincero e terrò fede a quanto ti ho promesso.» «Sincero...» disse Andromaca. «Come il voto che Ulisse offrì a Poseidon sulla spiaggia di Ilio: un cavallo enorme, di legno...» Anchialo piegò il capo non riuscendo a sostenere lo sguardo di Andromaca. Sguainò dalla cintura un coltello e glielo porse inginocchiandosi davanti a lei: «Io ero dentro a quel cavallo» disse. «Seguivo il sire Diomede, mio re. Uccidimi se vuoi, perché, se non posso compiere quanto devo, preferisco morire, e di tua mano, perché vi sia un poco di giustizia in questo mondo e perché tu creda che sono sincero.» Andromaca esitò un poco guardando la lama scintillante, seguendone lentamente il filo fino all’elsa, poi allungò la mano fino quasi a sfiorarla con le lunghe, candide dita. Anchialo alzò il capo e vide per un attimo nel suo sguardo la tranquilla ferocia che aveva visto in passato negli occhi di tanti guerrieri nel momento in cui la foga del combattimento dileguava e tutta la forza s’addensava nello sguardo immobile e nella mano. La quiete necessaria a chi d’un tratto si rende conto di poter vibrare il colpo che spegne una vita. In quell’istante Anchialo pensò che avrebbe potuto accogliere la morte senza rimpianto lungo un sentiero polveroso ai margini della terra degli Achei, da una mano delicata che aveva un tempo accarezzato la testa di un fanciullo e il corpo di un eroe. Ma la mano si ritrasse con un moto improvviso. «Pirro ha preso la via della Focide per raggiungere il re Strofio e la regina Anaxibia, sorella di Menelao. Di là si muoverà con i Focesi verso l’Istmo per chiudere Micene da settentrione.» Anchialo ripose la lama e si alzò in piedi: «Accetta la mia offerta, regina. Vivrai in pace al riparo da ogni violenza» «In pace?» disse Andromaca. «Lo sai perché non mi sono ancora uccisa? Dopo aver subito sulla mia pelle le mani che hanno scagliato mio figlio dalle mura di Troia, lo sai perché non mi uccido?» Volse il capo verso il tumulo miserabile coperto di erbacce, al sasso conficcato alla sua sommità e le lacrime presero d’improvviso a sgorgarle copiose, tremando prima nell’ombra delle palpebre e poi rigandole il volto fino agli angoli delle labbra esangui. Anchialo scosse la testa lentamente e sentiva egli stesso che gli occhi gli si inumidivano e che il cuore gli vacillava nel petto. «Perché la dolcezza dei miei ricordi è pur sempre maggiore dell’orrore di quel massacro. Ed essi mi sono talmente cari che solo per quelli ho la forza di vivere. La morte, anche di quelli mi priverebbe. Ettore mio, solo e unico amore, il mio bambino adorato, morirebbero del tutto e per sempre. La mia vita, benché miserabile, benché piena di vergogna, prolunga la loro. Senza di essa anche il loro ricordo sarebbe spento per sempre.»
Riprese il cammino verso la piccola città e Anchialo capì che per nessuna ragione si sarebbe separata da quel luogo. Forse quel tumulo copriva davvero le ossa di Ettore, il più grande guerriero dell’Asia intera? E se era così, a quale patto le era stato concesso di portare con se quelle reliquie? Era la sua vergogna il prezzo pagato per poter vivere con le sue memorie? Si sentì invadere da un brivido di gelo anche se il sole splendeva ormai alto e gli parve che il cielo avesse perso in quel momento la sua luce e il mare il suo splendore. Prese la strada delle montagne con il cuore gravato da una fatica oscura, fino a quel momento sconosciuta.
Raggiunse la colonna di Pirro cinque giorni dopo, in una valle nel cuore delle aspre montagne di Acharnania. In quella terra viveva l’unico popolo di stirpe Achea che non avesse preso parte alla guerra di Troia. Erano talmente isolati e selvaggi che non si curavano di nulla. Invano dieci anni prima Agamennone aveva inviato presso di loro Ulisse per convincerli a intervenire al suo fianco: nemmeno le abili parole del re di Itaca erano riuscite a smuoverli. D’altro canto non avevano un re e non avevano nemmeno città ma solo miseri villaggi. Ulisse parlò con qualche Vecchio capofamiglia privo di alcuna autorità. Lo ascoltarono impassibili come se dicesse cose prive di senso e nemmeno risposero. Non dissero né sì, né no. Non dissero nulla. Mentre Ulisse ancora parlava uno si alzò e se ne andò, poi si alzò un altro e un altro ancora e si allontanarono. Anchialo aveva sentito dire queste cose dallo stesso Ulisse una volta che il re Diomede lo aveva invitato a cena sotto la sua tenda. Per questo evitò di incontrarsi con quella gente perché non sapeva come comportarsi con loro. Si fece riconoscere dalle sentinelle del campo. E uno di loro corse ad avvertire il re che un compagno del re Diomede si era presentato per parlargli. Pirro lo fece venire subito nella sua tenda. La barba a mala pena gli copriva le guance, portava capelli corti al di sopra delle orecchie ed aveva una corporatura incredibile per un ragazzo della sua età. Anchialo lo aveva visto poche volte e solo di lontano a Ilio, sempre fiancheggiato da due Mirmidoni di immensa mole, Perifante e Automedonte. Quando lo sguardo si fu abituato all’oscurità della tenda appena rischiarata da una lucerna, Anchialo notò che Pirro indossava l’armatura del padre, la prima, quella che Patroclo aveva indossato per fingersi Achille e respingere così i Troiani dal campo acheo, quella che Ettore gli aveva strappato e che Achille gli aveva ripreso uccidendolo. L’altra, quella che Efesto aveva forgiato per l’ultimo combattimento, l’aveva avuta Ulisse. «Indossi l’armatura di tuo padre» disse Anchialo posando lo sguardo sulla corazza adorna di stelle d’argento. «Quante volte l’ho vista risplendere sul cocchio trainato da Balio e Xanto... Noi Argivi eravamo spesso schierati a fianco dei Mirmidoni.» Il giovane parve non badare a quelle parole: «Perché hai chiesto di parlare con me?» chiese Pirro guardando l’ospite con un’occhiata diffidente.
«O wanax,» disse Anchialo «il mio signore, il sire Diomede, re di Argo...» «Re di nulla!» rispose di scatto il figlio di Achille. Anchialo si irrigidì, ferito da quell’offesa. «Re di nulla...» aggiunse ancora Pirro con voce più bassa e chinando il capo: «Come me...». Anchialo comprese: «Non dire così, wanax. Tu regni sugli Epiroti e Diomede presto avrà un grande regno nella terra di Hesperia e io lo raggiungerò.» «Diomede ha dovuto fuggire e io anche. La Tessaglia è il mio regno, i Mirmidoni sono il mio popolo, a Ftia sorge il mio palazzo, eppure devo vivere fra questi monti in mezzo a dei selvaggi in una casa disadorna che ho conquistato senza gloria.» «Ma io sentìi dire che tuo nonno, il Vecchio Peleo, era ancora vivo. Come è possibile che tu non viva con lui nel palazzo godendo dei tuoi privilegi? Forse un nemico ti ha cacciato dopo aver ucciso Peleo?» «Nessun nemico,» disse Pirro «non esiste nemico in grado di cacciarmi. Solo mio nonno poteva farlo. Peleo non mi ha voluto. E lui è un nemico che non si può battere... si può solo fuggire. E io sono fuggito.» Anchialo rimase in silenzio ma era troppo il desiderio di conoscere quella vicenda. Disse: «Wanax, perdona la mia sfrontatezza: perché Peleo non ti ha tenuto con sé?» «Non gli piacevo... È molto avanti negli anni: pensa come gli uomini di un tempo. “Perché hai ucciso il Vecchio re inerme” diceva “che tuo padre Achille aveva risparmiato pensando ai miei capelli bianchi? Perché hai ucciso il piccolo principe sfracellandolo sulle rocce? E perché hai costretto la madre a subirti nel letto dopo averla obbligata ad assistere a quell’orrore?” Gli avevano raccontato tutto, capisci? Sapeva già tutto. Ti giuro che se sapessi chi è stato lo strozzerei a mani nude. Gli strapperei gli occhi e la lingua e li darei da mangiare al mio cane.» L’animale accucciato ai suoi piedi uggiolò e si passò la gran lingua rossa sul muso come se avesse capito le parole del suo padrone. Anchialo restò in silenzio senza sapere che dire. «Ma tu volevi dirmi qualche cosa» riprese a dire il giovane. «Da dove vieni? Come sei arrivato fra queste montagne?» «Seguivo il mio re Diomede navigando verso settentrione nel mare occidentale quando incontrammo un popolo che marciava verso la terra degli Achei. Erano numerosi come le cavallette e possedevano armi fatte di un metallo invincibile. La spada del Tidide, un’arma formidabile, ne fu troncata come fosse di legno. Il re si salvò a stento e noi con lui. Mi ordinò di lasciare le altre navi e di tornare per avvertire del pericolo i re degli Achei. “Che raccolgano l’esercito,” mi disse “che traggano in mare le navi nere.” Ho viaggiato a lungo, ho sopportato ogni sorta di sofferenze, la prigionia e la schiavitù ma ho tenuto fede alla mia promessa. Tu sei il primo fra i re degli Achei che io abbia incontrato. Riferiscilo agli altri perché preparino le difese e lascia che io riparta perché voglio raggiungere il mio re nella terra di Hesperia.» Pirro lo guardò senza batter ciglio.
«Chi ti ha detto dove avresti potuto trovarmi?» chiese poi aguzzando lo sguardo nella penombra come per scrutargli dentro. Si alzò in piedi e gli si avvicinò sovrastandolo di tutta la testa: «Il mio cammino era segreto. Chi ti ha detto come trovarmi?» «Ho combattuto e sofferto a Ilio come tuo padre, come tutti gli altri capi e gli altri guerrieri Achei, come te... Che cosa importa come ti ho trovato? Gli dei hanno guidato i miei passi perché portassi l’allarme...» Pirro scoppiò a ridere: «Gli dei! Se ci sono si divertono a confondere le nostre strade, a portarci in luoghi desolati e remoti. Ci aizzano gli uni contro gli altri e godono a contemplarci mentre ci riempiamo di ferite, ci scanniamo a vicenda. Fanno come noi quando aizziamo i nostri cani a combattere e scommettiamo su quello che per primo squarcerà la gola dell’altro. Non parlarmi di dei: sono giovane ma non sono uno stupido; non pensare di poterti prendere gioco di me. Dimmi chi ti ha insegnato la strada o morirai. Non mi importa nulla se hai combattuto a Ilio.» Anchialo rabbrividì: in quel ragazzo c’era la spaventosa potenza del Pelide, ma non una briciola della sua pietà, nessun comportamento ospitale. Non l’aveva fatto sedere, non gli aveva fatto lavare i piedi e non gli aveva offerto cibo e bevanda. Ora lo minacciava di morte. «Se ti dirò la verità, mi prometti che annuncerai il mio messaggio ai re degli Achei?» «Ti prometto che potrai venire con me e riferirlo di persona. Io non ho motivo per crederti e non so chi sei. Ti crederanno se vorranno. Se qualcuno ti riconoscerà. Ma ora parla perché la mia pazienza è già finita.» Anchialo parlò: «Andromaca me lo disse, spontaneamente. Non farle del male: non ha voluto nuocerti.» «Andromaca...» ripeté il giovane re. «O wanax,» disse ancora Anchialo non potendo trattenere i suoi sentimenti «se davvero in te pulsa il sangue di Achille, mostrati generoso, lasciale la libertà, rispetta il suo dolore. Nessuna sofferenza le è stata risparmiata.» Pirro tornò al suo sgabello e si mise ad accarezzare il cane come se non avesse udito nulla. Teneva il capo basso, come se ascoltasse il canto che si udiva in lontananza, il canto degli uomini che si tenevano svegli montando la guardia. Quando alzò la testa il suo sguardo torbido era venato di follia e di disperazione: «Mia madre era una bambina sciocca e paurosa che nemmeno voleva partorirmi per paura del male. Ho bisogno di una vera madre. Per questo le ho tolto il figlio, quel piccolo bastardo, capisci? Perché la volevo solo per me. Quando l’ho vista ho capito che era lei la madre che volevo... e tu credi che io la lascerei dopo che ho fatto ciò che ho fatto per lei? Devi essere un pazzo, forestiero, se pensi che io possa rinunciare a lei...». Anchialo lo guardò smarrito: aveva percorso tanta strada e sfidato tanti pericoli per incontrare un ragazzo stolto che gli dei avevano privato del lume della ragione. Pensò che in quell’essere insano scorreva il sangue di Tetide e di Peleo, il sangue di Achille. La stirpe degli Achei per qualche oscuro destino era corrotta e avvelenata e la sua fatica era forse tutta inutile. Pensò di tornarsene da dove era
venuto, di cercare un varco verso la terra di Hesperia alla ricerca del suo re, l’unico che non l’avrebbe mai deluso né tradito, un uomo su cui le luci misteriose che palpitavano nel cielo non avevano alcun potere. Ma Pirro si riscosse; la sua voce era mutata improvvisamente, il suo sguardo, ora, era inspiegabilmente fermo e diritto: «Verrai con me» disse, «figlio di Iaso. Raggiungeremo l’Istmo e investiremo Micene da settentrione. Da mezzogiorno e da occidente verranno Pisistrato figlio di Nestore, Oreste figlio di Agamennone e poi Menelao, e, forse, Ulisse, quel bastardo figlio di un cane. Se è tornato. E Menelao mi darà in sposa sua figlia Ermione, la più bella del mondo, il ritratto di sua madre Elena, dicono. Poi ci volgeremo contro Argo e da ultimo anche Creta dovrà cadere.» «Ma, wanax,» disse Anchialo. «Tutti voi correte un pericolo mortale. Una minaccia si addensa sulla terra degli Achei da settentrione. Verranno, prima o poi, e vi troveranno già deboli per le guerre fratricide. Vi annienteranno, vi faranno subire la stessa sorte che noi abbiamo inflitto ai Troiani. Dovete unirvi e fronteggiare insieme il pericolo. Promettimi che avvertirai gli altri re e poi lascia che io torni verso la Terra della Sera dove mi attende il mio signore.» Pirro sorrise scoprendo una fila di denti bianchissimi e feroci: «I re degli Achei sono stati lontani troppo tempo dalla loro terra e molte cose sono cambiate. È necessario combattere ancora perché tutto torni come prima. E quando questa guerra sarà finita saremo certamente tutti uniti, te lo prometto. E nessun nemico che venga da fuori potrà batterci perché io sarò il presidio di questa terra... Non c’è al mondo un metallo che possa minacciare lo scudo di Achille!» gridò improvvisamente sguainando la spada e battendo un gran colpo contro lo scudo appeso al palo centrale della tenda. Il grande bronzo risuonò con fragore e Anchialo rivide come in un sogno lampeggiante le immagini lontane di Ilio: Patroclo ferito che protendeva davanti a sé quello scudo mentre i colpi di Ettore vi si abbattevano inesorabili, uno dopo l’altro. Rivedeva lo strazio di quella notte, Aiace Telamonio che tornava al campo col cadavere di Patroclo sulla spalla, riudiva l’urlo di selvaggio dolore del Pelide rimbombare come tuono nella pianura silenziosa. Nessuno di quei sentimenti albergava nel cuore del ragazzo feroce che gli stava davanti: non pietà per gli amici, non desiderio di onore, non compassione per i vinti, non rispetto per gli anziani e le donne, non tenerezza per i piccoli. Anchialo capì in quel momento che il figlio di Achille voleva regnare solo sulla terra degli Achei e che nulla lo avrebbe fermato. La corazza del Pelide che lo ricopriva gli apparve allora come la pelle scagliosa di un drago o di un serpente. Capì che la sua missione non era finita e che doveva seguirlo. Molto tempo sarebbe trascorso prima che potesse tornare a occidente alla ricerca di Diomede. Disse: «Verrò con te, wanax, se così vuoi, e ti servirò come ho servito il mio signore, il sire Diomede pastore di eroi» La voce gli tremava mentre diceva quelle parole perché pensava ai suoi compagni che vagavano lontano in una terra sconosciuta, pensava al tumulo solitario coperto di gramigna sulle montagne di
Butrinto e anche alla donna che lo aveva raccolto sfinito e disperato e lo aveva protetto dai rigori della solitudine e del freddo. Il re gli fece dare delle pelli e una coperta ed Anchialo si cercò un riparo per la notte ai margini del campo. Si distese sfinito dalla stanchezza ma non poté addormentarsi a causa delle passioni che gli agitavano l’animo. E mentre cercava una posizione che gli concigliasse il sonno vide il figlio di Achille uscire dalla tenda e raggiungere un colle che dominava il campo. Il giovane re contemplava immobile il suo esercito e al suo fianco stava accucciato il cane; ma non c’erano i Mirmidoni di suo padre sotto le tende a dormire; c’erano selvaggi Epiroti che aveva convinto a seguirlo con promesse di saccheggi e di stupri. Anchialo si addormentò alla fine vinto dalla stanchezza e dormì un sonno pesante e senza sogni.
La guardia si sporse dagli spalti protendendo la fiaccola a illuminare lo spazio antistante la porta sbarrata della città e vide distintamente un cocchio con le insegne degli Atridi Lacedemoni. A fianco dell’auriga una figura femminile era avvolta in una sopravveste scura coperta di polvere. La donna se la tolse lasciandola scivolare ai suoi piedi e scoprì una superba capigliatura bionda dai riflessi di rame, cinta da un diadema d’oro. «La regina di Sparta chiede di vedere sua sorella, la regina Klitemnestra» gridò l’auriga. La sentinella scese velocemente i gradini del ballatoio e parlò con il suo comandante. Un altro uomo fu inviato di corsa a palazzo e il comandante in persona aprì la porta dirigendosi verso il cocchio con una torcia nella mano. Quando la luce illuminò la donna ritta accanto all’auriga l’uomo restò attonito a contemplarla senza riuscire a proferire una parola: aveva di fronte la bellezza sovrumana che aveva scatenato la guerra più sanguinosa che si fosse mai combattuta, la distruzione della città più grande del mondo. In tutta la sua vita non gli era mai accaduto che la realtà superasse qualunque aspettativa, ma sempre l’opposto. Elena scese dal carro e si avviò verso la porta. Il corpo della regina, pur fasciato in un’umile abito da viaggio, era di perfezione divina: le pieghe della veste, mosse dalla brezza della sera che soffiava fra gli stipiti enormi, disegnavano la cavità del ventre e aderivano ai seni marmorei, s’insinuavano fra le lunghe, agili gambe. Il suo incedere era molle e aggressivo a un tempo, come quello di una fiera, i suoi piedi sembravano appena toccar terra con le punte e l’ondeggiare delle Chiome sulle spalle era bello e solenne come quello delle spighe mature mosse dal vento nei campi d’estate. Il comandante delle guardie capì perché era stata radunata l’armata più grande di tutti i tempi per ricondurla in patria, perché una nazione aveva sofferto l’annientamento rifiutando di consegnarla, per continuare a contemplarla mentre passava per le strade, o quando appariva sulle gradinate dei templi e negli atrii del palazzo. Si rese conto che qualunque uomo si sarebbe lasciato tagliare la gola pur di poterla tenere nuda fra le braccia anche una sola volta.
Una carrozza cerimoniale giunse in quel momento dalla casa reale ed Elena vi salì accomodandosi sul sedile. La regina Klitemnestra non la ricevette nella grande sala delle udienze ma la fece accompagnare in forma privata in una delle stanze che davano verso la pianura. La piccola camera era ben illuminata da due candelabri che reggevano ciascuno sei lucerne accese, ma dalla finestra entrava ancora un poco di riverbero del crepuscolo che il giorno primaverile prolungava contrastando ancora per un poco il cammino della notte. Sulla cavità del baratro, già colma di tenebre, si librava Hespero, sola e tremante nel cielo infinito. I muri della camera erano completamente affrescati con scene di una processione di donne che recavano doni all’immagine dellaPotinja Indossavano tutte il costume antico che lasciava scoperti i seni e ricadeva a grandi balze fiorite fino alle caviglie nude. Elena guardò quelle figure non senza commozione: anche lei aveva indossato quel costume il giorno in cui i capi degli Achei erano venuti da ogni parte per chiederla in sposa e il suo seno alto e bianco come le nevi d’Olimpo aveva abbacinato la loro mente, sconvolto il cuore. Solo un patto solenne impedì che si scannassero in una serie di duelli mortali per conquistarla. Su un tavolino di ebano c’era un prezioso vaso cretese decorato con figure di pesci, di seppie e di meduse, pieno di fiori gialli di montagna dal profumo acuto. C’era in un angolo una cassapanca e c’erano due sgabelli, null’altro. Entrò un’ancella disponendo due piccole mense davanti agli sgabelli poi, inchinandosi, la invitò a seguirla nella stanza da bagno dove la vasca di pietra nera era già colma di acqua calda e profumata. Elena si fece lavare, asciugare e rivestire e poi raggiunse di nuovo la piccola camera dove la cena era già servita. In piedi di fronte a lei stava la regina Klitemnestra, smagrita e con lo sguardo pieno d’ansia, avvolta in un abito bianco che quasi si confondeva con il pallore del viso. Le tese le braccia: «Finalmente posso vederti veramente, dopo tutti quegli incontri nell’oscurità, quelle frasi bisbigliate nella paura, nel sospetto...». Elena l’abbracciò stringendola forte: «Sorella...» disse «sorella, quanto tempo...». «Quando fui avvertita che saresti venuta qui di persona non volevo crederci... Mi hai fatto soffrire... avresti potuto farmi sapere ciò che mi sta tanto a cuore.» Si sciolse dall’abbraccio e arretrò di un passo guardando la sorella con uno sguardo strano, pieno di stupore e di paura: «Non sei cambiata per nulla... quella guerra orrenda non ha scalfito la perfezione del tuo viso, non un segno sulla tua pelle... ma io ti ho vista diversa al santuario di Nemea, cambiata... Che cos’è questo? E Menelao... mi hai fatto sapere che la sua fine era prossima... È per questo che ora puoi venire liberamente da me?» Elena le stava di fronte muta mentre gli occhi le si bagnavano di lacrime. «Ma che cosa c’è?» chiedeva Klitemnestra smarrita. «Cosa sta accadendo?» Elena abbassò il capo: «Questa è la prima volta che ti vedo» disse «dopo tutti questi anni. Non ti ho mai vista prima né ti ho mai fatto dire che la fine di Menelao
era prossima... Il re... sta bene». Klitemnestra indietreggiò fino a cercare appoggio contro il muro. Si guardava intorno confusa e spaventata, come se cercasse scampo da una minaccia incombente. Elena continuava con voce ferma, appena incrinata dall’emozione mentre le lacrime le scivolavano dolcemente sulle guance: «Non sono mai andata a Troia. In tutti questi anni sono rimasta nascosta a Delo, fra le sacerdotesse del santuario. Un piano di meravigliosa intelligenza, ideato da Ulisse e aiutato da un caso incredibile... Ma nessuno doveva conoscerlo eccetto Menelao e... Agamennone.» La voce le tremò questa volta: «Non ho potuto dirti nulla sorella, non mi hanno lasciato il tempo, né il modo. E ora tutto sta per compiersi. Non avranno pietà».
12
Mentre accadevano queste cose nella terra degli Achei il re Diomede avanzava con i suoi guerrieri nel cuore della terra di Hesperia. I Monti Azzurri erano un susseguirsi ininterrotto di gioghi boscosi, di vallate strette percorse da torrenti impetuosi che scorrevano fra grandi massi levigati e banchi di sabbia e di ghiaie splendenti. Vi crescevano per vasto tratto e per grandissime estensioni querce e faggi e aceri imponenti e un altro genere di piante dal tronco enorme e rugoso, e dai frutti pungenti come il dorso di un porcospino. All’interno maturavano una sorta di noci piatte prive di diaframmi. I radi abitanti della montagna le raccoglievano in autunno, le lessavano in caldere di bronzo oppure li arrostivano fra le braci del focolare e se ne nutrivano per tutto l’inverno. Abitavano capanne rotonde di pali e graticci intonacati di argilla coperte da un tetto conico retto da un grande palo centrale. Quell’unico ambiente era per loro sala di riunione, stanza dei banchetti e camera da letto per tutta la famiglia, di solito numerosa. Lamo figlio di Onchésto disse di avere assaggiato quei frutti da bambino quando un suo parente che commerciava con i Traci delle montagne gliene aveva portati in dono dentro a un sacco e anche Telefo, l’hittita, disse di conoscerli: crescevano abbondanti nella sua patria sulle montagne dove aveva le sorgenti il grande Halys e dove vivevano tribù selvagge che non si cibavano d’altro. Il Chnan non li aveva mai visti invece ma diceva ugualmente che il mondo, in fondo, è lo stesso dovunque. Sono gli uomini che lo abitano a renderlo diverso. Man mano che avanzavano gli uomini cercavano di procurarsi donne o comprandole o prendendole con la forza. Alcuni avevano anche preso delle bambine da cui si facevano servire in attesa che crescessero e potessero condividere con loro il letto. In questo modo, benché non pochi guerrieri fossero caduti nei combattimenti ingaggiati lungo il viaggio e nel corso delle tante imboscate il gruppo che si avventurava fra i monti non era inferiore di numero a quello che aveva risalito la corrente di Eridano. La marcia non era continua perché il re sembrava non avere una meta precisa né sembrava considerare il tempo che trascorreva. Dovunque i luoghi offrissero la possibilità di cibo e di alloggio gli Achei si fermavano anche a lungo. Si costruivano ripari usando le pelli degli animali che avevano predato nei villaggi o che avevano catturato con trappole e trascorrevano il tempo cacciando nei boschi e pescando nei fiumi. Dormivano su giacigli di foglie secche che facevano un gran rumore a ogni movimento ma il loro sonno era più tranquillo. Si erano lasciati alle spalle le paludi e la terra morente lungo le sponde di Eridano, la minaccia implacabile di Nemro. Molti di loro avevano delle donne e forse, presto, qualcuno avrebbe generato dei bambini. Ma non c’era fra di loro un solo uomo che pensasse
che quella sarebbe stata la loro vita. Non per questo avevano seguito il figlio di Tideo. Certamente il re consentiva loro quella vita perché si ritemprassero il corpo e lo spirito, perché riprendessero le forze ma un giorno avrebbero raggiunto una terra ricca e prospera, forse già abitata da un popolo forte e numeroso e avrebbero dovuto conquistarla con la lancia o perire. Due muli marciavano sempre al centro della colonna con la pesante cassa di legno che il re aveva portato da Ilio: questo significava che Diomede avrebbe fondato un giorno il suo regno e lo avrebbe reso invincibile. Per lungo tempo non vi furono combattimenti perché gli Achei erano quasi invisibili muovendosi in zone boscose e perché alcune delle donne si erano affezionate ai loro uomini e guidavano l’esercito per i sentieri più sicuri. Quando però si trovarono ad affrontare un passo montano dovettero espugnarlo con la forza perché il popolo di Nemro aveva già avvertito gli abitanti di quei luoghi. Gli Achei risalivano un torrente fin quasi alla sorgente sotto a una grande montagna dalla forma di piramide ma il valico era occupato da un folto gruppo di guerrieri. Le donne dissero che erano Ambron, un popolo forte e molto combattivo che abitava una terra selvaggia e stupenda fatta di monti aspri e di mare profondo e cupo. Si procuravano il sostentamento tagliando i boschi con pesanti scuri di bronzo e ricavando pascoli per le loro greggi e terra per le loro coltivazioni. Quelli di loro che abitavano sulla costa sfidavano coraggiosamente le onde per gettare le reti e vivevano soltanto dei pesci che pescavano bevendo l’acqua dei torrenti che dai monti scendevano precipiti al mare. Telefo, l’hittita, si presentò al re Diomede pregandolo di ascoltarlo perché gli Achei non erano abituati a combattere in alta montagna, né avevano l’ armatura per farlo, ma lui sì. Lui aveva combattuto cento volte contro i sanguinari Kardaka del Monte Toros e dei Monti Urartu. «Bisogna dividere la colonna in più parti e ogni gruppo deve salire in silenzio e di nascosto» disse. «Il re di Argo non si nasconde. Affronterò quei selvaggi a viso aperto e i miei compagni faranno lo stesso.» «Se lo fate sarete fatti a pezzi. Loro sono numerosi e conoscono il terreno. Sono in posizione favorevole ma soprattutto non gli interessa nulla né della gloria né dell’onore. Gli preme solo cacciarvi via perdendo il meno uomini possibile.» «Come lo sai? Non sei mai stato in questi luoghi» chiese il re. «Sono poveri e i poveri sono uguali in tutto il mondo. Ascoltami, wanax, io ho combattuto in Egitto, Amurru, Babel e anche sui Monti Toros e sui Monti Urartu e anche contro di voi a Vilusya. Solo i popoli ricchi hanno capi che vogliono battersi in campo aperto fronte a fronte per guadagnarsi gloria e prestigio. I popoli poveri vogliono solo sopravvivere. Per questo sono più temibili: non hanno niente da perdere. Schiera i tuoi uomini su quattro file, fai squillare le trombe e lanciali in attacco frontale: uno su cinque arriverà in cima se sarai fortunato. Vi schiacceranno con valanghe di massi, vi bersaglieranno di frecce e di giavellotti e alla fine, quando vi avranno decimati, loro ancora freschi, voi stanchi e feriti, vi
affronteranno in corpo a corpo. Qui non c’è codice d’onore, le regole le fanno loro.» «L’hittita ha ragione, re. Dagli ascolto» disse il Chnan. «Lui ha combattuto molte volte in montagna. Sa quello che dice. Ascoltalo perché già una volta ti ha salvato.» Il re ebbe un moto di collera anche se la vita che viveva con i suoi uomini aveva da tempo attenuato le manifestazioni del suo rango perché le parole delChnan gli suonavano come una frustata. Non poteva sopportare che due servi rinfacciassero a un re un credito di quel genere. Li licenziò con un gesto secco che non permetteva altre insistenze. «Restate indietro con le donne se la pensate così» disse. «Non ho bisogno di voi.» Chiamò Mirsilo e gli indicò i nemici attestati sulla cresta: «Non abbiamo modo di passare se non di qua» disse. «Dobbiamo espugnare quel passo. Schiera gli uomini su quattro file e riduci al massimo lo spazio tra uomo e uomo: quei selvaggi devono vedere un muro di scudi che avanza verso di loro. Non possono avere armi in grado di perforare il nostro bronzo. Poi fa suonare la tromba: vi guiderò io.» Il terreno boscoso si diradava poco più avanti al cominciare della salita lasciando spazio sufficiente per lo schieramento ma lungo l’erta il prato era pur sempre disseminato di alberi più radi. Mirsilo schierò gli uomini e quando lo schieramento fu completato il re si mise sul lato destro e diede ordine di far squillare le trombe. Le trombe squillarono e il clangore echeggiò per la valle e sulle pareti scoscese della montagna. Il re gridò: «ARGO!» Gli uomini gridarono: «ARGO!» E l’armata si mosse a passo uguale in formazione serrata verso il valico. Mirsilo notò un certo ondeggiamento fra i nemici accalcati sulla cresta e disse a Diomede: «Li abbiamo spaventati: fuggiranno prima che arriviamo in alto.» E infatti, qualche tempo dopo molti di loro sparirono come se si fossero allontanati. Anche il Chnan pensò che fuggissero e disse a Telefo: «Questa volta ti sei sbagliato, hittita, quelli se la svignano» ma non ebbe tempo di finire la frase che la cresta fu di nuovo gremita di uomini. Gli Achei erano ormai abbastanza vicini da veder che molti di loro erano armati di scuri. Con quelle si gettarono verso certi punti del passo dove c’erano fitti cespugli che nascondevano il terreno. Lì calavano grandi colpi con le asce e subito si udivano prima dei secchi crepitii e poi un rumore di tuono e centinaia di pietre liberate d’improvviso da un qualche involucro che le tratteneva precipitarono a valle.
Telefo che non aveva nemmeno risposto per non perdere un istante di quanto avveniva sotto i suoi occhi era già pronto a gridare e urlò: «Dietro agli alberi! Wanax! Dietro agli alberi! E a terra, sotto gli scudi!» E mentre gridava si lanciò in avanti. Diomede si rese conto che stava per distruggere per la sua stoltezza i compagni che lo avevano seguito fin là e gridò quasi all’unisono: «Dietro agli alberi, uomini, riparatevi dietro agli alberi! E a terra, sotto gli scudi!» Il fronte si dissolse, gli uomini si gettarono verso l’albero più vicino o arretrarono di corsa per trovarne uno. Chi ne era troppo distante si appiattì al suolo coprendosi con lo scudo. I meno rapidi furono investiti in pieno, travolti, maciullati. Altri, benché si fossero riparati rimasero feriti; altri ancora, colpiti di rimbalzo da un masso enorme, rimasero schiacciati sotto lo scudo, come quando una tartaruga è sfracellata dentro al suo guscio dalla ruota di un carro e il sangue e i visceri schizzano fuori sulla polvere della via. Appena la valanga fu passata il re diede ordine di ripiegare verso il bosco e di portarsi dietro i feriti. Gli uomini obbedirono ma i nemici li bersagliarono in quel momento con una gragnuola di sassi lanciati con le fionde e con frecce. Altri furono colpiti e arrancarono contusi e perdendo sangue verso il più vicino riparo. Mentre Diomede arretrava vide disteso a terra, Telefo, il servo hittita, che buttava sangue dalla bocca. Si era gettato di corsa in avanti per aiutare Diomede e i suoi guerrieri a salvarsi e un masso della valanga liberata dagli Ambron, lo aveva colpito in pieno petto. Incurante dei dardi e degli altri proiettili che gli piovevano attorno Diomede si chinò su di lui e fece per sollevarlo fra le braccia ma l’uomo gemette di dolore. «Sono spacciato...» disse «fottuto per salvare un pugno di Ahhijawa disperati... stupido... stupido...» Rantolava. Il re gli alzò il capo: «Perdonami, amico, sono stato io stupido. Stupido e cieco» «Comandante...» disse l’hittita. «Sono comandante di uno squadrone di carri hittita. Chiamami comandante...» «Sì, comandante...» disse il re. Mirsilo si era precipitato intanto al suo fianco e lo proteggeva con lo scudo dai lanci dei nemici. «Fai quello che ti dico, Ahhijawa, o vi faranno tutti a pezzi e non varrà a salvarti quel dio che ti porti dietro.» Ogni parola gli sollevava il torace ed ogni movimento del petto gli procurava un dolore lancinante. «Sto crepando, Ahhijawa, ho il diritto che tu faccia quello che dico. Non voglio crepare per nulla.» «Sei tu il comandante» disse Diomede. E non prestava nessuna attenzione a Mirsilo che diceva: «Andiamo, wanax, andiamo o moriremo anche noi!» L’hittita si puntellò sui gomiti: «Richiama tutti gli uomini e fate finta di scappare, di ritirarvi. Fate rumore come se marciaste verso la valle...» «Lo farò» disse il re. E lo scudo di Mirsilo crepitava sotto i tiri di fionda come investito dalla grandine. «Attendete la notte e dividetevi in piccoli gruppi... poi salite... salite verso il passo da ogni direzione verso due... due o tre punti di raduno... in silenzio. Osserva come sono disposti i nemici... e poi... e poi...»
«Ho capito,» disse il re «ho capito. Non ti affaticare, non dire altro.» Con il lembo della veste gli asciugava il sudore che scendeva copioso dalla sua fronte. «Se avessimo potuto schierare i nostri squadroni di carri a Vilusya vi avremmo ricacciati in mare... Ahhijawa...» disse ancora rantolando. «Sì...» disse Diomede. «Forse sì, amico mio.» L’hittita lo guardò fisso e un sorriso strano gli si disegnò in volto: «Il tuo mondo non esiste più... Ahhijawa... lo capisci questo? Cambia o perirai... e io sarò crepato per nulla... io... io...» si abbandonò senza vita. «Andiamo, wanax!» gridò ancora Mirsilo. «Non c’è più tempo!» «No» gridò il re. Non lascerò che i nemici si impadroniscano del suo cadavere e prendano le sue spoglie.» «Ma non hai capito quello che ti ha detto morendo?» gridò ancora Mirsilo. «Il nostro mondo è finito, finito! Dobbiamo salvarci, re, dobbiamo solo salvarci!» Diomede vide per la prima volta i suoi occhi pieni di disperazione. «Lui ti direbbe di abbandonarlo, se potesse, perché non c’è più nulla da salvare se non la tua vita per i tuoi uomini. Andiamo, wanax! Andiamo!» Diomede si alzò e corse verso il bosco e Mirsilo lo seguiva alzando dietro di lui lo scudo perché il re di Argo non fosse colpito, perché non esalasse lo spirito in una pietraia desolata per mano di selvaggi senza nome. Ordinò a tutti di nascondersi e poi di fingere di allontanarsi: scuotevano gli arbusti lungo il sentiero che portava a valle così che i nemici li vedessero e si convincessero che se ne andavano. Quando venne la notte il re divise gli uomini che gli erano rimasti in tre gruppi: uno al suo comando, uno al comando di Mirsilo e un terzo al comando di Eveno. Si spogliarono dell’armatura e portarono con sé solo la spada, il pugnale e l’arco con la faretra, poi salirono separatamente in mezzo al bosco fino al punto in cui gli alberi si diradavano. Da lì in poi procedettero strisciando sul terreno, a piccoli tratti. Correvano a volte nascondendosi subito dietro un albero o dietro un masso, cercando in ogni modo di non farsi vedere, di non fare il minimo rumore. Mirsilo fu il primo ad arrivare in cima, secondo giunse Diomede e terzo Eveno. Quando Mirsilo si affacciò alla cresta vide che gli Ambron avevano lasciato una decina di guardie sul valico mentre gli altri riposavano sotto un grande riparo roccioso. Fece cenno ai suoi uomini e questi strisciarono uno dopo l’altro alle spalle delle sentinelle che sonnecchiavano appoggiate alle rocce. Poi, a un suo nuovo segnale ognuno balzò dall’oscurità brandendo il pugnale: nessuna delle guardie si salvò, nessuno fece in tempo a emettere un solo gemito. Diomede si portò con i suoi in cima al riparo roccioso, Eveno di fronte e Mirsilo di fianco, precludendo ai nemici la via del ritorno. Al segnale di Diomede tutti incoccarono la freccia e tirarono nel mucchio addormentato. Le grida dei feriti svegliarono tutti gli altri ma già la seconda e la terza ondata di frecce fendevano la notte seminando ancora il terreno di morti e di feriti che si dibattevano urlando. Le urla generavano panico e confusione ma gli aggressori erano al sicuro e ben piantati a prendere la mira. Li aiutava anche un poco di luna che si faceva strada fra le nubi. I colpi che giungevano da ogni parte e anche
dall’alto disorientavano gli Ambron che non riuscivano a capire da dove giungesse l’aggressore. Si diedero dopo un poco alla fuga, correndo a precipizio giù per la valle, ma per tutta la notte la loro presenza nei boschi era segnalata da continui richiami, da grida, da lamenti lontani. Alle prime luci dell’alba gli Achei raccolsero i corpi dei compagni e li seppellirono. E con loro Diomede seppellì anche Telefo, il servo hittita, che un giorno era stato comandante di uno squadrone di carri nelle pianure dell’Asia ed era venuto a morire in un luogo remoto, lontano dalla sua patria che tanto aveva sperato di rivedere. Il Chnan stava in disparte seduto su un masso e masticava un filo d’erba guardando il cielo che s’illuminava sempre di più. Quando gli uomini ebbero finito di seppellire i morti il Chnan si avvicinò alla fossa dove era sepolto Telefo. Prese un pugno di terra fra le mani e la lasciò scorrere fra le dita: «Testardo di un hittita» diceva. «Testardo... È un posto questo per morire? Adesso dovevi lasciarmi, proprio adesso che cominciavo a sperare...» Strappò un fiore di montagna dal colore azzurro intenso e lo appoggiò sul tumulo poi si tolse di sotto le vesti una fibula di bronzo con vaghi di corallo e di ambra e la seppellì sotto terra. «È tutto quello che posso darti: lo sai che mi servono queste cose... e adesso dormi, Telepinu; dormi, comandante. Qui c’è aria buona e sole e vento: in fondo è un posto meglio di tanti altri. Io devo continuare la mia strada finché non troverò ancora il mare e una nave. Era destino, un marinaio e un montanaro: un’amicizia impossibile... Se mai ti raggiungerò dove sei tu ora, io sarò bagnato fradicio e coperto di alghe, lo sento... e puzzerò di pesce marcio e di acqua salata...» Mirsilo diede il segnale della partenza e il Chnan si volse indietro un’ultima volta: «Non mi hai mai chiesto il mio nome» disse. «Se dovessimo trovarci un giorno nel mondo buio non sapresti nemmeno come chiamarmi... Ce ne saranno tanti di Chnan anche laggiù... Be, amico, il mio nome è Malech... Malech. Ricordatelo.» Ripresero il cammino tenendosi a mezza costa sulla cresta montagnosa e presero verso meridione. Una delle donne disse: «Questa via percorre la schiena dei Monti Azzurri per trenta giorni di cammino fino alla terra delle Montagne di Fuoco» «Che cosa significa?» chiese uno degli uomini e Mirsilo che marciava accanto ascoltando attentamente. «A quanto ho sentito dire,» disse la donna «in quei luoghi vi sono montagne da cui sgorgano fiumi di fuoco che tutto divora nella pianura, montagne che scagliano turbini di fiamme verso il cielo e tutto intorno il mare ribolle come una caldera sul fuoco e a volte la terra trema fino dalle profondità e si spacca lasciando uscire fumi pestiferi che fanno cadere morti gli uccelli del cielo.» Mirsilo raggiunse il re che marciava in testa in silenzio. «Wanax,» disse «quella donna che cammina in mezzo alla colonna sta parlando della terra delle Montagne di Fuoco che sta in fondo a questo cammino... a trenta giorni di marcia... Io credo che stia parlando della terra dei Ciclopi. Ne ho sentito
parlare da uomini che avevano navigato molto lontano dalla nostra terra... È un luogo inaccessibile: di notte dal mare si vedono fiammeggiare i loro occhi infuocati, si odono le loro grida selvagge. Essi divorano coloro che il mare spinge alle loro spiagge deserte... Lo so che non li temi, che non temi né uomini né dei, né mostri della terra e del mare e sai che io sono pronto a seguirti dovunque, anche alle Montagne di Fuoco, anche alla terra dei Ciclopi ma ti prego, dammi ascolto: io credo che sia giunto il momento per noi di fermarci appena avremo trovato un luogo che ci consenta di vivere. Abbiamo donne e altre ne prenderemo... Possiamo costruire una città e delle mura, stabilire un’alleanza con i popoli vicini. Abbiamo perso altri compagni espugnando quel passo, uomini coraggiosi, forti con la lancia e con la spada. Quanti altri ne perderemo se continueremo in questo modo? E anche tu hai una sposa... Fermati e genera un figlio perché questa terra lo nutra e lo senta come suo... Noi siamo stranieri...» Il re non si volse e continuò il suo cammino. Marciarono lungo la cresta dei monti per tutto il giorno, fino al tramonto, lasciandosi indietro i compagni perduti, lasciandosi indietro Telefo, il servo che era morto da guerriero, da comandante quale era sempre stato. Il re avanzava col capo basso in testa a tutti e per la prima volta i suoi uomini lo vedevano piccolo nell’immensità dei monti e del cielo, lo sentivano perduto in quella terra labirintica e boscosa dove ogni valle poteva nascondere nuove insidie, dove a perdita d’occhio non si vedevano luoghi che potessero sostentare una città, offrire campi da coltivare e una pianura che giungesse al mare, a un porto da dove le navi potessero ripartire, allacciare contatti con altre genti, stabilire commerci. Solo, di tanto in tanto, villaggi di capanne abitati da pastori che si ritiravano impauriti nei boschi al loro passaggio. Alcuni cominciavano a invidiare coloro che erano rimasti ad Argo. Forse non era accaduto loro nulla, certamente avevano raggiunto le loro famiglie e ora sedevano a mensa con i figli e la moglie, mangiavano pane fragrante e bevevano vino rosso e forte. E quando si alzavano il mattino vedevano le mura e le torri di Argo, la città più bella e più amabile. E sembrava che il re fosse stato anche abbandonato dagli dei. Dov’era Atena che dicevano gli apparisse in forme umane, che gli parlasse? Dov’era la dea che era salita con lui sul carro da guerra nella piana di Ilio, guidando i cavalli come il suo auriga? Il re avanzava solo e a capo basso come se avesse perduto la strada, come se non avesse più una meta. Qualcuno diceva che forse passando attraverso le teste bruciate aveva ceduto, senza saperlo, la sua forza interiore, il suo coraggio indomabile. Si accamparono in una piccola valle chiusa fra i boschi presso un lago dalle acque limpidissime. In mezzo al lago c’era un’isoletta collegata alla riva da un istmo sottile e semisommerso e su quella un albero solo e gigantesco. Diomede raggiunse la riva del lago e si sedette su un masso: sembrava contemplare il grande albero che stendeva le Chiome a coprire l’isola.
La sposa delle Montagne di Ghiaccio lo raggiunse. Aveva un nome ora, Ros, e aveva appreso la lingua degli Achei. Gli si avvicinò leggera alle spalle. Lui la sentì ma non si volse. Disse: «Ti ho rapita al tuo sposo perché pensavo che avrei fondato un regno in questa terra per me e per i miei compagni, che avrei costruito una città e l’avrei resa invincibile. Pensavo, quando ti vidi, che tu sola avresti potuto cancellare dalla mia mente e dalla mia carne il ricordo della sposa che mi ha tradito... Egialea... Ma ora le forze mi abbandonano, il mio cammino diventa interminabile e senza speranza. Ti ho rapita per nulla allo sposo cui eri promessa». «Nemro» disse lei. «L’ho visto soltanto una volta, e gli ho tenuto la mano nel momento in cui dovevo diventare la sua sposa. Ho pianto quando l’hai ucciso, ma forse... forse avrei pianto per te se egli ti avesse ucciso, allo stesso modo. Ho pianto la giovinezza stroncata prima del tempo, il giorno che si oscura prima di giungere al meriggio. Altro non potevo; una donna non può scegliere a chi legare la sua vita. Ma tu sei il mio destino ora, tu dormi accanto a me tutte le notti.» Diomede si volse e la guardò sotto la luce della luna. Era giovane e perfetta nelle povere vesti che la ricoprivano. Se avesse potuto indossare abiti regali avrebbe potuto sedere sul trono di un regno potente, nella terra degli Achei. «Io vorrei essere l’uomo che attendi con trepidazione nel letto prima che egli giunga e si corichi accanto a te, vorrei dopo l’amore, sentire le tue braccia che mi stringono, il tuo corpo che mi scalda. Il freddo mi assale quando lascio il tuo grembo e tu ti volgi dall’altra parte per prendere sonno. Ho freddo, Ros...» «Ma la stagione è calda e le notti sono miti.» «È il freddo che prende gli uomini che temono di morire.» «Tu non hai paura di morire. Ti ho visto molte volte batterti come se la vita non avesse per te alcun valore. C’è un dolore dentro di te che non riesci a vincere, una ferita che non guarisce. Era dunque così splendida la tua regina? Così bello il suo seno e il suo grembo così ardente? Io mi volgo dall’altra parte perché è a lei che pensi, è lei che sogni nella notte. È vicino a lei che vorresti svegliarti. Dimentica Argo e dimentica lei se vuoi conquistare questa terra e incominciare un’altra vita. Dimentica ciò che è stato altrimenti perderai tutto: i tuoi compagni, questa terra, me stessa, se di me ti importa. Le tue notti si faranno sempre più fredde, finché un giorno avrai terrore di addormentarti, di chiudere gli occhi.» Il re le tese le mani e alla fanciulla sembrò che un lieve tremito le facesse fremere: «Aiutami» Le disse e i suoi occhi ardevano, nell’ombra, di febbre e di dolore.
Avanzarono ancora per molti giorni allontanandosi dal territorio degli Ambron. Udivano talvolta in lontananza il suono dei loro corni: era come se li osservassero continuamente dall’alto senza più osare di affrontarli. «Hai un nome, dunque» disse Mirsilo alChnan una sera mentre gli uomini preparavano il campo. «Ti ho sentito quando parlavi da solo su quel valico che abbiamo espugnato.» «Non parlavo da solo. Parlavo al mio amico hittita, morto per salvare il tuo re.»
«Malech. Perché non l’hai mai detto?» «Perché mai? Non sarebbe cambiato nulla. Io non vivrò il resto della mia vita con voi. Quando me ne sarò andato, qualunque fosse il mio nome voi continuereste a dire “il Chnan” e avreste ragione. Il mio nome non nasconde niente di importante. Non sono come Telepinu che voi chiamavate Telefo e che era comandante di uno squadrone di carri da guerra nella terra degli Hittiti prima di essere schiavo. Nella mia terra tutti sono come me: vanno sul mare trasportando mercanzie da scambiare con altre merci. A Keftiu, in Egitto, a Tarshish, dappertutto. Anche i nostri re commerciano, con altri re, e tirano sul prezzo quando comprano e imbrogliano quando vendono. Gli Achei delle isole ci chiamano Ponikjo perché le nostre navi hanno vele rosse. Tutto qui. Non facciamo guerre se proprio non è indispensabile e ci teniamo la nostra terra piccola e povera stretta fra i monti e il mare...» «Un luogo dove tornare... Noi l’abbiamo perduto. Ma il nostro re ci darà una patria nuova. Queste montagne aspre finiranno e si aprirà davanti a noi una bella pianura, salubre, ricca di pascoli, circondata dai colli, aperta da un lato verso il mare. Lì costruiremo una città e la cingeremo di mura.» «Stai cercando Argo. Il luogo che hai descritto è Argo.» «L’hai vista?» disse Mirsilo. E i suoi occhi brillavano come quelli di un fanciullo. «Sì. Come quasi tutte le vostre città. Ma devi dimenticarla. Non troverai qui nulla che le assomigli.» Mirsilo si rabbuiò: «Vado a disporre la guardia» disse e si allontanò verso un’altura che dominava la valle. Dall’altra parte del campo il re Diomede conduceva al pascolo i suoi cavalli ed essi lo seguivano docilmente e mangiavano l’erba dalle sue mani. Mirsilo scese lungo la costa per vedere meglio che cosa c’era oltre il poggio boscoso che limitava la sua vista verso oriente e quando il territorio gli si aprì davanti da quella parte si gettò subito a terra nascondendosi dietro un masso. Una lunga fila di guerrieri percorreva la valle seguita da carri e da animali da soma. Si batté un pugno sulla coscia: il cammino di quella gente si dirigeva verso la valle che anch’essi avrebbero dovuto percorrere muovendo verso mezzogiorno. Ed era una strada che non avrebbero potuto percorrere insieme. Stette ancora a lungo a osservarli e a cercare di contarli. Erano molti. Troppi. «Sheqelesh» disse una voce alle sue spalle. Il Chnan lo aveva seguito. «Conosci quella gente?» chiese Mirsilo. «Sì. Ma non riesco a capire cosa fanno qui. Non è la loro terra. Abitano la Libia e molti di loro sono migrati in una grande isola con tre promontori e la contendono agli antichi abitanti, i Sikanie.» «Tu conosci il mondo e tante genti...» disse Mirsilo senza distogliere lo sguardo dalla colonna in marcia. Io non mi sono mosso mai da Argo se non per andare alla guerra. E una volta là non mi sono mai mosso dall’accampamento.» Mentre ancora parlava vide che la colonna rallentava la sua marcia fino a fermarsi e poi vide un affaccendarsi attorno ai carri: si preparavano a fermarsi per
la notte. Piccoli gruppi si appostavano sulle alture circostanti la valle come per prevenire insidie e proteggere il grosso delle loro forze che piantava le tende in uno slargo della valle presso la riva di un torrente. «Sono sulla nostra strada,» disse Mirsilo «dovremo avvertire il re e chiedergli che cosa decide di fare.» «Mi sembra strano che si siano spinti tanto nell’interno» rispose il Chnan «Forse si sono insediati sulla costa in un posto privo di sostentamento e quindi hanno mandato questo gruppo all’interno per predare bestiame o donne, o tutte e due le cose. Ecco, vedi laggiù?» e indicò un luogo in fondo alla colonna «ci sono delle greggi di pecore e anche del bestiame grosso.» «Credo che tu abbia ragione» disse Mirsilo. «Forse domani torneranno indietro e non ci daranno fastidio.» «Ma potrebbero anche proseguire. E in questo caso dovremmo decidere se vogliamo attaccarli o lasciarli passare o cambiare noi il nostro itinerario.» Mirsilo restò un poco in silenzio a meditare poi disse: «Se ne prendiamo uno o due, potremmo farli parlare e sapere che intenzioni hanno. Non voglio che il re lanci gli uomini all’attacco, non possiamo subire altre perdite.» «Stai diventando saggio,» disse il Chnan «forse c’è speranza che ci salviamo.» «Aspettami qui,» disse Mirsilo «torno fra poco. Non farti vedere e non ti muovere.» Si allontanò quasi strisciando a terra e raggiunse i compagni. Ne scelse tre, Eupite, Eveno, Krissos e disse loro di scegliere ognuno altri tre uomini e di seguirlo senza farsi notare portando soltanto arco e pugnale. Avanzarono isolati, passando da un riparo all’altro con mosse rapide e silenziose e Mirsilo pensava a come quella terra strana li aveva cambiati, a come era lontano il tempo in cui si schieravano in campo aperto scudo contro scudo ed elmo contro elmo attendendo lo scontro con il nemico schierato di fronte nello stesso modo. Il Chnan gli indicò un punto a mezza costa davanti a loro: «Li vedi? Sono tre e si stanno sistemando sotto quella sporgenza di roccia. Li vuoi tutti e tre o uno soltanto?» «Uno ci basterà, credo.» «Allora, appena farà scuro manda un uomo al campo a prendere del fuoco.» Mirsilo diede ordine perché si facesse ciò che il Chnan aveva richiesto e intanto rimaneva al suo fianco a osservare i treSheqelesh che si erano seduti sotto il riparo e sembravano parlare fra di loro. Ogni tanto uno si alzava e camminava un poco guardandosi intorno. Appena fu scesa l’oscurità, però, nessuno più si mosse e appena si potevano distinguere le loro sagome confuse contro il biancheggiare della roccia. Il Chnan spiegò a Mirsilo ciò che intendeva fare poi prese le braci che uno degli uomini gli aveva portato dentro a un vaso di coccio, si allontanò di un poco e cominciò ad accendere un fuoco. Passarono pochi istanti e Mirsilo notò che i treSheqelesh avevano visto il bivacco. Si alzarono e si consultarono fra di loro poi uno si diresse cautamente verso il fuoco, strisciando al buio. Mirsilo lo seguiva attentamente con lo sguardo e con l’udito cercando di percepire i piccoli rumori
provocati dai suoi spostamenti. Quando fu abbastanza vicino al fuoco Mirsilo dispose gli uomini alle sue spalle in modo da precludergli ogni via di fuga e quando l’intruso fece per tornare indietro gli balzarono addosso e lo immobilizzarono puntandogli un pugnale alla gola. Non fiatò e non si mosse, rendendosi conto che a un suo minimo movimento il pugnale gli avrebbe tagliato il collo. Lo trascinarono in un luogo riparato fuori dalla vista dei suoi compagni e anche dell’accampamento degli Achei. «Capisci la mia lingua?» gli chiese il Chnan in cananeo. Il prigioniero scosse la testa e accennò di sì. «Bene» riprese il Chnan «Lo so che ci capite anche se a volte fate finta di no. Ti sarai reso conto che questi miei amici ti taglieranno la gola se solo cercherai di farti sentire dai tuoi. Ma se ci dirai quello che ci interessa ti terremo con noi per un poco e poi ti lasceremo andare. Non vogliamo la tua carcassa.» Il prigioniero lasciò uscire un sospiro di sollievo fra i denti. «Allora, da dove venite? Dalla Libia o dall’Isola dei tre promontori?» «Dalla Libia. Abbiamo seguito il re Mauroy contro il re d’Egitto ma siamo stati sconfitti e il vento ci ha spinti fino al golfo settentrionale.» Il Chnan fece cenno all’uomo che teneva il pugnale di alleviare la pressione in modo che il prigioniero potesse parlare un po’ più liberamente. «Dove andate?» Il Sheqelesh sembrò esitare un momento ma vedendo il cenno del Chnan all’uomo che teneva il pugnale si affrettò a rispondere: «Abbiamo costruito una città sulla costa vicino ad un luogo che chiamano “Il Gomito” ma il nostro capo vuole scoprire se dall’interno si può raggiungere l’Isola dei tre promontori.» «L’Isola dei tre promontori? Ma è molto lontana verso mezzogiorno.» «Forse non tanto lontana...» disse il Sheqelesh torcendo un poco il collo. «E perché vorreste raggiungere l’Isola dei tre promontori?» «Perché c’è la nostra gente laggiù. Qui non sappiamo se riusciremo a sopravvivere. Ma non avevamo scelta. Abbiamo attraversato il mare e siamo incappati in una tempesta, quasi tutte le nostre navi sono andate distrutte sulle secche e sugli scogli. Abbiamo perso gli attrezzi, le provviste. Non possiamo ricostruirle e nemmeno ripararle.» «Borrhà» disse il Chnan, come parlando fra sé e sembrava quasi che il pensiero che gli attraversava la mente gli desse una strana soddisfazione. «Cosa ci facevate nel golfo settentrionale?» insistette. «Ci ha spinti il vento dopo la grande battaglia e abbiamo percorso la costa orientale per trovare cibo.» «E ne avete trovato?» Il Sheqelesh scosse la testa: «Niente. Solo villaggi abitati da pastori che scappavano con le loro pecore sulle montagne appena ci vedevano. L’unica nave che abbiamo incrociato era vuota: solo acqua, pesce secco e un po’ di grano.»
«Ti capisco, amico» disse il Chnan con un tono più confidenziale quasi per mettere il suo ospite a suo agio. L’uomo ne fu contento e abbozzò un mezzo sorriso. «Peleset, immagino. Ne abbiamo visto qualcuno anche noi da quelle parti.» «No. Ahhijawa» disse. Mirsilo ebbe un fremito ma il Chnan gli afferrò il braccio nell’ombra per fargli capire che doveva tacere e non fare una mossa. «Ah,» disse «quei bastardi. Ne abbiamo trovati anche noi e ci hanno dato addosso. Dovevano essere affamati infatti. Spero proprio che gli abbiate dato una bella lezione. Erano parecchi?» «Altro se gliel’abbiamo data. No, era una nave sola e ha cercato di svignarsela verso meridione ma li abbiamo presi. Non se n’è salvato neanche uno se mi ricordo bene. Comunque è stata una faticata per niente. Erano un osso duro quelli. Si capiva che era gente che sapeva menare le mani. Dei guerrieri insomma e di quelli duri, non certo dei mercanti.» «Che cosa sai della terra che ci sta davanti?» chiese il Chnan indicando la dorsale montuosa che si estendeva ininterrotta verso meridione.«Poco o niente. Credo che più avanti ci siano dei Tersh che ci hanno preceduti. Ne abbiamo trovato qualcuno nei villaggi. Gli abitanti di queste valli ne avevano catturato qualcuno mentre andavano in giro a caccia o a pascolare i cavalli e se lo sono tenuto come servo.» «Tersh...» mormorò il Chnan sbalordito «Tershnella Terra della Sera.» Il Sheqelesh sembrava sollevato e guardava il suo interlocutore come se attendesse da lui il permesso di potersene tornare al campo: «Perché non mi lasci andare?» disse. «Io non ho altro da dirti che ti possa interessare.» «No» disse il Chnan «Credo di no.» E guardò Mirsilo. Il guerriero acheo aveva gli occhi pieni d’ira e la mano rattrappita sull’impugnatura della spada. Il Chnan volse il capo dall’altra parte mentre la spada di Mirsilo tagliava netta la testa del prigioniero. «Gli avevo promesso che lo avrei risparmiato» disse il Chnan alzandosi in piedi. «Io non ho promesso niente» disse Mirsilo. «Ha ucciso i nostri compagni... ha ucciso Anchialo. Il messaggio del re non giungerà mai nella nostra terra. Gli invasori giungeranno inaspettati... sarà un massacro... le nostre città... le nostre terre...» «Non è detto» disse il Chnan «Non è detto. Sarebbe un caso incredibile. Forse ci sono altri Achei nel golfo settentrionale... forse. Credi che non vi siano altri pazzi della tua razza che vagano su quelle onde inospitali? Ci sono dei Tersh da quella parte, ti rendi conto? dei Tersh nella Terra della Sera.» Si incamminarono lentamente verso il campo senza perdere di vista la valle dietro di loro. Quando furono vicini Mirsilo si fermò: «Dicono che i Troiani chiesero aiuto anche a loro quando formarono la grande coalizione di Assuwa.» Eveno che li seguiva da presso disse: «Ma loro rifiutarono. Temevano che noi avremmo devastato le loro città della costa. Questo ho sentito dire».
Il Chnan si fermò a sua volta e si volse indietro in direzione della valle facendo cenno a tutti di fare silenzio. Nessun rumore veniva da quella parte: «È vero» disse poi. «Eppure hanno dovuto aderire ad un’altra ben più grande coalizione, quella del re Mauroy di Libia contro l’Egitto per sfuggire alla fame, alla penuria dei raccolti. Hanno perso e la loro nazione è distrutta. Quelli che abbiamo davanti sono probabilmente dei disperati come noi... come iSheqelesh Ho sentito dire che il re dei Tersh , dopo la sconfitta, se ne tornò al suo paese, in Asia, e lo trovò devastato da una carestia ancora più terribile. Decise dunque che uno dei suoi due figli partisse con una metà del popolo superstite. Tirò a sorte e toccò al secondogenito che si chiamava Tyrrhens, quello che il re amava più teneramente. Questo si diceva l’ultima volta che salpai dal porto di Tiro con il vento favorevole...» «Tutti fuggono» disse Mirsilo. «Ma da che? Da che?» e guardava le nubi pallide che passavano nel cielo. «Dalla morte» disse il Chnan «Da che altro?»
13
Al calar della notte un cocchio con le insegne degli Atridi micenei giunse davanti all’atrio della casa del re e subito gli scudieri gli si fecero incontro e presero le briglie dei due stalloni argivi. Gli animali scalpitavano ancora eccitati per la lunga corsa nel buio e l’auriga, il nobile Pilade, li calmò accarezzandoli sul muso. Intanto il principe Oreste scese e si addentrò nella corte vasta e scura, circondata da un grande colonnato, appena illuminato dalla luce delle lampade. La sua figura snella sembrava perdersi nel grande spazio vuoto che risuonava dei suoi rapidi passi. All’ingresso del palazzo, assistito da uno dei figli, lo attendeva il capo della casa Ippaso, che un tempo era stato il lawagetas quando Atreo regnava su Micene. Accanto a lui era la nutrice del re, Marpessa. Era molto vecchia, molto avanti negli anni, ma non le avevano tolto il governo della casa. Aveva ancora autorità sulle ancelle e sui servi e li governava con polso fermo. «Il re tuo zio e la regina ti attendono per la cena» gli disse Ippaso e ordinò che la lancia e la spada del giovane fossero riposte nell’armeria. «Sono impazienti di vederti e di abbracciarti. Ma ora segui la nutrice che ti condurrà al bagno e ti darà abiti freschi.» Marpessa lo baciò sulla fronte e sugli occhi: «Sei bello come il sole, figlio,» gli disse «ma puzzi di sudore e sei pieno di polvere. L’acqua è bollente, le donne non hanno mai smesso di far fuoco sotto il lebete perché non sapevamo quando saresti arrivato. Vieni, la principessa in persona ti farà lavare e preparare per la cena» Intanto si era avviata lungo un corridoio scuro con un passo più rapido di quanto ci si sarebbe aspettati per una donna della sua età e il giovane la seguiva. «Da quanto tempo non vedi tua cugina?» diceva. «Oh, credo che bagnasse ancora il letto l’ultima volta che l’hai vista. Ne è passato del tempo. Vedrai, è bella come la stella del mattino, bianca come la luna e ha occhi neri e ardenti come la madre e capelli di fiamma come il re suo padre.» Il giovane entrò nella camera del bagno e le ancelle gli si avvicinarono subito cominciando a spogliarlo. Appena si fu immerso nella vasca apparve la principessa Ermione, talmente bella che il giovane restò senza respiro e senza parole. «Benvenuto nella nostra casa» disse la fanciulla. «Ti aspettavamo con ansia. Spero che tu stia bene e che abbia fatto buon viaggio.» «Sto bene, Ermione,» disse il giovane «e sono felice di vederti. Mi avevano detto che eri bella come tua madre ma ora che ti vedo non trovo paragoni.» La fanciulla abbassò il capo con un sorriso poi si avvicinò, prese una spugna, la inzuppò d’acqua e gliela spremette sulla testa, sulla schiena e sulle spalle, mentre il giovane socchiudeva gli occhi e distendeva le gambe sul fondo della vasca di pietra assaporando il piacere della calda carezza dell’acqua. Ermione passò la spugna a una delle ancelle che riprese a lavare il principe e si sedette per sovrintendere al bagno dell’ospite come conveniva al suo rango.
«Lo sai?» disse poi. «Qualche tempo fa anche Telemaco, il figlio di Ulisse, si è bagnato in questa vasca. Era un giorno di festa: io stavo per partire, per andare sposa a Ftia in Tessaglia, da Pirro, con la mia dote. Lui arrivò dal Pilo, assieme a Pisistrato e lo ospitammo qui al palazzo: voleva notizie di Ulisse. Ma mio padre non poté dirgli molto. Gli offrì aiuto contro i pretendenti che invadono la sua casa ma lui rifiutò, disse che era certo che suo padre sarebbe tornato e li avrebbe tutti sterminati. È un bravo ragazzo Telemaco, gentile e buono. Pisistrato è diventato un suo grande amico e spero che un giorno troverà anche una sposa degna di lui.» «Se dovevi andare a Ftia, come mai sei ancora qui?» chiese Oreste con una certa ansietà nello sguardo. «Perché Pirro non è più là. Suo nonno Peleo non l’ha più voluto nella sua casa e lui è andato a Butrinto in Epiro. Per me sarebbe stato un viaggio troppo lungo e pericoloso. Partirò dopo, se vinceremo la guerra, e lui sarà giunto fin qui a prendermi.» Oreste non le toglieva gli occhi di dosso mentre lei parlava. Quando ebbe finito lui si alzò mentre le ancelle gli paravano dinanzi un grande telo di lino che Marpessa aveva preso da una cassapanca. Lo asciugarono e lo rivestirono di una veste fresca, molto bella, ricamata sull’orlo a colori vivaci. L’aveva indossata un giorno il fratello di Elena, Kastor, prima che gli dei lo chiamassero nella loro dimora. Oreste si volse verso la nutrice e disse: «Nonna, il principe Pilade avrà sciolto i cavalli a quest’ora e starà entrando nel palazzo. Vai anche da lui, per favore, e fagli preparare il bagno.» La vecchia annuì e si incamminò per il corridoio. Oreste si avvicinò a Ermione mentre le ancelle lo rivestivano e gli versavano profumo sui cappelli. Le sfiorò la guancia con una carezza leggera: «Se tu non fossi promessa», disse «io ti chiederei per me» La fanciulla ebbe come un leggero sussulto poi abbassò lo sguardo: «Lo pensi veramente?» disse. Il giovane la ricambiò con uno sguardo che valeva più di molte parole. Restò in silenzio a contemplarla poi disse: «Lo hai mai visto?» «No» disse la fanciulla. «Ma se vogliamo vincere questa guerra la sua forza è indispensabile. Così mi ha detto il re mio padre.» «La vinceremmo ugualmente» disse Oreste. «Il diritto è dalla nostra parte.» «Se Pirro combatterà con noi il conflitto sarà di breve durata. Il re pensa che così anche eviteremo il pericolo che altri lo inducano a schierarsi contro di noi. Con chiunque egli si schieri farà pendere la bilancia dalla sua parte. Chi lo ha visto combattere dice che è una furia invincibile. È come suo padre,» la voce le si affievolì un poco «ma... più feroce, più spietato.» Oreste le prese una mano e la strinse fra le sue: «Io ti terrei come una pietra preziosa» disse «come uva matura nella vigna...» Lo sguardo di Ermione tremò, gli occhi cupi e lucenti le si inumidirono: «Se la guerra sarà breve, vi saranno meno perdite, meno sangue, capisci? Ne è corso troppo, troppo.» Oreste tentò di dire ancora qualcosa ma la voce gli morì in gola. Ermione ritirò la mano, gentilmente, e si avviò verso la porta che dava verso i suoi appartamenti.
Prima di scomparire si volse verso di lui e lo salutò con uno sguardo. Alla luce incerta della lampade parve al principe di veder splendere una lacrima sulle sue guance d’avorio. «Non ti avrà» disse.
Sulla porta della sala delle udienze venne a riceverlo il re in persona, l’Atride Menelao. Lo affiancavano due guerrieri dell’esercito di Ilio perché di quelli soltanto si fidava. Gli si fece incontro e lo abbracciò stringendolo forte al petto poi lo precedette nella sala dei banchetti. Marpessa riapparve e diede ordine di portare le mense e il cibo e il principe cominciò a mangiare perché era affamato e il bagno gli aveva messo languore. «Il principe Pilade è con me» disse. «Lui guiderà l’esercito focese in battaglia al nostro fianco.» «Molto bene» disse il re. «Ippaso lo ospiterà questa notte nella sua casa e disporranno perché ogni cosa si compia nel migliore dei modi. Il re Nestore invierà dal Pilo i guerrieri che hanno combattuto a Ilio, al comando di Pisistrato, il più forte dei suoi figli. Dall’Epiro scende un altro esercito; lo conduce il figlio del Pelide, Pirro, legato a noi da un’alleanza e da un giuramento. Tu guiderai con me la carica dei carri, se oseranno affrontarci in campo aperto.» Oreste ascoltava ma il suo sguardo, a volte, sembrava perso nel vuoto. Quando ebbero finito di cenare il re fece sgombrare le mense ma fece restare il vino. «Tua zia, la regina,» disse Menelao «si dispiace per non essere venuta con me ad accoglierti alla porta ma ti fa sapere che ci raggiungerà fra poco.» Oreste si riscosse: si leggeva nel suo sguardo un moto di disagio, di imbarazzo malcelato. «Ti capisco» disse il re. «So a cosa pensi...» «Mia sorella Ifigenia... e mio padre sono morti anche per causa sua» disse il principe improvvisamente freddo. «Non è come pensi» disse il re. «Ed è giunto il momento che tu sappia. Per questo ti ho fatto venire.» Entrò in quel momento la regina e lo salutò: «Benvenuto in questa casa, figlio» Ma Oreste riuscì appena ad accennare un inchino con il capo. Si vedeva che quella presenza gli creava un disagio profondo, una dura sofferenza. «L’abito del mio amato fratello ti sta molto bene» disse ancora. E il suo sguardo era velato di tristezza e di rimpianto. «Non fu lei la causa» disse Menelao. «Lei fu anzi uno dei combattenti e forse dei più temibili.» Il giovane volse uno sguardo pieno di stupore alla regina che parve non accorgersene. Si sedeva in quel momento su una sedia e appoggiava i piedi su di uno sgabello elegante, decorato in avorio. Il principe scosse la testa smarrito. Il re si alzò, gli versò del vino nella coppa e lasciò che bevesse poi gli disse: «Alzati e seguimi.»
Oreste lo seguì senza capire ciò che stava accadendo. Prima di imboccare un corridoio si volse un attimo indietro a guardare la regina che sedeva, bella come una dea, e gli sorrideva. Raggiunsero poco dopo una sorta di ballatoio chiuso da imposte di graticci. «Vieni» disse il re. «Guarda.» Oreste si accostò al graticcio che lasciava filtrare un chiarore rossastro e guardò: c’era una stanza illuminata e c’era una fanciulla che suonava la cetra e cantava mentre altre tutto intorno filavano lana bellissima dai vividi colori. Al centro, seduta a un grande telaio, c’era una donna col capo coperto da un velo azzurro. Solo le mani si vedevano: lunghe e delicate, scorrevano veloci sulla trama passando l’aspo avanti e indietro. Si vedeva, intessuta nella parte superiore della tela, una scena di pace: un pastore che conduceva il suo gregge presso una fonte dalle acque azzurre. Tutto intorno campi coltivati e pascoli verdi. In basso una scena di guerra: una nave lasciava il porto e i guerrieri sedevano ai banchi impugnando i remi; partivano per portare distruzione al di là del mare. Dalla spiaggia le donne piangenti li salutavano e avevano il capo coperto da un velo nero come se seguissero un feretro. D’un tratto la cetra cessò di suonare, la voce dolcissima di donna si spense e le luci si affievolirono. La figura seduta al telaio si alzò, si volse, e apparve il volto divino di Elena di Sparta, la sposa dell’Atride Menelao. «Non è mai andata a Ilio» disse il re dietro di lui. «Non ha mai lasciato la terra degli Achei. In tutto il tempo che siamo stati in guerra è rimasta nascosta a Delo, coperta da un segreto impenetrabile.» «Io... Io non posso credere» disse il principe e i suoi occhi erano pieni di stupore. «Come è possibile? È forse un prodigio degli dei? O un trucco... un inganno per gli occhi?» «È così come tu lo vedi» disse il re. E ritornò sui suoi passi. Oreste restò come impietrito a guardare la regina, il suo passo altero e morbido che varcava la sala ormai immersa nella penombra perché finiva l’olio che le ancelle avevano versato nelle lampade. Un attimo e la figura divina scomparve nel buio di un corridoio. Le ancelle la seguirono mentre le lampade si spegnevano una a una. Restò accesa ancora, per un poco, l’ultima, quella che illuminava la tela meravigliosa. La luce tremolante lambiva appena le figure di donne piangenti e nel silenzio che avvolgeva la grande dimora parve al giovane principe di sentirne risuonare i lamenti.
Rientrarono nella sala dei banchetti e il principe si avvicinò alla donna che stava ancora seduta dove l’aveva lasciata poco prima. Teneva fra le mani una coppa d’oro che le ancelle le avevano portato, colma di vino. «Questa è la donna che ha seguito Paride a Ilio» disse Menelao dietro di lui. Oreste le si avvicinò ancora fino a trovarsi a pochissima distanza. Lo sguardo di lei era imperturbato, le labbra atteggiate a un lieve sorriso, la fronte distesa e
bianchissima. Gli sfiorò il volto con una carezza e disse: «Benvenuto nella nostra casa, figlio» «Ma... ma è la stessa persona» balbettò il principe. «No» disse il re. «Vedi, il neo che ha sulla spalla destra è stato tatuato. Venne un sacerdote dall’Asia per farlo. Nessuno qui nella terra degli Achei conosceva quell’arte.» Lo sfiorò con le dita: «Vedi?, non è un neo, non ha rilievo. Per il resto è il ritratto perfetto di tua zia». «Ma non può essere... gli dei non possono aver creato per due volte la donna più bella del mondo.» «La vidi una volta per caso in mezzo a un gruppo di schiave che una nave diPonikjo aveva scaricato nel mercato sulla riva del mare. Era sporca e lacera, aveva i capelli intricati, le mani nere e le unghie spezzate. Era piena di lividi e di piaghe eppure rimasi stupefatto intuendo la sua bellezza e, soprattutto, la somiglianza incredibile con la regina. Non capivo perché fosse ridotta in quel modo. Anche il più stupido dei mercanti sa che una schiava in quelle condizioni vale meno della metà del suo prezzo. «Pensai che se l’avessi curata, lavata e nutrita la somiglianza sarebbe stata perfetta. La comprai senza discutere il prezzo che quei pirati esosi chiedevano. Pensavo che in qualche modo questa meravigliosa somiglianza avrebbe potuto essermi utile... E pensavo anche che...» Oreste ascoltava come fuori di sé, senza ancora riuscire ad accettare ciò che i suoi occhi gli mostravano. A tratti si volgeva verso la donna assisa a poca distanza da lui che lo aveva accarezzato, che aveva detto “mio fratello” parlando di Kastor, che aveva detto “nella nostra casa” come solo una regina poteva dire, che sedeva e parlava come soltanto una regina poteva sedere e parlare; poi di nuovo si volgeva al re che continuava il suo racconto ma dentro ai suoi occhi cresceva ad ogni momento una luce d’ira e di sospetto. «Pensavo che... dovesse appartenermi comunque... Non potevo sopportare il pensiero che un altro uomo prima o poi avrebbe scoperto la sua bellezza e l’avrebbe goduta come io godevo quella della sposa legittima.» La donna si alzò in quel momento, prese da un tavolo una brocca, versò il vino in due coppe d’oro e le porse al principe e al re Menelao poi disse a Oreste: «È giunto il tempo che io mi ritiri nelle mie stanze e che vi lasci soli, ma prima farò preparare io stessa il tuo letto. Che gli dei vi concedano una buona notte.» Salutò il re con un leggero inchino del capo e con un sorriso e si allontanò. La casa era avvolta nella notte e nel silenzio. A volte si udiva il passo dei guerrieri che percorrevano il grande portico esterno, le loro voci che si scambiavano le consegne, il latrato dei cani da guardia. Lo sguardo del re sembrava allora perdersi verso spazi lontani, la sua fronte si obnubilava d’un tratto. Forse risuonavano in quel momento alle sue orecchie i richiami delle sentinelle sul vallo eretto a difesa delle navi contro la furia di Ettore e di Enea, forse riudiva i lamenti dei feriti e le invocazioni dei morenti. Il principe lo fissò negli occhi assenti: «Hai scatenato la guerra per riconquistare una schiava... I re degli Achei hanno sofferto ferite, dolori e morte
per una schiava... Regni sconvolti, troni insanguinati... tutto per… per nulla!» Batté il pugno sulla mensa facendo sobbalzare le coppe: «Io non voglio nulla da te. Non voglio il tuo aiuto e non voglio restare in questa casa un solo istante di più» Si alzò di scatto ma il re gli si parò davanti, lo sovrastò e il moto improvviso del capo agitò i lunghi capelli rossi come un vortice di fiamme. «Non fu per quello, ti ho detto!» La voce di Menelao squillò improvvisa nel silenzio come un corno di guerra «Non fu lei la causa...» disse ancora con voce più bassa dopo che vide il principe impallidire e abbassare il capo. «Lei fu un combattente... più temibile dell’astuzia di Ulisse, dell’ira di Achille, della possanza di Aiace gigante.» «Ma tu avevi detto...» disse ancora Oreste. «Sì, ho detto che non potevo sopportare che un altro uomo godesse dell’immagine vivente della mia sposa. Ed è tutto. È tutto quello che pensai quando la feci condurre in un luogo segreto e curare, lavare, accudire con ogni attenzione. Le feci servire ogni giorno gli stessi cibi e le stesse bevande che prendeva la regina. Nella stessa identica quantità, alle stesse ore. Quando tornai a vederla, dopo mesi, ne rimasi abbagliato: era l’immagine perfetta della mia sposa. Pensai perfino...» «Che fosse sua sorella gemella?» chiese il principe. «Sì, lo pensai. Kastor e Polydeukes, i suoi fratelli, erano gemelli. Come gli dei avevano creato una volta un prodigio, perché non due volte?» «Già» disse Oreste. «Perché non due volte?» Menelao gli si avvicinò, gli appoggiò una mano sulla spalla e strinse forte: «Sei stanco, figlio...» disse «e sei tanto giovane... Forse vuoi dormire. Io dormo, tardi e male, sonni funestati dagli incubi.» «Non voglio dormire» disse il principe e appoggiò la sua mano su quella del re. «Sono venuto per sapere tutto prima di compiere ciò che devo. Non devi tacermi nulla se dovrò guidare la carica dei carri da guerra nella piana di Micene, se dovrò levare la spada sul capo di...» Non ebbe forza di pronunciare una parola di più. Menelao allora versò ancora vino nelle coppe e riprese a parlare: «La nutrice della regina era ancora viva e io la raggiunsi una notte d’inverno nella piccola casa lungo il fiume dove viveva ormai sola e malata, accudita da un’ancella che Elena le aveva donato perché si prendesse cura di lei fino all’ultimo momento, perché non le facesse mancare nulla. L’amava molto e a volte lei stessa andava a trovarla per portarle dei dolci e della frutta che le piaceva tanto. Nessuno mi poteva riconoscere perché ero vestito come un contadino e cavalcavo un mulo carico di fascine. «Quando entrai, la serva mi riconobbe appena mi fui scoperto il capo e mi baciò la mano e così anche la nutrice di Elena mi riconobbe. Stava male e respirava a fatica ma il volto le si illuminò quando mi vide. Mi sedetti vicino al suo letto e le dissi: “Mamma, ho comprato una schiava da mercanti Ponikjo: era sporca e lacera e aveva segni di percosse sul corpo come accade agli schiavi che non accettano la loro condizione e sempre continuano a ribellarsi o tentano di fuggire. Io l’ho curata, l’ho fatta lavare e nutrire e l’ho data a persone fidate perché la trattassero
bene. Ora, mamma, quella schiava è l’immagine perfetta di Elena. Così perfetta da sembrare la stessa persona”. «Il volto della vecchia mutò improvvisamente, le tremarono le labbra e la sua mano si aggrappò alla mia stringendola con una forza incredibile. Disse: “Da dove veniva la navePonikjo , figlio, da dove veniva?” Il suo respiro era divenuto breve e faticoso, usciva con dolore dal suo petto, come un sibilo. «Le risposi: “Non lo so, mamma. I Ponikjo vanno presso tutti i popoli e attraversano il mare in qualunque punto.” «La nutrice si abbandonò sul letto ma il suo respiro era sempre più difficile e penoso; lo sguardo era perso, come se i suoi occhi cercassero immagini sepolte nel tempo. Si fece forza e strinse ancora il mio braccio: “Dove è andata la nave Ponikjo? È mai più tornata al nostro porto?” «“Non so dov’è andata e quei mercanti non li abbiamo più visti. Ma dimmi, ti prego, a cosa pensi? Perché il tuo respiro è pieno di affanno, perché c’è tanta pena nel tuo sguardo?” «Non rispose... Non mi rispose più benché io la implorassi. Forse pensava che una verità incerta mi avrebbe nuociuto più che l’ignoranza. Chiuse gli occhi e sembrò che dormisse e io non volli affaticarla oltre con le mie domande insistenti. Non si svegliò più e pochi giorni dopo la mettemmo sul feretro, la seppellimmo con esequie degne di una persona della famiglia.» «Dunque non sai chi è quella donna» disse il principe. E c’era un’espressione ambigua nei suoi occhi, come se avesse intuito ciò che era passato nella mente del re Menelao quel giorno lontano d’inverno, mentre seppelliva con tutti gli onori la nutrice della regina. «Chi fu veramente responsabile della guerra?» chiese poi. «Noi» disse il re con voce ferma. Si sedette di fronte al nipote e si prese la testa fra le mani: «Gli Atridi erano depositari di un segreto terribile che risaliva ai tempi in cui Euristeo regnava a Micene: noi sapevamo che un giorno sarebbero giunti degli invasori guidati dai discendenti di Eracle cacciati tanti anni fa dal re Euristeo e che avrebbero distrutto la terra degli Achei. Noi avevamo la responsabilità di stornare la minaccia incombente, di scongiurare la distruzione delle città, la devastazione dei campi, la strage e la schiavitù dei fanciulli e delle donne» Il principe scosse il capo: «E per fare questo avete scatenato una guerra per anni anziché risparmiare le forze, preparare gli eserciti e le flotte? Non capisco... non capisco». Il re trasse un lungo respiro mentre la corte esterna risuonava del passo delle guardie che giungevano per dare il cambio ai loro compagni del primo turno. Poi disse: «Volevamo il talismano dei Troiani, l’unico che potesse darci la forza necessaria a resistere, prima che si consumasse il tempo previsto. Non esiste un esercito che possa sfidare il fato. Un giorno tuo padre mi disse che sarebbe andato a Itaca a consultare Ulisse. Il piccolo re delle Isole occidentali era già famoso a quel tempo per la sua astuzia e sia io che Agamennone avevamo con lui rapporti
abbastanza stretti. Sua moglie Penelope, come sai, è cugina di tua madre e di tua zia Elena. «Ulisse era contrario alla guerra e si oppose al progetto di una grande spedizione contro Troia. Non credette alle nostre ragioni, pensò che fossimo animati soprattutto da desiderio di potere e di conquista. Solo così si spiega la risposta che diede. “Se è solo quella statua di pietra che volete” disse “basta molto meno di una guerra.” Disse che nulla al mondo è più potente del richiamo di una femmina. Si doveva invitare uno dei principi Troiani in visita a Sparta e poi convincere Elena a sedurlo e a fuggire con lui. Una volta dentro la città ci avrebbe fornito tutte le informazioni necessarie. «Avrei ucciso come un cane chiunque altro avesse anche solo accennato a una simile proposta, ma mi rendevo conto del vero significato delle sue parole. Voleva dire: “Se gli Atridi vogliono trascinare in una guerra totale tutte le stirpi degli Achei, se vogliono chiedere a migliaia di guerrieri di soffrire e di morire, a migliaia di spose e di madri di piangere per il resto dei loro giorni i mariti e i figli caduti, ebbene debbono mostrare di essere pronti a qualunque cosa, a pagare per primi il prezzo più alto.” «Aveva ragione, se pensava che il vero scopo della guerra fosse il nostro desiderio di potere. Ulisse viveva da solo, non partecipava quasi mai alle grandi assemblee dei re del continente. La sua piccola isola gli bastava, seguiva i lavori dei suoi campi come un contadino, tosava le sue pecore e macellava i suoi porci. Era contento di poco. «Lo odiai per quello che aveva detto e giurai che lo avrei ucciso appena ne avessi avuto l’occasione.» «Non posso credere che mio padre abbia osato chiederti una cosa simile, anche se l’aveva suggerita Ulisse» disse Oreste scuotendo il capo. «Mio padre era un uomo d’onore.» «Infatti. Quando tornò era cupo e taciturno, in preda allo sconforto. Non voleva parlare. Dovetti insistere a lungo prima di indurlo a riferire la proposta di Ulisse. E quando, dopo le mie ripetute insistenze, me l’ebbe detto aggiunse immediatamente: “È una provocazione: vuole dire semplicemente di non contare su di lui, che questa non è la sua guerra. Faremo a meno del suo aiuto”. «Fu in quel momento che mi balenò in mente l’idea di beffare il maestro di frodi, il più astuto degli uomini. Risposi: “Sta bene. Farò come dice”. E mentre tuo padre mi guardava sbalordito, come se fossi uscito di senno, proseguii: “Ulisse ha ragione. Noi chiediamo agli Achei di lasciare la sposa e i figli, di affrontare pericoli, di sopportare le ferite, di affrontare la morte. Dobbiamo mostrarci capaci per primi di saper pagare il prezzo più alto. Digli che farò come suggerisce, ma a un patto: se, nonostante tutto, dovesse scoppiare la guerra, lui dovrà prendervi parte con le sue navi e con i suoi guerrieri e dovrà aiutarci a vincerla.” «Tuo padre mi guardò stupefatto, come se fossi impazzito, ma le mie parole erano inoppugnabili. Parlai in modo da essere creduto. «Quella stessa sera raggiunsi nel suo rifugio segreto la donna che ha bevuto con te in questa sala. Mi era completamente devota, mi obbediva ciecamente,
qualunque cosa le chiedessi. Doveva aver sofferto enormemente prima di incontrarmi, tanta era la sua gratitudine. Dopo che le ebbi spiegato ciò che doveva fare disse che era per lei una grande gioia di poter soddisfare alle mie richieste; di una sola cosa si dispiaceva, disse, che non avrebbe potuto vedermi per molto tempo, o forse mai più.» Oreste lo ascoltava attonito. I lunghi, biondissimi capelli, erano immobili come gli steli del grano prima di un temporale. Udiva cose che nemmeno avrebbe immaginato, era costretto a fronteggiare scenari che gli ripugnavano profondamente. Il re Menelao liberò un profondo sospiro e si alzò in piedi raggiungendo una finestra. La città dormiva davanti al suo sguardo e dormiva la terra. «Quando Paride fuggì portandola con sé mandammo messaggeri in tutta la terra degli Achei convocando i re per il consiglio di guerra. Da sempre il rapimento di una regina era atto di guerra e comportava la coalizione di tutti per vendicare l’offeso.» «E Ulisse non lo sapeva?» chiese Oreste. «Certamente, ma era convinto che tutto si sarebbe risolto con le trattative. In fondo i rapporti con i Troiani erano sempre stati abbastanza buoni. Molte volte poi le assemblee di guerra erano convocate al solo scopo di indurre l’avversario a trattare. Ulisse comunque si accorse dell’inganno e in quel momento temetti che tutto fosse perduto. Era venuto a Sparta segretamente per istruire Elena nella sua missione a Troia. Io feci in modo che non potesse accorgersi di nulla. L’incontro avvenne alla mia presenza, di notte, in una camera di questo palazzo, al lume delle lucerne. A un certo punto si volse verso di me e disse: “Chi è questa donna?”» «Non è possibile» disse Oreste. «Lui non vedeva Elena da anni, la luce era scarsa, la somiglianza perfetta. Come ha fatto?» Il re sorrise: «L’odore» disse. «Ulisse è un marinaio e come tutti i marinai ha esercitato l’olfatto. È così che riconoscono la terra, dall’odore. Sanno di preciso che terra hanno di fronte dall’odore che passa sulle onde. Un giorno, tanti anni prima, aveva baciato la mano di Elena e ne aveva percepito il profumo, un profumo che non era lo stesso che promanava dalla donna che aveva dinanzi. “Devo sapere tutto” mi disse. “Tutto quello che riguarda questa donna. E tutto ciò che riguarda Elena. Non devi tacermi nulla se vuoi che il nostro progetto si compia.” «Mi rendevo conto che l’inganno di quella prodigiosa somiglianza, anziché indignarlo lo eccitava, costituiva una sfida e una tentazione irresistibile per la sua mente. «Convinse i re a conferirgli l’incarico di andare a Troia a chiedere la restituzione di Elena e io andai con lui. Era sicuro di sé. Diceva: “Paride ha avuto per molti mesi quello che voleva, il re Priamo non vorrà trascinare la città in guerra per i capricci del figlio. Lo obbligherà a restituire Elena e noi la riporteremo a casa, assieme al talismano dei Troiani”.» «Perché Priamo non restituì la donna?» chiese Oreste. «Chiunque l’avrebbe fatto, chiunque sano di mente. E Priamo era saggio, un grande re stimato da tutti.»
«Non lo so. Nessuno lo sa. Nemmeno Ulisse se lo aspettava. Impallidì visibilmente quando ci fu comunicato il rifiuto e mi guardò con un attimo di smarrimento... Io credo che la causa sia stato Antenore: con tale foga si alzò a dire che Elena doveva essere immediatamente restituita che Priamo reagì. Quella era la volontà di Antenore e dei Dardani che obbedivano ad Anchise e a suo figlio Enea. Suonò come una imposizione da un ramo cadetto della dinastia e il re non poté tollerarla davanti a noi e davanti all’assemblea degli anziani. Se Antenore avesse taciuto, Elena, o meglio quella che loro credevano Elena, ci sarebbe stata restituita. La guerra si sarebbe evitata.» Oreste si prese il capo fra le mani e trasse un lungo respiro: «C’è un’altra ragione, non è vero? Una ragione nascosta che ti tormenta.» Il re non rispose. Era teso e stanco, aveva gli occhi rossi come se avesse vegliato un notte intera. Di nuovo il suo sguardo era assente, la sua mente distratta. Passavano dietro la sua fronte immagini tumultuose, come nubi di tempesta trascinate dal vento. «Tu senti, dentro di te, di non aver pagato il prezzo vero, il tributo più alto e prezioso, l’unico che ti consentiva di chiedere a una nazione intera di combattere e di morire. Tu senti che il tuo inganno ha attirato l’attenzione malevola degli dei. E tutto è andato male da quel momento. Tutto è andato fuori controllo. Dalle mani degli uomini alle mani del fato. Non è così?» La fronte del re si corrugò dolorosamente ma non gli uscì una parola dalla bocca. Si udiva dal cortile un crepitare di fiamme e il mormorio sommesso degli uomini al bivacco. «Noi avevamo la responsabilità,» disse a un tratto «e abbiamo agito... Nessuno aveva previsto la guerra. Nemmeno i Troiani.» «Ma se Priamo vi avesse restituito la donna, avreste ottenuto ciò che volevate? Era riuscita a conoscere il segreto del talismano dei Troiani?» «No. Solo dopo parecchi anni, dopo che Paride era stato ucciso, dopo che fu divenuta la moglie legittima di Deifobo e che fu riconosciuta, con questo, parte della famiglia reale. Alla fine riuscimmo a conquistare il talismano dei Troiani, ma a che prezzo! I lamenti dei compagni caduti non mi fanno dormire la notte. Le loro grida che salgono dall’Ade lambiscono i piedi del mio talamo: Achille, ucciso da Paride davanti alle porte Scee, Patroclo, massacrato da Ettore, e Antiloco, figlio di Nestore. Oggi regnerebbe sul Pilo sabbioso... Aiace il Locrese schiacciato fra le rupi... mio fratello, scannato come un toro nella greppia... Aiace Telamonio che si gettò sulla sua spada; gli uscì dalla schiena rossa del suo sangue... Diomede e Idomeneo fuggiaschi, forse già morti in qualche terra sconosciuta e lontana. E Ulisse... Ulisse che non torna più. «Ci fu il tempo, per me e per lui, di divenire amici sotto le mura di Troia ma ora, ora che avrei tanto bisogno del suo consiglio e del suo aiuto, lui non c’è. Forse vaga senza meta in mari sconfinati. «L’altra notte ho fatto un sogno: mi sembrava di essere sulla riva del mare e sentivo le voci dei miei compagni che mi chiamavano dalle profondità degli inferi, mi chiamavano per nome, chiedevano aiuto, tormentati com’erano dal freddo e
dalla solitudine e io cercavo di rispondere, di parlare con loro ma la voce non mi usciva dalla gola. Aprivo la bocca ma non usciva alcun suono.. A un tratto vidi la nave di Ulisse emergere dalla foschia che ricopriva la distesa delle onde. Lo vidi sbarcare e sacrificare una vittima nera agli dei infernali. Ed ecco, dalle profondità dell’abisso salivano a lui le anime dei morti. E una di esse, un Vecchio venerando dalla lunga barba, gli parlava ma io non potevo udire, non riuscivo a percepire il suono di quelle parole. Soltanto vedevo il volto di Ulisse sbiancare di sgomento. «Quando il Vecchio finì di parlare udìi di nuovo le voci dei compagni. Li vedevo tutti, uno a uno, passare davanti al figlio di Laerte: Achille, Aiace, Agamennone, Euriloco... ma le loro voci non avevano più il timbro possente e sonoro di quando lanciavano all’attacco le schiere nei campi di Ilio; erano suoni striduli, come lo squittire delle nottole in una caverna, erano strida acute che contrastavano con l’aspetto loro ancora imponente, con il pallido scintillare delle armature. Oh, dei, io li visti, ho visto i miei compagni e mio fratello nel freddo squallore dell’Ade...» Oreste lo guardava assorto, gli leggeva sul volto pallido e sudato la disperazione e il terrore panico, il vuoto, la solitudine: «È solo un brutto sogno, zio. Tu hai agito come hai creduto opportuno e ora la forza è dalla nostra parte. Vinceremo e riporteremo l’ordine nella terra degli Achei. Stai di buon animo: ti attendono ancora molti anni di vita serena in mezzo alla tua gente, accanto alla tua sposa, a tua figlia.» «Mia figlia...» disse il re abbassando il capo con un sospiro. «Io l’ho promessa a Pirro, per legarlo a noi, per ottenerne l’alleanza.» Oreste ebbe un leggero sussulto ma subito si ricompose. Si levava il vento e un leggero sibilo attraversava la grande corte e i portici, agitando le fiamme delle torce e delle lucerne. Il principe tese l’orecchio come se il vento gli portasse lontani sussurri. Disse: «Sapevi della congiura delle regine?» «Lo sapevo.» «Che cosa sapevi?» «Tutto. Posso raccontarti ogni cosa, se non sei stanco, figlio.» «Non sono stanco.» Menelao riprese il suo racconto: «Era una notte come questa, lunga e silenziosa, percorsa dal vento occidentale. Paride, il principe troiano, era già nostro ospite ed era già caduto nella rete. Ulisse sedeva su quello sgabello che vedi laggiù e sembrava fissare le ombre proiettate dalla fiamma incerta della lampada. A un tratto disse: “Domani voglio vedere ancora la regina e parlarle per salutarla. Poi partirò: tornerò alla mia isola e là aspetterò che venga il tempo di andare a Troia.” «Gli risposi: “Allora levati alle prime luci dell’alba: la regina lascerà il palazzo per recarsi dalla sorella Klitemnestra. Starà via alcuni giorni”. «Ulisse non sembrò far caso alle mie parole. Tenne gli occhi socchiusi per qualche tempo e la testa appoggiata al muro. Poi, a un tratto disse: “Lo sapevi che anche la regina Egialea di Argo si recherà a incontrare Klitemnestra?” «“No” risposi. “Non lo sapevo.”
«Tacque ancora e sembrava porgesse orecchio al soffio del vento che passava lieve attraverso la corte. “Sapevi che la regina di Creta è sbarcata a Mases di nascosto e si reca a un incontro segreto? No, non lo sapevi. Ma io sì. Io so anche che un uomo di fiducia della regina Klitemnestra è in viaggio per Itaca, approfittando della mia assenza. A che ti fa pensare tutto questo?” «Ero stupito: “Come hai saputo?” gli chiesi. «Non rispose. Disse: “Manderai l’altra all’incontro e lei farà in modo che avvenga in un luogo aperto e dopo il tramonto. Non possiamo correre alcun rischio” Feci ciò che mi disse e così venimmo a conoscenza del patto. Ulisse ed io. Nessun altro.» Il principe scosse il capo incredulo: «Nemmeno mio padre... perché? Avrebbe potuto risparmiargli la vita...». Il suo sguardo era di nuovo strano, quasi diffidente. «All’inizio la cosa non era chiara. Sembrava come un patto di amicizia fra le regine, un impegno a trovarsi ogni anno per celebrare riti in onore della Potinja. Soltanto Ulisse continuò a fiutare il pericolo e il giorno in cui la flotta salpò da Aulide egli era ancora più tormentato dal sospetto. «Molti anni dopo, la notte che ci fermammo a Tenedo sulla via del ritorno venne a bordo della mia nave. Io vegliavo sul ponte e guardavo il chiarore sanguigno che illuminava il cielo verso oriente: Troia che ancora bruciava... Mi si avvicinò senza far rumore e appoggiò le mani al parapetto della nave, al mio fianco. Mi disse: “Non fidarti di nessuno, quando tornerai. Sbarca di nascosto e di notte. Soltanto gli uomini che hanno combattuto con te a Ilio debbono avere accesso alla tua persona. Ho messo in guardia anche Diomede ma ho paura, confida troppo nella sua forza. Non ha imparato ancora che l’inganno è immensamente più potente.” «Volse lo sguardo verso il castello di poppa dove la mia compagna dormiva, sfinita per le emozioni e le fatiche degli ultimi giorni e delle ultime notti. Disse: “Manda lei a incontrare le altre regine, se l’invitano”.» «Perché non l’hai fatto?» chiese ancora il principe. E i suoi occhi avevano un lampo d’ira a stento dominata. Il re abbassò il capo: «Non potevo più restare lontano da Elena. Le avevo imposto una lunga e amara solitudine. Non riuscìi ad attendere ancora». «Mentre tu andavi da lei mio padre moriva. Non è così? Cadeva come un toro davanti alla greppia, scannato come un animale assieme ai compagni!» Le mani del re tremarono, gli occhi gli si riempirono di lacrime: «È così» disse. «Ho udito il suo ultimo rantolo, distintamente, ho sentito nella mia carne il pugnale che gli tagliava la gola, ho visto la sua maschera funebre levarsi come una luna insanguinata, librarsi sulla torre del baratro! Figlio, il dolore per quella morte mi morde ogni giorno e ogni notte come un cane feroce. Non condannarmi perché nemmeno tu sai quali sentieri percorrerai nella vita, non sai se il coraggio ti mancherà un giorno, improvvisamente, se una passione ti oscurerà la mente e il senno. Il nostro destino non è nelle nostre mani e se gli dei ci concedono un
momento di felicità ce lo fanno pagare, prima o poi, duramente. Non giudicarmi, non condannare un uomo che soffre.» Si alzò e restò ritto in piedi davanti al giovane come se fosse in attesa di un verdetto. Oreste alzò lo sguardo su di lui: aveva il volto segnato e la fronte corrugata, gli occhi arrossati avevano un’espressione di attonita malinconia, il mento gli tremava impercettibilmente e la bocca contratta sembrava una ferita dolorante. Si alzò anch’egli in piedi e lo fissò per un momento negli occhi poi scoppiò in pianto e lo abbracciò forte. Rimasero così a lungo, piangendo l’uno nelle braccia dell’altro feriti dallo stesso dolore, tormentati dagli stessi oscuri timori. Alla fine il giovane si sciolse dall’abbraccio e arretrò di un passo: «Per ciò che hanno fatto, » disse, e la sua voce era fredda e tagliente, «nessuna pietà»
14
Le montagne non sembravano più aver fine, nella terra di Hesperia, così come un giorno ormai lontano era sembrato al re Diomede e ai suoi uomini che non avessero mai fine le pianure. Gli Achei riuscirono a evitare i Tersh che controllavano il territorio verso occidente, mantenendosi sulle creste dei monti, ma finirono nelle terre degli Ombro in cui dovettero aprirsi la strada con grande sforzo, battendosi spesso in duri scontri nonostante il Chnan tentasse qualche volta di negoziare il passaggio. Erano comunità piccole ma agguerrite e diffidenti, sparse dovunque, presenti in ogni angolo. Per lungo tempo gli Achei furono anche costretti a cercare riparo nei boschi per non subire perdite troppo gravi. Gli Ombro abitavano una terra stupenda fatta di dolci colline e di valli piene di fiori di ogni colore, distese lungo le rive di piccoli torrenti di acque scintillanti. Ma era una terra povera e molto lontana dal mare verso il quale si estendeva invece il territorio dei Pica, un popolo che abitava il versante orientale. Erano affini agli Ombro, coltivavano la terra e allevavano animali in recinti di legno. Non seppellivano i loro morti come gli Achei ma li bruciavano su cataste di legna poi mettevano le ceneri dentro a orci di terracotta che interravano con pochi e umili oggetti di corredo. Erano pericolosi perché conoscevano l’arte di lavorare i metalli, si costruivano lance, asce e coltelli e a volte anche dei vasi di bronzo laminato che il Chnan osservò più volte con interesse, prelevando tutti quelli che poteva quando era dato di impadronirsi di un villaggio. Le loro donne erano belle, di capelli lunghi e lisci raccolti in trecce, vestite con abiti intessuti al telaio e di bei colori. Nelle capanne dei capi si trovava anche in certa abbondanza l’ambra che certo veniva da molto lontano, forse dalla favolose isole Elettridi di cui si sentiva parlare dai marinai in ogni porto della terra degli Achei. Furono attaccati più volte e dovettero ingaggiare aspri combattimenti ogni volta che dovevano procurarsi del cibo avvicinandosi ai luoghi abitati. Al centro dei loro villaggi i Pica avevano un palo che recava in alto l’immagine di un picchio, il loro animale sacro, o forse il loro dio. Da lui prendevano il nome. La loro terra era piuttosto povera, adatta soprattutto per pascolarvi pecore e capre. A volte, di lontano si intravedeva il mare, un mare verde come i prati, orlato in basso di bianche spume ma la costa era uniforme e del tutto importuosa, non aveva promontori da cui si potesse spingere lo sguardo verso l’orizzonte, non aveva pianure costiere che si potessero coltivare. Mirsilo diceva che quello era lo stesso mare che avevano risalito anni prima quando avevano lasciato Argo per avventurarsi verso settentrione e diceva che se Anchialo si fosse salvato li avrebbe cercati lungo quella costa che si vedeva in basso. Si chiedeva anche quale sorte fosse toccata alla loro terra di origine, dal momento che Anchialo era morto per mano di quei bastardi Sheqelesh e non aveva potuto recare il messaggio di allarme.
Ma una volta, essendosi spinto in direzione del mare orientale, Mirsilo tornò con degli oggetti di nessun valore ma che non abbandonò più: erano piccoli vasi e coppe per bere che venivano dalla terra degli Achei. Li mostrò al re dicendo: «Vedi, wanax? qualcuno dalla nostra terra si spinge fino qua. Significa che non è successo nulla di grave e di terribile. Se un giorno riusciremo a fondare una città potremo stabilire contatti con mercanti che vengono dalla nostra patria e avere notizie ogni volta che verranno da noi.» Il re aveva preso fra le mani quegli oggetti così umili, li aveva accarezzati, tanto che Mirsilo gliene regalò uno perché lo tenesse. Il re cercava sempre di infondere fiducia ai suoi uomini ma si accorgeva, con il passare del tempo, che essi vivevano sempre di più alla giornata. Prendevano del cibo o stavano con una donna come se fosse il loro ultimo pasto, come se fosse l’ultima volta che facevano l’amore. Era una cosa triste, che faceva male al cuore, ma non c’era rimedio. Ros, la sposa delle Montagne di Ghiaccio, lo amava, dopo tutto il tempo che avevano trascorso insieme, ma non riusciva a dargli un figlio e questo infondeva nell’animo di Diomede un cupo scoramento: se quella donna era stata fatta giungere da terre tanto lontane per restituire la vita a un popolo morente allora doveva essere lui che portava dentro un seme di distruzione e di annientamento. Pensava che la vendetta di Afrodite lo avrebbe perseguitato fino alla fine e in qualunque angolo della terra e del mare. L’aveva ferita sui campi di Ilio e lei spegneva la vita dovunque egli tentasse di seminarla. A volte, nel cuore della notte, si svegliava improvvisamente se un lupo o uno sciacallo levava il suo lamento dalla cima di un monte o dal profondo del bosco perché si era fatto la convinzione che in quella terra gli dei si facessero udire con la voce degli animali: per quello, forse, nei villaggi e davanti alle capanne gli era capitato tante volte di vedere immagini di animali ricevere dagli uomini il culto e le offerte votive. Una volta rientrò da una razzia coperto di polvere e di sudore, entrò sotto la tenda, depose le armi e si versò addosso un vaso d’acqua. In quel momento gli apparve davanti la sposa e vide nei suoi occhi una tristezza profonda, o compassione forse. O pietà. Non si era guardato in uno specchio da anni ma gli bastò in quel momento vedere quegli occhi e quello sguardo per capire tutto. «Un tempo una dea salì sul mio carro e combatté al mio fianco» disse. «Mi credi?» La fanciulla gli si avvicinò: «Se tu lo credi anche io lo credo» rispose. «No, che non lo credi» disse Diomede. «Perché l’uomo che hai davanti non è più lo stesso, perché questa terra non è la stessa e nemmeno il cielo. Io sento il peso della fine. Sono passato attraverso le teste bruciate: lo sapevi?» «Lo sapevo. Ma so che non sarà questo a ucciderti.» «I miei compagni mi hanno seguito perché avevo promesso loro un regno, una città con case e famiglie. Non ho dato loro che fatiche, dolore, morte.»
«I tuoi compagni ti amano, sono pronti a seguirti dovunque. E del resto non soffrivate le stesse pene quando combattevate sotto le mura di quella città in quella terra lontana?» «Non capisci? È questa la mia disperazione: allora sapevamo qual era lo scopo dei nostri sacrifici. Allora vivevamo in un mondo di cui conoscevamo le regole e i confini; ora non più. Io non so dove condurli. Sono anni ormai che abbiamo toccato le foci di Eridano, che abbiamo percorso le pianure e i monti, attraversato le foreste, guadato paludi e fiumi vorticosi. Abbiamo combattuto con molte genti ma non abbiamo conquistato nulla. Questa terra ci toglie le forze un giorno dopo l’altro, mi toglie i compagni, uno a uno. Quanti ne ho sepolti fino a ora?» Le lacrime gli salivano agli occhi ma la voce era sempre ferma e sicura. «Tutti li ricordo, uno per uno; ricordo il nome, la famiglia, la città. Ma loro non esistono più. Non ci sarà mai chi porti un’offerta sulla loro tomba, che pronunci il loro nome nel giorno dell’anniversario. Io speravo che, se un giorno avessi costruito una città e un regno, avrei loro innalzato un tumulo gigantesco, e su di esso molte stele di pietra e ognuna avrebbe portato inciso un nome. Ogni anno avrei offerto un sacrificio e celebrato dei giochi funebri. Anche al servo cheteo che morì da guerriero salvandomi la vita. «Forse non vi riuscirò mai. Un giorno le forze mi abbandoneranno e cadrò anch’io. Forse sarò abbandonato insepolto. Un altro ti avrà, così come io ti ho presa uccidendo colui che ti era stato destinato.» «Non è vero» disse la sposa. «Questa terra potrebbe accoglierti se tu riuscissi a cacciare i fantasmi del tempo passato. Una notte, mentre tu dormivi e io non riuscivo a prendere sonno mi alzai e mi avvicinai al fuoco del bivacco per riscaldarmi. Mi si avvicinò l’uomo piccolo e scuro che voi chiamate il Chnan e sedette in silenzio accanto a me. Gli chiesi: “Se fossi certo che il re ti desse ascolto, che cosa gli diresti?” «Aveva capito la mia tristezza e ti ha letto in volto tante volte la disperazione. Parlò così: “Gli direi, scendi verso il mare e trova un luogo abbastanza ampio, vicino a un piccolo promontorio e a una fonte d’acqua chiara. Costruisci un villaggio tagliando il legno del bosco. Imparate a estrarre il sale dall’acqua e a conservare il pesce, stabilite rapporti di buon vicinato con gli abitanti, scambiate doni e patti giurati. Prendete delle donne in spose e fate dei figli. Vivrete di ciò che la terra e il mare vi danno. Seminate i campi, pascolate greggi di capre e di pecore. L’inverno avrete cibo abbondante quando il vento freddo soffia sul mare e sui monti. Avrete legna per scaldarvi, morbidi velli nei vostri letti. Un giorno, forse pianterete l’olivo e la vite e avrete olio per fortificare il corpo e vino per rallegrare l’animo. Nessuno saprà mai che esistete, vivrete in pace e morirete un giorno, indeboliti dalla vecchiaia, guardando con occhi limpidi il sole che tramonta sul mare.” «Questo mi disse l’uomo piccolo e scuro che voi chiamate il Chnan e io credo che avesse ragione. Perché non dargli ascolto? Così forse troveresti pace, vedresti fiorire la vita anziché vagare senza meta incalzato dalla morte. Finalmente, io
credo, diverresti il mio sposo, il mio uomo, potrei generarti un figlio che tu vedresti crescere forte come un puledro, bello come un albero in fiore.» Il re la guardò senza parlare e per un attimo sembrò alla fanciulla di vedere nei suoi occhi una luce serena, come di un tramonto dorato, ma fu un attimo. Mirsilo giungeva di corsa, trafelato. Le armi risuonavano sulle sue spalle e il cimiero ondeggiava sull’elmo, agitato da folate di vento. Lei rabbrividì come se vedesse un lupo famelico galoppare verso di lei: era Mirsilo l’unico consigliere che Diomede ascoltava. «Wanax!» gridava «wanax!» Si fermò davanti a lui e aveva nello sguardo un entusiasmo folle, come un delirio. Il re lo fece entrare nella sua tenda. «Wanax» riprese a dire quando si fu calmato. «Mi ero spinto con gli uomini verso occidente come tu mi avevi consigliato per vedere se da quelle parti ci fosse una terra più ricca e più aperta. Abbiamo incontrato dei villaggi abitati da un popolo sconosciuto e li abbiamo attaccati prendendo il loro bestiame. Il Chnan dice che sono Lats e che vengono da settentrione. Sono duri, combattivi. Venerano una lupa come dio e si fanno guidare da lei.» «Ed è per questo che sei così eccitato?» chiese il re «Sapevamo già che molti popoli sconosciuti si aggirano in questa terra.» «È vero» disse Mirsilo. «Ma quando facemmo irruzione nella casa più grande, forse quella del loro capo, vi trovammo un prigioniero, un uomo legato. Lo abbiamo portato con noi. Dovresti vederlo. Subito.» Diomede lo seguì rivolgendo alla sposa uno sguardo fugace, come se volesse chiederle perdono per non poterle dare ascolto e scese per il pendio fino a un punto in cui i suoi compagni armati erano raggruppati in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno. Mirsilo lo guidò verso il centro del cerchio e gli mostrò un uomo seduto in terra ai piedi di un albero. Era libero e quando vide Diomede balzò in piedi come se gli fosse apparso di fronte un fantasma. Restò immobile e muto a fissarlo. Era un uomo di forse trentacinque anni, alto e snello, dalle membra ben proporzionate. Aveva sul corpo e sul volto i segni delle privazioni. «È un troiano» disse Mirsilo. «Si chiama Eurimaco.» «Un troiano» disse il re avvicinandosi. «Un troiano qui...» Poi si rivolse a Mirsilo: «Gli avete fatto del male?» «No,wanax.» «Lo avete interrogato?» «Sì, ma non ci ha detto molto.» Il re si volse al prigioniero: «Sai chi sono?» gli chiese. «Il tuo aspetto mi fa capire che gli dei ti hanno giustamente punito per ciò che ci avete fatto ma ti riconosco, sì. Sei Diomede. Ti aggiri senza più patria né famiglia in una terra straniera. Non ti è stato riservato un destino migliore che ai vinti.» Diomede si morse le labbra. Si vergognò del suo aspetto squallido, della schiera sparuta dei suoi uomini. L’ultima volta che quell’uomo lo aveva visto egli correva la piana di Ilio su un carro in una nube di polvere, chiuso nel bronzo splendente, e lo seguivano schiere folte come il grano nei campi. Soffrì duramente l’umiliazione
ma nello stesso tempo si sentì invadere da una strana eccitazione, capiva l’entusiasmo strano e quasi folle che aveva animato Mirsilo: quell’uomo era una parte del suo mondo perduto, obbediva alle stesse regole, parlava lo stesso linguaggio. «Come sei giunto qui?» gli chiese e nelle sue parole sembrava vibrare una strana speranza. «Dal mare. Con Enea.» Diomede restò impietrito e senza parole. Ricordò la notte che aveva trascorso nelle paludi presso le sponde di Eridano, ricordò lo specchio nero delle acque che si gonfiava spinto da una forza misteriosa. Rivide la figura del principe dardano coperto di bronzo che avanzava verso di lui, minaccioso, brandendo la spada. Ecco, ecco il senso della visione. Gli dei volevano assistere all’ultimo duello fra le due stirpi prima di assegnare il dominio su quella terra. Lo avevano guidato fin lì attraverso una lunga marcia nel fango e nella polvere e avevano condotto lì il figlio di Anchise. Era quello il motivo, senza dubbio. Gli dei non erano paghi degli scontri selvaggi che avevano insanguinato per anni le pianure presso l’Ellesponto; dalle cime dell’Olimpo nevoso volevano assistere, bevendo ambrosia dalle coppe d’oro, all’ultimo duello. Non si potevano deludere: se avessero avuto il loro piacere certamente avrebbero assegnato il premio. Forse Atena che un tempo proteggeva suo padre Tideo, gli sarebbe apparsa di nuovo, figura diafana nelle nebbie del tramonto; avrebbe impugnato le redini al suo fianco, sul carro da guerra. «Dov’è?» chiese. E la sua voce aveva perduto ogni incertezza, suonava metallica e dura, perentoria. «Non lo saprai mai.» «Non c’è posto per tutti e due in questa terra. O me o lui. Puoi anche non dirmelo ma lo troverò ugualmente, prima o poi e lo sfiderò a duello. Ma se tu me lo dici puoi essere certo che non lo prenderò di nascosto alle spalle. Gli manderò un araldo e tu stesso potrai accompagnarlo. Se accetti potrai tornare da lui e restarci se vincerà. Ma se io vincerò questa terra sarà mia, mie le genti che la stanno popolando da ogni parte.» «Non ti basta dunque il sangue versato per tanti anni, tanti innocenti falciati dal destino di morte, tante lacrime...» disse il troiano. «Non ti basta la tua stessa patria divenuta un nido di serpi, maledetta dagli dei? Lo sai che fine ha fatto il grande maestro di frodi? Colui che ha ideato l’inganno che ci ha perduti, lo sai?» Eurimaco sembrava trasformato, le vene del collo turgide, gli occhi accesi. «Ulisse... Che cosa sai? Che cosa sai?» gridò. «Abbiamo incontrato uno dei suoi compagni nella terra delle Montagne di Fuoco, nel territorio dei Ciclopi giganti... Era rimasto a terra, dimenticato: da mesi viveva come una bestia, cibandosi di radici, di vermi, di insetti. Sembrava pazzo quando ci ha visti, abbracciò piangendo le ginocchia di Enea, gli abbracciò le ginocchia, capisci? Ulisse ha perso tutte le navi e vaga senza meta perseguitato da un destino implacabile.» Gli occhi del troiano brillavano di una gioia crudele e temeraria. Diomede abbassò il capo e sentì un’angoscia profonda, una tristezza sconfinata invadergli l’animo: Ulisse... Non era ancora tornato. La sposa fedele e il
piccolo principe ancora l’aspettavano, spingevano invano lo sguardo sulla distesa delle onde ogni giorno; lui, il più grande marinaio nella terra degli Achei, non riusciva più a trovare la rotta o forse, affranto per la perdita delle navi e dei compagni, non osava più mostrarsi in patria agli anziani e ai nobili. «Non ti rallegrare troppo, troiano» disse alla fine alzandogli in faccia uno sguardo stralunato. «Ulisse tornerà. Ulisse trova sempre la strada. La sua mente non teme nemmeno gli dei, è capace di qualunque sfida. Ma ora pensa a quello che ti ho detto. Se accetti di condurci da Enea assisterai a un leale duello. Se rifiuti ti venderò schiavo, ti scambierò con del cibo o del bestiame.» Quando ritornò alla tenda la sposa gli venne incontro: «Che cosa ti ha mostrato Mirsilo? C’era un uomo laggiù: chi era?» gli chiese e si poteva leggere la paura nel suo sguardo. «Il passato» disse il re. «Il mio passato che torna: devo ucciderlo se voglio conquistare il futuro. Solo allora fonderemo la nostra città per i vivi e innalzeremo un tumulo per i morti. Solo allora.»
Ma anche volendo il prigioniero troiano non poté subito ritrovare la via. Si era ormai sul finire dell’autunno e il tempo peggiorò improvvisamente, la neve cadde copiosa sulle montagne e coprì i passi e i sentieri. Diomede cercò ugualmente di avanzare in direzione del mare occidentale ma le insidie erano molte fra gli aspri gioghi battuti dal vento, nelle foreste percorse da branchi di lupi famelici. Un giorno, al calar del sole, mentre la colonna dei guerrieri avanzava lungo un sentiero erto e stretto nella neve alta, uno dei suoi cavalli incespicò e cadde. Cercò di rialzarsi puntando le zampe ma il terreno franò sotto di lui. Rotolò ancora in basso lanciando alti nitriti di dolore. E il suo compagno ritto sul ciglio del dirupo gli rispondeva, lo chiamava disperatamente. Diomede si gettò di sotto rischiando di precipitare più volte finché lo raggiunse. Il magnifico animale non poteva più muoversi: aveva la spina dorsale spezzata. Alzava la testa sbuffando grandi nubi di vapore dalle froge, lo guardava con i grandi occhi sbarrati e pieni di terrore. Diomede si inginocchiò davanti a lui: non poteva credere che avesse potuto accadere: era quello uno dei cavalli divini che lui aveva tolto a Enea in battaglia dopo averlo sconfitto e quasi ucciso. Lo capivano, capivano le parole umane, capivano, nella notte, le voci misteriose che passavano nel vento e forse quando tutti erano vinti dal sonno essi parlavano fra di loro un linguaggio che nessuno poteva comprendere. Piantò i pugni nella neve e pianse mentre il cavallo nitriva debolmente con la testa abbandonata all’indietro. Il re lo guardò a lungo, lo accarezzò dolcemente, poi si strappò un lembo del mantello e gli bendò gli occhi. Dall’alto i compagni lo guardavano silenziosi, mentre l’altro cavallo chiamava il compagno disperatamente, s’impennava scalciando nell’aria, lanciando acuti nitriti verso il cielo impassibile e grigio.
Diomede estrasse il pugnale e colpì l’animale alla base del capo. Un colpo secco. La neve si macchiò di un rivolo scarlatto e il cavallo, con un breve rantolo, si abbandonò senza vita. Il re arrancò lentamente verso il sentiero, raggiunse i compagni per riprendere, muto, la marcia. Ma l’altro cavallo non volle seguirli. A nulla valsero gli sforzi di Mirsilo e degli altri per smuoverlo: restava immobile come una roccia e li guardava con occhi fiammeggianti. Il re si volse verso di loro: «Lasciatelo» disse. «È giunto alla fine del suo cammino.» E mentre riprendevano la marcia il cavallo volse il capo verso il fondo della scarpata e cominciò a tentare cautamente il terreno con lo zoccolo. Poi, lentamente, cominciò a scendere. Mirsilo si volse indietro e disse «wanax,» e anche il re si fermò e si volse e rimase a guardarlo col cuore gonfio mentre scendeva lentamente nella neve alta fino al petto e raggiungeva finalmente il compagno morto. Lo sfiorò con il muso nitrendo debolmente, cercò di smuoverlo con la testa, come per farlo alzare. Alla fine restò fermo davanti a lui con la testa alta, le froge dilatate, le orecchie dritte, flagellando l’aria con la coda, raspando il terreno gelato con lo zoccolo. «Fra un poco sarà buio,» disse Mirsilo «verranno i lupi.» «Lo so,» disse il re «e anche lui lo sa. Ma per nessuna ragione si separerà dal compagno perduto. Attenderà di riprendere con lui il galoppo nel prato asfodelo.» Grosse lacrime gli rigavano le guance ispide. «Non c’è freddo laggiù e nemmeno neve o brina. Non c’è buio e notte profonda ma una luce divina brilla in eterno su campi fioriti di bianchi gigli e di papaveri scarlatti...» Si strinse nelle spalle il mantello che il vento gelato faceva schioccare come un logoro stendardo. «Non c’è freddo, laggiù, non c’è freddo...» In quel momento l’oscurità si animava di occhi gialli, di fruscii, di ringhi sordi mentre si alzava nel grande silenzio, forte come uno squillo di tromba, un nitrito di sfida. Mirsilo gli si avvicinò e lo fissò con sguardo fermo: «Ne conquisterai altri non peggiori» disse «e li aggiogherai al tuo carro. Andiamo, wanax, si fa notte».
In quell’ora, sotto un altro cielo, Anchialo balzava d’un tratto nel sonno e usciva dalla sua tenda scrutando nel buio in direzione della montagna e poi, dalla parte opposta, la spiaggia che biancheggiava sotto la luna. Gli pareva di udire uno strano rumore come di un galoppo lontano. Si avvicinava allora a una sentinella che vegliava accanto al fuoco, uno degli Epiroti che avevano seguito Pirro. «Hai udito?» diceva. «Che cosa?» «Qualcuno, qualcuno sta arrivando al galoppo.» «Tu sogni» disse la sentinella. Udiva soltanto il rumore della risacca, il moto insonne del mare. Ma Anchialo era sicuro del suono che colpiva le sue orecchie e, sguainata la spada, attraversava il campo immerso nel sonno e raggiungeva la
pianura che si stendeva fra i monti e il mare allungandosi alfine in una stretta lingua sabbiosa, chiusa fra alti promontori. Le onde del mare brillavano in una scia d’argento che si stendeva come un sentiero fino all’orizzonte, fino al volto pallido della luna. E il galoppo si faceva sempre più vicino, possente; si udiva a tratti battere le rocce dure che risuonavano sotto le unghie di bronzo con crepitio martellante e poi percuotere la terra compatta con rombo sordo. Veniva da destra o, forse, da sinistra. Non avrebbe saputo dire. D’un tratto, dal nulla gli fu addosso, udì acuti nitriti, udì sbuffare ansante il respiro da froge frementi, sentì nelle nari l’odore forte di sudore e poi subito l’ebbe alle spalle, verso il mare. Si volse e l’udì colpire la sabbia e poi flagellare le onde del mare finché il rumore si perse lontano, nei flutti, verso la pallida luce lunare. Non vide nulla ma restò a lungo a osservare quelle spume ondeggianti come bianche criniere nel vento, restò a guardare l’argentea scia tremolante che si stendeva infinita verso le sponde dell’Asia lontana e i campi deserti dell’Ida. Tornò alla fine sui suoi passi e si sedette, assorto, su un masso coperto di muschio odoroso. Di chi era il galoppo convulso che l’aveva investito da occidente perdendosi sul mare in direzione dell’Asia? Che messaggio mai gli mandavano gli dei? Chiuse gli occhi e cercò di scacciare un presentimento funesto. Il giorno successivo Pirro diede ordine di piegare a mezzogiorno seguendo la costa. Si lasciava così alle spalle le vaste pianure della Tessaglia e Ftia che aveva visto solo per breve tempo. Ricordava in quel momento come il Vecchio peleo al suo ritorno l’aveva interrogato a lungo, con sospetto, e poi gli aveva ingiunto di allontanarsi, di lasciare la terra, le navi e i guerrieri Mirmidoni di cui era indegno. L’aveva ricacciato sul mare con la sua nave, l’aveva obbligato a riprendere il viaggio. Ma ormai era vicino il giorno in cui sarebbe tornato, quando il Vecchio fosse morto, finalmente, quando lui fosse diventato il più potente sovrano nella terra degli Achei. Marciarono per tutto il giorno e per quello successivo seguendo la costa della Beozia, la terra maledetta di Edipo, di Eteocle e di Polinice e raggiunsero i confini della Focide e della Locride. Lì si unirono a lui i Locresi, sudditi di Aiace Oilèo che erano sopravvissuti alle onde del mare. Molti di loro non riuscivano più a vivere nella pace che avevano tanto sognato dopo anni di guerra. Il rumore delle armi e il suono dei corni li aveva subito fatti accorrere. Nella selvaggia vitalità di Pirro, nel suo ardore instancabile vedevano la forza del padre e lo seguivano affascinati anche se li avesse condotti agli inferi. Pochi giorni dopo erano accampati sull’Istmo. Nessuno si ricordò di offrire sacrifici al mare e a Poseidone ma Anchialo lo fece, da solo. Sacrificò un agnello pensando ai compagni che forse vagavano ancora nel mare, che forse non avevano ancora trovato la via del ritorno. In breve si trovarono a percorrere la via che correva fra il dominio di Argo e quello di Micene. Vedevano di lontano sentinelle appostate sui monti, vedevano nella notte segnali di fuoco che si levavano dalle cime, sentivano che il loro passaggio spargeva nel paese un’agitazione febbrile e confusa, un’attesa
spasmodica. La ferocia del figlio di Achille già incuteva paura nelle storie che i reduci della lunga guerra in Asia raccontavano nelle notti d’inverno ai figli e alle spose sedendo accanto ai focolari. Si sapeva che la guerra e la strage erano la sua ragione di vita, che non temeva uomini né dei, che l’odore del sangue gli infondeva un’energia maledetta, inesauribile, cui solo la distruzione dell’ultimo nemico poteva porre fine. Anchialo si chiedeva se Menelao, dopo aver messo in azione un simile sterminatore, sarebbe mai più riuscito a contenerlo o a indurlo un giorno alla pace. Tale era il terrore e l’avversione che ne provava che pensò anche di sopprimerlo nel sonno dopo la fine della guerra ma era quella una possibilità remota. Sulla sua persona vegliavano sempre Automedonte, l’auriga di suo padre e il gigantesco Perifante armato di due asce bipenni, coperto di bronzo. Finalmente una sera si affacciarono alla pianura d’Argolide: da un lato a sinistra si potevano vedere le luci di Micene e la cittadella ancora arrossata degli ultimi fuochi del tramonto. Più in là, ancora nascosta alla vista, era Argo e Anchialo la immaginò immersa nella pace che precede la sera. Si accamparono, ma a notte fonda, improvvisamente, le sentinelle svegliarono il re che dormiva nella tenda accanto al suo cane. Pirro si gettò un mantello sul corpo nudo e si affacciò spingendo lo sguardo verso le montagne che chiudevano a occidente la pianura Argiva. Su un’alta cima ardeva un fuoco gigantesco, spandendo per vasto tratto un riverbero palpitante: l’armata di Menelao aveva raggiunto il crinale dei monti e si apprestava a scendere nella piana. La tenaglia stava per chiudersi. «Fate accendere un fuoco» disse Pirro e tornò a dormire sotto la tenda.
15
Il consiglio dei capi si tenne poco prima dell’alba nella casa di un contadino nei pressi di Nemea: l’avevano trovata e predisposta i figli di Ippaso in gran segreto alcuni giorni prima. Entrò per primo il re Menelao, seguito dal nipote Oreste e dal principe Pilade che comandava i guerrieri focesi. Poco più tardi arrivò Pisistrato accompagnato dal suo auriga: era coperto di bronzo e un’enorme bipenne gli pendeva dalla cintura. L’appoggiò sul tavolo, si tolse l’elmo e baciò Menelao sulle due guance: «Il re mio padre ti saluta» disse «e mi incarica di dirti che, a partire da oggi, ogni giorno immolerà un toro delle sue mandrie a Zeus perché conceda la vittoria ai nostri eserciti. Naturalmente non ha mancato di dire che se non fosse così Vecchio avrebbe lui guidato l’esercito, che gli uomini di oggi non sono fatti dello stesso legno di quelli di un tempo e che avremmo dovuto vederlo quella volta che gli Arcadi invasero il suo territorio per razziare il bestiame...» Menelao sorrise: «Conosco quella storia: credo di averla udita raccontare cento volte quando combattevamo in Asia. Ma non credere, c’è molto di vero in quello che dice tuo padre. Pare che da giovane fosse realmente un combattente formidabile. Mi dispiace che non sia venuto: il suo consiglio ci sarebbe stato prezioso.» Il proprietario della casa portò una cesta con dei pani fragranti, appena usciti dal forno. Menelao li spezzò e ne distribuì a tutti. Pisistrato ne trangugiò qualche boccone poi disse: «Infatti abbiamo durato una gran fatica, i miei fratelli ed io, a convincerlo a restare a casa. Voleva venire a tutti i costi. Ma è molto Vecchio ormai, e indebolito dagli strapazzi della guerra. Portarlo con noi sarebbe stato rischioso.» In quel momento si udì il rumore di un carro e uno scalpitare di cavalli, poi il suono di un passo che si avvicinava. «È Pirro» disse il re alzandosi per accogliere l’ospite. Il figlio di Achille, rivestito dell’armatura del padre, si stagliò un attimo dopo nel vano della porta ingombrandolo completamente con la mole gigantesca. Il suo volto da adolescente contrastava stranamente con l’ampiezza delle spalle, con la possente muscolatura, con l’espressione inquietante dello sguardo. C’era qualcosa di innaturale in lui, come se non lo avesse partorito una donna ma lo avesse costruito il dio Efesto forgiandolo nella sua fucina come un automa sterminatore. Menelao lo salutò e lo fece sedere spezzando il pane anche per lui. «Ci siamo tutti, ora» disse poi. «Il consiglio può iniziare.» Un tenue riflesso entrava in quel momento dalla finestra annunciando il nascere di un nuovo giorno. Pirro parlò subito senza che il re lo avesse invitato a farlo: «Che bisogno abbiamo di un piano di battaglia? Aspettiamo che escano e li sterminiamo tutti. Se invece non escono scaliamo le mura e bruciamo la città» Oreste lo guardò e si sentì
prendere da un senso di profonda avversione, quasi di ripugnanza per quell’essere capace solo di cieca violenza ma non disse nulla. «Non è così semplice,» disse Menelao «sappiamo che c’è un contingente argivo in marcia verso di noi e non si può escludere uno sbarco cretese in qualche luogo nascosto. Quanto alla città io non voglio distruggerla. Ippaso mi ha detto che molti fra gli abitanti sono rimasti fedeli alla memoria di mio fratello. Io penso che dovremmo distaccare un contingente che ci guardi le spalle nel caso che un esercito argivo ci piombi addosso mentre attacchiamo le forze di Egisto. Ho pensato che il principe Oreste potrebbe comandarlo.» Pirro sorrise beffardo: «Hai ragione,» disse «così non correrà pericoli. Basto io ad affrontare i Micenei. Devo pure guadagnarmi il letto di tua figlia, no?» Oreste si sentì bruciare di sdegno e balzò in piedi mettendo mano alla spada: «Io non temo nessun pericolo» disse. «E non temo nemmeno te, anche se sei il bastardo di un semidio.» Pirro balzò a sua volta in piedi: «Allora vieni fuori» disse «e risolviamo subito questa faccenda. Di te, comunque, non c’è bisogno.» Oreste fece per dirigersi alla porta ma Menelao sbarrò loro il passo: «Fermi, principi!» tuonò. «Guai a un esercito diviso in se stesso ancora prima della battaglia! Per quanto siano forti gli eroi che lo guidano esso è destinato a essere distrutto e i suoi capi con lui.» I due giovani si fermarono. «Gli Achei hanno sofferto lutti tremendi per l’ira di tuo padre, non lo sai forse?» disse rivolto a Pirro. «Lo sai quanti giovani generosi sono stati falciati nei campi di Ilio a causa di quella contesa terribile? Quanto lutto, quante lacrime ha provocato? Quando tuo padre vide il corpo di Patroclo straziato dalle ferite, il suo corpo immobile nel rigore della morte avrebbe dato qualunque cosa per non aver represso il suo sdegno quando era ancora in tempo, per non aver abbandonato l’esercito alla furia di Ettore. Ora mangiate il pane che io ho fatto cuocere in questa casa affinché vi unisca il vincolo dell’ospitalità, sacro agli occhi degli dei.» Pisistrato porse il pane ad ambedue: «Il re ha ragione» disse. «È folle questa sfida. Sul campo oggi ci sarà gloria per tutti. E per te, Pirro, sarà sufficiente ricompensa condurre in sposa la figlia di Elena che tutti i principi degli Achei vorrebbero come moglie. Non dovrà esserci strage dei vinti e saccheggio perché questa è una guerra tra fratelli, fra gente dello stesso sangue. Tebe fu maledetta e poi distrutta per aver permesso il duello sacrilego di Eteocle e Polinice, figli dello stesso padre e della stessa madre. Se ciò accadesse gli dei ci maledirebbero e non ci sarebbe più pace nella nostra terra.» I due giovani sfiorarono appena con le labbra il pane che veniva loro porto e repressero la collera. Ma era chiaro a tutti che quella sfida era solo rimandata. Il re lasciò che il silenzio calasse su quel gesto per alcuni lunghi istanti poi riprese la parola con voce ferma, con tono d’imperio: «Dunque Pirro verrà a schierarsi al centro con la sua falange, davanti alle porte della città, mentre Oreste resterà arretrato con uno squadrone di carri per impedire che venga aggredito alle spalle. Io mi disporrò sulla destra assieme ai Focesi di Pilade e Pisistrato si piazzerà sulla sinistra. Io penso che Egisto uscirà a
combattere. La città si è estesa in questi anni anche fuori dalle mura. Molti fra i maggiorenti chiederanno che quelle case e quelle proprietà non vengano abbandonate alla distruzione. I figli di Ippaso daranno il segnale con i corni quando io ordinerò di attaccare. Ora tornate ai vostri reparti e che gli dei ci assistano.» Pirro uscì per primo, salì sul carro e partì velocissimo verso settentrione in direzione delle colline. Pisistrato lo seguì poco dopo ma prima di montare sul suo carro accanto all’auriga si volse verso Oreste che lo aveva seguito sulla porta e disse: «Stai attento, Oreste, ti ha provocato deliberatamente, sicuro che avresti reagito. È un gran brutto segno. Ma non pensarci per ora. Oggi dobbiamo vincere» Partì mentre un sole velato si affacciava dai monti. Menelao, dietro di loro, udì con angoscia quelle parole e in cuor suo era assalito da cupi presentimenti. Temeva che il principe Oreste avrebbe accolto prima o poi la sfida del figlio invincibile di Achille e avrebbe dovuto soccombere. Il principe Pilade si accostò a Oreste e gli disse: «Pisistrato è dalla tua parte. È importante. Qualunque cosa Pirro abbia in mente sa già che si troverà tutti contro. Stagli lontano, non lasciarti provocare, non fare il suo gioco». E poi, dopo essere usciti in mezzo al cortile, mentre stavano per separarsi, Pilade aggiunse sottovoce: «È evidente che il re è molto amareggiato, pensa di aver commesso un grave errore a chiedere l’alleanza di Pirro, a ritenerla indispensabile per la riuscita di questa impresa. Digli qualcosa per rincuorarlo: oggi in battaglia non deve avere dubbi e pensieri che gli attraversano la mente. Deve avere solo in mente la vendetta. Addio, amico. Questa sera tutto sarà compiuto.» Oreste si volse allora indietro verso Menelao e gli sorrise: «Non temere. È solo un ragazzo presuntuoso e tutti siamo eccitati nella vigilia della battaglia. Lui ha già combattuto mentre per me questo è il primo combattimento in campo aperto. Ha voluto farmelo pesare. Questo è tutto». Il re scosse la testa: «Ho paura,» disse «ho paura che questa guerra generi altri lutti, altre disgrazie senza fine. Sangue chiama sangue». «Hai ragione in quanto a questo: il sangue di mio padre e dei suoi compagni deve essere vendicato. Ricordati che sei l’Atride Menelao, pastore di eserciti. Nessuno può confrontarsi con te nella terra degli Achei.» Balzò sul carro e volò verso meridione in una nube di polvere. Menelao rimase solo in mezzo al cortile a fissare il sole che saliva lentamente nel cielo lattiginoso. Dietro di lui risuonò il belato delle pecore che il contadino conduceva fuori dallo stabbio. Lo guardò e per un momento desiderò di essere come lui, un uomo da nulla che pensa solo a procacciarsi il cibo per la cena.
Pirro radunò i suoi Epiroti, li dispose in colonna e cominciò a scendere verso la pianura. Automedonte reggeva le redini del suo carro da guerra. Anchialo gli si affiancò dicendo: «Mi consentirai di parlare al re Menelao? Me lo hai promesso, ricordi?» Pirro lo guardò con un sorriso ambiguo poi fece un cenno alle sue guardie: «Trattenetelo al campo finché non sarà terminata la battaglia e non mi avrete visto ritornare. Non mi fido di lui, in fondo potrebbe anche essere una spia
dei nostri nemici. Nessuno lo ha mai visto prima, nessuno sa da dove venga» Anchialo si divincolò mentre due guardie lo riconducevano indietro e lo legavano con una corda a un palo al centro del campo. Mentre lo conducevano via gridò: «Uomo senza onore e senza parola! Non sei il figlio di Achille, sei un bastardo!» Pirro si voltò indietro e gridò: «Non temere! Quando tornerò questa sera ti manderò di persona a riferire queste cose a mio padre, glielo dirai tu stesso che non tengo fede alla mia parola!» La sua risata si perse nel rumore degli zoccoli dei suoi cavalli e nel rombo dei cerchioni di bronzo del suo carro. Intanto una schiera di guerrieri era uscita dalla porta di Micene,era scesa lungo la valle delle tombe e si era schierata sul declivio che dominava la pianura. Menelao li vide e segnalò a Pisistrato e a Pilade di schierarsi sulla destra e sulla sinistra in attesa che Pirro venisse a occupare il centro. Come stabilito, Oreste aveva dispiegato il suo squadrone di carri a meridione per intercettare un eventuale tentativo degli Argivi di colpirli alle spalle. Pisistrato, più vicino alle mura di Micene, notò che le schiere avversarie si ingrossavano sempre più; frustò i cavalli e raggiunse Menelao: «Sono molti,» gli disse «molti di più di quanto mi aspettassi. Che aspetta Pirro a prendere posizione nello schieramento? Non vorrei che ci attaccassero ora. Potrebbero metterci in difficoltà» «Non credo che lo faranno. E poi, se è come dici, è meglio così, significa che tutte le forze di Egisto sono di fronte a noi: possiamo controllarle a vista. Per ora limitiamoci ad avvicinare maggiormente i nostri due schieramenti fra di loro.» Pisistrato obbedì ma Menelao si sbagliava. Verso settentrione Egisto era nascosto con un forte contingente di Argivi e con un gruppo scelto di carri micenei. I suoi informatori gli avevano da tempo segnalato l’avanzare dell’esercito epirota e lui lo aspettava fin dalla notte dentro a una valle ben riparata. Quando la colonna di Pirro gli transitò davanti fece alzare, in silenzio, il segnale di attacco. La squadra di carri si dispose a cuneo e al segnale successivo si lanciò in avanti a tutta velocità sulla colonna di Pirro ancora in ordine di marcia. La fanteria argiva si avventò in avanti di corsa. Quando Pirro si accorse della minaccia i carri di testa gli erano già addosso. Passarono attraverso la sua colonna in marcia come una falce fra le spighe del grano maturo lasciando dietro di loro il terreno rosso di sangue e sparso di membra maciullate. Le urla dei feriti squarciarono l’aria greve del mattino, rimbombarono sulle montagne vicine e l’eco le scagliò verso la pianura. Ma le armate di Menelao e di Pisistrato erano troppo lontane per udirle e Oreste, ancora più distante, aveva negli orecchi i nitriti dei suoi stalloni e il clangore dei carri che pattugliavano il terreno tutto intorno per vasto tratto. I Locresi della retroguardia si ritirarono a ridosso dei colli e le grida concitate dei loro comandanti li disposero rapidamente in linea di combattimento. Nella gran confusione i guerrieri che avevano combattuto a Ilio con Aiace Oilèo gridarono ai compagni di scagliare sul terreno davanti a loro tutte le pietre che potevano raccogliere per mettere ostacoli alla corsa dei carri nemici e di fare avanzare sui lati tutti gli arcieri. Gli Epiroti, terrorizzati, fuggivano invece da tutte le parti e cadevano a mucchi sotto il tiro dei lancieri essedari di Egisto che intanto aveva
individuato il carro di Pirro e gli lanciava addosso la sua squadra allargata a tenaglia. Il sole, già velato fin dal primo mattino, era ormai oscurato da un fronte di nubi nere spinte da un forte vento settentrionale che faceva turbinare la polvere alzata dagli zoccoli dei cavalli in corsa e dalle ruote dei cocchi lanciati a folle velocità nella piana. Pirro vide, a destra e a sinistra, le punte avanzate della squadra dei suoi inseguitori e si sentì perduto. Volse lo sguardo verso i colli e vide il contingente Locrese asserragliato che lanciava nugoli di frecce contro gli assalitori decimando gli equipaggi dei carri da guerra nemici. «Là!» gridò all’auriga «portami là prima che ci chiudano. Salvami, Automedonte, e ti farò re di Tirinto!» Ma Automedonte aveva già visto l’unica possibilità di scampo e stringeva col cavallo di sinistra, tirandone le redini con tutta la forza delle braccia che avevano dominato un tempo il galoppo di Balio e di Xantho. Gli inseguitori, intuita la manovra, frustarono ancora di più i loro cavalli per tagliare la strada a Pirro. Automedonte gridò: «Io ti porterò in salvo, figlio di Achille ma il carro di sinistra ci taglierà la strada se non abbatti l’auriga!» Pirro era fuori di sé, gridava: «Stringi! Stringi!» Ma Automedonte non poteva chiudere la curva più di quanto già non facesse per non rovesciare il carro. Sfilò con una mano un giavellotto dalla faretra laterale e la porse a Pirro gridando. «Abbatti l’auriga, ora!» Pirro si riscosse al contatto con l’arma, strinse nel pugno il frassino massiccio e si volse verso il nemico più vicino che gli tagliava la strada e già prendeva la mira con l’arco. Palleggiò l’asta e l’avventò con tutta la forza. La punta di bronzo squarciò il corsetto dell’auriga all’altezza della cintura, gli trapassò il ventre e uscì completamente dall’altra parte. Il carro, senza guida, sbandò e si rovesciò trascinando in un groviglio di uomini e di cavalli altri due carri che seguivano. Automedonte urlò: «Aah! Aah!» e allungò le redini sul collo ai suoi destrieri che volarono in salvo verso la linea dei colli. Egisto e gli altri si fermarono trovandosi sulla curva esterna ormai troppo ampia e si ricongiunsero al resto dello squadrone che fronteggiava i Locresi. Pirro si portò dietro le linee dove trovò molti dei suoi Epiroti e balzò a terra ritrovando d’un tratto il sangue freddo. Ricompattò le linee, formò un fronte chiuso facendo accostare scudo a scudo, fece inginocchiare la prima linea e ordinò a ogni guerriero di puntare a terra l’asta della lancia facendo sporgere le punte. Sarebbe bastato a trattenere i carri finché non avesse fatto arretrare il resto dell’esercito su un terreno più accidentato. Là i nemici potevano raggiungerlo solo appiedati e avrebbe potuto guadagnare altro tempo, forse sarebbe riuscito ad aprirsi un varco fino a Egisto...
Intanto Menelao era sempre più preoccupato. Non riusciva a immaginare cosa potesse essere accaduto a Pirro e il massiccio schieramento dei Micenei si faceva sempre più minaccioso. Ordinò allora a uno dei suoi uomini di raggiungere Oreste e di inviarlo a settentrione con il suo squadrone per vedere cosa fosse successo. Era
un rischio scoprirsi dalla parte di Argo ma bisognava tentare. Il cielo era sempre più scuro e di tanto in tanto balenavano dei lampi sulle cime dei monti, raffiche rabbiose piegavano le Chiome dei pioppi in mezzo alla valle e i cimieri sugli elmi dei guerrieri. I cavalli, sotto i gioghi, fremevano impazienti raspando il terreno con gli zoccoli, sentivano l’addensarsi della tempesta in cielo e sulla terra. Quando Oreste ebbe ricevuto l’ordine di Menelao lasciò un piccolo presidio di guardia e si lanciò con tutto lo squadrone verso la linea dei colli che si profilava a settentrione. Non passò molto tempo che si rese conto della situazione e fu per fermare i suoi cavalli e tornare indietro abbandonando Pirro al suo destino ma il principe Pilade lo convinse a riprendere la corsa: «Ci sono anche truppe locresi con Pirro,» gli gridò «e questa è la tua migliore rivincita. Il figlio di Achille ti sarà debitore della vita!» Oreste allora lanciò di nuovo all’attacco i suoi carri dispiegandoli attraverso tutta la pianura su tre linee perché si abbattessero a ondate sui nemici. Egisto si accorse troppo tardi di quanto stava per accadere e cercò disperatamente di volgere il fronte nella direzione opposta abbandonando lo scontro a terra con gli uomini di Pirro. Gridò ai suoi uomini di raggiungere i carri e di cercare di fuggire sui lati prima di essere raggiunti ma la manovra fallì sul nascere. I guerrieri erano appena balzati sui loro carri che furono investiti dalla prima ondata e decimati. Poi arrivò la seconda ondata e poi la terza. Il carro di Egisto si era rovesciato e il suo auriga era stato trascinato via e fatto a pezzi dai cavalli imbizzarriti fra le pietraie di un torrente in secca. Si rialzò e si volse smarrito per cercare una via di scampo ma Pilade lo vide e gridò verso Oreste che passava veloce poco lontano: «Alla tua sinistra! Guarda alla tua sinistra!» Oreste intimò all’auriga di trattenere i cavalli e riconobbe Egisto. Balzò dal carro e corse verso di lui con la spada sguainata. «Pagherai per il sangue di Agamennone!» gridava come fuori di sé. «Gli comparirai dinanzi in questo stesso giorno nell’Ade, con il naso e le orecchie mozze!» «E allora vieni a prendermi, botolo rabbioso!» gli gridò Egisto facendogli fronte «perché ho fottuto tua madre e ho scannato tuo padre, sì, sanguinava come un maiale!» Quelle parole lo colsero in piena corsa e lo passarono come una lama incandescente, gli devastarono l’animo. Un velo di sangue calò allora sugli occhi del principe. La furia svanì d’un tratto facendo posto a una calma glaciale. Arrestò la sua corsa e si portò vicino al nemico palleggiando la lancia. La sicurezza beffarda impressa sul volto di Egisto sparì allora d’un tratto: Oreste era mancino e lo minacciava ora implacabile sul fianco scoperto. Egisto volse attorno lo sguardo e, visto uno scudo abbandonato, si chinò con gesto fulmineo a raccoglierlo per far fronte alla minaccia inattesa ma in quell’attimo Oreste scagliò il frassino e lo trafisse in mezzo alle scapole fra il collo e la schiena dove la corazza lo lasciava scoperto. Lo inchiodò al suolo in quella posizione, in ginocchio, e restò a guardarlo mentre cacciava dalla bocca un gran fiotto di sangue fra conati, strepiti e rantoli. Ma prima che morisse gli si avvicinò, gli svelse l’asta dal corpo e lo rovesciò indietro supino. Poi sguainò la spada e gli tagliò il naso, le labbra, le orecchie e i
genitali perché voleva che apparisse in quel modo al cospetto dell’ombra dell’Atride suo padre nelle case dell’Ade. L’anima di Egisto fuggì gemendo nel vento freddo che batteva la campagna e Oreste si trovò di fronte improvvisamente Pirro. Era coperto di sangue dalla testa ai piedi e aveva brandelli di carne e di cervello umano sulla corazza e sugli schinieri. Oreste si sentì percorrere da un brivido gelato al vederlo. Ansimava, ed emanava un odore insopportabile. «La fanteria argiva è annientata» disse. «Immagino che dovrei ringraziarti per avermi levato di dosso i carri da guerra.» E poi, osservando il cadavere sconciato di Egisto: «Per gli dei, devo ammettere che ci sai fare. Non l’avrei detto, proprio non l’avrei detto.» Oreste si sentì a disagio per quell’elogio. Rispose: «Pisistrato e il re Menelao potrebbero essere in difficoltà. Bisogna tornare a Micene». Balzò sul carro seguito da Pilade e dal suo squadrone e si gettò al galoppo verso la città. Pirro si volse indietro verso i suoi e disse: «Mettetevi subito in marcia e raggiungetemi al più presto. Rischiate di arrivare quando la battaglia sarà finita e non ci sarà niente per voi» Poi balzò sul carro che Automedonte gli portava in quel momento e si slanciò dietro lo squadrone di Oreste. «Questa sera sarai re» gli disse. «Come ti avevo promesso.» «Non l’ho fatto per te» rispose l’auriga. «L’ho fatto perché sei figlio di tuo padre.» E frustò i cavalli.
Intanto i comandanti dell’esercito miceneo avevano dato l’ordine di attacco ormai sicuri che Egisto avesse avuto ragione di Pirro e approfittando del fatto che anche lo squadrone di carri al comando di Oreste si era allontanato verso settentrione. Le forze erano bilanciate, avrebbero anche potuto vincere. Menelao allora aveva fatto blocco con i Pilii di Pisistrato e si era schierato al centro lasciando al figlio di Nestore l’ala destra. L’esercito nemico, avvantaggiato dalla pendenza e dalla direzione del vento, aveva guadagnato terreno e stava spingendo indietro gli avversari benché Menelao, al centro, si battesse come un leone. Gli sembrava di combattere sotto gli occhi di suo fratello, gli sembrava di udirne le grida rimbombare dai penetrali del palazzo. Gridava a quelli che aveva di fronte: «Cessate di combattere! Accettate la tregua o sarete sterminati. Abbandonate l’usurpatore!» Ma pochi l’udivano nel fragore del combattimento e coloro che l’udivano non potevano capire. Continuavano a combattere disperatamente perché era stato loro detto che sarebbero stati sterminati tutti e le loro famiglie vendute in schiavitù. Pisistrato si batteva all’ala destra brandendo l’enorme bipenne, rovesciando i nemici uno dopo l’altro e trascinandosi dietro i suoi sì che l’intero schieramento tendeva a ruotare verso sinistra. In questo modo quando lo squadrone di carri guidato da Oreste apparve alla vista l’esercito della regina Klitemnestra gli volgeva quasi completamente le spalle. Oreste non rallentò nemmeno la corsa e si slanciò sui nemici trascinandosi dietro tutti gli altri guerrieri. Anche Pirro, che seguiva a
breve distanza, si scagliò nella mischia mentre il cielo era dilaniato da folgori accecanti e squassato da tuoni fragorosi. Al momento dello scontro scrosciò anche la pioggia presto mutata in grandine e i due eserciti furono avvolti in un magma di fango e sangue, in un caos di urla e di nitriti che oscurò completamente la mente dei guerrieri immergendoli in una furia cieca, in un delirio di follia distruttrice. E certo se gli dei avessero dissolto la spessa caligine che oscura gli occhi dei mortali l’Atride Menelao e Pirro, Oreste e Pilade e Pisistrato avrebbero visto trascorrere fra i nembi della tempesta gli spettri insanguinati di Phobos e Deimos che precedono in battaglia la potenza cieca del dio della guerra. Intanto erano sopraggiunti i Locresi e gli Epiroti e si erano incolonnati dietro il carro da guerra di Pirro. Il figlio di Achille riuscì a spingersi in prima linea attraversando tutto lo schieramento e lì, essendo il terreno troppo impervio, sceso dal carro, si mise a combattere a piedi con tale furore che la linea nemica ondeggiò e s’infranse lasciando al centro un varco in cui s’incunearono a centinaia i guerrieri che venivano dietro di lui. L’esercito miceneo era ormai allo sbando e si ritirava in disordine verso la porta per cercare scampo all’interno delle mura ma Pisistrato tagliò loro la strada e quelli, vistisi circondati, gettarono le armi invocando pietà. Menelao, a quella vista, si fermò e ordinò agli araldi di far cessare il combattimento. Gli squilli dei corni risuonarono fra il rombo dei tuoni e Pisistrato per primo li udì richiamando i suoi guerrieri. Li udì Oreste e fermò l’impeto dei suoi carri. Li udì Pilade e richiamò i suoi Focesi all’ala sinistra ma Pirro continuò il suo massacro e lanciò gli Epiroti verso il quartiere indifeso che sorgeva a ridosso delle mura.
Intanto Anchialo era rimasto solo al centro del campo perché gli Epiroti che lo custodivano, allo scoppiare del temporale, erano corsi a cercare un riparo in una grotta della montagna. Attese che la pioggia inzuppasse il terreno poi si puntellò con i piedi e spinse in avanti e all’indietro finché ebbe divelto il palo. Si liberò dei lacci e corse verso la sua tenda prendendo le armi poi raggiunse uno dei cavalli che scalciavano terrorizzati cercando di liberarsi dalle briglie che li tenevano legati a un albero ai margini del campo. Prima che gli Epiroti se ne accorgessero ne aveva sciolto uno e gli era balzato in groppa. Lo spronò lanciandolo al galoppo nella pianura rischiarata dalle folgori e spazzata da raffiche di vento. Quando giunse nei pressi di Micene, grondava sangue dalla testa e aveva il corpo dolorante per i colpi della grandine ma vide distintamente l’armata di Menelao immobile sotto la pioggia. Proprio in quel momento vide passare su un carro da guerra un giovane guerriero dai capelli biondissimi e dirigersi verso Pirro che continuava ad avanzare verso la città. Il giovane gli tagliò la strada e balzò a terra gridando: «Fermati e richiama i tuoi uomini. Il re ha ordinato di cessare il combattimento. I superstiti si sono arresi. Basta col sangue!». «Mi dispiace,» rispose Pirro «ma ho promesso ai miei uomini un ricco bottino, per questo mi hanno seguito. Fermali tu, se ne sei capace.»
«Io fermerò te, se non li richiami immediatamente» gridò Oreste. «Esegui l’ordine del re!» «Sono io il re» gridò Pirro. «Sono il più forte. Vattene prima che ti getti nel fango. Non sfidare la fortuna.» Oreste sfilò una lancia dalla staffa: «Questa è la mia città perché io sono il legittimo erede di Agamennone e tu sei sul mio territorio. Ritirati e richiama i tuoi uomini. Te lo dico per l’ultima volta». «Se vuoi che me ne vada devi uccidermi» disse Pirro. «Non hai altro modo.» Oreste balzò dal carro impugnando la lancia con la mano destra. Il re Menelao vide e gridò: «No! Non scendere dal carro, ti ucciderà» Ma era troppo tardi ormai: i due guerrieri si fronteggiavano con le lance strette nel pugno e cercavano con gli occhi un varco nelle difese dell’avversario. Pisistrato si avvicinò a Menelao: «Devi fermarlo,» disse «o lo farà a pezzi. Guarda, Pirro lo sovrasta di tutte le spalle. La sua potenza è insostenibile». Ma Pirro scagliò in quel momento la sua lancia ferendo l’avversario di striscio al fianco destro. Il sangue sprizzò macchiando di rosso il terreno. Oreste strinse i denti. Si rendeva conto che nella lancia stavano tutte le sue possibilità di risolvere lo scontro. Se avesse fallito avrebbe dovuto accettare il duello con le armi corte e sarebbe stata la fine. Per questo aveva sempre tenuto la lancia nella destra. Tentò qualche finta per sbilanciare l’avversario ma Pirro era saldo come una montagna e le ultime gocce di pioggia scivolavano sulla sua armatura come su una roccia levigata. A un tratto Oreste vide che Pirro cercava un appoggio per il piede destro malfermo su un sasso scivoloso. Fulmineo lasciò cadere lo scudo, passò la lancia nella sinistra e avventò un colpo formidabile. Pirro reagì nello spazio di un batter di ciglia e portò lo scudo in alto e verso destra. La lancia urtò l’orlo del gran bronzo e sfuggì deviata di lato. Percosso, lo scudo del Pelide rimbombò con fragore. Pirro scoppiò in una risata mentre Oreste, mortalmente pallido, si chinava a raccogliere lo scudo. «Sapevo che eri mancino! Ti ho visto uccidere Egisto, non ricordi? E ora sei morto, ragazzo stolto!» Sguainò la spada e gli fu addosso. «Fermati!» gridò Menelao. «Vi unisce ormai un vincolo di parentela. Non commettere un delitto così orrendo.» Ma il figlio di Achille era ormai inarrestabile e colpiva con immensa potenza. Oreste cercò di sorprenderlo con un affondo ma Pirro rispose con un colpo tremendo e gli mandò in pezzi la spada. Oreste si sentì mordere il cuore dalla morte. Bagnato di sudore freddo arretrò cercando di opporre lo scudo ma capiva che il suo tempo era ormai alla fine. Si volse smarrito verso le file dei suoi come per cercarvi aiuto e in quell’attimo un uomo sgusciò tra le file e gridò: «Con questa vincerai! Prendila!» E gli lanciò una spada. Oreste fece un balzo all’indietro e l’afferrò con gesto fulmineo poi si volse di nuovo a fronteggiare l’avversario. Balenò un lampo nel cielo e la grande spada brillò nella sua mano di una luce azzurra come la folgore. Non era di bronzo, un’arma così non l’aveva mai vista. Pirro la vide e un lampo di paura gli attraversò lo sguardo. Non aveva mai visto nulla di simile. «Colpisci!» gridò Anchialo che un attimo prima era riuscito a farsi largo tra le file. «Colpisci! È metallo iperboreo, nulla può vincerlo.»
Oreste guardò ancora la spada, si raccolse tutto dietro lo scudo e cominciò ad avanzare. Il suo sguardo aveva gli stessi riflessi della lama, la sua mano come un artiglio era serrata sull’impugnatura di corno. Pirro reagì all’oscuro timore che s’insinuava dentro di lui: «È un altro dei tuoi trucchi!» gridò. «Non m’inganni più!» Si slanciò in avanti e calò una rapida, martellante successione di colpi dall’alto mirando dritto alla testa. Oreste alzò la spada a parare i colpi e, prima che la foga dell’assalto si esaurisse, l’arma di Pirro fu tranciata all’elsa. Lo sbalordimento di Pirro durò un attimo e gli costò la vita. Oreste immerse la lunga lama a fondo nel fianco dell’avversario che lasciò cadere il moncone e crollò sulle ginocchia. Il suo sguardo era già velato dalla morte e il calore vitale abbandonava rapidamente le sue membra. Alzò la testa con grande fatica per incontrare gli occhi del vincitore che stava in piedi e immobile davanti a lui: «Sei il re di Micene ormai» disse «il re dei re degli Achei... e anche Ermione è tua. Abbi pietà, se credi negli dei...». Il suo volto da adolescente, rigato di pioggia, era bianco come la cera. «Che cosa vuoi dal re di Micene?» disse Oreste e l’animo in quel momento si apriva a un oscuro sgomento. «Fai condurre il mio corpo al Vecchio Peleo, a Ftia fra i Mirmidoni, chiedigli di accogliermi... ti prego.» Si portò la mano alla larga ferita e la mostrò, piena di sangue. «Per questo sangue... per questo sangue forse avrà pietà.» Reclinò il capo sul petto ed esalò l’ultimo respiro. Il vento della sera raccolse la sua anima e la portò con sé per la valle delle tombe, fin sul mare e al promontorio Tenaro dove dicono è l’ingresso al mondo dei morti e alle case oscure dell’Ade.
Menelao e Pisistrato accorsero per abbracciarlo ma Oreste volse lo sguardo verso la città e verso la torre del baratro dove una figura ammantata di nero si stagliava contro il cielo plumbeo. «Prima che scenda la notte» disse «un altro destino si deve compiere.» Menelao chinò il capo: «Figlio,» disse «tuo padre è già vendicato. Hai ucciso Egisto. Nessuno potrà biasimarti se risparmierai tua madre». «No,» disse Oreste «l’ombra di Agamennone non potrà aver pace finché i colpevoli non avranno pagato. E lei è più colpevole di chiunque.» Si incamminò verso la città mentre l’eco degli ultimi tuoni si spegneva lontano sul mare. Gli spalti erano deserti e la porta dei leoni era spalancata. Avanzò lungo la grande rampa, passò presso le tombe dei re Perseidi sormontate dalle stele lucide di pioggia e raggiunse il cortile del palazzo dove aveva giocato da bambino tante volte, dove aveva visto suo padre salire sul carro e partire per la guerra. Non c’erano servi né ancelle nella corte e sotto i portici, né guardie a custodire l’atrio e la porta era spalancata sul buio. Oreste sguainò la spada ed entrò e il silenzio inghiottì subito il rumore dei suoi passi che si perdevano nella casa deserta. Il cielo si aprì lentamente all’orizzonte verso il mare e mostrò per pochi istanti l’occhio d’oro del sole che tramontava; stormi di corvi e di colombi scendevano
sulle mura e sulle torri della città a cercarvi il riparo per la notte. Ma in quel momento un urlo di dolore dalle viscere del palazzo squarciò il silenzio e li fece alzare atterriti con fitto battito d’ali. Presero a roteare smarriti sugli spalti mentre l’eco di quel grido si perdeva nella valle. E prima che si spegnesse un altro grido, più forte ancora, più folle e disperato, salì verso il cielo ormai buio e l’inseguì, vi si sovrappose come in un coro lugubre, e le due voci precipitarono insieme nel baratro spegnendosi sul fondo in un cupo lamento. I colombi scesero allora a uno a uno sulle mura e sui tetti della città a cercarvi il riparo per la notte. Solo i corvi rimasero in alto continuando a roteare in ampi cerchi sul palazzo riempiendo il cielo di acute strida.
16
Anchialo fu condotto alla presenza del re Menelao soltanto due giorni dopo che era stata combattuta la grande battaglia per la riconquista di Micene. Quella stessa notte gli aveva mandato a dire di restare suo ospite nella tenda che aveva fatto preparare per lui e lì di attendere finché non lo avesse convocato. Era poi salito nel cuore della notte al palazzo di Micene non vedendo tornare Oreste. Il principe sembrava scomparso e quando Menelao entrò nel palazzo trovò soltanto il corpo di Klitemnestra. Indossava il costume delle antiche regine che scopriva il petto e mostrava una larga ferita proprio fra i due seni. Il sangue era colato copioso a macchiare i gradini del trono. Si disse che la regina si fosse vestita così per accogliere il figlio, sicura che egli non avrebbe osato immergere la spada nel seno che lo aveva allattato bambino. Fino a tarda notte poi gli uomini di Menelao avevano tentato di spegnere l’incendio che gli Epiroti avevano appiccato al quartiere di Micene che sorgeva fuori dalle mura. Tutto era andato distrutto e le case erano state incenerite dal fuoco. Oreste fu ancora atteso invano, a lungo, finché il re chiese al principe Pilade di inviare i suoi Focesi a cercarlo. Guardarono dappertutto al bagliore degli incendi che devastavano il quartiere indifeso della città e al lume delle torce con cui esplorarono i corridoi e i sotterranei del palazzo, le case della città una per una e perfino la valle del tombe. Fu qui che trovarono invece Elettra seduta in silenzio sulla pietra che copriva la sepoltura del padre. La condussero alla presenza di Menelao che la tenne stretta a lungo fra le braccia lasciando che desse libero sfogo al pianto. Quando finalmente trovò la forza di parlare la principessa disse che il fratello era partito, disse che l’atto di giustizia che aveva compiuto gli aveva sconvolto la mente e il cuore. Si recava in un lontano santuario, incalzato dall’ombra inquieta della madre, per cercarvi la purificazione per il sangue che aveva versato. Solo quando l’avesse ottenuta avrebbe fatto ritorno. Il principe Pilade dormì nel palazzo, sdraiato per terra su una pelle d’orso fuori dalla camera di Elettra per poter accorrere al suo capezzale se avesse avuto bisogno di aiuto in quella notte spaventosa. Menelao invece ripartì subito perché quella città evocava per lui solo amari ricordi. Diede ordine che il corpo di suo fratello Agamennone fosse riesumato e sepolto nella sua tomba grandiosa scavata nella valle dopo essere stato rivestito delle sue armi e con la maschera d’oro sul volto come conveniva al suo rango. E ordinò che fosse riservata una tomba anche alla regina Klitemnestra. Sapeva infatti che per quanto gli uomini possano essere malvagi essi soggiacciono pur sempre alla volontà ineluttabile del Fato e sapeva che la morte accomuna tutti e rende tutti uguali. Per questo fece anche raccogliere il corpo di Pirro, lo fece lavare e imbalsamare e dispose perché fosse condotto su una nave fino a Ftia e alla terra dei Mirmidoni perché ricevesse gli onori funebri da Peleo.
Il giorno successivo marciò verso Argo e predispose il blocco della città da occidente e da settentrione mentre Pisistrato salpava con la sua flotta e sbarcava verso sera i suoi guerrieri nella rada di Temenion chiudendo la città da meridione. Fu là che Anchialo lo raggiunse e fu introdotto alla sua presenza. Appena lo vide, col volto segnato e pallido, con la barba ispida, gli si gettò ai piedi e gli baciò la mano: «Mi riconosci, wanax? Mi riconosci?» «Ti riconosco» disse il re accennando con il capo. «Sei l’uomo che ha lanciato una spada al principe Oreste e gli ha salvato la vita. Ti sono debitore. Chiedi e ti darò tutto ciò che posso.» «No, wanax, prima, prima di quello, nei campi di Ilio, ricordi? Sotto la tenda di Diomede. Io sono Anchialo, figlio di Iaso, è là che mi hai conosciuto.» Il re si alzò, gli porse le mani, lo fece alzare. Lo prendeva il desiderio di pianto e la voce gli tremava: «Quella guerra maledetta,» disse «quanto dolore... quanto dolore... Eppure, ora che ti vedo, è dolce ricordare quei tempi, il conforto e il calore dell’amicizia. Ma dimmi, che cos’era quella spada meravigliosa? Come l’hai avuta?» «Oh, wanax, è questo il motivo per cui sono giunto fino a qui. Quando il re Diomede si accorse che la regina tramava per ucciderlo e che aveva preso il potere nella città, preferì riprendere il mare per cercarsi una nuova patria piuttosto che scatenare una nuova guerra. In molti lo seguimmo e navigammo nel mare occidentale in pieno inverno verso la Terra della Sera. Ma un giorno, mentre attaccavamo un villaggio per predare cibo e donne, se ci fosse riuscito, vedemmo un’orda immensa scendere dai monti. Erano migliaia e migliaia e avevano con se le donne, i vecchi e i fanciulli. Un popolo intero che migrava. Ci attaccarono e potemmo salvarci a stento perdendo molti compagni. Il sire Diomede affrontò il loro capo e rischiò di essere ucciso. L’uomo era infatti armato con una spada simile a quella che ho dato al principe Oreste, e come lui tutti gli altri guerrieri della sua stirpe. È un metallo formidabile: resistente come il bronzo ma duro come la pietra, nulla può resistergli. «Il re riuscì ad abbattere il nemico con la lancia, da lontano, in combattimento singolare, ma capì che nessun esercito potrebbe vincere contro questi invasori schierato in campo aperto. Essi hanno anche migliaia di cavalli ma non si fanno trainare sui carri, come noi, li montano sulla groppa e formano con essi un animale solo, con la potenza del cavallo e l’abilità, la ferocia e l’astuzia dell’uomo. Come centauri volano sui campi e sui monti, veloci come il vento. Possono correre in cerchio e saltare oltre un ostacolo. Io lo so perché in seguito fui loro prigioniero per quasi due anni. «Riuscimmo a scampare a stento fuggendo per mare ma il re Diomede mi chiamò e mi ordinò di tornare indietro benché io non volessi. Disse: “Devi tornare indietro, devi avvertire Nestore, Agamennone, Menelao se è tornato, Stenelo ad Argo, se si è salvato. Dì loro ciò che hai visto, che apprestino le difese, che erigano un muro sull’istmo, che lancino sul mare le navi nere...”.» Menelao lo guardava attonito, sentiva in quel momento risuonare ancora, dentro di sé, la voce del Vecchio del Mare, rivedeva la grande caverna e le visioni
che gli mostravano i compagni: Ulisse prigioniero in un’isola incantata, Diomede nelle paludi di una terra remota. «Obbedii a malincuore» riprese Anchialo «e volsi la prua a meridione ma incappai qualche giorno dopo in una flotta di piratiSheqelesh Ci battemmo con tutte le forze ma fummo sopraffatti. Mi salvai a stento ma ho ancora negli orecchi le urla di dolore dei compagni torturati a morte. Raggiunsi la costa e iniziai la mia marcia verso la terra degli Achei, benché non avessi idea di quanto fosse distante. Fui fatto prigioniero due volte e finii nuovamente nelle mani di quel popolo che mi tenne come schiavo finché non riuscii di nuovo a fuggire. Dopo lungo girovagare e dopo molte sofferenze giunsi a Butrinto e alla casa di Pirro. Il figlio di Achille era già partito ma incontrai Andromaca che mi rivelò come poterlo raggiungere. Con lui ho attraversato le montagne e sono giunto fin qua.» Il re rimase a lungo in silenzio a meditare poi disse: «Quanto distano?» «È difficile a dirsi, wanax. Non sembra che abbiano una meta. A volte si fermano in un luogo anche per anni ma non sanno costruire città e quindi continuano a muoversi cercando sempre nuovi pascoli per le loro mandrie. Quando si muovono marciano verso meridione e dunque, prima o poi, giungeranno fin qua. Non so dirti quando, forse fra un anno o fra due o fra dieci ma arriveranno, stanne certo. Oh, wanax, ascolta le parole del sire Diomede al quale ti legava una profonda amicizia. Erigi un muro sull’istmo, appresta le difese, lancia sul mare le navi nere! Io questo ti dovevo riferire: la mia missione è compiuta. Ora, se la tua offerta di un premio è ancora valida...» «Tutto quello che posso» disse il re. «Tutto quello che posso.» «Allora dammi una nave perché voglio tornare dal mio re. Non ti chiedo altro.» «L’avrai domani stesso se vuoi. Ma io ti chiedo di attendere finché Argo sia caduta, solo allora prendi il mare e quando vedrai il tuo re, il sire Diomede, digli che Argo è sua. Che torni. Stringeremo un patto di eterna amicizia e di alleanza che nessuno potrà sconfiggere e invecchieremo insieme guardando crescere i figli dei nostri figli. Ma se non volesse tornare, digli che resterà per sempre nel mio cuore, come tutti gli amici e i compagni che hanno sofferto dolori con me nei campi insanguinati dell’Asia.» «Farò come tu mi consigli» disse Anchialo. «E se vuoi combatterò ancora a fianco dei tuoi guerrieri, come un tempo.» «Non sarà necessario» disse Menelao. «Argo cadrà senza combattere. L’esercito che avevano mandato con Egisto è distrutto. I superstiti sono passati dalla nostra parte. Non possono resistere.» «Egialea... Che ne sarà di lei?» «Deciderà il consiglio dei capi. Ma la regina di Argo è una donna orgogliosa. Forse prenderà lei la giusta decisione. Ma ora vai, riposati. Abbiamo tutti bisogno di riposo.» Lo congedò baciandolo su ambedue le guance. Anchialo si mosse per uscire ma prima di varcare la porta si volse indietro: «C’è una cosa che non ti ho detto» «Che cosa?»
«Quella gente... quel popolo parla una lingua simile alla nostra. Diversa. Eppure simile. Mi sono sempre chiesto il perché.» Uscì nella notte e il re rimase solo nella tenda con quelle parole. «Una lingua simile alla nostra.» Continuava a ripetere. Poi si portò le mani al volto e chiuse gli occhi: «Oh dei» disse «dei del cielo. Tutto si compie. Gli Eraclidi stanno per tornare. Se siete giusti lasciate, vi prego, che io viva fino al momento in cui saprò se la guerra in Asia è stata combattuta per la salvezza del nostro popolo o se tanto sangue e tante lacrime sono stati versati per nulla.» Due mesi dopo Argo si arrese: Menelao e Pisistrato entrarono in città accolti dagli abitanti in festa. La regina Egialea si uccise. Anchialo ottenne una nave e partì sul finire dell’inverno navigando a settentrione verso le foci di Eridano. Ricordava infatti le parole di Diomede: quando avesse trovato un luogo adatto avrebbe fondato una città sulla costa e avrebbe posto sul lido un segnale perché lui potesse ritrovarli. E il re non mancava mai alla parola data.
Intanto, nella terra di Hesperia Diomede aveva attraversato i monti Azzurri coperti di neve e aveva preso a discendere un grande fiume finché era giunto ai limiti di una pianura che si stendeva fino al mare occidentale. L’abitavano iLats che vi si erano stabiliti da non molti anni avendo oltrepassato le Montagne di Ghiaccio, secondo quanto si diceva, o essendo giunti attraverso il mare orientale. Eurimaco il troiano disse che a settentrione di quella terra si erano stanziati i Tersh e che Enea aveva occupato un territorio sulla costa sottraendolo in combattimento ai Lats. Se durante la sua assenza non era mutato nulla il principe dardano doveva trovarsi a non più di due giorni di cammino lungo la riva del grande fiume. Diomede decise allora di accamparsi. Il clima in quel luogo era più mite e i pascoli erano rigogliosi. Una sera chiamò Eurimaco e gli disse: «Domani partirai» Poi chiamò Lamo, figlio di Onchésto, perché andasse con lui come araldo: «Quando vedrai Enea gli dirai: “Il Tidide Diomede che già ti ha sconfitto nei campi d’Ilio è qui. Egli pensa che non ci sia posto per tutti e due in questa terra e pensa che il duello che ha visti opposti i nostri due popoli per tanti anni debba giungere all’estremo compimento altrimenti gli dei non avrebbero fatto sì che dopo tanto vagare per terra e per mare ci ritrovassimo fronte a fronte in una terra così lontana. Egli ti attende in una valle lungo il grande fiume e ti sfida a duello. Chi vincerà dei due avrà certamente il favore degli dei e il dominio su questa terra”.» «Glielo dirò» disse Lamo. Partirono l’indomani e anche il Chnan andò con loro. Diomede attese in quel luogo per molti giorni senza che accadesse nulla. Mirsilo, nel frattempo, riuscì a razziare dei cavalli in un villaggio della montagna. Rimontò il carro da guerra del re, ingrassò i mozzi, adattò la cassa e il timone, lucidò ogni decorazione finché lo fece risplendere come un tempo. Scelse dalla mandria i due migliori esemplari, due maschi, ed ogni giorno, dall’alba al tramonto, li fece correre lungo la riva del fiume, li abituò al giogo e alle briglie, li addestrò a ogni manovra. Erano molto
diversi dai cavalli asiatici e anche dai cavalli argivi. Erano più alti e più snelli, meno veloci, forse, ma più potenti e con un temperamento molto focoso. Il re passava la maggior parte del tempo in disparte e raramente assisteva a quelle esercitazioni: sembrava quasi non interessarsi al grande sforzo che Mirsilo stava compiendo per fornirgli un mezzo degno di un re, di un eroe che aveva alzato la propria fama fino al cielo. Non era vero: Diomede si appartava per raccogliere le proprie energie, per dominare i propri movimenti, per concentrare le potenze del suo spirito. Si preparava allo scontro distillando fino all’ultima goccia della sua energia vitale. Al punto che Mirsilo temeva che se Enea non avesse accettato la sfida il re si sarebbe ucciso. Una sera, verso il calare delle tenebre vide arrivare Lamo e il Chnan in groppa a un asino. Incitò i cavalli e corse loro incontro. «Lo avete visto? Ha accettato?» Il Chnan arrestò l’asino e scese a terra. Lamo disse: «Sì, l’ho visto. Accetta. Portami dal re» Diomede lo accolse sotto la tenda, seduto. Era pallido ma gli occhi erano accesi da una luce febbrile. Non si mosse. Non chiese nulla. Attese che fosse Lamo a parlare. «Enea accetta la sfida. Giungerà al primo giorno della luna nuova. A parte il suo auriga, solo. Anche tu non avrai che l’auriga. Combatterete come a Ilio. Dal carro con tre giavellotti e poi, se sopravvivrete, a terra, con la lancia, la spada e l’ascia. Nessuna tregua. All’ultimo sangue. Queste sono le condizioni che ho accettato a tuo nome.» Diomede si accese in volto come se la vita rifluisse nelle sue vene: «Hai fatto bene» disse. «Ti ringrazio. Se vincerò, se fonderò la mia città, finalmente...». Il Chnan lo interruppe: «Non è tutto. I Lats lo temono. Almeno una parte di loro, mentre altri sarebbero disposti ad accoglierlo. Quando hanno saputo di questa sfida mi hanno affidato un messaggio per te. Ti chiedono di unirti a loro con tutti i tuoi guerrieri per ricacciare in mare i Troiani. Anche i Tersh sono divisi fra loro. Qualcuno sta con i Troiani ed è pronto a un’alleanza in nome della comune provenienza dall’Asia ma altri vorrebbero morto lui e tutta la sua gente» Il re lo guardava stupito: «Come sei riuscito a sapere tante cose?» «Io capisco i Tersh abbastanza bene e loro capiscono i Lats Tutto qua. Allora cosa decidi?» «No» disse il re. «Non voglio trascinare gli uomini in una guerra contro i Troiani. Ne hanno già combattuta una ed è stata una guerra maledetta. Non ha portato che lutti e dolori senza fine.» Il Chnan scosse il capo: «Non ho mai conosciuto una guerra che non fosse maledetta, che non portasse lutti e dolori senza fine.» «Questa è la guerra che loro hanno conosciuto. Hanno visto che i vincitori hanno sofferto come o più dei vinti. Con che animo si appresterebbero a un altro scontro con la stessa gente? No. Rispondi ai Lats che non scenderò in guerra al loro fianco, di, se vuoi, che abbiamo già combattuto una lunga guerra che ci ha portato
ogni sorta di disgrazie. Con Enea mi batterò da solo. Se vincerò tornerai da loro e tratterai nuove condizioni. Da una posizione di forza. Forse questa bella pianura presto sarà nostra. Forse è vicino il giorno in cui costruirò la mia città.» Il Chnan sorrise: «Questa terra ti ha molto cambiato da quando ti ho conosciuto. È dura e primitiva e non perdona nulla. Per questo hai perso un po per volta il tuo mondo. Lo hai perduto a pezzi per la strada, nelle paludi, sui monti, nelle valli e nelle foreste assieme ai tuoi compagni caduti, assieme ai tuoi cavalli immortali... uccisi e mangiati dai lupi... Forse, presto saresti stato del tutto nudo, non più un re, non più un eroe. Solo un uomo. Come me». «E questo sarebbe un bene?» chiese Diomede. «Non lo so. Ma certo sarebbe la verità. La tua. Quando uno ha di fronte la verità sa cosa fare. Se gli piace continua per quella strada, se non gli piace si uccide. Ma ora, questo Enea ha rovinato tutto, ti ha riportato indietro, ha fatto rinascere i vecchi fantasmi. Ora ti illudi di nuovo che nulla sia cambiato. Ti accingi a un duello come se fossi ancora sotto le mura di Ilio. Anche se vincerai non cambierà nulla. Questo paese è fatto di cento popoli venuti qui da chissà dove. Parlano tante lingue diverse...» Diomede tacque pensando alle parole del Chnan che parevano giuste, vere pur essendo così terribilmente semplici. Ma lo erano veramente? Era veramente così semplice vivere e morire? «Sì» disse a un certo punto. «Eppure in qualcuno di loro arde una forza vitale particolare, maggiore che in altri e prima o poi li attrarrà a sé come la luce della lampada attrae le falene. Come un piccolo seme diventa una grande pianta così forse un giorno crescerà qui una nuova nazione.» Si alzò e si affacciò all’ingresso della tenda contemplando la distesa verde ai suoi piedi su cui si stendeva come un tappeto prezioso la luce dorata del sole occiduo. «Guarda» disse ancora «è passato un altro giorno sulla terra di Hesperia, ma non è passato invano. Sono caduti qui tanti semi portati dal vento del fato. Qualcuno metterà radici, qualcuno morirà disseccato. E domani questa terra sarà diversa da ciò che è oggi. Qualcosa nasce, qualcosa muore ma è necessario che ognuno sia se stesso. Non può il seme di una quercia generare un giunco e un’aquila non può dare alla luce un corvo. Io sono Diomede, figlio di Tideo, eversore di città. Non posso più cambiare. Anche se rimanessi nudo conserverei dentro il mio mondo, giusto o sbagliato che sia. Io combatterò perché viva. Se soccomberò vorrà dire che così era scritto. Questo mi ha insegnato la Terra della Sera.» Il Chnan abbassò il capo e restò in silenzio.
Il giorno successivo Diomede mandò a chiamare Mirsilo e gli disse: «Mancano solo quattro giorni alla luna nuova: dove sono le mie armi?» «Ma, wanax,» disse Mirsilo stupito. «Io non ho fatto che domare i tuoi cavalli e preparare il tuo carro da guerra e tu nemmeno mi hai detto una parola. Le tue armi saranno pronte ben presto se è così che vuoi.»
Il re gli appoggiò le mani sulle spalle: «È così che voglio. Il giorno del duello dovranno splendere come quando uscirono dalle mani dell’artefice.» «Risplenderanno, wanax, risplenderanno come il sole a mezzogiorno e tu apparirai tremendo e invincibile come quando una dea guidava il tuo carro contro il dio della guerra davanti alle porte Scee.» E Mirsilo prese dalla tenda del re la sua armatura, la corazza e gli schinieri sbalzati, lo scudo e l’elmo adorno di un cimiero di crini di cavallo e ordinò a un servo di lucidarli, di rimuovere la patina che li oscurava. Egli stesso recise dal bosco una lunga asta di frassino, la mondò dei rami, tolse la scorza, la levigò con la pomice e vi adattò la punta, pesante, di bronzo massiccio. La bilanciò, la palleggiò nella mano, fino a che la sentì perfetta poi vi adattò la ghiera, anch’essa di bronzo, nel punto giusto. Poi prese il balteo, opera insigne in cui l’artefice aveva profuso oro e smalto e argento e lo pulì con le sue stesse mani, lo fece sfavillare. Era appartenuto un tempo a Tideo quando combatteva sotto le mura di Tebe. Da ultimo prese la spada enorme, massiccia e l’affilò con la cote, ne saggiò il taglio e la punta acuta, la unse con la sugna sciolta sul fuoco, finché la vide risplendere. Il re l’aveva usata solo una volta combattendo contro Nemro, poi non aveva più trovato un avversario che ne fosse degno. Quando l’opera fu terminata Mirsilo ripose di nuovo le armi nella tenda del re perché le vedesse e il coraggio gli crescesse nell’animo. Anche la sposa le vide e gli occhi le si riempirono di lacrime.
Quando venne il giorno della luna nuova il re chiese a Mirsilo di essere il suo auriga. Lo svegliò che era ancora buio e gli parlò: «Se dovessi soccombere riporterai il mio corpo alla sposa perché lo lavi e lo prepari per le esequie. Tu stesso lo rivestirai di queste armi e gli darai sepoltura davanti agli Achei. Innalza un tumulo e una stele che mi ricordi. Gridate il mio nome dieci volte e affidatelo al vento, poi parti. Conduci tu i compagni. Su te non grava alcuna maledizione. Forse gli dei vi dimenticheranno e riuscirete a iniziare una nuova vita in questa terra. Altrimenti, se vogliono, riconducili ad Argo. Il Chnan forse saprà come procurarvi le navi.» «Non accadrà nulla di tutto questo» disse Mirsilo. «È come tu dici: gli dei vogliono che si consumi questo scontro fino all’ultimo poi potremo vivere una nuova vita e costruire la nostra città. Combatterai e vincerai. Come hai sempre fatto.» Prese le redini e incitò i cavalli che si lanciarono al galoppo. Mirsilo li guidò sopra un piccolo rialzo del terreno presso il grande fiume, un colle dal lieve declivio da cui si poteva vedere la valle e la pianura dei Lats. La luce del sole cominciava appena a rischiarare l’orizzonte dietro i monti ma la pianura era ancora nell’ombra. Una lieve foschia la copriva, come un velo leggero. Si udiva il pigolare degli uccelli che si risvegliavano salutando il mattino. Un grande airone passò nel cielo con il suo lento volo solenne. Il re lo guardò, lo seguì a lungo con gli occhi mentre spariva lontano verso il mare. Disse: «A volte sogno di essere un uccello,
un grande uccello dalle ali bianche. Sogno di volare sulla spuma delle onde marine con il cuore libero dagli affanni, dai dolori, dalla paura. È bello. Quando mi risveglio il mio cuore è lieve». Ma gli occhi di Mirsilo erano fissi nella pianura. Disse: «Wanax!» e anche il re guardò da quella parte. Un carro avanzava nella foschia, appariva e spariva seguendo le ondulazioni del terreno. Poi la luce del sole nascente lo investì in pieno e la punta di una lancia guizzò in un barbaglio di fuoco, un candido cimiero ondeggiò nella brezza del mattino. La mano di Diomede si serrò sull’impugnatura della lancia. In quel momento il carro si arrestò e un suono di corno si levò nella vasta pianura, colpì le vette dei monti e riecheggiò sui picchi coperti di neve. Il figlio di Anchise lanciava la sua sfida. «Ci ha visti» disse il re. «Andiamo.» E Mirsilo incitò i cavalli. Erano l’uno di fronte all’altro, dopo anni e anni, rivestiti di bronzo splendente, come un tempo. Diomede gridò: «O me o te, figlio di Anchise! Solo uno di noi vedrà l’alba domani!» Gli rispose Enea: «O me o te, figlio di Tideo!» Mirsilo lanciò i cavalli al galoppo nella piana. Dall’altra parte anche l’auriga di Enea levò un grido e lanciò il carro in corsa contro l’antico avversario. Diomede prese un giavellotto dalla faretra, lo bilanciò nella mano e quando il carro di Enea fu a distanza di tiro lo scagliò con tutta la forza, mirò in basso all’altezza della cintura. La punta colpì il parapetto e lo fece volare in pezzi. Anche Enea scagliò il giavellotto e colpì l’orlo dello scudo che lo deviò sulla destra. Per un attimo, mentre i due carri s’incrociavano velocissimi e i mozzi delle ruote quasi si toccavano, si videro in faccia, si fissarono, riaccesero l’antico furore. Enea vide in quegli occhi il riflesso sinistro delle fiamme che avevano bruciato la patria, Diomede vide la sfida superba di Ettore e di Deifobo, il fuoco che bruciava il vallo e le navi. Raggiunsero i limiti del campo e gli aurighi tirarono le redini e ripresero posizione. I guerrieri presero un secondo giavellotto dalla faretra. «Ora abbiamo il vento di lato, wanax, l’asta opporrà resistenza verso destra.» Diomede annuì: «Va» disse. E Mirsilo frustò con le redini il dorso dei suoi stalloni. Gli animali lanciarono nell’aria un lungo nitrito cui fecero eco da lontano i cavalli di Enea poi si avventarono al galoppo. «Ti porterò dritto su di lui: per un istante lo avrai di fronte» urlò Mirsilo. «Attento! Bilancia sulla sinistra e poi sulla destra prima di tirare!» Quando fu alla distanza giusta scartò violentemente col cavallo di destra allargando e poi strinse sulla sinistra all’ultimo momento mentre Diomede, arretrato, si teneva alle maniglie posteriori gettando il suo peso dalla parte opposta per mantenere le ruote aderenti al terreno. L’auriga di Enea ebbe un attimo di disorientamento e Diomede riemerse dal parapetto con il giavellotto stretto nel pugno. Enea gli fu di fronte per un attimo e Diomede scagliò il dardo sotto il collo, all’incrocio delle clavicole. La lama fallì di un soffio il bersaglio perché il carro di Enea ebbe un sobbalzo ma la lama gli tagliò comunque la pelle sopra la spalla. E mentre l’avversario si allontanava, Diomede si volse gridando: «È il primo sangue, figlio di Anchise!»
Ma l’auriga di Enea lo colse di sorpresa: non arrestò i cavalli ma allargò la loro traiettoria in ampia curva senza diminuirne la velocità e quando Mirsilo riprese a correre dopo essersi fermato in fondo al campo, lo aveva già addosso, velocissimo. Diomede si rese conto che Enea stava mirando al suo auriga un attimo prima che lasciasse partire il colpo e alzò lo scudo a proteggere Mirsilo ma si sbilanciò e non poté tirare a sua volta. «Grazie, wanax,» disse Mirsilo. «Ma hai perso il terzo giavellotto. Ora dovrai scendere a terra con la lancia e la spada.» «Sarebbe stato peggio perdere l’auriga e rotolare nella polvere,» disse Diomede con un sorriso. «Sei stato magnifico. Stenelo non avrebbe fatto meglio.» Mirsilo mise i cavalli al trotto e tornò indietro poi si fermò a breve distanza dall’avversario. Diomede ed Enea scesero a terra e gli aurighi porsero loro la lancia. Il sole era già alto sopra i monti e volgeva il suo corso verso meridione facendo brillare le acque del grande fiume. I due eroi si fronteggiarono a lungo, riparati dietro gli scudi, con la lancia nel pugno. Ora non c’era più la velocità dei cavalli a sommarsi a quella del braccio. Ora l’abilità contava come la forza. Diomede non scagliò la lancia da lontano ma cercò lo scontro corpo a corpo incrociando l’asta con il nemico. I legni e i bronzi crepitarono nella fitta scherma ravvicinata, le punte s’insinuarono nelle difese, cercando i varchi nelle connessure della corazza, i brevi spazi fra l’orlo dello scudo e il frontale dell’elmo. Tutta la valle risuonò a lungo del fragore dello scontro. Mirsilo stava ritto e pallido sul carro mentre i cavalli, ormai tranquilli, brucavano l’erba. A un tratto ebbe un sussulto: con un guizzo di energia Enea aveva fatto un gran balzo indietro per evitare un colpo poi si era acquattato a terra e aveva scagliato la lancia dal basso tranciando uno spallaccio della corazza di Diomede. Un fiotto di sangue arrossò il petto del Tidide che scagliò a sua volta la lancia. La punta di bronzo urtò di lato l’elmo di Enea con tale violenza che l’eroe dardano vacillò e stette per cadere. Diomede gli fu sopra con la spada per finirlo ma Enea reagì, oppose lo scudo alla scarica furibonda di colpi, arretrò sul terreno e, un passo dopo l’altro, si rialzò, riprese vigore e sguainò a sua volta la spada. Si fermarono per un poco ansimanti a riprendere le forze e poi si assalirono di nuovo con violenza. Mirsilo era stupito: non riusciva a capire quale energia misteriosa sostenesse il braccio di Enea contro la furia di Diomede e guardava ogni tanto il sole che continuava a salire nel cielo. Forse Enea era veramente stato partorito da una dea, come si diceva, e pregò Atena perché accorresse a infondere nuovo vigore nel braccio di Diomede. La mischia feroce si protrasse ancora e ancora finché le spade furono spuntate e deformate dai colpi. Non servivano più. Gli aurighi allora si avvicinarono e porsero le asce bipenni. I due combattenti erano sfigurati dalla immane fatica, grondanti di sangue da numerose ferite, inondati di sudore, arsi dalla sete e dalla febbre. Mentre gli porgeva l’ascia Mirsilo fissò il suo re: «C’è ancora fuoco sufficiente nel tuo sguardo per bruciare una città. Colpisci, wanax, nessuno può resisterti, già altre volte lo hai battuto e costretto alla fuga.»
E anche l’auriga di Enea parlò al suo re mentre gli porgeva la bipenne affilata: «La sua energia sta scemando. Lui è disperato. Tu hai un figlio, un popolo con donne e bambini. Colpisci, figlio di Anchise. Sarai tu a vedere l’alba di domani.» E la lotta riprese con le scuri, lunga, affannosa, crudele. Andarono in pezzi gli scudi, dilaniati dai colpi, si strapparono le cinghie degli elmi e delle corazze. Alla fine gli eroi si affrontarono opponendo alle asce i corpi indifesi: il bronzo contro la carne e le ossa. Ma un dio forse ebbe pietà di loro: in un ultimo, durissimo scontro, anche i manici delle asce si spezzarono e i due guerrieri rimasero uno di fronte all’altro, ansanti, madidi di sudore cruento. Parlò allora per primo Diomede: «Figlio di Anchise, lo vedi, a nessuno di noi due gli dei hanno concesso la vittoria. Le nostre armi sono spezzate e ormai inservibili e non ci restano che i denti per infliggerci ferite. Ma non è da noi affrontarci a morsi come i cani. Io... io credo che gli dei ci abbiano inviato un segno: non è forse un miracolo che siamo ancora vivi? Guarda, il sole scende ormai verso il mare. Abbiamo combattuto un giorno intero. Forse è questo che gli dei vogliono: che ci sia pace fra noi.» Enea lo guardava in silenzio. Solo il suo respiro affannoso gli sollevava il petto in un moto continuo e possente. Diomede parlò ancora: «Ascolta, Achille è morto. Ettore è morto. Io e te siamo i guerrieri più forti al mondo. Ma nessuno di noi due è più forte dell’altro. Dimentichiamo l’antica inimicizia e uniamoci, uniamo in questa terra la nostra gente e formiamo una nuova nazione, invincibile. Ascolta, figlio di Anchise: io sono disposto a condividere con te il più grande dei miei tesori, il più prezioso talismano della tua patria perduta.» Enea lo ascoltava con una strana inquietudine nello sguardo. «La notte in cui conquistammo la città io riuscii a rapire dalla rocca il Palladio, la sacra immagine di Atena che ha fatto di Ilio la più grande città del mondo e la più prospera. Io sapevo dove si trovava, già vi ero penetrato una volta con Ulisse. Ecco, io lo porto con me da anni. Attendevo il giorno in cui avrei fondato una nuova città. Lo avrei posto sulla rocca in un tempio bellissimo e lì avrei costruito un nuovo regno. Ecco, io te lo offro perché assieme edifichiamo questo regno e questa nazione. Basta con il sangue e con le lacrime. Basta.» Chinò il capo e restò in silenzio attendendo la risposta di Enea. L’eroe dardano lo guardò a lungo senza una parola. Non c’era più odio nei suoi occhi ma piuttosto una malinconica pietà. Disse: «Figlio di Tideo, io ti ho combattuto per anni difendendo la mia patria e ti ho combattuto ora sperando di distruggere le ultime ombre del passato prima di iniziare una nuova vita qui, nella terra di Hesperia. Gli dei hanno voluto questo esito del nostro ultimo scontro e dunque separiamoci perché ognuno vada per la sua strada. Troppo odio e troppo sangue ci ha diviso fino a oggi. Le ferite sanguinano ancora. «Ciò che credi il sacro talismano dei Troiani non è nulla. Non è che un’immagine falsa, una delle sette che il re Laomedonte fece costruire per celare il vero simulacro. Tutti lo avete cercato quella notte, accecati dal sogno di un potere senza fine: tu, Aiace Oilèo, Agamennone. Lo stesso Ulisse. E tutti Cassandra vi ha ingannati. Lei solo conosceva il vero simulacro e quella notte me ne rivelò il
segreto. Io tornai non visto fra le fiamme che ancora divoravano la città e lo portai con me sul monte Ida. Era l’immagine più piccola e più povera di tutte, alta soltanto due cubiti, la portavo in braccio agevolmente. «Solo Ulisse si accorse dell’inganno. Aveva sospettato qualcosa. Quella notte a Tenedo, mentre tutti dormivate vinti dal sonno, perquisì la tua nave e quella di Aiace e vide le false immagini. Per questo tornò indietro, sbarcò sul lido deserto per avvertire Agamennone, ma era già partito. «Lo vidi frugare fra le rovine della rocca mentre mi allontanavo. Gli parlai, gli apparvi come uno spettro fra i pilastri del palazzo di Priamo ridotto in cenere. Non lo uccisi, sapevo che per lui la tortura maggiore sarebbe stata quella di essere stato ingannato. Per questo egli vaga sul mare senza meta e senza speranza. «Ora la sacra immagine protegge il mio accampamento e per questo io so che quel povero rifugio diventerà una città e che quella città ne genererà altre cento, tutte bellissime e fiorenti e unirà tutti i popoli di Hesperia dalle Montagne di Ghiaccio alle Montagne di Fuoco, lungo il dorso dei Monti Azzurri, per sempre. Addio, figlio di Tideo, che gli dei abbiano pietà di te.»
17
Diomede si sentì morire. Cadde sulle ginocchia e pianse, a lungo, mentre Enea saliva sul carro e spariva nella piana dei Lats. Mirsilo lo ricondusse a forza nell’accampamento dove egli giacque come fuori di sé per tre giorni e tre notti, divorato dalla febbre, senza toccare cibo né bevanda. Mirsilo fece rimuovere tutte le armi perché temeva che si togliesse la vita. Il quarto giorno gli parlò: «O re, io e i compagni conosciamo ora la verità eppure, per quanto il nostro cuore sia pieno di amarezza, non ci siamo abbandonati alla disperazione. In questi anni ti abbiamo seguito e abbiamo combattuto perché il tuo e il nostro sogno divenisse realtà. Così non hanno voluto gli dei e i mortali non possono nulla contro il Fato. Ma noi ti amiamo e vogliamo vivere o morire con te. «Io ti ho visto batterti con la lancia, con la spada e con l’ascia contro il figlio di Anchise e ho sentito le tue parole. Non c’è sulla faccia della terra un altro uomo che ti sia pari. E dunque questo abbiamo deciso e vogliamo che tu sappia: se vivi, vivremo; se muori, moriremo» Gli porse un’arma: «Questa è la mia spada che ho portato sempre con onore. Prendila. Se la userai contro di te, con la stessa lama io mi toglierò la vita e poi la passerò ai compagni e tutti assieme dormiremo qui, sotto questo cielo, cullati dalla voce di questo grande fiume. Se invece berrai e prenderai cibo noi ne saremo felici e ti seguiremo finché troveremo un luogo in cui vivere in pace in questa terra che abbiamo imparato ad amare e insieme attenderemo la fine che gli dei vorranno mandarci.» A quelle parole il re si levò con fatica dal suo giaciglio e mostrò il volto disfatto, i capelli ancora sporchi di sangue, la barba squallida, gli occhi rossi in fondo alle occhiaie scure e scoppiò in pianto dirotto. La schiena era scossa dai singhiozzi e grosse lacrime scendevano a rigargli le guance scavate. Mirsilo stette di fronte a lui immobile e muto finché non lo vide calmarsi, asciugarsi gli occhi con il lembo della veste. Fece allora cenno alla sposa, a Ros dai lunghi capelli, che piangeva in silenzio in un angolo buio della tenda e lei prese un vaso di acqua di fonte e gli diede da bere, con il lembo della veste gli pulì il volto. Poi si levò e fece scaldare dell’acqua. Quando fu pronta gli tolse le vesti e lo lavò, gli versò sui capelli olio profumato e poi lo adagiò su un giaciglio pulito e si sdraiò al suo fianco, sotto un vello caldo di pecora. Stette abbracciata a lui, accarezzò a lungo con mani lievi il corpo martoriato, gli passò il suo calore, finché il sonno non scese sui suoi occhi.
Partirono con l’inizio della primavera e mossero verso oriente affinché il dorso dei Monti Azzurri si frapponesse tra loro e la gente di Enea e dopo lungo vagare raggiunsero il mare che tanto tempo prima avevano solcato cercando la foce di Eridano.
Viveva su quelle terre il popolo dei Messapi e regnava su di loro un re di nome Dauno. Il Chnan negoziò con lui un trattato e ottenne un piccolo territorio sulla riva di una lago per fondarvi una piccola città. La chiamarono Elpie che nella lingua degli Achei significa “Speranza”.
La minaccia che Anchialo aveva annunciato a Menelao non si abbatté sulla terra degli Achei ancora per molto tempo. Il re fece innalzare un muro sull’istmo e costruire nuovi baluardi a Micene e in altre città, fece scavare cisterne e costruire magazzini. Ma egli era fiducioso perché credeva di possedere il talismano dei Troiani. Lo aveva fatto collocare in un tempio sulla rocca di Argo perché quello era il luogo più alto della piana, di là si vedevano Tirinto e Temenion e, di notte, le luci di Micene, e perché il popolo si ricordasse di Diomede. Un giorno Oreste fece ritorno a Sparta e Menelao gli concesse in sposa la figlia Ermione che per lungo tempo lo aveva atteso, perché insieme regnassero su Micene e generassero una lunga discendenza per la stirpe degli Atridi. Quanto a Ulisse, il principe Telemaco aveva ragione a pensare che sarebbe tornato: un giorno si presentò al palazzo sotto false spoglie, come un mendicante e per giorni osservò tutto quello che accadeva senza rivelarsi nemmeno alla sposa poi, d’improvviso, si manifestò, apparve agli occhi di tutti quale era veramente. Impugnò l’arco e cominciò ad abbattere i pretendenti che banchettavano nella grande sala mentre il principe Telemaco e due dei suoi servi sbarravano le porte e impedivano a chiunque di fuggire. Li abbatté tutti, uno dopo l’altro, impiccò le ancelle che avevano tradito e alla fine si manifestò alla regina. Eppure anche il suo ritorno fu amaro: tornò senza navi, né compagni, su nave straniera e dovette spargere molto sangue per riaffermare la sua autorità. Anche su di lui il peso di quella strage gravò duramente. Lasciò il trono al figlio e ripartì per trovare la pace. Dicono che cercasse un luogo sperduto e lontano in cui immolare un sacrificio che lo liberasse dalla persecuzione degli dei e gli consentisse di vivere serenamente gli ultimi giorni nella sua isola rocciosa. Nessuno sa se mai vi sia riuscito e nessuno sa quale fosse la sua fine. Il tramonto degli ultimi eroi si perde in racconti confusi e incerti, forse perché non ebbe testimoni. Mi sono anche chiesto chi fu la donna che accolse Telemaco a Sparta quando andò per chiedere notizie di suo padre al re Menelao, che lo colmò di doni e gli diede un peplo bellissimo perché lo facesse indossare alla sua sposa il giorno che avesse scelto una fanciulla tra le figlie degli Achei. Mi sono chiesto se la regina felice che sempre fu vista in seguito a Sparta fosse la stessa che aveva gridato di orrore sul cadavere della sorella Klitemnestra squarciato dalla spada del figlio. Nel giorno delle esequie fu vista gridare di disperazione e piangere inconsolabilmente maledicendo il destino atroce degli Atridi. Altro non so. So che per molto tempo sembrò che ogni minaccia si fosse dissolta sulla terra degli Achei, come quando si addensano le nubi e rombano i tuoni nel cielo ma poi il vento disperde la tempesta lontano senza che cada la pioggia né la grandine. Ma il volere degli dei è sempre difficile per gli uomini da scoprire.
Un giorno una nave giunse a Pilo recando un messaggio tremendo: un’orda di invasori calava da settentrione tutto bruciando e distruggendo al suo passaggio. Nulla sembrava poterli arrestare. Pisistrato, che allora regnava nel palazzo dopo la morte del Vecchio Nestore, diramò immediatamente l’allarme, mandò messaggi a Sparta e ad Argo, chiamò gli scribi e fece scrivere l’ordine di allerta per tutte le guarnigioni della costa. Che facessero scendere in campo i guerrieri, facessero uscire in mare le navi. Ma mentre gli scribi ancora incidevano l’argilla fresca con lo stilo il palazzo già risuonava di grida, le sale si riempivano di fumo e di fuoco, Pisistrato correva nella sala della armi, staccava dal muro l’enorme bipenne...
L’eco di quella spaventosa sciagura si diffuse dovunque, varcò il mare e giunse anche a lambire le coste di Hesperia dove da anni ormai Diomede conduceva un’oscura esistenza nel povero villaggio che aveva costruito. La sua sposa da tempo era morta, assieme al bambino che aveva cercato di dare alla luce. Una sera, sul finire dell’estate, approdò nei pressi di Elpie una barca carica di profughi. Erano Achei fuggiti dalla patria invasa con le spose ed i figli. Non avevano più nulla, le loro case erano state distrutte, le loro città incendiate. Appena lo seppe, Diomede si precipitò verso il mare, li accolse, diede loro vesti asciutte e cibo. Quando si furono saziati, quando ebbero finito di raccontare fra le lacrime quanto era accaduto l’eroe chiese loro: «Sapete chi sono? Sapete se hanno ormai il dominio su tutta la terra degli Achei?» «Si chiamanoDor ,» rispose il più anziano fra di loro «e sono invincibili. Montano i cavalli a pelo e li cavalcano come se fossero un unico, tremendo animale. Hanno armi più forti del bronzo migliore, non c’è scudo che regga, né corazza né elmo. I nostri guerrieri si sono battuti fino all’ultimo, inutilmente. Solo Micene resiste e Argo; la cinta delle mura ancora le protegge, ma il loro destino è nelle mani degli dei, se ancora si curano di noi.» Diomede si volse a Mirsilo che sedeva vicino a lui e teneva sulle ginocchia il piccolo figlio che gli aveva generato una sposa indigena. Aveva negli occhi una luce strana, una luce che Mirsilo credeva spenta per sempre, da anni. Il re disse: «Argo resiste. Hai sentito? Argo resiste». Mirsilo lo guardò sgomento: erano lontani ormai i giorni delle armi e del sangue. Ogni sera aveva imparato a sedersi col figlio sulla riva del mare a guardare le onde che cambiavano colore. E a volte veniva a sedersi con loro anche Malech, il Chnan , troppo stanco per riprendere il mare. Gli raccontava le storie dei re che un tempo avevano portato l’assedio a una grande città in una terra lontana, gli raccontava degli dei che si erano battuti al loro fianco e le imprese degli eroi: di Ulisse maestro di frodi, di Aiace gigante, di Menelao forte nel grido e anche di Diomede figlio di Tideo, vincitore di Tebe dalle Sette Porte. Ma raccontava quelle storie ormai come favole di un tempo remoto, bellissime perché non più vere.
D’un tratto, guardando negli occhi Diomede, si rese conto che il tempo trascorso non aveva mai ucciso dentro di lui l’eroe argivo, che il fuoco era ancora vivo, dopo tanti anni, sotto la cenere. «Io parto» disse. «Forse è ancora possibile sbarcare a Temenion, forse la fortezza di Tirinto difende ancora l’accesso dal mare.» Mirsilo si sentì mancare il cuore. Guardò il figlio poi disse: «È folle quello che pensi, certamente a quest’ora le città sono già cadute. Ringrazia gli dei che ci hanno riservato questo luogo dove viviamo in pace. Guarda questi poveretti: sono disperati, non hanno più nulla.» Diomede sorrise: «Non temere. Resterete qui e vivrete in pace. Avete i figli e le spose. È giusto che sia così. Io, invece, io non ho più nulla, solo i ricordi. Ho perso la sposa e il bambino che stava per nascere ma Argo è sempre viva in fondo al mio cuore. È lei la patria amata, che non ho mai dimenticato. Ascolta: una quercia non può generare un giunco e un’aquila non può dare alla luce un corvo. Ognuno è ciò che è e non può cambiare. Ora so cosa devo fare. Morirò con la spada in pugno ma vedrò brillare il sole sulle torri di Argo, un’ultima volta.» Non fu più possibile dissuaderlo e per la prima volta dopo anni e anni i suoi compagni lo videro quale era un tempo. Sembrava che fosse rinato a una nuova vita anziché un uomo che correva incontro alla morte. Chiese al re Dauno una nave ma lui scoppiò a ridere dicendo: «E con che cosa mi pagherai, con un pugno di sale marino o con la lana delle vostre pecore?» Era rozzo e avido il re Dauno. Ma Diomede non reagì, restò calmo. Disse: «Con questa». E sollevò la coperta che ricopriva la soma della sua giumenta. Uno sfavillio d’oro ferì gli occhi del re che rimase attonito e senza parole. Un’armatura di favolosa bellezza, tutta d’oro, sfolgorava nel sole. L’armatura che un tempo l’eroe Glauco, re dei Lidi, gli aveva donato sul campo di battaglia, come omaggio ospitale, scambiandola con la sua, di rame. «Mi darai la nave e i rematori?» chiese ancora. Dauno si avvicinò, protese la mano a sfiorare appena quella meraviglia, senza quasi toccarla, come se temesse di bruciarsi. «Sì... sì...» mormorò senza poter credere ancora ai suoi occhi. «Bene» disse Diomede. E ricoprì l’armatura allontanandosi con la giumenta. «Voglio che sia pronta al più presto» disse ancora mentre usciva dal cortile «prima sarà pronta e prima avrai ciò che ti ho appena mostrato.» Si incamminò per tornare alla sua città. Dauno si riscosse, come svegliandosi improvvisamente da un sogno: «Chi sei veramente?» gridò mentre l’altro si allontanava. Ma Diomede non rispose, né si volse. «Chi sei veramente?» disse ancora Dauno, più sommessamente, come parlando a se stesso. Lo guardò ancora mentre scendeva verso il mare con larghi passi, con le braccia larghe lungo il corpo, come se gravasse sulle sue spalle il peso di un’armatura. «Ma allora è vero» disse ancora Dauno. «Sei veramente Diomede, il re di Argo...»
Appena la nave fu pronta e l’equipaggio fu arruolato Diomede scese al mare per imbarcarsi portando con sé soltanto le sue vesti e le sue armi. Voleva partire immediatamente, anche se il tempo non era buono e un vento freddo soffiava sul mare agitando le onde. Ma quando arrivò vide la nave vuota e i compagni schierati sul lido. C’era con loro anche Malech, il Chnan e Lamo, figlio di Onchésto. Non avevano mai avuto il coraggio di abbandonarlo. «Dov’è il mio equipaggio?» chiese stupito. Mirsilo si fece avanti: «È qui. Ti ricordi, wanax? Se vivi, vivremo, se muori, moriremo con te. Hai ragione tu: un’aquila non può diventare un corvo. Salpiamo» «No» disse Diomede. «No. Andrò solo. Tornate alla vostra città. Io ve lo ordino, se sono ancora il vostro re.» Mirsilo sorrise: «Se obbediremo a questo ordine, sarà l’ultima volta che ci comandi in questa terra?» «L’ultima» disse Diomede. E la sua voce era velata di tristezza. «Bene» disse Mirsilo. «Allora tutti a bordo!» gridò poi ai compagni. «È Argo la nostra città!» I compagni gridarono: «ARGO!» e Diomede li guardò sedere ai banchi e sciogliere gli ormeggi con gli occhi che gli si riempivano di lacrime, poi, mentre la nave si muoveva, afferrò con un balzo il parapetto e si issò a bordo, mettendosi di fianco a Mirsilo che reggeva il timone. I compagni issarono la vela e la nave prese velocità dirigendosi al largo. Diomede intendeva procedere verso oriente fino a un gruppo di piccole isole rocciose e poi piegare a meridione e navigare stabilmente in quella direzione. Il vento rinforzava ma nessuno pensava di tornare indietro. Il Chnan guardava il cielo che si rannuvolava. A un tratto un grido echeggiò da prora: «Nave di prua!» Diomede accorse e spinse lo sguardo sulle onde. Un vascello veniva verso di loro da settentrione. Sulla vela stinta ancora si poteva distinguere l’insegna degli Atridi Lacedemoni. «Ammaina!» gridò allora Diomede. «Ammaina! È una nave spartana!» L’equipaggio imbrogliò la vela e i compagni governarono con i remi per mantenere la loro posizione. Quando la nave fu a portata di vista un’espressione di stupore incredulo si dipinse sul volto del re, come se gli fosse apparso davanti uno spettro. «Anchialo!» gridò. Dalla nave gli fece eco un grido ancora più forte: «Wanax!». In pochi attimi i due vascelli erano affiancati. Anchialo saltò a bordo e abbracciò il re piangendo: «Vi cerco da tanto tempo» diceva fra le lacrime. «Da tanto tempo.» E anche gli altri compagni gli si facevano attorno e lo abbracciavano. Solo il Chnan restava presso il timone e guardava con
preoccupazione la schiuma bianca che ribolliva sottovento contro le isole sempre più vicine. «Dove andate?» chiese Anchialo quando si fu un poco calmato. Il re gli alzò in volto uno sguardo di fuoco: «Ad Argo» disse. Anchialo lo guardò smarrito: «Ad Argo?» disse con la voce rotta. «Oh, sventurati... sventurati. Ma non lo sapete? Ho incontrato ieri dei profughi che fuggivano: Argo non esiste più.» Calò sulla nave un silenzio di pietra, rotto solo dal sibilo sempre più forte del vento. A un tratto il Chnan gridò: «Ai remi! Ai remi uomini! Gli scogli! gli scogli!» Mirsilo si volse verso le piccole isole rocciose su cui frangevano giganteschi marosi orlati di schiuma candida e poi al cielo nero di nembi. Gridò: come fuori di sé: «Dei che ci avete tradito! Non avrete altre sofferenze, Non avrete altre lacrime! Ai remi, uomini! Ai remi!» I compagni si guardarono in volto e capirono, guardarono il cielo e poi le schiume ribollenti e si gettarono ai banchi remando con selvaggia energia mentre Mirsilo si gettava con tutta la forza sul timone virando dritto contro gli scogli. Diomede capì e gli corse al fianco restando immobile nell’infuriare della tempesta. Mirsilo urlò con tutta la sua voce per sovrastare il rombo del tuono. Gridò: «ARGO! ARGO!» e anche i compagni gli fecero eco, gridando con tutta l’energia che avevano in petto e facendo ribollire con i remi la superficie del mare. La nave s’impennò spinta dal vento in poppa e dalla forza di cento braccia e filò dritta contro gli scogli. La chiglia urtò le rocce e s’infranse, la nave si contorse come un cetaceo ferito poi alzò la poppa e immerse la prua. Un’onda gigantesca si abbatté in quel momento sullo scafo ormai smembrato dall’urto immane e la trascinò nell’abisso. La tempesta infuriò ancora per molte ore con ondate gigantesche e il cielo divenne più nero della notte. Cessò soltanto verso sera quando un raggio freddo del sole si fece strada fra una grigia nuvolaglia. Si alzò allora dalle rocce desolate uno stormo di uccelli marini. Fra di essi un albatro dalle grandi ali bianche si alzò più in alto, sempre più in alto levando strida acute di dolore verso un varco che si apriva fra le nubi, finché sparì inghiottito dal buio.
Lo straniero terminò così il suo racconto una sera sul finire dell’inverno. Il giorno dopo ripartì e di lui non sapemmo mai più nulla. Mi sono chiesto molte volte chi fosse in realtà: pensando a tutti quelli che avevano vissuto quelle vicende, mi sono chiesto chi fra loro potesse avere una completa conoscenza dei fatti ma non sono mai riuscito a darmi una risposta. O
forse non ho voluto. Chiunque fosse quell’uomo aveva il diritto all’oblio perché il destino lo aveva costretto a vivere suo malgrado. L’ultima cosa che ricordo di lui è il suo sguardo quando si volse a guardarmi prima di scomparire dietro a una curva del sentiero. Non era più lo sguardo di un uomo. Era vuoto e nero come il cerchio della luna nuova. Non aveva più nulla dentro perché aveva lasciato tutto a noi: memorie, dolore, rimpianti, tutto. E così poteva guardare il mondo come se non ne facesse più parte, come se avesse varcato ormai, da tempo, l’ultima frontiera.
Fine.
Nota dell’autore
Questo racconto recupera, in una rielaborazione narrativa autonoma, le storie dei poemi perduti del ciclo troiano, in particolare di quelli che narravano i ritorni (nostoi) degli eroi dalla guerra di Troia. Ho voluto, in particolare, riempire una sorta di vasta lacuna che si intravede nella tradizione fra gli avvenimenti immediatamente successivi alla fine della guerra di Troia e la situazione descritta nei libri III e IV dell’Odissea. I miti dei ritorni ci dipingono una totale destabilizzazione della Grecia micenea, privata della maggior parte dei suoi sovrani morti durante il viaggio o assassinati al loro ritorno, o cacciati dalla loro terra. Questa situazione sembra subire una sorta di battuta d’arresto, addirittura di parziale inversione, nel quadro descritto nei libri III e IV dell’Odissea che raccontano la visita di Telemaco, figlio di Ulisse, a Pilo. La normalizzazione sembra essere stata condotta dal re di Sparta Menelao che ha una rapporto privilegiato con Nestore, ha legato a sé con un patto di matrimonio il figlio di Achille, Pirro, e medita di mandare Ulisse a occupare stabilmente il Peloponneso. Inoltre il suo ritorno dall’Egitto sembra direttamente connesso con l’uccisione di Egisto da parte di Oreste (Od. III, 306). L’uccisione dell’usurpatore Egisto e della regina Klitemnestra a Micene è visto dal mito come l’azione singola di Oreste tornato per vendicare il padre, ma non si può escludere che la tradizione epica ci conservi il ricordo di vere e proprie guerre dinastiche intestine, di cui si potrebbero riconoscere le tracce nelle distruzioni parziali, individuate dagli scavi archeologici fuori dalle mura di Micene e che preludono al disastro finale, tradizionalmente attribuito all’invasione dei Dori e archeologicamente coincidente con la distruzione dei palazzi. Per quanto riguarda la vicenda di Diomede in Italia, il racconto si muove con grande libertà, ricalcando comunque l’itinerario tracciato dalla presenza del culto dell’eroe lungo tutto l’arco adriatico e cercando di rispettare i punti fermi già predisposti dalla tradizione epica. L’ambientazione è il risultato di una integrazione-contaminazione fra la patina omerizzante, intenzionalmente costruita per rievocare l’atmosfera epica della tradizione, e le conoscenze che ci derivano dallo studio della cultura micenea in Grecia e dell’ultima età del bronzo in Italia, che resta il nostro punto di riferimento cronologico. Gli avvenimenti sono descritti, per esigenze narrative non evitabili, in un arco di tempo più ristretto di quello che ci propone la tradizione e anche gli avvenimenti storici attestati dall’archeologia sono in qualche modo “compattati” in un lasso di tempo più ristretto del reale e molto più drammatizzati, ma costituiscono pur sempre, nell’intenzione del narratore, un itinerario possibile all’interno della costruzione mitica e fantastica.
Dizionario
Abia - Città del Peloponneso di incerta collocazione, promessa da Agamennone ad Achille, assieme ad altre, se fosse tornato a combattere. Ahhjiawa - Termine rinvenuto nei documenti degli archivi hittiti in cui gli studiosi ravvisano l’etnico degli Achei micenei. Ambron - È un termine di fantasia che abbiamo derivato dall’etnico latino Ambrones con cui gli antichi Liguri usavano definirsi. Arne - Località della Beozia (Il., II, 507; VII, 9) che oggi gli studiosi tendono a identificare con la fortezza di Gla. Assuma - Termine hittita che sta probabilmente per Asia. Chnan - È il nome con cui i Fenici chiamavano se stessi (Cananei) ancora nel IV secolo d. C. Eneti - Popolo mitico dell’Asia minore, alleato dei Troiani. Avrebbe seguito Antenore in Italia, secondo la tradizione, partecipando alla fondazione di Padova. Lats - Termine di fantasia per definire i proto-Latini. Lawagetas - Miceneo (la-wa-ge-tas) : “colui che guida il popolo”, forse il capo dell’esercito o il rappresentante del popolo presso il re. Ombro - Termine di fantasia che vuole evocare i proto-Umbri. Peleset - Trascrizione dell’egizio Plst.w delle liste dei Popoli del Mare che forse indica i Filistei. Questo popolo è evocato dal toponimo Philistina alle foci del Po. Pica - Termine di fantasia per indicare i proto-Piceni. Pakana - Miceneo (Pa-ka-na) per spada (greco omericophasganon) Ponikjo - Miceneo (Poni-ki-jo) Forse riferibile ai Fenici. Shardana -Trascrizione dall’egizio Shrdn.w dalle liste dei Popoli del Mare in cui si riconoscono di solito i Sardi.
Sheqelesh - Trascrizione dall’egizio Sqls.w dalle liste dei Popoli del Mare in cui si riconoscono di solito i Siculi. Tersh - È una delle trascrizioni proposte per una possibile identificazione di una componente proto-etrusca nella lista dei Popoli del Mare (Twrws) Urartu - Nome con cui si identificava l’Armenia nei documenti assirobabilonesi. Vilusya - Toponimo hittita e luvio in cui di solito si ravvisa la città di Ilio. Wanax - Miceneo (wa-nax) da cui il grecohanax , signore.